Pagine di guerriglia. L'esperienza dei garibaldini della Valsesia [2]


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Pagine di guerriglia. L'esperienza dei garibaldini della Valsesia [2]

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© Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Vercelli "Cino Moscatelli". Vietata la riproduzione anche parziale.

CESARE BERMANI

Pagine

di

guerriglia

L'esperienza dei garibaldini della Valsesia volume II

Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Vercelli "Cino Moscatelli"

In copertina: Vignale (No), 26 aprile 1945 . In primo piano: Alessandro Boca "Andrei" e Albino Calletti "Bruno"

PREFAZIONE

Un libro, un quarto di secolo

A distanza di quasi un quarto di secolo dall' uscita del primo volume di "Pagine di guerriglia", grazie all' Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Vercelli, completo ora l' opera con la pubblicazione di questo secondo volume e di un terzo, la cui uscita è prevista per il 25 aprile 1 996. Dato il tempo trascorso dall' uscita del primo volume, anch' esso verrà poi ripubblicato con integrazioni, entro il 1 997 .

Di tutta l' opera esisteva già una stesura sin dagli anni sessanta. Rispetto a essa, numerosi capitoli sono stati scorporati e pubblicati a sé stanti in altri volumi o riviste (e ne parlerò in seguito). Dei capitoli restanti, parecchi hanno ora un nuovo titolo, altri sono concresciuti sino a dovere essere smembrati in due. Tutto è stato rivisto e molto rimpastato o spostato. Comunque il grosso del materiale aveva già avuto la sua prima stesura allora. Capitoli nuovi, stesi cioè integralmente dall' 85 in poi, quando ho ripreso a lavorare a questo secondo volume, sono solo il XLIX ("Fritz, il disertore austriaco"), che serve a rammentare la presenza di disertori della Wehrmacht nelle file dei garibaldini valsesiani� il LII ("Contenuti e funzione dei nomi di battaglia"), scritto sull' onda dei lavori in proposito di Franco Castelli e teso però a mettere in guardia rispetto a una lettura dei nomi di battaglia che prescinda dalla utilizzazione anche della ricerca sul campo� il LXIII ("Il delinquente pentito"), contro un' assunzione acritica di materiali propagandistici della Repubblica sociale italiana� il LXXI (" La battaglia di Arona"), già previsto ma allora non scritto� e il LXXIII ("Dopoguerra in armi"), legato alla necessità di rispondere criticamente ai reiterati tentativi di avvalorare una visione di un Pei in armi nel dopoguerra, di fronte ad altri partiti disarmati. Anche il capitolo XL (" Donne partigiane e maschilismo"), che aveva avuto una prima stesura con ìl titolo "Le vaccoche", è stato fortemente innovato anche in conseguenza del salutare shock determinato dalla polemica femminista degli anni settanta. Mi preme comunque sottolineare che se non avessi svolto la mia ricerca a partire dal 1 965 e già fatto allora una prima stesura anche della parte allora non pubblicata, oggi essa non vedrebbe la luce o quantomeno sarebbe del tutto diversa. Infatti una ricerca non è rifacibile a distanza di vent' anni (tantissime delle persone che ho intervistato sono morte, altre hanno nel frattempo perso molti dei ricordi comunicatimi allora, altre ancora hanno ora dei punti di vista diversi da vent' anni fa su quegli avvenimenti, ecc.). Proseguendo le mie ricerche sul campo sino a oggi, ho potuto constatare che su alcune cose una parte dei miei testimoni ha allora taciuto. Quando ho cominciato la mia ricerca erano passati solo vent' anni dalla guerra di liberazione e dopo di essa vi era stata una forte repressione, con incriminazioni e arresti, per cui era per esempio quasi impossibile avere testimonianze attendibili sul delicato problema della giustizia partigiana o sulle vicende del dopoguerra, soprattutto se legate ai processi contro i partigiani. Inoltre i partigiani erano allora ancora una forza viva, in qualche misura protagonista della politica nazionale, mentre nelle interviste fatte negli anni ottanta mi sono trovato davanti uomini che ormai erano ai margini della politica, inclini a parlare più liberamente di fatti ormai lontani e con disponibilità a comunicare le loro esperienze e riflessioni persino sui problemi che ho accennato essere stati quasi tabù negli anni sessanta. Ho naturalmente cercato di spremere al massimo i miei testimoni nelle nuove direzioni divenute possibili e che colmavano lacune solo oggi colmabili, e ce n'è riscontro in I

particolare nei capitoli XXXIX, LXXIII e LXXIV. Per quel che riguarda l'uso fatto delle fonti orali in questa parte allora non pubblicata, posso dire di avere contenuto rispetto alla stesura degli anni sessanta la tendenza a esprimermi attraverso un linguaggio spezzato da espressioni dialettali desunte dalle fonti, con una operazione di sapore letterario posta a sostituzione dei brani delle testimonianze trascritti, che sono in questo secondo e terzo volume più presenti che nel primo. Quel linguaggio ho però mantenuto, per esempio, nel capitolo XLIII ma anche in altri luoghi, per non creare una troppo netta frattura stilistica tra la stesura del primo e degli altri volumi e e anche perché quel modo di rielaborare le fonti era uno di quelli che comunque mi si era affacciato in quella prima fase di utilizzazione della testimonianza orale in saggi storici, ancora tutta all' insegna dello sperimentalismo. Per quel che riguarda le fonti scritte ho invece contenuto al massimo le citazioni da "Il Monte Rosa è sceso a Milano" I , un volunle che man nlano che approfondivo la mia ricerca mi appariva senlpre più inidoneo agli scopi che mi prefiggevo. Infatti esso è stato scritto in molte sue parti sull' onda della memoria - e non sempre coniugando il ricordo personale con la ricerca d' archivio - per cui è, per esempio, zeppo d'errori per quel che concerne le datazioni degli avvenimenti. In alcuni casi questi errori hanno collaborato a creare delle vere e proprie leggende. Per esempio, Moscatelli data agli scioperi del marzo 1 944 un proprio comizio alle maestranze della Elli Zerboni a Varallo, con quattrocento operai che chiedono di essere arruolati in nlassa nelle formazioni2• Invece esso venne fatto l' I l giugno 1 944, durante la "Valsesia libera" 3 Va da sé che quindi quell' episodio assume nella sua narrazione un significato che non ha avuto, perché un conto è fare un comizio durante uno sciopero in una cittadina occupata dai nazifascisti, un conto è farlo mentre la zona è interamente occupata dai partigiani. E questa versione è passata dal libro di Moscatelli a quello di Renzo Del Carria4, libro a tesi basato interamente su fonti di seconda mano, ma assai letto negli anni settanta. Mentre nelle note del primo volume ho spesso anche pignolescamente messo in discussione datazioni erronee e ricostruzioni diverse dalle mie apparse in quel volume, oggi ho contenuto tutto ciò allo stretto indispensabile, dato che è ormai chiaro a tutti come "Il Monte Rosa è sceso a Milano" sia più utile per capire la personalità di Moscatelli e lo stato degli studi alla fine degli anni cinquanta che non per una ricostruzione degli avvenimenti verificatisi durante la guerra di liberazione in Valsesia5 . Data la distanza temporale che intercorre tra la pubblicazione delle due parti di "Pagine di guerriglia", succede che oggi il primo volume mi appaia non solo qua e là viziato da ingenuità e a tratti da una non ancora matura comprensione della realtà partigiana (si pensi, per esempio, a come vi viene descritta la battaglia del 2-4 luglio, quasi fosse un conflitto •

I PIETRO SECCHIA - CINO MOSCATELLI, Il Monte Rosa è sceso a Milano. La Resistenza nel Biellese nella Valsesia e nella Valdossola, Torino, Einaudi, 1 958. 2 Si veda ibidem, pp. 1 8 1 - 1 82. 3 Si veda CESARE BERMANI, Pagine di guerriglia. L 'esperienza dei garibaldini della Valsesia,

