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Italian Pages 500 [501] Year 2023
Gennaro Sasso
Fra gli invidiosi
Nuovi saggi su Dante
viella
I libri di Viella 436
Gennaro Sasso
Fra gli invidiosi Nuovi saggi su Dante
viella
Copyright © 2023 - Viella s.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: febbraio 2023 ISBN 979-12-5469-027-7 ISBN 979-12-5469-261-5 ebook-pdf
SASSO, Gennaro Fra gli invidiosi : nuovi saggi su Dante / Gennaro Sasso. - Roma : Viella, 2023. - 497 p. : ill. ; 21 cm. (I libri di Viella ; 436) Indice dei nomi: p. [493]-497 ISBN 979-12-5469-027-7 1. Alighieri, Dante - Critica letteraria 851.109 (DDC 23.ed) Scheda bibliografica: Biblioteca Fondazione Bruno Kessler
viella
libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it
Indice
Prefazione
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1. Dante, Virgilio (e Stazio)
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2. Fra gli invidiosi
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3. La selva dei suicidi
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4. Il giudizio su Guinizzelli e il commiato dai maestri
203
5. «Nostro peccato fu ermafrodito» (Pg XXVI 82)
249
6. Considerazioni sul canto VI del Paradiso
299
7. «…a far vendetta corse/ dela vendetta del peccato antico» (Pd VI 92-93)
373
8. Dante: salvezza e predestinazione
413
Indice dei nomi
493
Prefazione
Con l’eccezione del penultimo che, in una versione leggermente diversa, apparve nel «Bollettino di italianistica», 3 (2006), pp. 15-36, i saggi che compongono questo volume sono tutti inediti. Chi desideri conoscerne la ragione può apprenderla leggendo quel che scrissi nella «Cultura», 58 (2020), p. 137. Aggiungo che le citazioni dalla Commedia sono tratte dalla recentissima edizione critica che ne ha data Giorgio Inglese per l’edizione nazionale delle Opere di Dante pubblicate presso la Società dantesca italiana. Per le altre opere l’edizione utilizzata sarà citata di volta in volta. Non potrei congedare questo volume senza esprimere il più sincero ringraziamento a Cecilia Castellani e a Paolo Falzone, che mi hanno aiutato, in questi tempi difficilissimi anche per gli studi, a reperire testi e a controllare citazioni. Gennaro Sasso Roma, maggio 2022
1. Dante, Virgilio (e Stazio)
1. Sembrerebbe di doverla includere fra le questioni oziose quella che si ponesse chiedendo quali difficoltà Dante dovette affrontare, e quali dubbi superare, quando decise che in Virgilio1 avrebbe indicato la guida nel viaggio che aveva immaginato di dover compiere nei tre regni dell’aldilà. L’idea del viaggio, di quel viaggio, non era concepibile al di fuori dell’orizzonte cristiano nel quale, in effetti, per intero si inscriveva. Le implicazioni e le conseguenze, per certi riguardi decisamente paradossali, che possono esservi indicate non contraddicono questo assunto. Si trattava, infatti, di un viaggio di redenzione e di salvezza, e come, a compierlo, era e non poteva essere che un cristiano, così era giusto ritenere che cristiano avrebbe, fin dall’inizio, dovuto essere colui che ne fosse stato la guida lungo i mai percorsi sentieri dell’aldilà.2 Malgrado le eccezionali prerogative che gli erano state riconosciute nei secoli medievali, e le leggende, addirittura, in cui il suo nome era stato coinvolto, restava fermo, per Dante, e, beninteso non solo per lui, che Virgilio non aveva conosciuto Cristo e la verità cristiana; sul che, fin dalla presentazione che ne aveva fatta nel primo canto dell’Inferno, egli aveva insistito con parole che non ammettevano, né lasciavano dubbi. Virgilio era stato bensì salutato come una «fonte che» spande «di parlar sì largo fiume», ma, quasi a voler subito avvertire che il «parlare» indicava qui piuttosto l’eloquenza e la letteratura che non l’alta verità filosofica e teologica, aveva avuto cura di far sì che, nel presentarsi e svelarsi, egli in primo luogo si definisse «poeta», aggiungendo di essere nato «sub Julio»3 e vissuto «a Roma sotto ’l buon Augusto/ nel tempo deli dei falsi e bugiardi». Di sé stesso, in poche parole, Virgilio aveva detto tutto quel che, nel caso in questione, non avrebbe potuto non esserlo. Era stato il poetico cantore di Enea, il «giusto figliuol d’Anchise». Ed era vis-
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suto prima che la verità cristiana illuminasse il mondo. Aveva affermato queste due verità in versi celeberrimi, mille e mille volte commentati, ma dai quali non può prescindersi, e che occorre rileggere, quando s’intenda guardare al profilo, lo si chiami così, «strutturale» della questione concernente lui e il compito che gli era stato assegnato da chi intendeva salvare Dante dal mortale pericolo della selva. Versi dai quali sarebbe tuttavia impossibile ricavare l’idea che quella che Dante si accingeva a narrare fosse niente più che una favola poetica, ficta, perciò, e non vera, intessuta con parole diverse da quelle con le quali Virgilio aveva raccontato, secondo verità, il lungo peregrinare di Enea, scampato alla rovina di Troia e infine pervenuto ad lavinia litora. Di questo, ossia della verità storica che costituiva il carattere della narrazione virgiliana, Dante non dubitava. Virgiliana era l’idea del sangue troiano «mischiato» con quello romano, virgiliana l’altra, espressa con le parole di Anchise nel sesto dell’Eneide, secondo la quale Roma non avrebbe incontrato «né termine di cose né di tempo» nell’impresa volta a fondare un «imperio sanza fine»,4 come virgiliana sarebbe stata, nella Monarchia, l’idea che «romanus populus a natura ordinatus fuit ad imperandum».5 Quella di Virgilio era «poesia», ma, essendo tale, era anche «narrazione» di res vere, non fictae. Veri, anche se, per un altro aspetto, poetici, erano i personaggi virgiliani evocati ai vv. 107-109: «la vergine Cammilla,/ Eurialo e Turno e Niso». La concordanza che, in tema di storia romana, Dante aveva stabilita fra quel che leggeva nell’Eneide e avrebbe poi scritto nel Convivio e quindi nella Monarchia, non prevedeva eccezioni. Ma, al poeta che l’avrebbe guidato nel viaggio ultramondano, egli assegnava un carattere ulteriore. A Beatrice che l’informava del compito che gli era stato assegnato Virgilio non aveva mosso obiezioni. Fin dal primo momento aveva mostrato un carattere che del suo personaggio, e lo vedremo, costituisce un tratto fondamentale. Sebbene stesse nel Limbo dove, per l’eternità, avrebbe pagato per aver ignorato il vero Dio, della sua verità, e dell’impossibilità che al suo volere ci si potesse sottrarre, era tuttavia tanto consapevole quanto lo era del suo essere appartenuto al mondo dei falsi dèi antichi e del non averne potuto, e non poterne, evadere. Della prigione da cui gli era vietato di venir fuori e del perché vi fosse stato rinchiuso, si era reso, post mortem, a pieno consapevole, come se, giunto lì, fosse cominciata per lui una nuova vita spirituale, e gli fosse stato dato di mettersi al passo con i progressi del sapere, che era ormai sapere cristiano, scienza, filosofia, teologia, tutto ciò di cui egli si sarebbe mostrato puntualmente informato durante il viaggio che, con Dante, avrebbe
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compiuto nell’Inferno e nel Purgatorio. Di questo tratto paradossale per il quale, come se fosse cosa ovvia,6 Virgilio era venuto svolgendosi, nel Limbo, in accordo con quel che accadeva nel mondo dei vivi, deve prendersi atto; e vi si deve insistere come sull’aspetto sul serio originale dell’idea alla quale Dante lo conformò, senza mai dare a essa alcun consapevole rilievo. A più riprese, nel corso della trattazione, si dovrà parlarne, ribadendo che nel Limbo era diventato quel che in vita non aveva potuto essere: non un’anima cristiana, perché questo gli era vietato dal suo non avere, da vivo, conosciuto il vero Dio, ma un dotto cristiano sì. Si dovrà parlarne per ribadire la centralità di una questione alla quale non sembra che si sia attribuita l’importanza che si deve riconoscerle.7 Da una parte, dunque, il possesso intellettuale della verità cristiana. Da un’altra, l’impossibilità di farne il principio della sua redenzione. Donde, per dir così, l’incertezza tonale del personaggio. E la ragione, non solo della sua complessità e tristezza, delle quali si cercherà, via via, di mettere in luce i diversi aspetti, ma anche della sua unicità. Non si sarebbe infatti nel giusto se della peculiarità per la quale Dante gli assegnò la capacità di aver acquisito nell’aldilà la conoscenza di quel che l’umanità aveva operato e pensato dopo la sua morte, si disconoscesse il carattere osservando che, dopo tutto, ai dannati del regno infernale era pur assegnata la capacità di leggere, se non nel presente, nel futuro.8 Quella della prescienza dei dannati è una questione complessa; più, in effetti, di quanto non si sia per lo più pensato.9 Ma non ha niente a che vedere con la capacità che a Virgilio fu tacitamente assegnata di essere in possesso, al di là del dotto e del poeta che era stato nel corso della sua vita mortale, dei luoghi essenziali della scienza, della filosofia e persino della teologia cristiane. Per i dannati che, per la loro maggior pena, vedevano il futuro e non il presente, questa capacità, importava bensì un arricchimento di conoscenze specifiche, non però l’acquisizione di una nuova idea generale della realtà. Non importava, soprattutto, l’acuta sofferenza che il possesso del nuovo che via via si andava formando nella storia umana non poteva non generare in chi, come Virgilio, da esso, e dalla verità intellettuale della quale veniva via via in possesso evolvendosi con i tempi, non era tuttavia in grado di ricavare la più profonda conoscenza di Dio, che, senza fede, non si può infatti conseguire. È a questa complessa situazione spirituale che Virgilio alluse quando delle anime del Limbo disse che, «sanza speme» vivevano «in disìo»,10 e a questo tema impose molteplici variazioni. Non si desidera quel che non si conosce; ma si può essere consapevoli di quel che non si può conseguire. Il tormento di
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Virgilio ha la sua origine, e la sua ragione, nell’irreparabile sconcordanza fra il sapere conseguito e l’inconseguibile fede, nonché nel paradosso che deve riconoscersi alla radice della guida che egli offrì a Dante. Con la sua perfezione rivelava infatti il suo limite, l’inadeguatezza del maestro, che non avrebbe potuto seguire il discepolo da lui ammaestrato nell’ultimo viaggio ed era destinato a tornare al luogo della sua pena.11 Se è così, è evidente che Virgilio è molto di più della ragione naturale giunta al pieno possesso di sé stessa;12 e, per un altro verso, è assai meno di quel che vorrebbe, e non può, essere. 2. Domenico Comparetti si meravigliò che, avendo trovato naturale che a Virgilio Dante avesse assegnato il compito di guidarlo nel suo viaggio ultraterreno, i dotti del suo tempo non si fossero chiesti perché, invece che su di lui, la scelta non fosse caduta su Aristotele, il «maestro di color che sanno». E dette, al riguardo, la sua spiegazione, alla quale si può senz’altro rinviare il lettore, che dalle sue parole apprenderà in che cosa, a suo giudizio, Virgilio si distinguesse, agli occhi di Dante, da quello della leggenda medievale, e in che senso fosse stato per lui, oltre che un grande maestro di stile, il poeta con il quale, «più che con qualunque altro autore egli» aveva meditata e maturata «l’alta idea dell’impero».13 Nella sostanza, e al di là di alcune incertezze, Comparetti aveva visto giusto. Ma si deve andar oltre. La scelta di Virgilio come guida del viaggio ultramondano conseguì all’idea che in Dante si era formata, leggendo, o rileggendo, l’Eneide, alla luce di quel che era accaduto a Firenze nell’anno che vide la sconfitta della sua parte politica e, come conseguenza di essa, l’inizio di un esilio dal quale non sarebbe mai più ritornato. Fu nell’opera che egli cominciò a scrivere quando la patria fiorentina era ormai politicamente lontana e, come poi fu chiaro, per sempre perduta, fu nel Convivio che, sul fondamento di quel che leggeva, o rileggeva, nel poema di Virgilio, nel suo mondo fece irruzione la storia di Roma che, nata sulle spiagge di Lavinio quando Enea vi giunse, si era svolta fino alla costituzione di un grande Impero. Fu allora che il suo orizzonte politico si slargò in modo decisivo e agli occhi di lui che, osservando la vicenda politica, la percorreva in tutte le sue fasi e, di tappa in tappa, la vedeva culminare nell’Impero universale, dove le contese cessavano e la ferocia delle vicende comunali si risolveva nella pace – fu allora che Virgilio assunse ai suoi occhi il ruolo del vero maestro della vita politica, e come tale egli cominciò a considerarlo, elevandolo a «maestro» e «autore»14 anche della sua letteratura.15 I maestri nei
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quali in precedenza si era riconosciuto si ritirarono per lasciare il posto a lui che, quando nella sua mente si delineò il progetto della Commedia, subito venne a farne parte: come maestro, non solo indiscusso e indiscutibile, ma anche unico, tale cioè che, alla luce che proveniva dalla sua opera, Dante ne fu indotto a reinterpretare, dalle fondamenta, la storia della sua stessa formazione artistica e intellettuale. È una questione sulla quale si dovrà ritornare e che, al di là di quel che se ne dirà in queste pagine, anche dovrebbe essere riconsiderata da chi a sé stesso assegnasse il difficile compito che consiste nella narrazione della sua vita. Ma a proposito di Aristotele, e del significato che il suo simbolo rappresentò nell’opera di Dante, deve andarsi oltre quel che si trova in Comparetti.16 La scelta di Virgilio come guida del viaggio ultramondano non cancellava quel che di Aristotele Dante aveva detto nel Convivio, e, in forma più radicale, sarebbe tornato a dire nella Monarchia. Nel Convivio, l’idea era che in Aristotele la mente umana avesse conseguito il limite estremo delle sue possibilità e si fosse posta, perciò, in necessaria relazione con l’autorità dell’Imperatore, inteso come colui che la realizzava nella perfetta città. Nella Monarchia questo dualismo fu risolto nell’identità posta fra l’intelletto e l’Impero, teorizzata in un passo cruciale del terzo capitolo del primo libro,17 e nell’eternità che, in tal modo, e sia pure in forme problematiche, era riconosciuta all’Impero; che era sempre in atto, al di là o, se si preferisce, al di qua della sua vicenda terrena, nel corso della quale poteva declinare, oscurarsi, ma spegnersi no.18 Detto questo, conviene tuttavia notare che nella Monarchia, non meno che nel Convivio, la presenza di Virgilio fu viva e non venne mai meno. Sempre egli vi fu considerato come il supremo testimone dell’Impero, e non altra da questa fu la ragione della preferenza accordata a lui piuttosto che a Aristotele,19 al quale solo per uno stridente anacronismo si sarebbe affidata la guida di un viaggio, che non ripeteva quello che, partendo dai lavinia litora, si era concluso con la morte di Cristo, ma idealmente lo richiamava. Aristotele era bensì, per Dante, e tale rimase sempre, il «maestro e duca della ragione umana».20 Ma l’Eneide era il libro sacro della storia di Roma; e quella di Roma era la storia dell’Impero in cui si sarebbero di nuovo risolti i contrasti e le violenze delle guerre civili. Virgilio perciò si aggiungeva a Aristotele. Si comincia a delineare, se si tiene conto di queste considerazioni, un tratto della sua fisionomia, al quale deve dedicarsi attenzione. Nell’opinione che Dante ne ebbe Virgilio era un grande poeta e un maestro di poesia. Ma non meno grande era stato nella sua opera il senso provvidenziale della storia di Roma.21 Fu poeta e, nell’esserlo e in
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forza del suo esserlo, fu storico veritiero delle sue fasi. L’Eneide fu perciò nello stesso tempo, e senza nessuna possibile distinzione, opera di poesia e opera di storia. Enea, nel quale si riconosceva il vero fondatore di Roma, era, per lui come per Dante, personaggio vero e non fictus. Opera di verità, e non fictio, era la Commedia. Qui sta il punto. Su ciò che ne consegue si deve ragionare. 3. Si è parlato, di storia, di verità, e di fictio. E si è parlato, com’era ovvio, di poesia. Ma poiché si è anche detto che Dante riteneva di star componendo un’opera il cui subiectum, ossia il suo «litterale», era altrettanto vero di quel che Virgilio aveva narrato nell’Eneide a proposito della storia di Roma, alla questione che ne nasceva deve dedicarsi qualche attenzione. Si tratta infatti di dar luogo, non a una digressione, ma, se possibile, a un chiarimento. La teoria secondo cui il «litterale» poteva, come avveniva presso i poeti, consistere in favole e essere perciò definibile come fictio22 era ben nota a Dante che, nel secondo trattato del Convivio ne aveva data una sintesi assai stringata, ma notevole per chiarezza e incisività.23 I poeti narravano di una realtà che non aveva, o poteva non avere, nessun riscontro nella realtà. Raccontavano favole: donde la libertà che a loro era concessa di dire cose che ad altri non lo sarebbe stata, soprattutto in materia di fede. Già all’inizio della Commedia, tuttavia, la teoria dei quattuor sensus, e delle distinzioni sulle quali era fondata, rivelava, se è così e si guarda bene, i sintomi della crisi che vi si era insinuata; e che dava segno di sé proprio nella definizione relativa alla natura del primo, del «letterale»: di quello cioè che, come si è appena detto, definiva l’opera in quanto si fosse atteggiata nelle forme della fantasia o della favola. Non che, per il tramite della Commedia, Dante avesse interesse a escludere la poesia dal regno del fantastico. A lui premeva di dimostrare che, ferma restando la definizione di ciò che è poetico, la Commedia non era, nel suo fondamento, riconducibile a quel tema, non era fictio. Ciò di cui trattava aveva a che fare con cose vere e non fittizie: cose che restavano vere quale che fosse stato lo strumento (per esempio, la visione, la fantasia, l’intelletto) che consentiva di raggiungerle e di conoscerle. Vero, infatti, e non fittizio, era il suo, come sarebbe stato chiamato nell’Epistola a Cangrande, subiectum;24 che trattava infatti dell’aldilà cristiano e delle anime, dannate e beate, che rispettivamente si trovavano nell’Inferno e nel Paradiso. C’era qualcuno che, dicendosi cristiano, poteva dubitare della sua verità? C’era qualcuno che, a proposito di quel di cui Dante asseriva di aver avuta
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diretta esperienza nell’aldilà, sarebbe stato disposto ad assegnare all’intelletto e alla fantasia25 quel che egli diceva di aver visto con i suoi occhi mortali? Che qui, dove in gioco erano l’intelletto, la fantasia e le cose, il discorso rischiasse di farsi pericoloso e, a cominciare dalla realtà di Enea, Dante potesse esserne indotto a riconsiderare i suoi concetti, è ovvio. Ma, se si va a Inferno, II 13-15, e, pesando le parole, si legge: «tu dici che di Silvio il parente,/ corruttibile ancora, ad immortale/ secolo andò e fu sensibilmente», a nessuno sfuggirà quel che è ovvio: e cioè che, se a lui era richiesto di ripetere l’esperienza della katabasis di Enea, nell’aldilà egli sarebbe andato, da vivo, con il pieno possesso dei suoi sensi mortali e ben sapendo che l’impresa alla quale era chiamato si configurava come una sfida rivolta al comune modo di considerare le cose del mondo. Poteva dubitarsene? Certo, si trattava di un dubbio relativo a un’impresa che restava di problematica attuazione quale che fosse stato il potenziamento che i suoi sensi mortali avessero, in quel caso, ricevuto dalla grazia divina. Della quale dubitare non si poteva, come non si poteva della realtà dei tre regni e del rischio al quale si sottoponeva visitandoli. Quando, per esempio, l’autore dell’Epistola a Cangrande scriveva che il subiectum della Commedia era costituito dallo status animarum post mortem,26 era ovvio che, nella trattazione che se ne fosse fatta, dovesse riconoscersi, non una favola, ma una verità, e che, deve aggiungersi, sotto questo riguardo, il rapporto con i sensi successivi era destinato a subire una profonda trasformazione e, come s’è detto, a dar luogo a un’evidente crisi. Se il letterale era vero, e veri erano i sensi successivi, si dava dunque verità e verità? Ne nasceva una questione della quale converrebbe, per altro, parlare in un’altra sede. Nel punto in cui ci troviamo deve invece aggiungersi che, sotto questo riguardo, in tanto si sarebbe potuto dire che la Commedia trattava di cose vere, per Dante, e non inventate, in quanto, fra le tante che aveva incontrate nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso, non se ne dava una che non fosse appartenuta a personaggi storici, grandi, piccoli, minimi, ma tutti, allo stesso modo, realmente esistiti o da lui considerati tali. C’era poi la questione del viaggio che – da vivo –, l’avrebbe condotto nell’aldilà. Ebbene, perché si sarebbe considerato impossibile che a un uomo vivo fosse, per grazia divina, concesso quel che lo era stato a Enea27 e a Paolo e che di quel che aveva visto rendesse conto in un libro? Sotto questo riguardo la Commedia era opera altrettanto storica dell’Eneide, se di questa si fossero considerate le parti riguardanti la storia di Roma e il viaggio di Enea nel loro significato provvidenziale. Certo, l’accesso alla realtà sopra-
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sensibile, che interveniva a questo punto del ragionamento, prevedeva che, come si è accennato, il relativo discorso fosse stato reso possibile dalla grazia divina che a Dante aveva permesso di pervenire a livelli di realtà soprannaturale fino al grado delle cose «non parventi».28 Se a questo criterio non si tiene fermo, e non lo si considera come la premessa ideale del discorso, alla comprensione di quel che in quest’opera deve intendersi per «realtà» sarà impossibile pervenire: e sempre si oscillerà fra lo scetticismo e il suo contrario. Nel suo primo discorso Virgilio aveva parlato di Enea e dei personaggi che erano vivi quando egli sbarcò sulla costa laziale, e della loro realtà non aveva consentito che si dubitasse. Realtà era Enea che con i suoi compagni aveva dato inizio a una storia che avrebbe raggiunto il suo primo traguardo con la fondazione di Roma. E realtà era Augusto che a quella storia avrebbe dato il decisivo incremento. Quando, per esempio, nel primo canto, Virgilio si presentò a Dante, di sé disse cose «vere». Era nato al tempo di Giulio Cesare, aveva condotto la sua vita «sotto ’l buono Augusto/ nel tempo deli dei falsi e bugiardi». Con qualche inesattezza cronologica, era tutto sostanzialmente vero. Ma anche di Enea aveva parlato come di un individuo storicamente esistito. Ne aveva scritto come del protagonista del suo poema, come «di quel giusto/ figliuol d’Anchise che venne di Troia,/ poi che il superbo Iliòn fu distrutto»; e aveva lasciato intendere che altrettanto vero dell’autore del poema era il personaggio che ne era il protagonista, e che sul serio, non per fictio, dopo la caduta della sua città era venuto ad lavinia litora. Lì aveva dato inizio a una nuova storia, della cui realtà non poteva dubitarsi, e tanto meno ora che, per il tramite di Virgilio e dell’Eneide, quella di Roma aveva rivelato il suo carattere di storia sacra. La storia di questi temi, e di quelli che a questi sono alternativi, è ricca di voci molteplici; ed è stata, del resto, già più volte, e egregiamente, narrata.29 Vi si apprende che, senza dar luogo a episodi polemici, la celebrazione dantesca di Enea si contrapponeva, senza enfasi, ma con decisione, al ritratto negativo che di lui era stato delineato da quanti vi avevano indicato, e vi indicavano, il segno dell’Impero, sempre tuttavia condividendo, con gli esaltatori, l’idea della sua storica esistenza. Si pensi al ritratto, fortemente critico, che di lui fu tracciato da Giovanni di Salisbury nel Policraticus,30 e da Ottone di Frisinga.31 Basterà, pertanto, osservare che la «realtà» di Enea non poteva essere, e non era, messa in dubbio, non solo da chi ne faceva il capostipite della storia di Roma, ma anche da quanti, sul fronte opposto, per complesse ragioni aventi la loro radice in istanze antimperiali, gli attribuivano le colpe più
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gravi, dipingendolo come uno che, in tanto, per esempio, era sfuggito al destino dei suoi compatrioti, in quanto li aveva traditi e del tradimento aveva saputo fare un buon uso. Può darsi che nella mente dei medievali quel che all’inizio era stato un simbolo avesse via via assunto il volto della realtà, e che il primo vi si fosse risolto senza più lasciare traccia di sé. Può darsi, viceversa, che, ripetendo sé stesso con il suo identico carattere, il simbolo avesse via via acquisito, presso chi vi ricorreva, la consistenza delle cose reali e come tale fosse considerato. Resta comunque che presso coloro che, parlando di Enea e della sua visita al regno dei morti, discutevano circa il suo esservi andato mentalmente, oppure per via magica, oppure trasferendovisi con la sua carne viva, l’equivalenza di queste possibilità implicava che anche quest’ultima era riconosciuta come possibile e da non assegnare al regno del favoloso. Non può non colpire, se è così, ma non meravigliare, che Guido delle Colonne traesse la sua idea di Enea come Romanorum rei publice princeps32 dal Corpus iuris giustinianeo,33 e, in accordo con questo, scrivesse che se «a magno Cesare Augusto imperatores ceteri dicendi sunt Cesares, multo forcius secundum primaeua tempora omnes imperatores ab Henea Heneades sunt dicendi, qui primus rem publicam Romanorum imperiali quasi sceptro imperialiter gubernauit». Per suo conto, infatti, aveva ricordato che l’eroe troiano era nato dall’unione di Anchise con Venere e che «post Troyane urbis excidium profugus cum reliquis Troyanorum per mare, cum quibusdam suis nauibus Tirenum nauigando per pelagus, post multos successus Romane urbis et Romanorum rei publice factus est princeps, de cuius stirpe inclitus ille magnus Cesar Augustus in magna felicitate processit».34 4. Dire così tuttavia non bastava, o poteva esser considerato insufficiente a risolvere i dubbi e le perplessità che naturalmente insorgono a opera dello scettico o di chi, quali che siano le sue idee, non si disponga a entrare nella logica di una situazione concettuale che si dovrebbe saper interpretare per quel che è in sé e in ragione dei suoi princìpi. Lo scettico è, per definizione, dogmatico. A differenza della donna che, come si legge nel Boccaccio, alle sue amiche indicava Dante come quello che, a piacer suo, scendeva nell’Inferno e ne tornava dando notizie,35 a sé stesso non concede la possibilità di intendere la logica interna a un’opera scritta sull’oltretomba da chi, innanzi tutto, della sua realtà non dubitava. Lo scettico si rifiuta di capire, e ha torto. Per comprendere il senso che Dante dava alla sua «comedìa», e alle vicende che vi sono narrate, l’unico criterio è quello
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per il quale era la verità della storia che aveva condotto Roma dai lavinia litora all’Impero a conferirla ai personaggi che, tra mito e realtà, l’avevano realizzata. Anche a quelli mitici che, dunque, dalla storia vera in cui erano inseriti traevano la verità. La poesia vedeva più a fondo della storia, ma non diceva cose che non fossero vere. Se ci si attiene a questo criterio, se si entra nella sua logica e a questa non si oppone l’argomento, per la verità ovvio, e che ovvio era anche per lui, della sua non corrispondenza alla normale esperienza umana, si comprende con facilità in che senso Dante considerasse «veri», non solo Farinata, Manfredi e san Pietro, ma anche Enea, Didone e i personaggi che compaiono nell’Eneide. Si comprende perché non incontrasse difficoltà a passare dall’una verità all’altra, unite per lui nell’essere la sola, indubitabile verità che stava nel fondo. Si comprende perché considerasse verità quella narrata in un libro che delineava una storia, la storia di Roma, che tanto più doveva esser giudicata vera quanto più, nel suo accadimento e al di là di questo, si fosse saputo scorgere il fine a cui tendeva: unificare il mondo, rendendo possibile che Cristo vi nascesse e, col nascervi, rivelasse il senso più autentico della storia umana che, a partire da quel momento, prendeva una direzione diversa da quella che aveva seguita fin lì. A parlarne come di realtà, e non di finzione, era Virgilio, mandato da Dio a dare inizio a un’opera di redenzione e di verità. Veri, a cominciare con Enea, erano quindi i personaggi che comparivano nel suo poema che, per questo riguardo, come si è detto, Dante considerava alla stregua di un grande libro di storia. Aveva, del resto, mostrato di considerarli tali anche nel Convivio (e poi negli excursus storici della Monarchia). Non solo nella parte del quarto trattato dedicata alla delinea zione della storia di Roma, e nel passo cruciale in cui si diceva di quel che è «scritto in Isaia: ‘nascerà virga della radice di Iesse, e fiore della sua radice salirà’; e Iesse fu padre del sopra detto David. E tutto questo fu in uno temporale, che David nacque e nacque Roma, cioè che Enea venne di Troia in Italia, che fu origine della cittade romana, sì come testimoniano le scritture».36 Non solo in questa parte. Ma anche in quella che si trova alla fine del quarto trattato e che, essendo dedicata alle diverse età della vita e ai diversi comportamenti che ne sono richiesti, fu illustrata con esempi tratti dalle vicende di Enea, preso, dunque, e considerato sì come un modello di umanità, ma reale e storico, tuttavia, non astratto, non costruito. Di lui infatti si diceva che, quando era giovane, aveva mostrato di saper «cavalcare» i suoi appetiti «secondo ragione», e qui l’esempio proposto era il comportamento tenuto nei riguardi di Didone,37 mentre, quando in seguito,
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in una successiva età della vita, si era trattato di essere «amorevole» e poi «cortese», sempre aveva, in essa, saputo esser pari a ciò che questi momenti richiedevano. «Per che è manifesto che a questa etade lealtade, cortesia, amore, fortezza e temperanza siano necessarie, sì come dice lo testo che al presente è ragionato; e però la nobile anima tutte le dimostra».38 Del resto, tanto poco, nella Commedia, Dante distingueva fra ciò che era appartenuto alla realtà dell’esistenza e ciò che si doveva alla fantasia dei poeti a cui attingeva esempi, che nell’Inferno aveva incontrati personaggi tratti dalla realtà e, talvolta, dalla letteratura, che tutti allo stesso modo erano in quel luogo di eterna sofferenza. A differenza, per questo riguardo, e converrà notarlo, di quel che avviene nel Purgatorio, dove di personaggi siffatti non c’è traccia. E bene a ragione. Quello era infatti un luogo per eccellenza cristiano, al quale non aveva accesso se non chi, per avere in vita conosciuto il vero Dio, fosse stato in condizione di essere, prima o poi, ammesso alla gloria dei cieli: a differenza, dunque, dei personaggi della letteratura, della cui realtà Dante non dubitava come non dubitava della fonte (Virgilio, Lucano, Stazio) alla quale attingeva le notizie riguardanti la loro vita e l’ignoranza in cui l’aveva vissuta del vero Dio. Le opere che lo informavano di quei personaggi e delle loro gesta erano poemi, non libri di storia. Ma sulla storicità dei personaggi di cui vi si narrava come sulla verità perseguita da chi ne era stato l’autore, Dante non mostrava, come si è detto, di avere alcun dubbio. «Virgilius per totam Eneydem gloriosissimum regem Eneam patrem romani populi testatur».39 Il concetto era questo; e questa la sua convinzione; che non appartenevano soltanto a lui. Non diversamente, per esempio, aveva ragionato Brunetto Latini, che ne aveva parlato come di un personaggio storico nel primo e nel terzo libro del Tresor: basti citare I 33, 1,40 e quindi Guido da Pisa e le sue fonti.41 Non diversamente i commentatori medievali della Commedia, che, di Enea e di Anchise, di Didone o di altri, non parlarono come di personaggi non appartenuti alla realtà, e inventati dalla fantasia poetica di Dante che li aveva messi al mondo o dato a essi nuova vita, ma, al pari di lui, come di personaggi storici, non avanzando mai seriamente il dubbio che potessero essere un’altra cosa. 5. Che, del resto, la questione non si presti a essere risolta, o, piuttosto, liquidata, assegnando la mente di chi la poneva in quei termini a una sorta di età favolosa, incapace di critica, dovrebbe apparire evidente a chi considerasse con attenzione quel che accade nella definizione che, nelle Poetiche medievali, riguardava il primo (il letterale) dei quattro sensi in
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cui la materia era divisa con l’elencazione, oltre quello, dell’allegorico, del morale e dell’anagogico. Come già si è accennato, il letterale vi era considerato come il luogo dell’invenzione o, che si dica, della favola, e quindi dell’irrealtà: come il luogo, se si preferisce, di una realtà che non era la stessa che è contemplata da occhi e toccata da mani mortali. Ma che la questione non fosse esaurita da una così semplice e banale distinzione, che, al contrario, contenesse in sé il principio di un più serio problema, e il favoloso fosse perciò destinato ad andare oltre sé stesso lì attingendo la sua vera realtà, si vede da quel che accade quando su di esso si posi l’occhio allegorizzante, che vi scava dentro e ne trae il senso che vi è riposto: il senso per il quale, al di là della sua lettera, la figura di Virgilio attinge il suo significato più profondo e più autentico, che di quello letterale è non meno appartenente alla realtà perché, anzi, lo è di più. Quello infatti è favola, questo è verità, la verità che, tuttavia, è nella favola e qui nasconde, e anche svela, il suo senso. Se perciò ci si fa attenzione, si comprende che a rivelare nel letterale favoloso quel che già in esso eccedeva il suo piano e alludeva alla realtà/verità, era proprio l’allegorico, che al letterale favoloso non si sostituiva perché piuttosto ne rivelava il senso. Intesa così, l’allegoria appariva come, non una costruzione astratta, un enigma indecifrabile da chi non avesse posseduta l’unica chiave atta ad aprirlo e svelarlo, ma come il più profondo e il più vero. E questo è il Virgilio che si era rivelato a Dante sul limite della selva, quello con cui egli ebbe a che fare nelle prime due tappe del viaggio ultramondano: non, quindi, con un’astrazione, quale sarebbe la ragione umana giunta al suo culmine, o altro del genere, ma come la sintesi dei complessi significati che il suo personaggio racchiudeva in sé e che di lui facevano, come si vedrà, una, si potrebbe dire, serena figura tragica. Da questo punto di vista, l’allegoria è veramente l’«altro» che eccede l’immediata evidenza, e conferisce alle cose il senso della loro più profonda verità; che consiste necessariamente in cose, non astratte, ma, come si sta dicendo, più profonde. In questo senso, ma solo in questo, Virgilio può essere considerato un’allegoria. La verità che si riconosceva in lui era, in primo luogo, quella di un’anima che, se talvolta accennava all’eterno esilio conseguente alla pena che gli era stata inflitta, e confidava a altri la sua interna malinconia, non era tuttavia di quelle a cui potessero essere rivolte domande che richiedessero risposte concernenti la vita che aveva vissuta sulla terra. E mai Dante si permise di rivolgergliene una che avesse questo carattere. Virgilio era in primo luogo un dotto che a Dante illustrava il senso del percorso che stava compiendo.
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E si presentava, inoltre, nel segno di una singolare eccezione. Come anima relegata per l’eternità nell’«ampia gola/ d’inferno»42 avrebbe dovuto per intero, e per l’eternità, essere concentrata e risolta nella sofferenza senza fine a cui era stata condannata, e che la conversazione con i dotti racchiusi come lui nel nobile castello avrebbe dovuto rendere più acuta, non più lieve. Ma non fu così. Nel corso del viaggio in cui fece da guida a Dante, il suo personaggio aveva mostrato di esser ben più ricco di quanto la sua natura di anima dannata avrebbe comportato. Era l’oggetto sofferente della implacabile giustizia di Dio, e non lo era tuttavia al punto da esser stato privato delle sue migliori qualità. Era un miscredente, ed era stato rivestito di tutte le qualità intellettuali che di lui facevano il maestro di un cristiano in viaggio nell’aldilà. O, se si preferisce, era uno che, dalla pena che aveva subita e che avrebbe scontata per l’eternità, era stato messo in una condizione per la quale sapeva del vero Dio senza che questo fosse diventato e potesse mai diventare il suo Dio. Quanto più sapeva di cristianesimo, e di filosofia e teologia cristiane, di altrettanto restava al di qua del confine che segnava la vera religione. La sua era, dunque, una figura scissa, a cui era vietato di ricomporre in unità le sue parti. Si va contro la natura che Dante gli attribuì, se si cerca di semplificarla e di ridurla a una nota che non sia quella dell’impossibilità che le sue molte siano ricondotte a una. 6. A proposito della verità che è stata riconosciuta, e anche non riconosciuta, al suo racconto converrà tuttavia procedere a qualche ulteriore chiarimento, che non parrà superfluo e inutile se si considera la serietà dell’argomento e la cura che Dante mise nel trattarlo. Quella che egli immaginava di aver avuta dell’aldilà era una visione, qualcosa, dunque, che, appartenendo a lui e non ad altri, poteva essere o non essere ritenuto vero senza che si desse un modo di renderlo credibile a chi non fosse stato disposto a ritenere possibile che a un uomo vivo fosse stato concesso di compiere una simile impresa. Ma, quando il viaggio non aveva ancora avuto inizio, la questione della sua credibilità si era posta anche a lui. Indirettamente, ma con decisione, anche a lui, che stava ancora sulla terra, la questione della realtà e dell’irrealtà si era presentata quando, al personaggio, o piuttosto alla figura che gli era apparsa davanti mentre si trovava sul limite della selva, aveva chiesto se fosse «ombra o omo certo»; e quando quella gli si fu rivelata come l’ombra di Virgilio, era stato in forza di qualcosa come una decisione che a quelle parole aveva creduto senza interrogarsi sulla loro credibilità. La questione tuttavia esisteva nella sua testa, ed era
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stata posta. Lo fu di nuovo quando, a proposito del viaggio che gli era stato proposto, gli nacque dentro il dubbio che un’impresa come quella potesse avere a protagonista uno come lui, che non era Enea, non era Paolo, ma era un uomo che, stando nell’aldiqua, poteva ben dubitare che un viaggio nell’aldilà fosse eseguibile da lui che, per affrontarlo, non aveva forse qualità e coraggio sufficienti. A porre la questione della realtà o dell’irrealtà di ciò che gli era stato proposto, o imposto, era stato, dunque, proprio l’uomo che si accingeva bensì ad affrontare la prova a cui era chiamato, ma avendo cura di renderla credibile. Nella descrizione che fece del mondo dei morti, il più che fosse possibile eliminò il favoloso e il fantastico o mise, quanto meno, il massimo impegno nell’eliminare l’uno e l’altro, o nel non farne, comunque, il tratto saliente del racconto. Restando aderente ai paesaggi del mondo umano, su questo modellò l’aldilà penitenziale. Per l’Inferno immaginò un enorme baratro, che conteneva paesaggi e una città. Per il Purgatorio un’altissima montagna. Fece perciò in modo che l’incredibile risultasse credibile, l’inconcepibile concepibile e, perché questo avvenisse, si ingegnò a far sì che il mondo dei morti che un uomo vivo si accingeva a visitare fosse, in sostanza, e risultasse modellato su quello abitato dai vivi e spesso paragonato a questo. Fu perciò sua cura di immettervi quanta più storia e realtà terrena potesse, di modo che, diavoli a parte, il suo Inferno presentasse paesaggi quali anche sulla terra potevano essere contemplati. Così il baratro fu niente più che un baratro, il monte del Purgatorio niente più di un monte, anche se non raggiungibile dai vivi, perché collocato nell’emisfero opposto a quello da essi abitato. I cieli paradisiaci furono cieli non inimmaginabili da chi avesse avuta l’attitudine a contemplarne, di notte, uno in cui brillassero le stelle; che, certo, nell’altro emisfero erano più luminose di quelle che brillavano nel cielo del nostro, e tali apparvero a Dante quando le vide e ne fu colpito. Ma infine erano stelle. È stato detto che la cura che Dante mise nel descrivere fin nei minimi dettagli il paesaggio ultraterreno che egli percorreva, nacque dalla preoccupazione che è di tutti coloro che, nel delineare utopie e paesaggi immaginari, nel tentativo che compiono di renderli credibili, abbondano nei dettagli, hanno cura di descrivere fin nei minimi aspetti la città o lo stato ideale che hanno nella mente, senza lasciare niente al caso e a ogni particolare trovando il giusto posto nel quadro del tutto.43 È un’osservazione importante. Ma va discussa perché dall’accettata premessa è possibile che debba trarsi una conclusione opposta. Nelle città ideali delineate in modo che solo ciò che è conforme a ragione vi trovi posto e niente vi sia che
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contraddica a questa, la storia è assente con i suoi caratteri più evidenti, perché è in opposizione a essa che il modello è stato costruito. Se il mondo appare irrazionale e imprevedibile negli accadimenti che lo determinano, nelle città ideali tutto è al giusto posto, tutto accade secondo regole inderogabili. Ma nel poema di Dante le cose vanno in modo assai diverso. Nell’Inferno, nel Purgatorio, e persino nel Paradiso, il mondo è presente con il suo tratto inconfondibile, con le passioni a cui dà luogo, con le speranze che fa insorgere, con le delusioni e tutto ciò che ne è implicato. In questo senso, risponde alla physis della sua opera la definizione che Auerbach dette di Dante come Dichter der irdischen Welt, come poeta del mondo terreno. La Commedia non è la raffigurazione di un dover essere che, per essere considerato forte e credibile, sia descritto come essente. A giudicare da quel che vi si legge, tutto, in essa, è pensato in termini, non di utopia, ma di realtà storica, anche se questa sia prospettata e osservata nell’oltrepassamento che fa di sé stessa in una nuova forma non descrivibile, in quanto tale, perché non è ancora giunta al suo atto. Non c’è un solo tratto di essa che sia dedicato alla delineazione del futuro, a meno che, con questo termine, non si intenda la proiezione, in una realtà «da far essere» del tempo felice delle origini, e il futuro auspicato sia esemplato sul passato mitico di Cacciaguida. Nella Commedia c’è un solo accenno all’utopia, se sia questa la parola che, al riguardo, debba usarsi. Lo si può cogliere nelle parole che Beatrice rivolse a Dante quando disse: «qui sarai tu poco tempo silvano;/ e sarai meco sanza fine cive/ di quella Roma onde Cristo è romano» (dove il «qui» indica il Paradiso Terrestre, e Roma il Paradiso).44 Ma, a differenza di quel che avviene per i delineatori di utopie e stati ideali, dove, come si è detto, anche al più insignificante dettaglio si trova un posto, e tutto è previsto, tutto sta dove deve stare, e la storia non è che il passato che deve sul serio passare e non tornare più, nella Commedia essa è presente in tutte le sue fasi, perché il suo carattere non è, e non può essere, quello che appartiene alle utopie. La Commedia ribolle di passione storica. Essa non è un’utopia. È un’apocalisse, che non descrive ciò che annunzia, e presuppone piuttosto il realistico ritratto del mondo destinato a scomparire. Per questo, nel tracciare, come a Dante era possibile, la linea del processo che condusse prima alla formazione dell’Impero romano, e poi alla sua decadenza, fu la storia a avere il maggior rilievo. Di qui, per tornare al tema principale del discorso, ma per intrinseca necessità e al di fuori, quindi, di ogni artificio, la centralità, nella Commedia, di Virgilio. Nel suo personaggio è simboleggiato il percorso che conduce
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l’umanità alla fine della storia e all’inizio di una nuova era. Nel momento in cui la storia umana era sul punto di subire la conseguenza della sua svolta apocalittica, il suo compito, in realtà, era terminato, e terminata era la storia quale, fin lì, si era svolta nel tempo. 7. La questione della «verità» di quel che, a cominciare dal suo esser stato, da vivo, nell’aldilà, Dante ha narrato nella Commedia, è stata trattata sotto più di un aspetto e sempre, tuttavia, con l’intento di confermarne il sostanziale significato realistico. Non invenzione, non fictio, ma realtà. Quale realtà, tuttavia? Per tenere saldamene in pugno il filo di questo non semplice discorso, si deve, giunti che si sia all’ultimo suo atto, ritornare al suo inizio e alla particolare condizione che a Dante lo rese possibile. Si deve tornare al momento da cui tutto aveva avuto inizio, e perciò a quel suo disperdimento nella selva, il cui significato sfumerebbe nella banalità di una semplice fabula, se non si arrivasse a capire che, in tanto il personaggio vi si era smarrito rendendosi vittima di una critica situazione esistenziale, in quanto questa si era impadronita di lui che aveva perso, perciò, il senso della sua identità. Nella selva, infatti, era venuto a trovarsi senza poter dire a sé stesso né dove quella fosse collocata né come e perché vi si fosse inoltrato e perduto. C’era, dunque, all’inizio di questa storia, una personalità che aveva come perso il controllo di sé stessa e della sua propria identità, che diceva «io» per aggiungere subito dopo di non sapere bene perché quello avesse preso quella strada e si fosse trovato diviso in due persone che non riuscivano più a ricomporre l’originaria unità, che aveva infatti perduto sé stessa. Da una parte, c’era l’uomo che si era smarrito nella selva e aveva perso il senso della realtà. Da un’altra, c’era pur sempre quello che era in condizione di darsi conto di questo suo estraniante smarrimento. Era come se, nella selva, vi fossero due uomini, che erano tuttavia lo stesso uomo: salvo che l’uno vi si stava perdendo, l’altro tentava di uscirne. Accanto e al di sopra di quello che si inoltrava nella selva, vi si impigliava e non trovava la via che avesse consentito di uscirne, c’era infatti, e si deve ribadirlo, pur sempre un io che la cercava e combatteva per riprendere il controllo di sé stesso e della realtà. Un io al quale la grazia divina dava la possibilità di tornare, con la guida di Virgilio, in possesso di sé stesso: un io che sarebbe stato capace di raccontare le fasi di questa grandiosa riconquista del sé smarrito se, tuttavia, avesse accettato la condizione che gli imponeva, e che importava il suo impegno a percorrere i tre regni dell’aldilà: imprescindibile condizione posta alla riunificazione
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del sé diviso. La Commedia è la storia di questa riappropriazione e delle esperienze che la resero possibile. Meglio che una storia, la si definirebbe perciò un’autobiografia, nella quale l’io raccontava con verità le fasi della sua interna scissione (la selva) e progressiva riconquista del suo senso. Sta qui il senso profondo della verità e della realtà che debbono riconoscersi al racconto che ha dato luogo alla Commedia. Quella dell’uomo che, essendosi estraniato da sé stesso, dovette affrontare un’esperienza radicale che gli consentisse di conquistare, per diretta conoscenza dell’aldilà, le parti di sé delle quali aveva perduto il controllo e la conoscenza, fu, per questo riguardo, un’avventura gnostica, e tale che della realtà obiettiva di ciò che egli veniva reintegrando nel suo sé, non c’è nessuna possibilità di dubitare.45 8. Si può, a questo punto, tornare a Virgilio quale personaggio della Commedia. Per come Dante l’aveva ideato, e per capirne il senso, deve necessariamente intendersi che durante la sua permanenza nel Limbo e, nel luogo di esso che aveva la forma di «un nobile castello,/ sette volte cerchiato d’alte mura,/ difeso intorno d’un bel fiumicello»,46 a differenza di quel che la ragione teologica avrebbe forse richiesto, Virgilio non era stato soltanto l’oggetto della pena a cui era stato destinato, né della malinconia che gli derivava dal non esaudibile suo desiderio di Dio. Non era stato soltanto questo. Non solo aveva mantenuta intera la sua umanità, ma anche era venuto via via acquisendo quel che il mondo della cultura e della religione aveva elaborato sulla terra, aveva saputo del cristianesimo e della sua dimensione filosofica e teologica, e si era messo nella condizione di essere il maestro che, al momento opportuno, sarebbe stato inviato in soccorso di Dante che lottava per uscire dalla selva. Un paradosso che, quanto meno sia stato notato, tanto più merita, non solo di esserlo, ma di essere ribadito, quando il discorso lo richiederà, in questo carattere. Un paradosso che, essendo certamente nato dalla fantasia di Dante, non per questo dev’essere attenuato nella sua anomalia teologica: è infatti proprio sull’eccezione messa in atto dalla fantasia che occorre fermarsi e riflettere. Al pari, del resto, di quello dell’eterna gioia, l’aldilà penitenziale non prevedeva che la pena e la gioia fossero suscettibili di aumenti (o diminuzioni). Entrambi infatti erano eterni, e l’eternità non è esposta a attenuazioni o accrescimenti. Ma, nel Limbo, tuttavia, Virgilio era, via via, diventato altro da quello che era quando vi era entrato. Come se avesse abitato un’accademia o un’alta scuola e avesse passato il tempo leggendo e studiando, si era reso partecipe dei progressi della scienza; e se non aveva potuto dare a sé stesso un’ani-
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ma cristiana e degna del cielo, era diventato un dotto conoscitore di quel che era accaduto dopo la sua morte. Un paradosso, si è detto, che tanto più rivelava questo carattere quanto meno Dante lo avesse dichiarato, vi avesse ragionato intorno o avesse dato segno di avervi ragionato, ma che, per capire il suo Virgilio, è così essenziale che dovrà essere scusato ogni ritorno che, di qui in poi, si sia costretti a fare su di esso. Di qui deve trarsi una prima conseguenza. Al di sopra dello stesso significato allegorico, o, comunque potenziandolo, Dante aveva innalzato un personaggio che l’acquisizione (intellettuale) di quel che gli era stato precluso in vita aveva reso, non più sereno, ma sofferente al più alto grado: un personaggio che ben poco aveva a che fare con quello costruito dalla leggenda e la cui realtà, per come egli l’aveva vissuta e costruita, era qualcosa come un poetico e dolente paradosso. Per il tramite dell’allegoria, ma andando al di là e al di sopra del suo ambito, il personaggio che era apparso a Dante superava di molto i limiti dell’antica cultura; e rimaneva tuttavia molto al di sotto della nuova che gli stava dentro come ciò che si possiede quanto basta per conferire al possesso il senso della sua incompiutezza. In forza di quel che aveva acquisito nei secoli trascorsi nel Limbo, Virgilio era diventato padrone della cultura cristiana, ma, come si è detto, alla «vera religione» non gli era stato dato di accedere. A quella era rimasto estraneo. Nell’aldilà, era infatti, già lo si è ricordato, ospite dell’Inferno, del quale abitava una parte, il Limbo, e di questo ancora una parte (il nobile castello), nella quale la sofferenza era determinata, non dalla cruda inospitalità dei luoghi, dal fuoco, dal gelo, dalle percosse feroci dei diavoli, che lì non avevano corso, ma da pure ragioni di sofferenza morale; destinate, per altro, a farsi tanto più sottili, penetranti e dolorose quanto più, la conversazione intrattenuta con gli «spiriti magni» riuniti con lui in quel preumanistico castello avesse dovuto ogni volta fermarsi dinanzi al dio che si sottraeva alla loro comprensione nell’atto in cui offriva stimoli al loro desiderio di conoscerlo. Lì, in quella parte nel Limbo, Beatrice era andata a cercarlo perché ne uscisse e ne stesse fuori per il tempo che, con lui come guida, Dante avrebbe impiegato per scendere nell’Inferno, scalare il Purgatorio e prepararsi, con un’altra guida, la sua, all’ultima ascesa (che, nel suo tratto finale, avrebbe visto san Bernardo aggiungersi e sostituirsi a lei).47 Al di qua dei significati che si fosse ritenuto di dovergli aggiungere, Virgilio era dunque, non, o non solo, un’allegoria, o, se si preferisce, un simbolo della ragione umana giunta alla sua propria perfezione. Era lo storico autore dell’Eneide, ossia del libro che, narrando la storia di Roma, dalle origini troiane all’Impero, insegnava
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la verità che doveva esservi riconosciuta. Ma soprattutto era, nel profondo di sé, un’anima drammaticamente scissa e incompiuta. 9. Se è così, il significato che Dante gli attribuì consiste, a guardar bene, nella definizione che quest’ultimo dette di sé stesso quando, presentandosi a lui che lottava per uscire dalla selva, disse di aver scritto l’Eneide e di esser nato «sub Julio» al tempo dei falsi dèi pagani, in una sola battuta, ponendo così una questione che era, in realtà, un groviglio di questioni. Si può cercare di venirne a capo indicandone tre. La prima, e la più importante, consisteva in ciò che, definendo «falsi e bugiardi» gli dèi pagani, Virgilio indirettamente mostrava di conoscere il dio vero, al quale non aveva potuto credere e dal quale non poteva essere accolto. È, delle tre, e lo vedremo via via, la più importante e la più complessa. La seconda riguardava l’opportunità che a un autore che aveva vissuto al di fuori della luce proveniente dal vero Dio, fosse stato affidato il compito di guidare Dante nelle prime due giornate del suo grande viaggio ultraterreno, dopo averlo aiutato a trarsi fuori della selva. La terza concerneva la scelta che in cielo si era fatta di Virgilio come della miglior guida da cui Dante potesse essere assistito nel viaggio che avrebbe compiuto nell’aldilà. Quando, nell’ombra che gli era apparsa davanti aveva riconosciuto Virgilio, Dante non aveva esitato a dichiararsi suo discepolo, in questo atto riconoscendolo maestro, anzi come l’unico suo maestro, e affidandosi a lui. Ma, se non aveva avuto dubbi nel collocarlo al di qua della linea che separava dalla falsa la vera religione, nemmeno ne aveva avuti nel ritenere che la sua sarebbe stata la miglior guida che per una simile impresa potesse trovarsi. Così, nello stesso atto, al medesimo subiectum erano assegnati due predicati opposti o, comunque, diversi, il maggior pregio e il più doloroso difetto: la virtù intellettuale e morale nel suo esser giunta al limite estremo di quel che per natura è concesso all’uomo, e la triste privazione di Dio che costituiva la sua presente, e eterna, condizione morale. Donde la domanda che, dopo secoli di ininterrotta esegesi della parola dantesca, sembra addirittura ridicolo ritenere di dover formulare, e che, tuttavia, senza alcuna presunzione di novità, deve esserlo. Al di là dei caratteri che già gli sono stati riconosciuti, chi è, propriamente, Virgilio nella Commedia? E di lui basta dire quel che egli stesso disse di sé, basta dire che, nel poema di Dante, la sua si presenta come una personalità scissa fra il passato che non poteva, e non doveva, essere cancellato, e un presente al quale era presente senza, tuttavia, poter esserlo sul serio e fino in fondo? Sono le domande che debbono guidare l’in-
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dagine e, in sé stesse, contengono la risposta. Virgilio, lo si è già detto (ma questo è un necessario, ritornante Leitmotiv) è, in sé stesso, una personalità scissa: non appartiene per intero al suo passato, e non può essere per intero contemporaneo al presente cristiano di cui, per suo maggior tormento, ha conoscenza. Sono le domande dalle quali indirettamente risulta che, nel raffigurare in questa forma la personalità di Virgilio, Dante dette prova del suo talento, non solo artistico, ma anche storico e psicologico. È difficile, come si sa, dire fino a che punto egli fosse informato della leggenda virgiliana e ne conoscesse i testi. Ma certo è che il personaggio che egli costruì deve pochissimo, e forse niente, al mago e al taumaturgo tramandato dalla leggenda, o da una parte di essa. Se, per tanti aspetti, il suo fu un Virgilio medievale, che a quello classico non impediva, tuttavia, di mostrare a tratti il suo volto autentico, la ragione, come si vedrà, è assai diversa da quella per la quale si ritenesse che a costituirne il carattere avesse contribuito quel che egli poté ricavare dalla leggenda. La forza con cui Virgilio si impose a chi, come per esempio Caronte nell’Inferno, contrastava il cammino suo e di Dante, rivelava in lui il mandato da Dio («vuolsi così colà dove si puote/ ciò che si vuole, e più non dimandare»),48non il mago;49 ed è puro arbitrio supporre che parole magiche, e non ispirate da Dio, fossero quelle che egli gli disse per piegarlo al suo volere, o le altre dette a Gerione, per indurlo a prendere su di sé Dante che con lui doveva discendere nelle Malebolge. Meno che mai Virgilio apparve con il segno del mago impresso sul volto nel grande dialogo che, nel ventunesimo dell’Inferno, sostenne con Malacoda: «‘credi tu, Malacoda, qui vedermi/ esser venuto’ – disse il mio maestro/ – ‘sicuro già da tutti’ vostri schermi,/ sanza voler divino e fato destro?/ Lascian’ andar, ché nel cielo è voluto/ ch’i mostri altrui questo cammin silvestro».50 A questo riguardo ebbe ragione Comparetti,51 non Pasquali.52 Se al suo essere l’autore dell’Eneide Dante aggiunse tratti che di lui fecero un dotto medievale, la ragione è da ritrovare nel compito che gli era stato assegnato, e che, essendo quello proprio di una guida che fosse culturalmente in grado di dominare tutti gli aspetti della civiltà, era necessario che ne partecipasse dal di dentro, e in modo profondo. La conoscenza della scienza, della filosofia, della teologia, delle quali Virgilio si mostrava in possesso erano, senza dubbio, anacronistici (e di questo non potrebbe dirsi che Comparetti mostrasse di essersi fatto un problema). Ma non potevano essere assenti nel personaggio che il cielo aveva eletto a guida di Dante nel viaggio ultramondano. L’attribuzione a lui di quei caratteri non andò tuttavia a discapito della sua più autentica, cioè storica, fisionomia.
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Dietro quello dello scienziato, del filosofo e del teologo medievale, era, in effetti, sempre visibile il volto autentico di chi aveva scritto l’Eneide – un volto che Dante aveva ben presente e mai dimenticò. Insuperabile, in effetti, egli fu nel far sì che, nel personaggio che era stato condotto al di là del suo limite storico, l’antico permanesse con un suo tratto essenziale. Di queste due attitudini egli fece altrettante dimensioni di un’anima psicologicamente divisa fra l’antico che permaneva e il nuovo che le si aggiungeva. Un’anima malinconica e dolente, incapace di pervenire alla sintesi, e alla quale tanto più Dante sentiva di dover essere grato quanto più, per un altro verso, avvertiva la superiorità esistenziale che a lui proveniva dal suo essere a conoscenza del vero Dio. 10. A questo punto, tuttavia, deve tornarsi a considerare un aspetto importante, che sta via via emergendo, della personalità di Virgilio, e, in particolare, della consapevolezza della quale, in quanto guida di Dante nelle prime due tappe del viaggio ultramondano, aveva mostrato di essere in possesso. Quando gli era apparso sul limite della selva, era stata sua cura presentarsi a Dante come l’uomo che, nato al tempo di Cesare, e vissuto a Roma «sotto ’l buon Augusto», era stato ignaro del vero Dio, ma aveva cantato di Enea, il «giusto figliuol d’Anchise». Non aveva tuttavia, prima ancora di dargli queste informazioni, mancato di ricordargli che, se aveva vissuto a Roma, non lì aveva avuto i natali. «Li parenti miei», l’aveva informato, «furon lombardi,/ mantoani per patria ambendui».53 Era un avvertimento importante, al quale deve prestarsi attenzione, non solo per la questione della lingua che Virgilio aveva parlata e parlava e che, secondo la teoria elaborata nel De vulgari eloquentia, era, non il latino, ossia la lingua-grammatica che gli era servita per scrivere l’Eneide, ma, appunto, il volgare lombardo, il dialetto che era parlato da chi fosse nato a Mantova, una città che, ai tempi di Dante, apparteneva alla regione lombarda. Non solo per la questione della lingua parlata. Ma anche, se non soprattutto, per il significato che la città, nella quale Virgilio aveva avuto i natali, era destinata a avere nel seguito della storia. La questione relativa all’ascendenza mantovana di Virgilio si sarebbe infatti ripresentata nella Commedia. Nel nome di Mantova sarebbe avvenuto, nell’Antipurgatorio, l’incontro con Sordello, e dall’abbraccio che, riconoscendosi, i due poeti si erano scambiato, Dante avrebbe tratto lo spunto per la celeberrima invettiva del sesto canto del Purgatorio. Per il discorso che qui è in atto, assai più importante è, tuttavia, quel che avvenne nel canto ventesimo
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dell’Inferno, il canto degli indovini, dei maghi e delle streghe: di dannati, cioè, che, in vita, si erano colpevolmente dedicati alla falsa arte della profezia e della varia tentazione demoniaca della natura, e ora, nella quarta bolgia dell’ottavo cerchio, pativano la conseguenza della pretesa che avevano avuta di prevedere e di predire quel che sarebbe avvenuto, mettendosi in gara con un potere che solo a Dio poteva legittimamente essere attribuito. Dalla giustizia divina che essi avevano offesa, avevano perciò dovuto subire lo stravolgimento dei loro corpi, con la schiena che aveva preso il posto della parte anteriore e con la testa che, invece di guardare in avanti, era volta all’indietro, a essa essendo stata negata ogni prospettiva del futuro. Il contrappasso era, come sempre nell’Inferno, puntualmente feroce. E Dante ritenne di doverlo sottolineare con i famosi versi che si leggono all’inizio del canto: «di nova pena mi conven far versi/ e dar materia al ventesimo canto/ dela prima canzon, ch’è d’i sommersi». Notevole è, tuttavia, che l’agitazione, di cui quei versi erano espressione, passasse anche in Virgilio: in una forma e con modi che potrebbero persino esser detti inusuali, frutto l’una e gli altri, di un particolare travaglio interiore, e del dubbio, addirittura, che, lui pure, potesse esser considerato in qualche misura partecipe di quel mondo che così fortemente gli ripugnava. È difficile, perché, se lo ha in sé, è pur vero che il testo lo tiene chiuso con sette sigilli – è difficile dire se, nel negare in Virgilio la presenza di questo carattere, Dante avesse inteso segnare la distanza che separava lui da quanti, nel costruire la relativa leggenda, avevano, nel cantore di Enea, sorpreso i tratti del mago e del necromante. Resta, tuttavia, il senso di disagio al quale, pur senza definirlo, Virgilio aveva dato espressione con i gesti e le parole di aspra condanna rivolte a Dante colpevole di aver provato, nei confronti di quei peccatori, il moto di pietà che egli, invece, escludeva che potesse riguardarli. È una scena, quella che i versi iniziali del ventesimo canto delineano, che, per quanto concerne Virgilio, non ha, nel poema, riscontri altrettanto drammatici e, anzi, nessun riscontro. In altre occasioni, sarebbe accaduto che, da maestro esperto di psicologia, egli accusasse Dante della «viltà» che, per esempio, gli derivava dal dover affrontare i rischi del viaggio che con lui stava per intraprendere lungo i sentieri dell’aldilà, oppure che si sdegnasse vedendo che troppo si faceva coinvolgere nella rissa di due dannati nel profondo Inferno.54 Ma quelli erano sdegni pedagogici, parole intese a ricondurre sulla giusta via il discepolo che tendeva a deviare da essa. La situazione che il ventesimo canto offre è, invece, tutt’altra. Quando ebbe di fronte la scena delle anime stravolte
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nei loro normali lineamenti, e, vinto, come s’è detto, da pietà, Dante non poté trattenere le lacrime («certo i’ piangea, poggiato a un de’ rocchi/ del duro scoglio»), la reazione di Virgilio fu così violenta da far insorgere il sospetto che, nei peccati che si punivano nella quarta bolgia egli fosse, o avvertisse di essere coinvolto e, nel modo più drastico, intendesse recidere, con essi, ogni possibile legame.55 Di qui, quasi a voler fare che da questa fama la sua figura fosse per intero libera, la violenza della sua reazione; che, senza alcun riguardo, egli diresse contro la pietà che Dante aveva mostrata per quelle povere creature messe, fisicamente, in così aspra contraddizione con la loro umana figura. «Ancor sè tu degli altri sciocchi?/ Qui vive la pietà quand’è ben morta./ Chi è più scellerato di colui/ che al giudicio divin passion comporta?».56 Di qui, ossia da queste espressioni durissime, piene d’ira e di quasi rabbioso risentimento, che, mentre, per un verso allontanavano da lui la figura del mago tentatore della natura, per un altro verso la richiamavano e la mettevano al centro del quadro, – di qui il tono aspro e sofferto delle sue parole, troppo coinvolte nello sforzo diretto a dimostrare che, con personaggi quali erano stati Anfiarao, Tiresia, e quindi Manto, egli non aveva proprio niente da dividere, che li disprezzava e non voleva che per la pena a cui erano condannati nell’Inferno altri provasse pietà. A turbare la sua mente disponendola a quel sentimento in lui inconsueto, era stata, evidentemente, non solo, e non tanto, la natura del peccato che lì si martirizzava. Era stata anche, e piuttosto, la presenza, fra le figure stravolte di quei peccatori, di un’ombra che egli aveva riconosciuta ricomponendone idealmente nella mente la figura originaria.57 L’ombra era quella di Manto, la «vergine cruda» di staziana memoria58 di cui si dice al v. 82, la figlia di Tiresia, alla quale la tradizione attribuiva la fondazione di Mantova, la città di Virgilio: «Manto fu, che cercò per terre molte:/ poscia si puose là dove nacqu’io;/ onde un poco mi piace che m’ascolte».59 Da questo momento in poi, la cura di Virgilio fu diretta a dimostrare che, non da Manto, dalla quale comunque le era derivato il nome, era stata fondata la città nella quale egli era nato. A fondarla erano stati uomini che, trovandosi nei dintorni del luogo nel quale, come sequestrata dal consorzio umano, l’indovina si era ridotta a vivere con i suoi servi e «a far sue arti», vi si erano raccolti dopo che essa vi aveva lasciato il «suo corpo vano». «Gli uomini, poi, che ’ntorno erano sparti,/ s’accolsero a quel luogo, ch’era forte/ per lo pantan ch’avea da tutte parti,/ Fér la città sovra a quell’ossa morte,/ e per colei che ’l luogo prima elesse/ Mantua l’appellar sanz’altra sorte».60 L’eliminazione del tema magico era,
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come si vede, eseguita in toni drastici, che non ammettevano replica: «però t’assenno che, se tu mai odi/ originar la mia terra altrimenti,/ la verità sulla menzogna frodi».61 Se tuttavia, andando alla ricerca del filo logico che dovrebbe tenere insieme le parti del discorso, quest’ultimo sia considerato sotto il profilo storiografico, non potrebbe dirsi né che l’eliminazione fosse esente da difetti, né che il distacco fra la genesi di Mantova e la storia della «vergine cruda», ossia malvagia, fosse stato stabilito in modo che il segno di questa non stesse sopra quella. Perché mai quegli uomini «sparti» che, quando la maga era viva e attiva, se ne erano tenuti lontani, chiamassero con il suo nome la città che essi avevano fondata «sovra quell’ossa morte», non è detto, né è dato capirlo. Donde la difficoltà che Dante avvertì, cercò di eliminare e reincluse tuttavia nel suo discorso nell’atto stesso in cui provava a espellerla da esso. Da una parte, si dava l’affermazione secondo cui gli uomini che avevano fondata la città nei luoghi che erano stati abitati dalla «vergine cruda» avevano proceduto, nel fondarla, «sanz’altra sorte», ossia senza far ricorso a riti magici. Da un’altra, si faceva tuttavia risalire a quello della maga il nome della città che era sorta sulle sue ossa. Che, nel seguire questa via, l’intenzione di Virgilio fosse di ridurre al minimo la presenza di Manto, è evidente: alla città essa non aveva dato che il nome. Ma è anche vero che così vi si era resa presente in ogni atto della sua vita; e che cancellabile quel nome non era né dalla sua storia né dalla sua vita quotidiana: bastava nominarla e l’ombra dell’antica strega vi si stendeva sopra, penetrando in ogni suo angolo. L’inadeguatezza della soluzione proposta mostrava perciò con chiarezza che Dante aveva ecceduto in cortesia quando aveva asserito che gli argomenti che si fossero opposti a quelli addotti dal maestro non sarebbero stati, presso di lui, se non «carboni spenti». Senza volerlo, e proponendosi il contrario, con l’argomento che Dante gli attribuiva, Virgilio aveva confermato che rendere Mantova indipendente da Manto era impossibile. A confermarlo era proprio l’osservazione relativa al suo esser stata fondata «sanz’altra sorte», ossia, come si è detto, senza far ricorso ai sortilegi, dei quali Manto era stata maestra e che così era richiamata in causa proprio dall’evocazione delle arti alle quali doveva la sua fama.62 L’avvertimento della difficoltà non valeva dunque come la stessa cosa della sua risoluzione. Il contrasto che era venuto a stabilirsi fra l’assegnazione del nome e l’assenza di riti magici non bastava a separare Mantova da Manto. E sotto questo riguardo i «carboni», per usare l’icastica espressione dantesca, erano, come si è detto, tutt’altro che spenti. Non
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è questo, tuttavia, è il punto che qui particolarmente interessa. A interessare è bensì l’altro a cui si perviene se si considera che, non perché Dante lo considerasse, e mai l’avesse considerato, un mago e un necromante, non per questo Virgilio si era sentito come obiettivamente coinvolto in quel mondo di malvagi peccatori. Vi si era sentito coinvolto, e per questo aveva reagito con insolita durezza, e quasi con rabbia («qui vive la pietà», aveva sarcasticamente esclamato, «quando è ben morta»),63 perché, senza aver niente in comune con maghi e indovini, con questi finiva per condividere, almeno in parte, un carattere. A eterna punizione della pretesa di aver guardato nel futuro prevedendolo e rendendolo perciò presente, quelli avevano la testa, e ogni altra parte del corpo (ma qui a interessare era la testa), rivolte all’indietro: guardavano ciò che era stato, e il futuro era a essi interdetto, immersi come erano in un tempo che non poteva, per essi, essere se non immobile (se tale non fosse stato il futuro sarebbe rifluito nel presente e, sia pure con e in ritardo, ne avrebbero avuta nozione). Virgilio non condivideva in niente questo castigo. Non era stato né un mago, né un indovino, né un necromante; e nel Limbo era ospite del nobile castello. I suoi occhi avevano guardato nella giusta direzione. Non di meno, al suo guardar avanti si opponeva un ostacolo dolorosamente insuperabile: vedeva, e anche in questo si rivelava il carattere della sua dannazione, quel che in vita gli era stato per intero precluso. Lo vedeva, e ne conosceva l’esistenza: sapeva di Cristo e del vero Dio. Ma era un vedere, il suo, che, vedendo, non vedeva sul serio. Vedendo sapeva che il suo non era un vero vedere, perché a esso non seguiva il possesso della cosa vista. Con i maghi condannati in quella bolgia, che, patendo in ciò un crudele contrappasso, erano costretti a guardare nella direzione opposta a quella, non solo degli uomini viventi sulla terra, ma ancor più di quelli che presumevano di vedere al di là del presente, tanto meno Virgilio aveva a che fare in quanto nessuno di loro era stato in grado di mostrargli, quand’era vivo, la figura del vero Dio. Restava fermo, comunque, che, qualunque cosa dovesse pensarsi degli indovini, c’era qualcosa che, suo malgrado, lo legava a essi. Il suo aver guardato nella direzione del vero Dio e il non aver saputo, tuttavia, vederlo, lo rendeva simile, per un verso, ai dannati della quarta bolgia con il loro sguardo rivolto all’indietro invece che avanti. È, questo, che così riceve ulteriore determinazione, il Leitmotiv della sua personalità che, come si è detto, è una personalità scissa. Ci sarà modo di parlarne via via che il personaggio mostrerà, nell’azione e nel pensiero, i tratti essenziali della sua personalità.64
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11. Si può tornare, dopo questa, che ha contribuito, si spera, a segnare un altro tratto della personalità di Virgilio, e non è stata quindi una digressione, al discorso che ne fu comunque interrotto. Si sono venute delineando alcune questioni, che sarà opportuno non confondere, e ricondurre a queste due. La prima, come si è visto, riguarda il «senso letterale», e cioè se, nel caso della Commedia che veniva proponendo il suo tema, fosse giusto intenderlo alla maniera del Boccaccio65 e di altri che, conforme alla teoria e alla definizione consueta, lo interpretavano in termini di finzione poetica, o se, al contrario, vi si dovesse riconoscere il segno della verità. La seconda concerneva la verità storica che Dante contemplava in Virgilio e della quale riconosceva apertamente il limite per essere, quel grande poeta, vissuto nell’ignoranza del vero Dio. In ragione di che gli era stato mandato in soccorso? Alla prima questione si può rispondere ribadendo che era stata la Commedia stessa a mettere in crisi, con la sua novità, la dottrina dei quattuor sensus con la quale s’intendeva spiegarla. Il suo senso letterale, il suo subiectum, consisteva, infatti, non in una favola raccontata da leggiadre parole, ma, come si leggeva nell’Epistola a Cangrande, nello status animarum post mortem: una formula arida, che suscitò il disappunto di Bruno Nardi, ma che indicava tuttavia una realtà che, per un cristiano, non poteva essere che un’indubitabile, e altrettanto evidente, verità. Una realtà e una verità che, appartenendo al senso letterale, per un verso assegnavano la Commedia piuttosto alla teologia che non alla poesia, e, per un altro, introducevano nella teoria un elemento di forte difficoltà: com’era possibile, infatti, che dalla verità si ascendesse alla verità, o, per rendere possibile il passaggio, che essa avesse gradi essendo perciò maggiore del minore, e minore del maggiore? Alla seconda si può provare a rispondere con un argomento consueto ai commentatori trecenteschi di Dante, dicendo che nella figura di Virgilio, mandato dal cielo a soccorrere lui che si era disperso nella selva, era presente, al di là della ragione naturale pervenuta al limite di sé stessa, la grazia cooperante inviata da Dio. Ma era un argomento che, presente anche nel Boccaccio,66 lasciava intatta la difficoltà sollevata dalla domanda. Per chi si fosse posto dal punto di vista della teologia cristiana, o del modo di pensare che ne derivava, la difficoltà era costituita dalla decisione che il cielo aveva presa di affidare Dante, che per la sua redenzione doveva percorrere le tre tappe del viaggio ultramondano, a un poeta che era stato bensì grande, per mondana sapienza, ma che, non avendo conosciuto il vero Dio, come avrebbe potuto guidare un cristiano sui sentieri del cristiano aldilà? Si trattava, infatti, se la si fosse considerata dal punto di vista
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dell’ortodossia, di una situazione che, nel porsi sul limite estremo, rischiava di andar oltre, tanto che, stando alla sua lettera, non avrebbe avuto torto un teologo di ieri, o di oggi, che, alla maniera che, ai suoi giorni, era stata tenuta dal cardinale Bertrando del Poggetto,67 avesse trovato da ridire sull’idea e l’avesse criticata. Il problema fu avvertito dai commentatori antichi. Ma la soluzione che essi proposero ripresentava nella soluzione il problema. Come poteva la ragione naturale, «conceduta da Dio e per la quale noi siamo chiamati animali razionali»,68 orientare chi doveva procedere su sentieri essenzialmente teologici, e andare, dunque, oltre i suoi limiti? La questione posta dalla scelta di Virgilio come guida del viaggio ultramondano fu risolta, dunque, senza che sul serio lo fosse stata. Alla luce della definizione che se ne dava, dovrebbe infatti ritenersi ovvio che una questione come quella del viaggio ultramondano fosse considerata tale da eccedere il suo potere e da rivelarlo impotente a risolverla. Dunque avevano ragione i teologi ortodossi? Si può certo deplorare che lo spirito dell’ortodossia prevalga su quella della spregiudicatezza e dell’audacia intellettuale e, addirittura, che esista; e si può sempre ironizzare su chi, sulle seconde, faccia prevalere le ragioni della prima. Ma il ricorso che, per spiegare a sé stessi la scelta che Dante aveva fatta di Virgilio come guida del viaggio ultramondano, gli antichi interpreti della Commedia facevano alla ragione umana che, in lui, avrebbe conseguito la perfezione, era proprio esso a mostrare la debole fiducia che essi riponevano nell’argomento che mettevano in campo. A nessuno di loro poteva infatti sfuggire che a una ragione siffatta era bensì legittimo che fosse affidato il compito di spiegare le cose che, lato sensu, si definivano naturali, non però quelle che fossero andate al di sopra, o al di sotto, di quel limite e che, senza il conforto dell’illuminazione divina, mai avrebbero potuto essere penetrate. Del resto, si poteva, su questa strada, e si doveva andar oltre. Da scrittori cristiani dell’età di Dante «ragione naturale» e «natura» avrebbero esse stesse dovuto esser prese, non come realtà indifferenti alla ragione filosofica e teologica, ma come concetti da interpretare nel quadro di quella, sì che non avrebbe avuto torto chi in quell’argomento avesse colto una obliqua volontà di disimpegno concettuale. Dunque avevano ragione i teologi? In effetti, ci sono situazioni concettuali che, per chi viva all’interno di una determinata religione e filosofia e ne condivida i concetti, non consentono né che ai loro princìpi possa venirsi meno, né che il rigore riceva attenuazioni e conceda deroghe. Per chi li accolga come verità nel suo universo, i dogmi dedotti da determinate tesi filosofiche e teologiche hanno la loro inscalfibi-
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le coerenza, alla quale, del resto, proprio Dante si atteneva quando, escludendo che potesse esserci verità e salvezza al di fuori della parola di Cristo, collocava Virgilio, che a quella era rimasto estraneo, nel Limbo, e perciò nell’Inferno, senza che un’attenuazione parziale della sua «colpa» potesse, come si è detto, essere considerato il suo far parte degli «spiriti magni» rinchiusi nel nobile castello; che era infatti, se lo si fosse considerato dal punto di vista della teologia e del sistema penitenziale dell’aldilà, un luogo ambiguo, tale che, nello stesso tempo, attenuava la pena e la estremizzava, come sarebbe stato facile capire se a sé stessi si fosse ripetuto il concetto secondo cui non c’è attenuazione della sofferenza fisica che valga a mitigare la pena che deriva dalla privazione che si sia costretti a subire della vista di Dio e, piuttosto, non l’innalzi di grado. Se la sofferenza fisica non vi era prevista, si dava tuttavia, al suo posto, quella per la quale, come maggior tormento ai suoi abitanti era data la possibilità di pensare al dio che, rimasto a essi sconosciuto quando erano vivi, ora era da essi conosciuto quanto bastava a rendere insopportabile il tormento derivante dal non poterne essere accolti e consolati. Poiché al riguardo Dante non aveva ritenuto di dover dare spiegazioni, è difficile immaginare come avrebbe replicato a chi avesse trovato da ridire sulla scelta che egli aveva fatto di un abitatore di quel castello, Virgilio nella fattispecie, come sua guida nel viaggio ultramondano; e tanto più lo è in quanto fu lui a escludere che, sia pure per un attimo, a questi spiriti fosse stato concesso di contemplare il volto di Dio. «Sanza speme vivemo in disio»:69 sono le parole con le quali, nel quarto canto dell’Inferno, Virgilio aveva definito la sofferenza sua e degli altri abitanti del nobile castello, rivelandovi, non solo un contrappasso sottilmente feroce, un’esclusione tanto più drastica quanto più viva era, in chi la subiva, la consapevolezza della ragione che la rendeva tale, ma qualcosa di più. E cioè il paradosso concettuale per il quale, sia pure in forma obliqua, era impossibile che i dannati del Limbo, e più che mai gli abitanti del «nobile castello», ignorassero quel che desideravano di conoscere essendo consapevoli della correlativa impossibilità; che era essa, in effetti, a rivelare per un attimo, ai loro occhi, come attraverso una malchiusa porta, lo spettacolo divino dal quale erano esclusi. È la situazione che Dante ritrasse nel terzo del Purgatorio: «matto è chi spera che nostra ragione/ possa trascorrer la ’nfinita via/ che tiene una sustanzia in tre persone!/ Siate contenti, umana gente, al quia:/ che se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria;/ e disiar vedesti sanza frutto/ tai che sarebbe loro disio quetato,/ ch’etternalmente è dato lor per lutto:/ io dico d’Aristotele e di
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Plato/ e di molt’altri. E qui chinò la fronte,/ e più non disse e rimase turbato».70 Donde la malinconia di Virgilio, che non è cosa di un momento o di alcuni momenti, ma è la nota dominante del suo personaggio, il segno dell’infelicità profonda che gli derivava dall’esclusione che egli stesso sentiva di dover fare della sua persona dagli incontri più importanti del suo allievo, ai quali assisteva senza, in effetti, assistervi: si pensi all’incontro con Cavalcante de’ Cavalcanti, che implicava quello con Guido, si pensi all’altro con Brunetto Latini, senza che sia necessario ricordarli tutti perché non c’è lettore della Commedia che non sia in grado di indicarli a sé stesso e perché, al riguardo, basterà dire che lì, in quel sofferto sentimento, è la radice della poeticità di lui in quanto personaggio . Si vedrà a suo tempo che l’esclusione che Virgilio fece di sé stesso da quei colloqui ha anche altre ragioni, che non è necessario anticipare qui. Ma resta il senso profondo dell’esclusione che egli si imponeva quando il viaggio avesse condotto Dante presso maestri diversi da lui: non pari a lui per grandezza poetica o filosofica, ma cristiani e conoscitori del dio cristiano. A togliere il dubbio relativo a questa sua obiettiva insufficienza, può bastare l’aggiunta che a Virgilio si fosse fatta, e si faceva, di Beatrice quale guida nella parte del viaggio che si sarebbe svolta, di cielo in cielo, nel Paradiso, dal quale, rigorosamente, egli era escluso. Nemmeno nel Paradiso Terrestre a Virgilio sarebbe stato, a rigore permesso di entrare, come, fin dall’inizio, anche se non in termini espliciti, Dante aveva avuto modo di far intendere, e come meglio si vedrà in seguito. A lui infatti era dato sì di accompagnarlo nel viaggio attraverso l’Inferno, un luogo «etterno» dove avrebbe visto «gli antichi spiriti dolenti,/ che la seconda morte ciascun grida» (vv. 115-17), quindi attraverso il Purgatorio, sulle cui balze avrebbe incontrato «color che son contenti/ nel foco, perché speran di venire/ quando ch’è sia ale beate genti» (vv. 118-20). Ma di entrare nel Paradiso non sarebbe stato permesso a lui che, come diceva di sé stesso, era stato «ribellante» alla legge dell’«imperador che là su regna» e, per questo, non era «degno» di esservi ammesso. Il che, fin d’ora conviene che sia detto, era a dimostrazione, non solo del rammarico che gliene derivava («oh felice colui ch’e’ quivi elegge!»), ma, come converrà ripetere, anche della perfetta conoscenza che, anima pagana, ciò non ostante Virgilio aveva della, come si potrebbe chiamarla, struttura dell’universo cristiano e della dottrina filosofica e teologica che la descriveva: una conoscenza che, è stato già detto, ma ci si dovrà spesso ritornare, sorprende non poco che appartenesse al personaggio che aveva condotto al limite delle sue possibilità l’antica cultura,
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ma di compiere l’ultimo passo, e di andar oltre, non era stato in grado, anche se della relativa incapacità aveva piena e dolorosa coscienza. 12. Se non esposta al ridicolo, la domanda sembrerà certamente «inattuale» dopo che, da settecento anni, l’esordio della Commedia e i personaggi suoi fondamentali sono oggetto di ininterrotta esegesi. Ma non si può non proporla e chiedersi perché, insorta in lui l’idea del viaggio ultramondano, Dante abbia, non solo scelto Virgilio quale sua guida in esso, ma, indicandolo come il suo più vero e originario maestro, abbia con piena coscienza alterata la verità del suo primo tempo letterario. Sono due questioni diverse, e converrà tenerle distinte. Per restare alla prima, deve confermarsi che non è facile darle risposta spiegando perché su quelle teologiche egli avesse fatto prevalere le ragioni letterarie. La risposta è tanto più difficile in quanto, così poco Dante aveva mostrato di essere disposto a subire il fascino dell’antico e a cedere alle suggestioni della retorica umanistica, o preumanistica, quando in gioco fossero state le ragioni della teologia, che non aveva perso occasione di ribadire il limite che aveva tenuto Virgilio al di qua del cristianesimo e di assegnarne a lui, con la profonda malinconia che ne nasceva, la piena consapevolezza. Era infatti, come in un’altra occasione, fu notato,71 una dichiarazione sconcertante quella a cui Dante aveva dato luogo. Lo era, in primo luogo, perché, se grande era l’importanza che riconosceva all’Eneide e ai suoi molti significati, e ben chiara gli era tuttavia nella mente l’idea che il suo autore era rimasto chiuso alla verità cristiana, non era senza gravi conseguenze il riconoscimento che faceva di lui come del suo unico maestro. E piuttosto elusiva che persuasiva appare la spiegazione che dell’anomalia che la caratterizza fu, per esempio, data dal Boccaccio. Il quale, messo di fronte a questi versi, da una parte vi notò il tentativo che, «col commendar Virgilio», Dante vi compiva «d’acattare la sua benevolenza»,72 mentre, da un’altra, di quelli in cui diceva del suo unico magistero, asserì che erano segnati da «solecismo», ossia dalla scorrettezza che, a suo parere, vi aveva avuto luogo, con il «preterito» messo al posto del futuro.73 Ma non si dava, in Dante, nessun solecismo.74 E uno, se mai, avrebbe potuto essere osservato in lui, Boccaccio, che, avendo avvertito che quei versi ponevano una questione, in luogo di risolverla, la subì e la riprodusse nei suoi termini. Si limitò infatti a notare che Dante aveva collocato prima quel che apparteneva al dopo, ossia aveva anticipata la Commedia alla Commedia, con ciò dimostrando di non aver capito che egli aveva, in realtà, detto una cosa assai più semplice,
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anche se non meno paradossale: e cioè che anche prima di aver dato vita a quell’opera, la sua precedente (non quindi la Commedia) si era svolta anch’essa sotto il segno di Virgilio. E qui stava la questione che egli, perciò, lasciò insoluta.75 Non seppe infatti spiegare né la ragione per la quale, in quei versi, Dante aveva posto sotto il segno esclusivo di Virgilio anche l’opera che aveva composta prima di dar inizio alla Commedia, né l’altra relativa alla natura del «bello stilo» che gli aveva fatto onore. Sia pure che, come da alcuni si è sostenuto e si sostiene, il «bello stilo» ereditato da Virgilio era quello usato nelle grandi canzoni76 e, secondo una proposta recente, nella stessa Vita nuova, messa perciò, anche questa, sotto il segno del poeta dell’Eneide.77 Sia pure. Ma a condizione, allora, che lo stile tragico fosse esteso a tutto il resto, perché Dante non era, al momento dell’incontro con l’ombra di Virgilio, autore solo di Canzoni, e la indicazione in lui del suo unico e esclusivo maestro avrebbe, per conseguenza, dovuto riguardare, nella sua interezza, quanto fin lì aveva scritto. È questo il nodo che dev’essere sciolto, e che, posta la questione in quei termini, non può esserlo, donde la necessità di riconoscere la hybris storiografica che, nel reinterpretarsi, Dante mise in atto, nei confronti sia di coloro dai quali aveva pur imparato cose essenziali, sia di Virgilio, al quale assegnava un’importanza che, in quella misura, non era in nessun modo riscontrabile nelle cose da lui composte prima della Commedia. A delinearsi fu perciò un crudo paradosso: che, per altro, se si formò, non fu senza una seria ragione. Si formò perché, in quell’ora della sua storia, a lui premeva di dipanare in altro modo il filo della sua vita, di conferire a essa un inizio diverso da quello che aveva avuto, e di congedarsi perciò da coloro dai quali aveva imparato cose essenziali, ma che, nel rivolgimento che la sua vita aveva subito, non era più disposto a riconoscere come maestri. Il messaggio che, in questi versi così espliciti, e così difficili, tuttavia, da interpretare, Dante sottoponeva a chi lo leggeva, conteneva un avvertimento essenziale. La lettura dell’Eneide, la scoperta e l’interpretazione di essa come il racconto di una storia nella quale aveva riconosciuto il carattere sacro, e, aggiunta essenziale, il trauma patito dall’esilio, avevano acceso dentro di lui (vi si è già accennato) una luce che, includendo in sé, oltre il presente, anche il passato, lo induceva a guardarlo in altro modo, a conferirgli un carattere assai diverso da quello che per l’innanzi vi aveva riconosciuto, e altri potevano riconoscervi. Con Virgilio, con l’Eneide, e in polemica con la realtà dell’Italia comunale, nel suo orizzonte mentale era entrata la storia di Roma, la politica si era aperta alla prospettiva dell’Impero universale; e da
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quel momento quel che era stato mostrava un diverso significato, s’illuminava di un’altra luce, si ricomprendeva nella prospettiva di una storia che ora si dischiudeva nella direzione di un diverso futuro. Donde la necessità di dare a essa una diversa origine in un diverso passato; che non era quello di Firenze, ma di Roma. I maestri che Dante aveva riconosciuti per tali sparivano o, se si preferisce, passavano in seconda linea di fronte a lui che, sebbene nel suo orizzonte mentale fosse apparso a pieno dopo che quelli avevano esercitato il loro magistero, li aveva tuttavia cancellati tutti, ponendosi come l’unico e vero, come quello che, per dir così, era all’opera prima ancora che egli l’avesse incontrato. A partire da quel momento Dante dovette sentirsi e, in effetti, si sentì autorizzato a dire di Virgilio che era stato l’unico suo maestro e autore. Non dunque, e a rigore, perché non ce ne fossero stati altri, ma perché era stato lui, Virgilio, a accendere una luce dalla quale gli altri eventuali si erano ritratti, e lui solo era rimasto, incontrastato, a tenere il campo. Nella selva Dante si era smarrito da solo. E confermando di essere il suo vero maestro, era stato Virgilio a rendersi presente a lui che non riusciva a uscirne. Il che sia detto con parole veloci, perché sulla questione si dovrà tornare, dà luogo, non solo alla paradossale Selbstdarstellung di cui si è detto, ma anche a una difficoltà che deve essere colta e messa in evidenza e alla quale, tuttavia, un’altra essa pure essenziale, dev’essere premessa. I maestri che Dante poteva aver incontrati nel corso della sua giovinezza e prima maturità erano stati tutti uomini della cultura cristiana, dalla quale potevano essersi allontanati (è il caso di Guido Cavalcanti), ma dopo averla, quanto meno, conosciuta e esserne stati partecipi. Mettere la sua vita sotto il segno esclusivo di Virgilio significava dare spazio a un paradosso tanto più grande quanto meno l’intenzione fosse stata di presentarsi come l’allievo di un maestro che del cristianesimo non aveva avuta alcuna nozione. L’elezione di Virgilio a maestro, anzi a unico maestro, aveva alla sua radice ragioni serie nelle quali, poiché, come vedremo, erano di natura storica, politica e anche, lato sensu, religiosa, in nessun caso avrebbero potuto essere assegnate a istanze non cristiane. Di qui la complessa costruzione che Dante eseguì del suo personaggio, così tormentosamente diviso fra un passato che non poteva, e non doveva, essere cancellato, e un presente che tanto meno era in grado di averne ragione quanto più da quello si rivelava dipendente: il cristianesimo era in Virgilio qualcosa che, affiorando dal profondo, non attingeva tuttavia la soglia della coscienza e, soprattutto, non diventava fede e principio, per lui, di salvazione.
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Non meno pungente di questa, si dava l’altra difficoltà che emerge se si considera che, se era stato Virgilio il «solo» maestro dal quale Dante aveva tratto «lo bello stilo» che gli aveva fatto onore, era stato tuttavia in quel periodo che si era determinata la situazione che l’aveva condotto nella selva. Se ne poteva dedurre che, con la parola che il discepolo leggeva nel suo «volume», il maestro non era stato in grado di impedire che nella vita di Dante si formassero le condizioni che avevano determinato il suo smarrimento nella selva. Ma era stato tuttavia a lui che Beatrice si era rivolta perché in sembiante, non di libro, ma di uomo, lo raggiungesse là dove si trovava e gli recasse il suo aiuto. Non era dunque soltanto per essersi allontanato da lei che Dante aveva perduto il retto sentiero. L’aveva perduto anche a causa del suo allontanamento da Virgilio? Sebbene della cosa nella Commedia si taccia, e l’osservazione sia dovuta alla sagacia o, forse, alla pedanteria razionalistica di qualche lettore, deve osservarsi che se la deviazione che aveva condotto Dante nella selva aveva avuto come causa l’abbandono di fidati maestri, fra questi, accanto a Beatrice, doveva essere contato anche Virgilio. Il «traviamento» non riguardava dunque soltanto lei che di quello si sarebbe fatta, quando Dante se la trovò di fronte nel Paradiso Terrestre, giudice severissimo.78 Sebbene, al riguardo, da lei non fosse stata spesa una sola parola, il traviamento si era necessariamente determinato anche nei confronti di Virgilio, che a questo, per altro, non accadde che accennasse mai. Erano dunque i due maestri traditi, o comunque dimenticati, che soccorrevano chi li aveva abbandonati. Ma, riguardo a Virgilio, occorre distinguere, confermando quello a cui più volte si è accennato. Da una parte c’era l’autore dell’Eneide che, si era rivelato come il suo vero e unico maestro di poesia e letteratura (il «bello stilo»). Da un’altra c’era quello mandato dal cielo in suo soccorso. Sotto lo stesso nome, egli era due personaggi diversi. Come già si è accennato, il poeta latino che, avendone avuto il presentimento, al cristianesimo era rimasto estraneo, era, e anche non era, quello stesso che il cielo aveva inviato nella selva a soccorrere Dante che lottava per non esserne riafferrato. Che, all’apparenza, fra i due Dante non proponesse e non indicasse nessuna differenza, non significa che questa non desse segno di sé nel corso del racconto, e non rendesse impossibile che l’un personaggio e l’altro giungessero a unificarsi. A ogni passo che muoveva durante il viaggio ultramondano, il poeta, che era stato mandato dal cielo in soccorso dell’uomo che rischiava di restare prigioniero della selva, andava oltre il suo sé stesso antico: senza aver bisogno di dichiararlo, oltrepassava il suo precedente pensiero,
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entrava in uno nuovo, che non gli consentiva, tuttavia, di essere accolto fra i fedeli del vero dio. Quel che fin dall’inizio aveva dichiarato morto in lui con gli «dei falsi e bugiardi» ai quali aveva creduto nel corso della sua vita, non lo era al punto da consentirgli di ricomporre in forma unitaria la sua personalità; che restava scissa tanto che, in qualche occasione, egli non fu in grado di fornire a Dante la risposta a un dubbio che gli era sorto nella mente. In qualche occasione. Ma non in quella a cui, per la sua singolarità, ora occorre concedere qualche spazio. Vi compare un personaggio, Virgilio, risentito e polemico, nel rivendicare la propria scienza cristiana contro i cedimenti terreni del discepolo. 13. Il dubbio era sorto nella mente di Dante mentre era intento a ascoltare il discorso che, nel decimoquarto del Purgatorio, Guido del Duca aveva svolto sulla decadenza delle città romagnole. Il personaggio in questione era uomo di legge, un giudice e a una norma giuridica si era riferito quando, alludendo ai danni che l’invidia produce nella società umana, aveva parlato di «consorte» e di «divieto». L’espressione era risultata oscura a Dante che, non senza una tal quale interna animosità, si era rivolto al maestro perché gli venisse in soccorso spiegandogliene il senso. «Che volse dir lo spirto di Romagna,/ e ‘divieto’ e ‘consorte’ menzionando?».79 Con quei due termini il giudice romagnolo aveva accennato al divieto, definito dalla legge, che un determinato bene potesse essere usufruito per eredità da più di un soggetto e che a colui che aveva il titolo per possederlo da solo altri tuttavia si aggiungessero, o pretendessero di aggiungersi, lasciandogliene solo una parte. Con essi, aveva inteso fornire un esempio dei danni che ambizione di potere e invidia producevano nelle società umane. Ma quel che sorprende nella spiegazione che Virgilio si era impegnato a darne è lo scarso rilievo che vi riceveva proprio il concetto, quello dell’invidia, a cui intendeva dar rilievo. È evidente infatti che, in luogo di spiegarne l’insorgere nei petti umani, e la sua natura specifica, Virgilio aveva piuttosto illustrato sia la delusione che si prova quando di un tutto non si può avere che una parte, sia il rancore che insorge nei confronti di chi a questa situazione abbia dato luogo. Della sua definizione Dante si mostrò insoddisfatto. A ragione, si direbbe: ma non a giusto titolo. Dalla risposta da lui data alla spiegazione che aveva ricevuta risultò che non aveva bene intesi né i termini usati da Guido del Duca, né il concetto giuridico che li sottointendeva, né infine il significato generale, che rimase infatti implicito. Il giudice romagnolo aveva parlato di un bene che, destinato a un solo soggetto, si trovava a esser stato
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desiderato da molti, i «consorti», che di entrarne in possesso non avevano il diritto («o gente umana, perchè poni ’l core/ la v’è mestier di consorte divieto?»), e aveva lasciato senza una soddisfacente risposta la pungente domanda. A sua volta, andando, come si è visto, oltre i termini giuridici in cui la questione era stata racchiusa, Virgilio aveva spiegato come dal possesso solo parziale di un determinato bene si generassero l’invidia e il desiderio che ciascuno provava di averlo tutto per sé. E a ragione Dante se ne sarebbe detto insoddisfatto se al maestro avesse osservato che la sua spiegazione riguardava non tanto l’invidia, quanto piuttosto il sentimento della delusione che il possessore della parte provava nel constatare che questa non era il tutto. In effetti, era proprio il concetto dell’invidia quello che, fin qui, aveva ricevuto le meno soddisfacenti spiegazioni. Ma non fu questa, tuttavia, la ragione che Dante addusse. Non di queste insufficienze si dichiarò insoddisfatto. A Virgilio chiese, polemicamente, «com’esser puote ch’un ben, distributo/ in più posseditor’, faccia più ricchi/ di sé che se da pochi è posseduto». Non senza arroganza gli rivolse, in sostanza, una obiezione che non coglieva nel segno perché, come si è visto, non questo Virgilio aveva detto commentando i termini usati da Guido del Duca e cercando di restituirne il significato. Con le sue parole, sebbene a altro esse mirassero, Virgilio aveva cercato di definire la natura dell’invidia che, sebbene non fosse arrivato a chiarirne il concetto, vedeva comunque all’opera nella delusione che ciascuno provava nel constatare che soltanto di una parte del tutto gli era stato dato il possesso. Per questo aveva detto che, poiché «s’appuntano i vostri desiri/ dove per compagnia parte si scema,/ invidia move il màntaco a’ sospiri».80 In realtà, la sua spiegazione sarebbe risultata più aderente alla natura di quell’ambiguo sentimento se nella partecipazione alla divisione dell’unico bene si fosse visto il desiderio che essi, gli uomini, nutrivano, non tanto di possederne ognuno una parte, quanto piuttosto di renderlo minore, attraverso il possesso che ciascuno ne avrebbe avuto, di quel che sarebbe stato se a uno soltanto fosse spettato di possederlo. Piuttosto che riconoscerne a uno solo il possesso, meglio era che l’oggetto fosse diviso in parti aventi diversi proprietari. Meglio romperne l’unità e abbassarne il pregio, piuttosto che offrirlo integro al godimento di un solo proprietario: meglio, in ultima analisi, distruggerlo. Ma, come si è detto, non fu questa la risposta di Virgilio che, se in questi termini si fosse espresso, della natura complessa dell’invidia almeno un carattere sarebbe riuscito a fermato. Egli preferì invece che, da un bene materiale l’attenzione di Dante si innalzasse e pro-
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cedesse nella direzione del cielo, dove ciascuno avrebbe trovato integro, anzi accresciuto, il suo proprio tesoro, perché lì valeva la regola inversa, quella secondo cui «per quanti si dice più […] ‘nostro’/ tanto possiede più di ben ciascuno/ e più di caritade arde in quel chiostro».81 Se infatti i beni materiali possono essere sia accresciuti sia dimidiati, quelli celesti hanno natura opposta, perché non c’è condivisione che possa togliere una parte a quel che si presenta come un tutto destinato, se mai, a accrescersi. Ma, di nuovo, dalla risposta Dante fu deluso, e dalla sua delusione Virgilio fu irritato. Senza nascondere il risentimento che l’ostinazione dell’allievo gli procurava, l’avvertì che, se la sua risposta non lo «disfamava», si rivolgesse a Beatrice che gli avrebbe tolta «questa e ciascun’altra brama» (v. 78). Era, sulla bocca di quel maestro di gentilezza e di misura, una risposta che non nascondeva, nel suo fondo, la punta dell’amarezza polemica. A Dante la risposta non piacque. Non riusciva infatti a capirla nemmeno, e con qualche sorpresa si deve notarlo, nella parte in cui Virgilio lo invitava a andare al di là delle cose terrene e a «torcere in suso» i suoi desideri. Non gli piacque e la respinse, nel punto più delicato, in quello cioè in cui, invitandolo a più alti pensieri, Virgilio l’aveva avvertito che «per quanti si dice più lì ‘nostro’,/ tanto possiede più di ben ciascuno/ e più di caritade arde in quel chiostro» (vv. 55-57). Insomma, in cielo la situazione si presentava come simmetricamente opposta a come appariva in terra. Ma a questo, preso dalla sua delusione, Dante non badò. La spiegazione di Virgilio, che, anche in questo caso, rivelava la conoscenza di cose che certo non gli derivava da quel che in antiquo il suo personaggio aveva appreso, non soddisfece la curiosità di Dante, che a essa reagì con inconsueta malagrazia: «io son d’esser contento più digiuno/ […] che se mi fossi pria taciuto,/ e più d’un dubbio nela mente aduno»;82 e anche, occorre riconoscere, con scarso acume e altrettanta incomprensione di quel che propriamente l’invidia produce nell’anima. La sua obiezione nasceva da ciò, che, come diceva, non gli riusciva di capire come un bene diviso fra molti possessori facesse «più ricchi di sé che se da pochi» fosse stato «posseduto». E non colpiva nel segno, non solo perché non era quello il concetto che Virgilio aveva messo in campo, ma per l’ulteriore ragione che a indicare la direzione della terra e non del cielo era lui che, come cristiano nato e cresciuto in tempi cristiani, nella scelta fra l’uno e l’altra non avrebbe dovuto aver dubbi. Si è detto da alcuni, più volte si è dovuto ricordarlo, che nella Commedia Dante non perse occasione per dar rilievo all’inferiorità di Virgilio e dell’Eneide. Si ha qui, in questo singolare scambio di battute intervenuto fra il maestro
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e l’allievo, la prova che la questione è ben più complessa di quanto non sognino gli autori di quella tesi; che altresì dovrebbero, come tutti del resto debbono, osservare il modo, drammaturgicamente singolare, in cui Dante risolse la questione, dando ragione a Virgilio, ma senza dichiararla in parole. «Com’io voleva dicer ‘Tu m’appaghe’/ vidimi giunto in su l’altro girone,/ sì che tacer mi féer le luci vaghe».83 Certo, aveva trovato il modo di non dire, in parole esplicite, che, in una questione che riguardava un importante nodo dottrinale, Virgilio aveva avuto ragione e lui torto. Ma al lettore, comunque, l’aveva confessato, e l’eccellenza del magistero virgiliano aveva ricevuto una nuova conferma in uno scambio di battute che, salvo errore, costituisce, nel poema, una sorta di hapax, e, da chi studi la figura del Virgilio dantesco, merita di essere considerato con più attenzione di quella che, per solito, le è stata riservata. 14. Torniamo sull’idea di Virgilio come il solo autore di Dante, e quindi sul quarto trattato del Convivio. La riflessione che, sollecitata dalle circostanze culminate nella tragedia dell’esilio, Dante svolse in quelle pagine, operò, nei confronti della sua vita precedente, una cesura così netta e violenta che il passato e quel che vi era accaduto ne furono come cancellati. Il nuovo assunse il volto di un inizio assoluto coinvolgente in sé quel che, materialmente, lo precedeva e che era, perciò, come se avesse perduta, nella nuova, la sua precedente fisionomia. Avvenne così che, sebbene fosse già apparso nella vita intellettuale e morale di Dante quando questa aveva cominciato a dare segno di sé in opere determinate, a partire da quel momento, nel ripresentarsi, Virgilio assunse o, meglio, rivelò un significato che prima non gli era stato riconosciuto. Retrocesse nella direzione dell’origine, si pose alla sua radice, cancellò quel che vi fosse accaduto di diverso e fece sì che quel che ne era conseguito, o stava per conseguire nel pensiero di Dante, soltanto da lui dipendesse: la scoperta della storia di Roma come storia politica dell’Impero e, nello stesso tempo, come storia sacra. Alla radice dell’indicazione in lui come del suo unico «maestro e autore» c’è dunque una ragione politica, storica, se si preferisce, e politica. C’è, come si è già detto, la critica rivolta al sistema dell’Italia comunale e la scoperta dell’Impero come l’unico superamento possibile delle sue «particolarità», che ebbe il suo primo, fondamentale documento nel quarto trattato del Convivio. A causa della trasformazione che Dante operò del tempo storico in quello mitico, è impossibile stabilire in termini di realistica cronologia il momento in cui, in lui si determinarono il «lungo studio
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e ’l grande amore» che gli avevano fatto cercare il «volume» virgiliano. Impossibile è individuare il momento in cui nel suo pensiero prese il suo avvio il processo che, attraverso il De vulgari eloquentia e il Convivio, incominciati e entrambi interrotti nei primi anni dell’esilio,84 condusse alla Commedia. Non è tuttavia irragionevole congetturare che, se i primi tempi dell’esilio gli dettero da pensare in materia, non solo di immediata politica, ma anche di teoria e di storia, si potrebbe proporre che una rinnovata e approfondita lettura dell’Eneide avvenisse dopo che la caduta della parte bianca e la vittoria conseguita dai Neri nel 1302,85 avevano fatto sì che Dante, che forse era a Roma presso Bonifacio VIII quando quell’evento si produsse,86 avesse cominciato a percorrere il duro «calle» dell’esilio. Se, come il Barbi sostenne, la composizione dei quattro trattati del Convivio avvenne fra il 1304 e il 1307, e lì s’interruppe per lasciare il posto alla Commedia,87 non è irragionevole supporre che, a partire dal 1302 o il 1303, Dante riprendesse la lettura approfondita del poema virgiliano e, su quel fondamento e alla luce delle nuove, drammatiche esperienze, individuasse nella storia di Roma e nella sua destinazione imperiale, l’alternativa politica a quella di Firenze e del sistema politico comunale. Dovette essere quello, infatti, il momento in cui la sconfitta patita dalla sua parte lo indusse a considerare con occhi nuovi la vicenda che, incominciata con Enea, e a far tempo da lui, aveva condotto all’Impero universale. Si deve, perciò, non solo far conto delle sfasature che l’intervento del tempo mitico necessariamente produceva in quello storico, ma anche insistere sulla singolarità per la quale a uno scrittore cristiano, quale Dante fu, accadde di mettere la sua origine sotto il segno esclusivo («tu se’ solo colui da cui io tolsi/ lo bello stilo») di uno scrittore che del cristianesimo non aveva avuta nessuna nozione. Tanto più, si direbbe, deve farsene conto e dare rilievo e significato alla nota politica che qui risuona, in quanto è pur vero che non necessariamente sotto il segno esclusivo di Virgilio Dante aveva delineata e ripensata, nella Commedia, la sua carriera poetica e letteraria. Il rapporto che aveva intrattenuto con i suoi maestri è, se si sta a quel che fra le righe si legge nel poema, segnato dalla tendenza alla sua risoluzione e al congedo imposto a quelli: si pensi a Brunetto Latini, si pensi a Guido Guinizzelli e, primo fra tutti, a Guido Cavalcanti. Si pensi allo stesso Virgilio al quale, per ragioni teologiche e non umane, fu del pari costretto a dire addio. Ma il congedo imposto ai maestri, e il distacco da essi, implicavano il riconoscimento di quel che era stato, non la sua cancellazione; e con quel riconoscimento, anche importavano l’altro dato a momenti della sua produzione poetica
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che sotto il segno di Virgilio non potevano esser messi. Del distacco da un passato che del tutto passato non era, e persisteva tenace nel ricordo, nella Commedia si danno molti esempi. Il più importante è nell’incontro con Bonagiunta nel ventesimoquarto del Purgatorio. Ma qui converrà ricordarne un altro, nel quale anche Virgilio fu coinvolto. Quando, posato il piede sulla spiaggia del Purgatorio, Dante incontrò Casella e con poetiche parole lo richiese, «se nova legge» non gli toglieva «memoria o uso al’amoroso canto» che gli «solea quetar tutte» sue «doglie», di sceglierne uno a consolazione della sua anima che, «con la sua persona/ venendo qui, è affannata tanto», e quello intonò Amor che nela mente mi ragiona,88 ci volle non meno che la rude energia di Catone a far sì che l’incantesimo si rompesse, e quel passato poetico, che niente aveva di virgiliano e dal quale il maestro stesso era stato tuttavia come rapito, non tornasse e s’impadronisse di lui. Non c’era stato solo Virgilio nel suo passato, e nella Commedia non solo il suo segno era visibile. Tanto più deve considerarsi con attenzione, e senza assurdi propositi minimizzanti, l’elezione che Dante aveva fatta di lui a suo «solo» maestro. L’indicazione in Virgilio del suo unico maestro avveniva in un momento cruciale e insieme simbolico: anticipava al passato la consapevolezza che Dante era via via venuto acquisendo delle insufficienze del presente politico, e a quella, alla consapevolezza, assegnava un inizio, come lo si è definito, assoluto. 15. È difficile, se è così, ritradurre in termini storiografici un discorso che accennava a configurarsi in termini simbolici: è difficile, nell’assenza di ogni documento che alluda al momento in cui Dante lesse a fondo Virgilio e scoprì il significato dell’Eneide, individuarne il carattere, e ricondurlo sul piano della storia. Ma se, com’è possibile, quella lettura avvenne, o avvenne di nuovo, dopo che l’esilio aveva trasformata la sua vita, lo sconvolgimento che, aggiungendosi all’altro, essa produsse dovette esser tale che Dante ne fu addirittura indotto a ripensarsi alla luce che ne proveniva, e a farlo prevalere con tale forza che il resto ne fu come cancellato. Per questo, a causa della prepotenza autointerpretativa che deve sapersi cogliere in questi versi, e nello sfasamento temporale a cui davano luogo, in un’altra occasione si parlò, e qui si è tornato a parlare, della sostituzione che, implicitamente, Dante aveva eseguita del tempo (storico) già vissuto con uno mitico, ossia già segnato, nel profondo, dai tratti che avrebbe acquisiti nel futuro. Era come se, per il desiderio di salvezza che era in lui, che ancora era alle prese con la selva e con gli animali che gli sbarravano il cammino
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che aveva tentato di intraprendere nella direzione del colle, avesse anticipato l’incontro con l’autore dell’Eneide, e la novità che aveva prodotta in lui, al momento del suo effettivo essere accaduto. Era come se avesse messo il «dopo» prima del «prima», e il Virgilio soteriologico, e conosciuto in questo carattere, innanzi a quello che in altro modo gli si era reso noto. Lo si capisce se si paragonano le due scene, quella dell’incontro e l’altra dal commiato. È facile allora accorgersi che i tempi vi erano stati disposti in modo opposto. Nella scena del commiato, quando prese atto che questo era accaduto, Dante parlò di Virgilio come di quello a cui si era dato per la sua propria salvezza, e lasciò intendere che, dunque, c’era stato un tempo in cui, a causa della sua assenza o della dimenticanza che era intervenuta del suo insegnamento, la sua vita era stata sul punto di perdersi. Nella scena del primo incontro, tutto questo era stato in certo senso anticipato al tempo in cui era effettivamente accaduto, come se con Virgilio il rapporto si fosse stretto fin dal primo giorno e non fosse mai venuto meno. Se, messo in termini logici, il confronto delle due situazioni rivelava l’inconseguenza caratterizzante la prima delle due, trasferita in quelli psicologici assumeva un altro carattere. Si rivelava infatti come un desiderio di salvezza talmente forte che questa era stata in certo senso anticipata alla sua realizzazione nella figura di questo Virgilio che, fin dall’inizio, a tal segno si era presentato nelle vesti del salvatore che nessun disperdimento nella selva avrebbe dovuto aver luogo. In realtà, le cose non erano andate sempre e propriamente così se c’era stato un tempo in cui l’assenza di Virgilio aveva fatto sì che Dante precipitasse in «basso loco». 16. Non si dice niente che non sia ovvio se si osserva che, nel periodo anteriore all’esilio, la presenza di Virgilio era stata, nella sua opera, marginale. A rivelarla erano in sostanza, oltre le due citazioni dell’Eneide che s’incontrano nella Vita nuova che, nell’insieme, non fu certo a quel poema che dovette la sua esistenza, alcuni versi virgiliani che danno segno di sé nelle Rime,89 senza che mai, per questo, il discorso poetico avesse accennato a prendere la direzione della politica e della storia. Le cose, come s’è detto, cambiarono con l’esilio, o, forse, nel periodo che immediatamente lo precedette. L’interesse per Virgilio, e per quel che nella sua opera riguardava la storia e la politica di Roma, si manifestò in modo significativo in una delle due opere che Dante iniziò, e non condusse a termine, dopo che ebbe lasciata Firenze e cominciato a conoscere la durezza dell’esilio: non tanto nel De vulgari eloquentia, nelle cui pagine al poeta latino e all’Eneide si
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fa, tre volte, riferimento, ma per questioni di stile, quanto piuttosto nel Convivio: ossia nell’opera che, costituendo l’annunzio di un’idea, quella di Roma, destinata a avere il suo compimento nella Commedia, può, per questo aspetto, essere considerata come quella in cui al poema di Virgilio si riconosceva di essere qualcosa come la rappresentazione, e la coscienza, del suo carattere sacro, del suo esser stata, cioè, voluta da Dio. L’Eneide era perciò insieme opera storica e testimonianza di verità. «E in ciò s’accorda Virgilio nel primo dello Eneida, quando dice, in persona di Dio parlando: ‘a costoro – cioè alli Romani – né termine di cose né di tempo pono: a loro hoe dato imperio sanza fine».90 Non si dice niente, perciò, che non sia ovvio, se si osserva che l’apparizione di Virgilio nel primo canto della Commedia è in sé stessa annnuziatrice di valori imperiali. Il suo riferimento all’Impero è il primo dei caratteri storici che, nel presentarsi a Dante, egli si attribuì («nacqui sub Julio», «vissi a Roma sotto ’l buon Augusto»), mentre fu lui stesso, Virgilio, a richiamare, in questo primo canto, la storia di Enea e a porla in implicita connessione con l’opera dei due fondatori dell’Impero romano. C’è, tuttavia, qualcosa di più importante da mettere in luce, o di meno ovvio. Quella a cui Dante accennava nei versi relativi all’azione del Veltro era, in nuce, una storia che in sé ne congiungeva due, lontane nel tempo; ed era perciò tale che, con identiche modalità, si svolgeva su due piani, uno relativo all’antica età dell’Italia di Turno e di Enea, l’altro destinato a ripeterne il carattere nell’Italia di oggi o di domani. Alla storia teneva dietro, e a essa si congiungeva, la certezza e, se si preferisce, la profezia, che la prima sarebbe stata replicata. Enea aveva agito e combattuto nel tempo in cui si annunziava la nascita di Roma. Contribuendovi, aveva dato «salute», ossia salvezza, all’Italia. Nuovo Enea, il Veltro avrebbe dato la caccia alla lupa, realizzando, nel presente, un’opera simile, se non addirittura identica, a quella che agli inizi era stata svolta dall’eroe virgiliano. Poiché è stato l’argomento a imporlo, non si è potuto non ricordare la profezia del Veltro; della quale deve dirsi che è, in primo luogo, una profezia virgiliana. A parte che, nel primo dell’Inferno, è lui a annunziarne l’avvento,91 Il suo luogo ideale e la sua radice lontana sono infatti nel sesto dell’Eneide e, poiché sono lì, quella che lo riguarda è profezia imperiale, ossia relativa a un personaggio che, trovandosi di fronte un paese dilaniato dalla politica divenuta espressione e vittima della cieca cupidigia simboleggiata dalla lupa, prenderà su di sé il compito di affrontarla per ricondurla nell’Inferno e restituire, all’Italia, la dignità e la pace perdute. Il passaggio dall’antico al moderno e contemporaneo è, nei versi
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100-111, fulmineo: dev’essere colto leggendo con attenzione fra le linee. Il Veltro moderno è un imperatore, o un uomo, comunque, dell’Impero, che agirà, con un ideale ritorno alle origini, ripetendo l’agire di coloro che, come «la vergine Camilla, Eurialo e Turno e Niso» morirono per la salute dell’«umile Italia», di cui si diceva nell’Eneide. Ma soprattutto è, si ripete, un simbolo virgiliano. Virgilio, che di tutto questo spiegherà a Dante la ragione è, a sua volta, sotto questo punto di vista, il simbolo politico di una situazione definita e pensata in termini imperiali. E Impero significa pace. Virgilio, tuttavia, non è, e non può essere, solo questo. La scelta di lui come unico maestro coincideva, sostanzialmente, con la scoperta del significato universale, politico e cristiano, della storia di Roma, e con la sua elevazione a unico criterio di interpretazione del passato e del presente. Fu quella l’autentica rivoluzione che dové avvenire in Dante quando non era più a Firenze, e il cui primo documento è in un’opera, il Convivio, che appartiene al primo tempo dell’esilio. 17. Che cosa è, ossia che cosa rappresenta Virgilio nella Commedia? La definizione che, sia pure con un limite, meglio contribuisce a far comprendere la posizione che egli vi assunse, fu data da Stazio quando, nel ventiduesimo del Purgatorio, lo proclamò inconsapevole precursore del cristianesimo. Sono versi famosi, ma richiedono un commento, che renda esplicito quel che a più riprese ha fatto la sua comparsa in queste pagine. Quando in lui riconobbe l’ombra che era con Dante sul girone del Purgatorio che, a lungo, era stato il luogo della sua pena, Stazio pronunziò parole famose, alle quali deve comunque essere assegnato il pieno significato. Dopo aver ascoltato da lui la storia della sua conversione al cristianesimo,92 Virgilio gli aveva opposto una pungente riserva. Nei confronti di quel poe ta latino che in lui riconosceva e venerava un maestro, non aveva rinunziato ai modi che di questo sono tipici e sogliono esprimersi attraverso domande insidiose e precise riserve. A Stazio non aveva perciò potuto non osservare: «‘or quando tu cantasti le crude armi/ dela doppia tristizia di Giocasta/ […] per quello che Cliò teco lì tasta,/ non par che ti facesse ancor fedele/ la fede, sanza la qual ben far non basta./ Se così è, qual sole o quai candele ti stenebraron sì che tu drizzasti/ poscia di retro al pescator le vele?». Era una domanda che, con la riserva che conteneva, rendeva più facile a Stazio il riconoscimento che il merito della sua conversione apparteneva a Virgilio. Ed egli non perse l’occasione: «tu prima m’inviasti verso Parnaso, a ber nele sue grotte,/ e prima appresso Dio m’illuminasti./ Face-
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sti come quei che va di notte,/ che porta il lume dietro e sé non giova, ma dopo sé fa le persone dotte,/ quando dicesti: ‘secol si rinova;/ torna giustizia e primo tempo umano,/ e progenïe scende al ciel nova’./ Per te poeta fui, per te cristiano».93 L’idea che, in epoca pagana, Virgilio fosse stato un inconsapevole maestro di cristianesimo era diffusissima, come già si è ricordato, nel Medioevo; e sotto questo riguardo i versi di Dante non aggiungono niente di nuovo alla diffusissima leggenda. Ma c’è un tema in questi che, sebbene sia esplicito, merita di essere tratto in più chiara luce e posto in miglior rilevo. È quello per il quale mentre il paesaggio che, procedendo in avanti, Virgilio si lasciava alle spalle risultava illuminato dalla luce proveniente dalla sua figura, di questa la sua testa, sede della sua consapevolezza, non si giovava. Ne rimaneva infatti esclusa: immersa nel buio, non era in grado di uscirne ricomponendo una figura unitaria. Il tema, com’è ovvio, era quello della consapevolezza, che apparteneva agli altri, ma a lui no, del suo essere, al di là dell’intenzione, un maestro di cristianesimo, un ispiratore inconsapevole, come si vedeva dalle parole usate nella quarta Egloga, della vera fede, un saggio che tale era sul serio, e non sapeva tuttavia cogliere il senso profondo di quel che aveva scritto e andava insegnando: con la conseguenza che era, e si confermava, un personaggio diviso in due e incapace di riunificarsi nel segno della sua parte migliore, quello da cui Stazio aveva ricevuto l’ispirazione che l’aveva condotto a mettersi per la vera via.94 Letteralmente, l’interpretazione di questi versi non pone problemi. E non richiederebbe altre parole se tuttavia non convenisse chiedersi se fosse fino in fondo questo il personaggio che, su richiesta di Beatrice, a Dante si era offerto come guida nel viaggio ultramondano: se fosse questo o se, nella sua anima e nella sua mente, non vi fosse qualcosa di più di quel che a Stazio era sembrato di cogliervi. Il suo pensiero era, senza dubbio, condiviso da Dante, che da altri aveva ricevuta l’immagine dell’uomo che, inoltrandosi nel buio, inondava di luce quel che lasciava alle sue spalle e dietro di sé faceva «le persone dotte». Ma non è senz’altro vero che in questa immagine, e nell’idea che la ispirava, ogni altro suo pensiero si esaurisse e che, nell’insieme, per come appare nella Commedia, di Virgilio debba dirsi che, per suo conto, rimase estraneo al cristianesimo che rivelava agli altri. Considerato nell’insieme delle note che compongono la sua personalità, Virgilio, era, in realtà, più di quello che le parole di Stazio avevano delineato. Certo, era stato Dante, e non una sola volta nella Commedia, a dichiarare, in qualche caso con parole dette da lui, che il personaggio, al quale era stato affidato il suo percorso ultramondano, non ave-
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va in vita conosciuto Cristo, al suo pensiero e alla sua rivoluzione era rimasto estraneo, e che per questo aveva meritato di essere consegnato a un luogo nel quale la privazione di Dio era assoluta. Delle buone ragioni che stavano alla radice di questo giudizio è ben possibile, e si potrebbe dire certo, che Dante avesse avuto la prova suprema quando, nel sesto libro dell’Eneide, aveva letto la rappresentazione che Virgilio aveva delineata dell’oltretomba e vi aveva avvertito qualcosa che andava al di là del limite che pur lo segnava. Di questa, senza dubbio, si era servito. Ma la differenza fra l’aldilà pagano e quello cristiano era tuttavia talmente grande che la stessa imitazione che egli aveva fatto di alcuni suoi aspetti aveva contribui to, essa proprio, a segnarla con nettezza. Considerato nella realtà della storia alla quale era appartenuto, non potrebbe dirsi che dell’oltretomba cristiano Virgilio sapesse poco. Deve dirsi che non sapeva, e non poteva sapere, niente. Ma questo era il Virgilio della storia, non quello che Beatrice aveva tratto fuori del Limbo perché si recasse nella selva dove Dante era impegnato in una battaglia che, senza il suo intervento, non avrebbe potuto essere vinta. Non era, per conseguenza, nemmeno il Virgilio di fronte al quale Dante veniva a trovarsi quando lo osservava con l’occhio, non dello storico naturalmente attratto dalle differenze, ma di chi in lui vedeva il messo di Beatrice, – un individuo dell’antichità su cui era caduta la scelta cristiana. Il personaggio antico che avrebbe accompagnato il poeta moderno nel viaggio lungo i primi due regni dell’aldilà era dunque, senza dubbio, quel che era stato: un personaggio dell’età pagana. Ma anche era uno che, per adeguare sé stesso al compito che lo attendeva, doveva essere in possesso dei caratteri che lo rendevano idoneo a realizzarlo conducendo al traguardo l’uomo che aveva rischiato di perdersi per sempre nella selva. Poiché, come si è detto, l’aldilà che egli avrebbe percorso con Dante era un aldilà cristiano, non rappresentabile e pensabile al di fuori di una scienza, di una filosofia, di una teologia cristiane, di queste doveva farsi che Virgilio sapesse tanto da rivelarsi non impreparato quando il viaggio l’avesse posto nella necessità di spiegare al suo allievo, non solo le difficoltà che presentava e che dovevano essere superate perché quello, il viaggio, andasse a buon fine, ma la natura stessa del luogo, il modo in cui le pene vi erano distribuite, e la mente che tutto questo aveva pensato e disposto. Insomma, senza con ciò essersi fatto cristiano, Virgilio doveva tuttavia possedere, e come che ciò potesse essere accaduto, la scienza di una religione che seguitava, per un altro verso, a rimanergli estrinseca e a non poter essere la sua. A venire alla luce era perciò, di nuovo, la sua scissione, della cui du-
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rezza il personaggio era consapevole quanto lo era della conseguenza a cui conduceva l’incapacità che lo condannava a non poter innalzare la scienza a fede e a farne il principio di un altro destino. La scienza di cui, indirettamente, lo si diceva in possesso non poteva ridargli la vita e condurlo a una morte illuminata dalla fede. Se è così, è evidente che l’immagine adoperata da Stazio per descrivere la sua situazione era efficace, ma parziale. La scissione che l’autore della Tebaide aveva individuata in lui che, a parte post era luce, ma, a parte ante tenebra, – questa scissione era stata da Dante ricondotta nella sua coscienza che ne risultava perciò tanto più turbata quanto più di essa era consapevole. Il turbamento determinato dalla più grande consapevolezza era reso ancora più profondo dal paradosso, già notato e che non può non riapparire nel quadro di questa riflessione, per il quale, da che era nel Limbo, in modo miracoloso Virgilio aveva via via appreso quel che su, nel mondo, la mente umana aveva prodotto.95 Importava, in altri termini, che, come aveva potuto leggere la Tebaide di Stazio scritta dopo che da ben più che un secolo egli era uscito dal mondo dei vivi, così si fosse procurata la conoscenza di opere che non erano appartenute al suo tempo storico, erano state prodotte nei secoli successivi alla sua morte, e erano opera di pensatori cristiani. Se è così, è facile capire che l’alternativa all’interno della quale Stazio aveva collocata la sua opera corrispondeva, e anche non corrispondeva, all’idea che Dante si era formata di Virgilio come guida del suo viaggio. L’idea che aveva elaborata nella sua testa, e che Stazio aveva resa semplice e schematica, implicava la domanda relativa alla possibilità che le due parti in cui la mente e l’anima di Virgilio erano divise entrassero l’una in contatto con l’altra e a derivarne fosse perciò una figura unitaria o, almeno il suo presentimento. Unitaria e, perciò, consapevolmente cristiana, se il cristianesimo era verità. Ma Dante sapeva che questo era impossibile, che la domanda non poteva ricevere altra risposta che negativa e che questo traguardo a Virgilio era stato negato da chi aveva consegnata la sua anima al Limbo; che, conviene ripetere, era Inferno come Inferno era il nobile castello che l’ospitava insieme agli altri spiriti magni del mondo non cristiano. Se lo si fosse considerato un’eccezione, questa lo sarebbe stata di una regola che, e questo è il paradosso, né poteva esserne infranta, né poteva farsi come se non ci fosse. Dall’eccezione la regola era infatti confermata nella sua inscalfibile durezza. E l’eccezione, dunque, non si dava come qualcosa che fosse in possesso della sua autonomia, sebbene sia pur vero che, inconseguibile sul piano della teologia e della fede, quel limite, e la separazione
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che lo costituiva, erano stati superati dal suo essere un’anima dannata e, insieme, un dotto perfettamente a suo agio nei riguardi della filosofia e della teologia cristiane: salvo che, ben sapendo che la scienza teologica avrebbe dovuto passargli nell’anima e farla essa pure cristiana, anche sapeva che questo era impossibile. È un paradosso, ma questa, e deve prendersene atto, è, nella Commedia, la situazione di Virgilio. E c’è di più. Potrà sembrare strano, o peggio che strano, ingenuo e, nello stesso tempo, pedantesco, chiedersi se, e in che modo, Dante avesse risolto nella sua testa un problema che, per altro, gli era posto, non da teologi specialisti nel sollevare difficoltà riguardanti la loro scienza, ma dalla obiettiva situazione storica di Virgilio, dal tempo al quale era appartenuto come uomo vivo e da quello a cui apparteneva come ombra dell’aldilà assegnata a Dante come guida nel suo viaggio ultramondano. Potrà, a sua volta, sembrare strano, ingenuo e pedantesco rispondere che, a rigore, il problema non era stato né posto né risolto, e che i due elementi che avrebbero dovuto essere messi in relazione e in accordo l’uno con l’altro, da una parte la storicità di Virgilio e il suo esser vissuto nell’ignoranza del vero Dio, da un’altra la consapevolezza, e perciò anche la conoscenza, di quel che, in vita, aveva ignorato, rimanevano irrelati. Non si integravano, si respingevano, contribuendo alla formazione di una personalità intimamente dissociata e confermandola in questo carattere. Sta di fatto che Virgilio è, in Dante, un «ribellante» alla legge di Dio, e un dotto conoscitore del cristianesimo, un’anima del Limbo e un esperto lettore dei testi sacri, e che il contrasto che queste due condizioni rivelano era tale che non poteva, in un modo o in un altro, non essere avvertito come incomponibile. Che lo fosse, non paia paradossale, è dimostrato proprio dal tentativo che si è compiuto di comporlo. 18. Lo si comprende se si torna a considerare la tesi, ancor oggi largamente presente nella critica dantesca, secondo la quale Virgilio è, nella Commedia, il simbolo della ragione umana giunta al limite delle sue possibilità, così come, dalla sua parte, Beatrice lo è della teologia. Scienza umana, la prima, scienza divina, la seconda, strette fra loro in modo tale da rendere possibile che dall’una si passasse all’altra, e cioè che, sotto la guida di Virgilio, ossia della ragione umana giunta al limite di sé stessa, Dante compisse il viaggio per i due primi regni, e sotto quella di Beatrice il terzo, nella regione dei cieli fino all’empireo. Tesi che, vecchia di sette secoli, è sembrata altrettanto solida del nesso ideale che congiungeva, e insieme distingueva, le due guide, Virgilio e Beatrice.96 Ma, a considerarla
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con attenzione, tesi sul serio assurda, e se questa espressione sembri troppo forte, la si dica allora fondata su una combinazione soltanto estrinseca dei termini che la costituiscono. Una guida che fosse stata esperta di ciò che è umano e inesperta di ciò che è divino, una guida che, in altri termini, non fosse, in sé stessa, andata al di là del limite che il cristianesimo assegnava alla cultura antica, non sarebbe stata in nessun caso idonea a far sì che Dante scendesse fin nel fondo del baratro infernale, scalasse la montagna del Purgatorio, e raggiungesse il Paradiso Terrestre. Non sarebbe stata pari, in altri termini, al compito che le era stato assegnato. Che Virgilio avesse condotto Dante dal primo cerchio dell’Inferno fino al culmine della montagna del Purgatorio; che lo avesse assistito nell’incontro e nello scontro in cui era impegnato con tanta parte del mondo a lui contemporaneo per quindi discretamente ritirarsi e lasciare il posto a una guida che, con qualche integrazione, di lui fosse stata più degna di assisterlo nell’ultima ascesa, è un fatto. È quello che il racconto dice. Ma il fatto va interpretato. E se si tiene ferma l’idea che Virgilio era, in sé stesso, la realizzazione del senso ultimo della scienza e della sapienza mondane, è evidente che il nesso di queste con la subentrante scienza teologica non poteva essere pensato come la semplice aggiunta della seconda alla prima pervenuta al limite delle sue possibilità e, per sé stessa, incapace di superarlo. Al contrario, nella ragione umana che aveva conseguito il suo limite doveva di necessità esserci qualcosa che, andando oltre, o ponendone l’esigenza, fosse tale da consentire il passaggio al superiore livello della teologia: nella ragione umana, e quindi in primo luogo in Virgilio, se è vero che in lui quella aveva conseguito la sua perfezione, con questa, il suo limite e, con il limite, tuttavia, la capacità, se non di andar oltre, di porre tuttavia la relativa esigenza. Per questo, nella costruzione del personaggio, dalla logica stessa della situazione, che prevedeva che «compiere» significasse «andar oltre», Dante fu costretto all’anacronismo; e cioè a assegnare a Virgilio, se non un’anima, una mente cristiana. E, con questa, una conoscenza della realtà che da lui non sarebbe stata conseguibile se le relative filosofia teologia scienza non gli fossero state note al punto che a lui fosse consentito di spiegarle. Una conoscenza che, tuttavia, rendeva «sanza speme» il desiderio di Dio, avvertito con tanto maggiore intensità quanto minore, e cioè inesistente, era la capacità di soddisfarlo. In realtà, se la ragione di cui Virgilio era il rappresentante non fosse stata che una semplice, anche se perfetta, ragione umana, se nel suo interno non avesse posseduto il principio, o l’esigenza, se si preferisce, del suo proprio superamento, se di questo
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non avesse saputo che doveva avvenire e sarebbe avvenuto, se di questa sofferta situazione esistenziale egli non fosse stato l’infelice protagonista, per il suo tramite quella divina non sarebbe mai stata raggiunta. Il progetto sarebbe fallito. Beatrice non sarebbe subentrata a Virgilio, o gli sarebbe subentrata in modo del tutto estrinseco, come una realtà che dal di fuori si aggiungeva a un’altra senza che questa ne avesse avvertita la necessità o, quanto meno, ne avesse avuto il presentimento. Se questo invece non avvenne, e avvenne giusto il contrario, fu perché c’erano, in Virgilio, cose che storicamente avrebbero dovuto non esserci, potenzialità che richiedevano di essere attuate, e che se, invece, si fosse stati alla definizione che Stazio aveva data del suo cristianesimo, non solo all’atto mai sarebbero pervenute, ma nemmeno come potenzialità avrebbero dovuto esserci. Se, rigidamente, quale Stazio l’aveva descritto, Virgilio fosse stato diviso fra il cristianesimo implicito e una diversa consapevolezza, se questa divisione non gli fosse passata dentro, se, senza risolverla e poterla risolvere, non avesse vissuto nel suo segno la sua vita post mortem, sarebbe stato impensabile che a lui fosse stato affidato il compito di guidare Dante nell’aldilà. Fra il suo magistero e quello di Beatrice, la separazione sarebbe stata assoluta; e, per rimediare a essa, sarebbe stato necessario che dall’una si saltasse all’altra nell’atto in cui ciascuna restava chiusa nella sua propria realtà. Perché questo non avvenisse era necessario che la sua visione dell’aldilà non fosse rimasta quella che aveva delineata nel sesto libro dell’Eneide, che la sua mente fosse andata oltre, che della scienza cristiana necessaria all’illustrazione di un universo cristiano egli fosse stato in possesso, e piena fosse stata la sua conoscenza di ciò da cui era escluso. Sarebbe stato necessario che l’anacronismo e il paradosso per i quali si faceva che un poeta pagano condannato all’Inferno dissertasse tuttavia come un filosofo e un teologo cristiano su aspetti capitali del «sistema del mondo», si fossero entrambi compiuti nell’atto in cui all’autore dell’Eneide era assegnato, nella mente, quel che all’anima non poteva essere concesso. Necessario era anche, e non meno, che in lui ci fosse stato qualcosa come l’insoddisfazione che chiedeva il suo superamento, e cioè che fosse lui, Virgilio, a porre, per il tramite della sua propria incompiutezza e del suo inappagabile «disìo», l’esigenza che a mettervi riparo e a rendere comunque compiuta la sua opera intervenisse Beatrice. Quali che, nel tempo, fossero state le idee che a Dante era occorso di elaborare in tema di filosofia, di teologia e del loro rapporto,97 resta fermo che, nella ideazione della Commedia, il rapporto intercorrente fra l’una e l’altra guida, fra Virgilio e Beatrice, tornò a of-
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frirgli il suo profilo problematico. Non si trattava infatti di un rapporto pensabile solo in termini concettuali: se così lo avesse pensato la filosofia e la teologia si sarebbero chiuse entrambe nel loro mondo, e la proclamazione della superiorità di questa su quella sarebbe intervenuta ab extra. Ma la questione non prevedeva solo la definizione concettuale: in gioco erano due umanità. La sparizione di Virgilio e l’apparizione di Beatrice non consistevano solo nel superamento che, in astratto, ossia nel puro ambito intellettuale, la prima, e cioè la ragione teologica, faceva del secondo, e cioè della ragione filosofica. Ma si determinava, in concreto, attraverso la presa d’atto onde, consapevole del suo limite e del non realizzabile suo desiderio, egli tacitamente uscì di scena. La consapevolezza che fin dal primo momento aveva mostrata di questa situazione era insieme la prova del suo essere andato, con l’intelletto, oltre il limite che gli gravava sull’anima, e che non era tuttavia oltrepassabile rendendola cristiana. Era in questa consapevolezza di un oltre che non poteva essere raggiunto, e, nello stesso tempo, era perfezione e inadeguatezza, – era in questo squilibrio che si apriva lo spazio ideale che sarebbe stato occupato da Beatrice. Ma se è così, allora si capisce perché, e in che senso, il rapporto che stringe e divide Virgilio e Beatrice non sarebbe capito nel suo tratto specifico se semplicemente lo si intendesse come l’aggiunta di una parte a un’altra che, per sé, andava oltre. 19. Si dirà. Ma questa è filosofia, non è esegesi dantesca. Quale che sia lo spirito con il quale l’obiezione è stata formulata, la risposta è netta. Filosofia o no, la questione è stata avvertita da Dante; il quale non avrebbe assegnato al pagano Virgilio tanto sapere cristiano se del problema non si fosse accorto, o se, comunque, subendone il peso, non avesse dato a esso l’unica possibile soluzione, la quale importava che, negata all’anima, la cristianizzazione fosse tuttavia concessa alla mente, messa così in grado di avvertire l’insanabilità della situazione. Nella concreta rappresentazione del viaggio e della parte che in esso era di Virgilio, Dante dunque andò oltre la definizione che Stazio aveva data del suo «cristianesimo». Ma in parte la mantenne. L’accento cadde così sulla sua «ambiguità» e, se il termine non sembri al giusto posto, si dica pure sull’incertezza tonale dalla quale la sua figura fu segnata. Certo, la sua scienza non poteva, al riguardo, non essere inferiore a quella che, nel guidare Dante nel Paradiso, sarebbe stata messa a profitto da Beatrice e poi, nel tratto finale, da san Bernardo. Ma, con patente anacronismo, era tuttavia quale mai avrebbe potuto apparte-
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nere a lui come personaggio storico. Che, per esempio, Virgilio sapesse di Cristo e addirittura non ignorasse che all’Antico Testamento aveva tenuto dietro il Nuovo che, secondo i cristiani, ne rivelava la più profonda verità, è, nella Commedia, un fatto presentato come ovvio e indiscutibile: come si apprende in primo luogo dal racconto che egli fece a Dante della visione che ebbe del Cristo («un possente/ con segno di vittoria coronato») disceso nel luogo in cui, da poco, lui pure si trovava, per trarne fuori, e destinare al cielo, Adamo e gli altri che lì sono nominati.98 Se, d’altra parte, solo per questo si dicesse che quello di Dante fu un Virgilio, se non cristianizzato, reso partecipe del cristianesimo, si direbbe cosa generica e, a guardar bene, errata, se non si aggiungesse, e ribadisse, l’essenziale: e cioè che quanto più sapeva del cristianesimo e del suo essere la vera religione, di altrettanto gli era noto che da quella egli era per sempre escluso. Era come se, fra le dottrine cristiane di cui si era procurata la conoscenza, particolare rilievo avesse dato a quella relativa alla salvezza o alla dannazione, che a lui non concedeva alcuna speranza. La nettezza con la quale, malgrado l’ammirazione e l’affetto che nutriva per la sua figura di maestro, anzi di unico maestro, Dante guardò al limite che aveva afflitto la sua arte, il suo pensiero, e, nel profondo, la sua stessa esistenza, non conobbe attenuazioni. Mai il segno fu superato. Quanto più grandi erano l’ammirazione e l’affetto, di altrettanto egli procurò che Virgilio restasse chiuso nei limiti della sua religione, che egli giudicava non vera. Quanto più si impegnava a metterlo in contatto con il cristianesimo, di altrettanto avvertiva che sul sentiero che conduceva a esso egli, o non aveva messo il piede, o non era stato, e non era, comunque in grado né di avvertire quale fosse la sua meta, né di procedere nella sua direzione.99 A questi concetti, nel delineare la sua figura, Dante dunque tenne fermo. Tenne fermo alle ragioni della storia, dalla quale aveva appreso che Virgilio aveva conosciuto Cristo quando era troppo tardi, e che a questo non c’era rimedio. Della sua vita disse, con obiettiva durezza, che era stata quella di un «ribellante» all’imperatore che lassù regge. E di lui, dunque, parlò come dell’autore di una «ribellione», che era esistita, ed è, difficile tuttavia capire come fosse stato possibile che si fosse determinata nella realtà, se è vero che ci si ribella a ciò che si conosce, non a ciò di cui si ignora l’esistenza. Ma le idee che, in tema di salvezza e predestinazione, Dante aveva apprese, e che gli furono ribadite dalla viva voce dell’Aquila quando, in Paradiso,100 poté contemplarla e ascoltarla, erano, su questo punto, ispirate al più crudo rigore.101 Non aver conosciuto Cristo restava
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il più grave dei peccati anche quando tutto avesse concorso a far sì che conoscerlo fosse stato sul serio impossibile: patirne la conseguenza era perciò inevitabile. Se, ciò non ostante, non si capiva come nella relativa ignoranza potesse discernersi il segno della colpa, la ragione era nel limite che affliggeva la mente umana, e la sua «veduta corta di una spanna»: sì che la giusta conclusione era che corta era la vista dell’uomo, ma indecifrabile la giustizia di Dio. D’altra parte, era pur vero che Virgilio era stato considerato come un inconsapevole testimone della vera religione e come un maestro di cristianesimo, nell’atto, tuttavia, in cui non si era reso capace di capire la lezione che impartiva agli altri, e di uscire perciò da un mondo di idee che restava chiuso a quel che egli indirettamente e praeter intentionem annunziava. Virgilio aveva scritto la quarta Egloga, e non aveva saputo comprendere il più profondo significato dei versi che avevano colpito l’immaginazione cristiana. «Ultima Cumaei venit iam carminis aetas,/ magnus ab integro saeclorum nascitur ordo./ Iam redit et virgo, redeunt saturnia regna;/ iam nova progenies caelo demittitur alto./ Tu modo nascenti puero, quo ferrea primum/ desinet ac toto surget gens aurea mundo/ casta fave Lucina; tuus iam regnat Apollo».102 Chi era la virgo, e che cosa erano i Saturnia regna? Chi era il puer che aveva colpito l’immaginazione cristiana? Virgilio aveva avuto il presentimento di ciò che andava oltre i suoi confini, ma era rimasto chiuso nei limiti di una cultura che gli aveva preclusa la conoscenza del vero Dio. Alla fine, si confermava che la sua era una figura ambigua, indecisa fra l’antico, da lui ben posseduto, e il nuovo nel quale non gli era stato dato di penetrare se non post mortem, essendosene procurata una conoscenza soltanto intellettuale: una figura ambigua e indecisa non in senso etico, ma storico, si direbbe, e concettuale, una figura alla quale, richiamando i suoi distinti e diversi caratteri, il lettore è costretto a imporre lui, nella sua mente, l’unità che, tuttavia, per sforzi che compia, ricomponibile non era. 20. Fu, d’altra parte, proprio la contrastata ricchezza del suo mondo interiore, fu la complessità della sua figura che non si lasciava né risolvere nell’universo cristiano, né ricondurre a quello pagano, e con il primo stava tuttavia in contatto e se, per un aspetto, si sottraeva a esso, per altri se ne lasciava penetrare, – fu questa discorde complessità a rendere possibile il suo rapporto ideale con colei che l’avrebbe sostituito nel condurre Dante all’ultima meta. A Beatrice, creatura per eccellenza cristiana, il passaggio non sarebbe infatti stato possibile, o sarebbe avvenuta per la via di un’e-
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strinseca sovrapposizione, se, fra i suoi non armonizzati caratteri, Virgilio non avesse avuto quello che consentiva la parziale metabasis al diverso mondo cristiano. Per questo, in precedenza fu detto che doveva esserci, in lui, ben più che un presentimento della religione a cui il discorso tendeva: un presentimento e, nello stesso tempo, con il desiderio di pervenirvi, la consapevolezza che pervenirvi era impossibile. Virgilio non avrebbe, infatti, potuto essere un serio tramite di cristianesimo se, in vita, non fosse stato che un dotto pagano provvisto di ogni possibile qualità umana, ma non di quella che in sé, e nella luce della consapevolezza, avesse contenuto tanto il principio del suo autotrascendimento nella direzione del Cristianesimo quanto l’impossibilità che il suo atto si realizzasse. Di questa situazione, e dell’ambiguità che la caratterizza, il documento più esplicito è proprio nelle parole con le quali Dante cercò di definirlo, e dalle quali risulta che Virgilio e la sua idea furono per lui assai più un problema che una soluzione, un discorso che si apriva e non riusciva a chiudersi. A tal punto fu così che, se si sta ai testi, quel che si vede risultarne è la perplessità, e, con questa, la tendenza a dire, piuttosto meno di quanto forse si sarebbe desiderato, che non di più, assegnando Virgilio al cristianesimo. Lo si comprende senza eccessivo sforzo se si mettono a confronto i due luoghi in cui la quaestio virgiliana fu affrontata e considerata nella sua radice. Il primo è quello che s’incontra nel primo dell’Inferno, e se n’è parlato quanto bastava. Nel tornare tuttavia a riflettervi, se ne può indicare il punto culminante nei vv. 130-133: «Poeta, io ti richeggio/ per quello Dio che tu non conoscesti,/ a ciò ch’io fugga questo male e peggio». Sembra, ed è, un’affermazione quasi brutale. A chi sapeva di essere stato escluso dalla luce della verità Dante rievocava il buio in cui si trovava, la tenebra spirituale che l’avvolgeva. E ci si può chiedere: era proprio necessario ricordare a Virgilio quello di cui era impossibile che si fosse dimenticato e si dimenticasse e di cui aveva invece la più acuta e sofferta consapevolezza? Ma se, per un verso, ricordarglielo non era necessario, per un altro lo era. Se le si fosse ascoltate fino in fondo, si sarebbe compreso che quelle parole negavano quel che affermavano. Senza che se lo proponessero assegnavano a Virgilio la indiretta conoscenza del dio che, essendo stato da lui non conosciuto, pur tuttavia lo era ora che sapeva dell’ignoranza in cui, al riguardo, era vissuto nel suo tempo. Se, dentro di sé, Virgilio non avesse saputo di non aver conosciuto il vero Dio, e di averlo conosciuto, tuttavia, e di conoscerlo, attraverso la consapevolezza di non averlo conosciuto e di non potere, nemmeno ora, esserne accolto, la richiesta che Dante gli rivolgeva non avrebbe avuto senso.
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E invece l’aveva perché ora Virgilio non solo sapeva del Dio che, in vita, gli era rimasto sconosciuto, ma anche sapeva che, se la conoscenza che ne aveva non bastava a fare di lui un cristiano, se a lui era ragione di «disio» senza «speme» e, perciò, di maggior tormento, era tuttavia sufficiente a fargli intendere che quello da lui non conosciuto era il vero Dio, e quello di cui, al contrario, aveva avuto nozione non ne era che una falsa immagine. Il secondo luogo sta nel secondo dei canti del Purgatorio dedicati, fra le altre cose che vi sono contenute, all’incontro con Stazio. E poiché se n’è già parlato, non occorre che al riguardo il discorso sia ripreso se non per andare subito all’essenziale. Lasciando da parte, perché in questa sede non occorre commentarlo, il dialogo che Virgilio aveva intrecciato con lui sul tema dell’avarizia e del suo contrario, conviene ribadire che a fare in modo che dal cristianesimo Stazio fosse conquistato era stato l’accordo che con esso rivelavano le parole, da lui da tempo meditate e condivise, che aveva lette nell’Eneide. Era stato l’inconsapevole cristianesimo del poeta latino da lui venerato ad aprirgli le porte del nuovo tempio e a dargli la certezza della sua verità. Era stato Virgilio che «levato» aveva «il coperchio/che nascondeva quanto bene i’ dico».103 21. Era dunque, quella che Stazio proponeva, una rappresentazione complessa, della quale sopratutto un aspetto ora conviene notare e ribadire; e cioè la cruda duplicità per la quale Virgilio era rimasto chiuso a quel che annunziava, l’inconsapevolezza del messaggio che, prima che Cristo morisse sulla croce, egli aveva anticipato agli uomini. Ma dalle parole che pronunziava mentre con Dante viaggiava nei primi due regni dell’aldilà, risultava che Virgilio non era rimasto quale era quando, essendone inconsapevole, del cristianesimo aveva, in vita, precorso alcuni caratteri. Come più volte si è dovuto ripetere, se non gli era stato dato di diventare cristiano, al sé stesso pagano aveva sovrapposta la cultura cristiana. E non aveva spiegato come gli fosse riuscito di conseguirla. Nel decimo canto dell’Inferno aveva spiegato che i dannati vedono le cose lontane, non quelle vicine; e non aveva evitato che, al margine della spiegazione data da lui, sorgessero questioni che da quella erano piuttosto prodotte che chiarite.104 Ma del modo che, stando nel nobile castello, aveva tenuto nell’informarsi di ciò che di importante era avvenuto nel mondo dopo che l’aveva lasciato, Virgilio non aveva detto niente, sì che potrà apparire come il frutto di una curiosità oziosa la questione che si è posta e che anche troppe volte ha dato, in queste pagine, segno di sé. In realtà, non si tratta affatto di un’o-
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ziosa questione e di una frivola curiosità. A renderla necessaria è infatti la constatazione che, da quando si trovava nel nobile castello, la sua mente si era svolta con lo svolgersi dei tempi, si era via via storicizzata nel segno del cristianesimo, del quale si era procurata la necessaria conoscenza, senza che mai a Dante occorresse di spiegare come la cosa potesse essere accaduta. Nell’Inferno e nel Paradiso il tempo è fermo nella dimensione dell’eternità, la sofferenza e la gioia non possono essere aumentate: in entrambe è stata infatti raggiunta la perfezione, che è propria dell’eternità. Ma che, nell’aldilà, Virgilio fosse venuto via via acquisendo quel che sulla terra accadeva, è, come si è detto, un fatto che richiede di essere notato: un fatto singolare, e tanto poco spiegabile quanto lo è l’assunto che il tempo entri nell’eterno e, non solo lo disponga secondo la regola del prima e del dopo, ma faccia sì che quello progredisca. A questo punto, è giunto perciò il momento di un essenziale chiarimento. Situazioni che, nella Commedia, si presentino con caratteri non riconducibili ai princìpi della teologia cristiana, sogliono, fin dai tempi dell’antica esegesi, essere attribuite alla fantasia, alla capacità inventiva di Dante e alle sue tollerate licenze. Che tali erano. Ma Dante, che aveva avuto bisogno di assegnare al suo personaggio che viaggiava nell’aldilà un maestro che lo guidasse in quell’impresa eccezionale, a quelle non poteva rinunziare. Dovevano essere ammesse e considerate legittime. Un viaggio nell’aldilà cristiano non poteva essere guidato da chi del cristianesimo non avesse adeguata, e cioè profonda, conoscenza. Era perciò necessario che a Virgilio fosse attribuita quella che il suo compito richiedeva e che, come avviene sulla terra, soltanto nel tempo, e con il tempo, si apprende. Poiché aveva deciso che il maestro fosse un poeta vissuto prima che del vero Dio potesse avere avuto nozione, alla necessità che, tuttavia, fosse padrone delle conoscenze indispensabili a guidare il suo allievo nell’aldilà cristiano, Dante non poteva non sottostare. Il rischio che correva era di dar luogo a una situazione teologicamente eterodossa, o, quanto meno, anomala. E Dante lo accettò. Senza dirlo con parole dalle quali in modo esplicito risultasse la licenza che egli si prendeva in teologia, trasformò Virgilio in un esperto conoscitore di una cultura della quale, da vivo, non poteva aver avuta alcuna nozione. Fu, la sua, una licenza poetica? E come no. Salvo che fu tale da conferire il maggior rilievo all’anomalia teologica a cui dava luogo. 22. Mentre Stazio si produceva nel suo lungo racconto, Virgilio era rimasto in silenzio. Ma a quel punto fra i due era già avvenuto il chiari-
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mento che, all’inizio, aveva alquanto tardato a prodursi. Subito dopo che la sua anima era apparsa ai due poeti impegnati nell’ascesa del monte, nel rivolgergli il saluto Virgilio aveva alluso alla «verace corte» da cui era atteso, e di sé stesso aveva invece parlato come di un’anima relegata «nel’etterno essilio»,105 suscitando con ciò la sorpresa dell’altro che non poteva, in effetti, non provare meraviglia nell’apprendere e nel constatare che un’anima prigioniera dell’Inferno si aggirasse, con un’altra, su per le balze del Purgatorio. Né, al riguardo, con la spiegazione che conteneva, la risposta di Virgilio poteva essere considerata come sul serio intonata alla domanda. Da essa, infatti, poteva sì apprendersi che, come si vedeva dai segni che l’angelo gli aveva profilati sulla fronte, l’uomo che era con lui era degno di «regnare» con i buoni, e insomma di essere accolto in Paradiso, ma di sé stesso non diceva se non che «era stato tratto fuor dell’ampia gola/ d’Inferno» per fargli da guida. Dopo di che, avendo risposto in modo quanto meno incompleto alla meravigliata domanda del suo interlocutore, aveva mutato argomento, e bruscamente gli aveva chiesto che, a sua volta, fosse lui a spiegargli, se la conosceva, la ragione per la quale, poco prima, il monte era stato scosso dal terremoto. La spiegazione del fenomeno essendo nota a ogni lettore del Purgatorio, non è richiesto che qui se ne riassumano i termini. Ma non si può invece non dar rilievo al modo che Stazio aveva tenuto nel rivelarsi ai due, dei quali ancora non sapeva con esattezza chi fossero. Dichiarando di essere il poeta che aveva scritto la Tebaide e l’Achilleide, aveva trovato il modo di esprimere la sua incondizionata ammirazione per l’Eneide, da lui chiamata «mamma» e «nutrice» del suo canto, e di aggiungere che, «per esser vivuto di là quando/ visse Virgilio», avrebbe accettato di concedere «un sole/ più che non deggio al mio uscir di bando»,106 ossia di trascorrere ancora un anno sul monte dove ne aveva trascorsi cinquecento. Che era aggiunta, non solo iperbolica, ma tale che da un censore ecclesiastico avrebbe potuto essere considerata blasfema: come può ammettersi che l’amore per uno scrittore non cristiano sia tale che, per soddisfarlo, si tardi di un anno l’ingresso nella «beata corte»? Stazio aveva pronunziato l’alto elogio di Virgilio senza sapere che l’ombra che gli stava dinanzi era la sua; e Dante non aveva potuto non notarlo e trarne, dentro di sé, ragione di divertimento. Ma, al di là dello spunto «comico» che in tal modo, a guisa di variazione, veniva introdotto in un canto altrimenti concepito, resta che, nel rivelare a Stazio l’identità dell’ombra che l’accompagnava nella scalata del monte, Dante si era messo nella condizione di pronunziare, anzi di rinnovare, lui pure, l’elogio di Virgilio, nonché di
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spiegare al suo interlocutore la ragione del suo sorriso. «Forse che tu ti maravigli,/ antico spirto, del rider ch’io fei;/ ma più d’ammirazion vo’ che ti pigli:/ questi che guida in alto li occhi miei,/ è quel Virgilio dal qual tu togliesti/ forza a cantar degli uomini e d’i dei./ Se cagion altra al mio rider credesti,/ lasciala per non vera, ed esser credi/ quelle parole che di lui dicesti».107 Così il discorso tornava a Virgilio, al cristianesimo e al modo particolare in cui questo era rimasto sconosciuto a quello. 23. Quando lo descriveva come un maestro inconsapevole di cristianesimo, Stazio si riferiva al poeta che aveva letto, studiato e ammirato quando era in vita. Nel rievocare quel momento della sua storia, necessariamente teneva fermo al concetto che aveva espresso mediante le metafore della luce che la parola di Virgilio aveva accesa dietro di lui e del buio in cui la sua mente e la sua coscienza erano invece rimaste prigioniere. Ma né Dante, che di quell’immagine si era servito per dare una prima definizione del suo maestro, né Virgilio, potevano contentarsene. Come si è detto, quell’immagine apparteneva a un momento particolare della storia; e se a quello poteva considerarsi intonata, non perciò lo era all’altra che Dante si era trovata di fronte quando l’ombra di Virgilio gli era apparsa nella selva. Se ci si pensa, la ragione è chiara. A Dante che l’aveva vista delinearsi dinanzi a sé e non sapeva che nome darle, Virgilio non si era limitato a dichiarare la sua identità. Aveva aggiunto di essere stato inviato in quel luogo da Beatrice e, con poche parole, ma rivelatrici, aveva alluso al dramma che si era svolto in cielo quando a quest’ultima Lucia aveva chiesto perché non corresse in soccorso di colui che tanto l’aveva amata e ora era in pericolo di vita. Insomma, senza ulteriori commenti e con parole scabre Virgilio aveva rivelato un dramma cristiano che si era svolto nel cielo cristiano; e di questo si era mostrato a conoscenza, nel parlarne non aveva rivelato l’imbarazzo o la difficoltà che avrebbe incontrata se avesse dovuto trattare di cosa a lui estranea. Di quel dramma cristiano aveva parlato con parole che a esso erano risultate perfettamente intonate, come se di quella cultura, e della religione che la esprimeva, egli fosse stato, quale in effetti era, a pieno padrone e, senza farsene un problema, le aveva considerate entrambe vere. Non perché, come più volte si è detto, fosse diventato cristiano. Se parlava come un dottore della nuova religione, della quale conosceva la teologia e la filosofia, restava tuttavia un’anima a cui la vista di Dio era per sempre vietata, e di tutto questo conoscendo la ragione, era accaduto che la divisione che Stazio aveva osservata in lui che, per un verso era luce e,
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per un altro, tenebra, gli fosse passata dentro, e come divisione, divisione inconciliabile, egli la sentisse in sé. Di questa duplicità egli fu perciò, nello stesso tempo, la vittima e la coscienza, senza che, tuttavia, potesse derivargliene il conforto che essa proprio, infatti, gli negava disponendo il suo animo alla tristezza che, tanto più si faceva profonda ora che, come a lui era ben noto, il suo viaggio con Dante stava per finire e il momento del congedo e del distacco era vicino. Non è senza significato che, nella parte finale del Purgatorio, il tema del congedo risuoni in vari modi, con Dante, si potrebbe dire, che faceva come se mai la sua ora dovesse suonare e il distacco dal maestro aver luogo, e con quest’ultimo impegnato ad attuarlo in modo che né lui né il suo allievo fossero costretti a vivere il momento della sua maggiore tristezza. Quando, nel Paradiso Terrestre, avendo davanti a sé la figura accusatrice di Beatrice, Dante si voltò verso Virgilio per esserne protetto, il distacco infatti si era ormai attuato, il congedo era avvenuto, il «dolcissimo patre» era sparito per sempre. A questo punto, tuttavia, al discorso che si è intrapreso mancherebbe qualcosa, e la comprensione di questa parte della Commedia ne soffrirebbe, se non si aggiungesse che fu per sottilmente rimediare alla forte differenza che si era determinata nel destino dei tre personaggi, Virgilio richiamato indietro alla sua condizione infernale, Dante e Stazio avviati verso il Paradiso, – fu per la considerazione riservata a questo diverso destino e per porre un rimedio alla sua asprezza, fu per questo che, con un gesto gentile, il poeta della Tebaide offrì a quello dell’Eneide la possibilità di parlare del luogo in cui godeva dell’eterna compagnia degli «spiriti magni» che, al pari di lui, vi erano accolti: di parlarne e, in questo, atto, di valorizzarlo sottolineando l’assoluta eccezionalità di quel che vi accadeva. Quando si era presentato a Stazio, Virgilio aveva detto che la sua provenienza era da «l’ampia gola/ d’Inferno», e al luogo privilegiato che occupava nel Limbo, non aveva fatto cenno: come se, avvicinandosi la fine del viaggio e incombendo il momento in cui a lui sarebbe toccato di tornare là donde si era mosso, il paragone in cui l’aveva posto con il Paradiso l’avesse indotto a parlarne in quei termini crudi, a farne l’oggetto di una drastica svalutazione. Lo smarrimento e la tristezza che ne era derivata erano forse sfuggiti, in quel momento, all’anima a cui rivolgeva la sua parola. Ma ora la situazione era cambiata. Stazio che, nel frattempo, aveva ben saputo chi fosse stato in vita il personaggio che gli appariva come un’ombra, gli offriva l’occasione di rettificare il modo sommario che era stato da lui tenuto nel presentarsi: di rettificarlo e di definire il luogo, in cui la sua anima era confinata, come
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quello abitato dalla nobile compagnia di cui era parte, e parte autorevole. Fu per questo che, nel canto ventesimosecondo, fu introdotta questa, come la si può ben definire, inaspettata variazione sul tema del «nobile castello», con le notizie chieste e ottenute sul destino di Terenzio «Cecilio e Plauto e Varro», e come altresì l’occasione offerta a Dante di integrare con altri nomi il catalogo degli «spiriti magni» ricordati nel quarto canto dell’Inferno. La prospettazione del «nobile castello» come di un’alta scuola, o di un’accademia i cui soci si scambiano dotte notizie, è suggestiva. Ma la ragione per la quale era stato rievocato in quel punto resta, tuttavia, quella che s’è detta quando si è alluso a Stazio e al suo desiderio che, nel ritornare al luogo in cui era destinato a rimanere per l’eternità, Virgilio potesse presentarlo, a chi intanto era sulla via che conduceva al Paradiso, come triste bensì, ma nobile: come un luogo nel quale non era, né poteva esser considerata cosa indegna esser stati collocati da Dio. 24. Nella rappresentazione che ne era stata data da Stazio, quella di Virgilio era una personalità scissa. Il che tanto più è comprensibile dal momento che il suo riferimento era al personaggio storico, non all’ombra che, nel Limbo, era, come si è visto, andata oltre il suo limite. In quella che ha luogo nella Commedia, era invece la personalità di uno che, della scissione essendo consapevole, a un grado più alto innalzava il tormento che gliene derivava. Anche per lui, che con le anime degli ignavi puniti nel vestibolo dell’Inferno niente aveva in comune, e a Dante aveva imposto di non ragionarne e passar oltre, valeva tuttavia il grido minaccioso che a quelle era stato indirizzato da Caronte: «non isperate mai veder lo cielo». Ma la scissione si presentava, in Virgilio, con un ulteriore carattere. Non riguardava soltanto, in modo diretto, il profilo teologico della questione. Riguardava anche quello psicologico della sua personalità, e perciò il modo in cui gli fu, o anche non gli fu dato, di prender parte ai colloqui di Dante con i personaggi incontrati nell’Inferno e nel Purgatorio. Se, alla luce di queste considerazioni, si segue la linea degli interventi di cui Virgilio si era reso protagonista durante la discesa verso le profondità dell’Inferno e nella scalata del Purgatorio, viene alla luce un tratto ulteriore della sua personalità, che la definisce, forse, al di là sia dei modi consueti sia anche dei caratteri che gli sono stati riconosciuti in queste pagine. Come guida del viaggio dantesco, Virgilio fu naturalmente presente a tutti i momenti di esso. Ma non sempre presenza significò anche partecipazione. Non a tutte le situazioni nelle quali, nell’Inferno e nel Purgatorio, Dante fu coinvolto, Virgilio
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infatti partecipò, non a tutte impose la sua diretta presenza. Rispetto ad alcune, discretamente, rimase in disparte; e se ci si chiede quali fossero, deve rispondersi che erano quelle nelle quali Dante era giunto di fronte a personaggi e momenti della sua vita e della sua storia, ai quali sarebbe stato improprio che Virgilio avesse imposto la sua presenza come di un maestro di sentenze. Lo si vedrà, in seguito, con qualche esempio. Ma intanto deve di nuovo notarsi, perché si tratta di una questione che torna a presentarsi, che nessuna difficoltà Virgilio aveva incontrata nell’affrontare le questioni, filosofiche e teologiche, riguardanti la struttura dell’Inferno e il complesso sistema penitenziale che lì aveva corso. Definirle e risolverne le asperità era il compito che, in modo specifico, gli era stato dato: un compito per eccellenza teologico, come, del resto, risultò con chiarezza fin dalle parole che egli rivolse a Dante quando gli spiegò di che natura sarebbe stato il viaggio che era sul punto di iniziare sotto la sua guida. Nel renderlo edotto di quel che lo attendeva Virgilio si era espresso così: «Ond’io per lo tuo me’ penso e discerno/ che tu mi segui, e io sarò tua guida,/ e trarrotti di qui per luogo etterno,/ ove udirai le disperate strida,/ vedrai gli antichi spiriti dolenti,/ che la seconda morte ciascun grida;/ e vederai coloro che son contenti/ nel foco, perché speran di venire,/ quando ch’è sia, ale beate genti./ Ale qua’ poi se tu vorrai salire,/ anima fia a ciò più di me degna:/ con lei ti lascerò nel mio partire;/ che quello imperador che là sù regna,/ perch’io fui ribellante ala sua legge,/ non vuol che ’n sua città per me si vegna./ In tutte parti impera e quivi regge;/ quiv’è la sua città e l’alto seggio:/ oh felice colui ch’è ivi elegge!».108 E quando si trattò di venire al caso concreto di una specifica questione filosofica non indietreggiò, ma, si pensi a quel che accadde nell’undecimo canto dell’Inferno, rimproverando Dante di non aver richiamato alla sua mente la dottrina esposta nella «sua» Etica, provvide lui a ricordargli come le cose stessero e dovessero esser messe. L’Etica era quella di Aristotele, e di questa poteva senza alcun dubbio assumersi che fosse ben nota allo storico autore dell’Eneide, che, come si sa, era stato, in vita, uomo dottissimo. Ma al testo si aggiungeva il commento di Tommaso; ed era di questo, o anche di questo, che Virgilio si era servito per chiarire a Dante cosa fossero «le tre disposizion, che ’l ciel non vole,/ incontinenza, malizia e la matta/ bestialitade».109 Non è questa la sede in cui possa riprendersi il discorso relativo all’undecimo canto dell’Inferno, che, del resto, è stato, nel tempo, sottoposto a puntuali commenti.110 Ma, per il discorso che qui è in atto, converrà notare che a tal segno, in questo canto, Virgilio parlava come un filosofo scolastico vivente nel tempo stesso di Dante, che
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addirittura sospettava che il suo allievo potesse esser stato vittima di tesi eretiche: gli chiedeva infatti «perché tanto» delirasse il suo ingegno da quel che soleva «mirando» altrove la mente, e desse a lui l’impressione di aver dimenticato le «parole/ con le quali» nella sua Etica erano «pertrattate» le suddette tre disposizioni. Il nesso che Virgilio poneva fra le tesi eretiche, dalle quali sospettava che Dante fosse stato attratto, e il testo dell’Etica nicomachea, sarebbe stato già di per sé, per quel che lo riguardava, indizio di anacronismo, se non si fosse dato per tacitamente scontato che, come più volte si è dovuto dire, giù nel Limbo egli avesse seguitato ad apprendere quel che il mondo dei vivi andava elaborando; sì che, per questo riguardo, non sorprende quel che altrimenti parrebbe assurdo, e cioè che a lui fosse stato dato di utilizzare il libro della Genesi111 che, certo non era fra quelli sui quali è pensabile che potesse aver posato l’occhio. Si sono citati qui su con larghezza i versi in cui, nel primo canto, Virgilio aveva spiegato a Dante il compito che lo attendeva come sua guida nel viaggio ultramondano. Sono versi celeberrimi che, con l’eccezione dell’accenno alla «seconda morte»,112 non presentano problemi di interpretazione, perché chiara vi appare la natura del compito che Virgilio assegnava a sé stesso; che fu da lui ben definito nel suo carattere, in primo luogo teologico, nei versi relativi all’«impero» di Dio, cioè al comando, che si estendeva a tutti i luoghi dell’universo, e al «regno», cioè al «reggere» o governare, che riguardava la cura che egli aveva della sua città, ossia del Paradiso, nel quale a lui non sarebbe stato concesso di entrare. Ma l’esclusione che di Virgilio era stata fatta dal viaggio che si sarebbe svolto nel regno dei cieli non importava che di questo e della struttura dell’universo egli non avesse la nozione e che l’averla costituisse un problema. È una questione che, essendosi più volte presentata, ora ritornava senza che a Dante accadesse di avvertire quel che ne nasceva e la necessità di dedicarle attenzione. Su di essa non spese, infatti, neppure una parola, forse perché, se una sola ne avesse spesa, avrebbe rivelato a sé stesso la presenza di un problema che, reso esplicito, lo avrebbe messo in difficoltà. Resta, in ogni caso, che nell’aldilà Virgilio era venuto a sapere quel che, per storiche ragioni, quand’era vivo, non aveva potuto se non ignorare. E si dava, a proposito di anacronismi, un’altra singolarità, le cui conseguenze erano per altro implicite nell’assunto che, se molte erano, sulla terra, le religioni e diverse le credenze, uno era il luogo dell’aldilà, uno, per i cristiani, era l’Inferno in cui i peccati di tutti ricevevano la giusta punizione. Ne conseguiva che se Purgatorio e Paradiso erano luoghi rigorosamente vietati a
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chi non avesse avuto conoscenza del vero Dio, l’Inferno era invece aperto a tutti coloro che avessero commesso peccati, quale che fosse stato il dio a cui avevano, o non avevano, rivolte le loro preghiere. Se ciò, com’è ovvio, non bastava a fare di loro altrettanti cristiani, era tuttavia un luogo cristiano quello in cui tutti ricevevano la punizione dei loro peccati: un luogo universale, dunque, aperto a quanti avessero ispirata al male la loro vita, al di là della religione nella quale avevano creduto. Accadeva così che a Virgilio che, senza aver potuto darsi un’anima cristiana, del cristianesimo aveva tuttavia acquisito la conoscenza nei suoi essenziali aspetti, era dato di esser presente e di partecipare, nell’Inferno cristiano, anche a queste scene di cristiana negazione di Dio da parte di chi in vita ne aveva bestemmiato un altro. Di essere presente e di partecipare; ché, per il resto, e fra breve torneremo a vederlo, se a Dante fosse accaduto di imbattersi, nell’Inferno e nel Purgatorio, in personaggi della storia fiorentina e italiana, e politico fosse stato il dialogo da lui intrecciato con loro, la sua scelta sarebbe stata di non partecipare a esso e rimanersene in disparte: se fosse risonata, la sua voce avrebbe infatti, in quel caso, dato un suono falso. Il suo personaggio era sofferente, ma, per come Dante l’aveva delineato, anche era maestro inarrivabile di discrezione e spirituale finezza. 25. Nell’Inferno ci sono i lussuriosi che, avvolti e travolti nella e dalla «bufera infernal che mai non resta», bestemmiavano Dio. Fra i ladri, nel settimo cerchio delle Malebolge, c’è un personaggio di cupa potenza drammatica che sfidava Dio rivolgendogli un gesto osceno.113 È Vanni Fucci, del quale accadrà che debba riparlarsi. Ma quello era un cristiano. Non cristiano, ma pagano, era Capaneo,114 ossia «quel grande» che, giacendo «dispettoso e torto», mostrava di non avvertire la pioggia di fuoco che cadeva su di lui, e lo martirizzava. A differenza di Farinata che sembrava avere l’Inferno «in gran dispitto» e ignorava Dio, Capaneo subiva la presenza del suo, e a Giove rivolgeva, con un gesto rabbioso e impotente, il suo dispregio e la sua sfida.115 La rivolgeva a lui, perché, non conoscendone un altro, era quello, per lui, il Dio al quale poteva opporre la sua protervia e dimostrare il suo disprezzo. In effetti, senza che lo sapessero, a qualunque dio rivolgessero la loro ingiuria, i peccatori dell’Inferno la dirigevano all’unico dio, al dio cristiano. E non poteva essere se non così: non perché, converrà ribadirlo, dalla pena che gli era stata inflitta Capaneo, o quanti, come lui, avessero condotto la loro vita nell’ignoranza della vera «religione», fossero stati resi cristiani. Ma per la diversa ragione che, essendo a
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loro stata inflitta dall’unico Dio, la condanna li rendeva tutti interni a un mondo che, nel rivelarsi, per questa via, come l’unico, anche rivelava la sua assolutezza. Quello spazio penitenziale, lo si deve ripetere, non aveva confini, era l’unico spazio penitenziale, e non c’era perciò peccatore che, quale che fosse stata la religione da lui professata in vita, non fosse destinato a trovarvi posto. Il caso di Virgilio appariva tuttavia, ed era, diverso. La sua era un’anima del Limbo, apparteneva al nobile castello e soltanto spirituale era la natura della sua sofferenza. Non interessa, anche perché è impossibile, decidere se, fra le anime riunite in quel luogo, alla sua Dante avesse assegnato particolari pregi. Sta di fatto che, essendogli stata negata la possibilità di entrare in contatto con Dio, gli era tuttavia concesso, come si è detto, di averne un’idea attraverso la consapevolezza che conoscerlo era impossibile; sì che, per questa via, tornava a delinearsi il paradossale intreccio di situazioni concettuali, psicologiche e esistenziali che, senza descriverne e teorizzarne la natura, Dante rappresentò in Virgilio; che della loro insolubilità patì la pena, e per questa via, senza poterlo conquistare e godere della conquista, dette tuttavia a sé stesso un animo che, nell’aspirare a essere cristiano e nel dire a sé stesso le ragioni profonde del suo non poterlo essere, raggiunse il culmine della più spirituale dolorosità. Così si confermava, ma trasfigurata e ricondotta per intero all’interno della sua consapevolezza, la frattura che Stazio aveva constatata in lui, e la cui ampiezza si distendeva fra la luce che teneva dietro alla sua parola e la tenebra che questa aveva davanti a sé. La luce e la tenebra erano ora, come si è detto, entrambe dentro di lui. E il loro contrasto era reso più crudo dal possesso della scienza cristiana, che restava scienza e non poteva farsi fede. 26. Alla radice della scelta che Dante fece di Virgilio come dell’ombra a cui era stato affidato il compito di guidarlo sui sentieri dell’aldilà infernale e purgatoriale, può notarsi un contrasto o, se si preferisce, una non coincidenza di motivi. A Dante che lottava per non essere riafferrato dalla selva, Virgilio si era presentato come un uomo dell’Impero; e imperiali, oltre che cristiani, nonché, com’è ovvio, schiettamente storici e politici erano stati i riferimenti di cui si era avvalso per definirsi. Non con questi caratteri egli apparve quando Beatrice discese nel Limbo per invitarlo a compiere la missione a cui il cielo lo chiamava. Non che le due situazioni fossero in contrasto. Ma l’una non era l’altra, che si definiva in termini esclusivamente religiosi; e sotto questo riguardo pone problemi quel che allora Beatrice gli disse. Suscita infatti qualche sorpresa che all’ombra che era
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andata a trovare nel Limbo essa si rivolgesse, innanzi tutto come a quella, non di un dannato, ma, innanzitutto, di un savio di riconosciuta autorità, «la cui fama anco nel mondo dura,/ e durerà quanto ’l mondo lontana», e in secondo luogo, come a uno, addirittura, di cui, quando fosse tornata al cospetto del suo signore, non avrebbe mancato di intessere le lodi. «Quando sarò dinanzi al signor mio,/ di te mi loderò sovente a lui», gli aveva confidato. E aveva messo in campo un concetto del quale tanto più deve notarsi il carattere paradossale, quanto più si consideri che niente poteva essere comunicato al signore dell’universo che, ab aeterno non fosse stato nella sua mente eterna, sì che anche era impossibile che a quella fossero rivolte parole da essa ascoltabili. Il Dio cristiano è un dio d’amore che si dona a chi si rivolga a lui. Ma è anche un dio eterno e assoluto che, se a questi caratteri si tenesse fermo, renderebbe impossibile che dinanzi a lui, e fuori di lui, vi fosse un mondo e che a lui si rivolgessero preghiere che, per dir così, non fossero ab aeterno incluse nel suo essere. Era, quindi, quella che Beatrice metteva in campo, una richiesta nata dal risentimento di una passione umana, se la sua richiesta fosse stata rivolta al primo, un’improprietà logica, e una sorta di caduta dalla rigorosa teologia a una figura della religiosità popolare se fosse stata rivolta al secondo: una richiesta che, pertanto, rivelava la contraddittorietà interna all’idea del Dio al quale si rivolgeva, e che, certo, non avrebbe potuto essere spiegata nella maniera tenuta da Benvenuto da Imola e dai «seguaci» suoi che, fermi nel pensiero che essa fosse la teologia e Virgilio la filosofia o la ragione umana, nella battuta pretesero di cogliere il riflesso dell’idea che la prima potesse a volte servirsi della seconda per conseguire i suoi fini. Era un’idea che, in linea generale, avrebbe potuto esser considerata vera se si fosse supposto che alla scienza di Dio mancasse quel che solo dalla filosofia poteva esserle dato: il che avrebbe comportato la falsità della premessa per la quale essa si definiva come totalità e assolutezza, impossibilitate a ricevere dall’esterno quel che già era in esse. Si dirà che questo non è un argomento spendibile in sede critica perché non c’è, in Dante, un luogo nel quale la questione sia riconoscibile in questi termini. Sia pure. Ma altrettanto non presente in lui è l’idea che Virgilio è la ragione umana giunta alla sua naturale perfezione e che di lì occorra passare per pervenire al superiore livello della teologia. Pensato in questi termini, il passaggio da Beatrice a Virgilio è descritto, non dedotto. Virgilio lascia il campo, e Beatrice subentra. Ma se il passaggio dall’uno all’altra pose a Dante un problema che egli cercò di risolvere guardando dentro l’anima del primo e scoprendone la complessità, – quel
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suo cercar di trascendersi senza potersi sul serio trascendere, che è la nota di fondo della sua personalità di anima del Limbo e del nobile castello, si verrebbe meno alla complessità del personaggio se lo si considerasse come un semplice strumento della ragione teologica che dal di fuori lo adopera e lo dispone ai suoi fini. La difficoltà, per altro, non è in Dante. È nei critici che, per dare forma concettuale alla fabula, hanno dato luogo alla difficoltà, e sono rimasti nell’estrinseco non vedendo, fra l’altro, che, per passare alla teologia, la filosofia deve avere in sé (a suo tempo lo notammo) un’istanza di superamento del suo limite, un’insoddisfazione di sé qual è quella che Virgilio avvertiva e, senza che potesse appagarlo, gli accendeva dentro quel suo disio «sanza speme». La questione ulteriore, e più specifica, era se la saggezza che si riconosceva in un’anima del Limbo potesse, per un verso, bastare all’impresa a cui era chiamata, ma si è già visto che non bastava, e, per un altro, meritasse le lodi che una santa indirizzava a Dio perché ne tenesse conto. Il che, se la parola di Beatrice fosse interpretata così, a essa occorrerebbe contrapporre la rigorosa consapevolezza che Virgilio ebbe della immodificabilità della decisione che lo teneva per l’eternità prigioniero del Limbo, con la sua dignitosa malinconia. Certo, casi concernenti l’eccezione a cui l’immodificabiltà del decreto divino poteva sottostare non erano mancati. La leggenda li aveva trasmessi, e di qualcuno (si pensi al caso dell’imperatore Traiano)116 anche Dante aveva trattato nella Commedia. Ma, a parte che lì il rigore teologico aveva dato chiaro segno di cedere, se non alla superstizione, ai modi tuttavia della religione popolare, quel che era accaduto per l’imperatore non era accaduto per Virgilio, né c’è ragione di credere che a questo, cioè a farlo accadere, mirassero le parole che Beatrice rivolgeva a Dio facendone l’elogio. Parole che, in ogni caso, si leggono con qualche disagio quando l’occhio resti fermo ai modi con i quali Dante aveva delineato il profilo di Virgilio, la sua coerenza, la sua dignità, la dolorosa rassegnazione al suo destino, e ora si debba constare che a un’impresa di così eccezionale rilievo si cercava un compenso proprio là dove si doveva sapere che non lo si sarebbe trovato. Il critico che, nel leggere la Commedia, ha l’occhio, non solo alla poesia che con tanta frequenza anima il racconto, e lo spinge verso l’alto, ma anche alle sue libertà narrative e alla sua logica, che può esserne a volte messa in difficoltà – questo critico dirà che la poesia e il racconto hanno i loro diritti, dirà che Dante era un poeta, un narratore, non un teologo, e che, come cosa umana, la poesia e la narrazione hanno esse la forza di introdurre nel discorso teologico licenze che, se inteso con
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rigore, quello non riconoscerebbe per buone. In veste moderna, si tratta di una variante della poesia e della letteratura come «favola». A parte, tuttavia, che qui si fa questione, non di poesia, o letteratura, ma, se mai, della concessione a un modo della religione popolare, resta che servirsi della poesia, e della letteratura, per superare una questione di struttura, e per di più in un luogo in cui quelle danno un così tenue segno di sé, non sembra, in nessun senso, un’idea felice: anche perché non c’è poesia, o letteratura, che possa considerarsi in grado di aggirare uno scoglio teologico, se la sua presenza nel discorso sia parte integrante della sua coerenza o, se si preferisce, della sua problematicità, e a questa, coerenza o problematicità, il discorso sia interessato, sì che eliminarlo sarebbe come stravolgerne il senso, ignorarne la complessità e destinare sé stessi all’arte del non capire. Ricorrere al dubbio criterio della licenza poetica suggerita dalla «calda» umanità può essere utile se, ricorrendovi, ci si mette in condizione di meglio comprendere ciò che solo in parte si ritenga di aver capito. Ma, in genere, meglio la freddezza dell’intelletto che spiega e non produce nebbie. Con più viva aderenza al testo, si deve perciò dire che, sapendo benissimo dove Virgilio avesse la sua sede nell’aldilà, per un momento, forse, Beatrice l’aveva pensato come interamente integrabile nel mondo cristiano, e come bene in grado, se era così, di capire il senso profondo del viaggio di cui doveva guidare le prime due tappe. Evidentemente, venendo meno, per un attimo, alla sua perfezione di beata, per un verso si era sottratta al principio secondo cui immutabile è il giudizio di Dio, mentre, per un altro, restava vero per lei che, con tale fiducia Dante aveva dichiarato che quello era il maestro da cui aveva tratto «lo bello stilo» che gli aveva fatto onore, che a nessuno, che non fosse stato lui, avrebbe potuto rivolgersi per dare al suo «fedele» amico un’accettabile guida. Cose di normale umanità che con maggior forza facevano risaltare quel che niente avrebbe potuto mutare, e cioè la patetica situazione di Virgilio che, essendo stato considerato degno di accompagnare Dante fin sulla cima del Purgatorio, era tuttavia destinato a non potere andar oltre. 27. Così, anche se con caratteri peculiari, e per una diversa via, tornava a profilarsi la distonia che da tempo è al centro di questa analisi. Virgilio era un’anima del Limbo e aveva perciò la sua sede nell’Inferno, a cui lo condannava il suo essere stato «ribellante» a Cristo. Doveva, tuttavia, essere anche in possesso, non solo dell’anima che gli si riconosceva nella felice disposizione di cui aveva dato prova quando aveva cantato del puer, della
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virgo, dei Saturna regna, ma anche, come più volte si è dovuto ripetere, della scienza cristiana che aveva acquisita e che era necessaria al buon esito dell’impresa a cui era chiamato. L’idea del Virgilio precristiano veniva a Dante da una lunga tradizione, ed egli, come più volte si è dovuto ripetere, piuttosto che accoglierla, l’aveva sostituita con la sua che si rivelò di assai più complessa e elaborata natura. Dell’anima di Virgilio non gli era mai accaduto di dire, con parole dirette o indirette, che era naturaliter christiana. Ma della scienza, della filosofia, della teologia medievali era stato lui, invece, a considerarlo in possesso senza spiegare come questo fosse stato da lui conseguito. A differenza della prima, a questa seconda idea doveva perciò tener fermo. In effetti, come si poteva ammettere che fosse privo, e non invece esperto, della scienza, della filosofia, della teologia cristiane l’abitante del Limbo che aveva ricevuto il compito di guidare un uomo vivo sui primi due sentieri di un triplice aldilà? Non era nell’aldilà cristiano, ossia nell’unico e vero aldilà, che il viaggio si sarebbe svolto? E non se ne dovevano conoscere gli aspetti più significativi per essere in grado di contribuire al buon esito dell’impresa? Per dire la cosa in modo semplice, e non paradossale. Nell’Inferno Virgilio avrebbe incontrato figure mostruose, avrebbe avuto a che fare con i diavoli che, in un caso, furono sul punto di aver ragione di lui e del suo discepolo,117con le Furie e con le Erinni. Avrebbe dovuto trattare con Gerione, senza il quale né a lui né a Dante sarebbe stato concesso di mettere il piede sul terreno delle Malebolge, e quindi con le anime raccolte in questa parte dell’Inferno, la più abietta e la più feroce. Si era anche, come si è visto, trovato nella necessità di spiegare a Dante la struttura dell’Inferno e del suo sistema giudiziale, facendo ricorso sì all’etica di un filosofo, Aristotele, nato e vissuto prima di lui, ma ripensata alla luce dei commentatori e pensatori medievali, a cominciare da Tommaso d’Aquino. Anche della realtà dei luoghi infernali, e non solo della scienza che riguardava la loro formazione, era necessario che Virgilio fosse informato perché la discesa che Dante faceva in essi avvenisse senza incidenti concettuali. E merita di essere notata, al riguardo, la differenza che sussiste fra la sicurezza che Virgilio aveva dimostrata nell’affrontare le difficoltà e i pericoli del viaggio che si svolgeva nell’Inferno e quella, assai minore, di cui avrebbe dato prova durante la scalata del Purgatorio, quasi che, essendo lui un’anima dannata, fosse ovvio che nel paesaggio infernale si trovasse a suo agio e sapesse orientarsi meglio di quel che potesse accadergli su sentieri dove mai prima di allora aveva posato il piede. Sta di fatto che, per rendere più chiara questa situazione strutturale, e dar conto della differenza, Dante immaginò
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che alle anime del Limbo fosse concesso di aggirarsi in questi luoghi d’Inferno e che già una volta Virgilio avesse dovuto avventurarvisi.118 Rispondendo alla domanda che gli aveva rivolta («in questo fondo dela trista conca/ discende mai alcun del primo grado/ che sol per pena ha la speranza cionca?»), Virgilio aveva spiegato che «di rado/ incontra […] che di noi/ faccia il cammino alcun per qual io vado».119 Ma che su quel «cammino» fosse raro trovare qualcuno, e il luogo fosse abbandonato alla sua squallida terribilità, non era cosa che lo preoccupasse, perché «un’altra fiata» proprio lui vi era disceso, «congiurato da quella Eritto cruda,/ che richiamava ombre a’ corpi sui./ Di poco era di me la carne nuda,/ ch’ella mi fece intrar dentro a quel muro,/ per trarne uno spirto del cerchio di Giuda./ Quell’è ’l più basso loco e ’l più oscuro,/ e ’l più lontan dal ciel che tutto gira:/ ben so ’l cammin; però ti fa sicuro».120 Malgrado le spiegazioni che se ne sono date, quelli che si sono letti non sono versi che possano esser definiti perspicui: non perché in sé siano oscuri, ma perché né spiegate risultano le ragioni per le quali ai limbìcoli era data quella libertà, né chiara appare la natura della cerimonia alla quale, appena giunto nell’aldilà, Virgilio era stato «congiurato», cioè costretto ad assistere, da Eritone. Che si trattasse di una cerimonia cristiana è certo, perché cristiano era il luogo in cui si svolgeva. Ma l’elemento pagano vi era tuttavia così fortemente presente che, a sua giustificazione, non si saprebbe addurre se non la fonte (Lucano, Virgilio) alla quale Dante l’aveva attinta. Resta che a lui premeva di dar conto del timore che al suo personaggio proveniva dal luogo in cui era giunto, e che era abitato dalle Furie e da Medusa, e, per contro, del coraggio che gli era trasmesso da Virgilio, del quale dovevano perciò essere sottolineate la conoscenza che aveva di quel luogo e la perizia con cui vi si muoveva. Che dunque nel caso in questione, la spiegazione riuscisse meno limpida che in altri, si può concedere. Ma, nella ricerca che si sta facendo dei caratteri che entrarono a costituire la personalità di Virgilio, questo luogo non poteva essere ignorato. Al di là del colorito pagano della cerimonia nella quale la sua anima era stata coinvolta, nella prova a cui quelle potenze infere lo chiamavano, da un lato giungeva a compimento il processo della cristianizzazione intellettuale del personaggio, ma, da un altro, si confermava l’impossibilità che per lui si parlasse di salvezza.121 Quasi a contrasto con il limite che Virgilio era costretto a subire dalla sua condizione storica, notevole, in questo stesso nono canto dell’Inferno, è la sua disposizione a entrare in accordo con la volontà di Dio e a esserne soccorso nel momento in cui le feroci Erinni, Megera, Aletto, Tersifone, erano sul punto di aver ragione di lui e dell’uomo vivo
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che gli era stato affidato. È rimasto proverbiale il suo «Caròn non ti crucciare:/ vuolsi così colà dove si puote/ ciò che si vuole, e più non dimandare»,122 da lui pronunziato di fronte a quella iraconda figura. Ma, sebbene fosse un «dimonio», Caronte era un traghettatore delle anime, e il suo compito era di eseguire quel che la potenza divina prescriveva, e variazioni non gli erano concesse. Le Furie, le Erinni, Medusa erano invece libere, o più libere, potenze dell’Inferno, e forme del suo male. Di fronte al loro feroce potere la situazione avrebbe rischiato di concludersi con la sconfitta dei due poeti se la missione a cui Virgilio attendeva in pro di Dante non avesse avuto dalla sua parte il favore del cielo, e, sebbene non cristiano, egli non fosse stato scelto da Dio come esecutore della sua volontà pronta, per parte sua, ad abbattersi sul nemico con la potenza di un’irresistibile tempesta. Con Caronte, che attendeva a un compito definito e immodificabile, era bastata una parola detta in nome del dio di cui eseguiva il volere. Con le Erinni una parola detta da Virgilio non sarebbe bastata. Di grande potenza drammatica è quel che accadde quando, a impedire che esse interrompessero il viaggio dei due poeti, intervenne direttamente il Messo celeste, una figura misteriosa, delineata con tratti che si direbbero ricavati dal libro dell’Apocalisse. Il suo arrivo fu infatti preceduto, «su per le torbide onde» da «un fracasso d’un suon, pien di spavento, per cui tremavano amendue le sponde,/ non altrimenti fatto che d’un vento/ impetüoso per li avversi ardori,/ che fièr la selva e sanza alcun rattento/ li rami schianta, abbatte e porta fori;/ dinanzi polveroso va superbo/ e fa fuggir le fiere e li pastori».123 Il Messo era tale che Dante vide «più di mille anime distrutte/ fuggir così dinanzi ad un ch’al passo/ passava Stige con le piante asciutte» (vv. 79-81). E questo era un richiamo a Cristo che, Mt 14, 25, «venit ambulans super mare», confermato dai versi che, subito dopo, lo ritraevano nell’atto di rimuovere dal volto «quell’aere grasso/ menando la sinistra innanzi spesso,/ e sol di quell’angoscia parea lasso» (vv. 82-84). E forse, anziché richiamarlo, e esser stato modellato su di lui, il Messo era proprio Cristo intervenuto, in un momento decisivo del viaggio dei due poeti, a impedirne il fallimento, e intento, per suo conto, a proseguire il suo verso un luogo non dichiarato. «Poi si rivolse per la strada lorda,/ e non fé motto a noi, ma fé sembiante/ d’omo cui altra cura stringa e morda,/ che quella di colui che gli è davante» (vv. 100-103). Sono immagini potenti, e le commenterà chi se ne sentirà in grado, perché di più, in questa sede, interessa notare la sicurezza con la quale Virgilio aveva, in questa difficile occasione, interpretato il suo ruolo di guida, per questo riguardo, cristiana.
