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Italian Pages 290 [297] Year 1976
Saggi danteschi
Piccola Biblioteca Einaudi
PICCOLA BIBLIOTECA EINAUDI
Filologia. Linguistica. Critica letteraria
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Copy!ight © 1970 e 1976 Giulio Einaudi editore s. p. a., T
Questo volume raccoglie tutti i saggi danteschi di Gianfranco Cc:-tini. La raccolta si apre con l'Introduzione alle Rime di Dante ste" .• nel 1938 e rimasta un punto fermo nella esegesi dantesca. Ad e_ segue una lettura del sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare; un ritratto di Dante come personaggio-poeta nella Commedia; un ir:tervento sull'attualità di Dante; l'ampio profilo critico complessi··tche va sotto il titolo di Un'interpretazione di Dante; un interver ;: metodologico, Filologia ed esegesi dantesca; una «guida» alle Riw del Cavalcanti, ai rapporti tra questo poeta e Dante, a Cavalcar>ti come personaggio della Commedia; e due letture di canti dantesc:u il xxx dell'Inferno e il XXVIII del Paradiso . Una serie di contril--uri su specifici problemi conclude questo volume, che l'editore ritien a giusto titolo di proporre come un'esemplare introduzione all'universo dantesco. Di Gianfranco Contini l'editore Einaudi ha raccolto i saggi piu :·gnifìcativi nelle opere: Varianti e altra linguistica ( r 970 ). Altri es e ciz2 (1972), Esercizl di lettura (1974). In questa stessa collezione uscito Una lunga fedeltà. Scritti su Eugenio Montale ( 1974).
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GIANFRANCO CONTINI,
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Dante. Saggi danteschi
Volumi di prossima pubblicaziooe Il sacc!Jegg O l'Am:!rica latina. Ieri e og i ERWIN PISCATOR, Jl teatro p0:1tlro
EDUARDO GALEANO,
GIANFRANCO CONTINI
UN'IDEA DI DANTE Saggi danteschi
Piccola Biblioteca Einaudi
Indice
p. VII
Avvertenza
Un'idea di Dante 3 21
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Introduzione alle Rime di Dante Esercizio d'interpretazione sopra un sonetto di Dante Dante come personaggio-poeta della Commedia Dante oggi Un'interpretazione di Dante Filologia ed esegesi dantesca Cavalcanti in Dante Sulxxxdell'Inferno Alcuni appunti su Purgatorio XXVII Un esempio di poesia dantesca (Il canto XXVIII del Paradiso)
Appendice 217
225 235 237
245
Un libro americano su Dante Postilla dantesca Postilla celestiniana Stilemi siciliani nel Detto d'Amore Un nodo della cultura medievale: la serie Roman de la Rose - Fiore - Divina Commedia
Avvertenza
Nel presente volume sono riprodotti, con tenui ritocchi, i saggi di materia dantesca sparsi nella raccolta dell'autore Varianti e altra linguistica (Torino, Einaudi, I970). Una piccola Appendice ospita qualche altra pagina dantesca di varia provenienza. G. C.
UN'IDEA DI DANTE
Introduzione alle Rime di Dante
Meglio che di Canzoniere, come si fa, sembra, sulle orme di Charles Lyell ( r 8 35), è prudente discorrere di Rime di Dante: poiché alla cinquecentesca accezione di «canzoniere» involontariamente s'associa, dopo l'esperienza petrarchesca, l'idea d'un'opera unitaria, dell'avventura organica d'un'anima, e si tende cosi a riportare al Duecento l'esigenza d'una cosciente costruzione psicologica almeno tanto quanto stilistica, chiusa nell'armatura d'una storia perspicua, e nella quale lo stile è, appunto, anzitutto quello sforzo perenne d'eliminazione e semplifìcazione. Anche in Dante ci furono tentativi d'unificazione, principalissimo quello della Vita Nuova: ma si tratta d'unificazione sopraggiunta, fatta di cose del passato al chiudersi della giovinezza, e con l'intenzione di liquidare liricamente un periodo per prepararne un altro piu splendido («io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d'alcuna»); è dunque unificazione parziale, aneddotica, fatta con un presupposto di pluralità, e insieme unificazione trascendente, cercata in un sistema di razos e in uno schema narrativo. A prescindere dagli altri gruppi spontanei (ma quello designato da Parole mie è cosciente), un tentativo d'unificazione, assai meno saldo, è anche quello interrotto del Convivio: raccolta delle canzoni allegoriche piu impegnative, nelle quali è costante l'intenzione che la bella forma sia, senza possibilità di distinzione, celebrazione delle grandi virtu morali. Per tal modo, il cosi detto Canzoniere dantesco gravita attorno all'assenza almeno della Vita Nuova, comprende i residui delle rime escluse e le molte novità successive allo stilnovismo puro, e si
INTRODUZIONE ALLE RIME DI DANTE 4 può definire per la piu superba collezione di « estravaganti». È constatazione ovvia che la storia della nostra lirica delle origini si fa ancora secondo schemi danteschi, corrispondenti certo a esigenze critiche generali dell'epoca, ma veramente esistenti dopo l'imperativo di Dante (costituzione di scuola siciliana, di Dolce Stile, limitazione sicula del guittonismo); e a maggior ragione quella della lirica stessa di lui. Non si tratta soltanto di definizioni nominali, come le nove rime, o poesie della loda, e il bello stilo che a Dante ha fatto onore, esemplato sull'alta Tragedfa di Virgilio, quello delle grandi canzoni, legittimamente isolate come applicazione, ognuna, dello stile tragico; ma soprattutto del fatto che il giudizio critico di Dante sui predecessori e i contemporanei, dai provenzali a Cino, è in funzione della sua propria poetica. Quegli elementi di storia letteraria dantesca sono contenuti sf in un'opera teorica come il De vulgari Eloquentia, che del resto vale per giustificazione del bello stilo ora descritto, e sintomaticamente s'interrompe quando ai fragmenta di stile tragico succede in modo definitivo l'organicità del poema; ma si trovano almeno altrettanto nella Commedia, la quale nella sua ricchezza vitale è anche una somma stilistica. Pensiamo quanto siano essenziali allo stesso Convivio l'apologia del volgare e la giustificazione del banchetto ideale che, succedendo alla giovanile Vita Nuova, stringerà in unità le canzoni allegoriche dell'epoca virile; e sarà chiaro come una costante della personalità dantesca sia questo perpetuo sopraggiungere della riflessione tecnica accanto alla poesia, quest'associazione di concreto poetare e d'intelligenza stilistica. Ciò conferisce all'opera di Dante una singolare apparenza, non diciamo di discontinuità, ma di periodicità ritmata: non mai pace in lui, ma il tormento della dialettica. Meno dunque che per altri poeti è illegittimo in proposito di lui, proprio per quei residui d'una trascendenza poetica, il procedimento didascalico (certo privo d'un'opportunità universale) che consiste nel riconoscere nell'opera omnia d'un autore le tracce d'una cronologia ideale. Residui d'una trascendenza poetica; e quell'attuare lo stile non come una tensione assolu-
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INTRODUZIONE ALLE RIME DI DANTE
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ta, secondo il modulo che sarà dell'umanistico Petrarca e poi del platonico Rinascimento, bensi come una prova «locale»; quel senso non tanto d'un limite generale della {prma quanto delle limitazioni particolari degli stili scolastici; quel suo degradare un'esperienza precedente, toglierle la sua finalità intrinseca, usufruirla come elemento dell'esperienza nuova. In questo senso le Estravaganti afltesche hanno una linea unitaria, ma che è lo stesso procedere inquieto di Dante di saggio in saggio; e il canzoniere non è frammentario soltanto per il ricercatore di fulgurazioni e d'intuizioni pure, ma in quanto serie di tentativi, come, scandalizzando mezzo il mondo umbratile dei dantisti, riconobbe uno dei loro, uno specialista acerrimo, il Parodi. I maestri e gli amici di Dante mostravano già tutti una notevole latitudine di possibilità tecniche e di gusto. Non parliamo dei siciliani, per i quali il problema della coerenza stilistica difficilmente potrebbe addirittura esser posto. Il primo Guido era stato un curiale guittoniano tanto docile da meritarsi, quando poi ebbe «mutata la mainera», da parte d'un altro rimatore di stretta osservanza quale Bonagiunta, non soltanto rimproveri ad personam, ma la precisa obiezione critica che poesia non è scienza; sennonché la sua novità non era solo quella dottrinale (apparentemente) di Al cor gentil, e neppure si fermava al mito della donna salutifera, ma giungeva a includere l'aneddotica borghese di Chi vedesse a Lucia un var cappuzzo e il primitivo «realismo» di Diavol te fera. Anche piu disinvolto, il Cavalcanti sapeva rifare con un virtuosismo del resto freschissimo un po' tutt'i «generi» della lirica, il tema della pastorella transalpina (In un boschetto), la canzonetta siciliana (Fresca rosa novella), certo panismo naturalistico inventato dal Guinizzelli (Beltà di donna); in fatto di rigore ed esoterismo dottrinale riusciva a battere i piu sapienti (Donna mi prega), l'analisi psicologica era capace di portarla fino alla parodia; né, beninteso tutti questi erano modi da gran signore-, comprometteva mai la sua malinconia splenetica di gentiluomo un po' snob. Quanto a Cino, se si guarda bene, l'unità tonale di questo, secondo il luogo comune, precursore di Petrarca
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INTRODUZIONE ALLE RIME DI DANTE
è un tantino involontaria, o diciamo psicologistica (il limite del suo petrarchismo avanti la lettera sta appunto qui); e fra tanti guai e lacrime e paura e senso della morte può aver luogo perfettamente, sulla stessa linea ma in fondo, un sonetto su motivo obbligato (Tutto ciò ch'altrui agrada), che oggi nessuno si sogna piu d'intendere come un temibile documento romantico, ma si riconduce ai modi caricaturali d'un Cecco Angiolieri e del Trecento giullaresco. La varietà di Dante, che materialmente non è minore, fra la ballata della ghirlandetta o quella per Violetta e le rime petrose, fra il sonetto per la Garisenda e la canzone Tre donne o la montanina, ha un tutt'altro significato. Mai in lui un sospetto di scetticismo. Ci sono scherzi anche nella sua opera, ma remotissimi dai centri dell'ispirazione. In fondo, una serietà terribile: tutte le «imitazioni» sono lasciate depositare fino all'ultimo, giungono alle estreme conseguenze (alcuni frutti della lettura dei siciliani dureranno indelebili nelle Rime), ma non deviano mai verso l'amplificazione un po' cinica da cui può uscire la parodia. In realtà, la tecnica è in lui una cosa dell'ordine sacrale, è la via del suo esercizio ascetico, indistinguibile dall'ansia di perfezione. Vi è da una parte, in universale e nella ricchezza dei tentativi danteschi, una tecnica dolce, che vuoi cancellare il suo sforzo, si risolve in un piano tessuto scrittorio modulato senza dislivellima è poi lo stesso mondo della Vita Nuova, la rinunzia alla terra e l'ascrizione a una donna tanto piu reale quanto meno si concede al poeta, quanto piu si sottrae fino al suo saluto e al suo sguardo, e diventa realissima quando è fisicamente morta; lo stesso clima dove la vittoria sul peccato, ripetiamo: lo sforzo della vittoria sul peccato, tende a perdere d'eccezionalità e a normalizzarsi nell'accettazione quotidiana d'un ideale. E cosi (distinguiamo assai sommariamente questi due poli estremi d'ispirazione) v'è una tecnica aspra, che sottolinea lo sforzo, esplicitamente ne accentua il rilievo nei punti salienti del ritmo, e in modo particolarissimo in rima - ma essa è una sola cosa col sentimento dell'amore e della vita difficile, dell'ostacolo, del superamento. Un esempio varrà in modo perentorio, per questa seconda accezione: e proprio uno nel quale Dante
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7 si trovi in contatto con uno dei suoi amici intrinseci. Un sonetto di Cino al marchese Malaspina è un lamento per le sofferenze recate da un nuovo amore, fatto su rime piuttosto facili, con un calembour sul nome del signore e qualche avanzo d'esoterismo guittoniano nell'inizio e nell'explicit. La risposta per le rime in persona di Moroello la scrisse Dante, insistendo sul motivo, che anche altrove ricorre, della volubilità di Cino, contrapposta da un lato all'incanto della sua poesia, dall'altro alla passione autentica del risponditore. Uno sguardo comparativo gettato sulle rime delle quartine basta a convincere dell'abisso di sapienza che separa i due artefici: Cino oro, inchina, spina, moro, ploro, fina, destina, dimoro; Dante tesoro, latina 'chiara', disvicina, foro, poro, medicina (verbo), affina, discoloro. Qui è già la magnanimità lessicale della Commedia, e già piuttosto quella delle due ultime cantiche: fori come 'ferite' rompono la persona di Jacopo del Cassero, il sole discolora l'erba metaforica della nominanza mondana nella comparazione di Oderisi, e sarà latino raffigurare Piccarda Donati; se medicinare è un fortunato provenzalismo, la bella litote ch'è in disvicinare ha lo stesso marchio inventivo delle creazioni verbali quali dismentare, immillare o indovare. Ed è istruttivo vedere questa robustezza di vocabolario risalire il corso del verso, propagginarsi a ritroso rispetto alla rima ch'è il «centro _di difficoltà»: «ma volgibile cor ven disvicina »; oppure «ove stecco d'Amor mai non fe' foro>>; o anche «del prun che con sospir si medicina». Se l'irradiazione muove dalla rima, val quanto dire che il punto di partenza dell'ispirazione è l'ostacolo (quella che fu chiamata, piu o meno propriamente, la «resistenza del mezzo»); e l'ostacolo è il nemico da vincere tutt'i giorni, lo stato permanente di guerra, la coscienza dell'eros pericoloso a cui cede, e in cui trova perfezione e gloria, il poeta. Analoghe osservazioni dovrebbero farsi circa le terzine (Cino conte 'note', gioia, noia, moia, monte, fonte; Dante fronte, poia, croia, ploia, conte 'abili', ponte in locuzione fortemente idiomatica); segnando la differenza che ivi Dante insiste, polemicamente, sulla controparte negativa opposta alla moralità del tormento accettato ogni volta, la disonestà del-
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l'incostanza. Essenzialmente, il «mezzo» tecnico non è che strumento dell'indagine di se stesso, e piu esattamente è la stessa religiosa sete in atto; con che non si vuole ..,.escludere, in pratica, la caduta magari frequente nei pericoli dell'astratto tecnicismo. E se la corrispondenza di singole tecniche a singoli momenti dell'anima di Dante poteva da principio solo distruggere l'ipotesi d'un'eventuale equidistanza dalle singole esperienze e fondamentale disinteresse per loro (che non si può respingere per alcuni colleghi di lui), e con ciò sembrare appartenere alla storia del costume e al cerchio della vita morale, quella varietà apparisce poi invece evoluzione spirituale nella sua circolazione, e dunque fatto formale. Se nel parlare della lirica di Dante viene continuo il ricorso ai poeti della sua età, questa circostanza, come non dalla superstizione della storia letteraria, cosf neppure muove dal consueto artificio didattico della definizione per differenziazione e antitesi, risponde bensf alla natura del fatto trattato, è una riproduzione di essa nel critico. il Dolce Stile è la scuola che contiene con maggior consapevolezza e buona grazia il senso della collaborazione a un'opera di poesia oggettiva, e insomma la scuola che piu ha il senso della scuola. È poco, e inesatto, pensare a un 1aeale stilistico comune, indipendentemente accettato da ogni adepto; ma ci sono in piu, nel Dolce Stile, tutte le premesse sentimentali d'una congruenza di lavoro, e in primo luogo l'idea d'un'amicizia che ricorda, in questi signori decaduti e borghesi dell'alta cultura, la parità e la solidarietà dei cavalieri oitanici. Il sonetto Guido, i' vorrei giustamente s'interpreta per solito come prodotto tipico del gusto stilnovistico, non però in quanto si estragga da questa lirica il motivo dell'evasione fatata verso esotiche lontananze, nel quale si può riconoscere senza soverchio sforzo la tradizione del plazer provenzale e giullaresco, ma in quanto quella fuga verso un mondo irreale si dovrebbe compiere affettuosamente fra amici stretti, con le loro belle, e in questa vicinanza, fatta piu calda dalla sua natura immaginativa, i desideri sarebbero gli stessi e la voglia di stare insieme crescerebbe. Assoluta separazione dal reale, che si converte in amicizia, questo è il contenu-
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INTRODUZIONE ALLE RIME DI DANTE
9 to autentico della lirica; e l'amicizia è l'elemento patetico definitorio di Stil Novo. Nella pratica del fatto poetico, la tendenziale inclifferenziazione dei rimatori, il loro disinteresse o rifiuto a sottolineare la distinzione delle individualità, sol)o fatti un po' ostici alla comprensione della mentalità occidentale dopo l'esaltazione soggettivistica recata dal grande romanticismo europeo. Poiché non si tratta di quella equiparabilità involontaria che renderebbe aspramente difficile l'attribuzione delle opere, se anonime, anche dei minori romantici, dell'accezione sentimentale o storico-nazionale, e piu tardi dei simbolisti minori e oggi dei surrealisti minori; e non si tratta solo dell? poetica oggettiva dei periodi «classici» (l'esigenza dell'«Hic est» l'afferma, nell'antichità, Marziale, proprio un autore d'epigrammi ... ), ma di qualcosa di piu risoluto, '"Perché il classico crede da buon operaio a un canone di ars, lavorativo, e lo stilnovista crede a un'ispirazione assoluta, si tiene, secondo l'espressione dantesca, stretto con la sua penna al dittatore, Amore. L'intercambiabilità frequente delle attribuzioni nei manoscritti, il fatto che entro certi confini, in mancanza di sicure attestazioni documentarie, i dati stilistici non sarebbero sufficienti a una «perizia» distintiva circa alcune coppie d'autori, sono il pallido riflesso esterno d'un'intercambiabilità, prima ancora, teotica. Lo spartiacque fra Dante e Cino, per citare Un caso tipico (e prescindendo dalle circostanze che resero possibile lo scambio, ma frattanto non avrebbero potuto agire cosi largamente fuori del medio evo), è tutt'altro che sicuro. Incertezza giuridica- è addirittura truistico sottolinearlo- che vale quanto inessenzialità della proprietà e dell'individuo. Veramente, quanto Dante dice nell'episodio di Bonagiunta a cui pur ora si alludeva, è il testo fondamentale per la comprensione del Dolce Stile. Occorre però interpretarlo compiutamente; e intendere che l'ispirazione (Amor mi spira) non è ispirazione privata, occasionale, e neppur solo ispirazione dell'ordine amoroso 1 (anche le 1 Nella Vita Nuova (xxv 6) Dante adduce atgomenti «contra coloro che rimano sopra altra matera che amorosa,..
