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Italian Pages 798 Year 1920
y\o'ra.
^
3RAZI0 LIRICO STUDI
GIORGIO PASQUALI
OPERA PUBBLICATA CON CONTRIBUTO DELLA FACOLTÀ DI LETTERE DEL
R. ISTITUTO DI
STUDI SUPERIOJÌI IN FIRENZE
1
>r^-
FIRENZE FELICE LE MONNIER 1920
4
pa
Proprietà letteraria riservata
ì
^
Firenze 1919.
—
Stabilimento Tipografico E. Ariani. (Ord. 2589).
ALLA PURA MEMOWA DELLO STORICO
ADALBERTO GARKONI CHE COMBATTÈ E MORI SENZA ODIO
PKEFAZIONE
Questo
libro
nou ha
forse bisogno
di prefazione
in principio e in fine di ciascun capitolo
ho detto
:
ciò
che in esso mi proponevo di dimostrare o credevo di aver dimostrato, assai chiaramente per ogni lettore libero da pregiudizi. Benché la mia opera sia venuta pili voluminosa che io non desiderassi, spero che non le i)ossa esser mosso rimprovero di mancare di unità chi la legga di seguito, docilmente, non corre rischio di smarrire il filo conduttore nonostante qualche giro :
e rigiro. Il
libro era tutto pensato e per
quando scoppiò
buona parte anche
guerra: durante la guerra continuò e finì la stesura, incominciò anche la stampa. Ma questa dovette ben presto essere sospesa per l'incertezza del mercato librario, i>er l'enorme aumento del prezzo della carta, che allora si credeva pjisseggero, per la scarsità della mano d'ojìera tipo-
scritto,
gratica.
La stesura
periodi di
non sospesa,
ma
frastornata da
cattiva salute dell'autore e da
militare sedentario, sere
fu
la nostra
ripresa
un generoso
solo
mn
gravoso.
nell'estate del
un
servizio
La stampa potè '11),
es-
e solo grazie a
sussidio concesso dalla Facoltà di Lettere
dell'Istituto di Studi 8u[)eri()ri in Firenze: e da allora
—
viri
—
in i)oi i)roce(lò lupidatiiciite. Xelhi revisioiie mi prestarono la loro opera volenterosa per la prima j)arte lina donna gentile ».
_ L' iiitcrjjretazione
commento
nel
questa
non da
« Perciò,
:
nie,
dipitro
Bassareo splendido
supplico,
ti
di
non
troppo in
giovinezza,
di
lungi
tieni
;
selvaggia,
cui
io
tengono
se e orgoglio vanitoso e ciarle
di
Chi intenda
ci
in
dovrà
così,
non dicono nulla
sia già stato detto
già troppo a lungo Orazio brietà, egli
formulata
e.
p.
sfrenatezza
segreti confidati ». ciie questi versi
confessare nulla che
con
l'ebrezza
amore soverchio
Vraditrici
coni' è
coiisucita,
Kiessling e Heinze, è a un dipresso
festeggiare
voglio
li
di
y)
nuovo,
di
questa stessa ode
ha vantato
i
:
pregi della so-
che pure non suole né ripetersi né indugiare comun pensiero solo. Né s' intende come i
mentatori possano vedere nominata o descritta l'ebrezza nei versi che ho trascritto, nei quali, per quanto a me pare,
menti la
si
parla solo del
sobrietà o
essi
il
corni e di timpani, istru-
tirso, di
che non hanno nulla a che fare con ubriachezza. E in qual modo spiegano
tutti di culto 1'
sub cUvom rapiam
?
Che anzi non
lo
spiegano e
traggono per lo più d' impiccio con espressioni
si
vaghe e
« Metonimia che sostipoco significative come questa tuisce il donatore al dono ». A me sembra che questo passo si possa intendere « Io non voglio prender parte alle processioni solo così :
:
orgiastiche in onor tuo, Dioniso al tuo volere di vizi». I
;
dietro
ai
;
un
tal culto è contrario
tuoi simboli
commentatori, costretti
cammina un
dalle
corteo
precise parole
Orazio a concedere ch'egli parla qui di un culto orgiastico, credono di spicciarsi poi di ogni difficoltà assedi
rendo che questo
culto
è
un' immagine,
e
quanto
ai
corni berecintii se ne sbarazzano con tutta faciUtà dicendoli tolti di peso dalle Baccanti di Euripide, che
erano già classiche ai tempi di Callimaco e che Orazio ha senza dubbio letto, tant' è vero che altrove (epist. I, 16; 73 sgg.) ne cita un verso. Il male è che qui Orazio
ma descrive un culto che quindi reminiscenze poetiche non hanno qui luogo, o, per meglio dire, possono al più spiegare la forma, non la sostanza. Se non fossero consernon
cita antiche opere letterarie,
del tennpo suo, e
vate
testimonianze
altre
che questo
pure indurre da esso che
in quel
passo,
dovremmo
tempo a Roma era
in
voga un culto dionisiaco
in cui
per così dire, cibelici
questo caso le parole di Orastesso valore di documento per
zio
avrebbero per noi
la
Roma
del
in
l6
suo tempo che
l'Atene dell'età sua. di processioni,
;
erano penetrati elementi,
quelle
poeta romano
Il
ci
di
Euripide
nelle quali istrumenti sacri erano portati
per la città a suono di timpani e di corni
in giro
ridisce al
veder celebrati nella sua
stranieri.
La
mystica,
spaventosa
Roma
;
di
vizi,
ai
occhi
suoi
dei vizi
in
inor-
culti orgiastici
turba fanatica, che teneva dietro alla
trasforma
si
per
parla con orrore
cista
una processione
che sogliono esser congiunti
con l'ebrezza. Il
dente
valore di questa interpretazione è affatto indipendalle
storia
la
dei
conseguenze che se ne possano trarre per culti romani, ne sarebbe strano che di
un culto orgiastico si
Dioniso nella
di
Roma
augustea non
riuscisse a scoprire altra traccia, giacché noi
sediamo
in
non pos-
questa materia tradizione che non sia fram-
mentaria. Eppure
caso
che noi impero un (alito orgiastico di Dioniso è attestato da molte iscrizioni (1). vServio c'informa che versi di Virgilio (ecl. V, 29) il
non aspettiamo. Per
i
ci
favorisce forse più
tempi più tardi
dell'
i
Daj>huÌ8 et Armeuias curru subiungere tigris instituit,
Dapbnis thiasos ìnducere Bacchi
et follia lontas intcxer^ iiiollilms liaBtas
(1)
I
I
passi sono indicati dal
Wissowa.
Heligion^, .103 sg.
_ alludono a Cesare constai
sacra
:
Liberi
4
-
hoc aperte ad Caesarem pertinet, quem patris
Fiomam.
tratistulisse
E
cy,v
adraiato in una grotta sulla
di
Ma
:
parole della profetessa nello Eumenidi (v.
aépco Si Nulicpag. sv5-a
ioxpaTYjYVjasv 9-eòg
corre pericolo
questo brivido gioioso.
Questo Dioniso ha altrettanto
sgjT;.)
tiaso,
nell'abisso.
del culto straniero orgiastico,
22
sublimi,
precipita dietro al dio nel tiaso
si
Altre
Baxxixà
òcvxpa
6),
So-
come
testimonianze raccoglie lo Stl'UNICZKa,
—
Ib
Roma, quanto le pure orgie Lo stesso poeta
in processione per le vie di
del poeta con l'ebrezza dell'uomo volgare.
potè scrivere l'ode a Varo e
canti dionisiaci.
i
II.
L'allegoria della nave
Se Orazio ha potuto
mosse da una citazione rito
14.
una sua poesia prender le cui egli ha inse-
in
Alceo, in
di
un'espressione sola, un'espressione, a dir vero, assai
caratteristica
suoi
è
I,
.di
Ennio,
ha potuto
se
comprendessero
lettori
questo un indizio
e
che
sicuro
far
gustassero
conto che
uomini
gli
i
tale tecnica, colti
della
Roma
augustea conoscevano bene non solo il poeta nazionale Ennio ma anche il lesbio Alceo. Eppure si suol
generalmente credere che Orazio abbia primo tra i Romani letto Alceo perfino uno studioso così dotto e di gusto così squisito come il Norden, ha scritto teste (1): « Nessun Romano prima di Orazio ha, per quanto sappiamo, letto Alceo e Pindaro ». Eppure qualche riga sotto egli giudica così l'arte di Orazio nelle Odi: « La ;
sua tecnica consueta (come già quella degli Alessandrini, p. e. di Teocrito 29 e quella di Catullo 51, 56, che deriva da tali modelli) consistè nel prendere a prestito motivi, ch'egli colloca a guisa di motto in principio e svolge poi
più o
meno originalmente
».
Come
due osservazioni ? Un motto può
si
accordano queste
eccitare
un determinato
sentimento solo in colui che abbia presente all'animo il contesto da cui esso è preso. Noi moderni sogliamo an-
(1)
Einl.
i.
d.
Ah.-Wiss.,
I,
504.
— Cora aggiungere
al
17
motto
—
di
sperare che
il
mentre diamo l'aria
la citazione esatta, e,
facciamo pompa della nostra erudizione, lettore riscontri
il
ci
libro citato. Orazio
invece non poteva neppure ricorrere a questo espediente nell'antichità persino la
nonché che
in quei
tifica
letteratura prosastica
la poesia, evita di citare
che
tempi uso
letteraria.
A
una
di
che
:
più alta,
esattamente, com'era anfilologia piuttosto
fine,
scien-
dunque, avrebbe Orazio
Roavessero saputi quasi a memani del suo tempo non moria, quasi così bene come il loro vecchio Ennio ? E già Catullo ha non tradotto ma trasformato, non so se con intenzione, una poesia, sia pure la poesia più celebre; di Saffo, ha rivestito di versi celebri la confessione del suo amore (1), ciò che non avrebbe potuto fare, se non avesse avuto ragione di supporre che quei versi erano a Lesbia altrettanto familiari quanto a lui. Anzi, com'avrebbe egli potuto chiamare Lesbia la sua amata, se non fosse innestato nel suo canto versi di poeti lesbici, se
i
li
sicuro che tutta la cerchia per la quale scriveva,
stato
avrebbe subito inteso quel nome ? E poco importa che noi non riesca di stabilire se questi giovani Romani amanti di arte greca abbiano qui in Roma in comune letto per la prima volta carmi lesbii, se li siano forse
a
i
spiegare
fatti
già
nella
dalla Latina Siren, o se
Verona un grammatico
sua
glosse lesbie e versi lesbici;
conoscenza è certa. Né letteraria,
che
a
io
comunque
Catullo abbia fatto
imparare
acquistata, quella
posso credere che l'educazione
le letture di
un fanciullo romano
dell'età
augustea siano state molto diverse dall'educazione e dalle letture di un giovinetto
di
Cesare e poi
(1)
11
naiiiente 2
di quella
WiLAMuwnz, (il
Sappilo u. Simonidex, 58-, ha trattato più
ogni altro di questo carme.
ti-
— greco contemporaneo
(1).
18
—
Si consideri
appunto
la tecnica
Catullo e di Orazio, e se ne rimarrà convinti.
di
Questa tecnica del « principio-motto » è stata osserin tempi recenti, e non poteva infatti essere scoperta, prima che non fosse scomparso il pregiudizio, qualche anno fa ancor più diffuso che non ora, che Orazio fosse un Alcaeus dimidiatus come Virgilio un di-
vata solo
La concezione
midiatus Homerus. zio
che
difendo,
io
si
è
dal giorno che la scoperta di di
di Oraqualche modo strada
dell'arte lirica
fatta in
alcuni versi di un epodo
Archiloco mostrò che Orazio non ha nei Giambi, nonché
tradotto
minate,
il
Parlo, neppure tolto da esso situazioni deter-
ma
solo imitato
il
tono e
lo stile (2).
Già
lo studio
Varo conferma che a un dipresso lo stesso si deve dire anche delle odi, come hanno già veduto, per citare solo alcuni tra i maggiori, il Reitzenstein, il Wilamowitz, il Norden (3). L'analisi accurata, quale ce la dell'ode a
siamo proposta, delle servati
riscontri
determinare
nella
poesia
quali sono con-
le
lesbia,
giova tuttavia a
più precisamente, quale sia stata la rela-
zione tra Orazio e
(1)
altre odi, per
i
suoi modelli, com'egli abbia conce-
Quintiliano discute seriamente
dei vantaggi
e
dei pericoli
per l'educazione morale che presenta nella scuola la lettura di Alceo;
sembra dunque supporre che essa fosse consueta
:
X,
1,
63 Alcaeus in
parte operis aureo plectro vierito donatur, qua tyrannos insectatns mnltum etiam moribus confert, in eloquendo quoque brevis gens
et
plerumque oratori
ribua tamen aptior. pitoli nella quale
similis, aed et lu8it et in
et
magnificus
et
dili-
amores descendit, viaio-
Però questo periodo fa parte di una
serie
di ca-
sono nominati anche scrittori che in quel tempo
certamente nessuno leggeva più, cosicché sarà più prudente astrarre
da questa testimonianza. (2) Cfr. Leo, de Archilocho et Horatio, progr. di Gottinga, 1900. (3) Al Noi?i)EN nuoce tuttavia quel pregiudizio che ho pur dianzi combattuto.
— pito la sua
dipendenza da
-
19 essi,
come
si
accordino queste
derivazioni con V uso larghissimo ch'egli presi dalla poesia
modo la
e
che
in
quali mezzi tecnici
con
materia tolta da
all'ode di
ellenistica,
altri.
La
dei
fa
egli
abbia trasformato
nostra ricerca
rivolge ora
si
ritiene imitazione più servile di
si
Alceo, a un'ode per la quale,
motivi
qual misura e in qual
come
fin
un carme
d'ora occorre
confessare, la formola « motto » è insufficiente e inade-
guata. Il
carme
I
14 è
stato
spiegato allegoricamente già
dagli antichi commentatori, dai quali attinge Quintiliano
Kukula
^VIII, 6, 44). Soltanto in tempi recentissimi R.
(1)
ha osato negare il carattere allegorico di questa poesia, che secondo lui è un vero propemptico indirizzato alla nave sulla quale Augusto nell'anno 30 compiè la traversata da Samo a Brindisi e ripartì poi 27 giorni più tardi per le Cicladi e l'Asia Minore secondo il Kukula il poeta ha scritto o fìnge di aver scritto l'ode nell'intervallo tra due viaggi. L' ipotesi è attraente, tanto più che Svetonio {Aug. 17, 3) ne informa che la nave che portò Augusto da Samo a Brindisi, aveva perduto il timone e una parte dei cordami attraente ma errata. Innanzi tutto nei ventisette giorni Augusto avrà avuto e, se non cura di far riparare la sua nave ammiraglia :
i
;
;
gli
fosse
per qualsiasi ragione riuscito, ciò che
non è
immaginare, di farvi mettere timone e gomene avrebbe fatto il viaggio su di un'altra nave siccome, a quel che narra Svetonio, egli era partito per r Italia con tutta una squadra di navi, e solo una parte di esse era andata perduta nella bufera, non avrebbe avuto altro imbarazzo che quello della scelta. Che quegli ch'era ormai il dominatore onnipossente del mondo,
facile a
nuove,
(1)
:
iViener Studicn,
XXXIV,
1912, 237,
-
ao
-
da Brindisi su una nave che faceva acqua, ne qui giova richiamarsi a una è congettura assurda più alta verità poetica. Orazio cadrebbe nel ridicolo, se dicesse mal ridotta una nave rimessa a nuovo o parsia partito
;
due navi diverse come se fossero una sola(l). E può incominciare in tutte le ma o 7iavis, referent in mare te novi fuctus niere fuorché dobbiamo forse immaginare che una nave, che voleva appunto uscire dal porto in mare, avesse poi timore di ciò che voleva (2) ? fortìter occupa p>ortum suona ben altrimenti che r E'JTiXooc opjjLGv Ixoizo di Teocrito VII, 62, che è un augurio benevolo, mentre la frase oraziana fa piuttosto l'impressione di un ammonimento severo, cui l'o quid agis? premesso aggiunge ancora forza; s'j-Xoo: opiJiov IV.oito, lasse di
poi un propemptico
;
così parla chi considera solo in generale
navigazione
una nave e
fortìter
;
può
che neppure lo scoglio
l'
interpretazione del
i
indicano anche secondo
per meglio dire,
marosi.
Kukula
dell'allegoria, tant' è vero
sollicitum qiiae miìii taeditcm,
o,
pericoli della
vede
un momento, un bastimento che in
solo a
riferire
vicinanza del porto combatte con
levis
i
esclama chi
in pericolo: occupa e l'azione di
fortìter si
il
occupa portum
che
Il
peggio è
riesce a evitare le
parole nuper
nunc desiderium curaque non lui una « nausea morale »,
riferiscono piuttosto alla situazione
si
di
Au-
pur sempre preferibile l'antica interpretazione
alle-
politica generale che
non
alla
nave ammiraglia
gusto.
E (1)
fosse
non
Dalle
parole
menzione
di
del
Kukula
un viaggio
e
di
parrebbe che nelle nostre fonti
una nave determinata,
ciò che
è.
(2) L'interpretazione che
bligo morale
errata
;
di esporti
da quando
tura etica
?
in
alla
il
Kukula dà furia della
([ua yéXtozx
non hai l'obdubbio contiene una sfuma-
del v. 15 « se
tempesta
ócpXtaxavetv
»
è senza
~ gorica. Così
ha inteso
pure respirava
~
'lì
nostro carme Quintiliano, che
il
la stessa aria intellettuale del nostro poeta.
Orazio stesso accetta altrove stoici d'interpretazione
(epist.
I,
2)
i
metodi cinico-
che possono ben
omerica,
dirsi
simbolici, giacche riducono gli eroi a rappresentanti di di-
La nave
versi generi di vita.
pretata
così
che, in
qualunque
modo
fonti
a
già
dallo
di
Alceo
Pseudoeraclito
tempo
ellenistiche
;
sia
(fr.
18) è inter-
{Probi,
vissuto,
liom.
attinge
e riesce difficile
a
5),
ogni
immaginare
che la Stoa si sia lasciata sfuggire un'occasione così bella di annodare considerazioni morali a un testo classico. Orazio avrà dunque letto Alceo in un'edizione commenche
tata, letto,
anche per
gli sarà stata indispensabile
il
dia-
avrà trovato in essa V interpretazione allegorica, e
dalla poesia di Alceo intesa allegoricamente avrà tratto
r ispirazione
di
questo carme.
Coir interpretazione allegorica molte difficoltà scompaiono immediatamente. Il poeta sta sulla riva e guarda il mare tempestoso. Una nave, ridotta male dalla tempesta, è pur riuscita con grande stento a giungere quasi alla
onde si
bocca del porto, la ricaccia
di
ma una nuova un tratto verso
furia di vento e di l'alto
mare.
Orazio
rivolge alla nave: « Perchè non resisti con più tenacia
Se non perduto
riesci il
?
ora a entrare in porto, tu sei perduta. Hai
timone, l'albero
travi, che, prive
è
acqua le tenevano strette,
spezzato, fanno
ormai delle funi che
le
non hanno più forza di resistere ai iiutti. Le vele sono lacere, le immagini degli dei tutelari sono state spazzate via dalle onde. Per quanto fatta di legno di pino pontico, per quanto nobile e celebre e quantunque ridipinta di fresco, è difficile che ti salvi una volta respinta di nuovo in alto mare, sarai zimbello dei venti. Tu che mi fosti pur dianzi ragion di disgusto, che eri ora la mia ;
cura e
il
mio amore, guai a
te se capiterai nei labirinti
-
2-2
-
Ponto è menzionato perchè il miglior legno per navi veniva di lì, senza che per questo vi sia bisogno di pensare a una leniiniscenza del celebre rocciosi delle Cicladi
phaselus catulliano phaselus ante saepe sibilum
fiiit
:
!
». Il
trucemve Ponticiim simun, uhi
cornata silva;
ediclit
coma.
Che
nam
iste
post
Cytorio in iugo loquente
anzi la reminiscenza
mi pare
esclusa da considerazioni stilistiche. Orazio avrebbe guastato l'efTetto del suo carme, richiamando alla
memoria
un lusus, uno scherzetto poetico. Le Cicladi sono nominate in questa poesia, perchè gli stretti tra r una e l'altra erano noti per pericolosi e fors'anche perchè erano state spesso cantate dai poeti ma non si può dire se Orazio alluda a un passo determinato di Alceo. In simile modo egli menziona altrove l'Egeo (e. Ili, 29, 57): non est meum, si mugiat Africis maliis j^^'oceldei lettori
;
ad miseras preces decurrere et votis pacisci, ne Cypriae Tytum me biremis riaeqiie merces addant avaro divitias mari praesidio scaphae tictum per Aegaeos tumultus aura feret lis,
:
Pollux. Il Ponto e le Cicladi sono nominati con speciale riferimento alla nave il sollicitum taediinn, il « disgusto inquieto », che esprime bene lo stato d'animo di Orazio negli anni che seguirono Filippi, quand'egli
geminiisque
;
non voleva più in
sentir parlare di politica e di politica era
fondo più appassionato che mai,
allo
stato
meglio
il
ciò che è
si
attaglia meglio
nave alla nave conviene desiderium, perchè non si può desiderare se non assente cura è detto bene di ambedue. Un
romano che
alla
;
;
tale conflitto di epiteti è inevitabile in qualsiasi allegoria.
L'
immagine corrisponde così bene alle condizioni romano (1) negli anni immediatamente pre-
dello stato
(1)
Chiedere con
il
KtiKULA ad Orazio, qnale
rappresentato dal rottame, è temerario
mente risposto
:
ree
Romana.
;
il
i^artito sia
per lui
poeta avrebbe probabil-
cedenti e seguenti alla battaglia di Azio, che riesce diffìcile datare il carme. In quegli anni lo stato romano sembrò spesso essere finalmente sul punto di entrare in porto, e fu di nuovo respinto in alto mare e sbattuto
pensare
onde.
Si
della
lotta
ultima tra
zioni
contro
dalle
suol
al
momento
dello scoppio
Ottaviano e Antonio, e
le obie-
presentate recentemente dal
questa data,
Hoppe
sono tutte di molto valore. Il Hoppe (1), non nega a ragione che l' immagine della nave convenga a una guerra esterna, ma non si accorge poi che la lotta tra Ottaviano e Antonio fu soltanto formalmente considerata tale. Certo, è verissimo che la guerra si dichiarò all' Egitto (2), che Ottaviano trionfò dell' Egitto, non di
Antonio ma questa concezione, che era quella ufficiale, doveva servire a imprimere il marchio di traditore sulla fronte di Antonio, che secondo essa sarebbe passato al nemico e infatti la segue nella descrizione dello scudo di Enea Virgilio, che voleva appunto bollare il tradimento di Antonio. Ma anche la partecipazione di un ;
;
naviglio
straniero
nell'opinione dei più
quella lotta era le si
guerra non
alla
carattere di
il
poteva trasformare guerra civile, che in
Da ambedue
principale e l'essenziale.
il
romani senatori romani erano dichiarati favorevoli ad Antonio e si erano ri-
combattevano
parti
(1)
N. Jahrb.
(2)
Dio, L,
3
spyw 8è
àTiicpYjvav,
d.
f.
4,
cittadini
(làXXov
nóXiiiO'j avxixp'jc; èmrjyyeiXav. Kpo7zoXé\xf.oi.
è7io{Y,aav, xy'ivtov
xaxà xò
ànsp kou
èxs'.vev.
cp:oavxo,
xw
xfj
5' "Avxo)vi(p
l'osprosaioiie del llitto
1
6,
4,
npcg
4,
4
xf^
Xóy':>
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I^èv
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KXsoTiixpx xòv
5ià
xoù
Ka'.aapog
w? xal
xr,v
5"^{^e/
xotoDxov
Koi.iiK (Uerm., XI. IX,
ad Antonio.
Antonio)
KXsonàxpav spyw 8à oOv KXsonixp-/. 5ià xxOxa xòv
|i.èv
|i£v
è
ànéSsigav.
ó irpò; xo 'Evostov èXO-óvxs; Tiivxa xx
vo|ii^ó|Jisvov
XóycjJ
1912, 693 agg.
xs (oggetto
Ti&Xs|Ji.tóv
Tiavxòg
XXIX,
Alt.,
hi.
;
èizrffys.t.Xci.^.
19U. 290\
di
cpvjxiaXio'j
v.al Tipòg
'Av-
tcóXeiìov è'^ri-
Imprecisa è
un Laudo
iu-
—
24
fugiati presso di lui. Orazio stesso,
qui le idee della corte o per lo
il
meno
(juale
rappresenta
della cerchia che
si
raccoglieva intorno a Mecenate, dice altrove chiaramente
che quella guerra fu una guerra
civile.
Quale altro senso
hanno
infatti le parole dell'epodo
IX,
1 1
emaneipahis feminae
fert
valium
Romanus ìieu {poet arma miles
steri negabitis) et
spadonibits servire rugosis potest, interque signa {turpel) mi-
conopium ? In che consiste l' ignominia che legioni romane combattono in servigio
litarla sol aspicit
se di
non uno
in ciò
stato straniero
gusto e
la
Nò gioverebbe
?
supporre che Au-
sua corte abbiano in tempi diversi concepito
forma giuridica di questa guerra l'epodo è stato probabilmente scritto (1) durante il blocco, che precedette la battaglia di Azio, e Dione (L, 8, 5) ci conferma che anche prima di quella vittoria l'opinione pubblica di Roma giudicò così. Velleio, regnante Tiberio, diversamente
la
;
considera quella battaglia
quando Augusto
Roma,
tornò a
finita vicesimo
la
pena
post
tutti,
amia
come
bellum
narra
fine delle
Actiaciim
guerre
;
Alexandrinumque
egli, si rallegrarono,
bella civilia (II, 89).
civili
Ma non
perch'erano vale neppur
di ricercare l'eco del giudizio della corte
augustea
nello storico o nel poeta, quand'ancora ci sono conservate le
parole di Augusto stesso. Corrisponde a quelle
norme
guardingo principe osservò per tutta la vita, che egli ancora nelle res gestae non chiami la guerra di Azio altrimenti che guerra di Azio (25, 3) iuravit in mea verba tota Italia sponte sua et me belli, quo vici ad Actium, ducem depoposcit. Qui egli non aveva interesse a mettere in rilievo che la coniuratio si riferiva a una guerra tra cittadini e cittadini. Ma dove si vanta di
cautela che
il
—
di
aver posto termine alle guerre intestine, egli ha
raggio
di scrivere,
(1) Gir.
:
il
co-
senza per vero nominare espressamente
sotto p. 38 sgg.
— Azio (34):
ubi civU]ia exstinxeram
b[e,lla
per consensum
Bomani arbitrinm
senatus p)opnlique
in
(1),
rerum oynniiim, rem puhìicam ex mea
universorum potitus potestate
-
-25
transtuli.
Qui ubi exstinxeram dev'essere congiunto strettamente con transtuli: «Appena io ebbi spento le guerre civili^ resi aj senato e al popolo il potere, di cui conforme al volere sovrano della nazione mi ero impadronito » :
non
può unire
si
bella civilia
quest' ultima proposizione
riferire
perchè non
Cesare,
di
sori
con
potitus
si
exstinxeram
al castigo
e
degli ucci-
può ammettere che Au-
gusto dichiari di essersi attribuiti poteri straordinari proprio
quando
il
pericolo più grave era scomparso
(2).
Questa concezione ufficiale e cortigiana della guerra contro Antonio ha anche solido fondamento nel diritto pubblico romano. Antonio non venne dichiarato hostis publicus solo perchè, come Dione osserva con bella preci-
non ce n'era bisogno, prevedennon avrebbe abbandonato Cleopatra non valeva la pena di deliberare l'odiosa messa al bando, dal momento che si vedeva chiaro ch'egli nel bando sarebbe da sé stesso caduto. Da quando Vabrogatio gli tolse il carattere di magistrato, egli aveva la scelta tra due partiti, dei quali non si sa dire quale sione di linguaggio
già di
dosi
(3),
che egli
sicuro
:
fosse
peggiore
il
o sciogliere
:
a discrezione a Ottaviano,
(1) 1
supplementi
o
il
suo esercito e arrendersi
seguitare a comandare le
sono assicurati dal
confrouto della verniono
fireca (2) Il (3)
L,
MoMMSKN 6,
1
IO)
dà l'interpretazione
5' 'Avxu)v((|)
chiarazione di K'ierra) O'Yjao'.xo
(o'j
Y^P
^^'->
où8=v
a'j|iPxvxog,
àvs'.Xsxo.
xaxà
xyj^
(cioè
niente di-
^'j
xai PouXó|i=voi xai aùxò zob-zo TipoasYxaXéaat :ix{ag 7ióX£|xov ixfov
ictoOiov
T^ £i5óTcC OTt xai aXXojj tioàsjkoìxììvkjv xòl toù Kaiaapog ;:patx6'.v £|ieXXs)
sti/^yY^^'-^'^
Ti^oio'ìq,
jjinsta.
8^ft^ev
oi, òxt
xòv uirèp xfic Aìyu-
Tia-piSoc;, |jiy,5£vò; a->x(ì)
SsivoO oixc{>'£v
ìSJqt.
—
"Ìiìi
souo
con istituzioni
italico dell' istituzione augustea.
che
che carica di ricchezze e di onori, senz' una ragione la vita nella
ha trattato
egg.), a cui uoii
Staat der Ilaìiker, 44 sgg., 92 sgg.
contrapposta
precede; epicureo b
61
relazioni storiche
le
fondamento
di appendice
bua in arditi». L'ode,
e uelle proviucie
(Bleiiesserae,
oraziani né
Rosknbkhg,
in pih chiara Ince (2)
Roma
Dei sodalicia iuvenum iu
sfuggiti né
8tH8
resto è oraziano e ro-
il
(2).
egregiamente
cria
tutto
;
Anche di al
seu mae-
Alceo
:
gente
mondo passò
stata nell'antica Grecia; quo
con quel che segue rendono testimonianza deiranu>re moderno per la campagna, del sentimento nostal-
pinna
ingene
albaqite
populua
—
—
104
VII.
Orazio imitatore di Alceo? 1.
L'esame accurato di quelle odi di Orazio per le quali hanno riscontri nei frammenti di Alceo, mostra che quegli non ha mai né tradotto ne parafrasato questo, ma che o ha preso da esso solamente lo spunto, il motto, si
gico che spinge a fuggire dalla città grande. Pure in quest'ode così
moderna spunto
:
è forse inserito
uno spunto
Orazio, scrivendo huc vina
amoenae ferre iuhe rosae, dnm atra
ricordò forse di
si
Tatg òuo3-ufit8àg Ttg, (fr.
36
:
i
V.
y^Bìidxw
All'
sororum
[làv Tiept
fila trinvi patiuntur
Talg Sépaiai mpd-izu) ^Xéx-
àSu
[l'jpov
1-2 sono stati cougiuuti con
tamente a ragione).
non più però che uno et ninmim irevia flores
unguenta
ree et aetas et
tkXX' àvV^xo)
xa5 Ss
aleaico,
et
i
v.a.x
tw
ai-qb-soq &[i\ii
seguenti dal Bergk, cer-
aneto Orazio ha sostituito la rosa, che è per
Eomani il fiore del convito (cfr. Hehx, Eulturpflanzen^ 255 sg.), come mostra anche l'ode ultima del primo libro mìtte sectari rosa quo locorum sera moretur, ha schivato di descrivere il modo come si i
,
sarebbe fatto versare addosso
l'
unguento, certo perchè
gli
spiaceva
minuta di un' azione molle. Ma gli unguenta, così rari in lui, fan pur pensare ch'egli derivi qui da Alceo. Nimuiin brevis res, come a me pare, romano, che flores è già di nuovo ellenistico non sarà plurale né vorrà dire generalmente le circostanze, ma si dovrà la descrizione
;
intendere nel senso concreto di patrimonio, ricchezza sei ricco e
godi, finché
:
giovane e la Parca te lo concede. Le strofe seguenti sino
alla fine sono di tati dal poeta
nuovo specificamente romane, romani
ma
posseduti dal ricco Dellio
la casa in città e la villa sul
Tevere
;
i
romano
non invenmontani e
lo spettro dell' erede,
che l'obbligo morale, che ognuno ha, di trasmettere
ma non
e
bei pascoli
il
capitale, usu-
mi pare rispecchi l'ordinamento gentilizio di Roma, che esige che la ricchezza rimanga nella stirpe. Anche ìnfima de plebe pare schiettamente romano. L' identità del motivo tra omnes eodem cogimur, omnium versatur urna seritis ocius sors exitura e la quarta strofa dell'ode romana III, 1 aequa lege Nefruito
intaccato, intero a chi vien dopo,
—
105
—
per passar subito a cantare romanamente sentimenti ignoti all'età del
Lesbio
;
o anche,
ma
raramente, ha composto
su argomenti cantati già da Alceo carmi di tal fatta che ricordassero al lettore dotto la poesia corrispondente,
non
però simile, del poeta antico, Orazio ha preso spunti non
da Alceo ma, coni' è noto, anche da Anacreonte ha scritto, non soltanto da vecchio, carmi che nello stile vogliono arieggiare Pindaro e che portano in fronte come motto la traduzione di sentenze del vate tebano ha inserito ai suoi carmi parole celebri di Ennio. Pure uè antichi ne moderni lo dicono imitatore di Anacreonte, di solo
;
;
Pindaro,
di
Bacchilide,
maggior parte sere anteriori
di
Ennio.
Ha
rielaborato
nella
non possono esall'ellenismo; eppure nessuno lo chiama delle poesie motivi che
seguace e continuatore della poesia
ellenistica, o dei con-
tinuatori romani della poesia ellenistica, dei vswxepoc. scritto su
Ha
argomenti romani odi romane, in cui né un
pensiero né un sentimento né un'espressione potrebbero essere stati pensati, sentiti, espressi in tal modo se non da un cittadino romano dell'età di Augusto; nessuno lo vanta poeta originale. Come si spiega questa parzialità di giudizio ?
Ne ha si
forse colpa
l'
interpretazione poco precisa che
suol dare dei passi di Orazio nei quali egli parla del-
omne capax movel urna nomen fornisce ima riprova. Dunque una reminiscenza da Alceo in un carme Anche la peuultinia che vuole e riesce bene ad essere moderno. strofa dell'ode per il ritorno di Augusto dio et argutae properet Seae. rae murreum nodo cohibere criuem vuol forse richiamare Alceo 4(5 xéXop,a£ Ttva xòv x°'P^-'''c* Mévwva xdXsooat, ai XP^Ì oi)[i7ioaiag èn' òvaatv £|Jioi YeyévyjaO-ai. Ma Alceo non ha certo aggiunto »i per invisum mora ianiiorem fiet, abito, che la pazienza non fu certo la virtìi principale di cavalieri le8l>ii, e quel che segue non può essere stato sentito e detto eesaitas aortitur insignis et imos,
forse
—
da
altri
che da Orazio.
i
— l'arte Il
vale
sua;
pena
la
più importante e
primo
lil)ro.
Orazio
di
accuratamente.
ponderarli
più chiaro è nell'epistola 19 del
il
si
^
106
lamenta degli imitatori
e in
primo
luogo di coloro che lo avevano preso troppo alla lettera: dal giorno ch'egli aveva condannato un genere di arte che sapesse più di acqua che di vino, poetucoli romani avevano preso a inebriarsi giorno e notte. Dal deridere lo scimmiottamento di esteriorità di nessun valore i
Orazio passa a poco a poco a dileggiare la pedissequa imitazione letteraria: rupif larbitam Timagenis aemula lingua, « larbita, per volere superare
cioè
:
zie,
cui
decipit
non era nato, rovinò
exemplar
vitiis
Timagene
se stesso »
cioè
imifabile,
ammirano
:
(1).
nelle face-
E
più oltre
un esemplare
« di
che è naturale saltino più facilmente agli occhi, ed imitano quequodsi pallereni casti, biberent sti ». L'esempio aggiunto exsangue cumìnum mostra che Orazio, ancorché enunci la
degno d'imitazione
essi
solo
i
difetti,
:
massima tori si
in
modo
generale, pensa a se stesso
gli imita-
:
studiano di riprodurre quelle peculiarità dell'arte
sua delle quali egli
si
è
ormai spogliato,
le
quali
egli
pems, ut mihi saepe bilem, saepe iocum vestri movere tumuUus; l'operosità incomposta degli imitatori, dei suoi imitatori gli mette addosso un po' rabbia, un po' voglia di ridere. Chiunque legga ora condanna:
o
imitatores, servom
queste parole, intende subito che seguiranno versi nei quali il poeta contrapporrà l'originalità propria alla servilità degli imitatori; e infatti
vacuom
viene appresso:
posili vestigia princeps, non aliena
qid sibi fidet, diix reget examen.
meo
libera
pressi
per
pede
;
Con queste parole Orazio
rivendica a se stesso l'originalità piena, cosicché esse non
(1)
Nou
che fingono
si
di
devono prendere sul
serio autoscliediasmi di scoliasti,
sapere che, per imitare Timagene, larbita, a furia di
sbraitare, scoppiò.
—
107
—
potrebbero in alcun modo conciliare con la confessione suoi imiche il poeta dipenda da modelli greci, come tatori da un modello latino. La costruzione stessa del si
i
periodo seguente Parios ego lìrimum iambos ostendi Latio, numeros animosque secutns Archilochi, non res et agenda
Lycamhen mostra che anche nella mente del poeta ho introdotto per primo nella poesia latina i ritmi di Archiloco, e ho cercato di riprodurre il tono del poeta Parlo ma ho scelto tutt'altri argomenti ». Poiché non vi sarebbe ragione di dubitare della veracità di Orazio, anche se non ne avessimo le prove, si potrebbe ricavare da queste parole che egli, come per il primo (che gli esperimenti isolati di Catullo non contano) ha ripristinato in luogo del senario, adattamento geniale di un ritmo greco alle leggi di accentazione e alla melodia caratteristica della lingua latina, il trimetro ionico originario, dando ad esso colore schiettamente archilocheo, non tragico o comico, così
verba
la proposizione ultima è la più importante. « Io
;
pure
non
si
sia studiato di riprodurre in
lo stile, di
di questo
Archiloco, ed abbia
al
generale
il
tono,
ma
più preso dai giambi
qualche spunto, senza seguir mai ne per intero
ne da vicino un carme determinato. Pure una conferma non sarà inutile la porge il ritrovamento di un epodo :
nuovo
di
Archiloco
Orazio nell'epodo di Archiloco, dello,
ma
riducendo
dell'odio contro
in
un papiro
X abbia
sì
preso
le
mostrando come mosse da una poesia
(1),
abbia trasformato del tutto l'espressione
il
suo mo-
appassionata ed ingenua
un amico, che Archiloco, poiché ha
tra-
dito la santità dell'amicizia, vuol vedere naufrago e schiavo
un propemptico in tutta regola per un nemico letterario, dove non manca neppure la promessa consueta di un sacrifìcio alle Tempeste, se non
di barbari Traci, a
1)
lierliner Sitzu)if}»berichte,
1899, 857 spg.
— già lo salvino,
ma
ha mutato ogni sce quasi più
riodare
Leo
e
lo
lo
108
mandino
particolare,
sì
— in
egli riproduce di
;
ma
stile
solo
il
poeta romano non si riconoArchiloco non già il pemalora.
che
Il
la poesia
tono generale, animos.
Il
ha tentato con buon successo la prova anche per quelli epodi, per cui o non sono conservati riscontri si hanno solo in frammenti, e ha dimostrato che Orazio ha anche preso l' idea dell'epodo II da Archiloco (fr. 25) ma che ha mutato il metro, sostituito al falegname Charon la figura caratteristica dell' usuraio, trasformato le lodi dell'agiatezza modesta nell'elogio della vita campagnola; che insomma svolge motivi quali non poterono venire in mente ad alcuno prima che si formassero città veramente grandi, prima cioè del periodo ellenistico. Parimenti l'epodo VI contiene sì un richiamo a un vanto archilocheo sv S' ÌTiirjxo!.\i.ca (jLsya, xòv Vwaxw? jxs òpwvxa (Ij
Sévvoc? (2) àvxoL^ti^zod-aLi xoLxolq (fr. 65),
ma
nel resto le mi-
nacce contro gli obirectatores non hanno di la poesia del Pario altro
che
la la^^ixri
lòéoc
comune con e
;
così gli
epodi VII, IX, XVI, pur riproducendo la situazione, con-
come
sueta al più antico giambo del
poeta che, oratore o araldo,
alla più antica elegia, si
presenta a parlare
dinanzi al suo popolo, sono tuttavia poesie romane, derne,
imitazione. e più
in
originali,
E
cui
chiaro è anche che negli epodi XIII e
XI neppure
ancora nell'epodo
ma
che
mo-
nessun particolare è frutto la
ca|jLi3i>c7j
di
XIV
'Mfx,
è
forma stilistica, in contrasto singolare e bello con la forma metrica, eh' è ancora per metà giambica, sono prettamente conservata,
gli
argomenti,
il
tono e
la
lirici (3).
(1)
De Horatio
(2)
E
et
strano che
ArcMlocho ci aia
dente della parola corrotta (3) Il
Leo
,
Gottinger
Programm
1900.
ancora chi ricusi questa emendazione evidiivoìg.
dice, troppo ristrettamente, elegiaci.
-
109
—
è non solo seciitus arte della sua anche equo estimatore sincero .... non res et agentia verba Lycamhen ricordano, ne la coincidenza sarà fortuita, la dichiarazione che Callimaco mette in bocca al suo Ipponatte redivivo nel proemio
Dobbiamo dunque riconoscere che Orazio
ma
:
dei coliambi ÒLziùovxoi.
lunghi
« Io
:
torno al
Bo'jTTaÀs'.ov
xTjV
tratti
(fr.
mondo
cpépoy^ Ta|ji^Jov
où
\i^ót:/r^'^
Ora dopo la scoperta un papiro di Ossirinco
90).
dei coliambi in
di (1)
possiamo far la riprova e scorger con gli occhi nostri che Callimaco ha di Ipponatte la forma metrica, non altro, non lo spìrito che Orazio riconosce di avere da Archiloco, numeros animosque.
Orazio dunque contrappone se agli imitatori e si vanta di essere stato originale, poiché di Archiloco
a voce alta
ha
solo lo spirito e la
forma metrica. Segue ac ne me quod timui mutare modos et car:
foliis ideo hreviorihus ornes,
minis artem
temperat Archilochi
:
musam
jjede
mascida Sap-
pho, temperat Alcaeus, sed rebus et ordine dispar, nec soce-
rum
quaerit
quem
famoso Carmine
versibus oblinat afris, nec sponsae
nectit.
La
laqueum
dottrina esposta in questi versi,
non facile (2), va messa in rilievo maggiore che generalmente non si soglia. Con queste parole Orazio, checché ne dicano gli interpreti, fa fronte alla teoria comune già nelle scuole (3) al tempo di Aristotele e da questo acerbamente combattuta nella Poetica (1447 b y sgg.), secondo la quale il genere letterario è determinato dalla forma esterna, in ispecie ritmica. nei particolari d' intendimento
(1)
Oxyrh. Pap., VII, n. 1011.
Il
fr.
90 ricoiupare nei versi testé
scoperti. (2) Salto è,
secondo me, detta pede mascula, appunto perchè ha
attinto ad Archiloco ritmi tutt* altro che femminili. (3)
che, p. e.
Non
com'è
c'è ragione di credere che Orazio ahl»ia letto la Poetica, noto, è stata nell'antichità molto meno' ])opolare clie
la Retorica.
non
—
Ilo
Orazio non
un
riconosce a
criterio
valore ed asserisce l'originalità
bene conceda che
di
così
alcun
esterno
Saffo e Alceo,
seb-
dipendono da Archiloco quanto ai ritmi (1). Così ritoglie in certo modo con la sinistra quel che aveva dato con la destra: di Archiloco egli ha gli
e
spiriti
i
essi
ma
ritmi,
l'originalità, tant'è
i
ritmi
non importano nulla
al-
vero che nessuno sosterrebbe imita-
tori Alceo e Saffo, i quali pure hanno preso i loro ritmi da Archiloco. Continua con htinc ego, non alio dictum prius ore, La-
immemorata ferentem ingenuis dove volgavi non può significare « tradussi », come non lo significa mai nella lingua latina dei buoni tempi, ma solo « resi noto, più noto ». Orazio rese Alceo popolare, scrivendo carmi che lo richiamavano alla memoria; già la pubblicazione stessa tinus
volgavi
fidicen
;
iuvat
ocidisque legi manihusque teneri
;
meliche latine doveva invogliare
di poesie
sfogliare
carmi
i
di
Alceo, ai
quali
somigliava nei ritmi, in alcuni spunti d'ora, nello
a
^[^rpic,
stile.
anzi
;
i
a
lettori
poeta nuovo
il
e,
diciamolo
Orazio non accenna qui in alcun
ri-
rasfin
modo
contemporaneo, che giungeva a questi
il
versi fresco della lettura del passo su Archiloco, doveva,
non messo
sull'avviso,
necessariamente
intendere
che
Orazio era originale rispetto ad Alceo come di fronte ad
Archiloco
e le parole
;
che vengono subito dopo, imme-
morata ferentem, non potevano se non confermarlo in que-
intende
(1) Egli
Heinze, che
i
Lesbii
senza dubbio, come spiegano bene Kiesslinghanno preso dai giambi e dai trochei di Archi-
loco gli elementi costitutivi della strofa alcaica e safQca, e sulla teoria varroniana,
consueta di ordine, quale e vuota
;
su cui v. sopra p. si
29.
fonda
mi pare troppo vaga
legge nei commenti,
io interpreterei rebus et ordine peduin
si
L' interpretazione
:
Alceo è diverso da
Archiloco negli argomenti e nella disposizione degli elementi ritmici
comuni ad esso con
lui.
sta interpretazione.
non
ego,
E
didum
alio
Ili
-
giacche tutta la proposizione hunc
prius ore, Latinus volgavi fidicen fa
perfetto riscontro a Parios ego
primum
ionibos ostendi Latio,
giacché anche nei versi su Archiloco Orazio aveva concesso di derivare da esso quanto ai ritmi,
dere che
le
parole
dobbiamo
cre-
che anche qui confessano in certo
modo una dipendenza, si riferiscano ai ritrai. Orazio dicit Alcaeum, non alio didum prius ore, perchè ne riproduce i
non per
ritrai,
poesia la parte
E
altro.
poiché
lettore antico,
il
nella
concludererao noi
più iraportante, egli,
corae avrà concluso
non sono
ritrai
i
sente pienamente
si
originale.
Che
il
metro non
per
sia
Orazio ribadisce nell'ode 32
Latinum,
barhite,
non istrumento,
se
lui
primo
del
Carmen Lesbio primum
libro
:
age
modulate dvi.
die,
Al-
ceo ha per primo intonato raelodie sue su quelle stesse
corde eolie sulle quali Orazio suona ora canzoni romane lesbia è la cetra, cioè lesbio
il
cpwvàsaaa
Non
metro,
il
ma
roraano
principio ispirato a Saffo 45 àye ^(ho'.o,
ma
dissimile è
roraani il
vanto
i
5r]
canto
il
-/ìa'j
olà
;
(l); \io'.
sensi. di originalità nell'ode
ultima
prima raccolta gloria di Orazio è princeps Aeolium Carmen ad Italos deduxisse modos. La parola deducere può significare o detorquere o pungere, o derivare o comporre; della
:
passo dipende dal significato di
la retta intelligenza del
A
prima vista
aspetterebbe piuttosto Aeolios modos ad Italum deduxisse Carmen, « aver ridotto a poesia
modos.
italica ritrai eolii »,
«
si
avere rivestito
di
ritrai
eolici
una
poesia latina»; e quasi fosse scritto
così, interpreta la
Ma
Orazio ha scritto e
maggior parte
(1) al testo
.310»;
L'ode assai
dei commentatori.
ò del resto sia
controversa
quanto all'interpretazione sia (luauto Wh.amowitz, Sappho n. Siinonides,
(cfr.
Rkitzknstein, Uh. Mns. LXVIII, 1913,
L'5l
sgg.).
— voluto altrimenti
:
di nmneri,
pecles
-
112
modi non è dunque qui sinonimo di non indica il metro o il ritmo, come
pure altra volta in Orazio
(I),
ma
Non
prio di melodia o modulazione. bia,
già che Orazio ab-
a essere cantate e
in generale, destinato le sue odi
abbia musicate egli stesso
le
sta nel senso più pro-
(2);
ma
giacché ogni lingua
ha la sua modulazione, la sua melodia particolare, così, carmi latini di Orazio pur rimanendo eolio il ritmo, i
suonano ben differentemente dalle liriche di Alceo. modi sono dunque
vanta dunque
melodie latine, suoni
«
aver composto
latini ».
Itali
Orazio
meloanche questa volta di non dipendere da Alceo se non nel ritmo e rivendica a se
si
di
in ritmi eolici
die latine, asserisce cioè
stesso l'originalità
A
(8).
giudicare più precisamente quale sia
tra Orazio e Alceo, della
la relazione
quale sappiamo solo che non
a determinare qual
nome secondo Orazio
fu
[j,c[xrjat?,
le
spettasse, giova, più che le disquisizioni teoretiche o
i
vani/i del poeta,
un passo
dell' epistola
stesso
a Floro, nel quale
argutamente e anzi un po' malignamente il modo di agire con lui di un emulo non benevolo (epist. II, 2, 87 sgg.). « Qui a Roma, un tempo due fratelli, egli tratteggia
giureconsulto l'uno, retore darsi
l'altro, si
a vicenda lodi smaccate,
(1) Epist.,
I,
3, 12, fidibusne latinis
sì
erano accordati per
da uguagliarsi
l'
un
Thebanos aptare inodos studetì
« tenta di adattare alla poesia latina ritmi pindarici? »
;
epist.,
I,
19,
27, nel passo trattato dianzi, quod tinud mutare modos et carminis artem, « che sono rimasto fedele ai ritmi e al tono di Archiloco ». (2) Solo il
cantato
:
e
il
carme secolare fu evidentemente
passo nupta iam dice»
:
'
ego
dis
per essere
scritto
aniicnm
saeculo fesias
modorum vatis Horati (e. IV, 6, 41 sgg.) induce a credere che Orazio ahbia composto egli stesso la musica.
referente luces reddidi carmen, docili»
(3)
Poiché
« ridurre ritmi a
'
melodie » sarebbe concetto assurdo,
deduxisse è usato qui nel senso di aver composto.
I
— l'altro a si
Gracco
sottraggono
mento essere
e a
—
113
Muzio Scevola;
neppure
così
alla pazzia delle società di
i
poeti
mutuo incensa-
La storiella dei due fratelli ha tutta l'aria meno vera che il fatterello toccato al poeta, ».
di
non
di cui
avranno riconosciuto quei due altrettanto facilmente quanto l'emulo di Orazio: carmina compono, hic elegos: mirabile visu singolare rilievo, che il caelatumque novem Musis opus Orazio si compiace un po' ironicamente di dare alla finitezza del lavoro, fa subito pensare a un imitatore o a un questi
si
appresta subito
a
parlare
e
;
i
lettori
;
continuatore della poesia ellenistica, a un Alessandrino
osservanza stretta. Segue la descrizione del singoiar certame, a cui i due erano scesi in una sala di declamadi
zioni.
L'uno e
recitano le loro poesie
l'altro
cum spectemus vacuam Romanis
adspice primiim quanto
(v.
92 sgg.):
fasfu, quanto molimine circum-
vatibus
aedem
;
mox
etiam,
si
forte vacas, sequere et procul audi, quid ferat et quare sibi
nectat uterque coronam.
mimus hostem v. 93, tutto
lento
caedimur
et
totidem plagis consu-
Samnites ad lumina ptrima duello.
formato com' è
di
Il
spondei tranne nel quinto
ha suono davvero gladiatorio il dispondeo di cirdue versi, e il pesante vacuam Romanis accrescono ancora l' impressione di mole schiacciante. I leggieri dattili del v. 95 mox etiam, si forte vacas, sequere et procul audi esprimono bene la curiosità premurosa dello spettatore; e il ritmo grave di lento Samnites, la forma arcaica duello ridanno solennità alla chiusa. Chi legge, s'aspetta che un duello di tal genere non possa finire se non con la distruzione di uno degli avversari. Segue invece discedo Alcaeus puncto illitis, ille meo quis? quis nisi Callimachus? Il duello non era se non una finta, che doveva fornire occasione al riconoscimento vicendevole dei meriti dei due poeti contendenti. Il lettore ripensa necessariamente, non senza un sorriso, ai due piede,
;
cmnspedemus, diviso così tra
8
i
— fratelli
cipio.
compari
i
:
—
erano messi
Orazio è
lirico
Il
si
114
il
di accordo sin da prinsecondo Alceo; l'altro un Cal-
limaco redivivo. Chi può aspirare perzio
(1),
egli
si
nome
non Pro-
se
Mani
di
Filita e di
contenta del vanto
di
aver rinnovato l'elegia
timenti, l'adoratore
Né
al
l'alessandrinissimo cesellatore di versi e di sen-
ma
alessandrina,
dei
vuole avere risuscitato
Callimaco?
la ionica, essere
un Mimnermo redivivo si plus adposcere visus, fit Mimnermns et optivo cognomine crescit. Orazio però, pronto di buon :
grado a sobbarcarsi a qualsiasi fatica nello scrivere pur di tenersi buona la genia irascibile dei poeti (la botta va diritta a colpire la sensibilità eccessiva di Properzio), non si rassegna poi a subire con volto sorridente letture di versi freddi e a piaggiare
Di tutto
il
il
versaiuolo declamatore.
passo importa a noi principalmente che
collega di Orazio, pur di essere riconosciuto
il
quale Cal-
limaco e
Mimnermo
nome come
Alceo; importa Voptivnm cognomen, che mostra nome di qualche an-
di
novello, concede a lui senz'altro
il
poeti aspirassero allora al
i
tico, aspirassero cioè
a soppiantarlo.
non
Properzio,
a imitarlo
ma
a pareggiarlo e
grande ammiratore
di
Calli-
maco, non l'ha imitato se non nel lavoro sottile dello stile, che quegli non ha mai cantato il suo amore in elegie (2) eppure, se crediamo ad Orazio, volle essere un se;
condo Callimaco. Quest'uso o questo programma poetico è già ellenistico, già callimacheo
:
Callimaco in principio di
coliambi, che di Ipponatte non hanno ne le res né gli animi, finge se stesso Ipponatte redivivo (3); il proemio
(1)
Che Orazio
si
faccia qui beffe di Properzio, è stato osservato
già da gran tempo, ed è anzi ormai l'iaterpretazione corrente. dimostrato che (2) Lo Jacoby {Rh. Mus., LX, 1905, 38 sgg.) ha nessun poeta ellenistico ha mai composto elegie sui propri amori. quale si mostra nel (3) Un Epicarmo convertito alla concisione,
papiro di Hibeh
(cfr.
ora Cronert, Rerm., XLVII, 1912, 102) è
tilt-
— come
degli Altea narra
vero
poeta
al
sulle pendici dell'Elicona appar-
Muse,
le
-
115
pronte a rispondere
domande intorno alle come un giorno avevano sue
«
cause
»
vello Esiodo
;
le
42), così
rivelato la loro sapienza al pa-
Esiodo. Callimaco rivendica a sé
store
a tutte
(AP. VII,
vanto
il
di
eppure, giacché scrive in metro e in
no-
istile
diverso, non si può dire che abbia preso dall'antico se non qualche glossa e il xpÓKoq, nel senso generalissimo nel quale questa parola è posta nell'epigramma, cui Calli-
maco 5ou
stesso
TÓ
compose
in lode del
àzio\ia yj£: b tpórco?.
t'
Ma
poema
Arato
di
'Haió-
:
Arato, pur essendo più
non Callimaco, quanto non se ne 1' uno e l'altro poemi didasca(che Callimaco, col narrare di sé stesso una visione
simile ad Esiodo che
discostai Pure, scrivendo lici
simile a quella esiodea, dichiara gli Altea lico),
poema
didasca-
vollero l'uno e l'altro eguagliare Esiodo. Callimaco
procede anzi un passo più in
là e asserisce
che Arato è
più dilettoso a leggersi che non Esiodo stesso, che è cioè
non
solo
Sou tó JAY]
t'
un Esiodo nuovo
ma un
àeca|ia xal ó zgÒTZoc,
•
'Haeó-
:
òy.^é(ù
xò [leXr/pótatov tòjv sTréwv ó IioXz^jq àTiejià^axo.