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28. Se nell’Inferno la sua scienza cristiana era stata messa alla prova dei diavoli e delle altre potenze demoniache abitanti quel luogo, e lì dove il transito per la regione infernale metteva in diretto pericolo i due poeti visitatori, nel Purgatorio Virgilio sarebbe entrato in contatto con alcuni angeli, avrebbe anche lì dato un saggio della sua sapienza teologica, dissertando intono all’amore, cimentandosi in discussione astrologiche o cosmologiche, non ritraendosi dall’affrontare testi di filosofi e di poeti ai quali era, o era stato, contemporaneo. Non tuttavia come se fosse stato ancora il poeta nato al tempo degli dèi pagani e il suo fosse stato per sempre superato dal tempo che fluisce nella direzione del futuro, ma come l’ombra che, nel Limbo, viveva lo stesso tempo che segnava i momenti della vita che si svolgeva nel mondo e trasformava cose e pensieri. Era scienza cristiana quella di cui, ancora una volta, si dimostrava in possesso. Non si spiegherebbe altrimenti, fra le altre cose, la ragione per la quale a Beatrice che veniva a richiederlo di un’impresa così eccezionale, egli non avesse opposto la minima resistenza. Del pensiero che Beatrice gli comunicava egli era in grado di capire quel che in vita gli sarebbe rimasto oscuro o francamente incomprensibile, e di andare, con la mente oltre il limite che riconosceva come da lui non superabile nei riguardi della nuova fede. Capiva dunque quale fosse il pericolo di cui Beatrice gli aveva parlato. Se un uomo, Dante, era in pericolo nella selva, non c’era che da dargli aiuto. Quello era un dramma cristiano. E a lui, in termini intellettuali, era dato di capirlo. 29. La scienza cristiana di cui Virgilio era in possesso non venne mai, durante il viaggio compiuto nei primi due regni, meno a sé stessa. Lì, anzi, conobbe il suo più grande trionfo. A cominciare da quello conseguito dalle parole che, le si sono già ricordate, egli aveva rivolte a Caronte, e che furono da lui pronunziate in nome stesso di Dio: donde la loro irresistibilità, e, come sua conseguenza, la drammatica semplificazione dei suoi tratti. Il Caronte virgiliano è descritto così: «portitor has horrendus aquas et flumina servat/ terribili squalore Charon, cui plurima mento/ canities inculta iacet, stant lumina flamma,/ sordidus ex umeris nodo dependet amictus./ Ipse ratem conto subigit velisque ministrat/ et ferruginea subvectat corpora cumba,/ iam senior, sed cruda deo viridisque senectus».124 Quello di Dante è ritratto da tre versi che indicano drammatica velocità: «ed ecco verso di noi venir per nave/ un vecchio, bianco per antico pelo,/ gridando: ‘guai a voi anime prave!». In Virgilio Caronte tace, ed è come risolto nell’oggettività della situazione infera. In Dante parla, non solo alle anime, ma anche
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a lui, nel quale ha riconosciuto un’«anima viva»; e a tal segno vuole che stia a parte da «cotesti che son morti», che gli preconizza il diverso destino che lo attende («per altra via, per altri porti/ verrai a piaggia, non qui, per passare:/ più lieve legno convien che ti porti»),125 stabilendo un esplicito nesso strutturale con il nocchiero di Purgatorio, II 40-45, e rivelandosi come la parte di un tutto coincidente con la mente di Dio, o, se si preferisce, ricompreso in essa. Da questo punto di vista, si può persino osservare che le famose parole che Virgilio gli rivolse per placarlo e farlo desistere da propositi bellicosi, giungevano in ritardo, almeno nel senso che a Caronte era ben noto che Dante era atteso da un’altra «piaggia», e che non sarebbe stato lui a fermarne il cammino. Sì che, se la scena sia considerata da questo punto di vista, la differenza che passa fra l’aldilà cristiano e quello di Virgilio, risalta con forza, fra le altre molte che vi si possono notare, dal nesso che, per opposizione e per contrasto, ma necessariamente, la parte infernale del primo intrattiene con le altre. Caronte, in Virgilio, non avrebbe mai potuto alludere al cielo che le anime dannate non potevano in nessun modo sperare di raggiungere: «non isperate mai veder lo cielo».126 Del resto, non solo perché fosse un rappresentante della volontà divina, e di questa il fedele esecutore, in Dante Virgilio recava sul volto il segno cristiano. Nel definire come li definì, e cioè con parole sprezzanti, gli ignavi abitanti il vestibolo infernale, egli era andato, o sembrò che fosse andato oltre il limite che solo in un altro caso, quello di Filippo Argenti, sarebbe stato da lui superato. Fu lui, infatti, a definirli indegni di abitare il vero Inferno, al pari di quegli angeli che, non essendo stati né dalla parte di Lucifero e della sua ribellione, né da quella di Dio e di quanti a lui erano rimasti fedeli, a entrambe le schiere si erano sottratti meritando perciò di essere gli uni mescolati agli altri in quel luogo segnato da vergognosa miseria fisica e metafisica. Se il testo ne desse qualcosa di più che un indizio, a proposito di questi peccatori si sarebbe tentati di dire che, attraverso le parole di Virgilio, che direttamente scendeva nella contesa, fosse all’opera, per la prima volta, la passione politica di Dante: non però quale sarebbe stata se gli fosse stato dato di depurarla alla luce della riflessione teorica avviata, nel quarto trattato del Convivio, sulla monarchia universale e sul superamento in essa delle anguste e crudeli contrapposizioni comunali, ma quale era determinata da queste. Uomo di parte era infatti anche lui, che dell’odio era perciò non soltanto l’oggetto, ma anche il soggetto, lo subiva, ma anche lo coltivava per dirigerlo contro chi avesse ritenuto meritevole di esserne colpito per non aver avuto il coraggio di assumerne una e di esserle
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fedele. Contro costoro non poteva evitare di lanciare il suo strale. Sono, in effetti, parole risuonanti di odio assai più politico che non teologico, quelle che egli indirizzò alle «anime prave», raccolte in quel vestibolo infernale e sottoposte a un contrappasso feroce e umiliante: mentre, infatti, in vita non avevano preso partito e vilmente si erano sottratte alla lotta e alla contesa, né all’una ora potevano sfuggire né all’altra, e si avvinghiavano in modo che, con l’altra, ciascuna distruggeva sé stessa. Straordinario è il passaggio che, ai vv. 106-111 di questo terzo canto, Dante segnò dalla rissa furibonda delle anime all’improvviso cadere della tensione («poi si ritrasser tutte quante insieme,/ forte piangendo, ala riva malvagia/ ch’attende ciascun uom che Dio non teme»), per finire tutte nella signoria di Caronte che le raccoglieva insieme e «batte[va] col remo qualunque» s’adagiasse.127 Straordinario il suo stesso venir meno «come l’uom che ’l sonno piglia», nel quale sembra che sia simboleggiata la fine di un’età e il passaggio a un’altra, segnata da un diverso, ma più alto dramma: per Dante quello dell’esilio che, per sempre, l’avrebbe privato della sua patria vera. 30. Se non c’era questione teologica e dottrinale che, durante il viaggio nell’Inferno, e anche in quello nel Purgatorio, Virgilio non fosse stato disposto ad affrontare e, senza esitare, a svolgerla e a presentarsi come maestro, la sua discrezione nei confronti della politica e della storia fiorentine fu invece, lo si è già detto, assoluta e ben meritevole di essere notata in questo suo carattere. Anche in questa parte agiva la regola che di lui faceva un’anima divisa, e non conciliata nelle sue parti. Se aveva potuto progredire con i tempi e, nel Limbo in cui era stato collocato, mettersi alla pari della nuova scienza, filosofia, teologia, alla politica che, di stagione in stagione, rinnovava sé stessa, contemporaneo non aveva potuto rendersi, perché era proprio impossibile che ciò accadesse. A quel mondo, così lontano dal suo, era restato estraneo; e falsa sarebbe suonata la sua parola se mai avesse provato a entrare in contatto con esso. Certo, quando dal sepolcro rovente che lo teneva prigioniero per l’eternità, aveva visto emergere la figura imponente di Farinata degli Uberti, e l’aveva udito rivolgersi a Dante perché si fermasse a parlare con lui, non aveva potuto non indurre il suo discepolo a guardare in quella direzione. La figura del gran ghibellino aveva attratta con tale forza la sua attenzione che, rivolto a Dante, gli aveva detto: «volgiti! che fai?/ vedi là Farinata che s’è dritto:/ dala cintola in su tutto ’l vedrai».128 Ma al colloquio dei due fiorentini si era poi ben guardato dal prender parte. E così era stato anche nel caso dei dialoghi che
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Dante aveva intrecciati con personaggi del suo tempo, o lontani comunque dal suo. Se, per esempio, con la mente si torna agli incontri con Capaneo e con Vanni Fucci, di quel che si sta osservando si ha la puntuale conferma. Vanni Fucci era un toscano, un pistoiese contemporaneo di Dante, dal quale era stato riconosciuto. E mentre di lui, e della sua drammatica profezia, Dante aveva preso vendetta assistendo con dichiarata soddisfazione («da indi in qua mi fuor le serpi amiche»)129 allo smembramento che quelle ne avevano fatto, a tutto questo Virgilio aveva assistito senza dire una parola, ché certo non fu lui a pronunziare, o a mostrar di condividere, l’autentica maledizione che il suo allievo indirizzava contro Pistoia: a differenza di quel che era accaduto con Capaneo,130 al quale era stato lui a rivolgere la sua parola, che era suonata come una cristiana condanna della sua arroganza («o Capaneo, in ciò, che non s’ammorza/ la tua superbia, sé tu più punito:/ nullo martiro, fuor che la tua rabbia,/ sarebbe al tu’ furor dolor compìto»).131 Ma, a differenza di Farinata, che apparteneva al suo futuro, Capaneo era vissuto ben prima che l’autore dell’Eneide vedesse la luce; ed era perciò ben naturale che, come poi sarebbe avvenuto con Ulisse e Diomede fosse lui a rivolgergli la parola e a fargli sentire il peso della sua condanna. Una situazione che in sostanza si ripetè quando, nel decimottavo dell’Inferno, egli tacque bensì di fronte a Venedico Caccianemico, la cui descrizione fu interamente affidata al dialogo che Dante aveva intrecciato con lui, non però di fronte a Giàsone. Quel personaggio era appartenuto al mondo antico, delle sue gesta molto avevano parlato gli antichi poeti, Ovidio, Stazio, Valerio Flacco. Era perciò ovvio che a parlarne fosse lui, indicandovi uno che, al pari di Venedico, aveva recato offeso a una donna, ingannandola. Dalle imprese di Giàsone Dante, che ne aveva letto in quei poeti antichi, doveva esser stato colpito. L’impresa del Vello d’oro e, in genere, quelle del personaggio, avevano di certo sollecitata la sua fantasia,132 e l’impressione che ne aveva ricevuta fu da lui trasferita a Virgilio che, nell’indicarglielo, non poté esimersi dal segnalarne la grandezza: «guarda quel grande che vène,/ e per dolor non par lagrima spanda».133 È una notazione importante, che non meriterebbe di essere trascurata. Certo, con «segni e con parole ornate», Giàsone aveva ingannato Isifile, che pure era quella che «prima avea tutte l’altre ingannate». Per averla lasciata «gravida, soletta», aveva ben meritato il castigo al quale era stato dannato: «tal colpa a tal martiro lui condanna».134 Ma si ha netta l’impressione che al personaggio del mito antico Dante avesse guardato con severità meno cruda di quella riservata a Venedico Caccianemico, a colui che era stato,
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non un seduttore, bensì un «ruffiano»: «io fu’ colui che la Ghisolabella/ condussi a far la voglia del Marchese,/ come che suoni la sconcia novella».135 Ancora, Virgilio era stato in silenzio quando, nel corso dell’incontro che stava avendo con Ciacco, Dante aveva ascoltato la risposta che quello dava alle sue domande politiche. Ma quando a quel personaggio chiese se i tormenti da cui i dannati erano afflitti sarebbero cresciuti o diminuiti d’intensità «dopo la gran sentenza», ossia dopo il giorno del giudizio, con assoluta naturalezza, come se sempre quella questione avesse fatto parte dei suoi pensieri, Virgilio era stato pronto a rispondere. Quello che a Ciacco era stato proposto da Dante era un quesito teologico e filosofico. E a lui sembrò tanto naturale rinviarlo alla filosofia nella quale si riconosceva quanto lo era stato il riserbo al quale si era attenuto durante il lungo colloquio che Dante aveva sostenuto con quel dannato. Il colloquio aveva riguardato la politica fiorentina, ed egli aveva ritenuto di non dovervi intervenire per commentare o per dire comunque la sua opinione; che sarebbe stata, in quel caso, sul serio inopportuna. Questa situazione ha il suo documento forse più rilevante in tre episodi famosi dell’Inferno, negli incontri, cioè, con Farinata, con i fiorentini antichi e con il conte Ugolino. Si riferivano, quei tre episodi, a momenti della storia fiorentina e toscana nei quali sul serio un intervento di Virgilio sarebbe risultato fuori posto; e tanto più la sua discrezione venne in luce nei primi due, nel decimo canto e nel decimosesto, in quanto, sebbene a lui Dante avesse forse alluso nel dialogo che aveva intrecciato con Cavalcante de’ Cavalcanti, anche in quell’occasione, che riguardava il presente, egli tacque, e allo stesso modo si comportò nell’altro, non senza tuttavia aver avvertito il suo allievo che «a costoro», ossia a quei tre fiorentini che stavano fra i sodomiti, «si vuol esser cortese» (e questo fu tutto, perché, se, con quell’accenno, anche della storia di Firenze si mostrava informato, tanto più è notevole che rigorosamente si vietasse di intervenire nel discorso che, in modo specifico, la riguardava). L’ammirazione che Dante aveva nutrita, e nutriva, per quei cittadini di un tempo trascorso, aveva resistito alla critica sprezzante che Ciacco aveva rivolto a essi quando gliene aveva chiesto («ei son tra l’anime più nere»,136 gli aveva rivelato rispondendo alla sua domanda). Come se li trovò dinanzi non poté infatti non confermare a essi l’ammirazione e il rispetto di cui sempre li aveva fatti oggetto. Di Guido Guerra disse che in vita aveva operato «col senno assai e con la spada»,137 di Tegghiaio Aldobrandi aggiunse che «la sua voce nel mondo sù dovrebbe esser gradita».138 Di Iacopo Rusticucci non disse se non che «la fiera moglie più
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ch’altro» gli nuoceva,139 e lasciò che fosse il lettore a capire in che senso quell’accenno dovesse essere inteso. Se non poté evitare di dichiarare il distacco che stava eseguendo da quelle memorie politiche, nel realizzarlo trovò accenti poetici: «di vostra terra sono, e sempre mai/ l’ovra di voi e li onorati nomi/ con affezion ritrassi e ascoltai./ Lascio lo fele, e vo per dolci pomi/ promessi a me per lo verace duca;/ ma ’nfino al centro pria convien ch’i’ tomi».140 Sono versi importanti, e richiedono forse un supplemento di interpretazione. Il rispetto che aveva dimostrato per quei cittadini non gli aveva impedito di informarli che, per quanto lo riguardava, egli era impegnato in un viaggio che, sotto la guida del «verace duca», lo conduceva verso i «dolci pomi» e lontano, perciò, dall’amarezza del «fele»; che sarà bensì, come per lo più s’interpreta, l’amaro del male a cui si contrappone la dolcezza del bene, e a intenderli così conduce anche l’accenno alla necessità che il viaggio infernale raggiungesse la sua meta («’nfino al centro pria convien ch’i’ tómi»), ma senza che perciò possa escludersi che in quel «male» e in quel «bene», oltre la nota religiosa, anche quella politica fosse presente. Quei tre cittadini fiorentini erano stati eminenti nella vita politica che aveva costituito la loro più autentica passione, e, alla fine del colloquio che Dante aveva avuto con loro, rispondendo alla domanda che gli avevano rivolta per sapere se «cortesia e valor» dimorassero ancora a Firenze «o se del tutto se n’è gita fora», politica era stata l’interpretazione che egli aveva data delle loro parole. Dal profondo dell’anima gli era nata perciò l’invettiva che, non senza un tratto enfatico (la «faccia levata»), ma anticipando toni cacciaguidiani, aveva rivolta contro la Firenze dei suoi giorni, che «la gente nova e i subiti guadagni» avevano condotta alla corruzione, generando «orgoglio e dismisura». Le parole di Dante erano state esplicite. Ma appartenevano a una parte della sua anima nella quale a Virgilio, che anche della storia antica di Firenze si era mostrato informato, non era tuttavia lecito entrare. Nessuna meraviglia, perciò, che allo stesso modo si fosse comportato dinanzi al supplizio che, in questo atto realizzandovi la sua propria punizione, il conte Ugolino era intento a infliggere alla sua vittima. La furente invettiva che, a conclusione del celebre episodio, Dante aveva pronunziata contro Pisa, «vituperio dele genti», era espressione del suo animo comunale, dell’odio, e dello spirito della contrapposizione, che ne costituivano la sostanza. Sarebbero perciò risultati estrinseci, falsi e storicamente fuori luogo, i commenti che Virgilio avesse aggiunti, per deplorarla. Con altrettanta discrezione egli si era tenuto in disparte nel delicato colloquio che Dante aveva intrapreso con Brunetto Latini, un ma-
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estro di ieri, al quale non era sfuggito («e chi è questi che mostra ’l cammino?») che l’ombra che discretamente stava in disparte era forse quella di un più vero maestro, il che aveva fatto sì che fosse il sentimento della gelosia a dare, per un attimo, doloroso segno di sé. La regola patì un’eccezione nell’ottavo dell’Inferno e poi un’altra, come a suo tempo si vedrà, nel trentesimo. Sono due situazioni diverse quelle in cui Virgilio venne meno al suo riserbo. Nella prima si coinvolse fino in fondo, nella seconda soltanto quanto bastava a pretendere con energia che Dante non concedesse la sua attenzione a uno spettacolo che riteneva vituperevole. Quando, nel quinto cerchio, mentre con Virgilio era sulla barca che doveva permettergli di superare le acque fangose della palude stigia, Dante incontrò Filippo Argenti, lo scontro con lui fu violentissimo. La domanda che, parzialmente immersa nel «tristo ruscel», quell’anima dannata gli aveva rivolta ribolliva di cattiveria: «chi sé tu che vieni anz’ ora?». E la risposta di Dante era stata a tal segno adeguata alla domanda («s’i’ vegno, non rimango;/ ma tu chi sé, che sì sé fatto brutto?»), e, con tale asprezza era andata oltre, che alle parole che l’Argenti aveva aggiunte («vedi che son un che piango») non aveva esitato a rispondere così («con piangere e con lutto,/ spirito maladetto, ti rimani;/ ch’io ti conosco, ancor sie lordo tutto») sì che quello aveva «disteso al legno ambo le mani» per rovesciarlo. Fu a questo punto che Virgilio intervenne per respingerlo. All’opera delle mani aggiunse parole quali mai in seguito si sarebbero ascoltate da lui: «via costà con li altri cani», e a queste fece seguire due gesti di protettiva affettuosità: cinse il collo e baciò il volto di Dante, pronunziando parole in ogni senso straordinarie e che danno netta l’impressione dell’eccessività: «alma sdegnosa,/ benedetta colei che ’n te s’incinse». Se perciò, dinanzi a questo episodio di cupa violenza, si chiedesse perché, a differenza di quanto era accaduto nel corso dell’incontro con Ciacco, con simile intensità ora Virgilio intervenisse in primo persona impegnandosi in una disputa riguardante un personaggio la cui storia non era la sua, non sarebbe facile dare una risposta che suonasse persuasiva. Per la prima, e ultima, volta, nella parte del viaggio in cui fu guida di Dante, Virgilio aveva alluso a un tema politico fiorentino. Con parole forti, aveva implicitamente deplorato l’ascesa sociale di uomini che, ragione o torto che avesse nel definirli così, rozzi e volgari, in vita si erano ritenuti «gran regi» e «qui saranno come porci in brago,/ di sé lasciando orribili dispregi» (vv. 4951). Di Filippo Argenti, che era in realtà un Adimari, si sa pochissimo, e quel che si legge in Dante non aiuta a riempire le lacune. Le parole che gli
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dedicò non forniscono elementi utili a tracciare la sua biografia, se persino del suo essere un guelfo nero non fece parola.141 Rimane agli atti la furente condanna della sua gente che, nel decimosesto del Paradiso, Cacciaguida definirà come «l’oltracotata schiatta che s’indraca/ dietro a chi fugge, e a chi mostra ’l dente/ o ver la borsa come agnel si placa», rendendo, come si vede più dura la condanna dell’Inferno: al rilievo di arroganza e violenza, aggiungendosi, infatti, quello di viltà. Resta da decidere perché Dante fece che in questa vicenda schiettamente fiorentina Virgilio assumesse la parte principale; e la risposta è che, forse, la ragione per la quale affidò a lui la condanna di quel ceto sociale che nella vita fiorentina aveva introdotto simili «dispregi»,142 dev’essere indicata nell’essere, quella, la prima volta che nella Commedia il tema politico si era presentato nella forma di condanna senza appello del presente. Poiché in quel punto si apriva, nel poema, il capitolo fiorentino, forse Dante avvertì di dover parlare attraverso la voce autorevole del maestro, al quale, per conseguenza, assegnò la parte che poi, nel Paradiso, sarebbe stata di Cacciaguida. La condanna di Filippo Argenti ha quindi, in primo luogo, una ragione politica.143 Indirettamente politico, ma con altro segno, è il secondo e ultimo intervento che Virgilio fece in questioni di storia fiorentina. Quando, nel trentesimo dell’Inferno Dante mostrò di essere attratto oltre il lecito dal crudo diverbio che opponeva maestro Adamo e Sinone, anche quella volta Virgilio intervenne con estrema decisione: non però per assumere le parti di colui che osservava e ascoltava, ma per indurlo a distogliere lo sguardo da quella disputa ignobile: «Or pur mira,/ che per poco che teco non mi risso».144 Ma su questo episodio ritorneremo. 31. Virgilio si è presentato fin qui come un personaggio che in sé intrecciava, ma anche distingueva, storie diverse. In lui c’era il poeta antico che, senza saperlo, aveva racchiuso in sé il presentimento del cristianesimo, con il quale, nell’atto in cui lo comunicava a chi leggeva i suoi versi, non era tuttavia stato in grado di entrare in contatto. E c’era, tuttavia, anche l’uomo moderno, segnato da quello che era accaduto dopo la sua morte, ma solo nell’intelletto. Poiché la sua era un’anima condannata, solo per poco gli fu consentito di rimanere nel Paradiso Terrestre, nel quale era entrato al seguito di Stazio e di Dante, e dal quale, terminato il grande spettacolo della processione mistica, silenziosamente dovette uscire. Un personaggio, dunque, complesso e dissonante, delineato con un’intelligenza assai acuta dei diversi piani che, come si è detto, in lui si intrecciavano, si
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distinguevano, e con un altrettanto acuto senso psicologico: un personaggio che Dante costruì con la piena consapevolezza dell’«arbitrio» storico a cui dava luogo e al quale cercò di porre rimedio nell’unico modo che in quella situazione gli fosse consentito, cercando, cioè, non di nasconderne i tratti, ma di mostrarli nei loro divergenti aspetti. Di questa complessità un aspetto è stato notato nella cura con la quale egli fece che Virgilio si tenesse idealmente lontano dai luoghi in cui più aspro si era rivelato il suo scontro con i personaggi del suo storico presente. Di fronte al supremo monumento di odio comunale, il più impressionante, in effetti, di tutto l’Inferno, che Dante aveva innalzato a Vanni Fucci e alla sua furibonda profezia («ma perché di tal vista tu non godi,/ se mai sarai di fuor da’ luoghi bui,/ apri li orecchi al mio annunzio, e odi:/ Pistoia in pria de’ Neri si dimagra:/ poi Fiorenza rinova gente e modi./ Tragge Marte vapor di Val di Magra,/ ch’è di torbidi nuvoli involuto;/ e con tempesta impetuosa e agra/ sovra Campo Picen fia combattuto;/ ond’ei repente spezzerà la nebbia,/ sì ch’ogni Bianco ne sarà feruto./ E detto l’ho perché doler ti debbia»), – di fronte a queste parole Virgilio aveva taciuto, come già più volte gli era accaduto nell’Inferno, e sarebbe tornato a accadere nel corso della seconda cantica. In silenzio, invece, non era rimasto, quando, dopo aver rincuorato il suo allievo che non scorgeva dinanzi a sé un chiaro sentiero e stava per esser vinto dalla paura («Maestro mio […] che via faremo?»), al monito che gli aveva rivolto perché non si scoraggiasse aveva aggiunto spiegazioni sia sul corso del sole, sia sulla natura del monte sul quale, con Dante, muoveva i suoi passi; e di nuovo era incorso nell’anacronismo a cui lo costringeva il suo dover essere il didascalos, non di un allievo del suo tempo storico, ma di uno nato molti e molti secoli dopo e consapevole del dio che a lui invece era rimasto sconosciuto. In silenzio, infine, non era rimasto quando in Inferno XXXIV 100-126, dinanzi al crudo spettacolo di Lucifero imprigionato nella parte più bassa del suo regno, Dante aveva chiesto come si fosse prodotto lo spettacolo drammatico che aveva davanti agli occhi; e senza tirarsi indietro aveva dato spazio alla sua spiegazione, che era risultata divisa a metà tra la fantasia e la scienza. Non sua, perché egli preferì affidarla a Stazio, fu invece quella che nel venticinquesimo del Purgatorio, quest’ultimo dette del fenomeno dei corpi aerei («quindi parliamo e quindi ridiàm noi;/ quindi facciàn le lagrime e’ sospiri/ che per lo monte aver sentiti puoi»),145 inserendola all’interno di una trattazione complessiva della genesi e la formazione dell’uomo. Perché Virgilio la affidasse a Stazio, e non la esponesse lui, è difficile dire; e forse la ragione
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è che, nella sua delicatezza e modestia, gli parve giusto lasciare la parola a un’anima che, a differenza della sua, apparteneva ormai al Paradiso e di un così importante argomento poteva perciò parlare con superiore autorevolezza. Ma, posto che la spiegazione sia questa, resta che della scienza scolastica di cui si faceva che, anacronisticamente, Stazio fosse in possesso, anche Virgilio aveva la nozione: non a caso, ma a ragion veduta, nel poeta che si era dichiarato suo allievo, aveva indicato chi avrebbe potuto fornirla a Dante. Come Virgilio nel Limbo, anche Stazio sul quinto girone del Purgatorio aveva seguito i progressi della scienza e della filosofia, e, rispetto al poeta che era stato, era divenuto perciò un altro uomo. Era un privilegio, questo, che, forse avendone consapevolezza o forse no, Dante concedeva a coloro che, in vita, avevano coltivato le arti e le scienze. Ma è da sperare che, se fosse così, non voglia vedervisi i segni di un suo preumanesimo. Di nuovo, invece, Virgilio tacque quando, con Dante, si trovò di fronte a Jacopo del Cassero e a Buonconte da Montefeltro e, insieme a quello della Pia, ascoltò il racconto, drammatico e altamente poetico, della loro morte. Tacque anche, ed è forse il caso più notevole, quando, riconosciuto come mantovano da Sordello, l’abbraccio che i due si scambiarono fece sì che una voce, che, propriamente non apparteneva né all’uno né all’altro, e a Dante sì, ma in quanto personaggio, tuttavia, non in quanto autore della Commedia, intonasse la celebre invettiva che prese il suo avvio dalla deplorazione della «serva Italia, di dolore ostello». Allo stesso modo Virgilio rimase estraneo, presente ma estraneo, agli incontri con Provenzan Salvani, Oderisi da Gubbio, Guido del Duca, Marco Lombardo: anche lì era a momenti e questioni della più recente storia italiana che il discorso conduceva. Ma quando la logica del racconto richiese che si discutesse della struttura morale del Purgatorio e, il discorso dovette perciò affrontare anche il tema dell’amore, egli non ebbe alcuna difficoltà a presentarsi come un perfetto filosofo medievale, e a entrare in una non dichiarata disputa con Guido Cavalcanti e la sua più ardua canzone, con Donna me prega. Per un istante, attraverso le parole di Stazio, Virgilio era invece tornato al suo tempo per quindi subito rivestirsi di panni medievali e mettersi nella condizione di ascoltare il suo discorso di anima ormai guadagnata al Paradiso, quando, con Dante, lo incontrò sul girone dove emendavano il loro peccato gli avari e i prodighi; e in quel momento cominciò, tuttavia, il lento esaurirsi della sua figura, perché, vicina essendo ormai l’ultima balza del monte, anche si avvicinava il momento del congedo e del distacco.
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Dell’incontro con Stazio, e dei significati che in esso si rivelarono, si è già detto discutendo della questione del cristianesimo; e non c’è ragione che il già detto sia ripetuto. Ma, al contrario, non può evitarsi di notare di nuovo il silenzio che egli mantenne durante il lungo incontro di Dante con Forese Donati, in un canto che si potrebbe definire dell’amore e, quindi, dell’amicizia e dell’odio. Dell’amore di Forese per la moglie Nella, rievocata con affetto e nostalgia nella sua eroica dedizione alla causa del consorte e nell’impegno che, pregando, metteva perché il soggiorno sul monte a quello riuscisse corto. Dell’amicizia per Dante, ricantata attraverso la rievocazione di tanti momenti di vita quotidiana fiorentina, e in particolare dai versi famosi («se tu reduci a mente/ qual fosti meco, e qual io teco fui,/ ancor fia grave il memorar presente»), che forse alludono alla famosa Tenzone, e certo si concludono con il riferimento che egli fece all’azione salvifica di Virgilio («di quella vita mi volse costui/ che mi va innanzi»). E quindi ancora dell’amicizia, dichiarata da Forese con una domanda che, formulata, nel canto ventesimoquarto, come se, con Dante fosse stato nel mondo dei vivi («quando fia ch’io ti riveggia»), consentiva tuttavia il passaggio al tema politico, che già era risuonato nel canto precedente, e ora si ripresentava nella tonalità dell’odio, odio politico, emergente con sorda violenza dalle parole feroci dedicate da Forese, a «quei che più n’ha colpa», ossia al fratello Corso, che egli vedeva «a coda d’una bestia tratto/ inver’ la valle ove mai non si scolpa./ La bestia ad ogni passo va più ratto,/ crescendo sempre, fin ch’ella ’l percuote,/ e lascia ’l corpo vilmente disfatto».146 A una simile scena, nella quale era come se la civiltà fiorentina fosse rientrata nella selva, e che forse fu in particolar modo presente a Vico147 quando descrisse la barbarie medievale come un ritorno a quella delle origini,148 non c’era arte che potesse bastare a far sì che Virgilio fosse presente. Ed egli infatti tornò a occuparla non prima che le vicende del viaggio gli procurassero l’occasione di lasciare il mondo medievale, non solo politico, ma filosofico e teologico, e di ritrovarsi nell’ambito della civiltà della quale era stato parte. E allora fu lui a parlare e a imporre a Dante il silenzio. Celeberrimo è quello a cui l’aveva costretto («lascia parlare me») quando con lui si era trovato di fronte alla fiamma nella quale, con Diomede, anche Ulisse si trovava a essere martirizzato. Aveva detto a Dante di far parlare lui perché, essendo greci, quelli sarebbero stati «schivi» forse del suo «detto». E Dante, infatti, non era intervenuto, e si era posto all’ascolto della storia che l’eroe greco aveva narrata del suo ultimo viaggio e della morte che l’aveva concluso. Con pochissime parole, e qua-
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si senza intenzione, la regola che lo voleva presente in certe situazioni, ma assente in altre, era stata quasi definita da lui quando, allontanatosi Ulisse con la «sua dolce licenza», si era trovato di fronte a Guido di Montefeltro, e a Dante aveva chiesto che fosse lui a rivolgergli la parola. «Parla tu», gli aveva detto, «questi è latino».149 Nella storia che, nella prima parte della sua vita, l’aveva visto «uom d’arme», e nella seconda «cordigliero», prima esperto delle più raffinate risorse dell’astuzia politica («l’opere mie non furon leonine, ma di volpe») e poi dedito alla penitenza e alla confessione dei peccati commessi nella prima, lunga parte della sua vita, Virgilio non era entrato, si era tenuto in disparte, forse perché, sembra di poter dire, da mondano e politico il dramma di quel personaggio si era via via fatto teologico, sì che a lui non conveniva metter bocca né nelle questioni relative al potere dei papi in tema di remissione dei peccati né in quella relativa al principio di non contraddizione, che era bensì cosa greca, nata all’interno della civiltà di cui lui pure era parte, ma di lì trasferita in un ambiente abitato da diavoli e da santi, al quale, in quel caso, restava estraneo. Soltanto in un’occasione aveva ritenuto di poter non rispettare la regola che può ritenersi si fosse tacitamente imposta di non entrare in questioni riguardanti la storia di cui Dante era stato partecipe; e fu quello, già ricordato, della disputa che nell’ultimo girone delle Malebolge si era accesa fra maestro Adamo e Sinone, ossia fra un personaggio di dubbia identificazione, ma probabilmente un fiorentino,150 e il greco che con l’inganno aveva persuaso i troiani a accogliere dentro le mura della loro città il fatale cavallo, e che egli aveva icasticamene ritratto attraverso le ingegnose parole con le quali si era presentato ai Greci: «si miserum Fortuna Sinonem/ finxit, vanum etiam mendacemque improba finget».151 Era tuttavia, quella che aveva luogo nel profondo Inferno, una disputa di natura tale che, per un verso, Virgilio avrebbe potuto prescinderne, ma per un altro no, perché di quel personaggio lui pure aveva dovuto fare il nome quando, per il tramite di Enea, aveva narrato a Didone di Troia presa e bruciata, e sta di fatto che quella disputa, nella quale constatava che troppo Dante si stava coinvolgendo («ad ascoltarli er’io del tutto fisso»), fu da lui troncata con parole tali che,152 nel sentire l’ira che era nella sua voce, Dante si era volto «verso lui con tal vergogna,/ ch’ancor per la memoria mi si gira».153 32. Conviene, a questo punto, tornare al momento in cui Virgilio apparve a Dante che, a causa delle tre fiere che gli sbarravano il cammino,
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stava rovinando «in basso loco»; e ricordare quel che allora si disse delle parole che, avendolo riconosciuto, quest’ultimo gli rivolse. Si disse, come si ricorderà, sia dell’anacronismo a cui egli aveva dato luogo parlando del «lungo studio» e del «grande amore» che gli avevano «fatto cercar» il suo volume, sia dell’alterazione che, nel proclamarlo suo maestro e autore, aveva introdotta nella sua altrimenti nota realtà biografica. Sul che, dopo quel che all’inizio si disse, non occorrerebbe insistere se non convenisse dare nuovo rilievo a quel che necessariamente ne risulta. Se, nel rapporto che Dante aveva stretto con Virgilio, e che da lui era stato definito con le impegnative parole che ora non occorre richiamare, al momento della concordanza aveva tenuto dietro uno caratterizzato in modo opposto, e cioè dall’oblio in cui presso di lui la sua parola era caduta, il medesimo deve ritenersi ch’e fosse accaduto in quello con Beatrice. Non si spiegherebbero altrimenti il disperdimento nella selva, il rischio incombente della morte (spirituale), e l’intervento di entrambi i personaggi che nel «traviamento» erano stati, e sia pure in modo diverso, coinvolti e travolti: non solo Beatrice, che poi lo descrisse con forti parole quando finalmente lo incontrò nel Paradiso Terrestre,154 ma anche Virgilio, che era stato anch’esso oggetto di colpevole dimenticanza dopo che gli era stato maestro nel periodo in cui da lui aveva tratto «lo bello stilo» che gli aveva fatto onore. Sono considerazioni che non possono non essere proposte e considerate se si sta alla veloce, e tendenziosa, autobiografia che Dante aveva tracciata nel discorso che aveva rivolto a Virgilio. Nel segnarne le linee, Dante delineò due situazioni identiche, che entrambe prevedevano che all’iniziale e felice accordo avesse fatto seguito lo smarrimento, da parte sua, di quei due amori, e quindi, per merito di chi ne era stato l’oggetto, il loro ritorno; che, tuttavia, in entrambi i casi fu determinato da Beatrice che si fece strumento della grazia che in cielo si era deciso che dovesse discendere sul poeta che si era disperso nella selva e lottava per liberarsi della sua tentazione. Due «traviamenti», dunque, coincidenti nell’esser stati causa che Dante vi si fosse coinvolto, ma diversi tuttavia in ciò che, se di quello che l’aveva riguardata Beatrice aveva parlato con aspre parole, dell’altro Virgilio non aveva detto nulla e aveva preferito tacere. Perché? Forse perché la logica del racconto esigeva che ogni traviamento che si fosse prodotto nella sua vita dovesse esser considerato in relazione a quello che li comprendeva tutti, e a tutti attribuiva il senso? Oppure per la diversa ragione, che anch’essa a questo punto merita di essere notata, che quello subito da lui si deduceva solo dal non essere, la sua lezione, stata in grado di impedire che l’altro si
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producesse? Oppure, ancora, nel caso che a questa ipotesi si pensasse di concedere il primo posto, conviene attribuirlo a una sorta di inavvertenza strutturale, a una conseguenza non prevista e che tuttavia, discendeva proprio dal fortissimo rilievo conferito alla lezione virgiliana; che era stata fondamentale, e tuttavia non aveva impedito che, in circostanze non dichiarate, si fosse rivelata incapace di trattenere Dante sulla via non vera che aveva cominciato a percorrere? 33. Se eccezionale era stato il rilievo che Dante aveva conferito alla figura di Virgilio e al suo essergli stato maestro e autore, della stessa natura avrebbe dovuto essere l’addio che, raggiunto il traguardo del Paradiso Terrestre, l’uno avrebbe dovuto dare e ricevere dall’altro. Ma era impossibile che, nel secondo caso, le cose andassero come nel primo. Il distacco da Virgilio implicava il ribadimento del limite che, per suo conto, il maestro non era stato in grado di oltrepassare. Ma come si sarebbe potuto evitare di richiamarlo se alla scena dell’addio si fosse dato esplicito rilievo? Quel limite era stato imposto da Dio. Si poteva fare in modo che, più volte pronunziate durante il viaggio, quelle parole non assumessero, nella cerimonia dell’addio, un sapore particolarmente aspro. Ma meglio si sarebbe proceduto se alla cerimonia si fosse rinunziato e, come poi in effetti avvenne, il distacco avvenisse senza che le due parti fossero messe l’una di fronte all’altra, e senza che, guardandosi in faccia, i due poeti dovessero prendere atto di quel che di opposto la situazione comportava per entrambi. Se non si fosse determinata in questi termini, la scena dell’addio sarebbe stata esposta al rischio o dell’enfasi o della facile commozione o, infine, della banalità; e non è detto che, di queste tre ipotesi, l’una escludesse le altre. Restava comunque che, nel distaccarsi da Dante, che con altra guida (o altre guide) avrebbe proseguito il suo cammino, ancora una volta Virgilio era costretto a constatare che il limite, che lo teneva al di qua della compiuta esperienza cristiana, non poteva essere superato, era un grave limite e conveniva accettarlo. Nel distaccarsi da Virgilio, Dante avvertiva che in lui era sul punto di verificarsi una tale trasformazione che, da quel momento, gli sarebbe stato impossibile pensare la sua vita senza rivivere il momento in cui, dal suo interno, si era manifestata l’energia che l’aveva condotta al di sopra di sé stessa. Non può considerarsi casuale, ma dev’essere posto in relazione a quel che s’è detto, che, già nell’Inferno e più ancora nel Purgatorio, la Commedia fosse segnata dal congedo che via via Dante aveva preso dai suoi maestri di un tempo, da Brunetto Latini a Guinizzelli, per
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finire con Virgilio e senza dimenticare persino chi, come Casella, aveva, con il suo canto, contribuito a rendergli meno amara la vita.155 Fra tutti, ed è ovvio, il congedo da Virgilio fu il più doloroso e sofferto. Non solo perché dal suo poema aveva imparato a pensare la storia di Roma come storia dell’Impero, in questa scoprendo il vero senso della vicenda umana; non solo perché il suo autore era stato per lui il «dolcissimo padre» a cui si era dato per la sua «salute»; non solo perché, per tutte queste ragioni, il distacco si compisse, e molto di quel che era stato tuttavia gli rimanesse dentro. Non solo per questo. Ma per la ulteriore e meno ovvia ragione che a lui si era affidato nel corso di un’impresa che per l’uno e per l’altro si sarebbe conclusa in modo dolorosamente diverso. Risolverla, quella questione, era dunque difficile sia che la si fosse considerata sotto il profilo estetico, sia se se ne fossero affrontate le implicazioni strutturali. Con eccezionale abilità drammaturgica, Dante la risolse assegnando al congedo, non una, ma più scene, l’ultima delle quali fu quella in cui descrisse il momento in cui, cercando in Virgilio riparo dai fieri rimproveri di Beatrice, si era volto là dove credeva di trovarlo, e aveva dovuto constatare che il «dolcissimo padre» non era più lì. È, nella vicenda del viator ultramondano, il momento di più alta drammaticità. L’invettiva di Beatrice era stata ascoltata da Dante con crescente emozione. E qui la parola va lasciata a lui: «tosto che nela vista mi percosse/ l’alta virtù che già m’avea trafitto/ prima ch’io fuor di püerizia fosse,/ volsimi ala sinistra col respitto/ col quale il fantolin corre ala mamma/ quando ha paura o quando egli è afflitto,/ per dicere a Virgilio: ‘men che dramma/ di sangue m’è rimaso che non tremi:/ conosco i segni del’antica fiamma’./ Ma Virgilio n’avea lasciati scemi/ di sé, Virgilio dolcissimo patre,/ Virgilio a cui per mia salute die’mi;/ né quantunque perdeo l’antica matre,/ valse ale guance nette di rugiada,/ che, lagrimando, non tornasser atre».156 Si può riprenderla per osservare che, in realtà, Dante aveva messo le cose in modo che il distacco da Virgilio avvenisse senza che l’addio fosse affidato alle parole dell’uno e dell’altro. All’uno e all’altro esso si impose come un fatto; che, tuttavia, non si sarebbe determinato nel modo che s’è visto, se non fosse stato per Virgilio che, discretamente, e ancora una volta confermando la penetrante delicatezza del suo senso psicologico, non aveva messo le cose in modo che si determinassero così. 34. Il momento in cui il dramma della separazione si concluse fu, dunque, l’ultimo di una serie di eventi abilmente costruita. Quella dell’addio fu infatti una storia lunga, il cui inizio può farsi coincidere con l’entrata in
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scena di Stazio, un personaggio che, nel poema, ha una funzione strettamente strutturale, e per sé vale, infatti, assai meno di quanto non contribuisca a definire la qualità del rapporto che Virgilio intratteneva con Dante nel momento in cui, per lui, il viaggio era sul punto di concludersi. In effetti, la figura dell’autore della Tebaide è importante, non tanto, o non solo, perché fu lui che di Virgilio disse che era stato cristiano piuttosto per gli altri che per sé stesso. È importante per il contributo che, per vie traverse, la sua presenza accanto ai due poeti dette alla risoluzione del dramma costituito dall’addio. Non può infatti sfuggire che, oltre che farsi autore di quella definizione, fu lui, o meglio, fu la sua presenza accanto ai due poeti che stavano per conoscere la tristezza della separazione, a far sì che questa accadesse senza parole che la dichiarassero, e senza, altresì, che il sentimento decadesse a sentimentalismo. Stazio, infatti, sapeva benissimo che il distacco da Virgilio avrebbe, a rigore, dovuto avvenire già nel momento in cui Dante fosse stato sul punto di mettere il suo piede nel Paradiso Terrestre. E di questo non poteva non sapere Virgilio che, del limite che il suo viaggio non avrebbe potuto superare, era stato informato dalle parole che Beatrice gli aveva rivolte quando gli aveva spiegato il senso della missione che il cielo gli assegnava. A misura che il momento del congedo si avvicinava, aveva moltiplicato i moniti che rivolgeva a Dante perché non cedesse alla paura, ora che, la meta essendo stata raggiunta, da solo e senza quindi la sua presenza, avrebbe dovuto compiere l’ultimo passo attraversando la barriera di fuoco posta intorno all’Eden. L’entrata in esso poteva infatti essere consentito a Stazio, che, dopo i secoli trascorsi sul monte del Purgatorio, era ormai un’anima del Paradiso, che, solo per dare un segno della reverenza dovuta al suo maestro latino e godere della sua conversazione, stava indugiando in loro compagnia. Non avrebbe, a rigore, potuto essere consentito a Virgilio, che era un’anima del Limbo, e quel luogo a lui era vietato. Se, tuttavia, per un istante il divieto fu infranto, si trattò appunto di un istante, o di un breve momento; e quella di Virgilio fu infatti, nell’Eden, una presenza muta, non solo perché egli non vi pronunziò parole, ma anche perché a tacere di essa fu Dante, che parve constatarla come si constata un fatto del quale non sa dirsi come e perché sia accaduto e del quale, quindi, si tace. Le ultime parole che Virgilio aveva pronunziate furono infatti quelle che egli rivolse a Dante dopo che con lui (e con Stazio) era giunto al sommo della salita che conduceva al Paradiso Terrestre; e furono parole solenni, che egli scandì «ficcando» nei suoi i suoi occhi, e conferendo a esse il carattere della definitività. Dopo averle pronunziate,
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infatti, non parlò più: «il temporal foco e l’etterno/ veduto hai, figlio, e sè venuto in parte/ dov’io per me più oltre non discerno./ Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;/ lo tuo piacere omai prendi per duce:/fuor sè dell’erte vie, fuor sè dell’arte./ Vedi lo sol che ’n fronte ti riluce;/ vedi l’erbette i fiori e li arbuscelli/ che qui la terra sol da sé produce./ Mentre che vegnan lieti li occhi belli/ che, lacrimando, a te venir mi fenno,/ seder ti puoi e puoi andar tra elli./ Non aspettar mio dir più né mio cenno;/ libero, dritto e sano è tuo arbitrio,/ e fallo fora non fare a suo senno;/ per ch’io te sovra te corono e mitrio».157 Furono, come si vede, parole che, implicando l’estremo addio, anche lasciavano intendere che, da quel momento, Virgilio non ci sarebbe stato più, che nell’Eden non avrebbe messo piede perché così, fin dall’inizio, era stato deciso. E invece non fu così, o, almeno, non fu del tutto così. Non senza la sorpresa del lettore che, essendo stato attento alle implicazioni strutturali del discorso di Dante, e ai limiti, teologicamente insuperabili, da lui posti alla presenza di Virgilio, si sarebbe aspettato di non trovarvelo e, con qualche sorpresa, doveva invece constatare che egli era lì e quelli non erano stati rispettati. Della trasgressione tanto più si trovava costretto a chiedere il perché, quanto più e meglio gli fosse accaduto di notare le particolari cure che, da quel momento, egli aveva dedicate ai timori e alle esitazioni di Dante, giunto a una svolta cruciale del viaggio e al momento drammatico della separazione. Per parte sua, Virgilio sapeva che per lui il viaggio era sul punto di aver termine e che, per quanto lo riguardava, stava per iniziare l’epoca in cui di esso non sarebbe sopravvissuto, in lui, se non il ricordo. Si era perciò lasciato vincere dalla tentazione, non solo pedagogica, ma, come la si potrebbe definire, storiografica, di ripercorrere all’indietro i suoi momenti più drammatici; di ripercorrerli e di ricordarli a Dante, al quale aveva rivolto le parole che si usano con gli infanti quando indugiano davanti a una difficoltà: «‘come! volenci star di qua?», aveva detto, e aveva sorriso «come al fanciul si fa ch’è vinto al pome».158 Perciò lo avvertì che la barriera di fuoco che Dante avrebbero dovuto attraversare per entrare nel Paradiso Terrestre era tale che, se nella sua fiamma fosse stato mille anni, nemmeno di un capello sarebbe stato reso calvo. Ma, fra Dante e Beatrice non c’era ormai che quella barriera. Era dunque inammissibile che Dante non si decidesse a superarla e, primo uomo vivo da che Adamo e Eva ne erano stati cacciati, non entrasse nell’Eden, segnando in tal modo l’inizio di una storia nuova e diversa. Si è già detto che sebbene a lui l’ingresso dovesse essere vietato, nell’Eden tuttavia anche Virgilio era entrato senza che Dante spendesse
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una sola parola per dare la spiegazione di un fatto al quale non poteva essere assegnata altra ragione da quella del suo essere accaduto e del non avere, egli, potuto fare che non accadesse. Come si sarebbe potuto negare a Virgilio, e cioè al maestro, quel che si concedeva a Stazio, e cioè all’allievo? Alla ragione teologica qui subentrava, per un momento sospendendola, quella poetica. Così anche a Virgilio fu dato di entrare nel Paradiso Terrestre, di assistere all’apparizione di Matelda e, quindi, al vario spettacolo della processione mistica, con i suoi simboli, le sue allegorie, il suo riposto significato. Soprattutto gli fu dato di apprendere che l’età dell’oro cantata dai poeti e da essi collocata in Parnaso, era lì, nel Paradiso Terrestre, dove innocente era stata «l’umana radice». Della presenza, dietro di lui, dei due poeti, Dante si accorse quando, voltandosi all’indietro, aveva visto che sorridevano alle parole di Matelda: «io mi rivolsi ’n dietro allora tutto/a’ miei poeti, e vidi che con riso/ udito avëan l’ultimo costrutto:/ poi alla bella donna tornai ’l viso».159 È questo l’unico passo dal quale si apprenda che, con Stazio, anche Virgilio era entrato nel Paradiso Terrestre. E Dante, tuttavia, fece che a notarlo fosse piuttosto il suo «personaggio» che non l’autore della Commedia. Nell’Eden, dunque, Virgilio era entrato, senza che ne fosse stata spiegata la ragione e ne fosse stato detto il perché. Aveva, con ciò, dato vita a un’anomalia grave: si trattava infatti di un punto teologicamente importante, e una spiegazione sarebbe stata necessaria. Ma escogitarla era difficile. E di questo Dante era consapevole, come si vede dal modo in cui cercò di risolverla, non già affrontandola nel suo nucleo e provando a venirne a capo per via concettuale, ma indirettamente, e cioè mediante il suggerimento, dato al lettore, che quel che concedeva a Stazio non avrebbe potuto non esserlo a Virgilio, che anche da quello, come si sa, era considerato un maestro. Sarebbe stato perciò un colpo grave per la sua dignità di poeta e di maestro, se il diritto di entrarvi, che a Stazio era stato riconosciuto, a lui fosse stato invece negato con esplicite parole. Era una questione che non si poteva fare come se non esistesse. Ma, nei termini che Dante si trovava di fronte era, come si è detto, insolubile. Stazio era un’anima santa che, ormai, aveva guadagnato il Paradiso. Alla fine del suo viaggio, Virgilio era quello stesso che era all’inizio: un’anima del Limbo. Non c’era niente da fare: posta la questione in termini teologici, l’ostacolo era inaggirabile, e tanto più lo era in quanto un altro modo di porla, quella questione, e di risolverla, non c’era. O meglio, c’era, ma a condizione che, uscendo da quel che la considerazione teologica imponeva, si fosse deciso di confermarne l’insolubilità ricorrendo a un altro ordine
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di considerazioni, fondate sulla riconoscenza che l’autore della Tebaide doveva a Virgilio e sull’affetto che nutriva per lui. La sua, dunque, era stata una scelta passionale, o, se si preferisce, sentimentale. E l’argomento che, elaborandola, Dante escogitò fu da lui ricavato dalle parole con le quali Matelda aveva indicato nel Paradiso Terrestre il luogo della vera età dell’ora, quella che, lo si è già ricordato, i poeti avevano ricercata e cantata, ponendola in Parnaso. Ebbene, si poteva negare a Virgilio quel che si concedeva a Stazio? Non si poteva, se Virgilio era Virgilio. Dante sapeva dove e come egli l’avesse cantata, e quali parole avesse dirette al puer. «Hinc, ubi iam firmata virum te fecerit aetas/ cedet et ipse mari vector, nec nautica pinus/ mutabit merces: omnis feret omnia tellus./ Non rastros patietur humus, non vinea falcem;/ Robustus quoqe iam tauris iuga solvet arator;/ nec varios discet mentiri lana colores,/ ipse sed in pratis aries iam suave rubenti/ Murice, iam croceo mutabit vellera luto;/ sponte sua sandyx pascentis vestiet agnos./’talia saecla’, suis dixerunt ‘currite’ fusis/ concordes stabili fatorum numine Parcae».160 Senza darne la spiegazione razionale fece perciò in modo che di quello spettacolo il suo maestro non fosse privato, anche se la sua funzione a quel punto si fosse del tutto esaurita, e nell’Eden egli non pronunziasse parole dopo quelle dette a Dante che stava per entrarvi. 35. Fra quelli incontrati nell’Inferno e nel Purgatorio, Virgilio fu l’ultimo dei maestri ai quali Dante disse addio. Di tutti quelli incontrati in terra, e poi nei due regni dell’aldilà, si era rivelato e confermato come il più grande, quello il cui insegnamento, sia pure attraverso le complesse trasfigurazioni apocalittiche a cui nella Commedia, fu esposto il pensiero delineato, per esempio, nella Monarchia, sarebbe rimasto vivo in lui. Basti pensare al tema romano e alla trasfigurazione che subì nelle parole di san Pietro.161 Ma del suo personaggio, e di quel che aveva rappresentato nella prima e nella seconda cantica, deve pur dirsi che, nel Paradiso, a parte quel che s’è osservato, non si trova niente. E di questo deve prendersi atto. Il congedo imposto ai maestri fu nella Commedia, quanto rispettoso, e sofferto, altrettanto radicale.
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Note 1. Credo opportuno avvertire che in questo saggio Virgilio è stato studiato, non solo e non tanto nel significato allegorico che gli è attribuito nella Commedia, quanto piuttosto nelle parti che, senza potersi risolvere in una sintesi, compongono il suo personaggio. La letteratura sull’argomento è ovviamente sterminata. Citerò via via quella di cui mi sono servito. Per alcune indicazioni, cfr. n. 5. 2. Si veda il mio Il viaggio di Dante, in «Forti cose a pensar mettere in versi». Studi su Dante, Aragno, Torino 2017, pp. 457-574. 3. Sulla sfasatura cronologica, presente in questo verso, cfr., p. es., N. Sapegno, La Divina Commedia, I, Inferno, Firenze 1985, p. 11. Ma cfr. V. De Angelis e G.C. Alessio, ‘Nacqui sub Julio, ancor che fosse tardi’ (Inf. I 70), in Studi vari di lingua e letteratura offerti a Giuseppe Velli, I, Milano 2000, pp. 127-146. 4. Cv IV iv 10 e 11. 5. Mn II vi 10. Sulle implicazioni «imperiali» della figura di Virgilio, ha insistito S. Bellomo, ‘Or sè tu quel Virgilio?’: ma quale Virgilio?, in «L’Alighieri», n.s., 57 (2016), pp. 5-18. Su Virgilio in Dante, cfr. D. Consoli, Significato del Virgilio dantesco, Firenze 1967, del quale converrà aver presente l’ampia voce dell’ED, V, 1030 b-1044 a. Ma cfr. anche, fra i molti, il saggio di A. Vallone, Interpretazione del Virgilio dantesco, in «L’Alighieri», 10 (1969), pp. 14-40. 6. Tale è sembrata a A. Renaudet, Dante humaniste, Paris 1952, p. 99, il quale, dopo aver ricordato che Virgilio avrebbe condotto Dante attraverso l’Inferno e il Purgatorio rendendolo esperto del male e del suo riscatto, osservò: «en même temps Virgile, maintenant instruit de la Révélation, lui enseignera les principes de la justice divine», senza tuttavia spiegare né la ragione per la quale, «maintenant», la Rivelazione gli avrebbe impartito quell’insegnamento, né come la cosa sarebbe stata comunque possibile (cfr. n. 7). 7. Non so di critici, e sarà certo, per mia ignoranza, dai quali sia stata notata questa singolarità, che, senza dirne alcunché, Dante presentò come se fosse cosa ovvia, e che ovvia invece non è, perché la teologia cristiana assume bensì che l’anima sopravviva al corpo mortale, e sia eterna, ma non che, nell’esser tale, anche sia in contatto con quel che avviene nel tempo storico e si arricchisca delle esperienze che vi si compiono. Un’eternità che si storicizzi pone un arduo problema; che può qui esser tenuto in considerazione non perché sia questa la sede in cui possa discutersene, ma per meglio determinare la questione che vien fuori dal modo in cui Dante delineò la figura di Virgilio, chiuso al cristianesimo e perciò condannato, ma, in quanto anima del Limbo, aperto all’acquisizione culturale della sua scienza, della sua filosofia, della sua teologia. Un arduo problema è posto, del resto, anche dall’idea secondo cui il castigo infernale non è suscettibile di incremento o diminuzione, e che soltanto nel giorno del giudizio il castigo dei dannati, e persino la gioia dei beati, toccheranno il limite dell’ulteriore perfezione. Mi sia consentito di rinviare, per questo, al mio La resurrezione dei corpi, in «Forti cose a pensar mettere in versi». Studi su Dante 2, Aragno, Torino 2020, pp. 159-246. 8. Altresì si affiderebbe a congetture prive di senso chi osservasse che dai colloqui che Virgilio intratteneva con gli ospiti del nobile castello potrebbe dedursi che, poiché
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parlavano con un dotto che si era evoluto con i temi, con lui anch’essi avessero conosciuto un’analoga evoluzione. Ma, in tanto di Virgilio si dice che la sua anima si era evoluta con i tempi e aveva acquisite conoscenze che alla sua mente storica non erano appartenute, in quanto di questa egli dette innumerevoli prove nei due giorni che fu guida di Dante nel viaggio ultramondano, mentre non è possibile penetrare nei discorsi che gli abitanti del nobile castello intrattenevano fra loro, e dei quali anche Dante una volta partecipò quando, nel Limbo, gli fu dato di aggiungersi come sesto alla schiera che, oltre che da Virgilio, era formata da Omero, Orazio, Ovidio e Lucano. Andando verso la lumera (If V 103-104), avevano parlato di «cose che ’l tacere è bello». E per quanto riguarda i colloqui che, non quei cinque poeti soltanto, ma, in genere, gli abitanti del nobile castello, intrattenevano fra loro, anche di quelli il «tacere» era «bello». Non volendo cadere nel ridicolo, di essi, infatti, non può dirsi se non che si svolgevano all’interno di una sorta di soprastorica e metalinguistica koiné culturale, caratterizzata da un miracoloso reciproco intendersi. In quell’angolo d’Inferno si trovavano, non solo Ettore e Enea, ma anche la Pentesilea, il Saladino e, quindi, Avicenna e Averroè, «che ’l gran comento feo» (v. 144): personaggi, dunque, di lingue, religioni e culture diverse. Si può ritenere che a Dante il luogo di quei colloqui apparisse come perfettamente concluso in sé e tale da rendere contemporanei e concordi l’uno agli altri coloro che vi erano inclusi; e che appartenesse alla sua natura specifica di rendere possibile quel che sulla terra sarebbe stato impensabile. Ma quello era comunque un luogo, non tanto partecipe della storia, quanto, piuttosto, sottratto a essa. Se lo si vuol definire metaumanistico, si proceda: purché poi non si pretenda di avere, con ciò, definito l’«umanesimo» dantesco. 9. Ho studiato la questione in La sentenza di Francesca e la prescienza dei dannati, in «Forti cose a pensar mettere in versi». Studi su Dante 2, pp. 95-157. 10. If IV 42. 11. Ripeto quel che si legge nella n. 1. La letteratura concernente il Virgilio dantesco è tale che conoscerla tutta è impossibile. Di quel che di essa è stato utilizzato darò conto via via che l’occasione si presenti. Le osservazioni più penetranti le ho trovate in E. Auerbach, Figura, in «Archivum romanicum», 22 (1939), pp. 436-496, che può leggersi tradotto in E. Auerbach, Studi su Dante, Milano 1963, pp. 176-226, anche se non potrei dire che, per quanto suggestiva, l’interpretazione di Virgilio in termini figurali colga nel segno e esaurisca l’argomento. Se l’interpretazione figurale della realtà implica che «ogni accadimento terreno» sia visto, non «come una realtà definitiva e autosufficiente», ma come tale che il suo carattere è «nell’immediato nesso verticale con un ordinamento divino di cui esso fa parte e che in un tempo futuro sarà anch’esso un accadimento reale», di modo che «il fatto terreno è profezia o ‘figura’ di una parte della realtà immediatamente e completamento divina che si attuerà in futuro», – se questo significa «interpretazione figurale», mi sembra che la figura di Virgilio debba, per il suo tratto fondamentale, esserle sottratta: per lui, come Dante lo concepì, si dà, non il futuro, ma il ritorno, dopo il compimento della sua missione, al suo non modificabile stato. Interpretato da Auerbach, Virgilio va oltre il limite che Dante gli impose. Interpretato da E.R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, tr. it., Firenze 1992, pp. 395-396, a giudizio del quale è, per Dante, «maestro di retorica nel senso tardo-antico e medievale del termine», e, come già per Macrobio, che l’aveva considerato onnisciente, rappresenta il vertice del sapere, resta invece, malgrado tutto, al di qua. Nell’intrinseco, Virgilio è, per Dante, ben più di questo.
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12. L’identificazione di Virgilio con la ragione naturale è opera già dell’esegesi antica: si veda, p. es., P. Alighieri, Comentum super poema Comedie Dantis. A critical Edition of the Third and final Draft of Pietro Alighieri’s ‘Commentary on Dante’s Divine Comedy, ed. M. Chiamenti, Tempe 2002, p. 73. E cfr., per tutti, G. Boccaccio, Il Comento alla Divina Commedia e gli altri scritti intorno a Dante, a cura di D. Guerri, I, Bari 1918, p. 188 (vedi anche Esposizioni sopra la Comedia di Dante, a cura di G. Padoan, I, Milano 1994, pp. 8586), e sarà variamente discussa in questo scritto. Riserve su questa idea in Bellomo, ‘Or sè tu quel Virgilio?’: Ma quale Virgilio?, pp. 10-11, 12-13. Sulla questione torno più avanti nel testo. Dico subito, per altro, che non trovo ragioni per condividere l’orientamento di alcuni studiosi nordamericani (Hollander, Baranski, Bertolini) che tendono a cogliere in Dante, nei confronti di Virgilio, un atteggiamento, polemico, e contrario, dunque, a quello tenuto nei confronti di Beatrice. In realtà, l’idea dantesca del personaggio va ben oltre questo motivo che, se fosse preso nel senso che a esso conferiscono i suddetti studiosi, la impoverirebbero senza rimedio. Le «insufficienze» rilevabili nella sua guida sono, in realtà, elementi che conferiscono profondità al personaggio che, cercando di andare al di là del limite, per lui insuperabile, costituito dalla sua ignoranza del vero Dio, di questo è consapevole di una consapevolezza che non reca con sé il superamento. Su una polemica intervenuta fra Dante e Virgilio nel decimoquinto del Purgatorio, vedi infra. 13. D. Comparetti, Virgilio nel Medio Evo, n. ed. a cura di G. Pasquali, I, Firenze 1955, p. 262 (ma cfr. pp. 254-283). 14. Per il senso che Dante dava alla parola «autore», e per l’etimologia che ne forniva, cfr. Cv IV vi 3-5. Per le questioni linguistiche che il passo pone, rinvio a V. Mengaldo, ED I, 482-483, e alla diffusa annotazione di C. Vasoli, Il Convivio, in Opere minori, I 2, MilanoNapoli 1988, pp. 581-584. 15. Nella penuria di documenti relativi ai primi tempi dell’esilio, le pagine su Virgilio, che si leggono nel quarto trattato del Convivio, assumono esse un valore e un significato periodizzante. Sono, per quel che se ne sa, il primo documento di una lettura dell’Eneide che nell’opera di Dante introdusse note che, in precedenza, non si erano mai ascoltate. Che gli studiosi recenti della sua vita (Inglese, Barbero) ne tacciano, si comprende in ragione della suddetta penuria. Ma il quarto trattato fu scritto probabilmente nel 1307; e non è arbitrario indicarvi il risultato di una riflessione politica sulla quale l’esilio e il dramma che ne era seguito avevano impresso quel così deciso carattere filoromano e imperiale. 16. E anche di A. Pagliaro, Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Commedia, I, Firenze-Messina 1967, pp. 42-43. Non entro qui nella disputa relativa al v. 63: «chi per lungo silenzio parea fioco», sul quale il Pagliaro discute alle pp. 25-43. Ma poiché non mi è occorso di vederli citati a riscontro, e non certo allo scopo di indicare una fonte, segnalo, per curiosità, due espressioni che ho incontrate in Soph. Phil. 202 πρυφάνη κτύπος (apparve rumore), e Trach. 693 δέρκομαι φάτιν (vedo una voce), che mi sembrano fondate sul medesimo scambio. 17. Mn I iii 8-9. 18. Rinvio, per questo, al mio Dante. L’Imperatore e Aristotele, Roma 2002, capp. II e IV. 19. Non mi riesce di condividere quel che, a proposito di Aristotele e Virgilio, si legge in Renaudet, Dante humaniste, p. 96, a giudizio del quale, come il secondo ha permesso
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a Dante «de dépasser Aristote, à l’humanisme de la Divine Comèdie de dépasser l’humanisme des quatre traités», così «il était naturel, il était nécessaire qu’un Romain fût choisi plutôt qu’un Grec pour réalizer le type idéal de l’humanité. Aristote n’était que le philosophe d’une Grèce asservie, et qui dans la politique universelle ne comptait plus». Che Dante sapesse che Aristotele aveva vissuto in una Grecia senza libertà, o, se si preferisce, avesse chiaro in mente che, con Alessandro, l’aveva perduta, è più che dubbio. Quel che sapeva di Alessandro era, come si deduce da Mn II viii 7-8, che era stato «maxime omnium ad palmam Monarchie propinquans», ma il traguardo che non era riuscito a conseguire non importava, nella sua visione, la fine della libertà politica. 20. Cv IV iv 8. 21. B. Nardi, Dal ‘Convivio’ alla ‘Commedia’. Sei saggi danteschi, Roma 1992, p. 101. 22. Sulla teoria medievale dei quattuor sensus è fondamentale H. De Lubac Exégèse médiévales. Les quatre sens de l’Ecriture, 4 voll., Paris 1959-1964 (ma cfr. I i, 146-169). Cfr. anche A. Pézard, Dante sous la pluie de feu (Enfer, chant XV), Paris 1950, pp. 372-400. Altre indicazioni nelle note di C. Vasoli al sua edizione del Convivio, Milano-Napoli 1988, pp. 108-120. 23. Cv II i 3-6. 24. Ep. XIII 23. 25. Pietro Alighieri, per la verità, nella redazione del suo Commento edita dal Nannucci, interpretò la discesa di Dante «in Infernum» come realizzata «per phantasiam intellectualiter, non personaliter» (Petri Allegherii Super Dantis ipsius genitoris Comoediam Commentarium, ed. Nannucci, Florentiae 1846, p. 37). 26. Ep. XIII 24. 27. È importante, al riguardo, la pagina in cui Guido da Pisa, I fatti d’Enea, a cura di F. Foffano, nuova presentazione di F. Ageno, Firenze 1978, p. 4, indicò i vari modi in cui può essere intesa la katabasis di Enea e, pervenuto a trattare del modo «magicale», scrisse: «e se questo andare fu per arte magica, qui è il dubbio in che modo v’andasse, ovvero in sogno, ovvero vegghiando. E se egli vi andò vegghiando, anche qui nasce un altro dubbio, cioè se egli vi andò col corpo». 28. Boccaccio, Il Comento, I, 168-169 (Esposizioni, pp. 65-66). 29. Si veda il saggio fondamentale di E.G. Parodi, I rifacimenti e le traduzioni italiane dell’Eneide di Virgilio, in «Studi di Filologia Romanza», 5 (1887), pp. 97-368. 30. Ioannis Saresberiensis Policratici sive De nugis curialium et vestigiis philosophorum libri VIII, recensuit C. Webb, II, Oxonii 1909, pp. 92-93. 31. Ottonis Episcopis Frisigensis Chronica sive historia de duabus civitatibus, I, 2526 (rec. A. Hofmeister, Hannoverae et Lipsiae 1912, pp. 56-58). 32. Guido de Columnis, Historia destructionis Troiae, ed. N.E. Griffin, Cambridge Mass. 1935, p. 110. 33. Corpus iuris civilis, III, Novellae, rec. R. Schoell et G. Kroll, Berolini 1928, p. 283. Si veda, al riguardo, il notevole saggio di G. Inglese, Storia e Comedia: Enea, in
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L’intelletto e l’amore. Studi sulla letteratura italiana del Due e Trecento, Firenze 2000, pp. 143-144 (ora anche in Scritti su Dante, Roma 2021, pp. 60-92). 34. Historia destructionis Troiae, p. 110. 35. Boccaccio, Vita di Dante, in Il Comento, I, 83. 36. Cv IV v 5-6. 37. Cv IV xxvi 7-8. 38. Cv IV xxvi 15. 39. Mn II iii 6 (e cfr. 8, dove è citata aen. 1, 544-545: «rex erat Eneas nobis, quo iustior alter/ nec pietate fuit nec bello maior et armis». 40. B. Latini, Tresor, a cura di P.G. Beltrami, P. Squillacioti, P. Torri e S. Vatteroni, Torino 2007, pp. 61 ss. 41. Guido da Pisa, I fatti di Enea, a cura di F. Foffano (1900), con una presentazione di F. Ageno, Firenze1978, p. 41. Il passo è importante. Senza escludere e, anzi, ammettendo che la discesa di Enea «allo ’nferno, ove vide le pene infernali e l’anime dannate» ponesse seri problemi di credibilità, e che sul suo significato dovesse discutersi, l’ipotesi che la katabasis fosse conseguente a «arte di negromanzia» era da Guido considerata credibile. Ma fermo restava che di Enea doveva parlarsi come di un personaggio storico. 42. Pg XXI 31-32. 43. B. Croce, La poesia di Dante, Bari 1921, pp. 60-61. 44. Pg XXXII 100-102. 45. Sono tornato su questo punto in un saggio, Dante fra realtà e realtà, di prossima, spero, pubblicazione. 46. If IV 106-108. 47. Pd XXXI 64-69, 79-92, dove sono descritti il ritorno di Beatrice al luogo che le spettava nel Paradiso («e se riguardi su nel terzo giro/ dal sommo grado, tu la rivedrai/ nel trono che i suoi merti le sortito») e il sopraggiungere di san Bernardo, al quale appartengono le parole qui citate. E si leggano, a conclusione del ringraziamento rivolto a Beatrice, i versi conclusivi (91-93): «così orai; e quella, sì lontana/ come parea, sorrise e riguardommi;/ poi ritornò a l’etterna fontana». È lecito dire che, quanto a intensità poetica, la sparizione di Beatrice non regge il confronto con quella di Virgilio nel trentesimo del Purgatorio? 48. If III 94-96. 49. Si veda, al riguardo, J.W. Spargo, Vergil the Necromancer, Cambridge Mass. 1934. 50. If XXI 79-84. 51. Comparetti, Virgilio nel Medio Evo, I, 266-267. 52. G. Pasquali, Studi recenti su Virgilio nel Medioevo (1933/1938), in Terze pagine stravaganti, Firenze 1932, pp. 192-193. Ma si veda anche il dotto articolo di G. Funaioli, Chiose e leggende virgiliane nel Medio Evo (1937), in Studi di letteratura antica. Spiriti e forme, figure e problemi delle letterature classiche, II 1, Bologna 1948, pp. 387-398. 53. If I 69-70.
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54. Il riferimento è a If XXX 100-129. E si ricordi il monito che, in quel caso, Virgilio rivolse a Dante: «or pur mira,/ che per poco che teco non mi risso!» (vv. 131-132). 55. Ebbe ragione, su questo punto, F. D’Ovidio, Esposizione del canto ventesimo dell’Inferno, in Nuovo volume di studii danteschi, Napoli (Caserta-Roma) 1926, pp. 349350. 56. If XX 26-30. 57. Non appartiene a questo luogo la discussione del contrasto in cui, a proposito della collocazione di Manto nell’aldilà, questo luogo si pone con Pg XXII 113, dove la maga si trova, invece, nella sesta cornice del Purgatorio. Su questa discrepanza, si veda G. Padoan, Manto, ED, III, 811 a-b, ma soprattutto la puntuale annotazione di G. Petrocchi, La Commedia secondo l’antica vulgata, III, Purgatorio, Milano 1967, p. 383. Debbo dire che mi sembra assennata l’osservazione di E. Paratore, L’eredità classica in Dante, in Tradizione e struttura in Dante, Firenze 1968, p. 67, secondo cui «la pratica filologica c’insegna che in opere di vasta mole l’autore talvolta dormitat rispetto al compito d’organizzare coerentemente i dati materiali della sua creazione». È anche vero, tuttavia, che aver collocato Manto nel Purgatorio, dopo quel che Virgilio ne aveva detto vedendola nel girone infernale degli indovini, è dimenticanza non da poco. Non è questo il luogo in cui possa discutersi la proposta di R. Hollander, Il Virgilio dantesco: tragedia nella commedia, tr. it. , Firenze 1983, pp. 111-112, secondo cui «la Manto di Malebolge è creatura di Virgilio, quella del Limbo la vergine filiale del IV della Tebaide». Hollander trova «particolarmente seducente» questa proposta, ossia la sua proposta, perché «il suo contesto si basa sul paradosso della salvezza di Stazio e della dannazione di Virgilio». Per altre indicazioni, cfr. ivi, p. 112 n. 69. Non mi è riuscito di procurarmi l’articolo di R. Kay, Dante’s double Damnation of Manto, in «Res Publica Litterarum», 1 (1978), pp. 113-128. 58. Statii Theb. 4, 463-465: «tunc innuba Manto/ exceptum pateris praelibat sanguen, et omnes/ ter circum acta pyras sancti de more parentis/ semineces fibras et adhuc spirantia reddit/ viscera». 59. Ivi, 55-57. In realtà, la rettifica che qui Dante fece compiere a Virgilio è un’autorettifica se si sta a aen. 10, 198-200: «ille etiam patriis agmen ciet Ocnus ab oris,/ fatidicae Mantus et Tusci filius amnis,/ qui muros matrisque dedit tibi, Mantua, nomen». 60. Ivi, 88-93. «Sanza cercare sorte o augurii per porre el nome alla città». Così intese C. Landino, Comento sopra la Comedia, a cura di P. Procaccioli, II, Roma 2001, p. 778, ripreso, p. es., dal Vandelli (La Divina Commedia, testo critico della Società dantesca italiana riveduto col Commento scartazziniano rifatto da G. Vandelli, Milano 1952, p. 164). 61. If XX 97-99. 62. Si sa che, in una sua epistola latina, Leonardo Bruni censurò Dante con asprezza per aver implicitamente negata l’origine etrusca di Mantova e contraddetta la tesi di Virgilio: «usque adeo a Virgilio discedit, ut cum ille de Tusco sanguine ortos Mantuanos asserat et Ocnum nominet conditorem, iste quasi ignarus omnium aliam quandam originem assignet» (Leonardi Bruni Arretini epistolarum libri viii, ed. Mehus, II, Florentiae 1741, p. 227), e altresì per aver fatto di Manto, che «doctius et verius», Virgilio «matrem appellavit», una vergine. Al di là dell’intento polemico, è difficile, per altro, capire donde il Bruni avesse ricavato che, per Dante, «Manto fuisse hominem, [et] in Italiam venisse cum servis
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intra paludem remota ab omni humano commercio». È da escludere che Dante avesse frainteso il luogo virgiliano, ed è invece frutto di un’inavvertenza bruniana che quella che dal poeta era stata definita come una virgo, fosse, a distanza di un paio di righe, da lui definita un uomo. È possibile supporre che, non essendosi, mentre scriveva la sua epistola, messo di nuovo sotto gli occhi il testo di Dante, il Bruni confondesse Manto con gli uomini che, dopo la sua morte, avevano fondata Mantova e, invece che a sé stesso, questa confusione attribuisse a Dante che non ne era affatto rimasto vittima? In realtà, interessato a mettere in evidenza sia l’origine etrusca della città sia l’ignoranza che al riguardo Dante dimostrava delle fonti antiche, il Bruni non prestò attenzione al contesto del ventesimo canto e alla ragione, del resto ovvia, per la quale Virgilio diceva lì cose diverse da quelle che si leggono in aen. 10, 198-206. Il che non significa né che, in quel caso, Dante avesse frainteso il suo latino, né che, in particolare, non avesse considerata l’intenzione virgiliana di assegnare a Mantova un’origine etrusca. Significa bensì che, proponendosi di rendere la città di Virgilio indipendente dai maghi che vedeva condannati nel quarto girone dell’ottavo cerchio, non trovò di meglio che assegnare al poeta, che a Mantova era nato, la critica della tesi da lui sostenuta nel decimo dell’Eneide. È notevole il tratto critico che si rivela al v. 57 «onde un poco mi piace che m’ascolte», che ha il suo riscontro nella terzina di tono quasi minaccioso: «però t’assenno che, se tu mai odi/ originar la mia terra altrimenti, la verità nulla menzogna frodi» (vv. 96-99), a dimostrazione che qui a Virgilio era assegnata la parte di chi mette le cose a posto anche nei riguardi di una sua precedente opinione, e che, non potendo presentarlo se non come un critico di una tesi sostenuta nell’Eneide, ne derivava che non poteva non metterlo in esplicito contrasto con sé stesso. Posto il nesso che connetteva Mantova a Manto e perciò alle male arti magiche, nel fatto Dante non poteva agire che così. – Sulla questione degli Etruschi e del senso di libertà che, in opposizione a Roma, ne sarebbe derivata ai fiorentini, su questo tema che, già presente nel Bruni, vigoreggiò nell’età di Cosimo I, e la relativa letteratura, non ci si può fermare qui. Ma si veda almeno, per i suoi incunaboli, H. Baron, La crisi del primo Rinascimento italiano. Umanesimo civile e libertà in un’età di classicismo e tirannide, tr. it., Firenze 1970, pp. 69-70, 450-451, 465-466. Cito l’edizione italiana perché fu dall’autore presentata come «riveduta e aggiornata». 63. If XX 28. A ragione G. Inglese, Commedia, I, Inferno, Roma 2016, p. 243, ha osservato che Dante aveva mostrato pietà per Francesca, per Pier della Vigna, per Brunetto Latini e per i tre fiorentini antichi del canto decimosesto, senza perciò incorrere nella censura di Virgilio. Ma già qui conviene richiamare quel che in seguito sarà chiarito, e cioè che, in generale e con una sola rilevante eccezione, Virgilio si asterrà sempre dall’intervenire, con i suoi commenti, negli incontri di Dante con personaggi del suo tempo, o di quello comunque della storia italiana, fiorentina e non. 64. Occorre ribadire (cfr. n. 12) che non è condividibile, e va decisamente respinta, la tendenza che si è manifestata in alcuni dantisti nordamericani, a segnare netta la distanza fra il cristiano Dante e il pagano Virgilio che dal primo, perciò, sarebbe spesso stato criticato e messo in una poco onorevole posizione. Cfr., in particolar modo, Hollander, Il Virgilio dantesco, pp. 81-115. Che Dante critichi l’Eneide perché non è la Bibbia (p. 85) e Virgilio perché non è il «Vas d’elezione», è giudizio del quale non si riesce a capire la ratio, dal momento che l’intera costruzione del personaggio è fondata sul riconoscimento di un’eccellenza che non riesce ad andare oltre il suo limite e a conseguire il traguardo cristiano, e ne resta dolorosamente al margine. Se della non eliminabilità di questo divario non si arriva a
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rendersi conto, è vano poi sperare che della figura del Virgilio dantesco possa comprendersi il significato e la complessità. La quale, certo, a volte si rivela anche nelle difficoltà che il suo personaggio incontra nei momenti più difficili e insidiosi del viaggio. Il che dipende, non certo dall’intento, per la verità assai meschino, che Dante rivelerebbe di segnare i limiti dottrinali del maestro, ma dalla sua malinconica umanità che in quei limiti, e nella conseguente sua consapevolezza di essi, ritrova la sua ragione. 65. Cfr. Boccaccio, Esposizioni sopra la Comedia, I, 56-58. Allo stesso modo la questione è impostata dai commentatori medievali, da Pietro Alighieri a Guido da Pisa a Benvenuto da Imola. 66. Boccaccio, Esposizioni, I, 85-86. 67. Su Bertrando del Poggetto, cfr. B. Nardi, Filosofia e teologia ai tempi di Dante (1965), in Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966, p. 71. Ma si veda ora S. Bellomo, Dizionario dei commentatori danteschi. L’esegesi della ‘Commedia’ da Jacopo Alighieri a Nidobeato, Firenze 2004, pp. 20, 23, passim. 68. Boccaccio, Esposizioni, I, 85. 69. If IV 42. 70. Pg III 35-45. 71. Cfr. il mio Le autobiografie di Dante, Napoli 2008, pp. 129-134. 72. Boccaccio, Il Comento, I, 151 (= Esposizioni, p. 45). 73. Boccaccio, Esposizioni, p. 46. 74. Se il Boccaccio ebbe torto a parlare di «solecismo», non meglio di lui, ma peggio, fece G.B. Gelli, Commento edito e inedito sopra la Divina Commedia, a cura di C. Negroni, I, Firenze 1852, pp. 113-114, il quale pensò di risolvere la questione osservando che, se, prima di por mano alla Commedia, Dante «aveva scritto cosa alcuna degna di lode, ciò era nato per avere imitate l’opere e gli scritti di esso Virgilio, disponendo ed esprimendo i suoi concetti con l’ordine e con lo stile ch’egli aveva tolto da lui; avendo egli di già composta la Vita nuova, e tanti sonetti e canzoni, che la fama sua era assai bene divulgata e in pregio. E così espongo io questo luogo, senza avere a intendere il tempo preterito per il futuro, come fa il Boccaccio, il quale espone che mi ha fatto onore per mi farà, e senza averlo a scusare, come fa lo interprete moderno, il quale dice così per quella figura che il Linacro, diligentissimo grammatico moderno, chiama enalage e scambiamento di tempi». Per l’enàllage (o ipàllage), cfr. G. Inglese e R. Zanni, Metrica e retorica del Medioevo, Roma 2011, pp. 4849. Come si vede, il modo tenuto dal Gelli è un insigne esempio dell’arte (non so se abbia un nome) di addomesticare le difficoltà. Bastava dire che Dante aveva sempre «imitato» Virgilio, e tutto andava al giusto posto! Ragionava non diversamente dal Gelli, per esempio, anche F. Torraca, La Divina Commedia, Città di Castello 1992, p. 6 75. Quando la si è avvertita la questione posta da questi versi è stata variamente risolta dai commentatori antichi. Il Comparetti, Virgilio nel Medio Evo, I, 254, notò che, a proposito dei due versi che qui sono in questione, «non bisogna intendere grossamente ch’egli abbia voluto poetare secondo lo stampo virgiliano, cosa che sarebbe falsa, ma bisogna cercare quel significato di quelle parole che la realtà giustifica in quella guisa, come ciò conviene fare per Eschilo allorché ei dice che le sue tragedia altro non sono che briciole raccolte dalla
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mensa omerica». E aggiunse che «alle forme caratteristiche della poesia dantesca quelle parole non si possono riferire […] le liriche di Dante non hanno assolutamente che fare coll’arte antica, e molto meno con l’arte virgiliana». Ben detto, per quest’ultima questione. Ma il senso specifico del passo anche al Comparetti sembra essere sfuggito. 76. È la tesi sostenuta da Bellomo, «Or sé tu quel Virgilio?»: ma quale Virgilio?, pp. 5-18, e da P. Allegretti, Il maestro de “lo bello stilo che m’ha fatto onore” (Inf. I 87), ovvero la matrice della sestina da Arnaut Daniel a Virgilio, in «Studi danteschi», 67 (2002), pp. 11-56. Ma, senza avvertire la difficoltà sollevata, e non bene risolta, dal Boccaccio, l’idea che qui Dante si fosse riferito allo stile tragico delle Canzoni era già in molti commentatori: p. es., e senza stabilire precedenze, in Vandelli, La Divina Commedia con il rifacimento del Commento scartazziniano, pp. 8-9, L. Pietrobono, La Divina Commedia, I, Inferno, Milano-Torino etc. 1944, p. 10, V. Rossi, Commento alla Divina Commedia, con la continuazione di S. Frascino, a cura di M. Corrado, I, Roma 2007, p. 128, C. Grabher, La Divina Commedia, I, Inferno, Firenze 1934, pp. 10-11, N. Sapegno, La Divina Commedia, I, Inferno, Firenze 1985, p. 12, G. Inglese, Commedia, I, Inferno, Roma 2016, p. 62, che parla, per altro, di «asserzione emblematica, più che realistica». 77. S. Carrai, Il primo libro di Dante. Un’idea della ‘Vita nova’, Pisa 2020, pp. 97109. 78. Pg XXX 45-145. 79. Pg XV 44. 80. Pg XV 49-51. 81. Pg XV 55-57. Si veda, al riguardo, l’annotazione del Landino, Comento sopra la Comedia, II, 1277. 82. Pg XV 58-60. 83. Pg XV 82-84. L. Pietrobono, La Divina Commedia, II, Purgatorio, Milano, Torino etc. 1935, p. 198 chiosò: «ma non fu scortesia, perché le cose che vide e la maniera con cui le vide, avrebbero impedito a tutti di parlare». M. Porena, La Divina Commedia, II, Purgatorio, Bologna 1957, p. 145, vi vede «la prova della potenza che ha in Dante il desidero di vedere e di apprendere». 84. M. Barbi, Introduzione al Convivio ridotto a miglior lezione e commentato da G. Busnelli e G. Vandelli, I, Firenze 1954, pp. xviii-xix. 85. R. Davidsohn, Storia di Firenze, III, Le ultime lotte contro l’Impero, tr. it., Firenze 1960, pp. 274-277. 86. Lo dà per certo D. Compagni, Cronica, II 25, 121 (cito dall’edizione curata da D. Cappi, Roma 2013), seguìto da L. Bruni, Della vita, studi e costumi di Dante, in Le vite di Dante scritte da G. e F. Villani, G. Boccaccio, L. Aretino e G. Manetti, ora nuovamente pubblicate da G.L. Passerini, Firenze 1918, p. 215. Ma cfr. I. Del Lungo, Da Bonifazio VIII ad Arrigo VII. Pagine di storia fiorentina per la vita di Dante, Milano 1899, pp. 175-177. A. Barbero, Dante, Bari-Roma 2020, p. 154, scrive che «su questa faccenda dell’ambasceria sono stati espressi frequenti dubbi», e lui pure sembra averne perché, sebbene ritenga certa la presenza di Dante a Roma, non esclude che la visita possa essere avvenuta «l’anno prima per il Giubileo» (p. 309). Ritiene sicura la notizia dell’ambasciata romana di Dante G. In-
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dizio, Dante secondo i suoi antichi (e moderni) biografi, in Problemi di biografia dantesca, Ravenna 2014, pp. 164-65, in nota. Analogamente M. Santagata, Dante. Il romanzo della sua vita, Milano 2012, pp. 139-140, e G. Inglese, Vita di Dante. Una biografia possibile, Roma 2015, pp. 67-69. Si veda ora anche il recentissimo E. Brilli, G. Milani, Vite nuove. Biografia e autobiografia, Roma 2021, p. 108. Resta incerto, invece, J. Took, Dante. Amore, essere, intelletto, tr. it., Roma 2021, p. 65. 87. Si veda la sua Introduzione al Convivio nell’edizione del Busnelli e del Vandelli, I, Firenze 1934, pp. xvi-xix. 88. Pg II 106-114. 89. Si veda tuttavia D. De Robertis, Il libro della ‘Vita nuova’, Firenze 1970, pp. 150151, 248, 258-259, che rivela la presenza di Virgilio nella stagione della Vita nuova, senza che dalla sua indagine risulti quel che solo nel Convivio, e a partire da quel testo, darà segno di sé, e cioè il tema romano. Per un elenco delle citazioni presenti nella Commedia, si legga R. Hollander, Le opere di Virgilio nella Commedia di Dante, in Dante e la ‘bella scola’ della poesia. Autorità e sfida poetica, a cura di A.A. Iannucci, Ravenna 1993, pp. 247-343. 90. Cv IV iv 11-12. 91. If I 100-108. 92. La questione della fonte dalla quale Dante ricavò le informazioni relative alla conversione di Stazio, è controversa. In tempi recenti, la ripresero G. Padoan, Il mito di Teseo e il cristianesimo di Stazio, in «Lettere italiane», 1959, pp. 432-468, e soprattutto P. Renucci, Dante disciple et juge du monde greco-latin, Paris 1954, pp. 332-337, discussi da A. Ronconi, L’incontro di Stazio e Virgilio, in «Cultura e Scuola», 13-14 (1965), pp. 566-571 (poi in Da Lucrezio a Tacito, Firenze 1968, pp. 299-308). Ma vedi anche il suo Dante interprete dei poeti latini, in «Studi danteschi», 41 (1964), pp. 5-44. E cfr. anche S. Mariotti, Il cristianesimo di Stazio in Dante secondo il Poliziano, in Letteratura e critica. Studi in onore di N. Sapegno, II, Roma 1975, pp. 149-161, poi in Scritti medievali e umanistici, Roma 1976, pp. 71-85. Altra letteratura in E. Paratore, Stazio, ED V, 419 b-425 b. 93. Pg XXII 55-63, 64-71. Le fonti possibili di questa immagine sono indicate in N. Sapegno, La Divina Commedia, II, Purgatorio, Firenze 1985, p. 246. E cfr. G. Inglese, Commedia, II, Purgatorio, Roma 2016, p. 273. Il passo dello Ps. Agostino fu citato per la prima volta da N. Tommaseo, Commento alla Commedia, a cura di V. Marucci, II, Roma 2006. 94. Per questo non parlerei, con E. Paratore, L’eredità classica in Dante (1965), in Tradizione e struttura in Dante, Firenze 1968, pp. 55-121, spec. 69 ss., di Virgilio come profeta («come nell’Eneide la guida del protagonista del viaggio oltremondano era stata la Sibilla Cumana, così nella Commedia la guida del protagonista era un profeta, Virgilio, che aveva avuto la mirabile visione della nascita di Roma, perno indispensabile dell’attuazione dei destini dell’umanità»). Mi sembra evidente che Virgilio è, in Dante, consapevole del destino imperiale di Roma che, per esser lui vissuto «sotto il buon Augusto», non poteva non essergli noto, sì che non aveva bisogno di profetizzarlo, ma non lo era del cristianesimo, al quale era dolorosamente consapevole di essere rimasto estraneo. 95. Fu, che io sappia, M. Scherillo, Il cristianesimo di Dante secondo Stazio, in «Atene e Roma», 1902, p. 497, a porsi il problema relativo, non, in generale, all’acquisizione
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che Virgilio aveva conseguita della cultura (filosofia, scienza, teologia) cristiana, ma alla conoscenza che mostrava della Tebaide di Stazio. Egli lo risolse congetturando che a Virgilio quel testo fosse stato fornito da Giovenale quando giunse lui pure nel nobile castello. Che lo Scherillo si riferisse a Pg XXII 10-18, è evidente. Ma deve ricordarsi che di Giovenale, in quei versi, si dice che a Virgilio dette notizia del grande amore che Stazio nutriva per lui, non che gli avesse fornito il testo della Tebaide. Che, comunque, posta in questi termini, la congettura meritasse l’ironia di Ronconi, Da Lucrezio a Tacito, p. 300, è indubbio, ma solo per la grossolanità realistica della congettura. È, o dovrebbe essere, ovvio che la questione non poteva esser messa in questi termini. A parte Stazio, la questione della cultura medievale di Virgilio coincide con quella del significato che Dante dette a lui come sua guida e maestro; e si tratta perciò di una questione seria, della quale deve sapersi cogliere, non solo la presenza, ma anche la obiettiva paradossalità: un’anima consegnata all’eternità (della sua pena), e che tuttavia si svolge e si arricchisce storicamente. 96. Per tutti, si veda il classico commento di Sapegno, Inferno, p. 10. 97. È fondamentale, al riguardo, B. Nardi, Filosofia e teologia ai tempi di Dante in rapporto al pensiero del poeta (1965), in Saggi e note di critica dantesca, Milano-Napoli 1966, pp. 3-109. 98. If IV 55-62. Varrà la pena di notare che fra quel che Dante scrisse nel luogo qui citato e quel che si legge in If XXIII 115-126, sembra esserci, non accordo, ma il suo contrario. Si è detto (Sapegno, Inferno, p. 264) che la meraviglia provata da Virgilio nel vedere in che modo era punito il peccato di Caifas, deriva da ciò che, quando egli, che da poco vi si trovava, aveva visto un «possente, con segno di vittoria coronato» discendere nel Limbo per trarne Adamo e gli antichi patriarchi, la sua morte in terra non era ancora avvenuta e del Cristo fattosi uomo non poteva, perciò, avere notizia. Ma, nel dir così, Sapegno non considerò che se, certo, quando l’aveva visto nel Limbo, di quel possente poteva non sapere che era il Cristo, di lui e della sua storia terrena era invece ben al corrente quando a Dante apparve nella selva. I secoli nemmeno per lui erano trascorsi invano, sì che la meraviglia da lui provata di fronte alla punizione inflitta a Caifas gli derivava, non tanto da ciò che vi apprendeva relativamente alla morte di Cristo, e nemmeno, forse, dalla crudeltà della pena a cui quello era stato condannato (nell’Inferno c’è di peggio), quanto piuttosto dal feroce rovesciamento che il supplizio inflitto per l’eternità al sommo sacerdote ebreo aveva subito rispetto a quello che si era consumato sul Golgota e alla croce che lì era stata innalzata. Quella di Cristo stava dritta e indicava il cielo, al contrario di quella di Caifas, che giaceva in terra in modo che ciascuno potesse calpestare il corpo che vi era inchiodato. 99. Comparetti, Virgilio nel Medio Evo, I, 259, ha osservato che «il tipo di Virgilio, come come simbolo quale» Dante «lo ha ideato e rappresentato, è di gran lunga più nobile e più grande di quello risultasse dai comuni concetti delle menti d’allora». Sia pure. Ma, per intendere il personaggio dantesco, non basta. Come non basta, e è anzi decisamente fuorviante, pensare che Dante avesse messo un particolare accanimento nel criticare la filosofia di Virgilio, o quella (pagana) che egli condivideva, e nel «mostrare i limiti intrinseci della dimensione classico-filosofico-razionalistica» (G. Ledda, Sulla presenza di Virgilio nel ‘Paradiso’, in Dante e la tradizione classica, a cura di S. Carrai, Longo, Ravenna 2021, p. 128). Il Ledda attribuisce al netto rifiuto opposto alle tesi virgiliane le differenze sussistenti fra le posizioni del Convivio e quelle della Commedia (nella seconda e, soprattutto, della
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terza cantica), Ma che Virgilio appartenesse al mondo pagano era stato lui a dirlo fin dalla prima volta che era apparso a Dante, e che quelle tesi avessero costituito la ragion prima del suo esser privo di ciò che più avrebbe desiderato di possedere, era cosa ovvia, sulla quale non si vede perché Dante avrebbe dovuto insistere. Ma la ragione per la quale il Ledda batte su questo punto può forse essere indicata in due luoghi del suo articolo. Il primo è quello in cui osservò che la citazione, da parte di Dante, di aen. 4, 23 («agnosco veteris vestigia flammae») da lui reso con «conosco i segni dela antica fiamma» nel trentesimo del Purgatorio, implica una sorta di purificazione dell’amore «colpevole» di Didone per Enea in quello di Dante per Beatrice. In questo, indirettamente, il Ledda vede anche «un modo per bilanciare i pericoli insiti nell’ideologia imperiale, i pericoli che l’idea dell’autonomia dell’Impero dalla Chiesa, della politica dalla religione, potesse suggerire la rivendicazione di una fiducia illimitata nella filosofia razionale, nella possibilità che essa porti a una piena felicità, posizione apertamente sostenuta nel Convivio». Non mi sembra, francamente, che la proposta del Ledda possa essere accolta: a cominciare dall’interpretazione che egli dà dell’uso che Dante fece del verso virgiliano, e dell’intenzione che avrebbe avuto di purificarlo, per finire con la preoccupazione che Impero significasse fiducia illimitata nella «filosofia razionale». Non mi sembra che questa sia mai stata, in Dante, una preoccupazione. 100. Pd XIX e XX. 101. Ne ho discusso in un saggio, Salvezza e predestinazione, incluso in questo volume. 102. Verg. buc. 4, 4-10. 103. Pg XXII 94-95. 104. Cfr., al riguardo, il mio saggio La sentenza di Francesca e la prescienza dei dannati in «Forti cose a pensar mettere in versi». Studi su Dante 2, pp. 95-157. 105. Pg XXI 18. 106. Pg XXI 100-102. 107. Pg XXI 121-129. 108. If I 112-29. 109. If XI 81-83. 110. Basti qui il rinvio a B. Nardi, Il canto XI dell’‘Inferno’ (1951), in “Lecturae” e altri studi danteschi, Firenze 1990, pp. 71-81. 111. If XI 106-111. 112. È da tener presente, al riguardo, la nota di M. Barbi, Problemi di critica dantesca, I, Firenze 1934, p. 260. Fondamentalmente, per «seconda morte» deve intendersi quella da cui le anime saranno colpite nel momento in cui l’eterno giudizio sarà pronunziato e ciascuna si rivestirà del corpo avuto in vita; e, rispetto alla prima, non avrà di diverso se non questo che si è detto. A proposito del v. 117 «che la seconda morte ciascun grida», mi pare sia da mettere in rilievo il verbo «gridare» che nel dannato indica la rabbiosa e vana speranza che la seconda sia morte e della prima metta fine alle attuali sofferenze. 113. If XXV 1-3. 114. Cfr., al riguardo, Sapegno, Inferno, pp. 160-161.
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115. Che, nel delineare la figura di Capaneo, Dante si sia servito di Stazio, Theb. 11, 1-11, è stato variamente notato. Ma cfr. J.A. Scott, Dante magnanimo. Studi sulla ‘Commedia’, Firenze 1977, pp. 295-296, che vi coglie, non il megalopsichos di Aristotele, ma il megathymos della poesia greca (p. 295), il cui carattere Dante intuì quando parve avvicinare la grandezza del personaggio alla superba stultitia, alla follia «della fiera bocca di Nembrotto» (il rinvio è a VE I vii 3-4 e a If XXXI 46-81). Non entro nella questione (ma per il riferimento alla poesia greca, rinvio, per il μεγάθυμος al Liddell-Scott-Jones, s.v.). Una caratterizzazione di Capaneo, in termini di forza ostentata e non posseduta, e contrapposto perciò a quella di Farinata, fu fornita da F. De Sanctis, Il Farinata di Dante (1896), in Lezioni e saggi su Dante, a cura di S. Romagnoli, Torino 1988, pp. 659 ss., che vi colse la «forza per la forza», una «forza subiettiva, vuota di autentico valore, senza scopo e senza motivo, perciò arbitraria» (p. 659), opposta a quella di Farinata. Le pagine di De Sanctis si leggono sempre con interesse, ricavandone insegnamenti. Ma direi che il paragone con l’ammirato Farinata, in quel caso non gli giovò. Non lo mise infatti in condizione di restituire a Capaneo il suo onore di ribelle che non riconosce la sconfitta e così la patisce per l’eternità, non senza una sua rabbiosa grandezza. Sul tema della magnanimità è importante il libro di F. Forti, Magnanimitade. Studi su un tema dantesco, Bologna 1977. 116. Pg X 76 ss. 117. Si ricordi If XXIII 1-55, con quel bellissimo inizio («taciti, soli, sanza compagnia/ n’andavàn l’un dinanzi e l’altro dopo,/ come li frati minor vanno per via»), con la descrizione dei diavoli alati («già non compié di tal consiglio rendere,/ ch’io vidi venir con l’ali tese/ non molto lungi, per volerne prendere») con il paragone fra Virgilio e una madre che cerca di salvare il figlio da un incendio («lo duca mio di subito mi prese,/ come la madre che al romore è desta/ e vede presso a sé le fiamme accese,/ che prende il figlio e fugge e non s’arresta, avendo più di lui che di sé cura,/ tanto che solo una camiscia vesta»). Ma cfr. If XIV 43-45: «i’ cominciai: ‘Maestro, tu che vinci tutte le cose, fuor che ‘demón duri/ ch’al’entrar dela porta incontra uscinci…». 118. If IX 22-27. E.G. Parodi, Il primo viaggio di Virgilio attraverso l’Inferno, in «Fanfulla della domenica», XXXVII (1915), n. 28, (e cfr. il cenno che, al riguardo, si trova in E.G. Parodi, Lingua e letteratura. Studi di Teoria linguistica e di Storia dell’italiano antico, con un saggio intr. di A. Schiaffini, II, Venezia 1957, p. 348). 119. If IX 19-21. 120. If IX 22-30. 121. La questione della possibile salvezza di Virgilio, che ha avuto qualche riscontro nella critica dantesca (cfr., p. es. A. Fiammazzo, Virgilio veggente cristiano? in «Giornale storico della letteratura italiana», 102 (1933), pp. 138-147, F. Schneider, Dante und Vergil, in «Deutsches Dante Jahrbuch», 36/37 (1958), pp. 126-127), è in realtà esclusa nel modo più radicale da quel che egli stesso disse indicando entro quali limiti egli sarebbe stato di guida a Dante nel viaggio ultraterreno (If I 121-126): cfr., al riguardo, A.M. Chiavacci Leonardi, La guerra de la pietade. Saggio per un’interpretazione dell’Inferno di Dante, Napoli 1979, p. 60 n. 50. Si veda in T. Barolini, La ‘Commedia’ senza Dio. Dante e la creazione di una ricetta virtuale, tr. it., Milano 2003, pp. 29-30, il riferimento bibliografico della discussione intervenuta in proposito fra lei e Mobray Allen. La questione della salvezza di Virgilio non può essere posta se non all’interno della sua consapevolezza di non poterla conseguire.
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122. If III 94-96. 123. If IX 64-72. 124. Verg, aen. 6, 299-304. 125. If III 91-93. 126. If III 86. 127. If III 111. 128. If X 31-33. 129. If XXV 4. 130. È notevole che a Dante Vanni Fucci ricordasse Capaneo: cfr. If XXV 13-15: «per tutti i cerchi dello ’nferno scuri/ non vidi spirto in Dio tanto superbo,/ non quel che cadde a Tebe giù da’ muri». 131. If XIV 63-66. 132. E si ricordi, naturalmente, Pd II 16-18. Cfr. anche Renaudet, Dante humaniste, pp. 368-369, e P. Renucci, Dante disciple et juge du monde gréco-romain, Paris 1954, pp. 243-244, passim. 133. If XVIII 83-84. 134. If XVIII 97. 135. If XVIII 55-57. 136. If VI 85. 137. If. XVI 38-39. 138. If. XVI 41-42. 139. L’allusione non è facile da interpretare. Ma cfr. la nota di Inglese, Commedia, I, Inferno, p. 205. 140. If. XVI 58-63. 141. Il saggio più ampio su Filippo Argenti è quello, variamente discutibile, di F. D’Ovidio, Filippo Argenti e gli altri cani, in Nuovo volume di studi danteschi, CasertaRoma 1926, pp. 231-271. Le poche notizie che si hanno sul personaggio sono riassunte in F. Forti, Filippo Argenti, ED, II, 873 b-874 a. 142. Per il significato del termine, cfr. Sapegno, Inferno, p. 93, che rinvia alla canzone del pregio di Dino Compagni (la si veda in Poeti minori del Trecento, a cura di N. Sapegno, Milano-Napoli 1953, pp. 282-288). 143. Le pagine più persuasive su questo episodio, che presenta non pochi punti oscuri, le ho trovate in A. Tartaro, L’identità del male (1974), in Letture dantesche, Roma 1980, pp. 1-23. 144. If XXX 131-132. 145. Su questi versi Pg XXV 103-105 e sulle questioni che ne sono implicate, cfr. S. Gentili, «Quindi parliamo, quindi ridiam noi» (Pg XXV 103): piacere e dolore delle anime nella ‘Commedia’ di Dante, in Piacere e dolore. Materiali per una storia delle passioni nel Medioevo, a cura di C. Casagrande e S. Vecchio, Firenze 2009, pp. 149-169.
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146. Pg XXIV 80-87. 147. If XXVII 75. 148. È un argomento che fu studiato da M. Fubini, Il mito della poesia primitiva e la critica dantesca di G. B. Vico (1945), in Stile e umanità di Giambattista Vico, Bari 1947, pp. 173-205, e cfr. anche quel che il Fubini scrisse in ED, V, 1003 b-1005 b. 149. If XXVII 32. 150. G. Contini, Sul XXX dell’‘Inferno’, in Un’idea di Dante, Torino 1965, pp. 164165, ha osservato che «maestro appare termine tecnico del mondo universitario, grado sinonimo di dottore, e la facoltà, più che la medica, ben probabilmente è quella delle Artes, fra le quali vennero classificate le cosiddette scienze naturali». Sarà stato anche in considerazione del suo ruolo di «maestro» che Dante lo mise in rapporto, nell’Inferno, con un personaggio, seppure ignobile, dell’epica antica? 151. Verg. aen. 2, 79-80. Sul nome Sinone, cfr., da ultimo, le notazioni di S. Casali, Virgilio, Eneide 2, intr. e comm. a cura di S. Casali, Pisa 2018, pp. 128-129. 152. If XXX 130-131. 153. If XXX 131-132. 154. Pg XXX 55-146. 155. Ho studiato la questione in Dante e Brunetto Latini, in «Forti cose a pensar mettere in versi». Studi su Dante 2, pp. 315-377, e quindi in un saggio, Il giudizio su Guinizzelli e il commiato dai maestri, che si legge in questo volume. 156. Pg XXX 40-54. Su questi versi, cfr. anche L. Pertile, La puttana e il gigante. Dal Cantico dei Cantici al Paradiso Terrestre di Dante, Ravenna 1998, pp. 92-93. 157. Pg XXVII 128-142. 158. Pg XXVII 43-45. 159. Pg XXVIII 145-148. 160. Verg. buc. 4, 38-47. 161. Pd XXVII 61-63.
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I 1. La disputa, insorta già presso i più antichi commentatori, proseguita nei secoli decimoquinto e decimosesto, resasi più vivace nel decimonono e agli inizi del ventesimo, sulle ragioni per le quali Dante o non ritenne opportuno assegnare agli invidiosi un luogo specifico dell’Inferno, o preferì non rendere esplicito quello in cui si trovavano, sembra ora essersi, se non spenta, resa meno vivace presso i più recenti studiosi e commentatori dell’Inferno.1 Gli invidiosi stanno nella seconda cornice del Purgatorio: lì sono visibili, lì Dante li incontrò, lì ebbe con essi memorabili colloqui. Nell’Inferno, invece, non appaiono. Della loro assenza converrebbe dunque prendere atto, e non parlarne. Basta tuttavia che li si nomini come assenti perché la questione torni a dar segno di sé, e si sia costretti a venir meno al proposito di ignorarli. È proprio sicuro, infatti, che per essi non c’era un luogo che, essendo nascosto allo sguardo di un ipotetico visitatore, fosse tuttavia destinato a non sfuggire all’acume di chi sulla questione si fosse disposto a riflettere? Oppure, sul serio il luogo non c’era, e cercarlo era inutile, perché a non esserci, nell’Inferno, erano, in quanto peccatori specifici, gli invidiosi? Ma se il luogo c’era, ed era tuttavia nascosto (con gli invidiosi che nascosti erano perciò due volte) e non raggiungibile dallo sguardo di chi fosse stato ammesso a visitare l’Inferno, quale era la ragione per la quale non lo si indicava in modo esplicito? Perché non si diceva che gli invidiosi c’erano, ma non erano tuttavia visibili? Più che mai la ragione si sarebbe fatta acuta se l’assenza del luogo fosse stata attribuita all’assenza degli invidiosi. La dottrina della Chiesa aveva inclusa l’invidia fra i sette peccati capitali.2 Bastava leggere, non solo l’Epistola di Paolo
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ai Romani,3 ma, per passare a un testo di altra età, il canone composto da Gregorio Magno4 e commentato, fra gli altri, da Tommaso d’Aquino nel De malo,5 per averla viva davanti agli occhi. Dante, che di quella tendenza peccaminosa mai aveva sottovalutata la gravità, alla specifica psicologia dell’invidioso aveva guardato con curiosità e interesse. A parte quel che ne avrebbe detto nei canti decimoterzo e decimoquarto del Purgatorio, dove a questi peccatori è riservato il secondo girone del monte, di invidia e invidiosi parlò anche nell’Inferno. A parte gli abitanti del vestibolo infernale che, nella loro suprema abiezione e nullità, vi erano stati ritratti come invidiosi «d’ogne altra sorte»,6 e sembrò che, a causa della loro nullità morale, fossero privi di ogni altro colore e carattere, a questa disposizione dell’anima Dante non aveva mancato, nella prima cantica, di far risalire le peggiori degenerazioni politiche delle città, a cominciare dalla sua, da Firenze, che, si ricordino le parole di Ciacco, era così «piena d’invidia» che già ne traboccava «il sacco».7 Con la superbia e l’avarizia l’invidia era una delle «tre faville» che avevano «i cuori accesi» e che non si sarebbero spente prima che il Veltro avesse data la caccia alla lupa «per ogne villa» per ricondurla «nel’nferno/ là onde invidia prima dipartilla».8 Una connessione notevole, questa, che nel primo canto egli stabilì fra l’invidia e l’Inferno: notevole, e tanto più perché, mentre, per un verso, la elevava al rango, si direbbe, di una potenza infernale, e rendeva a suo modo concreto il suo concetto astratto, per un altro agli individui invidiosi non riservava un luogo nel quale si potesse riconoscerli. Di nuovo deve chiedersi. Perché? Forse perché, l’invidia coincidendo con l’Inferno, chiunque fosse ospite di questo era da considerarsi invidioso, senza bisogno di specifica menzione? Si tratterebbe di una spiegazione che, a torto accusata di artificiosità, sarebbe altresì mal criticata se ne ricavassimo che, poiché, come la pantera del De vulgari eloquentia, l’invidia sta in ogni luogo, in senso specifico non sta in nessuno. È vero, infatti, il contrario. Dante sapeva benissimo in quale terreno la pianta dell’invidia affondasse le sue radici, e, come a tempo debito si vedrà, sapeva chi fosse colui che, avendola per primo generata, ne recava su di sé il segno specifico. Senza, tuttavia, che ogni volta ritenesse necessario risalire alla causa prima di essa, la sapeva presente, oltre che nelle comunità politiche, nelle corti dei principi, dove produceva le più triste conseguenze. E qui non potranno non ricordarsi le parole che, a difesa della sua personale onestà e lealtà, dall’interno dell’albero in cui la sua anima era imprigionata, furono dette, a Virgilio, da Pier della Vigna; che, come si sa, era un rinomato maestro dell’ars dictandi, e persino
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nella straziante condizione in cui si trovava, non aveva resistito alla malìa delle metafore: per dire dell’invidia, aveva parlato della «meretrice che mai dal’ospizio/ di Cesare non torse li occhi putti».9 Nemmeno, anche qui, potrà evitarsi di citare Brunetto Latini che, nel canto di cui è protagonista, non aveva esitato a ricordare che i fiorentini erano «gente avara, invidiosa e superba, e che «dai lor costumi» Dante avrebbe fatto bene a tenersi lontano e a non farsi contaminare.10 Se è così, e come questi esempi dimostrano, Dante era ben lungi dal sottostimare il peccato dell’invidia. Non fu, dunque, per questo che agli invidiosi non riservò, nell’Inferno, un posto nel quale coloro che a essa avessero soggiaciuto fossero visibili, in sé stessi e nel supplizio che avevano meritato. La questione, dunque, non è frivola: se torna con insistenza, la ragione c’è. Nell’Inferno l’invidia è presente, vi si allude, se ne parla. Ma è come se al suo concetto astratto non fosse dato di scendere negli individui e rendersi visibili in essi: quasi che lo spazio ideale di ciascuno di questi fosse troppo angusto perché quello potesse esservi compreso e all’idea fosse concesso di entrare nella cosa. Occorrerà chiedersi, se è così, perché sia così. Ma rispondere non sarà facile, anche se una risposta dovrà, comunque, essere data. 2. È noto che fu Pietro Alighieri il primo che, postosi la questione e constatata l’assenza di un luogo dove gli invidiosi fossero riconoscibili, per colmare una lacuna o, meglio, per rendere esplicito ciò che nel poema era rimasto implicito, proprio in questo, nell’implicito, ossia nel nascosto, indicò il luogo in cui quei personaggi pativano la loro pena.11 Sebbene a pronunziare questa sentenza, fosse un figlio di Dante che al poema paterno aveva dedicato cure insistenti, culminate in un Commento in lingua latina che conobbe varie redazioni,12 la sua si presentava tuttavia come non più che una sua personale congettura. Pietro non aveva infatti mai detto che il padre gli avesse rivelato il luogo del poema in cui gli invidiosi si trovavano. A sua volta, niente più che una congettura è che la sua spiegazione risalisse a quanto il padre gli avrebbe confidato a proposito degli invidiosi che, in tanto erano invisibili, in quanto stavano nascosti sotto la superficie dell’acqua fangosa della palude stigia.13 Niente più che una congettura, anche se plausibile, è che all’invidia e ai suoi soggetti convenisse un luogo che la nascondesse e li nascondesse, e fosse esso stesso, in quanto tale, nascosto perché non dichiarato. Di questo, comunque, Pietro non parlò. Messa in questi termini, la questione era ribadita in questo suo carattere, che la rendeva indisponibile a essere positivamente risolta. Per ragionevo-
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le che potesse essere considerata, la soluzione restava infatti non più che congetturale. Altro infatti era assumere, in modo esplicito, che, nell’Inferno, gli invidiosi erano, non visibili, non nominati, ma presenti. Altro era supporre, e non dunque assumere in modo esplicito, che si trovassero al di sotto della superficie fangosa dello Stige, e per questo di vederli non era concesso a chi pure a quel triste «ruscello» avesse volto lo sguardo. Nel primo caso, della loro presenza non si dubitava: gli invidiosi non erano visibili, ma, sotto il velo dell’acqua fangosa, erano presenti, nell’esser sommersi consistendo, forse, la loro pena. Nel secondo, al fatto privo di spiegazione si rispondeva, non con una certezza, ma con una congettura; che Pietro, se mai, aveva il torto di presentare come se non lo fosse e a imporla fosse stato il testo, come si sarebbe compreso una volta che lo si fosse attentamente percorso e considerato. In realtà, l’unico modo che si dava per risolvere il dubbio relativo alla presenza sommersa degli invidiosi era di dimostrare che, nascosto anch’esso, ma non tanto che non si potesse avvertirlo, ci fosse un momento nel quale essi emergevano e mostravano il loro volto. A questo momento può dubitarsi che il testo alluda. Ma chi sia incline a prendere per buono il suggerimento di Pietro Alighieri deve anche supporre che un’allusione a esso nel testo vi sia e dovrebbe riuscire a indicarla. 3. Alla ricerca di questo momento si mise, con molta buona volontà, Isidoro del Lungo, il quale intese che, come Pietro Alighieri aveva suggerito, gli invidiosi si trovassero nel fondo della palude Stigia, ma emergessero tuttavia alla superficie rendendosi visibili nel momento in cui si avventavano contro i superbi per sbranarli e infliggere a essi il castigo che con le loro proprie mani questi non si sarebbero dato. L’assunto non era nuovo. Ma in compenso era fantasioso, e la dimostrazione riuscì quale non poteva non essere. Del tutto immotivata era la premessa dalla quale il Del Lungo era partito per svolgere il suo ragionamento; che si reggeva infatti sul presupposto che, ben distinti, per sé stessi, dai litigiosi e aggressivi invidiosi, i superbi, dei quali, un rappresentante sarebbe stato Filippo Argenti, stessero in pace gli uni con gli altri, «disdegnosi, non che d’offendersi a vicenda, ma pur di guardarsi».14 La sua era infatti una supposizione a cui nessun sostegno era rinvenibile nel testo, dove poteva sì accadere che un iracondo fosse anche caratterizzato come superbo (di Filippo Argenti, per altro, Dante disse che era «persona orgogliosa»,15 non che fosse superba), ma a dimostrazione del fatto che, in quel caso, la superbia era una nota
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aggiunta al suo tratto fondamentale e non designava né un carattere né la classe di cui era parte. Se così, infatti, fosse stato, si sarebbe avuto che, per un verso, il superbo si aggiungeva all’iracondo, che perciò avrebbe raddoppiata la sua natura, salvo che, per un altro, sarebbe sparito in esso e come superbo non sarebbe stato passibile di considerazione autonoma. Nella palude dello Stige poteva accadere che un iracondo fosse definito superbo, ma restava un iracondo e dei superbi, come gruppo a sé, né c’era traccia né, a guardar bene, si faceva parola. Insomma, e per farla breve, fra gli iracondi e i superbi non era posta alcuna differenza: non perché degli iracondi poteva dirsi che erano per sé stessi superbi allo stesso modo che questi erano per sé stessi iracondi, ma perché la superbia era stata inclusa nell’ira e non se ne distingueva per un suo ulteriore e specifico carattere. Di esplicitamente nominati nella palude stigia non c’erano che gli iracondi, che emergevano fino alla cintola dall’acqua fangosa e si percuotevano l’un l’altro, e, con questi, gli accidiosi, che solo in parte erano visibili perché per il resto erano sommersi nella «belletta negra». Nella «palude […] c’ha nome Stige» Dante aveva visto «gente fangose,/ ignude tutt’e con sembiante offeso», che «si percotean non pur con mano/, ma con la testa e col petto e coi piedi, troncandosi co’ denti a brano a brano»;16 e niente autorizza a ritenere che, essendo definito «persona orgogliosa», e nell’orgoglio volendosi vedere il tratto della superbia, con questo carattere, che si aggiungeva al suo fondamentale, Filippo Argenti non stesse pleno iure nella compagnia degli iracondi,17 e non si distinguesse dagli accidiosi, che anch’essi stavano nella stessa acqua, dalla quale emergevano per quel tanto che a essi consentiva di recitare il loro inno, che, in realtà, non recitavano, ma «gorgogliavano» nella «strozza,/ ché dir» non potevano «con parola intègra».18 Insomma, e sia detto per chi ami la divisione in classi della psicologia umana, e sia poi pronto a sopportarne qualche non positiva complicazione, un iracondo poteva essere superbo, il primo carattere, e non il secondo, costituendo tuttavia il suo tratto fondamentale: allo stesso modo che un superbo poteva esser preda dell’ira senza con ciò entrare in quella classe e venir meno alla superbia; che, tuttavia, per sé stessa, nell’Inferno non trovava posto, il suo essendo un peccato espiabile sulle balze del Purgatorio. A queste distinzioni si può concedere meno fiducia di quanta, entro certi limiti, Dante ne desse a esse: leggendo la Commedia non è infatti facile capire la ragione, che non sarà stata la stessa, per la quale all’invidia e alla superbia egli non aveva assegnato, nell’Inferno, un luogo specifico, e di specifica visibilità. Può darsi che, leggendo Tom-
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maso, Dante si fosse fermato sui luoghi in cui era scritto che «illud sine quo nullum peccatum esse potest, est generale omnibus peccatis. Sed superbia est huiusmodi: dicit enim Augustinus in libro De natura et gratia quod sine superbiae appelatione nullum peccatum invenies, e quod Prosper dicit in libro De vita contemplativa quod nullum peccatum absque superbia potest vel potuit esse aut poterit. Ergo superbia est peccatum generale».19 Ma, senza considerare la fitta rete delle argomentazioni prodotte per confutare questa tesi e per riaffermarla, resta che quel che in questo luogo Tommaso diceva a proposito dell’essere, la superbia, un peccatum generale, e non specificum, valeva per essa e non per l’invidia; che, essendo, al pari di ogni altro peccato, filia superbiae, e non potendo perciò escludersi che fosse un vitium capitale, avrebbe dovuto avere un luogo nell’Inferno, e invece, al pari della superbia, non l’aveva che nel Purgatorio. Se si sta a questi testi, e nell’ipotesi, per altro probabile, che Dante li avesse avuti presenti, è perciò necessario cercar di spiegare perché a questi peccati egli riservasse un posto nel Purgatorio, e non nell’Inferno. Che di questa esclusione debba esserci una ragione, è tanto ovvio quanto è difficile indicarne una e esser certi che sia quella che Dante ebbe in mente. Le implicazioni concettuali di questa esclusione non possono, in ogni caso, non essere, quanto meno, accennate. Si riducono, in sostanza, a una sola idea, che può essere delineata così. Non nell’Inferno, ma nel Purgatorio, furono accolti i peccati che, per la loro natura, poteva ritenersi che fossero espiabili, e che il male, che avevano in sé, fosse perciò, non in eterno contrapposto al bene, ma risolvibile e superabile in questo. È così? Non è che un’ipotesi; che si rivela tuttavia in linea con l’idea secondo la quale, come il Purgatorio era destinato a rimanere, dopo il giorno del giudizio, una montagna del tutto vuota di anime, così al suo monte erano destinate quelle di coloro i cui peccati erano tali da poter essere espiati e purificati. Il male, perciò, via via si depotenziava per ritrovarsi, per intero mutato, nella sede dell’eterna beatitudine. È questo che Dante ebbe in mente? Per quanto riguarda il Purgatorio e i peccati che vi avevano trovata la loro sede, non potevano esserci dubbi. Era così. E così doveva essere anche per il peccato dell’invidia che, poiché lì aveva il luogo della sua espiazione, doveva dedursene che, resasi concreta in peccatori determinati, la sua fosse una peccaminosità redimibile. Nel male si dava dunque una differenza: c’era male e male. A differenza di quel che avveniva per i peccati puniti per l’eternità nell’Inferno, che, in alcuni casi, per altro, erano gli stessi che si trovavano a essere pro tempore accolti sulla montagna del Purgatorio, se
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ne davano altri, e fra questi l’invidia, ai quali era dato di percorrere il cammino che, via via allontanandoli dal negativo, li conduceva alla sponda della positività. Ma, anche qui, con una differenza che, stando a quel che il testo sembra suggerire, richiede di essere colta e definita con nettezza. Nel male si davano infatti gradi che lo rendevano inespiabile e espiabile, a seconda dell’altezza raggiunta da esso nella scala. A giudicare dal modo in cui Dante ne interpretò la natura, vi erano peccati (la lussuria, la gola, l’avarizia e la prodigalità) che, nelle forme meno gravi, sfuggivano all’Inferno e trovavano accoglienza nel Purgatorio, dove, in tempi più o meno brevi, la loro negatività si sarebbe compiutamente estinta. Ne derivava, se di questa tesi si fossero svolte le potenzialità che le erano implicite, una conseguenza grave. Si dava infatti un male che, a differenza di quello presente nella superbia dei superbi e nell’invidia degli invidiosi, era per sempre consegnato a sé stesso e alla sua inespiabilità nell’eterna cornice dell’Inferno: con conseguenze che, rimaste implicite, avrebbero, tuttavia, potuto con facilità esser rese esplicite, e valutate nella loro gravità, osservando che, come l’eternità dell’Inferno importava l’eternità del luogo in cui esso era collocato e, praeter intentionem, delineava una tesi eretica, così l’eternità della punizione inflitta al peccato implicava, con quella che doveva riconoscersi al male, la sua irriducibilità all’opera salvifica del Cristo. Nasceva da questa radice, e da quel che di irrisolto la segnava in termini teologici, la problematicità che si rivela interna all’idea dantesca del viaggio ultramondano; che si presentava come un’eccezione, che non poneva se non il suo problema, se lo si fosse inteso come l’avventura ultramondana di un individuo prescelto dalla grazia, ma implicava invece un radicale ripensamento dottrinale se, al di là dell’individuo in cui si identificava, nel viator si fosse riconosciuta l’intera umanità che, come lui, rompeva la regola che dell’Inferno faceva una prigione dalla quale evadere era impossibile, e disponeva in altri termini l’idea della salvezza.20 Le conseguenze, che da tutto ciò nascevano, in nessun caso potrebbero essere sottovalutate. Meno che mai potrebbero in quanto le considerazioni che si sono proposte non risolvono la questione posta dall’assenza, nell’Inferno, degli invidiosi. L’invidia è un peccato capitale. È, come dice Tommaso, figlia della superbia, e come tale «non excluditur quin […] sit vitium capitale».21 Non potrebbe ragionevolmente essere esclusa dall’Inferno, e assegnata direttamente al monte del Purgatorio. Se nell’Inferno non se ne trova traccia, dovrà, allora, indicarsene la ragione. Una ragione del suo non esserci, o del suo non apparire, non può, infatti, non esserci.
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4. Torniamo a Filippo Argenti. Se fu isolato dal gruppo di cui era parte, fu perché con lui Dante potesse avere il violento scambio che caratterizzò il celebre episodio. Ma che non stesse a sé nella triste palude, e dalla compagnia in cui si trovava fosse stato lui a distaccarsi per dirigersi verso Dante e rivolgergli le sue aggressive parole («chi se’ tu che vieni anzi ora?»), è dimostrato dal modo, arrogante e insolente, con il quale gli parlò. L’aveva visto, si era accorto che era vivo, e, sospettando di esserne stato riconosciuto, gli si era diretto contro con intenzioni tanto ostili quanto velenosa era la notazione relativa al suo essere venuto all’Inferno «anzi ora». La pena alla quale l’Argenti era esposto, era quella che Dante aveva descritta, alla fine del canto settimo, come propria degli iracondi; che, converrà ribadire, immersi «in la palude […] c’ha nome Stige» si «percotevano» nel modo potentemente descritto nei già citati versi 112-114. Da quella compagnia e dalla lotta furibonda in cui era impegnato, l’Argenti (questo è quel che sembra ragionevole dedurre, e ribadire) si era separato per andare contro la barca su cui Dante era salito con Virgilio e dalla quale osservava la triste scena che lo coinvolgeva. A far sì che, momentaneamente, il dannato si separasse dalla litigiosa compagnia era stata la rabbia che aveva provata nel vedersi osservato, e forse riconosciuto mentre, di tanto in tanto, emergeva dall’acqua fangosa: la rabbia, la vergogna e il desiderio di potersi vendicare dell’umiliazione che stava subendo. Se è così, deve ribadirsi che impensabile è la distinzione che il Del Lungo pose fra gli iracondi e i superbi, dediti i primi alla reciproca violenza, isolati in sé stessi i secondi, e sdegnosamente restii a ogni forma di contatto che andasse oltre quello che avevano, ciascuno, con sé.22 Deve ribadirsi che di superbi, in senso specifico, nella palude stigia non c’è alcuna traccia: come traccia non c’è degli invidiosi. E niente c’è che renda plausibile la congettura che, come proposto da Pietro Alighieri, e, dopo di lui, da Benvenuto da Imola, dal Serravalle, da Guido da Pisa,23 e da altri, quindi, fra i moderni,24 questi ultimi si trovassero nel fondo e per questo non fossero visibili.25 Meno che mai c’è prova che, emergendo dal «tristo ruscel», aggredissero i superbi offrendo a Dante lo spettacolo del quale, con ricercata enfasi, egli si compiacque. In realtà, niente c’è nei versi del settimo e dell’ottavo canto che autorizzi questa interpretazione; niente che renda visibile questa emersione dal profondo degli invidiosi; niente che autorizzi a pensare che, identificati con i superbi, disdegnosi di ogni compagnia, gli iracondi avessero perciò perduta di colpo la rabbiosa attitudine che li metteva gli uni contro gli altri per offrirsi inermi allo strazio che ne facevano gli emersi invidiosi;
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niente, infine, che autorizzi a pensare che, per la sua propria attuazione, la giustizia di Dio potesse servirsi di un mezzo come quello, e che fossero i peccatori a punire i peccatori. Quello del dannato che, mentre punisce sé stesso nel corrodere in eterno il cranio dell’arcivescovo Ruggieri, anche è strumento della punizione di quest’ultimo, è, nell’Inferno, un caso unico e, salvo errore, sfuggito, nella sua problematicità, alla consapevolezza di Dante; che qui, viceversa, avrebbe agito nel suo segno, presentando gli invidiosi come emergenti alla vista per farsi strumenti della giustizia di Dio e infliggere ai superbi la punizione che per loro, altrimenti, non sarebbe stata completa. La scena avrebbe assunto un non richiesto tratto grottesco, se Dante avesse immaginato che sugli iracondi intenti a sbranarsi l’un l’altro si fossero avventati gli invidiosi, in modo che quel reciproco scambio di colpi fosse diventato esso l’oggetto di un’aggressione pervenuta ab extra, e ciascun iracondo avesse trovato nell’invidioso che aggrediva lui e il suo gruppo un nuovo nemico, ma anche, nei confronti del suo specifico nemico, un paradossale alleato. Una situazione assurda, pensabile solo alla condizione, che pensabile in effetti non è, che gli iracondi si sbranassero, non l’un l’altro, ma ciascuno sbranasse sé stesso, preso da una sorta di cieco furore autodistruttivo, anticipando il gesto che Filippo Argenti aveva compiuto dopo che Virgilio l’ebbe allontanato dalla barca che aveva cercato di rovesciare («e il fiorentino spirito bizzarro/ in sé medesmo si volvea co’ denti»).26 Un’ipotesi suggestiva, se si vuole, ma insostenibile, perché le «genti fangose», definite come «l’anime di color cui vinse l’ira», erano intente a percuotersi «non pur con mano,/ ma con la testa e col petto e coi piedi,/ troncandosi co’ denti a brano a brano», e quindi necessariamente l’una l’altra. Era possibile infatti che contro sé stessi dirigessero la mano e i denti, ma non la testa e il petto, che qui invece erano con chiarezza chiamati in causa. 5. Occorre che, al riguardo, non sorgano equivoci. Che i dannati nuocessero l’uno all’altro in quanto tutti erano inclusi in un’anonima vicenda, è vero, naturalmente, in molti casi. Si pensi, per fare, un solo esempio, tratto dallo straordinario trentesimo canto dell’Inferno, alle due «ombre smorte e nude,/che mordendo correvan in quel modo/ che ’l porco quando del porcil si schiude./ L’una giunse a Capocchio, e in su’l nodo/ del collo l’assannò, sì che, tirando,/ grattar li fece il ventre al fondo sodo».27 Si pensi a Gianni Schicchi, che «va rabbioso altrui così conciando» (v. 32). Si pensi alla rissa che, in eterno, opponeva Maestro Adamo a Sinone. Ma si tratta
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di cose diverse da quella per la quale a uno specifico dannato si assegnava una determinata funzione punitiva, e gli si riconosceva un ruolo che, in quel senso, era suo e non di altri. In un caso era un’intera classe di dannati (gli iracondi) a essere soggetto, e oggetto, della pena. Nell’altro, protagonisti dell’impresa erano due individui che, con il loro nome, senza che perciò si eccettuassero dalla pena impartita agli altri dannati della medesima classe, tendevano altresì a essere, e erano, l’uno il carnefice dell’altro. Se è così, e niente c’è nei versi che autorizzi l’interpretazione degli invidiosi come di un popolo di peccatori sommersi, emergenti tuttavia, di tratto in tratto, per punire i superbi, non resta che da immaginare da quale movimento del testo il Del Lungo potesse essere stato spinto a formulare la sua proposta; e l’unica risposta è che le anime che si dirigevano contro Filippo Argenti fossero emerse dall’acqua fangosa nella quale erano sommerse per punirlo e farne strazio, senza riuscirci, per altro, perché a punirsi e a straziarsi quello, nel frattempo, aveva provveduto da sé. Strana idea, in effetti. Non solo perché, supponendo che facessero parte di coloro che stavano sotto la superficie dell’acqua fangosa, in quanto aggressori dei superbi gli invidiosi sarebbero involontariamente elevati al grado di esecutori, sia pure materiali, della giustizia divina, e condannati, nello stesso tempo (questo, per altro, non farebbe difficoltà) a non poterla realizzare in modo compiuto. Ma anche perché l’unico passo dal quale risulti che sotto la superficie stessero altre anime è, come si sa, VII 117-120: «e anche vo’ che tu per certo credi/ che sotto l’acqua ha gente che sospira,/ e’ fanno pullular quest’acqua al summo,/ come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira»; e, come si è già accennato, da esso non si ricava in nessun modo che l’acqua fangosa tenesse celati in sé, a un più profondo livello, gli invidiosi, non nominati fra coloro che stavano nella «belletta negra», al pari dei superbi, che non potevano infatti essere riconosciuti in ciò che il canto dice di Filippo Argenti («quei fu al mondo persona orgogliosa»).28 L’inclusione dei peccati in classi distinte può dar luogo a ovvi inconvenienti, come quelli per i quali dall’una si escludono caratteri che, appartenendo a un’altra, anche al di là di questa tuttavia danno segno di sé. Ma, osservata con occhio attento, la classificazione consente tuttavia di non procedere a identificazioni sommarie: come quella a cui si dà luogo quando di Filippo Argenti si assume che fosse stato da Dante considerato superbo in ragione dell’orgogliosità che gli aveva attribuita. Deve tenersi fermo a quel che il testo suggerisce. A dirigersi contro Filippo Argenti, che si era distaccato dagli iracondi intenti a offendersi l’un l’altro, erano stati questi, desiderosi di punire chi si era sottratto al loro reciproco massacro,
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non gli invidiosi all’improvviso emersi alla superficie: non c’è un solo verso, deve ribadirsi, che di questi faccia cenno. Nemmeno, d’altra parte, può dirsi che, il peccato punito in questa parte dell’Inferno essendo la «tristizia», comprensiva, a sua volta, dell’ira, dell’accidia, dell’invidia e della superbia,29 di necessità doveva conseguirne che anche i non nominati invidiosi fossero indirettamente inclusi nel soggetto di cui costituivano una sorta di predicato.30 Così non può dirsi perché questa idea della «tristitia» che, in sé stessa, comprende quelle specificazioni e ne è come il soggetto, non dà nei canti settimo e ottavo nessun segno di esser stata tenuta presente in questa accezione, e fatta propria, da Dante. Il quale, non si dimentichi, quando dovette definire le «genti fangose» che si dibattevano «in quel pantano», non le disse «tristi». Le nominò piuttosto come «l’anime di color cui vinse l’ira» (v. 116), e a questa, all’ira, dette il primo posto, non a quella, alla tristizia. «Tristi» sono, a quel che il testo suggerisce, le anime che stanno «fitte nel limo», ossia, in tutto o in parte, sotto l’acqua fangosa, dalla quale accidiosamente non riescono a venir fuori, sì che «gorgoglian nela strozza» l’inno che non possono pronunziare con «parola integra».31 Queste anime che Dante dice segnate da «tristizia» e stanno nel limo in modo che, senza esservi per intero sommerse, non ne emergono tuttavia se non in parte, differenziandosi perciò dagli iracondi che, invece ne stanno fuori quanto basta per colpirsi l’un l’altro – queste anime che, per essere in parte sommerse, non riescono a cantare il loro inno, sono quelle degli accidiosi, condannati a subire come pena l’incapacità che li contrassegnò in vita. Parrebbe, se è così, che non dovessero esser confusi con i superbi che, a rigore, non sono nominati, e, nemmeno con gli iracondi che dall’acqua fangosa emergevano per combattersi. Ne consegue, se è così, che i peccatori che si trovavano a non essere, né direttamente, né in modo indiretto, nominati, sono sia i superbi sia gli invidiosi, e che della mancata nominazione degli uni e degli altri deve farsi conto non potendosi attribuirla né a una dimenticanza di Dante, né al giudizio per il quale a lui non parve necessario dire il nome di due atteggiamenti peccaminosi che giudicava che fossero entrambi compresi in quello della tristizia. Diamine! Ma anche l’ira vi era compresa, anche l’accidia. Eppure, in forma diretta o indiretta, Dante le nominò. Perché allora proprio dell’invidia, e della superbia, non fece il nome? Tornando alla questione posta dall’assalto compiuto dagli iracondi contro Filippo Argenti, deve confermarsi che negli assalitori non possono indicarsi altrettanti esecutori della giustizia divina. L’assalto di cui lo fe-
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cero oggetto aveva la sua ragione nella necessità che avvertivano di vendicarsi di lui che, sia pure per un breve tempo, si era sottratto, dopo aver visto Dante, alla lotta furiosa nella quale era impegnato. Era come se, senza di lui, quelli avessero perduto una parte essenziale di sé stessi e ne avessero patito. Fu quindi gridando «a Filippo Argenti!», e perché questo tornasse all’irosa battaglia, che i suoi compagni di pena gli si diressero contro dando, senza volerlo, soddisfazione al desiderio di Dante, che sarebbe stato «vago/ di vederlo attuffare in questa broda» prima che con Virgilio fosse uscito dal «lago». Che, invece, e per tornare sulla congettura di Pietro Alighieri e allo svolgimento che le dette il Del Lungo, autori dell’assalto patito da Filippo Argenti fossero gli invidiosi, deve ribadirsi che, qualunque cosa valga di per sé, certo non vale nella circostanza specifica. Non c’è, salvo errore, un solo verso, nell’ottavo canto, che alluda a questa connessione; che tanto meno può essere difesa quanto più si consideri che Filippo Argenti è un iracondo, non un superbo, e ad andargli contro erano non gli invidiosi emersi dalle acque stigie, ma gli iracondi suoi pari, dai quali si era allontanato per vedere da vicino, e aggredire, il vivo testimone della sua miseria. 6. Non aveva tardato a entrare nella mente degli interpreti il sospetto, presto mutatosi in convinzione, che nella palude stigia stessero non soltanto gli iracondi e gli accidiosi, ma, con gli invidiosi, anche i superbi, la cui classe non può essere inclusa né in quella che comprende i primi, né in quella che comprende gli altri. Fu, d’altra parte, la convinzione che Filippo Argenti fosse da interpretare come un superbo a rendere possibile al Del Lungo la sua proposta interpretativa.32 Ma deve ribadirsi che di superbi si parla, in modo specifico, nel Purgatorio, dove il relativo peccato è visto nella prospettiva della sua totale espiazione, mentre di essi, nell’Inferno, si tace. Deve perciò ribadirsi che Filippo Argenti è un iracondo che vive nella violenza, che dell’ira è strumento non meno che conseguenza. Fu anche, nella definizione che non Dante, ma Virgilio, ne dette, uomo «orgoglioso», e talmente privo di «bontà» che, la pessima opinione che di sé aveva lasciata nel mondo, faceva sì che «qui», ossia nell’Inferno, l’«ombra sua» fosse «furiosa». Ma l’orgoglio, deve ribadirsi, non è necessariamente superbia. E superbo Filippo Argenti non fu; se lo fosse stato, il suo sarebbe l’unico caso perché, come che sia, e si è detto, i superbi stanno nel Purgatorio, ma nell’Inferno non sembrano aver sede. L’unico dannato al quale Dante (ma, in realtà, ancora una volta, Virgilio) abbia, nella prima cantica, assegnato quel titolo, è Capaneo, del quale è detto che «in ciò che non s’ammorza[va]»
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la sua «superbia», era più punito.33 Ma anche in questo caso deve farsi attenzione. Se di Capaneo si tenesse fermo che era stato un superbo e che nella superbia era il segno della sua personalità, se ne sarebbe dovuto ricavare che, poiché a lui soltanto fra gli ospiti dell’Inferno quella definizione si attagliava, il relativo peccato non trovava posto fra quelli che vi erano puniti. Quella che, in quel verso del canto decimoquarto si dava di lui, era infatti, e per conseguenza, una definizione estemporanea, che non rinviava a una classe, e non si sostituiva alla vera ragione per la quale si trovava nell’Inferno, dove era ospitato, non per quel peccato che, in senso specifico, non vi era punito, ma per aver avuto Dio in dispregio e per la violenza, quindi, che aveva esercitata, e ancora esercitava, verso di lui. Questo, non la superbia, era il suo peccato specifico: così come l’ira era quello che condannava Filippo Argenti a stare con gli altri iracondi nelle acque fangose dello Stige e a partecipare, in eterno, alla loro eterna contesa, nella quale l’ira colpiva e puniva sé stessa. Se a questa si era sottratto era stato, come si è detto, per andare incontro alla barca dove aveva scorto un uomo vivo nel quale, forse, aveva riconosciuto Dante e dal quale, non a torto, come fra breve si sarebbe visto, temeva di esserlo stato. Non a torto. Subito, infatti, Dante aveva capito di chi si trattasse («con piangere e con lutto,/ spirito maladetto, ti rimani:/ ch’io ti conosco,/ ancor sie lordo tutto»).34 Ma se, per un momento, il dannato aveva interrotto la dolorosa vicenda della perpetua guerra in cui era impegnato e da questa si era tratto fuori, fu grande intuizione quella per cui fu rappresentato come uno che, non potendo esercitare la violenza su Dante, che non apparteneva alla sua schiera, e da quella era immune, si trovò costretto a dirigerla contro sé stesso in un gesto di rabbia rivolto alla rabbia, nel segno di un’estrema degradazione («e ’l fiorentino spirito bizzarro,/ in sé medesmo si volvea co’ denti», versi già ricordati, e che conveniva citare ancora). Quel gesto anticipava l’altro che i suoi compagni di pena si apprestavano a scagliargli contro: con la differenza, tuttavia, che egli lo dirigeva, non contro altri, ma contro sé stesso, quasi che in sé stesso volesse punire la sua punizione e maledire la condanna che lo rendeva incapace di gesti che non fossero interni a essa e la ribadissero.35 Se si prescinde dalla sapienza psicologica che, anche in questo caso, Dante aveva mostrata nel ritrarre dal di dentro un suo personaggio, in questa scena di selvaggia potenza, e di schiettissimo odio cittadino, è inutile cercare altro da quello che vi si vede, che non può non vedervisi e che non sopporta di essere in nessun modo nobilitato. Non giova, se si vuole capire, concedere a Dante quel che, attraverso le parole di Virgilio, egli concedeva a
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sé stesso, anche se, come indizio del disagio che forse avvertiva nel rivolgersi una simile lode, certamente notevole è che le relative parole fossero attribuite alla sua guida. Non si trattava, tuttavia, soltanto di disagio. Egli forse avvertì che, pronunziate da Virgilio, quelle parole si sollevavano sulla condizione storica e politica all’interno della quale erano nate, prendendo su di sé il colore della giustizia. Non giova, infatti, ed è persino fastidioso, parlare del diritto che egli si riconosceva di rivolgere al dannato le parole d’odio con il quale lo colpì36 e di considerarsi degno di godere dello scempio a cui sperava di vederlo sottoposto: «di tal disio convien che tu goda» (v. 57), gli aveva detto Virgilio. In realtà, nella giustificazione che l’autorevole maestro aveva data alla gioia che avrebbe provata nell’assistere allo strazio di Filippo Argenti, forse, nel profondo, agiva la consapevolezza che, la lode iperbolica che rivolgeva al suo sdegno («benedetta colei che in te s’incinse»),37 era essa a dimostrare che del groviglio di cupe passioni in cui quel personaggio si era coinvolto in vita anche lui, Dante, era parte, e per questo cercava di trarsene fuori rivendicando il diritto che si attribuiva di goderne. In realtà, e a confermarlo era proprio l’obliqua consapevolezza che mostrava di averne, quella rappresentata in questa scena era passione politica allo stato puro, senza ombra di trascendimento verso le superiori regioni dell’etica o della giustizia: una scena che li coinvolgeva entrambi, il fiorentino violento e arrogante che si riteneva un dio e non era che una bestia, e il grande poeta che di quella stessa passione era schiavo, e del medesimo odio. Lo sforzo che aveva compiuto per superare il suo limite nell’Impero, non era infatti andato oltre la teoria. L’animo era rimasto comunale e all’odio soltanto con l’odio era perciò in grado di rispondere. Le parole di comprensione e approvazione che egli attribuiva a Virgilio, e con le quali finiva per santificare la violenza che dirigeva contro il dannato Filippo Argenti, lo chiudevano, in realtà, entro il medesimo confine, che non gli era dato di superare. E di questo deve prendersi atto. Sarebbe infatti segno di scarso discernimento, di debole senso dell’arte, e, soprattutto, di non adeguata considerazione della storia, se nella soddisfazione che Dante provava nell’assistere allo strazio inflitto a quel dannato dai suoi pari, si cercassero segni e significati diversi da quelli che vi apparivano; se nel suo odio si leggesse qualcosa più dell’odio e da cui questo fosse trasceso e collocato in un diverso orizzonte; se, in altre parole, in lui si indicasse il giudice e il vindice della violenza fiorentina, e nella ricercata approvazione di Virgilio si leggesse qualcosa di diverso dall’assicurazione che il suo era un odio diverso da quello di cui era oggetto. In questa scena, senza
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freni, filtri e mediazioni, si esprimeva, si deve ribadirlo, lo stile feroce delle contese politiche comunali, la completa mancanza di pietà, una ferina disposizione alla violenza. Si pensi, per fare l’esempio di un altro personaggio, a quello che, prima di lanciare la sua terrificante profezia, si era definito una «bestia» («vita bestial mi piacque e non umana, sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci,/ bestia, e Pistoia mi fu degna tana»).38 Ma si pensi, e qui il personaggio è Dante, alla maledizione scagliata contro Pisa che conclude l’episodio del conte Ugolino («muovasi la Capraia e la Gorgona,/e faccian siepe ad Arno in su la foce,/ sì ch’elli annieghi in te ogni persona!»).39 Si pensi al trattamento riservato a Corso Donati nel ventesimoquarto del Purgatorio: «quei che più n’ha colpa,/ vegg’io a coda d’una bestia tratto/ inver’ la valle ove mai non si scolpa./ La bestia a ogni passo va più ratto,/ crescendo sempre, fin ch’ella il percuote,/ e lascia ’l corpo vilmente disfatto».40 Si dice che l’arte trasfigura le passioni e le purifica. Sia pure. Ma, nel trasfigurarle, in questo caso, fece che, tratto fuori della storia in cui si era generato, l’odio fosse contemplato nella sua pura essenza. Nell’Inferno, e non solo, Dante è il supremo descrittore di un universo politico fondato sull’odio. Se nel descriverlo, se ne traeva fuori, avveniva, tuttavia, che subito vi rientrasse e vi si ricomprendesse, e ne fosse compenetrato. Santificare i suoi sdegni, e, per estremo omaggio alla sua grandezza, supporre che il suo fosse odio bensì, ma dell’odio, significa compiere un passo decisivo nella direzione della retorica, non dell’intelligenza storica. 7. Nel delineare il sistema giudiziale dell’Inferno, come del resto anche del Purgatorio, si può procedere in due modi che, sebbene abbiano o possano avere punti di contatto, restano due e non vanno confusi. Il primo consiste nel tentar di rifare, nella propria testa, il ragionamento che si attribuisce a Dante: quello secondo cui egli esaminò la forma, ossia la natura specifica, dei peccati e, stabilite le affinità e le pertinenze, li rinchiuse in varie classi, definibili come luoghi di accoglienza di ciò che si rivelava simile e di esclusione di ciò che si rivelava divergente, e dissimile. È il metodo che, al di là dei diversi risultati raggiunti, appartenne a tutti, o quasi, i dantisti che, fra Otto e Novecento, si cimentarono nell’impresa. E si distingue in modo netto da quello di chi, non a questo ha la mente, perché il suo sforzo consiste nel far sì che l’attenzione resti concentrata sulle implicazioni psicologiche che ciascun peccatore rivela in quanto sia il personaggio al quale Dante dette la parola per renderlo partecipe
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del grande dramma dell’aldilà. È questo il criterio che è prevalso, e che, soprattutto, deve prevalere presso chi sia persuaso che non c’è classificazione dei peccati, o delle attitudini peccaminose, che, per un verso, non riconduca a una sorta di fonte originaria, identificabile nella disposizione al male, e per un altro, non riveli che quel che rende un peccato affine a un altro, e addirittura lo presenta come uno svolgimento, o una conseguenza, di questo, mette, o può mettere, in crisi la tavola delle affinità e delle corrispondenze, donde la necessità di retrocedere al determinato peccatore e al suo specifico modo di essere. La conseguenza che può e, forse, deve trarsi da questa premessa non è, tuttavia, che alla ricerca dei peccati e al modo in cui Dante li unì e li distinse nel luogo dell’eterna pena debba rinunziarsi. Non è un invito a non dare importanza a queste che, come questioni concernenti la struttura, ne specificano un aspetto, contribuiscono alla scoperta dei significati che s’intrecciano nell’opera polisensa che è la Commedia, e sono perciò importanti. Se una struttura c’è, occorre studiarla per come si presenta e prenderla sul serio: senza tuttavia eccedere nell’esprit de système che, sovrapposto al testo e inteso come il criterio della sua coerenza, può condurre, non a capire, ma a non capire; e, caso estremo, a ricavare da esso e dalla logica che gli si attribuisce, il criterio in forza del quale, per esempio, l’invidia deve per forza esser presente nel girone in cui sono puniti gli iracondi e gli accidiosi, perché chi non vede l’affinità che essa rivela nei confronti di quelle determinazioni peccaminose, o quella che queste vi intrattengono? Già, chi non le vede? Non le vede, verrebbe voglia di dire, chi si industri a persuadere sé stesso del nesso che, oltre che con la superbia, l’invidia stabilisce con l’ira e, sul fronte opposto, con l’accidia: come se, in effetti, quella fosse una conseguenza di queste e, al pari dell’accidioso, l’iracondo non potesse non provarne il morso sulle sue proprie carni. Non le vede chi proprio non riesce a scorgere la necessaria presenza dell’invidia dove vi siano ira e accidia: il che allora importerebbe la verità anche del contrario, ossia che non ci può essere iracondo che non sia invidioso, e lo stesso si dica per l’accidioso che invidioso può, o deve necessariamente essere anche lui. In realtà, se quello che Dante costruì dei peccati e delle loro corrispondenze fu un sistema, considerarlo come tale, e osservarne l’interno dinamismo, è necessario. A condizione, tuttavia, che quello che si prende a considerare sia il sistema descritto da lui, da lui segnato nelle sue interne corrispondenze, da lui definito nella fenomenologia dei peccati che si connettono l’uno all’altro, l’uno, talvolta, passando nell’altro, per intrin-
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seca necessità. La connessione dinamica dei peccati che si originano l’uno dall’altro e formano un sistema fu stabilita con chiarezza da Gregorio Magno nei Moralia,41 il cui canone Dante certamente conobbe, ma il cui metodo, a giudicare dal modo in cui li elencò, invece non seguì. Quello che stava scrivendo era un poema, non un trattato teologico, e nemmeno un’Etica. Comprensibile perciò che la definizione dei peccati lo coinvolgesse meno della vicenda dei peccatori, e i penitenti suscitassero il suo interesse più della pena, che era infatti escogitata da lui. Sarebbe per conseguenza assurdo se, colta nel sistema una lacuna, o una non avvertita connessione, a colmare la prima, e a eseguire la seconda, provvedesse, secondo logica, il critico zelante che, convinto, per esempio, che all’ira si connette non solo la superbia, ma anche l’invidia, si sentisse perciò in dovere di trarre alla luce il nascosto e di far vedere lui che l’iracondo è anche superbo allo stesso modo che è anche invidioso, e che, in realtà, se la lacuna era una lacuna, e appariva come tale, era perché, con la sua logica, il sistema era rimasto nascosto e la sua parola non era stata penetrata e resa esplicita. Non è forse vero che l’invidioso nasconde sé stesso agli altri e magari a sé stesso, dicendo di non sapere che cosa l’invidia sia, e a questa aggiungendo perciò, se non la stupidità, la perfetta malafede? Se queste connessioni fossero state stabilite, o magari suggerite, ma con chiarezza, da Dante, e il suo poema fosse, in realtà, un puro trattato teologico o morale, chi non ne prenderebbe atto? Ma se, al contrario, l’inserzione degli invidiosi fosse opera del critico preoccupato dalla loro assenza in un luogo nel quale avrebbero potuto, e dovuto, trovar posto, se fosse il critico a colmare le lacune, con il rispetto che gli si deve, anche dovrebbe dirsi che il suo sarebbe stato zelo mal speso e mal diretto. Fra il critico e Dante, il critico che consideri la loro relazione, sceglierà sempre questo e non quello; e se gli accadrà di non trovare gli invidiosi nel luogo in cui forse avrebbero dovuto esser presenti, si rassegnerà. In quel luogo gli invidiosi non ci sono. E non c’è industria, non c’è sottigliezza, e così via, che possano collocarli nel luogo in cui sono assenti. Gli invidiosi stanno in Purgatorio. A essi Dante dedicò due canti, di grande potenza e di altrettanto grande complessità. Converrà, perciò, cercare l’invidia, e ragionarvi, nel luogo in cui effettivamente la s’incontra, nei personaggi che la confessano e seguitano a pentirsene e a espiarla. Ma, senza pretesa di costruire, per la spiegazione di quello di Dante, un sistema alternativo, c’è, preliminare, una domanda alla quale è, non illegittimo, ma necessario, cercare di rispondere. Perché nell’Inferno non ci sono invidiosi, sebbene quel luogo sia sotto il segno della lupa, che con quello era
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uscita dall’Inferno per provocare i disastri ai quali solo il Veltro, come si sa, era chiamato a porre rimedio, ricacciandovela? Se ne deve forse dedurre che nel regno del male c’è la invidia, ma non ci sono gli invidiosi: come se, nel luogo dell’eterna punizione, non il peccatore fosse punito, ma il peccato inteso nella sua forma pura? Se ne deve dedurre che, al pari degli invidiosi, anche i superbi sono assenti nell’Inferno, e che il critico che, con questi aggettivi, nomina peccatori puniti in realtà per un altro peccato, dà un contributo, non alla chiarezza, ma alla confusione? 8. Non sono domande alle quali non sia possibile tentar di dare una risposta; che dev’esser data senza la pretesa che quella che ora si tenterà sia senz’altro la risposta giusta, ma fermi, tuttavia, nella convinzione che potrebbe esserlo anche se, fra gli elementi che la compongono, Dante non stabilì mai la relazione che qui invece sarà indicata. Per non indugiare sulla soglia, si dica allora che l’invidia è presente nell’Inferno, non in una sua parte specifica, palese o nascosta, ma nella sensazione proveniente da un luogo che non è un luogo, perché è tutti i luoghi e nessuno in particolare, e da un individuo che non è un individuo, essendo la sintesi originaria di ogni individuale e collettiva malvagità. Una sintesi del cui carattere Dante ebbe consapevolezza quando del diavolo disse che è la «somma di ogni creatura»42 e che è «da tutti i pesi del mondo costretto»:43 una creatura che, poiché coincide con il male, è conclusa in sé stessa e non può moltiplicarsi e risolversi in invidiosi individui particolari; che, assenti in quanto tali, sono presenti nell’atmosfera proveniente dal luogo abitato da quel tale individuo sintetico di ogni male, che è il prigioniero e insieme «lo ’mperador del doloroso regno». Questo individuo, che non è un individuo, è il diavolo; e perché lo si intenda come la personificazione e, insieme, la universalizzazione simbolica dell’invidia, si comprenderà facilmente se si considera quel che interpreti della Sacra scrittura e teologi ebbero a scrivere delle ragioni che determinarono la sua ribellione. Che furono infatti concordemente indicate nella superbia che gli derivava dalla sua splendente bellezza, poi capovolta nel suo più raccapricciante contrario, e, scendendo più a fondo, nell’invidia che occupò tutta la sua persona. Invidia di lui, che era il più bello degli angeli e il più vicino a Dio, provata innanzitutto, nei suoi confronti. Invidia e superbia, il «maladetto superbir», che lo trasse giù dal cielo e fece sì che, secondo la fantasiosa teoria cosmologica esposta da Dante nell’ultimo canto dell’Inferno, rimanesse conficcato per sempre nel centro della terra. Invidia e superbia, o, anche, e viceversa, superbia e
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invida, perché, come Agostino teneva per fermo, causa della superbia non è l’invidia, ma causa dell’invidia è la superbia. A esser rilevante è tuttavia non la precedenza dell’una sull’altra, ma il nesso che esse stringono nella storia degli uomini, e che fu ben presente a Dante, che variamente lo studiò e ne espresse il tema, osservandolo nella figura di Lucifero e in Firenze definita «pianta» di colui che «pria volse le spalle al suo fattore» e la cui «invidia» è «tanto pianta».44 Il tema dell’invidia, e non meno della superbia, intesi come i caratteri essenziali della natura dell’angelo rivelatosi diavolo in seguito alla sua ribellione, è presente, con le sue variazioni in un così gran numero di testi che definirlo in una parola è impossibile: come impossibile è, per conseguenza, decidere da quali, in particolare, egli lo derivasse. Nei luoghi in cui Dante ne parlò resta indeciso se l’invidia e la superbia di Lucifero si esercitassero in diretta relazione con Dio, e questo, come Agostino aveva insegnato, ne fosse l’oggetto,45 o se la prima di queste due perversioni nascesse in lui alla vista dei due primi uomini che, fatti, come si diceva, a immagine del creatore, accendevano la sua gelosia, facendo sì che quel sentimento perverso si formasse e vigoreggiasse nel suo animo.46 A penetrare nella selva dei testi biblici e neotestamentarii e a scegliere, facendolo prevalere sugli altri, uno dei motivi che vi si trovano, non si direbbe che Dante fosse interessato. La questione di Lucifero gli si presentò nei termini della gelosia e dell’invidia che quello provava nei confronti, piuttosto del signore dell’universo, che non di altre realtà da lui create. Il dramma della contrapposizione ebbe due soli attori, Dio e Lucifero; e se, come si vede dai versi dell’ultimo canto dell’Inferno, la sua conseguenza esplicita fu cosmologica, a quella implicita si è già accennato quando si osservò che non fu forse per caso se, essendo al più alto grado espresse dalla natura perversa in cui era decaduta quella divina di Lucifero, la superbia e l’invidia, oppure l’invidia e la superbia, non poterono avere, nell’Inferno, altri rappresentanti al di fuori di lui. Erano dovunque e in nessun luogo; erano in tutti i peccatori e in nessuno in modo specifico. E viene perciò alla mente la pantera di cui si parla nel De vulgari eloquentia. Ma l’analogia con la pantera profumata va, in effetti, posta per essere esclusa. La pantera sta in ogni luogo, e in nessuno; e lo stesso si dica del profumo che ne emana. Da Lucifero provengono tutti i peccati che hanno il loro luogo nell’Inferno. Ma un luogo è riservato anche a lui, che è imprigionato nel fondo del baratro infernale, e lì chi riesca a pervenirvi può osservarne la figura, resa mostruosa.
