Pagine di diario (1951-1996) 9788855291972, 9788855291989

«Il segreto è dato dall'intreccio fra letteratura e vita - solo definendo in modo poetico o attivo questo intreccio

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Quale “contesto” per Michele Rago?
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Pagine di diario (1951-1996)
 9788855291972, 9788855291989

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Michele Rago

Pagine di diario (1951-1996)

Margini

Collana diretta da Filippo La Porta

Margini | 11

Michele Rago

Pagine di diario (1951-1996) a cura di Elena Riccio

© 2021, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Margini ISSN: 2612-7229 n. 11 – novembre 2021 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-197-2 ISBN – Ebook: 978-88-5529-198-9 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Hand drawn vector illustration of Books with reading glasses. Vintage sketch of law or University Studying books © Cool Hand Creative – stock.adobe.com Delle immagini riprodotte all’interno del volume, ove non diversamente specificato, è autore Michele Rago.

Michele Rago alla scrivania © Archivio Rago

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Quale “contesto” per Michele Rago? Prefazione di Elena Riccio

Il lavoro qui condotto su Michele Rago restituisce solamente una piccola parte di ciò che uno studio sistematico dell’opera e della vita potrebbe offrire a curiosi, appassionati e studiosi afferenti ad ambiti di ricerca tra loro diversi. Gli obiettivi di questa pubblicazione, concordati sin da principio e sulla base di una fortunatissima sintonia con le figlie dell’autore, Marina e Laura Rago, e con Ninetta Zandegiacomi, vedova Rago, che ringrazio enormemente, trovano denominatore comune nella lotta contro l’oblio. L’impegno profuso dalle eredi ha difatti permesso di riportare alla luce una pagina della storia italiana degli anni Settanta che era rimasta erroneamente piegata nel rilegare quel grande libro che è il racconto pubblico e ha consentito pure, grazie a un’ammirevole opera di ricostruzione della memoria familiare e di indagine condotta dalle figlie tra documenti e interviste, di includere in questo volume, oltre alla selezione delle pagine di diario, tutte le immagini presenti nel testo (disegnate a mano dall’autore) e le postille di carattere biografico ed esplicativo presenti nelle Note della curatrice. Ringrazio pure sentitamente Massimo Onofri, per merito della cui intuizione questa ricerca ha avuto inizio, come a breve avrò modo di spiegare.

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Mentre Michele Rago appuntava durante il Gran Dibattito sul suo taccuino alcune riflessioni («“Povera verità”, dicono alcuni più delusi. Sussurrano cauti fra loro. Vedo le loro teste avvicinarsi. Oppure si appassionano e urlano in un divampar di polemiche. Uno si pronuncia contro i simulacri di verità soggettiva o idealizzata. Così ci siamo traditi allontanandoci dal principio-base della verità oggettiva. Un altro afferma che, nonostante l’infortunio che ci ha colpiti, rimane intatta l’esigenza, anzi l’istanza, di un diverso contratto sociale»), a Racalmuto il 23 aprile 1956 Leonardo Sciascia, co-protagonista della storia che stiamo per raccontare, in merito al suo recente esordio narrativo con Le parrocchie di Regalpetra, su «Cultura Moderna», scriveva: «E mi auguro che per tutti i bambini […] ci sia un migliore avvenire di dignità e di giustizia. E, dopo tutto, anche un libro può servire a qualcosa…». Anche chi scrive è dell’idea che un libro possa servire a qualcosa, e in particolare questo libro vuol servire, tra le altre cose, a ricordare che se, come sostenne Lev Tolstoj, esistono tanti ingegni quante teste e tanti generi d’amore quanti cuori, allora esistono altrettante verità da sondare, esplorare, indagare e l’esercizio della ragione deve risiedere nel tentare di tenerle insieme tutte, per approdare a un’idea di realtà che sia il più possibile simile a quella vissuta, cioè alla storia. Il 20 novembre del 1989 scomparve Leonardo Sciascia. Undici giorni prima, di sera, le case di tutto il mondo erano illuminate dagli schermi dei televisori che annunciavano uno dei più significativi eventi della storia occidentale del Novecento: la riapertura dei confini tra le due Germanie, cioè la caduta del muro di Berlino. Quasi nessuno degli attori della politica internazionale aveva previsto che proprio in quel momento potesse verificarsi un evento tanto segnante; quasi nessuno di loro, poi, si augurava che quel confine si abbattesse. Se però Bush senior, Mitterrand, Gorbaciov e Thatcher si contentavano di trovare rassicurazioni diplomatiche nelle parole del-

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la SED di Berlino Est, guidata da Honecker, frattanto l’Italia calcava le scene internazionali recitando una parte che ad oggi riaffiora in modo piuttosto imbarazzante. Lo scrittore François Mauriac, cinico umorista francese, a metà XX secolo sostenne di amare talmente la Germania da essere felice, al termine del secondo conflitto mondiale, di vederne due; la celebre affermazione, che negli anni ’50 fece sorridere ironicamente i lettori di Mauriac, fu ripresa da Giulio Andreotti proprio in occasione della caduta del muro. Chissà cos’avrà pensato Leonardo Sciascia di ciò che si stava consumando nei suoi ultimi giorni in terra, di quel confine non più esistente, di quel muro brecciato, di quella riciclata battuta andreottiana. Chissà se lui stesso – da sempre affascinato dalle coincidenze che segnano lo svolgersi, l’annodarsi e il riavvolgersi del nastro vitale dell’uomo e della storia – si sia accorto, in quegli ultimi giorni palermitani, che attraverso la scrittura aveva offerto per la prima volta al mondo il suo sguardo nell’anno dell’occupazione sovietica dell’Ungheria e della cruda delusione del totalitarismo comunista in una giovane epoca post-fascista, con Le parrocchie di Regalpetra; chissà se si sia reso conto che la sua ricerca di senso stava salutando per l’ultima volta i lettori con il testamentario A futura memoria (se la memoria ha un futu­ ro), proprio mentre l’Occidente sperava di riuscire a mettere definitivamente da parte una delle più tragiche pagine della sua storia contemporanea. A distanza di trent’anni da quello strano novembre, cioè nel 2019 (come anche nel 2021, in occasione del centenario della nascita), molte sono state le occasioni in cui si è parlato di Leonardo Sciascia, ribadendone (se ci fosse ancora qualcuno che li vuole obliati) la lungimiranza, la vena polemica e oracolare, le ragioni intellettuali, l’impegno civile, la coerenza che abita quella tipica, contraddittoria, amabile sincerità che lo hanno contraddistinto come uno dei più interessanti scrittori e pensatori del secondo Novecento italiano. Il 20 novembre 2019

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mi trovavo a Racalmuto, luogo che nel 1921 diede i natali a Sciascia, e precisamente nella più ampia sala della Fondazione dedicata allo scrittore, presso la quale si stava svolgendo, in occasione del trentennale dalla scomparsa, un convegno su quello che in ambito sciasciano1 viene universalmente riconosciuto come il romanzo spartiacque della produzione: Il conte­ sto. Una parodia2. Nel corso dei lavori sono emerse in merito all’opera interessanti suggestioni sui più diversi argomenti, ma un dibattito in particolare tra gli altri mi catturò: nell’affermare che Il contesto abbia avuto la funzione di spartiacque nella storia autoriale, elemento fondante la riflessione critica è, non a torto, la polemica che dal libro scaturì, lo scandalo che la pubblicazione del romanzo determinò in alcune sfere dell’opinione pubblica, in particolare in ambito comunista. Molti nel tempo hanno scandagliato le vicende della querelle che segnò l’immagine pubblica di Sciascia, ma, come spesso accade, alcune zone, circoscritte e di dettaglio, ma non per questo meno curiose o importanti, sono rimaste in ombra. Ho rinnovato pure nel corso di quel dibattito, come altre volte mi era accaduto, la convinzione che parlare di Sciascia, spesso, significhi parlare dell’Ita­lia dei suoi anni e oltre; e non perché le sue opere siano diretta rappresentazione del contesto di produzione o di appartenenza – considerazione che sarebbe comunque superficiale, di qualunque periodo, autore o opera si discuta –, ma per il fatto che, consapevole della scivolosità di quest’ultima affermazione, Sciascia ha sempre usato la scrittura come strumento di espressione della ragione e lo ha fatto parlando di realtà in modo attento, responsabile, civile, a volte inevitabilmente tagliente, ma di sicuro cosciente che i suoi testi avrebbero concorso allo sviluppo di quell’elemento fondante le società e in continua costruzione in ogni comunità che è la memoria collettiva. Parlare della politica in Sicilia all’inizio degli anni Settanta è difatti anch’essa attività interessante ma non semplice, non finisce di sicuro per essere un divertis­

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sement tenere insieme milazzismo, DC e comunisti di partito in una narrazione letteraria sotto il denominatore comune del potere: si tratta di argomenti scomodi, indubbiamente, e di questo Sciascia, come avremo modo di vedere, si accorse presto. Tale consapevolezza emerge chiaramente se si ha modo e fortuna, come li ho avuti io grazie alla volontà degli eredi, di analizzare l’immensa mole di recensioni, commenti e articoli che Sciascia ha collezionato insieme alla moglie nel corso di tutti gli anni della sua produzione letteraria3, e in particolare le unità che commentano proprio l’opera del ’71. Durante le piacevoli chiacchiere racalmutesi che, conclusasi la sessione mattutina, continuavano ad animare la sala, mi tornò in mente una vicenda che avevo prima vagamente intuito dalla lettura di un testo di Emanuele Macaluso4 e che poi avevo avuto modo di approfondire e osservare con occhi nuovi proprio consultando i commenti e le recensioni che Sciascia aveva conservato relativamente al Contesto. Accennai questa breve storia, di cui Sciascia non era diretto protagonista bensì oggetto di discussione, recuperandola nella mia memoria e senza carte in mano, a Massimo Onofri e Paolo Squillacioti, che erano lì presenti, e ne rimasero come me affascinati. Era la storia del “contesto” da cui Michele Rago, giornalista dell’«Unità» e militante del PCI, scelse, con non pochi fatica e dolore, di dissociarsi. Fin da quando consultai i documenti e gli articoli conservati nella collezione sciasciana ebbi la sensazione che in quella così nota polemica ci fosse ancora qualche informazione da indagare, e mi accorsi in quei giorni a Racalmuto che in effetti si stava concretizzando l’occasione di farlo cambiando prospettiva, guardando cioè lo svolgersi dei fatti non più solamente con gli occhi di Sciascia o dei soggetti che lo avevano aspramente condannato come pensatore prima ancora che come autore de Il contesto (cioè, su «l’Unità», Napoleone Colajanni, Emanuele Macaluso, Renato Guttuso, Lucio Lombardo Radice; su «Rinascita», Mario Spinella; e sulle pagine della sinistra

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radicale Giovanni Raboni e Roberto Roversi), ma anche con gli occhi di qualcun altro, e in particolare di un altro uomo che da quella polemica si trovò travolto, in modo definitivo e irreparabile, da un punto di vista tanto politico quanto personale. È così, nella sostanza, che questo libro è nato: da una concreta curiosità, dal desiderio di cercare, guardandole con occhi differenti, le verità che sommate raccontano la storia e di individuare ancora tasselli utili a capire come queste ultime si depositino nella memoria di noi tutti. Massimo Onofri in quell’occasione suggerì di fare delle indagini sul tema, in particolar modo rivolte a uno scritto di Rago intitolato Pagi­ ne di diario, che è poi lo scritto che oggi pubblichiamo, dal quale, proprio per il fatto che il titolo suggerisse una scrittura diaristica, si ipotizzava potessero emergere elementi nuovi in merito al dibattito sul Contesto e sulle vicende di cui Rago, suo malgrado, insieme a Sciascia e alle persone di cui sopra abbiamo fatto menzione, fu partecipe. Risultò, da una prima banale ricerca su Google, e nello specifico dalle notizie riportate su Wikipedia, che il testo fosse stato stampato a Roma nei primi anni zero, ma mancavano all’informazione bibliografica che ero riuscita a reperire alcuni elementi essenziali, come la curatela e l’editore. Nei giorni e nelle settimane seguenti, assieme alla curiosità di leggere quel diario, il mistero intorno a quelle pagine cresceva e s’infittiva: una volta appurato che il libro non appariva in nessuno dei principali motori di ricerca bibliotecari nazionali e regionali e non risultava registrato in alcun catalogo digitale, avevo creato una lista di tutte le principali biblioteche, degli archivi e degli istituti italiani, verso i quali avevo programmato una media di dieci telefonate al giorno. Nel corso delle chiamate recitavo sempre la stessa formula e a ogni nuovo squillo diminuiva la speranza di ascoltare qualcosa di diverso da quel copione già scritto: nessun ente possedeva quel testo né aveva modo di verificarne la reperibilità se non addirittura la stessa esistenza.

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Compresi e appurai nel corso di quelle prime banali ricerche che si trattava difatti di un testo stampato in proprio, la cui circolazione immaginavo fosse in ragione di ciò limitatissima, e così mi trovai a dover cambiare strategia. Misi in moto la macchina delle conoscenze personali, rivolgendomi a chiunque sospettavo potesse avere avuto contatti se non con Rago perlomeno con gli altri protagonisti di quell’amara polemica (tra questi desidero ringraziare in particolar modo Filippo Grippi, Sara Li Donni, Agostino Spataro, Giovanni Matteoli); il cerchio delle persone ogni giorno si allargava, ma la qualità delle informazioni non migliorava e, mentre scorrevano le settimane, l’impresa di avere sotto gli occhi quel libro cominciava a sembrarmi impossibile. Scelsi in quei giorni, prima di tirare i remi in barca, di fare un ultimo disperato tentativo: andare a Roma a cercare il libro, tra banchi dell’usato e librerie di modernariato di cui con perizia e l’aiuto di alcuni amici avevo fatto una lista. Era una sera di gennaio quando, mentre preparavo un piccolo bagaglio per partire, una banalissima idea, che fino ad allora non avevo considerato forse perché troppo scontata, m’illuminò. Scrissi agli amministratori di Wikipedia per cercare di entrare in contatto con la persona che aveva compilato la voce su Michele Rago, nella speranza di cavare in quel modo il ragno dal buco; mi risposero che non avrebbero potuto aiutarmi direttamente, ma che avrei potuto scrivere un annuncio sul forum nel quale chi compila le voci si scambia informazioni, rivolgendomi con un tag proprio alla persona che aveva redatto quella specifica nota relativa a Pagine di diario. Ero perplessa, poiché la voce era stata compilata parecchi anni prima e pensavo a quel punto che, trascorso tanto tempo, il redattore digitale se ne fosse disinteressato. Eppure così feci, nonostante le aspettative fossero ormai ridotte all’osso. Poche ore dopo mi imbarcai sul volo per Roma. Trascorsero lì due giorni itineranti di ricerche infruttuose, che però la città sapeva ripagare con visioni mozzafiato e incontri inattesi, finché non

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mi accorsi di una notifica sul cellulare: era un’e-mail dell’ignoto compilatore di Wikipedia, che si rendeva disponibile a riferirmi le informazioni di cui disponeva; spedii in risposta il mio numero di telefono e così, quando poche ore dopo il cellulare squillò, mentre mi trovavo nelle sale degli Archivi Centrali dello Stato, entrai per la prima volta in contatto con Marina Rago, figlia di Michele. Mi diede appuntamento al giorno successivo, quando raggiunsi lei e la sorella Laura in casa di quest’ultima e trascorremmo insieme un tempo che sembrava sospeso, tutto concentrato, com’era, sul racconto delle avventure che mi avevano portata lì. Andai via felice di avere incrociato sulla strada due donne tanto sensibili, mi sentii incredula quando realizzai di avere il libro tra le mani e nei giorni che seguirono questa sensazione fece fatica ad abbandonarmi. Era il 17 gennaio 2020 e l’indomani sarei rientrata a Palermo. Ma perché tanto interesse per quel libretto stampato in proprio? E cosa ha a che vedere Michele Rago con l’opera di Sciascia del 1971? Il contesto, come si diceva sopra, segna un solco profondo nella storia del suo autore, tanto sotto il profilo intellettuale e letterario, quanto dal punto di vista personale e – ci tengo a sottolineare – i due piani in Sciascia (ma, vedremo, anche in Michele Rago) non si possono distinguere né separare. Da una parte, in effetti, guardare all’uscita del Contesto in una prospettiva di sfera privata dell’autore permette di scorgere (con il noto articolo del 18 novembre 1971, nel quale lo scrittore non esita a descrivere l’ultima sua opera letteraria come una consapevole «mala azione»5) la svolta amara subita dal sapore – forse fino ad allora dolce – del dubbio, irrinunciabile cambio di rotta che instraderà definitivamente Sciascia sulla via della disillusione nei riguardi del potere; d’altro canto, altrettanto irreversibile pare l’inversione del 1971 che emerge limpidamente nello studio della ricezione di Sciascia e cioè quella incassata dall’autore nella sfera pubblica, rappresentata da un dibattito la cui principale caratteristica è un notevole cambio

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di registro: dal Contesto in poi, difatti, quando si parlerà delle opere sciasciane, vagamente si argomenterà di letteratura e si preferirà piuttosto usare come bussola interpretativa l’argomento ideologico-politico. Saltando a piè pari la pur fondamentale vicenda compositiva del libro, ottimamente riportata da Squillacioti nel primo volume delle Opere adelphiane6, durante la quale Sciascia presentiva il tenore del dibattito cui sarebbe andato incontro con la pubblicazione, fino ad arrivare – e non era certo sua abitudine – alla decurtazione dal testo di ben tre pagine7, è bene iniziare col dire che il romanzo, finito di stampare il 6 novembre del 1971, fino al gennaio 1972 fu oggetto di critiche variegate ma da considerarsi, comunque, come orientativamente accoglienti e in alcuni casi pure favorevoli. Roberto Roversi, però, in un articolo apparso su «Giovane critica» sul finire del 1971, diede avvio alle riflessioni sul Contesto parlando di «Un passo avanti e uno indietro» di Sciascia; Roversi lascia intendere ai lettori che da un lato l’opera mette a nudo la reale natura del pessimismo sciasciano che trova radici di dissenso politico tanto nell’autoritarismo quanto nell’anti­ autoritarismo, ma d’altro canto ha la colpa di testimoniare la dissociazione dell’autore dall’area dissidente ed extraparlamentare della sinistra in maniera superficiale, «poco o male» argomentata, sostanzialmente qualunquista. Davide Lajolo, nello stesso periodo, procedette sulla linea avviata da Roversi e la approfondì, commentando per la prima volta l’opera come se fosse non un romanzo, ma un vero e proprio documento politico; su «Giorni» del 29 dicembre 1971 Lajolo scrisse infatti una lettera aperta a Sciascia intitolata La fuga dal “contesto”. Lette­ ra aperta di Davide Lajolo a Leonardo Sciascia, che suona così: Caro Sciascia, una lettera aperta per dirti che non era necessaria la nota in margine al tuo ultimo libro di narrativa. I ma-

18 gistrati morti sono le cose meno gialle e anche meno interessanti del libro. L’interessante è tutto il «contesto» cui la tua nota inclusa dà appunto il tocco più deprimente. Perché è il libro di un uomo triste. Non di uno scrittore che ha perduto la fede che aveva, ma di uno che s’è svuotato le vene e dopo aver tanto e bene combattuto chiamando per nome posti e personaggi e dopo essersi schierato lui come uomo, dalla parte giusta senza chiedere aiuto, né alle masse, né al partito ora si sveste della sua identità di preciso accusatore allargando il discorso al mondo in generale, ammettendo poi soltanto nella nota che può essere quel che è, anche l’Italia, anche la Sicilia. […] E bada, caro Sciascia, che io non sono una vestale che si drizza irritata perché nel tuo libro si arriva addirittura alla commistione tra fascisti e rivoluzionari, tra polizia e partiti dei lavoratori […], ma perché se queste commistioni in qualche parte potessero essere tentate è più che mai necessario essere al proprio posto di uomini militanti della libertà, per impedirle battendosi non un giorno, ma mesi, anni finché cada la commistione e il tradimento. […] essere più che mai presente dalla parte dove ha sempre combattuto e lì combattere (dove, lo so, è più difficile e la vittoria è più sudata) ma nell’unica parte che deve e può evitare il crollo che ci può sommergere tutti.

Lajolo sembra anticipare a Sciascia, con questo scritto, alcuni dei temi che saranno poi centrali nelle polemiche che da lì a un mese, come vedremo tra poco, investiranno il libro o, forse, per meglio dire, lo scrittore e coloro che da quest’ultimo e dal suo libro si sentirono chiamati in causa. A Sciascia Lajolo rimprovera nella lettera di non aver voluto combattere dall’interno i mali di cui fa aperta denuncia e di essersi anzi fermato allo svilente ruolo di spettatore e narratore di fatti che, davanti ai suoi occhi, continuavano a svolgersi impunemente e inevitabilmente, e nei riguardi dei quali lo scrittore «triste» non pareva muovere un dito. Eppure Sciascia le dita le muoveva. Non è già quel dolente battere a macchina, quel tutt’altro che lieto raccontare, un grande atto di lealtà prima ancora che pubblica dissociazio-

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ne da un sistema denso di orrori e conflitti? È innegabile che Sciascia – e a parer mio ciò è particolarmente evidente a partire dalle vicende compositive del Contesto – abbia sofferto una grande difficoltà nel misurarsi con l’agone che si consuma tra parola e verità (e di ciò è banale prova l’appassionata esigenza documentaria) e soprattutto tra certezza e dubbio; la scrittura in tal senso rappresenta l’unica opportunità di mettere in scena questo nodo irrisolvibile della coscienza. Per questa ragione stride già il suono delle parole di Lajolo, che sono però da intendere soltanto come una cordiale anticipazione dei giudizi che sullo scrittore più che sull’opera piomberanno nei mesi successivi. Il 2 gennaio 1972, su «Avanti!», con un articolo di Walter Pedullà, continuò a calare ombroso il risentimento nei riguardi dell’autore, che stavolta viene schiettamente e senza scrupoli definito come un conservatore, un reazionario, colpito da consistenti «malanni ideologici e linguistici», nonché del romanzo, etichettato bruscamente come una «chiacchiera qualunquistica camuffata da riflessione superiore e distante di grande moralista»; anche lo storicismo fino ad allora amabilmente lodato dai più viene stroncato da Pedullà, che nel descrivere le citazioni interne al libro come «il meglio» della narrazione, afferma che esse sono accettabili solo «quando tornano al loro posto e alla loro epoca senza illudersi di aver parlato anche a nome di tutti gli uomini futuri». All’immagine di uno Sciascia conservatore e reazionario si affianca quella «neo-liberale» introdotta da Mario Spinella (in «Rinascita», 21 gennaio 1972), che non tardò per di più (ma non sarà l’ultimo) a relegare l’autore tra le fila letterarie dei “minori”. È proprio in questa fase, come si può notare, che il dibattito sul Contesto si va rapidamente acuendo, arrivando ad assumere toni accusatori e tratti marcatamente polemici; a fronte di valutazioni di carattere letterario sempre meno frequenti, le critiche al libro si sposteranno inesorabilmente da questo momento e nei mesi a seguire su un piano politico e non risparmieranno a Sciascia

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feroci accuse su un livello che è anche, nel coincidere di privato e pubblico cui sopra si faceva cenno, personale. Si avviò proprio in questo momento, con un articolo del 26 gennaio 1972 firmato da Napoleone Colajanni su «l’Unità», l’amara vicenda che vide Sciascia pubblicamente bersagliato dalla dirigenza del PCI siciliano, vicenda che a qualcuno oltre Sciascia costerà persino scelte politiche che avranno risvolti seri sulla vita privata. Eccoci così giunti alla ricostruzione della querelle dalla cui disamina questo libro ha preso forma. Michele Rago, autore del testo che oggi pubblichiamo, il 15 dicembre 1971 scrisse sul quotidiano «l’Unità», con il quale da molti anni collaborava, una recensione molto positiva a Il contesto, per mezzo della quale definì eccellente l’ultima opera intellettuale dello scrittore siciliano. […] Il contesto […] è senz’altro uno dei più belli fra i racconti o romanzi brevi di Sciascia. Si legge d’un fiato con divertita amarezza, come lo scrittore dice di averlo scritto, prima con divertimento e poi senza più divertirsi. […] Difficile definire Il contesto un’allegoria. È un’analisi spietata condotta attraverso immagini grottesche, quasi a dire che i problemi che viviamo sono incarnati in uomini, gruppi, vicende umane e possono trasformarsi nell’ingranaggio più disumano. Realtà che si tocca o che, quanto meno, si riesce a vedere nelle articolazioni nitide di un racconto che, senza esitazioni, si può dire eccezionale, se non si vuole adoperare il termine di capolavoro.

Napoleone Colajanni, sulle stesse pagine, il 26 gennaio 1972, cioè a poco più di un mese di distanza dal commento di Rago, rispose con un articolo intitolato Dalla Sicilia alla metafisica. Colajanni parla nel testo (e in termini che vanno ben oltre la valutazione della singola opera) di «involuzione ed erudizione» nella parabola della produzione sciasciana, a partire proprio da un’aspra critica ideologico-politica al Contesto, la cui tesi è ritenuta «banale» e carente «d’analisi» e merita di esse-

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re considerata, più che come una denuncia di collusione di “potere” e “poteri”, semplicemente come «un’invettiva» non contro un generico “potere”, ma contro chi – a detta di Colajanni – quel “potere” s’impegnava a smantellarlo: un’invettiva dunque non solamente scorretta su un piano etico, ma figlia di un’incapacità di analisi determinata da una deprimente condizione di pigrizia intellettuale. La cosa che mi colpisce soprattutto è la banalità della tesi del racconto. La tesi diciamo così generale del potere astratto e misterioso che stritola tutti gli uomini in un ingranaggio implacabile ha avuto davvero tutto il tempo di passare dalla tragedia kafkiana alla farsa degli epigoni. Naturalmente questa tesi è diventata una comoda copertura per tutti coloro che accettano di essere complici più o meno consapevoli dell’esercizio di poteri assai ben definiti. C’è poi una tesi più apertamente politica, quella della collusione tra governo e opposizione, nella fattispecie tra democristiani e comunisti, per l’esercizio del potere. È una posizione che, pur cominciando a passare di moda, richiede sempre una risposta puntuale e naturalmente sul terreno politico, perché questo è quello scelto. Non è certo lecito pretendere sempre analisi compiute, ma quando si fanno affermazioni nette, come le fa Sciascia, si ha pure il diritto di ricercare nell’opera omnia dell’autore le pezze d’appoggio. Che sono desolantemente scarse, a conferma del fatto che in tutti quanti riportano questa tesi quella che manca è proprio l’analisi. […] L’analisi politica e l’azione rivoluzionaria […] sono cose ben diverse dall’invettiva. In questo ricorrervi c’è una incapacità che è politica e culturale, c’è la pigrizia che porta alla ricerca di spiegazioni facili a fatti che invece sono complessi e contraddittori.

È sui temi della banalità e della pigrizia che Renato Guttuso – con cui Sciascia intrattenne intensi e travagliati rapporti, non solamente politici e intellettuali ma pure affettivi – offrì il suo contributo al dibattito su «l’Unità» il 1° febbraio 1972, attraverso un’esplicita, seppure molto circoscritta, contestazione

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rivolta a Colajanni. Guttuso ebbe probabilmente, a differenza di Colajanni, la sensibilità di percepire, pur nelle complesse circostanze in cui si muoveva il PCI siciliano nei primi anni Settanta, l’urgenza civile, prima che politica, del discorso sciasciano del ’71. Il titolo di Guttuso parla di Un caso non banale, e il testo non lo smentisce: […] mi sembra ingiusto e sprezzante parlare di «banalità della tesi del racconto». Anzitutto perché Sciascia non è uno scrittore «banale». Ma soprattutto perché il caso non è «ba­ nale».

Guttuso, con elegante maniera, e riprendendo sottilmente e amichevolmente quell’affermazione di Lajolo che rimproverava a Sciascia il non voler combattere dall’interno gli orrori di cui si fa narratore, invitò poi Colajanni e tutti gli attori della polemica, proprio in ragione della narrazione tutt’altro che banale e tentando di operare una mediazione, a «[…] discutere con Sciascia da amici e non da nemici, anche quando egli non ci rende giustizia». È di Emanuele Macaluso, poi, la lettera del 5 febbraio 1972 (sempre su «l’Unità») che si inserisce nel dibattito tra Colajanni e Guttuso a favore del primo: Dove invece credo che Guttuso abbia torto è in quella parte della sua lettera − che si presenta come la parte principale e centrale − nella quale egli contesta con fastidio, e in maniera radicale, lo schietto giudizio che Napoleone Colajanni, nel suo intervento in questo dibattito, aveva espresso sul libro di Sciascia, con un prevalente riferimento al suo significato ideologico-politico. […] Non credo che Colajanni − che ha del resto ricordato con ammirazione e rispetto vari libri di Sciascia − pensi che la ricca produzione dello scrittore siciliano sia contrassegnata da banalità. Egli ha solo detto, ed anch’io sono d’accordo con lui, che l’intero racconto è condizionato dalla tesi, non solo inaccettabile ma gratuita, che Sciascia ha voluto accreditare.