Milano, Sapere Edizioni, 1 97 1 , cap. XII. 4 RENZO DEL CARRIA, Proletari senza rivoluzione. Storia delle classi subalterne italiane dal i 860 al i 950, Milano, Edizioni Oriente, II ed.,. 1 970, voI. II, p. 336. 5 Di Pagine di guerriglia ho parlato due volte "a braccio" in occasione di un' intervista e di un convegno. Rimando qui ai testi pubblicati: intervista a Cesare Bermani, a cura di Paola Sobrero, in "Fonti orali. Studi e ricerche", a cura dell'Istituto piemontese di scienze economiche e sociali "Antonio Gramsci", Torino, a. II, n. 3, dicembre 1 982, pp. 50-55. L' intervista mi venne fatta il 3 agosto del 1982 a Orta Novarese; intervento in Storia orale e storie di vita, a cura di Liliana Lanzardo, Milano, Franco Angeli, 1 989, pp. 1 56- 1 57. Trattasi degli atti di un convegno tenutosi al Dipartimen­ to delle scienze dell' uomo dell' Università di Trieste il 4-5 novembre 1 985. II

militare tradizionale ! ) ma anche da integrare con apporti di ricerche e testimonianze successive. Comunque, a mio parere, se il primo volume di "Pagine di guerriglia" esercitò una forte provocazione alla "cultura ufficiale", quindi raggiunse lo scopo allora prefissosi, tuttavia solo ora che l' opera è conclusa si può valutare appieno come le vicende dell' ''Osella'' siano state utilizzate non solo come oggetto d' analisi della storia e del modo di vivere di una specifica brigata, ma anche come un filo conduttore che ha permesso di documentare e allargare il discorso all' intera strategia della guerriglia garibaldina in Valsesia. Valenze politiche di una ricerca

"Pagine di guerriglia" è il frutto di una battaglia politica tesa a fare conoscere la ricchezza della realtà "altra", a saggiare la validità storiografica delle testimonianze orali come fonti della storia, a buttare un ponte tra "piccola storia" e "grande storia", tra vicenda individuale e vicenda collettiva, tra contributi di base e contributi di vertice e a valorizzare come "grande storia" esperienze come quella dei garibaldini della Valsesia, che mi è sempre apparsa come un fatto militare e sociale di grande importanza, ingiustamente relegato in sordina. Questa battaglia condotta assieme a Gianni Bosio e all' Istituto "Ernesto de Martino" - non era solo contro la cultura accademica ma contro tutta quanta la "cultura ufficiale", ivi compresa quella dei partiti di sinistra. Con il suo essere allora tutta puntigliosan1ente legata alla cultura scritta, la "cultura ufficiale" ci appariva come dimezzata ed elitaria. Gianni Bosio aveva scritto nel 1 968: «La stragrande maggioranza della popolazione mondiale è colta per mezzo della comunicazione orale. La stragrande minoranza è colta per mezzo della comunicazione scritta. Non diversa la situazione in Italia. La comunicazione orale resa permanente dal disco è di più della cultura scritta. [. . ] Se la cultura orale è cultura, il documento orale è "vero" come è "vero" quello scrittO»6. Posizioni del genere avevano dirette implicazioni sul terreno politico, perché - scriveva ancora Bosio, come già ho ricordato nel saggio introduttivo al primo volume - «il ma­ gnetofono documenta la presenza costante della cultura oppositiva la quale proviene non soltanto dalla obbiettiva presenza storica delle classi popolari e della classe operaia, ma anche dalle fOffi1e di consapevolezza. [ . . . ] Il movimento operaio quando esprime dirigenti preoccupati di esorcizzare il magnetofono dovrà farsi adulto e avere la forza di esorcizzare i dirigenti»7. Eravamo quindi pienamente consapevoli che le nostre posizioni riaffaccia­ vano la critica della funzione politica della cultura e della politica stessa. L' attendibilità delle testimonianze orali era ed è tutt' oggi molto spesso contestata da una cultura dove «la parola scritta, il saggio, il libro, è ancora la sola forma che l' accademia riconosce come titolo all' intellettuale di professione che voglia realizzarvi la sua carriera»8. .

6 L'Italia nelle canzoni, nel catalogo I Dischi del Sole prodotti dalle Edizioni del Gallo, Milano, maggio 1 968, p. 22, ora in Bosio oggi: Rilettura di un'esperienza, a cura di Cesare Bermani, Milano­ Mantova, Istituto "Ernesto de Martino"-Provincia di Mantova-Biblioteca Archivio Casa del Man­ tegna, 1 986, p. 253 . "]. GIANNI BOSIO, Elogio del magnetofono. Chiarimento alla descrizione dei materiali s u nastro del fondo Ida Pellegrini, in ID, L'intellettuale rovesciato. Interventi e ricerche sulla emergenza d'interesse verso le forme di espressione e di organizzazione "spontanee " nel mondo popolare e proletario (gennaio 1963-agosto 1 971 ), Milano, Edizioni Bella Ciao, 1 975, p. 1 7 1 . Lo scritto è datato Milano, ottobre 1966. 8 ROMANO ALQUATI, Osservazioni su cultura, memoria, storia, in "Ombre rosse", Roma, Savelli, nn. 27-28, febbraio 1 979, p . 67.

III

Ma l' allergia della "cultura ufficiale" per la cultura orale era ed è anche una riprova della vitalità di quella funzione politica della cultura basata sulla separatezza tra intellettuali e popolo, legata a una tradizione di casta mai rotta in Italia da movimenti politici dal basso, già al centro dell' interesse di Antonio Gramsci; era ed è cioè la riprova del perpetuarsi di un meccanismo strutturale della società italiana che, costituitosi storicamente, non ha mai corso il rischio di interruzioni reali e ha funzionato ancora prima nelle coscienze che nelle istituzioni, conformando a sé istituzioni e dialettica politica, condizionando le grandi scelte collettive, i progetti di organizzazione e di governo, le politiche culturali, le forme della vita morale, le ideologie e i sentimenti delle classi. In altre parole, quelle nostre ricerche richiamavano anche l' attenzione su un terreno d' analisi che era quello della durata di quella cultura della separazione, della sopravviven­ za dei suoi effetti anche dopo la caduta del fascismo, del condizionamento che essa esercitava a ogni livello del terreno di crescita del movimento operaio, dell' impedimento che essa rappresentava nelle istituzioni, nel partito, nelle coscienze, impedendo quella riforma profonda del modo di produzione della politica che Gramsci proponeva e che il Pci di Togliatti aveva totalmente eluso9. E in tal senso quindi Bosio - in anni in cui v' era nel Paese un risveglio di movimento reale - poteva parlare della necessità di un "intellettuale rovesciato" lO, ciò che suonava sgradevole alle orecchie della casta politico-accademica. D ' altronde questa posizione di Bosio rappresentava un punto d' arrivo di una riflessione iniziata già alla fine degli anni quaranta all'interno della rivista "Movimento operaio" e sempre emarginata dalle dirigen­ ze ufficiali della sinistra italiana I l . Cultura orale e storia delle Resistenza

Le posizioni teoriche sulla cultura orale dovute a Bosio e all' Istituto "Ernesto de Martino" avrebbero esercitato in quegli anni e almeno fino alla metà degli anni settanta, una profonda influenza su n10lti giovani storici e ricercatori. E, mi pare, fossero pm1ico­ larmente pertinenti riferite al modo di fare storia della Resistenza. Ricordo infatti come Roberto Battaglia, già prima che finisse la guerra di liberazione, facesse alcune osservazioni che spiegavano il pullulare di memorie individuali su quel periodo e che avrebbero potuto dare anche luogo a sviluppi metodologici che non ci furono se non limitati e tardivi : "Per chiarire [ . . ] che cosa è stato il movimento partigiano in Italia non posso commentarlo che attraverso ciò che io stesso ho visto o fatto, ossia commettere l'immodestia di parlare in prima persona. Non nascondo che debbo così far forza e impormi a quella tenace educazione letteraria che in Italia non permette se non con molta cautela l' autobiografia. [ . . . ] L'italiano, animato da indubbio spirito di concretezza e quasi di scetticismo nella vita d' ogni giorno, vuole entrare, quando scrive, in un mondo totalmente diverso, superiore e distaccato dalla realtà, al quale non giunga che smorzato da un grave sipario di letteratura l'eco della vita vissuta: frattura ormai vecchia nella sua coscienza e ancor più accenWq��. .