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INTRODUZIONE ALLE RIME DI DANTE
armi, riconoscerà il De vulgari, possono essere oggetto dello stile tragico, ma a questo punto si sarà già passati dalla considerazione d'uno stile «generale» a quello d'uno stile «particolare», tecnicamente inteso), bens! pro_Erio ispirazione movente da un principio trascendente, -deciso abbandono ad Amore. L'ispirazione è oggettiva e assoluta, e perciò, se il contenuto normale della lirica stilnovistica è il fatto amoroso minuziosamente analizzato e poi ipostatizzato nei suoi elementi, quest'analisi non va già riferita all'individuo empirico, ma, di là da questa sua avventura iniziale, a un esemplare universale di uomo: a un individuo, anch'esso, oggettivo e assoluto. Questo spiega come la persona del nuovo trovatore, lungi dall'affermarsi, si dissolva nel coro dell'amicizia; e quest'amicizia, oltre a essere la possibilità generale di quella tale poesia, sia assunta addirittura in veste di motivo poetico iniziale. Al coro degli amici entro cui si perde il poeta, risponde dall'altra parte, come motivo poetico gemello, il fondo corale delle donne dal quale si stacca come regina, e come sede fondamentale del loro onore e fonte della loro bellezza, la beatrice. S'intende che, in questo clima di paradiso terrestre, anteriore alla storia, se dal lato di Adamo esistono alcuni uomini in carne ed ossa, la minor clientela femminile ha il solo compito di sottolineare Eva, e vive per metafora di quegli amici attorno al poeta. Resta che, come costui, il personaggio che parla in prima persona, è !'«individuo assoluto», anche la donna perde ogni attributo storico, ogni possibilità di autentica pluralità. E se si estende man mano il campo d'osservazione, si constata che l'intera esperienza dello stilnovista è spersonalizzata, si trasferisce in un ordine universale: persa qualsiasi memoria delle occasioni, cristallizza immediatamente. In un modo piuttosto elementare ed empirico (ma si parte proprio dalla terra classica dell'empirismo), questa verità è stata esposta come segue dal piu illustre dei poeti inglesi d'oggi, non appena egli ha negato che il «romanzo» dantesco possa avere l'odierno significato di confessione: «È difficile concepire un'epoca, o piu epoche, in cui degli esseri umani avevano qualche preoccupazione per la salute dell"anima', ma non già l'uno per l'altro in quan-
INTRODUZIONE ALLE RIME DI DANTE
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to 'personalità'. Ora, Dante, io credo, aveva esperienze che gli sembravano d'una certa importanza; non importanti perché capitate a lui e perché lui, Dante Alighieri, fosse una persona importante che teneva occupati gli uffici di ritagli giornalistici; ma importanti in sé; e perciò gli pareva che avessero certo valore filosofico e impersonale» [T. S. Eliot, Dante, p. 63 dell'edizione originale]. È sempre utile tener presente la nostra formazione romantica di moderni, educati al culto estetico di reazioni soggettive che s'offrono ignude; per misurare quanto, al confronto, lo stilnovista le rappresentasse, figurativizzasse. Un sistema, per cosi dire, plastico di rapporti tra cose è il solo modo col quale, per lui, tollerino di ordinatamente esprimersi gli oggetti del suo sogno: quello che recentissimi, e un po' eccentrici, lettori anglosassoni, partendo dalle premesse che si son lette, esprimono con la suggestiva formula del «correlativo oggettivo». Curandosi solo che la figurazione non sia irrelata e poco preoccupandosi del concreto soprasenso, tali estrosi interpreti saranno esegeticamente insufficienti; in pratica, tuttavia, un esercizio di traslitterazione della figurazione oggettiva stilnovistica negli schemi della rappresentazione soggettivistica di tipo «romantico» può servire, oggi, pedagogicamente a mostrare il significato di quell'incarnazione in termini plastici. Allorché Dante, nel sonetto Sonar bracchetti, si fa rivolgere, come da un folletto, da un « pensamento » (ossia preoccupazione) amoroso il rimprovero, o diremo il «gabbo», di sostituire le soddisfazioni borghesi della caccia al dovere cortese del joi d'amor, abbiamo presente l'«azione» esterna d'un interno rimorso: in luogo dei miti della coscienza, una piccolissima «sacra rappresentazione» (ma occorre non dimenticare che, da questo punto di vista, è un carattere generale dell'arte del medio evo l'intima drammaticità, anzi teatralità). E quando altrove (sonetto De gli occhi de la mia donna) Dante ritorna al piu periglioso dei passi («e tornomi colà dov'io son vinto»), e innanzi agli occhi della donna i suoi si chiudono e il desiderio muore, questa mossa figurazione plurale e spaziale si tradurrebbe per: ceder·e alla tentazione e soccombere. Un uomo che cerchi di scacciare come poco virili i pen-
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sieri tetri, e non ne sia capace, e solo col sopraggiungere del desiderio d'amore riesca a precisare quell'inquietudine nel sentimento istante della mortalità dell'amata: questa è la versione di Un di si venne a me Malinconia; la quale frattanto si lascia sfuggire il profumo fondamentale del sonetto, cioè il concretarsi del presentimento, privato, in visione, tangibile, insomma la realtà dell'angelo. Un ultimo esempio sarà il piu chiaro come il piu calato in favola, quello di Lisetta, diagramma della vittoria sulla ten· tazione in uomo forte: il desiderio è baldanzoso :finché erri nella zona vaga delle velleità, ma non può incrinare la saldezza della decisione morale. È chiaro, data la mentalità che muove la poetica medievale, come non si tratti, in questo sonetto, d'un fatto fisico, d'un'autentica Lisetta respinta. E a questo punto, anzi, il frutto che Dante poteva ancora trarre dalla separazione siciliana della donna dalla sua immagine, dipinta nel cuore dell'amatore, è evidentissimo. Lisetta è reale (non si parla, che sarebbe troppo superfluo, del punto di vista assoluto, ma proprio della coscienza iniziale del poeta) in quanto fantasma della mente di Dante. Pertanto l'identificazione e distinzione, laboriosamente e discordemente operata, delle cosi dette donne amate da Dante, quando non miri a isolare chiaramente delle esperienze poetiche, com'è dichiarata allotria dalla critica estetica, è anche estranea alla stessa poetica dantesca. Un'altra conseguenza discende, importante questa, nell'ordine tonale: separati e fatti distanti i suoi avvenimenti interni, il poeta può spianare il cipiglio che nel romantico induce l'ossessione di sé (con la scappatoia ultima del grottesco), può passare per una serie d'intenerimenti o confusioni, di riprese di sé e sorrisi («prendo vergogna, onde mi ven pesanza »; «Amore / lo mira con pietà ... »; «Che hai, cattivello? »; «Or ecco leggiadria di gentil core ... »; «passa Lisetta baldanzosamente»); e in Dante, serissimo circa il metodo, si delinea la possibilità germinale d'una sua «ironia». È appunto la descritta mancanza di «lirismo» nella lirica di Dante che spiega meglio come, a uno sguardo storico generale, non appaia in essa uno «sviluppo» stilistico chiaro e distinto, ma un processo d'inquietudine per-
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manente. La prima svolta che si possa individuare in una formula, è costituita dalle nove rime. Di abbandono del guittonismo per lo stilnovismo non è infatti il caso di parlare in senso proprio, perché, dal punto di vista della scuola, le rime guittoniane di Dante sono galanterie, scommesse, peccata iuventutis, e quella presunta conversione è solo uno scivolare d'amicizia in amicizia (s'è visto che significhi l'importanza dell'amicizia), da quella per l'omonimo da Maiano, per Lippo, forse per Chiaro Davanzati e Puccio Bellondi, a quella per Guido Cavalcanti e Lapo Gianni, e mettiamo anche Guido Orlandi e Meuccio Tolomei. Dal punto di vista dell'esercizio, invece, il Dante guittoniano che spacca in piu modi una parola come parla per moltiplicare le rime equivoche, e fa rimare ch'amato col raro camato (quasi un &7tcx; À.e:y6[.l.E\IOV! ), e indulge alle replicazioni («ciò che sentire l doveano a ragion senza veduta, l non conobber vedendo»), permarrà per qualche traccia nel Dante della Commedia, che, dopo anni di astensione da simili procedimenti nel clima «tragico» delle grandi canzoni morali (le «distese» della silloge boccaccesca), metterà, poniamo, un non ci ha in bocca a mastra Adamo a rimare con oncia e sconcia, e Pier della Vigna farà lamentare della meretrice che infiammò contro lui gli animi tutti, e gl'infiammati infiammarono Augusto, e in una calda perorazione pregherà e ripregherà Virgilio, che il prego valga mille. I commentatori ripetono, e non hanno torto, che il falsario sta appunto bestemmiando la sua tremenda immobilità («potessi in cent'anni andare un'oncia»), e un'estensione umanamente ridicola gli si amplia spaventosamente innanzi, fino all'angoscia della rima franta («e men d'un mezzo di traverso non ci ha»); ripetono, con uguallegittimità, che al ministro di Federico II ben si conviene un discorso da dittatore principe, e che nelle orazioni vanno dispiegate le veneri della retorica del secolo: cosi spiegano come il Dante guittoniano non passeggi piu libero, ma sia incapsulato e messo a profitto, entro il Dante della Commedia; e come questi, parlando di Guittone con disprezzo, discorra d'un momento primitivo ben sopraffatto entro di sé. n guittoniano che esistette, inesperto, allo stato puro, è ora subordinato e
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docile, in funzione di ben altra cosa che l'astratto esercizio. È certo che va distinto anche entro Guittone; e lo storico, il quale dev'essere pio senza sforzo ai grandi caduti nella lotta per la gloria, ha l'obbligo di riconoscere che qualcos'altro, e ben piu essenziale, passato attraverso Dante nella massima coscienza e tradizione letteraria italiana, la costruzione lirico-saggistica, moverà culturalmente da un'iniziativa che non spetta ad altri che a Guittone, a Frate Guittone. La vena eloquente ed energica che correrà da Poscia ch'Amor a Doglia mi reca è ovviamente nel solco della sua canzone morale. L'ingratitudine di Dante verso il vecchio maestro, non diversamente dall'antidannunzianesimo di parecchi nostri contemporanei, è appunto il segno, anche, d'averlo battuto sul suo terreno piu proprio, di estremo merito, d'aver saturata e varcata l'ambizione suprema in lui. Se per Dante lo stilnovismo è, come s'è detto, essenzialmente fedeltà al «dittatore», e dunque poetica dell'aggettivazione dei sentimenti, il suo culmine e insieme il suo punto d'innovazione è costituito dall'istante in cui l'organizzazione dei fedeli d'Amore si fa completa fino a includere la giustificazione della parola. Il mito è certo fra i piu belli che annoveri la storia delle poetiche (Vita Nuova xvm): se la felicità non sta piu neppure nel minimo di cosa esterna all'amante, il saluto di madonna, che finora era la causa finale della vita di lui, essa consisterà in qualcosa di permanente, «in quelle parole che lodano la donna» sua; e poiché- tema del «coro» femminile e tema dell'« aggettivazione» del rimorso insieme - le gentili donne lo rimproverano d'avere usate altre parole che le volte a quella lode, propone «di prendere per matera de lo» suo «parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima». È dunque un'esigenza d'unità e totalità quella che muove la mente di Dante e determina le nove rime (la razo di Donne ch'avete ci fa altresi assistere al rapporto fra l'ispirazione, l'est deus in nobis, da cui trae origine il «cominciamento», «Allora dico che la mia lingua parlò quasi come per se stessa mossa ... », e il lavoro, il pensiero di «alquanti die»). È la stessa esigenza che ispira l'estensione della poesia amorosa alla poesia mora-
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le, e dalle nove rime fa uscire il bello stilo. Un tal passaggio è allegorizzato nel sonetto Due donne in cima de la mente mia, in cui l'unicità d'amore si scinde dapprima negli aspetti di bellezza e virtu, e poi torna a comporsi nella solidarietà primitiva, proclamata, si noti bene, da Amore in quanto «fonte del gentil parlare», in quanto «dittatore» insomma. Rimane sempre, s'intende, il rischio che quest'unità s'incrini, il rischio della poesia allegorica. Fin qui non si trattava di allegorismo, nel senso corrente (dualistico) di questa parola, anzi la poetica oggettiva che s'è descritta è press'a poco l'inverso dell'allegorismo, come tutta presa dalla preoccupazione eminentemente unitaria della presentazione sensibile di fatti interni. L'allegorismo s'inizia col divorzio dei significati; e allora Voi che 'ntendendo si chiuderà sulla patetica esclamazione «Ponete mente almen com'io son bella», e il Convivio (Il XI 4) glosserà: «la bontade e la bellezza di ciascuno sermone sono intra loro partite e diverse; ché la bontade è ne la sentenza, e la bellezza è ne l'ornamento de le parole; e l'una e l'altra è con diletto, avvegna che la bontade sia massimamente dilettosa». Da un lato, dunque, pluralità di sensi, duplicità di piani che slittano l'un sull'altro, interferendo, non mai combaciando perfettamente; d'altro lato, possibilità che l'esposizione filosofica, la «prosa» della definizione idealistica, rimanga solitaria e squallida -e il caso estremo è in un'altra delle canzoni del Convivio, Le dolci rime. In quest'epoca Dante, per giustificarsi il vario e progressivo isolamento dei temi morali, costruirà tutta una mitologia, fondata sull'abbandono, provvisorio almeno, di Amore, nella sua accezione dilettosa e dolce. Ma alla base resta pur sempre Amore come fonte di bene, e la beltà «a vertu solamente formata», di cui parlerà la canzone Do glia mi reca: il «cantar rectitudinis » esce dal cantore d'Amore. E quell'abbandono a parte obiecti diventa pure un abbandono a parte subiecti, cioè l'amore umano trova un concorrente nell'amore della virtu e, per via di quella poetica «oggettiva», la concorrenza è rappresentata come rivalità di donne, sicché nella sua fase iniziale è resa possibile un'esitazione esegetica fra interpretazione letterale e interpretazione allegorica (si pen-
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si al caso della pargoletta). Donna reale? simbolo? L'imbarazzo dei commentatori ha senso e serietà esclusivamente in rapporto a quel momento di «transito» poetico. È nelle rime morali di Dante lo zelo del neo:fìta entrato da poco fra le disputazioni dei filosofanti. Un pari entusiasmo troviamo nel Dante amatore di poesia e studioso di letteratura che questi stessi anni vengono elaborando (entusiasmo scientifico e morale ed entusiasmo d'occitanista sono contemporanei, nel De vulgari). Dante giovane aveva conosciuto un provenzalismo di seconda mano e, diciamo cosi, specializzato, ossia manierato, attraverso i guittoniani e i siciliani; e anche i precedenti provenzali del Dolce Stile, dunque gl'irresponsabili antenati del Dante della Vita Nuova, sono stati indicati in autori secondad singolarmente disertati dalla grazia, il noioso Guilhem de Montanhagol, magari Guiraut Riquier, che furono astuti amministratori di poesia nella generale decadenza inaugurata dalla morte di Folchetto (trascuriamo naturalmente, nel parlar cosi, l'unico poeta vero del periodo, il grande arcaizzante Peire Cardinal, perché non fu caposcuola). Occorre dire che un occitanismo tanto indiretto non poteva che spettare ai tempi astratti, essere rituale? «Se volemo cercare in lingua d'oco», dice la Vita Nuova (xxv 4), , si può giungere «per phylosophica documenta», ma, si aggiunge, «dummodo illa sequamur secundum virtutes morales ET INTELLECTUALES operando» {mentre alla felicità di vita eterna, consistente nella visione beatifica, a cui occorre la Grazia, e che è figurata « per paradisum ctelestem », si giunge mediante « documenta spiritualia» trascendenti, attuandoli a norma delle virru teologali). Ed è anche indiscutibile che, se alla felicità di questa vita dovrebbe guidare l'imperatore, curando l'instaurazione delle necessarie premesse, pace e libertà, Dante è dei pochissimi che son potuti giungere con altri ausili, «cum difficultate nimia», alla fase di «libero» arbitrio che è condizione obbligatoria di entrata nel Paradiso terrestre. Assai dubbio, invece, è il divario posto dal Parodi (oltre al resto, per ragioni di congruenza cronologica tra le opere dantesche ') tra il Paradiso terrestre della Monarchia e quello della Commedia, figurante, egli asserisce, la felicità dell'individuo (mentre i mezzi eccezionali, o dirò d'emergenza, adoperati dall'individuo Dane per arrivarci in vacanza dell'impero, nulla tolgono alla comunità del fine): al primo corrisponderebbe il dilettoso monte, segno di felicità collettiva e sociale. Non meno dubbio, d'altra parte, è che Matelda (la quale, tra Virgilio, «philosophica documenta», e Beatrice, «documenta spiritualia», è certo la felicità raggiungibile nei limiti narurali, «quae in operatione propriae virtutis consisti!») Almeno se si accoglie per la Monarchia la data comunemente accet- L'armonia di codesto terw libro coi testi della polemica antierocranel 1312-14 è stata dottamente lumeggiata da Michele Maccarrone, in rudi Danteschi », XXXIII, 1 (I9.U), pp. ;s-142, specialmente 140 nota. • ~ ora, per un'aggiornata esposi2ione delle controverse questioni di le pp. x e lx-lxiii, con le relative note, della prefazione apposta da -nmcesco Mazzoni all'edizione ERI (Torino 1966) della Monarchia]. 1
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sia preannunciata, anziché da Lia, congiuntamente da Lia e da Rachele '. Ma sono frange che nulla detraggono al nucleo dell'interpretazione. Resta dunque accertato che, all'altezza di Purgatorio XXVII, torna in luce una delle strutture maestre dell'edificio. Ma la cesura precede il canto o si apre durante il suo corso? La formulazione, cosf enunciata in astratto, può sembrare futile o pseudoproblematica: in realtà la risposta data a quella domanda spetta alla visualizzazione dantesca della sutura fra Purgatorio e Paradiso terrestre, e di secondo grado alla cultura che qui è attiva, piuttosto teologica o piuttosto poetica. Il muro di fiamme (e la parola muro è al v. 36, ma, posto che si erge fra Dante e Beatrice, non evocherà proprio il «paries» che si frappone fra Piramo e Tisbe?) è solitamente sentito quale il 1 Tesi ripresa nella Matelda di Manfredi Porena (in «Atti dell'Accade· mia degli Arcadi», n. s. XIII-XIV [19.34-3'], 4.3-6,), a p. 49· La principale obiezione si ricava dalla circostanza che il sogno di Lia è (94-96), come le due precedenti visioni purgatoriali (IX 1.3-1,, XIX 1-6), mattutina, il che è detto per significarne, a norma di In/. XXVI 7 e Purg. IX 16-18, il carattere veritiero; ora, l'opposizione di Lia e Rachele (questa, notoriamente vicina di Beatrice nel secondo e nel penultimo canto della Commedia, In/. II 102 e Par. XXXII 8, luoghi eminentemente simmetrici) sarebbe smentita dalla loro eventuale fusione in Matelda. La tesi, non di necessità falsa per esser corrente, dell'ordinata corrispondenza di Matelda e Beatrice a Lia e Rachele (e negli occhi si compendiano cosi Beatrice, ,4, come Rachele, 1o6, coincidenza non inopportuna se «Lia lippis erat oculin, Gen. 29, 17) importa probabilmente altrettanta solidarietà onomastica nella prima quanto nella seconda coppia: in altri termini, che, qualunque fosse l'eti· mo dantesco dei due nomi (e su Matelda per il momento è da confessare solo ignoranza), Matelda come Beatrice dev'essere estratta dalla privata biografia di Dante. Quest'argomentazione di carattere strutturale viene certamente a suffragare l'opinione di chi tende a ravvisare in Matelda una delle amate subalterne di Dante, verisimilmente una di quelle della Vita Nuova. Tale è da ultimo (cfr. indicazioni sui precedenti a p. 20') l'idea di Giulio Natali, Il Paradiso terrestre e la sua custode, in Studi in onore di Salvatore Santangelo (- cSiculorum Gymnasium», n . s. VIII, Catania 19,), I 197-210. Piu esattamente il Natali pensa alla Donna Gentile, ed è suggerimento da considerare con simpatia, tanto piu che anche costei è detta nella Vita Nuova «giovane e bella molto» (c. xxxv), «bella, giovane e savia» (c. XXXVIII). Se n'avrebbe una conferma qualora in Purg. XXXIII 128-29 («e, come tu se' usa,/la tramortita sua virtU ravviva») s'interpretasse, a norma del deponente (cfr. anche fu nato, morto 'nacque, mori'), e mettendo in parallelo il sinonimo soglio (già semideponente) 'ero solito', s'interpretasse dunque se' usa 'già praticasti'. Non si ha comunque solidarietà col problema onomastico di Lucia, qualunque ne sia la soluzione (forse ottenibile, giusta l'opinione vulgata, col solo sussidio dell'agiografia e dell'attributo figurativo). [Su Matelda cfr. poi Friedrich Schneider, in «Deutsches Dante-Jahrbuch», XXXVI-XXXVII (19,8), 72 ss.].
