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Italian Pages 140 [133] Year 2016
S A GG I D I LE T T E R A TURA IT A L IAN A Da Dante per Pirandello a Orazio Costa LU C I LLA B O N A V I T A
nu o v i sa g g i · 118.
PI SA · RO M A FA BR IZIO SE R R A EDIT ORE MMXVI
NUOV I SA GGI * 1 1 8.
S A GG I D I LE T T E R A TURA IT A L IAN A Da Dante per Pirandello a Orazio Costa LU C I LLA B O N A V I T A
PI SA · RO M A FA BR IZIO SE R R A EDIT ORE MMXVI
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SOMMARIO Prefazione di Konrad Eisenbichler
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Introduzione 11 Esperienze poetiche eterodosse nel canto i del Paradiso 13 Entro e oltre il Mediterraneo. Aspetti multietnici nelle novelle di Boccaccio 19 Boccaccio e le novelle al femminile nelle cene di Anton Francesco Grazzini 25 Il meraviglioso medievale nelle novelle di Boccaccio: il paese di cuccagna 33 Ortensio Scammacca: la Rosalia tra religione e politica 39 L’Ortis foscoliano e gli echi della xxvi lettera di Julie ou la Nouvelle Héloïse 47 La Lucilla disingannata di Giovanni Perrone tra letteratura e religione 53 Molly e l’italicità 59 Da I vecchi e i giovani all’epistolario pirandelliano: sguardo immutabile tra storia nazionale e famigliare 67 Dal figlio al padre: i contributi di Stefano Pirandello all’opera paterna 73 La risonanza europea dei sei personaggi nell’esperienza della direzione artistica del teatro d’arte 79 Orazio Costa Giovangigli e Mario luzi: storia di un’amicizia 85 La trasformazione scenica della morfologia del poema: Rosales di Mario Luzi 93 La favola del figlio cambiato: la follia di Orazio Costa 101 La ricezione della devianza: il caso particolare de La favola del figlio cambiato nella regia di Orazio Costa Giovangigli 107 Il francescanesimo nella poesia di Orazio Costa 113 Deus et eros in Alda Merini: la linea orfica tra Spagnoletti e Pasolini 123 Oltre l’antilirismo: echi e suggestioni liriche nella poesia di Valentino Zeichen 129
PREFAZIONE
A
è bello spaziare e vedere cose nuove. E questo è ciò che il presente volume ci permette di fare sia nel tempo che nei luoghi, nella poesia che nel teatro, nella letteratura che nella critica. I diciassette saggi di Lucilla Bonavita, alcuni già apparsi in riviste e atti di congressi, altri finora inediti, qui riuniti aprono non una, ma molte finestre su un paesaggio letterario che spazia da Dante Alighieri a Valentino Zeichen, dalla Firenze medievale alla Roma contemporanea, dall’Empireo del Paradiso ad un capannone di periferia. Non ci sorprende, quindi, se il volume ci presenta un paesaggio critico ricco di nuove vedute e inaspettate prospettive. Forse per questo il volume si apre e si chiude in chiave di esilio e di eterodossia. Nel saggio introduttivo dedicato al primo canto del Paradiso dantesco Lucilla Bonavita mette il punto sul “sovversivismo” di Dante precisando che, sebbene un tale approccio potrebbe essere problematico perché «cercherebbe di applicare uno schema ideologico estraneo al contesto storico-filosofico-culturale che sostanziò la vita del poeta fiorentino» (p. 13), non è tuttavia da scartare. Ciò che segue è una lettura del canto che si rifà e allude ai grandi maestri della critica dantesca – da Auerbach a Petrocchi, da Hollander a Capelli –, per indicarci, poi, nuove vie d’interpretazione. Dopo aver sottolineato che l’uomo moderno, tutto immerso nell’immediatezza della propria specificità, non riesce a percepire, tanto meno comprendere o condividere «la preoccupazione ontologica [di Dante] di ricondurre ad unità i particolari della sua vita» (p. 13), Bonavita suggerisce che per Dante «la lezione di Beatrice sull’ordine del mondo ha un significato di una conquista gnoseologica» (p. 14). Ed è proprio questa che diventa l’elemento sovversivo della Comedia appunto perché «l’ortodossia gnoseologica e teologica dantesca trova il suo corrispondente nell’eterodossia dell’espressione poetica alla quale talvolta Dante giunge sforzando la struttura stessa della parola e coniando parole nuove» (p. 16). Queste forzature e neologismi rivelano che nel trinomio visione-memoria-parola – che fa sia da base che da filo conduttore a tutta la Comedia – è appunto la parola che viene a mancare. Se in principio erat verbum, nella Comedia questo verbum, è sempre presente e sempre, in qualche modo, assente o, detto altrimenti, mancante. La Comedia è, dopotutto, un viaggio alla ricerca di Dio. Solo la visione beatifica a cui Dante giungerà alla fine del suo lungo iter gnoseologico riuscirà a riempire il vuoto e dare senso alla parola che rimarrà, tuttavia, inespressa. Il sovversivismo linguistico di Dante, esule da Firenze, riappare nella poesia di Valentino Zeichen, esule da Fiume. Non tanto neologismi, questa volta, ma forzature strutturali e anti-lirismo che evidenziano «un concetto di poesia profondamente complesso che evita, elude ed esclude qualsiasi cedimento intimistico e sentimentalistico per diventare icona di un modo prosastico di intendere la poesia i cui versi si codificano secondo strutture libere da ogni legame metrico e i pensieri si condensano e coagulano in metafore che conferiscono alla poesia un tono altamente concettualistico» (p. 130). Considerato da molti «il maggiore poeta italiano vivente» (p. 127), Valentino Zeichen, «vive la sua ricerca in una dimensione isolata dal contesto culturale e in volte
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prefazione
contrapposizione ad esso» (p. 129). Poeta e pensatore fortemente influenzato dai surrealisti francesi (in particolare da André Breton e Jacques Prévert), Zeichen è poeta impegnato – come, infatti, lo era anche Dante. Mordente nella sua «riflessione ironica ed arguta», atroce nel suo nichilismo, Zeichen spezza le sue lance contro le ideologie collettive e il lirismo – ma non sempre. Nelle poesie che ricordano la madre, o l’esodo da Fiume, o la città natale si intravvedono dei momenti lirici che riportano Zeichen alla sua infanzia, «età perduta e per lui certamente non edenica» (p. 133). Se l’adulto in Zeichen è capace di negare il lirismo gettando uno sguardo surrealista e a volte anche nichilista sul mondo che lo circonda, il fanciullo in Zeichen non riesce a farlo e, nel ricordo della madre, della guerra, dell’esodo, della città natale lascia trapelare momenti, anche se solo momenti, di lirismo. Tra questi due poeti, entrambi esuli, entrambi acuti osservatori del mondo che li circonda, entrambi in cerca di «virtute e canoscenza» si schiera una variata gamma di scrittori italiani, chi più noto, chi meno (ma non per questo da ignorare) – Giovanni Boccaccio, Anton Francesco Grazzini, Ortensio Scamacca, Giovanni Perrone, Ugo Foscolo, Luigi Pirandello, Orazio Costa, Mario Luzi, Alda Merini. Non c’è, e non si può pretendere di trovare in questa collezione di saggi un filo conduttore unico perché non è questo lo scopo del volume; vi troviamo, invece, un florilegio da offrire al lettore collega, un dono ricco di profonde considerazioni su alcuni momenti della letteratura italiana. Le vaste e profonde conoscenze di Lucilla Bonavita, nonché l’energico individualismo delle sue interpretazioni (che non mancano, tuttavia, di accogliere le lezioni dei grandi maestri sia di oggi che di ieri), ci invitano a volgere uno sguardo nuovo su vari aspetti della letteratura italiana dal quattordicesimo al ventunesimo secolo. Con questo invito, che accogliamo entusiasticamente, il panorama si amplia, gli occhi ammirano, e l’intelletto si nutre di nuove visioni.
Konrad Eisenbichler, frsc, Comm. omri Professore di Letteratura Italiana Università di Toronto
INTRODUZIONE
I
saggi raccolti in questo volume sono stati composti e pubblicati lungo un arco temporale di quattro anni, insieme a scritti inediti pensati per completare la struttura del presente volume. Alcuni saggi, inoltre, in modo particolare quelli dedicati al rapporto tra Luigi Pirandello ed Orazio Costa, sono stati elaborati analizzando i documenti inediti conservati presso l’Archivio Costa di Firenze, per l’utilizzo del quale si ringrazia il Dott. Marco Giorgetti. Nel conferire un ordine agli studi che hanno origini ed occasionalità assai diversificate cronologicamente e toponomasticamente poiché alcuni sono frutto di interventi presentati in Convegni Internazionali europei ed extraeuropei, si è scelto di confezionare i saggi non per ordine temporale ma per autore. All’interno di queste pagine, vengono affrontati approfondimenti interpretativi di alcuni temi ritenuti di una certa importanza letteraria e degni di suscitare l’attenzione del lettore, esperto o semplicemente curioso. L’humus del panorama culturale preso in esame è rappresentato da alcuni tra i principali, e non solo, protagonisti della letteratura italiana. Il presente volume, pertanto, si pone e si propone come una silloge di saggi che approfondiscono alcuni temi di autori che inevitabilmente non potevano non avere il loro inizio se non da Dante Alighieri: un ampio excursus, dunque, che dal Padre della letteratura italiana giunge fino all’esponente più importante della poesia contemporanea che la critica militante individua come il maggior poeta vivente del panorama intellettuale del xxi secolo, Valentino Zeichen. Il ventaglio degli autori proposti spazia da Dante, Boccaccio, tocca il teatro sacro del ’600 con Ortensio Scammacca, affronta il rapporto tra Ugo Foscolo e la letteratura francese, la trattatistica ottocentesca, Pascoli, per giungere al genio della letteratura italiana a cavallo tra i secoli xix e xx rappresentato da Luigi Pirandello. Alcuni saggi sono dedicati al delicato processo delle transcodificazioni pirandelliane nel teatro di Orazio Costa Giovangigli, argomento al quale è stata dedicata una monografia 1 con pubblicazione di documenti inediti, che fu amico del poeta Mario Luzi, nonché poeta egli stesso. 2 Per rimanere lungo il versante poetico, un saggio è dedicato alla poetessa Alda Merini; la raccolta è conclusa, ma solo momentaneamente, da un saggio dedicato a Valentino Zeichen che pone in luce la presenza di insolite suggestioni liriche all’interno del suo conclamato antilirismo. Ringrazio il Prof. Rino Caputo che con ammirevole disponibilità segue l’iter dei miei studi ed ha permesso la pubblicazioni di questi saggi che tentano di tracciare nuovi percorsi all’interno della poetica di alcuni autori, diversi per generi e per problematiche.
1 Cfr. Lucilla Bonavita, Luigi Pirandello e Orazio Costa-Gli inediti dell’Archivio Costa nell’esperienza del Piccolo Teatro di Roma (1948-1954), Pisa-Roma, Serra, 2015. 2 Per il profilo poetico di Orazio Costa si confronti: Orazio Costa, Poesie, edite e inedite, con saggio critico e nota ai testi di Lucilla Bonavita, Pisa-Roma, Serra, 2015.
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introduzione Provenienza dei saggi
i: Esperienze poetiche eterodosse nel canto i del Paradiso in Ortodossia ed eterodossia in Dante Alighieri, Madrid, Ediciones de La Discreta, pp. 629-639. ii: Entro e oltre il Mediterraneo. Aspetti multietnici nelle novelle di Boccaccio, in Europe, Italy and the Mediterranean, New York, Bordighera Press, pp. 1-8. iii. Boccaccio e le novelle al femminile nelle Cene di Anton Francesco Grazzini. Inedito. Il saggio prende lo spunto da una comunicazione orale dell’autore, presentata al Convegno Internazionale Presente e futuro della lingua e letteratura italiana: problemi, metodi, ricerche, organizzato a Craiova nei giorni 18-18 settembre 2015 (si ringrazia la Prof.ssa Elena Pirvu che ha concesso il permesso alla pubblicazione). iv. Boccaccio e il meraviglioso nel paese di Cuccagna. Inedito. Relazione presentata al Convegno Internazionale di Erice 2015) (si ringrazia il Prof. A. Vitti che ha concesso il permesso alla pubblicazione). v. Ortensio Scammacca: “La Rosalia” tra religione e politica, in Mare Nostrum: prospettive di un dialogo tra alterità e mediterraneità, a cura di Antonio C. Vitti e Anthony Julian Tamburri, New York, Bordighera Press, 2015. vi. L’Ortis foscoliano e gli echi della xxvi lettera di Julie ou la Nouvelle Heloise. Inedito. Il saggio trae spunto da una comunicazione orale del Convegno mod La letteratura delle letterature, 12-14 giugno 2013 (si ringrazia il Prof. A. Morace che ha concesso il permesso alla pubblicazione). vii. La Lucilla disingannata di Giovanni Perrone tra Chiesa cattolica e società civile, in Letteratura e religione, Firenze, Cesati, 2015. viii. Molly e l’Italicità, «Sinestesieonline», ii, 5, 2013, pp. 1-8. ix. Dal figlio al padre: i contributi di Stefano Pirandello all’opera paterna, «Sinestesieonline», iii, 7, 2014, pp. 1-6 . x. Da I vecchi e i giovani all’epistolario pirandelliano: sguardo su un’Italia immutabile tra storia nazionale e famigliare, in Discorso, identità e cultura nella lingua e nella letteratura italiana, Craiova, Università di Craiova, 2013, pp. 46-53. xi. La risonanza europea dei Sei personaggi nell’esperienza della direzione artistica del teatro d’arte, Firenze, Logisma, 2014, pp. 237-246. xii. La trasformazione scenica della morfologia del poema: Rosales di Mario Luzi, «Sinestesieonline», i, 2, 2012, pp. 3-13. xiii. Il francescanesimo nella poesia di Orazio Costa, «Sinestesieonline», ii, 10, 2014, pp. 7-21. xiv. Orazio Costa Giovangigli e Mario Luzi: storia di una amicizia, in I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del xxi secolo, Roma, adi, 2013, pp. 1-7. xv. La ricezione della devianza: il caso particolare de La Favola del figlio cambiato nella regia di Orazio Costa Giovangigli, in La letteratura degli Italiani 4. I letterati e la scena. Atti del xvi Congresso Nazionale adi, Sassari-Alghero, 19-22 settembre 2012, Roma, adi, pp. 1-7. xvi. La favola del figlio cambiato: la follia di Orazio Costa, in Confini, Roma, Edicampus, 2012, pp. 335-341. xvii. Deus et eros in Alda Merini: la linea orfica tra Spagnoletti e Pasolini, in Discorso e cultura nella Lingua e nella Letteratura italiana, Firenze, Cesati, 2013, pp. 515-524 xviii. Oltre l’antilirismo: echi e suggestioni liriche nella poesia di Valentino Zeichen, in Viaggi, Itinerari, Flussi umani. Il mondo attraverso narrazioni, rappresentazioni e popoli, Roma, Nuova Cultura, 2014, pp. 117-125.
ESPERIENZE POETICHE ETERODOSSE NEL CANTO I DEL PARADISO
A
i fini della comprensione dell’Opera dantesca, la nozione di ‘sovversivismo’ non si presenta propriamente utile poiché si cercherebbe di applicare uno schema ideologico estraneo al contesto storico-filosofico-culturale che sostanziò la vita del poeta fiorentino. Di fronte alla norma letteraria del nostro tempo, però, sottomessa alla relatività e alla considerazione del testo poetico come manifestazione degli strati emozionali più oscuri della natura umana, appare un possibile aspetto eterodosso: la funzione del senso letterale veicolante la trasmissione di una realtà oggettiva e razionale. L’analiticità del senso letterale presente nel I canto del Paradiso, infatti, si presenta come mezzo di passaggio verso l’allegoria intesa come modo razionale di usare l’immaginazione, partendo dal presupposto teorico che la poesia ha una sua logica teorizzata da Giovan Battista Vico che per primo avrebbe avuto il merito di proporre una «logica poetica», 1 distinta da quella intellettuale, capace di considerare la poesia una forma di conoscenza autonoma rispetto alla filosofia e ponendo costantemente in dialogo le due linee interpretative di poesia come conoscenza che crocianamente ha sempre un’intonazione capace di ricondurre il particolare all’universale, il finito all’infinito, inverata sempre nella sua espressione linguistica. Il passaggio all’espressione linguistica si presenta come il risultato di un processo di chiarificazione interiore: «sentimenti ed impressioni passano, per virtù della parola, dalla oscura regione della psiche allo spirito contemplatore». 2 Le difficoltà che si pongono a livello di comprensione, possono essere ricondotte al modo di ragionare inconsueto per l’uomo d’oggi che vive d’immediatezza, che non avverte la preoccupazione ontologica di ricondurre ad unità i particolari della sua vita, infatti, secondo quanto affermato da Hans Urs von Balthasar, teologo e studioso di Dante:
Ci siamo abituati a leggere la realtà dal basso all’alto e non dal tutto alla parte. Il nostro occhio ormai […] è adatto al quantitativo, allo sbriciolamento operato dalla divisione: siamo divenuti analisti del mondo e non siamo più in grado di cogliere la totalità. 3
Analizziamo, pertanto, la realtà, ma non ci domandiamo più quale sia la nostra ragione di essere nel mondo, quale sia il significato della nostra vita e di tutto il reale. È quanto, invece, Beatrice, di fronte al dubbio di Dante, manifesta al Poeta; la grande lezione è il primo rivelarsi della verità del mondo, che è un ‘cosmos’, un universo ordinato: «Le cose tutte quante / hanno ordine tra loro, e questo è forma / che l’universo a Dio fa simigliante» (vv. 103-105). 4
1 G. Vico, La Scienza Nuova, in Letteratura italiana, a cura di Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1993, p. 171. 2 Cfr. B. Croce, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Bari, Laterza, 1942, pp. 11-12. 3 H. U. von Balthasar, Gloria, in La percezione della forma, Milano, Jaca Book,1975, p. 16. 4 Per questa citazione e le successive relative alla cantica del Paradiso, confronta: D. Alighieri, La Divina Commedia, a cura di Natalino Sapegno, vol. iii, Firenze, La Nuova Italia, 1957.
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saggi di letteratura italiana
Il mondo, allora, è un ‘cosmos’, un universo ordinato e l’ordine è una forma dell’universo che lo rende simile a Dio, a quel Dio che lo ha creato e che è anche il fine per cui è stato creato. Anticipata nei versi iniziali: La gloria di colui che tutto move / per l’universo penetra e risplende / in una parte più e meno altrove (vv. 1-3).
Questa suprema verità che fonda la coscienza reale del Poeta viene ribadita in tutta la cantica: l’universo è gloria di Dio e Dio risplende in tutte le cose, nel loro ordine mirabile, nella specifica finalità assegnata ad ognuna, con la stessa naturalezza con cui in cielo risplendono le stelle, sia che gli occhi dell’uomo purificati dal peccato, le possano vedere, sia che ottenebrati dal peccato come quelli di Dante nella «selva oscura», non le scorgano più. Se nel nostro sistema gnoseologico, l’ordine come elemento formale dell’universo è un concetto astratto, fatto che per noi costituisce un elemento eterodosso, per Dante non lo è. Dante, ammirato, gioisce dell’ordine del creato intorno a sé e delle anime che, pentite, ritornano alla volontà di Colui che le ha create. 1 L’antropologia dantesca si sostanzia, allora, delle parole di sant’Agostino: «Ci hai fatto per Te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finchè non trova pace in Te». 2 In un saggio sul Paradiso, Umberto Cosmo così afferma:
Gli uomini volgari rimangono sotto l’impressione del fatto solitario e maledicono e disperano; il sapiente si eleva dal fatto contingente all’universalità da cui i fatti dipendono e nella quale si ordinano. E in codesto elevarsi ritrova la forza e la tranquillità dello spirito. 3
La lezione di Beatrice sull’ordine del mondo ha un significato di una conquista gnoseologica per Dante: tutte le cose sono subordinate a Dio secondo la Sua intelligenza creatrice, in tal modo egli supera l’orientamento culturale delle opere minori, infatti, influenzato dall’aristotelismo, Dante aveva tentato di stabilire una distinzione tra ordine della ragione e quello della fede, tra quello della natura e quello soprannaturale. 4 Il dualismo, però, viene superato, «perché al pellegrino si rivela l’unità del reale, l’unica ragione per cui esistono le cose, l’unico ordine del mondo, retto dalla divina provvidenza. La prospettiva unitaria è presente fin dai primi versi del canto ed è ribadita quando egli parla del movimento rotatorio dei cieli che deriva dall’amore di Dio per il creato e dall’amore del creato per Dio», 5 secondo quanto sostenuto da Valeria Capelli. Tutte le creature, dunque, che in diverse condizioni «si muovono a diversi porti»6 (v. 112), cioè verso differenti fini, secondo un istinto di cui le ha dotate il Creatore per giungere al loro fine, sono disposte «per lo gran mar dell’essere»7 (v. 113) È lo stesso
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Cfr. V. Capelli, Letture dantesche, Torino, Marietti, 1820, p. 225. Sant’Agostino, Le Confessioni, Roma, Città Nuova, 1965, p. 5. 3 U. Cosmo, L’ultima ascesa, Firenze, La Nuova Italia, 1965, p. 21 e già in V. Capelli, op. cit., p. 225 4 Su questo aspetto, sono utili gli studi condotti da Étienne Gilson nel fondamentale Dante e la filosofia [1939, 1953], Milano, Jaca Book, 1985. Quando nella Monarchia, osserva Gilson, si parla di «due fini ultimi» (duo ultima), l’uno terreno, l’altro soprannaturale, si è senz’altro al di fuori del tomismo. Per il dottore angelico, infatti, vi è un solo fine ultimo, ed è vedere Dio, in cui solo può riposare l’infinito desiderio del cuore umano. Dante, invece, ha operato un netto separatismo di natura e soprannatura. Cfr. anche V. Capelli, 5 op. cit., pp. 225-226. V. Capelli, op, cit, p. 226. 6 D. Alighieri, La divina commedia, Paradiso, vol. iii, a cura di Natalino Sapegno, Firenze, La nuova Italia, 7 1957, p. 16. Ibidem. 2
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istinto che conduce il fuoco verso l’alto, è l’istinto che regola le funzioni vitali degli animali, è l’istinto che tiene unita e compatta la terra. Il punto più elevato di questa realtà ordinata costituita è rappresentato dalle creature «c’hanno intelletto e amore» 1 (v. 120), a cui Dio ha dato come fine direttamente se stesso; pertanto all’Empireo «come a sito decreto, / cen porta la virtù di quella corda / che, ciò che scocca, drizza in segno lieto» 2 (vv. 124-126). La tensione dell’aspetto gnoseologico della poesia che crocianamente ha la capacità di ricondurre il particolare all’universale, il finito all’infinito è intimamente legato al concetto di poesia come espressione linguistica. Nei versi suddetti, infatti, Dante effettua il miracolo di trasformare in poesia una materia difficile, talvolta anche indicibile attraverso l’uso di un sistema metaforico complesso. Secondo quanto affermato da Giorgio Petrocchi nel libro L’inferno di Dante, «oggi si tende a valutare la Commedia soltanto come fictio poetica […]: poema letterario, dunque, sebbene d’argomento mistico, non resoconto di un vero raptus mistico». 3 La dimensione ultraterrena ha una sua veridicità che il poeta ricostruisce liberamente attraverso un profondo sistema metaforico attraverso il quale sono rese le realtà spirituali, soprannaturali presenti nella Commedia, intesa come un itinerarium che prevede la loro tangibilità. 4 Similitudine e metafora permettono di rappresentare ciò che non appartiene all’esperienza sensibile, il mondo delle anime dopo la morte e il contatto con esso. In ogni modo il plasticismo dantesco è legato anche all’intuizione che la dimensione corporale non è affatto annullata nell’escatologia: le anime attendono di ricongiungersi ai loro corpi al momento del Giudizio universale e nel frattempo vengono dotate di un corpo vicario fatto d’aria; per quanto riguarda Dante, egli compie con il corpo anche l’ultima ascesa, lungo il terzo regno. 5 Dante, infatti, secondo l’interpretazione figurale di Erich Auerbach che supera le interpretazioni romantico-idealistiche di De Santis, Croce e Momigliano, ribalta il rapporto fra il mondo terreno e l’aldilà così come era concepito dalla poesia antica: mentre per i classici l’oltremondo è solo un’ombra sbiadita della vita vera, che è quella terrena, il poema dantesco individua nell’escatologia il compimento e la pienezza di quanto sulla terra è iniziato, ma non ancora giunto a perfezione. 6 La terza cantica è dominata, in particolare, dalla consapevolezza che l’intelletto, impedito a ricorrere a quelle risorse stilistiche invocate per il basso Inferno, non può produrre impressioni o modi di essere superiori alla normale condizione o esperienza; i segni linguistici applicati ai fatti e processi del mondo puramente spirituale, tema dell’ultima cantica, sono insufficienti ad esprimere l’intima essenza e rappresentano un modo di conoscenza-espressione puramente analogico. Fra la tensione verso gli abissi divini e i limiti della fantasia e della memoria, la soluzione dantesca fu quella di forzare al massimo le risorse analogiche del linguaggio attraverso il potenziamento
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2 Ibidem. Ivi, pp. 16-17. G. Petrocchi, L’inferno di Dante, Milano, Rizzoli, 1978. 4 Risultano fondamentali a proposito i contributi presenti in G. Barberi Squarotti, L’arteficio dell’eternità, Verona, Fiorini, 1972; L’ombra di Argo, Torino, Genesi, 1986. 5 Riguardo alla corporeità, utili sono le riflessioni di R. Guardini, Studi su Dante [1951- 1958], Brescia, Morcelliana, 1967. 6 E. Auerbach, Dante poeta del mondo terreno [1929], traduzione italiana in Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 1963, pp. 3-161. 3
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saggi di letteratura italiana
delle comparazioni e delle metafore. La scesa di Dante nei cieli si configura essenzialmente come un racconto, consapevolmente inadeguato, dell’inebriante conquista della verità ultima dell’universo, nella sua struttura metafisica e nel suo ordinamento etico-religioso, verità che è luce dell’intelligenza in quanto compartecipazione della gloria divina, come afferma il solenne esordio della cantica. Il concetto aristotelico-tomista del Dio motore immobile viene trasvalutato in poesia sul piano che è proprio della creazione artistica, ossia al livello del linguaggio espressivo, dello stile. L’ortodossia gnoseologica e teologica dantesca trova il suo corrispondente nella eterodossia dell’espressione poetica alla quale talvolta Dante giunge forzando la struttura stessa della parola e coniando parole nuove. La indicibilità e l’inesprimibilità della realtà sovrumana della quale Dante fa esperienza fa nascere in lui l’esigenza di creare nuovi vocaboli: da qui singolari neologismi formati da verbi più alcuni prefissi sparsi in tutti i canti del Paradiso e presenti nel I canto nell’hàpax legòmenon «trasumanar», testimonianza dell’arditezza dantesca nel forzare i limiti stessi della lingua del suo tempo. I neologismi danteschi sono rimasti legati alla fortuna stessa della Commedia e non sono entrati nella lingua comune anche se ci sono state di volta in volta delle riprese letterarie: Gozzano usa «inmillarsi» al verso 12 de L’amica di nonna speranza e Pasolini intitola una sua raccolta di poesie Trasumanar e organizzar. L’intimo mutamento dell’eterodosso «trasumanar» eccede ogni possibile confronto umanamente esperibile, per cui il poeta ricorre alla memoria mitologica, all’exemplum letterario: Nel suo aspetto dentro mi fei, qual si fe’ Glauco nel gustar de l’erba che il fe’ consorto in mar de li altri dei. (vv. 67-69) 1
Questo registro densamente immaginoso e metaforico abbraccia tutta la descrizione dell’ascesa in cielo attraverso la sfera del fuoco e culmina nel primo approccio con l’armonia delle sfere celesti e con la sovrabbondante effusione di luce: Quando la rota che tu sempiterni desiderato, a sé mi fece atteso con l’armonia che temperi e discerni, parvemi tanto allor del ciel acceso de la fiamma del sol, che pioggia o fiume lago non fece alcun tanto disteso. (vv. 76-81) 2
Il poeta però non avrebbe potuto mantenere troppo a lungo questi moduli estetici nell’ambito di uno schema sostanzialmente descrittivo caratterizzato dalla visione e dal dilatarsi dello spazio e della luce – schema che richiedeva fondamentalmente una raffinata capacità sensitiva basata sulla percezione delle armonie celesti. La complessa psicologia del poeta medievale interviene proprio a questo punto poiché non può prescindere dall’esigenza intellettuale della sua cultura e della sua stessa fede: quel razionalismo non dissociato dalla concretezza dell’esperienza, ‘nihil est in 1 D. Alighieri, La divina commedia, cit., p. 11. Ovidio narra (Metamorfosi, xiii, vv. 898-968) che Glauco, mitico pescatore della Beozia, avendo visto che i pesci pescati, dopo aver mangiato una certa erba, tornava2 no vivi, volle assaggiarla e si trasformò in una divinità marina. Ivi, pp. 12-13.
esperienze poetiche eterodosse nel canto i del paradiso
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intellectu quod prius non fuerit in sensu’, ma curioso della ragion d’essere dei fenomeni: La novità del suono e ’l grande lume di lor cagion m’accesero un desio mai non sentito di cotanto acume. (vv. 82-84) 1
Alla base dei moduli più dialettici del linguaggio paradisiaco, esemplati dall’ampio discorso di Beatrice nella seconda parte del canto, vi è la radice etico-religiosa. Si tratta indubbiamente di una tonalità meno corposa e sensuosa, alimentata dalla cultura teologica e impastata spesso di stilemi gergali (accline, forma, principio, permotore, vero è, se bene stimo, toccata norma…); ma non si potrebbe prescindere da questa sorprendente sperimentazione stilistica del tutto eterodossa nell’arte del xiii secolo, senza recidere il Paradiso della sua linfa più vitale. Dante però rimane sempre fedele alla sua poetica incardinata sul trinomio visione-memoria-parola, che ritornerà spesso nei momenti più ardui dell’impegno narrativo, come nell’esordio: O divina virtù, se mi ti presti tanto che l’ombra del beato regno segnata nel mio capo io manifesti. (vv. 22-24) 2
Alla fine del viaggio, il poeta può richiamarsi alla visione elargita a lui come ‘agens’ dell’esperienza mistica; ma egli non saprà né potrà esprimerla nei suoi versi per l’impossibilità della memoria di tener dietro all’estasi spirituale. Ancora nelle terzine seguenti: Veramente quant’io del regno santo ne la mia mente potei far tesoro, sarà ora materia del mio canto. (vv. 10-12) 3
visione - ‘regno santo’, memoria - ‘mente’, parola - ‘canto’ tornano a ribadire il presupposto della poetica, i pilastri che sostengono la grande cattedrale. La rigorosa razionalità della costruzione letteraria dantesca rappresenta la maggiore difficoltà per il lettore di oggi: Dante, infatti, si rivolge all’intelletto del lettore e lo spinge verso un percorso evolutivo delle sue facoltà gnoseologiche, in un processo che lo porta dalle tenebre alla luce divina. Secondo questa prospettiva, gli elementi letterari e linguistici, come il lessema ‘foco’, che costituiscono la struttura reticolare del testo, sono in essi disseminati per raggiungere e conferire un livello di significazione unitario poiché estensibile a tutto l’intero canto. Molti, infatti, sono i versi nei quali appare il fuoco come elemento naturale: «il ferro che bogliente esce dal foco» 4 v. 60; «questi me porta il foco inver la luna» 5 v. 115; «e sì come veder si può cadere / foco di nube» 6 vv. 133-134 ed infine «Maraviglia sarebbe in te se, privo / d’impedimento, giù ti fossi assiso, / com’a terra quïete in foco vivo», 7 vv. 139-141. All’interno della texture testuale, il termine ‘foco’ crea una allegoria analitica attraverso la quale Dante propone un esercizio razionale passando dal sensibile all’intellet1
Ivi, p. 13. Ivi, p. 10. 6 Ivi, p. 17. 4
2
Ivi, p. 6.
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Ivi, pp. 4-5. Ivi, p. 16. 7 Ivi, p. 17-18. 5
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saggi di letteratura italiana
tuale: questi elementi minori che appaiono scomposti all’interno del testo, trovano la loro significazione in quanto si inseriscono all’interno del canto della Sfera del Fuoco e solo in questa dimensione trovano una loro definitiva collocazione, ma il fenomeno naturale diventa anche spiegazione di un fenomeno spirituale, quello del Fuoco-Carità, la virtù teologale che irradia e sostanzia di sé tutta la terza cantica e che poi diventerà fuoco ardente catartico in molti poeti della letteratura italiana. Bibliografia Sant’agostino, Le Confessioni, Roma, Città Nuova, 1965. D. Alighieri, La Divina Commedia, vol. iii, Paradiso, a cura di Natalino Sapegno, Firenze, La Nuova Italia, 1957. E. Auerbach, Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 1963. H. U. von Balthasar, La percezione della forma, Milano, Jaca Book, 1975. G. Barberi Squarotti, L’arteficio dell’eternità, Verona, Fiorini,1972. G. Barberi Squarotti, L’ombra di Argo, Torino, Genesi, 1986. V. Capelli, Letture dantesche, Torino, Marietti, 2006. R. Caputo, Il pane orzato, Roma, Euroma, 2003. U. Cosmo, L’ultima ascesa, Firenze, La Nuova Italia, 1965. G. Getto, Poesia e Teologia nel “Paradiso” di Dante, in Aspetti della poesia di Dante, Firenze, Sansoni, 1996. R. Guardini, Studi su Dante [1951-1958], Brescia, Morcelliana, 1967. R. Hollander, Allegory in Dante’s “Commedia”, Princeton, Princeton University Press, 1969. E. Paratore, Il canto I del Paradiso, «Nuove letture dantesche», v, Firenze, 1972. E. Pasquini, Dante e le figure del vero, Milano, Mondadori, 2001. G. Petrocchi, L’inferno di Dante, Milano, Rizzoli, 1978.
ENTRO E OLTRE IL MEDITERRANEO. ASPETTI MULTIETNICI NELLE NOVELLE DI BOCCACCIO
I
l Decameron, capolavoro letterario del Medioevo letterario italiano, presenta elementi di notevole interesse etnico: la Sicilia, terra di scambi e relazioni tra popoli di etnia diversa, infatti, è il luogo nel quale sono ambientate alcune novelle siciliane. Complessivamente si tratta di circa sette novelle se non si considera, secondo l’analisi condotta da Cesare Segre, la seconda novella della quinta giornata che è ambientata a Lipari, ritenuta già da Boccaccio un’isola indipendente. Tra le novelle siciliane, tre, in particolare la sesta novella della seconda giornata, la decima dell’ottava giornata e la settima della decima giornata, trattano di alcuni argomenti tipici del Decameron, quali la fortuna, mentre le rimanenti, la quinta della quarta giornata, la sesta della quinta giornata, la quarta della quarta giornata e la settima della quinta giornata, sono consacrate al tema erotico. Nell’economia del nostro studio, le novelle sesta della quinta giornata, decima dell’ottava giornata e settima della decina giornata, si presentano ricche di aspetti multietnici che inseriscono il Decameron entro ed oltre i confini del Mediterraneo. Nella «quinta giornata: sotto il reggimento di Fiammetta, si ragiona di ciò che ad alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse». 1 La sesta novella della quinta giornata, narra che nell’isola di Ischia viveva Marin Bòlgaro con la sua bellissima figlia Restituta. Gianni, abitante di Procida, andava tutti i giorni a Ischia persino a nuoto pur di vederla. Un giorno però ella venne rapita da un gruppo di ragazzi che la portarono al re Federigo d’Aragona che la chiuse nel palazzo arabo-normanno che ha nome Cuba. Sulle tracce della donna amata, Gianni arrivò a Palermo e intravide Restituta dietro una finestra del palazzo. Durante la notte Federigo scoprì i due amanti addormentati e ordinò che fossero legati ed esposti nudi sulla pubblica piazza, prima di essere arsi vivi. Grazie alla testimonianza dell’ammiraglio Ruggeri di Lauria, i due giovani furono perdonati, perché identificati come il nipote di Gian di Procida, un partigiano degli Aragonesi e uno dei capi della rivolta dei Vespri del 1282 e come la figlia del famoso Marin Bòlgaro. L’amore tra Gianni e Restituta segue i canoni della tradizione cortese appagandosi della vista della persona amata ed è messo subito a rischio dalla Fortuna che interviene per stravolgere i piani umani: alcuni marinai siciliani, infatti, capitano ad Ischia e rapiscono Restituta, consegnandola al re Federico II. Il potere del sovrano è significativamente rappresentato da due luoghi: il castello della Cuba nel quale è tenuta prigioniera Restituita e la piazza di Palermo in cui i due amanti sono esposti alla folla in attesa di essere arsi sul rogo. La Cuba, il cui nome deriva dall’arabo qùbbah che significa “cupola”, è l’ultimo monumento creato dai Normanni a Palermo che fu già capitale dell’emirato Kalbita
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G. Boccaccio, Decameron, vol. i, a cura di Vittore Branca, Milano, Mondadori, 2012, p. 419.
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saggi di letteratura italiana
e del regno normanno e, insieme a La Zisa, costituisce l’edificio che più rappresenta l’architettura fatimita in Sicilia. Nel 1180 l’edificio fu fatto costruire da Guglielmo II che si avvalse di architetti arabi. Nel luogo in cui sorse la Cuba vi era un grande parco chiamato Genoardo, parola che deriva dall’arabo giànnatulàrd, cioè il “paradiso della terra” perché ricco di acque e di magnifici giardini, il luogo dove Federico II ordinò che Restituita «fosse messa in certe case bellissime d’un suo giardino» 1 il quale si chiamava Cuba. La costruzione era ad un solo piano, diviso in tre parti, ma priva, a differenza da quanto sostenuto da Boccaccio, di appartamenti privati. Era circondata da un grande padiglione dove il re soggiornava nelle ore diurne, assisteva a feste e cerimonie, si riposava e si rinfrescava durante le ore più afose della giornata. L’edificio, esternamente si presenta in forma rettangolare, lungo 31,15 metri e largo 16,80. Al centro di ogni lato sporgono quattro corpi a forma di torre e i muri esterni sono ornati con archi ogivali. Nella parte inferiore si aprono alcune finestre separate da pilastrini in muratura: lo spessore dei muri e l’esiguità delle finestre offrivano in tal modo maggiore resistenza al calore del sole. Inoltre, si ritiene che la maggiore superficie di finestre aperte fosse sul lato nord-orientale, perché meglio disposta ad accogliere i venti freschi provenienti dal mare. L’interno della Cuba era diviso in tre ambienti allineati e comunicanti tra loro. Al centro dell’ambiente interno, un impluvio a forma di stella a otto punte serviva come bacino di raccolta delle acque piovane. Muqarnas (stalattiti delle quali oggi ne rimane solo una) abbellivano la sala centrale; vi erano quattro colonne e le stanze laterali erano adibite a luoghi di servizio e come corpo di guardia. Lo splendore della Cuba e del suo parco, dopo la dominazione normanna, si spense: gli Angioini infierirono sugli alberi e sulle vigne che erano stati coltivati con tanta cura e così La Cuba cadde in un oblio dal quale la liberò solo la mirabile penna di Giovanni Boccaccio. Durante la peste del 1575-1576, La Cuba fu trasformata in Lazzaretto; il governo borbonico successivamente vi insidiò la cavalleria e nel 1680 tutta l’area militare e La Cuba divennero proprietà dello Stato Italiano. Recentemente La Cuba è stata ceduta alla Regione Siciliana che l’ha restituita al suo antico splendore. La decima novella della ottava giornata è ambientata a Palermo, nella zona del porto e narra di una bellissima siciliana, madama Iancofiore, che beffa rubando i guadagni ad un mercante fiorentino, ma poi è da questi ripagata con la stessa moneta e viene alleggerita di una somma ancora maggiore. Come nella novella precedente, l’elemento arabo è fortemente inserito nel tessuto narrativo della novella: il primo incontro galante tra Iancofiore e il mercante avviene in un Bagno Pubblico, molto simile ad un hammam, luogo di una raffinatezza incredibile. A Palermo giunge Salabaetto da Firenze per vendere dei pannilani che gli sono avanzati alla fiera di Salerno e la città di Palermo si delinea così per Salabaetto, quasi come la città divoratrice che rivela un lusso di ascendenza orientale: Madonna Iancofiore fa preparare nel bagno pubblico in cui incontra Salabaetto «un paio di lenzuola sottilissime listate di seta»,2 «una coltre di bucherame cipriana bianchissima con due origlieri lavorati a meraviglie», 3 «oricanni d’ariento bellissimi e pieni qual d’acqua rosa, qual d’acqua di fior d’aranci, 1
Ivi, p. 467.
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Ivi, p. 726.
3
Ivi, p. 727.
aspetti multietnici nelle novelle di boccaccio
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qual d’acqua di fior di gelsomino e qual d’acqua nanfa». 1 Questo sontuoso bagno, protagonista nella scena di seduzione del mercante toscano, era il più famoso di Palermo, si chiamava “bagno d’oro” e si trovava in Via Marmorea, oggi Corso Vittorio Emanuele. 2 Aperto da un potente eunuco musulmano della corte di Guglielmo, godeva di tutte le raffinatezze tecniche della tradizione igienica musulmana. «Finisce la terza giornata del Decameron: incomincia la quarta, nella quale, sotto il reggimento di Filostrato, si ragiona di coloro li cui amori ebbero infelice fine». 3 Dagli influssi dell’arte e del folklore arabo, nella quarta novella della quarta giornata e nella settima della quinta giornata, gli elementi multietnici si individuano nei rapporti commerciali che intercorrono con Tunisi e con l’Oriente. Alla base delle vicende della quarta novella della quarta giornata che affronta il tema cortese dell’amore per fama, vi sono, infatti, i rapporti che, sempre durante il regno di Guglielmo II, la Sicilia intrattiene con Tunisi, fatti di grande attualità al tempo di Boccaccio, in cui i commerci fra i porti siciliani e quelli tunisini sono assai fiorenti nonostante le azioni di pirateria. 4 Perciò il re di Tunisi chiede motivatamente a Guglielmo II la garanzia che la nave sulla quale è imbarcata sua figlia, indicata sempre come «la figliola del re di Tunisi» 5 e non con il suo nome come se fosse un oggetto di scambio, possa liberamente attraversare il mare. Gerbino, inoltre, le fa conoscere il proprio amore per mezzo di un suo amico che le fa vedere gioielli «come i mercanti fanno».6 I due protagonisti rispecchiano i principi del mondo cortese: Gerbino, oltre ad essere bellissimo, è «famoso in prodezza e in cortesia» 7 la figlia del re di Tunisi è «una delle più belle creature che mai dalla natura fosse stata formata, e la più costumata e con nobile e grande animo». 8 La donna però si innamora di Gerbino grazie al potere della parola di lui, potere nel quale si manifesta la virtù, tutta borghese, dell’uomo, ma la logica delle alleanze e dei giochi di potere e il codice cavalleresco, valgono più dei sentimenti e degli esseri umani: infatti, il padre manda in sposa la figlia al re di Granata, considerandola come mezzo di un’alleanza politico-economica; i marinai saraceni, dopo aver dichiarato che non avrebbero dato nessuna «cosa che sopra la nave fosse», 9 senza considerare che si tratta della figlia del re, la uccidono e la gettono in mare, dicendo a Gerbino: «Togli, noi la ti diamo qual noi possiamo». 10 In nome della logica economica, trova giustificazione la conclusione della novella: re Guglielmo, per onorare l’accordo stretto con il re di Tunisi, il quale si mostra addolorato più per l’inosservanza dei patti che per la morte della figlia del re di Tunisi, uccide personalmente il nipote Gerbino. Dal punto di vista strettamente economico-politico, le tre città di Palermo, Messina, Trapani occupano un posto di rilievo nella novella. Palermo è la capitale, Messina è la base navale militare del regno ed è proprio a Messina che Gerbino si dirige per armare due galee, Trapani è il porto commerciale, la città più protesa verso Tunisi,
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Ivi, pp. 726-727. Cfr. L. Sciascia, Per una storia di Palermo nel Duecento (e dei toscani in Sicilia): la famiglia di Ruggero Mastrangelo, in Come l’oro della fiaba, Firenze, Sismel-Ed. del Galluzzo, 2010. 3 G. Boccaccio, op. cit., p. 327. 4 Cfr. C. Trasselli, Privilegi di Messina e Trapani, Messina, Intilla, 1992. 5 6 Ivi, p. 369. Ibidem. 7 8 G. Boccaccio, op. cit., p. 368. Ivi, p. 369. 9 10 Ivi, p. 372. Ivi, p. 372. 2
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quasi a costituirne un ponte. Per questo motivo Gerbino fa seppellire la bella figlia del re di Tunisi nell’isoletta di fronte Trapani, che non è identificabile con Ustica come erroneamente sostiene Boccaccio sulla base di quanto affermato dall’arabo Idrisi nel suo Libro di Ruggero, ma molto probabilmente, Favignana. Avvolta dal mito e dalla storia, la città di Trapani continuò per tutto il Medioevo ad essere presente nei momenti storici più importanti: fu attiva nella cacciata degli Angioini durante i Vespri, anzi fu la prima città dell’Isola ad accettare Pietro d’Aragona e nelle acque di Trapani gli Angioini furono sconfitti nel 1284. I successivi tentativi della casa d’Angiò di impadronirsi della città fallirono miseramente, sia nel 1314 con Roberto d’Angiò che assediò per più di un anno la città per mare e per terra, sia nel 1432, anno nel quale Luigi d’Angiò tentò un nuovo assedio. Ritorniamo alla quinta giornata. Nella settima novella «Teodoro, innamorato della Violante, figliuola di messere Amerigo suo signore, la ’ngravida ed è alle forche condannato; alle quali frustandosi essendo menato, dal padre riconosciuto e prosciolto, prende per moglie Violante». 1 La settima novella della quinta giornata e la sesta della stessa giornata, dimostrano la continuità tra passato e presente, l’uguaglianza fra nobili e borghesi sul piano delle capacità naturali. Teodoro e Violante sono, infatti, condannati a morte come Gianni di Procida e Restituita; il riconoscimento ha un grande rilievo in tutte e due le novelle che evocano due storie d’amore della tradizione classica. La separazione dal gruppo da parte di Teodoro e Violante a causa di un temporale può richiamare a Didone ed Enea (Eneide, iv, 165-169), mentre il percorso a nuoto che Gianni compie per vedere almeno le mura della casa di Restituita può essere un riflesso di Ero e Leandro, tramandata da Ovidio. Anche in questa novella, come nella settima della quinta giornata e nella quinta della seconda giornata, la potenza motrice è l’amore, grazie alla quale Violante si innamora di Teodoro, un ragazzo che svolge le mansioni di servo. Tra i due, però Violante dimostra uno spiccato ingegno a tal punto da inventare una storia per giustificare la nascita del figlio mentre Teodoro vorrebbe fuggire al timore che la sua relazione possa essere scoperta. Il servo Teodoro si dimostra inferiore anche a Giovanni di Procida che, invece, fa armare una fregata ed affronta pericoli pur di ritrovare Restituta. L’atteggiamento dei nobili viene poi stigmatizzato: Amerigo, pronto a far uccidere la figlia e Teodoro ed acconsentire alle nozze solo quando vengono svelate le origini nobili di Teodoro, si rivela più legato alle convenzioni sociali che agli affetti. Di grande interesse è la realtà economico-politica che la novella delinea: l’acquisto da parte di Amerigo del servo Teodoro da corsari genovesi, i quali con le loro galee hanno rapito dall’Armenia vari fanciulli, testimonia gli intensi traffici commerciali del Mediterraneo in cui è coinvolta Trapani, in perfetto accordo con i genovesi, secondo l’orientamento politico inaugurato dal re Guglielmo II d’Altavilla. Boccaccio, in modo particolare, precisa che i corsari si recano nella zona di Laiazzo, località nella quale si trasferiscono Teodoro e Violante, a voler dimostrare il legame di Trapani con questa città, «emporio all’incrocio delle vie della Siria e dell’Egitto, della
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Ivi, p. 473.
aspetti multietnici nelle novelle di boccaccio
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Persia e dell’Armenia». 1 Se la ricchezza di Trapani non è dovuta solo al commercio ma anche alla terra, come provano i possedimenti di Amerigo, le relazioni positive con l’Oriente sono ulteriormente attestate dal fatto che tre ambasciatori armeni, per spezzare la lunghezza del viaggio, si fermano a Trapani per una sosta prima di riprendere il cammino per incontrare il Papa, informati anche della buona ospitalità che la città forniva agli stranieri. Trapani rappresenta anche il luogo del riconoscimento e del ritrovamento: i tre ambasciatori son arrivati lì per caso e il caso gioca sempre un ruolo importante nelle vicende umane e richiamati dalle grida della folla che seguiva il povero Teodoro battezzato da Amerigo con il nome di Pietro, si affacciarono e uno di essi, uomo di grande autorità, notò sul petto di Pietro una grande voglia rossa, come quella del figlio che era stato rapito anni prima dai corsari. Gridò istintivamente il nome di Teodoro e gli rivolse delle parole in lingua armena; la risposta del giovane nella stessa lingua fu la conferma che Pietro era suo figlio Teodoro. In un noto saggio giovanile del 1929, Auerbach considerava che nel Medioevo il genere novellistico non poteva affermarsi, se è vero che esso coglie spunto dalla realtà immanente che nell’Alto Medioevo non era stata considerata degna di attenzione. 2 Giovanni Boccaccio, da questo punto di vista, si colloca fuori dal Medioevo perché sa guardare alla realtà sensibile, ne sa cogliere accidentalità e contraddizioni, trasferendo la casualità degli eventi in una società ideale, dove le donne si presentano con una nuova immagine che sta alla pari con quella dell’uomo. In questo modo l’autore, con la cornice che contiene le cento novelle del Decameron, contrappone al caos e alla dissoluzione prodotti dalla peste del 1348 una società ideale, dove la cortesia e la gentilezza prevalgono sulla violenza e sulla brutalità e dove l’amore, secondo Italo Calvino, è considerato una forza naturale che solo se rispettata in quanto tale può essere governata da ragione e morale. Boccaccio, però, si situa al di là del Medioevo anche per le aperture multietniche di natura socio-politica e folkloristica, come l’analisi di queste novelle siciliane ha cercato di evidenziare.