9 Per ulteriori informazioni su questa tematica granlsciana si veda C. B ERMANI, Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura. Continuità del pensiero di Antonio Gramsci da "l 'Ordine Nuovo " ai "Quaderni del carcere", Trattasi del testo di una relazione tenuta il 29 aprile 1 989 ad Amburgo

al seminario internazionale "Der wirkliche Antonio Gramsci die KIassenzusammensetzung und die Organisationsfrage", organizzato dall'Hamburger Stiftung ftir Sozialgeschichte des 20, Jahrhunder­ ts e da esso pubblicato a Arnburgo nel novernbre 1 989 come Arbeitspapiere. IO Rimando a G. BOSIO, L 'intellettuale rovesciato, cit. Il Per questo aspetto del problema rimando a C. BERMANI, "Il trattore ad Acquanegra " nella vicenda cultura e politica di Gianni Bosio, in G. BOSIO, Il trattore ad Acquanegra. Piccola e grande storia in una comunità contadina, a cura di Cesare Bermani, B ari, De Donato, 1 98 1 , pp. V-LUI. IV

piuttosto che risolta nelle ultime esperienze. Accade ciò per il classicismo o per la nostalgia del mondo umanistico retoricamente inteso, oppure perché la società stessa in cui vive lo soddisfa cosÌ poco da farlo sentire spesso estraneo se non indifferente di fronte ai suoi sviluppi? Certo è che la nostra vita esce sdoppiata da questa continua insidia: una lingua scritta e una lingua parlata, un uomo pubblico, paludato e dall' ampio gesto, un uomo privato, modesto e preciso nei suoi affetti. Anche a causa di questa dualità un fenon1eno vasto, forse l' unico confortante della nostra storia più recente, quale è stato il sorgere spontaneo di decine di migliaia di uomini contro l' oppressione nazista, corre rischio di non essere sufficientemente documentato» 1 2. Nel 1 955 Battaglia accennava alle conseguenze di metodo che derivavano dalla situazione descritta, sottolineando come andassero considerate importanti per gli sviluppi delle ricerche storiche sulla Resistenza le indicazioni che venivano, per esempio, da un lavoro di inchiesta come quello di Renato Nicolai sulla figura di Alcide Cervi, "I miei sette figli"13 : «Esistono i documenti della Resistenza da studiare, ma non dobbian10 farci prendere dal feticismo dei documenti. Chi di noi ha scritto quei documenti sa che in essi non vi era tanto la preoccupazione di accertare la verità, quanto uno scopo inunediato, propagandistico, di lotta, per cui si dicevano talune cose magari sottolineandole e se ne tacevano altre; non bisogna credere cioè che la storia della Resistenza sia inesplorata perché ancora chiusa negli archivi. Questo non è vero; è un errore gravissimo tanto più che poi hanno pensato i tedeschi a sfoltire notevolmente i nostri archivi. Su alcuni periodi della Resistenza, su documenti di intere formazioni, sappiamo poco. [ . ] Comunque il metodo usato da Nicolai non è quel metodo della testimonianza storica che tende ad espandersi in Europa occidentale, su esempio francese, cioè la raccolta storica raccolta in modo im­ passibile attraverso questionari e formulari che anche l'Istituto per la storia del movimento di liberazione in Italia ha cercato di preparare sul modello francese. Questi questionari, questi formulari inviati ai partigiani o non hanno avuto risposta o hanno avuto risposte generiche. Perché questo? Perché questo tipo di storia è un tipo di storia nuova, è un tipo di storia in cui il protagonista è il popolo, non è la persona che sa scrivere, non è una persona che sa fare una testimonianza scritta e organizzata logicamente. L' unica possibilità reale di scrivere questa storia è appunto di avvicinarsi ai suoi protagonisti autentici, alle masse popolari, su un piano che non sia quello del sociologo distaccato, dello scienziato che va a guardare con la lente come è fatto il contadino, ma quello di stabilire una collaborazione direi affettuosa tra chi interpreta e chi risponde. Questo è l' unico metodo per studiare certi fenomeni. Direi che al Nicolai riuscÌ, cosa che non è riuscita ad altri esperimenti, di penetrare attraverso il metodo dell'inchiesta veramente all' interno del movimento parti­ giano e di rivelare questa società contadina emiliana nei suoi aspetti più caratteristici [ .. ] . E un grande n1erito di Nicolai, dunque, quello di averci dato un esempio di inchiesta sulla Resistenza; ma è un esempio che finora è stato scarsamente seguito»14. Della mancata crescita di una robusta corrente storiografica che innovasse da questo punto di vista - cioè valorizzando al massimo la testimonianza individuale - il modo di fare storia della Resistenza (e non solo di essa) se ne pagano tuttora gli scotti politici e culturali 1 5. .

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1 2 Si veda la Prefazione, datata Roma, 1 5 dicembre 1 945, riportata in ROBERTO BATTAGLIA, Un uomo un partigiano, Roma-Firenze-Milano, Edizioni U, 1 945, pp. 5-7 (citazione da pp. 5-6). l 3 Roma, Editori Riuniti, 1 955. 14 R. BATTAGLIA, L 'Emilia nella storiografia della Resistenza, in ID, Risorgimento e Resistenza, Roma, Editori Riuniti, 1 963, pp. 238-239. 15 Le numerosissime citazioni di testimonianze orali dal solo volume di Alessandro PorteIli (Biografia di una città. Storia e racconto: Terni 1830-1 985, Torino, Einaudi, 1 985) fatte da Claudio Pavone in Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza (Torino, Bollati Boringhieri, 1 99 1 ) mi convincono ancora più di questo. Una ben più ampia ricognizione sulle testimonianze orali avrebbe giovato non poco a un tipo di ricerca come quella di Claudio Pavone.

v

Anche per questo mi è quindi sembrato utile portare a termine "Pagine di guerriglia", che resta nel panorama della storiografia italiana sulla Resistenza un' opera decisamente sui generis, tuttora ricca di problemi inevasi e da riproporre. Delle ricerche ingiustamente dimenticate

Se testimonianze dal basso e fonti orali hanno continuato ad essere considerate sino a tempi recenti da parte della cultura accademica ma anche da quella ufficiale di partito come cosucce di poco conto, tuttavia non sono mancate alcune ricerche sulla Resistenza che sin dagli anni cinquanta hanno fatto uso delle testimonianze orali. E sono ricerche ingiusta­ mente dimenticate. Una decina d' anni prima che iniziassi le mie ricerche sulla Resistenza in Valsesia - e l'ho ignorato sino a qualche anno fa, quando quel libro mi cadde per caso tra le mani, ma di esso localmente non vi era ricordo e mai l'ho visto citato dai nostri "storici orali" - lo scrittore e giornalista Silvio Micheli era stato incaricato dagli Editori Riuniti di scrivere un libro che ricostruisse le più inlportanti battaglie manovrate dalla Resistenza 1 6• Munito del proprio taccuino aveva fatto ricerche in Emilia, Piemonte, Liguria e alto Friuli, ricostruendo la liberazione di Cuneo, la battaglia di Fara-Romagnano-Borgosesia, la battaglia di Montefiorino, il salvataggio del porto di Genova, la battaglia dell' alto Friuli, un'impresa della valsesiana "pattuglia fantasma" (composta da Leo Colombo, Pietro Rastelli, Gini, Pischi e Martin Valanga). E si era trattato della prima ricostruzione di eventi resistenziali sulla base prevalente di testimonianze orali che venisse fatta in Italia. Questo libro era preceduto da un' interessante "nota dell' autore", nella quale Micheli ricostruiva il modo come aveva lavorato e le difficoltà che aveva incontrato. Debbo dire che se avessi conosciuto negli anni in cui cominciavo a fare ricerche sul campo quello scritto, esso mi sarebbe stato molto utile perché è ricco di osservazioni intelligenti. Ma le sue indicazioni erano - secondo me - soprattutto pregnanti in ordine a quanto poi ho teorizzato nel mio saggio introduttivo a "Pagine di guerriglia": la necessità, per una corretta riuscita del lavoro, che i protagonisti di quella storia partecipassero direttamente, in prima persona, alla studio scientifico della loro propria condizione e delle loro proprie esperienze e di 10ttaI7 . La "nota" di Silvio Micheli mette infatti in risalto quanto i suoi incontri con i partigiani (esattamente come i miei successivi) siano stati ricchi di importanti indicazioni per il giusto sviluppo della sua ricerca ed elaborazione. Ecco, per esempio, la descrizione di un colloquio con un testinlone, che pretende da lui - esattamente come hanno preteso da me i partigiani della "Volante azzurra", con ragione - un approfondimento di taluni nodi conflittuali e uno scioglimento dei dubbi sorti nel corso della ricerca, e che dà in questa direzione un sacco di indicazioni di persone che possono aiutarlo a farlo: «Per tracciare lo schema di quella lunga battaglia [dell' alto Friuli] - un vero nl0saico di mosse e di episodi [ . . . ] occorsero diversi giorni. [ . . . ] Se era vero che io avevo raccomandato precisione e coscienza, ora dovevo pregarlo di tralasciare certi rununamenti di secondaria importanza e natura. "No, no, - esclamava Ninci dal fondo delle sue scrupolose riflessioni -, non si può, non si deve". [ . . . ] E [ . . . ] non mancava ogni tanto di "dettarmi" una sua personale osservazione, un inciso, un rilievo in merito a quelle situazioni non sempre positive e chiare. [ . . . ] Non eravamo lì per analizzare e criticare, ma solo per dire ciò che realmente era stato se volevamo che il lavoro respirasse in un 'atmosfera sana e cordiale. "Lo so, lo so, - Ninci insisteva -, però sarebbe bene che a questo punto tu lo dicessi 16 SILVIO MICHELI, Giorni difuoco, Roma, Editori Riuniti, 1 955. La ricerca è stata effettuata con ogni probabilità a partire dal 1 953. 17 Si veda C. BERMANI, Pagine di guerriglia, voL I, saggio introduttivo.