Orazio attesta dunque qui era diffuso al suo scussi, gli
Esiodo migliorato
où tòv àotoov £a)(atov, àXX'
mostra
tempo
Ennio, come
;
che questo ideale di arte che abbiamo già di-
in passi
di seguirlo egli
Alessandrini? Porse
antichi.
;
più
dicono
stesso. Imita
certamente i
critici,
e
i
egli
in
ciò
Romani più come Orazio
quantunque con un po' di mala grazia, fu già un alter Homerus (epist. II, 1, 50). E infatti Ennio stesso nel primo libro degli Annali aveva cantato come, cupa ombra piangente, il vecchio Omero gli era apparso in sogno per rivelargli che nel petto di lui era passata stesso riconosce,
t'
altra cosa: qui
cui compila.
il
compilatore scompare dietro
ai
poeta antico da
-
116
-
l'anima sua e per comunicargli
la
sapienza più riposta.
da Omero non già quale imiseguace, ma quale pari o successore, non già tatore quale Omeride ma quale Omero novello e proclama a
Ennio
si
fa riconoscere qui
;
un tempo ad alta voce che la poesia, che la letteratura romana non traduce o imita, ma continua e sostituisce quella greca (1). Ennio proclama se stesso Omero rinato in un sogno che fonde insieme la visione di Esiodo e .
quella
Callimaco,
di
così
come
il
suo
poema
è per lo
altrettanto ellenistico quanto omerico, così come sua in genere non torna in dietro di secoli e se-
meno l'arte
ma
quanto di nuovo avevano portato gli anche più recenti, mostrandosi così non imiAlessandrini coli,
profitta di
vera continuatrice dell'arte greca. E forse omerico, non alessandrino il sogno di Ilia? è omerica, non schiettamente romana la figura dell'amico di Serviho Ge-
tatrice
mino
?
ma
Romana
è la figura qual' Ennio la tratteggia,
ellenistico l'uso di inserire
un
ritratto
minuto
di
un
ma
per-
sonaggio secondario in un poema epico. Parimenti Orazio, dicendo se Archiloco nuovo ed Alceo nuovo, ripete un
vanto che fu già dei poeti Alessandrini, ma ripensa al vecchio Ennio, che fu nuovo Omero; mettendo se alla pari dei grandi poeti greci, rivendica
poesia
romana
il
a se
stesso nella
suo posto accanto all'archegeta; asseren-
dosi eguale dei Greci, segue la tradizione dei più grandi
Romani. In
poeti
solo a Ennio,
ma
ciò egli è più vicino agli antichi, al
che non a Catullo, il tamina senza grande (1)
mana d.
non
vecchio Plauto, che non ai veóxspot, quale, quando imita, traduce o conabilità
(2).
Della relazione tra Ennio e Omero, la poesia greca e la ro-
discorre finemente a proposito di questo sogno Fr. Leo, Gesch.
rom. Ut.,
I,
164 sgg.
carme 64, come dimostrerò maldestra di due modelli differenti. (2) Il
jìresto altrove, è
contaminazione
Nonostante
gli
sdegni e
tre contro certa rozzezza
mana essa
117
— dispregi di esteta, che nu-
i
vigorosa della letteratura ro-
primitiva, Orazio è per certi rispetti più vicino ad
che non
grandi Greci
ai
poeti
come Catullo
legato
dell'età
augustea
fronte ai
di
:
come Plauto ed Ennio, non
sente libero
si
e Calvo, la cui arte egli
del resto
sembra considerare superata e antiquata simius iste nil praeter Calvum et doctus cantare Catnllum. Anche in ciò Orazio si rivela figlio genuino dell'età augustea, che nella religione, nelle istituzioni politiche, nei costumi sempre :
volle e spesso
seppe
rifarsi alle
liche, oscuratesi negli ultimi
Plauto erano
e più
liberi
antiche tradizioni ita-
tempi della repubblica. Ennio nel
trattare
i
modelli
greci,
perchè non erano vincolati dalla scienza filologica come
ha a volte nel tradurre e nell' imitare scrugrammatico ma la grammatica, che ha nei suoi principi inceppato i vewxspot, ha pure liberato Orazio da Catullo, che
poli di
;
preconcetti: questi sa che altro è
compito del tradut-
il
tore e dell' imitatore, altro quello del poeta.
Quest'aspirazione a divenir l'eguale di un poeta antico era ai tempi di Orazio diffusissima; Properzio di il
aver bevuto
al fonte
ma
padre Ennio,
Eliconio, a cui
si
(III, 3)
era dissetato
aver tentato indarno
di
Roma, che Apollo ne
narra
di
cantare
aveva dissuaso e Calliope gli aveva spruzzato il viso con acqua Filitea. Anche qui dunque le sue ambizioni sono solennemente riconosciute, sono consacrate, e non più da Filita stesso, cui pure egli venera (1), ma dalla Musa. Chi dubiti ch'egli si asserisca originale, non ha che a leggere nell'elegia
le glorie di
(1)
quaeso,
III,
me
1,
1,
CaUimachi manes
sinite ire
nemuK
;
1
quoce pede ingressi
Coi
sacra
Philiiae,
in
restrum,
lìrimus ego ingndior puro de fonte saccrdos
Itala per Graios orgia ferre chorox in antro
et
lo
ì
;
dicite
quamre
quo paritrr carmeii
bihisiis
aquam'i
teiiuastit
— che è
prima del HI
la
118
libro
:
— opus hoc de monte sororum
1, 17) (1), Chi non avvede che l'acciiia Filitea lo rende pari degli alessandrini, non ha che a rileggere l'elegia a Mecenate III, 9, 43 Inter Callimachi sat erit placnisse lihellos et cecinisse modis, Coe poeta, tids. Callimaco è il maggiore, non il minore chi è degno di stargli a fianco, è anche un pari
nostra
detulit intacta jMf/tna
via (III,
si
;
di Filita
«
:
ara Philitaeis
certet
naeas urna ministret aguas
descrivendo
il
Romana
conjmbis
Cyre-
et
scrive egli stesso (IV, 6, 3) simbolico sacrifizio del vate. Non è un pa»,
reggiarsi di professo a Callimaco e incidentalmente anche
ad Esiodo, ad Omero, a Ennio lo scrivere « se io potessi comporre carmi epici, non canterei né la Titanomachia né Tebe né Troia ne le vicende antiche di Roma, :
ma
la
tua gesta. Augusto. Purtroppo l'epopea non con-
viene alla mia arte
sottile
;
mea
pectore Callimachus,
conveniunt duro praecordia versu Caesaris
condere nomen avos »
(II,
1,
En-
sed neque Phlegraeos lovis
celadique tnmulfus intonet angìisto
E
39)?
i?i
nec
Phrygios
l'ambizione sua di
ri-
valeggiare con un antico, senz' imitarlo, almeno nel senso,
consueto
(1)
di
Anche
nimento che più alto. In iibistia jìlica si
i
questa parola
qui,
(2),
come nei due carmi
è collocato apjjresso, III,
1
aquam ? In due grandi
era ambizione di mille altri.
dionisiaci di Orazio,
il
compo-
Properzio chiede ancora agli alessandrini quamve III, 3
beve egli stesso
ai
due
fonti. In III, 1 sup-
di lasciarlo entrare nel bosco a essi sacro.
fa consigliare e guidare da Apollo, consacrare
spruzzare a uno
il
pare indicare un' iniziazione di grado
viso di
acqua santa dev'essere
ma
In
III, 3
da una Musa. Lo
rito preso dai misteri.
un Linceo (il nome immaginaria fors'anche la persona) « né dialoghi platonici né carmi omerici giovano nell'amore: iu satius memorem Musis imUere FhiUlam et non inflati somnia Callimachi (II, 34, 31) ». Giacché narrazioni di sogni misteriosi non sogliono piegare fanciulle (2)
Properzio scrive non di se stesso
è certamente fìnto,
ritrose, bisogna intendere
di
:
:
« Solo elegie
aiutano in amore
».
-
119
—
Properzio scrive a un Pontico che lavorava a una Tebaide (I, 7, 3) ita sim felix, primo contendis Homero, sint modo fata tuis mollia carminibus. Questo passo basterebbe da solo a confermar vero ciò che abbiamo ricavato da Orazio, che come ambizioni così complimenti di tal fatta erano comuni tra i letterati del tempo. Properzio stesso, l'alessandrino, scrive di Virgilio con ammirazione sincera ch'egli non solo pareggia ma supera Omero (II, cedite Romani scriptores, cedite Grai nescio quid 34, 65) maius nascitur Iliade. Che Virgilio segue tutt' altre regole :
:
tutt' altri ideali di arte che non Omero, ha primo forse tra i moderni, e dimostrato benissimo Riccardo Heinze in un libro omai celebre; ne sarà sfuggito a Properzio che Virgilio, come Ennio e come Orazio, non solo rinnova in certo modo la poesia greca antica
e persegue scorto,
ma
continua quella ellenistica. Ch'egli
valeggiare con Omero, mostra già
il
abbia voluto
ri-
modo come ha con-
libri non solo l'Iliade ma anche l'Oromana: ne l'una ne l'altra potevano mancare nel suo poema, di cui tuttavia doveva essere pregio princi-
densato in dodici
dissea
pale la stringatezza, la concisione insegnata nelle scuole ellenistiche di poetica (1).
Come
si
chiama
nelle
lingue
colui che vuole porre a fianco opera nuova di bellezza pari,
antiche
Fattività
di
di
un'opera classica una
si
che la vicinanza del
modello, eccitando al confronto, renda più evidenti
i
pregi
moderpa ? In greco si chiama non ^l[xrp:;. ma CfjXo^, in latino non imitatio ma aemulatio. Pure Orazio, che loda SI una volta V imitatio di singoli pregi dei più antichi comici (s. I, 10, 17), non mai quella di un autore tutt' intero, che chiama imitator colui che riproduce servilmente di quella
(1)
di
La
emulare
S'^coiula aofistioa, gli
antichi,
si
elio
pur
si
contenta poi
prefigge di
anch'essa a parole
imitarli
pedissequamente.
modelli
non già
illustri (l),
—
ì-iu
l'artista
che penetra della sua
potenza creatrice e rivivifica materia già trattata e foggiata sia i)ure da mille altri, Orazio sembra evitare di termini aemulari e proposito di applicare all'arte sua solo una volta si arrischia a scrivere (e. IV, aemulatio i
;
Pindarum
2, 1)
sV^oOv, che,
dove aemulari sta mentre porta a rovina
rivaleggiare con
Pindaro, l'imitarlo in
quisquis studet aemulari;
appunto nel senso sicura
il
voler
di
modo
certa misura e in certo
come
è lecito,
infatti
Orazio
pindarico appunto in quell'ode
stesso imita lo stile
(2),
Perchè mai tanto ritegno nell'uso di questa parola? Il perchè, ce lo mostrano forse altri passi nei quali Orazio adopra aemulus, discorrendo di tutt' altro che di letteratura aemula nec virtus Capuae (epod. XVI, 5), riijnt lar:
bitam
Timagenis aemula lingua
(epist.
Roma, Timagene ischerzi di buono e
era la nemica di
concorrenza
in
animo non certo amichevole
I,
di
anche
;
19,
e larbita
15).
Capua
facevano
si
cattivo gusto con
la tibia tubae
aemula
dell'Arte Poetica (v. 202) fa concorrenza sleale all'istrumento per natura sua più sonoro: aemulus ha in Orazio,
come anche ostile,
in
che non
scrittori
altri
un non
latini,
osserva così spesso in
si
so che di
Ricercare
^f^^oc,.
questa differenza non è forse senz'interesso. la causa Per Aristotele lo ^fiXoQ nel senso più generale della di
parola è un
TiàO-og,
giudizio etico,
(1)
hnm
ma
e,
come
tale,
non soggetto
pur tuttavia proprio
A. 131 sgg. puiliea materies privati
in sé
al
che
ri-
di coloro
iuris erit, si
—
nec verbo ver-
curabis recidere fidiis interpres «ec desilies imitator in artum, unde
pedem proferre ptidor (2) libellos
Un
vetet
aut operis
lex.
concetto di tal genere in Plinio
meos..
.
cum componerem
orationi Bemostliems illos,
v.ot.zà.
;
quam
sane,
habui in manibus, ìion ut aemularer {improbum
enim ac paene furìosum), sed tavien imitarer diversitaa ingeniorum,
Minore, VII, 30, 4 qui
M£i§{o'J confers
maximi
et
et
sequerer,
quantum aut
minimi, aut cansae dissimilitudo paieretur.
tengono
121
— raagnanimi
se stessi capaci di cose grandi, dei
e dell'età
1388 a 32)
magnanima, il
della giovinezza; esso è {Rhet.,
dolore che uno prova scorgendo
tali
II,
che a
lui
sono simili per natura, in possesso di beni degni, che anch' egli potrebbe acquistare, dolore derivato però non dal possederli altri si
ma
dal
non possederli anche
contrappone quindi all'invidia, in quanto
lui
;
e
lo ^yjXwTcxó^
desidera acquistar per se quei beni, l'invido desidera che
non li abbia il prossimo suo. E il senso buono di ^f/.oq non scompare nella filosofia postaristotelica ancora Plutarco in un trattatello morale d'intonazione piuttosto eclettica che stoica, nel quomodo quis suos in virtute profedus setitiat chiama ^f^Xo^ il sentimento di Temistocle, cui i trofei di Milziade non lasciavano dormire in pace la notte; che (84 bc) tutti gli Ateniesi lodavano l'ardore e il valore di Milziade; egli solo, non pago di lodarli e di ammirarli, si studiava emularli (^rjXoOv) e imitarli. E poche righe più sotto egli contrappone l'emulazione non solo all'ammi:
ma all'invidia; che l'emulo onora, ammira, ama il buono, non l'odia (1). Ma già alcuni secoli prima che un moralista eclettico parlasse così, la Stoa più severa aveva dato il bando alle perturbazioni 7ià9-rj quali contrari alla dell'animo, aveva condannato perfezione etica. La lista di proscrizione dei ni.Q'ri, che
razione neghittosa,
i
non manca mai nei manualetti stoici gene VII, in Stobeo II, in Andronico stantemente
lo ^y^loc,,
stesso posto, tra
(1)
il
di (2),
morale, in Dio-
comprende co-
eh' è collocato invariabilmente allo
cpO-óvo?
e la ^YjXoiuTOa. Quello è definito
Al senso buono di ^riko^ rimane fedele la nomenclatura della
scienza letteraria di Dionigi t^uX'^S 'i^P^S O-aùjJLa -coD
vero solo (2) I
:
de im.
1, ir.
3 Us. C^Xó? èaxiv svépysia
Soxoòvcoc slvat xaXoO xivou|iév7)
primo impulso allo ^y,Xoj. passi nei frammenti degli Stoici dell'Arnim,
;
per
quest' è
il
III 391. 112-
1
11.
«
dolore per
beni altrui
i
-
122 »
lo i^y/o; «
:
possieda quei beni che uno non detto « che l'
«
anche
»
definizione,
ha
dolore perdi' Aristotele
v.
altri
aveva
non ha anche lui », e la soppressione delbasta qui a cambiare del tutto il senso della sopprimendo a un tempo stesso quasi ogni
distinzione tra
il
concetto dell'invidia e quello dell'emu-
lazione.
Tutta
la cultura
romana
è sotto
l'
influsso della Stoa,
più particolarmente della Stoa di mezzo. Nessuna mera-
romani arrischino
viglia che gli scrittori
rado di ado-
di
prare in senso buono una parola che già sui banchi della scuola avevano
con
udito
(Tusc, IV, 17) conserva
Romani
colti,
tra
il
che
stoico da lui ridotto agli
^O-óvoc e la
'^r^KovjrJ.ci.
un dipresso
dentia e Vobtrectatio; ne dà a
nizione
Cicerone
V aemulatio allo stesso posto
occupava nel manuale
lo C^jXoS
usi dei
accezione cattiva.
Vinvi-
la stessa defi-
Egli ag-
ch'era tradizionale in quei libriccini.
giunge, è vero, a scarico di coscienza, che aemulatio può
avere anche un senso buono,
di imitatio virtutis;
ma
assai
verisimilmente non la conoscenza sottile della lingua latina d'uso gnificato,
comune
ma
lo induce a registrare quest'altro siun'avvertenza simile nel modello che tra-
duce: anche Stobeo nota
{ed. II,
éxepw; Z%Xoy |xaxapca[x&v sòxXsoO;
92 W.)
lt(t'jb'X'.
(1), xal Iti aXXo);
oà
-/.al
\ii\LrfS'.v (he,
av xpe-'tiovo;;
e Andronico (cap. 2) ha un'aggiunta, che
ma
senza ragione sufficiente, è considerata in-
di solito,
terpolazione per
i
:
r^
Neoattici la virtù letteraria più
impressole dalla Stoa
poteva più godere
(1)
àaxcióir^xo;
^y^Xo; [Jiaxap:a|Jiò;
Così propone
noscritti.
A me
£tov eXa/s;.
ex paaiXf^oc èaO-XoTaxo'j
ovjye^r^v
a'ji)-/][i£pòv
Trucppopéfov oo:
5y^ptc
7i:£|j.'|/a'.g
to^ót: xo'jpr^. "'ApTtjJL:c. xr//
'^7.0 \}7zeXoyoc, wSivojv
àvù
uTisp,
6à TiaiSòg
peiiHiero « (|uesto per ora
;
di più
per una grazia maggiore », è espresso qui con grande delicatezza, certo per riguardo cui
non
si
la formula
non
solo alla dèa
ma
anche alla piccola nata,
vuol dire cbc la nascita è sgradita. In poeti
non nasconde più
il
suo carattere di mercato
Tessalonica (VI 231)
:
meno
clV. p. e. Fi-
TieÀayo'Js
èpp'Joao
itvaooa, XYjX' 'evìyjj, S-uosi XP'^3'^"''--PWV xsjjiaSa; Getnlico
(VI 190)
lippo
1160
di
papuYUiov
dcTtcóoao voùoov,
Cornelio Longo (VI !)oxéovTa /.apixa.
|i'
saó'4'sai
Né
la
5' ihg
a-j,
vouoo'j,
òaì|iov,
TtsvirjV, Scóou) tz'.uabow
Aàjiiv, sì
ci'
mq
'/inu^ow;
poso xaì uevìtj^, xaì lóxs ^cu-
a;ìS'J5oi5 àvxiXcrpeìv xy;v àTi' £|ìs'j
YjV
(VI 238)
formula diviene meno grossolana, quand'^ espressa
come da Agide (VI
generalmente,
5Ó01V
aò
àXXà
iXàaasi; xaì
èy.
In quest' ultimo epigramma un gran signore sembra parlare
A un operaio. più
Iftl) ;
S' thq
sì
ili
valenti
Sé xt [leì^ov eivj
8' èg
ScDpYjOirj
òXiyor^ iXl-^ri
Sattiov, àr.apgó|is9'a.
152) spyouv è^ òXìycuv òXìy'Iv
xwvSe noXuJtXaota o da Apollonido yip'.c,' si Ss SiSoìt^c nXsiGva, xai koXXwv,
xioet
150
Orazio non derivano da epigrammi, se non quando
vocazione
al
una poesia
dio introduce o
l'in-
amore o
d'
la
dedica del dono votivo. Alla medesima conclusione
passando
tra via,
ma
le
in
si
giunge anche per alcarmi oraziani,
rassegna non più
poesie ellenistiche,
ma
i
tipi
i
ellenistici
di
poesia
che avrebbero potuto servir di modello ad Orazio. Mentre epigrammi amorosi di quell'età, se non sostituiscono, per
lo
meno
riflettono liriche perdute, e{)igrammi che pos-
condensati si conservano solo in piccolo numero. Non costituiscono un' eccezione quei moltissimi epigrammi dedicatorii, che finiscono in una preghiera: questo tipo era antico e diffuso, perchè era consentaneo allo
sano
dirsi inni
spirito della religione antitìa
dio
mercede del dono.
E
in
che
il
donatore esigesse dal
questa categoria
annoverare quelle poesie, che, se non sono,
si si
devono fingono
composte per essere scolpite sulla base del simulacro del dio, come, oltre l'epigramma di Theodorida teste citato e più certamente di esso, uno attribuito falsamente a Nosside che ne è una cattiva imitazione, AP VI 273 (1). E un carattere tutto loro hanno anche quei carmi nei quali la preghiera maschera intenzioni o scoptiche, come nell'epigramma di Callimaco AP IX 566, che figura messo in bocca a un poeta drammatico vincitore (2), o erotiche come negli epigrammi di Posidippo AP XII 131, di Asclepiade AP XII 166 e di Dioscuride AP XII 171. Epigrammi che non contengono altro se non la preghiera e nei quali la preghiera è più che veste, non mancano per vero, sebbene i più siano posteriori all'età più veramente classica basti citare Alceo di Messene AP XII 64, An:
(1)
(2)
Su quest'ultimo, più difìusameute altrove. Qui la foruia è per giuuta anche, anatematica
tazioue più ])aiticolareggiata altrove.
:
un' interpie-
— X
—
151
VI 349, Giulio Polieno IX 7 X 24, Maccio IX 403 (1). Ma nessuno degli epigrammi citati ha quei segni, esterni quanto si vuole, ma che negli inni di Orazio non mancano, si può dire, mai e che li ricollegano, come vedremo meglio tra breve, alla liturgia (2) la ripetizione, il parallelismo, l' anafora in ispecie, che imprime air inno greco il suo stampo particolare, che, discreta ancora nei principi, risuona sempre più penetrante tipatro
e
Alfeo
9,
25,
Filoderao
IX
90,
Crinagora VI 244 e
:
all'
orecchio già nella lirica liturgica del
come ancora
quarto secolo
in quella del più tardo periodo imperiale.
Nes-
epigrammi prepone alla enumerazione delle gesta o degli attributi del dio un tu ripetuto ogniqualvolta si aggiunge la menzione di un'altra àpexrj, com'è di suno
di questi
regola nella lirica greca; Orazio
si
attiene per lo più seve-
ramente a questa, ch'egli evidentemente sente quasi legge
Né
dello stile innologico.
un perdersi
in esteriorità
l'avvertire tale differenza paia :
a6 ripetuto, costringendo a
il
costruire le varie strofe simmetricamente, conferiva all'inno
maestà severa; richiamando
(1) Antifilo
non
perchè tradizionale, la paroletta, memoria, ogni qualvolta risuonava al-
di più,
alla
IX 404
agli dèi del culto
è
un
ma
po' diverso, perchè la preghiera
alle
Non manca invece neppure
(2)
di predicati vari alla divinità,
gramma
di Po.sidippo,
si
rivolge
divine api.
epigrammi l'attribuzioue forma relativa come nell' epi-
in questi
sia in
che abbiamo detto testé piuttosto erotico che
forma participiale come in Alceo, Filonominale come in Antifilo e Maccio. Certo, anche queste forme derivano dalla tradizione inuologica, dal rito (cfr. per le due prime gli esempi raccolti da Nordkn, Aijnoreligioso, e io Alfeo, sia in
demo, Giulio Polieno,
at08
sia in foruui
Theos 168 sgg., 166
Virtfi)
;
ma
citati sotto a p. ir)3,
non
uè la forma
raente propria dell' inno; il
per la terza p.
;
è caratteristico cho
il
parallelismo, l'anafora.
tv, nò,
di
si
«
corno
e.
1'
inno di Aristotele albi
trovi, se
non
negli opigranmii
predicazione » più partioohirsi
dichiaia meglio nel testo,
\:r2
r orecchio,
dava
voleva o
l)revità
sia quella relativa,
un
E
sia
o sostituire
li-
che anche
:
per chi a ogni
introdurre
predicazione
modo non
nessuno
esterno,
criterio
la
nel-
participiale
che pure appartengono propriamente
ghiera canta ex professo di
questa peculiarità alla
a quelli dell' età augustea di
e
r epigramma-preghiera
all'inno,
in
riflettere
hanno luogo sufTìciente per 1' anafora, come ha pure consentito agli epigrammatisti elle-
tre distici
nistici
conformarsi
di
rica alta cui
la
una patina d'antichità. Né d'al-
dica che la brevità stessa dell' epif^ramma
si
impediva
gli
preghiere più consuete e più venerabih',
le
alla poesia quasi
tra parte
^
la
di
potenza,
voglia acchetarsi a
epigrammi-pre-
questi i
pregi del dio, com' è
regola nell' inno greco e nella poesia più veramente Orazio, nessuno esalta le sue
religiosa di
Non
virtutes.
neir inno liturgico ha
le sue radici questa forma letterache pure dell'inno imita qualche movenza, ma, secondo ogni verisimiglianza, nell' elegia. Già il vecchio ria,
Solone aveva incominciato un poemetto jjioauvrjv \ioi
£Ù)(0[JL£V(p
;
che
e
in
distici Mvtq-
in
xal ZtjVÒ? JOXuixtiiou àyÀaà léxva. MoOaa'.
questo principio non
\l:s.p'.òcc.
si
/.ÀOié
debba rav-
visare r invocazione alla Musa, consueta in principio di
ogni carme
dimensioni anche minime, mostra
di
tenuto delle preghiere che seguono oX^ov jxaxàpwv òóxs xal
Tzpòc,
[xc.
iV^v stvac Se yXuxùv wSe
cpiXo^c.
iy^^poloi
Ii)'Ià(o*
ce Tttxpóv. xoìac jxev
7iàv~o)c -jazEpov rp.B'ò
chiede alle dea del canto beni di
canto
;
ne
si
perchè sono
(1)
Che
del poeta »
1
sia
con-
àTiàvxwv àvO-pwTcwv odti Só^av lyziw àya-
alòolGv. xoiGi 5È osivòv tosTv. )(pr^|xata 5' Ljxsipo) [xàv r/£ov,
ot -eTiòLod-oci ox)x
il
-pòc i^ewv
ò'.'/.r^.
àÒfxwc
Solone
tutt' altra sorta
che
riil
ad esse per altra ragione se non protettrici del poeta (1). In nessun epi-
rivolge le
questa
1'
ultima radice della
«
preghiera ellenistica
— gramraa antico, forse
-
153
nessuno anteriore
in
al terzo secolo,
si
trova la preghiera se non quale aggiunta alla dedica
di
un dono votivo. L'epigramma-preghiera non
che
dall'
uso del culto
sia sollevata a
si
stica,
perchè
l'
solo l'epigrafe ritmica,
condensata
ma
composti
nell'
età elleni-
non
del terzo secolo continua
anche, abbreviata, concentrata,
antica elegia.
1'
Di epigrammi-inno, l'
stati
epigramma
Ma
ha luogo.
dignità letteraria, perchè esso nel culto non
epigrammi-preghiera sono
forma
è
poco a poco a
epigrammi ohe serbano
di
del-
inno la ripetizione anaforica, la struttura simmetrica,
non conosco se non pochi esempi
come par
se
;
= Kaib.,
818)
ambedue
tologia,
si
io
tenga conto,
giusto prescinderne, della poesia tarda e non
buona, che è incisa sur una pietra
229
non
(1),
Paro (IG XII
di
posteriori al
5,
due tempo più propriamente carrai dell'An-
forse soltanto
uno la struttura è simmetrica si e anaforme solenni del culto son volte, quasi gio-
ellenistico. Neil' forica,
ma
le
cosamente, a fine frivolo è trasformata
-j'JiJiiJLayc.
xòv
v:cpó[jicVov. K'jTrp:.
rsio
Tiopcp'jpsf;)
XópYts, oCo^i
jJic.
l'
invocazione del dio
amato.
21
K-jTrpt
èjjLè
tòv fp'x/ióv
nccj-Gr/. xòv yj-óoi '^u^^/jV [x£,
di
giocoso
;
K'j-pc.
Naiaxo'j; ipt].
-pò;
òtrsTZÓzi.
lui,
come mezzo scherzoso
Anohe su questo
cpc-
Xt[i£vai;.
poeta sta
il
che, chi avesse letto
epigrammi, sapeva amatore
simbolo del mare anche in Orazio,
(1
KsX-
xòv oùosvl xoO^a XaXeOvxa,
xXu!Ió|i£vov T^eXócYcC, K'JTrpc cpcXop[xiax£ip3c.
per affondare, ha in bocca a di
primo è
cptXóvD[xcp£.
YaXrjvaiT].
Qui già r immagine delle onde, nelle quali suo libro
Il
K'JTipi IIóO-cov (if^isp àsÀXoTióocov. KuTtpt.
TÒv y^^iaTiaaiov ànb xpoxéwv x'.oi
nell'altro
AP X
quello di Filodemo. KÓTTpt òczauov
;
in quella del giovinetto
il
frivolo, qualcosa
a[ipare a noi questo III,
onnin' qiialrhu parolii
26 e
i
-
sacer votiva pnries indicai livida suspendisse potenti vestimenta
maris dea non può esser detto sul serio, ne alcuno disconoscerà la piccola malizia, che si nasconde nel confronto
con
delle semper vacua, semper atnahilis
aequora
gli
comune
per giuochi di questo genere è abitudine ellenistici.
Nel secondo, nell'epigramma
158
llólhov oÉaTCGtva Oerj uópe. ooi
oo'.
{!£
nihiXoc. "Epojc:
àXùxotat
uTieatópeasv. ^elvov
y'^I^-'^^'^
y^aXtvoìc;. tjxs'pw
5è TU)(elv àxX:v£o;
ìiigris
Afrodite marina
Servirsi del predicato di
ventis.
aspera
di
in poeti
Meleagro XII,
|i£.
BeóxAet?, àjipo-
£7il
^£''vrj:.
oaixàaa?
àXXà
cpiXtai;-
tòv
a-j
axépyovx' àTiavatveaL, où5é as {^éXyet oò xP*^vo?. où ^uvr^s a-^^oXa
aoi
7i£''paxa
Cwr)?
jioi
'5v3c^,
tXa29
cfr.
in
18,
il
collegio dogli artisti dionisiaci di
buon numero
anche (Jomptes-rendut de
ri-
l'
i
snoi
membri
a cantare
il
Aoadcmie den hiHcriptions, 1913,
sgg. (3) Anciic
membri
r inno a Ilestia comincia con nno ionico
dattilici,
ci
tenterò nu' analisi.
s'
;
e oltre
a
incontrano ancora giaml)i e gliconei. Altrove
— sta poesia è scritta per
i
il
componeva
quali Aristonoo
canto. i
onoravano Cleochare
Delfi
—
ir„s
Negli stessi anni nei
suoi poemi, forse nel 227, figlio
Bitone, Ateniese,
di
onore del dio aveva composto un prosodio e un peana e un inno, che dovevano essere can|ieÀ(T)v,
Tioir^TTjv
perchè
in
Theoxenie (.%/// 6G2). mutato Delfi dalla Nulla si era a fine dei quarto allo scorcio del secondo secolo; tranne che la musica era forse dai fanciulli nella festa delle
tati
divenuta più complicata con l'andar del tempo, giacche
due certi
provano, da professionisti del canto, dai tecniti dioAtene.
nisiaci di
Nò Epidauro ne ai
Delfo costituiscono eccezione: l'inno
Cureti scoperto nel tempio di Zeus a Palaicastro in Creta
XV,
(Ann. of the Brit. School at Athens, fu inciso in pietra in
certamente appunto cora più antico non cepiti l'
i
note furono cantati, come indizi
corredati di
inni
La
periodo ellenistico
si
può,
metrica,
perchè
;
;
quasi
risale
ritenerlo an-
Cureti
i
antichi
un proemio
strofe ioniche a maiori,
cantato
ma
al
quali personaggi storici,
umanità.
1908-09, 357 sgg.)
tempo imperiale,
sono con-
benefattori del-
giambi seguito da
in
mostra che anche quest' inno fu
e le libertà nella responsione degli ionici
si
spie-
ammetta accompagnamento musicale. \J invito, quasi il comando rivolto al dio, i^óps, mostra che i sacerdoti danzavano essi stessi. Verso la fine gano
solo se
si
dopo il 167, i Delii {Si/ll} 721) decretano onori ad Amphicle di Renea, [louaoxò? y.al [xeXwv TiocrjXTJc:, per aver egli composto un TrpoaóStov èjxjisXé? in onore della città, degli dei che hanno sede nella città e del secondo secolo, certo
del popolo ateniese e per avere insegnato ai figli dei cittadini Tipòs Xjpav TÒ [iéXos aSetv
(1)
in
(1).
E
Diversamente dovrà essere giudicato
quegli
stessi
anni
i
Cnossii {Syll.^
poesia per musica
1'
eucomio per
il
quale
722) ringraziano e rendono
— si
dovranno
15U
-
alla stessa stregua ritenere
prosodii,
i
poeti sono menzionati in primo luogo tra
agoni
gli
Thespie
di
i
cui
i
vincitori ne-
che abbracciano un pe-
in iscrizioni
riodo di quattro secoli, dal secondo avanti Cristo al se-
condo dopo (i). Che poesie nuove fossero composte in ispecie per nuovi culti, è naturale, che le religioni antiche saranno state i
venerabile per età e si saranno mostrate poco disposte a sostituirla con canti nuovi, ai fiere della loro liturgia
mancato
quali sarebbe
Ma
ouore
grauimatico Diosciuide
al
prestigio
il
è interessante che per
i
figlio di
della
nuovi
culti
tradizione
(2).
continuò, forse
si
Dioscuride di Tarso, che pare
XXXV 1900, 542) da twv ko.o' 'Oiir/pqj vo^ì-ijicdv. Dioscuride aveva luandato il suo scolaro Myrino TzoiriXÒiM ènwv xaì [isXtòv a Creta SiaO'Vjaió[isvov XX 7ie7toaY|JiaT£U|j.sva òtc' aÙTiù). Il decreto non dice che Myrino inperò sia da distinguere
Wilamowitz, Herm.
(cfr.
colui che scrisse l'opera Tispi
segnasse a un coro a cantare nò fa parola di esecuzione musicale, parla solo di àxpoaaei; dei Cretesi tutti (se no, èYy.u)|i.iov
xaxà tòv
1'
;
Onsp
èy^t" I^tov
troveremmo
Ttoivjxàv,
cioè
xòi
BCH
(1)
XIX,
la
è9-v:os, cioè
scritto xxq à^iàs KóXiog), è detto
lo
avrà declamato, forse
declamazione con qualche accordo
1895.
336
data
(la
che
il
BCR
;
(2)
IG VII, 1773 BCH XTX, spiega come negli agoni, mentre
XIX, 338
Così
si
;
;
di cetra.
Nordkn,
Theo» 160, attribuisce a quest'epigrafe, mi pare troppo alta)
1760
ma
in lode
secondo Omero. Esso, dnnque, sarà
composto in forma esametrica e Myrino
stato
aiutando e sostenendo
ó.\x(i>
Agnontoit ;
IG VII.
343. è frequentissima
menzione del TiotY]XYji; stcwv, non si faccia quasi mai, fuorché a Theepie, menzione di un TTOiy]TY)g TxpoaoStou: nelle lodi in esametri della grandezza della città, che avevano carattere profano, la novità piala
mentr' essa sembrava disdicovole nel prosodio, ch'era rito
ceva,
ligioso.
Dnrante
il
lo piii seguitato a
punto
i
cantare
il
peana
non avevano tra
poeti lirici, si poeti epici
Del resto
1
i
loro
(tre p. e.
gli agoni,
dell' antica liturgia.
collegi di artefici dionisiaci,
dei concorsi,
51).
ohe introduceva
sacrificio,
si
Per
che erano organizzati
re-
sarà per ciò apin
vista
membri, a quel che sappianu), in quello di Tolemaide Or. gr.
poeti epici o tragici avranno al bisogno saputo scri-
Tero qualche verso lirico.
\iA)
senz eccezione, a comporre musica e poesia
nuova, non
tentò di sostituire
si
verso recitativo, o l'encomio
al jiéXo;
musica
[)er
l'esametro, che ò
prosa solenne, che fuori del
in
culto dall'età ellenistica in poi viene sempre più in voga.
Nel 307
Ateniesi bandirono un concorso per un peana
gli
da cantare in onore del re deificato Antigono vinse, secondo narra Filocoro (Athen., XV, 607 a) llermocle di ;
Cizico.
La salma
di
Arato
trasportata, per suggeri-
fu
mento dell'oracolo delfico, da Egio a Sicione con accompagnamento di peani e di canti corali. Nelle feste sue natalizie, che per anni e secoli dopo la sua morte e la sua eroizzazione vennero celebrate dai Sicionii, un coro di tecniti
cantava
\iiXri
a suon di cetra (Plut., Arai., 53). In
Arcadia, l'unico paese della Grecia secondo Polibio (IV 20) nel quale l'educazione musicale
suo tempo,
si
al
era rimasti fedeli alla tradizione più antica,
e non la corporazione prezzolata
cantavano una volta l'anno inni
Che
non era decaduta
ma in
giovani cittadini
i
onore di Filopemene.
del resto lo storico arcade esageri per patriottismo
che anche a Delo, come dei cittadini erano istruiti
locale, parrà sicuro a chi ripensi
abbiamo veduto nel canto. Vero
testé,
i
figli
è tuttavia che a Delo, sull'arido scoglio
che ritraeva dal santuario ogni floridezza anche di commerci, i cittadini saranno stati più zelanti e più esperti del culto che non altrove. I Calcidesi, scampati all' eccidio per beneficio di Tito Plarainino, istituirono sacrifici
a
lui,
durante
i
quali cantavano
un peana
riporta la fine {TU., 16): tJ.ozivoì
yaXeuxtOTàxav opxoic cpuXàaaétv
\iéXKt-t
xoOpai
Tw[jiav xe Tt'xov ^' a[xa TwfJtatwv xe r.iaziv
awxep. stiere
(1)
altri
Anche (1).
di cui Plutarco
Ta)[JLa''wv a£^o|jL£v Tàv (is-
ii;.z
Zf^va
Tlacàv.
jiéyav Co
T:x£
qui cantavano cittadini, non artisti di me-
In quegli stessi anni la città di Teo, istituendo
WiLAMOWiTZ,
presso
esempi di inni cantati
;
Norden, Agnostos Theos per lo meno la maggior
,"92,
raccoglie
parte
si riferi-
— un culto che
i
alla
figli
-
regina ApoUonide di Pergamo, disponeva
dopo
dei liberi cantassero
fa,jw|x:Gv e le
un -a-
sacrificio
il
vergini incedendo processionalmente intona?-
un inno
sero
161
{Or. gr., 309, 8).
L' inno dunque anche nel tempo ellenistico era rimasto in complesso poesia per il canto e per l'uso pratico: l'epigramma, che è inadatto non dico al canto ma persino alla declamazione solenne, che è poesia per la let-
tura
più per la recitazione, che può talvolta essere
al
gustato solo da una cerchia di amici, la quale ne intenda tutte le finezze,
non poteva ne
sostituirlo
(3razio per lo più nei suoi inni
ne
non ha
fargli
ombra.
attinto a epi-
grammi ellenistici, perchè nella letteratura ellenistica epigrammi-inno non esistevano ha forse attinto a inni ellenistici, come a prima vista par naturale supporre? ;
È
assai difficile dare
canza
rende già
ellenistici
una risposta determinata. La man-
spiccatamente nuovi nei canti liturgici
di caratteri
di
per sé sola più
diffìcile la ricerca.
L' innologia di questo tetnpo ha così poco un' impronta
sua che persino conoscitori di vaglia e di gran nome ritennero ellenistico il peana ad Apollo e ad Asclepio, che in redazioni differenti era stato trovato a Totemaide e
ad Atene
in iscrizioni dell'era imperiale, finche
epigrafe scoperta ad Erythre mostrò che lo in Ionia già verso
il
360
a.
C. (1).
una nuova si
potrà stabilire nei casi singoli la dipendenza
singoiar ventura,
quando
si
di
si
di inni ora-
ziani dalla liturgia ellenistica, salvo che'per caso
battiamo proprio nell'esemplare
cantava
Come mai dunque
non c'im-
Orazio? E questa parrà
ripensi che la nostra cono-
scenza di questa letteratura dipende tutta da epigrafi, cioè è poco
meno che
fortuita.
8ce all'età imperialo, la quale
tuttavia
continuato nel cnlto la tradizione an;li
esempi da (1)
11
Cfr.
me
piìì
certamente per
lo più
avrà
antica een// innovare. Certo
raccolti se ne potrehbero aggiun^cero molti altri.
Wii.AMOwiTZ, yordioìiische
Steive,
11 tno
non
clii
sia sapientfj
£v
TY,ò'
|iO'jaOTOÀ£
/.X'JctV.
culto
"ày/.J.stT'
ao'fY,
aà tòv
:
'&r^yyyi\u
vafovìl-' i'òpav.
llàv,
y.yrjiyyzV/
tl7^f>.
'Apxàò«)v.
K/^p,
\'^^'rli 'JO'ffo
[ìt^
CllO
\ltih.-(\i' hlc..
'iz
fosse invocato |aoj707:óào;
l-*an
òj-j/ì'ucJ.ov
y.'/.ypt')
5vac. òj^yvcoaia
a'Jvì>-£'';.
st;-/]
vt-foxxónc/i:
,'jcXaT;
yìl-óv'
parrebbe
liei
iiiipos-
quand'anche il disprezzo del poeta per non iniziati non mostrasse ch'egli sdegnerebbe di scrivere per una festa popolare. Degli inni di Simniia Rodio Efestione non ci ha sil)ile,
i
conservato che 7cótv:7.
yX'jxh
[VJ/wv
(\).
priiici{)ii (juali
i
vjii'fàv
41,
à5pàv
Consbr.)
11)
Awp'.
esempi del metro: nàTco /.•jjìoxtOtoov
( 1
v^^^av' à).''fov
)
no: |iàv £'jt7r-o; £'j-ov.o:
;
'•>
èy/ca-a-
òwx£v aì/|iàv 'EvjzXlo; e-jaxo-ov £X£:v (41, 22): ai Tzc-.t Alò; àvà -ónaTa vsapà xóp£ vEJjpo/^Litov (42, 3) 'ìaz'.cc àyvà à-' £'j;£''vc)v [A£ax -o\yw) (20, J^aìlia; £xap£ 16); xaìfs ava^
Ào;
;
jiàxap
"Hlia;
12) (2).
(21,
ritmi,
I
peoni e
i
in
dattili
i
non gli anapesti, sono quelli della tradizione liturgica r accumulamento degli epiteti conviene bene
ispecie,
;
agli
inni cletici
;
la
posizione delle parole,
assai artifi-
che si aspetta da poeti alessananche quando scrivano per gli usi del
ciosa, è tuttavia quella
drini
culto.
di vaglia,
Ma
la scelta singolare degli dèi cantati fa
a poesia dotta per lettura
(1)
Forse
si
:
devo leggere (x')
Dioniso, Hestia,
'ripy.-^'
e
congettura
Hermann
si
(3)
iuteudeif Nereo. Che Do-
ride 8iu cliiamatii essa v;pavo; del mare, nou par possibile. la
pensare
Eracle
Xoa
so se
trovi già uella raccolta dei fraiumeuti di Siiiimia di
Fiìaxkkl, che ho
lotta
in
bozze,
ma
che ora non
ho
a
mano. (J) (»»nesto
frammento
e citato
da Kfestione sotto
la
denomina-
ma
zione xò -'.[inU-Ov, che in se stessa
si
stile è lo stesso di quello degli altri
frammenti. Gli scoliasti più tardi
non hanno saputo ritrovare
riferisce solo al
metro
;
h>
passo nel libro di Simmia, o forse esso tempo della composizione dei AeXcpixx. (3) A questo riferirei il frammento citato quale xò 2tiJ.|i{£'.o/ di solito scrivono v^/?a; con la minuscola. Non saprei dire a chi Enyail
è andato smarrito prima del
:
lio
abbia concesso la sua lancia.
—
J07
-
sono divinità consuete, ma culto di Doride e Nereo non e' è mai stato. Certo, il culto delle Nereidi fu in Grecia abbastanza diffuso (1); ma il répwv, che era adorato a Gytheion, non ha
un
(III 21,
9)
cioè per
i
comune con Nereo
di
dio marino, e
l'
non ha valore
non per
se
tempi della teocrasia
propone con una
se
non
di essere
identificazione proposta da Pausania l'età del periegeta,
e Pausania stesso la
;
formule con
di quelle
le
quali suole in-
trodurre le sue speculazioni piuttosto teosofiche che religiose
Quanto a Doride, nulla
(2).
deve concludere da
si
un'espressione cosi vaga come quella che Virgilio (Aeu. Ili et
73) adopera di Delo gratissima feìJus Nereidiim ynatri Neptuno Aegaeo, tanto più che sulla religione delia delle
Nereidi siamo bene informati grazie a un frammento della -oK'.-t'.y.
Arp.''or/
(Athen. Vili 296
di Aristotele
e),
narra che con esse è congiunto nel culto Glauco,
dove
si
(juale
il
possiede colà anche un oracolo (8). Per di più Efestione dove dice chiaramente e dove fa capire che gli inni di Simmia erano stichici, ciò che non conviene a poesia per
(1)
III
236 (2)
sg.
;
cfr.
in
Roscukk
cv òì òvoud^o'jat F'^Ssàxa". FspovTa. oixslv èv ^oCkìzit^ '^ìhìvo:,
Nyjpàa evia (3)
«la Weiszackkiì anche Wide, Lakonische Knlte, 221.
Le testimonianze sono raccolte
s'jp'.axov.
Poche righe prima Ateneo scrive
3-; tòv rXa'J/.o; U|Jiv(o
IloastSóivog aOxòv
EùàvO-v;; d' ó
uicv
slvat
èpa^^'lvcx,
k-.OT.o:>,c,
xaì Nai^oj
èxe
èv xeò
viii-^y^;
O-ò erpéco? y.axs-
ji'.Y^,''^'-
xì 'ApsiSvig èv Aiv] x^
ÀiicpB-y;.
Codesto Euautlie è omesso nello storio letterarie e nel Panly-
Wissowa. Siccome
egli è detto epico e nell'
ventura più complicata di in tri,
vr,oc;)
iiuel
inno raccontava un' av-
che possa esseie brevemente esposta
un {isXo;, il suo inno sarà stata una composizione epica in esamecome gli inni omerici e callimachei. Che sia identico con l'Eùàv&r^;
MsO-'Juvxto;
i
%'9-xpf|)ló-,
che verso
il
280 èji£5ì'5aTO
tq)
3-S(;>
in
Deh»
{liCH VII, 1883, 109) f Ih questo caso egli recitò il suo carme aioompagaandosi con qualche accordo di cetra, piìi simile in ([uesto ;ii vecchi aedi omerici che non a Calliraaco.
— meno che
musica, a
—
h.s
canti o meglio
la si
musicale durante
coiiii)agnameiito
la
si
reciti
con ac-
E
per la
marcia.
stessa ragione non crederemo destinato al canto l'inno (1) di
Filico
Corcira in esametri coriambici stichici, dal
di
quale Efestione TE
A7,|jir;xp''
-/.al
(:}(),
22) riporta
(I>cpa£-^óvr|
che a un carme da
recitarsi dal
polo non converrebbe iX''xo'j.
Y?3cii|JLax'.xo;',
che Filico
il
il
owpa
verso
r?,
XO-ov:y, h'j7t:x'>.
xal KX'j|i£vo) là Sòjpa. Si aggiunjja
vanto
popolo o dinanzi
auvO-éasto: r?^:
E
poco importa
-p^; Oixà:.
'^épo)
al j)0-
xaivoypx'f&'j
stesso, quale sacerdote di
Dioniso, marciasse
nella processione di Tolemeo Filadelfo descritta da Callixeno (Athen. V^I 98 e); giacche non è detto che egli fosse membro di quel collegio e dovesse quindi comporre canti per l'uso pratico; e se del resto fu membro, sarà stato tale non quale poeta melico, ma qual tragico, giacche in nessun elenco di collegio troviamo un jjieÀwv -oirjXTj?. mentre sappiamo che Filico appartenne alla Pleiade tragica alessandrina. E, poiché composto in priapei parimenti stichici, sarà stato destinato parimenti alla lettura l'inno che, secondo ne informa il Cherobosco (p. 241, 11), il grammatico alessandrino Eufronio compose in onore del dio di Lampsaco. Ma nessuna somiglianza di stile ci riesce di scoprire tra i giuochi abili sì ma di una destrezza un po' fanciullesca in testa agli artefici dionisiaci
di
Castorione e
menti
le
complicati e
Orazio
classici di
Simmia cariche pesanti dall' una parte, e
invocazioni di
(1)
parlano
Un i
gli inni
ma non due liriche anonime, che, non inganna, appartengono a un periodo po-
di
se lo stile
orna-
dall' altra.
Maggior somiglianza con liturgica
di
la poesia religiosa
Orazio palesano
inno fu di certo, perchè
trattati metrici latini
gralia del nome,
cfr.
ora
;
uu inno a Cerere e Libera Caes. Bass. 263, 25. Snll'orto-
di
cfr.
WiLAMOwnz,
Beri. Sitzungsber. Itil2, 549.
—
ItAl
steriore dell' età ellenistica
;
— intendo parlare dei due
io
frammenti d' inni a Tyche, V uno in dattilo-epiconservato da Stobeo {ed. I 6, 13), scoperto l'altro
inni o triti
pur dianzi in un papiro berlinese [Berliner Klassikertexte 2, 143), dove compare in una redazione assai lontana da
V
quella originale,
come mostrano
in dattilo-epitriti
come
numerose irregolarità metriche e parecchie espressioni, che, mentre paiono a prima giunta aver qualche senso, ne sono, chi ben guardi, affatto prive. Appartiene certo allo stesso genere anche un frammento d' inno, naturalmente parodico, all' oro, conservatoci da Diodoro (XXXVII 80) (1), composto esso pure il
l'
le
inno alla Tyche in Stobeo, con
quale esso presenta somiglianze notevoli.
hanno conservato
Tutt' e tre queste composizioni
le
forme degli inni liturgici 1" inno di Berlino chiede alla Tyche, come mai il poeta possa esaltare la sua potenza e la sua natura, tiòjs xpr^ tsàv ìa/'jv ts Zilcy,: za: Tsàv zòi-.v con quale predicato egli la debba invocare, se Clotho o :
;
Ananka
o Iris quest' è un accenno alla -oÀ'jcovu|ji.ta della dea consueta negli inni cletici (2 Il frammento serbato da Stobeo ha conservato la struttura simmetrica e l'anafora :
.
del fu:
t'j
T£
Àà|Ji7i£'.
yjf-y-c
coi'f-év;
xal ao'^:a: ilxxs:;
Zco: aàv
o' à|jLa-/av:'a;
T'J
tura simmetrica
si
sòpa;;
--.io'y^y.
xò
y.aÀòv...
yp'jjiav
xh
:
-ópov zlltz iv àXYsa'.v.
trova anche
nell'
La
ex asH-ev xtx
H
:
-Xàa-'.YY-
stessa strut-
inno all'oro
:
-àvTWv
Ma, per quanto questi tre inni, diversi del resto tra loro, presentino le forme comuni della lirica liturgica, si distinguono chiaramente da essa e si avvicinano alla parte di gran lunga magxpx-t'jTc, ;t7-viwv fjpavvs.
(1)
I-l
-àvTa
\\-i'/:;t:z.
l'ramuieuto, che segue ia IJioiloro,
«li
un inno
alla
-o-^'.y.
troppo breve e incolore, perchè se no possa dare giudizio. (2) Simile < anche la formnla di passaggio noli' inno omcriio A))ollo
rcio;
àpx
a'
'j[iv/,oc'>
::avtto; e'j'jiìvov ììvtx.
i-
;ul
-
—
ITU
giore delle poesie religiose di Orazio, perchè non possono essere state comj)Oste in
[)er
uso pratico. E, altrimenti che
ma come sempre
Sjmniia e in Castorione,
Orazio,
in
anche nell'ode che comincia nominando un santuario determinato,
diva f/ratum (juae
rer/is
una potenza cosmica, non più
il
Antium,
dio che
la divinità è
uomo
1'
antico
venera in un' effigie determinata esposta agli sguardi in un tempio determinato. L'Oro, la Tyche, come la For-
come
tuna,
il
Mercurio oraziano, son qui divinità non
adorate che dal pensiero
(1); pel resto le
somiglianze tra
i
due inni alla Tyche e l'ode alla Fortuna sono di tal fatta che converrà credere che Orazio dipenda non dai due mediocri componimenti a noi conservati ma dal loro modello comune. E ha conservato la forma degli inni liturgici, i»er quanto destinato evidentemente alla lettura, l'inno, scritto in esametri, di Cleante.
non umana,
Anche
è più la
ferente dall'
della mitologia
è un principio, anzi
unica di cui tutte ch'essa è
il
il
7iv£ù|xa
(2)
;
in
Ora-
;
Zeus
lo
principio cosmico, è
dif-
di Cleante
divinità
la
non sono che emanazioni, perche pervade il mondo. L'inno era
le altre
celebre nell' antichità
suo carme
come spesso
qui,
persona umana, o poco
zio, la divinità
;
Arato
lo
imita nel
Orazio, studioso di filosofia,
proemio del avrà cono-
1'
sciuto fin dalla prima giovinezza.