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9. Se la spiegazione che si è delineata della ragione per la quale gli invidiosi sono, in quanto individui determinati, assenti nell’Inferno, proprio perché l’invidia è presente in tutti, non ha carattere se non congetturale, e non pretende ad alcuna certezza, resta che essa è certamente preferibile a quella che ha il suo capostipite in Pietro Alighieri e la sua premessa nella convinzione che, poiché è impensabile che gli autori di un così grave peccato non si trovassero nella dimora dell’eterna pena e non avessero in essa un luogo, il compito dell’interprete è di scoprirlo anche se poi sia costretto a indicarlo là dove meno è ragionevole che stia. A chi per primo ebbe a credere che gli invidiosi stessero sotto la superficie dell’acqua fangosa dello Stige la proposta di cui si faceva autore sarebbe apparsa nella sua stravaganza, se non si vuol dire assurdità, se avesse notato che di un’altra assenza si sarebbe allora dovuto far conto, dicendo che non di un’assenza si trattava, ma di una nascosta presenza. Come gli invidiosi, anche i superbi, infatti, non hanno nell’Inferno un luogo che li accolga e nel quale sia possibile vederli e incontrarli. La loro sede è infatti nel Purgatorio, del quale occupano il primo girone; e se la loro assenza non ha posto il problema che fu sollevato dagli invidiosi, la ragione è da ricercare, e da ritrovare, nell’equivoco in cui caddero i commentatori antichi non meno che i moderni, i quali tutti ritennero che superbi fossero anche i personaggi dell’Inferno che Dante caratterizzò in realtà con quel termine solo di scorcio e, per dir così, in seconda battuta. La prima che li riguardava, e alla quale può riconoscersi funzione definitoria, cadeva infatti, in senso proprio, sul loro essere iracondi, come Filippo Argenti, violenti contro Dio, come Capaneo, o magari ladri, e perciò violenti contro il prossimo come Vanni Fucci. La ragione per la quale Dante non li accolse nell’Inferno deve essere affrontata tenendo fermo quel che non potrebbe in nessun caso essere presentato in altra forma: senza, dunque, cambiare le carte in tavola. Dev’essere affrontata considerando la loro, non come una presenza nascosta in un luogo inaccessibile allo sguardo, ma come un’assenza: della quale tanto più deve prendersi atto quanto più e meglio si consideri che anche il paragone che si riproponesse degli invidiosi e dei superbi nascosti con la famosa pantera simboleggiante il volgare illustre, si rivelerebbe, in questo caso, inservibile. Produrrebbe, a ben guardare, più danni che vantaggi, perché quello che «potest magis in una quam in alia [civitate] redolere, sicut simplicissima substantiarum, que Deus est, in homine magis redolet quam in brutis»,47 con quel che segue nel celebre passo, a questi, ossia agli invidiosi e ai superbi, invece non può essere né riferito né attribuito Non esistono, infatti;
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e da essi non proviene alcun profumo che sia indizio della loro presenza. Ma siamo sicuri, tuttavia che, non esistendo in nessuno dei luoghi in cui sembra ovvio che siano cercati, essi non stiano in uno nel quale, dopo che lo si sia indicato, non parrà del tutto sorprendente che vi si trovino? 10. Se si tiene fermo che, fino a contraria prova (ma a una prova che sia una prova, e non un’abile escogitazione), per gli invidiosi e per i superbi non c’è nell’Inferno un luogo in cui siano puniti in quanto tali, le conseguenze che ne derivano non lasciano tuttavia esegeticamente tranquilli. A emergerne sono infatti vari paradossi, ai quali converrà dar rilevo perché, se si ritiene che, nel leggere la Commedia, l’occhio debba essere rivolto alla coerenza del racconto e dei suoi criteri costitutivi, non notarli sarebbe lo stesso che non aver cura di quella e dei significati che, intesa così, l’opera intreccia in sé. Il primo paradosso è quello che nasce dall’assunto che l’invidia e, eventualmente, anche la superbia, sono in sé stesse a tal punto espressive del male che l’unica realtà in cui trovino adeguata accoglienza è quella di Lucifero, dell’imperatore del «doloroso regno». Il quale, essendo in sé stesso la «somma» di tutti i «pesi del mondo», li tiene bensì uniti dentro di sé, ma senza permettere che prendano altra forma e altra figura, e escludendo che l’Inferno possa ospitarli al modo in cui vi sono accolti gli altri dannati, che tutti sono visibili nei loro corpi. Quel che qui su si è proposto per gli invidiosi sembra perciò che debba valere anche per i superbi: il che non dà luogo a particolari difficoltà, né fa pensare che si stia ricorrendo a identificazioni astratte o a improprie forzature, se si considera che, come si legge nei Moralia di Gregorio Magno, ripreso da Tommaso nella decima Quaestio del De malo,48 fu la connessione che l’un peccato intratteneva con l’altro nell’anima di Lucifero a provocare il suo gesto di ribellione e la conseguente sua punizione, per l’eternità, al centro della terra. Se è così, deve anche intendersi che, nell’interpretazione che Dante ne dette, questi peccati si presentano nel segno della massima gravità. La pena a cui i relativi individui erano sottoposti non poteva perciò non essere quella stessa di Lucifero in una delle sue determinazioni, non poteva non essere che uno dei volti di una sofferenza che nella più pura negatività aveva rovesciato, e rovesciava, il pregio e la bellezza della sua natura angelica. Lucifero fu superbo, fu invidioso. Quale che sia l’ordine in cui queste attitudini si dispongono, l’invidia che provava nei confronti di colui che gli aveva conferito il maggior pregio consistette perciò, in primo luogo, nella svalutazione di quel che aveva ricevuto da lui e che non teneva il confronto
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con la luce divina. In questo, e per questo, egli fu punito. Superbia e invidia si erano espresse in lui al più alto grado: può intendersi perciò, e ribadirsi, che nell’Inferno non vi fosse un luogo dove i relativi peccati avessero la loro punizione. Modificando un celebre detto, può proporsi che invidia e superbia non fossero, nell’Inferno di Dante, se non pensieri e passioni del diavolo, il rovesciamento nell’infelicità senza speranza di una felicità che non aveva saputo di esser tale e non aveva protetto sé stessa dalle potenze negative che avrebbero potuto dissolverla. Insomma, in tanto l’Inferno non può accogliere i superbi e gli invidiosi nelle loro distinte figure di peccatori in quanto, nel momento in cui per questi giungeva l’ora di presentarsi dinanzi a Minosse per ricevere da lui il giudizio inappellabile di Dio, era come se quel giudizio l’avessero già ricevuto e fossero di conseguenza stati simbolicamente inclusi nella figura mostruosa del demonio che, per sempre, li avrebbe tenuti dentro di sé, come parti, se si vuol dire così, del suo doloroso tutto. Che si tratti di un paradosso, o se si preferisce, di un’interpretazione che sembra andare al di là del testo, e alla quale si è tuttavia costretti dal tentativo che si compie di dare un perché a un’assenza che resterebbe altrimenti avvolta nella più profonda oscurità, è innegabile. Ma è un paradosso il cui rischio dev’essere corso perché altra spiegazione di quell’assenza non c’è, e tentarne una è necessario. Malgrado le ironie che potrebbero provenire dagli amici dei Realien, ignari evidentemente di non stringere nelle mani niente di più che la soluzione indicata da Pietro Alighieri e delle variazioni a cui il suo tema fu sottoposto dai più recenti studiosi, la via che si indica qui è, o sembra essere, l’unica che dia conto di un esserci, quello della superbia e dell’invidia, del quale non è comunque lecito dubitare. E perché poi non sarebbe ragionevole supporre che superbia e invidia, che prima di essere i peccati degli uomini, furono le perverse passioni di Lucifero, non debbano essere punite nel suo corpo, imprigionato nell’Inferno? Non che, al riguardo, dubbi non nascano. Se s’intende che nel corpo di Lucifero sono riassunti tutti i mali del mondo, sarebbe facile chiedere perché allora solo i superbi e gli invidiosi vi sarebbero inclusi in modo così esclusivo da non avere, né in quello né fuori di quello, visibilità e luogo. Ma la risposta è che, se il diavolo riassume in sé tutto il male dell’universo, è anche vero che furono quelli i peccati dei quali egli si era macchiato quand’era il principe degli angeli, furono quelle le passioni perverse che, avendolo condotto al folle tentativo di essere pari a Dio, gli procurarono la dolorosa caduta. La logica della situazione perderebbe perciò il suo tratto
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specifico se quei peccati non fossero considerati nella ragione per la quale è giusto definirli come i peccati del diavolo. Può aggiungersi, piuttosto, una considerazione. Sebbene, seguendo il canone gregoriano condiviso da Tommaso, Dante avesse collocato i superbi e gli invidiosi nella parte più bassa del Purgatorio e più lontana, quindi, dal Paradiso Terrestre, è anche vero, tuttavia, che se, considerandole dal punto di vista dell’Inferno, superbia e invidia gli si presentavano con il carattere che si è cercato di individuare, non furono tuttavia questi i peccati ai quali egli assegnava il tratto della maggiore gravità. Se era vero che quei peccati non ammettevano di esser «visti» in peccatori specifici perché, nell’Inferno, coincidevano con l’essenza stessa di Lucifero, con l’invidia e il «maladetto superbir» che avevano perduto la sua anima, è anche vero che la presenza di questi peccati e peccatori nel Purgatorio non può stare senza una ragione. Si dovrà forse indicarla nell’esigenza che il diavolo li tenesse per l’eternità dentro di sé a riprova e conferma dell’eternità contrassegnante la sua condanna, ma che non così le cose andassero per chi in vita se ne fosse macchiato? È un passaggio che non si esegue in modo agevole non essendo esente da difficoltà l’idea che peccati così intimamente intrinseci alla physis diabolica potessero non essere altrettanto irredimibili se a macchiarsene fossero stati e fossero gli uomini, e soprattutto che si dovesse distinguere fra quelli che erano stati come assorbiti in Lucifero e gli altri che, al contrario, avevano conservata la loro individualità e erano visibili da Dante che percorreva i sentieri del Purgatorio. E allora? Allora dovrà riconoscersi che, se si sta al testo e non si vola con l’irresponsabile fantasia, non di ogni aspetto dell’aldilà dantesco è possibile render conto, e, perché l’auspicata comprensione abbia luogo, occorre attendere giorni migliori. Resta che, nella speranza che siano per venire, nell’attesa deve starsi a quel che il testo dice, tenendo per fermo che a quanti di quei peccati si fossero resi vittima era concessa la possibilità di sfuggire alle pene infernali mediante il pentimento a cui, per esempio, e sia pure in un rapido passaggio, Sapìa, alluse nel discorso rivolto a Dante nel decimoterzo del Purgatorio.49 Il che, per converso, lascia pensare che la possibilità del pentimento non fosse invece concessa, in senso sia soggettivo sia oggettivo, ai peccatori che, dopo quelli ospitati nel cerchio degli eretici (che è il sesto) e nell’altro dei violenti (che è il settimo), erano destinati a occupare le Malebolge e le tristi regioni dell’Antenora, della Tolomea e della Giudecca: quasi che a questa qualità, particolarmente abietta di peccatori, Dante avesse di fatto, se non anche di diritto, negata la possibilità che in essi fosse penetrata, e mai potesse penetrare, la luce del
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pentimento e la misericordia di Dio discendesse sulle loro anime. Di fatto, non di diritto; e quindi facendo prevalere la particolare riprovazione che nel suo animo avvertiva nei riguardi di chi, a vario titolo, avesse esercitata la frode, o tradito i parenti, la patria, gli ospiti e i benefattori. Di fatto, e non, dunque, alla luce di una chiara ragione teologica. Di fatto, e per una ragione che aveva perciò a che fare con il mondo delle sue passioni e delle sue specifiche inclinazioni morali. Che, presi così, in generale, superbi e invidiosi potessero stare in Purgatorio, non è cosa che desti la sorpresa che nascerebbe dal vedervi accolto l’arcivescovo Ruggieri. Ma anche qui, la sorpresa avrebbe origine dall’assenza di un elemento che, per uno scrittore cristiano, è essenziale: il pentimento. Se, infatti, secondo le parole di Manfredi, la misericordia di Dio ha sì gran braccia che accoglie chi, pentito, si rivolge a lui, una esclusione che, senza appello, avesse riguardato una determinata classe di peccatori, avrebbe imposto un limite, non solo a quella, ma all’onnipotenza divina. In luogo di assegnarla alla natura non redimibile di un determinato peccato e al difetto che si sarebbe perciò stati costretti a riconoscervi, la si sarebbe, in ultima analisi, dovuta attribuire alla particolare sensibilità di Dante, e al rifiuto etico, e non teologico, che egli faceva alla redimibilità di peccati a lui particolarmente odiosi. II 1. Quanto era stato criptico nel far sì che i superbi e gli invidiosi non fossero, in quanto individui, visibili nell’Inferno, di altrettanto Dante fu esplicito nel renderli visibili e riconoscibili nel Purgatorio. Ma non senza che l’atmosfera di mistero in cui, non nominandoli, li aveva avvolti nell’Inferno, anche nella seconda cantica desse, all’inizio, segno di sé. Quando misero il piede nel secondo girone del monte, a colpire i due poeti fu una circostanza che, anch’essa legata alla visibilità, si presentò infatti nel segno della più grande incertezza. «Ombra non gli è né segno che si paia;/ parsi la ripa e parsi la via schietta/ col livido color dela petraia». Il paesaggio appariva vuoto di anime, e gli oggetti (la «ripa», la «via schietta») davano segno di sé, nell’atto stesso, tuttavia, in cui si perdevano in quel «livido color»: a tal punto che, disperando che qualcuno venisse presto a soccorrerli di qualche informazione, quasi a contrasto, a Virgilio sembrò naturale rivolgersi al sole, ossia alla luce che, in quell’ambiente, era il principale elemento di contrasto e il necessario, perciò, punto di riferimento. Se l’in-
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vidia ama nascondere sé stessa nella penombra delle cose ambigue, dove il vero può valere, e tende a valere, come il falso, il sole, che è il suo naturale contrario, rivela quel che è nascosto, e permette di scoprire quel che essa copre: ossia la figura degli invidiosi che, alla sua luce, poco alla volta si rendeva visibile dove era sembrato che reale fosse solo il color grigio della parete, alla quale le loro anime erano appoggiate. Il modo in cui Dante fece che il «livido color dela petraia», progressivamente si illuminasse e, a cominciare dalle ombre degli invidiosi, le cose si offrissero alla vista, è di alto virtuosismo; e, se qui fosse presente, un critico letterario forse noterebbe l’effetto musicale che da tutto ciò consegue come di note che escano dalla loro indecisione e infine la vincono. Ma il critico è assente, e allora conviene restringersi a dire che il contrasto, in cui poco alla volta, nel rivelarsi all’occhio dei due poeti, la natura si poneva con le anime degli invidiosi, ha un preciso intento strutturale. Il paesaggio rivelava i suoi confini e ciò che essi racchiudevano. Ma rivelava anche che il mondo restava chiuso agli invidiosi, il cui sguardo, che mai era stato limpido e diretto quando, in vita, avevano esercitata la loro arte coperta, ora era reso cieco dal crudele fil di ferro che teneva cuciti i loro occhi e li rendeva incapaci di vedere. Non sembra infatti che Pietro Alighieri avesse ragione quando osservò che l’invidia è come un vedere che impedisce di vedere quel che si dovrebbe. Nessuno in effetti vede meglio dell’invidioso che, da quel che vede, in tanto distoglie lo sguardo e lo dirige altrove in quanto della verità che ne è rivelata non sopporta la vista, o l’idea, e poi agisce di conseguenza cercando il più che gli sia possibile di ignorarla. Se Dante fece che gli occhi degli invidiosi fossero cuciti con il fil di ferro, a parte la crudeltà della pena, lo scopo che perseguiva era che uno sguardo reso acuto dalla malevolenza fosse punito proprio in ciò che aveva di più proprio, ossia negli occhi che avevano saputo guardare alla altrui felicità e fortuna con penetrazione pari alla malevolenza, e con malevolenza pari alla penetrazione, nonché all’augurio che quelle si convertissero presto nel loro contrario. Più che con le parole di carità che volavano per l’aria e rendevano saturo di schietta bontà quel che in vita era stato segnato da ripugnante invidia, fu con il rilievo conferito all’estremo indebolimento dello sguardo acuto e malevolo degli invidiosi che Dante dette al canto la sua unità. La realizzò togliendo agli invidiosi lo strumento con il quale conseguivano il loro fine, mentre sul piano della narrazione, la progressiva animazione di un paesaggio, che si era presentato contratto nei suoi lividi colori, fu ottenuta con l’entrata in scena di una singolare donna senese, Sapìa, e con il colloquio, ricco di scarti,
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che Dante intrattenne con questo personaggio, nel quale si ha l’impressone che sul serio l’invidia non nascesse che da sé stessa, e non offrisse a chi l’avesse osservata con cura, altra ragione. Tanto generico, infatti, fu il suo oggetto, e per «generico» dovrà intendersi così poco determinato e tale da potervisi includere ogni cosa, che si stenta a credere che, in senso rigoroso il suo agire potesse essere inteso alla luce di quell’idea e fatto rientrare in essa. Si stenta a credere che, nell’estensione che era stata conferita al suo peccato, questo potesse mantenere, e non avesse piuttosto perduto, il carattere con cui appariva nelle fonti che Dante aveva a disposizione. In effetti, il sentimento che Sapìa coltivava in sé era detto invidia, e tale, a rigore, non avrebbe potuto e dovuto essere definito: come forse si vede già dal modo in cui essa introdusse sé stessa nel dialogo a cui Dante l’aveva indirettamente chiamata quando alle anime scolorite degli invidiosi aveva chiesto se, fra esse, ve ne fosse una che fosse stata «latina». Alla domanda Sapìa aveva dato una risposta così altamente intonata, così allusiva al cielo, che a quel livello era impossibile che il personaggio si mantenesse: a meno che nella risposta non si voglia cogliere la nota pungente dell’ironia e autoironia. Non aveva infatti saputo e potuto mantenervisi: come si vede fin dalle prime battute. Aveva detto: «o frate mio, ciascuna è cittadina/ d’una vera città» (v. 94), e poi, non senza che in quel che aveva aggiunto si avvertisse il segno dell’antica amarezza, e la punta acuminata della malevolenza, era stata lei a porre la chiosa: «ma tu vuoi dire/ che vivesse in Italia peregrina» (vv. 95-96). Il paragone era insieme amaro e malevolo. L’invidia aveva accennato ad andare oltre sé stessa, perché era vero che gli uomini appartengono alla città di Dio rispetto alla quale ogni altra è «peregrina», per rientrarvi, tuttavia, mediante l’accenno, che era una contrapposizione, alla città terrena, e in questo caso «latina». La distinzione era ineccepibile: altra la civitas dei, altra la civitas hominis. Ma l’intento era, non tanto di distinguere, quanto piuttosto di screditare. Queste parole provenivano da uno spirito che, appoggiato come gli altri alla parete della montagna, quasi spariva nel colore grigio della roccia, sì che a stento Dante vedeva e sentiva lei che, a sua volta, lo sentiva, ma non lo vedeva, perché anche i suoi occhi erano stretti dal crudele fil di ferro. Di qui l’atteggiamento in cui egli la colse e che ritrasse, con la consueta, eccezionale velocità, in un solo verso («lo mento a guisa d’orbo in sù levava»), e quindi la sua risposta. L’ombra con la quale aveva iniziato il suo colloquio, e che non si era vergognata di dir chiaro chi fosse stata e perché fosse lì, nel ribadirne la ragione non aveva tuttavia pronunziata la
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parola «invidia»; e non, dovrà intendersi, perché avesse inteso nascondere che a quel sentimento aveva intonata e ispirata la sua intera vita, ma perché a quel sostantivo sentiva di dover aggiungerne un altro, che meglio avrebbe ritratto la sua situazione. Era stata invidiosa («e fui deli altrui danni/ più lieta assai che di ventura mia»), ma era stata la follìa a caratterizzare i suoi sentimenti: «e perché tu non creda ch’io t’inganni,/ odi s’i’ fui, come ti dico, folle,/ già discendendo l’arco di miei anni».50 La follìa, in effetti, aveva prevalso sull’invidia, che in lei era salita al grado dell’assolutamente gratuito, si era essenzializzata, essendosi privata di ogni desiderio che potesse riconvergere verso il segno della sua particolare esistenza terrena. Di un personaggio che, dannato o espiante, avesse dedicato sé stesso al desiderio che la sua patria ricevesse dal nemico il maggior danno possibile, e non perché a raccoglierne i frutti fosse questo, ma così, per il puro gusto che la sconfitta avesse luogo e tutti, lei compresa, ne fossero coinvolti, non c’è in Dante un altro esempio. Nel descrivere i sentimenti di Sapìa, egli evitò di spiegare che in lei l’invidia si era presentata a un grado di particolare purezza forse perché, tale era il risentimento per un torto che sentiva di aver subìto, e tale era l’odio che avvertiva per sé stessa, che il mondo, e lei nel mondo, non potevano non esserne ripagati con la stessa moneta. Ma Dante accennò e, giustamente, su questa linea non procedette. Dell’asprezza che era nell’animo del personaggio preferì che questo desse indiretto segno nelle parole non controllate che pur uscirono dalla sua bocca di penitente. A Dio rivolse parole degne di Capaneo («omai più non ti temo»)51 quando vide i suoi concittadini senesi sconfitti dai fiorentini a Colle di Valdelsa l’8 giugno 1269; e anche quel che disse a Dante, che andava «dimandando» delle condizioni delle anime che occupavano il secondo girone, fu intonato alla cruda essenzialità che aveva messa nella descrizione del suo pentimento («pace volli con Dio in su lo stremo/ dela mia vita»),52 che non sarebbe forse bastato a farle conseguire la salvezza se non fosse stato per l’aiuto datole da Pier Portinaio con «sue sante orazioni». 2. Di tutt’altra natura si riveleranno, nel canto successivo, Rinieri da Colboli e Guido del Duca. Sul girone del monte al quale il suo peccato l’aveva intanto legata, Sapìa aveva conservato il suo carattere stravagante che, di tratto in tratto, emergeva e dava segno di sé, non perché la vecchia attitudine fosse ancora viva dentro di lei, di Dante volesse il male e, per qualche ragione, gli fosse ostile, ma perché, nel parlare con lui della sua vita, non poteva evitare che riaffiorasse nelle sue parole, e a esse conferisse
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l’antico sapore. Assai più di altre anime del Purgatorio, Sapìa partecipava ancora delle passioni che avevano caratterizzata la sua vita; e di questo non deve cercarsi una ragione che vada al di là del fatto che la segna. A Dante, che le aveva chiesto se avrebbe gradito che muovesse «di là per te ancora i morta’ piedi» (v. 144), con parole troppo umanamente segnate da ironia e, comunque, da spiriti mondani, per essere pronunziate in quel luogo, aveva esclamato: «oh questa è a udir sì cosa nuova […] che gran segno è che Dio t’ami;/ però col priego tuo talor mi giova» (vv. 145-146). Il ringraziamento si esprimeva nella forma della provocazione: se Dante pensava di rivolgersi a Dio per sostenere le sue buone ragioni, era perché sapeva di esserne amato; e Sapìa non poteva trattenere, al riguardo, l’ironia e persino il sarcasmo. Come si vede anche da quel che aggiunse subito dopo, niente poteva far sì che questi sentimenti in lei non fossero ancora vivi. Di essere «rinfamata» presso i suoi «propinqui» non le dispiaceva. Non poté tuttavia non aggiungere che egli li avrebbe visti «tra quella gente vana/ che spera in Talamone, e perderàgli/ più di speranza ch’a trovar la Diana,/ ma più volentieri vi perderanno gli ammiragli». Versi allusivi a situazioni storiche forse non per intero perspicue;53 anche se chiaro sia lo spirito polemico che le anima. Le sue parole stanno fra la profezia e il sarcasmo; e dimostrano che nella nobildonna senese che affrontava sul secondo girone il tempo della purgazione in vista del cielo, il momento in cui vi sarebbe stata ammessa doveva essere molto lontano se le vecchie abitudini tornavano a dar segno di sé persino in quel luogo remoto dal mondo. 3. Con le sue luci e le sue ombre, le une e le altre sapientemente dosate, l’episodio di Sapìa dimostra che, nella rappresentazione dell’invidia Dante aveva badato meno alla sua definizione in termini generali che non, almeno in questo caso, alla sua rappresentazione politica. Una breve riflessione su di essa e sul suo potere distruttivo s’incontra bensì, come si sa, nel canto decimoquinto, e in particolare nei versi in cui Dante scrisse che poiché «s’appuntano i vostri disiri/ dove per compagnia parte si scema,/ invidia move il màntaco a’ sospiri», e quindi, nello stesso canto, in quelli nei quali è detto che se, invece «l’amor dela spera supprema/ torcesse in suso il desidèro vostro/, non vi sarebbe al petto quella téma:/ ché, per quanti si dice più lì ‘nostro’,/ tanto possiede più di ben ciascuno/ e tanto più di caritate arde in quel chiostro».54 Ma si trattava di una riflessione nella quale sarebbe difficile sorprendere elementi di particolare interesse. Che ciò che sta in alto rappresenti una meta preferibile a quel che sia collocato all’interno
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delle cose terrene, e tuttavia gli uomini invertano sovente questa gerarchia dei valori in modo che sia ciò che sta in basso ad attirare i loro desideri, è quel che avviene per lo più. Ed è, presso uno scrittore cristiano, idea ovvia, che non aggiunge niente a quella dell’invidia. Nella rappresentazione che Dante dette delle azioni che ne furono ispirate e determinate, l’esigenza che lo spingeva a rappresentarla nelle conseguenze che provocava nel mondo politico prevalse nettamente sulle questioni definitorie. Ma nei luoghi in cui fu la passione politica a costituire la nota dominante, e in particolar modo nel canto decimoquarto, la rappresentazione di essa dette lo spunto a una pagina di grande concitazione drammatica, ispirò l’invettiva dolente la cui nota presto s’intrecciò con quella del compianto, del rimpianto, della grande lamentatio, in modo tale che il personaggio, Guido del Duca, che di questo momento è il protagonista, finirà per assumere un atteggiamento simile a quello di Dante quando, giunto di fronte a Cacciaguida, dal presente si volse al passato e, attraverso le parole dell’avo, cantò la raccolta bellezza, la severa compostezza e la serena felicità della Firenze antica. È un’analogia che non sta nelle parole. Dove descrivevano il presente e il passato delle terre romagnole, i versi non parlavano di Firenze. Dove parlavano di Firenze, non alludevano alle terre romagnole. Ma quello che non stava nelle parole stava, tuttavia, nei pensieri che, partendo da storie diverse, facevano sì che i temi convergessero e l’analogia s’imponesse. Questa che, con la dovuta discrezione, si propone fra Guido del Duca e Cacciaguida, non è una affinità che, a quel che risulti, sia stata notata; e nel trarla alla luce, certo conviene circondarla di ogni cautela, richiamare le differenze che, del resto, s’impongono da sé, fra la figura ieratica, grandiosa, archetipica dell’antenato e quella del giudice romagnolo, appartenente, grosso modo, a una generazione che solo di pochi decenni aveva preceduto quella di Dante. Ma, l’uno e l’altro, Guido del Duca e Cacciaguida, erano uomini che, per giudicare il presente, proponevano di compiere un viaggio verso le origini, l’uno della Romagna, l’altro di Firenze. I viaggi, certo, non conducevano alla stessa meta. L’antenato di Dante rievocava un inizio che quasi si collocava in un tempo mitico, e stava comunque al di qua del vero inizio di una storia che si era poi svolta come un seguito di violenze e di discordie. Il giudice romagnolo non arretrava fino a quella sorta di inizio dell’inizio. Ma la disposizione spirituale non era, nel fondo, diversa. Era la stessa. Nel passato era la virtù, nel presente il vizio; né, per il rievocatore delle virtù romagnole, si dava la certezza che quella fosse destinata a tornare e i presenti vizi ne fossero discacciati.
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4. A questo vertice il canto decimoquarto non giunse, tuttavia, se non dopo che un altro tema vi fu affermato. Un tema che ebbe toni piuttosto di commedia che non di tragedia, e ritrasse due personaggi, Guido del Duca e Rinieri da Calboli che, poiché avevano le palpebre cucite con il fil di ferro e non vedevano, erano costretti a fare congetture sul personaggio che era appena entrato in scena e al quale sembrava che fosse dato quel che a essi era negato, e cioè di aprire gli occhi e di chiuderli, a suo piacimento. Di quel personaggio avevano ascoltata la voce, e del suo esser vivo si erano resi conto come anche del suo non esser solo. «Non so chi sia, ma so ch’e’ non è solo» (v. 4), aveva detto uno dei due che, con quelle parole, disponeva anche l’altro a una rispettosa, cauta e forse diffidente curiosità. Dalla parte dei due spiriti penitenti l’esordio era stato, perciò, se non solenne, affettuoso, pieno comunque di sorpresa per la presenza in quel luogo di un personaggio che aveva mostrato di esser vivo e vedente, il che era a riprova di cosa «che non fu più mai» (v. 15). Niente c’era stato nelle loro parole che avesse dato segno di risentire della passione della quale l’anima di Sapìa non s’era, in quello stesso luogo, mostrata sgombra. La risposta che i due penitenti ricevettero fu, tuttavia, quale, francamente, dopo un simile esordio, non ci si sarebbe aspettati che potesse essere. Fu insieme criptica e polemica: non nei confronti degli interroganti, ma del luogo di cui il viator diceva di essere originario. «Per mezza Toscana si spazia/ un fiumicel che nasce in Falterona,/ e cento miglia di corsa nol sazia».55 Era un modo di togliere al fiume che scorreva nel centro della città di Firenze ogni importanza; e, insieme, di toglierla alla città. Non era un fiume, era un «fiumicello»; e poiché non è vero che da questa definizione l’Arno fosse ritratto nel suo carattere obiettivo, la diminuzione a cui era sottoposto doveva avere la sua ragione; che non era quella immaginata da chi ha supposto che, nel definirlo così, Dante avesse inteso adeguare il suo stile e le conseguenti definizioni all’ars minuendi alla quale gli abitanti del Purgatorio ispiravano la loro.56 E perché mai avrebbe dovuto, e come avrebbe potuto esser stata questa la sua intenzione? Non esaltare le umane cose in un luogo in cui la umana «nominanza» era stata paragonata al «color d’erba che viene e va», «discolorata» da quello per cui «ella esce dala terra acerba»,57è scelta che si può capire; e un accenno a questo tema è forse presente in quel che Dante disse della scarsa fama di cui in quel momento (si badi, in quel momento: «ché ’l nome mio ancor molto non suona») la sua persona godeva, sì che il parlarne sarebbe stato «indarno». Ma che la ragione della strana definizione data dell’Arno non sia questa, o a questa non possa
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essere ridotta, si comprende bene dalla domanda che una delle due anime, Rinieri da Colboli, rivolse a quella (Guido del Duca) che nel «fiumicello» aveva riconosciuto il fiume che scorre a Firenze. «Perché nascose/ questi il vocabol di quella riviera, pur com’om fa del’orribili cose?» (vv. 25-27). La risposta era contenuta nella domanda. Colui che a questa dava risposta, e cioè, conviene ribadire, Guido del Duca, era certo che, nascondendo il nome dell’Arno, l’intenzione del vivente che si trovava a camminare sul secondo girone del monte era stata di non rivelare, e di nascondere, le cose orribili che avvenivano lungo la sua riva, e che egli non avrebbe indugiato a descrivere per quel che erano. Nel luogo che quel fiume solcava «vertù così per nemica si fuga/ da tutti come biscia, o per sventura/ del luogo, o per mal uso che li fruga:/ ond’hanno sì mutata lor natura/ li abitator dela misera valle,/ che par che Circe li avesse in pastura./ Tra brutti porci, più degni di galle/ che d’altro cibo fatto in uman uso,/ dirizza prima il suo povero calle./ Botoli trova poi, venendo giuso,/ ringhiosi più che non chiede loro possa,/ e a lor disdegnosa torce il muso./ Vassi caggendo, e quant’ella più ingrossa,/ tanto più trova di can’ farsi lupi/ la maladetta e sventurata fossa./ Discesa poi per più pelaghi cupi,/ trova le volpi sì piene di froda,/ che non temono ’ngegno che le occùpi».58 La spiegazione, che l’ombra di Guido del Duca aveva fornita delle ragioni per le quali l’Arno era stato nominato in quella forma minimizzante e svalutativa aveva assunto ben presto l’andamento e il tono di un’invettiva tanto dolorosa quanto sarcastica, che il ricorso, che vi aveva luogo, al mondo animale volgeva, nel segno della bestiale ferocia, al grottesco. Ma quel che più richiede di essere notato è che, autore lui, in prima persona, di invettive dirette contro la sua città, qui Dante fece che a pronunziarla fosse, non un fiorentino, ma un romagnolo, al quale affidò questo incarico per una ragione che forse sfuggirebbe se non si considerasse che era pure un romagnolo il personaggio che, essendo podestà a Firenze nel 1303 e uomo di Parte Nera, si era reso protagonista di crudeltà di ogni tipo nei confronti della Parte Bianca e dei suoi uomini, che aveva mandati a morte e spogliati dei beni. Quel personaggio era romagnolo, e anche era nipote di colui che con Guido del Duca partecipava alla scena dell’incontro con Dante, e ora dava luogo a quella che, pronunziata nel 1300, si presentava come una profezia. Era Fulcieri da Calboli che Guido vedeva diventar «cacciator di quei lupi in su la riva/ del fiero fiume, e tutti li sgomenta./ Vende la carne loro essendo viva;/ poscia li ancide come antica belva:/ molti di vita e sé di pregio priva./ Sanguinoso esce dela triste selva;/ lasciala tal, che di qui
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a mill’anni/ nelo stato primaio non si rinselva».59 Sono versi di cupa potenza, in cui, come si è detto, la tragedia politica perdeva ogni grandezza, con la crudeltà che si deformava nel grottesco. Ma che fanno capire perché a autore di un’invettiva che aveva a oggetto Firenze Dante avesse eletto un romagnolo: un uomo, dunque, che appartenendo a un’altra patria, della ferocia fiorentina vedeva tuttavia protagonista un personaggio della sua terra. Di Firenze, che non era la sua patria, poteva perciò parlare quasi come se lo fosse. Della crudeltà che lì vigoreggiava gli era lecito farsi giudice altrettanto severo che di quella che vedeva fiorire nella sua terra. Allo stesso modo, si direbbe, poteva soffrirne. Era come se, divisi in tutto, i due popoli avessero tuttavia trovato un tragico punto di unità. Con forti parole, Guido del Duca aveva deplorata e condannata la ferocia fiorentina: con parole analoghe deplorava e condannava quella romagnola, l’una e l’altra risalendo infatti allo stesso archetipo. Nel parlare di Firenze, non aveva perciò potuto conferire alle sue parole il tono nostalgico e elegìaco che Cacciaguida avrebbe conferito alla sua rievocazione della città antica. Se, in nome di un antico ideale di giustizia e di sobrietà, aveva potuto unire la sua voce a quella di coloro che condannavano il presente fiorentino, l’elogio della sua antica virtù non gli apparteneva. Ma di lui poteva tuttavia ripetere o, se si preferisce, anticipare, il tema fondamentale nel lamento che, passando da Firenze alla sua terra, dedicava alla decadenza delle famiglie romagnole. Nel canto decimosesto del Paradiso, nella narrazione che aveva intrapresa della storia delle antiche famiglie, Cacciaguida ne aveva tracciata la linea declinante alla quale aveva corrisposto, provocandola, l’inurbamento delle genti del contado. Le quali, se fossero rimaste dove erano e non avessero invaso la città, questa non avrebbe sofferta la decadenza che, a lungo andare, aveva significato corruzione dei costumi, violenza, guerra. «Sempre», a giudizio di Cacciaguida, «la confusion dele persone principio fu del mal dele cittadi»; e per questo suo detto e per la diagnosi politica di cui rappresentava la premessa e, quindi, anche la conclusione, non è mancato chi notò in lui, e perciò in Dante, il carattere del conservatore che via via induriva i suoi tratti fino a presentare quelli del reazionario. Giudizio che può discutersi da parte di chi, tuttavia, non solo si premuri di far cadere da lui la polvere della retorica e di restituire il suo pensiero a una meno angusta immagine, ma altresì si disponga a leggere questi canti nel quadro della teoria dell’Impero svolta nei tre libri della Monarchia. Nei quali di famiglie che decadono e di contadini che si inurbano non si parlava, perché il tema, lì, era quello della pace e della realizzazione, nel
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segno di questa, di tutta la potenza dell’intelletto; e l’ulteriore questione, la vera questione riguardava la relazione che pur si deve tentar di stabilire fra il quadro idilliaco della Firenze antica che non aveva ancora conosciuto la vicenda di Buondelmonte dei Buondelmonti,60 della sua uccisione e di quel che ne era conseguito, e la pace filosofica che unisce gli individui nel segno dell’intelletto. Per come Dante la immaginava, la pace realizzata e garantita dall’Impero universale aveva a che fare con quella di Firenze nei tempi rievocati da Cacciaguida? Certo, al di là delle argomentazioni con le quali ne dimostrava la inevitabilità, se non addirittura la già da sempre avvenuta realizzazione, nell’Impero pensato da Dante regnava la pace. Ma regnava nell’Impero che, sebbene, come in un paradosso, avesse richiamati su di sé i colori della piccola e virtuosa città, era tuttavia l’Impero che, del sistema comunale, costituiva la negazione e il superamento. 5. La questione, che riguarda i canti centrali del Paradiso e il significato delle considerazioni e delle profezie di Cacciaguida, ma, di riflesso, il pensiero filosofico di Dante considerato in un suo tratto essenziale, è quella che tuttavia si pone quando si consideri quel che per solito, nel leggerli, si lascia da parte come se costituisse un tema non pertinente. Si allude al problema della decadenza delle grandi famiglie e delle città che si fondavano sopra di esse, si allude alla ragione vera per la quale quelle e queste decadono. Decadono per la «confusion dele persone»? Poiché ad affermarlo è Dante, deve rispondersi che per lui era così. Ma era solo così, o questa «causa» era in realtà interna a un’altra che, determinandone il carattere, ne spiegava il senso sottraendole altresì il privilegio di essere l’unica? «Se tu riguardi Luni e Orbisaglia/ come sono ite, e come se ne vanno/di retro a esse Chiusi e Sinigaglia,/ udir come le schiatte si disfanno/ non ti parrà nova cosa né forte,/ poscia che le cittadi termine hanno./ Le vostre cose tutte hanno lor morte,/ sì come voi; ma celasi in alcuna/ che dura molto; e le vite son corte./ E come ’l volger del ciel dela luna/ cuopre e discuopre i liti sanza posa,/ così fa di Fiorenza la fortuna».61 Versi famosi e, come tutti quelli che compongono i tre canti di Cacciaguida, bellissimi. Ma, nell’indagine che si facesse della coerenza del racconto, anche rivelativi dell’incongruenza in cui si ponevano con quelli in cui la decadenza delle città era stata indicata nella «confusion dele persone». Il mutamento di prospettiva che il richiamo di questa causa imponeva all’intero discorso era drastico. Le parole di Guido del Duca avevano mantenuta la questione sul piano storico e politico. La questione era quella della decadenza poli-
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tica, della perdita dei valori morali e delle connesse, umane virtù. E aveva dato luogo al rimpianto de «le donne e’ cavalier, li affanni e li agi/ che ne ’nvogliava amore e cortesia».62 Ma alle cose supreme quelle parole non erano pervenute. Rispetto al suo, il discorso di Cacciaguida aveva preso tutt’altra direzione. Quando, nel canto decimosettimo, ebbe finito di spiegare a Dante il senso della profezia che aveva in precedenza ricevuta, e del «duro calle» che l’esilio avrebbe rappresentato per lui, Cacciaguida era stato bensì generoso nell’indicare fatti e situazioni, problemi e difficoltà. Del futuro non aveva tuttavia dato nessuna prospettiva, quasi che il suo senso fosse già risolto in ciò che era accaduto e quel che ancora doveva accadere non riguardasse più le cose di questo mondo che, come aveva detto quando aveva parlato della decadenza delle grandi famiglie fiorentine, appartengono al ciclo naturale del nascere e del morire. Il discorso non aveva alluso se non alla parola di Dante che sarebbe stata come «vento che le più alte cime più percuote», e alla Commedia: «però ti son mostrate in queste rote,/ nel monte e nela valle dolorosa,/ pur le anime che son di fama note,/ che l’animo di quel ch’ode, non posa/ né ferma fede per essempro ch’aia/ la sua radice incognita e ascosa,/ né per altro argomento che non paia».63 Al di là di ciò che le lega, la differenza che la sua figura stabilisce nei confronti di quella di Guido del Duca, è qui. Non nel compianto della decadenza, e nella nostalgia suscitata dalle cose che non sono più, ma, come si è detto, nella risoluzione del discorso di quest’ultimo nell’ambito del puramente umano. 6. Il patetico dantesco raggiunse tuttavia, in entrambi i casi, il suo vertice. Lo raggiunse nelle parole che Cacciaguida aveva dedicate alla descrizione della Firenze antica e quindi alle vicende della sua vita e della sua morte («e venni dal martiro a questa pace»).64 Lo raggiunse nelle parole spese per illustrare la decadenza delle famiglie fiorentine e l’entrata della città nel turbine di una storia violenta e dolorosa, seguìta alla vicenda delle mancate nozze fra Buondelmonte de’ Buondelmonti e la fanciulla della casa degli Amidei alla quale si era promesso; e in quelle, indimenticabili, spese per illustrare le fasi dell’esilio di Dante, e che sono, d’altra parte, troppo note perché qui occorra citarle. Ma il patetico di Cacciaguida, lo si è già detto, è percorso da un’interna nota teleologica, indica un futuro che trascende la vicenda terrena. Quello di Guido Del Duca si mantiene all’interno di questa. La sua parola è laica, e notarlo parrà strano, chiusa, senza che in ciò debba cogliersi un’intenzione, alla religione e a Dio, che mai nel suo discorso sono nominati. Fra questo suo modo di essere e di parlare che,
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all’inizio del suo discorso, risente dei modi del linguaggio giuridico («o gente umana, perché poni ’l core/ là v’è mestier di consorte divieto»)65 e la religione non c’è alcun contatto. La decadenza della Romagna è indicata e definita nelle ragioni puramente umane che l’hanno prodotta; e chi fra queste cerchi l’invidia, che è il peccato che si purifica sul secondo girone, deve compiere, per trovarla, ben più che un tentativo. Dante, in effetti, non la nominò se non nel punto in cui, presentandosi con il suo nome, Guido del Duca rivelò che il suo sangue era stato «d’invidia sì riarso,/ che se veduto avesse uom farsi lieto,/ visto m’avresti di livore sparso» (vv. 82-84). Per il resto, quel peccato è presente, piuttosto che in e per sé stesso, nella purificazione che Guido del Duca ne fece attraverso il lamento per le cose della Romagna, è presente nella rievocazione affettuosa di famiglie che non ci sono più e che forse, lassù nel mondo, avrebbero accesa in lui la fiamma della nostalgia, è presente nel pianto che, essendo sul punto di interrompere il suo discorso, lo indusse a porre termine all’incontro con Dante: «ma va via, Tosco, omai; ch’or mi diletta/ troppo di pianger più che di parlare,/ sì m’ha nostra ragion la mente stretta» (vv. 124-126). Parole che vengono alla fine di una rievocazione che, per la struggente dolorosità che la pervade, è fra i momenti poeticamente più intensi del Purgatorio: «non ti maravigliar s’io piango, Tosco,/ quando rimembro con Guido da Prata/ Ugolin d’Azzo, che vivette nosco,/ Federico Tignoso e sua brigata,/ la casa Traversara e li Anastagi/ (e l’una gente e l’altra è diretata),/ le donne e’ cavalier, li affanni e li agi/ che ne ’nvogliava amore e cortesia,/ là dove i cuor son fatti sì malvagi» (vv. 103-112). E che sfuggono al rischio del sentimentalismo nel riaccendersi della nota polemica, dell’invettiva. «O Bretinoro, ché non fuggi via,/ poi che gita se n’è la tua famiglia/ e molta gente per non esser ria?/Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia:/ e mal fa Castrocaro, e peggio Cónio,/ che di figliar tai conti più s’impiglia./ Ben faranno i Pagan’, da che ’l demonio/ lor sen ne girà; ma non però che puro/ già mai rimanga d’essi testimonio./ O Ugolin de’ Fantolin, sicuro/ è il nome tuo, da che più non s’aspetta/ chi far lo possa, tralignando, scuro» (vv. 112-24).66 7. Se, rispetto al solenne, ieratico e archetipico Cacciaguida, Guido del Duca si era rivelato come un personaggio appartenente, grosso modo, all’età stessa di Dante, e, come lui, disposto a cercare nel passato i segni di una felicità perduta, se ne incontra un altro, nel Purgatorio, al quale, pur distinguendosene, il suo è fortemente legato. Il confronto fra i due è quindi inevitabile. Il personaggio è Marco Lombardo, e il girone in cui si trova
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è quello degli iracondi. Ma non è perché l’invidia richiami l’ira e ne sia richiamata, non è per questo che fra i due personaggi vi sono affinità che conviene rivelare, e anche differenze, tuttavia, che richiedono esse pure di essere colte perché più netto risulti il profilo dell’uno e dell’altro. Guido del Duca era tutto nel compianto che gli suscitava il passato della sua terra: un passato vicino che, nel confronto con il presente, si rivelava remoto e irraggiungibile. Il suo discorso descriveva la decadenza, non ne indicava le ragioni e non ne teorizzava il concetto. Il suo era, non un ragionamento politico, ma un lamento. Anche Marco Lombardo conosceva la nota della nostalgia e del rimpianto. «In su ’l paese ch’Adige e Po riga,/ solea valore e cortesia trovarsi,/ prima che Federico avesse briga;/ or può sicuramente indi passarsi/ per qualunque lasciasse, per vergogna,/ di ragionar co’ buoni o d’appressarsi./ Ben v’èn tre vecchi ancora in cui rampogna/ l’antica età la nova, e par lor tardo/ che Dio a miglior vita li ripogna».67 Ma, nel fondo della sua nostalgia, agiva il risentimento della polemica. In tutt’altro contesto il suo «ben v’èn tre vecchi» ricordava l’esclamazione di Ciacco nel sesto dell’Inferno: «giusti son duo, e non vi sono intesi»,68 e rinviava il discorso ai momenti in cui suo oggetto era stata la questione della decadenza, che era sotto gli occhi di tutti, a tutti imponeva dolori e preoccupazioni, e, tuttavia, perché e come s’era prodotta? Dante lo diceva in modo esplicito: «lo mondo è ben così tutto diserto/ d’ogne virtute, come tu mi suone,/ e di malizia gravido e coverto;/ ma priego che m’addite la cagione,/ sì ch’io la veggia e ch’io la mostri altrui» (vv. 58-62). La «cagione» gli era ben nota. Ma detta da Marco acquistava il carattere di una sentenza pronunziata contro un’umanità che, a tal punto aveva, nel presente, disconosciuto quel che apparteneva alla sua natura, da aver smarrito il suo bene più prezioso, la libertà e, connessa a essa, la possibilità di pervenire alla vita felice. Della libertà gli uomini del presente non avevano saputo far uso; e l’elogio che, invece, Marco Lombardo le rivolgeva, conteneva in sé l’accusa rivolta a chi, rinunziando a essa, aveva contribuito a che «’l mondo presente» avesse deviato dal suo cammino. Di passo in passo, sempre più allontanandosi dal piano storico e politico sul quale Guido del Duca aveva mantenuto il suo discorso, Marco risaliva al momento della creazione divina dell’anima, al compiacimento del creatore che la vedeva «semplicetta che sa nulla», desiderosa di tornare «a ciò che la trastulla», ma incline anche a sentire il sapore «di picciol bene» e a correre dietro a vani idoli «se guida o fren non torce suo amore» (vv. 91-93). Di qui, ad evitare il rischio di pericolosi traviamenti, la necessità che fosse la politica a costituire il principio della sal-
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vezza del genere umano avviatosi sulla via della perdizione; e che ci fossero leggi e un «rege […] che discernesse/ dela vera città almen la torre» (v. 96). Così, di passo in passo, il discorso era trascorso dal momento positivo dell’uomo creato nel segno del libero arbitrio a quello, negativo, del suo disperdimento esistenziale. Da questo era pervenuto all’altro, politico, caratterizzato dall’insorgere del momento coercitivo rappresentato dalle leggi e dal reggitore dello Stato. Cercando il loro accordo, aveva intrecciato insieme il tema della creazione divina dell’anima disposta al bene, e quello, aristotelico/tomistico della naturalità della politica. Non aveva, tuttavia, potuto non richiamare quello, al primo irriducibile, della fragile natura umana che «’l mondo ha fatto reo»; che Marco riconduceva bensì alla «mala condotta», e non a «natura che ’n voi sia corrotta», senza che perciò il conflitto accennasse a delinearsi e a rivelare la sua insanabilità. Lo spazio che il ragionamento cristiano del personaggio concedeva alla libertà e alla responsabilità umana era tale, nella sua opinione, che l’una e l’altra ne erano a giusto titolo esaltate («a maggior forza e a miglior natura/ liberi soggiacete; e quella cria/ la mente in voi, che ’l ciel non ha in sua cura./ Però, se ’l modo presente disvia,/ in voi è la cagione, in voi si cheggia;/ e io te ne sarò or vera spia»).69 Ma era pur sempre uno spazio concesso da Dio, al quale quindi non solo il ben operare, ma anche il suo contrario, potevano e, anzi, dovevano, in ultima analisi, essere ricondotti. La questione della libertà del volere non poteva non emergere, nel ragionamento di Marco Lombardo, che necessariamente la incontrava nel punto in cui faceva questione della decadenza interna alla comunità cristiana e andava alla ricerca delle responsabilità di chi aveva corrotto il mondo. La rivendicazione della libertà rendeva più aspro il giudizio su chi ne aveva fatto pessimo uso; e, a contrasto, apriva alla contemplazione dell’epoca storica in cui i due poteri, papale e imperiale, avevano collaborato a rendere felice il genere umano. «Soleva Roma, che ’l buon mondo feo/ due soli aver» (v. 106). La miseria del presente aveva fatto sì che la mente risalisse ai princìpi, filosofici, teologici, storici, e il lamento si superasse nel ragionamento. Era qui che, dopo essere entrati in contatto, i due personaggi, Marco Lombardo e Guido Del Duca si differenziavano. 8. Nell’Inferno gli invidiosi sono assenti, e del loro esserlo Dante, come si vide, non dette la spiegazione. Per indicarne una possibile, fu perciò proposto, non di andarli a ricercare nel fondo della palude Stigia, ma di intendere che l’invidia era talmente potente, e pervasiva che, non poten-
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do essere assegnata a una classe determinata di dannati considerati per sé stessi, il suo luogo doveva essere indicato in Lucifero, nello «’mperador del doloroso regno». Nel Purgatorio sono presenti nel secondo girone, e la pena che debbono scontarvi è segnata con tratti così crudi che quasi, tuttavia, si dimenticano quando accade che Dante li intrattenga a colloquio, o ne sia intrattenuto da loro. Non è la cecità a cui Sapìa e Guido del Duca sono costretti a costituire il tratto rilevante della loro personalità: il che significa che, con la pena, anche l’invidia è passata in secondo piano (in questo meglio che in quella), e altro di loro sale al vertice e si offre all’attenzione di chi legge. Insomma, nella delineazione di Sapìa, più che all’invidia stricto sensu considerata, Dante aveva dato rilievo alle stravaganze e alle asperità che quella disposizione peccaminosa aveva lasciate nel suo animo. In quella di Guido Del Duca l’invidia era stata dichiarata all’inizio dal personaggio che rivelava la sua identità, e poi lasciata in disparte nello svolgimento del discorso, nel quale nemmeno come una potenza disgregatrice delle umane società era indicata. Non si può escludere che di questa troppo debole presenza di una realtà peccaminosa alla quale, fin dal primo canto del poema era stata assegnata decisiva importanza, Dante si avvedesse e provasse a porvi rimedio nel dialogo teorico che intrattenne con Virgilio nel canto decimosettimo. Già alla fine del decimoquarto, del resto, gli esempi dell’invidia punita, che lo chiudono, avevano richiamato il discorso al suo tema generale. Ma lì la descrizione aveva nettamente prevalso sulla teorizzazione. Il tema dei beni mondani che debbono lasciare il campo al cielo che «’ntorno vi si gira/ mostrandovi le sue bellezze etterne» mentre «l’occhio vostro pur a terra mira,/ onde vi batte chi tutto discerne»70 aveva fatto sì che l’invidia restasse sullo sfondo, e non ricevesse speciale menzione. Di qui il tentativo di riaprire il discorso attraverso un colloquio con Virgilio, nel quale quel peccato non ricevette tuttavia una definizione migliore di quelle che di esso erano state delineate in precedenza, ma dette tuttavia un fuggevole segno di sé in un accenno che, genialmente, Dante introdusse là dove fece che la sua guida provasse come un brivido di gelosia e, attraverso questa, di invidia, nei confronti di Beatrice. Dalla prima spiegazione che aveva ricevuta da Virgilio quando, ripensando alle parole di Guido del Duca, gli aveva chiesto: «che volse dir lo spirto di Romagna,/ e ‘divieto’ e ‘consorte’ menzionando?»,71 Dante non era stato soddisfatto; e non aveva mancato di dirlo in una forma nella quale l’eccesso di retorica poteva intendersi che nascondesse a stento, e in realtà rivelasse, una quasi irriverente insoddisfazione. «Io», aveva detto dopo aver ricevuto la spiega-
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zione di quelle oscure parole, «son d’esser contento più digiuno […]/ che se mi fossi pria taciuto,/ e più di un dubbio nela mente aduno» (vv. 58-60). La provocazione non era stata, obiettivamente, lieve. E, attraverso le parole scelte per rispondergli, Virgilio dette a vedere di essersene risentito: «però che tu rificchi/ la mente pur ale cose terrene,/ di vera luce tenebre dispicchi» (vv. 64-66), con quel che segue fino al punto in cui concluse così: «e se la mia ragion non ti disfama,/ vedrai Beatrice, ed ella pienamente/ ti torrà questa e ciascun’altra brama» (vv. 76-78). Il che, certo, era teologicamente ineccepibile. Ma dal contenuto risentimento che aveva colto nella risposta di Virgilio Dante di certo era stato colpito. Quel risentimento aveva a che fare con l’essenza più profonda della sua personalità di uomo che, per essere vissuto prima della rivelazione cristiana, aveva conosciuto la verità quando ormai non era più in tempo a esserne tratto sulla sponda della salvezza. Aveva a che fare con la sua malinconia e la sua gentilezza: le qualità che, accanto all’opera che l’aveva rivelato a sé stesso, più Dante aveva apprezzate. Per questo, alle parole di Virgilio avrebbe voluto rispondere: «tu m’appaghe». Ma non poté perché in quel punto egli fu tratto in «una visione estatica» che, per un tratto di tempo, lo tenne chiuso in sé, e, quando ne riemerse, non era più tempo di riprendere il discorso. Così la difficoltà che si era manifestata nel dialogo con Virgilio rimase come sospesa, e di condurla al chiarimento non ci fu più modo: mutato ormai il contesto, anche il discorso sull’invidia rimase, per certi versi, interrotto e senza che una definizione conclusiva ne fosse stata data.
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Note 1. Si vedano tuttavia i saggi, assai impegnativi, di V. Russo, «Ma dimmi: quei della palude pingue…?», in Sussidi di esegesi dantesca, Napoli s.d., pp. 71-128, e di F. Forti, Il magnate non magnanimo. La presumptio, in Magnanimitade. Studi su un tema dantesco, Bologna 1977, pp. 137-160. 2. Si veda, per un primo orientamento, C. Casagrande e S. Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medioevo, Torino 2000. 3. Rm 1, 29-32. 4. Gregorii Magni Mor. XXXI 45, 87, PL 76, 612 a. 5. Thomae de malo, q. 10, a. 3. 6. If III 48. 7. If VI 74-75. 8. If I 110. 9. If XIII 64-66. 10. If XV 68. 11. P. Alighieri, Comentum super poema Comedie Dantis, ed. by M. Chiamenti, Tempe 2002, p. 248. 12. Sul Commento di Pietro, si veda F. Mazzoni, Pietro Alighieri interprete di Dante, in «Studi danteschi», 40 (1963), pp. 279-360, ora in Con Dante e per Dante. Saggi di filologia ed ermeneutica dantesca, II, I commentatori, la fortuna, a cura di G.C. Garfagnini, E. Ghidetti, S. Mazzoni, con la collaborazione di E. Benucci, Roma 2014, pp. 205-286. 13. Che, per questo, alla congettura di Pietro dovesse concedersi piena fiducia fu sostenuto da N. Tommaseo, Commento alla Commedia, a cura di V. Morucci, I, Roma 2004, p. 232. Ma, a parte che anche la sua non era che una congettura, a non esserne chiarita restava la questione relativa alla scelta, se era stata una scelta, che Dante aveva fatta di non rivelare il luogo in cui gli invidiosi erano accolti. Si disse da qualche parte che, poiché l’invidia nasconde sé stessa, Dante aveva nascosto gli invidiosi in un luogo non dichiarato. Ma che fosse questa la sua intenzione non è, di nuovo, che una congettura: senza considerare che il «luogo non dichiarato» deve comunque esistere, la sua non dichiarazione supponendo il suo esserci, e che più che mai all’interprete che si dilettasse di imprese siffatte, spetterebbe di scoprirlo. 14. I. Del Lungo, Diporto dantesco (1873), in Pagine letterarie e ricordi, Firenze 1893, p. 76. 15. If VIII 46. 16. If VII 112-114. 17. Vide giusto, al riguardo, M. Porena, La Divina Commedia, I, Inferno, Bologna 1957, p. 82. 18. If VII 121-124. 19. Thomae de malo, q. 8, a. 2, 8.
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20. Mi sia consentito di rinviare a quel che al riguardo ho scritto nel mio Il viaggio di Dante, in «Forti cose a pensar mettere in versi». Studi su Dante, Aragno, Torino 2017, pp. 447-574. 21. Thomae de malo, q. 10, a. 3. 22. Del Lungo, Diporto dantesco, pp. 76-80. E cfr. il suo commento della Divina Commedia, Firenze 1928, p. 156, dove, palesemente, la glossa ai vv. 58-63 non corrisponde al testo. 23. Benvenuti de Imola Comentum super D. Alagherii Comoediam, a cura di G.F. Lacaita, II, Firenze 1887, p. 282. 24. Si veda in modo particolare M. Baldini, La costruzione morale dell’Inferno di Dante, Città di Castello 1914, pp. 29ss, e L. Filomusi Guelfi, Studii su Dante, Città di Castello 1908, pp. 110-112. 25. L’ipotesi che i superbi stessero sotto la superficie dell’acqua fangosa deriva da If VII 117-20. 26. If VIII 62-63. 27. If XXX 25-30. 28. If VIII 46. 29. La sequenza si trova, per esempio, riferita a Filippo Argenti, che è «totus accidiosus, iracundus, invidus et superbus», in Guido da Pisa, Expositiones et Glose super Comoediam Dantis, or Commentary on Dante’s Inferno, ed. V. Cioffari, New York 1947, pp. 409-413. 30. È la tesi sostenuta da Russo, Sussidi di esegesi dantesca, pp. 71-128, spec. 124128, da lui riassunta in ED VI 225 b-226 a. 31. If VII 125-126. 32. F. D’Ovidio, Filippo Argenti e gli altri cani, in Nuovo volume di studi danteschi, Caserta-Roma 1926, pp. 234-238, ha osservato che, altra era la schiera di coloro che, visti da Dante e Virgilio dalla riva della palude stigia, erano intenti a colpirsi l’un l’altro, e altra, a debita distanza dalla prima, quella da cui, a un certo punto, l’Argenti si distaccò per andare contro la barca di Flegiàs, sulla quale i due poeti erano nel frattempo saliti. I dannati della prima schiera erano gli iracondi. Quelli della seconda i superbi che così, finalmente, si rivelavano. Per sostenere questa sua tesi, volta a distinguere i dannati della prima schiera, e cioè gli iracondi, da quelli della seconda, che sarebbe stata dei superbi, il D’Ovidio si produsse anche in un calcolo del tratto che, sebbene gravato del peso di Dante, il veloce «vasel» di Flegiàs avrebbe percorso per allontanarsi dalla riva e guadagnare il centro della palude stigia; e decise che il tratto percorso non dovette essere breve e che le schiere erano due. In realtà, non c’è un solo verso dal quale possa ricavarsi quel che ingegnosamente il D’Ovidio proponeva; e niente c’è da cui si deduca che le anime che erano intente a colpirsi stessero presso la riva e non occupassero anche il centro della palude. L’«io dico seguitando» con cui ha inizio l’ottavo canto, e che ha dato luogo alla celebre congettura del Boccaccio, ripresa da G. Ferretti, I due tempi della composizione della ‘Divina Commedia’, Bari 1935, pp. 1-66, e La data dei primi sette canti dell’Inferno, in Saggi danteschi, Firenze 1950, pp. 3-25 e apprezzata da N. Sapegno, Pagine disperse, Roma 1979, pp. 408-412, non è spen-
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dibile a dimostrazione dell’esistenza di due diverse schiere di dannati; che sarebbero tali, e cioè diverse, perché composte, la prima dagli iracondi, la seconda dai superbi, sebbene poi il comportamento fosse rigorosamente lo stesso, e cioè segnato dalla violenza. Il lettore che sia interessato a studiare lo stile letterario del D’Ovidio, e la ricerca che talvolta egli faceva della briosa vivacità, apprezzerà, a riscontro del testo dantesco, il ricordo da lui delineato del suo sé stesso fanciullo che si bagnava nel mare di Napoli con i suoi compagni di giochi marini! (p. 237). Resta che per lui Filippo Argenti era, non un iracondo, ma un superbo. Il che, francamente, per riuscire persuasivo, avrebbe richiesto altre prove. 33. If XIV 63-64. 34. If VIII 37-39. 35. If VIII 62-63. 36. If VIII 37-39. 37. If VIII 45. 38. If XXIV 124-126. 39. If XXXIII 82-84. 40. Pg XXIV 82-87. 41. Gregorii Magni Moralia 32. Si veda Casagrande e Vecchio, I sette vizi capitali. Storia dei peccati nel Medio Evo, pp. 282-306. 42. Pd XIX 46. 43. Pd XXIX 57 44. Pd IX 127-29. 45. De Gen. ad litt. XV, 54, 10, PL 24, 521. 46. Come si legge in Abelardo, Sic et non, 47, PL 178, 1416. Cfr. T. Gregory, Principe di questo mondo. Il diavolo in Occidente, Roma-Bari 2013, p. 10. 47. VE I xvi 5. 48. Thomae de malo, q. 10, a. 3, 1: «invidia est filia superbiae». 49. Pg XIII 106-108. 50. Pg XIII 110-114. 51. Pg XIII 122. 52. Pg XIII 124. 53. Si veda comunque V. Petroni, Talamome, Dante e Siena, in «Bolletino della Società storica maremmana», 15 (1967), pp. 75-109; e G. Inglese, Commedia, II, Purgatorio, Roma 2007, p. 177. 54. Pg XV 49-57. 55. Pg XIV 16-18. 56. Così intese N. Sapegno, La Divina Commedia, II, Purgatorio, Firenze 1985, p. 151. 57. Pg XI 115-117.
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58. Pg XIV 37-54. 59. Pg XIV 59-66. «Esecutore di una caccia dalle chiare tinte apocalittiche», lo definì E. Brilli, Firenze e il profeta. Dante fra teologia e politica, Roma 2012, p. 86. Ma su Fulcieri si veda R. Davidsohn, Storia di Firenze, III, Le ultime lotte contro l’Impero, tr. it., IV, Firenze 1960, pp. 338-339, e le fonti (Compagni, Villani) lì citate. E cfr. anche A. Vasina, I Romagnoli fra autonomie cittadine e accentramento papale nell’età di Dante, Firenze 1964. Non è questa la sede in cui possa decidersi se nel Polifemo di Eg. IV 75-83, debba vedersi un’allusione, come voleva G. Mazzoni, Dante e il Polifemo bolognese, in «Archivio storico italiano», 1938, pp. 3-40, a Fulcieri. Lo ritiene probabile Inglese, Purgatorio, p. 182, mentre M. Pastore Stocchi, nella sua edizione delle Epistole, Ecloghe, Questio de situ et forma aque et terre, Roma-Padova 2012, p. 207, preferì, con altri, ritenere che «Polifemo impersoni non un individuo ma, globalmente, l’implacabile, fanatica volontà persecutoria da cui Dante si sentiva, non senza ragione, minacciato». Per quanto riguarda l’interpretazione dei versi citati nel testo, non mi riesce chiaro l’accenno a Fulcieri che «vende la carne» dei «lupi» (ossia dei «bianchi») che ha cacciati e «sgomentati», quando sono ancora vivi e che poi «ancide»: tutti, parrebbe, a giudicare dal v. 62, non tutti, invece, a giudicare dal successivo («molti di vita e sé di pregio priva»). Detto questo, e restando in attesa di una migliore spiegazione, credo che l’«antica belva» del v. 62 sia da riferire a Fulcieri e non, come intendevano molti degli antichi commentatori, ai suoi nemici. È lui, è Fulcieri che «sanguinoso esce dela trista selva», dopo averla a tal punto sconvolta che «di qui a mill’anni/ nelo stato primaio non si rinselva». Mi pare che, al riguardo, abbia visto giusto A. Pagliaro, Ulisse. Ricerche semantiche sulla Divina Commedia, II, Messina-Firenze 1967, p. 609 n. 1. Il riscontro fra la rappresentazione dantesca e il racconto del Compagni, II 30 e del Villani, VIII 59 è sottolineata da A. Vasina, ED I 762 a. 60. Sulla vicenda, cfr. S. Safiotti Bernardi, ED, I, 722 a-23 a. 61. Pd XVI 73-84. 62. Pg XIV 109-110. 63. Pd XVII 133-142. 64. Pd XVII XV 148. 65. Pg XIV 86-87. 66. Sul contesto romagnolo del canto, è fondamentale il saggio di G. Arnaldi, La Romagna di Dante fra presente e passato, prossimo e remoto, in «Cultura», 33 (1995), pp. 341-382. Ma si veda anche Vasina, I Romagnoli fra autonomie cittadine e accentramento papale, pp. 225-226, 412-414. 67. Pg XVI 115-123. 68. If VI 73. 69. Pg XVI 82-83. 70. Pg XIV 148-151. 71. Pg XV 44-45.
3. La selva dei suicidi
1. Si sa, e la questione che ne nasceva fu posta soprattutto dall’esegesi antica, che, al pari delle altre, anche le anime dei suicidi sarebbero state convocate, il giorno del giudizio, nella valle di Giosafàt, dove il loro castigo sarebbe stato reso, non solo definitivo, ma più aspro. A differenze di tutte le altre, a esse, tuttavia, non sarebbe stato concesso di riavere il corpo che le aveva rivestite in vita; il che già nell’esegesi antica, dimostratasi al riguardo sensibilissima, suscitò la questione se, nel proporre questa tesi, Dante avesse o no proceduto in modo conforme al dettato della teologia cattolica e al pensiero della Chiesa. Se la riunione dell’anima con il corpo era diretta a rendere più aspra la pena che i dannati avevano patita fino a quel punto, non si doveva forse ammettere che, ove quella fosse mancata, la pena sarebbe stata minore? E se questo si fosse ammesso, non ne veniva anche di conseguenza il tratto eterodosso che, per questa parte, segnava la tesi che Dante aveva proposta? In realtà, e non certo perché la preoccupazione sia di scagionarlo dall’accusa di eterodossia, non sembra proprio che una conseguenza come questa sia ricavabile da quel che nel testo si afferma. È vero, senza dubbio, che il riacquisto del corpo sarebbe stato, per le anime dannate, ragione di aumentata sofferenza, e che, essendo destinate a non doversene rivestire, a tale destino sembrava che quelle dei suicidi non dovessero soggiacere. Ma, senza dare forma esplicita alla questione che poteva nascerne, e ne nacque, è anche vero che, dell’accusa che avrebbe potuto essergli rivolta, implicitamente Dante rilevò l’infondatezza quando osservò che «non è giusto aver ciò ch’om si toglie». Lasciò intendere che, nel caso dei suicidi, la privazione del corpo aveva un significato diverso, e, al riguardo, stabilì una singolare differenza. In un caso il riacquisto del corpo era ragione di aumentato dolore, in un altro ragione di questo era
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l’impossibilità di riaverlo al modo degli altri dannati e il non potersene rivestire. A proposito dei suicidi, infatti, e del mancato riacquisto del corpo Dante non si chiese se da ciò, per questi peccatori, conseguisse una sofferenza minore di quella riservata agli altri, né autorizzò altri a pensare che così sarebbe stato. Si restrinse a far notare che, nel giorno del giudizio, il corpo di cui i suicidi si erano rivestiti in vita sarebbe, per dir così, riapparso nel loro orizzonte. A essi sarebbe stato infatti restituito per il tempo necessario, non a rientrarvi e ricostituire con esso la perduta unità, ma ad appenderlo, come uno straccio privo di valore, a un ramo dell’albero nel quale erano imprigionati. Il contrappasso era segnato con indubbia efficacia: il corpo che in vita era stato disprezzato e offeso, era restituito, a chi se n’era privato, come un oggetto che, privo di ogni pregio, stava lì a testimonianza del gesto che l’aveva separato dall’anima; che, a sua volta, chiusa nell’albero, non era in grado, non solo di rientrarne in possesso, ma nemmeno di vedere ciò di cui si era privata. In che modo, ossia attraverso quali operazioni, questa impresa sarebbe stata condotta dalle anime prigioniere degli alberi, se queste ne uscissero per appendere il corpo a un ramo dell’albero e rientrare in questo, o se questa operazione avvenisse in altro modo, Dante non dice; e poiché non lo dice e nel silenzio mantenuto su questo punto sembra ragionevole cogliere un invito a non occuparsi della questione, converrà lasciarla da parte e restringersi a osservare che sulla scena ricomparivano tutte le parti che la morte aveva separate, e che anche per i suicidi la riunificazione con il corpo che avevano avuto in vita si realizzava, ma nel segno tuttavia di una persistente separazione: come se alle parti fosse consentito sì di riavvicinarsi fino a toccarsi, ma rimanendo esterne l’una all’altra. Il che obbliga a ritenere che il corpo non fosse restituito perché se ne rivestissero, ma che fosse lasciato cadere su un ramo dell’albero che, fin dall’inizio, era la loro prigione. La questione che al riguardo si delinea non sta, dunque, nel dubbio che Dante non fosse stato a sufficienza avvertito nel porre una differenza che, se non fosse stata controllata in quel che implicava e nelle conseguenze a cui dava luogo, avrebbe potuto configurarsi come una disattenzione strutturale, o, si dica pure, come un’incongruenza. Nemmeno sta, per dire la cosa in termini espliciti, in una sua disposizione eterodossa, o addirittura eretica. Eterodossia e eresia qui non c’entrano. La questione è, invece, se nell’idea del vietato riacquisto del corpo, da parte dei suicidi, nel giorno del giudizio, non agisse, accanto a quella suggerita dalla fantasia, una ragione concettuale più profonda di quella addotta; e l’impossibilità, per
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queste anime, di rivestirsi di nuovo del corpo, al quale avevano rivolta la loro violenza, non stesse in qualcosa di ulteriore a quella di riavere ciò di cui volontariamente si erano privati. Ma di tutto questo si ragionerà.1 2. Il canto decimoterzo è, nella sua parte prevalente, dedicato all’incontro con Pier della Vigna,2 e alla delineazione di questo complesso personaggio; in quella finale alla corsa grottesca di due scialacquatori che, inseguendosi forse l’un l’altro, lo erano entrambi da «nere cagne, bramose e correnti/ come veltri ch’uscisser di catena» (vv. 125-126), che su «quel che s’appiattò miser li denti,/ e quel dilaceraro a brano a brano, poi sen portar quelle membra dolenti» (vv. 127-129). Dante fece dunque in modo che, all’improvviso, mentre era a colloquio con il cancelliere di Federico II, sulla scena irrompessero due che violenti erano stati contro, non il proprio corpo, ma i propri averi. Del peccato principale essi rappresentavano perciò una sorta di variante anche nei confronti della situazione fondamentale del canto, che è caratterizzata dall’immobilità dei dannati che, chiusi negli alberi e nelle piante, abitavano la triste selva. L’inserzione nel dramma dei due personaggi offrì infatti a Dante l’occasione di introdurre, in un luogo che, per sua natura, appariva non meno arido che statico, la nota del movimento e, se non proprio di questo, almeno dell’affanno. E all’interprete richiede che la differenza sussistente fra l’immobilità dei suicidi, ridotti a alberi, e la corsa drammatica degli scialacquatori, sia notata e posta in primo piano. Richiede altresì che si dia luogo a un chiarimento strutturale che, per la comprensione della pena o delle pene patite in quel «bosco», tanto più si rivela essenziale quanto meno certe situazioni sembrino disposte a sottrarsi, se non all’ambiguità, all’incertezza. Gli scialacquatori erano condannati a una corsa disperata che si concludeva nello scempio che le cagne facevano delle loro carni. Ai suicidi inclusi nel tronco degli alberi che formavano la dolorosa selva, era invece sottratta ogni possibilità di movimento («uomini fummo», dirà Pier della Vigna, «e or siam fatti sterpi»).3 Il gesto che avevano rivolto contro la loro stessa vita imponeva a essi il castigo di una naturalistica separazione e di una immodificabile immobilità. In tutti i dannati l’anima sensitiva cercava il contatto con quella che, se in loro non era per sempre perduta, era perché soffrissero non meno, ma di più, e alla sofferenza dessero una ragione che fosse per il loro maggior tormento. Nei suicidi la separazione si presentava con un tratto più specifico. A essi era infatti stata sottratta, non solo la possibilità di muoversi, di articolare le membra e persino di essere visti nella loro unitaria
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figura,4 ma qualcosa di più specifico, e di più grave. Da vivi, avevano scelto la morte, si erano sottratti alla vista dei loro simili, e ora era impossibile che, giù nell’Inferno, potessero reciprocamente vedersi, o esser visti se mai a un uomo vivo fosse stato concesso di visitare la loro triste dimora. Non si trattava, dunque, soltanto del movimento fisico e del divieto che, prigionieri del tronco di un albero, al riguardo, avevano ricevuto. Nell’immobilità alla quale erano stati condannati si esprimeva, nel loro caso, anche il senso di un’ulteriore e più grave condizione di passività che, riguardando tutti i dannati, ai suicidi apparteneva nel modo peculiare che si osservava nella loro impossibilità di muoversi e di esser visti. La vita è movimento. Chi volontariamente aveva rinunciato a essa, l’aveva perduta in un senso assai più determinato che non fosse quello riguardante gli altri dannati; che a loro volta, a parte la peculiarità che a Dante era stata spiegata da Farinata,5 vedevano ed erano visti. È tuttavia sull’impossibilità di movimento che, per altro, conviene insistere. L’anima di Pier della Vigna era inclusa nel tronco di un «gran pruno» (v. 32), piantato nel terreno. Lì stava senza che a lui, come a chi si era macchiato dello stesso peccato, fosse concessa alcuna possibilità di evaderne. Donde la necessità, che a quel punto Dante avvertì, che, sia pure per il tramite del grottesco, nella trista selva si introducesse qualcosa che, accadendo, per un verso la animasse, per un altro la ribadisse nel suo carattere. I due personaggi che all’improvviso vi erano comparsi irrompendovi (uno dei due aveva nome Jacopo da Sant’Andrea, l’altro soltanto Lano)6 non si sa, e non è detto, donde venissero, non si sa dove andassero fuggendo; né a rigore si sa se fosse quello il luogo della loro pena e se essi, che pure correvano, potessero evaderne. Dante non dice con chiare parole che la selva era il luogo nel quale, per l’eternità, essi erano condannati a correre per sfuggire alle cagne, dalle quali, infine, erano tuttavia destinati a essere sbranati, per esser poi, non si dice come e da chi, ricostituiti nella propria persona, che di nuovo perciò era offerta alla loro fame. Che lo fosse, si deduce dal loro esser lì, sia pure di corsa, e dall’essere, il luogo che li ospitava, non un bosco qualsiasi, ma il luogo di una specifica pena; che riguardava, in primo luogo, il suicidio e, per analogia, poteva essere estesa in modo da comprendervi la dissipazione delle ricchezze, che era essa pure una forma di suicidio. Lo si deduce, e si deve dedurlo, perché, si ripete, di suo Dante non lo disse. Si sa, comunque, che, a differenza delle anime «incarcerate» negli alberi o nei cespugli, quelle di coloro che, in vita, avevano fatto violenza a sé stessi distruggendo i propri averi, non
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stavano ferme, non erano piantate nel terreno, ma correvano. Correvano in modo agitato e scomposto, come agitato e scomposto era stato il governo che avevano fatto dei loro averi. Avevano una meta o forse non l’avevano, e la loro non era che una corsa altrettanto affannosa della vita che avevano vissuta sperperando. Inseguiti da cagne fameliche, potrebbe pensarsi che fosse scritto nel destino, ossia, nel caso specifico, nel volere di Dio, che la corsa in cui erano impegnati si concludesse in un cespuglio: come in effetti avvenne a uno dei due, a Jacopo di Sant’Andrea che, per sfuggire alla furia delle cagne «bramose e correnti», «di sé e d’un cespuglio» aveva fatto un «groppo», sul quale tuttavia quelle si avventarono e lo «dilaceraro a brano a brano,/ poi sen portar quelle membra dolenti» (vv. 128-129). Ma non è così. Non è detto che fosse un cespuglio la meta, per altro inutile, della loro corsa. Niente c’è nei versi del canto decimoterzo, o in altre parti dell’Inferno, che renda inevitabile, o anche soltanto suggerisca, questa ipotesi. Non è chiaro infatti dove conducesse la corsa del personaggio che era stato chiamato Lano, e in che modo dovesse concludersi. Può, in effetti, dubitarsi fortemente, e anzi escludersi, che avesse quella meta. Se quel dannato vi aveva cercato riparo era solo perché di proseguire nella corsa non era più in grado, e non è detto che per tutti gli altri, ferma restando la pena, le cose dovessero andare allo stesso modo. Resta, comunque, che, nonché il cespuglio, nemmeno l’esser stato dilacerato «a brano a brano», aveva significato la fine della sua sofferenza. Il destino dello scialacquatore dannato, e così degli altri che, come lui, avessero dissipato i loro beni, consisteva nell’impossibilità di fermare la corsa nel bosco. Come, in vita, non gli era stato dato di fermare la disposizione a incessantemente disperdere i propri beni, così la corsa doveva continuare nella selva, che era il luogo limitato nel quale era compresa senza, tuttavia, poter aver fine. Se ne poteva dedurre che, risorgendo dalle membra sparse e riunificandosi per disposizione divina, la sua figura si ricostituisse, e la corsa riprendesse perché le cagne potessero di nuovo raggiungerla e disfarla. La si può ritenere una questione irrilevante. Se Dante, potrebbe chiedersi, sembrò ignorarla, e non la pose comunque in modo esplicito, perché dovrebbe porla il suo lettore? In realtà, per chi abbia la mente ai significati strutturali e allegorici, o, più semplicemente, narrativi, alla comprensione di questo aspetto dell’Inferno irrilevante la questione non è affatto, anzi, è essenziale; e la relativa oscurità che, per questo aspetto, grava sul canto decimoterzo tanto meno si presenta nel segno dell’inessenziale, o del gratuito, e tanto più richiede di essere, se possibile, chiarita, quanto più
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a far sì che risaltasse in questo carattere è anche il tratto drammatico che emerge dai versi conclusivi, sono i forti contrasti che vi furono introdotti, è la velocità impressa all’episodio, o agli episodi che vi hanno luogo: il tratto drammatico, i contrasti, la velocità, e cioè qualcosa che, al di là della struttura o per il suo tramite, riguardava, non solo la forte analogia rinvenibile fra quel che era accaduto in vita e quel che accadeva in questa parte dell’aldilà infernale, ma anche la differenza. Lo sperpero dei beni non poteva durare, nel mondo, se non fino all’esaurimento dei medesimi. Ma la corsa nel bosco non si esauriva e non poteva aver fine. Il disperdimento di cui era il simbolo procedeva al di là di ogni limite. Conclusa con la vittoria delle cagne giunte ad addentare la preda e smembrarla, ricominciava in seguito al necessario ricomporsi della figura che, così ricomposta, di nuovo si offriva alla loro fame che, in tanto non poteva esser soddisfatta in quanto la punizione dei dannati non poteva aver fine. A rendere non oziosa la domanda relativa alla meta di quella corsa vertiginosa, è, dunque, al di là del contrappasso, non solo la disperazione che la domina, ma anche il tratto comico e grottesco che le è intrinseco e la caratterizza: è l’intreccio di queste due diverse disposizioni, nel trattare le quali Dante è maestro. 3. Si dice così, non per ripetere il banale adagio relativo all’indispensabilità della struttura per la comprensione della poesia, o, peggio, dell’unità che l’una forma con l’altra, ma, se non per capovolgerlo, per tener fermo che, in questo caso, è la felicità artistica con cui è ritratta la corsa a dare particolare rilievo al contrasto che essa stabilisce con la squallida immobilità, e con la fisica limitatezza del bosco. È l’arte con la quale Dante costruì la scena, è la variazione dei toni, è l’unità che, per contrasto, si stringe fra l’immobilità delle anime chiuse nei tronchi e la corsa dei due scialacquatori, a determinare e rendere vivo il senso della struttura, e cioè l’idea che egli ebbe del rapporto che, legando il suicidio allo sperpero dei beni necessari alla vita, dalla simiglianza fa emergere la differenza. L’idea era che la violenza che l’uomo rivolge contro sé stesso con il suicidio e quella che si infligge con lo sperpero dei propri beni, si includono in una medesima classe, salvo che la condanna del suicida è l’immobilità, quella dello scialacquatore è il vuoto movimento, la corsa sfrenata e vana. Ma, in termini espliciti, il contrappasso non è dichiarato. Al lettore è perciò affidato il compito di chiarire lui la differenza, alla quale non risulta, salvo errore, che si sia rivolta particolare attenzione; e che deve, invece, essere segnata con nettezza.
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4. Come Pier della Vigna aveva spiegato ai vv. 94-105, giunte davanti a Minosse, le anime dei suicidi ne erano afferrate e scaraventate su quella zona dell’Inferno. Cadute sul relativo terreno, vi germogliavano «come gran di spelta», e cioè come semi destinati a divenire prima virgulti, poi alberi, e a esservi quindi imprigionate, in modo che per sempre sarebbero state sottratte alla vista di chi, come accadeva a Dante e a Virgilio, per qualche ragione, fosse stato ammesso a visitare quel luogo d’Inferno. Dante non dette alcun ragguaglio su questa singolarità per la quale, a differenza di ogni altra anima dannata, e anche, parrebbe, di quelle degli scialacquatori, le anime «feroci» dei suicidi subivano questa previa trasformazione in germogli per poi riprendere la loro figura che, crescendo insieme alla pianta, vi restava tuttavia nascosta: tanto che, se non è facile spiegarla, ancor meno lo è avvertirla e delinearla nella questione che pone. La differenza, che la spiegazione fornita dal ministro di Federico metteva in luce, riguardava infatti, non questo punto, ma il diverso destino di queste anime e di quelle degli scialacquatori; e, sebbene non fosse stata da lui dichiarata con esplicite parole, era così netta che ignorarla sarebbe stato tanto impossibile quanto grave il non averla colta. A differenza, dunque, dei due scialacquatori che nel bosco erano entrati di corsa, e con tutta intera e ben visibile la loro figura, quella del suicida non appariva nella sua interezza se non nel momento in cui perveniva dinanzi a Minosse. Nel momento, infatti, in cui il giudice l’afferrava per lanciarla nel luogo a cui l’aveva destinata, si trasformava in un semplice germoglio destinato, dopo aver toccato il suolo della selva, a ridiventare una figura che, inclusa nel tronco, da quel momento visibile non sarebbe stata più.7 È perciò senz’altro da escludersi che, con la pena dei suicidi, la loro avesse qualcosa in comune. La pena a cui costoro erano sottoposti consisteva, deve ribadirsi, nella corsa affannata con la quale cercavano di sottrarsi alle cagne che li inseguivano per dilaniarli, e che, in effetti, li dilaniavano (l’esempio è quello di Jacopo di Sant’Andrea), non senza, come già si è notato e deve, necessariamente, supporsi, che le membra dilaniate tornassero a costituire l’originaria figura: che se così non fosse, occorrerebbe pensare che potesse essere esaudito, e questo era impossibile, il voto di Lano che, pur di sfuggire a quel supplizio, aveva invocata la morte («or accori, accorri, morte!»).8 La ragione della differenza stava in ciò (così forse il contrappasso può essere inteso), che, se quello del suicida era un atto che, per essere compiuto, richiedeva di regola luoghi cupi, nascosti, sottratti alla luce del giorno, lo sperpero del danaro sembrava, invece, presupporne di affollati e animati, percorsi
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da una vena di falsa allegria. Se il primo gesto di regola non era visibile, il secondo lo era sempre, o per lo più. È anche vero, d’altra parte, che, detto questo, la natura della punizione inflitta agli scialacquatori, non fu definita con esplicite parole. Rimase oscura. Lo scempio che le cagne avevano fatto di Jacopo di Sant’Andrea non poteva significare che, quell’anima essendo immortale, o destinata, se si preferisce, a durare per l’eternità, il suo smembramento fosse avvenuto una volta per tutte. Si è costretti perciò a immaginare, o, se si preferisce, a intendere che si ricomponesse in unità, riacquistasse la sua figura, e riprendesse, quindi, la sua corsa per sfuggire ai morsi delle cagne che, dopo averla un’altra volta raggiunta, di nuovo l’avrebbero smembrata, e così in eterno, in un’alternanza inesorabile di perdita e di riacquisto della figura, di smembramento e di riunificazione. Se questa era la pena riservata a coloro che, dilapidando i loro averi, avevano fatto violenza contro sé stessi, è ovvio che lo stesso destino riguardasse l’altro dannato che per il momento le cagne non avevano raggiunto e la cui corsa continuava nella selva. È ovvio, e non frutto di, la si definisca così, immaginazione esegetica. Per parte sua, infatti, sulla questione che pur nasceva dalla scena che aveva delineata, Dante non disse una parola. Riteneva evidentemente che dirla non fosse necessario. Della pena riservata agli scialacquatori non disse cosa che andasse oltre il fatto che due di essi si erano resi visibili nella loro corsa affannata mentre, con Virgilio, si trovava dinanzi all’albero in cui Pier della Vigna era «incarcerato», e che cagne fameliche li rincorrevano per dilaniarli. 5. Non è questo l’unico luogo che, in questo canto costruito con estrema attenzione formale, e con somma maestria retorica, Dante abbia lasciato nell’ombra. L’estrema velocità impressa alla scena fece infatti sì che, a parte la sparizione da essa dell’altro scialacquatore, del quale, in effetti, niente si dice più, soltanto alla fine del racconto il lettore avesse la certezza che il cespuglio, in cui invano Jacopo di Sant’Andrea aveva cercato scampo, era abitato da un suicida, del quale, per altro, Dante preferì non fare il nome, lasciando che fosse lui a definirsi come originario della città «che nel Batista/ mutò il primo padrone» (vv. 143-144). Il senso politico, o storico-politico, presente in questi versi conclusivi del canto, è chiaro; e non occorre parlarne in questa sede. Dopo aver detto che Dante vi riprese uno dei temi che s’intrecciano nella storia, o nella leggenda, delle origini di Firenze e della sua predisposizione alla discordia civile,9 converrà insistere su quel che l’episodio di Jacopo di Sant’Andrea rivela della struttura
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di questa parte dell’Inferno. Per sottrarsi ai morsi feroci delle cagne che lo inseguivano, il personaggio aveva cercato riparo in un cespuglio, che conteneva l’anima di un suicida. Vi si era «appiattito», e se non vi era entrato, con esso tuttavia aveva fatto «groppo», in modo diverso, quindi, da quello tenuto dal suo primo occupante che, essendo un suicida, non era stato all’inizio niente più di un seme caduto sulla terra di quella parte d’Inferno e lì era germogliato come il cespuglio che chiudeva in sé la sua anima e il suo corpo. Se ne ricava che, pur stando nel medesimo bosco in cui sorgevano le piante e i cespugli ospitanti i suicidi, non per questo, e con altrettanta necessità, i demolitori dei propri averi erano destinati, non si dice a esservi, anch’essi imprigionati (questo, infatti, è escluso), ma a entrarvi in contatto. Quel che era accaduto a Jacopo di Sant’Andrea non era accaduto a Lano; che non è detto che lui pure avrebbe cercato riparo in un cespuglio, l’unica cosa certa essendo che le cagne lo avrebbero raggiunto e sbranato. Se ne ricava, forse, qualcosa di ancora più radicale, e cioè l’impossibilità, per i distruttori dei propri averi, di esservi accolti e di permanervi persino nel caso in cui vi avessero, per qualche ragione, trovato un riparo: entrato con la forza in contatto con un cespuglio abitato da un dannato che vi stava come prigioniero a causa del suo diverso peccato, Jacopo di Sant’Andrea, ed era inevitabile, non ne fu protetto tanto da non essere raggiunto. Il suo destino era di essere dilaniato dalle cagne, tratto fuori di quella dimora che, non disposta a fungere da scudo, da queste fu anch’essa sconvolta per esser poi, su preghiera del suo originario abitante, estrinsecamente ricomposta in unità da chi aveva assistito alla scena. «O anime che giunte siete a veder lo strazio disonesto/ c’ha le mie fronde sì da me disgiunte,/ raccoglietele al piè del tristo cesto» (vv. 139-142). Era come se, dopo aver distinto fra le anime dei suicidi e quelle degli scialacquatori, che pure appartenevano alla stessa qualità di peccato, Dante le avesse rimesse in contatto attraverso il disordine che queste provocavano in quelle. Sia o no così, sembra di dover confermare che la pena patita da questi peccatori non consisteva che in questa fuga che, di volta in volta rinnovata, non li sottraeva, ma al contrario di nuovo li offriva ai morsi laceranti delle fameliche cagne che, infatti, alla fine li raggiungevano e li smembravano. Sembra che si debba confermarlo. Ma né si può darlo per certo, né può escludersi che ci fosse dell’altro a cui Dante preferì non dar rilievo: come se all’oscurità di questa selva, e al suo significato, avesse inteso attribuire un tratto non del tutto penetrabile e essa nascondesse più cose di quante ne mostrava. Difficoltà a essere accolta rivela tuttavia l’ipotesi secondo cui la
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pena degli scialacquatori si renderebbe concreta nello smembramento, che essi provocavano entrandovi in contatto, del cespuglio che poi le cagne avrebbero ulteriormente sconvolto insieme all’anima che vi era nascosta; e che, per questa via, fra questi peccatori che, sia pure in modo diverso, erano stati violenti contro sé stessi, e i suicidi, con la differenza si ribadisse l’unità. Questa ipotesi non persuade non solo perché il presupposto sarebbe allora che su tutti costoro, nessuno escluso, incombesse di dover entrare in contatto con un cespuglio e di provocarne lo smembramento, ma anche perché, in questo caso, raddoppiata con la loro sarebbe stata la pena dei suicidi che, collocati nei cespugli, sarebbero stati oggetto di una pena destinata a sparire quando questi fossero diventati alberi. Nell’eternità dell’Inferno eterne sono anche le pene che, perciò, prima del giorno del giudizio, non erano suscettibili di essere né aumentate né diminuite. L’idea che lo smembramento dello scialacquatore realizzasse il contrappasso del peccato di lui, che aveva trascorsa la vita smembrando e dilapidando e disperdendo patrimoni, è suggestiva, se non addirittura ovvia. Ma non può essere sostenuta immaginando che il destino di Jacopo di Sant’Andrea, il cui smembramento aveva provocato quello del cespuglio in cui era inclusa l’anima dell’anonimo suicida fiorentino, appartenesse, in quella forma, a tutti coloro che in vita si erano macchiati del suo stesso peccato, e che in quello, nello smembramento del cespuglio e delle sue membra, si realizzasse, per i due peccatori, l’identico fato. In mancanza di altri indizi, converrà perciò restringersi a proporre che essa era simboleggiata dalla selva, dai suoi vari pericoli, dalle tante disavventure che potevano verificarvisi, e dall’eterna corsa che gli scialacquatori erano condannati a compiere in essa. 6. Se si segue il filo di queste considerazioni, non sembrerà dunque deduzione assurda quella secondo cui, a differenza dei due scialacquatori, che nella scena erano entrati con impeto imponendo la loro immagine, e rendendosi così perfettamente visibili, dei suicidi in nessun caso si sarebbe potuto dire altrettanto. In niente che avesse appartenuto alla loro figura essi erano visibili. La decisione che li aveva indotti a spegnere la loro vita faceva sì che, anche nell’aldilà, essi persistessero nella condizione del non esserci più, o, se si preferisce, dell’essere immersi in un passato di cui il legno dell’albero simboleggiava l’impenetrabilità e l’immodificabilità. Di propria iniziativa si erano sottratti al mondo dei vivi. Era inevitabile che anche nell’aldilà questa condizione persistesse, e che i loro volti si sottraes-
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sero alla vista di chi, per qualche prodigiosa ragione, fosse stato ammesso a visitare la selva nella quale le loro anime erano state imprigionate. Di qui, in questo modo radicalmente diverso di essere presenti a chi avesse avuto la possibilità di rivolger loro la parola, la differenza che, con le eccezioni già segnalate, essi intrattenevano con i più dei dannati. E anche, dunque, con quelli che, in modo non diretto, ma indiretto, avendo fatto violenza a sé stessi con la dispersione dei loro averi, in quel luogo non erano cresciuti come piante, ma vi erano entrati tuttavia e vi stavano interi, senza perciò poter dire che la natura della loro punizione fosse tanto evidente quanto visibile era la loro figura. Per essere attuato in forma radicalmente coerente al peccato di cui si erano macchiati in vita, il contrappasso avrebbe forse dovuto consistere in una disarticolazione della loro figura che avesse corrisposto, riproducendola in sé, alla dispersione dei beni da essi prodotta in vita. Ma nemmeno il genio di Dante avrebbe, in questo caso, potuto conferire unità rappresentativa a ciò che in sé stesso fosse stato pensato come separazione e disperdimento. Per questo, forse, egli immaginò che il disperdimento riguardasse, non la figura della persona, ma l’affanno e il disordine della corsa, nonché, da ultimo, lo smembramento dei corpi, provocato dal morso delle cagne fameliche. Sia o non sia così, resta che, quando i due scialacquatori entrarono in scena, Dante non disse donde venissero e dove fossero diretti; e di uno dei due non si preoccupò di spiegare dove la sua corsa lo stesse conducendo. Non chiarì se quella parte della selva fosse il definitivo loro punto d’approdo, e che, necessariamente, dovessero cercar riparo in cespugli offrendo così alle cagne, alle quali intendevano sfuggire, l’occasione di raggiungerli e smembrarli. Non lo chiarì, lasciando che potesse intendersi in altro modo. Quando l’anima di uno scialacquatore era entrata, ma ab extra, in un cespuglio, il tentativo di farsene proteggere era, comunque, fallito, come sappiamo, miseramente; e non era un caso che di necessità dovesse ripetersi. La corsa di Lano e quella di Jacopo di Sant’Andrea era, o poteva ben essere, essa il supplizio a cui le loro anime erano condannate: una corsa tanto angosciosa quanto vana perché, prima o poi, a essa le fameliche cagne, che ricordano quelle del sogno di Ugolino, avrebbero messo fine. Se è così, la differenza che, malgrado la simiglianza del peccato e della violenza esercitata contro sé stessi, segnava le anime dei suicidi e degli scialacquatori, era ribadita, in primo luogo, da un dato che non si può dimenticare. Si sa per certo che gli alberi e i cespugli che formavano la «trista selva» derivavano dalle anime dei suicidi che, come germogli, erano state gettate lì dal gesto sdegnoso di Minosse, e ora erano
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incarcerate nel tronco che era cresciuto intorno a esse. Alle anime degli scialacquatori il movimento non era vietato, era imposto come pena, ma non aveva niente di positivo: non era infatti che una vuota fuga destinata a finire, prima o poi, nelle zanne e sotto i denti delle cagne. Così, senza mai venir meno, la differenza delle pene riservate agli scialacquatori e ai suicidi, per un verso si attenuava, per un altro si accentuava, per un altro ancora tornava ad alludere a una forte simiglianza. Sull’immobile tronco di questi ultimi le Arpie incidevano i loro denti. Sui corpi graffiati e ansanti degli scialacquatori in fuga le cagne piantavano le loro zanne. Ma il convergere delle rispettive pene in un segno comune non escludeva le differenze, e faceva cadere sull’intero quadro il segno dell’incertezza. 7. A ragione, Parodi osservò che questo dell’Inferno è un luogo fortemente misterioso,10 che nasconde assai più di quanto non riveli: a cominciare dalla differenza e la possibile affinità sussistente fra la specifica pena riservata agli scialacquatori e quella che colpiva i suicidi. La violenza contro sé stessi si dice, infatti, e si punisce in più modi, che tanto più debbono essere colti e indicati quanto più lo stesso sia il luogo della pena, e simili siano, per certi aspetti, le forme di questa. Ma, alla radice, sta il suo carattere unitario. Nel bosco, «che da nessun sentiero era segnato», immobilità e velocità si contrapponevano, entrambe esibendo il loro aspetto deteriore. Ma la velocità, che in sé stessa conteneva la sua punizione, era destinata a subirne una ulteriore e più grave. La quiete, che a sua volta conteneva la sua, era destinata anch’essa a essere a sua volta turbata e a perdere la sua figura. Quando Virgilio si chinò sul cespuglio scompaginato dalla violenza su di esso esercitata dalle cagne che si erano messe all’inseguimento di colui che vi aveva cercato riparo, a chi vi si trovava imprigionato aveva chiesto: «chi fosti, che per tante punte/ soffi con sangue doloroso sermo?» (vv. 137-138). Aveva infatti constatato che non solo in quel cespuglio lo scialacquatore non aveva trovato il riparo che vi aveva cercato, ma che dall’impatto che ne aveva subìto quello era stato sconvolto e smembrato. Allo smembramento che le cagne avevano eseguito del corpo dello scialacquatore aveva corrisposto e fatto riscontro il suo: in modo tale che le differenze si erano unificate in quel triste segno. Nelle dolenti parole che gli rivolse («o Jacopo […] da Santo Andrea,/ che t’è giovato di me fare schermo? che colpa ho io dela tua vita rea?»),11 la diversità delle loro pene, e dei peccati, quindi, di cui erano conseguenza, era stata dichiarata con un misto di disperazione e di rabbia: il loro peccato era stato diverso, e
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richiedeva dunque un diverso luogo di punizione. L’affinità che, sotto un determinato punto di vista, avrebbe potuto esser colta fra il suicidio, che è dissipazione della vita, e la dispersione dei beni, che è anch’essa disposizione al sacrificio della medesima, era stata ricondotta, dall’anonimo suicida, alla differenza: «che colpa ho io dela tua vita rea?». Perché dunque alla sua pena doveva aggiungersi quella che era propria dell’altro, e a quello soltanto avrebbe dovuto appartenere? Ma non c’era scampo: l’affinità resisteva alla sua negazione, resisteva alla differenza. Se altro è distruggersi col dilapidare un patrimonio, altro mettere fine alla propria vita al modo, per esempio, che era stato tenuto dal suicida anonimo, è tuttavia innegabile che c’era un momento nell’aldilà in cui le colpe si mostravano convergenti e le pene assumevano lo stesso volto. Sia Jacopo di Sant’Andrea sia il suicida che di sé aveva detto: «io fei giubbetto a me dele mie case» (v. 151), si erano trovati a un certo punto esposti alla medesima sorte. Il cespuglio era stato disperso, dall’impatto che aveva subito dallo scialacquatore che aveva cercato di farsene riparo dalle cagne. Lo scialacquatore era stato smembrato da queste che l’avevano aggredito e addentatato. Dopo di che, altro sul significato strutturale delle due condizioni non essendoci da aggiungere, conviene sottolinearne uno che si rende manifesto nella tendenza che Dante rivelò, nell’Inferno, a cogliere nel dramma e nella tragedia una nota che accennava al comico e al grottesco. Si pensi alle parole che i due dannati rivolgevano a sé stessi mentre con la fuga cercavano di sfuggire alla furia delle cagne rabbiose: «or accorri, accorri, morte!», diceva il primo e l’altro «Lano, sì non furo accorte/ le gambe tue ale giostre del Toppo!».12 L’invocazione che quest’ultimo faceva della morte, non, come si è visto, della seconda morte,13 rivelava il suo tratto grottesco nell’assurdità che ne era rivelata. Ma qualcosa di altrettanto comico e grottesco era nel sarcasmo dell’altro che, non riuscendo a tenerne il passo, se ne vendicava col ricordargli che non così lesto egli era stato nella battaglia che i Senesi avevano combattuta con gli Aretini alla Pieve del Toppo, e nella quale egli aveva perso la vita. Questa tendenza a cogliere nella tragedia la nota non solo grottesca, ma comica, non è del resto di questo luogo soltanto. Un solo esempio basterà. Si pensi anche, per passare a un diverso episodio, a Brunetto Latini che corre per raggiungere la sua schiera, di molto allontanatasi da lui che stava per essere raggiunto da quella che sopraggiungeva e della quale gli era vietato di far parte, e all’impressione che dette a Dante di esser «di coloro/ che corrono a Verona il drappo verde/ per la campagna; e parve di costoro/ quelli che vince, non colui che perde».14
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Ma, tornando al canto decimoterzo, si pensi ancora al dannato che lamentava «lo strazio disonesto» che aveva disgiunte da lui le fronde divenute parte di sé stesso, e ai due visitatori chiedeva che le raccogliessero al piè del «cesto», ricomponendo così, fuori di sé, la perduta unità della pianta in cui era imprigionato: della pianta che, sebbene significasse per lui un duro carcere, era bene che fosse difesa dai colpi che del prigioniero avrebbero raddoppiata la pena. La dolorosa tragedia dell’uomo che dalla pena infernale era stato reso cespuglio e che, come se questo fosse ormai il suo stesso corpo o la sua accogliente dimora, desiderava che fosse ricomposto in unità, era attraversata, in questo punto, da una nota di grottesca e anche crudele comicità. L’unità, quell’unità, era stata perduta: che, almeno quella, fosse ricostituita! 8. Si può tornare, a questo punto, sulla questione teologica. Nel saggio «sterminato» che dedicò al canto decimoterzo dell’Inferno, Francesco D’Ovidio passò in rassegna molte delle opinioni espresse in proposito dall’antica glossa, e, giunto al momento di pronunziare lui il suo giudizio, per parte sua pensò di rimettere le cose in equilibrio e di dare il bando alle esagerazioni andando con il pensiero ai «grandi teologi» delle passate età, che «avrebbero forse discusso senza sgomento la possibilità di una parziale e ragionata eccezione relativa a una classe di peccatori, l’avrebbero magari dichiarata vana», ma «non si sarebbero messi in ismanie per una finzione poetica alquanto temeraria».15 Se, con la tesi che vi era adombrata, questo passo dovesse essere discusso senza usare riguardi all’illustre studioso, non potrebbe non giudicarsi quanto meno singolare l’idea che dai «grandi teologi delle età anteriori a quella di Dante» si apprendesse che la sua non era che una, sebbene «alquanto temeraria», «finzione poetica» e che non c’era perciò ragione di «schiantar dalla selva dei suicidi i rami per accendergli il rogo» nel quale, al contrario, Bertrando del Poggetto avrebbe forse desiderato di vederlo bruciare con tutta la Commedia.16 Per distinguere tra il senso teologico e quello poetico, il ricorso a quei non meglio individuati teologi non era affatto necessario: bastava Guido da Pisa o, magari, malgrado le sue paure e esitazioni, Giovanni Boccaccio, ai quali si sarebbe comunque dovuto far notare che una distinzione come quella agiva, in certi casi, diversamente dalla lancia di Achille, che risanava ciò che aveva ferito. Chi, per amore della pace, traduceva in poetico il teologico, proprio su questo richiamava l’attenzione: su questo e sulla nota «scandalosa» che era la sua sostanza. Insomma, se si avvertiva la necessità di trasferire la
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questione dalla teologia alla fictio era perché si era consapevoli di avervi introdotto qualcosa di compromettente, che, il più che fosse possibile, conveniva coprire con il velo della poesia. Non c’è favola, infatti, che possa fare che una tesi eterodossa cessi di esserlo solo perché la si nasconda sotto il manto di concilianti parole. Insomma, fantasia o no (e certo nessuno si sognerebbe di negare il formidabile contributo fantastico che Dante era in grado di dare all’espressione di una tesi teologica), l’idea che, nel giorno del giudizio, le anime dei suicidi non si sarebbero rivestite del corpo che in vita era stato il loro delineava, comunque la si fosse presentata, un’eccezione che, a sua volta, poneva un problema che non poteva, alla fine, non essere considerato per quel che era: un problema teologico che permaneva intatto sotto il velo della fictio. Si può e, anzi, come già si ebbe a notare, si deve escludere che nella fantasia dantesca si nascondesse il filo dell’eresia. Ma non che vi fosse quello della teologia. Fantasiosa poteva essere considerata l’idea che, come si è visto, nel giorno del giudizio, ai suicidi il corpo sarebbe stato restituito non perché se ne rivestissero, ma perché, senza rivestirsene, lo ricevessero come qualcosa di estraneo nel luogo in cui la cerimonia del giudizio si sarebbe svolta, e restando al di fuori, come uno straccio privo di valore pendesse dai rami dell’albero in cui le loro anime erano state e, parrebbe, seguitavano a essere inserite. Fantasiosa, e anche pericolosa per la ortodossia, se corrispondesse al vero quel che sempre si è detto, e cioè che ai suicidi, in quel giorno, il corpo non sarebbe stato restituito. Ma, se si legge con attenzione, si vede, e già lo si notò, che non è così. È vero invece che il corpo sarebbe stato restituito a essi che, tuttavia, non vi sarebbero rientrati e quello sarebbe stato appeso, da chi non è detto, a un ramo del loro albero a eterna memoria e vergogna del gesto che avevano compiuto. Era una fantasia, certo, una fantasia pericolosa, e avvertita come tale, quella che Dante metteva in atto. Ma se la dottrina diceva che a tutte le anime, dannate o beate, il corpo sarebbe stato restituito nel giorno del giudizio, la conformità a essa della sua tesi poteva ben essere ammessa. Poteva e doveva, perché anche ai suicidi, secondo la sua idea, il corpo sarebbe stato restituito; e, per questo aspetto, se suo scopo era di escludere, dal dominio teologico, le potenziali conseguenze eterodosse implicite nella sua idea, chi avrebbe potuto dire che non l’aveva conseguito? Il corpo sarebbe stato restituito, i suicidi l’avrebbero ricevuto e, forse, per un momento lo avrebbero avuto fra le mani. Che si voleva di più? Certo, il teologo inquisitore avrebbe potuto osservare che altro è avere fra le mani un corpo in cui l’anima non può rientrare e che, come uno straccio, doveva essere
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appeso a un ramo, altro rivestirsene. Avrebbe potuto aggiungere che quella di Dante era una fedeltà troppo segnata da eccezioni perché la si potesse considerare tale. A metterla in questi termini, e su questo terreno, la disputa avrebbe potuto durare a lungo, e forse non si sarebbe chiusa mai. L’accento avrebbe continuato a cadere sulla residuale differenza che separava la restituzione del corpo a chi tuttavia non poteva rivestirsene ricomponendo l’antica figura unitaria, dall’altra che prevedeva l’una cosa e l’altra, il riaverlo e il rivestirsene. Nella residuale differenza il teologo avrebbe indicato il germe dell’eresia. Dante, che sentiva di non poter ammettere che il suicida si rivestisse del corpo che pur gli era stato restituito, e che la sua più drastica punizione consisteva nel suo stargli davanti nella sua persistente separazione e nel non potersene rivestire, nella tesi che proponeva avrebbe sì riconosciuto la presenza dell’aggiunta fantasiosa che faceva alla verità teologica, negando tuttavia che dalla fantasia questa fosse stata disconosciuta nelle sue ragioni. Per quelle che fra breve saranno addotte, riteneva che alla verità teologica il caso dei suicidi imponesse una variante, che altri poteva ritenere che nascesse da insubordinazione derivante da un eccesso di fantasia, ed egli invece che fosse la conseguenza della peculiare natura del gesto compiuto da chi si toglie la vita. Ma fin d’ora dev’essere chiaro che nel delineare il caso rappresentato dai suicidi, Dante era convinto che la forma che egli dava al modo in cui a essi il corpo sarebbe stato restituito non infrangeva la regola, ma, attraverso l’eccezione, la confermava. 9. Dopo aver sostenuto, in accordo con la dottrina della Chiesa, che il riacquisto del corpo avrebbe significato, per le anime che tornavano a rivestirsene, maggior pena per quelle dannate, maggiore gioia per quelle assunte in cielo, Dante, dunque, aveva immaginato, per i suicidi, un trattamento divergente da quello riservato agli altri peccatori. Gli fu obbiettato che se la dottrina da lui condivisa insegnava che dalla restituzione del corpo alle anime sarebbero derivati maggior dolore e, sull’altro fronte, maggiore gioia, se ne doveva dedurre che la parziale eccezione rappresentata dal caso dei suicidi avrebbe implicato, per questi, una meno grave sofferenza. Ma, come si è visto, non è così. Niente, in realtà, lascia supporre che questo fosse il suo intento, e nemmeno che, per disattenzione o incuria concettuale, egli avesse dato luogo a questa conseguenza. Si può, e si deve escluderlo, se si torna a considerare che al gran convegno, nel quale, per maggior pena o maggior gioia, le anime dannate e le elette in cielo avrebbero riavuto il loro corpo, anche quelle dei suicidi sarebbero intervenute.
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Dante lo disse in modo chiaro: «come l’altre, verren per nostre spoglie», «qui le strascineremo», pur specificando «ma non però ch’alcuna sen rivesta» (vv. 103-104) e senza spiegare se quel «qui le strascineremo» importasse la provvisoria uscita delle anime dagli alberi in cui erano imprigionate, o se l’espressione sia da intendere in modo piuttosto suggestivo che non letterale, come una possibilità che, a esse essendo comunque concessa, non richiedeva di essere specificata. Anch’esse, dunque, avrebbero partecipato alla cerimonia, e, sia pure in modo diverso, sarebbero tornate in possesso dei loro corpi. Avutili o no fra le mani, li avrebbero trascinati nel luogo in cui, invece che rivestirsene, li avrebbero appesi al ramo del loro albero, sì che, anche nel loro caso, e sia pure per il tramite di una diversa modalità, la pena sarebbe risultata più grave di quanto fin lì non fosse stata. Se dipanare il filo della potente fantasia dantesca fosse lecito, la si potrebbe persino definire più grave e crudele di quella riservata agli altri dannati. Riavere il proprio corpo e non potervi rientrare, averlo fra le mani come un oggetto ingrato di cui, senza poterne fare il giusto uso, non ci si poteva tuttavia disfare, significava conferire il peso dell’eternità al gesto con il quale in vita ci si era separati da esso che, ora, nella sua separazione, stava lì a testimoniare della sua gravità. Come un incubo eterno quel corpo avrebbe seguitato a pesare sulla coscienza di chi, in vita, si era illuso di potersene liberare. Perché si dice così? Si dice così non solo perché nel divieto imposto ai suicidi di riavere il corpo fu indicata una differenza che, rispetto al trattamento riservato alle altre anime, si presentava nel segno, se non della maggior pena, di una non meno grave, ma per una ragione ulteriore a quelle fin qui addotte, e che converrà trarre alla luce. Questa ragione era fin dall’inizio racchiusa nella peculiarità di una pena, che, vi si è già alluso, rispetto a quelle patite dagli altri peccatori, presupponeva che le anime dei suicidi si presentassero segnate da una differenza in ogni senso rilevante. Da Francesca da Rimini a Giuda, Bruto e Cassio, con l’eccezione dei consiglieri di frode (Ulisse e Diomede, Guido da Montefeltro), che si trovavano a esser nascosti nella fiamma che li avvolgeva, e forse degli invidiosi, che Pietro Alighieri aveva supposto che Dante avesse voluti non visibili perché immersi nella palude stigia,17 i peccatori puniti nell’Inferno erano tutti, non solo visibili nella loro figura, ma tali che, senza avere un corpo, avvertivano tuttavia il dolore come se ne fossero in possesso; e si differenziavano perciò dai suicidi, che, per essere rinchiusi negli alberi, non erano visibili, e pativano tuttavia le conseguenze di una così terribile prigionìa rese più gravi non solo dalle ferite inferte a essi dalle Arpìe, ma anche, in
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ipotesi, da una mano che, come quella di Dante, dal loro tronco avesse divelto un ramo. Dal tronco in cui erano incarcerati, non potevano venir fuori; e se fu certamente reminiscenza virgiliana18 quella per la quale Dante immaginò che, se un «ramicel» fosse stato colto dal «gran pruno» (v. 32), ne sarebbero uscite «insieme/ parole e sangue» (vv. 43-44), del tutto appartenente alla visione cristiana dell’aldilà fu invece il feroce contrappasso per il quale il corpo mortale di cui ci si fosse colpevolmente liberati era restituito al suicida come un corpo ligneo destinato a tenere prigioniera per l’eternità la sua anima dannata. I due contesti, quello di Virgilio e questo di Dante, non avrebbero perciò potuto essere più diversi. Predominante, nei versi del poeta antico, era la cupa atmosfera religiosa che avvolgeva l’operazione alla quale era intento l’eroe, Enea, che, avendo fondata una città, alla quale aveva dato il suo nome, sentiva di dover fare sacrifici agli dèi. «Sacra Dionaeae matri divisque ferebam/ auspicibus coeptorum operum superoque nitentem/ caelicolum regi mactabam in litere taurum».19 Predominante, in quelli di Dante, era l’interesse volto a far emergere le corrispondenze allegoriche e simboliche che si intrecciavano nel bosco dei suicidi e di spiegare perché, diverse in questo da ogni altra dell’Inferno, le loro anime fossero state inserite in una specie di corpo ligneo. Questo, infatti, è il punto: chiuse nel tronco di un albero, era come se, per le anime, quello fosse un corpo che, caso unico nell’aldilà, sostituiva l’altro che avevano avuto in vita: un corpo del quale era impossibile che potessero liberarsi perché era stato stabilito che le avrebbe rivestite per l’eternità, e che, nella sua persistenza, avrebbe impedito che le anime che vi erano imprigionate potessero riacquistare quello che era stato il loro. In vita, si erano private del loro corpo: ora erano imprigionate in un corpo estraneo, dal quale mai avrebbero potuto venir fuori. Fu questa, evidentemente, la ragione che, fra le anime dei suicidi e quelle degli altri dannati, lo indusse a porre la differenza per la quale, se a queste ultime sarebbe stato facile rivestirsi dei corpi avuti in vita, a quelli sarebbe stato impossibile: per costoro, più che per ogni altro, il σώμα era σῆμα,20 il corpo era una tomba, dalla quale uscire era impossibile. Il che permette di comprendere che, al contrario di quel che l’esegesi antica aveva sostenuto, non perché non avesse avvertito il problema e fosse incorso in una tesi eretica Dante aveva escluso che i suicidi potessero, nel giorno del giudizio, riavere il loro corpo. Aveva escluso che potessero riaverlo e rivestirsene perché non riusciva a immaginare che un corpo (l’albero) potesse essere incluso in quello che l’anima, che ora si era fatta sterpo, aveva posseduto in vita. Non poteva
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ritenersi, infatti, che, nel giorno del giudizio, le anime dei suicidi uscissero dai tronchi in cui erano state imprigionate. Quella modalità non era modificabile: valeva, infatti, per l’eternità. Nel dubbio in cui, per questo aspetto della questione, era venuto a trovarsi, la soluzione alla quale ricorse fu che il vecchio corpo sarebbe ritornato nell’orizzonte dei dannati quando questi fossero stati chiamati a rivestirsene, ma rimanendo esterno a essi come un indumento che pendesse da un piolo sul quale altri l’avesse sistemato. Con le domande che faceva insorgere, e alle quali non dava risposta, la soluzione alla quale ricorse fu perciò indicativa sia della singolare complessità della questione sia della consapevolezza che egli ne ebbe. Singolare, e anche ingegnosa, era l’idea che la questione potesse essere risolta con quella fantasiosa escogitazione. Fantasiosa, ma non eretica, fantasiosa, ma niente affatto ignara del pericolo dell’eterodossia (e tale, giova aggiungere, che, nel giorno del giudizio si sarebbe posta anche per coloro che, come Ulisse, Diomede, Guido da Montefeltro, avrebbero dovuto, per rivestirsi dei loro corpi, uscire dalla fiamma che li avvolgeva per l’eternità, e dalla quale, quindi, uscire sarebbe stato se non impossibile, certo problematico). Fantasiosa, ma, a suo modo, realistica e rispettosa della regola che voleva eterna la pena dei dannati, e eterno lo strumento della sua esecuzione. Quel corpo era tornato su di loro, e nel possederlo senza poterlo possedere nel modo consueto, era il senso del maggior dolore che, da quel momento in poi, i suicidi avrebbero provato. Il tema aveva subìto una variazione. Ma vi era ben percepibile. 10. La situazione alla quale Dante aveva dato vita, era intrinsecamente diversa da quella descritta da Virgilio, anche se il rischio dell’eresia egli l’avesse corso proprio a causa della fascinazione che gli era provenuta dall’idea che un’anima potesse finire inclusa in una pianta. Il poeta antico non aveva speso una sola parola per spiegare come e perché, ucciso dal re dei Traci, al quale Priamo l’aveva affidato per tenerlo lontano dai pericoli a cui sarebbe andato incontro se fosse rimasto a Troia assediata dai Greci, il giovane Polidoro fosse finito nel tronco di un albero. Si era limitato a far dire all’anima imprigionata: «hic confixum ferrea texit/ telorum sages et iaculis increvit acutis».21 Con i suoi rami l’albero dunque era cresciuto dai dardi dai quali il corpo di Polidoro era stato trafitto, e che, privo di vita, vi era rimasto incluso. Quella in cui la sua anima era stata imprigionata era perciò una pianta sacra. Era dunque per effetto di un prodigio che, essendo morto, era finito nel suo interno. Era per effetto di un prodigio che il suo
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corpo soffriva e si lamentava dei colpi che riceveva come se fosse stato quello di un uomo vivo. In breve, se Polidoro era racchiuso in un albero, in questo non poteva certo vedersi un corpo sostituitosi a quello che aveva avuto in vita: niente in Virgilio indicava un significato che andasse vicino a quello a cui Dante aveva alluso. Di qui, proprio di qui, la radicale differenza dalla situazione immaginata e descritta nel canto decimoterzo dell’Inferno. Le piante in cui si trovavano le anime dei suicidi potevano, e dovevano, essere considerate come un corpo, in quanto, nella forma di un feroce contrappasso, a chi si era privato del suo ne era stato assegnato uno che, rispetto a quello che aveva posseduto in vita, si presentava come un’assai più dura prigione, dalla quale evadere era impossibile: simile a quella perché includeva l’anima, ma diversa e fin opposta perché, nell’includerla, non solo alterava in profondità il rapporto che, nell’uomo, si stabilisce fra la parte sensitiva e quella intellettiva, e a questa assegnava il primato, ma perché era tale che uscirne era impossibile. In vita, il suicida si era privato del suo corpo uscendone. Nell’aldilà, l’anima del suicida ne sarebbe stata per sempre prigioniera Lo si è già visto. A comandare era il corpo che, fattosi albero, per l’anima che vi era racchiusa era una dimora, non accogliente, ma ostile, che a quella trasmetteva il dolore provocatogli dai morsi delle Arpie, o dalla mano di Dante se, per obbedire al suggerimento di Virgilio, quella avesse divelto dalla pianta, che perciò sanguinava, un piccolo ramo. L’idea cristiana secondo cui «l’anima è legata e incarcerata per li organi del nostro corpo»22 riceveva qui una potente trasfigurazione fantastica e faceva sì che, per questo aspetto, Dante reincontrasse Virgilio. In questo punto, infatti, dopo essersene allontanato, il racconto di Dante riconvergeva su quello che leggeva nell’Eneide. Ma solo in questo punto. Fra Pier della Vigna e Polidoro, all’infuori di questa, non c’è convergenza che tenga. Polidoro non viveva che nell’orrore che Enea aveva provato nel vedere il sangue sgorgare dai rami e nel sentire la voce che proveniva dal suo interno («mihi frigidus horror/ membra quatit gelidusque coit formidine sanguis»),23 ed era come se il giovane troiano facesse ormai parte del paesaggio cupo, e grave di simboli religiosi, del quale tuttavia non parlava. Pier della Vigna, molte volte lo si è notato, era personaggio di altra complessità. Nella compostezza mai smarrita del suo eloquio alto e ricercato, e nel dialogo intrecciato con Virgilio, l’uomo «incarcerato» nell’albero svelò intera la sua personalità di alto dignitario della corte di Federico II, del cui cuore, come recita il verso celeberrimo, aveva tenuto «ambo le chiavi» (v. 58), che «sì soavi»24 «volse», «serrando e disserran-
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do», che «dal secreto suo quasi ogn’om tolse» (v. 61). A risultarne fu un personaggio che, fin dalle prime parole, aveva dato rilievo al momento culminante della sua carriera, all’accrescimento del suo potere, alla cura con cui aveva sottratto alla confidenza del sovrano ogni uomo che gli potesse far ombra. Una personalità, dunque assai complessa, ma interamente rinchiusa nell’ambiente della corte, pronta nell’esibire, a chi entrasse in contatto con lui, l’autorevolezza proveniente dal grado. Una personalità, tuttavia, rivelata nella sua estrinsecità dalla esibizione che egli ne faceva, dall’importanza che le dava, in essa risolvendo i valori del mondo. Una personalità, dunque, che non poteva esser messa a confronto con quelle veramente grandi che si trovano nella prima cantica; e qui ciascuno esemplificherà secondo i suoi gusti. Le parole che aveva spese per difendersi dalle accuse che, provenendo dal suo stesso ufficio, e essendo perciò opera della «meretrice», come egli definiva l’invidia, «che mai dal’ospizio/ di Cesare non tolse li occhi putti», erano state causa della sua rovina, avevano dimostrato che allo stile della corte egli apparteneva con la stessa necessità che lo teneva prigioniero della pianta in cui la sua anima era finita. I toni patetici, ma studiati, con cui aveva rivendicata la sua intatta onestà («per le nove radici d’esto legno/ vi giuro che già mai non ruppi fede/ al mio segnor, che fu d’onor sì degno»), erano usati, lì nell’Inferno, come e quanto lo sarebbero stati in una delle lettere che scriveva in vita, o in una delle orazioni che pronunziava e nelle quali era maestro; e, mentre il patetico ne era spinto al margine e quasi collocato fuori del quadro,25 rivelavano che l’accusa di tradimento26 gravante sulla sua memoria non aveva lasciato indifferente Dante che, nel far sì che egli la respingesse con tanta enfasi, per parte sua le dava rilievo senza tuttavia aggiungere alle sue una sola parola. Per un istante il rimprovero rivolto a colui che l’aveva ferito e fatto sanguinare, era andato oltre l’esclamazione del personaggio virgiliano («ehu fuge crudelis terras, fuge litus avarum, nam Polydorus ego»):27 per un istante aveva accennato a salire più in alto, tanto da attingere il livello della tragedia che era caduta su di lui e su chi, al pari di lui, si trovava in quella condizione («uomini fummo, e or siam fatti sterpi:/ ben dovrebb’esser la tua man più pia,/ se state fossimo anime di serpi» (vv. 37-39). C’era, tuttavia, in queste parole che accennavano ad andar oltre, e, comunque, non senza avere in sé un risentimento doloroso, chiedevano pietà, qualcosa da cui questo esito era impedito. Vi si avverte, infatti, una nota acre di risentimento, che colpiva chi stava trattando lui, che era stato un uomo, come se non fosse, e non fosse stato, che una serpe. Erano, se ci si fa attenzione, parole che, al
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di là dell’amarezza che le pervadeva, erano segnate, nel fondo, da un forte risentimento e, se si guarda bene, da una nota politica, quasi che, come in passato era accaduto nei confronti dei tanti che dipendevano da lui e dalla sua autorità, anche nel luogo doloroso in cui si trovava egli intendesse mettersi idealmente a capo di quei morti indifesi per dare a essi una voce con la quale proclamassero il loro esser stati uomini, degni perciò di rispetto. Ma se la nota che risuonava nel fondo era politica, lo era in senso assai ristretto. Con queste parole, indirettamente Piero alludeva alla voce che lo voleva traditore. Al disprezzo che la ispirava e a cui lo esponeva egli contrapponeva il suo: uno spunto prezioso, questo, per intendere la famosa terzina che si legge ai vv. 70-72, e sulla quale si dovrà discutere. Uno spunto, per altro, destinato a perdersi. Piero non poteva cambiare il passato, non poteva fare che quel che era stato non fosse stato: proprio come non era in grado di uscir fuori dell’albero che, come si è detto, gli era corpo e, nello stesso tempo, prigione. Quello spunto, d’altra parte, era destinato a perdersi anche perché Dante non lo raccolse, e non se ne lasciò convincere a entrare nel discorso. Proprio nel momento in cui, di fronte all’apologia pronunziata da Pier della Vigna, avrebbe potuto inserire un suo commento, preferì tacere perché, disse, «tanta pietà m’accora» (v. 83). Ma era, il suo, un silenzio altrettanto impenetrabile, nelle sue ragioni, della pietà che ne era chiamata in causa. Poteva infatti essere attribuito al caso, comunque degno di pietà, dell’uomo che, oltre l’ingiuria dei cortigiani, aveva patito la crudele vendetta del signore che si era ritenuto da lui tradito, e non assurgere a prova di una convinzione relativa alla sua innocenza. La pietà che aveva provata nei confronti della vicenda di Francesca da Rimini non gli aveva impedito di intrattenere con lei un intenso discorso; e lo stesso può dirsi a proposito del conte Ugolino, che lui pure era stato accusato, forse a ragione, di tradimento, e tuttavia Dante aveva pronunziata la celebre invettiva contro chi i suoi figli aveva messi «a tal croce». Si può esser certi che di fronte a Pier della Vigna la pietà provata da Dante fosse profonda.28 Ma si può esserlo altrettanto che nascondesse una convinzione favorevole alla sua innocenza e non fosse invece invocata anche per non esprimere il dubbio che forse era anche nel suo animo? Non si ometta di osservare che Pier della Vigna aveva chiesto che la sua «memoria» fosse «confortata» nel mondo dove pativa «ancor del colpo che ’nvidia le diede» (v. 78). E che al silenzio in cui, dette quelle parole, si era chiuso, aveva fatto seguito quello di Dante. Si potrebbe obiettare che alla richiesta dei dannati di essere ricordati su nel dolce mondo, Dante per solito non rispondeva. Ma c’è modo
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e modo di rimanere in silenzio; ed è il contesto a decidere se la richiesta avesse o no trovato un riscontro nella sua anima. Si pensi, per rimanere nella prima cantica, a Brunetto Latini; e soprattutto ai tre fiorentini antichi del canto decimosesto. Di fronte all’esplicita richiesta di Pier della Vigna, sembrò che, con l’aiuto di Virgilio, Dante non intendesse che di cambiar discorso. 11. La capacità di guardare oltre il proprio caso personale, e di rivendicare, con la propria, la comune umanità, ha pochi riscontri nei personaggi che popolano l’Inferno. A far sì che i dannati non potessero spingersi al di là del limite che li teneva fermi nella pena, era questa, era l’Inferno. Ne era segnata anche la coscienza di Pier della Vigna; che perciò si presentava come capace, non di trascendere la sua condizione di dannato e l’angustia che ne conseguiva, ma solo di aggiungere un tratto patetico all’apologia che era intento a intessere della sua dignità e lealtà. Se con le parole rivolte a chi aveva divelto il ramo della sua pianta, diceva di essere un uomo, e non uno «sterpo», con questa espressione intendeva rendere più forte la rivendicazione che faceva di sé stesso e della sua dignità: non trasferiva sé stesso nell’umanità, se mai dava l’impressione di ridurla a sé perché il suo caso ne fosse drammatizzato e potenziato. Presi in sé stessi, letti al di fuori del contesto al quale appartengono, quei versi famosi sono invece stati talvolta interpretati come la rivendicazione di ciò che è umano29 di contro a ciò che appartiene all’inferiore mondo delle bestie, come una dolente, ma orgogliosa rivendicazione della dignitas hominis riconquistata dopo lo smarrimento provocato dal gesto disperato del suicidio. Ma il contesto non sostiene questa interpretazione che, presentata così, non può, come si è detto, riferirsi a un dannato, e non è che retorica. Chiuso nel suo legno, nelle parole rivolte a Virgilio Pier della Vigna non si era in nessun modo elevato a una più alta comprensione di ciò che è umano. Era rimasto quello che era stato in vita, un uomo della corte, un alto dignitario, di questi anzi il più alto in grado, ma segnato dal limite della sua particolare virtù, risentito, come pure era naturale, nei confronti di chi aveva determinata la sua rovina, ma incapace di andar oltre l’ambito nel quale, già in vita, era stato come imprigionato. Era come se da una prigione egli fosse passato a un’altra, senza paragone più dura, certo, e inesorabile di quella in cui, tragicamente, si era tolta la vita. Ma pur sempre una prigione nella quale le malvage arti nascoste che avevano dominato nella corte, determinandone lo stile, si erano tradotte nei dolorosi sterpi in cui l’anima era stata
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per sempre imprigionata. L’accenno che Pier della Vigna aveva fatto alle cose più alte nasceva, perciò, pur sempre dall’esigenza di salvare la sua reputazione e di conservare, nella stima degli uomini, il grado dal quale la meschina spietatezza dei cortigiani l’aveva fatto precipitare. Ma cortigiano era anche lui che, dinanzi a Virgilio, si era vantato di aver tolto «ogn’uom» dal «secreto» di Federico e di esser stato lui, lui solo, quello che teneva «ambo le chiavi» del suo cuore. Così la consapevolezza di ciò che si dice umano rientrava nei limiti della difesa che egli faceva della sua persona e della sua opera; e, come più volte e da più parti è stato notato, quella pronunziata da lui, fu, in effetti, un’orazione recitata nello stile più puro delle corti,30 fu l’apologia della sua fedeltà e della sua rettitudine, dal cui tono risultò caratterizzata anche, e soprattutto, la famosa terzina («l’animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno,/ ingiusto fece me contra me giusto»)31 che ha dato luogo a varie interpretazioni, e ha non poco affaticato l’esegesi. Costruita nel segno delle antitesi concettose e ricercate (giusto/ingiusto, il disdegno di lui verso gli altri/quello degli altri verso di lui), essa dà spesso l’impressione di sfuggire a chi pur abbia creduto di averne afferrato il senso; e sotto questo riguardo riproduce in modo perfetto lo stile del parlare cortigiano. Risulta tuttavia a sufficienza chiara se, innanzi tutto, s’intende che, con l’ingiustizia che il relativo gesto comportava, l’idea del suicidio era insorta in lui dall’aver creduto, che, nel darsi la morte di sua mano, egli avrebbe sottratto sé stesso all’altrui disdegno, avrebbe tolto, a quelli che offendevano la sua dignità, l’oggetto sul quale esercitavano la loro perfidia, e così, facendo che nelle loro coscienze si insinuasse il rimorso, se ne sarebbe vendicato Nella sottrazione che in tal modo faceva della sua persona a coloro che avevano preso a offenderla, consisteva il «disdegnoso gusto» con il quale reagiva alla loro perfidia; e deve vedervisi qualcosa come il dispetto amaro e, come si è detto, l’amara vendetta che opponeva ai suoi accusatori. A differenza di quel che molti vi videro,32 non fu al dolore e all’umiliazione che provava dentro di sé, o non fu soltanto a questi, che si dirigeva il «disdegnoso gusto». Si dirigeva bensì a coloro che in lui, nel potente ministro, avevano preteso di vedere niente più che il serpente traditore che sempre, a loro giudizio, era stato. E questo, salvo errore, è il punto. Se nel «disdegno» del v. 71 non si avvertisse altro che il dolore procuratogli dai malvagi cortigiani e a questo si riferisse il «disdegnoso gusto» che l’aveva condotto a darsi la morte, con questo pensiero Piero avrebbe escluso dal suo dramma proprio coloro che l’avevano provocato e ne erano stati gli autori. Escludendoveli, avrebbe finito
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col dichiararsi, senza volerlo, lui solo colpevole della tragedia che l’aveva travolto e col mettere perciò queste parole in netto contrasto con quelle che aveva spese per rivelare le male arti della «meretrice» che, avendo «infiammati» contro di lui «li animi tutti», non escluso quello di Federico, aveva fatto sì che «lieti onor» tornassero «in tristi lutti». In realtà, non fu a causa del non sopportabile dolore che pesava sulla sua anima, e per il disprezzo che nutriva per sé stesso e la umiliante situazione nella quale era caduto, che egli si uccise. Non fu al suo dolore che egli diresse il suo disdegno. O fu bensì anche a questo, ma se si tiene fermo che il dolore provenientegli dalla condizione nella quale ora si dibatteva era la conseguenza delle male arti della «meretrice» che, rivolti a lui gli «occhi putti», aveva provocato, a suo dire, la sua rovina. 12. Su questa terzina è necessario, tuttavia, insistere per cercare di capire meglio che cosa propriamente significhi il «disdegnoso gusto»: in questa espressione c’è infatti di più di quel che si trova nella definizione dello stato d’animo di Piero come, per usare l’espressione di Guido Bonatti, «dedignatione motus».33 Occorre cercar di capire che senso debba darsi a una espressione nella quale una parola, che implica un piacere34 soggettivamente provato, era messa insieme al «disdegno» che, nel predicarsene, a quello conferiva un sapore acre e amaro: come se il personaggio traesse una sorta di dispettosa soddisfazione nell’infliggersi una punizione che, attraverso il «disdegno», intendeva che da lui passasse e si comunicasse ai suoi nemici e li ferisse con quell’arma terribile che, nell’atto in cui uccideva lui, anche quelli uccideva dopo averli trasformati nei veri autori della sua morte. Insomma nell’atto in cui colpiva colui che lo provava, il «disdegnoso gusto» si dirigeva contro coloro che l’avevano provocato, e li rendeva colpevoli della morte che Piero era stato costretto a darsi. Il potente ministro si era ucciso, e nel suo gesto non un solo motivo operava. Si era ucciso per il piacere amaramente disdegnoso che provava nel dirigere il suo atto suicida contro quanti lo avevano a sdegno. Si era ucciso perché dal suo gesto fossero turbati e il suo fosse, perciò, anche, e soprattutto, un gesto di vendetta. Si era ucciso per il piacere che provava nel privarli, oltre tutto, dell’oggetto del loro odio. Si era ucciso, insomma, perché, il più che fosse possibile, la sua morte avesse a ricadere su di loro che l’avevano provocata, e a risentirne fosse, forse, lo stesso Federico, che «fu d’onor sì degno», ma di quella era stato il principale artefice. Certo, non può escludersi e, anzi, deve ammettersi, che nel «disdegnoso gusto» ci fosse anche il
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piacere che, nel fondo, egli provava nel punire sé stesso che non era stato in grado, in quell’occasione, di esser pari al suo valore e di vincere anche quella battaglia, e per questo, quanto più sapeva di essere innocente, di altrettanto si disprezzava. Se non si entra in questa complessa situazione psicologica, che Dante ritrasse con sapienza letteraria in ogni senso pari alla grande intelligenza che aveva messa nel delinearla, il senso della terzina non può essere colto: molte, come si vede, sono infatti le note che vi s’intrecciano e a una sola non possono essere ridotte. Fondamentale avvio alla sua intelligenza, e sua condizione preliminare, è tuttavia che i versi che la compongono siano messi in rapporto con quelli che, precedendoli, descrivono la «meretrice che mai dal’ospizio/ di Cesare non torse li occhi putti,/ morte comune e dele corti vizio» (vv. 64-66); e che, alla luce di questa connessione, si spieghi l’altra per la quale alla malvagità dei cortigiani Piero contrapponeva la sua, esercitata contro di loro attraverso il gesto che aveva diretto contro sé stesso e che aveva anch’esso, come si è detto, il suo motivo. Era come se, in questo atto, e fatte, beninteso, le debite differenze, si dica così, stilistiche, ai suoi nemici Piero avesse detto qualcosa di simile a quel che Vanni Fucci avrebbe profetizzato a Dante quando lo incontrò fra i ladri:35 che quel gesto egli l’aveva compiuto perché dovesse dolere il più che fosse possibile a chi ne era stato la causa. Ma, c’è in questa terzina, qualcosa di più, che è a conferma della molteplicità di significati che vi si intrecciano. Il suicidio è un atto complesso e, per varie ragioni, nell’intrinseco, contraddittorio. È un gesto soggettivo che ha alla sua radice elementi diversi che, riassumendosi nell’ostilità del mondo, di questa lo rendono oggetto. Alla sua radice c’è la ricerca di un piacere, eseguita con un gesto che, senza dubbio, mentre dà, toglie, perché, se nel conseguirlo, lo perde, lo recupera tuttavia nell’atto in cui, provandone piacere, rivolge il suo pensiero al disappunto, e al senso di colpa, che provocherà in altri. Alla radice di questa radice, il piacere fa avvertire la sua presenza nella sfida che il suicida rivolge a sé stesso e agli altri che di quell’atto si erano anch’essi, come si è detto, resi responsabili; e per questo Dante, che sulla sua ambigua natura aveva evidentemente meditato a lungo, vi colse sì il disdegno, ma anche il «gusto» che il suo autore vi provava, e, sdegnosamente, indirizzava contro i suoi nemici oltre che, beninteso, e in primo luogo, contro sé stesso. Vi colse bensì il gesto disperato di uno che, compiendolo, si allontanava per sempre dalla societas hominum, nella quale era vissuto ed era diventato potente, ma che, nell’allontanarsene, dava a
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vedere fino a che punto quella gli stesse dentro e il suo fosse, a suo modo, un gesto sociale. 13. Nel gesto suicida compiuto da Pier della Vigna sono dunque presenti più cose di quante vi se ne siano viste. Il suicidio riguardava colui che lo metteva un atto. Ma, come si è visto, non lui soltanto. Chiamava in causa anche coloro che, avendolo condotto alla disperazione, avevano provocato quel gesto estremo (e chi sa se Dante avesse saputo del modo terribile in cui era stato, o si diceva che fosse stato eseguito, ma, se lo seppe, non vi accennò).36 A nascerne era perciò, se ci si riflette, il paradosso che sembra essere sfuggito ai lettori e agli interpreti del canto: il paradosso per il quale, anche chi acceda alla tesi che il disdegno di Piero si rivolgeva al suo dolore, necessariamente deve presupporre l’altra che indica nell’ostilità dei cortigiani l’oggetto del «disdegnoso gusto» e della sofferenza a cui, con il suicidio, egli intese metter fine. Nei fatti, le due spiegazioni si intrecciano, nel segno, per altro, della prima. Nel disdegno che compare nel v. 71 potrà anche vedersi quello che Piero provava per l’umiliazione che gli era stata procurata. Ma quel dolore era in ogni caso conseguito alla malvagità che, nei suoi riguardi, era stata messa in atto dai suoi nemici, e che, per parte sua, soffrendone, egli contrastava con l’unico mezzo che riteneva di avere a disposizione: con il suicidio che, in questa condizione delle cose, appariva come l’arma con la quale, oltre che sé stesso, poteva colpire i suoi calunniatori, «dispettosamente» facendo cadere su di loro la responsabilità del suo gesto. Distinguere fra disdegno di sé e disdegno degli altri, facendone due cose diverse, è quindi impossibile, se quello era conseguenza di questo. Se non s’interpretasse così, e nel «disdegno» del v. 71 si vedesse nient’altro che il dolore che l’uomo chiudeva in sé, inspiegato resterebbe il «disdegnoso gusto» che, come si è visto, è il tratto più profondo che la situazione in cui era venuto a trovarsi aveva segnato sull’anima di Piero che, nel vendicarsi così dei suoi nemici, mostrava di non potere e sapere prescindere dal loro giudizio. 14. Si può, con questo, mettere fine alla tormentata esegesi,37 resa necessaria da un’espressione che, nello stile del personaggio di cui rappresentava il dramma, Dante aveva voluta estremamente concettosa, e alla quale aveva conferito un tratto di ambiguità, immaginando che il dolore e la rabbia del personaggio non si esprimessero, e non potessero esprimersi, se non nel ricercato e artificioso linguaggio, a lui ingrato, delle corti.
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Nell’espressione a cui egli ricorse per dar conto del gesto di Piero, fece che questo mettesse qualcosa di studiato: come se, delle ragioni che l’avevano persuaso a compiere quel passo, il personaggio facesse altrettante battute di una recita teatrale, e non a parole semplici, ma ricercate e sapientemente disposte, affidasse la sua spiegazione. Sebbene fosse chiuso nell’albero che impediva che altri lo vedesse mentre recitava la sua parte, il personaggio non aveva perduto il carattere che gli derivava dall’esser stato per lungo tempo un protagonista della scena politica. Non aveva perduto il senso dell’esibizione di sé e della sua bravura. E c’era, in effetti, tutto questo nel modo in cui egli diceva della decisione che era stata imposta a lui dal gusto, dispettoso e rabbioso, che aveva provato nel punire in sé stesso gli altri, nell’opporre al loro il suo disdegno; e teatrale, degna cioè di un attor tragico, fu la descrizione del suo essersi reso, da giusto, perché innocente, ingiusto, perché suicida.38 Le sottigliezze dialettiche, le antitesi concettose che gli derivavano dall’uso che in vita aveva fatto della retorica, erano diventate, nel racconto reso a Virgilio, i flores che adornavano la sua recita, e del «cieco carcere» che teneva prigioniero il personaggio che si era tolta la vita facevano un palcoscenico. Per questo, deve ripetersi che, paragonato ai tanti che popolano l’Inferno e seguitano a esprimervi passioni che non lasciano indifferente il lettore e penetrano nel suo animo, Pier della Vigna si rivela tanto abile nel rappresentarsi quanto povero di forza emotiva, come se in lui il dramma del suicidio fosse consistito piuttosto nelle sue cause esterne, negli onori perduti e nella reputazione calpestata, che non in una desolazione spirituale che si fosse impadronita dell’anima rendendola vuota di ogni altro pensiero. Il «disdegnoso gusto», che fu la risposta che egli dette al dramma che l’aveva colpito, rivelava che, nel suo animo, era all’opera qualcosa di angusto, e di inadeguato al grave gesto che comunque ne era nato. Non è forse senza significato, non solo che le sue ultime parole contenessero la richiesta, che egli rivolgeva a chi fosse tornato al mondo, di una rettifica, volta a ristabilire il suo onore, ma anche che, sebbene ne fosse sollecitato da Virgilio, anche a questo riguardo Dante preferisse, come si è detto, tacere:39 perché oppresso dal dolore, diceva, e certo era per questo, ma anche, forse, perché gli era difficile entrare in un discorso che, per il modo in cui era congegnato, era soprattutto un’oratio defensiva che doveva avere il suo corso e intervenirvi con un commento era impossibile. Di qui la difficoltà che il lettore del canto incontra nel definire questo personaggio, che si presentava come un grand’uomo, disconosciuto e offeso, nell’atto stesso in cui si chiudeva in un’esaltazione di sé che non cono-
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sceva l’ombra del dubbio e gli toglieva la grandezza che cercava di darsi. L’incertezza che al riguardo s’incontra nelle pagine più acute, quelle di De Sanctis, che siano state scritte su di lui, è a riprova di questa difficoltà. De Sanctis era convinto che in Pier della Vigna dovesse vedersi una delle grandi figure che popolano la prima parte dell’Inferno Ma, ai suoi occhi, il personaggio stentava, tuttavia, a prendere intero possesso di sé stesso, e a far sparire le tracce della vanità. Nel delinearsi come interamente virtuoso di contro alla invidiosa e meschina malvagità dei cortigiani, presentava un volto così immobile dietro l’ingegnosità delle parole, che soltanto alla fine della sua apologia gli riuscì di ritrovare un accento di autentica sincerità e al critico impose di riconoscerne la grandezza. Non è un caso, ed è forse la conferma della difficoltà che si è cercato di mettere in luce, se dei grandi personaggi che s’incontrano nell’Inferno, con Ulisse, Pier della Vigna sia l’unico con il quale Dante non abbia intrecciato, e non abbia voluto intrecciare, un dialogo. Ma Ulisse era il protagonista di un racconto che, sollecitato da Virgilio, era stato da lui svolto in modo che non richiedeva, né ammetteva, repliche o commenti. A dominare e determinare la sua vita era stata l’ananke con la quale, come diceva il poeta antico, anche al dio conviene non aver contesa. A sua volta, e non perché fosse stato vittima di un simile potere, il gran cancelliere aveva conferito alle sue parole un tono che non prevedeva risposte, e non consentiva nuove domande. E, anche per questo Dante preferì tacere. 15. Verso chi o che cosa Pier della Vigna si era reso «ingiusto»? Verso Dio, come in primo luogo avrebbe dovuto riconoscere uno che, a differenza del suo signore, non risulta che facesse professione di ateismo? Verso la humana societas? Su questo punto i versi tacciono; ed è un silenzio che dev’essere preso per quel che è, senza pretendere di assegnargli cause ideologicamente definite in un senso o in un altro. Il riconoscimento del peccato commesso non implicava, nelle parole di Piero, altro da quel che dicevano: disdegno, giustizia, ingiustizia, ma riferiti al suo personale destino politico. Vedervi qualcosa di più, è impossibile; e del resto, come non può conoscere pentimento, così a un dannato non è consentito di trascendere la propria miseria. L’Inferno è certamente un luogo in cui l’umanità di chi lo abita è rappresentata nelle forme più varie, e non senza che, fra queste, vi sia anche quella della grandezza. Capaneo, Vanni Fucci, Anfiarao, che vive in meno di due versi («dove rui,/ Anfiarao? perché lasci la guerra?»),40 Guido da Montefeltro, e persino Filippo Argenti, per non dire
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del conte Ugolino e del suo avversario sono, a loro modo, grandi figure. Ma la loro è una grandezza che, al pari di quella che può riconoscersi in Pier della Vigna, si constata nel guardarla, e non passa invece nella loro coscienza che, inidonea al ripiegamento e all’autocritica, resta esterna al personaggio che pure la possiede. Si sovrappone perciò al testo un pensiero che non può esservi ospitato, e gli resta infatti, estraneo, se, nel gesto suicida che rese ingiusto Pier della Vigna, che era giusto, si indica un peccato di natura politica, commesso da chi, compiendolo, alla società sottraeva quel che le era dovuto e si impadroniva di qualcosa, la vita, che, a rigore, non apparteneva a lui.41 Nel testo del canto decimoterzo questo pensiero è assente. È assente in Pier della Vigna. Ma assente è anche in Dante che, certo, come ben sapeva che quel concetto abitava le pagine dei teologi e dei filosofi cristiani che, per alcuni aspetti, l’avevano ereditato dal pensiero antico e, in primo luogo, da Aristotele, così anche può ritenersi che lo condividesse. Ma nel canto decimoterzo dell’Inferno a questo aspetto della questione non dette spazio. Presente, del resto, esso non è nell’undecimo, nel punto in cui, parlando dei violenti contro natura, e del suicidio, Dante non scrisse se non che «puot’ uom aver in sé man vïolenta/ e ne’ suo’ beni; e però nel secondo giron convien che sanza pro si penta/ qualunque priva sé del vostro mondo,/ biscazza e fonde la sua facultade,/ e piange là dov’esser dè giocondo».42 Ma del danno che, con il suo gesto il suicida arrecava alla società degli uomini, tacque. 16. Il v. 43: «qualunque priva sé del vostro mondo» non significa dunque che al mondo degli uomini il suicida abbia sottratta la sua opera. Significa che, suicidandosi, ha privato sé del mondo, che in tanto è detto «vostro», ossia degli altri uomini, in quanto, appartenendo a questi, a chi se n’è privato non appartiene più. Il personaggio non aveva se non questi pensieri, né Dante pensò di attribuirgliene altri, assegnandogli poi la colpa di non averli pensati. Pier della Vigna non pensava alla società che, togliendosi la vita, egli avrebbe privata di essa e della virtù che le stava dentro. Pensava a sé stesso e, come si è detto, alla sua reputazione, che non poteva sopportare non fosse ora, presso gli uomini, quale era stata prima che l’invidia producesse i suoi tristi effetti e i «lieti onor» tornassero «in tristi lutti» (v. 69). Per difenderla, anche lì nel girone che lo ospitava, faceva uso delle sue armi, e dei suoi artifici. Troppo l’immagine dell’uomo che era stato quando si era trovato al vertice del potere gli era presente perché l’umiliazione che subiva nell’Inferno potesse indurlo a pensieri che non
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fossero diretti a rivendicare i suoi meriti, e soltanto quelli. Rinchiuso in un albero, reso invisibile e subendo in ciò il contrappasso della visibilità che appartiene agli uomini del potere, dentro di sé il personaggio restava quel che per tanto tempo era stato. Restava un uomo di corte, che da quella non aveva saputo venir fuori come ora non poteva liberarsi della pianta che, facendo le veci di quella, lo teneva prigioniero dentro di sé. Nell’Inferno ci sono solo due personaggi che, pur appartenendogli, nel colloquio intrattenuto con Dante, ne prescindono e, in certo senso, per un attimo ne escono e gli sono superiori. Il primo è Farinata, che sembra disdegnarlo e, in effetti, lo ignora, perché il suo mondo è sulla terra e nella politica, il suo personale destino coincide con quello di Firenze e, per sé stesso, non conta. Nel colloquio intrattenuto con Dante Farinata non chiese che la sua riputazione fosse difesa. Non lui, infatti, meritava di essere difeso, ma Firenze: o lui in quanto difenderlo significava difenderla. «Ma fu’ io solo […] là dove sofferto/ fu per ciascun di tòrre via Fiorenza,/ colui che la difesi a viso aperto».43 Il secondo è Ulisse, che vive tutto e solo nel racconto della sua conclusiva avventura, e alla sofferenza procuratagli dalla fiamma che lo avvolge non concede nemmeno una parola e, meno che mai, si preoccupa del mondo e della sua fama in esso. Negli altri, l’Inferno è presente con e attraverso il limite che impone alla loro persona e, eventualmente, alla loro grandezza. Fra questi, Pier della Vigna non fa eccezione. 17. Poiché diversa dalla situazione degli altri dannati era, fin dall’inizio, quella dei suicidi, diversa, ma non nel senso della maggiore o minore gravità, era anche la condizione in cui sarebbero stati posti a partire dal giorno del giudizio. La diversità iniziale è stata rapidamente descritta: descritto è stato il contrappasso, facilmente ravvisabile, non solo nel corpo ligneo in cui l’anima, che in vita si era privata del suo, ora stava come per sempre prigioniera, ma altresì nel capovolgimento che in tal modo, e già lo si è accennato, si verificava fra le sue parti, quella sensitiva che otteneva il primato sull’altra, intellettuale, che ne era stata come cancellata. Il suicida, che si era privato del corpo, non era, ora, se non corpo; un corpo vivo, esposto ai colpi e alle offese che riceveva dalle feroci Arpìe. Nelle quali è inutile cercare un particolare significato allegorico:44 sono quelle di Virgilio, trasferite di peso nell’universo cristiano e messe a disposizione della giustizia punitrice di Dio: «fanno dolore, e al dolor fenestra» (v. 102). Dentro il legno che aveva sostituito la carne che un tempo aveva rivestito il corpo del suicida, circolava infatti il sangue che, vivo, usciva dalle feri-
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te. E questa era, rispetto a quella riscontrabile negli altri dannati, nessuno escluso, una situazione peculiare: se si eccettuano il conte Ugolino e l’arcivescovo Ruggieri, a nessun altro, nemmeno a quelli perseguitati e uncinati dai diavoli accadeva di ricevere colpi che, a quel che si legge, provocassero ferite sanguinanti. Peculiare, altresì, era il contrappasso, e vi si è già accennato. Il corpo vivo dal quale, uccidendolo, i suicidi erano venuti fuori, era stato reso, per feroce contrappasso, un corpo ligneo; che, tuttavia, pativa, gemeva, sanguinava al pari dell’altro, ma, a differenza di questo, era tale che liberarsene era impossibile. Il corpo del quale colpevolmente si erano privati in vita era ora una prigione dalla quale venir fuori era impossibile; e rappresentava infatti la rivincita che, nel suo nome e col suo segno, l’altro faceva di colui che l’aveva spento. Poiché germogliato dall’anima che Minosse aveva fatta cadere a caso in quel luogo dell’Inferno, era cresciuto con essa, le si era avvolto intorno e la teneva prigioniera, ne derivava che le uniche anime che, nell’Inferno, avessero a loro modo un corpo erano queste dei suicidi; che inutilmente, quindi avrebbero tentato di uscirne e di morire a esso come era avvenuto con l’altro. Il contrappasso era perciò, in questo canto, per un verso semplice e lineare, ma, per un altro, particolarmente elaborato. Il dannato che aveva distrutto il corpo che ospitava la sua anima, si trovava rinchiuso in un corpo ligneo dal quale uscire gli sarebbe stato per sempre impossibile perché, inutilmente, lo si sarebbe fatto oggetto del gesto che, in vita, era stato compiuto contro l’altro. Uccidere il primo era stato possibile: uccidere questo no. Il contrappasso era stato perciò delineato con un’ingegnosità altrettanto grande di quella che dà segno di sé nell’eloquio di Pier della Vigna e nella ricercatezza retorica che, com’è stato tante volte notato (si pensi, in primis, al saggio di Leo Spitzer), caratterizza l’intero canto. Il corpo di cui il dannato si era privato in vita era stato reso tale che, per l’eternità, la sua anima ne sarebbe stata prigioniera. A sua volta, il corpo che, in vita era stato il suo, gli sarebbe stato bensì restituito nel giorno del giudizio. Ma in modo tale che egli non potesse rientrarvi e, come si è detto, fosse costretto a rimanere fuori di lui, appeso a uno dei rami dell’albero in cui era imprigionato. 18. Poiché si sono citati i versi nei quali Pier della Vigna aveva spiegato a Dante in che modo le anime dei suicidi fossero finite dentro il tronco degli alberi, su questo punto converrà fermarsi: al riguardo, si è infatti formata un’opinione che non sembra corrispondere né alla lettera del testo né all’allegoria. A proposito dei suicidi inclusi negli alberi, si è parlato
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di anime colpevolmente ridottesi alla pura condizione vegetativa e perciò all’esclusione da esse sia dell’anima sensitiva sia di quella intellettiva. A ragionare in quesi termini fu, in primo luogo, Pietro Alighieri, il quale intese che il bosco dei suicidi raffigurasse «statum hominum se desperantium et occidentium», e il bosco stesso come «status et collectio rerum animatarum solum in anima vegetabili, ut plantae, et homines abiicentes a se animam rationabilem et sensitivam, ut faciunt homines se desperantes, quasi ut insensibiles possunt et lignum et arbor censeri».45 A sostegno della sua interpretazione Pietro citava il luogo del De anima in cui Aristotele aveva avvertito che, rimuovendo da sé la ragione, l’uomo non resta uomo, ma si fa animale sensitivo, e, se anche a questa condizione viene meno, allora di lui e della sua anima non resta se non la parte vegetativa, e cioè una pianta. Trasferendo la situazione dei suicidi dal canto decimoterzo dell’Inferno al celebre e controverso libro aristotelico, Pietro tuttavia dimenticava il punto essenziale: dimenticava che l’anima non avrebbe potuto essere definita soltanto come vegetativa se la si diceva «incarcerata» nell’albero o nel cespuglio, e che in tanto non poteva essere ridotta a quella sua dimensione in quanto, del suo esserlo, essa pativa la costrizione e la pena che non avrebbe potuto avvertire se all’albero o al cespuglio fosse stata resa identica.46 Imprigionata nell’albero, l’anima di Pier della Vigna non gli era identica se era in grado di avvertire la differenza intercorrente fra l’uomo che era stato e lo «sterpo», a cui è ben vero che si era ridotto, ma non al punto da non saper mantenere viva la differenza fra l’una e l’altra situazione («uomini fummo»): il che è a riprova che una cosa era l’albero-prigione, un’altra il prigioniero, ossia l’anima che nell’albero era contenuta e non gli era identica. E altresì è a conferma di quel che, a proposito dell’impossibilità che l’anima dei dannati fosse ridotta alla sola dimensione sensitiva e vegetativa fu argomentato all’inizio di questo saggio. Altrettanto ingegnoso, ma, in definitiva, ancora più fuorviante, risulta il paragone, se non si vuol dire la riduzione, che, con riferimento al famoso luogo del libro Γ della Metafisica in cui Aristotele illustrò il più saldo dei princìpi, e cioè quello detto della non contraddizione, Pietro Alighieri fece del suicida con colui che, poiché nihil suscipit, sed similiter existimat et non existimat, in niente differisce a plantis. Il paragone nacque, in effetti, da un fraintendimento del testo, o da un’interpretazione di esso talmente estensiva, e generica, da risolvervisi. Nel passo della Metaph. Γ 4, 1006 a 26 che, al riguardo, è l’unico che possa essere citato, la riduzione a pianta riguarda, non colui che si contraddice, ma chi, per rifiutare il principio, che
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di tutti è il più saldo, deve necessariamente dire qualcosa, ed esporsi perciò, a sua volta, e nell’atto in cui la nega, alla sua legge. Chi infatti pretende di confutare il principio si espone alla confutazione perché ἀμαιρῶν […] λόγον ὑπομένει λόγον (Metaph. Γ 4 1006 a 26), demolendo ciò che dice conferma ciò che dice, e tiene in gioco quel che riteneva di aver escluso. Ma se, per infirmare la validità del principio, il confutatore è costretto a usarlo, a chi intenda confutare il confutatore, è necessario, come si è detto, che questo parli: se non parlasse, sarebbe, infatti, simile a una pianta (ὅμοιος γὰρ φυτῷ). Se è così, è evidente che, in quel luogo della Metafisica, Aristole stava parlando, non di uomini/pianta,47 bensì di uomini che, se dinanzi al principio fossero restati in silenzio, per questo, senza essere piante, a queste si sarebbero resi simili. Potrebbe sembrare una sottigliezza, o, a seconda dei gusti, una pedanteria. Ma, poiché quello aristotelico è un «luogo d’oro» della filosofia occidentale, e discuterlo non si può se insieme non gli si dichiara reverenza, aver richiamato il discorso al suo senso autentico, o, se si preferisce, al suo letterale significato, non sarà parso inutile a chi consideri che sulla condizione delle anime dei suicidi e sulla natura degli alberi che le ospitano è facile che nascano equivoci: e tanto più gravi se, per la migliore intelligenza della spiegazione fornita da Pier della Vigna, e per completarla, si ricorra a Ovidio e alla sua idea della metamorfosi. 19. La questione che si pone al riguardo è sottile, e merita di essere indagata: non appartiene, infatti, al numero di quelle che, a giusto titolo, si considerano superflue. Metamorfosi significa trasformazione di qualcosa in qualcosa d’altro: di una ninfa, per esempio, in un frondoso cespuglio, o, più in generale, di un oggetto o di una persona in un altro oggetto o in un’altra persona. Metamorfosi di questa natura, trasformazioni di corpi in altri corpi, di parti in altre parti, hanno luogo nell’Inferno: si penserà, com’è ovvio, al canto ventesimoquinto e alle prove virtuosistiche a cui Dante si sottopose: «taccia Lucano ormai là dov’e’ tocca/ del misero Sabello e di Nasidio,/ e attenda a udir quel ch’or si scocca./ Taccia di Cadmo e di Aretusa Ovidio,/ che se quello in serpente e quella in fonte/ converte poetando, io non lo ’nvidio;/ che due nature mai a fronte a fronte/ non trasmutò sì ch’ambedue le forme/ a cambiar lor matera fosser pronte».48 La trasformazione, nei casi citati, riguardava individui umani trasformati in bestie e in realtà naturali, ed era di esseri che, confondendo le loro membra, davano luogo a un terzo. Quelle che Minosse faceva sì che a caso cadessero nel luogo dove poi avrebbero germogliato e dato i loro frutti non subivano la trasformazione
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in albero o in cespuglio. Stavano, piuttosto, nell’uno o nell’altro, in modo che, crescendo intorno a esse, le includevano in sé. Oppure, e in modo meno semplice, nel farsi esse stesse albero o cespuglio, nello stesso tempo vi si includevano distinguendosene tuttavia in ragione della coscienza che avevano di sé e dell’altro, e della sofferenza che ne ricavavano. Non si trattava, dunque, nel canto decimoterzo, di una metamorfosi dell’anima in pianta. Si trattava di un imprigionamento, in questa, di quella che manteneva il suo carattere mentre intorno a lei si veniva formando un nuovo corpo; che non era più, come il precedente, di carne, perché non era che un albero che, nel crescere, la circondava e la teneva prigioniera dentro di sé, ma, a suo modo, era pur sempre, come si è detto, un corpo o come tale poteva essere considerato. Un’anima che, alla maniera di Ovidio, si fosse trasformata in pianta, sarebbe, alla fine, stata una pianta e non più un’anima. E Dante non avrebbe parlato di «anima incarcerata» se, compiuto il processo della metamorfosi, in forma radicale quella avesse tradotto in altro la sua natura. L’uomo/pianta è una pianta e non un uomo. Ma Dante non parlò di uomini/ pianta: parlò di anime imprigionate in alberi che, se fossero stati colpiti da una mano che dal tronco avesse divelto un ramo, avrebbero gridato la loro sanguinante sofferenza. Le anime erano tronchi, ma questi erano anime che, per l’eternità impossibilitate a uscire da ciò in cui erano incluse, avvertivano il dolore provocato da una mano che li avesse colpiti. Esibirsi, a questo punto, in spiegazioni che stiano in equilibrio fra il botanico e il fantastico, darebbe luogo, d’altra parte, né all’una né all’altra, ma soltanto al ridicolo; e così sarà opportuno astenersi dal tentar di spiegare nei particolari come in natura, in quella natura, avvenisse che l’anima fosse, da una parte, un germe che diventava pianta, e da un’altra la pianta che le cresceva intorno e la teneva chiusa in sé: da una parte fosse l’anima che non cresceva e, dall’altra, il crescere dell’albero che la includeva in sé come in una prigione producente crudele sofferenza. Per questo, invece che di un’anima/seme che si svolgeva in pianta, si è parlato di un’anima che, come se stesse inclusa nel suo «sé» che cresceva come una pianta, se ne distingueva e non poteva liberarsene, a differenza (ed ecco di nuovo il contrappasso) di quel che era accaduto in vita quando il gesto suicida aveva fatto sì che essa andasse da una parte e il corpo rimanesse da un’altra. In conclusione, alla spiegazione di questo fenomeno, inventato da Dante, e da lui lasciato all’intelligenza dei lettori, non danno il loro contributo, e non giovano, né Aristotele, presso il quale l’uomo si comporta come una pianta, ma non lo è, quando dinanzi al principio di non contraddizione si
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chiude nel silenzio, né Lucano e Ovidio con le loro metamorfosi. E occorre perciò cercar di capire di che natura sia il problema che esso pone: capirlo nei suoi termini, e così (tentare di) risolverlo. 20. Si può tornare, a questo punto, sia sulla questione posta dall’aumento che il dolore e la gioia avrebbero ricevuto dopo che, nel giorno del giudizio, le anime dannate e quelle elette fossero tornate in possesso dei loro corpi, sia, quindi, sull’eccezione rappresentata dalle anime dei suicidi alle quali i corpi non sarebbero stati restituiti perché «non è giusto aver ciò ch’om si toglie»: un’eccezione che, come si vide, nel testo di Dante indicherebbe un’incongruenza determinata dal silenzio che egli mantenne su questo punto. Quel silenzio potrebbe infatti essere addotto a conferma, sia della difficoltà che, per questo riguardo, s’era insinuata nel suo pensiero, sia anche del rischio a cui, a causa del chiarimento che, al riguardo, non era stato dato, egli esponeva la sua ortodossia. Ma, come si è visto, non è così; e conviene ribadirlo, non perché si abbia un qualsiasi interesse a difendere Dante dal sospetto di eterodossia, ma perché, a osservarlo con cura, non è difficile avvedersi che il testo nasconde, ma anche rivela, un elemento che, presente in esso, deve essere colto e ben valutato. Se, per altro, si torna su una questione che, salvo errore, ha ricevuto un sufficiente chiarimento, è per ribadire che l’aumento della pena consisteva, in questo caso, nell’essere, il corpo, sebbene separato, anche restituito, e presente, perciò, e incombente: a conferma, ribadita e aggravata, del gesto peccaminoso che in vita era stato compiuto nei suoi riguardi. C’era dell’ingegnosità, in questa rappresentazione? Vi si dava a vedere la prevalenza dell’invenzione visionaria sulla fredda ragione teologica? Vi si rendeva evidente il tentativo di venir fuori, con un’ingegnosa invenzione, con un’immagine più che con un concetto, da una difficoltà di ordine teologico di cui conveniva avvertire il lettore che la si era avuta presente e la si era superata, anche se in modi che avevano più del fantastico che del logico e del teologico? Era improprio adoperare un’immagine in luogo di un concetto? Sta di fatto che da quell’immagine proprio quel concetto seguitava a essere presupposto dopo esser stato tuttavia adattato al caso tutt’affatto particolare dei suicidi che, in vita, si erano privati del loro corpo, e ora ne avevano uno nell’albero in cui erano «incarcerati» e del quale non potevano liberarsi. Che, in questo caso, il concetto si fosse reso presente attraverso l’immagine dei corpi appesi ai rami degli alberi, tanto meno dovrebbe suscitare scandalo quanto più si consideri che l’atto peccaminoso che, nel suicidio, aveva separato
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l’anima dal corpo, ora tornava nella forma di questo crudo contrappasso per il quale il corpo era bensì restituito all’anima, ma rimanendo fuori del nuovo corpo che la includeva in sé. Si aggiunga ribadendo che Dante era l’autore di un poema, non di un trattato di teologia; e se, come l’autore della lettera a Cangrande (o lui stesso se ne fu l’autore) aveva avvertito, l’allegoria della Commedia era piuttosto quella dei teologi che non l’altra dei poeti, sarebbe tuttavia far torto all’evidenza se si dimenticasse, o non si considerasse, che se quel poeta era teologo, quel teologo era un poeta, ed era perciò ben naturale che nella teologia mettesse cose che a essa conferivano un carattere che per sé stessa non possedeva. 21. Quando disse che, dopo il giorno del giudizio, con il riacquisto del corpo alle anime dannate sarebbe derivato maggior dolore e a quelle elette in cielo maggiore gioia, Dante si poneva bensì la questione relativa alla possibilità che i tormenti infernali andassero oltre il limite e le gioie del Paradiso oltre il loro. Ma, perché non poteva, alla questione non dette una risposta che avesse carattere razionale. Lasciò che fosse consegnata a termini impropri. Il male, infatti, non è suscettibile di ricevere aumenti, e così il bene. Il problema era qui. Era nel chiedersi se l’uno e l’altro potessero essere spinti oltre il loro limite e condotti a una superiore perfezione. La risposta avrebbe dovuto essere che non potevano, e che, posta in quei termini, la questione era mal posta. Era, per conseguenza, di qui, e non dalla presunta eccezione rappresentata dal caso dei suicidi, che si sarebbe dovuto partire per misurare la pertinenza logica di ciò che ne nasceva. Che per i suicidi la pena non potesse essere inasprita, era conseguenza logica del non potere, il male, essere condotto oltre il suo limite: non della mancata restituzione a essi dei corpi. Ma la questione se il male, e il bene, potessero essere aumentati di intensità oltre il loro limite era, per Dante, una questione posta bene, non male; e la conseguenza era che quella sollevata a proposito dei suicidi, si presentava, o appariva, come, una difficoltà non superabile, un’eccezione da cui quella, la regola, era non confermata, ma infirmata. Ritenere che le cose stiano così, non è, per altro, se non il risultato di una lettura che sotto due riguardi si rivela inadeguata. Sotto il primo perché se, come si è detto, è più che problematico che bene e male siano conducibili oltre il loro limite, questo vale allora, per dir così, in termini assoluti: l’invalidazione della premessa, toglie infatti la conseguenza e chiude il discorso. Sotto il secondo perché, comunque, non è vero che il corpo non sia restituito ai suicidi dopo il giorno del giudizio e, sia pure
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indirettamente, l’aumento della pena non sia previsto e contemplato. Lo è, come si è visto. Ne consegue che, la situazione di questi ultimi essendo sostanzialmente coerente con la premessa della perfettibilità del bene come bene, e del male come male, la difficoltà logica non stava dove gli interpreti preoccupati dell’ortodossia l’avevano indicata. Stava, come si è detto, nella debolezza della premessa. Del che deve tenersi conto, perché la questione sia considerata sotto ogni possibile punto di vista; e magari si arrivi a dire che l’incoerenza di Dante è ravvisabile, non nel non aver ricondotto il caso dei suicidi sotto la regola prevista per gli altri peccatori, perché questa riconduzione ebbe luogo, ma, si deve ribadirlo, nel non essersi avvisto che, come il bene nel bene, così il male può essere aumentato solo nel male, il che implica un ribadimento, non un aumento. In quanto dotati di significato assoluto, né l’uno né l’altro possono infatti essere condotti al di là di sé stessi.