VI

che noi . . . " [ . . .] Dove lo tonnentava un dubbio, m' imponeva di segnare a fianco dell' argo­ mento un punto interrogativo con la matita rossa, o un asterisco. "Scusa", mi diceva prendendomi di sotto la pagina. Voleva tracciarlo lui stesso. Malgrado il rispetto dimostra­ tomi in non poche circostanze, per certe cose non ci voleva molto a capire com'egli mantenesse verso gli scrittori di tutto il mondo un onnai incallito pregiudizio. Punti e asterischi, dicevo, che in un foglio a pmie richiamavano la pagina a precisazioni del genere: "Chiedere a Tizio - abitante a - mettiamo - Pontebba". Oppure: "Recarsi a - mettiamo Tolmezzo da Caio per farsi indicare dove abita Sempronio". Eccetera. I Tizi, i Cai e i Semproni da cui sarei dovuto recarmi per attingere notizie e infonnazioni attendibili, a un certo momento erano decine e decine. "Penseranno quelli di Udine a indirizzarti sui monti e nelle valli della Carnia, - mi disse ancora una volta. - Ma tu devi andarci, mi spiego?"» 1 8 . Ho intenzionalmente posto in corsivo una affennazione di Micheli che rivela il limite del suo lavoro, rivolto a ricostruire ciò che è stato senza sollevare discussioni e dubbi, scartando le cose non chiare di allora, come se tutto ciò non facesse anch' esso parte della realtà che doveva descrivere. È contro un' idea di storia che non vuole sollevare discussioni su quel passato - propria di tutta un' epoca e quindi anche del volume di Micheli - che io mi sono mosso. Ma la direzione me l'hanno indicata proprio i partigiani, perché - come nota ancora benissimo Silvio Micheli - «le contraddizioni costituivano la parte viva, la vita di quel conversare [ . . .] [dei partigiani]. Esse esplodevano spesso spietate e senza fine durante il racconto dei fatti vissuti. Tutta la stanza si empiva di voci, accompagnate da gesti anche violenti e le parole traboccavano, fiumi senz' argini. Cocciuto sulla propria verità, o memoria, ciascun partigiano si rivolgeva agli altri dal ciglio della sua posizione con una valanga di parole o d' inmlagini che davvero stupiva. lo li guardavo come si guarda il mare in una giornata di libeccio, perché soltanto allora veniva a riva tutto ciò che essi sapevano: ma che raramente erano poi in grado di ripetere a acque fatte calme e trasparenti. Mi dicevo: "Ecco com' è che tornano a essere veramente loro. [ . . .] Le contraddizioni nascevano anche per cose da niente: un nome, una località, una data, un fatto, un ordine non giusti o a mala pena messi in dubbio o contestati, si tramutavano di schianto in focosi dibattiti e poi a poco a poco in fastidiose inconcludenti lungagnate. Alle volte addirittura aspre e riprovevoli, ma sempre appassionate, vive, piene di vita come un cuore innamorato. lo ci stavo sulle spine, tutto considerato» 19. Né poteva essere altrimenti, perché le finalità politiche del volume di Micheli rispondevano ad esigenze esterne a quel gruppo e presupponevano una storia raccontata aconfli ttualmente. Mentre le indicazioni date a Micheli dai partigiani - da cui è possibile ricavare vere e proprie avvertenze metodologiche - erano state molteplici ma tutte in direzione di una storia che essi avrebbero invece voluto la più precisa possibile e quindi, se tale, anche conflittuale e contraddittoria. Di quelle indicazioni ne estrapolo qui alcune: «Sai, sono passati dieci anni. I fatti e le cose nessuno li cancella più dalle mente, ma le date. .. »2o. Tutti i ricercatori di testimonianze orali sanno quanto in genere esse siano poco attendibili per le datazioni degli episodi e quanto esse siano invece attendibili nei "vissuti". «Magari ce n'era sempre che tentavano in un modo o nelI ' altro di farci entrare altri episodi, sol perché a quegli episodi avevano partecipato. [ . . .] Altrimenti si scervellavano per individuare chi potesse fornirmi più ampi e precisi ragguagli a proposito di certe azioni 1 8 S. MICHELI, op. cit. , pp. 8- 1 0. 19 Ibidem, pp. 1 4- 1 5 . Anche qui il corsivo è mio, a volere sottolineare le difficoltà incontrate nell' impatto con una cultura che si esprime con modalità diverse dalla propria. 20 Ibidem, p. 8. VII

da loro accennate o non vissute. [00'] E qualcuno partiva sempre in cerca del partigiano più idoneo»21. In realtà questi generi di comportamento stanno piuttosto a dimostrare la convinzione che si può testimoniare solo su cose delle quali si abbia cognizione di causa; altrimenti non resta che indicare altri testimoni considerati da questo punto di vista attendibili. «Capitava che d' amore e d' accordo dessero ragione al vecchio appunto, ricco di particolari che rinfrescava loro la nlemoria. Ma capitava anche il contrario e capitava che per una sciocchezza fossero capaci di piantarmi lì per recarsi a destra e sinistra, spesso in borgate e paesi fuori città, per ritornare col tizio, testimone indiscutibile del fatto. E dove non era possibile reperire nel giro di breve tempo il compagno "che meglio di lui nessun altro poteva sapere", rimandavano tutto al giorno dopo. lo fremevo; bollivo dentro di me e tuttavia comprendevo che c' era poco da scegliere. Si trattava di cose in cui la fantasia, al massimo, per mio conto, andava messa in atto al momento di ridare vita con le parole alla stesura di quelle cronache. Ci voleva rispetto. Quindi anche pazienza [ . . .] Quante, quante volte mi capitò in quei giorni di ascoltare gente che a un certo momento, a cose fatte, sgattaiolava fuori come un diviso a buttarmi in aria il materiale già faticosamente raccolto e ritenuto definitivo. lo scattavo. [ . . .] Gente semplice quanto cocciuta e sanguigna, finita la pazienza tagliava corto con la solita irritante ammissione: "Be' , per me faccia pure come crede: però le cose non stanno così"» 22 . «Pareva un diviso che in occasioni del genere non uno dei presenti avesse vissuto l' episodio che nn stava a cuore. Quindi ricominciava la solita pioggia di nomi e di recapiti per rintracciare ogni volta il partigiano più idoneo. [ . ..] Gli altri avrebbero mollato. lo fra quelli. Non così i miei volontari accompagnatori. Paese che sono stato, e ne ho fatti in quei mesi per mettere insieme tante battaglie, li ho trovati tutti d' una stessa natura: non si davano mica per vinti ! [ . .] "Macché, macché - saltavano a dire: - questi qui non ricordano niente. Rintracciamo coso e vedrai". [ . . .] La verità non poteva scaturire dal racconto del primo incontrato» 23 . Avessero una simile coscienza del valore della ricerca della verità storica molti tra i nostri storici contemporanei ! Quanto a Micheli, aveva imparato in quella esperienza quanto è basilare in ogni valida ricerca su testimonianze orali ma soprattutto che «saper ascoltare non è semplice né facile. A ogni modo ci si può arrivare»24. Tanto dovevo riportare perché storici che non hanno esperienza di fonti orali potessero capire che non è retorica o esagerazione parlare di necessità, in un lavoro con utilizzazione di fonti orali, che i protagonisti partecipino direttamente allo studio scientifico della loro propria storia. Oltre al libro di Micheli mi sembra da ricordare anche la ricerca condotta da Raimondo Luraghi, sfociata nel 1 958 nella pubblicazione di "Il movimento operaio torinese durante la Resistenza"25. Del resto Luragln teneva presente le precedenti ricerche di Giorgio Vaccarino, che solo attraverso testimonianze orali era riuscito a ricostruire i gruppi politici del ' 43 , ancora incerti e fluidi, e le prime organizzazioni insurrezionali del movimento operaio torinese. E già Vaccarino aveva fatto una serie di annotazioni intelligenti sulle caratteristiche che avevano le testimonianze rese da chi continuava a militare in un partito operaio e da chi invece si era staccato dalla lotta di classe, sulla sovrapposizione .