Poesia per
dunque
gli usi pratici del culto seguita
a essere composta, in grande quantità
ma non
con mire
propriamente letterarie, anche nel periodo ellenistico, senza che dal quarto secolo in poi vi s'introducano novità
notevoli di pensiero e di
(1)
che
Di tale fatto
è già
"Fpw;
forma.
Tentativi
àviy.aTì \iy.yaw e in certo senso an-
Zs'jg, oaxic, jióx' sa-iv. (2)
Cfr.
il
isolati,
mio articolo su questo
nelle Charifes fiir Leo.
intrapresi nel primo
171
—
mezzo secolo
dell'
ellenismo, di sol-
levare questo genere a dignità letteraria, liberandolo dai vincoli della liturgia e trasformandolo in poesia dotta per
non ebbero forse successo felice a ogni pare congiunto a questi poeti e a questi
la recitazione,
;
modo Orazio non
carmi da una linea
diritta. Più tardi questi tentativi furono ripresi con successo migliore in poesie nelle quali il
dio inneggiato, sciolto
contingenze del culto, era (ì). A questa lirica faceva dai primordi dell' ellenismo il carme esadalle
trasformato in potenza cosmica riscontro fino
tempo
metrico di Cleante, Orazio subisce a un
gli
in-
questa poesia greca emancipata dal culto e delle ferme liturgiche, quali erano state introdotte ed elaborate
flussi di
romano da
nel culto
poeti molto maggiori che
stati gli oscuri artefici della liturgia dei
Parecchi degli
inni
di
Orazio,
tempi
non siano ellenistici.
l'esaltazione
oltre
della potenza del dio, che ne costituisce necessariamente la
parte essenziale, contengono, per lo
più in fine,
preghiera. Quest'è tradizione liturgica; che
gl'inni,
una di-
ciam pure fisici e cosmici composti per la lettura che abbiamo considerato in ultimo luogo, o non hanno preghiera di sorta,
come
l'inno alla
Tyche
del papiro ber-
che degli altri non si può dire, essendo frammentari), derivano in ciò dalhi hturgia (2). I proemi omerici quando chiedono àf>ìir',v -s •/.%: oX,3ov oppure àvx' (oòf^; [i'.o-ov iS-jjjiv'psa, rillettono secondo ogni linese, o se l'ebbero
(1) Il
cosiddetto Menandio, in un capitcdo del primo liluo
3Ki5eixTi7.(&v, il
^uoLxòg (2;
lettore
dà
prescri/ioiii
intorno a un genere spe«;iale
nspL
pvY)
lìnisee
in
Xóyov
~%;x-
(Il 1-1. S
mia pregliifia.
—
—
ìri
K
probabilità antichissimi inni melici.
inni
gli
della
li-
turgia ellenistica non fanno per lo piò altro che tradurre in stile
termine
il
jjarole, salvo che che aveva ormai preso un
semplici
quclU;
fiorito
lirico
viene evitato
àfeiir,,
senso diverso da quello di prosperità l'^ilodamo chiède s'r^pwv xav^e -óÀ'.v
Aristonoo chiude
TioXbv
-/([xàc
/ops'js'.y.
come
óai'fov
quello ad
fcTta'.àv,
0)
Il
peana ad Apollo con
il
òà[jov il
T^jjLctspo:;
ijjjivoi;
"^([Aàc,
(1).
ZiZojc,
ilestia
y.ó\
le
tjv
^oi^wv
y.y.\
r/o VTa; àsi À:-aj>óil'povov àn'^l aàv
oÀjiJov
vecchie
formule siano
'^/.,j';>;
parole /apsl; è'firo-.:
otòoo ò'à|io'.^à$ iz ó-j-'ov
In tutt'e tre questi carmi la parola
le
ritornello di
•^'jÀaa'j*£'Ja''f")v:
presenti
ìt-'jui/.av
oÀ,'5o;
mostra
all'animo
dei
non di trascenderle. Né le trascende la chiusa del peana d'Isillo, quantunque essa non contenga più la parola tradizionale: poeti che
studiano
si
di
variarle,
yaìp' 'AaxXaTi'i, xàv aàv 'ETwi'òa-jpov jxaTpÓT^oXtv ajEov. quest'è
parafrasi di '^pcal
5i'ood àpsxyjv;
zàl a(ójxaacv
à|ioTu:
il
seguito
svapY'J'i? o'^y^e'-av à7-'.-£[jL7:ot;
parafrasa
salvo che al bene
oÀ,3ov.
generico è sostituito quel bene specifico che
il
dio Ascle-
—
pio è in grado di concedere, la salute del corpo, e
si
aggiunge qui, dell'anima. Assai più larga è la fine del secondo tra gli inni delfici corredati di note: àXX'w Ooì^s. a(j)^£
i^sóxxiaxov IlaXXàooc àaxu
xó^wv
òzrsTzòzi
(1)
Kpy]a:wv
In im iuno
che
-/w'jvcòv
x'
"/al
Xaòv xÀeivóv. auv X£ 0-eà
"Apx£[x:;
e
dalla
trae senz'ambagi le conseguenze. L'inno I
che né la l)ossouo
il
virfcti
far
omerici,
Cal-
mutata
finisce StSou x' àpst/jV x' le
sue parole, mostra
senza la ricchezza né la ricchezza senza la virtù
felice
parafrasata,
7.u5:axa,
significazione
poeta stesso, quasi glossando
l'uomo: ojx' àpsx^g axsp
àégsiv, O'Jx' àpsxv) àcpévoio. Alla line piìi
Aax.o
conserva la forma di quegli
limaco prende àpsxi^ nel senso nuovo acpsvóg xì; poi
7^Zì
ma
oJ.Jio;
sTiiaxaxa'. ìcvSpa-
Callimaco ripete la formula non
nel testo originale diSoo
S' àp£xr;v xe
Anche nella chiusa del Tolemeo di Teocrito (JpsxV; V. WiLAMOWiTZ, S(q)pho u. Simonides 171^.
-/.ai
sta nel scuso
cXpov.
nuovo.
— 'rj.izy.z Aó/.-fcov
v.y).
aTG'jc. Bày./o'j
i)-'
ma
—
tt^jAcÀsÌiI' a;xa tìv.vo'.;
!£pov:'xaca'.v
oopcaTSTC-ov xàp-£i Tto|xa''o)v cp£p£v:xav;
17;]
nonostante
òiiJtaaov y.-'x.-
a'j[ij3''o'.:
tàv xs
cù|ji£V£Ì; [xbXzxz TupoaTróÀota'.,
àp/àv
numero
il
cate e la sonorità delle parole
àyi'JpxTW
a'j^£''
delle divinità suppli-
pensiero non
il
B-àÀXo'j^av
presenta
nuovo. L'attualità ci si insinua soltanto di straquanto il coro chiede agli dei di esser benigni non solo al popolo Delfico ma anche all'impero di Roma. In Orazio in fine d' inni che cantano la divinità in se, sciolta da ogni legame con contingenze del suo culto terreno, l'attualità si aggiunge nella preghiera con deternulla
di
foro, in
minatezza mirabile
che
desiderio
si
Caesarem
in
iuveniim recens examen Eois
ti-
di particolari; sia
il
riferisca alla salute di Cesare: serves iturum
nltimos
orbìs
Britcmnos
et
mendum partibus Oceanoque
rubro
(I,
35), o a quella di
Jiaec
bellum lacrimosuni, lue miseram
pnlo
et
principe Caesare
motus aget prece
(1)
(I,
in
che Orazio supplichi
una
dio di render docile alle sue voglie cfic
modos,
lui latis
nuptiarum 11)
(2).
Li/de
qnibus obstinatas
equa trima campis ludit expers
et
Se quest'arte
adirne
a po-
Britcmnos vestra
Persas atque
21), sia
Roma
famem pestemque
il
bella riluttante
:
adpUcet auris, quae ve-
exsultiìn
protervo
sia originale,
ynetnitque
cruda
tancji
marito
non saprei
dire
(III,
con
come conchiude spesso gli epinici aggiungendo dopo il mito una preghiera di mirabile attualità, cosi anche nella chiusa del peana per Abdera sicurezza: certo Pindaro,
£[io[l
5=
£7.(o]v
£C7[X(T)v
£]'j7.X£a
[xpa'v(o]v
}(àp'.v|''A[iòlrjp£
y.y).
impinta clic ([ui la preghiera si amuiaiiti di profezia. Qui por vero la pregiiiera udii è in fiue ma poco dopo il principio. Se si confronta questo carme con I 30, vien fatto di pensare che Orazio riprenda «(ui nna seconda volta con solennità apimrontemeute maggiore il motivo di Posidippo e lo sviluppi, aggiungendovi un mito che in sé è serio. l>i ijui l'orse la complicatezza della com(1)
Polio
(2)
posiziono.
aT[faxòv] tTiTio/àpiiav [aà ^]ta y;
Tca-.àv
time
Tia-.àv
i/j
i)arole,
oà
-
17Ì-
::'>)i[|i]fj) TeÀ£'j[Ta''](|) 7:po|5'.[ià;roi;
\v!,r^'-jzt Àe-'-o'.
non ha, tranne
nulla della formula,
ma
su[)|)lica
nelle ul-
con parole
suoi cittadini in eponimo di soccorrere ~'j/À[ì('> l'espressione l'ultima: essere deve una guerra che
originali l'eroe
quanto ardita
Le
sua
nella
h
TeÀEJxa-'o)
i
fonti
stringatezza
altrettanto
ellicace
(1).
ellenistiche della lirica religiosa
di
Orazio
non breve; modelli della lirica in poche parole. Questi carmi sbrigare civile si possono categorie, in \xÌAr^ -oÀ'.t'.-/.'/ si possono dividere in due
hanno
e in
richiesto discorso
ijaa'.Xr/.à,
\i.zl'fi
greci
trattatisti
i
per dirlo
con parola greca, come
d'eloquenza pa^-lavano
Alla prima appartengono
Aiyoi;.
cipio del terzo libro.
non abbiamo
La forma
audita
odi
di esse
un
romane
è
i
|jaa'./.:xò:
in prin-
originale
:
noi
diritto di rifiutar fede al poeta, quand'egli
proprio in principio della prius
le sei
di
Musarum
prima asserisce carmina non
sacerdos
rirginibus inierisque canto,
né questa volta basterà a spiegare il passo supporre che effli si vanti di aver sostituito la strofa alcaica al distico elegiaco che sarebbe stato il metro consueto di componimenti di cotesto genere. Orazio desidera che tendano 1'
orecchio
(1) iir:i«rr;iro
—
178
—
non vuole tuttavia escludere che Orazio nella scelta dei mezzi di espressione abbia tratto profìtto dai suoi studi di lirica greca. Il poeta parla
predizioni. Quest' asserzione
verso la fine di sé stesso,
mito i)rende qui daro, proprio
lo
Ma
mezzo.
il
come
Pindaro, e
talvolta
il
stesso luogo che negli opinici di Pin-
deve
la scelta della favola
ri-
cordare ai lettori un episodio celebre del poema classico di Ennio. Orazio ricanta qui liricamente una saga già svolta epicamente da Ennio, cosi come Pindaro attinge i suoi miti
Ma
alla tradizione dell' epos.
egli,
quasi costellando
i
suoi
che non dovevano sfugil quale aveva imparato a megire al lettore romano, moria gli Annali sulle panche della scuola, indica, vuole
versi di reminiscenze enniane,
indicare che queste odi sono davvero romane.
Né
il
poeta
s'inganna nel giudizio sull'opera propria, onde converrà a noi trattare delle odi romane nella parte di questo libro destinata allo studio degli elementi romani nella lirica di Orazio.
Quanto
alle odi regie sarà
parte III 14 HercuUs
rifu,
bene lasciar per ora da
descrizione di
un
corteo, la quale
appartiene a un tipo particolare, e considerare in primo
luogo quelle liriche che o come IV
14 e
15
quae cura
patrum e Phoebus volentem sono tutte un inno al dio imperatore 0, movendo da concetti diversi, in un tale inno si assommano, quali I, 2 iam satis terris, l, 12 quem virum aiit heroa e particolarmente lY, 2 Pindarum qnisqnis studet. Derivano queste odi, come gli inni agli dèi celesti, da tradizioni più propriamente liturgiche o da modelli letterari celebri ?
Certo, quasi si
tìitti
i
concetti svolti o accennati in essi
ritrovano simili in iscrizioni contemporanee, in
titoli
pubblici di città asiatiche che parlano di Augusto quale di divinità evidente e presente
egli
ha arrecato
al
genere
ed esaltano
umano.
Il
i
benefici che
sovrano
o
anche
— il
-
179
magistrato rappresentante dello stato sovrano,
Roma,
chiamasse anche Verre, soleva ormai da secoli, già fin dai tempi di Quinzio Flaminino, essere onorato da Greci si
quale
e Orientali ator/,p (1),
rasse anche lui
ricusasse
gli
benefattore
e ricevere
e salvatore, eùepY^tr^; xal
divino.
Che Orazio conside-
suo Augusto quale dio vivente e non
il
gli
culto
dovuti a ogni divinità e più a
onori
quelle incarnate in
uomini, parrà naturale a chiunque
consideri la condizione degli spiriti nell'età augustea
senza che per questo
sia
ci
poeta andasse in cerca
bisogno
di pensieri
di
(2),
supporre che
il
e di espressioni nella
liturgia del culto imperiale, quale lo praticavano le pro-
vince orientali
dell'
quelle epigrafi.
Ma
impero e quale lo rispecchiano a noi con quelle epigrafi Orazio ha comune non dico tanto il sentimento che, restituita la
ben altro: pace e la sicurezza nel mondo grazie potere centrale, una nuova era
—
umano orcio,
che
il
al rafforzarsi di
aprisse
per
il
mac/nus ab integro saeclorum
un
genere nascitur
virgiliano mostra quanto diffuso fosse questo senti-
mento culto
(3)
—
;
romano
quanto l'identificazione, ignota
sin allora al
e tollerata dai magistrati solo
in Oriente,
del mortale pari agli dei il
si
con divinità determinate, quanto
concetto, pochissimo romano, che la bontà dell'impe-
ratore ha fatto della vita
una
festa perenne. Invitano al
confronto con Orazio tre documenti, la lettera del proconsole Paulo Fabio Massimo scritta nel 9 av. C. al con-
(1)
Sulla
Wendland, (2) Cfr. (3)
vatore
di
quest'attributo
V
su di essa lo studio del
Già nel 62 av. Cr.
Pompeo Magno mondo {Syll.
pace nel xoiz
storia
Ztschr. f. neutest. Wisa.
il
demos
vincitore
337)
:
ò
cfr.
la
geuialo
Nordkn
in N. Jahrb. VII 1901.
dei Mitileuci onorava ((uale sal-
dei 8à|i,05
pillati,
aver restituito
per
xòv èa'JTto
ató-cvjpa
xaxaaxovTa; xàv oinr^iévav noXéjiotg xal xaxà
Xaaoav.
ricerca del
335 sgg.
y*''
la
xataX-jaavix
'tal
xaxi
S'i-
18()
sorzio delle città greche dell'Asia, che ordinava loro di
cominciar tutte
il
loro
anno con
natalizio dell'Augusto,
il
decreto di esse città (Or. 458), e meglio ancora
il
l'iscri-
zione di Alicarnasso, Greek inscr. in the Brit. Mus. 894, che pare posteriore al 2 av. C. Si confrontino per esempio
con quest'ultima
IV
del
Iscr. dì
epigrafe alcuni
passi
regi
libro: Decreto del xoivdv
Alicarnasso
Orazio IV
2,
37
(Augusto) oO
|ióvcv
quo nihil maiua me-
àO-avaTOC xoù navxò;
xo'j? Tipo a'jxoù
Ysyo-
liuHve terrie fata do-
cpuaig TÒ nàyt jXOv Afot.-
vo[xas sOepYéxagÒTiep-
ènei
3-òv
i,
altóvio;
'/.a.^
npòc u7iepPaX?vO'j-
oa^
àv-
eùspYsa.a;
cv xoìg £oo|iévoig èX7c'.5[a
Kaioapa tòv i;E^aoTòv
3oX7Ì?
èvsvy.aiiévyj il[iò.c,
tco
0:toXi7:wv Otisc-
|j.èv
Y^P
tum
aurum
tem-
T£
via exiget
8Ì8
sgg.
domus stupris, mos et lex maotdosum edolaudantur
simili prole puerperae,
culpam poena premit
IV 5,
sXtiì-
§a)v iièv xpiìi'jy.xo
è già fissa e
più tardi.
Non
Un
Tiepl i
ma
una
yvo'jc,
visita,
il
re
promulgò un de-
uapouaiav aùxoQ jxsya-
xyjv
Qui la terminologia medesimi che incontreremo anche i
tutti
ultimo rillesso
:
à-avxY^aeto:.
xf^c
soltanto
darono incontro,
(1)
incontro
riti
i
popolo, appena seppe che
Il
città di
ili
magistrati e la cavalleria i
cittadini
cu
:
(jióvov oi
gli
an-
xàc àpyjtc
tale lirica jjiiizza forse ancora nella bolsa
prosa poetica dell'esortazione a festeggiare
il
nuovo imperatore Traiano
ritrovata in un papiro di Giesson (3 K«)rn.).
l'JN
s/ovis;
|Ji£Tà
tTiTzéwv,
T(T)v
àXÀà
TxàvtSi;
y.al
le
sacerdotesse e
(p^av
i
sacerdoti
T^oXtia: ixexà xòjv si
presentano
[isxà Zz -aOia xoù; vao-j; àvi-
;
non manca mai
l'apertura dei tempii
:
oc
Al Dipilo
T£y.vo)v y.al YiJvaf/.òjv à-y;/ioiv aÒTolc;.
in
queste ce-
rimonie.
Un settant' anni più tardi una città del regno pergamene, forse Elea, dispone che qualora il re Attalo Filosacerdoti matore (138-113) la degni di una visita, tutti aprano i tempii e sacrifichino e preghino per la salute i
del sovrano [Or. 382, 27 sgg.) TióXiv
y^jxòJv, ....
vxcrjg
xwv
re.
xal
O-eòjv
àpyoyxy.c, xal xoìx; Espovc'xai;.... xal
xy;/
xobz.
xòv
xou? xs TipoYS-
axpaxyjYO'J?
xo'j;
il
Y^IJ-v^ca-'ap/^ov
^-2''-
[isxà
"^'j?
xòjv
xal xwv v[£wv xal x|òv -a'.oovóiJiov [x£xà xw[x r.T.Zor/ xal
è'^rjljojv
xo'j;
àvoi^avxa;
àTiavxf^aai oh aOxo)
xal xà; tópefa; xal
tepsT;
7rapaY''vr;-a'. ci;
Ispeóa?
xàc;
xòv Xi|java)xòv eu/caO-a: per
xal STitO-jovxa;
L' iscrizione continua
Ypajji{X£VOu;
oxav....
:
zal
tcpel;
xo'j;
xal xà; [Yuvalxac; xal T^apO-évo'j; 7:àv]xa; xal xobz
7i;oXc'xa;
èvoixoDvxa; èv èaS-f^at
Le
£ax£^av(0|i£vou;].
l[cc\inp'xXq
forme, almeno in Oriente, erano rimaste le stesse
tempo di Caligola, quando il popolo di Cizico udendo prossima la visita dei regoli bosporani Rhoemetalce e Polemone impose ai magistrati di presentargli un decreto di incontro, 'j)r,cp:a[j,a 6-avxr,c7£03; z'.'jrf/i^aaaO-a: aOxoT; un termine fisso per decreti l' esistenza di ancora
al
365),
{Sijll.
:
genere mostra quanto frequenti dovessero essere
di tal tali
occasioni.
porre
:
uTiò
xyjv
àvo-'^avxa; xà
atwvcou
I
magistrati
x£|ji,£vt] ....
otajiovf^?;
xal
si
aò-MV
dooòo'j
£'>/£aO'a:
xf^c,
affrettarono infatti a pro|X£V
zcr:c,
[xàv
xouxou awxTjp'a;.
qui le stesse, spesso letteralmente
grafe tanto più antica di Elea,
per la salute dei regoli, del
mondo, da
pianeti
si
xal xà;
zffi Faio-J
la
o£ Travia;....
luce
i£p£:'a;
Kat^apo:
Le formule sono
le stesse
che nell'epi-
tranne che, invece che
prega per quella del signore
cui essi derivano la loro autorità
riflettono
K'jZ'.xr^vo'j;
c£p£T;
ù-sp
del
sole.
UTiavxr^aavxa;
Il
\izxx
decreto
come
seguita
i
:
xwv àpyóvxwv xa-
—
—
199
Tòjv axscpavYjcpópwv àaTiàaaaOa'' zt I
ragazzi delle scuole non
anche qui
ii>
E
scpr^Sou;
xo-j;
l'^r^ljapyov
più splendidi, quelli
cortei
i
di descrivere feste,
tro agli dèi visibili, ai sovrani ? Si
quando Orazio canta sì
ma
modo
al
di origine ellenistica,
quanto
drini (1). Che, per
ha si
-r^v
iiz:
compiaceva,
si
lasciasse sfug-
si
che andavano incondovrà concludere che
ellenistico 1'
Zi
via.
divisi
xal xòv 7:a:5ovó|XGV
possibile che la lirica ellenistica, che
abbiamo veduto,
gire
qui,
due gradi secondo l'età: àya^slv
b-Av-rp'.v xal tòv
lo
e così
auvr^aO-f/^ai
xjcl
mancano neppur
una
festa,
romana
occhio a modelli alessan-
sia inteso
carme diversa-
il
mente, egli canta un corteo che all'uso greco va incon-
composto
tro al sovrano,
forse, è vero,
solo di
matrone
o di matrone e vergini con la moglie e la sorella del principe a capo. Kiessling-Heinze intendono che matrone
vadano
e vergini
vero che
in processione a porgere agli dèi
ma
grazia,
di
crifizio
questa spiegazione
in iiistis operata divis
sariamente senso
il
sa-
E
erronea.
è
V operata non ha neces-
perfettivo; bastano gli
esempi raccolti nel Porcellini a provare che anche in latino questo participio, come spesso altri di deponenti, può avere senso di presente, e
caico
si
sia
s'
intende facilmente come quest' uso ar-
mantenuto a lungo appunto
significazione sacrale.
che operata
divis
Ma
qui
in
un verbo
non potrebbe mai voler
come
dire,
tendono e traducono scialbamente Kiessling-Heinze: Dienst der Gotter
>>,
in servigio
degli dèi,
crificando agli dèi. Perchè venisse
commentatori
(1)
11
aver
Thcoa,
il
solo
« ini :
sa-
senso che
i
in
uso in
Imon naso, supponeva che Orazio ado-
152, ha avuto clniKuio
proseliti le iscrizioni,
due xónot ^ià
torno del monarca.
fuori
ma
;
in-
ostinano a volervi trovare, occorrerebbe
NouDKX, AguoslOH
i[uriudo, senz' prasstì qui
si
di
presente non dà senso
il
eti\
dlonistiia per
la
tosta dol
ri-
— che operata avesse senso
-UH)
—
di futuro
:
« per sacrificare »,
il
che è impossibile. No, Livia ha sacrificato agli dèi, e ora insieme con Ottavia, alla testa di una processione di matrone e di vergini, va incontro
ha qui
rata
il
senso
piìi
al
consueto
principe reduce
e ope-
;
di participio perfetto (1).
abbiamo detto, rito ellenistico. Non importa ma ha tuttavia qualche interesse i)er la storia della cultura, sapere se cerimonie simili non vi fossero anche nel rituale romano. Certamente vi erano, ma risalivano, credo, a origine greca. Qui V Ouàvcyjotg non è congiunta con il trionfo, che Angnsto aveva, com'è noto (Dio LUI, 26), rifiutato quest'onore decretatogli dal senato. Ma nel trionfo, se non 1' uTidvxyjoig propriamente detta che il corteo non andana incontro aW imiìeralor, ma si formava fuori della porta trionfale per accompagnare V imperator in città (Marquardt, ròm. Staaisvertvaltung II, 182 sgg.), avevano luogo molti di quei riti che, come abbiamo veduto, erano congiunti con l' ÓTrxvr/;^'.? nelle monarchie ellenistiche. I templi rimanevano aperti tutto il giorno (Plut. Aem. Paul. 32); ognuno bruciava incenso in onore degli dèi (Orazio e. IV 2, 51 dabimusque divis tura lenignis,, Ovid. trist. IV 2, 4). (1)
L' Ù7idvf/)aig
è,
nulla al nostro assunto,
—
—
Questi stessi
riti si
dei templi p.
e.
ritrovano
tali e
secondo Livio
quali nelle supplicazioni
(XXX
1' ;
apertura
17, 6) nella supplicatio decretata, al
giunger della notizia della vittoria definitiva sui Cartaginesi nel 203 (cfr. anche Liv. XXX 40, 4 XL 53, 6) la libagione d'incenso pure se;
;
condo Livio (X 23, 1) già nella supplicazione del 296. Anche da questi indizi, a cui si aggiungono per vero altri non meno certi, gli eruditi concludono generalmente (v. Wissowa, Religione 424) che nella sup1'
plicatio
da
fitti
non
antico nucleo
romano
strati di culto greco,
in età storica fosse avvolto e coperto che gli erano cresciuti intorno. Perchè
ritrarre dagli stessi riti la stessa conseguenza per
qui
il
che
il
nucleo romano
il
trionfo
?
Solo
mette a nudo più facilmente: è romano p. e. capitano vincitore indossi le vesti di Giove Capitolino, è ro-
mano che romano
si
deponga
egli
o italico che
i
nostre conchiusioni non
antichissima
;
le
insegne nel tempio del dio ottimo massimo
soldati cantino versi scherzosi e lascivi. si
può obiettare che
il
trionfo è istituzione
che noi non possediamo descrizioni particolareggiate cre-
dibili di trionfi antichi. Dalle descrizioni del trionfo di
Romolo
in Dio-
nigi di Alicarnasso (II 34) e di Cincinnato in Tito Livio (III, 29,
per
le
;
Alle
quali naturalmente quegli scrittori
trionfi del loro
tempo, passiamo suhito
hanno preso
al trionfo di T.
i
4),
colori dai
Quinzio Fla-
Anche
qui
non
Orazio
—
2Ui
riproducono a un dipresso particolari,
un
da questo
tipo,
parativi per
di
nell'
invenzione, se non nei
ne egli si diparte ancora o forse combina solo con esso un altro,
tipo ellenistico
pure tradizionale, quando il
diversamente che Alceo. Le prime strofe
procede
nelle cosiddette « imitazioni »
ci
;
trasporta in
convito festivo.
Ma
il
mezzo
pre-
ai
richiamo agli amori
giovanili nelle ultime due strofe porta nell' ode una nota personale e oraziana. Porse il poeta non avrebbe scritto neppure queste due stanze, se non avesse letto Callimaco ma sue e nuove esse sono ciò nonostante. Ora suoi
;
che l'arte con la quale il poeta corteo, così come gli passa dinanzi agli occhi,
importa solo descrive
ebbe
I
il
stabilire
riscontri, cioè modelli, nella lirica ellenistica.
frammenti nuovi mostrano che anche Alceo
carmi parenetici. Noi non conosciamo ancora
non r esortazione a una Melanippo, che
^àÀXso,
facile sapienza
tutti
«
:
|xr^
dobbiamo morire,
solo tentò di sottrarsi a questa necessità.
solo a morire due volte ».
Se
egli
di
scrisse
se
lui
\ìz'(Ì1wj
Itii-
e colui
che
Sisifo,
riuscì
abbia scritto molte
al-
gnomiche, è impossibile dire, ma parrà non probabile a chiunque ripensi come Orazio accumuli molti carmi di tal genere nel secondo libro, violando così quella norma della massima varietà possibile, che abbiamo veduto dominare nella raccolta alessandrina dei carmi di tre odi
Alceo. Orazio, par
si
odi parenetiche che
debba indurne, ha non Alceo, che nel
minino, descritto da Livio
(XXXIV
scritto tante più
distribuirle
non
nn)do del
resto assai
soiuraario e insufficiente, e a qnello di Emilio Paolo (Plut.
Acm. Paul.
32 sgg.
;
il
testo di Livio
se riscontriamo in
[XLV
52,
4)
in
40] è qui lacunoso).
tempi così recenti elementi
Che meraviglia,
ellenistici
f
ha più potuto
attenersi,
come
suole, al canzoniere di co-
ha raccolte tutte insieme. Ma anche questa sarà sempre conclusione non del tutto certa, perchè tratta da indizi forse insufficienti. Ad a.«:serzioni più sicure conduce l'esame degli argomenti delle odi pamodello e
(piale a
stui
le
renetiche.
L'ode a Dellio aequam memento
II 3,
Postumo
quella a
eheìi fuyaces II 14 e sino a un certo segno anche quella a Sestio solvitur acris hiems I 4, dove però il sentimento e alcuni particolari sono ellenistici, predicano a un diconviene saper vipresso la stessa sapienza che Alceo vere e non perder tempo, perchè si vive una volta sola. Gli altri componimenti parenetici (1) trattano temi che, se non per la prima volta impostati, per la prima volta furono trattati sistematicamente dalla filosofia morale :
ellenistica. II 2 nullus argento ricorda a Crispo Sallustio il
paradosso stoico
oti
[jióvo;
ó ao-^ò;
-Xo-jaio;.
impossibile
a concepirsi se non da chi avesse appreso, sentito, vissuto la filosofia di Socrate voc.
[AsaóxrjTo;
;
II
;
II
10 redius
16 otiuni divos un
iam panca aratro un
vives è
un
£7:aivo; £Ò\^'j[ji:a;
;
t-x.li
15
un 'i^óyo; xpu'^f,; v.y}. aby^poVvEpSeta; e contro 18 non ebur neque aureum Il l'aìa/poy.épòs^a si avventa parimenti III 16 indusam Danaem. L' invettiva xa-3c tXo'jxo'j III 24 intactis oindentior rivela un sentimento, l'ammirazione mista di invidia per i popoli selvaggi, che non suole sorgere se non in uomini stanchi per eccesso di cultura. Si è invero commesso spesso il torto di disconoscere che in queste odi parenetiche Orazio attinge a piene mani dal tesoro gnomico dell' antica melica (2) e dell' antica elegia il com'Y^^oz.
Tf^'yJi''(ti
;
;
;
(1)
Escludiamo per ora dal novero
le
consoìaiiones,
ohe sono di
tatt' altra natura. (2) il
È
motivo
noto di
p. e.
che
un carme
di
il
principio di non ebur neque aureum ripiglia
Bacchilide non dissimile neppure nel metro.
— mento
—
203
Kiessling-Heinze, specie nell' ultima
di
raccoglie troppi paralleli da moralisti popolari
troppo
ma
con tutto ciò non è possibile inganOrazio prende da altri poeti classici, oltre che da
pochi da poeti narsi.
edizione, e
;
cita anche qui, come suole. Ma r impulso a scrivere carmi tutti gnomici non gli viene né da Pindaro ne da Bacchilide, per i quali la sentenza
Alceo, spunti e colori
non
;
non un ponte di passaggio, un episodio, una chiusa, e neppure da Teognide o da Pocilide; specialmente non deriva, non può derivare da alcuno di questi la maniera di trattare ampiamente questi problemi, sfaccettandoli in mille guise, ragionando di etica eudeè per lo più se
monistica quasi
di professo, talvolta
pur troppo più an-
cora da professore che da poeta.
Orazio non ha potuto prendere dai poeti classici teresse semifilosofico per problemi morali.
Cicerone e
ma
;
i
tempo
rario.
E
ellenistico,
venuto ora
in-
passi paralleli dei filosofi fanno
vedere che Orazio attinge qui del
l'
dialoghi di
Seneca mostrano quest' interesse
trattati di
i
vivo nei Romani
I
i
suoi motivi a letteratura
non dicono a qual genere il
momento
di
lette-
chiederlo. Questo
problema si ricollega con l'altro, se Orazio derivi anche per la forma da quelle stesse fonti alle quali attinge per il
contenuto
;
in altre parole, se
rettamente da Alceo l'idea
di
Orazio abbia ripreso di-
scrivere odi gnomiche, nelle
quali poi per suo conto abbia trasfuso contenuto ellenistico di pensiero, o se invece abbia
formali, più
vicini
in
avuto modelli, anche
gnomica
poesia
dell'
età alessan-
drina.
Non
si
può supporre che Orazio, nello scrivere
abbia dimenticato pulso a comporre
le
letture
le Satire.
ma
Se
il
contenuto etico
Odi,
le
dalle quali ricevette di
l'
im-
que-
che esclusivamente, epicureo, una particolarità formale, che imprime su alcune di esse quasi un suggello distintivo, il dialogo con un ste è per lo più,
tutt' altro
-'
:i04
—
interlocutore fìnto ed evanescente, che salta fuori, scompare, si muta a piacere del poeta, deriva loro, come è noto ormai da anni, dalla diatriba cinico-stoica. Orazio riprende in esse spesso i motivi e assume il tono del predicatore che sulle piazze, ritto in mezzo a una cerchia di
problemi di etica e risponde che chiunque vuole, gli presenta, anzi ne
curiosi, discute
zioni
se stesso,
quando
gli
vien comodo.
alle obie-
fa egli a
meglio, Orazio di-
pende da rifacimenti letterari di tali prediche popolari, si può immaginare, in istile sì di conversazione ma pure ben più alto e più decoroso di quello che cotesti filosofi da strapazzo usavano nel disputare per le piazze. Sarebbe assurdo supporre che Orazio nello scrivere le Odi avesse del tutto dimenticato gli scrittori di composti già,
diatribe cari alla sua giovinezza.
Rimane
solo
gli occhi, oltre
il
dubbio, se egli non abbia avuto sotto
questa letteratura prosastica, anche carmi
parenetici alessandrini
limaco
p. e.,
hanno
fatto
(1).
Liriche dei maggiori, di Cal-
certamente no l'
arte per
l'
;
che
i
maggiori Alessandrini
arte senza
preoccupazioni mo-
E
neppure in epigrammi e in elegie dei minori avrebbe trovato facilmente modelli adatti. Il libro dell'Antologia che contiene gli epigrammi protreptici, il X, rali.
è
uno
126 epigrammi, da cui si deve togruppo dei primi 25, che è di componi-
de' più smilzi
gliere subito
il
;
menti non parenetici. Gli autori sono tutti recenti, poeti del tempo imperiale, Pallada e Luciano, o addirittura dell'era bizantina, Agathia e Paolo Silenziario. I pochi più antichi risalgono all'età di Tiberio,
come Basso,
di
(1) lu tutta la ricerca sarà prudente non prender mai come pietra paragone il motivo già svolto da Alceo « la vita è breve, la morte inevitabile », essendo esso diffuso in tutta la letteratura greca
di
e
:
romana
e in ogni genere letterario.
—
—
i205
Augusto, quali Antifilo e Bianore. Un paio di apoftegmi di filosofi ellenistici, p. e. Cleante, qualche citazione di versi sentenziosi di tragici, di Eschilo e di Euripide, o anche
anche
di Pocilide o
sotto
nome
il
di
una
(^ì
delle raccolte
Simonide, non mutano
che andavano
comcompo-
carattere
il
Il modo appunto come esso è prova che epigrammi gnomici ellenistici non ci furono se ci fossero stati, alcuno ne sarebbe conservato nell'Antologia sia pure tra un numero molto maglibri che contengono gli giore di imitazioni tarde. Cosi epigrammi sepolcrali, epidittici, erotici sono per la parte
plessivo del libro. sto, fornisce la ;
i
maggiore composti di poesie del tempo imperiale, ma contengono anche alcuni dei carmi più antichi, i quali in quelle poesie tarde
parente
:
si
Vè
rispecchiano.
un epigramma
di
Orazio a Licinio Murena rectius
di
un' eccezione ap-
Basso congiunge, come V ode vives
II
stesso ordine che Orazio, con la lode della
fronto dell'
uomo che
che sa evitare cosi Orazio
la
il
cautus
miitm premendo
Basso AP X 102
ncque
horresois, litus
con-
retto
al-
|J-VjX;
[is
y£:|aaxi
"óviog àyoc
lum semper urgcndo ncque, dtim procellas
il
cammino e della nave tempesta come la bonaccia (I):
batte
10
II
rectius vives, Licini,
10 e nello
iJ-saóty;;
ni-
iniquom
;
[oiSè
O-pas'Jj, -(iX-q'^riz
àpY;^S YjOTiaaxiJirjV ty,v rAXi vrjVEjiivjv a: |j.3jÓxyjXe; òcpiaxar ìkt, 5i xs Ksrjg'.sg
[àvSpwv,
aureum diìigit
quisquis
mediocritatem
y.aì
TcaXi |jiéxpiov syò»
tutus, etc.
CM'Tìv. xo'-jx'
Le coincidenze anche tali
xàpxiov y^jTiaji-
nell'
ày*'^") 9-^- Aa|ira
espressione sono tante
che, per quanto e la lode della mediocrità e
(1) 9-paa'Ji;
mare.
In Orazio e
della
il
couironto ò più plastico: Hasso parla
VYjV£|i'.r],
Orazio dell'attilla ))res8o
al
lido e
e
il
con-
di-l
tcóvxo;
dell'alto
— fronto della vita
—
iiO»)
umana con
il
corso di una nave siano
comunissimi nelle letterature antiche (1), par certo
esse
non siano fortuite. Che Orazio e Basso usino tutt' e due di uno stesso carme ellenistico, sia questo poi un carme melico o un epigramma, non si può naturalmente escludere del tutto
ma
;
un' altra spiegazione parrà più verisi-
epigramma è, come sembra, tutt' uno con lui, vive a Roma al tempo di Tiberio, canta la morte di Germanico (AP VII 391), celebra la leggenda di Enea con gli stessi concetti a cui si ispirano 1' Eneide e le odi romane di Orazio (AP IX 236). Sarebbe imprudente dedurre dal nome ch'egli fosse un signore romano dilettante se non fu, fu per altro almeno un Greco o un Orientale, che, ottenuta la cittadinanza romana, assunse nomi del suo patrono. E probabile che
mile
:
Lollio Basso, se
Basso
il
dell'
;
i
egli
abbia letto Orazio.
Quanto alle due elegie davvero gnomiche di buon tempo alessandrino, che ci sono giunte sperdute tra gli epigrammi dell'Antologia, quella di Leonida Tarentino « La vita è breve, (VII 472) riprende 1' antico monito quella di Posidippo quindi è forza moderare i desideri » (IX 359 Stob. 98, 57) svolge il motivo doloroso, frequente anche nei pochi frammenti che ci sono rimasti « Ogni condizione umana è dolore dell' antica elegia meglio non esser nati o esser morti appena nati » (2). :
;
=
:
(1)
secondo
Per gli
la
;
xnima vedi
p. e.
l'epigramma auouimo
AP
esempi raccolti dal Gerhard, Phoinix 98 sgg.
oraziani più completi nel
commento
di
X, 51 ;
gli
;
per
il
esempi
Kiessling-Hrinze a questo
passo. (2)
Mi par che
lo
1905, p. 80 sgg.) non
Schott
{Posidippi ep'ujrammaUi, diss. di Berlino
abbia ragione di dubitare che questi carmi
non era filosofo di menon è giusto esigere da lui che non si contraddica mai. La metrica, come confessa lo Schott stesso, è ottima una contravven-
siano del Posidippo celebre. Poiché Posidippo stiere,
;
—
-
207
Questi due componimenti mostrano che ancora in tempi alessandrini poeti di vaglia rimasero fedeli agli spunti e
forme
alle
dell' elegia ionica
parenesi filosofica di Orazio
congiunge
due
le
ma
;
la
un abisso, e nessun ponte
è
e'
carmi e
tra questi
rive.
In papiri di Heidelberg, di Londra, di Oxford furono
un
scoperti (e sono raccolti ora in
libro ricco di dottrina
da G. A. Gerhard) (1) coliambi filosofici di età ellenistica. Di un componimento contenuto in un papiro di Heidelberg si conosce 1' autore, il cinico Fenice di Colofone nello stesso rotolo sono congiunti con questo altri componimenti coliambici di autore diverso, ma di argomento, ;
di
tendenza, di arte simile
Due
(2).
dei tre temi trattati
in questo papiro sono svolti da Orazio nelle odi
simo
dell' ataypoxepòsca
saggio.
che
;
:
il
bia-
ricchezza giova solo
la
al
papiro di Londra e quello di Oxford contene-
Il
due uno stesso carme, anche questo un ^óyo; Solo il terzo carme del papiro di Heidelberg, una polemica assai diffusa contro gli amori maschili, non trova riscontro quanto al tema nelle Odi di Orazio, il
vano
tutt' e
aia/ po'/spoe-'as
.
zione a una regola che Fosidippo
di
aolito
segue, non
è pei" nxilla
pih grave delle molte divergenze che per qnesto rispetto corrono tra l'uno o l'altro di epigrammi suoi senza dubbio autentici. di Chares, Xdpvjxog
])rima
metà del
Yvcòjia!,,
III secolo avanti l'era volgare (G. A.
Abh.
delberger SUsungs'berichte, 1912, alla
storia della
13)
pedestre
si
quella delle antologie. Chares
poesia originale, a
può immaginare.
Gkriiakd, Hei-
appartengono, piuttosto che
adatta versi antichi in servigio della scuola, la lìiìi
— Le massime
scoperto recentemente in un papiro dcUn
Nessim
filo
forma è quanto
di
congiunge Chares con
Orazio. (1)
Phoinix von Kolophon. Lipsia 1909.
(2) Il
Gerhard
sce trovare
comandata,
;
(p.
secondo me, il
tono dello
103) vi scorge differenze che a piìi
stile
o
mono
me non
rie-
rigorosa che sia l'ascesi qui rac-
rimane sempre
convers.aziono garbata nui alla buona.
lo stesso,
quello di una
—
—
^208
quale, diversamente da quel che fa nelle Satire, qui per riguardo alla dignità letteraria evita di discutere dottri-
nalmente materie sessuali. Del resto la pederastia non Cinici del era forse argomento cosi attuale come per nelle Odi tózo: ricompaiono Anche tempo, alessandrino. non molto mutati. Anche in Fenice la vita umana è confrontata con una nave esposta al naufragio, anche qui si i
i
parla con biasimo della
chiunque
sia
r^jóyo; ab)(pox£po£''a?
TcoXXà
Iv0"£v
Ttpy'^aaetv
xa:
malus
to-j;
:
non
ad miseras
votis pacisci ne Ct/priae Tyriaeque merces tias
mari
(III 29,
57 sgg.).
La
i
versi del
èyòj [xàv ojv,
J)
voiv-Zzo^-v.: yyci'jzb^
£7_i)'pouc
verrà in mente
procellis,
xal
èiJta'JKò
tiox' scttsÌv
A
inutile del fabbricare.
Orazio nel leggere
heidelbergense 70 sgg.:
f;Xi)"£V £vO'' r)X9'£v,
giat Africis
di
etvai Tap^eOvi'
Ilàpvs, pouXo:'[xyjV Yj
pompa
un po' pratico
•
àXcov Zs '-^i^zo^
mii-
est tneiim, si
preces
decurrere
addant avaro
et
divi-
differenza consiste solo in
che Orazio immagina che il buttar via il carico, quale inutile, possa salvare la nave, l'anonimo rappresenta invece il naufragio già avvenuto, ed è distinzione
€iò,
zavorra di
poco conto.
A
chicchessia le
oì/.fat
èv.
X-'O-ou a[jiapaYO''xo'j
e le axoal 'L£xpàaxuXoo di Fenice (83 e 85) richiameranno alla memoria V aureiim lacunar e le columnae ultima recisae Africa di Orazio (II 18, 1 e 4) o anche la chiusa della
prima ode romana cur invidendis postibus et novo sublime ritu moliar atrium ? Il male è che, come mostra subito uno sguardo gettato sul commento del Gerhard, 1' uno e r
altro xÓTCog
cinici,
ma
sono comuni non solo ad Ora2do e
a un' infinità di
ai
poeti
altri scrittori, tra gli altri
ap-
punto a quelle diatribe cinico-stoiche, a cui sappiamo che Orazio attinse per le Satire non diversamente che a scrittori epicurei.
Pure io non dubito punto che Orazio, se non proprio noi, abbia letto altri coliambi i componimenti giunti a cinici. Il fatto stesso che in uno stesso rotolo sono con-
-
209
~
mi pare, che quenon agli amanti di letteraa gente che aveva per la propaganda
giunti poemi di autori diversi mostra, ste raccolte erano destinate
ma
tura raffinata
un
cinica
interesse pratico, a persone del popolo proba-
come fanno vedere
bilmente. Orazio,
buongustaio
popolare
quelli prosastici
avrà ricevuto
l'
avrà letto
i
stoica
e
problemi di etica popolare.
lirici
egli
un
era
Satire,
le ;
non meno che di morale p. e, epicurea. Ma non da qui impulso a trattare in istile alto e in me-
poetici di etica cinica
trattati
tri
letteratura
di
Lo
Fenice e
stile di
dei suoi correligionari è semplice e spoglio di ogni orna-
mento,
il
verso non sostenuto
prosa. Solo
una volta
il
ma
cadente e simile alla
tono del poeta predicatore
si
eleva di qualche grado, quando nel carme heidelbergense contro r ata)(pox£p5£ca assevera
l'
esistenza del
veglia sulle azioni degli uomini,
nome
TàÒ£ axGTTsc
|v£](X£c
sia i
5"
di
e
oa:(xwv,
éxàaxo)
il
che
buon
xyjV
pena 05
(v.
67 sgg.)
èv XP'^^'P
xaxatai'av [Jioìpav.
"^^
:
y^P? ^attv oò xa-ata)(6vec
laxtv
0-eTov
Ma
•
per lo più la poe-
riman fredda e vola terra terra. Né cui sono stati ritrovati ora frammenti nei pa-
questi
poeti di
piri,
vendicando
e,
della divinità negata e tenuta a vile, distribuisce
equamente premio he,
5a''[j.cov
Ioni
costituivano un'eccezione:
Parmenone
di
Bizanzio e
Hermeias di Kurion erano su per giù della stessa levatura. Invece Orazio in uno solo dei carmi gnomici, in II 2, nullùs argento color est adopra lingua qua e là volgare e stile basso volgarismi 2 lamnae, 13 hi/drops, 24 1' esatacervos sono stati già da tempo posti in rilievo tezza medica di tutta la strofa crescit induUjens sili dirus ;
i
;
hi/drops, nec sitim
pellit,
nisi
causa
morbi
ftii/erit
aquosus albo corpore languor in un argomento in
venìs et
cui
le
voci proprie ollendono, contrasta singolarmente con l'ele-
vatezza
che
di
tono consueta nelle Odi. Qui la dilferenza an-
stilistica, 14
diciamo a i)iacere dalla diatriba prosastica
—
210
— ma
minima;
dai coliambi cinici è
quest'ode è per ogni
rispetto eccezionale.
In generale, questi coliambi cosi discorsivi e ragionatori ci
aiutano
a renderci conto dell'origine
si
ma
di
alcune
non avessimo altro, dovremmo concludere che Orazio ha preso sì il contenuto dei suoi carmi gnomici da diatribe ellenistiche, ma è stato in-
satire
oraziane,
se
dotto a rifonderli nel crogiolo dell' ode dall' esempio dei
carmi
parenetici
tutto cosi
per lo
:
del
vecchio
Pure non è del ha cantato
Alceo.
meno un poeta
ellenistico
in metri lirici e in istile elevato, in certo senso più ele-
vato
di quello di Orazio,
poeta cinico Cercida
di
temi
frammenti del
pongono in grado capo a questo para-
ci
(1),
domanda formulata
di dare alla
I
Megalopoli, scoperti pochi anni
papiri di Ossirinco
or sono in
etica.
di
in
grafo una risposta diversa e più esatta.
Cercida tratta in metro e in
istile lirico
solo di etica
ma
quattro tra
nuovi frammenti dai quali
i
argomenti non
Ben due
perfino di metafisica.
si
di
quei
ricava qualche
senso, trattano della materia prediletta delle disquisizioni
poetiche dei Cinici. In quello peggio ridotto
(p.
39
fr.
4)
Cercida pare per vero piuttosto incoraggiare che non biasimare gli amori tra maschi, tutt' al contrario di quel che sogliono
menzione fu,
suoi
i
compagni
di setta
dell' efp^wc Zavwvixó?,
come ben
che femminili
si sa,
(2).
e
;
il
il
testo finisce con la
fondatore dello Stoa
propenso ad amori piuttosto maschili converrà credere che Cercida,
Ma non
nuovi mostrano che (1) Pap. 1082 (Vili p. 28 sgg.). I frammeuti Cercida poeta e filosofo è tutt'uno cou il legislatore e capitano niegalopolitano, che fiorì verso la metà del III secolo. nou nai(2) D. L. VII 13 rtaiSapioi? te èxprf^o OTravdcog, ócTtag 7; tic,
il
5i,axap[w
Ttv(,
malevolmente
Iva là
5o%oi7j \i.iooyùvr,i; slvai. Ateneo (XIII 563 e) esagera dove trasforma quella notizia così oòHtzozs y^va'-xl [ir)
èxpr]oa.zo, naiSixoìs 5'àet,
:
co?
"Avtìyovos o Kapuaxios lo-copeì Iv
icp Tiepl
— un argomento
in
211
—
cosi importante di
morale pratica pro-
fessasse opinioni affatto contrarie a quelle di tutti, dire,
i
Cinici
Le
(1).
distanza làc oè To[i]auxac
di
si
può
parole che precedono a poche righe axsTCToa'Jva?....
\ì'Q
OTiouoàv
7t:o'.£Ì-
ad-[at],
per quanto mutile, mostrano che Cercida distin-
gueva
tra
due diverse specie di amore. Egli avrà inteso la dottrina stoica, secondo la quale l'amore del sapiente ha per oggetto non solo il corpo, ma anche r anima (2), e, accettandola francamente, avrà raccomanrettamente
zoo p£oo aÙToO il
ed
;
è certo
che Diogene riproduce qui più fedelmente
pensiero dell'autore comune, Antigono.
MOWiTZ non commetterebbe più ora di
Diogene
l'
Ma
senza dubbio
come lo tradusse quand'era giovane più un giovinetto, di rado una ragazza
così
vizio per lo
il
ingenuità di tradiirre :
«
il
Aveva
Wilapasso al ser-
» {Antigouos von
Karystos 115). Qnest' interpretazione appare errata, anche perchè nell'antichità
non
schiava
»,
che
Il
Gerhard ha mostrato
al servizio « una o due volte una potevano licenziare a piacere come ora ; per disfarsene bisognava venderli o donarli. Del resto, a togliere ogni dubbio suir interpretazione, segue in Diogene ancora una storiella sur un'avventura amorosa di Perseo e del maestro. (1)
poteva
si
i
servi
non
avere si
(Phoinix 144 sgg.) che
zione solo ciarlatani dell'età imperiale, che coprono col
'
fanno ecce-
nome
rispet-
merce sospetta, oltre Bione, piuttosto che filosofo, quindi punto rigido nella fede ai dogmi della scuola a cui
tabile di Cinico
letterato e
pur professava di appartenere. (2)
Esagererebbe malamente chi credesse che
gli Stoici esigessero
nell'amore maschile la castità assoluta, riduceudolo così a un senti-
mento quasi del tutto none, specie
tunque
il
intellettuale.
Quel che
si
sa della vita di Ze-
particolare riferito da Diogene, che egli talvolta, quan-
assai raramente,
si
sia unito
anche con donno
«
per non parer
misogino», basterebbe a mostrare che egli considerava inditìercnte r atto sessuale in sé stesso anche se non soccorressero frammenti ;
espongono chiaramente questa opinione. Secondo (presso Sesto, Pyrrh. hypotyp., Ili, 205.246) non c'è nessinia
delle sue opere, che lui
differenza
tra
ciare con le
doloro.
Lo
1'
aver
mani stesso
contatto
sessuale con la
madre
qualsiasi altra parto del corpo di
Sesto (ibid. Ili, 245)
rijiorta
un
e lo stropic-
lei j)er
sedare un
jiasso delle 6ia
— dato
di scegliere
sumere che
21-2
un amato,
—
le cui fattezze
facessero pre-
almeno atto a ricesemi della virtù (1). La donna doveva sembrare vere meno suscettibile di educazione morale, onde dal contatto con lei r amatore non poteva apprender nulla. Ne egli
era o virtuoso
o
i
sorprende che il Cinico modello di vita morale
ha adottato senza
dell'
età ellenistica esalti quale
fondatore della Stoa
il
Zenone
:
quanto a etica sessuale, massime ciniche, fondendole nel suo sistema. Secondo la trascrupoli,
VI 58) si sarebbe congratulato con un bel giovane studioso di filosofia, perchè egli guidava a poco a poco alla bellezza dell' anima gli amadizione (Diog. Laert.
xpi^aJ, uel
quale Zenone eapone che uoa importa se
proprie voglie con TiaiStxa o con
mine. Cosicché non vi sarà
quando
scettico,
anche
oi
cavano
uspi
|xr)
j)ropri()
soddisfino le
si
uaiStxa, con maschi o con fem-
ragione di negar fede
riferisce (ibid. Ili, 200)
che non solo
al
medico
Cinici,
i
ma
xòv Ktxisa Zi^vcova xac KXeavd->]v xaì XpuotTtnov giudi-
affatto indifferente
1'
àppevop.i;ia.