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Come è facile notare, gli argomenti della polemica sul quotidiano comunista rendono evidente il disturbo che l’autore di Racalmuto aveva arrecato con questa pubblicazione a una gran parte del PCI (colpevole per Sciascia in Sicilia dell’esperienza del milazzismo), disturbo di cui Michele Rago, “dall’interno”, rincarò la dose con la recensione di dicembre. Dell’eloquente retroscena che interessò il PCI, non solo siciliano, e si manifestò per mezzo delle repliche alla recensione di Rago uscite appunto su «l’Unità», ci parla (oltre al noto testo di Macaluso, con le riproduzioni fotostatiche ad esso accluse8, e oltre agli studi che sono scaturiti sul tema, non ultima l’antologia curata da Motta9) una lettera contenuta nella collezione sciasciana di cui sopra si è fatta menzione, a testimonianza del fatto che a Rago fu impedito di controbattere. La lettera, manoscritta da Renato Guttuso il 27 marzo 1972 e indirizzata a Sciascia, fa da accompagnamento a un interessante dattiloscritto (che altro non è che lo scritto conclusivo della querelle) di Michele Rago a «l’Unità» che non fu mai pubblicato per ragioni − spiegano tanto Guttuso nella lettera a Sciascia, quanto Rago in una nota di accompagnamento al testo dattiloscritto − interne al partito e di conseguenza al giornale. Per mezzo di questo testo, Michele Rago comunica la sua dipartita dal giornale e il suo allontanamento dal PCI, scelte che si riveleranno poi irreversibili, inducendolo a riservare da quel momento il suo impegno civile alle sole aule universitarie10. Su cosa condusse Rago a una scelta tanto radicale non è difficile indagare; ne descrivono bene le ragioni già i commenti che Colajanni, in parte Guttuso e anche Macaluso riservarono al libro di Sciascia nei primi mesi del ’72, ma non basta. Riporto di seguito, per questo motivo, la trascrizione integrale della replica che Rago scrisse e inviò il 12 marzo 1972, di cui, con ragioni evidenti anche al lettore più distratto, Renato Guttuso si premurò di spedire a Sciascia una copia, per conoscenza.

24 Roma, 12 marzo 1972 Unito alla presente trasmetto il testo di una “lettera al direttore” da me inviato all’“Unità” il 6 febbraio come mio intervento nella discussione allora in corso sul libro di Leonardo Sciascia Il contesto11. Detta lettera non è stata pubblicata. In un incontro col direttore del giornale Aldo Tortorella (10 febbraio) e in un incontro successivo col responsabile della sezione culturale del C.C. Giorgio Napolitano (18 febbraio), mi furono espresse soprattutto preoccupazioni di opportunità, e cioè che il contenuto della lettera e il mio volontario allontanamento da ogni collaborazione all’“Unità” potessero provocare una campagna ostile al partito. Pure osservando che di una preoccupazione analoga non si era tenuto conto quando la polemica in corso era stata aperta, risposi che li lasciavo liberi di fare della lettera ciò che volevano, ma che comunque mantenevo ferma la mia decisione per quanto riguardava la mia collaborazione al giornale coerentemente con le conclusioni politiche cui ero pervenuto. Tali conclusioni sono chiaramente esposte nel testo che qui unisco. Difficile ammettere, in particolare, che un membro dell’ufficio politico del partito diventi espressione, sotto le attenuanti del “discorso personale”, di ideologie, come quella regional-nazionalista, assolutamente estranee (quantomeno) al nostro movimento. Da parte della direzione del giornale, la scelta è stata la non pubblicazione. Da parte mia decido di far conoscere l’intervento e gli ultimi sviluppi di questa vicenda ad un gruppo ristretto di compagni che qui indico: − tutti i partecipanti alla discussione (Colajanni, Guttuso, Macaluso, Lombardo Radice) − Aldo Tortorella, Giorgio Napolitano − alcuni miei studenti di Lecce − alcuni membri della direzione del partito con i quali sono stato legato nel lavoro di partito

25 − i compagni della commissione centrale di controllo − Enrico Berlinguer − Luigi Longo. Michele Rago Caro direttore, dopo gli interventi di Napoleone Colajanni, Renato Guttuso e Emanuele Macaluso (e non so quanti ancora interverranno; forse Paolo Bufalini) la discussione (non posso dire “il dibattito”) sul Contesto di Sciascia sembra trasformata in un “affare fra siciliani”. Il che, forse, potrebbe essere la critica più aspra sul merito di un libro che io, non siciliano, con scarsissime simpatie per il folclore siciliano e per tutto il folclore in genere, avendo respirato aria di Sicilia sempre fra due treni e per non più di due o tre giorni, ho potuto (e voluto) leggere altrimenti. A questo punto il lettore (siciliano o non siciliano) dispone del materiale che qui di seguito riassumo. Una mia recensione del 15 dic. 1971, limitata alle due sacramentali cartelline concesse al critico letterario dell’“Unità”. La definirei benevolmente provocatoria nei confronti di Sciascia e dei suoi lettori. Sapevo in partenza che un discorso d’altro genere non sarebbe stato gradito. Ho, dunque, lasciato via libera ai lettori e ai risentimenti che pensavo immancabili, e non solo nel nostro stesso partito. Ho tentato, quindi, un’esposizione (per quanto è possibile) obiettiva (checché dica Guttuso). Ho presentato il libro come un giallo moderno, in cui dall’intreccio delle due linee tendenziali, illuminismo e barocco, finora caratteristiche dello scrittore, si approda ad un “grottesco” (con le possibili alterazioni parodiche del “grottesco”) contenente un’analisi sugli aspetti del potere politico. Avvertivo che tutto questo (riportato a una cronaca che ogni giorno riempie i giornali) era talmente chiaro ch’era superfluo parlare di “allegoria”, a parte la conclusione finale che ogni lettore può ricavare dall’“insieme”. Gli “amici” siciliani hanno afferrato benissimo, ed è inutile che vengano fuori con l’accusa di “debolezza”: io con-

26 divido il “non-divertimento” di Sciascia, anche se considero che la sua analisi andava approfondita anche in altre direzioni. Secondo elemento è la recensione (21 genn. 1972) di Mario Spinella su “Rinascita”. Questi, partendo dalle considerazioni sulle stesse due linee tendenziali già indicate, riporta e valuta “illuminismo” e “barocco” nell’ambito di una distinzione fra “linguaggi degli antichi” e “linguaggi dei moderni” che si risolve – mi pare – in meccanicistica individuazione di un “intellettualismo” di Sciascia e in una degradazione di lui a “scrittore minore” piuttosto opinabile soprattutto sul terreno (non storiografico) di una letteratura aperta. Sono termini e modi critici che, a loro volta, meriterebbero un lungo discorso (specie se ci si richiama, come fa Spinella con molta competenza in altra sede, al “pensiero hegeliano e marxista”) e che però dànno l’impressione di un aprioristico giudizio di “valore” (non a caso, infatti, la conclusione è “ideologica”). Spinella, se non sbaglio, cade nell’errore che rimprovera a Sciascia quando gli attribuisce una “tesi”, cosa che per un racconto a sfondo saggistico potrebbe dirsi un pleonasmo. Sulla “tesi” insistono, poi, Colajanni e Macaluso. Ma qui entra la Sicilia e, addirittura, la controversia che in Sicilia agita le acque del dibattito politico, in particolare sulla funzione che svolge il PCI. Qui dobbiamo tacere tutti, e lasciare la parola ai siciliani, ai quali non possiamo non essere grati di avere colto il momento per segnalarci cose tanto interessanti. La risposta che sento di dare riguarda, tuttavia, quei problemi che si pongono a livello generale e nazionale. Tanto più che il libro di Sciascia non si svolge solo in Sicilia. Anzi, anche l’ipotetica Sicilia, se non erro, è sempre manovrata dal centro ipotetico (diciamo Roma). Ora, io ho militato nel PCI (malissimo, lo ammetto, e so di meritare molte critiche di compagni) per trent’anni. Credo che molti sappiano (tanto più che ho scritto sempre senza tante perifrasi) che sono ostile ad una critica ideologizzata che si risolva in aggressione ideologica. L’ideologia è un’arma necessaria, soprattutto sul terreno tattico-politico. Ma è una necessità che i comunisti non accettano12 con una resa incon-

27 dizionata. Soprattutto quando c’è chi fa coincidere ideologia e disciplina, mentre sappiamo tutti che l’ideologia tanto più diventa “politica”, tanto più si allontana dalle necessità disciplinari, amministrative e poliziesche, quanto più è ricca di elementi liberatori in un àmbito rivoluzionario. A questo ci riferiamo nei nostri giudizi su avvenimenti che ci toccano da vicino (Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia). L’applicazione disciplinare dell’ideologia alla letteratura (anche nell’esempio illustre di Lukacs) si traduce in distorsione. Nei casi peggiori diventa azione comminatoria (para-­ poliziesca). Il critico, anziché farsi semplice lettore tramite strumenti verificati e sempre da verificare (offrirei qui l’esempio di Goldmann o, in altro “contesto”, quello di Sartre del Flaubert), cercherà, vedrà e processerà “deviazioni”. E qui (sul terreno, ripeto, dell’ideologia intesa come “disciplina”, e non come rigore di elaborazione nel rapporto con la teoria marxista e con la realtà) si può dire che la critica ideologicodisciplinare di “sinistra” si apparenti a quella di “destra”. Da una parte verremo a conoscere “deviazioni”, dalla “linea” di un gruppo politico; dall’altra “deviazioni” dagli ideali di “patria” e di “ordine” elaborati per ben altri fini. L’ideologia a questo punto si avvilisce, diventa un po’ come le famose artiglierie che colpiscono a tiro cieco, indifferentemente, le linee proprie e quelle avversarie. Che questi pericoli siano reali lo dimostra anche la presente discussione. La parte “saggistica” di Sciascia è un’analisi spietata del potere esercitato brutalmente sotto le mistificazioni sempre meno convincenti del regime parlamentare di concezione borghese che, fra gli intellettuali che siano tali, poteva illudere ancora Stendhal (ma allora le alternative erano l’assolutismo o l’oligarchia). La famosa “divisione” o “equilibrio” fra poteri (legislativo, esecutivo, giudiziario) appare sotto luce sinistra nell’indagine condotta dal personaggio di Rogas. Questo per dirci (sempre nell’ambito di un’analisi trasferita in grottesco) quali siano i pericoli obiettivi di compromessi che non impressionano solo Sciascia, ma inquietano, nell’ammorbante puzza di fascismo, milioni di italiani. Che lo

28 stesso Sciascia non sappia trovare una risposta; che egli non vada a fondo dell’analisi collegando le istituzioni – compresi i partiti o i gruppi comunque legati alla classe operaia – a ciò che si muove in profondità, mi sembrano argomenti che in parte si possono accogliere. Ma sempre se si forzano i limiti che lo scrittore ha voluto porsi o, anche, i limiti di questo difficile momento. Basta considerare a questo punto non più il romanzo ma l’avvenimento immediato. Anche mettendo da parte e condannando i pettegolezzi sulle combinazioni di corridoio in merito a Fanfani o a Moro, lo spettacolo in aula offerto dai gruppi parlamentari riuniti per l’elezione presidenziale non è certo rassicurante. Sciascia assimila potere di dominio e potere di contestazione? È vero. Ma la sua analisi investe, nella sostanza, i casi in cui le divisioni dei poteri si sottraggono alla loro dialettica, a quella dialettica che del resto, in questo stesso momento, la classe operaia e altri gruppi di lavoratori dimostrano con forza sempre maggiore di ricercare nelle stesse sedi di partito. Un libro che si limita all’analisi susciterà sempre polvere di discussioni. Rimproveriamo a Sciascia tutti i torti che egli ha. Ma stiamo attenti a quello che dice; non semplifichiamo coi sicilianismi. Già, e qui torniamo indietro di un passo. Spostare il dibattito letterario e farne una discussione politica, sono d’accordo con Macaluso, può essere un merito del PCI, fuori da ogni orgoglio ferito. È noto che io sostengo che è la politica che deve impegnarsi nella cultura prima che accada il contrario. Anzi, è proprio l’altro segno distintivo di ogni “politica”. Per questo, se credo alle possibilità delle rivoluzioni culturali non credo a restaurazioni che possano essere culturali. Ma, detto questo, ricorrere a un armamentario critico “ideo­ logizzato” non è impegno politico nella cultura. Ed è la sostanza, mi pare, del discorso di Guttuso che, fuori da ogni tatticismo, io accetto. Altrimenti eccoci di fronte, non più la cultura unitaria marxista (con possibili varianti interpretative da storicizzare), ma la cultura frammentaria e di gruppo. Mi rifaccio così all’articolo di Colajanni. Vi si parla addirittura di “ideologia siciliana” (che non nego possa esistere; ma

29 da considerare piuttosto con sospetto per sottoporla a verifica). Si contrappone questa ideologia o “cultura” siciliana alla “parte di cultura nazionale” finita nella “crisi”. Si crederebbe quasi a una “sicilianità” pura (grazie all’adesione delle masse e all’assimilazione non idealistica del marxismo!) e viceversa a una “nazionalità” corruttrice, crisaiola e mafiosa (priva di adesione di masse, ovviamente, e in preda all’idealismo magari del “pensiero hegeliano e marxista”). Ora, io non so fino a quale punto le masse siciliane (che non distinguo troppo dalle masse calabresi o venete, condannate ugualmente allo sfruttamento e all’emigrazione) vogliano rivivere la “cultura siciliana” succhiandola dalle mammelle di Verga, Pirandello e Brancati, i quali certo non erano immuni dalle crisi che proliferano sull’asse Bonn-Milano-Roma-Palermo. È comunque una strana piattaforma ideologica per rimproverare a Sciascia la sua involuzione piccolo-borghese quella di dire: “ogni volta che si è distaccato (dalla ‘cultura siciliana’) credendo di sprovincializzarsi, di diventare nazionale, l’intellettuale siciliano ha finito col pagare lo scotto della sua decadenza”. Caro direttore, permettimi ora una dichiarazione finale. So che le posizioni qui esposte mi faranno restare isolato, anche perché provocheranno l’accanimento di quella critica dell’assenza che spesso poggia sulla mozione degli affetti. C’è un congresso in corso, ed è quella la sede politica in cui si dibatte. Mi permetto di non considerare possibile che un membro della direzione intervenga, sia pure in un dibattito culturale, “a titolo personale”. D’altra parte in un’attività come quella che svolgo da troppi anni, che oggi mi appare tanto più difficile per le condizioni in cui posso svolgerla, vengono meno le possibilità per approfondire problemi che io considero vitali. Aggiungo nel conto i miei difetti e la nozione autocritica dei miei limiti. Di conseguenza, come nel 1967 rinunciai alla direzione del “Contemporaneo”, sento a questo punto il bisogno di rinunciare anche all’incarico di “critico” dell’“Unità”, non senza rivolgere un saluto ai compagni che mi hanno seguito con affetto, con intelligenza e, anche, con pazienza. Michele Rago

30 Nota: La frase, nella cartella 1, dove si afferma: “sa­pevo in partenza che un discorso d’altro genere non sarebbe stato gradito” allude a un episodio precedente, e cioè alla mancata pubblicazione di una recensione sul recente romanzo di Nanni Balestrini, Vogliamo tutto, passata al giornale un mese circa prima della recensione su Sciascia. A seguito del primo colloquio con Aldo Tortorella, per venire incontro all’esigenza di non rendere pubbliche le dimissioni, avevo inoltrato al giornale un “finale” sostitutivo dell’ultimo paragrafo (da “Caro direttore, permettimi…” in poi). Lo trascrivo ugualmente. “So che le posizioni qui esposte mi faranno restare isolato. Esse possono provocare l’accanimento di quella critica dell’assenza che consiste nel ricorrere alle mozioni degli affetti. C’è un congresso in corso, ed è quella la sede politica in cui si dibatte. Tuttavia mi permetto di non considerare ammissibile che un membro della direzione o dell’ufficio politico o del comitato centrale, anche a titolo personale, esprima posizioni che si devono considerare lontane dai principi stessi di una politica comunista. Questo sì, può provocare crisi di sfiducia. Michele Rago P.S. Dopo che avevo scritto la lettera che precede sono intervenuti due fatti nuovi. Primo: il resoconto apparso sull’“Espresso” di un “incontro” nel quale Guttuso e Macaluso hanno esteso il dibattito fuori dall’organo del partito. Secondo: un intervento sull’“Unità” (11-2-72) di Lucio Lombardo Radice il quale ha saputo dare alle sue critiche a Sciascia un tono notevole per livello e dignità. Non credo, tuttavia, che Sciascia (il quale, dieci anni fa, promuoveva una battaglia polemica contro il “fatalismo sicilianesco” del Gattopardo) abbia voluto porsi “al di sopra della mischia disprezzando tutto e tutti” come fanno molti intellettuali italiani. Chi pubblica un libro dà battaglia, e ha quindi fiducia nei propri lettori anche quando ne offende la suscettibilità per aver criticato ciò che

31 per essi è “fede” e dovrebbe essere piuttosto il risultato di una lucida analisi intellettuale (o, se si preferisce, “politica”).

A questa lettera non è semplice accertare se fu dato seguito da molti di coloro a cui era indirizzata. Di certo a rispondere, seppure con quasi trenta giorni di ritardo, fu Lucio Lombardo Radice, fin dagli anni ’30 fraterno amico di Rago, con il quale si trovò in disaccordo nel merito delle questioni dibattute, ma non riguardo il metodo, come si evince dal testo che si legge di seguito. Roma 8 aprile (1972) Caro Michele, la vita che conduco è davvero frenetica: il ritardo nel rispondere le lettere, anche importanti, è per me ormai la norma. Questo ritardo, nel caso specifico della Tua del 12 marzo, con copia di una “Lettera al Direttore” non pubblicata sull’Unità, mi sembra un fatto (involontariamente) positivo; posso discutere con Te le questioni di fondo, fuori dalle contingenze. Nel merito, sono fortemente in disaccordo con Te. Il punto principale di disaccordo è il tuo “non considerare possibile” che un membro della Direzione intervenga, sia pure in un dibattito culturale, a ‘titolo personale’”. No, se accettassimo questo ‘principio’ faremmo un brutto passo indietro, caro Michele: nelle discussioni culturali e ideali siamo, noi militanti del PCI, davvero liberi e uguali, e Macaluso, o un altro qualunque membro della Direzione, ha diritto di parola come ognuno di noi, né la sua parola, in questo campo, vale più della nostra. Perché siamo nel campo della libera ricerca, non in quello della lotta politica immediata, che richiede – certo! – una disciplina. Non sono neppure d’accordo con quanto dici sulla “critica ideologizzata”, sulla “aggressione politica” a un’opera letteraria. Il fatto è che la letteratura è una cosa assai complicata, è, molto spesso, anche un messaggio politico, al quale si deve dare anche una risposta politica, senza, per la carità, nessuna “azione comminatoria” (ma su questo, non vedo motivo di contesa: siamo tutti d’accordo che

32 un Solženitsyn non doveva essere cacciato dall’Unione degli Scrittori, che dovrebbe pubblicare Agosto 1914 a Mosca e non a Parigi; siamo però anche d’accordo, credo nel dirittodovere di criticare il messaggio politico ideale di Solženitsyn: io ho cercato recentemente di fare tutte e due le cose insieme, senza con ciò cessare dall’essere uno “strenuo difensore della libertà di dibattito”, con buona pace di Rossana Rossanda). Dal punto di vista del metodo, mi pare però che Tu abbia una parte di ragione. Avevi, hai diritto a una qualche replica. Credo che fosse opportuno chiudere la discussione sul Con­ testo, senza quella tua lettera (non so esattamente come siano andate le cose; ma tra compagni si discute, e Tu avresti potuto togliere, ad esempio, la questione del “veto” all’intervento di un membro della Direzione, che davvero implica una grossa questione di linea, scrivere un’altra lettera, non ‘concordata’, ma risultato di un reale dialogo). Credo però che oggi, chiusa quella discussione, sarebbe giusto invitarTi a esporre su Rina­ scita, o su l’Unità, il Tuo punto di vista sulla critica letteraria marxista (la parte centrale della Tua lettera). Rispetto la Tua decisione di non fare più, in modo sistematico, la critica letteraria sull’Unità come rubrica. Penso però che sarebbe un danno oggettivo che Tu cessassi in assoluto dal collaborare, come “battitore libero”, suscitatore di polemiche, stimolo alla critica e alla riflessione. Abbiamo tanto bisogno di discutere, di approfondire! Invio copia di questa mia ai compagni Giorgio Napolitano e Aldo Tortorella, soprattutto perché prendano in considerazione la mia proposta finale. Coll’antico fraterno affetto, un abbraccio dal Tuo Lucio

La lettera di Lombardo Radice legittima dunque le motivazioni della dipartita di Rago, condividendo la ragionevolezza e comprensibilità delle scelte, pure drastiche, che il giornalista fece seguire alla mancata pubblicazione della replica. Lo scambio tra i due si avvia a chiusura con un ultimo scritto di Rago, che contiene alcune accorate precisazioni.

33 Caro Lucio, nonostante la vita che definisci “frenetica”, ti sei preoccupato di me e della mia lettera, e sono quindi nell’obbligo di ringraziarti. Per le cose che mi scrivi sul tuo “disaccordo” devo precisarti: 1) che io non mi sono mai sognato di erigere a “principio” il fatto di “non considerare possibile che un membro della direzione del partito intervenga, sia pure in un dibattito culturale, a titolo personale”. Io ho sempre sostenuto il contrario e ogni volta che mi sono trovato in un posto di responsabilità ho agito di conseguenza (come tu sai). Tutta la mia “critica letteraria” sull’Unità è stata impostata sul principio di rivendicare “l’impegno della politica nella cultura” come premessa all’“impegno della cultura nella politica”, ma tu – e altri – avete letto troppo in fretta. Contro l’ipocrisia di Macaluso, il quale concludeva nel suo intervento, di prendere la parola “a titolo personale”, io ho semplicemente risposto che mai, in nessuna occasione, sia pure quando si tratta di cose culturali (di cui ci si ricorda solo per le elezioni) non considero possibile che un dirigente di partito intervenga “a titolo personale”. E cioè, per chiarire, un dirigente dovrebbe intervenire in ogni occasione a titolo non personale. E cioè, per chiarire di più, un dirigente non può intervenire senza il senso di responsabilità che un dirigente deve sempre avere. Del resto avevo già chiarito questa formula nell’“aggiunta” alternativa: “mi permetto di non considerare ammissibile che un membro della direzione o dell’ufficio politico o del comitato centrale, anche a titolo personale esprima posizioni che si devono considerare lontane dai principi stessi di una politica comunista”. Questo sì, può provocare crisi di sfiducia. 2) Sulla critica ideologizzata (o staliniano zda­noviana) tu equivochi ugualmente. Io ho distinto, ed è la parte fondamentale del mio intervento, fra la critica ideologizzata e critica dell’ideologia. Sono due cose ben diverse. Quanto a Solgenitsin ho già avuto occasione – prima di te – di criticare “il messaggio politico ideale” dello stesso (v. l’Unità 29-2-69, a proposito di Reparto C.) attirandomi subito dalle pagine di Rinascita i

34 fulmini di Strada che per tanti anni ha sostenuto la tesi del socialismo di S. col beneplacito dei superiori. 3) Credo che tu equivochi anche sull’osservazione della Rossana (con la quale io sono d’accordo quando ironizza sul tuo essere “difensore del dibattito… sì… ma…”), sono le tue osservazioni a Sciascia che non stanno in piedi. O tu discuti con Sciascia esplicitamente sul punto che ti interessa, e cioè sulla facciata allegorica contro il PCI e questo è pienamente nel tuo diritto di “dibattito”. Ma per concedere agli altri gli stessi diritti, devi pur riconoscere l’ipotesi che nonostante quella frecciata, Sciascia ha scritto un libro che può stare alla pari con quelli precedenti (che ti sono piaciuti). Mentre tu fai una discriminazione di contenuti sul dibattito e sull’opera d’arte. Il discorso che tu fai è il seguente: libero Sciascia di prendersela con chi vuole (la chiesa, la mafia, i proprietari terrieri). Purché non se la prenda col PCI nel quale io credo con incrollabile [fede]13. E tu chiami questo “libertà di dibattito”? 4) Questa posizione di “dibattito… sì… ma…” tu la confermi anche in questa tua lettera quando scrivi: “non so come siano andate le cose…”. Rispondendo alla tua preoccupazione finale: Fino a quando il partito non sarà, anche in chi dirige, un diverso Partito, io mi ritengo escluso, e quindi senza voglia di partecipare a dibattiti di cui so fin troppo bene per trentennale esperienza, con questo bel risultato finale, come sono organizzati, e come si svolgono e come aprioristicamente si concludono. Smettiamola di prenderci per sciocchi, e cerchiamo di ascoltare. Sere fa, parlando con Giancarlo Pajetta, gli dicevo che pochi con me sanno apprezzare tutto quello che il partito mi ha dato. Il Partito: volevo dire Carlo Marx, gli operai di Milano che mi hanno capito e amato, i giovani di oggi con i quali parlo di letteratura perché la assimilo al comunismo, o anche al mio lavoro, certi numeri dell’Unità, certe riunioni, il “Con-

35 temporaneo” da me concepito e attuato come dibattito di ricerca, in ogni modo trent’anni di lavoro nelle condizioni più difficili. Ma tu sai com’è Giancarlo: il calore travolgente della sua amicizia spesso impedisce di portare a termine il proprio pensiero. Avrei voluto dirgli anche che nel partito, per sentirlo così, non posso e non voglio includere chiunque burocraticamente lo viva e lo diriga, e cioè tutti coloro che hanno impedito a me (danno ormai non grave) e impediscono a tanti giovani (danno gravissimo) di vivere politicamente, frustrando ogni impegno reale. Ciao, Lucio, ringraziandoti ancora, ti ricambio l’abbraccio.

Per il fatto che non gli fu consentita alcuna replica, Rago scelse dunque di allontanarsi da quelli che fino a quel momento aveva eletto luoghi della sua militanza. Consultando i documenti non è difficile comprendere, benché a primo impatto si stenti a credervi, che la portata del disturbo che l’uscita del Contesto arrecò a gran parte del mondo comunista italiano dei primi anni Settanta fu davvero ingente e che le conseguenze di quell’iniziale processo di “ibridazione” che condusse poi il PCI al successivo compromesso storico e che vide Aldo Moro vittima delle terribili vicende del 1978 si riversarono come una valanga sulle storie non solo politiche ma pure personali di alcuni intellettuali. Quelli che abbiamo scelto qui di esaminare, benché brevemente, sono i punti di vista di due uomini che, provenienti da ambienti molto differenti e pur non essendo entrati in contatto in modo diretto, scelsero, ciascuno per proprio conto e con le proprie (in entrambi i casi necessariamente provocatorie) modalità, di prendere posizione di fronte al tendente avvicinamento tra PCI e DC a partire dall’esperienza siciliana del milazzismo, sulla base di un assunto comune: la rivendicazione del diritto a esprimere la propria opinione nei riguardi del “potere” e di farlo parlando con e di letteratura. A conclusione di questo breve scritto mi interessa riportare solamente una considerazione che l’autore del Contesto, che

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aveva nel frattempo rifiutato la candidatura al Premio Campiello14, a freddo, rilasciò intorno alla natura polemica della sua produzione. Dell’aspra vicenda che corollò i mesi immediatamente successivi alla pubblicazione del Contesto Sciascia parlò, infatti, intervistato da Emilia Granzotto (Siamo tutti si­ ciliani su «Panorama») l’8 novembre 1973, dichiarando con il suo naturale e amaro sarcasmo: La polemica più grossa è nata per Il contesto, e mi ha soddisfatto. Quando è stato discusso seriamente perché è stato discusso seriamente: quando è stato attaccato scioccamente perché l’imbecillità mi diverte, mi diverte molto.