21 22 23 24 25

1 95 8 . VIII

Ibidem, Ibidem, Ibidem, Ibidem,

p. 1 1 . pp. 1 9-2 1 . pp. 2 1 -23. p. 1 8.

RAIMONDO LURAGHI,

Il

movimento operaio torinese durante la Resistenza, Torino, Einaudi,

retrospettiva delle istanze e delle polemiche attuali sui fatti passati, sulla diversità delle deposizioni dei dirigenti dei partiti operai e dei militanti di base, sugli aspetti mitologici delle testimonianze. Per meglio comprendere la testimonianza suggeriva di risalire da essa alla storia stessa dell' individuo e allo studio del suo ambiente sociale e politico. E invitava a raccogliere le testimonianze - quando possibile - non troppo lontano dagli avvenimenti, perché «il decorrere del tempo giova assai più alla serenità dello storico che all' efficienza dei testimoni»26 . Ora però Luraghi spiegava che per il suo lavoro era stato necessario selezionare i suoi più di cento testimoni e invitava a non accontentarsi mai di un singolo testimone per stabilire una data circostanza, ma a interpellarne il più possibile, perché «è incredibile quanti tiri giochi la memoria agli uomini»27 ; e consigliava di «lasciar parlare il testimone senza inquietarlo con troppe domande che spezzano il filo dei suoi pensieri; le domande devono essere fatte in modo da stimolare, e non intralciare, la sua memoria. Mentre l'interpellato parla, è bene non limitarsi ad appunti saltuari, ma stendere un vero e proprio resoconto sommario delle sue dichiarazioni� quindi rileggerlo e correggerlo assieme a lui. Successi­ vamente si deve passare al confronto sulle dichiarazioni di più testimoni circa uno stesso argomento e con i documenti, se esistono: una serie di incongruenze non tarderà a mani­ festarsi. Bisogna allora avere la pazienza di interpellare i testimoni una seconda, e anche una terza volta, sino a che le varie circostanze siano ben chiarite, senza possibilità di equivoci. A meno che tutti gli elementi forniti dai vari testimoni e dei documenti si inca­ strino subito l'uno nell' altro, come i pezzi di un mosaico. Ma il caso è poco frequente»28 . Metteva inoltre in guardia contro la tendenza involontaria dei testimoni «a porre se stessi al centro della vicenda (bisogna cioè ristabilire il senso delle proporzioni) e [contro] la visione frammentaria dei fatti, senza capacità di collegarli, di uscire dal proprio ristretto angolo visuale»29; e alfine ricordava che «quando insorgano casi di divergenze tra uomini, è buona norma non dimenticare mai il precetto: audiatur et altera pars»30. In Battaglia, come si è già visto, in Vaccarino, in Micheli, in Luraghi c ' è quindi già lo sviluppo di una riflessione tutt' altro che ingenua sulle testimonianze orali . A mio parere, il loro uso era limitato soprattutto per il fatto che ancora si stenografava, appuntava, eccetera e solo l 'avvento del magnetofono ha poi permesso un uso ampliato e un ulteriore approfondimento critico delle fonti orali, come avrebbe sottolineato Gianni Bosio nel suo "Elogio del magnetofono" 3l . Ma non è questa una ragione per dimenticarsi di queste importanti ricerche. Storici contemporanei, africanisti, storici orali

"Pagine di guerriglia" affrontava senza infingimenti problemi che la storia accademica aveva da sempre rigettato. Anzitutto esso rappresentava una ricerca di storia sociale che prendeva atto del fatto che tra gli studi storici e l ' intero settore di studi antropologico/etnologico/etnografico/folklo­ rico non esistevano differenze fondamentali di oggetto, scopo, metodo e ribadiva, sulla scia di Ernesto de Martino e di Gianni Bosio, non solo il valore delle culture orali ma anche che «il materiale folkloristico può, per una mente storicamente orientata, ravvivarsi pur entro 26 GIORGIO VACCARINO, Il movimento operaio a Torino nei primi mesi della crisi italiana (luglio 1943-marzo 1944), Milano, Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, 1 953, p. 1 1 . 27 R. LURAGHI, op. cit., p. 305. 2 8 Ibidem, pp. 305-306. 29 Ibidem, p. 306. 3 0 Ibidem . 3 1 G. BOSIO, Elogio del magnetofono, cit., pp. 1 69- 1 8 1 . Lo scritto è datato Milano, ottobre 1 966.

IX

un particolare problema storiografico»32. Già per de Martino questa affermazione era stata una replica nel corso di una dura polemica33, sorta proprio perché i suoi lavori di ricerca andavano a toccare dei pregiudizi ben radicati all' interno della storiografia occidentale (e particolarmente vivi in Italia, dove la storia era stata perlopiù crocianamente concepita come storia delle sole classi dirigenti) in tema di cultura orale e di fatti folklorici, contro i quali sin dal 1 909 aveva polemizzato Arnold Van Gennep in uno scritto non casualmente mai tradotto in Italia: «Il fatto folklorico è di solito contrapposto dagli storici al fatto propriamente "storico". Essi rifiutano ancora, certo più per ignoranza tradizionale che per principio, qualunque fatto che non sia com­ provato da documenti considerati strettamente come storici. Ma se si analizzano da vicino questi documenti storici per distinguerli da quelli che sono detti popolari, si constata subito la parentela intin1a che hanno con questi ultimi. Il codice di Amn1urabi, scolpito su una stele, datato e firmato, è un documento storico, ma è sufficiente avere qualche notizia di diritto comparato (giurisprudenza etnologica dei tedeschi) per assicurarsi che Ammurabi non è l' autore ma l'editore di esso, che è una raccolta ufficiale di regolamenti e sanzioni elaborate nel popolo e per il popolo e trasmesse sin là di generazione in generazione. È per una sorta di suggestione accettata inconsapevolmente che gli storici e molti archeologi danno al docun1ento scritto o iconografico un' importanza superiore al docu­ mento orale. Le fluttuazioni della storia anche di periodi assai vicini come la Rivoluzione francese ci insegnano quanto meno la relatività di questa certezza continuamente riaffer­ mata. E ancor meglio queste fluttuazioni si notano nei commentari che si sono avvicendati su Erodoto, Strabone, Cesare, man mano che venivano fatte le scoperte archeologiche e c' erano applicazioni più estese del metodo etnografico. Di volta in volta le asserzioni di questi storici sono state considerate delle favole o delle verità. In particolare Erodoto l 'ha vinta di giorno in giorno. Ha raccolto alla rinfusa tradizioni locali, racconti di viaggiatori, leggende eziologiche, persino racconti popolari. E man mano che le civiltà del Mediter­ raneo orientale venivano riesumate, si aveva la conferma di queste tradizioni e queste narrazioni e queste leggende e questi racconti andavano a collocarsi in categorie ben note. Le relazioni di Pausania, le "Questioni" di Plutarco, parecchie allusioni di Tito Livio, hanno potuto essere a poco a poco capite grazie allo studio più approfondito dei "selvaggi" odierni. Persino i Germani, gli Slavi, i Celti di Tacito, di Strabone e di Cesare appaiono nella loro vera luce se si pongono in comparazione i loro costumi con quelli delle popolazioni moderne allo stesso grado di civiltà. Bisogna dunque tenere conto di questo: quando gli "storici" raccolsero il materiale delle loro opere, si comportarono esattamente come fanno oggi i folkloristi tra i contadini europei e gli "etnografi" tra i selvaggi. Erano dei "ricercatori" come Grimm, Afanasiev, Sébillot, Bastian, Doutté, Boas e Howitt. Il loro allontanarsi nel tempo farà delle opere di questi folkloristi e di questi etnografi dei documenti "storici"»34. Che Erodoto e Tacito non avessero conosciuto la dicotomia tra storia ed etnografia; che ancora Louis Michelet avesse affrontato e trattato la realtà storica secondo un' ottica essenzialmente etnografica, tanto da venire poi considerato da Lucien Febvre come l' antesignano della storia della sensibilità e della mentalità; che poi nel 1924 Marc Bloch, con "Les rois thaumaturges"35, avesse riacquisito alla riflessione storiografica la vita del 32

e ss.

ERNESTO DE MARTINO, Storia e folklore, in "Società", Roma, a. X,

n.

