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Italian Pages 230 Year 2016
Caterina Resta
La passione dell'impossibile
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PREFAZIONE
n 'ayant jamais aimé que l'impossible. J. DERRIDA, Circonfession.
Se dovessi condensare in poche parole quel che la decostruzione ci lascerà ancora sempre da pensare come il suo stesso a-venire, sceglierei la formula alla quale più spesso Derrida ha fatto ricorso: la decostruzione è l'esperienza dell'impossibile. Non tanto un metodo o l'ennesima dottrina filosofica, tanto meno una "scuola" di pensiero o, peggio, una setta esoterica. La decostruzione, innanzitutto, è il nome di una certa .. inappropriabilità" di quel che accade, l'esperienza, sempre perturbante, di una estraneità irriducibile che, come uno spettro, infesta quanto riteniamo più 'proprio', ossessionandolo e destinandolo alla rovina. Prima ancora di nominare la singolare e inimitabile pratica di pensiero di Derrida, essa allude a quanto, in ogni momento, avviene, ad un ça se déconstruit già da sempre in corso. Decostruzione è allora il nome di quanto non cessa di avvenire in ogni istante, di un pensiero del possibile come impossibile. Che si tratti della questione del segreto o del tema della morte, sempre intrecciato a quello della vita; che si affronti il problema dell'economia, in quanto legge del proprio e dell'appropriazione e del contro-movimento di dis-appropriazione che la decostruisce, o ci si interroghi sulla traduzione, sempre, al tempo stesso, necessaria e impossibile; che si vada alla ricerca di un'altra politica, al di là dell'orizzonte degli Stati-nazione e della logica della sovranità, o si tenti di decostruire, anche attraverso la preziosa risorsa della psicoanalisi, il "principio di potere" che alimenta il fantasma di un io onnipotente, incapace di riconoscere nella morte il proprio limite, il pensiero di Derrida 9
sembra invitarci a muovere un passo al di là del possibile, verso un im-possibile che non ha nulla di negativo. La decostruzione, dunque, non sarebbe altro che questo desiderio dell'impossibile. Tutt'altro che nichilistica o utopistica, la decostruzione è una passione "disarmanten che fa tremare di fronte al rischio insieme, sempre, promessa e minaccia - di un evento, senza possibile previsione, che si annuncia, ogni volta, con l'urto e il trauma di un'alterità irriducibile c non padroneggiabile. Essa, con la sua irruzione improvvisa, colpisce una vulnerabilità esposta, inerme, senza difese: le impone una resa senza condizioni. La passione dell'im-possibile è anche patire, passività, pazienza, per usare una sequenza cara a Blanchot e a Levinas; deposizione del Soggetto libero e autonomo, Sovrano, trasferitosi dal trono celeste a quello terrestre, senza che questa istanza teologico-politica appaia minimamente scalfita. Ogni ipseità, per essere se stessa, produce infatti il fantasma di una sovranità, di una padronanza, di un potere, la cui assolutezza proviene dalla denegazione violenta di quell'altro a partire dal quale si è costituita. Muovendosi a tutto campo nella sterminata produzione derridiana, questi saggi, da diverse angolature, tentano di affondare lo sguardo nel segreto di questo impossibile, cogliendone, volta per volta, aspetti diversi. Tutti convergenti, tuttavia, nell'unico, segreto e inaccessibile luogo di una passione senza nome. Una passione per la vita che la straripante tha11atologia derridiana non fa che riaffermare in ogni istante, dall'inizio aiJa fine, fino all'ultimo respiro. Perché affermare l'impossibile, la possibilità dell'impossibile, significherà affermare una vita la più intensa possibile, proprio in quanto capace di ospitare la morte, c riconoscere nel non potere non una resa solo negativa, una rinuncia, ma quell'eccesso di potenza in grado di smascherare, di sovvertire e di interrompere la logica del potere e del domimo. La passione dell'impossibile è il nome segreto della decostruzione, ciò che essa ci ha lasciato da pensare. ciò per cui essa trema e non cessa di far tremare quanti si lasciano "toccare" dalla potenza della debolezza, del "senza forza". de li 'im-possibile. Quanti avvertono l'urgenza di una giustizia al di là del diritto e lO
si sentono chiamati, come Abramo sul monte Moria, ad una responsabilità ogni volta singolare e unica. In uno dei suoi ultimi interventi, è proprio al tremore di un tremblement de terre) di un terremoto, di un sisma, che Derrida) non a caso, ha voluto associare la decostruzione: penso che non si comincia a pensare che in seno a questo tremore. Di colpo, non vi è più niente di garantito, più niente di solido. Ma direi anche che questa esperienza è sempre un'esperienza di responsabilità. [... ]Non vi è mai vera responsabilità senza tremore. Si trema quando si prende una decisione. Qualunque decisione. [... ) Di colpo, il corpo e il suolo tremano.[ ... ) Questo concerne il segreto o la responsabilità del segreto. Perché ogni responsabilità è, in qualche modo, segreta. 11 che significa che ogni responsabilità è singolare e ogni volta unica'. Messina, l S febbraio 20 16
l. J. DllRRIDA, La mélancolie d 'Abraham, Entretien avec M. BenNaftali, "Les Temps modemes" 669-670 (2012). pp. 48-49. I:intervista risale al mese di marzo 2004 c si è svolta a casa di Derrida, a Ris-Orangis. Il
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IL SEGRETO DELLA DECOSTRUZIONE
Mon gout du secret (a-b-s..o-1-u): je ne peux jouir q11 'à celle condition, de celte condition. J. DlìRRlDA, Envoìs.
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Una setta segreta È difficile e certamente paradossale parlare del segreto
della dccostruzione, parlarne senza che questo significhi violarlo e senza, d'altro canto, cedere al misticismo. Parlare del segreto, mantenendo il segreto. Subito dopo la morte di Derrida- com'era forse prevedibile aspettarsi - si è fatto a gara ad aprire e svuotare i cassetti, a mostrare i segni tangibili dell'elezione, ad esibire inconfutabili prove d'esclusiva amicizia: lettere, cartoline, dediche, autografi, foto ricordo, floppy disk come reliquie hanno assunto il valore di veri e propri oggetti di culto, a testimonianza di un contatto, di un rapporto diretto. Ogni sia pur piccolo, innocente reperto è stato mostrato per attestare la vicinanza, per accaparrarsene il copyright, spinti dall'urgenza di arrivare per primi, di essere stati i1 primo degli eredi, il solo, il più vicino al Maestro dei tanti discepoli, e una fiorente aneddotica ha alimentato il gossip filosofico, rinfocolato anche in seguito alla pubblicazione dell'imponente biografia di Peeters 1, che ha gettato luce persino sugli angoli più riposti della vita di Derrida. Non si tratta, beninteso, di stigmatizzare appropriazioni indebite, di rivendicare il vero, contro il falso Derrida, che, per la verità, c'è sempre stato, ha sempre circolato indisturbatamente, certo più di quello "vero", ammesso che una distinzione del genere abbia un senso. Non è mia intenzione tute-
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B. PEF.TilRS, Derrida, Paris, Flammarion, 2010.
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larc l'ortodossia di una chiesa contro il rischio- sempre incombente quando ci sono delle chiese - di provocare n moltiplicarsi delle eresie. Niente sarebbe più ridicolo a proposito di Derrida, che ha praticato e teorizzato l'eresia assoluta. È proprio lui ad avercelo insegnato: non c'è fedeltà che non viva del suo tradimento, né giuramento senza spergiuro. La questione è, senunai, quella deH'appropriazione in quanto tale, del diritto di proprietà esclusiva, sempre alleato con l'istanza di un ìo, che rivendica padronanza, sull'altro come su di sé. Dell'appropriazione dell'inappropriabile, di ciò che appartiene al segreto e che deve restare segreto, pena il cattivo gusto, il pessimo bJUSto del segreto. Proprio per il suo "gusto del segreto", la decostruzione è stata spesso tacciata di esoterismo e i suoi "affiliati" considerati i membri di una sorta di società segreta. Derrida, con la sua consueta ironia, ha efficacemente descritto i tratti di questa setta segreta e iniziatica, nella caricaturale - ma certo diffusa immagine condivisa dai suoi detrattori: Quelli che ancora oggi denunciano per esempio nella "decostruzione", nel pensiero della differen7.a o della scrittura una risorgenza imbastardita della teologia negativa sono anche coloro che sospettano volentieri quelli che chiamano i decostn1zionislì di formare una setta, una confraternita, una corporazione esoterica, o addirittura, più volgarmente una cricca, una gang o, cito, una "mafia". [... ] Quelli che conducono l'istruttoria o il processo dicono o si dicono, in successione o in alternativa: l. Costoro, gli adepti della teologia negativa o della decostru:lione (poco imporla, agli accusatori, della differenza), debbono proprio avere un segreto. Nascondono qualcosa visto che non dicono niente, parlano in modo negativo, a ogni domanda rispondono "no, non è così, non è cosi semplice", e in sostanza dicono che ciò dì cui parla· no non è né questo, né quello, né un ter1.o termine, né un concetto, né un nome, insomma non è e quindi non è niente. 2. Ma siccome, palesemente, questo segreto non si lascia determina· re c, come loro stessi riconoscono, non è niente, costoro un segreto neppure lo hanno. Danno a vedere d'averne uno per raggrupparsi intorno a un potere sociale fondato sulla magia di una parola abile nel parlare per non dire niente. Questi oscurantisti sono dei terroristi che richiamano alla mente i sofisti. [ ... ] 3. Se li sapete interrogare, finiranno con il confessare: "il segreto è che non c'è segreto, ma vi sono almeno due modi di pensare o di dimostrare questa proposizione''. etc. Giacché, esperti nell'arte dello
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scansare, sono più capaci di negare o denegare che dire alcunché. Sono sempre bravi a evitare di parlare pur parlando molto c ••spaccando un capello in quattro'' [... ). Sono abbastanza perversi da ren· derc il loro esoterismo popolare e alla moda2•
Potrà sfuggire un discorso sul segreto della decostruzione alla parodia sempre incombente di questo clìché? Non ho cominciato anche io con il denegare, con l'evitare, con il parlare tacendo, con i1 tacere parlando c con tutti quei trucchi del mestiere che ogni buon decostruzionista conosce? Non ne sono sicura. Forse la decostruzione, il suo segreto da pulcinella, non è altro che questo perverso gusto di non essere diretti, immediati, spontanei, di essere terribilmente e inutilmente complicati, penseranno in molti. .. O forse no, forse il segreto, per il quale la decostruzione mostra tanta attenzione, tanto da diventarne il cuore, il battito pulsante, richiede necessariamente molta circospezione, molte cautele, infinite precauzioni. Un lento e faticoso cammino di avvicinamento come quel1o di Abramo in terra di Moria, con suo figlio !sacco, fino a raggiungere l'altura sulla quale dovrà sacrificare il figlio prediletto a Dio che, senza apparente ragione e senza dare spiegazioni, glielo ha chiesto e al quale lui ha prontamente risposto: "Eccomi!".
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"Tutto accade in segreto"
A partire da questo celebre episodio biblico, sulla scorta soprattutto di Kierkegaard, Derrida ci introduce ai misteri del segreto, al mysterium tremendum, al segreto del segreto. Un episodio, quello di Abramo e lsacco, che, in qualche modo, sembra ossessionarlo, se è vero che, al di là deU'ampia trattazione contenuta nei due saggi di Donare la morte, esso viene menzionato,
2. J. DERRIDA, Comment ne pas parler. Dénégations, in Psyché. brvenlions de l'autro Il, Paris, Galilée, 2003; trad. it. di. R. Balzarotti, Id., Come non parlare. Denegazioni, in Psyché. Invenzioni del/ 'altro Il, Milano, Jaca Book, 2009, pp. 188·189 [ttad. parz. mod.).
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seppure solo di sfuggita, in molte altre occasionf3• Forse non è azzardato dire che la sua esemplarità è data anche dalla possibilità che, attraverso la storia di questo sacrificio richiesto, accordato e sospeso, giungano a intrecciarsi tutti i fili con i quali, da ultimo, la decostruzione ha tessuto la sua trama: l'altro come evento del tutt'altro, la relazione incondizionata con l'altro e la figura del terzo (ossia la differenza- indecidibile- tra la responsabilità incondizionata nei confronti dell'unico e quella nei confronti di tutti gli altri). la decisione, il dono, il perdono, la morte e, come centro propulsore di tutte queste questioni, il segreto. Che cosa accade "in questa terra di Moria che è il nostro habitat di tutti i giorni e di ogni secondo',.? Che cosa rivela questo episodio, quale segreto vi è custodito, come interpretare quel segreto che, in un certo senso, è il contenuto stesso di questo racconto, che ruota intorno ad un patto segreto e al silenzio da mantenere? "Tutto - osserva Derrida - accade in segreto"5 • Non avrebbe senso ripercorrere la minuziosa esegesi compiuta da Derrida, avendo costantemente sotto gli occhi, oltre aJI'episodio biblico della legatura di Isacco, anche le pagine di Timore e tremore. Cercheremo, piuttosto, di coglierne gli aspetti, almeno per noi, decisivi. Si tratta - è quasi banale affermarlo - della storia di un sacrificio, come dicevamo, richiesto, accordato c, all'ultimo istante, sospeso6• La sua interpretazione più ovvia è che si tratti
3. Troviamo un accenno all'episodio già in J. DF.RRlOA, Glas, Paris, Galilée, 1974; trad. it. di S. Facioni, Id., Glas. Campana a morto, Milano. Bompiani, 2006; cfr. anche Id., Sur parole. lnslantanés phi/osoplliques, La Tour d' Aigues, Ed. de l' Aube, 1999; lrad. it. di A. Cariolato, Id., Sulla parola. lslanta~ree filosofiche, Roma, nottetempo, 2004; Id., "Surloul pos de journalistes!", Paris, L'Heme, 2005; trad. it. di T. Lo Por1o. Id., " ...soprattutto: niente giornalisti!", Quel che il Signore disse ad Abramo, Roma, Castel vecchi, 2006. 4. J. DF.RRlDA, Donner la mort, Paris, Galilée, 1999; trad. it. di L. Berta, Id., Donare la morte, Milano, Jaca Book, 2002, p. 103. S. M, p. 93. 6. Sui problemi sollevati dal paradosso di un sacrificio richiesto, per essere poi sos~so. anche in rappor1o al sacrificio sulla croce di Cristo, si veda il dialogo tra Silvano Petrosino e Jacques Rolland in S. PF.TROSINO, Il sacrificio sospe.m. Lettera ad un amico, Milano, Jaca Book, 2000.