La parola
àSidcpopov usata
da Sesto sarà proprio quella adoperata da Zenone, come conferma Stobeo ed. II 65
W.
tò epàv aùxò
[jlóvov
à5iaq;opov slvai,
xal uepl cpaJXo'jg. Quindi I'Arnim (Wiener Studien, sgg.) avrebbe torto a volere integrare
mento
in
modo da
fargli dire
che
vedere certi spettacoli, ancorché
il i
il
-0x2
1912, 23
principio mutilo del fram-
sole chiude
suoi
sTieiSr; Y'-vstxì
XXXIV,
suo occhio per non
il
ingegnosi supplementi non
rendessero necessario, come rendono, di trasporre ijarecchie ijarole in
un passo lacunoso. La dottrina
muove
stoica dell'amore
sì
da quella
platonica e la riproduce anche in punti molto scabrosi, come nel prescrivere che nella città ideale le donne siano comuni,
ma
fa conces-
sioni molto maggiori alla carne.
D. L. VII, 129 Hai
(1)
èpaad-T^asofl-at 6à xòv oocpóv
sp,fatvóvxa)v Sia xoù s'iSoug xyjv Ttpòg àpsxifjv EÙcputav
sta massima sono eitati •Kpfì)Z(p
nspl
finizione
B£(i)v
dell'amore
èn-^atvóiisvov si
che secondo
Zv^vcov
sv
x'g
UoXizBicf.
xat 'ÀTroXXóStopog sv x^ slvai xòv
soggiunge xai
gli Stoici esso in
'HO'txf;.
spwxa èniPoXYjv |ì,y)
;
xwv
xwv
xal XpuatTrTzog sv xtp
Subito dopo alla de-
cptXonoitag,
elvai ouvouoiag
vscov
quali fonti di que-
àXXà
5ià
cftXtag.
xaXXog
Che an-
genere non può fare a meno dell'unione
—
:iló
—
del suo corpo. Non è questa appunto la dottrina, adombrata da Cercida in questo frammento mutilo ? (1). Anche nel secondo meliambo, che è meglio conservato, Cercida tratta di amore, rivolgendosi a un tal Damonomo, a noi del tutto ignoto. Eros spira secondo lui due venti dalla bocca quegli tra mortali cui il vento soffia dalla gota destra del figlio di Afrodite, governa sicuro in bonaccia la nave di amore con il saggio timone della persuasione ma guai a colui cui il vento spiri procelloso dalla gota sinistra! Costoro avranno da comtori
i
:
;
battere con
il
mare grosso per
tutta la durata del loro
corso. Qui Cercida stesso ci informa che egli
non isvolgere, per vero Euripide
questi, a quel
:
due venti
(2)
assai largamente,
che pare, aveva solo parlato dei
senza insistere oltre
nell'
immagine
è invece qui svolta fino minuziosamente. «
que meglio
carnale,
si
»,
non fa se un verso di
Non
che dun-
(3),
è
seguita Cercida, « dei due venti scegliere
vede dall'esempio scelto
di
Tbrasonide che, sebbene avesse
non volle usar con lei, solo perchè si sapeva questo dell'astensione doveva pur sembrare un caso
in suo potere l'amata,
odiato da essa
;
eccezionale, se a motivarlo occorreva mettere in luce
golare di Thrasonide per
i
il
rispetto sin-
sentimenti dell'amata. Si scorge chiaro an-
che qui che l'atto sessuale in sé è considerato indifì'erente. (1)
Lo coincidenze sono molte
e notevoli in tutta questa materia.
Antistene esigeva ancora (Diog. VI, 11) che creare
figli
;
ma Diogene
voleva comuni
Platone e Zenone (Diog. VII, Ili,
206), così anche
ragione che
3.3).
i
savi sposassero per pro-
donne (Diog. VI, 72) come Come Zenone (Sext. Pyrrh. hypot.
Diogene giudicava
Cinico porta in difesa
le
lecite pratiche solitarie, e la
queste (Diog. VI, 46 cfr. anche VI, 69) è quella stessa che (v. sopra p. 211 n. 2) Zenone adopra per sostener permesso l'incesto, non essere maggior peccato strofinare una parte del eorpo che un' altra. il
(2) 6iaoà 7ivsu|JioiTa uvei^,
di
:
'Epwo finora frammento adespoto 187 N
*.
(3) Quest' è del resto assai familiare alla gnomica e in genere alla poesia greca cfr. Gkrhard, Phoiuix. 98 sgg. :
—
—
^I*
e, maneggiando con sagtimone della y)ersuasione, navigar dritto verso là possibile il varco con l'aiuto di Cipride ?» Qui man-
quello che a noi è favorevole,
gezza
il
ove sia cano sette righe, poi segue il consiglio di tenersi all'Afrodite di piazza, che non è fonte né di timori ne di turbamento al prezzo di un obolo ciascuno può immaginarsi ;
di giacere al fianco di un' si
—
Elena.
La concezione che
rispecchia in questi versi, concorda anch' essa con la
morale
stoica,
amore,
1'
secondo
quale
la
una accompagnata da
sono due specie
(I) vi
virtù, l'altra viziosa,
di
che
deve essere considerata quale pazzia. Nel tratto perduto Cercida doveva esporre brevemente che quanto a certi bisogni vi è farsi
servo
modo
di soddisfarli
della
passione,
prontamente anche senza anche senz' immischiarvi il
cuore che dev'essere risparmiato per qualcosa
Anche
qui
considerare
il
sessuale quale indifferente
è,
disforme dallo spirito della scuola,
VI
il
consigliava di avvicinare solo
3)
meglio.
come abbiamo veduto
bensì,
ma non
conforme a dottrine stoiche,
di sopra,
di
soddisfacimento del bisogno
il
è
neppure
cui fondatore (Diog. tali
donne che do-
vessero saperne grado.
Un
altro
biografica,
meliambo
ma non
a quel che pare,
si
direbbe
d'
indole piuttosto auto-
istuona in questa raccolta di carmi,
tutti filosofici.
Che
il
poeta in una poe-
sia parlasse di se stesso, era uso frequente nelle lettera-
ture antiche almeno dal
sorprende che
tempo alessandrino in poi, e solo carme autobiografico (2) non sia qui
il
proprio in fine del rotolo
(1)
Stob. ed.
àpsTYiv TToiòv Èp(j()xo|J.av^ óiioloìc,
II,
65
anooSatov
xiva.
-còv
;
com' è del resto certo, perchè
ÈpcoTiv-òv xai òiyj^ XiY£a%-a.'., xòv
òvxa, tòv 5è
Poi dopo
uua
xatà
ttjv xav.iav èv
i>roposizioue
XéysaS'ai zi^ dc^'.o^iXrjXcp xaL oò
tw
Su carmi autobiografici
cfr.
'"'?
Tìr^v
^"^
mutila xòv T'àgiépaaxov
à§La;:oXatjaxu>- za/ yÒLp àgtov
OTTOuSatou spwxog, zoùzo^ slvai àgiépocaxov. (2)
xaTà
tJ'^YVi
sotto.
segue
la sottoscrizione
Ci vien
fatto quasi di
-
215
amore Zenoneo. chiedere a noi stessi, se non fosse
al
raeliambo
sull'
altrimenti nella raccolta originaria delle poesie di Cercida
che r autorità
non
un manoscritto
di
-.
secondo secolo dopo
del
questo riguardo superiore
è per
a ogni soche Cercida, rivestendo il suo addio alla vita della forma di un ammonimento a se stesso e al suo cuore, è riuscito bene ad adattarlo al tono degli altri carmi e a dare anche ad esso Cristo
spetto. Del resto conviene riconoscere
colore parenetico. Altri ha spesso chiuso senza volerlo
occhi al sonno
gli
(1),
Cercida no
il
;
suo cuore è rima-
sto saldo e invitto, e ha divorato ogni cura. Perciò nes-
suna cosa bella
gli sfuggì, e
ciatore delle Pieridi.
grigio
il
Ora
i
suo animo fu ottimo cac-
il
capelli del poeta sono bianchi,
mento. Dai pochi versi che seguono ancora nel si ricava, che il periodo è mutilo.
papiro, poco costrutto
Ma
il
senso generale della parte perduta non è dubbio:
Cercida ha saputo vivere da savio, ora saprà rinunziare a speranze mendaci e morire
di
buona
ricorda la fine della epistola oraziana satis atqiie bibisti:
tempus abire Ubi
l'ideai et pulset lasciva decentius
è per di
me una
est,
voglia.
Chi non
Insisti satis, edisti
:
ne potum largius aequo
aetas? Questa somiglianza
ragione di più per credere che questo carme
Cercida fosse una volta V ultimo. Singolare è
mai
gli dèi
il
primo meliambo.
non tolgano
le
Il
poeta
ricchezze
ai
si
chiede come
prodighi e agli
avari, per concederle a chi rettamente al
savio
(2).
E
il
saprebbe usarne, dubbio angoscioso intorno alle ragioni
(1) [uoXXocJxij 8[iaì)-3ls ^pozbc, O'Jit èxwv vuol dire (|iie8to, come ha ben veduto M. Ckoiset, Journ. dea iSavani» 1011, 486, seguito dal
Fraccakoli, (2)
lìiv. di FU. XL, 1912, 129. L'Arnim ha ben veduto {Wiener Studien
XXXIV
1912, 13) che
non può essere se non un uomo che beve da un cratere unico insieme con altri, un tale cioè che appartiene a uu'assoil
xoivoxpaxYjpóaxucpos
—
—
21 r»
della giustizia divina apre l'adito alla
domanda,
Cercida non osa addirittura negarlo
esistano.
se gli dèi
ma
;
nel
suo ragionamento sono enunciate più o meno chiaramente le due premesse da cui la negazione dovrebbe logica-
mente
scaturire. Chi chiede
àTreouaXàxwTat
|iòs
ò
\ì-!^kox' 0"jv
zòLz
i'^^hÀ-
^Ì'/jxc
« forse l'occhio della giustizia
;
si
è in-
talpito?», pensa che la giustizia è attributo essenziale del
concetto della divinità. Più sopra è detto chiaramente
che nulla potrebbe impedire agli
dèi, se volessero, di in-
staurare in terra la giustizia: xal
xi
xò xwX'jov
f^c,,
oix
x'.(;
uno chiedesse perchè non hanno distribuito più equamente le ricchezze) (1) segue ^eTa yi'p ^ar. (o}(p' ìpo\i]xo
;
(se
;
dazione la qnale ha tra le sue coneuetndini quella del banchetto comune; ma ha torto poi di pensare che Cercida intenda parlare di un pover
uomo
qualsiasi,
il
quale, per jtoter bere vino, debba riunirsi
cietà con altri a che gli costi
pone costui
;
caro. Cercida, dal
in so-
momento che op-
allo spilorcio, al p'jnoy.i^òo'zóv.oìy v.aX xsO-vaxox!xÀxt8ag, e allo
sprecone, al
un savio
men
TzaXiyBv.yjù^e^i'zOi.c,
tù)v
or egli, per quanto
XTedvwv òXs9'pog, ne fa un virtuoso,
nomo
parte popolare,
di
non poteva
supporre qui tacitamente che ogni popolano e ogni povero mettesse in pratica la
massima
del
giusto mezzo. Anche per
sono rari in qualsiasi condizione sociale.
Il
i
Cinici
i
savi
xoivoxpaxTjpóoxocpog è dun-
que il savio cinico che mette a disposizione degli amici quel po' di danaro che basta, xàv òXXu^iévav SauavuXXav, per il banchetto comune. La parola che precede xotvoxpaTTjpóoxocpoc, smxaSsoTpcbxTaj, conferma quest' interpretazione xpióyeiv non può esser detto dell'uomo del popolo, che è costretto dalla necessità, ci provi gusto o no, a mangiare :
cibi semplici;
ma
pasticcini, ogni
del Cinico che assapora con voluttà, quasi fossero
cibo che ha a mano.
La
virtù
del y.oivoypaxvjpóoxu-
come sembra abbia veduto bene il Fraccaroli, MsxaSwg, come traduce ingegnosamente « Donoua ».
cpog è,
egli
(1)
senso
L'Arnim difende
di óp|iolxo e
xevó&oai e 5óp,ev.
grave scapito èxxeXé(o)oai 1
Ma
dell'
la lezione del ms. cpépoixo, spiegandola nel
facendo
dipendere
da questo verbo gli infiniti può conservare solo con
la scrittura del papiro si
che fisìa y^p èoxi &•£(}) nàv per parentesi, troppo lungo; e che
eleganza e del senso
XP'^M'' ètiI
voOv 6x'
Ì13
è,
:
dio, l'onnipotente « si accinga, tenti » di punire
o
ricompensare,
— £XT£X£acévat té-
qui moechis non voltis, ut omni parte laborent
Xog
aique
5'
T/jV fjSoVYjV, 7ioX?.à
ànavxàv xwXoxixà
(ICf?
atqtie
illis
multo corrupta dolore voluptas
haeo rara cadat dura ìnter saepe pericla,
x^ xoù [loixsusiv
TjSov^ xal £a6-'oxs
Xaxàg
hic se praecipitem tecto dedit
cpoy^S
Tj
;
ille flagellis
cp'j-
ad morlem
caesus;
fugiena
hic deeidit
acrem
>]
praedoìium in furiavi, dedit hic prò corpore nummos.
9-avdxou$,
'KoXXd^ic, 8è Ttpò xoóxtov yal xtvS'jvoug
xa-
132 discincta tanica fngiendumst ne
nummi
et
pede nudo,
pereant aut puga aut denique fama.
xàxòè7n,x-^psìvxTf]v
xoù àvSpòg s|o5ov à.Tzò xriz
XéóV
Xà
olxias xat
127 nec vereor
ne,
ianua frangatur,
dum
futuo, rir rure reourrat,
latret canis
èxSLVO'J ifpo-
vouvxwv.
Il
confronto è così chiaro che converrà oramai ragio-
nare inversamente e asserire che
i
passi oraziani confer-
mano che Origene riferisce con fedeltà la Epicurei. Non dunque senza ragione da un Cicerone (Tusc.
V 94)
(1) si
(1) obscenas voluptates....
aetate, figura
dottrina degli
noto passo di
suole indurre che gli Epicurei
non genere aut
loco aut ordine, sed
metiendas putant (cioè gli Epicurei).
forma,
— davano
gli stessi consigli
appare fedele,
se non
—
23r)
che Orazio; e Diogene di Enoanda maestro primo, almeno alla sua
al
scuola, (piando dice inutili alla felicità ricchezza e gloria
civica e
regno e
il
molle e
la vita
il
lusso della tavola,
non già le voluttà d'amore, ma il raffinamento nelle voluttà d'amore (1). Vero è, secondo me, che Orazio, quanto almeno al che la questione della forma è contenuto della Satira
e
tutt'
altra —
—
meno
deriva molto
molto più fedele
dai Cinici ed è rimasto
alle dottrine epicuree di
creda comunemente
ma
fu scolaro non di Epicuro
deve immaginare che
quanto ora
si
Solo bisogna ricordare che egli
(2).
i
non
di tardi epigoni, e
seguaci del Giardino siano
si
ri-
masti per secoli e secoli in tutto fedeli alle opinioni del maestro senza mutarle in nulla, che sarebbe contro la
natura delle cose
umane
Che difficoltà c'è ad ammetpropaganda abbiano adot-
(3).
tere che gli Epicurei nella loro
tato anch'essi un'idea diffusa nell'etica popolare e l'ab-
biano confortata di un
commedia
già svolto dalla
-zótzoc,
attica ?
(1)
bnb
Fr.
XXIII WiL.
xr,; cpuasco; xx'/jaiijsvot
aùxò 5'Jvaxai uapas/sìv xog p£o5 (ii^x'
y.%i
àXXo (2)
Si
può essere
xéXog
iiyjts
5óga
xpscns^wv uoX'jxéXsia
xi
•
felici
solo xò
8' èaxi, zo\izo.
uoXsix-.xy) [irjxe ^aatXóia [ìyjx'
£-i^y;-:o'J[ji£vov
cxt xs jiv^xs |iy,0-'
-XcOxo;
i^poSiai-
àcppoSsiaiwv £YX£À=Yp.iva)v
rfiowfx.1
iirfivj, cpiXoaocpia §5 Tiipmcilisl lióvvj].
Sulle fonti filosotìclie delle Satire spero di tornar presto al-
trove. (3)
Tra
i
segnaci di Epicnro sorsero spesso controversie di inno-
vatori con seguaci ortodossi delle dottrine del maestro nieglii,
ingegnosamente sostenuti
(Riv. di
FU.
XXXVII 1909, Mits. LXVI
LIPPSON [Eh.
60 sgg.)
ma le
arbitrari,
:
v.
contro
del nostro
i
di-
Bignonk
assennate osservazioni di R. Phi-
1911, 231 sgg.).
237
4.
In quest'ultimi tempi imhres e specie
24
I
due epicedi
i
quis desiderio
romane più
piuttosto con consolationes
neraria anteriore.
Da
che
precetti
i
ìion
di letteratura fu-
si
noterebbero
professori greci dell'età
1
periale impartivano nelle loro scuole di retorica alla
[j.ovq)o:a,
semper
confrontati
certe somiglianze, che essi presente-
rebbero con quelle, da certi riscontri che tra essi e
9
stati
tarde, soprattutto
che non con quel che resta
di Stazio,
li
sono
all' èTOxàcpco;,
al
uapaixut^Yjtcxó?,
come
im-
intorno divide
questa materia il secondo dei trattati attribuiti a un Menandro (1), o intorno all' èTziixrpioc, soltanto, come la com-
prende in un nome unico V ars dello pseudo Dionigi di Alicarnasso (cap. VI) (2), si è voluto inferire che Orazio attinge qui i motivi della sua lirica da manuali elleniche mette in versi luoghi comuni della retorica (3). Questa conclusione appare già a prima giunta sospetta stici,
:
parrà strano che
l'
della
influsso
retorica su
Orazio
si
scorga appunto quasi soltanto qui; possibile che egli proprio solo quando aveva a comporre, diciamolo pure brutalmente, una lettera poetica di condoglianze, rivolgesse la
agli studi retorici della sua adolescenza ?
mente
E
il
ragionamento, da cui quella conclusione scaturisce, è viziato
da più
Sia o
(1)
ambedue
i
di
un
no costui
errore.
il
retore
Monandro
«li
Laoclicea, par certo elio
trattati siano stati composti verso la fine del terzo secolo
dopo Cristo: Schmid, Pauhj-Wissowa VII, 1134. (2) In verità per (jnesta parto un manuale nini
:
Kadkrmacuek,
(3)
hi.
Ali.
nouKG
dell'età degli Anto-
Faulji-fViHsowa V, 969.
Un pensiero giusto e lino del Reitzenstkin XXI 1908, 82) ò stato esagerato e travisato {ibd.
XXV
1910, 271 sgg.)-
{N. Jahrb. f. d. da M. Sik-
così
— Infatti esso
trine retoriche,
—
238
non considera che (Jrazio, oltre 1(3 dotpoteva avere ed ebbe probabilmente pre-
sente tutta una letteratura poetica alla
giunge parimenti
quale
ricon-
si
la pratica e la dottrina dell'eloquenza
funeraria dell'età imperiale: anche se non fossero
come
servati,
con-
sono, frammenti di elegie mortuarie di Ar-
chiloco e di treni di Simonido, anche se non solo fossero
andati smarriti tutti gli epitymbii ellenistici, che sono di
natura un po' differente, notizia di epicedi
sandrini
;
lirici
ma
si
fosse perduta
ogni altra
o elegiaci composti dai poeti ales-
pure un passo appunto dell'ars dello pseudo-
Dionigi avrebbe dovuto mettere in guardia
Siebourg
il
e rattenerlo dal formulare asserzioni precipitose. Dionigi
Non avremo
scrive:
soltanto
collettivi
pieni di essi, sia
scarsità di modelli per
ma
individuali
;
«
che
cosiddetti epicedi, sia
i
v'è grande abbondanza
di tali discorsi in
i
epitafi
treni; cosi pure
i
forma prosastica
sia nella letteratura antica, sia in quella più recente »
modo come
Il
lo
pseudo-Dionigi propone
non
carmi sono
(1).
ai suoi discepoli
di retorica indistintamente
carmi e prosa ad imitare, ba-
sterebbe a indicare che
fu
ci
antica e che essa svolgeva a
una poesia funeraria più un dipresso gli stessi mo-
che ritroviamo in Orazio e nelle Consolazioni, anche se non sapessimo che la prosa d'arte, la cosiddetta eloquenza epidittica, quella appunto che s'insegnava a scrivere nelle scuole di retorica, sostituendosi anche in altri
tivi
campi anche
-
ambisce di continuarla per ogni rispetto; termine di [jiovwo'a non dicesse che
alla poesia,
se lo stesso
(1) II 278, 7 Us.
pa8stY|J.aT«)v),
èttsì
~oi
o'jy.
à7topr,ao|j.£v O'JSè tòjv Tipòg
xal Tà uotyjiiaxa
o'jTcos Gv&[Jta^ó[isvo'. ^y7,^/o'. to' èaT'.
TotO'JTWv
[iSVOlg.
XóYWV £V te
iole,
ixaaxov
{iEoxà toùtcov,
cbaatiitog nXo'noc,
uoXòg
naXai xai Toìg òXcyov
tòjv
ci
(scil. 7ia-
èmy.rfieioi
xaxaXcya5r]v
xi Tipo
7j|ji(j)v
ysvo-
— r eloquenza emula qui euripidei
239
—
pathos dei canti degli attori
il
(1).
Quindi, che motivi degli epicedi oraziani
con con cili
le i
prescrizioni
dei
accordino
si
magari siano identici
trattati, o
motivi, che s'intrecciano nelle poesie di troppo do-
discepoli della retorica, dell'autore della Consolatio ad
Liviam e
non prova nulla;
Stazio,
di
o dimostra tutt'al
più che è proprio della natura umana, quando o compiangere o consolare certi sentimenti e
mettere
rebbe la dipendenza
di
una sventura,
si
vuole
fare appello a
in luce certi pensieri.
Prove-
queste liriche dalla retorica chi
mostrasse che in Orazio ricorrono tutte o quasi tutte parti che
distinguono
trattatisti
i
negli
giù nello stesso ordine che essi prescrivono. cosi:
secondo
gli
insegnamenti dei
le
epicedi, su per
Ma non
è
trattati è parte indi-
spensabile sia dell'orazione funebre sia della consolazione
un encomio
del morto, distinto nelle lodi della schiatta,
della nascita, dell'indole
modo
dell'educazione,
del
dovrebbe seguire un'esaltazione Che c'è di tutto ciò in Orazio? Si obiet-
di vita, alle quali
delle opere (2).
(Ij
naturale,
Anche Menandro
cercati nella poesia,
ma
sa cbe
i
|jiov(o5{a vanno Omero, cbe introduce Andro-
primi esemiii della
risale sino a
maca e Priamo ed Ecuba a lamentare la loro sorte (p. 434, 11 Sp.). La derivazione non sorprenderà chi ripensi die per Platone Omero appartiene al Ysvog au|Ji|JLt>CTOv ma non credo che autori del buon tempo ;
avrebbero chiamato (2)
«è
Menandro
chiaro, dico
secondo stessi
àycoy^i;, Tìptxgswg»,
nell' àx(tìY>ì
1'
monologhi omerici.
i
e lo xisendo-Dionigi coincidono quasi letteralmente:
il
deve derivare dagli cpóaecos,
oiSai
(p.
278, 16), che la lode uell'epitalio
luoghi che nell' encomio
ma
poche righe
piìi
:
si
TtaxptSo;, Ysvoug,
innanzi egli distingue
àvatpo-^>^, la nai^sia, gli èTiixi^SeuiiaTa.
Monandro
(p.
420,
10) prescrivo per l'epitafio l'uso dei luoghi encomiastici consueti, ysvot>;,
YEvéaswg, cpuoecDg, àvaxpocp^S, TtaiSeiac,
è7rtT»]8eu|jiàxtt)v;
(420, 25) seguono quale parto principale le upagsij. è
che Menandro distingue la Yévsaij dal Y^vog
e
La
subito dopo
sola difterenza
considera categorie, coor-
— non
terà che
minute
ù ragiono
vi
—
!240
aspettarsi partizioni così
di
Ma questa osservazione che Hrica concettosa non può dipen-
in lirica così concettosa.
significa tutl' al più
dere dalla retorica, ciò che anch' poesia il
conformi
si
buona
di
poeta, a precetti di
genere,
tal
Stazio nelle Selve. Questi il
in ai
K come
credo.
se
là
vuole
mostra l'esempio
di
accomoderà a cantare anche
si
{siìv. II, 1, 72 e quasi con metterà 06 spiritosamente sgg.) 5, luce che essi discendono da progenie, relativamente più tra i servi, nobile si acconcerà a celebrare la
o
servi
di
yévos
le
io
mala voglia,
o di
liberti
V
parole
stesse
;
;
cultura
(II
113 sgg.) e
1,
50 sgg.)
le virtù (II 6,
di j;j5()
Musa
è profferita senza
tihi,
ì^er(/ili.
E
nome
(lubl)io in
non perchè ella aiuti l'amico nel canto fun(;l)re. Virgilio non è ancora parola: Orazio parla a se esorta sé a non vergognarsi del pianto, supplica
Musa
d'ispirargli
canto.
il
Il
pensiero occorreva certo
assai spesso nelle eonsolationes. L'ars dello pseudo-Dionigi si debbano dolore dei superstiti e non dargli subito addosso. Monandro annovera tra gli uffici del di-
prescrive
(p.
281, 8 Us.-Rad.) che nel consolare
far concessioni al
scorso consolatorio quello di mostrare la grandezza della
sventura (413, 6 sgg.) solo nella seconda parte dell'orail retore dovrà passare ai conforti (413, 22). E la ;
zione
ad Liviam si attiene così scrupolosamente a preche di 474 versi ben 329 sono spesi nel compianto, nel i>-pr^vo;. Che Stazio non dimentica neppur lui questo dovere del buon consolatore, non occorre neanche consolatio
cetti tali,
dire
(1).
Ma
il
«
luogo
», se
luogo
lo si
vuol chiamare, è
ben più antico della retorica quella stessa elegia di Archiloco che Orazio cita in fine del suo carme, la più an;
tica consolatio della letteratura
greca
notizia, incomincia
:
cosi
pixXésg, oòoi iiQ àaxtov
(fr.
9)
[jisjji-fójjisvo;
di cui ci sia
xifjzv.
O-aXcr^c
|ji£v
giunta
axovóevTa, Ile-
ii^/hz-%'.
oùoè -óXtc,
e continua toioug y^P v-axà y.Ojjia 7i:oÀu'^Xo:a,joto 9-a^aacjr]; la più aev, oLSaXéoug à{icp' ohòyrf, lyo]ì.zv 7:v£i>[xova; (2).
E
passata poesia ellenistica non
(1) II 1,
doma
;
(2)
II 6,
14
nemo
vetat
:
si
satiare malia
lascia
sfuggire
Menaudro ha
tra
i
suoi esempi oòòk
^vjTOÙvxag TOioùtov (p. 413, 20)
;
questo
aegrumque dolorem
17 quisnam haeo in ftinera missos eastiget |i£[j,"^o(i,ai
r/.X'j-
com-
libertate
hictìis ?
:i£v9-oDvTa; xxi
la coincidenza quasi letterale
mostra
— motivo,
ma
—
aggiungendogli
lo ripiglia,
chieste dall' etica di
ii31
una
le
restrizioni
scuola filosofica in
voga
ri-
in quel
tempo: Euforione, nel solo frammento conservato d'un epicedio (20 Scheidw.),
scrive
jxéxpca
yjxi
itov
Sp-lfjacci-
sv
:
xpscaaov où^àv 'Avàyxa^ axv:'atv,
xài;
'Op'feta
xa-
Questo significa in generale: « Neppure la sapienza di Orfeo seppe trovare un rimedio alla morte ». Ovidio scrive {Am. IH 9, 21): quid pater Ismario, quid mater profuit Orpheo? Carmine quid victas obstipuisse feras? cioè: « Anche il cantore mitico, Orfeo, dovette morire^ come te, grande poeta nostro, Tibullo ». Qui la forma speciale dell' esemplificazione è suggerita dalla, diciamo -tf^y.'ltzv
così,
Yf|pU(;.
comunanza
è più naturale
di professione tra Tibullo e Orfeo.
si
pensi,
come
qui in Orazio, al tentativo
disperato, che Orfeo fece, di strappare con
Euridice all'Ade, alla sua discesa agli il
Ma
signore dell'oltretomba, reso vano
suo canto
il
inferi, al
patto con
dall'amore troppo
molle del citaredo. Cosi è nell'epitafio per la morte di Bione, nel quale si può ancora scorgere come il poeta inetto e pure ambizioso di originalità abbia tentato
modificare (v.
il
xókoc,
di
tradizionale senza riuscirvi. Se potesse
115 sgg.), egli discenderebbe nella casa
di
Plutone
come Orfeo, come un tempo Odisseo, come prima Alcide: questo si chiama seminar nomi con il sacco, non con la
— mano. Si aspetterebbe gue invece « per vedere, :
che cosa canti
^2:à;
—
«
por strapparti agli Inferi »
e,
se tu canti a Plutone, per udire
L'invenzione è barocca.
».
Ma
il
;
se-
poeta-
stro vuole a ogni costo sfruttare sino in fondo la sua eru-
dizione mitologica.
canto
Bione deve cantare
siciliano, e Persefone,
come ha
alla luce Euridice, così ridonerà
carme
finisce:
E
«
se
un giorno
restituito
Pione
ai
un
stesso
egli
suoi monti.
11
anch'io avessi qualche abilità nel
suonar
la siringa, anch'io canterei a Plutone ». Chi non vede che qui un zóko^ non retorico ma poetico è malamente tagliato a mezzo ? che al poeta, disceso all'Ade
per impetrare con
il
canto la restituzione
di
persona cara,
un poeta che scende per vedere e udire cantare colà il suo maestro morto ? che al maestro è qui
si
sostituisce
attribuita la parte di Orfeo, quasi questi avesse impetrato
da Persefone la liberazione sua, non quella di Euridice? che il discepolo non può tuttavia far a meno di comparare anche sé con Orfeo ? Si scorge chiaro che un poeta più antico aveva cantato a un dipresso così « Anche Orfeo scese all'Ade, ma non potè, se non per poco, re:
Euridice alle aure terrestri »
stituire
di Bione, imitandolo, storpia
il
;
il
motivo
discepolo italico
(1).
Secondo ogni
verisimiglianza Orazio ha conosciuto quel poeta; lui le
ma
per
anime, sia dei buoni sia dei cattivi, sono apparenze
vane, immagini esangui, strofe è
à[iev7]và
xàprjva.
Lo
stile della
elegante di un'eleganza un po' ricer-
solito,
il
cata, che ritrae effetti dall'aggettivazione squisita e dal-
bene studiato delle parole. due ultimi versi tornano al modello
l'ordine I
(1)
Anche Stazio tenta
tradizionale
:
:
adoperare in modo nuovo l'esempio si è fatto intendere da selve
nepj)ure a Orfeo, che pure
e da fiere, riuscirebbe.... superstiti
di
classico, alla
II 1,
11
;
Y
1,
non 23.
di
piegare
gli
Inferi
ma
di consolare
i
— poesia di Archiloco da cui diirum,
secl levius
^0/
—
carme aveva preso
il
patientia quidquid corrigere
fit
le
mosse
est
:
nefas,
che
assomiglia, nella sua brevità, molto più alle parole
in Archiloco tengon subito dietro a quelle trascritte a p. 250, che non alle varie forme in cui quel tótco; com-
pare in poeti e v.axoTatv,
oj
'-pi'X',
filosofi
èul
tardi (1)
xpaieprjv
àXXà
:
0-sol
yàp
àvr^xÉcj-oia:
ed-saav
-Xr,[JLoa'Jvrjv
cpàpjxaxov
aveva spesso sulle labbra una sentenza che pare a prima vista non dissimile, se Svetonio (2) non inventa, là dove narra essere stato egli solito di dire che la virtù più utile all'uomo è la pazienza e che non vi Certo, anche Virgilio
è sorte così aspra cui
Ma
non vinca.
forte,
quidquid corrigere
:
pazientando prudentemente,
manca
proprio quella parte, la
trasforma la sentenza di archilochea
seconda, che stoica
il
in Orazio
est
nefas dice anzi tutt'
il
in
con-
due spunti classici incorniciano, per così dire, l'ode, conforme a un modo che abbiamo avuto agio di studiare nel primo capitolo. Su II 9 non semper imbres non occorre spendere tante parole: « Valgio, il mal tempo e l'inverno non durano trario, l
meno favorite da natura: tu non canti funebri per il tuo Anche Nestore cessò un giorno di lamentare
eterni neppure nelle plaghe
non
hai, giorno e notte, se
Mystes
(3).
(1) Cfr.
vivxa; sòpìlv
105
Marc.
:
Stesich. 51 àxeXéataxa
Ibyc.
27 oòx saxiv
;
2.
6,
Prop. IV 11, 2 sgg.
y.al
animava T0O5 9-a^wàg ili cpipjiaxov
nna
Senec. ad Polyb.
X
67
Ri£iKi'.
S0UU18
esse patientia ac
erat
ad 2, 1. 4, 1 430 b parrebbe ohe anche Al-
consolatio
npoxóiojisv yàp oòSèv àoifisvoi,
(2)
homini
;
Dallo parole di Ateneo
ceo 35 fosse frammento di xpéiiYjV'
yàp
àrtocpS-^névoig
passi di tragici e comici citati nella conaolatio ad Apollonium
i
;
sgg.
t'
p. e.
%ka.leu
dicere
ntillain aaperani
io
où
:
y^pr^
;
xxxoiai
&'j|iov
è-t-
Bóx^i.
nullam
virlutem
vommodiorem
adeo esse fortniiam,
qnam
prii-
dentcr patiendo vir forila non vinoal.
liUCHKLER pensava (M. Mua. XXX VII 1882, 231) che Mystes pseudonimo di nn figlio di Valgio ma paro altrettanto scou-
(3) Il
fosso lo
17
;
—
'iòa
Antiloco; anclie Priamo e
—
le sorelle
smisero un giorno
morte del loro piccolo Troilo. Tu canta piuttosto le vittorie nuovo di Cesare ». Il carme, squisito anche nei particolari, è molto più spontaneo e più uno che non l'epicedio a Quintilio. Il sentimento delle prime strofe è affine a quello che si specchia nelle strofe di mezzo il
lutto per la
di I 9 vides ut alta,
dunque
Anche
ellenistico (1).
qui la
pioggia cade sull'anima, l'anima è scossa dalla procella, il
ghiaccio toglie all'uomo ogni capacità
sentire. E, poiché
in
questa
il
l'uomo è tutt'uno con
di
poeta riconosce qualità umane:
zati dall'acqua
sono ispidi come
raccolto nel suo lutto, non
di
i
campi
sfer-
volto di tale che, tutto
il
rade più ne
si
pensare e
natura morta,
la
si
pettina (2);
che tormentano il Caspio, sono inaequales, come un padrone capriccioso (3); il gelo è iners, come iners è le procelle,
l'uomo
intirizzito;
i
querceti soffrono, lahorant, ai
degli aquiloni; gli ornelli sono delle foglie, viduantur, stretto.
Non
come
non
spogliati
ma
soffi
vedovati
un parente suo
chi perda
pare ancora necessario che
il
poeta abbia
—
avuto presente un modello determinato ma, se l'ebbe e vedremo presto che l'ebbe esso fu una poesia elle;
—
nistica.
Lo
stesso
motivo
,
ritorna,
accennato appena, nella
veniente che un consularis celebrasse un suo greco, quasi fosse un'amasia o
chiamato con
tico per la perdita di questo sia
amores.
Stazio mostrano quanto spesso
per
affetto
nome
lamento poeparola che soleva
la
esser titolo del libro di elegie amorose, 1'
sotto
figliuolo
un amasio, quanto che Le
pìieri
il
cotisolationes
delicati
di
divenisse
quasi paterno. (1) Cfr.
sopra, p. 81 sg. Simile è lo stato di animo,
dello spirito e del
mondo
esterno, anche in I 7 laudabnnt
il
olii,
consenso e specie
in I 4 solvitur acris hiems e nel cauto gemello della seconda raccolta
IV
7 dìffngere nives. (2)
L'osservazione è del Bucheler,
(3) Il
arbiter
sentimento è lo stesso che in I
Hadrìae maior,
tolìere seu
ponere
ibd. 3,
230.
14 rabiem Noti, quo non
voli freta.
-
-
259
ad Apollonnim, dove (103 b) il tempo bello e catcomparato con le sorti alterne e opposte degli uomini. Ma la coincidenza prova tutt'al più non già che Orazio dipenda qui dai retori, ma piuttosto che le conso-
consolatio
tivo è
lazioni dei filosofi e dei retori attingono a carmi elleni-
Che
veramente così, prova la quarta strofa (1). e Priamo non piansero eternamente i loro cari, e sì che l'uno e l'altro erano vissuti così a lungo per sentire tanto dolore, e sì che Antiloco era il più amabile dei giovani, Troilo l'ultimo dei figli e ancor bimbo (2). Un discepolo sempre fedele e non di rado servile degli Alessandrini, Properzio (li 13, 46 sgg.), ha commiscrato la vita troppo lunga di Nestore. A ter aevo functus.... senex stici.
sia
Anche Nestore
!
risponde a capello Nestoris
Segue
Properzio
in
mari,
diceret
non
:
aut «
mors,
visus post tria saecla cinis.
est
Antilochi vidisset corpus hu-
ille
mihi sera venis?
ciir
Cal-
».
limaco aveva scritto aver pianto più Priamo che Troilo Nestore e Antiloco, Priamo e Troilo
(Cic. Tusc. I 93) (3).
decedunt amores nee rapidum fugiente ha anche un riscontro nello pseudo-Plutarco, ohe (114 e) a tali che per una specie di pazzia perseverano senza fine nel lutto, vorrebbe (1) lieo tibi vespero surgente
solevi
èTct'^jS-éylaaS-at
xò 'Op,y]pixóv
'
|j,'jpo|i.svotat
5= xoìat [léXag
ìtiì
eanspog
r^Xfl-s'.
Un'allusione a un passo omerico converrebbe bene a un poeta alessandrino
il
:
lasciano
modello di Orazio direbbe pianto, noi no
il
».
Il
male
:
« gli eroi
a memoria, confonde in uno due versi differenti po5o5axxo?.05 'Hojg f,Xd-£v
a 423
(2)
La
=
W
o 306
109 o
xoioi
5è
l'
come sempre
impube corpus
Htraziato dallo streghe, quale posset
[JiéXag
8è TOìat ètiI
cpàvyj
èaTtspoj;
in nuest'odo, ò squisita:
(e^iod.
V
13) del fanciulletto
impia mollire
Thraeum peciora un benia;
fa ripensare all' indole mito, che fece di Antiloco
mino dell'iracondo Polido. (3) La stossa massima senza nomo plutarchea 113
ma non
(xupo[i.=vo'.oi
T£puo|j,£Voiai
!
scelta delle parole,
impuhem Troilou ricorda
V amahilis
omerici, giunti a sera,
ò che lo pseudo-Plutarco, citando
f.
Lo Schueider
(fr.
apjìroda a nulla di I)uono.
di autore nella consolatio pseudo-
363) tenta di farne un trimetro,,
—
—
iitìU
due esempi, Peleo o Achille, due non svolti cosi diprolissa e fastidiosa enumerazione stosamento, in una è dei mali della vecchiaia, in Giovenale X 24jc,
spicciano con poche parole, rivolte
al dedicatario,
oè
il
possa attribuire, in un senso quasi negativo, dai poeti
avevano
x'
rag-
si
poeta sente o crede che l'opera
il
più semplici sono usati dai
I
di distici o esametri
il
congedi
diversi secondo
presa questa parola nel significato più ampio clie
lici »,
le si
-
Le forme
in
quale
al
318
suoi Aixia erauo nua poesia esiodea, che nel
altermava se successore di Esiodo. Ennio, pure imitando
Callimaco, rivendica a se
il
vanto di essere originale di fronte
a lui,
nuovo Omero. Se Callimaco avesse considerato epopea i suoi Alila, come taluno sostiene, non lì avrebbe uè fatti precedere da una visione personale né conchiusi con uu commiato egli li voleva esiodei. Gli elegiaci ronuiui hanno seguito quanto ai congedi la
di essere
il
:
tradizione degli Aixia
;
Properzio e Tibullo avrebbero probabilmente
ascritto la loro poesia al genere didascalico. Questa osservazione .serve
forse a intendere
V Ars Jmandi
di
Ovidio.
—
319
-
via al cielo; abito a Napoli, e son quello che ha scritto
Bucoliche » haec super arvorum cultu pecorumque canebam et super arboribus, Caesar dum magnus ad alturn fidminat Euphraten bello victorque volentes per populos dal iura viamque adfectat Olympo; ilio Vergilium me tempore le
;
dulcis alebat Parthenope studiis fiorentem ignobilis
mina qui
tulae cecini
audaxque
pastorum
Itisi
tegmine fagi.
sub
mostra somiglianza collo
inventa,
Anche
il
tempo
te
dei
epistolare. Properzio
stile
tiene anch'egli a questo tipo,
car-
oti,
Titgre,
pa-
verbi si at-
modificandolo, nell'ultima
da amico qual sei, tu mi donde io sia. Sono di origine un mio parente è morto nelle stragi di Peru-
elegia del primo libro
:
« Tulio,
chiedi di che famiglia e
umbra, e
». La domanda è naturalmente fittizia: che Tulio, appunto perchè amico, avrà saputo donde fosse Properzio ma da Esiodo in poi era tradizionale che carmi didascalici si rivolgessero a una persona determinata, e anche la poesia di Properzio apparteneva per lui aU"Ha'.óoetoc xpÓTco?. Tulio è nominato nel primo e nell'ultimo carme del libro per indicare che a lui è offerto tutto il volume (1). Anche Orazio riprende questa forma in un'opera che egli stesso assegnava probabilmente al oiòaxTcxòv '(ivoz nell'ultima epistola della prima raccolta egli si accomiata non da un amico ma dal suo libro,
gia
;
:
dandogli
istruzione
di
dichiarare, richiesto dell' autore,
da cui meglio risalta il valore peranima senza celarne i diconfessarne l'età. Qui la sottoscrizione non è più
l'origine sua umile,
sonale, di descriverne corpo e fetti, di
presentazione,
'1)
11
Lko
diventa ritratto vero e proprio.
(Golt. Xachr.
congedo, perchè iiiesse ai testi
ma
lo
18i)8,
gindiciiva
469 sgg.) cre«leva
imitazione
classici nell'edizione alessandrina,
stanno in principio, non in
line.
mutilo qiustu
scherzosa delle ina (pifi
Vite ,iiot
pie-
o yévr^
-
-
320
modo un po' diverso, come ha un frammento scoperto di recente {Oryrh.
Gli Altea (iniviino in fatto vedere
Fap.
1011, voi. VII, V. 88):
casa
dei
delk^
Muse
ma
miei signori,
Salve, Zeus, e proteggi la
«
calcherò a piedi
io
»; xalf£,ZeO. ixéya xal
rs'j.
prato
il
5' [è[iò]v (1)
aào)
olxov
K difficile dire preannunzino giambi, come ho spie-
àvày.TWv. aOtàp b(ù) Moualojv
se le parole finali
Tie^òc; £t:£:|x'. vo|jiÓv.
un tempo, o non piuttosto 1' attività critica di Callimaco comechessia, assolto un compito, egli, guardando con compiacenza l'opera compiuta, ne promette gato
io
:
degli Amori, dif^hiara
un'altra. Così Ovidio, alla fine
accingersi a comporre tragedie
nerorum mater
Amonim
corniger increpuit gri is
post
raditur
:
thyrso
area maior equis;
mea mansunim Per altri generi
quaere noviim
:
Lyaeus
imbelles elegi,
;
pulsandast ma-
Musa
genialis
fata superstes opus
di te-
ultima meta meis...;
elegis
Iiic
graviore
votem,
valete,
(2).
venne in voga nell'età ellecommiato. In quel tempo usava
di poesia
forma di comporre epigrammi che si fingevano destinati a essere scolpiti sulla tomba di un classico non è necessario citare esempi, che basta aprire a caso il VII libro dell'Antologia. E probabile che almeno alcune di queste poesie nistica un'altra
:
precedessero o seguissero
il
testo in edizioni di classici.
A
mi poeta ellenistico, non sappiamo quale, venne in mente di chiudere la raccolta dei propri versi con un
(1)
di fatto
Supploiutnto del Wii.amowitz (Sappho che Callimaco uou Ja qui
il
suo nome,
intendere perchè non lo potesse, come
il
u.
Simonides 299).
ma
Sta,
confesso di non
Wilamowitz
asserisce.
Quel che è in mezzo tra principio e fine, esprime la compiacenza per il lavoro compiuto questa stessa impronta di sé la chiusa dei Remedia Amoris, dei terzo libro e incerto senso anche del primo (2)
;
dell'
Jr» Amaììdi.
— epigramma funebre su più antico è quello
—
321
se stesso
L' esempio per noi
(1).
visse al principio del terzo secolo
che
locria Nosside,
poetessa
della
(A P VII 718)
« Stra-
:
niero, se tu navighi verso Mitilene dai bei cori per ac-
cendervi
il
che io ero cara Locride mi dette vita appreso che era Nosside, prosegui pure il tuo cammino »;
fiore delle grazie di Saffo, di'
il
Muse
alle
e che
mio nome
(T)
d
^eìv'
TU ye
la
:
nlzXc,
nozl y^.aXkiyopov MuxcÀàvav. xàv
)(aptxo3v ocvS-o? £vauaó{i,£voi;. eÌTtelv
Aoxplc: Y^c xóxxev l'aat; 5' oxt
toc,
Mo'joccia'.
xoijvo|i.a
[xot
Asclepiade (A
P VII
dice
500)
Le
uno
:
di
che passi
tu
*
a xe
Noaafi;, l^i (2).
formule son quelle degli epigrammi sepolcrali :
Itocnfo'jc.
x' f^v
cpi'Xa
in-
nanzi alla mia vuota tomba, quando tu giunga a Ohio, di'
a mio padre Melesagora ch'io sono perito in mare
Uno
di
Callimaco
(ep.
12) imita
questo
di
».
Asclepiade,
superandolo in squisitezza « Se tu capiti a Cizico, poca fatica ti farà trovare Hippaco e Didyme, che nota è la :
famiglia; e dirai loro io
una parola
triste,
sto sopra al figlio loro Crizia ».
Ma
ma
pur
dilla,
Nosside non
che
manda
lontana della sua morte, anzi messaggio che un'altra Saffo è nata a Locri. L' epigramma sarà stato nell' ultima pagina di una raccolta di versi, probabilmente composta in tutto o in parte di ixsXy], poiché Nosside era celebre quale [s.zXo-
ad avvertire
la famiglia
invia a Mitilene
il
come testimoniano
TioLÓ;,
Saffo, alla quale essa
11
(1)
Wilaiuowitz
i
si
sono certo
clie si
(2) IvauaótJievoc e « |)er
carmi
accender colà sattici
21
»
;
come
è
il
(p.
e poiché
233 sgg.
che
ma
gli
sano
lesbico.
lia
imi derivau dagli altri.
e concettoso
poesia saftìca, per
nominativo
2!)9)
epigrammi,
dell'altro genere di
sia accorto
non corrotto
la face -
4. si
mostrerà che Orazio ebbe presente
(|uel iisXo;
an-
-
334
—
IV 12, il canto della roncomuni sono presentati in modo molto che più importa, Paolo in tutto il resto non
particolare più caratteristico di
dine
;
i
particolari
dissimile;
e,
presenta riscontri con l'ode oraziana,
ma
imita evidente-
mente Leonida. Converrà quindi supporre che egli, uomo colto, abbia innestato nella sua imitazione da Leonida un particolare ricavato da un altro carme, per lui classico tutti sanno che egli non fu se non un mosaicista. :
Orazio fonde qui secondo verisimiglianza, lo ripetiamo, due epigrammi ellenistici. Ma qui, dove imita epigrammi, egli è più che mai lirico e originale. Quanto sia nuova nelle variazioni scherzose di un solo motivo la seconda parte, abbiamo veduto dianzi: la prima somiglia anche in particolari dove più all'uno e dove più all'altro degli epigrammi in tal guisa che si direbbe che egli abbia avuto sott'occhio anche componimenti perduti. Ma egli ha saputo imprimere alla materia vecchia il suggello di uno stile nuovo, nobile e tutto suo. I primi versi somigliano, più che ad altri epigrammi, a quello di un poetucolo anteriore di una generazione, Thyillo, l'amico di Cicerone,
vento primaverile, che ma che differenza tra nelle vele;
accenna olò\iix
al
xoXTcoOxai [AaXaxà?
le
X
5.
Anche Thyillo
scava quasi un seno molli parole
òO-óva^ Zé-fupog e
il
f/5rj
àv*
solenne iam
quae mare temperante impellunt animae lintea
veris comites,
Thraciae.
v.c,
si
Le
dette
aure,
animae con parola in questo
senso propria solo del linguaggio antico o della poesia più
elevata
(1),
sono qui inalzate a dignità di persona, e di
compagne della primavera, modo di concepire caro oraziana; che ognuno leggendo ricorda rabiem
persona quasi divina: sono le
signore del mare
alla lirica
(1
Cfr.
i
:
le
questo è
passi, raccolti nel Thesaurus, di Accio,
crezio, Virgilio.
Varrone, Lu-
— Noti, quo freta (III
(I
335
—
non arhiter Hadriae maior, 8,
dux
Aiister
4) e
tollere seii
ponere
Thraciae che, attribuito per lo più a Borea,
3, 15). Il
è qui detto dello Zefiro, costringendoci a sostare e a riflettere, finche ricordiamo
mento
volt
Hadriae
turhidus
inquieti
la patria di tutti
che
la
un mo-
Tracia
è
venti, c'impedisce di trasvolare troppo
i
rapidamente sulla strofa anche questa quasi oscurità voluta è accorgimento di lirica alta. Dei fiumi che non più rumoreggiano gonfi di neve invernale, non è menzione negli epigrammi. Del mito della rondine non v'è più che un cenno negli epigrammi Satyro (X 6) scrive KsxpoTi'xsc 5' Y;/£jat e nulla più; un poetino contemporaneo di Orazio, Marco Argentario (1), fa intendere dottamente che conosce la leggenda chiamando balbo labbra il becco :
:
amante
della rondine ed essa
talamo,
r^Syj
xap-^''xy]v
TcrjXooo[i£t
xal
B-àXaiJLov
quanto Orazio, nidiim avis
et
Cecropiae, domiis
baras regum
est
Pan
suo
nido ye^Xea'.
fa
umana
la
gemens, infelix
aeternwn opprobium, qiiod male har-
del ^ouxoXtafiós (2) arcadico, è
il
-y^sXiStov
nessuno
Iti/n flebiliter
La
ulta libidines.
negli epigrammi,
tpauXcIat
ma
;
ponit
prole e
della
ònò
'^cXóisxvoc
terza strofa,
pur
non avendo gusto
concepita nel
dell'
che parla riscontro
ellenismo
non solo dei poeti bucolici ma degli epigrammatisti dal HI sec. in giù. Il suo paese, l'Arcadia, pur non cantata da Teocrito, è la terra clastardo.
è
il
dio preferito
sica della semplice
per Virgilio quegli, che
e,
vita
pastorale e del canto bucolico
prima che per
lui,
per Erycio e Glauco
visse sino al principio dell'età
;
augustea, co-
mincia un epigramma (A P VI 96) FXajxwv xal Kopjocov iJouxoXéoviec. Wpxàoec àjjt-fóxspot. attinge cioè a oi èv oupeac :
(1)
Intorno al
(2)
Del PovxoXcao|xó$,
tonipi) cfr.
ma
Rkitzknstein,
I'.
IF.
Il
712.
senza accenni all'Arcadia, parla, come
abbiamo veduto, anche una strofa
di
III
2S>.
—
—
:3:}6
quello stesso esametro al quale
Ecloghe per cantare
et
che visse
suo ambo
il
pares
et
si
è ispirato Virgilio nelle
Arcades ambo,
fiorentes aetatibus,
respondere parati (1) (VII
4).
Glauco,
primo secolo avanti Dafni, l' archegeta del
al più tardi in principio del
Cristo, finge PouxoXcaa[jió(;,
(A P IX 341) che incidendo lettere su
dia al suo amatore
pone cioè che
corteccie
un appuntamento
in
d' alberi (2),
Arcadia, sup-
sappiano arcade Dafni (3j. quanto al motivo a una concezione che è dell'ellenismo tardo, è quanto allo stile in perfetta armonia colla precedente come colà la rondine non viene menzionata col suo vero nome, così qui Pan è indicato con una circonlocuzione dicunt in tenero gramine pinguium custodes ovium carmina fistula delectantque
La
suoi lettori
i
strofe di Orazio, ispirata
:
:
deum
cui pecus et nigri colles Arcadiae placent
per selvosi, pare a
Le due odi I num (4) sono di
me
audacia
17 velox tipo
un'amica a visitare
il
amoenum
e
IV
diverso
villa,
scrizione delle gioie campestri,
neri colli,
felice.
alquanto
poeta in
i
;
ma
11 ;
est
esse
mihi no-
esortano
allettandola colla de-
qui
invito al convito
l'
(1) È difficile che Virgilio traduca in un carme bucolico il verso un epigrammatico mediocre, e del resto quell' epigramma non è intelligibile se non per chi conosca per fama arcadi Glauco e Corydon,
di
che
nell' idillio
quarto di Teocrito era dell'Italia meridionale. Proba-
bilmente la fonte comune sarà stata un
idillio
esametrico, del genere
di quelli che sono conservati nell' Apjjendix Bneolicorum
In ciò il Dafni di Glauco imita l'Acontio callimacheo. Per queste relazioni tra Virgilio e autori precedenti quanto all'Arcadia confronta Reitzenstein, Ep. u. Skol. 243 sgg. I due passi citati mi paiono i soli che provin qualcosa gli epigrammi di Erycio Diodoro Zona, che e Glauco appartengono alla corona di Meleagro v. Knaack in tiorì al tempo di Mitridate, ne mette in burla uno (2)
(3)
:
;
:
SusEMiHL, Alex. Ut. II 497. (4) Di un altro carme, nel quale Orazio mette
grammi
ellenistici,
si
forse a profitto epi-
ragiona nella seconda parte di questo capitolo.
—
-
337
IV
è insieme richiesta di amore, aperta in
appena
in I 17.