La storia di Michele Rago, che ha tenuto assieme l’impegno e la vocazione civili battendo con vivace speranza e qualche momento di sconforto i sentieri del giornalismo, della traduzione e dell’insegnamento universitario, non è con questo dibattito che si conclude. Molte saranno le strade che dal 1971 in avanti l’intellettuale percorrerà, soprattutto dentro le aule universitarie, sempre all’insegna della coerenza nei ri­guardi di se stesso, in una dimensione che per scelta fa convivere e coincidere, non senza difficoltà, sfera privata e sfera pubblica, valori personali e collettivi, talenti individuali e servizio alla comunità. E proprio in ragione di questa inscindibilità tra personale e pubblico il dibattito del 1971 rappresenta a tutti gli effetti nella vita di Rago un punto di non ritorno, una scelta obbligata non solamente verso di sé, ma soprattutto verso coloro ai quali è stato impedito «di vivere politicamente, frustrando ogni impegno reale», cioè i giovani cui nell’ultima lettera indirizzata a Lombardo Radice fa riferimento. È con questo spirito di osservazione che desidero invitare il lettore a prendere confidenza con le Pagine di diario, pagine che, rese pubbliche, oggi, adempiono alla loro funzione civile di servizio alla memoria collettiva, nelle cui trame narrative, spesso, nelle cui trame narrative, spesso, attraverso dettagli

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ombrosi, si scoprono vicende che sono state dimenticate per il fatto che ricordarle sarebbe stato troppo faticoso, doloroso, sconveniente. Quale “contesto”, quindi, per Michele Rago? Volendo giocare con le parole: non certo un contesto felice, quello del Contesto sciasciano. Parlarne oggi, però, significa stimolare i lettori a tenere in debita considerazione quello che Rago stesso, in questo diario ricco di riferimenti politici, storici e letterari, chiama «intreccio fra letteratura e vita»: la scrittura, cioè, intesa come strumento, privato eppure rivolto all’esterno, che aiuta a vivere cercando un nesso tra esistenza e pensiero, un senso per sé e per il mondo, nell’indissolubile legame che, nella dimensione dell’intellettuale, tiene insieme espressione dell’io e contributo alla società.

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Note

1.  Si vedano, per brevità: M. Onofri, Storia di Sciascia (1994), Inschibboleth, Roma 2021, cap. V, pp. 187-242; O. Barbella, Sciascia, Palumbo, Palermo 1999, p. 149; G. Traina, Leonardo Sciascia, Mondadori, Milano 1999, pp. 81-85, P. Squillacioti, in L. Sciascia, Opere, vol. I, Narrativa – Teatro – Poesia (d’ora in avanti OA I), Adelphi, Milano 2012, pp. 1826-1856. 2.  Il testo fu pubblicato dall’autore nel 1971 presso Einaudi e per lo stesso editore fu ristampato nel 1976, per poi essere ripubblicato da Adelphi nel 1994. 3.  È proprio dal lavoro di ricerca condotto sulle carte sciasciane in occasione della tesi dottorale, difesa a febbraio 2020, che è stato possibile far emergere molte delle informazioni riportate in questa prefazione. 4.  Cfr. E. Macaluso, Leonardo Sciascia e i comunisti, Feltrinelli, Milano 2010. 5.  Cfr. L. Sciascia, Mala azione, in «Corriere della Sera», 18 novembre 1971. 6.  OA I, pp. 1826-1856. 7.  OA I, pp. 1843-1844. 8.  Cfr. E. Macaluso, Leonardo Sciascia e i comunisti, cit., pp. 113 e ss. 9.  Cfr. A. Motta, Leonardo Sciascia. La verità, l’aspra verità, Lacaita, Maduria 1985, pp. 367-444.

40 10.  Sul tema si veda anche R. Rossanda, Ricordo Michele Rago, in «il manifesto», 1° ottobre 2008. 11.  «Il contesto» è sottolineato nel testo originale. D’ora in avanti, le espressioni sottolineate presenti nelle lettere e nel dattiloscritto citati saranno poste in corsivo. I luoghi poco chiari del testo sono stati integrati con parole poste tra parentesi quadre. 12.  Segue «senza», cassato, sostituito da «con». 13.  Nel testo luogo illeggibile: si annota entro parentesi quadre una proposta di integrazione. 14.  Si veda in merito la nota al testo di P. Squillacioti, in OA I, pp. 1855-1856.

Pagine di diario 1951-1996

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26 marzo Mi piace molto questa piazza, specialmente la scalinata aspra che si arrampica fino alla facciata nuda dell’Ara Coeli. La chiesa è trattenuta lassù ancora un istante. Poi dovrà crollare ai nostri piedi. L’istante passa e la facciata resta immobile, eppure sospesa ancora a quella incertezza moltiplica all’infinito la sua visione di instabilità. Forse perché così nuda – con quel semplice finestrone ricamato di piccole colonne – pare che non possa rimanere eternamente in cima ad una scalinata che se è aspra è anche solenne. È umile come noi, è un’immagine della nostra umiltà, fatta per stare fra noi, non fra le assurde pretese di un monumento nazionale, e l’armonia tutta prestabilita della larga scalinata che si arrampica al Campidoglio.

18 maggio Solo questa campagna elettorale ci ha fornito gli elementi più sereni di riflessione; solo in questa campagna elettorale ci troviamo, forse tutti gli italiani, a valutare per la prima volta con senso preciso quello che il voto rappresenta, come impegno

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come peso come necessità di scelta. Il 2 giugno fu un voto sentimentale. Il 18 aprile un voto ancora sportivo. Nel primo e nel secondo caso ci trovammo in una situazione irrazionale. Per la prima volta gli italiani, nella loro grande maggioranza, sentono ora che possono anche modificare la loro stessa situazione con un voto. Che veramente il popolo è sovrano, se si unisce, se unisce tante unità in un collettivo di milioni di voti. C’è ancora molta confusione. Ma almeno assistiamo alla preoccupazione dei “giudicati”, di coloro che sono al potere o che aspirano ad impadronirsene. E gli altri da questa preoccupazione, quando non sentono direttamente la propria responsabilità di votanti, ricavano almeno un riflesso.

28 maggio La mia visita a Sesto San Giovanni, all’assemblea della Breda. Avevo già sentito parlare gli operai, ma singolarmente, uno fra tanti altri oratori non operai. Questa volta erano tutti della fabbrica. Mi ha fatto piacere il lungo applauso che mi hanno rivolto, il più lungo e intenso di quelli dedicati agli “intervenuti”. Era meritato? Non so. Mai come ieri, ho sentito la tristezza della mia condizione. Pur militando in un partito operaio, i miei contatti con loro sono stati scarsi e brevi. E nulla mi è stato concesso per sviluppare in me stesso una conoscenza sommaria che risale ad altri tempi. Troppo difficile, in queste condizioni, lavorare bene per gli operai. E troppo spesso devo rimproverare me stesso di lavorar poco e male per coloro che ieri bene o male mi hanno applaudito, considerandomi una loro forza, un uomo che per loro sta nelle prime linee. Ti hanno imposto un soggetto serio di riflessione. Da ricordare il giovane operaio dal viso intelligente e dalla voce forte. Forse un po’ troppo sentimentale.

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5 giugno Il cortile Di queste donne che ti circondano la sola realtà che riesci a cogliere è se mai una canzonetta o qualche parola mormorata in fretta da un balcone all’altro. Sono donne-canto, se veramente le riferisci alla conoscenza fisica che ne hai. Della loro vita tutto il resto lo puoi soltanto immaginare, e per immaginare occorrono parole che esse non dicono, o quando ne dicono non bastano, Restano una canzone cantata a strappi.

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4 ottobre Aragon Ieri sera alla Maison de la Pensée per ritrovare Mucchi1. Per le scale ho incontrato una vecchia dama insipida, di quelle che portano cappellini in forma di torta e qualche pennacchietta laterale. Arrivato dietro la porta della sala, la dama si è fermata. Allora, per lasciarla passare ho dovuto spingere il battente e tenerlo aperto. Così, alle spalle della piccola dama d’altri tempi, ho fatto il mio ingresso nel tempio dell’intelligen­ tia parigina di sinistra. Il brusio delle conversazioni è rimasto sospeso un breve istante alla mia apparizione, provocando di riflesso il mio impaccio. E con un passo alquanto circospetto, di persona estranea che vuol bravare i commenti mi sono tuffato fra i gruppi immobili nella prima e nella seconda sala, sempre cercando il rifugio di una faccia amica. L’ho trovato, e ho trovato anche un posto a sedere accanto a Mucchi e ai carissimi Del Bo2. Breve conversazione iniziale fra la diffidenza dei gruppi indigeni che ogni tanto sbirciavano dalla nostra parte. Devono averci presi per tre o quattro sbirri in perlustrazione letteraria. E improvvisamente la damina incontrata sulle scale si è fatta avanti, si è avvicinata a Mucchi e gli ha chiesto qualcosa. Mucchi si è presentato. Anche lei. Era Elsa

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Triolet3, ninfa Egeria (si dice così?) del posto. Ci ha fatto sùbito portare quattro o cinque bicchierini di bevanda quasi un vermut. La conversazione è iniziata su un filo assai tenue di cordialità. Ma a tenderla ancora di più ci ho pensato io, questa volta in perfetta buonafede. “Come mai non venite in Italia?” ho chiesto. “Noi amiamo molto Aragon: Mais il n’aime pas l’Italie”. Su questa frase la dama Elsa ha cominciato a ricamare un romanzo di piccole battute risentite. Ha raccontato una lunga storia di un invito da parte di una nostra casa della cultura per una conferenza di Aragon. Siccome le trattative devono essere state condotte alla sua presenza, la dama Elsa sarebbe intervenuta dicendo che Aragon non si muoveva mai senza di lei. Gli altri, evidentemente, opposero un rifiuto per mancanza di quattrini. E le cose rimasero lì, producendo diffidenza e malumore nella coppia. Da allora i rifiuti sono rimasti duri e massicci. E lei me ne voleva, parlandomi, nonostante le mie parole di ravvedimento, assai gentili. Lei si era aggrappata alla mia frase (mais Aragon n’aime pas l’Italie), per dire che questi italiani malvagi hanno creato una leggenda sul grande poeta. “Aragon è figlio di una italiana e ama molto l’Ita­lia”. “È quello che volevo dire” ho risposto io sfoderando dal mio cuore profondo una frase di circostanza che forse anche l’abile navigatore Ulisse mi avrebbe invidiato. “Noi amiamo tanto Aragon che lo vogliamo fra noi qualche volta; soltanto che, non essendo mai venuto a trovarci, noi pensiamo che egli non manifesti per noi altrettanto amore”. La cosa poteva dirsi finita. Ma Elsa ha voluto sottolineare che in Italia non erano stati ancora tradotti Les communistes… In quel momento un distinto e spirituale signore, alto, figura slanciata, bei capelli bianchi, si è avvicinato flautando alcune frasi su Paul Auriol4, l’affare delle piastre, e la possibilità che dal palazzo di fronte, che è l’Eliseo, qualcuno potesse sparargli. Tutti ascoltavano in religioso raccoglimento. E davvero la sua voce è bella di una magnifica e invidiabile pronuncia francese.

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Le cose con dama Elsa son rimaste lì. Ma poco dopo ci siamo alzati per andarcene. Eravamo nella prima sala, e nella seconda qualcuno uscendo ha spento le luci. Dopo aver salutato un po’ tutti, io mi sono avvicinato al signore distinto. Avevo capito che era lui, Aragon. Mi sono presentato anche a lui e anche lui ho ripetuto l’invito, rimpiangendo che in un recente occasione quando da T. personalmente era stato scritto al Bureau Politique francese, non si fosse potuto dar seguito al progetto di un suo viaggio, “accompagnato da M.me Elsa”, ho aggiunto. “Ma sapete” mi ha detto lui “al di sopra del Bureau Politique c’è una cosa che si chiama Partito”. Ho incassato il colpo, guardandolo decisamente negli occhi. Il mio sguardo deve averlo convinto ed è diventato assai gentile. Ma poi ha voluto giustificare la sua posizione. “Ogni anno in dicembre io vado nell’U.S. dove i miei amici mi chiamano. Ed anche i miei amici cinesi non fanno che sollecitare una mia visita. Sapete, mi dicono che da Parigi a Pechino non sono che due giorni di aereo”. Stavo per rispondere quando è arrivato un tale con un mazzolino di fiori. Gliel’hanno porto, Ma lui lo ha dato ad Elsa. Questa l’ha avvicinato al petto del poeta, accanto all’occhiello della giacca. “Bisogna porlo alla bottonière” ha esclamato. E rivolta a me: “Oggi compie i suoi 57 anni”. Ho guardato la figura bianca, e dentro di me ho dovuto convenire che li porta bene. Intanto il cerchio intorno a noi cadenzava gli applausi. Come in un film americano. I miei amici erano già usciti, e io cercavo di andar via. Ma non potevo farlo senza prima salutare. Quindi per dar termine al dialogo ho ripreso brevemente il discorso. “Ma sino a Roma sono soltanto 22 ore di treno” ho detto. E ho salutato. Non avevo fatto ancora due passi che il mio braccio è stato afferrato amichevolmente dal poeta che mi ha trascinato al buio della seconda sala. Si trattava di cosa assai importante, confidenziale. Infatti: “E poi c’è un’altra storia” mi ha detto. “Nel Partito italiano si è diffusa la voce che sarei stato io ad oppormi alla traduzione delle opere

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di Gramsci. Vi prego di smentire questa leggenda”. “Nessuno può credere una cosa simile” ho risposto interdetto. “Sì che ci credono. So che la cosa è partita dal Comitato centrale del Partito francese, ma è sùbito stata accreditata. Se a voi venisse fatto di sentirla dire, smentitela sùbito. Io non sono direttore di nessuna casa editrice del Partito”. Dalle luci dell’altra sala proveniva un brusio discreto, dal quale mi sono sentito avvolgere quasi soddisfatto, quando la fine del misterioso colloquio ci ha riportati verso l’uscita. Ho salutato in fretta e ho rincorso i Del Bo. La Rue de l’Elysée era anch’essa piuttosto buia. Mentre affrettavo il passo, pensavo che, in fondo, non mi aveva fatto molta soggezione, non quanto gli ingegneri del salone dell’auto quella stessa mattina.

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1954

8 ottobre Tutte le volte mi fermo alla stazione del metrò di Pigalle. È una stazione situata in una zona allegra della capitale, e ci vengono gli abitanti della città ma anche da lontano, da molto lontano, gente nota e sconosciuta spesso si muove dalla propria città per sbarcare in questa zona e ammirare magnifiche donne che si spogliano in mezzo alla curiosità degli stranieri. Costa molto meno guardare una donna spogliarsi in una stanza d’albergo – ma qui il nudo diventa un mito, neppure un eccitante, un mito e anche l’allegria… E qui alla stazione del metrò ci trovo quasi sempre l’uomo dagli occhi chiari che l’attende – attende una donna che forse non incontrerà mai.

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1956

Il gran dibattito5 Sulle spalle dell’uomo in procinto di parlare6, grava la responsabilità di questi anni e del momento. Tornando in me, dialogo con lui. Non posso farne a meno. Non posso condannarlo con lo sdegno sbrigativo di chi vorrebbe farlo fuori. Dirà che sapeva? Dirà che non sapeva? Noi, e non solo noi, lo si aspetta al varco. Non è giusto, mi dico. Ma lui non risponde a me. Parla per tutti. Allineati e deviati, contenti e scontenti, ambiziosi o inquieti, lo seguono affascinati. Lui parla timido. Misura i significati. Nessuno più di lui può essere convinto di dover scegliere parole e effetti di parola, ritrovare l’unità fra tanti dissensi, e lui li conosce, la sua memoria contiene avvenimenti tragici e tutti i ragionamenti che dalla sua giovinezza in poi, di deduzione in deduzione, di parola in parola, hanno affermato o intaccato i principi, inquinato le analisi, procurato tanti lutti. Per cui anche la mia allegria mi dà nausea. Lui non dimentica, non ha il diritto di depennare le preoccupazioni, metter tutto fra parentesi. Questo è ancora il dialogo segreto fra me e lui. Intanto lui parla. Se la cava. Se la cava bene. Lo ammiro molto. Dico bravo, com’è bravo. Lui apre ricordando che nel passato ci accusavano di trasformare tutto in politica. Anche le lotte sindacali. Anche le competizioni amministrati-

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ve. Altro è politica, dicevano, altro è amministrare. Ora invece, pur trattandosi di una competizione per rinnovare i consigli comunali, intorno a noi si parla soprattutto di politica. Ottimo inizio, pensiamo tutti. Va sùbito al sodo. Afferra i corni del problema. Tutti aspettano l’attacco frontale. Voi dite questo, ebbene noi rispondiamo questo. Il discorso come la prua d’una nave, sembra che punti diritto all’ostacolo o al porto. Ma il pilota, ossia l’oratore, vira come per schivare la furia del vento. La navicella traballa, si risolleva, affronta un tratto di navigazione liscia quando la voce dall’alto si sofferma sulle persecuzioni che subiscono le amministrazioni dirette dai partiti di sinistra, gli arbìtri, gli impedimenti, i ritardi burocratici, le discriminazioni, gli interventi prefettizi, e l’elenco è lungo, più lungo con gli esempi, con le casistiche sottili, gesuitiche, arruffate, corrotte, ladresche inventate e applicate dagli avversari. Tutto è vero. Certo ch’è vero. Per questo li odiamo, ed è giusto, quei politici maneggioni, quei mercanti nel tempio odiosi farisei ammantati di Cristo e bugie. Questa si potrebbe definire la parte offensiva dell’orazione. Con un’altra graziosa virata l’oratore pilota la parte difensiva. Ossia naviga nel mare calamitoso delle calunnie che la stampa di quegli avversari gesuitici, arruffoni, ladronecci, corrotti gonfia e diffonde contro di noi, le maldicenze, le diffamazioni, le notizie infondate. Qui sembra che si vada al dunque. Silenziose tensioni perturbano l’atmosfera assembleare. Si assiste al duello fra la nave e irte scogliere. Quali le notizie infondate? Nonostante l’abilità del nocchiero, il natante incappa però in qualche scoglio. Nel quadro delle fantasie dell’orrore si situa la Mostra dell’al di là, esposizione congegnata su ignobile folclore per dipingere il socialismo come disumano. Ora ci siamo. Ora verrà fuori ciò ch’è vero e ciò ch’è falso. Ma anche qui la navigazione va sul pelo del vento. Tutto sommato, è vero, è una propaganda sconcia e provinciale, come le madonne pellegrine, i cristi sudati, il manifesto del pane bianco americano del 18 aprile. Definisce i

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limiti culturali, la sbrigativa e rozza ideologia, l’avventurosa arroganza di chi la fa. È vero. Ci si può arrabbiare che la politica sia così malridotta. Maledire oscurantismi e controriformismi. È vero. È vero fin troppo… Il problema vero, dice l’oratore, e la frase cade sull’attento e proteso silenzio… Dunque il problema vero è che i comuni diretti dalla sinistra hanno dato prova e garanzia di scelte oculate a favore di chi lavora e non di chi sfrutta il lavoro, scuole, ospedali, asili-nido, mense, colonie per l’infanzia, cooperative. Rappresentano il nuovo contro il vecchio. È vero… Ma vecchio e nuovo messi a confronto è appunto il motivo centrale del gran dibattito. Eccoci tutti tesi nell’ascolto. Qualcuno applaude, altri zittiscono. L’oratore è un campione delle attese provocate, maestro di suspense. E finalmente arriva, con voce dimessa, dove lo si voleva. Trascorre con virate agili per indicare a tutti la manovra. Solo noi, dice, siamo pronti in ogni momento a porre sotto analisi il nostro passato e i nostri metodi. Solo noi … È vero. Applauso… Ma. l’analisi non è, non dev’essere un processo. Applauso. Se ci sono state degenerazioni, sapremo individuarle. È possibile. La nave corre superba. Ha aggirato le secche. S’è giocata l’ira del vento. Ritrova la bonaccia. Speriamo… L’oratore attacca il fervorino finale, l’appello a una lotta elettorale civile, degna dei nostri princìpi. La nave approda. Il capitano scende dal ponte di comando. Si abbandona agli abbracci agli evviva, agli applausi. Ha parlato bene. Lo approvano tutti… Ma è tardi … Il dibattito è sospeso per due ore. L’atmosfera, mentre si esce dalla sala, torna festosa. È nato un termine nuovo, giacché di nuovo si tratta. Le degenerazioni del socialismo. Molti ci scherzano su. Tu che sei un degenerato. Tu che degeneri nel culto. Io? Ma nient’affatto. Se culto ci ha da essere, io sono per il culto della mia persona. Per quelli che vanno in città, sul percorso del ritorno i commenti nelle macchine, nei trenini, negli autobus variano di toni e giudizi. La pausa, noi la passiamo sul piazzale a commentare noi pure.

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Mangiamo panini, beviamo birra, e commentiamo. Antonino Squillaci7 chiama Valente Primo8. Arriva invece Valentino Verbato9. Antonino lo interpella. “Bé, che te ne pare?”. L’altro: “Sì, la regìa era ben montata”. Interviene Rosa Scarletta10: “Già, adatta a chiudere il problema”. Guido Loneri rincara: “Lo ha liquidato”. Ivo ribadisce: “Ha chiuso”. Spunta a puntino Valente Primo con tono di scommettiamo; “Per me lo ha aperto”, proclama. Luigi Dieci11: “Troppa retorica”. Rimbomba un “Ebbé?” Ci voltiamo come soldatini sotto comando. È Antonino non un tamburo. Antonino appoggia sulle corde, come fa, a perdifiato. Il fiato balza in alto, lui lo perde, il fiato balza più su, lo ritrova, insegue le parole, cresce nelle parole. “Ebbè” ripete salendo, “e allora… e in fondo… insomma, un po’ di retorica ci vuole pure”. Ci osserva. Si sgonfia scoprendo visi stralunati. Butta giù la sordina. “Quanno ce vo’, ce vo’”, decide lui. […] Ora, nelle vicende di quel periodo di delusioni e risvegliate speranze ch’io indico qui sotto la denominazione di gran dibattito, e del quale riferisco come posso quel frammento di vita vissuta e scivolata nel sogno, il tema della verità emerge fra tutti. È quello ch’io riascolto riprendere e ripetere. “Povera verità”, dicono alcuni più delusi. Sussurrano cauti fra loro. Vedo le loro teste avvicinarsi. Oppure si appassionano e urlano in un divampar di polemiche. Uno si pronuncia contro i simulacri di verità soggettiva o idealizzata. Così ci siamo traditi allontanandoci dal principio-base della verità oggettiva. Un altro afferma che, nonostante l’infortunio che ci ha colpiti, rimane intatta l’esigenza, anzi l’istanza, di un diverso contratto sociale. […] C’è chi invoca i valori e chi li rifiuta. Insomma c’è spaccatura e divisione dove appariva fino a ieri una massa compatta. L’ideologia si è frantumata, osserva uno. Bisogna rifarsi alla teoria,

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incalza un altro. Dico meglio: dalla teoria non bisognava discostarsi. Rileggiamoci i classici. Sconfinando nell’ideologia, si finisce dove siamo, fra melma e sabbie mobili. Ma per quanto si discuta così lacerati, ognuno tenta di riverificare quel quoziente di verità ch’è stato all’origine della propria adesione al movimento o alla teoria. – Qui il quadro si complica. E poi, oltre al quadro, c’è la cornice. Mentre noi si discute di principi, verità, libertà, giustizia e parole così belle che inteneriscono i poeti, le stesse parole le ascoltiamo usate senza tenerezze nella vasta e logora cornice che ci stringe. Il paese dove noi viviamo, è profondamente diviso. Noi e gli altri. Un poeta usignolo di allora lo avvertiva angosciosamente. Ricorrendo a immagini, simboli, modi dialettali e figurine di reietti innocenti, metteva allo scoperto la ferita. Intanto quegli altri ci assediano governando e costringendo al silenzio le voci di dialogo. Costretti a poetica sincerità direbbero: noi massacreremo le rivolte logiche… al servizio dei più mostruosi sfruttamenti industriali e militari. Ma la sincerità non è il loro forte. Padroni delle leve di potere, sono conseguentemente padroni dei mezzi di diffusione. Si gira il bottone del televisore, lo schermo s’illumina, appare uno di quei visi, uomo di governo o di piccolo potere, paffuto, pettoruto impettito senzabaffi, discorre e conclude che lui è per la verità, la libertà, la democrazia. Appare un altro, un altro, un altro, verità, libertà, è un ritornello. […] Quello che invece mi insospettisce e non mando giù, siamo franchi, è che pur insegnando verità, libertà, giustizia, ideali e nobili princìpi, quelli siano ugualmente per gerarchie e sovranità, sovrapposizioni di astuti o privilegiati a inermi o sprovveduti, selezioni di specie, lotte biologiche perpetuate nella storia, frattura secolare fra dialogo e dibattito che, ad opera di sottobaffi, senzabaffi e microbaffi, resiste nella pratica aggiornata di cambiare a parole lasciando tutto tale e quale…

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[…] Benché nessuna scena del sogno vi alluda, c’è una certa qual somiglianza con Cristo incoronato e sputacchiato. Differenza sostanziale è che Cristo si è moltiplicato. Milioni di anonimi accusati nella cornice di orrore bestiale, atroce burla che ti può riservare la storia malata. […] E qui si presenta il terribile conflitto che mi turba quando torno alle domande e risposte pensate dentro di me, in piena solitudine. È il conflitto fra le mie intenzioni e i miei comportamenti, come si dice. Ho detto che per universale principio e quotidiano programma, io vorrei dialogare. Però non ci riesco nei contatti con le persone; sono scontroso, permaloso, ruvido, insofferente. Mi sfuggono insulti e parolacce non appena qualcuno, e fosse solo qualcuno, adopera etichette e formule, come dire: nella misura in cui… affondare le radici… tirare l’anello della catena… esplicitare le opzioni… sensibilizzare… le ipotesi alternative… il salto di qualità… parametri, coordinate, prospettive, e simili menate, cascami e perle barocche raccattate nel dibattito… Figurarsi poi se bisogna seguire ore e ore interventi su interventi, un oratore dopo l’altro… sorbirsi le formule trasposte in accenti dialettali… nella misura in cui… le ‘cordinate’… a’ cateeena… in toni accorati, melodici, comiziali, sfibrati, lisci, scivolosi, vuoti, senza senso. Mi smarrisco. Vorrei capirli. L’impulso nol consente. Insorgo. Sono cattivo… Poi, poi torno a me stesso, ci ripenso. Mi pento. Riporto ogni cosa alla teoria del dialogo e dibattito contrapposti e da saldare assieme nelle voci liberate e sincere. Mi rimprovero. Dico: tradisco me stesso. […] Ma, senza volermi giustificare, è che sono uscito a pezzi da troppe imposizioni cadute dall’alto. Niente rose e gigli per chi ha attraversato i fuochi di questo secolo. Sempre lacerati e contraddetti o, se ci tenete, abbiamo contraddetto noi, guastafeste, brontoloni, gente scomoda. Ave-

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vamo tutte le intenzioni di essere coerenti. Prima il fascismo con caste, gerarchie, gruppi chiusi, corporazioni, e guerra. E nessuna uscita di sicurezza, ingabbiati, arruolati, condannati fino allo sfacelo che distrusse il paese. Poi il dibattito di linea… è vero questo l’ho scelto io, e lo sceglierei tuttora per come l’ho scelto qui dove vivo io… Ho avuto come compenso il permesso di stare fra la gente che, sotto il peso del bisogno, è per me la gente del dialogo, confusa dalle parole altrui, ma viva ieri e oggi nella sincerità della ragione, unica morale concreta della storia… […] Vorrei trovare le parole che servono. Far vincere a chi spetta la partita… Ma senza forme, niente regole; senza regole, niente gioco. Dal dibattito sono respinto nel dialogo. Devo accontentarmi d’una coerenza tutta privata. È lo spazio di libertà che rimane. Pur desiderando l’esatto contrario, è nel mio intimo che dialogo con tutti. In sogno, a ripensarci, mi torna la bile. Angela si allarma. “Sta buono” mi placa; “cerca d’esser gentile”. Gentile, gentile. Le contraddizioni, gli ostacoli mi fanno a pezzi. “Niente pietà”, ammonisce lei. “Sei troppo concitato”. […] Ma è arduo pensare come Angela. Ha le sue idee sul gran dibattito e sul dibattito generale che continua e non si arresta. Per lei il dibattito è ridotto proprio male, anzi malissimo, dominato com’è da pressioni e programmi emotivi. È un susseguirsi di emozioni che fanno esplodere ad arte. Manovre e regole del gioco. Nelle emozioni donne e uomini sono adescati, educati, murati. “Intanto che si fa?” chiedo io. “Intanto si lavora”, dice lei. Io: “Ma c’è aria di riflusso. Siamo sconfitti”. Lei: “Non c’è mai sconfitta singola o di gruppo. La sconfitta di uno è la sconfitta di tutti”. Io: “Ma nei fatti è diverso”. Lei, spazientita: “Nei fatti, nei fatti… Ci si riempie la bocca di fatti, anzi di fatti concreti. Se uno si ammazza, è la società che in lui fallisce e si uccide. O altrimenti applichi tu pure la regola del successo, ti può andar bene anche la morale