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del ripudio, da parte del Dio di Israele, del sacrificio umano (il che rilancerà per il cristianesimo, è bene ricordarlo, l'eccezionalità del sacrificio umano de] Figlìo di Dio su1la croce) e della messa alla prova di Abramo, per verificarne l'assoluta obbedienza. Del (il) segreto si tace, non se ne fa parola. Per meglio custodirlo? Eppure il siJenzio che avvolge l'intero racconto non può essere taciuto. Interrotto soltanto da due .. Eccomi'': quello di Abramo, che così risponde alla chiamata del suo Dio, e quello di lsacco, che così risponde all'appello di suo padre. Due risposte simmetriche che, senza chiedere spiegazioni, accolgono prontamente la richiesta dell'altro, non si sottraggono all'ingiunzione. Tutto accade in segreto e nel silenzio che da ogni parte tiene Abramo separato da tutti gli altri, segregato nel patto segreto con chi gli ha chiesto l'impossibile, di sacrificare chi ama di più al mondo. Un segreto inconfessabile, tanto che neppure Sarah, sua moglie, può esserne messa a parte, e tantomeno comunicabile a chi dovrà essere l'innoc~nte vittima designata. Storia certo di un sacrificio sospeso, ma non abolito, che anzi, proprio nella sua sospensione, resta, come la mano che brandisce il coltello, incombente, spada di Damocle in ogni istante sul punto di colpire, poichè di questo davvero si tratta, della "messa a morte dell'unico in ciò che ha di unico, di insostituibile e di più prezioso717. Il fatto che Isacco, alla fine, sarà sostituito dall'ariete, nulla toglie alla sua insostituibilità, in base alla quale, se qualcuno può morire al posto dell'altro, tuttavia nessuno può morire la morte dell"altro e ognuno non può che attendersi la "propria" morte. La sostituzione con l'animale, trasformato in capro espiatorio8, è uno stratagemma per spostare la violenza su di una
7. J. DERIUDA, Donare la morte, cìt., p. 94. 8. Com'è noto, tutta la ricerca di René Girard ruota intorno alla questione della violenza e del capro espiatorio: cfr. in particolare R. GIRARD, lA violence et le sacré, Paris, Grassé, 1972; trad. ìt. di O. Fatica e E. Czerkl, Id., La violenza e il sacro, Milano, Adelphi, 1980; Id., Des cllo:,.es cachées depuis la fondation du monde, Paris, Grassel, 1978; trad. it. di R. Damiani, Id., Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Milano, Adelphi, 1983; Id., Le bouc émissaire, Paris, Grasset, 1982; trad. it. di C. Leverd c F. Bovìolì, Id., Il capro 17
vittima (innocente) non umana, il cui sacrificio resta ancora da "sospendere" e da pensare. Come Heidegger ci ha insegnato9, nessuno. tanto meno un animale, può morire al mio posto, ed è per questo che la morte è sempre "mia". anche quando- come gli ha obiettato Levinas- si muore per l'altro 10, si sacrifica la propria vita per un altro. Non c'è sostituzione possibile di fronte alla "propria" morte 11 • Vi è dunque un doppio segreto che Abramo deve mantenere: innanzitutto il patto segreto stipulato con Dio, che non può infrangere neppure con i suoi familiari. Insostenibile solitudine che lo sospende ad una decisione impossibile, quella tra la fedeltà alla sua famiglia, e quella che deve al suo Dio. Ma vi è un segreto ancora più celato, un segreto che, in ogni caso, Abramo non potrebbe confessare, semplicemente perché neppure lui ne sa nulJa, pur sapendo di esserne messo a parte, di essere, a causa di questa con-divisione 12, segregato, separato, diviso. Abramo non sa, non conosce le ragioni di una ingiunzione così terribile. Nessuna spiegazione gli è stata data per giustificare una richiesta così crudele che rasenta la follia: "questo segreto
espiatorio, Milano, Adelphi, 1986. Si veda anche Id., Celr~i par qui le scandale arrive, Paris, Desclée dc Brouwer, 2001, con l'interessante, lunga intervis&a curata da Maria Stella Barberi. 9. Il riferimento è, ovviamente, ai celebri paragrafi dedicati all'essere-per-la-morte in M. lllliDEGOr~. Sei11 u11d Zeìt, hrsg. von F. W. von Herrmann, Gesamta11sgabe, Bd. 2, Frankfurt a.M., K!ostennann, 1977; trad. it. di P. Chio· di, Id., Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1970. 10. Cfr. E. LEVINAS, Dieu, la mori et/e temps, a cura di J. Rolland, Paris, Grasset, 1993; trad. it. di S. Petrosino c M. Odorici, Id., Dio, la mo11e e il tempo, Milano, Jaca Book, 1996. Il. È quanto ribadisce J. DERR.IDA, Donare la morte, cìt., pp. 78·81. Cfr. anche Id., Apories, Paris, Galilée, 1996; trad. it. di G. Berto, Id., Aporie. Morire- attendersi ai "limiti della veritci ", Milano, Bompiani, 1999, pp. 34-35. Per un approfondimento di questa questione, si veda i11j'ra, cap. 2. 12. Sulla condivisione del segreto mi sono più diffi.lsamcnte soffermata in C. REsTA, L'evento dell'altro. Etica e politica in Jacq11es Derrida, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, cap. 3, § S, pp. 76-88; sulla con·divisionc come partage, sulla scor1a del pensiero della comunità di Jcan-Luc Nancy, mi pennetto di rinviare a C. R•:srA, il segreto della comunità, in I.'E#ra,eo. Ostilitci e ospiUtò nel pensiero del Novecento, Genova, il melangolo, 2008.
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resta segreto per lui" 13, tenuto all'oscuro di un segreto che condivide senza condividerlo, proprio perché, in fondo, non ne sa nulla. Soggezione a un'eteronomia a causa della quale Abramo è richiamato, (ri)guardato sen?.a poter a sua volta vedere, neU 'angolo più riposto di sé, esposto, in una dissimmetria irriducibile, allo sguardo dell'altro senza poterlo vedere. Questo segreto nominerebbe allora lo scarto irriducibile, dentro di me, rispetto ad un sapere che mi viene sottratto dall'altro, al quale, cosi, sono consegnato. D'altra parte neppure è possibile dire che questo segreto mi appartiene, che un segreto, in generale, possa appartenere a qualcuno: "Forse sta qui il segreto del segreto, ovvero che non c'è sapere in suo proposito e che non è qui per nessuno. Un segreto non appartiene, non si accorda mai a un 'presso di sé' [chez s01T' 14 • Che cosa è allora accaduto sul monte Moria, quale messa alla prova vi ha avuto luogo? Scrive Derrida: "Unilateralmente assegnata da Dio, la prova imposta sul monte Moria consisterebbe appunto nel provare se Abramo è capace di mantenere un segreto: 'di non voler dire ... ', insomma. Fino all'iperbole: laddove il non voler dire è così radicale che quasi si confonde con un 'non poter voler dire., 15 • Prima di ogni obbligazione, prima di ogni richiesta specifica, vi sarebbe l'ingiunzione di mantenere il segreto, un segreto che non ha altro contenuto se non quello del rispetto ad oltranza di un rapporto esclusivo, di un patto, di un'alleanza che impegna unicamente i due soli contraenti, con l'esclusione di qualunque terzo. Parola data, giurata, quella di Abramo è votata al segreto nel momento in cui la prova consisterebbe nel dover(ne) rispondere solo a Dio, unicamente a lui e a nessun altro. In questo, allora, va colto il segreto del segreto: non nel contenuto di un comando assurdo, che, perciò, deve rimanere celato: "sacrificami il tuo figlio prediletto'\ "bensì 13. J. DERRIDA, Donare la morte, cit., p. l 55. D'altra parte, neppure il Dio di Abramo è cosi onnisciente da sapere in anticipo come Abramo si comporterà: per questo lo mette alla prova. 14. lvi, p. 123. 15. M, p. 150.
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come affenna Derrida - nel rispettare la singolarità assoluta, la separazione infinita di ciò che mi lega o mi espone all'unico, all'uno come alPaltro, all'Uno come ali.Aitro" 16 • La fedeltà di Abramo al suo Dio, fedeltà al segreto e nel segreto, di questo testimonierebbe, dell'assoluto rispetto nei confronti del rapporto ali 'unico: "È un segreto senza nessun contenuto, nessun senso da nascondere, nessun altro segreto se non la richiesta stessa del segreto, ovvero l'esclusività assoluta del rapporto tra colui che chiama e colui che risponde •Eccomi"' 17• La richiesta, dunque, non è tanto quella del sacrificio del figlio, ma queJla di una relazione esigente e smisurata, di uun'alleanza incondizionatamente singolare" 18 che suggelli l'amore folle di questa passione segreta quanto esclusiva: ..Il segreto sarà la fonna stessa della prova" 19 - affenna Derrida- e Dio il nome deUa singolarità assoluta. Il segreto del segreto è il segreto della singolarità insostituibile: è questo l'assioma incondizionato della decostruzione. Ma come pensare questo segreto del segreto, questo segreto assoluto20? Agli stessi anni di Donare la morte, risale anche Passions21 , un altro testo fondamentale per comprendere in che modo pensare il segreto. Derrida tentava qui una decostruzione del concetto di testimonianza - questione sulla quale torneremo tra poco-, dc1Ja possibilità, o meglio dell'impossibilità, di esser certi di una testimonianza, come se ogni testimonianza, al di là del suo contenuto, testimoniasse sempre a partire da un segreto e chiedesse perciò d'essere creduta sulla parola, si fondasse più
16. Ibidem. 17. lvi, p. 181. 18. lvi, p. 182. 19. J. Dr:R:RJDA, Sulla parola, cit., p. 92. 20. Per un confronto tra questo "segreto assoluto" e il Gehemnis, di cui in più occasioni parla Heidegger, mi pennetto di rimandare a C. RF.sTA, l/luogo e le vìe. Geografie del pensiero in Martin Heidegger, Milano, Angeli, 1996. 21. Donare la morte, nella sua prima versione, compare negli Atti del Colloque de Royaumont, tenutosi nel 19·90, pubblicati con il titolo complessivo AA.Vv., L'éthique du don. Jacques Derrrìda et la pe11Sée du don, Paris, MétaliéTransition, 1992. Il testo Passions. pubblicato da Galilée nell993, è datato dal· l'autore luglio 1991.
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su di un atto di fede 22, che sull'oggettività di una prova. Dunque la testimonianza testimonierebbe innanzitutto che c'è [il y a] segreto e che questo segreto non corrisponde ad alcun contenuto solo provvìsoriamente celato; esso non è riconducibile neppure ad alcun talento particolare, inimitabile e non trasmissibìle; non è pensabile come una "rappresentazione dissimulata di un soggetto cosciente"23 e neppure delJ'inconscio, né tanto meno di una soggettività assoluta. Allo stesso modo questo segreto non appartiene né alla sfera pubblica né a quella privata e non è neppure da pensarsi come "un 'interiorità privata che si avrebbe da dìsvelare, confessare, dichiarare"24 • Né fenomenale né noumenale, esso è refrattario a qualsiasi istituzione (tanto la religione, quanto l'etica, la politica o il diritto}, che perciò non può consentirne il rispetto incondizionato. Il segreto di cui parliamo non è un segreto mistico, iniziatico o che avrebbe dato luogo a qualche rivelazione. Esso si rifiuta aH 'alternativa tra il velare e lo svelare, l'invisibile e il visibile e "resta inviolabile persino quando si crede di averlo rivelato"25 • Per questo è eterogeneo alla verità come alla non verità, al suo riserbo e alla sua salvaguardia, come alla sua manifestazione. Nessun nome può nominarlo, benché se ne possa parlare, senza tuttavia violarlo:
22. "La minima testimonianza ha poco da riportarsi alla cosa più verosi· mile, ordinaria o quotidiana: richiama la fede, come un miracolo. Si propone come il miracolo stesso{ ... ]. I.:altestazionepuro, se c'è, appartiene all'esperien· za della fede e del miracolo" (J. DI:RRl.DA, Foi et Savoir. Le deux sources de la "religion "au:c limites de la simple roison, Paris, Seui l, 1996; trad. it. di A. Arbo, Id., Fede e sapere. Le due fonti della "religione " ai limiti della semplice ragione, in La religione, Annuario Filosofico europeo a cura di J. Derrida e G. Valtimo, Roma-Bari, Laterza, 199S, p. 71). Al tema della testimonianza Derrida ha dedicato in varie circostanze molta attenzione: cfr. sopral1ulto J. DERRIDA, "Ho i/ gusto del segreto", in J. DERRIDA e M. FERRARIS, "//gusto del segreto", trad. it. di M. Ferraris, Roma-Bari, Laterza, 1997; Id., Demeure. Ma11rice 8/anchot, Paris, Galilée, 1998; trad. it. di F. Garritano, Id., Dimoro. Maurice Blanchot, Bari, Palomar, 2001; Id., Poétique et politique du temoignage, Paris, I:Heme, 2005. 23. J. DER.RtDA, Passions, Paris, Galilée, 1993; trad. it. di F. Garritano, Id., Passioni. "L'offerta obliquo'", in // .fegreto del11ome. Chora Passioni, Salvo il nome, Milano, Jaca Book, 1997, p. 118. 24. lvi, p. 119. 2S. lvi, p. 120.
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"il segreto resterà segreto, muto, impassibile"26, irriducibilmente straniero ed estraneo alla parola fino al punto di non rispondere, di trincerarsi nel più intransigente silenzio della non risposta assoluta. Di quel senza-risposta che, per Levinas, è la mortc27. Questo, dunque, sarebbe il segreto del segreto, il segreto assoluto, del quale non vi potrebbe essere né oblio né memoria, né archivio c, forse, neppure la sua stessa cenere.
3.
11 segreto della singolarità
Se questo è il segreto del segreto, se queste sono le sue caratteristiche, la storia di Abramo ne scandaglia la genesi ancor più in profondità. Esso, in quanto assoluto, indica quello slegamento, quella separazione, quella segregazione che, al tempo stesso, è la condizione di ogni legame28 con l'altro e per questo, come vedremo, segna la nascita, il venire alla luce, senza che essa possa illuminarlo, di qualcuno, a partire da una risposta data all'altro e da una responsabilità ineludibili. Là dove c'è segreto, si apre lo spazio di una interiorità inoggettivabilc, di un "interno incommensurabile"29 che segna l'origine e la fine del segreto: ''Un ritiro di soggettività spirituale e di interiorità assoluta si costituisce dove il segreto può finalmente formarsi" 30• n segreto, questo segreto, rinvierebbe, dunque, a quella "struttura dell'interiorità invisibile che si chiama, in senso kierkegaardiano, soggettività"31 • Giungiamo a sfiorare qui l'aspetto cruciale
26. lvi, p. 121. 27. "la morte è il se11za-risposta" (E. LEVINAS, Dio, la morte, il tempo, cit. p. 49). 28. "È un segreto assoluto, è l' absolut11m stesso nel senso etimologico del termine, ossia ciò che è rcscisso dal legame, staccato, c che non si può legare; è la condizione del legame sociale, ma non lo si può legare: se e'è dell'assoluto, è segreto" (J. DERRIDA, "Ho il guslo del segreto", cit., p. 51). 29. J. DllRRIDA, Do~tare la morle, cit., p. 131. 30. Ibidem. 31. lvi, p. 137. Si è soffermato, tra l'altro, su questo aspetto nella sua bella postfazionc G. DALMASso,I:eccesso di sapere, in J. DERRJDA, Donare la morle, cit.
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della trattazione derridiana, sia sul piano filosofico che su quello teologico: Bisogna smenerla di pensare a Dio come a qualcuno lassù in alto, qualcuno di trascendente e in più - per sopramercato appunto - capace, meglio di qualsiasi satellite che orbita nello spazio, di vedere tutto nel più segreto dei luoghi più interiori. Forse, seguendo l'ingiunzione giudeo-cristiano-islamica ma anche rischiando di rivolgerla contro questa tradizione, bisogna pensare Dio e il nome di Dio senza questa rappresentazione o questa stereotipia idolatrica. E dire allora: Dio è il nome della possibilità per me di mantenere un segreto che è visibile all'interno ma non all'esterno.( ... ] Dal momento che ho in mc, grazie alla parola invisibile come tale, un testimone che gli altri non vedono, e che dunque è allo stesso tempo altro da me e più ìnti· mo con me di me stesso, dal momento in cui posso mantenere un rapporto segreto con me e non dire tutto, dal momento in cui c'è segreto c testimone segreto in me c per mc, c'è quello che chiamo Dio, (c'è) che chiamo Dio in mc, (c'è che) mi chiamo Dio [ie m 'oppelle Dieu], frase difficile da distinguere da "mi chiama Dio" [Dieu m 'appel/e], poiché è a questa condizione che mi chiamo o sono chiamato in segreto32 •
Il segreto non è la prova dell'esistenza di Dio né, tantomeno, l'ennesima affennazione dell'ineffabilità di un io che, come individuo, si ergerebbe integro nella sua roccaforte inespugnabile. Al contrario, che vi sia segreto, che si dia 1a possibilità di mantencrlo, è il nome di un'alterità irriducibile che costituisce l'io, di un testimone invisibile che, daU'intemo, lo separa, lo divide con una frattura irricomponibile; i1 foro interiore è questo: una crepa, una breccia nella quale, sin dall'inizio, un testimone segreto in me, il più estraneo e il più intimo al tempo stesso- dunque il più unheimlich -,stipula con me un patto segreto, apre, all'interno dell'io, uno spazio di esteriorità dentro il quale nessuno potrà mai allungare lo sguardo. Il segreto non è altro, allora. che la generazione stessa di un io come singolarità e alterità irriducibile del non identico a sé. Precisando meglio la struttura "alter-egologica" prescritta dal segreto, Derrida affcnna:
32. J. OERRIDA, Do11are la morte. cit., p. 137.
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Bisogna che nella libertà. nell'io (moi], coscienle o inconscio, il rapporto a sé, il sempre-mio dell'esistenza (la Jemeinigkeit del Dasein, etc.), il proprio della proprietà [ ... ].bisogna che vi sia qui non soltanto una divisione ma una radicale non-identità a sé affinché il segreto sia possibile.[ ... ] Il segreto che, prima che io lo condivida con questo o quello o con nessuno, mi divide [partage] radicalmente, al punto che ciò che dipende solo da me, la mia libertà c la mia responsabilità, la mia capacità di segreto, mi viene non so da dove, da un altro, da un altro mc o da un non-me, da un non-sé, mi "piomba (casca) addosso.. secondo la fonnula dell'auto-eteronomia33 .