Nulla trattiene più Pillide
è innamorato
Telefo
si
amore
di Orazio. Nella villetta
a temere
l'
un' altra
di
11, dissimulata in città,
essa
;
sarà
1'
dacché ultimo
sabina Tindarb non avrà
ira del geloso Ciro.
campagna non sorprende ne un poeta ellenistico ne uno romano il desiderio angoscioso di tuffarsi nella natura divien più forte man mano che 1' uomo civile si strania dai campi per Il
sospiro del cittadino verso la
:
chiudersi in città
;
senso
il
il
natura
della
pari passo con l'urbanesimo.
Diceopoli degli Acarnesi,
contadini
I
il
di
Trigeo della Pace deside-
rano la campagna per satollarsi
Ma
vergine va
aristofaneschi,
frutta fresca, per go-
di
uomini del terzo secolo, si rifugiano in seno alla natura come noi moderni. Callimaco, che visse in Egitto, regione anche allora povera di alberi, finge che Acontio, malato di amore, erri per le selve e incida nella dersi la schiava
quando son
tracia.
gli
travagliati da angosce,
corteccia degli alberi
il
nome
dell'amata
(fr.
101). Nella
sveglia mattutina degli uccelli, che era nell'Hecale, un
rugiadoso » descrive l'alba rumorosa della città bene solo ad si attagliano
« vicino
grande, con particolari che
Alessandria
:
«
Non sono
che già ardono esce
come
i
lampade mattutine
rischiarandosi
casa
di
le
più in caccia
giudici delle
Vespe
;
il
le
»,
qua
dei ladri,
cioè la gente già
cammino
« già
mani
colla lucerna,
e là intona la sua
canzone tale che trae su l'acqua dalla cisterna », come « l'asse, scricsi fa ancora dai campagnuoli di Egitto ha la sua stanza chiolando sotto il carro, sveglia chi ;
sulla strada; gli il
orecchi »
dotto
i
fal)bri
(1).
schiavi dentro la bottega assordano
Qui parla non un uccello montano,
nato e cresciuto
ai
confini
del
mondo
ma
civile,
gn (1) 11 testo «rreco in Mitlvil. iiux di-r ri((muiluii(i
liainer
VI 22
18!I3, p.
12 dcll'eatratto.
-
-
338
sulla soglia del deserto, nella lontana Cirene, e costretto
ora a soggiornare nella grande Alessandria, parla e sfoga il
Che
disgusto del ciottolato rintronante.
bucolica se non un aprire cittadini
Ma l'età
via,
i
all'
le
finestre
altro è la poesia
dei
odore dei prati e dei greggi
Romani
salotti
tropj)0
?
degli ultimi tempi repubblicani
e
del-
augustea non sentivano meno il desiderio di fuggir appena potevano, dalle mura infocate. I ricchi e i
potenti edificano ville sui colli laziali e sabini; riducono
il
fanno
cortile delle loro case di città a giardino alberato,
dipingere sulle pareti delle loro stanze vedute campestri,
per godere della
campagna almeno
sono trattenuti in
Roma
l'
illusione,
dalle faccende
(1).
Come
quando Orazio
campagnuola, ci mostrano, ancor meglio che le Odi, le Epistole, dove meno poteva su lui la tradizione letteraria, dove egli con meno ritegno si lasciava andare a esporre i suoi sentimenti sinceri si ripensi solo a I 14 vilice silvarum et mi hi me reddentis agelli e a I 16 ne perconteris. Nella prima delle Odi, dove ci descrive colui che gode tranquillamente la vita, alieno dall' affaccendarsi soverchio, ce lo mostra mine viridi membra sub arbiito stratus, mine ad aqiiae lene caput sacrae, così come una generazione prima Lucrezio aveva cantato stesso sentisse la vita
;
felice
il
savio che
(II 29),
disteso sulla molle erba presso
un ruscello al rezzo di un albero alto nella stagione prati verdi, non quando la primavera cosparge di fiori i
chiede altro alla vita.
Il
senso di ciò che è bello nella
natura era dunque rimasto invariato, cioè
idillico.
Ne
si
pensi che Orazio nelle Odi riproduca un ideale letterario dei
tempi passati: scrivendo
(1)
Cfr.
Friedlander,
al
fattore, egli
Sittengeschichte
IP
compendia
il
199, che raccoglie an-
che testimonianze di questo senso della natura non artefatta.
—
—
339
suo tenore di vita nelle parole prope rivom somnus
et
(T
14, 35)
cena brevis iuvat
:
herba.
in
L'anelito verso la natura idilliaca, che
non comporlo odi,
ci si
ispirò a carmi
cietà di pouxóXo:
Teocrito e la so-
ellenistici.
appartiene, celebrano
cui
come mostrano
in villa,
anima quelle
porge un criterio per stabilire se Orazio nel
le
Talisie
le
loro
feste
come voleva
e
il
nome.
loro Il
(Ath.
campagna
convito semplice in
gramma
è cantato in
del terzo secolo, in quello
XV
673
b);
ma
in
Niceneto
di
un epiSamio
questo componimento, che Orazio
conobbe, poiché ne trasse profitto, come vedremo, per
il
congedo del primo libro, manca ciò che è caratteristico dei due carmi oraziani, l' invito alla donna, manca ogni accenno all'amore. Pure io credo di poter asserire che in I 17 Orazio si è ispirato a un carme ellenistico, credo di poterlo indurre con sicurezza dalla strofe ultiina. L'amatore si chiama Cyrus, qui come in I 33; qui egli è geloso e manesco, colà schiva l'amore della bella Lycoride, per correr dietro all'aspra Pholoe, che non vuol saperne di lui perchè brutto. Nessun greco di condizione libera si chiamò Kupog prima dell' età bizantina. Eppure il
nome
ricorre nella
[xo'jaz
TracÒr/.r^
di
Stratone, in
tone stesso (XII 206), che è dell'età adrianea, in
Tarso (XII
di
28), in
Frontone (XII
Stra-
Numenio
poco importa se
174),
per l'amatore o per l'amato. Io ne induco che esso era poesia erotica alessandrina e che a
adoprato
in
Orazio
ispirò in
è
s'
T
17.
Quanto a IV
11
il
nome
questa
di
Telefo
anch' esso attinto a poesia ellenistica, poiché compare
nome di amato pure nella [xoOaa gramma di un ignoto XII 88. Il carme qual
tipo di 117, tranne fici
che elementi, a
prevalgono: Telefo é
Lydia suscita
la
il
Tiatàxr',,
nell' epi-
presenta
lo stesso
dir così, autobiogra-
giovinetto, lodando
gelosia del poeta
(l
il
quale
13), lo stosso del
cui
— amore brucia Rhodo (IH
—
340
19); ora
fanciulla ricca. Fillide sarà l'ultima
celebra oggi
il
con garbo un carme mente,
meglio che
dovrà esser
canto
in
lei
17:
I
il
ma
ma
dal
ripromette se non conforto
si
annebbia
che
alla tristezza,
campagna: ben
visitarlo in
di
riu-
senso che quest'amore
delusa ne' suoi amori;
poeta non
il
anche qui
colora
mirabilmente nella chiusa.
l'ultimo, è espresso
che anch'essa è
di
poeta inserisce
Il
motivi tradizionali. Anzi vi è
i
Orazio chiede alla donna lo può,
una
amori, quale, sia pur frammentaria-
della sua personalità scito qui
di
Orazio, che
di
tipo ellenistico nella storia certo
di
delinea nel canzoniere;
si
amata
Mecenate.
natalizio di
fantastica dei suoi
innamorato
h.
tramonto della sua vita:
il
minuentur atrae Carmine curae.
Non
indizio che il carme a cui Orazio un epigramma: probabilmente qui, come nel resto della sua poesia di amore, egli ebbe presenti e
alcun
v' è
s'ispirò, fosse
continuò
]xiXri
ellenistici.
10.
Nel
«
congedo
»
del
primo
libro delle
Odi Orazio
rappresentato seduto sotto la pergola, coronato il
poeta
lirico
ha voluto che
sero bevente insieme
e
i
posteri se lo
pensoso
di
solo
conviti
e
Molti carmi oraziani figurano
si
fa
all'amore.
recitati
(I
nel
il
si
asserisce
di
amore.
di
;
poeta chiede
27) che confessi
il
11),
^ quis
devium
scortum
elicief
ma
amore, ?i\-
suo amore.
L' invito a bere, rivolto da Orazio a Quinto Hirpino finisce
:
di celebrar
convito
discorre
si
Durante un simposio
VOpuntiae frater Megillae
è
amore. Nell'ode ad
combattimenti
convito prendono parte etère,
al
si
mirto
immaginas-
Agrippa (I 6), lasciando a Vario il compito degnamente in versi epici le gesta degli eroi, nato a cantar
di
domo
(II
Lyden?
1
— Venga
ne
e
celebra
con
allieti
ritorno dalla
il
dianzi morto (III 14),
ordinare per
di
si
cetra
la
Spagna
».
Così
il
carme che
Augusto, creduto pur
di
chiude con
non
banchetto
il
—
341
comando
il
servo
al
vino, unguento,
solo
ma
anche una donna, Neera. Orazio, festeggiando il bere a prova con Lyde (III 28). Nel banchetto per il ritorno di Basso (I 36) questi beve a gara con Damalis, in cui tutti fissano molli sguardi. Le amate di Orazio temono le gelosie degli amanti ubriachi Tyndari ha paura di Ciro, che non esso, mentre Libero combatte con Marte, le metta le mani addosso e le strappi corona e abito (I 17). A Lydia le immodkae corone,
i
Neptimalia, canta tra
;
mero rixae hanno
segni
lasciato
spalle (I 13).
sulle
ma
lista potrebbe allungarsi a piacere,
gli
La
esempi recati
bastano a giustificare che canti simposiaci e canti amorosi siano qui trattati insieme.
Quest' unione
oraziana ranei
ma
anche
convito
del
rispecchia la
e
dell'
amore
nella lirica
costumi contempogreca classica, quale era vita dell'era
non soltanto
i
come osserva Ateneo
eternata nella melica. Per Alceo,
sua asserzione con meno passi che non avrebbe potuto, giacche altri ne possiamo aggiungere noi moderni, ridotti a giovarci di scarsi frammenti -, per Alceo ogni stagione e ogni circostanza della
(X 430
a)
che pur documenta
-
la
a dire gran parte della anche per lui il simposio non aveva allettamenti, se non vi partecipava 1' amato Mévwva xiXsaaa'.. ai y^pyj j'j|L7ioa.'ac "/,£AO|Jia: xiva xòv /ap.'svTa vita era
sua
buona per
lirica
bere, vale
Ma
era simpotica.
:
Ì7i
rjyxQ'.^ £[xoc -(t^(hrf\)-oi.i
geva
congiunti dalla
Liberum
et
carmi
lira eolica:
46).
Orazio,
come congiun-
et
Li/cum
scritti
nlf/ris
per
il
li
sapeva
Alceo, scrive egli stesso
Musas Veneremque
nim canehat l
(fr.
sua poesia convito e amore, cosi
nella
et
illi
ociilis
(l
semper haerentem
32), pìie-
nigrnque crine decorum.
convito vissero per secoli
nel
-
342
—
così, con Alceo, Anacreonte: «Cantami uno Alceo o di Anacreonte», dice un commensale nei AatxaXeì; di Aristofane (fr.223), mostra cioè che alla poesia di quegli antichi si dava lo stesso nome, scolio, che ai canti conviviali dei moderni. Crizia (Ath, Xlll 600 d) chiama Anacreonte eccitamento dei simposi, traviamento delle femmine, predice che l'affetto per lui ne invecchierà né morrà, finché siano al mondo banchetti e in voga il
convito: scolio di
gioco del cottabo. Per vero, in Atene norj si cantavano nei simposi soltanto versi d'amore, ma al tempo di Aristofane e di Eupoli classico,
ogni
che in origine
era stato corale,
Stesicoro, Pindaro o Simonide in quell'età
bere, o
i
sapevano
più
inventando
di
recitava un carme
convitato
E
(1).
i
di
Alcmane
o
semplici scoli, che
ancora improvvisare tra
sana pianta o rimutando versi
il
noti,
accompagnandosi con la lira o facendosi accompagnare non erano generalmente di argomento erotico, ma piuttosto gnomici e politici se almeno possiamo fidarci della raccolta attica conservata da Ateneo (XV 694 e sgg.), che risale però agli anni immediatamente sucdal flauto,
;
cessivi alle guerre
persiane,
e credere
che
l'
indole di
mutata in un cinquantennio. Ma carmi erotici prevalsero sempre più Aristofane {Equ. 1287) al malvagio Ariphrades dà colpa, oltre che di pervertimenti sessuali d'ogni sorta, di aver composto noXu[jLvr,ax£ta ^oXx>]i.vipxzi7. cantava non si sa bene chi in Gratino (fr. 305). Se l'antico Polymnesto di Coloqueste improvvisazioni non
si
fosse
:
;
fone, cui già Pindaro (fr. J88) conobbe, abbia scritto davvero cantilene lascive, non sappiamo bene, ma i TIoX-jijlv^^oieca di Ariphrades, forse
chiamati cosi solo perchè composti
nei molli ritmi ionici familiari a quel poeta, erano osceni.
(1)
I
passi dei comici che
comprovauo quest'uso, sono
dal Reitzfa'stein, Ep. nnd SkoL, 30 sgg.
raccolti
Dunque
—
343
tempo di Aristofane era in voga poesia lasciva moderna; dove la si sarà cantata se non nel convito? In questo tempo divien di moda recitare a tavola ^/.asi?, al
troviamo
tirate tragiche, quali
metriche
vano luoghi
che
carme
lirico di
qualche tratto Euripide, dove
un
avessero
Fidippide delle Nubi
sovente nelle parti
di
ma
specie di Euripide,
anche qui
forte sapore erotico
:
il
1353 sgg.) ricusa di cantare un
(v.
Simonide,
ribella all' imposizione di dire
si
Eschilo, e recita una
di
tri-
predilige-
si
^fp'.
la vita.
V. anche Asclepiade o Posidippo
—
—
40!2
A
che condizione sociale appartengano le attrici dei minuscoli drammi artiorosi di Orazio e dell' elegia, è ben noto: lo dice chiaramente, sia pure in forma negativa, Ovidio
Amandi:
in principio dell'Ars
este procul, vittae te-
nues, insigne pudoris, quaeque tegis medios instila longa pe-
des
(I
31) (1)
dunque non
:
slazione e più dai costumi Ci furono
donne
e
iade? Ce ne furono nel
matrone
le (2),
amori
ma
di
(jifese
dalla legi-
libertine e peregrine.
tal
fatta nell'antica El-
mondo greco
Delle etere della Grecia più antica
dell'
età ellenistica?
noi
dobbiamo con-
vogliamo essere sinceri con noi stessi, di saper poco; le amate del poeta antico che ha più ceduto ad amori femminili, Anacreonte, non erano da lui trattate, per quel che vediamo, né con stima né con rispetto (3). Le etere dei vasi attici non sono che carne. La donna a cui la maggior parte dei lettori avrà subito pensato, Aspasia, ci è, nonostante le molte notizie che intorno a essa abbiamo, del tutto ignota; che lo scherzo, lo scherno, fessare, se
la
leggenda
sono così
si
presto e così completamente
impadroniti della sua figura da realtà storica. cle
non
ci
sopraffare del
Caduto
il
tutto
la
verosimile che la TraXXaxrj milesia di Peri-
appaia etera se non perchè
riconoscendo
(1)
E
connubio con
la
legge attica, non
la straniera, lasciava libero
iu disgrazia ed esule, Ovidio cita in sua difesa questi
versi {Trist. II 243 sgg.), a ragione: cliè
1'
Ars Amandi
non
è fatta
per corrompere se non chi sia già corrotto. In fondo è un' opera assai innocente, il cui pregio consiste nel contrasto intenzionale tra la
forma saccente dell' insegnamento dottrinale e la tenuità dei contenuto. Un' Jrs Amandi in miniatura è già in Tibullo I 4 la risposta di Priapo al poeta. (2)
età;
il
La Lesbia
catulliana,
tempo ultimo
donua maritata, appartiene
restaurazione augustea. Del resto anche in
quel
un'eccezione scandalosa, come mostra la Caeliana. (3)
a un' altra
non la tempo Clodia era
della Repubblica fa molto più libero che
V. Fracoarolf,
Lirici.
II 270.
— campo
—
403
maldicenze dei nemici e ai frizzi dei comici. Del quarto secolo possiamo illuderci di sapere qualil
alle
ma
cosa di più,
documento
il
do-demostenica contro
Neaera,
orazione pseu-
1'
trasporta
ci
impenetrabili al sole dell' arte.
della vita
donne
principale,
non
augustea
età
dell'
in bassure
Del
troverebbero
quelle distinzioni così nette e secche tra eTaìpat, (cap.
'(uvaly.zc,
intorno
all'
intorno altro,
amore
Il
spiritose
569
vo'jaat
a)
(1)
(571
conserva
d).
le etere di
aneddoti,
e
quanto
si
cui sì
ma
si
narrano facezie
tutte
ji£Y3cXó|iia8-oi
sempre
pur
cortigiana celebre
thaina è pagata a notte (581 b)
dimenti consueti
materiale,
sono
voglia,
Anche una di quelle
tzocXXocy.'XÌ.
gran lunga maggiore più che di
e per la parte di
Ma
le
in
XIII di Ateneo, che è tutto
libro
meretrici,
alle
di curiosità.
spesso (p.
122).
resto
posto
:
[jiiaO-ap-
come Gna-
corrisponde
ai
proce-
signore che ella richieda per
giovane una somma favolosa a un vecchio orienche par poco pratico di Atene; essa è pronta, del resto, ad abbassare il prezzo, appena si accorge che il la figlia tale,
satrapo è più esperto di quanto essa credesse. Gli episodi
che
Machone narrava
di
lei
portati
in
Ateneo,
nelle Xpscac, quali sono
mostrano
che essa
ri-
concedeva a
si
chicchessia senza scegliere e che gli avventori la tratta-
vano senza troppi riguardi romani della
dei personaggi,
agiatamente
ancorché
vi%, si
(2). si
In
Menandro
e nei riduttori
vantino spesso
rispecchiano per
ma modestamente
lo
le
ricchezze
più cerchie sociali
borghesi.
Le amate
dei
romani sono libero, quand'anche libertine; le amate di Plauto, anche quelle che per amore di un giovane riescono a tenersi pure, sono o vengono ritenute schiave, poeti
(I)
L'opposto
(-J)
V.
in
»^
ispt^cic
ai p.
Èrti
-ù)v oìxyj[ixitov
r.so
i.
(ji.
óliJS
di,
iiuadraiittiiiaf.
che
padrone,
il
il
—
404
Uno, affitta o può affittare
al
miglior
offerente.
Gli
epigrammi
di
sono
Asclepiade
per
loro
natura
troppo frammentari, espressioni fuggevoli di momenti fuggevoli, perchè sia possibile dir molto sulle donne del poeta; pure chi è tutto inaridito dalle sofferenze, non
si
stanchezza della vita fa
contenta di amori vedere che il poeta ha posto nell' amore tutto l'animo suo. 1 pochi epigrammi erotici di Callimaco ci introducono in un mondo simile a quello della lirica oraziana e delfacili,
e
la
romana: questi giovani che sono o vogliono parer poveri, non cercano nell'amore soltanto uno sfogo del senso, ma amano con tutta l' anima. Il poeta protesta che la fonte pubblica non è per lui (ep. 28), vuole che nascosto agli altri (ep. 29). Epicyde il suo bello rimanga l'
elegia
ha disgusto
suma
della preda troppo facile (31), Cleonico
tutto (30),
l'amore segreto
si
si
con-
manifesta in sospiri
profondi (43); gli amati si insinuano con mille moine (44), fuggono per ritornare (45). Ma l'oggetto di quest' amore è sempre
un
giovinetto,
non una fanciulla
:
gli
di Callimaco sono sacri alla cfiXó-at; vóao;. Pure considerazioni generali e indizi certi
epigrammi mostrano
che donne simili a quelle della poesia augustea esisterono
nel
mondo
ellenistico.
moderna insegna che
il
libero
risce nelle città grandi: in
L' osservazione
amore
campagna
di
tal
della vita fatta
fiori-
e in piccoli centri
agricoli la distinzione tra la ragazza onesta e la meretrice è ancor oggi cosi netta come nella Grecia antica. Ma
come abbiamo veduto teste, aveva carattere non meno che Roma; essa era anzi in grande di città certo senso più moderna di questa, perchè viveva di industrie esercitate piuttosto da uomini liberi che da schiavi.
Alessandria,
Viene spontaneo di pensare che anche qui amore libero come nella soe urbanesimo andassero di pari passo, almeno per il Alessandria, per non Se cietà moderna.
-
405
—
non manca del resto un esempio illudi donna di cui qui parliamo. Nosside Locria fu donna di gusto squisito e di buona cultura, come mostrano gli epigrammi conservati di lei
mondo
ellenistico
stre di quel
genere
nell'Antologia. Tutto essa potè essere fuorché un' etera
volgare, eppure in
un epigramma celebre
(1)
(AP
V
170)
essa fa intendere francamente, anzi non senza un certo orgoglio, di conoscer bene
i
piaceri dell'
amore
:
«
Nulla
è più soave di amore: ogni altra beatitudine è più pic-
anche
cola:
miele dà nausea.
il
Questo
dice
Nosside.
Quegli cui Cipride non abbia baciato, non sa quali fiori le rose ». La poetessa parla per esperienza propria;
siano
a che, se no, quel firmarsi in fondo all'apoftegma sulla
amore? E la proposizione « Cui Venere non abbia baciato », appunto perchè posta subito dopo, beatitudine di
mette in rilievo che essa, la poetessa, è stata baciata da Afrodite. Nosside ha non si sa bene se pietà o dicostui è come se chi non sappia l' amore non conoscesse le rose. Chi parla, è non una meretrice comune, ma una docta pnella, come le amate
per
spregio tra
i
:
fiori
dei poeti romani. Ovidio esige dalle fanciulle a cui sono rivolti
i
precetti dell'ars
Amandi
(III
329),
conoscenza
dei poeti classici, degli Alessandrini più celebri, dei
mo-
voga Nosside non solo ha pratica di poesia, ma ne compone essa stessa. Le donne di Orazio (p. e. Ili 28, 11; 9, 10) sanno cantare accompagnandosi con
derni in
la
cetra;
;
cosi
le
discepole
di
Ovidio
(III 319).
Anche
questa forma una [jLO'jao'jpy^? del meretrasformazione è senza dubbio una di amore tricio, e meretrici sono le flautiste che prendono parte ai conviti su vasi attici. Ma via via che la cultura non
Nosside
la
soltanto
musicale
[xzXor.o'.óc
data allargando e
(l)
V. sopra
\t.
di
fu
questo genere
allìnando,
:upov
congiunti
:
u£xò;
r,v
y.al
(V
vjE...
vento
107) pioggia e -/.al
jiofÉr^;
']^'J7.?''^5-
ST'^i
vento che qui infuria, è quello stesso della poesia di Orazio, il tramontano tramontano e pioggia stanno, per vero, male insieme, ciò che mostra come
Anzi
5è [xóvo;.
il
:
Asclepiade abbia j)iuttosto cercato un effetto patetico che non osservato la natura, e fa vedere a un tempo che proprio il Borea doveva esser tradizionale in tale poesia, se veniva in mente e nella penna anche un po' fuor di proposito
vano
così in
miìii
pigra
un
(1).
Notte d'inverno e pioggia
uapaxXauaid'upov di Tibullo
nocent
hihernae
multa decida imber aqua Properzio
(I
;
iacentem frigidaque Eoo
(1 2,
29)
mediae nodes, me
me
dolet
:
non
non mihi cum
uno
notte, gelo e vento in
ine
16, 23);
frigora noctis,
ritro-
si
di
sidera piena
aura gelu: qui è ritratta
una notte serena d'inverno, come
in Orazio
(2).
L'accenno alla spietatezza dell'amata, cui la pietà degli estranei dà maggior risalto, era pure tradizionale. Callimaco nomina i vicini •^d.xo'^tc, oìxxecpoua:, ab o' oòo ovap. Onesta menzione, così naturale com'è, ha tutta l'aria di esser presa da canti popolari i vicini, vedendo il sup:
:
plizio del poveretto, esposto tutta la notte alle intemperie,
non è nulla, l'amata no una barbara dell'estremo nord, tenuta per giunta in riga dal timore di un marito con cui non si scherza, pur soffriresti di dovermi lasciare s'impietosiscono, essi cui pur egli
Orazio scrive invece: « Se tu
fuori ». Gli Sciti sono
(1)
Non
si
!
fossi
pensati qui crudeli
può uaturalmeute escludere che qua
ma
sì
e
là,
di co-
per parri-
€olarità della posizioue geografica, venti che spirauo su per
giti
dal
nord, portino acqua. (2)
Il
verso precedente turpis
et
in
tepido
stra che la menzione della cjjuxpóxvjs della
Callimaco, era tradizionale.
limine
somnus
soglia, quale
si
erit
mo-
trova in
— stiimi illibati.
primitivi vien classe
Di concepire idealmente la vita fatto naturalmente a qualsiasi selvaggi
i
nazione,
sono venuti in voga nella
Giacomo Rousseau
Gian
di
popoli
di
persona satura e stanca di cultura. Nel
sociale,
mondo moderno Francia
—
427
mondo
Saint Pierre. Nel
e di Bernardino di
antico, per- cui pure
giustis-
i
simi Iperborei erano sin da età vetustissima modello virtù,
i
moda
venuti di
tempo
al
dei sofisti, o forse già a quello
non diremo filosofi ma che immaginarono come
dei primi
coloro
Savi così quella queste in
Anacarsi (1):
di
ragionatori
leggenda dei Sette
la
maturità precoce
queste generazioni
stirpi e di
manca
si
che per
per Erodoto
lo
più
Lo Scita Anauna figura ben nota, per quanto
si
creda nient' affatto in dovere
di
tutto quello che la tradizione narra intorno a
ha
di
manifesta anche
tuttora ai popolani dell'età nostra.
non
egli
di
ionici,
la
quella capacità di criticare se stesso,
carsi è
di
popoli viventi realmente nell' estremo nord sono
inteso
parlare
(IV
23) di
tutta
una
credere a lui.
tribù
Ma
egli
di Sciti,
che si nutrono, come gli Ipermescolato per vero a un liquido scuro che stilla da un albero: anche questi Calvi sono un popolo di sapienti, poiché gli altri Sciti si rivolgono a loro
gli 'ApYiuTcaìoi
borei,
di
o Calvi,
latte,
in qualsiasi controversia,
e di santi, poiché chiunque
si
rifugia presso loro, è rispettato. Gli Issedoni, sebbene ab-
biano l'usanza
di
invitare gli amici a cibarsi della carne
del padre morto, mescolata con quella delle vittime, sono
(IV 26) àXXw; 5''xaiot, in tutto il resto persone dabbene. A EIrodoto propriamente non tutte le ijsanze scitiche piacciono, ma l'abitare in carri di legno (IV 4G) invece che in città murate gli pare un'invenzione sapientissima, perchè
(l)
V.
Quanto airantiohità
VON DKK MChli-,
Féxlg.
di iiuestii vii. lo ossrrva/.ioiii assoniiato di /'.
I
Jiliiiniier,
12.")
sfi.
— li
428
—
rendo invincibili e irraggiungibili, assicurando loro
come non potrebbe nessuna
più piena indipendenza,
tuzione
popoli
di
respirare
1'
verso un
più
colti.
sentiamo
Nelle sue parole
ansia di tale che pur non rinnega la civiltà,
mondo
più libero e più puro. Tanti secoli dopo,
Orazio in una diatriba poetica, esalta degli Sciti quella
trovato
la
isti-
grazia
agli
III 24,
Intactis opulentior,
particolarità
stessa
che aveva
occhi di Erodoto: campestres
melius
quorum plaustra vagas vite trahunt domos, vivunt. Tra Orazio ed Erodoto la cultura era andata, sia pure con qualche zigzag, sempre crescendo, e di pari passo con la cultura il disgusto per la cultura. La diffusione della leggenda dello Scita Anacarsi è un buon indizio della forza delle tendenze romantiche avverse alla civiltà: egli diviene un santo prediletto dei Cinici. Nel tempo Scì/thae,
augusteo, proseliti,
come così
i
il
Cinici
rinati
disgusto per
guadagnano ogni giorno la
cultura
si
fa
sentire
sempre più forte: le catastrofi delle guerre civili dovevano ispirare a molti odio per istituzioni sociali che, complesse e raffinate com'erano, non avevano potuto impedire tanti orrori. Orazio sognò anch' egli nella sua giovinezza romantica un'isola dei beati in cui trovassero rifugio pochi pii non macchiati dalla corruzione gè-nerale, ed espresse il suo sogno in un carme di mirabile i
eloquenza (epod.
Roma tal
sogno
nella
16).
Dieci anni
più tardi
si
susurrò in
che Cleopatra vinta avesse anch'essa sognato un (1),
Roma
di
tanto diffusi erano stati d'animo di tal fatta quel tempo. Qualche decennio più tardi Se-
neca dedica tutta una lettera
(epist.
90) a lodare
i
sel-
vaggi e a confutare Posidonio, che aveva attribuito agli antichissimi savi 1' invenzione delle arti necessarie alla cultura. Tacito nella
(1)
Cfr. sopra p.
59.
Germania
esalta
non più
gli Sciti
— ma
i
Germani,
Romani
il
4-29
—
popolo giovane, l'ultimo con
Queste considerazioni
spiegano
mini nientemeno che
donna barbara con
femmina
dello Scita
poesia
ellenistica
alla
che non ha inventato nulla scorso (cioè
noto
il
risposta di
uno
è
di suo,
discorso)
chiama
scitico »,
una donna all'amato,
vuol persuaderlo per via lei
i
sprecarle.
di
come
rigidi,
no-
confronto beffardo della
gli Sciti. Il
la
ignoto
resto affatto
con
quale
perfettamente
Orazio nella sua serenata, pensando a costumi
§f;acv la
il
fossero entrati in contatto.
non era del Aristeneto,
:
(II
xr;/
20) «
y.Kb
il
di-
Sx-j^-wv
nella quale essa
proverbi che spender parole
Ma
menzione
la
un popolo
di
quasi favoloso a proposito dei costumi di una signora di
non poteva non sonare non diciamo scherno
tal calibro
ma
scherzo
scherzo, tuttavia
esempio dell'
di estranei
amato,
nominare pressione
solevano
si
vicini,
i
saevo
:
che pure in
lì
nupta
viro,
un suo
tramontana
la
diritto,
amaro, specie
componimenti di tal genere confermano quest' im« per quanto crudele fosse
uomo
di
mondo;
è a casa sua
ed
travagliando chi di notte
uscire in istrada
(1).
quale
se,
impietosivano della sorte
particolari
I
tuo marito »; è invece nibus,
si
incolis
Aquilo-
esercita
quasi
arrischia
a
Tutte queste minuzie sarebbero
di
si
non avessero intento scherzoso. Lo ha ben inteso Lygdamo, se ha avuto dinanzi agli occhi Orazio, quando ha scritto (Tib. Ili 4, 91): te non ha genecattivo gusto, se
(1)
Ricercare con Kikssling-Hkixze anche in usperaa forte (jual-
che cosa di
pifi
contrasto tra
i
che
nn' espressione per
il
durum
limeii,
rozzi usci dei carri-capanne scitici e hi
vedervi un bclKi
porta
Roma, mi pare eccessivo; neppur gli usci romani saranno stati soffici. Dura è la porta, come dnra la donna che excliidil domiìiae dulces a limine duro cfr. Tib. II fi, 47 saepe ego cnm della casa di
:
(Kjnonco voccs e
il
passo di
;
Prop.
II
Lygdamo
20,
li3
interea
iiobi»
citato nel testo.
tionninnijiiam
ianita mollis,
•
rato barbara et
ticc
vso
—
Scythiae tellus horrendave
domus
dnris >ton habitanda
et lorif/e
Sirtijs,
ned eulta
ante alias omnes mitis-
sima mater. Se non avesse pensato a questo canne, sarebbe
ancor meglio dimostrato che noi nel credere alessandrino
il
ci
siamo bene apposti,
confronto con la Scizia
e de-
;
una poesia alessandrina sarebbe in questo caso passo, poiché anche la strofa seguente ha riscontro
rivato da
tutto in
il
Lygdamo. Ma
La
l'altra ipotesi
lievo gli splendori della
poeta e notte
pare più probabile.
strofa seguente mette, quasi di
la bella
stellata
inter pulcra
civiltà in
passaggio, in
mezzo
alla
ri-
quale
il
vivono, pur dipingendo di proposito la
(1)
quo strepitu
audis
:
satum teda remugiat
et
ianua, quo nemus
positas ut glaciet nivis
imroniumine luppiter? I tecta sono una bella casa di città, il nemus non è già cresciuto selvaggio, ma è stato piantato da mano umana nell'interno del palazzo. Pure anche nel peristilio
chiuso da quattro
vento, che scuote la porta
pida camera
;
parti
penetra
pure anche
di
muggendo
il
dentro alla te-
neve ghiacciata scricchiolare sotto il piede del viandante (2). Alla preghiera segue la minaccia velata di consiglio ingratam Veneri pone superbiamo ne currente benevolo retro funis eat rota. La minaccia è nel Tiapa/cXauai'tì'upov si
ode
la
:
parte essenziale
(3): di solito
l'amante dispregiato ricorda
all'amata che la vecchiaia viene per
sime nei poeti il
meno
abili e
meno
(1)
Lo
stellato
si
Non
ritrova,
mas-
delicati, la descrive
suo accompagnamento di canizie e
mente, villanamente.
tutti, spesso,
di
con
rughe, minuta-
fu così in origine
come abbiamo veduto,
:
lo
pseudo-
in Properzio.
Perchè non si possa intender così, ma occorra invece ricorrere a non so che figura grammaticale, non è chiarissimo. (2)
(3)
Manca
talvolta nel piìi spontaneo degli Alessandrini, nel
ligio a schemi, in Asclepiade.
meno
—
—
431
Teognide (II 1303) ricorda all'amato soltanto che non a lungo esso conserverà i doni di Cipride coronata di violette. Ancora Callimaco scrive semplicemente « La canizie ti :
richiamerà in mente tutto ciò
Anche
».
Teocrito nel primo dei Ilaioixà
aìoX'.xà
più riguardoso è
(XXIX
25):
« Io
che or fa un anno eri più giovane, e che diveniamo vecchi e grinzosi prima di sputare », cioè in un attimo. Il poeta ti
scongiuro per la tua molle bocca
accomuna
di ricordare
dove parla d'invecchiare, perchè il ricordo della canizie e delle rughe non l'offenda. Ma un poeta posteriore a Orazio, che pure ci serve bene sé all'amato, là
nelle nostre ricerche, perchè tratta spesso gli stessi motivi
mentre è certo che non lo imita, Rufino (A P V 103), dopo il primo distico, che esprime il pensiero: «Fin quando resterò qui a cantare il TrapaxXauxiS-upov ? », aggiunge solo: «
Già
ti
assaltano
i
capelli bianchi, e presto tu darai a
». Un altro suo epigramma, che non è un vero -apaxXauat^upov ma che pure si duole della durezza dell' amata, finisce un po' meno sguaiatamente, quantunque neppur esso con molto garbo (A P
me come Ecuba
V
92):
«
rughe
Priamo
a
e vecchiaia spietate, venite
affrettatevi: voi persuaderete
tivo con gli stessi
particolari
Rhodope si
».
un Bizantino, del console Macedonio (A P una donna che rimanda di giorno in giorno con il poeta e intanto prodiga il suo amore ad ae
;
— xio A
sa-Epó; iaii
stesso
mo-
ritrova nell'epigramma
di
éa-cpi-/j
più presto,
Lo
'{•xr/.'.y.Oyr. 'p,p'x.;.
V il
233), per
convegno
altri: l'\)o\ixt
àiJLETpv^xo) TiÀr^-
ha dettò « Ti vedrò questa « Qual è la sera delle donne? sera », il poeta chiede: La vecchiaia piena di rughe infinite ». Già il « Ti vedrò questa sera » dopo il « Ti vedrò domani » sa ili appiccicatura la riflessione così generica sul tramonto T>ó[i£vov ^ui-'ot.
lei
che
gli
:
;
della beltà femminile è teocritei (v.
120)
(jui
Philino
ricercata e fredda. Nei OaXuaix è
piìi
molle del cedano, e
le
-
432
—
donne gli gridano Ahi, Philino, il tuo bel fiore se ne va. In un giovinetto questo avviene con la pubertà. In altri epigrammi il consiglio di profittare della giovinezza è confortato dell'esempio dei fiori, che hanno pregio solo :
per breve tempo, poi appassiscono. Talvolta è largo, l'enumerazione prolissa,
come
doteocriteo (XXIII 27), che riproduce, non
con uguale
confronto
il
neir'EpaaK'jf; pseu-
dappertutto
poesia popolaresca: l'amante rustico,
abilità,
ormai risoluto ad appiccarsi, baciando
l'uscio dell'
amata
per prenderne congedo, dice: «So quel che avverrà: anche la rosa è bella, e
sce
tempo
il
e presto invecchia;
l'appassisce; e bella è la viola,
giglio è bianco, e anch'esso appassi-
il
dopo un confronto con
», e,
del fanciullo
ma
è bella,
poco
non molto valore sanno dare
poeti di
tono elegante: così Rufino (AP V all'amata una corona intessuta da fiori di
».
la bellezza
Talvolta anche
al
confronto un certo
74),
inviando in dono descrive
lui stesso, le
i
cui è intrecciata: essa, mettendosela in capo, pensi
umane. Più vivo a un tempo
alla caducità delle cose
più garbato
non
anche
la neve, «
vive
so se
vuoi bene,
l'
con ragione a Platone,
V
(A P
di essi
carmi è
di questi
«Io
79):
accettalo
e
ti
epigramma
ma
lancio
concedimi
certo
più antico
un pomo: la
e
attribuito
se tu
mi
tua verginità;
se
pensi quel che io non vorrei, presolo, considera quanto
breve
sia
posto, sia
giovinezza». L'artista squisito che l'ha comegli no il filosofo, sentiva la differenza di
tono che conviene osservare, quando
non a una meretrice
ma
si
chiede amore
a una vergine.
Oltre a questi motivi che, colorati diversamente,
trovano cui
si
tutti,
discorre subito,
anche un zòko; che quali ,e
si ri-
com'è naturale, nelle canzoni a dispetto, s'
è proprio degli
dovremo ragionare
presto vien la morte
;
di
incontra nelle richieste di amore
in altro
inviti a godere, dei
contesto: la vita è breve
a^che imporsi severità
di vita?
— perchè non godere risparmi
?
-
Asclepiade scrive (A
A
verginità.
la
433
P
85)
«
:
Tu
che prò? che scesa all'Ade,
non troverai chi ti arai. Tra i vivi è il diletto amore nell' Acheronte giaceremo ossa e cenere ». ognuno viene in mente l' invito di Orazio a Sestio
fanciulla, di
A
:
incohare
summa
beate Sesti, vitae
14):
(1 4,
lorujam
:
iam
brevis
spem nos
vetat
premei nox fabidaeque Mayies
te
et
(ìomus exilis Plictonia, quo simul mearis, nec regna vini sortiere talis
nec tenerum Lycidan mirabere, quo calet iuventiis
et mox virgines tepebunt. Ma il '/.tioó^z^-y. di Ascleprima persona plurale posta cosi in fondo, fa bene sentire all' amata che quella è sorte comune, che l'amante non parla per malevolenza, poiché i suoi ammonimenti hanno tanto valore per lui stesso quanto per lei in Teocrito abbiamo osservato pur dianzi uno stato d' animo assai simile (1). Orazio nella forma particolare della minaccia si attiene a un altro motivo forse più antico egli scongiura l'amata per bene suo che egli fa come se si dimenticasse di se di non offendere Venere. stesso per pensar solo a lei Un eccesso di castità è una bestemmia contro la dea, perchè sminuisce in qualche modo il suo regno. La concezione è antica: su essa si fonda la leggenda di Ip-
nunc omnis, piade, la
;
;
—
—
polito,
dite
si
quale
Euripide l' accolse dalla tradizione. Afrovendica di Ippolito, perchè egli con la sua castità
Tutti,
(1)
,
si
pnò
dire,
i
motivi del TnapaxXa'jaCO-opov
nell'esposizione sistematica dell'ultimo erede lenistica di amore, Ovidio
godere le
dell'etil a.
a.
;
tutti
Ili 59 sg».
rose cadono, lo spine restano
agli nizie
amanti ;
i
li
sospirerà
serpenti
Henza rinnovarsi.
mutano
pelle,
;
la
gli
altri,
conlliiiscono
della poesia el-
contiene l'invito alle fanciulle a
gli
anni scorrono come un tìnme
donna che
tien
;
chiusa la porta
invano. Presto vengono rughe e cai
cervi corna,
Nonostante la grazia
.iccumulati gli uni su L'8
presto
li :
romano
tediano.
le
donne invecchiano
di molti particolari,
i
lóirot,
— sovrumana
le fa torto,
spregiano:
il
ciò,
che
—
434
puniscono quanti
e gli dei
peccato del giovane
egli
L'altro peccato,
xoò
reverenza,
rifiutarle
il
Xév.Tpa
àvx''v£iat
14)
(v.
li
di-
trezenio consiste in '^jauei
'{7.\H})v.
sparlar di
lo
lei,
non sono che manifestazioni naturali e necessarie di una mente aliena dall'amore. Il motivo nei TcapaxXauaiO-upa e nei carmi afiìni non è frequente, e la ragione di questa sua rarità è chiara: oltraggia Venere chi resta vergine; le donne della poesia ellenistica eran tutt' altro che modelli di castità. Esso compare, come hanno notato nell' 'Oap'.aiu^ pseudoteocritea: questa assai vivi appunto come un giocolori con rappresenta
Kiessling-Heinze,
vane pastore
e riesca
tenti
cedere alle sue voglie. simile
tra
una
a indurre
fanciulla
a
situazione è qui in certo senso
dell'Ippolito, e perciò qui rinasce quel
quella
a
contrasto
La
Afrodite
Artemide,
e
tra
l'
e
à-f po^taioc
anima la tragedia di Euripide: al giovane che l'ammonisce di badare all'ira di Afrodite Và^xB\xÌGioq
(Theocr. o'jye.
'^ioc,
che
XXVII
15),
protezione di Artemide: xEficc
£ir\.
cpeO
cpej
xwpa, la giovinetta
xàc
risponde
figliuolo la poesia ellenistica
pseudo-teocriteo
:
)(óXov à^so
facendosi forte
^
x'^'-?^'^^
Di altri dispregintori, se
Xlacp-'a?
ITacpta- [Jióvov
iXao? "Ap-
non della dea,
conosce l'efebo
anche costui
(v.
5)
«
y.al
della
del suo
dell' 'Epaaxr^s
non sapeva che
mano, che amari dardi Eros se ne vendica atrocemente, facendogli cadere addosso la propria statua. Tutto è di una il componimento, così atroce nell' invenzione, maldestrezza sovrana nei particolari. E Orazio si mostra assai malizioso nel rivolgere un ammonimento cosi solenne a una maritata, che la dispregiatrice dell' amore, non la sposa che dell' amore dio sia amore, quale arco abbia in
scagli anche contro Zeus
gioisce
castamente,
poeta innamorato
si
».
ha a temere
dell'ira della dea:
foggia la divinità a suo modo.
il
—
435
—
Segue ne currente retro funis eat rota: l'imiiiagine è com' è noto, da un ingegno, per mezzo del quale, girando una manovella, si inalzano pesi; se' il carico è troppo forte, la fune va indietro, la ruota si muove all' incontrario, la manovella sfugge all' operaio e gira altolta,
l'indietro per
conto suo.
La metafora vuol
che Venere sdegnata non capovolga
con termini meno coperti:
lare
presto
il
:
Bada
«
Guarda che non venga
che correrai tu dietro all'amante
giorno
frequentissimo,
TÓTTo;,
«
dire
la situazione », a par-
come avremo agio
».
Il
di vedere, nelle
canzoni a dispetto, anche in quelle oraziane, non è raro
neppure nei 7rapaxXaua:8'upa Il primo HatOLxóv teocriteo, dopo aver detto a chiare note che si è giovani solo una volta e che rimpiangere la giovinezza non serve, finisce: « se tu lascerai che le mie preghiere vadano disperse ai quattro venti...., ora per te andrei sino ai pomi .
un giorno, non verrei per te neppure sino alla porta di casa, neanche se mi chiamassi ». Asclepiade, escluso da un'amata (A P V 164), invoca la notte a testimoniare che egli venne chiamato, e prega che Pythias debba un giorno star così sul vestibolo di delle Esperidi e al custode dei morti Cerbero;
libero dall' angoscioso desiderio,
La somiglianza con Teocrito
lui.
già nel pseudo-Teognide
(II
è grande.
1317),
il
(juale
11 motivo augura a un
(•
giovinetto crudele: « Nessuno, vedendoti, voglia aniarti
Ma
il
particolare
».
del vestibolo fa pensare che Teocrito
sia ricordato di Asclepiade o che derivino tutt' e due da un modello comune. Un po' diverso è l'augurio che egli grida (A P V 1G7) contro il suo amato Moseho, che
si
egli'
possa un giorno errar
pioggia, senz' aver
r
amante
come
lui
di
notte,
molle
innanzi ad alcun uscio.
'EpaaxYj? pseudo-teocriteo
dice
di
Così
amato
all'
«Verrà un giorno che anche tu amerai fanciulli sono nell'età del Lycida oraziano, \^ov
(83sgg.): sti
dell'
requie
». il
Quei\\\:\\o
—
436
—
perde ora
la testa tutta la gioventù presto, divenuti puproveranno essi stessi le pene di amore. Anche in questa forma il motivo è antichissimo, perchè l'amore sentimentale nasce in Grecia prima tra uomo e giovinetto che tra maschio e femmina: anche un poeta del secondo libro della silloge teognidea cerca di piegare l'amato, ricordandogli che egli presto sentirà amore (v. 1307) :
beri,
:
\ì.y\Koxt
xal
ziàos-iq
y^aXeTOov, wcjTìsp
CTÙ pnr^asat, o^ptixe
vOv w5'
£-,'(•)
insieme ingegnosamente
izaioiàv.
KuTrpoysvoO;
èrcl
o'
Ipyoìv
àv-
Tibullo combina
ao:.
motivo, diciamo pure, maschile con quello femminile nell'elegia a Pholoe (I 8, 71): la donna fa male a tormentare così il povero Maratho il
;
come
una volta sprezzante, soffre ora le pene di amore, così un giorno essa rimpiangerà la sua crudeltà: hic Marathus quondam miseros ludehat amantes, nescius ulquesti
torem post cajmt esse deum....; nunc omnes odit displicet
UH quaecumque
poena manet, ni desinis ì'evocare
diem
esse sicperba
solente a viso aperto
:
la
cupies votis
te
hunc
te
Peneìopen
« Penelope,
per riguardo
aveva
Venere (come
l'ira di
di
in-
difficilem procis
del suo alto lignaggio,
sdegno
ma
è più soltanto malizioso,
non
Tyrrhenus genuit parens. di sfidare lo
quam
nunc at
;
!
Quel che segue, non
buona fama
;
fastiis,
dura sera
oppositast ianua
forse
alla
ragione
Venere contro
sposa fedele sia un'invenzione impertinente del poeta,
abbiamo detto
padre era Toscano
teste); tuo
riguardo allo
al padre, per
stile,
il
».
Anche
poeta conferisce una
specie di dignità mitica, chiamandolo, invece che Etriiscus,
Tyrrhenus;
ma
la parola
solenne non poteva ingannare
alcuno. Gli Etruschi avevano nell'antichità
polo
lascivo
(IX
16) citato
:
oltre
il
fama
di
po-
passo di Dionigi di Alicarnasso
da Kiessling-Heinze, vale
la
pena
di leg-
gere quanto sui loro costumi narravano Aristotele, Timeo e specie
Teompompo
(Athen.
1
23
d,
XII 517 d
sgg.).
—
—
437
Molti particolari sanno di leggenda, sebbene essi
modo come
il
solevano rappresentare in pitture funerarie
dell' altra vita,
dere che
mente
il
piaceri
i
da
sì
far cre-
pettegolissimo Teoporapo esageri qui maligna-
e svisi
munque
mostri popolo sensuale,
li
non però inventi
(1),
sana pianta. Co-
di
meritata o no fosse la loro fama, essa era così
un Romano
tempo di Augusto l'udir vantare la virtù di un'Etrusca doveva far la stessa impressione che a un Toscano del trecento il sentir parlare della castità delle donne bolognesi. Orazio dall'ammonizione scherzosa è passato all' ingiuria mal coperta; senz' effetto, che la porta resta chiusa. Ma l'amante tenta ancora uno sforzo, supplica ancora: « Benché nulla ti pieghi, abbi compassione » quamvis neque te mimerà nec preces nec tinctus viola pallor amantium nec vir Pieria imelice saiicius curvai, diffusa che a
del
:
suppUcihus tuis parcas, nec rigida mollior aesculo nec Mauris
animum
mitior
Le comparazioni ultime hanno
angicibus.
l'aria di specificare
con arte peculiare
(2)
motivi popolari
più importante all'effetto complessivo è la
con quamvis. che
il
I
doni, le preghiere,
pallore degli amanti,
freddo della notte tramuta in pavonazzo
(1)
K(JRTK, r.
(2) Il
Ma
palientior
africani
ÌV.
VI
stanno
(3),
754.
confioiito della rigidità dell'amata con la diuezza
getti iuauimati
doveva esser comune: Sicano,
erano
licei
8il
presenti
alla
el
di
parentesi,
si
sit
licei
chahjhe. I
et
di
og-
et
saxo
serpenti
Orazio anche altra volta
«fuggimmo
Canidia adjlasset peior serpentihus a/ris
sia detto Ira
16, 29
Proj). I
ferro durior
mente
secondo libro dei Sormoni tìnisce: illis
il
;
proposizione
ritrova in un
».
Il
:
il
quelle vivande, velut
motivo del
epigramma
di
iiato fetido,
Lucilio
A
1'
XI 239. (3)
KiKSSLlNG-HiciNzic o altri intendono che
solo caratterizzare leiiH
il
i)alloi(^
virgiliano, detto di
ticheremo che qui invernale.
dogli amanti,
ma
un pallore che sfuma
parla
un
il
linclns viola ddilia
nonostante in violetto,
il
viola /«i/-
non dimou-
amante che passa all'aperto
la notte
lì
—
438
solo per introdurre l'ultima parte,
con una
disce, e per giunta
con una nei
ma
7iapaxXai)a:0%)pa,
Romana
ziano.
è forse
marito
clie la tra-
Questo motivo non si ritrova che io mi sappia, tutto ora-
Chloe.
'Iliressa
il
flautista o citaristia qualsiasi,
è,
invenzione del
1'
per la donna maritata con un
;:apa-/.Xa'ja{0-jpov
marito compiacente. Del
si augura che Delia gli apra senza far ruda non far sorgere sospetti nel marito (12, 31 sgg.). Nulla, per quanto so, prova che i liberti e la loro prole
pari Tibullo
more,
SI
avessero in Grecia
quegli
né è da credersi che
come
una
nel romano,
costumi che
stessi
mondo greco
essi nel
classe
malizioso di Orazio pare a
sociale a parte.
me
Roma,
in
formassero,
tocco
Il
felicissimo.
Ancora una minaccia chiude il carme, quella che sola poteva metter paura a una signora di quella risma: non hoc
semper
liminis
erit
Kiessling-Heinze
mente ambigue gliersi la vita.
xXauauS-upov.
tempi pure
credono che è
caelestìs
patiens
ultime parole
le
poeta minacci
il
donna non contrasta
in
nulla
1'
adempimento
domanda d'amore xaxaTzsatov
t'era già la -52)
forza della tradizione.
finisce quasi oè
:
con
Tisawv, xal xo\
la stessa
cità del pastore
piglia
innamorato
così
sul
serio
Il
y.tiao\iyj.,
KG}\i.oq
piut-
tan-
di Teocrito
formula: oò/éx" àsiow,
wos
X'r/,o'.
YÀuxl) zoùTo xaxà Ppó)(i^oto yévoixo.
egli
Tiapa-
com' è ovvia, così era tradizionale sin dai il giovane delle Ecclesiazuse, cui
del suo desiderio, finisce la sua
(III
to-
di
vero che questa chiusa del
tosto baldanzosa che disperata
7v£ca£u[xai
latns.
intenzional-
Aristofane:
di la
e
Ed
aquae
aiit
trovano
Qui
\i'
l'
eSovtat.
w^
(xéXi
zoi
ingenuità, la rusti-
manifesta anche in
ciò, che un motivo ormai antiquato.
si
Teocrito vuole che l'avveduto lettore sorrida del giovinetto che vuol mettersi giù e aspettare cheto cheto che i
lupi lo divorino. Si
in atto
il
può esser
certi
che egli non recherà
suo proposito, e male interpretò
le intenzioni
— del suo modello
quando
fìnse
il
che
rozzo imitatore che compose il
suo
àvr^p rzoX'y^iXz^oc,
E
soglia dell'efebo crudele. chi
—
439
giornale anche
'Epaa-y,;,
s'impiccasse sulla
fa torto al poeta alessandrino
attribuisce un' invenzione, che è da
gli
1'
cronaca
di
ad astrarre dalla chiusa, dalla statua di
Amore che salta addosso all' efebo mentre questo fa il bagno, e vendica l' indifferenza sua verso il morto, uccidendo lui. Properzio accenna un volta il motivo: II 17, 13 num tacere e duro corpus iiivat, impia, saxo, sumere et in
Ma
nostras trita velena manus.
non dice
quel che segue, mostra che
sul serio: nec licet in triviis sicca requiescere luna,
A
aut per rimosas mitiere verba fores.
che questi confort^
carme finisce col distico seguente: quod quamvis ita sit, dominam mutare cavebo; fum in ine senserit esse fidetn. Dunque non diceva fiebit, cum da senno. per uno che vuol morire?
11
No, né il suicidio conviene quale chiusa a questi amori così moderati e cittadineschi, né le parole di Orazio sono ambigue. Esse vogliono dire: « Io mi stancherò una
buona volta
è forse senza modelli. ti
Uvano,
si
Anche questa chiusa non Man mano che costumi si ingen-
di farti la corte ».
i
affievolivano anche le passioni: ai tempi
Teocrito la minaccia
di
per un amore di quella
di uccidersi
non ricambiato, sembrava pazzesca, sicché egli l'adopra solo per mostrare l'ingenuità rustica di un pastore vero. Là dove il poeta non vuole far sorridere di pastori veri, ma dipinge poeti vestiti da pastori, nei Thalysia (v. 122), egli dà all' amico Arato un consiglio di
fatta
altro
genere
:
«
Non facciamo
Arato, né consumiamoci il
triste
(1) Il
i
più
piedi;
il
la
canto del gallo metta
torpore (1) addosso a un altro torpore
è
cagionato
dal freddo, nò s'intende
perdio
guardia alla porta,
».