5, ottobre 1 954, p. 940

Si veda GIUSEPPE GIARRIZZO, Moralità scientifica e folklore, in "Lo spettatore italiano", luglio n. 4. 34 ARNOLD V AN GENNEP, La valeur historique du folklore, in lo, Religions Moeurs et Légendes. Essai d 'Ethnographie et de Linguistique, Paris, Societé du Mercure de France, 1 909, pp. 1 73- 1 75 . 33

1 954,

x

mondo popolare e le mentalità in esso presenti, ormai da tempo litenute di esclusiva pertinenza di etnografi, etnologi e folklolisti; che qui da noi Ernesto de Martino e Gianni Bosio avessero perorato e operato tra gli anni quaranta e sessanta per l' avvicinmnento di stolia e «studi sul mondo popolare e proletalio», come li avrebbe chiamati quest' ultim036: tutto ciò non era valso ancora in quegli anni a scalfire le "certezze" della stragrande maggioranza dei nostli stolici conten1poraneisti, legati con un cordone orrtbelicale alle sole fonti cartacee. Quindi il mio lavoro li interessò poco, mentre invece interessò gli aflicanisti e questo perché «è in Aflica il continente dove la memolia orale ha avuto una sua straordinalia esplicazione negli anni sessanta, in congiunzione con la crescita dello Stato indipendente. La stolia dell' Aflica degli anni sessanta - è stata un castello costruito sulla memolia orale; [ . . . ] a quell' epoca, dovendo gli stati aflicani neoindipendenti licostruire la proplia memolia stolica lifiutandosi di accettare quella (sclitta) coloniale, si è fatto uno straordinmio investimento su quello che si chiamavano le fonti, o meglio le tradizioni orali. La memolia collettiva e le tradizioni orali hanno dunque inaugurato la grande produzione stoliografica in Aflica negli anni sessanta. Sono le tradizioni orali che hanno legittimato la nuova stolia dell' Aflica, e non più la stolia degli Europei in Aflica, e sono state le tradizioni orali a "provare" la legittimità della licostruzione stoliografica nel continente aflicano. Attraver­ so le tradizioni orali la stolia dell' Aflica poteva finalmente essere licostruita anche in assenza di fonti sclitte. [ . . . ] [Questa problematica] ha marcato con forza gran parte della stoliografia del tempo, quanto meno quella più attenta ai temi delle nuove soggettività. La stolia dell' Aflica dunque poteva e doveva essere licostruita sulle fonti orali; se ci fossimo fem1ati all' indisponibilità delle fonti sclitte, perché inesistenti o solo coloniali in molte parti dell' Africa, avremmo negato un passato stoliografico a questo continente» 37 . È quanto ricorda Alessandro Triulzi, che mi mandò nel 1 975 una lettera nella quale tra l' altro si diceva: «Ho letto il tuo "Dieci anni di lavoro con le fonti orali"38 e ne sono rimasto entusiasta. Ho deciso così di scriverti, come compagno e come storico, o neo-tale che da anni sta lavorando su tradizioni orali anche se in un altro continente, l' Africa. Sono stato tre anni in Etiopia e ho svolto delle ricerche tra i Galla al confine sudanese-etiopico. Sto cercando di scrivere una storia dei Galla del Wollega nel 1 9° secolo servendomi di fonti orali e cronache locali. Una storia mai scritta perché si conosce solo quella ufficiale, della classe dominante Amhara e della dinastia salomonica. È un lavoro simile a quello che descrivi tu, in un certo senso, anche se lontano geograficamente. Insegno storia dell' Africa a Napoli e vivo a Roma. Tornato in Italia dopo cinque anni di assenza mi sto rendendo conto quanto simili siano i problemi e i pregiudizi sulla storia delle classi subalterne, siano queste in Italia o altrove, e quanto noi africanisti (che pensavamo di essere i soli, o quasi, a interessarci di fonti orali) abbiamo bisogno di storici militanti per una prospettiva storiografica diversa e un impulso e critica costanti»39. Debbo all' interesse che egli mostrava per la mia attività se il 17 dicembre 1 976 svolsi

35 Si veda ora l' edizione italiana: I re taumaturgi. Studi sul carattere sovrannaturale attribuito alla potenza dei re particolarmente in Francia e in Inghilterra, Torino, Einaudi, 1 970. 36 Su tutte queste problematiche si veda C. BERMANI, Storia e antropologia. Appunti di lavoro, in La cultura delle classi subalterne tra tradizione e innovazione, atti del convegno di studi, Ales s andria, 1 4- 1 6 marzo 1 985, a cura di Roberto Botta, Franco Castelli, Brunello Mantelli,

Alessandria, Edizioni dell' Orso, 1 988, pp. 1 7-2 1 . 37 ALESSANDRO TRIULZI, Dalla tribù alla metropoli: la memoria in Africa, in Atti del Convegno Internazionale "Il gioco della memoria ", Roma, 1 992. 3 8 Si veda "Primo Maggio", saggi e documenti per una storia di classe, Milano, primavera 1 975, n. 5, pp. 35-50. 39 AB, lettera di Alessandro Triulzi a Cesare Bermani, Roma, lO agosto 1 975 . XI

una relazione40 al Convegno internazionale su "Antropologia e storia: fonti orali", organizzato dalla facoltà di Scienze politiche dell' Università di Bologna (Istituto di sociologia - Istituto storico politico), occasione che permise per la prima volta di avviare contatti e iniziative organiche di scambio a persone che, da punti di vista diversi, si occupavano di culture orali. Nel giugno 1 977 Alessandro Triulzi scriveva un' introduzione a un libro fondamentale per gli studiosi di cultura orale, quello di Jan Vansina4 1 , che era stato negli anni sessanta il manifesto o carta programmatica della storia (orale) dell' Africa, nel nlomento in cui le fonti orali erano diventate «il presupposto indispensabile per ogni ricerca storiografica "seria" nel campo dell' africanistica»42. Mentre l' interesse di Vansina era stato prevalen­ temente rivolto alle tradizioni orali fonnali - cioè a «quelle che sono dichiarazioni riferite. [ ... ] Le testimonianze oculari, anche se trasmesse oralmente, non rientrano nella sfera delle tradizioni perché non sono dichiarazioni riferite»43 - in seguito altri africanisti avrebbero poi esteso l' uso delle fonti orali anche a reminiscenze personali, "storie di vita" e autobiografie, in una parola anche a tutti gli albi aspetti dell' oralità. Leggendo Jan Vansina ben dopo avere scritto il primo volume di "Pagine di guerriglia" e "L' oro di Pestarena" - addirittura nel 1 977 - mi accorgevo come lavori storici con protagonisti cosÌ diversi (Vansina aveva studiato i Bakuba e io i partigiani garibaldini della Valsesia), fossero approdati ad analoghe conclusioni. Scoprivo di avere in comune con Jan Vansina la lettura di Marc Bloch, Lucien Febvre, Arnold Van Gennep, la convinzione che la storia si fa con ogni tipo di fonte e che essa è la scienza della probabilità, ossia che «quando paragoniamo dei testi, quando li interpre­ tiamo, quando cerchiamo di capirli, ragioniamo sempre in termini di probabilità anche se in ogni caso ci sforziamo di raggiungerne il più alto numero»44. Inoltre, sebbene fossi ignorantissimo di storia dell' Africa, in quegli anni erano ancora vicini i processi socio-politici che Ernesto de Martino aveva definito come «irruzione nella storia del "mondo popolare subalterno"»45, dai popoli del "Terzo mondo" ai contadini del 40 La relazione - stesa assieme a Sergio Bologna - si intitolava Soggettività e storia del movimento operaio e voleva sottolineare la presenza di un filone di "stOlia nlilitante" che aveva accumulato una

grande esperienza per quanto concerneva l'uso delle fonti orali in storiografia. Poiché stava per decollare un nuovo ciclo di lotte del "movimento", la relazione avvenne a caldo e - come era ovvio, data anche la situazione in cui si svolse - l' accento cadde più sugli aspetti antagonisti della soggettività (che in quel periodo rappresentavano quelli di gran lunga più vistosi in quel "movimen­ to" con caratteristiche del tutto nuove rispetto ai movimenti del passato e richiedevano quindi un' attenzione particolare, essendo tra l' altro totalmente trascurati dalla storiografia accademica) che non su quelli di stereotipia e ripetizione dei contenuti soggettivi empirici (contro i quali quel "movimento" era in rivolta e rifiutava).Tuttavia poco prima della relazione mi fu consigliato da uno degli organizzatori di limitarmi a trattare di tecniche di rilevazione e di razionalizzazione delle fonti orali, evitando toni "militanti". Non tenni conto del consiglio. La relazione non venne pubblicata negli atti del convegno. Avevo però già provveduto a pubblicarla in anticipo in "Il Nuovo canzoniere italiano", Milano, Edizioni Bella Ciao, n. 4-5, marzo 1 977, pp. 7-36. Sul convegno di Bologna si veda ora GIOVANNI CONTINI - ALFREDO MARTINI, Verba manent. L'uso delle jonti orali per la storia contemporanea, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1 993, pp. 8 1 -84. 41 JAN V ANSINA, De la tradition orale. Essai de méthode historique, Tervuren, Musée Royal de l'Afrique Centrale, 1 96 1 ; edizione italiana: La tradizione orale. Saggio di metodologia storica, Roma, Officina Edizioni, 1 977. 42 A. TRIULZI, Introduzione all'edizione italiana, in 1. VANSINA, La tradizione orale, cit., p. 1 9. 43 1. VANSINA, Recording the oral history oj the Bakuba, I: Methods, in "Journal of African , History' , a. I, 1 960, p. 52. 4 4 Ibidem, p. 49. 45 Si veda al proposito E. DE MARTINO, Intorno a una storia del mondo popolare subalterno, in "Società", a. V, n. 3, settembre 1 949, pp. 4 1 1 -435 . XII