Il segreto, dunque, non solo schiude lo spazio interiore entro il quale soltanto una singolarità unica e insostituibile può custodirsi, ma, al tempo stesso, introduce in esso un fuori, una esteriorità, imponendo una auto-eteronomia, una alter-egologia radicale: "io sono segreto, io sono nel segreto [au secret] come un altro. Una singolarità è per essenza nel segreto [au secret]" 34, così come "altri [autrui] è segreto perché è altro"3s. Portando alle sue conseguenze più radicali lo stesso assunto di Levinas36, secondo Derrida: Se Dio è il tutt'altro, la figura o ìl nome del tutt'altro, ogni altro è M l'altro [tout autre est tout autre]. [ ... ]Ciascun altro, ogni altro (tout ardre} è infinitamente altro nella sua singolarità assoluta, inaccessibile, solitaria, trascendente, non manifesta, non presente originaria-
33. Si tratta di alcuni srralci del seminario di Derrida dal titolo Répondre du secrel, tenuto ali'École des hautes étudcs en sciences socialcs nel 1991, ancora inedito, citati in G. MICHAUO, Tenir au secret (Derrida, 8/anchot), Paris,
Galilée, 2006, pp. 29-30. 34. J. DERJUDA, "Amrui est secrer parre qa1 'il est autre ", in Papier Muchine, Paris, Galilée, 200 l~ trad, it. c cura dì S. Maruzzella. Id., Al di là delle apparenze. L'altro è segreto perché è altro, Milano-Udine, Mimesis, 2010, p. 49 [trad. par.~:. mod.]. 35. Ibidem. 36. "Uno spartito tiene in serbo la possibilità di riservare la qualità del tutt'altro - altrimenti detto del/ 'J'nfinitamellle altro - a Dio, a un solo altro in ogni caso. L'altro spartito attribuisce o riconosce questa infinita alterità del tutt'altro a ogni altro: altrimenti detto a ciu:uno, a ogni uno, per esempio a ciascun uomo c a ciascuna doMa, ovvero a ciascun vivente, umano o meno" (J. DF.RJUDA, Donare la morte, cit., p. 116). 24
mente al mio ego[ ... ], quello che si dice del rapporto di Abramo con Dio si dice del mio rapporto sen?.a rapporto con ogni altro come tutt'altro, in particolare con il mio prossimo o con i miei che mi sono tanto inaccessibili quanto lahvè. Ogni altro [tout autre] (nel senso di ciascun altro) è tutt'altro [tout autre] (assolutamente altro)37 •
La formula del segreto assoluto: "ogni altro è tutfaltro'', enuncia, dunque, "l'eterologia radicale, la proposizione stessa dell'eterologi& più irriducibile"38 come il segreto di tutti i segreti: l'alterità irriducibile dell'altro in me, prima ancora che fuori di me; di più: l'insorgenza di una singolarità solo là dove n segreto 1'ha attraversata, solo là dove una esteriorità irriducibile ha scavato dall'interno lo spazio vuoto di un'interiorità, una cavità, una "cripta", come la chiama Derrida, senza speculazione, ossia senza riflessività, in cui un segreto può essere mantenuto e la promessa di tacerne, stretta nell'alleanza con l'altro, rispettata. "Ogni altro è tutt'altro.. significa allora che, all'origine dell'io, c'è la risposta alla chiamata dell'altro, il segreto di un patto e di un'alleanza che bisogna mantenere, di cui devo rispondere: "non vi sarebbe segreto senza impegno davanti all'altro"39 • Ogni io non è altro, all'origine, nella sua origine. che la promessa di un segreto da con-dividere. Per questo parlare [Sprechen] è in primo luogo promettere [Versprechen] 40 , un
37. lvi, pp. IlO- 111. 38. M, p. 115. 39. J. DeRRIDA, Genèses, gém!alogies, genre~· elle génie. Les secrels de l'archive, Paris, Galilée, 2003, p. 30. 40. Derrida ha affermato in nwnerose circostarur.c il carattere di "promessa" del linguaggio, innanzitutto in riferimento alla Zusage di Heideggcr, cui è dedicata una lunga nota in J. DEJUUDA, De l'esprit. 1/eidegger ella ques1io11, Paris, Galilée, 1987; trad. it. di G. Zaccaria, Id., Dello spirito. Heidegger e la questione, Milano, Feltrinelli, 1989, pp. 110-115, nota 14; un altro spunto importante viene offerto dalla "traduzione" di Paul de Man del celebre Die Spraclle spricht di Heidegger inDie Sprache verspricht, tesa a sottolineare che "l'essenza della parola è la promessa, che non si dà parola che non prometta" (J. DERRIDA, Mémoire pour Pau/ de Man, Galilée, Paris 1988; trad. it. di G. Borradori ed E. Costa, Id., Memorie per Pau/ de Man, a cura di S. Petrosino, Milano, Jaca Boo~, 1995, p. 83). Infine, in implicita consonanza con quanto sostenuto da Lcvinas, per il quale l'essenza del linguaggio "sia nell'interpellanza, nel vocati-
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rivolgersi premuroso a1l'altro~ una risposta e un dover rispondere prima di ogni domanda. Il segreto non alludeJ come abbiamo già detto, ad un contenuto, non è qualcosa, ma~ piuttosto, un chi, "è sempre un o una 'chi', il divenire 'chi' di qualcosa [ça)'"' 1, come a dire che solo a partire dal segreto, dal patto segreto stretto con l'altro, posso diventare qualcuno, alter-cgoità in quanto singolarità insostituibilc. Ancora più radicalmente rispetto a Levinas, non il Medesimo e l'Altro e neppure l'Altro nel Medesimo, ma altro alterato dall'altro, altro per un altro già da sempre inappropriabile perché spartito, diviso da un patto segreto con l'altro. Un segreto che mi divide e solo per questo posso condividere con l'altro senza condivisìone42, poiché non si tratta di un sapere che abbiamo in comune, ma di un segreto che è tale proprio perché, come Abramo di fronte alla richiesta di Dio, non ne so nulla: "condividere un segreto, non significa conoscere o rompere il segreto, significa condividere un non so che: nulla che si sappia, nulla
vo" (E. LEVINAS, Totalité et Jnjì11i. Essai sur l'extériorilé, La llaye, Nijhoff, 1961; trad. it. di A. Dell'Asta, Id., Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità, ~ilano, Jaca Book, 1980), leggiamo in J. DERRIDA, Le monolingrtìsme de l'autre 011 la prothèse d'origine, Paris, Galilée, 1996; trad. it. di G. Berto, Id., Il m01wUnguismo dell'altro o la protesi d'origì11e, a cura di G. Beno, Milano, Cortina, 2004, pp. 89-91: "Ogni volta che apro la bocca, ogni volta che parlo o scrivo, prometto. [... ] Non è po.uibile parlare al di fuori di questa promessa che dà, ma promettendo di darla, u11a lingua, l'unicità dell'idioma.[ ... ) Questa promessa assomiglia aJ saluto rivolto all'altro, all'altro riconosciuto come altro tutt'altro (ogni altro è tutt'altro, quando una conoscenza o un riconoscimento non bastano), all'allro riconoscimo come mortale, finito, in abbandono, privato di ogni oriu.ontc di speranza". Sulla promessa si veda anche J. DERRJDA, Avances, préface à S. Margel, Tombeau d11 dieu artisa11, Paris, Minuit, 1995: trad. it. e cura di G. Bordoni, Avances, Milano-Udine, Mimcsis, 2010. Alla questione del linguaggio come promessa ha dedicato particolare attenzione M. CREPON, Les prome:rses du lcmgage. Benjami11, Rosenn...-eig. lleidegger, Paris, Vrin, 200 l; per quanto riguarda più specificamente Derrida. si veda la discussione tra J. Dcrrida e C. Malabou, M. Crepon, M. de Launay, Question à Jacq11es Derrida, in AA. Vv., La philosopllie Ofl risque de la promesse, sous la direction dc M. Crépon, Paris, Bayard, 2004. 41. J. DERRIDA, Genèses, généa/ogie.f, genres et/e gé11ie, ci t., p. 31. 42. "È la condivisione di ciò che non si condivide: sappiamo, in comune, di non avere nulla in comune" (J. DERRIDA, "Ho il gusto del segreto", cit., p. 52).
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che si possa dcterminare'"'13• Ma allora, come pensare, che nome dare ad un segreto inconfessabile perché neppure saputo, a un segreto di niente, talmente segreto da essere indefinibile e inafferrabile, ad un segreto che chiede solo d'essere mantenuto e ad una condivisione nella quale niente c'è da condividere, se non l'osservanza di questo stesso segreto? Non è forse "fede" il nome più appropriato per questo segreto, quella fede che, prima ancora d'essere tradotta e ridotta in un codice religioso, allude all'assenso, al consenso, alla risposta e alla responsabilità dovuta all'altro dal primo istante in cui un'alJeanza segreta mi genera, a partire dall'altro, come quell'altro che sono? "È la verità segreta della fede come responsabilità assoluta e come passione assoluta, la 'più alta passione'. dice Kierkegaard't44.
4.
Il segreto della responsabilità
Il segreto assoluto è. dunque, non solo segreto della singolarità, di quella singolarità che abbiamo visto sorgere nel segreto di un foro interiore aperto dall'altro in me, ma, proprio per questo, è risposta, assenso che accoglie l'altro e risponde a lui nell '"Eccomi" di Abramo, cui fa eco )'"Eccomi" di suo figlio !sacco. Una risposta che è anche rispondere dell'altro, davanti all'altro. Ma come pensare una responsabilità au secret, ciò che lega "la responsabilità infinita al silenzio e al segreto"45 ? E in che modo essa può dar luogo a qualcosa come una decisione responsabile? Ancora sulla scorta di Kierkegaard, Derrida ha spesso insistito sulle aporie deJla responsabilità e deJla decisione, le quali vanno pensate a partire non daWistanza del soggetto, ma di un io segregato, abitato dal segreto dell'aJtro. Abramo, più di ogni altro, è l'emblema dell'insanabile contraddizione tra, da una parte, la legge dell'assoluta fedeltà all'unico, che lo reclama
43. J. l)llRRIDA, Donare la morte, cit., p. 112. 44. Ibidem. 45. lvi, p. 95.
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senza neppure dargli spiegazioni cd esige da lui la più desolante solitudiAe come il più intransigente silenzio, e, dall'altra, la legge del ter.to, quella dei suoi familiari, di Isacco, in primo luogo, il figlio amato sopra ogni cosa. Per questo, come ricorda Kierkegaard, l'istante della decisione è follia, in quanto è una frattura del tempo che interrompe ogni possibilità di afferrare, prendere, comprendere, sapere: "Strutturalmente in rottura col sapere, e dunque votata alla non-manifestazione, una decisione è insomma sempre segreta"46 , è la prova di un'aporia senza scampo, laddove nessuna regola, nessuna norma può più indicard una via d'uscita. Abramo decide in segreto, non parla con nessuno; trincerato e separato nella sua assoluta solitudine, decide anche lui senza dare spiegazioni, senza rispondere della responsabilità che pure si è assunto. Una responsabilità assoluta, che lo scioglie e lo separa da tutti gli altri per rispondere a uno solo, davanti all'Unico, incondizionatamente. Ma con ciò Abramo tradisce l'amore per gli altri, è disposto al sacrificio di chi più ama, per rispondere in nome di un dovere a tal punto assoluto47, a tal pun-
46. lvi, p. 110. Per la questione della decisione, che ricorre in numerosi scritti di Derrida. di fondamentale importanza è il confronto, oltre che con Kierkegaard, con Cari Schmitt, svolto in Ire densi capitoli da J. DERRIDA, Poliliques de l'amitié, Paris, Galilée, 1994; trad. it. di G. Chiurazzi,ld., Politiche dell'amicizia, Milano, Cortina, 1995. Proprio volendo prendere le distanze da un decisionismo soggertivistico, Derrida sottolinea come la decisione riguardi sempre un soggetto "esposto, sensibile. ricettivo, vulnerabile e fondamentalmente passivo" (ivi, p. 86) ed è per questo che "tma teoria del soggetto è incapace a render conto della be11ché minima decisione" (ibidem). Si tratterà, piuttosto, di pensare il paradosso di una "decisio11e passiva, una decisione originariamente segnata dall'affezione" (ibidem). Essa deve fare i conti con quell'alterità irriducibile, con un'eteronomia che, in me, decide di mc: "La decisione passiva, condizione dell'evento, è in mc sempre, strutturalmente, un'altra decisione, una decisione lacerante come decisione dell'altro. Dell'altro assoluto in me, dell'al· tro come l'assoluto che in me decide di mc" (ivi, p. 87). Sul nesso decisioneresponsabilità rinvio a C. lù:s1'A, L'evento dell'altro, eh., pp. S8-65. 47. "Il dovere assoluto che mi lega a Dio stesso. nella fede, deve portarsi al di là e contro qualsiasi dovere. (... )Il dovere assoluto (... ] implica una sorta di dono o di sacrificio che si porta verso la fede al di là del debito c del dovere. del dovere come debito" (J. DF.RRIDA, Donare la morte, cit., p. 98).
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to eccessivo, da trasgredire il dovere stesso e ciò che comunemente intendiamo con il tennine uctica": l: assoluto del dovere e della responsabilità presuppone che ogni dovere, ogni responsabilità e ogni legge umana vengano denunciati, ricusati, trascesi. Esso chiama a tradire tutto ciò che si manifesta nell'ordine della generalità univcrsaJe [ ... ).n dovere assoluto esige che ci si comportì in modo irresponsabile (perfidia o spergiuro) pur continuando a riconoscere, a confermare e riaffcrmare ciò stesso che si sacrifica, ovvero l'ordine dell'etica e della responsabilità wnane. In una parola, l'etica deve essere sacrificata in nome del dovere. È un dovere non rispettare, per dovere, il dovere etico. Ci si deve comportare in modo non etico, non responsabile, non solamente etico o responsabile, e questo in nome del dovere, di un dovere infinito, in nome del dovere assoluto. E tale nome che deve sempre essere singolare non è altro che il nome di Dio come tutt'altro, il nome senza nome di Dio, il nome impronunciabile di Dio come l'altro al quale mi lega un obbligo assoluto, incondìzionale, un dovere incomparabile, non negoziabile. I.:altro come altro assoluto, ovvero Dio, deve restare trascendente, nascosto, segreto, geloso dell'amore, della richiesta, dell'ordine che dà e che chiede di tenere se1.rreto. Il segreto è essenziale all'esercizio di questa responsabilità assoluta come responsabilità sacrificale48 •
Abramo, neJl'attimo della decisione, è reso folle a causa di un dovere che lo reclama contro ogni norma, attimo di eccezione che sospende la legge49, per rispondere ad una legge ancor più esigente, ancor più esclusiva, ancora più intransigente, quella di un amore incondizionato per il suo Dio, per quell'unico che esclusivamente lo ha reclamato. E proprio per questo dovrebbe chiedere perdono, perdono di tradire gli altri, e in primo luogo 48. lvi, p. l Ol. 49. È solo qui il ca.~ di segnalare come questo "stato di eccezione" che sospende la legge spalanca una questione immensa che, da San Paolo, giunge sino a Cari Schmin e Waher Benjamin. Mi limito semplicemente a rinviare a due testi che, tra i molti altri, possono servire per ricoslrUirc questo percorso: G. AGAMBF.N, lllempo che resta. U11 commento alla Lettera ai Romani, Torino, Bollati Boringhicri, 2000 e Id, Stato di eccezione. Homo sacer. Il, l. Torino, Bollati Boringhieri, 2003. Per quanto riguarda Derrida, si veda, in particolare, l DERRIDA, Force de loi. Le "'Fondement mystique de l'autorite ••• Paris, Galilée, 1994; trad. it. di A. Di Natale, Id., Forza di legge. Il "Jondame11to mistico del/ 'alitO· rità ",Torino, Bollati Boringhieri, 2003.