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cerchio che, giusta i Padri, sta attorno al Paradiso terrestre, per interpretazione del «flammeus gladius» (Vulgata) o «flammea rhomphaea» (Vetus Latina) della Genesi (3, 24) e con allusione al battesimo di fuoco evangelicamente opposto a quello di Giovanni (Matth. 3, 10-12; Luc. 3, 9 e 16-17). Questa componente dell'immaginazione dantesca, già studiata dal Graf e da altri, è stata definitivamente precisata in pagine magistrali di Bruno Nardi', il quale sul ritorno allo stato d'innocenza attraverso il fuoco espiatorio produce testi decisivi di Ambrogio e di Ruperto di Deutz. Sono risultati sui quali si porrebbe tornare solo per ribadirli, sia sottolineando come l'angelico «intrate in esso» (v. u) sembri riecheggiare l'invito che secondo Ambrogio il «Baptista magnus» rivolgerà ai giusti, «lntrate qui praesumitis, qui ignem non timetis » (poi «Intrate in requie m meam»), sia rilevando (senza insistere nell'ipotesi che le immersioni in Letè ed Eunoè abbiano un affine significato battesimale) come esplicitamente quel fuoco sia assimilato ad acqua, come Guido vi guizzi e dispaia al pari d'un pesce nell'acqua (XXVI 134-35). Ma non giova, poiché è passato in giudicato, dal Parodi al Fergusson, e si aggiunga l'ultimo commentatore autorevole, il Sapegno, che quel fuoco è un vallo da cui è circondato il Paradiso terrestre. È proprio sul traguardo di codesto passaggio in luogo comune che deve sorgere un'energica riserva: motivata, oltre al resto, già dal fatto che nell'indiretto punto di partenza bibliografico, il pregevole saggio del Graf 2, quella «fiamma vi1 Nel primo paragrafo dello scritto Il mito dell'Eden, già (con altro titolo) nel «Giornale Dantesco», xxv (1922), 289-92 , poi ultimo dei Saggi di filosofia dantesca, Milano ecc. 1930 [e penultimo nell'edizione di Firenze 1967]. Ad esso avrebbe potuto utilmente rifarsi, per integrare la documenta2ione, il bel saggio recentissimo del Singleton, Stars Over Eden, nel « nth Annua! Report of the Dante Society », Cambridge (Mass.) 19,7, pp. 1-18 (dove si citano solo testi patristici e dottorali, non, cetto intenzionalmente, bibliografia modetna). 2 Il mito del Paradiso terrestre, primo della raccolta Miti, leggende e superstizioni del medio evo, I (Torino 1892), cfr. p. r8 (nel quàl punto non è petaltro parola di Dante). Un riscontro importante si ha invece (cfr. p. 219 nota) col poemetto francese che descrive il viaggio di Seth, figlio di Adamo, al Paradiso terrestre. Nella versione torinese edita dal Graf (pp. 219-20) «(Es)purcatoire» è un «gués prilleuS» che sta a guardia del Paradiso (« Cou est .i. fus qui tous jours art et frit »).
ALCUNI APPUNTI SU «PURGATORIO» XXVII va» s'inserisce in una fenomenologia delle mura paradisiache, «talvolta di solida materia», quasi che ad esempio uscissero dal medesimo sacco le mura della Gerusalemme celeste di Giacomino da Verona, fondate su pietre preziose, con merli di cristallo e corridoi d'oro fino (dove d'altronde sta di guardia il cherubino con la spada di fuoco), nel solco di Tobia e dell'Apocalissi. Per triviale che l'obiezione appaia, nell'economia del viaggio dantesco quella barriera non si presenta affatto come muro del Paradiso terrestre, ma come strumento di punizione dei lussuriosi (che si è costretti ad attraversare perché la fiamma spira dalla ripa fin quasi all'orlo), a passarvi esorta l'angelo della beatitudine, e occorre salire parecchia altra scala dal guado del fuoco, dove un nuovo «lume» angelico accoglie, al verziere superno. Inizialmente ed essenzialmente, qualunque funzione venga poi ad aggregarsi, quel fuoco è il rogo purificatore, per antitesi omeopatica, della «libidinis flamma» di Gregorio (citata nel commento del Casini), conforme all'invito («Lumbos ... Flammis adure congruis») che è nell'inno stesso del Breviario cantato dai purganti (citato un po' da tutti 1): «foco d'amor», come qui è detto in una perifrasi tutt'altro che oziosa (v. 96), «foco che li affina» (XXVI r48). Poiché, se Dante è nutrito di filosofia e teologia, è forse opportuno non dimenticare che il suo primo pascolo è di poesia e di retorica. Se ci si conforma a codesto inevitabile criterio Z, s'impone l'identità del «foco d'amor» con quello che «in gentil cor s'aprende» all'inizio della seconda stanza proprio 1 In particolare, oltre che nei commenti, da Nunzio Vaccalluzzo, Un mito del Paradiso terrestre, in «Rassegna critica della letteratura italiana», VII (1902), 208-rr (ristampato fra i Saggi e documenti di letteratura e storia, Catania 1924). Il Vaccalluzzo occupa, nei riguardi del «muto», una posizione temperata dal buonsenso. Ma si avverta che la sua tesi dello sdoppiamento (di «murus igneuS» e di angelo guardiano) è già nel Coli, Il Paradiso terrestre dantesco, p. 23r. (Per i precedenti della contiguità di Purgatorio e Paradiso terrestre dr. ibid., pp. 144·4' e 1,1.,2). 2 Illustrato nel saggio Dante come personaggio-poeta della «Commedia», qua sopra riprodotto. Sul fuoco d'amore in Guido e in Arnaut è da vedere, p. 21, l'egregia «lectura Dantis» di Aurelio Roncaglia, Il canto xxvi del «Purgatorio», Roma 19,1, che si muove in un àmbito affine d'interpretazione generale.
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della grande canzone guinizzelliana: verso che, spentone non per nulla il fuoco, si cela, fuso con l'incipit di quel testo proverbiale, nella sentenza di Francesca (Inf. v roo), «Amor ch'al cor gentil ratto s'apprende», a rammentarci che con Guido e Arnaldo si chiude il circolo aperto da Francesca sotto la stessa epigrafe erotica, d'un amore il cui oggetto è da riformare (ma ad amore si riduce, Purg. XVIII r 5, «ogni buono operare e 'l suo contraro »). E tornando a quella perifrasi: è Citerea «che di foco d'amor par sempre ardente»; ciò che è un preannunzio manifesto dell'inizio di Paradiso VIII, dove dal «terzo epiciclo» «la bella Ciprigna » (Venere è sempre velata appunto dalla perifrasi) raggia nella credenza pagana «il folle amore», e suo figlio siede «in grembo a Dido». Ora, il «folle amore» è gallicismo tecnico (dalla seconda parte della Rose) vòlto a designare l'amore carnale, quello appunto «della schiera ov'è Dido», di Francesca (una terza Dido fregia in rima, non meno significativamente, la canzone petrosa Cosi nel mio parlar); e porta alla matrice virgiliana, di Eneide IV, dov'è «caeco carpitur igni» (2), dov'è «est mollis fiamma medullas» ( 66), dov'è soprattutto quel «veteris vestigia flammae» (23) il cui ricordo e auctoritas sta infatti per ornare l'incontro con la ritrovata Beatrice (Purg. xxx 47). Alla «mamma» Eneide s'affianca la lirica cortese, dove il «foco d'amore» guinizzelliano ha precedenti ovvi (particolarmente, certo, nell'« amorosa fiamma» e nello «spirito d'ardore» della grande canzone dell'altro Guido, quello delle Colonne, Ancor che l'aigua), dove specialmente, seguendo i provenzali Peirol e Gaucelm Faidit, come ha bene mostrato il grande Gaspary \ 1 Cito La scuola poetica siciliana del secolo XIII nell'edizione italiana (Livorno 1882), p. 94- ll passo di Peirol (Coras que·m fezes doler, vv. 21-24) nell'edizione Aston (Cambridge 19,3, p. 131) suona: « Qe·l [lama qu'amors noiris l m'art la nuoich e·l dia, l per qu'ieu devenc tota via l cum /ai l'aurs el /uoc plus fis». Quello di Gaucelm Faidit· [ora edito da Jean Mouzat, Paris 196,] è nella grande canzone Chant e depor! (su cui anche De Bartholomaeis, in «Studi Medievali», n. s. VII [1934], 65-66 e 7o-71, e Sesini, ib., XIII [1940], 72-73, nonché Musiche trobadoriche [Napoli 1934], pp. '1-53), vv. 44-4' («aissi for'afinaz l ves leis cum l'aurs s'afin'en la /ornaz»: testo di G secondo l'ed. Bertoni, p. 90). I brani italiani addotti dal Gaspary sono: l'ini2io (da V, camoniere affine a quello adoperato da Dante) «Cosi afino ad amarvi l com'auro a la for-
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l'amante s'affina nell'amore come oro al fuoco o nella for· nace (da Prov. 27, 21: « Quomodo probatur... in fornace aurum», cfr. 17, 3 «Sicut igne probatur argentum, et aurum camino» e i derivati Sap. 3, 6 «Tamquam aurum in fornace probavit illos» ed Eccli. 2, 5 «Quoniam in igne probatur aurum et argentum »). Se a questo 't"6TCoç allude in modo pregnante il vocabolo terminale di Paradiso XXVI, mai Dante cita l'altro dell'amante che vive nel «foc'amoroso» (Notaio) o «foco d'amore» (Carnino Ghiberti) come la salamandra nel fuoco (lo riadotterà invece, con 'gotico' recupero emblematico, Petrarca, CCVII 41): metafora che, com'è stato ugualmente indicato dal Gaspa· ry ', risale a un trovatore occitanico, Peire de Cols, di dove dirama in Giacomo da Lentini e di lf nella tradizione to· scana. Eppure, l'assimilazione, ricordata sopra, del purgante Guinizzelli nel fuoco al pesce nell'acqua fa leggere nace, l c'afina pur ardendo» (ed. Santangelo, in «Siculorum Gymna· siurn», n. s. IX [r9,6], 4); la canzone di Bartolomeo Mocati (secondo V) Non pensai che distretto, vv. 47·-'o: «Com l'oro in foco alina, l cosi mi fa afinare /l'amoroso pensare l de lo suo valimento» (ed. Buzzelli, in «Cui· tura Neolatinn, XII [r9-'2], 2-'3); l'incipit del sonetto di ser Bello (in P) «Com' auro ch'è affinato a la fornace» (tale sarebbe il «detto» di ser Pace, invitato a pronunciarsi su «un foco c'asembra pennace, l che mi disface · lo core e la mente,.); la canzone di Pucciandone Martelli (pure in P) Lo fermo intendimento, v.'-' («Es{ n'afinerai com'oro al foco», det· to ad Amore in quanto sia entrato nel «gentil loco » che è madonna, ed. Zaccagnini, Rimatori siculo-toscani ecc., p. r89); il verso d'un sonetto conservato in un memoriale bolognese del 1310, «Che pur afino chomo auro in fomaçe» (ed. Caboni, Antiche rime italiane ecc., p. 88). Quanto ai testi piu generici sul fuoco d'amore, basti ricordare l'inizio della can· zone anonima (in P) «D'uno amoroso foco» (e v. ro, «C'ardo in foco amoroso»); e il sonetto di Rustico Similmente la notte («E quindi bagno l'amoroso foco,., «E nessun foco mai cangia calore, l o che faccia languire o tormentare, l per certo non, com fa il foco d'Amore», ecc.), probabil· mente memore di quello del Notaio Chi non avesse. [Vart dei testi citati in questa nota e nelle seguenti sono ora editi dal Panvini, Le rime della Scuola siciliana, I, Firenze 1962]. Si può aggiungere l'incipit del trovatore italiano Bartolomeo Zorzi (secondo il canzoniere unico A) «Aissi co·l fuosx consuma totas res, / consuma Amors lo cor o·is degna assire». 1 I passi italiani addotti o accennati in nota dal Gaspary, op. cit., p. ro,, sono: del Notaio, canzone Madonna, dir vi voglio, vv. 27-30 («l..a salamandra audivi l che 'nfra lo foco vivi - stando sana; l eo si fo per long' uso: l vivo 'n foc' amoroso»); di Inghillredi, Audite forte cosa, v. 8 (cE vivo in foco come salamandra»); di Camino Ghiberti, canzonetta Disioso cantare (nella quale si discorre c d'uno foco d'amore,.), vv. 37-38 («La salamandra in foco, l secondo è [che nell'unico V] detto, vive,.). Inoltre il luogo gninizu:lliano e il pseudoguinizzelliano di cui sorto. E cfr. Vuolo, in cCultura Neolatinu, xvn (19-'7), 97 s. [-Il Mare Amoroso, Roma 1962, pp. 129 s.].