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dei tuoi avversari. Io: “No, no… ma quello che dici esce dal quadro del presente”. Lei: “Quelli della Comune furono fucilati. Non furono sconfitti”. Io: “Se la mettiamo così…”. Lei: “E come vorresti metterla?” Io: “Ammetterai che di errori ne abbiamo commessi?” Lei: “Questo sì”. Tace un momento. “Errori, sì”, dice. “Ma proprio dei più gravi non si parla. Due soprattutto”, dice. “Il primo è che abbiamo confuso la rottura violenta della vecchia società con la rivoluzione. Abbiamo creduto che risolvesse una volta per tutte… abolite la proprietà, ed ecco il socialismo. Poi continuiamo a pensare che la lotta di classe si debba condurre come guerra di emozioni, folle, piazze, comizi e sconvolgenti notizie, iniziative rumorose, beatificazioni di personaggi, socialismo e paradiso in terra per domani. Si adotta il gioco degli avversari. Arriva testapelata, arriva il papa, folle oceaniche e ovazioni, evviva, evviva, gente infervorata, curiosità, emozioni, interessamenti collettivi, e fede, fede, accese speranze. Ti piace lo spettacolo?” È partita. Mi tappa la bocca. Io: “No, va bene…”. Lei: “Allora, no. Eppure si continua. Emozione contro emozione. Poi arrivano le guerre. Milioni di soldati o missili lanciati in nome di emozioni… è l’ultima guerra che combattiamo… difendiamo la patria… la civiltà contro la barbarie… la libertà dell’occidente, il socialismo reale… Il quadro e la cornice, per usare le tue metafore, sono la prova che le lotte emotive tengono in caldo i conflitti… Il mondo balcanizzato… Ma per noi sono appena episodi di cronaca nella storia che si cerca”. Io: “Ma il comunismo…”. Lei: “Il comunismo è per ora lotta alla violenza… alle fedi, alle emozioni che la promuovono… Il comunismo”, e cita Lucien12, un nostro amico franco-rumeno ora scomparso, “è il massimo di coscienza possibile anche nel peggior mondo possibile. Meglio nel migliore. Ma bisogna raggiungerlo, sconfitti o no… Intanto cerchiamolo in noi. Ecco perché lavorare prima o dopo ogni rottura rivoluzionaria”. Non mi convince. Diffido. Nell’attesa di quest’altro paradiso

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di coscienza è come andare all’impossibile. Si rimane in pochi. Le masse si allontanano. Dove e come esercitare l’egemonia? “Ecco il toccasana” obietta lei, “egemonia, tattica, strategia, guerra, emozioni. E se pensassimo un po’ in termini di problemi? Le masse non sono più masse anonime come ai primi anni del secolo. Donne e uomini si agitano tuttora nelle emozioni, ma non è che in essi i meccanismi della ragione non funzionino. Siamo noi a trascurarli. Quelli vogliono sapere. Si svegliano ai problemi. È vero che quelli della ‘cornice’ se ne impossessano, dividono, mettono gli uni contro gli altri, gruppi contro gruppi, cosicché siamo tutti contraddetti… è questa la nuova, raffinata forma del potere. Ma dire che siamo sconfitti…”. Io: “Intanto quelli hanno il consenso”. Lei: “Lo so. C’è un consenso di interessi e un consenso di emozioni. Ma non c’è consenso di ragione. Ogni giorno piccole o grandi emozioni in giuste dosi…”. Io: “Quelli hanno i mezzi per dosarle”. Lei: “Già, grandi strumenti di diffusione, cinema, televisione, e tanti bei fumetti… tutto calcolato, non se ne accorgono più neppure quelli che parlano, fanno analisi, insegnano, hanno libertà di parola… Ricordi la lezione antica: avete occhi per non vedere, orecchie per non udire? Aggiungiamo le bocche per non parlare. Bisogna rifarsi ai problemi, dare a tutti il massimo possibile di coscienza”. Ma esita. Ci pensa. “Ecco comunque” dice, “per te che te ne interessi tanto, l’uso che si fa della parola”. […] Ma è venuto il momento di rallentare i ritmi degli accesi pensieri e rientrare nella cronaca del sogno… Mentre mi sottraggo alle sollecitazioni d’incontri privati, il dibattito è già ripreso. Questa seconda tornata non si svolge più, per noi, nella sala assembleare. Siamo convocati in una saletta laterale del palazzo. È come se formassimo una commissione di lavoro più direttamente impegnata all’esame dei problemi. […]

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Ora dalla tribuna si ascolta l’elegante perorare di Mario Tibolla13. È la così detta relazione introduttiva. Apro la solita parentesi per spiegare. Anche Mario lo capisco. Anche lui conosco da tempo. Anche con lui dialogo finché. È una forza, un’energia che solo la morte poteva annientare. Si immerge nelle masse ma come le vuole lui, s’impone, persuade, tiene in pugno comizi e assemblee, e sono convinto che fino all’ultimo s’è commosso a quell’immenso sventolio di bandiere rosse che lo circondava, uomini e donne che occupavano le terre, volevano lavoro. È il modello riuscito dell’intellettuale organico. In lui c’è e vedo tuttavia qualcosa di annegato e sommerso. Il dovere cui crede lo trascina ad agire avvampando d’entusiasmo che molti stimano innaturale, ed è sincero. Si sdoppia, si contraddice, s’intestardisce. […] Oggi, alla tribuna, è appunto in vena conciliante nell’affrontare i problemi del giorno. “È innegabile” dice, “che discutiamo un evento di importanza storica universale…”. Fortecapo14 lo interrompe: “E chi lo nega?” Antonino squilla: “Silenzio là in fondo”. Tibolla riattacca: “C’è modo e modo di affermarlo. Non vanno sottovalutate e vanno condannate le forme scandalistiche nelle quali si vorrebbe far decadere la discussione. Noi riaffermiamo altamente l’importanza dei temi emersi dal Congresso sovietico e l’universalità che l’intero movimento socialista e comunista trova oggi ridiscutendo e ricercando la propria identità rivoluzionaria. Occorre arricchirci di fatti e argomenti. Rifiutare le manovre polemiche orchestrate dalla stampa borghese, clericale, fascista e fascistizzante. Respingere provocazione e scandali. Guardare alle realtà irripetibili, ai grandi passi compiuti da un paese ieri arretrato e oggi alla punta del progresso. Siamo noi del resto che apriamo un processo critico e autocritico per ristabilire la verità. A questo credo debba guardare chi si rifà agli ideali socialisti e anche quanti non professano tali ideali ma si accostano alle cose con

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spirito oggettivo. Dunque coloro per i quali la ricerca oggettiva della verità è impegno morale e atteggiamento mentale. Ossia gli intellettuali”. È un discorso diplomatico, Mario, dico. S’è sùbito allineato sul primo oratore. Ma a molti l’uomo dispiace. Ho detto che si appella a un’amletica verità che obiettivamente confonde. Intorno avverto un sommesso scontento. Del resto al microfono si precipita Martino. Com’è cresciuto, Martino. Non l’ho mai approvato se non quando da ragazzi si studiava assieme nella sua stanzetta, ore di pomeriggi interi, si studiava e per svago si giocava ai poeti, un bel gioco, sveglia davvero alla parola. Si va allo scaffale. Si prende un libro. Si nasconde la copertina per evitare che i competitori la vedano. Si leggono alcuni versi, e gli altri lì presenti devono indovinare il nome dell’autore e magari l’opera e magari il brano prescelto. Era bello Martino a quei tempi. Lui proprio ricordava il poeta di Prometeo liberato. Ma si è guastato. Appesantito. Indurito. Il viso grasso e deforme. Lo ritrovai così dopo anni che ci avevano allontanati. A volte si andava di sera in osteria. Non giocava più ai poeti. Giocava alla colonna. È un gioco brutto e crudele. Ti ammazza o ti fa ammazzare… Il giocatore che lo conduce dice, mettiamo, tu stai in cima a una colonna, e lì sopra c’è posto per due persone. Invece siete in tre, siete stretti e vi reggete a malapena. Uno dei tre deve cedere e cadere. Tu sei lì con Leopardi e Rimbaud. Chi butti giù di quei due?… Ci pensi, e ti agiti. Alla fine concludi: mi butto io. No, ti osserva quello. Il suicidio è vietato. E poi non ci devi pensar troppo. Butta giù. La risposta dev’essere come un riflesso dell’istinto… Peggio se la scelta è fra Marx e Lenin. Qualunque cosa tu dica, ti comprometti. Giudicato male. Peggio ancora scegliere fra Lenin e Sottobaffo15. E quello ti scruta. Il giudizio è bell’e fatto… Tornando alla scena del sogno, Martino ruggisce: “Non si tratta solo di scandali e colpi bassi che ci vengono dall’esterno. Anche fra noi si semina confusione…”. Per Valente non basta; “Altro che confusione. Si semina zizzania. Dobbiamo capire

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che qui non si liquida una forte personalità storica processandola e demolendo monumenti. Giudicare gli errori, valutare le degenerazioni, va bene. Ma questo non deve alterare l’unità del partito e del popolo intorno a quello che di concerto e di concreto si è realizzato. Non si butta il bambino con l’acqua sporca”. È proverbiale. Qui, come se una spia rossa mi si accendesse, si illumina per me qualche intrigo del dibattito. Penso al primo oratore, a quello che ha detto. Bè, il mito del gigante resiste. Si è deciso di ripiegare nella guerra delle emozioni. Nelle sezioni i proletari giudicano inverosimile la condanna. Il processo critico e autocritico di cui parlava Tibolla appare frettoloso e personale. Dunque c’è sospensione di giudizio. C’è dell’altro però. È come se alcuni giocassero la carta della statua. Dominato da queste riflessioni, sento che una larga minoranza applaude Martino. Sono disarmato. Ecco. Non sono più tanto ottimista sulla libera parola o uragano purificatore. Ci sono parole scese nelle masse dai precedenti dibattiti. Sono penetrate. Si sono incarnate. Come cambiarle? Eppure ho imparato qualcosa. Il dibattito è lotta politica. Non è che voglia cambiare. Lo è sempre stato. Così com’è, la parola è dei politici. Altro che i poeti. […] Fortecapo balza indignato alla tribuna. “È consigliabile” comincia a dire, “un tantino di pudore, un po’ di discrezione, un’ombra di prudenza a chi ha tralignato… Voi… non venite voi a insegnarci la morale. Per anni ci avete messi in disparte. Ci avete relegati… e voi facevate credere che si dovesse militare fra voi… che bastasse avere la tessera in tasca per sostituire l’impegno intellettuale. La nostra generazione è stata condannata agli incubi della guerra fredda. Abbiamo angosciosamente imparato a cosa porta il silenzio. O si cammina con un diverso disegno concepito in comune o troveremo altre tragedie. Occorrono scelte ragionate. Occorre una tavola di precedenze nella scelta dei problemi… Siamo sulle soglie di

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una nuova rivoluzione industriale. C’è una nuova classe operaia. Metropoli come Torino e Milano sono il fattore centrale, il propulsore economico del paese… Per capire i problemi ci vuole autonomia di ricerca. E poi le idee in alto e in basso devono circolare. Ci vogliono appositi canali di informazione senza esclusivismi o razzismi di partito”. Antonino si agita. Ma non strilla. Mormora: “Guarda quello, si crede socialista e fa il poeta industriale. Lui becca quattrini e gli operai vanno in galera”. C’è davvero confusione. Le parole sono chiodini incandescenti, freccette mortali. Alla tribuna sale allora Carlo Moschetta16. “Guardiamo i fatti,” consiglia. “Lasciamo perdere il discussore, il dogmatico problematico, il sofistico angosciato, il doctor disgelicus. Si parla di generazioni. Perché questo malvezzo di toccarsi sempre le generazioni? Certo un errore grosso c’è stato… Più che la coesistenza s’è organizzata la condormienza. Il dibattito va svegliato…”. Interrompe Guido: “Ma allora, generazioni o non generazioni, angoscia o senza angoscia, Fortecapo ha ragione”. Fiatogaio sorride. “Eh no” riprende. “Eh no no… Il dibattito va svegliato alla realtà. Niente sogni. Non è che stabiliamo noi, quattro intellettuali, cos’han da essere sacre tavole e precedenze. Non è che faremo precedere a fantasia questo o quello. Non è che diremo sì ai mutamenti industriali e no alla questione meridionale. I partiti sono alla testa di movimenti reali. Non agiscono per i motivi immaginari di chi non mette mai piede nelle sezioni… I sogni non hanno posto sopra la tavola…”. Pausa. “I sogni”, conclude Carlo, “se un posto ce l’hanno è sotto la tavola… fra le cicche”. Divertente. Fiatogaio ha battute geniali. Sul filo delle parole, le trova tutte. Meglio persino di Paglierino17 benché più nascosto. […] Ma ora in discussione non c’è più un solo problema. Riassumendo: c’è il processo critico-autocritico (ossia rivelazioni, crimini o “errori” di Sottobaffo) e c’è il ritardo rispetto alle trasformazioni socio-economiche, come si dice. Alcuni dicono ch’è lo stesso e identico

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problema. Se nominalmente son due, di fatto son tutt’uno… Tutto si lega e collega nella lingua… Si scopre dove e come il movimento è tardo o lento o poco sollecito. Si evocano la fabbrica, il lavoro operaio, e c’è il taglio dei tempi, o tempi stretti come li definì un documentatissimo scrittore dell’epoca. Che delizia tutto in fabbrica è calcolato. Minimi e massimi: tanti secondi per gesto. Tanti minuti per pausa. Eliminare i tempi passivi. Operaio a cadenze. Cronorilevazioni. Cinerilevazioni. I pulsanti di Tarabisco. Progresso sì, ma produttivo. Altro che parola. Tutto lì, produrre a tanti gesti tanti pezzi. Tempi moderni. “Si tratta di vere servitù oppressive” esordisce Altiero Natali18, “autentiche limitazioni di libertà. Ma noi siamo tuttora impreparati persino a livello di analisi. A livello pratico gli operai si arroccano in tendenze corporative, centrifughe, periferiche, fabbrica per fabbrica, anche se ci sono segni di insofferenza che tendono a generalizzarsi. Finora si guarda all’incentivo, alla contrattazione dei cottimi. Tocca a noi trasferire il problema sul piano generale. Renderlo politico. Portarlo e farlo esistere nell’attenzione di tutti come si è fatto da tempo per la questione del mezzogiorno. Tanto più che il prossimo futuro vedrà svilupparsi in fabbrica l’automazione”. […] Ma in questo scontro di interessi, non so chi l’avrà vinta. Giorgio Mandorlato19, dicono parecchi. Ma perché? Lui, si mormora, è contro i baffonisti o sottobaffisti. Lo era anche da prima, anche nel dibattito di linea tentava di orientare un po’ tutti verso problemi per lui reali e concreti. Ciò non pertanto Mandorlato non dà un taglio netto come vorrebbero i partigiani del nuovo. I sostenitori del vecchio, oltre ad essere vedovi della statua, hanno diretto il partito per anni, sono venuti dalla clandestinità carichi di glorie. Spesso si tratta di operai divenuti dirigenti nel prolungato rapporto fiduciario di azioni cospirative clandestine. Secondo i partigiani del nuovo, da quando si sono manifestati problemi tanto più complessi nella crescita industriale, quei vecchi sono apparsi sclerotici,

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burocratizzati, dirigono male, non stanno attenti, non ti ascoltano, seguono le gerarchie delle parole. La parola che scende dall’alto. Mentre, dicono tanti, Giorgio Mandorlato s’è schierato per il nuovo contro il vecchio. In parole povere, è apparso come il gran rinnovatore. Dove arriva, mobilita i giovani. Li incoraggia. Dice parlate. Siete liberi. Pensate. Idee, idee nuove ci vogliono. Critica, autocritica, iniziativa politica. Ma così facendo e dicendo, scatena, scatena proprio, accese gare d’ambizioni. Ci sono carte da rimescolare e giocare. È chiaro che le strutture nella dilagante americanizzazione dei consumi, sono antiquate. Mancano le analisi giuste per un mondo che cammina su svelti passi tecnologici. Ci vogliono idee verificate. Ma poi Giorgio, non lo capisco, li delude quei giovani. […] Si mormora, e peccato che si debba soltanto mormorare, si mormora che Mandorlato apra a parole e chiuda di fatto, che rinnovi a suo modo e rimane il sistema. Eppure, protestano alcuni giovani, specie nei sindacati, non siamo più ai primi anni Cinquanta, alle discriminazioni nelle fabbriche, quando per lavorare era indispensabile il certificato di buona moralità religiosa rilasciato dal parroco. Oggi nelle fabbriche c’è fermento. Persino i raccomandati da Dio si ribellano. Ci sono scioperi spontanei. Manifestazioni incontrollate. Le città del nord si gremiscono di meridionali. I nuovi arrivati sono avviati al lavoro a migliaia senza disporre, dove arrivano, di una casa, di un letto, di un posto a mensa. Appena appena qualche alito fraterno da una esitante solidarietà di classe. Di aliti non si vive. È la più tragica deportazione di massa che ricordi il paese. Mandorlato, dicono, vede strettamente un problema politico di organizzazione. Alla doppiezza militar-parlamentare di facciata, quando da una parte si strizzava l’occhio alla borghesia e dall’altra alle masse oppresse mormorando e strillando, comiziando “addavenì quer baffo”, si aggiunge sotto la facciata la doppiezza neoterico-­veterana. Ma con l’uso sapiente della parola, Giorgio aggiusta, dicono, trova pezze a colore. Bisogna

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sentirlo quant’è bravo. Abbiate pazienza, consiglia ai neoterici, meglio andarci piano. […] Ma qui mi lascio distrarre dai pensieri, e nel nostro dibattito c’è una pausa breve per il solito caffè. Nel bar dove andiamo, Valentino Verbato ha già la sua tazzina, beve, sorride. Ha la sua crisi d’entusiasmo. “Bello” dice, l’intervento di Natali. Il più serio. Senza recriminare, ha detto ciò che ci voleva… Ha stile Altiero”. Io sono d’accordo. Lo sapete. “Non per niente quello gioca a tennis” interviene Squillaci. Accanto a lui Sandro Latta20 fa una smorfia. Mingherlino, sobrio di gesti e parole, pronto di pensieri, gentile come dovrei essere io a detta di tutti, Sandro si trova sempre bene nelle lunghe marce. È un marciatore di classe. Non ha potere, ma ci arriva. Ciascuno il suo. “Beato” dice, “beato chi capisce sempre tutto. Io sono tanto, proprio tanto, confuso”. […] Intanto rientriamo. Nella saletta ha inizio la gara affannosa degli interventi. Qualcuno ha l’idea di ridurne le lungaggini e assegnare tanti minuti ad ogni oratore. Così tagliamo i tempi anche noi, protesta uno. La formula si è subito mitizzata in negativo. Si vota per alzata di mano. Prova e controprova: tagli respinti da mani unanimi meno cinque. “Ma che si fa?” esordisce Ivo muovendosi dietro l’asta del microfono con grazia scontrosa di un puledrino frenato. “Che si fa? Si apre o si chiude? Io al fermento di questo dibattito, rispondo sì. Sì. Voglio dirlo spavaldo. Come la mettiamo allora? C’è chi vuole frenare e ritardare. Si fanno giochi di parole, obiezioni e cavilli filologici. Improvvisamente c’è timore di venti e correnti d’aria. Eppure chi oggi predica prudenza liquidava ieri con sfrontata imprudenza teorie e principi. Si blatera e si dice che prima bisogna storicizzare. Che non dobbiamo processare una grande e storica figura. Di fronte a questo sconcio rimescolìo

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ritardatario dirò la mia impressione col verso di un poeta che non amo e non apprezzo ma che qui calza a meraviglia: “cercar farfalle sotto l’arco di Tito”. Massimo Rossi lo sostituisce: “Il ritardo qui lamentato” dice, “a mio giudizio dipende dal sistema. Tutti devono essere responsabili. Il vero problema è il riesame del centralismo democratico. O è democrazia, e questa deve rispondere a esigenze di libertà, responsabilità e verifiche, o è centralizzazione, e questa si irrigidisce sui tempi lunghi in criteri organizzativi, burocratici e polizieschi. Le idee sono represse, accantonate, soppresse. Di qui i ritardi e crimini che lamentiamo. Il centralismo è un prodotto storico. Risale alla clandestinità, al comunismo di guerra, a forme di cooptazione e conservazione di gruppi dirigenti. Risponde a necessità di disciplina militare, a una filosofia che condanniamo. E poi non serve più. Le nostre sono lotte contro un avversario che sa il fatto suo e s’è rifatto. Dunque niente doppiezze. Se vogliamo nuove idee per tempi nuovi, occorre istituire un dibattito generalizzato, permanente e pubblico. Dar spazio alle correnti. Ammettere chi lotta sinceramente per il socialismo, anche i riformisti, anche i fabiani…”. Non l’avesse mai detto. Scatenò un putiferio. “Revisionista” urlano in un sol impeto pluriarmonico senz’accordo preventivo Valente Primo, Ardizzone, Squillaci e anche Tibolla e anche altri venti o trenta, più o meno accesi. […] Al microfono accede Rina Giacometti21. È una simpatica figurina. Lavora nei sindacati. Sembra indecisa. Stenta ad avviare il discorso. Ma nella saletta, dal tavolo della presidenza fino alla parete di fondo, sono attenti, e lei si rassicura. “Insistono in molti” dice lei, “sul tema della fabbrica”. Già, per questo la ascoltano. Si suppone che la fabbrica lei la conosca di fatto e senza sogni. “È vero” dice, “molti mutamenti sono in atto. Alla Fiat il blocco motore della ‘600’ è già prodotto oggi da un complesso automatico lungo ventiquattro metri. Esso compie

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centotrentadue operazioni senza intervento umano se non di controllo. In altri settori il salto tecnologico è di là da venire. Nelle lavorazioni tessili, ad esempio. Ossia abbiamo uno sviluppo ineguale fra industria metalmeccanica, settore trainante, e quella tessile, settore arretrato. Ma non ci illudiamo. Anche nei tessili si registrano trasformazioni radicali. Oggi all’operaio tessile si affidano decine di telai automatici da controllare. E si parla di sostituire la navetta con un congegno a sfera per accelerare l’inserimento del filo nella trama. Quindi aumento della produzione su basi automatiche e parallela riduzione di personale… In tutto questo mi pare che sia da cogliere un movimento di sviluppo irreversibile e necessariamente connesso a una strategia industriale. Coinvolge tutti. Le prospettive immediate fanno prevedere forti regressi sociali se la classe sarà esclusa dalla programmazione globale del fenomeno… Si tratta di vedere se restiamo subalterni o se avremo intelligenza e capacità d’azione per assicurare la partecipazione operaia”. Rosa Scarletta sostituisce Rina. Rosa Scarletta sì che sa parlare, distintissima, energica e soave. Ha il vezzo d’imbruttirsi, lei ch’è bella, fra tutte somiglia più da vicino alla mia vecchia signora, tranne ch’è più morbida. “A me pare” sottolinea, “che ci manchi un’analisi esauriente delle leggi strutturali della presente società. È qui il vero ritardo, e credo semplicistico ridurre il problema a un fatto di libertà personale dell’intellettuale. La debolezza finora ci viene dalle scelte. Nessuno nega al nostro movimento il merito storico d’aver dato nuovo volto alla società italiana mobilitando anche a livello culturale grandi masse a Nord e a Sud. Ma per altri versi ci sono sfuggiti i termini esatti dei mutamenti socioeconomici. Non si tratta più di dibattere sul tradizionale nemico ideologico, l’idealismo o l’oscurantismo cattolico. Di più: finora ci siamo limitati a trattare di letteratura, di cinema, di arti figurative. Ci siamo dati l’illusione di egemonizzare questi settori. Di avere un’ideologia forte. Ma è il quadro politico-

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economico che s’è rivelato il più variabile. Ed è venuto il momento di ricondurci al terreno caratteristico della nostra indagine, cioè lo studio dei rapporti di produzione, l’analisi delle strutture e il loro legame con le soprastrutture, i mutamenti del capitalismo, la formazione del profitto”. Segue Mario Spinosa22: “Alcuni”, dice, “credono che siamo all’offensiva, viviamo invece la mentalità del ghetto o dello stato d’assedio. Un filosofo francese ci ammonisce che siamo noi a disporre di ‘un meraviglioso strumento’ per capire fenomeni e problemi. Ma come ce ne serviamo? Ecco il ritardo. Siamo indietro in campi come l’economia, la vita produttiva, la sociologia. Quale posizione assumiamo di fronte alla nuova ideologia dei monopoli, al consumismo, ai problemi dello stato e dello sviluppo? Vi è forse equilibrio fra indagine teorico-pratica e azione diretta?… È un problema di scelta non tanto e non solo individuale, ma di tutto il movimento. Lentezza e pesantezza nelle scelte hanno limitato il contributo della sinistra culturale allo studio dei temi più urgenti. Soggettivamente può venire di qui lo scontento di noi stessi quando ci sentiamo scientificamente impreparati. La qualità ideale di un dirigente è che sia, per dirla con Gramsci, specialista + politico”. L’attenzione s’è polarizzata, come si dice, sul secondo tema a preferenza del primo. Ma l’impressione dura poco. Ha la parola Luciano Longobardo23, scienziato di grandi tradizioni, ha passato anni in prigione, poi s’è appartato negli studi, non s’è mai fatto bello né messo in mostra meriti storici. Insomma è davvero un esempio. Per questo forse pensa di avere coraggio anche qui: “Ebbene” osserva, “esaminiamoci davvero. Non generalizziamo dicendo noi. Diciamo io, uno per uno. Non diciamo che del fenomeno sovietico s’ignorava tutto. Forse gli operai, forse i contadini ignoravano. Ma noi intellettuali? Io sui processi del 1937 sono stato in grado di riflettere. Essi offendevano le mie intime convinzioni. Ma storicamente li ritenni necessari. Era in gioco, mi si diceva, la sopravvivenza del primo stato socialista accerchiato e insidiato.

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A questa conclusione aderii dopo una lunga e non facile ricerca sul ‘modo giusto’ di lottare per la libertà. Non dimentichiamo che la violenza non è un’invenzione nostra. Quanti comunisti furono e sono massacrati? Ma per tornare al fenomeno sovietico, quello che ignoravamo è che a loro volta tanti compagni furono uccisi come traditori. Ecco perché bisogna riflettere su questi errori, correggerli per aprire la via al socialismo libero e umano”. È sùbito contestato. “Luciano, Luciano, tu giustifichi il tuo colpevole silenzio con la logica della ragion di stato o ragion di partito”, afferma uno. “E non ti accorgi, proprio tu, che il divorzio fra morale e politica è presto consumato”, dice un altro. “L’essenziale” interviene un terzo, “è nel metodo, e cioè come formulare i giudizi e procurarsi gli strumenti dialettici che servono”. Un quarto: “Se non si corregge il metodo, l’errore può arrivare in ogni istante”. E poi un altro: Si sapeva… E poi un altro: Sottobaffo non era mica solo… E poi altri: Non si sapeva… il socialismo… L’accerchiamento… La vittoria sul nazismo… Il comunismo di guerra… Il socialismo di stato… I compromessi… I baffonisti… Le farfalle… Il metodo, il metodo, il metodo. Quando improvvisamente in fondo alla sala un vecchietto mal vestito, impiegato o sottoproletario, un baraccato, un uomo cui le parole son filtrate a razioni dall’alto, smunto, magro, occhi spiritati, sale sulla sedia dove fin lì sedeva compunto, sale, agita a vuoto le braccia, grida: “Io vi dico a tutti viva Baffone”. Si produce qualche rumore. Poco. Alcuni tirano giù l’uomo, calmandolo, confortandolo, hai ragione hai ragione, lo trascinano amichevolmente ma decisamente, mano d’acciaio e guanto di velluto. Altri riprendono a dibattere. Il socialismo… La tavola… Giustamente… Ingiustamente… La difesa dei principi… I revisionisti … Io mi trovo fuori sul piazzale dei disegni geometrici e mi passa accanto Giancarlo Paglierino, sembra che mi aspetti, invece, se ho capito bene, esce soddisfatto da un’altra riunione a livello più elevato. “Bè” mi fa, “hai finalmente parlato?”, dico: “No ho

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dialogato a distanza”. “Già” osserva lui (e chi gli darà torto?): “Esiste la libertà. Ma poi esiste la parola”.