Bibliografia E. Auerbach, Dante als Dichter der irdischen Welt (1929), traduzione di Maria Luisa De Pieri Bonino e Dante Della Terza, in Studi su Dante, introduzione di Dante Della Terza, Milano, Feltrinelli, 1963. G. Boccaccio, Decameron, vol.1, a cura di Vittore Branca. Milano, Mondadori, 2012. V. Branca, Boccaccio Medioevale, Firenze, Sansoni, 1968. G. Cavallini, Postilla sulla geografia del Decameron, «rli», xx, 2002. L. Sciascia, Per una storia di Palermo nel Duecento (e dei toscani in Sicilia): La famiglia di Ruggero Mastrangelo», in Come l’oro della Fiaba, Firenze, Sismel-Ed. del Galluzzo, 2010. C. Segre, Le opere di Giovanni Boccaccio. Decameron, parte prima, Milano, Editoriale Vita, 1963. A. Tartaro, La prosa narrativa antica, in Letteratura italiana, vol. 3, t. 2, Torino, Einaudi, 1992. C. Trasselli, Privilegi di Messina e Trapani, Messina, Intilla, 1992. 1
V. Branca, Boccaccio Medievale, Firenze, Sansoni, 1968, p. 148. E. Auerbach, Dante als Dichter der irdischen, traduzione di Maria Luisa De Pieri Bonino e Dante Della Terza, in Studi su Dante, introduzione di Dante Della Terza, Milano, Feltrinelli, 1963. 2
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BOCCACCIO E LE NOVELLE AL FEMMINILE NELLE CENE DI ANTON FRANCESCO GRAZZINI
F
rancesco De Sanctis afferma che «quasi ogni centro d’Italia ha il suo Decamerone». 1 Infatti, analizza tutti quegli scrittori che, dal quattrocentista Masuccio sino al Bargagli che tocca il Seicento, si professano discepoli ed imitatori del Boccaccio e tra questi inserisce il Lasca che scrive le sue Cene a Firenze. La raccolta doveva comprendere, nell’intenzione dell’autore, trenta novelle divise in tre giornate. Ne furono composte solo le prime venti e la decima del terzo gruppo, oltre ad una Introduzzione al novellare che funge da cornice e a una breve conclusione. Lo scrittore immaginava che esse fossero state narrate da una comitiva di cinque giovani e cinque donne, negli ultimi tre giorni di carnevale, durante un anno compreso tra il 1540 e il 1550. Nell’Introduzione al novellare, si legge che nella «generosa e bellissima Città di Firenze, là nell’ultimo di Gennaio, un giorno di festa dopo desinare, si trovarono in casa, una non meno e valorosa e nobile, che ricca e bella Donna vedova, quattro giovani de’ primi, e più gentili della Terra per passar tempo, e trattenersi con un suo carnal fratello, che per lettere, e per cortesia haveva pochi pari, non solo in Firenze, ma in tutta Toscana». 2 Quest’ultimo era un ragazzo virtuoso, amante della cultura, della letteratura e della musica a tal punto che la sua camera era fornita di canzonieri e di ogni sorte di strumenti musicali. Questi gentili giovani sapevano tutti quanti, ognuno secondo le proprie virtù, cantare e suonare. Mentre si occupavano con il canto e con la musica, a procurare piacere alla padrona di casa di nome Amaranta, cominciò a nevicare e colti dalla meraviglia, lasciarono le loro occupazioni per recarsi in un bellissimo cortile. Amaranta, avendo sentito ciò che stava accadendo, pensò di chiamare quattro giovani Donne «due sue figliastre, una sua nipote, e una sua vicina, tutt’e quattro maritate […] nobili, e belle tutte, leggiadre, e graziose a meraviglia»: 3 la ricca aggettivazione rende le donne narratrici delle cene conformi al canone della grazia rinascimentale. 4 Le figliastre avevano i loro mariti lontani per ragion di mercatura: uno a Roma, l’altro a Venezia; quello della nipote era in «ufizio» 5 e quello della
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F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di B. Croce, i, Bari, Laterza, p. 407. 3 Ivi, p. xxiii. Ivi, p. xxiv. 4 Il concetto rinascimentale della grazia si collega al termine latino gratia, sia nel senso di ‘gratitudine’ e di ‘favore’ di uno nei confronti di un altro, sia di ‘bellezza del corpo’. È affine a pulcritudo, forma, decor, venustas: «multaque cum forma gratia mixta fuit» (Ovidio, Ars Amandi, ii, 570). Nel campo delle artes dicendi e scribendi, la grazia è una qualità dell’ornatus: viene definita come gratia o suavitas quella componente stilistica del genus medium attraverso la quale si ottiene il fine di delectare. Evidentemente è la derivazione di gratia dalla charis greca, nell’accezione retorica di Demetrio Falereo e Dionigi di Alicarnasso. Orazio così afferma: «mortalia facta peribunt / nedum sermonum stet honos et gratia vivax» (Orazio, Ars poetica, 69, «le opere umane periranno / tanto meno potrà vivere la dignità e la grazia vivace delle parole». Per un approfondimento maggiore del concetto di grazia rinascimentale si rimanda al seguente riferimento bibliografico: E. Saccone, Grazia, Sprezzatura, Affettazione, in Le buone e le cattive maniere. Letteratura e galateo nel Cinquecento, Bologna, Il Mulino, 1992. 5 A. F. Grazzini, La prima e la seconda Cena. Novelle di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca. Alle quali si aggiunge una novella della terza Cena, Londra, J. Nourse, 1756, p. xxiv. 2
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saggi di letteratura italiana
vicina in «villa». 1 La Padrona propose alle giovani di fare un numero grandissimo di palle di neve per combattere una guerra terribile con quei giovani e da lì, dopo alterne vicende, l’allegra brigata si ritrovò riunita in sala e dopo aver cantato sei ed otto madrigali, si misero seduti dinanzi al fuoco, dove «un di que’ giovani havendo arrecato di camera un cento Novelle, […] tenendolo così sotto il braccio, fu domandato da una di quelle Donne che libro egli fusse, alla quale, colui rispose, essere il più bello, et il più utile che fusse stato mai composto». 2 Il riferimento al modello boccacciano non rimane implicito, poiché poco più avanti il nome dell’Autore del Decameron appare nella sua immediatezza: «Quelle, disse, sono le favole di messer Giovanni Boccaccio, anzi di S. Giovanni Boccadoro». 3 Modello fondamentale a livello strutturale, come testimonia l’uso, da parte del Grazzini, delle didascalie che precedono le novelle, è, dunque, il Decameron al cui Autore, proprio all’inizio dell’opera, egli indirizza le lodi più sincere; anche nella seconda novella della seconda cena il riferimento a Boccaccio è esplicito: a proposito della peste del 1348, la moria dei Banchi, il narratore Florido ricorda quella che con «tanta facondia et eleganza scrive nel principio del suo Decamerone il dignissimo Messer Giovanni Boccaccio» 4 che viene definita, per rendere omaggio all’Autore, come «la più meravigliosa e la più celebrata e di più spavento piena per l’essere da così grand’uomo con sì mirabile arte stata raccontata». 5 La celebrazione dell’arte raffinatissima di Boccaccio tocca il vertice. Nell’Introduzzione, la Padrona propone ai Giovani di cenare con lei e con il fratello; giunta l’ora della cena, per trascorrere allegramente il tempo, suggerisce di non leggere le favole scritte del Boccaccio, «ancora che ne più belle, ne più gioconde, ne più sentenziose se ne possono ritrovare» 6 ma «di trovarle loro e di raccontarle, e anche se non saranno né tanto belle, né tanto buone, non saranno ne anche, ne tanto viste, ne tanto udite, e per la novità, e varietà, ne doverranno porgere, per una volta, con qualche utilità non poco piacere». 7 Il modello di Boccaccio risulta esplicito, ma Anton Francesco Grazzini avverte la necessità di introdurre delle novità rispetto all’Autore del Decameron che dipendono dalla originalità dei contenuti delle novelle proposte e sarà proprio la novità, unita alla varietà a suscitare il piacere nei lettori. La varietà della materia sarà garantita proprio dalla vastità della cultura dei Giovani «pratichi coi Poeti non solamente Latini, o Toscani, ma Greci altresì, da non dover mancarvi invenzione, o materia di dire». 8 Se la conoscenza e la vastità di cultura appartiene ai Giovani, «le mie Donne – prosegue la Padrona – ancora s’ingegneranno di farse honore». 9 Il tempo in cui si svolge l’azione è quello del Carnevale e se ai Religiosi è lecito di rallegrarsi, a loro sicuramente non sarà sconveniente o disonesto il procurarsi piacere attraverso la narrazione delle novelle. Il giovedì sarà il giorno prescelto: non avendo molto tempo a disposizione, le novelle narrate in quel primo giovedì saranno piccole, ma per le altre due sere successive, avendo una settimana di tempo, nell’una si dovrebbero chiamar mezzane e nell’altra, che sarà la festa di Berlingaccio, grandi; ciascuno dei
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2 3 Ibidem. Ivi, p. xxvii. Ibidem. A. F. Grazzini, Le Cene di Antonfrancesco Grazzini detto Il Lasca, a cura di C. Verzone, Firenze, Sansoni, 5 p. 102. Ibidem. 6 7 A. F. Grazzini, La prima e la seconda Cena, cit., p. xxviii. Ivi, p. xxix. 8 9 Ivi, p. xxix. Ibidem. 4
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narratori avrebbe dato in tal guisa prova di sé nei tre modi. La Padrona, per giustificare la modalità, ricorre alla considerazione tipica del pensiero medievale della perfezione del numero ternario, «richiedendo in se principio, mezzo e fine». 1 Rispetto al modello di Boccaccio, Amaranta, dopo una riflessione sulla necessità che tutto ciò che si comincia a fare, si faccia con qualche ordine al fine che si raggiunga l’effetto desiderato, suggerisce a tale scopo di non eleggere un Re o una Regina, ma di governarsi come una Repubblica e pertanto la scelta dei novellatori sarà effettuata a sorte. Nella conclusione dell’Introduzzione propedeutica alle Cene, infine, la Donna si rivolge a Dio chiedendo che, per la sua infinita bontà e clemenza, conceda alla brigata, il suo aiuto e la sua grazia affinché il loro novellare non dica cosa alcuna se non a sua lode e a loro consolazione, ma sul finale ammette che, per dare animo a tutta la brigata e mostrare come festevoli e giocose si dovrebbero raccontare, sarà alquanto «lascivetta, e allegra». 2 Come nelle novelle del Decameron, nella rubrica preposta ad ogni novella, il Grazzini riporta la sintesi di ciò che verrà esposto dai narratori che seguono un ordine alternato: il primo a narrare è Giacinto. L’intervento delle donne ha inizio nella seconda novella: Amaranta, sciogliendo la parola, vezzosamente prese a raccontare di un giovane ricco e nobile che per vendicarsi di un suo Pedagogo ordisce una beffa, in modo tale che ne perde il membro virile e lieto se ne torna a Lione. La narratrice, lascia una novella che aveva nella fantasia e ne racconta un’altra venutala in mente proprio allora, così come accadrà nella sesta novella della seconda cena, dove a raccontare è Fileno che ritroviamo come narratore della terza novella della prima cena, subito dopo Amaranta. La novella seguente vede come narratrice Galatea, «non men vaga, che cortese, e piacevole[che] con leggiadra favella» 3 prendendo occasione dalle due sopradette, racconta anche lei una novella della beffa, ma «non tanto rigida quanto la prima, e meno villana»: 4 il protagonista, Giannetto della Torre, con accorte parole, sconfiggendo l’insolenza di un presuntuoso, gli fa conoscere la sua arroganza. La favola è breve, ma suscita l’attenzione di tutti. Il narratore della successiva novella, Leandro, racconta di Guglielmo Grimaldi che, ferito, corre in casa dell’orafo Fazio e qui muore. Fazio maliziosamente gli ruba una grossa somma di ducati e sotterratolo segretamente, finge, dato che era anche alchimista, di averlo tramutato in argento; andato in Francia per venderlo, ritorna a Pisa ricchissimo e poi per gelosia della moglie, perde la vita, ma quest’ultima uccide i figliuoli e se stessa. Il caso compassionevole colmo, così come viene affermato nella sesta novella di «focosi sdegni, feroci accenti d’ira, ingiuriose parole, angosciosi lamenti, rabbiosa gelosia, crudele invenzione, disperato e inumano fine» 5 suscita nelle donne lacrime in abbondanza che bagnano loro le «colorite guance, & il delicato seno», 6 che non si trattennero dal pianto quando Siringa, che doveva continuare la narrazione, asciugatasi gli occhi, prese a favellare rivolgendosi alle «pietose donne» 7 e ai giovani sostenendo che attraverso l’amarezza sarebbe stata conosciuta meglio la dolcezza perché «i contra
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2 Ivi, p. xxx. Ivi, p. xxxii. A. F. Grazzini, Le Cene di Antonfrancesco Grazzini detto Il Lasca, cit., p. 31. 4 5 Ibidem. Ivi, p. 49. 6 7 Ivi, p. 50. Ibidem. 3
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ri, posti insieme, le cose buone e belle, di bontà, e di bellezza in infinito accrescono.[…] E ancora io ho speranza, che la mia favola, la quale sarà tutta ridente, e lieta, maggiore allegrezza, e conforto vi porga». 1 Con un dolce riso, soavemente cominciò a narrare delle vicende di un prete animato da un desiderio carnale nei confronti della donna: ancora un’altra novella della beffa nella quale chi voleva ingannare rimane a sua volta ingannato. Siringa aveva fatto arrossire e ridere le Donne e «parimenti, e a loro, e ai Giovani addolcito il cuore e racconsolato l’animo»; 2 la novella seguente narrata da Fileno presenta, ancora una volta, una beffa ordita da un Fiorentino ai danni di un Senese che cercava di beffarlo. La beffa è il nucleo tematico intorno al quale anche Lidia organizza il tessuto narrativo della ottava novella: un abate dell’Ordine di Badia, passando per Firenze, visita San Lorenzo e la libreria di Michel Agnolo, dove per sua ignoranza e presunzione, il Tasso lo fa legare pazzo. L’ultima novella è narrata da Cinzia «che sola restava a novellare; con voce dolce e sonora, incominciò così» 3 raccontando alle gentilissime donne e graziosi uomini in quale modo una buona Donna fece morire il marito di quel male che egli andò pazzamente cercando: Ser Anastagio vecchio, senza ragione alcuna, diventa geloso della giovane moglie, la quale sdegnatasi di ciò, con un suo amante fa in modo che ella possa raggiungere il suo scopo e una volta morto il marito, prende l’amante come sposo. Amaranta che aveva aperto la narrazione al femminile della prima cena, la chiude lasciando libera la brigata che si sarebbe riunita in occasione della cena. Dopo aver deciso di rivedersi nei prossimi due giovedì, le Donne presero nuovamente licenzia dai Giovani e si ritirarono nelle loro camere, guidate da Amaranta: la struttura e la modalità narrativa appaiono in tal modo analoghe a quelle utilizzate in occasione della conclusione della seconda cena. La prima novella della seconda cena è narrata da Amaranta: Lazzaro di Maestro Basilio da Milano si reca a veder pescare Gabriello suo vicino ed incidentalmente affoga. Gabriello, grazie alla notevole somiglianza che aveva con lui, finge di essere Lazzaro e diffonde la notizia della sua morte. In tal modo, attraverso uno scambio di persone, riesce ad impossessarsi di tutti gli averi del vero Lazzaro, sposa, per compassione, un’altra volta la moglie e vive per lungo tempo con i figli. La favola suscita il riso della lieta brigata, in quanto il caso sembrò a tutti più stravagante che colmo di novità; Florido, infatti, nell’accingersi a narrare la novella successiva, rivolgendosi alle «piacevoli donne», 4 avverte che se non sarà «tanto bella e meravigliosa quanto la passata», 5 sarà almeno «più faceta e pertanto più gioconda ed allegra»: 6 Mariotto Tessitore Camaldolose, detto Falananna, avendo grandissima voglia di morire, ferito dalla moglie e dal Berna, amante di lei, e credendosi veramente morto, «ne va alla fossa»; 7 nel frattempo, sentendosi dire «villania» 8 si alza e quelli che lo portano, impauriti, lasciano andare la bara in terra. Nel fuggire, per un caso strano, cade nell’Arno, muore e
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Ibidem. Ivi, p. 74. 5 Ibidem. 7 Ivi, p. 101.
Ivi, p. 57. Ivi, p. 102. 6 Ibidem. 8 Ibidem.
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la moglie prende Berna come marito. Il ritratto spassoso del protagonista Mariotto che non aveva mai smesso, anche da adulto, di utilizzare il linguaggio infantile, a tal punto che quando voleva dire ‘dormire’ o ‘andare a letto’, sempre diceva «a far la nanna», 1 rimane indimenticabile. La novella successiva viene narrata da Galatea: Lisabetta degli Uberti prende per marito un giovane povero ma virtuoso e lo rivela alla madre che invece voleva maritarla riccamente; per cui colei, adirata, cerca di disfare il parentado e intanto la fanciulla, «fingendo un certo sogno, con l’aiuto di un frate, viene, con buona grazia della madre agli intenti suoi». 2 Le prime parole di Galatea sono rivolte ai costumati giovani e alle oneste donne e non saranno casi tanto piacevoli quanto quelli narrati nella novella passata, ma un accorgimento preso da una fanciulla innamorata che arrecherà tanta meraviglia alla lieta brigata poiché si terranno maggiormente in considerazione la bontà e le virtù personali piuttosto che le grandezze, gli onori e i favori del mondo. Effettivamente, la novella, come si legge nella successiva, non suscitò troppe risa ma fu molto apprezzata da ciascun componente della brigata; per contrasto, infatti, Leandro racconterà una novella giocosa ed allegra alla quale, per l’alternanza che costituisce il continuum narratologico, Siringa, la narratrice della quinta novella, promette di ingegnarsi nel farli tanto piangere quanto Leandro li ha fatti ridere, raccontando un fatto infelicissimo di due amanti, degno delle loro lacrime. Così, infatti, riporta la rubrica: «Currado Signore già dell’antica Fiesole, accortosi che il Figliuolo si giaceva con la moglie, sdegnatosi, li fa morire, e lui doppo, per la soverchia crudeltà, è dal popolo ammazzato». 3 Secondo la consueta alternanza, rivolgendosi alle donne con l’epiteto di «discrete», 4 Fileno, il narratore della sesta novella, ne racconta un’altra che rallegri maggiormente la brigata «piena tutta di doglia e compassione». 5 Si tratta ancora di una novella della beffa: lo Scheggia e il Piluca, con due loro compagni ordiscono una beffa ai danni di Guasparri del Calandra che si spaventò a tal punto che fu per spirare; poi con mossa abile gli tolgono il rubino di mano, particolare che inevitabilmente riporta al personaggio boccacciano di Andreuccio da Perugia, che viene riacquistato da Calandra e i due beffatori così si spartiscono il denaro. L’asprezza e l’amarezza della favola precedente vengono in questo modo stemperate da quella raccontata da Fileno, tutta giocosa e lieta per confortare il cuore e l’animo e rasserenare gli occhi e il viso delle Donne come dei Giovani e la successiva narratrice, Lidia, avendo le guance tinte di onesto rossore, «con bella e leggiadra maniera a favellare incominciò» 6 una novella per rallegrare gli animi quanto e più della precedente. Le promesse non vengono disattese, infatti Lidia narra di Taddeo Pedagogo che innamorato di una fanciulla nobile, le manda una lettera d’amore. Il fratello, nelle mani del quale era caduta la lettera, gli risponde al posto della sorella e lo fa venire, sul calar della notte, in casa, dove con l’aiuto di alcuni compagni gli organizza una beffa a causa della quale, il Pedagogo, quasi morto, fuggì da Firenze.
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Ivi, p. 104. Ivi, p. 161. 5 Ibidem.
Ivi, p. 121. Ivi, p. 178. 6 Ivi, p. 192.
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L’ultima donna narratrice, di cui sappiamo da Giacinto, il narratore della decima novella, che è saggia ed avveduta, è Cintia che «vezzosamente» 1 cominciò a narrare di un caso «generoso e stravagante», 2 una novella come lei stessa la definisce, nella quale il protagonista Giorgio di Messer Giorgio, beffato inizialmente dal suo amico Neri Filipetri, per vendicarsi dell’amico che gli aveva sottratto l’amore della donna gli organizza un’altra beffa ben riuscita ma a causa della quale perderà per sempre la donna amata. Al termine della decima novella, dopo aver ragionato della maggiore o minore bellezza e piacevolezza delle novelle narrate, la lieta brigata si ritrovò intorno al fuoco, tutta quanta ricolma di gioia, ed è nuovamente Amaranta a chiudere la cena conducendo le donne nelle loro camere. Indicativo è che sia proprio lei a portare a conclusione la narrazione della decima novella della terza cena: «Era Giacinto venuto a fine della sua novella, quando Amaranta, a cui solamente restava il carico del voler novellare, vezzosamente favellando, prese a dire» 3 la favola di Lorenzo Vecchio de’ Medici che una sera fa condurre a palazzo da due travestiti Maestro Manente ubriaco e lì lo tiene per lungo tempo al buio, facendogli portare da mangiare da due mascherati; in seguito, attraverso il Monaco buffone, fa credere alle persone di esser morto di peste. Il Magnifico poi allontana Maestro Manente, il quale finalmente creduto morto da tutti, arriva a Firenze, dove la moglie pensando che fosse l’anima sua, lo caccia via come se fosse lo spirito. La vicenda viene presentata a Lorenzo che, fatto venire Nepo da Galatrona, mostra alle persone che tutto ciò che è accaduto al medico è avvenuto a causa di alcuni incantesimi; cosicché, riavuta la Donna, Maestro Manente prende per avvocato San Cipriano. L’esame contenutistico e formale delle novelle narrate dalle donne, che rivela una struttura che talvolta si fonde e si mimetizza in quella teatrale, 4 dunque, pone in luce le due componenti fondamentali intorno alle quali si snodano le vicende: il tragico e il grottesco, secondo quanto evidenziato da Carmelo Spalanca. 5 In calce lo stampatore apporta le seguenti parole:
Quei che hanno avuto cura dell’edizione di quelle Novelle avvertiscono il lettore, di non sorprenderli, se nel leggerle troverà di quando in quando l’ortografia piuttosto bizzarra che no, ed alcune volte il senso oscuriccio; avendo eglino voluto scrupolosamente seguitare il manoscritto. 6
Per quanto riguarda il senso oscuro, si concorda con lo stampatore poiché talvolta la sintassi si presenta poco lineare e scorrevole, ma la fiorentinità, sia linguistica che contenutistica, riesce a far perdonare alcune asprezze sintattiche. La fiorentinità del Grazzini è confermata non solo sotto il punto di vista contenutistico che lo lega alla tradizione comico-burlesca, fortemente legato alle persone e ai luoghi della sua città, i quali tornano come elemento costante delle Cene, ma anche sotto l’aspetto formale che evidenzia una adesione genuina alla lingua fiorentina che all’insegnamento del Boccaccio unisce il guizzo del fiorentino parlato. 1
2 3 Ivi, p. 216. Ibidem. Ivi, p. 286. G. Bertone, Strutture narrative e teatrali nelle “Cene” del Lasca, «Studi di filologia e letteratura», 6, 1978, pp. 59-104. 5 C. Spalanca, Il tragico e il grottesco nelle cene di Anton Francesco Grazzini, «Critica Letteraria», ii, 5, 1974, pp. 618-635. 6 A. F. Grazzini, La prima e la seconda Cena, cit., p. 412. 4
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La descrizione del mondo dei buffi con tutta la declinazione delle diverse tipologie, è affidata in modo particolare alle Donne narratrici delle Novelle che, a diverso merito, vengono definite «cortesi fanciulle» (Cena i, 5), «pietose donne» (Cena i, 6), «leggiadre donne» (Cena i, 7), «belle donne» (Cena i, 8), «ornate donne» (Cena i, 9); «bellissime donne» (Cena ii, 4), «delicate donne» (Cena ii, 8), «nobili donne» (Cena ii, 9), «dolcissime donne» (Cena ii, 10). Ma tra Boccaccio e Anton Francesco Grazzini c’è Il Cortegiano di Baldassarre Castiglione, pubblicato nel 1528 e al quale sicuramente il Grazzini non rimase insensibile. Nel suo Il Cortegiano, Castiglione dedica un intero libro, il terzo, alla descrizione della dama di corte, ma in realtà tutta l’opera ruota intorno alla figura delle due donne che conducono il gioco alternando e controllando gli interventi degli interlocutori. Il ritratto della donna che ne emerge, come è stato notato in un saggio a cura di Olivia Trioschi, è quello di una creatura gentile che, in fin dei conti, deve saper stare al suo posto, anche se inferiore, poiché ciò che le si addice non è la ‘virilità soda’ dell’uomo, bensì una ‘tenerezza nuova e delicata’, grazie alla quale coltivare nozioni di letteratura, musica, pittura, tali da renderla una piacevole conversatrice da salotto; il salotto, beninteso, della sua casa di donna maritata, dove è opportunatamente controllata da stuoli di servitori e da cui non esce se non accompagnata. 1
Le donne del Grazzini, a distanza di circa venticinque anni, superano i confini del salotto della casa, ma conservano quella delicata tenerezza, sono esperte delle varie arti e soprattutto appaiono vive e reali: anche loro, come le donne di Baldassarre Castiglione, gestiscono il gioco fin dall’inizio in un continuo rimando di specchi. Il Lasca, probabilmente difetta, condividendo il pensiero di De Sanctis, della «mano che trema». 2 Allo scrittore comico manca il culto e la serietà dell’arte «e abborraccia e tira giù come viene, e lascia a mezzo le cose e si arresta alla superficie». 3 Il critico continua anche sostenendo che il lato buffonesco che trova le sue origini nel Morgante e nei sonetti del Berni, viene ingentilito però dalla grazia, secondo una corrente che si era diffusa dal Boccaccio fino al Lasca. Quella stessa «grazia e gentilezza che si avverte nelle immagini che il Lasca offre delle Donne, si ravvisa, pertanto, sul piano linguistico, distanziando in tal modo il nostro Autore toscano, insieme al Firenzuola, dagli altri che riescono pesanti come il Giraldi, il Brevio e il Bargagli, o trascurati come il Parabosco, o lo Straparola». 4
Bibliografia G. Bertone, Strutture narrative e strutture teatrali nelle “Cene” del Lasca, «Studi di filologia e letteratura», 6, 1978. B. Castiglione, Libro del cortigiano, a cura di A. Busi e C. Covito, Milano, Rizzoli, 1993. I. Del Lungo, Dino compagni e la sua cronica, n. 2, Firenze, Le Monnier, 1879. F. De Santis, Storia della letteratura italiana, a cura di B. Croce, i, Bari, Laterza,1958. A. F. Grazzini, La seconda Cena di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca ove si raccontano die1 Cfr. O. Trioschi, Poesia del Cinquecento, «Edizione virtuosa della rivista Club degli Autori», 101-102, gennaio-febbraio 2001, www.club.it. 2 F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, cit., p. 413. 3 4 Ibidem. Ivi, p. 407.
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ci bellissime, e piacevolissime novelle non mai più stampate, a cura di A. Bonducci, In Stambul. Dell’Egira 122. Appresso Ibrahim Achmet stampatore del Divano, 1743. A. F. Grazzini, La prima e la seconda Cena. Novelle di Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca. Alle quali si aggiunge una novella della terza Cena, In Londra, appresso J. Nourse [Parigi, N. B. Pagliarini], 1756. A. F. Grazzini, Le Cene di Antonfrancesco Grazzini detto Il Lasca, a cura di C. Verzone, Firenze, Sansoni, 1890. A. F. Grazzini, Le Cene, con prefazione di Domenico Ciampoli, Lanciano, Carabba, 1912. A. F. Grazzini, Le novelle, con uno studio di G. Biagi, Milano, Istituto editoriale italiano, 1915. A. F. Grazzini, Le Cene, a cura di E. Emanuelli, Milano, Bompiani, 1943. A. F. Grazzini, Le Cene, a cura di R. Bruscagli, Roma, Salerno Editrice, 1976. A. F. Grazzini, Le Cene, a cura di E. Mazzali, introduzione di Giorgio Barberi Squarotti, Milano, 1989. R. Rodini, Anton Francesco Grazzini: Poet, Dramatist and Novelliere, 1503-1584, Madison, University of Wisconsin Press, 1970. E. Saccone, Grazia, Sprezzatura, Affettazione, in Le buone e le cattive maniere. Letteratura e galateo nel Cinquecento, Bologna, Il Mulino, 1992. C. Spalanca, Il tragico e il grottesco nelle cene di Anton Francesco Grazzini, «Critica Letteraria», ii, 5, 1974.
IL MERAVIGLIOSO MEDIEVALE NELLE NOVELLE DI BOCCACCIO: IL PAESE DI CUCCAGNA
I
l tema della beffa, dei burlatori e dei burlati è assai frequente nelle novelle del Decameron tanto che si può affermare che essi esprimano uno dei motivi centrali della raccolta: l’esaltazione dell’intelligenza pronta e sagace, dell’accortezza, di quella saviezza che è armonico dominio di sé e capacità di apprendere la difficile arte del vivere. Nei casi migliori, quale è quello della novella di Calandrino e l’elitropia, la beffa si presenta come un lucido capolavoro di intelligenza, un’opera d’arte goduta dal beffatore, senza altra preoccupazione che la gioia del successo. Il beffato, a sua volta, rappresenta lo spirito goffo e grossolano, costante fonte di riso per lo scrittore che lo pone allegramente in caricatura. Calandrino rappresenta la più celebre e artisticamente riuscita figura di beffato del Decameron: è l’uomo credulone che si crede intelligente, uomo volgare nei suoi pensieri, intraprendente, pieno di fiducia in se stesso e di vitalità. Fra le novelle dedicate a Calandrino, la presente è quella che lo delinea più compiutamente, con la sua cupidigia ed idiozia sostenute fino all’eroismo di un martirio silenzioso, l’improvviso scoppio di furore contro la moglie, rea, secondo lui, di aver rotto l’incantesimo della pietra che lo rende invisibile, così necessaria per attuare i suoi sogni di potenza, a lui, povero gonzo sempre gabbato e governato dispoticamente dalla moglie. L’interesse del presente studio, però, non è quello di approfondire l’analisi della tematica della beffa che vede, d’altronde, un proliferare sistematico di studi ad essa dedicata, ma di porre in luce la presenza di un tema nuovo all’interno dell’economia delle novelle del Decameron: quello del paese di Cuccagna e la sua appartenenza alla fase estetizzante del meraviglioso medievale. La terza novella dell’ottava giornata è scandita in tre sequenze distinte che danno vita a tre scene di grande vivacità drammatica: nella prima predominano i preliminari della beffa progettata da Maso del Saggio e dal punto di vista della tecnica narratologica, in questa parte domina nettamente il dialogo; nella seconda, rappresentata dalla quête della pietra magica, l’azione e il movimento prevalgono sul dialogo; infine, la terza è costituita dal ritorno a casa di Calandrino ed in questo caso il dialogo riprende il predominio. Il paragrafo nove della prima sequenza permette a Giovanni Boccaccio di effettuare una inserzione meravigliosa all’interno dell’intreccio narrativo: a Calandrino in cerca dell’elitropia
Maso rispose che le più si trovavano in Berlinzone, terra dei baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce e avevavisi un’oca a denaio e un papero giunta; e eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattuggiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevano che far maccheroni e raviuoli e cuocerli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva; e ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciola d’acqua. 1
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G. Boccaccio, Decameron, Milano, Mondadori, 2012, p. 648.
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Nella prima sequenza appare un motivo nuovo, quello del paese di Bengodi: è un motivo che ha radici profonde nelle credenze popolari e nel folklore 1 e rappresenta il sogno del paese dell’abbondanza, dove è possibile mangiare a sazietà, è chiaramente la proiezione fantasticamente rovesciata di un mondo, come era ancora quello dell’Italia trecentesca, dove quotidianamente i ceti inferiori dovevano lottare con la fame. Berlinzone e Bengodi rappresentano nomi immaginari di una geografia fantasiosa e grottesca come quella descritta da frate Cipolla: Berlinzone è forse storpiatura di Bellinzona o di Berençon e Bengodi è nome favoloso del paese di Cuccagna al quale vengono attribuiti quei caratteri impossibili, con meraviglie soprattutto alimentari. A proposito del meraviglioso, secondo le ricerche di Erich Köhler, nell’Occidente medievale si pongono tre grandi questioni. Il primo problema è costituito dalla ricezione del meraviglioso durante il corso del v secolo fino all’xi secolo. Tale periodo sembra caratterizzato da una sorta di repressione, da parte della Chiesa, del meraviglioso in quanto veicolo di una cultura ritenuta pagana a causa del pericoloso potere di seduzione esercitato sulle anime. 2 I secoli xii e xiii sono caratterizzati da una penetrazione del meraviglioso nella cultura cortese, rappresentata dalla cavalleria e dalla piccola e media nobiltà, che desiderava proporre una cultura meno vincolata ai dogmi rispetto a quella ecclesiastica. 3 La terza fase è costituita, in base alla definizione datane da Le Goff, dalla «estetizzazione del meraviglioso», secondo delle coordinate letterarie più che sociologiche. 4 Il ruolo del meraviglioso all’interno di una religione monoteista costituisce la seconda questione: per il secolo xii e xiii esiste una diversificazione terminologica nel mondo del soprannaturale che consente di coniugare il meraviglioso in rapporto alla religione cristiana. Una indagine assai accurata sulla suddivisione del mondo soprannaturale occidentale dei secoli xii e xiii in tre ambiti contraddistinti da tre aggettivi, mirabilis, magicus e miraculosus, è stata condotta dagli studi di Le Goff che individua nell’aggettivo mirabilis il meraviglioso con le sue origine precristiane. Il termine magicus di per sé poteva essere neutro per gli uomini dell’Occidente medievale poiché si riconosceva l’esistenza di una magia bianca e di una nera anche se il termine magicus e il campo semantico da esso designato scivolò rapidamente dalla parte del male. Dal miraculosus invece procede quello che, secondo Le Goff, si potrebbe chiamare il meraviglioso cristiano. 5 L’ultimo problema è costituito dalla funzione del meraviglioso che nell’Occidente medievale si manifesta attraverso alcuni temi come l’ozio, il benessere alimentare e la licenza sessuale che raffigurano, secondo lo studioso Le Goff, un universo rovesciato che funge da antidoto alla quotidianità. In questo contesto, indipendentemente da ogni casualità, appare il tema del paese di Cuccagna come tipica creazione medievale
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G. Cocchiara, Il paese di Cuccagna, Torino, Boringhieri, 1959. E. Köhler, L’avventura cavalleresca, ideale e realtà nei poemi della tavola rotonda, Bologna, Il Mulino, 2000. 3 Ibidem. 4 J. Le Goff, Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale, Roma, Laterza, 2002, p. 9. 5 Ivi, p. 10. 2
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che rappresenta in sé la concreta manifestazione di una mitica età dell’oro: un mondo a rovescio che costituisce una sorta di resistenza al cristianesimo ufficiale. 1 In epoca contemporanea, muovendosi nel campo della definizione, non si può prescindere da quella offerta da Tzvetan Todorov, secondo il quale il meraviglioso costituisce una opposizione allo strano poiché il primo non ha delle sue spiegazioni intrinseche e suppone l’esistenza del soprannaturale. 2 Il meraviglioso medievale però non può essere concepito secondo la definizione di Todorov poiché esso, secondo Paul Zumthor, richiede un ‘lettore implicito’ che si orienta verso una spiegazione naturale o soprannaturale. Nel meraviglioso medievale, invece, il lettore implicito viene escluso poiché viene dato come oggettivo, attraverso testi ‘impersonali’. 3 Secondo quanto affermato, pertanto, la magistrale descrizione che Boccaccio offre del paese di Cuccagna nel quale si può individuare quella funzione di contrappeso alla regolarità del quotidiano che si manifesta attraverso l’elaborazione di un mondo alla rovescia che trova negli elementi indicati precedentemente la sua ragione inequivocabile di manifestarsi, colloca il ‘meraviglioso’ del grande prosatore medievale all’interno di quel processo di “estetizzazione” 4 del meraviglioso che vede interessati i secoli xiv e xv. Nel Paese di Bengodi che rimanda, in maniera esplicitamente dichiarata dal nome, al paese di Cuccagna che agli occhi dell’ingenuo e credulone Calandrino si profila come un reale paradiso in terra, l’elemento dell’abbondanza alimentare prevale in maniera vistosa rispetto agli altri dati caratterizzanti la funzione della compensazione del paese di Cuccagna: la nudità, la libertà sessuale, l’ozio, infatti, vengono taciuti da Boccaccio. Probabilmente il grande narratore del Decameron conosce il difetto principale di Calandrino che, oltre ad essere un uomo semplice, si profila anche come un gran ghiottone o, in fiorentino, ‘berlingaio’ termine che si ricollega a quello di Berlinzone e di cui ne rappresenta una storpiatura: le vigne legate con le salsicce, l’oca e il papero acquistabili ad un prezzo irrisorio, la montagna di formaggio grattuggiato e la gente che non faceva altro che fare maccheroni e ravioli per cuocerli poi in un brodo di capponi e in ultimo quel fiumicello di prelibata vernaccia non possono che suscitare un oh! estatico e commosso del povero Calandrino che è caduto nella rete e sogna ad occhi aperti. Successivamente alla descrizione della contrada di Bengodi, segue, vivacissimo ed incalzante, il dialogo tra Calandrino e Maso del Saggio, persona realmente esistita come, d’altra parte, lo stesso Calandrino, nome di fantasia di Giovannozzo di Pierino, pittore insieme a Bruno e Buffalmacco. Maso era, oltre che un gran burlone, un sensale e nella sua bottega si riunivano gli spiriti migliori di Firenze. Nell’economia del dialogo, Maso risponde con delle frasi che sembrano esaustive e chiare ma che in realtà non dicono nulla. Dire, infatti, di essere stato a Bengodi una volta come mille volte, non significa dire di esserci veramente stato, ma è la brama di Calandrino che conferisce alla parola il senso da lui voluto. Di fronte alle altre risposte insensate di Maso, Calandrino non ha orecchio se non per i sogni che cantano nel suo cuore e vede solo il volto serissimo e di
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Ivi, p. 12. T. Todorov, La letteratura fantastica, Milano, Garzanti, 1977. 3 P. Zumthor, Essai de poétique médiévale, Milano, Seuil, 1972. 4 J. Le Goff, op. cit., p. 12. 2
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gnitoso di Maso, e questo basta a togliere dal suo animo ogni sospetto di essere beffato. Una conferma della ghiottoneria di cui soffre Calandrino è data dal sospiro dell’anima emesso di fronte alla consapevolezza della lontananza del paese di Cuccagna: «Troppo ci è di lungi a’ fatti miei! Ma se più presso ci fosse, ben ti dico che io vi verrei una volta con essoteco, pur per veder fare il tomo a quei maccheroni, e tormene una satolla». 1 Dopo il sospiro dell’anima, Calandrino erompe in espressioni di ingordigia intensa e trasognata: che bellezza andare a Bengodi e rotolare giù quei maccheroni e farne una scorpacciata! Calandrino si mostra talmente commosso per quel nuovo e mirabile mondo che Maso ha fatto balenare ai suoi occhi, che prima di richiamarlo all’argomento essenziale, le pietre magiche, lo benedice commosso. Infatti, così si legge: «Ma dimmi, che lieto sie tu, in queste contrade non se ne trova niuna di queste pietre virtuose?». 2 Ad una abbondanza alimentare descritta nella prima sequenza, segue una abbondanza di pietre preziose, gli smeraldi, così poco apprezzati tanto da costituire delle montagne intere più alte di Monte Morello e che risplendono nel cuore della notte: «[…] ma ecci di questi macigni sì gran quantità, che appo noi è poco prezzata, come appo loro gli smeraldi, de’ quali v’ha maggior montagne che Monte Morello, che rilucon di mezza notte, vatti con Dio». 3 L’espressione «vatti con Dio», inserita all’interno della spiegazione data da Maso sulla duplice specie di pietre dotate di grandissima virtù «l’una sono i macigni da Settignano e da Montici, per virtù de’ quali, quando son macine fatti, se ne fa la farina […] L’altra si è una pietra, la quale noi altri lapidari appelliamo elitropia […]» 4 non è neanche percepita da Calandrino che sente solo quello che lo interessa, coglie le immagini che più colpiscono la sua fantasia: le splendide montagne di smeraldi. L’abbondanza, pertanto, sia essa alimentare o minerale, si presenta come mondo alla rovescia, come una sorta di compensazione della estrema indigenza in cui versavano i contadini nel xiv secolo, pertanto l’arte diventa una sorta di filtro per mitigare le ferite, non solo razionali ma concrete provate dall’Assurdo o qualsiasi altro nome lo possa identificare: Sfortuna, Male, Irrazionale. Attraverso il paese di Cuccagna, perciò, Giovanni Boccaccio cerca di lenire, in primo luogo, estetizzando che non significa ‘rendere più bello’ in quanto con tale espressione s’intende anzitutto dare un nuovo significato all’esistente, ricostruendone una semantica che superi la meschinità del dato oggettivo e lo trascenda. La ricerca estetica permette di avvicinarsi all’Assurdo molto più della ricerca razionale-scientifica o fideistica. Tutto ciò può accadere a causa della sua origine radicalmente umana e ciò emerge in maniera evidente confrontando l’arte, in questo caso intesa come manifestazione letteraria, al fenomeno religioso. La religione, affinché sia davvero tale, deve ricondurre le sue credenze ad una divinità, ovvero a qualcosa di Inspiegabile, di Trascendente: si cerca così di contrapporre all’Assurdo, un suo pari che è essenziale che abbia un contatto con il nostro mondo. Ugualmente, il fenomeno della estetizzazione letteraria supera in efficacia e forza il discorso razionale, interviene laddove la mente fatica ad ordinare: la sua necessità sorge da
1
G. Boccaccio, op. cit., p. 649. 3 Ibidem. Ibidem.
2
4
Ibidem.
il meraviglioso medievale nelle novelle di boccaccio
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quegli interstizi di vuoto che il discorso scientifico-razionale non riesce a comprendere e dalla partecipazione al dolore da parte dell’artista dal quale anche la più sofferente delle esperienze umane può essere estetizzata. Alla luce di quanto affermato, si può allora sostenere che il paese di Bengodi appartiene a giusto merito a quella fase che da Le Goff è stata individuata come estetizzazione del meraviglioso avvenuta durante i secoli xiv e xv. Bibliografia G. Boccaccio, Decameron, Milano, Mondadori, 2012. G. Cocchiara, Il paese di Cuccagna, Torino, Boringhieri, 1959. E. Köhler, L’avventura cavalleresca, ideale e realtà nei poemi della tavola rotonda, Bologna, Il Mulino, 2000. J. Le Goff, Il meraviglioso e il quotidiano nell’Occidente medievale, Roma, Laterza, 2002. T. Todorov, La letteratura fantastica, Milano, Garzanti, 1977. P. Zumthor, Essai de poétique médiévale, Milano, Seuil, 1972.
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ORTENSIO SCAMMACCA: LA ROSALIA TRA RELIGIONE E POLITICA Ego Rosalia Sinibaldi Quisquinae et Rosarum Domini Filia Amore Do.ni Mei Iesu Christi In Hoc Antro Habitari Decretum.
L
’iscrizione riportata fornisce delle indicazioni relative alla Santa, infatti è la stessa Rosalia che afferma che, per amore del Signore Gesù Cristo, ha deciso di condurre vita eremitica; a conferma di ciò la stessa Rosalia, protagonista della omonima tragedia di Padre Ortensio Scammacca, 1 nel prologo del primo atto, così recita in versi sciolti:
Io Rosalia 2 di Sinibaldo figlia, che di Quisquina, e del Rosato monte, che li risguarda, il gran barone s’appella per amore del ver’uomo, e ver Dio Cristo tolsi di far mia vita in questa grotta. 3
L’argomento è il seguente: il re di Sicilia, Guglielmo il Malo, conduceva una cattiva gestione del regno; Santa Rosalia ne rimproverava i vizi e pertanto venne fatta uccidere, ma a sua volta, il re fu deposto dai suoi stessi vassalli e venne condotto in prigione. Lì si pentì e, tramite Santa Rosalia, ottenne il perdono da Dio e gli venne restituito il regno. Però, poi, causò la morte del figlio primogenito Ruggiero che fu allontanato in quanto si fece salutare come Re. Alla fine della sua vita, il re Guglielmo, sentendo il peso dei suoi peccati, si ritirò a vita privata e lasciò il regno alla moglie. 4 La vita di Santa Rosalia è poco conosciuta da un punto di vista storico, ma è tramandata da una folta tradizione popolare, soprattutto orale, il cui intento è quello devozionale. Una delle rappresentazioni più antiche della vita della Santa di cui ci è giunto il testo, è La Rosalia, tragedia sacra del padre gesuita Ortensio Scammacca che operò a Palermo nell’età barocca, autore di quarantacinque testi teatrali, oltre a sette perduti, pubblicati a Palermo nel 1632 da Giovan Battista Maringo ed appare sotto il titolo di Delle tragedie sacre e morali. 5 L’enorme produzione letteraria, come notato da E. Bertana, attesta la predisposizione dello Scammacca alla varietà: la testimonianza ne è data dalla vastità delle fonti, infatti, l’Autore attinge ad alcuni personaggi dell’Antico
1 Ortensio Scammacca (Lentini, 1562-Palermo, 1648) è stato un drammaturgo e poeta tragico italiano, definito dai contemporanei ‘il Divino Poeta di Sicilia’. Da Lentini, si trasferì molto giovane a Palermo per studiare presso il Convento dei Gesuiti dove avrebbe poi insegnato Teologia e Filosofia. Per le informazioni biografiche si fa riferimento alla voce ‘Ortensio Scammacca’ nel sito www.treccani.it. 2 Rosalia Sinibaldi (o di Sinibaldo) nasce a Palermo nel xii secolo presumibilmente intorno al 1128, ma sulla figura di questa Santa, patrona di Palermo, non si hanno notizie storiche. Muore sul Monte Pellegrino il 4 settembre del 1165. Si fa riferimento alla voce ‘Santa Rosalia’ presente nel sito www.treccani.it. 3 Cfr. G. Romagnoli, Santa Rosalia nel teatro da Scammacca e Salazar all’opra dei pupi, in www.centrointernazionaledistudisulmito.com, p. 16. 4 5 Ivi, p. 13. Ivi, p. 5.