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Note 1. Questo saggio è dedicato all’interpretazione, non del canto decimoterzo nel suo complesso, ma alla questione indicata nel verso che gli dà il titolo. Riguarda dunque un tema importante in sé e per la discussione che ne è stata fatta dai primi commentatori del poema. Ma non è una lectura del canto. Se, ciò nonostante, ha finito per coinvolgere anche il modo in cui Dante rappresentò il dramma di Pier della Vigna, l’avvertimento dato qui resta valido: il saggio ha il suo centro nell’interpretazione di quel tema e della sua ortodossia o eterodossia, il resto si è aggiunto come svolgimento necessario di esso e non ambisce ad altra completezza. Si veda anche il mio La resurrezione dei corpi, ora in «Forti cose a pensar mettere in versi». Studi su Dante 2, Torino 2020, pp. 149-256. 2. Su Pier della Vigna, si veda H.M.Schaller, in Dizionario biografico degli Italiani, XXVII, Roma 1989, pp. 776-784. La sua figura fu delineata con molta nettezza, da E. Kantorowicz, Federico II, tr.it., Milano 1940, pp. 214 ss. Ma resta imprescindibile A. HuillardBréholles, Vie et corrispondance de Pierre de la Vigne, Paris 1865. Si veda anche A. De Stefano, La cultura alla corte di Federico II imperatore, Palermo 1938, D. Abulafia, Federico II. Un imperatore medievale, tr. it., Torino 1990. Sulle ragioni della sua disgrazia, cioè del suo tradimento, indubitabile per Kantorowicz, del signore, si veda il suo Federico II, pp. 502 ss., sul modo in cui si suicidò in carcere, ivi, p. 505. Ma conviene tener conto anche dell’ampio racconto che, della vita vissuta da Piero nella Corte di Federico, dell’importanza che via via vi assunse e delle ragioni che, forse, lo condussero a congiurare, o a esser vittima di una congiura, e provocarono comunque la sua disgrazia, si trova in F. D’Ovidio, Nuovi studi danteschi, I, Ugolino. Pier della Vigna. I simoniaci, Napoli 1932, pp. 205-229: un racconto ricco di particolari, in cui è messa a profitto la prima letteratura dantesca, il Lana, il Buti, Boccaccio, Benvenuto. (Al riguardo, si veda ora l’ampio saggio di F. Fiorentini, Il suicidio di Pier delle Vigne. Variazioni narrative negli antichi commenti danteschi, in «Annali dell’Istituto italiano per gli studi storici», 27 (2012-2013), pp. 145-207). La caduta di Pier della Vigna ebbe, come si sa, ampia risonanza. Tanto più è notevole che alle tante e divergenti voci che allora si intrecciarono sulla sua colpa o sulla sua innocenza Dante non alludesse, come se del possibile, se non probabile, tradimento dell’alto dignitario il lettore dovesse sapere soltanto dalle parole del personaggio che disperatamente lo negava, e senza aggiungere di suo nemmeno il commento dubitativo che avrebbe dedicato al conte Ugolino («ché se ’l conte Ugolino aveva voce/d’aver tradito te dele castella, etc.» [If XXXIII 85-86]). Quando Virgilio lo invitò a rivolgere la parola a Piero che già aveva risposte alle sue domande, Dante rifiutò, adducendo la «pietà» che provava per lui. Su questo punto, e perciò sui vv. 79-84, si tornerà. Ma intanto si noti che la «pietà» non aveva sempre prodotto questa conseguenza: basti pensare a Francesca e a Ugolino. Se, al riguardo nessuna certezza è lecita, resta che il silenzio è, in questo caso, o sembra che sia, indicativo di una tal quale volontà di lasciare la parola al personaggio e di non prendere partito. A differenza, infatti, di quanto trovo asserito in R. Morghen, Il tramonto della potenza sveva in Italia. 1250-1266, Roma-Milano 1936, p. 92, ma già in R. Davidsohn, Storia di Firenze, II, Guelfi e Ghibellini, I, Lotte sveve, tr.it., Firenze 1956, p. 489, e in altri (cfr., per esempio, F. Schneider, Kaiser Friedrich II und Petrus von Vinea im Urteil Dantes, in «Deutsches Dante-Jahrbuch», 18 (1948), pp. 230-250), non direi proprio che Dante si producesse in una «appassionata dife-
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sa» del ministro di Federico. Non è, ripeto, senza significato che, non intervenendo mai nel discorso e rifiutando, alla fine, l’invito che Virgilio gli aveva rivolto perché vi intervenisse, Dante avesse in sostanza lasciato che fosse lui, Pier della Vigna, a parlare in difesa di sé stesso e che di quel che diceva unica prova fossero le sue stesse parole. Con questo, e lo ripeto, non intendo dire che lo considerasse colpevole. Dico solo che nella questione preferì non entrare; e la cosa non è senza qualche importanza se si pensa che, quando Dante scriveva, si era già, riguardo alla fine di Piero, formata una varia opinio molto vivace (cfr. G. Contini, Poeti del Duecento, I/1, Milano 1995, p. 119) non sfavorevole alla sua rettitudine e onestà (si pensi a Salimbene, Cronica, ed. Bernini, I, Bari 1942, pp. 282-288, che, per altro, tanto più parlò in suo favore quanto più era ostile a Federico, o a G. Villani, Nuova Cronica, VII xxii 20-25), ma alla quale è più che probabile che se ne contrapponesse una di segno contrario, che è difficile pensare che a lui rimanesse sconosciuta. Beninteso, non è questo il luogo, e da parte di chi non sia studioso specifico di queste vicende, in cui possa decidersi se le accuse di tradimento rivolte al potente protonotaro e cancelliere avessero o no fondamento. Osserverei tuttavia che, se non ebbe dubbi sul punto che, «nel suo grande tribunale dei morti», Dante l’avesse assolto «da ogni accusa», per suo conto, nei riguardi di quelle dirette contro di lui, il Davidsohn tenne un atteggiamento assai meno incline a condividere questo atteggiamento. Pur senza prendere posizione decisa per l’una e per l’altra tesi, non mancò di dar rilievo, sia al clima che s’era determinato in quegli anni nella corte di Federico II, pronto a diffidare di tutto e di tutti dopo che gli era stato rivelato che il suo medico di fiducia aveva tentato di avvelenarlo (Kantorowicz, Federico II, pp. 502-503), sia alla complessità di una situazione politica che, non senza ragione, lo rendeva sospettoso e non lo teneva tranquillo (cfr. pp. 388-389). Sostenitore del suo tradimento fu invece K. Hampe, Deutsche Kaisergeschichte im Zeitalter der Salier und Staufer, Leipzig 1909, pp. 253-54, sostenitore della sua innocenza, De Stefano, La cultura alla corte di Federico II imperatore, p. 188. È singolare comunque l’osservazione di Kantorowicz, Federico II, p. 504: «incomprensibile resta però sempre la sproporzione tra il frutto del tradimento e le perdite che ne conseguirono: da un lato l’uomo che Pier delle Vigne venerava e che forse lui soltanto proclamava Redentore, dall’altra un pugno d’oro. Ma forse in questo incommensurabile contrasto si cela una profonda verità, e cioè che la potenza e il fascino di un grande non vengono distrutti dalle difficoltà che essi possono incontrare, bensì dalle loro stesse insignificanti debolezze». Una delineazione della personalità di Pier della Vigna nettamente discordante da quella consueta si ha nel dimenticato saggio di G. Pepe, Lo stato ghibellino di Federico II, Bari 1938, pp. 98-118, che lo rappresenta come un precursore dello stato laico («con la condanna di Pietro non resta di Federico che il volto tirannico» [p. 107] e interpreta il suo suicidio come un gesto compiuto con stoica consapevolezza («a muovere Pietro al suicidio non fu solo la disperazione, ma anche una matura nuova coscienza stoica, molto più seria che nel Petrarca e negli altri letterati dell’Umanesimo…» [p. 110]. Non è questa la sede in cui possa discutersi della storiografia del Pepe. Ma il suo libro merita di esser tenuto presente, e il suo autore di non essere dimenticato. 3. If XIII 3. 4. Può valer la pena di osservare che Gustave Doré fraintese, o non riuscì comunque a rappresentare, l’idea dantesca quando, in sostanza, «umanizzò», ossia dette forme umana agli alberi, facendo che i rami richiamassero le braccia e dividendo in basso il tronco, in modo che vi si indovinassero le gambe di chi vi era incluso. L’impresa non era facile, e
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forse era impossibile: un albero che includa in sé una forma umana è, infatti, un albero che, di per sé, non consente che quella vi sia visibile o anche soltanto sospettabile. Perché, come personaggio, Dante si rendesse conto della situazione di fronte alla quale era venuto a trovarsi, Virgilio aveva dovuto strappare dalla pianta un piccolo ramo, in modo che il sangue che ne era sgorgato lo mettesse nella condizione di intendere quel che l’albero nascondeva. Insomma, invece di rappresentare i corpi come sterpi, Doré fece il contrario, e rappresentò gli sterpi come alludenti a corpi, e così li umanizzò. Considerazioni sulla pittura dantesca di Doré si leggono in L. Battaglia Ricci, Dante per immagini. Dalle miniature trecentesche ai giorni nostri, Torino 2018, pp. 186-192, che, per altro, non si sofferma sulle sue illustrazioni del canto decimoterzo dell’Inferno se non per la rappresentazione della selva. 5. If X 94-108. 6. Sul personaggio, la cui identità resta incerta, cfr. G. Boccaccio, Esposizioni sopra la Comedia, a cura di G. Padoan, I, Milano 1994, pp. 623-624. 7. L’idea che le anime dei suicidi fossero lanciate da Minosse nel luogo a esse destinato per la pena eterna presenta, rispetto al modo in cui la sua azione è descritta in If V 5-12, una differenza che, sebbene di non grande significato (o, forse, di nessun significato), merita tuttavia di essere notata. Nel V canto, l’indicazione del girone era affidata alla coda del giudice, che tante volte si avvolgeva intorno al suo corpo per quanti gradi quello voleva che giù l’anima dannata fosse messa; e niente c’era in lui che accompagnasse questo gesto. Qui, invece, se l’avvolgimento della coda può considerarsi tacitamente presupposto, a esso si aggiungeva tuttavia il gesto della mano che afferrava l’anima, la lanciava nel luogo previsto, dove sarebbe cresciuta come un germoglio sul suolo della selva dei suicidi. La questione, se è una questione, si apre e si chiude qui. 8. If XIII 118. Non direi che, invocando la morte, il dannato si riferisse alla «seconda», ossia a quella che sulle anime dannate (come del resto, sull’altro fronte, anche su quelle beate) sarebbe caduta a rendere più grave la condanna (e più intensa la beatitudine). Non a ragione, perciò, N. Sapegno, La Divina Commedia, I, Inferno, Firenze 1985, p. 154, richiamò, al riguardo, If I 117; e tanto più in quanto egli parlava qui di «annientamento totale» come se, posto che un simile concetto sia pensabile, se ne desse, e potesse darsene, uno «parziale» (come ritenne M. Porena, La Divina Commedia, I, Inferno, Bologna 1957, p. 128). La spiegazione migliore del verso è anche la più ovvia. Lano, che è morto, non può invocare la morte che costituisce già la sua condizione, né è pensabile che invochi la seconda che, come che sia, rispetto a quella importa un’intensificazione della sofferenza. Se la sua invocazione è illogica nei confronti sia della prima morte, che costituisce la sua presente condizione, sia della seconda, in tanto egli la dichiarò in parole in quanto a ispirarla era, non la logica, ma la disperazione. E la sua era, non una richiesta, ma un’imprecazione. Vide bene, al riguardo, L. Pietrobono, La Divina Commedia, I, Inferno, Milano etc. 1940, p. 155, d’accordo, questa volta, con M. Barbi, Problemi di critica dantesca, I, Firenze 1934, p. 260. È singolare che Benvenuto de Rambaldis de Imola, Comentum super D. Alagherii Comoediam, a cura di G.F. Lacaita, I, Firenze 1887, p.455 , abbia considerata esaudita la implorazione di Lano, e che per questo egli uscì di scena e non se ne parlò più. Si veda, comunque, infra, n. 13. 9. Non è possibile, in questa sede, fermarsi sulla questione delle origini di Firenze alle quali qui Dante accenna. Egli vi alluse, ma ex silentio, e cioè limitandosi a ricordare
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la statua che a sua memoria era stata innalzata a Marte, e poi collocata sul Ponte Vecchio (cfr. Sapegno, Inferno, p. 156); e quindi alluse al Battista come al suo secondo fondatore. Per la questione basti qui il rinvio a N. Rubinstein, The Beginnings of Political Thought in Florence. A Study in Mediaeval Historiography, in «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 5 (1942), pp. 198 ss. Converrà invece notare che il Boccaccio, Esposizioni, p. 627, si preoccupò di distinguere la sua opinione sulle origini di Firenze da quella di Dante, che alla natura del primo fondatore aveva attribuita la sua disposizione bellicosa e in ciò era incorso, non solo in una «sciocchezza», ma anche in un’«eresia», perché nient’altro che eresia è «credere che alcuna costellazione possa nelle menti degli uomini porre alcuna necessità». 10. E.G. Parodi, Il comico nella “Divina Commedia” (1909), in Poesia e storia nella “Divina Commedia”, a cura di G. Folena e P.V. Mengaldo, Vicenza 1965, pp. 75-76. 11. If XIII 133. 12. If XIII 118 e 120-121. 13. Per alcune questioni relative alla seconda morte, può vedersi il mio La resurrezione dei corpi. A proposito di un verso dell’‘Inferno’ e di varie sue implicazioni, ora in «Forti cose a pensar mettere in versi». Studi su Dante 2, pp. 160-245. Va ribadito (cfr. n. 5) che l’invocazione della morte, non però della seconda, da parte di un dannato inseguito dalle cagne fameliche e in procinto di esserne sbranato, è insieme comprensibile e assurda. È comprensibile perché nella morte si vede la liberazione dal male che ci affligge e che verrà meno con la vita. È assurda se si considera che era l’anima di un morto che le si rivolgeva, e l’anima è immortale. Per l’idea della seconda morte si vedano comunque testi e discussione in L. Cassata, ED, III, 1040 a-1041 b (a 1041 b è studiato anche il caso di Lano). 14. If XV 121-124. Rinvio per questo al mio Dante e Brunetto Latini, in «Forti cose a pensar mettere in versi». Studi su Dante 2, pp. 315-376. 15. F. D’Ovidio, Il canto di Pier della Vigna, in Nuovi studi danteschi, I, 146. Per parte sua, Benvenuto, Comentum, I, 455-450, propose che il rischio di aver dato luogo a una tesi eretica poteva considerarsi evitato distinguendo tra Inferno in senso materiale e Inferno in senso morale; e poi, tuttavia, ebbe un moto d’impazienza e scrisse che come le cose stessero Dante lo sapeva benissimo, e che insomma era proprio impossibile che, cattolico quale era, ignorasse quel che anche le mulierculae sapevano. Il Boccaccio, Esposizioni, p. 620, aveva esordito dicendo che, a differenza di quanto avveniva in quella pagana, «non pare che la religion cristiana permetta ad alcun poeta cristiano, né in sua persona né in altrui, raccontare né far raccontare assertive alcuna erronea cosa e che contraria sia alla cattolica verità», salvo poi a cercar di salvare Dante dall’accusa di eresia distinguendo fra pena «illativa» e «pena privativa» (p. 621). Lo scopo di questo saggio è di dimostrare che non è con argomenti e con distinzioni di questa qualità che si arriverà a capire come in effetti le cose stiano. 16. Ibidem. 17. P. Alighieri, Comentum super poema Comedie Dantis, ed. by M. Chiamenti, Tempe 2002, p. 148, e quel che ne dico nel mio Purgatorio e Antipurgatorio. Un’indagine dantesca, Viella, Roma 2019, p. 97, n. 106. Ma cfr. ora anche il mio saggio Fra gli invidiosi, in questo volume, pp. 111-153.
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18. Verg. aen. 3, 24-49. È a questi versi che, com’è stato mille volte notato, Dante si ispirò per questa parte. Ma le differenze vanno tuttavia sottolineato. Di sua iniziativa, e non perché ne fosse stato richiesto da altri, Enea si era avvicinato a una «densis hastilibus horrida myrtus», cercando «viridemque ab humo convellere silvam». Cominciarono a uscirne «atro […] sanguine guttae» che «terram tabo maculant». Pervaso da freddo orrore (mihi frigidus horror), Enea cercò allora di strappare dall’albero un altro ramo, ma «ater et alterius sequitur de cortice sanguis», finché al terzo tentativo effettuato maiore nisu, «gemitus lacrimabilis imo/auditur tumulo et vox reddita fertur ad auris: ‘quid miserum, Aeneas, laceras? iam parce sepulto,/ parce pias scelerare manus». A parlare era, come tutti sanno, Polidoro che a Enea disse che aut cruor hic de stipite manat (v. 43). Nel decimoterzo dell’Inferno, al modello virgiliano Dante arrecò alcune varianti. Non di sua iniziativa, o per ragioni interne al suo viaggio, strappò dal tronco, in cui Pier della Vigna era infitto, un piccolo ramo, ma perché a ciò era stato indotto da Virgilio che, allo spirito, che di quella crudeltà si era lamentato, spiegò che se il suo allievo «avesse potuto creder prima […]/ ciò c’ha veduto pur con la mia rima/ non avrebbe in te la man distesa;/ ma la cosa incredibile mi fece/ indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa» (vv. 46-51). Poiché sono in argomento, aggiungo che non capisco il D’Ovidio, Nuovi studi danteschi, I, 179-181, là dove osserva che della morte di Polidoro, c’è, oltre quella di Virgilio, anche la diversa versione resa da Ovidio, Met. 13, 536-537, dalla quale si apprende che Ecuba «adspicit eiectum Polydori in litore corpus/ factaque Threiciis ingentia vulnera telis», e che, dimenticandosi dell’Eneide o, meglio, volendose dimenticare per giocare un tiro al maestro (p. 180), fu a questa, e non alla sua, che egli ricorse quando in If XXX 16-21, alluse a Ecuba, e immaginò che «trista, misera e cattiva, poscia che vide Polissena morta,/ e del suo Polidoro in su la riva del mar si fu la dolorosa accorta,/ forsennata latrò sì come un cane,/ tanto ’l dolor le fe’ la mente torta». Lascio al lettore diligente il piacere di vedere in che modo il D’Ovidio svolga ulteriormente il suo argomento; e, prendendo atto della differenza che passa fra l’uso che in If XIII 34 ss. aveva fatto dell’esempio del Polidoro virgiliano e quello che ne aveva fatto nel trentesimo canto, osserverei che a Dante, o non interessava di notare la diversità delle due narrazioni, o della possibile incongruenza non si era accorto. 19. aen. 3, 18-21. 20. Il tema, di origine orfica e pitagorica, e che fu compiutamente enunziato in Plat. Cratyl. 400 C, e accennato in Gorg. 492 A 2-3 (con le notazioni di E.R. Dodds, nella sua edizione del dialogo, Oxford 1959, pp. 292-93), non richiede di essere trattato qui, anche perché, in questa forma in Dante non è dato incontrarlo. Per la sua presenza nei diversi contesti culturali del mondo antico, può ancora ricorrersi a E. Rohde, Psiche. Culto delle anime e fede nell’immortalità presso i Greci, tr. it., II, Bari 1916, pp. 456 ss. E cfr. anche A. Rostagni, Il verbo di Pitagora, Torino 1924, p. 132. Per la presenza del tema nella cultura latina, si veda L. Ferrero, Storia del pitagorismo nel mondo romano. Dalle origini alla fine della Repubblica, Cuneo 1955, pp. 353-355. 21. Verg. aen. 3, 45-46. 22. Cv II iv 17. 23. Verg. aen. 3, 29-30. 24. Non so decidere se, riferito alle chiavi, «soave» indichi la facilità con la quale, serrando e disserrando, Piero le maneggiava, o se a quella debba essere anche aggiunta
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l’abilità con cui egli solo era in grado di servirsene così e di escluderne perciò ogni altro. Potrebbe vedersi in questo aggettivo la prova di un atteggiamento che, avendo provocato l’invidia, fu all’origine della rovina del ministro e anche, forse, l’altra che, nel presentarla come conseguenza dell’invidia che sempre domina nelle corti, Dante o non sapesse della congiura antifredericiana in cui Piero era stato coinvolto, o lo sapesse e preferisse non accennarvi per non introdurre nel racconto elementi che contrastassero con la versione dei fatti offerta dal dannato. È una questione che, sia pure indirettamente, verrà posta nel canto di Ugolino. Qui Dante preferì non renderla esplicita. 25. «Si arriva», scrisse E.G. Parodi, Lingua e letteratura. Studi di teoria linguistica e di storia dell’italiano antico, a cura di G. Folena, intr. di A. Schiaffini, II, Vicenza 1957, p. 350, «a due dita dalla caricatura». 26. A Riccardo conte di Caserta Federico II aveva parlato di lui come uno che «equitatis virgam vertebat in colubrum» (F. Baethgen, Dante und Petrus de Vinea, in «Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wissenschaften» Phil. Hist. Klasse, 3 1955, p. 46). Ma vedi J.-L.-A. Huillard-Bréholles, Vie et correspondance de Pierre de la Vigne, Paris 1865, p. 80. 27. Verg aen. 3, 44-45. 28. Sulla «pietà» di Dante nei confronti di Pier della Vigna, ragionò a lungo il D’Ovidio, Nuovi studi danteschi, I, 196-204, il quale non avrebbe potuto allontanarsi di più dal senso che la parola ha nel contesto del canto decimoterzo dove disse (p. 204) che «per la pietà al peccatore il più stretto riscontro è tra il Pier della Vigna e la Francesca», e concluse con una domanda: «perché ora uno dilinquimento di pietà verso il cortigiano svevo?». Non colse il punto nemmeno F. Novati, Pier delle Vigne, in Freschi e mimi del Dugento. Conferenze e letture, Milano 1908, pp. 75-77, che nella pietà indovinò anche l’ammirazione. 29. Come «uno dei versi più stupendamente espressivi che Dante abbia mai scritto», li giudicò V. Rossi nel suo commento alla Commedia, con la continuazione di S. Frascino, a cura di M. Corrado, I, Roma 2007, p. 265; e se intese che a tale «stupenda» espressività corrispondesse un contenuto di pari dignità non ebbe ragione, perché alla bellezza del verso non corrisponde l’altezza umana della figura di Pier delle Vigne (inutile dire che qui si parla di lui come personaggio, non come figura storica, e che il limite che gli si riconosce fu quello impostogli da Dante, non dai documenti che non risolvono, per altro, come si è visto, il dubbio relativo al suo tradimento). Ma forse il Rossi intese quel verso come risuonante nella sua propria perfezione formale, e riferibile, non in senso specifico alla figura del ministro fridericiano, bensì genericamente alla condizione umana; e, se fu così, finì per prenderlo al di fuori del contesto. Onestà vuole che si aggiunga che, per contro, il Rossi vide bene quando, a proposito del contesto in cui il verso si inserisce, parlò di «ineffabile mestizia», di «cupezza tragica, ma non patetica»: salvo che tornò a non aver ragione quando vi vide «una scena d’infinita pietà, perché descritta appunto da uno di quei miseri, e da quale!». Non si capisce infatti se la scena del ministro per l’eternità «incarcerato» nell’albero suscitasse, a giudizio del Rossi, la pietà di Dante, che la dichiarò ma non la mise alla prova del diretto colloquio con lui, o quella dei lettori. E capirlo sarebbe necessario perché la pietà dei lettori non ha rilevanza per l’interpretazione del canto e della figura di Piero, quella di Dante, ovviamente, sì.
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30. Sulle consonanze fra il linguaggio della corte, nel cui uso Piero fu maestro, e quello di Dante in questo canto decimoterzo, molti si sono fermati. Ma qui non ne citerò che alcuni, senza tuttavia dimenticare il saggio, già ricordato, e assai notevole, del Novati, Pier della Vigna, pp. 67-102. Già il Parodi, Lingua e letteratura, II, 349-350, aveva addotto a riprova vari passi delle epistole di Piero (ma le sue pagine sono notevoli anche per quel che dicono, in ripresa del giudizio di De Sanctis, sul «personaggio, cortese e nobile sì, ma un poco esteriore e vano» (p. 350). Le sue epistole si leggono in J.L.A. Huillard-Bréholles, Vie et correspondance de Pierre de la Vigna, Paris 1865, e sono state largamente commentate. In riferimento a Dante, mi limito a ricordare L. Spitzer, Speech and Language in ‘Inferno’ XIII, in Romanische Literaturstudien 1936-1956, Tübingen 1959, pp. 544-568, e l’ampio saggio di E. Paratore, Alcuni caratteri dello stile della Cancelleria fredericiana, in Antico e nuovo, Caltanissetta-Roma 1965, pp. 117-210, nonché l’altro, Analisi ‘retorica’ del canto XIII dell’‘Inferno’, in Tradizione e struttura in Dante, Firenze 1965, pp. 178220. Sull’ipotesi che a Firenze Dante leggesse un’antologia delle lettere di Pier della Vigna «contenute, con altre scritture latine, in un codice pergamenaceo duecentesco ora alla Biblioteca Bodmeriana di Cologny (Ginevra, cod. 132), già posseduto da ser Andrea Lancia», G. Gorni, Dante. Storia di un visionario, Roma-Bari 2009, pp. 39-40, si è mostrato scettico. Sul codice delle epistole di Pier della Vigna, si veda comunque il suo saggio Dante, Andrea Lancia, l’Ovidio volgare e Pier delle Vigne, in Dante prima della ‘Commedia’, Cadmo, Fiesole 2001, pp. 179-187. 31. If XIII 70-72. 32. Per esempio da C. Grabher, La Divina Commedia, I, Inferno, Firenze 1940, p. 162, seguìto da Paratore, Analisi ‘retorica’ del canto di Pier della Vigna, p. 195. 33. «In fine siquidem devenit ad tantam depressionem et ad tantam miseriam, quod imperator fecit eum caecari; qui, dedignatione motus, percussit caput ad quendam murum et sic semetipsum miserrime interfecit, sicut tum communi fama dicebatur». Sono parole che si leggono nel breve profilo biografico che s’incontra nel V trattato dell’opera del Bonatti sull’astronomia (Guidonis Bonatti forlivensis mathematici De astronomia tractatus X universam quod ad iudiciariam rationem Nativitatum, Aeris, Tempestatum attinet comprehendentes, Basileae 1550, c.210. Un’altra edizione, che è in realtà la prima, apparve a Auspurg 1491). Il passo citato è anche in D. Guerri, Un astrologo condannato da Dante: Guido Bonatti, in «Bull. Soc. dant. ital.», n.s., 22 (1915), pp. 200-254. Ma la citazione è dalla ristampa in D. Guerri, Scritti danteschi e d’altra letteratura antica, a cura di A. Lanza, Anzio 1990, p. 179. Qui, n. 72, il Guerri rivia il «dedignatus» del testo al «disdegnoso gusto», sagacemente, per un verso, ma senza rilevare, tuttavia, quel che di proprio deve riconoscersi all’espressione dantesca. Su questo passo si veda anche Baethgen, Dante und Petrus de Vinea, pp. 16-17. Guido Bonatti, come si sa, fu messo da Dante, in If XX 118, fra gli indovini, ma senza alcun rilievo: «vedi Guido Bonatti; vedi Asdente,/ ch’avere inteso al cuoio e alo spago/ ora vorrebbe, ma tardi si pente». 34. Che in «gusto» debba cogliersi una «sfumatura di piacere», è stato ben visto da Sapegno, Inferno, p. 151, seguendo il Tommaseo (si veda il suo Commento alla ‘Commedia’, a cura di V. Marucci, I, Roma 2004, p. 317). Ma questo non è che il punto di partenza. 35. If XXIV 143-151.
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36. Cfr, qui su, n. 34. E si veda Kantorowicz, Federico II, pp. 504-505. Ma, per quel che riguarda l’esegesi antica, si riscontrino almeno Benvenuto, Comentum, I, 441, Boccaccio, Esposizioni, pp. 610-612, e anche A. Lancia, Chiose alla ‘Commedia’, a cura di L. Azzetta, I, Roma 2012, p. 267. 37. D’accordo con U. Bosco, Il canto dei suicidi, in Dante vicino, Caltanissetta-Roma 1985, pp. 265-266, che il primo disdegno si riferisce all’animo di Piero, il secondo ai cortigiani, non mi pare tuttavia che possa dirsi che il ministro si uccidesse «illudendosi che con la sua morte avrebbe evitato, o almeno che non ne avrebbe più sofferto, come ne soffriva da vivo, il disprezzo da cui si sentiva circondato sotto l’accusa infamante» (p. 265). È difficile, in effetti, che di un suicida che abbia eseguito il suo atto e l’abbia realizzato, possa dirsi che non sente più, o sente di meno, l’ostilità che l’aveva colpito in vita e aveva provocato il suo gesto. Realizzato il suo atto, l’uomo che sentiva e soffriva e s’illudeva, non ci sarebbe stato più e né avrebbe sofferto, né si sarebbe illuso, ma nemmeno avrebbe provato il piacere che gli sarebbe derivato dalla cessazione delle sofferenze. Il paradosso del suicidio è proprio questo: che il piacere che deriva dal non esserci più della sofferenza del soggetto umano è impedito dalla sua realizzazione e può essere soltanto immaginato prima che il gesto che lo esegue sia stato compiuto, e con il senso di intima frustrazione che al non poterlo se non immaginare è necessariamente intrinseco. Che se poi gli si riconoscesse un’anima immortale, alla quale quei sentimenti seguitassero ad appartenere, allora meno che mai quell’osservazione potrebbe riferirglisi: com’è dimostrato da Pier della Vigna che, chiuso nell’albero dal quale mai sarebbe uscito, seguitava a soffrire dell’infamia a cui era stato condannato in vita e che il suo gesto aveva consegnata all’eternità. 38. Il D’Ovidio, Nuovi studi danteschi, I, 185-188 (ma vedi anche pp. 141-146) si interrogò a lungo sul significato di questi versi, che ora gli apparvero chiari, se guardati a distanza, ma, «ad avvicinarvisi», tali che «si confondono, e ci abbarbagliano», perché «l’antitesi stessa che ne aumenta l’efficacia ne scema la chiarezza» (p. 185). Le pagine che dedicò alla loro comprensione vanno lette con cura, non solo perché ai dubbi di un esimio dantista è giusto concedere sempre l’attenzione che non meritano i detentori di sfavillanti certezze, ma anche perché vi si discute del Tommaseo e, andando più indietro nel tempo, del Castelvetro, e quindi del Buti, di Benvenuto, del Boccaccio. Certo è, tuttavia, che la glossa che, giunto alla fine dei suoi travagli esegetici, il D’Ovidio propose non restituisce il senso della terzina che, a parer suo, si lascerebbe tradurre così: «vinto da smanioso disgusto, credetti uccidendomi liberarmi da quella smania». In realtà, qui nessuna «smania» ha luogo; e intendendo così ci si mette sulla via che poi fu del Grabher, del Paratore e di altri, e ci si preclude la possibilità di capire che fu per il disdegno di cui faceva oggetto l’altrui disdegno che, per rabbioso dispetto, egli si uccise, passando con ciò dalla parte del torto. Aggiungo che non riesco a capire perché, a suggello della sua interpretazione, il D’Ovidio, Nuovi studi danteschi, I, 188, citi da Verg. aen. 6, 434-436, il v. 435 insontes peperere manu lucemque perosi, che espone un’idea che non potrebbe essere più lontana da quella, cristiana, di Dante. I suicidi virgiliani odiano la luce (sono lucem perosi), ma sono anche insontes, innocenti: che hanno a che fare con l’idea secondo cui il suicida è sempre degno dell’Inferno? Nel suo commento all’Eneide, III, Milano 1979, p. 76, E. Paratore ha giudicato l’idea espressa in questi versi, ancora oscillante fra l’onore reso alla vita e l’onore reso alla morte», ha citato il libro di A. Rostagni su Pitagora e quello di L. Ferrero sulla storia del pitagorismo. Non è una questione che possa essere affrontata qui, e da parte di chi non
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conosca da specialista la concezione orfico-pitagorica. Ma converrà ribadire che da questa l’idea dantesca è lontanissima, e che né nel libro del Rostagni né in quello dl Ferrero ho trovato cose che riguardino il punto che qui è in discussione. 39. Non riesco a persuadermi che il silenzio in cui Dante si mantenne durante il colloquio di Pier della Vigna con Virgilio possa esser messo in relazione al consenso che egli dava alle sue idee politiche filoimperiali, come fu sostenuto da Bosco, Dante vicino, p. 285, e alla sua sostanziale identificazione con lui proposta da L. Olschki, Dante and Peter de Vinea, in «Romanic Review», 31 (1940), pp. 105-111. Non c’è, nel canto, un solo verso che, a parte la citazione di Federico II come oggetto della cura che Piero ebbe di lui, alluda all’Impero; e certo alla tesi non dà conferme il titolo che gli è attribuito di Augusto (v. 68). Aggiungerei che, come si astenne dal prender parte al colloquio intrattenuto da Virgilio con Pier della Vigna, così Dante evitò di dire alcunché sulla questione dell’Impero, o di prendere occasione, dalla storia che narrava, per esprimere un giudizio su Federico II, sulla cui figura, dopo l’elogio di VE, I xii 4, ebbe sempre qualche esitazione a esprimersi in termini di esplicita approvazione (in Pg III 112-113, Manfredi dice di essere «nepote di Costanza imperadrice» invece che figlio del suo figlio: cfr. G. Inglese, Commedia, II, Purgatorio, Roma 2011, p. 67). Non si dimentichi che Federico è condannato fra gli ‘epicurei’ del decimo canto dell’Inferno, e che il suo nome non è pronunziato direttamente da Dante se non una volta. È pronunziato in modo indiretto nel decimoterzo attraverso le parole di Piero («al mio segnor, che fu d’onor sì degno» [v. 75]), nel Purgatorio XVI 115-117, in modo diretto nel Paradiso, III 118-120 («questa è la luce dela gran Costanza/ che del secondo vento di Soave/ generò ’l terzo e l’ultima possanza»). Dall’esprimere un giudizio si astenne, nel decimoterzo dell’Inferno, non perché, come supposto da Sapegno, Purgatorio, p. 33, risentisse di quel che si diceva nell’ambiente guelfo in cui era cresciuto, ma perché lì a parlare era soltanto l’anima del personaggio prigioniero dell’albero, e alla sua voce la sua non doveva, per ragioni di stile, essere aggiunta. 40. If XX 32-33. 41. Come intende S. Gentili, L’uomo aristotelico alle origini della letteratura italiana, Roma 2005, pp. 120-121. La Gentili ha ragione nel ricordare che in Summa theol. II 2, q.64, a.5, Tommaso asserisce che, con il suo gesto, il suicida «iniuriam facit communitati», e che quel che egli argomenta in questo luogo è in linea con Aristotele, Eth. nic. 1138 a 9 che, a sua volta, ripeteva un pensiero platonico, Phaed. 61 E-62 C, passato anche in Plotino, Enn. I 9, e quindi in Aug. civ. dei, I 20. Che questo del torto che, togliendosi la vita, il suicida fa alla società, che si trova a esser privata di una delle sue forze, sia un luogo classico del pensiero antico passato in quello cristiano, è nozione ovvia. Ma resta che in Dante questo tema non è richiamato (il che non significa che, in un’altra parte di sé, non lo condividesse); e If XI 42-43 secondo cui «convien che sanza pro si penta/ qualunque priva sé del vostro mondo», parla del suicida come di uno che si priva del mondo, non del mondo a cui quello, il suicida sottragga sé stesso impoverendolo. Dante scrive «vostro mondo» intendendo che questo appartiene a coloro a cui egli rivolge il suo discorso e che del mondo sono perciò ancora in possesso. Rivolto a suoi lettori egli dice: «a voi che siete vivi e ascoltate il mio discorso, dico che il suicida si è privato del vostro mondo, del mondo in cui voi siete e vivete». Per questo, ribadisco quanto detto nel testo, il mondo è definito «vostro». 42. If XI 40-44.
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43. If X 91-93. 44. Si veda comunque quel che ne dice il D’Ovidio, Nuovi studi danteschi, I, 147-151. 45. P. Alighieri, Ιl ‘Commentarium’ nelle redazioni ashburnhamiana e ottoboniana, a cura di R. Della Vedova e M.T. Silvotti, Firenze 1978, pp. 227-228. 46. Non condivido perciò, su questo punto, quel che leggo in Gentili, L’uomo aristotelico alle origini della letteratura italiana, pp. 122-125, che ha avuto tuttavia il merito di aver richiamata l’attenzione su questo luogo del commento di Pietro Alighieri. 47. Come suggerisce G. Inglese, Inferno, I, Commedia, Roma 2007, p. 159. 48. If XXV 94-102.
4. Il giudizio su Guinizzelli e il commiato dai maestri
1. Nel suo viaggio nell’aldilà Dante incontrò Guido Guinizzelli sull’ultima cornice del Purgatorio, sulla quale scontavano il loro peccato coloro che in vita aveva praticato l’eros al di là del limite in cui avrebbe dovuto essere contenuto. Su quel girono incrociavano il loro cammino, procedendo l’una in senso inverso all’altra, due schiere di peccatori. La prima invocava i nomi di Sodoma e Gomorra, ed era quella dei sodomiti. L’altra invocava il nome di Pasife, ed era quella di coloro che scontavano il peccato che uno di essi, si trattava di Guido Guinizzelli, definì come «ermafrodito».1 L’aggettivo, che nella Commedia costituisce un hapax, fu usato dal celebre poeta bolognese per indicare coloro che, in tanto meritavano di esser definiti così, in quanto, nell’esercitare l’eros, non aveva seguito l’«umana legge», ma, «come bestie», si erano rese vittime dell’«appetito». A Guido Guinizzelli, dopo che lo ebbe riconosciuto, Dante dedicò versi impegnativi, nei quali, intrecciato con il sentimento dell’ammirazione, traspare un giudizio sulla sua poesia, che, alludendo a rime «dolci e leggiadre», stabilisce un crudo contrasto con quello implicitamente pronunziato sul comportamento che gli aveva meritato di essere collocato fra coloro che in quello della regina Pasife riconoscevano il loro peccaminoso modello. I versi, in cui Guinizzelli fu definito da Dante come il «padre» suo e degli altri suoi «miglior,/ che mai rime d’amor usar dolci e leggiadre», presentano un problema. Da un lato, Guinizzelli ricevette da lui un alto e, si direbbe, incondizionato elogio: fu riconosciuto e indicato come il «padre», che qui valeva perciò anche come maestro, di un modo di poetare del quale, senza far questione di tempi e, si direbbe, anche di idee, nel formulare il relativo giudizio Dante si considerò discepolo e riconobbe come il suo. Da un altro, sta tuttavia il fatto indiscutibile che, proprio per ragioni concernenti l’eros,
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non solo cantato nelle poesie, ma altresì praticato nella vita, Guinizzelli era parte di coloro che, nel dichiarare il loro peccato, gridavano il nome di Pasife, simbolo di un eros spinto al di là del suo limite naturale. La implicita distinzione che si è costretti a considerare presente e operante fra l’eros cantato e quello praticato distingueva sul serio, e, a proposito della stessa persona, autorizzava due diversi giudizi? Guinizzelli apparteneva alla schiera della quale era parte per il modo in cui, nel corso della sua vita, aveva praticato l’eros, e solo per questo, o anche per quello in cui l’aveva cantato? Il peccato di cui, con le altre anime formanti il suo gruppo, si emendava sull’ultima cornice del Purgatorio, si era realizzato nella vita senza coinvolgervi la poesia, o era ravvisabile in certi modi di questa, alludenti a una passione che si alimentava di sé stessa e, non trovando né appagamento né pace, meritava anch’essa di essere ritenuta «ermafrodita»? Se a questa seconda ipotesi si dovesse dar credito, è chiaro che il riconoscimento che Dante faceva di Guinizzelli come di un maestro non andrebbe senza difficoltà: imporrebbe, infatti, serie limitazioni. Nei versi che aveva composti prima di por mano alla Commedia, e anche nelle rime «petrose», all’eros aveva sempre imposta una ferma misura, avvertibile anche quando più aveva insistito sui momenti drammatici ai quali la passione d’amore apre la via. In Così nel mio parlar vogli’ esser aspro, l’aspra fisicità riguardava non l’amore colto nel suo atto, ma la sofferenza che la durezza della donna petra produceva nell’anima. «È m’ha percosso in terra e stammi sopra/ con quella spada ond’elli uccise Dido/ Amore, a cu’io grido/ ‘merzè!’» (vv. 35-38). «Perverso» era definito esso, «che disteso e riverso/ mi tiene in terra d’ogni guizzo stanco», ed era una «angosciosa e dispietata lima/ che sordamente» consumava la vita del poeta, che anche si sentiva «manducato» dai suoi denti (v. 32).2 Ma l’elemento sensibile era stato escluso con decisione. Se quindi, tornando al Guinizzelli, l’idea fosse che, in lui, dalla vita l’amore «ermafrodito» era passato nella letteratura, il riconoscimento che Dante ne faceva come di un maestro porrebbe un problema. Ma è proprio sicuro che sia così, e che non si debba invece pensare che la collocazione di Guinizzelli in quel girone del Purgatorio abbia a che fare con la sua vita, non però con la poesia da lui scritta, sebbene anche in questa l’eros avesse presentato il suo crudo volto? In effetti, è lo stesso riconoscimento che Dante gli dette come di un «padre» letterario, che consiglia di tenere separate la poesia e la vita e di non assegnare a questa il carattere di quella: nel qual caso l’elogio dantesco non avrebbe il senso che gli si deve riconoscere. Sull’ultima cornice del monte Guinizzelli scontava
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il peso di una vita peccaminosa, e, poiché Dante non lo dice, nessuno può, sostituendosi a lui, ritenersi autorizzato a pensare che a determinare la qualità della sua pena anche le sue poesie avessero contribuito. A escluderlo si è indotti dal modo in cui Dante descrisse l’incontro con lui. Insomma, la distinzione fra la vita e la pagina, distingueva sul serio. 2. Quando, dalla sua viva voce, apprese che quella che gli aveva spiegato in che senso e perché le due schiere si distinguessero l’una dell’altra, era l’anima di Guido Guinizzelli, Dante avvertì un sentimento simile a quello che, nella Tebaide, Stazio disse che fu provato dai due figli che Ipsìpele aveva avuti da Giàsone quando rividero la madre. Per abbracciarlo si sarebbe gettato nel fuoco in cui quell’anima si trovava se il timore di bruciarsi non l’avesse trattenuto dal compiere il gesto temerario. Come dimentico di sé stesso, «sanza udire e dir pensoso» andò «lunga fiata rimirando lui», dopo di che, in un gesto supremo di cortesia ma, soprattutto, di reverenza, «tutto» s’offerse «pronto al suo servigio,/ con l’affermar che fa credere altrui» (vv. 100-104). Estremamente elaborato fu, come si vede, il modo in cui Dante aveva costruito l’incontro. L’artificiosa ricercatezza con cui aveva delineato il paragone staziano3 del suo sentimento con quello dei figli di Ipsìpele, e quindi la sua ammirazione per la figura di Guinizzelli, risultarono perfettamente in linea con il modo in cui l’aveva ritratto all’inizio quando era stato informato che l’anima che gli parlava era quella che in vita era appartenuta a colui che, dopo aver saputo chi fosse stato, non aveva esitato a definire «padre». Ebbene, se è così, che altro c’è da aggiungere in margine al riconoscimento di questo alto magistero? Niente, parrebbe, se l’assegnazione di Guinizzelli alla schiera di coloro che avevano meritato di esser definiti dal nome di Pasife, non è posta in contrasto con la dolcezza riconosciuta alle sue rime d’amore, e, nel dichiarargli la sua devota ammirazione Dante sembrò dimenticare la natura del peccato del quale si stava purificando: dimenticarla o, se si preferisce, prescinderne. Eppure, qualcosa da aggiungere c’è. Se è innegabile che, nel rappresentare Guinizzelli nel modo in cui gli parve giusto rappresentarlo, non c’è traccia di un dissenso che in Dante fosse insorto nel leggere le sue poesie e nel seguire, sul fondamento di queste, le linee della sua concezione dell’amore, vero è anche che fra questa e la sua la differenza era netta: come si può facilmente constatare se, dopo aver letto i versi del maestro bolognese, si considerano i suoi, e anche si segue il filo dei ragionamenti che in tema d’amore erano stati da lui svolti nel terzo trattato del Convivio. Il confronto che si istituisca fra
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i versi dell’uno e quelli dell’altro non lascia dubbi. Terrestre era l’amore cantato da Guinizzelli. Orientato nella direzione del cielo quello cantato da Dante. Ma c’era anche, dalla sua parte, la teoria. Commentando Amor che nella mente mi ragiona, nel terzo trattato del Convivio Dante aveva scritto che sua intenzione era stata di «ischiudere ogni falsa oppinione» da lui «per la quale fosse sospicato lo mio amore essere per sensibile dilettazione». «Amore», aveva scritto a III ii 3, «veramente pigliando e sottilmente considerando, non è altro che unimento spirituale dell’anima e della cosa amata: nel quale unimento di propia sua natura l’anima corre tosto e tardi secondo che libera è o impedita». Ne discendeva che «questo amore, cioè l’unimento della mia anima con questa gentil donna, nella quale della divina luce assai mi mostrava, è quello ragionatore del quale io dico; poi che da lui continui pensieri nasceano, miranti ed essaminanti lo valore di questa donna che spiritualmente fatta era colla mia anima una cosa» (III ii 9). E qui, conviene porre un freno alla libido citandi perché, se proseguissimo, ci trovremmo di fronte alla tripartizione dell’anima in vegetativa, sensitiva e intellettiva, che è quella che «tutte queste potenze comprende, [ed] è perfettissima di tutte l’altre», e cioè «l’anima umana, la quale colla nobilitade della potenza ultima, cioè ragione, participa della divina natura a guisa di sempiterna Intelligenza: però che l’anima è tanto in quella sovrana potenza nobilitata e dinudata da materia, che la divina luce, come in angelo raggia in quella: e però è l’uomo divino animale dalli filosofi chiamato». A quella libido conviene porre un limite, perché l’indubbio estremismo filosofico, presente nell’idea dell’anima umana a tal punto «dinudata da materia, che la divina luce, come angiolo raggia in quella» coinvolgerebbe questioni che in questa sede non potrebbero essere adeguatamente trattate. Conviene porle un limite, ma non, tuttavia, fino al punto di non ricordare le parole che sulla natura dell’amore, richiestone da Dante con particolare insistenza («però ti prego, dolce padre caro,/ che mi dimostri amore, a cui reduci/ ogni buono operare e ’l suo contraro»),4 Virgilio aveva spese nel canto decimottavo. «Vostra apprensiva da esser verace», gli aveva spiegato, «tragge intenzion, e dentro a voi la spiega/ sì che l’animo ad essa volger face;/ e s’e’, rivolto, invèr di lei si piega,/ quel piegare è amor, quell’è natura/ che, per piacer di novo in voi si lega» (vv. 22-27). Ma aveva aggiunto: «poi, come il foco movesi in altura/ per la sua forma ch’è nata a salire/ là dove più in sua materia dura,/ così l’animo preso entra in disire,/ ch’è moto spiritale, e mai non posa/ fin che la cosa amata il fa gioire» (vv. 28-33). E aveva concluso: «or ti puote apparir quant’è nascosa/ la veritade ala gente ch’av-
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vera/ ciascun amor esser laudabil cosa,/ però che forse appar la sua matera/ sempre esser buona: ma non ciascun segno/ è buono, ancor che buona sia la cera» (vv. 34-38). Che questa fosse l’idea dell’amore che Dante aveva cantata in Amor che nella mente mi ragiona e dovunque avesse indirizzato il suo pensiero a Beatrice, è indubbio, e non richiede ulteriore dimostrazione. Che non concordasse con quella che Guinizzelli aveva rappresentata nelle sue poesie, nelle quali aveva sostenuto che «ciascuno amore» è in sé «laudabil cosa», lo è altrettanto.5 3. Non è certo il caso di tentare qui, e da parte poi di chi non fa professione di critico letterario, una rapida sintesi dei temi presenti nella sua poesia. Meno che mai converrebbe partire dalla più celebre, Al cor gentile reimpara sempre amore, che, almeno in parte, importerebbe l’analisi della filosofia dell’amore che in quella canzone è implicita. Il compito qui è assai più limitato, e altrettanto modesto. Per andare alla ricerca degli elementi e dei temi che, nel canzoniere guinizzelliano, potrebbero aver determinata la riprovazione di Dante e l’esigenza, all’altezza del Purgatorio, di una palinodia,6 una rapida scorsa in esso basterà.7 Si osservi in Madonna, il fino amor ched eo vo porto, la sequenza che dal v. 11 conduce al v. 18. E la si consideri, non solo per il tono cupo che la caratterizza e per la connessione con la morte, che ha grande rilievo in Ch’eo cor avesse, mi potea ladare («nascosa morte porto in mia possanza,/ e tale nimistate aggio nel core/ che sempre di battaglia mi minaccia»), ma anche per l’ossessione, derivante dal non appagamento, che dall’amore deriva e a esso è intrinseca, e che fu già ricordata quando, in un’altra sede,8 si tentò di capire in che senso, e proprio a proposito di Guinizzelli, Dante aveva usato l’aggettivo «ermafrodito» («Amor non mi pò dar fin piagimento:/ anzi d’aver m’allegra ogni tormento./ Dar allegranza amorosa natura/ senz’esser l’omo a dover gioi compire,/ inganno mi simiglia;/ ch’Amor, quand’è di propria ventura,/ di sua natura adopera il morire,/ così gran foco piglia»). Ancora converrà ricordare, nei versi iniziali di Donna, l’amor mi sforza, l’insistente richiamo della «voglia d’amare» che «ciascun giorno inforza», e l’immagine della «nave ch’esce di porto/ con vento dolze e piano, fra mar giunge in altura», ma «poi vèn lo tempo torto,/ tempesta e grand’affanno/ li aduce la ventura», sì che «si sforza molto/ como possa campare,/ che non perisca in mare» e l’animo non sia «miso a tempestare». E, nel sonetto Chi vedesse a Lucia, l’emergere prepotente della nota sensuale: «ah, prender lei a forza, ultra su’ grato, e bagiarli la bocca e ’l bel visaggio/ e li occhi suoi, ch’èn
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due fiamme de foco!»,9 e, per finire, questa incompletissima rassegna con i versi di Pur a pensar mi par gran meraviglia, che sembrano accennare a una critica della condizione umana («e ’n adagiarsi ciascun s’assottiglia/ come non fusse mai più altra vita, e poi vène la morte e lo scompiglia,/ e tutta sua ’ntenzion li vèn fallita») e una sorta di pentimento («e però credo solo che ’l peccato/ accieca l’omo e sì lo fa finire,/ e vive come pecora nel prato»). Non si lavora d’immaginazione se si ritiene che con questa rappresentazione dell’amore, e del forte filo che lo lega alla morte, altrettanto poco Dante si sentisse in sintonia che con la permanente presenza del sesso nell’orizzonte guinizzelliano. Se il tema dell’amore che dà morte apparteneva a lui (nelle ‘petrose’) come a Guinizzelli, e a molti altri, non gli apparteneva invece la rappresentazione dell’amore come esperienza vissuta e bramata. Insomma, c’erano simiglianze, e, tuttavia, forti differenze. Ma il punto, che non deve esser perso di vista, perché smarrirlo significherebbe confondere i termini della questione, – il punto è che questa è pur sempre la parola del critico, non quella di Dante; che, al riguardo, tacque, non segnò differenze, non mise sé da una parte e Guinizzelli da un’altra, e se dissentì da lui e, per un suo aspetto non secondario, non apprezzò la sua idea dell’amore, tanto poco ne fu indotto a rifiutare la sua poesia che in essa riconobbe qualcosa di importante e di vitale per la sua. Che dalla lettura delle sue poesie, e soprattutto da Pur a pensar mi par gran meraviglia, avesse ricavata la ragione, o una delle ragioni che lo indussero a collocarlo sulla più alta cornice del Purgatorio e a trovargli un posto fra i peccatori che si ponevano sotto il segno di Pasife, non c’è, nei suoi scritti, nessun indizio. La congettura che dai suoi versi e dal modo in cui l’amore vi era cantato fosse stato indotto a collocarlo fra coloro il cui peccato era stato «ermafrodito» è, e resta, niente più che una congettura; che non autorizza a immaginare un giudizio negativo seguìto da una palinodia, della quale non si sarebbe comunque potuta e saputa spiegare la genesi e la ragione. Perché, se la cambiò, a proposito della poesia di Guinizzelli Dante avrebbe cambiato idea? Da che cosa potrebbe essere stato indotto a cambiarla? In realtà, e si deve ribadirlo, la consapevolezza di questa differenza, acuita a contrasto, e il rilievo dato a essa, appartengono ai critici che notarono quel che non divenne mai, invece, oggetto della sua esplicita considerazione. Se dissentì da Guinizzelli, Dante non ebbe tuttavia mai, o mai trovò, il modo di spiegare in termini espliciti in che cosa il dissenso consistesse e le loro concezioni non concordassero. Che fra quanti ritenevano che «ciascuno amore» fosse
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«in sé laudabil cosa», anche Guido Guinizzelli fosse compreso, è possibile e anche probabile. Ma sta di fatto che un’allusione a lui in particolare e alla sua più importante canzone, manca. Il che pone la questione relativa alle ragioni che indussero Dante a ignorarla, e, salvo errore, a non alludervi: a differenza, conviene aggiungere, di quel che era avvenuto nei confronti di Guido Cavalcanti. Lasciando da parte le questioni emergenti dai versi celeberrimi e tormentatissimi del decimo dell’Inferno, e, con ogni probabilità, alludenti a questioni che andavano oltre quella dell’amore, la presenza di Cavalcanti nella Commedia è notevole, anche al di là delle indicazioni fornite da Contini, e a sottenderla è sempre il dissenso. Sostanzialmente cavalcantiana, assai più che guinizzelliana («di sua potenza segue spesso morte»)10 è, nel quinto dell’Inferno, la concezione richiamata da Francesca da Rimini («amor condusse noi a una morte»). E puntuale, nella Commedia, fu lo sforzo che Dante compì per confutarla11 anche al di là dei termini segnati dalle teorizzazioni attribuite all’«intellettuale» romagnola, come la definirono Contini e Garboli.12 Non così per Guinizzelli. Contando la citazione che nell’undecimo del Purgatorio ne fu fatta da Oderisi («così ha tolto l’uno a l’altro Guido/ la gloria dela lingua; e forse è nato/ chi l’uno e l’altro caccerà del nido»),13 e aggiungendola a quel che si legge nel canto ventesimosesto, la sua presenza nella Commedia si riduce a due luoghi, nei quali, né nell’uno né nell’altro, non si dà parola che suoni esplicitamente critica e si risolva nell’esplicito accenno al superamento che la sua fama era sul punto di subire a opera di qualcuno che del suo valore già aveva dato prova. 4. Che, tuttavia, della differenza che, nella questione dell’amore e della sua rappresentazione, teneva lontana la sua dalla concezione del maestro bolognese, Dante fosse consapevole, è ovvio: non potrà sul serio pensarsi che, di quel che aveva scritto nel canto undecimo, nel ventesimosesto si fosse dimenticato. È un fatto, tuttavia, che, in questo canto, di una contrapposizione non si fa parola. Vi si legge invece un alto apprezzamento, che non reca tracce di palinodie, e tuttavia richiede attenzione: è infatti possibile che, se vi si guarda con più attenzione, e più a fondo, l’elogio riveli un limite che pone un problema e richiede che vi si ragioni. In realtà, l’autentico paradosso che vien fuori dalle parole dedicate a Guinizzelli è che, se mai l’esigenza di una palinodia accennò, in qualche momento a prender forma nella sua coscienza, a tal punto, componendo il canto ventesimosesto, Dante cancellò ogni differenza da lui, e ogni critica che avesse
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avvertito di dovergli rivolgere, che di quella, della palinodia, tolse, alla radice, la ragione che l’avrebbe giustificata. La cosa richiede di essere notata. Dante non era uomo che rifuggisse dalle contrapposizioni, anche drastiche, e amasse la concordanza dei pensieri. Nella Commedia la differenza che istituì fra la sua dottrina dell’amore e quella di Cavalcanti è netta: se non da parole esplicite, fu dichiarata tuttavia dai pensieri e dalle rappresentazioni drammatiche a cui dette luogo. Ma di una contrapposizione della dottrina sua a quella di Guinizzelli, invece, non c’è traccia. Le rare volte che il suo nome compare nei suoi scritti, l’intonazione del giudizio è sempre più che positiva, la polemica, se mai ebbe la tentazione di intraprenderla, e che pur avrebbe potuto insorgere, fu evitata. Nel De vulgari eloquentia, I ix 3, dopo aver citato una sua canzone che iniziava con la parola «amore», di lui parlò, a I xv 6, come del più grande dei poeti che s’erano serviti del volgare bolognese: maximus lo definì per due volte, a poca distanza l’una dall’altra. E questo giudizio non trovò, nei suoi scritti, parola che lo smentisse. Ma c’è di più, e si tratta di una questione che non si esagera se la si definisce di capitale importanza. Soltanto a un maestro Dante aveva riconosciuto di essere stato, e di esser tale, per lui: era Virgilio. L’altro, e la cosa francamente sorprende, è Guinizzelli, dal quale, se non disse di aver tratto «lo bello stilo» che gli aveva fatto onore, affermò tuttavia di esser «figlio», e di esserlo, si badi, non, genericamente: si riferì infatti alle sue rime «rime d’amor […] dolci e leggiadre» (v. 99), a «li dolci detti vostri,/ che quanto durerà l’uso moderno,/ faranno cari ancora i loro incostri» (vv. 11214). Difficile cogliere in questi versi, e soprattutto nei primi, l’atmosfera di lieve ironia che vi ha sorpreso chi, per un altro verso, ne era stato messo in difficoltà.14 Sia pure che, nel giudizio di Dante s’avverta la presenza (una vera e propria citazione) dell’esordio del sonetto [O] caro padre meo che Guinizzelli aveva inviato a Guittone insieme al testo di una canzone sulla quale attendeva il giudizio che puntualmente fu dato in Figlio mio dilettoso, in faccia laude. Sia pure che, se è un’imitazione, quella che egli fece dell’incipit della suddetta canzone avesse lo scopo di far pronunziare a Guinizzelli, come corollario di quel che aveva appena detto di Arnaut Daniel e di Giraut de Bornelh, il giudizio limitativo che della poesia guittoniana Dante aveva già dato, oltre che nel De vulgari eloquentia,15 nell’incontro con Bonagiunta;16 e sia pure che a questo gioco allusivo debba prestarsi attenzione, dopo averlo posto in luce. Ma non c’è ironia, vera o presunta, che valga a sminuire l’importanza dei versi che Dante gli dedicò; né si potrebbe restringerne l’ambito con l’osservazione secondo cui, poiché, nelle sue poesie,
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quel poeta non aveva conosciuto altro argomento che l’amore, non citarlo sarebbe stato impossibile. Sta di fatto che il giudizio fu pronunziato, ed è giusto stare alle parole che lo costituiscono. Il che è tanto ovvio quanto lo è che, se l’idea dell’amore non era in Dante la stessa che in Guinizzelli, e la differenza non era tale che potesse non essere dichiarata incomponibile, il miglior partito sarebbe stato di non citarlo affatto e di non dargli un così impegnativo riconoscimento. Ma non fu così. Malgrado la differenza, il riconoscimento fu dato. Riconoscimento di un magistero, da una parte, differenza che, tuttavia, non poteva essere cancellata, da un’altra. È qui il «nodo» che, al momento opportuno, si dovrà cercar di sciogliere. Consapevole della questione che in tal modo si apriva, e della sua insidiosità, Aurelio Roncaglia cercò di temperarne l’asprezza proponendo che l’elogio del poeta bolognese riguardasse piuttosto l’affetto che Dante provava per lui che non il concetto che s’era fatto della sua poesia.17 Ma di un trasferimento che egli avesse fatto dell’elogio dalla sfera dei concetti a quella degli affetti non c’è, nei versi del canto ventesimosesto, alcun indizio: l’elogio è totale, non contiene parole che implichino riserve o distinzioni. Tanto più, direi, gli si deve riconoscere questo carattere, e tenerne ferma l’idea, quanto più si consideri che Dante lo pronunziò di fronte al fuoco in cui, con i suoi compagni di espiazione, Guinizzelli «affinava» il suo peccato, e che egli dovette vincere in sé la tentazione di entrarvi («ma non a tanto insurgo») per abbracciare colui che aveva dichiarato il suo nome e svelata la sua identità. Che poi, a una considerazione più attenta al contesto, in quel giudizio possa cogliersi la lieve incrinatura che lo rende meno perfetto di quel che le sue parole facciano, o intenderebbero far ritenere, è vero; e lo si è già accennato. Ma si tratterà di vedere in che senso possa dirsi così; e, appunto, in quale contesto. 5. Siamo giunti, percorrendo questa via, al punctum saliens della questione; che non vale cercar di minimizzare osservando che, dopo tutto, Guinizzelli era stato considerato un padre, e non, in senso proprio, un mae stro. Se Dante l’aveva definito nel primo modo, e non nel secondo, se la parola «maestro» non fu da lui pronunziata, a far sì che si debba considerarla compresa nell’altra, può valere la considerazione che, e non una sola volta ma innumerevoli, anche a Virgilio era stato dato quel nome che, se non includeva l’altro, dal quale piuttosto era incluso, valeva tuttavia a richiamarlo e a renderlo presente. La questione perciò rimane; e tanto più in quanto è francamente difficile dare a essa una persuasiva o soltanto con-
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veniente risposta. Certo, non si andrebbe lontano dal vero se si osservasse che, con quei versi, a Guinizzelli Dante aveva riservato il trattamento che non aveva concesso a Cavalcanti, e che nella differenza che in tal modo aveva stabilita era forse presente e operante l’intento polemico di rendere evidente, o più evidente, la distanza che ormai lo separava da colui che era stato il suo «primo amico», e, per usare la incisiva espressione di Contini, gli aveva «salato il sangue».18 Ma, a parte che queste sono congetture di gusto psicologico poggianti su fondamenta infide, sta di fatto che, se si torna indietro alle parole di Oderisi e le si prende alla lettera, quel che ne risulta è che, sul primo Guido (Guinizzelli), il secondo (Cavalcanti) aveva progredito tanto da togliergli la gloria della lingua, che presto, per altro, Dante avrebbe tolta anche a lui consegnandolo al passato. Letto alla luce di questi versi dell’undecimo canto, l’elogio di Guinizelli contenuto nel ventesimosesto indicava perciò piuttosto il passato che il presente, una stagione trascorsa, alla quale poteva guardarsi con affetto, ma niente di più. Si trattava infatti di un’esperienza della quale sarebbe stato ingiusto non riconoscere l’importanza nell’atto, tuttavia, in cui, senza dichiararlo ma lasciandolo ben intendere, la si includeva in limiti non valicabili. Il padre rimaneva il padre, e gli si doveva affetto. Il maestro, invece, apparteneva a un tempo ormai trascorso. L’elogio perciò si riferiva al passato, non al presente e al futuro. Il futuro apparteneva a Dante che, in tal modo e per questa via, restringendone in anticipo il significato, finiva per togliere, o per presentare come tolto, quel che avrebbe scritto nel successivo canto del Purgatorio. Si dirà (ancora una volta) che così si razionalizza troppo, che la Commedia è un poema, e non, sebbene così l’avesse definita l’autore dell’Epistola a Cangrande (con buona probabilità attribuibile a Dante), un opus theologicum? Si aggiungerà che la differenza che si nota fra il giudizio presente nel canto decimottavo e quello formulato nel ventesimosesto è niente più che la conseguenza del controllo che Dante aveva mancato di eseguire sull’un luogo e sull’altro, e che, per questo, la discrepanza gli sfuggì, ma che di una semplice discrepanza si trattava, e vedervi di più è impossibile? Il rilievo non sembra pertinente. La discrepanza esiste, e conta poco o niente che sia, forse, il risultato di un mancato controllo e di una rilettura, in quel punto non eseguita, perché con questo si viene a dire che, se la si fosse eseguita, la discrepanza sarebbe stata tolta dopo esser stata, tuttavia, riconosciuta insieme alla necessità, quindi, di discuterla. Si tratta infatti di decidere se la discrepanza sia tale che Dante
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l’avrebbe eliminata nel caso che, rileggendosi, l’avesse notata, o se, in tanto non la notò o, avendola notata, non pensò di eliminarla, in quanto in lui erano vivi sia l’affetto che nutriva nei confronti di Guinizzelli sia la consapevolezza del suo essere andato oltre i limiti del suo magistero poetico. Andando oltre le ragioni dell’affetto e emergendone, il giudizio consegnava a un passato ormai trascorso gli apprezzamenti presenti nel canto ventesimosesto del Purgatorio. Ma non poteva cancellare l’affetto e la riconoscenza: per i discepoli che ne siano degni i maestri restano tali, in una parte della mente, anche quando abbiano cessato di esserlo e la loro parola si sia allontanata nel tempo. La Commedia, si ripete, è un racconto, non una quaestio filosofica e teologica, anche se la filosofia e la teologia sono interne al suo ambito. Ma, racconto poetico o opus theologicum, se, anziché distendersi e progredire, in un punto il suo filo logico tendeva a formare un nodo e a aggrovigliarsi togliendo, o rendendo meno limpido, quel che aveva concesso, perché ci si dovrebbe astenere dal notarlo e dal chiederne la ragione? Perché, se in un canto (il ventesimosesto) si presentava un giudizio che, in un precedente (l’undecimo), era stato implicitamente superato, non si dovrebbe invertire idealmente l’ordine in cui le cose si presentano, e collocare dopo quel che nel testo viene prima? Nel canto ventesimosesto Guinizzelli era sia un «maestro», sia, in forma affettiva, un «padre». Ma nell’undecimo canto, messa la questione nei termini del superamento storico o, se si preferisce, del progresso conseguito, da Dante, aveva da tempo cessato di esserlo: la sua gloria era stata superata da quella di Cavalcanti, la quale, a sua volta, stava cedendo a quella di Dante. Guinizzelli era stato un maestro e, poiché lo era stato, faceva parte di un’esperienza alla quale, non potendo essere né cancellata né ignorata, conveniva guardare con affetto. Ma apparteneva al passato. La riaffermazione che del suo ruolo si faceva nel canto dei lussuriosi penitenti conteneva perciò in sé, nel suo fondo, questa decisiva, anche se non dichiarata, riserva: della quale non si può non tenere conto nel momento in cui si dà il dovuto rilievo a un asserto che, senza tuttavia smentirla, metteva le cose in un ordine diverso, meno lineare e più complesso. A questo punto, potrebbe riprendersi l’osservazione di Roncaglia sull’affetto che avrebbe sostituito il giudizio: ma, deve ribadirsi, solo se si ritenesse che, ben ricordando quel che aveva detto nel canto decimottavo, e confermandolo, al giudizio che consegnava Guinizzelli al passato, Dante avesse fatto corrispondere l’affetto e, con questo, la gratitudine che nutriva per la sua figura.
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6. Quando, nel canto undecimo, accennava a sé stesso che all’uno e all’altro Guido avrebbe, forse, tolto la gloria della lingua cacciandoli entrambi, diceva con una forte espressione, dal «nido», Dante aveva prospettato sé stesso e la sua opera in relazione al presente/futuro, non al passato. Poiché il giudizio era contenuto nella seconda cantica della Commedia, era a questa, e al suo universo letterario, che teneva rivolta la mente: di questa, e della sua novità, faceva criterio di giudizio. Con la novità che rappresentava rispetto al passato abitato da Guinizzelli e da Cavalcanti, era infatti la Commedia a costituire il suo nuovo presente. Alla luce di quel che veniva scrivendo, egli poteva perciò decisamente consegnare al passato, anche se con diverso giudizio e diversa passione, l’insegnamento ricevuto da quei poeti. È vero che l’undecimo del Purgatorio è il canto della fama che non ha fatto in tempo a formarsi e già si perde, perché «non è il mondan romore altro ch’un fiato/ di vento ch’or vien quinci e or vien quindi,/ e muta nome perché muta lato» (vv. 100-102). È vero che, come Oderisi gli aveva detto, l’umana «nominanza è color d’erba/ che viene e va, e quei la discolora/ per cui ella esce dela terra acerba» (vv. 115-117). Ma resta, tuttavia, che in quel momento del tempo, Dante pronunziava un giudizio in ragione del quale a contare era il presente: un presente, si badi, che tuttavia indicava un futuro che presto sarebbe stato presente e avrebbe visto il suo primato. Che la fama non fosse che «color d’erba/ che viene e va», non toglieva, infatti, che essa avesse un suo tempo, che dal suo presente rinviasse, non solo al non conosciuto futuro, ma anche al conosciuto passato e, rispetto a questo stabilisse le differenze; che, per Dante significavano la Commedia, ossia l’opera con la quale stava segnando la distanza da quanti, in passato, avevano contato per lui. Di qui la necessità che egli avvertì di prospettare nella luce che quella diffondeva sul suo passato intellettuale e su coloro che avevano contribuito a formarlo, il giudizio che doveva darsene, e che, nell’esser formulato, non poté non risentire della frattura che quest’opera aveva introdotto nella sua storia. Di qui, ancora, la tendenza a una verifica, non solo delle idee e delle opere sue che l’avevano preceduta, ma anche di quelle di coloro che avevano contribuito a renderle possibili e a formarle. Questa tendenza alla storicizzazione delle idee sue, e di quelle con le quali era venuto in contatto, si era formata in lui assai presto insieme all’altra per la quale ciò che l’aveva preceduto era in funzione di quel che ne era derivato, e cioè di sé stesso e della sua opera che di tutto questo rappresentava la «verace» realizzazione. Nella Vita nuova xxiv 4-5, Giovanna, ossia la cavalcantiana monna Vanna, era stata posta in relazione con Beatrice come
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il Battista lo era stato con Cristo. Il che, tradotto in termini storici, importava l’idea che Guido Cavalcanti e la sua opera erano venuti al mondo per preparare quella di Dante e la vera luce che da essa si sarebbe diffusa nel mondo.19 Il primo, Guido, era il Battista, ma il secondo, Dante, era Cristo. Un giudizio sconcertante, che implicava la possibilità che a nascerne fosse stata una seria crisi e un conseguente distacco. Ma non si trattava soltanto di superbia intellettuale, o di giovanile intemperanza. Al di là di quel che si legge nel «libello», questa disposizione importava l’altra a fare la storia di sé stesso e della sua propria opera. Importava perciò la tendenza, non solo a indicare i maestri, ma a stabilire, con essi, la giusta relazione e, perciò, a giudicarli. A giudicarli e, perciò, a misurare la distanza che s’era determinata da loro. La Commedia, ossia l’opera che aveva prodotto nella storia di Dante la più drastica cesura, di questa storia, e delle conseguenze che ne erano derivate, offriva il documento e, naturalmente, con sé stessa, anche il criterio per comprenderla, e giudicarla. 7. Fu una tendenza, o un’attitudine, che ha il suo più importante, e esso pure sconcertante, documento nei versi in cui, nel primo canto dell’Inferno, Dante dichiarò che Virgilio era stato il suo unico maestro, quello da cui aveva tratto «lo bello stilo» che gli aveva fatto onore. Un giudizio di cui già in un’altra occasione20 si ebbe modo di rilevare la singolarità; che tanto più, in effetti, meritava di essere definita così, in quanto, presentato all’inizio dell’unica opera, la Commedia, che avrebbe potuto, almeno in parte, giustificarlo, obbligava a guardare nella direzione di un passato letterario del quale non poteva dirsi che Virgilio e l’Eneide avessero costituito il modello e la sostanza. Il paradosso da cui, con questo giudizio, il lettore era messo di fronte era tale da giustificare l’altro consistente nel mancato avvertimento della sua natura. L’unica opera che Dante poteva aver scritta nel nome e nel segno di Virgilio era, si ripete, la Commedia. Ma, nel momento in cui l’incontro con lui ebbe luogo nella selva, il gran libro non aveva ancora avuto inizio. Nel proclamare Virgilio suo maestro e autore, nel dire che da lui, e solo da lui, aveva tratto il «bello stilo» che gli aveva fatto «onore», Dante esprimeva perciò un giudizio che, mentre sembrava assegnare un passato a un’opera che apparteneva al futuro, a quanto aveva scritto fin lì dava l’impressione di star togliendo la nota della realtà e fare come se mai fosse venuto al mondo. Periodizzava in modo drastico, e, deve dirsi, volutamente arbitrario. Cancellava polemicamente il passato, distaccandolo da sé in modo
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tale che il vero inizio era nel tempo in cui, pesanti, quelle parole cadevano su quel che era stato e lo cancellavano. Osservata dalla prospettiva offerta dalle parole rivolte a Virgilio, la selva svelava un altro dei suoi molti significati. Era non solo il luogo del peccato e degli smarrimenti che ne erano derivati. Era altresì il simbolo della crisi letteraria e culturale che colui che vi si era disperso avvertiva in quel che fin lì aveva scritto. Mentre, all’apparenza, i versi dicevano il contrario, perché alludevano a opere insigni (il «bello stilo» che gli aveva fatto onore) scritte nel passato e pur attribuite al magistero virgiliano, per un altro parlavano di una crisi e, nella comparsa improvvisa dell’autore dell’Eneide indicavano il segno, non della continuità che si ristabiliva dopo un’interruzione, ma del nuovo che si manifestava e, al passato, conferiva un diverso senso. Il tratto singolare da cui l’apparizione, nella selva, di Virgilio è segnato, sta nella strana incongruenza che qui converrà notare. Da una parte, essa significava come il nuovo che eliminava il vecchio, come la luce che fugava le tenebre dello «smarrimento» e inaugurava una nuova età che, nell’affermarsi, offriva a Dante il criterio di un inedito periodizzamento. Da un’altra, indicando nel passato il «bello stilo» che gli aveva fatto onore, faceva sì, e pretendeva, che il «nuovo» fosse già stato presente nell’età dello smarrimento, o in una fase antecedente al suo manifestarsi, che non ne sarebbe perciò stato impedito: in modo tale che quella del poeta latino sarebbe stata, non un’apparizione, per dir così, assoluta, ma una riapparizione avvenuta dopo che, con la diritta via, anche la sua lezione era stata smarrita, e doveva essere recuperata. In realtà, se questa discrasia è ineliminabile, perché era nella pretesa che a Dante sempre il «bello stilo» virgiliano fosse appartenuto, è anche vero che quella dell’autore dell’Eneide nella selva fu da lui presentata come l’apparizione assoluta di chi era intervenuto nel luogo della perdizione per trarlo fuori da esso e avviarlo su un sentiero mai prima percorso. Vero è altresì che, alla luce della verità che ora gli era rivelata e lo avviava sul sentiero della salvezza, era inevitabile che con occhi nuovi si volgesse al passato: al suo che, come si è detto, per un verso pretendeva che fosse in continuità con il presente, e per un altro no, e a quello di quanti avessero contato nella storia della sua formazione, a cominciare naturalmente dal primo amico, da Guido Cavalcanti. È un tema, questo, del quale non sembra che, nell’esegesi antica e in quella moderna, si sia avvertita l’importanza e si sia dato risalto. E sul quale converrà che si torni nelle pagine conclusive di questo scritto.
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8. La Commedia è un’opera complessa, è storia, autobiografia, apocalisse. In quanto è storia e autobiografia, importa anche la storicizzazione delle amicizie; e la storicizzazione non va senza il giudizio. Se la si ripercorre, non è difficile accorgersi che l’incontro con i maestri avviene, in essa, nel segno di un distacco, indicato in vari modi, ma, alla radice, sempre con nettezza. Quello che si era determinato nei confronti di Cavalcanti fu dichiarato, nei versi criptici e insieme drammatici, del decimo canto dell’Inferno. Se le ragioni della crisi e del distacco siano da ritrovare nella provocazione di Donna me prega, o altro si debba aggiungere, non è dato sapere. Ma che si trattasse di una crisi, e del distacco che ne era conseguito, non può essere materia di dubbio: come ben più che una congettura è che, fra le ragioni che persuasero Dante a collocare il suo viaggio ultramondano in un mese del 1300, ci fu anche quella per cui, Guido Cavalcanti essendo, in quell’anno, ancora fra i vivi, a lui non incombeva l’obbligo, al quale altrimenti non avrebbe potuto sottrarsi, di decidere in quale luogo dell’aldilà la sua anima dovesse essere collocata, e se questo dovesse necessariamente essere lo stesso in cui, con il ghibellino Farinata, aveva trovato posto Cavalcante, il padre del suo amico; che ghibellino non era, ma «epicureo» sì, e perciò degno di stare in eterno nelle arche infuocate. In realtà, se, nella finzione cronologica della Commedia, Guido era ancora in vita quando il viaggio aveva avuto inizio ed era in corso, non possono esserci dubbi sul punto che, con l’amicizia, anche al suo magistero intellettuale Dante avesse detto addio: con asprezza, forse, da parte sua, e ricevendone altrettanta. Se ne ha forse la prova nel dialogo che, nel decimo dell’Inferno, egli intrattenne con Cavalcante de’ Cavalcanti, il padre di Guido. Non se ne dirà, qui, se non l’essenziale: in un’altra sede, infatti, se ne parlò a lungo.21 Si ribadirà pertanto che, a differenza di come per lo più è stato rappresentato, Cavalcante è tutt’altro che un personaggio flebile, gracile, e che suscita la pietà che si deve a un padre in pena per il proprio figlio e, poi alla notizia della sua morte, schiantato dal dolore. Nel nome di questo, a cui riteneva che fosse stato fatto un torto, era un personaggio che aggrediva («se per questo cieco/ carcere vai per altezza d’ingegno,/ mio figlio ov’è? e perché non è teco»).22 La domanda che egli rivolse a Dante dopo che, emerso con la sola testa dal sepolcro infuocato, aveva capito e visto che apparteneva sul serio a lui la voce che si era in precedenza intrecciata con quella, di Farinata, – questa domanda fu pronunziata infatti con il tono di chi lancia una sfida in nome dell’«ingegno» che al figlio non era stato riconosciuto pari a quello del suo amico, visto che non era con lui. Se Cavalcante la pro-
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nunziò «piangendo», il pianto rivelava qualcosa come la rabbia impotente, non la lamentosa debolezza. Per Cavalcante, epicureo (e cioè di tendenze averroiste), a contare era l’ingegno, e cioè l’intelletto: a quello, e non ad altro, doveva darsi il riconoscimento che Guido, ai suoi occhi meritava non meno di Dante. Donde la replica di quest’ultimo che, con parole allusive, ma crudeli, per un verso dovette ricordargli che, se Guido non era con lui, la ragione c’era, e stava nella sua miscredenza, ossia nel «disdegno» riservato a chi (Beatrice, Virgilio, Dio) non avrebbe dovuto riceverlo, e per un altro, usando il verbo al passato («ebbe?»),23 lasciò intendere che fosse morto, provocando la disperazione di Cavalcante che, «quando s’accorse d’alcuna dimora/ ch’io facea dinanzi a la risposta, supin ricadde e più non parve fora».24 La replica di Dante era stata feroce, a dimostrazione che profonda era stata la crisi intervenuta nei rapporti dei due amici; e la ferocia fu aumentata dalla «pietà» che gli dimostrò. Rivolgendosi a Farinata, dal quale aveva ricevuto spiegazioni sul modo in cui ai dannati era dato di vedere, o piuttosto di non vedere, nel presente, Dante lo pregò che dicesse a quel «caduto» che «’l suo nato» era, «co’ vivi ancor congiunto». Dove, e non sia mai che si stia cedendo a «impressioni», nella scelta della parola «nato» sembra di avvertire la sottolineatura di un fatto biologico che allontanava da sé la nota dell’affetto. Altro sarebbe stato se invece che al «suo nato» Dante si fosse rivolto al suo «amico» e l’avesse chiamato per nome. Con quel termine, Guido era consegnato al padre, e tolto all’amico. 9. È una situazione, questa, che, in modo diverso e con un esito, questa volta, quasi comico, si ripeté nell’incontro con Brunetto Latini, un maestro presentato come anche un padre; e che tuttavia fu fatto parlare in modo che, se si abbia cura di mettere a riscontro delle sue parole le idee che s’incontrano in alcune parti del Tresor, nemmeno in questo caso può dubitarsi che, anche nei suoi riguardi, Dante avesse dato luogo a un netto distacco. Ser Brunetto era un uomo del Comune, incapace di guardare, con il pensiero, al di là del suo confine, e della parte nella quale militava, anche se, proprio per ragioni politiche, dopo la grave sconfitta patita dai Guelfi a Montaperti, aveva dovuto lasciare l’Italia, o, meglio, era stato costretto a rimanere per molti anni in Francia dove, per ragioni connesse al suo ruolo, si trovava quando quegli eventi si verificarono. Quando lo incontrò nell’Inferno Dante aveva ormai diretto, o stava rivolgendo, il suo sguardo all’Impero, e di quel vecchio mondo, che era poi necessariamente anche il suo, perché vi era nato e cresciuto, aveva cominciato da tempo a avvertire
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la angustia. Da Firenze entrambi, in tempi diversi, in diverse situazioni, e con diversa modalità, avevano dovuto star lontano: ser Brunetto per molti anni,25 Dante per sempre. Ma, ideologicamente, Brunetto Latini era rimasto chiuso nel suo ambito comunale, Dante ne era uscito. Basta leggere il Tresor, che beninteso occorre aver letto sul serio, per capire il senso del canto decimoquinto dell’Inferno, e, dalla parte di Dante, il Convivio, per misurare la distanza che si era determinata fra i due. Si può, con sacrosante ragioni, diffidare delle storiografie modernizzanti che, per conseguenza, giudicano il valore delle opere a seconda della distanza, o, se si preferisce, della vicinanza che realizzano nei confronti di ciò che coloro che le praticano giudicano «moderno». Con questo criterio sono state dette e scritte insigni sciocchezze. Ma, al di là delle diverse lingue in cui furono composti, la differenza che passa fra il Tresor e il Convivio è quella che distingue un’enciclopedia, e questo il libro di ser Brunetto intendeva essere, da un’opera di pensiero, dominata da idee pensate e ripensate da una mente che vi si era impegnata fino in fondo: se «modernità» è questo, il Convivio è opera moderna, e meglio sarebbe dire di pensiero, il Tresor no. E si aggiunga quel che in un’altra occasione fu notato. Nel momento in cui Dante era intento a delineare nella sua mente la fisionomia dell’Impero che, palesemente lo contrapponeva al modo in cui il «dettatore» fiorentino, come lo chiamava Giovanni Villani, insegnava la politica ai Fiorentini, Brunetto Latini entrava a far parte del numero dei maestri ai quali sentiva di dover dire addio. La differenza che Dante aveva ormai segnata nel pensiero politico, rimasto chiuso, in ser Brunetto, in un’angusta prospettiva municipale, e lontanissimo perciò da quello del suo «allievo» che aveva ormai nell’Impero il suo criterio, non fu affermata nella forma della esplicita contrapposizione. Ma in quella implicita sì, e con discreta nettezza. Quando, con un lieve moto di gelosia, Brunetto gli chiese chi fosse colui che indicava il camino, per delicatezza Dante non fece il nome di Virgilio, ma disse, ed era tutto, che effettivamente il suo compito era di mostrarglielo e di ricondurlo a casa, ossia sulla retta via (vv. 48 e 54). Che non era perciò, ed è ovvio, quella che Brunetto avrebbe potuto indicare, e aveva indicata. E poi c’era, non notata ma evidente, la nota comica. A dare il senso della distanza che si era determinata fra i due, se non bastasse l’analisi comparata delle questioni affrontate nelle due opere, sarebbe infatti sufficiente lo sguardo che Dante rivolse all’ antico maestro che, terminato il colloquio che l’aveva tenuto fermo presso l’antico discepolo, si allontanava goffamente correndo per raggiungere la schiera di cui era parte e per non essere raggiunto da quella
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che sopraggiungeva e in cui non avrebbe potuto e dovuto trovar posto: uno sguardo affettuoso nell’atto in cui la scena ne era tuttavia volta sì al patetico, ma a un patetico che sfumava nel comico. Anche la raccomandazione che ser Brunetto faceva al vecchio discepolo del suo Tesoro finiva per esserne coinvolta: non senza che all’affetto si aggiungesse un tratto di inevitabile crudeltà.26 10. Il congedo dato a Brunetto Latini ha richiamato il discorso dalla sponda letteraria a quella politica. Ma, riguardo a questa, non sembra che Dante vi avesse incontrati uomini che avesse mai potuto riconoscere, in questo campo, come maestri da accogliere senza critica. Avrebbe, in effetti, dovuto andare indietro nel tempo perché, senza arrivare a quelli mitici della Firenze antica, rievocati da Cacciaguida, gli fosse dato di incontrare uomini degni di essere ricordati con onore. Di quelli che furono attivi nel Comune quando lui pure vi aveva svolta la sua attività politica, non è serbata, nel poema, memoria specifica. Ma da quel che il Boccaccio scrisse nella sua Vita ricordando la pungente battuta («se io vo, chi rimane? e se io rimango, chi va?»)27 di cui si diceva che Dante si fosse fatto autore quando, nell’ottobre del 1301 fu designato a far parte dell’ambasceria che il Comune di Firenze inviava a Bonifacio VIII28 in un momento di grande difficoltà e confusione, per offrirgli, come scrisse Leonardo Bruni), «la concordia e la pace de’ cittadini»,29 emerge, in forma di aforisma, la nessuna stima che egli nutriva nei confronti di quanti erano con lui e del conseguente suo isolamento. In realtà, se ci si fa attenzione, reca qualche sorpresa che fra quanti ebbero a che fare con Dante negli anni dell’impegno politico la Commedia non ne nomini nemmeno uno, con l’eccezione, forse, di Lapo Saltarelli, ricordato con disprezzo nel Paradiso XV 128.30 Ma, per converso, è notevole il modo che egli tenne nel far insorgere l’attesa di una possibile lode rivolta al mondo fiorentino e la cura scrupolosa posta nel deluderla. Ciacco aveva appena pronunziata l’ultima parola della sua invettiva antifiorentina, la prima che si ascolti nella Commedia («giusti son due, e non vi son intesi:/ superbia, invidia e avarizia sono/ le tre faville c’hanno i cuori accesi»),31 e come se queste parole non fossero state pronunziate, Dante si affrettò a chiedere dove fossero i fiorentini di cui la leggenda divulgava la grandezza e la saggezza: «Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni, Jacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca/ e li altri che a ben far poser li ’ngegni,/ dimmi ove son e fa ch’io li conosca,/ ché gran disio mi stringe di savere/ se ’l ciel li addolcia o lo ’nferno li attosca».32 La risposta, come si sa, era stata netta: «’ei son tra le anime
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più nere:/ diverse colpe giù le grava al fondo:/ se tanto scendi, là i potrai vedere» (vv. 85-87). E era stata voluta. Dante sapeva benissimo quale luogo d’Inferno avesse riservato a esse. Ma la delusione che, scrivendo così, egli infliggeva a quanti del passato fiorentino avrebbero voluto ascoltare un più schietto elogio, quella che, con le parole che si sono ascoltate, dava a sé stesso, non sarebbero bene interpretate se si ritenesse che la questione ne fosse stata definita nei suoi termini e chiusa, per lui, con altrettanto irrevocabile nettezza. Come era accaduto per i maestri letterari, che erano allontani, superati, ma non disconosciuti, altrettanto accadeva con quegli uomini del più recente passato fiorentino. Allontanarli da sé, andare oltre il limite che non avevano saputo o potuto superare, significava sì rivendicare l’assoluta novità dell’opera che aveva nelle mani e, per quel che riguardava la politica, il superamento, nella visione dell’Impero, delle angustie comunali. Non significava esser venuto meno al dovere della riconoscenza, alla gratitudine e all’affetto: nelle cose della letteratura, o, se si preferisce, della poesia, come in quelle della politica. Quando si trovò di fronte ai fiorentini di ieri che, a diversi gradi di profondità, scontavano nell’Inferno l’eterna pena, l’ammirazione che aveva provato per loro non si capovolse mai nel suo contrario. Non quando fu davanti a Farinata. Lo scambio polemico, che allora contrappose di nuovo il fiero ghibellino e il guelfo bianco che era venuto a trovarsi di fronte alla sua monumentale figura, non ebbe effetti sull’ammirazione e il rispetto che dimostrava per l’uomo che, se era stato irriverente nei confronti di Dio, e per questo si trovava nelle arche infuocate, aveva vissuto la sua vita nel segno della «magnanimità» e della nobiltà. Era stato un grande cittadino e un nobile cuore. Aveva vissuto per Firenze. Ma, e qui stava il vero punto d’incontro, la disistima che riservava a quanti, nel presente, sostenevano la parte che era stata la sua, era la stessa che Dante dimostrava per i suoi contemporanei, e, al pari di lui, lo induceva a guardare nella direzione, non del presene, ma del passato. Avversari nella politica, e non disposti a attenuare la differenza che era fra loro, in un punto Dante concordava con Farinata: nel preferire il passato al presente che, agli occhi di entrambi, meritava di essere condannato. Restava tuttavia, fra loro, una differenza non superabile. Nel congedo che imponeva a maestri dei quali non disconosceva l’importanza e il valore, Dante andava oltre. Nella poesia la differenza era segnata dall’assoluta novità rappresentata dalla Commedia. Nella politica dall’Impero, ma quello vero, a cui Dante pensava, non l’altro dei ghibellini che nel sesto del Paradiso avrebbe ricevuta la solenne condanna pronunziata da Giustiniano.33
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Niente lo dimostra meglio dell’incontro che, nel girone stesso in cui Brunetto Latini muoveva i suoi passi, Dante ebbe con tre fiorentini dei passati tempi, riuniti in un’altra schiera di sodomiti. Erano, come si sa, Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi e Jacopo Rusticucci; e tale fu la commozione che provò nel vederseli davanti dopo che tante volte ne aveva sentito parlare in patria che, se non fosse stato «dal foco coperto», si sarebbe «gittato […] tra lor di sotto/ e credo», scriveva, «che ’l dottor l’avrìa sofferto»: una situazione analoga, converrà notare, a quella che si sarebbe manifestata, sull’ultima cornice del Purgatorio, nell’incontro con Guido Guinizzelli. Fu a loro che Dante rivelò di essere della loro stessa terra e rivolse parole in cui, d’improvviso, si accese la luce della poesia: «di vostra terra sono, e sempre mai/ l’ovra di voi e li onorati nomi/ con affezion ritrassi e ascoltai./ Lascio lo fele e vo per dolci pomi/ promessi a me per lo verace duca;/ ma ’nfino al centro pria convien ch’i’ tómi».34 La solidarietà che egli dichiarò a quei tre fiorenti che, «rotando» (v. 25), l’avevano circondato, fu subito così profonda che, quando i tre gli chiesero se «cortesia e valor di sé» dimorassero ancora nella nostra città, o «se del tutto se n’è gita fora» (vv. 67-69), Dante rispose con un’invettiva, nella quale anticipò temi cacciaguidiani: «la gente nuova e i sùbiti guadagni/ orgoglio e dismisura han generata,/ Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni» (vv. 73-75). Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi, Jacopo Rusticucci erano uomini di quella Firenze antica che Dante avrebbe sempre avuta nel cuore, anche quando ormai il suo sguardo andava oltre le sue mura e si dirigeva nella direzione dell’Impero e del Veltro che avrebbe posto rimedio alle nefaste particolarità comunali. Il rispetto che dimostrava per le loro figure, nel momento stesso in cui discretamente prendeva congedo dai loro modi e dal loro mondo, era lo stesso, ossia era della medesima qualità di quello che manifestava nei confronti dei maestri letterari dai quali si allontanava bensì con decisione, ma anche con reverenza. E anzi, riguardo ai personaggi politici dell’antica Firenze, si potrebbe dire di più. Cacciaguida è una figura dell’Impero («poi seguitai lo ’mperador Currado;/ ed el mi cinse dela sua milizia,/ tanto per bene ovrar li venni in grado»).35 Ma, nei tre canti consacrati alla sua figura lontana e solenne, l’Impero viveva solo in queste scarne parole, dedicate, in sostanza, alla rievocazione della morte che lo colse quando, con Corrado III, andò a combattere in Terra Santa, e, come idea o, che si dica, concetto, è del tutto assente. Conta poco, a questo riguardo, che, nel rievocare questa vicenda e nel descrivere così la biografia del suo avo, Dante incorresse in possibili confusioni.36 A dover essere notata come una delle note fonda-
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mentali di questi tre canti è quel che si è detto. È lo scarso rilievo che vi assume l’Impero, che, per queste ragioni, non regge il confronto con la nostalgica, e molto poetica, rievocazione della Firenze antica e tende se mai a rientrarvi ed esservi idealmente compreso. Ma c’è di più. Nel momento in cui la linea che segna il formarsi della storia tendeva a innalzarsi nella direzione del cielo e il pensiero che la concerneva richiamava su di sé i tratti dell’apocalisse, anche i concetti si trasfiguravano assumendo su di sé quella dimensione. A resistere, e a imporsi, era quel che di più profondo era nel cuore di Dante. Era l’immagine della sua città, depurata da quel che, nel tempo, ne aveva sfigurato il volto, e restituita alla sua antica innocenza. 11. Alla luce di queste considerazioni, il caso di Guido Guinizzelli conferma la sua singolarità. A questo maestro, che apparteneva al suo passato e a proposito del quale si sarebbe potuto aggiungere che altre dalle sue erano le idee con le quali aveva delineato la fisionomia dell’amore, Dante non disse addio e, almeno nel corso dell’incontro che ebbe con lui, gli rivelò intera la sua devozione. Come si è visto, incontrandolo sull’ultima rampa del Purgatorio, l’aveva chiamato «padre», non senza che in questo sostantivo affettuoso fosse implicita la presenza dell’altro che indicava il «maestro». A altri, dai quali, direttamente o no, aveva imparato, Dante aveva, come si è visto, imposto una sorta di congedo che, poiché si estendeva al mondo nel quale erano vissuti, si era presentato come tale, che non solo la poesia e la letteratura riguardava, ma anche la politica e le idee che le si riferivano: con delicatezza, ma senza incertezze, aveva segnata la distanza che li separava da lui che, da quelli, si sentiva ed era, ormai, lontano. E era una distanza assoluta, che non concedeva punti di contatto. A imporre il congedo era stata, tuttavia, meno la sua volontà che l’evento della Commedia. Era stata essa, infatti, che, accadendo con quel carattere, aveva segnato la distanza che Dante era stato quasi costretto a prendere nei riguardi di un mondo del quale egli stesso era stato parte, e parte importante. Un’opera di quel genere non si era mai vista. Che, fra chi se n’era fatto autore e i maestri di un tempo ne fosse derivata una frattura non componibile, era tanto inevitabile quanto comprensibile. Ma, nel caso di Guinizzelli, questo non avvenne (o sembrò che non fosse avvenuto). Il suo magistero non fu presentato come un’esperienza importante, ma oltrepassata e conclusa. Fu presentato come attuale, o come se fosse ancora attuale. Agli occhi, sia di chi non avesse considerato con cura quel che era accaduto nel canto decimottavo e non fosse perciò stato in grado di inserire l’elogio in un quadro
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più ampio, sia di chi non avesse ricordato le considerazioni di Oderisi sulla «nominanza» e sulla fama, quel magistero guinizzelliano si presentava come il momento inaugurale di una storia ancora viva: come se il progresso che Dante aveva compiuto nel percorrere il sentiero dell’arte e delle idee non avesse importato un distacco decisivo da quel mondo e proprio l’opera nella quale l’elogio era contenuto non stesse lì a dimostrarne l’ampiezza. La rievocazione che, nel canto ventesimosettimo, Dante aveva eseguita del suo passato apprezzamento della poesia guinizzelliana, e degli ammestramenti che ne aveva tratti, si presentava perciò con un segno singolare: dava come attuale un’esperienza che, in effetti, si era conclusa da tempo. Era come se, dinanzi all’ombra del poeta avvolto dalla fiamma dei lussuriosi, invece che nella direzione del futuro il tempo fosse andato indietro, in quella del passato, reso per un istante presente. Accadeva, in altri termini, non che il giudizio cedesse all’affetto, ma che l’affetto sostituisse il giudizio, e che dal presente in cui si trovava Dante si trasferisse nel tempo in cui Guinizzelli gli era apparso come il maestro e il padre. Se è così, la questione che ne nasce non può essere evitata. Quando Dante mise mano alla Commedia, nel suo spirito si erano certamente determinate, dirlo è fin troppo ovvio, le condizioni che, nel renderla possibile, anche indicavano la differenza che essa stabiliva nei confronti della sua precedente stagione poetica e intellettuale. Che, questione del Fiore a parte, la nuova opera importasse, e via via documentasse, un’idea della poesia di natura assai diversa da quella delle precedenti stagioni, non solo dalle liriche d’amore (comprese le «petrose»), ma anche dalle canzoni dottrinali, è evidente. La poesia nella quale Bonagiunta aveva indicato l’elemento, il dolce stile, che aveva lasciato indietro Jacopo da Lentini (il Notaro), Guittone e lui stesso apparteneva a un momento dell’esperienza letteraria che l’impresa della Commedia aveva ormai consegnato al passato; e il superamento non riguardava solo la poesia. Si è citato Cavalcanti, si è citato Brunetto Latini, due esperienze diverse, poetico-filosofica l’una, politica l’altra, entrambe, tuttavia, tramontate e sorpassate. Ma al passato, e si deve ribadirlo, apparteneva anche la stagione stilnovistica, che Dante aveva vissuta imprimendo su di essa un segno profondo, e della quale lui pure era stato, quindi, parte essenziale. Giudicandola importante, la considerava tuttavia chiusa. Quando, uscito dalla voragine infernale e messo il piede, con Virgilio, sulla spiaggia dell’isola dominata dall’alta montagna del Purgatorio, aveva incontrato Casella e da lui aveva appreso le ragioni per le quali si trovava ancora in quel luogo,37 Dante gli aveva chiesto: «se
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nova legge non ti toglie/ memoria o uso al’amoroso canto,/ che mi solea quetar tutte mie doglie,/ di ciò ti piaccia consolare alquanto/l’anima mia, che con la sua persona/ venendo qui, è affannata tanto».38 La descrizione dello stato d’animo in cui si trovava in quel momento cruciale del viaggio ultramondano non avrebbe potuto essere più precisa, né più rivelatrice. Mentre, dopo l’immersione nelle tenebre infernali, era sul punto di iniziare la scalata del monte, e quell’esperienza, che andava oltre ogni altra, stava per aver inizio, il passato si ripresentava al suo spirito come un luogo sicuro entro il quale cercare riparo. Lo sgomento, che la nuova prova gli provocava, faceva sì che, psicologicamente, nel «noto» egli cercasse protezione da ciò che gli era sconosciuto. Ma vi si deve vedere anche altro. La sua era una domanda nella quale erano presenti il segno e la consapevolezza, non solo della straordinaria novità dell’impresa nella quale si era coinvolto e dell’opera in cui era impegnato a descriverla, ma anche della fatica che quella prova gli stava richiedendo nei riguardi del passato, dal quale sempre più si allontanava e sempre più, per conseguenza, mentre passava, gli era tuttavia presente. Di qui l’esigenza di rientrarvi per qualche istante attraverso il canto che Casella avrebbe intonato sui versi di una sua grande canzone, Amor che nella mente mi ragiona, scritta in un tempo dal quale irrimediabilmente si era allontanato e, via via, si stava allontanando. Quel passato era passato, e tanto più e tanto meglio Dante lo sapeva quanto più, ritornando a esso sul filo della memoria e della nostalgia, lo rendesse di nuovo presente alla sua coscienza, lo rivivesse e, nel riviverlo, avvertisse che, come cosa reale, quello non c’era più. L’indugio, tuttavia, non era ammesso. La vigorosa dispersione che, con la sua parola brusca, Catone aveva provocata delle anime che si erano riunite intorno al musico che intonava la sua canzone, proprio questo aveva significato: la storia andava avanti, tornare indietro era impossibile. Ma, come la parola catoniana non poteva far sì che il passato non fosse esistito e non tendesse a tornare nella memoria, così averla fatta risuonare significava che Dante lo considerava bensì esaurito, non però al punto che l’impresa nella quale si era, ed era stato, coinvolto non richiedesse che ci si fermasse a riflettere sul suo senso, e, per capire bene dove si stesse andando, per un istante si guardasse indietro nella direzione del passato. Dante, del resto, lo aveva detto con chiarezza: ricercava l’«amoroso canto» che «solea quetar» ogni suo affanno, e ora avrebbe potuto ristorarlo della fatica che l’esser giunto fin lì e quella da cui era atteso gli facevano gravare sul corpo e sull’anima. L’impresa della Commedia aveva concluso un’esperienza, ma ne aveva aperta un’altra
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che, anche prima che il suo progetto assumesse la sua forma determinata, già aveva fatto avvertire la sua esigenza. Chiudere un’epoca della propria vita non significava averla dimenticata né, tanto meno, averla condannata all’insignificanza. Significava tuttavia averla chiusa e, nei confronti dell’impresa che gli stava di fronte dopo la discesa agli inferi, richiedeva che egli si preparasse a nuova pena. Che gli fosse dato di rievocarla mentre era sul punto di iniziare la sua personale scalata del monte significava che il passato non era condannato, ma consegnato al suo esser tale sì. Nuovi pensieri incombevano, e altre responsabilità. Il canto di Casella poteva procurargli un momento di pace, ma anche produrre dimenticanze e smarrimenti. Catone aveva ragione. Occorreva che, rompendo ogni indugio, il cammino fosse al più presto ripreso. La tentazione della viltà, a cui per un istante, egli aveva ceduto dinanzi alla prospettiva del viaggio ultraterreno, era simile a quella, e richiedeva che qualcuno la contrastasse dall’esterno. La prima volta la volontà era stata messa sulla giusta via dall’intervento di Virgilio. A rianimarla all’impresa era stato, questa volta, Catone. Per un istante, anche Virgilio aveva infatti ceduto alla dolcezza di quel canto. 12. Considerazioni analoghe sono richieste dall’altra grande rievocazione che, incontrando Bonagiunta Orbicciani sul girone dei golosi e rispondendo alla sua domanda («ma dì s’i’ veggio qui colui che fore/ trasse le nove rime cominciando/ ‘Donne ch’avete intelletto d’amore»), Dante fece della sua stagione stilnovistica, che riassunse con le parole celeberrime: «i’ mi son un che quando/ Amor mi spira, noto, e a quel modo/ che e’ ditta dentro vo significando».39 Parole, si ripete, celeberrime, con le quali parve che, per un momento, Dante si fosse trasferito nel suo passato e, rendendolo presente, l’avesse sostituito al presente. Parole, comunque, che dettero luogo a una risposta di Bonagiunta, che, con il giudizio che contenevano su Jacopo da Lentini e Guittone e sé stesso, contribuirono a mantenere Dante in quella dimensione del tempo: «o frate, issa vegg’io […] il nodo/ che ’l Notaro e Guittone e me ritenne/ di qua del dolce stil novo ch’i’ odo./ Io veggio ben come le vostre penne/ di retro al dittator sen vanno strette,/ che dele nostre certo non avvenne;/ e qual più a gradir oltre si mette,/ non vede più dall’uno all’altro stilo» (vv. 55-62). In realtà, se il percorso che Dante stava compiendo nell’aldilà lo allontanava dalle esperienze poetiche della giovinezza e anche dai personaggi che in quel tempo della sua vita avevano contato per lui, il discorso di Bonagiunta ebbe l’effetto di interrompere o, meglio, di fermare per un istante il suo cammino,
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e, come si è detto, di invertire l’ordine del tempo che già, per sua iniziativa, aveva preso a scorrere all’indietro. Con l’elogio rivolto alla maniera che gli era stata propria lo ricondusse all’interno di quella tradizione poetica facendo sì che, addirittura, egli se ne definisse il fondatore e ne riavvertisse l’attualità. Ma solo per un istante. Le parole di Bonagiunta non potevano condurre a quel risultato. Il viaggio di Dante era destinato a proseguire, proseguiva, e il mondo di ieri poteva far sì che, volgendogli lo sguardo, egli se ne compiacesse o provasse la malinconia che sempre è connessa alle cose che furono nostre e ora non lo sono più. Ma, per vivo che, di tratto in tratto, si facesse nel ricordo, quel tempo era passato. Se di quel «dolce stil nuovo» Dante era considerato il principale artefice, la soddisfazione, che gli derivava dal riconoscimento che al riguardo gli era dato, non poteva non essere essa stessa storicizzata e assunta, perciò, come il momento di un processo che non s’arrestava, ma andava avanti. Non poteva esser vista se non come l’espressione di una fase della sua vita alla quale il viaggio che aveva intrapreso non consentiva che si potesse ritornare. Bonagiunta considerava Dante come il creatore di un nuovo stile. Ma Dante lo aveva reso, e stava rendendolo, non più che un momento, ormai superato, della sua vita. 13. Come mai, allora, poté avvenire che, giunto dinanzi a Guido Guinizzelli, egli non ripetesse, nei suoi riguardi, la stessa operazione che aveva messa in atto nei confronti di Guido Cavalcanti, di Brunetto Latini, e persino di sé stesso, se la richiesta che aveva rivolta a Casella perché cantasse, e l’essersi fermato ad ascoltarlo mentre intonava Amor che nella mente mi ragiona, erano poi stati avvertiti, attraverso le parole di Catone, se non come una colpa, come una sorta, tuttavia, di vietata trasgressione di un incombente dovere? Come mai avvenne che, in Guinizzelli, Dante salutasse, o desse l’impressione di salutare, un attuale maestro, e che attuale quindi fosse, per lui, il suo scriver d’amore? Rispondere a questa domanda, una volta che le cose siano state messe in questi termini, è, a giudizio dello scrivente, impossibile se non si considera che a restituire alla questione del giudizio la sua dimensione storica, e quindi a storicizzarne, se così può dirsi, la positività, nonché a far cadere il poeta bolognese dal piedistallo, su cui era stato collocato, di maestro, fu proprio lui, Guinizzelli, quando, replicando all’elogio che Dante ne aveva fatto, gli aveva indicato, «come miglior fabbro del parlar materno» (migliore, s’intende, di quanto egli fosse stato nel suo)40 Arnaut Daniel, e l’aveva detto superiore a Giraut de Bornelh
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che a torto, da altri, era stato giudicato il primo. È vero che, dichiarando di non essere stato, per il suo volgare, quel che Arnaut Daniel era stato per il suo, Guinizzelli dimenticava di indicare chi, nel suo campo, ossia nella letteratura del sì, gli fosse stato migliore. Sottilmente Dante aveva fatto in modo che la sua modestia dipendesse dal paragone istituito con un poeta di lingua altra, anche se appartenente al medesimo ceppo: sì che restava vero che, se le sue parole riproponevano il problema proprio nel punto in cui pretendevano di averlo risolto, la sua autocritica non conseguiva il pieno risultato. Non lo conseguiva, e tuttavia andava in quella direzione. Se Guinizzelli cercava, e indicava, in un’altra letteratura, il poeta che gli era superiore, l’atto di modestia era a copertura della convinzione che in quella a cui la sua opera apparteneva non c’era scrittore di versi che gli stesse a paro o addirittura lo superasse. Ma, nello stesso tempo, è anche vero che il paragone con Arnaut Daniel, che fu vero fabbro del parlar materno, era stato istituito, e, esercitando l’arte difficile della modestia, Guinizzelli aveva finito per opporre a quello che Dante aveva dato di lui un giudizio di altro segno. Fra i poeti che si esprimevano nel volgare del sì Guinizzelli restava il primo. Ma in assoluto, il primo restava Arnaut Daniel. Se Dante perciò aveva le sue ragioni nel definirlo come il padre suo e degli altri suoi migliori, Guinizzelli aveva le sue nel porre limiti alla sua poesia e al giudizio che su di essa era stato pronunziato. Guinizzelli rappresentava dunque, nella storia del giudizio dantesco, il momento di una garbata autocritica. Di qui breve era il passo che conduceva alla posizione del problema che a questa, all’autocritica, era strettamente congiunta e, in un certo senso, ne derivava: se era stato il primo, Guinizzelli era, tuttavia, per Dante, un maestro ancora attuale? Oppure bisognava intendere che, essendolo stato nel passato, non lo era più perché, nel momento in cui Dante pronunziava il suo elogio, non era alle «rime d’amore» che egli ormai rivolgeva le sue cure, ma ad altro, e Guinizzelli non era che un poeta d’amore? Nell’elogio si era perciò insinuata una riserva. Guinizzelli era stato maestro nelle «rime d’amore»; e qui, forse, è possibile avvertire un’allusione polemica, limitativa del primato attribuito al magistero cavalcantiano, che pure era stato implicitamente riconosciuto quando il primo Guido aveva deposto lo scettro della fama nelle mani del secondo. Maestro Guinizzelli era stato di quella stessa poesia della quale, due canti innanzi a questo, Bonagiunta aveva assegnata la paternità a Dante, che aveva rotto con i modi del Notaio, di Guittone e di lui stesso (in quei versi del poeta bolognese si taceva) e dato vita a un dolce stil nuovo. Per un istante, quasi intimidito dalla figura che gli era
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apparsa e gli parlava dall’interno del fuoco che lo avvolgeva con gli altri suoi compagni di espiazione, Dante si era trasferito nel passato e, come a questo si era reso presente, in Guinizzelli aveva riconosciuto il padre e il maestro. Il desiderio di rendersi attuale, e di condividere il suo tempo, era forse visibile nella tentazione di gettarsi nel fuoco per entrare in diretto contatto con lui. Ma il ritorno al passato non era stato che il desiderio di un momento. Più radicalmente, un desiderio impossibile. La consapevolezza della sua impossibilità era testimoniata da quel «ma non a tanto insurgo» con cui si chiudeva il laborioso paragone istituito con la «tristizia di Licurgo». Insomma, si era trattato di una possibilità impossibile. Il cammino sarebbe stato infatti subito ripreso; e l’attualità guinizzelliana sarebbe stata consumata e consegnata al passato nel quale aveva perso il suo carattere.41 Il che, del resto, era avvenuto a opera, prima che di Dante, proprio di Guinizzelli. Non si intende fino in fondo il rapporto che, in questo canto del Purgatorio, Dante aveva stabilito con lui, se non si considera che a segnare la differenza, e a indicarne il senso, era stato lui, Guinizzelli, autore, nella parte finale, di una discreta ma decisa autocritica. Era stato lui, in effetti, a «confutare» l’asserzione del primato, che Dante gli aveva riconosciuto dicendolo padre e maestro con il paragone istituito fra la sua poesia e quella di Arnaut Daniel. Fu insomma per il tramite della critica che Guinizzelli rivolgeva a sé stesso che Dante prese congedo da lui. Fu per il tramite della sua autocritica che Guinizzelli uscì dal numero dei maestri di Dante. 14. A osservarla con cura, la questione presenta un profilo complesso: contiene infatti un elogio che, nell’atto in cui è pronunziato, anche è, per dir così, storicizzato. In realtà, Dante ne scrisse uno che, essendo tale, non era, tuttavia, privo di interni contrasti e di nascoste limitazioni. In primo luogo, restringeva il valore del magistero guinizzelliano alle sole rime d’amore. In secondo luogo, rendeva possibile che dall’esercizio di (relativa) modestia che il poeta bolognese aveva compiuto dicendosi inferiore a un poeta provenzale, il lettore ricavasse conseguenze, le cui premesse erano state poste, nel canto undecimo, da Oderisi; dal quale, come si ricorderà, Dante era stato invitato a constatare che la gloria di Guinizzelli era stata oscurata da quella di Cavalcanti, che, a sua volta, presto sarebbe stato anch’esso «cacciato» dal nido. Si dirà che frutto di puro artificio esegetico è questa connessione che, in effetti, è stata stabilita fra giudizi presenti in luoghi della seconda cantica discretamente lontani l’uno dall’altro, e privi di reciproco riferimento. Sia pure, tanto più che si potrebbe aggiungere
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che, oltre a essere lontani, i contesti sono anche diversi: nel primo caso il tema era quello della volatilità della fama e della fragile resistenza da essa opposta alla legge del tempo che genera oblìo, nel secondo era l’altro, al primo non riducibile, del maggior valore che in assoluto, e senza, perciò che il tempo dovesse esercitare il suo potere, l’un poeta rivelava nei confronti di un altro. Riprendendo il tema esposto nei vv. 97-99, a Guinizzelli Dante aveva detto: «li dolci versi vostri,/ che quanto durerà l’uso moderno, faranno cari ancora i loro incostri» (vv. 112-114). A sua volta, Guinizzelli aveva risposto: «o frate […] questi ch’io ti cerno/ col dito […] fu miglior fabbro del parlar materno./ Versi d’amore e prose di romanzi/ soverchiò tutti; e lascia dir li stolti/ che quel di Lemosì credon ch’avanzi» (vv. 112118). I criteri a cui il giudizio si ispirava erano, nei due casi, diversi. Non erano però in contrasto. Nell’undecimo canto, la teoria della successione degli artisti e dei poeti era stata delineata, da Oderisi, con il criterio del «mondan romore» che non è «altro ch’un fiato di vento». Nel ventesimosesto era stato riproposto in termini di valore e aveva conferito al primo una ragione più solida che non fosse quella del semplice trascorrere del tempo che genera oblìo. Ma alla legge del tempo non potevano, tuttavia, essere imposte limitazioni. Letti l’uno a riscontro dell’altro, i due criteri contribuivano a far intendere che, nel segno del massimo rispetto e, tuttavia, con decisione, il giudizio sul magistero guinizzelliano non valeva in assoluto. Richiedeva infatti di essere storicizzato, ossia consegnato al tempo in cui aveva esercitata la sua efficacia. Autore implicito della storicizzazione era stato Guinizzelli, che con nettezza aveva segnato i limite della sua poesia nel paragone stabilito fra sé stesso e Arnaut Daniel. Se questa interpretazione non è errata, deve dedursene che, nel ventesimosesto del Purgatorio, il riconoscimento del primato concesso a Guinizzelli era stato affermato con convinzione, e tuttavia con due riserve: implicite, ma nette. La prima riguardava l’ampiezza della sua opera, che non si estendeva tanto da andar oltre il limite segnato dalla poesia d’amore. La seconda riguardava l’universalità, se così potesse dirsi, di questa poesia; che, nel suo tempo, aveva conseguito il primato in Italia, ma di estenderlo e farlo valere al di là dei suoi confini non era stata in grado. Nella modestia, dalla quale, nella prospettiva di un ideale confronto, Guinizzelli era stato spinto a collocarsi al di sotto di Arnaut Daniel, Dante discerneva la verità storica che vi era contenuta. Con le parole stesse del poeta bolognese segnava, nel quadro della letteratura dell’area romanza,42 il suo posto, che non era il primo. Malgrado la sincerità dell’elogio tributatogli,
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Dante aveva dunque messo le cose in modo da, se non togliergli, limitare tuttavia quel che gli concedeva. La conseguenza era che, anche Guinizzelli rientrava nel numero di coloro che se, per qualche aspetto della loro opera, a Dante erano stati maestri, ormai appartenevano al suo passato. Si aggiunga, a conferma, non solo la fulminea sua sparizione, lo svanire della sua figura nella fiamma viva che l’avvolgeva («poi, forse per dar luogo altrui, secondo/ che presso avea, disparve per lo foco,/ come per l’acqua il pesce andando al fondo»)43 e l’impressione che ne deriva di un congedo che le fosse stato imposto, ma anche la preghiera che Guinizzelli rivolse a Dante di un paternostro che fosse recitato nel «chiostro», «nel quale è Cristo abbate del collegio», cioè in Paradiso e che fosse, diceva ancora, «quanto bisogna a noi di questo mondo,/ dove poter peccar non è più nostro» (vv. 127-132). Quella preghiera s’intonava al sentimento di modestia, che il personaggio aveva opposto all’elogio che Dante aveva pronunziato del suo valore poetico, e che tornava anche nelle parole verseggiate in lingua d’oc e attribuite a Arnaut Daniel: «tan m’abelis vostre cortes deman,/ que ieu no.m puesc ni vuoil a vos cobrire;/ ieu sui Arnaut, que plor’e vau cantan;/ consiros vei l’espassada follor,/ et vei jausen lo joi qu’esper, denan./ Ara vos prec, per aqella valor/ que vos guida al som del’escalina,/ sovegna vos a temps de ma dolor!» (vv. 140-146). Come Guinizzelli, anche Arnaut Daniel chiedeva di essere ricordato nel suo presente dolore. 15. Sotto il rispetto dottrinale le parole relative al pater noster producono, e nell’esegesi hanno sollevato, più di un dubbio. Non chiara, infatti, è la ragione della richiesta di una preghiera, dal momento che Guinizzelli ne chiedeva una che valesse, non ad abbreviare il suo soggiorno nel Purgatorio, e a rendere possibile, a lui che non poteva più peccare e al quale il Paradiso era assicurato, la liberazione dal male (l’ultima parola del Pater noster) e l’ingresso in quello, ma che fosse intonata a «quanto bisogna a noi di questo mondo». Un verso che, invece di chiarire, confermava la difficile comprensibilità della richiesta, non essendo stato chiarito da Guinizzelli di che cosa le anime del Purgatorio avessero bisogno e a che cosa, perciò, la preghiera si riferisse. La difficoltà che può notarsi nella richiesta di una preghiera che, in quanto tale, non aveva uno scopo, e solo doveva essere intonata alla condizione, qui non specificata in senso proprio, delle anime purganti, è, in effetti, un luogo non chiaro o, addirittura, un’incongruenza; che non è sanata, ma piuttosto confermata se, come pure si è proposto, la si metta in relazione con il Pater noster recitato, all’inizio dell’undecimo
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canto, dai superbi. I quali non mancarono, in quel caso, di avvertire che la recita di quella preghiera si faceva, non per loro, «ché non bisogna,/ ma per color che dietro a noi restaro»,44 non per le anime del Purgatorio, ma per quelle di coloro che, essendo ancora vivi ed esposti perciò al peccato, a differenza dei primi, avevano ben bisogno di essere liberati dal male. È, quella che questi versi delineano, una situazione che, salvo errore, non ha riscontri in nessun altro luogo della Commedia. La situazione consueta è infatti che siano i vivi a pregare per i morti, non che siano questi a pregare Dio perché liberi dal male, e cioè dalle male arti del diavolo, coloro che, essendo restati indietro, gli erano ancora soggetti. Il punto che questi versi non consentono di chiarire con sicurezza è quello relativo all’identità di coloro che restarono indietro. Chi sono? Sono le anime di coloro che, trovandosi nel mondo dei vivi, erano di necessità ancora esposti alle male arti del diavolo, e per questo imploravano Dio che non li mettesse alla prova della sua malizia? Parrebbe di sì, se gli oranti, che stavano in Purgatorio, avevano cura di avvertire che quelle parole non facevano al loro caso e che, se tuttavia le avevano pronunziate e le stavano pronunziando, era solo perché, da anime purganti, si trovavano a recitare una preghiera che, di regola, erano i vivi a rivolgere a Dio perché fossero esse a esserne agevolate nell’attesa a cui erano costrette del Paradiso. Che questa interpretazione restituisca, con onesta aderenza al testo, la situazione che ne è descritta, è evidente e innegabile. Ma è proprio sicuro che, tuttavia, messe le cose in questi termini, non ne nascano difficoltà? In effetti, ne nascono almeno due, di natura, l’una strutturale, l’altra teologica, e entrambe riguardano questa interpretazione. La prima emerge se si torna a considerare che, di regola, non sono le anime del Purgatorio a pregare per quelle dei vivi, e che sembra perciò più verisimile che la preghiera fosse recitata a beneficio di coloro che, in tanto si dice che «dietro a noi restaro», in quanto, trovandosi nell’Antipurgatorio, alle pene del monte non erano ancora stati ammessi. Ma questa interpretazione non è meno problematica dell’altra. Eliminati i vivi, è plausibile pensare che in tanto i superbi espianti recitassero la preghiera a favore delle anime dell’Antipurgatorio, in quanto queste fossero in pericolo di sottostare alle male arti del diavolo? In effetti, plausibile non è. Quale che fosse il tempo che dovevano attendere perché a esse fosse consentito di varcare la porta guardata dall’angelo custode, sulle anime che erano approdate sulla spiaggia del Purgatorio il diavolo non aveva più nessun potere. Dal luogo a cui erano approdate tornare indietro era impossibile: non necessaria, se fosse stata detta per loro, sarebbe pertanto risultata
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la preghiera recitata dai superbi. La biscia che, a un certo punto comparve nella valle dei principi negligenti, e che fu forse la stessa che «diede a Eva il cibo amaro», fu subito messa in fuga da «li astor celestiali», a dimostrazione che lì niente poteva.45 La situazione descritta all’inizio dell’undecimo canto si colloca, dunque, rispetto alla richiesta avanzata dall’anima di Guinizzelli nel ventesimosesto, al polo opposto. Non solo non contribuisce a chiarirla, ma ne conferma la difficile comprensibilità. Del che, in attesa di una migliore ispirazione esegetica, conviene prendere atto, fermo restando che, nel modo indiretto che si è cercato di recare alla luce, anche del magistero guinizzelliano Dante, alla fine, dichiarò l’inattualità.46 16. L’interpretazione della recita del pater noster da parte dei superbi resta problematica. Ma non incide sulla questione del congedo che Dante impose ai maestri, sulla quale conviene invece insistere. Questo del congedo via via imposto ai maestri, è un tema che, assai più di quanto non si sia fatto, richiede di esser posto in evidenza. È rivelativo, infatti, di un aspetto importante della Commedia, che consegue direttamente dall’idea che la ispira e che, come si è detto, è caratterizzata dal suo stesso assunto e dalla tendenza, che le è intrinseca, alla storicizzazione delle esperienze. Non si dimentichi che persino a Virgilio il congedo fu imposto, e a lui anzi nel modo più, teologicamente, drammatico. Gli fu imposto perché non imporglielo sarebbe stato impossibile essendo contrario allo spirito della sua missione. Il suo compito era consistito nell’accompagnare Dante e fargli da guida nella discesa nel baratro infernale e nell’ascesa del monte del Purgatorio fin sulla soglia del Paradiso Terrestre, nel quale a lui, pagano, l’ingresso avrebbe, a rigore, dovuto essere vietato; e, se non lo fu, e per un breve tratto di tempo egli vi fu ammesso, la ragione non fu certo conforme a quel che la considerazione teologica avrebbe richiesto. Non c’erano argomenti umani che potessero modificare questo stato di cose. Quanto più, obbedendo alla sua libera invenzione poetica, Dante si era impegnato a imprimere sulla vicenda del congedo il segno della commozione e del rimpianto, di altrettanto a risultarne era stata la inesorabilità della vox theologica che lo richiedeva e lo imponeva in obbedienza a quanto previsto dall’ordine obiettivo delle cose. In questo caso, a differenza di quanto era avvenuto negli altri, il congedo imposto al maestro derivò non tanto dalla libera decisione di Dante che, primo uomo dopo Adamo, si apprestava a mettere il piede nel giardino dell’Eden, quanto piuttosto da una legge alla quale tanto più Virgilio non poteva fare eccezione e doveva obbedire, in quanto, con-
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sapevole dei limiti imposti alla sua missione, era inevitabile che avvertisse giunto il momento in cui non poteva non considerarla conclusa. I tempi del congedo furono lunghi; e, quel che in questa vicenda è notevole è che, quando si verificò, in quanto personaggio Dante non si avvide di quel che, come poeta e autore del racconto, aveva disposto che avvenisse, e cioè che, giunti alle soglie del Paradiso terrestre, la missione di Virgilio era giunta al termine. Quel che il personaggio non aveva avvertito, lo era stato, in sommo grado, dal poeta, che aveva disposto le cose con estrema sapienza e vivo senso del dramma. A misura che il viaggio purgatoriale stava per raggiungere il traguardo, nella previsione di quel che di lì a poco sarebbe accaduto Virgilio aveva moltiplicato le sue premure. La cura affettuosa con cui aveva guidato Dante nella fase estrema del viaggio purgatoriale aveva avuto più di un riscontro nei canti conclusivi della seconda cantica. Si pensi, all’inizio del ventesimosettimo, alle assicurazioni date a Dante a proposito della barriera che si sarebbe trovata di fronte e che, essendo di fuoco vero, «mordeva» bensì le anime (vv. 10-11), ma non avrebbe recato danno a lui che, «se dentro a l’alvo/ di questa fiamma» fosse stato «mille anni», non l’avrebbe fatto «d’un capel calvo» (v. 27). Si pensi alla rievocazione che fece del modo in cui gli aveva preservata l’incolumità nel viaggio che entrambi avevano compiuto sul dorso di Gerione nel momento in cui si erano trovati a dover discendere nelle Malebolge. «Ricorditi, ricorditi! E, se io/ sovr’esso Gerïon ti guidai salvo,/che farò ora presso più a Dio?».47 E poi ancora, avvicinandosi il momento dell’incontro con Beatrice, che era la prima meta divina del suo viaggio, si pensi alla cura affettuosa con cui lo preparò. «Lo dolce padre mio, per confortarmi,/ pur di Beatrice ragionando andava,/ dicendo: ‘li occhi suoi già veder parmi’»,48 e al dolce rimprovero che rivolse alla sua esitazione: «‘come?/ volenci star di qua’; indi sorrise/ come al fanciul si fa ch’è vinto al pome» (vv. 43-45). Si potrebbe continuare. Ma il discorso allora si allungherebbe, mentre più interessa dare rilievo al modo peculiare in cui il congedo di Virgilio si determinò. Come si è accennato, fu lui, infatti, a dichiararlo quando, rivolto al suo protetto, con gli occhi fissi nei suoi, gli disse: «il temporal foco e l’etterno, veduto hai, figlio, e sé venuto in parte/ dov’io per me più oltre non discerno./ Tratto t’ho qui con ingegno e con arte;/ lo tuo piacere omai prendi per duce,/ fuor sé dell’erte vie, fuor sé dell’arte», con quel che segue fino alla fine del discorso: «non aspettar mio dir più né mio cenno;/ libero, dritto e sano è tuo arbitrio,/ e fallo fora non fare a suo senno:/ per ch’io te sovra te corono e mitrio».49 Erano parole di estrema solennità con le quali era Virgi-
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lio che, costretto a constatare che di andar oltre, e di «discernere», non gli era concesso, trasmetteva a Dante il congedo che questi era costretto a imporgli. Ma di quello che gli aveva detto non sembrò che Dante intendesse, o forse non volle intendere, che con quelle parole Virgilio aveva dichiarato conclusa la sua missione. Si direbbe, addirittura, che non le avesse ascoltate perché all’ascolto di esse aveva imposto il divieto. Eppure era stato proprio Virgilio ad avvertirlo della situazione eccezionale e, veramente, senza possibilità di confronto, in cui stava per esser posto. Risvegliatosi dal sonno in cui, al pari dei suoi «saggi», era caduto dopo aver attraversato il muro di fuoco, Dante aveva davanti a sé la salita che ancora doveva essere percorsa perché la soglia del Paradiso Terrestre fosse raggiunta. E da Virgilio che, al pari di Stazio, già si era «levato», sentì queste parole: «‘quel dolce pome che per tanti rami/ cercando va la cura de’ mortali,/ oggi porrà in pace le tue fami», con le quali il primo escludeva sé stesso dal privilegio di cui Dante avrebbe goduto: come poteva pensarsi che quel «dolce pome» potesse esser toccato da mani non cristiane? La situazione che si stava determinando era, se la si fosse considerata in termini strettamente teologici, non poco rischiosa. Si assumeva infatti che un uomo vivo, che era sceso nell’Inferno, e, uscitone, era giunto nei pressi del Paradiso Terrestre, fosse, sempre da vivo, sul punto di entrarvi. Ma, sebbene delle parole di Virgilio avesse ben valutato il senso («e mai non furo strenne/ che fosser di piacere a queste iguali»),50 Dante sembrò dimenticare che, per Virgilio, le cose non sarebbero andate, perché non potevano, come per lui, e che il momento del congedo era arrivato. Entrato nel Paradiso terrestre, scortato da lui e da Stazio, non ebbe modo di accorgersi che, se era ancora lì, il maestro non era più ormai quello che era stato. Al luogo nel quale lui pure era pervenuto, era rimasto, tuttavia, come estraneo, e vi stava bensì, ma senza che, come sia pure ex silentio, si apprende, gli fosse dato di parlare. La parte del didascalos, che era stata sua, ora, infatti, apparteneva a Matelda, che consapevolmente l’aveva assunta: «e tu che sé dinanzi e mi pregasti,/ di’ s’altro vuoli udir: ch’i’ venni presta/ ad ogne tua question tanto ch’e’ basti».51 Del decadimento che intanto in lui era intervenuto, da guida e maestro a semplice accompagnatore, Dante, tuttavia, non aveva mostrato di essersi accorto. La sua attenzione era stata per intero catturata dalla straordinarietà del luogo nel quale era stato ammesso. Non se ne accorse, o non dette segno di essersene avveduto, nemmeno quando gli apparve Matelda e prese a dialogare con lei. Non se ne accorse mentre assisteva alle fasi della processione mistica e, di volta in volta, c’era qualcosa che colpiva la sua attenzione e faceva sì che egli vi si
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trasferisse per intero e per intero ne fosse rapito. Un riferimento esplicito a Virgilio in questi canti si ha solo a XXVIII 145-148, alla fine della descrizione che Matelda aveva fatta dell’età dell’oro: «io mi rivolsi indietro allora tutto/ a’ miei poeti, e vidi che con riso/ udito avean l’ultimo costrutto:/ poi alla bella donna tornai il viso». Il sorriso dei poeti era, com’è ovvio, di compiacimento per la citazione che Matelda aveva riservata a coloro «ch’anticamente poetaro/ l’età de l’oro e suo stato felice» e «forse in Parnaso esto loco sognaro».52 Ma lo sguardo che egli allora rivolse a Virgilio fu quello, generico e non impegnativo, che si rivolge alle cose che si sa che sono lì, e che niente può intervenire che le modifichi. Così, ritenendo che niente fosse cambiato, e come se il commiato non fosse stato dichiarato con solenni parole, e di fatto non fosse avvenuto, fino a quel momento Dante dovette essere sicuro che Virgilio era con lui. 17. A questo punto, tuttavia, è necessario sospendere per un istante il discorso relativo al congedo, e, senza perciò perdere il contatto con esso e il suo tema principale, fermarsi a considerare la questione posta dalla presenza, sia pure muta dopo le alte parole del commiato, di Virgilio all’interno del Paradiso terrestre. Quelle parole erano state pronunziate con piena consapevolezza del limite che il cielo aveva imposto alla sua missione pedagogica; e avrebbe dovuto conseguirne che l’ingresso nel Paradiso Terrestre fosse interdetto a chi, come a lui era accaduto, in vita non aveva conosciuto il vero Dio. Vero è che l’ingresso nell’Eden non era stato interdetto a Stazio. Ma proprio le ragioni per le quali egli vi era stato ammesso avrebbero dovuto spiegare perché, di entrarvi, a Virgilio non avrebbe dovuto essere consentito. Come aveva spiegato nei canti ventunesimo e ventiduesimo del Purgatorio, Stazio era stato, a un certo punto della sua vita, illuminato dalla vera luce di Dio. Si era convertito al cristianesimo; e autore principale della consapevolezza che si era accesa in lui era stato Virgilio, che, con le parole, soprattutto, della quarta Egloga, della verità cristiana era stato l’inconsapevole testimone.53 Il racconto è noto, e qui si può tagliar corto, ricordando i versi celeberrimi in cui la situazione fu sintetizzata. Come Stazio aveva detto a Virgilio: «tu prima m’inviasti/ verso Parnaso a ber nele sue grotte,/ e prima appresso Dio m’illuminasti./ Facesti come quei che va di notte,/ che porta il lume dietro e a sé non giova,/ ma dopo sé fa le persone dotte,/ quando dicesti: ‘secol si rinnova;/ torna giustizia e primo tempo umano,/ e progenie scende dal ciel nova».54 La conseguenza della conversione era stata che, dopo la sua morte, l’autore della Tebaide era stato «cinquecent’anni
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e più» alla «doglia» purgatoriale che, con l’annunzio dell’evento dato dal tremito della montagna, si era conclusa proprio nel momento in cui, con Virgilio, Dante si trovava sul girone dov’era stata scontata. Che poi, invece di volare direttamente al cielo che lo attendeva e prendervi il suo posto, Stazio avesse indugiato sul monte per l’umanistico (o preumanistico!) piacere di intrattenersi alquanto con colui che gli aveva indicata la vera via, e con il suo discepolo, la ragione dev’essere ricercata e indicata in una sorta di licenza che Dante aveva introdotta nell’esecuzione della regola. La licenza, che riguardava i tempi dell’ascesa, sembrava costruita proprio perché potesse aver luogo la sua visita al Paradiso Terrestre. A differenza di Virgilio, Stazio era ormai un’anima redenta che presto sarebbe volata in Paradiso, sì che, a parte il lieve ritardo con cui vi sarebbe pervenuta, nella sua parte più importante l’eccezione riguardava non tanto lui quanto Virgilio che, secondo la regola cristiana, non avrebbe dovuto, come si è detto, esservi ammesso. L’eccezione, perché teologicamente di questo si trattava e non di altro, a cui Dante aveva dato luogo, non ebbe una sola ragione, ne ebbe varie, tutte connesse, tuttavia, con lo spirito del racconto. Ma il punto fondamentale, che non deve sfuggire, è che si trattò di un’ammissione che prevedeva un limite invalicabile: il personaggio che ne usufruiva soltanto per un breve tratto ne avrebbe usufruito e, dopo esservi stato in silenzio, sarebbe uscito per sempre di scena, confermando un commiato che, in realtà, era già avvenuto con le parole solenni che aveva rivolte al suo allievo quando la salita che conduceva all’Eden era stata percorsa e essi erano giunti «in su ’l grado superno».55 Se al divieto che gli era imposto dalla sua condizione di uomo che non aveva conosciuto il vero Dio egli in parte si sottrasse, e per un breve tempo anche lui stette con Dante e Stazio, due, forse, ne furono le ragioni. La prima è che, poiché l’Eden gli appariva come la realizzazione in atto dell’età aurea del mondo, che, a parte Virgilio nella quarta Egloga, i poeti antichi, ma in realtà Ovidio,56 avevano cantata, sarebbe stata grave ingiustizia letteraria impedire che, con i suoi propri occhi, egli la vedesse realizzata in quel giardino, e si sottraesse a lui quel che era stato concesso a Stazio: ossia a colui che, per suo merito, avrebbe presto goduto della gioia derivante dall’ininterrotta contemplazione di Dio. «Quelli ch’antica-mente poetaro/ l’età dell’oro e suo stato felice,/ forse in Parnaso esto loco sognaro»):57fra questi c’era anche Virgilio: come si poteva privarlo del piacere di vederla realizzata nel suo luogo più alto? La seconda fu, con ogni probabilità, anch’essa di natura letteraria, ma diversa. Riguardò infatti la scena dell’autentico suo commiato da Virgilio, o, per dir meglio, il momento in cui a
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Dante sarebbe accaduto di constatare che la missione della sua guida si era sul serio conclusa e il maestro non era più con lui. La sua preoccupazione fu che, dopo essere stato più volte annunziato, il commiato avvenisse, non solo nel segno della commozione e del dramma, della paura e del rimpianto, ma all’improvviso e in modo che della sparizione di Virgilio Dante si accorgesse quando quello già si era realizzata. Non certo per caso il momento in cui Dante constatò che tacitamente, all’improvviso, Virgilio era sparito e non era più con lui, fu anche quello in cui egli si trovò di fronte a Beatrice. A questa soluzione, che non a torto si definirebbe di gusto drammaturgico, egli aveva lavorato con sapiente consapevolezza fin dal momento in cui aveva fatto che, nell’imminenza del commiato, Virgilio avesse intensificato la sua presenza protettrice accanto al discepolo che stava per affrontare l’ardua prova dell’incontro con la donna della sua vita; che, più si avvicinava, e più la tensione e il timore si intensificavano, di altrettanto egli gli ricordava l’avventura che avevano vissuta insieme, i pericoli che avevano incontrati e superati, e di tutto questo quasi tendeva a fare la storia: «ricorditi, ricorditi» (XXVII 23). Con finissima intuizione psicologica, Dante aveva fatto che, alla vista di Beatrice, l’amore rinascesse impetuoso e s’intrecciasse tuttavia con il terrore che pur ne scaturiva. Beatrice gli era apparsa «sovra candido vel cinta d’uliva, […] sotto verde manto/ vestita di color di fiamma vita».58 La situazione drammatica era stata ritratta in versi pieni di inquietudine e di agitazione: «e lo spirito mio, che già cotanto/ tempo era stato ch’ala sua presenza/ non era di stupor, tremando, affranto,/ sanza degli occhi aver più conoscenza, per occulta virtù che da lei mosse,/ d’antico amor sentì la gran potenza» (XXX 34-39). Fu a questo punto che, essendosi rivolto per protezione a Virgilio, che credeva fosse ancora con lui, Dante si accorse che, invece, non c’era più. Sono versi famosi. Ma richiedono di essere riferiti: «tosto che nela vista mi percosse/ l’alta virtù che già m’avea trafitto/ prima ch’io fuor di puerizia fosse,/ volsimi ala sinistra col respitto/ col quale il fantolin corre ala mamma/ quando ha paura o quando egli è afflitto,/ per dicere a Virgilio: ‘men che dramma/ di sangue m’è rimaso che non tremi:/ conosco i segni del’antica fiamma’./ Ma Virgilio n’aveva lasciati scemi/ di sé, Virgilio dolcissimo patre,/ Virgilio a cui per mia salute die’mi;/ né quantunque perdeo l’antica matre valse ale guance, nette di rugiada,/ che, lacrimando, non tornasser atre» (vv. 40-54). Sommessamente, a sé stessi e non ad altri, si potrebbe dire: questa è poesia, e altro non aggiungere. Ma occorre notare che, pur nel momento della commozione e del terrore, Dante non aveva dimenticato la letteratura e i doveri che essa imponeva. Due versi di Virgi-
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lio furono inseriti nei suoi: adgnosco veteris vestigia flammae e antiquam exquirite matrem, il primo alla lettera, il secondo per allusione,59 come atto di estremo omaggio al poeta con il quale aveva vissuta l’esperienza che fino a quel punto gli era stato dato di compiere. 18. Si può ora, richiamando il già detto e, aggiungendo quel che si deve, riprendere il discorso relativo al congedo che Dante dovette dare a Virgilio. A esigere che quel passo fosse compiuto era l’idea che egli aveva avuta di Dio e delle tenebre nelle quali, anche se dotati di grandi virtù intellettuali e morali, erano stati immersi coloro ai quali non era stato dato di conoscerlo. Nel primo canto dell’Inferno, rispondendo a lui, che gli aveva prospettata e spiegata l’idea del viaggio ultramondano, Dante non aveva esitato, accettandola, a rivolgerglisi «per quello Dio» che non aveva conosciuto: «poeta, io ti richeggio/ per quello Dio che tu non conoscesti,/ a ciò ch’io fugga questo male e peggio,/ che tu mi meni là dove or dicesti».60 Non era, forse, una frase ispirata al sentimento della delicatezza mondana, e del suo buon uso. Ma è pur vero che le cose stavano così, e che Dante avvertiva la necessità di distinguere fra lui, cristiano, e il poeta antico al quale, sebbene non avesse conosciuto Dio, affidava la salute sua e dell’umanità. Quando pose a sé stesso il problema della grazia e della predestinazione, e si chiese se fosse giusto che fossero privati della luce del vero Dio coloro che, solo per ragioni storiche, o di età (i bambini morti prima di aver ricevuto il battesimo), l’avevano ignorato, la risposta che si dette fu che le cose stavano così e che era matta presunzione, degna di chi avesse avuta la vista corta di una spanna, sentenziare in questa materia di esclusiva pertinenza divina. Nel decimonono del Paradiso la questione era stata posta in termini drastici: nell’abisso del consiglio divino era impossibile che la mente umana penetrasse, e pura presunzione era la pretesa che le cose non stessero così. «Un uom nasce ala riva/ dell’Indo, e quivi non è chi ragioni/ di Cristo né chi legga né chi scriva/ […] Muore non battezzato e sanza fede:/ ov’è questa giustizia che ’l condanna?/ ov’è la colpa sua, se el non crede?». La risposta era stata quella che s’è detta: «or tu chi sè che vuo’ sedere a scranna,/ per giudicar di lungi mille miglia/ con la veduta corta di una spanna?» (vv. 74-78, 78-81). Era questa la ragione per la quale a un infedele quale, suo malgrado, Virgilio era stato, l’ingresso nel Paradiso Terrestre non avrebbe dovuto essere consentito, e, ammettendovelo, Dante era venuto meno, in termini teologici, a un pensiero che era anche il suo. Se, per i meriti eccezionali che pur rimanendo all’interno di una falsa idea di Dio, aveva conseguiti, Virgilio era stato scelto
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perché lo accompagnasse fin sulla soglia del Paradiso terrestre, dove, fedele alla decisione divina, aveva pronunziato il suo addio, dopo aver fatto che così le cose andassero accadde tuttavia che a questa logica Dante sentisse di non poter aderire fino all’ultima conseguenza. Le ragioni dell’arte entrarono, per un breve tratto, in conflitto con quelle della teologia: nel Paradiso Terrestre, dov’era atteso da Beatrice, era impensabile che Virgilio non fosse presente. Fedele, per un verso, alla ragion teologica, che lo escludeva, e, per un altro, a quella poetica che esigeva la sua presenza, Dante dette luogo a una eccezione che può esser giudicata grave: invece di tener fermo alla prima, dalla quale la seconda sarebbe stata senz’altro esclusa, aderì a questa e, per un breve tratto di tempo, sospese l’altra. Malgrado le parole di congedo che, sulla soglia dell’Eden Virgilio gli aveva rivolte, fece come se queste non fossero state pronunziate. Mostrò di non averle udite, o di non averle intese per quel che erano. E, senza dirlo, fece che, con Stazio, anche Virgilio entrasse nel Paradiso Terrestre. Lo si ricava, come già si è notato, da quel che si legge alla fine del canto ventesimottavo del Purgatorio, nel punto in cui, terminata la descrizione che Matelda aveva fatta dell’età dell’oro, Dante si rivolse «’ndietro» ai suoi poeti», che fino a quel punto erano stati entrambi presenti: anche a Virgilio, dunque, che, a rigore, come s’è detto, non avrebbe dovuto esserci («io mi rivolsi ’n dietro allora tutto/ a’ miei poe ti, e vidi che con riso/ udito avean l’ultimo costrutto;/ poi ala bella donna torna’ il viso).61 È anche vero, d’altra parte, che la «licenza» che, fino a quel momento, gli aveva consentito di essere presente, non aveva infirmata la coerenza concettuale del discorso complessivo: l’aveva confermata, se mai, attraverso l’eccezione, ossia attraverso la differenza radicale che il congedo imposto a Virgilio rivelava rispetto a quello dato agli altri suoi maestri. Quello che Dante gli dette avveniva infatti all’interno di una prospettiva, non storica, come quella in cui egli aveva preso le distanze da Guido Cavalcanti, da Brunetto Latini e, in parte, come si è visto, anche da Guido Guinizzelli, ma teologica. A differenza degli altri, quello dato a lui era perciò un congedo che, alla sua radice, aveva ragioni tutt’affatto speciali. Era un congedo che riguardava una realtà che, anziché quelle degli uomini e del loro mondo terrestre, concerneva le cose ultime. Non era imposto da lui a Virgilio. Non era imposto da Virgilio a lui. Ma l’uno e l’altro ricevevano l’imposizione di separarsi direttamente da Dio; che a Virgilio, per il tramite di Beatrice, aveva richiesto che si facesse guida di Dante nelle prime due tappe del viaggio ultraterreno, e, nell’atto in cui a lui confermava che non avrebbe potuto esserlo nella terza, non gli toglieva quel gli aveva dato, ma
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ribadiva il limite entro il quale la sua missione doveva essere contenuta. La differenza, se ci si pensa, è più radicale di quel che non sembri. Finché Virgilio gli era stato accanto, Dante si era mantenuto all’interno del mondo umano; che, aveva cominciato a mutar di natura soltanto quando, lasciato il girone dei lussuriosi, era entrato nel Paradiso Terrestre e lì, nelle varie figure assunte dalla processione mistica, per il tramite dei simboli e delle allegorie aveva avuto modo di comprendere il senso profondo del mondo storico che stava lasciando e di quello che si annuziava. Un mondo, questo, al quale, malgrado ogni cristiano presentimento, il poeta dell’Eneide non poteva non essere, e rimanere, estraneo. 19. Nelle immagini della processione mistica, e nelle sue complicate allegorie, la storia umana mostrava la tendenza a trascendersi trapassando nell’apocalisse e lì rivelando il suo senso. Per questo, il congedo dato a Virgilio assumeva, rispetto agli altri che Dante aveva imposti ai suoi mae stri storici, il significato di una radicale metabasis: così radicale che se, a partire da essa, si procedeva all’indietro fino a pervenire all’incontro che, all’uscita dalla selva, egli aveva avuto con lui, era come se il momento in cui il rapporto si era stretto e l’altro in cui si era risolto si ricomprendessero entrambi all’interno di una prospettiva unitaria resa esplicita dalla differenza. Quell’incontro, e allo stesso modo, la sua risoluzione, l’apparizione di Virgilio e la sua sparizione, conferivano alla vita di Dante il suo vero tempo: quello che, sottendendolo, dava un senso diverso all’altro che distingueva le sue fasi. Venuto su dalla notte dei tempi e resosi presente, Virgilio faceva sì che quanto il poeta fiorentino aveva realizzato fin lì uscisse dall’ambito delle cose attuali e, nella prospettiva del futuro che stava per avere inizio, si rivelasse così antico da non potersene accertare l’inizio. Il suo avvento cancellava il passato e il presente che Dante aveva fin lì vissuti come i suoi, ed era perciò come se, a lui, Virgilio fosse stato maestro fin dall’inizio, gli altri non essendo stati, nel migliore dei casi, che sue «figure» o, se si preferisce, sbiadite immagini. Nel nome di Virgilio, a tutti i maestri che aveva conosciuti fin lì Dante aveva perciò imposto un congedo così drastico e di tale natura che, interpretando il senso più profondo del suo avvento, poteva indicare in lui il vero, l’unico maestro e dichiararlo tale anche per il tempo in cui, non da lui, ma da altri, egli aveva in realtà tratto «lo bello stilo» che gli aveva fatto onore. Se è così, tanto più drammatico doveva risultare il congedo che, a sua volta, e per ossequio alla volontà di Dio, era costretto a dargli. Il congedo imposto a Virgilio dischiudeva la prospettiva di una
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nuova vita nuova, che con quella già vissuta, anche con quella vissuta in sua compagnia, aveva la relazione che si stabilisce con le cose che si stanno abbandonando. Se Virgilio aveva rappresentato il senso profondo della vita che fin lì Dante aveva vissuta, il congedo che era costretto a dargli andava molto al di là del suo significato umano, e anche di quello teologico. Segnava una differenza assoluta, nella quale si errerebbe se non si riconoscesse il tratto apocalittico. Alla rivoluzione, nonché alla rivelazione, che la comparsa di Virgilio nella selva aveva significato per lui che con occhi nuovi guardava al suo recente passato, facevano riscontro quelle il cui significato stava nella sua scomparsa dalla scena. Scomparendo, Virgilio rivelava il senso del suo ritorno, che aveva illuminato di nuova luce il passato nell’atto in cui, nel chiuderlo, delineava la prospettiva del futuro. In entrambi i casi, in Virgilio doveva vedersi l’autore di una novità radicale, che non poteva, per altro, giungere al suo compimento se non con il sacrificio della sua presenza. A Dante aveva svelato il senso autentico, e la verità, di quel che aveva compiuto nella giovinezza: era stato lui il suo vero, e unico, maestro, ed era come se gli altri non fossero mai esistiti. Pensiero paradossale, come anche in queste pagine si è tornato a osservare, e com’è inevitabile ammettere se, restando sul piano della realtà quale era ed era stata, si considera l’opera da lui compiuta prima della dispersione nella selva e dell’apparizione di Virgilio. Pensiero che acquista, e rivela, un significato meno paradossale se, disponendo diversamente i tempi e la loro direzione, si intende che il passato a cui Dante si riferiva era in realtà il presente che egli abbandonava per rinascere da capo e per presentarsi a sé stesso come l’uomo che, si accingeva a formare il vero sé stesso attraverso il duro cammino richiesto dalla reale rigenerazione di sé. Di sé e dell’umanità simboleggiata in lui e nella rifondazione che egli ne faceva in sé stesso. In questo senso poteva esser vero che Virgilio era stato il suo unico maestro. Il passato al quale Dante si riferiva non era infatti quello che da lui era stato realmente vissuto con la consapevolezza che gli era dato di averne e che riguardava l’hic e il nunc. Ma coincideva con la rottura che egli eseguiva nei suoi confronti trasferendolo tutto nel presente con l’occhio della mente rivolto al futuro, ossia al tempo in cui tutto si sarebbe attuato. L’apocalisse in cui le cose storiche si sarebbero disposte era anche, di necessità, un’apocalisse personale. 20. Nella realtà le cose non erano andate nel modo lineare che l’indicazione, in Virgilio, del maestro da cui Dante aveva tratto «lo bello stilo» che gli aveva fatto onore richiedeva. Fra il modo in cui, eigentlich, le cose
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erano andate e l’indicazione in Virgilio dell’unico maestro, non c’era possibilità di accordo. Resta nell’estrinseco chi giudica riferite al magistero virgiliano le grandi canzoni dottrinali, e in questo modo ritiene di aver superato il disagio che, quando se ne sia notata la paradossalità, proviene dalle parole dedicate a Virgilio e al suo insegnamento; che sono sottolineati in modo troppo perentorio ed esclusivo («tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore;/ tu se’ solo colui cu’io tolsi/ lo bello stilo che m’ha fatto onore»)62 perché ne sia consentita un’interpretazione minimizzante. Il «solo» del v. 86 basta a impedirla. Restano la nettezza della dichiarazione, e l’esclusione, che ne consegue, di ogni altro maestro. E resta l’impossibilità, per il lettore dell’opera dantesca anteriore alla Commedia, che quella sia letta alla luce della periodizzazione indicata nei versi dedicati a Virgilio. Se, fin dai tempi della sua giovinezza, fosse stato lui il suo unico maestro, la conseguenza da trarre sarebbe stata imbarazzante. Virgilio era l’autore dell’Eneide, e di lì Dante poteva trarre l’ispirazione per comporre la Commedia, e soltanto la Commedia, o un’opera che la anticipasse, non quello che, nella prima parte della sua vita, aveva concretamente scritto. Se Virgilio fosse stato l’unico maestro, e da lui, non da altri, egli avesse tratto il «bello stilo», se ne sarebbe, a rigore, dovuto concludere che la precedente opera di Dante non era esistita o era come se non fosse mai stata scritta. Una conclusione assurda, che egli era lungi dal trarre. Prima della Commedia, vi sono altre opere poetiche che Dante ebbe occasione di citare anche nel poema; e vi sono due opere rimaste entrambe interrotte, ma importanti, il Convivio e il geniale De vulgari eloquentia. La domanda è perciò inevitabile: che conto deve farsi di quella assai singolare dichiarazione dantesca? La ideazione e la scrittura della Commedia avevano segnato, nella storia dell’opera di Dante, una cesura profonda, qualcosa che rendeva impossibile che in quel che era stato scritto prima si trovasse il preannunzio di quel che sarebbe stato scritto dopo, e in questo si avvertisse un’eco di quello. Ma è proprio l’idea della novità che la ideazione della Commedia introduceva nell’opera di Dante che, ponendo come inevitabile il confronto, escludeva che, nel nome di Virgilio, quella rappresentasse un inizio, per dir così, assoluto. Dunque, si ripete: come deve essere intesa l’assegnazione a lui del titolo di unico maestro? Se, l’asserzione fosse presa alla lettera, del passato di Dante si dovrebbe pensare o che, letterariamente, non aveva avuto realtà, e allora di che cosa Virgilio gli sarebbe stato maestro? Oppure che l’aveva avuta, e allora si sarebbe dovuto intendere che la Commedia che stava per aver inizio era stata preceduta da opere anch’esse ispirate dal genio del
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poeta latino, e a esso conformi. Due ipotesi che non hanno riscontro nella realtà. Il passato poetico di Dante esisteva, e in più occasioni sarebbe stato rievocato nella stessa Commedia, perché a chi la stava scrivendo non era dato di ignorarlo. Poiché, d’altra parte, in nessun senso il passato poetico e letterario di Dante era stato conforme all’insegnamento virgiliano, ne discendeva che, preso alla lettera, il titolo di unico maestro assegnato all’autore dell’Eneide poneva un problema che, non essendo, in quei termini, suscettibile di soluzione, era tuttavia tale che, senza quella, non poteva restare. Doveva essere risolto e, per risolverlo, altra via non c’era che di trasferire l’asserzione dantesca dal piano storico, sul quale era indifendibile, a quello mitico, sul quale assumeva il suo specifico e diverso senso; che era quello di una storia, che proiettava all’indietro nel passato quel che, in contrasto e, comunque, nella differenza da esso, apparteneva in realtà al presente e al futuro. Era come se, per rendere compatibile alle sue forze l’impresa in ogni senso straordinaria a cui stava per dare inizio, per renderla compatibile e poterne sopportare il peso, egli la presentasse a sé stesso come in qualche modo già concepita e realizzata, e presente, quindi, anche là dove invano la si sarebbe cercata. La novità era talmente forte da avvertire in sé stessa la necessità di essere meno assoluta di quel che era, e di aver perciò un conforme passato. 21. Il senso e il significato dell’incontro con Virgilio vanno ricondotti, dalla dimensione simbolica e mitica in cui Dante li presentò, ai termini storici che all’inizio li aveva caratterizzati. Quando decise che Virgilio era il suo unico autore, dal riconoscimento che dava al significato della lezione che ne aveva ricevuto, il suo passato riceveva una luce nuova, che ne trasfigurava i lineamenti. Investiti da quella, i maestri della sua giovinezza mostravano un volto che prima non era emerso con il carattere che ora li segnava; e, nel prendere da loro ideale congedo, in questo medesimo atto Dante procedeva lungo il cammino che Virgilio gli aveva indicato. Insomma, e lo si ripeta ancora, la ideazione e la composizione della Commedia ebbero, nel segno del magistero virgiliano, un effetto di drastica storicizzazione. Che poi anche per il maestro dovesse venire il momento del congedo era scritto nella morale cristiana della storia. Come si è visto, al di là del Paradiso terrestre era impossibile che egli andasse: era stata una generosa licenza, presa in omaggio al suo esser stato un grande poeta, e un inconsapevole maestro di cristianesimo, se per qualche tempo, senza prendervi la parola, vi era stato ammesso.
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Note 1. Per l’interpretazione di questo aggettivo mi permetto di rinviare al mio «Nostro peccato fu ermafrodito» (Pg XXVI 82), in questo volume, pp. 249-298. 2. Un’immagine, ha scritto D. De Robertis (Dante Alighieri, Rime, ed. commentata a cura di D. De Robertis, Firenze 2005, p. 5) «da degradarne Ugolino». 3. Stazio, Theb. 5, 720-722. 4. Pg XVIII 13-15. 5. G. Inglese, Commedia, II, Purgatorio, Roma 2016, pp. 226-227. 6. Di palinodia parlò, a proposito di Pg XXVI 97-99, A. Tartaro, La riabilitazione di Guinizzelli, in Cielo e terra. Saggi danteschi, Roma 2008, pp. 155-174 (spec. 166-167). 7. Le poesie di Guinizzelli sono citate secondo I poeti del Duecento, II/2, Dolce stil novo, a cura di G. Contini, Milano-Napoli 1995, pp. 450-485. 8. Cfr., qui su, n. 1. 9. Contini, Poeti del Duecento, II/2, 479, ritiene probabile, riprendendo un suggerimento di Vittorio Rossi, che da questa terzina Dante fosse stato indotto a includere Guinizzelli fra i lussuriosi. Ma non sarei così sicuro che l’informazione relativa a questo aspetto del carattere guinizzelliano gli pervenisse solo per via letteraria, come riteneva anche F. Torraca, Il canto XXVI del Purgatorio, Firenze [1900], pp. 37-38 (e cfr. S. Frascino, in V. Rossi, Commento alla Divina Commedia, con la continuazione di S. Frascino, a cura di M. Corrado, II, Roma 2007, p. 982). 10. Donna me prega, v. 35. 11. Al riguardo rinvio, per brevità, al mio Dante, Guido e Francesca, Viella, Roma 2008, pp. 141-171. 12. G. Contini, Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino 1976, p. 42; C. Garboli, Pianura proibita, Milano 2002, p. 153. 13. Pg XI 97-99. 14. Tartaro, La riabilitazione di Guinizzelli, p. 164. 15. VE I xiii 1 («nunquam se ad curiale vulgare direxit») e II vi 8 («nunquam in vocabulis et constructione plebescere desuetos»). 16. Pg XXIV 49-62. 17. A. Roncaglia, Il canto XXVI del Purgatorio, Roma 1951, p. 22. 18. Contini, Un’idea di Dante, p. 157. 19. Cfr., al riguardo, quel che si legge in D. De Robertis, Il libro della Vita nuova, Firenze 1970, pp. 87, 223-225. 20. Cfr. il mio Le autobiografie di Dante, Napoli 2008, pp. 127-134. 21. Si veda il mio saggio, Sul disdegno di Guido, in «Forti cose a pensar mettere in versi». Studi su Dante 2, Torino 2020, pp. 247-314.
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22. If X 58-60. 23. Il tempo del verbo fu notato da G. Contini, Filologia ed esegesi dantesca (1966), in Un’idea di Dante, Torino 1976, p. 137. 24. If X 70-72. 25. Ne parlò nella Rettorica, a cura di F. Maggini, Firenze 1915, p.6. Un denso profilo biografico di ser Brunetto è in G. Inglese, Brunetto Latini, in Dizionario biografico degli Italiani, LXIV, Roma 2005, pp. 4 b-12 a. All’opera fondamentale di Th. Sundby, Della vita e delle opere di Brunetto Latini, a cura di R. Renier con appendici di I. Del Lungo e A. Mussafia, Firenze 1884, si è aggiunto, molti anni dopo, J. Bolton-Holloway, Twice-told Tales. Brunetto Latini and Dante, New York 1993, pp. 315-427. 26. Si veda su questo il mio Dante e Brunetto Latini, in «Forti cose a pensar mettere in versi». Studi su Dante 2, pp. 315-378. 27. G. Boccaccio, Della origine, vita costumi e studii di Dante Alighieri di Firenze e delle opere composte da lui, in Le vite di Dante scritte da Giovanni e Filippo Villani, da Giovanni Boccaccio, da Leonardo Aretino e Giannozzo Manetti, ed. e note di G.L. Passerini, Firenze 1917, p. 50 (la si veda anche in G. Boccaccio, Il Comento alla Divina Commedia e gli altri scritti intorno a Dante, a cura di D. Guerri, I, Bari 1913, p. 46). 28. Sulla grave e complicata situazione politica, sul conflitto delle fazioni fiorentine e sui rapporti con il papato mentre Carlo di Valois si avvicinava a Firenze e si delineava la prevalenza dei Neri e la sconfitta dei Bianchi, si veda il dettagliato racconto di R. Davidsohn, Storia di Firenze, III, Le ultime lotte contro l’Impero, IV, Firenze 1960, pp. 197 ss. Ma si veda anche N. Sapegno, Storia letteraria del Trecento, Milano-Napoli 1963, pp. 77-78, G. Petrocchi, Vita di Dante, Bari 1983, pp. 87-88, e G. Inglese, Vita di Dante. Una biografia possibile, Roma 2015, p. 67. È la situazione alla quale, fra le altre cose, alluderà Vanni Fucci nella sua fosca profezia (If XXIV 143-144). 29. Le vite di Dante, p. 215. 30. Su Lapo Saltarelli, cfr. A. D’Addario, ED, IV, 1084 b-1086 a. 31. If VI 73-75. 32. If VI 79-84. 33. Pd VI 102-103. 34. If XVI 58-63. 35. Pd XV 139-141. 36. Si veda comunque N. Sapegno, La Divina Commedia, III, Paradiso, Firenze 1985, pp. 204-205; G. Inglese, Commedia, III, Paradiso, Roma 2016, pp. 209-210, e Id., Vita di Dante. Una biografia possibile, pp. 22-28. 37. Pg II 88-105. 38. Pg II 106-112. 39. Pg XXIV 49-54. 40. Cfr. per questo G. Inglese, Commedia, II, Purgatorio, Roma 2011, p. 324.
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41. Per i giudizi letterari che s’intrecciano in questa parte del canto, ottime osservazioni si leggono in Inglese, Purgatorio, pp. 324-325, al quale rinvio anche per le indicazioni bibliografiche che vi sono contenute. 42. Per la pagina di storia letteraria che, coinvolgendovi sé stesso, il suo passato e il suo presente, indirettamente Dante scrisse in questi versi, si veda, in particolare, oltre la letteratura già citata, A. Monteverdi, Il canto XXVI del Purgatorio, Firenze 1956, e, in particolare, A. Terzi, Il provenzale e lo ‘stemma codicum’ nella ‘Commedia’, in «Critica del testo», 7 (2004), pp. 1091-1143. Questa e altra letteratura è ottimamente discussa in Inglese, Purgatorio, pp. 324-327. 43. Pg XXVI 133-135. 44. Pg XI 22-24. 45. Pg VIII 94-108. 46. Acutamente e, per quel che ho visto, meglio di ogni altro, Roncaglia, Il canto XXVI del Purgatorio, pp. 23-24, ha sottolineato il carattere autobiografico dell’episodio e le «tappe di un itinerario spirituale» che vi sono segnate. Ma, come ho cercato di far vedere nel testo, credo che si debba andar oltre. Non qui soltanto, ma qui in accordo con quanto nella Commedia avviene nel giudizio sui maestri, quella che Dante scrisse nella Commedia è un’autobiografia nella quale la transvalutazione dei valori costitutivi del mondo implica, nella prospettiva di una soluzione apocalittica del momento storico, l’allontanamento, Virgilio compreso, di ogni precedente maestro. 47. Pg XXVII 22-24. 48. Pg XXVII 52-54. 49. Pg XXVII 127-32 e 139-142. 50. Pg XXVII 119-120. 51. Pg XXVIII 83-84. 52. Pg XXVIII 139 e 141. 53. Su questo punto, resta fondamentale D. Comparetti, Virgilio nel Medio Evo, n. ed. a cura di G. Pasquali, I, Firenze 1955, pp. 280-283, il quale osservò che qui «viene posta innanzi per la prima volta l’idea medievale sulla profezia relativa a Cristo contenuta nella 4. egloga» (p. 280). Conviene aggiungere che il Comparetti vide bensì la ragione per la quale a Stazio fu consentito l’ingresso nel Paradiso Terrestre. Ma non gli occorse tuttavia di notare la singolarità teologica dell’ammissione in esso di Virgilio; il quale è ben vero che, come egli disse, «all’apparire di Beatrice» sparì, ma resta che vi era entrato, e che questo avrebbe dovuto esser notato come impossibile. Non mi risulta che questa singolarità sia stata avvertita nei commenti, o altrove; e spero di non aver sbagliato nel giudicarla così. Ho discusso più largamente la questione in Dante, Virgilio (e Stazio), che si legge in questo volume, pp. 9-110. 54. Pg XXII 67-73. 55. Pg XXVII 125. 56. Met. 1, 89-90. Cfr., per questo, G. Di Pino, in «Letture classensi», 2 (1969), p. 240.
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57. Pg XXVIII 139-141. Se, a parte Ovidio che, con Virgilio, è la fonte più probabile, Dante sapesse di altri testi latini, è, per quel che riesco a vedere, difficile da decidere. 58. Pg XXX 31-33. 59. Il primo (aen. 4, 23) segnalato da Inglese, Purgatorio, p. 363. Il secondo è in aen. 3, 96. 60. If I 130-133. 61. Pg XXVIII 145-148. Ma cfr. anche XXIX 55-57: «io mi rivolsi d’ammirazion pieno/ al buon Virgilio, ed esso mi rispuose/ con vista carca di stupor non meno». 62. If I 85-87.
5. «Nostro peccato fu ermafrodito» (Pg XXVI 82)
1. Perché sia evitato il pericolo di qualche confusione, l’incontro di Dante con i lussuriosi sull’ultima cornice del Purgatorio richiede di essere distinto nella successione dei suoi momenti e sottolineato, innanzi tutto, nella sua estrema pericolosità. Il sentiero su cui, al seguito di Virgilio e di Stazio, Dante procedeva, da una parte aveva la parete rovente della montagna, da un’altra, l’abisso. Era perciò ben naturale che «lo duca» dicesse: «per questo loco/ si vuol tenere agli occhi stretto il freno,/ però ch’errar potrebbesi per poco».1 Era un monito pieno di saggezza pratica e privo di ogni solennità. Il terreno era insidiosissimo: se, per evitare l’abisso, Dante si fosse tenuto stretto alla parete rovente il danno ricevuto non sarebbe stato meno grave di quello che gli avrebbe provocato la caduta nel vuoto. L’allusione al peccato di cui le anime ospitate in quel girone si emendavano, era evidente. Evidente era il significato del fuoco e del baratro. Per sé stessa, la lussuria era una bestia indomabile in entrambe le sue determinazioni: al fuoco che riduceva in cenere si contrapponeva, senza in realtà, contrapporsi, il gelo,e perciò un baratro senza fondo che attraeva fatalmente in sé chi in quel peccato si fosse fatto coinvolgere. Anche in questo caso la salvezza era nel μέσον, fisicamente identificato nella linea che divideva in due lo stretto sentiero Occorreva perciò camminarvi sopra evitando sbandamenti che avrebbero potuto essere fatali. Le savie parole erano state, per altro, appena pronunziate, che già a sostituirle e a conferire alla scena un tutt’altro tono, erano intervenute voci provenienti da una schiera di spiriti che, «per la fiamma andando», si rivolgevano a Dio con un ardore al quale non era pari quello che si sprigionava dalla roccia infuocata, che da quello infatti era vinto. Le anime procedevano nella fiamma che, come era stata di perdizione, ora significava redenzione
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e purificazione; a queste esse alludevano evocando scene di virtù, ricavate non solo dalla vita della madre di Cristo (virum non cognosco), ma anche da quella di dee dell’Olimpo pagano («al bosco/ si tenne Diana, ed Elice cacciònne/ che di Venere avea sentito il tósco»).2 «Indi al cantar tornavano; indi donne/ gridàvaro e mariti che fuor’ casti/ come virtute e matrimonio imponne./ E questo modo credo che lor basti/ per tutto il tempo che ’l foco li abbruscia:/ con tal cura convien, ó con cotai pasti/ che la piaga da sezzo si ricuscia».3 Il colloquio che, a questo punto, ebbe luogo fra uno di quegli spiriti penitenti e Dante che, a causa del suo far di sé «parete al sol», aveva colpito la sua attenzione, e suscitata la sua curiosità, ha un’evidente funzione di passaggio, da una situazione, già altrimenti nota al lettore della Commedia,4 a quel che più a questo punto occorreva mettere in luce. E cioè quali forme la lussuria avesse assunte nel corso della vita di ciascuno di questi peccatori e in che modo, nel segno generale di quella, fossero sottoposti al «martirio» della purificazione. Sotto il manto onnicomprensivo della lussuria, si nascondevano infatti i suoi aspetti specifici, le sue peculiarità, le sue differenze: come subito apparve chiaro a Dante che, mentre si accingeva a soddisfare la curiosità di colui che gli aveva rivolta la domanda e attendeva con ansia la risposta («o tu che vai, non per esser più tardo,/ ma forse reverente, agli altri dopo,/ rispondi a me che ’n sete e ’n foco ardo./ Né solo a me la tua risposta è uopo;/ ché tutti questi n’hanno maggior sete/ che d’acqua fredda Indo o Etiopo./ Dinne com’è che fai di te parete/ al sol, pur come tu non fossi ancora di morte intrato dentro dala rete»),5 fu distratto da «altra novità ch’apparve allora»: «per lo mezzo del cammino acceso/ venne gente col viso incontro a questa,/ la qual mi fece a rimaner sospeso» (vv. 28-30). Non a torto. Dinanzi ai suoi occhi si stava infatti profilando una situazione che, in quella a cui fino a quel momento aveva assistito, introduceva un forte elemento di contrasto: non perché non fossero anime di lussuriosi quelle che ora stavano sopraggiungendo e, con quelli che già erano lì, scambiavano espressioni e segni di pace, ma perché lo erano in un senso diverso, o, addirittura, opposto. La «nuova gente» gridava il suo peccato evocando Sodoma e Gomorra. La prima replicava con crudezza, dichiarando il suo: «nella vacca entra Pasife, perché ’l torello a sua lussuria corra». I lettori della Commedia non richiederanno certo che qui si indugi a spiegare per la milionesima volta quale sia il senso del primo detto, e quale quello del secondo. Ma farebbero torto a sé stessi se non tenessero fermo quel che, del resto, è di per sé evidente: i peccatori sopravvenuti erano, sotto la medesima coltre della lussuria, diversi dai primi.