11 aprile Devo tornare in ritardo, e quindi a freddo, su alcune immagini dei giorni scorsi. La più importante è quella del presidente Parri24. Molti, prima di me, ne hanno parlato a lungo, l’hanno elevato a simbolo della democrazia uscita, nel calore della resistenza, dall’ondata insurrezionale. Il suo contrasto, durante la crisi scoppiata per l’intervento brusco delle destre, occupa un capitolo dell’Orologio di Carlo Levi. Io lo vidi per la prima volta a Milano durante il mio avventuroso soggiorno nel maggio 1945 – nella saletta dell’Albergo a Porta Venezia dove alloggiava la delegazione del governo. Da 3 giorni, con Cer., seguivo da osservatore staccato le sterili trattative per la formazione del nuovo ministero, scoprivo personaggi nuovi, come Sereni, Longo, e Pajetta, oppure riscoprivo volti noti come Amendola, tutti assurti dall’oggi al domani dal sussurrio clandestino al primo balzo della cronaca nei fatti già storici. Parri, fra questi, mi apparve semplice e modesto, uomo stagionato e tranquillo,

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con dimessi sorrisi e atteggiamenti evasivi. Poco dopo divenne il “Presidente”, personaggio importante. I partigiani cigiellisti lo chiamavano “Maurizio”, e questo nome balzò imponente – e impotente – nelle cronache al momento della rottura del Partito d’Azione. Ma per me restava un nome, e basta. Un amico mi descrisse la sua oratoria, semplice, mi disse, ordinaria, ma con sapore di pane casereccio, perché, senza rilievo retorico, egli cerca parole familiari e concetti semplici. Dà l’impressione di pensare lì per lì quello che sente quello che deve dire. Così me lo son sempre immaginato. Poi l’ho sentito parlare, finalmente, anch’io, tornato dalla Francia, al convegno della resistenza, ed era stata ben descritta la sua semplicità. Era un elemento fondamentale del personaggio. Analoga impressione alla breve conferenza su Danilo Dolci, al teatro Verbano. Ora si trattava di avere con lui un primo discorso personale. Sono andato ieri l’altro a casa sua, in una bella villa dove è sistemata anche l’Ambasciata canadese. Si sale per una scala larga, come se ne trovano in queste ville di fine Ottocento, quando dominavano ancora criteri architettonici di abbondanza. A quei tempi anche le persone umane erano ben nutrite, le donne prosperose, ci sono volute le due guerre per assottigliarci e fra le due guerre è arrivato il gusto per la donna-crisi. In alto – il presidente abita all’ultimo piano – abbiamo scoperto – io e D., che mi accompagnava – una terrazza spaziosa che sporgeva sul cortile dalla parte interna e dall’altra sulla strada che costeggia Villa Borghese. Di qui la visione del mare di alberi, con chiazze più o meno spesse e scure di verde, si spinge fino all’orizzonte con qualche bianca dentatura di case all’estremo limite. La giornata era bella, di primavera. Lì ci si poteva fermare per godersi a lungo quello spettacolo vegetale che nel suo fitto boschivo era adatto alle dolci meditazioni delle stagioni mediane, se il dovere non ci avesse chiamati. Abbiamo schiacciato il pulsante del campanello, la porta si apre, ed era lui in persona. Non c’era da aspettarsi la sua apparizione come una sorpresa. In casa dei

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generali è l’attendente che riceve i visitatori; il signor conte avrà un servo in livrea. Un presidente democratico può permettersi, senza farne un vezzo, di accogliervi, di introdurvi, attraverso stanze e stanzette, fino alla sala arredata con gusto invecchiato ma decoroso, dove il colloquio doveva svolgersi. Parlo io quasi tutto il tempo. Espongo con linguaggio dimesso ma che forzatamente appare liscio e tirato a lucido per la natura stessa della richiesta. Sempre, quando si infilano parole come conferenza o dibattito, si incappa nelle tagliole della retorica burocratica. Noi eravamo sul divano. Parri, seduto su una sedia, ci ascoltava agitandosi, agitando le sue mani affilate, poi curvando il suo viso brutto ma simpatico e rialzandolo con lentezza. Erano i gesti di un uomo infreddolito che cerca di ristabilire l’equilibrio interno riscaldandosi nel sottile gioco dei movimenti che influiscono sulla circolazione. Ma tutto quell’agitarsi lo faceva somigliare ad una marionetta clownesca, specie di enorme burattino agghindato da charlot. Il colloquio è avvenuto per rifiuti che si assottigliavano man mano che nell’argomentazione si procedeva verso la necessità di fare quel dibattito. Solite cose “non dovreste essere voi comunisti e socialisti soltanto”. Era appunto la ragione per la quale eravamo lì da lui. Sempre più nella sua malinconia mi appariva come un semplice. Non era una posa. Quest’uomo bisognava, certo, immaginarlo col suo passato. Era pur stato un combattente. Aveva partecipato a lotte antifasciste. Aveva accumulato sulle sue spalle odi, vendette, condanne del Tribunale speciale. Poi la guerra di liberazione, il movimento partigiano – e di lì la gloriola della resistenza fino alla poltrona al Viminale. Ora era lì e di tutto questo occorreva ricordarsene, giacché visibile, in lui, non c’era che la malinconia idillica, i suoi rifiuti accorati – “questo è impossibile, quest’altro è difficile”, continuava a dirci. Invano cercavo scaldarlo, con la mia fiamma tenue e oscillante, facendo paragoni sulle campagne giornalistiche condotte in Francia. “In Francia è diverso, certo; la zona dell’opinione pubblica è

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più larga”. “Ma anche da noi si può tentare”, ribattevo non convinto io stesso, ma, più che altro, non convinto per il timore di dover turbare la dolcezza di quell’idillio malinconico incarnato nel personaggio clownesco ch’era pur stato una volta nella storia. Ora la dolcezza idillica gli piaceva di più. Ne usciva, ne esce a volte come per rispondere all’appello del dovere. Compiuto il dovere nelle fauci terribili dell’ingranaggio umano, dolce è per lui il ritorno nella cara solitudine malinconica della casa assediata dall’idillio verde, cintura vegetale senza restrizioni di volgari orizzonti. Qui è bello riflettere sulle cose che ci sono care, magari sui ricordi delle battaglie combattute. Un personaggio dimesso e triste che può anche far riflettere sulle infinite avventure cui gli avvenimenti hanno costretto tanti uomini amanti del loro riserbo eppur trascinati da ondate di necessità o di ambizione. Un personaggio che pure si è tentati di apprezzare e di voler bene. Nell’uscire ho notato che al centro del terrazzo come per rispondere in piccolo all’oceano sottostante di piante, qualcuno aveva sistemato in ordine due file di magre pianticelle in vasi di coccio.

18 aprile Ieri all’Istituto Gramsci ricevimento della delegazione culturale cinese. È stato un “incontro” anche per noi. Abbiamo scoperto quanto di trito, di povero, di assurdamente miserabile esista anche fra noi. L’incontro non era stato preparato, d’accordo. Mi ero un po’ fidato dell’Istituto Gramsci pensavo che, come era avvenuto per la venuta di Gar., essi avrebbero pensato a tutto – noi avremmo dovuto provvedere soltanto agli inviti. Il primo a protestare per la disorganizzazione è stato Man.25, nel corridoio. Frattanto Ant. e la M.T. Lanza26 (finalmente conosciuta, donna energica accampata in atteggiamenti decisi da walchiria) si trastullavano in risate ed esclamazioni astratte,

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come dire urlate per cacciar fuori l’enorme carica vitale che li agitava entrambi. Con tanta agitazione penso che gli umori animali si purifichino, e gli organismi si distendano. Mentre era in corso questo esercizio preliminare, ecco arrivare i cinesi. Al. e Na. si erano allontanati proprio allora per un voto alla Camera. In pratica il nostro gruppo è diventato acefalo, perché, dopo i saluti e convenevoli d’obbligo, nessuno, neppure io, ho preso l’iniziativa di avviare il discorso. Situazione peggiorata dal giovane Ber., che ha avviato il discorso in inglese, lingua ignorata dalla maggior parte. Ber., dopo aver spiegato cosa fosse l’Istituto Gramsci (molto male e molto sommariamente per la verità), ha passato la parola ad Ant. Questi che già aveva dato segni e manifestazioni di malumore, ha preso la parola in francese per dire: “chiediamo scusa, ma noi non eravamo davvero preparati a questo incontro. Comunque, vi parleremo brevemente delle varie attività culturali, così come potremo”. Il discorso poteva essere onesto, come confessione autocritica. Solo che è stato coronato da un: “adesso vi ho fregato, pensateci voi”. Le frasi di dispetto, di sadico compiacimento, di aperto dissenso erano sottolineate, però, da sorrisetti, cenni di mano, e parole agitate, che divenivano sempre più insistenti. Questo stato di cose si stava diffondendo e generalizzando a tutta la fila degli italiani. Anche il Ber., in parte responsabile del disordine, cominciava ad associarsi alle recriminazioni, quando mi è venuto in mente di dire, sottovoce, ma in tono vibrato: “non facciamo come gli italiani a Caporetto: non si fanno processi sul campo di battaglia”. La frase è stata per tutti come una scarica elettrica: al sibilare (ero calmo ma serpentino) delle mie parole ho visto Ant. afflosciarsi. Il giovane Ber. ha taciuto un istante, ma poi, quando io con calma gli ho detto: “non sei forse anche tu l’organizzatore di questo disordine?”, ha ripreso sùbito l’offensiva per scagionarsi, per dire che lui non c’entrava, che Na. non gli aveva parlato di niente, e avrebbe continuato ancora, se io non l’avessi interrotto duramente: “bene, noi avevamo avvertito Na. Tu sei il vice-direttore dell’Istituto, per esempio il tè perché non

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è servito? E in questa sala perché non ci sono luci?”. A questo punto, finalmente, egli ha capito il suo torto. Pareva che a tutto si fosse riparato, ma un’altra difficoltà è sorta improvvisa. Il Ma. – presentato come storico – approfittava, invece, dello “incontro” per chiedere se anche i cinesi non partecipassero ad un certo convegno internazionale di storia, cui, come è noto, si sa, anche i sovietici partecipano per conto proprio, e per conto degli altri, andando loro, dando l’esempio, perché come è noto, e così continuava. Ma si è avuta una risposta secca. I cinesi gli han fatto dire dall’interprete che non erano informati di nulla. Allora, pregato dagli altri, il Ma. ha iniziato la sua esposizione sulla storiografia italiana. “In principio erat verbum – ha detto pressappoco l’illustre storico – prima non c’era marxismo, poi il marxismo c’è stato. Eravamo deboli e privi di tutto. Ora invece abbiamo tutto e possiamo far tutto. Ma prima, quando il marxismo non c’era, la storiografia andava male. Ora, invece, che il marxismo c’è le cose vanno bene. Pensate come andranno meglio, ancora meglio le nostre cose quando il marxismo ci sarà anche di più?”. Mentre l’interprete traduceva mi è saltato in testa di dirgli: “bada che loro chiedono un’esposizione obiettiva; parla della storiografia, in generale, parla di Croce…”. – “Sei pazzo – risponde lui agitato – che io vada a parlare di Croce…”, immaginarsi voleva dire lui, parlare di Croce, esportare Croce in Cina! Vade retro! Riprendendo il discorso in francese lo storico maturava una conclusione anche più impressionante “io sono il direttore di questa rivista ‘Società’, diceva, non potreste voi inviarci del materiale per pubblicarlo?”. In questa nuova pausa di traduzione ho cercato ancora di sospingerlo in carreggiata – ma con risultato anche peggiore. Assumendo il tono del “ragazzino lasciami lavorare”, mi ha esclamato: “ma che vuoi? Ma noi qui dobbiamo preparare degli scambi”. Per fortuna Spin., che ha parlato subito dopo sulla filosofia, ha tracciato un quadro vasto e preciso, anche se è partito da un po’ lontano: Leonardo, Galilei, ecc. Arrivato al tempo nostro

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ha largamente precisato le posizioni, partendo naturalmente dall’egemonia crociana. L’argomento ha trovato piuttosto sensibili gli ascoltatori cinesi – i quali, dopo un religioso silenzio d’attesa, hanno formulato una lunga domanda, e hanno quindi rivolto a Spin. un sorriso compiaciuto mentre la domanda gli veniva tradotta. “I compagni – diceva la ragazza – dicono di essere molto interessati alla questione di Croce, perché in Cina è molto conosciuto un suo libro sulla filosofia dell’arte…”. – “Sì, l’estetica”, abbiamo interrotto noi. “L’estetica” ha detto lei. La richiesta è piombata nel silenzio attonito di tutti. Ma più attonito di tutti, sotto lo sguardo ironico che gli rivolgevo, era l’illustre storico marxista italiano esterrefatto che Croce in Cina lo conoscessero già. Croce in Cina… “infatti” commentava imperterrito sottovoce “ce lo avevano portato gli americani”.

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1961

Sartre Passati questi due giorni con Sartre. Quale opinione può avere di me quest’uomo? Non è molto importante. Più importante è la scoperta di lui – nelle sue qualità e nei suoi difetti. Non mi pare che fra queste qualità emerga maggiormente un’altra – oltre quella dell’affabilità. Nessuna retorica della sua grandezza. È un uomo semplice. La sua negazione della borghesia lo ha portato a questa posizione di assoluta indifferenza rispetto alla vanità e all’ambizione. Non accetta su di sé le decorazioni, le medaglie al merito, il contatto con gli altri uomini non lo inebria per il rito di adulazioni che negli altri può trovare un uomo della sua statura ma per le idee, per una verifica costante delle proprie idee che in ogni colloquio gli può venire dalla gente che vive la medesima esistenza del suo tempo. Eccoci, dunque, sin dal primo momento l’uno di fronte all’altro in condizioni di parità e quasi di fraternità. Ora si è accentuato in lui come un velo di malinconia, non è solo l’età ma la sofferenza nascosta per un aggrovigliarsi di problemi che non rispondono più alla sua ragione. Ci ritroviamo ancora sperduti e soffocati da quest’emozione che ci riprende ogni volta e ci scoraggia. Come fare? – Ora dovresti limitarti a un raccontino molto semplice.

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1°) parlavamo con Sartre di varie cose. A un tratto lui dice: “Ho visto in vetrina un piccolo libro intitolato ‘Il caffè’27, rivista dell’antifascismo, e due date: 1924-1926. Nessuno di noi seppe dire di che cosa si trattava. E in verità era difficile per me – ma per Bonfantini poteva essere più facile. Ha qualche anno più di me – e avrebbe potuto ricordare. Poco dopo Sartre ci descrive “una strana collezione in cui accanto a Pavese c’era Marilyn – e accanto Cavour, Fidel Castro. Cos’è questa insalata di personaggi?”, chiede lui. E noi scoppiamo in una risata. Quell’insalata di personaggi era il miglior ritratto di Trevi editore – il Trevi bizzarro e sorridente che noi tutti abbiamo conosciuto da sempre. Sartre in questi giorni mi ha apprezzato più volte. Ho toccato spesso, mi pare, la sua sensibilità.

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1962

13 febbraio Lungo il boulevard il corteo saliva sotto il cielo grigio28. Le ore del mattino erano passate così. Dalle otto in poi migliaia di persone avevano accompagnato gli otto morti della manifestazione […]. La prima dopo almeno quattro o cinque anni di silenzio. Nessuno aveva sentito la monotonia di quel corteo, anzi sotto quel cielo grigio la gente se ne stava immobile, limitandosi a sussurrare frasi brevissime, quasi sempre per chiedere il permesso di passare. Era un miracolo collettivo di buona educazione. Nessuna enfasi sugli avvenimenti, o anche sul motivo che da ogni angolo della città e dei dintorni aveva portato tante migliaia di persone intorno il cimitero parigino del Père Lachaise, dove sono ancora confinanti, per la vera gloria della Francia, i resti di tanti caduti rivoluzionari, tutti accanto al muro dei federati. La folla assisteva silenziosa al passaggio delle corone, centinaia, il loro passaggio dura più di un’ora. Eravamo proprio nell’angolo migliore, per vederle passare, sul lungo boulevard erano un’immensa foresta fiorita di rosso, oggi i fiori parigini costavano caro, domani tutti i fiorai della città dovranno telegrafare per far trasportare d’urgenza carri di nuovi fiori per la bella gente. Un’improvvisa grandinata disperde un po’ la folla. Anche noi siamo tornati in su verso il

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boulevard Charonne. Dove le due grandi strade si incrociano, formando sulla prominenza della collina quasi una piazzetta, abbiamo visto passare un graduato di polizia, un giovane di circa trent’anni, magro e agile, viso pallido incavato sotto il suo berretto a visiera rigida; andava verso un gruppo di poliziotti adunato all’angolo con passi felpati di lupo, mettendo interamente il suo gusto in quel modo di camminare, come per dimostrare la sua energia e la sua forza. Così gli hanno insegnato a fare nella sua scuola di polizia. Quella esibizione, veduta dall’altra parte della barricata, era la sola nota falsa del giorno. Quella folla silenziosa, percorsa da una commozione che si manifestava in una severa spontaneità, senza nessuna retorica, era violata da quell’atteggiamento militaresco – che forse, per contrasto, solo a Parigi è ancora possibile. Lo stesso poliziotto a Roma si sentirebbe un po’ Cacini.

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1963

1° gennaio Molte cose ho imparato in questi giorni. Sono nozioni che si riferiscono tutte alla vita elementare: guardare la natura da vicino, trovarsi sprovveduto e inerme di fronte alla pioggia, correre a ripararsi per evitare il principio di un’alluvione che sommerge le strade, accendere il fuoco, soprattutto studiare il fuoco nella ininterrotta trasmissione delle fiamme da un combustibile all’altro, difendersi nello stesso tempo dal freddo e dal fumo che inonda la stanza e brucia gli occhi. Queste operazioni impegnano le ore della giornata, non c’è altro da fare. L’iniziativa esemplare portava al piccolo viaggio inconcludente nella città. A un certo punto si è stanchi di vedere. E io mi trovo esattamente a questo punto. Si sa già che le cose non ancora viste somigliano stranamente a tutte le cose già viste. Può variare la prospettiva, può mutare il colore del cielo, il mare può ingolfarsi in strane e ripide insenature, sempre il mare e il cielo e la terra entrano nelle infinite varianti del paesaggio col quale non si è più in armonia. Resta invece il desiderio di pace, che è immenso per chi ha lungamente vissuto in una difficile lotta per assicurarsi un momento di stabilità. E allora? Il rapporto con le cose è un

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rapporto intellettuale, e questo è reso possibile soltanto da una forza intellettuale intatta, che si traduce nel desiderio di vedere, sapere, definire, quindi di amare. Mentre il rapporto con la pace col desiderio di pace nasce da tutt’altro, nasce da una indifferenza divenuta necessaria in una situazione di stanchezza. Questo fa sì che anch’io avrei desiderato una vita come quella abbastanza comune, di chi accumula cose e visioni e impressioni, quindi cultura nella stabilità di una esistenza tranquilla. Per me quindi ogni genere di esistenza è qualcosa di diverso, sono passato in pratica attraverso tutte le esperienze degli altri ma come se ogni volta avessi guardato l’esistenza altrui attraverso uno spiraglio. Anche l’esistenza di questi giorni, in piena campagna, in piena solitudine, accanto a una città assolutamente straniera, e per giunta ruvida, capace di respingere o di chiudersi in una distanza infinita, è uno sguardo che mi ha permesso di avvicinare e di scorgere un genere di esistenza. In questa casa, infatti, abitava una vecchia coppia di maestri elementari. Arrivati all’età della pensione, si erano ritirati dal mondo. Avevano trovato qui un po’ di pace. Proprio accanto c’è una coppia di sposi, posseggono un po’ di terra, e hanno qui avuto il modo di costruire, ad una ad una, una serie di case che affittano; guadagnano da questa loro proprietà abbastanza per tirare avanti. Tutto questo mondo è per una ragione o per l’altra estraneo a quanto accade nelle città o anche fra i gruppi sociali più attivi. Vivono nella distanza. Ma non è questo il desiderio di tutti?

26 febbraio Dopo quell’articolo di Em. su Marguerite29 potrei tentare an­ ch’io di definirla. È una donna che ama l’indefinito, l’indefinibile, l’ineffabile – ossia il contrario esatto di ogni ideale

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costruttivo, perché un’ideale costruttivo racchiude, nel suo stesso sviluppo, un espediente o una necessità conoscitiva. In questo modo io non riesco a capire perché mai Marguerite sia o possa dirsi comunista o sia stata comunista, se non, certamente, per negazione. Molti sono nati comunisti da un’antitesi, e nelle nostre generazioni l’antitesi era generalmente la contrapposizione di un “diverso” al sistema coercitivo del nazismo. Questo sistema imponeva, legati alla coercizione, una serie di “ideali”: patria, razza, forza, e così via – principalmente questi, uniti ad un sistema di polizia. Marguerite e altri hanno imparato a negare questi valori e sono stati, quindi, prima di tutto contro la polizia e di conseguenza contro ogni ordine costituito come pure contro ogni valore di patria, di nazione, di forza. Già è una “forza” la necessità di definire, è un tentativo di ordine che contraddice la posizione o la radice ideologicovitale delle anime ribelli. Si forma così una vera e propria filosofia dell’esistenza neutra, grigia, situata al di fuori di ogni possibile compromesso con ogni genere di sistema. I vecchi anarchici negavano il mondo com’era – erano schierati contro l’ordine costituito – al quale attribuivano tutti i mali presenti circostanti. Ma questa concezione voleva ancora qualcosa, ossia voleva un’umanità diversa. Questi nuovi anarchici non vogliono neppure questo. L’umanità l’accettano qual è, anzi sono affascinati dalle sue tare, dalle sue debolezze segrete, persino dalle sue aspirazioni delittuose. Non hanno più fiducia in nulla, i mezzi per migliorare l’umanità si sono rivelati tutti negativi e illusori, e sempre in ognuno c’è una coercizione inammissibile. Si affoga così nella banalità addirittura. I personaggi più banali sono gli eroi del tempo nostro – ma intanto in alcuni di questi personaggi c’è la calcificazione dell’uomo, l’uomo murato dentro di sé – che non può più trovare forme possibili di comunicazione. Il linguaggio ha ancora capacità descrittive – escludendo sia pure il minimo denominatore di rapporto. Di qui le passioni per l’indefinibile – per l’atto gratuito gidiano,

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per le condizioni assurde, per gli istinti delittuosi, per le passioni oscure e irrazionali che gli esseri grigi e compressi si portano dentro. In che rapporto tutto questo è con l’esistenzialismo?

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1966

Il congresso

27 gennaio

Il discorso di Ingrao30. Grande applauso iniziale. È già un sintomo della situazione nera. Sono naturalmente intenzioni assai diverse l’una dall’altra – vari contenuti (le forme uniscono, le idee separano). Discorso ragionato, detto con voce semplice che nella stessa sintassi ritrova i modi per convincere. Porta cose nuove – tutte cose nuove già note – “abili” aggiustamenti e ritirate per evitare le accuse. Adesione (apparente) a Longo su tutto o quasi tutto tranne che sulla questione della democrazia interna di partito e sulla pubblicità del dibattito. – dove però sfuma il dissenso “ho ascoltato quello che ha detto Longo ma non ne sono rimasto del tutto convinto”. L’insieme è quanto di migliore sia venuto finora dal congresso, e cioè la necessità di un partito che cerchi la linea migliore e la sappia applicare nel modo migliore – unità di ricerca teorica e di movimento. La tribuna a sinistra formicola di oppositori di sinistra. Il loro consenso espresso da un giovane “tipo 1945” (e sarà certamente uno dei figli di quelli) che ad ogni frase ha un gesto ammirativo accompagnato da una volger d’occhi verso qualcuno dei presenti. Anche alla fine grande applauso nella sala e nella stessa tribuna della presidenza – ma non nella prima fila di quest’ultima. Tutti in piedi ma non gli amici più stretti di Ingrao, i colleghi “segretari”. Commento di Be.: non si

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può tollerare che qualcuno faccia il discorso di controsegretario del partito. Commenti e discorsi si organizzano immediatamente. Incontro poco dopo con M. Alicata31 sorridente, calmo, quasi divertito. “Ci vedremo dopo il congresso per parlare”. Gli dico quello che penso del suo articolo. Ce l’ha molto con Luporini32. Ed è questo il punto da studiare degli uomini – il loro incattivirsi, il non voler cedere, galletti infuriati che si beccano di continuo – sulla piazza – i cavalli in corsa non si fanno poi tanto male.

30 gennaio Il “pranzo della sinistra” alla trattoria dei termini sulla via Appia antica. Il discorso di Alicata e poco prima il discorso di Reichlin33. Questi ha ottenuto un successo personale senza discriminazioni. Anche la presidenza applaudiva questa volta, avendo egli accentuato il tono unitario. Commento di Guttuso – se tutto il suo discorso fosse stato come l’ultima parte – ecc. Incontro con la Rossanda34: abbiamo fatto, abbiamo detto… ecc. Ma le parole, sulla carta, restano. Il giovane Scandone35 – socialista – che è poi quel giovane che applaudiva Ingrao a tutto spiano – oggi applaudiva Alicata con altrettanto vigore. L’impressione a questo punto: una sinistra debolissima e persino stanca di combattere nella situazione data, che riprende forza solo per recriminare nei corridoi – almeno per questi giorni di congresso. Colloquio con Ragionieri36 – suo giudizio sul bonapartismo di Ingrao – come appello alle masse – difesa dei livelli – ogni livello dovrebbe essere chiuso in se stesso e presentarsi compatto al giudizio degli altri livelli. In questo quadro quello che l’imbarazza un po’ è il problema del rapporto con la cultura. Qui casca l’asino. È mia impressione ormai che in tutto questo immobilismo tutto, ma tutto davvero, si è parecchio invecchiato. L’oratore principale d’ogni giorno parla alle 12 – il “clou”

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della giornata. Anche ieri – e la sala presenta in quel momento un quadro un po’ più animato, i personaggi si immobilizzano – ogni personaggio acquista il suo atteggiamento, il volto proprio. Salvo qualche scatenato nervoso come Scandone, con i suoi gesti eloquenti, le due dita unite e sentenziose – soprattutto le figure femminili sono lì, in piedi, animate, dal loro carattere abbandonato o aggressivo – la giovane donna seduta sulla balaustra di separazione, con le gambe grosse leggermente scostate (un po’ rovesciate) e le mani sul grembo – la Renata diritta come un’asta, il corpo appoggiato su una gamba sola – e la testa voltata a sinistra o a destra – vista di profilo pareva senza pensieri. La Cisalini sempre asciutta e semplice anche nel suo stare in piedi.

Vittorini

3 febbraio

Visita a Elio37 – durante il pomeriggio – trovo anche Mitia38 che è appena arrivato dall’Inghilterra e non so per quanto tempo. Ginetta39 ha un viso affilato e umano come non mai. Elio è seduto nella sua poltrona d’angolo, quella che preferiva subito dopo pranzo quando si alzava da tavola per distendersi. Mi viene in mente la considerazione che facevo anni fa. Vivevo a due passi, nello stesso viale Gorizia, e quindi vedevo da vicino la sua esistenza e la forma ch’egli le dava. Gli orari erano rigorosi per lui; la mattina solo lavoro privato, pomeriggio solo lavoro d’ufficio, e fra questi blocchi di ore la lettura dei giornali o, di sera, la visita alla libreria e, quindi, quel tanto di vita mondana per restare in contatto coi propri simili, ecc. Tutte cose di cui io non sono mai stato capace. Anche nei gesti o nei minuti episodi casalinghi egli portava il medesimo rigoroso sistema di abitudini. E ora? Ora si sforza di sopravvivere. In fondo incontrarlo nel quadro di quelle abitudini, dov’era attivo, fa più paura. Vederlo in clinica, tormentato ancora dalle cure, significava ritrovarlo

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in una lotta – ora s’è come abbandonato – l’unica cosa che lo aiuta è la calma artificiale procurata dai sedativi. Ha usato per autodefinirsi la frase “quando si è infessiti dalla malattia, non si possono leggere che i libri facili”.