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Testamento (Roboamo, vol. ii, Giuseppe venduto, vol. ix, ecc.), alle storie popolari della Sicilia, ma anche a personaggi tipici dell’età moderna come ne è esempio la trilogia costituita da Tommaso in Conturbia, dal Tommaso in Londra e dal Tommaso Moro, alle vite dei santi delle quali La Rosalia ne costituisce un emblematico esempio, insieme a S. Lucia e S. Agata e alle altre contenute nel i, ii e iii volume delle sue Tragedie. 1 I Padri gesuiti, grazie alla presenza dei collegi disseminati in tutto il bacino del Mediterraneo, svolgevano una forte azione moralizzante dato che «l’intendimento apologetico, dottrinale, catechetico, ecc., nella tragedia gesuitica è, più che altrove, scoperto, molto più diffuso; ed anche lo Scammacca naturalmente si propose per prima cosa, componendo le sue tragedie, d’edificare e d’ammonire gli spettatori, per la loro temporale e spirituale salute»; 2 all’interno di questo contesto storico-culturale si inserisce il dramma de La Rosalia di Ortensio Scammacca. Dal punto di vista testuale, la suddivisione in cinque atti e la presenza dell’unità di tempo e di luogo, ancorano il testo ai canoni aristotelici: l’azione, infatti, si svolge in una sola giornata nel palazzo reale di Palermo; richiama ad alcuni elementi della leggenda di Santa Rosalia, quali la fuga dal palazzo reale e la permanenza nell’eremo di Quisquina. 3 Il nucleo centrale del dramma è costituito dalla vicenda storica relativa al sovrano normanno, come sostenuto da Giovanni Romagnoli nel suo saggio Santa Rosalia nel teatro da Scammacca a Salazar all’opra dei pupi, a tal punto che «il personaggio della Santa, il richiamo alle cui vicende biografiche diventa quasi incidentale, viene innestato nella vicenda storica relativa a questo sovrano normanno, che costituisce il nucleo centrale del dramma, come traspare già dall’Argomento che l’Autore premette al testo, ciò che rende discutibile l’autodesignazione dell’opera come dramma sacro piuttosto che come dramma storico». 4 In questa sede, invece, si cercherà di dimostrare, attraverso un’analisi testuale, come le due componenti, quella religiosa e quella politica, siano strettamente intrecciate, pur conservando la designazione di dramma sacro. La componente storica è indiscutibilmente molto forte e il Medioevo rappresenta per il drammaturgo un’epoca nella quale riportare ed analizzare i problemi politici del xvii secolo, come se essi fossero prefigura di quelli del suo tempo. 5 E allora i versi dell’Atto Secondo: «Ripiglia in man lo scettro, e ‘l bel governo; / fa, che ritorni a l’ore prime, e schietto, / che mostrasti al principio, il secol guasto» 6 attraverso le quali Matteo Bonelli cerca di agire sulla coscienza del Re, appaiono come monito non solo a Guglielmo ma a tutti i personaggi della storia, e in particolare a quella contemporanea a Padre Scammacca, che come Guglielmo, si sono lasciati allontanare dal retto cammino a causa dei numerosi vizi; in tal modo, nel detentore del potere si trovavano unite la forza smisurata del suo ruolo e la sua infinita debolezza. 7 Ma d’altro canto è altrettanto indiscutibile la componente religiosa; la comparsa sulla scena di Santa Rosalia, infatti, avviene per volere divino, come si ricava nell’Atto Primo dalle parole che la Santa rivolge all’angelo:
1
Cfr. E. Bertana, La tragedia, Milano, Vallardi, 1917, p. 179. Ivi, p. 181. 3 Gli elementi strutturali sono stati individuati da G. Romagnoli. A tale proposito cfr. G. Romagnoli, 4 op. cit., p. 5. Ibidem. 5 Cfr., su questo tema, G. Toffanin, Machiavelli e il «tacitismo», Napoli, Guida, 1912. 6 Cfr. G. Romagnoli, op. cit., p. 48. 7 Cfr. W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Torino, Einaudi, 1999. 2
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Ma sia lecito a me, fatto ‘l viaggio, / quel, ch’innanzi ‘l partir, fa non mi parve, / d’ubbidir desiando al solo cenno, / or domandar, perché da quella pace, / che mi godea, Dio sol meco parlando, / et io con lui nel solitario albergo, / ogni cura mortal tacendo dentro, / m’hai trasferito in parte, ove conviemmi / udir del mondo i torbidi tumulti?» 1
La Santa credeva di trascorrere nella grotta definita «santo nido» 2 i rimanenti anni della sua vita, ma successivamente si rende conto che Dio «altro ha disposto, / chi vuol mia voglia al suo voler conforme, / e forse è voler suo, che ‘queste parti / il mio mortale ove ’l pigliai, deponga». 3 Inoltre, dalle parole dell’angelo dell’Atto Primo:
A destinato luogo, or che siam giunti; / tempo è di appalesar l’alto consiglio./ Non perché del tuo fin sia presso il giorno / Dio t’ha fatta venir per mia condutta / a depor la tua fama, ov’ella nacque; / ma perché a l’altra, e torbida tempesta, / ch’oggi vedrassi in questo mar di genti / sollevata al fiatar di mobil’aure, / che la nave real battuta, e scossa / romper farà già quasi infra gli scogli, / tu facci, qual si de’, seren tranquillo. / Come sia questo, a dir più non m’allungo: / e molto men, come di Dio lo sdegno / sia mosso contra quel, ch’ha in man lo scettro / delle fertil Sicilia, e suoi Normanni» 4
si deduce che Santa Rosalia viene inviata a corte per volere divino, trasportata in volo dagli Angeli, per correggere gli eccessi del monarca che stava compromettendo le sorti del regno e ribadisce la sua missione nell’Atto ii nel quale afferma: «Non io per ottener, lasciai la grotta, / ne’ palagi reali oscuri honori, / servo dominio, e povere ricchezze; / ma, per ben vostro, e per tor voi da morte, / se pur di ciò non vi farete indegni». 5
La conferma della missione soprannaturale della Santa viene di nuovo data nell’Atto iv, infatti, alla regina Margherita che ribadisce la santità di Rosalia, la fanciulla dirà: «Quest’io non dico; anzi di pian confesso; / che son del Re del Cielo inutil serva. / Per messaggi di lui, ch’a ciò mi manda». 6
La dimensione soprannaturale è anche ribadita nell’Atto Quinto: «Il mio non mio parlar sentite, o Regi; / ma di colui, ch’a nome suo mi manda». 7
È proprio all’interno dell’Atto Quinto che Rosalia svela il volere di Dio, portando a compimento il suo ruolo di messaggera divina: «Per lo vostro miglior questo ha disposto. / Ruggier, che cosa era da lui, s’ha tolto. / E quel, ch’è innanzi tempo al parer vostro, / tu al suo immenso saper maturo frutto». 8
A Guglielmo, la Santa profetizza che Dio gli lascerà pochi giorni da vivere affinché possa chiedere perdono delle sue colpe: «Te, Guglielmo, dì pochi a viver lascio, anzi a morir ne la prigione terrestre, / perché de’ falli tuoi tu faccia emenda. / Dopo spazio non molto a l’altro mondo / ti chiamerà; tu t’apparecchia intanto; / et affretta a fornir con santi passi / la via, ch’adduce a la magion celeste». 9
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G. Romagnoli, op. cit., p. 15. Ibidem. 5 G. Romagnoli, op. cit., p. 41. 7 Ivi, p. 97. 9 G. Romagnoli, op. cit., p. 98. 3
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Ivi, p. 16. Ibidem. 6 Ivi, p. 77. 8 Ibidem. 4
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Alla Regina, Dio ha deciso di affidare tutto il governo e vuole che sia tutrice del futuro Re che farà innalzare un tempio consacrato alla Madre di Dio alla quale cento ministri eleveranno preghiere incessantemente: «Costui qui presso a’ pie’ d’un alto monte, / pur sopra un colle, il qual Real sia detto /da sua real presenza, e lunga stanza, /a la madre di Dio sacrato, ed almo / sorger farà da’ fondamenti un tempio / vestito ad oro, e rilucenti marmi, / a cui mai non fia pari altro nel mondo. /Quivi a Dio renderan preghiere, e canti / de l’incruento altar sacri ministri /desti al culto divin la notte, e ‘l giorno, / perfetti di virtù, di numer cento». 1
La Santa rivela, infine, che «Tutto ciò vidi in vision celeste»: 2 in tal modo padre Scammacca ritorna alla funzione medievale della visione celeste arricchendola di un valore politico, ma garantendone sempre il significato soprannaturale. Di fronte alla Rivelazione divina, le reazioni della Regina e di Guglielmo sembrano addirittura ossimoriche, infatti, Margherita si lamenta della struggente rivelazione poiché, dopo aver sopportato il marito per tanti anni, ora che potrebbe goderlo nel bene, Dio glielo toglie, ma a questo si aggiunge anche la preoccupazione della gestione del governo: «Chi darà nel governo a me consiglio?». 3 Alla ‘lamentatio’ di Margherita seguono paradossalmente, se non inseriti all’interno del processo di conversione, i ringraziamenti di Guglielmo: «Ringrazio Dio, che con pietà riguarda / me, la mia casa, il real seme, il regno. / Ond’io dal suo voler niente mi allungo», 4 parole che contrastano con l’atteggiamento della Regina che non trova consolazione a causa del progetto di Dio. A tale riguardo è proprio Guglielmo che le suggerisce di aver fede in Dio: «Datti pace, Regina, e tien ben fermo / esser miglior, quant’ha ’l buon Dio disposto». 5 E il verso «Sia dunque il voler nostro al suo conforme» 6 non può non rievocare i versi danteschi del canto iii del Paradiso nei quali Piccarda dichiara: «A questo regno, a tutto ’l regno piace, / come allo re ch’a suo voler ne ’nvoglia; / e la sua volontade è la vostra pace». 7 La beatitudine, pertanto, nasce dalla conformità delle anime al volere di Dio, frutto, in Guglielmo del processo di conversione. È indicativo che proprio queste parole fungano da commiato dalla Regina, dalla corte e dal resto del mondo che non lo rivedranno più «se non defunto», 8 poiché vivrà il resto dei suoi giorni nascosto «nel sacro chiostro / là ’ve i padri Romiti a Dio dan laude», 9 parole che sanciscono il definitivo allontanamento dalla vita politica: «Più del regno, e governo, io non m’impaccio». 10 La parola salvifica di Cristo laverà Guglielmo da ogni colpa e il riscatto della sua anima avverrà proprio nel momento in cui accetterà, senza riluttanza, il volere di Dio che lo condurrà a concludere la sua vita nel chiostro. Dinnanzi a ciò, appare chiaro la sorte della Regina: «Fu mio destino star sempre sola, e scevra / dal mio Guglielmo, / o sia perverso, o santo». 11 Dunque, sia prima che dopo la conversione operata da Dio attraverso Rosalia, la Regina è da lui destinata ad una inevitabile solitudine e sul
1
2 Ibidem. Ibidem. 4 Ivi, p. 99. Ibidem. 5 6 Ivi, p. 102. Ibidem. 7 D. Alighieri, La Divina Commedia, commento di G. Biagioli, vol. iii, Milano, per Giovanni Silvestri, 8 1829, pp. 45-46. G. Romagnoli, op. cit., p. 103. 9 10 11 Ibidem. Ibidem. Ibidem. 3
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suo destino di sposa e di regina sembrano prevalere i principi politici della Ragion di Stato. Prima, però, di giungere alla rivelazione del piano divino, per far desistere il Re dal suo deviato comportamento, la Santa utilizza una serrata argomentazione: innanzitutto ricorda a Guglielmo il ruolo istituzionale che ricopre e, in seconda istanza, ne sottolinea la forte dimensione cristiana. Così Rosalia argomenta: Due cose al Re Guglielmo il Re dei regi / intender fa per me sua vil messaggia. / Prima, che tu sei Re; poi vuol secondo / che tu, Signor, d’esser cristiano intendi, / come Re non sei nato ad agi, e vezzi, / ma del tuo grande imperio al ben nascesti, / al vero onor, mostrando a tuoi vassalli, / che sei Re lor legittimo. 1
In riferimento alla prima affermazione, la Santa ricorda a Guglielmo quali devono essere i doveri del Re: «Questi son del buon Re gli antichi offici: / prima ascoltar, poi far giustizia a tutti / senza riguardo aver; chi la dimanda, / se ricco, o pover fia, nobile, o vulgo». 2
Per quanto concerne il secondo assunto, la Santa cerca di allontanare il sovrano dalla sua condotta lussuriosa, ricordandogli che, essendo cristiano, la «santa legge […] / a ciascun cristiano aver comanda / solo una donna in matrimonio giunta» 3 e lo invita a riflettere sulle sue parole. La funzione escatologica della Santa è confermata, sempre nell’Atto Primo, dalle parole di Margherita:
«So che Dio fu l’autor del ritorno. / Per altro fin cert’io creder non posso, / che per pubblico ben tu qui venisti; / quando a l’estremo, ahi gran dolor, son giunte / le cose nostre, ed io condutta al verde». 4
Il ‘pubblico ben’ è facilmente riconducibile al bene pubblico dell’età contemporanea al nostro Autore, pertanto la funzione della rappresentazione de La Rosalia è, non solo morale e educativa, ma anche politica ed invita gli spettatori, attraverso la riflessione sulla messinscena che si sta rappresentando, ad una maggiore presa di consapevolezza dello scenario e delle condizioni politiche del momento storico dell’epoca. La narrazione, da parte della regina, nel corso del Primo Atto, della corruzione morale di Re Guglielmo che aveva volto «l’amore a l’Arabe donzelle / da Dio lontane […] La sua vaga libidine sfogando / con una, e con un’altra ei va di quelle, / olio, e legne mettendo il dì le notti / al sozzo fuoco, onde ’l meschino avvampa», 5 serve, inoltre, a porre in evidenza la dissolutezza che costellava la vita privata di Re Guglielmo e che inevitabilmente si rifletteva, con dannose conseguenze, anche nella sfera politica: un disordine morale, dunque, ma anche politico. Il sovrano, infatti, quarto figlio di Ruggero II e di Elvira Alfonso di Castiglia diventò re di Sicilia nel 1154 alla morte del padre, crebbe nella sfarzosa corte di Palermo subendo inevitabilmente l’influenza della cultura araba e una volta salito al trono, non rinunciò a dedicarsi alle mollezze e agli agi, di cui sono testimonianza le parole di Margherita, trascurando in tal modo gli affari del Regno che vennero affidati a Maione di Bari, una delle persone di fiducia. 6 È interes
1
2 3 Ivi, p. 29. Ibidem. Ibidem. 5 Ivi, p. 18. Ivi, p. 19. 6 Per un approfondimento del profilo storico del re Guglielmo, si confronti: G. Ravegnani, I trattati con 4
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sante notare come il riferimento al mondo arabo si ammanta di una accezione non certamente positiva, qualora le fanciulle arabe sono portatrici di lascivia e di lussuria e il mondo arabo ritorna nell’Atto Quarto, quando, dovendo decidere dove imprigionare il Re per sottrarlo alle ire del volgo che voleva deporlo, si stabilisce di «porlo qui vicino a quella villa / ch’Alcuba l’idioma arabo appella, / sgombre indi pria le Saracine putte, / delizie sue ne i dì vissuti indarno»; 1 il riferimento è a quello stesso edificio nominato da Boccaccio nella sesta novella della quinta giornata che narra la vicenda d’amore tra Gian di Procida, nipote dell’omonimo eroe del Vespro Siciliano e Restituta, una bella ragazza di Ischia rapita da alcuni giovani siciliani per offrirla a Federico II d’Aragona, l’allora re di Sicilia. Nel castello di Cuba, costruito da Guglielmo II nel 1180, 2 Boccaccio immagina che venga tenuta prigioniera Restituta senza dare ulteriori spiegazioni sulla possibile presenza di altre fanciulle. Così, infatti, scrive:
Il re veggendola bella, l’ebbe cara; ma per ciò che cagionevole era alquanto della persona, infino a tanto che più forte fosse, comandò che ella fosse messa in certe case bellissime d’un suo giardino, il quale chiamavano Cuba, e quivi servita, e così fu fatto. 3
Tra i personaggi della tragedia, il più «stereotipato», 4 come evidenziato da Gianfranco Romagnoli, appare proprio quello di Rosalia che viene dipinta come perfetto e incontestabile araldo di Dio, votata a Lui sin dalla infanzia, che con autorevolezza si rivolge ai nobili e ai sovrani senza manifestare un minimo segno di umana debolezza poiché il suo diretto interlocutore è Cristo stesso; dal monologo di Rosalia dell’atto primo che segue il dialogo tra lei e la regina Margherita che espone i vizi di re Guglielmo, infatti così si legge:
Che debbo far, che mi consigli, o Cristo? / Come a tanto mal potrò gir contra? / Donde a Satan comincierò la guerra? Men vado al Re, perché del mal s’accorga? […] Venite spirti / miei consiglieri sotto visibil forme. / Fate a me col dir vostro, o Santi aperto, che comanda a me Dio, vado o qui resto? 5
La sicurezza, la fortezza granitica della Santa è pertanto sostenuta e garantita dall’aiuto diretto di Dio al quale fa appello attraverso la mediazione dei Santi e nel momento di smarrimento, rimprovera a se stessa la poca fede: Ahi, smemorata, è uscito a te di mente, / del maestro divin l’aureo consiglio? Quando, diss’egli, andrete innanzi a’ regi, / non abbiate pensier, che cosa, o come / si debba dir; ma tutto a me si lasci. / Io vi do allora, e sapienza, e lingua, la qual non potranno egual risposta / dar gli aversari, onde verran convinti». 6
Bisanzio 992-1198, Venezia, Il Cardo, 1992; B. Pio, Guglielmo I d’Altavilla. Gestione del potere e lotta politica nell’Italia normanna (1154-1169), Bologna, Patron, 1996; D. Matthew, I Normanni in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1997 (ed. orig. The Norman Kingdom of Sicily, London, 1992); J. J. Norwich, Bisanzio, Milano, Mondadori, 2000; G. Ravegnani, I bizantini in Italia, Bologna, Il Mulino, 2004. 1 G. Romagnoli, op. cit., p. 74. 2 La Cuba fu fatta costruire da Guglielmo II, figlio di Guglielmo I il Malo, protagonista della tragedia La Rosalia di Scammacca, pertanto ai fini di una certa veridicità storica, il particolare sulla Alcuba fornito da Scammacca sembra non rispondere ad essa. 3 G. Boccaccio, Decameron, a cura di Vittore Branca, Milano, Mondadori, 1989, p. 467. 4 G. Romagnoli, op. cit., p. 5. 5 6 Ivi, pp. 22-23. Ivi, p. 23.
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La garanzia della santità di Rosalia e della veridicità ed autenticità del suo messaggio è costituita, dunque, dalla dimensione soprannaturale che edulcora ed attenua ogni possibile atteggiamento incredulo. Ma la eccessiva enfasi della dimensione sovrannaturale che fa apparire il personaggio della Santa poco attendibile e plausibile è giustificata dal fatto, secondo Romagnoli, che «questi difetti, tuttavia, sono da considerarsi voluti dall’Autore in quanto funzionali alla finalità edificante che il dramma si propone, anche a danno della veridicità storica e della plausibilità del loro spessore umano». 1 In conclusione, appare evidente che la struttura della tragedia si articola intorno a due nuclei narratologici fondamentali; la religione e la politica, infatti, si intrecciano indissolubilmente nel testo teatrale con il prevalere ora dell’una ora dell’altra a seconda dell’intensità dell’argomento trattato, anche se nel finale sembra prevalere la dimensione religiosa espressa dal coro:
Da mal seme in incolto arido suolo / chi a la fin sia produtto / per buon pentir di vita eterno frutto, / chi coglie, ove non sparge, il può far solo. 2
Dall’analisi testuale effettuata, pertanto, rimane ancora difficile stabilire in modo inequivocabile ne La Rosalia un prevalere della connotazione storica su quella religiosa. A sostegno di quanto affermato, potrebbero essere di aiuto gli interventi della Santa. Nel testo teatrale, infatti, essi sono concentrati soprattutto nell’Atto primo nel quale si dà ampio spazio alla missione salvifica-soprannaturale della presenza di Rosalia; nell’Atto secondo che vede come protagonisti Maione, Guglielmo e Rosalia che cerca di distoglierli dalla prava condotta, si assiste ad una rarefazione degli interventi della Santa fino a registrarne una totale assenza nell’Atto terzo nel quale predominante è il fatto politico: Maione, il primo ministro, la persona più fidata del Re viene ucciso da Matteo Bonelli che, attraverso un’azione ermeneutica, mette in evidenza la meschinità del Re; gli interventi di Rosalia riprendono nell’Atto Quarto nel quale, grazie alle parole di Margherita, viene resa manifesta la santità di Rosalia e proseguono nell’Atto Quinto nel quale la Santa svela il progetto di Dio su ciascuno dei componenti della famiglia reale normanna, facendo in questo caso prevalere la dimensione soprannaturale che regola, determina e giustifica le sorti del Regno. Bibliografia I. Arellano, Historia del teatre espanol del siglo xvii, 2005, Madrid, Catedra, cap. i. W. V. Bangert, Storia della Compagnia di Gesù, Genova, Marietti, 1990. E. Bertana, La tragedia, Milano, Vallardi, 1917. F. Cambi, Manuale di Storia della Pedagogia, Roma-Bari, Laterza, 2003. S. Cabibbo, Santa Rosalia tra cielo e terra, Palermo, Sellerio, 2004. F. Charmot, s.j., La Pèdagogie dès Jèsuites, Paris, Aux Éditions Spes, 1941. P. Collura, Santa Rosalia nella storia e nell’arte, Palermo, 1977. F. De Dainville s.j., Allégorie et actualité sur les tréteaux des jésuites, in Colloques Internationaux du Centre National de la recherche Scientifique, Dramaturgie et Société. Rapports entre l’oeuvre théâtrale, son interprétation et son public aux xvi et xvii siècles, Nancy-Paris, Éditions du Centre National de la Recherche Scientifique, 1967. 1
Ivi, p. 6.
2
Ivi, p. 104.
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L’ORTIS FOSCOLIANO E GLI ECHI DELLA XXVI LETTERA DI JULIE OU LA NOUVELLE HÉLOÏSE
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a lettera xxvi dell’opera di Jean-Jacques Rousseau Julie ou la Nouvelle Héloïse è una pagina della letteratura francese che costituisce un esempio emblematico della diffusione del gusto del sentimentale, di quella sensibliere, cioè attenzione alla vita del cuore, predisposizione verso la commozione, il patetico e il lacrimevole che operò una grande suggestione nella letteratura italiana sin dalla fine del xviii secolo, grazie alla promulgazione, in traduzione, di opere straniere. Il romanzo roussoniano appartiene al genere epistolare nel quale la narrazione si articola attraverso lo scambio di lettere tra più personaggi a differenza di quanto avviene nel Werther di Goethe e nell’Ortis foscoliano nei quali il genere tende ad assumere una connotazione più intimistica poiché la narrazione è costruita attraverso le lettere del solo protagonista: prototipo del moderno monologo nel quale il protagonista si sottopone ad un processo di autoanalisi e stabilisce un colloquio con se stesso, aprendo in tal modo la strada al romanzo-confessione in prima persona. Nonostante queste differenze, una caratteristica comune alla Nouvelle Héloïse e all’Ortis di Foscolo è costituita da un processo di identificazione tra narratori e personaggi, i narratori sono i personaggi stessi ed è assente la voce di un narratore onnisciente destinato a presentare i fatti, pertanto il futuro è del tutto sconosciuto e da ciò scaturisce che il lettore vive l’azione nel momento in cui la vive il personaggio ed è assente la riflessione critica consentita dalla narrazione di eventi passati. Ciò conferisce maggiore immediatezza drammatica e, dato che la lettera è il risultato derivante dall’emozione viva ed immediata del cuore, il romanzo è la forma più adeguata per dare espressione al ‘sentimentalismo’, inteso come forma particolare di sensibilità tipica della cultura settecentesca: in tal modo, nel caso della Nouvelle Héloïse e del Werther, vi è una perfetta corrispondenza tra materia e forma narrativa. Per l’Ortis, invece, la lettera è il mezzo più adatto per esprimere la tensione eroica, amorosa e politica, del protagonista, nel suo stato magmatico incandescente. 1 Nell’Ortis, dunque, rispetto alla Nouvelle Héloïse e al Werther, prevale la spinta lirico-sentimentale che fa sì che, più che un racconto costituito da un intreccio di eventi, ritratti di personaggi, evocazioni di ambienti sociali, l’opera appaia come un monologo nel quale predominano l’enfasi del ‘pathos’ e l’abbandono a riflessioni filosofiche e politiche, presupposto teorico del sistema valoriale foscoliano. Secondo quanto affermato da Mario Puppo, infatti, «per il Foscolo i valori, che non hanno più giustificazione metafisico-religiosa e neppur razionale, trovano un sostegno nel sentimento: illusioni finchè li considera la ragione fredda e astratta, diventano realtà viventi e operanti quando investono il cuore e lo infiammano, trasportando l’uomo
1 Cfr. J. Rousset, Una forma letteraria: il romanzo epistolare, in Forma e significato, trad. it., Torino, Einaudi, 1976. Il testo offre una accurata analisi sul romanzo epistolare.
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alla vita e all’azione anche in contrasto con i dati della sua logica. Nel sentimento è la voce vera della natura, la manifestazione spontanea della nostra umanità, il fondamento della personalità individuale». 1 Nella xxvi lettera della Nouvelle Héloïse, emergono dei nuclei tematici che influenzeranno l’Ortis foscoliano: in questa sede, infatti, il proposito è quello di analizzare i rapporti intercorrenti tra le due opere partendo dall’individuazione di alcuni punti rilevanti della lettera. Dal confronto tra i due capolavori affiora che, uno degli elementi comuni, è il concetto di sensibilità. Saint-Preux, precettore di Julie, unica figlia del barone d’Etange che si innamora, riamata, del suo precettore, borghese e di modeste condizioni, afferma che colui che ha l’anima sensibile non può aspettarsi di ricevere che pene e dolori sulla terra; pregiudizi e convenzioni sociali impongono ostacoli invincibili ai moti spontanei del suo cuore, dettati dalla natura; in tal modo trapela la nozione roussoniana di sensibliere secondo la quale l’essenza della superiorità delle anime elette è il cuore, cioè la capacità di sentire intensamente:
O Giulia, che fatale dono del cielo è un’anima sensibile Colui che l’ha ricevuto non deve aspettarsi che pene e dolori sulla terra. Vile trastullo dell’aria e delle stagioni, il sole o le nebbie, il cielo coperto o sereno regoleranno la sua sorte, e sarà lieto o triste secondo i venti. Vittima dei pregiudizi, troverà in massime assurde un invincibile ostacolo ai giusti voti del suo cuore. Gli uomini lo castigheranno perché ha rette opinioni su ogni cosa, e perché ne giudica secondo verità e non secondo convenzioni. Basterebbe da solo a fare la propria infelicità, abbandonandosi senza discrezione alle divine attrattive dell’onesto e del bello, mentre le pesanti catene della necessità lo legano all’ignobiltà. Cercherà la suprema felicità senza ricordarsi che è un uomo: il cuore e la ragione saranno eternamente in guerra in lui, desideri sterminati gli prepareranno eterne privazioni. 2
È qui presente quella dicotomia tra cuore e ragione che sarà ancora più incisiva nella postilla posta in calce ai Sepolcri e nella quale Foscolo dichiara di aver tratto ispirazione dalla poesia dei Greci che, dopo aver assimilato sentenze etiche dalle tradizioni degli antichi, le presentavano al cuore e alla fantasia dei lettori, non alla loro ragione. Guardando ancora più in profondità, sembra emergere anche l’idea che le anime più elevate, quelle più profonde e sensibili, siano necessariamente infelici, poiché possedere una sensibilità più acuta, da una parte è un privilegio, ma dall’altra è una condanna che isola dalla società e rilega l’individuo alla diversità. Da quanto detto risulta chiaro che Saint-Preux, giovane intellettuale pensatore, incarni l’anima sensibile per eccellenza. Nella Nouvelle Héloïse, si profila in tal modo quel conflitto tra l’intellettuale e la società, primo elemento comune alla pagina roussoniana e all’opera di Foscolo che sarà poi basilare nella cultura dell’Ottocento e del Novecento. Il secondo elemento comune è individuabile nell’amore impossibile. L’anima sensibile nutre un profondo desiderio d’amare ed in ciò si manifesta la sua elevatezza spirituale, ma la sofferenza nasce dall’impossibilità di raggiungere l’oggetto del desiderio: 1 M. Puppo, Le poetiche del romanticismo dal Foscolo al Carducci, in Momenti e problemi di storia dell’estetica, iii, Milano, Marzorati, 1961. 2 J. J. Rousseau, Giulia o la Nuova Eloisa, parte i, lettera xxvi, trad. it. di P. Bianconi, vol. i, Milano, Rizzoli, 1964, pp. 2-11.
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Questa è la crudele situazione in cui mi tengono il destino che m’opprime, i sentimenti che mi innalzano, e tuo padre che mi disprezza, e tu che sei l’incanto e il tormento della mia vita. Senza di te, fatale bellezza! Non avrei mai provato l’intollerabile contrasto di grandezza in fondo all’anima e di bassezza nella fortuna; sarei vissuto tranquillo e morto contento, senza degnarmi di notare il rango da me occupato sulla terra. Ma averti vista e non poterti possedere, adorarti e non essere che un uomo! O Giulia cui non posso rinunciare! O destino che non posso vincere! Che orrende battaglie scatenate in me, senza mai poter superare i miei desideri e la mia impotenza! 1
In questa esclusione della soddisfazione del sentimento si proietta il senso di esclusione dell’intellettuale dalla società, il suo senso di impotenza, l’impossibilità di raggiungere quella collocazione che sente di meritare: la frustrazione sociale si traduce simbolicamente in frustrazione sentimentale, motivo che tornerà nell’Ortis. Il terzo elemento comune è la corrispondenza tra l’io e la natura. Il paesaggio, infatti, diviene la proiezione dello stato d’animo del soggetto che si manifesta attraverso due piani narrativi: un piano elegiaco, colmo di strazio delirante che conduce a quello più propriamente tragico. 2 La lettera xxvi riporta un passo che si colloca all’inizio della vicenda. Spaventati alla prima rivelazione del loro amore, i due giovani si sono separati, ma Saint-Preux si stabilisce sulla sponda opposta del lago da dove può vedere il luogo dove vive Julie. Il paesaggio contribuisce «a tanta malinconia; è triste ed orribile, ma così è tanto più conforme stato dell’anima mia» 3 e diventa allora specchio dell’anima, riflesso dello stato interiore del protagonista, scheggia di un universo interiore irrequieto che si trasforma in un vorticoso movimento esteriore: «nei violenti trasporti che mi agitano non riesco a star fermo; corro, m’inerpico con ardore, mi slancio sugli scogli; percorro a grandi passi tutti i dintorni, e dappertutto trovo nelle cose l’orrore che regna dentro di me» 4 ed è in questo esatto momento che il paesaggio si inaridisce, l’erba diventa gialla, gli alberi spogli, i venti boreali producono neve e ghiacci e «tutta la natura è morta ai miei occhi, come la speranza in fondo al mio cuore». 5 La natura è morta, come morta è la speranza, ma epifanicamente emerge, tra le rocce del pendio, una breve spianata da dove Saint-Preux avidamente ogni giorno, grazie all’aiuto di un
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Ibidem. La corrispondenza tra i tre piani narrativi e lo stato di natura è effettuato da Lanfranco Caretti che al primo, propriamente elegiaco, associa il seguente passo: «S’apriva appena il più bel giorno d’autunno […]. Le nuvole dorate e gli alberi sussurrando soavemente, faceano tremolar contro la luce gocce trasparenti della rugiada; mentre i venti dell’aurora rasciugavano il soverchio umore alle piante. Avresti udito una solenne armonia spandersi confusamente fra le selve, gli augelli, gli armenti, i fiumi, e le fatiche degli uomini»; il secondo piano è individuabile nel seguente passo: «Sono uscito assai prima del sole e correndo attraverso de’ solchi, cercava nella stanchezza del corpo qualche sopore a quest’anima tempestosa […]. Soffia il vento della notte e mi scompiglia le chiome ed agghiaccia il sudore che grondavami dalle guance. Oh! da quell’ora mi sento per tutte le membra un brivido. Le mani fredde, le labbra livide, e gli occhi erranti fra le nuvole della morte»; l’ultimo piano, quello pieno di vibrante protesta, è suggerito dal seguente passo: «Per noi dunque quale asilo più resta fuorchè il deserto, o la tomba?... e la viltà! e chi più si avvilisce più vive forse, ma vituperoso a sé stesso, e deriso da quei tiranni medesimi a cui si vende, a da’ quali sarà un dì trafficato […]. Io guardando da queste alpi d’Italia piango e fremo, e invoco contro gl’invasori vendetta». Cfr. L. Caretti, Ugo Foscolo, in Storia della Letteratura italiana, vii, Milano, Garzanti, 1969, pp. 130-131. 3 J. J. Rousseau, Giulia o la Nuova Eloisa, cit., pp. 2-11. 4 5 Ibidem. Ibidem. 2
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telescopio, fissa lo sguardo sulla casa dell’amata, su quei «muri fortunati che racchiudono la sorgente della mia vita». 1 Il filosofo, allora, si innamora di quel luogo ed è lì che scrive la ventiseiesima lettera, esattamente su un «macigno che il gelo ha staccato dalla rupe vicina» 2 ed è da lì che l’infelice amante «gode gli estremi piaceri che forse potrà gustare al mondo». 3 I muri di casa si frantumano, si polverizzano, si smaterializzano e l’amante riesce ad arrivare fino alla camera di Giulia. La stessa semantizzazione della natura avviene nell’Ortis. Nella Lettera del 20 Novembre, la natura trascolora seguendo le modulazioni dell’anima di Jacopo influenzata indubbiamente anche da una visita d’occasione alla casa del Petrarca in Arquà, basti solo un accenno: «Parea che la Notte seguìta dalle tenebre e dalle stelle fuggisse dal Sole, che uscia nel suo immenso splendore dalle nubi d’oriente, quasi dominatore dell’universo; e l’universo sorridea». 4 Il paesaggio è avvolto da una «solenne armonia» 5 che si spande «confusamente fra le selve, gli augelli, gli armenti, i fiumi, e le fatiche degli uomini» 6 e Teresa partecipa a questa sorta di transunstansazione del paesaggio, rapita quasi da un’esperienza mistica con «i suoi grandi occhi neri aperti prima dell’estasi». 7 Innegabile è anche l’influenza petrarchesca, di «Quel grande alla cui fama è angusto il mondo, / Per cui Laura ebbe in terra onor celesti» 8 e allora dall’anima di Foscolo sgorga sommessamente la canzone Chiare, fresche, dolci acque e sussegue l’altra Di pensier in pensier, di monte in monte e ancora il sonetto Stiamo, Amore, a veder la gloria nostra. Nella lettera del 19 Gennaio, la Natura riflette la condizione interiore di Jacopo, tutto assorto in meditazioni sulla felicità che si trova nella «vota apparenza delle cose che ora m’attorniano», 9 riflessione che porta Antonino Pagliaro alla considerazione che «il vero assoluto è per il Foscolo la natura, più propriamente, questa forza cosmica che trascina l’universo in un incessante divenire, in cui le forme della materia appaiono come realtà transeunti e caduche», 10 atteggiamento ideologico propedeutico ai Sepolcri. Di fronte alla constatazione amara che «mentre noi serviamo ciecamente al suo fine, essa ride del nostro orgoglio che ci fa reputare l’universo creato solo per noi, e noi soli degni e capaci di dar leggi al creato», 11 la natura dinnanzi a lui perde i colori della speranza e rende evidenti «lo squallore della terra tutta sepolta sotto le nevi, senza erba né fronda». 12 I connotati paesaggistici sembrano immersi in un’aurea senza tempo, dalle sfumature degne dell’Inferno dantesco: «né potevano gli occhi miei lungamente fissarsi su le spalle de’ monti, il vertice de’ quali era immerso in una negra nube di gelida nebbia che piombava ad accrescere il lutto dell’aere freddo ed ottenebrato». 13 È solo la presenza di Teresa che riesce a trasformare l’anima del poeta e con essa la natura che lo circonda, così da quanto emerge nella lettera del 14 maggio: a Teresa stanca della salita, il poeta indica un gelso, il più bel gelso, «alto, solitario, frondoso» 14 sotto il quale avrebbe voluto innalzare un altare. Teresa sedeva sotto il gelso e Jacopo, seduto accanto a lei con la testa appoggiata al tronco, recitando le odi di Saffo, pro
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2 Ibidem. Ibidem. U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2009, p. 46. 5 6 Ivi, p. 42. Ibidem. 8 Ivi, p. 46. 10 A. Pagliaro, Nuovi saggi di critica semantica, Firenze-Messina, D’Anna, 1963, p. 365. 11 U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, cit., p. 63. 13 Ibidem.
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Ibidem.
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Ibidem. Ivi, p. 63.
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Ibidem. Ivi, p. 93.
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ruppe nell’esclamazione «beata sera!». 1 Ma anche la natura sublima l’anima di Jacopo e la dichiarazione più chiara di questo processo si ha nella lettera del 25 maggio nella quale la rappresentazione della natura si fonde con l’anima del poeta poiché animate da uno stesso tumulto interiore, infatti, così si legge: «Sono salito su la più alta montagna: i venti imperversavano; io vedeva le querce ondeggiar sotto a’ miei piedi; la selva fremeva come mar burrascoso, e la valle ne rimbombava; su le rupi dell’erta sedeano le nuvole – nella terribile maestà della natura la mia anima attonita e sbalordita ha dimenticato i suoi mali, ed è tornata per alcun poco in pace con se medesima». 2 È proprio in questa corrispondenza che Jacopo trova una sorta di pace in quanto la sua personale condizione è assimilata a quella dell’universo ed è nella natura che riflette la sua travagliosa contraddizione: «Così vaneggio! Cangio voti e pensieri, e quando la Natura è più bella tanto più vorrei vederla vestita a lutto». 3 Ed è prima di quel lutto che Jacopo salutò per sempre le selve, i campi, il cielo e visitato per l’ultima volta le sue montagne ed il lago dei cinque fonti, riflesso delle sue solitudini. Emblematicamente, gli ultimi istanti di vita sono consolati da quel sacro gelso, da quell’erba che ha bevute le più dolci lacrime che egli abbia mai versato, calda ancora della presenza di Teresa. La «beata sera» del giovedì 13 maggio rimarrà per sempre stampata nel suo cuore. Nella lettera da Ventimiglia, il paesaggio, all’inizio del passo, si profila con le stesse connotazioni aride e brulle che sono emerse dalla ventiseiesima lettera della Nouvelle Héloïse. Nelle sue peregrinazioni per l’Italia, Jacopo è giunto sino al confine occidentale di Ventimiglia ed è proprio la vista dei confini a suggerirgli una serie di riflessioni pessimistiche sulla natura e sulla storia che è aspra: «Ho vagato per queste montagne. Non v’è albero, non tugurio, non erba. Tutto è bronchi; aspri e lividi macigni […] La Natura siede qui solitaria e minacciosa, e caccia da questo suo regno tutti i viventi». 4 La disillusione delle idee politiche provoca in Jacopo un senso di profonda tristezza che si riflette nella aridità della natura, ma nella conclusione della lettera emerge la speranza di poter placare e concludere la sua fuga in quelle «sacre terre, che prime udiste i miei vagiti, dove tante volte ho riposato queste mie membra affaticate, dove ho trovato nella oscurità e nella pace i miei pochi diletti, dove nel dolore ho confidato i miei pianti». 5 È innegabile il riferimento al Werther, così come più volte è stato sottolineato dalla critica e dallo stesso Stendhal: «Io conosco una pesante imitazione di Werther, intitolata Lettere di J. Ortis» 6 e quella di Niccolò Tommaseo «L’Ortis è una ragazzata che molto promette e ottiene già. Non si possono, da uomo fatto, lodare gli affetti esagerati, cioè non sentiti, né le massime false, poiché dopo aver letto il Werther non si può non l’avere per la doppia ragazzata. Ma il sentimento patrio domina e gli dà l’impronta sua». 7 L’archetipo dell’amore infelice, di certo non rappresenta una novità all’interno della produzione romantica dello Sturm und Drang, ma sicuramente Foscolo gli conferisce una interpretazione che assorbe e plasma le vicende personali e quelle italiane, così come egli si esprimerà in una importante lettera circa le somiglianze tra il suo romanzo e quello di Goethe: «L’arte non consiste nel rappresentare cose nuove,
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2 Ibidem. Ivi, p. 98. 4 Ivi, p. 100. Ivi, p. 155. 5 6 Ibidem. Ivi, p. 20. 7 N. Tommaseo, Foscolo, Venezia, 1840. 3
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bensì nel rappresentare con novità» 1 e la novità foscoliana consiste proprio nell’aver operato una sorta di unificazione tra le matrici fondamentali del suo pensiero, l’amore sentimentale, l’amor patrio e il sistema costituito dai più alti valori etici, il valore della tradizione e della storia. 2 Infatti, la «filosofia del sentimento», 3 così definita da Francesco, non si definisce attraverso un processo di affermazione della propria eccezionale individualità, ma mediante l’assimilazione del pensiero vichiano, si apre alla comprensione della realtà concreta, storicamente determinata, degli individui. 4 Se l’amor patrio e il sistema valoriale collegano idealmente l’Ortis al capolavoro dell’autore tedesco, la trattazione dell’amore sentimentale, elemento assai diffuso nella poetica foscoliana, uno dei più interessanti della nostra storia letteraria, costituisce un valido e paradigmatico ‘trade d’union’ con la xxvi lettera della Nouvelle Héloïse.
Bibliografia Studi biografici, monografie critiche A. Pagliaro, Nuovi saggi di critica semantica, Firenze-Messina, D’Anna, 1963, p. 365. W. Binni, Ugo Foscolo, storia e poesia, Torino, Einaudi, 1982. M. Cerruti, Introduzione a Foscolo, Roma-Bari, Laterza, 1990. F. De Sanctis, Ugo Foscolo, in Saggi critici, a cura di L. Russo, Bari, Laterza, 1953. F. Flora, Storia della letteratura italiana, iv, Milano, Mondadori, 1961, p. 32. M. Fubini, Ugo Foscolo, Firenze, La Nuova Italia, 1978. G. Nicoletti, Foscolo, Roma, Salerno Editrice, 2006. M. Puppo, Le poetiche del romanticismo dal Foscolo al Carducci, in Momenti e problemi di storia dell’estetica, iii, Milano, Marzorati, 1961. N. Tommaseo, Foscolo, Venezia, 1840.
Sulle Ultime lettere di Jacopo Ortis P. Ambrosino, La prosa epistolare del Foscolo, Firenze, 1989. G. Bàrberi Squarotti, L’itenerario tragico di Jacopo Ortis, «Forum Italicum», xii, 1978. W. Binni, Ortis e Didimo. Ricerche e interpretazioni foscoliane, Milano, Feltrinelli, 1963. G. De Robertis, Per una lettera dell’Ortis, Il lavoro dell’Ortis, I tre «Ortis», in Studi, Le Monnier, Firenze, 1971. A. M. Mutterle, Foscolo e la virtù nascosta, in «Frammenti di un discorso amoroso» nella scrittura epistolare moderna, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 1992. G. Nicoletti, Il metodo dell’Ortis e altri studi foscoliani, Firenze, La Nuova Italia, 1978. A. Pagliaro, Nuovi saggi di critica semantica, Firenze-Messina, D’Anna, 1963. M. Palumbo, Saggi sulla prosa di Ugo Foscolo, Napoli, Liguori, 1994. M. Puppo, Retorica e lirica della passione nella prosa dell’Ortis, «Atti Accademia ligure di Scienze e Lettere», xxxv, 1978. M. A. Terzoli, Il libro di Jacopo. Scrittura sacra nell’«Ortis», Roma, Salerno Editrice, 1988. M. A. Terzoli, Le prime lettere di Jacopo Ortis. Un giallo editoriale fra politica e censura, Roma, Salerno Editrice, 2004. 1
2 Cfr. U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis, cit., p. 17. Ibidem. F. Flora, Storia della letteratura italiana, iv, Milano, Mondadori,1961, p. 32. 4 Cfr. a tale proposito M. Puppo, Le poetiche del romanticismo dal Foscolo al Carducci, cit., p. 996. 3
LA LUCILLA DISINGANNATA DI GIOVANNI PERRONE TRA LETTERATURA E RELIGIONE
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el dibattito storico-teologico-culturale della metà del xix secolo, padre Giovanni Perrone si presenta come uno dei maggiori restauratori della teologia cattolica: professore di teologia dogmatica al Collegio Romano del quale fu rettore (1853-1855) e prefetto agli studi (1855-1856), fece parte di molte Sacre congregazioni e della commissione nominata da Pio IX (1848) per definire il dogma dell’Immacolata Concezione; fu teologo del Concilio Vaticano i e scrisse opuscoli apologetici e trattati teologici tra i quali si evidenzia La Lucilla disingannata ossia il protestantesimo svelato, edito nel 1866 a Torino da Pietro Di G. Marietti, tipografo pontificio. Il libretto costituisce un esempio di trattato teologico che si colloca all’interno della soluzione formale del trattato diegetico: pur basandosi sulla preminenza del dialogo, lo inserisce in un contesto discorsivo. Le motivazioni che indussero Giovanni Perrone a cimentarsi in questa opera apologetica della religione cattolica sono esplicitamente espresse dall’Autore stesso in una pagina, dedicata al lettore italiano, che costituisce la premessa all’intero libretto. Il linguaggio metaforico afferente al campo semantico della malattia contribuisce notevolmente a rendere in modo suggestivo la dimensione della endogena condizione in cui imperversa la nostra penisola. Così, infatti, si legge: La eterodossia, già confinata e sepolta nel fondo di alcune valli, sotto le Alpi, uscì pocanzi col favore dei pubblici rivolgimenti, come una esaltazione sprigionata dal lezzo di malsana palude, ad infettare la nostra bella penisola. Per impedire i tristi effetti di tanto male si richiedeva un antidoto: e i dotti e buoni italiani non mancarono di apprestarlo conforma al bisogno. 1
Nonostante ciò, al padre Perrone sembrò opportuno raccogliere in un breve testo quanto di negativo seppe recare il protestantesimo con l’impugnare la verità cattolica per mostrarne la falsità: il lettore, infatti, troverà tutti i paralogismi, tutte le fallacie, tutti i sofismi che hanno seminato i propagatori dell’eterodossia ma contemporaneamente avrà anche una chiara e piena confutazione degli errori che si vorrebbero iniettare nelle menti degli italiani dai nemici della “nostra più bella gloria” o da quei disertori italiani che provvedono a nascondere la loro infamia con l’aumentare il numero delle apostasie. Ardore di patria e difesa accesa ed infiammata dei valori religiosi attaccati nella loro dimensione dogmatica, possono trasparire dal pensiero del padre gesuita che in modo ancora più convinto sostiene che l’intelligenza è avvelenata dall’errore e nell’ordine religioso l’errore volontario è veleno mortalissimo a tutto l’uomo poiché corrompe il principio stesso della vita e, quando non riparato in tempo, stende i suoi danni a tutto 1 G. Perrone, La Lucilla disingannata, ossia il protestantesimo svelato, Torino, Pietro Di G. Marietti, 1866, p. 3.
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l’avvenire dell’individuo. Pertanto padre Perrone, cercò di provvedere nel predisporre a sorsi a sorsi l’antidoto a tanto veleno con la pubblicazione dell’opuscolo in altrettanti articoli che uscirono nel periodico bolognese Il Conservatore e che successivamente, dopo essere stati accresciuti di aggiunte e perfezionati, presentano il contravveleno tutto insieme con l’auspicio che sia utile «a risanare gli infetti e a preservare tutti gli altri dalla corruzione». 1 Se l’intento di illuminare le menti liberandole dall’errore e dagli inganni delle false ideologie è espresso chiaramente come scopo principale dell’impegno del nostro Autore, altrettanto palese e manifesto sembra essere il principio autorale e fondativo a cui si ispira: i classici sono modello del suo operare sul piano strumentale soprattutto Lucrezio, poeta della ragione, laddove nel De rerum natura mediante una celebre similitudine che verrà ripresa da Torquato Tasso nel proemio della Gerusalemme Liberata, dichiara il valore strumentale della forma poetica e, nel caso di padre Perrone, della prosa, destinata a mediare in modo efficace contenuti salutari ma difficili che altrimenti risulterebbero ostici al lettore. La stessa intenzione è espressa dal nostro Autore al termine dell’introduzione allorché, per giustificare la scelta a livello strutturale di suddividere l’opera in dodici capi affinché la lettura non riesca troppo grave per la sua prolissità, sente la necessità di distinguerli in paragrafi per alleggerire «la fatica dell’intendere». 2 Proprio nell’Introduzione, padre Perrone rende esplicito il mezzo di cui si avvarrà nell’organizzazione della sua apologia dottrinale:
A conoscere il merito di una causa difesa passionatamente da scaltri patrocinatori non v’ha mezzo più acconcio che il paragone delle prove poste al cimento della verità sì dei fatti come dei principii. Di questo mezzo noi ci valemmo nel confutare quell’ingannevole libretto il quale si aggirava per le nostre contrade con in fronte il pomposo titolo dell’Impossibilità storica del viaggio di San Pietro in Roma, quando, per forza di ragioni e di fatti, fu da noi provato che lo scrittore di quell’opuscolo non altro giunse quivi a dimostrare che un eccesso d’ignoranza sventuratamente accoppiata ad altrettanto di mala fede. 3
Padre Giovanni Perrone, aveva, pertanto, un caso precedente che già illuminava il suo cammino: E dello stesso mezzo ci varremo al presente nella disamina di un libretto scritto in francese dal ginevrino Monod, col titolo di Lucille ou La lecture de la Bible, e voltato in italiano col titolo dimezzato di Lucilla, il quale, ristampato nel 1859, fu detto dall’editore aureo libro, benché non abbia dell’oro punto nulla se non forse la virtù di sedurre; e Storia vera, benché non sia se non un semplice racconto romanzesco. 4
Il dovere di carità che stringeva il padre intorno ai cari compatrioti, lo indusse a prendere l’impegno di confutare i libri eterodossi che sparsero il veleno dell’errore in tutta la penisola e quel dovere e quell’impegno lo obbligò successivamente all’esame e alla contestazione del libretto definito con accezione machiavellica ‘tristo’, quasi a sottolineare la valenza negativa e malvagia dello scritto. 1
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Ivi, p. 4. Ivi, p. 5.
Ivi, p. 7. Ivi, p. 6.
la lucilla disingannata di perrone tra letteratura e religione 55 La metodologia è chiarita dallo stesso padre Perrone: una volta raggiunto lo scopo di porre in chiaro la meschinità e falsità dell’impugnazione della verità cattolica, per dare maggior gloria alla confutazione, si argomenterà partendo dai fatti al fine di proporre nettamente il concetto che ogni cattolico deve avere di quel protestantesimo di cui ora, sottolinea ironicamente il padre, si vorrebbe far dono all’Italia. Pertanto da propugnatori, sarà necessario diventare aggressori avendo come scopo quello di dimostrare tutta la deformità di questo sistema vôlto a distruggere il cristianesimo, anziché a riformarlo, «come pretendono quei così detti ministri che ora si arrabbattono nella nostra penisola per farla apostatare dalla vera fede ricevuta in retaggio prezioso dalle generazioni precedute e rimasa pel corso di diciannove secoli intemerata». 1 I cosiddetti ministri, specifica padre Perrone, sono uomini laici, senza carattere che si arrogarono il diritto di annunziare quelle sole verità contenute nella Bibbia e questa si intende mozzata, corrotta, interpretata a modo loro, ovvero a modo della setta alla quale appartiene ciascun ministro, ma il padre non vuole allontanarsi dal proposito principale con il riflettere sulla natura dei ministri, pertanto inizia la sua confutazione. Numerose volte appare, nel corso del libretto, il termine suddetto a riprova del proposito saldo di dimostrare la falsità degli assunti del protestantesimo, in nome di quel santo Vero di manzoniana memoria. Il Capo i de La Lucilla contiene importanti informazioni sulla struttura del libretto: il primo paragrafo offre dei cenni biografici su Adolfo Monod, scrittore della Lucilla, nato a Ginevra, si esercitò nell’ignobile mestiere del sedurre i cattolici al calvinismo, recandosi per tal fine nella vicina città di Lione e cercando, ovunque andasse, di concitare i popoli al rinnegamento dell’antica fede, morendo da eretico ostinato e professando la giustificazione per la sola fede senza le buone opere. Proprio quest’uomo dal traduttore italiano viene proclamato santo che con santa morte finì la sua vita. Nel libretto di Monod si finge che una certa Lucilla, nata protestante, sia diventata poi cattolica con il solo intento di sposare un marito incredulo che certamente non esigeva da lei questo sacrificio. Cattolica di nome ma non di convinzione, Lucilla praticava la religione solo come adesione esteriore e materialmente con l’andare a Messa: il suo cuore era vuoto di Dio, non per colpa della religione cattolica ma per vizio personale. Un giorno, però, passando sotto le mura di un cimitero, la protagonista si chiede a quale chiesa, protestante o cattolica, apparterrà il suo corpo dopo la morte. Fu questa la prima riflessione religiosa che fece in vita sua e questa appunto le fece prendere la soluzione di diventare cattolica. Ritorna alle preghiere con attenzione e certi passi della Bibbia intervallati a preghiere di origine umana, la feriscono in modo particolare e la rendono quasi cristiana. La Bibbia, però, contiene degli aspetti che non si accordano con la sua ragione filosofica, quali le profezie, i miracoli, la rivelazione stessa; in queste occasioni Lucilla non è altro che l’eco di suo marito incredulo e filosofo, il signor Lassalle. Tuttavia Lucilla vuole acquistare una certa sicurezza sull’avvenire dell’anima e scrive all’abate Fabiano che, a detta dello stesso padre Perrone meglio si potrebbe chiamare don Abbondio, poiché può contare sulla sua discrezione ma non su quella del suo curato; l’abate Fabiano, nel racconto del Monod, da una parte è exemplum di agguerrito
1
Ibidem.