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Al pari dell’essere, si potrebbe dire scherzando, anche la lussuria «si dice in molti modi». In questo caso, in due. 2. I commentatori moderni sono tutti concordi nel tener distinte le due schiere che, a Dante che osservava la scena, avevano rivelato ciò che le faceva diverse. Restano tuttavia da chiarire alcuni aspetti, che non sono di dettaglio. Chi è lo spirito che a Dante aveva chiesto perché mai il suo corpo facesse parete al sole, come se fosse stato quello di un uomo vivo? Se non pochi sono i commentatori moderni che alla questione non hanno dato peso, lasciandola, tacitamente, senza risposta e non attribuendo un nome a colui che aveva formulato la domanda, Benvenuto,6 invece, e con lui alcuni moderni, non ebbero dubbi. «L’un d’essi» che così aveva parlato a Dante, era Guido Guinizzelli, ossia il grande poeta che si trovava nella prima schiera e, alla domanda che aveva formulata in modo così vivo, non aveva ricevuto risposta da lui che, come si è visto, era stato distratto dalla «novità» che proprio in quel momento era sopravvenuta. «Sì mi parlava un d’essi; e io mi fora/ già manifesto, s’io non fossi atteso/ ad altra novità e che parve allora;/ ché per lo mezzo del cammino acceso/ venne gente col viso incontro a questa,/ la qual mi fece rimaner sospeso» (vv. 25-30). Benvenuto ebbe ragione? Si trattava di Guinizzelli? Di lui Dante fece bensì il nome al v. 91, elevandolo, da quel punto in poi, a esplicito protagonista del canto. Ma non si preoccupò di dire se il personaggio che, ai vv. 82-87, avrebbe definito la natura specifica del peccato commesso dalle anime fra le quali si trovava, e l’altro che era rimasto turbato nel vedere che il corpo di Dante non era attraversato dai raggi del sole, che, infatti, vi si fermavano come su una parete, fossero lo stesso personaggio. Posta in questi termini, e ristretta a questo significato, la questione sarebbe, senza dubbio, da definire, nello stesso tempo, irrilevante e di difficile risoluzione. Dante, infatti, non fornì elementi perché fosse risolta in un senso o nell’altro; né c’è ragione di credere che, nel silenzio dapprima mantenuto sul personaggio che si sarebbe poi rivelato come il protagonista del canto, debba vedersi l’intento di dare maggior risalto alla sua figura, col rivelarne, solo alla fine, l’identità. In effetti, il personaggio che aveva formulato la prima domanda potrebbe essere, e anche non essere, il Guinizzelli, senza che da ciò derivassero alterazioni alla linea della questione. La quale è ben posta e altrettanto ben risolta se si tiene fermo che, sia o no lo stesso personaggio quello che a Dante aveva rivolta la domanda relativa al suo corpo non attraversato dal raggio del sole, e l’altro che, nominatosi come Guido Guinizzelli, ave-
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va definito il peccato che stava scontando sul monte, in un punto essi si identificavano, posto, e non concesso, che, per il resto, fossero stati diversi. Si identificavano nell’appartenere alla schiera dei peccatori che Dante aveva incontrati per primi, e che formavano quella a cui presto l’altra sarebbe sopraggiunta, contrapponendosi a essa per la natura del peccato a cui i suoi componenti avevano soggiaciuto in vita. La «nova gente», ossia la schiera che Dante aveva vista sopraggiungere e che infine era arrivata là dove egli si trovava, definiva sé stessa con i nomi delle due città bibliche, Sodoma e Gomorra, che Dio aveva punite per il peccato che vi aveva preso stanza. Peccato orribile, senza dubbio, se, per definirne la natura, era necessario che, a umiliazione di sé stessi, essi rievocassero la storia di quelle città, e, per il tramite di quelle, si definissero sodomiti. Gli altri, a loro volta, replicavano che il loro peccato era ben definito dalla storia di Pasife e del «torello». Anche se assumibili sotto il segno generico della comune lussuria, i due peccati erano tuttavia profondamente diversi; e, non per caso, chi se ne fosse macchiato faceva parte di una schiera distinta dall’altra. Se questo è chiaro, e dovrà esser tenuto presente, ci si deve tuttavia chiedere perché Dante fece che la risposta che era tenuto a dare all’anima che gli aveva chiesto la ragione per la quale il suo corpo respingeva i raggi del sole, fosse stata ritardata dall’apparizione della schiera che sopraggiungeva. La ragione deve essere cercata nell’esigenza che egli avvertì di tenere separate le due schiere di peccatori che, mentre si accingeva a dare la sua risposta, erano entrate in contatto. Richiamata l’attenzione del lettore sulla schiera che sopraggiungeva e l’induceva a rinviare la risposta di cui era stato richiesto, Dante ribadiva che i peccatori sopraggiunti erano bensì lussuriosi, ma segnati tuttavia da un peccato che, sotto quel segno generico, non era, nello specifico, della stessa natura dell’altro. 3. Alla differenza intercorrente fra i due peccati occorreva, dunque, dare il maggior possibile rilevo. Era necessario che il lettore tenesse ben chiaro in mente che quella che sopraggiungeva era la schiera dei sodomiti, ossia di peccatori che avevano esercitata la lussuria in modo opposto a quella messa in atto dagli altri che formavano la prima e che fu proprio il sopraggiungere della nuova schiera a rendere possibile l’individuazione del suo carattere. Se, come si è visto i sopravvenuti si definivano rievocando Sodoma e Gomorra, nel rispondere, gli altri alludevano alla storia di Pasife e del toro con il quale si era congiunta. Erano essi i primi a dar conto di ciò che li faceva diversi e ad avvertire che confusioni, fra di loro, non
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erano ammesse. Erano due forme opposte di lussuria quelle che venivano in contatto. E Dante aveva le sue ragioni, che il corso dell’analisi forse farà emergere, in modo che fra le due schiere la differenza risultasse con la necessaria nettezza. Alla radice di questa, si dava infatti il tratto comune: al di sotto, o al di sopra, della differenza specifica si dava, per parlare in lingua aristotelica, il genere che le comprendeva in sé. Per questo, insistere sulla differenza era necessario. Se l’una richiamava l’altra distinguendosene attraverso la comune appartenenza al medesimo genere, è pur vero che le due schiere si incontravano e si scambiavano segni di affetto, così come «s’ammusa l’una con l’altra formica,/ forse a spiar lor vita e lor fortuna» (vv. 35-36).7 Il che avveniva non perché l’un peccato valesse l’altro e non se ne distinguesse in modo netto, ma per la ragione che si è dichiarata ricordando la differenza specifica, ma senza dimenticare il genere. Era infatti la lussuria che, con le sue differenze, doveva passare intera attraverso il muro di fuoco della finale purificazione. Era il fuoco che, avendo bruciato la vita dei lussuriosi, ora bruciava sé stesso, e si rendeva strumento di purificazione. Come Virgilio avrebbe detto a Dante, all’inizio del canto successivo, in quel fuoco poteva esserci «tormento, ma non morte»,8 e fra Beatrice e lui non c’era che «questo muro» (v. 36) attraverso il quale doveva passarsi perché l’ostacolo divenisse il suo superamento. 4. È questa la situazione alla quale il sopraggiungere della nuova schiera dei lussuriosi lo mise di fronte, impedendogli, sul momento, di dar risposta alla domanda che gli era stata rivolta. Giunto sull’ultimo girone del Purgatorio, lo si è già notato, Dante era venuto a trovarsi nel luogo specularmente opposto a quello con il quale aveva avuto inizio il suo viaggio nell’Inferno. In questo girone aveva incontrato i peccatori carnali che la ragione avevano sottomessa al talento,9 e per questo erano stati condannati all’eterna pena. In quello al quale era pervenuto scalando la montagna del Purgatorio incontrava peccatori che, per essersi involti nella lussuria in modi non univoci, erano bensì vicini alla barriera di fuoco che li avrebbe purificati in vista del cielo, ma intanto richiedevano di essere distinti e definiti nelle loro diverse caratteristiche. Se questo non accadeva nel girone in cui Dante aveva incontrato Paolo e Francesca, la ragione sarà da ritrovare in ciò che, nella «bufera infernal, che mai non resta» non si davano situazioni che non vi fossero tutte allo stesso modo ricomprese per l’eternità, sì che distinguerle era inutile e, a giudicare dagli esempi, non necessario. Questi inoltre si riferivano tutti a un esercizio dell’eros che, nella sua eccessività, non sembrava esser stato mai
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messo in atto se non da uomini con donne e da queste con uomini: a differenza di quel che si dava a vedere sull’ultima cornice del monte, dove la diversa composizione delle schiere alludeva, forse, se non al diverso tempo richiesto dall’espiazione, a una esigenza di più definita conoscenza delle forme e dei modi in cui l’eros era stato esercitato. Sta comunque di fatto che, scendendo nella voragine infernale, Dante si era lasciato alle spalle un peccato che, fra quelli puniti nell’Inferno, era, se così potesse dirsi di un peccato punito in quel luogo, il meno grave. Terminata l’ascesa del monte purgatoriale, lo giudicava, anche qui, come il più lieve fra quanti si trovavano a essere puniti nei sei sottostanti gironi e il più prossimo alla barriera di fuoco al di là della quale era il Paradiso Terrestre. Che vi fosse un non troppo nascosto motivo autobiografico in questa scelta, che importava che il viaggio per i primi due regni cominciasse e, rispettivamente, si concludesse con i lussuriosi, si può concedere se si tiene conto di quel che, a proposito delle sue inclinazioni, fu, per esempio, detto dal Boccaccio,10 e se si aggiunge che può esserci un’allusione alla lussuria vinta nell’accenno che Dante fece al fuoco dal quale, quando Guido Guinizzelli gli ebbe rivelata la sua identità, si tenne lontano, malgrado l’inclinazione che, evidentemente, provava per chi ne era avvolto per avere, da vivo, condiviso quella passione. «Quali nela tristizia di Ligurgo/ si fer due figli a riveder la madre,/ tal mi fec’io, ma non a tanto insurgo»; (vv. 94-96), «e sanza udire e dir pensoso andai/ lunga fiata rimirando lui,/ né per lo foco in là più m’appressai» (vv. 100-102). Un’allusione alla lussuria può esserci, ed è probabile che vi sia nell’accenno che, nei versi già ricordati del canto ventesimosettimo, Virgilio aveva fatto al muro di fuoco che, fin lì, aveva tenuto Dante separato da Beatrice. Meno probabile invece che possa cogliersene uno nell’accenno a Gerione, dal momento che non è al simbolo della corda e al significato sessuale che, fra gli altri (e più importanti), può esservi indicato,11 che qui si allude, ma solo al pericolo che con Virgilio aveva corso quando entrambi si erano serviti di quel mostro per metter piede sulle Malebolge. Motivo autobiografico a parte, è un fatto, tuttavia, che, come il viaggio nell’Inferno era cominciato, non volendo tener conto degli anonimi ignavi del primo cerchio, con la visita ai lussuriosi, così con questi, e sul girone del Purgatorio che li ospitava, aveva termine la sua scalata del monte. C’era, in questo, una precisa ragione strutturale. Nell’Inferno, che ha la forma di un cono capovolto, la lussuria è punita nel secondo girone, ossia nella parte alta di esso. Nel Purgatorio, che è rappresentato come un cono che poggia sulla sua base naturale e non, come quello dell’Inferno, sul suo
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vertice, era ovvio che, di nuovo, la lussuria si trovasse in alto, nei pressi, non della base, ma del vertice. Nel caso specifico, alla ragione strutturale se ne aggiungeva tuttavia una di natura, per dir così, narrativa, dominata dalla persona di Dante. Notarla, questa circostanza, chiedere la ragione del suo essersi prodotta, e rispondere che è da ritrovare nell’esigenza che egli avvertiva di richiamare l’attenzione su di sé che, pervenuto a quel girone del monte, aveva compiuto, da vivo, il percorso della sua purificazione, è, in realtà, tanto più necessario quanto più si consideri che la linearità e la chiarezza del racconto non se ne giovarono. La «tecnica a incastro»,12 che gli era consueta, e che nel caso specifico consistette sia nell’inserimento che egli fece della sua persona nel racconto sia nella risposta che, per allora, egli non dette alla domanda che gli era stata rivolta, forse giovò più alla drammatizzazione della scena che alla chiarezza e alla linearità del racconto: come può vedersi nella difficoltà che insorgerebbe se, nel seguire la vicenda delle due schiere, l’attenzione non restasse vigile, e attenta a non lasciarsi sfuggire la loro netta distinzione: da una parte quella degli omossessuali, o sodomiti e, da un’altra, l’altra sopravvenuta, a un certo punto, alla prima che Dante aveva di fronte, di coloro che definivano sé stessi richiamando l’amore bestiale di Pasife e del toro.13 Non è, come stiamo vedendo, una difficoltà che una lettura attenta non sia in grado di risolvere. Ma se, tuttavia, insorge, è anche a causa della suddetta tecnica, nonché del silenzio che, tra la fine del canto ventesimoquinto e l’inizio del ventesimosesto, Dante aveva mantenuta sulla natura dei lussuriosi che ai tre poeti si erano manifestati alludendo, con i loro canti, a momenti di alta castità. Quei canti ogni lussurioso che si fosse trovato sul monte dell’espiazione avrebbe potuto intonarli, quale che, in vita, fosse stata la peculiarità e specificità del suo peccato. Donde la necessità che il lettore non si lasciasse vincere dalla concordia dimostrata dalle anime, e ne fosse indotto a non distinguere, ma tenesse teso l’arco della mente in modo che la distinzione non gli sfuggisse. Fu soltanto nel momento in cui le anime sopraggiunte nel luogo in cui si trovavano quelle che Dante aveva incontrate sulla scoscesa ultima balza dissero di che natura fosse stata la loro lussuria, – fu soltanto allora che, per contrasto, fu dichiarata quella della prima, e poté intendersi che coloro che vi erano inclusi avevano, in vita, avuto a che fare, non con la sodomia, come, equivocando, intese qualche esegeta antico,14 ma con una sessualità diversa e, se non deviata, comunque pervertita. Fu qui, ossia a partire dalle parole pronunziate dal personaggio rivelatosi, di lì a poco, come
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Guido Guinizzelli, che si determinarono alcune incertezze interpretative e, talvolta, autentici fraintendimenti. Si consideri, innanzitutto, che, nel canto ventesimosesto, la linea narrativa non fu tracciata da Dante in modo che egli non avvertisse la necessità di tornare su punti che pure avrebbero dovuto esser considerati acquisiti. Ai vv. 38-42 con le voci che, da una parte, dicevano di Sodoma e di Gomorra, da un’altra di Pasife e della sua specifica perversione, la natura sessuale delle due schiere era stata definita, e distinta, in modo che non avrebbe potuto essere più netto. In entrambi i casi si trattava, se si vuole, di una sessualità pervertita, ma diversamente pervertita. All’inclinazione omosessuale, che gli scrittori di cose religiose (valga per tutti, Tommaso d’Aquino)15 consideravano «turpe» perché esercitata «contra naturam», se ne contrapponeva infatti una la cui «normalità» si era pervertita in forme definibili come «bestiali» e che, sebbene in altro modo, alla natura anch’esse recavano offesa. Nel quadro di una sessualità comunque perturbata, la distinzione delle due schiere era stata eseguita in modo netto. Ma, come se fosse stato distratto dall’inserzione che egli stesso aveva fatta, nel quadro, del suo personaggio, e ritenendo forse che, non a sufficienza chiarita, la questione potesse dar luogo a equivoci, Dante ritenne che, comunque, non lo fosse stata abbastanza. E vi tornò sopra con parole che potrebbero persino esser giudicate eccessive se confrontate con quelle che già erano state dette: «ma se la vostra maggior voglia sazia/ tosto divegna, sì che ’l ciel v’alberghi/ ch’è pien d’amor e più ampio si spazia,/ ditemi, acciò che ancor carte ne verghi,/ chi siete voi, e chi è quella turba/ che se ne va di retro a’ vostri terghi» (vv. 61-66). In effetti, se si mette da parte l’enfasi con cui è descritto lo stupore delle anime, alle quali aveva rivelato di esser vivo («non son rimase acerbe né mature/ le membra mie di là, ma son qui meco/ col sangue suo e con le sue giunture» [vv. 55-57]), le parole con le quali Dante aveva definito il peccato dell’una e dell’altra schiera non erano state se non la ripetizione di quelle di cui già si era servito ai vv. 38-42; sì che la necessità di richiamarle fu probabilmente determinata, non solo dall’essersi, il suo discorso, troppo allontanato da esse, ma anche dall’aggiunta che, gli parve collocata al giusto posto, della notizia, o leggenda, dell’omosessualità di Giulio Cesare,16 tramandata da Suetonio,17 e di cui è probabile che egli avesse notizia attraverso Uguccione da Pisa.18 5. Se le ripetizioni possono, per un verso, nuocere alla linearità di una narrazione, ma, per un altro, giovare alla sua più sicura intelligenza, la massima potrebbe essere ripetuta, e messa in pratica, anche a proposito
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di questi versi; nei quali, tornando per due volte, e con lo stesso esempio, su quel che già aveva detto, Dante, non solo si preoccupò che non sorgessero equivoci circa la natura del peccato in cui, con tanti altri, era incorso Guido Guinizzelli, «il padre mio», scrisse, «e degli altri miei miglior che mai/ rime d’amor usar dolci e leggiadre» (vv. 97-99),19 ma anche ad altro, forse, ebbe la mira. Il contatto con il peccato di lussuria era avvenuto nel secondo girone dell’Inferno, dove a protagonista e simbolo di esso era stata elevata Francesca, nella cui vicenda, come altrove fu notato, aveva colto il segno dell’amore che, vissuto e realizzato al di là del limite, o nella sua essenza, è tale, secondo l’opinione di Guido Cavalcanti, che dalla sua «potenza» «segue spesso morte».20 Nel canto che la vede protagonista, in Francesca Dante aveva rappresentato un’eroina cavalcantiana. Attraverso la condanna a cui non aveva potuto non sottoporla, aveva indirettamente eseguito la critica che gli era sembrato di dover rivolgere alla teoria dell’amore svolta dal suo primo amico in Donna me prega, e preso ideale congedo da lui.21 È singolare che qualcosa di analogo, ma questa volta in forma esplicita, avvenisse anche nel canto ventesimosesto a proposito di un altro grande poeta, qui addirittura chiamato «padre», non solo suo, ma «degli altri miei migliori», e quindi, di necessità, anche dell’altro Guido, lui pure indirettamente richiamato in versi che sono, nello stesso tempo, di riconoscimento e di distacco: da Cavalcanti per quella sua ardua canzone, ricca di pericolose implicazioni, da Guinizzelli, che, se non nei versi,22 certo nella pratica della vita, aveva lui pure passato il segno. Si può ricordare, a questo riguardo, quel che, attraverso le parole di Oderisi, nel decimoprimo del Purgatorio (vv. 97-99) Dante aveva detto dell’uno e dell’altro Guido. Ma essenziale è cogliere il progressivo congedo che, nella Commedia, egli via via aveva imposto ai suoi maestri, compreso Virgilio, da cui, anche perché meglio risaltasse il distacco dagli altri, aveva dichiarato di aver tratto «lo bello stilo» che egli aveva fatto onore, e che tuttavia, perché non si poteva altrimenti, aveva dovuto fare che cedesse a Beatrice la guida nella sua ascesa paradisiaca. Il congedo che aveva preso da Brunetto Latini23 e da Guido Cavalcanti era stato netto: vi si aggiungeva ora quello che, nelle forme eleganti e affettuose che si sono viste, prendeva da Guido Guinizzelli. È un aspetto, questo, della rappresentazione che egli faceva del suo personaggio che, più di quanto non sia avvenuto, merita di essere sottolineato. A misura, si potrebbe dire che, con garbo, ma con decisione, storicizzava la sua vita e via via ne indicava il senso provvidenziale, Dante rendeva omaggio ai suoi maestri. Nel dare
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a essi il giusto riconoscimento, era anche inevitabile che se ne distaccasse, e, nel distaccarsene, collocasse in alto la sua figura. Il viaggio che compiva nell’aldilà trasferiva la storia nella dimensione dell’apocalisse. Il rapporto che intratteneva con il suo passato non poteva non risentirne in modo decisivo.24 6. Non di questo, tuttavia, occorre parlare, bensì del termine con cui Guinizzelli aveva definito il peccato suo e di quanti si trovava ad avere colleghi in quel girone del Purgatorio. «Nostro peccato», aveva detto, fu «ermafrodito». Di un sostantivo, ossia del nome che fu dato a esseri bisessuati, Dante, che al riguardo aveva presente il quarto libro delle Metamorfosi di Ovidio, fece un aggettivo che suonava come un nome, ma non era un nome; e di quello si servì per descrivere, non, come oggi per lo più s’intende,25 un comportamento erotico normale, anche se spinto all’estremo, bensì, all’interno di questo, un atto peccaminoso, una sorta di oltranza che, richiedendo di essere purificata nel Purgatorio cristiano, deve cercarsi di intendere quale senso specifico egli le attribuisse. Spiegata così, la questione, infatti, è descritta, non spiegata. Per spiegarla, dopo averla descritta, occorre chiedersi che cosa, propriamente, Dante avesse inteso per «ermafrodito», e in quale direzione egli avesse svolto il senso della favola di cui aveva letto nel testo di Ovidio, con il quale, a guardar bene, solo in parte concordava. La differenza, salvo errore, stava infatti in ciò che, se nel canto ventesimoquinto dell’Inferno aveva sfidato Ovidio, contrapponendo alla sua, l’abilità che aveva dimostrata nel descrivere le trasformazioni a cui i corpi dei ladri erano sottoposte, nel ventesimosesto del Purgatorio Dante non si interessò al fenomeno della metamorfosi. Non a questo ebbe la mente, e, se mai, lo presuppose. Si limitò infatti a usare un aggettivo che alludeva a una metamorfosi, e lasciò agli interpreti la cura di spiegare che cosa egli vi avesse visto, e perché l’avesse usato in quel contesto. Si può fin d’ora dire che il senso che egli dette al termine fu così estensivo, e insieme specifico, così specifico e insieme allusivo, che intenderlo non sarà facile. Nell’essere maschio e femmina, l’ermafrodito ovidiano era meno sia dell’uno sia dell’altro. Ma un peccato cristiano che si definisca attraverso la somma dei due sessi, maschile e femminile, e, nello stesso atto, la sottrazione che, come si vedrà, l’uno faceva di sé stesso all’altro, è difficilmente concepibile. Che cosa aveva in mente il poeta a cui venne fatto di usare, certo a ragion veduta, quel raro aggettivo, che nella Commedia ricorre, infatti, una sola volta ed è, propriamente, un hapax?
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7. Per avviare il discorso, converrà ricordare che, nel diverso contesto della religione antica, quelle dell’ermafrodito erano una nascita e una situazione irregolari.26 Avevano in sé qualcosa di peccaminoso e richiedevano purificazione. Per come Ovidio l’aveva descritto, l’amplesso dal quale l’essere bisessuato era nato, era avvenuto nelle acque di un lago che, sebbene all’apparenza fossero di particolarissima limpidezza, erano tuttavia molli, impure e predisponevano al fenomeno, quello della metamorfosi, che in effetti vi si produsse. In quel lago si trovava una ninfa, Salmacide, che, a differenza delle altre che erano con lei, non si dedicava alle opere alle quali le sue compagne erano intente. Non «iaclum sumit nec pictas illa pharetras/ nec sua cum duris venatibus otia miscet,/ sed modo fonte suo formosos perluit artus».27 Era lì in attesa che le si offrisse l’occasione di dedicarsi all’unica cosa che per lei avesse interesse. Quando vide il fanciullo, subito desiderò di possederlo, e alla fine vi riuscì, sebbene quello avesse fatto di tutto per resistere e sfuggire alle sue lusinghe. Da un maschio e da una femmina nasce di regola un terzo, che si aggiunge ai due. Ma qui invece era accaduto che, da due, anzi da tre che avrebbero dovuto essere se la generazione avesse avuto luogo, i corpi si erano ridotti a uno: «sic, ubi complexu coierunt membra tenaci,/ nec duo sunt sed forma duplex, nec femina dici/ nec puer ut possit, nec utrumque et utrumque videtur» (vv. 377-379). Non di una generazione, infatti, si era trattato, ma di una trasformazione. Fondendosi con l’altro, da intero ciascuno dei due si era ridotto a metà: acquistando l’altro sesso, aveva dimidiato il suo, perché dalla presenza, nello stesso corpo, dei due sessi, derivava che il maschio era meno che maschio essendo anche femmina, e questa meno che femmina a causa del suo essere anche maschio. La metamorfosi aggiungeva, ma il risultato era una sottrazione. L’essere che ne era derivato era insieme raddoppiato e dimezzato. Era raddoppiato perché ciascun sesso aveva presso di sé, sullo stesso corpo, anche l’altro. Era dimidiato perché i sessi erano disposti in modo che non potevano l’uno agire sull’altro. È un tema, questo, che necessariamente si ripresenterà. Ma qui e ora occorre notare che, se per un istante è lecito indugiare sul testo di Ovidio, si era verificata una curiosa incongruenza. Quando si accorse che l’acqua nella quale vir descenderat, […] l’aveva reso semimarem, il fanciullo che, essendo figlio di Hermes e di Afrodite, si chiamava Hermaphroditus, si rivolse ai genitori perché conservassero alle acque, nelle quali si era verificata la funesta metamorfosi, il potere venefico che di lui aveva fatto un semivir, in modo che a chiunque vi si immergesse toccasse la sorte alla quale era soggiaciu-
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to. Il fanciullo, che non era più tale, desiderava, infatti, che la sua infelicità fosse trasmessa a chi si fosse lasciato attrarre dalla pericolosa natura di quelle acque. Ma non questo è il punto di maggior rilievo. Ci si deve infatti chiedere da che cosa, dato che la concedeva al puer, Ovidio fosse stato indotto a non dare la parola anche all’altro protagonista del dramma, ossia alla ninfa. Se aveva deciso di assumere come unico soggetto del discorso, non la metamorfosi stessa, e cioè un maschio che non era maschio e una femmina che non era femmina, ma il puer che, essendo ormai un semimas, manteneva tuttavia la sua precedente identità e nel nome di questa si rivolgeva ai genitori, Hermes e Afrodite, a che cosa si doveva che egli, Ovidio, avesse deciso così? Quel che era accaduto al fanciullo che, ritrovandosi bisessuato, aveva constato che il doppio valeva come la metà, anche a Salmacide infatti era, o avrebbe dovuto esser accaduto: in forza della metamorfosi, il fanciullo e la fanciulla costituivano infatti un’unità, quella stessa di cui si è detto che, nell’essere raddoppiata si era dimidiata. Ma alla ninfa, ossia alla parte femminile dell’ermafrodito nato dalla metamorfosi dei sessi, il lamento non fu concesso: in lei, che aveva preso l’iniziativa, aveva condotto il gioco e aveva persino chiesto l’aiuto degli dèi perché le riuscisse di concluderlo nel modo desiderato, con il garbo che gli era proprio il poeta delle Metamorfosi fece tuttavia che il lettore vedesse una specie di strega ammaliatrice, della quale non conveniva fare che, al pari del maschio, nella metamorfosi avesse conservata la sua voce. È notevole infatti che, sebbene l’essere che era risultato dall’amplesso di Salmacide con il puer, fosse da considerarsi, per un verso, terzo, ossia derivante dalla madre e dal padre che l’avevano generato, ma, per un altro, uno perché sintetizzante in sé i due genitori che in lui si conservavano per una metà e sparivano per un’altra, – è notevole che a emergere dal dramma della metamorfosi fossero non già i due che vi erano stati coinvolti e ora, a causa di quella si erano ridotti alla loro metà, ma soltanto il puer; che appariva bensì dimidiato a semimas, ma, a differenza della ninfa, della quale invece si taceva, da solo occupava la scena: e non a ragione. Nonché della ninfa, anche del puer si sarebbe infatti dovuto tacere, perché l’essere che era risultato da una nascita, che non era stata se non una metamorfosi dell’un genitore nell’altro, non consentiva né all’uno né all’altro di sopravvivere con la sua propria individualità. A sopravvivere doveva essere il risultato o, se si preferisce, il frutto della metamorfosi, ossia, in atto, la metamorfosi stessa; che, essendo trasformazione del maschio in femmina e della femmina in maschio, non era né l’una cosa né l’altra, ma un tertium genus, che
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avrebbe dovuto esser detto sia al maschile sia al femminile, e, nell’impossibilità che questo potesse accadere, al neutro: Hermaphroditum, dunque, non Hermaphroditus, con il termine messo al neutro intendendosi, non il nome che al fanciullo era derivato dall’essere nato da Hermes e Afrodite, ma il suo essersi trasformato in un doppio che valeva quanto una metà. In effetti, c’è nell’episodio ovidiano concernente questa specifica metamorfosi, un evidente (anche se, parrebbe, non notato) difetto di consequenzialità. Nell’amplesso in forza del quale era avvenuto che, da maschio, il fanciullo si facesse anche femmina, altresì avrebbe, a rigore, dovuto avvenire che la femmina si facesse anche maschio; e la medesima metamorfosi avvenisse su entrambi i corpi che si erano intrecciati nelle acque infette del lago. Ma, si fosse trattato di un difetto di logica, determinato, tuttavia, da un pregiudizio antifemminile, resosi evidente nell’attribuzione alla ninfa dell’iniziativa seduttrice, a questa conclusione, che pianamente discendeva dalla sua premessa, Ovidio tuttavia non pervenne. È vero che, come diceva con molta chiarezza, i due amanti si erano a tal punto compenetrati che mixta duorum corpora iunguntur faciesque inducitur illis una (vv. 373-375), e si ricordino i già citati vv. 378-379. È vero che l’intreccio dei corpi era stato così stretto che aveva dato luogo a una reciproca metamorfosi dell’uno nell’altro, e che, dalla scena, avrebbero perciò, dovuto uscire entrambi, sopravvivendo solo in quell’intreccio di membra nel quale avevano risolta la loro individualità. A rigore, e si deve ribadirlo, la metamorfosi importava che a sopravvivere nella loro indipendenza fosse non il semimas, non la semifemmina, ma nient’altro che essa, la metamorfosi che, per altro, nell’esser una, replicava l’identico nei due corpi che, acquisendo ciascuno anche il carattere dell’altro, erano due volte la stessa cosa. Questa conseguenza, invece, non fu tratta. Dalla metamorfosi venne fuori il puer, nella forma duplex, certo, che ne era derivata e che nec femina dici nec puer possit, ma pur sempre declinabile, come si è già detto, al maschile, mentre la femmina che aveva preso l’iniziativa dell’amplesso, al quale con ogni mezzo, e persino con l’invocato aiuto degli dèi, il fanciullo era stato costretto, restava esclusa dal dramma a cui aveva dato inizio e vita: era, infatti, come se, con la conscientia sui anche la voce avesse perduta e quasi non esistesse più. A essere udita non fu infatti se non quella del puer che, ridotto a semimas, aveva conservato l’una e l’altra, era sopravvissuto alla tragedia della sua trasformazione e di questa aveva alterata la logica. Fu lui, che avrebbe dovuto esistere solo nella metamorfosi, e non al di fuori di essa, a parlare e a dolersi di quanto era accaduto. Fu lui a rivolgersi ai genitori per
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aiuto, nel totale silenzio della voce femminile; che, se non si fece sentire, fu non in obbedienza alla logica della situazione che, se fosse stata rispettata, anche il puer ne sarebbe stato coinvolto, ma solo perché, nell’economia del dramma che aveva dato luogo alla metamorfosi, la sua funzione era stata di dargli inizio esercitando le arti della seduzione, e altro non le era richiesto. Certo, a questo punto, uno spirito sottile avrebbe potuto, e potrebbe, osservare che, se quello che avveniva nel corpo maschile, che acquisiva l’elemento femminile, allo stesso avveniva in quello femminile, che acquisiva l’elemento maschile, fra i due individui non si dava alcuna differenza, e parlare dell’uno era come parlare dell’altro, e di questo si doveva essere consapevoli. Il che sarebbe stato ben detto e bene argomentato se la metamorfosi avesse riguardato concetti, e non corpi che, sebbene identici, restavano due, e l’uno era quello che all’origine era stato di un maschio, l’altro era quello che all’origine era stato di una femmina: così che riconoscere il maschio, e non la femmina, era conseguenza del non aver saputo o voluto intendere che a essere scelti dovevano, con lo stesso diritto, essere entrambi. Accadde invece che, senza che una parola sola gli fosse dedicata, l’elemento femminile uscì di scena: a differenza di quel che era accaduto al fanciullo che, entrato come maschio nell’acqua del lago, si era ritrovato, per l’acquisizione della natura femminile, a essere un semimas. Rese molli dall’acqua in cui era entrato, le sue membra si erano infatti disposte a subire la metamorfosi, che fu per lui motivo di vergogna. Nella metamorfosi avrebbe dovuto perdere la sua antica identità, e invece l’aveva conservata. 8. Riassumiamo. L’ermafrodito è, nel racconto di Ovidio, il risultato dell’amplesso in cui la ninfa aveva stretto il recalcitrante fanciullo. La sintesi, se la si vuole chiamare così, che ne era derivata, era consistita in ciò, che l’uno aveva trasmesso all’altro il suo sesso che, per entrambi, aveva significato la perdita dell’intero, sopravvissuto come metà. La sintesi rea lizzata dalla e nella metamorfosi aveva dato luogo a un «ermafrodito», ossia a un essere che era insieme maschio e femmina, ma, per ciò che ciascuno aveva ceduto all’altro del suo sesso, era meno che maschio e meno che femmina, o, se si vuole, né maschio né femmina: era ermafrodito. Per questo, fu, come si è detto, un vero e proprio incidente logico quello che ebbe luogo nel punto del racconto in cui, invece di far sparire entrambi i soggetti della storia, o di conservarli entrambi, ma come l’uno la copia dell’altro, Ovidio osservò la metamorfosi solo nel puer, al quale fu affidato
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il compito, se non di narrare lui le fasi della metamorfosi in cui era stato preso, di esserne anche fuori in modo da poterla commentare, e maledire. Fu infatti lui che, rivolto ai suoi genitori, Hermes e Afrodite, deplorò l’accaduto, rendendone responsabile l’acqua inquinata del lago, incesto, lo definì, fontem medicamine.28 Si è parlato qui su dell’idea, o la si chiami pregiudizio per il quale il maschio deve necessariamente prevalere sulla femmina. Ma, a parte che ormai, non si trattava, a rigore, né di maschio né di femmina, perché nella metamorfosi l’uno e l’altro avevano smarrita la loro originaria e distinta natura, l’equivoco risiedeva anche in altro. Il giovanetto concupito da Salmacide era figlio di Hermes e Afrodite. Si chiamava perciò Hermafroditus prima di discendere nelle acque malsane del lago. Si sarebbe potuto chiamare con questo nome scritto magari con l’iniziale minuscola, se nella coppia genitoriale che l’aveva messo al mondo si fossero indicati, non propriamente Hermes e Afrodite, ma un maschio e una femmina che, in quanto tali, fossero stati riferiti a quei due modelli divini di mascolinità e di femminilità. Al riguardo, tuttavia, Ovidio non fornì al lettore specifiche informazioni. Aveva dato un nome al puer che, fin dall’inizio, l’aveva derivato dal padre e dalla madre, che erano un dio e una dea. Non lo dette al frutto dell’amplesso, ossia alla metamorfosi. La confusione che ne derivò all’esegesi è sotto gli occhi; e tanto più in quanto, come s’è viso, la logica del racconto avrebbe richiesto che l’«ermafrodito» in cui la metamorfosi era giunta alla sua conclusione, oltre che nel dimidiatus puer fosse osservabile anche nella dimidiata nimpha. 9. Quella dell’ermafrodito era dunque stata, o tale poteva essere considerata, una generazione che, paradossalmente, almeno per un verso richiedeva di esser definita sterile. Se, infatti, a ciascuno dei due sessi aggiungeva l’altro, per entrambi, come si è detto, l’aggiunta valeva come una sottrazione. All’uno e all’altro toglieva infatti sia la capacità di essere completo sia di generare un terzo. La metamorfosi toglieva quel che aggiungeva, e aggiungeva ciò che toglieva: senza esserlo compiutamente, il maschio era anche femmina, e, senza esserlo in modo compiuto, questa era anche maschio. Di qui l’insuperabile ambiguità della situazione, che non era tuttavia interpretabile in termini di omosessualità. Interpretarla così avrebbe significato fraintenderla. All’origine, c’era stato infatti il congiungimento di un giovane maschio con una giovane femmina, che era una ninfa. Ma poiché, invece di dar vita a un terzo soggetto, il rapporto non
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aveva prodotto se non una somma che importava una sottrazione riguardante sia il maschile sia il femminile, trarre di qui la conclusione che si fosse, in sostanza, messo al mondo un soggetto omosessuale o equivalente a questo, avrebbe significato la più grave delle confusioni. Invano, d’altra parte, l’interpretazione dell’ermafrodito in termini di omosessualità o di bivalenza avrebbe cercato il suo sostegno nella natura corrotta dell’acqua in cui l’amplesso aveva avuto luogo. Interpretando la richiesta e l’auspicio del puer che aveva subìta la metamorfosi, Ovidio aveva scritto: «quisquis in hos fontes vir venerit, exeat inde semivir, ut tactis subito mollescat in undis» (vv. 385-386). L’acqua era corrotta, rendeva molli le membra di chi vi si immergeva e agevolava incontri equivoci. Non era tuttavia alla sua natura che, in quanto tale, la metamorfosi poteva essere attribuita, bensì se mai a un prodigio. A sua volta, il semivir risultato dall’amplesso che vi aveva avuto luogo era certo una figura anomala, ambigua e tendente alla perversione. Ma non era caratterizzato da omosessualità. Nell’ermafrodito, il maschio era un semivir, ma non per questo era attratto dal maschio: la mulier era una semifemmina, ma non per questo desiderava la femmina. A differenza perciò degli scrittori cristiani che furono largamente concordi nell’attribuirla a soggetti del suo tipo,29 Dante vi vide altro. Tenne ben distinto il peccato definito come «ermafrodito» dalla pulsione omosessuale, come si vede dalla collocazione in due schiere diverse dei peccatori «ermafroditi» e dei peccatori omossessuali. La distinzione è netta, e confusioni, o attenuazioni, non sono ammesse. Secondo la dottrina cristiana, l’omosessualità è un peccato che offende la natura. Anche l’ermafrodito la offende: ma in modo radicalmente diverso. Nei confronti di quanti avessero soggiaciuto e soggiacessero alla pratica dell’omosessualità, l’atteggiamento di Dante non fu tuttavia così aspro da considerarli quali molti uomini di Chiesa, per esempio Pier Damiani,30 li avevano giudicati: ἄξιοι τοῦ θανάτου, degni di morte, come poteva leggersi nell’Epistola di Paolo ai Romani, 1, 33, nella quale la condanna di questa disposizione sessuale era stata pronunziata senza appello. Se gli omossessuali occupavano un girone dell’Inferno e lì scontavano un’eterna pena, vero è che autori del medesmo peccato si trovavano nel Purgatorio, senza che, salvo errore, Dante avesse ritenuto di dover addurre e spiegare la ragione di questo diverso destino. È vero che, nel decimoquinto dell’Inferno, sarà lo stesso Brunetto Latini a definire i suoi compagni di pena «d’un peccato medesmo al mondo lerci», e che non c’è in questo giudizio, niente che lasci pensare a una disposizione dantesca all’indulgenza, meno che mai
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alla comprensione. Ma è anche vero che sulla natura del peccato egli non fermò mai la sua attenzione e non s’impegnò a cercarne le ragioni. Il canto decimoquinto dell’Inferno è per intero dominato dalla figura di Brunetto Latini e dall’incontro con lui senza che sul peccato di cui si era macchiato in vita vi siano considerazioni che contribuiscano a spiegarne la natura. Lo stesso avviene nel ventiseiesimo del Purgatorio. Che vi si incontrino omosessuali è un fatto altrettanto indiscutibile dell’assenza di un giudizio e di una spiegazione; che, si deve ribadire, a tal punto sono assenti che ci si potrebbe legittimamente chiedere perché Dante non abbia avvertito di dover spiegare la ragione per la quale sodomiti si trovano nell’Inferno e sodomiti si trovano nel Purgatorio. Forse che quelli del Purgatorio stavano lì perché del loro peccato si erano pentiti e, in un momento della loro vita, si erano affidati alla misericordia di Dio? Resta che a un loro pentimento, in questo caso, Dante non fece alcun cenno e che, a differenza di quel che era accaduto nel decimoquinto dell’Inferno,31 non ne nominò alcuno. Fra ermafroditismo e omosessualità nessuna convergenza, dunque, era possibile. Ma se l’ermafroditismo non aveva a che fare con l’omosessualità, considerare la sua duplicità come tuttavia la stessa che si rivela nell’amore dell’uomo e della donna avrebbe significato dar corso a un grave fraintendimento, destinato a persistere anche se in questa duplicità si fosse colto qualcosa di «peccaminoso», lo svolgimento improprio di una premessa sana. Identificarlo con ciò che, andando oltre la normalità dell’atto procreativo, avesse introdotto nella sfera del sesso un elemento dal quale il μέσον, ossia il naturale equilibrio fra gli estremi, fosse stato contaminato e travolto, non era infatti sufficiente a cogliere il tratto specifico, ossia la natura particolare del peccato che Dante aveva in mente quando, per definire quello di Guido Guinizzelli e dei suoi soci, usò l’aggettivo «ermafrodito». L’ermafrodito non è un sodomita, ma il suo amore non equivaleva a quello dell’uomo per la donna e di questa per l’uomo, che è amore naturale, e non peccato. In che senso allora l’amore «ermafrodito», che non era eros omosessuale, era tuttavia eros peccaminoso? 10. È necessaria, a questo punto, una breve digressione, che mantenendo il discorso nei limiti dell’argomento, avrà a oggetto il rapporto che Dante istituì con Ovidio. In un’indagine che aveva a tema la decifrazione del significato da lui conferito all’aggettivo «ermafrodito», la possibile fonte ovidiana è stata, come si è visto e, del resto, era ovvio, indicata nella storia d’amore della ninfa Salmacide e del giovane figlio di Hermes e di
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Afrodite. Ma non si sarebbe tuttavia detto l’essenziale se non si aggiungesse, che, nel poema ovidiano, l’episodio relativo alla storia di questo amore, e alla metamorfosi che ne derivò, costituisce, salvo errore, un unicum. In nessun altro dei casi narrati nei quindici libri del poema la metamorfosi fu messa in relazione al compimento dell’atto sessuale e alla stravagante conseguenza che quella volta ne era derivata: in nessuno la metamorfosi fu presentata come il risultato dell’incontro e della collaborazione di due soggetti. Le trasformazioni furono concepite come tali che, molteplici essendone le cause, il risultato consisteva nel mutamento di un soggetto in un altro. Gli esempi, al riguardo, sono innumerevoli e, se si cedesse al gusto della citazione, lo spazio a disposizione non basterebbe a contenerli. Pochi esempi saranno considerati sufficienti a dimostrare che nel testo non se ne trova uno che, aggiungendosi a quello della ninfa Salmacide e del suo giovane amante, valga a infirmare quel che si è affermato. Anche in Ovidio quello dell’ermafrodito si presenta come un caso a parte. In Met. 1, 550552, quella di Dafne in una pianta era la metamorfosi, minuziosamente indicata nei suoi momenti successivi, della sua originaria figura in un’altra che, provocando sofferenza, ne prendeva il posto («in frondem crines, in ramos brachia crescunt;/ pes modo tam velox pigris radicibus haeret,/ ora cacumen habet: remanet nitor unus in illa»). A 1, 237, Licaone è trasformato in lupo («fit lupus et veteris servat vestigia formae»), e a 14, 224-307, si ha la metamorfosi in bestie, a opera di Circe, dei compagni di Ulisse, e quindi quella, uguale e contraria, delle bestie in uomini («quo magis illa [Circes] canit, magis hoc tellure levati/ erigimur, saetaeque cadunt, bifidosque relinquit/ rima pedes, redeunt umeri et subiecta lacertis/ bracchia sunt» (vv. 302-305). Inutile insistere.32 Gli esempi che potrebbero essere addotti non rivelerebbero niente che non fosse riducibile a questo schema di un corpo che si trasforma in un altro. Ma nell’episodio che narra la storia della ninfa e del giovinetto da lei concupito e posseduto, si dava a vedere qualcosa di molto diverso da quel che altrove era ricondotto al volere di un dio, o a un potere comunque sovrannaturale, che a un soggetto imponeva di trasformarsi in altro. Nella storia del giovinetto amato da Salmacide la metamorfosi aveva tutt’altro andamento. Non riguardava un soggetto o, se si preferisce, un individuo che, per volere di una forza a lui esterna, subiva una trasformazione e assumeva un’altra forma. A renderlo diverso dal suo precedente sé stesso era stato il corpo femminile che, nell’aderire con forza al suo, aveva fatto sì che questo acquisisse il suo organo sessuale, e da maschio diventasse, come si è visto, semimas, un dimidiatus vir (altrettanto,
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come si è visto, avrebbe dovuto verificarsi nel corpo femminile se Ovidio avesse svolta la premessa nella sua necessaria conseguenza, e dopo essersi fermato sulla trasformazione subìta dal fanciullo, avesse considerato che una analoga avrebbe dovuto aver luogo nel corpo della ninfa, di modo che due avrebbero dovuto essere gli ermafroditi, non uno). La metamorfosi che ebbe luogo nel lago in cui si era consumato l’amore della ninfa Salmacide e del giovane figlio di Hermes e Afrodite non ha in Ovidio, come si è detto, altri esempi; e non fu presa in considerazione da Dante nel canto ventesimoquinto dell’Inferno. Delle tre metamorfosi che vi sono descritte converrà, tuttavia, considerare la terza, che è quella che gli dette occasione di lanciare la famosa sfida a Lucano e a Ovidio. Al primo, per il racconto che aveva fatto della vicenda di Sabello e di Nasidio che, morsi dai serpenti, si erano mutati, il primo in cenere mentre l’altro si era gonfiato al punto di scoppiare riducendosi a materia informe («vincula neruorum et laterum textura cauumque/ pectus et abstrusum fibris uitalibus: omne/ quidquid homo est aperit pestis»).33 Al secondo per la storia di Cadmo, trasformato in serpente, e di Aretusa, mutata in fonte. I versi 97-151 in cui Dante si produsse nell’impresa di mettere l’una di fronte all’altra «due nature» trasmutandole in modo che «a cambiar lor matera fosser pronte» (v. 102), costituiscono un esempio di autentico virtuosismo compositivo. Ma non hanno niente che consenta di metterli in relazione alla vicenda di Salmacide e del giovane figlio di Hermes e di Afrodite. Se, infatti, all’inizio, c’erano un «serpentello acceso,/ livido e nero come gran di pepe» e un dannato al quale quello aveva trafitto l’ombelico, alla fine le parti si erano invertite, l’una essendosi senza residuo risolta nell’altra: «insieme sì rispuoser a tai norme,/ che ’l serpente la coda in forca fésse,/ e il feruto ristrinse insieme l’orme».34 In breve. Il serpentello si era tramutato nel dannato, al quale aveva inferto la ferita. Questo si era mutato in serpente. «L’anima ch’era fiera divenuta, suffolando si fuggì per la valle,/ e l’altro dietro a lui parlando sputa» (vv. 136-138).35 Ma, se è così, è grave il fraintendimento di chi, per questo scambio di nature, ha ricordato l’episodio ovidiano della ninfa Salmacide e del giovinetto da lei amato. Deve confermarsi che quella che dette luogo all’ermafrodito è una metamorfosi di natura affatto speciale che, con la terza descritta nel venticinquesimo dell’Inferno non ha niente a che vedere. 11. Nel suo commento della Commedia, Tommaso Casini si propose di mettere ordine nelle interpretazioni, a suo dire, drammatizzanti o, più
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semplicemente, stravaganti che, soprattutto a opera degli esegeti antichi, erano, a suo parere, state date di quel verso e del termine che vi compare, con il risultato, diceva, di aver «abbuiato» un «passo chiarissimo di per sé».36 Egli lo interpretava nel senso che il peccato di cui Guido Guinizzelli si emendava sull’ultimo girone del monte aveva offeso, non la natura, perché il relativo atto si compiva fra l’uomo e la donna, ma la giusta misura, che ne era stata invece largamente oltrepassata. Dante, a suo parere, l’aveva spiegato con cristallina chiarezza. Il peccato di Guinizzelli e di quanti ne avevano condiviso il costume era consistito nel non avere osservato «umana legge,/ seguendo come bestie l’appetito», donde il giusto richiamo che, nell’emendarsene, essi facevano del nome di Pasife. Questa interpretazione, che, fra i commentatori moderni, non sembra trovare chi la contesti, era stata energicamente difesa anche dal Torraca che, a sua volta, l’aveva arricchita (o, piuttosto, complicata), richiamando l’attenzione sul «ma» che apre i versi che seguono a quello in cui compare l’aggettivo in questione: «ma perché non servammo umana legge/ seguendo come bestie l’appetito,/ in obbrobrio di noi per noi si legge,/ quando partinci, il nome di colei/ che s’imbestiò nele ’mbestiate schegge».37 A tal punto, a suo parere, Dante aveva escluso che quel peccato implicasse un atto non conforme alla natura che, al contrario e per estensione, doveva intendersi che «spiriti di uomini e di donne» andassero «insieme per la fiamma come alla bufera infernale ‘donne e cavalieri’»38 (il che, oltre che arbitrario, sembra, francamente, superfluo). Se, a partire dallo Scartazzini,39 ma la sostanza, e in una migliore formulazione, era già, come si è visto, nel Tommaseo,40 è questa l’interpretazione dei moderni, su due punti l’attenzione dovrà essere previamente concentrata. Il primo è che, se la perversione sessuale confessata dai peccatori della prima schiera attraverso l’evocazione del nome di Pasife appartiene all’ambito di ciò che si dice «ermafrodito», l’interpretazione di questo aggettivo come alludente al «normale» rapporto dell’uomo e della donna cade e, per intenderne il senso, dovrà procedersi per una diversa via. D’altra parte, fra il comportamento di Pasife e quello definibile come «ermafroditico» c’è analogia, non identità, com’è ovvio. La bestialità si dice in molti modi, ha caratteri e forme molteplici, un conto essendo l’atto erotico che si esercita direttamente con le bestie, un altro l’altro che si esercita, come diceva Lucrezio, more ferarum, al modo delle bestie. Qual è, dunque, il suo tratto specifico, dato che il rapporto dell’uomo e della donna non basta, in quanto tale a definirlo, e il richiamo all’«appetito» delle bestie vale per analogia? Il secondo punto è se sia vero che gli antichi esegeti si
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erano «sbizzarriti» tanto da rendere oscuro quel che di per sé era chiaro, e se, nel verso, qualche ragione si desse per il loro disorientamento. Poiché non recava esempi, è impossibile, d’altra parte, sapere a quali interpreti antichi il Casini si riferisse, e a quali bizzarrie. Pertinente, se riferita ai commentatori del secolo decimoquarto, solo in parte la sua osservazione lo sarebbe se la si rivolgesse, per esempio, al Landino, il quale, infatti, aveva distinto: in modo non felice, senza dubbio, ma senza stravaganze e cercando di capire. Egli non dubitò che, con quell’aggettivo, Dante avesse inteso riferirsi a «quegli i quali nel coito» non peccano «contro a natura», ma lo «exercitano in sì disonesti modi che quanto è in loro l’uno et l’altro si porti quando come maschio et quando come femina, in forma che si possono chiamare hermafroditi»:41 anche se della prima spiegazione, relativa alla naturalità dell’atto, non si accontentò e cercò oltre. Non a torto, senza dubbio, anche se, per quanto riguarda la sua specifica esegesi, debba dirsi che non fu certo all’altezza dell’acume che gli aveva consentito di escludere che «ermafrodito» significasse «omosessuale». Il comportamento dell’uomo e della donna che, nel compiere l’atto sessuale, tendevano a mutare la loro posizione l’uno in quella dell’altra, rinviava a una situazione alla quale non si saprebbe attribuire un significato che riconducesse alla obiettiva realtà dell’«ermafrodito»: ossia di un essere bisessuato nel quale i sessi non si succedevano, nel loro esercizio, l’uno all’altro, ma erano l’uno contemporaneo all’altro in un rapporto che, come bene aveva spiegato il giovinetto ovidiano, importava una somma che valeva quanto una sottrazione e generava infelicità. Se infatti si sta alla definizione che ne fu data da Ovidio, ossia, si ribadisca, dal poeta che, al riguardo, fino a contraria prova, Dante ebbe in particolar modo presente quando componeva i versi che si sono ricordati e citati, non nel comportamento descritto dal Landino il termine ritrovava il suo carattere, non nel materiale scambio delle posizioni, che aveva fornito al Boccaccio l’occasione di ritrarre la dabbenaggine di Calandrino,42 ma in ben altro, come si è visto. Per come l’autore delle Metamorfosi l’aveva descritto, l’ermafrodito era infatti un uomo che non riusciva a esser tale perché teneva ormai della donna, con la quale si era congiunto e che aveva trasmesso il suo carattere sessuale a lui che, essendo rimasto fermo nel suo, ne era stato, tuttavia, contaminato: anche se, per la ragione uguale e contraria, ciò che era accaduto a lui anche alla donna avrebbe dovuto accadere. La diseguaglianza del trattamento che, ciò non ostante, fu riservato all’uno e all’altra, e che è riscontrabile nella preminenza data all’elemento maschile, è già stata notata: e se ne sono
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addotte le ragioni, o alcune ragioni. Alle quali, a integrazione del già detto può forse osservarsi che se, al pari di quello maschile al quale si era aggiunto l’elemento femminile, il corpo della ninfa fosse rimasto quale era, ma con l’aggiunta su di esso del sesso maschile, in luogo di un ermafrodito in apparenza ve ne sarebbero stati due, indistinguibili, per altro, l’uno dall’altro, e dunque, concettualmente, uno, anche se, nella realtà empirica, due. Il maschio, che era anche femmina, non differiva, nella sostanza, da una femmina che era anche maschio. Lo si sarebbe compreso se si fosse meglio considerato che quella nel cui corso l’ermafrodito aveva acquisita era una trasformazione, una metamorfosi, e questa era la nuova realtà, con la quale si sarebbe dato luogo sì a un semimaschio e a una semifemmina, ossia a due esseri dotati ciascuno, oltre che del proprio, anche dell’altro sesso, ma, a guardar meglio, a una duplice metamorfosi dell’uno nell’altro, che avrebbe costituito essa la vera, nuova realtà: una realtà ferma, per un verso, ma che si risolveva, per un altro, nell’incerta o cangiante identità di chi l’aveva subita. Era il problema, se si preferisce, della debole consistenza di un «sé» che passava in un altro, il quale, a sua volta, non possedendo la sua propria certezza, spariva nel primo. Il maschio non era a sufficienza maschio, perché era anche femmina, e lo stesso valeva per quest’ultima. 12. Se è così, l’aspetto peccaminoso della situazione che Dante aveva definita con quell’aggettivo non avrebbe, posto che l’avesse intuito, potuto non consistere in questa condizione delle cose. Restringersi, per quell’aggettivo, a parlare di eccesso e di disordine sarebbe stato, perciò, decisamente troppo poco. Dopo di che, è evidente che se, con il crudo esempio che proponeva, il richiamo della storia di Pasife e del toro alludeva a un comportamento «bestiale», ma non omosessuale, e che comunque andava assai al di sopra degli equivoci comportamenti maschili e femminili descritti dal Landino, la conclusione era chiara, e non poteva essere fraintesa. Per condurre l’idea dell’ermafrodito a quel livello di folle bestialità, occorreva cogliervi altro, qualcosa di ancor più radicale e, comunque, di ulteriore. E rassegnarsi, se di ciò si fosse stati incapaci, a riconoscere la propria inettitudine a entrare nel significato che Dante aveva attribuito a quell’aggettivo; che da lui potrebbe esser stato adoperato in modo piuttosto suggestivo che critico, e allora la colpa gli andrebbe assegnata per non essere stato capace di indicarvi un significato che equivalesse sì, e corrispondesse, al peccato di Pasife, ma non nel senso che materialmente ne riproducesse la modalità e anche la eccessività. In effetti, se lo si intendesse
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come riferito a ciò che, in fatto di eros, avviene fra un uomo e una donna, e non si fosse avuta la capacità di indicarvi niente più degli equivoci atteggiamenti amatorii descritti dal Landino, o di altro del genere, è chiaro che il significato specifico del termine «ermafrodito» sfuggirebbe, proprio come avverrebbe se semplicemente lo si riferisse all’amore bestiale della moglie di Minosse con il toro. Insomma, se quello «ermafrodito» non è un amore omossessuale, e nemmeno un amore naturale vissuto nel segno dell’eccessività, che di per sé vi è presente, ma non basta a definirne il carattere, che cosa si deve intendere con quel termine? 13. In questo intreccio di situazioni diverse, resta fermo che, nel verso dantesco, l’aggettivo «ermafrodito» non rinvia alla normale relazione dell’uomo e della donna; e che il «ma» con cui si apre il verso successivo non specifica, come aveva inteso il Torraca, un comportamento vizioso che, corrompendolo, succede a uno «normale».43 Nel v. 82, l’aggettivo «ermafrodito» definisce, non una normale relazione, ma un «peccato» che, in quanto tale, può essere attribuito, non tanto alla natura, quanto piuttosto a un abuso che si fa di essa. Ne consegue che, al v. 83 il «ma» non indica il momento in cui il vizio si introduce nella normalità sostituendosi a essa, perché piuttosto ribadisce quel che l’aggettivo «ermafrodito» già imponeva di considerare come non conforme a «natura», e cioè come un «peccato» che, rispettoso della natura, non poteva essere, per definizione. La questione perciò resta. In che senso, e sotto quale riguardo, il comportamento definito da quell’aggettivo può essere considerato in contrasto con la regola stabilita dalla natura, se certamente non la contraddice mediante una pratica omosessuale? E nemmeno, a rigore, con una pratica analoga a quella messa in atto da Pasife quando cedette al suo perverso desiderio? In effetti, è proprio la difficoltà che s’incontra nell’assegnare a questo aggettivo il significato che propriamente Dante gli attribuì escludendo o, meglio, lasciando intendere che non si potesse dargliene uno che non implicasse un elemento di innaturalità, – è proprio questa difficoltà che ha indotto a includerlo nell’ambito della sodomia, ossia del comportamento che, per definizione, si presenta come deviante dalla natura. La ragione per la quale, in non pochi documenti dell’esegesi antica, quello definito «ermafrodito» fu indicato come un comportamento omosessuale, è da ritrovare, in primo luogo, nel carattere sfuggente della definizione che Dante aveva data di esso come sovvertitore della ragione e della natura umana. Donde, per una sorta di analogia, presentata come identità, la conseguenza tratta dalla pre-
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messa. L’omosessualità è una pratica contraria alla natura. L’ermafrodito è contrario alla natura: dunque ermafroditismo e omosessualità coincidono, e il primo può e deve essere ricondotto sotto il segno del secondo. Il sillogismo era imperfetto. Ma il senso sembrava, inconfutabilmente, essere quello che si è detto; e tanto bastava perché il significato fosse stabilito in quei termini, e la condanna ne venisse di conseguenza. Sull’altro fronte, chi considerava il comportamento «ermafrodito» come una sorta di pervertimento della naturalità in bestialità, e prendeva alla lettera la citazione che chi lo praticava faceva dell’esempio di Pasife,44 era costretto a non poter spiegare in che cosa, propriamente, questa pratica consistesse. Non era, o non sarebbe stato, plausibile per nessuno sostenere che costoro stabilissero relazioni erotiche con animali, e l’esempio di Pasife fosse stato preso nella sua materialità. Ma allora in che senso si diceva che usassero cedere al mos ferarum? 14. Si è citata l’esegesi antica. E allora converrà notare che furono forse considerazioni come queste, o simili a queste, fu comunque la complessità e, insieme, la singolarità del significato che si avvertiva nell’aggettivo scelto da Dante, fu insomma questo vario insieme di cose che indusse il maggior commentatore trecentesco della Commedia, e cioè Benvenuto da Imola,45 a sottoporlo a un’analisi che si rivelò, alla fine, incapace di mantenersi sul piano della coerenza. Converrà averla sott’occhio nella sua interezza in modo che, insieme all’incoerenza e, per certi aspetti, persino all’erroneità, a emergerne siano le ragioni che le provocarono entrambe: Nostro. Hic Guido manifestat sectam primam in qua ipse erat, et videtur dicere quod peccaverunt contra naturam agendo et patiendo. Hoc autem dicit sub honesto velame verborum, sicut jam fecit de praedictis: et sententialiter videtur dicere quod peccaverunt gravius quam illi de alia secta, quia illi offenderunt naturam uno modo, vel agendo tantum vel patiendum tantum: isti vero utroque modo. Dicit ergo: Nostro peccato fu ermaphrodito. Ad quod nota quod hermaphrodita vocatur a poetis ille qui habet utrumque sexum, scilicet masculinum et foemininum: sed si magis incalescit in masculino censetur masculus; si in foeminino foemina: ut si quis utatur utroque jubetur cremari per leges. Modo hermaphrodita appellatur hic transuptive ille qui agit et patitur indebite.46
Che nel commento di questo delicato passaggio, Benvenuto incorresse nel grave fraintendimento provocato dal non aver saputo cogliere la differenza che, pur all’interno di una situazione peccaminosa, nettamente
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distingueva la schiera di coloro che gridavano Sodoma e Gomorra dall’altra in cui erano compresi quelli che, evocando l’amore bestiale di Pasife, si umiliavano col definirsi attraverso il suo esempio, è evidente. È evidente che a lui era sfuggito che altro è l’amore contro natura dei sodomiti che, agendo o patiendo, rivolgono il loro desiderio a individui dello stesso sesso, altro quello che, praticato da individui di sesso diverso, a tal punto, tuttavia, va al di là della regola imposta da «ragione» e «natura» da immergere il soggetto che lo eserciti in una situazione di assoluta eccessività, per la quale non sembrava fuorviante il ricordo della passione perversa alla quale Pasife non aveva saputo resistere, anche se dire «passione fuorviante» non bastava e, al riguardo si doveva comunque distinguere e dire di più. Le due schiere erano, comunque, diverse per la diversa qualità del peccato che vi era punito. Convinto, invece, che fossero entrambe composte di sodomiti, Benvenuto ritenne che quelli della prima schiera fossero o attivi o passivi, ma non l’una e l’altra cosa insieme; e che perciò si distinguessero dai sodomiti inclusi nella seconda che, in terra, avevano peccato sia nell’un senso sia nell’altro, alternandoli, nel corso della loro esistenza, in ragione delle specifiche circostanze. Il significato dei lussuriosi emblematicamente rappresentati da Pasife e dal suo bestiale amore fu perciò da lui a tal punto frainteso che lo ricercò, e credette di averlo trovato, nel comportamento di quei sodomiti che agivano e pativano tanto con l’egual sesso quanto con le mogli, da essi trattate come se, invece che donne, fossero state uomini. Non riuscì perciò a comprendere che, se fosse stato così, la differenza fra le due schiere non sarebbe stata quale Dante l’aveva pensata e voluta, una differenza netta, che non ammetteva contaminazioni. Invece che da una drastica opposizione, sarebbe stata caratterizzata da una semplice differenza di grado, in modo che l’una non avrebbe avuto in sé sufficienti ragioni di distinguersi dall’altra e di marciare nella direzione opposta a quella indicata da questa. Proprio il contrario, in effetti, di quel che Dante aveva pensato e a cui aveva conferito piena evidenza quando aveva osservato che il punto del loro incontro era anche quello in cui, entrate in contatto, esse riprendevano il loro contrario cammino e l’una perciò si allontanava dall’altra. Così, infatti, era richiesto dall’esserci, in una schiera, i sodomiti, di cui non Dante, ma lui, Benvenuto, indugiava a spiegare le interne differenze determinate dal loro essere attivi o passivi, e nell’altra gli allievi ideali di Pasife, dediti a ogni erotica eccessività, ma con netta esclusione di quella caratterizzata dalla sodomia. La setta, ossia la schiera, nella quale si trovava colui che a Dante forniva le sue spiegazioni, era distinta, da quella che le si era
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avvicinata, non per le ragioni addotte da Benvenuto, ma perché, nel segno della comune peccaminosità sessuale, comprendeva peccatori diversi da quelli inclusi nell’altra a cui era sopraggiunta: sodomiti questi, non sodomiti quelli. La distinzione è, nei versi di Dante, così chiara che è legittimo chiedersi come potesse esser accaduto che un critico attento e penetrante quale Benvenuto fu se la fosse lasciata sfuggire. Ma che gli sfuggisse è un fatto. È probabile che la differenza non gli riuscisse chiara perché, condizionato, forse, da un’opinione corrente negli ambienti ecclesiastici, a predominare nella sua fantasia era il fantasma del peccato che, per eccellenza, è commesso da chi agisce contro la natura: dal che fu indotto a ritenere le due schiere composte entrambe di sodomiti diversamente orientati circa l’agire e il patire. Si lasciò, per conseguenza, sfuggire che da Dante le due schiere erano state distinte perché altro era l’amore sodomitico, altro quello, bestiale ma pur sempre eterosessuale, che nel modo crudo che si è dovuto più volte richiamare, egli caratterizzò ricordando l’insana passione di Pasife e l’inganno in cui aveva attratto il toro inducendolo a congiungersi con lei. Non è certo per caso che, a vergogna e umiliazione del peccato commesso, la sopraggiunta schiera dei sodomiti evocasse le due città per eccellenza corrotte di Sodoma e Gomorra. Non è certo per caso che, per caratterizzare a contrasto quello della prima schiera, Dante spiegasse che il peccato commesso dai componenti di essa poteva essere detto «ermafrodito» nel senso che l’omosessualità doveva esserne esclusa. Se, come non c’è ragione di dubitare, fu questa la sua intenzione, e «ermafrodito» fu messo in opposizione a «omosessuale», non si può dire che la scelta di quel sostantivo contribuisse a agevolare la comprensione del testo. Se non era un omosessuale, che cos’era, propriamente, un «ermafrodito»? 15. Il richiamo del comportamento di Pasife, e la collocazione sotto il suo segno dei lussuriosi della prima schiera, avrebbero tuttavia dovuto esser sufficienti ad escludere che per costoro valesse la definizione di omosessuali. Ma così non fu, né per Benvenuto né per coloro che, fra i moderni, a tal punto avevano depotenziato il peccato definito con quel termine, da dimenticare (lo si è già detto, ma conviene insistere) che, per Dante, si trattava di un peccato e non, come essi ritenevano, della relazione sessuale che interviene fra l’uomo e la donna, e che resta normale anche se esercitata con eccessività e furore. È un fatto, comunque, che la spiegazione che, per suo conto, Benvenuto ne aveva data risultò, al riguardo, più che problematica; anzi errata, tanto che, a nostra volta, saremmo in errore se, a causa della
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reverenza che certamente gli si deve, esitassimo nel riconoscere peggio che impropria la sua definizione delle due schiere, nettamente contrapposte da Dante, mal distinte da lui. Tanto più lo saremmo se, per un altro verso, ci trovassimo a non ignorare che, con un passaggio ulteriore, del quale non si vede quale nesso avesse con l’altra sua definizione, da Benvenuto l’ermafrodito era stato ortodossamente definito come un essere bisessuato, cioè tale che entrambi i sessi, il maschile e il femminile, erano rappresentati nel, e appartenevano al, suo corpo. Il che andava ben oltre la distinzione dell’«attivo» e del «passivo». Esperto lettore dei classici, e ottimo conoscitore delle Metamorfosi,47 Benvenuto aveva certo ben chiara nella mente la caratterizzazione che, nel quarto libro, Ovidio aveva fornita dell’ermafrodito, e che qui su è stata a più riprese analizzata: salvo che, in luogo di stare a quel che il testo diceva, lo reinterpretò e ne trasse la curiosa conseguenza secondo cui, se a prevalere fosse stato quello maschile, lo si sarebbe considerato un uomo, se a prevalere fosse stato quello femminile, lo si sarebbe considerato una donna, e, in entrambi i casi la sua presenza nella società avrebbe potuto essere tollerata. Ma se i due sessi contrapposti nel suo corpo fossero stati attivi allo stesso modo, e fosse stato tanto uomo quanto donna, allora l’ermafrodito sarebbe stato un mostro degno di essere bruciato sul rogo: jubetur cremari, aveva detto richiamando le più feroci disposizioni della legge ispirata dalla Chiesa.48 Per essere ammesso nella società degli uomini e delle donne, l’ermafrodito era perciò invitato a scegliere l’uno o l’altro dei due sessi che erano in lui. E questa, beninteso, era una pretesa stravagante: se i sessi erano due, sceglierne uno, e mettere a tacere l’altro, era, κατὰ φύσιν, impossibile. Sarebbe stata, quella proprio, una scelta contraria alla natura! 16. Come si vede, non diversamente da Francesco da Buti,49 anche Benvenuto assegnava al problema uno sfondo giuridico. Chiamava in causa, infatti, la legge: salvo che, a differenza del primo che si era contentato di parlare di «punizioni», per lui, se avesse dato pari espressione alle sue opposte nature, questo ambivalente personaggio avrebbe meritato il rogo. La condanna ecclesiastica faceva sentire i suoi effetti sull’esegesi. Nel creare la donna da una costola dell’uomo, Dio l’aveva separata da questo. Ne aveva fatto un essere compiuto in sé stesso, e diverso. L’ermafrodito faceva rifluire in sé, confondendoli, i caratteri che Dio aveva separati: doveva essere soppresso. Così, insensibilmente, per un verso l’esegesi del testo accennava ad assumere il carattere di un’inchiesta giudiziaria e a trasferirsi perciò sul piano giuridico e sociale; per tornare tuttavia, per
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un altro, a sé stessa e alla definizione dell’ermafrodito come di uno che, nelle cose dell’eros, agiva o pativa in modo indebito, ossia non conforme a natura, rientrando perciò, a giudizio di Benvenuto, nella variegata, ma pur unitaria, famiglia dei «contronatura», dei sodomiti. Il che, data la natura bisessuale dell’ermafrodito, era detto in modo che di questa non teneva conto. Una cosa, infatti, è un sesso deviato da quello che si ritiene sia l’ordine imposto dalla natura, un’altra un sesso duplice presente in un solo corpo. Ignorata da Benvenuto, e da quanti l’avevano indotto a pensare così, a Dante la distinzione era invece apparsa chiarissima. Le anime incluse nella prima schiera avevano esercitato l’eros nel modo naturale ma eccessivo, e comunque da ulteriormente precisare, che egli ritraeva con quell’aggettivo: non erano sodomiti e piuttosto si ponevano sotto il segno di Pasife, che aveva bensì ecceduto il limite dell’umana natura, ma perché, in una sorta di folle esagerazione della sua normalità, aveva ambito all’amore di una bestia di sesso maschile, non di una donna. La distinzione che Dante aveva posta fra le due schiere era netta. L’amore «ermafrodito» era peccaminoso, ma non era segnato da sodomia. Nell’ermafrodito, invece, fraintendeva il significato dantesco, chi, come Benvenuto, indicava un essere che, poiché esercitava l’eros in modo duplice, ma pur sempre contro natura, ora in forma attiva, ora in forma passiva, agendo, diceva, et patiendo, rientrava nella classe, si dica così, dei sodomiti. Benvenuto, si deve ribadirlo, sbagliava. Non aveva capito che il termine usato da Dante definiva, non un omosessuale, ma uno sfrenato amatore di donne, un soggetto dominato dal desiderio di possederle, e che solo per questa ragione, e non perché il suo eros tendesse al mondo animale, poteva esser messo sotto il segno di Pasife e del toro. Al di là di Benvenuto e della sua esegesi, resta, naturalmente, da capire in che senso, e perché, con il termine «ermafrodito» Dante avesse alluso, non tanto a una specifica pratica sessuale, quanto piuttosto a un’ossessione che, non in senso materiale, faceva pensare alla storia di Pasife e del toro, e richiedeva, pertanto, una più stringente e puntuale definizione. Non si entra nella zona delle interpretazioni, le si definisca così, «sollecitanti», se nel paragone implicitamente stabilito fra l’ermafrodito e la scelta di Pasife si va oltre e si cerca di cogliere un significato ulteriore. L’amore di Pasife e del toro era rappresentato, dai testi che lo tramandavano, come una favola a cui doveva credersi, ma che restava, tuttavia, il racconto di una storia «incredibile», e vera solo nell’oltranza di un desiderio che andava oltre le possibilità della sua realizzazione. Se, tradotta in prosa, quella di Pasife era la storia di un desiderio tanto perverso quanto irrealizzabile,
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non c’era forse qualcosa di simile anche nella condizione obiettiva dell’ermafrodito che, se era bisessuato, non è detto che fosse in grado di mettere in comunicazione i due sessi presenti nella sua natura, e che questa era la ragione per la quale si consumava in un non realizzabile desiderio? 17. Si vedrà se, e in che senso, a questo suggerimento potrà darsi un plausibile sviluppo. Per ora si consideri che la glossa di Benvenuto si mostrava coincidente con quella che, a questo cruciale v. 82, era stata apposta da Andrea Lancia. Ma soltanto in parte. Lancia infatti aveva osservato che «hermafroditi» sono coloro «che usarono per luxuria con maschi e con femine», per esser disposti, nelle cose del sesso, in modo duplice, e ora praticavano l’amore eterosessuale, ora quello omosessuale, essendo disposti sia all’una sia all’altra pratica. In seconda battuta, tuttavia aveva precisato che «hermafrodito è colui che ha amendue le nature, maschile e femminile, ma è denominato da quella che in lui è più apta a l’opera, se maschile maschio, se feminile femina».50 Aveva tentato, in altri termini, di ricondurre il più che fosse possibile alla norma ciò che si definiva in opposizione a questa; e senza successo perché la questione non era di più o di meno, di più deciso o meno deciso nell’uno o nell’altro senso, ma di qualità, e rendere di volta in volta più forte o più debole uno dei due elementi che nell’ermafrodito erano uniti non giovava alla comprensione della sua natura, e anzi, per dire tutto, la fraintendeva. La prevalenza del maschile sul femminile, o viceversa, non bastava a porre, e a tener salda, la differenza. A questa idea aggiungendone un’altra, che della precedente non era migliore, Lancia lo intese come un individuo che, in quanto il suo lato maschile, o femminile, si rivolgesse, rispettivamente, al femminile e al maschile, era giusto definire eterosessuale. Ma non escluse che la scelta potesse essere di natura omossessuale, e che potesse perciò darsi il caso che ermafrodita significasse in quel senso. Malgrado lo sforzo che aveva compiuto per andare oltre la riduzione dell’ermafrodito all’omosessuale, su questa via non gli era riuscito di procedere tanto che questa idea entrasse anche nel circolo dei suoi pensieri, a dimostrazione, anche in questo caso, del suo non saper spiegare che cosa, propriamente, Dante avesse voluto esprimere con quel termine, e perché avesse collocato l’ermafrodito sotto il segno di Pasife e del toro. 18. La identificazione dell’ermafrodito in un essere che, essendo bisessuato, risolveva tuttavia la sua libido nel segno dell’omosessualità si ritrova anche nella redazione finale del Comento di Jacomo della Lana, nel quale
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a proposito del v. 82 si trova scritto che «ermafroditi sono appellati quelli ch’hanno ciascuno instrumento sì virile come feminino; e perciò quelle persone che peccano nel vizio della lussuria sì in femine sì in maschi, ch’è peccato contro natura, sono appellati ermafroditi».51 Malgrado l’accenno, non svolto, alla bisessualità, Lana era sulla linea che conduceva a Benvenuto, e che quindi si ripresentò nel Chiromono («hoc dicit quod ipsi peccaverunt agendo contra naturam et patiendo etiam contra naturam. Alji tantum contra naturam passi fuere, sicut fecit Caesar. Hermafrodita dicitur qui habet utrumque sexum: quo nomine qui agit et patitur transumptive hoc loco appellatur»),52 e, anche se solo in parte, nel cinquecentesco Alessandro Vellutello,53 il quale, da un lato, non si fece sfuggire la differenza sussistente fra i peccatori della prima e quelli della seconda schiera, ma poi, sebbene avesse cura di ricordare la storia di Pasife e del toro, da un altro la cancellò, e si produsse in una confusa spiegazione: «ha detto del vizio di quelli; ora dice di quel di loro, il quale fu ermafrodito: e non perché avessero le due nature del maschio e de la femina, come hanno quelli, ma perché furon ne l’atto venereo ora agenti ora pazienti, seguendo l’appetito delle bestie; e però quando si partono, ricordano gridando il nome di Pasife».54 Una rassegna delle opinioni espresse, su questo verso, dagli studiosi che, nel tempo, lasciarono un commento della Commedia, riuscirebbe in questa sede, e, in assenza di cose sul serio nuove, pedantesca e superflua. Ma forse non è inutile riesumare la glossa di Antonio Cesari, il quale scrisse che a lui pareva di dover stare «con savi comentatori, che lo spiegano, la bestialità, non quanto all’uscire del sesso, o naturalem usum, come dice S. Paolo (Rom. 1, 26), ma delle spezie, usando uomo con bruto: così mi par di intendere, perché qui tocca Dante i due misfatti, di sodomia e di bestialità. Ma perché non servammo umana legge: eccoli usciti della spezie umana, ed usato con le bestie».55 Riesumarla non è inutile, non perché illumini il testo, ma per la singolarità di un’esegesi che, in un suo tratto, si presenta come un’eccezione. Al Cesari parve infatti di dover interpretare alla lettera il richiamo dell’impresa di Pasife, rievocata da Dante, perché la vergogna di quel comportamento ricadesse su questi peccatori; che non erano sodomiti, e qui il Cesari vide bene, ma erano discesi a tal grado di perversione da «usare con le bestie». Dopo di che sarebbe stato da chiedergli perché mai un peccato definito con quell’aggettivo importasse quel costume, e se non fosse quanto meno singolare che a Guido Guinizzelli, affettuosamente chiamato padre suo e dei suoi «maggiori», Dante avesse attribuita, in senso materiale, una prassi erotica analoga, per qualità, a quella di Pasife. È vero
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che, come si è avuto occasione di notare, nel nome di Virgilio e di Beatrice, Dante aveva via via preso congedo da vari personaggi che, in tempi diversi, gli erano stati maestri, vedi Cavalcanti, vedi Brunetto Latini e ora, se si vuole, Guido Guinizzelli. Ma c’era, per questo, modo e modo. 19. Se, sul fondamento ineludibile della distinzione posta da Dante, interpretazioni come quelle avanzate da Andrea Lancia, da Benvenuto de’ Rambaldi e da quanti vi si ispirarono, non possono essere condivise e richiedono di essere decisamente respinte, la questione, ed è evidente, torna a essere quella del significato che, nel contesto di cui è parte, deve essere assegnato all’aggettivo («ermafrodito») con il quale Dante definì il peccato di coloro che, per ulteriore vergogna di sé stessi, richiamavano la storia di Pasife e si ponevano sotto il suo segno ideale. Gli interpreti che non perdono occasione che a loro si offra di rasserenare sé stessi, e che intendono quell’aggettivo come riferito all’atto onde si compie l’amore dell’uomo e della donna, tendono a dimenticare che il suo riferimento non è a quello, che è atto per eccellenza «normale», ma è bensì («nostro peccato fu ermafrodito») a qualcosa che fin dall’inizio, recava su di sé un tratto estraneo alla regola e eccedente il suo limite. Tendono a dimenticarlo, e altresì, passando oltre, a non prendere in considerazione che, nella situazione peccaminosa quelle anime erano state immerse fin dall’inizio, nel suo segno avevano condotto la loro vita, in quello avevano praticato o perseguito l’eros. A rivelare la peccaminosità della situazione non è dunque, come si è detto, il «ma» che apre il v. 83 e che, qualunque significato si voglia riconoscervi, non oppone l’una situazione all’altra, la prima buona e segnata da normalità, cattiva la seconda e recante un contrario segno. Non le oppone e, al contrario, le definisce come identiche o alludenti alla medesima cosa. A caratterizzare il peccato di cui queste anime si emendavano sull’ultima cornice del Purgatorio era il tratto che Dante aveva definito «ermafrodito» senza spiegare in che senso quell’aggettivo fosse da lui adoperato, ma lasciando tuttavia intendere che si trattava di qualcosa che, poiché era stato messo in relazione e fatto coincidere, anche se non in senso materiale, con il gesto bestiale di Pasife, trovava ideale corrispondenza nel comportamento dei peccatori che gridavano il suo nome. Nelle cose dell’eros costoro erano andati, infatti, al di là dell’«umana legge». «Come bestie», erano stati succubi, dell’«appetito» che a essi aveva meritato di essere rievocati con «il nome di colei/ che s’imbestiò nelle ’mbestiate schegge» (vv. 85-86). Dell’«ermafrodito» che, come
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aggettivo qualificava un atto «innaturale», e comunque eccessivo, non si coglierebbe perciò il significato che Dante gli attribuì se non lo si ponesse in stretto e indissolubile contatto con comportamenti altrettanto perversi di quelli definiti dalla storia di Pasife e del toro, senza, per altro, pretendere che, come si è detto, con questi si identificassero in senso materiale. Dante disse infatti che si erano comportati «come bestie», non che con bestie avessero praticato l’eros. Se questa connessione, e, d’altra parte, questa differenza, non fossero colte, il luogo dantesco risulterebbe, semplicemente, frainteso. A differenza di quel che i più ormai intendono, al v. 82 «ermafrodita» non è, e non significa la naturale relazione dell’uomo con la donna, e di questa con l’uomo: che, se fosse così, occorrerebbe allora intendere che «naturale» e «ermafrodito» valgano lo stesso e che, poiché «ermafrodito» conferisce a «naturale» un tratto indubbiamente «peccaminoso», il sesso, e cioè il rapporto dell’uomo con la donna, è per sé stesso peccato e va posto sotto il segno di Pasife. Poiché è palesemente assurda, l’identificazione di «ermafrodito» e «naturale» deve esser lasciata cadere, assegnando il «naturale» alla natura, che è, non si dimentichi, strumento di Dio, e l’«ermafrodito» a un modo di essere e di comportarsi che va oltre la natura e, in senso suggestivo e non materiale, richiama l’esempio perverso di Pasife. Se di questo non può dubitarsi, resta, tuttavia, che, stretta la relazione con il peccato di Pasife, il significato che Dante attribuì a questo aggettivo derivò bensì da un’interpretazione caratterizzantesi anch’essa per la riprovazione della sua oltranza, o dell’eccezione, se si preferisce, che rappresentava rispetto alla natura e al suo giusto uso; implicò bensì che né l’una né l’altra avessero a che vedere con l’omosessualità caratterizzante i penitenti inclusi nell’altra schiera. Ma senza, tuttavia, che il suo fondo fosse stato toccato, e l’aggettivo avesse rivelato intero il senso in cui Dante l’aveva adoperato. 20. Se perciò l’aggettivo «ermafrodito» è relativo, e si accompagna, a un «eccesso», è tuttavia difficile intendere che cosa Dante avesse in mente quando gli venne fatto di usarlo. Eccessivo, per eccellenza, era stato il gesto della sposa di Minosse, la quale, si legge in Ovidio, che tendeva a una diversa spiegazione non accolta da Virgilio, se aveva preferito il toro al marito era perché, quanto a brutalità e a violenza, questo era addirittura peggiore di quello. A sua volta, Dante, che dell’Eneide era conoscitore provetto, di questa particolare versione dell’episodio non si servì. Il suo scopo, infatti, era diverso, e a lui non premeva di rendere meno grave il
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gesto di Pasife, o di condannare comunque la violenza del suo sposo. È difficile, inoltre, dire se, a parte Ovidio, dell’ermafrodito egli sapesse anche da altre fonti e se, direttamente o no, la sua figura gli si configurasse come quella, non soltanto del giovinetto amato dalla ninfa Salmacide, ma anche del deus utriusque sexus e dell’androgino di cui si parla nel Carmen de ave phoenice attribuito a Lattanzio e nel Phoenix di Claudiano. In testi come questi, che, comunque è difficile supporre che fossero da lui conosciuti, la questione riguardava una dualità, quella del maschile e del femminile, che riconvergeva in un’unità che, a sua volta, non cancellava la differenza, e piuttosto conviveva con essa nel segno dell’uno che è anche altro, e di questo che è anche uno («femina seu mas sit seu neutrum seu sit utrumque»).56 Ma, come si diceva è più che dubbio che di questi testi Dante avesse conoscenza o che da essi, comunque, fosse attratto: sebbene, su un altro piano, fosse bene in grado di concettualizzare «quell’uno e due e tre che sempre vive/ e regna sempre in tre e due e uno,/ non circunscritto, e tutto circumscrive»,57 ossia di dar conto, in parole, del mistero della trinità divina, e, quanto a virtuosismo espressivo, niente avesse da «invidiare» a altri. Non si va comunque lontani dal vero se si considera che la rarità di quell’aggettivo, che, come si è detto, nella Commedia è un hapax e che, non per caso, mettendo fuori strada tanti suoi interpreti, anche in chi si sforzi di non perderla dà luogo a dubbi, proprio in quella forse ha la sua ragione: nella rarità e nella difficoltà che ne conseguiva. Poiché a definire così il peccato che aveva segnata la sua vita era Guido Guinizzelli, e cioè un individuo di sesso maschile che in nessun caso avrebbe potuto esser sospettato di essere bisessuale nel senso del semimas ovidiano, è ovvio pensare che, usando quell’aggettivo, Dante sfidava il lettore a comprenderne il senso specifico: il senso che non sarebbe infatti stato colto se ci si fosse ristretti a vedervi un’eccessività che, al pari di quella di Pasife, fosse consistita in un comportamento, quale fu il suo, determinato e descrivibile nei suoi momenti specifici. La sfida che, per la presenza di quell’aggettivo, il v. 82 dirigeva al lettore, era tale, d’altra parte, che, accettarla significava esercitare l’arte infida della congettura. Significava altresì tenere sotto gli occhi i versi del quarto libro delle Metamorfosi, un poema che Dante conobbe a fondo, e con il quale, come si è visto, si era messo in gara nel canto ventesimoquinto dell’Inferno. D’altra parte, l’unica congettura che, per quanto riguarda il significato da attribuirsi all’ermafrodito, abbia dalla sua i numeri per rendersi ragionevole e sfuggire al rischio dell’assurdo, è quella che potrebbe formularsi stabilendo un nesso fra, da una parte, la
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bisessualità che il giovinetto concupito dalla ninfa aveva ricevuta sul suo corpo in seguito all’amplesso a cui era stato costretto da lei, dalla quale era stato trasferito nella diversa realtà della metamorfosi, e, da un’altra, quella, non fisica, ma psicologica, che l’anima di Guido Guinizzelli avvertiva come la sua permanente situazione. Quale sia il senso di questa osservazione si vedrà di qui a non molto. Ma condizione essenziale perché il discorso resti nei limiti che il testo di Dante impone, è che dal racconto ovidiano si lasci cadere quel che in esso invece è essenziale, e appartiene al quadro mitico/religioso dell’episodio: a cominciare dall’incestum medicamen, con il quale i genitori del fanciullo reso «biforme» dall’incontro erotico con Salmacide, avrebbero, su sua richiesta, dovuto «tingere» l’acqua in cui quello era avvenuto. Sarebbe, infatti, soltanto ridicolo se, per interpretare il senso dato da Dante a «ermafrodito» ci ponessimo in gara di ingegnosità con Jung, con Kerény e con quanti, storici delle religioni antiche, fra Oriente e Occidente, hanno indagato questa figura emblematica dell’ambiguità, l’hanno interrogata, l’hanno messa in relazione con le profondità della psiche e ne hanno colti i significati simbolici, destinati, a misura che la ricerca fosse andata avanti, a dilatarsi. L’aggettivo che ricorre in quel verso di Dante non richiede, e anzi vieta, che si proceda lungo questa via che, non essendo da lui conosciuta, non condurrebbe che in luoghi ambigui e improbabili. Assai più serio è chiedersi se di quella figura egli avesse avuto notizia, per esempio dai testi gnostici, dei quali può bensì congetturarsi che avesse qualche conoscenza senza che, al riguardo, sia possibile fornire prove che non si rivelino esse stesse congetturali. In effetti, l’unica cosa certa è che, sebbene avesse usato questo aggettivo senza spiegare in che senso l’avesse inteso, Dante l’aveva inserito in un contesto dominato dal, e messo in relazione, con il mito di Pasife e del toro, e da una sessualità, quindi, sfrenata, schiava dell’«appetito», dimentica dell’«umana legge» e di ogni umana misura. L’aveva usato, quindi, come sinonimo di «eccessivo». Ma in modo tale che se l’«ermafrodito» rinviava a un eccesso, nel rinviare a sua volta all’«ermafrodito» quello rivelava un significato ulteriore, che andava al di là e richiedeva di essere interpretato a un più alto grado. Sul nesso che, nel contesto dantesco, stringe insieme Pasife e la sua bestialità, da una parte, il peccato ermafrodito, da un’altra, dubbi non possono essercene. Ma si tratta tuttavia di un nesso da interpretare nei termini piuttosto dell’analogia che non dell’identità: con il che, se l’intento era di pervenire al proprium del suo significato, dire di aver toccato il traguardo sarebbe stato, quanto meno, imprudente.
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21. Se è così, ed è così, qual è allora la fisionomia del peccato «ermafrodito»? L’aggettivo implicava e definiva una duplicità maschile/femminile. Al contrario, il mito di Pasife, a cui in Dante è idealmente riferito, implicava e definiva sì un’eslege sfrenatezza sessuale, il congiungimento di una donna con una bestia impetuosa e violenta, ma non quella duplicità. Di questa differenza deve farsi conto. Se quella stabilita con il peccato di Pasife non è se non un’analogia fondata sull’eccessività e sull’eccezionalità, né l’una né l’altra contribuiscono a far intendere il senso che Dante attribuì all’aggettivo «ermafrodito». Questo aggettivo implicava sì eccessività e eccezionalità, ma, come si è detto, né dall’una né dall’altra era spiegato in quel che aveva di proprio. Qual è allora, finalmente, il significato che Dante attribuì a quel termine? Che sapesse che cosa fosse l’Ermafrodito, è fuori discussione, perché pochi altri testi antichi conosceva così bene come quello delle Metamorfosi, dove la sua figura «biforme» è efficacemente descritta. Ma Dante, come interpretava la sua bisessualità, e in che modo, senza identificarvela, tuttavia la connetteva al comportamento di Pasife, sotto il cui segno il peccato «ermafrodito» era ricompreso? Nel peccato di Pasife non c’è nessun segno di bisessualità. Ma è dalla bisessualità che l’ermafrodito è definito. 22. Stabilito che, sull’inesistenza del nesso intercorrente fra il peccato «ermafrodito» e il comportamento di Pasife, non possono cadere dubbi, è proprio la sua indubitabilità che impone di chiarire la ragione per la quale quel nesso fu posto, e, a proposito del peccato definito da quell’aggettivo, a Dante venisse in mente la sua storia, e, questa lo inducesse a farne uso per la definizione di quello. È, per altro, questa indubitabilità che riconduce il vascello esegetico in mare aperto. Come Dante aveva letto in Ovidio, l’ermafrodito era una forma duplex, nel senso che, congiungendosi, il fanciullo e la ninfa avevano generato un maschio, che era anche femmina, e una femmina, che era anche maschio. Avevano con ciò dato luogo a una metamorfosi, e dunque a una realtà segnata dal sesso maschile e da quello femminile, comunque questi fossero disposti e resi visibili nel corpo che li accoglieva. La prova che Dante interpretasse così la nascita, in Ovidio, dell’ermafrodito dovrebbe trovarsi nel significato, che qui per altro è in discussione, che egli assegnava al relativo aggettivo: sì che, dopo aver osservato che, senza dubbio, egli aveva ben vivo in sé il senso dinamico delle metamorfosi, delle quali aveva fornito un virtuosistico esempio nel canto ventesimoquinto dell’Inferno, su questa via occorre non procedere
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oltre, e stare, come si dice, ai fatti. E i fatti dicono, o meglio, ribadiscono, che fra la realtà dell’ermafrodito e l’exemplum di Pasife si dà, non identità, ma solo una convergenza nel segno dell’eccessività o, se si preferisce, dell’esagerazione: ossia di due comportamenti che, se bastano a definire sé stessi, non contribuiscono alla comprensione del terzo che qui è in questione, e cioè dell’ermafrodito. Pasife era una donna, e il toro, lo si è già detto, era di sesso maschile: i rispettivi sessi appartenevano a corpi diversi che, malgrado l’eccezionalità di una situazione che vedeva all’opera una donna e una bestia, erano, per il resto, quali erano richiesti da un rapporto definibile come normale. Sarebbe inutile, su questo punto, insistere. In che senso allora e su quale fondamento, la domanda dev’essere ripetuta, lo si metteva in relazione, ossia Guinizzelli lo metteva in relazione, con l’ermafrodito che, per sé stesso, viveva della sua duplicità: la quale era non unità e contatto, ma, separazione e, proprio per questo, non prevedeva che sul corpo al quale appartenevano le sue parti diverse giungessero a unirsi. Non lo prevedeva perché, su questo deve insistersi, nella metamorfosi la loro unità si era costituita in modo che al desiderio che l’una poteva avere dell’altra non corrispondeva la possibilità che quello fosse recato all’atto e esaudito. A partire dalla duplicità delle sue determinazioni sessuali, l’ermafrodito era, in teoria, aperto a ogni forma di eros che si dirigesse a un soggetto esterno a esso: eros del maschio con la femmina, della femmina con il maschio, e anche della femmina con la femmina e del maschio con il maschio, sebbene questa restasse un’ipotesi astratta, formulabile a causa del suo non poter essere esclusa, non, tuttavia, in forza di una necessità che la rendesse inevitabile. Nessuna di questa ipotesi, per altro, era in possesso della necessaria consistenza. Nessuna si presentava come plausibile Ammissibile in astratto, l’ipotesi che l’ermafrodito cercasse il contatto con un altro essere o maschile o femminile era resa difficile, per non dire impossibile, dall’essere i due sessi disposti in modo che, l’unità con l’altro essendo insieme raddoppiamento e sottrazione, nel cercarsi si sfuggivano e, mentre si sfuggivano, si cercavano. La sessualità dell’ermafrodito essendo infatti sia duplice sia unitaria, non poteva non escludersi che i due sessi che lo segnavano tendessero a rendere difficile fino all’impossibilità il contatto con un corpo esterno. Ma, soprattutto, non poteva escludersi, e anzi doveva darsi per certo, che la ricerca che nell’ermafrodito il sesso maschile faceva di quello femminile, e questo di quello, fosse resa vana dalla loro unità che era anche separazione, da un desiderio che tanto più si accendeva quanto più si trovasse a essere realiz-
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zato in una difettiva unità. Si deve dirlo ancora una volta: il maschio era un semimaschio perché era anche femmina, e questa era una semifemmina perché era anche maschio. Nell’ermafrodito, l’unità dei sessi era, in senso eminente, la loro separazione, resa tale sia dall’essere il maschio femmina e la femmina maschio, sia dall’essere questa ambigua unità consegnata a due parti, l’una all’altra non accessibili, dello stesso corpo. Essendo irreparabile, la separazione impediva che il pensiero dell’altro sesso potesse liberare il soggetto dall’ossessivo desiderio di conseguire per intero quel che possedeva a metà e per intero non era conseguibile. Se è così, per i sessi che vi erano ospitati l’ermafrodito era, in sé stesso, una prigione in cui il desiderio dell’altro nasceva ed era costretto a persistere nel non appagamento. L’ambito, che era insieme la sua unità e la sua prigione, era infatti diviso in due parti che, appartenendogli allo stesso modo, e cioè in modo imperfetto, costituivano una non eliminabile ragione di tormento e di infelicità. In Ovidio, quando si rese conto della trasformazione che era avvenuta in lui, l’ermafrodito se ne rammaricò come se un destino avverso l’avesse colpito disponendolo all’infelicità. Come si ricorderà, aveva definito inquinata da incestum medicamen l’acqua in cui la sua trasformazione era avvenuta; e con ciò si era posto agli antipodi dell’ermafrodito di cui Platone aveva delineato il mito nel Simposio, ossia della figura che, in origine, aveva incluso in sé entrambi i sessi e che, perduta l’unità per iniziative di Zeus, in entrambe le parti divise era ora posseduta dalla nostalgia dell’origine unitaria, dal desiderio di riconquistarla e dalla consapevolezza che il compito era destinato al fallimento. Un’ultima osservazione. La separazione dei sessi faceva sì che, appartenendo a entrambi, il desiderio andasse dall’uno altro e li coinvolgesse entrambi senza possibilità di appagamento. Il che esclude nel modo più drastico che, ragionando del v. 82, dell’ermafrodito possa farsi l’equivalente di un omosessuale maschile e insieme femminile. Non solo perché, come più volte è stato necessario dire, Dante aveva affermato con chiarezza che chi era segnato da un peccato definibile come «ermafrodito» non apparteneva alla schiera che andava sotto il segno di Sodoma e Gomorra. Ma per la più seria, perché più intrinseca, ragione che nell’ermafrodito l’un sesso desiderava l’altro, non sé stesso, fermo restando che, quanto meno era conseguibile, tanto più la meta era desiderata: donde l’ossessione, il tormento e il «peccato». In senso specifico era questo il peccato che Guinizzelli aveva definito con quell’aggettivo, e del quale si purificava nel fuoco che invadeva l’ultima cornice del Purgatorio.
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23. La citazione dell’ermafrodito platonico non propone, sia ben chiaro, una fonte, né diretta né indiretta. Vale soltanto, e sempre che valga, come una suggestione esegetica volta a dar risalto a una differenza che, per la comprensione di quello dantesco, forse è essenziale. Rispetto a ciò che si dava a vedere nel mondo umano, l’ermafrodito platonico era il modello di un’unità perduta. L’ermafrodito originario era caratterizzato dall’unità, l’umanità attuale dalla sua perdita. L’ermafrodito univa in sé il maschile e il femminile, che, per volere di Juppiter erano stati separati, sì che ora gli uomini possedevano diviso quel che nella sua figura era stato uno: da una parte c’era il maschile, da un’altra il femminile, caratterizzati ciascuno dal dolore che a entrambi proveniva dal non possedere l’altro e dalla malinconica e sempre frustata aspirazione a reincluderlo in sé. Insomma, l’ermafrodito aveva posseduto quel che, in seguito alla sua divisione, era poi mancato agli uomini. In questi ultimi l’elemento maschile era diviso da quello femminile, l’elemento femminile era diviso dal maschile: donde l’aspirazione sempre frustrata a riconquistare l’unità perduta, donde il desiderio, la malinconia, l’inconseguibile amore. Come Aristofane aveva detto a conclusione del suo discorso: λέγω δὲ οὖν ἔγωγε καθ’ ἁπάντων καὶ ἀνδρῶν καὶ γυναικῶν, ὅτι οὕτως ἀν ἡμῶν τὸ γένος εὔδαιμον γένοιτο, εἰ ἐκτελέσαιμεν τὸν ἔρωτα καὶ τῶν παιδικῶν τῶν αὑτοῦ ἕκαστος τύχοι εἰς τὴν ἀρχαίαν ἀπελθὼν φύσιν.58 Il suo era, come si vede, la constatazione di uno stato di cose al quale soltanto un innamoramento felice avrebbe potuto porre temporaneo rimedio. Niente infatti autorizzava a pensare che all’originaria unità, alla ἀρχαία φύσις, si sarebbe tornati. Diverso da quello platonico, che, essendo stato felice quando aveva unito in sé i due sessi contrapposti, era stato condannato all’infelicità nel momento in cui questi erano stati separati, l’ermafrodito ovidiano si trovava, come si è detto, in tutt’altra situazione. In lui si era realizzata l’unità che nel Simposio era stata descritta come in origine felicemente posseduta e poi perduta e rimpianta. Ma non in modo altrettanto armonico e felice, e con una differenza essenziale, che nascondeva a stento la radice dell’infelicità. L’ermafrodito ovidiano realizzava infatti un’unità che si sovrapponeva alla scissione dei sessi e non la ricostituiva. Il suo eros era diretto a ricostituire l’unità, e condannato tuttavia a non poterla conseguire nel segno di una vera felicità. In effetti, nell’ermafrodito ovidiano i sessi erano bensì tornati entrambi in suo possesso. Ma l’uno era separato dall’altro: donde l’impossibilità, per l’uno e per l’altro, di stabilire il reciproco contatto. Diversa dall’una e dall’altra era la figura androgina del dio originario, padrone per
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sempre di entrambi i sessi, simbolo, perciò, di una potenza che andava al di là di quella umana. Se il dio era felice, non altrettanto lo era l’essere umano che viveva come un dramma quel che nell’altro era stato segno di gioia e di potenza. E tanto più infelice era l’Ermafrodito che, possedendo l’uno e l’altro sesso, non era in grado di metterli in comunicazione. 24. Non risulta che Dante sapesse qualcosa del Simposio platonico e del mito che lì era descritto dell’ἀνδρόγυνον originario, felice nel contatto che l’elemento maschile e quello femminile realizzavano nel suo corpo nell’atto in cui lo costituivano. Non sapeva che in origine, all’elemento maschile e a quello femminile, se ne era aggiunto un terzo che univa in sé l’uno e l’altro, e questa era l’umanità che allora aveva vita nel mondo ed era così forte e aggressiva che, per venirne a capo e non esserne soggiogati gli dèi non poterono sottrarsi alla decisione di contenerne la tracotanza. Non potevano semplicemente distruggerla perché in quei giganti androgini era presente il culto degli dèi; e non era pensabile perciò che fossero questi ad abbattere quel che avevano costruito per onorarli. Zeus decise perciò di dividere quel che in loro era unito, da una parte il maschile, da un’altra il femminile. In tal modo all’età dei mostruosi androgini successe quella degli uomini che, divisi in maschi e femmine, conservarono nel cuore il ricordo e il rimpianto di quel che un tempo in loro era stato unito e ora sopravviveva diviso fuori di loro. Donde l’amore, che in sé era desiderio di ciò che si era perduto e, con la coscienza del suo impossibile ritorno, la malinconia. Rispetto al grande mito platonico, la ripresa che, con altri strumenti e altri scopi, Ovidio ne aveva fatta, importò un radicale mutamento di prospettive. L’androgino platonico era un essere gigantesco, mostruoso e prepotente: rappresentava in atto la sfida rivolta dai primitivi giganti al potere di Zeus, che perciò se ne difese tagliandolo in due e consentendo alle parti divise una vita anch’essa divisa. Non era stata un’operazione indolore. L’uomo che gli era subentrato era insieme più civile e più triste, perché non poteva dimenticare l’unità che una volta l’aveva caratterizzato e che, attraverso l’amore, era per lui oggetto di rimpianto. Di questa situazione, per la quale l’amore era aspirazione all’unità perduta e perenne frustrazione, una traccia era rinvenibile anche nel racconto ovidiano e nel senso che, non alla lettera, si poteva ricavarne scendendo più a fondo. A tal punto la ninfa Salmacide aveva desiderato che il sesso del fanciullo fosse sua proprietà che, per un verso, vi si era trasferita. E con lui aveva formato un ermafrodito che, nella logica di questa situazione, era interpretabile
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come una metamorfosi: ossia come una nuova forma, come una forma che andava oltre le parti che vi si confondevano, e, nell’andar oltre, toglieva a esse l’autonomia senza, tuttavia, risolverle in qualcosa che significasse un autentico superamento. Di qui, a sua volta, andando al di là del testo e, come a Dante forse accadde di intendere, reinterpretandolo, l’infelicità dell’ermafrodito ovidiano, determinata da una separazione che persisteva nell’unità e, mentre accendeva il desiderio, lo condannava alla sconfitta. Dal sesso maschile a quello femminile, e da questo a quello, non c’era possibilità di passaggio, perché questo si era già realizzato e solidificato nella metamorfosi: al desiderio non corrispondeva l’attuazione che, ogni volta fallendo, accendeva il fuoco di una passione tanto più grande quanto più fosse destinata a essere ogni volta frustrata, mentre quello, il desiderio, si trasformava in un’ossessione, se non identica, simile a quella che aveva condotto Pasife al mostruoso accoppiamento. Non identica, ma simile. Nella smodata passione dell’antica regina, al di là dell’impresa raccapricciante a cui aveva dato luogo, poteva infatti vedersi, anche a prescindere da quella grottesca messa in scena, una sorta di ostentata oltranza, la rappresentazione di un dramma sessuale che, in quella sorta di trasfigurata attuazione, esprimeva il desiderio, per altro vano, di metter fine al desiderio. Di mettervi fine mercè un appagamento di esso che, ottenuto con mezzi perversi, ma comunque eccezionali, toccasse il suo proprio traguardo. Ma non fu così, perché così non poteva essere. Il desiderio risorgeva infatti da ogni appagamento; e questo non era che illusione. In quella grottesca della regina Pasife i penitenti, fra i quali si trovava Guido Guinizzelli, potevano leggere una storia che simbolicamente li riguardava: la passione sessuale non concedeva tregue e non consentiva catarsi. Al di là del raccapricciante connubio, l’animale, con il quale si era congiunta, era come il simbolo di un limite oltre il quale non era consentito andare, e che non poteva perciò ritenersi che appagasse la passione. La passione era infatti indomabile, e la storia di Pasife rappresentava, in forma simbolica, il fallimento del tentativo volto a venirne a capo. Come l’ermafrodito non poteva unire i due sessi che, appartenendo al suo corpo, vi restavano distinti e incomunicanti, così Guido Guinizzelli e i penitenti del suo peccato erano stati destinati in vita a non poter mai afferrare e esaurire l’oggetto del loro desiderio: ad averlo sempre presente e a non poterlo esaudire. Della sua inafferrabilità erano costretti a fare la ragione della loro vita, destinata a consumarsi nel desiderio irrealizzato o mai compiutamente realizzato, dell’altro sesso. Per questo Dante definì «ermafrodito» il loro «peccato».
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25. Sarebbe segno di goffa presunzione se da questa tesi chi l’ha proposta si dicesse a pieno soddisfatto e persuaso. Poiché si è costretti a ragionare su un aggettivo («ermafrodito») che, usato una sola volta nella Commedia, non riceve dal contesto se non elementi che conducono piuttosto a escludere significati impropri che non a proporne di persuasivi, a questa condizione di cose ci si deve per forza adattare. Si deve, per conseguenza, insistere sulla legittima esclusione di alcune ipotesi interpretative che, se proposte, entrerebbero in conflitto irreparabile con il testo. Poiché il personaggio che aveva definito «ermafrodito» il peccato suo, e di quanti con lui facevano gruppo in quel girone del Purgatorio, si trovava sotto il segno di Pasife, e non sotto quello di Sodoma e Gomorra, si è potuto escludere in modo reciso che fosse lecito farne un omosessuale. Nello stesso tempo, si è potuto non prendere in considerazione l’idea secondo cui, se Pasife aveva intrattenuto con il toro i noti rapporti, anche a coloro che si raccoglievano sotto il suo segno dovesse essere attribuito, mutato animale, un’analoga prassi. La moglie di Minosse valeva qui come simbolo di sfrenatezza e di inesauribilità della passione erotica: il toro era perciò il simbolo dell’una e dell’altra, e non si replicava materialmente in altri possibili animali. Da queste esclusioni, alle quali altre di analoga natura potrebbero, senza utilità, essere aggiunte, si è stati indotti a ritenere che Guinizzelli e i suoi compagni espiassero un peccato che, riguardando il sesso, si era specificato come ossessione e onnipresenza del medesimo, l’una e l’altra determinate in tale loro carattere dall’impossibilità che al relativo desiderio potesse mai darsi soddisfazione e pace. Si potrebbe dire, perciò, ma con cautela, che la riflessione sull’«ermafrodito» avrebbe potuto essere utilmente ricondotta nel quadro in cui è compresa quella concernente la natura del desiderio; che, per come si presenta nella storia di Ulisse e del «folle» volo, rivela proprio questo carattere. Poiché rinasce da sé stesso e da ogni suo conseguito soddisfacimento, del desiderio si può ben dire che non dà tregua e costituisce un inestinguibile tormento, perché la meta raggiunta non è che il punto di partenza per il raggiungimento di una meta che non riesce mai a essere l’ultima. Se è così, la situazione peccaminosa che Dante ravvisò in Guinizzelli e nei suoi compagni di espiazione riproduce, in parte, capovolgendola e facendone emergere la negatività, l’analisi del desiderio che s’incontra in un luogo famoso del Convivio, III xvi 8-9. Lì Dante aveva scritto che il desiderio è, per un suo aspetto essenziale, l’energia onde l’uomo è spinto alla perfezione che sola può realizzarlo e esaudirlo. Ma aveva aggiunto che, poiché la perfezione riguarda le cose supreme e a queste non è dato
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di pervenire in questa vita, ne discendeva che il desiderio sarebbe stato fonte di infelicità, non di felicità, se a questa tendenza un freno non fosse posto dalla natura; la quale fa sì che «l’umano desiderio» sia «misurato in questa vita a quella scienza che qui avere si può, e quello punto non passa se non per errore, lo quale è di fuori di naturale intenzione».59 Desiderando la sua perfezione», l’uomo «desidererebbe», infatti, «la sua imperfezione: imperò che desidererebbe sé sempre desiderare e non compiere mai suo desiderio», se non fosse per questa saggezza della natura, alla quale si deve che l’umano desiderio sia contenuto entro gli anzidetti limiti, e non ne esca se non in forza dell’errore. Il punto critico, che questo ragionamento incontrava, stava dunque, come subito si comprende, nell’errore. Nell’errore che interveniva ab extra rispetto all’ordine voluto dalla natura, e poiché non dava conto della possibilità della sua esistenza, poneva una questione complicata, che se non è ora il caso di discutere in termini filosofici, e fossero pure quelli che s’incontrano nel contesto del pensiero di Dante, considerata tuttavia deve essere per il paragone che consente di stabilire con l’altra che ci sta di fronte e che riguarda il peccato «ermafrodito». Potrà sembrare sorprendente che fra due questioni, così apparentemente lontane, si stabilisca un nesso, e le si consideri l’una a riscontro dell’altra. Ma non è così, e, se si guarda alla struttura, la lontananza non sussiste. In comune le due situazioni hanno infatti il punto essenziale: l’errore che, nella prima come nella seconda, concerne la possibilità che l’armonia si rompa e a essa subentri il disordine: che, nella scienza come nelle cose del sesso, significa smarrimento e perdita della misura. Con il desiderio che si abbia delle cose che stanno al di là dell’umano, e che per sé stesso l’intelletto non può conseguire, con questa aspirazione a infrangere il limite imposto dalla natura e a congiungersi con ciò che costituisce l’ordine divino, il peccato, che per analogia Dante definì «ermafrodito», presenta una singolare affinità. Gli esseri bisessuali, gli ermafroditi, posseggono due sessi, che, appartengono ai loro corpi, ma, l’uno essendo irraggiungibile dall’altro, accendono un desiderio tanto più ossessionante quanto meno sia appagabile. Con la condizione dei soggetti bisessuali che posseggono ciò che, nell’unirli, li divide, i peccatori della schiera nella quale anche Guinizzelli era compreso avevano in comune lo spasmodico desiderio di pervenire a un sesso che essi avrebbero voluto possedere per sempre, che li ossessionava e li rendeva, in questo, simili alle bestie. Che, per ciò che, in linea generale, concerneva il sesso, il discorso si svolgesse nel segno dell’analogia, è evidente: come nell’ermafrodito la bisessualità non implica che l’un sesso possa per-
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venire all’altro, che la diversa collocazione nello stesso corpo sia superata, e soddisfatto sia il desiderio che l’uno ha dell’altro, così nella vita sessuale dei normali individui avviene che chi sia ossessionato dall’altro sesso viva un’esperienza analoga a quella dell’ermafrodito e sia afflitto dalla medesima impotenza a farlo proprio in ogni istante della vita. Quel che, nel primo caso, si presentava come orgogliosa ribellione alla regola della natura e al limite da essa imposto, assumeva, nel mondo dei non ermafroditi, lo stesso illimitato desiderio di un sesso che, apparteneva, e tuttavia anche non apparteneva, alla loro natura, che infatti lo possedeva in un senso senza poterlo possedere in un altro. Insomma, come l’ermafrodito è in possesso di due sessi, che non possono entrare in contatto l’uno con l’altro e si consumano nello spasimo di questo desiderio, lo stesso avviene nella vicenda di un individuo, la cui aspirazione sia di possedere sempre di nuovo, e di non perdere mai, quel che posseduto una volta non può esserlo per sempre. Donde lo spasimo, appunto, e l’ossessione, che indusse Dante, se questo fu, come qui si suppone, il suo pensiero, a collocare chi fosse stato dominato da questa passione nella variegata schiera dei seguaci di Pasife. Non si opera, dunque contro il testo, né si pretende di imporre a esso un criterio estrinseco, se si considera che, nella questione posta dall’ermafrodito accade qualcosa di non diverso da ciò che caratterizza l’umano desiderio delle cose supreme. Si trattava, in entrambi i casi, di un desiderio che andava contro l’ordine naturale delle cose, e assumeva perciò il volto del peccato. In entrambi i casi, a essere violata era, nei suoi diversi ordini, la natura delle cose. Che poi alla formulazione di questa ipotesi interpretativa, come di quella concernente Ulisse e il desiderio, abbia indirettamente contribuito il ricordo di un dialogo platonico e della straordinaria analisi che vi si conduce dell’eros, è indubbio. Se, tuttavia, qualcuno pensasse che, richiamandola, si è dato luogo a un peccato di tradìta o non rispettata filologia, non si può non dargli torto e rivendicare la luce che al testo di Dante e a ciò che chiude in sé proviene da quelle antiche, indimenticabili pagine. 26. Non ci si dovrà dunque troppo preoccupare se, animato da malevolenza, chi leggerà queste pagine dirà che, per interpretare un aggettivo che nel contesto del ventiseiesimo del Purgatorio senza dubbio pone un problema, in modo antistorico e arbitrario il loro autore si è lasciato guidare da una suggestione platonica, che a Dante non poteva essere nota. L’obiezione è giusta, ma, formulato così, il rilievo è sbagliato. Come si è detto, il confronto, del resto molto sommario, e mantenuto quasi per intero
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nell’implicito, con il dialogo platonico è stato eseguito per ragioni puramente esegetiche, per trarre dal testo antico non più che una suggestione utile a interpretare quello «moderno». A risultarne sono state, innanzi tutto, le differenze. L’ermafrodito platonico era un essere raddoppiato, inclusivo sia dell’uomo sia della donna, e perciò dotato di quattro gambe e quattro braccia: un essere singolare e indicante due significati tenuti insieme in un intreccio paradossale. Per un verso, era quadrato, orribile, tanto mostruoso quanto minaccioso e temibile. Un essere gigantesco che gli dèi temevano avesse in animo di dare la scalata al cielo e che, dopo aver subìto da essi, o meglio da Zeus, la separazione che aveva diviso la sua parte maschile da quella femminile, si era scisso in un uomo e una donna, dominati l’uno e l’altra dalla pulsione al riacquisto dell’unità, una volta posseduta e poi perduta. Per un altro verso, era stato il simbolo di un desiderio perfettamente realizzato nel segno della conseguita unità delle parti. Ma l’incanto dell’armonia non era durato. Per le ragioni che si sono accennate, le parti si erano divise. E nel suo splendido discorso Diotìma aveva invitato gli uomini a guardare nella direzione della terra, dove, conoscendo in Eros il figlio di Penia e di Poros, avrebbero constatato quanto fosse destinato al fallimento il tentativo che si fosse fatto di riunire insieme queste due angustianti figure. L’ermafrodito sopravviveva infatti nell’eros e nel desiderio che suscitava negli uomini ormai dimidiati: donde la malinconia e la sofferenza, che sono proprie dell’esistenza umana se e quando ne sia segnata. È vero. Il ricordo di questo dialogo era nella testa del modesto interprete; e gli si risvegliò dentro quando, avendo provato a capire perché quel termine inconsueto fosse stato usato da Dante nel v. 82 del ventesimosesto del Purgatorio, non poté non ricordare che del desiderio anche il poeta medievale aveva analizzato l’ambivalenza, che, in un tutt’altro contesto, era stata da lui colta nelle ragioni che avevano spinto Ulisse al «folle volo». E allora, che cosa concluderne? Questo: che per l’analogia delle situazioni, occorre non perdere di vista la differenza. L’ermafrodito platonico, che lì si chiamava ἀνδρόγυνον, fu diviso senza che le parti perdessero il senso dell’originaria unità, alla quale sempre aspirarono e mai riuscirono a tornare. L’ermafrodito dantesco è un’unità infelice che si definisce nella rappresentazione simbolica dello spasimo onde una parte cerca, non trova e, tuttavia, non desiste dal ricercare quella che le appartiene e, tuttavia, le è altra. I lussuriosi che condividevano la pena con Guido Guinizzelli, erano ermafroditi, in senso non fisico, ma ideale. Se maschi, avevano sempre dinanzi agli occhi, come oggetto di desiderio inappagato, il sesso femminile.
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Se femmine, quello maschile. Erano figure dell’oltranza desiderante, dalla quale era impossibile che uscissero. Per questo, ma solo in questo senso, la loro sorte poteva esser posta sotto il segno di Pasife e del suo eros, dimentico di ogni interna misura. Che altro aggiungere? Solo questo. Per un certo tempo, l’autore di questo articoletto e il suo critico hanno avuto in comune, oltre Dante, il Simposio. Non è poco; e possono esserne entrambi contenti.
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Note 1. Pg XXV 118-120. 2. Pg XXV 132. 3. Pg XXV 133-139. Al v. 134 G. Inglese, Commedia, II, Purgatorio, Roma 2011, p. 314, preferisce «gridàvaro», confermato in Dante Alighieri, Commedia, a cura di G. Inglese, II, Purgatorio, Firenze 2021, p. 220. 4. Per quanto concerne il Purgatorio, cfr., per es., II 67-69: «l’anime, che si fuor’ di me accorte,/ per lo spirare, ch’i’ era ancor vivo,/ maravigliando diventaro smorte». 5. Pg XXVI 16-24. 6. Benvenuti de Rambaldis de Imola Comentum super D. Alagherii Comoediam, a cura di G.F. Lacaita, III, Firenze 1887, p. 128. 7. Per il paragone con le formiche, e il suo senso, cfr. Inglese, Purgatorio, p. 317. E vedi anche R. Antonelli, Dante poeta e giudice del mondo terreno, Roma 2021, pp. 160161. 8. Pg XXVII 21. 9. If V 39. 10. G. Boccaccio, Vita di Dante, in Il Comento alla Divina Commedia e gli altri scritti intorno a Dante, a cura di D. Guerri, I, Bari 1918, pp. 47-48. 11. Cfr. il mio Ipotesi (e dubbi) su Gerione e la corda, in «Cultura», 49 (2011), pp. 315-360, ora in «Forti cose a pensar mettere in versi». Studi su Dante 2, Torino 2021, pp. 379-438. 12. È un’espressione di N. Sapegno, La Divina Commedia, II, Purgatorio, Firenze 1985, p. 289. 13. L’esempio di Pasife derivò a Dante in primo luogo da Ovid. met. 8, 130-135, e quindi da Verg. aen. 6, 25-26. Va notato, perché entrambi i rilievi sono assenti in Dante, che mentre in Virgilio è ricordato il Minotauro, Veneris monumenta nefandae, in Ovidio è sottolineata la brutale violenza di Minosse, il consorte di Pasife, al quale non è meraviglia che questa avesse preferito il toro: «iamiam Pasiphaën non est mirabilem taurum/ praeponuisse tibi: tu», e il riferimento è a Minosse «plus feritatis habebas» (vv. 136-137). Sull’interpretazione di Veneris monumenta nefandae, nel senso che alla dea risalirebbe la responsabilità di avere introdotto in Pasife l’insana passione, cfr. il commento di E. Paratore, Eneide, III, Milano 1995, p. 210. Ma la questione, per Dante, è irrilevante. 14. Si vedranno, infra, alcune incertezze presenti, al riguardo, nel commento di Benvenuto e di altri. Ma cfr. anche Francesco da Buti, Commento sopra la Divina Commedia di Dante, a cura di C. Giannini, III, Pisa 1860, pp. 627-628, il quale, commentando il v. 82, raccontò di «uno che andava vestito come omo e stava in sul sullieri co la rocca e filava e chiamavasi monna Piera; e sono potenti alquanto all’uno e all’altro atto; e però la legge vuole che a questi così fatti, si dia elezione, secondo qual costume volliano vivere, e secondo quello denno vivere. E se si trovano a vivere altrimenti debbeno essere puniti come sodomiti».
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15. Tomae Summa theol. 2.2. q. 142, 4 d 3, e q. 154, 11.o, et 12 ad 4. 16. Pg XXVI 76-78. 17. Suet. Caes. 49: «Gallico denique triumpho milites eius inter cetera carmina, qualia currum prosequentes ioculariter canunt, etiam illud vulgatisimum pronunziaverunt: ‘Gallia Caesar subegit, Nicomedes Caesarem:/ ecce Caesar nunc triumphat qui subegit Gallias,/ Nicomedes non triumphat qui subegit Caesarem». 18. Uguccione da Pisa, Derivationes, a cura di E. Cecchini, G. Albizzoni, S. Lanciotti, G. Nonni, M.G. Sassi, Firenze 2004, p. 1245. 19. Cfr., su questo, il mio articolo Il giudizio su Guinizzelli e il commiato dai maestri, in questo volume, pp. 203-248. 20. Donna me prega, v. 35. 21. Si veda, per questo, il mio Dante, Guido e Francesca, Roma 2008, pp. 141-171. 22. La collocazione di Guinizzelli nella schiera dei lussuriosi fu più volte messa in relazione con la sua rappresentazione poetica dell’eros: cfr., per tutti, G. Contini, nel commento al v. 9 di Chi vedesse a Lucia un var capuzzo, in Poeti del Duecento, II/2, MilanoNapoli 1995, p. 479, che richiama, al riguardo, Vittorio Rossi, senza indicare il luogo. 23. Cfr., per questo, il mio Dante e Brunetto Latini, in «Forti cose a pensar mettere in versi». Studi su Dante 2, pp. 315-378. 24. Cfr., al riguardo, il mio Il giudizio su Guinizzelli e il commiato dai maestri, in questo volume, pp. 201-246. 25. Si veda da ultimo, su questa linea, G. Inglese, Commedia, II, Purgatorio, Roma 2011, p. 320. Ma, nella sua brevità, la glossa migliore resta, in questa direzione, quella di N. Tommaseo, Comento alla Comedia, a cura di V. Marucci, II, Roma 2004, p. 1248: «(l’) ermafrodito: di maschio con femina: ma bestiale per eccesso, onde rammenta Pasifae». Perché, tuttavia, questa esegesi non basti a spiegare il testo, sarà detto in seguito. 26. Occorre fin d’ora osservare, e tener presente, che il nome Hermaphroditus che Ovidio assegna al puer che con la ninfa Salmacide darà luogo all’accoppiamento che, dei loro due corpi, ne farà uno solo, ma bisessuato, non è l’«ermafrodito» che derivò dall’amplesso. Quello è il puer che viene sedotto dalla ninfa, questo è, o dovrebbe essere, indistinguibile dalla, e nella metamorfosi in cui fu coinvolto con la ninfa. Somigliantissimo al padre (Hermes) e alla madre (Afrodite) da cui era nato (Met. 4, 288), per sé stesso il puer era un normale maschio, così come femmina era la ninfa, Salmacide, che lo attrasse nelle acque limpide, e insieme snervanti, del lago nel quale l’amplesso ebbe luogo. (Una tradizione, non registrata per altro da Ovidio, dà al lago nel quale Salmacide forzò il fanciullo all’amplesso, lo stesso nome della ninfa: cfr. L. Galasso, Ovidio, Opere, II, Torino 2000, pp. 929-930, 937). Il nome Hermaphroditus, che gli è assegnato a 4, 383, gli derivava, come già si è detto, dal suo essere figlio di Hermes e di Afrodite. Che poi fosse destinato a dar luogo alla metamorfosi che, nello stesso tempo, raddoppiava e dimidiava i sessi, e alla quale, in quanto conseguenza dell’amplesso, Ovidio non dette il nome di «ermafrodito», è quanto è narrato nella storia di quel rapporto. Per ulteriori osservazioni, si veda infra, nel testo. Non è nelle mie competenze, e non appartiene comunque all’economia di questo saggio, la discussione sulle fonti greche e orientali che Ovidio ebbe presenti nello scrivere
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la storia in questione. Si veda Jessen, Hermaphroditos, RE, VIII 1. È recentissimo l’articolo di Fr. Boldrer, Androgini ed Ermafroditi: interpretazioni filosofiche e poetiche in Platone e Ovidio, in «Fillide», 18 (2019), che non sono, per altro, riuscito a vedere. 27. Met. 4, 308-310. 28. Met. 4, 389. Sull’impurità dell’acqua, cfr. il recentissimo A. La Penna, Ovidio. Relativismo dei valori e innovazione delle forme, Pisa 2018, p. 174. Ma si veda anche A. La Penna, in «Vichiana», 18 (1983), pp. 238-245. Sul mitologema dell’acqua come origine o utero primordiale, si ricordino le considerazioni di K. Kerényi, Il fanciullo divino, in C.G. Jung e K. Kerényi, Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia, Torino 1948, pp. 76-77, passim. Alla figura e al mito dell’androgino un’ampia indagine è stata dedicata da M. Eliade, Méphistophéles et l’androgyne, Paris 1962, che l’ha interpretata come un esempio della coincidenza, o piuttosto coesistenza, dei contrari (ma cfr. anche il suo Trattato di storia delle religioni, tr. it., Torino 1954, pp. 433-441). Aggiungo che l’interpretazione dell’ermafrodito in termini di omosessualità è largamente diffusa nell’opinione comune, e non solo; e, come opinio facilior, fu criticata da Freud all’inizio del secolo scorso: cfr. S. Freud, Opere, IV, Tre saggi sulla teoria della sessualità (1900-1905), Torino 1989, pp. 456457. Non per indulgere all’idea che in questo sia da considerarsi «moderno», ma resta fuor di dubbio che a questa idea Dante fu recisamente contrario: come si vede se si ha l’occhio al modo in cui, nel ventiseiesimo del Purgatorio, egli distinse le schiere di quei peccatori espianti: da una parte quelli riuniti sotto il segno di Sodoma e Gomorra, da un’altra quelli riuniti sotto quello di Pasife. 29. Cfr. E.R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, Firenze 1992, p. 131, ha osservato che la Chiesa assimilò l’ermafrodito alla sodomia, ma senza addurre testi e parlando genericamente di «prediche morali». Non mi pare inoltre che, a differenza di quel che il Curtius asserisce, la condanna dell’ermafrodito sia presente in Gn 19, 5, dove in questione è la storia di Lot e delle figlie, che con l’androginia o ermafroditismo non ha relazioni specifiche. Aggiungo che non allude a censure ecclesiastiche Uguccione da Pisa, Derivationes, pp. 562-563, dove anche si legge la migliore definizione che, in età medievale, sia stata data dell’ermafrodito: «Hermes componitur cum Afrodita, quod est Venus, et dicitur Hermafroditus, idest filius Veneris et Mercurii, qui quia commixtus Salmaci utrumque sexum habuit, ideo ab illo dicitur hic hermafroditus vel hec hermafrodita, in quo uterque sexus apparet» (p. 562). L’androgino primordiale è descritto nella mitologia indiana come un essere, a differenza di quello presente nella cultura occidentale, dotato di capacità procreativa, e di natura, quindi, incestuosa, diversa da quella descritta nella vicenda di Lot. Per la sua natura bisessuale, l’incesto dell’androgino, o ermafrodito, è una sorta di autoincesto. Si veda al riguardo W. Doniger, Le origini del male nella mitologia indù, tr. it., Milano 2002, pp. 489-492. 30. Si veda il suo Liber Gomorrhianus, cap. 16, PL 144, 176-177. 31. If XV 103-114. 32. Su questi, e molti altri esempi, cfr. La Penna, Ovidio, pp. 105-128. 33. Luc. Phars., 9, 777-779. E si veda ai vv. 779-781: «natura profana/ morte patet: manant humeri fortesque lacerti,/ colla caputque fluunt». 34. If XXV 103-105.
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35. Il gesto compiuto dal serpentello diventato «anima», e di cui al v. 138, fu giudicato «naturalissimo», da C. Grabher, La Divina Commedia, I, Inferno, Firenze 1940, p. 308, nell’uomo che, «già serpente, sputa via quasi il sapore ultimo della sua animalità e precisamente dietro la ‘fiera’ come per gettare verso di lei la nausea che egli ancora prova a quella vista e a quel ricordo». Interpretazione suggestiva, che può considerarsi, tuttavia, smontata dalla secca glossa di Inglese, Inferno, p. 288: «sputa: per la difficoltà che incontra nell’uso dei ‘nuovi’ organi fonatòri». 36. T. Casini, La Divina Commedia, nuova presentazione di F. Mazzoni, Firenze 1985, p. 454. 37. Pg XXVI 83-87. 38. F. Torraca, La Divina Commedia, Città di Castello 1992, p. 554. 39. In Casini, La Divina Commedia, p. 454. 40. Cfr. supra, n.16. 41. C. Landino, Comento sopra la Comedia, a cura di P. Procaccioli, III, Roma 2002, p. 1431. 42. G. Boccaccio, Decameron, 9, 3 (ed. Branca, Torino 1980, p. 1051: «oimè! Tessa, questo m’hai fatto tu, che non vuogli stare altro che di sopra: io il ti diceva bene!» 43. Torraca, La Divina Commedia, p. 554. 44. Su Pasife (Πασιφάη) e il suo nome, cfr. H. Usener, Götternamen. Versuch einer Lehre von der religiösen Begriffsbildung, Frankfurt/Main 1948, pp. 58-59. 45. Sul Commento di Benvenuto, si veda C. Dionisotti, Lettura del commento di Benvenuto da Imola, in Scritti di storia della letteratura italiana, III, 1972-1998, a cura di T. Basile, V. Fera, S. Villari, Roma 2010, pp. 137-148. Ma cfr. ora l’ampio studio di L. Fiorentini, Per Benvenuto da Imola. Le linee ideologiche del Commento dantesco, BolognaNapoli 2016. 46. Benvenuti de Rambaldis de Imola Comentum super D. Alagherii Comoediam, a cura di G.F. Lacaita, IV, Firenze 1887, p. 129. 47. Fiorentini, Per Benvenuto da Imola, pp. 220-222, passim. 48. Sulla condanna dell’ermafrodito da parte della Chiesa cattolica medievale, la letteratura è assai ampia. Ma cfr. J. Bosell, Cristianesimo tolleranza omosessualità. La Chiesa e gli omosessuali dalle origini al secolo XIV, tr. it. Milano 1989. L’atteggiamento che si ebbe nell’antica Roma nei confronti dell’ermafroditismo sembra invece ispirato alla curiosità e alla sorpresa che si prova dinanzi a un prodigio (cfr., per esempio, Liv. 27, 4-6 («Priverni satis constabat bovem locutum […] et Sinuessae natum ambiguo inter marem ac feminam sexu infantem, quos androgynos volgus ut pleraque, faciliore ad duplicanda verba Graeco sermone, appellat»), senza che perciò fossero esclusi provvedimenti drastici: cfr. 27, 38, 5-7: «liberats religione mentes turbavit rursum nuntiatum Frusinone natum infantem esse quadrimo parem, nec magnitudine tam mirandum quam quod is quoque, ut Sinuessae bienno ante, incertus mas an femina esset natus erat. Id vero haruspices ex Etruria asciti foedum ac turpe prodigium dicere: extorrem agro Romano, procul terrae contactu, alto mergendum. Vivum in arcam condidere provectumque in mare proiecerunt». Per altri testi, e per l’interpretazione, rinvio a B. MacBain, Prodigy and Expiation. A Study in Religion
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and Politics in Republican Rome, Bruxelles 1982. Ma si veda anche E. Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, Milano 2016. Nella Biblioteca di Fozio (a cura di M. Bianchi e C. Schiano, intr. di L. Canfora, Pisa 2016, pp. 659-663), furono inseriti ampi brani, concernenti l’ermafrodito, o, meglio, i casi di ermafroditismo, tratti dai libri finali della Biblioteca di Diodoro. Ma l’interesse è volto principalmente, al profilo medico della questione, ossia alle curiose anomalie riscontrate in determinati soggetti, mentre, per un altro verso, l’intento fu di richiamarli e riferirli, non per fomentare curiosità e timori superstiziosi, ma, piuttosto, per dissolverli: πολλοὶ γὰρ τέρατα τὰ τοιαῦτα νομίζοντες εἶναι δεισιδαιμονοῦσιν, οὐκ ἰδιῶται μόνον ἀλλἀ καὶ ἔθνη καὶ πόλεις (Fozio, Biblioteca, p. 662). Diodoro 4, 6, 4-5, aveva già discretamente invitato a prendere le distanze da questi fenomeni superstiziosi. 49. F. da Buti, Commento sopra la Divina Commedia di Dante, ed. C. Giannini, II, Pisa 1860, p. 627. Il passo è citato qui su, n. 14. 50. A. Lancia, Chiose alla Comedia, a cura di L. Azzetta, II, Roma 2012, p. 774. 51. Jacomo della Lana, Comento alla Comedia, a cura di M. Volpi, con la collaborazione di A. Terzi, II, Roma 2009, p. 1489. Per la cronologia del Lana e ciò che attiene al suo commento, cfr. S. Bellomo, Dizionario dei commentatori danteschi. L’esegesi della ‘Commedia’ da Jacopo Alighieri a Nidobeato, Firenze 2004, pp. 281-303. 52. M. Chiromono, Chiose alla ‘Comedia’, a cura di A. Mazzucchi, II, Roma 2004, p. 892. Sul Chiromono, cfr. A. Campana, ED, I, 975 a-b., Bellomo, Dizionario, pp. 232-233. 53. Sul Vellutello, e sui limiti del suo Commento, cfr. M. Barbi, Della fortuna di Dante nel secolo XVI, Pisa 1890, pp. 250-255. 54. A. Vellutello, La ‘Comedia’ di Dante Alighieri con la nova esposizione, a cura di D. Pirovano, II, Roma 2006, p. 1119. Un cenno sul Commento del Vellutello, giudicato, sulla linea del Barbi, mediocre, è in Dionisotti, Dante nel Rinascimento (1965), in Scritti di storia della letteratura italiana, II, 216, ma si veda anche Alessandro Vellutello, in Scritti di storia della letteratura italiana, IV, 480-483. 55. A. Cesari, Bellezze della Divina Commedia di Dante Alighieri. Dialoghi, II, Milano 1845, p. 343. La citazione di Paοlo è, per altro, incompleta. A 1, 26 il testo recita: διὰ τοῦτο παρέδωκεν αὐτοὺς ὁ θεὸς εἰς πάθη ἀτιμίας. αἵ τε γἀρ θήλειαι αὐτῶν μετέλλαξαν τὴν φυσικὴν χρῆσιν εἰς τὴν παρὰ φύσιν, e prosegue asserendo che anche gli uomini abbandonarono τὴν φυσικὴν χρῆσιν τῆς θηλείας ἐξεκαύθησαν ἐν τῇ ὀρέξει αὐτῶν εἰς ἀλλήλους. 56. Lact. carmen de ave pahoenice, v. 163. Cfr. T. Gregory, L’uomo di fronte al mondo animale nell’alto Medioevo, in Mundana sapientia. Forme di conoscenza nella cultura medievale, Roma 1992, p. 456. 57. Pd XIV 28-31. 58. Plat. Symp. 193 C 2-5. 59. Cv III xv 9.