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in filigrana il tema degli elementi-alimenti (fuoco per la salamandra, come acqua per il pesce, aria per il camaleonte, terra per la talpa), che è la forma sotto cui la salamandra è presente in Bondie Dietaiuti e (fuori del sonetto La salamandra vive ne lo foco) in Chiaro Davanzati 1 • Non basta. Nella lista degli applicatori della salamandra figura il Guinizzelli, almeno per la canzone Lo fin pregi' avan::ato (che è presumibilmente non solo di gusto guittoniano, ma proprio quella inviata dall'autore a Guittone) 2 : poiché non è da credere, non dico che sia guinizzelliana la canzone Madonna, dimostrare, ma che Dante, come qualche moderno, l'attribuisse al maestro bolognese 3 • Per piu vie dunque il fuoco brucia Guido ad hominem. 1 Di Bond!e si veda la canzone Amor, quando mi membra (nel solo V), vv. 49-6o: «La salamandra ho 'nteso, l agendo vita in fuoco, l che fora viva poco l se si partisse, tal è sua natura; l del pesce sono apreso l che 'n agua ha vita e gioco, l e, se patte di loco, l aggio visto c'ha vita picciol' ora. l Ed ogne altro alimento l nottica un animale, l ciò ho 'nteso, lo qua/ se se 'n parte, che viene a finimento». E di Chiato la canzone (pure od solo V) Assai m'era posato, vv. 43-50: «Quatto son l'alimenta l c'o. animai mantene l ed in vita li tene, l onde ciascun per sé vi s'sconta: /la talpa in terra ha bene, l aleche in agua abenta, l calameon di ft:Dta, /la salamandra in foco si mantene». Il dato si ritrova per esempio nel Bestiatio toscano di Garver e McKenzie, c. x8 («Studi romanzi•, vm [1912], 38-40): «Quatto sono le creature che Dio ave criato in questo mondo, che non pigliano nutrimento se non di quatto elimenti di che 'l mondo è formato ... L'una di queste creature si chiatna talpa ... L'al· tra creatura che vive solamente d'aqua si è uno pescie che si chiama ranocchio. E l'altra che vive solamente d'aire si è uno uccello che homo aPpella calameone e non si possa altro ch' in aere. E l'altra che vive pur solamente di fuoco si è uno uccello che 'l suo nome è salamandra et è bianco ... •; o nell'Acerba, l. III, c. VII. Altri passi patalleli indica Milton Stahl Garver, in «Romanische Forschungen,., XXI, x (1907), 309-10; singolate importanza ha il Bestia ire d' Amours di Richatt de Fornival, da vedere nella magistrale edizione di Cesate Segre, Milano-Napoli xy;n, pp. 36-37. Che Dante non citi la salamandra, può anche spiegarsi col fatto che taccia di falso la relativa credenza (come del resto quella sull' allech o aringa) Alberto Magno, nel De animalibus (cfr. l'edizione Stadler, vol. II [Miinster i. W. 1921, XVI dei «Beittage zur Geschichte der Philosophie des Mittelaltern], rispettivamente pp. 1.571 e 1.518). 1 Cfx. Dante come personaggio-poeta cit.; il passo, vv. 3.5-39, suona: c lo meo core l altisce in tal lucore l che si ralluma come l salamandra 'n focQ vive, l ché 'n ogne patte vive - lo meo core» (foca monosillabo satà un provenzalismo). 3 Il passo, vv. 17-20, dice: «Ca eo non ho sentero l di salamandra oente, l che ne lo foco atdente l vive ... ». Circa l'errore attributivo cfr. Contini, in Atti del Convegno Internazionale di Studi Federiciani, Palermo 19.52, p. 368 nota 2. Dà la bibliografia dell'indebita ascrizione Casini, Le rime dei poeti bolognesi del secolo xm, Bologna x88x, p. 327.
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E allora, se le ragioni della poesia possono essere invocate per dar conto della stessa invenzione, a fortiori saranno da adottare nel campo d'indagine che appare loro proprio. Su questo piano si pone subito una domanda: se, come la struttura palesa novità, che, riannodandosi alla favola piu generale, introducono a vicende di aspetto profetico e sacrale, cosi novità risultino all'analisi linguistica. Esse sono eminentemente lessicali. In un verso tipico quale ( I 09) «E già per li splendori antelucani» il fascino arcano e solenne, proemio alle piu auliche proclamazioni del Paradiso (del genere di «Esso litare stato accetto e fausto»), si attua nel vocabolo terminale, che salvo errore fa qui la sua prima apparizione italiana, e di esso non meno nell'illustre ascendenza latina (si avverta che splendore nelle varianti spre-, spie- - da cui anche spe-- e per francesismo spiandore attesta invece il suo passaggio attraverso un gusto 'popolare') che nella protratta estensione, cosi evocativa in accezione fonosimbolica. Tali valori stanno qui a rilevare il tema dell'opposizione di luce e tenebre, non già in senso impressionistico e fenomenico, ma senza chiaroscuro, insomma «lume trascendentale». Tema che si spiega piu aperto nelle terzine del tramonto (70-72) e della doppia comparazione sul pernottamento (76-78). Si veda ora la prima: immenso, per singolare che ciò possa riuscire, non era ancora in Dante e ricomparirà in un luogo molto latineggiante del Paradiso (XXIV 7); orizzonte, qui sprovvisto d'articolo, e cioè trattato preziosamente come nome proprio, è altrove attualizzato in modo normale; dispensa, che va del pari considerato un latinismo (ovviamente medievale), compare pure per la prima volta e sarà riadoperato metaforicamente nella terza cantica (v 39). O si esamini il secondo esempio: manse e pranse (qualunque sia l'etimo preciso di manso) sono in Dante forme uniche, altrettanto si dica di rapide (di cui non so persuadermi che valga 'rapaci'); protervo è il primo dei suoi due casi (l'altro è in Purg. xxx 70), e l'unico in accezione letterale squisita; pecuglio (che sarà ripreso metaforicamente in Par. XI 124) si ritrova in identica situazione (rilevata forse dalla preposizione lungo, che in questa congiuntura sa di gallicismo, calco di
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c) 'presso'), e se l'abito della lingua moderna conte di ravvisarlo sùbito, esso rischia di non lasciar ricoe altrettanto immediatamente che nel medesimo o pernotta, mai usato altrove dal Dante volgare, è vocabolo non meno 'caro' (il «diu pernoctavimus [o meglio, e vero, pernoctitavimus] » della V Epistola aiuta a ritrovarne la connotazione biblica). Naturalmente il contingente latino è solo uno degli ingredienti (lo si raffronti con a/lotta, con grotta 'roccia', tuttora vernacolare, col potente tropo di fasciati) che compongono questo brano lucidoenfatico-reale, «io come capra ... ». Chi volesse discorrere di passo «bucolico» (a parte il fatto che tecnicamente all'ecloga non dev'essere attribuito stile supremo, come risulta dall'appartenerle, fra gli Auctores octo, il Teodulo '),dimostrerebbe di possedere una nozione merceologica dei generi letterart Che se poi quella presunta definizione tonale volesse alludere a non si sa quale idillicità, s'incontrerebbe con l'opinione vulgata che la fine del Purgatorio, almeno fino all'apparizione di Beatrice, s'ispiri alle rappresentazioni dello Stil Novo. Ma che significa, finalmente, stilnovismo del Paradiso terrestre? Forse che vi sono «arbuscelli» ( 134) come nella canzonetta cavalcantiana (che si trova attribuita a Dante, certo perché gli fu dedicata) Fresca rosa novella? O che vi allignano fioretti «vermigli» e «gialli» (xxviii 5556) a un dipresso come nel sonetto guinizzelliano Io vogli' del ver (dove peraltro avvertirei un'eco lontana dell'incipit arnaldiano Ar vei vermeills, vertz, blaus, blancs, grocs)? O vuol dire invece che Lia e poi Matelda sono stilizzate a norma non solo cavalcantiana, come appare da ovv! confronti', ma proprio del cosiddetto stilnovismo 1 L'epistola a Cangrande, elencando (32) geneti poetici divetsi dalla tragedia e dalla commedia, nomina ordinatamente ccarmen bucolicum, elegia, satira et sententia votiva»; e anche quest'affiancamento all'elegia, nel De vulgari getarchizzata sotto la commedia, pub essere significativo. Sull'ecloga medievale prima di Dante cfr. da ultimo le indicazioni eli Carlo Battisti, in « Srudi Danteschi», XXXIII, 2 (I9JJ·J6), 71 ss. 2 Operati ultimamente dal Natali , art. cit., p. 201 , dallo Gmelin, in nota a XXVII 98, e dal Sapegno, nel commento a XXVIII 40 e a XXIX r. Riscontri con la Pargoletta, tanto illusori da fondarsi soprattutto sull'apocrifa Era tutta soletta, presso Antonio Santi, in cGiornale Dantesco•, XXI
{1913), 176-79·
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dantesco? nel qual caso la «ghirlanda» (ro2) sembrerebbe rinnovare la «ghirlandetta» d'una famosa ballatella o la ghirlanda della sestina; o la «giovane e bella» donna del sogno (97) apparentarsi alla pargoletta degli inizi I' mi son pargoletta bella e nova e Perché ti vedi giovinetta e bella. Ma si prenda proprio quest'ultimo riscontro, a una considerazione superficiale tanto calzante: il radicale divario consiste nel fatto che il binomio epitetico del Purgatorio è incluso in una figura d'iperbato con inversione e enjambement («Giovane e bella in sogno mi parea l donna vedere andar per una landa l cogliendo fiori»); non, dunque, agevole melodismo, ma risentito ricorso a una giacitura che appare inevitabilmente desunzione diretta dalla sintassi latina, seppure l'iperbato risulti, nella cultura piu recente, legato alla parte guittoniana, piu esattamente e copiosamente a quel Panuccio dal Bagno («Magna medela a grave e perigliosa l del tutto infermità so che convene, l ché parva parvo, so, dà curamento ») che importa non scordare fra i precedenti delle grandi canzoni morali. Altrettanto poco stilnovistica è, sul piano del vocabolario, la presenza d'un gallicismo quale miraglia (I o 5), i cui ascendenti piu immediati sono in Lotto di ser Dato (canzone Fior di beltà, v. 32) e in Bondie Dietaiuti (canzone Madonna, m'è avenuto, v. 37, con valore metaforico); che dico? nelle stesse lettere guittoniane (XIII 102 Meriano, ugualmente con portata metaforica). Piu ci si accosta ai dati strettamente formali della retorica, e piu evidenti riescono le medesime conclusioni. Tipicissima del canto è l'allitterazione, non soltanto in un luogo che potrebbe segnalarsi per topografia oratoria come il penultimo verso del congedo virgiliano e del canto stesso («E fallo fora non fare a suo senno») \ ma anche 1 Solo questo verso del nostro canto è citato, con esempi di altri passi, da Erich Frhr. von Richthofen (in « Zeitschrift fiir romanische Philologie •, LXVI [19,0], 288), durante una disamina dei valori fonici di Dante da consultarsi con la piu grande cautela (è l'ultima parte, pp. 279-.302, dello scritto Zu den poetischen Ausdrucksformen in altromanischer Epik (Heldendichtung - Dante), la cui prima parte si ritrova, volta in spagnolo, nel volume Estudios épicos medievales, Madrid [19'4], pp. 2,31-94). Da un lato, infatti, il Richthofen è generoso, con procedura da lasciare agli impressionisti dilettanti, nel considerate i fatti fonici come intenzionali o
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fuori di questa contingenza (88, «Poco parer potea li del 1 di fori») , magari con minore accentuazione ( r 9 « Volsersi verso me», 27 «d'un cape! calvo», ro6 («veder vaga», 128 «veduto»/ «venuto»\ 130 «Tratto t'ho»). Non si potrebbe negare che un simile istituto riporti nel grembo della tecnica siculo-guittoniana, sia pure rigenerato attraverso un ricorso diretto al patrono del trobar clus, Arnaut Daniel (e basti, con l'inizio citato sopra, rammentare gli altri En breu brizara·l temps braus e Sols sui qui sai lo sobrafan que· m sortz, rispetto ai quali è certo un miracolo di sobrietà il verso, messo in bocca a Cacciaguida, Par. xv 63, «>, non manca di specillare un c mostro » già da Gas ton Paris e di condurre a suo danno un parallelo con
Dante, al dire di Jean Lemaire de Belges suo amico ed emulo a Parigi.
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delle Origini, e dall'altra l'edizione dell'epistolario di Coluccio Salutati. In sostanza, essendo storico della cultura latina medievale, è lo storico di una possibilità, di una tentazione continuamente rinnovata di «rinascimenti». Ciò parla per un formalismo sostanziale, ed è questo formalismo che lo induce ad avversare quella tale dilatazione all'infinito. Non è un caso che nella sua produzione critica l'autore che prevale sia Dante, mentre per proprio conto egli è un decadente che placca di manierismo il suo acerrimo positivismo. Non per nulla egli era anche un collettore d'arte, nel campo della pittura decadente lombarda, la pittura degli scapigliati. È molto curioso come Novati nel considerando del suo rifiuto della Rose si trovi a coincidere puntualmente con Sainte-Beuve che citavo poco fa. E vediamo Bédier. Bédier nel suo libro giovanile, la tesi sui Fabliaux del '93, pubblicata nel '94, compara il mondo realista dei Fabliaux con il mondo idealista della Tavola Rotonda, il primo destinato a una clientela borghese, il secondo a una clientela aristocratica, e conclude: «ces deux mondes coexistent. Bien plus, il se pénètrent.Le symbole de cette coexistence et de cette pénétration n'est-il pas dans ce monstre qui est le 'Roman de la Rose', où Jean de Meung, nalvement, croit continuer l'ceuvre de Guillaume de Lorris, alors qu'illa contredit, et qu'il ;uxtapose l'un et l'autre idéal? ». (Del resto anche Giovanni Macchia, che pure lo ha analizzato con intelligenza simpatica, parla di «libro ... quasi mostruoso» e di «insieme mostruoso»). Chi ha conosciuto Bédier- e qui mi appello al caro Italo Siciliano, perché è al seminario di Bédier che è nata la nostra amicizia - lo vede a suo agio, questo squisito e impeccabile gentiluomo, coi grandi autori patetici, con Thomas e i vari Tristani, col Roland e le varie chansons, come con Chénier, e se tratta di autori un po' piu dimessi, diciamo Jean Renart o Colin Muset, specialmente negli studi della sua giovinezza, non sono però autori specificamente realisti. Ora, è molto singolare che egli aggredisca i fabliaux; non saprei se la scelta del tema sia stata del tutto dovuta alla sua responsabilità, ma la questione è che Les Fabliaux si convertono in un problema di origini, cioè il proprio contenuto di quei racconti
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diventa evanescente e scompare, perché Les Fabliaux sono il primo testo strutturale della cultura. non dico francese ma della cultura ecumenica. Anche Propp si benigna di citarli in qualche punto, mentre credo che dal principio Lévi-Strauss non li conoscesse. Les Fabliaux, questa dissertazione dell'ultimo Ottocento, fondano veramente lo strutturalismo critico. I Fabliaux servono dunque di pretesto per un problema altamente intellettuale. Ma la cosa che qui c'interessa è che Bédier si preoccupa di cogliere il realismo allo stato puro, lasciando l'idealismo allo stato puro, quindi di separare nettamente l'alveo aristocratico dall'alveo borghese. Egli aborre la mescolanza che si attua in Jean de Meung, e vorrei dire che questa posizione, che dà luogo a una semplificazione acuta benché senz'altro violenta, è un riflesso degli eventi letterari contemporanei, cioè un riflesso della scissione postromantica tra naturalismo e verismo da una parte, tra l'eredità di Flaubert e di Zola, tanto per dirla in termini grossolani, e dall'altra il versante simbolistico, da Baudelaire fino a Mallarmé. Ecco dunque che questa risposta, questa ribellione di Bédier ci appare altrettanto letterariamente significativa della ribellione di Novati. Mi si rimprovererà forse di perseguire la critica della Rose anziché l'esame della Rose in se stessa, ma il fatto è che non possiamo cadere preda dell'inganno naturalistico e dobbiamo renderei conto che un'opera vive nei suoi interpreti, che la Commedia per esempio vive nei suoi lettori, che la tentazione di toccare l'oggetto della propria ricerca senza schermi, e lo schermo qui sarebbe la storia della critica, è in effetti un'illusione. Epistemologicamente è, mi sembra, del tutto corretto che si tenti di raggiungere i soggetti attraverso la loro obiettivazione nella storia della critica; cerco dunque di rappresentarmi il Roman de la Rose o Dante a partire dal giudizio che mi è fornito dai critici. Questo preme per introdurre a un ragionamento basato sull'affinità che par di sorprendere tra l'evanescente critica al Roman de la Rose (scarso è l'interesse per il romanzo, e quindi i giudizi sono sommari) e la pur macroscopica critica alla Commedia. E penso, ovviamente, a che nome? Non penso agli infiniti che si possono