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campione in difesa della rivelazione divina, dall’altra di stolido dabbenuomo nel sostenere la causa cattolica siffattamente da cedere la vittoria al protestantesimo. L’abate conduce Lucilla brutalmente all’autorità della Chiesa, ella ricalcitra, vuole la Bibbia ma l’abate gliela interdice appellandosi al principio d’autorità. Coperto di allori per la sua prima vittoria, rientra in campo una seconda volta ma per farsi sconfiggere nettamente e prendere vergognosamente la fuga. Nel sistema dei personaggi, interviene un certo Mercier, veterano ufficiale del genio che da incredulo, ossia da cattolico solo nominale, è diventato protestante devoto mediante la lettura della Bibbia. Mercier esercita su Lucilla un forte potere di persuasione tanto da convincerla della necessità di leggere la Bibbia che farà di lei una protestante non meno devota di lui. Lucilla, forte delle sue convinzioni, andrà a sua volta a convertire l’abate ma questi non ardirà diventare protestante solo perché trattenuto dal suo abito. Fortunatamente per lui a questo punto cadrà la tela, ma la parola resterà al Monod che con prosa sdegnosa inveirà contro la Chiesa che proibisce la lettura della Bibbia e contro i preti cattolici che assecondano queste proibizioni con grave detrimento delle anime. Il lavoro del padre Perrone si condensa in modo particolare intorno alla seconda parte del libro nella quale il Mercier protestante, ossia cattolico rinnegato, comincia a pervertire la maldisposta Lucilla: nel prenderla in esame padre Perrone cercherà di scoprire la fine malizia usata dal Monod, ponendo in mano al lettore il filo per uscire con sicurezza dal labirinto in cui si vorrebbe che egli si smarrisse; sventerà i sofismi e le calunnie con le quali il Monod si avventava contro la Chiesa e il suo Pontefice. Nella conclusione, padre Perrone metterà in luce la saldezza del cattolicesimo contrapponendolo alla deformità del protestantesimo il quale si va corrompendo come ogni opera umana, mentre la Chiesa cattolica, come opera divina verdeggia e fiorisce nella perpetuità di sua giovinezza. Padre Perrone conclude il Capo i affermando che a persuadere un sistema religioso così viziato nella sua essenza, non valgono né le frasi di devozione, né il sentimento che informa un cuore tenero, ma un vuoto di fede, come vorrebbero i pietisti o sentimentalisti, ai quali appartiene Monod e con lui la sua Lucilla. Non si tratta, infine, di ricreare la mente attraverso la poesia, ma di credere ciò che Dio ha rivelato e di operare ciò che Dio stesso ha ordinato, per poter ricevere, dopo questa vita di prova, l’eterna ricompensa della nostra fedeltà. Nei Capi successivi, l’argomentazione tocca alcuni elementi finalizzati a sostenere l’azione apologetica nei confronti del cristianesimo; gli aspetti più rilevanti si concentrano sull’esame dell’apologetica dimostrazione della rivelazione cristiana, sulla chiarezza ed interpretazione della Bibbia, sulla Tradizione ed alla infallibilità della Chiesa, sulle prove apportate da padre Perrone della verità della Chiesa Cattolica e della falsità del protestantesimo, dell’unità della Chiesa e delle sètte protestanti, delle falsa accuse del Monod contro la Chiesa Cattolica, sulla discussione critica di alcune falsificazioni della storia da parte del Monod, sulla origine del protestantesimo da parte dei capi riformatori, sulla natura del protestantesimo nella fede e nella morale ed in ultimo, il Capo dodicesimo affronta gli effetti provenienti dal protestantesimo. All’interno del Capo dodicesimo, dopo aver esaminato i primi due effetti del protestantesimo nell’ordine religioso e nell’ordine morale ed averli rispettivamente indicati nel razionalismo
la lucilla disingannata di perrone tra letteratura e religione 57 e nell’immoralità e scostumatezza, padre Perrone concentra la sua attenzione sul terzo effetto del protestantesimo nell’ordine politico che egli individua nella distruzione della società pubblica e domestica. In maniera fortemente assertiva, padre Perrone afferma, senza timore di essere smentito, che tutti i mali che affliggevano lo stato sociale, nell’uno e nell’altro emisfero, hanno la loro prima origine dal protestantesimo. Per mali sociali intendeva le rivolte, le stragi, le guerre nell’ordine pubblico e nell’ordine domestico la dissoluzione della famiglia. Quanto all’originarsi delle rivolte politiche dalla natura stessa del protestantesimo, ne è sostenitore il protestante Guizot il quale affermò che la crisi del secolo xvi non era soltanto e semplicemente riformatrice, ma era essenzialmente rivoluzionaria. Lutero stesso fu essenzialmente rivoluzionario, come nell’ordine religioso così nell’ordine politico, essendo questi due ordini fortemente intrecciati da influenzarsi l’uno con l’altro: Lutero sconvolgendo la religione rivelata, scompaginò le fondamenta su cui poggiava la società. Inoltre egli stesso scriveva al principe Palatino che gli si opponeva, che non si poteva difendere il Vangelo senza tumulto e senza scandalo. La parola di Dio è una spada, è una guerra, è una mina, è uno scandalo, è una distruzione, è un veleno; o, come dice Amos, si presenta a noi come un orso sul cammino, e come una leonessa nella foresta… Perché immaginarci che Cristo promuoverà la sua causa per la via della pace? 1
Ovviamente, il pensiero del Witemberghese per Vangelo intendeva la sua propria dottrina, non quella di Cristo e quando parlava di guerra e di scandalo egli intendeva vera guerra e veri tumulti così come dimostrò con i fatti: egli, infatti, convinse i contadini a ribellarsi contro i vescovi, sollevò la nobiltà alemanna contro i suoi principi; le sue arringhe, inoltre, erano piene di furore, le sue minacce vibravano come saette. Tale fu la teoria e la pratica di Lutero nell’ordine sociale. Passando alla società domestica, ossia alla famiglia, Lutero strappò del tutto il sacro vincolo che stringe l’unione coniugale per il fatto che spogliò il matrimonio della dignità di sacramento e lo ridusse ad un semplice contratto e di questo ammise la dissolubilità. Le conseguenze furono il divorzio, la poligamia e ogni tipo di disordine che scompigliò la società domestica. Prendendo le mosse dalla dissoluzione dell’unione coniugale, dal 1850 in poi, ogni anno nella sola Berlino, si pronunciarono dalle quattro alle cinquemila sentenze di divorzio. Nel 1864 furono formulate non meno di settecentocinquantasei domande di divorzio fatte dai protestanti, mentre i cattolici non ne presentarono neppure una. 2 In ordine alla poligamia, anche questo frutto provenne dal protestantesimo, come il divorzio, così come rinfacciava Giorgio di Sassonia a Lutero fin dal 1526 che constatava la corruzione dilagante nella città di Wittenberg, popolata da monaci sfratati e da tante religiose mondane. Pare che la riforma non avesse altro oggetto che fare un delitto della castità e della continenza e permettere e promuovere ogni cosa, all’infuori del pudore e della virtù. Applicando una lettura contrastiva, il pensiero del padre è volto ad esaltare i valori della religione cattolica difendendola sul piano dogmatico ed è anticipatore di un argomento che verrà ripreso dal Concilio Vaticano II: il matrimo
1
A. de Gasparin, Les écoles du doute et l’école de la foi, Geneve, Michel Lévy Trèves, 1853, p. 366. Cfr. G. Perrone, De matrimonio christiano, vol. i, artt. 2.3.4.5.
2
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saggi di letteratura italiana
nio. L’ultimo Concilio affermò la finalità procreativa del matrimonio e ricordò che nel «comporre l’amore coniugale con la trasmissione responsabile della vita, il carattere morale del comportamento dipende da criteri oggettivi destinati a mantenere in un contesto di vero amore l’integro senso della mutua donazione e della procreazione umana». 1 Da questa prospettiva storico-politica oltre che letteraria, il paragrafo sesto del dodicesimo Capo de La Lucilla disingannata appare ampiamente operare un’azione apologetica di quei valori che saranno oggetto di speculazione teologica e filosofica nonché sociologica da parte del Concilio Vaticano ii.
Bibliografia Concilio Vaticano ii, Costituzione pastorale Gaudium et Spes, 7 dicembre 1965. A. de Gasparin, Les écoles du doute et l’école de la foi, Genève, Michel Lévy Trèves, 1853. A. Manzoni, Tutte le opere, a cura di Alberto Chiari e Fausto Ghisalberti, vol. 1, Milano, Mondadori, 1957. G. Martina, Storia della Chiesa. Da Lutero ai nostri giorni, vol. 3, Brescia, Morcelliana, 1970. G. Martina, Storia della Compagnia di Gesù in Italia (1814-1983), Brescia, Morcelliana, 2003. G. Perrone, De matrimonio christiano, vol. 1, Leodii, H. Dessain, 1860. G. Perrone, La Lucilla disingannata, ossia il protestantesimo svelato, Torino, Pietro Di G. Marietti, 1866. 1
Concilio Vaticano ii, Costituzione Pastorale Gaudium et Spes, 50-51, 7 dicembre 1965.
MOLLY E L’ITALICITÀ
I
taly, composto da Giovanni Pascoli nel 1904 e pubblicato nella terza edizione dei Poemetti, è un ampio componimento di quattrocentocinquanta versi, diviso in due canti costituiti metricamente da terzine di endecasillabi a rime incatenate con un verso di chiusura per ogni ‘capitolo’. È dedicato ad un tema caro a Pascoli, quello degli abitanti italiani costretti ad abbandonare dolorosamente il loro ‘nido’ per andare a cercare lavoro in paesi stranieri. La critica come quella di Gianfranco Contini al quale si deve una, a volte, clamorosa rivalutazione stilistica di Pascoli, grazie ad un saggio del 1955 1 divenuto punto di riferimento obbligato per tutta la critica pascoliana successiva, analizza le varie componenti del linguaggio pascoliano, in cui, accanto alle forme normali, grammaticalmente strutturate, compare un linguaggio pregrammaticale riscontrabile nelle onomatopee e un linguaggio postgrammaticale, individuabile nelle lingue speciali, come il vernacolo della Garfagnana, il gergo misto di inglese, italiano e dialetto degli emigranti, termini tecnici, residui arcaici, e conclude che, se il linguaggio normale implica che dell’universo si abbia un’idea chiara e precisa, gerarchizzata, un linguaggio eccezionale come quello di Pascoli evidenzia la criticità che si pone tra io e mondo, abbattendo le certezze fondate sulla logica caratterizzanti la letteratura fino al primo Romanticismo compreso. Successivamente anche Giovanni Getto nel 1957 rivendica il valore delle ardite mescolanze di italiano, inglese e vernacolo garfagnino in Italy che apparivano così urtanti al gusto classico di Croce 2 e a quello raffinato e prezioso della tradizione lirica novecentesca e ne indica il valore anticipatore di altre tendenze poetiche più recenti, quelle che si oppongono all’Ermetismo. In un recente scritto, Giorgio Bàrberi Squarotti 3 definisce Italy il poemetto di più piena ed ansiosa attualità morale, politica, scientifica, tecnologica ed analizza in modo particolare l’aspetto tecnologico, ponendo in luce, per un verso, la contrapposizione fra la tecnologia moderna e il lavoro antico delle campagne e abbiamo allora in America la meraviglia delle invenzioni moderne dei fusi meccanici che eviteranno tanta fatica alle donne che non avranno più bisogno di lavorare la lana o le altre fibre con tanta fatica; per l’altro verso, nell’Italia povera di carbone e di ferro, l’altra invenzione dell’energia elettrica attraverso la forza delle risorse idriche che in Italia abbondano, affrancando per sempre l’Italia dalla povertà. Per il critico, la tecnologia moderna, celebrata nelle due lasse sull’acqua e sull’energia idroelettrica, costituisce un aspetto fondamentale del poemetto Italy perché può vincere miseria, dolore, fatica diventando un mezzo di liberazione dell’uomo dalla stessa Natura leopardiana che ha reso schiava l’umanità da sempre. Potrà, allo stesso modo dell’America, far andare i centomila fusi della filatura meccanica:
1
G. Contini, Il linguaggio di Pascoli in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970. B. Croce, Giovanni Pascoli. Studio critico, «La critica», 1907. 3 G. Bàrberi Squarotti, Pascoli, la bicicletta e il libro, Roma, EdiLet, 2012. 2
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Acqua perenne, ottima e pessima, ora / morte e ora vita, acqua, diventa luce! / acqua diventa fiamma! Acqua, lavora! / Lavora dove l’uomo ti conduce; / e veemente come l’uragano, / vigile come femmina che cuce, / trasforma il ferro, il lino, il legno, il grano; / manda i pesanti traini come spole / labili; rendi l’operare umano / facile e grande come quel del Sole! 1
La bicicletta dei Canti di Castelvecchio diventerà l’aereo di Odi e inni nell’evoluzione rapida della tecnologia moderna. A metà strada si pone l’energia idroelettrica di Italy, l’industria, quella che non interesserà a D’Annunzio, così come non gli interessano gli emigranti. L’ottimismo dell’industria e della tecnologia, nel 1908 ne Gli eroi del Sempione, si evaporizzerà. La fatica domina sempre sugli uomini e gli Italiani sono sempre costretti ad errare per il mondo perché l’Italia continua ad essere povera: Sotterra due vaporiere immote, / divise da una grande porta, / aspettano. Un’ardente ansia le scuote. / Un urlo va per l’aria immota. / Porta di ferro, oggi il trionfo! Muovi / su gli aspri cardini sonanti! / Apriti, o porta dei millenni nuovi! / Oh nuovi vincitori, avanti! / Voi per lunghi anni, a un’invisibil guerra / sacrando le rubeste vite, / avanzate ignudi eroi sotterra / al rombo della dinamite. (vv. 1-12) 2
Sembra la celebrazione del lavoro moderno, con gli strumenti della tecnica: le vaporiere, le dinamite, le mine e invece è la rappresentazione dell’umana fatica per nulla mutata. Più avanti, infatti, si legge: Porta di ferro, apriti!... Ma lontani, / lavoratori, per la valle / voi siete, la mercede nelle mani / ed il piccone su le spalle. (vv. 33-36) 3
L’evento mirabile dell’industria viene rappresentato nel 1906 come visione e allegoria che sempre più allontanano la realtà del mondo tecnologico e vittorioso sulla Natura e la trasformano in profezia nel futuro sperato ma non più cantato come riscatto dalla pena, dalla fatica del vivere e dalla schiavitù dei potenti a danno dei miseri. In questa sede, si porrà l’attenzione sull’italiano parlato dagli emigranti e dai loro discendenti, come è il caso di Molly che nasce in America, e verrà considerato come un continuum dinamico di varietà parlate collocate tra il dialetto e l’angloamericano che risalgono alle migrazioni del secondo dopoguerra, ma che sono già presenti in questo poemetto nel tentativo di dimostrare come il poemetto Italy, in modo particolare il personaggio Molly, si collochi secondo una linea interpretativa che la pone come ‘exemplum’ di italicità intesa come quella capacità di combinare diverse etnie, lingue e codici di comunicazione e che la colloca pertanto all’interno di quel processo di globalizzazione che la realtà del xxi secolo ci impone nel tentativo di superamento delle ipotesi nazionaliste. Gli studi di Livingston del 1918 4 e di Menarini del 1947 5 hanno definito con il termine ‘italoamericano’ la parlata fortemente mista degli emigranti italiani d’America che trova riflesso in testi narrativi e teatrali prodotti sia negli Stati Uniti, sia in Italia, ai fini
1
www.liberliber.it/biblioteche/license/poesie/GiovanniPascoli, p. 79. www.classiciitaliani.it/pascoli/pascoli_odi_inni.htm. 3 Ibidem. 4 A. Livingston, La Merica Sanemagogna, «Romanic review», 9, pp. 206-226. 5 A. Menarini, Ai margini della lingua, Firenze, Sansoni, 1947. 2
molly e l ’ italicità 61 della rappresentazione delle identità in trasformazione degli emigranti italiani e una sua notevole rappresentazione è nel poemetto Italy. Tra il 1880 e il 1924, l’emigrazione italiana si trasforma in un esodo, quando oltre 4 milioni e mezzo di italiani lasciarono il loro paese, sbarcando a Ellis Island, nel porto della città di New York. Dopo la Francia e la Svizzera, gli Stati Uniti costituiscono la destinazione più importante nel corso del secolo postunitario, con 5.691.000 emigrati fra i 25.800.000 espatri dal 1876 al 1976. Dalla Campania, Sicilia e Calabria, quindi maggiormente dalle regioni meridionali, provenivano gli emigrati, per lo più maschi in età lavorativa, costretti all’emigrazione dalle condizioni economiche assai precarie. 1 Gli Stati Uniti sono attraversati da una emigrazione che si articola in tre fasi: il grande esodo di masse analfabeti fino alla vigilia della prima guerra mondiale fu seguito da una contrazione tra le due guerre dovuta alla politica fascista e al ‘Literacy Act’ introdotto nella legislazione americana a cui seguì una nuova ondata migratoria nel secondo dopoguerra che incoraggiò il ricongiungimento dei familiari. Gli insediamenti sono caratterizzati dalla stessa provenienza regionale e dalla socializzazione etnica e si concentrano soprattutto nel Nordest e nelle rispettive aree urbane, New York, Filadelfia, Boston e nel Midwest a Chicago, in California a Los Angeles e a San Francisco e in ultimo in Florida. Con la loro integrazione progressiva nella società americana, le nuove generazioni italoamericane abbandonano gli storici insediamenti delle ‘Little Italies’ per aree geografiche più articolate, spesso ubicate lontano dai grandi centri urbani. La struttura dell’italiano parlato dagli emigrati e dai loro discendenti può essere descritta come un ‘continuum’ dinamico di varietà parlate collocate tra il dialetto e l’angloamericano che risalgono alle migrazioni del secondo dopoguerra, ma che sono già presenti in questo poemetto composto nel 1904. Il repertorio linguistico italofono degli italoamericani, variabile secondo fattori come età, sesso, generazione, livello di scolarizzazione ed inserimento sociale, può includere l’italiano popolare o l’italiano regionale che spostano la linea interpretativa verso la varietà alta e una varietà a base dialettale fortemente mista che costituisce la varietà bassa e alla quale sembrano appartenere i moduli linguistici dei capitoli dal ii all’viii. Il ‘continuum’ sociolinguistico di tali varietà è caratterizzato da instabilità, stratificazione, erosione e processi di sostituzione della lingua. Il tessuto linguistico del poemetto presenta una varietà a base di italiano con inserzioni di termini arcaici usati nelle parlate delle Lucchesia come «mòlgere» al verso undicesimo del secondo capitolo fortemente mista con l’inglese. A differenza di quanto avviene nella varietà alta caratterizzata da un italiano popolare o regionale, assai frequente è la commutazione di codice: l’espressione «Poor Molly» con la quale inizia il verso venticinquesimo del quarto capitolo introduce una serie di commutazioni che scorrono lungo i capitoli successivi raggiungendo un massimo di accumulo nei capitoli quinto e sesto. Così, infatti, nel verso «Poor Molly! Qui non trovi il pai con fleva!» 2 l’emigrante mescola all’italiano parole inglesi, riprodotte in questo contesto secondo la pronuncia e subito dopo ripetute dal narratore con grafia esatta.
1 L. Favero, G. Tassello, Cent’anni di emigrazione italiana 1876-1976, in Un secolo di emigrazione italiana, 1876-1976, a cura di G. Rosoli, Roma, Centro Studi Emigrazione, 1978, pp. 9-64. 2 www.liberliber.it, cit., p. 72.
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Nel capitolo quinto, nel primo verso si ritrovano in inglese le parole pie e flavour e ancora nel terzo verso «Ioe, what means nieva? Never? Never?Never» 1 la bambina ingannata dalla somiglianza di suono tra «nieva» e «never», teme di non tornare più in America. Nella seconda terzina Oh! no: starebbe in Italy sin tanto ch’ella guarisse: one month or two, poor Molly! E Ioe godrebbe questo po’ di scianto! 2
l’uso delle parole inglesi all’interno dei tre versi con la iterazione del sostantivo «Molly» incontra la presenza della voce lucchese «scianto» che indica il riposo e lo svago dopo il lavoro. Nelle terzine seguenti, frequente è l’uso dell’espressione «Oh yes» che, subendo un rallentamento nel capitolo sesto, ritorna ai versi decimo e tredicesimo del capitolo successivo. Nel capitolo sesto le parole «Will you buy, buy images, cheap» dell’emigrante, richiamano l’attenzione di un altro tra i presenti che era stato anch’egli in America e che coglie l’occasione di intervenire per sottolineare gli aspetti positivi del paese straniero, dopo quelli negativi: quando arriva il gelo, al calore della stufa coke (v. 15), rossa tanto è arroventata, il poor fellow (v. 15) si rianima. Trova una farm (v. 17) e ancora You want buy? Incontra una fattoria e mostra il suo cesto con la mercanzia e un uomo compra tutto e gli dà anche l’ospitalità. Più avanti, al verso venticinquesimo, Molly, alla domanda rivolta in inglese «You like this country…» nega severamente rispondendo «Oh no! Bad Italy! Bad Italy». 3 Nel capitolo ottavo si incontra un’altra commutazione: al verso ottavo il sostantivo «cents» viene utilizzato per indicare la possibilità di acquistare in America a basso costo delle stoffe ottime come sete grazie alla diffusione della tecnologia, mentre la povera Ghita si rovinava la vita trascorrendola sul telaio. La varietà fortemente mista del continuum si distingue soprattutto a livello lessicale, attraverso le interferenze lessicale dell’inglese ancorate sull’esperienza degli emigrati, con l’adozione di parole come bisini per «business» che indica gli affari, fruttistendo per «fruitstand», la bancarella del fruttivendolo; checche per «cakes», le focacce; candi per «candy», i dolciumi; scrima per «icecream», il gelato; moneta per «money», il denaro; baschetto per «basket», il cesto in cui gli emigranti ponevano le figurine di gesso da vendere; salone per «saloon», la trattoria; bordi per «boards» pensionanti; stima per «steamer», nave a vapore. Nel capitolo quinto, numerosi sono i termini del gergo italo-americano degli emigranti, in cui termini inglesi vengono italianizzati. Per quanto concerne gli atteggiamenti linguistici delle comunità italoamericane, essi sono indicativi delle dinamiche in atto nei due decenni a cavallo tra i due secoli. Gli studi sociolinguistici condotti nelle comunità di San Francisco 4 e New York 5 fanno emergere i notevoli tassi di passaggio all’inglese e i diversi gradi di vitalità delle varietà italiane, in
1
2 Ibidem. Ibidem. www.liberliber.it, cit. p. 73. 4 H. Haller, Una lingua perduta e ritrovata. L’italiano degli italo-americani, Firenze, La Nuova Italia, 1993. 5 H. Haller, I piemontesi nel Far West. Usi e atteggiamenti linguistici nella comunità piemontese di San Francisco, in xii e xiii Rescontr antërnassional dë studi an sla lenga e la literatura piemontèisa» (Quinsne 6-7 maggio 1995, Turin 11-12 maggio 1996), at soagna da G. P. Clivio, D. Pasero, C. Pich, Ivrea, Ferraro, 1997, pp. 273-286. 3
molly e l ’ italicità 63 modo particolare nella famiglia e tra gli amici. Dai rilievi autovalutativi dei questionari emerge che il dialetto è usato dalle persone anziane con scarsa istruzione scolastica, l’italiano dialettale e la varietà molto mista in maniera quasi esclusiva, mentre le persone più giovani di prima generazione con maggiore istruzione sono bilingui o trilingui e usano la varietà popolare dell’italiano fuori casa e con italiani di origine regionale diversa. La diglossia tende ad essere la norma nella seconda generazione. La variabilità linguistica interna, fenomeni come pause, esitazioni, ripetizioni dello stesso frasario e lessico sono caratteristiche tipiche dell’italiano parlato dalla seconda e terza generazione. La perdita dell’italiano, nell’indagine di New York condotta su soggetti di prima generazione e di origine meridionale, sia in quella di San Francisco su soggetti di origine piemontese prevalentemente di seconda generazione e di età media più elevata, diminuisce con l’avanzare dell’età nella prima generazione, mentre aumenta con l’avanzare dell’età nella seconda generazione. Le lingue della famiglia, delle situazioni emotive sono il dialetto e l’inglese, mentre al posto di lavoro, alla comunicazione tra i giovani e con i figli, è riservato l’uso esclusivo dell’inglese. Con la mobilità sociale, le nuove reti sociali e l’esogamia, l’uso dell’italiano diminuisce. Nella terza generazione l’italiano consiste spesso solo in qualche parola o frase sentita dai nonni, come succede alla piccola Molly. Gli atteggiamenti psico-sociali nei confronti del dialetto, dell’italiano e dell’inglese confermano le dinamiche sociolinguistiche in atto nelle comunità italoamericane: questi tendono ad essere più puristici nella prima generazione, in cui si privilegia l’italiano standard e più tolleranti nella seconda generazione nei confronti delle varietà non standard, salvo per l’italoamericano fortemente misto. Gli atteggiamenti contradditori rispetto alla prassi nell’uso, riflettono sia la funzione di ponte intergenerazionale nella seconda generazione sia la stigmatizzazione delle varietà non standard della prima generazione. L’italiano viene considerato la varietà degli affetti, l’inglese la varietà di prestigio. Il dialetto è percepito come onesto e comico, come lingua delle radici e da qualcuno come lingua segreta e proibita, l’italiano, invece, come musicale e poetico. Per quanto riguarda la vitalità relativa dell’italiano nelle comunità italoamericane, i mass media etnici sicuramente la riflettono. Negli Stati Uniti, dopo l’esordio nel 1859 dell’«Eco d’Italia», il numero dei quotidiani e periodici in lingua italiana cresce rapidamente e raggiunge la sua massima diffusione alla vigilia della prima guerra mondiale con un centinaio di pubblicazioni diffuse nelle aree di maggiore concentrazione di emigrati italiani fra cui ricordiamo «Il Progresso Italo-Americano». Dal 1920 in poi si può notare un graduale declino delle testate in italiano, insieme ad una crescita di settimanali bilingui e anglofoni, fino ad arrivare a una ventina di pubblicazioni nel 2000, dati che riflettono il declino dell’emigrazione e il processo di abbandono della lingua in corso. Jean Jacques Marchand nel suo studio sulla letteratura d’emigrazione, 1 descritta dagli studiosi come marginale o emarginata, una scrittura minore tra letteraria, paraletteraria e pseudoletteraria prodotta da scrittrici e scrittori di formazione linguistica e culturale disparate, si riscontrano tutti i generi, dalla poesia, spesso praticata nella fase
1 J. J. Marchand, La letteratura dell’emigrazione. Gli scrittori di lingua italiana nel mondo, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 1991.
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iniziale dell’emigrazione, alla narrativa e al teatro. Tra i temi prevalgono quello dell’esperienza migratoria, del ricordo della vecchia patria, della percezione della nuova società e dei rapporti conflittuali con questa, a cui è legata la questione dell’identità. Le scritture in cui viene privilegiato il motivo autobiografico seguono al deserto culturale che tende a segnare i primi decenni degli insediamenti di massa nel paese d’arrivo della forza lavoro obbligata all’emigrazione dalle iniziali condizioni sociali ed economiche. La lingua di partenza, nella seconda generazione, cede poi il passo alla lingua d’arrivo, come illustra il graduale abbandono dell’italiano nella letteratura dell’emigrazione degli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale. La fortuna della produzione letteraria nell’emigrazione è condizionata non solo dalla condizione economica degli autori ma anche da quella culturale e sociale del paese d’arrivo. Fra tardo Ottocento e primo Novecento, nella letteratura d’emigrazione antologizzata da Franzina 1 e Durante 2 e discussa da Marazzi, 3 Bernardino Ciambelli usa un italiano tendenzialmente toscaneggiante in romanzi popolari sui bassifondi di New York dai titoli I misteri di Mulberry Street (1893), I misteri di Bleeker Street (1899), I sotterranei di New York (1916). Lo scrittore Paolo Pallavicini segue le tracce di Ciambelli con il romanzo Tutto il dolore, tutto l’amore ambientato fra gli emigrati liguri e siciliani di San Francisco e Per le vie del mondo (1933) romanzo fiume tra rosa e giallo, sulla vicenda di lavoratori italiani accusati ingiustamente di aver commesso un delitto. Ciò che desta l’attenzione è lo stile del romanzo tendenzialmente paratattico, con frequenti dialoghi non privi di fenomeni di contatto linguistico con l’inglese. La suddetta caratteristica stilistica è presente anche nel poemetto Italy che pur essendo stato pubblicato nel 1904 ed in Italia, già preannuncia e detta il registro stilistico con il quale si cercherà di riprodurre la interiore condizione emotiva degli emigranti, oltre che sociale ed economica. Ogni lingua, umile o alta che sia, grazie all’espansibilità dei significati, può acquisire nuovi sensi e nuovi piani di cose dicibili e ogni lingua può essere chiamata ad affinarsi per portare in sé, nelle sue parole e nelle sue frasi, i significati espressi da parole, frasi, testi di altre lingue e aprirsi alle tecniche più nuove, ai saperi delle scienze, alle esperienze nuove della letteratura. Da qui la ‘equieffabilità’ o ‘equipotenza semantica’ di ogni lingua e quella loro potenziale parità che Wilhelm von Humboldt evidenziò icasticamente, affermando che ognuno con il possesso della sua ‘Muttersprache’ ha la chiave di tutte le altre lingue e che di lì a poco doveva colpire il popolano romano del famoso sonetto intitolato Le lingue der monno di Giuseppe Gioacchino Belli:
Sempre ho ssentito ddì cche li paesi / hanno oggnuno una lingua indifferente / che dda sciuchi l’impareno a l’ammente, / e le parleno poi per esse intesi. / Sta lingua che ddich’io l’hanno uguarmente / Turchi, Spagnoli, Moscoviti, Ingresi, / Burrini, Ricciaroli, Marinesi / e Ffrascatani, e ttutte l’antre ggente… 4
1 E. Franzina, Dall’Arcadia all’America. Attività letteraria ed emigrazione transoceanica in Italia, 1850-1940, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 1996. 2 F. Durante, Italoamericana. Storia e letteratura degli italiani negli Stati Uniti, Milano, Mondadori, 2 voll., vol. ii, 2005. 3 M. Marazzi, I misteri di Little Italy. Storie e testi della letteratura italoamericana, Milano, FranzoAngeli, 2001. 4 G. G. Belli, Tutti i sonetti romaneschi, a cura di Marcello Teodonio, Roma, Newton Compton, 1998, p. 374.
molly e l ’ italicità
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Il resto è letteratura: ‘Tout le reste est littérature’, come direbbe Paul Verlaine nell’Art poétique. Come Albert Einstein ben sapeva, il ‘mentalese’ sarebbe di poco superiore a quello di altri mammiferi superiori, senza l’uso della parola. Così ogni lingua, povera o ricca che sia, che solo chiami ‘mamma’ e ‘babbo’ e sia una delle tante «vulgares quam sine omni regula nutricem imitantes accipimus», 1 oppure sia una «locutio secundaria», 2 una lingua scritta e grammaticalizzata cui «pauci perveniunt, quia non nisi per spatium temporis et studii assiduitatem regulamur et doctrinamur in illa», 3 ognuna è compagna e condizione della nostra più intima vicenda personale e, insieme, della vita storica, economico-produttiva, sociale, intellettuale della comunità alla quale apparteniamo. 4
Bibliografia S. Antonelli, Giovanni Pascoli, in I classici italiani nella storia della critica, opera diretta da W. Binni, Firenze, La Nuova Italia, 1955. G. Bàrberi Squarotti, Pascoli, la bicicletta e il libro, Roma, EdiLet, 2012. G. Bàrberi Squarotti, Simboli e strutture della poesia del Pascoli, Messina-Firenze, D’Anna, 1966. R. Barilli, Pascoli, Firenze, La Nuova Italia, 1986. G. G. Belli, Tutti i sonetti romaneschi, a cura di Marcello Teodonio, Roma, Newton Compton, 1998. G. Berruto, Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1987. E. Cecchi, La poesia di Giovanni Pascoli, Milano-Napoli, Ricciardi, 1912. G. Contini, Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970. B. Croce, Giovanni Pascoli. Studio critico, «La critica», 1907. G. Debenedetti, Saggi critici, iii serie, Milano, Il Saggiatore, 1959. G. Debenedetti, Pascoli: la rivoluzione inconsapevole, Milano, Garzanti, 1979. F. Durante, Italoamericana. Storia e letteratura degli italiani negli Stati Uniti, Milano, Mondadori, 2005. L. Favero, G. Tassello, Cent’anni di emigrazione italiana 1876-1976, «Un secolo di emigrazione italiana», Roma, Centro Studi Emigrazione, 1978, pp. 9-64. E. Franzina, Dall’Arcadia all’America. Attività letteraria ed emigrazione transoceanica in Italia, 1850-1940, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 1996. G. Leonelli, Giovanni Pascoli, in Letteratura italiana contemporanea, Roma, Lucarini, 1979. R. Luperini, Pascoli: la vita come poesia, in Il Novecento, Torino, Loescher, 1981. A. Livingston, La Merica Sanemagogna, «Romanic review», 9, 1918, pp. 206-226. J. J. Marchand, La letteratura dell’emigrazione. Gli scrittori di lingua italiana nel mondo, Torino, Fondazione Giovanni Agnelli, 1991. M. Marazzi, I misteri di Little Italy. Storie e testi della letteratura italoamericana, Milano, Angeli, 2001. P. Mazzamuto, Pascoli, Palermo, Palumbo, 1957. A. Menarini, Ai margini della lingua, Firenze, Sansoni, 1947. P. V. Mengaldo, La tradizione del Novecento, Milano, Feltrinelli, 1975. 1
Si fa riferimento all’opera di Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, i, 2-3. Cfr. www.danteonline.it. 3 Ibidem. Ibidem. 4 G. Berruto, Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1987. 2
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G. Pascoli, Opere, a cura di L. M. Marchetti, Torino, utet, 1976. G. Pascoli, L’Opera poetica, a cura di P. Treves, Firenze, Sansoni, 1980. G. Pascoli, Opere, a cura di M. Perugi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1980. G. Pascoli, Poemetti, a cura di E. Sanguineti, Torino, Einnaudi, 1971. M. Pascoli, Lungo la vita di Giovanni Pascoli, a cura di A. Vicinelli, Milano, Mondadori, 1961. A. Prete, La critica e Pascoli, Bologna, Cappelli, 1975. E. Sanguineti, Introduzione ai Poemetti, Torino, Einaudi, 1971.
DA I VECCHI E I GIOVANI ALL’EPISTOLARIO PIRANDELLIANO: SGUARDO IMMUTABILE TRA STORIA NAZIONALE E FAMIGLIARE
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a letteratura, se si parla di identità nazionale, secondo l’assunto di Alberto Asor Rosa, non vi è dubbio che, in quanto modalità espressiva di un popolo, occupi il primo posto. Nel caso dell’Italia, quanto suddetto vale più che per altre nazioni europee: il fatto di essere sorta tardivamente e laboriosamente, ha posto in luce il valore identitario di tutti i fenomeni espressivi e soprattutto della letteratura. Il processo dialettico che porterà alla realizzazione faticosa della identità sociale e politica dell’Italia, trova il suo riscontro, per parlare solo della letteratura risorgimentale, in Foscolo, Manzoni e Leopardi ed il suo epilogo in Verga, De Roberto e Pirandello. Il presente saggio intende proporre un approfondimento sulla dimensione della abissale galassia pirandelliana rivelatrice di quanto la letteratura italiana richiami valori umani e letterari sovranazionali e sia testimonianza inconfutabile di dinamiche nelle quali la storia personale, soprattutto le vicende che segnarono il rapporto travagliato con il figlio Stefano, e la produzione letteraria si influenzino fino a creare un unico tessuto letterario. L’opera di Pirandello è un cantiere sempre aperto, secondo la definizione di Giovanni Macchia, labirintica, compenetrata e pertanto delimitare i confini dei singoli testi nella disciplina formale dei generi letterari è un lavoro improduttivo. L’elemento comune si potrebbe individuare, invece, nel dinamismo che circola nelle pagine pirandelliane intrise di una energia costruttiva e distruttiva che articola una polifonia drammatica, come sosterrebbe Michail Bachtin. L’impianto ottocentesco, farraginoso e pesantemente realistico che era stato fermamente represso in nome di una interiorità psicologica e antropologica nei romanzi precedenti, emerge ne I vecchi e i giovani grazie all’adozione di un io narrante onniscente e alla scelta del romanzo storico, sulle tracce dei Vicerè di De Roberto e dei maestri del genere. Pubblicato in volume per la prima volta nel 1913, I vecchi e i giovani voleva essere il romanzo epocale di Pirandello: il nucleo centrale della rappresentazione è costituito dalle vicende della famiglia Laurentano che sia articolano lungo l’ultimo decennio del xix secolo, in uno scenario storico costituito dalle lotte di classe tra i liberali e i clericali e dalla creazione dei Fasci siciliani dei lavoratori. All’interno delle vicende più strettamente storiche, si incastona il contrasto generazionale tra i padri che hanno realizzato l’Unità e i figli che percepiscono e cercano di contrastare il loro rigido e, ai loro occhi, obsoleto conservatorismo. Nel sistema dei personaggi, allora, don Ippolito è il rappresentante dell’aristocrazia reazionaria legata ai Borboni, il figlio Gerlando combatte caparbiamente il conservatorismo del padre, Mauro Mortara è un garibaldino deluso dall’epilogo delle lotte risorgimentali: in tal modo risulta evidente la portata del valore documentario del romanzo che rappresenta, in definitiva, il fallimento delle
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speranze risorgimentale, declinato secondo un gioco di specchi che, secondo Sergio Campailla, rinviano all’universalità dell’uomo. 1 La critica si è soffermata nel sottolineare la presenza del tòpos geografico di Girgenti all’interno del romanzo ad opera di Leonardo Sciascia che ha definito il romanzo come l’opera più autobiografica di Pirandello, guardando freudianamente l’assenza del padre dalla scena del romanzo senza porre l’accento sul rapporto padre/figlio; 2 il ruolo della Resistenza è stato evidenziato ampiamente da Gaetano Trombatore; 3 Massimo Onofri ha colto le motivazioni profane dei personaggi che sembrano essere mossi da personali interessi. 4 In questa sede si cercherà di cogliere l’elemento autobiografico che scorre come una vena carsica all’interno dell’opera e che si declina nel rapporto padre/figlio, Luigi/ Stefano. Sembra quasi di individuare in essa una suggestione evocativa ed un invito da parte di Luigi Pirandello ad aiutare il figlio a liberarsi dalla condizione filiale che tanto pesava a Stefano a tal punto da definirsi liricamente «un figlio, sempre figlio… […] figlio da sempre, io». 5 Stefano, per il padre, ricoprì i ruoli diversi e complementari di segretario, procuratore, amministratore, collaboratore, controllando il vortiginoso sistema di relazioni personali ed epistolari con giornalisti, critici, traduttori, attori, impresari, avvocati, editori che costellavano la vita di Luigi. Il romanzo che Pirandello ritiene essere la sua maggior fatica per la mole e per la vastità della visione, per la complessità dell’organismo pieno di figure, pieno di vicende, pieno di passioni varie e contrastanti, quello nel quale rappresenta tutto lo sfascio morale degli anni successivi all’entusiasmo del risorgimento italiano, romanzo pieno di dolore è individuato dallo stesso Stefano come il luogo nel quale «Pirandello non faceva il vate, questa parte la lasciava al Carducci e al d’Annunzio: ma negli incisi, specie nei Vecchi e giovani, ma anche in tanti e tanti altri luoghi, i suoi sentimenti politici trovano espressione». 6 La collaborazione intellettuale tra padre e figlio è confermata da Valentino Bompiani che fu amico ed editore e a tal proposito scrive: «Il rapporto di Stefano col padre era del tutto fisiologico: Stefano aveva un cervello simile, ma critico, e Pirandello se ne serviva come di un proprio organo» 7 ed il rapporto con il padre si intensifica sempre più via via che l’esistenza di Luigi si farà più frenetica, l’attività scrittoria convulsa, con lunghe permanenze fuori dal territorio italiano. Perché Landi? In una lettera scritta da Luigi a Ugo Ojetti il 10 ottobre 1921, così scrive: «Si firma Stefano Landi per non mettere nella letteratura il guajo di un altro Pirandello. Ma ha un suo modo parti[co]lare di vedere e rappresentare la vita, che non
1 Cfr. la quarta di copertina in L. Pirandello, I vecchi e i giovani, a cura di Sergio Campailla, Roma, Newton Compton, 2012. 2 L. Sciascia, Pirandello e la Sicilia, Milano, Adelphi, 1996. 3 G. Trombatore, Pirandello e i fasci siciliani, in Idem, Riflessi letterari del Risorgimento in Sicilia: e altri studi sul secondo Ottocento, Palermo, Manfredi, 1962, pp. 44-45. 4 L. Pirandello, I vecchi e i giovani, introduzione di Nino Borsellino. Prefazione e note di Massimo Onofri, Milano, Garzanti «I grandi libri», 1993. 5 S. Pirandello, Tutto il teatro, vol. i, a cura di Sarah Zappulla Muscarà e Enzo Zappulla, Milano, Bompiani, 2009, p. 33. 6 L. e S. Pirandello, Nel tempo della lontananza, 1919-1936, a cura di Sara Zappulla Muscarà, Caltanisetta7 Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2008, p. 38. Ivi, p. 14.
da i vecchi e i giovani all ’ epistolario pirandelliano 69 ha niente da vedere col mio». 1 Per quale motivo Stefano sceglie di chiamarsi Landi? Illuminante l’excursus semantico cui il nome invita. Landi scaturisce, più che dalla suggestione dell’omonimo musicista romano seicentesco autore dell’opera La morte di Orfeo, o del pittore piacentino neoclassico Gaspare Landi o, come suggerisce Alberto Savinio, dal nome dell’ultimo boia del granduca di Toscana, da quella di Lando Laurentano, il figlio di don Ippolito de I vecchi e i giovani, intellettuale principe-socialista che sventola la bandiera risorgimentale, come il nonno di cui porta il nome. Impossibile quindi, per Stefano, sfuggire allo strabiliante fenomeno letterario di Pirandello e nello stesso tempo sentirsi creativamente autonomo. Eloquente schermo lo pseudonimo, volto all’affermazione di un’autonomia ambita e conquistata anche se mai riconosciutagli e tardivamente raggiunta. «Stefano non vuole essere un ometto qualunque, un numero del gregge; Stefano vuole avere un valore suo, essere un’individualità», 2 scrive alla moglie Olinda il 20 agosto 1921. Stefano deve molto all’insegnamento paterno e non potrebbe essere altrimenti, mai però, come scrive a Valentino Bompiani il 15 gennaio 1945, si è servito di lui, piuttosto è rimasto schiacciato dal peso di una dittatura da cui è giunto il momento di affrancarlo. A tal proposito, per sottrarre il figlio da questo jeu subtil di identità affinché si sentisse persona viva, nella lettera scritta da Torino il 6 giugno 1926 ai figli Stefano e Fausto Pirandello, Luigi scrive: «Non credere, mio caro Stefano, che non abbia cercato di farti entrare al “Corriere della Sera”. 3 Alcuni giorni prima, infatti, il 13 maggio 1926, a Ugo Ojetti, Pirandello aveva scritto: «Ed ora ti vorrei rivolgere una affettuosa preghiera. Tu conosci mio figlio Stefano: so anzi che lo stimi giovane serio e d’ingegno, scrupoloso, fin troppo, nel suo lavoro; tale io lo stimo e tu sai che l’essergli padre non fa velo al mio giudizio. […] Stefano si sente stranamente oppresso da una specie di giogo letterario che si chiama Pirandello ed è bene che qualcuno gli dica che anche lui è una persona viva. Se lo merita, e da nessuno meglio che da te potrà venirgli la buona novella». 4 La condizione di figlio peserà sempre su Stefano e si può addirittura ravvisare nella scelta del suo soprannome che ricollega la sua situazione di figlio direttamente a quella di Lando Laurentano, il figlio, appunto di don Ippolito e in polemica con lui. Quella forma di dittatura alla quale Fausto si sottrasse attraverso il percorso artistico e la sua fuga a Parigi, divenendo uno dei più apprezzati pittori del Novecento poiché caratterizzata da un forte spessore simbolico-metafisico e dalla quale anche Lietta fuggì con un matrimonio che la portò oltre i confini, in Cile. Lacerato dalla traumatica e travolgente esperienza della deportazione e della prigionia, segnato da una lunga serie di dolori e strazi, Stefano, invece, affida alla parola letteraria il ruolo della testimonianza e della denuncia. Difficile traguardo a cui tendere, ma a cui Stefano giunse affinando le armi contro le strumentali menzogne del potere, quello stesso potere, quelle stesse menzogne che i figli de I vecchi e giovani svelano e combattono con animo alacre e spirito combattivo. La battaglia è combattuta per pervenire al superamento dei conflitti, sparsi e incontrollabili, che originano in primo luogo dalla e nella famiglia, doloroso
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2 Ibidem. S. Pirandello, Tutto il teatro, vol. i, cit., p. 117. L. e S. Pirandello, Nel tempo della lontananza, cit., p. 98. 4 L. Pirandello, Carteggi inediti (con Ojetti, Albertini, Orvieto, Novaro, De Gubernatis, De Filippo), a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Roma, Bulzoni, 1980, pp. 98-99. 3
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nido, nuda trappola, in cui covano e si riproducono, secondo la prospettiva freudiana, i germi del risentimento con tutte le incomprensioni, le connivenze, le interferenze, campo di battaglia metaforico degli scontri sociali. Ne I Vecchi e i giovani l’autore esprime un giudizio storico molto severo sul processo di riunificazione: Carlo Salinari parla di tre fallimenti collettivi riferendosi al Risorgimento, come moto di generale rinnovamento del paese, all’unità, come strumento di liberazione e sviluppo delle zone più arretrate e in particolare della Sicilia e dell’Italia meridionale, e al socialismo che avrebbe potuto essere la ripresa del movimento risorgimentale. Questi fallimenti si sovrappongono poi a quelli individuali della vecchia generazione che, per non essere stata in grado di elaborare gli ideali alla luce della concretezza del reale, è responsabile del comportamento corrotto dei giovani. 1 Applicando questa chiave di lettura al nucleo famigliare pirandelliano, si evince quanto sia stata influente la figura del padre sul figlio che si sentirà sempre oppresso dalla supremazia intellettuale del padre, a dimostrazione della profonda consapevolezza che già agli inizi del Novecento si viene a creare nei confronti dell’influenza dei rapporti psichici tra genitori e figli, offrendo così alla letteratura l’occasione di interessarsi sempre più all’interiorità umana, soprattutto nei rapporti famigliari. Lo stesso Freud, del resto, aveva già intuito quanto le scoperte psicoanalitiche, soprattutto il complesso edipico, avessero influenzato profondamente il panorama culturale, artistico-letterario, arricchendolo in tal modo di nuovi spunti poiché l’accentramento dell’intera vita psichica intorno al concetto di ordine e di subordinazione condizionano anche le produzioni culturali degli uomini. È indubbio che solo dopo gli studi di Freud, la problematica ruotante intorno al rapporto padre-figlio abbia avuto ampio respiro nella letteratura abbracciando campi vastissimi e differenti, passando dal romanzo alla poesia. Da questo punto di vista, le esperienze biografiche dei singoli autori hanno avuto grande importanza: sollecitati dalle nuove teorie scientifiche, hanno sentito il bisogno di dare sfogo alle proprie paure, ai propri sentimenti, nei confronti di un padre sempre sentito come forza insormontabile, così come era accaduto, secondo un’ottica chiastica, a Stefano Landi / Lando Laurentano. Luigi Pirandello, però, è consapevole, come abbiamo dimostrato, della subordinazione intellettuale del figlio e tenta di sottrarlo da questo legame per farlo sentire persona viva, così come farà, passando ad un continuo rimando di specchi, ne I vecchi e i giovani, quando, a proposito della gioventù, affermerà: «La gioventù? Che poteva la gioventù, se l’avara paurosa prepotente gelosia dei vecchi la schiacciava così, col peso della più vile prudenza e di tante umiliazioni e vergogne? Se toccava a lei l’espiazione rabbiosa, nel silenzio, di tutti gli errori e le transazioni indegne, la macerazione d’ogni orgoglio e lo spettacolo di tante brutture?». 2 I vecchi sono coloro che hanno combattuto le guerre del Risorgimento e partecipato all’impresa garibaldina; molti tra costoro, decaduto il clima eroico, abbracciano una vita di compromesso, fagocitati dall’ambizione dei titoli e del potere, incapaci di risolvere i secolari problemi della vita nazionale, mentre Roma diventa una città dove
1 C. Salinari, Miti e coscienza del decadentismo italiano. D’Annunzio, Pascoli, Fogazzaro, Pirandello, Milano, Feltrinelli, 1960. 2 L. Pirandello, I vecchi e i giovani, a cura di Sergio Campailla, Roma, Newton Compton, 2012.
da i vecchi e i giovani all ’ epistolario pirandelliano 71 tutto si può vendere e comprare, il Settentrione coltiva loschi interessi, il Meridione vive nella miseria e nell’ignoranza. I giovani sono coloro che credono nel rinnovamento sociale, civile e politico della nazione, è la generazione che fonda in Sicilia i Fasci dei lavoratori e che spinge intere province alla rivolta, convinta che «soltanto in Sicilia forse, or ora, la gioventù sacrificata potrebbe dare un crollo a questa oltracotante oppressione dei vecchi, e prendersi finalmente uno sfogo, e affermarsi vittoriosa!». 1 Lando Laurentano, così come Daniella Salvo e Aurelio Costa, appartiene alla schiera dei giovani. Esponente di rilievo di quella che è la nuova generazione, la possibile nuova classe dirigente, partecipa attivamente alle vicende storiche diventando membro del Comitato centrale dei Fasci. Anche lui però è uno sconfitto: sorta di superuomo ambizioso e romantico, pur non condividendo le degenerazioni sanguinarie del movimento, è costretto, per sfuggire alla cattura, all’esilio. Stefano Landi, diversamente, dopo anni vissuti all’ombra della statuaria presenza del padre, riuscirà a liberarsi dalla sua condizione di esiliato intellettuale solo anni dopo il decesso del padre: il suo teatro appare solo oggi non più firmato da Stefano Landi ma da Stefano Pirandello.
Bibliografia L. Pirandello, Le opere, Mondadori, Milano, 1972. L. Pirandello, Carteggi inediti (con Ojetti, Albertini, Orvieto, Novaro, De Gubernatis, De Filippo), a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Roma, Bulzoni, 1980. L. Pirandello, I vecchi e i giovani, introduzione di Nino Borsellino, prefazione e note di Massimo Onofri, Milano, Garzanti, 1993. L. Pirandello, I vecchi e i giovani, a cura di Sergio Campailla, Roma, Newton Compton, 2012. L. e S. Pirandello, Nel tempo della lontananza (1919-1936), a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Caltanisetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2008. S. Pirandello, Tutto il teatro, a cura di Sarah Zappulla Muscarà e Enzo Zappulla, Milano, Bompiani, 2009. C. Salinari, Miti e coscienza del decadentismo italiano. D’Annunzio, Pascoli, Fogazzaro, Pirandello, Milano, Feltrinelli, 1960. L. Sciascia, Pirandello e la Sicilia, Milano, Adelphi, 1996. G. Trombatore, Pirandello e i fasci siciliani, in Idem, Riflessi letterari del Risorgimento in Sicilia: studi sul secondo Ottocento, Manfredi, Palermo, 1962. 1
Ibidem.