6. Considerazioni sul canto VI del Paradiso
I Translatio Imperii e Donazione di Costantino 1. Non ci sarebbe necessità di dedicare particolare attenzione al v. 4 di questo canto,1 che non sembra, in effetti, presentare difficoltà letterali di interpretazione, se non convenisse osservare che esso prende un significato o un altro a seconda che il soggetto di «volgere» sia indicato, come intendono i più, in Costantino o, secondo l’opinione dello scrivente, nell’aquila, l’«uccel di Dio» (v. 4). La questione non ha un rilievo soltanto grammaticale. A seconda che si giudichi in un modo o nell’altro, il quadro acquista colori decisamene diversi. Chi sostiene che a dirigere il volo dell’aquila verso Oriente fu Costantino intende anche, o per lo più, che alla radice del suo atto debba essere collocata la funesta decisione che egli prese quando donò al pontefice romano «Imperii sedem, scilicet Romam […] cum multis aliis Imperii dignitatibus»,2 e, nel fatto, oltre che de iure, ne infirmò l’unità, o addirittura, la scisse.3 Ma alla Donazione in tutto il suo discorso Giustiniano non accennò mai, in modo esplicito, e nemmeno, salvo errore, implicito. Né nell’un modo né nell’altro, disse che alla radice del viaggio dovesse vedersi, come causa, la famigerata decisione di trasferire in Oriente la sede dell’Impero. Meno che mai lasciò intendere che, quanto al diritto, le cose fossero andate nel modo indicato da Benvenuto da Imola,4 a giudizio del quale, e di molti dopo di lui, il trasferimento della sede imperiale e il volo verso Oriente che lo realizzò furono contrari all’«ordine», come disse il Buti, del «moto universale». In realtà, i versi dicono tutt’altro. Dopo che Costantino ebbe trasferita in Oriente la sede dell’Impero, l’aquila imperiale «cento e cent’anni e più […] nel’estremo d’Europa si ritenne», e «sotto
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l’ombra dele sacre penne/ governò ’l mondo di lì di mano in mano». Se dal luogo in cui era giunta, l’aquila aveva seguitato a governare il mondo sotto l’ombra, si badi bene, «dele sacre penne», segno è che nessuna frattura si era prodotta né nella compagine dell’Impero, che era pur sempre uno anche se da Roma la sua sede si era trasferita sul Bosforo e la sua unità si era indebolita: né, che sul serio sarebbe stato inconcepibile, nell’ordine delle cose. È un concetto, questo, che non deve esser perso di vista; e non deve recar meraviglia che sia destinato a ritornare più volte nel corso della ricerca che ora ha inizio. Se aveva volato contro il corso del cielo, l’aquila aveva obbedito al comando, non di Costantino, ma di Dio, al quale soltanto apparteneva di poter fare che l’ordine della natura fosse insieme sconvolto e rispettato: sconvolto perché il moto del cielo andava di regola in senso inverso, rispettato perché la natura è strumento di Dio e se il suo volere è che il suo ordine sia invertito, quello, nel caso in questione, è il volere di Dio, quello è l’ordine della natura. Chi ha ritenuto che, volando da Occidente a Oriente, l’aquila avesse infranto la regola dell’universo, non solo ha ragionato, in sostanza, come se si fosse trattato di un qualsiasi uccello, e non de «l’uccel di Dio», ma soprattutto non ha considerato che, se tale da sconvolgere l’ordine della natura fosse stato il suo potere, questo sarebbe stato addirittura superiore a quello di Dio: il che, se Dio è l’essere supremo, avrebbe arrecato, si dica così, qualche affanno all’idea della coerenza che, se la si scruti a fondo, non può non riconoscersi nella realtà, quale Dante la concepiva. Soggetto del volo è quindi l’aquila, non Costantino che, come si è obbligati a interpretare, ne fu in realtà l’oggetto. È impossibile, in effetti, pensare che il cielo nel quale l’aquila aveva effettuato il suo volo fosse stato soltanto un cielo astronomico non ripensato alla luce di quel che vi stava avvenendo.5 I cieli hanno certamente un ordine necessario e indicano una direzione. Ma, su questo deve insistersi, sono anche, come l’intera natura, strumenti di Dio: sarebbe mai possibile che lo strumento avesse diretto o dirigesse lui la volontà e la mano che lo adoperava o lo adopera? Se questo è chiaro, deve anche esserlo che, nel condannare con fermezza la Donazione e nel considerarla origine di gravi mali, dalla sua idea della provvidenza che dirige le cose del mondo Dante era costretto a vedere dovunque, e, a rigore, anche nella iniquità, la mano di Dio, e dunque il documento, non, come si è detto,6 del debole e persino deviante contributo dato dagli uomini alla causa provvidenziale, quasi che fra la provvidenza e gli uomini si desse collaborazione, ma, come con piena ragione deve dirsi, della sua, in que-
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sto caso, non decifrabile, e tuttavia non disconoscibile, volontà. Sebbene, l’Impero coincidesse con Roma e all’imperatore non potesse riconoscersi il diritto di rinunziare al suo possesso e di trasferirlo ad altri,7 a riconoscere tuttavia, la piena legittimità dell’Impero d’Oriente Dante era costretto dalla logica del discorso che aveva nella provvidenza il suo criterio. E, si ripete, lo disse, del resto, in modo esplicito e netto quando, dell’aquila, asserì che «sotto l’ombra dele sacre penne/ governò ’l mondo».8 La ragione profonda per la quale aveva preso a volare verso Oriente poteva riuscire oscura. Ma che il suo volo andasse in quella direzione era evidente, come lo era che, se quello era l’«uccel di Dio», la scelta che aveva fatta doveva essere considerata come il frutto, non di un capriccio, ma di un’intrinseca necessità, di una necessità, dunque, che, per essere provvidenziale, non riconoscerla sarebbe stato, per Dante, impossibile. Si aggiunga che se, come vedremo, egli lasciò nell’ombra, o, addirittura, non indagò le ragioni per le quali la sede dell’Impero era stata trasferita a Oriente, è anche vero, lo si è già accennato, che non disse parola dalla quale potesse ricavarsi che all’origine di quella decisione ci fosse stata la Donazione, e che di questa il volo dell’aquila fosse stata la conseguenza. In effetti, se si sta ai testi, né la Donazione fu causa del trasferimento del viaggio dell’aquila in Oriente, né questo lo fu della Donazione, restando tuttavia fermo che fra i due eventi si dava un nesso e che ci si sarebbe condannati a non capire se non lo si fosse colto. In effetti, facendo che, con il suo perentorio richiamo al volo dell’aquila, Giustiniano avesse, con il suo racconto, indicato l’inizio di una fase storica che mutava l’equilibrio del mondo, a quel nuovo inizio Dante conferiva un valore assoluto, come se, in altri termini, quello non derivasse che da sé stesso, ossia dall’atto gratuito, e in sé necessario, del volere divino, e a richiederlo non fossero stati sia i problemi che si erano determinati nella parte occidentale del mondo sia il declino stesso di Roma quando era ancora la capitale di tutto l’Impero. Niente poteva spingere l’uccello di Dio a volare in una direzione se quel volo non fosse stato per intero conforme al suo stesso volere. Anche per questo deve decisamente escludersi che nel verso iniziale del canto sia presente una nota di disappunto per la decisione presa da Costantino di trasferire la capitale dell’Impero a Oriente.9 Da escludersi, e più che mai, è che in Giustiniano debba vedersi il suo ideale antagonista,10 l’imperatore che, agendo in senso contrario a quello tenuto da lui, si era consacrato a restaurare l’unità imperiale che Costantino aveva infranta. Di tutto questo, in Dante, non c’è traccia. Non c’è, nel lungo discorso di Giustiniano, una sola parola che faccia pensare
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a una condanna, anche se implicita, del viaggio che Costantino aveva intrapreso da Occidente verso Oriente, e ce n’è una, al contrario, spesa per sottolineare, lo si è già notato, la continuità del potere imperiale in quella parte del mondo: «e sotto l’ombra dele sacre penne/ governò ’l mondo lì di mano in mano,/ e, sì cangiando, in su la mia pervenne».11 Volendo che sul viaggio a Oriente dell’aquila non pesasse il biasimo in cui Costantino era coinvolto come autore della Donazione, dopo averlo nominato nel primo verso del canto, Dante non lo ricordò più, come se non fosse stato lui il primo Imperatore di Oriente. Può ben darsi che quanto sapeva di lui non gli consentisse di dare una rappresentazione meno povera e contratta di quella che gli storici moderni definiscono come la aetas constantiniana, della quale riconoscono la grande importanza.12 Resta che il nessun rilievo che a Costantino egli dette pur dopo averlo presentato come il soggetto (o, meglio, l’oggetto) di un volo provvidenziale e la sostanziale cancellazione del suo nome da una storia che era stata inaugurata da lui derivarono essenzialmente dall’intenzione di non dovere ricordare la Donazione che egli aveva fatta al papa della sedes romana, e di non porre il trasferimento dell’Impero a oriente sotto il segno negativo di quella. Che, e meglio lo si vedrà in seguito, fatta salva la buona intenzione, Costantino fosse un infirmator Imperii restava fuori di ogni dubbio. Ma è anche vero che l’Impero romano d’Oriente era per Dante parte della storia sacra di Roma, era pur sempre l’Impero romano. Non conveniva perciò, nel momento in cui, con le parole di Giustiniano, si rievocava una storia che aveva ricevuto il suo inizio da Enea, richiamare un episodio che su quello avrebbe gettato la sua luce negativa.13 Diviso nelle sue due parti, l’Impero per lui restava uno, perché era pensiero e opera di Dio.14 Chi parla della translatio dell’Impero a Oriente come di un errore, e di una deviazione dalla linea indicata dalla provvidenza, non ha riflettuto a sufficienza sia sul concetto che Dante ne ebbe, sia sulle difficoltà che potevano derivarne al giudizio che si dovesse formulare su determinati episodi della storia umana. 2. A questo punto comincia, per altro, a delinearsi una questione alla quale dovrà darsi, quando il momento sia giusto, l’adeguato svolgimento, e che è destinata rimanere al centro della ricerca. È quella del rapporto in cui il sesto canto del Paradiso si pone con il trattato politico. Come si legge in Monarchia II xi 8, Costantino è infirmator ille Imperii.15 Infirmare significa «indebolire», e «indebolire» implica sì che si fosse reso meno forte quel che tuttavia seguitava a essere possesso dell’infirmator, ma non,
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dunque, che di quello questi si fosse privato per darlo ad altri. Insomma, può bene intendersi che l’infirmator seguitasse, come imperatore, a possedere quel che la sua azione aveva tuttavia indebolito e disposto alla decadenza. Ma a infirmare tiene dietro, nel terzo libro, scindere. Se perciò il primo verbo è messo in relazione con il secondo, il suo significato acquista un tratto di negatività maggiore di quella che, se fosse preso da solo, gli si riconoscerebbe. Infirmare diviene la premessa di scindere. L’infirmator Imperii è, per conseguenza, colui che aveva separato la parte occidentale dall’orientale, provocando, nel far ciò, il declino della prima, o lasciando comunque che, per effetto della separazione, la prima procedesse nel senso della decadenza. La conseguenza a cui questo rilievo conduce non è stata tratta senza la consapevolezza sia del vulnus, o, se si preferisce, del limite, che ne derivava alla rappresentazione che Dante aveva fatta di Costantino, sia della differenza che, rispetto al sesto del Paradiso, segna quel che di lui si dice nella Monarchia. L’Italia sarebbe stata felice se egli non fosse nato. «O felicem populum, o Ausoniam te gloriosam, si vel nunquam infirmator ille Imperii tui natus fuisset, vel nunquam sua pia intentio ipsum fefellisset».16 Non sono parole lievi, sono anzi così forti che, nel discorso di Giustiniano, Dante evitò che comparissero. Di lui, in questo esordio del sesto canto del Paradiso, non si diceva, come si è visto, se non che da Occidente era volato in Oriente. E non una parola era intervenuta a turbare il senso provvidenziale attribuito al viaggio: il senso provvidenziale e, quindi, nella insondabile sua economia, la positività. La domanda allora è: se il volo era provvidenzialmente diretto, era dunque stato stabilito dal cielo che a Occidente l’Impero decadesse e la sua sede si trasferisse a Oriente? Oppure, ferma restando che di natura provvidenziale era la direzione orientale del volo, la sua attuazione non prevedeva che la parte occidentale fosse stata destinata alla rovina e, nell’essere parte, lo fosse tuttavia di un intero rispetto al quale era, e rimaneva, essenziale? L’aquila simboleggiava Dio e il suo volere, un volere che, per definizione, è inscindibile dal telos provvidenziale al quale è, in effetti, intrinseco. Se, per attuarlo, aveva scelto un cammino di sofferenze e di morte, non era stato perché queste prevalessero e il mondo finisse, ma, al contrario, perché conoscesse un nuovo inizio nel quale anche il vecchio ritrovasse un nuovo vigore. Per come Dante l’aveva prospettata in tutti i luoghi in cui, dal Convivio alla Commedia, era venuto a contatto con la sua idea, questo era quel che la logica provvidenziale prevedeva. In altri termini, dopo aver lasciato intendere che il senso autentico di infirmare era scindere, Dante che, della decadenza della
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parte occidentale, e tanto meno della sua fine, non dette mai la definizione, e non ne parlò, quindi, come di una decadenza, interpretò scindere come se significasse infirmare. Pensò a una grave debolezza intervenuta nella pars occidentalis, non però alla sua fine; e tenne vivo in sé il senso della sua continuità e persistenza, tanto che fu un imperatore occidentale, Carlo Magno, quello che, a distanza di secoli dagli eventi qui narrati, intervenne a difendere il papa dall’offesa mortale che stava per ricevere dai Longobardi di Desiderio. Del resto, se l’aquila era l’«uccel di Dio», anche era il simbolo dell’Impero; che, dunque, nel trasferire da Occidente a Oriente la sua sede, restava intatto presso di sé. Che poi dal trasferimento che pur gli sarà accaduto di compiere del discorso dal piano ideale a quello storicoemprico, a Dante provenissero la difficoltà e il disagio che s’incontrano nel far corrispondere i due piani nel segno dell’armonia, è probabile: costa infatti uno sforzo, che può riuscire penoso, il tentativo che, constatata la loro differenza, si compia di farli coincidere. Ma se si tiene fermo al punto che è la mano di Dio a guidare la storia umana, evitare quell’eventuale disagio era, e è, impossibile. 3. A questo punto, e nella sede nella quale ci troviamo, non si richiede di entrare, se non di scorcio, e solo per proporre una rapida considerazione, nelle argomentazioni con le quali nel terzo libro della Monarchia, Dante si impegnò a dimostrare che né l’Imperatore aveva il diritto di alienarsi quel che gli apparteneva per diritto divino, né la Chiesa aveva quello di accettarlo in dono; e, sia pure in modo indiretto e, in questa sede, soltanto implicito, pose la questione se dall’abuso che si era fatto del diritto fosse o no derivata la conseguenza, fattuale, per dir così, e non giuridica, del non esserci più dell’Impero di Occidente. In linea teorica, la recta interpretatio era che, come l’Impero era cosa sacra, voluta da Dio, così non c’era decisione umana, e tanto meno imperiale, che potesse alterarne la linea sostanziale e spegnere, conducendola al tramonto, la luce da cui il genere umano traeva le ragioni essenziali della sua vita sulla terra. Certo, l’Impero era anche cosa umana, e, come tale, poteva, per volere di Dio, apparire affètto, a occhi umani, da offuscamenti, senza, tuttavia, che essere e essenza potessero mai esserne coinvolti: in altre parole, non solo il suo diritto era intangibile, intangibile era anche la sua realtà. I danni che la Donazione aveva arrecati al genere umano erano, naturalmente, gravissimi, e tali restavano agli occhi di Dante; che, tuttavia troppo vivo aveva in sé il senso dell’imperscrutabilità del giudizio divino per non interpre-
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tarli nella luce di questo e non ricavarne la certezza che l’Impero poteva subire danni e offese, ma cessare di essere non poteva. Non certo per caso, malgrado il giudizio dato sulla Donazione, e il silenzio mantenuto da Giustiniano sul suo nome, Costantino, e lo vedremo, fu da lui collocato nel cielo dei giusti, in Paradiso. E c’è di più. Quali che fossero le fonti dalle quali aveva tratte le sue informazioni17 Dante tenne sempre ferma in sé l’idea che, al di là dell’indebolimento che all’Impero ne era derivato, l’impresa costantiniana era stata diretta, non a dividerne l’unità, ma a confermarla, presupponendola come cosa ovvia e intoccabile, nella nuova situazione. Il trasferimento della sede imperiale era, per dir così, interno all’area unitaria dell’Impero, che il volo dell’aquila riassumeva nel suo simbolo. Non è senza significato, e si deve ribadirlo, che Costantino fosse presentato come lo strumento, non dello spirito negativo della decadenza, ma di una superiore decisione divina, della cui realtà non poteva dubitarsi anche se il suo senso più autentico restasse nascosto a occhi umani. Se quel che sapeva di lui non gli permetteva di vedervi il vero πάσης οἰκουμένης δεσπότης,18 il signore di un’universale monarchia, di cui, interpretando fonti che a Dante erano ignote, parlano alcuni storici moderni, nei suoi scritti, tuttavia, si cercherebbe invano un giudizio che, nei suoi riguardi, suonasse negativo. Il giudizio fortemente critico dato della Donazione non ebbe mai, nel suo pensiero, questa conseguenza estrema. La Donazione aveva corrotto la Chiesa e indebolito l’Impero che, tuttavia, attraverso la sua metabasis a Oriente, era rimasto uno. E Dante non dubitò mai che sull’Impero il giudizio potesse mai esser altro che positivo. Della sua realtà dubitare era impossibile. Se, nel famoso scritto di Lorenzo Valla gli fosse stato dato di leggere i giudizi riguardanti Costantino e quanti, a partire da Giulio Cesare, si erano impegnati nel distruggere la romana libertas, se ne sarebbe stupito e li avrebbe respinti con sdegno. La repubblica, per lui, non era se non un momento dell’unica storia imperiale di Roma; e se gli uccisori di Cesare avevano meritato di patire l’eterno supplizio nella bocca stessa di Lucifero, a Costantino era riservato un seggio in Paradiso, nel cielo abitato dagli spiriti giusti. Per Dante l’Impero restava uno perché così, si può dire, era obbligato a pensare chi teneva per fermo che, come espressione o documento della volontà divina, non potesse non essere conforme alla sua necessaria unità. Eppure se non era riuscito a scinderlo, Costantino era stato presentato, alla fine del secondo libro della Monarchia, come il suo infirmator. Dalle fonti che leggeva, e dalle quali apprendeva il carattere di quel momento della
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storia di Roma, risultava infatti che, donando alla Chiesa romana la sede imperiale e il relativo patrimonio, Costantino aveva compiuto un gesto che all’unità aveva inferto un colpo non lieve, ribadito (ma su questo Dante taceva) dalla sua decisione di andarsene sul Bosforo, in Oriente. Come leggeva nel Tresor di Brunetto Latini, Costantino «tint l’empire de Grece, qu’il ne sousmit mie as apostoilles selonc ce que il fist cel de Rome».19 Ma a una differenza, come questa che ser Brunetto aveva stabilita fra la parte occidentale e quella orientale, Dante tuttavia non accennò in nessun modo. Di un Impero d’Occidente governato dai papi, e di uno d’Oriente retto dagli imperatori non parlò mai. Non ritenne che la violazione del diritto che era stata messa in atto da Costantino con la donazione di quel che non poteva donare, dovesse e potesse essere riconosciuta e accettata; e nemmeno che costituisse un fatto che doveva essere riconosciuto e accetatto perché non se ne poteva prescindere. E c’è di più. Se nella Monarchia con forza era segnato l’abuso che Costantino aveva compiuto nel donare al papa la città e il patrimonio di Roma, deve ribadirsi, e ci si dovrà ritornare, che nel sesto del Paradiso alla Donazione Dante non dedicò nemmeno una parola, la ignorò.20 Non risale infatti a questa, o a questa non è connessa, la decisione dell’aquila di volare da Occidente a Oriente. Resta fermo che l’idea che Dante potè avere dell’indebolimento dell’Impero si presenta con diversi caratteri, con uno nel secondo e nel terzo libro della Monarchia, con un altro nel sesto del Paradiso. Se nel trattato latino Costantino è infirmator Imperii, e autore, quindi, di conseguenze non positive per la sua unità, nel sesto del Paradiso, nel quale di lui non ricorre che il nome, l’indebolimento della pars occidentalis si ricava, forse, dal silenzio che Dante mantenne su quel che vi accadde nel tempo seguito alla nascita di Cristo, ossia dopo Augusto e Tiberio. Fra le due posizioni la differenza è comunque innegabile. In Monarchia II xi 8 a colpire è infatti l’esclamazione «si vel nunquam infirmator ille Imperii tui natus fuisset». L’esclamazione colpisce, non solo perché la ragione che la fece insorgere stia nella convinzione della felicità che al genere umano sarebbe derivata se quella nascita non avesse avuto luogo, ma per il difetto che implicitamente indicava nell’atto della volontà divina che, essendo riconoscibile alla radice di quella nascita, ne rifletteva su di sé la negatività. Grave, senza dubbio, era quel che di qui derivava, e che anche nel Paradiso ebbe un riscontro.21 Il riconoscimento, dato alla pia intentio di Costantino, implicava che essa era tale nell’atto, tuttavia, in cui pur doveva convivere con il pessimo risultato che ne era scaturito e che, per sé stesso, non poteva esserne cancellato; e restava un risultato pessi-
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mo che, se la mente avesse preso a scavarvi dentro, gravi conseguenze ne sarebbero derivate in relazione all’idea dell’unità dell’Impero e alla questione concernente l’inefficacia giuridica di ogni assegnazione che si fosse fatta di una sua parte a un diverso potere. Nella sua idea, l’unità dell’Impero restava intatta, perché a nessuno era concesso il diritto di alienarne una parte a vantaggio di un diverso potere. Ma anche il vulnus restava, e niente poteva fare che non si fosse prodotto. 4. Fra la rappresentazione che Dante dette di Costantino nel sesto del Paradiso e quella che emerge dai capitoli del secondo e soprattutto del terzo libro della Monarchia la differenza è determinata, non da concetti, come se, sul medesimo tema, si dicessero, nell’una e nell’altra sede, cose diverse, ma, lo si è visto, dalla diversità degli angoli visuali. Nel trattato predominava la quaestio della Donazione, e l’unità dell’Impero, che ne era stata, non solo infirmata, ma scissa, era riaffermata per il tramite dell’idea relativa alla illegittimità dell’atto compiuto, da Costantino nel donare, e dal pontefice nel ricevere. Poiché usurpatio iuris non facit ius, l’Impero non ne era stato vulnerato, era restato, e restava, intatto. Il che, sia detto fra parentesi, determinava la singolare dissimetria per la quale ciò che, in relazione al diritto, permaneva unito, poteva stare come «distrutto» nell’empirica realtà. Resta, comunque, che, nel sesto del Paradiso, dove alla Donazione non si accennava, l’unità dell’Impero era garantita proprio dal volo dell’aquila che, dovunque fosse diretto, era ragione, non di divisioni, ma di unità. Per questo, si ripete, nel canto in cui sono narrate le imprese dell’aquila, senza che del suo volo verso Oriente si desse una spiegazione che non fosse quella che si ricava dal suo essere «uccel di Dio» e garanzia, quindi, di razionalità e di unità, ogni riserva che altrove fosse stata espressa a proposito di Costantino e della sua Donazione fu, non ritrattata, ma omessa. Al timore che gravi conseguenze potessero derivarne per l’unità dell’Impero non fu concesso spazio. La Donazione aveva indebolito l’Impero e corrotto la Chiesa, rendendo opaca la luce del suo sole. Ma la necessità e la realtà dell’Impero erano scritte nelle cose. Scritta nelle cose era la sua unità. Non c’era perciò forza ostile che, alla fine, non dovesse cedere a essa. Per questo, nel cruciale capitolo decimo del terzo libro della Monarchia, la Donazione fu insieme drammatizzata e, nello stesso tempo, depotenziata nelle sue possibili conseguenze. Fu drammatizzata perché costituiva pur sempre una grave minaccia diretta contro l’unità dell’Impero, che da essa era stata comunque ferito. Ma, nello stesso tempo, fu depotenziata perché, senza
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saperlo, il suo autore aveva agito in senso contrario a quel che il diritto, che è opera di Dio, prevedeva, e cioè che «Imperii auctoritate fungenti scindere Imperium non licet».22 È l’argomento a cui Dante conferì il massimo rilievo nel decimo capitolo del terzo libro del trattato politico, nel quale gli argomenti addotti dai fautori della validità giuridica della Donazione costantiniana furono puntigliosamente confutati. Non è questa la sede in cui si possa considerarli tutti nell’unità concettuale che ne è costituita. Ma c’è, tuttavia, un tema che, emergendone, si presenta nella forma di una questione, che merita di essere indagata e che, per esserlo, richiede che il testo in cui i suoi termini sono contenuti sia, innanzitutto, letto nella sua interezza. È il passo, III x 3-7, nel quale, «positis et solutis […] argumentis que radices in divinis eloquiis habere videbantur, restant nunc illa ponenda et solenda que in gestis humanis et ratione humana radicantur», Dante proseguì così: Ex quibus primum est quod premictitur, quod sic sillogizant: ‘ea que sunt Ecclesie nemo de iure habere potest nisi ab Ecclesia’ – et hoc conceditur – ‘romanum regimen est Ecclesie: ergo ipsum nemo habere potest de iure nisi ab Ecclesia’; et minorem probant per ea que de Constantino superius tacta sunt. Hanc ergo minorem interimo et, cum probant, dico quod sua probatio nulla est, quia Constantinus alienare non poterat Imperii dignitatem, nec Ecclesia recipere. Et cum pertinaciter instant, quod dico sic ostendi potest: nemini licet ea facere per offitium sibi deputatum que sunt contra illud offitium: quia sic idem, in quantum idem, esset contrarium sibi ipsi: quod est impossibile; sed contra offitium deputatum Imperatori est scindere Imperium, cum offitium eius sit humanum genus uni velle e uni nolle tenere subiectum, ut in primo huius de facili videri potest: ergo scindere Imperium Imperatori non licet. Si ergo alique dignitates per Constantinum essent alienate – ut dicunt – ab Imperio, et cessissent in potestatem Ecclesie, scissa esset tunica inconsutilis, quam scindere ausi non sunt etiam qui Christum verum Deum lancea perforarunt.23
A fini puramente esegetici, e senza perciò entrare nella disputa sillogistica, si può concedere che Dante avesse ragione, e i suoi avversari, invece, torto, nel sostenere, rispettivamente, che l’unità dell’Impero non potesse, e invece potesse, essere divisa. Ma quel che interessa è il senso che deve attribuirsi alla sua intangibilità e unità, che l’Imperatore era tenuto a proteggere e a non infrangere, il suo compito non essendo se non questo: ossia di tutelarla e rispettarla. La questione era tuttavia se l’unità e intangibilità dell’Impero fossero garantite e tutelate dal diritto che recisamente esclu-
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deva che potesse procedersi in senso contrario alla tutela e al rispetto, o se potesse accadere che, contro la sua parola e il suo divieto, nella realtà le cose si disponessero in altro modo, l’unità fosse divisa e l’intangibiltà, non rispettata, ma calpestata. In altri termini, la questione era se quel che il diritto dichiarava unito, intangibile e non trasferibile a altri, fosse tale, oltre che nelle sue parole, e nell’idea che le ispirava, anche nella rispondenza che esse trovavano nelle cose, che a quelle avrebbero dovuto essere conformi. Il diritto vietava che l’imperatore dividesse quel che, secondo la sua norma, doveva restare unito. Ma, sia pure in buona fede e con le migliori intenzioni, nel fatto Costantino aveva diviso quel che doveva restare unito; per quanto era delle cose hinc et nunc determinate, la parola del diritto non era bastata a restituire, a ciò che in esse appariva diviso, l’unità, e prima ancora, a conservarla. L’Impero rimaneva unito nella parola della legge, che è parola di Dio. Ma nelle cose l’unità era diventata divisione. Dante poteva essere convinto che, se la quesione fosse stata considerata dal punto di vista della provvidenza, alla separazione, che era intervenuta nell’unità, sarebbe stato posto rimedio, e quella, l’unità, sarebbe ritornata a risplendere, perché questa era la profonda volontà di Dio, alla quale i tempi avrebbero alla fine obbedito. E diceva, in effetti, qualcosa di più, e di assai più radicale: diceva che, se nelle cose si fosse guardato in profondità, si sarebbe visto che l’unità non era stata infranta e, al contrario, si era mantenuta intatta. Se le dignità imperiali fossero passate sotto la giurisdizione della Chiesa, sarebbe accaduto qualcosa di simile a un’offesa recata alla tunica inconsutilis, che neppure coloro che avevano colpito con la lancia il corpo di Cristo avevano avuto l’ardire di e erano riusciti a lacerare. Che fosse lacerata, infatti, era impossibile. Era impossibile che un simile evento avesse luogo e che, alla resa dei conti, il diritto valesse meno del fatto e ne fosse infranto. A questa convinzione, che gli stava dentro, e ispirava la sua polemica, la replica tuttavia era data da quel che pur accadeva nelle cose e, nei fatti, la contrastava. Da un lato, l’inviolabilità del diritto. Da un altro, l’offesa che le cose erano tuttavia in grado di arrecargli. Intonato a questi due diversi concetti, legato a queste due diverse prospettive, il pensiero che Dante esponeva non poteva non risentire del conflitto che esse ponevano in essere e che perciò gli stava dentro. Con l’ambivalenza a cui dava luogo, questa doppia voce non riusciva a persuasivamente recuperare l’unità. Poteva infatti accadere che, nella contingenza dei tempi, il procedere della ragione provvidenziale restasse nascosto, che altro apparisse in primo piano e che soltanto in un tempo di là da venire il conflitto trovasse
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la sua soluzione e l’unità tornasse a risplendere di piena luce. Se i soldati romani non avevano avuto il coraggio di lacerare la tunica in cui era stato avvolto il corpo del Cristo morto, senza ben sapere che cosa stesse facendo e a quali disastri stesse dando l’avvio, Costantino sì che ebbe questo coraggio, e la tunica inconsutilis, che valeva, in questo caso, come la sacra unità dell’Impero, fu lacerata. Da una parte, stava perciò il diritto, con il suo non ascoltato divieto. Da un’altra, un’azione che, senza saperlo, disubbidiva al suo comando. Se è così, l’unica risposta che, per porre rimedio alla lacerazione, si sarebbe dovuta dare alla questione che nasceva dalla non coincidenza del diritto e della realtà, era che c’era realtà e realtà, e che la ragione del dissidio era sepolta nelle profondità del giudizio di Dio che, solo alla fine, si sarebbe rivelato per quel che era. Nel divario che si apriva fra queste due opposte situazioni era possibile scoprire la ragione che, confermando l’opposizione, indicava la possibile convergenza. Ma, in quelle pagine della Monarchia, al procedere, insieme razionale e misterioso, della provvidenza Dante non avvertì di dover dare rilievo, anche se si guardò bene dal sostenere che la ragione e la volontà di Dio fossero destinate a non trovare nei comportamenti umani il necessario riscontro. Non c’è infatti comportamento umano che, nel suo empirico deviare dalla linea della provvidenza, non vi sia, se lo si consideri nella profondità del consiglio divino, ricompreso e non ne costituisca un aspetto. La provvidenza, che era stata la protagonista indiscussa, e il concetto direttivo dell’indagine concernente la nascita dell’Impero romano, qui era come se si fosse ritirata; e che non fosse il suo criterio a determinare il corso delle cose. Ma chi legga senza perdere di vista quel che, nella sua idea, è essenziale e irrinunziabile, non dirà tuttavia mai che, nell’agire come agì, Costantino era venuto meno al volere di Dio. Dovrà dire che la storia era andata oltre le sue intenzioni, e che provvidenza e storia tuttavia coincidevano. 5. Nel sesto del Paradiso Dante non ripeté su Costantino quel che aveva affermato nella Monarchia e in altre parti del poema e anche, come si vedrà, nella stessa terza cantica. Come già si è notato, della sua Donazione, in quel canto, fece che Giustiniano tacesse e di lui, che ne era stato l’autore, non disse se non che aveva volto «l’aguglia […] contro al corso del ciel». La preoccupazione che Dante gli attribuì era infatti che, fin dall’inizio, risultasse chiaro che la sua intenzione era, non di definire la sua politica come l’opposto di quella costantiniana, ma di presentare sé stesso come colui che, divenuto Imperatore, si era convertito alla tesi contraria a
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quella dei monofisiti,24 prima da lui condivisa, e della gratitudine che per questo doveva a Agapito. A proposito della questione se una, o duplice, e cioè umana e divina, fosse stata la natura del Cristo, quel pontefice l’aveva indirizzato sul sentiero della verità, persuadendolo del suo precedente errore. Il che, e occorre dirlo con chiarezza, non significava che, per aver collaborato con l’imperatore e averlo avviato sul giusto sentiero, in quel tempo due fossero stati i soli, e l’uno avesse, per dir così, rispettata la luce dell’altro. La verità che Agapito gli aveva insegnata riguardava, non questa dottrina, bensì l’altra che s’è detta e alla quale Giustiniano riconobbe a sé stesso il merito di aver creduto e di averla condivisa. «Io li credetti; e ciò che ’n sua fede era,/ vegg’io or chiaro sì, come tu vedi/ ogni contradizione e falsa e vera» (vv. 19-21).25 La verità della dottrina che Agapito gli aveva insegnata gli appariva ora altrettanto chiara della falsità di quella che le si contrapponeva. E il vantaggio che, per averla allora riconosciuta vera, ne aveva ricavato fu di esser stato messo da Dio nella condizione di esserne ispirato a compiere «l’alto lavoro», la celebre riforma dei codici, al quale, da quel momento in poi, avrebbe dedicata ogni sua energia, affidando a Belisario la cura delle armi e delle operazioni militari e liberandosi, in certo senso, della relativa responsabilità. Si è discusso se nei versi riferiti a Belisario, e alle missioni militari che Giustiniano gli aveva affidate, sia, nel fondo, presente e percepibile il desiderio di far ammenda della persecuzione a cui il generale era stato sottoposto in seguito a operazioni da lui non condotte a felice esito, e se di tali persecuzioni Dante avesse notizia. In realtà, vedere nei pochi versi che gli sono dedicati, e che non dicono se non della cura a lui affidata delle cose militari, il segno dell’esigenza, che sarebbe stata in Dante, di porre rimedio a una punizione ingiustamente inflitta, è impossibile. Di tale volontà non c’è, nei versi del sesto canto, alcuna traccia, o perché Dante si trovasse a ignorare quel che avrebbe potuto apprendere da altre fonti,26 e non apprese, o perché, pur essendone a conoscenza, non ritenesse che, nell’economia del canto, a quel particolare convenisse dare rilievo. Dai versi dedicati all’incarico conferito a Belisario non si ricava se non il desiderio che Giustiniano ebbe di liberarsi di tutto ciò che poteva contribuire a distrarlo dall’impresa dei codici; e il favore che i cieli accordarono al suo generale fu, infatti, da lui interpretato come «segno […] ch’i’ dovessi posarmi» (v. 27). Di qui, per altro, non si desume che, mentre, a Bisanzio, Giustiniano attendeva alla riforma dei codici, l’invio di Belisario in Africa e in Italia significasse che l’aquila aveva di nuovo invertito il suo corso; e nemmeno
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che con il generale anche l’Imperatore fosse idealmente tornato in Occidente, e nelle sue imprese Dante avesse visto e indicato il proposito, non solo di riconquistare l’Italia,27 ma, addirittura, di porre rimedio all’infausta Donazione e alle sue conseguenze. Il generale non era l’imperatore, e del resto, niente c’è, nel sesto canto, che alluda all’intento di una riconquista delle terre perdute. L’aquila aveva volato da Occidente a Oriente. Di un suo ritorno a Occidente, e dell’intento quindi di restituire a Roma l’intero dominio su quella pars niente si diceva. È duro, per certi studiosi, e lo sarà stato anche per il poeta, dover ammettere che, lungi dall’aver ricevuto la sua condanna, il trasferimento dell’Impero in Oriente era da considerarsi legittimo (le «sacre penne»). Ma, ammetterlo è inevitabile. Com’era simbolo dell’Impero d’Occidente, altrettanto l’aquila lo era di quello d’Oriente: in entrambi i casi nel segno di Dio. E l’Impero restava uno, anche se collocato in due opposte parti del mondo, o della regione mediterranea, e anche, se quella in cui era nato era in una situazione non felice. Bisanzio era la nuova Roma, che in quella città del Bosforo seguitava a essere viva. Il che non toglie, e lo si vedrà, che nel suo discorso Giustiniano parlasse a lungo, anche se con molte lacune, di quel che era accaduto in Occidente, e pochissimo di quel che era accaduto durante il suo stesso regno. Come si è visto, affidata a Belisario la cura delle armi, a sé stesso aveva riservata la grande impresa della riforma dei codici, e, dopo aver dichiarata la sua fedeltà alla Chiesa, sulle sue imprese altro non aveva aggiunto. Si direbbe che a Giustiniano Dante avesse data, malgrado tutto, un’anima occidentale. 6. Proviamo a riepilogare. Nel definire il volo dell’aquila contrario al «corso del ciel», Dante aveva evitato, in questo canto del Paradiso, ogni accenno che alludesse alla quaestio della Donazione, della quale aveva indicato, nel decimonono dell’Inferno, il male che ne era derivato alla Chiesa e all’umanità. A proposito del silenzio che al riguardo aveva mantenuto si può ribadire che non fu osservato senza consapevolezza del problema che altrimenti ne sarebbe scaturito e degli argomenti che si sarebbero resi necessari per far andare d’accordo il volo provvidenziale dell’aquila verso Oriente e la decisione costantiniana di donare alla Chiesa «Imperii sedem, scilicet Romam, […] cum multis aliis Imperii dignitatibus».28 In che modo nella sua coscienza Dante dibattesse il relativo problema, e quale soluzione avesse indicata a sé stesso della questione relativa al contrasto che nelle cose si era determinato fra il danno prodotto a esse dalla Donazione e la nascosta ragione provvidenziale del suo essere accaduta, tanto meno è
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dato sapere quanto più resti incerto se la questione fosse da lui stata avvertita come una questione, che dovesse perciò essere risolta. A giudicare da questo luogo, sembra non potersi dubitare che non era stata la donazione al papa della «Imperii sedem» a rendere necessario il suo trasferimento in Oriente, ma era stata se mai la decisione di trasferirvela in attuazione della volontà divina ad aver avuto come conseguenza, fattualmente non necessaria, quell’atto di irresponsabile gratitudine per il bene che l’imperatore aveva ricevuto dal papa (si sa che, per lui, «Costantin chiese Silvestro/ d’entro Siratti a guerir dela lebbre»).29 Insomma, occorre distinguere e rendere esplicito quel che in Dante rimase implicito. Quando parlò degli effetti nefasti della Donazione, non alluse al trasferimento della sede imperiale a Oriente. Quando trattò di questa, di quella tacque. E anche su questo punto occorre che sia fatta chiarezza, che si distingua e non sussistano incertezze. Quando disse dell’aquila che s’era messa in volo andando da Occidente verso Oriente, Dante non asserì, si deve ribadirlo, che quel volo avesse significato la fine, o quanto meno il declino, dell’Impero di Occidente e che, a parte il resto, l’Italia non fosse più la sua sede. La corruzione che quel dono aveva provocata nella Chiesa e, di riflesso, nell’umanità, significava sì la crisi e l’indebolimento della pars occidentale, non però la sua fine. Meno che mai significava il fallimento del piano provvidenziale, o la sua imperfetta realizzazione, essendo per definizione impossibile che la volontà di Dio incontrasse in quella degli uomini l’impedimento alla sua piena realizzazione; che si determinava, infatti, anche attraverso quegli eventi negativi, secondo una logica che, in quel caso, fatta salva la consapevolezza del suo essere inaccessibile alla mente umana, restava pur sempre la logica di quella divina e il criterio, se così può dirsi, del suo esser tale. Non c’era perciò elemento di essa che, osservato nella giusta luce, non si rivelasse come un aspetto e un modo della sua attuazione. Nel terzo libro della Monarchia, nei luoghi in cui aveva discusso della illegittimità della Donazione e delle assai serie conseguenze che ne erano conseguite, Dante aveva dato il suo contributo argomentativo a una tesi che da tempo si era affermata in sede giuridica.30 Se non affermò in modo esplicito che «imperium semper est»,31 nel trasferimento sul Bosforo della capitale non indicò la fine di quello di Occidente; e a questa certo non si riferì Giustiniano che, dal luogo in cui si trovava, aveva descritto una storia per intero occidentale, e a quella che, da più di due secoli aveva il suo corso in Oriente non aveva fatto nessun concreto riferimento. Alla presenza dell’Impero nella parte occidentale del mondo Dante si era riferito, indirettamente, ma con
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sostanziale chiarezza, nell’argomentazione che aveva diretta contro l’idea della Donazione e della sua validità e efficacia. Poiché era impossibile che l’Imperatore donasse ad altri l’Impero occidentale, o Roma che era il suo capo,32 e altrettanto lo era che alla Chiesa fosse permesso di accogliere in dono beni temporali, di qui conseguiva che quell’atto si era rivelato privo di efficacia, e che, malgrado l’usurpazione che, se non nelle cose, certamente ne era stata fatta nell’idea, l’Impero era rimasto, presso di sé, intatto. Se è così, concluso il riepilogo, molto resta da aggiungere e da chiarire. 7. Non si sarebbe, infatti, all’altezza della difficoltà che la Donazione aveva arrecata all’idea dell’inviolabile unità dell’Impero, se non si notasse l’incertezza che, nei riguardi di Costantino e delle sue responsabilità, pur si era formata nel fondo della coscienza di Dante. Per quanto la logica intrinseca al concetto della provvidenza inducesse a considerare dirette al conseguimento del fine voluto da Dio azioni che, sul piano storico, potevano apparire, ed erano, da quello discordanti, resta che fra l’immediata realtà dei fatti e il disegno divino la differenza si imponeva, e produceva le sue conseguenze. Quando ai suoi occhi Costantino appariva come la stessa cosa dell’aquila che, da Occidente, volava verso Oriente, era ovvio che Dante non gli rivolgesse la critica che, a parte il riconoscimento delle buone intenzioni, nella Monarchia non gli risparmiava a proposito della donazione alla Chiesa della città di Roma. Non si trattava soltanto dei giudizi positivi che, leggendo le storie, egli poteva aver incontrato sull’opera di questo imperatore; che, come, per esempio, trovava scritto in Paolo Orosio, «urbem nominis sui Romanorum regnum vel primus vel solus instituit» e, quando morì, lasciò ai figli «dispositam bene rempublicam»:33giudizi che egli non poteva ignorare e che lo indussero a distinguere fra le intenzioni, buone, e i non buoni risultati. Quello che egli contemplava con gli occhi della mente era il volo dell’«uccel di Dio»: un volo, come si è detto, provvidenziale. Ma quando, invece, dalla considerazione di questa linea segnata dalla provvidenza tornava a considerare le cose per come apparivano nella loro immediata realtà, senza mai abbandonare il piano della positività, o del rispetto, di Costantino Dante svelava l’altro volto, il volto di uno che, come s’è visto, alla fine del secondo libro della Monarchia era stato definito «infirmator ille Imperii», e III x 3 e ss., come colui che, in realtà, l’aveva non tanto «infirmato», cioè indebolito, quanto, addirittura, «scisso»: il che se non «distrutto», significava tuttavia ferito nel suo centro e sconvolto. Se è così, di che cosa, dunque, e propriamente, Costantino doveva esser giudi-
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cato colpevole: di avere indebolito l’Impero, che pur così ridotto, restava uno, e anche per lui era tale, o di avere, di fatto, se non di diritto, messo fine alla sua unità che, perduta la pars occidentalis, solo in quella orientale conservava ormai il suo vigore politico? Sull’alternativa che questi due verbi delineano occorre fermarsi. Se si riuscisse a coglierne la ragione, si potrebbe forse dire di aver capito meglio i termini di una questione, che sta nel fondo e, tanto più dev’essere recata alla luce in quanto anche un’altra vi stava come nascosta. Si allude a quella relativa all’opinione che Dante ebbe, non tanto della validità giuridica della Donazione, che per lui era certamente inesistente e priva di valore, quanto piuttosto della realtà che, in ragione e in forza del diritto, doveva riconoscersi all’Impero, alla sua unità e, si può aggiungere, al suo essere in attesa di chi lo richiamasse in vita, o alla piena vita, dopo che alla sua unità erano state arrecate offese. È questo, che perciò periodicamente ritorna nel discorso, il tema più impegnativo che alla questione dell’Impero si riveli intrinseco. Messa la questione in termini di logica, non provvidenzialistica, questa volta, ma storico-politica, Costantino doveva certamente, a suo parere, essere considerato come l’autore di un grave disastro politico e morale. Ma la questione andava oltre e richiedeva di essere risolta considerando che, se dalla Donazione l’Impero aveva ricevuto un vulnus assai grave, questo non era tuttavia stato tale da ucciderlo, perché uccidere quel che era voluto da Dio non si poteva. La considerazione storica non poteva emanciparsi da quella provvidenziale al punto da sostituirla. E Dante, che considerava l’Impero voluto da Dio e di natura, quindi, divina, non poteva pensare che non fosse per sempre e che potesse, perciò, conoscere definitivi tramonti.34 Lo pensava, infatti, e lo diceva con forza. «Nam», aveva scritto nell’epistola che, datata 17 aprile 1311, aveva diretto a Arrigo VII, «etsi vim passa in angustum gubernacula sua contraxeris, undique tamen de inviolabili iure fluctus Amphitritis attingens vix ab inutili unda Oceani se circumcingi dignatur».35 Se ai suoi giorni, a causa delle violenze subite, in Occidente l’Impero era stato costretto a ridurre il suo governo in angusti spazi, il suo diritto di non conoscere limiti che non fossero costituiti dalle acque inutili dell’Oceano era indicato con forza; e a riprova, non solo aveva citato Virgilio («nascetur pulchra Troyanus origine Caesar/ imperium Oceano, famam qui terminet astris»),36 ma era ricorso all’argomento, già usato nel Convivio, IV v 3-9, e destinato a essere ripreso nella Monarchia, II xi 1-6, del censimento ordinato da Augusto per l’intero mondo e della decisione di Cristo di farsi uomo in quel tempo in modo da riconoscere la legittimità del potere a cui si sottoponeva: «non
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enim suasisset iniustum, quem ‘omnem iustitiam implere’ decebat».37 Per questo, e non solo perché, nel compiere l’atto della donazione, fosse stato guidato da buone intenzioni, Costantino fu da lui collocato in Paradiso, fra i giusti. Avrebbe dovuto stare con Bruto e Cassio nella bocca di Lucifero se avesse attentato all’unità dell’Impero e, di proposito, l’avesse fatto oggetto di violenza. Anche per questo, e lo si dica di scorcio, in una rapida battuta, il danno che la sua donazione aveva provocato al genere umano non era stato della stessa natura di quello che a esso era stato inferto dalla trasgressione di cui si erano resi responsabili i progenitori dell’humanum genus. Per porre rimedio al danno prodotto dall’incauta generosità di Costantino non occorreva che Cristo morisse per la seconda volta sulla Croce.38 Bastava, come si legge (parole di san Pietro) in Paradiso XXVII 61-63, che, rigenerato dalla volontà di Dio, l’Impero avesse ritrovata la sua unità, al diritto avesse di nuovo fatto riscontro il fatto e l’unità fosse ristabilita, su entrambi i piani. Ma, per evitare ogni equivoco, la questione se l’inviolabilità del diritto implicasse la sua inalterabile presenza nella realtà, tanto più dev’essere tenuta presente quanto meno, nelle parole di Dante, la chiarezza, al riguardo, fosse stata raggiunta. 8. Si può, a questo punto, tornare a Giustiniano. Poiché, al riguardo, Dante aveva proceduto con estrema velocità e sull’incerto fondamento delle fonti storiche a lui note, tanto più converrà restare aderenti al contesto e, insistendo sul punto fondamentale, osservare che Giustiniano fu da lui presentato come quello sulla cui mano l’aquila imperiale si era posata dopo che da «cento e più anni» la sua sede si trovava «nelo stremo d’Europa» dove «sotto l’ombra dele sacre penne», aveva governato il mondo. È notevole, e converrà rilevarlo, che, nel presentare un imperatore romano che da tempo aveva ormai la sua sede a Bisanzio, Dante non mostrasse, o forse mettesse un particolare studio nel non mostrare, alcuna particolare emozione per la lontananza in cui quello si trovava da Roma. Come si è visto, il viaggio dell’aquila da Occidente a Oriente non significava per lui che, nel luogo in cui era nato, l’Impero fosse morto: che avesse subito violenza e avesse ristretto i suoi gubernacula sì, che fosse morto no. Notevole, quindi, è che non sentisse di dover spendere una sola parola a commento e giustificazione di cose che, per l’Occidente, non significavano certo una vittoria. Per problemi che il trasferimento della capitale a Oriente gli ponesse, ai suoi occhi l’Impero restava uno, e quel trasferimento doveva pur sempre essere visto da lui che, fin dai tempi del Convivio, aveva mostrato
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di saper maneggiare con maestria il concetto cristiano della provvidenza, come un momento necessario del corso che questa aveva impresso alle cose del mondo. Il senso complessivo del discorso di Giustiniano non stava, perché che vi stesse era impossibile, nel compianto per l’Impero perduto: era, al contrario, e almeno nelle intenzioni, nella consapevolezza della sua continuità e invincibilità. Se aveva subito sconfitte, ma né a queste si accennava né, come aveva scritto nell’epistola a Arrigo VII, al suo essersi contratto in angustum, era rimasto vivo nel fondo delle cose. Era come una trama che gli eventi nascondevano, ma non distruggevano: come si vide quando Carlo Magno corse in aiuto della Chiesa minacciata dai Longobardi, e la salvò. Deve perciò ribadirsi, perché è un punto di capitale importanza, che la vicenda della divisione in due dell’Impero, e quella, soprattutto, del trasferimento della capitale da Roma a Bisanzio, non erano per lui, che non era disposto a introdurre ingiustificabili eccezioni nel processo di realizzazione del piano provvidenziale, se non momenti di questo, non giudicabili al di fuori della sua luce e della continuità che ne era illuminata: momenti che a torto si definirebbero minori, e segnati da insuperabile negatività. Nella logica paradossale della provvidenza, la distinzione del positivo e del negativo non ha luogo, perché tutto, nella mente onniveggente di Dio, concorre al fine, e, in sé negativi perché segnati da violenza, i colpi del martello39 non sono tali nella prospettiva del fine che, per sua decisione, le cose umane di volta in volta conseguono. Se perciò si considera il modo che Dante tenne nel presentare la sua idea della provvidenza, e nello svolgimento che le impresse nel Convivio, nella Monarchia, nella stessa Commedia, s’incontra difficoltà a pensare che all’interno di quella, senza coincidervi e esserne compenetrati, potessero darsi elementi di contrasto, opposizioni e ritardi. Certo, l’inversione che l’aquila aveva fatto del suo volo poteva aver suscitato in Dante uno sconcerto tanto maggiore in quanto alla sua origine, a parte la donazione che Costantino aveva fatto del patrimonio romano alla Chiesa e che qui, per altro, non era ricordata, stavano eventi dai quali l’Occidente politico era stato ferito e indebolito. Certo, a chi con il suo criterio si disponeva a pensare gli eventi della storia, l’idea della provvidenza poneva, o poteva porre, difficoltà assai crude, generando dissidi che, sul piano dei fatti, non trovavano soluzione. La Donazione di Costantino era avvenuta per il bene dell’umanità, e, pur nella sua negatività, era comunque un momento necessario dello svolgimento storico governato da Dio? Ma, come al pensatore cristiano l’idea della provvidenza imponeva di non indietreggiare di fronte ai paradossi ai quali lo metteva
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di fronte, così poteva accadere che essa concedesse segni positivi, o anche soltanto simbolici, della sua più profonda razionalità. Giunta alla fine del volo che aveva eseguito «contr’al corso del ciel», l’aquila aveva infatti posato i suoi artigli nel luogo da cui Enea era partito per compiere, da Oriente a Occidente, il percorso che essa aveva poi seguito nella direzione inversa. È questo, nel racconto, un punto che merita di essere considerato con attenzione. Non è infatti senza significato che il luogo a cui l’aquila era pervenuta con il suo volo fosse proprio quello da cui Enea era partito nella direzione dei «lavinia litora». Che il punto fosse lo stesso, e l’arrivo rievocasse la partenza, stava a significare che le due direzioni erano sì due, che due, opposti l’uno all’altro, erano i luoghi, rispettivamente, della partenza e dell’arrivo. Restava, tuttavia, che in comune avevano quel punto che, essendo stato di partenza, ora era di arrivo, e in questo duplice e convergente carattere, mostrava il suo tratto provvidenziale. L’Oriente aveva cercato l’Occidente. Per raggiungerlo, era venuto meno a sé stesso: proprio come ora accadeva all’Occidente che, nel farsi Oriente e perdervisi, aveva ritrovato, tuttavia, il punto originario in cui i due diversi e opposti percorsi avevano avuto il loro inizio. Era la provvidenza, in effetti, che, svolgendo la sua propria logica, faceva sì che gli opposti riconvergessero e si ritrovassero nello stesso punto, e lì, a vicenda, si legittimassero nel rivelare, l’uno all’altro, la comune radice. Era perciò nella provvidenza, e nella sua logica a tratti aspra e paradossale, che doveva cercarsi la ragione per la quale, giudizi negativi e polemici che, non una volta sola Dante ebbe a pronunziare nella Commedia su Costantino, non furono ripetuti nel sesto del Paradiso, nel quale, se mai accennarono a emergere e a affermarsi, subito furono ricacciati indietro. Sarebbe stato, in effetti, un compito ingrato, e difficile comunque da eseguire all’interno di un canto che non poteva andare oltre la sua misura, spiegare che eventi dolorosi e persino perversi acquistavano, nelle profondità della storia governata da Dio, un significato diverso, e forse persino opposto, a quello che si rivelava nella contingenza dei tempi. Certo, si potrebbe obiettare che l’osservazione relativa all’identità del punto in cui l’aquila era approdata e da cui era partita per il suo primo viaggio, appartiene all’esegesi, non al testo. È un’osservazione che si presenta affetta da meschinità. E sia pure. La segnalazione dell’identità ha tuttavia lo scopo non di aggiungerle quel che le è estraneo, ma di ricavarne e mettere in evidenza quel che al più alto grado appartiene alla sua logica. Sia nell’una, sia nell’altra direzione, il volo dell’aquila segnava la via che la
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provvidenza aveva indicata alle cose umane, che necessariamente, quindi, erano tenute a seguirla, rivelando ex post quel che al presente rimaneva oscuro: come Dante aveva spiegato già nel Convivio, e non si sarebbe dovuto dimenticarlo, quando aveva osservato che non era stata la forza a conquistare ai Romani l’Impero, perché quella non era che la causa strumentale, alla cui radice doveva sapersi scorgere la mano divina che se ne serviva per realizzare i suoi scopi: sì che non dalla forza l’Impero di Roma era nato, ma dalla giustizia e dalla pietà di Dio. Così nel Convivio.40 E nella Monarchia, II v 5: «unde recte illud scriptum est: ‘Romanum Imperium de Fonte nascitur pietatis’».41 9. È in questa prospettiva, e alla luce di queste considerazioni, che deve tornarsi sulla discrasia che, senza dubbio, sussiste tra un evento che, come il trasferimento che Costantino fece della sede imperiale da Roma a Bisanzio, non poteva essere segnato di negatività (era l’uccello di Dio, infatti, che l’aveva realizzato), e la famigerata Donazione al pontefice della città di Roma, che, considerata in sé stessa, di quella, della negatività, non poteva non riflettere su di sé il carattere e essere un simbolo. Fra il trasferimento della sede imperiale e la Donazione non si dava, nel pensiero di Dante, un rapporto causale, né nel senso che causa della seconda fosse stato il primo, né in quello che causa del primo fosse stata la seconda. Si trattava di due eventi contigui ma indipendenti, e da giudicare perciò distintamente. Due eventi che, tuttavia, dovevano essere inseriti entrambi nel quadro provvidenziale della storia, o, se si preferisce, nella mente di Dio che, in quanto tale, era in grado di contenerli senza fare in modo che, poiché dipendevano dal suo volere, l’uno fosse causa e l’altro conseguenza. Se, al contrario, prendendoli al di fuori di quel nesso, li si fosse disposti, e li si disponesse, sul piano del semplice accadere, era inevitabile che nella Donazione si vedesse la causa degli effetti disastrosi che ne erano derivati alla vita dell’umanità. Non si sarebbe perciò potuto coglierne il significato nel contesto provvidenziale se non si fosse tenuto fermo nella mente che il trasferimento dell’Impero da Roma a Bisanzio aveva la sua ragione nel volo stesso dell’aquila, simbolo evidente del volere di Dio. Era stato perciò un atto della sua provvidenza, sì che sarebbe stata vana arroganza umana la pretesa che, in quell’occasione, le cose fossero andate in modo difforme dalla sua volontà e opposto al suo verdetto. La Donazione di Costantino era stata causa, si ripete, di pessime conseguenze. Ma, fra queste, non poteva essere contato il trasferimento in Oriente della sede imperiale. Nel volare
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verso Bisanzio l’aquila non aveva perse le sue «penne», le aveva conservate. Era pur sempre lo stesso uccello che, molti secoli prima, partendo dalla Troade, aveva volato nella direzione dei «lavinia litora»: nel suo simbolo si riassumevano perciò, e prendevano il loro senso, l’origine, l’unità e la continuità della storia di Roma. Nessun contrasto, dunque, sarebbe insorto e si sarebbe potuto sorprendere fra il giudizio negativo formulato su determinati atti compiuti da quell’imperatore e la necessità rinvenuta nella sua decisione di trasferire in Oriente la sede imperiale, se l’occhio avesse seguito la direzione del profondo. Non fu soltanto perché le intenzioni, buone, contrastavano con i risultati, pessimi e, al di là di questi, si conservavano intatte, che a Costantino Dante aveva trovato un posto in Paradiso. Era stata l’aquila a determinare il trasferimento in Oriente della sede imperiale, – l’aquila, e cioè l’«uccel di Dio», il simbolo vivente del suo volere profondo, al quale, da cristiano, Dante non poteva non credere persino al di là di quel che, come uomo, gli era dato di capire. Non si va lontani dal vero se si immagina che lo studio che, nel sesto canto del Paradiso, egli mise nel non nominare la Donazione di Costantino, che pure non poteva non incombere sulla sua mente, sia da mettere in relazione con l’estrema difficoltà che, ferma in lui l’idea della sua negatività e non meno ferma quella della destinazione provvidenziale degli eventi, egli incontrava a metterle d’accordo. Se si rimane sul piano dell’accadere storico, e non lo si trascende in un significato ulteriore, il ricorso alla logica provvidenzialistica può essere, non di aiuto, ma di ostacolo a chi pure, da storico, si trovi di fronte a fatti e a eventi segnati da una negatività che, di per sé stessa, non indica la via della sua trasformazione in positività. In realtà, Dante sapeva benissimo che ricordare l’evento della Donazione avrebbe significato porre la logica umana, che richiedeva la condanna, a un duro cimento con quella divina, che esigeva un tutt’altro atteggiamento e, per il rispetto dovuto alla provvidenza e al suo criterio, doveva essere disposta ad accettare ciò che in termini storici e politici non poteva esserlo senza grandi e aspre difficoltà. Non era dunque per mancanza di coraggio, o perché a sé stesso intendesse nascondere la difficoltà e non volesse affrontarla, se, del volo che l’aquila aveva intrapreso in senso inverso a quello che dall’Oriente l’aveva condotta ad lavinia litora, Dante si astenne dal pronunziare la condanna. Era bensì per la diversa ragione che, nella sua mente, erano presenti sia le ragioni della provvidenza sia quelle del giudizio storico-politico, che alle prime erano, e comunque dovevano essere, subordinate. Nella sede solenne in cui si trovava, contemplando il
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volo dell’«uccel di Dio», era ovvio che il giudizio umano, e nutrito di umane ragioni, cedesse di fronte all’altro, che esibiva le sue, ma non le rivelava e non le spiegava, non potendo tuttavia non essere accettate da chi, come Dante, nella logica della provvidenza divina credeva senza alcuna riserva, e delle ragioni dell’Impero, che erano in Dio,42 non si stancava di farsi difensore nei confronti dell’incomprensione dei più, ghibellina o guelfa che ne fosse l’origine. Si aggiunga ancora una volta, e la ripetizione sia giustificata dall’importanza della cosa, che, fra la decisione provvidenziale che la capitale dell’Impero fosse trasferita in Oriente e la donazione che Costantino aveva fatta di Roma al pontefice, il nesso non era quello che alla causa lega l’effetto. I due atti, si è già detto, si presentavano contigui, ma non connessi in un rapporto causale: sì che, ferma restando la consapevolezza del significato provvidenziale intrinseco al trasferimento della capitale, era sulla Donazione, e non sulla direzione che l’aquila aveva intrapresa nel suo volo, che poteva cadere il severo giudizio di Dante, come se fra i due atti non vi fosse alcuna relazione. Il trasferimento della capitale in Oriente significava che la sede di quella poteva mutare, ma che l’Impero restava uno. La Donazione costantiniana aveva invece corrotto la Chiesa; e solo indirettamente faceva sentire i suoi effetti sull’Impero. Rimuoverla avrebbe significato, non la conferma della sua unità, che non era mai stata in discussione, ma, questo sì, la rivendicazione della sua più pura essenza. 10. È tuttavia innegabile che, nel suo animo persistendo la riprovazione del suo gesto considerato, non nelle buone intenzioni, ma nei pessimi risultati che ne erano derivati, nei versi che nel ventesimo canto Dante aveva dedicati a Costantino permanesse una perplessità, qualcosa di non risolto. In quel canto, di fronte al grande Imperatore assurto alla gloria dei cieli, Dante non ebbe dubbi, o mostrò di non averne. L’accettazione del fatto di fronte al quale era venuto a trovarsi importava, o che la sua spiegazione fosse rinviata senz’altro all’insondabile giudizio divino, o che l’accento fosse fatto cadere sulla «buona intenzion che fe’ mal frutto». Importava altresì che il male che ne era derivato (il suo essersi fatto «greco» per «cedere al pastor») fosse bensì messo in relazione alla buona intenzione, ma da questa non cancellato nelle non buone conseguenze che ne erano derivate: non a lui, per altro, che dalle buone intenzioni era stato salvato e assunto in Paradiso, ma al genere umano: «ora conosce come il mal dedutto/ dal suo bene operar non gli è nocivo/ avvegna che sia ’l mondo distrutto».43 Non sono versi che offrano problemi di interpretazione. Non potrebbero, in
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effetti, essere più semplici e diretti. Ma c’è un tratto, in essi, che, risultando meno limpido di quel che l’acqua del giudizio dovrebbe essere, non risolve la perplessità che, infatti, ne nasce. L’intenzione provvidenziale vi fu affermata, nelle sue ragioni, con tanta più forza quanto meno queste avessero avuto il loro riscontro in ciò che ne era conseguito: le intenzioni erano state buone, ma il mondo ne era stato «distrutto». A leggerli con attenzione prospettandoli nella situazione paradisiaca della quale Costantino era ormai parte per l’eternità, è innegabile che questi versi rivelino qualcosa che non torna, una convinzione affermata perché non si poteva altrimenti, ma sostenuta, tuttavia, non senza perplessità. Vi si coglie un abbassamento, che implicava incomprensione, della logica provvidenziale alla misura del giudizio umano, che per sé stesso è incapace di vedere, nella causa strumentale, la causa finale che va oltre e conferisce il vero significato all’altra che pure è necessaria alla sua realizzazione. In effetti, quando ebbe di fronte il personaggio che si trovava nel sesto cielo, ossia nel cielo di Giove, Dante non riuscì a ritrarlo come fino in fondo conforme alla sua situazione di anima del Paradiso. A differenza di ogni altro beato, Costantino non appare, infatti, per intero risolto nella gloria dei cieli. Non ha, per metterlo a un confronto inconsueto, la serena, e quasi allegra, consapevolezza di sé, del personaggio che a Dante si presentò dicendo:«Cunizza fu’ chiamata, e qui refulgo/ perché mi vinse il lume d’esta stella;/ ma lietamente a me medesma indulgo/ la cagion di mia sorte e non mi noia;/ che parrìa forse forte al vostro vulgo».44 Costantino non poteva avere, nei confronti della sua vita politica la levità che Cunizza metteva nel descrivere la sua. Restava lontano e inaccessibile. Era come se qualcosa delle perplessità dantesche fosse passato nella sua coscienza, e a questa avesse impedito, e impedisse, di essere fino in fondo serena. Nella sua anima, che avrebbe dovuto esser dedita all’eterna gioia, permaneva il segno di una sofferenza terrena non a pieno risolta. La sua condizione di beato non andava disgiunta, in lui, dalla consapevolezza del male che, senza volerlo, aveva arrecato all’umanità, e che tanto meno poteva essere elusa quanto più gli accadeva di considerare che «il mal dedutto dal suo bene operar non li» era stato «nocivo», ossia non aveva precluso a lui la gloria dei cieli. Immaginò che di quel che aveva commesso, anche in Paradiso, Costantino non potesse non sentirsi responsabile e che, per attenuare il rimorso che aveva la sua origine nel contrasto che si era determinato fra l’intenzione e il risultato, stesse come chi prende atto del divario e se ne consola, concentrandosi sul vantaggio che comunque a lui era derivato dalla purezza delle sue intenzioni e senza pensare al
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biasimo che avrebbe potuto essergli dato a causa del male che pur ne era conseguito. Nel che non si può negare che ci fosse qualcosa di angusto e, se si potesse dire così, di tanto meno nobile quanto più la soddisfazione provata in Paradiso dall’anima di colui che era stato Costantino, fosse messa al duro confronto con le conseguenze a cui il suo gesto aveva esposto il genere umano. Il «mondo» infatti ne era stato non meno che «distrutto». Il contrasto era così crudo che, si potrebbe dire, nemmeno Dante era riuscito a venirne a capo. Consapevoli dell’arbitrio interpretativo che in tal modo si mette in atto, si sarebbe tentati di proporre che la felicità del beato derivasse, non da questa utilitaristica e egoistica considerazione, da questo calcolo delle azioni e dei risultati, ma dal suo essersi profondato nelle ragioni che, note solo a Dio e al suo eterno consiglio, avevano configurato in quel modo l’accadere storico, che ora, in quanto anima beata, anche a lui era dato di conoscere nelle sue più profonde ragioni. Se a questa, che esegeticamente è, se non un arbitrio, una forzatura, si avverte tuttavia che sottrarsi è impossibile, la ragione sta proprio nella non eliminabilità della nota utilitaristica, alla quale si avverte di dover comunque assegnare una ragione più profonda che la risolva in sé e la liberi della sua angustia. La si ritrova, questa ragione, se, andando indietro all’ultimo canto del Purgatorio, e ai versi 52-57, nel secondo «dirubamento» della pianta si vede la mano di Costantino, autore della nefasta «donazione», e in lui, quindi, un secondo Adamo; che, al pari del primo, ha il suo posto in Paradiso, sebbene il suo «peccato» fosse stato commesso praeter intentionem e la sua gravità non fosse paragonabile a quello del primo padre.45 La ragione che induce a indicare in Costantino l’autore del secondo «dirubamento» ha natura congetturale. È esposta perciò alla critica o, eventualmente, a fantasiose difese.46 Ma deve tuttavia osservarsi che a favore dell’assegnazione a lui di quell’impresa sciagurata, e del nesso in cui, se è così, Dante lo pose con il primo padre, sta proprio la sua collocazione in Paradiso, e in un canto, il ventesimo, dedicato agli spiriti giusti. Che, in generale, Dante avesse buone ragioni per assegnare al Paradiso l’anima di un imperatore che considerava cristiano, è ben comprensibile. Sebbene avesse buone ragioni per detestarlo, con Costantino non poteva fare altrimenti. Ma tanto più a questa necessità era impossibile che Dante si sottraesse se, per ciò che si è appena detto, si ritiene che egli lo avesse pensato come un secondo Adamo. Il primo padre non poteva non avere il suo posto in Paradiso, perché, se così non fosse stato, Cristo sarebbe morto invano. Lo stesso doveva farsi per Costantino, autore di un peccato che, senza avere la profondità del
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primo, aveva tuttavia scatenato nel mondo perverse passioni. La questione, tuttavia, richiede di essere ulteriormente considerata. È necessario che i versi del canto ventesimo siano messi di nuovo a raffronto con quel che di Costantino si dice nel terzo libro della Monarchia. 11. Conviene dire subito che il diverso discorso che in questo libro Dante condusse intorno alla Donazione di Costantino, e la sua intonazione fortemente critica, non hanno forza sufficiente a infirmare l’importanza che, ai fini della datazione dell’opera, deve riconoscersi nell’accenno al Paradiso che s’incontra in Monarchia I xii 6 («sicut in Paradiso Comedie iam dixi»).47 Innegabili sono le differenze sussistenti fra quel che di Costantino si dice in quel capitolo della Monarchia e le due terzine di Paradiso XX 55-60 che lo descrivono nella gloria del cielo. Ma, per un verso, differenze di questa natura non si spiegano con le date, per un altro non sono tali da non poter essere accolte nel medesimo quadro logico, una volta che delle due opere si sia accertata la diversa finalità e natura. Nella Monarchia Dante sottolineò bensì con forza l’errore in cui Costantino era caduto per non aver considerato che all’Imperatore non era concesso il potere di dividere l’Impero. Ma non addusse argomenti dai quali potesse trarsi la conclusione che inammissibile sarebbe stata la sua assunzione in cielo. Dell’errore commesso evitò di considerarlo colpevole. Nei versi del ventesimo canto del Paradiso, a sua volta, alluse senza mezzi termini sia al «mal dedutto/ dal suo bene operar» sia al contrasto che perciò si era stabilito fra, da una parte, il bene o, se si preferisce, il vantaggio che Costantino ne aveva ricavato per sé, da un’altra la «distruzione» del mondo a cui la sua azione aveva dato luogo. Se quindi, malgrado quel che pensava di lui e della sua decisione di donare Roma al papa e, per conseguenza, di farsi «greco», Dante aveva ritenuto che il suo posto era in Paradiso, la ragione può essere indicata, non nella diversa valutazione che in quei due contesti egli faceva del medesimo problema, ma nell’essere questo non uno, ma due, e anzi tre, diversi problemi, il primo riguardante un errore, il secondo la purezza delle intenzioni (il «bene operar»), il terzo la decisione di Dio che, nel suo imperscrutabile consiglio, aveva destinato l’Imperatore romano a stare in eterno nei cieli. Che se poi, di questo imperscrutabile consiglio si volesse tentar di indagare la ragione che, senza dubbio, Dante aveva data a sé stesso quando immaginò Costantino in Paradiso per volere di Dio, non si potrebbe, come si è visto, non far ricorso a quella per la quale alla stessa sede era stato destinato colui che, per primo, e disobbedendo a un preciso
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divieto, aveva dispogliato l’albero; e cioè Adamo che, converrà ripetere, in Paradiso era stato collocato a dimostrazione che, morendo sulla croce, Cristo non era morto invano. Se non si ragiona così, la discrepanza, evidente, e in nessun caso attenuabile, fra i versi del ventesimo del Paradiso e quel che si legge nel terzo della Monarchia, sarebbe risultata tanto meno spiegabile quanto più si fosse considerato che le buone intenzioni riconosciute a Costantino nella terza cantica erano messe in relazione al grave errore, anche qui riconosciuto e non nascosto, di cui si era macchiato nel dividere l’Impero. Fermo restando, dunque, che fra il peccato di Adamo e l’errore di Costantino il nesso si rivela innegabile se l’occhio si fermi sulle gravi conseguenze che ne erano scaturite, è pur vero che si sarebbe nel torto se la differenza non fosse colta nel diverso rimedio che, rispettivamente, avevano richiesto e richiedevano. Il peccato di Adamo aveva richiesto il sacrificio di Cristo; ed era l’intera storia umana che da quel dramma aveva preso il suo senso. L’errore di Costantino sarebbe stato corretto quando, per volere di Dio, l’Impero fosse tornato là dove era nato e il nesso con l’Oriente si fosse di nuovo stretto nel segno della sua universalità.48 12. Non si sa, e saperlo, allo stato degli atti, è impossibile, a che punto fosse la composizione del Paradiso quando Dante scrisse di Costantino e della Donazione nel terzo libro della Monarchia. Si sa invece, e lo si è visto, a quale criterio egli ricorse per «salvare» questo imperatore dalla «colpa» che poteva sorprendersi nel grave errore commesso con la decisione di donare Roma al papa e di farsi «greco». Ma se non c’è differenza di date che basti a spiegare una discrepanza che, per essere compresa nella sua genesi e nella sua ragione, dev’essere ricondotta ai diversi ambiti concettuali che segnano il carattere delle due opere, è dunque a un’idea, non a un calendario, che deve farsi ricorso. In effetti, l’errore che Costantino aveva commesso nei confronti dell’intangibilità dell’Impero era stato ben presente a Dante, come si è visto, anche nel ventesimo del Paradiso, dove la bontà delle intenzioni era stata messa a confronto con la negatività dei risultati. In quel canto Dante aveva lasciato intendere che le ragioni della sua salvezza erano, in ultima istanza, sepolte nell’abisso del consiglio divino: di quello stesso che, a un certo punto, aveva deciso che l’aquila volasse «contro il corso del ciel» e da romano l’Impero si facesse «greco», conservando tuttavia intera la sua unità. In altri termini. Nel terzo libro della Monarchia a prevalere era stata l’idea di una, come la si potrebbe definire, illegittima translatio; e sulla necessità provvidenziale che aveva
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spinto l’aquila a volare da Occidente a Oriente Dante aveva taciuto perché le ragioni della polemica politica e giuridica avevano prevalso su quelle della teologia, che le avrebbero indebolite se a queste si fosse concesso il necessario rilievo. Nel Paradiso, al contrario, a prevalere su questa fu l’idea della provvidenza che, nel suo consiglio, tiene nascoste le sue ragioni che, osservate nei risultati, possono andare in senso inverso rispetto a quelle che costituiscono il ragionamento storico e giuridico. Sulla differenza che, al riguardo, si era determinata nel suo pensiero fra le cose quali apparivano all’occhio dello storico che le giudicava nelle loro conseguenze politiche e religiose, e quali le vedeva il teologo che ne scrutava il senso ponendosi dall’angolo visuale della provvidenza, Dante, tuttavia, non fermò mai la sua attenzione. Non considerò la possibilità che l’una fosse messa a confronto con l’altra e che con questa fosse compatibile e non, invece, in contrasto. Lasciò che le due questioni stessero ciascuna nel suo proprio ambito. Se perciò, come si è detto, fra il Paradiso e la Monarchia non c’è, su questo punto, contraddizione o, se si preferisce, contrasto perché ispirati a diversi criteri sono i discorsi che vi furono condotti, la differenza che si nota fra l’uno e l’altra è tuttavia innegabile. Se non c’è contraddizione c’è, infatti, diversità, o, se si preferisce, disparità. Per avvedersene, basta, ritornare a Monarchia III x 4-6: «Constantinus alienare non poterat Imperii dignitatem, nec Ecclesia recipere». La ragione dell’assunto stava in ciò che «nemini licet ea facere per offitium sibi deputatum que sunt contra illud offitium; quia sic idem, in quantum idem, esset contrarium sibi ipsi: quod est inpossibile; sed contra offitium deputatum Imperatori est scindere Imperium, cum offitium eius sit humanum genus uni velle et uni nolle tenere subiectum, ut in primo huius de facili videri potest; ergo scindere Imperium Imperatori non licet». In questo, e negli altri luoghi che potrebbero essere citati, Costantino era solo dinanzi al suo errore. L’argomento che lo riguardava era politico e giuridico. E, come si è detto, del volo dell’aquile non v’era traccia. Al contrario, come si vede, di quel che avviene nel sesto del Paradiso, dove il rapido accenno che Dante fece ai «cento e cento anni e più» che durò il governo del mondo «sotto l’ombra dele sacre penne» è ricompreso all’interno della considerazione teologica e della logica provvidenziale. In questo luogo della terza cantica Dante tenne infatti fermo che, nel dirigere i suoi passi da Occidente a Oriente Costantino aveva seguìto il volo dell’aquila: con questo aveva identificato il suo che, nell’intrinseco, non se ne distingueva, perché che se ne distinguesse e non seguisse la linea che quella indicava, era impossibile.
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Se ne deduceva che, se niente accade nella storia che non sia conforme al volere profondo di Dio, la ragione per la quale Costantino fu collocato in Paradiso appartiene a un giudizio che, andando ben oltre la purezza delle sue intenzioni, non ha a che fare con queste se, come Dante aveva scritto nel Convivio, IV iv 11, deve restar fermo che «la divina provedenza […] è sopra ogni ragione». Del resto, per rimanere nel ventesimo canto, si pensi al modo in cui fu rappresentato il troiano Rifeo, il personaggio che Virgilio aveva definito «iustissimus unus/ qui fuit in Teucris et servantissimus aequi»,49 e del quale Dante disse: «chi crederebbe giù nel mondo errante,/ che Rifeo troiano in questo tondo/ fosse la quinta dele luci sante?/ Ora conosce assai di quel che ’l mondo/ veder non può dela divina grazia,/ ben che sua vista non discerna il fondo» (vv. 67-71). E non si dimentichino i versi finali (130-148) nei quali, rivolgendosi direttamente al mistero della predestinazione («o predestinazion, quanto remota/ è la radice tua da quelli aspetti/che la prima cagion non veggion tota!),50 dalla contemplazione dell’aquila Dante non solo trasse la persuasione dell’insondabilità del consiglio divino e della insuperabile limitazione della mente umana («così da quella immagine divina,/ per farmi chiara la mia vista corta,/ data mi fu soave medicina» [vv. 139-141]), ma, senza che se lo proponesse, suggerì al lettore di non pensare alla possibilità che l’ordine delle cose avesse subìto e potesse subire, per ragioni di umana inadeguatezza, sovvertimenti e eccezioni. La deprecata donazione di Costantino e il volo dell’aquila da Occidente a Oriente erano anch’essi momenti necessari di un piano provvidenziale che si attuava anche per il tramite delle critiche che, nella sua «corta vista», la mente umana avesse ritenuto di dover rivolgere all’una e, eventualmente, anche all’altro. II Il discorso di Giustiniano e il senso dell’unità imperiale 1. Fu forse per avvertire il lettore che a quel criterio era giusto tener fermo anche per spiegare la ragione del disagio che poteva derivarne a chi viveva nelle angustie del presente, fu per queste ragioni, o per ragioni simili a queste, che Dante tornò ancora una volta sul tema della predestinazione. Il suo fu un modo indiretto, ma, a saperlo cogliere, eloquente, di esprimere il disagio che, non solo la Donazione di Costantino, ma anche il volo dell’aquila da Occidente a Oriente, avevano provocato in lui. Il centro del-
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la considerazione era infatti costituito da Roma e dalla parte occidentale dell’Impero. Lo era nelle parole che, con singolare anacronismo, egli attribuiva a Giustiniano, che a quella, e alla pars occidentalis, dedicava il suo discorso, quasi che l’altra, che pure era storia sua, non attirasse la sua attenzione e non determinasse in lui alcuna passione. Dal modo in cui Dante lo presentava, Giustiniano appariva come un uomo privo di passato e estraniato dal suo presente politico e militare, preoccupato della fedeltà che si doveva alla parola teologica della Chiesa, dominato dal problema dell’unificazione dei codici e pronto ad affidare ad altri la cura della guerra che in lui sembrava non suscitare, come si trattasse di cosa non sua, alcun interesse. Nel personaggio delineato da Dante si determinava perciò una singolare frattura. Giustiniano era un imperatore bizantino che, collocato nella parte orientale dell’Impero, non mostrava interesse che per la grande impresa dei codici, e della politica come della milizia, ossia dei problemi che storicamente erano stati i suoi, sembrava disinteressarsi, quasi che fra questi e la riforma giuridica non si desse un nesso e questa non nascesse da quelli. Non fu pronunziata, nel suo lungo discorso, una sola parola che toccasse questioni riguardanti il suo presente politico: non la parte orientale, e nemmeno quella occidentale, della quale non disse in quali condizioni si trovasse e quali questioni ponesse nel momento in cui, nel Paradiso, rivolgeva a Dante il suo discorso. Quale che ne fosse la ragione, il richiamo delle imprese belliche affidate a Belisario non ebbe, nelle parole che Dante gli attribuì, alcun concreto sviluppo, e anche di sé, come ideatore politico di quelle, non disse alcunché. Al gigantesco sforzo che, negli anni del suo regno, il personaggio aveva compiuto per riconquistare all’Impero l’Occidente, che da decenni era stato di fatto diviso nelle zone dominate da Vandali, Visigoti, Franchi, Ostrogoti, Giustiniano non dedicò, nel discorso che Dante gli attribuì, nemmeno una parola, come se il tentativo di ricondurre l’Occidente sotto la giurisdizione dell’Impero non avesse suscitato in lui alcun interesse e convenisse ignorarlo; al pari, del resto, sia delle guerre che il suo generale aveva condotte in Africa e in Italia, sia delle molte questioni che, durante il suo regno, erano insorte nella parte orientale. Difetto di informazione storica o, all’interno di questa, che era comunque modesta, scelta consapevole? La fisionomia che Dante delineò di lui, fu, comunque, non propriamente una fisionomia, ma, in termini storiografici, la sua assenza. Fu il volto senza lineamenti di un personaggio che occupava uno spazio per intero vuoto, e, invece di riempirlo, di determinarlo e di dargli un carattere, da quell’assenza di storia, da quel vuoto, faceva pervenire a Dante,
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uomo dell’Occidente, notizie che solo questo riguardavano, come se l’Oriente non fosse esistito se non per rievocare la storia della parte dove l’Impero era nato. Come in una pittura o in una scultura bizantina, l’aveva rappresentato con l’aquila assisa sulla sua mano. Con un effetto di forte stilizzazione, l’aveva ritratto mentre, parlando dal suo trono paradisiaco, si dedicava a raccontare, lui imperatore d’Oriente, la storia dell’altra parte dell’Impero. La sua restava perciò una figura priva di profondità storica: e su questo, se si vuol capire, si deve insistere. L’indeterminatezza storica, dalla quale, nel ritratto che Dante fece di lui, Giustiniano non riuscì ad emergere mostrando il suo volto di imperatore bizantino, aveva la sua ragione nel suo essere, mentre parlava, non il personaggio che era appartenuto a un tempo determinato,51 e nemmeno un’anima beata alla quale tutti i tempi fossero contemporanei, i passati, i presenti, i futuri, ma il simbolo, piuttosto, di preoccupazioni schiettamente occidentali. Senza che mai questo concetto incontrasse, nel suo discorso, le parole che gli avrebbero dato forza e rilievo, Giustiniano narrava tuttavia la storia di una grandezza che, nata e consolidatasi in Occidente, aveva mostrato il segno del declino quando la sede dell’Impero era stata trasferita in Oriente. Le parole che, nel suo discorso, non furono pronunziate, sono decadenza, declino, inclinatio, o quale altra si voglia scegliere per esprimere l’idea di un corpo politico che perde la sua forza, si disfa e si consegna alla morte. Come si è detto, all’idea della decadenza Dante fu estraneo, e non sorprende che nessuna parola che ne esprima il concetto s’incontri nel suo lessico. Ma se la parola non fu pronunziata, se il concetto non fu pensato, agiva tuttavia, nel discorso di Giustiniano, l’idea che quella da lui narrata era la storia di una potenza e di una grandezza che, giunte al culmine, nel luogo in cui si erano affermate si perdevano e non potevano che proseguire altrove il loro cammino: nel luogo in cui avevano dato segno di sé, per esse, infatti, non c’era più spazio. Se quello di Giustiniano non fu tuttavia il discorso dell’ascesa, della decadenza e della morte dell’Impero di Roma, se questa idea storiografica non assunse, nel suo pensiero, la sua forma, la ragione deve essere cercata, come si è detto, e trovata nell’altra idea che sempre Dante aveva tenuta ferma nella mente: nell’idea, si vuol dire, dell’origine divina dell’Impero romano, che, se era stato voluto da Dio, ed era quello che aveva conseguito sé stesso per duellum, possedeva una luce che poteva affievolirsi, non spegnersi: come si vede dall’esempio che egli fece di Carlo Magno e dell’aiuto da lui dato alla Chiesa romana minacciata dai Longobardi. L’idea della decadenza e della fine poteva appartenere agli scrittori
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del mondo antico, che da quella, anzi, furono posseduti, e persino ossessionati, perché la sapevano intrinseca alle cose storiche e quindi anche all’immenso Impero che i romani avevano costruito. Poté appartenere a scrittori come Biondo Flavio o Leonardo Bruni che, al riguardo, riprendevano temi della storiografia antica e, se parlavano della decadenza dell’Impero romano, era perché estranea al loro pensiero era l’idea della sua divinità. Poté appartenere a un umanista come Poggio Bracciolini che scrisse de fortunae varietate urbis Romae et de ruina eiusdem descriptio.52 Non poteva appartenere a Dante, per il quale l’Impero era eterno; e si conservava, infatti, anche nel declino, al quale Giustiniano non concesse nemmeno una parola e non dette espressione se non ponendo un profondo vuoto di storia fra la distruzione del tempo di Gerusalemme, avvenuta nel 70 d.C. e l’episodio di Carlo Magno avvenuto nel 772: un vuoto che egli non si provò in nessun modo a riempire narrando quel che in quei settecento anni era accaduto in Occidente e in Oriente. La conseguenza è che, se il lettore cerca lui di riannodare il filo della continuità storica e di stabilire un minimo di cronologia, dalla distruzione del tempio di Gerusalemme è costretto a saltare al trasferimento costantiniano della capitale da Roma a Bisanzio, e quindi, seguendo il filo dipanato da Giustiniano, a retrocedere con lui agli inizi virgiliani della storia di Roma per quindi ripercorrere di lì le fasi della sua grandezza, culminate nel tempo di Tiberio, che fu quello della nascita di Cristo. Ne consegue che, se si esclude l’accenno rivolto, sia alla grande impresa dei codici, e all’ispirazione divina di essa, sia al rifiuto della teoria monofisita da lui agli inizi condivisa, Giustiniano appare come un personaggio senza storia, o privo, se si preferisce, di una storia che, in senso proprio, fosse sua, quella da lui narrata riguardando infatti l’Impero di Occidente e una storia, quindi, che solo indirettamente si poteva considerare che gli appartenesse. Per la gran parte degli eventi ricordati, la sua non fu infatti se non una voce narrante che a questi rimaneva esterna: come subito si avverte nel racconto dedicato alla rievocazione della storia dell’Impero, che, deve ripetersi, fu da lui ripercorsa, non nelle sue due parti, l’occidentale e l’orientale, ma solo nella prima; che aveva avuto il suo inizio virgiliano in Pallante53 ucciso da Turno e vendicato da Enea, era proseguita alludendo a Albalonga, dove per trecento anni l’aquila aveva stabilita la sua «dimora», e quindi, con rapidi tratti, e, con le conoscenze che la sua fonte gli consentiva, era proseguita con la illustrazione dei momenti che giudicava fondamentali, dal «mal dele Sabine al dolor di Lucrezia», dai sette re alle vittorie conseguite sulle «genti vicine», e poi via via, con quella dei momenti sa-
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lienti della storia romana, dalla resistenza opposta ai Galli guidati da Brenno alla guerra combattuta contro Pirro, dalla vittoria conseguita da Scipione su Annibale, a Pompeo, quindi a Cesare. «Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna/ e saltò Rubicon, fu di tal volo,/che nol seguiterìa lingua né penna./ Inver’ la Spagna rivolse lo stuolo, poi ve’r Durazzo, e Farsalia percosse/ sì ch’al Nil caldo si sentì del duolo» (vv. 61-66). Dopo di che, come se avesse ritrovata la vena che, qua e là, gli era venuta meno,54 sollecitato forse da un’espressione trovata nell’epitome di Floro («more fulminis, quod uno eodemque momento venit, percussit, abscessit»),55 proseguì scrivendo: «Antandro e Simoenta, onde si mosse,/ rivide e là dov’Ettore si cuba; e mal per Tolomeo poscia si scosse./ Da indi scese folgorando a Iuba;/ onde si volse nel vostro occidente, ove sentìa la pompeana tuba» (vv. 67-69). «Nel vostro occidente». Assiso nel suo seggio paradisiaco, Giustiniano sapeva di parlare a chi apparteneva alla parte occidentale del mondo: a una parte, dunque, in senso stretto, non sua. Era infatti storia dell’Occidente quella che, sentendo di non appartenerle, egli tuttavia narrava. Poiché l’Impero era, per eccellenza, quello d’Occidente, non suscita meraviglia che il protagonista della sua impresa fosse indicato in Giulio Cesare e che le sue vittorie fossero rappresentate con tale vigore, che, forse per non introdurre nel racconto una nota tragicamente dissonante, Dante non ricordò la morte violenta che gli era stata data dai congiurati guidati da Bruto e da Cassio, se non attraverso la menzione del loro eterno supplizio («di quel che fe’ col baiulo seguente,/ Bruto con Cassio nel’inferno latra, e Modena e Perugia fa dolente» [vv. 73-75]). A essi, in effetti, sottrasse persino la dignità che vi aveva riconosciuta quando, avendoli visti patire il loro supplizio nella bocca di Lucifero, di Bruto aveva colto, in un verso che piaceva a De Sanctis,56 il tratto stoico: «vedi come si storce, e non fa motto», e di Cassio, «che par sì membruto»,57aveva messo in rilievo la forza. La sua figura occupava, in effetti, tutta la scena: al punto che sotto il suo segno, e come conseguenti alle sue imprese, Giustiniano collocò le figure di Ottaviano Augusto e di Tiberio. Del primo (il «baiulo seguente») ricordò la vittoria, conseguita, a Filippi, su Bruto e Cassio, rievocò l’altra ottenuta su Marc’Antonio, e quindi la morte che Cleopatra si era data dopo la definitiva sconfitta da lui subita a Azio. Ma a Augusto riconobbe tuttavia anche, e soprattutto, il merito di aver posto «il mondo in tanta pace,/ che fu serrato a Giano il suo delubro» (vv. 81-82), e di averlo così predisposto a ricevere, sotto il regno di Tiberio, il sacrificio che, per volere di Dio, Cristo fece della sua vita per la salvezza del genere umano.
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2. Sul volo, anzi sui voli, che l’aquila aveva compiuti, conviene fermarsi per osservarli più da vicino. Il suo non fu soltanto un volo rettilineo, non si svolse solo da Occidente a Oriente, ma da Oriente tornò verso Occidente. Nel periodo in cui essa aveva soggiornato nella parte occidentale, i suoi percorsi furono vari, frequenti furono le inversioni. Come se l’inizio del primo viaggio dell’aquila appartenesse alla preistoria di Roma, e a Dante convenisse perciò rinviare idealmente al poema di Virgilio, le vicende che Enea aveva incontrate e vissute nel suo viaggio verso l’Italia, le traversie, i ritardi, le disavventure, tutto questo fu saltato. Seguendo soltanto idealmente la rotta dell’eroe troiano, Dante fece che il suo racconto avesse il suo inizio dal momento in cui era approdato ai lavinia litora58 e, in particolare «dall’ora che Pallante morì per darli regno», consentendo che fosse lui a segnare con il suo nome la storia che così aveva inizio. Per lungo tempo, dopo che vi fu arrivata, l’aquila rimase in Italia. Per trecento anni e più «fece in Alba sua dimora», e sempre in Italia, per possedere il suo segno, combatterono gli Orazi contro i Curiazi. Di questo Dante aveva parlato nel Convivio, IV v 18, e sarebbe tornato a parlare nella Monarchia, II x 4. Quel che tuttavia ora importa non è che, nel racconto di queste vicende, egli si servisse di pagine da lui precedentemente scritte, non è che riutilizzasse le fonti che vi aveva adoperate. Ma è bensì che, fino al momento in cui a entrare in scena fu Cesare con le sue conquiste, l’aquila era rimasta in Italia, e il suo volo non era stato ripreso. In Italia era avvenuto il ratto delle Sabine, in Italia ebbe luogo la vicenda di Lucrezia, nelle terre italiane si ebbe la prima espansione di Roma che, nel frattempo, era stata fondata senza che all’evento fosse dato alcun risalto, certo per fedeltà al racconto di Virgilio e, forse, per non contaminare la purezza dell’origine troiana con il nome di Romolo che, nell’Eneide compare comunque nel primo libro (275-277: «inde lupae fulvo nutricis tegmine laetus/ Romulus excipiet gentem et Mavortia condet/ moenia Romanosque suo de nomine dicet»), e in Dante una volta nel Convivio, IV v 10-11, mai nella Monarchia, e un’altra, ma indirettamente, nella Commedia.59 In Italia si svolsero le guerre contro i Galli guidati da Brenno, e contro Pirro, nonché le altre che dettero fama a Tito Manlio Torquato e a Quinzio, «che dal cirro negletto fu nomato».60 Fu ancora e sempre l’Italia a vedere le imprese dei Deci e dei Fabi, rispettivamente vittoriosi contro i Latini e i Sanniti, nella guerra di Veio. L’aquila non uscì dai confini dell’Italia nemmeno quando i Romani dovettero difendersi dall’«orgoglio degli Arabi», ossia dei Cartaginesi guidati da Annibale, che poi sconfissero con Scipione. Ne uscì solo quan-
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do, avendo la divina provvidenza deciso di «redur lo mondo a suo modo sereno» e preparare così la discesa in terra del figlio di Dio, «Cesare per voler di Roma il tolle» (vv. 56-57). Fu allora che, con lui, l’aquila superò di nuovo i confini dell’Italia, e, oltre le Alpi, si spinse nella Gallia transalpina, per tornare poi in Italia («quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna/ e saltò Rubicon, fu di tal volo/ che nol seguiteria lingua né penna»).61 Di qui, di nuovo volando verso la parte più occidentale, «inver la Spagna rivolse lo stuolo», per dirigersi poi verso la Farsaglia dove a Pompeo inflisse una sconfitta così cruenta «ch’al Nil caldo si sentì del duolo» (v. 66).62 Quindi volò nella direzione della Troade, il luogo donde era partita per il suo primo viaggio, e dove le fu dato di rivedere la tomba di Ettore, per volare poi in quella dell’Egitto, sconfiggere Tolomeo e il re di Mauretania, Giuba, e, dopo aver ripreso la direzione occidentale, tornare in Italia, dove ebbe ragione della resistenza dei pompeiani. Questo rapido riassunto non ha per scopo il chiarimento di luoghi oscuri e controversi: malgrado l’estrema rapidità del racconto, è infatti relativamente facile seguirne il filo storico-geografico, osservando il modo in cui Dante aveva disposte le sue fonti poetiche, Virgilio e Lucano essenzialmente, e storiografiche, Floro63 e Orosio. Ma si propone bensì di mostrare i vari disegni che, fra Occidente, Oriente, di nuovo Occidente, il volo dell’aquila aveva delineati nel cielo mediterraneo. A questo riguardo, un punto, tuttavia, merita di esser notato, per il suo alto valore simbolico. Non era stato con Costantino che, per la prima volta, l’aquila aveva spinto il suo volo da Occidente a Oriente, ma sia pure per ragioni diverse e con un diverso scopo, con Cesare, il primo, per Dante, imperatore dei Romani.64 Era stato con lui che, dall’Occidente, era volata verso Oriente, e, come si è visto, era giunta nella Troade «là dove Ettore si cuba» (v. 68). Senza che Dante lo dicesse in modo esplicito, si era spinta in quella direzione per indicare, nel sepolcro del più grande degli eroi troiani, la radice ideale che Enea aveva strappata dal suolo patrio prima di intraprendere il suo viaggio provvidenziale verso Occidente e ripiantarla nel suolo italico. In termini espliciti, la cosa non è detta. Ma non è forse senza significato che il primo a indicare la direzione dell’Oriente e a insistere sulla legittimità di un viaggio lì diretto fosse il personaggio della storia di Roma che era stato, per Dante, all’inizio del suo destino imperiale. La citazione del tumulo, «quo maximus occubat Hector», è virgiliana, aen. 5, 371. Ma quella tomba fu ricordata perché nei suoi pressi, là dove si trovava, e cioè nella Troade, era solito contendere con Paride65 uno degli uomini, il suo nome era Darete,
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che avrebbero partecipato alla gara pugilistica che si sarebbe svolta durante la terza giornata dei giochi che Enea aveva deciso che, in onore e memoria di Anchise, si svolgessero in terra di Sicilia. Lì infatti si era fermato con i suoi compagni seguendo il consiglio di Palinuro,66 preoccupato che, nella tempesta che in quei giorni sconvolgeva le acque del mare, le navi troiane facessero naufragio. Il suo antagonista sarebbe stato, in quel caso, Bute, un altro degli uomini che avevano seguito Enea nel suo esodo da Troia. Può considerarsi certo che, ignaro com’era dell’Iliade, non dal suo ultimo libro Dante traesse la notizia della tomba di Ettore e della sua collocazione,67 ma da quel verso del quinto dell’Eneide. Resta comunque che egli fece che l’aquila la vedesse là dove stava, e che, tornando essa nel luogo dal quale era inizialmente partita per raggiungere l’Occidente, le due direzioni del suo volo fossero entrambe reincluse nello spazio ideale di un destino comune. 3. Il momento supremo di questa storia sta tuttavia, come si è detto, nei versi 82-93: «ma ciò che ’l segno che parlar mi face/ fatto avea prima e poi era fatturo/ per lo regno mortal ch’a lui soggiace,/ diventa in apparenza poco e scuro,/ se in mano al terzo Cesare si mira/ con occhio chiaro e con affetto puro;/ ché la viva giustizia che mi spira,/ li concedette, in mano a quel ch’i’ dico, gloria di far vendetta ala sua ira./ Or qui t’ammira in ciò ch’io ti replico:/ poscia con Tito a far vendetta corse/ dela vendetta del peccato antico». La questione delineata negli ultimi due sarà ripresa, nel canto successivo, e sarà dibattuta in termini strettamente teologici nel lungo discorso svoltovi da Beatrice,68 raggiungendo il suo punto culminante nella delineazione del dubbio che da lei fu sorpreso nella mente di Dante: «tu dici: ‘ben discerno ciò ch’i’ odo;/ ma perché Dio volesse m’è occulto,/ a nostra redenzion, pur questo modo’», e nella risposta che gli dette senza in realtà rispondere: «questo decreto, frate, sta sepulto/ agli occhi di ciascuno il cui ingegno/ nela fiamma d’amor non è adulto».69 Nel canto sesto, invece, l’allusione era al privilegio, o, come Dante diceva, alla «gloria» che il cielo aveva concessa al terzo imperatore, e cioè a Tiberio (il primo, per lui, era, come si è detto, Cesare). Fu infatti durante il suo regno che un tribunale romano aveva condannato a morte Gesù Cristo. E la sua era stata una giusta condanna perché, eseguita de iure da un legittimo tribunale, fece sì che l’ira che in Dio era stata provocata dalla trasgressione di Adamo, trovasse, nella morte subìta dall’uomo che era in Cristo, la sua giusta vendetta. Il passo, estremamente contratto, trova la sua spiegazione nel capitolo del secondo libro della Monarchia in cui è detto che, se l’Impero romano
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non fosse stato de iure, e solo la forza l’avesse reso possibile, il peccato di Adamo non sarebbe stato giustamente punito in Cristo: «si romanum imperium de iure non fuit, peccatum Ade in Cristo non fuit punitum».70 Un giudizio scritto nel segno del paradosso, ma del quale Dante fu reciso nell’indicare la piena razionalità.71 Non è questo il luogo in cui si possa commentarlo in ciascuno dei suoi aspetti.72 Ma non può tuttavia non notarsi che l’identificazione del diritto con la giustizia, l’uno e l’altra discendenti direttamente da Dio, implicava che fosse la sua voce a parlare attraverso la sentenza del tribunale: in modo tale che non erano il diritto e il tribunale, in quanto tali e considerati per sé stessi, a rendere giusta la condanna del Cristo, ma era la voce di Dio che, esprimendosi, in tale sede, attraverso quella dei giudici, la rendeva quale doveva essere: una giusta condanna. La voce di Dio parlava attraverso il diritto, le cui parole erano infatti sue parole; ed era la medesima della giustizia, nei confronti della quale quella del giudice e della legge positiva, che ne era interpretata e realizzata nella sentenza, non era se non la derivazione. Così il circolo si chiudeva nella perfetta corrispondenza delle sue parti; e a chiuderlo, rendendo giusti i semicircoli che lo componevano, era Dio, il suo vero autore. Il paradosso implicito nell’espressione rivelava la sua verità e il suo senso autentico nell’avvertimento che era Dio che, nella parte umana del Cristo, intendeva punire, con la morte, il peccato che il primo uomo aveva compiuto nei suoi riguardi. Ma è anche vero che al tribunale romano e alla legge che vi era amministrata era restituita la sua parte essenziale: nel senso almeno che, per l’opinione dei più, la sua condanna doveva essere considerata giusta perché a deciderla era stata la sentenza di un giudice e di un tribunale a cui non mancavano, perché al contrario li possedeva tutti, i requisiti della giuridicità. Non che, per questa parte, Dante fosse sulla via di riconoscere l’autonomia del diritto positivo da quello naturale, in cui si esprimeva la voce di Dio. È vero il contrario. L’identità di ius, iustitia e Dio era, nel suo pensiero, cosa ovvia, e sarebbe assurdo perciò parlare di autonomia del diritto positivo e della sua derivazione da una fonte diversa da quella divina. Ma si veda più da vicino come le cose stiano. In Monarchia, II ii 3-7, in una pagina che, a questo riguardo, rivela intera la sua importanza, e sulla quale converrà brevemente soffermarsi, Dante aveva indicato, a partire da Dio, una serie di conseguenze necessarie, e fra queste la derivazione da lui del diritto. Aveva esordito osservando che «cum Deus ultimum perfectionis actingat et instrumentum eius, quod celum est, nullum debite perfectionis patiatur defectum, ut ex hiis patet que
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de celo phylosophamur, restat quod quidquid in rebus inferioribus est peccatum, ex parte materie subiacentis peccatum sit et preter intentionem Dei naturantis et celi; et quod quicquid est in rebus inferioribus bonum, cum ab ipsa materia esse non possit, sola potentia existente, per prius ab artifice Deo sit et secundario a celo, quod organum est artis divine, quam ‘naturam’ comuniter appellant» (II ii 3-4). La difficoltà che si presenta nelle ultime linee di questo passo, nel punto in cui si dice che ogni difetto («peccatum») che si riscontri nelle cose di quaggiù è imputabile, non a Dio e al cielo, ma al limite che a quelle è intrinseco, potrebbe dar luogo a discorsi complessi se questa fosse la sede in cui si potesse intraprenderli affrontando il relativo tema. Basterà perciò osservare che è materia di un non semplice problema che, la mente di Dio essendo perfetta, e non meno essendolo il cielo, che è il suo strumento, alla materia di cui le res di quaggiù sono fatte tale perfezione non sia trasmessa e non pervenga intera. Il problema non è semplice perché, per un altro verso, è evidente che di tale insufficiente ricezione la ragione potrebbe esser fatta risalire non a ciò che riceve, ma, al contrario, a quel che di tutto è causa, e cioè a Dio, considerato, o incapace di vincere la resistenza che, in determinate sue parti, ossia nelle più lontane, la materia oppone alla penetrazione in essa del suo raggio, o, per una sua occulta ragione, deciso ad assegnarle una sorta di assoluta impenetrabilità e a subire lui, per sua volontà, la conseguenza che ne derivava. Non è, tuttavia, una difficoltà che richieda di essere affrontata in questa sede.73 Nel punto in cui ci troviamo conviene procedere nella lettura del passo e mettersi sotto gli occhi le linee dedicate alla questione del diritto. Da quel che si è detto, vi si legge, «iam liquet quod ius, cum sit bonum, per prius in mente Dei est; et cum omne quod in mente Dei est sit Deus, iuxta illud ‘quod factum est in ipso vita erat’, et Deus maxime se ipsum velit, sequitur quod ius a Deo, prout in eo est, sit volitum. Et cum voluntas et volitum in Deo sit idem, sequitur ulterius quod divina voluntas sit ipsum ius» (II ii 4-5). Divina voluntas ipsum ius; e di quella, perciò, era da considerarsi attuazione la sentenza emessa dal giudice romano. Il che era detto con forza perché tutti, cristiani e non cristiani, non avessero dubbi sul punto che quel tribunale aveva bene amministrata la giustizia quando aveva emesso il suo verdetto, e il Cristo era stato condannato a morte: de iure e secondo giustizia, perché, come si è detto, in lui doveva essere condannato e punito il peccato che il primo uomo aveva trasmesso all’intero genere umano. Per il resto, i versi in questione non dicono altro che, in questa sede, occorra mettere in rilievo: anche perché sarà chiaro a tutti che, se la Mo-
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narchia fu scritta nel tempo in cui Dante era impegnato nella composizione della terza cantica,74 o in uno assai prossimo a esso, la loro vicinanza alle tesi sostenute nel secondo libro di quel trattato sul processo che il Cristo aveva subito in un tribunale romano, e sulla legittimità della sua condanna, basterebbe di per sé a escludere che nel nesso lì ribadito fra l’Impero, quale si trovava a essere al tempo di Tiberio, e la sua nascita, potesse cogliersi l’idea della subordinazione del primo, non solo a quell’evento, ma anche alla Chiesa, e che la tesi delle due rette che, originandosi da Dio, procedono senza toccarsi, richiedesse perciò di essere messa in discussione. L’importanza eccezionale che Dante attribuiva al tempo in cui imperatore era stato Tiberio, e che la divina provvidenza aveva scelto come quello in cui conveniva che Cristo venisse al mondo, ha il suo documento anche nel secondo libro della Monarchia, dove, a II x 6-7, si legge che «Cristus, ut scriba eius Luca testatur, sub edicto romane auctoritatis nasci voluit de virgine Maria, ut in illa singulari generis humani descriptione filius Dei, homo factus, homo conscriberetur»; e uno, ancora più eloquente, nel Convivio, IV v 7-9, dove si legge che «incidentalmente» doveva notarsi che «poi che esso cielo cominciò a girare, in migliore disposizione non fu che allora quando di là su discese colui che l’ha fatto e che ’l governa; sì come ancora per virtù di loro arti li matematici possono ritrovare. Né ’l mondo mai non fu né sarà sì perfettamente disposto come allora che alla voce d’un solo, principe del roma[n]o populo e comandatore, si [descrisse, sì] come testimonia Luca evangelista. E però [che] pace universale era per tutto, che mai, più non fu né fia, la nave dell’umana compagnia direttamente per dolce cammino a debito porta correa». Del resto, che, nella sua logica profonda, la storia ricevesse il suo senso dalla nascita di Cristo, che consegnava il passato al passato nell’atto in cui inaugurava un nuovo evo, è nozione centrale in ogni filosofia cristiana della storia. E Dante, che di questa idea era ovviamente partecipe, non ne ricavava la conseguenza della subordinazione del potere imperiale a quello papale; anzi la rifiutava, come si sa, nel modo più netto. Semplicemente riteneva che, a partire da quel momento, la relazione del potere imperiale con quello papale avrebbe posto problemi che in passato non sussistevano in quella forma, e che spettava al presente saper affrontare e risolvere. 4. Un discorso a parte ha meritato, in altra sede,75 la terzina segnata dai vv. 91-93, e contenente la questione della vendetta che l’imperatore Tito aveva eseguita «della vendetta del peccato antico»; questione che,
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come si sa, fu risolta, o Dante ritenne che fosse stata risolta, da Beatrice quando, nei vv. 10-51 del canto successivo, spiegò che, se, con la morte che gli avevano inflitta, in Cristo gli Ebrei avevano vendicato il peccato in cui Adamo era incorso all’inizio dei tempi, a sua volta, distruggendo il tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. l’imperatore Tito aveva preso vendetta di quella vendetta. Il che, lo si dica in breve, al di là della ricercata concettosità dell’espressione, apriva una sottile, e anche insidiosa questione, che avrebbe mostrato il suo volto una volta che nell’idea «della vendetta della vendetta» si fosse guardato con più attenzione di quella che le è stata riservata. Non può sfuggire, infatti, che, se era per volere del cielo che, nella sua parte umana, al più alto grado Cristo rappresentasse ciò che nell’uomo è uomo, la vendetta che in lui si faceva del peccato di Adamo riguardava l’intera umanità. Era perciò inevitabile concluderne che quella che si prendeva di lui necessariamente coinvolgeva la volontà di Dio che, poiché nella sua mente ogni tempo è contemporaneo a ogni altro, nel volerla avrebbe voluto due cose opposte, l’una che Cristo morisse per mano degli Ebrei, l’altra che, per mano di un imperatore romano, morissero coloro che, de iure, l’avevano messo a morte. E cioè gli Ebrei che, secondo il tempo che rende successivi i suoi momenti, una prima volta si presentavano come giusti esecutori della giustizia divina, e una seconda come rei di averla eseguita, e dunque, nella mente divina, alla quale i tempi sono lo stesso, identico tempo, come nello stesso atto giusti esecutori e rei. Questione delicata, e difficile da risolvere se si tiene fermo che le due volontà, quella che Cristo morisse a causa degli Ebrei e l’altra che la giusta azione compiuta da questi ultimi fosse tuttavia un peccato meritevole di ricevere la vendetta dei Romani, erano in Dio coesistenti, e, in realtà, non due, ma un’unica, indistinguibile volontà: con la conseguenza che, nello stesso atto gli Ebrei erano con pari necessità stati giusti e ingiusti, e contraddittoria era perciò la volontà che così li aveva voluti. Per tentare di risolvere una questione che, ferma restando l’identità dei tempi nella mente divina, non avrebbe potuto sottrarsi al segno della contraddizione, la supposizione avrebbe potuto essere che, in tanto Dio aveva concesso spazio alla seconda vendetta, in quanto, nel caso del primo uomo, quel che era accaduto non era stato da lui previsto. Nel mettere a morte il Cristo, gli Ebrei avevano dato luogo a una sorta di svista intervenuta nell’atto della creazione. Non si capirebbe infatti, se non fosse stato così, perché egli avrebbe dato luogo a una vendetta che a lui, in certo senso, restituiva quel che gli era stato tolto: salvo che, se fosse così, si sarebbe dovuto tener fermo che, nella vicenda della
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creazione, non tutto era andato secondo i piani, e che non prevista da Dio era, alla fine, risultata la storia del serpente, di Eva, e di Adamo che alla tentazione di assaggiare il frutto proibito non aveva resistito, e la creazione dell’Eden si era risolta in un disastro che richiedeva l’immenso sacrificio richiesto dalla riparazione. Oppure non era così, nessun errore aveva avuto luogo da parte di Dio, tutto, com’è più facile pensare, era stato previsto: tutto, e cioè, sia quello che altrimenti sarebbe stato interpretabile come un incidente del suo volere, sia la punizione che egli avrebbe inflitta alla coppia genitoriale dell’umanità per un peccato che, nel suo pensiero, era accaduto prima che avesse luogo nella realtà. Ma se fosse così, la rinunzia alla spiegazione razionale avrebbe dovuto venire di conseguenza. Se invece si resta all’interno dei suoi termini, non si riesce a pensare e a spiegare come sia possibile che Dio potesse aver voluta una situazione nella quale la sua volontà voleva il contrario di quel che voleva, e cioè che l’uomo vivesse lontano dal peccato, ma anche vi si immergesse e dovesse poi, per questo, subire la sua punizione. Alla questione, e anche a qualche suo necessario sviluppo, si è accennato perché, al di là dell’importanza che riveste nel quadro della filosofia dantesca della storia, la forma paradossale in cui si presenta, meritava che, anche qui, se ne accennasse dopo averla delineata nei suoi termini essenziali. Quanto alle altre toccate prima a proposito del diritto, e della sua attuazione nel tribunale romano che condannò il Cristo, l’essenziale è stato detto, e, per questa parte il discorso può considerarsi chiuso. Ma non, tuttavia, se si torna a considerare il paradosso per il quale, esecutori della volontà divina, e di ciò, quindi, che era voluto dalla provvidenza, gli Ebrei dovettero tuttavia subire dai Romani la vendetta della vendetta che essi avevano eseguita colpendo in Cristo il peccato commesso dal primo uomo. Che alla radice di questo ragionamento agissero temi diversi, e una sottile inconseguenza logica rivelasse il loro interno dissidio e la loro impossibile coesistenza, è stato sostenuto, e forse dimostrato, oltre che, rapidamente, in questa, in un’altra occasione, alla quale il lettore può essere rinviato. Ma a ulteriore conferma può osservarsi che se in Cristo, ebreo, era rappresentata l’intera umanità, di questa dovevano essere considerati partecipi, e in questa risolti, anche gli Ebrei che, nell’esserne una parte, erano un momento o un aspetto del suo tutto, da questo né separato né separabile, e con questo concorde. Sì che era assurdo che, per un verso, essi fossero giudici giusti, e per un altro, ma ἅμα, nello stesso tempo, ingiusti e tali che su di essi dovesse cadere la vendetta di chi, appartenendo alla comune umanità peccatrice,
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per eseguirla non avrebbe avuto alcun titolo. Se era così, la conseguenza che dalla premessa avrebbe dovuto esser tratta, era che, come, in Cristo, ebreo morto per la redenzione dell’intero genere umano, la distinzione degli Ebrei dalle genti era caduta, così doveva cadere anche quella fra Ebrei e Romani, parti, gli uni e gli altri, di un tutto indivisibile. Era infatti inconcepibile e impossibile che, tutti essendo parte dell’unica umanità, essi dovessero essere oggetto di vendetta da un’altra parte di essa che dalla propria non era distinguibile e separabile. Era impossibile perché, ragionando con le categorie del tutto e della parte, non c’era parte che potesse distinguersi e separarsi dal tutto, e elevarsi perciò a vendicatrice della parte. Si potrebbe dire di più. La questione prevede infatti conseguenze ulteriori a quelle precedentemente raggiunte. E se la si svolgesse fino a raggiungerle, a venire in luce sarebbe il pregiudizio cristiano nei confronti degli Ebrei, di cui Dante era partecipe. Ma, in questa sede e per questo aspetto, la questione può considerarsi chiusa. 5. Aperta resta, invece, l’altra concernente la linea che, nel sesto del Paradiso, Dante tracciò della storia romana, e del modo in cui la tracciò. La prima considerazione che s’impone come ovvia, e altrettanto singolare, a chi osservi il suo snodarsi nel corso del canto, è che, in questo, l’informazione di Dante era rimasta, nella sostanza, quella che, tanti anni prima, gli aveva consentito di scrivere il quinto capitolo del quarto trattato nel Convivio, e che non molto più di quel che lì era contenuto si trova nel secondo libro della Monarchia, nei luoghi concernenti quella storia e la legittimità dell’Impero in cui era culminata. Difficilissimo, come si sa, è tentar di ricostruire la biblioteca di Dante; che, per le ben note ragioni, andrà considerata come non reale, e cioè da lui posseduta e custodita in un luogo certo, ma ideale,76 usufruita in quelli in cui di consultare libri poté essergli concesso, e poi collocata nella memoria che le circostanze dell’esilio si può immaginare avessero potenziata al di là del suo limite naturale. Fare congetture sulla sua reale estensione è impossibile se, com’è inevitabile, si sia costretti a ricavarla sia dalle citazioni esplicite che compaiono nei suoi scritti, sia da quelle implicite e, in entrambi i casi, la curiosità non può, alla fine, non trasformarsi in delusione. Certo è che se pochi erano i testi dai quali aveva appresa la storia romana, da lui poi esposta nei capitoli quarto e, soprattutto, quinto del quarto trattato del Convivio, da quelle medesime fonti, con poche aggiunte, derivarono gli esempi che, come si è detto, s’incontrano nei capitoli del secondo libro della Monarchia; e nuovi, ma
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non di nuova acquisizione, furono i testi poetici che vi sono citati, Virgilio, Ovidio, Lucano, ai quali saranno da aggiungere i versi tratti dagli Annales di Ennio che ricorrono a II ix 8 e che gli derivarono dalla citazione che, nel De officiis, ne era stata fatta da Cicerone.77 Pochi i testi letterari, e pochi quelli degli storici, che possono, come già fu detto, indicarsi in Floro e in Orosio. A sua volta, il sesto del Paradiso non rivela, nella sua trama, niente che faccia pensare a conoscenze che vadano oltre quelle presenti nelle due opere qui citate e mutino il quadro; che, certo, non fu arricchito in modo sostanziale da quel che sulla storia romana Dante trovava scritto nel Tresor di Brunetto Latini, dal quale è tuttavia certo che trasse l’informazione relativa a Giustiniano,78 non però che abbia ricevute idee idonee a arricchire dall’interno quella che si era formata della storia di Roma. Ma queste sono cose ovvie, e altro resta invece da porre in rilievo. Non può, infatti, sfuggire, e deve di nuovo essere notata, la forte cesura temporale che divide l’osservazione relativa alla «vendetta dela vendetta del peccato antico», eseguita da Tito, con la distruzione del tempio di Gersalemme nel 70 d.C., dall’altra che concerne la Chiesa minacciata dai Longobardi e soccorsa da Carlo Magno: un episodio, come già si è avuto occasione di osservare, avvenuto settecento anni più tardi, e che si riferisce infatti alla vittoria da lui ottenuta nel 774, quando ancora non era Imperatore, sul re Desiderio. Quel che, in quel lungo periodo era accaduto fra Oriente e Occidente, fu imparzialmente ignorato da Dante: come se, al pari di quel che si era verificato nella parte orientale, anche ciò che era accaduto in quella occidentale del mondo non gli avesse offerto niente su cui fosse stato necessario riflettere, niente di cui, quanto meno, fosse convenuto ribadire che era proprio niente, un’assenza di eventi significativi e, in sostanza, soprattutto in Italia, un lungo periodo di inedia spirituale e politica, un periodo di decadenza. Di tutto questo si è già parlato; e non è necessario che vi si ritorni qui dove, piuttosto, interessa notare che l’intenzione dantesca non sarebbe interpretata nel giusto senso se soltanto alla povertà delle nozioni di storia romana, di cui era in possesso, si attribuisse la facilità con cui egli sembrò non dar rilievo alla distanza che separava quei due momenti, a ignorare quel che fra l’uno e l’altro era comunque accaduto, e a consentire che, fra l’evento della distruzione, a opera di Tito, del tempio di Gerusalemme e il soccorso dato da Carlo Magno alla Chiesa di Roma minacciata dai Longobardi permanesse il vuoto di cui si è parlato. Dopo tutto, Dante sapeva bene che, in quel lungo intervallo, erano accadute cose che avevano segnato a fondo, e non con il tratto della positività, la storia dell’Occidente. Sapeva che in questa
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parte del mondo si era formato e dissolto l’Impero carolingio mentre quello romano/germanico, che gli aveva tenuto dietro, stentava a essere quel che egli avrebbe voluto che fosse. È perciò notevole che, essendo in grado di misurare la lunghezza eccezionale del periodo compreso fra quelle due date, e forse anche di avere qualche notizia di quel che, comunque, vi era accaduto, egli non spendesse una parola per avvertire il lettore che in quei settecento anni si erano determinate situazioni che, più o meno lontane, erano tuttavia alla radice di quelle che definivano il presente, e agli uomini che lo vivevano procuravano preoccupazioni, dolori, infelicità politica. In realtà, la prontezza con cui Dante aveva omesso di riferire quel che in quei settecento anni era accaduto, ha la sua spiegazione, più che nella debole informazione storica, nell’ansia che egli aveva di ricongiungere al presente il senso degli avvenimenti passati. A dimostrarlo è l’accenno polemico ai ghibellini e ai guelfi contenuto nei vv. 97-111, è la consapevolezza che lo spostamento del centro dell’Impero da Occidente a Oriente aveva fatto sì, o aveva rivelato, che, dove prima c’erano stati Roma e l’Impero, ora c’era il deserto, non perché niente vi fosse accaduto e vi accadesse, ma per la diversa ragione che quel che vi era accaduto e vi accadeva era sì, formalmente, storia romana, essendo tuttavia, nella sostanza, un’altra storia, o una storia nuova, se si preferisce, che si aggiungeva a quella vecchia e vi entrava in problematico rapporto. Se perciò si torna a riflettere sulla linea storica tracciata nel sesto canto del Paradiso a risultarne è il contrasto che, per questo aspetto, vi si nota fra, da un lato, il senso che Dante aveva mantenuto sempre vivo in sé dell’unità sostanziale dell’Impero che, nelle sue due parti, era pur sempre quello che Roma aveva fondato, e, da un altro, quello del profondo differenziarsi, tuttavia, della storia che si svolgeva in Oriente dall’altra che aveva il suo corso in Occidente. Una storia sola se la si ricomprendeva sotto il segno ideale dell’unico Impero che, per essersi fatto greco, non aveva però cessato di essere romano. Due storie, invece, se le si fosse considerate nelle loro peculiarità e nel loro diverso destino, e delle quali quella orientale era bensì dichiarata esistente, senza che perciò si sentisse la necessità di narrarla, quasi che al segno di Roma avesse ormai, nei fatti, cessato di appartenere. 6. Trarre conseguenze dal silenzio che si mantiene su un evento, o una serie di eventi, è imprudente quando se ne faccia un criterio di interpretazione. Il silenzio, tuttavia, va constatato e interpretato. Dei «cento e cento» anni in cui, a Oriente, l’aquila aveva governato il mondo (v. 9), Giustinia-
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no, lo si è già detto, non ricordò, in effetti, un solo episodio, come se niente di quel che era accaduto gli fosse apparso degno di menzione o, malgrado il suo diverso parere, appartenesse a un’altra storia. Del periodo che va dal 330 d.C., ossia dall’anno del trasferimento che Costantino aveva eseguito della capitale da Roma a Bisanzio, al 527 quando fu elevato alla dignità imperiale, Giustiniano non disse una parola; e se Dante fece che tuttavia ricordasse il grande impegno che aveva profuso nell’opera consacrata alla riforma delle leggi, dell’opera di Costantino non ricordò, lo considerasse soggetto o oggetto, se non che aveva volto «l’aguglia […]/ contr’al corso del ciel», e dell’importanza del suo governo sembrò non aver notizia o non volere far conto. Se non fosse stato per il ricordo della distruzione del tempio di Gerusalemme a opera di Tito, potrebbe persino dirsi che la storia dell’Impero, che nell’idea seguitava a essere vivo e reale, nei fatti avesse avuto fine, per lui, con il principato di Tiberio e con il dramma della morte di Cristo. Era come se, con la suddetta eccezione, dall’anno della crocefissione al 330 non ci fosse stato evento che avesse meritato di essere ricordato: non Costantino, non, come si è detto, lo stesso Giustiniano che, dopo aver ricordato la sua fedeltà alla dottrina della Chiesa, il Corpus iuris civilis, e Belisario a cui aveva delegato le cose della guerra, di sé infatti, non aveva detto altro, e meno che mai aveva raccontato di quanto in Oriente era accaduto durante il suo governo. Il che non può non esser considerato come un’incongruenza, dal momento che quella parte del mondo era pur sempre stata governata «sotto l’ombra dele sacre penne», e, nel segno della continuità, il simbolo del potere era pervenuto nelle sue mani. Non che inserire nel racconto quel che in quella parte del mondo era accaduto nel periodo che dal 330 d.C., ossia dal trasferimento che Costantino aveva fatto della capitale da Roma a Bisanzio, va all’anno, il 527, dell’elezione di Giustiniano, ossia dell’autore del racconto, fosse cosa facile. Non che lo fosse la sua prosecuzione dall’anno 70 al 772 «quando il dente longobardo morse/ la santa Chiesa» e «sotto le sue ali/ Carlo Magno vincendo la soccorse» (vv. 94-96).79 Ma dal completo silenzio che Dante mantenne su quella storia, e su quella occidentale, per la verità, non meno che su quella orientale, è tuttavia lecito ricavare, se non il rifiuto, in ogni senso impensabile, che egli dentro di sé faceva della legittimità dell’istituzione che la realizzava, certo il disinteresse che nutriva per la sua storia, il senso di estraneità che gliene derivava. Dopo aver preso atto, non solo della sua realtà, ma altresì del suo essere anch’essa accaduta sotto il segno dell’aquila, in concreto della storia conseguita al suo volo verso Oriente Dante si disinteressò. Sembrò
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che a essa o non attribuisse importanza, o preferisse non narrarla: non solo, e non tanto perché più che debole fosse l’informazione che aveva potuto procurarsene, quanto piuttosto perché, sebbene legittima, a quella storia l’inizio era stato dato da Costantino, ossia da colui che, facendosi autore della famosa Donazione, tanto aveva nuociuto al mondo. E questo, come si è detto e ripetuto, Dante non poteva dimenticarlo. L’apprezzamento della sua opera, e il significato che comunque riconosceva a essa nel quadro della storia imperiale di Roma, erano la conseguenza della logica provvidenzialistica che egli vedeva all’opera e riconosceva nella storia, e che lo obbligava a quel riconoscimento. Ma, come si vide, non fino al punto di sanare fino in fondo la ferita che, con la sua Donazione, quell’imperatore aveva inferta al mondo, che ne era stato, in effetti, «distrutto».80 7. Tra i fatti osservati sotto il profilo provvidenzialistico e gli stessi considerati per quel che erano in sé stessi, nella loro fattuale immediatezza e nelle conseguenze che ne erano derivate, la conciliazione, se a entrambi i criteri si fosse tenuto fermo, sarebbe stata in sede concettuale, impossibile. In che senso l’edificazione di un mondo positivo poteva andare insieme alla sua distruzione? Era necessario scegliere: o si stava ai fatti e li si considerava per come apparivano alla considerazione empirica o, se si preferisce, storica, che si fosse fatta di essi, o li si trasferiva nella luce della provvidenza, dove il primo significato era passibile di capovolgimento. Al di fuori della prospettiva provvidenzialistica, tenerli insieme era impossibile: solo in questa la «distruzione» del mondo poteva costituire la premessa della sua ricostruzione, o addirittura coincidere con questa, elevata a un più alto significato. Se, la ragione diceva che la prevalenza doveva essere assegnata al secondo profilo, al profilo provvidenziale, perché in questo, e non nell’altro, stava la verità, resta che quest’ultimo essendo tuttavia ineliminabile e tale che la memoria non poteva cancellarlo, il contrasto in cui si poneva con il primo era pronto a ripresentarsi e a generare sofferenza. Come si è già notato, Dante aveva messo Costantino in Paradiso, perché l’effetto nefasto che era derivato dal suo gesto non aveva cancellato, ai suoi occhi, la purezza dell’intenzione con cui era stato compiuto e perché, comunque, la riflessione che aveva condotto sulle sue azioni aveva imposto la conclusione che di un nesso causale che nella Donazione indicava la ragione del trasferimento della sede imperiale in Oriente, non poteva parlarsi, e egli, infatti, non ne aveva parlato. Il viaggio di Costantino era avvenuto nel segno dell’aquila: era quindi, e in primo luogo, conseguenza
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della volontà di Dio. Ma il riconoscimento che, procedendo su questa via, era stato costretto a dargli, e la transvalutazione degli eventi in termini provvidenziali non erano tuttavia bastati a cancellare, nel suo cuore e nella sua mente, il filo del rancore che, dall’effetto, risaliva alla causa; che sì, nell’intenzione, era stata una buona causa, ma dell’effetto che ne era scaturito come si poteva dimenticare la negatività? Da questo sentimento, che gli stava dentro e non poteva essere cancellato, nonché dalla difficoltà che incontrava a non trasferire sul donatore la negatività che constatava nell’obiettività del dono e nella cieca cupidigia di chi l’aveva sollecitato e poi accettato, derivò probabilmente la scelta che Dante fece, di rimanere con il suo discorso, in Occidente, ma senza tuttavia spingersi oltre, se si guarda bene, e come conviene ripetere, l’età del principato di Tiberio e della crocefissione. Non senza tuttavia che, a questo punto, nella sua visione e rappresentazione di quel che, in questa parte del mondo era accaduto, si determinassero alcune specifiche incongruenze, che occorre mettere in luce, e sulle quali si deve ragionare. 8. Si sa, e constatarlo non è difficile, che uno dei temi ispiratori di questo canto è la polemica che, percorrendolo da un capo all’altro, culmina nelle esplicite parole che, messe sulla bocca di Giustiniano, ai vv. 103-111, Dante diresse contro i ghibellini e i guelfi. Vi si è già accennato. Ma deve ribadirsi che era una polemica che, mentre andava indietro nella direzione del suo passato, riguardava tuttavia il presente. Se non risaliva a tempi addirittura anteriori, apparteneva a quelli in cui Dante aveva preso la decisione di far parte per sé stesso. E tuttavia non riusciva, in questo canto, a scendere a maggiori profondità: non perché a lui facessero difetto le ragioni che l’avevano indotto a operare quella scelta, ma per l’altra che, dal quadro storico che aveva dipinto, non emergevano esempi dai quali risultasse che quelle due fazioni avevano dimostrato di aver superata la disposizione negativa e distruttiva che le animava, e a riconoscere sul serio, non solo nei pensieri e nelle dottrine, ma nelle cose, le distinte ragioni, dell’Impero di Roma da una parte, della Chiesa, da un’altra. Il conflitto che quelle due parti avevano rinnovato nel tempo era, esso stesso, il riflesso della crisi in cui l’una e l’altra erano state coinvolte. Indicare nell’una o nell’altra la causa della crisi significava restare sul piano della controversia politica e a non coglierne, per conseguenza, la radice. Occorreva scendere in profondità e, come Dante aveva accennato attraverso le parole di Brunetto Latini, andare oltre la contrapposizione.81 A sostegno della sua tesi, aveva
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addotto due esempi: uno tratto dalla storia stessa di Giustiniano e illustrato dalle sue parole, l’altro ricavato da quella, di secoli posteriore, della Chiesa minacciata dai Longobardi di Desiderio e salvata da Carlomagno. Erano esempi che, per ragioni diverse ma convergenti, non provavano quello a cui egli alludeva, e cioè la buona disposizione che il «sacrosanto segno» o, che si dica, l’«uccel di Dio», rivelava a rendere possibile l’incontro e la collaborazione dell’Impero con la Chiesa. Che vi alludesse è sicuro se, ai vv. 31-33, Giustiniano aveva invitato Dante a considerare, ed era una notazione percorsa da doloroso sarcasmo, «con quanta ragione/ si move contr’al sacrosanto segno/ e chi ’l s’appropria e chi a lui s’oppone». Ma l’esempio che egli offriva dell’unità che, in quel momento, si sarebbe realizzata fra i due poteri, non era pertinente, conteneva in sé una sorta di disguido. È vero che, secondo quel che narrava a Dante, il quale aveva presenti, al riguardo, le parole che leggeva in Martino Polono,82 Giustiniano, e già lo si è visto, aveva «commendato» le armi, ossia la cura delle cose riguardanti le guerre, al suo fidato generale Belisario e a sé aveva riservato il lavoro dei codici, che gli era stato ispirato direttamente da Dio, al quale, nel compierlo, sentiva perciò di obbedire. È vero che, com’egli stesso diceva, il rapporto suo con la Chiesa cristiana era stato reso indissolubile dalla conversione83 che egli aveva operata delle sue convinzioni monofisite in quelle sostenute dai teologi pontifici circa la doppia natura, umana e divina, del Cristo, e che con la Chiesa, da quel momento, aveva intrattenuto un rapporto che non si era mai sciolto. Ma queste erano pur sempre scelte che, rilevanti che fossero sul piano politico, non importavano che il governo degli uomini viventi nell’ambito dell’Impero di Roma fosse esercitato, nel segno della collaborazione, ma anche della distinzione, dall’imperatore e dal papa e che, in quel tempo, i due soli avessero diffuso sul mondo una luce insieme diversa e concorde. Che Giustiniano ci tenesse a mettere il grande lavoro da lui speso per trarre dalle leggi «il troppo e ’l vano» sotto il segno di Dio, del «primo Amor», diceva, «ch’i’ sento», è concetto affermato e ribadito con forza: «tosto che con la Chiesa mossi i piedi,/ a Dio per grazia piacque d’ispirarmi, l’alto lavoro, e tutto a lui mi diedi» (vv. 22-24). Ma «muovere i piedi» con la Chiesa, ossia procedere in accordo con la sua dottrina, significava, in questo luogo, non che il governo del mondo dovesse essere diviso con il pontefice e essere perciò duplice. Significava condividere la sua teologia e trarne ispirazione per un’opera, la riforma dei codici, che non toccava la questione della parte che, nel governo delle cose umane, doveva esser fatta a essa e al suo capo. Allo stesso modo, da Giu-
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stiniano passando a Carlomagno e al soccorso da lui dato alla Chiesa di Roma, incorrerebbe certamente in errore chi ne deducesse che, fra imperatore e papa, si fosse allora, a giudizio di Dante, realizzata una collaborazione tale che, avendo la mira, l’uno alla felicità che quaggiù «avere si puote», l’altro a quella celeste, entrambe, distinte e unite, avessero, ciascuna per la sua parte, concorso alla felicità e alla pace. L’idea dei due soli aveva avuto attuazione, secondo Dante, che di ciò non era mai riuscito a offrire il documento sicuro e a indicare il momento certo, nella storia di Roma «che ’l buon tempo feo»,84 ossia in una fase del tempo storico, che non si sapeva tuttavia quale mai potesse essere stata, se doveva comunque restar fermo che nella città che aveva fatto «il buon tempo» c’era bensì l’imperatore, ma il papa non c’era e, quando cominciò a esserci, mai fu congiunto con lui, e insieme da lui distinto, nel governo dell’umanità per il bene di questa. Ma, a parte l’anacronismo per il quale egli la vedeva realizzata in quello che definiva il «buon tempo» di Roma, e non precisava, infatti, quale fosse, nemmeno era lecito indicarne il documento nell’aiuto che Carlomagno aveva dato a Adriano I; che, nella rappresentazione che Dante ne aveva fatta, era stato bensì un aiuto che il primo aveva offerto al secondo, salvo che poteva e doveva vedervisi un evento, non istituzionale (l’incontro e la collaborazione di due poteri), ma politico, soltanto politico: il soccorso che, in un momento particolare, l’uno aveva dato all’altro.85 In effetti, si era determinata, in Dante, una singolare discrasia. Da una parte, si dava, ai suoi occhi, lo spettacolo della non collaborazione, anzi, addirittura, dell’ostilità che l’un potere nutriva verso l’altro; e di questo stato delle cose un aspetto essenziale era fornito dal settarismo sia dei guelfi sia dei ghibellini che quel contrasto «ideale» avevano poi moltiplicato e contaminato in tante diverse ragioni di scontro. Non c’erano, infatti, soltanto loro, i guelfi e i ghibellini, considerati dal punto di vista dell’originaria contrapposizione, c’erano le altre, molteplici, fazioni che, formatesi nel tempo, si erano contrapposte all’interno dell’una e dell’altra. Da un’altra, si dava l’idea dell’Impero che, contro ogni evidenza, Giustiniano considerava cosa reale, se deplorava che, colpevolmente, quelle due parti l’avessero ignorato e calpestato: salvo che, anche qui, non si capiva bene se quel che tali parti si ostinavano a non apprezzare fosse per lui, e per Dante che gli dava la parola, realtà o idea. Per un verso, certamente era realtà, perché realtà era l’idea. Ma, per un altro, contro la premessa, rischiava di essere idea, soltanto idea, resasi indipendente dal corpo vivo dell’Impero e sopravvissuta alla sua fine. L’esempio di Carlomagno e di Adriano I era niente più che un’ec-
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cezione, negata e calpestata dalla regola a cui si conformavano coloro, ed erano i più, che non riuscivano a vivere se non nel segno della contrapposizione e dell’odio. Questo contrasto fa avvertire la sua presenza lungo l’intero canto. Nelle sue due direzioni, il volo dell’aquila era a testimonianza della grandezza della storia di Roma, sia nella parte descritta, che è quella che, provenendo da Oriente giungeva in Occidente e lì compiva la grande impresa dell’Impero, sia in quella non descritta, e non più che oscuramente accennata, che da Occidente si dirigeva verso Oriente, e che Dante, in effetti, non narrava e non rievocava neppure per il tramite di qualche esempio. Deve comunque restare fermo che la grandezza dell’impresa culminata nella fondazione dell’Impero non aveva niente a che vedere con la questione dei «due soli»; sì che è di quella, della passata grandezza, che i guelfi e i ghibellini avrebbero se mai potuto fare esperienza, non di questa che, nei fatti, non ebbe mai alcun riscontro. III Romeo di Villanuova 1. Questo non significa, naturalmente, che, meditando sul senso della storia che si era svolta nella parte occidentale, chi la viveva e ne era coinvolto non avesse il dovere di riconoscerne l’importanza e di comportarsi in modo conforme. Ma alla maestà dell’Impero e della sua idea i guelfi avevano contrapposto i gigli gialli del re di Francia, i ghibellini l’avevano ridotta a simbolo di una parte («l’uno al pubblico segno i gigli gialli/ oppone, e l’altro appropria quello a parte,/ sì ch’è forte a veder chi più si falli»).86 Concordemente, perciò, gli uni e gli altri avevano proceduto e procedevano in senso contrario a quello che avrebbe dovuto essere il loro, e ne sarebbero stati puniti. A questo punto, da indignato il tono si faceva sarcastico. I ghibellini erano invitati a perseverare nel loro costume e, facendo «lor arte sotto altro segno», a tradire l’universalità dell’idea imperiale; i guelfi a non illudersi che Carlo II d’Angiò sarebbe riuscito ad aver ragione del simbolo imperiale e che l’aquila non sarebbe stata in grado di far sentire a lui e alla sua parte la forza dei suoi artigli «che a più alto leon trasser lo vello» (v. 108).87 A sua volta, da sarcastico, il discorso si faceva oscuro con la profezia relativa ai figli condannati a soffrire per le colpe dei padri: non essendo infatti possibile decidere se il monito riguardasse soltanto quello specifico re angioino, destinato a patire in sé le conseguenze
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delle imprese di suo padre Carlo I, o, andando indietro nel tempo, alludesse a precedenti vicende. Certo è che, a partire dal v. 112, il mutamento di scena è fulmineo. La battuta sulle colpe dei padri destinate a ricadere sui figli chiudeva, se veramente la chiudeva, la rievocazione della storia imperiale di Roma; e con la risposta data da Giustiniano al secondo quesito che Dante gli aveva posto nel canto precedente (V 127-129: «ma non so chi tu sè né perché aggi,/ anima degna, il grado dela spera/ che si vela ai mortal con altrui raggio»), conduceva alla delineazione della vicenda di Romeo da Villanuova, ossia al momento che, essendo poeticamente il più alto del canto, pone tuttavia il problema della sua connessione con quel che lo precede, e del significato che, dopo aver riconosciuta la sua poeticità, deve essergli attribuito. L’episodio è preceduto dalla spiegazione che Giustiniano aveva fornita a Dante della gioia, e della qualità della gioia, goduta dalle anime che, al pari della sua, avendo la loro sede, o avendola ai suoi occhi, nel cielo di Mercurio, erano appartenute, in vita, a personaggi che l’avevano spesa nell’agire perché ne conseguissero «onore e fama». Ne discendeva che «quando li desiri poggian quivi,/ sì disviando, pur convien che i raggi,/ del vero amore in sù poggin men vivi./ Ma nel commensurar di nostri gaggi/ col merto è parte di nostra letizia,/ perché non li vedem minor’ né maggi./ Quindi addolcisce la viva giustizia/ in noi l’affetto sì che non si puote/ torcer già mai ad alcuna nequizia./ Diverse voci fanno dolci note:/ così diversi scanni in nostra vita/ rendon dolce armonia tra queste rote» (vv. 115-125).88 La differenza che, in una situazione altra da quella paradisiaca, sarebbe stata causa di invidia, faceva parte, in questa, della letizia di cui queste anime godevano; e l’implicito richiamo all’invidia e alla sua assenza nelle anime beate, quello esplicito alla musicale armonia che ne era causa e conseguenza, introduceva, per contrasto, il tema che caratterizzò la vita infelice di Romeo di Villanuova. Del quale è detto tutto quando, leggendo i versi che Dante gli dedicò, se ne dichiari l’intensità e la bellezza, che chi fosse in possesso delle arti del critico potrebbe illustrare ai suoi lettori meglio di quel che possa chi, qui e ora, si trovi a esserne privo. Ma, non è, tuttavia, soltanto perché non si sappia sostare sull’alto gradino della poesia che, per sé, non chiede troppe parole, e, forse, dopo il segno che la indica, nessuna parola, non è per questo che ci si interroga sul perché Dante mettesse fine al canto dedicato alla storia dell’aquila imperiale e alle sue vicende comunque provvidenziali, introducendovi, a suggello, l’episodio di questo cortigiano, tanto infelice quanto virtuoso.
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2. Si è ricordata, a riscontro della vicenda di Romée, o Rimieu, di Villeneuve, quella di Pier della Vigna.89 Si è ricordata l’invidia che, essendo la regina delle corti, fece la sfortuna di entrambi: salvo che, anche questo si è notato (e a ragione), se il ministro di Federico II si era reso ingiusto togliendosi la vita e meritandosi l’Inferno, il ministro di Raimondo Berengario IV, conte di Provenza, si era mantenuto fedele alla sua virtù, aveva saputo sopportare la vita che gli era stata resa misera e infelice, l’aveva mendicata «a frusto a frusto» (v. 141) senza lamentarsene, sì che, se il mondo avesse saputo «il cor ch’elli ebbe» nel vivere questa vicenda, assai più di quanto non lo lodi, lo loderebbe. Ma non sembra che si sia chiesto, e comunque deve chiedersi, perché Dante sentisse di dover chiudere il solenne canto sesto con la storia di un personaggio che, per virtuoso che fosse stato nel sopportare invidie, ingratitudini e crudeli ingiustizie, non apparteneva tuttavia, in senso proprio, alla storia dell’aquila, non aveva niente a che vedere con l’Impero, e nemmeno con i suoi nemici, e, per la vicenda che aveva vissuta, faceva storia a sé. È vero, e notarlo è giusto, che «questa picciola stella si correda/ d’i buoni spirti che son stati attivi/ perché onore e fama li succeda» (vv. 112-114), e che, con questi versi, Dante rispondeva alla domanda formulata, nel canto precedente. «Io veggio ben sì come tu t’annidi/ nel proprio lume, e che degli occhi ’l traggi,/ perch’e’ corusca sì come tu ridi;/ ma non so chi tu se né perché aggi,/anima degna, il grado dela spera/ che si vela a’ mortai con altrui raggi».90 Ma se la ragione per la quale le anime che si trovavano in quel cielo era la stessa per tutte, diversi erano tuttavia i personaggi che, nel sesto canto, comparivano come protagonisti, anche se di diverse storie: da una parte Giustiniano, protagonista assoluto e narratore, oltre che delle imprese dell’Aquila, anche della vicenda di Romeo, da un’altra quest’ultimo con la questione che poneva per esser stato scelto a concludere con la sua, umile, il racconto di una storia che, nelle precedenti parti del canto, aveva avuto come autori grandi personaggi. Insomma, Romeo di Villanuova non era Giulio Cesare. Perché, a suggello di un canto che raccontava le gesta di uomini di quel grado, Dante aveva scelto di porre la sua, di tanto più modesta e appartenente a un’altra storia? Che appartenesse a un’altra storia, è indubbio. Ma siamo sicuri che in qualche modo non appartenesse anche a quella ripercorsa nelle parti anteriori del canto? 3. Da più di un commentatore si è detto che Romeo è una controfigura di Dante, exul immeritus.91 Ed è osservazione ovvia, la prima che venga alla mente, anche perché quel personaggio dantesco sembra fatto su mi-
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sura per attrarre le identificazioni. Cinque secoli fa, uno scrittore politico di assoluta eccezione che, senza essere un dantista, della Commedia era lettore assiduo, esperto e assai acuto, a un amico che non gli era inferiore per ingegno, ma né nel talento letterario gli era pari, né nella conoscenza del poema dantesco, propose che, per venire a capo di una delicata vicenda privata che lo riguardava, si rifacesse alla storia di Romeo di Villanuova, e all’opera da lui data per trovare un degno marito alle quattro figlie del suo signore («quattro figlie ebbe, e ciascuna reina»). Il primo personaggio era Niccolò Machiavelli, quello al quale consigliava la lettura dei versi di Dante, era Francesco Guicciardini che, essendo allora il governatore pontificio della Romagna, si trovava ad avere un problema analogo a quello di Raimondo Beringario: doveva trovare la dote per le sue figlie, che erano ormai in età da marito. Si sa come la storia finì. Quando ricevette la lettera che il suo amico gli aveva spedita Guicciardini non aveva sottomano un testo della Commedia. Lo fece cercare per tutte le Romagne e, avutolo, dovette constatare che «non ci era la glossa»,92 sì che non gli era stato dato di capire in che senso la storia che vi era narrata potesse riguardarlo e se gli fosse stata proposta a proposito. In realtà, all’autorevole governatore, in forma scherzosa, ma non senza una vena di malinconica amarezza, Machiavelli aveva indicato il suo caso di uomo che, dopo aver fedelmente servito il governo fiorentino al tempo della Repubblica soderiniana, ne era stato compensato nel modo che il suo amico ben conosceva. Ironicamente, Machiavelli indicava in sé stesso il Romeo della situazione. Ma il caso descritto da Dante come un exemplum del suo, in che cosa era simile a quello di Machiavelli? Per certi aspetti sì, lo era, e in forma persino più grave. Essendo stato bandito da Firenze con sul capo una condanna a morte riguardante lui e i suoi figli, di quella, se fosse stato catturato, sarebbe certo stato vittima. Ma, per un altro verso, no. Al Comune di Firenze egli non aveva dato, negli anni della sua milizia politica, niente che fosse paragonabile al lavoro che, in favore di quello, era stato eseguito da Machiavelli, che per quindici anni era stato a capo della seconda Cancelleria, e non si era mai dato tregua, i suoi giorni non li aveva «né dormiti né giocati». In che cosa allora la malinconia di Dante poteva essere paragonata a quella di Romeo, e al comportamento che quello aveva seguìto dopo che aveva lasciata la corte del suo signore? Dante aveva seguitato a combattere contro quelli che lo avevano costretto a lasciare la sua città. Dopo aver deciso di far parte per sé stesso, a non pochi, come Cacciaguida gli aveva profetizzato, aveva fatto sentire quanto bruciasse la sua parola «brusca», che aveva poi univer-
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salizzata scrivendo la Commedia. Se aveva conosciuto il dolore della sua condizione e inclinato alla malinconia, a questa aveva fatto seguire la nota dell’orgoglio con il quale aveva sfidato il mondo: a differenza di Romeo, che era rimasto solo con sé stesso, era «povero e vetusto», e, chiuso nel suo riserbo, al mondo non aveva dato notizia del dolore che nascondeva in sé e che, se fosse stato conosciuto, gli avrebbe garantita, a un più alto grado, la compassione, l’ammirazione e il rispetto. All’orgoglio, e anche alla superbia, di Dante aveva fatto riscontro, in lui, il dignitoso silenzio, la nobile rassegnazione. Per questo riguardo, la malinconia di Dante non aveva riscontro in quella di Romeo, e men che mai in quella di Machiavelli che, nello scrivere a Guicciardini e nel dargli quel consiglio, poteva ben paragonarsi a quel personaggio e, al pari di lui, dirsi abbandonato e negletto. Insomma, entrambi, Dante e Romeo, erano exules immeriti, ma solo per il modo opposto in cui avevano vissuta quell’esperienza, avrebbero potuto essere messi a confronto. Si deve dunque concludere che, fra il discorso di Giustiniano e i versi dedicati alla malinconica avventura del ministro di Raimondo Beringario non c’è alcun nesso, che i versi che la raccontano costituiscono un’unità a sé, in sé conclusa e in sé apprezzabile, e che si deve rinunziare a cercarvi, non si dice l’unità poetica, che è comunque altra cosa, ma nemmeno quella del significato che, intrinseco al momento storico e politico del canto, non si estenderebbe dunque fino a comprendere il racconto della vicenda di Romeo? Oppure deve dirsi che un nesso c’è, ed è quello indicato da chi, nelle parole spese da Giustiniano per dar vita a questo così modesto episodio, ha visto «un tratto di giustizia in azione nel riabilitare con forza d’indignazione un giusto calunniato»?93 4. In realtà, il nesso c’è, e va persino oltre la ragione strutturale che assegna al medesimo cielo i personaggi che, più che alla contemplazione delle cose ultime, avevano dedicata all’azione, e alla giustizia, la loro vita. Per quanto a prima vista la cosa possa sorprendere, Romeo di Villanuova si trovava nel cielo che ospitava le anime di uomini di quella natura; e niente perciò autorizza a credere che, nelle linee che gli furono dedicate sia narrata niente più che una storia privata, senza relazioni, non si dice con le vicende della corte di Raimondo Beringario, perché questo non corrisponderebbe alla realtà della vicenda, ma con quella che occupa la gran parte del discorso di Giustiniano. È lui, infatti, e si deve non dimenticarlo, l’autore del racconto riguardante la vicenda di Romeo di Villanuova; e, se è lui, nelle parole dedicate a questo, che era stato pur sempre un personag-
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gio politico, deve necessariamente vedersi qualcosa di comunque ulteriore alla rivendicazione della sua privata, silenziosa e solitaria onestà. Che cosa si sta proponendo? Non certo che, dietro la figura di Romeo, debba vedersi quella di Beringario, oggetto, com’è stato supposto, del rimorso di Giustiniano.94 Nel rispondere alla domanda formulata qui innanzi si sta proponendo di considerare che, fra il v. 126 e il successivo non è percepibile nessuna frattura o discontinuità. Non si dà nell’attitudine del soggetto narrante nessun mutamento di tono: come quello che si avvertirebbe, e dovrebbe avvertirsi, se Dante avesse fatto sì che il discorso di Giustiniano terminasse con il paragone fra le «diverse voci», che «fanno dolci note», e i diversi gradi della beatitudine paradisiaca, e il resto appartenesse a lui, alla libera sua narrazione di un caso che l’aveva colpito e gli sembrava che, non a sproposito, sarebbe stato raccontato a conclusione del grande discorso di quell’imperatore, se è vero che «diverse voci fanno dolci note». Come si diceva, niente c’è nei versi che autorizzi a pensare, non si dice a un cambio di soggetti narranti avvenuto fra Giustiniano e Dante, ma a un radicale mutamento di orizzonte storico. A narrare è sempre Giustiniano, la voce è sempre la sua, e questo è ovvio. Meno ovvio è che fosse lui a introdurre in un discorso, che si era mantenuto sulla linea della grande storia, ed era quindi salito fino al vertice di una spiegazione teologica relativa alle beatitudini del Paradiso, un episodio che a quella, alla grande storia, certo non apparteneva, non fosse perché di Romeo si narrava, non la vita che aveva vissuta come uomo di corte, ma l’altra che, «povero e vetusto», a causa dell’ingratitudine del suo signore aveva mendicata «a frusto a frusto» (v. 146). Errerebbe, tuttavia, chi nell’episodio di Romeo di Villanuova seguisse solo la linea dell’umano compianto, e ignorasse quella politica, trascorsa e, tuttavia, presente nelle tristi conseguenze che ne erano derivate. Nel discorso di Giustiniano la rievocazione del caso di Romeo di Villanuova ha, in effetti, il significato e il valore di una variatio, che, in quanto tale, necessariamente riconduceva a uno dei grandi temi svolti in precedenza. Come aveva cambiato registro passando dal politico al teologico, così ora lo mutava di nuovo, e dal teologico trascorreva a un episodio che, appartenendo a un più modesto ambito, era tuttavia politico anch’esso, sì che non gli era sembrato che sarebbe stato ricordato a sproposito se lo si fosse posto a conclusione dell’intero discorso. 5. Non può pretendersi che quanto ora si dirà appartenga al piano delle cose certe, e non invece a quello delle spiegazioni possibili. Non c’è prova
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che la ragione per la quale Dante concluse il solenne canto dedicato ai due, opposti, voli dell’aquila, stia dove, in questa sede, la si indica, e non altrove, in un luogo al quale la mente qui e ora non è in grado di salire. Sia pure così. Ma resta fermo che se il cielo di Mercurio è abitato dalle anime di coloro che in vita furono giusti, si spesero per il bene comune e, nel perseguirlo, non rinunziarono al riconoscimento e alla fama, non c’è ragione né di credere che a questa idea della vita Romeo di Villanuova non avesse conformata la sua, né di dimenticare che, storicamente considerato, il suo fu un episodio appartenente a un sistema o, se si preferisce, a un universo politico diviso, lacerato, privo di una voce che, scendendo, come a Dante sarebbe piaciuto, dall’alto, ogni particolare fosse stata in grado di ricondurre alla regola, a tutto conferendo ordine e armonia. Può ben ritenersi, e niente c’è, di esplicito e di noto, che si opponga a questa conclusione, che nella mente di Dante fossero ancora e sempre vive le parole che, nel quarto trattato del Convivio, erano state da lui spese per descrivere l’anarchia dei regni particolari e dei piccoli Comuni divisi in sé stessi in potenziale o attuale conflitto gli uni con gli altri, ai quali soltanto la viva voce dell’imperatore avrebbe potuto imporre la concordia e la pace, mentre sarebbero stati destinati a permanere nel conflitto, e a consumarvisi, ove questa o fosse mancata o non fosse stata forte abbastanza da imporsi a tutti. L’Imperatore era chiamato così «però che di tutti li comandamenti elli è comandatore, e quello che esso diede a tutti è legge, e per tutti dee essere obedito e ogni altro comandamento da quello di costui prendere vigore e autoritade».95 A lui spettava di tenere i re «contenti nelli termini delli regni, sì che pace intra loro sia, nella quale si posino le cittadi, e in questa posa le vicinanze s’amino, [e] in questo amore le case prendano ogni loro bisogno, lo quale preso, l’uomo viva felicemente; che è quello per che esso è nato» (IV iv 4). Allo stesso modo, vive erano in lui, a qualunque data quest’opera appartenga, le parole scritte nel primo libro della Monarchia, nel luogo in cui è detto che doveva intendersi (sic intelligendum est) «ut humanum genus secundum sua comunia, que omnibs competunt, ab eo regatur et comuni regula gubernetur ad pacem. Quam quidem regulam sive legem particulares principes ab eo recipere debent, tanquam intellectus practicus ad conclusionem operativam recipit maiorem propositionem ab intellectu speculativo, et sub illa particularem, que proprie sua est, assumit et particu lariter ad operationem concludit».96 Partito da questi pensieri, dei quali, almeno nel suo primo tratto, il volo vittorioso dell’aquila aveva confermato la bontà, la conclusione a cui, nel suo discorso, Giustiniano era giunto, non
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aveva potuto confermare la premessa. L’esaltazione dell’Impero, e s’intenda di quello di Occidente, consentiva che nel suo fondo si cogliesse una nota diversa, che con quel sentimento contrastava e, nell’intrinseco, lo capovolgeva. Delineava infatti l’idea che, dopo aver raggiunto il culmine della perfezione con Tiberio, le cose avevano cominciato a declinare e a decadere. Pervenuta a Occidente, l’aquila aveva per secoli governato sapientemente il mondo. Trasferitasi in Oriente, per due secoli e più (parole, non si dimentichi, di Giustiniano) aveva svolto la medesima funzione. Ma di qui, bruscamente, il discorso si fermava, ed era anzi come se Dante fosse tornato indietro. Poi, raggiunto il suo momento supremo nel principato di Tiberio, senza che di ciò si desse alcuna spiegazione le cose erano cambiate, e su quel che in Occidente era avvenuto dopo che Tito ebbe distrutto il tempio di Gerusalemme, Giustiniano, come a suo tempo si notò, aveva taciuto. Non si forza, tuttavia, il senso del suo silenzio se vi si indovina presente il pensiero della decadenza che, comunque Dante la nominasse, intanto era intervenuta nella parte occidentale del mondo. Senza che, formalmente, lo dichiarasse mai, senza che s’interrogasse sul come e sul perché, il pensiero che è lecito ricavare dal modo in cui condusse il suo discorso è che, nella parte occidentale, l’unità si era indebolita fino a perdersi, la maestà dell’Impero era stata disconosciuta sia dai seguaci dei re particolari, e questi erano i guelfi, sia da coloro che, celebrandola a parole, nei fatti la tradivano, e questi erano i ghibellini: erano coloro che il discorso dell’imperatore colpiva con forti parole accusatrici. 6. Sembrerà strano che, giunti a questo punto, e mentre oggetto del discorso è la domanda relativa alla ragione per la quale il canto sesto si chiude con l’episodio di Romeo di Villanuova, alla questione si ponga una pausa per chiedere perché, giunto nel cielo di Mercurio, Dante pensò di trattare del trasferimento a Oriente della sede dell’Impero, e a Giustiniano fece dire le parole che fin qui si sono ascoltate. Nei canti precedenti la nota politica, o etico-politica era rimasta assente, e solo in modo indiretto era affiorata nel discorso che, nel canto quinto, Beatrice aveva svolto intorno alla questione dei voti; che dovevano esser presi dopo aver pensato bene a ciò a cui obbligavano e perché non accadesse quel che troppo spesso si dava a vedere, e cioè che fossero non rispettati e infranti: «non prendan li mortali il voto a ciancia» (v. 64), con quel che segue e con le parole famose: «siate, cristiani, a muovervi più gravi:/ non siate come penna ad ogne vento,/ e non crediate ch’ogne acqua vi lavi!/ Avete il novo e ’l vecchio Testamento,/
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e il pastor dela Chiesa che vi guida:/ questo vi basti a vostro salvamento,/ Se mala cupidigia altro vi grida,/ uomini siate, e non pecore matte,/ sì che ’l giudeo di voi tra voi non rida». A questo punto il discorso dottrinale si era animato, la disposizione all’invettiva aveva dato segno di sé, e, sebbene il discorso fosse rimasto chiuso nell’ambito etico-religioso, il passaggio alla considerazione politica era stato preparato e reso possibile: in modo, per altro, non così esplicito che non resti da chiedersi che cosa agisse nel fondo del pensiero di Dante che si accingeva a scrivere con la penna di un imperatore bizantino la storia dell’Impero romano d’Occidente. Il ritorno su questo tema, che è il «luogo d’oro» della sua riflessione storico-politica, e la considerazione della sua storia che, malgrado il suo «esser sempre», al presente conosceva il momento dell’afflizione, erano, a guardar bene, stati determinati dalla passione dalla quale Dante era spinto alla polemica contro i Ghibellini e i Guelfi, che si legge a vv. 97-111 del sesto canto. Era dunque dalla considerazione del presente stato delle cose, e dal declino che lo caratterizzava, che Dante era stato tratto a scrivere la storia dell’Impero romano, dalla constatazione della perdita che nel presente si era fatta della sua antica unità, e da ciò che questa suggeriva al suo pensiero politico. E qui basti questa semplice considerazione. Si sa che, da quando l’esilio l’aveva tratto fuori del suo luogo naturale, Dante si era fatto critico sempre più aspro del presente politico, e delle forti lacerazioni che il conflitto dei partiti produceva nel corpo vivo delle società comunali. Rimpianse perciò la semplicità delle origini, delle quali non fece la storia, ma costruì il mito con le parole di Cacciaguida; e, per tali ragioni, a molti suggerì l’idea che, il dolore che gli era derivato dall’esperienza politica che aveva compiuta nella sua città, lo avesse chiuso alle novità e consegnato al sogno di un passato che non poteva seguitare se non a passare e rifarsi nuovo non poteva se non nel sogno di un reazionario. C’è del vero in questa rappresentazione. Ma si sarebbe tuttavia preda della peggiore semplificazione se non si avesse l’occhio all’aspetto più singolare che questa situazione lascia intravvedere nel profondo di sé. Il sogno del passato e della sua onesta semplicità andava di pari passo, e stava tuttavia in contrasto con l’idea che dal piccolo stato comunale si dovesse, passo dopo passo, salire fino a toccare il limite di uno che coincideva con il tutto, ed era l’Impero. Conservando i suoi caratteri, e qui il rimpianto del passato richiamava su di sé i colori dell’utopia, la piccola città cacciaguidiana era diventata l’Impero universale. Alla radice, Dante aveva capito che l’avvenire apparteneva alle grandi formazioni unitarie, non alle piccole; e, per questo aspetto, mentre
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si volgeva all’indietro a contemplare la purezza delle origini, il suo occhio si spingeva in avanti e affisava un opposto profilo. 7. Da questa condizione di cose, che ora invitava alla protesta violenta e esasperata, e ora declinava verso la malinconia, ora invitava a guardare indietro ma, subito dopo, ad avvertire che l’antico e ristretto orizzonte era chiamato a superarsi e negarsi nella totalità, nacque probabilmente in Dante la disposizione ad accogliere la storia di Romeo di Villanuova, e a collocarla alla fine del discorso di Giustiniano a suggello del medesimo. Gli parve, quella vissuta dal ministro di un piccolo stato, una storia che istruiva sulle sue insufficienze, della quale era documento eloquente l’ingiustizia che, subìta da lui a opera del signore al quale non aveva arrecato se non bene e vantaggi anche personali (le quattro figlie da lui rese tutte regine, l’aumento del patrimonio «sette e cinque per diece»), andava al di là della sua persona. Riguardava, infatti, la condizione di quanti vivevano in piccole comunità politiche in un tempo di decadenza e di crisi, e quindi anche quella di Dante, che dalle vicende interne di un Comune era stato costretto a salire e scendere per l’altrui scale. Se non s’intendesse così, se nella storia di Romeo di Villanova e di Raimondo Beringario, che aveva consentito che il primo se ne andasse solo, povero e vetusto, a mendicare la sua vita «a frusto a frusto», non si vedesse che un’alta pagina di poesia, certo, per quanto riguarda quest’ultima, non ci sarebbe niente da obiettare. Quella che Dante aveva collocata alla fine del sesto canto è effettivamente una pagina di poesia, nella quale, dalle poche parole spese per delinearlo emerge, e resta nella memoria, un personaggio nel quale è compresa e riassunta un’intera gamma di situazioni psicologiche: la fedeltà e la dignità, e, al di sotto dell’una e dell’altra, la fermezza del carattere, l’orgoglio discreto, la dimessa accettazione della povertà e della solitudine, il rifiuto opposto all’esibizione della virtù. Benvenuto da Imola, che dalla storia raccontata da Dante era stato colpito e sollecitato all’aggiunta romanzesca, immaginò che, nel congedarsi dal signore che lo stava licenziando, Romeo dicesse: «‘veni ad curiam tuam pauper et pauper inde recedo’. Et continuo accepta mula et veste sua peregrina, quam ab initio riservaverat, recessit. Comes pudore et dolore confusus, volebat istum retinere, at ille noluit».97 Aveva, in tal modo, alluso alla storia edificante del funzionario integerrimo che, nel rifiutare le scuse del signore pentito e desideroso, dopo averlo ingiustamento accusato e discacciato, di trattenerlo presso di sé, rifiuta e se ne va, vestito di un umile veste, cavalcando una mula; che è proprio
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lo spunto facilior che Dante non raccolse e non svolse, lasciando che il patetico fosse affidato non alle parole, che presso di lui, in effetti, Romeo non pronunzia, ma al suo silenzioso peregrinare alla ricerca del pane. Chi, a questo punto, senta di non poter evitare il paragone di Romeo con Dante, ricorderà quel che egli disse all’amico fiorentino che gli proponeva il ritorno in patria a condizioni per lui inaccettabili. Gli aveva detto che a quel che gli si chiedeva non poteva piegarsi e non si sarebbe piegato: «non est hec via redeundi ad patriam, pater mi; sed si alia per vos ante aut deinde per alios invenitur, que fame Dantisque honori non deroget, illam non lentis passibus acceptabo; quod si per nullam talem Florentia introitur, nunquam Florentiam introibo». Dopo avergli ricordato che anche fuori di Firenze gli era dato di contemplare il cielo e le stelle e di meditare le dolcissime verità («quidni? nonne solis astrorumque specula ubique conspiciam? nonne dulcissimas veritates potero speculari ubique sub celo?») aveva aggiunto: «quippe nec panis deficiet».98 Chi insisterà nel paragone ricorderà che a profetizzare il suo destino di esule sarebbe stato Cacciaguida, che fra le cose di cui Dante avrebbe dovuto fare esperienza, perché «questo è quello strale che l’arco delo essilio pria saetta», c’era anche quella del «pane altrui», che «sa di sale», ma era pur sempre pane e, come aveva detto nell’Epistola a un amico fiorentino, non sarebbe mancato. Resta, tuttavia, che, nella rappresentazione che fece di sé, a Romeo di Villanuova Dante non attribuì una sola parola che suonasse simile a quelle che egli avrebbe spese per sé stesso. Al drammatico e al patetico a cui egli dette espressione aggiungendovi l’alto senso della sua orgogliosa intransigenza, non c’è, in Romeo, niente che corrisponda e lo richiami. Non c’è una sola parola che commenti la sua condizione di uomo costretto a «mendicare» la sua vita. Dante parla, o fa che altri parli per lui. Romeo tace. E se, nel delineare il suo personaggio Dante pensò a sé stesso, fu al contrasto in cui si poneva rispetto a lui che dette espressione. La poesia dell’episodio è nella scabra delineazione di un comportamento in cui l’orgoglio non si distingue dalla modestia, e persino dall’umiltà. E, al riguardo, basti così: con la semplice aggiunta che, forse, nel delineare la figura di Romeo, Dante rese completo il suo stesso personaggio, assegnandogli, per contrasto, non la ribellione e l’invettiva, ma la calma, dignitosa sopportazione dell’ingiustizia. 8. Avrebbe torto, tuttavia, chi, andando al di là, nella vicenda di Romeo di Villanuova non vedesse anche la conclusione umana del discorso politico che Giustiniano aveva svolto descrivendo una storia gloriosa e
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sottendendo, tuttavia, a essa e ai suoi grandi momenti, un tema che andava in senso inverso. In quel discorso era presente, e agiva, la convinzione di una grandezza perduta, e di una decadenza che non mostrava segni di esaurimento; che, senza esser mai dichiarata, agiva tuttavia nel profondo e conferiva al discorso la sua ambigua complessità. L’elogio della passata grandezza conteneva in sé la critica della presente miseria. Romeo di Villanuova non era un personaggio che facesse presagire il ritorno di passate grandezze, o anche soltanto di un’epoca di pace. Si poneva, per dir così, a conferma del contrario perché, nella sua vicenda, era come se Dante avesse riassunto il senso amaro di un declino, di un lungo declino. L’Imperatore che, con il suo esempio, chiudeva la sua grande orazione, si confermava perciò, nella rappresentazione dantesca, un personaggio diviso. Per un verso, apparteneva al suo tempo, tempo di un imperatore della parte orientale che guardava indietro alla storia che da Oriente era andata verso Occidente e lì aveva conosciuto il suo momento più alto, Cesare, Augusto, Tiberio, sotto il governo del quale era avvenuta la nascita di Cristo, e poi era tornata in Oriente lasciando nella decadenza, dopo un ulteriore tratto di tempo, la parte occidentale che aveva abbandonata. La decadenza, converrà ripetere, non era dichiarata, non era, come si dice oggi, messa a tema. Ma agiva nel discorso e, indirettamente, vi faceva avvertire il suo motivo doloroso attraverso la polemica diretta contro i moderni negatori dell’Impero. Per un altro verso, il discorso di Giustiniano apparteneva idealmente alla decadenza e al suo tempo. Si svolgeva infatti in Paradiso nell’anno, il 1300, in cui Dante vi era giunto da vivo. Rendendosi contemporaneo al suo tempo, dal posto che occupava lì, gli era dato infatti di vedere quello che, da vivo, non avrebbe mai potuto, perché, se era annunziato, non aveva ancora preso la sua forma nella realtà. Giunto alla fine del discorso, chi l’avesse ascoltato e nient’altro avesse saputo dei pensieri che passavano per la testa di Dante e della prospettiva che stava delineando nella Commedia, della sua fede nella provvidenza e nella sua transvalutazione apocalittica, non avrebbe avuto torto se fosse rimasto fermo nella convinzione di aver colto, nel suo fondo, il tema di un gigantesco logos epitaphios, la rievocazione di una storia gloriosa finita, in Occidente, con una sconfitta di continuo ribadita e confermata. 9. Il sesto canto del Paradiso è stato, per lo più, letto come una grandiosa, celebrazione della storia di Roma, culminata nella conquista dell’Impero e nella nascita, nel suo momento culminante, di Cristo. È stato
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interpretato, perciò, come una prosecuzione, con accenti epici, della linea che Dante aveva cominciato a trattare nel quarto trattato del Convivio e nel secondo libro della Monarchia. Sull’idea della prosecuzione, niente da obiettare. Non c’è, nel sesto del Paradiso, parola che possa essere addotta contro l’evidenza di questa verità. Ma sulla celebrazione è necessario intendersi fino in fondo, evitando ogni equivoco. È vero, infatti, che il discorso di Giustiniano è diretto a celebrare l’Impero e a criticare chi lo disconosceva. È vero, come più volte si è stati costretti a ripetere, che la realtà ideale e, forse, anche la realtà senza aggettivi dell’Impero non poteva conoscere tramonti, perché divina era la sua origine. Ma altro è celebrare l’idea imperiale, e esser certi della sua presenza nella trama della realtà, altro, come si è visto, era considerarla realizzata nelle cose concrete della politica. Altro era celebrare quel che nella realtà corrispondeva alla sua idea, altro era passar sopra a quel che nei fatti non le corrispondeva, e ignorarlo. Come si è visto, la grande impresa culminata nella formazione dell’Impero e, soprattutto nel principato di Tiberio, nel racconto di Giustiniano non ebbe un seguito. Nel suo discorso, non solo, a parte l’accenno all’opera da lui spesa nella riforma delle leggi, e alla delega data a Belisario delle cose concernenti la guerra, egli evitò di menzionare sé stesso e i molteplici aspetti della sua politica. Non solo ignorò gli imperatori della parte orientale venuti dopo di lui, dei quali, con il silenzio lasciato cadere su di essi, fece come se non esistessero. Ma, ed è un elemento del suo discorso che merita di essere di nuovo sottolineato, fece di più. Ignorò non soltanto la storia dell’Impero di Oriente, ma anche quella che, dopo Tiberio si era svolta nella parte occidentale, e nella stessa Italia. Non perché, almeno nelle grandi linee, non la conoscesse e per lui non fosse mai esistita. Il silenzio che fece cadere su di essa è tanto più significativo in quanto, che un Impero formalmente vi fosse, era comunque indiscutibile, e sia pure in modo implicito riconosciuto dallo stesso Giustiniano, che non avrebbe altrimenti deplorato con parole così vive di indignazione coloro (i guelfi, ma anche i ghibellini) che, per diverse ragioni, ne disconoscevano il significato e il valore. Il silenzio che Giustiniano, o Dante che parlava attraverso di lui, mantenne su quei tanti secoli di storia vale come il riconoscimento della loro irrilevanza civile, della loro miseria e della decadenza sotto il cui manto la realtà allora stentò a dare un segno positivo che meritasse di essere riconosciuto e posto in rilievo. Per questo, qui su si è detto che alla celebrazione dell’Impero è sotteso un logos epitaphios. L’idea della decadenza non è tematizzata. Ma non è possibile che nei settecento anni che dividevano la distruzione del
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tempio di Gerusalemme dal soccorso prestato da Carlo Magno a Desiderio, re dei Longobardi, Dante non avesse avvertito l’abisso in cui l’Occidente era sprofondato, e che il vuoto da lui lasciato in quel punto del suo racconto fosse solo il frutto della sua ignoranza. L’assenza dell’Impero era il suo costante tormento. Era ovvio, dopo tutto, che la celebrazione che Giustiniano aveva fatta del suo segno, contenesse, nel fondo, questa nota amara.
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Note 1. Avverto che, come altri miei, questo è un saggio sul sesto canto del Paradiso e alcune sue questioni, non una lectura di esso Se poi è accaduto che l’attenzione si rivolgesse a pressoché tutti i suoi aspetti, la ragione sarà da ricercare nella logica della ricerca e della conseguente interpretazione, non nella regola imposta dalle lecturae Dantis. Nei confronti delle quali, sia ben chiaro, non ho alcuna avversione. Dico solo che questo è un saggio, e non una lectura. 2. Mn III x 1-2. 3. Infirmare e scindere sono i versi che Dante usa nella Monarchia: si veda infra, nel testo. 4. Benvenuti de Rambaldis de Imola Comentum super Dantis Alagherii Comoediam, a cura di G.F. Lacaita, IV, Firenze 1887, p. 418. 5. In «poscia che Gostantin l’aguglia volse/ contr’al corso del ciel» il soggetto, secondo l’interpretazione più ovvia, e forse facilior, è individuabile in Costantino: è lui a volgere verso oriente il volo dell’aquila. Ma se si considera, e non è considerazione peregrina, che l’aquila è «l’uccel di Dio» e da Dio riceve l’indirizzo che il suo volo deve prendere, l’interpretazione meglio corrispondente a questo stato di cose è che il soggetto sia l’aquila, e perciò Dio, dal quale fu deciso che Costantino andasse da Occidente a Oriente, e lì fondasse la nuova Roma, Bisanzio. Non è una questione di importanza primaria (perché, se anche si tenesse fermo che, secondo la grammatica, il soggetto è Costantino, resterebbe che, secondo il concetto, sarebbe pur sempre, e necessariamente, Dio). Se, come credo, questo è il senso del verso, importante è distinguere i significati intrinseci al «cielo»: si veda al riguardo quel che ne dissi in Dante. L’Imperatore e Aristotele, Roma 2002, pp. 167-169. 6. Cfr., p. es., N. Sapegno, La Divina Commedia, III, Paradiso, Firenze 1985, p. 71, F. Mazzoni, Il canto VI del ‘Paradiso’ (1979), in Con Dante per Dante. Saggi di filologia ed ermeneutica dantesca, III, Ermeneutica della ‘Commedia’, a cura di G.C. Garfagnini, E. Ghidetti, S. Mazzoni, con la collaborazione di E. Benucci, Roma 2015, p. 185, G. Inglese, Commedia, III, Paradiso, Roma 2016, p. 9, il quale tuttavia osserva che «nei punti cruciali del poema il dato geografico è sempre valorizzato in senso ideologico-morale». Giustisismo. Ma questo non è forse un punto cruciale? Si veda comunque, infra, n. 19. 7. Mn III x 10: «omnis iurisdictio prior est suo iudice: iudex enim ad iurisdictionem ordinatur, et non e converso; sed Imperium est iurisdictio omnem temporalem iurisdictionem ambitu suo comprehedens: ergo ipsa est prior suo iudice, qui est Imperator, quia ad ipsam Imperator est ordinatus, et non e converso. Ex quo patet quod Imperator ipsam permutare non potest in quantum Imperator, cum ab ea recipiat esse quo est». Non è questa la sede in cui possa discutersi la questione della Donazione costantiniana e i contrasti a cui ha dato luogo in sede di critica dantesca: qualcosa, comunque, ne sarà detto in seguito. Rinvio, in generale, al saggio di B. Nardi, La “donatio Constantini” e Dante, in Nel mondo di Dante, Roma 1944, pp. 109-159, nel quale egli dette conto e prese posizione nei confronti della tesi di L. Pietrobono, Il poema sacro, I, Bologna 1915, pp. 189-190, il quale teneva per fermo che la pianta edenica fosse stata «dirubata» e dispogliata la prima volta da Adamo, la
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seconda da Costantino autore della Donazione (ma si veda anche, a ulteriore chiarimento, il suo Costantino e il peccato originale [1921], in Saggi danteschi, Roma 1936, pp. 233-251, spec. 248-249), e di quella contrapposta di M. Barbi, Con Dante e coi suoi interpreti, Firenze 1941, pp. 98 ss. Nell’inclinare piuttosto verso la tesi di Pietrobono che non verso quella di Barbi, Nardi ebbe, senza dubbio, i suoi motivi (esposti soprattutto alle pp. 153-157). Ma la questione mi pare che si complichi, e esca dai limiti di questa contrapposizione e degli argomenti spesi a favore dell’una tesi e dell’altra, se si prende in esame quella specifica del trasferimento della sede imperiale da Roma a Bisanzio, che dovrebbe esser considerata contraria alla volontà divina, e realizzata contro di essa: il che, ripeto, è improponibile e dà ragione del perché Dante ne abbia taciuto e del volo dell’aquila da Occidente a Oriente abbia riconosciuta la legittimità. Sulla Donazione di Costantino, resta fondamentale il libro di D. Maffei, La Donazione di Costantino nei giuristi medievali, Milano 1964, che tuttavia non include Dante se non marginalmente E si vedano le considerazioni di G. Arnaldi, Profilo di storia della Chiesa e del Papato fra tarda antichità e alto Medioevo, in «Cultura», 35 (1977), pp. 5-32, ma 7-8, ora, con titolo leggermente mutato in G. Arnaldi, Il papato e Roma da Gregorio Magno ai papi forestieri, a cura di G. Barone, L. Capo, A.A. Verardi, Roma 2020, pp. 7-8. 8. Pd VI 7-8. Non si capisce pertanto come, senza distinguere, A. Renaudet, Dante humaniste, Paris 1952, pp. 206-207, abbia potuto parlare de «la double erreur de Constantin et du pape Sylvestre», per concludere: che «n’appartenait pas à Bysance de gouverner les hommes» (p. 207). E cfr. ivi, p. 527, dove, a proposito dell’errore che, a suo parere, fu commesso dall’Aquila, giunse a parlare di questo come di un «erreur fatale», «contraire aux lois memês de l’histoire». Ma gli errori, anche quelli fatali, fanno parte della storia: con quale storia sarebbero dunque in contrasto? 9. Inglese, Paradiso, p. 91. E cfr. già Mazzoni, Il canto VI del ‘Paradiso’, p. 187. 10. Come si legge in P. Brezzi, Costantino, in ED, III, 231. 11. Pd VI 7-9. 12. La conoscenza delle questioni connesse alla aetas costantiniana contribuisce a segnare il limite storiografico della considerazione dantesca. Converrà per questo tener presenti le considerazioni che, in margine al Costantino di Burckhardt, furono svolte da S. Mazzarino, Burckhardt, il ‘tardo antico’ e una lezione di Mommsen su Traiano, e Burckhardt politologo. L’età di Costantino e la moderna ideazione storiografica, in Antico, tardoantico ed era costantiniana, I, Città di Castello 1974, pp. 14-31, 32. E cfr. S. Calderone, Costantino e il Cattolicesimo, Napoli-Bologna 2001, pp. xliv-xlv. 13. La Donazione è ricordata in Pd XX 55-60, su cui vedi infra. G. Arnaldi, Il canto di Giustiniano, in «Cultura», 40 (2002), pp. 215-216, ha notato acutamente che, nel cielo di Giove, in cui Costantino è ospitato, Dante ha «contestualizzata» la «deprecata donazione», ma non direi, tuttavia, che l’abbia «in un certo qual senso anche giustificata». La «buona intenzione» assolve, non giustifica. 14. L’informazione relativa a Giustiniano derivò a Dante da Brunetto Latini, Tresor I 17, 2; 87, 4; 89, 6, (per l’edizione da cui cito, cfr. n. 17) e da Orosio, Hist. contra paganos, VII 28, 1-28, dove, per altro, sono assenti le notizie relative alla questione del monofisismo e dell’abbandono che egli fece di questa tesi in seguito agli ammaestramenti datigli al ri-
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guardo, come si legge in Vincenzo da Beauvais, Speculum historiale, XXI 61, da Agapito. Che il «ravvedimento» di Giustiniano non sia mai avvenuto e appartenga alla sua leggenda, è noto: cfr. A. Oldcorn, In margine al «canto» di Giustiniano, in La fabbrica della Commedia, Ravenna 2008, p. 205, Inglese, Paradiso, p. 92, e, in margine al libro di T. Canella, Gli Actus Silvestri, Genesi di una leggenda su Costantino imperatore, Spoleto 2006, il saggio di G. Arnaldi, La leggenda dell’imperatore Costantino e di papa Silvestro, in La storia, il dialogo, il rispetto della persona. Scritti in onore del cardinale Achille Silvestrini, a cura di L. Monteferrante e D. Nocilla, Roma 2009, pp. 189-202, ora in Il papato e Roma da Gregorio Magno ai papi forestieri, pp. 186-198. 15. È più che dubbio che Dante conoscesse i documenti del giudizio che fra IV e V secolo furono formulati su Costantino nella patristica latina (cfr., al riguardo, G. Lettieri, Costantino nella patristica latina tra IV e V secolo, in Enciclopedia costantiniana, Roma 2013, pp. 163-175). Ma certamente conosceva bene il De civitate Dei agostiniano, con il giudizio tutt’altro che benevolo che ne emerge (Lettieri, Costantino, pp. 168-171), e aveva sott’occhio Orosio, Hist. contra paganos, VII 28, 1-28: un passo incerto che non riflette intera l’ostilità agostiniana, e si conclude con un giudizio certo non negativo: «cumque bellum in Persas moliretur, in villa publica iuxta Nicomediam, dispositam bene rempublicam filiis tradens, diem obiit» (28, 31). 16. Mn II xi 8. La differenza che queste linee, e le altre che si leggono nel trattato politico, stabiliscono rispetto al modo in cui del trasferimento della sede dell’Impero a Oriente si parla nel sesto del Paradiso, deriva, non da un mutamento che, fra l’un testo e l’altro, fosse intervenuto nel pensiero di Dante, ma dalla differenza dell’angolo visuale. Nel sesto del Paradiso il trasferimento della sede imperiale, del quale comunque si taceva, è presumibile che fosse pensato dal punto di vista della storia provvidenziale di Roma, nella Monarchia da quello della controversia relativa ai due poteri e della scelta che Dante vi aveva compiuta. Che la distinzione di questi due aspetti della questione appartenga alla logica del pensiero di Dante, e all’idea sua della provvidenza, può ritenersi altrettanto certo dell’assenza, nelle sue pagine, del relativo concetto. E di questo deve prendersi atto. Ma alla tesi dell’appartenenza della Monarchia agli anni del Paradiso un sostegno potrebbe venire proprio dal rilievo che qui assume la pia intentio di Costantino, e dal riscontro che può trovarvisi con la «buona intenzion che fe’ mal frutto» di Pd XX 56. 17. Alcune indicazioni sono in E. Petrucci, Costantino, in ED, II 237 a-b. La fonte alla quale si può esser certi che egli attingesse è il Tresor di Brunetto Latini: non tuttavia, concordando, ma, se si legge con un minimo di attenzione, dissentendo. La tesi di ser Brunetto fu infatti che «por esaucier le nom Jesu Crist do[ct]a il sainte Yglise et li dona toutes les emperials dignetez, et ce fu fait en l’an de l’incarnacion Jesu Christ […] Lors s’en ala Constantin en Costantinopole, que par son nom est ensi apelee, car primes avoit ele nom Besanz; et tint l’empire de Grece, qu’il ne sousmit mie as apostoilles, selonc ce que il fist cel de Rome. Et sachiez que la persecucions de christiens dura jusques au tens Silvestre; et por ce sanctifierent toz le apostoiles qui devant lui soffrirent martire par la foi» (I 87 2-3: ed. P.G. Beltrami, P. Squillacioti, P. Torri, S. Vetteroni, Torino 2007, p. 116). Come si vede, la fonte può esser stata questa, ma l’interpretazione che Dante dava dei fatti narrati era agli antipodi. 18. S. Mazzarino, L’Impero romano, Roma 1956, p. 426. 19. Latini, Tresor, I 87, 2 (ed. cit., p. 116).
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20. Sulle ragioni di questa assenza, cfr. n. 16 e infra. Ma già qui può dirsi che l’intenzione di non ricordare un episodio al quale egli riconosceva così grande, e negativa, importanza, è da mettere in relazione proprio con questa e con l’esigenza di non ricordarla in una sede in cui del volo compiuto dall’aquila, e quindi di Costantino, non si potevano notare se non gli aspetti positivi e conformi al volere di Dio. Aggiungo che sarà stato per la reverenza che gli ispirava la città di Roma se del trasferimento del suo segno a Costantinopoli si tace. Non so se Dante avesse nozione delle leggende relative a questo trasferimento (per le quali resta fondamentale A. Graf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo, II, Torino 1883, pp. 46-120). Ma certo è che su di esso anche nella Monarchia evitò di pronunziare giudizi, ossia nel testo in cui con più larghezza aveva svolto i suoi argomenti contro la legittimità della Donazione. Sulle ragioni che indussero Costantino a trasferire la sede dell’Impero sul Bosforo, a partire forse da Gibbon, gli storici moderni hanno discusso a lungo, arrivando a conclusioni spesso assai diverse. È singolare quella a cui pervenne F. Lot, La fin du monde antique et le début du Moyen Age, Paris 1927, il quale, dopo aver notato che il trasferimento della capitale ebbe «pour résultat de déplacer l’axe du monde romain et de substituer à brève échéance, en Orient, à la culture latine la culture hellénique» (pp. 39-40) ed essersi chiesto: «mais pourquoi susciter à Rome une concurrence? Pourquoi une seconde Rome?», per non aver trovato una risposta soddisfacente, concluse: «la fondation de Costantinopole est une énigme» (p. 40). 21. Cfr. infra. 22. Mn III x 9. 23. Mn III x 3-7. 24. Non è possibile, e non è richiesto, entrare nella disputa sulla natura umana e divina del Cristo, sul grande dibattito che, fin dai primi tempi, ne nacque, e sui Concili in cui fu discussa. Basti il rinvio alla sintesi, veloce ma competentissima, di H. Jedin, Breve storia dei Concili. I venti concili ecumenici nel quadro della storia della Chiesa, tr. it., Roma 1960. Ma si veda anche F. Dvornik, Histoire des conciles, Paris 1962. 25. Non è il caso di discutere in questa sede se l’idea che qui Dante mise in campo, sostenendo che, se A è vero, non A è falso, sì che la contradizione mostra, ai suoi estremi, A come vero e non A come falso, abbia a che fare con ciò che si chiama «contraddizione». Sarebbe facile osservare che, se A e non A stessero ai punti estremi di una linea, nei quali, scorrendo dall’uno all’altro, l’occhio potesse perciò riconoscerli per quel che si assume siano, e cioè A vero e non A falso, nell’affisare non A, l’occhio affiserebbe sì il contrario di A, ma allo stesso modo che in A affiserebbe il contrario di non A. Nell’essere l’uno il contrario dell’altro li riconoscerebbe identici, e non potrebbe perciò né metterli in contraddizione né considerare vero l’uno e falso l’altro. Può aggiungersi che, nel presentare questa tesi, Dante non prese in considerazione l’idea della contraddizione formulata da Aristotele, Metaph. Γ1005 b 23-34, e che si espone dicendo che è impossibile che A e non A stiano, nello stesso tempo (ἅμα), nel medesimo soggetto. Ma di questo potrebbe parlarsi se si studiassero le formulazioni che della questione egli dette nei suoi scritti: non in questa sede. 26. Non mi pare che delle punizioni inflitte da Giustiniano a Belisario ci sia notizia in Martino Polono, MGH Scriptores, XXII 456. Non capisco, e sarà mia colpa, il senso dell’osservazione di Paratore, Il canto VI del Paradiso, p. 174, a giudizio del quale, «ignorando o trascurando tutte le notizie e le leggende diffuse intorno all’ingratitudine di Giu-
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stiniano verso Belisario, Dante pose in seconda linea proprio le imprese militari del regno giustinianeo, affidandosi integralmente al generale (‘segno fu ch’i’ dovessi posarmi’), per valorizzare solo la collectio iuris». Un conto è ignorare, un altro voler ignorare (trascurare): non vedo infatti perché il rilievo conferito all’impresa legislativa di Giustiniano, implichi la volontà di svalutare quella affidata a Belisario. Dante dice tutt’altro; e cioè che il favore che il cielo mostrava nei confronti delle azioni militari del generale apparve a Giustiniano come la prova che la cura delle armi poteva essergli affidata, e che per suo conto, egli poteva dedicarsi all’impresa dei codici. Che poi sia impossibile vedere nelle imprese militari di Belisario un ritorno dell’aquila in Occidente, significa non che Dante le svalutasse, ma che non vi vedeva la prova che quella avesse preso a volare nella direzione che, all’inizio, era stata la sua. Ma cfr. n. 16 e, infra, n. 48. 27. Pd VI 25-27 «e al mio Belisar commendai l’armi,/ cui la destra del ciel fu sì congiunta/ che segno fu ch’i’ dovessi posarmi», non significa che con il generale a cui Giustiniano aveva affidato la cura delle armi, l’aquila fosse tornata in Occidente e che l’intento fosse di farne di nuovo il centro dell’Impero liberandolo da regni barbarici che vi si erano formati. L’aquila sta con l’Imperatore; e, generico com’è, l’accenno agli incarichi militari di Belisario non consente di essere integrato con nozioni storiografiche dedotte da altre fonti. Diversamente S. Carrai, Dante e l’antico, Firenze 2012, p. 85 e Inglese, Paradiso, p. 93. Ma si veda anche, per la tesi che qui si esclude, Mazzoni, Il canto VI del Paradiso, pp. 354-355. 28. Mn III x 1-2. 29. If XXVII 94-95. 30. E.H. Kantorowicz, I due corpi del re. L’idea di regalità nella teologia politica medievale, tr. it., Torino 2012, pp. 174-175, passim. Ma si veda il Maffei, La donazione di Costantino, pp. 206-209, passim. 31. Su questa formula, Kantorowicz, I due corpi del re, pp. 286-296. 32. Si veda, al riguardo, l’incisiva osservazione di Baldo degli Ubaldi: «et ideo si donatio Constantini non processisset a fide catholica, sicut processit, sed a mero iure imperiali, non potuisset caput imperij officij, id est Romam, a caeteris membris mutilare, quia capitis truncatio non est pars quota, sed tota» (in Maffei, La donazione, p. 204). 33. Orosii historiae contra paganos, VII 27 e 31. 34. La questione a cui si accenna qui ha due aspetti. Per un verso, è la questione che si delinea quando, sul fondamento di Mn I iii 7-9, e delle difficoltà che vi si notano, ci si chieda in che senso l’Impero possa essere voluto come res condenda posta la sua unità/identità con l’intelletto che è sempre in atto. Per un altro, è l’altra se fra questa tesi e quella del suo «esser sempre» in quanto voluto da Dio si dia un nesso che sveli la radice comune. Direi di no, aggiungendo che il risultato dell’esser sempre dell’Impero è stato conseguito lungo due vie diverse. Fra la considerazione filosofica e quella giuridica l’identità del risultato non rinvia a un criterio unitario. È una questione che meriterebbe di essere studiata. Per quanto riguarda il primo punto, e cioè l’argomentazione filosofica, rinvio a quel che ne dissi in Dante. L’Imperatore e Aristotele, Roma 2001, pp. 204-238. 35. Ep. VII 12-13. Su queste linee, cfr. E.G. Parodi, Anfitrite e Oceano, in «Bollettino della Società dantesca», n.s., 28 (1921), pp. 57-59.
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36. Verg, aen. 1, 286-287. 37. Ep. VII 14. 38. La tesi di Pietrobono, sostanzialmente condivisa da Nardi, della Donazione di Costantino come secondo peccato capitale, è stata da me ricostruita in un articolo, Michele Barbi e Luigi Pietrobono. Una lunga polemica, in «Studi danteschi», 85 (2020), pp. 293347. Ma cfr. nn. 7 e 41. 39. Cv IV iv 12-13. 40. Cv IV iv 12-14. 41. L’essenziale, per quanto riguarda il detto, è nella nota di Nardi in Opere minori, II, a cura di P.V. Mengaldo, B. Nardi, A. Frugoni, G. Brugnoli, E. Cecchini, F. Mazzoni, Milano-Napoli 1979, pp. 388-390. Ma si veda Th. Silverstein, On the genesis of ‘De Monarchia’ II v, in «Speculum», 13 (1938), pp. 326-349. 42. Alla dimostrazione di questa tesi è dedicato l’intero secondo libro della Monarchia. La conquista dell’Impero avvenne secondo il diritto, e quel che avviene secondo il diritto è «secundum quod Deus vult» (II ii 6). 43. Pd XX 58-60. 44. Pd IX 31-36. 45. Come ho detto qui su, n.7, la tesi secondo cui in Costantino Dante avrebbe visto un secondo Adamo fu sostenuta e ragionata da L. Pietrobono. La sua tesi, come anche ho detto, fu sostanzialmente condivisa da B. Nardi: cfr., oltre il saggio già citato nella suddetta nota, anche quello che, in polemica con M. Maccarrone, egli compose Intorno a una nuova interpretazione del terzo libro della Monarchia dantesca, in Dal ‘Convivio’ alla ‘Commedia’ (sei saggi danteschi), Roma 1992, pp. 238 ss. Ma fu criticata dal Barbi. Si veda anche quel che ho scritto in «Forti cose a pensar mettere in versi». Studi su Dante, Torino 2017, pp. 352-354. 46. In un saggio notevole, H. Helbling, Saeculum humanum. Ansätze zu einem Versuch über spätmittelalterliches Geschichtdenken, Napoli 1958, pp. 113-122, ha ripreso la tesi secondo cui Costantino sarebbe stato, a causa della Donazione, il secondo Adamo, e, di suo, le ha aggiunta l’idea che l’aetas constantiniana sarebbe da leggere in relazione a If XIV 94 ss., ossia all’episodio del Veglio di Creta e alla tripartizione della storia ivi proposta. La tesi è ragionata sottilmente, ma non mi sembra che dalla connessione proposta con il decimoquarto dell’Inferno sia resa più persuasiva. 47. Si veda quel che è detto a n. 49. 48. Si ricordi che, coerentemente alla sua tesi, L. Pietrobono, Il poema sacro, I, Bologna 1915, p. 189, arrivò a sostenere che il male introdotto nel mondo dalla donazione di Costantino avrebbe richiesto, per essere vinto, il sacrificio di un «novello Cristo». E cfr. La donazione di Costantino e il peccato originale, in Saggi danteschi, Roma 1936, pp. 233-251. 49. Verg. aen. 2, 426-427. 50. Pd XX 130-132. 51. Per informazione e valutazione si veda il libro, ancora fondamentale, di C. Diehl, Justinien et la civilisation byzantine au VI siècle, Paris 1901. Ma, andando indietro nel tem-
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po, e anche perché si tratta di un’opera che non pare abbia suscitato l’interesse dei dantisti, mi piace ricordate le pagine smaglianti dedicate a Giustiniano da Ed. Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano, tr. it, II, Torino 1967, pp. 1451-1509. 52. S. Mazzarino, La fine del mondo antico, Milano 1988, p. 84. 53. È noto che, contro l’opinione dei più, preceduti forse da Benvenuto, Comentum, IV, 423-424, lo Scartazzini, Casini-Barbi, e Ed. Moore proposero di attribuire a Dante, e non a Giustiniano, la sequenza «e cominciò dall’ora/ che Pallante morì per darli regno», e che S. Debenedetti, in «Studi danteschi», 4 (1921), pp. 101-102, a partire dal v. 31, propose di leggere interpungendo così: «perché tu veggi con quanta ragione/ si move contr’al sacrosanto segno/ e chi ’l s’appropia e chi a lui s’oppone, vedi con quanta virtù l’ha fatto degno/ di reverenza; e cominciò da loro», e facendo quindi che fosse Dante, e non Giustiniano il soggetto di «comincio» (in luogo di cominciò). La più convincente confutazione della proposta si legge in S. Mariotti, Il canto VI del Paradiso (1972), in Scritti medievali e umanistici, Roma 1976, pp. 94-96. Aggiungo che, sagacemente, Inglese, Paradiso, p. 93, propose: «e’ cominciò». 54 A ragione Arnaldi, Il canto di Giustiniano, p. 213, ha giudicato questa parte del canto, un «condensatissimo, ma anche minuzioso, e a tratti impoetico e tedioso, compendio della storia di Roma antica» 55. Floro, epit. 2, 13. Su Dante e Floro cfr. P. Renucci, Dante disciple et juge du monde gréco-latin, Paris 1954, pp. 160-162. Ma si vedano anche Mariotti, Il canto VI del Paradiso, pp. 106-108, e Paratore, Il canto VI del Paradiso, p. 189. Aggiungerei M. Scherillo, Dante e Tito Livio, in «Rendiconti Istituto Lombardo», s. II, 30 (1897), pp. 340-348, e, per il rapporto con Livio, P. Zancan, Floro e Livio, Firenze 1942. 56. F. De Sanctis, Lezioni e saggi su Dante, a cura di S. Romagnoli, Torino 1955, pp. 201, 435, 658. Sulla differenza, non sia mai che la si definisca «contraddizione», perché è impossibile, secondo la casta opinione di certi critici, che Dante si sia mai contraddetto, – sulla differenza che può notarsi fra If XXXIV 66 e Pd VI 74, si veda Sapegno, Paradiso, p. 78. Può darsi che avesse ragione E.G. Parodi, Note per un commento alla Divina Commedia, in Lingua e letteratura. Studi di Teoria linguistica e di Storia dell’italiano antico, a cura di G. Folena con un saggio introduttivo di A. Schiaffini, II, Venezia 1957, pp. 384-385, che l’assegnava al diverso modo in cui Dante pensava a quel dannato e, nel diverso contesto in cui si trovava, la scena dell’uccisore di Cesare punito dai denti di Lucifero gli apparisse in un’altra luce. Resta che «latrare» significa emettere suoni bestiali, «non far motto» significa, non «latrare», ma stare in silenzio, e che non si può nello stesso tempo latrare e non fare motto. Mariotti, Il canto VI del Paradiso, p. 108, osservò, credo a ragione, che quel che importava al poeta era, nel caso di If XXXIV 66, «l’evocazione, anche stilistica, come non mi pare che si sia osservato – dell’atmosfera infernale». Non sono sicuro di avere ben compreso il sottile rilievo di Inglese, Paradiso, p. 97, che esclude il contrasto perché interpreta il «latrare» come un «dolersi amaramente». Già, ma potrebbe anche dirsi, a rovescio, che il «dolersi amaramente» si esprimeva nel «latrare», e in questo caso forse che non ci sarebbe contrasto con il «non fa motto» di If XXXIV 6? 57. If XXXIV 66-67. 58. Verg. aen. 1, 2-3.
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59. Pd VIII 127-32: «la circular natura, ch’è suggello/ ala cera mortal, fa ben sua arte,/ ma non distingue l’un dall’altro ostello;/ quinci adivien ch’Esaù si diparte/ per seme da Iacòb, e vien Quirino da sì vil padre che si rende a Marte». Dove mi sembra notevole che, contemporaneamente, Dante prendesse atto della nascita umile («da sì vil padre») di Romolo, e del suo esser stata nobilitata con l’attribuzione di essa a Marte, salvo a non fare il suo nome, che qui compare sostituito da Quirino. Sulla questione, che non può essere affrontata qui, cfr. G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, La conquista del primato in Italia, Firenze 1971, pp. 203-206, e quindi, senza pretese di completezza, A. Brelich, Tre variazioni romane sul tema delle origini, Roma, 2010, pp. 181-239, G. Dumézil, La religione romana arcaica, tr. it., Milano 2018, pp. 232-233, ma soprattutto A. Momigliano, La leggenda di Enea nella storia di Roma fino ad Augusto, in Saggi di storia della religione romana. Studi e lezioni 1983-1986, a cura di R. Di Donato, Brescia 1988, pp. 171-183. 60. L’etimologia, com’è noto, è errata (anche presso il Petrarca, Tr. famae, 70). La migliore spiegazione in Mariotti, Il canto VI del Paradiso, p. 102 e n. 1), del quale ha ben tenuto conto Inglese, Paradiso, p. 95. 61. Pd VI 61-63. 62. Luc. Phars. 10, 273-75: «Summus Alexander regum, quem Memphis adorat,/ inuidit Nilo misitque per ultima terrae/ Aethiopum lectos; illos rubicunda perusti/ zona poli tenuit: Nilum uidere calentem». Il passo è stato indicato da G. Brugnoli, Studi danteschi, II, Pisa 1998, p. 109. 63. Per l’utilizzazione di Floro, cfr. Mariotti, Il canto VI del Paradiso, pp. 106-108. 64. Cv IV v 12. 65. Verg. aen. 5, 370: «solus qui Paridem solitus contendere contra». 66. Verg. aen. 5, 12-25. 67. Il. Ω 788-803. 68. Pd VII 85-120. 69. Pd VII 58-60. 70. Mn II xi 1. 71. Momigliano, Saggi di storia della religione romana, p. 83, ha osservato che il «carattere provvidenziale dello Stato romano era un assunto fondamentale del Cristianesimo. Esso era dimostrato dal fatto che Gesù era nato sotto Augusto e che lo Stato romano aveva distrutto il Tempio di Gerusalemme e disperso gli Ebrei, confermando così che la Chiesa era l’erede del Tempio». Ma, a conferma di questo assunto che, per una sua parte, consuona singolarmente con la tesi di Dante, non ha prodotto testi. Sta di fatto che, in relazione e a riscontro dell’argomento di Dante, un solo testo è stato addotto, per merito di G. Vinay, nella sua edizione della Monarchia, Firenze 1950, pp. 182 e 186, il De prerogativa romani Imperii di Giordano di Osnabrück (ed. H. Grundmann, Leipzig u. Berlin 1930), e a questo si sono riferiti i successivi commentatori, da Nardi a P. Chiesa e A. Tabarroni, a Quaglioni che, con riferimento a R. Kay, Roman Law in Dante’s ‘Monarchia’, in Law in Medieval Life and Thought, ed. by E.B. King and S. J. Ridyard, Sewanee (Tenn) 1990, pp. 259-268, ha indicato la fonte sia di Giordano sia di Dante, in Orosii historie adversus paganos, VI 22, 6-8.
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72. Per una più diffusa analisi mi sia consentito di rinviare al mio Dante. L’imperatore e Aristotele, pp. 183-252. 73. Ho affrontato la questione in «Se la materia delli primi elementi era da Dio intesa», in «Cultura», 39 (2001), pp. 365-393, poi in «Forti cose a pensar mettere in versi». Studi su Dante 2, Torino 2020, pp. 623-657. 74. Non è questa la sede in cui ci si possa soffermare su Mn I xii 6, e sulla citazione del Paradiso che vi è contenuta e di cui si è già detto qui su n. 22. La più recente discussione, al riguardo, è, per quel che so, di P. Chiesa e A. Tabarroni, i quali, nella loro edizione della Monarchia, Roma 2013, p. 50, restano incerti e, nel testo, chiudono la citazione fra parentesi quadre. D. Quaglioni (Dante Alighieri, Opere, edizione diretta da M. Santagata, II, Convivio, Monarchia, Epistole, Egloghe, a cura di G. Fioravanti, C. Giunta, D. Quaglioni, C. Villa, G. Albanese, Milano 2014, p. 1009) ha espresso il suo contrario parere, rinviando a A. Casadei, «Sicut in Paradiso ‘Comedie’ iam dixi», in «Sudi danteschi», 76 (2011), pp. 179-197, il quale aveva ricordato lo scetticismo manifestato al riguardo da M. Barbi, Una nuova opera sintetica su Dante (1904), in Problemi di critica dantesca, I, Firenze 1934, pp. 68-69, che non mi risulta, per altro, che dopo di allora sia più tornato sulla questione e abbia mutato parere: M. Barbi, Dante. Vita, opere e fortuna, Firenze 1933, p. 65, ritenne che la composizione della Monarchia fosse da «porre negli anni della discesa d’Arrigo in Italia». Mi sembrano importanti, al riguardo, le considerazioni che alla questione furono dedicate da Mariotti, Il canto VI del Paradiso, p. 93, n. 3. Contrario all’idea dell’aggiunta posteriore, acutamente egli osservò che «l’atteggiamento naturale di chi aggiunge un particolare secondario in una propria vecchia opera, è di riporsi idealmente nel momento in cui l’opera è stata scritta. Se Dante non poteva farlo integralmente nel caso della sua presunta ‘autointerpolazione’, perché, invece di limitarsi a scrivere sicut in Paradiso Comedie dixi o qualcosa di simile, avrebbe insistito con iam sull’idea di anteriorità?». Anche per Arnaldi, Il canto di Giustiniano, p. 220, «il canto di Giustiniano appartiene alla stagione della Monarchia». 75. Cfr. il mio «… a far vendetta corse/ dela vendetta del peccato antico», in «Bollettino di italianistica», n.s., 3 (2006), pp. 15-49, che può leggersi in questo volume in una versione rivista e, spero, migliorata. 76. Si veda, al riguardo, L. Gargan, Dante, la sua biblioteca e lo studio di Bologna, Roma-Padova 2014, che ha studiato la biblioteca di Bologna al tempo in cui Dante poté frequentarla. Mi risulta che a una ricerca su I libri di Dante sta attualmente lavorando Sonia Gentili. Un Convegno su questo argomento si è tenuto presso l’Accademia nazionale dei Lincei il 6 e 7 ottobre 2021. 77. Cic. de officiis, I xii 38. 78. B. Latini, Tresor, I 17,2; I 87, 4-5 (e anche I 89, 4): cito dall’edizione curata da P.G. Beltrami, P. Squillacioti, P. Torri e S. Vatteroni, Torino 2007. Sull’uso che Dante fece di ser Brunetto, richiamò giustamente l’attenzione il Mazzoni, Il canto VI del Paradiso, p. 347. Ma cfr. anche Ch.T. Davis, Dante and his Idea of Rome, Oxford 1957, pp. 93-94. 79. Nel testo, poiché l’ultimo evento ricordato è la distruzione, a opera di Tito, del tempio di Gerusalemme (vv. 91-93) avvenuta nel 70 d.C., il salto è ben più lungo. 80. Pd XX 60.
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81. If XV 61-78. E si veda il mio Dante e Brunetto Latini, in «Forti cose a pensar mettere in versi». Studi su Dante 2, Torino 2020, pp. 315-377. 82. Martino Polono, Chronicon pontificum et imperatorum, MGH, Scriptores, XXII 456. 83. La notizia della conversione di Giustiniano alle tesi antimonofisite derivò a Dante probabilmente da Brunetto Latini, Tresor, I 87, 5 (ed. cit., p. 116). Ma non si trattò di conversione, bensì piuttosto del suo cedimento alla volontà del pontefice Agapito, che, venuto in Oriente, intendeva colpire l’eresia monofisita che, come si sa, era condivisa da Teodora, consorte dell’imperatore. Si veda, per esempio, oltre le rapide, ma interessanti, osservazioni di S. Mazzarino, L’Impero romano, Roma 1956, pp. 530-531, A.H.M. Jones, Il tramonto del mondo antico, Bari 1972, pp. 161-162. 84. Pg XVI 106-107. 85. Per un’ampia illustrazione del momento storico in cui ciò avvenne, si veda O. Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, Roma 1942, pp. 688-692. 86. Pd VI 100-102. 87. Per l’interpretazione di questo verso, cfr. Inglese, Paradiso, p. 100. 88. Per il significato di «gaggio», derivante dal francese gage, cfr. Parodi, Lingua e letteratura, II, 273. 89. Per esempio, da A.M. Chiavacci Leonardi, La Divina Commedia, III, Paradiso, Milano 1997, p. 156. Ma cfr. anche Mazzoni, Il canto VI del Paradiso, p. 381, con richiamo di altra letteratura. 90. Pd V 124-129. 91. G. Vandelli nel rifacimento del commento scartazziniano, Milano 1952, p. 662; Inglese, Paradiso, p. 102. Ma è osservazione ricorrente nell’esegesi moderna: cfr., per es. L. Pietrobono, La Divina Commedia, III, Paradiso, Torino, Milano etc. 1939, p. 75, D. Mattalia, La Divina Commedia, III, Paradiso, Milano 1999, p. 118. E Mazzoni, Il canto VI del Paradiso, p. 369. 92. Ho ricordato questo scambio epistolare intervenuto fra Machiavelli e Guicciardini in un articolo, Dante domani?, che si legge negli Atti dei Convegni lincei 322, Le ragioni della ‘Commedia’ tra passato e futuro (Roma, 14-15 dicembre 2016), Roma 2018, pp. 189191. Ma lì la questione riguardava la comprensibilità della lingua di Dante da parte degli italiani di oggi. 93. M. Porena, La Divina Commedia, III, Paradiso, Bologna 1957, p. 57. 94. È l’ipotesi accennata da U. Bosco, Introduzione ai canti quinto (per i versi 85-fine) e sesto, in Divina Commedia, a cura di U. Bosco e G. Reggio, III, Paradiso, Roma 2005, p. 110, il quale pensa anche a Pier della Vigna. 95. Cv IV iv 7. 96. Mn I xiv 7-8. 97. Benvenuti Comentum, IV, 457. 98. Ep. XII 9 (ed. cit., p. 596).