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quell'altro, l'amatissimo Isacco, che. nonostante tutto, è disposto a sacrificare. Due responsabilità, due irresponsabilità si fronteggiano e denunciano le "aporie della responsabilità"s0: rispondere all'unico e so]o dell'unico, impone il sacrificio del terzo e l'irresponsabilità nei confronti di tutti gli altri; rispondere agli altri, impone mancare nei confronti dell'unico, non rispondere al suo appello singolare. La responsabilità incondizionata nei confronti dell'altro, nella sua assoluta singolarità, costringe a trasgredire l'etica in generale; la responsabilità per il generale, per tutti gli altri, si rivela una non responsabilità, dal momento che non riguarda più la singolarità dell'unico. Questo il paradosso dell'etica c l'indecidibilità al fondo di ogni decisio· ne possibile51 • Il suo impossibile. E per questo, anche, "nessun 50. J. DERRJDA, Do11are la morte, cii., p. 95. Sl. "La decisione responsabile viene presa in questa aporia, in qucsla contraddizione tra il fatto che devo essere chiamato unicamente, come insoslituibile, a prendere questa o quella decisione davanti a un tale altro, che è al!rettanto sìngolannente insostituibilc e unico, e allo stesso tempo essere responsabile significa anche risPQndcrc dei propri atti di fronte a tutti gli altri. È al cuore di quesla aporia, di questa indecidibilità, che viene presa la decisione. È in questo che la storia di Abramo è in qualche modo emblematica, come cspcrien· 1.a dell'impossibile, in un certo qual modo" (J. DI!RRIDA, Sulla parola, cit., p. 94). Derrida radicaliu.a e sviluppa la questione posta da Levinas a proposito del rapporto tra l'altro c il tcr?.o (l'altro dell'altro), ossia del rapporto (senza rapporto) tra il piano dell'etica (il faccia-a-faccia) e quello del giuridico-politico, sui quali si soffcnna in particolare in J. DERRIDA, Adieu ò Emmanuel Lévinas, Paris, Galilée, 1997; trad. it. di S. Pc!rosino e M. Odorici, Id., Addio a Emma· nuell.évillas, Milano, Jaca Book, 1998. È proprio Levinas, del resto, a rimarcare l'inviolabilità del segreto che cara1teri7.?.8 una singolarità, nel salto- non sen· ;o.a relazione - che si produce tra etica e politica: "l.a politica deve poter essere sempre controllata c criticata a partire dall'etica. Questa seconda forma di socialità renderebbe giustizia al segreto che per ciascuno è la propria vita; segreto che non dipende da una chiusura che isolerebbe qualche ambito rigorosamente pri· vato di un'interiorità chiusa, ma segreto che dipende dalla responsabilità per altri. che nel suo avvento etico è inalienabile. A questa responsabilità non ci si sottrae ed è quindi principio di individuazione assoluta" (E. LI:'VINAS, Éthique et Jnflni, Paris, Fayard, 1982; trad. it. di E. Baccarini, ld., Eric:a e lnflnilo. Dialoglli con Pltilippe Nemo, Roma, Città Nuova, 1984, p. 98). Per quanto riguarda la figura del ter.t:o c il rapporto Ira elica e politica in Levinas, si rinvia alle penetranti analisi di R. FuLco; Essere insieme in 1111 l11ogo. Etica, Politica. Diritto nel pensiero di Emmatmel l.evinas, Milano-Udine, Mimesi s, 20 13.
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segreto è assolutamente legittimo"s2, anche se, senza segreto, senza la possibilità che il segreto sia mantenuto, non vi possono essere responsabilità e decisione. Il segreto della responsabilità consisterebbe allora nel suo ospitare in sé una i"iducibile ì"esponsabilità. Ma che la responsabilità assoluta richieda il più assoluto segreto chiarisce ancor meglio l'intreccio costitutivo della singolarità. Il segreto che custodisce, infatti, è che essa comincia dal dover rispondere all'altro; non è altro, non è altra, se non a partire da questa preliminare risposta: "i sempJici concetti di alterità e singolarità sono costitutivi tanto del concetto di dovere quanto di quello di responsabilità"s3• E ciò comporta, necessariamente, rimanere irretiti nel paradosso, nella contraddizione e nell'aporia. Il che significa, inevitabilmente, che non c'è giuramento senza spergiuro, segreto senza denegazionc, amore incondizionato dell'unico, senza tradimento di tutti gli altri e viceversa. E poiché ogni altro è tutt'altro, nulla potrà mai giustificare fino in fondo la mia preferenza per l'uno piuttosto che per l'altro, per l'uno contro tutti gli altri, o per tutti gli altri in generale, nella dimenticanza dell'uno.
5.
Testimoniare in segreto Niemand zer1gt fiir den Zeugen. P. CE.LAN, Aschenglorie. Parola ancora da dire al di là dei vivi e dei morli, che testimonia per l'assenza d'allestazione. M. BLANCHOT, Il passo al di là.
"Abramo è un testimone deJla fede assoluta che non può né deve testimoniare davanti agli uomini. Deve mantenere il suo 52. J. DERRIDA, Donare la morte, cit., p. 97. 53. lvi, p. 102.
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segreto. Ma il suo silenzio non è un silenzio qualsiasi. Si può testimoniare in silenzio? Con il silenzio?"S4. È possibileJ è pensabile- si chiede Derrida- qualcosa come una testimonianza segreta, se l'atto stesso di testimoniare sembra invece implicare necessariamente la pubblicità, l'esteriorità e l'esternazione di ciò di cui si è stati testimoni? Che cosa potrà mai dire "testimoniare di un segreto, attestare che c'è segretoJ ma senza rivelare il cuore del segretou55 ? Eppure, come abbiamo vistoJ la singolarità segregata nel segreto ospita in sé un testimone segreto e tutto il faccia-a-faccia tra Abramo e Dio non era che la prova, la messa alla prova del segreto, della possibilità di mantenere un segreto. Di questo Abramo dà testimonianza, senza tuttavia tradire il segreto che condivide senza condivisione con Dio. Egli testimonia, attesta ìl segreto senza rivelar/o, anche perché, ricordiamolo, neppure lui, in ultima istanza, lo conosce. Per quanto paradossale possa sembrare, l'impegno a custodire il segreto è una testimonianza. Il segreto suppone non soltanto che ci sia un testìmone, fosse anche per condividere un segreto, ma anche che la testimonianza non consista semplicemente nel conoscere o rare conoscere un segreto, nel condividerlo, ma nell'impegnarsi, in maniera implicita o esplicita, a serbare il segreto. In altre parole, l'esperienza del segreto, per ~uanto contraddittoria possa apparire, è un'esperienza testimoniales .
Essa presuppone il patto, il giuramento o Palleanza nel segreto, di non rivelare il segreto condiviso con l'altro. Di più: la testimonianza, ogni testimonianza è votata già da sempre al segreto, persino là dove essa richiede la pubblica attestazione. È questo, in ultima istan7.a, che la distingue radicalmente dalla prova: i1 fatto che essa presupponga necessariamente la singolarità e l'insostituibiJità di un io già abitato dall'altro, nel cui foro interiore, come un buco nero, a nessuno è dato di vedere. Ciò rende indiscemibile una testimonianza falsaJ che può essere 54. lvi, p. 107. 55. J. DERRJDA, Dimora, cit., p. 109 (cfr. anche J. DERRIDA, "Ho il gusto del segreto", cit., pp. 66-67). 56. M, p. 110.
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"vera'\ nel senso di sincera e in buona fede, da una falsa testimonianza, e perciò si tratta sempre, nell'accoglierla, di "credere", di un atto di fede con cui si acconsente alla parola dell'altro. Ogni testimonian7.a, perciò, prima ancora che attestare qualcosa di determinato, testimonia del segreto che custodisce: Ciò di cui testimonio è, innanzitutto, nell'istante, il mio segreto: resta per me riservato. Devo poter custodire segreto ciò intorno a cui testi· monio: è la condizione della testimonianza in senso stretto ed è per tale motivo che non si potrà mai dimostrare, nel senso della prova tco· rica e del giudizio determinante, che uno spergiuro o una menzogr~a hanno effettivamente avuto luogo. La confessione stessa non basta57.
Dunque, ogni testimonianza è, al fondo, confessione senza confessione di un segreto da custodire, così impenetrabile da non saperne niente, attestazione dell'impossibilità di attestare, di ciò che si rifiuta a ogni possibile testimonianza: "noi siamo i testimoni del segreto, siamo i testimoni di ciò di cui non possiamo testimoniare" 58. Un altro sguardo si posa su di me, da dentro di me, mi guarda e mi riguarda senza che io possa, a mia volta, vedere, e guarda là dove persino io non riesco a vedere, là dove, dall'esterno, nulla può trasparire. Questo segreto che mi consegna all'altro, come una lama di buio, al fondo di me, che oscura il mio stesso vedere-sapere, che rende impenetrabile qualunque auto-coscienza, è quanto la filosofia, nella sua pretesa di un dire che porti chiarezza, è costretta a denegare, a rinnegare, a spergiurare: "la filosofia si installa nell'ignoranza di ciò che c'è da sapere [à savoir], ovvero [à savoir] che c'è segreto e che esso è incommensurabile al sapere, alla conoscenza e all'oggettività"59. Quale altro discorso, che assomigli a una teologia negativa, può dire il segreto, il segreto della singolarità e dell'alleanza segreta con l'altro che la costituisce, senza ignorarlo o denegarlo e, al tempo stesso, senza tradir lo? A quale parola è data la 57. lvi, p. 108.
58. J.
DERRIDA,
Passages-
dr~
tmumatisme à la promesse, in Points de
Paris, Galilee, 1992, p. 406. 59. J. DERRIDA, Donare la morte, cit., p. 123.
souspension. E111retiens,
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chance di poter testimoniare il segreto senza svelarlo? ''C'è nella Letteratura, nel segreto esemplare della letteratura, una possibilità di dire tutto senza toccare il segreto"60, anzi, "il segreto dc1la letteratura è il segreto stesso" 161 • La sua strutturale indecidibilità tra vero e falso, tra finzione e realtà, consente alla Letteratura ..di dissimulare nella sua cifra il segreto che custodisce, certo, ma che custodisce dentro di sé, dandolo tutto a vedere, senza lasciare la minima chance di appropriarse1o'162 • Per questo Derrida può affermare che il segreto, di cui la Letteratura si fa custode, la pone nel solco di una filiazione abrarnitica, in una discendenza che, al tempo stesso, richiama e tradisce, mostrandola compiutamente desacralizzata63 • Essa innanzitutto rivendica "il diritto di dire tutto e di nascondere tutto•-64, seppure a titolo di finzione, il che la espone al suo rischio più grave, quello de1la deresponsabilizzazione65, là dove essa è chiamata, al contrario, alla iper-responsabilità66; per questo "la Letteratura può richiamare al1a più grande responsabilità, ma è anche la possibilità del peggior tradimento'067 ; d'altra parte, "il rischio di perversione, di corruzione, di deriva, è allo stesso tempo la sola possibi1ità di rivolgermi all'altro'068 • Ma la Letteratura è soprattutto testimonianza, esposizione del segreto del segreto, di un
60. l DERRIOA, Passioni, cit., p. 122. 61. J. DERRIDA, Ge~rèses, généologies, genres et le génie, cit., p. 27. 62. lvi, p. 58. 63. Cfr. J. DERRIDA, Donare la morte, cii., p. 182. 64. lvi, p. 184. 65. Dcrrida avverte questo pericolo: "la possibilità di dire tutto[ ... ] sen-
za apparentemente farsene carico, può portare alla deresponsabilizzazione. (... ) In effetti, credo che vi sia nella letteratura il rischio dell'irresponsabilità o della non-firma (dico qualunque cosa perché non sono io) o il rischio di confondere l'etica c l'estetica, il rischio di apparire, quello del feticismo; tutti questi rischi sono inerenti come possibilità alla letteratura" (J. DERRIDA, Sulla parola, cit, p. 34).
66. "ln generale, insis1o sulla possibilità di "dire tutto.. come diritto riconosciuto in linea di massima alla letteratura, per contrassegnare non l'irresponsabilità dello scrittore, di chiunque finni della letteratura, ma la sua iper-responsabilità" (M, p. 32). 67. lvi, p. 34. 68. lvi, p. 35.
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non voler dire che dice, nell'opera, "l'abisso del chiamare o del rivolgersi, senza altra legge che la singolarità dell'evento't69• Questo segreto, che è il segreto della singolarità, la Letteratura non lo tace, come Abramo, non lo riveste, come lui, del più assoluto silenzio, ma prova a dirlo e, di questo, per questo tradimento, per questo rinnegamento, che pure non è una denegazione, ma, al contrario. l'esibizione della sua "verità", la Letteratura non può che chiedere perdono, "fin dalla sua prima parola..70 • Poten7..a di eteronomia, la Letteratura ci libera all'esperienza del tutt'altro come potenza del tutt'altro, Onni-potenza-altra [Toule-puissance-aulre]. Ma erede spergiura, in questo, delle sante Scritture, crede al tempo stesso più che fedele e imperdonabilmente blasfema di tutte le Bibbie, la letteratura resta il luogo assoluto del segreto stesso di questa eteronomia, del segreto come esperienza della legge venuta dall'altro, della legge di cui la lcgislatricc non è altro che la venuta stessa dell'altro. in questa prova dell'ospitalità incondizionata che ci espone ancor prima dì ogni condizione, di ogni regola, di ogni norma, di ogni concetto71 •
Come la verità segreta della fede è "la più alta passione" dell'altro votata al segreto, così la verità segreta della Letteratura, che la Letteratura dice, senza tuttavia rivelarla, è la passione di un segreto nel quale la singolarità del tutt'altro viene custodita. Il segreto della decostruzione, per concludere, è che si dà segreto, il segreto come evento dell"altro in quanto assolutamente altro e come affermazione di un'eteronomia radicale, che mi costituisce e destituisce in quanto singolarità insostituibile, chiamata ad accogliere l'altro cui mi lega una segreta alleanza. 11 segreto è il luogo interiore e inviolabile di un'esteriorità irriducibile, il nome dell'insorgenza di un io sempre all'accusativo, perché già da sempre reclamato, nel silenzio, dall'altro. Equesto segreto è il limite stesso della decostruzione, la sua aporia, l'ostacolo insorrnontabile contro cui urta e a partire dal quale si 69. J. DERRIDA, Donare la morte, cit., p. 184. 70. lvi, p. l 85. 71. J. DERRIOA, Genèses. gé11éalogies, ge11res elle génie, cit., p. 59.
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annuncia l' indecostruibile12 • Analisi interminabile, la decostruzione sarebbe, dunque, alla fine, nella fine, l'incontro con l 'indecostruibile, a partire dal quale soltanto essa non finisce mai di finire e non arriva mai ad arrivare. I: indecostruibUe è dunque il segreto della decostruzione, il suo nome segreto e impronunciabile, come quello di Dio, del tutt'altro che è ogni altro. In quanto espressione di una singolarità insostituibile, questo nome che non può voler dire nulla, è il "cuore" deJla decostruzione, ciò che la fa pulsare e la mette in movimento, che la fa tremare. Il nome iMominabHe di un'ardente passione segreta e inconfessabile: "Una passione [... ] votata al segreto non si trasmette di generazione in generazione. In questo senso non ha storia. Questa intrasmissibilità della più a1ta passione, condizione normale di una fede che si lega così al segreto, ci ingiunge: bisogna sempre ricominciare. Si può trasmettere un segreto, ma trasmettere un segreto come segreto rimasto segreto, è davvero trasmettere? 73". La passione del segreto - quella che Derrida ci ha lasciato in eredità senza lasciarcela- non si eredita, non si trasmette, non fa storia; per questo bisogna ricominciare, per questo, in ogni istante, in ogni momento, tale passione, la passione di quel segreto che condividiamo senza condivisione, ci chiama, nell'urgenza e nell'imminenza, a custodire il segreto che ci custodisce.
72. SuJrindccostruibile, sul suo nesso con la giustii"ia (al di là del dirit· to) e con l'evento dell'altro si veda M. VEROANI, Derrida indecostruibile, in AA.Vv., L'a-venire di Derrida, a cura di G. Dalmasso, C. Di Martino, C. Resta, Milano-Udine, Mimesis, 2014. 73. J. Derrida, Donare la morte, cil., pp. 112-113.
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OSPITARE LA MORTE
Esordio
Tre scene si aprono ai nostri occhi, dall'inizio alla fine del tempo, di quel tempo che ha consumato Ja stessa filosofia e i suoi discorsi. Fine, morte deUa fiJosofia. Si, si tratterà anche di questo. È morto con Derrida non solo "l'ultimo degli Ebrei'' 1 o "rultimo degli escato1ogisti"2, come amava definirsi, ma anche certamente l 'ultimo dei grandi fi1osofi del Novecento e non ce ne diremo mai abbastanza orfani. Dunque vorrei proporre tre scene, tre sipari levati su tre dialoghi, su tre discorsi suUa morte (per Ja verità forse su quattro, se includiamo anche un decisivo intermezzo heideggeriano), ma i sipari si aprono su altri sipari che moltiplicano le scene, gli attori, le rappresentazioni. Impossibile contadi tutti. Per finire, proporrò un epilogo, non una scena, ma la fine di tutto, nient'altro che un sipario che cala e chiude la scena. Fine della rappresentazione, la fine stessa del mondo. E tuttavia, in realtà, si sarà trattato di un 'unica pièce, forse
l. J. DFJUUDA, Circonfessioll, in G. BE!IiNINGTON- J. DF.RRIDA, Jocques Derrida, Paris, Seuil, 1991; trad. il. di F. Viri, Jd., Circonfessìmre, in G. BEN· NINGTON, Derridabase- J. DERIUDA, Circonjessione, trad. it di D. De Sanlis e F. Viri, a cura di E. Ferrario, Roma, Lithos, 2008, p. 142. Sul complesso rapporto che lega Derrida alle religioni del Libro, nelle varianti ebraica, cristiana e islamica, si veda il prezioso volume di S. GF..RACI, L'ultimo degli ebrei. Jacques Derrida e l'eredità di Abromo, Mimesis, Milano-Udine, 20 IO. 2. J. DERRIDA, Circonfession, cit., p. 73: "Sarò sempre stato escatologico, se si può dire, all'estremo, io sono l'ullimo degli escalologisti".