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DAL FIGLIO AL PADRE: I CONTRIBUTI DI STEFANO PIRANDELLO ALL’OPERA PATERNA
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a solitudine dell’uomo, l’impossibilità di comunicare sono tematiche care alla poetica pirandelliana che appaiono fissare la vita di Stefano Pirandello come artista che vide il suo riconoscimento letterario solo anni dopo la morte del padre. La dipendenza, a volte sofferta, di questo simbiotico rapporto che portò Stefano ad assumere ecletticamente ruoli diversi di amministratore, segretario collaboratore, pesò su di lui a tal punto da definirsi «figlio, sempre figlio…», «figlio da sempre, io». 1 Tentare di ricostruire il delicato rapporto tra Luigi Pirandello e il figlio Stefano attraverso gli elementi che appaiono da una lettura analitica e diacronicamente intesa delle numerose interviste rilasciate da Luigi Pirandello, significa inserire l’Autore all’interno del periodo fascista durante il quale si dimostra refrattario alla retorica giovanilistica del regime. Interrogato dal cronista della «Nazione», Antonio Pedata, su uno dei problemi centrali degli anni del consenso, invita a diffidare della super valutazione dei giovani, a giudicarli nei concorsi d’arte e cultura con giusta severità per non creare una generazione di illusi. 2 Pirandello stabilirà un rapporto privilegiato con la gioventù che lo porterà ad intraprendere l’avventura del Teatro d’Arte con l’intenzione di farne una «libera palestra per tutti i giovani», 3 accogliendo in tal modo un’idea del primogenito Stefano il quale salderà il suo debito di riconoscenza nella Prefazione del ’25 ad Uno, nessuno e centomila: «Ma tu, Papà, sei un fanciullo. Oggi ci sono in Italia molti giovani, veramente giovani, cioè poco accomodanti, che ti intendono con simpatia. Hai scavalcato la tua generazione e sei con noi, e scavalcherai anche noi che invecchieremo forse un po’ troppo presto per te». 4 La testimonianza di riconoscenza è anche simbolo del rapporto creativo di padre e figlio documentabile proprio a partire dalla metà degli anni Venti con la prefazione ai Sei personaggi scritta a quattro mani. Stefano, però, si sente oppresso «da una specie di giogo letterario che si chiama Pirandello». 5 Così, quando intervista il padre per il «Tevere», nasconde la sua identità dietro uno pseudonimo: Stefano Landi. Un padre così invadente costituiva un vero e proprio ostacolo per l’affermazione della personalità artistica di Stefano.
1 L. e S. Pirandello, Nel tempo della lontananza, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Caltanisetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2008. 2 Ci si riferisce all’intervista concessa ad Antonio Pedata, apparsa sulla «Nazione» del 17 agosto 1934. 3 L’affermazione di Luigi Pirandello è riportata in una lettera aperta pubblicata dal «Tevere» il 19 dicembre 1925. 4 L. Pirandello, Tutti i romanzi, a cura di G. Macchia con la collaborazione di M. Costanzo, vol. ii, Milano, Mondadori, 1973 («I Meridiani»), p. 1059. 5 L. Pirandello, Carteggi inediti con Ojetti, Albertini, Orvieto, Novaro, De Gubernatis, De Filippo, a cura di S. Zappulla Muscarà, Roma, Bulzoni, 1980 («Quaderni dell’Istituto di Studi pirandelliani», 2).
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Il fallimento del Teatro d’Arte, l’iniziativa del Teatro Italiano dei Giovani fa accendere nel 1931 una polemica sulle pagine di «Comoedia» a proposito dei giovani drammaturghi e del loro diritto ad essere ascoltati; Pirandello si confronta con il problema generazionale che la vita artistica attraversa e che egli stesso ha vissuto entro le mura domestiche nei rapporti inquieti con il figlio Stefano. Il conflitto di natura autobiografica ci si presenta allora radicato nell’intimità prima ancora che nel sociale. Quello che accade a Vitangelo Moscarda in Uno, nessuno, centomila, romanzo del dramma della personalità umana che si scompone, è riferito al padre da Stefano Pirandello nella sua Prefazione al romanzo scritta per la «Fiera letteraria»: «Quando ti mancò la stima di chi tu ami, e il suo amore, e l’amicizia degli uomini, la comprensione dei suoi atti, quando ti sentisti – e un giorno fosti! – povero, nudo, solo e non sapevi più bene chi eri perché ti sentivi uno spirito senza volto, con mille volti, allora possedesti te stesso come un pazzo, come un eroe, come un santo». 1 L’intenso scambio tra padre e figlio è avvertibile nell’intervista di Walter Vaccari in «La sera» del 21 febbraio del 1922 nella quale il giornalista si lascia sfuggire una sua riflessione sul comportamento affettuoso di Pirandello in occasione della rappresentazione di una commedia di Stefano interpretata dalla compagnia di Niccodemi La casa a due piani e letta dal padre con le lacrime agli occhi. Una conferma del legame profondo e sofferto è data dalla Prefazione ai Sei personaggi in cerca d’autore pubblicata su «Comoedia» nel gennaio del 1925 con il titolo Come e perché ho scritto i «Sei personaggi» nella quale Pirandello esprime il concetto secondo cui l’arte è «forma immarcescibile» che il flusso vitale è incapace di distruggere: «Tutto ciò che vive, per il fatto che vive, ha forma, e perciò stesso deve morire: tranne l’opera d’arte, che appunto vive per sempre, in quanto è forma». 2 Analogamente si riscontra nell’intervista rilasciata a Virgilio Martini Pirandello aggredito e comparsa su «Nuovo Giornale» il 12 dicembre 1922 3 nella quale Pirandello dichiara espressamente di non riuscire più a guardare una statua a causa del tormento che ne avrebbe provato e porta come esempio il Mosè «quella bella Vita, imprigionata in quella bella Forma, per sempre! Mi verrebbe la voglia di dirgli: ma perché ti reggi sempre la barba con quella mano? Reggitela con l’altra qualche volta…». In un esemplare delle «Maschere nude» si legge una nota di commento di Stefano Pirandello in riferimento al concetto espresso da Pirandello sull’immortalità dell’opera d’arte in quanto forma: «Questo […] come concetto è mio, tanto mio che Papà aveva un concetto opposto, espresso in Diana e la Tuda». 4 E al capoverso finale «Il poeta, a loro insaputa, quasi guardando da lontano per tutto il tempo di quel loro tentativo, ha atteso, intanto, a creare con esso e di esso la sua opera», «Papà mai avrebbe detto così orgogliosamente di se stesso “il poeta”: ce lo obbligai io». 5
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L. Pirandello, Tutti i romanzi, vol. ii, cit., p. 1060. L. Pirandello, Maschere nude, a cura di A. d’Amico, vol. ii, Milano, Mondadori, 1993 («I Meridiani»), p. 664. 3 L’intervista è stata ristampata con il titolo mutato e i necessari adattamenti, alcune aggiunte e modifiche, nel corso degli anni sessanta: prima su «La Fiera Letteraria» del 7 gennaio 1962 (con il titolo Pirandello a casa sua); poi su «Iride» in gennaio-giugno 1967 (con il titolo Pirandello intimo). 4 L. Pirandello, Maschere nude, vol. ii, cit., p. 941. 5 S. Pirandello, Tutto il teatro, a cura di Sarah Zappulla Muscarà e Enzo Zappulla, vol. i, Milano, Bompiani, 2009, pp. 138-139. 2
i contributi di stefano pirandello all ’ opera paterna 75 Stefano Pirandello interviene ancora sulla riflessione ossimorica della condizione umana in cui mentre lo spirito soffre è concesso al corpo di continuare ad assaporare la vita. L’Uomo Grasso di All’uscita parla di un godimento che il suo corpo si era preso, all’insaputa della coscienza troppo appesantita da tristi pensieri per poterne partecipare. 1 Di questo dualismo tenta di farsi persuasore un personaggio della novella Colloqui coi personaggi 2 e proprio commentando un passo di quest’ultima, Stefano Pirandello annota: «Tanto è vivo il bisogno di comunicare a tutti questa ‘rivelazione’, ‘questo evangelo’, questa buona ‘novella’, che ci torna su tante volte, e ne fa il fulcro, il vero ‘fuoco’ di quella mirabile creazione poetica che è il mistero profano». Stefano Landi più volte rivendica la sua autonomia di artista nel tentativo di liberarsi da quella insopportabile forma nella quale il genio creativo del padre lo aveva imprigionato, mettendo contemporaneamente in evidenza l’apporto dato alla produzione letteraria del padre, come riportano alcune note di Stefano Pirandello in margine alla Prefazione ai Sei personaggi in cerca d’autore da cui si evince che ben due terzi di questa Prefazione si devono al solo Stefano; in corrispondenza del passo sul conflitto tra movimento vitale e forma, Stefano puntualizza: «Qui il concetto è naturalmente un concetto di Papà, ma la forma in cui è espresso è mia, di Stefano». 3 La subordinazione spirituale che esercita Luigi Pirandello sul figlio quasi per forza di natura è avvertita anche da Maria Olinda sposata da Stefano nel 1922; i due sposi alloggeranno in casa del padre «come due buoni figlioli» 4 ma la convivenza si rivelerà difficile a tal punto che Olinda riuscirà faticosamente ad inserirsi nell’anomalo ambiente familiare. In un racconto scritto da Stefano molti anni dopo in cui si descrive il delicato rapporto tra un padre, il figlio e la nuora, si parla di «tre infelici, che si reputavano offesi dall’altro, rendendosi amara la convivenza, macerata di vuotaggine e vergogne», 5 dove è ravvisabile la rappresentazione di quella sofferta esperienza. Stefano soffre, soffre soprattutto perché sa di essere un «figlio di papà» 6 per tutti anche se il Padre non ha ritenuto di doverlo sistemare come ogni ‘figlio di papà’ che si
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L. Pirandello, Maschere nude, a cura di A. D’Amico, introduzione di G. Macchia, vol. i, Milano, Mondadori, 1986 («I Meridiani»), pp. 138-139. 2 L. Pirandello, Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo, introduzione di G. Macchia, vol. iii, Milano, Mondadori, 1990 («I Meridiani»), p. 1142. 3 «Io credo, Papà, che le ore di stanchezza ti siano divenute assai più penose da quando hai concluso il tuo sotterraneo lavoro al dramma dell’Uno, nessuno e centomila. Ora tutto è più caro e definito in te. Ora la tua coscienza morale è implacabile. Perché non hai scritto un libro. Hai esercitato il tuo spirito, come in atti di vita: non per divenire un più bravo letterato, ma per esser meglio te stesso, un migliore uomo. Perciò associavi i tuoi figli alle scoperte del tuo lavoro, che è stato nella vita della nostra casa. Uno, nessuno e centomila! Che pena sia ultimato. Ma non so se anche per te, che vi hai durato quindici anni di fatica. Certo, è stato per quindici anni un rifugio del tuo spirito. […] Forse non avresti scritto qualcuna delle tue commedie, se non ci fosse stato in attesa sul tuo tavolino il manoscritto incompiuto di Uno, nessuno e centomila. […] Ti resta ancora per lavorare ancora quel sentimento stesso che ti ha fatto immaginare i casi di Moscarda. Quel senso d’angoscia della tua vita: Vita senza quasi più sostegni materiali, così estranea ai fatti, alla dominata e quasi distrutta animalità del tuo corpo. Vita dell’Uomo», in S. Pirandello, Tutto il teatro, vol. i, cit., pp. 148-149. 4 In L. Pirandello, Lettere a Lietta, trascritte da Maria Luisa Aguirre d’Amico, con la postfazione di Vincenzo Consolo, Milano, Mondadori, 1999, p. 29. 5 Cfr. A. Pirandello, Quella tristissima estate del Ventuno, «Ariel», settembre-dicembre 1986, p. 230. 6 In L. Pirandello, Carteggi inediti (con Ojetti, Albertini, Orvieto, Novaro, De Gubernatis, De Filippo), a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Roma, Bulzoni, 1980, p. 92.
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rispetti, così in una lettera inviata al Padre il 4 novembre 1925 gli rivela di aver scritto ad Ojetti per informarlo del suo lavoro e per chiedergli consigli sul modo di collocare i suoi scritti presso un buon editore. La collaborazione con il Padre continua nonostante le sotterranee incomprensioni: in una lettera del 5 dicembre 1925 Stefano afferma di aver scritto per Umberto Fracchia 1 l’articolo Prefazione all’opera di mio padre (Uno, nessuno, centomila) che apparirà su «La Fiera Letteraria» il 13 dicembre e nella quale Stefano sostiene che il Padre non ha scritto un libro, ma ha esercitato il suo spirito come in atti di vita, non per diventare un letterato più bravo ma per essere un uomo migliore; perciò associava i suoi figli alle scoperte del suo lavoro. Stefano esprime, inoltre, un certo dispiacere nel vedere ultimato quel lavoro che per quindici anni è stato un rifugio dello spirito paterno, rifugio tormentoso, evitato, temuto ma consapevole che se non ci fosse stato sul suo tavolino il manoscritto incompiuto di Uno, nessuno e centomila, il Padre non avrebbe scritto nessuna delle sue commedie. È proprio vero che Stefano, ‘figlio di papà’ come lui stesso si riteneva, non era mai stato aiutato dal Padre? Luigi Pirandello era perfettamente consapevole dello stato psicologico in cui versava il figlio, della forma nella quale era imprigionato a tal punto che lo dichiara apertamente in una lettera scritta il 13 maggio 1926 a Ugo Ojetti: «Stefano si sente stranamente oppresso da una specie di giogo letterario che si chiama Pirandello ed è bene che qualcuno gli dica che anche lui è persona viva. Se lo merita, e da nessuno meglio che da te potrà venirgli la buona novella». 2 Il padre desidera pertanto che il figlio si sistemi, che trovi una via sicura per la sua attività ed una remunerazione onesta e così lo propone per la redazione romana del Corriere, confidando nella vecchia amicizia di Ojetti ma la risposta non fu positiva come Luigi si aspettava: i redattori letterari del Corriere sono troppi ed Ojetti pensa addirittura di diminuirne il numero. In una lettera spedita da Torino il 6 maggio 1926 ed indirizzata ai figli Stefano e Fausto, Pirandello riferisce direttamente a Stefano del tentativo fatto per inserirlo nella redazione del Corriere e di quanto fosse rimasto offeso della risposta avuta da Ojetti a tal punto che Luigi non rispose più alle continue sollecitazioni di inviare delle novelle del figlio e l’affetto di Stefano è riconfermato da una lettera inviata da Roma in risposta a quella paterna e datata 10 giugno 1926 nella quale Stefano rivela al padre che, nonostante ora abbia una vera famiglia, farebbe di tutto per dimostrargli che il suo amore per lui è importante ed ossimoricamente è più libero e più schiavo del comune affetto dei figli per il padre. Così tanto affetto venne dimostrato da Stefano al padre anche nella lettera scritta da Roma il 24 febbraio 1932 con la quale lo sollecita a rientrare dal suo soggiorno a Parigi e a ritornare alla narrativa, alla «vittoria più grande», 3 il progettato romanzo Adamo ed Eva, «storia, tra mitico ed umoristica» 4 che Pirandello coltivava da tempo, sul quale Stefano aveva firmato, con lo pseudonimo di Fortunio l’intervista al padre dal titolo Se Pirandello scrivesse il romanzo di Adamo ed Eva, apparsa su «Il Tevere» del 31 luglio 1926 e di cui ricostruì la trama in occasione di una
1 Umberto Fracchia (1889-1930), critico letterario e teatrale, narratore, drammaturgo, fondatore nel 1925 de «La Fiera Letteraria». 2 In L. Pirandello, Carteggi inediti (con Ojetti, Albertini, Orvieto, Novaro, De Gubernatis, De Filippo), cit., pp. 98-99. 3 Cfr. A. De Angelis, I prossimi romanzi «conclusivi» di Luigi Pirandello, «La Tribuna», 15 marzo 1916. 4 Ibidem.
i contributi di stefano pirandello all ’ opera paterna 77 commemorazione radiofonica del Padre, tenuta a Roma il 10 dicembre 1938, dal titolo Le opere che Pirandello non scrisse. Il mattino del 10 dicembre del 1936, nella casa di via Antonio Bosio 15, Luigi muore; l’ultima lettera conservata precedente il decesso, scritta da Berlino e datata 30 novembre 1936 contiene un invito rivolto a Stefano di inviare una copia dell’estratto della sua commedia Un padre ci vuole. Inizialmente intitolata Il minimo per vivere, la commedia in tre atti Un padre ci vuole fu messa in scena il 21 gennaio 1936 al «Teatro Alfieri» di Torino dalla Compagnia Tòfano-Maltagliati-Cervi. Il tema, delicato e profondo, è quello della paternità. L’appassionata commedia ha un qualcosa di famigliare, di colto dal vero che riconduce l’astrattezza del tema alla concretezza di un ambiente paesano e colorito; vi è poi una nota pungente, pensosa, spirituale presente e latente in tutta l’opera che non può non ricondurre alla personale esperienza di Stefano. Il 2 marzo 1936, la commedia viene rappresentata al «Teatro Olympia» di Milano e dalla recensione scritta da Renato Simoni sul «Corriere della Sera» emerge la difficoltà con la quale è stata accettata dal pubblico a tal punto che dopo averla applaudita cinque volte al primo atto, tre, con qualche contrasto, al secondo, alla fine l’ha disapprovata. Stefano Pirandello, in ultimo, recepisce il testamento spirituale del Padre, testimonianza ineccepibile dell’intimo legame di natura intellettuale ed affettiva tra padre e figlio che della sua identità di figlio non riuscirà mai a liberarsi, anche se oggi il suo teatro riappare non firmato da Stefano Landi che sembra essere un personaggio da Commedia, ma da Stefano Pirandello. In punto di morte, Stefano raccoglie dalle labbra del padre morente la traccia dell’ultimo atto ancora da scrivere de I Giganti della Montagna che dovevano costituire l’ultima parte della trilogia del mito e così annota: Ecco l’azione del terzo atto (iv ‘momento’) dei Giganti della Montagna, come io posso ricostruirla da quanto me ne disse mio Padre, e col senso che avrebbe dovuto avere. Questo è quanto io ne so, e l’ho esposto, purtroppo senza la necessaria efficacia; spero però senza arbitrii. Ma non posso sapere se, all’ultimo, nella fantasia di mio Padre, che fu occupata da questi fantasmi durante tutta la penultima nottata della Sua vita, tanto che alla mattina mi disse che aveva dovuto sostenere la terribile fatica di comporre in mente tutto il terzo atto e che ora, avendo risolto ogni intoppo, sperava di poter riposare un poco, lieto d’altronde che appena guarito in pochissimi giorni avrebbe potuto trascrivere tutto ciò che aveva concepito in quelle ore; non posso sapere, dico, né nessuno potrà mai sapere se in quell’ultimo concepimento la materia non gli si fosse atteggiata altrimenti, né se Egli non avesse già trovato altri movimenti all’azione, o sensi più alti al Mito. Io seppi da Lui, quella mattina, soltanto questo che aveva trovato un olivo saraceno. “C’è” mi disse sorridendo “un olivo saraceno, grande, in mezzo alla scena: con cui ho risolto tutto”. E poichè io non comprendevo bene, soggiunse: “per tirarvi il tendone”. Così capii che Egli si occupava, forse da qualche giorno, a risolvere questo particolare di fatto. Era molto contento d’averlo trovato. 1
Ricorda molti anni dopo Valentino Bompiani: «Annunciando che il 13 dicembre Luigi Pirandello è stato cremato, il figlio Stefano ha detto ad Alvaro: “Avessi visto: un pugno di cenere. Come se fossero passati mille anni”. Alvaro gli ha domandato: “E il cuore, la piccola pallottola del cuore che non si consuma alla fiamma, lo hai veduto?”. “No, 1
S. Pirandello, Tutto il teatro, vol. i, cit., pp. 247-248.
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niente, cenere”. Stefano ha accettato di scrivere una biografia del padre, ma dopo qualche giorno è tornato con le spalle curve e quasi tremava: “Non posso, non posso. Mio Padre è tutto fluido in me; se ne scrivo, mi si pietrifica e lo perdo». 1 La commedia I Giganti della Montagna verrà rappresentata, nell’ambito del Maggio musicale fiorentino, il 5 giugno 1937, al Giardino di Boboli, regia di Renato Simoni, aiuto regia di Stefano Pirandello, musica di Mario Castelnuovo-Tedesco, interpreti Andreina Pagnani, Memo Benassi, Cele Abba, Salvo Randone, Annibale Ninchi. In una lettera datata 17 maggio 1950 e scritta da Santa Marinella a Silvio d’Amico, Stefano Landi esprime la sua intenzione di riprendersi il suo nome, in considerazione della trasparenza di quello d’arte che non fece mai da schermo al temerario ‘figlio di Pirandello’ e questa volta il rispetto al padre gli sembra di doverlo manifestare con la nuova speranza di rendere vivo anche lui il nome della famiglia. Non vuole più ritenersi indegno di portarlo e così prega l’amico di cancellare dalla copia del Falco d’argento il nome che cade e di scriverci ‘Pirandello’. La vita del Padre scorreva nel Figlio.
Bibliografia N. Borsellino, Ritratto e immagini di Pirandello, Bari, Laterza, 1992. A. Camilleri, Biografia del figlio cambiato, Milano, Rizzoli, 2001. L. Lugnani, Pirandello, Letteratura e teatro, Firenze, La Nuova Italia, 1970. L. Pirandello, Tutti i romanzi, a cura di Giovanni Macchia con la collaborazione di Mario Costanzo, vol. ii, Milano, Mondadori, 1973 («I Meridiani»). L. Pirandello, Carteggi inediti con Ojetti, Albertini, Orvieto, Novaro, De Gubernatis, De Filippo, a cura di Sara Zappulla Muscarà, Roma, Bulzoni, 1980 («Quaderni dell’Istituto di Studi pirandelliani», 2). L. Pirandello, Novelle per un anno, a cura di Mario Costanzo, introduzione di Giovanni Macchia, vol. i, Milano, Mondadori, 1986 («I Meridiani»). L. Pirandello, Maschere nude, a cura di Alessandro D’Amico, vol. ii, Milano, Mondadori, 1993 («I Meridiani»). L. Pirandello, L’umorismo, introduzione di Nino Borsellino, prefazione e note di Pietro Milone, Milano, Garzanti, 1995. L. Pirandello, Lettere a Lietta, Milano, Mondadori, 1999. S. Pirandello, Tutto il teatro, a cura di Sarah Zappulla Muscarà e Enzo Zappulla, Milano, Bompiani, 2004. L. e S. Pirandello, Nel tempo della lontananza, a cura di Sarah Zappulla Muscarà, Caltanisetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore, 2008. 1
Ibidem.
LA RISONANZA EUROPEA DEI SEI PERSONAGGI NELL’ESPERIENZA DELLA DIREZIONE ARTISTICA DEL TEATRO D’ARTE Opportuno è ciò che viene a tempo secondo il bisogno e il desiderio. Ora, che le compagnie stabili siano venute a tempo o stiano per venire a tempo, non mi pare. Io non le credo possibili in Italia. Non può essere senza ragione il fatto che noi abbiamo avuto sempre compagnie randagie di comici. E la ragione è nella vita nostra sparsa, multanime, ondeggiante, e nell’animo del nostro popolo così vario e diverso, che non ama approfondirsi mai, e invece si compiace dei momentanei sprazzi di visioni fuggevoli. Voler fissare in un centro o in alcuni centri questa vita è, secondo me, impresa vana e disperata. Lo sforzo avrà per effetto o la stanchezza o la sazietà. 1
C
osì rispose Luigi Pirandello quando nel 1906 gli chiesero se ritenesse opportuna in Italia la formazione di compagnie stabili o semistabili, nell’interesse dell’arte e degli artisti. Nel 1924, dopo dieci anni di esperienza come autore drammatico, Pirandello, venuto a contatto con le nuove tendenze del teatro europeo e americano, cambiò radicalmente opinione e fondò una compagnia stabile. L’idea non era stata sua ma, ancora una volta, di suo figlio Stefano Landi che insieme all’amico Orio Vergani stilò un progetto d’eccezione dove poter realizzare i loro e altrui sogni di giovani autori e rinnovatori della scena di prosa: erano gli anni in cui l’attività dei piccoli teatri o teatri d’arte, diffusa in quasi tutte le capitali del teatro d’Europa, stava conoscendo anche in Italia le prime realizzazioni: a Bologna il Teatro Sperimentale, a Milano la Sala Azzurra dei Tumiati e la Piccola Canobbiana, e a Roma gli Indipendenti di Bragaglia, il Teatro Moderno di Mario Cortesi e il Teatro di Villa Ferrari. L’autonomia del progetto LandiVergani non ebbe lunga vita: le ambizioni iniziali crebbero e pertanto si chiese e si ottenne l’adesione totale di Pirandello. In un articolo apparso su «Le temps» a Parigi nel 1925, infatti, così Luigi Pirandello affermava: «Non mi è bastato scrivere commedie e farle rappresentare. Oggi sono capocomico e metteur en scène d’una compagnia drammatica. Dovete crederci, proprio perché assurdo». 2 Erano gli anni del Teatro d’Arte, della Compagnia drammatica che Pirandello accompagnava attraverso l’Italia, l’Europa, le Americhe. Da questo momento il suo stile di vita cambiò radicalmente: rifiutò l’esistenza ritirata che gli aveva consentito di comporre le sue opere a tavolino e la prassi teatrale diventò per lui una creazione quotidiana a contatto con gli attori, i direttori, gli scenografi, gli addetti alle luci, i macchinisti e gli impresari; lo spettacolo doveva essere un organismo vivo, nuovo nel repertorio, nella recitazione, negli apparati scenici, idoneo a rappresentare la drammaturgia del Novecento, sostanziata da una volontà di rottura con la tradizione. Il figlio Stefano sarà uno dei pochi promotori dell’impresa, ma l’esperimento non potrà realizzarsi però senza la sovvenzione dei privati e soprattutto del governo. Pirandello, nel momento di maggiore crisi del regime in seguito al delitto Matteotti, chiese l’iscrizione al partito fa
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«Il Tirso», Roma, 22 luglio 1906.
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«Le Temps», Parigi, 20 luglio 1925.
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scista e Mussolini, consapevole del ritorno di propaganda e di consenso che tale adesione avrebbe comportato, non solo a livello nazionale ma anche internazionale, promise di appoggiare economicamente il progetto teatrale del famoso scrittore. Le promesse, però, vennero mantenute solo in parte: il Teatro d’Arte all’Odescalchi di Roma ricevette finanziamenti che lo tennero in vita solo per qualche mese, ma Pirandello non si arrese e diede vita alla Compagnia drammatica di giro per offrire un palcoscenico di prestigio alla prima attrice che lo aveva affascinato e proseguire una relazione complessa di cui padre e figlio discussero con disarmante sincerità. L’iniziativa però procedette fra difficoltà economiche sempre maggiori, e unico rimedio apparve quello di infrangere le strutture di un monopolio di fatto che imprigionavano l’arte: Pirandello non voleva creare solamente un teatro d’eccezione ma mirava alla riforma generale della scena, non solo italiana. Sul finire del 1926 si illuse che, alleandosi con il suo fiero avversario di sempre, l’impresario Paolo Giordani, avrebbe potuto ottenere da Mussolini l’approvazione del progetto per la costituzione di un Teatro di Stato, articolato nelle tre sedi stabili principali − Roma, Milano, Torino − e dalla connotazione nazionale. La questione della letteratura nazionale, sia drammatica sia d’arte narrativa, era molto complessa, come affermava Pirandello in una intervista comparsa su «La patria» il 12 febbraio 1905: l’arte consiste nel caratteristico e sicuramente la vita italiana, presente e passata, ha caratteri suoi propri ed è necessario che l’artista si impossessi di quella vita e poi la esprima caratteristicamente, e allora in questo senso potremmo avere un teatro che si potrebbe chiamare nazionale. Rispondendo, infatti, a un giornalista che lo interrogava sulla possibilità di un futuro teatro italiano con caratteristiche proprie, in un articolo apparso su «Il Giornale d’Italia», un foglio italo-argentino del 14 settembre 1933, Pirandello rispondeva: Un teatro italiano non si può creare così, con un’idea prestabilita, perché l’arte non ha regole e deve soprattutto sorgere spontanea dal travaglio spirituale del creatore. Se domani avremo autori italiani che scriveranno in lingua italiana, con caratteristiche spirituali ed artistiche nostre – tutti gli uomini e quindi anche gli artisti portano in sé i caratteri fondamentali e tipici della propria stirpe – quello allora si potrà chiamare teatro italiano. 1
Il progetto rimase di fatto insabbiato e la sua Compagnia seguitò un’attività stentata, fino allo scioglimento obbligato avvenuto il 15 agosto del 1928, anche se per circa quattro anni la sua vita coincise con quella degli attori; egli profuse ogni energia in quell’impresa, superando le continue difficoltà, seguendo sempre la Compagnia nelle sue peregrinazioni, pronto anche a sostenerla finanziariamente. Durante l’esperienza del Teatro d’Arte, Pirandello regista allestì cinquanta spettacoli, molti dei quali restarono a lungo nella memoria di artisti e letterati che, a distanza di anni, nel generale squallore della scena italiana dei primi anni Trenta, li rievocarono spesso con nostalgia. Lo stesso rimpianto veniva espresso da Bontempelli che nel 1933 affermava di aver visto Pirandello fare miracoli e che una compagnia stabile d’arte a lui affidata avrebbe aperto una nuova felice era nella storia del teatro di prosa. 2 L’attività di Pirandello regista, in effetti, traumaticamente interrotta nel 1928, venne dimenticata. Tra gli
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Interviste a Pirandello, a cura di I. Pupo, Soveria Mannelli, Rubettino, 2002. M. Bontempelli, Il teatro degli Undici o Dodici, «Scenario», 2, 1933.
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la risonanza europea dei sei personaggi nel teatro d ’ arte 81 esponenti della riforma attuata dai registi italiani nell’immediato dopoguerra si citano Boutet, Talli, la Pavlova, ma Pirandello metteur en scène e direttore d’attori è scomparso, anzi ancor di più: «È noto come egli fosse pressoché negato alla direzione artistica», 1 così si esprimeva Vito Pandolfi. Tra i cinquanta spettacoli allestiti durante il capocomicato di Pirandello, particolarmente interessante risulta la parabola dei Sei personaggi all’interno del contesto europeo tra Londra, Parigi e Berlino i cui palcoscenici consacrarono l’universalità del dramma. La Compagnia, tra il 4 e il 10 giugno 1925, si preparò per il suo primo tour all’estero, sospinta dalla speranza di assestare il bilancio e dall’impegno preso con Mussolini. Impresari di mezzo mondo, alla notizia che Pirandello si era posto alla guida d’una propria compagnia, avevano aperto le trattative. Charles Blake Cochran, primo a concludere, l’8 giugno telegrafò: «È un grande onore per me presentare a Londra i vostri drammi. La notizia del vostro arrivo insieme ai vostri attori ha suscitato una grande attesa». 2 Cochran chiese un repertorio esclusivamente pirandelliano: dopo tanto discuterne, il pubblico voleva conoscere il Pirandello autentico. I cinque titoli scelti per l’esportazione sono: Sei personaggi, Enrico IV, Vestire gli ignudi, Così è (se vi pare), Il piacere dell’onestà. Nella capitale britannica, a proposito dei Sei personaggi, emersero nuovamente delle difficoltà censorie. Nel 1923, il testo in inglese che turbava le coscienze fu infatti recitato in un teatro privato e venne proibito da Lord Chamberlain, che tardò anche a concedere l’autorizzazione per le rappresentazioni in italiano:
Il veto è tanto più strano − dichiara Pirandello − in quanto che non ho mai scritto in vita mia una commedia immorale o alcuna cosa che potesse comunque turbare la serenità di spirito del lettore o dello spettatore. Quanto ai Sei personaggi, l’episodio che ha fatto inalberare la censura londinese è presumibilmente l’incontro tra il padre e la figliastra in un locale equivoco. Ma il bello è che l’episodio in questione non esiste nella commedia se non allo stato potenziale e anzi il lavoro è tutto imperniato sull’interruzione di quell’episodio. 3
La Compagnia del Teatro d’Arte di Roma, superate le difficoltà poste dalla censura, debuttò al New Oxford Theatre, oggi distrutto, con Sei personaggi in cerca d’autore. L’esordio fu ampiamente positivo, come le successive tre repliche. Sia a Londra che a Parigi, in vista del debutto avvenuto nell’estate del 1925, gli attori della Compagnia di Pirandello erano stati invitati proprio per conoscere la reale interpretazione degli ambigui Personaggi, e infatti il volantino quadrilingue destinato al pubblico avvertiva che l’edizione aveva un particolare interesse poiché era la prima edizione completa, arricchita di nuovi dettagli e in contrasto con le edizioni famose di Berlino, Parigi e New York. Le questioni erano le seguenti: prima edizione completa, denuncia l’incompletezza delle edizioni precedenti, anche quella niccodemiana, nella quale era stata largamente tagliata la parte del Padre, specialmente all’atto terzo; nuovi dettagli, è una espressione che si riferisce alle radicali modifiche apportate da Luigi Pirandello alla dinamica dell’azione e all’aspetto dei Personaggi che, invece che dai camerini, comparvero dal 1
V. Pandolfi, Spettacolo del secolo, Pisa, Nistri-Lischi, 1953, p. 215. Fondo Salvini, Museo Biblioteca dell’Attore, Genova. 3 «Il Messaggero», 5 giugno 1925. 2
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fondo della sala e salirono sul palcoscenico dopo aver attraversato la platea; sulla scaletta posta tra la platea e il palcoscenico si svolse un nuovo andirivieni del Direttore Capocomico; per quanto riguarda l’aspetto, i Personaggi erano truccati in modo vistoso e i costumi erano stilizzati, in particolare si ricorda il costume del Padre, dalle spalle imbottite, squadrato, quasi irrigidito. Con l’espressione “in contrasto con le edizioni famose di Berlino, Parigi e New York” si intende in contrasto con le regie di Reinhardt, Pitoëff e Pemberton. La regia di Pirandello, che aveva assistito alle messinscene di Pemberton e di Pitoëff e letto gli ampi rendiconti su quella di Reinhardt, fu diversa soprattutto nello stile dato alla recitazione dei Personaggi poiché il tono interiore, l’illuminazione, il clima vennero accentuati all’ennesima potenza. Il diverso sguardo dei critici stranieri e forse anche del pubblico, a seconda dei caratteri della propria scena nazionale, dettò le più varie definizioni della recita degli attori italiani: realistica, caricata, fiabesca, ecc. L’allestimento dei Sei personaggi nato all’Odescalchi restò fondamentale per il suo stretto rapporto con la nuova e sostanzialmente definitiva edizione del testo, pubblicata nello stesso anno 1925. 1 A Parigi, in attesa di Sei personaggi, Benjamin Crémieux pensò bene di illustrare ai concittadini le particolarità dell’esperienza del teatro d’Arte:
Chi conosce un po’ gli usi e costumi del teatro italiano sa che vi sta avvenendo una rivoluzione, analoga a quella tentata da Antoine, dal punto di vista scenico, e a quella di Jacques Copeau, al Vieux-Colombier, dal punto di vista morale, ma è soprattutto nella regia e nell’interpretazione dei Sei personaggi che gli effetti di questi puri ideali artistici si rivelano completamente. Già da ora si può affermare che il Teatro d’Arte di Pirandello conterà nell’evoluzione dell’arte scenica italiana e senza dubbio anche europea. Riteatralizzare il teatro è in questo momento la parola d’ordine: gli attori italiani sono sempre stati i più teatrali di tutti, i più dotati di movimento, di vita, di espressione. Solo l’anarchia che, da più di un secolo, regna sulla scena italiana, ha impedito di disciplinare questi doni eccezionali della razza, e la maggior parte degli attori, da Salvini alla Duse e a Novelli, hanno sempre fatto risplendere il loro merito in mezzo a compagnie piuttosto mediocri. Lo spirito di corpo e l’intelligenza (o il genio) del regista ci appaiono oggi sempre più come garanzie essenziali per una buona interpretazione. D’altro canto tutto ciò ha una contropartita: l’attore può venire sacrificato: si rischia di avere delle compagnie eccellenti senza nessun attore di spicco. Il ruolo europeo di un’arte drammatica italiana è precisamente quello di costruire delle compagnie senza uccidere l’attore. 2
La commedia dei Sei personaggi era assai nota a Parigi fin dall’aprile 1923 grazie al successo dell’edizione Pitoëff che Pirandello aveva apprezzato ma non del tutto condiviso. 3 Il confronto tra le due rappresentazioni è abbastanza noto, ma si presenta utile ricordarlo. Il 6 luglio 1925 andarono in scena riscuotendo un enorme successo. Sollecitati dal confronto, i recensori parigini misero in evidenza, assai meglio dei colleghi italiani, le caratteristiche dello spettacolo. L’enorme differenza tra la rappresentazione
1 Sulla questione si veda A. D’Amico, De la stuper à la terreur, «Théâtre en Europe», 10, 1986, pp. 31-34. Sulla messinscena dell’Odescalchi in particolare si confronti: A. Tinterri, Two flights of steps and stage direction: Pirandello’s staging of «Six characters in search of an author» in 1925, «The Yearbook of the British Pirandello 2 Society», 3, 1983, pp. 33-37. B. Crémieux, La «Gazette de France», 4 luglio 1925. 3 A riguardo si faccia riferimento a J. Lorch, The 1925 text of «Sei personaggi in cerca d’autore» and Pitoëff production of 1923, «The Yearbook of the British Pirandello Society», 2, 1982, pp. 32-47.
la risonanza europea dei sei personaggi nel teatro d ’ arte 83 di Pitoëff e quella di Pirandello si condensa nei due momenti chiave: l’ingresso dei Personaggi e il finale. Per quanto concerne l’ingresso, in Pitoëff i Personaggi scendevano dal montacarichi del palcoscenico ed erano investiti da una luce verde; in Pirandello giungevano dal fondo della sala e l’intensità mimica sottolineava la loro natura di creazioni dello spirito... Per quanto riguarda il finale, in Pitoëff, si allontanavano da dove erano venuti, sul montacarichi, quasi a riprendere il loro tormentato cammino; in Pirandello, invece, scomparivano quasi decomposti nel nulla: Non appena la scena è stata abbandonata dagli attori, i personaggi irreali riappaiono in ombre cinesi sul sipario del fondo e la diminuzione progressiva della luce li fa svanire per rientrare nel mondo immaginario da cui erano usciti. 1
Divenuto lo spettacolo-simbolo del Teatro d’Arte, i Sei personaggi saranno d’ora in poi scelti per il debutto in quasi tutte le piazze, a iniziare da Berlino, dove il 12 ottobre, la Compagnia di Pirandello iniziò il lungo giro nei teatri tedeschi, partendo proprio dalla città nella quale, il 30 dicembre 1924, Max Reinhardt rappresentò i Sei personaggi al Komödie. Qui il dramma ebbe il suo vero successo, tanto che, dal 30 dicembre 1924 all’8 marzo 1925, fu messo in scena quattordici volte al Komödie e ben quarantasei, dal 13 marzo al 28 dicembre 1925, al Deutsches Theatre. L’interpretazione che il regista austriaco fece del dramma pirandelliano è già stata analizzata da Michael Rössner, 2 che vi vede evidenziata soprattutto la dialettica barocca, alla Calderón de la Barca, del contrasto tra essere e apparire attraverso il quale l’interpretazione del dramma si rivela come una sorta di grande allegoria, utilizzando la contrapposizione arte versus realtà. In Calderón solo Dio può distinguere tra essere e apparire, mentre Pirandello propone di accettare la realtà nella sua dimensione poliedrica. Il teatro pirandelliano, infatti, non si attiene semplicemente alla formula barocca di El gran teatro del mundo, ma lo travalica e si risolve a livello di discorso metateatrale: il personaggio teatrale rivendica un’unica identità diversa da attori e regista che, poiché uomini, sono condannati ad assumere identità diverse che mutano nel tempo e dipendono da chi li guarda. La lettura offerta da Reinhardt e la sua rappresentazione, pertanto, pur risultando distanti dalle intenzioni dell’originale, portarono, comunque, il teatro pirandelliano, a un grandissimo successo. La lontananza dai presupposti filosofici pirandelliani spiega anche le ragioni della delusione del pubblico quando Pirandello portò con la sua compagnia i Sei personaggi in tournée in Italia. I vari commenti alla serata, raccolti da Oscar Büdel, infatti, così testimoniano:
È interessante notare che la critica berlinese trovò che tutte le messinscene del regista Pirandello non rispondevano affatto alle concezioni del drammaturgo Pirandello. Partendo dal presupposto che ultima conseguenza dei Sei personaggi è una dichiarazione di fallimento dell’arte drammatica davanti alla realtà della vita stessa, la loro rappresentazione avrebbe dovuto puntare sul tragico di una tale realtà, a contrasto con la farsa dell’imitazione drammatica, come appunto aveva fatto Reinhardt, in un giuoco immaginario di ombre, irrealtà più reale della realtà stessa, sottolineando la tragicità della condizione umana, attraverso lo scontro tra 1
R. Lelièvre, Le Thèâtre dramatique italien en France, Parigi, Colin, 1959, p. 422. M. Rössner, F. R. Hausmann, Theatralisierung der Wirklichkeit und Wurklichkeit des Theaters. Akten des 3 Pirandello-Kolloquiums in Wien, Bonn, Romanisticher Verlag, 1988, pp. 149-158. 2
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illusione e realtà. Al contrario la messinscena italiana sembrò sottolineare piuttosto il carattere di puro gioco, quasi volesse indurre il pubblico a non prendere le cose troppo solennemente e mostrare che, dopo tutto, quel che avveniva sul palcoscenico era nient’altro che teatro. La recitazione, i movimenti e la tecnica delle luci degli italiani furono giudicate troppo elementari per le profondità psicologiche del testo. Si ammise soltanto che Pirandello aveva impresso al dramma un ritmo serrato e preciso, estremamente efficace. Si trovò strano che Pirandello non avesse usato nessun espediente scenografico (come per esempio lo scuro fondale usato da Reinhardt) per creare un’aura di mistero e che i suoi personaggi invece d’esser fantasmi di se stessi possedevano una “carnalità” che ne avrebbe ridotto l’effetto. 1
La critica francese e la critica tedesca non si resero conto che i confronti che andavano instaurando tra le rappresentazioni di Pitoëff e Pirandello e di Reinhardt e Pirandello, non avvenivano tra due diverse rappresentazioni di un identico testo. Pitoëff utilizzò la traduzione Crémieux della prima edizione che si differenziava dal testo messo in scena da Pirandello nel 1925; il copione di Reinhardt era un vero rifacimento fine a se stesso. 2 È indicativo soffermarsi sul fatto che, nel fiume delle polemiche nate intorno ai Sei personaggi del Teatro d’Arte, nessuno abbia notato che lo spettacolo sia stato accolto nella totale indifferenza del testo, ma indipendentemente da questa mancanza, dal punto di vista statistico, il testo dei Sei personaggi fu quello più rappresentato nei tre anni di vita della Compagnia.
Bibliografia F. Angelini, Il teatro del Novecento da Pirandello a Fo, Roma-Bari, Laterza, 1990. F. Angelini, Il punto su Pirandello, Roma-Bari, Laterza, 1997. M. Bontempelli, Il teatro degli Undici o Dodici, «Scenario», 2, 1993. N. Borsellino, Ritratto e immagini di Pirandello, Roma-Bari, Laterza, 2000. O. Büdel, Pirandello sulla scena tedesca, «Quaderni del Piccolo Teatro», 1, 1961. G. Casoli, Novecento letterario italiano ed europeo, Roma, Città nuova, 2002, A. D’Amico, De la stuper à la terreur, «Théâtre en Europe», 10, 1986. Interviste a Pirandello, a cura di I. Pupo, Soveria Mannelli, Rubettino, 2002. R. Lelièvre, Le Thèâtre dramatique italien en France, Parigi, Colin, 1959. J. Lorch, The 1925 text of «Sei personaggi in cerca d’autore» and Pitoëff production of 1923, «The Yearbook of the British Pirandello Society», 2, 1982. V. Pandolfi, Spettacolo del secolo, Pisa, Nistri-Lischi, 1953. M. Rössner, F. R. Hausmann, Theatralisierung der Wirklichkeit und Wurklichkeit des Theaters. Akten des 3 Pirandello-Kolloquiums in Wien, Bonn, Romanisticher Verlag, 1988. A. Tinterri, Two flights of steps and stage direction: Pirandello’s staging of «Six characters in search of an author» in 1925, «The Yearbook of the British Pirandello Society», 3, 1983. 1
O. Büdel, Pirandello sulla scena tedesca, «Quaderni del Piccolo Teatro», 1, 1961, p. 102. Le libertà eccessive che si prese Reinhardt sono documentate da M. Rössner, La fortuna di Pirandello in Germania e le messinscene di Max Reinhardt, «Quaderni di teatro», ix, 34, 1986. 2
ORAZIO COSTA GIOVANGIGLI E MARIO LUZI: STORIA DI UN’AMICIZIA
U
n dattiloscritto conservato tra le carte personali del Maestro Orazio Costa Giovangigli nel suo studio ubicato nel piano sovrastante il Teatro La Pergola di Firenze, dimora che lo ha accolto durante gli ultimi anni della sua vita, è testimonianza viva e sincera di una amicizia nata da una intensa collaborazione culturale. Il documento non datato, scritto, sul fronte come sul retro, su supporto cartaceo dalle dimensioni di duecentodieci per duecentonovantasette millimetri, reca l’efficace titolo autografo Sintesi memoriale di un’amicizia e riporta la firma dattiloscritta ma non autografata del poeta Mario Luzi che dichiara di aver conosciuto Orazio Costa quando egli decise di affrontare la Vita nuova di Dante nei suoi programmi didattici di drammatizzazione di testi letterari. Fino a quel momento, Luzi dichiara di essere sempre stato ostile per principio alle conversioni teatrali di opere nate in altra forma ma quella recita lo obbligò a cambiare parere: una drammaturgia nuda e sapiente, essenziale fino alla radicalità evangelica, come avrebbe detto Costa, diede plasticamente vita al potenziale drammatico nascosto negli eventi interiori e chiuso nelle perfette forme di quell’opera giovanile di Dante a cui Luzi era da tempo devoto. Il sodalizio artistico, intellettuale ed umano, iniziò nell’anno 1978, quando Orazio Costa comunicò a Mario Luzi che avendo adottato nella sua scuola come testo per quell’anno la sua Ipazia, avrebbe desiderato concludere il corso con un saggio di recitazione pubblica e pertanto gli domandava non solo il consenso ma anche la collaborazione. Quel saggio tenuto in un salone dell’Educandato della SS. Annunziata a Poggio Imperiale divenne poi la prima ufficiale all’Istituto del Dramma Popolare a San Miniato, in occasione della trentatreesima Festa del Teatro. 1 Luzi non aveva mai scritto per il teatro se non l’opera Pietra oscura e neanche scrivendo Ipazia secondo una morfologia drammaturgica aveva mai pensato ad una possibile rappresentazione. In quella circostanza il poeta ebbe modo di ammirare la lettura aderente, precisa che Costa offriva ed esigeva dagli attori e da cui si sprigionava l’energia della recitazione. Dalla intelligenza effettiva doveva nascere il pathos e su questo il regista era talmente esigente a tal punto che qualche attore di rilievo, pur ammirandolo, sopportava male la sua direzione artistica. Il 1983 fu un anno importante perché Luzi e Costa si ritrovarono affiancati nella preparazione della rappresentazione di Rosales per il Teatro di Genova. Innumerevoli furono poi le occasioni di collaborazione a partire dalle letture dantesche che Costa
1
«Coraggiosa, ed anche un po’ provocatoria suonava dunque la scelta dell’Istituto del Dramma Popolare di San Miniato, che, in occasione della trentatreesima Festa del Teatro, rappresenta Ipazia e il Messaggero di Mario Luzi, una delle voci più intense del nostro panorama poetico, che si cimentava qui per la prima volta in veste d’autore drammatico». Cfr. E. Bertani, La più alta poesia in chiara pronuncia, «Avvenire», 27 luglio 1979.