Sud, tanto che anch' io avevo affennato in un saggio introduttivo a due scritti di Amilcar CabraI, come si dovesse «sfrondare l' antropologia sociale da ogni residuo di europocen­ trismo e [ . . . ] liberarla dall' assunzione inconfessata di una qualche filosofia della storia, che spinge allo studio di società successorie e segmentali come se ci si trovasse di fronte a una sorta di preistoria contemporanea, a delle comunità e a dei modi di essere che rappresen­ tano già un passato, sebbene sincronico al! ' esistenza del! 'assetto imperialistico mondiale. Non diversamente vengono considerati interi gruppi umani, determinati strati sociali, alcuni mestieri nell 'ambito delle società capitalistiche. Va invece chiaramente affennato che gli Ibo in Nigeria e i pastori di Orgosolo, i Tallensi in Ghana e il contadino lucano, i Lugbara in Uganda e l' operaio milanese, i Kikuyu in Kenia e il mezzadro toscano, gli Nderrlba nello Zambia e l' arrotino valtellinese sono tutti parte del nostro presente»46. Era questa situazione, oltre al fondo teorico comune, a far sì che storici così diversi si sentissero in quel momento accomunati da medesinù problemi e per questo filùssero per dare all' elaborazione delle loro ricerche analoghe soluzioni. Vansina rivendicava infatti in modo rigoroso che le tradizioni orali costituivano una fonte storica primaria al pari delle fonti scritte e che, come queste, andavano accettate e valutate sottoponendole al vaglio della critica storica tradizionale. Esattamente quanto avrei poi sostenuto anch' io. Vansina respingeva il termine etnostoria sulla base della considerazione che «la ricerca storica in società senza scrittura non è differente dalla ricerca del passato in società dotate di scrittura solo perché si serve di dati tratti dall' archeologia, dalla linguistica, dall' antro­ pologia o perfino (nel caso di una datazione) da eventi astronomici quali le eclissi. E non c'è bisogno soltanto per questa ragione di forgiare un termine speciale, come quello dell' etnostoria. Lo studio del passato delle culture africane è storia, si serve dei metodi di questa scienza e giunge a conclusioni che hanno le stesse caratteristiche di ogni conclusione storica che sia stata fonnulata in altra sede. Ma perché sia storia, occorre seguire il metodo storico per quanto gravoso esso sia. In mancanza di ciò, nessuno scritto sul passato di queste culture può essere più di una semplice speculazione»47. Sulla base di analoghe considerazioni, io avrei invece subito preso le distanze dalla Oral History, considerandola come un'ulteriore compartimentazione accademica del sapere storico. Pur sapendo bene che importanza determinante possano assumere le testimonianze orali in molte ricerche, continuo tuttavia a pensare che la storia la si debba fare «per mezzo di tutto quello che l' ingegnosità dello storico gli consente di utilizzare per fabbricare il suo miele»48, senza rassegnarsi mai, tentando tutto e provando tutto pur di colmare i vuoti della documentazione. Vansina sosteneva che «non si dovrebbe mai assumere l' atteggiamento del detective che cerca di trovare la colpevolezza di un testo in modo da poterlo condannare. Gli stessi falsi e le distorsioni sono spesso non meno interessanti per la storia passata della verità»49. Anche la mia esperienza di lavoro sul campo mi portava a sostenere questo, cioè che gli uomini con cui avevo avuto a che fare in quella ricerca erano anzitutto portatori di "verità" storica e a volte anche di falsi, distorsioni, leggende e miti assunti come realtà, eccetera, anch' essi importanti da interpretare per ricostruire la "verità" storica; e in tal 46 Si veda C. BERMANI, "Costruire il socialismo mentre si combatte ": dalla comunità agricola primitiva al socialismo, in AMILCAR CABRAL, Cultura e guerriglia, introduzione e traduzione di

Cesare Berrnani, Milano, Collettivo Editoriale 1 0/1 6, 1 976, pp. 37-3 8 . Lo scritto è datato Milano, settembre 1 974-febbraio 1 975. 4 7 J. VANSINA, Recording the oral history oJ the Bakuba, cit., p . 53. 48 LUCIEN FEBVRE, Verso un 'altra storia, in ID, Problemi di metodo storico, Torino, Einaudi, 1 976, p. 1 77 . 49 J . VANSINA, Recording the oral history o J the Bakuba, cit., p. 49.

XIII

senso, per esempio, mi ero occupato già nel ' 67 del mito della "macchina rossa". Ma intanto in quella ricerca si dimostrava che, proprio sul terreno della ricostruzione degli avvenimenti fattuali, quelle testimonianze orali fissate ad almeno venticinque anni dagli avvenimenti erano assai spesso più attendibili delle fonti scritte coeve. Questo anche a volere tacere il fatto che, per una corretta ricostruzione di quel periodo, su molti problemi cruciali le testimonianze orali erano fondamentali perché non esistevano più i documenti scritti, distnltti nel corso di rastrellamenti e perquisizioni durante la guerra di liberazione o nel dopoguerra durante la repressione antipartigiana,. o anche perché di certe cose . non si era scritto per ragioni di vigilanza nel lavoro clandestino. Questo era ciò che emergeva con forza dalla mia ricerca come risposta ai problemi che fil ponevo. In seguito - in polemica con quegli accademici che negano la validità dell' uso delle fonti orali in storiografia - Sandro Portelli sarebbe giunto a proporre «la massima valorizzazione dell' inaffidabilità delle fonti orali, intesa come materiale da utilizzare: lo studio della soggettività si basa proprio sull'ipotesi che i testimoni non raccontino "la verità" o, meglio, raccontino la "loro verità" »50 . Sono convinto che dentro a ricerche diverse da quella da me condotta questo atteggiamento di massima valorizzazione dell' inaffidabilità delle fonti orali possa essere produttivo, ma nego che lo potesse essere nella mia ricerca, così come nego che possa esistere un documento di qualunque genere che non sia sempre e inevitabilmente portatore di una «propIia verità». Non è perciò qui che va cercata una delle diversità tra le fonti orali e le altre fonti. Inoltre Vansina si era preoccupato di «dare ai suoi lettori la possibilità di controllare ed even­ tualmente criticare la sua opera»5 1 , dando ampie indicazioni delle fonti usate, come avrei imperiosamente sentito anch' io di dovere fare mentre mi addentravo in un campo nuovo, a costo di dotare i miei scIitti di un apparato di note mastodontico. Curiosamente, il primo volume di "Pagine di guerriglia" non è invece mai stato discusso approfonditamente o anche solo recensito da parte di "storici orali", sebbene sia stato di recente indicato da Luisa Passerini «tra le opere più significative»52 sulla Resistenza italiana tra quelle che hanno fatto uso di testimonianze orali; e da Alfredo Martini come un lavoro che «valorizza il metodo di Bosio nella direzione di costruire un grande affresco informativo e, allo stesso tempo, di "segnalare" i passaggi significativi che i mutamenti della realtà e dei modi di essere collettivi determinano sulle forme espressive e sul patrimonio culturale di gruppi e società locali»53. Credo che ciò sia dipeso non solo dal fatto che quel mio volume era il frutto di una stagione precedente all' affermazione della nostra Oral History, il cui primo importante convegno fu quello di Bologna del 1 976, ma anche dal fatto che - a differenza di altre opere degli anni sessanta che facevano uso di fonti orali, per esempio le opere di Bosio o di Montaldi - esso ha avuto una scarsissima circolazione accademica, tanto che nelle università sono più noto come curatore delle opere di Bosio che non per la restante mia produzione storica. Tra l' altro in quegli anni i nostri "storici orali" erano su un terreno di ricerca dichiaratamente "anti-événementiel", mentre quel mio volume era teso non solo all' utiliz50 LUCETIA SCARAFFIA, Convegno sulle fonti orali. Torino, 1 7 gennaio 1 981 , in "Fonti orali. Studi e ricerche", a cura dell' Istituto piemontese di scienze economiche e sociali "Antonio Gramsci", Torino, a. !, n. l , settembre 1 98 1 , p. 32. 5 1 1. VANSINA, Recording the oral history of the Bakuba, cit., p . 5 1 . 5 2 Si veda LUISA PASSERINI, Storia e soggettività. Le fonti orali, la memoria, Firenze, La Nuova Italia, p. 2 1 6. 53 G. CONTINI A. MARTINI, op. cit. , pp. 86-87. -