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in tre atti, di un unico, lungo monologo, di una sola voce recitante, attraverso la quale, come un ventriloquo, tutte le altre avranno parlato. Da un'opera immensa e sterminata come una gigantesca piramide, cripta nella quale Derrida ha occultato, disseminato e custodito la sua scrittura, trarremo queste voci che vi riecheggiano, frugheremo, trafugheremo, lettera sempre rubata, qualche pagina per comporre questa sceneggiatura che vorrei offiire in omaggio a questo grande Maestro del Novecento, come segno della mia infinita gratitudine. Una sceneggiatura teatrale o più probabilmente cinematografica, che potrebbe avere come titolo: De"ida. La vie la mori. Ma annuncerebbe tutt'altra cosa rispetto al genere: "vita, morte e miracoli di Jacques Derrida"3. Tre scene o tre aui, tre dialoghi, tre filosofi condannati a morte4 , in punto di morte, sul letto di morte, già sul patibolo o di fronte al plotone d'esecuzione, colti, nell'istante della morte, a parlare della morte, a illustrare ciascuno la sua thanatologia c come sia ineludibile giungere a questo appuntamento, arrivarci a tempo debito, per quanto sempre in un certo fuori tempo, prepararsi a questo fatale incontro prendendosi cura, pre-occupandosi della morte in ogni momento della vita. Prima scena: Apprendre à vivre enfin
Prima scena, l'ultima, in ordine di tempo, quella a noi più vicina. Nella primavera del 2004 Jean Bimbaum registra un 'in3. Al quale solo in parte è riuscita a sfuggire la monumcntalc biografia di D. Pfjo:Tf.RS, Derrida, Paris, Flammarion, 20 l O. 4. Si polrebbe qui deviare il discorso verso un'altra direzione. che in questo contesto ci è impossibile seguire, interrogando il senso per cui la morte incombe sempre come una "condanna", che impone alla vita la sua fine inevitabile e sempre imminente, e i risvolti giuridici relativi alla pena di morte, ai quali Oerrida ha dedicalo la sui attenzione nel penultimo seminario biennale lcnuto ali'EHESS (cfr. J. DERRIDA, Séminaìre La Peì11e de mori l (1999-2000), éd. ~ablie par G. Bennington, M. Crépon, T. Dutoit, Paris, Galilée, 2012; trad. it. di S. Facioni, Id., LA pena di morle l (1999-2000), cd. ir. a cura di G. Dalmasso c S. Facioni, Milano, Jaca Book, 2014 e Id., Sémi11aire lA Peine de mori Il (2000-2001), éd. érablie par G. Bennington, M. Crépon, Paris, Galilée, 2015).
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tervista con Derrida, che apparirà su .. Le Monde" il 19 agosto 2004. Immediatamente dopo la morte del filosofo, nella notte del 9 ottobre dello stesso anno, l'intervista sarà ripresa in forma più o meno parziale da quasi tutti i giornali francesi ed esteri. Nate come un testamento - Derrida era già gravemente ammalato c perfettamente consapevole di avere ormai i giorni contati - queste poche pagine hanno finito con l'assumere e riassumere forse per intero il suo gesto filosofico. Fin dall'inizio esse si interrogano suJla fìne senza reticen7.a, di più: tentano di darne testimonianza. I..:avvio è dato da una citazione - piuttosto enigmatica tratta dall'incipit di Spettri di Marx, testo che risale al1993, precisamente dal suo Esordio: ..Qualcuno, voi o io, si fa avanti e diee:je voudrais apprendre à vivre enfin" 5• Apprendre significa, al contempo, imparare ed insegnare e Derrida gioca su questa ambivalenza: Si può imparare a vivere? si può insegnarlo? Attraverso la disciplina o l'apprendimento, con l'esperienza o con la sperimentazionc, si può imparare ad accettare, meglio, ad affennare la vita?[ ... ]. No, non ho mai imparato a vivere. Non del tutto! Imparare a vivere dovrebbe voler dire imparare a morire, a prendersi in carico, per accettarla, la mortalità assoluta (senza salvezza, né resurrezione, né redenzione, né per sé, né per l'altro). Da Platone in poi ecco l'antica ingiunzione della filosofia: filosofare è imparare a morire. Io credo a questa verità sen7.a obbedire a essa. Sempre meno. Non ho imparato ad accettarla, la morte [ ... ]. Resto ineducabile quanto alla saggezza del saper-morire. Non ho ancora appreso o acquisito nulla a questo proposito6.
Il filosofo morente, condannato a morte, si fa avanti e con-
5. J. DERRIDA, f:J"pectres de Marx. L'Étal de la delle. le trami/ du deuil et la nouve/le lnternationale, Paris, Galiléc, 1993; lrad. it. di G. Chiurazzì, Id., Spettri di Marx. Stato del debito. lavoro dellutlo e nuova internazionale, Milano, Cortina, 1994, p. 3. 6. J. DI!RRIOA, Je Slli.f en guerl'e contre moi méme, entrcticn avec J. Bìmbaum, "Le Monde", 19 Aout 2004; poi Apprendre à vivre enjìn. Hntretien avec Jean Bimbaum, Paris, Galiléc, 2005; lrad. il. dì G. Berto, P.A. Rovatti e D. Borca, Id., Sono in guerra contro me .fte,~.m. "aut aut" 324 (2004), p. 5.
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fessa- sì, perché questa prima scena si apre proprio con una confessione che è, al tempo stesso, un testamento e una testimonianza- il proprio fallimento, l'inanità dei propri sforzi. Certo, la filosofia dovrebbe servire almeno a questo, ad essere maestra di vita, dovrebbe insegnare a vivere, il saper vivere, e innanzi tutto, poiché è sicuramente la cosa più difficile, a saper morire. Da Platone a Heidegger risuona questo convincimento: la vita degna d'essere vissuta è quella che sa affrontare con coraggio la morte. Ora, proprio in punto di morte, giunto al termine della sua vita e del proprio esercizio filosoficoper nulla, si badi bene, rinnegato! - Derrida ammette di non esserne venuto a capo: quanto più si avvicina la fine ineluttabile, tanto meno è convinto di aver imparato a vivere, né tanto meno a morire, addirittura di non aver "appreso, nulla in proposito. Per tutta la sua vita, qui come altrove, Derrida ammette di non aver fatto altro, infondo, che tentare di prepararsi a questo trapasso, di pensare alla morte come al pensiero più ricorrente, più ossessivo: "Non posso dirle come immagino la mia morte, l'immagino in tanti modi. Spendo tante risorse della mia immaginazione in questo che per decenza non ne riempirò le sue orecchie"7, confessava in un'intervista trasmessa da France Culture tra il 14 e il 18 dicembre 1998 (ancora un altro dialogo, scena dentro la scena). Ma possiamo ricordare anche un'altra citazione e un altro dialogo, stavolta per lettera, nell'ennesimo gioco di carte postale con Catherine Malabou, cui confida in una missiva da Tunisi, tra il 19 c il 22 febbraio 1998: Sarei dunque pronto a morire? Avrò passato la mia vita a sforzanni di accettare questo (la sola fonte per me, di ciò che "accettare" potrebbe voler dire): bisognerà pure un giorno arrivarci, fare tutto il possibile per raggiungere questo bordo, e la mia vita si consuma a pensare che questa "sagge1.za" non mi verrà mai, che non vi arriverò mai. Quesle parole (''Adesso sono pronto") mi sorprendono come una lingua straniera un bambino smarrito, non mi vengono da me, questo vecchio
7. J. DERRI DA, Sur parole. lrlstalltané.; philosophiques, Paris, Éditions de l' Aube. 2004; trad. it. dì A. Cariolato, Id., Sulla parola. lçta11lo11ee filosofiche, Roma, Nottetempo. 2004, p. 68.
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codice non è mai stato il mio, vengono su di me- nel rifiuto. la protesta ìnfinita, l'incomprensione radicale del ••si deve morirc"8•
l:anno prima, da Istambul, confessava alla medesima interlocutrice di non riuscire ad allontanarsi da casa per intraprendere i numerosi viaggi, senza pensare ogni volta di non farvi ritomo9 • "Credente della morte" 10, come pure si autodefinisce, Derrida afferma di partire ogni volta con l'incrollabile certezza di non tornare mai più, come se ogni volta dovesse essere l'ultima volta. Lo stesso ossessivo pensiero dell'incombenza della morte viene rievocato in un altro dialogo, svoltosi a Torino, il 19 gennaio 1995; un'altra confessione, un'altra testimonianza: "Non penso che alla morte, ci penso sempre, non passano dieci secondi senza che la sua imminenza mi sia presente. [ ... ] In fondo, è questo che comanda tutto, tutto ciò che faccio, sono, scrivo, dico" 11 • Le citazioni si potrebbero moltiplicare, al punto da poter dire che que1lo della morte non è solo il cruccio più ricorrente di Derrida - dell'uomo Derrida - ma forse il pensiero dominante che ossessiona tutta la sua vastissima produzione filosoficaammesso che questa distinzione sia fino in fondo legittima -, daU'inizio alla fine, dalla prima all'ultima parola, tanto da costituirne probabilmente il centro propulsore. l: intero lessico derridiano ne è intriso, da parte a parte: la traccia c la scrittura, l'archivio e la cenere, la posta, l'invio, l'indirizzo e la destinerrance, la legge, la responsabilità e la testimonianza, l'amicizia, il lutto e lo spettro, il dono e il perdono, il segreto, l'aporia, l'evento e l'impossibile -l'elencazione potrebbe ancora continuare -, insomma tutte le parole di questa filosofia rivelano un inconfondibile gusto di morte e articolano una thanato/ogia senza precedenti.
8. C. MALABOU • J. DERRIDA, Jacques Derrida. La conlre-al/ée, Paris, La Quinzaine Liltéraire-Luis Vuinon, 1999, p. 267. 9. lvi, p. 15. IO. lvi, p. 17. Il. J. DtiRRIDA, "Ho il gusto del st-greto ", in J. DERRIDA e M. FERRARIS, "Il gusto del segreto", trad. i t. di M. Ferraris, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. l 05.
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Una thanatologia che, tuttavia, riconosce come il pensiero della morte c di fronte alla morte debba scontrarsi con iJ proprio limite- il limite stesso della filosofia-, con un non-sapere irriducibile, con un segreto inviolabile e inaccessibile. Per questo, nonostante l'assidua frequentazione con la morte, non vi è nulla da insegnare e niente che si possa apprendere da essa. La morte, per Derrida, come già per Heidegger e per Blanchot, seppure per ciascuno con diverso accento, vista almeno dal bordo della finitezza, la morte senza salvezza, redenzione o resurrezione, è l'impossibile, quell'impossibile verso il quale il pensiero di Derrida, dall'inizio alla fine, ha rivolto non solo la sua attenzione, ma anche la sua più tenace passione. Se è da qui, allora, che bisogna cominciare, da questa consapevolezza del carattere infinitamente finito dell'esistenza, allora, forse, la filo-sofia può solo amare, desiderare, aspirare a questa saggezza, senza tuttavia mai poterla possedere. Apprendimento nel quale si consuma tutta una vita, fino a11a morte, tra la vita c la morte, senza mai venime a capo, al quale, tuttavia, non ci si può sottrarre. Ma come tentare di imparare a vivere c da chi? Possiamo "farcela" da soli? Ritornando all'Esordio di Spettri di Marx, Derrida scrive: Ma imparare a vivere, impararlo da sé, soli, insegnarsi a vivere da .-;é (')'e voudmis apprendre à vivre enfin..) non è, per un vivente, l'impossibile? Non lo vicla la logica stessa? Vivere, per defmizione, non lo si impara né lo si insegna. Non da sé, dalla vita attraverso la vita. Solamente dall'altro e attraverso la morte. In ogni caso dall'altro sul bordo della vita.[ ... ] Eppure niente è pìù necessario dì questa saggezza 12•
No, non da sé, ma sempre a partire dall'altro si apprende quello che Derrida nega possa configurarsi esattamente come un "apprendimento" o un "insegnamento". La vita non è una "disciplina" tra le altre, non si insegna in un corso universitario, non afferisce - almeno nel senso in cui ne stiamo parlando - a nessun Settore scientifico disciplinare. La apprendiamo, forse,
12. J.
DERRIDA,
Spellri di Marx, cit., pp. 3-4.
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sempre al di là di un certo sapere. E mai nell'autoriflessività di una speculazione, dunque mai da se stessa, da un sapere della vita su stessa. La vita- ecco chi ce la insegna: la morte. La morte maestra di vita. Si tratta di quella che Derrida chiama "un'eterodidattica tra vita e morte" 13. Compito interminabile e che resta sempre da fare, sempre incompiuto e, al tempo stesso, da compiere. Che non finisce, ma semplicemente, ad un certo momento, si interrompe. No, non si tratta di un sapere, in questo insegnamento-apprendimento, almeno non nel suo senso gnoseologico; non è in gioco un conoscere, bensì "è l'etica stessa"14. Si è sempre davanti alla morte, avanti alla morte, inanticipo su si essa che, d'altra parte, giungerà sempre troppo presto o troppo tardi. Il compito, il dovere, l'imperativo categorico sarà quello di non stancarsi mai in questa rincorsa senza traguardo.
Qualcuno, uno chiunque, si fa avanti, come rivolgendosi ad un altro interlocutore invisibile o forse solo a se stesso come un dialogo dell'anima con se stessa-, e dice: "Je voudrais apprendre à vivre enfin ". Quasi fosse alla fine della vita e si accorgesse che, in fin dei conti, se ne sa sempre troppo poco, si continua fino all'ultimo a brancolare nel buio. E allora è proprio al buio, a/fondo della notte più oscura che chiede lumi, è proprio alla morte che si rivolge, apostrofandola in questo modo: "Ti prego. insegnami una buona volta a vivere. Th sei l'unica che possa davvero farlo!". A metà tra la supplica, la preghiera, l 'implorazione e la protesta, non senza, forse. una certa stizza e comunque sempre più stremato, dopo tanto domandare senza avere ottenuto risposte, l'uomo si accorge di aver trascorso tutta la sua vita ostìnandosi in questa domanda, rimanendo testardamente fedele non solo a questa domanda, ma anche alla "non-risposta assoluta " 1s, della quale non ha mai
13. lvi, p. 4. 14. Ibidem. 15. Sulla questione della "non-risposta assoluta" cfr. in particolare J. DERRIDA, Passio11. "l.'offrunde oblique", Paris, Galiléc, 1993; trad. it. di F. Garritano, Id.• Passioni. "L'offerta obliqua", in 1/.~egrelo del nome. Chora, Passioni, Sal\ro il nome, Milano, Jaca Book, 1997, pp. 121 e sgg.
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potuto forzare il silenzio. Finché, alla fine, gli viene concessa un 'ultima volta la parola, per fonnulare /'ultima domanda, come esalando l'ultimo respiro: "Forse questo è vivere, imparare a vivere? Sopportare l'impenetrabilità di questo silenzio?", sta, probabilmente, per chiedere, ma non ne avremo mai la certezza perché, proprio in quel preciso istante, proprio mentre sta per prendere fiato e iniziare a parlare, la Morte, senza il tempo d'una risposta, glie.Jo toglie, il respiro, intimando il silenzio. Lasciarsi insegnare dalla morte la vita è un apprendimento che ciascuno deve compiere, scoprire passo dopo passo, da solo, ma che giunge sempre troppo tardi, almeno un istante dopo che il nostro tempo è scaduto. Con questo apologo in stile k.afkiano cala il sipario sulla prima scena.