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curò meticolosamente per anni nella chiesa di Badia, in occasione delle quali anche Luzi lesse qualche canto della Divina Commedia immerso in quella atmosfera di intimo raccoglimento. Luzi sostanzialmente scoprì in Costa una vena poetica: era sì un grande uomo di teatro ma lo era sotto una prospettiva poetica. Profondissima, infatti, era la conoscenza della poesia di ogni età e la composizione lirica 1 occupò molta parte del tempo che l’attività teatrale gli lasciava libero. Un attento pubblico poteva accorgersi subito di essa, poiché nella lettura dei testi prediletti gli conferiva una efficacia sobria ma molto incisiva. Chiaro esempio ne è il ricordo di un grande raduno di giovani a Palazzo Vecchio in cui si parlò di Dante e di Rimbaud; in quell’occasione si riuscì ad accoglierlo sul palco e Luzi lo persuase a leggere l’ultimo canto del Paradiso. In quel periodo, Orazio Costa aveva problemi di voce a causa delle corde vocali allentate ma quella lettura tesa, vibrante, adamantina riuscì a soggiogare quell’affollatissimo uditorio. Il sodalizio artistico tra Costa e Luzi nacque quando il regista rivolse la sua attenzione alla drammaturgia contemporanea: durante gli anni compresi tra il 1970 e il 1980 e precisamente nel 1975, Costa, infatti, mise in scena Processo a Gesù di Diego Fabbri e l’inedito Quinto evangelista di Mario Pomilio. Nel 1979 rappresentò il terzo allestimento di Vento notturno di Ugo Betti e con Ipazia e Il Messaggero di Mario Luzi, Costa iniziò il suo rapporto intellettuale con il poeta, conosciuto durante il periodo nel quale Costa si trasferì da Roma a Firenze e si pose alla guida del Centro di Avviamento all’Espressione. 2 Il dialogo trentennale tra Orazio Costa e Diego Fabbri, autore che rappresenta una delle punte emergenti della drammaturgia nazionale post-pirandelliana in cui le opere sono strutturalmente e tematicamente tese a rappresentare forme eventuali dell’esame di coscienza da cui avrebbero dovuto prendere le mosse la ricostruzione etica della società italiana uscita dal fascismo, conferma, infatti, l’immagine di un regista capace di dar vita al testo, di misurarsi con testi difficili e disposto ad affidarsi alla penna di un contemporaneo oltre che ai classici già ampiamente sperimentati. Il regista, pertanto, è colui che si fa garante della coerenza dei segni e dei moduli della composizione scenica e confrontandosi con l’opera la elegge a forma di archetipi che si pongono come idee guida valide per testimoniare pro o contro l’ordine culturale contemporaneo e che «garantisce un’unità morale in un mondo fenomenicamente diviso, contribuendo così a ristabilirvi un ordine assoluto». 3 L’incontro con la drammaturgia contemporanea indusse Orazio Costa ad accettare la sfida della rappresentabilità della parola poetica dell’opera di Mario Luzi mettendo in scena, dopo un’anteprima di Ipazia a Poggio Imperiale a Firenze, Ipazia e Il Messaggero per l’Istituto del Dramma Popolare di San Miniato, la rappresentazione dei quali venne accolta con curiosità e rispetto a causa della difficoltà, subito riscontrata, della natura poetica del testo. Per comprendere la novità portata da Costa con la sua messinscena, di particolare interesse risultano le recensioni apparse nel luglio del 1979 sulle pagine dei maggiori quotidiani. G. Prosperi, nella recensione Luzi: il dramma della
1 Orazio Costa pubblica la sua prima ed unica raccolta di poesie con la prefazione di Orazio Costa nel 1992. Cfr. O. Costa Giovangigli, Luna di casa, Firenze, Vallecchi, 1992. 2 G. Tramontana, Orazio Costa testimone della scena italiana, «Comunicazioni sociali», 3, 1998, p. 379. 3 O. Costa, La regia teatrale, «Rivista italiana del Dramma», iii, 4, 1939, pp. 66-79.
orazio costa giovangigli e mario luzi: storia di un ’ amicizia 87 cultura apparsa su «Il Tempo» il 27 luglio 1979 sostiene che quella presentazione è risultata discreta, indicando, in termini molto generali ma cristallini, le coordinate del pensiero di Luzi. Apprezzabile è stato l’eloquio semplice, quasi umile e spicciolo, con cui i presentatori hanno parlato del poeta: e con cui il poeta, rispondendo a qualcuno del pubblico, ha tenuto a sottolineare il distacco della sua opera dalla mera attualità, senza negare le implicazioni politiche e ideologiche, che dalla sua meditazione sulla storia si possono trarre. 1
Il coraggio dell’operazione teatrale di Costa è stato sottolineato da Edoardo Bertani che evidenzia con sorpresa e quasi con meraviglia come dalla ricerca solitaria di un poeta, ci vengano due fra i pezzi più attuali e problematici ed anche fra i più compiuti e maturi dal punto di vista della cultura scenica, che abbia dato in questi anni il teatro italiano; sempre che, naturalmente, si intenda la teatralità nel senso più strettamente legato alla parola, alla tensione intellettuale del logos sulla scena, e l’attualità nella sua concezione più allusiva e mimetica. 2
Altrettanto indicativa la riflessione critica di Aldo Viganò che scopre che tutta la composizione lirica di Luzi è di carattere drammaturgico poiché nei suoi versi, tanto variati per ritmo, respiro e fantasia di struttura, ci sono delle cesure che suggeriscono all’attore la pausa significativa del fraseggio. Infatti, «la poesia drammatica consegna all’attore i ritmi e i significati con i quali l’autore ha vissuto la propria parola». 3 Il verso, la parola prima di tutto e la necessità di concentrare su di essi la regia, arrivando ad una rarefazione della scena in cui la “voce” dell’attore è l’elemento portante, permettono di esaltare la modernità del dramma. 4 Orazio Costa Giovangigli, ad una materia che offre poche possibilità o suggestioni visive, ha recato la sua sapienza di attento e profondo svisceratore della parola scenica, tanto più che questa parola è anche e in particolare parola poetica; infatti, non ha chiesto agli attori di “riempire” la scarna azione di gesti o di azioni mimiche superflue: li ha invece tenuti ad una asciuttezza severa, evitando al tempo stesso di cadere nella pura lettura o nella pura dizione. 5 Dare veste scenica al dramma significava, infatti, evitare prima di tutto qualsiasi gusto per l’effetto scenico e porre l’accento sul tessuto verbale nel tentativo di renderlo chiaro senza per questo cadere sul piano di una lettura pura e semplice. Costa, secondo Poesio, ha regolato il gioco con estrema sapienza,
arricchendo le pause delle musiche originali di Sergio Prodigo ma soprattutto creando nella composizione quasi sacrale dell’assieme un clima di sospesa attesa: pareva davvero che là dietro i grandi finestroni aperti sulla notte si stendesse il sogno di un ponte, verso un tempo di ragione. 6
1
G. Prosperi, Luzi: il dramma della cultura, «Il Tempo», 27 luglio 1979. E. Bertani, La più alta poesia in chiara pronuncia, «Avvenire», 27 luglio 1979. 3 A. Viganò, Il fascino poetico dell’ambiguità, in M. Luzi, Rosales, Genova, Edizioni del Teatro di Genova, 1983, p. 161. 4 «Mi sono riservato una notevole libertà scenografica – credo che ciò abbia giovato notevolmente alla rappresentazione – perché, nonostante quei lontani e precisi riferimenti, il pubblico ha sentito i due drammi in maniera estremamente moderna». Ibidem. 5 6 P. E. Poesio, L’uomo messo alla prova, «Il Resto del Carlino», 26 luglio 1979. Ibidem. 2
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Un tempo altro che pone in risalto la purezza e l’incisività della parola poetica di Luzi, così come si legge in un articolo senza firma pubblicato su «Il Corriere della Sera» il 26 luglio 1979: l’aspetto dialogico dei drammi di Luzi è stato posto in risalto , nella regia di Orazio Costa, da uno spettacolo nudo ed essenziale, quasi un oratorio. L’azione, tutta orizzontale, da basso rilievo, si svolge al proscenio mentre il palcoscenico è chiuso da pannelli con immagini fatiscenti di Alessandria e Cirene. 1 Gli allestimenti di Orazio Costa sono sostenuti da una precisione rispettosa dell’analisi del testo e rispetto ad Ipazia e al Messaggero, in Rosales «l’atemporalità storica è imposta direttamente dal testo di Luzi», 2 perciò il lavoro di astrazione della scena ha potuto essere teso all’estremo. Il regista, infatti, così afferma:
Ho voluto immergere l’azione in uno spazio molto particolare, proseguendo un lavoro di ricerca che ho già sperimentato in altri spettacoli e, mi pare, con risultati interessanti. Abbiamo cercato cioè di confezionare una scena il cui perimetro entro il quale l’attore agisce non è condizionato che dalla luce […] Per esistere la luce deve essere rimandata da un corpo sufficientemente solido e la nostra scelta è caduta su un materiale trasparente che solo per necessità tecniche è plastica. […] La scelta scenografica che è stata alla base del nostro lavoro in Rosales si è indirizzata appunto nella prospettiva di liberare l’attore dalla gabbia opaca della scenografia e di far concentrare su di lui tutta l’attenzione. 3
L’attenzione della regia riporta l’attenzione sull’attore restituendo alla “parola” il ruolo di costruzione del personaggio e il regista deve sorvegliare che ciò che si verifichi ponendosi in costante rapporto di collaborazione con gli attori e svolgendo un attento lavoro di critica letteraria che permette a Costa di offrire spiegazioni sugli scritti destinati alla rappresentazione: in Rosales come in tutti i grandi testi di poesia teatrale, è la parola che costituisce i personaggi e sorvegliare che ciò che si avveri sulla scena significa in primo luogo l’esercizio di un’attenzione che riunisca non solo tutta una pratica di critica letteraria e drammatica, ma anche un particolare rapporto di corrispondenza con gli attori. La fatica degli attori ha il grande merito di aver reso docili quei versi difficili ma che già contenevano, in verità, una potenziale rappresentabilità che la sapiente regia di Orazio Costa ha svelato. L’allestimento è stato, infatti, costruito sulla base di un lavoro poderoso e magistrale incentrato sulla musicalità del verso che trova il suo ritmo in un gioco particolarissimo costituito sulla durata delle parole e delle sillabe, sull’attacco di una consonante, sull’accentuazione e sull’alternarsi sapiente delle pause; questa serie di rimandi compone un continuum naturale ritmico che non fa rimpiangere il fluire sublime e inarrestabile della parola poetica di Luzi sulla pagina scritta. 4 L’atemporalità individuata da Ronfani fa riferimento alla potenzialità della parola e del verso di creare nello spazio vivente le immagini che prima erano solo suggerite dalla lettura. 5 L’iniziale sensazione di spaesamento che coglie l’autore di Rosales alla prima lettura del testo da parte di Albertazzi è foriera di interessanti riflessioni:
1
s. f., Quando il poeta diventa drammaturgo, «Il Corriere della Sera», 26 luglio 1979. 3 A. Viganò, Il fascino poetico dell’ambiguità, p. 160. Ivi, p. 168. 4 F. Tei, I miti non si uccidono, «La Città», 4 maggio 1983. 5 «Il regista Costa Giovangigli ha sottolineato l’atemporalità della vicenda morale (o religiosa, se si preferisce) narrata da Luzi immergendola in uno spazio-luce», U. Ronfani, Uccidere Trokij? Don Giovanni dice no, «Il Giorno», 4 maggio 1983. 2
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Assistevo, lo choc da superare dall’indefinito divario che c’è fra la pura vocalità mentale delle parole scritte e la voce dell’attore che se le appropria. Appropriandosene dà loro corpo e spessore, nello stesso tempo non può evitare l’imposizione di un limite, né fare a meno di restringere irreparabilmente il campo della possibilità come accade sempre quando si passa dal virtuale al concreto. L’effetto era di spaesamento, ma non era, o non era sempre, di perdita; talvolta anzi l’acquisto di autorità e di forza evidente mi facevano pensare alla giusta e compiuta manifestazione del loro senso latente; ma anche ad una loro vita seconda perché la scena come convenimmo con Giorgio parlandone in pausa, è luogo di trasformazione più di quanto lo sia di risonanza e di rispecchiamento. 1
Evidente è la coerenza tra le parole di Luzi sul problema dell’irreparabile restringimento della possibilità a cui viene sottoposto il verso nel passaggio da pagina scritta a parola espressa e le affermazioni di Costa sulla necessità di porre l’attenzione sul verso e, quindi, sulla recitazione, sulla parola, sull’attore. La scelta registica di Costa è ancora una volta generata da una profonda comprensione dell’autore e dall’esigenza di porsi, come ‘medium’ fra testo e scena 2 lasciando aperta anche la possibilità di rivedere alcune parti del testo per poter effettuare un cambiamento di ordine di alcune scene. 3 L’intima amicizia tra Orazio Costa e Mario Luzi ha favorito lunghe e serrate conversazioni 4 tra i due sia in occasione della messa in scena di Ipazia sia nel caso di Rosales, così come Costa sostiene in un’intervista rilasciata ad Aldo Viganò nella quale dichiara, inoltre, di essere consapevole della propria capacità di comprensione profonda dei meccanismi che sottendono al testo da «coordinare» 5 nel rispetto dell’autenticità della parola. Il rapporto con il testo, anche per quanto riguarda Luzi, non si esaurisce nella lettura dell’opera allestita ma è integrato da un’effettiva possibilità di verifica in un dialogo con l’autore. Nel teatro di Luzi è possibile anche rilevare una sintonia con la convinzione di Costa che il teatro è «rivelazione, manifestazione di un profondo
1
M. Luzi, La grande emozione di sentire Albertazzi che regala una seconda vita alle mie parole, «Il Corriere della Sera», 23 aprile 1983. 2 «È da molto tempo che mi sono staccato dall’abitudine di enunciare idee di regia. […] Un sottile movimento è realizzato dagli attori proprio nel modo di porgere la loro espressione, la quale appunto, non è affatto quella che si potrebbe realizzare in un oratorio, dove l’attore rimane immobile e funge solo da strumento che lascia uscire delle note. Qui il personaggio è vivo sulla scena, ha le sue reazioni di creatura vivente e partecipante a quello che dice. A. Viganò, Il fascino poetico dell’ambiguità, cit., p. 164. 3 «L’unico intervento di Costa sul testo di Luzi è stato il cambiamento di ordine di alcune scene, e questa operazione ha consentito di ottenere dei risultati interessanti. Merito di Costa è di aver saputo rispettare la dimensione di ambiguità propria di ogni testo poetico e più che mai di Rosales, non costringendolo nelle strettoie di una significazione unica, ma rendendone possibile la lettura a differenti livelli; la più adeguata a un’opera che ha conquistato un piano di riflessione in cui sono presenti contemporaneamente le problematiche psicologiche-esistenziali, storico-sociale e mitico-religiosa». Ibidem. 4 «Sia quando mettevo in scena Ipazia sia in questo caso (Rosales), ho avuto delle lunghe e serrate conversazioni con Luzi; ritengo però che mi abbia soprattutto giovato il lavoro che ho svolto con lui per quella lettura drammatica delle sue poesie, che abbiamo realizzato recentemente a Firenze, insieme ad Ilaria Occhini». Ibidem. 5 «Un teatro che per l’autore e per il ‘coordinatore’ non si è mai basato sull’artificio scenico fine a se stesso, sulla spettacolarità epidermica, ma sull’autenticità della parola e su un processo dialogico basato sulla coscienza, che potremmo definire come un ‘passaggio diretto di verità’». G. F. Belardo, Un premio al regista del teatro dei valori, «L’Osservatore romano», 19-20 novembre 1984, p. 3.
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della coscienza attraverso il linguaggio poetico». 1 Luzi parla di poesia e rivelazione come due aspetti peculiari della stessa dimensione 2 e la natura poetica della sua opera drammatica lo pone in forte somiglianza con le forme ideali di un nuovo teatro che è oggetto della ricerca di Costa. 3 Per incidere significativamente nella storia del teatro, un autore deve essere «universale», 4 cioè capace di segnare profondamente il contesto storico, sociale, culturale e spirituale, in linea con la concezione che egli aveva del teatro e che gli proveniva dalla lezione di Jean Copeau: 5 il teatro di Betti e di Fabbri con il loro credo artistico spirituale e Luzi con la dimensione universale della poesia rispondono a quei requisiti di universalità che un testo drammatico deve possedere per essere rappresentato. Da queste considerazioni dipende anche la selezione degli scritti che, quindi, dovevano essere scelti in base «ad alto contenuto spirituale» 6 preferendoli a «copioni di valore mondano o transeunte». 7 L’amicizia tra Costa e Luzi, si rivela foriera di profondi legami anche sul piano artistico che vennero certamente influenzati da quella corrispondenza affettiva che, se pur tardiva, era destinata però a segnare fecondamente le loro esistenze.
Bibliografia G. F. Belardo, Un premio al regista del teatro dei valori, «L’Osservatore Romano», 19-20 novembre 1984. E. Bertani, La più alta poesia in chiara pronuncia, «Avvenire», 27 luglio 1979. M. Boggio, «Rosales» di Luzi con Albertazzi, «L’Avanti», 4 maggio 1983. E. Carloni, La scena italiana secondo Orazio Costa, «Ridotto», 12 dicembre 1995. G. Ceriani, Il teatro del nuovo umanesimo. Volto umano e cristiano del teatro, Milano, Massimo, 1968. G. Colli, Una pedagogia dell’attore. L’insegnamento di Orazio Costa, Roma, Bulzoni, 1989. O. Costa Giovangigli, Luna di casa, Firenze, Vallecchi, 1992. O. Costa Giovangigli, Il «mistero» sacro della vittima, «Sipario», xlv, 4, 1994. Q. Galli, La missione di Orazio Costa in Teatro contemporaneo, a cura di M. Verdone, vol. 1, Roma, Lucarini, 1981. G. Lo Voi, La battaglia di Orazio Costa per un teatro cristiano, «Il Nostro Tempo», 25 aprile 1965. L. Lucignani, Orazio Costa regista, «Teatro», 2, 1950. 1
2 A. Viganò, Il fascino poetico dell’ambiguità, p. 164. Ivi, p. 168. «Mi pare che nessuno potrà disconoscere in Luzi non solo un autore drammatico di particolare originalità ma soprattutto un autore molto vicino alle forme ideali che vagheggiamo nelle sollecitazioni che andiamo facendo per un teatro che, essendo di poesia, sia perciò veramente nuovo e teatro». Ivi, p. 162. 4 «I grandi testi sono grandi avvenimenti dell’umanità, che ha sempre più bisogno di ispirazione. L’autore di oggi, se vuole esistere, se vuole avere la portata sociale, storica, poetica che ci si attende da lui, deve essere universale». E. Carloni, La scena italiana secondo Orazio Costa, «Ridotto», 12 dicembre 1995, p. 5. 5 Jacques Copeau (Parigi 1879-Pernand-Vergelesses 1949). Fu critico, attore, regista e drammaturgo; fu il fondatore del teatro Vieux Colombier che offriva un modello di teatro contrapposto a quello commerciale. Attori come Dullin, Jouvet, Barrault e Vilar si formarono nel Vieux Colombier. In Borgogna, nel 1925, fonda, con un gruppo di allievi, i Copiaus e nel 1932, a conclusione di questa esperienza, torna a Parigi e nel 1933 cura le messe in scena fiorentine del Mistero di Santa Uliva, di un Anonimo e nel 1938 Come vi piace di Shakespeare. Nel periodo 1940-1941, ricopre l’incarico di amministratore della Comédie Française, ma dopo un anno dovette dare le dimissioni perché era sgradito ai tedeschi che occupavano la Francia. Cfr. G. Tramontana, op. cit., p. 351. 6 7 C. Trabucco, Il teatro come tempio, «Orizzonti», 15 ottobre 1967. Ibidem. 3
orazio costa giovangigli e mario luzi: storia di un ’ amicizia
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G. Prosperi, Luzi: il dramma della cultura, «Il Tempo», 27 luglio 1979. P. Puppa, Teatro e spettacolo nel Secondo Novecento, Bari, Laterza, 1990. U. Ronfani, Uccidere Trokij? Don Giovanni dice no, «Il Giorno», 4 maggio 1983. R. Tessari, Teatro italiano del Novecento. Fenomenologie e strutture 1906-1976, Firenze, Le Lettere, 1996. F. Tei, I miti non si uccidono, «La Città», 4 maggio 1983. G. Tramontana, Orazio Costa testimone della scena italiana, «Comunicazioni sociali», 3, 1998. G. Viganò, Il fascino poetico dell’ambiguità, in M. Luzi, Rosales, Genova, Edizioni del Teatro di Genova, 1983.
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LA TRASFORMAZIONE SCENICA DELLA MORFOLOGIA DEL POEMA: ROSALES DI MARIO LUZI
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a scena e il poeta. Poche ore prima del debutto di Rosales, moderna tragedia di Mario Luzi, avvenuto al Teatro «La Pergola» di Firenze il 3 maggio 1983, con la partecipazione di Giorgio Albertazzi nelle vesti del protagonista e con la sicura e rigorosa guida registica di Orazio Costa Giovangigli, il poeta accetta di parlare di questa sua ‘avventura’ teatrale e confessa di sentirsi frastornato: «Non sono abituato a rimanere sempre così sulla breccia, fra colloqui e interviste. Preferirei come sempre, starmene tranquillamente da solo, a riflettere per conto mio», 1 così si legge in una intervista rilasciata da Mario Luzi e conservata nell’Archivio fiorentino del regista Orazio Costa Giovangigli. Rosales è la terza opera teatrale del poeta dopo Ipazia e Il Messaggero: la nascita di quei poemi drammatici è spiegata da Mario Luzi con la necessità, da parte della sua ‘voce’ poetica di scindersi in voci diverse che costituiscono i personaggi dei lavori per la scena teatrale. Egli stesso afferma nella medesima intervista che la componente meno soggettiva e più dialettica era sempre stata in qualche modo presente nella sua poesia, fin quando si è fatta sentire in modo più esplicito. Del resto, il poeta afferma che la scrittura teatrale non era per lui qualcosa di alternativo alla lirica e che questa esigenza si era manifestata in tutta la sua opera. Il suddividersi della ‘voce’ in una dialettica corrisponde anche all’esigenza moderna di una sempre minore unitarietà, di una molteplicità che è ricerca ed è per questo che i poeti e i filosofi non possono proclamare ‘una’ verità ma possono solo cercare e avanzare delle ipotesi. 2 In Mario Luzi l’interesse per il teatro come spazio scenico della vita in cui si instaura il rapporto tra io e realtà, è strettamente connesso al problema della comunicabilità dell’espressione poetica e risale agli anni successivi alla seconda guerra mondiale. Lo rivela egli stesso:
«Si scinde in tanti voci / la voce che mi guida», è detto in una mia poesia degli anni Sessanta. È la scissione di un’unica voce sotto la forza della molteplicità, che è come l’insegna del pensare odierno, o è invece la scommessa per una più plausibile ricomposizione in unità? Non saprei dire che cosa ha significato per me la più recente trasformazione scenica della morfologia del poema. […] Dall’interno dei testi lirici sempre più decisamente veniva reclamato il diritto alla parola e alla voce da parte dell’alterità. La genesi è dunque una endogenesi. Ma il teatro a sua volta è un rito, orfico, credo, e senza relazione con la proposta o la risposta. È il luogo dove la parola viene detta, offerta ad un’altra parola eventuale o al silenzio che le ritorna – ma il silenzio è anch’esso parola, nel teatro più che mai. 3
1 Il ritaglio di giornale, conservato presso l’Archivio fiorentino di Orazio Costa Giovangigli, non riporta indicazioni tipografiche; l’articolo dal titolo «Don Giovanni l’artista e Trotzkij l’intellettuale» è siglato con 2 le iniziali F.T. S. Verdino, La poesia di Mario Luzi, Padova, Esedra, 2006. 3 M. Luzi, Il silenzio, la voce, Firenze, Sansoni, 1984, p. 51.
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La parola, in Rosales, celebra dei miti, presenti nella linfa poetica di Mario Luzi come nell’anima di tutta una cultura e secondo questa prospettiva anche Trotzkij è un mito, non meno di Don Giovanni: il mito della rivoluzione, operante nella nostra civiltà da due secoli; Rosales, invece, incarna il mito dell’artista che deve morire per rinascere. Nella morte trova la vita: una trasformazione negata al politico Markoff che non rinasce come lui nel rito dell’uccisione. Per il poeta, da quanto emerge dall’intervista, Juan Rosales, incarnazione del mito di Don Giovanni, appare come uomo perfettamente fatuo e insieme tragico, ombra, fantasma fra poesia e leggenda. Un personaggio tragico di una compiutezza che allora, nell’età della ‘morte’ della tragedia, si credeva impossibile. In Rosales convivono per prodigio poetico la fascinosa inconsistenza del mito e la verità scabra e dolente dell’uomo messo di fronte a se stesso. Ester, la donna da lui tradita anni prima, gli rimprovera la sua vita fatta di nulla: in realtà, invece, questo niente morale comprende un tutto ricco e pienissimo, l’ansia del dono di sé, la febbre dell’emozione estetica, la sublimità dell’esperienza superiore. Rosales-Don Giovanni diventa dunque l’immagine pura dell’artista, libero e insaziabile. Uno spirito così ricco, paradosso ultimo che riassume in sé tutto il mito di Don Giovanni, porta senza sforzo l’artista-amatore a vivere una sublime esperienza spirituale e religiosa, nella ricomposizione, secondo Kierkegaard, fra stadio estetico e religioso; nell’accettazione della sua morte, questo artista ‘peccatore’ può diventare ‘santo’. Suo contraltare è Trotzkij-Markoff che Rosales si rifiuta invano di uccidere: l’intellettuale, il politico dal linguaggio razionale, bramoso della libertà dell’artista, un mito anch’egli, ma prigioniero della sua natura, vive su un piano più realistico e concreto dal quale vorrebbe sollevarsi. Trotzkij è condannato alla logica oscura della realtà, condannato a morire di fronte all’immortalità dell’artista: l’utopia è irraggiungibile. Coscienza idealistica di un mondo dominato dal Male, Trotzkij è vittima di un’epoca che uccide con lui il mito dell’eterna rivoluzione; questa dimensione brutale sacrifica anche Rosales, senza però distruggerne il mito. Nel vedere attore e registi ‘interpretare’ quello che il poeta ha scritto, Luzi afferma che la messinscena non è solo risonanza e specchio del testo, ma luogo di metamorfosi poiché la parola che si credeva aver detto una volta per sempre si trasforma e quanto sostenuto si estende anche per una lettura di versi: questa è la polivalenza della poesia e del teatro. La scena, sostiene Luzi, è il luogo dove la poesia diventa proprio quello che dovrebbe essere. Nel processo di metamorfosi l’autore si trova sempre in stato di sospensione perché non è più pienamente ‘autore’ ma subisce una trasformazione che lo pone a metà fra il creatore e lo spettatore ed è generativa di una sensazione magica e al tempo stesso tormentosa. 1 La trasposizione scenica ha comportato anche una trasformazione del verso che risulta nuovo ed inconsueto: i versi non si basano sulla metrica, ma sulla prosodia che scolpisce il ritmo imperioso e obbligante della parola. I versi di Luzi, prosastici, di andamento volutamente singhiozzante, capaci di rendere la variabilità del parlato, perdono in scena il loro aspetto oscuro per vivere solo del proprio ritmo mobilissimo,
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A. Luzi, La vicissitudine sospesa, Firenze, Vellecchi, 1968.
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mutevole da parola a parola e dell’accensione lirica che sostiene ogni frase, vero segreto di questa poesia invisibile. La parola luziana è fatta per essere ‘detta’, per questo il teatro è forse l’esperienza poetica per eccellenza. All’interno del tessuto linguistico si inseriscono squarci e meditazioni liriche lucide e altissime, oasi di contemplazione poetica in cui Luzi parla in modo più diretto per bocca dei suoi personaggi come fossero una sorta di ‘cantuccio’ di manzoniana memoria, sue voci e coscienze come i monologhi di Vicente e di Rosales. La novità della messinscena pone la difficoltà di reperire attori capaci di affrontare questo testo, a causa dell’assenza in Italia di una tradizione di recitazione poetica. Tra i pochi attori non c’è dubbio che ci sia Giorgio Albertazzi e fra i registi spicca in questo campo proprio Orazio Costa, un autentico specialista, padre della regia italiana, protagonista della scena da quando, nel 1938, si diploma presso l’Accademia d’Arte Drammatica con Silvio D’Amico. 1 Orazio Costa ha costruito la sua regia proprio sulla base di un lavoro poderoso e magistrale sul verso che trova il suo ritmo in un gioco articolatissimo di parametri: non solo l’alternarsi sapiente delle pause, ma perfino la durata delle parole e delle sillabe, l’attacco di una consonante. Il ritmo continuo e naturale, cucito in frammenti segnati da tutta la varietà dei toni e delle voci possibili non fa rimpiangere il fluire sublime e quasi inarrestabile della parola poetica di Luzi sulla pagina scritta. Il regista ha adattato questo ritmo ai personaggi, rendendolo talvolta più prosastico: la poeticità del linguaggio di Trotzkij è, infatti, inferiore rispetto a quello di Rosales. Franceso Tei, nell’articolo «I miti non si uccidono», conservato senza note tipografiche presso l’Archivio Costa di Firenze, sostiene che la regia, mettendo in luce con misuratezza e prezioso pudore espressivo la liricità del testo, ha smorzato quei tratti che alla lettura sembravano meno felici o di minore teatralità, quali la figura della giovane e luminosa Alba, o certi sporadici accenni confessionali, al di là dell’irrompere di schemi e motivi autenticamente religiosi. La magistrale interpretazione di Giorgio Albertazzi ha contribuito a rendere lo spettacolo ancora più emozionante: ha saputo rendere, infatti, con appassionata lucidità la duplice natura di Rosales, mito intessuto di memorie e insieme uomo vero, in un passaggio continuo dall’allusione distaccata e quasi furbesca alla figura del grande attore, ad una verità espressiva incredibilmente semplice. Rosales, pertanto, torna quasi ad uno stadio primigenio, ad una umanità autentica e purissima, straziante e nuova. Albertazzi rinuncia ancora una volta ad ogni orpello e ad ogni esibizione esteriore per tornare ad una nudità espressiva nutrita di un’intensità emotiva e spirituale unica, realistica e sublime insieme. Markoff è interpretato da Eros Pagni che avvolge il suo personaggio di un’ironia sottile, secca e tagliente che gli toglie, in parte, il carisma di mito e aderisce con lucida e sofferta razionalità al suo personaggio di intellettuale utopista. Edmonda Aldini che dà vita ad Ester, vigorosa e statuaria nella sua passione, è granitica nel fuoco dell’odio come nella lacerazione dello strazio, in una interpretazione calibrata su toni cupi, oscuri ed assai dolorosi. Il personaggio di Mario Feliciani che pone in essere Vicente, fa emergere
1 G. Tramontana, Orazio Costa testimone della scena italiana, «Comunicazioni sociali», xx, 3, 1998, pp. 354-355.
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una bella figura di vecchio poeta-filosofo che si esprime secondo la fisionomia di un Coro aggiunto, attraverso l’uso di una parola assaporata e delibata in tutte le sue sfumature sonore. Dall’articolo del giornalista emerge, pertanto, la positività della ricezione della rappresentazione del testo luziano, ma un ritaglio di giornale conservato nel medesimo Archivio propone una visione diversa e sostanzialmente opposta. Per l’inviato Sergio Colomba, infatti, il testo presenta varie contraddizioni ed una recitazione distaccata: se con Rosales si passa dalla dimensione dell’oratorio ad un intreccio più corposamente annodato, riesce problematico riconoscere un’autentica forma drammatica e allora l’occasione di assistere a questo Rosales diventa, secondo il giornalista, un ennesimo motivo di insoddisfazione per la nostra drammaturgia poetica e non poetica, affetta soprattutto da carenze linguistiche che evidentemente la minano alla base. 1 Nel testo di Luzi, infatti, ci sono varie contraddizioni e non tutte foriere di stimoli o di emozioni. Sergio Colomba, come già Francesco Tei, individua in Rosales e Markoff le due figure centrali che per più motivi, almeno nelle intenzioni, si rimandano specularmente, ma diverso è il giudizio critico: Juan Rosales, infatti, è un seduttore in rovina, dilapidatore della propria anima e di quelle altrui, ridotto ad un mito frivolo e funereo; le avventure amorose lo hanno condotto all’inazione sotto il peso leggendario dietro cui si è aperto e manifestato il baratro dell’energia consumata. La seconda figura è quella di Trotzkij, in esilio in Messico 2 dove bruciano i relitti e rimbalzano le scintille della lite del Baltico: il potere duro di Kirkieff (Stalin) accende le fazioni e Huelga (Città del Messico) risuona di spie ed agenti della controrivoluzione. 3 Rosales viene richiamato a Huelga da Ester che gli chiede di uccidere Markoff, ma non è così che Rosales intende espiare le sue colpe: anche se sarà comunque coinvolto nel complotto e derubato del corpo e del nome stesso, vilipeso nella sua innocua superfluità, Don Giovanni avrà, prima di pagare l’ultimo conto, una sorta di trasfigurazione e di metamorfosi. 4 La vera nascita, la nascita ontologica, viene da Alba, la figlia dell’unica donna forse veramente amata ma certamente più offesa. Secondo l’inviato Sergio Colomba, due sono i temi fondamentali: il mito di Don Giovanni e l’insensatezza della storia. Il vecchio seduttore e il vecchio condottiero di uomini sono attratti l’uno verso l’altro, ma non sempre il contrasto tra l’intransigenza della verità rivoluzionaria e la disponibilità a riscattare il proprio passato appare così nitidamente dal testo, poiché Luzi lavora molto sulle associazioni, sui simboli e sulla parola come corpo scritto. Rimane però un dato indiscutibile: il mito rimane nel mito, mentre la storia, presente in Rosales attraverso concitate riunioni al Palazzo del Governo, consessi di spie e di diplomatici, dialoghi fumosi di Markoff-Trotzkij che cita San Paolo, diventa talvolta una parodia della storia. Rosales ha la pretesa di definire senza rinunciare ai privilegi dell’ambiguità poetica e in questa contraddizione le due dimensioni scorrono parallele senza toccarsi quasi mai.
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S. Colomba, Don Juan non è un killer, «Il resto del Carlino», 4 maggio 1983, in Archivio Costa, Firenze. Un Messico dai colori scuri, non spazio geografico ma luogo della mente e condizione dello spirito. 3 I riferimenti al delitto commissionato da Stalin e la conseguente morte di Leone Trotzkij (1940) sono espliciti pur se l’autore modifica i nomi storici e introduce nei personaggi valenze bizzarre, altri temi e caratteristiche simboliche di ampio respiro. 4 G. Quiriconi, Il fuoco e la metamorfosi: la scommessa totale di Mario Luzi, Bologna, Cappelli, 1981. 2
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Orazio Costa, nel giudizio di Sergio Colomba, a contatto con un testo che da una parte precisa situazioni ed ambienti, dall’altra tenta di sfuggire ai confronti, alle conclusioni definitive, trascurando persino le sue liturgiche ascendenze alla Copeau e le sperimentate scappatoie dell’oratorio. Giorgio Albertazzi, invece, che probabilmente intendeva confermare tutte le intemperanze e le curiosità della sua cosiddetta nuova stagione con un ruolo da grande repertorio, a contatto con la figura di questo eroe fatuo e insieme tragico ha cercato di esprimere i versi spesso impervi della forma drammatica di Luzi sezionandoli con un distacco riflessivo quasi smarrito e cauto. La posizione antinòmica dei due giornalisti trova una sua composizione ideologica nel giudizio espresso da Mario Luzi e da Orazio Costa in una intervista firmata da Ubaldo Soddu dal titolo Una metamorfosi e una catarsi, conservata presso l’Archivio fiorentino del regista. 1 Se il mito e la storia, per Sergio Colomba, appaiono inconciliabili, poiché sembra che non sia possibile una identificazione tra l’assassino di Trotzkij e Don Giovanni, Orazio Costa, condividendo il pensiero di Mario Luzi, precisa che il concetto di dongiovannismo è assunto in Rosales a un livello filosofico, non cinematografico o giornalistico. La presenza di un attore dello spessore di Giorgio Albertazzi nel quale esplode la dimensione mitica del personaggio che non è solo un sessantenne del 1940 ma una figura poetica che ritrova la sua antichità e avvicina l’attualità al mito, enfatizza maggiormente la rappresentazione teatrale. Nel dramma di Luzi si assiste al confronto tra la mitopoiesis ‘in fieri’ e l’esplosione finale del mito: una specie di catarsi spirituale e religiosa quando Rosales si rifiuta di compiere l’assassinio che un altro commetterà al suo posto. La riflessione di Mario Luzi abbraccia più precisamente la dimensione storica e sostiene che nel suo dramma non c’è alcuna indulgenza verso il complotto o la pratica del terrorismo che considera atti inconsulti compiuti dall’umanità a causa dell’arresto di certe naturali progressioni. La crescita interna della natura umana continua, però, poiché quello che conta, nella storia, accade in silenzio a causa dell’alchimia generale dell’umano. Il fluire lavico della storia, allora, viene visto da Markoff-Trotzkij come il limite di una spinta grandiosa. Mario Luzi continua la sua riflessione aprendosi a quella dimensione religiosa che gli è propria: nel testo è disciolto un mondo di spiritualità e religiosità che se rinvia alla religione cristiana ecumenicamente abbraccia anche l’induismo e il buddismo, secondo una concezione metamorfica dell’esistenza intesa come processo indifferenziato. «Alla montaliana realtà avvertita nel suo ordine pazzesco e incontrollabile, Luzi giunge a contrapporre – in base a quanto sostenuto da Giancarlo Quaroni – la visione di un unicum vitale in continua metamorfosi, in cui anche l’uomo si trova immerso, e di cui è possibile forse arrivare a cogliere il senso profondo al di là dell’apparente incontrollabilità». 2 Non esiste nella vita, secondo Luzi, il ‘Negativo’ né il ‘Positivo’: l’interpretazione critica medievale, infatti, insegna a leggere a più voci, a collegare, a interpretare collettivamente ed è per questa ragione filosofica che i suoi personaggi non sono mai monolitici ma si sostanziano di un continuo flusso dialettico tra il
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U. Soddu, Una metamorfosi e una catarsi, s.n.t., in Archivio Costa, Firenze. M. Luzi, L’alta, la cupa fiamma, a cura di M. Cucchi e G. Raboni, Milano, Rizzoli, 2006, p. 23.
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bene e il male, tra la vita e la morte; attraverso tale dialettica, Rosales giunge alla scoperta della ‘charitas’ accettando la propria morte nella prospettiva di una metafisica palingenesi: «Il mistero è che la morte sia vita; che la fine sia inizio: ed è un mistero inspiegabile, che appare e si rivela in un istante e dà luce all’esistenza senza giungere alla parola piena, senza spiegare il perché della vita». 1 Il poeta è interessato, ovviamente, all’episodio politico ma la sua natura e i suoi gusti lo spingono verso il nocciolo esistenziale e morale dei nodi storici ai quali si avvicina: egli stigmatizza in Rosales la metàfora dell’artista e in Markoff, l’arco a tutto sesto, dell’intellettuale. Se il primo rinnega il suo passato e dunque continuamente si trasforma, riacquistando una parte dell’amore che aveva inconsapevolmente dilapidato, il secondo affronta la morte sapendo di non aver fallito in vita altro che la strategia di una battaglia. Sarà così un Don Giovanni pentito a prevalere su un combattente impavido che tuttavia non crede di doversi pentire. Mario Luzi non è un autore da leggere sul filo degli accadimenti materiali, la tragedia riposa su ciò che i personaggi dicono o confessano, testimoni di una desolata e pur non cieca sofferenza, sia che vadano verso una possibile catarsi o restino chiusi nella loro dura corazza di inflessibilità. Non importa dare un nome autentico a Markoff o al suo persecutore Ossip, il Kirkieff della stesura originale: il respiro della tragedia va individuato nella visione lucida e amara di quelle profondità dell’animo umano che solo il poeta può scandagliare senza perdersi negli aridi percorsi psicanalitici. L’azione del resto è ridotta al minimo, mancano scene ad effetto, un possibile incontro tra Rosales e Markoff non avviene evitando in tal modo le suggestioni romantiche e naturalistiche dello scontro aperto di ideologia, di carattere, di ambizioni, mentre resuscitano il monologo, il colloquio interiore e si affaccia il coro, elemento caro ad Orazio Costa, 2 rappresentato da due interventi di alta qualità lirica, ai quali forse avrebbe giovato essere proclamati da un personaggio-coro anziché piovere come voce astratta da un invisibile empireo: modernissima, la tragedia si riallaccia così alla tradizione classica. 3 Rappresentarla significava compiere un lavoro minuzioso sulla parola ed è questo il merito maggiore di Orazio Costa: in una scena severa di Angelo Canevari, animata da una macchina mobile, ha condotto tutti gli attori ad un nitore espressivo eccezionale, capace di far scintillare tutti i significati, palesi e meno immediati, che pervadono le pagine di Luzi. Il regista sembra aver accolto profondamente nel suo animo, rendendole poi magistralmente sulla scena, le parole della poesia Vola alta parola di Luzi:
Vola alta, parola, cresci in profondità, / tocca nadir e zenith della sua significazione, / giacchè talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami / nel buio della mente – / però non separarti / da me, non arrivare, / ti prego, a quel celestiale appuntamento / da sola, senza il caldo di me / o almeno il mio ricordo, sii / luce, non disabitata trasparenza… / La cosa e la sua anima? o la mia e la sua sofferenza? 4
La parola ritorna al poeta. 1
A. Panicali, Saggio su Mario Luzi, Milano, Garzanti, 1987, p. 238. N. Cacia, Coralità poetica di Orazio Costa, «La tribuna del Mezzogiorno», 25 marzo 1967. 3 P. E. Poesio, Il rivoluzionario e il libertino, «Nazione», s.d. 4 M. Luzi, L’alta, la cupa fiamma, Milano, Rizzoli, 2006, p. 92. 2
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Bibliografia A. M. Bartolini, Sottobraccio a Rosales, con una nota di M. Luzi, Firenze, Cesati, 1983 C. Bo, Scritti su Mario Luzi, a cura di S. Verdino, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2004. N. Cacia, Coralità poetica di Orazio Costa, «La tribuna del Mezzogiorno», 25 marzo 1967. S. Colomba, Don Juan non è un killer, «Il resto del Carlino», s.l., 4 maggio 1983, in Archivio Costa, Firenze A. Luzi, La vicissitudine sospesa, Firenze, Vellecchi, 1968. M. Luzi, Rosales, introduzione e note di G. Raboni, Milano, Rizzoli, 1983. M. Luzi, Rosales, con materiale critico sull’autore, Genova, Edizioni del Teatro di Genova, 1983. M. Luzi, Il silenzio, la voce, Firenze, Sansoni, 1984. M. Luzi, Teatro, postfazione di Quiriconi, Milano, Garzanti, 1993. M. Luzi, L’alta, la cupa fiamma, a cura di M. Cucchi e G. Raboni, Milano, Rizzoli, 2006. A. Panicali, Saggio su Mario Luzi, Milano, Garzanti, 1987. P. E. Poesio, Il rivoluzionario e il libertino, «Nazione», s.d. G. Quiriconi, Il fuoco e la metamorfosi: la scommessa totale di Mario Luzi, Bologna, Cappelli, 1981. U. Soddu, Una metamorfosi e una catarsi, s.n.t. in Archivio Costa, Firenze. G. Tramontana, Orazio Costa testimone della scena italiana, «Comunicazioni sociali», xx, 3, 1998. S. Verdino, La poesia di Mario Luzi, Padova, Esedra, 2006.
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LA FAVOLA DEL FIGLIO CAMBIATO: LA FOLLIA DI ORAZIO COSTA
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n una lettera di Giorgio Strehler al critico Roberto De Monticelli sul concetto di regia e sull’affermarsi del ruolo del regista in Italia datata 10 aprile1974, emergono particolari interessanti sulla querelle sviluppatasi intorno alla fisionomia del regista. 1 Ci fu un momento nel quale si credette che il regista potesse riassumere in sé tutta la teatralità, che egli fosse il vero padrone del teatro, il vero e unico poeta e che il testo dei veri poeti fosse solo un pretesto perché il regista scrivesse qualcosa di suo. Nel nostro Paese, ben presto i nomi di Giorgio Strehler e di Orazio Costa si trovarono ad edificare la storia della regia e dovettero improvvisare esperienze e metodi e che gli “altri” non riconoscevano in loro, combattendo contro l’opinione comune dell’inutilità della regia. La reazione fu evidente: per imporsi diventarono rigidi e dogmatici. Proprio Orazio Costa, un giorno diceva a Strehler: «Non sanno che noi lavoriamo contro di noi, contro “noi registi”, contro il falso concetto della regia come credono che sia: un atto arbitrario, demiurgico, impositivo». 2 Un atto d’accusa, pertanto, nei confronti di un antico concetto del teatro all’italiana, alla esiguità e superficialità delle prove, agli autori abituati al suggeritore. I paladini del teatro credevano nella regia, nonostante certe follie interpretative, come momento critico, come una lettura plausibile del testo. Nonostante la presenza di alcune grandi domande estetiche, i difensori del teatro di regia hanno lavorato sul versante di una ricerca il più possibile obiettiva, anche e nonostante le apparenze. Nel processo di transcodificazione del testo letterario, la regia si identifica come fatto critico poiché si sostanzia nella lettura critica del testo attraverso la forma dello spettacolo e dei suoi mezzi. Ne consegue necessariamente che se la regia è un fatto critico, la regia può essere un fatto arbitrario come una lettura soggettiva, ma per alcuni registi, Costa per primo, la critica del testo presenta alcuni limiti obiettivi: non è una divagazione critica, ma uno studio critico sulla realtà del testo e si configura come tendenzialmente obiettiva poiché si basa su quello che c’è, non su quello che si vorrebbe ci fosse. La differenza fondamentale tra una follia dei paladini del testo, apparentemente o volutamente arbitraria e quella di tanti altri, è che gli errori dei primi nascono nella ricerca di una interpretazione oggettiva del testo che non porta mai ad una interpretazione trionfalistica soggettiva secondo la quale il testo è un pentagramma appena annotato. Strehler difende con veemenza l’appartenenza alla vecchia scuola, quella della ricerca oggettiva, pur sapendo che l’oggettività dell’interpretazione è sostanzialmente un falso scopo poiché il regista ammette con lucidità che non si raggiunge mai, pertanto l’interpretazione critica oggettiva di un testo è oltre un certo limite, una
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G. Strehler, Lettere sul teatro, Genova, Archinto, 2000. www.lettere.uniroma1.it/sites/default/files/461/StrehlerRegia1974.doc
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posizione morale, più che estetica. La dialettica del critico-regista avviene su due poli: quello della sensibilità poetica e quello dell’indagine oggettiva attraverso un incessante lavoro di verifica razionale e intuitiva. La più folle regia di Costa, la più personale, la più arbitraria è sempre effettuata nel tentativo di afferrare la realtà del testo come nel caso de La Favola del figlio cambiato di Orazio Costa che venne accolto come uno dei più alti esempi di follia arbitraria di un regista contro il testo di un poeta. Le armi del regista critico-oggettivo sono dunque non la freddezza scientifica ma anche la poetica, l’intuizione, tutto ciò che di artistico è possibile ma verificato, diametralmente distanti dalle pose irrazionalistiche dei giovani registi, frutto di un clima di angoscia dovuto alla presenza spettrale del fascismo. L’atteggiamento dicotomico comporta una distinzione netta tra il senso e il non senso, tra messaggio e non messaggio, tra ordine e disordine e con la supremazia della seconda componente si giunge all’arbitrio assoluto sul teatro che ha una sua ragione di esistere solo quando è denunciato come creazione autonoma, non come regia: la tremenda immoralità, l’equivoco dell’avanguardistica contemporanea consiste in questa assenza di denuncia, nell’arbitrio irrazionalistico contrabbandato per fatto critico registico e interpretativo. I giovani registi glorificano l’interprete come creatore, come artista, negando la posizione umile ma orgogliosa del regista critico. Giorgio Strehler, nella lettera destinata al critico Roberto Monticelli, esprime chiaramente che «non sono un artista. Sono uno che fa il mestiere dell’interprete e che ha anche a che fare con l’arte, che interpreta non solo col mestiere, ma anche con l’intuizione e la sensibilità, il vecchio generico cuore, ma sempre nei suoi limiti. Che scrive sulle parole degli altri. Come sono bravo io a interpretare quello che altri hanno già detto, come suono bene, meglio di altri, le musiche che altri hanno scritto! Sono bravissimo, insostituibile forse, ma il Giardino dei ciliegi, l’ha scritto nel 1903 A. Pavlovic Cechov, non io. Io non saprò mai scrivere neanche una riga del Giardino. Io so però leggerlo bene. Forse benissimo. Tento di leggerlo con gli altri, di aiutarli a leggere giusto. Ecco tutto». 1 Orazio Costa, quale ruolo ricopre all’interno dell’economia della messinscena de La favola del Figlio cambiato? Per uno studio variantistico de La favola del figlio cambiato, rappresentata per la prima volta al Piccolo Teatro di Milano il 24 maggio 1957 con scene e costumi di Valeria Costa e musiche di Roman Vlad, l’archivio fiorentino di Orazio Costa custodisce, tra faldoni e bozzetti della sorella Valeria, un testo de La favola del figlio cambiato di Pirandello di tre atti e cinque quadri per la musica di Gian Francesco Malipiero delle edizioni G. Ricordi & C. e pubblicato a Milano nel 1933. 2 Il materiale si presenta prezioso poiché permette di cogliere le varianti apportate dal regista corso, appassionato di filologia, che curò la messinscena della commedia che, nello stupore della critica, nel clima neorealistico della metà del ventesimo secolo, impose una interpretazione cubista nettamente picassiana, campanello d’allarme per molti sperimentatori d’avanguardia.