4 febbraio Visita a Elio, nel pomeriggio. […] Siamo lì, ormai nell’attesa di quello che è divenuto inesorabile da vari mesi, sino dall’estate scorsa – e che ora alcuni augurano addirittura – come un estremo sollievo. […] Si muovono tutti in punta di piedi, come se Elio potesse sentirci. Fumano accanto al caminetto soffiando il fumo nella cappa. Dalle finestre penetra quel giorno grigio che è la luce invernale di Milano. Io me la ricordo anche – quindi la osservo fra le presenze di tanti amici bisbiglianti anche con gli occhi del passato. Appuntamenti con Elio nelle strade di Milano. Si era nel 1942 e quella luce grigia mi opprimeva – mentre la presenza di Elio mi dava il senso di un contatto con le cose e con gli uomini (era anche la prima volta nella mia vita). Poi nei 24 o 25 anni di amicizia con lui e con Milano, ho imparato cosa si poteva leggere d’altro in quell’atmosfera – il senso di solitudine che si impone – di distanza, in questa luce lo ritrovo, alla fine, con un senso preciso di fine, anzi di “troppo vissuto”, come accade all’età di 57 anni – giacché questi ultimi tre anni soprattutto questi ultimi otto mesi sono stati orribili. Il cuore salta; non è più solo il male orribile che lo ha minato a poco a poco.

12 febbraio Il sogno – le immagini vanno e vengono – io e Elio (quando mi sveglio sono le ore 7:25, guardato l’orologio). Elio è in clinica;

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siamo soli noi due, io seduto vicino al suo letto – parliamo di lui. “Sono stanco” dice. “Sono proprio stanco”. Lo stato d’animo, in me, è di imbarazzo – lo vinco sforzandomi di non alterare la voce, e gli parlo d’amore – del suo amore per la Ginetta – ma è come se fosse al limite; solo gli occhi si animano. Ecco però che qualcuno lo distacca, come se il suo corpo, così disteso, fosse portato via sopra una lettiga verso una camera operatoria, o per altra cosa simile. Sento, però, che è un momento supremo – di addio – come se potesse non tornare di là, da quel suo trasporto. “Ricordati” gli dico “che sei stato tu l’amico migliore”. Ha spalancato gli occhi. “Anche tu per me. Ora lo so”. Su questa frase non sul fatto che lo avessero portato via, mi sveglio. Quindi, in realtà, sono io ad essermi distaccato, non viceversa. […] Telefonata della Lica40 alle ore 24:15. Elio è morto alle 21:45 – entrato in coma alle 4:30 della notte precedente – l’incontro del sogno è avvenuto mentre si era già liberato dal dolore – ma non s’era ancora spento – ed erano i rantoli ad indicare la sopravvivenza minima – eppure nel sogno ha sorriso in certi momenti, un sorriso fulgido – che illuminava la scena – ci prepariamo a partire.

8 giugno Partono i treni: è il senso stesso della mia vita, rincorsa sbalordita di pace introvabile o di equilibrio che non ha più nessuna validità né utilità da quando ho scoperto che la radice stessa della mia disperazione e del mio squilibrio affonda nel sottosuolo, nella personalità che è diventata mia a poco a poco, attraverso i tempi successivi di una formazione ininterrotta cui credo, cui partecipo ancora. Così parti anche oggi, e anche oggi devi costringerti a cancellare qualche cosa dei giorni scorsi, le scoper-

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te orribili, le mostruose conseguenze di discussioni inutili nelle stanze dove non ci può essere amicizia o partecipazione a un intento comune. Penso che sia solo necessario cancellare se voglio sopravvivere, ed è logico che le stesse necessità di evasione che trovo sempre più di frequente mi fanno trovare meravigliosa la vita, seppure ridotta a questa felicità non umana di scrivere, allineare parole col sentimento di dominarle, e non per un bisogno elementare sciocco di dominio ma soltanto perché le parole sono una materia da lavorare e sulla quale il lavoro è possibile e buono come ogni cosa utile che circonda l’uomo, il grano per soddisfare la fame, la pietra per costruire la casa e abitare, la lana da filare e tessere per vestirsi, e la parola per dire agli altri, per unirsi e amare e vivere sapendo e conoscendo e ritrovandosi di continuo e persino per superare nelle tecniche quei bisogni e lavori elementari che sono il mangiare, il riposare, il vestirsi. Ora vorrei tornare un po’ indietro a quest’uomo, che è un comunista sacerdotale da tavolino. Dalla scienza rivoluzionaria al moralismo neo-utopistico.

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1968

Sabato Di sabato. La grande passeggiata nel sole, a passi lenti, lungo una via larga che mi risveglia ricordi intrecciati di varie epoche confuse. Anzitutto, siamo stati insieme, io e lei, esploratori del nostro spazio privato e del terreno circostante. Il nostro spazio privato era dato dalla nostra intima e personale volontà di vivere la nostra vita, di scoprirla, giacché è questo il segreto di ogni essere, uomo o donna, scoprire i propri sentimenti.

Sogno

Domenica 25 febbraio

La notte – ed era a San Paolo del Brasile, una città già nota su un giro di strade a cerchio sulla destra che partivano proprio dal quartiere dove si era appena fermato. Gli avvenimenti erano scarni. C’era una ragazza di qualche locale allegro e affollato, stava a far frittelle che poi dava in giro col sorriso sfolgorante di chi serve umilmente la felicità altrui, e il sorriso era di un volto appena paffuto come la ragazza della rosticceria o anche come la fiorentina di Monza con la gioia che trasuda

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da ogni poro e la dolce e affabile sapienza dei cuori altrui. Ma l’uomo, forse cliente occasionale, si allontana a un certo punto, quell’incontro lo aveva rallegrato ma senza soddisfarlo a fondo, avrebbe dovuto accontentarsene, pensava, anche perché una scintilla, un bagliore di quel sorriso rimaneva dentro di lui, fermo; si muoveva sui passi, il sorriso rimaneva, i passi lo portarono verso la città, che doveva essere San Paolo del Brasile, e il sorriso rimaneva, quasi il sorriso accarezzandogli il cuore e il pensiero, lo richiamava al punto di partenza quando, arrivato in una piazzetta da dove prendeva inizio sulla destra il gran cerchio o giro di strade che correva lungo una zona, quella situata sulla sinistra, sconosciuta e chiusa, si sentì straniero. La gente di lì non sorrideva. Tutti, a piccoli gruppi, parlottavano sottovoce, e quando il viandante si avvicinò a uno di quei gruppi quasi immobili, si sentì straniero, tra parole di una lingua sconosciuta, e allora ricordò che, se quella città gli era nota, il più delle volte, e sempre partendo da quella piazza, aveva percorso le strade a cerchio sulla destra, per cui quel blocco sulla sinistra era o rimaneva terra incognita, quella città era pure San Paolo del Brasile, città o capitale sconosciuta o solo parzialmente conosciuta, forse solo nelle strade larghe e accoglienti della periferia, al di fuori dal centro cittadino, dove esisteva o doveva esistere un mistero, e quale mistero, così si mosse proprio verso sinistra provando il vuoto improvviso ch’era la scomparsa finale di ogni ombra di quel sorriso che prima, fino a poco prima, era stata la ragazza dentro di lui, e le sue frittelle, la generosità delle sue forme e del suo sorriso paffuto, così si trovò ad avanzare nella prima stradina che saliva leggermente ma era stretta come una calle, e qui vide la donna. Non era una donna qualunque, era una dama, e uscita dal manifesto di una belle époque, inguainata nel vestito scuro, scollato, senza maniche e lungo fino ai piedi, dentro quella veste lunga si muoveva il lungo corpo femminile, modellato dalla vita in giù nelle curve di una nera figura di belle époque, le mancavano il cappello

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largo e i guanti lunghi fino al gomito, di questo particolare il viandante si avvide dopo, perché intanto s’era tutto trasferito nei gesti della bella donna, e questa rispondeva ai suoi desideri a uno a uno, intanto si avvicinò e chinando il capo, era più alta di lui, gli rivolse la parola nella lingua della città ma il discorso le fluiva chiarissimo dalle labbra. Allora l’uomo volle risponderle, e anziché parlare in italiano come avrebbe dovuto, forse diventando più comprensibile, giacché la logica vuole e la realtà pure che le due lingue siano nella pronuncia più vicine l’una all’altra, l’uomo volle ricorrere a ciò che di straniero egli conteneva dentro di sé, per essere più vicino a lei che era straniera e quasi legarsi alla bellezza di lei come ascendere verso di lei, e le parlò in francese. La dama tacque e s’immobilizzò un istante, come sorpresa, e in quel punto parve davvero un manifesto belle époque, sospesa com’era sul fondo di una casa rossa di mattoni, l’uomo fu abbagliato da tanta bellezza, le forme tonde e lunghe della gonna e l’incavo dei fianchi e la dolce pronunciata linea netta delle spalle lievemente arrotondata fino a quella proiezione delle stesse linee ch’erano le braccia e poi, sublime, quel volto un po’ rigido ora ma fermo e attento sul collo lungo, la rimirò e vide tutto questo, e per un istante ritrovò anche il sorriso dell’altra, della donna che friggeva e sorrideva e dispensava agli uomini come lui, viandanti come lui, frittelle e sorrisi come se questo fosse il suo compito di lei, che aveva la ricchezza delle macchine generose o delle fontane che sono di tutti sulle piazze e messe lì per dare acqua e freschezza, come cioè tutto quello che esiste ha sempre il modo di appagare non un senso solo ma due o tre o anche di là dei sensi anche un gusto nato dalle abitudini e dalle lunghe circostanze, ci penserò dopo, si disse, ora c’è questa, e la vide che si staccava, si distaccava dalla figura immobile, la donna usciva dal manifesto o dai contorni del manifesto, si rianimava e gli sorrideva, gli riparlava nella sua lingua, con la sonorità prolungata delle parole incomprensibili, ma non tanto perché dal

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tono interrogativo e anche da certe assonanze distaccate e forti capì che la donna, tutta sorpresa, gli chiedeva come mai, se lui era francese, no, disse lui in francese, non sono francese, sono italiano, e lei, lei parla francese, quest’ultima frase fu pronunciata con tono di domanda, ma la donna riprendeva a parlare lei, e si trovò allora con un bambino fra le braccia, un bambino proprio piccolo, e tutto nudo, che si muoveva o muoveva le sue forme rosee sul nero velluto della sua veste aderente con un disegno buffo e netto diverso, davvero diverso questo era esatto, e divertente, allora per non ridere, per non offendere la donna, egli tese le mani verso di lei e lei non esitò a porgergli il bambino, che si staccò senza protestare da lei, sempre silenzioso, il che era strano per un bambino così piccolo, e sùbito si accucciò contro il petto di lui, rimase così, e la donna con le braccia ancora un po’ allargate li guardò, era bellissima, mentre lui accoglieva nei sensi quel senso tenero delle carni infantili, accarezzò il pupo, e provò la medesima sensazione, e allora colse al volo un pensiero, forse perché è così bella

non la desidero, neppure un desiderio di lei finora, eppure è così bella o forse è perché è proprio così bella, è la bellezza che mi respinge, e allora vide lui, lo vide col bambino in braccio, quelle braccia che circondavano il bambino, la mano che accarezzava la spalla del bambino per dire buono, sta’ buono, e il bambino s’era abbandonato proprio, la testolina sulla spalla,

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e vide che la figura della donna si staccava, si distaccava a poco a poco da lui senza che si vedessero neppure i movimenti sui quali arretrava verso il muro e così scomparve. Allora il viandante si trovò con quel bambino sulle braccia, la strada buia, il suo desiderio di conoscere la città e di fronte la salita tortuosa della stradina immersa nella solitudine da quando la donna s’era cancellata, e così pensò che non s’era neppure ancora accorto del silenzio e della solitudine della strada, esattamente come se la strada fino a quel momento non fosse esistita, coperta e cancellata dall’esistenza femminile, e non sapeva cosa fosse. Eccoci allora di fronte la strada, si disse, e saliamo, per fortuna questo qui non fiata neppure, il bambino era assorto, non addormentato, la testolina appoggiata alla spalla di lui, il suo dolce calore gli teneva compagnia, andiamo, ripeté, e avanzò a piccoli passi sempre guardando e osservando e aspettando di raggiungere una porta, invece a ogni passo il muro sulla sua destra rimaneva compatto e liscio, nessuna porta di nessuna casa, e non pareva tuttavia un muro di cinta ma qualcosa come un basamento prolungato che si arrampicava sulla rotondità della collina fino a un certo punto e poi, dopo un altro lieve dislivello, la strada diveniva un po’ tortuosa con una svolta prima a sinistra e poi a destra e infine quasi precipitava in un declivio ripido fino a una piazzetta dove non fu più solo. C’erano i soliti gruppi, uomini e donne, parlottavano in lingua straniera, calmi, lo sogguardavano nel loro chiacchierare ma non la smettevano mai di parlare fra loro in tono così distaccato ch’egli si sentiva due o forse tre volte estraneo, all’ambiente, alla lingua e al tono, e finì che arrivò dall’altra parte come se fosse passato in un museo delle cere – quando sull’angolo la strada si allargò e aspirò dapprima una zaffata di fritto, e poi la vide, la bella toscana, che dispensava in giro le sue frittelle e sempre animandosi ogni volta, sempre sollevando la sua padella con i movimenti abili delle mani e il sorriso ironico, e sempre sempre daccapo.

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Parigi

28 marzo

Su come ho vissuto queste nuove giornate nella grande città di un tempo. Era un itinerario della memoria. Le strade larghe, le due isole, i piccoli miracoli dell’architettura seicentesca al di fuori del barocco. È il lungo discorso con me stesso, con lei. E con le ombre dei ricordi ch’erano in ogni cosa e a ogni passo tornavano dalla profondità di un passato ormai confuso, e troppo confuso davvero per essere nulla più di un rimpianto o anche di un rimorso. Ora, in certi momenti, mi pareva che io fossi un piccolo maestro che trasmette agli altri le proprie esemplari esperienze – in ogni campo, e attraverso tutti i vari sensi: vista udito gusto ecc., l’ho fatto con Aline41 in Italia, ora le cose si rovesciavano e quel poco o molto di Francia che io conosco, compresa la lingua, mutava segno e colore, mutava significato e suonava diverso. Tuttavia, come sempre, mi è accaduto che le cose non fossero così semplici. Dovendo scegliere fra i ricordi, ce ne sono due piuttosto esemplari. Il primo è l’arrivo sulla Place des Vosges – nella prima ombretta rosea e ventosa di quella giornata, il vento agitava la luce e i ramoscelli color marrone degli alberi, i cancelletti anche divenivano grigio ma di un grigio azzurro intenso e le forme delle case, arrivando al centro della piazza, era come spostarsi indietro di tre secoli, per lo meno. Ma, poco dopo, eravamo a tavola della piccola trattoria del Faubourg. Io allora ero poco stanco, eccitatissimo, e le sue risposte di lei mi meravigliavano e un po’ m’innamoravano, era tutto molto bello fra noi, è tutto molto vivo intorno a noi, ossia lo spettacolo vivo della Francia riconfermava tutto il mio racconto precedente, tutto quello che le avevo narrato di me, nel mio rapporto col paese. Nella sala della trattoria del Faubourg ci ha servito una grassa cameriera anziana, popolana e vitalissima fino ai capelli, e gentile con noi, a ogni richiesta una risposta vera, i piatti portati

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rapidamente, come se tutto procedesse sui pattini, è andata bene anche come spettacolo, come un fatto che si rivela da sé – e si muove con una sua dinamica.

30 marzo Certo, i due temi sui quali devo e voglio dialogare con me stesso, vengono dall’esperienza diretta e dall’osservazione di questi giorni. E cioè il recente viaggio a Parigi e la donna vietnamita che si è intravista in quel film “Lontano dal Vietnam” e ch’era lì una lezione straordinaria di civiltà, di forza, di avvenire. La prima conclusione alla quale sono arrivato riguarda la differenza delle ipotesi dei problemi che si pongono nella rivendicazione dei movimenti femminili in Francia e in Italia. La donna francese non rivendica solo il potere o una parte di potere o una parità di poteri. Afferma anche se stessa come affermazione di una sfera della femminilità – in cui si affermano ugualmente le condizioni per essere felici. Cosicché, io penso, tutto il dibattito felicità-presenza della donna nella società, nella Francia d’oggi vanno strettamente collegati o sono addirittura la medesima cosa. Da che cosa può dipendere questo divario? Anzitutto dal fatto che la donna francese – nonostante le varie esperienze politiche contrarie, tutte le reazioni che si sono avute – ha stabilito o ha trovato intorno a sé una condizione più ampia di libertà, e da queste esperienze è nata la convinzione “che si può essere felici”, è possibile essere felici, il che è diverso dall’appagamento parziale, sessuale o erotico che tanto spesso diventa l’unico scopo, nel privato della donna di altri paesi, altrettanto unidimensionale, altrettanto limitato come la rivendicazione risorgimentale del potere di cui si è parlato prima.

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Veniamo ora alla visione diretta. Da che cosa, da quale materia di osservazione nascono le osservazioni che precedono. Primo episodio: la trattoria. Dopo essere stati come bravi turisti sulla Place des Vosges, usciamo, e a pochi passi di distanza ci seduce la possibilità di sederci in un localino d’angolo, un punto di passaggio abituale per la gente del quartiere. L’ampiezza del locale non è certo favorevole alla folla, le persone che consumano entrano e escono rapidamente. Si conoscono quasi tutti, si stringono amabilmente la mano, quando non si salutano con voce e gesti cordiali sempre anche se più rapidi. Ed eccoci allora estranei in un mondo o in una dimensione di gente che si conosce. Forse queste persone non si vedono, non vedono quello che sono ciascuna, vivono solo quell’istante sociale del loro incontro come uno dei momenti inscindibili della loro giornata. Per noi, invece, c’è la scoperta del mondo “straniero”, è un mondo estraneo, un mondo diverso. Tanto più che uno di noi – lei – è più estranea di me, e io le faccio da Cicerone, cosicché dopo averle mostrato qua e là tutte le meraviglie dell’architettura parigina, ora le mostro e dimostro anche gli uomini e le donne, gli usi e costumi che io conosco e non conosco. Ma questo, nel bar, fu soltanto una specie di antipasto, avant goût, rispetto al resto, a quello che poco dopo scopriamo nella trattoria vicina. L’approdo non fu felice, almeno per me. Conoscevo altri luoghi simili – affumicati e qualunque, con abbellimenti di neon. La luminosità del neon è come la levigatezza della formica. E c’è dietro tutto questo l’idea che “queste cose piacciono al popolo”. Ma lì un odore diffuso di cucina grassa, benché leggero, confermava l’altra impressione – pessimi elementi di un modo di essere. Eccoci allora seduti. Si avvicina una donna anziana, appesantita dagli anni, anche perché un po’ rotonda, bene in carni. E ci chiede gentilmente cosa desideriamo, gentilmente è dire poco, perché tutto il suo discorso, compresa la portata dei piatti a tavola, compreso il sorriso che ci rivolge è gentile, e senza esclusioni né per lui né per lei – entrambi importanti – ecc. ecc.

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Ora la seconda esperienza. Era l’ultimo giorno, ed eravamo seduti ugualmente a tavola sul boulevard Montparnasse. Al tavolo vicino erano un giovane e una ragazza con un bambino, era una famiglia vera – o che? Era soprattutto l’uomo che si occupava del bambino, un essere allegro, intorno ai cinque anni. Se ne occupava con amore, è poco dire, senza vezzeggiarlo, ma ordinando per lui le pietanze dopo averle scelte con i suggerimenti di lui. Arrivata la pietanza, era di carne, tagliava il cibo a pezzettini e se ne stava a contemplarlo e a parlargli – caro – o caro. Poi la loro conversazione. La loro conversazione si svolse su un particolare aspetto dell’educazione del bambino. Erano o eravamo arrivati tutti al termine del pasto, e si trattava di decidere sul dessert. Cosa vuoi? E qui il padre elencava al figlio le squisitezze che la trattoria offriva: gelato al cioccolato, creme varie, banana, altra frutta, torta alla crema. La ragazza è intervenuta allora: “Non vuoi il gelato al cioccolato”. Il giovane (il marito?) si è allora irritato: “Zitta” – le ha detto o quasi strillato. La ragazza con molto buon senso, tace. Ma è per un istante. Subito dopo fra il due il dialogo si infittisce. Ed è un dialogo sui metodi educativi – eccoci arrivati al punto –, sulla felicità. Il giovane, fra i due, sosteneva la libera scelta. La ragazza, con un linguaggio più sicuro e ordinato, difendeva invece la tesi dell’orientamento necessario, almeno per preordinare la scelta che il fanciullo in realtà non può compiere sùbito ma solo più tardi, solo molto dopo, quando avrà l’età della scelta. Infatti, dice la ragazza, di tutto quel lungo elenco che cosa in realtà ha finito per scegliere? La torta con le mele – ossia l’ultima voce dell’elenco, perché era più comodo, perché era l’ultima cosa, e quindi la ricordava. Per il momento, invece, occorre dare al ragazzo solo un’esistenza felice, fargli conoscere le cose in modo che poi possa e sappia scegliere – e così via – eccomi ora al punto.

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2 aprile Arriva presto il momento degli interrogativi sulle cose, e in particolare queste riflessioni cui approda alla fine di tutto il lunghissimo libro di Proust. Sono interrogativi vari, e cioè tutto prepara a quello scioglimento che è come una catarsi. Da principio l’autore s’interroga ancora sulla letteratura e sul possibile scopo della sua esistenza che, fino a quel momento estremo, è una dispersione, un temps perdu, e solo da quel momento da quell’attimo preciso si trasforma in un temps retrouvé, la sua vita riprende il suo scopo fondamentale, di testimonianza assoluta, sui fili del tempo. Ora cos’è mai questo tempo? Cosa può essere se non l’attimo vissuto? Ma come, in che modo vissuto? Possono intrecciarsi una all’altra mille sensazioni diverse, impressioni e ricordi. C’è una dimensione che occorre individuare e precisare ed è da quel momento che la vita s’individua e si precisa. Cosa c’è di vero in questa storia? Certo tutte queste affermazioni di Proust sono accompagnate da una lunga serie di spunti sulla letteratura, ed anzi il grande romanziere pretende addirittura che il segreto è dato dall’intreccio fra letteratura e vita – solo definendo in modo poetico o attivo questo intreccio o questo rapporto si può stabilire qualcosa o si ha comunque letteratura.

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1970

Riflessioni necessarie sulla rivoluzione Distinguere fra rottura rivoluzionaria e rivoluzione. La rottura porta la distruzione del potere oppressivo e repressivo, e quanto più gruppettistica e minoritaria risulta l’oppressione e la violenza dall’alto tanto più sconvolgente e irruente risulta poi la violenza e la contro offensiva delle masse. – In funzione di questa rottura nella sinistra si è aperto da oltre un secolo un dibattito che le circostanze nuove, e cioè il 1968, hanno fatto ridiventare di grande attualità. Occorre o non occorre la violenza per abbattere il vecchio ordine reazionario e aprire la strada alla partecipazione collettiva? La rivoluzione si identifica con il momento della rottura violenta? – Storicamente le esperienze che abbiamo vissuto ci dicono che il conflitto rimane tuttora insanabile. I partiti della sinistra non si sono divisi nel conflitto cino-sovietico. La scissione è più antica – e risale ai primordi dell’Internazionale. Ma il tentativo di superare la scissione è quello della formazione del partito leniniano. Quest’ultimo ha dato una gran prova di sé nella Rivoluzione d’ottobre – ha compiuto la più grande, la più efficiente dimostrazione nel mobilitare le masse, nell’unire le loro istanze, esigenze e rivendicazioni, nel procurare alla

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sinistra la vittoria più clamorosa rompendo il vecchio ordine della Russia zarista. Per far ciò non c’era solo “disciplina” ma anche “teoria” rivoluzionaria, dibattito interno, apertura verso le istanze delle masse. Tutto questo è servito a costruire lo Stato sovietico – ma con quali esiti?

7 novembre Ieri sera discusso a lungo la situazione dell’intellettuale – punto di origine – un’intervista di Sartre – della quale – attraverso le parole degli altri – ho capito poco ma non tanto poco da non capire che le tesi di Sartre erano o arrivavano abbastanza deformate. Solo Felicita42 – ha chiarito qualche punto – tanto da permettermi alcune considerazioni. Sartre dice: posso io continuare a scrivere il mio saggio su Flaubert quando tutto intorno a me sia modificato e a tal punto che devo badare alla mia stessa posizione? In che modo io oggi sono o posso dirmi un intellettuale rivoluzionario? Da una parte io come intellettuale posseggo alcuni strumenti – un certo capitale di “savoir technique” – e quindi sono uno strumento io stesso che la società adopera o strumentalizza ai miei fini – dall’altra, operazione estremamente soggettiva – io vorrei rappresentare l’universalità di questo momento – e non posso. – Sulla universalità – chiarimento – Sartre la intende una forma di totalità ideologica capace di corrispondere e di lievitare sulla totalità delle necessità e delle aspirazioni umane – la borghesia è stata la classe universale fino a quando ha cercato di superare il momento economico delle sue proposte – e ha avuto una sua direzione intellettuale per l’elaborazione di nuove sovrastrutture – in questo senso dai libertini agli illuministi si passa da un momento puramente contestatario ad una forma nuova di proposta culturale.

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– Ma con l’Ottocento l’intellettuale è sottoposto alla castrazione – egli aspira ancora all’universalità – ma ogni suo tentativo di universalità cade nel fallimento.

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Sul tema della morale approssimativa

27 maggio

Come si può formare se non dalla repressione e dai tabù sociali? Chi è a promuovere la libertà e in quale modo? La libertà degli uni non è forse condizionata dagli altri? Un’illimitata libertà è concepibile solo nell’immaginazione. Ma nel momento stesso in cui ho concepito questo paradiso libero, mi chiudo nell’immagine oppure tento – perlomeno tentare – di trasferire nella dimensione pratica dei rapporti con gli altri la mia libertà immaginaria. Nel primo caso sottopongo me stesso a un condizionamento repressivo, e resto sulla mia fame. Nel secondo è ancora possibile che quello che per me è un gesto libero, sia per l’altro un’imposizione, quindi un atto condizionante e repressivo per chi mi sta vicino. È la dialettica della rinuncia e dell’aggressione che ogni uomo vivo sconta giorno dopo giorno.

28 maggio Il raccontino di Col.43 in casa di Cer.44 durante la visita prolungata, con una lunga conversazione esplorativa sulle recen-

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ti pubblicazioni in fatto di materia sociologica, archeologica, scienze umane e generi vari. Torniamo ora al racconto. Il giovane professore accorto e consapevole della propria abilità vuole informarsi sullo stato della cultura nell’università dove è stato chiamato a insegnare. Sale in treno, e che fortuna quel giorno, c’è una ragazza con un piccolo carico di libri che torna evidentemente da un esame. Primo approccio: studia all’università, signorina? Sì, l’altra studia proprio all’università. E così, di parola in parola, il giovane professore si avvicina al dunque. La ragazza è reduce da un esame. Con quale risultato? Un ventisette. Allora ha studiato molto. Ma no, non troppo. Di che materia si tratta? Filosofia del diritto. Materia interessante. Veramente, osserva la ragazza, a me non interessa molto. E perché ha affrontato proprio questo esame? Perché anche le mie amiche lo hanno fatto, è un esame è quasi obbligato. Ma chi l’ha obbligata. Nessuno però gli esami bisogna darli. E cosa ha imparato? Nulla, proprio nulla. La ragazza guarda stralunata il giovane professore. Come se fosse necessario imparare, pensa forse dentro di sé, o per lo meno è questo il pensiero che l’altro finirà per leggere nelle pieghe e nelle rapide smorfie del suo viso. Ma allora qual è il risultato di questo esame? L’espressione della fanciulla acquista qui una visibile sfumatura soddisfatta in una smorfietta compiaciuta. Quale risultato? Un 27 sul libretto.