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reperire nella storia della cultura, ma ai due soli che sono da invocare se si crede alla poesia come valore e insieme si avverte un certo imbarazzo a proclamare i valori letterari dd basso medio evo: i nomi di De Sanctis e di Croce. Sono, queste, strade assolutamente obbligate. Penso dunque, per De Sanctis, naturalmente alla opposizione di «poesia » a «poetica», di «mondo reale» a «mondo intenzionale»; al concetto che Dante è poeta in quanto agisce al contrario delle sue premesse, in quanto la vitalità contraddice il suo movimento iniziale; che la sua poesia non soltanto è diversa dalla sua cultura, ma con essa inconciliabile. E penso, per ciò che è dei teoremi crociani, alla frammentazione della poesia di Dante, alla rottura, non dirò dell'unità intima, ma dell'unità intenzionale ed esterna della Commedia; quell'unità che è un semplice appoggio- una struttura, nel senso crociano beninteso, non nell'accezione oggi di moda- alla nascita della poesia. Mi pare che si possa concludere, fin d'ora, che i considerandi sui quali si fonda la condanna di Jean de Meung, per mano di Nova ti e di Bédier, equivalgono alla coincidenza della sua poesia, o non poesia che sia, con la sua poetica, con la sua struttura. Chiediamoci, ora, se Novati e Bédier sarebbero permutabili con De Sanctis e Croce, cioè cerchiamo di inventarceli come critici immaginari della Rose: ipotesi forse risibile nei riguardi di De Sanctis, la cui cultura è limitatissima fuori delle lettere imparate in giovinezza; poste invece le sterminate letture di Croce (anche se non in questo speciale settore), è evidente che l'assenza è segno di una scarsa attenzione. Sembra che la risposta sia fornita automaticamente dalle parole famose che De Sanctis adopera nel suo ragionamento per la poetica di Dante, là dove scrive che «l'allegoria della scienza» e «l'esposizione della scienza in forma diretta» sono entrambe pregiudizievoli all'arte, che «il pensiero non è calato nell'immagine, il figurato non è calato nella figura», mentre in realtà, per la vitalità di Dante, e si noti che saltano fuori proprio i termini di Bédier, «il puro reale ed il puro ideale sono due astrazioni; ogni reale porta seco il suo ideale». E allora la Rose immaginaria di De Sanctis non potrà che essere oggetto di una stroncatura, ma questa
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Rose immaginaria mi sembra che sia un'entità legittima se riproponiamo con sincerità il nostro senso di difficoltà innanzi alla globalità di una grande opera due-trecentesca, fosse pure la Commedia. A questo punto si potrebbe anche pensare che la Rose immaginaria di Croce sia ugualmente negativa; ma non sono altrettanto sicuro di questa conclusione. Si capisce, se la mente va alle celebri pagine della Poesia di Dante sulla «selva che non è selva», le «fiere, che sono e non sono fiere», qui è la stroncatura della Rose nel suo aspetto piu nucleare, ma un giudizio affine sulla struttura mi pare che avrebbe potuto portare Croce all'elaborazione del concetto di una collana, ecco, non certamente di una collana di liriche, ma di una collana di brani in tono basso e ironico, in tono prosastico, di letteratura, insomma, letteraria o d'intrattenimento. Stavolta il salvataggio con gli strumenti crociani mi pare si possa operare ottimamente. Queste ipotesi immaginarie non sono divertimenti gratuiti perché sono delle approssimazioni successive come quelle adottate dai matematici per definire e risolvere i loro problemi; e qui il problema è questo: come fa Dante i conti con la Rose? Perché fin qui abbiamo ragionato come se la Rose e la Divina Comm~dia fossero due analoghi; ora si tratta invece di cogliere un rapporto genetico, una continuità culturale. Molto generico è il patronato esercitato dalla Rose sulla Commedia come capostipite del suo genere, intendendosi per tale quello che in modo un po' approssimativo si può definire l'«epos allegorico», sulla linea che va, diciamo, da Prudenzio ad Alano da Lilla passando attraverso i prosimetra di Marziano Capella e di Boezio. A una condizione, però, che questo epos allegorico in primo luogo sia reso enciclopedico; e quando uso questa parola, la uso in senso medievale, cioè non con il significato moderno di una pianificazione razionale, ma secondo una connessione insieme retorica e dialettica come quella che figura nelle summae. In secondo e piu eminente luogo, che esso sia volgarizzato, vale a dire sottratto al monopolio dell'espressione clericale. Almeno Jean de Meung è un traduttore professionale. In una letteraprefazione a Filippo il Bello elenca le sue traduzioni, pro-
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babilmente, pensa il Langlois, in ordine cronologico, allo stesso modo che Chrétien de Troyes all'inizio del suo Cligés elenca i propri romanzi. Basterà citare le versioni da Vegezio e da Boezio, e notare che quest'ultima è stata adoperata da Chaucer mescolando la traduzione diretta dallatino con la traduzione indiretta attraverso il francese. Dunque, Jean de Meung è un volgarizzatore e traduttore nel senso plenario di questo termine e si lega a un potere politico, questo è essenziale, anche se per avventura esso non soltanto è diverso da quello idealizzato da Dante, ma addirittura opposto, visti i rapporti che Jean ha (o spera di avere) con la dinastia capetingia (s'è rammentata ora la lettera a Filippo il Bello), e addirittura col ramo angioino, tanto che uno dei suoi idoli è, nella seconda Rose, Carlo d'Angiò. Naturalmente in questa sede è del tutto normale mettere fra parentesi la geniale «trovata artistica» per cui il simbolismo dantesco, attuato mediante «personaggi rappresentativi», oltrepassa, come ha magistralmente mostrato il Gilson, quello della Rose, procedente per «astrazioni personificate». Oltre al patronato necessario ma generico, esistono poi le dipendenze singole ed assolutamente irrecusabili della Commedia dalla Rose: per il momento prescindo dalla presenza del Fiore e ricordo di volo argomenti assai famosi, come quello portato dal D'Ovidio che credeva di riconoscere, nella candida rosa terminale del Paradiso, un'allusione sublimata alla rose, in tanto piu profano significato, del romanzo. E ci sarà occasione di citare il rapporto tra il paesaggio di paradiso terrestre in cui si muove Matelda e la descrizione iniziale di Guillaume de Lorris ',e cosi di séguito. Ma specialmente parlante per una derivazione diretta è la presenza di una fuma con l'identificazione di personaggio-autore in entrambi i testi. Naturalmente la situazione della Rose è del tutto particolare, perché il romanzo ha due autori e il secondo autore identifica Guillaume, primo autore, col personaggio che dice «io» e introduce successivamente la pro1 Rapporti tra Matelda (e Lea) e l'Oiseuse di Guillaume ha messo in evidenza il Kohler (nella Zeitschrift fur romanische Philologie del 1962), meno seguito che corretto dal Fleming.
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fezia dell'avvento, dopo morto Guillaume, di Jean de Meung. Comunque è decisivà la prova di un rapporto diretto. E allora viene la curiosità di chiedersi dove e come Dante avrà conosciuto la Rose. Una risposta è stata avanzata dall'amico Francesco Mazzoni, il piu informato dei dantisti attuali: egli ha pensato a una mediazione di Brunetto. Brunetto Latini sarebbe il collocatore di tutta la cultura francese tra i suoi conterranei, una sorta di press agent anche quando fu rimpatriato dopo Benevento (o comunque nel 1266). Non ne scende fatalmente un'adesione alle tesi per esempio del Benedetto, che vedeva il T esoretto soggiacere all'influenza di entrambe le Roses: si noti, si ammette che la Rose sia stata terminata intorno al 1280, a ogni modo prima del 1282, mentre il Tesoretto fu composto durante l'esilio in Francia, tra, dunque, il '6o e il '66. Ma una continuità di relazioni culturali e di concordanze con la Francia effettivamente si manifesta nell'opera di Brunetto. Per esempio, se la Rose è terminata, come dicevo, intorno all' 'So, nel Tresor, che pure appartiene all'epoca francese di Brunetto, sono introdotti dei capitoli storici su eventi posteriori, la morte di Manfredi e il trionfo di Carlo d'Angiò: proprio i due personaggi nei quali Jean de Meung incarna la sventura e la fortuna; e qui prescindo dalle affinità di gusto che si palesano ad esempio nel Tesoretto, la cui struttura non presenta alcuna curvatura, alcuna circolarità, ma, se posso usare un termine biologico, è strettamente metamerica. Eppure confesso di dubitare di questa conoscenza del poema francese in patria da parte di Dante. Si capisce, la mia diffidenza si fonda essenzialmente su assenze e gli argomenti e silentio hanno un valore limitato; e debbo riconoscere che, certo, è andato perduto molto, basti pensare che non possediamo un solo rigo scritto da Dante, e anche dalla parte della Rose le lacunosità sono molto notevoli. I manoscritti piu antichi della Rose di quando sono? È ben noto che alcuni, ma assai pochi, sono assegnati forse ancora alla fìne dell'ultimo decennio del Duecento, se pur non sono del primo Trecento. Faccio osservare che il piu antico che sia datato è, salvo errore, un codice non studiato dal Langlois perché è
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entrato di recente nella conoscenza pubblica, da quando è diventato accessibile in quella che chiamerò la Fondazione Cini della Svizzera, voglio dire la Biblioteca Bodmeriana di Cologny. Il codice della Fondation Martin Bodmer, passato per le mani di parecchi proprietari di vari paesi, tra i quali, pare, Francesco I di Francia', reca infatti la data del 1308, con la quale siamo abbastanza in giu. Per di piu c'è un unico manoscritto della sola parte di Guillaume de Lorris (fra altri testi) con una brevissima continuazione serbata anche altrove (è il francese 12786 della Nazionale di Parigi). Si aggiunge il manoscritto preferito in massima dal Langlois e seguito con sistematicità di intenzione bédieriana dal Lecoy, il francese 1573, in cui le mani sono vicine ma distinte, una che trascrive Guillaume de Lorris, l'altra che trascrive Jean de Meung. Se dunque si è persa quasi ogni traccia del solo Guillaume, e dispersa è anche la primissima tradizione di Jean, e silentio sembrerebbe proprio difficile ragionare. Ma vorrei aggiungere un'argomentazione geografica, cioè che in Italia i manoscritti della Rose sono pochissimi: con la comprensibile eccezione che si deve, o meglio si doveva, fare per Torino, perché nel disastro che la colpf, l'incendio della Biblioteca Nazionale, che seguf di poco il crollo del vostro campanile, andarono a fuoco, ahimè, anche tutti i manoscritti del Roman de la Rose i cui resti carbonizzati si conservano ora in una sorta di cimitero biblioteconomico. Ma, con questa eccezione piemontese 2 , da noi ci sono pochi manoscritti della Rose; e tutti sono di origine francese. Non so se tali fossero anche quello che è citato nella libreria degli Estensi e l'altro, probabilmente abbreviato, che il Petrarca donò a un Gonzaga. Comunque, vi dirò che il vostro codice Marciano è anche scritto in Francia, vergato in una bastarda quattrocentesca, e lo preciso non sol1 Non posso lasciar passare questo nome senza rammentare che proprio per questo sovrano fu eseguita la piu regalmente illusrrata copia della Rose, che s'è aggiunta di recente ai tesori della Pierpont Morgan Library di New York (M. 948), e in particolare ai dieci altri manoscritti del Roman. 2 Dal Piemonte proviene anche il frammento (studiato dalla Ruggieri nell'Archivum Romanicum del 1930) donato dal Bertoni all'Estense di Modena.
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tanto per ragione nobilmente municipale, ma per il fatto che in qualche repertorio si possono trovare indicazioni svianti, e tutto perché nella legatura tarda di questo manoscritto ampio, di aspetto in folio, di tipo insomma posttrecentesco, è stata compiegata una cedola contenente un testo provenzale scritto nel Nord d'Italia e probabilmente nel Veneto; manuali che, come quello del mio compianto maestro Brunei, citano questo codice per il testo provenzale-italiano, parlano di manoscritto italiano, ma in realtà il manoscritto principale fu composto indubbiamente in Francia, o per mano di uno scriba francese. (A questo proposito, tra parentesi, vorrei esortare la scuola filologica veneta che ha scrutato quel testo provenzale-italiano, oltre che a situarne la conoscenza nell'àmbito dell'intera tradizione, soprattutto ad approfondire la nostra informazione di quella letterina sul cui verso è stato scritto, che è rimasta un po' in ombra). E allora, se questi che sono argomenti e silentio possono avere un qualche valore d'indizio, non dirò di prova, nasce il sospetto che il poema Dante possa averlo conosciuto in Francia; e a fondarlo sopravviene un'altra considerazione: è il momento d'introdurre nel gioco il cosiddetto Fiore; ebbene, il codice unico del Fiore è un oggetto che ha tutta l'aria di esser sempre stato in Francia. Ne possiamo seguire la storia solo da un'epoca relativamente recente, da che risulta presente nella famosa biblioteca digionese dei Bouhier, cioè almeno dal secentista Jean III Bouhier 1 ; ma il manoscritto ora a Montpellier, se pur vergato da mano fiorentina, ha una struttura, per cosi dire, tipografica, un'impaginazione di aspetto decisamente francese. Si aggiunge d'altra parte che i fogli contenenti in modo incompleto un testo vicinissimo al Fiore, quello che lo scopritore Salomone Morpurgo chiamò Detto d'Amore, risultarono provenien1 Vissuto dal r6o7 al r67r. U codice ora a Montpellier è registrato fin dal suo primo catalogo (dr. A. Vernet e R. Étaix, presso A. Ronsin, La Bibliothèque Bouhier ecc.- «Mémoires de l'Académie cles Sciences, Arts et Belles-Lettres de Dijon», t. CXVIII [I97I], p. 227). La data del 1721, inscritta nel codice, come ben riferito dal Mazzatinti e dal Parodi, è quella della catalogazione operata da Jean IV, abbiatico del III (op. cit., p. 219). La biblioteca era stata del resto fondata da Jean l, trisavolo del III, sui primi del Cinquecento.
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ri dallo stesso antico manoscritto: ora, essi furono rittoati nel fondo Ashburnham della Laurenziana, il che li indizia pescati dal famigerato Guglielmo Libri in qualche biblioteca della provincia francese 1 • Quindi i due elementi di cui l'antico manoscritto constava indicano entrambi la Francia. Mi pare allora sommamente probabile che la conoscenza dantesca della Rose si sia verificata in Francia. Ma chiediamoci qualche cosa certamente un po' meno immaginario, per il caso che la fantasia sembrasse dominante o anzi galoppante nelle precedenti considerazioni. Chiediamoci, dico, come Dante avrà visto la Rose, come l'avrà interpretata. Direi che l'ha vista come una linearità incessantemente progrediente, a cui si oppone la curvatura della Commedia, questa spirale ascensionale, questo obbligo di numeri posti dal fren dell'arte. Il libretto della Rose è talmente elementare da essere quasi nullo; è il gesto erotico perseguito dal suo inizio fino alla sua fisiologica conclusione, e importa poco se questa dovesse essere placcata nella candi tura cortese di Guillaume de Lorris, o invece nella fanerogamia insolente di Jean de Meung. Fissati gli estremi, tutto è una sorta di vasto entre-deux; e scusate se adopero un concetto che è stato riferito a un, sicuramente, grande scrittore di Francia, a un incontestabile capolavoro di quella letteratura, nientemeno che alla Recherche du temps perdu. Proust dichiara che l'ultima pagina è stata scritta immediatamente dopo la prima, e rutto il resto è un immenso entre-deux. Ebbene, qualcosa di questo genere, con la debita ironia, si può ripetere del Roman. Naturalmente la libertà, anzi licenza, con cui si opera sopra un libretto cosi carente, è ben comprensibile in un continuatore, in un certo senso nell'Ariosto di quel 1 Con ogni probabilità a Troyes, dove Libri è attivo come cleptomane dal x84o (op. cit., pp. I ' I s.). Ora, a Troyes la biblioteca Bouhier, confiscata dalle autorità rivoluzionarie presso i cistercensi di Qairvaux (che l'~ comprata nel 1782), era stata trasferita nel 179'; ma nel 18o4 alcuni pezzi erano stati assegnati a varie biblioteche, in particolare un importante blocco a Montpellier (op. cit., p. x,o). Il manoscritto del Fiore, IXXDriamente legato con uno della Rose (al tempo di Jean III?), aveva dunque lasciato da parecchio la Borgogna, e i fogli col Detto saranno sta- Jlc:iolri dal momento della legatura.