Questo è un con-
non solo dalla staiichozza ma il
Wilamowitz
{Goti.
Xachr.
aiiclio
lSi)l,
— sigilo di
—
440
Simichida, cioè di Teocrito, ad Arato. Immagi-
niamo che Arato
lo
segua
e
a se stesso o
ripeta
lo
all'amante, e ne verrà fuori una chiusa di
7T:a(>a-/.XauaL0upov.
L' intenzione di
Simichida è appunto quella di indurre non senza un fine egli ha poc' anzi supplicato e minacciato il dio protettore d"ei pastori, perchè aiuti Arato nell'adempiere il desiderio; non senza un Philino a cedere
fine
ha pregato
:
gli
Amori
E
di colpire Philino.
Philino, riflettendo che l'età
buona
perchè
è sul finire, ceda, egli
chiamato da Simichida (xaÀaxó(;(v. 105) e àTi-'oio TieTir'icpo; qui il poeta accenna un motivo che, lo abbiamo veduto, è comunissimo nel 7T;apa>tXa'ja''i)'upov « la stagione buona passa presto, dunque profittane », ma lo tratta con deè
:
:
licatezza e con malizia particolare, facendo le viste di
non
trovar desiderabile quel che l'amico non vuole avere e
che egli di tutto cuore andarsene dev' essere
di
gli
Anche
augura.
presa dalla
minaccia
la
del ua-
tradizione
paxÀa'ja:i)"upov.
Le canzoni a
La
dispetto
(l
25, III 10,
raccolta delle Odi contiene tre
IV
13).
canti a scorno di
donne che divengono o sono vecchie nell'uno il poeta rinunzia all'amore della femmina superba di una giovinezza che è già mezza sfiorita, e le augura con compiacenza dispettosa vicini i mali dell'età; in un altro celia crudelmente su una vecchia che non vuol darsi vinta e tenta :
invano gareggiare con
giovani
le
186) ueghi questa seconda causa
:
il
;
il
Pohlenz
terzo
(Charites
si
rallegra
filr
Leo 102)
ha ricordato opportunamente che per Galeno (VII 143 K.)
il
tor-
pore deriva appunto da umidità o freddo. Questa doveva essere opinione comune nell'antichità, ed è del resto fondata.
-
—
441
che egli aveva espresso in un Ttapa/.Xaua:0-opov, si sia adempito. Il motivo doveva allettare era compiaciuto di descrivere il poeta, che, giovane, si la libidine ributtante di vecchie megere; ma il freno
un
che
augurio
severo quale egli se lo era imposto nelle poesie
dell'arte,
due odi meneffetti troppo violenti. Il carme del quarto libro ricorda gli epodi molto più da vicino, come molti in genere nella seconda raccolta. Orazio è tornato in certo modo al romanticismo suo giovanile, o, per meglio
prima raccolta, zionate per prime gli delle
dire,
ha
poeta,
si
gli
ha vietato
nelle
lasciato più lenta la briglia alla sua
mostra più libero da
indole
men
restrizioni volute,
gio a un ideale classicistico. Solo in quest'ultimo egli osa descrivere in
metro
lirico la
di li-
carme
bruttezza della sgual-
non osano se
drina vecchia, mentre le altre due poesie
non accennare all'impressione che essa produce. I
25 Parcius iunctas contiene implicitamente, abbiamo
detto,
una rinunzia
alla richiesta di
villanie dettate dall'odio è vecchia,
gna:
il
che quel che
si
si
amore. Attraverso le
scorge chiaro che Lydia non
dice di
lei
è esagerazione mali-
poeta non osa negare che stuoli
di
giovani ubriachi
gettino ancora sassolini contro la sua finestra, che amatori più sentimentali e più sonnnessi cantino ancora serenate
nanzi alla sua porta: parcius quatiunt, audis minus iam, nulla di più.
Un
giorno,
quando, andrà essa l'amatore dispregiato
in
moechos anus arror/antis
flebis;
non il
erro, assai
(l)
in
noscere
Sembni verità elle,
se
poeta non osa egli stesso
cum
saeviet.
La
situazione
è,
se
somigliante a quella dell'elegia che chiude
libro terzo di Properzio, III
mino
di-
minus
casa degli amanti: quel giorno, e riconosce, non è ancora venuto:
dir
lo
ma il
et
24-25
(1). Il
poeta
si
accorge
evitlcuto elio i
Giuliano
e
mostra che
la
poesia ellenistica dava alla descrizione della vecchia la
forma dell'imprecazione, delle dirae, cioè àpai, come Properzio chiama la sua elegia. Orazio ha trasformato l'imprecazione in profezia. Il carme antico parlava, come s'in-
duce delle coincidenze tra Properzio e Giuliano, della canizie e delle rughe. Properzio ha reso più piccante il motivo, immaginando che la donna, man mano che incanuti che va scoprendo. Il confronto vecchia, si strappi tra Properzio e Orazio mostra che nel carme ellenistico si augurava alla donna superba che le fosse un giorno reso pan per focaccia il passo del Ilatotxóv teocriteo e gli epigrammi di Asclepiade fanno vedere che il motivo era comune (1). Giuliano, a cui importava più di spiegare la i
:
sua virtuosità miserella nella descrizione della bruttezza fisica, stile
ha soppresso l'accenno. Orazio, che per ragioni
di
rifuggiva ancora da particolari di corporale orrore,
l'ha allargato, togliendo
via
il
resto.
Ma
la
sua pittura,
pur rispettando il decorum, è grande di spietatezza. La sgualdrina vecchia che aveva lasciato fuori gli amanti, ora aspetta nel vicolo solitario
(1)
maschio tira
L'ha Filippo
(APXI
36);
il
iu
una canzone
casa
l'amante per la veste, Soji; kzspoic, xb
dell' antico
l'amore di cui
si
a dispetto,
la
tramontana,
composta pure per un
fanciullo che era stato sprezzante, ormai sfiorito,
dopo che quegli ha dato ad [A/jV Scop?;,
mentre
(2),
ma
questi non vuol saperne della stoppia
altri la
messe
^é^oQ. Qui,
amante,
ed
è
da
:
come lui
vùv cpiXov sXxwv, tyjv xaXociu Teocrito, l'amato
respinto
;
come
in
va in
Teocrito,
cauta, è maschile. I due carmi sono parenti stretti,
sebbene l'uno sia una domanda, l'altro un rifiuto d'amore. (2)
Toglie ogni efficacia alla descrizione chi con Kikssling-Heinze
che
soffia
rompe,
la
Non
bisogno
—
per la notte ventosa, cui nessun raggio di luna
gela sin dentro
che giovani lei.
447
ma
sete di
le ossa;
piange non già
essa
che vecchi ammogliati non guadagno la tormenta, ma
fisico incoercibile,
curin di
si
libidine,
un
quello stesso che fa impazzare
un bisogno fisico e il dispetto per 1' abbandono in cui vive. Pure in questa descrizione così possente Orazio ha saputo evitare ogni volgarità: la donna che una volta fu sprezzante, accetta ora chicchessia, ma non si abbassa sino a piangere, essa, come la vecchia di Nicarcho, forse un contemporaneo più giovane dell' Alessandrino (A P XI 73), la quale vuv lO-éXet ooOvxt |xcaO-òv eXaule
cavalle,
vo(i,£vy].
Invicem moechos amis arrogantis
angiportii,
in
flebis
solo
levis
Thracio hacchante magis (1) sub interlunia vento,
cum Ubi flagrans amor
libido,
et
quae
solet
matres furiare
equorum, saeviet circa iecur ulcerosum, non sine
quod pubes hedera
virenti
qiiestu laeta
gaudeat puìla magis atque mgrto,
uridas frondes Jiiemis sodali dedicet Euro.
Il
confronto della
vecchia etera con cavalle e con cavalle non più giovani, matres equorum, è un' ingiuria atroce men grave che a ;
noi paia, nonostante
intra
il
iecur ulcerosum
non ancilla tnom
18, 72):
I
saeviet,
Orazio ha
:
un giovane amico senz'ombra d'ingiuria
consigliato a (epist.
il
marmoreum venerandi limen
ulla
iecur ideerei
puerve
amici.
spieghi che es.sa sia rimasta nella sua cameretta e di
li
tenda invano
avvenga nel vicolo; a che in questo caso la menziono della tramontana o dciroseurità? E qual mai senso avrelihe l'orecchio a
Vili
quel
nella proposizione in solo jlchia anrjiporlnf (1)
Mafiia è giusto: era credenza antica che la lino e
al aóvo5o'., dei
Theophr. de l'orlirione
inventi, >
chia bamboleggi, «Laide molle che è insieme
Ecuba
nacchia, nonna di Sisifo e sorella di Deucalione
», si
e cor-
com-
piace d'immaginare che essa, la ritinta, dica a tutti tata
come un neonato. Orazio fantasie,
non
si
da queste
è tenuto lontano
ma
crudeli della sua
j)iìi
cattivo gusto,
di
anche nella sua poesia più recente, dove ha allargato alfreni dello stile. quanto In IV 13, Audivere, Lijce mi par di sentire, attraverso la prolissità delle sette strofe, un'ispirazione un po' stanca. i
Il
ma
quarto libro contiene carmi maravigliosi,
ì
pochi
di
amore paiono a me scolorati e alquanto convenzionali. Così anche questo, dove, nonostante particolari felicissimi, mi sembra di scorgere che Orazio non ha più la sua bella indipendenza
di fronte alla tradizione.
Il
principio richiama
una poesia precedente, appunto il r:aj>axXa'ja''i^)'i)pov III Gli dei hanno ascoltato la sua imprecazione, ed ella fatta vecchia fasi
:
:
10. si
è
questo pensiero è espresso con molta en-
audivere Lf/ce, di mea vota, di audivere, Li/ce.
L'unire in una raccolta di una canzone a dispetto che le predizioni e gli
versi
con un
auguri del primo, è
agli epigrammatisti greci,
come
quale, appunto perchè non
zapaxXa-jatii-jpov
mostrando avverate espediente non ignoto
lo citi,
fa
vedere
il
solito
Rufino
;
pone spesso diamorfo quei motivi che ritroviamo atteggiati originalmente da Orazio. Nel libro di Rufino, all'epigramma da noi spesse volte citato (A P V 103) che comincia \xiyy. z'^^o;. Ilpoòiy.rj. -apaxÀaóao \xx'. e prosegue constatando con compiacenza che già i canuti son lì lì per saltarle addosso, seguiva, certo non immediatamente, quest'altro che nella raccolta del Cefala lo precede (A P V 21): « Non ti avevo detto, Prodice: il
nanzi agli sguardi
in
originale, ci
istato, direi,
;
invecchiamo; presto verranno
(ì)
al §iaX'J3Cfi},0i
sono femminili.
8ono
e le
le separatrici degli
rnghe e
i
amici? (1)
capelli liianchi, che in greco
— Ora sono arrivate
rughe e
le
—
4-00
la canizie, e
cioso e la bocca non ha più le grazie di
qualcuno
più, superba,
adulazione
di
come che
?
Ora
avvicina? o
corpo è cen-
un tempo. Forse
rivolge preci piene
ti
passiamo dinanzi senza fermarci
ti
tomba».
dinanzi a una
io
ti
il
L'effetto di questa realtà
soglio chiamare autobiografica, era accresciuto nel
in
contemporaneo dal trovare la canzone a dispetto una raccolta che usciva ad anni di distanza da quella
in
cui
lettore
era'
il
Orazio
TùapaxÀauaiit'jpov.
alla fine dell'ode
richiama ancora una volta amori suoi giovanili. In Orazio segue una pittura simile a quella ([iiWiwor
panperis
Ibijci.
giovane, e
Anche Lyce vecchia
vuol
sembrar danzare e bere, e quando ha bevuto,
perde ogni ritegno.
Ma
qui
studia di
si
mancano
figure delle gio-
le
manca, prima di ogni altra, la figlia. I verbi sono accumulati un po' l'uno sull'altro, sicché le immagini non hanno quasi tempo di formarsi
vani che danzano con
lei,
dinanzi alla nostra mente. Solo la vecchia che con tre-
mula voce
un amore che non vuol venire,
sollecita
ci
richiama in mente una scena vigorosa delle Ecclesiazuse,
che più sopra abbiamo visto essere contesta popolareschi.
Una
vecchia
(877 sgg.)
uomini non vengano. Anche
una canzone
sola
ludit
e
ionica, cioè oscena:
«
uomini non vengono? sto
qui
si
E
lei
già da
ad aspettare senza
far
cuno
dei passanti.
tando per
con
(1)
i
motivi gli
canticchia sola
Perchè mai
tempo sarebbe
ora.
gli
E
io
nulla, impiastricciata di
belletto, vestita di giallo, e canticchio per
canzone. Eppure potrei
di
duole che
me
sola
una
miei canti afferrare qual-
Muse, venite qui sulla mia bocca, inven-
me una canzoncina
di
(judle ioniche
».
La can-
zone lasciva e triste con cui la meretrice di strada, spesso ebra, inganna a un tempo la vana attesa t^ tenta richiamare amanti, è un motivo doloroso ohe la j^oesia. sia (1) Kx{,'o'jj' oiK»;
mi
ii.iit^
la
lezione inij^littrc
—
—
A'iVì
popolaresca, sia rallìnata, ha spesso preso dalla realtà e volto in suo uso. Se Orazio
ricordasse di Aristofane,
si
che pure allora nei primi decenni dell'atticismo era autore
non saprei
scolastico,
Ma
nome
il
dell' amore trasporta Orazio in vede Cupido volar via dalle guance
del dio
tutt'altre sfere; egli
della
dire.
donna che avvizzisce
vane
flautista
ille
:
e posarsi su quelle della gio-
virentis et doctae psallere Chiaè pulchris
excubat in genis, importunus enim iransvolat aridas quercus et
refugit
te
quia luridi dentes,
nives. 1 particolari
vecchie o
sono
gli exoleti.
i
quia rugae turpant
te
soliti
Amore
degli
et capitis
epigrammi contro
vola oltre
le
le
querce inaridite,
dice Orazio: il Myrino della raccolta, pare, di Filippo, in un epigramma(l) nel quale finge che un àvòpóyuvov, raggiunta l'età in cui avrebbe dovuto morire, appenda a Priapo gli
strumenti delle sue grazie pretenziose, gli abiti meretricii e i capelli finti e il belletto e la cassa delle molli vesti di quercia di Venere»: il suo eroe « molle pensa a quelle querele che, morte ormai, divengono mollicce per una specie di carie che le divora, quali cotone, chiama egli
ciascun boschi.
di
noi
Delle
ha spesso
rughe e dei
visto e toccato
con mano
capelli bianchi
in
non occorre
dire quanto spesso ricorrano in questa letteratura. Solo Orazio ha tentato qui nella descrizione della bruttezza
un'audacia pant
stilistica,
capitis nives. Il
a
me
pare con buon successo: tur-
commento
di
Kiessling-Heinze ricorda
che r immagine era dispiaciuta a Quintiliano, asserisce che essa compare in greco per la prima volta nel contemporaneo Antipatro di Thessalonica (A P VI 198) do(hq ajx!,c TioXij) y'/P^- vt'^óijievov, accenna però che si
veva trovare in letteratura più carme o tradotto dal greco o (1)
Citato da Kiesslixg-Heinzi
un due carmi
antica, se Catullo in rifatto
di su
—
Parche
greci, scriveva delle vittae
(LXIV
457
A me
309).
—
roseae nlveo residebant vertice
:
pare che
arditezza non sia
1'
tanto nell'immagine quanto nel congiungere le nives con il
turparunt: la prima neve insudicia
Il
particolare più schifoso, dei denti gialli, è raro
capo della donna. anche
il
epigrammatica cosi scarsa di riguardo al buon gusto: Rufino nell'epigramma a dispetto citato (V 21) parla in genere della bocca che non ha più la grazia di prima: il Bizantino Macedonio scrive (XI 374): « Non aprir la bocca; chi ci ficcherà con inganno di farmaci la fila dei denti?» Solo Properzio nella canzone funebre per una ruffiana, che comincia non già sit Ubi terra levis, ma terra tuum spinis obducat, lena, sepidcrum, descrive con compiacenza, tra gli altri particolari schifosi della tisi che consumò la donna che gli aveva fatto male, anche i in
questa poesia
denti cariati collo
:
IV
67
5,
sputaque per dentis
certo imitato Orazio,
l'idi
ire
ego
rugoso tiissim concrescere
cruenta cavos: qui egli
come mostra
tutto
passo
il
non ha (1).
Ma, se i particolari sono ellenistici, la figura dell'Amore che vola via dalla donna vecchia e si ferma sulle gote della giovane, doveva ricordare ai lettori una strofa di Saffo, che è stata ritrovata testé, mutila pur troppo {Ox. Pap. p. 29, pap. 1231, fr. 10). Sono conservate
X
solo le ultime parole di ciascun verso
—
à[x9i^aax£c
Tiéxaxai
oi'óy.wv,
che nel carme era parola
(1)
di
ma
:
—
xpóa Y^^P^? ^i'^''i a stabilire
bastano
una vecchia; che qual-
Ragioni cronologiche, in contrario, non ve ne
qnarto libro delle Odi
i)
uscito, ò
vero, solo nel
1',^,
delle elegie properziaue era stato pubblicato giil nel
Ma
non
alla
può diro
pubblicazione,
venisse libro.
si
sott'
occhio
di
e a
sarebbero:
il
mentre l'ultimo 1(5
o l'orse
1").
quanto la composizione di IV 13 sia anteriore non è inverisiniile cbo un canuti dell* emulo Properzio audio prima di fsscr dato fuori in
— cimo
—
458
aggirava intorno, volava inseguendo: chi se non
si
Amore? (l). La strofa
seguente,
vesti
le
lusso
di
e
le
gemme
preziose che non riescono a mutare V età consegnata a
memorie tutto noti
il
sin
me
note, pare a
troppo
la
[)iìi
scolorita di
carme; l'espressione, nonostante la malizia dei nonostante l'arditezza del tempo che volando
fasti,
chiude r età passata immediatezza, priva riporta
in
un
libro,
di vigore.
mi sembra scarsa
Ma
l'accenno
non può ripensare senza rimpianto:
come osservano colei
di
passato
poeta alla sua lieta giovinezza, alla quale egli
il
dono, su
al
di
che
lei,
lo
egli s'intenerisce,
commentatori, ma non, come essi crema su di se. Essa non è per lui se non i
aveva rubato a
quo fuyit venu?,
se stesso:
heu, quove color? decens quo motus? Certo
grazia nel danzare tutto ciò
riferisce in
si
non interessa
non perchè quid habes
gli
e
ricordo della
primo luogo a
non impietosisce
ricorda giorni che per
illius,
il
il
furono più
lui
belli:
quae spirahat amores, quae me sur-
illiiis
puerat mihi felìx post Cinaram notaque facies? Nella poesia oraziana,
et
artium (jraturnm
dovunque compare Cinara,
essa simboleggia la giovinezza amorosa del poeta:
mo carme
ma
essa,
poeta, se
il
pri-
del quarto libro, che è proemio e quindi pro-
gramma, distingue
dall'età presente quella in cui Orazio
Per fare intendere a Mecenate che Orazio non può più stargli sempre a lato, perchè non
erat bonae sub regno Cinarae.
è più giovane, egli lo invita a rendergli
il
petto forte,
pelli neri e folti fin sulla fronte: reddes dulce loqui,
ridere
decorum
et Inter
vina
(epist. I 7, 28); perfino
il
i
ca-
reddes
fugam Cinarae maerere protervae
pianto per
1'
infedeltà dell'amata
perchè è parte di tempi migliori, in cui egli poteva piacere senza doni a una donna avida. L'Orazio gli è caro,
(1)
L'interpretazione
è del
Wilamowitz,
yi'iicJohrhucher 1914, 228^.
-
—
459
di Cinara è il giovane della vita elegante e sciolta: quem tenues decuere togae nitidique capilli, quem scis immunem Cinarae placuisse rapaci, quem hihulum liquidi media de luce Falerni (epist. I 14, 32), quello stesso deve ora contentarsi di un pranzo breve e non può rinunziare alla
siesta: la giovinezza è passata. Il
carme par
troppo presto
Ma
»,
finire in
un
sed Cinarae
sospiro: hreves
Cinara
«
annos
con arte che abbiamo mostrata
fata
tutt'altro
è
morta
dederunt.
che mcon-
sueta in Orazio (v. sopra p. 60 sgg.), il periodo che sembrava chiuso, seguita inopinatamente con un aggettivo verbale che introduce a sua volta una proposizione da cui
ne dipende ancora un'altra: serratura din parem vetulae temporibus Lycen, possent
ut
iuvenes
cornicia
visere
fervidi
multo non sine risu dilapsam in cineres facem. Orazio non
non per ischernire: fati non hanno ucciso anzi tempo Cinara se non per conservare (nel serratura si sente l'intenzione) Lyce sino a una età di cornacchia. Il confronto poco galante con la cornacchia longeva quali si è frequente negli epigrammi contro le vecchie; compiacciono anzi di formare nuove espressioni con la cornacchia a fondamento; la Themistonoe di Lucilio (AP XI si
è intenerito
se
i
i
(39)
è xpixópwvo:. « tre volte cornacchia »; l'ottocentenne
celebrata da Myrino (A
cornacchia e
di
P XI
Ecuba, Axi
hanno mostrato che
l'
67) è una Laide mista di
xopcDVExxpr^.
immagine
del
Kiessling-Heinze
tizzone
si
trova in
Meleagro (A P XII 41): « Non più scrivo bello Theron, né Apollodoto che un tempo rifulse (jual fuoco, ora è un tizzone ». Ma tutto il quadro della giovinezza che ride al veder la rovina di chi le ha nociuto, si ritrova anche presso un altro poeta latino, deriva quindi da poesia ellenistica: Tibullo prosegue cosi la descrizione profetica di colei quae fida fuit nuìli, ridotta ora a sostentarsi cun il
(ìlare la
lana
(1
0, (SI):
liane
animo (/andante
ridenf in-
—
—
460
venum/jue catervae commemorant merito
tempo
In complesso (luest'ultimo per
tot
tra
mala ferve senem. carmi oraziani i
a dispetto, più libero coni' è da troppo razionali
produce tuttavia
d' arte,
minore che
impressione
canoni
una freschezza
d'
due.
gli altri
L'ammonimento
l'
al fanciullo sprezzante
(IV
10).
Dove abbia compagni il Ligurino di crudelis adirne, abbiamo mostrato chiaramente nelle pagine precedenti :
forse in Anacreonte,
nei
teocritei,
TZT.iZ'.y.x
scorno delle quali
grammi
certo
nello
pseudo-Teognide,
nelle canzoni a
e
7iaj>a7.Xaua''i^'jpx
mandano- come un
ci
dell'Antologia.
più
I
sfiorire della bellezza puerile,
si
riflesso
parlano
antichi
ma
epi-
gli
dello
si
guardano bene
l'accennare senza veli al particolare disgustoso della
Una
nei
dalilpi^.
generazione più recente e più lasciva mostra minor
disgusto e
meno
riguardi
:
parecchie
filze
di
epigrammi
dell'Antologia sguazzano con compiacenza non dissimulata nella descrizione
fanciullo
riluttante
la
ripugnante,
sia
giovanetto che fu sprezzante. C'è chi
genericamente che
cennare
che predicano
al
pubertà, sia che la rinfaccino al
il
si
contenta
di ac-
bel fiore è ormai sparso
un ignoto Thymocle (A P XII 32), o ci sono, come Filippo di Thessalonica in un componimento che abbiamo in parte riportato di sopra (A P XI 36), come il suo coetaneo Diocle (A P XII 35), come un anonimo (XII 39) e come lo specialista e raccoglitore della Musa puerilìs, Stratone (A P XII 186 (1); così un poeta della Corona di Filippo, Auper terra,
che
i
(1)
peli
I
come
fa
verranno o che
due epigrammi ultimi sono riportati da Kiessi.ing-Hkinze
— tomedonte
di Cizico
(A P XI
quello più copertamente
—
326), e
(^p.tì-s;
appagano
un anonimo (XI
51),
con
questi
eaoj |xàv5prj;),
buona stadel fanciullo un adolescente, con il tempo
più franchezza, gione, che fa
461
che trasforma
si
il
di confrontare la
capretto in caprone. Questi sono ancora
ma appunto
la Musa piierilis contiene due o epigrammi, dove il mutamento è enunciato brutalmente e decomposto gelidamente nei suoi elementi. E meno male quando si distinguono solo gote e femore, i
raffinati,
di
tre filze
di Phania (A P XII Corona di Meleagro,
come nell'epigramma partiene ancora dell'
ignoto
XII 36)
!
alla
Asclepiade
sospetto
e
e
che apquello
in
(A P
Adramytteno
Un epigramma (A P XII
30), attribuito nella
Palatina ad Alceo da Messene, che in
abbiamo conosciuto poeta
31),
altri
componimenti
delicato, fa di peggio.
Kiessling-Heinze credono l'ode di Orazio derivata da
epigrammi
tali
dell'età
augustea e della repubblicana ul-
tima. Io penso che essi abbiano ragione e che veramente
questo componimento
grammi che con
si
ricolleghi piuttosto
Lo
odi perdute.
con
gli
epi-
fa sospettare la brevità,
inconsueta nel canzoniere oraziano. Inoltre, Orazio parla
chiaramente delle xp'.yzc, come soltanto gli epigrammatici recenti che abbiamo detto, non poeti ellenistici come i
essi,
altro
distingue
carme
il
egli
nessun carme
;
volto dal resto del corpo. Porse in nessun
segue cosi servilmente
i
suoi modelli (1);
comporta, oseremo dire, più passivamente rispetto all'ispirazione che la mancanza di origi-
in
si
:
nalità sia qui indizio di sincerità naturale e incoercibile,
(l)
Punioeae rosac saroblto secoiulo
pindiirica (.po.vixopóSoij
Ki^•y!^lin
sgg.
XXXV
un frammento nella raccolta 1900, 80).
A
dei
Esiodo attinge Pin-
si
faccia qui violenza allo spirito della leggenda, ancor-
ché il
—
465
metta in
si
che a esso non convenga,
rilievo, più
carattere pastorale degli amanti fortunati
(1).
Né pecca
più gravemente contro la santità del mito l'ardente giovinetto dell'
'Oap'.aT'j;,
che, per vincere la fanciulla ripu-
gnante al suo amplesso, asserisce Elena aver baciato spontaneamente, non rapita a forza, il pastore (v, 2); che Elena ha già nei poemi omerici cattiva fama. Gli esempi di Elena, di Venere stessa e Pasiphae, di Danae (II 32, 31 sg., 55sgg.) servono a Properzio di comodo pretesto per iscusare le infedeltà della sua donna: egli non desidera altro, s' intende, che di esser costretto a perdonare. La mitologia è per luì taìitum stuprorum examen {v. 41). Un'altra elegia (III 19) dà la prova che la libidine è ancor più femminile che maschile, citando
nomi
di eroine e storie mitiche.
carme va ancora un passo più
Orazio in questo
perchè non solo adopra frivolmento, come egli stesso altrove, in
ma
TU
25
27,
oltre,
come
gli altri e
(2) e peggio in ITI
1 1
(3),
svisa coscientemente la leggenda. Quest' osservazione
mostra di per se sola abbastanza chiaramente che Tode deve annoverarsi tra quelle animate da spiriti ellenistici (4).
L'imitatore
(1)
di «piegare
per
clie
e
lìlo
(2) (3)
non antentico
V. sopra p.
l\o'jy.oV.z-Aoc.,
ha sentitn
il
il
l>isogu(>
Endymione
fos-
uno
cre-
è siitatta che basta, a
carme.
2tK).
Qui Mercurio
ma
il
La dipendenza
sero davvero pastori. dere, a provar
ha scritto
per segno come Adonide ed
è addirittura
pregato
di
jìiegare lui
il
cuore di
ahueno il signilìcato profondo della leggenda delle Dauaidi, che deve ricercarsi appunto in antichissime credenze, .secondo le (piali vive infelice oltre tomba chi muore senza aver ricevuto il "zìXo^ yap.ot>, il « sacramento » del matrimonio. La concezione risale a un' età in cui si credeva ancora che all'anima del morto ikhi Lydia,
è rispettato
potessero dare (1) Gli
uu'oml>ra di vita
vita galante !iell'./r.i minnidi di :i()
.se
non
le otl'erte
dei suoi discendenti.
dei nominati quali prototipo insieme e giustihcazione della ()\idio,
sono
tìgli
dellt> stessn
spirito.
-
46, 2'ò)
—
47»)
—
caziono del libro terzo è coni' è noto,
23
il
;
nel 28 uscì
prima raccolta di carmi oraziani. Properzio però nei crocchi letterari poteva averne conosciuto qualcuno anche prima della pubblicazione: alcune imitazioni sue da Orazio la
sono note e certe; più se ne troveranno, se più
si
cer-
cherà.
La
ricerca
Del resto
la
deve questa volta
finire
in
un non
questione delle relazioni tra l'elegia
di
liquet.
Pro-
perzio e l'ode di Orazio è per noi affatto secondaria:
basta aver messo in luce
gli
ci
elementi della seconda, che
mostrano questa volta piuttosto essere ellenistico il mondo poetico di Orazio che derivar questo suo carme da modelli ellenistici.
L'amante fedele
e
il
lupo
(I
22).
« L'uomo onesto- e di coscienza sicura non ha bisogno di armarsi come un Mauro, qualunque paese egli debba traversare che un lupo ha avuto paura di me ed è fuggito, mentr' io in Sabina passeggiavo cantando Lasia nella zona torrida lage. Ora conosco il mio potere sia nella glaciale, amerò Lalage >>. Il poeta narra un prodigio avvenutogli, ma in ben altro tono che non faccia là dove canta come un fulmine a ciel ;
:
sereno
gli
richiamasse dal più profondo dell'animo
la re-
tempo soffocata dalla critica dove favoleggia di palombe che ripararono
ligione degli anni primi, da filosofica, o là
presagio di gloria futura, lui fanciullo Qui Orazio scherza: Arellio Fusco è un mattacchione che si diverte a finger di non capire chi con cenni degli occhi e con strette di mano supplica di esser di fronde novelle,
dormiente.
liberato da
un seccatore (serm.
I 9,
60
sgg.),
che
degli Ebrei circoncisi (ibd. 69) con espressioni
si
beffa
piuttosto
—
471
-
sanamente allegre che decenti. Non a lui Orazio avrebbe un miracolo vero. Ma un lupo che fugga via dinanzi a un passante, a un uomo per quanto inerme, non è spettacolo da far meraviglia sul serio. Al più può sembrare strano che Orazio incontrasse di pieno giorno un animale che va in giro solo di notte, sia pure per le balze rocciose e ripide del Monte Gennaro. egli ha inventato la storiella, o, se gli è capitata davvero, ha fatto del suo meglio per darle un aspetto terribile, che in verità non le conviene. Ricordare le armi dei Mauri, il giavellotto e l'arco con le frecce avvelenate, a proposito di un lupo, è esagerazione di quelle che non si dicono se non per ischerzo. Orazio vuole, crederei, che lettori, udendo 1' avventura capitatagli, pensino al fondatore di Cirene cantato da Pindaro, a Batto dinanzi a cui {Pyth. V 57), per volere di Apollo, anche i leoni fuggirono. Così il poeta, là dove narra delle fronde nuove di cui le palombe lo ricopersero, ha in mente la leggenda di lamo (Oli/mp. VI 52); ma il tono è, si è già detto, ben altro. Qui quel parlare per una strofa intera dei Mauri e delle loro armi, quel mettere le Sirti al primo posto tra i paesi pericolosi per belve, quel tornare a discorrere due strofe sotto ancora una volta della Mauritania, insistendovi su con una perifrasi suggerita dalle vicende politiche più recenti, ampliata con un oxijmoroìi ardito, è quasi un confessare l'origine del motivo. Finendo la strofa in cui narra del suo incontro con il lupo, col chiamare la terra di Giuba leonum arida nutrir, Orazio invita quasi il lettore che aveva studiato Pindaro, a confrontare lui con Batto. confidato
i
Pure, parlare di parodia, «di allegra derisione
peggio
di derisione di
un luogo comune
» e
tanto
della poesia ero-
come fanno Kiessling-Heinze, pare a me Orazio non schernisce qui le leggi del mondo
tica,
costruito dai poeti ellenistici, perchè le accetta
eccessivo.
fantastico e,
sia
pure
4-/"J
—
un sorriscLto sulle labbra, no la suo prò deriderle non converrebbe a uno le cui creature sono cittadine appunto di quel mondo. Orazio, se qui sorride, sorride di sé. fo non mi so immaginare che, sia l'avventura di Orazio in Sabina vera o no, prima di lui un poeta ellenistico ne abbia cantata una simile di ah: tutto ciò che, se non e, si
con
;
vuol dare per trasportato
[Ì£[jCf.o[X£vov,
per vita vissuta, non può essere
impunemente da un soggetto a un di lamo, perchè una confronta con
feriva di Pindaro, ed egli
si
trove, con piena coscienza.
Ma
egli avesse preso
da
altri
Orazio
altro.
narra di se la leggenda
simile
si
ri-
qui e
al-
lui,
sarebbe assurdo pensare che
l'invenzione dell'amante puro
che s'incontra non nelle Sirti ma in un paese abbastanza civile, se pure un po' aspro, non con un leone ma con un lupo, bestiaccia infine, ed egli doveva saperlo, tutt'altro che esuberante
È
«
di coraggio.
proprio vero, Fusco, che chi ha la coscienza pura,
non ha nulla da temere
».
Secondo Tibullo
l'amante può girare intusque sacerque anche la pericolosa
Roma
Amore non permette neppur
I 6,
che egli è sicuro tamen
media sic, oris,
est
da Pilodemo (A
in
per
che
(III 16,
anche
mezzo
ai
P V
25) e
11 sgg.) canta
sulle strade più
barbari di Scizia:
quisquam, sacros qui laedat amantis: Scironis ;
quisquis amator erit Scytliicis
licet
ambulet
Ma non vi è vediamo riflessi in questi abbiano inventato che, nonché barbari, anche le
nemo adeo i
ut noceat harharus esse volet.
poeti ellenistici che
i
belve risparmino
un
anche
simile,
pericoli ^della strada
ai
di esser rispettato
licei ire via
traccia che passi,
pensare
25 sgg.),
di notte,
un pensiero
13 sgg.). Properzio
infestate dai ladroni, nec
di
di notte, è espresso
Ovidio {Am.
E
s'intende.
(1 2,
tale
gli
amanti, che abbiano narrato
prodigio quale Apollo aveva riservato
niamino dei Orazio osa
fati,
al
fondatore della città possente.
inventarlo, anzi
se
di al
supporlo noto e ovvio.
be-
Ma «
E
-
-
47:i
proprio vero, Fusco, che....
E
».
l'invenzione è conforme
mondo erotico dei poeti che uomo buono e amante sono
alle leggi del ciò,
identici.
augustei anche in senz' altro pensati
ricompensa che secondo
Cosi da Tibullo quella
r opinione comune del tempo è destinata dopo morte buoni, è riservata agli amanti: la
sede riservata a essi
nero
sum semper Amori,
:
I 3,
ipsa
i
campi
Elisi
57 sgg. sed me, quod faciUs
Venus campos ducei
ac iuvenum series teneris immìxta puellis ludit lÀa
miscet
amor
;
illic est
te-
in Eli/sios....]
adsidue proe-
et
cuicumqtie rapax Mors venit amanti,
insigni myrtea serta
et gerit
ai
divengono
coma
Parimenti Properzio (IV
».
7,
55 sgg.) nomina tra
si
portarono bene o male in amore.
i
beati e
chi ben guardi, sono parallele
:
i
dannati solo donne che
Le due
concezioni,
per Orazio la cosa è così
ferma neppure a spiegare come mai il passeggiare oltre il termine del proprio podere con Lalage in mente, cantando Lalage, sia atto di pietà. A Lalage egli rimarrà fedele più che mai ora, che ha la prova della potenza dell'amore. Questo pensiero che, se lo si prende sul serio, diviene assurdo, non è neppure ovvia che egli non
enunciato,
ma
è
si
come
implicito nel passaggio dalla quarta Mettimi nella zona glaciale o nella
alla quinta strofa
:
torrida, seguiterò
ad amare
dolce voce».
La
«
la fanciulla dal
dolce
descrizione delle pigre stese polari che
nessun aratro ridesta, nessun albero rallegra,
Giove
ostile
riso, di
la
nebbia e
aduggiano, è posta nel primo luogo, perchè, se
dopo 1' accenno alla terra di fuoco umane, l'impressione scemerebbe di molto. La distinzione delle zone abitabili e inabitabili non è ancora al tempo di Orazio un'anticaglia poetica. Forse già Eratostene, certo Polibio e Posidonio avevano negato che la zona tropica fosse disabitata, ma Cleomede narra di Stoici di stretta osservanza, quali, non dandosi per vinti neppure dinanzi alle notizie dei viaggiatori che si
fosse collocata subito
negata
alle abitazioni
i
erano spinti nelle regioni
474
^ polemizzavano ap-
e(|uatoriali,
punto contro Posidonio (Ij. Cleomede, che pure visse nd secondo secolo dopo Cristo, dà loro ragione. Per Orazio chi cerca i confini del mondo, vuol vedere qua parte dehacchentur if/nes, qua nehuìue phiviique rores (111 3, 55j. Disopra abbiamo negato che la storiella del lupo possa avere modelli ellenistici
ne ha, credo, questa seconda parte
;
carme ellenistico, di cui ci sono conservati riepigrammi, due esprimeva in forma imperativale,
dell'ode, l'n flessi in
come io
Orazio,
pensiero: iec, siquem falles, tu periiirare timeto: commodat in lusm augn.stei
il
alieno
:
numina surda Venus, e divina di
II 8, 19 tu, dea, tu iuheas animi perinria puri
mare ferre Notos qui \'enere è colui che, cedendo alla potenza di lei, giura
Carpathiìim
tepidos per
:
la il
protettricifalso.
—
—
481
stifìcare la gelosia propria quasi fosse solo
nel primo libro
può
spergiuro
non punite
I
:
:
il
agli
dèi
28 e
il
26, lo spunto è
il
menzogne
le
25 desine iam revocare
Cìjnthia, et oblitos parce movere deos.
fra
in-
xòtzoc,
;
ricordare 15,
nel loro
con certa timidezza già troppo stroppia il rinnovamento dello
teresse. Properzio usa questo
prime
tuis perinria verbis,
Nel secondo, composto e svolto con una
ripreso
aggiunta curiosa Cynthia ha tradito il poeta ricongiungendosi con il pretore reduce d' Illiria guai a lei. Le :
;
procelle non infuriano a caso
seguita proprio
le fanciulle
;
il
fulmine
spergiure
:
per placidus peiuros ridet amantes luppiter aure preces aetheria
:
et
tiinc
et
47 non sem-
surda neglegit
vidistls toto sonitus perctirrere caelo
desiluisse
aquosus Orlon, nec rus
Giove per-
di
li 16,
ille
solet
ipse deus. L'
domo sic
:
de
punire
fulmi?iaque
non haec Pleiades faciunt ncque niìiilo
fidminis
piiellas,
ultimo verso par quasi
elegia citata dal primo libro
di
ira
cadit
;
periu-
deceptns quoniam fevit
una
risposta alla
Tibullo, pubblicato ap-
punto in quello stesso torno di tempo come lì Giove perdonava, conscio di aver dato lui il cattivo esempio, :
così qui punisce per dispetto degli inganni in cui egli è
caduto.
La
spiegazione fantastica delle tempeste autun-
mostra che Properzio prende qui in giro Cynthia, lettori. Un'elegia che segue questa nel medesimo libro, sta con essa a un dipresso nella medesima relazione che la seconda ode a Lyce con la prima: quel che il poeta ha presagito all'amata, si è purtroppo adempiuto; essa è malata; non tanto ne ha colpa la stagione inclemente quanto gli spergiuri II 28, 1 luppiter, affectae tandem miserere puellae ; tam formosa tuum mortua crimen erit; venit enim tempus, quo torridus aestuat aer, incipit et sicco fervere nali
sé e
i
:
Cane;sed non tam ardoris culpa est ncque crimina caeli, quam totiens sanctos non Imbuisse deos : hoc perdit miseras, hoc terra
perdidit ante puellas; quid quid iurarunt, ventus 31
et
unda
rapit,
—
482
—
e così via di seguito. In quello stesso torno di anni Tibullo,
che pure nell'ars amandi aveva trattato il motivo vecchio, introduce il nuovo in una delle sue più complicate e capricciose elegie: Maratho l'ha abbandonato, violando giurai
menti, per cupidigia del danaro offertogli da una donna
:
un giorno se ne pentirà (1). 11 poeta ondeggia tra l'odio e l'amore. Il carme comincia con parole di timore e di compassione I 9, 1 quid mihi, si fueras miseroa laeaunis amores, foedera per divos clam Violanda dabas? La puni:
zione è inevitabile: a
tamen
sera
Poena
tncitis
primo periuria
niiser, et si quis
ceìat,
Pure Tibullo ha
venit pedihus.
in-
teso dire, e spera sia vero, che spergiurare è lecito ai belli,
ma
per una volta sola:
pune
licere
j9arcH?>t'» omiiin, non è accettabile:
come avrebbe quod puben
latto
anche nn lettore antico ad accorgersi
libi crenrit
oiiniis, ucrvitits
crvucit
naca
i
ciie
in
adde
duo nominativi, che
—
486
—
scent]v cioè, crederei, al brindisi di costui
con un
egli al bevitore
TtoxT^p'.ov Si^o'jv. Il
:
:
« risposi all'invito ».
L' uso durava ancora in tempi recenti
piano del banchetto
Ateneo (X 44ò
di
di
Antifano che impongono
meno che
f)
:
1'
Ui-
brinda a un collega con versi
di scolare giù di
un
sol fiato tutta la
coppa;
pedanteschi dell'erudito arcaizzino anche nei costumi. Ancor oggi gli studenti tedeschi, quand'hanno tra di loro un a
ospite
i
sofisti
cui vogliono onorare,
kommen
ihvi
vine»
Ganziu
voi\
80 l'età e la salute gli(«lo jtornu't louo, riciiniliia la «irli--i:i
1
e i|iM'sti, Kicssliii:;-
—
512
—
già con un diapason più alto di quello che Anacreonte
raggiungeva per gradi (1). Questo in genere quanto alla situazione, ma anche particolari sono diversi. Il carme anacreonteo comincia con un lieto comando al coppiere, l'oraziano con una massima grave almeno in apparenza: Natis in usum laetitiae scyphis pugnare Thracumst. Noi vediamo il poeta, unico lucido in mezzo agli annebbiati, (^uasi tentato di ritrarsi indietro e prorompente poi in un'esclamazione indignata. La sostituzione dei Traci, che Anacreonte non poteva, ancorché ne avesse avuto voglia, nominare con ispregio in una poesia in cui si proponeva di imitare le Bassare, le baccanti tracie, deriva non tanto forse, come mostrano di credere Kiessling-Heinze, dall'influsso di un passo callimacheo (2), dove si parla con orrore d-ell'usanza tracia di bere a garganella vin pretto, quanto all'esser gli Sciti divenuti per Orazio un modello piuttosto di costumi rigidi che di sfrenatezza: campestres meliiis Scythae vivimi (3). Lo stile è già in questa prima sentenza assai più vigoi
roso e incisivo, assai più lontano dal linguaggio della conversazione, che
non
sia quello di
comune
Anacreonte,
il
Heinze osservano opportunamente che secondo Ateneo (XI 498 f), o eittadino e nessuna
piuttosto secondo Asclepiade di Myrlea nessun
persona di vita moderata e civile beveva dallo oxùcpog. cbo, che
fiorì
nel terzo secolo a.
durante un banchetto
di
C,
Ma
Hippolo-
narra (Athen. IV 129
e)
che
uoz/e macedone un altro Proteo, nipote del
la bella prodezza di vuotare d' uu sorso un intero Macedoni erano appunto rimasti lurchi.
primo, compiè :jV.ùxoc,:
(1)
ì
Non
sato, poiché
Anacreonte nel seguito narrasse di risse. diapason è già, nonché raggiunto, sorpas-
è probabile che
Nella seconda pericopa il
il
poeta cerca modo, proponendo
il
canto, di quietare
il
tumulto. (2)
Fr
109; l'elegia di cui quel
ora negli Oxyr. Pap. (3) V.
sopra
p.
XI 428.
85, u. 1362.
distico
fa
parte, è pubblicata
—
—
513
quale non presenta in nessun luogo arditezze pari alle tazze
nate in servizio della gioia. Già in quel che segue nella
prima strofa, il convito è rappresentato, pure molto audacemente, quale un sacramento: chi non vuole la pace, offende Dioniso, nume verecondo: tollite barbarum morem, verecundumque Bacchian sangidneis ])rohibete rixis. Nello scrivere queste parole Orazio avrà senza dubbio pensato, sorridendo, al
citò
le
dramma
di
Euripide
14 e più chiaramente
(e. II 19,
Baccanti
:
;
che anche altrove,
epist. I 16, 73) ricordò e
moderno, quale
suo Bacco, dio
il
esigeva la coscienza religiosa rinnovata, odiava gue. Egli, che altrove è àetio pacis mediusqiie 28),
ha qui
lucernis
in orrore la guerra.
in forma più concisa e concreta in si
Bacchihde XIII (XIV) 12: confanno la voce della lira e
banchetti
lo
san-
il
belli (II 19,
Quel che segue, vino
Medius acinaces immane quantutn
Ne
i
cori di
strepito del bronzo ».
et
discrepai, riproduce
un pensiero che
«
lo
si
trova
alle battaglie luttuose
Il
suono acuto, ne
riscontro
ai
non prova
che Orazio abbia pensato a Bacchilide, tanto più che il motivo doveva esser comune nell'antica lirica. Quel che
motivo della strofa precedente; impium clamorem, intelligibile perchè già nella prima strofa il poeta aveva ammonito di tener lontano Bacco dalle risse, rimane assai audace nulla meglio di queste audacie di espressione mostra quanto vigorosa sia la personalità stilistica di Orazio proprio là dove «imita». Può derivare da Anacreonte la situazione o anche solo qualche particolare delle quattro strofe rimanenti ? Io credo che si possa risponder di no con tutta sicurezza (1). Anacreonte non solo non rifiuta di bere, ma assegna egli stesso le proporzioni della miscela e propone
segue, riprende
il
:
(1) Ila risposto di
Cahducci
no
{Parini minore,
con li'"»))
aniniirabilo elio
dirittura
puro non ora un
di
^indi/io
jjrooista.
il
il
modo
del simposio
sembri a
514
quindi
;
tutti sufficiente la
— il
suo carme, anche se non
ragione che
ci
induce a cre-
seconda dere che dopo non poteva seguitare con un' accettazione del comando legata a condizioni che la fanno somigliare a un rifiuto. Questa considerazione sembra a me provi di per sé sola l'assunto; ma anche il giovane presente al convito solo con il corpo, mentre l'anima si consuma silenziosamente in un amore cui egli si vergogna di confessare, il giovane che, mentre più si studia di apparir lieto per nascondere il suo stato vero, non riesce a celare le sue condizioni a un occhio esperto, è tutt'altro che un tipo anacreontico. Per quanto poco ci sia conservato di Anacreonte, noi vediamo chiaro che egli fu spirito elegante strofa tutto tornasse in pace,
la
e grazioso
ma
ne profondo ne ardente: ne
accorto di un amore che cova così sotto i
suoi contemporanei
si
egli
sarebbero vergognati
cioè di avere relazioni sessuali con
si
sarebbe
la cenere,
una donna,
né
amare,
di
solo per-
chè essa fosse liberta. Il motivo del giovinetto sentimentale, il quale nasconde con grande studio la sua passione senza riuscire a sfuggire al poeta, che, appunto perchè poeta, è esperto di amori, ci appare nella poesia ellenistica non è probabile che esso sia anteriore al quarto secolo, che il Convito platonico, come ho accennato disopra, è il documento più antico della concezione sentimentale dell'amore. Già ;
Clearcho
(Athen.
XV
669) conosceva una credenza popolare secondo la quale agli innamorati le corone non rimangono intatte sul capo, ma lo scolaro di Aristotele,
si
sciolgono e
tentava
di
gioni più
si
sfogliano, e nei suoi
spiegare
meno
di Soli
il
amore
trattati di
fatto, accettato per vero,
con ra-
metafisiche, cioè cattive. Asclepiade e
Callimaco traggon profitto con molta abilità da questa superstizione.
Asclepiade
canta
(A
P XII
133)
:
olyoq
— epcoTog IXeyxo?
xaxrjcpè? £|3XeTC£.
—
o-jx
-/(o a-^iyxx^'elc
sarono Nicagora,
innamorato, che
il
gli
èvjataas (1) xa!
xal
axécpavo?
£[X£V£
capo e guardava un po'
le
«
;
io
vino è
il
molti brindisi accu-
i
quale assicurava a noi
vennero
Xc-
TioÀÀal
ai
fjXaaav
fjjxòv
xaì yàp è5àxpDa£v
•
paragone dell'amore;
la pietra di
il
àpveu[X£vov
£p3iv
*
xayóprjv TtpoTióaets
515
non essere
di
lacrime agli occhi e piegò
corona stretta
triste e la
torno alla testa non gli rimaneva
al
posto
qui la descrizione del giovinetto innamorato
il
in-
Mirabile è
».
quale, preso
da queir intenerimento che si impadronisce spesso di uomini deboli quando hanno bevuto, dà a divedere la sua tristezza; il particolare della corona è d'importanza secondaria:
rebbero
al
poeta
bastati.
contegno samotivo asclepia-
gli indizi ricavati dal
Callimaco riprende
il
deo con la mira palese di procacciarsi il vanto di avere aggiunto finezza a un componimento che già ai contemporanei dovette apparire scrive (ep.
43)
:
£Àxoc;
pòv 7uV£ù|xa Olà aiyjO-éwv
insuperabile per finezza.
e'/wv
(zlòec, ;)
ó
^£Tvog
£Xàvi)-av£v
àvrjYayExo, xò xpi'xov
xà 0£ póòa '^'jàXo^oXeOvxoc xàvopò?
'àrSo
ya{ia''- WTixYjxac [xsYa or, xc. txà òa''[i.ova;,
Egli
toc,
àvtT]-
-f^yix
Ek'.ve,
axc'^àvcov -àvx' iyv^ovxo
oùx arcò
^'jajxoO £Ìxà!^to.
non ci eravamo accorti che lo straniero avesse una ferita. Con che affanno (hai visto?) ha tratto a sé il fiato mentre beveva per la terza volta, petali, sono finite tutte dalla sua e le rose, perdendo corona in terra! Arde di un gran fuoco; per gli dèi, non congetturo a casaccio, ma, ladro, conosco le tracce del cpwpò; 5 l'evia
'f jjp
£[iaO-ov
;
«
i
(1) viisit
La parola
è ritonuta coiimni'iuente
corrotta,
caput, aiicorcbii senz'altro esempio (v. Kaibim,,
511 che, specie per questa ragione, vuol leggere parola del resto da
Ini
mostra l'etimologia (da constatare
come un poeta
zione più primitiva
ilie
zk\ì'^'{tt.Qe
costruita), ò per èvuoTaasv veùo)).
A
noi
piìi
il
senso de-
«siugbiozzìi»,
originario,
come
rimane altro elio una parola in acce-
moderni non
del III secolo adopri
prosatori
ma
Uerm. XXII 1887
antichi; v'è da stupirsene?
—
516
—
». Mentre Asclepiade espone una scena osservata un giorno durante un banchetto, Callimaco riferisce al-
ladro
l'orecchio di colui che gli giace accanto nel convito, quello
che ha scoperto dianzi, quello che va scoprendo ora. nel
carme
di Orazio, la lirica
accompagna, per
Come
cosi dire,
passo passo lo svolgimento dell' azione (l). Il tono dell'amico che incita un altro a osservare qualche cosa di curioso, è reso mirabilmente;
si
pensi a quell' «hai visto?»
che sorprende, per cosi dire, a volo un sospiro. I particolari sono rappresentati in modo assai più concreto e più vivo che non
da Asclepiade insuperabile per evidenza è la maniera come è espresso che le rose, perduti a uno a uno i petali, già non cingono più il capo, ma sono in terra. Maravigliosa anche l'abilità nell'evitare la cruda parola èpàv, sostituendole espressioni equivalenti del linguaggio sentimentale
:
:
esser ferito, bruciare, o più
propriamente essere arrostito da un gran fuoco.
Ma
Cal-
limaco, più che di queste bellezze particolari, sarà stato fiero dell'invenzione dell'ultimo distico.
Fin
lì si
poteva
sentire in quella descrizione e specie in quelle espressioni
compassione un po' ironica dell'uomo maturo ed esperto il giovinetto ancora alle prime armi, ma due versi ultimi mostrano al lettore che l' ironia, se pur v'era, era quella dell'uomo sentimentale, il quale ama scherzare più su se che su ogni altro. Callimaco confessa neir ultimo distico che, appunto perchè si trova o si è la
della vita per
(1)
Ci sarà bisogno di ripetere ancora una volta che
i
io
non
j)eu9o
punto a rappresentazione mimica, che io credo e questo epigramma e l' ode di Orazio composti per la lettura, ancorché essi siano adatti anche a recitazione monologica e non si veda perchè p. e. il poeta antico
non
li
abbia declamati in salotti alessandrini e romani.