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16 agosto Quale importanza dare in me stesso ai ricordi? È tutto quello che io ho avuto, fondamentale per me come terreno di evasione di una realtà che io non ho mai accettato come presente, sempre fuggendo verso il passato e l’altrove. Ho cominciato presto. Eppure una ragione c’è, per me è chiara. Sono rimasto bloccato ai 17 anni. Perché se è vero che la crescita, il bozzolo compatto, il seme è rinchiuso nell’adolescente che improvvisamente, nel passaggio dell’età, si sente inondare dalle linfe misteriose ma inebrianti dello sviluppo, a quell’età io ho avuto un’esistenza prodigiosa – una libertà della fantasia che corrispondeva con la realtà immediata – per quanto fossero miserabili in circostanze. Letterariamente mi avevano profondamente formato Hugo – Les misérables (insegnandomi: la giustizia sociale – i paesaggi delle rivoluzioni – l’amore romantico – la vita giovanile che si cerca – il “sacrificio” nella figura di Valjean e nel suo lacrimato finale). D’Annunzio (col suo eccesso erotico – e la sua passione verbale mi portava umanamente ad altre tentazioni, ma io non potevo per limitata cultura raccoglierle tutte, e solo il vivace desiderio di voluttà divenne per me un mezzo di trasfigurazione della realtà e di appropriazione fantastica delle giovani figure femminili che mi circondavano) – infine, e per

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mia fortuna, Shelley (s’inserì tra i due insegnamenti e li affinò – perché, dalle poche notizie biografiche, mi riportò alla rivoluzione, ai primi confusi richiami verso il femminismo, mentre letterariamente mi sollecitava ad un rigore fantastico e verbale fuori dalla demagogia retorica). Esaminando ora la linea di crescita, era in germe di già la necessità della fuga. Ciò che l’immaginazione mi presentava era troppo più bello. Ciò che vivevo era la fame quotidiana e l’aggressione patita attraverso le presenze femminili (tre: madre e sorelle), aggressioni e umiliazioni immaginarie e reali (i primi confusi discorsi di “maschi” sulla donna che coinvolgevano direttamente anche le mie donne, e poi il lavoro, che a me mancava, alle tre donne no, cosa che una di esse mi faceva sentire come cocente umiliazione). Non c’era donna troppo bella: ricorrevo a una figura semi immaginaria, la donna lontana e avvolta nel fascino esotico. Sarebbe bastato allora un autentico incontro femminile, e molti nodi si sarebbero forse sciolti, avrei capito anche meglio la mia condizione.

10 ottobre – Le giornate si accumulano, sorgono e tramontano lasciando in me il senso disperato, ancora, dell’inutilità. Bisogna che mi decida ad analizzare davvero questa sensazione (quasi fisica) che ho provato sin dall’infanzia. Ero io a sentirmi inutile accanto ad una società tutta “utile”, e impenetrabile che mi sbatteva le porte in faccia nei sorrisi di disprezzo dei miei coetanei, nei rifiuti degli adulti ai quali mi rivolgevo per ottenere un po’ di lavoro, nell’ostilità sospettosa degli altri che, come me, cercavano ugualmente di lavorare per comprarsi col lavoro il diritto di vivere. Non ero, dunque, il solo a trovarmi in quelle condizioni, ma anche quelli che erano nelle mie condizioni mi respingeva-

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no e contribuivano a formare dentro di me questa convinzione della inutilità che poi mi è rimasta definitivamente. Tutto ciò ha contribuito fortemente a fare di me un emarginato e un emarginabile persino nel Pc. Al Pc, quando mi sono avvicinato davvero alla politica (senza mai andarci a fondo), io ho attribuito il mio mito – esigenza della solidarietà. Cioè: nella lotta per “essere utile”, ossia per lavorare, io ho vissuto periodi drammatici nei quali sono stato eroico e vile senza rendermene conto sottoposto a reazioni psicologiche assurde e senza mai trovare la forza per uscirne davvero. Avendo un minimo di cultura e di intelligenza e confrontandomi ai miei coetanei che erano “inseriti” per diritto di nascita e andavano a scuola regolarmente e mangiavano ogni giorno, io li invidiavo e volevo essere come loro, quindi studiare, quindi prepararmi un avvenire come loro. In questo modo non solo mi separavo dai giovani che si trovavano a combattere la mia stessa lotta, ma partecipavo a una visione avvilente della società mettendomi senza volerlo dalla parte di coloro che opprimevano me e gli altri per lo meno con la mia volontà o i miei propositi di uscirne. La situazione personale era aggravata dalla presenza del fascismo: 1°) perché era il fascismo a imporre a tutti quella visione gerarchica; 2°) perché il fascismo impediva il confronto con altre possibili concezioni che potessero rappresentarmi e darmi quindi una diversa coscienza del mondo. In questo modo non appartenevo né alla classe dei “ricchi” né a quella dei “poveri”, come si diceva allora, e l’esigenza quasi disperata di un lavoro, un qualunque lavoro che mi rendesse “utile”, mi avrebbe fatto accettare ogni cosa (senza mai uscire dai limiti del lecito) pur di avere la mia parte.

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In Carnia

5 agosto

– Prima lunga conversazione con Diana45. Sempre vivace, trova lei il pretesto per conversare. Già ieri l’altro aveva invitato Ni.46 a stare con lei, proponendo di lavarle i capelli. Era per raccontarsi, per dire le sue condizioni di vita. So poco di questo racconto, solo che non va molto d’accordo con il suo uomo. Sui precedenti so ugualmente poco. Ma quest’uomo la Diana ha finito per sposarlo dopo aver rifiutato, dice Ni., molti altri pretendenti, dato che ai tempi della sua gioventù doveva essere a dir poco la più bella ragazza della vallata e dintorni. Poi aveva un mestiere, e questo le permetteva di alzare il prezzo. Col marito attuale s’era unita da due anni, e solo dopo questi due anni l’ha sposato. Eppure non era il partito più conveniente. Poca voglia di lavorare, non so. Ieri il pretesto per parlare a Ni. le è venuto dalle scarpette di tela. Come mai usiamo queste scarpe. Certo sono comode sui sentieri delle montagne. Ma a lei, si capiva, poco importa – è abituata alle difficoltà di queste strade. Ci ha chiesto poi se eravamo già stati a Truia. È lì, ha detto, che bisogna andare, il paesino più alto dei dintorni, forse il più bello, con le sue

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casette sospese sugli abissi. Non ricordo come il discorso è tornato a lei. Ha detto di nuovo la sua infelicità. Questa volta la sua protesta si rivolgeva alla suocera priva di comprensione verso di lei. La sera prima, sabato sera, s’era rifiutata di restare a casa con la bambina, e almeno per una sera non le aveva permesso di uscire. Più ancora della spigliatezza con cui parla di tutto questo, è piacevole nel personaggio la voce, la facilità del discorso, e si nota che potrebbe parlare senza mai fermarsi, raccontare, raccontarsi, descrivere, e sempre come se pensasse a voce alta, come se anche la voce fosse parte delle cose che ha da mostrare, ed è una voce su vari toni, aiutata anche senza dubbio dal dialetto proprio, quello che poco dopo lei ci ha descritto, su mia richiesta, e che fa di lei una bilingue perfetta (lei afferma di conoscere il dialetto puro, mentre la madre di se stessa diceva il contrario). Il bilinguismo estende la tastiera dei suoni – ne ha di più bassi e cupi, quando lei, gustando le parole, quasi le ingoia; e ne ha di più leggeri e cantati, di labbra, quando sembra che qualcosa di lei salga e prenda il volo.

7 agosto – pom. Il sogno: siamo invitati a pranzo nel soggiorno-cucina della casa. L’invito da principio era abbastanza comune, quasi doveroso. Quando sono entrato in quell’ambiente tra donne si affaccendavano, ciascuna per suo conto, e pareva quasi incredibile quanto i loro interventi partecipassero a uno scopo unico. La più cordiale era la più giovane, un corpo ben solido, come una statua di donna barocca che portava benissimo ed esibiva la sua deformazione all’ultimo mese come se fosse già soddi-

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sfatta del figlio alla vigilia della nascita. E, per giunta, niente di materno di lei, solo un’esplosione di carne in movimento. Durante il pasto è lei che ha avuto le maggiori e migliori prevenzioni premurose per me, a volte di quelle premure silenziose dopo uno sguardo invisibile che percepiva sùbito il bisogno dell’altro. Io rimanevo come sempre privo di grandi discorsi, e neppure Ni. oggi mi aiutava molto – per lei tutto rimaneva nei limiti del rapporto amichevole e senza fantasie. La scena più bella è stata dopo, quando hanno sparecchiato. Anche a questo punto era un movimento concertato. La più anziana delle due si è messa a lavare i piatti, la nonna ha sparecchiato, la più giovane sempre muovendosi con quei suoi gesti larghi nella veste troppo ampia, ha riapparecchiato per la frutta e il caffè, poi è entrata nello sgabuzzino ed è uscita con tre bottiglie di liquori vari, quasi intatte, tutte per noi. E qui nuove premure e solleciti a bere, a mangiare – tutto in questo succedersi di scene – o sogno – era una dimensione di femminilità pura, come sarebbe il mondo organizzato sotto il potere delle donne. Delle due giovani signore, umile e sublime, ma ugualmente ilare e oltremodo buona, è la Isa. L’altra è un’esplosione dell’essere femminile, una forza naturale di fronte alla quale l’altra tende a cancellarsi – si cancella persino nei sorrisi nella dolce partecipazione sorridente al piacere degli altri. Poi il sogno nel sogno, assai pesante sonno, come è spesso in questi pomeriggi dopo le notti a metà insonni. Scene nebulose di corse in corriera con Ni. e con altri che non ricordo – una folla di personaggi, e poi il ritorno a una prima immagine femminile – ricordo lontano di ore passate assieme, i due corpi che si confondono, e il brusco risveglio sotto la voce della sorridente o bel sorriso che si chiamava Ni.

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11 agosto – L’arrivo di Fabio nel soggiorno-cucina della casa Fabian. S’è udito un fracasso di motorino all’esterno. È Fabio, è Fabio, dice la Isa, sorridendo, ridendo dall’intero suo viso. Ed ecco entrare un giovanissimo gigante con i capelli arruffati che si dirige senza salutare nessun altro verso la madre. Non si dice buondì, lo redarguisce lei. Buondì, dice il gigante volgendosi vagamente verso di noi. E abbraccia ala madre. Commossa e fiera, lei lo guardava o piuttosto lo ammirava. Sentiva in lui la forza dell’uomo, la giovinezza, l’orgoglio della maternità e tutti questi sentimenti le si riflettevano nel sorriso che aveva acquistato una sua consistenza. Poi il gigante ha scambiato tre o quattro battute con le altre donne di casa, con la nonna, con la zia Minni, e sempre con quel suo modo di muoversi dinoccolato, è uscito frettolosamente. Poco dopo si è riudito quello scoppiettare di motorino. Ha bevuto, ha commentato la madre. Aveva, nel dire questo, un sorriso struggente ma allegro e ancora pieno della bella persona del figlio. Dunque, è la donna del sorriso. Una donna minuta, di un biondo scolorito, sciupata, eppure partecipe di tutto, un po’ è il centro della casa, sempre in piena attività, ora rigoverna, ora cucina, ora è in una delle stanze laterali che lava o stira. Tutto regge sulle sue spalle, e lei lo sa. Tutto senza retorica, mai una nota enfatica nella sua voce, le inflessioni sono date solo dalla doppia tastiera bilingue.

26 ottobre Riflessioni sulle mie “radici”: letture infantili dei giovani esploratori – il sogno ricorrente della cattura, trasporto nella capanna del villaggio, le due fanciulle, figlie del re che si divertono a guardare il prigioniero e a toccarlo, divertirsi del suo corpo.

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– Altro capitolo è quello della scuola – nascita della retorica maschile, episodio suoi banchi. Il compagno sfottente, ridanciano, l’atmosfera eccitata e morbosa di quei desideri così repressi. L’atto gratuito. La retorica maschile sulla donna per come è fatta, come è “bona” (nella utile prestazione del suo corpo sottomesso all’uomo, “fottuta”). Il risveglio tenebroso dei sensi: il compagno che si prestò e fu considerato “femmina”. Nella classe c’erano due o tre file di banchi a due posti – ciascuna formata da quattro banchi. Il compagno ridanciano sfottente, quello che forse ci aveva insegnato e rivelato i misteri più nascosti (… ma non troppo), sedeva all’ultimo banco e nell’angolo, vicino al muro della finestra. Quell’anno avevamo un maestro che doveva essere qualcosa come una pubblica autorità. Era, comunque, reduce di guerra, mutilato, andava in giro sempre impugnando un bastone che molti di noi dicevano animato sempre all’interno da un fioretto. In quegli albori del fascismo come regime, gli avevano dato una carica o un pubblico incarico. Si assentava spesso: entrava in classe per mezz’ora, poi usciva raccomandandoci di star buoni, a volte ci assegnava un tema da svolgere o un altro compito di classe. Non eravamo in molti, e oggi mi rendo conto che, più del far chiasso, ci seducevano le nostre discussioni e rivelazioni e sfottimenti reciproci, piuttosto grevi, sulle sorelle madri e cugine rispettive. Tanto più felici quelli che non avevano femmine in casa, se non madri anziane o nonne inaccostabili, “non bone”. Al quarto banco, al posto d’angolo fra i due muri, sedeva il ridanciano. Accanto a lui un compagno piuttosto neutro, che lo assecondava nei suoi discorsi. Rideva a ogni battuta di lui. Spesso rincarava le dosi della volgarità. Era migliore elemento del suo pubblico al quale tuttavia partecipavamo un po’ tutti. E cioè eravamo un po’ tutti attratti dalla retorica maschile, vivevamo in un’atmosfera calda e morbosa di aspirazioni e, anche, di viltà velleitarie.

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Nel banco che era immediatamente davanti a quello del nostro ilare corifeo sedeva un ragazzo piuttosto solitario e tranquillo, visibilmente povero, mentre i due alle sue spalle appartenevano a una condizione economica più elevata, appariva dal modo di sentire e dagli spiccioli che avevano in tasca più di ogni altro fra noi. Il ragazzo tranquillo amava molto la lettura, in genere arrivava a scuola con uno o più giornaletti per ragazzi che la madre, vedova, riusciva ad ottenere nelle case dove andava a servizio. Spesso il ridanciano l’aveva umiliato sia per le letture sia per la madre serva. Un giorno, come al solito, il maestro andò via. Ci lasciò un problema o alcune questioni di matematica che furono risolte velocemente. Il ragazzo tranquillo tirò fuori un giornalino illustrato. Era solo quel giorno nel banco. Io sedevo alla seconda fila di banchi, anch’io all’ultimo posto e mi trovavo così vicino al ridanciano o, piuttosto, al suo amico, separato dallo stretto corridoio di passaggio. Mi ero messo a studiare la lezione di storia, ma ascoltavo ugualmente i discorsi che mi avvolgevano. Ora il ridanciano era andato un po’ più in là. Raccontava di ragazzi che egli frequentava nei giochi dei giardini pubblici che ogni tanto, a pagamento, si prestavano a farsi toccare e palpare il sedere. Il suo vicino ridacchiava, si meravigliava: ma davvero. L’altro, stimolato dall’interesse che destava, cresceva fieramente di tono: in fondo da quel lato, diceva, non c’era differenza. Il sedere di un compagno poteva essere buono ugualmente, e descriveva un approccio avvenuto la sera prima, come aveva pregato un ragazzetto che si rifiutava. Sai, gli ho detto, non ti costa nulla… Ti tocco solo e avrai due lirette. Gliele aveva mostrate. Lo pregava, continuava a ripetere e a rifare il tono dolce della preghiera. Parlava, parlava e rideva, ripeteva quelle frasi con voce desiderosa. Dinanzi a lui il ragazzo tranquillo leggeva, pareva distratto. Certamente però seguiva poco le parole scritte, seguiva piuttosto quelle che gli piovevano addosso dalla voce. D’improvviso, senza neppure smettere di leggere, egli spinse

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indietro il sedere fino a farlo scendere oltre il sedile del banco toccando i ginocchi del ridanciano. Questi tacque un istante. Parve sbalordito. Ma si riprese. Toccò, accarezzò, pizzicò le natiche del compagno. Il vicino di banco dapprima non s’era accorto di nulla. Poi accorgendosi del silenzio dell’amico, lo guardò. Bona, diceva quello, sei proprio bona, e palpava. Allora il vicino guardò giù e vide che una mano dell’amico stringeva con rabbia una natica dell’altro, mentre la seconda mano tentava di infilarsi all’interno dei pantaloncini. Il ridanciano mugolò, poi con voce fremebonda: “sbottonati… presto”. Il vicino scoppiò a ridere. Nella classe guardavamo tutti, e il ragazzo fu come se si svegliasse forse al contatto della mano sul nudo del suo corpo o alla risata o all’attenzione tesa degli altri. Si ritirò. Tornò composto, piuttosto curvo, rivolgendo il capo verso il muro della finestra. Ma il ridanciano incalzava: perché te ne sei andato proprio ora? L’altro non rispose. Prendi, prendi, eccoti due lire. Si sporgeva sul banco per dargliele. L’altro le rifiutò. Allontanò la moneta. Te le do volentieri, diceva l’altro. Non gli pareva vero di poter ostentare di fronte a tutti quella sua superiorità maschile. Qualcuno ridacchiava. Tuttavia il protagonista maschio della scena non si rassegnava al rifiuto del suo denaro e alla prestazione gratuita. Prendi, prendi… ma perché? Perché? Finalmente si ricompose, tanto più che proprio allora si aprì la porta, se non ricordo male, entrò il maestro preceduto solennemente dal suo bastone. Ci alzammo in piedi. Il maestro ci fece sedere. O qualcosa di simile. Solo in pochi continuammo a sentire l’incalzare delle proposte che il ridanciano rivolgeva all’altro. Sottovoce, riprendendo il tono dolce di preghiera: vieni con me quando usciamo… Andiamo ai giardini, nel boschetto so un posto che è una meraviglia… Ti darò cinque lire. A te cosa costa… e poi sei bona, sei bona. Il vicino, accanto a lui, gracchiava sommesso. Poi si decise: ti do cinque lire, anche dieci, se lo fai fare pure a me.

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5 gennaio Una pagina qualunque è pur necessaria ogni giorno per sciogliermi, per trovare il rapporto con le parole. Compiere questo atto innaturale, forzato, artificiale è il momento più disastroso e nello stesso tempo la massima ambizione della mia vita, a partire dall’età di dodici o tredici anni. Prima di allora avevo avuto altre ambizioni effimere, avevo tentato altre cose: fare l’attore; trovare un modo come un altro per manifestarmi. Nel microcosmo piuttosto agitato di allora, quello che era la mia famiglia, l’ambizione del commediante mi era caduta addosso attraverso le feste che venivano frequentate per via di mia sorella. C’era un comico che recitava macchiette e divertiva, otteneva applausi e successi. Cominciai a imitarlo per ottenere io pure applausi e successi. E ne ottenni, ma erano piuttosto vaghi e sfumavano rapidamente senza lasciare tracce. Quello che mi è impossibile ricordare ora è se questo accadeva mentre ero in preda alla crisi mistico-erotica (sublimazione religiosa data dalla frequenza del circolo “Savio” congiunta al periodo del risveglio dei sensi) o prima o dopo; chi lo sa più? L’ambizione di fare il banchiere – addirittura – si colloca con esattezza nel periodo del soggiorno in Italia di mio padre – unico nel suo genere, perché un po’ di denaro c’era, e un po’ di de-

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naro avemmo tutti, quando fu Natale. Pensai di utilizzare una cassetta metallica, giocattolo americano arrivato con noi dagli Stati Uniti, di cui mi ero impossessato. Era una cassaforte di piccole dimensioni con una manopola a scatto, questo nella forma; nell’uso era un salvadanaio. Emisi libretti di assegni a favore dei depositanti che furono le mie sorelle e, credo, anche mio padre. In tutto ero arrivato, con i miei stessi risparmi, ad avere in casa dieci lire o poco meno. A questo punto arrivò il mio primo cliente o il mio rapinatore. Era mio fratello. Con modi estremamente e stranamente gentili, mi chiese un prestito. Mi spiegò che ne aveva bisogno urgente. Io gli opposi che per avere un prestito doveva presentarmi una garanzia. Qui smise subito quel tono gentile. Lo aveva adottato perché in me rispettava chi poteva favorirlo, era la prima volta, credo, che mi aveva espresso tanta considerazione. Un momento dopo non più. E ci separammo infuriati l’uno contro l’altro. Quando tornai a casa, dopo essere uscito non so più per quale commissione, trovai la cassa vuota. Erano rimasti solo i documenti dei depositi, l’elenco delle somme che ero costretto a restituire. E mio fratello negò offesissimo di essere il ladro.

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1978

La riunione di condominio

13 agosto

Ore 13. Vado alla riunione del condominio tanto per fare un’esperienza. Tutto stenta ad avviarsi – e dopo circa un’ora dall’appuntamento non c’è il numero legale – ma intervengono a poco a poco altri “condomini” e finalmente si può cominciare. Vicino a me, sulla destra un giovane meridionale di quelli asciutti e dialettali, tipo impiegato. Alla presidenza viene chiamato un signore grosso – faccia più o meno bonacciona – simpatico, con grosso diamante al dito. Non sa presiedere, e l’amministratore fa tutto lui. Si passa all’o.d.g. Primo punto: nomina o, meglio, riconferma dell’amministratore, ossia il dott. Francesco Scarpulla, altro meridionale, giovane stempiato, bruno, faccia sportivo-­furbesca – abilissimo. Insorge un signore anziano con critiche aspre: tutto è in disordine – tutto va male – tutto è sporco – I bambini fanno gran chiasso. Sui bambini si litiga per oltre dieci minuti. Ciò non toglie che il dott. Scarpulla venga riconfermato all’unanimità. Poi vengono eletti i “consiglieri”. Le funzioni di questi ultimi non sono chiare. Una signora, dal fondo, fa notare, fra le risate generali, che questi consiglieri non devono poi essere considerati “spioni”. Viene rassicurata. Viene nominato un “consigliere” per ogni fabbricato. Quando si

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arriva al nostro l’amministratore comincia a leggere i nomi ma sospende con un grido di entusiasmo quando arriva al nome del mio vicino di sotto. Ma certo, esclama come si andasse in visibilio – certo lui! Non si capisce se sia un’elezione o una cooptazione. Segue un altro passaggio agitato. Qualcuno lamenta che l’amministratore abbia fatto una spesa senza che lui sia stato interpellato. Se ne discute a lungo. Intanto il mio giovane vicino di destra – uno dei più agitati – chiede che l’o.d.g. venga modificato e che si discuta subito delle “varie ed eventuali” giacché lui deve andar via a riprendere la famiglia a mare… la proposta è accettata dal disponibilissimo amministratore. Detto fatto – e si affronta quello che era – latente – il tema del giorno – i bidoni della spazzatura – in romanesco la “monnezza”. Il giovane che certamente abita a Via Roselle chiede che i bidoni siano tolti dalla vicinanza dei portoni, dove ora sono stati collocati per disposizione del Consorzio, e messi accanto alla piscina. Si va avanti per oltre un’ora – senza che appaia una soluzione. Si vota. La stragrande maggioranza è per lo spostamento verso la piscina – ma la votazione viene annullata – e così un’altra successiva. Il presidente che si rivela un inetto, in questa occasione si trasforma – aggredisce tutti – fa annullare il voto che non lo soddisfa. S’interrompe per un po’ la discussione e si ritorna all’o.d.g. Il giovane è andato via. Si passa a “votare” il delegato della “Comunione” presso il “Consorzio”. Qui, apriti cielo, accuse e contro accuse. Ne fa le spese un certo avvocato Turco ammanigliatissimo – ecc. Comunque tutto è risolto come al solito. Di passaggio l’amministratore dice che le case a Ceren. hanno come prezzo 400.000 lire il m. quadro: questo perché egli stesso propone una polizza cumulativa antincendio – a un prezzo ridotto. Del Consorzio ci dà un quadro spaventoso – è il dominio a tutt’oggi dei Ruspoli – pare. Qui si ritorna alla “monnezza” – ma io ero stanco e me ne sono andato.

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1991

26 settembre Le differenze umane, da quelle più visibili (donna/uomo) a quelle istituzionali (povero/ricco; classe contro classe), quindi anche differenze nazionali, linguistiche, religiose, e tanti altri numerosi cartellini appiccicati sugli esseri, tanto da modificarli, spesso guastarli, contrapporli, inimicarli… Meno sensibili le differenze interiori, quelle che poi sostanzialmente dànno carattere e lavorano in profondità. Un qualunque essere ci incuriosisce. Ci chiediamo come agisce in ciascuno l’impressione che proviamo parallelamente noi stessi. È possibile avvicinarsi a questa realtà nascosta? Torno a certe impressioni specifiche: per me vedere un oggetto desiderabile non è una sensazione puramente visiva. Mi chiedo: c’è qualcuno per il quale tutto si limita al visivo? Non c’è sempre un “indotto” in ogni sensazione? Ossia, una parte immaginata? O una sovrapposizione? Ho conosciuto una persona che incontrando volti e corpi di sconosciuti, osservandoli bene li proiettava in figure di animali, inutile dire che aveva una buona preparazione zoologica, sapeva imitare i versi di bestie rarissime, e a volte forse inventava le somiglianze. Me l’ha ricordato in questi giorni la lettura dell’ultimo libro di Lalla Romano47, composto da brevi notazioni su quattro estati, “lune”, trascorse in Dalmazia con un suo giovane amico. A parte questo sfuggente allusivo amore, del resto bellissimo

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da immaginare più che osservare (perché volutamente troppo ellittico), il libro presenta di continuo le figure delle persone incontrate, e quasi sempre esse vengono associate a altre persone somiglianti (E. Pound, Paolo Stoppa, Greta Garbo, ecc.), oppure persone e paesaggi entrano in atmosfere e somiglianze pittoriche (copiose perché l’autrice fa sentire la sua preparazione squisitamente assimilata). Si può pensare cosa dev’essere in un pittore il gioco intimo delle affinità dei colori (Matisse) o delle forme (i cubisti) o i valori simbolici per tutti gli artisti, compresi purtroppo quelli malriusciti come me. Io per me soffro piuttosto di immaginazione consequenziale: vedo ogni istante quello che potrebbe avvenire se… se dicessi questa parola a qualcuno che mi infastidisce con la sua vana loquela?… Se di fronte una provocazione mi lasciassi andare a… Oppure vista una bella persona, immagino cosa accadrebbe se… e mi sento percorrere da un fremito di carezza frenata. In questo oceano di immagini incompiute sento che una realtà sussidiaria di atti compiuti integra quella molto più povera della realtà sensibile.

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1995

A Chicago

5 dicembre

Molto più interesse di ricordo, a questo proposito, va alla scenetta della mendicante. Era semplicemente spettacolo. L’unica persona che la città ci offriva, con la quale magari avere un rapporto o, in caso disperato, un dialogo, una conversazione, uno scambio di parole o d’intenti era la reietta priva di mezzi tra gente ricca e agiata. Da immaginare che quella era scesa nella strada col suo borsino tintinnante per qualche plausibile motivo. Uscendo dal supermercato, l’abbiamo sùbito trovata a due passi dalla porta. Vedendoci, ha scosso il suo salvadanaio. Ma per noi è stato un richiamo simbolico. Nelle tasche si appesantiva il carico ingombrante delle piccole monete. La mia compagna le ha raccolte in una mano, e le ha infilate una dopo l’altra nella feritoia del borsino. Ogni moneta sollevava una nota squillante. Lei, la mendicante, rimaneva frattanto immobile, a braccio teso. Lentamente l’intera persona si tendeva, ma sempre sotto controllo fino a quando la suite degli squilli continuava. Al termine di quella, lei si è spostata di un passo di danza da dare invidia a qualche professionista del Bolscioi. È apparsa allora ai miei occhi la grazia della piccola persona apparentemente insignificante, un guizzo di gioia infantile che,

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accanto al segno della logorante povertà dava rilievo a un intatto sentimento di umana riconoscenza. Ma nonostante tutto, non le abbiamo parlato.

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1996

Come si costruiscono le metafore e il loro valore insito “Eccomi in una lenta distesa di alberi”, si disse. Ma sùbito un’altra voce interiore intervenne, “e perché lenta?”, è un fenomeno consueto in lui l’intrecciarsi delle voci. Si lasciava andare a considerazioni immediate frettolose, da sempre si era detto che, niente, le impressioni contano di più, e poi, tutto sommato occorre incoraggiare e dar credito alla spontaneità volendo essere puri e sinceri. Ma sùbito da un’altra profondità di sé sorgeva il controcanto, se la prima era squillante, la seconda voce era pastosa grave intrisa di opaca ironia. La prima una voce di tenorino di grazia, la seconda di basso profondo di quelle che abbondano nei paesi dove si parlano lingue scure abbondanti di “uuu”, di vocali cupe o strascicate. Si ripeté la domanda, “perché lenta?”, e questa volta gli risposero gli occhi che distinguevano gli alberi frondosi rifioriti nella primavera, situati a distanza l’uno dall’altro ma sempre a intervalli regolari, ben disposti. Per cui costeggiandoli nel movimento della macchina gli apparivano singolarmente identici l’uno che si confondeva sull’altro quasi che fossero la medesima unità che procedesse senza fretta. “Lenta distesa” non gli piaceva, ma quell’aggettivo nella sua imprecisione conteneva una metafora,

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una perla o una perlina, sporca magari perché veniva da lui uomo impietosamente immune, esente da poesia.