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Baiardo, qual è Jean rispetto a Guillaume. La Commedia è evidentemente tutt'altra cosa. La Commedia è la metamorfosi dell'uomo perduto in uomo salvo. E se la Rose seguisse, diremmo che la Rose è una parodia della Commedia, ma siccome la Rose precede, diremo che nella Commedia è come un'anti-parodia della Rose; a quel modo che si parla di anti-materia, o in matematica di antimmagine. La non duratività, l'istantaneità della conclusione fisiologica della Rose dev'essere, mi sembra, comparata all'istantaneità della visione beatifica in quanto si presenti a un uomo vivo e sia, dunque, rapidamente vanifìcata. Tutto ciò avviene nella cornice comune di un'opera «comica». Un'opera «comica» tra virgolette, beninteso, con lieto fine e traversie precedenti, anche se l'inizio di Dante è veramente orrido, mentre l'apertura di Guillaume è talmente sedata che Dante, abbiamo visto, potrà ricavarne ispirazione per il suo paradiso terrestre. Effettivamente il paesaggio in cui si muove il personaggio che dice «io» di Guillaume de Lorris è chiamato una volta « parevis terrestre». Ora, di questa curvatura opposta alla linearità progrediente e metamerica è un'evidente rappresentazione simbolica nella terzina in quanto opposta al distico di octosyllabes. La terzina è un movimento di ritorno parziale e continuo mentre lo schema di Guillaume e Jean offre un'apertura totale. Da una parte, dunque, il tipo ABA, BCB, ecc., e dall'altra la formula AA, BB, ecc.,
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Questo, su cui insisto, perché è un punto capitale di cui trattò luminosamente, con una perspicacia spesso insospettata da noi moderni che ci crediamo scaltriti, Pio Rajna, questo problema, dunque, schiude il varco a una questione assai delicata, che è quella delle interpolazioni. È impossibile, si dirà, interpolare entro la Commedia. Ecco, a tutto rigore non è impossibile perché qualche interpolazione c'è, di poche terzine o addirittura di due canti interi, fatti conoscere da Ignazio Giorgi. Ma si tratta di un fenomeno teratologico, è un'occorrenza esigua nel complesso della tradizione. Al contrario, la tradizione della Rose offre un panorama di continue interpolazioni. Queste interpolazioni sono dunque agevolate e fomentate dal-
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snuttura tanto quanto sono scoraggiate dallo schema dantesco. Ma come valutarie? si tratta di falsificazioni? La conoscenza diretta di molte decine di manoscritti della Rose mi fa sorgere qualche dubbio, perché in vari casi si tratta di parti, distici ovviamente, che sono segnate in margine o in calce e quindi provengono da una collazione; ma la cosa piu importante è che un cospicuo gruzzolo di queste cosiddette interpolazioni, se collazionato col testo di base del Fiore, ha tutta l'aria di essere stato presente, di modo che io sospetto fortemente che le inserzioni rispetto al testo di Guillaume de Lorris possano eventualmente procedere, in parte almeno, da Jean de Meung, e quelle di Jean da una sua ulteriore edizione. È un problema che mi sembra aperto, benché non mi risulti che sia stato ancora posto in termini molto chiari; è vero che il Langlois, sia detto anche questo a suo merito, ha notato con la consueta acribia quali di questi passi sono attestati dal Fiore, ma naturalmente al suo tempo non si credeva che il Fiore fosse di Dante, tanto che ancora pochi anni fa suoi sonetti venivano stralciati in una scelta di rimatori minori del Trecento. E direi che c'è un'altra riserva che si può congetturare in Dante verso la Rose, un'altra riserva oltre quelle dinatura ideologica e poetica che si sono accennate, una riserva ugualmente tacita. «Sa, Dante», mi diceva una volta Curtius, «era un grande mistificatore». Ebbene, qualche volta il rifiuto serve a mimetizzare, ad ammantare di una connotazione deprezzativa un debito, un debito che dà fastidio all'autore: ricordiamo la citazione o le citazioni di Guittone e dello stesso Brunetto. Si può avanzare la proposta che la Commedia, se ci fondiamo sull'ideale traguardato dal De vulgari, sia una sintesi di requisiti comici e tragici, e in particolare che ne sia costitutiva l'assunzione di un oggetto che corrisponda insieme ai tre «magnalia» del De vulgari, la «Salus», l'«Amor» e la «Virtus». E allora chiediamoci che cosa sarà parsa, sotto questa angolazione, la Rose a Dante. Sarà stata una «commedia» in stile infimo, e non in quella che è stata chiamata l'enciclopedia degli stili. E si può dubitare che il suo contenuto, sia pure il contenuto meramente pretestuale della struttu-
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ra esterna, sia l'«Amor». Ma la cosa piu grave, non dico piu grave per Leopardi o per Freud, ma la cosa piu grave per un poeta cortese del Medio Evo, è che questo amore non soltanto sia astratto, ma onninamente scevro di morte. Per un poeta cortese, si dica Guittone: «AMORE quanto A MORTE vale a dire», «Amor dogliosa morte si pò dire, Quasi en nomo logica sposizione, Ch'egli è nome lo qual si pò partire En A e MOR, che son due divisione, E MORsi pone MORTE a difìnire»; si dica Federigo dall'Ambra: «AMOR dai savi quasi A-MOR s'espone; Guarda s'amore a morte s'apareggia». Di contro il Roman de la Rose credo che goda di questo singolare privilegio, di essere la sola, non so se grande, ma la sola grossa opera della letteratura mondiale da cui la morte sia assente. Sf, ci sono dei personaggi che muoiono, muore per esempio strozzato, poi gli tagliano la lingua, Malebouche, ma è un'entità, fin dal nome, fittizia; muoiono personaggi storici come Manfredi e Corradino, tanto per dar ragione alla fortuna di Carlo d'Angiò, muoiono personaggi mitologici come Narciso e antichi e paradigmatici come Nerone o Virginia, ma l'inventario si riduce a questo. Quando pensiamo invece alla Commedia, essa è tutta una straordinaria Nékyia, c'è un solo personaggio che non sia morto, che non sia ancora morto, il personaggio che dice «io». E in verità di questo si sono talmente accorti i contemporanei che hanno cercato di provvedere gli illustratori, i miniatori della Rose, questi colleghi, di cui si riparlerà, dei miniatori della Commedia. Qualcuno di questi manoscritti ha una grandissima abbondanza di figurazioni che dirò miniate in senso generale. (La precisazione s'impone perché il manoscritto a cui sto per accennare presenta illustrazioni acquarellate piuttosto che miniature in senso stretto). Credo che il codice contenente la maggior quota di miniature sia uno dei due Laurenziani (il 153 del gruppo Acquisti e Doni). Ebbene, con grandissimo trasporto sadico il dipintore di tali acquerelli presenta il massacro di questi personaggi mitici, remotamente storici o addirittura allegorici, perché un po' di sangue venga a pulsare nel cerebrale testo. Fino a qui dunque non si ha mediazione tra Rose e Di-
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vina Commedia. Si è avuto infatti cura di prescindere dal Fiore. È il momento d'introdurre la cosiddetta questione del Fiore, cioè la questione circa l'attribuzione del Fiore a Dante; e non starò a entrare in tutti i particolari perché non vorrei tediosamente ripetere quello che è stato stampato, anche da chi vi parla, altra volta (in particolare nel capitolo sul Fiore del volume consacrato a Dante dalla rivista Cultura e Scuola e poi nella voce dell'Enciclopedie Dantesca). Ma vorrei sottolineare che si è rivelata una curiosa illusione quella che la questione del Fiore fosse con ciò arrivata a un certo punto di maturità. Se una cosa merita di essere ripetuta, questa è che già il primo editore del Fiore, cioè Ferdinand Castets nel 188r, presenta in sostanza tutti gli argomenti, ma gli argomenti esterni, in favore dell'identificazione in Dante, s'intenda Alighieri, dell'autore. Ricorderò a velocità supersonica quali sono questi argomenti. Primo, la presenza di una firma. La firma di Durante o ser Durante compare due volte, nei sonetti LXXXII e CCII ; firma o comunque identità del personaggio che dice «io»; e il primo passo corrisponde a quello in cui è nominato Guillaume de Lorris. Un secondo argomento è qualche cosa che non compare nella Rose, un personaggio cioè comune all'interesse dell'autore del Fiore e all'interesse di Dante, il filosofo Sigieri (di Brabante). Si, c'è un Sigieri nel Roman (frere Seier o Sohier) , ma evidentemente, se non è un nome fittizio, e non credo che l'opinione del Langlois sia qui plausibile, si alluderà a un personaggio per antonomasia illustre qual era, dai tempi di Luigi VI e di Luigi VII, il riformatore dell'abbazia di Saint-Denis. E al posto di frere Seier che cosa c'è nel Fiore? C'è frate Alberto, di cui subito s'intende che è Alberto della Magna. Altro argomento si ricava dal sonetto xcvri, con la storia del lupo che si fa agnello, di cui si ha una redazione erratica, piu esattamente la prima quartina con leggere modificazioni si trova vagante e attribuita (in particolare da un commentatore antico, quello che viene chiamato lo pseudo-Boccaccio) alla leggenda di Dante. Di piu: esiste un sonetto di Dante a Brunetto, ma s'intenda (con la didascalia dei codici) un Brunelleschi, in cui si par-
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la di una pulzelletta che viene con lui «la pasqua a fare»; in questa pulzelletta si è riconosciuto qualche volta il Fiore, comunque è una scrittura che sembra di non facile comprensione, ma in casa dei destinatari ci sono «molti frati Alberti»- ecco un elemento comune al Fiore e alla Commedia-, «molti frati Alberti» che sono in grado d'intendere «ciò ch'è posto loro in mano»; e se per caso essi non fossero in grado di rispondere, si ricorra a messer Giano, che potrebbe essere eventualmente Jean, cioè l'ipsissimus autore della seconda parte della Rose. Questi sono tutti argomenti svolti in particolare da Guido Mazzoni e da Francesco D'Ovidio, ma il D'Ovidio aggiunge, come già segnalato, l'ipotesi della rosa: cioè la Commedia, come anti-parodia non soltanto della Rose ma del Fiore, in luogo di quell'insolente fanerogamia, sublima la candida rosa. Il Rajna per conto suo insisteva sull'aspetto metrico, poiché per la parte in terzine la corona, la collana di sonetti (e il Fiore è la corona piu estesa, piu che in Guittone, piu che nello pseudo-Cavalcanti), sembra preannunciare l'invenzione della terza rima. Questi sono argomenti di tipo esterno, per la verità molto portanti, ma comunque soccorrono argomenti interni, cioè di natura stilistica, assai piu vivaci, tra i quali si annoverano perfino dei riscontri portati da avversari della identificazione in Dante Alighieri dell'autore del Fiore: uno lo suggerisce lo stesso D'Ancona, un altro un nemico meno insigne, la suora italo-americana Ramacciotti che ha composto una diligente e del resto perfettamente inconclusiva dissertazione sul Fiore. Contribuiscono fautori come il Bassermann, dileggiato senza risparmio da quelli che la sapevano lunga, in particolare dal Vossler. E contribuiscono specialisti illustri ma che, almeno sul principio, non si sbilanciano. Per esempio, un riscontro importante è dato dal Vandelli: neutro, il Vandelli era psicologicamente bloccato dal fatto che il Barbi propendesse per il rifiuto dell'attribuzione. E poi, non prende posizione sull'inizio, ma reca un contributo capitale Domenico De Robertis nel Libro della 'Vita Nuova~; non so del resto se sia proprio discorrere di sua neutralità perché, anzi, il De Robertis sottolinea che il problema dev'essere ripreso da
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capo; e, nel caso che ci fosse qualche merito nelle ricerche da me condotte, il precedente necessario a queste ricerche è in quell'opera del De Robertis. Ma ci sono altri argomenti interni che per brevità distinguo in quattro categorie. Anzitutto argomenti lessicali, e cioè presenza di sintagmi caratteristici da una parte nel Fiore, dall'altra nella Commedia, per esempio la « buona speranza» di cui l'autore si nutrica, che è nel sonetto III, verso 13, del Fiore (si aggiunga la «bona spera» di xxxv 4) e che ovviamente è da comparare con la «speranza buona» di cui ci si ciba in Inferno VIII 107. Naturalmente questo esempio, e ne do uno per ogni categoria, rappresenta solo la testa di serie di un catalogo che è spesso lunghissimo. Poi, ci sono dei riscontri lessicali in rima, dove dunque aspetto semantico e aspetto fonetico vengono a coincidere: i «miglior' salmi», per esempio, questa metafora burlesca di XLV 4 in rima, da comparare coi «piu dolci salmi» di Inferno XXXI 69. Una terza categoria la direi dei riscontri lessicali associativi; per esempio nel Fiore VII 4 si dice «Se Pietate e Franchezza no·ll'acora», dove acora ha il significato letterale (accorare vale 'uccidere trafiggendo il cuore', è la parola che usa ancora il contadino toscano quando accora il maiale); ma qui acora è un verbo che si riferisce al soggetto Pietà, cosi da far pensare a Inferno XIII 84 «Ch'i' non potrei, tanta pietà m'accora». E infine una serie di riscontri meramente fonici, come nel sonetto XIV che contiene fra molte altre coincidenze «Di non far grazia al meo domandamento »; ebbene, in I nferno II 79 si ha un verso che ha lo stesso schema, e un numero notevole di sillabe si trova nella stessa posizione, «Tanto m'aggrada il tuo comandamento», dove tuo, naturalmente, si è permutato con meo. Giunto a questo punto, credevo che il piano degli argomenti esterni fosse soverchiato da quello degli argomenti interni, e questa convergenza di elementi semantici e di elementi fonici mi pareva che recasse un'evidenza non contestabile. Ma che cos'è l'incontestabilità? e che cos'è l'evidenza? Perché sta invece di fatto che bibliograficamente ci sono da registrare proteste contro questa supposta evidenza. E in particolare ci sono i due libretti di quel
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collega svizzero, civilissimo del resto nella polemica, Remo Fasani, ci sono questi due opuscoli in cui si sostiene: primo, che il Fiore non è di Dante; secondo, che è di ... Ecco, qui purtroppo comincia la difficoltà, perché il primo intervento dichiara che è di un certo autore, e questo autore è Folgore da San Gemignano, e il secondo intervento dichiara invece che è di un certo altro autore, e questo autore è Antonio Pucci. Certo questa variabilità rende a prima vista difficilmente sostenibile la tesi, ma io mi preoccupo soltanto di una cosa, che quella che io credevo evidenza non è affatto evidenza, perché quello che io credevo incontestabile è viceversa contestato; e allora non posso sottrarmi alla necessità di prender le mie misure, e questa controffensiva consisterà nel procurare di dimostrare che la consecuzione cronologica è Roman-FioreCommedia, perché allora non si potrà piu pensare a un rimatore, diciamo cosi, burlesco-realistico. o del tipo di Folgore o del tipo di Antonio Pucci, e le probabilità per rientrare nel seno dantesco diventano talmente cospicue da considerarsi decisive. Vorrei !asciarvi stasera su questa suspense: la promessa di portarvi domani gli argomenti che provano la consecuzione Roman de la Rose Fiore- Divina Commedia. Farò precedere alla lezione della sera un seminario sui casi in cui il testo tràdito dal manoscritto unico del Fiore merita, per ragioni interne o per ragioni di collazione col Roman de la Rose, di essere corretto.
II.
Proseguendo di meno in piu decisivo, un elemento essenziale della dimostrazione è stabilire la consecuzione Roman de la Rose- Fiore- Divina Commedia; dalla quale riuscirà capitalmente rafforzata la prova in favore dell'ascrizione del Fiore a Dante. Un mio amico, uno dei piu illustri critici detti «ermetici», sostiene che si può fare della filologia decente soltanto se si tiene sempre presente il secondo principio della termodinamica; è, in guesto senso, una dimostrazione entropica che procuro di stare per lO
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dare. Mi era accaduto, negli scritti citati ieri, di stabilire alcuni rapporti, che mi erano sembrati causali e non casuali, tra passi del Fiore e passi della Commedia. Per esempio, proprio da quello stesso sonetto (XIV) dal quale avevamo estratto «Di non far grazia al meo domandamento», si può ricavare il verso (ro) «Molt'è crude! chi per noi non vuoi fare». Mi pareva evidente che questo verso richiamasse immediatamente il tragico verso di Ugolino «Ben se' crude!, se tu già non ti duoli». C'è l'identico ritmo, da dire piuttosto anapestico che dattilico, se s'interpreta come ritmo ascendente, crudel si trova esattamente nella stessa posizione, la negazione nella stessa posizione. Ammettiamo che di qui non si ricavi di per sé niente, benché a me paresse di potere indurre che il Fiore era della stessa mano dell'Inferno. Ma una cosa essenziale è stabilire qual è la consecuzione, e qui soltanto un punto di riferimento esterno può essere decisivo. Vale a dire, se il testo della Rose è piu vicino a uno di questi luoghi, è chiaro che l'ordine sarà Rose- testo prossimo- testo meno prossimo, nella specie proprio Rose-Fiore-Commedia, altrimenti occorrerà escogitare la soluzione piu antieconomica che si possa immaginare, e cioè che un imitatore della Commedia abbia accostato la lettera, cosi sbalzandola a martellate, alla lettera della Rose. Ora, il verso del Fiore risale certamente ai versi di Guillaume 33 r 5 e seguente (cito sempre la numerazione del Langlois, non quella del Lecoy che è leggermente diversa): «Mout par est fele deputaire Qui por nos deus ne viaut rien faire». Questa figura si verifica parecchie altre volte, e avrete forse l'indulgenza di ascoltare qualche altra dimostrazione. Nel Fiore LXXVI 13 si legge a inizio di verso «Per altra via andrai»: chi non sente (Inferno III 91 e seguente) «Per altra via, per altri porti Verrai a piaggia»? Ma anche questo è un passo che si trova nella Rose, « Ailleurs vostre chemin querreiz», verso 10232 di Jean. Fuor di dubbio, Rose-Fiore-Commedia. Ancora, qui la cosa diventa un po' piu complicata, pensate al verso (Inferno xv 9) «Anzi che Chiarentana il caldo senta». Preti di questa informazione, ritroviamo nel Fiore (xvii 9 e seguente) «Quando Bellacoglienza senti 'l caldo Di quel brandon»:
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sentire con caldo fa una di quelle connessioni di cui abbiamo indicato ieri la portata probativa, e altrettanto (CXLV -; e seguente) «te, che de' sentire Il caldo del brandon». Ebbene, questi passi hanno un senso soltanto se riferiti alla Rose, ma non c'è piu nessun rapporto tra la Rose e la Commedia; quel rapporto che fittiziamente si poteva anche instaurare nei casi precedenti, qui è assolutamente improponibile. Vediamo, infatti, Guillaume 3473 e seguente: «Bel Acueil, qui senti l'aier Dou brandon ... ».Qui devo fare una piccola postilla anche per chi sia esperto d'antico francese. Aier è quasi un unicum, lo troverete da solo nel grande vocabolario di Tobler e Lommatzsch, ed è reso dai :6.lologi, mi sembra, in modo imperfetto. Il Langlois, cui altrimenti ho reso e renderò sempre omaggio come a uno studioso di vaglia, pretende che si tratti di a'ir col valore di 'aiuto' e dunque lo deriva dal verbo aidier. Evidentemente il Lecoy si è trovato nella stessa aporia, ma la soluzione non è piu felice, visto che risale ad AER, cioè evidentemente all'accusativo AEREM. No, qui aier è la stessa cosa che desierre e ocierre per desire e ocire, vale a dire a'ir: è la parola che ci ha dato afre, e dunque l'impeto che viene da quella fiaccola. Anche è da citare Rose I2753 «Bien sai le brandon sentireiz». Qui veramente il passaggio è graduale, si va di scatto in scatto. La stessa circostanza mi pare dimostrativa nel caso seguente. Cominciamo dalla Commedia, Inferno XXXII II, « Sf che dal fatto il dir non sia diverso», in rima con verso sostantivo. Le combinazioni di fatto e dir sono frequenti nella Commedia, e citerò Inferno rv I47 «Che molte volte al fatto il dir vien meno», o Paradiso XVIII 39 «Né mi fu noto il dir prima che il fatto». Ma è al primo passo della Commedia che si pensa per Fiore CIII II «Ma molt'è il fatto mio a·dir diverso», anche questo in rima con verso sostantivo. Qui decisivo è stabilire se questo del Fiore corrisponda a un contesto della Rose, ed effettivamente corrisponde a Jean II222, «Mout sont li fait aus diz [variante est li faiz au dit] divers», in rima con vers sostantivo. Ancora. In un passo dell'Inferno, famosissimo, dove si parla di un frate Gomita come di un barattiere sovrano,
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87, «Barattier fu non picciol, ma sovrano» potrebb'essere una pura invenzione dantesca, ma mangiamo la foglia quando troviamo Fiore LXXXVII 6 «Che re de' barattier' tu si sarai», che corrisponde letteralmente a un verso della Rose dove peraltro l'espressione ha un significato tecnico. È il verso I0938 di Jean «Tu me seras reis des ribauz», e questo è un termine del linguaggio amministrativo che designava una specie di questore o di prefetto di polizia. È evidente che 're dei ribaldi' è stato interpretato in modo generico, non tecnico, dall'autore del Fiore e che l'autore della Commedia deriva da questa trasposizione impropria come se si trattasse di un'immagine in sostanza normale 1• Un'altra osservazione: Fiore, CXII 4, «se·llo scritto non erra» (si parla della Bibbia) è un passo in cui si riflette Rose 2269, «Se la lettre ne ment» (sempre la Bibbia), sia pure in altro contesto, e ora guardate l'Inferno come coniuga il testo del Fiore col ricordo di GUillaume, «Di parecchi anni mi menti lo scritto» (xix 54). Vi darò un ultimo esempio per non abusare della vostra indulgenza, assicurandovi che l'incartamento ne contiene molti di piu: «E 'nganno ingannatori e ingannati» (Fiore cxvm 14). Ci sono anche passi paralleli in cui l'italiano usa lo stesso termine ingannare e si ha la stessa paronomasia, sennonché il termine adoperato nel contesto floreale è diverso, e quindi assistiamo a un processo di condensazione che è tipico del rifacimento parafrastico del Fiore. Rose I I 53 I (scusate se vi cito questi numeri come un predicatore quacchero, ma suppongo che qualche ascoltatore possa avere interesse al reperimento immediato dei luoghi), «Lobant lobez e lobeeurs», vale per il primo passo, ma a I2327 e seguenti, «Maint vaillant ome ai deceii ... Mais ainz fui par mainz deceiie», corrisponde (Fiore CXLIX I e seguenti) «Molti buon'uomini i'ò già 'ngannati ... Ma XXII
1 [Veramente la sinonimia di « rex ribaldorum,. e « baracteriorum rex,. anche nella Toscana trecentesca è stata ben mostrata da Luciano Rossi, Not ula sul Re dei Ribaldi, in «Cultura Neolatina,., XXXIII (1973), 217-21. Aggiungo che il termine occitanico è «rei dels arlotZ» (Guglielmo di Tudela1 str. 19, v. I, cfr. La Chanson de la Croisade albigeoise, ed. MartinChaoot, l, Paris 1931, p.,, n. 2)].