Non
può dir lo stesso anche di lirica moderna? «E poi si vuol asserir tutto ai moderni il vanto di aver drammatizzato la lirica », scrive il Carducci. Ma grecisti moderni si sdegnano che si osi interpretare un
si
inno di Callimaco quale lirica drammatica, in questo senso drammatica.
i
— trovato
nelle
sorridendo di
condizioni
—
517
stesse di quel giovinetto, egli,
sorride di se stesso.
lui,
poeta
Il
si
serve
un suo amore quale a un uomo moderno che
dello spunto asclepiadeo per far parola di
modo
in quel solo
nel
faccia professione di qualche serietà, è lecito confessare
un
certe debolezze, con sulle labbra
sorriso per
i
com-
prima che per ogni altro, per se. Nell'ode oraziana non v'è traccia alcuna della senti-
pagni
sventura
di
e,
ma
mentalità callimachea, vela con
mentre più
segreto, proprio
che
lo stesso
tipo del giovinetto che ri-
il
suo contegno durante una festa
il
studia
si
suo amore
il
dissimularlo, è
di
Asclepiade e in Callimaco. Sebbene
in
poeta romano abbia del
il
tutto rinunziato a ricavare ef-
fetti poetici dalla superstizione
greca, simile è anche la
situazione; l'uso, diciam pure, della «tecnica progressiva»
che
lo stesso
Callimaco. Voglio
in
perciò che
asserire
Orazio in quest'ode attinga all'epigramma callimacheo
Neppur per sogno, ma confronti con poeti ellenistici mostrano com'egh senta ellenisticamente la sua figura, i
mettono meglio Anacreonte.
in luce
il
i
contrasto tra l'arte sua e quella
di
Il
una di
fratello di Megilla
liberta
:
Opuntia
Orazio in quest' ode sia
tutt'altro
com'esso sia ellenistico soltanto nistica
si
vergogna
si
questa pennellata mostra come
che
perchè
la
il
di
amare
sentimento
anacronistico,
cultura elle-
continua senza stacco e senza salto
in
quella
augustea. Noi non troviamo nella letteratura greca che i
poeti
si
da loro
preoccupino più che tanto dei natali delle donne
amate; o
schiava e libera h
tutt'al più, essi
(1).
romano; romana
e
Il
fanno
differenza tra
contrasto tra lihertimis e ingenims
conforme
alla
natura un po' rude di
Orazio è la libertà, la brutalità dello scherzo sull'amore per una libertina.
(l)
V. sopra
p.
IHy 8gg.
-
518
-
E neanche il confronto della femmina rapace e tenace con mostri celebri della favola sarà preso da Anacreonte: che esso, se non erro, appartiene a quello stesso i
tempo a stica di
cui risale
Omero
l'
e in
interpretazione allegorica e morali-
genere
di
ogni mito. Infatti
le
etere
non hanno soprannomi presi in prestito da tali portenti se non nella commedia di mezzo. I commentatori sogliono opportunamente citare un passo della Nsotti? di Anaxila (Athen. XIII 558 a sgg.), nel quale le etere sono prima confrontate in generale con dragonesse o con la Chimera spiratrice di fiamma o con Cariddi o con Scilla tricipite, con la Sfìnge, l' Idra, una leonessa, una vipera, le schiatte alate delle Arpie, e poi ciascuna delle più famose etere attiche è comparata in particolare con uno di questi mostri Plangon « mette a ferro e fuoco » i barbari come la Chimera; solo un cavaliere scampò da essa la vita, lasciandole tutte le sue suppellettili e fuggendo di casa. Nannion è Scilla, perchè, divorati due compagni, va a caccia del terzo, e buon che questo si è salvato con remo di abete! «Ma Frine poco lontano fa la parte di Cariddi, e, afferrato il nocchiero, se lo è inghiottito con tutta la nave ». Anaxila è contemporaneo di Platone noi vediamo che questo nei suoi dialoghi combatte contro persone che ricercavano nei poemi omerici le ÓTcóvoca:, significati profondi e riposti {lon. 530 e, se è autentico Resp. II 378 d e altrove). Il suo contemporaneo più vecchio, Antistene, che aveva composto su Omero una quantità quasi :
:
;
VI
incredibile di opere (Diog. Laert.
personaggi omerici a più
tardi
(I)
gli
tipi ideali di
Stoici,
Cfr. gli scolii al
come Orazio
primo verso
17-18), riduceva
virtù e di vizi
dell'
X
i
come
stesso nella seconda
Odissea
librato suir iuterpretazione omerica di Autistene
Leipziger Studien,
(1),
:
uà
giudizio equi-
dà Ernst Weber,
226 sgg.
i
— primo
epistola del libro
519
—
Non siamo
(1).
certi che, proce-
dendo ancor oltre, egli allegorizzasse, umanizzandoli, anche mostri omerici. Pure, o egli stesso o qualche sofista contemporaneo o di poco anteriore deve aver fatto questo passo, se Anaxila e forse i belli spiriti della società attica di quell'età identificarono i mostri con meretrici, certo servendosi a fini scherzosi di metodi che la scienza prendeva sul serio. E infatti per il più grave storico del mostri omerici, almeno il Pitone quarto secolo, se non chiamato drago per la sua ma un uomo drago, non è un i
i
crudeltà
(2).
Nella letteratura posteriore
tali
interpretazioni
una yyn, y.x-óe.xaaaa /.al oò tyjd-oc, o'jvo[x' r/ouax, una donna di mal affare e che non portava a torto il suo nome: egli intende qui certamente parlare non della Scilla omerica ma della figlia dilagano: per Callimaco
(fr.
184) Scilla è
del re di Megara, Niso, che tradì a la patria,
ma
Minosse
espressione non ha alcun
1'
il
padre e
sapore se non
per chi sappia
come
omerica fosse
diffuso. Dall' età alessandrina in poi. quel
genere
di esegesi
il
confronto tra cortigiane e la Scilla
invade anche
i
compendii più o meno
scolastici: perii cosiddetto Eraclito de incredihilihus (p. 73,
13 Festa) la Scilla omerica è un'etera; una cortigiana è pure la Chimera per lo scoliasta townleyano dell'Iliade (Z 161). Meleagro finisce un
epigramma (AP
V
190), in
paragona sé a una nave che va alla deriva per il mare di amore: « Vedremo di nuovo Scilla lussuriosa », cioè torneremo all'amata da cui ci credevamo liberi per sempre. Ne fa maraviglia il favore di cui godono spiecui
gazioni cosi puerili
:
lo
scorgere nei mostri omerici, ogni-
qualvolta sono di sesso femminile, donne belle e lascive,
(1) (2)
Cfr.
anche
WirPKKCHT,
(Tubingen 1908),
la
quinta satira del secondo
£'«/i('JcA/MHf/
p. 9.
libro.
dir rationalistischen
ìlulhetidetitung II
—
520
—
conveniva perfettamente a gente che faceva dei re del passato benefattori dell'umanità, la quale riconoscente
tri-
buta loro culto; Leone di Fella ed Ecateo di Abdera si sono fatti paladini di questa concezione, che grazie ai romanzi di
Euemero
sì
da
e di Dionisio Skytobrachion (1)
impadronirsi di
tutti gli spiriti ;
la fede di Orazio: Caelo
Musa
venne
in
voga
questa fu anche
beat: sic lovis interest optatis
con quel che segue. seconda parte dell'ode oraziana rispecchia
epulis inipiger Hercules
Tutta
la
il
sentire proprio della società e della letteratura ellenistica
La nostra analisi ha messo in luce che qui Orazio esprime il mondo lirico suo, ricco di elementi ellenistici, senza attingere a carmi determinati. ed ellenistico-romana.
Rimane a dire una parola sulla tecnica della composizione. Che Orazio finga di cantare, mentre l'azione gli si svolge dinanzi dell'Augusto,
non
agli occhi,
arte consueta in lui, III 14,
fa maraviglia:
come mostra
il
questa è
carme per il ritorno credevamo questa
Herculis ritu. Noi
tecnica invenzione ellenistica: Callimaco descrive spesso
liricamente corteggi e
Ma
riti,
man mano che
si
svolgono.
quel che è conservato dell'ode di Anacreonte, mostra
chiaro che già gli antichi Ioni conoscevano e sfruttavano
abilmente
artifici di tal genere. Poiché non è il caso di pensare a rappresentazione, poiché questa è non arte mi-
ma
metica,
riproduzione,
ma
stilizzazione
letteraria
di
forme mimetiche da quel carme si dovrà conchiudere che già Anacreonte pensa, scrivendo, al libro, quando anche suoi carmi siano stati sovente recitati davvero ;
i
in banchetti.
(1)
Intoruo allo svolgimento del sistema,
cfr.
nell'
Enciclopedia
Pauly-Wissowa, l'articolo dello Schwartz su Dionysios Skijtobraehion e quelli del Jacoby sn Sekataios von Ahdera ed Eumeros.
di
—
—
SENTIMENTO DELLA NATURA.
IL
h)
521
Pensieri e sentimenti di Orazio lirico sono spesso de-
terminati
natura che
dalla
circonda: egli o
lo
sente
si
con essa o si ribella alle impressioni che da essa riceve. Ai soffi tepidi del vento di primavera, in accordo perfetto
insieme con
non appena
il
gelo, che stringeva
venti
i
cam-
ghiaccio, che copriva pur dianzi le
il
pagne, fonde
hanno cessato
cuore del poeta
il
di
torna in pace anche l'animo. L'avvicendarsi ra-
ornelli,
pido delle
stagioni, l'alternarsi incessante
della
vita e
morte nelle cose che diciamo inanimate, invita poeta a profittare dell'ora. Il rumore delle onde che della
infrangono
sugli
lo eccita
scogli,
nell'amore difesa contro il
le
a cercare nel vino e
cure del domani;
ma
dall'anima
il
fuoco e
il
freddo, che sale a essa dalla con-
templazione del paesaggio nevoso. Orazio tura
(1),
perchè gode con
dipender da
Ma egli
con
Del Sentimento
ma
lei
;
non sa
della
dei
quando
vale a dire, egli sente
in
genere, con se
uscir di sé per sprofondarsi
natura in Catullo ed
una dissertazione
scritta nel 189.5.
le espressioni
sente la naribella
si
connette la natura con l'uomo
Vattiisso in
sano),
perchè
lei.
stesso in particolare;
(1)
e
lei
ella lo invita a rattristarsi
M.
il
si
vino devono aiutarlo a mettere in bando non solo dal
corpo
di
;
scuotere cipressi e
Orazio
di laurea pubblicata nel
L' autore raccogli»»
tutte le
due poeti connesse con fenomeni
vagliare quanto di esse sia bagaglio
tradizionale,
lia
discorso
1910 (Pos-
immagini
naturali,
e
senza
quanto manifesti
sentimenti del poeta. Del metodo infantilo non faremo carico a uno studioso che
ha
fatto
opera così utile in altre parti delle scienze sto-
riche. Il vecchio libretto di
chen Naturninn
Karl Wokumann,
dir (iriechen u.
finezza pur sempre insuperata,
bra equo.
Iliimer
ma
il
(Monaco,
Ueber
dm
hinducha/tli-
1871) pare a
me
di
giudizio su Orazio non mi sem-
— tutto in
lei.
campagna
Nella
allo spirito stanco, ai
522
vita
egli cerca riposo e sollievo
più conforme che
ragione non
dettami della
— la
cittadina
corrotta. Nulla h per
lui
più dolce che starsene sdraiato nell'erba alta, all'ombra
porgendo tra il sonno l'orecchio al morun ruscelletto. Per contro, egli non sa contemplare con gioia profonda il cader della neve e la
fitta di alberi,
morio uguale furia del
di
mare
e la lotta dei venti nel bosco,
sguardo solo
fisa lo
un momento
e ne
ma
vi af-
lo ritorce via su-
bito con raccapriccio, per gustare meglio, con gioia
more
l'amore. Nel paesaggio egli
mità,
E
me-
ben riparata, il vino, ricerca non maestà né subli-
del raccapriccio, la stanza
ma
amoenitas.
conforme a questa disposizione del suo
rappresenta quasi sempre paesaggi
idillici,
spirito egli
bucolici.
Come
non descrive, tranne un'unica volta, della quale presto discorreremo, l'alta montagna, se non quale sfondo lontano, così non si compiace di mostrarci l'ondeggiar delle messi, ma ci pone piuttosto dinanzi agli occhi monti boschivi di altezza mediocre, prati declivi, fonti ombreggiate spiccianti dalla roccia viva. Egli non sembra sentire ciò che in natura è più grandioso. Nel carme per molti indizi giovanile, nel quale vanta Tivoli sopra ogni altro soggiorno più ricco di ricordi e
più favorito dalla
(I 7), non trascura di nominare il bosco sacro di Tiburno e il santuario della dea Albunea risonante di acque correnti (1); s'indugia con amore sui frutteti fre-
natura
(1) I lit
versi di Virgilio, {Aen. VII 82 sgg.) lucoscpie sub alta consit-
Albunea, nemorum quae maxima sacro fonte aonat saevamque exhalat
opaca mephitiin, mi sembra che mostrino esser Albunea piuttosto la ninfa del bosco che del fonte,
nome che
il
quale poteva, a dir vero, avere
come osserva
lo
Servio. Kiessling-Heinze
as-
seriscono che donius sigHÌfichi qui la « grotta » descritta da Virgilio,
ma
stesso
questi di grotta
il
bosco,
non
fa parola.
A
ogni
modo
il
sacello di
Albunea
—
5^i3
—
schi dell'acqua dei ruscelli che corrono giù verso l'Aniene
per precipitarsi in essa con lieve salto: uda mobilibiis po-
maria
rivis;
invece per
le cascate,
la cui vista fa a noi
moderni scorrere piti veloce il sangue nelle vene, non ha che due parole sbiadite: praeceps Anio (1). Il poeta antico ferma con compiacimento maggiore lo sguardo sulle coste di Taranto ricche di viti, di olivi, di sciami di api o canta una fonte più lucida del cristallo, che scaturisce da una roccia cui un'elee sovrasta; o descrive ;
un pendio
di
monte coperto
di
boschi: nel
dentra una valle solinga chiusa
ai
monte
si
ad-
raggi della canicola,
donna che colà voglia, cantando sulla cetra facili canzoni e bevendo vino leggiero di Lesbo (2), dimenti-
atta a
care le vicende tumultuose della vita e degli amori cittadini.
Orazio anima
il
più delle volte di figure le sue
cam-
pagne, appunto perch'esse non sono per
lui che sfondo quadro ma proprio le figure che egli sceglie, sia di uomini sia di animali, accrescono l'impressione bucolica che in noi eccitano paesaggi, quali li descrive nella sua lirica. Nelle odi compaiono non contadini quanto armenti e pastori. Nell'ode, per così dire, tarentina II 6, Septimi, Gades, è, prima ancora che il miele e la verde bacca, nominata la corrente del Galaeso cara alle pecore coperte di pellicce. Sul Lucretile (I 17) errano, senza timore di
del
;
i
non ha che fare con topografi antichi e
A me
non
(1)
il
la
cascata
è riuscito udir qui
La cascata
;
Deasau (CIL.
è
dubbio
XIV
debba cercare cou Acque Albule. acque correnti.
se lo si
nessun rumore di
era diversa e minore, perchè
in quel tratto sotto Gregorio
i
p. 135) presso le
XVI; pure
il
fiume fu regolato
(luche ai tempi di Strabouo
(V 238) esso formava una cateratta, gettandosi da grande altezza una gola profonda e lioscosa. (2)
I
vini Leslìii erano
in
raccomandati dal medico forse più auto-
revole dell'età ellenistica, Erasistrato: Pliu.
n.
It.
XIV,
7lì.
—
5^24
—
serpenti velenosi e di lupi, le mogli odore, cercando corbezzi e timi: la
del marito di forte
zampogna
di
Fauno
riempie sempre quelle solitudini. L'opera giornaliera dei
può dire, ignota ai carmi oraziani: gli agricoltori non compaiono nelle odi se non per ballare un trescone la cui pesantezza è pari soltanto all' ardore dei danzatori (III 18); dei campi egli nei carmi non parla con particolari se non in una sola ode, dove l'enumerazione dei pericoli cui i colti sono esposti, giova a dare contadini
è,
si
amabile della
rilievo alla figuretta
figlia di contadini, la
rustica Pìiidyle (III 23), dalla quale gli dèi di vittime
ma
soltanto purità
nell'altro passo la di
non esigono lusso
d'intenzione; nell'uno e
vita agricola fa parte
del
quadretto
genere.
Solo in un epodo
i
lavori campestri, gli umili diletti
dei contadini, le loro consuetudini semplici sono tratteggiati
Alfio:
con
affetto, proprio
non che qui
nell'epodo che beffa l'usuraio
sia deriso
l'amore per quel genere di
prende giuoco solo della poca sincerità tempo facevano pompa di quel sentimento. Pure vari passi dei Sermoni e delle Epistole mostrano che l'affetto per il paesaggio piuttosto bucolico
vita; Orazio
si
dei molti che al suo
che rurale era radicato profondamente nell' anima sua, che egli non esprime nelle odi sentimenti puramente idillici solo in ossequio a leggi di stile. Il podere che egli accettò in dono
da Mecenate, che
egli,
possiamo bene
supporre, desiderò gli fosse regalato da Mecenate, posto
com' era in una valle ombrosa che divide due monti (1), ricco di querce e di elei (epist. I 16, 5 sgg.), era eviden-
(1)
Non ho ragione
di
occuparmi della controversia sul luogo
preciso del Sabìnum di Orazio; la regione di Roccagiorine è ancora
boscosa e più adatta alla pastorizia che all'agricoltura, aucora tutta bucolica.
— 525 — temente più adatto agli armenti e alla vita idilliaca di quel che non rendesse a chi voleva coltivarlo pregio principale una sorgente sana e fresca. Egli aveva desiderato (semi. Il 6) un poderino con un orticello e acqua di melius corrente, con un po' di bosco per soprappiìi fecere. Eppure quell'angolo di mondo avrebbe prodotto ancor più facilmente pepe e incenso che uva (epist. I 14, 23). All'amatore della città, Arelio Fusco, egli vanta secondo il solito (epist. I 10, 18) i sonni tranquilli, i colori e gli odori dei prati, l' acqua limpida e leggiera. Nella vita che conduce lì in comune coi suoi contadini servi, gli piace la famigliarità libera da convenzioni soegli si rallegra di potersi quanto ciali (serm. II 6, 63 sgg.) vuole cibare di vivande grossolane, di bere a suo talento, sciolto da ogni legge conviviale; si rallegra che i bnnbetti schiavi nati in casa sentano così poca soggezione di lui che divengono quasi insolenti. Ma dei lavori campestri, anche in questi componimenti in cui non lo impacciava il riguardo alla dignità o anche alla stringatezza dello stile, non parla altrove che nell'epistola, poco importa se fittizia, diretta al fattore che voleva scambiare il posto in villa con uno in città (I 14). Qui, insieme con :
;
:
il
ballo pesante dei popolani e degli
sembra,
al
cuore del poeta, sono
schiavi, così caro,
tratteggiati
anche
la-
vori campestri (v. 2G sgg.). Orazio, per dare al castaido
un buon esempio, gli ricorda che anch'egli, il padrone, servi a smuovere zolle e sassi, non isdegna di aiutare i
per quanto ne ridano
i
vicini, rident vicini (jlaehas et saxa
moventem. Chi legge, è tentato d'immaginare che Orazio
avrà lavorato nel campo
di
non proprio con
la
chi sa se Il
rado e per breve tempo, e
mira
sentimento del paesaggio è
quasi soltanto bucolico.
Non
si
di
maravigliare
in Orazio,
dica nò
si
i
abbiamo
creda che
contemporanei non potessero sentire altrimenti
vicini.
detto, i
suoi
la natura.
—
5^20
—
poeti dell' età augustea
Degli
altri
giore,
aveva
almeno uno,
timento assai
mag-
il
del paesaggio e della vita campestre
un sen-
vasto e più profondo, più antico
più
in-
sieme e più moderno. Virgilio anche nelle Egloghe, dove per lo più imita poesia teocritea, mostra qua e là di sen-
maniera differente dal suo modello et iam summa procul villariim culmina fumant maioresque cadimi altis de montibus umhrae (I 82 sgg.) fa pensare non al terreno frastagliato di Cos o della Sicilia, quale lo rappresenta Teocrito, ma a una pianura sulla quale lo sguardo spazia liberamente nell' aria quieta della sera, a un paese disseminato di casali, a un orizzonte chiuso solo per un certo tratto da altissimi monti lontani, appunto alla valle padana, nella quale, come mostrano allusioni personali, si svolge l'azione. Teocrito non ha mai, che tire
paesaggio
il
io sappia,
in
:
come
descritto
pendio molle molle se
subducere
(IX
7).
colles
dall'
i
colli
sollevano con
si
immensità della pianura
:
incipiunt tnolUque iufjum demittere
Chi osserva con
E
qua clivo
tanta acutezza quel che è più
caratteristico delle forme di
ama.
primi
anche
un paesaggio pianeggiante,
che popolano questo paesaggio, bestie e uomini, sono sentite diversamente da quel che non soglia la poesia teocritea la vaccherella che, stanca di aver cercato tutto il giorno per lo sente e lo
le figure
:
i
boschi un giovenco,
si
butta giù nelle erbe palustri che
crescono in riva a un ruscello, e riman accorgersi che intorno a
nemora rivum
atque
altos
lei
annotta,
lì
a lungo senza
fessa
iuvencum per
quaerendo bucula lucos propter aquae
procumbit
idva perdita, nec serae
meminit
decedere noeti (Vili 85 sgg.), è creatura fornita di
ragiqne
quasi
viridi
in
umana, come suole immaginare
contadino.
La campagna
zio delle api,
verso rauco
ma
di Virgilio è
i
suoi
piena
animali sì
il
del ron-
anche del canto dello sfrondatore, del delle palombe, del gemito delle tortore di
—
-
527
sull'olmo: hinc alta sub rupe canet frondator
tamen interea
cessabit turtiir ab
tono davvero nell'idillio
ulmo
56
sgg.).
Tra
rumori che
i
vicinanze di una fattoria,
nelle
suo pur
(I
ad auras ; nec
cura, palumhes nec gemere aeria
raiicae, tua
meno
si
sen-
Teocrito
bucolico e più rurale, in quello
che odora davvero di estate pingue e di raccolto, fa menzione per vero anche del gemito della tortora eaTSve xpuywv (v. 141). Ma quanto men sobrio è il quadro Teocrito descrive il concento che un gruppo di amici ode disteso all'ombra di pioppi e di olmi, su giacigli di giunco e di pampini freschi, mentre ai loro piedi e ai loro fianchi rotolano giù dagli alberi mele e pere, mentre rami carichi di prune si curvano sino a terra; si ode di lon:
!
tano i
il
grido della calandra
;
cicale fanno
le
il
verso per
rami; cantano allodole e cardellini; volano, ronzando,
sciami di api. Qui la voce della tortora non è che una tra molte;
pascono
Virgilio, oltre al ronzare della
in
le api, la
accompagnano
solo
siepe cui
verso rauco di un
il
uccello che sta al cuore del contadino, di un uccello di
palomba, e
cortile, la
l'umile lavoro.
che tanta ricchezza artificiata,
il
Leggendo
canto
umano che accompagna
Teocrito, vien subito in
non
di particolari è, se
falsa,
mente almeno
che quella è campagna fatta apposta per
la
brigata cittadinesca, la quale, quando, attratta dalla pro-
messa
di
una
città sino al
festa,
podere
un bel verziere, si
si
di
avventura per una volta fuor di un amico, vuol trovare per lo meno
ricco di acqua, di canti, di odori, in cui
possa meriggiare
al fresco
con
tutti
i
comodi. Virgilio
con incomparabile parsimonia di mezzi, quasi soltanto ricordando voci di uomini e di animali, ci trasporta nella
campagna quale
essa è davvero, abitata e coltivata da uomini che vivono non della comoda pastorizia ma dell'opera assidua delle loro mani.
Nelle Georgiche
Vii-gilio,
smessa
la
veste
idilliaca,
— che del resto non a
di vita
stava bene addosso, dipinge modi
gli
cari per
lui
—
048
il
ricordo dell' infanzia e dell'ado-
campagnola. L' indole precettistica delgli impedisce per lo più di ritrarre luoghi deterl' opera minati pure due tocchi rapidi ci mettono sott' occhio la pianura intorno a Mantova, tutta prati, per quali il Mincio serpeggia lento lento, popolato di cigni: et qualem lescenza
sua
;
i
infelix amisit
Mantua campum pascentem
mine cycnos
(II
lattiginosa
cum
7iiveos
herhoso fiu-
198); quest' è paesaggio
ben diverso da quelli oraziani. E Virgilio sente profondamente spettacoli naturali ai quali né Orazio né i poeti bucolici sembrano avere rivolto attenzione: la pioggia di primavera, che cade incessante sul campo di grano, irto di gambi ancor verdastri con in cima la spiga non ancor soda, ancora :
et
turgent
il
(l
313);
imhriferum ver, spicea iam campis cum cum /rumenta in viridi stipula lactentia pampino che a primavera, senza paura
ruit
messis inhorruit
dell'austro o della pioggia che gli aquiloni tiran giù dal cielo,
butta fuori
tuit surgentes
le
gemme
e spiega le fronde
pampinus austros aut actum
gemmas
lonibus imbrem, sed trudit
vendemmia che
(Il
333); la mite
fin
dentro su per
i
et
caelo
:
nec me-
magnis
aqiii-
frondes explicat omnes
ai soli
sassosi colli solatìi
:
d'autunno
si
cuoce
alte mitis in apricis
coquitur vindemia saxis (II 522). Nella lirica di Orazio acqua, alberi, bestie
sono elementi decorativi; nelle Georgiche
forze vive e creature fornite di senso.
come
non è tenue soave mormorio
Virgilio la descrive,
che con
il
sdraiato tra le erbe della sponda,
che scorre per
il
canale e per
contadino in servigio dei
i
colti
il
L'acqua corrente,
ruscelletto limpido,
invita al sonno
ma
è
il
il
poeta
liquido di vita,
mille canaletti scavati dal :
mentre
sul
campo
arso
ogni vegetazione langue prossima a morte, egli trae fuori dal ciglio erboso di
tando giù per
un
clivo
sassi levigati,
l'onda;
questa,
precipi-
ne cava un mormorio rauco
— campi
e porta soccorso ai
inducit rivosque sequentes, aestuat illa
assetati
deinde satis
:
tramitis
clivosi
cadens raucum per levia murmiir saxa
arentia temperai arva
rami fecondi verso
nuove
e
frutti
i
Il
undam
ciet,
elicit
cielo e
non suoi
ammira
novas frondes
va
toro vinto in duello se ne
regno avito, lamentando
con
egli stesso le fronde
ad caelum ramis non sua poma
ingens exsilit
:
:
scatebrisque
106). L'albero innestato balza
miraturque
felicibus arbos (li 80).
il
(I
fluvium
exustus ager morientihiis
ciini
et,
ecce supercilio
ìierhis,
—
529
et
in esilio via dal
amore, che l'avversario
gli
ignominia e il suo ha rubato senza che egli possa
vendicarsene
La
società delle api è dipinta nel
(III 224).
propria
la
quarto libro con colori umani. In Arato
gli
animali non
sono che segni del tempo buono e cattivo, concessi agli agricoltori e ai naviganti da una provvidenza benevola. Virgilio in
una parte
deriva certamente dai
del primo libro (v. atvó[jL£va (1), fa,
I
851
sgg.),
che
dei segni, creature
viventi, senzienti, pensanti. Arato, poiché gli sta
davvero
a cuore insegnare, ordina sistematicamente ed elenca mi-
nuziosamente tutti i versi e tutti i movimenti di qualunque animale da cui si possano ritrarre prognostici; Virgilio descrive soltanto quelle voci e quegli
che paiono meglio rispecchiare
l'
anima
Le vacche
dipinge queste con molto più colore. (v.
prima che cada
955),
la pioggia,
in alto, l'aria, àjz
ac^épo; wa-f py,aavxo
giUana tenta
atterrare le aure
di
patulis captavit naribiis
auras
(I
;
atteggiamenti
delle bestie,
fiutano, la
con
376). In
guardando
muccherella le
ma
aratee
vir-
larghe narici,
Arato
all'
avvi-
narsi della tempesta la cornacchia, tra molti altri segni,
(1)
I
zione del
passi corrispondenti sono
Maass;
indicati
delle Georgiche ò etata spintji innanzi con
Jahn, non
è stata studiata l'arte
la materia grezza.
accuratamente
nell' edi-
negli ultimi tempi, mentre l'analisi del contenuto
con
la
zelo
felice, specie
da
P.
quale Virgilio anima di poesia
—
530
-
che essa dà e che Virgilio tralascia per non guastare l'unità dell'impressione, si aggira presso l'acqua, gracidando a voce piena, aipécpsiai uap'u5wp Tta/éa xpw^o-jaa (v, 953). descrive lo stesso segno così: «La cornacchia maligna con voce piena chiama la pioggia, e sola con se stessa passeggia sulla rena secca »; tum cornix piena pluVirgilio
viam vocat harena
(I
improba
388).
voce et sola in
sicca
secum
spatiaUtr
corvi di Virgilio al ritornar del sereno
I
fanno strepito tra loro negli alti nidi tra le foglie, nescio qua praeter solitum dulcedine laeti (I 412): essi godono, passata la pioggia, di rivedere la piccola prole e nidi, iuvat imbribus sere nidos.
actis
Arato scrive:
credere che
si
«
i
progeniem parvam dulcesque
Qualcuno
rallegrassero»
(v.
alle lor grida
dolci revi-
potrebbe
1006)1
Pure un sentimento della natura così esteso e così rimane nell'età augustea un'eccezione. I più sentivano allora la campagna in modo non diverso da Orazio i grandi di quei tempi villeggiavano quasi soltanto in riva al mare o su colline non troppo guaste dalla civiltà e dal lavoro umano (1), andavano in cerca della amoenitas. Le pitture dell'età augustea scoperte a Roma, quando non rappresentano fantastici paesaggi esotici, le rive giuncose del Nilo, popolate di pigmei e gru, mostrano non pingui colti, non campi di grano o vigneti o frutteti, ma contrade rocciose e boschive, rinfrescate da ruscelli, animate da greggi e da pastori, disseminate di altari e di rustici santuari (2). Paesaggi di tal genere, montani e idillici, ci son posti sott'occhio dai due freschi del triprofondo
;
(1)
DBR,
Lo mostra
1'
Sittengeschichte (2) Il
elenco delle villeggiature
*,
romane
in
Friedlax-
II 108 sgg.
materiale è ora riprodotto in figure assai belle e studiato
da RosTOWZEW, Hellcnistisch-romische Architelturlandschaft (in Eom. Mitt. XXVI, 1904, 1-185); il Rostowzew ha ritratto da esso quanto si
poteva per la conoscenza dell'arte
e della cultura.
—
—
531
Livia sul Palatino e dagli della Farnesina (1). Questo gusto per-
clinio della cosiddetta casa di
stucchi del soffitto sistè tra
i
Romani anche
ture pompeiane
del
sembra, coincidono
che
seguente
nell' età
terzo
stile,
con
1'
cui
i
nelle
;
principii,
era volgare, la
pit-
a quel predile-
zione per gli sfondi lontani, per V acqua corrente, per stante obiezioni recenti, è certo,
sono creazioni originali,
ma
i
i
come, nono-
campestri è ancor più spiccata. Se,
sacelli
pompeiani non
freschi
copie e imitazioni di quadri
indicano almeno che il gusto dall'era tempi romani non era gran che mutato, che,
ellenistici (2), essi
ellenistica ai
come
tra la cultura dell'impero
romano
e la cultura del
regno tolemaico e del seleucidico non vi è stacco netto, per quanto Augusto si studiasse di restaurare la romanità, così il pubblico romano seguitava ad avere quanto a paesaggio le stesse predilezioni di Teocrito e dei suoi lettori.
Non
a caso nomino, a proposito di Orazio,
più propriamente
sono detti
i
poeti che
paesaggio del fons Bandusiae, il ruscello limpido che sgorga dalla roccia ombreggiata da un pino, si trova tale e quale, come
(1)
Figg.
2,
dei
e di santuari si ritrovano sia (p. 114
pergameni del III secolo, detta a torto
meno
alessandrina,
sia i
(p.
100 sgg.)
Il
Rostowzew.
11, 12, 13 nell'opera del
Rostowzew mostra che alcuhi
(2) Il
case
1,
bucolici.
tipi
arcliitettouici di
sgg.) in
vasi
a rilievo
una
serio
di rilievi
in
cui esemplari più antichi risalgono al-
al principio del III secolo.
Lo sfondo
roccioso
rappresentato
non conviene punto all' Egitto. Delle formo architettoniche pitture romano e pompeiane, mentre alcune si riconoscono fa-
in questi
delle
cilmente egizio, altre ])aiouo derivate dall'Asia Anteriore. Noi secondo stile
i
due olemouti hanno
jionderano stile,
che
(juelli
o
attri-
altro introcciaro l'anima loro alle vi-
cende dell'anima propria. {3j
Le
restrizioni del \\'(iriiiann (p. Il) sono
\
er nic inintelligibili.
—
—
544
romana;
così tutta la poesia
periodo augusteo, certo
un
altro
poeta
meno romano
e più
ellenistico
che
del
aver abbandonato l'amata
di Orazio, Properzio, pentito di
per cercar fortuna oltre mare, parla agli alcioni
17, 2);
(I
lamenta le sue pene nel bosco solitario (I 18, 1 sgg.) invoca a testimonio della fedeltà i faggi e i pini, sulle cui cortecce egli, non immemore di Acontio, aveva inciso il nome di Cynthia (I 18, 19 sgg.). Anche in Roma vi erano spiriti i quali si lasciavano andare ad affidare ;
ai silenzi della i
personaggi
selva
di
i
sentimenti loro più riposti,
Teocrito e
il
come
Orazio non
non voleva bene a Properzio
è di questi; egli
troppo grave era
(1),
perchè
dissidio dei loro ideali d'arte.-
Questo
austeramente
sostenere
Ma
Callimaco.
di
piena del sentimento senza
la
concederle di erompere, è in Orazio, crederei, intenzione:
qualunque arte aspira a essere classica, qualunque arte cioè, piuttosto che classica, è classicistica che la clas-
—
vera è inconscia
sicità
di sé
sfoghi sfrenati della passione,
medesima
ama
—
aborre dagli
,
lasciar travedere, piut-
tosto che mettere in mostra, l'affetto esuberante. I
paesaggi oraziani
Nelle
descrizioni
sono assai
teocritee
specie di uccelli, alberi, brio.
Le capre
nulla più
le
;
si
fiori
cibano
fronde che
di
la
Fauno,
le
laggio,
non sono altrimenti
scarsi
di particolari.
nominata un' infinità (2). Orazio è molto più
è
corniole e di timi
sparge
selva
erbe dei prati sui quali
si
in
di
so-
(I 17, 5),
onore
di
spassa l'intero vil-
specificate.
Una
ragione di
questa sobrietà consiste certo nella concisione delle Odi la lirica oraziana non ha tempo di soffermarsi sui par:
ticolari,
92
perchè essa corre senza
(.1)
V. sopra p. 112 sgg.
(2)
V. p.
sgff.
e.
I 21 sgg.,
e così via.
riprender
fiato,
106 sgg., 132 sgg.; IV 25;
V
non
si
55 sgg.,
-
545
—
adagia comodamente su qualunque sedile essa incontri, come l'idillio teocriteo. Un'altra ragione bisognerà cercarla nella povertà lessicale delle Odi, cosi conscia di se mede-
come
ben diversamente che nelle Epistole e specie nelle Satire, adopra pochissime parole. Ogni lingua, per divenir classica, deve far sima
nelle Odi,
:
getto di
come
una parte
è noto, Orazio
del suo lessico
le sorti della francese,
:
l'ha ridotta e peggio la vorrebbe ridurre l'Accade-
mia, forniscono una chiara prova di questa osservazione.
E
agli artisti,
per lo più
Anche
quando aspirano a
lo stesso
esser classici, avviene
che alla lingua nazionale
per questo rispetto
si
in genere.
mostra efficace quella legge
del risparmio dei mezzi che per molti altri
abbiamo ve-
Ma
duta (1) dominare nell'arte di Orazio lirico. due ragioni non paiono a me sufficienti.
queste
Chi si chieda a che fine intenda tanta ricchezza di nomenclatura negli idilli di Teocrito, dovrà rispondersi che essa mira a effetti coloristici. Pur troppo la maggior parte delle volte i nomi specie delle piante nominate da Teocrito non dicono nulla ad alcun lettore o almeno a quello che non sia assai pratico di campagna. Ma in quelle descrizioni che s'intendono per intero in ogni particolare, è evidente il desiderio di comporre un quadro di colori vivaci cosi nella descrizione della radura nella quale Dioscuri trovano Amyco. Una fonte :
i
chiara sotto la roccia; nel fondo
argento;
cristallo e
tutt'
intorno
bianchi e platani e cipressi e
come
qui siano
versi
non
scelte
solo nelle
contrastino
?
ciottoli
fiori
somigliano a abeti e pioppi
odorosi. Chi
non scorge
piante di fogliame e tronchi di-
forme
ma
anche nel
colore,
sì
che
Teocrito, colorando così, non fa che seguire
le tradizioni della
(1)
i
alti alberi,
V. sopra
p.
poesia classica,
188 8gg.
senza del
resto rag-
— giungere
1'
—
546
di questa. Pindaro,
ardire
stra spesso di avere studiato,
si
che Teocrito mo-
cimenta
audacie co-
in
non raggiunte neppure dall'arte dei nostri contemporanei. Teocrito non ha mai rischiato nulla di simile al quadro del bimbo lamo, nascosto nel giunco e tra i rovi, bagnato il molle corpo nei raggi gialli e loristiche forse
purpurei delle viole. Molto più discreta è la tavolozza dei prire di tinte
sono
nella
vivaci
le statue.
gli dèi sia detto
alle rose (III 15,
purpureum 15) e al
(II 12, 3),
tendo insieme
(III 3,
i
mentre, applicato
splendido,
mare insanguinato
tella
il
con quello più vivo
bedue
dalla rotta
pioppo bianco
(II 3, 9),
un modesto contrasto di colori; dove (I 25, 17) congiunge il verde
ricerca forse l'ottiene là
Ma
Orazio
lo ricerca e
della
dell'edera e contrappone
effetti
mor-
am-
secche, trastullo del
al color rossastro delle foglie
vento autunnale.
modesti.
significherà rosso di porpora. Met-
pino e
il
più
Augusto accolto tra cigni; che 12) come
volto di
il
quell'epiteto vorrà dir qui
cartaginese
rico-
gli effetti coloristici
molto
ancor
oraziana
lirica
Assai poco significa che
Ma
amava
che
poeti ellenistici, lontani ornai dall'età
molto più vivi
dal contrasto di forme e colore tra piante e
ritraggono fiori
diversi
Meleagro e FiHppo, dove spiegano come sono composte le loro corone (AP IV 1, 2). In un'ode giovanile (I 7, 19) sono contrapposti lo scintillio delle aquile nell'accampamento e l'ombra densa di Tivoli nello stesso carme il bianco Noto (1) terge via dal cielo oscuro le nubi (v. 15). Orazio è un poco più audace, dove parla del mare: negli Epodi aveva chiamato caerula la donna del mare, la ;
donna che era tutt'uno con
domum
caerula
(2)
te
il
revehet.
mare: Nelle
(1)
Nero
(2j
L'espressione è piaciuta a Properzio
è
l'Euro in epod. 10,
13,
Odi
16 nec mater egli
dipinge
5. :
II 9, 15 caerula mater
—
547
—
l'Adriatico scuro tutto ravvolto nella caligine biancastra dello scirocco sinus
:
III 27,
18 ego quid
ater
sit
Hadriae novi
quid albus peccet lapyx.
et
Qualche
cosa di più
cercando,
potrà trovare
si
ma
rimarrà saldo che Orazio è sobrio nel ritrarre fenomeni poeti leEppure proprio emulati, proprio, se non Alceo, Saffo aveva
atmosferici ed effetti di luce.
da
sbi
lui
i
rappresentato la notte illuminata dalla luna in
modo che
noi leggendo laviamo l'anima in quel chiarore argenteo.
A «
piacque singolarmente dipingere
lei
astri
Le
minori di fronte
impallidir degli
l'
maggiore essa aveva cantato luna nascondono d' un tratto il
al
:
:
stelle intorno alla
volto lucente, quand'essa, piena, più illumina la terra
Qui
quasi per vergogna
menti berlinesi dita,
di
il
volto
compagna
dinanzi a una
donne
(1)
al levarsi della luna,
più bella.
salso insieme
e
il
sole, la
astro, diffonde
sulla
campagna
Orazio non ha nulla
che vuole confrontare
astri
il
come
dei nuovi fram-
di
i
luna dalle rosee
suo lume sul mare
fiorita,
bella rugiada, e fioriscono le rose e ».
Uno
parla di un' amica che « brilla tra le
Lydia come, calato
vincendo ogni
meliloto
».
sono sentite come creature vive, che celano
le stelle
e
si
moUi
simile
spande
la
timi e florido :
le
due volte
maggiori col minore, egli usa
forma sbiadita che quel paragone aveva preso nella egli non si è ricordato di Saffo, né negli' là dove descrive le notte testimone del Epodi (15, 1) giuramento non mantenuto dall'amata nox erat et caelo fìdgebat luna sereno inter minora sidera, né nelle Odi dove (I 12, 46) compara Io splendore della gens lidia con quello la
lirica corale
;
:
delle stirpi
men
celebri
:
micat inter
velui inter ignis luna minores.
omne^i
lidium sidus
Quest'ultimo passo rammenta
piuttosto Bacchilide, che celebra così un vincitore (Vili
(1)
Bdliucr
Kl(t»siLirtvxir,
V
2,
IH.
-
28): TievxaéO'Xo'.'jiv '{à^ svéTipETZcV Òr/o\xriY.ooi sù'^eyY',;
Orazio abbia letto
—
548
t'o-
y.rJZ^A'r/ o'.axf'vci
vjxtc-;
'^àr^
Ma, quantunque paia certo che Bacchilide, poiché in questo carme
asXàva.
Orazio pindareggia e poiché in quella stessa strofa pre-
cede una metafora presa
peso da Pindaro,
di
si
supporre che quella similitudine, appartenendo della
glio tradizionale
che
spalla di Chlori
Il
forse
al
baga-
trovasse, oltre
lirica dei cori, si
in Bacchilide, in Pindaro.
può
confronto della bianca
18) con lo splendore della pura luna
(II 5,
mare notturno pare a me scarso di effetto così pure che in II 11, 10 è nominata quale esempio di un fenomeno passeggiero. Persino del motivo romantico della notte buia, del quale Orazio si era giovato negli Epodi per aumentare
nel
;
la ruhens luna,
nell'animo dei lettori
terrore e l'orrore
il
nerie crudeli di Canidia
(5,
49 sgg.)
(1),
per
le
strego-
egli fa nelle
Odi
uso molto più discreto. In un'ode, che sta ancora assai vicina agli Epodi per il metro (2) e in cui il sentire alessandrino si palesa con minor ritegno che in qualsiasi altra, I 4,
tre la
men-
solvitur acris hiems, nella notte primaverile,
luna pende
sui*
capi,
Grazie congiunte alle Ninfe
Venere conduce carole
e le
battono la terra con piede
alterno: iam Cytherea cìioros ducit Venus imminente luna
iiin-
Nymphis Gratiae decentes. Quasi le stesse parole tornano nel canto di primavera della seconda raccolta,
ctaeque
(1) Cfr. 5,
5,
15; 15, 1 sgg. Anche le pratiche di magia narrate in
45 sono notturne. (2)
Come mai
o beate Sesti mostri che Sestio fosse in quell'anno
console, onde convenga
assegnare
zione della prima raccolta,
il
23,
il carme all'anno della pubblicanon mi riesce ben chiaro beatus :
romano agli occhi di un poeta povero, quale era Orazio. Né credo che un console sarebbe stato lusingato nel vedere che 1' ode a Virgilio precedesse quella a lui uomini di stato non si sono in nessun tempo stimati da meno di poeti.
è qualsiasi signore
:
—
549
—
7, dif[ii(jere nives, così simile a questo primo; ma insieme con Venere è scomparsa la luna, e nulla dice più che le dee danzino di nottetempo Gratia ciim Nymphis
IV
:
geminisque sororihus audet ducere nuda choros. Negli Epodi
Odi è rappresentato un giuramento di fedoltà, che un'amata presta di notte, invocando luna e stelle a testimonio; ma, mentre nell'epodo ÌO'{v. 12 sgg.) il poeta ricorda quella notte per minacciare vendetta, sia pure allegra vendetta, alla spergiura, nell' ode (II 8, 9) del pari e nelle
egli, nel
momento
stesso in cui ricorda le taciturne stelle
e dèi che non sanno la gelida morte, mostra di non prender sul serio né la maestà della notte ne il giuramento né gli dèi invidiosi del giuramento né quelgli
l'amore.
non
Altrove la notte
più.
contiene
con molto maggior rigore che non
mente
la
sentimento
il
ingenua-
poesia
classica.
Un carme di sentir la
di
Orazio, abbiamo detto, mostra un
natura del tutto diverso da quelli
nora abbiamo avuto occasione
una poesia Il
amanti,
d' estate è l'ora degli
classicismo conscio
Il
d'alta
dio che lo
montagna,
ha riempito
di parlare.
III 25,
di
modo
cui si-
Orazio ha scritto
quo me Bacche rapis
di sé, lo
ha rapito
sui
(1).
monti
coperti di selve, scavati di spelonche. Dall'alto, lontano ai
rumori degli uomini,
egli
guarda
come una Baccante
r Ebro e
Tracia candida di neve e
la
le ripe
e
il
vuoto
stupisce contemplando
bosco, così
il
monte Rhodope,
tpiel che non detto da altra bocca. Egli è trasfigurato, è ormai non più uomo, ma compagno delle Ninfe e delle Baccanti e segue il dio per rocce e vette. Orazio mostra in questo carme quello stesso senso della montagna, che unicamente e di rado si
cui solo piedi barbari calcano.
gli è
avvenuto, è
Orazio sa che
singolare, nuovo,
;
(1)
V. Hopia p.
M
so;j,'.
— riscontra
nella
550
—
letteratura greca classica. L'orgia dioni-
siaca ha rivelato agli Ateniesi dell'età classica la
tagna
alta.
L'uomo normale
campagna opulenta
di quell'era
mon-
compiace della
si
o dei prati ombreggiati e irrigati, e
non sa immaginare che
si
rifugino nelle foreste
montane
che scalino le più alte vette se non femmine frenetiche. Quelle che il dio trace ha reso folli, di pini e di abeti,
non
il
buona famiglia e di posizione sicura, buone tradizioni e serba intatto il senso misura, s'intende bene che fuggano dalle loro case cittadino di
che rispetta della
le
per passare negli
alti
monti giorni e
cantando, dan-
notti,
zando, cadendo poi in un sonno profondo, da cui
si
ri-
svegliano solo per cantare e danzare di nuovo. Dinanzi ai loro
passi zampillano dal terreno rivi di latte, di vino,
Le
di miele. alti alberi
deboli
mani
con tutte
delle
donne invasate strappano
le radici (1).
Le Baccanti
di Euri-
che esprimono miticamente il senso dionisiaco della vita, sono, sì, un inno alla montagna; ma a colui che le ha composte, la montagna non ha versato in cuore serepide,
nità,
come per
ebbrezza nato,
lo più ai
di vita intensa,
moderni,
durante
ma ha la
infuso smaniosa
quale taluno, alluci-
non ripugna dal sangue. Parimenti
il
carme
ora-
ziano di cui diciamo, appunto perchè dionisiaco, ditirambico, canta la natura più selvaggia.
Una provato
sola generazione in tutta l'èra antica pare aver il
piacere dell' orrido, la generazione che fra tutte
era la più malata, la più stanca dell'eccesso di cultura, la
neroniana
:
Seneca
{de tranq. an. 2,
13) descrive rac-
animo perennemente inquieto, ricercano, stanchi dell'amenità della capricciando ricchi signori che, per ingannar
(1) Cfr.
1'
Eurip. Bacch. 33, 135 sgg., 689 sgg. 734 sgg.
— Campania, Calabria Il
libro,
tato
:
551
—
squallide solitudini della Basilicata e della
le
(1).
sentimento che anima l'ultimo carme del secondo
non è, chi ben guardi, identico. Ennio aveva cannemo me dacrumis decoret, nec fiinera fletu faxit: curi Orazio riprende
per ora virum.
volito vivus
noto a ciascuno dei
quest'epigramma,
sformandolo
lo
tra-
pianti e che risparmino che sarà cenotafio, cigno, volerà non per le bocche
anch'egli prega
:
spunto di
suoi lettori, i
gli onori sul suo sepolcro aperto (2),
mentr'egli, trasformato in degli uomini,
ma
per
cieli
i
(3).
Il
sospiro per la libera
serenità dell'aria è nei Greci ben più antico che l'amore
per l'alta montagna, e non ha nulla che fare con l'esal-
gambe
tazione dionisiaca. Alcmane, malfermo omai sulle
danze delle vergini, si augura d'onda, cerilo con le alcioni, scevro
e incapace di guidare le di poter volare a fior il
cuore di pene
(fr.
quando disperano terra
ci) Il
(4).
Del pari
gli eroi
euripidei, solo
sventura che li non aver le ali per volar via probabile che colui che in un frani-
di potere sfuggire alla
rimpiangono
opprime, dalla
26).
È
di
passo è citato dal Frieolandeu, Sitleng.
W
215, che cerca
comodo alla credenza che gli antichi non ricercassero nella natura se non l'ameno. Del senso dionisiaco della montagna egli non parla le prime ediperò smiiiuirue
1'
importauza, uoii
toruauclo
esso
:
zioni della sua opera sono, del resto, anteriori ai libri del Nietzsche
e del Rohde. (2)
rato
Solone, in un carme che Orazio certo conosceva, 21) di addolorare
(fr.
(3)
A
morendo
era augu-
torto Kiessliug-Heinze citano a proposito di Orazio
di Teognide, nel quale questi ali
si
gli amici.
per volare
in terra e
mare
si
(v. 237)
:
in cigno,
ha preso
spunto da Toognidf,
ma
al
il
passo
suo amato
Orazio parla della sua tra-
quindi di un miracolo, non della
sformazione lo
vanta di avere fornito
Orazio
iia
fama. Ennio
trasforumto
il
motivo
enniano. (4)
I
passi di
Euripide sono ractoUi dal WiiitMANN, p. 47.
— mento
552
— che Orazio mostra
dello stesso Euripide (903 N.),
qui di conoscere, canta la sua trasformazione in uccello,
un
sia
come noi,
infelice cui gli dèi
spesso in fine dei drammi, alla sua pena. Così pure
ignorando
mao
sottraggono con un miracolo,
che contesto fossero un personaggio
in
sofocleo, nei quali
versi dell'Oino-
i
augura
si
di di-
venire aquila per volare di là dall' infecondo etere verso
mare turchino
sebbene Aristofane {Av. 1337) li che non già tenta di sfuggire a un'anfaccia citare da goscia, ma dichiara di aver addosso la pazzia uccellare, il
(1),
tale
possiamo bene immaginare che nella tragedia quel personaggio fosse uno sventurato, cui la metamorfosi avrebbe sottratto a sorte peggiore. Ma, se per lo più nelle tragedie rimpiangono di non poter volare uomini che hanno ragione di essere stanchi di vivere, almeno un passo Aristofane, certo per molti rispetti poeti
del
V
secolo,, fa
vedere che
di
più moderno tra
il
Greci
i
di
i
quell'età
provavano anch'essi quello stesso sentimento, misto di sdegno per la vita terrena e di desiderio di contemplar le cose dall'alto, che si rispecchia nelle tante liriche popolari moderne, dove uno si rammarica ingenuamente di non aver ali le Nubi (v. 280 sgg.) esaltano la loro beatitudine, perchè dalle vette chiomate delle montagne esse scorgono cime che splendon da lungi, e la santa terra rigogliosa di frutti e il rumore dei fiumi e il mare cupomuggente. Un sentimento simile anima Orazio qui, dove immagina di contemplar dall'alto nel suo volo, ben più sicuro che quello d'Icaro, e i lidi del Bosforo e le Sirti :
e le pianure degli Iperborei
(2),
I
Greci sentivano
come
Euripide avrà pensato all'uccello chiamato aquila marina. Secondo Kiessling-Heinze il volo ricondurrebbe Orazio nella sua dimora, tra gli apollinei Iperborei. Ma nulla nel carme indica (1)
(2)
che
gli
minati,
Iperborei siano il
il
termine del viaggio
poeta riprende me Colchus
et..,.
;
Dacus
anzi, et
dopo averli no-
ultimi noscent
Oe-
— noi
desiderio di
il
l'alto
Pure molto
tardi e di
loro anelito a orizzonti più liberi in imprese
contemplare dalrado questo
librarsi in alto, di
paesaggio.
il
—
553
che
alpine,
indusse a cimentarsi
li
poche ascensioni delle quali
le
dall'età ellenistica in poi ci è giunto ricordo, furono per
imprese per ragioni
lo più
scientifico o
anche
bravano miracoli
di
utilità pratica o di interesse
fenomeni che
di curiosità per
(1).
L'uomo
antico non riesce a supe-
rare l'orrore che prova dinanzi alla foeditas
non
sem-
Alpium,
se
una
fe-
è invasato da Dioniso.
1.
// sacrificio alla fonte (III
Questo carme è forse composto schiettamente romana,
sta
i
13).
alla vigilia di
Fontanalia
(2)
senza preconcetti, intende subito che anche e
legge
dolce vino
dei quali la fonte è degna, le saranno offerti
fiori
i
chi
:
il
il
appunto per i Fontanalia l'uso di gettar fiori nelle acque è attestato da Varrone {l. l. VI 22). Non che esso fosse del tutto ignoto al culto greco, sebbene, che io sappia, ne sia fatta menzione una sola volta in un passo di Strabene (3) giorno seguente insieme con
capro
il
;
ora
;
Né
Ioni e così
via.
terra
Iperborei
definii
pre più remoti, se stesso
dove
piìi
finirà
le Sirti si !
trovano sulla
il
il
alla scui-
nò cliiedere a
sno viagjjio. Aggiungere, interpretando, troppi
un po'
vaglie, ò
peccato mor-
buon gusto.
pochi esempi sono raccolti dal Fkikdi.anmku,
(1)
I
(2)
Ne haduI»itato
iy08,
mena
in paesi
clic»
inaccessibili, senza dire al lettore
particolari a fantasie per loro natura tale contro
strada
No, Orazio inunagiiia di volare
il
IvKii/KNsrKrN,
A'.