Seconda scena: Melete thanatou Seconda scena, quella a noi più lontana, nel tempo, ma senza dubbio la prima, la "scena originaria" della filosofia. Platone si serve della voce narrante di Fedone per mettere in scena gli ultimi momenti della vita di Socrate, le ultime parole, scambiate con i suoi più affezionati discepoli, gli ultimi istanti di vita in cui, intorno al condannato a morte, si intrecciano, nel dialogo, le ultime domande, le ultime risposte. Domande escatologiche, rivolte, dall'estremo bordo della vita, a interrogare quella soglia e il passaggio, il passo al di là che sta per varcarla. Il filosofo, il protofilosofo, cui è stata comminata la pena di morte, nel braccio della morte, poco prima di cadere tra le sue braccia, si interroga sulla morte, sulla propria morte- e come potrebbe essere altrimenti, visto che a ciascuno è assegnata la "propria" morte? - ma, al tempo stesso. sui rapporti tra morte e filosofia. Lui, che ha tenuto memorabili discorsi su Eros, adesso è su Thanatos che rivolge la propria interrogazione. Tra la morte e il filosofo, da allora, un dialogo interminabile si intreccia, sospeso su1la soglia di quella porta aperta che in Davanti 44
alla legge 16 è assegnata a ciascuno. singolarmente, e che si chiuderà solo alla fine della vita di queWunico e solo per il quale era stata spalancata, senza che l'abbia potuta varcare. Quasi che la Legge, inaccessibile dalla vita, non fosse altro, in ultima istanza, che la legge stessa della morte e non prescrivesse altro che la legge dell'Unico. Platone solleva ì1 sipario su di una scena paradossale, non priva di comicità, in cui i consolatori si fanno consolare, in cui, piuttosto che asciugare le lacrime a chi trema nell'ultimo istante, sono confortati ed esortarti dal Maestro di vita ad apprendere, sì, ad apprendere l'ultima lezione, la prima e l'ultima, l'alfa e l'omega di tutto il suo insegnamento, di quell'insegnamento che con lui ha preso il nome di filosofia. Lezione di vita, lezione di morte da impartire di fronte al limite estremo, sulla soglia che si è in procinto di attraversare. Condivisione dell'indi visibile, di ciò che separa non in parti, ma uno ad uno - ciascuno ha la sua "propria" morte, dirà, tra non molto, Heidegger - lo spettro deJla morte aleggia in questa scena d'addio e di separazione, tra quanti affettuosamente circondano Socrate e lo accompagnano, senza tuttavia poterlo seguire fino alla meta del suo ultimo viaggio, e colui che si incammina, solo, il dipartito, pronto per l'ultima partenza che non consente ritorno. Senza ambasce, senza timori o tremori, senza che la morte faccia la benché minima paura. Sublime icona del Filosofo consapevole d'essere giunto a] proprio traguardo senza tentennamenti, senza debolezze, senza cedimenti, estrema prova di un comportamento davvero virile e coraggioso, pieno di fermezza, frutto di un lungo apprendimento, di un incessante addestramento, durato tutta la vita, a morire: melete thanatou 11 •
16. Su questo racconto nel racconto di F. KAFKA, Il processo, rrad. it. di G. Zampa, Milano, Adelphi, 1978 Derrida si è soffermato in J. Dr:RRtDA, Préjugés. Devantla loi, Paris, Minuit, 1985; trad. it. di F. Vcrcillo. ld .. Pre&giudicati. Davanti alla legge, a cura di F. Garritano, Cosenza, Abramo, 1996. 17. PLATO~"F.. Fedone, 8la (si è utili:i".7.ata l'edizione a cura di E. Savino con testo originale a fronte, PLATONE, Simposio, Apologia di Socrale, Critone, Fedone, Mondadori, Milano 1991; la traduzione è stata in alcuni casi modificata).
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Scena straziante di addii, intorno a lui, il filosofo imperturbabile, tra le lacrime dci discepoli ed i soliti schiamazzi di Santippe, sua moglie, accorsa con il figlio più piccolo. Platone non manca, neppure in questa drammatica occasione, di utilizzare la sua pungente ironia (e la sua misoginia): "Bastò che ci vedesse, Santippe, c attaccò la litania, e tutte le parole di circostanza che usano le donne: 'Oooh, Socrate, è finita: ti parlemnno adesso i tuoi compagni, e tu con loro, poi mai più!'. Socrate diede un'occhiata a Critone. 'Critone' disse 'falla portare a casa"' 18• Un'occhiata complice, basta solo una strizzatina d'occhio e i due uomini s'intendono al volo: bisogna sbarazzarsi al più presto di quella fastidiosa intrusa. Ma che avrà mai detto di male, Santippe, per meritare d'essere allontanata così in malo modo? Forse cose troppo triviali, troppo poco elevate e terra terra, soprattutto troppo emotive, com'è tipico delle donne. Ha semplicemente espresso quello che le dettava il suo cuore: "ecco, guarda che tristezza, marito mio: sarà l'ultima volta che potrai ancora amabilmente conversare con i tuoi amici ... ". Santippe ne ha fatto una questione sentimentale - come usano fare le donne- mentre invece di tutt'altro si tratta! In procinto di morire, per una morte davvero degna di questo nome, sono ammissibili solo discorsi tra uomini, gli unici che siano davvero all'altezza, autorizzati a parlarne, a saperne davvero qualcosa, purché siano amanti del sapere, filosofi. Loro soJtanto sanno che l'amore della sapienza è la cosa più importante della vita, l'unica arma per non temere la morte (in verità per esorcizzarla), e non va in alcun modo confuso con nessun altro genere di amore, soprattutto non con quello di cui sono esperte le donne ... Di fronte alla morte, alla morte del filosofo, la differenza sessuale farebbe differenza per Platone. La morte, la "vera" morte, la morte che soltanto il filosofo può aspettarsi, apprendere cd insegnare. non riguardarebbe le donne, neppure se si tratta delle loro mogli, che anzi, proprio a partire da Socrate~ sono state sin dall'inizio umiliate dalla filosofia. Per tutte loro
18. Fedone, 60a.
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la morte - almeno dal punto di vista del Filosofo (e non solo socratico-platonico) - è forse poco più di un evento zoologico e probabilmente varrebbe per loro la stessa differenza ontologica che Heidegger pone tra lo Sterben, il morire "propriamente" dell'uomo, e il Verenden, il crepare dell'animale. Le donne non ne sanno nulla della morte, è vero, eppure questo non-sapere, che dovrebbe dare da pensare, che forse sfiora una verità preclusa al filosofo, interroga silenziosamente la morte e la filosofia, non ha mai smesso di intcrrogarle, segnando un Jìmite invalicabile per il pensiero. Non è forse questa l'esperienza dell'aporia 19? Dell'aporia come della morte: Holzweg, strada che si interrompe, divieto di transito, accesso negato, non si passa, arresto e sentenza di morte, arrét de morilO, senza neppure marcia indietro. Benché la porta sia spalancata, non si attraversa quella soglia da vivi. Lungo la via che conduce il protofilosofo all'incontro con la morte, questa deviazione, quadro dentro il quadro, scena dentro la scena su cui il sipario si è alzato, per richiudersi immediatamente - fine dello spettacolo e della speculazione, almeno per lei- ci ha fatto certo perdere di vista l'essenziale. Mentre la recita di questo dramma continua. Torniamo dunque alla sceneggiatura approntata da Platone. Socrate affronta con coraggio la morte, senza neppure rattristarsi, poiché consolato dalla certezza che, al di là della morte, un altro orizzonte si schiuda, ancora più promettente. Guarda la morte in faccia, ma non arretra, non si arresta di fronte a questo varco; esercitato com'è a fissarla negli occhi, non abbas-
19. Cfr. J. DERRIDA, Apories. Mourir - s 'altendre aux "limites de la vérité ", Paris, Galilée, 1996; trad. it. di G. Beno, Id.• Aporie. Morire - attendersi ai "limiti della verità", Milano, Bompiani, 1999. Alla centralità della questione dell'aporia- vera chiave dì lettura di tuno il pensiero derridiano- è dedicalo l'inlercssante e documentato lavoro di M. VEROANI, Dell'aporia. Saggio su Derrida, Padova, il Poligrafo, 2002. 20. Cfr. M. BLANCIIOT, L'arrét de mori, Paris, Gallimard, 1948 e la lettura - decisiva per il complesso della nostra trattazione - che ne fa J. DKRRIDA, Srm•iw-e, in Pamges, Paris, Galilée, 2003; lrad. ir. di S. Facioni, Sopra-vivere, in Paraggi. Str~di sr1 M(mrice Blancl1ot, Milano, Jaca Book, 2000.
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sa lo sguardo; è fermamente convinto che, oltre il buio, una luce che non acceca renderà finalmente visibile ogni cosa, senza più ombre, sew..a infingimenti2 1• Dunque questo sarà l'argomento dell'ultimo dialogo e l'estremo insegnamento del filosofo in punto di morte: "un uomo, che abbia dedicato tutta la sua vita alla filosofia, è sereno in punto di morte" 22 • Anzi, egli deve desiderarla, la morte, e augurarsi che giunga il più presto possibile, benché questo desiderio non lo autorizzi a fare da sé, ciò che solo dall'altro può venire: solo di dèi possono liberarci da quelle catene che ci imprigionano nella vita. Per questo Socrate può definire "aspiranti alla morte" i filosofi, anelanti a esalare l'ultimo respiro. La morte è una questione pneumatica, poiché nell'ultimo respiro, il soffio vitale, la psyche, può finalmente abbandonare ciò che la soffocava e incatenava, il corpo, per passare a miglior vita. Da una vita all"altra, dalla vita prigioniera del corpo a quella libera dello spirito, certo più promettente, dal sensibile all'intelligibile, dall'empirico al trascendentale: ecco che cosa taglierebbe in due con la sua falce la morte, nient'altro che una catena. Ma l'anima come potrebbe rianimarsi, distaccandosi dal corpo, se già al suo interno non fosse stata allenata a questa evasione? Nell'esercizio filosofico, non disturbata dalle passioni del corpo, l'anima si desta alla verità, è in grado di prendere un po' le distanze, di respirare di tanto in tanto, assediata e frastornata com'è da mille turbamenti, sovente preda di quelJa con-fusione, di quella commistione che la vincola al corpo. Il filosofo non può liberarla completamente in sé, né liberarsi del corpo che la opprime, non può dunque neppure attingere quella verità che è il risplendente oggetto del suo desiderio, la meta ultima del suo cammino. Può solo scorgere la via attraverso la quale avviare questo processo di liberazione dal corpo, del quale siamo schiavi e che per l'anima è una vera prigione: "se vogliamo una buona volta avere lo sguardo limpido su qualcosa; 21. Il greco Socrate non sembra qui molto distante dall'ebreo Paolo: "Ora noi vediamo come in uno specchio, in enigmi, allora invece faccia a faccia; ora conosco in parte, allora conoscerò per intero" (I Cor, 13, 12). 22. Fedone, 63e-64a.
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dobbiamo staccarci dal corpo e contemplare con la sola anima le cose in sé. E sono certo che soltanto allora potremo avere ciò che desideriamo e che amiamo: la sapienza, ma dopo che saremo morti e non certo da vivi. [ ... ]Soltanto allora l'anima starà da se stessa, separata dal corpo: prima no..23 • Non voglio dilungarmi su questi passaggi arcinoti, quasi un rituale, un rito funebre che, fin dal suo primo giorno di vita, affida aJla filosofia quella consolazione che condivide con la religione e chiede al filosofo di farsene l'officiante. Cercherò, piuttosto, di giungere rapidamente al punto che più mi interessa. Questa è allora la serena certezza con la quale Socrate affronta il suo tra-passo verso ciò che è puro, cammino di purificazione che monda da ogni immondizia del corpo, ascesi che fa ascendere l'anima, liberandola progressivamente dal carcere del corpo, fino al momento il cui la morte reciderà anche l'ultimo laccio: "non si chiama morte il distacco, Ja separazione dell'anima dal corpo?"24 • Il compito del filosofo sarà allora quello di agevolare questo taglio, di prepararlo e di prepararsi a questo momento solenne, al suo fendente- tutta una vita, per tutta la vita - all"'istante della mia morte". La morte, la separazione, la scissione, un sentiero che si biforca: da un lato un soma che come una veste finalmente si disfa, dall'altro lapsyche ansiosa di spogliarsene. Esalare l'ultimo respiro, vorrà allora dire che solo ora, a partire da queiJ'attimo e da questo taglio, si comincia davvero a respirare. Poiché la psyche, priva del corpo, non è destinata a svaporare, a dissolversi nel nulla, volando via come un soffio di vento o un po' di fumo 25 • nEin Hauch um nichts" 26, dirà, a proposito del canto, 23. Fedone, 66d-e; 67a. 24. Fedo11e, 67d. 25. È il timore di Cebete: Fedo11e, 69e·70a. 26. li riferimento è a uno dei Sonetten an Orpheus, in cui Rilke, dopo aver affennato che ,.Gesang ist Dasein", nota come, a differenza del dio, per il quale è cosa certo facile, per noi, la cui esislen.?...a. esposta alla caducità e alla finitezza, è svanire, è compito assai più arduo: ,.In Wahrheit singen ist eìn andrer Hauch. l Ein Hauch um nichts. Ein Wehn im Gott. Ein Wind" (M.R. RILKJ:. Sonelli a Orfeo /,3, in Poe.fie, trad. it. di G. Pintor, Torino, Einaudi, 1955, p. 41: "In verità canta· re è altro respiro. f È un soffio in nulla. Un calmo alito. Un vento").
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parecchi secoli più tardi, non un filosofo, ma un poeta, certo non meno iniziato ai misteri dclJa morte. I: esercizio filosofico consisterà dunque in questa pratica dì separazione, in questa incessante anticipazione della morte già dentro la vita, lungo tutta la vita, fino a renderla il più somigliante possibile aJia morte. Morto vivente, quasi uno spettro, il filosofo, da vivo, deve fare il morto, senza lasciarsi catturare dalle lusinghe o dai timori, dai piacere come dai dolori, da tutte le passioni che agitano la vita. I.:amore della sapienza dovrebbe essere "spassionato,, più forte di ogni delizia o ambascia che agitano il corpo, più forte della sua connaturata vulnerabilità. Dal momento che, prigioniera nel corpo del filosofo, l'anima è stata incessantemente esercitata a questo definitivo distacco, quando il corpo esala l'ultimo respiro, essa non è destinata all'asfissia e neppure a disperdersi come un soffio di vento. Anzi, solo ora può davvero cominciare a vivere. Mors tua, vita mea: legge crudele, spietata, che fonda il dualismo occidentale tra corpo e anima/spirito/ragione/mente e che consentirà, con il decisivo apporto di un cristianesimo platonizzato - come ha ben visto Nietzsche - di proiettare altrove, in un al di là, il mondo vero come la vera vita. Imparare a morire è ciò che, in ogni caso, attraverso la filosofia, si deve apprendere, Punica lezione di vita: "e questo non è altro se non rettamente filosofare e prepararsi serenamente a morire-: ebbene, non è forse preparazione alla morte, questa?,27 • La filosofia non sarà stata che me/ete thanatou, espressione intraducibile e che meriterebbe d'essere compresa attraverso i suoi infiniti richiami c le sue molteplici riprese. Derrida, che rilegge questo celebre passo del Fedone attraverso Patoèka28, ne propone una suggestiva "ripresa", che si fa strada tra Heideggcr e Levinas. Melete thanatou sarebbe dunque quella disciplina che insegna a morire, che, anticipando la morte, fa della filosofia un esercizio della morte: ul'anima fa filosofia fin dal primo momento, e non viene investita dalla filosofia solo accidental-
27. Fedone, 80e- 81a. 28. J. DERRJDA, Domter le mori, Paris, Galilée, 1999; trad. it. di l.. Berta, Id.. Donare la morte, Milano, Jaca Book, 2002, pp. 51-57.