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prima fui 'ngannata tanti mesi». Dunque, un processo di condensazione da cui discende immediatamente l'altro luogo, Fiore CLXXIX 8 e seguenti, «mi credette ingannare: Ingannar mi credette, i' l'ò 'ngannata», e Inferno XVIII 2 e seguente, « lsifile ingannò, la giovinetta Che prima avea tutte l'altre ingannate». Ecco allora che l'ipotesi di lavoro, che pure è stata copiosamente esperita, che dalla Rose muova una certa derivazione nella Commedia, e che questa si rifletta indirettamente nel Fiore, di mano o del primo o addirittura dell'ultimo Trecento, si rivela come totalmente assurda e antieconomica. Diciamo, anziché entropica (secondo principio della termodinamica), una procedura che il matematico e fisico Fantappiè avrebbe chiamato sintropica. Viene in mente quello che delle sue lezioni romane racconta il suo allievo Sinisgalli: faceva girare a rovescio un film e quindi faceva assistere al ritorno del pulcino nell'uovo. È davvero un procedimento essenzialmente innaturale. Dunque, se ero riuscito a trasportare la cosiddetta questione del Fiore dall'argomentazione esterna a un'argomentazione interna, e se la connivenza di dati fonici e di dati semantici mi era parsa decisiva, ero stato smentito nel fatto da studiosi che avevano contrapposto altre ipotesi. Ora la consecuzione Rose-Fiore-Commedia sembra essersi rivelata in modo ineccepibile. In tal caso il Fiore non può essere che di un maestro operante fra il 1280 all'incirca, fine della Rose, e la composizione della Commedia. In questa gradazione non escludo che si possa ancora procedere oltre. Ma stasera vorrei sottoporre alla vostra benevola attenzione il limite che per il momento ho raggiunto, e che è questo: echi della Rose si trovano, abbiamo visto, copiosamente, per forza maggiore, nel Fiore, ma si trovano anche nella Commedia, e si trovano pure, in minor misura, in altre opere di Dante, o certamente di Dante o probabilmente di Dante e comunque della stessa mano a cui si deve il Fiore, il morpurghiano Detto d'Amore. Ora, la cosa importante è questa, che tali passi non coincidono, cioè le derivazioni del Fiore, le derivazioni del Detto, le derivazioni della Commedia, le derivazioni eventuali di altre opere minori di Dante dalla Rose non
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si ripetono (salvo gli esaminati tipi scalari), ma si integrano. Questo argomento sembra a me decisivo. Darò un paio di informazioni al riguardo. Il primo sonetto del Fiore, il sonetto iniziale, equivale al tratto che comincia al verso r68r della Rose, piu esattamente della prima parte, quella di Guillaume de Lorris. E va bene che si tratta anche di un compendio e di una catena di allusioni a luoghi precedenti. Ma potrebbe nascere il sospetto, visto che la primissima parte della Rose non ha rispondenze nel Fiore, che il testo fosse acefalo. Questo sospetto, infatti, fu almeno avanzato come ipotesi di lavoro e giustamente confutato dal Gorra. Effettivamente, se si studia la morfologia anche solo fisica di questo sonetto nel manoscritto, si vede che esso non è fornito di didascalia, né dei medesimi fregi: vuol dire che era un sonetto con una funzione, come direbbero gli strutturalisti, demarcativa. In altri termini, questo doveva essere il primo sonetto, a cui l'ultima ornamentazione speciale non fu recata, mentre l'attrezzatura che è normale per qualunque sonetto centrale manca. Ebbene, l'inizio della Rose si riflette in altre opere della sfera dantesca, e anzitutto siriflette nella Commedia. Come già ebbi a indicare altra volta, temi ricorrenti nell'inizio della Rose (temi che attraverso la letteratura poetica francese del Trecento giungono per esempio a Chaucer) sono: la visione; la profondità del sonno; l'età del sognatore, che è i vent'anni in Guillaume (« Ou vintieme an de mon aage ») e la metà della carriera vitale per Dante; la stagione, stagione che è presentata in modo antitetico, secondo un 't01toc; che del resto si ha già in antichi trova tori, all'inizio del m sonetto del Fiore, dove si dice che l'evento ha luogo «Del mese di gennaio, e non di maggio», in opposizione dunque a un testo in cui esso si verifica in maggio, che è l'inizio della Rose, press'a poco consentanea alla Commedia. E poi, il paesaggio di delizia del quale già dicevo ieri che è chiamato « parevis terrestre» e che, infatti, combacia col paradiso terrestre dantesco, quello su cui si accampa Matelda; si è in grado di citare un passo preciso della Rose e il passo esattamente corrispondente del Purgatorio, procedendo anche se si vuole dal testo successivo al testo prece-
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dente, da «Alior si mosse contra il fiume, andando Su per la riva» all'andare verso monte che si ha precisamente nella Rose, rendendo la derivazione assolutamente palese: « Lors m'en alai par mi la pree, Contrevall' eve esbaneiant, Tot le rivage costeiant». Notate che tutto questo si rifà non alla parte di Jean de Meung, non alla parte bravamente realistica, ma anzi alla parte «idealistica», per usare, mettiamo, la terminologia del Bédier. E sarebbero da aggiungere altri dati, come il tema dei sogni veritieri, «se presso al mattin del versi sogna», che è nella Rose, dove anche figura I'auctoritas, che è quella di Macrobio. E cosi, in generale, la presentazione delle figure allegoriche. Un secondo esempio, e la prova dell'integrazione verrà a essere, sembra, documentata in modo sufficiente. Nella Rose vi sono dei «comandamenti d'Amore»; evidentemente è una tavola, non che siano dieci soltanto, ma insomma una «tavola dei comandamenti». Questi comandamenti non tornano nel Fiore, dove sono sostituiti da una menzione anch'essa sacrale, poiché vi si elencano i quattro evangelisti. In compenso i comandamenti figurano nel Detto d'Amore, quindi il Detto non collima col Fiore, compie il Fiore, la sua materia di derivazione dal Rom an integra quella del Fiore . E qui andrebbero rammentati anche altri motivi legati all'opera dantesca: ne citerò due che mi sembrano estremamente significativi. Uno è il tema della retentiva della memoria; sono i versi 2053 e seguenti di Guillaume (dove capisco che esiste una fonte celeberrima perché è il proemio dei Dieta o Disticha Catonis, testo scolastico di Catone creduto il vecchio, in realtà un certo Dionisio Catone del IV secolo) : Li maistres pert sa poine toute Quant li deciples qui escoute Ne met son cuer au retenir Si qu'ill'en puisse sovenir.
Un altro tema, ma questo è addirittura un tema della Vita Nuova, è quello dello schermo che trovate nei versi 2687 e seguenti pure di Guillaume:
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Mais vers la gent tres bien te cele E quier autre achoison que cele Qui cele part te fait aler, Qu'il est granz sens de soi celer. Se questo mosaico ha un qualche significato, a me sembra che la sola soluzione possibile sia che il Fiore provenga dalla mano di Dante, ma, di piu, che rappresenti qualche cosa di organico nella sua carriera, che costituisca, insomma, una prima prova di adattamento della Rose, un primo conato, conato tuttavia, diciamo pure, massimalistico, in quanto riduzione a un realismo esclusivo, Roman portato alla mera affabulazione. Se ricordate, appunto, la ricetta compositiva di cui parlava Bédier, ecco nel Fiore una Rose che non è piu la mescolanza dell'idealismo con il realismo, sempre pronunciati tra virgolette, ma la riduzione a puro realismo. È l'introduzione di un ideale « borghese» che fa scomparire tutta la parte idealistica e cavalleresca. È una prima prova del «comico», del comico integrale, beninteso non del comico che poi risulterà nella Commedia l'enciclopedia degli stili, bensi del comico allo stato puro. È l'iperbole della caricatura linguistica. Per quanto enorme, per quanto scandalizzante sia l'abbondanza dei francesismi, qualche volta si tratta di iperfrancesismi. Non sto a tentare l'elenco completo, tanto piu che basterebbe prendere il glossario del Parodi e ricercare le forme francesi; ebbene, non tutte hanno attestazione nella Rose, e per esempio la prima che si presenti in ordine alfabetico, adrezza, cioè adrece, che si trova in rima a CLXXXIII 7 e CCXIV 3, non compare nei relativi contesti francesi, è un francesismo additizio che è stato inserito. Altri dati possono attestare questo significato di primo esperimento di adeguazione della Rose, dati metrici connessi con la già vista preparazione alla terzina, che è una delle grandi trovate di ser Durante. Un particolare inedito emerso nel seminario di stamane è che corre un rapporto dialettico mobile, non cosi apparentemente univoco, tra endecasillabo e octosyllabe: qualche volta si tratta di dilatare la materia del verso e qualche volta, invece, di scorciarla in modo nolento. Quanto esposto è probabilmente l'essenziale, il nucleo
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della dimostrazione, ma su molti altri particolari vorrei richiamare l'attenzione, e in prima istanza sull'aspetto fisico del manoscritto del Fiore. A questo aspetto fisico s'è già accennato sopra, ma ricorre alla mente un'espressione familiare al nostro Bédier: «Ces manuscrits (e simulava il gesto di accarezzare i codici) sont notre seul bien», quello che è sicuro e palpabile in filologia sono i manoscritti. Soccorrendo qui qualcosa di ben tangibile, il manoscritto di Montpellier, quale ne è l'aspetto esterno? È un oggetto molto singolare, o almeno io non ne conosco un altro che possa essergli strettamente apparentato: è una raccolta che si presenta con la pagina a doppia colonna, nella colonna di sinistra sono due sonetti, in quella di destra altri due, come salvo errore non in altre sillogi coeve; questo tipo d'impaginazione sembra, se mi si passi la parola, franco-italiano; i capoversi si alternano di blu e di rosso, cosa l • • ' ovv1a , ma quas1 costantemente, c10e costantemente con l'eccezione del primo sonetto, di cui già si è parlato, e degli ultimi, dove è evidente che non arrivò l'opera dell'ordinatore, si hanno didascalie, peraltro non rubricate: didascalie che spiegano qual è il personaggio che parla o di cui si parla. È chiaro che colui che vergò il manoscritto del Fiore imitava un manoscritto della Rose. Quasi tutti i manoscritti della Rose sono manoscritti su due colonne. Certo, qualche eccezione non manca, anche se non ho visto tutti i codici: uno è su tre colonne (il Parigino francese 378), ed è dei piu antichi, contenente anche altri testi; e ce ne sono su una colonna, il Madrileiio 10319, il Laureoziano citato, ma questo è una curiosità che colpi a suo tempo anche il Langlois, perché è un manoscritto strettissimo, alto e angusto come se fosse un normale manoscritto a due colonne tagliato cosi per il lungo, è un'ingegnòsità, una squisitezza manieristica (se di manierismo si può parlare anche per la confezione di un codice). E le didascalie? Le didascalie o accompagnano le miniature di cui discorro subito oppure segnalano che ha la parola il tal personaggio. Queste didascalie sono poco meno ~
1 Meno ovvio è però che l'alternanza di blu (con filetti rossi) e rosso (con filetti già blu) sia irregolare, nel senso che ogni faccia contiene comunque due iniziali blu e due rosse.
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cbe costanti nella tradizione della Rose. Ebbene, conosco manoscritti in cui le didascalie compaiono come i · roli correnti dei nostri volumi. T aie il Parigino francese 1574; tale il364 della Bongarsiana di Berna, che ne possiede due, uno di aspetto normale e quest'altro a cui ha conferito carattere patologico la barbarie di non so che lettore o usufruttuario, sforbiciandolo come con una lama di rasoio, non già per asportare miniature (fra l'altro quelle che vi figurano sono di una rozzezza rara), ma per il gusto puro dello sciupare: ebbene, questo seviziato documento è però prezioso ai nostri fini perché qui le didascalie rappresentano un titolo corrente, dunque qualche cosa di molto prossimo all'uso del Fiore. Ma un carattere palesemente piu ameno, meno brutalmente archivistico, è il fatto che nella loro gran maggioranza i manoscritti della Rose sono adorni di miniature (quasi tutti i manoscritti della Rose ma non quello del Fiore), con possibilità quasi illimitate di dilatazione, fino alla straordinaria abbondanza del Laurenziano Acquisti e Doni. Nonostante questo dinamismo, mi pare che sia inevitabile riconoscere un nucleo primitivo, almeno un gruppo comune relativo a Guillaume de Lorris. Vi sono alcuni manoscritti che hanno miniata soltanto la prima parte, quella di Guillaume (cosi il citato francese 378), ed eventualmente hanno un'aggiunta o pochissime aggiunte (cosi il francese 1569) nel testo di Jean. Di qui si ricava che con ogni probabilità Jean ereditò un testo di Guillaume in cui figuravano già le illustrazioni, successivamente ne furono introdotte entro il testo di Jean, con una graduale estensione. Queste variazioni hanno una portata grandissima dal punto di vista della critica testuale: se finora la genealogia dei testi è stata basata su ragioni di contenuto, sul fondamento della lezione, cosa in tutto pacifica, sullo stesso piano degli errori o delle innovazioni si trova anche questo dato fisico, la presenza di uno o altro tipo di miniatura: siamo dunque ricondotti molto addietro. Citerò ad esempio il fatto che, quando la miniatura iniziale del poema (di cui parlerò tra poco) è quadrilobata, si ha il contrassegno d'una famiglia determinata, allo stesso modo che servirebbe a individuarla la presenza della tale inter-
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polazione o della tale variante redazionale. I modelli sono costanti, anche se muta lo stile, e certo è un test straordinario questa ricerca della variazione nell'aggiornamento partendo da una base tematica comune. Citerò due esempi che sono tra i piu insigni dei testimoni che ho avuto in mano, il manoscritto di Sainte-Geneviève (s'intende il 1126, quello miniato) e uno dei Vaticani Reginensi (il 1492); il manoscritto di Sainte-Geneviève s'ispira a un gusto gotico estremamente arcaico, sono miniature lussuose, messe a oro, in qualche modo di un romanico ritardato, mentre il gotico fiorito, cosmopolitano, internazionale si espanderà nel Reginense, a parità di sostanza rappresentativa. Questo ci pone sulla strada di una domanda, se non ancora di una soluzione: che significato ha questa visualizzazione? Abbiamo parlato, a proposito dell'assenza della ;norte nella Rose, di alcuni personaggi storici o favolosi o mtichi di cui sono narrate le occorrenze, specie le tragiche. C'è (per esempio nel francese r 56 5 e nel codice di Ginevra) la miniatura che rappresenta Manfredi ammazto di propria mano da Carlo d'Angiò; in Sainte-Geneeve è ucciso Corradino, e Virginia decapitata come una cartire. Ebbene, queste miniature di materia storico-miogica appartengono alla porzione aggiunta, cioè non partengono al nucleo centrale, alla parte archetipica. Vediamo il minimo di cui si accontenta un numero no·evole di manoscritti della Rose (per esempio i francesi - -, 8oo, 8o4, 812, 1572 o il nostro Riccardiano). È la =.::Uatura iniziale. Che cosa significa questa miniatura iniziale, la quale rappresenta un dormiente? Ovviamente è un segnale presentato direttamente al lettore per avvertirlo che quello di cui qui si discorre è un «so n ge » o una «avision» 1 • Poi, si ha una curiosa modificazione, anch'essa estremamente interessante da un punto di vista ermeneutico: il ritrattato si sdoppia, cioè al personaggio oriz1 È la giusta soluzione che il Brieger, coautore (col Meiss e il Singleton) della summa sulle illustrazioni dantesche, offre per l'unico caso (codice Egerton) in cui inizialmente Dante sia rappresentato come dormiente in letto, e accanto come deambulante. Non gli starà alla base l'uso della
Rose?