.Jahrb. /.
n
comusenza
-
554
—
ma
insieme con i fiori vieu promesso alla fonte vin pretto, merum, che la parola qui, in un passo di significato sacrale, dovrà avere il suo valore preciso, quand' anche Orazio
la usi
di vino
non mescolato sono estranee
altrove senz'altro per vino
demone buono, consueta
neir invocazione del
giuramento, forse nel
chetti, nel
libazioni
e le
;
tranne
al culto greco,
rituale
dei
mentre non sappiamo che nel culto romano
ban-
nei
ci
morti
(1),
fosse
una
tale restrizione.
Ma, se incarna,
Come mai
il
rituale è
romano,
Bucolici, cosi
i
poeti di
i
paesaggio
la descrizione del
come abbiamo veduto
dianzi, ideali
ellenistici.
epigrammi non finiscono
la limpida gelida fonte che, spicciando
di celebrare
dalla viva roccia su cui
si
erge un albero
alto, offre ri-
storo agli armenti e ai pastori. Già in alcuni tra
i
molti
epigrammi nei quali Anyte ha svolto quel motivo, il quadro è quasi completo uno {App. Pian. 228) invita il viatore stanco a sostare sotto l'olmo: «Riposa le membra affaticate, straniero, sotto l'olmo, che un venticello :
soave mormora tra fresco zampillo
grande calura (A P IX 313) questo
le
».
Gli stessi motivi
lauro e attingi
membra
riconfortare le
mostrare
una certa
il
grato ristoro dalla
tornano
« Siedi sotto le belle
:
bevi alla fonte
verdi fronde, e
quest'è ai viandanti
:
in
un
altro
foghe rigogliose di
dal bel rivo dolce bevanda,
per
ansanti dalla fatica d'estate, per-
diffidenza, che, se si gettano corone
nello spro-
fondo arcadico dal quale scaturiscono PAlfeo e l'Eurota, esse ricompaiono in quello dei due fiumi che si è invocato nel gettarle.
KiKCHER, Salvale Bedeutung des Weììis {Eeligionsgesch Vers, u. IX 2) 22^ Stexgel. Opferhrduche 186. Libazioni di vino puro occorrono anche, come il Kircher rammenta, nel culto didymeo di (1)
.
Vorarh.
Apollo,
;
ma
1'
sia pregreco.
idolo in
forma
di pilastro fa qui
pensare che
il
rituale
ODO
—
cosse ora dal soffio di zefiro »
(App. Pian.
XVI
230) avverte
fermerà allo stagno,
ma
Leonida
(1).
Taranto
di
viandante che, se non
il
si
spingerà qualche passo oltre
si
vacche pascono, presso il pino pastorale » (2), egli troverà un rivo che sgorga attraverso la roccia ricca d'acqua, più gelido della neve di Borea. E anche altrove non omette di ricordare che la sorgente scaturisce dalla roccia presso un pino A P VI 334. Come il fonte di Bandusia balza giù cavis saxis, così la fredda sorgiva di Leonida da una pietra doppia (A P IX 326), TtéxpY;; ex o^aar^?. L'ombra fitta della fonte perduta tra il verde è esaltata in un com« La valle vicina ponimento anonimo, A P IX 374 stilla una fonte perennemente pura in servigio di chi « sopra l'alta vetta
che solo
le
:
:
passa
coronata
;
io rinfresco
tutt'
intorno di platani e lauri coltivati,
questa chiostra ombrosa
tempo d'estate cacciata la riposo anche la stanchezza della via oltre in
onde non passar con il Quest'epigramma
:
sete, conforta
:
».
pare piuttosto recente, sia per uria certa esuberanza
di
particolari estranea alla poesia ellenistica più antica, sia
per la compagnia in cui nell'Antologia
tornano in
stessi particolari
di
Cicerone: « Belli davvero
i
zefiri,
della stanchezza e della ÒKoay.'Ati
(1)
(2)
cui è
A P IX
lo stesso
ma
gli
contempora-
un bosco verdeg-
del sole »
Ì7^''òpo(xov.
quadro,
ma
con
;
aXxap
tz'jx-.vòv
òoìtt.-
abI)ondiiiiz:i
5'
àXao;
o'''|y]c
xal
minore di
31J, App. Pian. 291, tutti di Anyte.
Cioè « cui 80UO appese otìerto di pastori
un seggio pastorale
notfisvta Tiixut.
il
;
manoscritto
viandanti rimedio della sete e
fiamma
X'f^Xtd-xo'/, Z.f^-jpoi'j'.v
Descrivono
particolari,
ai
il
lauri, e bella scaturisce
dal fondo l'acqua, e folto l'ombreggia giante, corso dai
trova
si
che
13,
che a Satyro, a Thyillo,
attribuisce, oltre
neo
APX
»
(cfr. sojìra p.
'^'A'y) ?
» i
11
oppure
« presso
greio ha ~àp
xì'.va
—
—
550
Qui
xa|iàxou xal cp^oyò? f^eXfou.
risentiamo
il
te
flagrantis
atrox hora Caniculae nescit tangere. Proprio la Canicola è
nominata
un epigramma (X 12), anonimo, sì, ma buon tempo, a giudicare dalla discretezza dell'arte: in esso una statua di Hermes, dopo aver promesso ai passeggeri stanchi che « venticello e sedile ben ombregche par
in fine di
di
giato e la fonte sotto la roccia riposeranno la stanchezza
grave
membra
alle
», finisce: «
E, sfuggiti all'ansito meri-
diano del Cane estivo, venerate, com'è ben giusto, l'Her-
mes toc.
della via
O'éixig,
:
svàov oh cpuYÓvts;
»
'Ep\xr^v sìvóocov x-'eTe
ÒTicop'.voO
•/.•jvò;
aaO-ixa,
(I).
Non che Orazio descriva di maniera poiché sul fonte Bandusia sorgeva un'elee, un'elee egli canta, mentri :
di
pure
i
poeti
ornano
ellenistici
loro fonti di
le
pini,
di
pioppi bianchi, di platani, di quegli stessi alberi che anche lo stesso
Orazio nomina quando vuole dare un' immagine
della vita riposata che
si
può menare
in
campagna
quo
:
pinus ingens albaque pòpulus umhram hospitalem consociare
amant ramis? (H pinu
iacentes (II
dere che qualcuno i
egli nel di questi
Poiché
riscontri.
oppure sub
3, 9),
11,
13).
E non
è
alta vel platano vel hac
neppur necessario
cre-
comporre l'ode avesse presenti tutti o epigrammi, per sorprendenti che siano il
gusto era rimasto
lo stesso dal terzo
secolo in giù, egli vede nel paesaggio principalmente quegli
elementi di bellezza che
Né mancano
altre differenze
logia, poiché per lo più
(1)
A me
gli :
epigrammatisti esaltano. gli
epigrammi dell'Anto-
sono o fingono di essere sia
sembra di riconoscere qui
la
mano che
lia scritto
l'
in-
App.
Pian. 227: quest'epigramma è composto del pari di quattro distici; in
ambedue Hermes esorta
viandante
il
al riposo
;
il
quadro
è simile,
tranne che nella seconda poesia manca la fonte. L'ultimo distico è xaù[ia
5'
:
ÒTiwpivolo cpoy^v %'jvig àXcog àfisiòsts a'jpiov. "Epfisivj xoOt' své-
che
due componimenti formassero una coppia^
Tiovxi ^tiO-su.
Si direbbe
come spesso
nella poesia ellenistica.
i
.»/
un
vito che
dante,
un uomo pietoso rivolge a un vian-
dio o
più raramente,
sia,
—
il
ringraziamento di tale che la
fonte ha ristorato, parlano dei benefici che l'acqua reca
uomini
agli
;
Orazio dipinge un quadro di natura morta
tu frigus amabile fessis vomere tauris praebes
Gli epigrammisti in
zio
pecari vago.
descrivono dal principio alla
forme molteplici tutta
Ora-
;
invece compone
ticolari,
che
fine,
poesia mira sempre a
questa
sempre, chi ben guardi, pittorica il suo inno in tal modo che
ecfrastici, è
fini
et
:
i
par-
presentandosi dinanzi alla nostra mente l'un dopo
come
sono, da pro-
l'altro
molto a
messe
di vittime e di gloria, solo in fine si
dinanzi
ai
rilento, intramezzati,
compongono
nostri occhi in unità di quadro.
Un
inno egli ha voluto scrivere, come mostra la paronomasia del te, che dell' inno è contrassegno esterno :
hora Caniculae nescit tangere; tu frigus ama-
inficiei tibi...; te
praebes;
bile....
fies
nobilium tu quoque fontium; eppure l'inno
dà a noi l'impressione
di
un epigramma. Delle promesse
l'una soltanto, quella di vittime, è vera promessa
poeta cJonferisce gloria alla fonte promette, solo nominandola.
che consistono unicamente
in
Ma
atto stesso che
nell'
può
sono pure epigrammi una promessa, come quello
forse mostrare probabile
gramma
porre quest' inno.
Il
148).
E
infatti
che proprio da un epi-
Orazio abbia preso
celebre
mosse nel com-
le
primo epigramma
di Teocrito dice
« Queste rose rugiadose e questo fitto serpillo son le
Muse
;
per
te,
Peana Pythio, son
che
il
lauri
li
:
per
dalle
la roccia delfica;
tuo altare questo capro cornuto, velloso,
or rode l'ultimo
(1)
quei
lì
nere foglie, poiché essi a te consacrò
insanguinerà
il
la
vi
di Filippo di Tessalonica citato sopra (p. si
che
:
Se Teocrito facesse
ramo
di
briicar»' al
xà ^òlx
pistacchio
>
suo capro
pistacchio, piTihè
proprio la resina odorosa di ijuclla jtianta
il
fosse usata
(1):
come incenso
xa O(^ooozvxy.
'aol:
a xaxaTi'Jxvo;
'EXixo^viàaiv
xal
%
ETiel O'jxoi;
x:v.
XcìTa:
ll'jih£
5' yl\iylt'.
[ia)|Jiòv
xaì;
Ila'.àv, y.cf aò;
ó [xaXóc, xepixiviJ'Ou xpwyoiv ia/axov àxf-enóva.
carmi
i
sf-TiuA/.o;
cy/^vai
|JieÀà|jicpuÀXo'.
TiÉxpa xoùxó xot àYXàtaev
AeX'f l?
xpàyoc
ambedue
sx£'.va
In
sono distinte dalle
vegetali
le offerte
ambedue, mentre alle prime si accenna, le seconde sono promesse chiaramente. Che tutt'e due le volte la vittima sia un capro, cui già sono spuntate le gli animali che più comunemente corna, può esser caso si scannano in onore di un dio, si riducono a poche specie (1). Ma non sarà fortuito che in ambedue i carmi cruente
;
in
:
torni l'espressione: « l'altare, l'altra ficiet
le
capro insanguinerà
il
acque
Ubi rubro sanguine rivos)
»,
nam
5' a:[jià^£t,
(^a)|jLÒv
l'una volta gelidos
in-
tranne che Orazio con arte
;
molto maggiore ha ricavato da quella formula un effetto
quantunque, come suole, discreto, mettendo quasi in contrasto l'acqua chiara e il rosso sangue che la chiazza (2). E meno che mai fortuita sarà la coincidenza in ciò che a tutt'e due i carmi dà una fisionomia propria pittorico vivo,
di fronte agli infiniti votivi
pietre.
Il
cor bruca
conservati nell'Antologia o su
capro di Teocrito è ancora vivo e vegeto, an-
un cespuglio
scivi suboles gregis
;
ma
sarà l'ultima volta
per l'amore e per la lotta contro frons turgida cornibus primis Il
!
La
la-
entra ora in un'età che le dà le armi
sentimento, misto di
et
i
rivali
venerem
et
:
invano;
cui
!
proelia destinai.
devozione serena e punto senti-
nel culto, non saprei dire. Il sacritìcio di certi animali è spesso ri-
tenuto dagli anticLii punizione di loro delitti contro qualche dio. (1)
p
242
;
(2)
Capretti e agnelli
3, 18) in
ceae
sono
offerti
alle
Ninfe già nell'Odissea,
una capra in Teocrito V 12. Anche 1 Diecimila scannano una vittima
modo che
immolano
corso di acqua.
il
sangue
coli
{SijU.' 615, 35)
nelP acqua
alcune
;
al
fiume {Anah. IV
del pari quei
di
vittime sulla sponda di
Myun
—
—
559
mentale, alla divinità e di rimpianto per la forza giovane
che non
del bell'animale,
rilevato in Orazio, è
glio
gli servirà
a nulla, assai me-
anche l'epigramma fu
evidente
Teocrito.
in
Secondo il Wilamowitz (1) scritto sotto a un quadro l' ipotesi non parrà necessaria a chiunque :
ripensi che questa poesia è tutta descrittiva, anzi pitto-
Orazio ha con
rica.
l'epigramma
tutta probabilità letto
nel suo Teocrito. 2.
La I
Fauno
festa campestre di
(ITI
18).
pastori teocritei sentono, quanto lontani
gH
Olimpii,
il dio Pane, con il quale essi si permettono famigliarità di ogni genere, sino a ingiuriarlo e minacciarlo, se non esaudisca la loro preghiera, cosi come popolane di Napoli fanno ora con santi più moderni. Neil' idillio VII Simichida (v, 103 sgg.) augura al dio che, se egli conceda ad Arato la grazia di condurgli tra le braccia il suo amore, i fanciulli Arcadi non
altrettanto vicino a sé
sua statua, come solevano in un
picchino la gli
scoliasti
ci
danno
notizia
tutto
il
di cui
:
corpo dalle
che abbia a passar zia.
rito
non esaudisca
male che possa esser lacerato unghie e dormir sulle ortiche, inverno in Tracia e l'estate in Beo-
l'amico, gli impreca ogni
per
se invece
;
l'
Simichida, poiché è lo stesso Teocrito, travestito
sì
un poco, ma in tal modo che lo si riconosca sotto la maschera, non ha ragione di affettare troppa pietà conmandriani del primo tadinesca e pastorale ma anche subito in idillio trattano Pane quasi come uno di loro i
;
:
principio
canto,
(1)
il
bovaro promette
un dono Textgeschichtc
al
capraio, ricompensa
inferiore solo a quello
dei'
ìinkoliker 120.
che avrà
il
del dio.
—
-
500
(iiiesLi pastori, appunto perchè Pan è sempre preanche perch'egli può ogni momento mescolarsi nella loro vita, Io temono l)en più che gli altri dèi, e si guardano bene dallo stuzzicare la sua ira. Verso mezzogiorno, nell'ora che d'estate è la più silenziosa, Pan, stanco Ben lo sa il della caccia, si riposa. Guai a disturbarlo capraio e risponde al bovaro che suoni e canti verso
Eppure
sente,
1
quell'ora sono
pericolosi
iroso
:
salta l'ira al naso, e allora....
Del pari naturale
i
Pan
e facilmente
gli
(1).
poeti augustei, che
del paesaggio
è
avevano educato
leggendo
Bucolici,
i
il
senso
ogniqual-
con l'animo di bivenerano nel silenzio misterioso della dio Fauno. Il nome è rombano, e senza dub-
volta tentano di mettersi all'unisono folchi e di pastori,
campagna
il
una divinità pastorale
bio
di
rogava, ben prima che
mano
tutto
il
mondo
Pan
il
nome con
questo
propri ricevette culto e impartì
a
vaticini
chi
caratteri l'
inter-
man
arcade, conquistato
Roma. Ma
greco, giungesse a
nel-
augustea già da gran tempo Fauno era tutt'uno con Pan Orazio (I 17) si rallegra che Fauno, lasciato il Lycaeo, protegga dall'estate e dallo scirocco le sue caprette. Virgilio invoca in principio delle Georgiche i Fauni, agre-
l'età
:
stium praesentia numina
;
il
conmiento del cosiddetto Probo
a questo luogo narra che Fauni sono stati spesso visti proprio nei pressi di Roma. Io non dubito punto che contadini e pastori latini conservassero la loro
Fauno
italico
;
devozione per
credo benissimo che
dela, celebrando la festa di
Fauno
il
pastori di
i
il
Man-
giorno delle nonae
Nell'epigramma 5 della raccolta teocritea un pastore propone auouare appunto per disturbare il sonno di Pan, che dorme, pare, nell'antro. Qui un imitatore sembra aver voluto (1)
all'altro di cantare e
rappresentare la famigliarità che corre tra le tinte
per superare
il
modello.
il
dio e
i
pastori, caricando
— decemhres non
accorgessero
si
—
5()1
di
mescolar con
lui
nel rap-
un dio arcade ma parola praesens ricorda un concetto che è mente
presentarselo alla in Virgilio la
la figura di
;
capitale nella religione ellenistica, rs7::-^ày£:a o meglio la
nume (1); le Dryades sono Pan o dei Pani con le Ninfe
del
uapo'ja.'a
l'unione di
divinità greche, più consueta di
qualsiasi altra nell'arte greca.
Orazio
abbiamo
sa,
detto,
che Pane protegge
armenti brucanti corbezzoli e timo per cretile, sa
lupi,
che
appena
suoi
i
pendici del Lu-
le
sue caprette non temono ne vipere ne
le
le valli e
i
sassi lisci del costone di Ustica
risonano del dolce suono
di
una
misteriosa
fistola
:
nec
metuont colubras nec Martialis haediliae lupos, utcum-
viridis
que dulci,
Ttjndari,
personiiere saxa
(I
giunge or no, di presente. Questo tardo, che certo sa quanto a chi
fistula valles et
17, 8 sgg.).
una zampogna
Fauno non ha
è
il
Usticae cubantis
levia
Nel suono lontano, che or il
poeta ravvisa Fauno
Pan greco
letto Orazio,
sa quanti carmi
un
novelliere
ma ha
attinto chi
:
bucolici
ora
perduti,
immagina che una schiera di soldati, la Longo quale ha recato ingiusto danno a pastori devoti del dio, sia ammonita di riparare al misfatto da molti segni dell'ira di Pan, tra questi un misterioso suon di siringa che s'ode venire da una rupe scoscesa, non dilettoso tuttavia come di siringa, ma minaccioso come di tromba (II 26, 2) fìnge che non appena il capitano si accinge all'espiazione, da quegli stessi sassi si senta di nuovo la siringa, non più guerresca e paurosa ma pastorale e quale suol menare al pascolo le mandre (Il 28, 3). E gt-eoo è per molti segni il Fauno di (juest'ode. Greco è il dirlo Veneris sodalis, chò l'accoppiamento di Pan con Afrodite, ignoto a Roma e non frequente nemmeno nella religione greca, Sofista,
:
(1)
V. Hopni
•Mi
p.
179
sjr-.
— si
di
562
—
trova pure, oltre che in alcune opere, d'arte, nel culto
come mostra Pausania (V 15, come testimoniano un'iscrizione
Olimpia,
attico,
e in quello
6),
e
Strabene
(1):
due divinità riunite forse appunto in un carme attico, probabilmente in uno di quei cori di tragedie che così spesso cominciano invocando questo dio. Greco è 1' immaginar Pan in caccia di Ninfe non che noi lo vediamo sovente su rilievi o in isculture affannarsi dietro a un'amata, ne che udiamo di tali inseguimenti da poeti, che le Ninfe sono per lo più facili e non lasciano altri a lungo per se sospirare ma quella concezione doveva esser diffusa nell'antichità più che da Orazio avrà trovato
le
;
;
noi
non
scorga, se gli Stoici furono costretti a ricor-
si
rere alle loro
allegorie,
solite
come solevano
qualvolta non s'arrischiavano a dar
di
fare ogni-
cozzo contro cre-
denze popolari. Per Cornuto (27, p, 49, 14 Lang) le Ninfe da Pan simboleggiano le emanazioni umide
inseguite della
terra,
quali
delle
tutto gode, perchè senza esse
il
Del resto, che l'uiia non potrebbe sussistere ninfa. Eco o Siringa, relutti all'amore di Pan, !
detto altrove il
dio «
;
e
solito
il
non cessa mai
di
noia alle Ninfe Epimelidi
Longo
o l'altra si
trova
asserisce che (II 39, 3)
molestare
le
Dryadi e
di
dar
».
Anzi, la prima strofa del carme oraziano getta forse luce nuova su concezioni religiose greche. Orazio
prega Pan, che corre all'impazzata per monti dietro alle Ninfe, di badare a moderar la corsa quando passa per il podere del poeta, e di rimaner lontano dai capretti teneri: i
questo significano (1) I il
le
parole
passi sono citati dal
confronto pare a
me
per la quale nec desunt
manca vino
al cratere
Heinze citano solo
il
Fanne nympìiarum fugientum
:
Gkuppe,
favorisca
1'
Griech. Mijth.
ti.
EtUgionsg. 1396;
interpretazione accettata nel testo
Veneris sodali
che mesciamo
vina craterae
in
passo di Pausania.
onore
di
vuol dire
Pan
».
«
né
Kiessling-
— amator,
meos
jjer
finis et
-
563
aprica riira lenis incedas abeasque
parvis aeqiios alumnis. In molti testi greci e latini è espressa
credenza
la
mente
che
armenti
gli
dimagrino
o
Pan
infurino per malefizio di
o
misteriosa-
Fauno
di
o di
cui è spiegato meno (1). Nei pochi passi (2), oscuramente che parlar chiaro degli effetti terribili dell' ira di un dio è imprudente, perchè può irritarlo, pare evidente che Pan tormenti sino alla pazzia mandando
Silvano
in
come
sogni e visioni spaventevoli
mandrie.
Ma
un'altra credenza
I
suo piede
morranno. Qui
e
consumeranno
si
Pan
corsa di
la
Greci
è tutt'uno
non
antichi
dai popoli occidentali dell'evo medio. Nel fru-
scio delle foglie morte, nel
schi e forre di
essi
!
selvaggia temuta dai
la caccia
meno che
mentre Pan inparano sul suo cammino guai
si
ai capretti sfiorati dal
con
agli
guai alle capre che,
:
furia dietro le Ninfe,
man mano
uomini così alle mostra che vi era anche
la strofa oraziana
mugghiare
del vento per bo-
contadini antichi sentivano
i
Artemide o
di
Hecate, così
di
il
come
passo,
Pane. Pan è cacciatore
pazzamente per i monti, ha, come esse, ninfe a compagne, sia pure che talvolta esse si ricusino alle sue voglie com'esse è temuto dai mor-
com'esse,
corre anch' egli
;
tali;
com'esse è più pericoloso nell'ora meridiana
KoscnKH,
(1)
Ephidltcs (iu Liipzitjer
M
Abhandl. XX',
(3).
s;^>;..
Né 70.
72 sgg. (2) (.3)
'ò'M
ROSCHEK, p. t>9 sgg. Caulo Dimiiky hu forse per
che corre per monti lei
il
XXV
primo {Rh. Mus.
1870,
sgg.) riconosciuto la cacciatrice nell'Arteruido dell' inno omerico 27,
le
e
vette scuotendo
1'
arco
:
tremano
cime dei monti, risuona la selva dei gridi
vidiscono terra e mare.
I
punto Diana
'ò'M).
(v.
già per Teocrito
colà p. ;
1'
di>llo
dinanzi a
fiere,
rabbri-
vedono nel demone meridiano apPan è, per così, dire demone meridiano
Cristiani
inno omerico in suo onon»,
il
10,
t-
assai
simile
interpretazione che Kiessling-Hcinzc danno del jiasso di Orazio, ])are a me troppo vaga.
al 27. L'
— si
deve dimenticare che
una
festa
564 il
—
carme
di
Orazio è scritto per
invernale, della sta^^ione in
infuriando sui monti sabini, suscita
cui
vento, più
il
mille rumori
miste-
riosi (1).
Orazio, fermatosi solo un
vaggia, ne storna poi subito
momento sguardo,
lo
sulla caccia
come
orribili cose, per volgerlo alla festa presente. «
si
sel-
suol dalle
Fauno, non
podere nelle tue corse sfrenate, tienti lontano dai miei capretti, se noi festeggiamo il giorno tuo secondo il rito ». La vetus ara, il santuario campestre s' incontra a ogni passo, in forme svariate, ma tutte semplici, tutte
mi rovinare
il
primitive nella pittura di paesaggio dell'età ellenistica (2). Orazio mostra pure altrove di sentire anch' egli questo
romantico per
amore un
po'
la lettera
dell'
araator della
le
rovine di vecchie cappelle:
campagna all'amatore
della
Fusco, è dettata post f animi putré Vacunae (epist. I, 10, La descrizione della danza rozza dei contadini, che
città, 49).
sembrano rea di
gioire di calpestare
aver dato loro tanto
olandesi di paesaggio. il
paesaggio
idillico
con
i
piedi pesanti la terra
affanno,
Appunto
i
ricorda
pittori
quadretti
che riscoprirono
per l'arte moderna, amarono
collo-
care nel centro del quadro persone di aspetto rude, mal vestite, di gesti incomposti.
Natura morta
e animali sono
carme più intensamente che Orazio non soglia, e quindi più profondamente umanizzati. In altre poesie essi non hanno altro valore che di elementi dequi la selva non è spogliata contro sua voglia corativi dal vento d'autunno, ma sparge essa stessa di buon grado non solo buoi hanno vale sue fronde a onore del dio
sentiti in questo
:
;
i
(1) Conciò non intendo punto accettare l'identilìcazione di Faunus «on Favonius, proposta ora per ragioni fonetiche dall'OxTO (P. W. VI, 2057) i venti decembrini non preannunciano la primavera. ;
(2)
V. sopra p.
ii35.
— ma
canza,
perfino le
565
—
mandrie si vedono scherzare sul uno spettacolo al dio il lupo gli agnelli, che mostrano di non
prato, quasi volessero dare
;
avanza pacifico tra temerlo. Questo è un miracolo che Pan e Fauno sogliono ambedue fare Orazio lo ha accennato, nascondendo quasi quanto è in esso di prodigioso, in I 17: appena si sente si
:
la fìstola del dio, le
romano
è Lupercus,
appunto quello e
la festa dei
caprette cessano di temere. il
Il
Fauno
suo compito, cioè, era in origine
di tener
lontano
Lupercalia, che
il
lupo dagli stazzi (1);
Augusto (Sueton, Aug. 31)
rinnovò, mostra che questa concezione era viva sino in
tempi tardi. Ma, come narra Eliano (/*. a. XL 6), nei monti di Arcadia era una grotta sacra a Pan, dentro la quale le greggi avevano rifugio sicuro dai lupi, che non osa-
vano penetrarvi per e)
rispetto al dio.
LA RELIGIONE.
Augusto, vincitore sull'Oriente ad Azio, mise subito
mano
a restaurare nella vita pubblica o negli
religione.
Non
tuttavia che egli
dare di spugna su secoli
si
storia e ricondurre
di
poranei ad adorare nelle forme originarie nerate dai contadini della prima
Roma.
dèi erano, com'egli sapeva, morti per
spiriti
di
illuso
sia
I
le
i
la
poter
contem-
divinità ve-
più tra quegli
sempre; né
la
ri-
cerca erudita del più grande conoscitore di antichità patrie,
Varrone, poteva riconquistare loro la venerazione
dei moderni. lette
Le
soltanto
Antiquitates rerum divinarum saranno state
da persone
anzi dotte, da quelle aveva spento ogni ardore
colte,
stesse nelle quali la filosofia
(1) L. DKU»NKK(Jrc/(. /. i:j.) ha difeso beue l'etiraolof^ia di Lupercus da ìiipiim arerò, mostrando che cerchio majjico i riti più antichi della festa mirano a disof^nart» nn ln])i non pos'^oiio entrare. dentro il (piale i
di
ingenua
fede
il
;
56()
—
popolo, sul quale
utiicainente ogni
riformatore convinto fa assegno, non poteva interessarsi
né per
la
recondita dottrina storica ne per
che, applicando
principi
dèi forze naturali, né per l'etimologia,
minare l'essenza
di
ogni
dio.
il
simbolismo,
voleva ravvisare
stoici,
che doveva
negli illu-
L'autore stesso, stabilendo
categoria, forse molto
sulle quali
numerosa, di divinità non era potuto giungere a risultati sicuri,
di
confessava
un' intera
incerti,
i
in
modo che
certo
il
suo
libro,
quantunque dedicato a un uomo grande, che,
se la morte tempo, avrebbe riformato anche la religione, a C. Cesare, era opera di ricerca, non di fede, intesa a esporre il passato, non ad agire nel presente.
gliene avesse lasciato
Augusto, debole
di
il
nervi e cagionevole di salute, in-
clinava a timori superstiziosi. Superstiziosa chiameremmo noi moderni
anche
di ogni specie (1)
;
la
sua fiducia in sogni e in presagi
a buon diritto, purché non vogliamo
credere che egli fosse un mistico fatta sono
comuni appunto
;
che credenze di quella uomini di stato
in capitani e
oscuramente in se un qualche cosa di irrazionale, che trascende la natura umana, s'immaginano, senza confessarselo chiaramente, che cielo e terra partecipino alle vicende della loro vita. Né su questa fiducia di Augusto nei presagi filosofi che egli si era scelti avranno trovato a ridire a consiglieri, ascritti alla Stoa, quantunque certo, come grandi, in persone le quali, sentendo stesse
i
(1)
Della delicatezza di Augusto
e delle sue frequeutissime
lattie parla Svetouio uei capp. 81 e 82
;
ma-
della sua paura dei fulmini
nel cap. 90; della sua fiducia iu tiomnia e omina nei due capitoli seguenti. Nell'autobiografia di Augusto
cua, come mostrano ancora
i
presagi avevano parte cospi-
frammenti 4 e 5 Peter a essa risale la narrazione dei miracoli che annunciarono e accompagnarono la sua nascita secondo Dione XLV e Svetonio 94 (Blumexthal, jriencr Siudien,
XXXV,
1913. 122)
i
;
-
567
-
tutti in quell'età, inquinati di eclettismo,
e
suoi
i
Theone
Dionysio
figliuoli
(1)
la
:
Areio Didymo
Athenodoro,
Nicànore,
e
Stoa faceva uso della mantica senza scru-
poli,
grata alla Prov^videnza che avesse concesso all'uomo
una
stella per guidarlo attraverso
gusto, se ebbe Stoici
che modo Stoico pensato,
i
egli
come Varrone
il
mare
Au-
della vita.
direttori di coscienza, fu in qual-
Della religione egli avrà Agahd), che la forma sua non possa uscire dalle quattro
stesso. 7
(fr.
più vera, la theolof/iapJu/sica,
pareti della scuola e scendere in piazza senza mettere a
Per un principe che pensi governo il primo imj)eratore si sarà accorto, ben prima dei sagaci organizzatori dei grandi stati moderni dell'Europa centrale, che appunto la forma amministrativa dello stato, da lui inauperiglio l'ordine della società.
così, la religione è
gurata, doveva,
di
:
che qualsiasi
piti
legami. In fondo
Varrone
mezzo
cuore
al
altra,
restringere quei
Augusto avrà pensato, come
54 a, 55), che, poiché gli dèi veri ne accetne si commuovono per preci, il filosofo, se toccasse a lui di fondare una città nuova, dovrebbe or-
tano
(fr.
sacrifici
dinare
il
culto a
perchè egli
si
norma
di
natura, cioè
di
trova sempre a essere cittadino
verità, di
uno
ma
stato
nel quale le forme religiose sono tradizionali, è suo ob-
bligo tenersi alla tradizione e procurare per giunta che
volgo
la
il
veneri anziché dispregiarla. Forse Augusto, cre-
mezzo a una generazione romantica, avrà senuna certa vaga simpatia per la religione romana, perchè essa era stata parte di un mondo che tutti sospiravano scomparso e si illudevano forse di poter risuscitare. Ma anche quest'afi^'etto, se vi fu, non aggiunse molto
sciuto in tito
calore alla sua fede.
Un (1)
riformatore
Le notizie su
che
essi
ragioni
sono raccolte
cosi
ifur, an-
his
res repeterent, et
per hos
lingua latina non erano
45. Si suol credere
che
i
collegi
vetustissimi dei fratres Arvales e dei sodales Titii fossero
già scomparsi in tempo molto più antico
;
ma
quest' opi-
nione contrasta con la chiara testimonianza di Varrone
che degli uni (V 85) dice qui sacra publica faciunt, parla (1) Suet. [2)
Oic,
,
Caes.
iid
Fi».
70, 2. 8,
e gli
altri passi citati
da \Vi>>u\va,
/.'t7.
,
Dal luogo ili Cicerone si ricava che Compitalia furono oelrbrati in citt.^ ancora nel 58. I Compitalia festeggiati in caniitagna dalla l'amiUa rustica avevano tutt'altro carattere e non furono corto toccati 172.
dai divitti.
i
— di uccelli (1)
qualcosa
di
auguriis certis observare
mostra
feziali
-
r>7()
solenf.
che
simile,
di
secondi
i
passo citato
II
dianzi sui
Varrone sapeva ben distinguere
che
in
tra
passato e presente.
Quanto a
riti
Svetonio
stranieri
che
dice {Au(/. 93)
l'imperatore distingueva tra antichi e introdotti di fresco, in altre parole tra greci e orientali iniziare
mente
ai
mentre
:
misteri eleusinii e ne rispettava
si
faceva
scrupolosa-
da escludere il consiglio e il pubblico una causa intorno ai privilegi dei sacerdoti di Demetra Attica, non volle durante un viaggio in Egitto veder l'Api, e approvò che suo nipote G. Cesare non avesse supplicato nel tempio di Gerusalemme. Il principe, che volle trascendere l'ellenismo, mostra chiaramente nei culti da lui fondati o rinnovati o calsegreto
il
sì
dalla discussione
di
deggiati di prediligere ritus Achivus.
novensides
i
di origine
Egli ordinò di bruciare
le
greca e
raccolte di
il
ora-
che correvano per le mani del pubblico (2), certo perchè avversari astuti non ne potessero approfittare per coli,
rivolgere contro di luì
la vittoria,
ma non
si
suo governo, presagita a essa
il
arrischiò ad assalire l'autorità dei
eppure la raccolta messa insieme soltanto nel andata a fuoco Si contentò Sibillini
mostrando voluta dagli
creduli,
i
dèi l'opposizione contro
:
!
puliti dalle interpolazioni
ufficiale
di
non
;
ordinare vi è
testo di far rivedere criticamente ^curato
che fossero
tolti
da esso
di
essi
dopo che un'
76,
i
il
(2'
TI
12).
le
Le
ri-
dubbio che, col pretesto,
Augusto avrà
passi pericolosi.
I
libri
Palatino
qui lacunoso.
Sull'opera di Angusto quanto ai Sibillini e agli oracoli
in ispecie
era
che fossero
così espurgati ripose sotto la base dell' Apollo
(1) Il testo è
era stata altra
testimonianze di
difificoltà
cfr.
Svetonio (Aug. 31) e di Tacito {Ann.
cronologiche uOu
importano al nostro assunto.
— per accrescere
571
—
santità del suo dio
la
Ai
famigliare.
Si-
quando volle, celebrando feste secolari, solennemente dalla religione che il suo principato apriva un'era nuova. I frammenti epigrafici billini (1) ricorse,
far
confermare
dei
commentari
mostrano che
(2)
furono
colo greco,
greci:
lettera ai quindecemviri a S-solg
non già
[ji£iXc/''ot:,
prodigivas Achivo
Augusto fare
a un ora-
ispirati
esorta nella
11)
(r.
offerte
milkheìs,
deis
ai
immola (r. 91) \hostkts\ Moerae, non alle Parcae sa-
agli Inferi;
ritu alle
;
invoca
crifica deis Ilithìjis e
riti,
i
Ilithjia
con
il
nome
suo
greco,
non con il romano. Orazio, poeta e quindi persino nel carme ufficiale, che fu cantato nell'ultimo dei tre giorni da un coro di fanciulli e fanciulle, meno ligio alle formule che il Cesare sacerdote usava nel sacrificare, ha identificato, sia
pure con qualche scrupolo,
Ilithijia
con
la
Lucina romana: Ilitlujia,... sive tu Lucina probas vocari sex Genitalis; ha inalzato la preghiera alle Parcae senza far menzione del nome greco ha detto Ceres la dea che Augusto, traducendo il Faìa dell'oracolo, aveva chiamato ;
Non
Terra mafer. nie secolari
calcolare
il
;
ma
il
ellenistico,
;
la festa.
che più
Come
cerimo-
rito delle
orientale, cioè ellenistico, è
secolo
anima
cetto che
soltanto è achivo
il
modo
importa,
il
di
con-
attesta Censorino in
una
parte della sua opera in cui attinge largamente alle Au-
humanae
tiqtiitates
di
Varrone
(17, 18), era
credenza dei
Romani, come già
dei più antichi Etruschi, che
uomo
i
vivesse oltre
anni durasse
()
;
uso
Augusto adotta un calcolo
se-
conservato da PlieU'jyon (Macrub.,
4i v
saeculum.
testo dell'oracolo
11
(1)
Zosiiuo II
il
deli'
nessun
cent' anni, in altre parole che cento
»•
cdiziouf critica del DiELS,
Sibiilìiniurìic
ISIiilter.
133 8gg. (2)
Adopro
epii/raphica,
32323
8
—
infrerjuenS)
mondo grande
e ter-
del miracolo lo induce a
riflet-
ripensa a quanto avviene in questo ril)ile.
La contemplazione
scosso dal prodigio,
tere sul mistero delle cose
umane, suggerendogli che su
domina un qualche cosa che, perchè sottratto ai umano, pare ostile, sembra prendersi beffa di noi. Questo qualcosa egli lo chiama Fortuna, come T'j/Y] lo aveva chiamato Polibio. Jam valet tutto
calcoli dell' intelletto
ima summis mutare
et
insignem attenuai
deus ohscura pro-
non può esser riferita che a Giove^ poiché la Fortuna non è stata ancora nominata; quei versi rendono del resto, com'è noto, un passo del proemio delle Opere e Giorni, famigliare probabilmente anche al ^sta ò' àp-'^r^^ov lettore romano Esiodo aveva scritto 7nens
:
la parola deus
:
:
Ma
questo stesso potere era attribuito dai poeti
sofeggianti non più a Zeus di Berlino,
con
[lèv u'ic'^af^
axót'.ovj,
:
cosi
l'
filo-
inno
y,oC:
xà Òì
fondono
poiché
parole che,
con altre prese dallo splen-
dall'altezza
tolte
dore, ricordano ancor più
xà
Fortuna
alla
che nella sua forma presente è posteriore a
Orazio, invoca la dea
immagini
ma
il
poeta romano yàv
a£[xvà.... òuV^piza; Tiotl
'-paOXa y.x\ xaTTSivà.... s:;
vi'^o;
u']>o;
che Esiodo
:
àix-^'.b-r,y,y.[>.h[oc
ì^iti^ocQ
.
11
pub-
romano, leggendo Orazio, non poteva sorprendersi di trovar subito dopo nominato non più Giove ma la Fortuna,^ perchè sapeva che Giove e Fortuna sono nomi diversi di un ente solo, il d-zlov. Il Pseudo-Dione proprio da quei versi esiodei argomenta (II p. 150 Arn.) che Zeus e Tyche sono una sola cosa (1). blico
(1)
Lo
Jiiger
role seguenti,
malamente
xaTs^w
[jlèv
cita toOto
apa
mostrano che
costruzione, è glossema, sia pur sensato stesso.
f,v
ó Zau;,
Tuxyì, :
il
r,
T'jyy,
;
le
pa-
poiché interrompe la
senso generale rimane
1(
— La
603
—
libazione della villanella ai Lari (III 23).
purché tu non
« Phidyle,
dimentichi
di inalzare
ai
Lari la preghiera ogni volta che la luna è nuova, pur-
ché tu bruci
in loro
sacrifichi tutt'al più
campo
onore incenso,
una
offri loro le
primizie,
scrofa, guastatrice dei colti,
il
non soffriranno danni. I buoi sono riservati alle cerimonie dei pontefici da te gli dèi del poderuccio, piccoli com'è piccolo questo, non aspettano ecatombi di pecore adulte, ma si contentano che tu cotuo
e le tue greggi
;
roni le loro statuette di
porta solo che una
desta
di
mano
un innocente,
rosmarino e mirto. A loro impura tocchi Tara l'offerta mo:
farro e grani
riesce ai
di sale,
Penati più accetta che vittime sontuose offerte da che essi disdegnano ».
Secondo
interpreti
gli
quest'odicina
tale
rispecchierebbe
più fedelmente di ogni altra costumanze e religione ro-
mana. In
è molto
quest' osservazione
rappresenta qui
le
veramente
suo tempo.
al
di
Orazio
vero.
pratiche devote dei contadini, com'erano I
delle plebi agricole italiche,
Lari sono divinità alle
proprie
quah non corrisponde
nulla di simile nella religione greca (1); e alle (1)
tini
Al Lar famiUaris deirAuliilaria e del Triuummo
corrispondeva negli esemplari greci un r^pw:, un
piccole
(v. 39) plau-
y,ptus
dà
il
nome
a una commedia di Monandro. Ma il Lare non è nella casa di città ve lo hauuo poruè originario uè genuino (Wissowa, Rei., 1(38) :
tato
servi
campagna ad aumentare la fnmiìia urlmna a man mano clie nei padroni cresceva con 1' agia-
venuti
di
«pese della rustica, tezza
anche
il
bisogno di
in città
comodità.. Glie sia così,
sono celebrate
non ha in città, campagna segua
clie 1'
io
le feste
altrt'.
vede dal luogo :
il
dove
compUum
sappia, alcuu valore giuridico, mentr'esso
in
come costumi
e
intorsera/iouo
legge italica esigevano, corrono tnitandola dallo
si
maggiori dei Lari
di'i
tutt'
viu/^J, che,
intorno a una proprietà,
dcii-
— statue di i
giori, e
che sorgevano nei crocicchi
esse,
campestri^
campi attigui avranno ripreghiera con maggior fiducia che a dèi magperciò appunto più lontani dall'anima loro come
proprietari e
volto la
—
()(j4
i
lavoratori dei
;
ancor oggi
i
contadini pregano, con più effusione di cuore
che nelle chiese, dinanzi ai tabernacoli della Madonna, alle « maestà », che hanno sostituito i sacelli dei Lari
campagna. Phidyle compie lo stesso che con quelle stesse forme in quello stesso giorno molte altre figlie di agricoltori celebrano. La legge saai
canti delle vie di
rito
crale,
che permette solo
mente con crifici, non
in
lui si
padre
di
famiglia
applica al culto dei Lari.
è religione degli umili
Un
al
e,
sua vece, alla matrona di
:
ciascuno ha
il
La
congiuntaoffrire sa-
religione loro
diritto di suppli-
non certo proclive ad assegnare troppo posto nel culto anche domestico a servi, Catone, concedeva, anzi imponeva a una donna di condizione servile, la vilUca o fattora, di onorare Lari; come mai quest'eccezione, se non era radicata negli usi ? Nel de agrìcultura (§ 43) al severo divieto rem divinam ne faciat neve mandet qui prò eo faciat, iniussu domini aut doìninae, dove iniussu si dovrà intendere « senz'ordine espresso », dopo una frase che ribadisce ancora la proibizione, dicendo chiaro che anche dinanzi agli dèi conta solo il padrone, scito dominum prò tota fumilia rem divinam facere, segue carli.
antico,
i
:
kalendis, idibus, nonis, festus dies ciim erit, coronam in
cum
fo-
indat per eosdemque dies Lari fayniliari prò copia siip-
plicet.
Le Calende sono appunto, originariamente, il nopoiché Tibullo, come Orazio, menziona solo una
vilunio
;
indurremo che solo il Calende era considerato di stretta osservanza e indispensabile. Forse proprio alla ragazza di casa se non vogliamo accettare era affidato il culto dei Lari
unica festa mensile dei Lari, ne sacrificio delle
:
senz'eccezioni
là
testimonianza del Lare plautino {Aid,
—
—
605
professa grato delle libagioni quotidiane
23
sgg.),
di
incenso e vino, delle corone offertegli dalla
che
si
quale
nandro, nel
Tibullo
stico,
10,
(I
che accompagna di
si
il
Medome-
può render qui un passo
famiglia, perchè Plauto
di
parlava del culto dell'eroe
22 sgg.)
la figlia piccola
mostra
ci
di
figlia
padre, mentre questi porta all'idoLetto
legno una focaccia, segno
animo grato per un
di
fa-
vore ricevuto.
Anche suo
nelle
interprete
Phidyle o meglio il agli usi. Plauto (1)
piccola
offerte la
Orazio
conforma
si
{AuL 23, 385; Trin. 39), Tibullo (I 3, 34), Giovenale (XII 89) mostrano concordi che ai Lari si solevano appunto offrire incensi e corone di fiori. Lo stesso Tibullo in un altro passo
spighe
10, 22) parla proprio di serti di
(I
nale altrove (IX 137),
La consuetudine qualvolta
le
di
offerte
che delle corone,
oltre
consacrare
ai
Giove-
:
farro.
di
un porco, ogni-
Lari
incruente sembrassero
insufTicienti,
è ricordata da Orazio, oltre che in questo luogo, in uno
Sermoni
dei
(II 3,
solito, Tibullo.
impinzati
1G5)
si
;
accorda con
Per Properzio (IV
1,
lui,
secondo
crocicchi, cioè la sede del culto dei Lari, era
i
consuetudine della prisca
Roma. Di
maiali vi
essere nell' Italia antica grande allevamento, se
erano
Un manda che (I
personaggio del liudens plautino di far preparativi
egli
1,
vittima più consueta nel culto privato
la
ha già
per
il
il
(v.
(1)
La
la
suini
1206 sgg.) co-
i
porci, gli agnelli. Tibullo
ai
Lari un vi-
modestia della propria condiziono che
cui testinioiiiaiiza
lia
valore per
confortata da quella di altri autori. (2)
i
(2).
lusso del suo avo, che per la
salvezza di innumerevoli giovenchi offriva
con
dovette
sacrificio ai Lares familiare^i,
in pronto, oltre
19 sgg.) confronta
tello,
il
23) lustrare con porci
WissowA,
;.'
ò
— gli
permette
—
()06
un agnello
dì sacrificar loro più di
doveva essere rara eccezione
dell'avo
(1).
due passi aiutano a intendere più precisamente terza e quarta dell'odicina oraziana.
che pascola tra querci ed
La
quella
;
Questi
ultimi
le strofe
vittima consacrata,
nevoso o cresce su non è una pecora, ma V hostia maxima, il bue. Solo di un bue si può àìve pontifìciim securis cervice tinguet, che né buoi né pontefici hanno nulla per
i
elei sull'Algido
prati dei colli Albani,
a che fare con
il
culto domestico dei Lari. Tutta la strofa
terza significa: « Nutrir mandrie di buoi conviene ai pon-
non a
tefici,
ma
blici,
te,
che non hai obbligo tenerti buoni
devi solo
strofa seguente,
te
i
di
pub-
sacrifici
Nella
tuoi Lari ».
multa caede biden-
nihil attinet temptare
tium, parvos coronantem marino rore deosque fragilique mìjrto,
alcuni interpreti intendono bidentium in generale di vit-
time adulte secondo
il
valore originario dell'espressione, (2), e non come pure solevano adoprare non eruditi e poeti. Quest'in-
noto ancora agli antiquari romani di quell'età
propriamente
di
quella parola
i
pecore, prosatori
terpretazione è erronea
Lari non e agnelli
sessore di lui
si ;
:
i
dai testi citati
si
ricava che ai
solevano sacrificare altre vittime che porci
l'offerta di
un
vitello indica per Tibullo
innumerevoli mandrie
il
pos-
di buoi, vale a dire, è
per
una singolarissima eccezione. Orazio non può quindi
parlar qui di altro bestiame che d'ovino, che sacrificare ai
sarebbe stata una stranezza. Il poeta inAi pontefici allevare armenti di buoi per i sa-
Lari buoi
tende
(1)
:
«
Forse solo iu un caso
po' maggiore. Cicerone
si
sacrificava
{de leg. II .55)
ai
Lari uua vittima
pare prescrivere
un.
al padre, di
famiglia di scannar montoni ai Lari per ribenedire la casa contami-
nata da nna morte (2)
Le
;
ma
il
passo non è chiarissimo.
loro disquisizioni intorno all'uso di questa jiarola
vano raccolte da Gellio (XVI
6);
il
si
tro-
capitoletto è messo a ruba dagli
autori delle compilazioni erudite posteriori.
— orifizi offerti
da
607
— popolo romano
essi per la salute del
che hai obblighi solo verso
te,
buon numero anche soltanto
i
di
;
tuoi Lari, scannare
pecore adulte
per
un
sarebbe
già troppo; basta un'agnella, e un'agnella sola».
Ogni particolare delle consuetudini ritratte si attaglia bene a contadini italici, quali veramente essi erano. E probabile che a lettori raffinati, che vivevano in città e non avevano molta pratica di usi rustici, questo carme facesse lo stesso effetto che a noi recci di
Giovanni Pascoli
voluttà
come
;
poemetti
certi
che anch'essi
rapire a volo e tufTare in
si
una
neppur sospettata, che tuttavia per virtù
ville-
sentissero con vita da loro
dell'
intuizione
destata in essi dal poeta riconoscevano reale. Pure que-
prende le mosse, li riprofondamente, è animato specchia fedelmente e li risente da un sentimento che, piuttosto che italico, è originariamente greco, pur convenendo bene a uomini che, senza sto carme,
il
quale da usi
italici
cessare di essere Romani, avevano accolto in sé lo rito
spi-
greco ed ellenistico di umanità.
La
religione
romana considera
le relazioni
con
gli dèi
alla stessa stregua che quelle tra uomo e uomo, come rapporti giuridici. Il iiis divinum, nettamente distinto dalin età storica, si è svolto parallelamente a esso, per opera della stessa magistratura a cui erano affidate anche le norme fondamentali di quello, affinchè con-
l'umano
sigliasse
nei
casi
dubbi,
i
Chi profferisce
pontefici.
un
voto, stipula un contratto, obbligandosi a dare un determinato oggetto al dio, (qualora questo a sua volta adempia certe condizioni. Stipula in certo il
magistrato
per
il
dola,
il
bene della s'
modo un
contratto
quale offre alla divinità la propria patria, sese devocet
impegna a procacciar
la
;
il
vita
nume, aceettan-
vittoria
al
popolo
ro-
mano. Del pari, il console, che, prima di dare l'assalto a una città assediata, evoca da essa gli dèi, garantisce loro-
culto pubblico in
Roma
608
in
-
contraccambio della loro riche fino allora essi
nunzia alla venerazione del popolo
avevano
protetto, nella città in cui
A
domicilio.
che un contratto
sentimento interno dei contraenti,
male
Livio
giuridico.
dell'atto
ma
(I
Numa, con
Un
stabilì
quali
importa non
il
la perfezione for-
20, 5)
stesso re che primo ordinò le istituzioni
e
avevano
fino allora
sia valido,
che
narra
umane
di
lo
Roma,
da quali magistrati e con quali vittime formule
dovessero essere onorati
una preghiera
voto è nullo,
infruttifera,
dèi»
gli
se
certe
parole non sono pronunziate in un ordine determinato e
accompagnate dai gesti prescritti, così come nel diritto romano la forma più antica del contratto, la stipulazione, non è valida, se non sono profferite le formule solenni, se non è eseguito dalle parti un piccolo mimo simbolico. La coscienza comune dei Romani non ha mai, pare, trasceso questo
concetto della religione, quanto chiaro,
altrettanto ristretto e utilitario.
Le
intenzioni^ la dispo-
animo, l'altezza morale di chi sacrifica o sup-
sizione di
non hanno valore alcuno per gli dèi di Roma. Un contemporaneo di Orazio, Tibullo, proibisce (li 1, 11 sgg.) di intervenire al sacrifìcio a chiunque non sia casto, perchè casta placent superis, ma la castità, checché asseriplica,
scano interpreti benevoli, è intesa q^ui in senso affatto poiché l'atto sessuale, comunque compiuto, materiale :
contamina, è escluso dal notte precedente concesse indossi abiti puliti o
non
si
rito le
colui a cui
sue gioie,
sia lavato
Venere
nella
non mani prima
al pari di chi
bene
le
di toccar l'ara. Il
culto
romano apprese
dalla civiltà greca a
sfog-
giare lusso. Nei tempi ultimi della Repubblica e ancor più
durante
l'
Impero
le
confraternite antiche,
non più paghe
delle hosfìae soUemnes prescritte dalla legge sacra del sodalizio,
che parevano meschine
non osando cambiare
alle
ricchezze aumentate,
gli statuti venerabili
per l'antichità
-
-
G09
consacrata dalla religione, aggiungevano a quelle tradizionali altre vittime,
non
ma Roma
neppure vietate
richieste
dal rituale, hostiae honorariae. In timi tempi della Repubblica
filosofi,
i
soltanto negli ul-
asserendo che la
di-
bada alle intenzioni e all'animo di chi offre, non numero delle vittime ne alla sontuosità del sacrificio, raccomandano semplicità anche nel culto. La religione non diviene di formale intima, se non assai lentamente,
vinità al
Impero. Altrimenti in Grecia, Polibio (VI 56, 6 sgg.) ammira la ÒEfjioxtixovia romana, perchè atta a ribadire nelle menti della plebe insieme con il timore de-
durante
l'
ma
tempo dà a divedere strano compiere trovavano greci contemporanei suoi
alla ragion di stato,
-che
i
leggi morali, e conforme quindi
r efficacia delle
gli dèi
nello stesso
con tanto scrupolo pratiche esterne;
Ò£tai5at[xov:a
già per
Greci della fine del quarto secolo indica superstizione bacchettona, e, come mostra un Carattere di Teofrasto, è coni
siderata difetto ridicolo.
popoli primitivi, avranno utilitario
come
i
come tutti modo cosi Omero applicano
Greci più antichi,
I
i
inteso la religione in
Romani. Gli
eroi di
senz'ambagi all'attitudine loro verso gli dèi il do ut des: Nestore dice chiaro nell' Iliade (1 497 sgg.) che questi,
come si
gli
uomini, perdonano qualunque
fallo,
quando
quantità sufficiente di incenso e vittime
plachi con
li
;
appunto quei versi movevano a sdegno Platone {Rep. 3G5 e). I Greci poterono romper presto le pastoie di questa concezione cosi bassamente commerciale, perchè essa non si era, come in Roma, cristallizzata nelle formule rigide di un sistema giuridico. Verso la fine del secoli dopo,
licro
4U IlAKUV ScHMiDT, '
i
lìcli(jionsge»ch.
39
Ver»,
i
testi
veteri'n it.
mi
iia
reso si-rvigii)
philonophi (iiiotmxìo
ì'onirl),,
IV
!).•
il
lavoro accurato
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