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Premessa alle Note

A chi si accinge a consultare questa sezione del volume è bene precisare che le pagine che compongono questo libro sono estratte da un diario personale. L’autore, com’è tipico della scrittura diaristica e dello stile degli appunti, teneva per sé questi scritti, che non progettava in vita di pubblicare e che sono stati resi noti grazie alla volontà delle figlie. Le pagine di diario, di cui le note che seguono sono strumento di consultazione, non vanno perciò intese in una chiave di lettura letteraria. Nel testo si può incorrere talvolta in espressioni, proprie della forma delle scritture private cui i testi afferiscono, che possono sembrare non del tutto coese o coerenti con il resto della pagina: tali espressioni sono testimonianza della vivacità intellettuale dell’autore che le ha scritte e inoltre della naturale vocazione della diaristica a rendersi opportunità e dunque traccia di un dialogo interiore, mezzo, cioè, attraverso cui fermare sulla carta con l’inchiostro fatti, narrazioni, pensieri, ricordi personali. Michele Rago ha utilizzato non di rado in questi testi pseudonimi e abbreviazioni, finalizzati intenzionalmente ad indicare, in modo rispettivamente velato o breve, alcune personalità presenti nella narrazione. Si è cercato di fornire, attraverso le note biografiche che seguono, ipotesi

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sull’identità celata dietro soprannomi e iniziali puntate, ma non in tutti i casi questa operazione si è potuta portare a termine: i dubbi che è stato possibile con relativa certezza sciogliere sono stati pertanto risolti indicando per esteso in nota i nomi di riferimento e fornendo informazioni di carattere biografico sulle personalità menzionate. Si è scelto in ogni caso, per favorire la fruibilità delle pagine, di mantenere sempre a testo la lezione autoriale, riservando allo scioglimento degli pseudonimi, delle abbreviazioni e alle informazioni biografiche lo spazio che segue.

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Note della curatrice

1.  Gabriele Mucchi (Torino, 1899-Milano, 2002): architetto, designer, pittore e illustratore antifascista italiano, militante del PCI. 2.  Anna Del Bo Boffino (Milano, 1983-1997) e Giuseppe Del Bo (N.D., 1918-1981): entrambi allievi di Antonio Banfi alla statale di Milano, partigiani, si sposarono nel 1949. Negli anni ’50 parteciparono alla vita culturale milanese del dopoguerra vicini al gruppo de «Il Politecnico» di Vittorini. Giuseppe fu dirigente editoriale e direttore della Fondazione Feltrinelli. Anna lavorò nell’ufficio editoriale della stessa Fondazione; in seguito giornalista e scrittrice, si occupò della condizione femminile, dei rapporti tra donna e uomo, della sessualità. Venne eletta nel Consiglio comunale di Milano e fu consigliera nell’Unione Femminile Nazionale. 3.  Molto probabilmente Ėlla Jur’evna Kagan (Mosca, 1896-SaintArnoult-en-Yvelines, 1970): scrittrice russa naturalizzata francese, conosciuta anche come Laurent Daniel. Prima donna a vincere il Premio Goncourt (1945 con Le premier accroc coûte deux cents francs), il suo impegno non fu solo letterario: nel 1946 assistette ai processi tenuti a Norimberga contro i crimini nazisti. 4.  Paul Auriol (Tolosa, 1918-Parigi, 1992): partigiano e politico francese. Figlio del Presidente della IV Repubblica francese, Vincent Auriol, fu assistente segretario generale alla presidenza della Repubblica (1947-1954).

144 5.  «Il gran dibattito» si riferisce al Consiglio nazionale del PCI in vista delle elezioni amministrative (3-7 aprile 1956), durante il quale Togliatti fu sollecitato a dare chiarimenti sul Rapporto segreto letto da Chruščëv a pochi partecipanti, a latere del XX Congresso. Sarebbe difficile riassumere in una nota quanto avvenne nel 1956, dal XX Congresso del PCUS ai fatti d’Ungheria. Chi fosse interessato a un approfondimento, può consultare i testi che seguono (per brevità se ne citano solo alcuni): F. Santi, L’autunno del mito. La Sinistra italiana e l’Unione Sovietica dal 1956 al 1968, Franco Angeli, Milano 2016; L. Canfora, 1956. L’anno spartiacque, Sellerio, Palermo 2008; A. Höbel, Il PCI e il 1956, cit. in «Marx XXI», 3 marzo 2010. 6.  Palmiro Togliatti (Genova, 1893-Jalta, 1964). 7.  Forse Antonello Trombadori (Roma, 1917-Roma, 1993): giornalista, critico d’arte e politico italiano. Nel dopoguerra alternò l’attività funzionario del PCI a quella di critico d’arte e cinematografico («l’Unità», «Rinascita») e fondò la rivista «Il Contemporaneo» di cui fu direttore dal 1954 al 1964. Fu, per il PCI, consigliere comunale di Roma (1956-1968) e deputato (1968-1983). 8.  Forse Valentino Gerratana (Scicli, 1919-Roma, 2000): filosofo italiano. Partecipò alla Resistenza a Roma, nelle file dei GAP. Collaborò a numerose riviste politiche e teoriche («Rinascita», «Il Contemporaneo», «Critica marxista») e fu caporedattore de «l’Unità». Dalla fine degli anni ’60 fu docente di Storia della filosofia, in successione, delle Università di Salerno, di Siena e poi nuovamente di Salerno. È noto, soprattutto, per aver curato l’edizione critica dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci (Einaudi, 1948-1951). 9.  Molto probabilmente Valentino Parlato (Tripoli, 1931-Roma, 2017): giornalista e politico italiano. Dopo la guerra, contribuì a fondare il Partito Comunista Libico e fu espulso dal paese nel 1951. Dal 1953, divenne funzionario del PCI ad Agrigento. Scrisse per «l’Uni­tà», e per la rivista «Rinascita». Nel giugno 1969 fu tra i fondatori de «il manifesto» di cui fu, a più riprese, direttore. Con gli altri fondatori del quotidiano venne espulso dal PCI a novembre dello stesso anno. 10.  Molto probabilmente Rossana Rossanda (Pola, 1924-Roma, 2020): giornalista, scrittrice e traduttrice italiana, dirigente del PCI

145 negli anni ’50 e ’60. Nel 1963 venne eletta per la prima volta alla Camera dei deputati. Contribuì alla nascita de «il manifesto», e perciò fu espulsa dal PCI nel 1969. Nel 2012 lasciò il giornale per dissidi con il gruppo redazionale. 11.  Forse Luigi Diemoz (N.D.): poeta, saggista e traduttore romano, «raffinato intellettuale di simpatie staliniste». Collaborò a «Quadrivio» con Libero De Libero. Fu il direttore editoriale sia della Colip (Cooperativa del libro popolare) di Giangiacomo Feltrinelli, sia della casa editrice che da quest’ultimo prese il nome; ebbe fondamentale importanza il suo ruolo nella tormentata pubblicazione de Il dottor Živago. 12.  Forse Lucien Goldmann (Bucarest, 1913-Parigi, 1970): filosofo e sociologo. Dal 1942 fu assistente di Jean Piaget in Svizzera, dove, in quanto ebreo, aveva trovato rifugio. Nel 1945 entrò al CNRS di Parigi. Insegnò all’École des Hautes Études en Sciences Sociales e allUniversité libre de Bruxelles e fu direttore dell’École Pratique des Hautes Études dal 1959 al 1970. 13.  Forse Mario Alicata (Reggio Calabria, 1918-Roma, 1966): entrato in contatto con molti giovani antifascisti, nel 1940 si iscrisse al Partito Comunista clandestino contribuendo a organizzare i collegamenti con operai comunisti. Nel frattempo, collaborò a riviste e progetti culturali e divenne assistente di Natalino Sapegno. Dal 1948 al 1963 fu deputato per il PCI e dal 1956 fu membro della direzione del Partito. Gran parte della sua attività politica fu dedicata ai problemi del Mezzogiorno. Durante tutta la sua vita collaborò a giornali e riviste o li diresse (tra gli altri, «Il Piccolo», «Primato», «La Voce», «La Voce del Mezzogiorno», «l’Unità», «Cronache meridionali», «Critica marxista»). 14.  Probabilmente Franco Fortini (pseudonimo di Franco Lattes; Firenze, 1917-Milano, 1994): poeta, narratore, saggista, traduttore, professore universitario. Dopo l’armistizio, essendo di padre ebreo, si rifugiò in Svizzera e si unì ai partigiani della Val d’Ossola. Finita la guerra si trasferì a Milano, dove collaborò a riviste politiche e culturali e a quotidiani («Il Politecnico», «Officina», «Il Menabò», «Quaderni rossi», «il manifesto», «Corriere della Sera»). Nel 1985 gli fu conferito il Premio Montale-Guggenheim.

146 15.  Iosif Stalin (Gori, 1878-Mosca, 1953), politico sovietico. 16.  Forse Carlo Muscetta (Avellino, 1912-Aci Trezza, 2004): critico letterario e accademico italiano. Dopo la guerra, diresse per Giulio Einaudi la sede di Roma. Nel 1947 si iscrisse al PCI, e diresse dal 1953 la rivista politico-culturale «Società»; nel 1956 redasse con altri intellettuali il Manifesto dei 101 contro lo stalinismo e l’intervento sovietico in Ungheria, allontanandosi in conseguenza dal partito. In séguito collaborò alla rivista «Mondo operaio», dirigendo il supplemento scientifico-letterario. Dal 1963 al 1983 insegnò alle Università di Catania, di Roma e alla Sorbona di Parigi. Diresse l’edizione delle opere di De Sanctis; studiò approfonditamente Belli e Padula; curò le opere di numerosi classici, da Petrarca a Saba. 17.  Molto probabilmente Gian Carlo Pajetta (Torino, 1911-Roma, 1990): partigiano e politico italiano. Deputato del PCI dal 1946 alla morte, dal 1948 al 1986 fu nella segreteria del PCI, e in seguito presidente della commissione garanzia. Dal 1984 fu anche parlamentare europeo. Fu per breve tempo direttore di «Rinascita» e, in più riprese, de «l’Unità»; numerosissimi sono i suoi contributi alla stampa comunista. 18.  Forse Aldo Natoli (Messina, 1913-Roma, 2010): politico e storico italiano. Dopo l’armistizio fece parte dell’organizzazione militare del CLN, e fondò con Mario Alicata la redazione clandestina de «l’Uni­tà». Dal 1946 al 1954 fu segretario del PCI a Roma e nel Lazio; poi divenne vice di Luigi Longo, occupandosi soprattutto dell’industria italiana in trasformazione. Fu deputato dal 1948 al 1972 e consigliere comunale di Roma dal 1952 al 1966, conducendo un’aspra battaglia contro la politica urbanistica delle amministrazioni comunali a guida democristiana. Nel 1969, fu espulso dal PCI con il gruppo della rivista «il manifesto». Da allora si definì “un comunista senza partito”. 19.  Probabilmente Giorgio Amendola (Roma, 1907-1980): partigiano, politico e scrittore italiano. Figlio del liberale antifascista Giovanni, dopo la morte del padre, ucciso dai fascisti, si iscrisse al Partito Comunista (1929). Finita la guerra fu tra i massimi esponenti del PCI. Eletto all’Assemblea costituente, fu sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel governo Parri e nel primo governo De Gasperi e, dal 1948 fino alla morte, fu deputato per il PCI. Dal 1947 al ’53, come

147 segretario regionale del PCI della Campania, Molise e Lucania, si occupò, del problema del Mezzogiorno. 20.  Probabilmente Alessandro Natta (Oneglia, 1918-Imperia, 2001): professore di Lettere, parlamentare, segretario del PCI dal 1984 al 1988. Fu deputato del PCI nel 1948 e proseguì la carriera politica sino alla morte, presiedendo il Gruppo parlamentare comunista sino alle elezioni del giugno 1979. Fu responsabile della commissione culturale del partito, condirettore della rivista «Critica marxista», direttore dell’Istituto Gramsci e di «Rinascita». Fece parte nella Direzione del PCI fino al 1984. Nel 1969 fu tra quelli che scelsero per l’espulsione del gruppo de «il manifesto». 21.  Molto probabilmente Angelina (meglio nota come Ninetta) Zandegiacomi (Treviso, 1927): sindacalista, donna politica e giornalista italiana. Dopo la guerra, laureatasi, si dedicò all’attività sindacale nella CGIL in Veneto e soprattutto a Vicenza, dove divenne Segretaria del Sindacato Tessili. Fu anche consigliere comunale di Vicenza per il PCI, poi funzionaria presso la Sezione femminile del Comitato centrale. Nel 1969 contribuì alla fondazione della rivista «il manifesto» e perciò fu espulsa dal partito nel novembre dello stesso anno. 22.  Probabilmente Mario Spinella (Varese, 1918-1994): filosofo, scrittore, giornalista, critico. Fu segretario di Palmiro Togliatti, capo redattore di «Vie nuove» e fino al 1956 direttore e formatore della Scuola delle Frattocchie del PCI. Dal 1957, trasferitosi a Milano, pur non abbandonando mai il PCI, cominciò ad allontanarsi progressivamente dallo scenario politico e svolse attività di giornalista e dirigente editoriale, dedicandosi con maggiore impegno nello studio e nella scrittura. Scrisse per «Rinascita», per «Utopia», che diresse dal 1969 al 1971, e per «l’Unità». 23.  Molto probabilmente Lucio Lombardo Radice (Catania, 1916Bruxelles, 1982): docente universitario, pedagogista e dirigente comunista. Dopo la liberazione di Roma entrò nella redazione de «l’Unità». Dal dopoguerra fu docente presso la Facoltà di Matematica dell’Università di Roma a partire dal 1960 e membro del Consiglio del CNR. Non cessò però la sua attività politica: divenne membro del Comitato centrale del PCI, responsabile della sezione scuola del partito. Convinto sostenitore dell’unità della cultura e studioso di pedagogia, nella seconda metà degli anni ’50 fu nominato dapprima

148 condirettore della rivista di didattica «Riforma della Scuola» e in seguito direttore, incarico che conservò fino alla morte. 24.  Ferruccio Parri (Pinerolo, 1890-Roma, 1981): politico italiano. Prese parte alla Prima guerra mondiale. Insegnante di liceo e redattore del «Corriere della Sera» dovette lasciare entrambi gli incarichi a causa dell’affermazione del fascismo. Partigiano, membro di Giustizia e Libertà, fu tra i fondatori del Partito d’Azione e ne divenne capo. Fu Presidente del consiglio del governo di unità nazionale (19 giugno-20 novembre 1945). Continuò il suo impegno politico prima nel PRI poi nel PSI. Fu eletto senatore nel 1958 e nominato senatore a vita dal 1963. Fondò l’Istituto di studi economici e l’Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia. 25.  Molto probabilmente Gastone Manacorda (Roma, 1916-Roma, 2001): partigiano, storico e accademico italiano. Durante gli studi universitari, come molti coetanei, si avvicinò all’antifascismo e al Partito Comunista. Dopo la guerra fu attivo nell’attività culturale legata al PCI: scrisse per «l’Unità» e per «Rinascita», diresse le Edizioni Rinascita e la rivista «Cultura sovietica». Contribuì alla nascita della Fondazione Gramsci; dal 1954 al 1956 e di nuovo dal 1961 fece parte del comitato direttivo di quest’ultima. Fondò e diresse la rivista «Studi storici» dal 1959 al 1968. Insegnò dal 1965 nell’università, a Catania, Napoli e infine Roma. 26.  Maria Teresa Lanza de Laurentiis (Roma, 1925-Milano, 2017): critica, saggista e accademica italiana. Si laureò e perfezionò in Filologia moderna con Sapegno di cui divenne assistente. Dal 1957 fu a Milano dall’editore Feltrinelli. Nel 1966, a Bari, dopo una breve esperienza presso l’editore Laterza, assunse la cattedra di Storia della critica letteraria. Studiosa di Belli, ne curò un’edizione integrale dei sonetti per l’editore Feltrinelli. 27.  «Il Caffè», periodico antifascista. Fondato a Milano nel 1924, ad opera di R. Bauer e F. Parri, riprese il nome dello storico giornale dei fratelli Verri. Oggetto di persecuzioni, fu costretto a chiudere nel maggio del 1925. Una nuova serie della rivista nacque a Roma nel 1953, diretta da G.B. Vicari. Alla morte di quest’ultimo, nel 1977, sospese le pubblicazioni, per riprenderle nel 1980 e cessarle nel 1981.

149 28.  Si tratta del funerale delle vittime di una manifestazione parigina provocata dagli attentati dell’O.A.S. (Organisation de l’armée secrète) finalizzati a contrastare l’indipendenza algerina. La manifestazione fu attaccata presso la stazione metro Charonne dalla polizia, che sparò sulla folla uccidendo otto persone e ferendone a morte un’altra. Al funerale parteciparono centinaia di migliaia di persone. 29.  Marguerite Duras (Saigon, 1914-Parigi, 1996): pseudonimo di Marguerite Germaine Marie Donnadieu, scrittrice, regista e sceneggiatrice francese. Alla fine della guerra, militò tra le file del PCF fino al 1950, quando venne espulsa come dissidente. Nel 1942 pubblicò il romanzo Gli Imprudenti, ma raggiunse la fama nel ’50 con Una diga sul Pacifico, che Vittorini definì «il più bel romanzo francese del dopoguerra». Nel 1959 sceneggiò il film Hiroshima mon amour, diretto da Alain Resnais. Autrice di numerose opere narrative e film, nel 1984 vinse il premio Goncourt con il romanzo autobiografico L’amante. Nel 1968 fu sulle barricate con gli studenti; suo è lo slogan Sous le pavés, la plage. 30.  Pietro Ingrao (Lenola, 1915-Roma, 2015): politico, giornalista e partigiano italiano. Aderì al PCI nel 1940, divenendo dopo la guerra un punto di riferimento dell’ala sinistra del Partito. Tuttavia nel 1956, quando era direttore de «l’Unità» (1947-1957), scrisse sul quotidiano due articoli di condanna alla rivoluzione ungherese (in seguito riconobbe erronea questa opinione); e nel 1969, come membro del Comitato centrale del PCI votò per l’espulsione dei fondatori della rivista «il manifesto». Fu deputato nel PCI dal 1950 al 1991 nonché primo comunista Presidente della camera (1976-1979). 31.  Mario Alicata, cfr. supra, nota 13. 32.  Cesare Luporini (Ferrara, 1909-Firenze, 1993): filosofo, critico letterario e politico italiano. Fu allievo di Heidegger e Hartmann. Insegnò storia della filosofia nelle Università di Cagliari, Pisa e Firenze. Nel 1945 fu tra i fondatori della rivista «Società». Collaborò, dagli anni ’60 in poi, ai periodici politico-culturali del PCI «Il Contemporaneo», «Rinascita», «Critica marxista». Fu senatore per il PCI (1958-1963). 33.  Alfredo Reichlin (Barletta, 1925-Roma, 2017): uomo politico e giornalista italiano. Nel dopoguerra si iscrisse al PCI di cui fu poi per trent’anni dirigente. Allievo di Togliatti, fu vicesegretario della

150 FGCI. Dal 1955 lavorò a «l’Unità» come giornalista e dal 1958 come direttore, ma, avvicinatosi alle posizioni di Ingrao, si allontanò da questo incarico. Dal 1962 al 1968 fu Segretario regionale del PCI in Puglia. Negli anni ’70 entrò nella direzione nazionale del partito. Dal 1968 al 1994 fu deputato, prima con il PCI e poi con il PDS. 34.  Rossana Rossanda, cfr. supra, nota 10. 35.  Alberto Scandone (Firenze, 1942-Palermo, 1972): giornalista e politico italiano. In seguito alla mobilitazione antifascista del 1960, fondò l’anno successivo il movimento giovanile Nuova Resistenza. Fu poi dirigente della federazione giovanile socialista (1964-1966). Nel 1968 aderì al PCI e nel 1970 fu chiamato all’ufficio stampa di Berlinguer. Giornalista vaticanista e di politica interna, scrisse su «Astrolabio», su «L’Ora», su «Rinascita» e su «l’Unità». 36.  Ernesto Ragionieri (Sesto Fiorentino, 1926-Firenze, 1975): storico e politico italiano. Scrisse su «Belfagor», «Il Nuovo Corriere» e «l’Unità». Dal 1951 al 1970 fu eletto per il PCI nel Consiglio comunale di Firenze. Dal 1955 alla morte insegnò all’Università di Firenze, formando numerosi studiosi di vaglia. Dal 1963 fu membro del Comitato centrale del PCI e fu dal 1966 condirettore di «Critica marxista» e poi di «Studi storici». Tra il 1967 e il 1973 curò la pubblicazione dei primi tre volumi delle opere di Togliatti. La morte improvvisa gli impedì di concludere la Storia d’Italia Einaudi, portata a termine da alcuni suoi allievi. 37.  Elio Vittorini (1908-1966): scrittore, giornalista, traduttore e intellettuale italiano. 38.  Demetrio Vittorini (Gorizia, 1934): scrittore e insegnante. Secondo figlio di Elio Vittorini e della prima moglie, Rosina Quasimodo, sorella del poeta Salvatore Quasimodo. 39.  Luigia Giovanna Varisco (meglio conosciuta come Ginetta; Concorezzo, 1902-Milano, 1978): sul finire degli anni ’30 conobbe lo scrittore Elio Vittorini di cui divenne alcuni anni dopo compagna e, pochi giorni prima della scomparsa dell’autore, moglie. Nella loro casa milanese di via Gorizia si intrattenevano i più noti esponenti della cultura italiana. 40.  Maria Matilde Covo (meglio conosciuta come Lica Steiner; Milano, 1914-2008): nel 1938 sposò Albe Steiner (Milano, 1913-Raffadali,

151 1974), futuro grafico di fama internazionale, e insieme nel 1939 aprirono lo studio LAS (Lica Albe Steiner) Pubblicità, Foto, Grafica. I Licalbe (come li chiamavano gli amici) condividevano ideali e attività di alto profilo etico, politico e culturale. Lica, per il suo contributo alla Resistenza in Val d’Ossola, ricevette la medaglia d’argento dall’ANPI. Nel dopoguerra Lica e Albe collaborarono alla rivista «Il Politecnico» di Elio Vittorini. Nel 1957 Lica fu nella redazione della «Pagina della Donna» per il giornale «l’Unità». 41.  Aline Alquier (Tolosa, 1921-Le Kremlin-Bicêtre, 2017): giornalista, storica, critica e traduttrice francese. Lavorò per dieci anni per «L’Humanité» e fu la prima donna a seguire il Tour de France per il suo giornale. Fu vicepresidente di Les amis de George Sand e collaborò alla rivista dell’associazione. Su George Sand pubblicò un’importante monografia (George Sand, Éditions Pierre Charron) e una bibliografia (Éditions Paris Match) e curò l’edizione critica di alcuni suoi romanzi. 42.  Felicita Perrone (Mesagne, 1944): francesista. All’università di Lecce nel 1970 ha assunto l’incarico di assistente di Michele Rago per l’insegnamento di Lingua e letteratura francese. Nel 1975 è diventata titolare dell’insegnamento di Lingua e letteratura francese presso la facoltà di Magistero di Salerno. Nel 1985 è tornata a Lecce, dove ha insegnato fino al 2012. Nel 1983 ha collaborato con Michele Rago per la pubblicazione del volume Autobiografia del surrealismo di Marcel Jean. 43.  Molto probabilmente Antonino Colajanni (Enna, 1942): antropologo e docente universitario italiano. Negli anni tra il 1970 e il 1982 è stato professore incaricato di Etnologia presso le Università di Urbino, Lecce e Bari. Dal 2005 è stato professore ordinario di Antropologia sociale nell’Università di Roma “La Sapienza” (oggi in pensione). È stato Vice-Presidente dell’Associazione Italiana per le Scienze Etno-Antropologiche (A.I.S.E.A.) ed esperto e consulente per gli aspetti sociali e culturali dei processi di sviluppo presso Organizzazioni Internazionali e ONG. 44.  Molto probabilmente Umberto Cerroni (Lodi, 1926-Roma, 2007): filosofo, giurista e accademico italiano. Nel 1971 divenne professore di ruolo di Filosofia della politica e insegnò a Salerno e all’Istituto Universitario Orientale di Napoli. Dal 1976 insegnò per più di venti anni

152 Scienza della politica nella Facoltà di Sociologia dell’Università “La Sapienza” di Roma. Dal 2000, sempre all’Università “La Sapienza” era stato nominato professore emerito. Con la sua sterminata bibliografia è stato uno degli intellettuali protagonisti del dibattito sul marxismo. 45.  Cfr. qui e nelle pagine seguenti: Diana, Isa, Fabio, persone della famiglia contadina presso la quale l’A. soggiornò durante una vacanza in Carnia. 46.  Per questa e le successive occorrenze, Ninetta Zandegiacomi, cfr. supra, nota 21. 47.  Graziella Romano, meglio conosciuta come Lalla (Demonte, 1906-Milano, 2001): scrittrice. Durante la Seconda guerra mondiale, vicina al movimento “Giustizia e libertà”, prese parte alla Resistenza, nei “Gruppi di difesa della donna”. Incoraggiata da Montale, pubblicò nel 1941 la raccolta di poesie Fiore. Nel dopoguerra iniziò a scrivere anche in prosa, pubblicando diversi romanzi. Nel 1969 ottiene il Premio Strega con il romanzo Le parole tra noi leggere, che ebbe grande successo.

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Indice

Quale “contesto” per Michele Rago? Prefazione di Elena Riccio

p. 9

Pagine di diario 1951-1996

1951

p. 43

1952

p. 47

1953

p. 49

1954

p. 53

1956

p. 55

1961

p. 83

1962

p. 85

1963

p. 87

1966

p. 91

1968

p. 97

1970

p. 107

1971

p. 111

1973

p. 115

156

1974

p. 119

1975

p. 127

1978

p. 131

1991

p. 135

1995

p. 137

1996

p. 139

Premessa alle Note

p. 141

Note della curatrice

p. 143

Margini Collana di letterature e scritture non canoniche Diretta da

Filippo La Porta

1. Andrea Di Consoli, Diario dello smarrimento. 2. Aurora Bertrana, Paradisi oceanici. 3. Antonio Fiori, I Poeti del sogno. Piccola antologia. 4. Giovanni Catelli, Parigi, e un padre. 5. Lucilio Santoni, Legato con amore in un volume. Quasi un diario. 6. Luciano Curreri, Il non memorabile verdetto dell’ingratitu­ dine. Seguito dai Sei pensieri grati e gratis. 7. Francesco Borrasso, Restare vivo. 8. Domenico Calcaterra, L’anno del bradipo. Diario di un cri­ tico di provincia. 9. Natàlia Cerezo, Nelle città nascoste. 10. Xavier Farré, L’auditorio di Görlitz. (Visioni poetiche). 11. Michele Rago, Pagine di diario (1951-1996).

Pagine di diario (1951-1996) A cura di Elena Riccio «Il segreto è dato dall’intreccio fra letteratura e vita – solo definendo in modo poetico o attivo questo intreccio o questo rapporto si può stabilire qualcosa o si ha comunque letteratura». Di politica, letteratura e giornalismo, cioè di scrittura come strumento della ragione individuale e sociale, parla ai lettori Michele Rago, il cui diario rappresenta l’indissolubile legame tra pubblico e privato che ne ha sempre segnato vita e pensiero. Molti sono gli eventi storici del Novecento di respiro italiano, europeo ed extra-europeo, spesso delicati e scarsamente sondati, che studiosi e curiosi potranno approfondire attraverso queste memorie intellettuali e grazie alla presenza di documenti epistolari d’inedito interesse storico e culturale. Le Pagine di diario di Michele Rago conducono dentro una ricerca di senso, intima eppure comune, lunga un’intera vita.

Michele Rago (Chicago, 1913 - Roma, 2008) è stato giornalista, traduttore e accademico italiano. Ha fondato e diretto il foglio comunista «Milano Sera» e lavorato come redattore de «l’Unità», collaborando anche con «Paese Sera», «Il manifesto», «Il Politecnico», «Il Menabò», «Il Contemporaneo», «Rinascita». Si è dedicato da francesista all’attività accademica presso le Università di Lecce, Siena e Salerno. Ha militato nel PCI fino ai primi anni ‘70, quando una recensione al Contesto di Sciascia pubblicata sulle pagine de «l’Unità» compromise le sue relazioni con il Partito e con il quotidiano.

Margini | 11 € 7,00

Collana diretta da Filippo La Porta

ISBN ebook 9788855291989