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1. Questi due versi non presentano particolari difficoltà di interpretazione. Chiaro, infatti, anche se paradossale, è quel che Dante intese esprimervi. La difficoltà, se mai, è nella logica che propone il paradosso della vendetta vendicata; che, a sua volta, ha la sua radice sia nell’estremismo (che vuol dire, per altro, anche coerenza) della visione provvidenzialistica che Dante gli sottese, sia nella difficoltà che tuttavia si manifesta nel rapporto che lega il volere di Dio alle vicende della storia umana. Nel delineare il suo paradosso, egli assunse altresì di averne resa esplicita la natura. Ma non ruscì tuttavia, e sarà questo l’assunto del presente scritto, a raggiungere la radice della questione che aveva posta. Il senso del discorso, per altro, è chiaro. Se in Cristo, espressione suprema e, per così dire, sintetica, nonché simbolo vivente, dell’umanità peccatrice, chi lo mise a morte (gli Ebrei attraverso i Romani) aveva vendicato il peccato che, nascendo, quello aveva preso su di sé, e, morendo, aveva riscattato, alla radice di questo gesto c’era tuttavia, accanto a quello positivo, un tratto negativo. Della vendetta, ossia della parte che in essa pertineva al crimine, occorreva perciò fare vendetta. Esecutori di giustizia, per un verso, gli Ebrei dovevano, per un altro, essere puniti. Per eseguire la vendetta del «peccato antico», avevano ucciso il Cristo. Di questa vendetta si doveva perciò far vendetta; e autore ne era stato, a sua volta, l’imperatore Tito che, nell’anno 70 della nuova era, aveva infatti distrutto il tempio di Gerusalemme. La violenza estrema con la quale la vendetta si era esercitata sul corpo del Cristo, il dramma della croce e del Golgota, la derisione, «l’aceto e ’l fele»,1 la morte, tutto questo richiedeva di essere, a sua volta, reso oggetto di vendetta. Il paradosso che Dante aveva avuto cura di mettere in luce e di proporre ai suoi lettori avrebbe potuto essere ulteriormente spiegato osservando la sin-
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golare situazione per la quale, senza incorrere in errore e, anzi, attingendo il senso pieno della verità, da una parte era giusto che il tribunale romano avesse condannato Gesù, - era giusto perché, al di sotto del crimine positivo di cui lo giudicava colpevole, si dava quello consistente nel suo essere uomo peccatore, ed era questo che, sotto il segno dell’altro, quel tribunale in realtà condannava.2 Ma, da un’altra, anche era giusto che la vendetta che era stata presa del Cristo peccatore divenisse anch’essa oggetto di vendetta. Cristo era uomo. Ma era anche il figlio di Dio. Nel secondo libro della Monarchia, i cui concetti fondamentali costituiscono il fondamento, non dichiarato e reso esplicito, dei versi relativi alla «vendetta dela vendetta», l’idea del Cristo che, nella sua natura umana riassumeva l’intera gamma dei peccati del mondo, nonché l’altra della morte, de iure, a cui il tribunale romano l’aveva condannato, erano state entrambe illustrate con grande impegno. Ma, deve ripetersi, di vendetta della vendetta Dante non aveva parlato. Della «colpa» che si nascondeva nell’opera di giustizia che gli Ebrei avevano compiuta, non aveva fatto cenno: a differenza, e lo vedremo, di quel che avvenne nel sesto del Paradiso. In termini più espliciti. Nel piano provvidenziale predisposto ab origine da Dio, soggetto e autori della prima vendetta erano stati gli Ebrei che, di quella essendo gli inconsapevoli strumenti, avevano essi consegnato Gesù al tribunale romano. Soggetto della vendetta che, a loro volta divenuti oggetto, quelli patirono, furono i Romani. Nel primo caso, per altro, soggetto del soggetto incarnatosi negli Ebrei era stato Dio; che altresì era stato il soggetto della seconda vendetta, presa attraverso i Romani, su chi aveva operata la prima. Alla radice delle due vendette aveva agito, dunque, il medesimo soggetto. Ma se il soggetto era stato unico, e unica era stata la mano che aveva guidato sia gli Ebrei sia i Romani, affidate a due diversi autori le vendette, invece, erano state due; e su questo, anche se sembri e, per un verso, sul serio sia, ovvio, occorre insistere. Ne nasce, infatti, una seria complicazione. Se, come di qualsiasi altro evento che si manifesti nella storia, anche di questa duplice vendetta, e della sua peculiarità, autore unico ed esclusivo era stato, come non poteva non essere, colui che aveva guidato la volontà e la mano prima degli Ebrei, poi dei Romani, e cioè Dio, perché la prima richiese di essere vendicata dalla seconda senza che questa richiedesse di essere vendicata da una terza e così via, di vendetta in vendetta? Che, nella visione rigorosamente provvidenzialistica condivisa da Dante, al pari dei Romani, anche gli Ebrei fossero stati parte integrante e essenziale del piano, provvidenziale appunto, predisposto da
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Dio per lavare l’onta del primo peccato, che da lui aveva «disformata» l’umana creatura, è cosa su cui non può cadere il minimo dubbio. Eppure, la loro violenza aveva meritato di essere sottoposta a una distruttiva vendetta. Quella dei Romani, che anch’essi avevano preso parte al dramma del Cristo e della sua morte ben potevano essere considerati responsabili, invece non lo fu. Eppure era stato un tribunale romano a decretare la morte di Cristo. E Cristo era tale che, uccidendolo, si uccideva bensì l’uomo peccatore che egli incarnava, ma anche il figlio di Dio e, per il suo tramite, Dio stesso. Se, quindi, a essere punita doveva essere, ed era, la violenza, perché soltanto quella degli Ebrei lo fu, mentre l’altra, di cui autori furono i Romani, restò invendicata? Evidentemente, non era soltanto questione di violenza; e nemmeno di violenza «giusta» o «ingiusta». Era questione di altro, che usciva da questo quadro, all’interno del quale era impossibile che trovasse spiegazione. 2. La problematicità di questa situazione, a proposito della quale Benvenuto, per esempio, scrisse che «videtur implicare contradictionem»,3 fu, in primo luogo, avvertita dallo stesso Dante; che, non solo la collocò al centro di un vivo dramma dialettico, ma a tal segno ne subì il peso che avvertì la necessità di dedicare una parte del canto successivo all’esposizione dell’argomento con il quale Beatrice aveva preteso di averla risolta. In real tà, quale che fosse il pregio logico dell’argomento messo in campo, sembra necessario far notare che la contraddizione, o, se si preferisce il termine meno tecnico, la difficoltà, ha due aspetti: se addirittura non sia più giusto dire che non di una sola difficoltà, si tratta, ma di due. In primo luogo, sembra infatti non corrispondere al principio della coerenza, e al suo statuto, che soggetto della prima vendetta, e strumento perciò del provvidenziale volere di Dio, gli Ebrei fossero, nello stesso atto, e dall’eternità, destinati a essere l’oggetto della seconda, eseguita dai Romani; e che due, divisi dal tempo, fossero, per conseguenza, i tempi di questa operazione. Deve infatti tenersi fermo che, nella mente di Dio, i tempi sono tutti lo stesso tempo, ogni tempo è contemporaneo a ogni tempo, e che appartiene alla limitazione della mente umana, e al linguaggio che li enunzia, se questa vede, e quello dice, in successione quel che, in sé stesso, non patisce alcuna differenza. Dante era andato assai vicino a cogliere il punto della questione, e la conseguenza che conteneva in sé, quando in Paradiso XVII 37-39, aveva scritto: «la contingenza, che fuor del quaterno dela vostra matera non si stende, tutta è dipinta nel cospetto etterno», e con chiarezza aveva posta la
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differenza sussistente fra la mente umana, che, intendendo in successione i fatti che accadono, li dispone secondo la regola del prima e del poi, e quella divina alla quale, invece, tutti i tempi sono presenti in un punto, il suo, che è quello dell’eternità, sulla quale, con le sue differenze, il tempo non ha vanto. Derivano di qui, al discorso che si sta conducendo, difficoltà e paradossi, che riguardano, non soltanto la mente degli uomini, ma quella stessa di Dio, non soltanto gli abitanti del tempo, ma l’abitante altresì dell’eterno, che con questo è tutt’uno e non ne è divisibile. Se ne darà conto nel seguito del discorso, cominciando con l’osservare che, posto che il tempo di Dio è, non il tempo, con le sue interne differenze, ma il tempo senza differenze dell’eternità, la conclusione a cui Dante avrebbe dovuto pervenire era che, come alla vendetta che gli Ebrei avevano eseguita del peccato simboleggiato da Cristo aveva tenuto dietro quella che i Romani avevano fatta della prima, così a quella, avrebbe dovuto tenerne dietro un’altra che avesse riguardato il loro atto. In quanto autori della sentenza che aveva decretata la morte del Cristo, dopo aver vendicata, con quella, la vendetta che era stata fatta del peccato antico, a loro volta i Romani avrebbero dovuto attirarne sul loro capo una terza. Mettendo a morte il Cristo senza saperlo, e non diversamente dagli Ebrei, mettevano a morte il figlio di Dio e, attraverso quello, questo. Donde allora la differenza? Non si dura fatica a intendere perché si dica così, e si ponga la relativa questione, se si considera che, certo, i Romani erano diretto strumento della provvidenza divina, e, anche se contrassegnati all’esterno dalla violenza con cui avevano conquistato l’Impero, i loro atti erano perciò da considerarsi «sacri». Ma il ragionamento risulterebbe incompleto se non si aggiungesse che, se gli Ebrei si erano resi protagonisti di un gesto che, nello stesso atto, li esponeva alla lode (in Cristo avevano punito l’umanità peccatrice) e al biasimo (l’ebreo da loro messo a morte era il figlio di Dio), rendendoli meritevoli della vendetta che i Romani avevano fatto del loro gesto, anche questi ultimi erano venuti a trovarsi nella stessa duplice e contraddittoria situazione. Negli Ebrei avevano punito, non coloro che con la morte di Cristo avevano vendicato il peccato di Adamo, – quella, in effetti era stata una giusta vendetta, ma gli autori della morte inflitta al figlio di Dio. Era tuttavia anche vero che erano stati loro a consegnare Cristo al tribunale romano che si era poi assunta la responsabilità di condannarlo a morte: e anche a questo riguardo, avevano dato luogo a una situazione duplice. Quel tribunale aveva, infatti, secondo Dante, fatto in modo che Cristo morisse de iure, salvo che, deve ripetersi, era pur sempre il figlio di Dio quello di cui decretava la morte.
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Perché, allora, il filo della vendetta si interrompeva dopo che la prima era stata vendicata? Perché, a questo punto, il filo si spezzava e questa vendetta non era, a sua volta, stata esposta alla vendetta? E perciò si ripete: donde la diversità del destino? Avesse due volti o si esprimesse, addirittura, in due contraddizioni, o difficoltà, la questione che Dante poneva, in primo luogo a sé stesso, richiede dunque che se ne faccia oggetto di qualche ulteriore riflessione. La difficoltà aveva la sua radice nell’idea della «vendetta» che, conforme a quel che, da cristiano, Dante pensava, necessariamente doveva esser fatta degli Ebrei, colpevoli (anche se, per un altro verso, meritevoli) di aver messo a morte il figlio di Dio. Aveva la sua radice in questa idea a causa, in primo luogo, dell’alterazione che, per il suo tramite, si introduceva nel concetto della provvidenzialità della storia. Alla luce di questo concetto, il «male», e la violenza attraverso la quale la storia si attua, erano riscattati, non da un «male» e da una violenza che, di volta in volta, ne facessero vendetta, ma dal fine al quale, con il suo strumento, necessariamente parziale, ci si avvicinava fino a conseguirlo. In questi termini, e alla luce di questo concetto, Dante aveva ragionato quando, nel quarto trattato del Convivio,4 e poi nel secondo libro della Monarchia, aveva dissertato sulla storia di Roma e, nel quadro di questa, sulla vita e sulla morte di Cristo. Era necessario, aveva spiegato, che, e l’una e l’altra, avvenissero (perché così si era deciso in cielo, nell’«altissimo e congiuntissimo consistorio della Trinitade»)5 nella forma in cui avvennero e per mezzo degli strumenti che a ciò erano indispensabili. A riscattare la violenza, che di quell’evento era, per dir così, la levatrice, era perciò l’evento stesso considerato nel suo interno significato teleologico. Era la necessità del suo non poter avvenire, tale essendo la volontà di Dio, se non in quella forma, che, poiché aveva in sé il suo ulteriore significato, non richiedeva che, in quanto tale, questo fosse a sua volta riscattato e vendicato in uno specifico evento. Per la salvezza del genere umano, era necessario che Cristo morisse sulla croce. Nel consegnarlo al tribunale romano, gli Ebrei avevano adempiuto al compito che la provvidenza aveva a essi assegnato. E nell’adempierlo, non avevano certo demeritato. Donde, allora, deve di nuovo chiedersi, la vendetta che fu fatta cadere sul loro gesto? Perché il loro gesto, che, se considerato in sé e al di fuori del contesto provvidenziale, sarebbe stato degno di condanna, non fu invece considerato e giudicato in quel contesto, del quale era parte necessaria? Al compito a cui essi avevano provveduto quale ulteriore perfezione poteva mai essere aggiunta da una vendetta che, a sua volta, li
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colpisse? Renderli oggetto di una vendetta che colpiva l’esecuzione che essi avevano data al comando di Dio non significava forse che in questo veniva a determinarsi e si rivelava una sorta di grave incongruenza tra il fine perseguito e il mezzo scelto per realizzarlo: un’incongruenza che, senza che si desse la possibilità di spiegarla alla luce di un più profondo assunto provvidenzialistico, divideva in due parti non congruenti il consiglio divino? Se, infatti, alla difficoltà si fosse cercato di ovviare assumendo che la violenza doveva essere a sua volta oggetto di vendetta, il rischio era, lo si è già detto, che la punizione della violenza dovesse ripetersi per ogni violenza che avesse ricevuta la punizione, dando luogo a un rinvio che, in nessun caso, avrebbe potuto metter fine a sé stesso. E c’è di più. In realtà, a seguire quella via, non solo a un processo all’infinito si sarebbe dato luogo, ma a qualcosa, addirittura, di più grave. Dal piano della provvidenza, che procede per la sua via e, quale che sia il volto con il quale si manifesta, rivela la necessità di quel che accade, il discorso avrebbe trasferito sé stesso sul piano giuridico, dove, non avendo luogo il principio secondo cui è l’evento stesso a testimoniare della sua necessità e ingiudicabilità, non c’è cosa che possa sottrarsi al giudizio che se ne dà alla luce, non della sua provvidenzialità intrinseca, che qui non ha luogo, ma di un codice umano. In altre parole, e perché non sorgano equivoci. Se era stato scritto che Cristo scendesse in terra per il riscatto del genere umano e, per questo, morisse sulla croce, anche era scritto che fossero gli Ebrei a consegnarlo al magistrato romano perché questo lo giudicasse secondo la sua legge e lo mandasse a morte. Nell’atto in cui nella violenza commessa dagli Ebrei si indicava la volontà divina che quella fosse commessa, la loro sottrazione al giudizio di un tribunale discendeva con inesorabile necessità. Non sarebbe stato infatti concepibile che, avendo deciso quale, di questo momento essenziale della storia, dovesse essere il fine, la divina provvidenza avesse trascurato di indicare il mezzo necessario alla sua realizzazione. Il mezzo era stato individuato negli Ebrei che, nel consegnare Cristo al tribunale romano, avevano attuata la volontà di Dio. Perché dunque, la domanda ritorna, farne l’oggetto della vendetta romana? La risposta avrebbe dovuto essere che nessuna vendetta avrebbe dovuto ricadere sugli Ebrei, interpreti paradossali, ma veritieri, della volontà di Dio, oppure, e più drasticamente, di tale volontà semplici, e comunque non responsabili, strumenti. Non erano stati gli Ebrei a volere che Cristo morisse. Non erano stati i Romani. Era stato deciso in cielo, Dante lo aveva detto con chiarezza nel Convivio, che Cristo scendesse in terra con la sua parte umana, e, dopo aver compiuta la
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sua missione, morisse sulla croce. A questa decisione tutto era subordinato, niente poteva essere sottratto. 3. La risposta non fu tuttavia conforme a questa logica; e invece di esserne esclusa, la vendetta cadde sugli Ebrei per mano dei Romani. Con l’entrata in scena dei Romani vendicatori, per decreto divino, degli Ebrei, il discorso perse la sua linearità e consequenzialità logica. La logica provvidenzialistica subì un grave colpo. Per un verso, la loro azione era, o avrebbe dovuto essere, ricompresa nel piano generale della provvidenza, dove niente che abbia l’aspetto del mezzo è tale che possa conservare questo suo carattere, non disporsi nella forma di un fine e non essere giudicato alla luce di quello alla cui realizzazione concorre. Ma, per un altro, la vendetta eseguita dagli Ebrei era considerata come quella di chi, avendo messo a morte il figlio di Dio, aveva compiuto la colpa più grave, che, perciò, richiamava su di sé la adeguata vendetta. Questo secondo giudizio contrastava, in modo radicale, con il primo. Vi contrastava in quanto, se dal piano abitato dalla logica provvidenzialistica si fosse discesi su quello caratterizzato dalla logica giuridica, non si sarebbe potuto non considerare che alla violenza iniziata dagli Ebrei erano stati proprio i Romani a dare il compimento, quando Cristo era stato consegnato al loro tribunale che lo condannò a morire sulla croce. A questa semplice obiezione, non sarebbe bastato, infatti, opporre quel che Dante aveva osservato nella Monarchia, nel luogo, II xi 4-6, in cui aveva sostenuto che, poiché era stata decisa da un tribunale legittimo, legittima, ossia de iure, era stata la condanna a morte inflitta al Cristo. Se lo ius amministrato dal tribunale romano in tanto, pur nella sua «positività», era giusto, in quanto era stato voluto da Dio, giusta, in quanto allo stesso modo voluta da lui, era stata la decisione degli Ebrei di riconsegnarlo ai Romani perché decidessero del suo destino, come giusto, in quanto anch’esso diretto al conseguimento del risultato voluto, avrebbe dovuto esser considerato il tradimento di Giuda. La conseguenza perciò era chiara. Alla luce della logica che, nel giudizio e nella volontà di Dio, aveva il suo principio, la ragione giuridica doveva cedere alla ragione della provvidenza. L’evento che seguiva a un evento doveva esser visto, non nella forma di una vendetta che, per la sua parte, dava attuazione alla suprema istanza della giustizia divina, ma come il momento di una storia le cui fasi traevano il loro senso dal fine supremo, al quale erano dirette e che era rappresentato dalla morte di Cristo. Se perciò, in ciascuna delle sue fasi e in ciascuno dei suoi aspetti, la vicenda relativa agli eventi che
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condussero alla morte del Cristo fosse stata richiamata al principio che niente di ciò che era accaduto poteva essere sottratto al suo dover accadere nel modo in cui accadde, e che ciascuno di questi eventi era valutabile solo alla luce dell’eskaton, non ci sarebbe allora stato luogo per vendette che si fossero dirette contro la prima vendetta e, eventualmente, contro la seconda, la terza e così via. Se, al contrario, nella coerenza del discorso introducendo una nota fortemente dissonante, si fosse giudicato che l’evento posteriore conteneva in sé un giudizio sul precedente; se, quindi, si fosse lasciato intendere che, nell’azione compiuta dagli Ebrei, il bene conseguito non aveva risolto per intero in sé il male che si era rivelato necessario al suo raggiungimento, e che, per questa parte, essi meritavano che su di loro cadesse la vendetta dei Romani, la logica provvidenzialistica avrebbe subìto un duro colpo. Se, nella sua parzialità, ogni evento era il giudice di quello che l’aveva preceduto, anche la vendetta dei Romani avrebbe dovuto essere vendicata. Anch’essi, infatti, avevano esercitata la loro violenza sul figlio di Dio, e, se questa non era in tutto e per tutto stata riscattata dal fine e, per un aspetto, era rimasta un’irrisolta violenza, essi pure avrebbero, a rigore, dovuto essere oggetto di una vendetta, che, in questo punto, la logica di Dante non contemplò. 4. A questa conseguenza che, se fosse stata realizzata in un chiaro concetto, lo avrebbe, senza dubbio, messo in forte difficoltà, Dante si sottrasse. La ignorò. Pretese che, invece di essere giudicati alla luce del fine ultimo, che tutti, per la loro parte, avevano contribuito a formare, e che consisteva nell’aver fatto morire in Cristo l’umanità corrotta dal peccato di Adamo, ciascun evento fosse giudicato per quello che era in sé stesso: gli Ebrei avevano ucciso il figlio di Dio e, senza dare spazio al merito che con questo gesto avevano conseguito nei confronti dell’umanità, Dante intendeva che il loro gesto fosse stato vendicato dai Romani, assolti dalla responsabilità che essi pure avevano nella morte di Cristo. Come mai Dante incorse in questa inconseguenza? Ma, deve chiedersi, è proprio sicuro che, quale che ne sia la radice, di questa, che pur potrebbe essere considerata come un’inconseguenza, non ci sia una ragione? In effetti, se, come è necessario supporre, nel delineare il paradosso della doppia vendetta, Dante richiamò alla sua mente i termini della questione che aveva delineata nel secondo libro della Monarchia e, soprattutto se, anche in questo sesto canto del Paradiso, considerò che con ragione, de iure, il tribunale romano aveva condannato il Cristo che, de iure, doveva morire perché la giusta punizione
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inflitta al suo essere uomo valesse per tutti e per ciascuno, - ebbene, alla luce di questa logica può ben comprendersi che egli non avesse coinvolto i Romani nella colpa che gravava sulla coscienza degli Ebrei. E tuttavia, se si considera che, nel far giustamente morire in Cristo la parte umana, senza saperlo, i Romani davano attuazione al disegno di Dio, nel dargli la morte, anche, e di necessità, la davano alla sua parte divina che, da quella umana, come Dante teneva per fermo, era inscindibile. Se quindi, per un verso gli Ebrei erano da condannare, ma dopo averli, per un altro, lodati, perché ai Romani era riservata soltanto la lode che avevano meritata con la vendetta che aveva eseguita della prima vendetta, quella eseguita dagli Ebrei? Entrambi, gli Ebrei come i Romani, e questi come quelli, avevano ucciso, con la parte umana, quella divina del Cristo. Entrambi, perciò, meritavano la stessa lode e la stessa condanna. Ma Dante non estese ai Romani la condanna che aveva fatto cadere sul capo degli Ebrei. E con questo si perviene a una prima conclusione. Il pregiudizio cristiano nei confronti degli Ebrei anche in lui ebbe il sopravvento su quel che la logica interna alla situazione che pure, in parte, gli stava in mente, avrebbe richiesto. 5. Proviamo a riassumere. Se la morte di Cristo era necessaria perché il piano della salvezza si realizzasse, in chi l’avesse procurata non poteva non vedersi la mano della provvidenza che si serviva di quel mezzo per raggiungere il suo scopo. La morte del Cristo che, rimanendo il figlio di Dio, si era fatto uomo, era prevista dalla decisione divina, faceva parte del piano provvidenziale; e chi contro di lui avesse alzata la mano per ucciderlo non era che una parte del piano divino. Andando contro quel che questa logica imponeva di pensare, Dante giudicò invece che chi nel Cristo aveva ucciso la parte umana meritava la lode, ma, poiché, nello stesso atto, aveva ucciso anche quella divina, doveva a sua volta essere punito. La lode non poteva andar disgiunta dalla punizione, né questa dalla lode. Fu, in altri termini, come se, implicitamente, e senza tuttavia pervenire alla necessaria conseguenza, in Cristo Dante avesse distinto, le due nature, la divina e la umana, che in lui erano unite, argomentando che, in quanto avevano rivolta la loro violenza alla prima, gli Ebrei meritavano il castigo che, invece, si trasformava in merito in quanto l’avevano riservata anche alla seconda. Senza pervenire, si è detto, alla necessaria conseguenza, e senza considerare che se l’uccisore del Cristo era colpevole in quanto la sua violenza si era rivolta, non contro la parte umana, ma contro, bensì, quella divina, chi così avesse argomentato necessariamente doveva pre-
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supporre non l’unità inscindibile delle due nature, ma la loro separazione. Doveva perciò incorrere, se non nel peccato di implicita eresia, certo in un grave errore logico. In Cristo la natura umana non si distingueva da quella divina, e viceversa. La pretesa che si potesse colpire l’una, e non l’altra, significava assumere che Cristo fosse stato due diverse realtà, un dio che non era un uomo, e un uomo che non era un dio: ossia, non un’unità ma, in atto, una scissione. Di un merito degli Ebrei, necessariamente intrecciato a un demerito che, perciò, non era tale, e tale non poteva essere considerato, Dante non si risolse a parlare. Se a tanto fosse giunto, sarebbe uscito dal confine in cui la dottrina cristiana aveva per sempre inclusi gli Ebrei, giudicati come i responsabili della morte di Dio. È anche vero, d’altra parte, che l’unica conseguenza che la logica provvidenzialistica prevedeva era che, se il figlio di Dio era stato inviato in terra perché con e nella sua morte facesse morire l’intera umanità peccatrice e la restituisse alla vera vita, il suo uccisore non poteva esser visto se non come lo strumento della volontà del cielo, e come degno, quindi, non di condanna, ma di lode. Se di trarre questa conseguenza non si fosse, per qualche ragione, stati in grado, tra il fine (la morte di Cristo) che doveva comunque essere raggiunto e il mezzo (la concreta sua uccisione), si sarebbe realizzata la scissione che già è stata indicata, e all’azione virtuosa avrebbe corrisposto quella criminale. Il mezzo era infatti lo strumento di Dio: non avrebbe potuto rivendicare, rispetto al fine, nessuna autonomia, e essere cattivo mentre quello era buono. Se questo fosse avvenuto, poiché il fine e il mezzo erano entrambi in Dio, anche in lui si sarebbe determinata la scissione: per una parte, sarebbe stato buono, per un’altra no. E questo, naturalmente, era assurdo. 6. Come, per lo più, gli interpreti assicurano, la quaestio della vendetta che, a sua volta, fu oggetto di vendetta, trovò la sua risoluzione nel discorso che, a chiarimento di questo e di altri dubbi passati per la mente del discepolo, Beatrice pronunziò nel canto settimo. Ai suoi argomenti si è infatti riconosciuta tale forza che, sul merito della questione si giudicò che non dovesse ulteriormente indagarsi. Nella drammatica «messa in scena» dei dubbi e delle proposte di soluzione, furono queste ad aver ragione di quelli. Dopo essersi aperto nella mente di Dante, il dramma si era felicemente risolto. Della «contraddizione», che il poeta aveva creduto di avvertire, e dalla quale si era sentito preso, Beatrice aveva mostrato che non era tale. Ne aveva provata l’inconsistenza. E se della sua dimostrazione Dante aveva ritenuto di doversi contentare, perché non avrebbero dovuto,
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e non dovrebbero, anche gli interpreti? In realtà, la questione che il poeta aveva posta non era semplice; e la via che, per risolverla, Beatrice aveva scelta e percorsa, riconduceva proprio nel suo centro. Se su questo punto si è d’accordo, è ovvio che, in sede di interpretazione, debba andarsi oltre il limite che s’incontra nel testo di Dante. Così è accaduto nelle pagine che precedono. Altrettanto avverrà in quelle che seguiranno. Non per prestare a Dante un pensiero che non fu, e non poté essere, il suo. Ma per capire meglio, alla luce di un altro pensiero, quello che egli concretamente pensò, e nelle cui difficoltà rimase impigliato. L’accenno che, nel canto sesto, Giustiniano aveva fatto alla «vendetta» che, per mano dell’imperatore Tito, l’aquila aveva presa della «vendetta del peccato antico», era rimasto fortemente impresso nella mente di Dante; che l’aveva registrato e, dalle implicazioni concettuali che nascondeva in sé era rimasto turbato. Non era riuscito, infatti, e non riusciva, a risolvere il dubbio che, a sentirle pronunciare, quelle non semplici parole gli avevano acceso dentro. «Io dubitava, e dicea ‘dille’, ‘dille’/ fra me: ‘dille’, dicea, ‘ala mia donna/ che mi disseta con le dolci stille’».6 Come poi, ai versi 20-21, Beatrice avrebbe chiarito, la questione era come fosse possibile ammettere che quel che a giusto titolo era stato assunto come giusto (la prima vendetta) anche lo fosse come ingiusto e meritevole perciò di giusta punizione (la vendetta della vendetta): come insomma potesse dirsi che il giusto fosse non tale, ma ingiusto, e questo, per contro, giusto. È la questione che già abbiamo incontrata e delineata; e che, deve ora aggiungersi, riguardava la contraddizione o, se si preferisce, l’inconseguenza che, per questa via, sembrava essersi insinuata nei ragionamenti relativi alla «vendetta della vendetta». Sembrava, o vi si era insinuata davvero? 7. Se si fosse rimasti fermi, non solo alle parole, ma ai concetti, e in questi non si fosse ricercato l’autentico significato, della contraddizione si sarebbe dovuta proclamare l’insuperabilità. Ma se dalle parole si fosse passati ai concetti, Dante riteneva che la soluzione sarebbe stata trovata senza che si desse la possibilità di dubitarne. Poiché era una sorta di sfida quella che egli lanciava al lettore, era ovvio che quest’ultimo dovesse raccoglierla, non per confermare la bontà del modo tenuto nel risolvere la contraddizione, ma entrando senza riguardi, e ipocrisie storiografiche, nella questione che, dopo averla posta, il poeta riteneva di aver anche risolta con le parole di Beatrice. Occorrerà, dunque, mettersi sotto gli occhi il testo nella sua interezza, a cominciare dal verso, comunque lo si interpreti,
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perentorio fino all’intimidazione, «secondo mio infallibile avviso» (v. 19),7 che subito Beatrice aveva opposto, non solo al dubbio di Dante, ma anche al reverenziale timore che gli aveva impedito di esprimerlo in esplicite parole. «Ma quella reverenza che s’indonna/ di tutto me, pur per ‘Be’ e per ‘ice’,/ mi richinava come l’uom che assonna» (vv. 13-15). Di questa esitazione Beatrice infatti non tenne conto se non per respingerla e tagliar corto. «Poco sofferse me cotal Beatrice/ e cominciò raggiandomi d’un riso/ tal che nel foco faria l’om felice» (vv. 16-18): «secondo mio infallibile avviso/ come giusta vendetta giustamente/ punita fosse, t’ha in pensier miso;/ ma io ti solverò tosto la mente;/ e tu ascolta, ché le mie parole/ di gran sentenza ti faran presente./ Per non soffrire ala virtù che vole/ freno a suo prode, quell’uom che non nacque/ dannando sé, dannò tutta sua prole;/ onde l’umana specie inferma giacque/ giù per secoli molti in grande errore/ fin ch’al Verbo di Dio discender piacque/ u’ la natura, che dal suo fattore/ s’era allungata, unì a sé in persona/ con l’atto sol del suo etterno amore./ Or drizza il viso a quel ch’or si ragion:/ questa natura al suo fattore unita,/ qual fu creata, fu sincera e buona;/ma per sé stessa fu ella sbandita/ di paradiso, però che si torse/ da via di verità e da sua vita./ La pena dunque che la croce porse/ s’ala natura assunta si misura/ nulla giammai si giustamente morse;/ e così nulla fu di tanta ingiuria,/ guardando a la persona che sofferse/ in che era contratta tal natura./ Però d’un atto uscir cose diverse:/ ch’a Dio e a giuder’ piacque una morte:/ per lei tremò la terra e ’l ciel s’aperse./ Non ti dee oramai parer più forte,/ quando si dice che giusta vendetta/ poscia vengiata fu da giusta corte».8 Ab Adam principium, come si vede. E, al di là dei termini in cui Dante la mise,9 era un’ardua questione quella che qui prendeva la sua forma. Che in questi versi, di mirabile fattura e attraversati, a tratti, da potenti lampeggiamenti, Dante s’inoltrasse lungo un di per sé non facile sentiero, non soltanto filosofico, ma teologico, è l’argomento stesso che lo dichiara. Non si perderà perciò tempo a sottolinearlo se non per dire che, certo, se, come pure è necessario, si cerca di tenere insieme la colpa di Adamo e, per un altro verso, l’onnisciente e onniveggente volere di Dio, subito la questione mostra, o torna a mostrare, il suo aspro profilo. Subito, infatti, la sua linea si complica, s’increspa; e la difficoltà, della quale si parlava, emerge in piena luce. Adamo, «l’uom che non nacque», era stato creato direttamente, «sanza mezzo», da Dio. Per essere al «suo fattore unita», «sincera e buona» era stata di necessità, fin dall’inizio, la sua natura.10 Come, dunque, poté accadere che egli non sapesse tenere a freno la sua volontà,
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incorrendo nel divieto e, per conseguenza, nel castigo che «dannò tutta sua prole/ onde l’umana specie inferma giacque»?11 La questione che, di fronte a questi versi e al concetto teologico che ne è richiamato, subito si presenta, è quella che concerne la relazione che deve essere cercata fra il momento in cui, uscendo pura dalle mani di Dio, e idonea a vivere a contatto con lui, la natura umana si disponeva alla sua eterna vita felice, e quello che fu invece caratterizzato dalla fatale trasgressione che trasferì l’uomo, la sua donna, i figli che ne sarebbero stati generati, sulla terra. In che rapporto stanno, infatti, nella mente divina, questi due diversi momenti? Nella mente divina, già lo si accennò, i tempi non stanno come in quello storico, ossia nella forma della successione, ma sono tutti, passato, presente e futuro, raccolti nel punto inesteso dell’eternità, nella quale è ovvio pensare che non possano dividersi secondo quelle tre diverse modalità. Il punto, che simboleggia l’eternità, essendo per definizione tale che, ogni punto che vi si segni è identico a quello che lo simboleggia, è ovvio che non possa esserne distinto e non possa essere nominato come un punto nel quale siano compresi il presente come presente che non è il futuro e non è il passato, e questi come sé stessi e non gli altri. È perciò altrettanto inconcepibile dell’idea che il quaderno dell’eternità possa squadernarsi, ossia svolgere l’una dopo l’altra le sue pagine e formare la serie temporale idealmente presente in un normale libro che giaccia su un normale tavolo. Quelle, infatti, non sono le pagine di un quaderno che, l’una dopo l’altra, possano essere sfogliate, ma sono una pagina che non c’è pagina che possa precederla, né pagina che possa seguirla, una pagina assoluta che simboleggia l’eternità della mente di Dio. Alla quale, si dice, tutti i tempi sono presenti, e si dice in modo improprio, perché, presenti all’eterno possono essere detti solo per analogia a una situazione che, non con l’eterno, abbia a che fare, ma con il tempo che tiene dietro al tempo come a un altro tempo. Com’era dunque possibile che, nel creare ex nihilo, il mondo, Dio avesse, non solo potuto crearlo privandosi, in questo atto, dell’eternità, alla quale niente, infatti, può essere aggiunto come niente può essere tolto, ma altresì distinguendo nella sua mente il diverso tempo in cui l’uomo sarebbe stato coinvolto prima della caduta e poi dopo che essa si fosse determinata? È la questione originaria che, sebbene non presente in questi termini nel testo di Dante, deve tuttavia essere richiamata alla mente: costituisce infatti il criterio in forza del quale può intendersi perché problematica fino al limite dell’impossibilità sia l’idea che, non solo nel cospetto di Dio un tempo possa tener dietro a un altro e vi sia perciò nei riguardi del Cristo, un tempo
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degli Ebrei che lo uccidono e un tempo dei Romani che di quel loro atto prendono vendetta, ma che addirittura, vi sia una storia e che, ferma l’idea che Dio significhi eternità, fermo si tenga anche all’altra per la quale lo si identifica con un attore che, salva essendo la sua eternità, entri tuttavia nel tempo storico che con l’eternità non può avere relazione come questa con esso, ne usi gli attori (popoli o individui) e, per il loro tramite, realizzi in esso le sue volontà. Ma si dirà. Quello dei gesta Dei per homines è un’idea essenziale della teologia cristiana della storia. Senza dubbio. Ma perché non osservarne le problematicità se queste siano evocate, non in astratto, ma in relazione a un difficile passaggio testuale? E anche alla questione che sempre fu presente alla mente di Dante, della vita brevissima che i due primi uomini trascorsero nel Paradiso Terrestre, nel quale fu dato a lui, primo e unico uomo vivo, di rimettere il piede? In realtà, come e perché, in un luogo quale era il Paradiso Terrestre potessero, per i due che lo abitavano, nascere tentazioni malvage; come potesse accadere che, ignara del male (e del bene, si può aggiungere, se questo fosse stato considerato nella sua necessaria connessione con il primo), una natura sincera e buona si disfrancasse dal suo «fattore», al quale era unita, è difficile comprendere. Anzi impossibile. E tanto più lo sarebbe, se, interpretando con larghezza, si assumesse che «libero» di volere e di compiere il male come il bene, e questo al pari di quello, l’uomo era stato creato da Dio. In luogo di avviarsi verso una ragionevole soluzione, il problema si inasprirebbe in questo caso ancora di più. Nel Paradiso Terrestre poteva ben esserci, se così era scritto, l’albero che recava sui suoi rami il frutto proibito. Ma se «sincera e buona», ossia, si direbbe, immediatamente buona, era la natura dell’«uom che non nacque», com’era possibile che questa fosse così poco «sincera», così poco semplice e immediata da ospitare in sé la libera volontà del bene e del male?12 Se, si ripete, era sincero e buono, era impossibile che da Dio il primo uomo fosse stato creato libero di fare, con il bene, il male. Altro, infatti, il bene che può ritenersi intrinseco alla semplicità e schiettezza del primo uomo. Altro il bene che, in coppia necessaria con il male, era anch’esso contenuto nell’albero che, con il suo divieto, Dio aveva sottratto alla libera fruizione di Adamo e della compagna che gli era stata data. Ne consegue che se oggetto di libera scelta non poteva essere il bene che, di per sé stesso, coincideva con la natura buona e sincera del primo uomo, oggetto di scelta non poteva, per l’identica e opposta ragione, essere il male che, esso pure, apparteneva all’albero proibito. Non poteva essere oggetto di scelta il primo, perché non si sceglie quel che, con immediatezza
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e semplicità, appartenga a una natura che sia il soggetto di tali predicazioni. Non poteva essere oggetto di scelta il secondo, perché soltanto chi, violando il divieto e alterando perciò la sua natura sincera e buona, ne avesse colta la necessaria connessione con il male, sarebbe stato in grado di realizzarla. In altri termini, la scelta del male, ne presupponeva il possesso. Di qui l’ulteriore conseguenza. E l’ulteriore difficoltà. Se la libertà, la nozione del bene e del male, la capacità di scegliere tengono dietro all’infrazione del divieto, non possono esserne la causa. Se di questi sono la causa, non può, per converso, dirsi che ne conseguano. Ancora: se nacque libero, e consapevole perciò del bene e del male, era impossibile che il primo uomo fosse «buono e sincero»: sincero, e cioè innocente, buono, ma nel segno dell’innocenza, non della consapevolezza del male da combattere e da vincere. Impossibile era altresì che, pur stando lì, dinanzi a lui e alla sua compagna, i frutti dell’albero costituissero per l’uno e per l’altra, oggetto di tentazione. Se a questi princìpi se ne ispirasse il commento, l’intera fabula non reggerebbe alla prova della coerenza. A questa prova, del resto, non reggerebbe nemmeno se il filo logico fosse preso dall’altro capo; e la questione fosse perciò osservata dal punto di vista della provvidenza divina, e della onniscienza e preveggenza che ne costituiscono il carattere essenziale e irrinunziabile. La prova logica risulterebbe, anche in questo caso, non superata. Non solo perché della «colpa» di aver commesso questo o quello non sarebbe imputabile una volontà che un’altra volontà, di lei assai più potente e determinante, avesse condizionata in modo che non potesse volere se non quel che quest’ultima avesse voluto che volesse (persino la libertà del bene e del male sarebbe, in questo quadro concettuale, una libertà «concessa», e non libera, dunque, rispetto a ciò che la concede). Ma anche per la conseguenza che da tutto ciò scaturisce. Non è infatti alla inesistente volontà di Adamo, ma a quella ben esistente di Dio, che dovrebbe, se mai, essere attribuita la responsabilità e, con questa, la «colpa» consistente nel suo essere venuta all’esistenza come volontà (del bene e del male). E, conseguenza di questa conseguenza, anche, e in primo luogo, alla voluntas Dei, e alla ratio che la abita, dovrebbe imputarsi la grave contraddizione che emerge e si dà a vedere quando si consideri che, nello stesso atto, all’«uom che non nacque» erano, in sostanza, state assegnate due nature. Una contrassegnata dal suo non poter essere, in quanto «sincero», innocente, ignaro e inesperto del bene e del male, il libero soggetto di una qualsiasi volontà dell’uno e dell’altro. L’altra contrassegnata dal suo essere, invece, un libero soggetto volente, capace di misurare il significato
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del divieto che gli era stato imposto e consapevole perciò del rischio conseguente alla sua infrazione. Libero. E perciò, in quanto consapevole del bene e del male, non «sincero», non innocente. 8. L’insistenza messa nel discutere questo punto, e nel proporre questa sorta di controcanto esegetico, non apparirà eccessiva a quanti abbiano considerato, e considerino, quel che, del resto, è, o dovrebbe essere, ovvio. Il nesso fra Adamo e Cristo fu infatti stabilito, o ripreso, con forza e con rigore, proprio da Dante:13 di modo che commentarlo in entrambi i suoi termini era, per dir così, obbligatorio. Dopo aver trattato di Adamo, dovrà dunque dirsi del Cristo. E proporre questa elementare considerazione. Per un verso, e non poteva essere se non così, Cristo rappresentava, agli occhi di Dante, la colpa, l’umanità resa inferma dal peccato: a tal segno che in lui, natura divina e umana, si realizzava il più radicale dei paradossi: all’interno dell’unità, la scissione, la massima lontananza e, insieme, la massima vicinanza al padre celeste. Per un altro, invece, poiché era il figlio di Dio, inviato a redimere i peccati del mondo, il Cristo era colui che più di ogni altro avrebbe meritato rispetto, riconoscenza e amore. Le due alternative si intrecciavano a formare un paradosso: in un luogo che era, al tempo stesso, un non luogo. Per un verso, avendo preso su di sé il peso immane dei peccati del mondo, Cristo doveva, perché quelli morissero con lui, assumersene la responsabilità, e esser messo a morte. Per un altro, poiché moriva per amore degli uomini non doveva, o non avrebbe dovuto, esserne messo a morte. Come uscire da questo «luogo/non luogo»? Come salvarsi dalla contraddizione che, in tal modo, riprendeva forma e tornava a dar segno di sé, tenendo prigioniera in sé la possibilità che se ne uscisse? La via indicata da Dante, e ben sottolineata dal Landino nel suo commento,14 prevedeva che, come, in Cristo, la natura umana stava insieme a quella divina e, nello stesso tempo, se ne slegava, così era giusto colpire la prima, ingiusto colpire la seconda. Per aver colpita la prima, o fatto in modo che fosse colpita, vendicandovi il peccato che era stato commesso dal primo uomo, gli Ebrei meritavano lode, e non biasimo. Ma biasimo meritarono, e non lode, per aver colpita, con la prima, anche la seconda, che con la prima era congiunta. Meritarono perciò che della loro vendetta ci si vendicasse. Ma, se è così, e questa fu la risposta che, con le parole di Beatrice, Dante dette alla difficoltà che gli si era formata nella mente, si torna al luogo critico che già, a più riprese, si è delineato in queste pagine. È evidente, infatti, che il paradosso o, se si preferisce, il nodo aporetico,
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non era stato in alcun modo sciolto; e che la contraddizione restava lì, insoluta. Presente alla radice della domanda, altrettanto il paradosso lo era alla radice della risposta. In Cristo la natura umana e quella divina erano due, per un verso. Ma, per un altro, una nell’unità che le teneva avvinte, perché uno, e non due, era il Cristo. Ne conseguiva che condannare e punire la prima era giusto e, insieme, ingiusto perché, com’era distinta dalla seconda, così e altrettanto la prima le era congiunta. E, come già in parte si vide, c’è di più. La inseparabilità, nel Cristo, della natura umana da quella divina, ha il suo perfetto riscontro nella impossibilità che, in Dio, i tempi non siano un unico tempo, l’eterno, e non si distinguano perciò come il primo dal secondo, il secondo dal terzo e così via. Quel che l’occhio umano vede nella forma della successione e del diverso tempo che perciò si assegna a quel che esce dal quadro, e a quel che vi subentra, la mente divina vede come un unico atto nel quale quel che viene prima e quel che viene dopo sono unitariamente ricompresi. Non dunque gli Ebrei che, prima, uccidono il Cristo, e poi i Romani che del loro atto prendono vendetta, ma un solo atto nel quale non dipende che dall’incapacità della mente umana a sostenere il fulgore dell’eterno se quel che in Dio è coincidenza si dispone nella forma della successione. Quando perciò, per risolvere il problema della doppia vendetta e liberare la tesi dal sospetto della sua contraddittorietà, Beatrice chiedeva aiuto al tempo che, disponendo l’uno dopo l’altro momenti che, se uniti, avrebbero dato luogo all’ἀντίφασις, scioglieva la contraddizione o, meglio, ne impediva il costituirsi, nel ragionare così non s’avvedeva di star adoperando l’unico argomento dal quale la difficoltà era, non tolta, ma ribadita. Fra il piano della provvidenza e quello della storia poneva, nel fatto, una differenza e un divario incomponibili, che della difficoltà erano perciò il simbolo. Gli uomini vedevano nella forma della successione storica quel che Dio vedeva nella forma del’eternità. E, a rigore, dovrebbe dirsi che non erano le stesse le cose che gli uomini e Dio vedevano, e nemmeno che fosse ammissibile che, come i medievali sostenevano riprendendo un oscuro luogo aristotelico, nell’eterna mente di Dio i tempi stessero, ma come tempi distinti, l’uno nell’altro. Nell’eterno non si dà coincidenza di diversi. Nell’eterno, la distinzione di punti diversi è impossibile: ogni punto è infatti tutto intero l’eterno, che perciò è impossibile che includa punti. Il nesso che, come l’analisi ha dimostrato, lega insieme la questione delle due nature del Cristo e quella dell’eternità di Dio, è di tale importanza che, se non lo si coglie, ci si mette nell’impossibilità di comprendere, nelle sue varie implicazioni filosofiche e teologiche, il paradosso delle due vendette.
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9. Che dunque, raggiunto attraverso la distinzione in Cristo delle due nature, che pure erano in lui unite e inseparabili, il chiarimento fosse e, sul serio, potesse esser tale, nessuno potrebbe affermare con tranquilla coscienza. È vero, infatti, il contrario: in nessun modo il chiarimento era stato raggiunto. E per varie ragioni: che tutte, più o meno implicite, stanno nel testo e nel concetto che lo informa. E tutte, per conseguenza, richiedono di essere richiamate alla luce. A cominciare da quella che, di ogni ragione che qui dia segno di sé, costituisce la ragione; e che Dante richiamò quando, al v. 45, disse: «in che era contratta tal natura». Che qui l’accenno andasse alla natura, insieme umana e divina, del Cristo, è evidente. Ma anche lo è che di qui a prender forma, era, non già il principio di una risoluzione, ma l’esasperazione di una difficoltà. Una difficoltà che, nel quadro delle considerazioni che, in tema di peccato, vendetta, vendetta della vendetta, Dante era intento a svolgere, chiamava in causa l’autentica sua radice. Poneva infatti la questione del significato che dovesse attribuirsi a quel participio «contratta»; che rinviava all’idea dell’unità e richiedeva che il concetto ne fosse rigorizzato senza alcuna concessione a compromessi e ambiguità. Per «unità» doveva intendersi lo «stare insieme», il «coesistere in un ambito» di due dimensioni che per sé tendevano ed erano destinate, alla separazione? Se questo, per altro, si fosse inteso per «unità», nell’esser «uno» Cristo sarebbe stato «due». Nell’essere unito, sarebbe sato diviso. Sarebbe stato una contraddizione, o, meglio, una scissione. E a morire sulla croce sarebbe stata perciò, non il figlio di Dio, ma, appunto, una realtà scissa, qualcosa dunque a cui sarebbe stato impossibile conferire una forma qualsiasi di realtà. Per «unità» doveva dunque, e per contro, intendersi l’assoluta inseparabilità delle due nature, l’inscindibilità del nesso che queste formavano con il loro indistruttibile intreccio? Se questo si fosse inteso per «unità», se il suo significato fosse stato spinto fino a questo esito estremo, è evidente che a mostrare la sua problematicità, anzi la sua impensabilità, sarebbe stata l’idea stessa della morte, sulla croce, del figlio di Dio; che era bensì un uomo, ma tale, tuttavia, che, indissolubilmente legato alla sua parte immortale, era impossibile che ne fosse diviso e che, perciò, morisse. In quanto si fosse determinato, il dramma della Croce riguardava un uomo, un mortale, non il figlio di Dio, che, in quanto si era fatto uomo, tale era e non era il figlio di Dio. Una tesi eretica: che non avrebbe potuto essere aggiustata dicendo che, se in Cristo l’uomo era mortale, non mortale era il dio che era in lui, perché, se fosse stato così, allora ne sarebbe risultato un mortale/immortale e un immortale/mortale, l’uno rinviante all’altro in
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un modo che anch’esso rendeva impossibile che alla morte del Cristo sulla croce si concedesse il tempo della realizzazione. Se è così, è evidente che, non riuscendo a rendere espliciti i termini di questa situazione e a misurare la gravità del conflitto in cui l’una si poneva con l’altra, fra queste due idee dell’unità Dante fu preso come in una prigione dalla quale era impossibile che evadesse. Dell’una, di queste due idee, egli aveva infatti bisogno non meno che dell’altra. Della prima non poteva appagarsi perché, se nel Cristo il mortale fosse stato separato dall’immortale, a morire non sarebbe stato che un uomo; e l’assunto stesso del Dio che, facendosi uomo, non perciò cessava di essere «Dio», sarebbe venuta meno. Con questo assunto, a venir meno sarebbe stato il fondamento stesso della religione cristiana. Non per questo, tuttavia, avrebbe potuto dare il suo consenso alla seconda. Posto che, in Cristo, il mortale e l’immortale fossero stati stretti in un nesso indissolubile, della sua morte non si sarebbe in nessun modo potuto parlare. Si sarebbe potuto se l’indissolubile non fosse stato tale. Ma l’indissolubile è l’indissolubile, e condanna all’eternità l’elemento mortale che ne sia avvinto, con la conseguenza che l’elemento mortale che, avvinto all’immortale, non può separarsene, non è mortale. È immortale. L’uomo, che era nel Cristo, non era, in realtà, un uomo. Era altrettanto dio del dio. E di questo altrettanto immortale. Anche per questa via, dunque, l’assunto del cristianesimo, e il suo paradosso, si sarebbero rivelati insostenibili e contraddittorii. Può aggiungersi che a morire sulla croce era stato un uomo che non era se non un uomo, non il figlio di Dio. Oppure, che a morire sulla croce era stato un individuo che, poiché restava vivo nella sua parte immortale, non poteva morire nella sua parte mortale, e non aveva bisogno di risuscitare perché morto non era mai. 10. La difficoltà si confermava anche in relazione al problema del merito e della colpa degli Ebrei; che deve ora essere di nuovo considerato e discusso. Posto, e non concesso, che uccidere il dio fosse possibile, a condizione, per altro, che la natura divina e quella umana stessero bensì insieme, ma come distinte, tuttavia, e in qualche modo separate, è evidente che né di un merito si sarebbe potuto parlare, né di una colpa. Non di merito. Considerato nella sua parte umana, che da quella divina era separata e separabile, il Cristo non era infatti se non un uomo. Per peccati che avesse commessi, quelli erano i peccati suoi, non quelli, raccolti e sintetizzati nella sua persona, dell’intero genere umano. Quello, infatti, che era stato consegnato al tribunale romano, era, ancora una volta, un uomo. E per questo poté essere
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messo a morte. Che se, invece che un uomo, fosse stato un dio, e, con grande scandalo di chi non avesse potuto concepire che l’immortale morisse, gli Ebrei fossero stati ritenuti responsabili della sua uccisione, come non vedere che a essere disattesa sarebbe stata, in primo luogo, proprio la distinzione delle due nature, unite in Cristo e altresì separate: ossia la premessa in ragione della quale, sia pure contraddittoriamente, si era assunto che, per essere uomo oltre che dio, per questo il figlio di Dio poteva essere messo a morte? Era, in effetti, la questione dell’unità, in lui, delle due nature, che, avendo ricevuta una più che debole definizione, rifletteva questo suo carattere nell’altra relativa al merito e alla colpa, e rendeva più che precaria la soluzione che Dante riteneva di aver data alla «contraddizione». La soluzione era precaria perché, a rigore, se l’umano e il divino stavano in Cristo come uniti, ma anche come separabili, non era autentica unità, era una giustapposizione, quella da cui la natura del dio/uomo era costituita: di modo che ucciderlo non significava se non separare quel che poteva essere separato, e che a esserlo era intrinsecamente disposto. Significava non uccidere il figlio di Dio, che Dio era egli stesso, ma consegnare l’uomo alla morte, alla sua inscalfibile eternità il dio. La conseguenza era perciò che la colpa degli Ebrei non era consistita se non nell’aver reso possibile la morte di un uomo che non era imputabile di crimini che la richiedessero come pena, e che, se anche lo fosse stato, era tuttavia un uomo, non un dio. 11. Sono queste, salvo errore, le radici profonde del dubbio che era sorto nella mente di Dante, e che egli non era per altro riuscito a raggiungere e a osservare per quel che erano. Se a quello fosse giunto, ad aprirsi, o a riaprirsi dentro di lui sarebbe stata la spinosissima e dibattutissima questione della natura umano/divina del Cristo. Una questione che, per la sua ammissibilità e risolubilità, egli affidava all’insondabile mente di Dio insieme al mistero che ne era custodito, e della quale non poteva tuttavia non subire e patire il peso problematico ogni volta che, come nel caso della colpa degli Ebrei nella morte del Cristo, avesse dovuto affrontarla, in un suo particolare aspetto, con lo strumento della ragione, e dunque come una pura questione concettuale. Di difficoltà, del resto, se ne davano anche altre: connesse, tuttavia, non tanto con la questione, di per sé stessa considerata, degli Ebrei e dei Romani, quanto piuttosto con l’altra che, relativa al rigido schema provvidenzialistico di cui Dante si serviva per interpretare i momenti essenziali della storia, era destinata a emergere nella sua asprezza quando a esser considerato fosse stato il suo evento centrale e supremo, la
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nascita e la morte del Cristo. Come si vede, la questione della storia torna a proporre il suo tema e a rivelare il nesso che la lega a quella della morte di Cristo. Nella concezione storica che le assumeva come il supremo criterio, come la chiave atta ad aprire lo scrigno che racchiude in sé il senso del passato, del presente e del futuro, quella nascita e quella morte costituivano infatti il punto ideale in cui i fili di quelle dimensioni del tempo si annodavano. Nel loro presente, esse alludevano al passato che in quello, nel presente, rivelava il suo senso; e altresì al futuro, il quale, tanto meno, per altro, poteva riuscire conforme alla definizione che se ne dava, e porsi perciò come «al di là» rispetto al presente simboleggiato e rappresentato dalla nascita del Cristo, in quanto era pur sempre in riferimento a quel simbolico ed essenziale presente che si definiva, assumendo, per altro, due diversi significati: connessi, ma diversi. In ragione del primo (se questa apparente digressione è lecita in questa forma) il futuro era il futuro; era quel che in genere si intende con questa espressione, era «ciò che sta oltre il presente» e ancora, tuttavia, non è sopraggiunto. In ragione del secondo, non lo era. Per un verso, il futuro era il futuro perché il tempo succeduto alla parousia del Cristo procedeva nell’oltre, si spingeva in avanti, verso un limite rispetto al quale, qualunque fosse, quell’evento centrale e decisivo scivolava indietro, e si chiudeva nel passato. Ma, per un altro verso, non lo era, non riusciva a esserlo. A conferirgli senso, e a trattenerlo quindi in qualche modo in sé, a renderlo presente al suo passato, era infatti pur sempre il decisivo evento che gli stava alle spalle e nei confronti del quale, senza riuscire a esserlo, esso era il futuro. Era l’evento che, in tanto, a giusto titolo, poteva e doveva esser detto centrale, in quanto conferiva il suo senso al passato e, allo stesso modo, al futuro. La parousia del Cristo, in altri termini, era tale che, sebbene essa stessa fosse trascorsa, e avesse dinanzi a sé il futuro, rendeva quest’ultimo presente al suo passato. Richiamando a sé il tempo futuro, essa si rendeva presente per la seconda volta; dava luogo, se così si vuol dire, alla sua seconda volta. In questo senso, la seconda parousia si configurava come un evento interno alla prima: come un «dover accadere» del già accaduto. Per questo, Paolo di Tarso aveva sostenuto che in Cristo ciascuno era salvo, e già iniziato era il tempo di Dio.15 12. Su questi concetti occorrerebbe insistere: anche perché, nel linguaggio in cui sono stati espressi, potrebbero essere considerati estranei all’orizzonte concettuale di Dante. Solo in apparenza, per altro, è così. Non è forse vero che l’idea secondo cui erano state la nascita e la morte di Cri-
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sto a conferire senso alla storia del mondo, configurandola come storia della salvezza, imponeva che a quell’evento tutto fosse riferito, e di lì traesse il suo senso? A partire dal quarto trattato del Convivio,16 e poi nel secondo libro della Monarchia,17 Dante aveva insistito sul carattere, sia «giusto», nel senso del diritto, sia «sacro», in relazione al fine, di ogni suo momento, anche se in uno di questi fosse stato contrassegnato da violenza. Per questo, e non per altro, quanto aveva detto a proposito dei Romani, anche per gli Ebrei avrebbe dovuto esser ritenuto valido. Tutto, infatti, nella sua idea, concorreva alla costituzione dell’evento centrale. Vi concorreva, o vi aveva concorso, la violenza dei Romani, che un giorno aveva condannata e poi aveva imparato a considerare come altrettanto necessaria dei colpi che, chi stringe in mano un martello, infligge alla «materia» fin che questa non abbia assunta la forma desiderata. Ma, allora, perché non anche quella degli Ebrei? In qualunque modo, sul fondamento dei Vangeli e degli Atti degli apostoli, avesse interpretato le fasi specifiche del dramma che, iniziato nel Sinedrio, era passato attraverso il tribunale romano e il giudizio di Ponzio Pilato per concludersi sulla croce, resta che in questo una parte essenziale e determinante l’avevano avuta gli Ebrei. Resta che non vedervi il segno della provvidenza avrebbe dovuto essere, nella logica che sottende l’interpretazione dantesca della storia e, in particolare del suo momento culminante, impossibile. La parte che gli Ebrei avevano sostenuta e interpretata, e che, secondo Dante, li aveva resi meritevoli del castigo che poi patirono dall’imperatore romano, è anche quella che aveva configurato il merito che doveva esser loro riconosciuto per aver contribuito a far sì che il peccato di Adamo fosse riscattato dal sacrificio di Cristo. Il paradosso esposto al v. 47, quello per il quale deve dirsi «ch’a Dio e a’ Giudei piacque una morte»,18 si sarebbe risolto nella luce della logica se, astraendo dalla contrapposizione e, senza dubbio, arrecando violenza al testo, anche a questi si fosse riconosciuto quel che ai Romani si attribuiva come un merito; se, al pari di questi ultimi, anche gli Ebrei fossero stati provvidenzialmente inclusi nel piano del riscatto che quella «morte» aveva operato. Si dà luogo, invece, a un puro e non spiegabile paradosso se, riconferendo energia alla contrapposizione, riconoscendola insuperabile e interpretandola come il testo pur esige, la si intende alla luce del verso precedente: «però d’un atto uscir cose diverse».19 13. Alla domanda, che questa semplice considerazione reca con sé, non sarebbe possibile rispondere, con alquanta semplicità, che anche la
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disparità di trattamento riservata ai Romani e agli Ebrei, ossia ai popoli protagonisti del dramma cristiano, era, per Dante, il frutto della decisione di Dio, nel cui abisso è impossibile spingere tanto lo sguardo che la razionalità che vi si nasconde emerga infine alla luce. A parte ogni altra considerazione che pure, al riguardo, potrebbe essere formulata, non è difficile comprendere che rispondere così non è, in nessun senso, lecito. L’abisso di Dio non è così profondo che il senso di quel che accade nelle cose del mondo vi resti nascosto e non si riesca a intenderlo. Sempre, in realtà, e necessariamente, esso è trasparente e spiegabile: a condizione, beninteso, che si tenga fermo il punto essenziale: e cioè che non c’è cosa che accada nella quale, per difficile che possa esserne la ragione, non solo debba riconoscersene una, ma conforme, di necessità, al disegno di Dio. Come la violenza romana era stata spiegata con, e attraverso il risultato a cui aveva messo capo, e nessun ostacolo si era perciò frapposto alla comprensione della sua razionalità, altrettanto avrebbe dovuto accadere per quella esercitata dagli Ebrei; e tanto più in quanto, in riferimento al dramma di Cristo, le due violenze si erano, in sostanza, prodotte insieme. Vero è che di una violenza romana Dante non si mostrava disposto, in questo contesto, a operare il riconoscimento, e cioè a giudicarla una vera violenza. Ma la difficoltà della questione stava tutta qui. Ed egli ne era rimasto prigioniero: come, se la si svolga con coerenza a partire da quel che vi resta nascosto, proprio quella sofistica risposta finiva col rendere manifesto. In una concezione della storia, come quella che Dante aveva argomentata nel Convivio, e, passando per la Commedia, ribadita nella Monarchia, il popolo scelto per realizzare i suoi fini non valeva, a rigore, più di quello che soccombeva e conduceva i suoi passi lungo un sentiero che sembrava non avere meta. In realtà, la meta era unica e, nella logica della storia, anche chi sembra esserne rimasto lontano o averla, addirittura, contrastata, in effetti la consegue. 14. La domanda, che, come si vede, non sta senza una sua assai seria ragione, non ha trovato fin qui adeguata risposta. Impropria in sommo grado sarebbe, come si è visto, quella che chiamasse in causa l’insondabilità del consiglio divino: che, all’interno del medesimo contesto, tale sarebbe per la decisione e l’azione degli Ebrei, ma non per la decisione e l’azione dei Romani. Eppure, è proprio questa idea dell’insondabile consiglio di Dio, è proprio questo criterio, consistente nella rinuncia a fornire un criterio, che sta per occupare il centro del quadro; in un momento, deve aggiungersi, in cui la questione attingeva il vertice della sua drammaticità. Beatrice
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aveva concluso la prima parte del suo intervento, che avrebbe dovuto essere chiarificatore, con il consueto tono perentorio: «non ti dèe oramai parer più forte/, quando si dice che giusta vendetta/ poscia vengiata fu da giusta corte» (vv. 49-51). Eppure, subito dopo, quasi a smentire quel che appena aveva detto, aggiungeva: «ma io veggi’or la tua mente ristretta/ di pensiero in pensier dentro ad un nodo,/ del qual con gran disio solver s’aspetta» (vv. 52-54). Con il suo, questa volta, «infallibile avviso», aveva compreso che Dante poteva anche dichiararsi soddisfatto della spiegazione che gli era stata fornita («ben discerno ciò ch’i’ odo»): non però perché gli fosse stato dato di comprendere la ragione per la quale Dio aveva voluto «a nostra redenzion pur questo modo».20 A Beatrice non restò quindi che prendere atto della situazione intellettuale in cui il suo fedele era venuto a trovarsi; e chiamare in causa l’insondabile consiglio divino: «questo decreto, frate, sta sepulto/ agli occhi di ciascuno il cui ingegno/ nela fiamma d’amor non è adulto».21 Da questo momento in poi, il settimo canto del Paradiso prenderà, nel proseguimento del discorso di Beatrice, la sua più decisa direzione filosofica. Lungo il sentiero segnato dall’insistenza messa nel definire la questione del primo uomo, del peccato che interruppe la sua breve vita felice, della creazione delle cose destinate a durare per sempre e delle altre destinate invece a morire, culminerà nella questione che, per la sua difficoltà, già nel Convivio, Dante aveva, senza riuscirci, cercato di risolvere: quella, assai spinosa per la verità, della materia dei primi elementi. Che non è, per altro, il tema che interessa in questa sede e che perciò convenga affrontare.22 Se a quanto detto fin qui resta qualcosa da aggiungere è nella questione degli Ebrei e dell’avversione cristiana nei loro confronti; della quale quella di Dante non è se non un riflesso, una conseguenza, e un aspetto. Ma, al riguardo, che cosa aggiungere a quel che già è stato detto? Non è evidentemente alla luce delle tante tragedie che, per la sua parte, questa cristiana avversione aveva e ha contribuito a rendere possibili lungo il corso dei secoli, e, in particolare, nel ventesimo; non è in riferimento a queste cose che la questione potrebbe mai, quando si parlasse di Dante, essere trattata. Quella che di lì provenisse sarebbe infatti una luce, non rischiarante ma, piuttosto, abbagliante, e il riferimento sarebbe improprio. Stabilito perciò, e ribadito, quel che è ovvio, e cioè che l’ostilità di Dante era non più che la conseguenza e il riflesso dell’ostilità e dell’odio di cui si parlava, occorrerà restare aderenti ai testi; e, il meglio che ci riesca, procedere alla loro comprensione e determinazione. Che questa debba essere la via, è ovvio. Nel considerare gli Ebrei responsabili della morte di Cristo, e meritevoli perciò che su di essi, per
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mano dei Romani, cadesse la giusta vendetta di Dio,23 Dante non faceva, da cristiano, se non ripetere quel che leggeva nei Vangeli, e in particolare, forse, in quello di Giovanni, senza che perciò debba escludersi quel che, per certo, trovava scritto in Paolo. Le indicazioni che, anche negli scritti in prosa, egli fornì delle fonti alle quali attingeva i suoi giudizi sono, anche a questo riguardo, estremamente scarse. E non se ne ricava, in effetti, niente più di quanto si è indicato e che altresì Dante trovava in testi frequentati ad altro fine: la Civitas Dei,24 per esempio, e le Summae tomistiche. Ma, al riguardo, una precisazione è necessaria. Che, alla questione specifica degli Ebrei e all’avversione, per non dire all’odio, nutriti dai cristiani nei loro confronti,25 egli s’interessasse in senso specifico, oltre i testi più ovvi, altri ne cercasse e ne leggesse, non si può escludere, naturalmente, ma nemmeno, d’altra parte, si può affermare: il miglior partito sembrando esser quello che consiste nel tendere piuttosto verso la negazione che non verso il suo contrario, anche perché nell’insieme, e lo vedremo, nel trattare questo specifico argomento, Dante si astenne dall’usare i toni e i modi virulenti che sono spesso presenti in testi dei quali forse ebbe notizia e si procurò la conoscenza. Perché questo avvenisse, è difficile dire: sulla responsabilità degli Ebrei nell’aver acceso il dramma della condanna e della passione il suo giudizio non era infatti, come si è detto, diverso da quello comune ai cristiani del suo tempo. Ma che l’attenuazione dei toni, e comunque la moderazione, costituissero il carattere dei suoi giudizi e lo stile dei suoi interventi, non può essere negato quando, sopra tutto, si consideri di quali strali la sua passione sapesse altrimenti armare la sua polemica. Attenuazione dei toni; e relativa scarsità degli esempi. Occorre esser passati attraverso ventidue canti dell’Inferno, per incontrare finalmente, nel ventesimoterzo, un esempio ebraico, anche se, senza dubbio, emblematico. Nel peccatore che Dante vide «crucifisso in terra con tre pali» (v. 111), egli fu invitato a riconoscere Caifas, il gran sacerdote che, nel Sinedrio, aveva fatto prevalere la tesi secondo cui «convenia/ porre un uom per lo popolo a’ martiri» (vv. 116-117); e il popolo era quello degli Ebrei, l’uomo era, naturalmente, Cristo.26 Il peccato punito era qui l’ipocrisia. E eloquente altresì, nonché chiarissimo, era il contrappasso, che si rende infatti evidente, non soltanto nella croce alla quale, come la vittima, anche il carnefice era ora inchiodato, ma altresì nella sua diversa collocazione e disposizione: tendente verso l’alto nel caso del Cristo, distesa sulla terra, e orientata perciò a simboleggiare il basso, in quello di Caifas. È, come si vede, una posizione esemplare quella che le due croci rappresentano nella simmetrica indicazione dei
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contrari destini di Gesù e di Caifas. Ma che ci sia accanimento, no, proprio non potrebbe dirsi.27 La stessa considerazione vale, del resto, per quel che si legge in Paradiso XXXII 132, dove gli Ebrei sono definiti bensì come gente «ingrata, mobile e retrosa», ma in riferimento, non alla loro natura in generale, sì invece al comportamento che tennero quando erano nel deserto e si cibavano di manna, e a guidarli con energica durezza era Mosè. La triplice definizione non ha insomma niente a che vedere con la questione del Cristo e della sua condanna. Il che è ovvio. Ma la materia è delicata; e l’avvertenza può non essere stata inutile. 15. Si è detto che non frequenti sono nella Commedia gli exempla tratti dalla storia degli Ebrei, e dalla fase di questa in cui la condanna e la morte del Cristo ebbero luogo. Proprio per questo, e a costo che non più che una divagazione sia considerato quel che ora si dirà, converrà ricordare i capitoli iniziali del primo libro del De vulgari eloquentia, in cui si fa questione della lingua degli Ebrei e, nel quadro di questa, si allude al privilegio che Dio aveva accordato al suo popolo. Non è questa la sede (dirlo è persino fastidioso) nella quale sia richiesto che della teoria linguistica di Dante si indichino i luoghi e i concetti essenziali.28 Basterà ricordare quel che a I vi 1, egli osservò a proposito della legittima curiosità di quanti si interrogassero circa la lingua parlata dall’«uom che non nacque»: «de ydiomate illo venari nos decet quo vir sine matre, vir sine lacte, qui nec pupillarem etatem anno vidit adultam, creditur usus». Insomma, la curiosità di Dante era rivolta alla comprensione sia della lingua parlata da Adamo, sia della genesi di questa; che non nacque infatti nel modo in cui nacquero e si differenziarono le lingue postbabeliche. A dotarne il primo uomo fu infatti, nell’atto stesso della sua creazione, Dio. Del quale deve perciò intendersi non che, come un maestro a un allievo, la insegnasse in modo che, poco alla volta, quello la apprendesse, ma che a lui la desse in dono: in modo tale che l’atto del suo esserne creato coincidesse con quello del suo saper parlare. Nato «sine matre», il primo uomo non ebbe età. E non dovette quindi passare attraverso le fasi che poi, dopo la sua estromissione dal Paradiso Terrestre, scandirono il tempo della sua vita umana e quella dei suoi discendenti.29 Ad averne una, e poi un’altra successiva e un’altra ancora, costoro cominciarono subito dopo che Adamo era stato cacciato da quel Paradiso: ossia nel momento in cui ad aver fine fu il tempo edenico e ad aver inizio quello della storia. Perché si ricordano queste cose, che sono bensì del più grande interesse, ma appartengono alla filosofia del linguaggio, o alla teoria, se si
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preferisce, della nascita delle lingue, e con la questione che ora ci sta dinanzi sembra che non abbiano niente in comune? Perché, in realtà, non è così, e ricordarle è importante. Sebbene non breve, e anche alquanto tormentato, sia il percorso che deve compiersi per renderne conto, basterà che si consideri il punto essenziale: e cioè che, «per quanto perdeo l’antica matre»,30 è pur vero che, al momento della cacciata dal Paradiso Terresre, i due progenitori dell’umanità ebbero tuttavia in sorte, non solo di mantenere il possesso della lingua che fin lì avevano parlata, ma anche, e per conseguenza, di trasmetterla ai discendenti. I quali come suona il racconto, la parlarono concordemente, tutti, fino al momento in cui, presa da follia e quasi ripetendo il gesto trasgressivo del primo uomo e della prima donna, con l’eccezione dei figli di Eber, «qui ab eo dicti sunt Hebrei» (I vi 5-6), la restante umanità si dette convegno per la costruzione di una torre così alta da rendere gli uomini, che l’avevano costruita, pari, anzi superiori, a Dio.31 La folle pretesa fu punita, come si sa, con la confusione introdotta nella lingua; che da quel momento non fu più quella di Adamo se non per coloro che, non avendo preso parte all’impresa, la conservarono e la parlarono32 mentre, per le note ragioni, gli altri subirono la vendetta del cielo e furono dispersi. 16. Non si esaurisce in queste rapide considerazioni quel che la rappresentazione dantesca della Torre di Babele richiederebbe che si dicesse. Qualcosa dunque deve aggiungersi, perché riconduce alla linea principale del discorso, ed è del più grande interesse. Due osservazioni meritano, al riguardo, di essere proposte. La prima è che, fedele alle sue fonti, ma di suo aggiungendovi qualcosa di più che una particolare convinzione, Dante fu reciso nell’assumerla come una storia, che Dio aveva deciso che fosse diversa dalle altre. Sebbene, come tutti, anche coloro che, da Eber, furono poi chiamati Ebrei, discendessero dai due progenitori, e vivessero nel segno della maledizione da cui questi ultimi erano stati colpiti, soltanto a essi, che all’impresa avevano rifiutato di collaborare, fu concesso di conservare la lingua edenica anche dopo che, per effetto della loro presunzione, gli altri ne erano stati invece privati. C’è, a questo riguardo, qualcosa che, oltre la non concordanza con la fonte più ovvia,33 richiede di essere notato. Nel ricavare da questa il suo breve e essenziale racconto, Dante non si restrinse solo all’aggiunta di alcune notazioni che gli furono proprie e che, già da altri, furono giudicate singolari, importanti e degne di attenzione. Ma, come si è detto, per un verso dette lui pure forte rilievo
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alla peculiarità della storia ebraica e allo speciale significato che doveva riconoscersi al suo essere «separata» dalla storia delle «genti». Per un altro, tuttavia, fece di più. Non poté, infatti, evitare (lo si deduce da un indizio importante, che non deve sfuggire e sul quale sarà, fra breve, meglio richiamata l’attenzione) di inserire un elemento specifico nel quadro di una concezione che, anche a causa di questa inserzione, rivelava ormai chiaro il suo carattere provvidenzialistico. La ragione per la quale agli Ebrei Dio concesse di esser rimasti estranei alla costruzione della Torre, di non essere colpiti dalla sua maledizione e di conservare perciò essi soli, intatta, la lingua dei progenitori edenici, – questa ragione non è a tal segno sepolta nelle profondità del suo consiglio che una parte almeno non ne emerga e si renda comprensibile. La ragione che emerge e si rende comprensibile è quella che si fece evidente nel luogo in cui Dante disse che «his solis [cioè agli Ebrei], post confusionem, [quella lingua] remansit, ut Redemtor noster, qui ex illis oriturus erat secundum humanitatem, non lingua confusionis, sed gratie fruiretur» (I vi 6). Su questa ragione occorre riflettere. 17. La chiamata in causa, a questo punto, del redentore e della necessità che la sua lingua non potesse essere se non quella che un tempo era stata parlata da Adamo,34 rende infatti necessaria una piccola aggiunta esegetica. Il nesso che lega Cristo al primo uomo anche in Dante, come si sa, è fortissimo.35 Se, da queste linee del De vulgari eloquentia l’occho si dirige ai capitoli quarto e quinto del quarto trattato del Convivio, a emergere è un profilo problematico che, per la verità, è troppo importante perché, anche in questa sede, non lo si consideri e non gli si dedichi attenzione. Nel rilievo dantesco, secondo cui era necessario che, al momento della sua discesa in terra, Cristo parlasse la pura lingua di Adamo e che altresì questa fosse compresa da coloro che costituivano il popolo nel quale era nato, non è difficile scorgere la profonda analogia che la lega a una delle tesi, ragionate nel Convivio: a quella secondo la quale era da considerarsi inevitabile che, per ricevere degnamente il redentore, il mondo si trovasse nella migliore delle condizioni; e unito, perciò, in modo da costituire una sorta di anfiteatro dalle cui posizioni ciascuno potesse vedere e capire quel che accadeva nel suo spazio interno, e a ciascuno il dramma cristiano rivelasse il suo senso. Se a questa analogia si tiene fermo, ecco allora che, a parte la difficoltà che vi è presente e che fra breve sarà considerata, elementi costitutivi di essa appaiono essere, per questo secondo aspetto, i Romani e il loro Impero: per il primo, gli Ebrei e la loro lingua. All’interno di questa analogia,
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entrambi, Ebrei e Romani, svelavano, dunque, la funzione provvidenziale che furono, secondo Dante, chiamati a svolgere. Sebbene, anche ai suoi occhi, e non poteva essere altrimenti, la storia dei primi assumesse il suo senso dalla separazione in cui si era tenuta da quella degli altri popoli, pure è evidente che separazione e isolamento cessavano di esser tali, e il raccordo con la storia del genus humanum totaliter acceptum si stabiliva e dava chiaro segno di sé nel momento in cui, malgrado la sua particolarità, alla lingua degli Ebrei in sostanza si riconosceva e si assegnava una funzione analoga a quella indicata nella storia di Roma e del suo Impero. Sebbene a giusto titolo avessero, a suo parere, meritata la punizione che a essi era stata inflitta dall’imperatore romano che aveva distrutto il loro tempio, c’era qualcosa che, appartenendo agli Ebrei, doveva essere preservato: la lingua, che era stata altresì quella parlata da Cristo. Per diverse ragioni, entrambe le storie, quella degli Ebrei e quella dei Romani, potevano, o avrebbero potuto, esser dette «sacre». E questa è, senza dubbio, una connessione importante, ben meritevole di esser colta e valutata. Per quante «divaricazioni» siano state indicate, e possano ritrovarsi, fra il De vulgari e il Convivio,36 questa non è una divaricazione. È una convergenza, indicativa di un movimento profondo della mente di Dante. 18. Si alludeva a una difficoltà. Occorrerà, prima di concludere, renderla esplicita. Dall’idea cristiana del «redentore», della sua vita, della sua predicazione, della sua passione, emergono, quando siano state considerate sotto il profilo della lingua che egli parlò da uomo, circostanze che bene possono definirsi singolari. Per un verso, a Cristo Dante aveva assegnata una lingua in ogni senso identica a quella che era stata di Adamo. E, a prescindere da altre considerazioni, se si tiene fermo all’idea del genus humanum totaliter acceptum, per la cui salvezza il figlio di Dio si era fatto uomo ed era morto sulla croce, qui si determinava un’incongruenza grave. Non è forse vero che, in questa prospettiva, per poter comprendere la lingua parlata da Cristo, il genere umano avrebbe dovuto esser messo tutto, miracolosamente, nella condizione di intenderla? Dante aveva pensato che, in tanto in cielo si era deciso che Cristo scendesse in terra quando questa era unita nel segno dell’Impero romano e le genti erano perciò un’unica gente, in quanto la buona disposizione del mondo, che è tale ove questo sia retto a monarchia, avrebbe reso possibile la comunicazione a tutti del suo messaggio di salvezza. Si aggiunga, e il suggerimento proviene da un’esplicita dichiarazione dantesca, che il Cristo era stato destinato a nascere ebreo
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«secundum humanitatem».37 Il che significava bensì, in senso stretto, che, in quanto uomo, era ebreo. Ma anche significava che, in quanto ebreo, era uomo, e perciò era il redentore; che tutti dunque, e non solo gli Ebrei, sarebbero stati oggetto della sua cura; che a tutti egli avrebbe parlato, in una lingua che, per altro, in quanto tale soltanto agli Ebrei era nota, e non agli altri. Difficile quindi negare che, messe le cose in questi termini, a nascerne fosse un problema; che riceverebbe una soluzione tanto realistica quanto, in questo contesto, meschina fino al limite del ridicolo, se si osservasse che la difficoltà avrebbe potuto essere superata «traducendola» nelle tante lingue parlate all’interno della comunità imperiale e facendo in modo che raggiungesse il cuore e la mente dell’intero genere umano. Resta vero, infatti, che persino in questa particolare accezione, forte sarebbe il divario sussistente fra l’universalità dell’impresa cristiana e la particolarità dello strumento linguistico di cui il salvatore si era servito. Come mai allora, e proprio in un’opera dedicata, non in particolare alla lingua di Adamo, ma alla molteplicità delle lingue determinata dalla «confusione» che vi era stata recata, Dante non avvertì la questione che nasceva dalla particolarità dello strumento linguistico di cui, come uomo, Cristo disponeva? È ben possibile, in realtà, che questo mancato avvertimento derivasse da un pregiudizio, se lo si vuole definire così, che, agendo nella sua mente e nella sua fantasia, faceva in modo che egli non avvertisse il problema nascente dall’essere, quella parlata da Gesù, una lingua, non universale, ma particolare. Era il pregiudizio per il quale, in primo luogo egli riteneva che, in quanto era pur sempre il figlio di Dio, l’uomo in cui si era incarnato dovesse conservare in sé il segno della sua origine divina e, parlando la lingua che al primo uomo era stata insegnata da Dio, la rendesse tuttavia comprensibile, per il solo fatto che a parlarla era lui, anche a quelli che non l’avrebbero altrimenti compresa. Era il pregiudizio, in secondo luogo, per il quale il più profondo paradosso del dio uomo consisteva, non già soltanto nell’unione di due dimensioni, l’umana e la divina, opposte e per sé inconciliabili al punto che l’una era destinata a morire, l’altra, attraverso la resurrezione di quella, a ritornare nell’eternità, ma nella missione provvidenziale che gli era stata affidata e che era stato chiamato a realizzare. Era al primo pregiudizio che, in tal modo, si tornava. Per sfuggire alla difficoltà determinata dall’impossibilità di tenere insieme l’universalità della missione salvifica e la particolarità dello strumento linguistico, questa avrebbe bruscamente dovuto esser messa da parte, e trasfigurata, assumendo che quest’ultimo fosse bensì un particolare stru-
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mento, ma dotato di una potenza e di una capacità comunicativa in ogni senso eccedenti quelle che altrimenti sarebbero state in suo possesso. Si sarebbe, in altri termini, dovuto far ricorso a una situazione simile a quella descritta negli Atti degli apostoli (2, 1 ss.), quando, nel giorno della Pentecoste, all’improvviso questi ultimi cominciarono a parlare ciascuno in una lingua straniera in modo che, dai Medi ai Romani agli Ebrei «di fuori», tutti potessero intendersi mentre parlavano del vero Dio e celebravano la sua grandezza. Insomma, la situazione miracolosa e sovrannaturale che fu ritratta dal poeta moderno quando scrisse: «come la luce rapida/ piove di cosa in cosa,/ e i color vari suscita dovunque si riposa;/ tal risuonò molteplice/ la voce dello Spiro;/ l’Arabo, il Parto, il Siro/ in suo sermon l’udì». La situazione miracolosa e sovrannaturale che molto filo da torcere aveva dato, ai suoi tempi, al razionalismo di Reimarus38 (e già, forse, a Dante e ai suoi contemporanei). 19. Al margine, rimane una considerazione che, sebbene riguardi, non la lingua di Adamo e di Cristo, ma l’ottima disposizione in cui la terra si trovava quando quest’ultimo nacque, merita tuttavia di essere proposta, come l’ultima di questo scritto. L’idea secondo la quale la nascita di Cristo non sarebbe potuta avvenire se il mondo fosse stato in una situazione diversa dall’ottima in cui si trovava al tempo di Tiberio, e quindi non adeguata ad accoglierla, questa idea ha bensì la sua ragione nello schema provvidenzialistico all’interno del quale Dante la prospettava. Ma è anch’essa, a guardar bene, frutto di un pregiudizio. E produce, nel ragionamento, una forte sfasatura, che non è difficile cogliere nello scambio di significati che l’idea della «buona disposizione» riflette, in questo caso, in sé. Riferita a un luogo e a un tempo, «buona disposizione» può indicare (è il significato più ovvio) l’adeguatezza dell’uno e dell’altro a ricevere la visita di un personaggio di particolare riguardo spirituale. Ma se, invece, il senso dell’espressione fosse piuttosto quello secondo cui l’adeguatezza non era del luogo e del tempo in sé considerati, perché, al contrario, l’idea era che questi erano tali, non tanto in sé, quanto piuttosto per disposizione provvidenziale, ecco che a delinearsi sarebbe stata una prospettiva assai diversa, e anche meglio rispondente, se si vuol essere razionalisti, al concetto di un’umanità che, allontanatasi, in seguito al peccato del primo uomo, da Dio, a questo doveva tuttavia, per decreto divino, essere di nuovo unita e, come Dante si era espresso nel Convivio, «conformata». Perché, dunque, e sempre che la cosa fosse stata messa e mantenuta nei termini della razio-
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nalità, perché, nascendo, il Cristo avrebbe dovuto trovare il mondo nella migliore delle sue disposizioni se, proprio a causa del suo essersi allontanato da Dio, la sua discesa in terra era stata decisa in cielo? Come avrebbe potuto, il mondo, essere considerato nel suo stato migliore e più felice, se, per un altro verso, era esso che richiedeva di essere ricondotto a Dio? C’era, dunque, un sotterraneo rapporto, un rapporto non immediatamente percepibile, fra, da una parte, lo stato civile del mondo e, da un’altra la sua miseria? Oppure questo non era un rapporto, ma il segno di un’incongruenza, analoga a quella per la quale, nel De vulgari eloquentia, Dante aveva pensato di assegnare a Cristo, ossia al figlio di Dio fattosi uomo, non la lingua postbabelica, ma quella pura di Adamo? Poiché è la seconda di queste due alternative ad apparire come la migliore, deve allora osservarsi che, su Dante, da una parte agiva una tradizione, da un’altra un’altra. A parlargli, per un verso, era la tradizione che può ritenersi definita dai versi della quarta Egloga virgiliana, e dalla pienezza dei tempi che vi era affermata.39 È la situazione delineata da Stazio nel canto ventesimosecondo del Purgatorio, vv. 64-81. Per un altro, invece, ad agire su di lui era l’antica idea cristiana della corruzione del mondo e della consumazione dei tempi. Certo, dal punto di vista di una logica provvidenzialistica coerentemente atteggiata, se ci si fosse affidati al criterio dell’insondabilità del consiglio divino, si sarebbe potuto dire che lì, nell’insondabilità, l’anomalia e il conflitto avevano un senso diverso da quello che risultava all’intelletto umano: sempre che, beninteso, almeno per questo aspetto, l’insondabile si fosse reso sondabile e l’abisso avesse rivelato almeno questo suo segreto. La condizione perché questo accadesse era che, a differenza di quel che avveniva nel settimo del Paradiso, l’insondabilità fosse stata bensì affisata senza, perciò, esser stata penetrata nel suo esser tale, ma che anche la si fosse considerata come il luogo in cui quel che non riusciva a essere visto e compreso fosse tuttavia sicuramente presente: nascosto e, non di meno, presente. Il conflitto, in altri termini, doveva essere riconosciuto nel suo carattere. Che non è, appunto, quel che, nel settimo canto del Paradiso, si dà a vedere. Se, per altro, da queste complicazioni si prescinde, e anche, per la verità, se non se ne prescinde, è inevitabile che il discorso assuma di nuovo la forma della domanda dalla quale, all’inizio, prese l’avvio. Perché agli Ebrei che, sia pure in re, erano stati da lui considerati come parte integrante della storia provvidenziale dell’umanità e, in particolare, dell’evento salvifico rappresentato dalla croce di Cristo, Dante non concesse il riconoscimento che, con tanto eloquenza, dava invece ai Romani? Se, come le fonti
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alle quali attingeva la sua formazione gli imponevano di credere, erano stati gli Ebrei a consegnare Gesù al tribunale romano che, come legittimo tribunale, de iure l’aveva condannato, perché, nel quadro provvidenziale della storia, non avrebbe dovuto esser considerato «giusto», ossia eseguito de iure, il gesto con cui l’avevano consegnato al giudice romano, e, mentre il primo era condannato, il secondo era considerato giusto? A un tribunale legittimo gli Ebrei avevano consegnato il Cristo: non a un carnefice che, al di fuori della legge, lo uccidesse per loro conto. Come dunque non ammettere che non poteva essere ingiusto il gesto di chi rimetteva la questione a un giusto tribunale, e non considerare l’incongruenza per la quale su di esso Dante fece cadere un così pesante silenzio? Perché dunque non includere nel quadro della salvezza un gesto che, alla luce di questa, non poteva non esser considerato imprescindibile? Domande legittime, che non attendono se non un’ovvia risposta. Consegnando il Cristo a un tribunale romano, gli Ebrei avevano agito nel quadro della legge. Avendo agito nel quadro di questa, avevano, senza saperlo, attuato il senso più riposto del diritto, quello nel quale direttamente agiva il segreto volere di Dio. Non è così? E perché allora, alla chiarezza della domanda, e di questa risposta, Dante non pervenne? In realtà, a trattenerlo al di qua di questi riconoscimenti fu il suo tenace ancoraggio cristiano. Nella sua acutezza, egli aveva avvertito che, sotto molti riguardi, la questione era complessa. Aveva avvertito che, sul piano dei concetti, assai più che su quello dei fatti ricevuti, presentava aspetti sconcertanti. Dentro di sé, come il settimo canto del Paradiso dimostra, l’aveva dibattuta con viva passione. Molto vi si era travagliato. Ma sulle ragioni ultime della condanna che gli Ebrei avevano ricevuta dai cristiani, non poteva non convenire. I testi che la indicavano, e ne delineavano le ragioni, erano, per lui, testi sacri. Postilla A proposito di De vulg. eloq. I vi 4, Maria Corti, Dante a un nuovo crocevia, Firenze 1981, pp. 47-48, osservò che, al contrario di quel che intende la «diffusa esegesi», secondo la quale, «nell’atto di crearlo», Dio avrebbe dato all’uomo «una struttura linguistica e insieme una lingua bella e fatta, la lingua ebraica», non così questo passo richiede di essere interpretato. Alla Corti sembra infatti che ne provenga «un messaggio diverso, oltre che più sottile». La «forma locutionis concreata con l’anima dell’uomo non è infatti», a suo parere, «una lingua concreta», ma è bensì la ‘causa formale’ e il principio generale strutturante della lingua, sia
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per quanto riguarda il lessico, sia per quanto riguarda i fenomeni morfosintattici della lingua che Adamo lentamente fabbricherà, vivendo e nominando le cose» (ivi, p. 47). Non senza qualche malizia, si potrebbe osservare che se, quando scriveva il De vulgari eloquentia, fosse stato del parere che fece proprio e espose in Pd XXVI 141-142, quello cioè secondo cui non più di sei ore era durato il soggiorno di Adamo (e Eva) nell’Eden («dala prim’ora a quella che seconda,/ come ’l sol muta quadra, l’ora sesta»), di una lenta fabbricazione della lingua edenica certo non si sarebbe potuto parlare in nessun modo. Non si sarebbe potuto anche se si fosse deciso di prescindere dall’altra questione, che non risulta per altro che Dante si ponesse mai, relativa al «poterci essere del tempo», e quindi delle differenze che lo determinano, in un luogo attrezzato per durare in eterno. Non essendoci prova positiva, ma nemmeno, in realtà, negativa, che, nel De vulgari, egli pensasse quel che, a proposito del tempo che il soggiorno dei progenitori nel Paradiso Terrestre durò, disse nel Paradiso, alla questione, e più che mai alla malizia, deve rinunziarsi. Non però a chiedersi donde la Corti avesse ricavato che, in quel luogo, Adamo avesse «lentamente» fabbricata la sua lingua dopo che, di questa, Dio si era ristretto a fornirgli non più che la forma, o, come qui si aggiunge a mo’ di spiegazione, il «principio strutturante». La forma locutionis è, in questo passo, definita certa, ossia, com’è inevitabile intendere «determinata»; e la certezza della forma svela il suo senso se la si mette in relazione ai rerum vocabula, alla vocabulorum constructio nonché alla constructionis prolatio, alle quali deve intendersi che sia contemporanea, essendo impensabile sia che la forma construcionis, il «principio strutturante», come la Corti lo chiama, sia anteriore ai vocaboli, alla costruzione del discorso e alle regole della declinazione, sia che possa darsi un principio della lingua che, per dir così, la contenga solo in potenza e sia presente mentre essa è assente, o reale solo in quella «potenza» che non possiede altro che l’attualità del suo non possederla. Che sia così, è del resto suggerito da Dante nelle linee che subito tengono dietro a quelle citate, nelle quali si legge che quella di Adamo sarebbe ancora al presente la lingua del genere umano «nisi culpa presumptionis humane dissipata fuisset, ut inferius ostendetur». Si potrà mai intendere che, se Adamo non avesse meritato di essere espulso dal Paradiso Terrestre, il genere umano si troverebbe a possedere bensì la forma della lingua, ma non questa nella sua articolata concretezza, tanto che si troverebbe nelle condizioni del primo uomo che possedeva la forma della lingua, ma non questa nella sua compiuta e articolata complessità? In realtà, se Adamo non fosse stato espulso dall’Eden, il genere umano avrebbe bensì, come in effetto avvenne, perduto quello stato felice, ma non sarebbe stato muto, perché muto non era stato il progenitore, nel quale alla forma avevano corrisposto tutte le concrete determinazioni di un linguaggio parlato. Se quindi Dante parlò di forma, è evidente che questa era tale in relazione a parole indicanti cose, come altresì lo era all’attuale costruzione dei vocaboli, a at-
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tuali desinenze: all’attualità, insomma, di tutto questo, non alla sua «potenzialità», come se la capacità o facoltà di parlare fosse stata in possesso di Adamo prima che questa si rendesse concreta in un effettivo parlare. Che sia così, è del resto provato, oltre che dalla logica della dottrina, dalla già ricordata osservazione sul modo in cui l’umanità parlerebbe se Adamo non fosse stato espulso dal Paradiso Terrestre ed egli non avesse dovuto imparare una lingua diversa da quella che gli era stata insegnata da Dio: una lingua che egli perse e che, per dir così, dovette sostituire, fabbricandosene un’altra. In effetti, l’equivoco in cui la Corti incorse ha la sua radice nel non aver avvertito che, se si parla di «forma», che necessariamente significa «atto», al suo concetto deve tenersi fermo nella consapevolezza che, appunto, non si tratta di «potenza»: insomma, nel non aver avvertito che la «forma/atto» è un atto, e che si procederebbe nel segno dell’assurdo se, in modo implicito o no, lo si considerasse in potenza rispetto a qualcosa che debba derivarne. Il che, tanto più avrebbe dovuto riuscire chiaro alla Corti che, poiché parlava di un «principio strutturante, avrebbe dovuto intendere che, di necessità, un principio che si definisca così non può non avere il carattere di «ciò che dà forma» e che rispetto a questo non può perciò stare in una posizione di astratta anteriorità. Non si vorrebbe, a questo punto, sottilizzare perché il testo a cui ci si riferisce non è idoneo a sopportare il peso di ulteriori considerazioni. Eppure non si può fare a meno di notare che, se si parla di «principio strutturante», e persino se si pretendesse che, invece che un atto, fosse una potenza, di questa occorrerebbe tuttavia dire che è, e non può non essere, l’atto del suo essere in potenza: dal momento che se, essendo in potenza, fosse tuttavia ferma nel suo essere «strutturante», in quella, nella potenza, non potrebbe non avere in atto, le determinazioni della sua propria concretezza. Che, seguendo il ragionamento della Corti, si pervenga a una sorta di incontrollata duplicazione dell’atto, che una volta ha il nome di «potenza», e un’altra il suo proprio, è evidente. Come lo è che di qui provengono gravi inconseguenze concettuali, e il rischio, comunque, di un fastidioso equivoco, che la compianta studiosa non riuscì a eliminare. La dissociazione della «forma» dall’atto, e la conseguente interpretazione della prima in termini di «potenza», sono presenti anche nel saggio che la Corti dedicò a De vulgari eloquentia (in La letteratura italiana, dir. da A. Asor Rosa, Le Opere, I, Dalle origini al Cinquecento, Torino 1992, p. 193), dove la forma locutionis è intesa come «qualcosa che diventa [sic] con la nominatio adamitica». Aveva visto benissimo, al riguardo, B. Terracini, Natura e origine del linguaggio umano nel ‘De vulgari eloquentia’, in Pagine e appunti di linguistica storica, Firenze 1957, pp. 237-246.
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Note 1. Pg XX 89. 2. Nel secondo libro della Monarchia, dove di «vendetta della vendetta» non si parlava, Dante aveva asserito con forza che «si Romanum imperium de iure non fuit, peccatum Ade in Christo non fuit punitum». 3. Benvenuti de Rimbaldis de Imola Comentum super D. Alagherii Comoediam, a cura G.F. Lacaita, IV, Firenze 1887, p. 451. 4. Cv IV iv e v. 5. Cv IV v 3. 6. Pd VII 10-12. 7. Che l’«avviso» sia «infallibile» perché Beatrice legge il dubbio che è rimasto chiuso nella mente di Dante, fu benissimo notato, per esempio, da N. Sapegno, La Divina Commedia, III, Paradiso, Firenze 1985, p. 88. Lo legge lì, nella mente di Dante, perché lo legge in Dio. Ma questo non toglie che il suo giudizio sia infallibile anche nei confronti della questione della doppia vendetta, ossia della questione che aveva acceso il dubbio di Dante. 8. Pd VII 19-51. 9. Poiché, com’è noto anche ai lettori non specialisti, il libro della Genesi è dei più, esegeticamente, tormentati dell’Antico Testamento, sarebbe certo auspicabile che a questi versi di Dante un biblista dedicasse la sua attenzione. In absentia, e nell’attesa, il lettore dovrà contentarsi del poco che è detto nel testo. 10. È difficile decidere, e non mi risulta che alla questione sia stata dedicata specifica attenzione, da quali fonti, oltre quelle ovvie, e cioè il libro stesso della Genesi, Dante avesse attinto per la sua delineazione della natura edenica. Ma collocherei in prima fila un passo di Aug. in Gen. contra Man. II 9, PL 34, 202-203 (lo si veda in versione italiana, in La sacra Bibbia, secondo la volgata tradotta in lingua italiana da mons. Antonio Martini, Firenze 1842, p. 25 b). E cfr. Thomae Aquin. Summa theol. I, q. 96, a. 1 («[…] homines in statu innocentiae non indigebant animalibus ad necessitatem corporalem, neque ad tegumentum, quia nudi erant, et non erubescebant, nulla incitante inordinatae concupiscientiae motu; neque ad cibum, quia lignis paradisi vescebantur, neque ad vehiculum, propter corporis robur». Se poi, non dandosi, in statu innocentiae, motus inordinatae concupiscentiae, se ne dessero invece, per Tommaso, di ordinati, cioè naturalmente rivolti a un fine, è più che incerto: sul commento si riflette infatti, al riguardo, l’ambiguità del testo, e cioè l’interpretazione che deve darsi del «crescite et multiplicamini» (Gn 1, 28). 11. Potrebbe essere interessante, a proposito dell’insorgere e dell’affermarsi del male (la tentazione del serpente), commentare la tormentosa analisi che Agostino svolse in civ. Dei, 14, 10 e 11 (e cfr. Thomae Aquin. Summa theol. I, q. 94, a. 4). 12. Che quella dell’insorgenza del male nello stato dell’innocenza costituisse, e costituisca, per la coscienza religiosa (e, sul piano critico, per coloro che ne partecipano) una questione di particolare asprezza (lo è, del resto, remota religionis cura, anche per i filosofi), è ovvio. Se ne ha, per esempio, un segno eloquente nella riflessione di Agostino, là dove
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civ. Dei, 14, 13, e, soprattutto, De Gen. ad litt. 2, 5, PL 34, 432) osservò che il tentatore non avrebbe mai avuto ragione e vinto se nel cuore di Adamo la non buona volontà non avesse prevalso sulla buona, ossia sulla retta disposizione al bene, ed egli, quindi, non fosse stato messo in possesso, all’atto della creazione, anche di quella contraria. La difficoltà è variamente discussa, e con altrettanta puntualità non risolta, nell’esegesi religiosa (cfr., per es., l’articolo, per altro assai dotto, di X. Le Bachelet, Adam, in Dictionnaire de théologie catholique, éd. A. Vacant, E. Mangenot, E. Anann, I, 1, Paris 1932, cc. 376 ss.). 13. Per il nesso «figurale» Adamo/Cristo, cfr. E. Auerbach, Figura (1938), in Studi su Dante, tr. it., Milano 1963, pp. 189 ss. 14. C. Landino, Comento sopra la Comedia, a cura di P. Procaccioli, IV, Roma 2001, p. 1671: «era el dubbio di Danthe, se la morte di Christo fu giusta, chome e Giudei fussino stati puniti giustamente. Adunque risponde che se noi riguardiamo alla natura che Christo absunpse, che fu la natura humana, tale morte fu giusta peroché la natura humana havea peccato. Ma se riguardiamo alla persona di Christo che è figliuol di Dio et vero Iddio, non poterono più horribile peccato commettere e Giudei, né che fussi di tanta iniuria». La distinzione di «natura» e «persona», alla quale il Landino ricorse nell’interpretazione di Pd VII 30-33, deriva probabilmente, come anche in Dante, da Tommaso d’Aquino (Summa theol. III, q. 1, aa. 1-6; q. 2, a. 2: «cum Verbum divinum naturam sibi univerit humanam, non ad naturam suam attinentem, necessario ea unio non in natura, sed in persona facta est»; e ancora: «si ergo humana natura Verbo Dei non unitur in persona, nullo modo ei unitur. et sic totaliter tollitur incarnationis fides, quod est subruere totam fidem christianam». Ma non accadde a lui, come, se ho ben visto, ai precedenti commentatori, di chiedersi il senso di questa unità, se lo fosse di separabili o di inseparabili, e quali questioni nascessero dalla prima o dalla seconda ipotesi. È la questione, direi, che riguarda chiunque si ponga, con intenzioni critiche, dinanzi a questo testo dantesco: non esclusi dunque, quanti, conforme alla fede cristiana, ritenessero un mistero e un dogma l’incarnazione. In modo analogo al Landino, fra i moderni, lo Scartazzini che, per altro, giudicò l’argomento dantesco un’«arguzia scolastica, che dimentica l’unità della persona», e, a parte l’arguzia, non spiegò il senso di questa sua osservazione, che, se svolta, avrebbe potuto metterlo su un’altra via. Male, al riguardo, G. Giovannozzi, Il canto VII del Paradiso, Firenze 1903, p. 17. E non bene L. Pietrobono, La Divina Commedia, III, Paradiso, Torino-Milano etc. 1939, pp. 79-80, dove, fra l’altro, è assurda l’osservazione secondo cui, mentre, permettendo la morte di Cristo, «Dio intendeva punire la natura umana, gli Ebrei», invece, «quella divina»: come se il racconto di Marco, 16, 61-64, non dicesse con chiarezza che nel personaggio che aveva di fronte, il sommo sacerdote aveva individuato, non il figlio di Dio, ma chi, in modo blasfemo, si diceva tale. Non bene, a sua volta, anche Sapegno, Paradiso, p. 90. 15. Cfr., per es., Rm 8, 37-39; I Cor 3, 23; II Cor 6, 2; Gal 4, 6-7. L’accentuazione estrema di questo tema paolino costituisce il criterio, il Leitmotiv, della tesi di R. Bultmann, Storia ed escatologia, tr. it., Milano 1962, pp. 56-58. Diversamente da come è stata nelle grandi linee presentata nel testo, la concezione paolina del tempo si trova esposta in G. Agamben, Il tempo che resta. Un commento alla ‘Lettera ai Romani’, Torino 2000, pp. 62 ss. 16. Cv IV iv 8-14; v 3-20. 17. Mn II i 2 ss.
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18. Un’ottima parafrasi nel commento di Sapegno, Paradiso, p. 79. 19. Pd VII 46. 20. Pd VII 57. 21. Pd VII 58-60. 22. Cfr. il mio articolo “Se la materia delli elementi era da Dio intesa”, in «Cultura», 39 (2001), pp. 365-393 (poi in «Forti cose a pensar mettere in versi». Sudi su Dante 2, Torino 2020, pp. 623-657). 23. Cade opportuno, a questo punto, un breve accenno alla questione posta dal v. 5: «poscia vengiata fu [la prima vendetta] da giusta corte». L’antica glossa, e non pochi fra i moderni, intesero per «giusta corte» l’azione svolta dall’imperatore Tito nella distruzione del Tempio di Gerusalemme: come, per esempio, e senza avvertire la difficoltà, fu proposto da Sapegno, Paradiso, p. 90, che nell’imperatore fu, per dir così, costretto a identificare il «legittimo tribunale romano». Ma nessun tribunale romano condannò mai, in quanto tali, gli Ebrei. Condannò bensì l’ebreo Gesù che, dagli Ebrei era stato consegnato ai Romani perché lo giudicassero; e il trasferimento non poteva esso, e in quanto tale, essere oggetto di condanna in forza dell’argomento secondo cui, se non fosse stato condannato de iure, Cristo, nascendo, avrebbe suggerito l’ingiusto: «si romanum Imperium de iure non fuit, Christus nascendo persuasit iniustum» (Mn II x 4). Non a torto, dunque, seguendo un’intuizione del Tommaseo, altri indicarono nella «giusta corte» del v. 51, la giustizia divina, intervenuta a punire, per il tramite dell’Impero romano, la colpa degli Ebrei (cfr., per es., C. Grabher, La Divina Commedia, III, Paradiso, Firenze 1940, pp. 84-85. Ma, nello stesso modo, anche M. Porena, La Divina Commedia, III, Paradiso, Bologna 1957, p. 61, e A.M. Chiavacci, La Divina Commedia, III, Paradiso, Milano 2000, p. 196, che, per l’immagine, rinvia giustamente a Pg XXI 17 e XXXI 41). 24. La questione non è di quelle che si possano trattare, posto che se ne fosse capaci, in una nota. Cfr. B. Blumenkranz, Die Judenpredigt Augustins. Ein Beitrag zur Geschichte der Jüdisch-Christlichen Beziehungen in den ersten Jahrhunderten, Études agostiniennes, Paris 1973. 25. Una larga raccolta di testi concernenti l’antigiudaismo cristiano dal quarto secolo fin verso la fine dell’undicesimo è in B. Blumenkranz, Les auteurs chrétiennes latin du Moyen Age sur les Juifs et le Judaisme, Paris-Le Haye 1963. È un peccato, per altro, che i testi siano dati, anziché nell’originale, in traduzione francese. 26. If XXIII 47 ss. 27. Insomma, e per fare un esempio fra mille, niente di simile a quel che si legge in Basilio di Cesarea, Exam. IX 6, 9, e alla sua definizione degli Ebrei che, simili a bestie feroci, e odiatori degli uomini, lo sono altresì della verità (τὸ ἐχθρὸν τῆς ἀληθείας). 28. Il fastidio è minore oggi di quanto ieri non fosse perché al primo libro del De vulgari ho dedicato un saggio, La lingua, la Bibbia, la storia. Sul primo libro del ‘De vulgari eloquentia’, Roma 2015, nel quale, se vorrà, il lettore potrà trovare quel che qui è necessariamente assente. 29. Agostino, De peccat. merit. et remiss. I 37, PL 45, 159, gli attribuì l’età adulta: «non parvulus factus est, sed perfecta mole membrorum». Il che deve per altro essere inte-
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so, non nel senso che la perfezione fosse dell’età, ma nell’altro, che ne fosse il volto sensibile e non subisse perciò i segni del tempo. Cfr. anche De Gen. ad litt. VI 12, 23, PL, 34, 348. 30. Pg XXX 52. 31. Gn 2, 1-9. Per le questioni connesse con il testo e le sue varie incongruità, cfr. La Sainte Bible, texte latin et traduction française d’après les textes originaux avec un commentaire, exégétique et théologique, éd L. Pirot et Q. Clemet, I1, Genèse, trad. et comm. par A. Clemet, Paris 1935, pp. 224-225. Il Clemet (p. 226) è costretto, per altro, a forzare alquanto la lettera e lo spirito del testo per presentare la discesa purificatrice di Dio come la conseguenza del peccato di orgoglio e di superbia commesso dall’umanità con il progetto della Torre. In realtà, il proposito degli uomini è esposto, nel testo biblico, da queste semplici parole: «venit, faciamus nobis civitatem, et turrim, cuius culmen pertingat ad coelum et celebremus nomen nostrum antequam dividamur in universas terras». Dell’intenzione di rivolgere a Dio una sfida, di raggiungerne la grandezza e di superarla, qui a rigore non c’è traccia; e non si può coglierla se non indirettamente nella volontà di celebrare sé stessi e il proprio nome, dimenticando l’onore dovuto alla divinità. L’accenno alla divisione dell’unica umanità in popoli collocati in terre diverse e divise l’una dall’altra, sembra implicare, se non una decisione presa dall’umanità stessa, la consapevolezza, quanto meno, di un evento giudicato inevitabile: con la conseguenza che qui la dispersione dell’umanità in luoghi diversi è anticipata alla decisione divina di realizzarla come punizione di un gesto giudicato blasfemo. In altri termini. L’idea della sfida è, in quanto tale, estranea alla decisione dell’umanità di costruire la Torre (che non sarebbe dunque stata concepita come quella di un’unica città, fermo restando che le città sarebbero state molte). Fu perciò la suscettibilità del Dio, e il sospetto suscitato in lui dall’impresa della torre, a provocare la sua ira vendicatrice. 32. Il libro della Genesi non dice che alla costruzione della Torre una piccola parte dell’umanità rifiutò di dare la sua opera e se ne rimase in disparte. Non è quindi dalla Bibbia, com’è ovvio, ma da altri testi, che Dante trasse questa sua idea: da quali è per altro incerto. Non, per esempio, da Rabano Mauro, Comm. in Gen. II 2, PL 107, 528-530, e nemmeno, sebbene capiti di trovar affermato il contrario, in Aug. de civ. Dei, 14, 2 (ma cfr. invece De Gen. ad litt. IX 12, 20) Né A. Marigo, nella sua edizione del De vulgari eloquentia, Firenze 1968, p. 44, né P.V. Mengaldo nella sua (in Dante Alighieri, Opere minori, II/2, Milano-Napoli 1979, p. 62) offrono riscontri (ma cfr. ora E. Fenzi nella sua edizione del De vulgari eloquentia, Roma 2012, p. 42). Nel suo gigantesco studio sulla Torre, A. Borst, Der Turmbau von Babel. Geschichte der Meinungen über Ursprung und Vielfalt der Sprachen und Völker, II, Stuttgart 1959, p. 870, ha segnalato il passo dantesco senza darne la fonte e limitandosi a esporlo. 33. Intendo il capitolo undecimo della Genesi, dove propriamente è contenuta la descrizione dell’impresa volta all’edificazione della Torre. Per la sua differenza dal precedente, cfr., per esempio, J. Danièlou, Au commencement. Genèse I-II, Paris 1963, pp. 91-123. 34. È noto che questa tesi fu da lui stesso messa in questione in Pd XXVI 124 ss., dov’è detto che la lingua che Adamo parlò «fu tutta spenta/ innanzi che a l’ovra inconsummabile/ fosse la gente di Nembrot attenta» (vv. 124-126), e che «opera natural è che l’uom favella» (v. 130). Su questo capovolgimento di posizioni, tante e tante volte rilevato, cfr. B. Nardi, Dante e la cultura medievale, Bari 1983, pp. 193-94, il quale argutamente osservò che se, per aver affermato che la confusione della lingua era avvenuta solo nella
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discendenza di Sem, Vico incorse nella dura condanna di Bonifacio Finetti, ben più grave avrebbe dovuto essere quella meritata da Dante. Sulla questione posta da questi versi, mi sono intrattenuto in un articolo Qualche osservazione su Dante e Vico in tema di linguaggio, in Humanistica. Per Cesare Vasoli, a cura di F. Meroi e E. Scapparone, Firenze 2004, pp. 263-281, e, più ampiamente, in La lingua, la Bibbia, la storia, pp. 59 ss. 35. Il nesso Adamo/Cristo (e all’inverso) è un luogo comune cristiano, a cominciare dagli scritti paolini: per le fonti basti il rinvio a Le Bachelet, Adam, cc. 385-386. 36. Mengaldo, Introduzione al De vulgari eloquentia, pp. 7 ss. E cfr. anche i suoi Appunti sul canto XXVI del Paradiso (1974), in Linguistica e retorica di Dante, Pisa 1978, p. 241. 37. VE I vi 6. 38. H.S. Reimarus, I frammenti dell’anonimo di Wolfenbüttel pubblicati da G.B. Lessing, a cura di F. Parente, Napoli 1977, pp. 524-533. 39. Verg. Buc. 4, 5-7; e cfr. Pg XXII 70-71. Cfr., in genere, D. Comparetti, Virgilio nel Medio Evo, a cura di G. Pasquali, I, Firenze 1955, pp. 122-124.
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I L’abisso della giustizia divina 1. Quando, nel canto decimonono del Paradiso, si trovò dinanzi all’Aquila e dovette descriverla, Dante avvertì che il suo era un compito che mai era stato eseguito per iscritto («né scrisse incostro»), né era stata immaginato («né fu per fantasia già mai compreso»). L’Aquila era formata, come si sa, da molte anime, e quindi da tanti «io» quanti erano quelli che concorrevano a costituire il suo «noi». La cosa sorprendente, e che più, infatti, lo colpì, fu che egli vide e udì «parlar lo rostro/ e sonar nela voce e ‘io’ e ‘mio’». La meraviglia che provò nel vederla e ascoltarla non lo distolse dalla questione che gli stava nella mente, e alla quale mai era riuscito a dare una risposta che avesse messo fine ai suoi dubbi. All’Aquila, nel cui segno si esprimevano la giustizia di Dio e l’idea dell’Impero, rivolse perciò parole solenni di ossequio. Ma anche la pregò che risolvesse il «gran digiuno che lungamente» l’aveva «tenuto in fame,/ non trovando in terra cibo alcuno». La richiesta era stata presentata nel modo che più conveniva a quel «molteplice» che si esprimeva come «uno» («o perpetüi fior del’etterna letizia che pur uno/ parer mi fanno tutti i vostri odori»). Ma aveva in sé qualcosa di perentorio. Fra la giustizia qual era in sé, e cioè Dio, e la figura dell’Aquila, Dante sapeva che non si dava alcuna differenza al di fuori di quella che appariva allo sguardo. La prima passava nella seconda senza subire alterazioni o diminuzioni («ben so io che se ’n cielo altro reale/ la divina giustizia fa suo specchio,/ che ’l vostro non l’apprende con velame»).1 Di qui la nettezza con cui si presentò la sua richiesta: «sapete come attento io m’apparecchio/ ad ascoltar; sapete qual è quello/ dubbio che m’è digiun cotanto vecchio».
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In effetti, Dante non aveva torto nel dire quel che diceva. Il dubbio riguardante il senso della giustizia divina era vecchio in lui. L’aveva espresso, la prima volta, quando, entrato nel Limbo, si era rivolto a Virgilio per chiedergli che anime fossero quelle che abitavano quel luogo e, con interna commozione, aveva ascoltato la sua risposta. La domanda era forse superflua perché la risposta a essa era data dalla situazione spirituale della sua guida, che al più alto grado rappresentava quella di coloro che, non avendo peccato e avendo avuto meriti, non avevano tuttavia ricevuto il bene che sarebbe derivato dall’aver conosciuto in Cristo il vero Dio, che a essi, per ragioni indipendenti dalla loro volontà, era rimasto sconosciuto. «Per tai difetti, non per altro rio,/ semo perduti, e sol di tanto offesi,/ che sanza speme vivemo in disio».2 Il luogo a cui, dopo aver varcato la porta dell’Inferno, Dante era pervenuto, non consentiva che la delicata questione fosse evitata, e non posta in modo che le conseguenze potessero rimanere implicite e non dette. Il luogo era quello da cui il suo maestro era uscito per porgergli l’aiuto che in cielo si era deciso che dovesse esser dato all’uomo che si era disperso nella selva. Ma era altresì quello a cui, conclusa la sua missione, sarebbe tornato per rimanervi, verisimilmente per l’eternità. Riguardando il maestro, la domanda coinvolgeva chi, sul piano degli affetti non meno che su quello dei concetti, era costretto ad avvertirne la gravità e a prendere posizione. Se Dante non poteva ammettere che un dubbio sorgesse in lui riguardo alla giustizia divina, la fede che aveva in questa non bastava tuttavia a impedire che quello gli si formasse dentro e il disagio provato nei confronti di chi, senza colpa, era stato, o era destinato a esser privato della vista di Dio, fosse reso più acuto e pungente dalla malinconica compostezza con cui Virgilio mostrava di accettare la punizione di una colpa non commessa. Dante, del resto, non aveva fatto niente per rendere meno pungenti i termini di una questione che, in effetti, non era passibile di attenuazioni. Aveva fatto il contrario. Quei termini li aveva estremizzati e resi tanto più pungenti quanto più erano stati riferiti al dramma di un individuo che era ormai non solo la parte, ma la melior pars di sé stesso, quello a cui, come disse dopo che si fu accorto di esserne stato abbandonato, aveva affidato la sua «salute».3 La domanda che gli aveva rivolta per sapere da lui se dal Limbo qualcuno fosse mai uscito non era fatta per addolcirli. Virgilio era un’anima del Limbo. L’ipotesi che da quel luogo si uscisse, e qualcuno ne fosse uscito, per procedere nella direzione del cielo, non riguardava, com’è ovvio, il suo presente; e per quanto era del futuro né lui né Dante avrebbero potuto dire come le cose sarebbero andate. In un senso o
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nell’altro, a decidere sarebbe stata la giustizia di Dio, che, per definizione, essendo imperscrutabile, non consentiva che si capissero le sue ragioni e si facessero pronostici. Sta di fatto che Virgilio era da poco un ospite del Limbo quando aveva visto scendervi «un possente, con segno di vittoria coronato», che ne era uscito traendone, con «l’ombra del primo parente», cioè di Adamo, i grandi patriarchi biblici; e prima di allora «spiriti umani non eran salvati».4 Il che, se non importava di necessità che quell’impresa non dovesse avere un seguito, non lasciava tuttavia prevedere né che questo fosse imminente né che potesse riguardare Virgilio. Non era, dunque, senza un’evidente intenzione drammatizzante che la questione era stata messa in modo che protagonista, e vittima, ne fosse Virgilio. Fu lui, infatti, a riproporla quando, nel terzo canto del Purgatorio, dalla meraviglia provata da Dante nel vedere che, a differenza della sua, la figura del maestro non proiettava sul suolo la sua ombra, prese lo spunto per avvertirlo che i corpi come il suo erano fatti in modo che, essendo diafani e inafferrabili, tuttavia pativano il caldo e il gelo: il che, come avvenisse e fosse possibile, era follia ritenere che a spiegarlo bastasse la mente umana,5 che nemmeno era in grado di spiegare perché un corpo diafano, che tuttavia era disposto «a sofferir tormenti e caldi e geli»,6 non lasciasse ombra dinanzi a sé.7 I versi che, al riguardo, si leggono in questo canto, sono celeberrimi, e potrebbero esser dati per noti se non convenisse dar rilievo sia al rinnovarsi in Virgilio del «turbamento» che questa condizione gli procurava, sia alla crudeltà intrinseca a una situazione che tanto più risultava incomprensibile quanto più grandi fossero stati l’ingegno e la consapevolezza di coloro che erano condannati a subirla («‘e disiar vedesti sanza frutto/ tai che sarebbe lor disio quetato,/ ch’etternalmente è dato lor per lutto:/ io dico d’Aristotele e di Plato/ e di molt’altri’; e qui chinò la fronte,/ e più non disse, e rimase turbato»).8 La drammatizzazione risulta evidente se si considerano nel loro contrasto i termini che la definiscono. Da una parte, il desiderio di capire, che, per sé, non ha niente di peccaminoso, e sembra che debba essere assegnato a ciò che di più nobile è nell’uomo, se fu anche quello di Aristotele, di Platone, dello stesso Virgilio, tutti campioni senza macchia dell’umana intelligenza. Da un’altra, la follia che a quel desiderio era tuttavia dichiarata intrinseca, se «matto è chi spera che nostra ragione/ possa trascorrer la ’nfinita via/ che tiene una sustanza in tre persone» (vv. 34-36). Non si arriverebbe perciò a comprenderla nel suo significato più profondo se questi due temi non fossero entrambi spinti al limite che li definisce e, nel definirli, li pone in contrasto, conducendo
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il discorso alla conseguenza per la quale, nell’avvertire come inevitabile il problema della giustizia divina, e della sua comprensibilità, la ragione obbedisce al suo proprio comando e, in tal modo, entra nella follia. Obbedisce al suo comando perché dal suo interno proviene la domanda che l’uomo rivolge a Dio, chiedendogli conto dei suoi atti. Entra nella follia perché è inevitabile che la domanda relativa al perché di ciò che è avvertito come ingiusto, ricada bensì su sé stessa senza aver trovato la risposta, ma avendo tuttavia preso contatto con ciò che pure si pone al di là della piena comprensione. La follia, ossia la «matta» presunzione di chi crede di poter penetrare il mistero delle tre persone nell’unità di Dio, si presentava così in duplice veste: come follia, da una parte, e presunzione, ma come un modo, da un’altra, di entrare in contatto con ciò che tuttavia sfuggiva alla presa della comprensione. Che è, salvo errore, il senso che deve darsi a quel che si trova scritto nel quarto canto del Paradiso ai vv. 64-69. Nella parte precedente, Dante aveva a lungo dissertato sulla collocazione delle anime che mentre, in realtà, si trovavano tutte nell’Empireo, a causa della limitatezza del suo sguardo gli apparivano collocate nei diversi cieli secondo i gradi di una beatitudine che, nel luogo in cui stavano, non comportava quella sorta di distinzione e graduazione spaziale. Nella successiva aveva affrontato la questione dell’inadempienza dei voti, che, giudicata meno grave, era stata decisa in una terzina che ha dato luogo a interpretazioni contrastanti: «parere ingiusta la nostra giustizia/ ne gli occhi dî mortali, è argomento/ di fede e non d’eretica nequizia»; e decidere in che modo si dovesse intenderla non era facile. Era da escludere, per esempio, che la giustizia di Dio potesse talvolta apparire ingiusta alle menti umane, che non sono in grado di scendere nelle sue profondità. Ma anche lo era che la difficoltà che l’uomo incontra a dare a sé stesso la ragione di certe decisioni divine fosse tale da indurlo a disconoscerla. In effetti, se ci si fa attenzione, le due interpretazioni differiscono soltanto nel rilievo che, nella seconda, si assegna alla questione della fede, che non vi è messa in discussione, ogni difficoltà essendo indicata nella limitatezza della mente umana. Le due difficoltà rientrerebbero facilmente l’una nell’altra nel segno della reciproca convenienza se si considerasse che la prima non subirebbe nessun danno se le si aggiungesse l’elemento, presente nella seconda e costituito dal difetto della mente umana che non è in grado di scendere nelle profondità di quella di Dio e nel mistero delle sue decisioni. Rientrerebbero l’una nell’altra mostrandosi solidali nel difetto che le affligge entrambe; e che consiste nel non aver avvertito che il punto fondamentale sta, non nella semplice
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asserzione e nel riconoscimento del limite che segna la mente umana, incapace di scendere nelle profondità del consiglio e delle decisioni di Dio, ma nella funzione, che potrebbe esser detta «teologica», attribuita agli occhi dei mortali, i quali «vedono» la ragione divina e, senza intenderne le decisioni, la riconoscono tuttavia come quella che, mai potendo essere adeguata, occupa un grado al quale la mente umana non può salire. Dubitarne è impossibile, impossibile è disconoscerla: la si riconosce, infatti, per il tramite di quella duplice impossibilità, nell’atto stesso, tuttavia, in cui il riconoscimento di questo, che è un limite reale, produce sofferenza e apre la via ai dubbi dai quali, non per accidens, Dante si diceva tormentato. Riconoscere il potere di Dio, e non poter capire il senso delle sue decisioni: questa era una reale sofferenza. Riconoscere il limite della ragione umana; ma per farne tuttavia, e questa sembra essere la novità presente nella assai contratta terzina che da tempo è sotto osservazione, il criterio in forza del quale la trascendenza del divino è, non solo affermata, ma, per dir così, dedotta. Per questo, parrebbe, Dante introdusse nel discorso l’accenno alla «nequizia eretica». La introdusse per escluderla, tuttavia, in forza dell’argomento che avrebbe potuto farla nascere. 2. Senza che perciò gli accadesse di inoltrarsi lungo sentieri ereticali, il pensiero della giustizia divina, e della sua frequente incomprensibilità, aveva dunque conosciuto bensì momenti di rasserenamento. Ma instabili, e sempre pronti a ripresentarsi nella forma del dubbio che generava sofferenza. Sta di fatto, ed è stato già detto, che quando rivolse la parola all’Aquila che le si era rivelata con il discorso che si legge ai vv. 13-21 del canto decimonono, l’unica sua richiesta era stata che gli fosse risolto «il gran digiuno» che «lungamente» l’aveva «tenuto in fame», «non trovandoli in terra cibo alcuno». Il che significa, se ci si fa attenzione, che nemmeno gli argomenti a cui aveva fatto ricorso, o che gli erano stati proposti nei discorsi intrattenuti con Virgilio durante i precedenti momenti del viaggio ultraterreno, erano bastati a far sì che la fame non si ripresentasse e tornasse a tormentarlo. La soluzione adombrata nel quarto canto era interessante e, se l’interpretazione che ne è stata proposta, risponde a verità, non priva di originalità. Ma era stata contratta in due versi di non facile interpretazione; e altro la «fame» di Dante richiedeva perché ne fosse placata. Richiedeva che il tema fosse suonato da tutti gli strumenti dell’orchestra teologica e che, finalmente, si pervenisse alla radice della questione. La domanda che Dante aveva rivolta all’Aquila, o che questa, in realtà, aveva
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letta nel fondo della sua mente, si era determinata attraverso l’esempio dell’uomo che, nato nell’estrema parte dell’Oriente, e rimasto ignaro del Cristo, che fin lì non era arrivato, aveva vissuto «sanza peccato in vita o in sermoni», e solo per non aver ricevuto il battesimo, era stato escluso dalla salvezza. «Ov’è questa giustizia che ’l condanna?/ ov’è la colpa sua, se el non crede?» (vv. 77-78). Poiché il discorso di Dante verteva intorno alla giustizia divina, riconosciuta in questo suo carattere nell’atto in cui di essa, nel caso specifico, si chiedeva la ragione, il rischio dell’eterodossia era eliminato alla radice. Discuterla significava riconoscerla. E, nella sua replica data al dubbio esposto da Dante, l’Aquila lo rimproverò bensì per aver sollevato, con quello, una questione rivelatrice della pochezza della sua mente umana, ma si guardò bene dal dichiararlo esposto al contagio dell’eresia. Sottolineò la sua pretesa di «sedere a scranna,/per giudicar di lungi mille miglia,/ con la veduta corta d’una spanna». Ma, per confutare il suo dubbio, ricorse, se ben si guarda, a due argomenti di diversa qualità: il primo di fede («certo a colui che meco s’assottiglia,/ se la Scrittura sovra voi non fosse,/ da dubitar sarebbe a maraviglia»), il secondo, invece, di ragione («la prima volontà, ch’è per sé buona,/ da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse./ Cotanto è giusto quanto a lei consuona:/ nullo creato bene a sé la tira,/ ma essa, radïando lui cagiona»).9 E con quest’ultimo impresse al discorso una svolta importante. Altro infatti è invocare un’autorità, la sacra Scrittura, che è tanto più grande quanto più esigue siano le ragioni che, per la loro parte, gli uomini sono in grado di addurre. Altro è sostenere che, la volontà divina essendo di per sé buona, niente, che non sia conforme a questo carattere, possa derivarne. La conseguenza era che a questo principio, e alla coerenza che ne era richiesta, doveva essere ricondotta la vicenda dell’uomo che, nato «a la riva dell’Indo», ignaro perciò del vero Dio, ma di onestissima vita, da quello veniva tuttavia privato dalla gioia del Paradiso. Era giusto che questo avvenisse? Sì, era giusto, se si tiene fermo al punto che giusta di per sé è la potenza divina che pur aveva privato quell’innocente personaggio della suddetta gioia, e deviante invece dal retto uso della ragione era per contro chi, da quella premessa, non avesse ricavata, e non ricavasse, questa conseguenza. Che poteva sconcertare chi non avesse richiamato alla mente il principio (la bontà, per definizione, della decisione divina) che presiede a quell’elementare deduzione, ma doveva invece riuscire a pieno persuasiva a quanti di quel procedimento avessero conosciuto la regola. «Oh terreni animali! oh menti grosse!/ La prima volontà, ch’è per sé buona,/ da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse./ Cotanto è giusto
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quanto a lei consuona:/ nullo creato bene a sé la tira,/ ma essa, radïando, lui cagiona».10 3. Dal suo ragionamento Dante non poteva, dunque, non dichiararsi soddisfatto. L’argomento era stato costruito da lui con l’evidente intenzione di cancellare nella giustizia divina ogni traccia di irrazionale prepotenza e, senza concederle procedimenti arbitrari e stravaganti, ricondurla alla sua regola costitutiva, indicata nell’infinita bontà. E tuttavia, se, dopo essersi soffermati su questa parte del canto, si torna all’inizio del discorso pronunziato dall’Aquila, ci si viene a trovare in presenza di un elemento che, poiché sfugge alla logica della situazione descritta ai vv. 87-90, si è indotti a dubitare che alle possibilità concesse alla mente umana appartenga il conseguente uso dello strumento logico. A dirlo, e farlo notare, non fu l’uomo che, messo dinanzi a un compito avvertito come da lui non sostenibile, di questo prendeva atto e si dichiarava vinto senza tuttavia fornirne a sé stesso, e ad altri, la ragione. Ma fu bensì l’Aquila che, per spiegare perché alla mente umana non sia dato di raggiungere il fondo della questione, a riprova di questa incapacità addusse la ragione; e la indicò nel divario che, nei confronti della cosa creata, cioè del mondo, non poteva non essere stabilito dall’incommensurabile potenza divina. «Colui che volse il sesto/ a lo stremo del mondo, e dentro ad esso/ distinse tanto occulto e manifesto,/ non poté suo valor sì fare impresso/ in tutto l’universo, che ’l suo Verbo/ non rimanesse in infinito eccesso» (vv. 40-45). Il concetto che, a questo punto, Dante poneva in campo era, come si vede, quello dell’infinita superiorità che il creatore vantava rispetto alla creatura, e, per converso, dell’inferiorità di questa rispetto a quello. Ne derivava, da una parte, la spiegazione del perché il creato fosse, non pari, ma inferiore al creatore, che, infatti, nel crearlo di necessità andava oltre e, infinitamente, lo sopravanzava. Ne derivava, da un’altra, la difficoltà che da tutto questo non poteva non scaturire, e che sarebbe emersa in piena luce se si fosse notato che l’inferiorità della creatura nei riguardi di chi l’aveva creata non poteva non riflettersi su questo che, necessariamente ne sarebbe stato segnato e, per conseguenza, esso stesso limitato e messo in contrasto con la sua asserita perfezione. Il difetto della creatura non poteva non essere restituito a chi a esso aveva dato luogo con il suo atto creatore: per non dire dell’intervallo, e della differenza, che, provocati dall’eccedenza di Dio rispetto al mondo e dal difetto di questo rispetto a Dio, configuravano una sorta di concettuale terra di nessuno che, sebbene fosse anch’essa una conseguenza della creazione, era tuttavia condannata a non poter essere reinclusa in un quadro di
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omogenea e trasparente razionalità; che non avrebbe infatti potuto essere ricostituito nel segno di questa attribuendo quel difetto a un consapevole atto della volontà divina. La quale come, in effetti, avrebbe potuto rimediare a ciò che era pur nato da essa? Il passo a cui, con i maestri che lo avevano addestrato a pensare questi pensieri, Dante si era trovato di fronte chiudeva dunque in sé una duplice difficoltà, derivante, la prima, dall’identificazione di Dio e mondo, e dal conseguente esito panteistico, derivante la seconda dal dilemma per il quale o Dio era il mondo, del quale condivideva perciò il destino intrinseco alla sua finitezza, o il mondo era Dio e, al pari di lui, era eterno. Mortalità di Dio se il mondo con il quale coincideva fosse stato concepito come iniziato nel tempo e destinato a finire con lui. Eternità del mondo, se Dio essendo eterno e identico essendogli il mondo, all’eternità dell’uno avesse corrisposto quella dell’altro. La difficoltà a cui l’idea della creazione conduceva non era dunque di poco conto. Metterla in evidenza era perciò tanto più necessario in quanto non può dirsi né che Dante l’avesse avvertita nelle sue non semplici conseguenze, né che il paragone proposto, ai vv. 6-48, della creazione del mondo con la ribellione di Lucifero avesse giovato, e giovasse, alla comprensione del tutto. L’«infinito eccesso» in cui il verbo divino era rimasto nei confronti di ciò che ne era derivato aveva avuto, per lui, un eloquente riscontro nella vicenda del «primo superbo» che, essendo «la somma d’ogni creatura,/ per non aspettar lume cadde acerbo» (vv. 47-48): dal che Dante traeva la conseguenza che «ogni miglior natura/ è corto recettacolo a quel Bene/ che non ha fine e sé con sé misura» (vv. 49-51). Ma, si trattava di una conseguenza che già era stata tratta e alla quale la vicenda di Lucifero non arrecava alcun ulteriore contributo, né maggiore luce: confermava alla lettera quel che già era stato detto e riproponeva le stesse difficoltà mentre, per un altro verso, appariva non sul serio pertinente. Forniva infatti un esempio che stabiliva, non un’analogia, ma una differenza. Che la superbia di Lucifero fosse stata rivelata, nella sua peccaminosa fallacia, dall’onnipotenza divina che, nel crearlo come la «somma d’ogne creatura», era tuttavia rimasta, nei suoi confronti, in «infinito eccesso», era da considerarsi ovvio se, come già si era stabilito, il punto era che di questa natura era il rapporto che il creatore stabiliva con la creatura. Ma la questione della superbia era, in questo caso, proposta senza reale necessità e, anzi, appariva fuorviante. Non aveva infatti alcun riscontro con quel che la creazione del mondo aveva mostrato nel confronto che di questo si fosse fatto con la potenza che l’aveva realizzata. Il punto era qui. Era nell’infinita distanza che
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si stabiliva, e permaneva, fra l’onnipotenza di Dio e la più nobile e bella delle sue creature che, per esser tale, non diminuiva di un palmo la distanza che la separava da quella. Certo, la superbia di Lucifero aveva più volte sollecitato il pensiero, nonché la fantasia, di Dante: basti pensare al canto trentesimoquarto dell’Inferno e la teoria, ivi esposta, della formazione del «nostro» universo.11 Ma qui si trattava, non della sua caduta dal cielo conseguita alla sua folle superbia. Si trattava bensì di una differenza assoluta, che non poteva essere aumentata da alcunché, e nemmeno, quindi, dalla superbia; che, da chi intendesse garantire la piena coerenza del passo, e delle parole che a giusto titolo lo definiscono, dovrebbe essere intesa, non come un elemento costitutivo dell’«eccesso» di Dio e del difetto del mondo, ma come un titolo che a Lucifero spettava in virtù del carattere che aveva determinato la sua ribellione e stabilito la sua condanna. 4. Che Dante dovesse considerare persuasivo l’argomento che l’Aquila gli aveva proposto, è ovvio. Per il suo tramite a lui era pervenuta la voce stessa di Dio, come, sia pure indirettamente, non aveva mancato di rilevare. «Ben so io», aveva scritto all’inizio del canto, «che se ’n cielo altro reame/ la divina Giustizia fa suo specchio,/ che ’l vostro non l’apprende con velame» (vv. 28-30). Erano, quelle che aveva ascoltate, parole di un simbolo, la cui voce era la viva voce della divina giustizia. E avrebbero dovuto bastare a porre rimedio al «gran digiuno che lungamente» l’aveva «tenuto in fame». Il paradosso da cui questa situazione concettuale appariva costituito era tuttavia che ciò di cui Dante si era persuaso ascoltando le parole dell’Aquila non riguardava propriamente il dubbio che le aveva proposto: consisteva, piuttosto, nell’accettazione della incapacità nella quale, in quanto uomo mortale, si trovava, di risolverlo sul serio. La forma, tuttavia, che l’Aquila aveva data a questo concetto, che importava l’incapacità dell’uomo di pervenire al fondo della questione e di raggiungere la radice da cui scaturivano le decisioni della divina bontà, non consisteva in una sorta di irrazionalistica rinunzia che si fosse fatta a essa, alla forma. Consisteva, infatti, pur sempre in un argomento che, con l’aiuto di un paragone tratto dalla natura, dava conto della ragione per la quale all’intelletto umano era vietato di scendere nella questione fino a toccarne il fondo. Consisteva, dunque, in un argomento di ragione concernente un, o il limite della ragione. A pervenirvi l’intelletto umano non era infatti idoneo. Se era in grado di afferrarne il senso quando gli si fosse presentata nella forma che assumeva agli occhi dell’uomo che dalla «proda» discerneva il fondo, non
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lo era invece quando il tentativo fosse stato eseguito in alto mare, dove il fondo non poteva essere raggiunto. Pervenirvi con l’occhio sarebbe stato in quel caso, impossibile; e tuttavia restava fuori questione che esso era lì (v. 63),12 e che non poteva dubitarsene come, dunque, non si poteva dell’esserci della divina potenza e bontà; le quali, certo, stavano nel fondo e si sottraevano alla presa di chi, tuttavia, del loro esserci non poteva non esser certo. Converrà tenere a mente i versi (52-66) che Dante aveva dedicati alla questione, restringendo la citazione a quelli in cui è tratta la conclusione. «Però nela giustizia sempiterna/ la vista che riceve il vostro mondo,/ com’occhio per lo mare, entro s’interna:/ che, benché dala proda veggia il fondo, in pelago nol vede; e nondimeno/ èli, ma cela lui l’esser profondo» (vv. 58-63). Si tratta di un passaggio essenziale, che va al di là del paragone che gli fornisce lo spunto. Non c’è mare che, per quanto insondabile, non abbia un fondo; e che lo abbia, si potrebbe dire, è dimostrato dall’acqua che, nello stesso tempo, ne impedisce la vista e, in questo atto, lo rivela. Non c’è abisso che, nel nasconderlo, non lo renda palese e non dia la certezza del suo esser lì. Il bel paragone con le profondità marine, a cui Dante ricorse per illustrare i termini della difficile questione, significa dunque che l’abisso non nascondeva al punto quel che pure teneva chiuso in sé, che, nel nasconderlo, non rendesse certi della sua presenza. La certezza relativa all’esserci della giustizia anche là dove essa non avesse dato, e non desse, segno di sé, non doveva, quindi, e non deve essere intesa nel senso che di essa si sia penetrato il senso quando se ne veda il fondo che la accoglie, o la decisione che la produce, e invece lo si perda quando eccessiva sia la profondità da cui proviene.13 Interpretare così significa procedere in senso inverso a quel che il testo limpidamente suggerisce. E cioè che dell’esserci della giustizia divina si può essere certi, sempre, nonché, entro determinati limiti, consapevoli: come lo si è dell’esistenza di un fondo marino, al quale tuttavia non è possibile pervenire quando eccessiva sia la sua profondità. Non è forse l’impossibilità di pervenirvi che testimonia dell’esserci di ciò che non è tuttavia possibile né raggiungere né rivelare? Nei termini desunti da un altro lessico, la situazione potrebbe esser descritta dicendo che la giustizia divina è sempre nota, anche se, nel suo abisso, non possa essere raggiunta e conosciuta nelle sue ragioni che sepolte in quello sono anch’esse: come nel caso della mancata salvezza degli infedeli virtuosi e incolpevoli, ma pur colpevoli di non aver conosciuto il Dio di cui, per una ragione o per un’altra, non avevano notizia. Se quindi si dicesse che dall’idea della bontà e giustizia di Dio non possono derivare se non cose buone e giuste,
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e che questo è il conforto che alla mente e all’animo umani vengono dalle sacre scritture, si direbbe bene per quanto attiene alla fede che in quelle qualità divine deve aversi. E altresì per quel che riguarda la notizia che di ciò si ha e può aversi. Ma di qui non potrebbe trarsi la conclusione che, condivisa per fede, di quella ragione sia stata anche colta la ragione; e si sia arrivati a capire in forza di quale logica il giudizio di Dio possa talvolta apparire all’occhio della mente come il culmine dell’ingiustizia. In conclusione. La giustizia divina è un essere la cui notizia non è tuttavia rivelativa della sua essenza. Che la giustizia divina ci sia e sia giusta è altrettanto certo del fondo nascosto dalle acque del mare. Ma la sua certezza non scopre quel che le sta dentro, ed è la sua verità. 5. Se è così, deve riconoscersi che, poste le premesse, si rileggono senza alcun disappunto le parole che, giunta alla fine del suo discorso, l’Aquila aveva pronunziato, per concluderlo. Aveva affermato, che «la prima Volontà, ch’è per sé buona,/ da sé, ch’è sommo ben, mai non mosse./ Cotanto è giusto quanto a lei consuona:/ nullo creato bene a sé la tira,/ ma essa, radïando, lui cagiona» (vv. 86-89). E le sue parole aveva disposte nella forma di un ragionamento che, avendo nella premessa la bontà della giustizia e della prima volontà, in ciò che da questa conseguiva non poteva contemplare se non la stessa cosa di quella. Messa fuori questione, e accettata come ovvia, l’idea della bontà di Dio, ne derivava una conseguenza di natura razionale, perfettamente spendibile e usufruibile nel mondo umano. Era un argomento con il quale, posta la premessa, nessuno che avesse creduto in Dio e nella sua bontà avrebbe potuto non consentire, quale che fosse stato il verdetto, di assoluzione, o di condanna, emesso su questo o su quello, e l’eventuale sorpresa che, nello specifico, potesse derivarne. Ma la cosa singolare è che, dopo averlo proposto, e aver confidato che l’Aquila a cui si rivolgeva fosse stata disposta a placare la gran fame di verità, che da lungo tempo lo tormentava, dopo, in altri termini, aver messo le cose nella forma di un argomento razionale, Dante scrivesse parole che, da chi le avesse ben pesate e valutate, non avrebbero potuto, e non potrebbero, non essere definite sconcertanti. «Quale sovresso ’l nido si rigira/ poi c’ha pasciuti la cicogna i figli,/ e come quel ch’è pasto la rimira/ cotal si fece, e sì leva’i li cigli,/ la benedetta imagine, che l’ali/ movea sospinte da tanti consigli./ Roteando cantava, e dicea: ‘quali son le mie note a te, che non le ’ntendi,/ tal è il giudicio etterno a voi mortali» (vv. 91-99). Il paragone con la cicogna che, dopo aver nutrito i suoi piccoli, vola in giro sul nido e
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lo contempla dall’alto essendo «rimirata» da «quel che s’è pasto» è, nell’estrema sua concisione, straordinario. Ma deve procedersi, e osservare che le «note», che Dante non era stato in grado di capire, erano quelle a cui si alludeva al v. 39, erano i «canti quai si sa chi là si gaude», era la musica che solo i beati del Paradiso erano nella condizione di far giungere al loro orecchio e di ascoltare traendone ragione di intima letizia. A quelle «note» era riferito e giudicato impari il giudizio umano che, come accadeva per la musica che invano risuona all’orecchio che non è in grado di percepirla, anch’esso, rispetto a quelle, era come sordo, non essendo nella condizione di intenderle in ciò che tenevano chiuso in sé. Si dirà che così si forza il senso delle parole dantesche e si dà al discorso dell’Aquila una conclusione sconcertante. E sia pure, se così paia. Ma è tuttavia innegabile che se la musica che si udiva in quel luogo del Paradiso non era ascoltabile se non dai suoi abitanti, e, per ogni altro, era muta e non percepibile, altrettanto, se al senso del paragone s’intende restare aderenti, doveva dirsi per il giudizio divino; che impenetrabile nella sua ultima ragione era perciò sempre, nel suo esserci non meno che nel suo significare, e quale che fosse l’oggetto al quale di volta in volta si riferiva. Anche di ciò che la mente umana mostrava di essere in grado di intendere, doveva dunque dirsi che la sua era pur sempre una parziale e insicura intelligenza, era la conoscenza di cosa la cui radice stava a troppo grandi profondità perché essa fosse in grado di pervenirvi. Senza perciò cedere alla malìa della consequenzialità astratta deve tenersi per fermo che al fondo di questo mare pervenire era impossibile, sia se lo si fosse osservato dalla «proda», sia se ci si fosse trovati nel punto in cui esso è più alto. Si collocasse a modeste oppure a grandi profondità, quello era il giudizio di Dio, che, poiché era il suo, non poteva non essere altrettanto sconosciuto, non si dice solo in ciò che apparteneva alla sua essenza, ma anche nella sua realtà esterna. Insomma, sapere che, quale che sia la sua profondità, ogni mare ha il suo fondo, bastava bensì, messa fuori questione la bontà del paragone, a escludere che potessero sorgere dubbi relativi all’esistenza di Dio e al suo giudizio. Non contribuiva però a penetrarne, e farne penetrare, la ragione e l’essenza. Se è così, è evidente che si trattava di una riconversione improvvisa verso posizioni che, distinguendo, il ragionamento aveva in precedenza cercato di disporre in una luce meno cruda. E, piaccia o no, il senso della conclusione, a cui ora Dante approdava, era questo. Comunque e dovunque lo si fosse incontrato, il pensiero che, a questo punto, egli pensava era che il giudizio di Dio non poteva sul serio essere penetrato nella sua vera essenza e
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nelle ragioni che ne derivavano. Lo si poteva, o doveva, accettare per fede: assegnargli una ragione che potesse essere spiegata nei termini della mente umana, non si poteva. Il dialogo che Dante e l’Aquila avevano intessuto era stato iniziato nella speranza che una spiegazione razionale di ciò che più sembrava sottrarsi a essa fosse possibile. Perché i pagani virtuosi non potevano accedere al Paradiso se, senza conoscere il vero Dio, avevano agito, tuttavia, come se l’avessero conosciuto? Che colpa avevano se la sua conoscenza era stata impedita, nel corso della loro vita, da condizioni storiche (il loro esser nati prima di Cristo) o geografiche (la lontananza delle terre da loro abitate da quelle in cui il Vangelo aveva diffuso la parola del vero Dio)? Era un’obiezione ragionevole, che cercava una risposta che andasse oltre i limiti in cui il discorso teologico teneva chiusa la mente umana. Ma, fin dall’inizio, la risposta dell’Aquila era stata alquanto deludente: la vista umana, aveva detto, non può «da sua natura esser possente/ tanto che suo principio non discerna/ molto di là da quel che l’è parvente» (vv. 55-57). Ed era andata, via via, radicalizzandosi in senso negativo. Persino le parole, che le erano servite per dare forma a questo concetto, erano destinate a non essere capite per quel che propriamente dicevano: a riceverle era infatti una mente umana che non poteva non ritradurre nella sua logica quel che le proveniva da una più alta fonte. Il colloquio si era perciò concluso in modo tanto più deludente quanto più la speranza di Dante fosse stata che più di un nutrimento gli sarebbe stato dato e la sua fame avrebbe perciò potuto aver fine. Ma non era stato così. Nel trarre l’ultima e definitiva conclusione, Dante aveva bruciato la speranza che nell’abisso del giudizio divino si potesse scendere tanto da incontrare la sua radice. Il significato profondo delle parole dell’Aquila si riduceva per lui, che non ne intendeva le parole, al monito severo che quella gli aveva rivolto: «or tu chi sè che vuo’ sedere a scranna/ per giudicar di lungi mille miglia/ con la veduta corta d’una spanna?». Del resto, che, al di là di quel che aveva concesso al giudizio umano e al riconoscimento che era in grado di fare dell’esserci di quello divino, fosse questa la meta ultima e necessaria del ragionamento, si vede anche da questi versi che, su di sé, recano un segno profondo di agostinismo, e sui quali converrà riflettere senza cercare di attenuarne il senso. «Lume non è, se non vien dal sereno/ che non si turba mai, anzi è tenèbra,/ o ombra dela carne, o suo veleno» (vv. 64-66). 6. Alla fine del discorso Dante si era trovato nella situazione in cui era quando l’aveva iniziato. Non gli era stato spiegato perché agli infedeli che
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non avevano conosciuto il vero Dio, ed erano tuttavia vissuti come se a quello si fossero ispirati, la salvezza fosse stata negata. Il discorso dell’Aquila lo aveva messo di fronte a una conclusione aspra, alla quale egli era costretto a consentire e che tanto più sentiva di dover accogliere nella sua crudezza in quanto il coraggio della coerenza la poneva come inevitabile. Su questo punto l’Aquila era stata recisa: «a questo regno», aveva detto, «non salì mai chi non credette ’n Cristo,/ vel pria vel poi ch’el si chiavasse al legno» (vv. 103-105). Aveva perciò posto una premessa dalla quale mai avrebbe potuto esser ricavata la conseguenza avanzata da chi aveva sostenuto che a Dio era concesso di salvare quanti, per quel che appariva al giudizio umano, pur fossero stati nella condizione di non poter esserlo. Su questo punto, senza dar rilievo al motivo polemico che gli era intrinseco, ma con nettezza, Dante prendeva le distanze da quanti, in un modo o in un altro, avevano ammessa la possibilità che Dio intervenisse a rendere meno aspra la regola e a consentire che nel regno dei cieli entrassero anche coloro che, avendo vissuto una vita in ogni senso virtuosa, non per colpa fossero tuttavia stati ignari di lui. Assumendo il punto di vista dell’Aquila che, come si è notato, a questo concetto aveva ispirato il suo discorso, Dante aveva lasciato intendere che il rispetto della regola secondo cui soltanto chi avesse vissuto nel segno di Cristo e della sua parola sarebbe stato accolto nel regno dei cieli, non conosceva eccezioni. L’Aquila, in sostanza, aveva parlato in termini schiettamente agostiniani; e poiché, attraverso la sua, era possibile ascoltare la voce stessa di Dio («ben so io che se ’n cielo altro reame/ la divina giustizia fa suo specchio,/ che ’l vostro non l’apprende con velame»),14 Dante si era disposto ad ascoltarla con la massima attenzione («sapete come attento io m’apparecchio/ ad ascoltar»), e in modo che non condividere quel che ne avrebbe appreso sarebbe stato, per lui, impossibile. Alla luce di questi pensieri, e nel quadro di queste considerazioni, egli non poteva non consentire con l’estremismo agostiniano che aveva caratterizzato il suo discorso. A più riprese, lo si è già notato, nel corso del viaggio che aveva compiuto attraverso l’Inferno e il Purgatorio aveva dovuto affrontare il peso della malinconia, discreta ma acuta, che la sua guida aveva manifestata ogni volta che era stato messa di fronte alla sua sorte di infedele virtuoso e condannato. Era stato Virgilio a fare i nomi di Aristotele e di Platone. Ma il discorso dell’Aquila non era fatto per dargli conforto. Si era infatti mostrato in linea, non con le sue angosce, alle quali non sarebbe stata in grado di prestare alcun ascolto, ma, se mai, con le parole sprezzanti di Agostino che, a sentire il nome di quello che poi fu
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detto il Filosofo per eccellenza, dopo aver chiesto chi mai Aristotele fosse, l’aveva idealmente esortato a ascoltare Cristo che era nella gloria dei cieli, era morto e resuscitato, mentre lui tremava nell’Inferno, al pari di quelli che, come lui, erano morti e non interessava sapere come sarebbero resuscitati. Tota infidelium vita peccatum est.15 Se questo, o vicino a questo, era il punto di vista dell’Aquila, per il cui tramite si ascoltava la voce stessa di Dio, la conseguenza era inevitabile. Era impossibile pensare che, avendone inteso il senso profondo, Dante potesse non accogliere il pensiero che ne era esposto. Difficile, se non impossibile, era che a questa voce, ascoltata in Paradiso, egli potesse imporre il silenzio sostituendo a essa quella di coloro che alle tesi di Agostino16 avevano opposto la diversa idea che Dio non poteva esser stato, e non poteva, essere insensibile alla virtù e alla moralità di quanti, senza averlo conosciuto, avevano tuttavia vissuto in modo conforme alla sua regola. Si sa che a questa idea molta attenzione era stata dedicata, non solo da Abelardo,17 ma anche da Bonaventura, che al rigore agostiniano non si erano piegati o avevano, almeno, cercato di resistere: a differenza di Tommaso che, alla fine, aveva ceduto a esso,18 e di Dante, che il punto di vista dell’Aquila aveva svolto anche nel secondo libro della Monarchia, in un passo che non dava luogo a equivoci. Converrà citarlo per disteso. Dopo aver detto che l’uomo, il quale è parte della città, «pro patria debet exponere seipsum, tanquam minus bonum pro meliori», e aver concluso, su questo punto, che «hoc iudicium Dei est: aliter humana ratio in sua rectitudine non sequeretur nature intentionem: quod est impossibile», aveva proseguito così: Quedam etiam iudicia Dei sunt, ad que etsi humana ratio ex propriis pertingere nequit, elevatur tamen ad illa cum adiutorio fidei eorum que in Sacris Licteris nobis dicta sunt, sicut ad hoc: quod nemo quantumcunque moralibus et intellectualibus virtutibus et secundum habitum et secundum operationem perfectus, absque fide salvari potest, dato quod nunquam aliquid de Christo audiverit. Nam hoc ratio humana per se iustum intueri non potest, fide tamen adiuta potest. Scriptum est enim ad Hebreos: ‘inpossibile est sine fide placere Deo’; et in Levitico: ‘homo quilibet de domo Israel, qui occiderit bovem aut ovem aut capram in castris vel extra castra et non obtulerit ad hostium tabernaculi oblationem Domino, sanguinis reus erit’. Hostium tabernaculi Christum figurat, qui est hostium conclavis ecterni, ut ex evangelio elici potest: occisio animalium operationes humanas. Occultum vero est iudicium Dei ad quod humana ratio nec lege nature nec lege Scripture, sed de gratia speciali quandoque pertingit.19
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La coincidenza della tesi, sostenuta in questo passo, con quella delineata nei versi del decimonono canto, è pressoché perfetta. Anche se non è esplicitamente dichiarata, è evidente che, anche qui, la preoccupazione di Dante riguardava il silenzio che il giudizio di Dio imponeva sulle ragioni per le quali le porte del cielo erano destinate a restare chiuse a chi nunquam aliquid de Christo audiverit. Il senso di questo passo è infatti contenuto nella massima secondo cui «impossibile est sine fide placere Deo», e nell’altra, a questa strettamente congiunta, che definisce «occultum vero […] iudicium Dei», al quale né per natura né per Scrittura la ragione può pervenire se una grazia speciale non le sia d’aiuto: una grazia speciale, e cioè l’intervento di qualcosa, che, nell’aprire la porta, subito la chiudeva. A rivelarsi era, in altri termini, il fatto, non la ragione del fatto, che restava nascosta nella mente di Dio. Per questa parte, che era poi quella essenziale, il passo era, come si vede, perfettamente in linea con il discorso dell’Aquila, e meno con la tesi che, al riguardo, era stata ragionata da Tommaso d’Aquino. Quando si era chiesto utrum omnis actio infidelis sit peccatum, la sua risposta era stata, in conclusione, non univoca. Conforme al suo andamento «dialettico», da una parte il ragionamento aveva assunto che omnis actio infidelis est peccatum, da un’altra, a questa tesi aveva opposto che, sebbene fosse evidente «quod infideles non possunt operari bona opera quae sunt ex gratia, scilicet opera meritoria», non poteva tuttavia escludersi che «bona opera ad quae sufficit bonum naturae, aliqualiter operari possunt». E ricordava «quod de Cornelio adhuc infideli existente dictum est Act. x, quod acceptae erant elemosyne ejus Deo. Ergo non omnis actio infidelis est peccatum, sed aliqua ejus actio est bona».20 Il che, per altro, non bastava a persuaderlo della salvezza di quel centurione romano, e gli suggeriva l’ambigua risposta che si legge nella seconda parte della Conclusio («de Cornelio tamen secundum est quod infidelis non erat, alioquin ejus operatio accepta non fuisset Deo, cui sine fide nullus potest placere»), e che ambigua era sul serio.21 Se, infatti, poche righe prima poteva leggersi che «per infidelitatem non corrumpitur totaliter in infidelibus ratio naturalis, quin remaneat in eis aliqua vera cognitio, per quam facere possunt aliud opus de genere bonorum», la conclusione ultima era invece che l’infedeltà doveva essersi risolta nel riconoscimento del vero Dio perché il protagonista di questa impresa fosse salvato dalle tenebre infernali. Era necessario in altri termini che, per gratuito dono, un infedele avesse ricevuto la rivelazione del vero Dio, perché potesse essere ammesso nel regno dei cieli: con il che, com’è facile comprendere, l’apertura era ritirata, la gratia naturalis
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era considerata insufficiente, e, al di là del suo più duttile argomentare, anche Tommaso riconvergeva sulla tesi più radicale. 7. Per suo conto, nel canto decimonono, Dante aveva fatto in modo che, nello svolgere il suo discorso, l’Aquila ne accentuasse l’asprezza e da tesi conciliatorie lo tenesse lontano. Quando ebbe termine con la conferma che «a questo regno/ non salì mai chi non credette ’n Cristo» (vv. 104105), quasi intendesse rendere meno aspra la sua conclusione e in qualche modo andar oltre, al suo discorso l’Aquila impresse una brusca sterzata. Da teologico, come si vedrà, lo mutò via via in politico. Ma non senza che, all’inizio, proponesse un crudo paradosso. Rovesciando i naturali rapporti, fece che, nel giorno del giudizio, più vicini a Cristo fossero piuttosto gli infedeli (virtuosi) ai quali non era stato concesso di conoscerlo, che non i cristiani che, ben conoscendolo, con i loro comportamenti l’avevano tradito e lo tradivano. «Ma vedi: molti gridan ‘Cristo, Cristo!’,/ che saranno in giudicio assai men prope/ a Lui che tal che non conosce Cristo:/ e tai Cristian dannerà l’etiòpe,/ quando si partiranno i due collegi,/ l’uno in etterno ricco, e l’altro inope» (vv. 106-111). Sono, occorre riconoscerlo, versi che alludono a un paradosso, e non sono comunque di facile interpretazione. Che più vicini a Cristo dei cristiani che l’avevano conosciuto, e non avevano ispirata a lui e al suo insegnamento la loro vita, fossero e potessero essere coloro che, avendone ignorata l’esistenza, avevano tuttavia vissuto come se l’avessero conosciuto, può ben capirsi se l’assunto era che quelli avessero vissuta un’onesta e virtuosa vita. Restava tuttavia la difficoltà rappresentata dall’asserzione che «tai Cristian dannerà l’Etiope», che, a causa del verbo («dannare»), che vi sta in rilievo, non richiede un’interpretazione minimizzante. Poiché l’allusione è al giudizio che separa gli eletti dai reprobi, sarebbe impossibile intenderla nel senso che, in quel giorno, a esercitarlo sarebbe stato un etiope. Che a quel grado potesse esser stato elevato sarebbe stato infatti inconcepibile: non perché l’etiope dell’esempio era un infedele, sia pure di santa vita, ma perché era un uomo, disposto quindi a essere giudicato, non a giudicare. Nei commenti moderni ricorre spesso la citazione del passo in cui Giordano da Pisa spiegò che due, secondo i santi, sono i giudizi, «uno d’azione e un altro di comparazione. Il giudizio di comparazione è che sarai giudicato e da’ dimoni da’ saracini da’ pagani e da chiunque t’avrà avanzato in alcuno caso».22 Ma, in luogo di risolvere la questione, il passo di fra’ Giordano la complicava. Trasferendola sul piano della religiosità popolare, nel discorso dell’Aquila
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introduceva una nota che non s’accordava con il suo tono, sempre, dal principio alla fine, teso, e solenne. È vero che Dante è un maestro nell’arte della variatio, e che, nel punto in cui l’etiope e il suo giudizio sono citati, il discorso era sul punto di passare dalla teologia alla politica, sì che il verso potrebbe essere inteso come alludente a un cambiamento di tono. Ma questo non basta a giustificare una simile stonatura, o quella che tale sarebbe se lo s’interpretasse sul fondamento del passo di fra’ Giordano. Non può non notarsi, inoltre, che se, nella sua prosa, l’infedele compare come uno che, benché tale, può farsi giudice dei falsi e degenerati cristiani, non così le cose vanno nei versi di Dante, nei quali, lungi dall’esser ritenuti inferiori, quegli uomini erano stati proposti all’attenzione all’Aquila come esempi, in determinati casi, di compiuta virtù morale e come degni, dunque, di stare fra gli eletti. Resta fermo, d’altra parte, che se «dannare» fosse preso nel senso usuale di emettere una condanna, e questa richiedesse un giudice in possesso dei titoli per pronunziarla, elevare a tale grado l’etiope sarebbe stato impossibile anche nel caso che gli fosse stata attribuita la più alta virtù naturale e, per esempio, lo si fosse reso degno del Limbo (lì, come si sa, Dante aveva collocato il Saladino, Avicenna e Averroè, «che il gran comento feo»).23 Sarebbe non solo paradossale, ma concettualmente improprio, sempre che lì l’avesse pensato. Anche come anima del Limbo l’etiope sarebbe stato privo della luce di Dio, e tale che non si sarebbe potuto assegnargli il compito di giudicare i cristiani nel giorno del giudizio. Tanto più lo sarebbe se, accennando alla divisione «dei due collegi/ l’uno in eterno ricco e l’altro inope», Dante avesse inteso alludere al giorno del giudizio; che è, come si sa, quello in cui si sarebbe proceduto, non a dividere i sentieri, che divisi erano stati via via che un’anima fosse stata condannata all’Inferno o assegnata al Paradiso, ma a ribadire quel che era stato irrevocabilmente deciso in un momento, dunque, di particolare solennità. Come deve intendersi, allora, l’accenno che qui egli fece al giudizio dell’etiope? Il luogo è oscuro, e non si può dire che dall’esegesi, antica e moderna, abbia, per quel che consti, ricevuto particolare luce. Si dà anche il caso che la glossa rischi di aggiungere oscurità a oscurità, se non si presuppone che a pronunziare il giudizio sia, non direttamente l’etiope, ma uno che, ponendosi all’esterno, e constatandone la virtù morale, nel suo nome, e con intento paradossale, giudichi gli indegni cristiani, e sia perciò lui, il giudice esterno, a far sì, cioè a immaginare, che l’etiope si faccia giudice del cattivo cristiano. Soltanto se s’interpreta così, il verso restituisce il senso plausibile che, viceversa, non si otterrebbe nemmeno
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se si supponesse quel che, in ogni caso, non si può: e cioè che l’etiope fosse stato eletto in cielo per le sue comunque straordinarie virtù e il suo caso fosse (ma non è questo quel che Dante dice) assimilabile a quelli di Traiano e di Rifeo. A esercitare il giudizio è infatti sempre e soltanto Dio; e le anime del Paradiso godono bensì della ininterrotta contemplazione del suo volto, ma a esse non è dato di farsi giudici delle anime. Per un altro verso, il caso dell’etiope di santa vita che, a chi eserciti il giudizio dal di fuori o dall’alto, consente di collocarlo a un grado assai superiore a quello occupato dai cristiani indegni di Cristo, può esser visto come una sorta di compenso che l’Aquila aveva inteso dare alla delusione che aveva inflitta a Dante quando l’aveva avvertito che a nessuno, che non fosse stato cristiano, il regno dei cieli era aperto, e che la regola non ammetteva eccezioni. Di qui, come se all’Aquila stessa pesasse di non poter dare a Dante la risposta che più a lui sarebbe stata gradita, la trasformazione del disappunto provocato dai limiti invalicabili che la dottrina cristiana poneva alla salvezza dei pagani virtuosi, ma infedeli, nella polemica diretta contro i falsi cristiani che erano al governo delle monarchie contemporanee. L’analisi di questa parte del canto esula, tuttavia, dai limiti di questo, che è un saggio, non una «lectura». Si può solo dire che l’invettiva diretta contro gli indegni principi cristiani non regge il confronto con quella dolente e desolata di Guido del Duca, nel canto decimoquarto del Purgatorio, e nemmeno con l’altra di Marco Lombardo, nel decimosesto. Su quest’ultima, per altro, ci si dovrà, al momento opportuno, intrattenere. II Salvezza e predestinazione. Traiano e Rifeo 1. Se si considera, o, meglio, se si torna a considerare che, nel canto precedente, Dante si era rivolto all’Aquila nella speranza che questa lo liberasse dal dubbio, che angustiandolo, riguardava la sorte dei poeti e degli scrittori pagani, nonché di coloro che, senza aver conosciuto il vero Dio, avevano tuttavia vissuto come se ne avessero avuta notizia, deve constatarsi che il canto ventesimo si muove nella direzione opposta. Dall’Aquila aveva appreso che nessuna speranza di salvezza poteva nutrire chi avesse consumata la sua vita nell’ignoranza di Dio. Sebbene avesse mostrato di sperare che le cose stessero altrimenti e con minor rigore fossero state disposte, al verdetto dell’Aquila Dante aveva dovuto acconsentire. Opporsi
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a esso sarebbe stato, infatti, come non voler ascoltare la voce stessa di Dio. Aveva acconsentito perciò: con qualche intima sofferenza, come s’è visto, ma senza opporre riserve. Con stupore tanto più grande, e altrettanta meraviglia, dalla sua voce ora apprendeva, che tra le vive luci che, l’una rimandandosi all’altra in una vivacissima policromia, formavano la sua figura, due nascondevano, l’una, l’anima dell’Imperatore Traiano, l’altra quella del troiano Rifeo, due personaggi, dunque, vissuti, il primo al di fuori del cristianesimo, ma quando questo era da tempo venuto al mondo, il secondo, invece, in tempi di molto anteriori alla sua affermazione. Di Traiano Dante aveva letto nelle storie e sapeva, dunque, del tempo al quale era appartenuto. È singolare, quindi, che il suo problema essendo, in questi canti, quello della conoscenza che, da parte di determinati individui e popoli, si era o non si era avuta della parola di Cristo, egli mostrasse di non considerare che di quest’ultimo, morto sulla croce da più di cento anni, l’imperatore romano era ben al corrente e colpevole, quindi, di non aver riconosciuto in lui il vero Dio. Aveva infatti perseguitato i cristiani non meno che gli Ebrei,24 e sebbene, a parte le citazioni che di lui ricorrono nel decimo del Purgatorio e nel ventesimo del Paradiso, il suo nome non s’incontri né nel Convivio né nella Monarchia né nelle Epistole, è ovvio che ai suoi occhi il suo caso apparisse diverso da quello dell’altro personaggio la cui anima era andata a costituire uno dei cigli dell’Aquila. Rifeo era uno dei troiani che con Enea erano fuggiti da Troia che i Greci avevano data alle fiamme, e Virgilio l’aveva ricordato in più punti dell’Eneide: che di Cristo e del cristianesimo niente perciò avesse saputo, era cosa ovvia. Senza far conto che l’uno era appartenuto alla storia, l’altro alla letteratura, Dante li aveva tuttavia considerati come allo stesso modo reali, e partecipi dell’eccezione che entrambi rappresentavano nei confronti della regola secondo cui era impossibile che al regno dei cieli salisse chi non aveva conosciuto il Cristo e creduto in lui. Della differenza che i due esempi rappresentavano l’uno nei confronti dell’altro non aveva fatto alcun conto, essendosi limitato a esprimere la meraviglia che, non solo non aveva nemmeno provato a nascondere, ma aveva manifestata con forza. «E avvegna ch’io fossi al dubbiar mio/ lì quasi vetro alo color ch’el veste,/ tempo aspettar tacendo non patìo,/ ma dela bocca ‘che cose son queste?’/ mi pinse con la forza del suo peso» (vv. 79-83). La sentenza dell’Aquila trovava dunque in ciò che componeva la sua figura, la sua propria smentita? Dalla sua voce Dante aveva appreso che «dei cinque che mi fan cerchio per ciglio,/ colui che più al becco mi s’accosta, la vedovella consolò del figlio:/ ora cono-
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sce quanto caro costa/ non seguir Cristo, per l’esperienza/ di questa dolce vita e del’opposta» (vv. 43-48). Del secondo aveva letto, come si è detto, nell’Eneide, e ora dalle parole stesse dell’Aquila era informato di quel che anch’egli avrebbe avvertito come sorprendente se sulla sua figura avesse spinto lo sguardo. «Chi crederebbe giù nel mondo errante, che Rifeo troiano in questo tondo/ fosse la quinta dele luci sante? Ora conosce assai di quel che ’l mondo/ veder non può dela divina grazia,/ ben che sua vista non discerna il fondo» (vv. 67-72). Versi dei quali si coglie il senso se si considera che se, «nel mondo errante», la salvezza di Rifeo era destinata a suscitare incomprensione e incredulità, queste dovevano cadere dinanzi agli occhi di Dante che lo vedeva splendere nel ciglio dell’Aquila, anche se le ragioni profonde per le quali la sua anima era stata assunta in Paradiso seguitavano a esser precluse alla sua umana intelligenza («benché sua vista non discerna il fondo»). Di Rifeo per ora basti così. E si passi a considerare più da vicino il caso di Traiano. Che è, si ripete, diverso da quello di Rifeo: anche se, in un supremo sforzo di razionalizzazione, e ponendo in campo un argomento di rara artificiosità, Dante tendesse, alla fine, a dare di essi una considerazione unitaria (si vada, per prova, ai vv. 103-105, sui quali, a suo tempo, converrà fermarsi). Erano state le informazioni che l’Aquila gli aveva fornite su quelle due parti della sua unitaria figura ad aver suscitata la sorpresa di Dante; che era stata provocata non soltanto dallo spettacolo straordinario al quale era stato messo di fronte, al gioco fantasioso delle parti che, intrecciandosi e rinviando l’una all’altra la propria luce, formavano la sua unitaria figura, ma dal capovolgimento che le sue ultime parole sembravano aver determinato del principio capitale che era stato enunziato quando, nel canto precedente, e già lo si è notato, quella aveva sentenziato che «a questo regno/ non salì mai chi non credette ’n Cristo,/ vel pria vel poi ch’el si chiavasse al legno».25 L’effetto drammatico che questa situazione determinava in Dante, merita di essere notato: è infatti a riprova della complessità di una situazione concettuale, oltre che teologica, che da lui era stata vissuta nei contrastanti motivi che la costituivano. Dopo che in un modo la questione della salvezza era stata risolta dall’ Aquila, ora sembrava che dal caso di Traiano, e da quello di Rifeo, fosse stata rimessa in gioco con il carattere opposto. Nel suo precedente discorso l’Aquila aveva escluso che al cielo potesse salire chi non avesse avuta la conoscenza del Cristo e creduto in lui come nel vero Dio. Ma allora Traiano? Allora Rifeo che, a differenza di lui, era vissuto ben prima che il cristianesimo venisse al mondo? In realtà, i due
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casi non costituivano eccezione alla regola. Nel discorso dell’Aquila non si dava nessuna anomalia. Come essa stessa avrebbe avvertito in un punto cruciale del suo discorso (vv. 103-105), nessuna eccezione si era prodotta, e avrebbe potuto prodursi, nessun disguido era intervenuto, e avrebbe mai potuto intervenire, a turbare la sua coerenza teologica, come ben sa chi abbia letto il canto ventesimo; e come ora converrà far vedere, osservando da vicino le fasi del racconto che, iniziato nel decimo del Purgatorio, venne ripreso e concluso nel ventesimo del Paradiso. Ma tenendo tuttavia fermo quel che dal discorso dell’Aquila Dante aveva appreso. 2. Non senza aver prima ribadita la differenza che, osservando la questione dal punto di vista della teologia cristiana, i due casi rivelano. Sia pure ex silentio, e anche a prescindere dall’assumere che essa fosse stata decisa ab aeterno, l’assunzione in cielo di Rifeo era avvenuta nel modo più semplice e lineare. Poiché aveva constatata e apprezzata la natura eccezionale della sua umanità, che andava oltre il limite che alla sua mente era imposto dalla non conoscenza della vera dottrina, senza bisogno che dalla terra altri lo invitasse a considerarla per quel che era, Dio aveva senz’altro provveduto lui a infrangere la regola che pure egli stesso aveva posta e che l’Aquila aveva resa nota a Dante. Quella che, nel caso di Rifeo, Dio aveva eseguita si presentava, agli occhi umani, come un’eccezione e, se si desidera un’espressione più netta, come una trasgressione imposta all’ordine stabilito. Ma l’ordine è Dio, è la stessa cosa di Dio. E l’ordine non può venir meno all’ordine. Che quindi potesse, non sovvertirlo, ma piuttosto ribadirlo a un non raggiungibile livello di profondità, è quel di cui occorreva prendere atto. Della giustizia di Dio non poteva dubitarsi, perché coincideva con la sua essenza; e tanto meno si poteva quanto più il suo responso riuscisse incomprensibile. Un pagano era stato eletto fra i beati? Sì. E poiché a volerlo era stato Dio, che la sua fosse giusta decisione tanto meno poteva dubitarsi quanto più riuscisse incomprensibile alla mente umana. Il caso di Traiano era di tutt’altra natura e imponeva la considerazione di alcune implicazioni teologiche, che debbono esser tratte alla luce e considerate per quel che sono. Poiché la vicenda della sua salvezza era passata attraverso episodi che male si prestavano a essere ricondotti alla natura della mente divina, i cui atti non sono misurabili dal tempo, o dall’idea che di esso si abbia come di una successione di atti, converrà considerare non solo le fonti di cui, al riguardo, Dante si servì, ma il modo in cui le utilizzò, a alcuni elementi concedendo visibilità, a altri imponendo una sorta di
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censura: non vi alluse, infatti, e lo vedremo, se non in modo indiretto. Nel narrare la vicenda di Traiano Dante non lasciò alcun indizio della fonte, o delle fonti, dalle quali aveva appresa la leggenda che lo riguardava.26 Ma mostrò di ben conoscerle. Nel decimo del Purgatorio, aveva osservata, su un bassorilievo istoriato, la scena che ritraeva l’atto di pietà e di giustizia compiuto dall’imperatore romano nei confronti della «vedovella» che chiedeva giustizia per il figlio morto. E, secondo il suo costume, l’aveva messa in parole con pochi tratti, in versi mirabili.27 Alle implorazioni della vedova Traiano, come si sa, aveva risposto promettendole che, al suo ritorno, avrebbe fatto quel che gli si chiedeva e che, se gli fosse accaduto di non tornare, altri avrebbe provveduto per lui («chi fia dov’io,/ la ti farà»).28 A lui, che era l’Imperatore, spettava infatti di mettere innanzi alla pietà la giustizia, e partire per la sua missione: «giustizia vole e pietà mi ritiene» (v. 93). Se si confronta il racconto della vicenda di pietà di cui Traiano era stato protagonista, con quel che ne è detto nel Paradiso, può e deve notarsi un particolare, dal quale è possibile ricavare sia la cura con cui Dante aveva provveduto a rendere coerenti le parti di un racconto che veniva a esser da lui ripreso dopo essere stato per un lungo tratto abbandonato, sia, tuttavia, anche il dubbio che a ogni momento del racconto fosse stato dato il giusto rilievo, che a tutte le difficoltà si fosse, quanto meno, accennato. Nel caso che ci sta di fronte, è al dubbio che deve concedersi spazio, e, anzi, a qualcosa di ancor più radicale. Se, infatti, si guarda con occhio attento all’individuazione dei suoi momenti essenziali, deve notarsi che, avendo disposto il racconto che diceva di Traiano e del suo essere stato richiamato in vita in modo che potesse pentirsi del suo esser stato pagano, Dante non si era tuttavia soffermato su quel che più in quella storia appariva teologicamente sconcertante e che, certo, non poteva non aver attratta la sua attenzione. Per la forza dell’eccezione che lo caratterizzava, quella di Traiano era una leggenda popolare che, per la sua grande diffusione,29 era stata presa in esame dai teologi, che non in modo unanime l’avevano, e l’avrebbero, accettata. Nell’atto in cui alla fine la confermava, la leggenda introduceva elementi perturbanti in ciò che il pensiero cristiano, e Dante con esso, intendeva indiscutibile, e cioè che al cielo non potesse pervenire chi fosse vissuto senza aver conosciuto il vero Dio e aver ricevuto il battesimo. Il caso di Traiano contraddiceva a questi princìpi, non senza l’aggiunta, a questi, di un elemento favolistico. Colui che era stato un potente imperatore romano era stato, infatti, tratto fuori dell’Inferno, sua prima destinazione, per essere restituito alla vita in modo che avesse po-
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tuto conoscervi il vero Dio e, morendo per la seconda volta, essere quindi accolto, non nella sua prima destinazione ultramondana, ma nel Paradiso, fra i beati che formavano la figura dell’Aquila. Era una leggenda che, fatta per suscitare stupore e ammirazione, poteva andar bene per un pubblico che non nutrisse preoccupazioni teologiche, non certo per Dante che, nel riprenderla, è impensabile che non fosse consapevole dei problemi che la sua eccezionalità poneva alla sua coscienza. Che lo fosse si deduce non solo dal modo in cui la questione della salvezza e della predestinazione era da lui trattata in questi canti del Paradiso, ma anche da un particolare che forse non ha ricevuta l’attenzione che avrebbe richiesta e che meritava. A giudicare dal modo in cui l’esempio della pietas di Traiano era stato citato nel decimo del Purgatorio, dove l’imperatore romano era ritratto nel bassorilievo che ricordava quel suo gesto di pietà, si direbbe che, nel ripensare la leggenda relativa alla sua salvezza, Dante avesse avvertita la necessità di farla andare d’accordo con la sua tripartizione dell’aldilà. Non potendo immaginare che, come anima, Traiano potesse essere da lui incontrato nel Purgatorio, lo ritrasse in effigie rendendovelo in qualche modo presente e, alla luce della funzione che attribuiva al Purgatorio, razionalizzando quel che, per esempio, nel Novellino, era stato presentato come un immediato passaggio «dalle pene dell’Inferno» alla «vita eterna». Il che, beninteso non bastava a vincere le difficoltà. A sollevarne era la singolare situazione per la quale, volendo fornire una prova, che a tutti riuscisse manifesta, dell’onnipotenza di Dio, che ridava la vita ai morti, li traeva fuori dell’Inferno per poi, superate le prove imposte dalla nuova vita, trasferirle nel Paradiso, doveva tuttavia anche pensarsi che, avendo commesso un errore nel destinare Traiano all’Inferno, si era trovato nella necessità di porvi rimedio: e con tale radicalità, e in un modo così estremo, che l’ordine stesso delle cose ne era stato per un breve tratto sconvolto. Accadeva così che, per fornire l’ennesima prova dell’onnipotenza di Dio, ci si trovasse costretti a subire la paradossale situazione determinata dall’ammissione della sua fallibilità. Certo, si sarebbe potuto sostenere che quel che appariva come errore e retractatio non era se non l’apparenza ingannevole che assumeva la giustizia di Dio, la cui ragione stava nel suo abisso, non nei segni, pur sempre e necessariamente estrinseci, con cui appariva agli occhi umani. Sia pure. Ma è pur vero che nei termini dell’errore e della sua riparazione – di un errore e di una riparazione per altro non dichiarati e avvertiti come tali – essa fu presentata da Dante, nel cui racconto a essere implicitamente richiamata fu la disattenzione che, per dir così, aveva richiesto, da parte
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di Dio, una seconda lettura degli atti (il che, se può accadere al giudice umano, è impensabile che accada a quello divino). Uscire dall’Inferno, e tornare vivi su questa terra. Per il tramite di una leggenda popolare, era un luogo centrale della teologia cristiana che da questo evento era messo in questione. Fermarsi a considerarlo con qualche attenzione è, perciò, indispensabile. 3. Il lettore al quale di tanto in tanto accada di cedere alla tentazione di mettere in connessione parti della Commedia lontane fra loro, potrebbe esserne sollecitato ad andare indietro al quarto canto dell’Inferno e a soffermarsi sul luogo in cui si dice di Virgilio che, a una domanda che Dante gli aveva rivolta circa la possibilità che dal Limbo uscisse chi pur vi era stato destinato, aveva risposto nel modo che ciascuno ricorderà: aveva escluso che ciò potesse mai accadere. Si dirà che lì si parlava del Limbo, e qui, invece, si parla dell’Inferno. Più che giusto, per un verso. Ma resta, per un altro, che il Limbo era nell’Inferno, era parte dell’Inferno e esso stesso perciò, anche se sui generis, era Inferno: la privazione che vi si pativa di Dio essendo la più semplice, nel senso di più radicale, fra le pene a cui era condannato chi vi avesse trovato posto. Resta che, alla domanda che Dante aveva rivolta a Virgilio per sapere se mai a un’anima del Limbo fosse stato concesso di uscirne per essere collocata sulla via della salvezza, Virgilio, come si ricorderà, aveva dato risposta negativa. Aveva raccontato del «possente» (Cristo) che, con segno di vittoria coronato, vi era disceso per trarne fuori, con Adamo, gli antichi patriarchi, e le donne virtuose del Vecchio Testamento; e aveva aggiunto che, prima che questo evento si fosse determinato, nessuno ne era uscito. A una futura possibile liberazione di questo o di quello, Virgilio, dunque, non aveva alluso, né vi aveva alluso Dante con la sua domanda. I limiti della questione erano stati segnati con nettezza. La salvezza che era stata donata al primo uomo era da mettere in relazione al sacrificio che Cristo aveva fatto di sé stesso e della sua propria «umanità» per rimediare al peccato per il quale quello era stato estromesso dall’Eden: se in eterno Adamo fosse rimasto nel Limbo, Cristo sarebbe morto invano. Quella concessa ai patriarchi biblici, a Giacobbe e a Rachele, era richiesta dalla conoscenza che costoro avevano avuta del vero Dio, sì che se la loro inclusione nel Paradiso cristiano era ovvia, meno ovvie avrebbero potuto esser considerate sia la loro primitiva assegnazione al Limbo, sia la lunga attesa della liberazione da esso. Per costoro non avrebbe infatti avuto senso la richiesta che si fosse fatta di un tempo lungo il
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quale avessero avuto modo di affinare la loro conoscenza di Dio e di espiare la colpa di non averlo conosciuto subito nella sua più intima essenza. Ancor meno plausibile, se è così, potrebbe essere l’argomento di chi, per spiegare la ragione del loro lungo soggiorno nel Limbo, avesse chiamato in causa il tempo che Dio aveva impiegato per capire la qualità della conoscenza che essi avevano avuta di lui. Questo assunto sarebbe stato infatti in netto contrasto con la natura della sua mente che è tale che a essa tutti i tempi sono contemporanei, anzi sono quell’unico tempo senza tempo che è l’eterno: sì che, posta in quei termini, la questione lo sarebbe stata nel modo peggiore. Che poi, nel divario temporale che, rispetto al problema della conoscenza del vero Dio, Dante aveva stabilito fra quella posseduta dai patriarchi e l’altra che era stata ed è dei cristiani, si colga il più che problematico senso di superiorità che coloro che, nel tempo, erano venuti dopo, manifestavano nei confronti di chi era venuto prima, è evidente, e non giova insistervi. La questione riguarda, non il nesso che il pensiero cristiano stabilì fra il vecchio e il nuovo Testamento, fra il Dio degli Ebrei e quello dei cristiani, ma Traiano e l’assoluta eccezionalità, per non parlare dell’anomalia, che deve vedersi nella sua liberazione dall’Inferno e nel suo ritorno alla vita in vista della sua finale ammissione fra i beati del Paradiso. Ed è su questo che il discorso deve star fermo, con particolare riguardo al modo in cui, nella citazione che fece della sua vicenda nel decimo del Purgatorio e poi nel ventesimo del Paradiso Dante entrò in contatto con le difficoltà che l’accettazione dell’ingenua leggenda riguardante l’imperatore romano ponevano al pensiero teologico, che era anche il suo. Che, nel riprendere la leggenda, egli usasse tutta la sua arte per valorizzarne alcuni aspetti e lasciarne in ombra altri ai quali indirettamente alludeva, è evidente. E su questo deve insistersi. Soltanto in modo indiretto, e cioè mediante l’accenno alla vita beata e a quella «opposta», egli infatti alluse alla più grave delle anomalie teologiche rilevabili nell’episodio di Traiano e della sua salvezza: e cioè al suo esser stato tratto fuori dell’Inferno, del quale era andato a far parte. Nei pochi versi che gli dedicò nel ventesimo del Paradiso Dante si restrinse a dire che, nel luogo nel quale da ultimo si trovava, gli era stato dato di conoscere «quanto caro costa/ non seguir Cristo, per l’esperienza/ di questa dolce vita e del’opposta». E di qui, soltanto, dunque, in modo indiretto, si deduce che, dopo la sua prima morte, in quanto ignaro del vero Dio, Traiano era stato condannato all’Inferno, forse al Limbo, e comunque a un luogo nel quale la privazione di Dio teneva l’animo prigioniero di un’immedicabile tristezza (l’opposto della «dol-
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ce vita» paradisiaca non può essere se non l’aspra vita infernale). Al suo soggiorno infernale, dunque, in questi versi non c’è allusione che non si avvalga che di indirette parole; allo stesso modo, lo è già visto, per il quale, non potendo collocarlo come anima nel Purgatorio, fece in modo che Traiano vi fosse tuttavia presente come la figura scolpita nel bassorilievo, le cui scene in successione suggerirono a Dante l’idea geniale del «visibile parlare». Per rimediare alla lacuna che, per questo verso, avvertiva nella sua fonte, e per rispettare la regola, che a lui sembrava fondamentale, della gradualità, fece in modo che, se non come anima, Traiano fosse presente nel Purgatorio almeno come effige. Questa precisazione, che ad altri potrà apparire pedantesca, non sembrerà tale a chi consideri che, congegnata con l’intento di far risaltare la coerenza di ogni suo passaggio, la storia di Traiano aveva introdotto nel discorso dell’Aquila un tratto problematico, del quale è necessario dar conto. A una prima considerazione, la cura che Dante aveva messa nel distinguere, e poi connettere, le fasi della vicenda di Traiano, appare diretta alla conferma della regola per la quale nessuno che non fosse vissuto nella fede di Cristo avrebbe mai potuto accedere al regno dei cieli. Ed è, com’è ovvio, per questo, che per Traiano fu disposta la situazione miracolosa per la quale gli accadde di essere richiamato, dalla morte e dal luogo infero in cui la sua anima era stata collocata, alla vita, per poter essere accolto, dopo che questa fosse stata vissuta nel segno della vera fede, nella gloria del Paradiso. Insomma, Traiano aveva vissuto da pagano. Ma, per l’atto da lui compiuto nei riguardi della vedova che gli si era rivolta per aiuto, Dio aveva deciso che doveva essere salvo. Di qui, come si è detto, il miracoloso supplemento di vita che gli fu concessa perché, vivendola da buon cristiano, meritasse fino in fondo il regno dei cieli e in questo fosse accolto nel rispetto della regola che, riservandolo ai soli cristiani, lo chiudeva a ogni altro. In effetti, quando vi entrò, Traiano aveva vissuto da cristiano il supplemento di vita che gli era stato concesso. Dunque, come l’Aquila ci teneva a far sapere, tutto si era svolto secondo la regola: «l’anima gloriosa onde si parla,/ tornata nela carne (in che fu poco),/ credette in Lui che potea aiutarla;/ e credendo s’accese in tanto foco/ di vero amor, ch’a la morte seconda/ fu degna di venire a questo gioco» (vv. 112-117). Ma è proprio così? Oppure, nel fondo di questa leggenda, che Dante accolse perché un luogo teologico di grande delicatezza ne fosse convenientemente illuminato,30 e risolto fosse il problema che gli stava dentro, si celava, irrisolto, quello della grazia nel suo rapporto con le opere? In effetti, che, nel fondo della
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sua coscienza, il problema permanesse nei suoi termini, e dal modo in cui era trattato apparisse, non risolto, ma, al contrario, riproposto nella sua crudezza, è evidente. La tesi che, nel suo discorso, l’Aquila aveva sostenuta era che la «veduta» umana «non pò da sua natura esser possente/ tanto che suo principio non discerna/ molto di là da quel che l’è parvente»;31 era che il «mondo errante» non aveva in sé la forza di andar oltre l’apparenza e di pervenire all’essenza della cosa. Quando gli ebbe spiegata la storia di Traiano e di Rifeo, l’Aquila non mancò di avvertire Dante che non le sfuggiva come a lui accadesse di «credere», ossia di prestar fede, a quel che gli diceva perché a dirlo era lei, ma la verità gli restasse tuttavia «ascosa»: «fai come quei che la cosa per nome apprende ben, ma la sua quiditate/ veder non può se altri non la prome».32 In realtà, al fondo delle parole che Dante aveva messe in campo, si agitava una questione che non riusciva, forse, a esser posta nei suoi veri termini; ai quali tuttavia si perviene se si considera che, quando alludeva alla «quiddità», ossia all’intima essenza della cosa, al suo nucleo veritativo che rimaneva nascosto allo sguardo umano, l’Aquila intendeva dire che, fra quelle che avevano corso nel «mondo errante», non c’era situazione la cui realtà e verità non stesse nascosta nelle profondità del consiglio divino, che, a partire dalla stessa volontà e libertà dell’uomo, tutto ne era determinato e disposto. Se, quindi, a questo più radicale punto di vista ci si fosse attenuti, la conseguenza da trarre non sarebbe stata se non questa: che niente accadeva nel mondo che non fosse stato previsto e voluto, voluto e previsto, da Dio, che perciò né poteva diventare oggetto dell’altrui volere né, addirittura, poiché si poneva alla sua radice, poteva consentire che si parlasse di un autonomo volere umano e di un aiuto che da questo gli provenisse: di un volere, deve intendersi, che nascesse da pensieri dell’uomo senza che a determinarne la nascita e stabilirne l’orientamento fosse stato il volere suo, il volere, s’intenda, di Dio. Può sembrare che, indicando questa linea esegetica, si tradisca il senso del pensiero espresso in altri luoghi. E come si vedrà, è così. Ma è il pensiero di Dante che, in tema di libertà, va soggetto a questi mutamenti. Non sempre, infatti, gli era accaduto di essere in linea con questo che, tuttavia, è il concetto che l’Aquila svolse in questi due cruciali canti del Paradiso. Nei versi che si leggono a 94-99 fu questa l’idea alla quale, dopo aver confidato che quel simbolo fornisse argomenti a sostegno della tesi di chi riteneva la salvezza conseguibile dai virtuosi pagani, intellettuali e no, egli dette forma alla demolizione radicale di questa possibilità. Li si legga questi versi: «Regnum celorum vïolenza pate/ da caldo amore e da viva speranza,/ che vince la di-
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vina voluntade/ non a guisa che l’omo all’om sobranza:/ ma vince lei perché vuole esser vinta,/ e, vinta, vince con sua beninanza».33 L’idea era qui che il regno dei cieli poteva esser voluto con una forza e un ardore da cui la volontà divina era vinta, a quell’ardore essendo costretta a consentire. Ma questa non era se non l’apparenza di quel che sul serio avveniva. Era la volontà divina, infatti, che voleva soccombere all’assalto che al cielo era mosso dalla volontà che intendeva conquistarlo, sì che, «vinta, vince[va]». Era essa, era la volontà divina che entrava nella volontà che voleva conquistare regnum coelorum e voleva che a quel traguardo dirigesse il suo volere. 4. È, questo, se si apprezzano rigore e coerenza, il punto più alto al quale Dante fosse pervenuto nella riflessione condotta intorno a questo non semplice argomento. Se pensati con rigore e coerenza, i concetti della grazia e della predestinazione non lasciavano spazio a una zona che fosse segnata dalla volontà e dalla libertà umane, e sulla quale queste potessero piantare, vantandone il possesso, la propria bandiera. Sempre, e in ogni caso, la volontà umana era voluta da Dio: sempre, sia che vincesse, sia che soccombesse, a trionfare era la sua volontà che entrava in quella dell’uomo, voleva con essa, con essa realizzava i suoi fini, a tal punto e con tale radicalità che non aveva più senso porre la questione che la riguarda intendendola come documento dell’autonomia e dell’autodeterminazione umane. Che questa concezione dovesse apparire lesiva della libertà e dell’autonomia dell’uomo, era indubbio; e si sa bene che anche a Dante, e lo vedremo, apparve con questo carattere, in opposizione al quale cercò di tener fermo all’idea che, nei riguardi dell’onnipotenza divina, essa disponesse di tanta autonomia quanto bastava a renderla bensì talvolta vincitrice e talvolta vinta, ma sempre, nell’un caso e nell’altro, padrona della sua propria, anche se debole, autonomia. La logica, tuttavia, era più forte del desiderio che alla libertà umana fosse concessa la possibilità di affermare sé stessa. L’esser voluta da Dio importava infatti l’impossibilità che la si concepisse in contrasto con la disposizione che le fosse stata di volta in volta assegnata, o anche in lotta con la rinunzia a farsi valere nel mondo. In un caso o nell’altro, la volontà dell’uomo era ostaggio di quella divina, o, si si preferisce, volente secondo il volere di quella. Alla sua radice stava, con il suo incontrollabile potere, la volontà di Dio; che con quella dell’uomo istituiva, perciò, un rapporto che, a rigore era, non un rapporto, ma la sua abolizione a favore di un dominio risultante da un condizionamento assoluto. Di qui, e cioè dall’esigenza che si provava, o di riaprire i
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giochi sfuggendo al rigido controllo esercitato da Dio sulle cose umane, o anche soltanto di riservare all’«empirico» la sua relativa autonomia, – di qui il ricorso all’idea di una potenza interamente mondana, della quale le cose umane fossero sì in balìa, essendo tuttavia aperte alla possibilità che il bene perduto fosse riconquistato e il male di oggi si trasformasse nel bene di domani. Nella Summa contra gentiles Tommaso d’Aquino aveva esplicitamente asserito che, come la divina provvidenza non escludeva «arbitrii libertatem», così nemmeno escludeva casum et fortunam. In III 74 aveva asserito con forza che «ordo […] divinae providentiae exigit quod sit casus et fortuna in rebus», perché, aveva argomentato, «ad ordinem divinae providentiae pertinet ut sit ordo et gradus in causis». Nel capitolo precedente aveva duramente criticato la «opinio Stoicorum, qui secundum ordinem quemdam causarum intransgressibilem, quem Graeci εἰμαρμένην vocabant, omnia ex necessitate dicebant provenire». Il rimedio, il parziale e problematico rimedio era, dunque, nella fortuna che, alternando le sorti e mescolando il bene e il male, poteva in determinati casi costituire un’alternativa al rigido condizionamento esercitato dal potere divino? Certamente no, perché, come nel settimo canto dell’Inferno Dante aveva detto, la fortuna possedeva sì il genio della variabilità, di modo che di continuo le sorti umane erano sottoposte al mutamento, e con tale energia che possibilità che sembravano esser state spente erano rimesse in gioco. Solo in apparenza, per altro, il suo era un libero gioco, solo in apparenza consentiva libertà, e illusione era che questa ne fosse garantita. Più che con quel che leggeva in queste pagine di Tommaso, Dante in realtà consentiva con Boezio. Si pensi a Philosophiae consolatio, II i 9-11: «quid est igitur, o homo, quod te in maestitiam luctumque deiecit? Novum, credo, aliquid inusitatumque vidisti. Tu fortunam putas erga te esse mutatam: erras. Hi semper eius mores sunt, ista natura. Servavit circa te propriam potius in ipsa sui mutabilitate constantiam; talis erat, cum blandiebatur, cum tibi falsae illecebris felicitatis alluderet. Deprehendisti caeci numinis ambiguos vultus». Consentiva, ma andava oltre. La fortuna era «una ministra» del volere di Dio, che le aveva assegnato il compito di permutare «a tempo li ben vani/ di gente in gente e d’uno in altro sangue,/ oltre la defension de’ senni umani».34 Poiché il rapporto che la volontà umana intratteneva con quella di Dio non poteva, per definizione, risolversi che nella e con la vittoria di quest’ultimo, la conclusione era senza alternative: l’idea che i giochi potessero essere riaperti e che non necessaria secondo il volere divino fosse la loro vicenda, era destinata a rivelarsi come un’illusione. Il che era detto da Dante con piena co-
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scienza del passo che, a questo riguardo, stava compiendo, che la coerenza richiedeva che egli compisse e che fu, in effetti, da lui compiuto quando, concludendo, esclamò: «o predestinazion, quanto remota/ è la radice tua da quelli aspetti/ che la prima Cagion non veggion tota!/ E voi mortali tenetevi stretti/ a giudicar; che noi, che Dio vedemo,/ non conosciamo ancor tutti gli eletti;/ed ènne dolce così fatto scemo,/ perché ’l ben nostro in questo ben s’affina,/ che quel che vole Iddio, e noi volemo» (vv. 130-138). Alla luce di questa idea, anche la teorizzazione della libertà che, nel sedicesimo del Purgatorio, Dante aveva affidata alla parola di Marco Lombardo mostrava il suo non valicabile limite. E, a suo tempo, lo si vedrà. 5. A questo principio deve tenersi fermo lo sguardo quando si considerino i due esempi, in ogni senso eccezionali o, se si preferisce, all’apparenza devianti dalla norma, che sono rappresentati dai casi del romano Traiano e del troiano Rifeo.35 Devianti dalla norma essi si rivelerebbero se la considerazione che se ne fosse fatta avesse condotto alla conclusione che fu il riconoscimento che Dio diede alla loro virtù a determinare la decisione di assegnarli entrambi al Paradiso, non senza aver prima provveduto a far sì che tutto fosse in regola, e che rispettata fosse la norma che vietava l’entrata a chi non avesse avuto diretta esperienza della sua parola. Rientranti invece in quella se si fosse osservato che sì, il Paradiso era stato da essi meritato per la pietà di cui avevano dato segno nella loro vita terrena, salvo che alla radice di tutto questo doveva pur sempre vedersi la volontà di Dio che non era stata vinta dalla loro virtù se non nel senso che era stata essa a volerlo essere. Come stanno le cose? A quale di queste due ipotesi si deve dare la preferenza? In realtà, per quanto siano presentati come entrambi segnati dall’eccezione, i due casi non presentano lo stesso carattere. La salvezza di Traiano fu bensì, com’è ovvio, opera della volontà e della decisione di Dio. Ma a far sì che queste intervenissero, e, tratto fuori dell’Inferno, dove si trovava, l’imperatore romano fosse restituito alla vita in modo da poter concluderla da cristiano ed essere inviato in Paradiso, furono le preghiere di san Gregorio che, impressionato dalla pietà dimostrata dall’imperatore romano, aveva ottenuto che Dio le ascoltasse e esaudisse il suo desiderio. La salvezza di Rifeo dipese invece dalla diretta impressione che le sue qualità morali e la indefettibile ricerca della giustizia alla quale aveva dedicata la sua vita avevano prodotta in Dio, che provvide, lui, ad aprirgli «l’occhio ala nostra redenzion futura» rendendolo consapevole della verità cristiana e della falsità della sua precedente religione.