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mente, poiché non è altro che questa vigilia della morte che veglia fino alla morte e su di essa..29• Benché stranamente non vi faccia, almeno in Essere e tempo, mai direttamente riferimento, Heidegger, nel suo tematizzare l'anticipazione della morte come tratto essenziale dell'essere-per-la-morte del Dasein, si collocherebbe nel solco di questi pensieri. Di più, la Sorge, la Cura stessa, che altro sarebbe se non cura della morte? Melete thanatou nominerebbe dunque, come la meditatio latina, non un semplice meditare sulla morte, ma una pratica, un esercizio preparatorio. Il verbo melo significa "darsi pensiero di,, "mi sta a cuore", "sono sollecito" e melete ha anche il significato di cura, di un esercizio attento e riguardoso, di una occupazione che è soprattutto preoccupazione. Anticipandola premurosamente, il filosofo è sempre alla vigilia della morte, vigila senza posa, veglia su di essa, affinché l'anima si risvegli, non si addormenti, vinta dal torpore del corpo. Insonnia nel cuore della notte in cui, come un ladro, l'ultimo giorno può sempre annunciarsi. In melete, in epimeleia, Derrida ci invita a percepire qualcosa di nuovo rispetto all'interpretazione data da Platone di questo "esercizio". Lo suggerisce lo stesso Heidegger che, nelJ'ultima nota del § 42 di Essere e tempo, nascosta ai margini e quasi sepolta tra le molte pagine di questo grandioso monumento funebre, accosta la Sorge alla sollicitudo della Vulgata: Già nella Stoà mérimna era un termine chiaramente definito; esso ritorna nel Nuovo Testamento nella Vulgata. come sollicitudo. Il punto di vista adottato nella presente analitica esistenziale dell'Esserci a proposito della Cura si rivelò all'autore in occasione del tentativo di un'interpretazione dell'antropologia agostiniana (cioè greco-cristiana) in riferimento ai fondamenti essenziali raggiunti nell'ontologia aristotelica30•
29. M, p. 53. 30. M. HEIDEOenir, textes réunis par R. Major, Paris. Stock, 2007; C. MATTEOT11, Jacq11es Derrida. l~'esilio nella lingua per l'ospiralitti all'altro, Roma, Il FILO, 2007; Z. HADJ·AJSSA, Traduction et déconslruclion chez Derrida, in AA.Vv., Derrida ti Alger. Un regard s11r le monde. Arlcs-Aiger, Actes Sud-Barzakh, 2008; D. SAR.A· NITl, Messionismo e traduzio11e: Benjamin e Derrida, Roma, Casini, 2009. Sulla questione della traduzione, che dunque attraversa e caratterizza tutto il pensiero
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rappresenti. in un certo senso, la parola che più di altre è in grado di nominarla e praticame il gesto. è lo stesso Derrida ad affermarlo in numerose occasìonì5. Per un verso, infatti, "la traduzione dovrebbe essere in se stessa una decostruzione"6, per l'altro,la decostruzione. se ce n'è, dovrebbe sempre dirsi al plurale, perché "ce n'è più di una, e parla più di una lingua. Per vocazione. Fin daU'inizio. era chiaro che 'decostruzioni' si doveva dire al plurale"7 • Il plurilinguismo giocato dalle pratiche decostruttive mette dunque in campo in modo programmatico, se cosi si può dire, la questione della traduzione. la quale, perciò, diventa non solo la modalità attraverso la quale le decostruzioni si praticano, ma anche la "cosa stessa" della decostruzione. Ciò spiega perché la scrittura di Derrida consapevolmente sfida il lettore e ancor più
di Derrida, mi sono già soffermata in C. RESTA, Necessità della lmduzione, in l .a misttra della differenza. Saggi su Heidegger, Milano, Guerini e AS$0Ciati, 1988, cercando di delineare il pensiero heideggeriano della traduzione nel confronto con Benjamin e Derrida. 5. Si veda, ad esempio, questa dichiarazione: "Parlare, insegnare, scrivere[ ... ] so che questo non ha senso ai miei occhi che nella prova della traduzione, attraverso un'esperienza che non distinguerei mai da una sperimentazione. Che si tratti di grammatica o di lessico, la parola[ ...] non mi interessa, credo di poterlo dire, non la amo[ ... ] che nel corpo della sua singolarilà idiomatica, cioe là dove una passione di traduzione viene a lambirla" (J. DHRRIDA, Qu 'est-ce qu'une lraduction "~levante"?, Paris, I.:Heme, 2005, p. 561). 6. J. Dr:.RRIDA, Fidélité à plus d'un. Mériter d'hériter où /11 généalogie fai t défaul, "Cahiers lntersignes" 13 ( 1998): ldiome.s nationalités deconstructions. Rencontre de Rabat avec Jacques Derrida, p. 262. 7. lvi, p. 221. Che la decos1ruzione parli più di una lingua (e nella stessa lingua), anzi che si identifichi con la pluralilà delle lingue, e dunque con l'esercizio della traduzione, Derrida lo ha atfennalo nel modo forse più netto almeno in un'occasione: "Se mai dovessi arrischiare, e Dio mc ne salvi, una sola definizione di dccostruzione, breve, ellinica, economica come una parola d'ordine, rinunciando alla frase, direi: pi1i di rma lingua" {J. DERRIDA, Mémoires pour Pau/ de Man, Paris, Galiléc, 1988: trad. it. di G. Borradori ed E. Costa, Id., Memorie per P01d de Man, a cura di S. Petrosino, Milano, Jaca Book, 1995, p. 31 ). Ma un accenno si trova già in Fini dell'11omo, conferenza che risale al 1968: "bisogna parlare parecc:hie lingue e comporre parecchi testi nello stesso tempo" {l OERRIDA, Marges- de la philosophie, Paris, Minuit, l972; trad. it. e cura di M. lofrida, Id., Margini dellafllosofia, Torino, Einaudi, 1997, p. 184).
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il traduttore, ingaggiandolo in un corpo a corpo con un testo di difficile leggibilità, che rasenta sovente l'intraducibile. Come lo stesso Derrida ha affermato: "cerco di scrivere in francese in modo intraducibile. Ho l'impressione di scrivere, quando veramente sfrutto l'idioma francese al punto che la traduzione diventa impossibile; ma talvolta la traduzione è impossibile perfino in francese!" 8• Lungi dall'essere un gesto provocatorio fine a se stesso o estetizzante, che si compiace delle sue arditezze linguistiche spesso incomprensibili e impenetrabili, oltre che intraducibili, c che utilizza a profusione idiomatismi, cosa che spesso ha attirato su Derrida e sui suoi testi l'accusa di esoterismo e voluta oscurità, la decostruzione è "legata alla que~tione dell'intraducibile'19 proprio perché è "impegnata", nel modo più rigoroso possibile, con la molteplicità delle lingue che parla e con l'impossibile compito della traduzione che si è assunto. La questione, come vedremo, si lega a doppio filo con quella dell'idioma, con il desiderio irrinunciabile, per una scrittura degna di questo nome, di una singolarità, di una firma ogni volta unica 10• Un idioma che- ci torneremo- Derrida tuttavia
8. M. TllLMON, Col/oqrlio con Derrida, "Paradosso" 2 (1992), p. 192. Sempre in questa intervista, Derrida confes.o;a che ciò che maggiormente lo attrae, in quel che passa sono il nome di 'letteratura', è ..l'esperienza del peli· siero nella lingua" (ibidem). Come ba osservato Berto, traduttrice di numerosi testi di Derrida in lingua italiana: "Se[... ] proviamo a tradurre un testo di Derrida [... ) a ogni passo incontriamo un elemento che resiste alla traduzione, che non si lascia trasporre in un'altra lingua senza l'impressione che qualcosa- o, alle volte. tutto- vada perduto, che sia impossibile[ ... ] rendere un senso che risuona nelle parole, al di la del loro significato corrente" (G. BERT0,/1 Ji:sugio della traduzione, cit., p. X). Sulla strenua resistenza alla traduzione offerta dai testi di Derrida si veda anche quanto asserisce Di Martino: "Tutti i testi di Derrida sono costruiti per rendere 'im-possibile' il compito del traduttore" (C. Dt MARTINO, Tradu"e è necessario, cioè (im)possìbile, cit., p. 115). 9. J. DliRRIDA, Fidélité à plriS d'un, cit., p. 253. l O. Come ha osservato Crepon, quello che Dcrrida chiama "il sogno" o il ..fantasma" dell'idioma ..puro", consisterebbe ncll"'invenzione di un idioma che resiste a ogni traduzione. il sogno dunque di una lingua che saprebbe dare diritto a tutto ciò che viene- una lingua che, lungi dall'appropriarsi degli esseri c delle cose, offrirebbe loro questa forma suprema di attenzione che consiste nel
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non intende "come una singolarità intatta" 11 ~pensando piuttosto a un "idioma in corso di traduzione, operante P alterità in se stesso~ in un ineluttabìle movimento di ex-appropriazione" 12 • La ricerca dell'idiomaticità, con la conseguente quasi-intraducibilità dei testi derridianì, non ha dunque lo scopo di un narcisistico divertissement, né può essere intesa come un esercizio meramente letterario - come pure spesso è stato rimproverato - ma testimonia, già nella pratica della scrittura, una responsabilità, nei confronti della Jingua, al tempo stesso poetica e politica, oltre che etica: Se mi interessa scrivere, ciò che mi guida è il desiderio di far arrivare alla lingua francese qualcosa che dapprima sembra intraducibi1c in un'altra lingua, ma ne11o stesso tempo interpel1a 1'a1tra lingua. l'idioma dcl1'a1tro, e nel corso di questa stessa sfida. Non ho l'impressione di scrivere che quando scrivo cose di primo acchito intraducibili, non per rendere un testo opaco c inaccessibile, ma, al contrario, per offrir]o o esporlo aUa traduzione - che è la lettura stessa, 1à dove essa non si precipita, al di là del1a traccia, verso la cancellazione del corpo e il misconoscimento de1la marca. Scrivere cose immediatamente traducibi1i, non è scrivere, né richiede la traduzione. Non richiede la traduzione se non ciò che si dà dapprima come intraducibile. E non soltanto in quel che i linguisti chiamano un'altra lingua, ma all'interno di una stessa lingua 13 •
Non si tratterebbe, dunque, di perseguire un~intraducibilità fmc a se stessa, né di aspirare al1'illeggibilìtà. Tutt'al contrario~ il desiderio insopprimibile di un idioma singolare, che corre sempre il rischio di chiudere la lingua nella sua incomunicabilità e di votarla al mutismo, è~ piuttosto, lo sprone indispensabile che suscita la richiesta di traduzione, la sfida e la provocazione a dire, in una lingua unica, la loro singolarità" (M. CRf:PO;o.~, Langues sa"s demeure, in Langues so"s demt-'llre, cit., p. 61 ). IL J. D!!RRIDA, Fidélité à plus d'u,, cit., p. 253. 12. Ibidem. 13. Ibidem. Un testo esemplare, a tale proposito, è certamente Sopravi~·ere, il cui Giornale di bordo -la banda testuale che scorre sotto il testo prin· cipale -, esplicìtamentc sfida e provoça ìl traduttore (J. DF.RRIDA, Survìvre, in Purages, Paris, Galilec, 2003; trad. it. di S. Facioni, Id., Sopra-vivere, in Parag. gi. Srudi su Maurice Blanchot, Milano, Jaca Book, 2000).
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misurarsi con un compito che costantemente rasenta l'impossibile e che pure appare come l'unica domanda che, al fondo, proviene da ogni lingua. Poiché, interamente traducibile, essa resterebbe muta per l,altro, dal momento che se ne sarebbe canceJlata l'irriducibile singolarità del co1po; cosi come, perfettamente chiusa entro l'autoreferenzialità solitaria e incomunieabile di un idioma assolutamente intraducibile, ancora una volta, per quanto per motivi opposti, la lingua resterebbe murata nel silenzio di un corpo dalle labbra serrate e senza voce. Se Derrida ha in diverse occasioni riaffennato il suo desiderio di idioma: "io vigilo gelosamente sull 'idiomaticità singolare di ciò che scrivo. È per questo che alcuni [... ]considerano i miei testi troppo 'letterari' e filosoficamente impuri .. 14, fino a rasentare l'intraducibile, non si tratterebbe di un rifiuto e di una chiusura autoreferenziale in una lingua ritenuta a tal punto "propria" da essere inaccessibile agli altri, ma, al contrario, del desiderio di lanciare una sfida, un appello, una richiesta ineludibile che obbliga alla traduzione, che reclama l'impegno dell'altro a una parola che, proprio là dove sembra venir meno, non deve mancare. Come se il desiderio più intransigente di una parola singolare, ogni volta la più singolare possibile, fosse già abitato al suo interno da un desiderio altrettanto imperioso di interpellare l'altro, di rcclamarlo, di pregarlo e scongiurarlo, persino, di fare tutto il possibile, anzi, di fare l'impossibile perché questa parola singolare possa essere con-divisa: rivolta già da sempre all'altro di cui e a cui è chiamata a rispondere, la lingua è sempre in traduzione, abitata già da sempre dalla parola deWaltro che la rende estranea e straniera a se stessa. Proprio perché non consiste in un metodo, ma in una moltepJicità di pratiche e in una pluralità di lingue, la decostruzione, in primo luogo, andrebbe pensata attraverso la sfida, cui non
14. J. DERRHM, "Qu'e.sl-ce que cela \•eut dire d'étre u11 philosophe fmnçaìs aujourd 'hui? ", in Papier Machine. Le ruba11 de mai'hìne à écrire et autres reponse.s, Paris, Galil~. 2001, p. 338. 15. J. D.liR.IUOA, De:~ tours de Be~bel, in Psyché. /nventio11s de l'autre l, Paris, Galiléc, 1998; trad. it. di R. Balzarotti, Id., /Je.r tours de Babel, in Psycllé. /mrenzio11i dell'e~ltro l, Milano, Jaca Book, 2008.
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ci si può sottrarre, tra intraducibile e traducibile che Derrida ha costantemente messo in atto nei propri testi, consegnandoci un'opera vastissima, un monumentale "corpo, di scrittura, la cui indccidibile classificazione tra filosofia e letteratura, lungi dall'inficiare il rigore del pensiero che vi si trova esposto, vi aggiunge la marca indelebile di una inimitabile finna.
3.
Babele: più di una lingua
Il testo derridiano che probabilmente più di ogni altro si misura con la questione della traduzione è Des tours de Babe/15 , scritto che già nel titolo- rimasto in francese nell'edizione italiana- sfida la traduzione. Si tratta- com'è noto ai nwnerosi studiosi che se ne sono occupati - di un paziente, minuzioso confronto con un altro testo davvero ineludibile per chiunque voglia occuparsi, da un punto di vista filosofico, della traduzione: Die Aufgabe des Obersetzers 16 di Walter Benjamin. Nonostante la sua decisiva importanza, non mi dilungherò troppo su questo testo, sia perché già in passato ne ho tentato una lettura17, sia perché altri studiosi ne hanno sapientemente messo a fuoco gli snodi decisivi18. Non intendo dunque seguire analiticamente il complesso gioco di estrema prossimità, ma anche di decise prese di distanza o di sottili distinguo, attraverso il quale si articola questo confronto tra Derrida e Benjamin - strategia di lettura che caratterizza anche il confronto con tutti i maggiori interlocutori di Derrida: da Nietz-
16. W.
BENJAMIN,
Die Aufgobe de.ç ObersefZers (1921), in Gesammelte
Scriftell Wl/, hrsg. von R. Ticdcmann und H. S-chweppenhiiuser, Frankrun a.M., Subrkamp, 1991; ed. il. a cura di H. Ganni, Id., Il compito del tradullore, in Opere complete./. Scritti 1906-/922, a cura di R. Tiedemann e H. Schwcppenhliuscr, Torino, Einaudi, 2008. Per una rilettura di questo importante saggio, anche alla luce del precedente Sulla lingua in generale e sulla lingl~a dell'ewmo (1916), rinviamo a B. MORONCfl\.1, "Parlare è tradurre', in Walter Benjamin e la moralita del moderno, Napoli, Guida. 1984 c D. Di Cesare, Utopia del comprendere, Genova, il melangolo, 2003, pp. 116-139. J7. C. REsTA, Necessità della traduzione, cit. 18. Si veda, in partic., C. DI MARTINO, Tradurre è necessario, cioe (im)possibile, cit. e G. CIIIURAZZI, Miseria e splemlore della decostruzione, cit.
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sche a Heidegger, da Nancy a Levinas e a Blanchot -; ritengo tuttavia necessario estrapolare da questo fondamentale testo alcuni passaggi, indispensabili per meglio comprendere i passi successivi che ho intenzione di intraprendere. Il racconto di Babele, osserva Dcrrida~ "potrebbe fare da introduzione a tutti i cosiddetti problemi teorici della traduzione"19, senza~ tuttavia, poter pervenire a desumere da esso alcuna teorizzazione, alcuna formalizzazione vera e propria della traduzione, alcun sistema o constructum, né tantomeno un metodo, dal momento che proprio il racconto della distruzione della Torre ne interdice già da sempre l'aspirazione. Ma, innanzitutto: di che cosa è segno Babele? Oltre a mostrare, nel suo nome, l'indecidìbilità tra nome proprio c nome comune, e dunque, anche, la sua quasi-intraducibilità20, la "torre di Babele" non figura solo la molteplicità irriducibile delle lingue, ma mette in luce un'incompiutezza, l'impossibilità di com~ pletare, di totalizzare, di suturare, di finire qualcosa che rinvia all'ordine dell'edificazione, della costruzione dell'architetto, del sistema e dell'architettonica. Questa molteplicità degli idiomi pone un limite non solo alla traduzione "vera", una inter-cspressione trasparente e adeguata, ma anche a un ordine strutturale, a una coerenza del constructum. [... ] Sarebbe facile, e fino a un certo punto giustificato, vedervi la traduzione di un sistema in decostruzione21 .