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Cfr. www.archiviostorico.corriere.it/2000/marzo/12 L. Pirandello, La favola del figlio cambiato, Milano, Ricordi,1933, in Archivio Costa, Firenze. Le citazioni seguenti, se non diversamente indicato, faranno riferimento al suddetto testo. 2
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Nel prologo del primo atto, Costa, individua otto momenti essenziali: 1. L’accordo, 2. Ninna nanna, 3. Ripresa del punto due per le marionette, 4. Accordo, 5. Arrivo delle donne, 6. Danza delle donne, 7. Disperazione della madre, 8. La madre. Il regista apporta delle annotazioni autografe per ogni punto; cancella con dei segni di matita il testo pirandelliano riferito al prologo e dà delle indicazioni rivoluzionarie per l’allestimento della scena che deve apparire come una muraglia azzurro-rosa con qualche disegno infantile. La variazione d’un accordo tenuto ma con variazioni timbriche dà luogo a qualche mutamento dell’intensità della luce, il regista indica di fare della proporzione dei due colori. Tra parentesi tonde suggerisce di posizionare dei gatti sul tetto. Prosegue poi indicando che attraverso la scena, a destra, deve apparire una astratta macchina da scrivere su cui una mano vien tentando un certo ritmo involontario che viene via via animato da note che diventano una canzone ninna-nanna sulle parole delle battute conclusive del primo quadro che costituiscono una esaltazione della bellezza del figlio. Per quanto riguarda il sogno della madre, tutto il dramma, annota Orazio Costa, incomincia da questo punto. La melodia della canzone riprende sotto forma di incubo, allucinata, distorta, rallentata. Al terzo piano della scena, compariranno le prime Donne-Fate che prima marionette e poi mimi scenderanno, sempre dietro al muro fino al letto della madre. Al posto della madre ci sarà ora un fantoccio agitato dall’azione delle Donne che sostituiranno il bambino bello con uno brutto che lasceranno sotto il letto. Le donne poi, scrive Costa, si allontaneranno mentre la madre, nell’incubo, da dietro il letto si alzerà a cercare il bambino, ma trovando quello brutto, si darà ad inseguire le Fate che spariranno. Rimasta sola, con grande disperazione cercherà di valicare il muro riuscendo, dopo angosciosi tentativi a rischio di rimanere schiacciata, a divaricare una lunga fessura e ad oltrepassarlo. La madre, accolta da un fascio di luce, si posizionerà davanti al pubblico, come un’attrice sbalordita e ammutolita dal gran desiderio di parlare. Le annotazioni autografe successive vengono effettuate direttamente sul testo: la nota 8bis è una indicazione sulla parte musicale relativa alla preparazione della tarantella che verrà ripresa per vuotare la scena alla fine del primo atto. Un aspetto interessante è costituito dall’attenzione prestata da Orazio Costa alla parte musicale: inserimenti di marcette, canzonette, marcia reale e marcia nuziale costellano tutto l’atto secondo culminando nel momento dell’apparizione improvvisa di Vanna Scoma, fosca come una bufera, accompagnata dall’apparizione delle marionette e da una astratta musica elettronica, così come indicato da Orazio Costa. L’apparizione delle marionette conclude l’atto secondo. Nel prologo dell’atto terzo, sono riportate delle interessanti modifiche al testo pirandelliano: tutto si svolge in sogno, ma il tema nordico si meridionalizza in un giardino di alberi e pini; da lontano si vede la madre che dorme, elemento assente nel testo pirandelliano. Il sogno è la dimensione che più affascina il regista corso, in base a quanto si deduce dall’analisi del testo relativo alle battute del Principe che presentano una marcata sottolineatura da parte di Orazio nella battuta in cui il personaggio afferma di aver accolto tutto, come una nascita nuova, ritrovata in un sogno forse d’infanzia. L’attenzione al sogno si ripresenta nel momento in cui il Principe immagina che il popolo vedendolo passare a braccetto con una bella fanciulla naturale come un fiore
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possa esclamare: «Ecco un uomo di ingegno / e una donna di cuore! / Non cercate, non vi travagliate, / non c’è bisogno di nulla: / tutto alla fine verrà come in sogno/ da sé: / voi, ministri; ed io, re».1 È indicativo che le annotazioni maggiori al testo relative alla tonalità e modalità recitativa, siano effettuate incisivamente da Orazio Costa sulle battute del Principe, indicandone di volta in volta le intonazioni medio-basse, serissime e scherzose, suggerendo l’applicazione, qualora necessario, del metodo mimico-didascalico indispensabile per sottolineare l’impercettibile e sottile processo di accoglienza in sé di «questo palpito continuo/ di luce, di foglie, di acqua».2 La modifica più originale è contenuta nella conclusiva nota 29 “Finale nuovo” che quasi trionfalmente, Orazio Costa, annota in ultima pagina. Il penultimo intervento del Principe, viene infatti completamente stravolto poiché Costa crea ex-novo dalle battute che sarebbero spettate al Principe, l’intervento della Madre che si rivolge direttamente al Principe, effettuando in tal modo una trasformazione morfologicosintattica dell’originale testo pirandelliano. Un’altra originale manipolazione del testo si riscontra nell’intervento finale del Principe in cui Costa, inserisce, nuovamente secondo una creazione ex-novo, la battuta del Principe «Vado a tuffare le mani in quella fontana»3 assente nel testo pirandelliano, prima che la messinscena si concluda con la battuta finale della Madre «Figlio mio! Figlio mio!». 4 Orazio Costa, come si legge nel Quaderno n°5 in data 01.02.1957, nutre la consapevolezza di allestire, mettendo in scena La favola del figlio cambiato, uno spettacolo molto serio e profondamente teatrale al termine del quale mostrare una insolita faccia del teatro fra le tante infinite che esso possiede. Ogni testo poetico, secondo Costa, è anche una nuova formula drammaturgica e ogni testo poetico dovrebbe teoricamente essere ricercato come spettacolo. Si preferisce invece mettere in scena le opere anche di grande valore artistico, secondo formule generiche accettate e diffuse dai mediocri epigoni del teatro di imitazione. Anche il teatro, per questo motivo, è diventato noioso come lo è il cinema e Costa nutre la speranza che gli animi ben presto se ne accorgano al fine di «trovare un nuovo modo di farlo, non narrare sempre allo stesso modo fatti e storie diversi». 5 Orazio Costa è interessato a La favola del figlio cambiato per l’estremo destino della parabola del teatro nel teatro che essa rappresenta. 6 Il regista, infatti, dichiara che si tratta di una favola drammatizzata per costituire il nocciolo intorno al quale si agitano nei Giganti della Montagna gli attori della lanterna, gli scalognati e infine i Giganti stessi. Per questo motivo fu indispensabile inventare una storia elementare, dai molti significati, aperta a tutte le suggestioni dell’interpretazione, scritta come si dipingerebbe un quadro per farne l’elemento principale di un altro. Questa Favola stando alle dichiarazioni di Costa, non avrebbe forse incontrato altre avventure e fortune se Gian Francesco Malipiero, forse incantato dalla purità del suo linguaggio, affascinato dalla moderna novità della breve storia e dalla stessa forma ritmica in cui appare, non avesse riconosciuto in essa gli elementi per una ispirata forma di teatro musicale componendo per essa, lasciandola assolutamente intatta, la celebre opera alla quale la Favola deve
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2 Ivi, pp. 89-90. Ibidem. 4 Ibidem. Ibidem. 5 Orazio Costa, Quaderno n° 5, 01.02.1957, Archivio Costa, Firenze. 6 Ibidem. 3
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la sua vita indispensabile di dramma. La musica, pertanto, ha contribuito ad estrarre viva, dal grembo dei Giganti della Montagna, la Favola nata per quell’ultimo incompiuto dramma ed ecco quindi la Favola, compiutamente finita dall’Autore proprio per la musica di Malipiero, aspirare ad una vita propria e singolarissima. La Favola creata come dramma di prosa, espressione assurda secondo Costa a cui obbliga lo scarso linguaggio teatrale italiano, per i Giganti della Montagna è naturale che a quei Giganti la Favola resti legata strettamente, sia per l’interpretazione, sia per gli aspetti scenici. La Favola acquista, proprio per questo legame del tutto singolare nella storia del teatro, il suo maggiore interesse, come testimonianza ultima del pensiero pirandelliano circa i rapporti tra testo e rappresentazione, in ultima istanza sul fondamentale problema della regia teatrale. Il riferimento a quel capolavoro moderno che sono i Sei personaggi in cerca d’autore è ora, per Costa, indispensabile poiché uno dei tanti problemi che la critica e la regia non ha certo finito di chiarire è proprio quello, che per alcuni parve erroneamente fondamentale, dei rapporti tra testo e rappresentazione, senza citare gli altri affini e maggiori, dei rapporti cioè tra finzione e realtà, tra realtà e storia. Un certo scetticismo in una possibile non tanto identificazione ma almeno sovrapposizione tra testo e rappresentazione animava allora Pirandello tanto che la rappresentazione riusciva ad avere delle aderenze indiscutibili col tessuto del testo solo per l’inserimento di alcuni fenomeni altrettanto scenicamente assoluti e pertanto indiscutibili: l’apparizione di madama Pace, il suicidio del ragazzo, il grido della Madre. Tre piani della realtà assai diversi il cui effettivo verificarsi sulla scena è impensabile, mentre, a parziale confutazione e ad inattesa conferma dei concetti pirandelliani, ne è valida una certa rappresentazione. Probabilmente, proprio dall’esperienza dei Sei personaggi, enorme e feconda di creativi stupori per lo stesso Pirandello, risorse con una forza esplosiva la varietà di un teatro che ponesse i suoi presupposti nella rappresentabilità, cioè nella potenza magica del luogo definito “scena”. Da qui nasce il gioco non privo di interesse di Questa sera si recita a soggetto e di Ciascuno a suo modo segnalati proprio da Pirandello come i componenti di una trilogia del Teatro nel Teatro. In questo contesto, i rapporti tra testo e rappresentazione sembra che vadano di più verso una ammissione che la rappresentazione ha proprio in sé una realtà valida. Si potrebbe addirittura affermare che l’Autore convinto o addirittura sopraffatto e travolto dal suo mezzo tecnico di espressione lo abbia lasciato parlare per se stesso; attori, ambienti, scene, ricercando nei loro stessi motti proprio una realtà sufficiente, quella per la quale ridiventano validi gli atti che le si impongono. 1 Nell’atmosfera neo-naturalistica ammalata che offende ogni sogno di poesia in nome dell’unico apprezzamento del possibile, Orazio Costa si avventura nel lanciare questa nuova prospettiva del teatro con l’illusione di salvarla alla poesia; a questo scopo il regista ha chiesto aiuto alla musica in primo luogo, alla maschera, alla marionetta, al mimo, ad una ispirazione picassiana, nella convinzione che un’intima affinità leghi Pirandello al pittore spagnolo, esploratore della realtà non convenzionale. Nella regia, Costa riduce al minimo e all’essenziale il fattore scenografico; tentando di liberare per
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Ibidem.
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l’attore la verità più inedita possibile dell’intonazione e del gesto ha provato a realizzare, in una ampia collaborazione, l’illusione di un prodigio che si appaghi da sé, nella convinzione che, più che mai in questo caso in cui il regista corso deve tutto a Pirandello, la fantasia del poeta sarà il vero miracolo e non la rappresentazione. In occasione di una discussione su critica e regia, 1 Orazio Costa legge tutte le critiche apparse per la rappresentazione della Favola, tutte negative anche se parzialmente elogiative del suo ingegno. Pochi hanno, infatti, compreso quali fossero realmente le sue intenzioni, tutti sono rimasti veramente insensibili al fascino scenico dal quale tuttavia il pubblico, abbastanza scarso, è stato preso, sprofondandosi nel silenzio e di tanto in tanto vibrando in modo insolito.
Bibliografia G. Cerani, Il teatro del nuovo umanesimo. Volto umano e cristiano del secolo, Milano, Massimo, 1968. G. Colli, Una pedagogia dell’attore. L’insegnamento di Orazio Costa, Roma, Bulzoni, 1989. G. Lo Voi, La batteglia di Orazio Costa per un teatro cristiano, «Il Nostro tempo», 25 aprile 1963. L. Lucignani, Orazio Costa regista, «Teatro», 2, 1950. L. Pirandello, La Favola del figlio cambiato, Milano, Ricordi, 1933 P. Puppa, Teatro e spettacolo nel Secondo Novecento, Bari, Laterza, 1990. G. Strehler, Lettere sul teatro, Genova, Archinto, 2000. R. Tessari, Teatro italiano del ‘900. Fenomenologie e strutture 1906-1976, Firenze, Le Lettere, 1996.
Fonti archivistiche O. Costa, Quaderno n°5, 01.02.1957, Archivio Costa, Firenze.
Sitografia www.archiviostorico.corriere.it/2000/marzo/12 1
Ibidem.
LA RICEZIONE DELLA DEVIANZA: IL CASO PARTICOLARE DE LA FAVOLA DEL FIGLIO CAMBIATO NELLA REGIA DI ORAZIO COSTA GIOVANGIGLI 1
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el folto repertorio registico del padre fondatore del Piccolo Teatro di Roma che tanto contribuì alla ricostruzione etica e non solo estetica del teatro italiano al di là della seconda guerra mondiale, individuando, nel processo di transcodificazione del testo letterario, il ruolo della regia come fatto critico, emerge La favola del figlio cambiato che fu accolta come uno dei più alti esempi di follia arbitraria di un regista contro il testo di un poeta. Anche la più folle regia di Costa, la più arbitraria, però, è sempre un tentativo di rispettare la dimensione filologica del testo. L’uso della marionetta, il ricorso al mimo, ad una ispirazione picassiana rivelatrice di una realtà non convenzionale hanno lo scopo di salvare questa opera teatrale alla poesia, in un momento storico-culturale nel quale l’ammalato clima neo-naturalistico offende ogni sogno di poesia in nome della reificazione più vistosa. La colta formazione filologica di Orazio Costa gli permette di intervenire sul testo pirandelliano apportando delle modifiche originali: il penultimo intervento del Principe viene completamente stravolto poiché Costa enuclea, dalle battute che sarebbero spettate al Principe, l’intervento della Madre effettuando una trasformazione morfologico-sintattica dell’originale testo pirandelliano, così da quanto risulta dallo studio analitico di un testo de La favola del figlio cambiato di Pirandello con annotazioni e correzioni autografe di Orazio Costa custodito nell’Archivio fiorentino del regista, tra faldoni e bozzetti della sorella Valeria. 2 Da quanto emerge dal Quaderno n°5 datato 01.02.1957, Orazio Costa nutre la consapevolezza di allestire, attraverso la messinscena de La favola del figlio cambiato, uno spettacolo profondamente teatrale e molto serio per riscattare il teatro da quelle formule generiche diffuse dai rappresentanti di un teatro di imitazione, con lo scopo di poterne far riemergere la dimensione poetica. Una riflessione di Orazio Costa, infatti, è indicativa del valore che il regista attribuisce alla poesia: «Dico [...] che se è vero che i modi degli elementi scenici creano di per se stessi una realtà, per aver delimitato la scena come “luogo magico” è anche più che vero che è proprio per questa forza misteriosa che gli atti imposti a quei modi perdono la loro irrefutabile validità. Fuori del “recinto scenico” un atto è solo un elemento occasionalmente estratto dalla concatenazione ordinaria degli atti vitali, mentre nel recinto esso “significa” e nello stesso tempo “crea”. Ma il suo significare e creare s’intensifica e diventa assolutamente inconfutabile soltanto quando è investito dalla
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Il saggio è frutto di uno studio su documenti inediti conservati presso l’Archivio Costa di Firenze. L. Pirandello, La favola del figlio cambiato, Milano, Ricordi, 1933.
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creazione poetica»; 1 quella stessa creazione poetica che Costa voleva riscattare all’interno de La favola, nel tentativo di educare il pubblico e la critica ad una fruizione più intensa e profonda della pièce teatrale. Lo spettacolo, però, secondo quanto affermato da Costa nella nota 1262 in data 11.06.1957, non trovò una accoglienza favorevole: la messinscena venne rappresentata il 24.05.1957, ma l’originalità dello spettacolo non suscitò molto interesse. Secondo Orazio Costa, infatti, pochi si sono veramente accorti di quelle che erano le sue intenzioni, tutti sono rimasti veramente insensibili al fascino scenico dal quale tuttavia il pubblico, abbastanza scarso, è stato preso, sprofondandosi nel silenzio e di tanto in tanto vibrando in modo insolito. In data 16.06.1957, è lo stesso regista côrso ad individuare le motivazioni che hanno contribuito ad una ricezione negativa della rappresentazione scenica de La favola del figlio cambiato. Le osservazioni incorse generalmente sono le seguenti: il testo non varrebbe la pena di essere riportato o portato alle scene; una volta portato alle scene, non si sarebbe dovuto dimenticare di inquadrarlo nel resto dell’opera di Pirandello; lo spettacolo non era pirandelliano e la regia con arbitri e sopraffazioni ha ignorato il testo e vi si è sovrapposto. Acute e profonde si presentano alcune osservazioni specifiche e quindi alcune generali effettuate da Costa in merito alle accuse mossegli: data l’indiscutibile importanza di Pirandello criticamente parlando, al regista sembra prematuro parlare di opere da lasciare nel dimenticatoio. L’esperienza del Don Giovanni di Molière dovrebbe insegnarci molto ed Orazio continua le sue osservazioni ponendo in luce la responsabilità etica del teatro, del regista e della critica. In riferimento alla mancanza di attenzione da parte di Orazio alla contestualizzazione della rappresentazione all’interno dell’opera di Pirandello, Costa afferma che «bisogna andar piano con questo voler inquadrare. Proprio Pirandello lo insegna, mai abbastanza ascoltato. Inquadriamo pure ma distinguiamo. Il Misantropo non è Don Giovanni, Macbeth non è Prospero, Enrico IV non è Laudisi, Arlecchino non va in Moscovia!». 2 Certamente dal punto di vista critico, la favola si deve inquadrare sotto vari angoli: l’ideologia pirandelliana; il concetto pirandelliano di spettacolo che non è statico ma evolve e la Favola ne è proprio l’ultimo anello; la storia della favola da Novella a Favola; il programma, o preteso programma della esecuzione ideale della Favola contenuto nei Giganti e, naturalmente, la situazione del testo critico della Favola. A questo punto, secondo Costa, si inserisce il discorso sulla forma dello spettacolo che per lui risulta naturalmente il punto più facile, più naturale dato che entrano in gioco non più i soli risultati critici ma la valutazione di essi e i rapporti con la situazione teatrale in cui lo spettacolo nascerà diverso oggi da quello che sarebbe stato ieri, che sarà domani. Con fermezza aggiunge: «Riscontrati gli elementi di una aspirazione antinaturalistica della rappresentazione, e in pari tempo l’utilità attuale di una tale posizione, a parere mio, la chiarificazione sul gioco teatrale è per me naturale. Evidentemente discutibile, ma ritengo utile una discussione proprio su questa posizione che non è necessariamente superata». 3 In conclusione, Costa, considerando il valore comune del loro lavoro, chiede assistenza e comprensione alla critica.
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O. Costa, Quaderno n°5, 01.02.1957, Archivio Costa, Firenze. O. Costa, Quaderno n°5, 16.06.1957, Archivio Costa, Firenze. 3 Ibidem. 2
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Queste considerazioni inducono il regista a prendere visione, tardi ma in tempo e con sorprese soltanto gradevoli e utili al suo assunto, della novella Il figlio cambiato pubblicata da Pirandello nel 1925 e ristampata nelle Novelle per un anno sotto il gruppo Dal naso al cielo: in primo luogo l’autore che scrive in prima persona racconta, come se fosse il Pitrì, un caso caratteristico di superstizione, ma il fondo della Novella sembra verta sulla possibilità di superare, sia pure attraverso la superstizione, la crudeltà di una realtà mediante la convinzione di un al di là, sia pure terreno. Ma l’autore scettico, diventa nella Favola l’Uomo saputo: in questo cambiamento di nome, da Autore a Uomo saputo, vi è tutto un processo di revisione anzi di giudizio autocritico veramente essenziale poiché la posizione dell’Autore d’una volta è quella di un ridevole presuntuoso. In secondo luogo, una attenta analisi del testo mostra con quante piccole trasformazioni e con quanta meticolosa attenzione sia avvenuto in molti casi il passaggio del testo primitivo a quello versificato. Agli occhi di Orazio Costa la Favola, nonostante le varie difficoltà esaminate, ha acquistato un enorme interesse poiché testimonianza ultima del pensiero pirandelliano circa i rapporti fra testo e rappresentazione, sul fondamentale problema della regia teatrale. Secondo il pensiero del regista, in quel capolavoro assoluto del teatro moderno che sono i Sei personaggi, uno dei tanti problemi che la critica e la regia non ha certo terminato di porre in luce è proprio quello, che ad alcuni parve erroneamente fondamentale, dei rapporti tra teatro e rappresentazione. Non si fa riferimento agli altri rapporti affini e maggiori tra finzione e realtà, né a quelli tra realtà e storia, ma molto semplicemente e moderatamente di quelli tra testo e rappresentazione. Orazio Costa ricorda allora che un fondamentale scetticismo su una possibile non tanto identificazione ma almeno sovrapposizione fra testo e rappresentazione animava Pirandello tanto che la rappresentazione riusciva ad avere delle aderenze veramente indiscutibili con il tessuto del testo solo con l’intromissione di alcuni fenomeni altrettanto scenicamente assoluti e indiscutibili: l’apparizione di Madama Pace, il suicidio del ragazzo, il grido della Madre. Tre diversissimi piani di realtà, il cui effettivo verificarsi sulla scena è indispensabile. Probabilmente, proprio dall’esperienza dei Sei personaggi per Pirandello stesso enorme e feconda di creativi stupori, risorse con una forza veramente esplosiva la verità d’un teatro che ponesse i suoi presupposti nella rappresentabilità cioè nella potenza magica del luogo definito scena. Questa sera si recita a soggetto e Ciascuno a suo modo sono segnalati proprio da Pirandello come i componenti di una trilogia del teatro nel teatro: qui i rapporti tra testo e rappresentazione sembrano orientarsi di più verso una ammissione che la rappresentazione ha proprio in sé una sua realtà valida. Si direbbe quasi che l’Autore convinto o addirittura sopraffatto e travolto dal suo mezzo tecnico di espressione lo abbia lasciato parlare per sé. Se i Sei personaggi sono un Mistero teatrale, Questa sera e Ciascuno a suo modo sono Gioco o moralità, la Favola è Miracolo. Nella Favola, vista all’interno della Scalogna, la parabola teatrale si conclude e pacifica. Mentre gli incompiuti Giganti continueranno a salire e scendere la loro montagna riempiendo volta a volta tutti i significati che l’attualità filosofica e storica,
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giornalistica o politica vorranno loro attribuire, la piccola Favola resterà un modesto occasionale prodotto, ricco però di una sua compiuta intimità, illuminato di una fede insperata nell’equilibrio intravisto possibile fra poesia e rappresentazione. Ai fini di una comprensione più profonda della considerazione che nutriva Orazio Costa del teatro, appare utile una riflessione dello stesso regista sulla “regia di teatro”: probabilmente un giovane allievo, interrogato su questo tema troverebbe delle idee sufficientemente chiare, saprebbe offrire delle spiegazioni esaustive, ma un tema simile, secondo Costa, imposto a chi si occupa di teatro da ormai quasi trent’anni mette a ben dura prova quella preoccupazione di ordine e di chiarezza che dovrebbero essere proprie di una simile professione. Evidentemente, esistono vari gradi della pratica di una disciplina: quello grammaticale, quello sintattico, quello retorico, quello poetico. Un primo modo di avvicinarsi alla regia, per quanto teoricamente sia il primo fra tutti non è necessariamente il più facile, né disdegnato da chi invece si trova ad averli conosciuti tutti, è quello della “lettura”. Vi è poi quello che si propone di mettere in evidenza la particolare configurazione del testo nella sua linea drammaturgica. Vi è quello di “teatro” che intende valorizzare al massimo ciò che è più intimamente legato a certi fenomeni squisitamente teatrali come potrebbero essere le aperture, i finali, le tirate, le scene cosiddette madri e più sottili fenomeni di individuazione e trasformazione. Vi è, infine, quello che non sa rinunciare non tanto a dare una propria visione del teatro, ma a dare consapevolmente, il più consapevolmente possibile, all’opera di teatro il suo posto nell’attualità storica, filosofica, considerando sia il classico o il cosiddetto dramma di repertorio, sia il moderno come frutti attuali di una ideale drammaturgia in continuo movimento. A questo punto evidentemente la situazione si complica a causa dei più vari processi critici, spesso contraddittori, mentre è forse solo a questo punto che la regia rischia, per il bene e per il male, di avere una sua propria incidenza nella vita teatrale che è di continuare contatti e scambi con l’arte, con la storia, con la filosofia e più di tutto con la religione. Oltre tutti i vari aspetti di una disciplina che tenta di divenire sempre più padrona dei suoi mezzi, i vari mezzi, i vari problemi della vita teatrale che convergono in essa e ne condizionano gli ulteriori sviluppi, più ancora ne guidano ogni pur minimo passo. Come se non bastassero questi contatti tra teatro e arti figurative, tra teatro, storia e storiografia, tra teatro e filosofia, tra teatro e religione e tutto ciò sotto molteplici aspetti, vi sono una quantità veramente straordinaria di problemi apparentemente più tecnici che vengono ad inserirsi per più versi in quelli già esplicitati. Tutti sembrano accentrarsi in uno e ad esso ricondursi ma non è così; molti di questi problemi coesistono e si intersecano. Prima di tutto si dovrebbe mettere in ordine in tutto questo intreccio concettuale per verificare fino a che punto sia possibile parlare di teatro come di un fenomeno a sé e, se per caso non sia, come talvolta pare, semplicemente il tutto visto dentro uno specchio. Costa, ad esemplificazione di questo concetto, riporta un mirabile esempio: «Pioveva, esce il sole, e se ci mettiamo con le spalle al sole, contro il cielo nero si accende il più vasto arco-scenico concepibile, l’arco-baleno. Entro di esso tutto è illuminato di faccia dal sole, come da una immensa ribalta. È il teatro, ma è il mondo, è il mondo, ma è un teatro».1 Il regista ancora 1
O. Costa, Quaderno n°5, 01.01.1956, Archivio Costa, Firenze.
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continua: «Così – e altrimenti – accendiamo un fuoco in un caminetto, il più ridotto palcoscenico che si possa immaginare, e subito fiamme, legni, tizzi, braci e ceneri si mettono a rappresentarci uno spettacolo avventurosissimo e coreograficamente perfetto. All’occhio di un teatrante tutto si anima in teatro: si sveglia e sul lembo rimboccato del suo lenzuolo due esilissimi fili contorcendosi al soffio e al calore del suo alito fanno la commedia». 1 Il regista riporta successivamente la sua riflessione su un piano fenomenologico, offrendo una ulteriore spiegazione: fuori dalla finestra, la commedia la faranno le nuvole o due alberi e via via coloro che vivono e ciò che è dipinto come tutto ciò che è scritto, sicché viene eliminata la differenza non solo tra narrativa e dramma ma anche tra dramma e lirica. La fenomenologia si apre alla trascendenza: il teatrante vuole scoprire la ragione di questo teatrare e finalmente gli sembra di trovarla nel libro della Sapienza, la Sapienza di Dio di cui si legge «Cum eo eram cuncta»,2 fin da quando Dio conformava cielo e terra e fissava le leggi a cui gli elementi si sarebbero attenuti. Quella sapienza che è «omni tempore ludens coram eo, ludens in orbe terrarum»3 e cui somma gioia è «esse cum filiis hominum». 4 Secondo il pensiero di Orazio Costa, la più sublime essenza del teatro è racchiusa in queste parole attraverso le quali si può intuire perché lo spirito ebraico non ebbe altro teatro che una contemplazione lirica perché il «ludus Divinae sapientiae»5 mal avrebbe sopportato una rappresentazione fatalmente misera e ci sembra di capire perché veramente il «ludus sapientiae»6 della nostra lingua si chiami Commedia. Ludere, giocare, danzare, esultare, fingere, ingannare, rappresentare, recitare, gioire, divertirsi, inventare bellezza e via via fare ed essere arte manifestandosi in continue trasformazioni, «coram eo»,7 purché la testimonianza del Divino sia invocata, richiesta, implorata, purché si sappia che solo Dio conosce il gioco e purché si desideri che egli sia su noi e in noi a distinguere il limite del gioco e non si sa come abbia potuto essere temuto più di qualunque altro atto che non si sottragga al cospetto di Dio. 8 La teoria sul metodo mimetico e alcuni lavori particolari di Orazio Costa sembrano trovare le loro radici, implicitamente, su un terreno metafisico. Appare evidente che, quando Orazio parla di “farsi” l’oggetto della mimesi, diventare l’albero o la nuvola, non faccia riferimento ad una ‘identità’ reale, ontica, ma intenzionale. L’essere mi è presente ma non nella sua concretizzazione materiale né tanto meno soggettiva e questa condizione comporta per Costa il rischio di perdersi in una concezione panteistica che annulla i confini con l’oggettività e che vede l’individuo inabissarsi nel cosmo fino a perdere completamente le tracce della sua esistenza. Il diventare l’oggetto dell’atto mimesico rimanda a quel processo metaforico che Ricoeur ha spiegato esemplarmente in La metafora viva, 9 processo che aspira a «conferire realtà» alla referenza poetica, non secondo la logica di un giudizio di una esistenza situata nello spazio e nel tempo, ma a partire da una tensione utopica. Partendo dal concetto aristotelico di mimêsis che ben si adatta a quello di Costa,
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Ibidem. 2 Ibidem. Ibidem. 4 Ibidem. 5 6 Ibidem. Ibidem. 7 8 Ibidem. Ibidem. 9 P. Ricoeur, La métaphore vive, Paris, Seuil, 1975; tr. it. La metafora viva, Milano, Jaca Book, 1981. 3
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Ricoeur spiega la portata ontologica della metafora secondo la prospettiva concettuale di «presentare le cose come in atto».1 La funzione referenziale del discorso poetico viene legata, dalla mimêsis phusêos, «alla rivelazione del Reale come Atto».2 In altri termini, la poesia «tiene insieme la prossimità alla realtà umana e la distanza del favoloso». 3 La teoria sul metodo mimetico 4 di Orazio Costa si radica, da quanto premesso, su questo terreno metafisico, inoltre, fa riferimento al suo maestro Copeau quando declina il significato dell’arte nei termini di una Cattedrale. Nelle metafore viene espressa l’idea che tutta una serie di arti e mestieri collaborino alla realizzazione di qualcosa che non solo tenta di rendere le caratteristiche dell’invisibile in un edificio visibile, ma il cui fine è l’attestazione «della gloria di Dio» 5 presente nel non visibile ma che l’artista ha curato in modo quasi sacrale cooperando alla realizzazione di «uno stato di grazia»: tutto il mistero della creazione teatrale è incluso in questo «effetto teologico». 6 La grazia è gratuita, ma sopravviene quando gli sforzi umani hanno compiuto l’intera parabola, sono stati tesi al raggiungimento della forma senza la presunzione di toccare l’esito che si ha solo per grazia. Su questa concezione di teatro metaforica e simbolica in grado di alludere, nel suo configurarsi materiale, a una totalità dell’Essere trascendente la realtà visibile e che si traduce proprio in questa tensione utopica, in luogo privilegiato del Sacro, Costa fonda la sua idea di teatro, un teatro mimesico che conserva viva la memoria della sua originaria forma rituale e liturgica. In sintonia con la sua propensione utopica, Costa intravvede una sorta di superamento tra pubblico e attori, nel desiderio che possano esistere attori che un domani faranno parte dello stesso pubblico, un pubblico-attore. Dinanzi a queste considerazioni teoriche, risulta comprensibile la profonda motivazione di ordine etico che impedì al pubblico e alla critica di accogliere La favola così come era stata concepita nella mente di Orazio Costa.
Bibliografia G. Colli, Una pedagogia dell’attore. L’insegnamento di Orazio Costa, Roma, Bulzoni, 1989. L. Lucignani, Orazio Costa regista, «Teatro», 2, 1950. L. Pirandello, La favola del figlio cambiato, Milano, Ricordi, 1933. P. Puppa, Teatro e spettacolo nel Secondo Novecento, Bari, Laterza, 1990. P. Ricoeur, La metafora viva, Milano, Jaca Book, 1981. V. Turner, Dal rito al teatro, Bologna, Il Mulino, 1986.
Fonti archivistiche O. Costa, Quaderno n°5, 01.01.1956, Archivio Costa, Firenze. O. Costa, Quaderno n°5, 01.02.1957, Archivio Costa, Firenze. O. Costa, Quaderno n°5, 16.06.1957, Archivio Costa, Firenze. 1
2 3 Ivi, p. 57. Ibidem. Ibidem. O. Costa, Il metodo mimico nella preparazione dell’attore e degli artisti e nel processo educativo, «mim – Notiziario del Centro dell’Avviamento dell’Espressione», 4, 1981; ora in G. Colli, Una pedagogia dell’attore. L’insegnamento di Orazio Costa, Roma, Bulzoni, 1989. 5 O. Costa, Quaderno n° 5, Archivio Costa, Firenze, 01.01.1956. 6 V. Turner, From Ritual to Theatre, New York, 1982; tr. it. Dal rito al teatro, Bologna, Il Mulino, 1986, p. 146: «il rituale, nella pienezza della sua esecuzione nelle culture tribali e in molte di quelle post-tribali, è una matrice da cui sono derivati molti altri generi di performance culturale, compresi quelli che tendiamo a considerare ‘estetici’». 4
IL FRANCESCANESIMO NELLA POESIA DI ORAZIO COSTA 1
I
l cammino della poesia del Novecento secondo quanto affermato da Debenedetti, si snoda lungo un percorso tortuoso ed affascinante che muove dalle esperienze del futurismo e del crepuscolarismo per approdare allo sperimentalismo della neoavanguardia e alla voce tesa verso un linguaggio nuovo dei poeti contemporanei. All’interno di questi ultimi si può collocare Orazio Costa, un poeta imprevisto, senza dubbio, ma certo un poeta che c’era ed era nel nostro tempo secondo quanto affermato da Mario Luzi nell’Introduzione al testo Luna di casa che raccoglie una parte cospicua dei testi poetici che nei Quaderni inediti di Costa si alternano a nozioni di regia, riflessioni sul metodo mimico, memorie di sogni ed altro. Essi accompagnano la sua vita a partire dagli anni Quaranta con una certa intensificazione durante gli anni 1960-1970 e lasciano trasparire l’evolvere dell’attenzione e degli orientamenti. Se negli anni giovanili, infatti, prevale l’interesse estetico contraddistinto però da un rarefatto purismo tale da contenere una rigorosa etica, si vedranno emergere successivamente altri temi della meditazione, etici a pieno titolo, e religiosi. Orazio Costa è stato da sempre considerato il padre fondatore della regia italiana in un momento in cui il nostro teatro soffriva a causa di una perdita valoriale e sostanziale della sua missione. È proprio in questo delicato momento che la personalità di Orazio Costa spicca all’interno del panorama culturale sopraffatto e soffocato dalla logica consumistica che tutto reifica e dalla presenza della figura mattatoriale, nel tentativo di restituire al teatro la sua vera natura spirituale unita ad una forte e densa connotazione etica, oltre che estetica. La pratica registica ha percorso in senso diacronico tutto l’arco esistenziale della vita di Orazio Costa, coniugata e declinata però sempre lungo un percorso poetico, nel tentativo di riportare sul palcoscenico quella dimensione poetica che il malato clima neonaturalistico aveva ormai contaminato. La pratica poetica allora si unisce, si confonde e si sublima costantemente in quella registica, poesia e regia costituiscono le due polarità intorno alle quali si snoda e si articola l’esperienza dell’uomo di teatro e dell’uomo nel senso etimologico più ristretto. L’attività poetica venne riconosciuta da Mario Luzi, con il quale Costa aveva raggiunto una intima amicizia: ad uno dei nostri maggiori poeti ermetici si deve l’introduzione del libro di poesie di Orazio Costa, Luna di casa, edito dalla casa editrice Vallecchi nel 1992. Non tutte le poesie di Orazio Costa sono state però pubblicate, così da quanto emerge dallo spoglio dei quarantasei quaderni conservati presso l’Archivio Orazio Costa a Firenze, dove il regista trascorse l’ultima parte della sua vita in qualità di responsabile artistico del Teatro La Pergola di Firenze. Tra i vari filoni che hanno contraddistinto la produzione poetica di Orazio Costa, oltre a quello esistenziale che rappresenta il nucleo centrale, emerge quello religioso nel quale appare una coinci1
Il presente saggio nasce da uno studio di Fonti inedite conservate presso l’Archivio Costa di Firenze.
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denza tra ispirazione poetica e religiosa, secondo quanto emerge da una affermazione contenuta nella nota del 29.01.1955 nel Quaderno n° 4 presso l’Archivio Costa: «L’amore ama la poesia. La poesia crea l’amore. Bruciare di poesia può volere bruciare d’amore? Ma bruciare d’amore per le creature può essere un aiuto a vivere in quella vita che l’amore monotono per la creatura isolata ci dona a prova, ci toglie a prova per darci una sete d’amore che se non dissetata ci fa amari e aridi». 1 La poesia diventa, allora, parallelamente alla pratica registica, un mezzo per arrivare al cuore delle creature. Il termine “creature” evoca, non sicuramente a causa di un calcolo di probabilità non voluto e non riconosciuto, un aspetto suggestivo della poesia oraziana che tocca il suo vertice spirituale nel momento in cui il suo canto è sostenuto e sostanziato da un profondo riferimento, non solo e non solamente testuale, ai testi francescani, in modo particolare al Cantico di frate sole e sorella luna. Il riferimento al modello di San Francesco è evidente sin dall’incipit del primo quaderno, secondo un arco temporale comprensivo dal 1 luglio 1944 al 24 ottobre 1947, che riporta l’epigrafe «Deus meus et omnia» espressione tipica di San Francesco che consiste in una esclamazione rivolta a Dio che letteralmente significa «Mio Dio e ogni cosa» ma che più simbolicamente si può tradurre con «Mio Dio e mio tutto»: il creato, le creature e tutto l’essere dell’uomo trovano le sue radici ontologiche in Dio che rappresenta la totalità dell’esistenza, una forma di giaculatoria che viene spiegata da Costa «come la più alta sintesi di preghiera e la più assoluta espressione di ineffabilità». 2 È però nel Quaderno n° 2 che copre un arco temporale che va dal 16.02.1948 al 17.02.1951 e precisamente nella nota numero 11 che Orazio Costa compie un ampio excursus che si riferisce ai momenti più importanti e alla vita spirituale del Santo e in modo particolare ne mette in luce la gioia profonda che scaturiva dal suo cuore perché si nutriva di una intima unione con Dio dalla quale riceveva quella forza spirituale che lo portò a vivere il Vangelo e a comunicarlo con tutto lo spirito missionario che ardeva nel suo cuore come fiamma viva:
“S. Francesco cantava. Nessun italiano ha mai cantato tanto: in francese, in italiano, in latino. Cantava per tutto. S. Francesco aveva fatto il muratore (le maçon, le frère maçon) non per il gusto di darsi (proletariamente) al lavoro faticoso ma per un bisogno suo innato che può spiegare e resuscitare ogni suo gesto, quello cioè di concretare nel fato ogni realtà spirituale, anzi addirittura la necessità di fare le cose che si dicono, qualcuno potrebbe dirla una zotica semplicità paesana di vedere sempre e solo il senso letterale delle parole; la Chiesa cadeva (decadeva), quale chiesa? Le chiese! le chiesette, le cappelle, gli oratori dopo mill’anni di vita crollavano, e allora rifarli, ecco rifare la chiesa. E poi per un destino di imitazione di Cristo: Lui falegname, S. Francesco muratore. E ballava: sempre per la stessa ragione: perché essere contenti che significava? che significa esultare se non saltare? Il suo ballo che richiamava l’attenzione della folla non era fatto per richiamarla, era fatto perché bisognava mostrare la letizia e quel ballo continuava a essere il ritmo della predica, forse in versi, forse cantata. Si può sentire anche una predica quando chi la fa balla e sa cantare e improvvisa versi per prova di non essere affatto pazzo. Per questo egli inventò il presepio. Come in ogni momento inventava l’aderenza di tutti i suoi atti con i pensieri e le parole. Ma l’invenzione del presepio deve esser prova anche a lui così stupefacente a noi che ci siano voluti più di mille anni per avere quest’idea. Dovette 1
O. Costa, Quaderno n° 4, nota del 29.01.1955, in A.C. O. Costa, Quaderno n° 15, nota del 31.07.1964, in A.C.
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tremare di emozione come quando si sogna di aver acchiappato senza altro aiuto che le proprie mani un meraviglioso uccello. Era lì nei Vangeli come un diamante coperto d’oro. Ma ai suoi occhi brillò attraverso l’oro. Far vedere agli uomini la realtà di Gesù nella realtà più giornaliera della stalla: del bue e dell’asino: della mangiatoia e della paglia. Gesù nacque nella stalla: ecco questa parola diventare sacra vicino al nome di Gesù e di Maria, queste bestie divenute di marmo, questa paglia diventata oro: no! stalla, odore di strame, calore di orine e di sudori animali, fiato dei denti verdi degli animali viventi, mangiatoia di legno consumata dai denti degli animali, dagli anelli di ferro delle loro capezze, paglia cresciuta dalla terra venuta su con tutte le sue erbe coi suoi fiori seccati, col grano e con le vecce; questa stalla era troppo sorella di stella (l’antro non più visto apparso ai magi) questo bue è troppo quello di S. Luca, questo asino non è più una cocciuta bestia da basto: ha gli occhi troppo soavi, questa paglia non punge più, non taglia. E invece ecco: stalla stallatica, bue imbecille, asino somaro, paglia crudele quella delle bestie dei soldati dei carcerati, per le carni molli di un feto delicato. Chissà cosa inventerebbe oggi il santo per ridirci l’eterna aderenza della vita di Gesù con la nostra di sempre? Non sappiamo leggere il libro, ma se sapessimo leggere come lui sapremmo trovare. “Lascia tuo padre e tua madre” – “Smetti le tue vesti, dà tutto ai poveri” e, letteralmente, ciò diventa atto con una evidenza da quadro, da pittura, da scultura che ci pare evidente e facile ma che nessun artista o poeta saprebbe riinventare per altre parole. Con una evidenza che sola ci potrebbe guidare, a saperla intendere a fondo, a ritrovare l’immagine per (certe) parole che non riusciamo a “vedere”. Spogliarsi nudo in piazza, rendere al padre vesti e denari, fino alla catenina del battesimo, ad essere accolto fra le braccia della chiesa […]: ed è certo che se si guardasse qual era la veste del vescovo e se ne prendesse il significato liturgico si leggerebbe un altro capitolo della rinuncia di S. Francesco e del suo abbracciare (anzi essere abbracciato) dalla colorata, ricamata adornata e dorata veste della chiesa. Parabolare è veramente il suo vivere, il suo vivere è un parlare per parabole. Scegliere una strada: la più profonda alla fine non potrebbe far più che perdervi la testa: ebbene non si tratta di giocare a testa e croce: si tratta di ridursi per la più breve all’effetto della filosofia: girare, girare e magari esultando e alleluiando e poi cadere sfiniti: l’uomo non può fare di più se Dio non interviene e perché esigere l’intervento di Dio? 1
L’attenzione alla vita e alla spiritualità francescana lo porterà alla realizzazione de Il Poverello 2 di Jacques Copeau, spettacolo con il quale Orazio Costa debuttò il 1 settembre 1950 a San Miniato con l’intenzione di omaggiare e commemorare il maestro francese in occasione del primo anno dalla scomparsa. 3 La spiritualità francescana è così evidente in Orazio Costa al punto da commentare, intessendolo all’interno di una fitta rete di richiami al suo vissuto personale, al ritorno da una visita al cimitero di Assisi dove era sepolta la madre, il Cantico delle Creature e si scopre anche critico nel momento in cui, commentando il verso nel quale San Francesco loda il Signore per «per sora luna e le stelle. In cielo le hai formate clarite,
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O. Costa, Quaderno n° 2, nota del 22.02.1948, in A.C. Il Cantico delle creature costituisce il nucleo intorno al quale si snoda l’interpretazione del Poverello. Orazio Costa, a tale riguardo, così afferma: «È così dunque che al centro di tutta l’interpretazione del Poverello si è posto il Cantico delle Creature, col suo divampante amore per le cose, col suo acceso lirismo, con la sua gioiosa accettazione del dolore e della morte […] Nello studio scolastico, proprio per la sua esuberanza di amore, quindi di vero entusiasmo, e per l’invito naturale a sposare la forma e la bellezza spirituale delle cose, il Cantico si presta ad inventare i toni più vari, a personificare con immediatezza cose e fenomeni. Si tratta addirittura di essere le cose, passando via via dall’oggetto inanimato a quello in movimento passivo, dall’animale al fenomeno naturale, attraverso l’esperienza personale». O. Costa, Premessa alle Note di regia de Il Poverello, in A.C. 3 G. Tramontana, Orazio Costa testimone della scena italiana, «Comunicazioni sociali», xx, 3, 1998, p. 368. 2
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preziose e belle», intravede nel verso Chiare, fresche e dolci acque un riferimento alla lauda francescana. Di seguito si riporta il testo inedito del commento oraziano che inizia con un ampio preambolo nel quale la natura sembra vibrare degli stessi suoi sentimenti ed emozioni: Ti sono venuto a trovare nel tuo cimitero. Annottava. Il tramonto era stato lento e diffuso in una foschia polverosa ed argentata: e continuava in un ventoso crepuscolo. Chiaro il cielo e la terra punteggiata da fuochi festivi. Sulla tomba le tessere d’oro del mosaico mettevano una luce pacata; i fiori già vecchi nei vasi tramontavano anch’essi, così bene in armonia nel dorarsi in crisalidi dei bei petali rosa, che non sarebbe stato giusto ancora, a quell’ora, toccarli. E ti ho detto, come preghiera e ninna-mamma, il tuo bel cantico francescano. E intanto andavo guardando e pensando e mi si facevano, accanto quella del Santo, altre immagini a commento. Ero davanti alla tomba, appoggiato al muretto che fa da balaustra alla terrazza: i lumini delle tombe accesi, già si vedevano splendere; di là dal muro di cinta, coronato dalle croci delle cappelle, si stendeva il cielo chiaro, la campagna scura, un fumoso resto di tramonto, le costellazioni improvvisate dei fuochi festivi e l’attesa delle stelle, qualche volo e cinguettio, più in là ma vinti da un misterioso silenzio, i canti al neon dei piccoli centri abitati. Il vento animava tutto d’un respiro comune: i voli, i canti, il palpito dei fuochi e dei lumi, in un apparente ruotare di tutto; come in un bel ritmato moto d’astri. Altissimo, onnipotente, buon signore... [E nel cielo, la più ampia ed alta idea visibile, respirano i cipressi coi loro ritmi diversi, abbracciante, festeggiante, giovinezza l’uno; lento, solenne, sillabante misterioso, riassunto di carmi, l’altro, e così respira tutto e respirerà l’apparire temerario delle stelle, e respirano quasi queste croci tutte diverse, traccia e simboli d’uomini, sul quaderno immenso] Tue so’ le laude, la gloria e l’onore et omne benedizione… [Tombe e croci e lumi, e poco prima incensi e preghiere e altissime benedizioni dall’Ostensorio: tutto tuo, tutto in croce, segno del tutto e dello spazio e del tempo, nodo delle quattro direzioni, della scienza e della virtù] A te solo, Altissimo, se confanno, e nullo omo ène digno Te mentovare... [Tutto è vuoto e vano se non indica Te, se non è rivolto a te in cui è la realtà dell’essere. Le laudi e le benedizioni sono parvenze e se simboleggiano l’Eterno sono, altrimenti non sono. Né possono non essere, ma rinunciano, rinnegano, cioè scelgono il non errore, il demonio e la bestemmia. Tutto parla di Te, ma nulla o nessuno è degno di mentovarti, anche se ognuno e ogni cosa è tua lode. Dovrà contentarsi d’essere cosa tua e tua lode spontanea, senza pretendere di pronunciarti che è possibile solo a te.] Laudato sie mio Signore, con tutte le tue creature: spezialmente Messer lo frate Sole, lo quale iorna, et allumini noi per lui. Et Ellu è bello e radiante cum grande splendore. De Te altissimo porta significazione... [La rivoluzione di tutte le cose è una lauda: e questa girandola di gesti ordinata dal vento è una figura di quella cosmica che canta le lodi del Signore. Tutte le creature vi partecipano. E in special modo il sole figura dell’onnipotenza. Poco fa il sole era una sfera rossa enorme e nello spazio inqualificata: immenso frutto o bocca di forno, antico scudo rovente, o cima di vulcano. Ma fra le palpebre della terra e del cielo era piuttosto una onniveggente Pupilla. Aveva “jornato” e fatto le veci del Signore, aveva testimoniato, ed ora spariva per costituire l’altra figura della fede e della speranza. Al nuovo giorno.] Laudato sie mio Signore, per sora luna e le stelle. In cielo le hai formate clarite, preziose e belle.
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[Ricordo l’ultima apparizione della luna dall’immaginato cratere delle Pale, silenzioso sole di una natura addormentata in vapori argentei in fasci varianti di nebbie in pacate quinte d’uno spettacolo futuro. Ma qui fra il cipresso sventolante braccio e saluti e quello chiuso in un suo cullato mistero, nello spazio concluso tra nere fronde, nel cielo chiarissimo, ancor più chiara una piccolissima stella dice il suo piccolo “io”, spuntando incerta, temeraria assoluta. Preziosa e bella e Santa Chiara. Petrarcheggiando ante litteram per istinto di amore, per istinto di lingua, per naturale umano desiderio di attribuire al cosmo le virtù del nome adorato, le stelle e la luna sono “clarisse”, così come senza volere francescheggiando e chissà forse ripetendo una lauda francescana il Petrarca Francesco dirà “Chiara e fresca” la dolce acqua. Dolce, sensuale, e non più “casta”. Ma detto da Francesco Santo che altro senso avrebbe quel “dolce” di mite, di umile, di santo.] Laudato sie mi Signore per frate Vento, e per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale alle tue creature dai sustentamento. [Vento di Assisi, vento del Subasio, che animando ogni cosa dà il senso di lauda, di canto, di danza. “Fratello Vento” scommetto che S. Francesco dovette essere spesso chiamato dai suoi, tutto spirante vita, gesti, tutto velocità e violenza, tutto tenerezza e danza, tutto rapidità e decisione. Come io consigliavo all’Attore che doveva essere S. Francesco. É la tempesta nuvolosa, e la calma ridente tutto amato nella sue necessità: il dolore e la gioia. Ma soprattutto l’omnetempo, come una sola parola, come ognissanti: “mio Dio e tutto”, la sua preghiera integrale, che avrebbe potuto essere una implorazione di Cristo.] Laudato sie mi Signore per Sora Acqua la quale è molto utile et umile e preziosa e casta. [Acqua - Chiara acqua umile, acqua amica della forma. E pensavo all’acqua chiusa nei vasi di rame a nutrire i fiori del cimitero. Acqua umile, nascosta. E solo per ciò casta. Ché altrimenti, come? Casta finché fredda e montana, finché utile, e allora sì, benché preziosa, casta.] Laudato sie mi Signore per Frate Focu, per lo quale enallumini la notte. Et ellu è bello e jocundo e robustoso e forte... [E vedevo le fiamme del camposanto rivelarsi nelle loro lucerne, nelle lampade; domato fuoco, umile (anche lui) fuoco per la notte più lunga, compagnia e conforto di tenui guizzi, di pallidissime figure di stelle. E vedevo nei campi i fuochi della festa robusti e giocondi costellare la pianura e le coste dei colli, per la notte degli uomini. Fuoco naturale ormai tanto lontano dalla nostra vita, sempre così adorabile che dovrebbe essercene sempre uno nelle case a ricordare questa figura modesta del sole, questa figura della figura di Dio: bello e giocondo, e onnipotente.] Laudato si’ mi Signore per Sora nostra Madre Terra, la quale ne sustenta e governa e produce diversi frutti con coloriti fiori et erba... [Dove, meglio di qui , la terra ne sustenta e governa, sostiene tombe e quasi le nutre e le ordina e le infiora. Per i vivi i frutti e per i morti i fiori.] Laudato sie mi Signore, per quelli che perdonano per lo tuo amore. E sostengono infirmitate e tribolazione. Beati quelli ‘l sosterranno in pace che da Te, Altissimo, saranno incoronati... [E penso che noi siam terra di infermità e tribolazioni, ma che non sempre sappiamo sostenere in pace, come la nostra sorella Madre Terra, che ci sopporta in pace: peccati e violenza, amarezza e doglie. In pace, sostenere in pace, senza dar loro guerra che di serenità contrapposta ai loro morsi nel corpo e nell’anima. Come vale anche per me, morso dai dolori del reuma insistente e dall’insistente pena durevole dell’amore geloso e insoddisfatto. In pace! Come Tu, Mamma, tanto bene sapevi fare.]