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Dov’è la differenza? Sembrerebbe che fra le due situazioni non se ne desse alcuna, e che i due casi fossero tali da poter essere riunititi sotto il medesimo segno. E invece non è così. Se nel caso di Traiano furono le preghiere, come si è detto, di san Gregorio ad attrarre su di lui l’attenzione di Dio, in quello di Rifeo fin dalle origini aveva operato la grazia, e poi ancora la grazia36 che Dio gli aveva elargita. Fin dall’inizio, in questo caso, il gioco era stato condotto, in modo esplicito, da Dio; che, certo, poteva ben dirsi che anche nell’altro fosse stato lui a condurlo, facendo sì che Gregorio pregasse e le preghiere agissero su di lui persuadendolo ad accorrere in soccorso dell’Imperatore: salvo che, se in un caso, quello di Rifeo, fin dall’inizio Dio appariva come il protagonista di una decisione e di un’operazione eccezionali, descritte in versi di studiata potenza,37 nell’altro si presentava come chi perfezionava quel che era stato cominciato da altri. Può sembrare una differenza da poco, e il notarla un’inutile sottigliezza. Ma non è così. In un caso, quello di Rifeo, era Dio che decideva che la regola fosse reinterpretata e adattata al caso di un infedele che, di fatto, era come se venisse cristianizzato; e perché questo accadesse solo a lui era noto, a lui che aveva voluto che quello agisse da cristiano e anche sapesse della «redenzion futura». Nell’altro era una preghiera ad aver richiamata la sua attenzione e ad averlo spinto verso quella soluzione. Insomma, ponendo questa alternativa, o, piuttosto, subendola, Dante aveva mostrato di non esser riuscito a tener fermo, e a non smarrire, l’arduo concetto che viveva infatti, nella sua mente, una difficile vita. C’era riuscito in virtù della sua straordinaria capacità espressiva e del talento che, solo a lui appartenendo in quella forma, a lui solo consentiva di esprimere con tre parole un arduo concetto filosofico e teologico. Ma il filo logico non era rimasto intatto, si era spezzato. A tal punto che, di tutto questo forse avvertendo il disagio, si premurò di farsi spiegare dall’Aquila che «di corpi suoi» quei due personaggi non erano usciti «gentili, ma cristiani, in ferma fede/ quel di passuri e quel di passi piedi» (vv. 103-105),38 e che Dio, in sostanza, era stato un fedele osservatore del divieto che egli stesso aveva posto. Sono, questi ultimi, versi di tale artificiosità, che, come non giovò all’arte, così non indirizzò il concetto sulla via del rigore. L’accenno che contengono al sacrificio di Cristo sulla croce, perché avrebbe reso cristiano il corpo di Rifeo, e non quello di tutti gli uomini per la cui redenzione era stato compiuto? Si apriva in realtà, a questo punto, un problema al quale era impossibile che, in termini di teologia cristiana, si desse una plausibile soluzione che, senza poter essere tale, chiamasse in causa l’imperscrutabile giudizio divi-
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no. Che rapporto si dava fra il sacrifico di Cristo, rivolto alla salvezza del genere umano, e la differenza mantenuta fra questa, che a tutti era diretta, e la giustizia divina che salvava ma, per un altro verso, condannava? E perché, restando al caso dei due personaggi che qui sono in questione, – perché Dante li assunse come se, per questo riguardo, il loro fosse stato lo stesso caso, quando dalle sue stesse parole risulta netta la distinzione fra Traiano che, dopo l’avventura della morte e della resurrezione, da cristiano aveva posto fine alla sua seconda vita, e Rifeo che dal paganesimo non era uscito mai, del cristianesimo era stato ignaro e tuttavia fu salvato per aver vissuto come se l’avesse conosciuto? Dante ritenne tuttavia di aver fornito alla decisione divina di assegnarli entrambi al Paradiso la giusta ragione; e non considerò che, in questo punto, la sua coerenza stava subendo il contraccolpo del suo contrario: l’unica ragione che della decisione divina potesse e dovesse essere addotta era, infatti, quella decisione stessa, ossia la libertà di Dio che, essa sola, è causa e altro non richiede. Il paradosso era, a questo riguardo, che non si dava ortodossia alla quale Dio dovesse, o egli stesso sentisse di dover essere richiamato. Era la volontà di Dio a stabilire il giusto ordine e la ragione ortodossa; che a quello perciò non poteva essere imposta. Un pagano convertito al cristianesimo e un pagano, naturaliter cristiano, mai entrato con piena coscienza nella vera religione, erano stati chiamati a contribuire alla formazione del ciglio dell’Aquila. La ragione del fatto era nel fatto, originariamente voluto da Dio. Cercarne una che tale fosse per l’intelletto umano, che l’Aquila aveva definito «corto d’una spanna», era un evidente controsenso. 6. Si è detto che all’altezza di questo concetto, che decisamente andava oltre l’idea delle due volontà, quella dell’uomo, quella di Dio, in potenziale conflitto, e in quest’ultima indicava l’autentico soggetto di ogni possibile scelta, non sempre Dante seppe mantenersi. Nel trattare la questione della volontà divina e della libertà umana fu al concetto della prima che, facendo nel Paradiso parlare l’Aquila, egli tenne fermo. Ma non senza che, come si è visto, a tratti la linea della coerenza piegasse verso il basso, e alla volontà divina si assegnasse una ragione riconducibile a quella degli uomini e spiegabile alla luce di questa. Nell’accenno che qui su è stato fatto alla sua idea della fortuna, si è detto che, lungi dall’essere libera rispetto al volere di Dio, di questo era invece l’estrosa, ma fedele, interprete: anche nel suo caso, infatti, quel che da essa procedeva andava «oltre la difension d’i senni umani»39 e lasciava trasparire il volto di Dio. Dell’ordine divino, essa,
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infatti, era parte. Nell’esserlo, si rivelava come «general ministra e duce» preposta «ali splendor mondani»; e il compito, affidatole da «colui lo cui saver tutto trascende», era che permutasse «a tempo li ben vani, di gente in gente e d’uno in altro sangue,/ oltre la defension de’ senni umani,/ per ch’una gente impera e l’altra langue,/ seguendo lo giudicio di costei,/ che è occulto come in erba l’angue».40 Il «giudizio di costei» non era, d’altra parte, se non quello che Dio le aveva ispirato e le imponeva di realizzare. Nell’interpretazione dantesca, essa si presentava perciò come la fedele esecutrice della giustizia divina: un’esecutrice che, in tanto recava in sé il segno della variabilità che imponeva alle cose umane, in quanto variarle significava, o poteva significare, ridistribuire fra ricchi e poveri i beni mondani e realizzare un compito, che non a irrazionalità era ispirato, bensì a giustizia. Ma quel che al senno umano appariva come imprevedibile e capricciosa bizzarria, non era se non il giudizio di Dio che in quella forma impropria appariva all’occhio umano, incapace di discernerne il fondo. A tal punto, in effetti, l’azione della fortuna era dipendente dal volere di Dio che, nella rappresentazione dantesca, è ben vero che il suo segno appariva deformato, salvo che il suo volto si presentava tuttavia segnato da un carattere opposto a quello consueto nelle varie rappresentazioni che ne erano state date, non solo nella cultura antica, ma anche in quella medievale e cristiana.41 Era quello, in effetti, non di una semidivinità cieca dinanzi ai drammi a cui dava l’avvio e sorda ai lamenti che si levavano dalla rovina di uomini e cose, ma di una beata esecutrice di ordini divini, intenta a «volve[re] sua spera» e a godere di sé stessa. È lo stesso concetto di alta e imperscrutabile giustizia politica e sociale che Dante riprenderà nei canti decimosesto e decimosettimo del Paradiso, dove, a enunziarlo sarà Cacciaguida: salvo che lì il discorso si sarebbe svolto su due piani, in due tempi, e tenendo insieme due diversi concetti. Di essi il primo era volto a definire la legge intrinseca alle cose umane, che si affermano nel mondo e poi, più o meno rapidamente, si disfanno e scompaiono, perché «le vostre cose tutte hanno lor morte, sì come voi […]. E come ’l volger del ciel dela luna/ cuopre e discuopre i liti sanza posa,/ così fa di Fiorenza la Fortuna».42 Il secondo era diretto a porre in rilievo il carattere di giustizia sociale che si era rivelato nell’azione di Cangrande della Scala, dal quale, come se fosse lui la fortuna, «fia trasmutata molta gente,/ cambiando condizion ricchi e mendici».43 Anche nella rappresentazione che Dante fece della fortuna, cristianizzandola e ponendola al servizio del volere divino, lo spazio riservato a quello umano si confermava assai stretto, e non tale comunque da poterla contrastare e
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deviare dal suo corso, che era di necessaria decadenza dopo che il culmine fosse stato raggiunto. La sua opera si svolgeva «oltre la defension de’ senni umani», sì che «vostro saver non ha contrasto a lei»,44 il cui potere «è occulto come in erba l’angue», e, non diversamente dagli individui, niente potevano opporle le città, alle quali essa concedeva un tempo che valeva quanto quello della marea che, toccato il suo culmine, si ritira e non è che una metafora della vita che cede il passo al sopraggiungere della morte. Se questo, dunque, era il modo in cui Dante rappresentò, in veste cristiana, la pagana fortuna che, nel suo accadere non è mai nuova a sé stessa, perché il suo accadimento è stato assegnato da Dio a una regola inscritta nella natura infallibile delle cose, non si incontra nessuna difficoltà a far rientrare queste considerazioni nel quadro che egli delineò della volontà divina che non può non vincere sempre, e se appare nella forma dell’esser vinta è perché tale ha voluto essere, sì che, come si vide, vinta, vince. La fortuna non ha il compito di introdurre l’accidentale nel quadro del necessario. Necessario e non accentale, è quel che sembra avere questo carattere, che è anch’esso un momento della volontà divina. 7. Non senza difficoltà, invece, da queste considerazioni si passa al grande dialogo che, nel canto decimosesto del Purgatorio, Dante intrecciò con Marco Lombardo. Il dialogo si svolse nel girone dei superbi, invaso da un fumo nero che a chi vi si era immerso impediva così di vedere come di esser visto. Ma come quel fumo rinviava alla passione mondana da cui gli abitanti di questa balza del monte erano stati dominati in vita, così può anche esser visto come un indizio della natura del dialogo che Dante stava per intrattenere con una di queste anime. Dopo avere a lungo indugiato su questioni teologiche, riguardanti la volontà divina, quella umana, la grazia e la salvezza, questo fu un dialogo tutto e per intero politico; e a dominarlo, come si sa, è un tema che alla riflessione politica dei due interlocutori non poteva non essere, e non esser stato, familiare. Riguardava, infatti, la sorte delle città che sorgono, s’innalzano e vigoreggiano, ma poi ineluttabilmente decadono, sì che non è ragione di meraviglia che questo sia il canto della decadenza, e abbia un legame assai stretto, non solo con quello in cui Dante ascoltò da Guido del Duca il lamento per la sorte delle famiglie e delle città romagnole, ma anche con il secondo dei tre canti di Cacciaguida. Chi legge questi canti allo scopo di seguire il filo teorico che Dante intessé e formò meditando sui temi della grazia, del libero arbitrio, della predestinazione, e non è tuttavia così ingrato alle muse da non esser di continuo
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colpito dallo strale d’oro della poesia, deve anche avvertire che, per quel che il suo parere conti, Marco Lombardo non vale Guido del Duca: nel sedicesimo canto non si è fermati da parole come quelle che si leggono, per esempio, in Purgatorio XIV 124-126. Ma per il modo in cui il tema della libertà del volere è intrecciato e messo a confronto con quello del vario condizionamento che esso riceve e subisce dalle stelle, e per l’energia con la quale la prima è rivendicata e del secondo si tenta la svalutazione, è innegabile che il canto decimosesto contenga motivi di interesse tanto più grandi quanto più, oltre che alla sua interna coerenza, si guardi al modo in cui si pone, o non si pone, in relazione con i canti decimonono e ventesimo del Paradiso. Il passaggio dalla riflessione teologica che ha luogo in questi ultimi a quella per intero politica svolta da Marco Lombardo non è tuttavia agevole, perché nei canti teologici non si allude alla politica, in quelli politici non si allude alla teologia. Ma nell’uno e negli altri agiscono tuttavia i medesimi soggetti: la volontà divina che sta dietro all’attività della natura e delle stelle, la volontà umana che, nei canti teologici, non regge alla prova e soccombe dinanzi alla volontà e alla decisione di Dio, sì che non è certo perché s’intenda turbarne il carattere inserendovi il tema politico, e in questo inserendo quello, che si ritiene di doverli porre, tuttavia, a confronto. 8. Il confronto è imposto dalla differenza. La storia dell’incontro di Dante con Marco Lombardo si racconta in brevi parole, l’unico tratto che meriterebbe forse un breve indugio essendo costituito dalla particolare situazione in cui le anime degli iracondi si trovavano sulla balza che le ospitava. Circondati dal denso fumo che li avvolgeva in modo che all’uno non era concesso di vedere l’altro, anche nei confronti di Dante questa situazione si ripeté, anche a lui il fumo impedì di vedere, tanto che fu Marco ad avvertirlo che «se veder fummo non lascia,/ l’udir ci terrà giunti in quella vece».45 Il contrappasso era chiaro. Ma forse non si perverrebbe al fondo del suo significato se non si avvertisse che, come riguardava le anime che su quel girone si emendavano del peccato che aveva segnata la loro vita, così, e in quel momento non meno, riguardava colui che da vivo era pervenuto fin lì. Marco Lombardo non vedeva Dante. Dante non vedeva Marco Lombardo, così come, nelle città dilaniate dal risentimento provocato dall’ira e dalle nefaste passioni che l’accendevano e ne conseguivano, i cittadini non riuscivano l’uno a vedere l’altro e entrambi a non vedere della città «almen la torrre».46 Il preambolo allegorico conta meno della lamentatio a cui la situazione in cui erano venuti a trovarsi in quel fumo che non
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consentiva all’uno di vedere l’altro, dette luogo. È evidente che nel contrapasso, Dante coinvolgeva anche sé stesso e la sua tendenza all’ira. Notevole è perciò la rapidità con cui ogni indugio fu soppresso, ed egli entrò in argomento. Quando, dall’ombra che a stento intravvedeva attraverso il fumo che l’avvolgeva, apprese che il personaggio che gli stava di fronte era nato lombardo, era stato chiamato Marco e aveva coltivato ideali ai quali nessuno più tendeva il suo arco, Dante capì subito di che natura dovesse essere il discorso che conveniva rivolgergli. E lo disse con una forte espressione, dopo aver assicurato all’anima che gli stava di fronte che, come quella gli aveva chiesto, avrebbe pregato per lei. «Ma io scoppio/ dentro a un dubbio, s’io non me ne spiego:/ prim’era scempio, e ora è fatto doppio/ nela sentenza tua, che mi fa certo/ qui, e altrove, quello ov’io l’accoppio./ Lo mondo è ben così tutto diserto/ d’ogne virtute, come tu mi suone,/ e di malizia gravido e coverto,/ ma priego che m’addite la cagione,/ sì ch’io la veggia e ch’io la mostri altrui;/ ché nel cielo uno, e un qua giù la pone» (vv. 53-63). Il tema era stato enunziato con forza, forse anche con qualche dottrinaria ingenuità, visto che Dante accennava ai due diversi concetti messi in campo per spiegare la corruzione che stava sotto gli occhi. Era, tuttavia, interamente politico, volto a ribadire una preoccupazione che fin dall’inizio era stata dichiarata dall’uomo che, uscito vivo dalla selva, non aveva potuto intraprendere la scalata del colle perché a impedirglielo erano state le tre fiere che, apparsegli davanti, gli avevano sbarrato il cammino. A impedirglielo era stata soprattutto la lupa che, simbolo della cupidigia, si era impadronita del mondo, sì che soltanto dall’intervento del Veltro sarebbe stata vinta e ricacciata nell’Inferno, dal quale era venuta fuori. Il tema della decadenza che gravava sul mondo era stato enunziato subito, conferendo al poema che stava per aver inizio una destinazione, oltre che teologica, politica. Il lamento sulle tristi condizioni di Firenze e dell’Italia era risuonato a più riprese nei canti dell’Inferno. Varie ne erano state le tonalità. Diversi per valore i personaggi attraverso i quali la passione politica aveva trovata la sua espressione: da una parte, per semplificare, il magnanimo Farinata, da un’altra il bestiale Vanni Fucci. Ma sono cose troppo note perché valga la pena di ricordarle e di passarle in rassegna. Resta piuttosto da dire che la passione politica non si era mai innalzata nell’Inferno fino al segno che ora Dante indicava chiedendone a Marco Lombardo. Qual era la ragione di tutto questo? Perché il mondo appariva deserto di ogni virtù? La domanda era stata presentata in modo schietto e diretto. Sembrava riassumere in sé, e dare la definitiva espressione a quelle che via via erano risuonate
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durante i colloqui intrattenuti con le ombre dell’Inferno e del Purgatorio. E a renderla più urgente e bisognosa di una risposta certa, era la diversità delle risposte che a essa si davano nel mondo. Ispirata a una sorta di stupita meraviglia, quella di Marco Lombardo fu tagliente: «frate,/ lo mondo è cieco, e tu vien ben da lui». La interpretò, quindi, andando persino oltre la sua lettera, perché Dante aveva bensì chiesto che gli fosse spiegata la «cagione» della decadenza, ma non l’aveva indicata, come nella sua risposta Marco diceva, né nel cielo né altrove. Perché il discorso potesse avere inizio, Dante aveva tuttavia bisogno che la sua domanda fosse interpretata come se, nel formularla, egli avesse chiamato in causa il cielo e le sue, si dica così, responsabilità obiettive, come se alla domanda avesse, in effetti, data lui la risposta. Si era determinato perciò un piccolo equivoco che, nato dalla passione da cui il personaggio era agitato, gli aveva fatto credere che, come il più degli uomini, Dante facesse risalire al cielo responsabilità che erano soltanto umane. Dante, tuttavia, aveva bisogno che le cose fossero messe in questi termini e l’equivoco avesse luogo. Aveva bisogno che, più che una domanda, Marco Lombardo si trovasse di fronte una tesi contro la quale gli fosse dato di svolgere il suo argomento; che si svolse, in effetti, attraverso la negazione che al cielo potesse imputarsi quel che bene sarebbe stato attribuito alla responsabilità umana, e a essa soltanto. 9. La risposta che Marco Lombardo aveva data alla domanda di Dante occupa l’intero canto; e si articola attraverso lo svolgimento di quattro momenti. Il primo, di natura filosofica, ha carattere introduttivo: riguarda il «libero voler» che emerge vittorioso dal condizionamento dei cieli. Il secondo delinea la vicenda dell’«anima semplicetta che sa nulla» e che, mentre è lieta di tornare «a ciò che la trastulla», e cioè a Dio, entra nella vita e, questo è il terzo momento, «di picciol bene in pria sente sapore», e in ciò si inganna perché «dietro ad esso corre,/ se guida o fren non torce suo amore». Di qui, e questo è il quarto momento, la necessità che a questa tendenza si ponesse un freno con le leggi, e che vi fosse perciò un re «che discernesse/ dela vera città almen la torre». Così, in rapida successione, Marco Lombardo aveva delineato la storia dell’uomo dalla nascita al momento del suo necessario ingresso nella vita politica; che, a differenza e integrazione di quel che era stato detto nel quarto trattato del Convivio, si rivelava tanto più necessaria quanto più la natura umana mostrasse, con la sua debolezza, la tendenza a perdere sé stessa. Può discutersi se la «vera cittade» sia, come sostenne Bruno Nardi»,47 l’agostiniana civitas Dei, o se,
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più genericamente, la sua torre sia il simbolo della giustizia che di una che sia bene amministrata rappresenta l’essenza più profonda. Sono, in realtà, indicazioni da non accogliere senza sottoporle a esame. Non c’è niente, nel discorso di Marco Lombardo, che induca a pensare che il suo riferimento fosse a una città divina, e non umana. Considerando, invece, che qui si parla di «rege», e non di imperatore, sembra giusto intendere che la torre della vera città, dunque di Roma, sia quella dell’Impero, vista da lontano, cioè dal punto di osservazione di un re particolare che sia, tuttavia, virtuoso abbastanza da non chiudersi nella sua particolarità, ma da trascenderla guardando alla città, ossia all’Impero, a cui, se virtuosi, i re debbono dirigere lo sguardo. Che, tuttavia, nella legge che pone un freno all’inclinazione al male sia all’opera un tema agostiniano, sembra indubitabile, anche se non altrettanto cupa e pessimistica si presentasse in Dante l’idea dell’umanità. Sulla questione converrebbe perciò fermarsi con più attenzione se si trattasse di fare, o di rifare, sui testi, la storia del suo pensiero politico, che qui offre comunque alcuni fra i suoi temi fondamentali: non solo l’inosservanza delle leggi («le leggi son, ma chi pon mano a esse»), ma, soprattutto, la congiunzione della «spada» con il «pasturale», del potere politico con il potere della Chiesa che, poiché il primo è vacante, essa vi penetra usurpandolo e corrompendolo. E qui, finalmente, torna a emergere il tema principale del discorso. Dice Marco Lombardo: «ben puoi veder che la mala condotta/ è la cagion che ’l mondo ha fatto reo,/ e non natura che in voi sia corrotta» (vv. 103-105). La spiegazione di quel che qui è definito come «corruzione», si trova nei versi, 67-81, che espongono la teoria del libero arbitrio. Converrà citarli: «voi che vivete ogne cagion recate/ pur suso al ciel, pur come s’e’ tutto/ movesse seco di necessitate./ Se così fosse, in voi fora distrutto/ libero arbitrio; e non fora iustizia/ per ben letizia, e per male aver lutto,/ Lo cielo i vostri movimenti inizia;/ non dico tutti, ma, posto ch’i’ ’l dica,/ lume v’è dato a bene e a malizia,/ e libero voler: che, se fatica/ nele prime battaglie col ciel dura,/ poi vince tutto, se ben si notrica./ A maggior forza e a miglior natura/ liberi soggiacete; e quella cria/ la mente in voi, che ’l ciel non ha in sua cura» La cagione del male è, dunque, negli uomini che, dotati di libero arbitrio, alla cui maggior forza e miglior natura, liberamente soggiacciono, di quello tuttavia non fanno uso e lasciano che il mondo sia preda della corruzione che vi penetra da ogni parte e lo corrompe. La rivendicazione del libero arbitrio, che tanto più è dichiarato patrimonio degli uomini quanto più, in determinati momenti, essi rinunziano a servirsene e si piegano al
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male, aprirebbe un delicato problema se di quel che si asserisce si cercasse la ragione; che dovrebbe essere trovata nella stessa natura umana che, disponendo del libero arbitrio e potendo agire in modo conforme alla sua regola, tuttavia se ne priva, oppure se ne serve sì, ma per dar corso alle perverse passioni che corrompono il mondo. Se, dotati di libero arbitrio, gli uomini se ne servivano talvolta per compiere opere virtuose, altre volte per dirigerle sulla via del male, è evidente che alla radice di questa radice era all’opera una forza ora buona, ora perversa, che orientava nell’una o nell’altra direzione; e di questa che di esso era o esaltazione positiva o corruzione, la ragione stava, non nel libero arbitrio, ma in ciò che lo esaltava o lo corrompeva. La questione che, incombendo sulla pagina, non è mai, tuttavia, messa a tema, riguardava l’alternativa del bene e del male, riguardava il perché della scelta che si fosse fatta e si facesse dell’uno oppure dell’altro; e si presentava in modo da tenere celate in sé le ragioni per le quali a epoche di buon governo e di felice vita tenevano dietro i tempi di ferro che Marco Lombardo, e Dante con lui, bene avevano conosciuti, conoscevano e erano concordi nell’aspramente deplorare. La rivendicazione del libero arbitrio, con le stelle che danno l’inizio, ma non più che l’inizio, alle azioni umane, che ne vengono perciò esaltate nella loro libertà, poneva il problema del bene che ne derivava e del male che a volte ne prendeva il posto; e alla domanda che ne nasceva non ci sarebbe stata risposta se la si fosse cercata in questa qualità umana, che ora procedeva per una via e ora per quella opposta e non forniva la ragione dell’una né dell’altra. Il libero arbitro, che all’uomo dovrebbe consentire di vivere secondo virtù e di tenere lontano il male, faceva sì, o quanto meno non era in grado di impedire, che talvolta, e al contrario, fosse il male a condizionarlo: donde la decadenza dei costumi che è essa, essenzialmente, a fornire la materia alla nobile lamentatio di Marco Lombardo. Il quale di questo si occupa nel suo discorso, e non della capacità umana di formare la storia e di esserne essa la protagonista: di questo, e cioè della forza oscura che al libero arbitrio talvolta sottraeva la capacità di orientare le cose umane lungo la via del bene. Che poi, in una parte di sé, Dante pensasse che dai buoni costumi derivassero le buone politiche e fossero queste a prender posto nel mondo, è innegabile: anche se altrettanto lo sia che, quando il suo occhio mentale si volgeva a questa materia, invariabilmente ad apparire a lui, che teorizzava il reggimento imperiale, la cui iurisdictio terminatur Oceano solum,48 era il lineamento di una piccola comunità virtuosa, dedita al ben vivere quanto era estranea alla politica che, anche a lui, appariva con ca-
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ratteri opposti a quelli offertigli dal presente. Insomma, la tendenza del suo spirito era, quando la delineava nella sua mente e vi rifletteva, a trarsi fuori della vera politica, che anche a lui appariva con i tratti ferini che la realtà dei suoi giorni gli metteva sotto gli occhi, e che era emersa con i suoi tratti più crudeli nel canto di Guido del Duca.49 Era di retrocedere a un passato ideale che si era via via corrotto in un sanguinoso presente e di recuperarlo, sottraendolo a esso. La questione delle forze, umane o divine, che danno origine alla storia, con ciò era posta per essere, se non elusa, rinviata dal presente al futuro: anche perché, se il primo gli appariva insopportabile, agiva pur sempre in lui l’idea che a guidarla, a guidare, si vuol dire, la storia, era la mente non dell’uomo, ma di Dio, era la divina provvidenza che prima o poi avrebbe provveduto a rimettere le cose a posto, all’oggi sostituendo un diverso e migliore domani. Il lettore che nel canto cerchi, non la poesia, ma una risposta concettuale al problema della libertà umana e di quel che ne deriva, o non ne deriva, quando in questione sia la capacità che agli uomini debba riconoscersi di determinare e orientare gli accadimenti storici, si dichiarerà deluso, se in mente abbia la questione delle forze che si intrecciano nel determinare ciò che accade. Ma, se così fosse, o fosse solo così, il torto sarebbe certamente suo, sarebbe del lettore. La questione posta da Dante riguardava, infatti, non la capacità che agli uomini si riconosceva di orientare il corso della storia, che era, in quanto tale, opera di Dio e da niente avrebbe mai potuto essere deviato. Ma era bensì quella che essi avevano di mantenere quel che la mano della provvidenza avesse costruito nella loro civitas, nella civitas hominum: di mantenerla lontano dal male, oppure di lasciare che vi cadesse, com’era accaduto, ai suoi giorni, nella Romagna non meno che nella Toscana. «Ben v’ èn tre vecchi ancora in cui rampogna/ l’antica età la nova, e par lor tardo/ che Dio a miglior vita li ripogna:/ Currado da Palazzo e ’l buon Gherardo/ e Guido da Castel, che mei si noma,/ francescamente, il semplice lombardo» (vv. 121-26). Per il resto, il quadro della civitas politica delineato da Dante era quello che sempre si osserva nei suoi scritti in verso e in prosa, in volgare e in latino. La latitanza dell’Impero, la folle cupidigia della Chiesa, il decadere della moralità pubblica, la cui descrizione, ai vv. 115-145, raggiunge momenti di intensa poesia, erano essi il documento della corruzione. Ma che cosa l’aveva provocata? Il rischio che, leggendo, si corre, non è di dover constatare che a generare la corruzione era la corruzione, e che il problema della sua origine ricadeva insoluto su sé stesso? La straordinaria intensità poetica della lamentatio a
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cui Marco Lombardo aveva dato corso nella parte del canto che ha inizio col verso In sul paese ch’Adige e Po riga s’impone, senza dubbio, a chi legge. Ma non aiuta chi ricerchi la spiegazione del perché «la Chiesa di Roma,/ per confondere in sé due reggimenti,/ cade nel fango e sé brutta e la soma» (vv. 126-129): allo stesso modo che tale spiegazione la si cercherebbe invano nei versi finali, nei quali la curiosa disputa sul buon Gherardo e su sua figlia Gaia costituisce forse una variatio anedottica e, comunque, un mutamento di tono se, sul fondamento dell’antica glossa, in lei si vede la «mulier quidem vere gaia et vana», di cui si legge in Benvenuto.50 La poesia si riaccende nel bellissimo congedo che Marco Lombardo prese da Dante. «Dio sia con voi, ché più non vegno vosco./Vedi l’albor che per lo fummo raia/ già biancheggiare, e me convien partirmi/ – l’angelo è ivi – prima ch’io li paia./ Così tornò, e più non volle udirmi». 10. Se si potesse prescindere da quel che viceversa deve essere tenuto ben chiaro nella mente, e cioè che la libertà che Marco Lombardo esaltava nell’uomo aveva il suo campo d’azione nel ben vivere, e non nel determinare e guidare il corso delle cose storiche, lo spunto dottrinale offerto dai versi relativi al condizionamento astrale e al libero arbitrio che, nel riceverne l’influsso, non ne veniva tuttavia impedito nel suo esercizio e libero, dinanzi a sé, aveva il campo della sua affermazione, potrebbe esser definito «preumanistico».51 Potrebbe esser definito così, non per soddisfare il gusto, in sé più che discutibile, dei precorrimenti, ma per una più intrinseca e essenziale ragione. Come in certe celebrazioni umanistiche della dignitas hominis, nella parte centrale di questo canto si determinò una sorta di radicale semplificazione del campo storico. Da una parte, si dava infatti l’influsso astrale, nel quale può anche vedersi una variante di quel che lo stesso Dante aveva, come si è visto, chiamato «fortuna». Da un’altra, si dava l’azione umana, dalla quale, in ultima analisi, dipendeva se il corso delle cose prendesse un indirizzo o un altro, si orientasse verso il bene o verso il suo contrario. La differenza stava, tuttavia in ciò, che negli umanisti, comunque la rappresentassero, la fortuna era un ostacolo obiettivo, una forza irrazionale e ostile che si trattava di domare, di ricondurre nei limiti della ragione, di superare e di vincere. La questione che essi ponevano era perciò non solo morale, la coltivazione della virtù in luogo del vizio, ma anche politica, ossia riguardante una forza che al corso delle cose fosse stata in grado, essa e non la fortuna, essa e non la provvidenza, di imprimere il voluto indirizzo. In questi versi di Dante, più che un ostacolo, essa era
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invece, non solo una situazione iniziale, l’influsso astrale che dava l’avvio a un’operazione che, per il resto, si voleva che appartenesse per intero all’iniziativa umana. Era anche un condizionamento nel cui interno agiva la mente di Dio, del quale la natura è uno strumento. Rovesciando con le parole il senso della necessità di cui la libertà è prigioniera, rivolto agli uomini Marco Lombardo aveva esclamato: «a maggior forza e a miglior natura/ liberi soggiacete; e quella cria/ la mente in voi, che ’l ciel non ha in sua cura» (vv. 79-81); e del «libero voler» prima aveva affermato che «se fatica/ nele prime battaglie col ciel dura,/ poi vince tutto, se ben si notrica» (vv. 76-78). Per ragioni polemiche, di polemica, s’intenda, politica, Dante aveva, in questo canto, semplificato il quadro; e quanto più aveva insistito nel ridurre il peso del condizionamento astrale, di altrettanto aveva accresciuta la responsabilità del libero arbitrio, che duramente, per dir così, era stato da lui, posto dinanzi alla sua intera responsabilità. «Lo cielo i vostri movimenti inizia:/ non dico tutti, ma, posto ch’i’ ’l dica,/ lume v’è dato a bene e a malizia» (vv. 73-75). Se «’l mondo presente disvia/ in voi è la cagione, in voi si cheggia» (vv. 81-82), sì che, come Marco Lombardo aveva ammonito, «ben puoi veder che la mala condotta/ è la cagion che ’l mondo ha fatto reo,/ e non natura che ’n voi sia corrotta» (vv. 103-105). Certo, anche qui era presente la difficoltà che, in altri contesti, aveva prodotto il capovolgimento del discorso, e che Dante aveva cercato di vincere assumendo che, da Dio, la libertà subiva un condizionamento migliore di quello prodotto dall’influsso degli astri. La difficoltà in cui incorreva era tuttavia, e se si guarda bene, una seria e duplice difficoltà. La prima consisteva nell’ammissione di un condizionamento, quello divino, che per essere migliore di ogni altro, era pur sempre un condizionamento, e la libertà ne era limitata e messa in difficoltà. La seconda consisteva nella mancata considerazione che quella esercitata dagli astri non era attività indipendente dal volere di Dio, a cui tutto, direttamente o indirettamente, era sottomesso, così che parlare di più e di meno buono avrebbe dovuto, in una materia come questa, e alla resa dei conti, essere considerato impossibile. Nel v. 81 il «cielo» subiva perciò, nei riguardi del concetto che Dante ne aveva, e avrebbe dovuto tener fermo, una singolare transvalutazione, in ragione della quale, invece che come strumento della volontà di Dio, si presentava come un potere che delle cose umane si disinteressava e per questo poteva accadere che si ponesse, e anche tuttavia non si ponesse, in contrasto con la «maggior forza» alla quale, liberi, gli uomini soggiacevano. Non era, questa che in tal modo veniva alla luce, una situazione sulla quale fosse possi-
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bile sorvolare e non tenere invece fisso lo sguardo. Avveniva, in essa, che il cielo assumesse un volto diverso da quel che gli era proprio in quanto fosse considerato come uno strumento di Dio e sempre obbediente, perciò, al suo volere. Era come se, da cristiano, per un momento il suo volto fosse tornato a essere quello che era stato affisato dai pensatori antichi. Del che deve tenersi conto se si vuole che il testo conservi intera la sua problematica tensione, evitando, al contempo, che la semplificazione del quadro, operata da Dante per le suddette ragioni di polemica politica, si estenda a chi si trovi a doverla interpretare, inducendolo a trascurare ciò che fu lasciato in secondo piano e non ricondotto alla luce. Quando si legge il canto decimosesto del Purgatorio, non si può, infatti, non considerare la sua interna tensione, il contrasto che le idee che vi si incontrano, a proposito della «cagion che ’l mondo ha fatto reo», formano con quel che, in altri luoghi, Dante si era trovato a scrivere, non solo del libero arbitrio e della grazia, non solo di quello e della predestinazione, ma anche della guida provvidenziale della storia umana. È quindi alla sua complessità che deve guardarsi, con questo termine intendendo temi che si intrecciano, e pur confliggono, l’uno con l’altro, con la conseguenza che è un quadro più che problematico quello che viene fuori dalla considerazione che se ne faccia. Dobbiamo trarne ragione di meraviglia e, dinanzi a proposizioni concettuali che non riescono a coesistere e divergono, procedere con il metodo di chi, ogni dissonanza essendo ai suoi orecchi ragione di scandalo, si preoccupa che tutto sia ricondotto alla più ovvia armonia e «apparenti» siano dichiarate le contraddizioni, o le differenze, se troppo il primo nome suoni ostico? Certamente no, perché se, come pur è necessario, invece di essere lasciate là dove si trovano, le diverse teorie fossero messe l’una a confronto con l’altra, sarebbe difficile non convenire che la polemica rivendicazione del libero arbitrio e della sua sostanziale autonomia dal condizionamento astrale, richiede di essere definita nei suoi termini e, soprattutto, non estesa a criterio del rapporto intercorrrente fra la libertà dell’uomo e la volontà divina. Sarebbe fraintesa, infatti, se non si tenesse presente quel che si è detto, e cioè che la libertà rivendicata da Marco Lombardo era, non la forza che determina il corso delle cose, ma l’esercizio morale che salva le città dalla corruzione e le conserva immobili nella loro originaria semplicità (il modello è pur sempre l’antica Firenze di Cacciaguida, sobria e pudica, chiusa nella sua antica «cerchia»). Fraintesa sarebbe comunque anche se, per un altro, la si pensasse in grado di svolgere la sua efficacia nelle questioni relative alla salvezza degli infedeli e della predestinazione. Anche quando sembrava il
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contrario, la salvezza di un infedele derivava, infatti, non dalla sua libera volontà, ma dalla insondabile decisione divina; che, converrà ricordare quel che già si disse, era essa a volere vincitrice quella umana e sé stessa vinta. Nemmeno con la concezione che assegna le vicende della storia al piano provvidenziale disposto da Dio per il conseguimento di momenti essenziali della vicenda umana (la formazione dell’Impero romano, l’unità del genere umano richiesta dalla nascita di Cristo), nemmeno con quella le idee esposte da Marco Lombardo avrebbero trovato con facilità l’accordo; e si dica pure che non l’avrebbero trovato affatto quando a criterio di giudizio si fosse elevata la logica interna ai concetti danteschi. 11. Una considerazione, tuttavia, a questo punto dev’essere proposta. Non perché si stia cedendo alla tentazione di trovare a ogni costo, fra testi che vanno, o tendono ad andare in direzioni opposte, o diverse, l’accordo che fra essi non c’è, ma per la diversa ragione che il tema della storia e della sua formazione è, a guardar bene, quello a cui meno Marco Lombardo aveva rivolto la mente nella sua orazione de hominis libertate. Vi si è già accennato. Ma conviene insistervi. Agli uomini, nel suo discorso, competeva non di orientare la storia nella direzione imperiale che il pensiero politico indicava come la migliore fra le mete possibili. Ma di conservare la purezza dei costumi, di salvare e potenziare le regole del ben vivere impedendo che da giusto il mondo si facesse reo. Sotto questo punto di vista, non c’era necessariamente contrasto fra questa idea, che si definirebbe etica della libertà, e quel che nel quarto trattato del Convivio e nel secondo libro della Monarchia Dante aveva pensato quando si era posto il problema delle ragioni e delle forze che avevano condotto alla formazione dell’Impero romano. Non solo, in quei trattati, della libertà dell’uomo non si faceva questione, o non la si faceva nei termini del sedicesimo del Purgatorio, ma a esser messo in primo piano era l’orientamento provvidenzialistico del discorso concernente la formazione degli eventi, che apparivano perciò disposti in una prospettiva definibile come, non soltanto teologica, ma teleologica. Se degli uomini si parlava in quei due trattati era perché nelle loro azioni, si vedesse tuttavia riflessa la luce che a esse proveniva dalla divina decisione che la storia andasse in quel senso e che di quella essi fossero strumenti. Non risulta che fra le idee attribuite a Marco Lombardo e quelle presenti nel Convivio e nella Monarchia, si sia mai istituto un confronto; che deve, invece, esserlo, perché la differenza che, per certi non secondari aspetti, le divide, è netta e ben meritevole, perciò, di essere posta
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in rilievo. Sebbene, come si è detto, la questione riguardasse, non la formazione della storia, sulla quale, a rigore, si taceva, ma la conservazione in essa dei buoni costumi, il forte rilievo concesso al libero arbitrio sembrava autorizzare l’idea che essa fosse il risultato del libero agire umano, buono o cattivo a seconda che ispirato a bontà, o al suo contrario, fosse stato il suo orientamento. È vero che, poiché nell’introdurre il suo discorso, Marco Lombardo aveva escluso che ogni cosa dipendesse dalla «necessità» celeste e che al mondo non si desse la libertà alla quale, viceversa, gli uomini «liberi» soggiacevano, le sue parole potevano suggerire che a quella, alla libertà, fosse da attribuire quel che nella storia accadeva e che, per questo aspetto, il suo pensiero, che era pur sempre pensiero di Dante, confliggesse in modo grave con altre sue, non casuali, espressioni. Nel Convivio e nella Monarchia la storia era quale era voluta da Dio. Nel secondo di questi due trattati, i popoli apparivano ed erano guidati dalla sua mano a trionfare per poi alla fine decadere e lasciare il posto a quello romano che l’avrebbe condotta alla sua perfezione nel tempo segnato dalla nascita e dalla morte di Cristo. Gli individui che, Marco Lombardo aveva elevati a soggetti, e ai quali Dio non toglieva la libertà, ma la donava, nel trattato volgare, e in quello latino, apparivano con un assai diverso volto. Non erano, come si è detto, se non strumenti del suo piano provvidenziale, e sulla scena della storia recitavano bensì una parte da protagonisti, ma solo perché, per il loro tramite, quella pervenisse al fine a cui era stata destinata da Dio. Nei loro riguardi Dante provava rispetto, ammirazione e affetto. Ma quegli uomini non erano che strumenti, e vedervi altro sarebbe stato impossibile. Sono testi ben noti quelli nei quali questi concetti furono esposti. Ma riproporne alcuni gioverà al chiarimento della questione concernente il senso che lì Dante aveva assegnato alla storia; che non era determinato dal libero volere umano, ma da questo solo in quanto al suo interno operava la mente divina che determina e guida le cose umane disponendo essa i tempi e i modi del loro accadere. 12. Nel Convivio Dante aveva posto la questione se i Romani fossero pervenuti all’Impero mediante la forza o il diritto; e nel respingere la prima tesi e dare il pieno suo consenso alla seconda, l’aveva interpretata, a sua volta, nei più schietti termini provvidenzialistici. È vero che a IV iv 10-11 l’elezione divina del popolo romano all’«officio» imperiale era stata presentata come conseguenza del suo essere «dolce […] in segnoreggiando, e più forte in sostenendo e più sottile in acquistando», sì che, per un verso,
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era stata una preesistente virtù a determinare la decisione provvidenziale. Ma vero è anche che, alla fine, con un passaggio che rimase oscuro, ciò che aveva condizionato il giudizio e la scelta di Dio, era stato ricondotto nell’ambito dell’uno e dell’altra in modo che la causa divenne conseguenza: «onde non da forza fu principalmente preso per la romana gente, ma da divina provedenza, che è sopra ogni ragione». Dopo di che, citate le famose parole di Anchise, che torneranno nel secondo libro della Monarchia, il concetto della provvidenza come causa prima fu ribadito, e Dante poté asserire che, come è dimostrato da due «apertissime ragioni», «quella civitade imperatrice […] da Dio» ebbe «spezial nascimento, e da Dio […] spezial processo» (IV iv 12). La provvidenzialità dell’Impero fu confermata nel secondo libro della Monarchia con concetti di più elaborata qualità, perché, avendo preso a considerare la questione dal punto di vista della natura, a quanto per l’innanzi aveva detto Dante aggiunse che «illud quod natura ordinavit, de iure servatur: natura enim in providendo non deficit ab hominis providentia, quia si deficeret, effectus superaret causam: quod est impossibile». E, a ulteriore chiarimento, scrisse: Ergo ab hac providentia natura non deficit in suis ordinatis. Propter quod patet quod natura ordinat res cum respectu suarum facultatum, qui respectus est fundamentum iuris in rebus a natura positum. Ex quo sequitur quod ordo naturalis in rebus absque iure servari non possit, cum inseparabiliter iuris fundamentum ordini sit annexum: necesse igitur est ordinem de iure servari. Romanus popolus ad imperandum ordinatus fuit a natura; et hoc sic declaratur: sicut ille deficeret ab artis perfectione qui finalem formam tantum intenderet, media vero per que ad formam pertingeret non curaret, sic natura, si solam formam universalem divine similitudinis in universo intenderet, media autem negligeret; sed natura in nulla perfctione deficit cum sit opus divine intelligentie: ergo media omnia intendit, per que ad ultimum sue intentionis devenitur. Cum ergo finis humani generis sit aliquod medium necessarium ad finem nature universalem, necesse est naturam ipsum intendere.52
Non occorre che in questa sede si ripercorra l’intero iter della dimostrazione che qui egli offrì della tesi relativa al diritto che il popolo romano aveva conseguito di fondare l’Impero. Il punto che occorre mettere fuori questione, e tener fermo, è che «ille igitur populus qui cunctis athletizantibus pro imperio mundi prevaluit, de divino iudicio prevaluit».53 È altresì che il divino giudizio non derivò se non da sé stesso e dall’originaria decisione che l’Impero del mondo fosse affidato al popolo romano che, se era virtuoso e degno di vincere la competizione con gli altri popoli, era perché
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così Dio aveva voluto. Il che, sia detto per inciso, importava il capovolgimento della tesi che era stata sostenuta da Tolomeo da Lucca nel proseguimento del De regimine principum di Tommaso d’Aquino, ossia di quella secondo la quale furono le virtù dei Romani a far sì che essi fossero stati, da Dio, considerati degni di meruere imperium.54 Non furono dunque le varie e nobili qualità che l’occhio divino avesse osservate nelle sue azioni a determinare la scelta che ne fu fatta. Essa non fu determinata dall’apprezzamento che Dio aveva dimostrato della virtù romana. Fu questa piuttosto a conseguire alla scelta che, nel suo insondabile giudizio, ne aveva fatta con un atto che valeva quanto un atto di creazione, o, se si preferisce, di investitura. Se a un’ideale disputa relativa alle ragioni per le quali, come Tolomeo da Lucca avrebbe detto, Romani meruerunt imperium, anche Marco Lombardo avesse partecipato, ben più che una difficoltà avrebbe incontrata nel consentire alla tesi per la quale, in sostanza, l’Impero era stato conseguito sì dalla virtù romana, ma in quanto questa era stata resa tale da Dio, che aveva deciso di dare realizzazione, nel tempo, a quel che da sempre era nel suo giudizio. Gli sarebbe apparso che, per questa via, al libero arbitrio sarebbe stata tolta la parte essenziale. Ma di questo si è detto abbastanza, e, per questo riguardo, il discorso si può considerare chiuso. 13. Non fino al punto, per altro, che non resti da considerare con qualche attenzione la disarmonia che si era determinata nel pensiero di Dante, che ospitava sia l’idea secondo cui tutto accadeva per decisione di Dio, essendo già, ab aeterno, accaduto nella sua mente, sia l’altra per la quale il più deciso riconoscimento era invece dovuto al libero arbitrio. Questa disarmonia va accettata per come il testo della Commedia la presenta, evitando quindi di prodursi nei patetici esercizi con i quali si prova a far andare d’accordo idee palesemente contrastanti. È necessario, tuttavia, che, prima di dar mano a una rapida analisi di alcune occorrenze del termine, ci si fermi per esaminare una questione che, per quanto ovvia, non accade di vedere posta, nei commenti e altrove, con compiuta chiarezza. È quella che, non dichiarata in termini espliciti nel sedicesimo del Purgatorio, riguarda il rapporto che il libero arbitrio intrattiene con la volontà divina e con la provvidenza che la realizza. È quella che, una volta che sia stata delineata, e convenientemente considerati siano stati i suoi termini, non può non essere risolta indicando, nella seconda, il soggetto autentico della storia, troppo dispari essendo i termini che costituiscono il rapporto che la volontà umana intrattiene con quella divina. Quel rapporto, in effetti, non
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può dirsi che, propriamente, sia un rapporto. Comunque sia pensabile (e posto che lo sia), il suo concetto presuppone che i termini stiano l’uno di fronte all’altro e ciascuno goda quindi di indipendente autonomia. Ma se i suoi termini siano, da una parte la divina onnipotenza, e, da un altro l’umano libero arbitrio, è evidente che quest’ultimo non potrebbe non esserne compreso, sì che di costituire il termine di un rapporto gli sarebbe precluso. C’è un passo nell’epistola che, probabilmente nel 1310, Dante scrisse ai re e ai senatori d’Italia che, a questo riguardo, contribuisce a chiarire il senso di un rapporto che, solo per abitudine si definisce con questo nome e che, a rigore, tale non può esser definito. Nel luogo che ora conviene citare, e citare per disteso, Dante scrisse così: Nempe si ‘a creatura mundi invisibilia Dei, per ea que facta sunt, intellectu conspiciuntur’, et si ex notioribus nobis innotiora; si simpliciter interest humane apprehensioni ut per motum celi Motorem intelligamus et eius velle: facile predestinatio hec etiam leviter intuentibus innotescet. Nam si a prima scintillula huius ignis revolvamus preterita, ex quo scilicet Argis hospitalitas est a Frigibus denegata et usque ad Octaviani triumphos mundi gesta revisere vacet; nonnulla eorum videbimus humane virtutis omnino culmina trascendisse, et Deum per homines, tanquam per celos novos, aliquid operatum fuisse. Non etenim semper nos agimus, quin interdum utensilia Dei sumus; ac voluntates humane, quibus inest ex natura libertas, etiam inferioris affectus immunes quandoque aguntur, et obnoxie voluntati eterne sepe illi ancillantur ignare.55
Nella sua prima parte, il passo meriterebbe un commento che non può essere tentato in questa sede. Conviene, infatti, che l’attenzione resti concentrata sulle linee dedicate alla storia umana, nel lungo periodo che, dall’epoca remota in cui i troiani negarono l’ospitalità agli argonauti, provocarono l’intervento dei greci e offrirono il pretesto per la lunga guerra che alla fine distrusse la loro città, giunge fino alle imprese compiute da Ottaviano. Il passo che, nella parte relativa alla storia, si avvale di Virgilio, aen. 1, 372-373, è importante e significativo perché è, salvo errore, l’unico in cui Dante si sia, non solo messo di fronte al tratto di storia che dall’origine, o da un’origine, conduceva al suo momento supremo, che è quello in cui l’Impero romano raggiunse la sua perfezione e Cristo decise di venire al mondo per vivere la sua vita umana, ma anche interrogato sulle potenze che avevano contribuito a formarlo. Chiamò infatti in causa la libertà umana e la volontà di Dio; e disse che «non […] semper nos agimus, quin interdum utensilia Dei sumus», e cioé, come deve intendersi, che non sempre noi agiamo come autonomi
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soggetti, perché talvolta (interdum), nell’agire, non siamo se non strumenti (utensilia) di Dio. Ne consegue che le volontà umane, nelle quali la libertà è insita per natura, agiscono essendo scevre da passioni terrene e, soggette alla volontà divina (obnoxie voluntati eterne), ignare, la servono. In realtà, la tesi che Dante delineava è quella il cui documento si trova sia nel quarto trattato del Convivio sia nel secondo libro della Monarchia, nei quali l’avverbio interdum non compare mai a rendere meno netta la completa subordinazione delle azioni umane e dei loro soggetti al progetto provvidenziale, rispetto al quale questi ultimi non erano, in effetti, se non utensilia Dei. Soltanto se quel disegno fosse stato tracciato, sulla carta del pensiero, non, per altro, con mano ferma e con segni coerenti, ma in modo approssimativo, soltanto in quel caso l’interdum avrebbe potuto pretendere a una sua propria autonomia garantita da una soltanto intermittente presenza della volontà divina. Che è proprio il contrario di quel che avviene nei due trattati; nei quali, se la si intende come coerente attuazione della volontà di Dio, la storia è il soggetto di sé stessa nel senso che è l’oggetto del suo volere, e gli individui non sono che i mezzi di attuazione del suo progetto: sì che nemmeno potrebbe dirsi che ne sono schiacciati o guidati perché i soggetti qui non sono due, ma uno. Soggetto è infatti la volontà divina che per homines realizza sé stessa. Se quindi la si leggesse alla luce di queste considerazioni e, in un ideale dibattito, Marco Lombardo fosse chiamato a difendere la sua idea estensiva del libero arbitrio, anche per lui, che era un personaggio del mondo dantesco e apparteneva al suo universo concettuale, le cose non avrebbero potuto stare se non così. E l’avrebbe riconosciuto perché nei confronti dell’Impero romano non avrebbe potuto esprimere idee diverse da quelle del suo autore. La difesa del libero arbitrio si sarebbe perciò rivelata per quel che propriamente era e significava: una rivendicazione del principio etico per il quale la scelta del bene in luogo del male appartiene alla responsabilità umana e non può essere assegnato alla decisione divina che in luogo del primo si scelga il secondo. A questo stesso ordine di idee appartiene quella, fondamentale in Dante, per la quale la libertà non è se non «liber cursus voluntatis in actum quem suis leges mansuetis expediunt», con la conseguenza che «solis existentibus liberis qui voluntarie legi obediunt, quos vos esse censebitis qui, dum pretenditis libertatis affectum, contra leges universas in legum principem conspiratis?».56 Così, dopo che più volte il discorso era stato sul punto di incontrarlo, siamo tornati al punto fondamentale. La libertà di cui Marco Lombardo tesseva l’elogio, e di cui rivendicava la centralità nella vita umana, non era quella a cui era attribuita la determinazione e
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formazione dei grandi eventi della storia, ma l’altra che presiede alla scelta del bene e del male morale, dell’onesto e del disonesto vivere. Conviene che le due questioni non siano confuse: non perché, distinte essendo nella testa dell’interprete, quest’ultimo pretenda di vederle così anche in quella di Dante, ma perché, senza che egli l’abbia detto, anche in lui lo sono. La storia umana è storia sacra, diretta alla meta dalla mano di Dio. Ma l’uomo è libero di essere buono o cattivo, di vivere bene, oppure male, di far sussistere con i buoni costumi, o di far decadere, con i cattivi, quel che Dio ha voluto che fosse, senza comunque poter fare in modo che non fosse quel che in cielo era stato deciso che dovesse essere. «Però, se ’l mondo presente disvia,/ in voi è la cagione, in voi si cheggia; e io te ne sarò or vera spia» (vv. 82-84). Uno spirito malevole, ma non illogico, potrebbe, d’altra parte, osservare che anche la corruzione dei costumi trova la sua vera causa nel consiglio impenetrabile di Dio e nella sua decisione che, in determinati momenti, essa abbia luogo e trionfi. Ma a questa conclusione estrema, che pure era ben presente alla sua mente, Dante non volle dare espressione: perché il «nostro» libero arbitrio, diceva, non fosse spento. Marco Lombardo aveva attribuita la decadenza alla «mala condotta», non a ragioni di ordine obiettivo. Ma sarà Cacciaguida a mettere la questione nei suoi termini più rigorosi. Sarà lui a ricordare a Dante «come le schiatte si disfanno […] poscia che le cittadi termine hanno»,57 e che «molti sarebber lieti, che son tristi/ se Dio t’avesse conceduto ad Ema/ la prima volta ch’a città venisti».58 Sono parole che, nel suo racconto, Cacciaguida idealmente rivolgeva a Buondelmonte, ben sapendo che le cose erano andate in altro modo, perché «conveniesi a quella pietra scema/ che guarda il ponte, che Fiorenza fesse/ vittima nela sua pace postrema».59 14. I termini del problema non mutarono, ma si trasferirono tuttavia su un piano decisamente filosofico-teologico, nella parte iniziale del canto decimosettimo del Paradiso. Fu a questo punto che, nel pensiero di Dante, si determinò una difficoltà che egli aveva ereditata dalla tradizione filosofica a cui faceva riferimento e che non fu in grado di mettersi con chiarezza davanti agli occhi della mente e di risolverla indicandovi l’equivoco che le stava dentro. La difficoltà in cui si trovò impigliato riguardava la questione del rapporto che egli aveva stabilito fra, da una parte, l’onniscienza divina, in forza e in ragione della quale, i tempi sono tutti ricompresi in essa, che è eterna ed è rappresentata come il punto ideale della loro convergenza, da un’altra la sua eternità, che non può senz’altro essere considerata come la
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stessa cosa di quella. È una questione, se si abbia la pazienza di seguirla nel suo percorso logico, assai meno semplice del modo in cui la si trova per lo più esposta nell’esegesi. L’onniscienza divina, si dice nel testo, dipende da ciò che, Dio essendo come il punto ideale in cui tutti i tempi sono presenti, niente di quel che è accaduto, accade e accadrà può sfuggire al suo eterno atto conoscitivo. Compresenza dei tempi e onniscienza, in Dio, sono lo stesso. Il che, tradotto in più esplicite parole, significa che tutto quel che nel mondo accade nel segno della successione temporale, si raccoglie in Dio nel punto inesteso simboleggiante la sua eternità, e lì è conosciuto nel segno dell’eternità, non del tempo successivo. Ma è sicuro che possa dirsi così, e che, per giungere al fondo della questione, non ci si debba interrogare su quel che, al contrario, qui è dato per ovvio, e cioè che la conoscenza dei tempi passati, presenti e futuri possa essere assegnata all’eternità di Dio? È sicuro che eternità e conoscenza dei tempi siano l’una la condizione perché l’altra si realizzi, e non lo siano invece del contrario? La questione comincia a delinearsi se ci si interroga intorno alla possibilità che il punto inesteso simboleggiante l’eternità di Dio possa, in quanto eterno, ospitare i momenti del tempo successivo, il passato, il presente, il futuro, mantenendo il carattere che è proprio dell’eternità e che consiste nel suo non avere altro contenuto possibile all’infuori dell’eternità stessa, e non di altro. Se questo è il problema, e se, impostato così, lo è nel modo giusto, ne discende che fra l’eterno e il tempo non si dà alcuna possibilità di sintesi o anche, semplicemente, di coesistenza. L’eterno non può dividersi in parti perché, ogni parte non potendo non essere eterna, ogni parte è il tutto: il che, tradotto, significa che l’eterno non ha parti e, non avendole, impossibile è la pretesa che in lui siano inclusi il passato, il presente, il futuro, e che l’atto del suo essere eterno coincida con quello del conoscerli. Eternità e conoscenza dei tempi non coincidono, ma si escludono. Proprio il contrario di quel che, riprendendo la questione dalle fonti alle quali attingeva l’acqua della sua teoria, Dante sosteneva. Se quello che si è ottenuto è un effettivo chiarimento, si entri allora nei particolari del discorso dantesco: non senza aver prima posta la questione relativa alla possibilità che, da una parte, si dia l’eternità di Dio, al cui «punto» ideale tutti i tempi sono presenti, e da un’altra si diano i tempi che, a differenza dell’eternità, non stanno fermi, ma passano di continuo l’uno nell’altro. Se, come si deve, a queste due situazioni, e alla loro drastica differenza, si tiene fermo lo sguardo, ad apparire sarà la profonda frattura che, nel momento della creazione del mondo, e per effetto di questa, si era
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determinata nella realtà: immobile nella sua eternità, se la si contempla in Dio, in perenne movimento se la si osserva nei tempi che ripetono la loro vicenda. E, alla radice, la domanda relativa alla questione che, concepito come la stessa cosa dell’eternità, che è tale da non poter mai superare il limite segnato dall’eternità stessa, di creazione del mondo sia possibile parlare. Parlarne, posta la questione in questi termini, non era, e non avrebbe, in effetti, dovuto esser possibile. Ma all’idea della creazione del mondo, e del molteplice che ne costituisce il carattere, Dante tenne fermo: con la conseguenza che, posta la differenza sussistente fra eternità e tempo, questa fu ribadita ogni volta che, per rimediare ai problemi che ne nascevano, questo fu messa in relazione con quella, e non si riuscì a evitare che i tempi, passato, presente e futuro, si eternizzassero e il molteplice rifluisse nell’uno, perdendo sé stesso. Di qui, se anticipare quel che qui di seguito si dirà, è lecito, l’intrinseca impossibilità che la mente divina, o quella dell’anima beata che in essa legge quel che vi è scritto, entrambe incontrano a conoscere il futuro. Ammesso, senza concedere, che dall’eterno possa venir fuori qualcosa che non sia l’eterno stesso, resta che il suo atto conoscitivo non potrebbe, in ogni caso, esser altro che eternizzante: in modo tale che di una sua conoscenza, da parte sua, si confermerebbe l’impossibilità, e con questa quella relativa all’idea di un mondo, non eterno, ma creato. Del che, se a questo punto, una piccola digressione è lecita, si consideri che sarebbe strano pensare che la relativa questione non si fosse a più riprese affacciata alla mente di Dante, e con la stessa energia con la quale egli si industriò a ricacciarla indietro e a non parlarne. Ma indirettamente ne parlò. Ciascuno ha in mente l’elogio che, alla fine del decimo canto del Paradiso, Tommaso d’Aquino recitò di Sigieri di Brabante, con il quale si era misurato in una lunga e anche aspra polemica. A proposito del celebre elogio pronunziato da Tommaso molte cose sono state dette; e giustamente si è riconosciuto l’atto cavalleresco che Dante gli attribuì nel far sì che fosse lui a celebrare in Paradiso l’avversario di una vita. Ma il centro dell’episodio, narrato, non sembri superfluo notarlo, in versi stupendi, non sta in questo atto di cavalleria filosofica, non sta nella rievocazione de «la luce etterna di Sigieri,/che, leggendo nel vico deli Strami,/ silogizò invidïosi veri»,60 ma sta bensì in quelli che introducono l’episodio: «questi, onde a me ritorna il tuo riguardo,/ è ’l lume d’uno spirto che ’n pensieri/gravi a morir li parve venir tardo». Qui, in effetti, sembra delinearsi l’idea che così gravi, e ricchi di drammatiche conseguenze per la fede, erano i pensieri che passavano per la testa del filosofo brabantino che a lui parve tardo il morire.
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15. A Cacciaguida Dante aveva chiesto che gli spiegasse il senso delle «parole gravi» che gli erano state dette, a proposito della sua vita futura, «mentre ch’[…] era a Virgilio congiunto/ su per lo monte che l’anime cura/ e discendendo nel mondo defunto».61 Poiché, nel rispondere alla domanda, aveva esordito con parole filosoficamente impegnative (vv. 37-45), che richiedono di essere interpretate con cura, converrà tornare sulla premessa dell’intero discorso, e cioè sulla capacità che a lui era riconosciuta di vedere le cose contingenti prima che accadessero e prendessero forma affisando «il punto/ a cui tutti li tempi son presenti». Erano infatti parole impegnative: dalle quali, se si sta alla lettera del testo, si ricava che, nel rivolgersi alle cose contingenti, il suo sguardo le affisava in modo che il passato e il futuro si contraevano nel punto in cui quelli erano entrambi presenti e non si distinguevano secondo i modi consueti alla considerazione temporale: il passato non era passato, il futuro non era futuro, perché l’uno confluiva nell’altro e, coincidendo, entrambi si fermavano e, senza alcun divario, si rendevano presenti nell’eterno presente. Insomma, lo sguardo di Cacciaguida era tale che, ogni passato e ogni futuro, entrambi gli erano presenti. Nell’immobile specchio della sua mente, gli era perciò concesso di individuare, come se fosse presente, quel che sarebbe accaduto nella futura vita di Dante. Nell’eterno presente, in cui presente era il passato e presente era il futuro, a Cacciaguida era infatti dato di discernere ogni passato e ogni futuro: come non ebbe difficoltà a spiegare «con preciso latin» nei versi che, per altro, costituiscono il punto di maggiore difficoltà del suo discorso. E sul quale, dopo averlo già notato, deve di nuovo tornarsi. Nel «punto», che raccoglieva in sé le tre dimensioni del tempo, a dominare era il presente, che, lungi dal costituire la distinzione del passato e del futuro, li rivelava identici a sé, e non poteva perciò esserne la distinzione. A sé, infatti, riduceva il passato, che era perciò non passato ma presente; a sé riduceva il futuro che, essendo presente, non era il futuro. La conseguenza era che, per poter conoscere nel presente il passato e il futuro, sarebbe stato necessario che, invece di renderli presenti spogliandoli del loro essere il passato e il futuro, quello, il presente, li avesse inclusi, come tali, nel suo ambito, e di sé stesso avesse fatto il «punto» che, nella terzina dantesca, non vi coincide perché, al contrario, lo comprende nel suo ambito insieme al passato e al futuro. La questione riguardava perciò il «punto/ a cui tutti i tempi son presenti». Come si deve intenderlo? Si deve intenderlo, come un luogo ideale in cui il passato è presente, ma come passato, e il futuro, del pari, è presente, ma come futuro: come se, in altri termini, essi fossero,
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non mobili momenti del tempo, ma statici oggetti che una mano sapiente avesse disposti in un cerchio ideale, in cui, l’uno essendo diverso dall’altro, entrambi, tuttavia, fossero stati presenti allo spazio che li accoglieva? Oppure, e meglio, si doveva intenderlo come un luogo ideale in cui, sia il passato sia il futuro fossero entrambi presenti, con la conseguenza che, presenti entrambi al presente, non poteva dirsi che il passato fosse il passato, e il futuro fosse il futuro? Doveva dirsi che erano presenti in un presente che non ha passato, perché il passato gli è presente, e non ha futuro, perché il futuro anch’esso gli è presente? Ma nella situazione in cui il passato non è passato perché è presente al presente, e, per la stessa ragione, il futuro non è futuro, il presente a cui entrambi sono presenti non è una dimensione del tempo. È l’eterno che, perché è tale, non può né distinguere in sé tempi diversi (ogni tempo sarebbe infatti l’eterno, e non sarebbe tempo), né esser conosciuto da chi, per dar luogo a questa operazione, lo considerasse come un oggetto. In questo atto, infatti, lo perderebbe. La conoscenza non avrebbe luogo, perché l’eterno non è un oggetto. La questione allora è: perché, con le fonti a cui attingeva, nel rielaborare il suo concetto, a Dante accadde di porre la questione in questi termini? Quale necessità lo obbligava a pensare che la dimensione dell’eterno fosse tale da poter accogliere in sé, e in sé rendere presente, il passato, il presente e il futuro? Alla domanda si è già risposto chiamando in causa l’idea della creazione, che richiedeva, insieme alla distinzione dei tempi e il loro incessante trapassare, la molteplicità degli enti. È una questione che, indirettamente, e tuttavia, con chiarezza, emerge dalla terzina che in questo canto è segnata dai vv. 37-41. È una terzina difficile che richiede attenzione. I versi che la compongono suonano così: «la contingenza, che fuor del quaderno/ dela vostra matera non si stende,/ tutta è dipinta nel cospetto etterno:/necessità però quivi non prende/ se non come dal viso in che si specchia/ nave che per torrente giù discende». Conviene, nell’interpretarli, cercar di chiarire il senso che il termine «contingenza» assume nei due contesti, il «quaderno dela vostra matera»: ossia il mondo umano, da una parte, il «cospetto etterno», che la comprende in ogni suo aspetto, da un’altra. Esposto in pochi tratti, ossia con la consueta concisione, l’argomento non è infatti di agevole intelligenza, ed è esposto al fraintendimento. Del concetto, «contingenza», che aveva messo in campo, Dante non si preoccupò infatti né di dare la definizione, né di spiegarlo in modo compiuto. Ma fra contingenza e contingenza distinse, da una parte ponendo quella che si trova a essere per intero compresa nel
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«cospetto etterno» e, da un’altra, l’altra che, viceversa, è come racchiusa nello sguardo che riflette in sé lo spettacolo di una nave che «per corrente giù discende», e che della totalità non è più che una parte. Ne consegue che, mentre la contingenza che, per intero, è dipinta nel «cospetto etterno», si presenta nel segno di una necessità assoluta, a cui nulla può essere tolto, nulla può essere aggiunto, l’altra ha bensì lo stesso carattere, ma in un ambito, qual è quello della vista umana, senza paragone più ristretto, e tale da non esaurire la possibilità che, al di fuori di essa, vi sia altro. È vero dunque che dalla contingenza, che è per intero inclusa nel cospetto etterno, e dalla necessità che segna il suo non poter essere diversa da quel che è, non discende se non quella per la quale, all’occhio umano che segue il procedere di una nave lungo una direzione, questa è tale che, mentre è in atto, non può esser che quella. La differenza fra le due contingenze e fra le rispettive necessità, dunque, è netta. In sé stesse necessarie entrambe, a distinguerle è il carattere di totalità, ossia di realtà per intero compiuta, di quella che appare all’occhio di Dio ed è iscritta nel suo eterno «cospetto», di parzialità dell’altra che appare all’occhio dell’uomo. Ma questo non significa che la necessità ristretta che appare nel secondo caso sia tale da non pregiudicare la libertà umana. Il problema che riguarda quest’ultima e il suo concetto, qui non ha luogo, è assente, non entra nel gioco, sì che si corre il rischio del fraintendimento se lo si mette in campo. Quel che Cacciaguida intendeva dire è che, in relazione alla necessità assoluta, coincidente con lo sguardo stesso di Dio, quella che concerneva Dante e il suo destino stava a lui come a chi, nel guardare la nave dell’esempio, non poteva non osservarne la necessaria discesa lungo il corso del fiume su cui si trovava a navigare, che era quella e non poteva essere né deviata né, tanto meno, invertita, ma certo non esauriva in sé la realtà del mondo. La direzione era quella, quella era la sua necessità, inderogabile nel suo ambito; che, per altro, a differenza dell’altra che stava per intero racchiusa nel «cospetto etterno», e tutto includeva in sé, era tale che, a causa della sua parzialità, non escludeva che, al di fuori del suo ambito, vi fosse altro con la sua specifica, e determinata, necessità. Quella che riguardava Dante e il suo personale destino era, con ciò che le si connetteva, la sua necessità, limitata al suo caso e a ciò che ne costituiva il carattere. Nei suoi limiti, era tuttavia altrettanto inderogabile di quella che coincideva con il tutto, ne dipendeva e, allo sguardo di Cacciaguida, in tanto appariva come se già fosse accaduta in quanto, come ci è già noto, era opinione di Dante che alla mente di Dio, nella quale all’anima beata era dato di guardare, tutto appariva come se già
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fosse accaduto. Non si poteva certo dubitare che anche il destino di Dante fosse ab aeterno «dipinto» nel «cospetto etterno». Che cosa dunque ha a che fare, con questo ordine di questioni, la libertà? Il destino di Dante era segnato, niente poteva fare che quel che già, nell’ordine dell’universo e nella mente di Dio che vi coincideva, era accaduto potesse o non esserlo o essere revocato. «Da indi», ossia non solo dal «cospetto etterno», ma anche da ciò che era rappresentabile come il necessario procedere di una nave secondo il corso intrapreso, sarebbero ineluttabilmente derivate le sciagure che lo attendevano. 16. Conviene tuttavia, pur dopo quanto è stato detto, tornare sulla questione relativa al «punto/ a cui tutti li tempi son presenti»; e chiedersi perché, dopo aver notato che tutti sono presenti alla mente di Dio, invece di tener fermo al concetto del loro identificarsi nell’eterno e con l’eterno, Dante abbia seguitato a parlare di un passato che, eternamente presente all’intelletto divino, rimaneva tuttavia passato, di un presente che presente a questo intelletto, conservava il suo iniziale carattere che, a rigore non era quello che gli derivava dall’esser stato reso presente a quello, e, quindi di un futuro che, anch’esso presente all’intelletto di Dio, anch’esso conservava il carattere del futuro, distinguendosi perciò dal passato e dal presente. La distinzione era visibilmente artificiosa e, nel fondo, aporetica. Ma Dante non mostrava di essersene avvisto; e di questo c’era la ragione, che dovrà essere ricercata perché non tutto quel che si sarebbe dovuto è stato detto, e deve comunque essere ripreso e, se possibile, approfondito. Se ne riparlerà. Ma resta intanto da indagare la ragione per la quale, come anche Tommaso, Dante non avvertì la difficoltà che si sarebbe rivelata interna al rapporto stabilito fra l’eternità e la conoscenza a essa attribuita dei tempi passati, presenti e futuri. Si veda, per cominciare, nella Summa theol. 2 2, q.72 a.1 il passo da cui parrebbe che quello di Dante fosse stato ricavato: «praeconoscere autem futura, secundum quod sunt in seipsis, est proprium divini intellectus, cujus aeternitati sunt omnia praesentia», con il rinvio interno a 1, q.14, a.13. Che queste parole rivelino una difficoltà appare evidente se si considera che, fra l’idea della preconoscenza del futuro e quella secondo cui essa si realizza in virtù dell’eternità dell’intelletto divino, al quale i tempi sono presenti, non c’è concordanza, ma evidente contrasto. Chi conosce il futuro prima che si renda manifesto nel presente è dotato di una capacità che tanto più gli è necessaria in quanto, lungi dall’essergli presente, il futuro è il futuro. Che se, viceversa, fosse presente all’intelletto divino a causa dell’es-
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ser tale di questo, non sarebbe concepibile che esso dovesse preconoscerlo: lo conoscerebbe, infatti ab aeterno; e non, in questo caso, come futuro, ma, e qui sta la difficoltà che, in senso specifico, si dà vedere in questo modo di presentare la questione: come presente, come eternamente presente. Tommaso parlava infatti della presenza dei tempi nell’eternità di Dio, e con ciò intendeva che, in quel segno, gli uni fossero presenti agli altri. Intendeva tuttavia l’eternità come il luogo, per sé stesso immutabile, in cui i tempi erano contenuti nella distinzione che, nondimeno, egli pretendeva che intrattenessero, e qui stava la difficoltà, l’uno nei confronti degli altri: il presente era il presente e non il futuro che, a sua volta, non era il presente e non era il passato. Era, come già si è detto, un’idea difficile da sostenere. Se si sta al suo concetto, l’eterno non può contenere se non l’eterno, e dunque è impossibile che contenga alcunché che gli sia diverso e lo conosca come tale. Tommaso parlava anche di «preconoscenza» del futuro da parte di Dio che, nel conoscerlo, lo rendeva presente a sé, e con ciò intendeva che il futuro era il futuro e come tale era conosciuto. E qui, di nuovo, stava la difficoltà. Se l’atto conoscitivo di Dio consisteva nel rendere il futuro presente al presente, restava da capire quale possibilità si desse che esso conservasse il suo carattere alla conclusione di un atto conoscitivo che, mentre eseguiva sé stesso e perveniva alla sua meta, necessariamente trasformava secondo la sua immagine e identificava a sé quel che avrebbe dovuto conoscere nella sua e secondo la sua diversa natura. A sua volta, senza che la questione fosse riconosciuta nel suo tratto aporetico, e la differenza fosse intenzionalmente segnata, come Dante, anche Tommaso parlava, non di preconoscenza, ma di coincidenza dei tempi nel tempo senza tempo di Dio che, perciò, non aveva bisogno di far intervenire uno specifico atto conoscitivo per dar conto a sé stesso del futuro che, al pari del passato, era originariamente in lui e futuro, quindi, anche qui, non era: proprio allo stesso modo del passato che, reso presente, presente e non passato era anch’esso. Può sembrare una pura sottigliezza, spesa per dare consistenza a una distinzione evanescente quale sarebbe quella che si ponesse fra la conoscenza che a Dio era riconosciuta dei tempi al di sopra (super) dei quali stava il suo atto, e quella che, poiché coincideva con il suo esserne il loro «punto» d’incontro, conoscenza non poteva essere considerata se l’eterno non può comunque entrare in rapporto con altro, e qui con il tempo. Ma, posto, e non concesso, che lo sia, si tratta di una sottigliezza non inutile. Altro infatti è stare al di sopra dei tempi, che lì, dunque, stanno come passato, presente e futuro. Altro è identificarli nel punto inesteso della propria eternità, nella quale, se all’idea del
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punto e della sua indivisibilità si tiene fermo, è impossibile che stiano come tempi. Per Tommaso, che infatti parlava di «preconoscenza», in Dio c’era, presente al presente che lo conosceva, il futuro che, perciò, in questo senso, per un verso ne era ricompreso e, per un altro, se ne distingueva. Si veda, per esempio, quel che si trova nel terzo punto della lunga Conclusio dell’a.13: «ad tertium dicendum, quod ea quae temporaliter in actum reducuntur a nobis successive cognoscuntur in tempore; sed a Deo in aeternitate; quae est supra tempus. Unde nobis, quia cognoscimus futura contingentia, inquantum talia sunt, certa esse non possunt; sed soli Deo, cujus intelligere est in aeternitate supra tempus». È evidente, dunque, che, in Dio i tempi non erano risolti nella sua eternità: stavano, infatti, e scorrevano sotto di essa, che in tanto li conosceva in quanto, nel sovrastarli, si atteggiava come uno sguardo diretto a quel che in essi si disponeva secondo la diversa misura del prima e del poi. Che questa idea del tempo che sottostà a Dio che lo comprende sotto di sé come passato presente e futuro, darebbe luogo a pesanti inconvenienti concettuali quando fosse esaminata in sé, è cosa che s’intende senza sforzo e sulla quale qui non ci si può soffermare se non per osservare che, se avesse sotto di sé il tempo, l’eterno ne riceverebbe un limite, ne sarebbe temporalizzato e non sarebbe perciò l’eterno. Per Dante, che, a differenza di Tommaso, di preconoscenza divina non parlava, Dio era, in una formulazione, nello stesso atto, più concisa e più rigorosa, il «punto» in cui, presente al presente, il passato era, non passato ma presente e, presente al presente, il futuro non era futuro ma, esso pure, presente: un presente eterno, che coincideva con Dio e tempo propriamente non era. Soltanto nel discendere nel mondo umano in conseguenza dell’atto creatore, che rivelava perciò la sua interna difficoltà (dell’eterno si può dire soltanto, ma è pura metafora, che è creatore del sé stesso dal quale non può uscire), i tempi si distendevano lungo la linea che, ai suoi vertici, aveva il passato e il futuro e, al centro, il presente. Il che, e così si riprende il discorso precedentemente accennato, sembra debba intendersi nel senso che, comunque sia concepibile, è l’actus creationis a rendere successivo quel che in Dio è, e seguita a essere, intrecciato in modo che l’actus cognoscendi è in lui identico all’actus essendi. Insomma, c’è il tempo di Dio, che non è tempo perché è l’eterno. E c’è il tempo degli uomini, che, creato da Dio, non solo può esserne ritirato, ma è nello stesso atto fondato sull’essere e sul non essere delle sue fasi: il passato, infatti, non è il presente e questo non è il futuro, ma ciascuno è, in sé, connesso agli altri, e diverso da essi. Riuniti dinanzi al suo «cospetto etterno», Dio quindi legge i tempi che l’atto della creazione rende, o, se
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si preferisce, ha resi temporalmente successivi. Si danno dunque, se questa linea interpretativa sembri plausibile, due diverse idee del rapporto di Dio con il tempo. La prima, e la più coerente, è che Dio sia pensato come l’eterno e come impossibilitato, di conseguenza, a compiere l’atto della creazione: con la conseguenza che ne deriva dell’impossibilità che da lui si sprigioni l’energia della creazione di un mondo finito e consegnato alla vicenda della temporalità successiva. La seconda è che Dio sia il creatore del mondo e dei suoi tempi che, intrecciati in lui nel segno della reciproca contemporaneità, nel mondo creato e nel contesto umano, si sciolgono da questo vincolo disponendolo nel senso del prima e del poi. In entrambi i casi è, a rigore, impossibile che a Dio si attribuisca la conoscenza del futuro. Nel primo perché, se dall’atto conoscitivo, e dalla sua realizzazione, il futuro è reso presente alla mente divina che ha creato il tempo nelle sue tre dimensioni, l’atto del conoscerlo lo rende presente a sé stesso e non futuro, sì che conoscerlo significa non conoscerlo. Nel secondo perché l’eternità non ha, e non può avere, fuori di sé cosa alla quale il suo atto si diriga. Per poter sostenere che in Dio Cacciaguida vede il futuro allo stesso modo del passato e del presente, occorre perciò che, compresenti in lui, i tempi vi stiano anche come distinti nelle tre dimensioni che sono a esso attribuite. Il che è possibile alla sola condizione che, contemporanei al suo atto, i momenti della creazione si distendano secondo la natura del tempo che, creato anch’esso da Dio, distingue il mondo dall’atto originario: alla sola condizione, quindi, che al rigore dell’argomentazione che, al centro di sé, tiene fermo l’eterno e la sua physis, sia sostituita la fabula dell’eterno creatore di un mondo finito. Si è detto fabula, per escludere che in essa possa esserci ratio. Come infatti sia possibile che ciò che è perfetto e compiuto nella sua universalità esca da sé per dar luogo a ciò che su di sé reca il segno della parzialità e dell’incompiutezza, è difficile dire. Ma qui, dopo che la questione è stata posta, il discorso deve fermarsi: non appartiene all’esegesi dantesca la critica della idea di creazione, anche se necessariamente debba farsi vedere come sia dalla sua non discussa presenza nel discorso che deriva l’attribuzione a Cacciaguida e, persino a Dio, della facoltà di leggere il futuro. 17. Si può tornare, a questo punto, sulla questione della libertà, e, ribadendo che il suo problema non è presente nel canto del Paradiso in cui Dante parlò della contingenza quale si trova a essere nella mente divina e in quella umana, anche si può tornare su quel che già emerse nell’analisi dei concetti di Marco Lombardo. Quando pensava a ciò che forma la storia
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e ne determina i tempi e i modi, Dante chiamava in causa la provvidenza divina che, di quella, era in effetti l’unica causa. La storia non era se non quel che conseguiva alla sua decisione. I personaggi che si ricordavano come suoi auctores, non erano, lo si è visto, che momenti interni al suo obiettivo svolgimento, determinato da Dio. Non c’era perciò alcuna possibilità che al libero arbitrio fosse riconosciuta una qualsiasi funzione e che alla storia potesse essere impresso un andamento che, conseguendo al suo intervento, deviasse perciò da quel che era stato stabilito. Se le cose umane fossero apparse segnate dalla negatività conseguita al predominio di passioni improprie, il pensiero che aveva nella provvidenza il suo criterio indicava il rimedio. La furente invettiva, che nel ventesimosettimo del Paradiso Dante fece che san Pietro pronunziasse contro i papi corrotti, si concludeva con il richiamo della provvidenza: «in vesta di pastor’ lupi rapaci/ si veggion di qua sù per tutti i paschi:/ o difesa di Dio, perché pur giaci? Del sangue nostro caorsini e guaschi/ s’apparecchian di bere: o buon principio,/ a che vil fine convien che tu caschi!/ Ma l’alta provedenza che con Scipio/ difese a Roma la gloria del mondo,/ soccorrerà tosto, sì com’io concipio».62 E il libero arbitrio? Occorre lasciare decisamente cadere l’idea che esso possa coesistere con la determinazione provvidenziale degli eventi storici e che una sorta di paradossale armonia lo leghi alla necessità divina. Deve confessarsi che, dinanzi a simili futilità, si sentono risuonare le «canzoncine dei pelagiani» di luterana memoria. In effetti, quando pensava alla formazione dei grandi eventi storici, e quindi al più grande e definitivo, ossia all’Impero romano, Dante non parlava di libero arbitrio. Parlava di provvidenza, soltanto di provvidenza, e degli individui come dei suoi momenti interni. Il libero arbitrio era da lui chiamato in causa, e lo si è visto, quando si trattava di giudicare, non della formazione degli eventi, ma del modo in cui, in situazioni determinate, gli uomini avevano fatto uso della loro volontà, alla quale è impossibile che possa imporsi un freno perché «volontà, se non vuol, non s’ammorza»,63 ed è sempre possibile contrapporre alla fortuna avversa la sua fermezza. Insomma, la provvidenza era il criterio con il quale s’intendeva la storia nelle sue ragioni. Il libero arbitrio era il criterio alla cui luce si faceva giudizio dell’agire morale. Fra l’un criterio e l’altro Dante non si propose mai di indagare se vi fosse un passaggio, e si desse perciò la possibilità di una connessione. Marco Lombardo, che aveva rimproverato gli uomini che «ogne cagione» recavano «pur suso al ciel, così come s’e’ tutto/ movesse seco di necessitate», non si era chiesto come il libero arbitrio potesse coesistere con la provvidenza,
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o avere un luogo in un universo che essa governava con mano inflessibile. Di questo deve prendersi atto. Ma sulla questione della storia, e del suo soggetto, prima di concludere, dovrà tornarsi. 18. Se ora si cerca di trarre l’ultima conclusione di questa indagine, con buon diritto si può dire che, contrariamente a quel che si trova scritto presso non pochi interpreti, Dante non ha affatto escluso dal necessario condizionamento divino le azioni future. Sarebbe stata, in effetti, una ben strana pretesa da parte di chi riteneva che, sia pure per homines, fosse la mano della divina provvidenza a guidare la storia del mondo (che, non si dimentichi) era per intera realizzata nella mente di Dio). A prescindere ora dalle questioni che sono state discusse nelle pagine precedenti, e delle connesse difficoltà, Dante l’ha vista, venir fuori, con assoluta necessità, dalla mente eterna che la contiene tutta nel punto intemporale «a cui tutti li tempi son presenti». Fra la mente divina, che, come che sia, Dante assumeva che conoscesse la successione temporale e, per conseguenza, il futuro, per averlo ab origine risolto in quel punto inesteso, oppure, e se si vuole, lo conoscesse sì, ma come presente al presente e al passato, non quindi come futuro, – fra la mente divina e la mente umana, che non lo conosce perché ogni volta quello va al di là del suo presente, e sfugge alla sua presa, nell’identità la differenza è tanto più netta in quanto entrambe, a rigore, posta la premessa, non lo conoscono. Ma per ragioni opposte. La mente divina perché si assume che lo contenga in sé non diversamente dal presente e dal passato, tutti, allo stesso modo, inclusi nel suo spazio ideale, nel quale essere distinti vale lo stesso che essere identici. La mente umana perché non può afferrarlo. Se si considerano i testi sui quali Dante ha meditato il suo concetto, un dato emerge con nettezza. È stato posto in rilievo qui su, e si rinnova la sorpresa che non lo si sia notato. Nel canto decimosettimo, il quadro di ciò che avverrà fu delineato nel senso dell’ineluttabile, che niente può modificare. Il momento profetico, che ha il suo culmine nelle parole di Cacciaguida, dichiarò la necessità, non la libertà, dalla quale la verità profetica sarebbe, o potrebbe essere, confutata. Nel discorso che, essendo chiamato a rivelare a Dante quel che il futuro gli riservava, non ammetteva eccezioni, Cacciaguida non fece nessun accenno alla questione relativa al rapporto, che in altri contesti, s’incontra fra la prescienza divina, che non ha limiti, e la liberà del volere che non ne è tuttavia condizionata: nel senso che chi si trova ad agire nel presente e ha di fronte a sé il futuro sceglie liberamente la strada che la mente divina gli ha segnata dinanzi
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e che egli intraprende nella convinzione che a lui, e soltanto a lui, debba esser fatta risalire la decisione di percorrerla. Al limite che il difensore del libero arbitrio cerca di porre al potere divino, deducendolo, in sostanza, dall’ignoranza in cui l’uomo si trova nei riguardi delle vie che la provvidenza ha tracciate perché siano da lui percorse, Dante non ha, salvo errore, mai accennato: nemmeno, come a suo tempo si vide, nel canto di Marco Lombardo. Nel decimosettimo del Paradiso la situazione in cui era venuto a trovarsi, di fronte a Cacciaguida che descriveva i momenti della sua vita futura, era quella di chi era costretto a constatare che la sua linea era stata tracciata ab aeterno e a lui non sarebbe perciò stato dato se non di percorrerla nel senso indicato. Deviare da essa era impossibile, il sentiero era stato tracciato e, sofferenza dopo sofferenza, la sola libertà che a Dante fosse concessa sarebbe stata di vivere con onore i giorni dell’esilio. Poteva fare di più? Certamente no, non poteva. Doveva escludere che nell’uomo il libero arbitrio vigoreggiasse? Nemmeno questo. La scelta libera e la coercizione stavano l’una in alternativa all’altra quando il secondo momento non avesse interamente assorbito in sé il primo, e di una libera scelta si desse, anche se minima, la possibilità. Si è non liberi quando si dia la possibilità di esserlo. Dove questa non sussista, la necessità non è più in conflitto con la libertà, che non ha infatti il modo di mostrare il suo volto. Come con gli dèi antichi, anche con il dio cristiano non c’è contesa. III La necessità, la contingenza e il libero arbitrio 1. Le considerazioni che qui su sono state dedicate all’interpretazione di Paradiso XVII 37-45 divergono, in tema di libero arbitrio, da quelle che per lo più si leggono nei commenti moderni (e anche in quelli antichi). La ragione della differenza sta in ciò che non c’è commentatore che, essendosi chiesto se l’onnipotenza di Dio conceda all’uomo un margine dignitoso di libertà, non abbia cercato di dare alla domanda una risposta affermativa e di indicare in Dante un pensiero e una preoccupazione analoghi a quelli che erano in lui. Gli argomenti che si mettono in campo per sostenere la causa della libertà nella battaglia in cui la si ritiene impegnata con la necessità sono sempre nobili e bene ispirati. Ma dovrebbero anche essere criticamente fondati. E non si può dire che lo siano. Quello della libertà è infatti concetto complesso, inquieto e non significante in modo univoco: occorre
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perciò decidere che cosa s’intenda con quella parola e in quale direzione l’argomento che la concerne debba essere svolto. La questione che. al riguardo, dev’essere posta, ha due aspetti. In ragione del primo, si intende che nella mente di Dio tutto ciò che è accaduto, accade e accadrà sia bensì per intero, e ab aeterno, contenuto, ma che fra il suo potere e il mondo sussista tuttavia la differenza originaria che fu, all’origine, condizione imprescindibile perché questo ne fosse creato. In ragione del secondo, si assume che, per l’affermazione della libertà nel mondo delle cose, la potenza della mente divina, nella quale già accaduto è quel che nel mondo accadrà, costituisce uno scoglio, insuperabile. Solo per un verso, tuttavia, non per un altro. Il tempo dell’uomo non è quello di Dio che, nel creare il mondo, lo ha bensì risolto per intero nella sua eternità, ma con il mondo ha creato il tempo e nel tempo ha collocato l’uomo, il quale è perciò libero di scegliere quel che Dio ha già scelto. Il riconoscimento del potere assoluto che nell’un caso e nell’altro si riconosce alla mente divina, non ha dunque impedito al più degli interpreti di pensare che, se la necessità ha dominio e potere assoluti su quel che, essendo accaduto, non potrebbe mai essere, e esser reso, diverso, da quel che è, non ne ha invece altrettanto su quel che, accaduto in Dio, ancora non lo sia nel mondo umano. Che in questo debba accadere è certo, e certo accadrà come già è accaduto in lui, salvo che spetterà all’uomo di farlo accadere nel mondo. Si dice perciò: l’onnipotenza divina non spegne la libertà, la sua necessità non si estende tanto da includere in sé anche quel che nel mondo non sia ancora accaduto e che si presenta perciò come un campo aperto in cui il libero arbitrio può esercitare sé stesso. Necessario è quel che, essendo accaduto, non si può fare che non lo sia. Nella sua idea, il futuro definisce invece quel che accaduto non è. Indica la possibilità, non la necessità, e dove vi sia possibilità, dove vi sia futuro, lì c’è libertà. Si dice così. Ma è proprio sicuro che le cose possano stare in questi termini e che, per dirla in breve, il passato sia il luogo della necessità, il futuro quello della libertà? La questione non può non essere posta se si voglia pervenire fino alla sua radice. E si deve dire che, posta così, non risolve la difficoltà, ma la conferma. Nel quadro che si dipinge in forza del suo concetto, se tutto quel che accade nel mondo è già accaduto nella mente di Dio, gli uomini che nel tempo attuano la loro opera non sono, in effetti, se non gli inconsapevoli esecutori nel tempo di un piano già compiuto nell’eterno. E nessuno potrà allora sostenere che essere inconsapevoli significa essere liberi. Quel che gli uomini realizzano è già stato realizzato, e non è quindi se non una ripetizione, nel mondo, di quel che
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ab aeterno sta nella mente di Dio; sì che la vera difficolta che, a questo proposito, deve essere sollevata riguarda, non la libertà, che non è qui se non illusione, ma la concepibilità di quel che si attribuisce all’eterno che, per creare il mondo e con esso il tempo, deve, in quell’atto, temporalizzare sé stesso e venir meno al suo concetto. Che è il punto che sembra essere sfuggito a Dante come, prima di lui, era sfuggito, per esempio, a Tommaso d’Aquino. Si legga: «licet contingentia fiant in actu successive, non tamen Deus successive cognoscit contingentia, prout sunt in suo esse, sicut nos, sed simul: quia sua cognitio mensuratur aeternitate, sicut etiam suum esse. Aeternitas autem tota simul existens ambit totum tempus […]. Unde omnia quae sunt in tempore sunt Deo ab aeterno presentia, non solum ea ratione qua habet rationes rerum apud se praesentes, ut quidam dicunt, sed quia ejus intuitus fertur ab aeterno super omnia, prout sunt in sua praesentitate».64 È evidente, in questo passo, e nella concezione che lo ispira, l’equivoco per il quale si fa che l’eterno sia, non propriamente l’eterno, che infatti non ha parti che non siano eterne e dunque, allo stesso modo di quello, eterne e non parti, ma niente altro che la loro simultaneità, il loro darsi l’una insieme all’altra, essendo tuttavia ciascuna sé stessa e non le altre. Ma che di qui comunque si ricavi che, avendo dinanzi a sé il futuro, la libertà umana è garantita nella sua idea, è pura illusione: che deriva dal non aver considerato che, stabilita come che sia la differenza fra il piano dell’eterno e quello del tempo, le azioni che si svolgono su questo non ribadiscono se non ciò che sta sull’altro piano: di modo che, in luogo della libertà, si dà la ripetizione. Una difficoltà, questa, di cui non c’è traccia nell’esegesi.65 2. La questione che nasce dal tentativo che si compia di dedurre la libertà dal tempo in cui l’uomo è immerso e che gli sta dinanzi come possibile campo d’azione, ha il suo riscontro nell’altra che ha come termini il necessario e il possibile, o, per restare al lessico dantesco, la contingenza quale si trova a essere nel cospetto eterno e in quello umano. Messa nei termini della differenza sussistente fra ciò che è necessario e ciò che è possibile, la questione rinvia a quella, posta da Aristotele nel De interpretatione, e largamente dibattuta dai medievali, dei futuri contingenti, ossia di quel che può accadere, ma non è necessario che accada con quel carattere, e nemmeno che accada con un altro e poi con un altro, anche se è impossibile, poiché il futuro è il futuro, che accada senza averne uno. Senonché, è bastato un minimo di riflessione, perché la situazione rivelasse il suo aspet-
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to paradossale. Se si guardi a Paradiso XVII 37-45 e alle interpretazioni che ne sono state date nel tempo, il paradosso che ne emerge è che (lo si è già rilevato) la preoccupazione dichiarata per le sorti del libero arbitrio appartiene assai più ai critici che non, almeno in questo passo, a Dante. Direttamente, o piuttosto per il tramite di molteplici mediazioni, si può dire che i suoi lettori e interpreti abbiano condiviso la preoccupazione che, nel cruciale e difficile capitolo 9 del De interpretatione, Aristotele aveva manifestata per le sorti dell’iniziativa umana, e abbiano poi creduto che a quella Dante si fosse ispirato. La tesi che Aristotele si era trovata di fronte, e alla quale aveva diretta la sua critica, era che οὐδὲν ἄρα οὔτε ἔστιν οὔτε γίγνεται οὔτε ἀπὸ τύχης οὔθ’ὁπότερ ἔτυχεν, οὐδ’ἔσται ἢ οὐκ ἔσται, ἀλλ’ἐξ ἀνάγκης ἄπαντα καὶ οὺχ ὁπότερ’ ἔτυχεν66 («niente è e diviene o per caso o in altro modo, né sarà o non sarà, ma tutto sarà di necessità e non in altro modo»). A questa idea della necessità radicalmente esclusiva del possibile, che egli incontrava nelle argomentazioni megariche (e, forse, nel così detto κυριεύων λόγος di Diodoro Crono), dopo averla esposta a 18 b 26-31, Aristotele aveva rivolta una critica decisa. Aveva scritto che, se si fosse ritenuto che tutto (πάντα) avveniva ἐξ ἀνάγκης, a essere sacrificati sarebbero stati sia il pensare in vista di una decisione, sia l’azione diretta a realizzarla. Quel modo di argomentare era in effetti assurdo. Aveva scritto: τὰ μἐν δὴ συμβαίνοντα ἄτοπα ταῦτα καὶ τοιαῦθ’ἔτερα, εἴπερ πάσης καταφάσεως καὶ ἀποφάσεως, ἢ ἐπὶ τῶν καθόλου λεγομένων ὡς καθόλου ἢ ἐπὶ τῶν καθ’ἔκαστα, ἀνάγκη τῶν ἀντικειμένων εἴναι τὴν μὲν ἀληθῆ τὴν δὲ ψευδῆ, μηδὲν δὲ ὁπότερ’ ἔτυχεν εἰναι ἐν τοῖς γιγνομένοις, ἀλλὰ πάντα εἴναι καὶ γίγνεσθαι ἐξ ἀνάγκης.67 Se nelle cose che sono sempre in atto il possibile non costituisce alternativa al necessario perché non vi ha luogo, con la sua contingenza quello è invece presente nelle cose che si trovano a non esserlo, e che, non essendo ferme nella loro attualità, sono aperte al poter essere e accadere, nel futuro, in un modo o in un altro. Dove c’è possibilità, e c’è futuro, lì, si dice e si pensa, può aver spazio il libero arbitrio. Il che, sia detto fra parentesi, non solo non supera lo scoglio dell’ἀνάγκη divina, ma ne conferma l’insuperabilità: è, infatti, pur sempre una condizione imposta e subìta quella che fa dipendere l’esser libero da un’assenza che non si riesce a non considerare come una condizione. È famoso, per chi abbia familiarità con quest’opera, breve e assai difficile, che nella tarda antichità dette molto filo da torcere a Ammonio e a Boezio, e nel XIII secolo ai pensatori cristiani, l’esempio che Aristotele fece di una battaglia navale (ναυμαχία), della quale era certo necessario dire che domani avrebbe o non avrebbe avuto
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luogo, ma che lo avesse o non lo avesse era tuttavia, in entrambi i casi, non una necessità, ma un’ipotesi; che non bastava, per altro, ad aprire il campo al libero arbitrio e al riconoscimento della sua efficacia. La tesi, che in quel luogo, e per il tramite di quell’esempio, Aristotele aveva sostenuta, era che la battaglia potesse aver luogo, e anche non potesse, e che l’averlo o il non averlo derivava, non dal discorso, non dalla κατάφασις o dalla ἀπόφασις, ma dalla realtà e dal modo del suo atteggiarsi, che non potevano essere assegnati al libero arbitro e all’iniziativa umana dovendo tuttavia anche non escludere che potessero esserlo a un cieco combinarsi di forze definibili come αὐτόματον ο τύχη. Quel che in questo ragionamento si presentava con il carattere della necessità riguardava in effetti, e non paia paradossale, la possibilità che la battaglia avvenisse o non avvenisse: una possibilità che era infatti definibile come necessaria in entrambe le ipotesi, sia, cioè, se la battaglia avesse, sia che non avesse, luogo. Per il resto, posta la necessità ineludibile dell’alternativa, contro l’ἀνάγκη di quella la libertà non aveva vanto, perché, dopo aver contribuito a formarla, ne rimaneva prigioniera. 3. La preoccupazione che in quel luogo del De interpretatione Aristotele aveva espresso a proposito del libero arbitrio (cogitazione e azione), che sarebbe stato reso vano se, lasciato libero campo alla necessità, a ogni δυνατόν fosse stato imposto il divieto di entrarvi, – da Boezio a Tommaso d’Aquino questa preoccupazione ha molteplici riscontri nella filosofia dell’Occidente, ma, e lo si è visto, non ne ha uno che sia riconoscibile nelle terzine del decimosettimo del Paradiso: solo fraintendendole, potrebbe infatti vedervisi il segno di quel problema e della relativa preoccupazione. Poiché da parte di non pochi si è tuttavia pensato che molto, in tema di necessità e di libero arbitrio, Dante avesse ricavato da Boezio, si prenda allora quel che si legge in De consolatione philosophiae, V 4, nel punto in cui, dopo aver ricordato il ciceroniano De divinatione, la domanda era per quale motivo dovesse ritenersi «illam solventium rationem minus efficacem […] quae quia praescentiam non esse futuris rebus causam necessitatis existimat, nihil impediri praescentia arbitrii libertatem putat. Num enim tu aliunde argumentum futurorum necessitatis trahis, nisi quod ea quae praesciuntur non evenire non possunt? Si igitur praenotio nullam futuris rebus adicit necessitatem, quod tu etiam paulo ante fatebare, quid est quod voluntarii exitus rerum ad certum cogantur eventum?» (5, 4-6). La citazione non è riuscita breve, e da Boezio, del resto, potrebbe citarsi ancora, non senza utilità. Ma, sebbene rinviino a un’idea sulla quale non poco ci sarebbe da discutere,
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la lettura di queste linee basta a far intendere che non è al concetto che vi è svolto che Dante ebbe la mente nei versi che si sono ricordati e commentati del decimosettimo del Paradiso; e nemmeno all’altro, non dissimile anche se diversamente ragionato, che s’incontra negli scritti di Tommaso. Basti, al riguardare, ricordare De malo, q.6, nel luogo della Responsio in cui, dell’opinione che quidam posuerunt quod voluntas hominis ex necessitate movetur ad aliquid eligendum, Tommaso disse che era eretica. «Tollit enim rationem meriti et demeriti in humanis actibus: non enim videtur esse meritorium vel demeritorium quod aliquis sic ex necessitate agit quod vitare non possit». E aggiunse: «est enim annumeranda inter extraneas philosophiae opiniones, quia non solum contrariatur fidei, sed subvertit omnia principia philosophiae moralis. Si enim non sit aliquid in nobis, sed ex necessitate movemur ad volendum, tollitur deliberatio, exhortatio, praeceptum, et punitio et laus et vituperium, circaquae moralis philosophia consistit».68 Questi testi espongono un argomento che Tommaso aveva svolto anche nel De unitate intellectus contra averroistas, III 78,69 e del quale converrà innanzi tutto non perdere di vista la distinzione che, in riferimento ai testi dei quali si tratta, è essenziale. Se infatti la questione riguardasse unicamente la volontà e, nell’esercizio che essa fa di sé stessa, il suo non essere sottoposta a necessità esterne, nessuna difficoltà s’incontrerebbe a includere Dante fra gli assertori convinti del libero arbitrio. Nel quinto del Paradiso, «lo maggior don che Dio per sua larghezza/ fesse creando e ala sua bontate/ più conformato e quel ch’e’ più apprezza,/ fu dela volontà la libertate;/ di che le creature intelligenti,/ e tutte e sole, fuoro e son dotate» (vv. 19-24): un passo che, quale che sia la data dell’uno e dell’altro, ha il suo perfetto riscontro in Monarchia, I xii 6: «hoc viso, iterum manifestum esse potest quod hec libertas sive principium hoc totius nostre libertatis est maximum donum humane nature a Deo collatum – sicut in Paradiso Comedie iam dixi – quia per ipsum hic felicitamur ut homines, per ipsum alibi felicitamur ut dii».70 Già nel decimottavo del Purgatorio, del resto, discutendo di amore e libero arbitrio, Dante aveva individuato quest’ultimo nel «principio là onde si piglia/ ragion di meritare in voi, secondo/ che i buoni e’ rei amori accoglie e viglia» (vv. 64-66), per poi osservare che «color che ragionando andaro al fondo,/ s’accorser d’essa innata libertate;/ però moralità lasciaro al mondo./ Onde, pognam che di necessitate/ surga ogni amor che dentro a voi s’accende,/ di ritenerlo è in voi la podestate» (vv. 70-72). Non gioverebbe, in questa parte dell’indagine, dissertare sulle difficoltà che, in tema di libero arbitrio e di volontà, potrebbero venire alla luce se ci
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si chiedesse «là onde vegna lo ’ntelletto/ dele prime notizie […] e di primi appetibili l’affetto/ che sono in voi, sì come studio in ape/ di far lo mèle».71 E più, invece, è necessario ribadire che, posto che sempre la questione riguardi la responsabilità umana, altro è vederla all’opera nell’esercizio che l’anima compie per filtrare le passioni dei sensi e conferire all’amore il giusto volto, altro è chiedersi, o tornare a chiedersi, se e in che misura essa entri nel processo di formazione degli eventi che costituiscono il corpo vivo della storia, se, e in che senso, essa sia visibile e riconoscibile là dove sia la mente divina a decidere quale indirizzo quella debba prendere. Che si tratti di due questioni diverse, e che come tali stessero nella mente di Dante, è tanto evidente quanto lo è che egli non ebbe interesse a metterle a confronto e a saggiarne la compossibilità. Ma certo è che all’esaltazione della libertà come condizione essenziale di vita etica e della volontà che, «se non vuol non s’ammorza», corrispondeva sull’altro piano, sul piano s’intenda della formazione dell’evento, la diversa idea che non c’è azione che l’uomo abbia liberamente compiuta che, con quel preciso carattere, non fosse già inclusa nella mente di Dio; alla quale, come si legge nel luogo già citato e illustrato del decimosettimo del Paradiso, per intero, ossia come già compiuto, è presente quel che viceversa nel mondo umano vien fuori secondo la discorsività del tempo. L’idea dell’onnipotenza divina e della presenza in essa di quanto si sarebbe via realizzata nel tempo degli uomini rendeva più che discutibile l’assunto che libera fosse la loro scelta del bene in luogo del male (o del male in luogo del bene), e che dall’uomo e non da Dio dipendesse la scelta che il primo avesse fatta dell’uno o dell’altra. E al relativo ragionamento toglieva ogni forza. Posta e considerata in questi termini, la questione non è presente, del resto, nemmeno in Paradiso XIII 31-142, ossia nella parte conclusiva del lungo discorso che Tommaso d’Aquino aveva iniziato nel canto undecimo. Nel luogo di esso che conviene prendere in particolare considerazione, Tommaso si era impegnato a spiegare perché, avendo indicato in Salomone il più saggio degli uomini, questa sentenza non fosse entrata in contrasto con l’altra che quel primato attribuiva a Adamo e a Cristo. Nel suo discorso aveva incontrato il tema delle cose contingenti, e fornito la spiegazione che avrebbe tolto Dante dal dubbio («or apri li occhi a quel ch’io ti rispondo,/ e vedrai il tuo credere e ’l mio dire/ nel vero farsi come centro in tondo» [vv. 49-51]). Ma di qui non aveva tratto argomenti che aprissero il varco al tema della libertà umana. Riprendendo quel che aveva scritto in Convivio III xiv 4, aveva delineato una teoria, ricavata, a sua volta, dal Liber de causis,72 se-
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condo cui, per pervenire al punto della questione che qui interessa, «ciò che non more e ciò che può morire» derivano allo stesso modo da Dio e dal suo amore, nonché dal sistema celeste che ne discende, e dal quale, a sua volta, si perviene «all’ultime potenze/ giù d’atto in atto, tanto divenendo/ che più non fa che brevi contingenze;/ e queste contingenze essere intendo/ le cose generate, che produce/ con seme e sanza seme il ciel movendo» (vv. 61-66). Le «contingenze» sono le «cose generate» che, in quanto tali, si distinguono nettamente dalle «nove sussistenze» in cui la bontà divina si specchia «etternalmente rimanendosi una» (v. 60). E hanno bensì, come si è detto, un carattere per il quale si definiscono come quelle che, essendo per non essere, sfuggono alla presa ferrea della necessità e dell’eternità. Per dar luogo alla morte, tuttavia, non alla libertà. Del resto, se fra questa sequenza concettuale e quella che ha il suo luogo nella prima parte del canto decimosettimo, si cercassero punti che fossero comuni a entrambe, senza particolare sforzo si potrebbe indicarli, non solo, ed è ovvio, nell’idea di Dio come primo motore e causa prima dell’universo, ma in quella altresì del progressivo venir meno della virtù che è sulla cima. Identico, nei due canti è il tema dell’universale causalità per la quale da ciò che è in alto viene via via prendendo forma ciò che, nell’allontanarsene, si allontana altresì dalla sua perfezione. 4. La questione della salvezza non poteva non richiamare quella della predestinazione. Questa non poteva non richiamare l’altra del libero arbitrio e della sua efficacia per il conseguimento del regno dei cieli. Che alla sua propria salvezza l’uomo fosse in grado, a giudizio di Dante, di dare un importante contributo, è fuori discussione: come lo è, tuttavia, che da sé solo il libero arbitrio non basterebbe se, a determinare la sua efficacia, non intervenisse la grazia. Così, dopo aver percorso un discreto cammino, ci si trova di nuovo a dover ascoltare le parole con le quali l’Aquila aveva indotto Dante a esclamare: «o predestinazion, quanto remota/ è la radice tua da quelli aspetti/ che la prima Cagion non veggion tota!».73 E ad agiungere: «e voi mortali tenetevi stretti/ a giudicar, che noi che Dio vedemo,/ non conosciamo ancor tutti gli eletti;/ ed ènne dolce così fatto scemo/ perché ’l ben nostro in questo ben s’affina,/ che quel che vole Idio, e noi volemo».74 Il verso che chiude questa sequenza non potrebbe essere, al riguardo, più efficace nel mettere in chiaro che il soggetto del volere umano è la volontà di Dio, e, se è questa la lezione che le anime apprendono quando sono accolte nel suo regno, sarebbe tuttavia certamente in errore chi ritenesse che soltanto lì, fra le anime beate, questa regola valesse ed esse volessero «quel che vole Idio».
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In effetti, sempre la volontà umana è orientata a volere quel che Dio vuole, e insondabile è perciò l’abisso della predestinazione. Dante era sul punto di essere ricacciato indietro nell’intrico della selva quando a indicargli la via della salvezza gli apparve, mandato dal cielo, Virgilio. Senza di lui, nonché intrapreso, il viaggio ultramondano non sarebbe stato nemmeno concepito. Senza di lui, le virtù morali che, per vie traverse, avevano contribuito a far sì che il cielo intervenisse in suo aiuto, non sarebbero bastate a salvarlo dallo smarrimento di cui la selva era il simbolo. Un’inveterata abitudine intellettuale fa sì che la grazia e il libero arbitrio siano visti come termini di una relazione nella quale ciascuno di essi dà e riceve, in modo tale che, se l’uno mancasse, anche l’altro verrebbe meno, e la relazione non sarebbe. Ma è un’abitudine fondata su un equivoco tanto evidente quanto tenace è la volontà che all’uomo sia garantito un margine di autonomia e salva sia la sua dignità nei confronti di un potere che pur si definisce assoluto. L’equivoco che sta alla radice di questa idea è evidente. Dove, infatti, ai termini si conceda pari dignità e pari valore, la relazione rivela di essere senz’altro impossibile se un termine sia tale da includere in sé ogni pensabile realtà e quindi ogni «realtà» che gli si metta di fronte. In poche parole, pensato in modo che i termini siano di pari valore, la relazione è impossibile perché la sua condizione è la differenza, non l’identità. Pensata in modo tale che a un termine si assegni il carattere dell’assolutezza e dell’infinità, la relazione tanto più si rivela impossibile perché, come assoluto e infinito, quel termine non consente spazio logico a qualcosa (l’uomo) che, comunque, gli stia, o si pretende che gli stia, di fronte. Manfredi dice che la misericordia di Dio ha sì gran braccia che accoglie chi si rivolga a lei, e sembra che sia la richiesta che in tal modo l’anima rivolge a Dio a far sì che egli l’accolga. Ma questa è poesia, o, se si preferisce, è la poetica assegnazione della capacità, e persino della necessità, di amare a un soggetto che, essendo infinito, di questa necessità non può avvertire la necessità quando a quel suo carattere si tenga fermo. Il Dio cristiano è un Dio di amore. Pensandolo in termini aristotelici gli si attribuiscono caratteri, l’infinità, la perfezione, l’assolutezza, l’eternità, ai quali l’amore non può non essere estraneo. Di qui l’estrema difficoltà, in cui Dante non poté non sentirsi involto, di togliere di dosso al libero arbitrio il peso schiacciante dell’onnipotenza di Dio; e, come nel caso di Rifeo troiano e di Traiano romano, di assegnare all’imperscrutabile sua decisione l’accoglimento di entrambi nel regno dei cieli. Di qui, ancora, l’esplicito riconoscimento dell’imperscrutabilità e incomprensibilità della sua decisione di escludere da quello chi, pur senza sua colpa, non l’avesse conosciuto.
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Il libero arbitrio non ha alcuna parte in queste decisioni divine che, per definizione, sono insondabili. In nessun modo concorre a formarle. Come nel corso dell’indagine si è più volte dovuto notare, i grandi eventi della storia sono opera della provvidenza, che in tutto quel che accade incide un segno al quale ogni altro deve cedere e sottomettersi: esempio supremo la violenza, nella quale, rovesciando il giudizio di Agostino e di Orosio, Dante vedeva proprio il contrario di quel che il secondo vi aveva indicato. In un luogo delle sue Historiae contra paganos, VI xii 6, dopo aver rappresentato il soldato romano come «ante pugnam insidiator et argutior, […] in pugna hostis infestior, […] post pugnam victor immitior», Orosio aveva scritto che «ne ipsa quidem Roma clades, quas intulit, evitavit. Exercitae diu auctaeque sunt per totos mundi cardines potentiae ducum viresque legionum, quae in sese concurrentes eius damno vincerent, cuius periculo vincerentur». Parole come queste si cercherebbero invano nelle pagine che in verso o in prosa Dante dedicò alla storia dei Romani. Nei quadri storici dipinti nella Commedia, e non solo, il libero arbitrio, lo si è già detto, interviene e svolge la sua efficacia quando al suo esercizio è attribuito il mantenimento del vivere civile nei limiti della moralità e della castigatezza, che si perdono, infatti, entrambe quando, nel progresso dei tempi, a esse tiene dietro, conseguenza dell’arricchimento e del progresso, lo smarrimento della moderazione e della misura Si sono ricordati, nelle pagine che precedono, il lamento e il compianto di Marco Lombardo per la decadenza dei costumi delle terre romagnole, e tutti hanno in mente quelli di Cacciaguida nel sedicesimo del Paradiso, tutti ricordano «Fiorenza dentro dela cerchia antica», le donne assise al «fuso e al pennecchio», Bellincion Berti e la «donna sua sanza ’l viso dipinto» e «quel d’i Nerli e quel del Vecchio/ esser contenti ala pelle scoperta». Non costitui sce per solito oggetto di considerazione la singolare inversione che, negli scritti di Dante, in verso e in prosa, si determina quando, invece che quelle quasi conventuali virtù, oggetto del discorso siano l’aumento della potenza che fa grandi le città, il complicarsi della vita politica e sociale, il subentrare delle lotte e delle contese all’idillio dei primi tempi, a una vita, si direbbe, priva di politica. Della decadenza dell’Impero romano, che pure, costituiva la materia della politica che egli detestava nel suo presente, Dante non parlò mai in modo esplicito. Non ne parlò perché, lo si è notato, l’Impero, per lui, era sempre e, posto che in termini espliciti ne avesse avuto il concetto, il suo declino non aveva altra ragione che l’abbandono dell’onestà e della moderazione. Da una parte si aveva perciò l’Impero, la cui idea era una realtà che permaneva anche al di sotto dei costumi corrotti. Da un’altra
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c’erano questi che con il moltiplicarsi delle situazioni a cui avevano messo, e mettevano, capo chiamavano in causa la provvidenza che non avrebbe, alla fine, potuto non porre rimedio a quel che era accaduto. Di qui il volto del tutto particolare che la decadenza assunse nei suoi scritti: nei quali non era la potenza politica a perdere il suo centro, non era questa a rivolgersi contro sé stessa e, appunto, a decadere, ma a decadere, corrompendosi, era la semplicità dei costumi, era la virtù degli individui, era il subentrare a essa, non spiegato nella sua genesi, il violento contendere civile e sociale. Di qui, se ci si fa attenzione, il senso, esso pure particolare, che si scopre alla radice del progresso delle forme politiche che dalla famiglia, di grado in grado, conducono all’Impero. Il processo che Dante descrisse nel Convivio, prevedeva, per un verso, il progressivo arricchimento del vivere politico, che dalla societas più semplice, la famiglia, perveniva alla più complessa, all’Impero. Ma, per un altro, non senza un tratto paradossale, presentava il momento della maggiore complessità (l’Impero) come quello della semplicità conseguita attraverso l’eliminazione, per mano dell’Imperatore, di ogni cupidigia. Insomma, a misura che si faceva più complesso, e procedeva lungo la via segnata dalla ragione provvidenziale, il processo (non è un paradosso) si semplificava, le passioni venivano meno, i contrasti si spegnevano nella pace. Un critico malevolo, ma non stupido, avrebbe potuto dire che, concepito così, l’Impero era la tomba della politica. Non era infatti, nel pensiero di Dante, il momento culminante di un processo politico condotto a maturazione dalla forza delle legioni e governato dalle leggi. Era invece il momento culminante di una storia condotta direttamente da Dio per il tramite del popolo che si era dimostrato il migliore e affidato alle cure di un Imperatore che ne realizzava l’unità depotenziando le passione e spegnendo le cupidigie. Sotto il manto imperiale, all’interno e all’esterno, le rivalità particolari avevano termine, e, a risuonare, era la viva voce dell’Imperatore che dettava i tempi e i modi del vivere costumato, ristabilendo la pace dove le contese avessero accennato a riprendere vigore e i re particolari avessero mostrato la volontà di uscire dall’ambito che a essi era stato rigidamente assegnato. Così, fatte le debite proporzioni, si può dire che la «cerchia antica» celebrata da Cacciaguida si era bensì allargata fino a comprendere il mondo, salvo che, a ben guardare, di quella lo spazio imperiale conservava il tono morale: la grandezza non aveva ucciso la semplicità, si era piuttosto posta a guardia di essa. L’Impero romano era opera divina. Come si legge nella Monarchia, era nato ex fonte pietatis.75 Nel pensiero degli storici antichi o tardoantichi,
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la decadenza aveva cause diverse. Derivava dalla imprevedibile fortuna, dal complicarsi dei costumi e dalla loro corruzione, altre volte, come in Livio, dalla grandezza stessa dell’Impero che non riusciva a sostenere il suo proprio peso e si consumava nello sforzo a cui era costretto per non soccombervi.76 Ma, per diversa che ne fosse la spiegazione, di essa non si dubitava. Lo spettacolo della città che aveva dominato il mondo e che ora come, scriveva Pietro Pittore,77 appariva come una «spelonca di ladri», suggeriva pensieri che lentamente, andando al di là del dolore o dell’odio, si disponevano nella forma della considerazione storica. Lì la Dekadenz idee degli storici moderni aveva i suoi incunaboli. A questa storia, alla storia dell’idea della decadenza, Dante rimase estraneo. Cacciaguida aveva ammonito che quaggiù, nel mondo sublunare, ogni cosa è destinata alla morte; e le città non facevano eccezione. Anch’esse, come ogni altra cosa umana, erano condannate a tramontare: a differenza, tuttavia, dell’Impero che, se aveva conosciuto il declino a causa della sua smarrita virtù, era tuttavia esso la forza che avrebbe riacceso il suo sole e a quello, al declino, avrebbe posto rimedio. La sua vacatio testimoniava a favore del suo esserci e della certezza del suo ritorno. Era una situazione, questa che Dante viveva, sulla quale, meglio di come fin qui si sia fatto, conviene richiamare l’attenzione. Ciò che era stato colpito da una crisi che, in Occidente, aveva provocato desolazione e distruzione era, ancora e sempre, la forza che, intatta nel fondo, avrebbe presto restituito sé stessa alle provincie perdute. Questo convincimento in Dante non si spense mai. L’ultimo documento di esso è, nella Commedia, la grande invettiva di san Pietro contro i papi corrotti: un’invettiva che culmina nel pensiero della provvidenza che, come con Scipione aveva difeso «a Roma la gloria del mondo», così avrebbe strappata la Chiesa alla corruzione e, l’implicazione può ben essere resa esplicita, anche all’altro sole avrebbe ridata la luce. Intrecciato con questo, e da questo distinto, nella Commedia si dipanava tuttavia un altro filo. Accanto e sopra la fede nell’Impero, era presente in essa, e si svolgeva un tema metastorico e metapolitico che andava oltre ogni storica realizzazione e alludeva a altro. Il viaggio di Dante nella direzione della salvezza non riguardava lui soltanto. Nel suo nome, riguardava l’umanità. Così la politica e la storia andavano al di là di sé stesse, nel segno di un’apocalisse. Ma questa è materia di un altro, e ulteriore, discorso.
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Note 1. Pd XIX 28-30. 2. If IV 40-42. 3. Pg XXX 51: «Virgilio a cui per mia salute die’ mi». 4. If IV 46-63. 5. Si veda, al riguardo, S. Gentili, ‘Quindi parliamo, quindi ridiamo noi’ (Pg XXV 103: piacere e dolore nelle anime nella ‘Commedia’ di Dante, in Piacere e dolore. Materiali per una storia delle passioni nel Medioevo, a cura di C. Casagrande e S. Vecchio, Firenze 2009, pp. 149-169. 6. Pg III 31. 7. Pg III 28-30. 8. Pg III 40-45. La questione dei corpi aerei sarà ripresa, e più largamente trattata, in Pg XXV 79-108. 9. Pd XIX 85-90. 10. Pd XIX 86-90. 11. If XXXIV 100-126. 12. Si veda, al riguardo, la nota di G. Inglese, Commedia, III, Paradiso, Roma 2016, p. 250. 13. Come mi pare che intenda Inglese, ivi, pp. 249-250. 14. Pd XIX 28-30. 15. S. Prosperi Aquitani Liber Sententiarum ex Operibus Sancti Augustini Delibatarum, 106. Quod tota infidelium vita peccatum sit, Opera, PL 51.441. 16. Sulla dottrina agostiniana della grazia, basti qui il rinvio a K. Flasch, Agostino d’Ippona. Introduzione all’opera filosofica, tr. it., Bologna 1983, pp. 172-224. E cfr. anche G. Lettieri, L’altro Agostino. Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi del ‘De doctrina christiana’, Morcelliana, Roma 2002, pp. 307-457. 17. Abelardi Introductorium ad Theologiam, PL 178, 1005 (e cfr. G. Inglese, Il destino dei non credenti. Lettura di ‘Paradiso’ XIX, in «Cultura», 42 (2004), p. 325, che non cita però il passo). 18. Thomae Summa theol. I 2, q. 109, aa. 6 e 7. Si veda, sulla questione, P. Porro, Divine Predestination. Human Merit and Moral Responsability, in Fate, Providence and Moral Responsibility in Ancient Medieval and Early Modern Thought. Studies in Honor of Carlos Steel, ed. by P. d’Hoine and G. van Riel, Leuven 2014, pp. 553-570. 19. Mn II vii 4-7. 20. Thomae Summa theol. 2 2, q. 10, a .4. 21. Per il chiarimento dell’accenno al centurione Cornelio, si veda Act. 10, 1-48. 22. Cfr., p. es. N. Sapegno, La Divina Commedia, III, Paradiso, Firenze 1985, p. 248. 23. If IV 129 e 143-144. 24. Traiano regnò dal 98 al 117, e il suo governo fu ostile sia ai cristiani sia agli ebrei, visti, come si legge in una lettera di Plinio il giovane, quali rappresentanti di una religione giudicata «nihil aliud quam superstitionem pravam immodicam». Cfr. S. Mazzarino, L’Impero romano, Roma 1956, p. 197. 25. Pd XIX 102-105.
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26. Le più ampie ricostruzioni della leggenda sono, ancora oggi, per quel che so, quelle di G. Paris, La légende de Trajan, Paris 1878 e di A. Graf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo, II, Torino 1883, pp. 1-45. Ma si veda anche M. Pastore Stocchi, ED V, 585 a-586 b. 27. Pg X 83-84. In realtà, la vedovella aveva chiesto «vendetta» («Segnor, fammi vendetta/ di mio figliuol ch’è morto, ond’io mi accoro»). 28. Pg X 88-89. 29. Graf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo, II, 8-9. 30. Graf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medio Evo, II, 19 n. 29, inclinò a credere che Dante apprendesse la leggenda concernente la pietà di Traiano da Paolo Diacono nella Vita di Gregorio Magno e dal Polycraticus di Giovanni di Salisbury. In una materia così intricata è difficile orientarsi. Non può escludersi, ed è forse più probabile, che la notizia della leggenda gli derivasse da Thomae Summa theol. III suppl., q. 71, a. 5, citato da Sapegno, Paradiso, p. 260. 31. Pd XI 55-57. 32. Pd XX 91-93. 33. È stato notato da pressoché tutti i commentatori che questi versi utilizzano il Vangelo di Marco: «a diebus autem Joannis Baptistae usque nunc, regnum coelorum vim patitur et violenti rapiunt illud» (Mt 11, 12). Si veda il commento stilistico che ne fa E. Paratore, Il canto XX del ‘Paradiso’ (1966), in Tradizione e struttura in Dante, Firenze 1968, p. 301. 34. If VII 78-81. 35. I due esempi, quello di Traiano e l’altro di Rifeo, hanno una diversa origine. Quale che sia la fonte a cui Dante l’attinse, il primo, come conviene ripetere, fu tratto dai testi che tramandavano la leggenda relativa alla sua salvezza (cfr. n. 21), il secondo da due versi del secondo libro dell’Eneide. Si sa, e da tutti i commentatori è stato sottolineato, che Rifeo è citato tre volte nell’Eneide, sempre e solo nel secondo libro, e soltanto ai vv. 426-428: «cadit et Rhipeus, iustissimus unus/ qui fuit in Teucris et seruandissimus aequi/ (dis aliter uisum)» Dante trasse lo spunto per presentare il caso dell’eroe troiano caduto il giorno che anche Troia cadde. È notevole, per altro, che se ad attrarre l’attenzione di Dante fu l’espressione «dis aliter uisum» che, nel testo virgiliano, sta a indicare che a Rifeo il favore era stato o non concesso o ritirato dagli dèi nei quali credeva, con quella egli affermava la vittoria, sugli dèi pagani, del dio cristiano. 36. I due momenti sono segnati con nettezza «per che, di grazia in grazia, Dio li aperse/ l’occhio ala nostra redenzion futura» (Pd XX 122-123). 37. Pd XX 118-126. Fu certo per una banale svista che Paratore, Il canto XX del ‘Paradiso’, p. 308, assegnò «al Traiano convertito», invece che a Rifeo, l’insofferenza del paganesimo, di cui si dice al v. 125. In realtà, fra il caso di Traiano che, per essere salvato, fu tratto dalla morte e restituito alla vita, e quello di Rifeo, è questo il più teologicamente impegnativo: come si vede dai versi (118-124) elaboratissimi che Dante gli dedicò: «l’altra, per grazia che da sì profonda/ fontana stilla che mai creatura/ non pinse l’occhio infino ala prima onda,/ tutto suo amor là giù pose a drittura;/ per che, di grazia in grazia, Dio li aperse l’occhio ala nostra redenzion futura:/ ond’ei credette in quella». Insomma, e si noti quel di «grazia in grazia» che, salvo errore, implica un progressivo perfezionamento della salvezza, Rifeo visse da cristiano la sua vita fra i pagani: e, come che la cosa fosse stata possibile Dante lasciò che a deciderlo fosse l’immaginazione dei lettori ai quali svelava questo prodigio. Si noti che, mentre per
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la salvezza di Traiano Dante attinse alla leggenda che al riguardo si era formata, fu lui a «inventare» la storia di Rifeo (così Inglese, Paradiso, pp. 263-264, 267). Si vedano anche A. Battistini, «Rifeo troiano» e la riscrittura dantesca della storia (Paradiso XX), in «Lettere italiane», 42 (1990), pp. 26-50, e E. Fumagalli, Il giusto Enea e il pio Rifeo, Firenze 2012. 38. Sui latinismi presenti in questo verso, cfr. Paratore, Il canto XX del ‘Paradiso’, p. 303. 39. If VII 81. 40. If VII 79-84. 41. Resta fondamentale il saggio di A. Doren, Fortuna im Mittelalter und in der Renaissance, in «Vorträge der Warburg Bibliothek», 1 (1922-1923), pp. 71-144 (su Dante, pp. 98 e 100, ma, al riguardo, la trattazione è deludente nella scelta dei passi). Sull’idea della fortuna nel mondo classico, suggestive osservazioni in C. Diano, Forma e evento. Principii per un’interpretazione del mondo greco, Venezia 1952, pp. 20 ss. 42. Pd XVI 79-84. 43. Pd XVII 89-90. Cfr., per questo, il mio Cangrande, la fortuna e l’Impero, in «Cultura», 41 (2003), pp. 175-201. 44. If VII 81 e 85. 45. Pg XVI 35-36. 46. Pg XVI 96. 47. B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967, p. 229. 48. Mn I xi 12. 49. Pg XIV 56-66. 50. Benvenuti de Rambaldis de Imola Comentum super Dantis Alagherii Comoediam, a cura di G.F. Lacaita, III, Firenze 1887, p. 451. 51. Prendo il termine nel senso datogli da A. Renaudet, Dante humaniste, Paris 1952, ma con esclusivo riferimento a questo episodio, e a un suo specifico aspetto. 52. Mn II vi 2-5. 53. Mn II viii 2. 54. Tolomeo da Lucca, De regimine principum, III, 5. 55. Ep. V 23-25 (cito da Opere minori, II, a cura di P.V. Mengaldo, B. Nardi, A. Frugoni, G. Brugnoli, E. Cecchini, F. Mazzoni, Milano-Napoli 1979, p. 546). 56. Ep. VI 23 (ed. cit., p. 558). 57. Pd XVI 76 e 78. 58. Pd XVI 142-144. 59. Pd XVI 145-147. Per l’interpretazione di questi due versi, cfr., da ultimo, Inglese, Paradiso, p. 223, 60. Pd X 136-138. 61. Pd X 18-23. 62. Pd XXVII 55-63. 63. Pd IV 76. 64. Thomae Summa theol. 1, q. 14, a. 13. 65. Per quel che so, l’esegesi moderna è concorde nel sostenere questa tesi e nel non avvedersi della distinzione che in quel luogo, senza dichiararla in termini espliciti, Dante introdusse fra la contingenza che, nella mente di Dio, non può andare e accadere oltre sé stessa ed è perciò identica alla necessità, e la contingenza quale si presenta nel mondo
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umano, dove la sua necessità è relativa al suo essere che, a differenza dell’altra, è tale che non risolve in sé ogni altra mondana necessità. Palesemente gli interpreti sono stati condizionati dall’idea, che, per non citare che questi due autori, è in Boezio e soprattutto in Tommaso, secondo cui, dove il futuro si presenta come il «non ancora deciso», lì il libero arbitrio può svolgere il suo compito. Questa tesi è presente nell’esegesi antica, e basterà, al riguardo, ricordare oltre Benvenuti Comentum, V, 189-90, F. da Buti, Commento sopra la Divina Commedia di Dante, pubblicato per cura di C. Giannini, III, Pisa 1862, pp. 498-499. Considerazioni non diverse e meritevoli tuttavia di particolare attenzione sono nella glossa di A. Lancia, Chiose alla ‘Commedia’, a cura di L. Azzetta, II, Roma 2012, pp. 1064-1065, che richiederebbe tuttavia di essere commentata a parte. Pensiero analogo in C. Landino, Comento sopra la Comedia, a cura di P. Procaccioli, IV, Roma 2001, p. 1812. L’esegesi moderna ripete in sostanza quella del Vandelli nel rifacimento del commento scartazziniano, che leggo nella sedicesima edizione (completa), Milano 1952, p. 762, e che conviene citare perché costituisce un exemplum insigne della tendenza a far coesistere proposizioni palesemente inconciliabili e discordanti: «la serie dei fatti contingenti, che seguono nel vostro mondo materiale, è tutta dipinta nel cospetto etterno di Dio, cioè tutta presente e nota ab aeterno a Lui; ma per questa conoscenza, anzi prescienza, divina essi non prendono carattere di necessità, etc.». A questa linea interpretativa hanno aderito, fra gli altri, M. Porena, La Divina Commedia, III, Paradiso, Bologna 1957, p. 160, C. Grabher, La Divina Commedia, III, Paradiso, Firenze 1940, pp. 216-217, S. Frascino nella continuazione di Vittorio Rossi, Commento alla ‘Divina Commedia’, a cura di M. Corrado, Roma 2007, p. 1346, Sapegno, Paradiso, p. 220, Inglese, Paradiso, p. 229. 66. Arist. de interp. , 18 b 5-7. 67. «Queste, e altre consimili, sono le assurde conseguenze se, di ogni affermazione e negazione, che riguardi sia gli universali come universali sia gli individuali, è necessario che delle due che si oppongono una sia vera e l’altra sia falsa, e che niente, in ciò che accade, si realizzi indifferentemente perché tutte le cose sono e divengono secondo necessità» (traduzione mia). 68. A proposito della estraneità delle tesi «necessaristiche» che «negano» la filosofia morale, si veda E. Gilson, Le thomisme. Introduction à la philosophie de saint Thomas d’Aquin, Paris 1948, pp. 342-343. 69. «Adhuc, secundum istorum positionem, destruuntur moralis philosophie principia: subtrahitur enim quod est in nobis». Cito da Thomas d’Aquin, L’unité de l’intellect contre les averroistes, suivi des Textes contre Averroès antérieurs à 1270, texte latin, traduction, introduction, bibliographie, chronologie, notes et index par Alain de Libera, Paris 1994, p. 152. 70. Non mi è chiara la ragione per la quale, in quello scritto, e a quella data, M. Barbi, Una nuova opera sintetica su Dante (1904), in Problemi di critica dantesca, I, Firenze 1934, pp. 68-69, n. 1, giudicava «sconveniente» la «citazione del Paradiso in quel trattato e per un tale particolare e a quel modo». Nemmeno mi è noto se, al riguardo, gli occorresse, nel tempo, di cambiare opinione. Ma si direbbe di no, se egli rimase fermo nell’idea che la Monarchia fu probabilmente scritta negli anni «della discesa d’Arrigo in Italia quando più vivi si fecero i contrasti e più incerto apparve il successo dell’impresa che aveva nell’esule poeta suscitate tante speranze» (M. Barbi, Dante. Vita, opere e fortuna, Firenze 1933, p. 65), se del problema dell’autocitazione tacque.
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71. Pg XVIII 55-59. 72. Cfr., al riguardo, B. Nardi, Le citazioni dantesche del ‘Liber de causis’ (1924), in Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967, p. 86. 73. Pd XX 130-132. 74. Pd XX 139. 75. Mn II v 5. 76. Liv. praef. 4: «ab exiguis profecta initiis eo creuit ut iam magnitudine laboret sua». 77. S. Mazzarino, La fine del mondo antico, Milano 1988, p. 75.
Indice dei nomi
Abelardo, 152, 427, 487 Abulafia, D., 193 Agamben, G., 409 Ageno, F., 99 Agostino, Aurelio, 112, 408, 409, 410, 427 Albanese, G., 370 Albizzoni, G., 295 Alessio, G.C., 96 Alighieri, Pietro, 98, 99, 113, 130, 132, 150, 187, 196, 202 Allegretti, P., 104 Ammonio, 478 Antonelli, R., 294 Aristotele, 12, 13, 67, 74, 98, 184, 187, 188, 201, 305, 427, 477, 478, 479 Arnaldi, G., 153, 360, 363, 368, 370 Arnaut Daniel, 228, 231 Arrigo VII, 315, 317 Asor Rosa, A., 409 Auerbach, E., 23, 97, 409 Augusto, Cesare Ottaviano, 9, 16, 17, 113, 175, 180, 256, 305, 331, 350, 359, 368 Averroè, 97, 430 Avicenna, 97, 430 Azzetta, L., 200 Baethgen, F., 198 Baldini, M., 151 Baransky, Z.G., 98 Barbero, A. 98 Barbi, M., 104, 107, 195, 298, 370, 490 Baron, H., 102
Barone, G., 363 Basilio di Cesarea, 410 Battaglia Ricci, L., 195 Battistini, A. 489 Belisario, 311, 312, 328, 343, 346, 360, 365, 366 Bellomo, S., 103, 298 Beltrami, P.G:, 100 Benucci, E., 150 Benvenuto da Imola, 118, 195, 200, 253, 272, 274, 275, 276, 279, 294, 297, 299, 362, 368, 408, 489 Bernardo di Chiaravalle, 26, 57, 100 Bertoldi, Giovanni, da Serravalle, 118 Bertolini, O., 371 Bertolini, T., 371 Bertrando del Poggetto, 35, 168 Beauvais, Vincenzo de, 364 Bianchi, M., 298 Blumenkranz, B., 410 Boccaccio, G., 34, 38, 98, 99, 100, 103, 151, 168, 195, 220, 246, 269, 297 Bolton-Holloway, J., 246 Boezio, Severino, 442, 478, 479, 490 Boldrer, Fr., 296 Bonagiunta, v. Orbicciani, B. Bonatti, Guido, 179, 197 Bonaventura da Bagnoregio, 427 Bonifacio VIII, papa, 47 Borst, A., 411 Bosco, U., 200 Bosell, J., 297
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Bracciolini, Poggio, 330 Brelich, A., 369 Brezzi, P., 363 Brilli, E., 153 Brugnoli, G., 367 Bruni, Leonardo, 102, 220 Bultmann, R., 409 Buondelmonte de’ Buondelmonti, 143, 144 Busnelli, G., 105 Buti, Francesco da, 200, 275, 298, 299, 490 Calderone, S., 363 Campana, A., 298 Canella, T. 364 Canfora, L., 298 Cangrande della Scala, 14, 15, 24, 191, 213, 446 Cantarella, E., 298 Capo, L., 363 Carlo di Valois, 246 Carlo Magno, 204, 317, 329, 330, 341 Carrai, S., 104, 106, 286 Casadei, A., 370 Casagrande, S., 109, 150, 457 Casini, T., 267, 269, 297, Cassata, L., 196 Castelvetro, Lodovico, 200 Cavalcanti, Cavalcante de’, 217 Cavalcanti, Guido, 209, 214, 214, 215, 216, 217, 224, 240, 257, 279 Cecchini, E., 295 Cesare, Gaio Giulio, 255, 305, 331, 350, 359, 368 Cesari, A., 298 Chiamenti, M., 98, 150 Chiavacci, A.M., 108 Chiesa, P., 370, Chiromono, M., 298 Claudiano, 281 Clemet, Q., 411 Compagni, D., 109 Comparetti, D., 12, 28, 98, 100, 103, 106, 247, 412 Consoli, D., 9 Contini, G., 110, 194, 209, 245, 246
Corti, M., 405, 406, 407 Corrado, M., 104, 198, 245, 490 Cosimo I de’ Medici, 102 Costantino I, imperatore, 299-371 Croce, B., 100 Curtius, E.R., 47, 296 Damiani, Pier, 264 Danielou, J., 411 Davidsohn, R., 104, 153, 193, 246 Davis, Ch. T., 370 De Angelis, V., 96 De Benedetti, S., 368 De Libera, A., 490 Della Lana, Jacomo, 277, 298 Della Vedova, R., 202 De Lubac, H., 99 Del Lungo, I., 104, 115, 118, 150, 246 De Robertis, D., 205 De Sanctis, F., 108, 368 De Sanctis, G., 369 Desiderio, re dei Longobardi, 304, 341, 346, 361 De Stefano, A., 193, 194 D’Hoine, P., 487 Diano, C., 489 Diehl, O., 367 Di Pino, G., 247 Dodds, E.R., 197 Doniger, W., 296 Doré, G., 194 Doren, A., 489 D’Ovidio, F., 101, 151, 152, 197, 200 Dumézil, G., 369 Dvornik, F., 365 Eliade, M., 296 Fenzi, E., 411 Ferrero, L., 147, 200 Ferretti, G., 151 Fiammazzo, A., 108 Federico II di Svevia, 179, 201 Filomusi Guelfi, L., 151 Finetti, B., 412
Indice dei nomi Fiorentini, L., 297 Floro, Anneo, 333, 368 Foffano, F., 99 Folena, G.F., 198 Forti, F., 108, 150 Fozio, 298 Frascino, S., 104, 198, 245, 490 Frugoni, A., 367 Fubini, M., 110 Fumagalli, 489 Funaioli, G., 100 Galasso, L., 295 Garboli, C., 209 Gargan, L., 370 Garfagnini, G.C., 150 Gelli, G.B., 103 Gentili, S., 109, 201, 202, 273, 487 Ghidetti, S., 150 Gibbon, E., 365 Gilson, E., 450 Giordano da Pisa, 429, 430 Giordano di Osnabrück, 360 Giovanni di Salisbury, 16, 99 Giovannozzi, G., 409 Giunta, C., 370 Giustiniano I, imperatore d’Oriente, 221, 299-371 Gorni, G., 199 Grabher, C., 104, 199, 200 Graf, A., 365, 488, Gregorio Magno, 112, 127, 131, 443, 444, 488 Gregory, T., 153 Griffin, N.E., 99 Grundmann, H., 369 Guerri, A., 98, 199 Guicciardini, F., 35, 351, 352 Guido da Pisa, 19, 99, 118, 168 Guinizzelli, Guido, 90, 203-248, 292 Guittone d’Arezzo, 228 Hampe, K., 194 Helbling, H., 367 Hofmeister, A., 99
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Hollander, R., 98, 101, 102, 105 Huillard-Bréholles, J.L.A, 198, 299 Indizio, G., 105. Inglese, G., 98, 99, 102, 105, 109, 201, 102, 245, 246, 247, 248, 294, 364, 366, 487, 489, 490 Jacopo da Lentini (il Notaro), 228 Jedin, H., 365 Jones, A.H.M., 371 Jung, C.G., 282 Kantorowicz, E., 193, 194, 200, 366 Kay, R., 101 Kerény, K., 282 King, E.B., 369 Kroll, G., 99 Lancia, A., 200, 279, 298, 490 Lanciotti, S., 295 Landino, C., 104, 261 Lanza, A., 199 La Penna, A., 296 Latini, Brunetto, 19, 37, 90, 100, 218, 219, 224, 240, 257, 264, 265, 279, 306, 341, 364, 370 Lattanzio, 281 Le Bachelet, X., 409, 412 Ledda, G., 106, 107 Lettieri, G., 364, 365, 487 Lot, F., 365 Lucano, M. Anneo, 19, 75, 190, 267, 296 Lucrezio Caro, Tito, 268 MacBain, B., 297 Machiavelli, N., 351, 352, 371 Maffei, D., 364, 366 Maggini, F., 246 Marigo, A., 411 Mariotti, S., 105, 369, 370 Marucci, V., 105 Mazzarino, S., 303, 364, 368, 487, 491 Mazzoni, F., 150, 362, 371 Mazzoni, G., 153
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Fra gli invidiosi
Mazzoni, S., 150 Mehus, L., 101 Mengaldo, P.V., 367, 412 Momigliano, Ar., 369 Monferrante, L., 364, Monteverdi, A., 247 Moore, Ed., 368 Morghen, R., 193 Morucci, V., 150 Mussafia, A., 246 Nannucci, V., 99 Nardi, B., 34, 99, 106, 107, 362, 367, 411, 450, 482, 491 Nocilla, D., 364 Nonni, G., 245 Notaro, v. Jacopo da Lentini Novati, F., 199
Pirot, L., 411 Pitagora, 200 Platone, 201, 286, 287 Plotino, 201 Polono, Martino 365, 371 Porena, M., 104, 150, 195, 490 Porro, R., 481 Procaccioli, P., 101, 297, 490 Prospero d’Aquitania, 487 Quaglioni, D., 369, 370
Oldcorn, A., 364 Olshki, L., 201 Orbicciani, Bonagiunta, 228 Orosio, Paolo, 333, 366 Ottone di Frisinga, 16, 99 Ovidio, 80, 188, 190, 259, 260, 261, 262, 263, 264, 265, 266, 267, 275, 280, 281, 284
Rabano, Mauro, 411 Reggio, G., 371 Reimarus, H.S., 403, 412 Renaudet, A., 96, 98, 109, 363, 489 Renier, R., 246 Renucci, P., 105, 109, 368 Ridyard, S.I., 369 Rohde, E., 197 Romagnoli, S., 108, 368 Roncaglia, A., 213, 245, 247 Ronconi, A., 105, 106 Rossi, V., 104, 198, 245, 490 Rostagni, A., 197, 200 Rubinstein, N., 196 Russo, V., 150, 151
Padoan, G., 98 Pagliaro, A., 95 Paolo di Tarso, 15, 111, 264, 393 Paratore, E. 101, 105, 365, 488 Paris, G., 488 Parodi, E.G., 99, 108, 166, 198, 199, 366 Pasquali, G., 100 Passerin, G.L., 104 Pastore Stocchi, M., 153, 488 Pepe, G., 194 Pertile, L., 110 Petrarca, F., 369 Petrocchi, G., 101, 246 Petroni, V., 152 Petrucci, E., 364 Pietro, apostolo, 18 Pietro Pittore, 486 Pietrobono, L., 104, 195, 362
Safiotti Bernardi, S., 153 Salimbene de Adam, 194, Santagata, M., 105 Sapegno, N., 104, 106, 107, 109, 151, 195, 201, 362, 368, 410 Sassi, M.G., 295 Sasso, G., 96, 97, 98, 151, 245, 246, 247, 295, 362, 366, 371, 246, 247, 295, 362, 366, 371, 408, 412 Schaller, H.M., 193 Schiaffini, A., 108 Schiano, C., 298 Schneider, F., 193 Schoell, R., 99 Scott, J.A., 108 Sigieri di Brabante, 465 Silverstein, Th., 367 Silvotti, M.T., 202
Indice dei nomi Sofocle, 98 Sordello da Goito, 29 Spargo, J.W, 100 Spitzer, L., 199 Squillacioti, P., 100 Stazio, 19, 63, 64, 80, 92, 205, 237, 245 Suetonio, Caio Tranquillo, 250, 256 Sundby, Th., 246 Tabarroni, A., 370 Tartaro, A., 109, 245 Terzi, A., 247 Tiberio, Claudio Nerone, 306, 330, 331, 334, 337, 343, 345, 355, 359, 360, 403 Tito, Flavio Vespasiano, 334, 337, 338, 341, 343, 355, 368, 370, 373, 383, 410 Tolomeo da Lucca, 460, 485 Tommaseo, N., 105, 199, 295 Tommaso d’Aquino, 67, 74, 112, 117, 131, 133, 150, 256, 408, 428, 460, 465, 469, 471, 477, 478, 479, 480, 481, 487, 488, 489 Torraca, F., 103, 271, 247 Torri, P., 100
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Traiano, Marco Ulpio, 72, 363, 431-445, 483-487 Ubaldi, Baldo degli, 366 Uguccione da Pisa, 256, 296 Usener, H., 297 Valla, Lorenzo, 305 Vallone, A., 96 Vandelli, G., 104 Van Riel, G., 487 Vasina, A., 153 Vasoli, C., 98, 99 Vatteroni, S., 100 Vecchio, S., 109, 150, 407 Verardi, A.A., 363 Vico, Giambattista, 412 Vinay, G., 369 Virgilio, Publio Marone, 19, 75, 95, 98, 110, 200 Webb, C., 99 Zancan, P., 368 Zanni, R., 103
Finito di stampare nel mese di febbraio 2023 da The Factory s.r.l. Roma