XIV

zo delle fonti orali non formalizzate di andamento narrativo come punto di partenza per una ricostruzione storica interessata al dettaglio, cioè che si sforzasse pure di «cogliere la storia come realtà materiale»54, ma anche - come ho già detto - come punto di partenza per una attendibile ricostruzione di avvenimenti fattuali. Invece quel primo volume di "Pagine di guerriglia", come dirò oltre, ebbe un notevole successo nell' area della cultura militante di sinistra, cioè fuori o ai margini dell' università. Le recensioni

Alla sua uscita il libro ebbe relativamente poche recensionP5 e segnalazioni56.Esso interessò soprattutto i socialisti, mentre la stampa comunista lo ignorò totalmente e persino "Il movimento di liberazione in Italia", cioè la rivista dell' Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia non lo recensì. Non diversamente era successo per il nuo precedente volume, "L' altra cultura"57, la cui lettura può oggi dare un'idea panoramica delle problen1atiche politiche che stavano a monte di "Pagine di guerriglia", che - pur essendo stato uno dei libri prescelti per le discussioni dal gruppo di lavoro dell' Anno culturale Chianciano 1 970, che aveva per tema «L' analisi del potere e la ricerca dei poteri alternativi nella fabbrica, nella giustizia e nell'informazione»58 - non si ebbe sulla stampa che una segnalazione59 e una recensione60 , 54 HANS MAGNUS ENZENSBERGER, Letteratura come sto riografia , in "Il menabò di letteratura", Torino, Einaudi, n. 9, 1966, p. 1 2. 55 Pagine di guerriglia, in "Resistenza unita", notiziario mensile del Raggruppamento unitario della Resistenza e dell' Istituto storico della Resistenza in provincia di Novara, Novara, n. 1 2, dicembre 1 97 1 ; ELVIRA GENCARELLI, Ricerche sull "'altra " storia della Resistenza italiana, in "Mondo operaio", rivista mensile di politica, economia e cultura, Roma, n. 1 , gennaio 1 972, pp. 3739, ripreso da "Lettere ai compagni", mensile della Federazione italiana delle associazioni partigiane, Roma, n. 3, marzo 1 972, pp. 29-3 1 ; ALBERTO JACOMETTI, Cronaca spicciola della guerriglia, in "A vanti !", quotidiano del Partito socialista italiano, Milano, 2 febbraio 1 972; ETE STUCCHI, "Pesgu aveva il suo cuore nel campanile di Grignasco ", in "Il Corriere di Novara", Novara, 8 giugno 1 972, e, con il titolo Pagine di guerriglia, in "Risveglio ossolano", settimanale d'infonnazione, Domodos­ sola, 29 giugno 1 972. 5 6 M. Z. , · La guerriglia partigiana in Valsesia, in "Il Giorno", Milano, 5 gennaio 1 972; "Il Calendario del popolo", Milano, n. 328, febbraio 1 972, p. 3.299; "Panorama", Milano, n. 305, febbraio 1 972, p. l O; W. T., I testimoni della guerra partigiana, in "Avvenire", Milano, 2 marzo 1 972. Quando la Sapere fece un reprint del volume, uscì poi un' ulteriore segnalazione in "Paese sera", Roma, I l aprile 1975 . 57 C. BERMANI, L 'altra cultura. Interventi, rassegne, ricerche. Riflessi culturali di una milizia politica (1 962-1 969), Milano, Edizioni del Gallo, strumenti di lavoro/archivi delle comunicazioni di massa e di classe, 14 marzo 1 970. In quel volume diedi tra l' altro un' anticipazione di quello che sarebbe poi stato in fonna ampliata il XXVI capitolo di Pagine di guerriglia: "Il partigiano Andrei: un campione della 'guerra di corsa ' ", scritto nell' estate 1 967. 58 La giuria-gruppo di lavoro era composto da Nicola Badaloni, Pio Baldelli, Alberto Cirese, Tullio De Mauro, Franco Ferrarotti, Cesare Luporini, Corrado Maltese, Giuseppe Petronio (presi­ dente), Guido Quazza, Michele Rago, Tullio Seppilli, Giorgio Tinazzi, Bruno Torri, Cesare Zavattini. Scriveva Giuseppe Petronio: «La manifestazione "Anno Culturale Chianciano I: 1 970" è stata caratterizzata dal fatto che, forse per la prima volta in Italia, l' accento è stato posto non tanto su libri di carattere tradizionale, quanto su opere rappresentanti "l' altra cultura" : opere in gran parte composte dal collettivo; spesso non stampate, ma ciclostilate; raccolte di materiale documentario (inchieste, dibattiti, ecc.): il segno dell' esistenza in Italia di una "cultura" del tutto estranea a quella ufficiale» (in "Problemi", periodico binlestrale di cultura, Palenno, G. B .Palumbo, n. 24, novembre­ dicembre 1 970, p. 1 .032). La nota introduce la rielaborazione di due delle relazioni svolte al convegno, tenutosi dal 24 al 26 settembre 1 970: quella di Umberto Cerroni (Poteri alternativi e alternativa di potere) e la mia (L ' "altra cultura ") (si veda alle pp. da 1 .032 a 1 .043 e 1 .049). I libri prescelti per il dibattito furono undici. E sul mio libro vi fu pure una relazione di Gianni Bosio.

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quest' ultima apparsa nell' estate di quell' anno su l"'Avanti !" e dovuta a Alberto Jacometti che definiva il mio volume «leopardianamente, e quindi nel senso positivo, uno zibaldone», senza tuttavia entrare nel merito delle problematiche che esso proponeva. E questo aveva irritato non poco Gianni Bosio, che si trovava allora in vacanza in Sardegna e che mi aveva cosÌ commentato quella recensione in una lettera da Villasimius: «A parte la soggettiva stupidità, la recensione di Jacometti va al di là della disavventura e fa parte della rete di punti invalicabili che la vecchia cultura oppone a un discorso che la dimezza; cosÌ come il pastore sardo incendia la cultura della razionalizzazione capitalistica dell' agricoltura per salvare la speranza della propria sopravvivenza. Il risultato è pari e pat­ to, cioè nullo: bene che se ne sia parlato; male che se ne sia parlato in maniera incom­ prensibile. La faccenda dello zibaldone definisce, se ve ne era bisogno, J acometti, attaccato a una concezione idealistica dell' arte e dell' artista»6 1 . Alberto Jacometti era quindi la persona più lontana dallo spirito di un libro come "Pagine di guerriglia", cui peraltro dedicava un' an1pia recensione sulla terza pagina dell "'Avanti !", in cui si rifiutava l' esistenza di culture "altre" (n essi. In seguito non si era for­ malizzato sul fatto che in valle Anzasca i partigiani di Barbìs avessero sparato dentro la sua macchina per un errore. Da questo episodio non aveva insomma tratto motivo per evitare il contatto con i garibaldini e, anzi, si era sempre più rivelato come un uomo pieno di iniziativa, che ci teneva a essere onnipresente perché nulla sfuggisse al suo controllo. A volte questo suo desiderio di mettersi sempre in mezzo lo portava ad esporsi più del dovuto, soprattutto a rischiare di cadere in mano a dei provocatori. Era comunque un uomo tutt' altro che pavid054• 50 AB, Testimonianza orale di A lessandro Boca, cit., settembre 1 965, nastro 74. 5 1 Ibidem. Trad. : « non si permetta un'altra volta di fare quello che ha fatto perché io ammazzo anche lei». 52 Si veda il commento, precedentemente citato, di don Sisto all' episodio su un presunto ritiro di sentinelle durante la funzione religiosa al campo, raccontato da René Caloz. 53 Si veda AB, Testimonianza orale di Giacomo Grai " Giacomo " , in Incontro intervista tra comandanti partigiani, cit. 54 AB, Testimonianza orale di Vincenzo Moscatelli "Cino ", cit., nastro 1 74. Il giudizio sul coraggio del vescovo non è condiviso in AB, Testimonianza orale di Piero Fomara, Novara, 1 8 settembre 1 968, nastro 1 88 :