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Laudato sie, mi Signore, per sora nostra Morte corporale, dalla quale nullo omo vivente po’ scappare. Guai a quelli che morrà nelli peccata mortale! Beati quelli che se troverà nelle tue santissime voluntati. Che la morte secunda non li potrà far male... [Canto di vita e canto di Cimitero, da Campo Santo. Ogni tomba è un sigillo di ineluttabilità. I vivi muoiono. E Dio è padrone della Morte ancor più che della Vita. Forse si può inventare, creare, materia viva ma sarà senza forma e senza Morte. Continuamente riproducentesi, informe caos immortale. Dio ha inventato la Morte. La paura crudele e giusta: il ritorno. Il tempo umano non può avere ritorno. Dio ci fa tornare. La sua volontà assecondata. Mistero del peccato che taglia la strada al ritorno. Perché? Perché sei voluto arrivare prima e assolutamente?] Laudate e benedicete mio Signore et ringraziate. E serviteli con grande umilitate. Amen. [Sono così venute fuori alcune cose che non avevo previsto. Assai poche in confronto a quanto avevo già visto e dichiarato tante volte ad allievi, insegnando questa magica poesia piena di mistero. Pochissime poi in confronto a quanto resta ancora da dire. Ma io volevo dire solo quello che vedevo dal mio angolo materiale e spirituale di osservazione in quell’angolo del Cimitero e dedicarlo a Te, Mamma mia tanto fedele ammiratrice di questo canto immortale col quale avresti dovuto essere accompagnata in Cielo. La tua tomba dovrebbe essere una immagine di questo canto. Se si potesse fare umilmente e onestamente. 1
Orazio Costa comprende che San Francesco, ricolmo dello spirito di Dio, scopre in tutto il creato la Sua immagine ed è per questo che «trovava in tutti gli elementi e le creature motivo di rivolgere al Creatore e al Signore del mondo gloria, lodi e benedizioni» 2 e il Santo riscopre nel creato quell’ordine armonioso disposto da Dio perché «la natura divina dispone tutte le cose in un ordine armonioso, in modo che tutte siano coordinate in una coerenza concreta, conservando ognuna la sua purezza specifica, anche quando è coinvolta nelle reciproche coordinazioni» 3 secondo quanto affermato da San Tommaso. Non solo, ma sembra anche conciliare l’interpretazione data da Casella 4 secondo il quale il concetto fondamentale sul quale si fonda teologicamente il Cantico delle creature è costituito dall’idea che Dio è un mistero che non può essere menzionato ma solo lodato perché ha creato le creature, basando tale interpretazione sul valore causale attribuito al «per», che portano, proprio perché create da lui, la Sua «significatione» e l’interpretazione di Leo Spitzer 5 che ha integrato l’analisi di Casella sostenendo che le cose non sono solo lodate in sé e in relazione a Dio, ma anche in relazione all’uomo, poiché sono utili a lui: il sole, ad esempio, non porta solo «significatione» di Dio, ma serve anche per illuminare l’uomo. Alla concezione teocentrica, si unisce e si fonde quello antropocentrica e, a mio parere, in tal modo viene vissuto da Orazio Costa, secondo quanto risulta dalla constatazione in calce alla strofa nella quale il Santo loda frate Focu: «E vedevo nei campi i fuochi della festa robusti e giocondi costellare la pianura e le coste dei colli,
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O. Costa, Quaderno n° 6, nota del 14-16.08.1958, in A.C. Il commento viene riportato tra parentesi quadre, così come compare nel manoscritto. 2 3 G. Duby, L’arte e la società medievale, Bari, Laterza,1977, p. 179. Ivi, p. 184. 4 M. Casella, Il cantico delle creature, «Studi medievali», xvi, 1943-1950, pp. 102-134. 5 L. Spitzer, Nuove considerazioni sul «Cantico di Frate Sole», «Convivium», 3, 1955.
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per la notte degli uomini».1 Il fuoco, dunque, illumina la notte affinché gli uomini possano essere gioiosi e festosi. L’insegnamento di Orazio Costa presso l’Accademia d’Arte Drammatica risente profondamente della spiritualità francescana ed offre lo spunto per riscoprire nello spirito cristiano una connotazione copernicana secondo quanto sostenuto in una nota contenuta nel Quaderno n° 14: A proposito di 30.viii. dicevo ieri ad alcuni scolari quando S. Francesco dice “Laudato sii mi Signore, con tutte le tue creature, specialmente messer lo frate sole, eco…. che Te, Altissimo, porta significazione” mostra come tendenzialmente proprio lo spirito cristiano sia copernicano ante litteram: se il Sole è immagine di Dio, è difficile che si veda Dio fare la corte alla Terra, Lui “Il Primo Motore Immoto”! Se la scienza non arrivò che tardi a scoprire vero che anzi a confermare vero questo ispirato assunto non si può rimproverarne la Chiesa. I Vangeli non avevano bisogno di stabilire delle verità che il cuore prima, e poi la scienza ispirata dal cuore, avrebbero ritrovato nel corso della loro evangelizzazione del creato. 2
Ed è proprio alla delicata questione dell’evangelizzazione del creato che Orazio Costa fa riferimento citando la data del 30 agosto 1963 e ne riprende la problematica insita al suo interno, cercando di trovare delle giustificazioni teologiche in Galileo poiché, secondo Costa, il geocentrismo è una concezione pagana, in base a quanto si ricava dal frammento nel quale Costa afferma che «Forse in qualche testo di Galileo si potrebbe trovare una spiegazione o magari una giustificazione delle sue teorie anche su piano teologico proprio in questo senso. Giacché il geocentrismo è certo una concezione più pagana». 3 Quello che Orazio Costa chiede a Galileo è di poter spiegare come una verità possa cambiare e rimanere vera e porta come esempio quello del navigante:
Noi saremmo contenti, signor Galilei, anzi felici di questa spiegazione, se lei ci potesse anche dire come una verità possa mutarsi e rimanere vera. Se fidando del moto del sole un navigante era sicuro di vederlo calare ad occidente per risorgere a oriente potrebbe ora lo stesso navigante fidarsi allo stesso modo della corsa della terra? 4
Ogni concezione della realtà, secondo Costa, sarà maggiormente vera quanto più riuscirà ad avvicinarsi alla sola realtà della quale l’uomo si può fidare, quella della rivelazione, infatti, afferma «che tanto più vera si dimostrerà ogni nuova concezione della realtà quanto più saprà avvicinarsi alla unica realtà della quale possiamo ciecamente fidarci: quella della Rivelazione». 5 Nelle poesie di intonazione religiosa, urge un concetto attivo e infinito del divino che si concretizza entro tutte le forme determinate, così che francescanamente non manca la trepida gioia, termine che ricorre ventuno volte nel corpus poetico oraziano, per la natura, realisticamente annotata, ma prevale una visione dell’essere che si attua altrove, in una dimensione eterna e sovrumana, anche se alcune volte le due componenti interferiscono l’una con l’altra come nella poesia Così lentamente nella quale dal verso 57 al verso 65 il soprannaturale, individuabile nel canto adamantino degli angeli, si coniuga con i «tramonti di gioia» (v. 64):
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O. Costa, Quaderno n° 6, nota del 14.08.1958. O. Costa, Quaderno n° 14, nota del 22 gennaio 1964, in A.C. 3 Ivi, nota del 30 agosto 1963. 4 5 Ibidem. Ibidem. 2
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E gli angeli ancora stupiti accoglieranno i felici fratelli e canteranno un solo canto che rinnovi in ognuno la certa serenità dei nuovi amori e via di stella in stella tramonti di gioia li porteranno al trono del Ricreatore.
La tensione religiosa di Orazio Costa è talmente profonda da indurlo a scrivere delle preghiere: Perché non provare a scrivere qualche preghiera? Dal momento che è tanto difficile parlare e improvvisare la nostra preghiera proviamo a scriverne più spesso di quel che non mi sia già capitato di aver fatto. E intanto qualche preghiera sui misteri della vita di Cristo come successivi nuclei di una visione della vita, come ho tante volte anche scritto ma non abbastanza esemplificato. 1
Il linguaggio religioso, anche se inevitabilmente risente della modernità, conserva ben visibile l’ὰρχέτυπος originario, come dimostra la riflessione di Orazio Costa conservata nel Quaderno n° 1, nota del 10.03.1958 : «Dalla vite l’uva, dall’uva il vino, dal vino, lo Spirito, dallo Spirito il Fuoco, dal Fuoco la Luce. E questa Luce, anche spento il fuoco, consumato lo spirito, finito il vino, seccata l’uva, morta la vite, continuerà a scintillare in Eterno, anima e vita di tutta quella fatica». 2 Sul frontespizio del Quaderno n° 4, inoltre, vi sono dei riferimenti espliciti all’archetipo originario tratte, come riportato in calce dall’autore, da modelli della letteratura religiosa e biblica: «Amor meus, pondus meus; incendimur et perimur; ardescimus et cantamus. S. Agostino-Confessioni»; 3 «Dio vive nella solitudine e coltiva il silenzio. Pseudo Dionigi»; 4 «A te, o Dio, è lode nel silenzio. Un salmo di Davide» 5 che riecheggia il salmo 65,2 «Per te anche il silenzio è lode, o Dio». Allora, nel silenzio, la lode diventa presenza cor ad cor dell’amato al suo Amante. Il silenzio diventa preghiera. Nella poesia oraziana è interessante anche l’uso metaforico del buio e della luce: la poesia Ci siamo disposti con la fronte al Nulla, conservata nel Quaderno n° 4 e scritta in data 14.01.1955 è esemplificativa della contrapposizione: «Siamo pronti alla luce e al buio / al mare e al cielo / al monte e al deserto / all’atrio e al tugurio». Nel Quaderno n° 16, la poesia datata 26.12.1965 sin dal titolo Conchiglia di buio e di luce manifesta la dualità esistenziale evidente in modo particolare nei primi due versi: « Conchiglia di buio e di luce / s’attorce a destra l’universo». 6 La scelta del verbo “s’attorce”, plasticamente, oltre che foneticamente, richiama la fusione del buio e della luce che ardono insieme avvolti nella spirale di una stessa fiamma. Il nucleo oppositivo buio-luce richiama
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O. Costa, Quaderno n° 15, nota del 07.06.1964, in A.C. O. Costa, Quaderno n° 1, nota del 10.03.1958, in A.C. 3 O. Costa, Quaderno n° 4, in A. C. 4 5 Ibidem. Ibidem. 6 O. Costa, Quaderno n° 16, nota del 26.12.1965, in A.C. 2
il francescanesimo nella poesia di orazio costa
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ancora una volta la poetica francescana: il fuoco, frate Focu, illumina la notte senza però cacciarla poiché porta la luce nel buio. Il fuoco arde, brucia e diventa fiamma e la fiamma, nel suo movimento ascensionale, diventa luce ed il fuoco, nella estremità della fiamma, consuma la sua materialità, diventa spirito. La luce è materia che si trasforma e illumina il buio del creato e dell’uomo, il fuoco è allora gioia del cuore ed è nella fiamma che Francesco contempla l’amore di Dio: Francesco percepisce il mistero d’Amore in tutte le creature, ma soprattutto in frate Focu, auctor di una trasformazione che porta il cuore dell’uomo dal buio alla luce, dal peccato alla redenzione, dualità che è anche fondamento ontologico del nostro esistere. Bibliografia M. Casella, Il cantico delle creature, «Studi medievali», xvi, 1943-1950. O. Costa, Luna di casa, Firenze, Vallecchi, 1992. G. Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, Milano, Garzanti, 1998. G. Duby, L’arte e la società medievale, Bari, Laterza, 1977. F. Fortini, I poeti del Novecento, Bari, Laterza, 1977. L. Spitzer, Nuove considerazioni sul «Cantico di Frate Sole», «Convivium», 3, 1955.
Fonti archivistiche O. Costa, Quaderno n° 1, nota del 10.03.1958, in A.C. O. Costa, Quaderno n° 4, nota del 29.01.1955, in A.C. O. Costa, Quaderno n° 6, nota del 14-16 agosto 1958, in A.C. O. Costa, Quaderno n° 14, nota del 22 gennaio 1964, in A.C. O. Costa, Quaderno n° 15, nota del 31.07.1964, in A.C. O. Costa, Quaderno n° 16, nota del 26.12.1965, in A.C.
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DEUS ET EROS IN ALDA MERINI: LA LINEA ORFICA TRA SPAGNOLETTI E PASOLINI
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imenticanza casuale o voluta? Giacomo Debenedetti in Poesia italiana del Novecento non include tra i suoi studi critici la poetessa dei Navigli: nel seguire il fenomeno letterario, il giudizio del critico non include Alda Merini tra i poeti orfici né tra gli ermetici né tra gli esponenti della poesia impegnata. Nell’Introduzione all’opera debenedettiana, Pier Paolo Pasolini sembra intuire le ragioni di questa omissione: Debenedetti è stato di un estremo rigore nel porsi il traguardo irraggiungibile di una totalità di lettura senza specializzazioni: totalità coincidente dunque con l’inesauribilità della ricerca, e realizzata attraverso un metodo non metodico. Lo ripeto, a causa dell’oggettiva mancanza di un metodo, tutto il continuo, testardo e geniale ragionare sui testi di Debenedetti, è pervaso di un invincibile senso di colpa: eppure egli si è sempre rifiutato, con tutto se stesso, di commettere la colpa di adottare un metodo. 1
Ma Alda Merini difficilmente può essere incasellata ed incastonata quasi imbrigliata in una definizione manualistica della sua poesia perché è una di quelle anime inquiete, abissali che, nell’arte come nella vita, non riescono ad accettare le convenzioni e le regole che impigliano e soffocano l’estro creativo. Infatti, Mi hanno detto che la mia poesia non ha un centro che è come un’incandescenza pura e che alla fine non genera figura… Ma io sono il Nilo che a volte straripa, straripando può mettere paura ma dopo ti fa crescere la rosa e l’indole dell’Egitto… 2
Tumultuosa, impetuosa, così Alda Merini descrive la sua poesia in Un libro che appartiene alla raccolta La Terra Santa e altre poesie. La diffrazione poliedrica dell’ispirazione la porta ad una apolide costruzione sintattica e semantica, la poesia non ha un centro e segue un pensiero asistematico sorretto però, da immagini corpose, materiche che oscillano tra echi danteschi e machiavellici, foriere di luminose e consolatorie figure che emergono al di là della tempesta, quasi a rassicurare e a profumare l’anima. Sin dall’inizio, all’inquietudine affannosa e drammatica del suo spirito, è apparso chiaro che solo la poesia poteva essere un porto sereno e confortante: aveva solo dieci anni quando vince il Premio giovani poetesse italiane consegnatole dalla regina Maria José e rischia il licenziamento a causa dei noiosi rumori prodotti dalla macchina da scrivere quando cercava di battere i suoi versi presso il notaio Raul Korda, attirandone 1 G. Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, presentazione di P. P. Pasolini, Milano, Garzanti, 1974, p. 3. 2 A. Merini, La Terra Santa e altre poesie, introduzione di G. Spagnoletti, Lacaita, Manduria, 1984.
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i rimproveri. Alda Merini conquista ben presto una straordinaria maturità stilistica ed uno slancio lirico e metafisico che lascia sorpresi perché presenti in una adolescente: Se tutto un infinito ha potuto raccogliersi in un Corpo come da un corpo disprigionare non si può l’Immenso? 1
Sono domande che l’accompagneranno durante tutta la sua vita. L’incontro con Giacinto Spagnoletti nella redazione di «Democrazia», il settimanale milanese della Democrazia Cristiana diretto da Pietro Malvestiti e Luigi Meda avviene alla fine degli anni Quaranta in una Milano che cerca di ricostruire la sua realtà storica e culturale offesa dalla seconda guerra mondiale. A casa di Giacinto Spagnoletti ha modo di incontrare Giorgio Manganelli, Maria Corti, David Maria Turoldo, Luciano Erba, Maria Corti che si riuniscono in un cenacolo letterario e saranno decisive negli intrecci futuri del suo percorso creativo. Quel periodo viene evocato così in una nota di diario: Mia madre era convinta che una donna nasca soltanto per sottostare al marito padrone. Ma io che avevo in serbo un’anima da avventuriera non ero proprio di questo parere, e quando Spagnoletti cominciò a lodare le mie poesie e a gridare al miracolo, fui quasi convinta della mia intelligenza. Era pur vero che a scuola dicevano meraviglie di me, ma fino allora non ci avevo pensato. 2
Con un esponente in particolare, Giorgio Manganelli, l’amicizia letteraria si trasformò in una passione destinata a lasciare tracce in entrambi; fu una relazione difficile, così come scrive Maria Corti e presentò presto le sue difficoltà. 3 In casa di Spagnoletti, Alda Merini comincia a raccogliere i frutti della stima che la circonda: il suo esordio è l’anno 1950. Le sue prime poesie, Lettere e Estasi di San Luigi Gonzaga escono su «Paragone», la rivista diretta da Roberto Longhi e debutta nello stesso anno nell’antologia curata da Giacinto Spagnoletti per Guanda: Poesia italiana contemporanea. 1909-1949. 4 In queste prime prove, appare un intreccio continuo di trascendenza e immanenza che continuerà nella produzione successiva: il titolo della poesia Estasi di San Luigi Gonzaga non deve infatti trarre in inganno, poiché si raggiunge l’estasi anche attraverso la dimensione erotica:
Dio dell’Innocenza Io ti chiedo al mio amplesso. 5
L’ispirazione passionale è evidente anche nei versi di Lettere, presenti nelle prime due pubblicazioni: Ci reggevamo entrambi negli abbracci pregando che durassero gli intenti, 1
A. Merini, Piccoli canti, vv. 1-4, in La presenza di Orfeo, Milano, Schwarz, 1953. G. Spagnoletti, Poesia italiana contemporanea, Milano, Spirali, 2003, p. 636. 3 Cfr. M. Corti, Introduzione a Alda Merini, Vuoto d’amore, Torino, Einaudi, 1991. 4 L’antologia contiene La presenza di Orfeo, Il gobbo, La città nuova, Lettere, Luce. 5 Cfr. A. Merini, Estasi di San Luigi Gonzaga, vv. 3-4, in La presenza di Orfeo, cit., 1953. 2
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ci promettemmo il “sempre” degli amanti, certi dei nostri spiriti d’Iddii… 1
L’accoglienza positiva di questi primi componimenti induce Spagnoletti a pensare di inserirli nella collana che stava curando per Schwarz; nel 1951 Alda Merini viene inclusa nell’antologia curata in forma anonima da Eugenio Montale e Maria Luisa Spaziani Poetesse del Novecento. 2 Un evento infausto si intravede nella vita della poetessa: si intuiscono i primi segni della malattia ed è in quegli anni viene ricoverata nella casa di cura milanese Ville Turro, secondo una intensa testimonianza di questo episodio in una lettera di Giacinto Spagnoletti a Michele Pierri del novembre del 1952:
La mente della ragazza ha dato, recentemente, nuovi segni di alienazione; e non è escluso che tra poco essa ritornerà in una casa di cura o manicomio. Lo psichiatra che la teneva in cura si è dimostrato scettico sui risultati di un anno e mezzo di psicanalisi, di elettroshock, ecc. L’ha dichiarata, a bruciapelo, inguaribile. E allora, vista questa situazione, ho pensato che sarebbe giusto, umanamente, intervenire con quello che ella ha di più suo, cioè con la poesia. Chissà che questo non serva di più che gli elettroshock. Naturalmente l’ordine dei volumi non verrà alterato, il libretto della Merini mi precederà; sicchè solo a scapitarci sarò io in sostanza; ma ne sono lieto. 3
I problemi di salute sono accompagnati dalla fine della relazione con Manganelli che in quegli anni stava vivendo la Hilarotragoedia che darà alle stampe soltanto nel 1964; l’ossimoro del titolo delinea la sua vicenda degli anni 1947-1949 che oscillava tra l’amore verso la compagna e il presentimento della grave malattia. Maria Corti così ricorda quegli anni: Fu allora che scopersi, durante le visite settimanali che mi faceva la strana coppia degna di un dramma antico, la complessità della natura di Manganelli, che affiancava a sublimi raptus intellettuali una profonda, rara e squisita umanità. Con essa egli cercava di salvare la ragazza, di affidarla in mani sicure, ma la paurosa immensità degli abissi della follia cominciava a dare i suoi segni esteriori. Un giorno egli scomparve in lambretta, diretto a Roma. 4
La passione con Manganelli si esaurisce ma arriva il momento decisivo per la poesia della Merini: a ventidue anni, nel 1953 pubblica, edito da Schwarz, La presenza di Orfeo, il suo primo libro, nella collana «Campionario» diretta da Giacinto Spagnoletti. Il libro appare con la prefazione dello stesso Spagnoletti che, secondo Pier Paolo Pasolini «è da farsi in questa nota quale scopritore della Merini». 5 Se per Pier Paolo Pasolini siamo di fronte ad una «mostruosa intuizione», 6 e ritrova in lei l’orfismo di Rilke che era stato una lettura formativa per la poetessa, e la inserisce lungo l’ideale «linea orfica» 7 della nostra recente poesia, Giorgio Vigorelli l’anno successivo, in un articolo su «La Fiera Letteraria», dimostrando un vivace dissenso, polemizza:
1
Cfr. A. Merini, Lettere, vv. 5-8, in La presenza di Orfeo, cit., 1953. G. Scheiwiller, Poetesse del Novecento, Milano, All’insegna del Pesce d’oro, 1951. 3 Cfr. A. Merini, Il suono dell’ombra, Milano, Mondadori, 2010, p. xiv. 4 M. Corti, Un manierista in lambretta, «Repubblica», Roma 29 maggio 1990. 5 P. P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, Milano, Mondadori, 1999 («I Meridiani»), p. 557. 6 7 Ivi, p. 580. Ibidem. 2
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E mi pare un errore quello compiuto da Pasolini che ha dato posto alla Merini lungo un’ideale “linea orfica” della nostra recente poesia. L’orfismo, dove traspare, non è che apparente, esterno; è di mano di Rilke, o di qualche lettura alla quale la Merini fu sospinta dopo che fu scoperta (qualche apocalittico inglese); né misticismo né orfismo, ma un elementare metafisicismo. 1
Il debutto viene accolto favorevolmente all’interno del mondo poetico italiano: anche Salvatore Quasimodo le accorderà la sua stima, la accoglierà in una antologia curata per Schwarz 2 e tra i due inizierà una intensa frequentazione dai risvolti assai complessi e basati su una profonda e reciproca stima. Tutto il mondo poetico contemporaneo sottolineava la qualità della poesia della Merini, anche se qualcuno, come Giancarlo Vigorelli, insinuava dubbi su quel suo «elementare metafisicismo». 3 Per Giacinto Spagnoletti, primo fra tutti, Alda Merini rappresentò uno strano caso miracoloso; per la prima volta aveva di fronte a sé una poetessa nella mente della quale la poesia si era imposta come presenza ossessionante alla quale fu possibile, pur essendosi fermata ad un basso stadio di cultura, avendo conseguito appena la licenza d’avviamento al lavoro, dar luce ad una raffinata produzione poetica. Secondo il critico, Alda Merini fu però essenzialmente la poetessa che finì «per vedere il mondo sub specie endecasillabo» 4 sul quale modulò le sue prime prove e rappresentò per lei «ignara o poco consapevole degli strumenti metrici e di ogni esperimento atipico della poesia contemporanea», 5 un vero e proprio mezzo di chiarezza verso il quale dimostrò sempre una profonda devozione e attraverso i quali parlò mediante una magistrale «melopea ritmica, su un fondo confessionale». 6 Per Spagnoletti, inoltre, l’ermetismo singolare della Merini, ha le sue radici proprio in questa musicale astrazione dell’endecasillabo, custodito come un amuleto e attraverso il quale la poetessa parlò della sua crisi psicologica, delle sue estasi mistiche. Con una duplice intonazione: poeta della disperazione quando la psiche è sofferente, poeta della luce quando la sua intelligenza è rischiarata dal calore e dalla forza di Amore che alimenta il fuoco dei sentimenti. In una parte del suo diario la Merini così afferma:
Esistono tempi remoti in cui la terra si consuma nel nostro respiro, temi irripetibili, sonori come l’ala del canto orfico, esistono genetliaci fondi, esistono figure fantomatiche, esistono spettri, simbologie diverse ed esisti infine TU che mi richiami al vero come un vaso presente su di un tavolo, tu che hai una mano di carne pronta ad indicarmi le cose passibili di attenzione, ma io, che vuoi, sono sempre lungimirante per quanto riguarda il passato. 7
Ancora una volta quel pronome di seconda persona singolare, così definito ed incisivo, era rivolto non solo a qualcuno ma al doppio che ogni poeta porta dentro di sé. Pier Paolo Pasolini aveva riconosciuto in lei una «mostruosa intuizione», 8 Giacinto Spagnoletti, invece, individua nella poetessa l’unica che sia riuscita a produrre una del
1 A. Merini, Il suono dell’ombra, cit., p. xx e già in G. Vigorelli, La poesia della Merini e la “tentazione dei vivi”, «La Fiera Letteraria», 5 giugno 1955. 2 Antologia della nuova poesia italiana del dopoguerra, S a cura di. Quasimodo, Milano, Schwarz, 1958. 3 A. Merini, Il suono dell’ombra, cit., p. xxi. 4 G. Spagnoletti, La letteratura italiana del nostro secolo, Milano, Mondadori, 1985, p. 837. 5 Ibidem. 6 7 G. Spagnoletti, Poesia italiana contemporanea, cit., p. 641. Ivi, p. 644. 8 P. P. Pasolini, op. cit., p. 580.
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le immagini più possenti e più terrificanti della forza insita nella poesia che in lei è caratterizzata da una contraddizione insanabile, dicotomica e nel contempo ossimorica: da una parte la pesantezza della sua vocazione, dall’altra l’impossibilità di vivere senza immergersi in essa. Questo dualismo esistenziale e vocazionale sarebbe stato espresso più tardi in una poesia del 1982 poi inclusa in Vuoto d’amore: O poesia non venirmi addosso sei come una montagna pesante, mi schiacci come un moscerino; poesia, non schiacciarmi l’insetto è alacre e insonne, scalpita dentro la rete, poesia, ho tanta paura non saltarmi addosso, ti prego. 1
E invece la poesia la ingoiò. Pier Paolo Pasolini, dopo Comi, l’anziano possidente di Lecce e Pierri, il medico tarantino, conclude il segmento orfico con Alda Merini, la «ragazzetta milanese»; 2 il critico si dichiara disarmato dinanzi a questa «mostruosa intuizione» 3 di una influenza letteraria perfettamente congeniale: il tessuto metrico, informe e caratterizzato da endecasillabi alquanto «anonimi», 4 fa emergere sempre dei sondaggi psicologici che Pasolini definisce «del più torbido interesse». 5 La Merini vive in «uno stato di informità quasi di deformità irriflessa […] ristagnante, arcaico» […] «e da cui, destata dall’inquietudine nervosa, dei sensi infelici, si genera una mostruosa voce maschile a definirlo. A definirlo, per essere esatti, “oscurità” e “attesa”». 6 Da questo atto ossimoricamente definito da Pasolini come «inconsulto e irrazionale, di riflessione, nasce un abito raziocinante» 7 che fa sì che dai versi della Merini sia eliminata ogni cantabilità e la musicabilità sia ricondotta alla «meccanica metrica: applicata, poi, su un discorso intellettualistico e spesso ironico», 8 decadente in alcuni tratti e pesantemente dipinto da uno «spirito immaginifico che potrebb’essere, (se la Merini fosse una letterata), di terz’ordine». 9 Aspra e categorica risulta la constatazione che la Merini non può essere definita religiosa o cattolica, anzi il cattolicesimo in lei, secondo Pasolini, rientra «attraverso una agiografia da santino sacrilego» 10 e la presunta componente mistica, è dovuta alla «mancanza del senso di identità» 11 e «l’intervento che essa attende, per unificarsi, essere persona non è precisamente quello divino…». 12 Nonostante la poetessa si sia sempre definita «profondamente cristiana», 13 le caratteristiche stilistiche della sua ars poetica, la sua concezione di considerare e vivere l’amore, il suo modo di operare e infine le caratteristiche della sua oralità non la ca
1
A. Merini, O poesia non venirmi addosso, vv. 1-8, in Il suono dell’ombra, cit., p. 370. P. P. Pasolini, op. cit., p. 579. 3 4 Ibidem. Ivi, p. 580. 5 6 Ibidem. Ibidem. 7 8 Ibidem. Ibidem. 9 10 Ibidem. Ibidem. 11 12 Ibidem. Ibidem. 13 Le dichiarazioni a questo proposito sono molte. Quella citata si trova in Intervista ad Alda Merini, di Giusy Calia, in «xáos. Giornale di Confine», ii, 2 2003, http://www.giornalediconfine.net/anno_2/n_2/10. htm. 2
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ratterizzano come poetessa cristiana. Lei stessa con molta probabilità intuiva questa condizione poiché canta, in versi che potrebbero essere considerati come una vera e propria dichiarazione forse involontaria: Ché cristiana son io ma non ricordo dove e quando finì dentro il mio cuore tutto quel paganesimo che vivo. 1
Quell’intervento che Pasolini definiva non propriamente «divino», 2 allora assume sempre di più una connotazione umana, carnale: il contesto sembra sfiorare la dimensione teologica ed erotica contemporaneamente, Deus et Eros sono legati indissolubilmente e si confrontano costantemente: «Questa Saffo cristianizzata, penitenziale, ritrae se stessa […] in un rituale “gergo d’amore” che si arricchisce per approfondimenti non successivi ma in qualche modo tra loro contemporanei». 3 L’analisi critica di Pasolini si conclude con una considerazione cauta sull’utilità o meno di esperienze poetiche di questa specie per critici, come lui, provenienti da un gusto filologico che non distinguono un meglio o peggio e mossi, tra l’altro, da un moralismo che ha trovato il riferimento nell’impegno post-bellico. Anche se dei casi isolati, secondo Pasolini, quelli degli orfici sono sempre casi coevi alla loro esperienza poetica e letteraria e non sarebbe giusto ignorarne, in nome dell’attualità dei fatti, la loro esistenza. Pur ponendosi su una dimensione critica diversa da quella di Spagnoletti, comunque a lui riconosce il merito di aver scoperto la Merini di aver intuito in lei la presenza dialettica e talvolta distruttiva del Deus et Eros che talvolta si trasforma quasi icasticamente in Eros e Thanatos, binomio indissolubile di Amore e Morte.
Bibliografia Antologia della nuova poesia italiana del dopoguerra, a cura di S. Quasimodo, Milano, Schwarz, 1958. M. Corti, Un manierista in lambretta, «Repubblica», 29 maggio 1990. G. Debenedetti, Poesia italiana del Novecento, Milano, Garzanti, 1974. A. Merini, La terra Santa e altre poesie, introduzione di Giacinto Spagnoletti, Lacaita, Manduria, 1984. A. Merini, Il suono dell’ombra, Milano, Mondadori, 2016. P. P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, Milano, Mondadori, 1999 («I Meridiani»). G. Spagnoletti, La letteratura italiana del nostro secolo, Milano, Mondadori, 1985. G. Spagnoletti, Poesia italiana contemporanea, Milano, Spirali, 2003. 1
Da Rinnovate ho per te, in “Parte seconda” di Tu sei Pietro, ora in A. Merini, La presenza di Orfeo, Milano, Scheiwiller, 2005. 2 P. P. Pasolini, op. cit., p. 580. 3 Dalla recensione di Febbraro a Fiore di poesia, in Poesia ’98. Annuario, a cura di G. Manacorda Castelvecchi, 1999.
OLTRE L’ANTILIRISMO: ECHI E SUGGESTIONI LIRICHE NELLA POESIA DI VALENTINO ZEICHEN
V
alentino Zeichen, il poeta che la critica contemporanea indica come il maggiore poeta italiano vivente, è nato a Fiume nel 1938. Figlio di un giardiniere, alla fine della seconda guerra mondiale, nel 1950, in conseguenza all’annessione di Fiume alla Jugoslavia e al relativo esodo del popolo istriano, dovette lasciare la sua città. Ma è giunto il momento di concedere la parola al poeta. In un’intervista rilasciata a Luigia Sorrentino, Zeichen ricorda che aveva sette anni quando dovette lasciare tutto ed afferma: È una pagina drammatica. Era la guerra, la fine della guerra, quindi grandi sconvolgimenti… fame, fame, soprattutto fame, tanta fame. Infatti, io mangio poco perché sono uno che ha sofferto la fame. Ho perso mia madre quando avevo otto anni e questo ha pesato in qualche modo nell’economia della mia vita. Mio padre era un giardiniere tecnico. Inizialmente da Fiume ci spostammo a Salsomaggiore perché c’erano terre e giardini. Ma c’erano troppi comunisti, quindi ci spostammo a Parma, ma anche lì era impossibile per lui lavorare, ci dicevano che eravamo fascisti. E allora siamo venuti a Roma. 1
A Roma giunse nel 1950 e poi frequentò a Firenze le scuole tecnico-commerciali senza conseguire il diploma e in seguito decise di viaggiare per l’Europa e l’Africa, mentre al ritorno a Roma si sostenne economicamente con lavori saltuari di tipografo e verniciatore. Presso l’Accademia Sharov studiò recitazione e collaborò a riviste di critica letteraria, «Periodo Ipotetico» e «Nuova Corrente», 2 nelle quali, rispettivamente nel 1969 e nel 1972, pubblicò le sue prime prove poetiche. In tutta la sua ampia produzione diacronica, la poetica di Valentino Zeichen è connotata da una decisa intonazione antilirica secondo quanto è stato notato da Daniela Moretti nel suo saggio «Il complesso mondo di Valentino Zeichen», 3 sfiorando però delle sfumature liriche quando, dal vissuto del poeta, emergono i ricordi della sua infanzia, come si cercherà di dimostrare in questa sede. Il poeta, sin dagli esordi poetici, vive la sua ricerca in una dimensione isolata dal contesto culturale e in contrapposizione ad esso, così come si evince dalla sua prima raccolta del 1974: Area di rigore, la cui prefazione venne scritta da Elio Pagliarani, mentore del giovane Zeichen e grande figura della neoavanguardia che intravide delle risonanze della poesia dei crepuscolari a causa di alcune evocazioni fiabesche. 4 Se il movimento neoavanguardista, secondo Zeichen troppo cerebrale e di forte rottura tra il pubblico e la letteratura, che cominciò a manifestarsi soprattutto agli
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www.lapoesiaelospirito.wordpress.com, pubblicato da Luigia Sorrentino su «Settembre», 25, 2008. La collaborazione è stata prestata per i numeri 46 e 47 del 1969 di «Periodo Ipotetico» e per il numero 56 del 1972 di «Nuova corrente». 3 D. Moretti, Il complesso mondo di Valentino Zeichen, p. 4, in www.malabolgia.it. 4 Ibidem. 2
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inizi degli anni Sessanta, aveva destrutturato il linguaggio poetico fino a ridurlo ai suoi elementi essenziali, 1 Zeichen decide di ristabilire il rapporto tra il «significato e il significante». 2 All’interno di questo tentativo, il poeta elabora una personale prospettiva culturale tendente ad una compenetrazione sincronica di forme antiche e nuove; 3 infatti, a tal proposito così Valentino Zeichen afferma:
Intravidi confusamente nel significato di cultura un sistema altamente complesso e articolato nei rapporti instabile e sempre sconnesso che mi richiedeva di essere un Sisifo del puzzleletteratura per capirci qualcosa. 4
Da qui nasce un concetto di poesia profondamente complesso che evita, elude ed esclude qualsiasi cedimento intimistico e sentimentalistico per diventare icona di un modo prosastisco di intendere la poesia i cui versi si codificano secondo strutture libere da ogni legame metrico e i pensieri si condensano e coagulano in metafore che conferiscono alla poesia un tono altamente concettualistico. I versi si stagliano asciutti ed energici all’interno della pagina e conferiscono un sapore saggistico tipico della poesia impegnata che rivela anche la riflessione ironica ed arguta che accompagna le meditazioni filosofiche di Valentino Zeichen, un’ironia, talvolta tagliente e distruttiva. La poesia impegnata pone in luce una fisionomia di uomo «con atteggiamenti immorali ed inumani» 5 e il poeta fa uso di un nichilismo talvolta atroce; infatti, Valentino Zeichen, nella poesia L’orologio del nichilista, così si esprime:
Invece dei celebri numeri / arabi, romani, sumeri, / l’orologio del nichilista / ha un quadrante illustrato / con dodici micro rovine / sparse per il mondo, / che designano le ore, e / al posto delle lancette / due bocche da fuoco / a lunga gittata. 6
A proposito dell’ispirazione surrealista, il poeta ammette direttamente che la sua poetica trova nel surrealismo codificato da André Breton il suo riferimento teorico e ne individua gli elementi essenziali: Apprendo da Breton un modo di fare poesia che si adatta perfettamente alla mia taglia fantastica: immaginazione allo stato puro, assenza di trame naturalistiche e di connessi valori, nessuna cautela e cesura normativa, piazzamento degli oggetti, senso di straniamento, decesso del sentimentalismo intimistico-sedentario, rifiuto dell’io. 7
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Per un approfondimento sul tema cfr. I Novissimi, a cura di A. Giuliani, Milano, Rusconi e Paolazzi, 1961; A. Guglielmi, Avanguardia e sperimentalismo, Milano, Feltrinelli, 1964; Gruppo 63, a cura di N. Balestrini e A. Giuliani, Milano, Feltrinelli, 1964; E. Sanguineti, Ideologia e linguaggio, Milano, Feltrinelli, 1965; A. Giuliani, Immagini e maniere, Milano, Feltrinelli, 1965; F. Curi, Ordine e disordine, Milano, Feltrinelli, 1965; Avanguardia e neo-avanguardia, Milano, Feltrinelli, 1966; Manuale di poesia sperimentale, a cura di G. Guglielmi e E. Pagliarani, Milano, Feltrinelli, 1966; R. Barilli, L’azione e l’estasi, Milano, Feltrinelli, 1967; G. Scalia, Critica, letteratura, ideologia, Padova, Marsilio, 1968; L. Pignotti, Istruzioni per l’uso degli ultimi modelli di poesia, Roma, Lerici, 1968; A. Guglielmi, Vero e falso, Milano, Feltrinelli, 1968; A. Guglielmi, La letteratura del risparmio, Milano, Bompiani, 1973; W. Siti, Il realismo dell’avanguardia, Torino, Einaudi, 1975; W. Pedullà, Il morbo di Basedow, Cosenza, Lerici, 1975; G. Ferretti, “Officina”. Cultura, letteratura e politica negli anni Cinquanta, Torino, Einaudi, 1975. 2 3 D. Moretti, op. cit., p. 4. Ibidem. 4 A. Berardinelli, F. Cordelli, Il pubblico e la poesia, Cosenza, Lerici,1975, p. 92. 5 D. Moretti, op. cit., p. 5. 6 V. Zeichen, Neomarziale, Milano, Mondadori, 2006, p. 13. 7 A. Berardinelli, F. Cordelli, op. cit., p. 92.
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È impossibile in tal modo non pensare alla definizione della poesia surrealista come ad un immenso accumulo di elementi di immagini poetiche così come è presente nel poema L’union libre di André Breton, un catalogo di equazioni che si disarticolano a partire dal sintagma «ma femme». Il riferimento a Breton ritorna anche nella poesia Poeti in pericolo, una sorta di riflessione sull’essenza della poesia: Sui veloci treni francesi / s’abbina il dolcificante / alle effigi dei poeti; / Villon, Rimbaud, Breton / affrancano letterine: / bustine di zucchero. / E se la dolce energia / avesse per fine la terapia / della tetra malinconia? / Scopo d’una chimica euforia / mirante a scombinare / l’amara essenza della poesia. 1
La tradizione surrealista servirà al poeta per distruggere le ideologie collettive e giustificare e sostanziare il suo conclamato antilirismo che abbraccia diversi campi e temi come quello del tempo e dell’amore. In modo particolare, a questo proposito, l’antilirismo amoroso porta il poeta ad una «fisicizzazione» 2 dell’eros, condotto attraverso l’uso di metafore belliche come è evidente nei seguenti versi della poesia Drogheria, conservata nella raccolta Ricreazione:
le domandai se potevo entrare / dentro le sue acque territoriali; / […] come un titano / mi dissuase dal commettere atti di pirateria, / ripresi il largo; da fuori il negozio / quale rimorchiatore d’alto mare. 3
E ancora, nella poesia Aviazione, la frantumazione cubista del corpo della donna appare in tutta la sua evidenza: Mi offrì il fianco: vista in sezione era bionda ed affusolata, / l’abbattei con facilità irrisoria […] / volando al suolo puntai ai suoi occhi / cer- candovi la collisione; / con una virata-cabrata evitò il mio sguardo / e risalì di quota. 4
La componente lirica è decisamente assente a tal punto che è impossibile riscontrare nei versi echi di un sentimentalismo neo-romantico, ma è evidente invece la presenza marcata di una concezione «sadica e perversa della deformazione e della caricatura», 5 come avviene nel componimento Gastralgia nel quale il poeta analizza, quasi sezionandole, le conseguenze dell’assunzione di un farmaco che servì per anestetizzare le sofferenze d’amore:
Affidò il compito risolutivo alla cameriera / poiché era immersa nella vasca da bagno: / “le riferisca che affoghi”. / Il contraccolpo non tardò molto / dando incentivo ai tormenti / somatizzati da spasmi addominali; / per mitigarli appena mangiato / ingerii del Buscopan. / L’antispasmodico bloccò le contrazioni muscolari / prevalendo sui patimenti amorosi, / li annullò con crudeltà / marmorizzando il processo digestivo / con nausea, sudori freddi di agonia, contorcimenti e similitudini. 6
Fino a questo punto, la poesia di Valentino Zeichen sembra intrisa da un inossidabile antilirismo, ma vi è una raccolta in particolare, Pagine di gloria, nella quale traspaiono 1
V. Zeichen, Neomarziale, cit., p. 31. D. Moretti, op. cit., p. 50. 3 V. Zeichen, Ogni cosa a ogni cosa ho detto addio, cit., p. 39. 5 D. Moretti, op. cit., p. 53. 2
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Ivi, p. 41. Ivi, p. 43.
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dei toni più amabili attraverso i quali l’animo del poeta lascia emergere una delle confessioni più intime e dolorose: il ricordo della madre che coincide con quello dell’infanzia che il poeta portò sempre con sé come il sigillo di un’esperienza dolorosa. Nella poesia Infanzia, infatti, appartenente alla raccolta Gibilterra del 1991, si legge che «Un anno prima di morire / mia madre mi teneva / ancora per mano; / un tempo identico mancava / alla fine della guerra». 1 Il poeta aveva solo cinque anni e come tutti i bambini era attratto dai palloncini colorati, in modo particolare, durante i bombardamenti, portava sempre legato al polso un palloncino blu notte, ma un giorno gli scappò via. Il poeta così si esprime:
Lo vidi innalzarsi, incurante, / fra gli sbuffi dei proiettili / che gli esplodevano intorno. / Sopra la città di Fiume passavano / le “Fortezze Volanti B17”, dirette al sud del Reich. 2
A distanza di quindici anni dalla raccolta Gibilterra, Valentino Zeichen dedica alla città di Fiume dei versi che uniscono il ricordo della guerra a quello della madre che, in questa circostanza, si unisce al coro più vasto delle madri preoccupate del destino dei loro bambini: Imitando la radio a galena / io e mio cugino Tonci / ci scambiavamo grosse / conchiglie parlanti / accostandole all’orecchio; da quell’antro proveniva / solo il rombo dei B-17 / in rotta d’avvicinamento, / diretti verso l’Austria. / A malincuore lasciavamo / la radio accesa / per correre al rifugio. / Chiedevamo alle nostre madri / quando avremmo potuto / riascoltare il mare / che distava un miglio / in linea d’aria. / «Bambini, non adesso. A causa della guerra / è agitato anche lui; / quando tutto sarà finito / si rifarà vivo lui / se non saremo morti». 3
I ricordi della madre e della guerra si sostanziano l’uno dell’altro in un continuo rinvio di echi e rimandi, ma anche se il nome della donna è stato volutamente confuso tra gli altri nomi di donna, questo emerge in tutto il suo bagliore e il poeta si scopre eternamente ed ineffabilmente legato al nome e al volto materno come è evidente nella poesia Il nome rimosso contenuta nella raccolta Pagine di Gloria: Ho volutamente confuso le tue iniziali / nell’impasto di molti nomi / ma il lievito di molti nomi / le evidenzia in una sigla / che ancora mi abbaglia./ Dell’infanzia sopravvive uno scenario di guerra, / in un suo rifugio ho sotterrato / il mio amore per te […] / Quando gli altri ti nominano mostro un’ indifferenza minerale/ e mi fingo altrove […] / Non mi è concesso di rivelare a chi appartengo / pur avendo sempre il tuo nome / sulla punta della lingua / come un colpo di canna / all’altezza del cuore. 4
Questi versi costituiscono dei momenti lirici che non si confondono con quelli dedicati alle altre donne che non possono e non riescono a sostituire il nome e il ricordo della madre poiché prive di ogni affettività ma restano chiuse nella loro aridità e nella sterile inadeguatezza di rapporti il cui stilema fondamentale è costituito da una convenienza che genera vuoti che solo l’amore per la madre e quello da lei manifestato al poeta nel periodo dell’infanzia riescono a riscattare e recuperare per essere sublimati in una dimensione lirica più profonda e vera. Il contrasto tra queste due tipologie d’amore 1
V. Zeichen, Gibilterra, Milano, Mondadori, 1991, p. 57. 3 Ibidem. Ibidem. 4 V. Zeichen, Pagine di Gloria, Milano, Guanda, 1983, p. 102. 2
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è presente anche nella rappresentazione teatrale Matrigna 1 nella quale la figura della matrigna, arcigna e anaffettiva, incapace di esprimere sentimenti positivi ed emozioni profonde, offende il figliastro umiliandolo con espressioni dispregiative e lo schernisce fin nelle sue stesse radici, allorché crudelmente fa riemergere la sua condizione di esule:
Non vedevi l’ora che tuo padre se ne andasse, a istupidirsi con le sue piante, a parlare in tedesco con qualche rudere della mitteleuropa, trapiantato a Roma, su cosa convenisse piantare; tanto d’altro non capisce, quel profugo. 2
Il poeta sovrappone al ricordo della dolce madre, la figura ambigua e assimilabile ad una moderna Fedra della matrigna e alla memoria della sua storia personale quella di più ampio respiro mitteleuropeo, creando un intreccio indissolubile tra presente e passato nel quale il poeta si ritrova profugo come il padre. Ancor prima, nella raccolta Pagine di Gloria il poeta stesso fa riferimento alle sue origini; nella poesia Spauracchio II, infatti, è evidente che, a causa dell’esodo, il poeta si è trasferito a Roma e lì, l’insegnante di italiano, «fotografava le postazioni morali degli scolari» 3 saggiando, con domande provocatorie, la capacità di difendere la patria con il prevenire anche un’invasione linguistica; nei confronti del poeta, ironicamente, nutriva una certa benevolenza:
Date le mie origini aveva un occhio di riguardo. / Interrogato benevolmente sul significato / di “fortificazione morale” risposi perentorio: / «un bunker che riveste una fede». 4
Zeichen fu accusato immediatamente dall’insegnante di aver sabotato la lingua; per umiliarlo maggiormente, gli fece anche confessare «le incerte generalità» 5 dei genitori e fu aspramente rimproverato per aver introdotto dei barbarismi, suscitando la reazione del capoclasse che attraverso l’espressione «Non passi il vocabolo straniero» 6 si scagliò non solo fisicamente ma anche psicologicamente contro il poeta che da quel momento simboleggiò la condizione di disprezzo riservata agli esuli dell’esodo giuliano-dalmata. Il ricordo dell’esodo, pertanto, velato e mai apertamente dichiarato, emerge tra le serrate maglie del conclamato antilirismo della sua poesia, nel momento in cui Zeichen rivolge il suo sguardo all’infanzia età perduta e per lui certamente non edenica. La compresenza delle due dimensioni, quella antilirica e quella velatamente lirica e mai rivelata direttamente dal poeta, insieme all’ironia tagliente che contraddistingue molti suoi componimenti, fa di lui una delle voci più interessanti nel contemporaneo panorama lirico italiano dal quale si distacca per la sua originalità di ispirazione ma anche per la sua poetica nella quale l’antico penetra nel moderno attraverso delle immagini colte dalla vita reale:
Nel tagliarmi le unghie dei piedi / il pensiero corre per analogia / alla forma della poesia; / questa pratica mi evoca / la fine perizia tecnica / di scorciare i versi cadenti; / limare le punte acuminate, / arrotondare gli angoli sonori / agli aggettivi stridenti. / È bene tenere le unghie 1
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V. Zeichen, Matrigna, Padova, Il notes magico, 2002. V. Zeichen, Pagine di Gloria, cit., p. 52. 5 Ibidem.
Ivi, p. 28. Ibidem. 6 Ibidem.
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corte / lo stesso vale anche per i versi; / la poesia ne guadagna in igiene / e il poeta trova una nuova Calliope / a cui ispirarsi: la musa podologa. 1
È proprio ai versi corti che Valentino Zeichen lascia il compito di evocare il triste ricordo della guerra, ma è da questi versi che affiora, come tra le pennellate di un acquerello, il lirismo di quell’io che il surrealismo voleva rifiutare. Bibliografia specifica A. Berardinelli, F. Cordelli, Il pubblico e la poesia, Cosenza, Lerici, 1975. V. Zeichen, Ogni cosa a ogni cosa ho detto addio, Roma, Fazi, 2000. V. Zeichen, Area di rigore, Cooperativa Scrittori, 1974. V. Zeichen, Ricreazione, Milano, Società di poesia-Guanda, 1979. V. Zeichen, Matrigna, Padova, Il notes magico, 2002. V. Zeichen, Poesie (1963-2003), Milano, Mondadori, 2004.
Bibliografia delle opere dell’autore V. Zeichen, Ricreazione, Milano, Guanda, 1979. V. Zeichen, Pagine di gloria, Milano, Guanda, 1983. V. Zeichen, Tana per tutti, Roma, Lucarini, 1983. V. Zeichen, Museo interiore, Milano, Guanda, 1987. V. Zeichen, Gibilterra, Milano, Mondadori, 1991. V. Zeichen, Metafisica tascabile, Milano, Mondadori, 1997. V. Zeichen, Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio, Roma, Fazi, 2000. V. Zeichen, A. B. Oliva, Carla Accardi. Pietrose distanze, Roma, Essegi, 2000. V. Zeichen, Matrigna, Padova, Il notes magico, 2002. V. Zeichen, Passeggiate romane, Roma, Fazi, 2004. V. Zeichen, Poesie. 1963-2003, Milano, Mondadori, 2004. V. Zeichen, Neomarziale, Milano, Mondadori, 2006. V. Zeichen, Aforismi d’autunno, Roma, Fazi, 2010. V. Zeichen, Il testamento di Anita Garibaldi, Roma, Fazi, 2011. V. Zeichen, Casa di rieducazione, Milano, Mondadori, 2011.
Sitografia D. Moretti, Il complesso mondo di Valentino Zeichen, in www.malabolgia.it www.lapoesiaelospirito.wordpress.com 1
V. Zeichen, Neomarziale, cit., p. 32.
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