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zontale si accompagna un personaggio verticale, che è lo stesso ma il suo «doppio», uno è il dormiente, l'altro è il dormiente sognato, il personaggio che dice «io»; la scissione tra autore e personaggio che dice «io» è segnata nel passaggio dallo stato orizzontale allo stato verticale. Anche questa è una dichiarazione iniziale di doppio registro di notevole importanza esegetica. non però fatta in parole, ma data immediatamente in figura. Piu tardi può sopraggiungere una variazione che certo corrisponde ad una alterazione della situazione originaria, cioè il personaggio verticale, quando sia solo, è munito di una clava o bastone fronzuto, è quello che posava il capo su un certo fascio d'erba e su di esso sonniferava, come dice splendidamente il testo del Fiore. Si tratta del personaggio chiamato Dangier (nel Fiore, lo Schifo). Ebbene, questo personaggio armato di questa sorta di clava fiorita o fronzuta si ritrova addirittura nella illustrazione che travalica lo stadio dei codici, cioè negli incunabuli. Se prendete un manuale estremamente accessibile come può essere il Dizionario delle Opere di Bompiani, vi troverete riprodotta la silografìa iniziale di un'edizione quattrocentesca in cui compare appunto la figura provvista di una specie di mazza. Questa è nella sua evoluzione la miniatura iniziale e il minimo di rappresentazione figurativa. A uno stadio ulteriore appartiene la presentazione di personaggi allegorici, come possono essere i vizi, come può essere il dio d'Amore munito di corone, di ali, di arco, poi di frecce; e la zona miniata piu comune a Jean de Meung è appunto della stessa natura, in modo particolare è notevole la rappresentazione, si può dire costante, di Faux Semblant: Faux Semblant, che ovviamente appartiene alla sfera ecclesiastica; e posta la polemica contro gli ordini mendicanti (francescani e domenicani) attorno all'università di Parigi, nella sua veste bianca sotto a un manto nero va riconosciuto l'abito domenicano. Che questa rappresentazione si ritrovi in una quantità di manoscritti (Sainte-Geneviève o francese 380 o Mazarine 3874) ',non è evidentemente 1
Qualche altra indicazione: francese 1'67, Arsenal 2988, M01gan 324
e '03 , ecc.
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un caso, ma significherà la presenza di una situazione archetipica. Ebbene, le miniature, piu sono antiche e, ripeto, probabilmente archetipiche, piu sono esegetiche e meno sono ornative. Insomma, a dirla in una parola, il Roman de la Rose ci appare originariamente come un libro illustrato. Qualche volta compaiono parole come« point » o «portrait» («Aprés fu pointe Covoitise», «Aprés refu portraite Envie» eccetera). Ebbene, sono indicazioni da intendere anche letteralmente, cioè: io vi descrivo in parole le images che potete vedere riprodotte qui a fianco. L'osservazione che il Roman de la Rose nasca come libro illustrato, non ricordo sia stata fatta in precedenza; è un piccolo uovo di Colombo, ma questo uovo di Colombo meriterebbe forse di essere saggiato su altre mense, perché quest'idea apre una quantità di problemi su libri medievali (beninteso oltre quelli che, come le Danze macabre, i 'Tre morti e tre vivi', il Mors de la Pomme e affini, si fondano espressamente su una simbiosi di parola e vignetta). Io vi confesso che il rilievo mi comunica l'ansia di esplorare quasi per ogni testo medievale se poteva essere inizialmente un libro illustrato, ed evidentemente per alcuni testi la risposta è ovvia, per altri solo probabile o possibile. Certa è per Francesco da Barberino, che esegui anche le illustrazioni per la copia solo parzialmente autografa dei Documenti d'Amore, mentre per quella interamente autografa aveva sotto mano un buon miniatore. Ma per esempio l'Intelligenza, il poema anonimo in nona rima dell'Intelligenza, sarà nato come un libro illustrato, visto che vi si descrivono, come nella prima Rose, rappresentazioni figurali? Purtroppo, la tradizione dell'Intelligenza è estremamente scarsa (due codici) e la miniatura ridotta al limite (anche qui l'iniziale nel solo non acefalo), ma il sospetto è legittimo (una situazione analoga, solo meno povera, offre il Fauvel di Gervais). Un caso singolare, pur appartenente al territorio di un genere tutto da studiare (penso soprattutto al vostro Giacomino da Verona), è quello di uno scrittore estremamente modesto, Bescapè, illustrato nel codice unico da un ragguardevole miniatore che Roberto Longhi ha di recente scoperto come pittore su tavola. E l'Acerba? L'Acerba è all'evidenza un trattato
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che meriterebbe di essere corredato di tavole, e in fatto una parte della sua tradizione è una traduzione figurale estremamente rilevante per la presenza del grande manoscritto Laurenziano. Si è potuto definire l'Acerba un'Anti-commedia; ma appunto in primo luogo la questione si presenta per la Commedia. La Commedia era da principio un libro illustrato? Non sono in grado di dare una risposta sicura a questa domanda, e debbo anche ammettere che mi pare probabile, cosi a fiuto, che la Commedia non sia nata come libro figurato. Mi si dirà che l'argomento è tutt'altro che illibato, poiché alle illustrazioni della Commedia sono stati dedicati di recente i due solenni volumi di un gruppo di tre eruditi americani, due almeno dei quali frequentatori assidui dell'Italia. Tuttavia questi eminenti studiosi non mi pare che si siano posti questo specifico problema, se la Commedia sia nata come libro illustrato, tant'è vero che nel superbo corredo di tavole sono mostrate piuttosto le scene differenziate che le canoniche, quelle la cui eventuale convergenza sembrerebbe il solo argomento atto a suggerire una risposta positiva. Io non penserei che la Commedia nascesse quale libro illustrato, quantunque si sappia bene come l'autore, in una pagina della Vita Nuova, si rappresenti capace di «disegnare figure d'angeli» «sopra certe tavolette». Tuttavia direi che la Commedia è un libro illustrabile, cioè un libro autorizzato dall'autore all'illustrazione perché contiene passi capitali in cui si è invitati a una rappresentazione visuale, basti pensare ai rilievi del Purgatorio. Vorrei dire che, come il testo della Commedia diventa un testo cantabile, diventa poesia popolare nel fabbro e nell'asinaio del Sacchetti, cosa della cui importanza il Sacchetti, mediocre borghese, non si rende affatto conto, allo stesso modo di questa realizzazione volgarizzatrice farebbe parte la sua eventuale illustrabilità quasi fosse una sorta di Biblia pauperum, diciamo di Comcedia pauperum. Ci si può chiedere quale sia su questo punto la differenza fondamentale -ed è su questa considerazione che vorrei terminare la mia esposizione - la differenza fondamentale tra il Roman de la Rose e la Commedia. Quando si parla di illustrabilità e di autorizzazione
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alla illustrazione, si pensa per opposizione ad autori che repugnavano fortemente alla proiezione dei loro fantasmi, basti citare l'esempio piu autorevole che è quello di Flaubert: Flaubert era terrorizzato al pensiero che Madame Bovary potesse cadere nelle mani di un illustratore; le cose andavano molto diversamente nel medio evo, e non in esso soltanto (Manzoni fomentò l'impresa del Gonin). Secondo me il Roman de la Rose fa soprattutto appello a una visualizzazione di carattere esegetico: inizialmente, infatti, questa illustrazione si riferisce al dato allegorico, il dato non allegorico sopraggiunge piu tardi. La Commedia, al contrario, punta sulla memoria, cioè vuole percuotere e dilacerare la memoria del lettore. Ecco peraltro una distinzione da non irrigidire all'estremo; e intanto perché la Commedia dà un lasciapassare all'illustratore, e un lasciapassare che introduce oggetti di una dignità estetica talmente elevata da far pensare alla problematica di Oderisi e di Franco bolognese: cito solo il caso del grande miniatore pure bolognese maestro Galvano che minia la Commedia oggi divisa tra la Riccardiana e la Braidense. Ma per un'altra ragione la distinzione non dev'essere indurita, che anche la Rose agf sulla memoria, cosf come la Commedia agirà sulla memoria, ma oserei dire che quella agf su memorie specializzate, su memorie di alcuni individui particolarmente attrezzati, uno dei quali poteva chiamarsi Chaucer e un altro poteva chiamarsi Dante. Le prove vorrei darle per Dante, e sarà l'ultimo esempio che sottoporrò alla vostra pazienza. Che prove che la Rose abbia agito sulla memoria di Dante? Ebbene, in prima istanza il fatto che il maestro del Fiore salti di luogo in luogo nella sua parafrasi o nel suo ricordo del testo della Rose. Pochi campioni tra i numerosissimi possibili, perché quasi ogni sonetto si presterebbe a considerazioni del genere; mi accontenterò di esporne alcuni e poi di citare il caso-limite; e qui basterà addurre magre cifre. Il sonetto n del Fiore equivale alla tratta della Rose, qui ovviamente Guillaume de Lorris, rr81 e seguenti, però il verso 13 in cui si parla del bacio, del bacio d'investitura per cui l'amante diventa 1m fedele d'Amore, risale a un passo che è parecchio piu in là, 1935 e seguenti, un passo similare al quale compari-
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rà a 1957 («sa bouche baisa la moie»), in forma da far pensare naturalmente al bacio di Ginevra o di Francesca. Ma c'è di piu, compare la formula in rima, che è una specie di zeppa, ma ha un significato quasi rituale, «sanz'altro aresto», che è una rifrazione di «senz arest», presente nella Rose in luoghi molto distanti, uno al verso 788, uno al verso 2798, sempre naturalmente in un luogo insigne e demarcativo com'è la posizione in rima. Quindi la mente di Dante attesta una cibernetica meravigliosa, per cui poteva balzare da uno ad altro passo di questo estesissimo poema. Prendiamo ancora il IV sonetto, che equivale alla tratta 1999 e seguenti, ma il penultimo verso riproduce i versi parecchio piu avanzati 2183 e seguente: Amant sentent le mal d'amer Une eure douz e autre amer; mentre, l'osservazione fu già fatta dal Parodi sui margini della copia dell'edizione Mazzatinti-Gorra appartenente alla Facoltà di Lettere di Firenze, i versi 5 e 6 riproducono invece 4272 e seguente: il est mes sires, E je ses on liges entiers.
Notate, questo sonetto è un sonetto che si sdoppia, poiché dal Fiore alla Rose si ha qualche volta un rapporto di condensazione, altre volte invece un rapporto di gemmazione. Il sonetto v è uno sdoppiamento del precedente, dove i V angeli, si diceva poco fa, sostituiscono i comandamenti, siamo dunque all'inizio del testo di Guillaume; eppure c'è un passo, il verso 12, che, è sempre un'osservazione inedita del Parodi, rispecchia un verso molto avanzato nella parte di Jean, 10368 «En vostre lei mourir e vivre». Eccetera eccetera, perché si può dire che quasi nessun sonetto si sottragga a questa giostra, a questa ginnastica straordinaria. E ora vi citerò il caso-limite, caso-limite rappresentato dal sonetto VIII, nel quale si discorre di «mastro Argus[so] che fece la nave»: in questo mastro Argusso si fonde al-Khuwarizmi, cioè l'algebrista arabo inventore del per lui chiamato algoritmo, con Argo, dal nome della nave
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passato al nome del costruttore, colui che fabbricò la nave Argo; ed è menzionato a proposito di un elenco numerabile soltanto da una mente matematica particolarmente attrezzata. Il sonetto si trova fra il sonetto vn, equivalente alla tratta 2 76 5 e seguenti di Guillaume, e il sonetto IX, che equivale alla tratta 2971 e seguenti. Come osservò già il Castets, il sonetto VIII riproduce nientemeno che 12790 e successivi (diJean). Ma come mai tanto balzo, tanta anomalia? Io mi sono chiesto se per caso questo sonetto, che non obbedisce affatto all'ordine, non fosse un sonetto vagante, un sonetto redatto a piede libero, e poi caduto fuori del competente luogo. Guardando le cose piu da vicino, mi pare che una risposta abbastanza soddisfacente si possa dare. Da notare che quel passo su mastro Argusso è uno squarcio curioso, che deve aver impressionato fortemente i lettori: i due massimi lettori della Rose, Dante e Chaucer, si accordano proprio nella riproduzione di questo brano; un luogo del Libro della Duchessa di Chaucer riproduce, traduce con la stessa fedeltà spiritosa che è in Dante, e non si potrà pensare che Chaucer avesse avuto tra le mani il Fiore. Quanto al Fiore, diamo una rapida occhiata ai sonetti circostanti per determinare se questo presunto sonetto VIII doveva stare necessariamente J1 tra il vn e il IX, pur rappresentando l'equivalente di un punto tanto piu avanzato. La posizione non sembra troppo persuasiva. Perché? Sappiamo che nel metro del Fiore il sonetto tende a diventare una strofe, e la corona tende a diventare un testo continuo; un particolare di questa continuità è rappresentato dalla ripresa di vocaboli dal sonetto precedente nel successivo; in qualche modo i due sonetti sono l'uno rispetto all'altro quello che nella poesia trobadorica sono le cosiddette coblas capfinidas, e questa ripetizione è evidentemente da inserire nel contesto storico generale della canonica interpretatio. Ebbene, il sonetto VII e il sonetto IX sono riunibili dalla presenza dello stesso vocabolo vilmente al primo e al secondo verso rispettivamente, dalla presenza dello stesso vocabolo villano al settimo e al primo verso rispettivamente. Proviamo allora a spostare VIII un po' piu indietro; può stare, questo sonetto, dopo il sonetto VI? Pare difficile, perché vil-
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lano riunisce il verso undecimo del sonetto VI e il verso settimo del sonetto vn, e l'espressione lo Schifo (con laS maiuscola, si capisce, è il corrispondente italiano di Dangier) si riproduce dal verso 13 del sonetto precedente al verso 2 del sonetto seguente. Neanche mi pare che stia bene dopo v, perché qui davvero si tratta strettamente di strofe capfinidas come in certe canzoni illustri del Guinizzelli o di Dante stesso, in quanto v termina su si parte e VI comincia con Partes(i). (È esattamente la stessa formula, con l'ovvia riserva che si parte non può stare a posizione iniziale per la legge Tobler-Mussafìa, ma ne è la riproduzione in quanto sintatticamente possibile). Invece forse c'è una possibilità di insinuare il sonetto in contestazione dopo IV, sempre ricorrendo allo stesso argomento, cioè a dire la ripetizione di parole, perché il sonetto in questione, il sonetto di mastro Argusso, contiene la chiavicella d'oro con cui Amore chiuse il cuore dell'amante, se ne parla al verso ro, ma essa riproduce la chiave di cui si discorre all'inizio del sonetto IV: sicché sembrerebbe che questo sonetto vagante avesse trovato la sua collocazione migliore. Vedete che razza di elasticità è questa per cui non soltanto tessere prossime di un mosaico complesso evocano luoghi molto distanti, ma addirittura un sonetto in qualche modo può essere sbalzato fuori del posto primitivo. Che questa collocazione sia particolarmente interessante, risulta dal fatto che il sonetto viene a situarsi dopo IV. IV che cosa significa? 1, 11, 111, IV: il sonetto viene a trovarsi dopo tutta, ma dopo soltanto la prima carta, contenente com'è stato detto quattro sonetti, primo e non ultimo della seconda carta. La memoria qui significata non è, certo, tanto la memoria di cui discorriamo a preferenza quando parliamo di Dante, cioè un'azione esplosiva esercitata sul lettore o sull'ascoltatore, quanto invece la memoria estremamente, quasi mostruosamente, ricettiva del poeta; che tuttavia è la premessa dell'altra. E allora, se non bisogna irrigidire questa distinzione tra la Rose come poema visualizzato e la Commedia come poema eminentemente vocale, come poema realizzato acusticamente, direi che nell'insieme il principio mantiene la sua verità. E la conclusione a cui si
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giunge è addirittura truistica, cioè che la grande letteratura, che può essere rappresentata simbolicamente dalla Rose, ha come contenuto specifico una mediazione intellettuale, mentre la grande poesia, la Commedia, esige esecuzione. La differenza e opposizione tra i due poemi è la differenza e l'opposizione tra la letteratura e la poesia. rrrascrizione, molto leggermente ritoccata, di due lezioni tenute alla Fondazione Cini di Venezia, data nel volume collettivo Concetto, storia, miti e immagini del medio evo a cura di Vittore Branca (Sansoni, Firenze 1973), dopo essere stata anticipata su «Lettere italiane»] .
Finito di stampare in Torino il 7 maggio I976 per i tipi della Casa editrice Einaudi
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