Dunque, la distruzione della torre di Babele narrata nella Genesi non rinvia soltanto alla condanna divina che decreta la moltiplicazione e dispersione delle lingue, un plurilinguismo irriducibile che costringe alla traduzione; nel crollo della Torre, nel suo cadere in frantumi, secondo Derrida, si darebbe a vedere il limite strutturale di ogni costruzione, la fragilità della sua tenuta~ di più: l'impossibilità stessa della sua compiutezza~ il neces19. J. DliRRIDA, Des lours Je Babel, cit., p. 234. 20. "Il nome proprio Babele, in quanto nome proprio, dovrebbe rimanere intraducibilc, ma, per una sorta di confusione as..wciativa resa possibile da un'unica lingua, si pensò di poterlo tradurre, in questa stessa lingua, con un nome comune che significava ciò che noi traduciamo con il tcnninc confusione" (ivi, p. 226). 21. lvi, pp. 225-226.
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sario decostruirsi di ogni constructum. Tanto che se ne evince l'assioma per cui ogni costruzione è coinvolta, come in un sisma, in un movimento tellurico di pennancnte decostruzione. Scopriamo dunque, anche per questa via, come il mito fondativo della traduzione sia anche quello cui si riferisce la decostruzione, tanto che, da questo momento in poi, nel testo, Derrida introdurrà una sottile variazione e preferirà utilizzare l'espressione "decostruzione della torre", anziché 'distruzione'. Decostruzione e traduzione trovano dunque in Babele la loro comune origine, un'origine che si annuncia, però, neJla molteplicità irriducibile deJle lingue, come impura, in se stessa già differente, non una. Babele è il luogo unico in cui il desiderio di una lingua, dì un idioma assolutamente puro si erge come il fantasma di una torre destinata a crollare, distrutto e negato dall'interdetto divino che "impone e proibisce, insieme, la traduzione. La impone e la proibisce, vi costringe, ma come a uno scacco"22 . Da questo momento - cioè già da sempre - "le lingue si disperdono, si confondono o si moltiplicano"23 , richiedono una traduzione per poter comunicare l'una con l'altra, ma questa traduzione sarà sempre inadeguata, sempre votata allo scacco e al tradimento, dal momento che non è data una lingua nella quale tutte le altre potrebbero tradursi e comprendersi. La distruzione della Torre mostra interdetta l'aspirazione a un metalinguaggio, irrealizzabile il desiderio di un traduttore universale, a partire dal quale ogni lingua potrebbe essere peifettamente tradotta nell'altra: "Sogno di una traduzione senza resto, di un metalinguaggio che assicuri la circolazione sorvegliata tra quanto viene definito 'lingua d'ingresso' e 'lingua di uscita,24 , proprio perché "sempre una lingua sarà chiamata a parlare della lingua"25 • Un resto di intraducibi-
22. lvi, p. 229. 23. Ibidem. 24. J. DERRIOA, Sopm-vivere, cit., p. 221. 25. J. DERRIDA, Le monolinguisme de l'autre ou la prolhèse d'origine, Paris, Galilée, 1996; trad. il., Id., l/ monolinguismo dell'aiiJT) o la prote.fi d'origine. eit., p. 92. Si tratterebbe, secondo Derrida, della ''impossibililà di un metalin· guaggio assoluto" (ivi, p. 28).
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lità rimarrà sempre, irriducibile, a segnare il limite di ogni traduzione, la sua incompletezza26, sicché "qualcosa sarebbe destinato a resistere alla traduzione,27, che perciò si annuncia sempre, al tempo stesso, come necessaria e impossibile: a partire dalla "moltepJicità irriducibile degli idiomi"28, si impone "il compito necessario e impossibile della traduzione, la sua necessità come impossibilità"29 • Che sia necessaria e impossibile: questo impone la legge inflessibile della traduzione, una legge che proibisce la trasparenza assoluta, la perfetta traducibilità di una lingua nell'altra e, allo stesso tempo, obbliga, costringe alla traduzione, a saldare un debito insolvibile, un debito che nessuna traduzione potrà mai essere in grado di restituire. Questo debito insolvibile è nominato da Benjamin fin dal titolo del suo testo dedicato alla traduzione: Aufgabe dice insieme il compito, "l'impegno, il dovere, il
26. Dcrrida ha sottolineato in più occasioni questa "incompletezza essenziale del tradurre" (J. DllflRIDA, Apories. S 'allendre tlla "limites de la vérité ", Paris, Galilée, 1996; trad. it. dì G. Berto, Id., Aporie. Attendersi ai ''limiti de la verità'', Milano, Bompiani, 1999, p. 10). 27. J. DERRIDA, "1/o il gusto del segreto", in J. DERRIDA C M. fERRARIS, "Il gusto del segreto", trad. it. di M. Ferraris, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. Jl. 28. J. DERRIDA, Des IOllrS de Babe/, cii., p. 231. 29. Ibidem. Come ha ben chiarito Di Martino, l'impossibilità della tradu~ione non va intesa in senso negativo, come un mero impedimento; al contrario, è proprio a partire da questa impossibilità che scaturisce l'esigenza improrogabile c urgente della traduzione, con una necessità ehc è dell'ordine del debito e del dovere da assolvere: "la traduzione è possibile, anzi necessaria, proprio perché la traduzione a.rsoluta è impossibile. Questa impossibilità è allora una chance, una risorsa, non una condanna o una semplice negazione. Essa è la condi· zione di possibilità stessa della traduzione, ciò che mantiene aperto il desiderio, la domanda, l'urgenza, la necessil.à, la possibilità della traduzione. t: impossibilità della traduzione (vera, propria, definitiva, universale) è la possibilità della traduzione, di questa traduzione determinata, e dell'esperienza del traduttore. [...]Contrariamente a quanto si sarebbe tentati di affermare, bisogna dire che si può (si deve, è necessario) tradurre, ovverosia che vi è sempre ancora da·tra· durre, soltanto pcn:hé la traduzione è impossibile, perché vi è intraducibilità. Quest'ultima non è allora ciò che vieta la traduzione, bensì ciò che la comanda, la esige. I.: im-possibilità della traduzione richiede la traduzione stessa che inter· dice, ad un tempo la prescrive c la limita" (C. Dt MARTINO, Tmdurre è necessario, cioè (im)pos.ribile, cit., p. 117).
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debito, la responsabilità"30, di cui ogni traduttore dovrebbe rispondere, cioè quello di urendere, rendere ciò che deve essere stato dato"31 • Un compito che è obbligato ad assumersi, ben sapendo che è impossibile assolverlo fino in fondo, dal momento che tale restituzione non avrà mai fine; un compito dunque infinito, che rende il debito mai interamente "ripagato,. Sempre in debito nei confronti di un dono di lingua il cui resto o la cui eccedenza costitutivamente resistono ad ogni traduzione, intmducibili. Scacco che però diviene risorsa, se è vero che solo P incessante movimento di traduzione, solo questo atto, in ultima istanza, mancato è ciò che tiene in vita la lingua, la fa sopra-vivere. Obersetzen e Oberleben, tradurre e sopra-vivere, sono strettamente intrecciati: se dall'intraducibilità proviene l'ingiunzione a tradurre, se ogni lingua richiede la traduzione cd è da tmdw·re, la missione del traduttore sarà quella di consentire a)]'opera di sopra-vivere, di andare al di là della morte del suo autore, come di quella che sempre può minacciarla, esposta al rischio di richiudersi in una illeggibilità assoluta o di cadere nell'oblio, permettendole cosi di continuare a vivere, a sopra-vivere. Questa esigenza di traduzione è inscritta in ogni opera e "in tal senso la dimensione di sopra-vivenza è un a priori"32 che impegna il traduttore non con l'autore, ma con la lingua, con la lingua dell'altro. Due debiti, due creditori: il traduttore è in debito. deve restituire la lingua che gli è stata donata dall'altro; ma anche l'originale è già da sempre da-tradurre, è in debito, congenitamente in difetto di traduzione, e perciò la richiede, la implora: deve all'al-
30. J. DERRIDA, Des toltrs de Babel, cit.• p. 235. 31. Ibidem. 32. lvi, p. 241. È dunque ad un resto irriducibile di intraducibilità che è affidata la sopravvivenza di un'opera: "Un testo vive se sopra-vive, e sopra·vivc se è, insieme traducibile e intraducibile [... ).Totalmente traducibile, esso scom· pare come testo, come scrittura, come corpo lìnguislico. Totalmente intraduci· bile, anche all'interno di quanto sì crede essere 11na lingua, esso muore subito dopo. La traduzione lrionfantc, dunque, non è né la vita né la morte del testo, soltanto o già la sua sopra-vivcnza" (J. DF..RRIDA, Sopra-vivere, cit., pp. 204205). Come ha notato Crepon: "La sopravvivenza delle opere, questa è senza dubbio l'ultima parola della relazione tra decostru?Jone e traduzione" (M. CRI'!· roN, Déconstntcthm et traductio11, cii., p. 42).
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tro la sua stessa sopra-vivenza. Qui tocchiamo uno dei punti di
massima distanza nella convergenza tra il discorso di Benjamin e queJlo di Derrida, poiché mentre Benjamin mantiene ferma la distinzione tra originale e traduzione, per Derrida, invece, "se l'originale invoca un complemento, ciò deriva dal fatto che all'origine non era lì senza difetto, pieno, completo, totale, identico a se stesso. C'è caduta ed esilio dall'origine dell'originale da tradurre..33. I.:esilio della lingua, la sua migrazione comincia dunque fin dall'inizio, cattura nel suo movimento- e fin dall'origine -l'originale stesso. Ciò impedisce ogni possibilità di stabilire una netta demarcazione tra l'originale e la traduzione e, cosa ancor più decisiva, incrina in modo irrimediabile ogni pretesa "dell'identità a sé e dell'integrità dell'originale..34 • V esilio, la migrazione delle lingue è già da sempre in corso e, ancor prima del compito di tradurre da una lingua all'altra, il debito iscritto in ogni lingua denuncia che, sin dall'inizio, essa è non solo da-tradurre, ma innanzitutto in-traduzione in se stessa, in permanente decostruzione di sé, de1la sua presunta identità originaria, fin dalla sua origine in difetto, in differenza, in differimento di sé, mancante a se stessa, non identica a sé. Non vi sono altro, allora, che lingue in corso di traduzione, la cui appropriazione di sé, come da parte dell'altro, è già da sempre stata interdetta. E mentre Benjamin si lascia irretire nel concetto - certo il più metafisica -di "origine" e insegue la "pura lingua... attraverso la quale soltanto la babele deJle lingue potrà essere redenta e ritrovare la sua perduta unità in quel compimento messianico che annuncia la restituzione della loro perfetta traducibilità, Derrida preferisce piuttosto pensare al da-tradure come una promessa già da sempre contratta dalla e nella lingua, ma anche sempre mancata e tradita, spergiurata in ogni traduzione, come in ogni parola che pronunciamo. Non vi sono, alPorigine, che lingue in traduzione, lingue non solo in debito di traduzione l'una con l'altra, ma anche, e ancor prima, con se stesse.
33. J. DERRIUA, Des tours de Babel, cit., p. 247. 34. lvi, p. 254.
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Perciò la legge deJla traduzione, per sempre legata al nome di Babele, non solo ordina e al tempo stesso interdice la traduzione, affermando che essa è, al contempo, necessaria e impossibile, ma comporta qualcosa di ancor più paradossale: ciò che a Babele è stato distrutto, o meglio, decostruito, è la possibilità, per la lingua, di essere una, di essere identica a sé, di poter essere se stessa. Se ha bisogno della traduzione dell'altro per sopravvivere, il primo debito della lingua è però il suo stesso mancare a se stessa: il non essere altro che da~ tradurre ne rivela il costitutivo essere-in-traduzione. Babele è il nome, per Derrida, della molteplicità delle lingue in costante traduzione di sé a partire dall'altro.
4.
La lingua del/ 'altro Traduire est, en fin de compie, folie. BLANCtlor, Traduìre.
M.
La traduzione e l'intraducibile, dunque, non riguardano solo il passaggio da una lingua all'altra; se le lingue sono in traduzione, è perché non vi è una lingua, che possa dirsi identica a sé: "Molteplicità e migrazione delle lingue, certo, e nella lingua stessa, Babele in una sola lingua. [... ]Molteplicità nella lingua, eterogeneità piuttosto"35 • Ciò significa che "c'è sempre più di una lingua in una lingua, in ciò che si chiama una lingua" 36 ed è proprio questa molteplicità eterogenea all'interno di una stessa lingua che sfida la traduzione, che resta, in ultima istanza, intraducibile:n. Dunque il "confine della traduzione non passa tra diverse lingue, ma separa la traduzione da se stessa, e la tradu-
35. J. DERRJDA, Scltibboletlr per Pau/ Ce/an, cit., p. 44. 36. J. DERRIDA, fidélité à plus d'am, cit., p. 252. 37. "Ciò che, già in quel che è supposto essere una lingua, e più di una lingua, ecco l'intraducibilità assoluta. 1... ] Nel momento in cui si traduce, si riduce il plurale a uno. Ciò che è sempre difficile da tradurre, al di là delle difficoltà classicamente riscontrate, è la molteplicità delle lingue in una lingua, il che accade in ogni momento" (ibidem).
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cibilità, all'interno di una sola e medesima 1ingua"38 . Attraverso la singolare formula: "più di una lingua neiJa stessa lingua'\ Derrida avverte che si tratterà "di un'altra traduzione, un altro pensiero deJla traduzionc,39, a partire dal quale si può affermare che "la babelizzazione non ha dunque bisogno della molteplicità delle lingue. C identità di una lingua può affermarsi come identità a sé solo aprendosi all'ospitalità di una differenza da sé o di una differenza con sé''4°. Traduzione è dunque il nome di un'accoglienza del/ 'altro, dell'estraneo, dello straniero che abita dentro ogni lingua- che ogni lingua ospita in sé senza ridurre a sé41 -, che "dimora" in essa, dividendola, moltiplicandola al suo stesso interno, e che impedisce all'idioma, anche il più singolare, la totale chiusura su di sé; è la scoperta della "lingua dell'altro nella 'propria' lingua"42. È quanto Derrida ha condensato nell'espressione "monolinguismo delJ'altro", che dà il titolo ad un testo auto-etero-bio-grafico di straordinaria intensità, in cui rievoca la propria infanzia di "piccolo ebreo francese d' Algeria"43 , prendendo le mosse da quello che è stato il suo singolare rapporto con la "propria" lingua e mostrando come esso possa essere considerato esemplare, dal momento che rivela la legge che governa
38. J. DERRIDA, Aporie, cit., p. IO. 39. J. DERRIDA, Adieu à Emmanuel Lévinas, Paris, Galilée, 1997; trad. it. di S. Petrosino e M. Odorici, Id., Addio a Emmanuel Lévinas, Milano, Jaca Book, 1998, p. 189. 40. J. DERRrDA, Aporie, ci t., p. IO. 41. La trad~ionc, dunque, implica, di per se stessa, una politica dell'ospìtalìtà, non è che la pratica di questa accoglienza dell'altro in quanto altro: "Vi è sempre per mc, c credo che si debba .~empre avere pirì di una lingua, la mia e l'altra (semplifico molto) c mi è capitato di provare a scrivere in modo tale che la lingua dell'altro non soffra della mia, mi soffra senza soffrirne, riceva l'ospitalità della mia senza pcrdervisi o intcgrarvisi" (l DERRIDA, "Une folie' doit veiller sur la pensée ", in Poims de suspensio11. Entretiens, choisis et présentés pa.r E. Webcr, Paris, Galiléc, 1992, p. 374), 42. l DERRIDA, Sopra-vivere, cit., p. 250...la lingua e dell'altro, venuta dall'altro, la venuta dell'altro" (J. DF.RRIDA, il monolinguismo dell'altro o la protesi d'origine, cit., p. 90). 43. J. DF.RRIDA, Il monolinguismo dell'altro o la protesì d 'origine, cit., p. 59.
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ogni lingua. Come anche altrove Derrida ha avuto modo di dichiarare: "La mia sola madrelingua, se ne ho una, è il francese, ma ho avuto la sensazione, prestissimo e in modo oscuro, che quella lingua non fosse mia"44 • Questa spacsante esperienza viene annunciata fin dalle prime pagine de Il monolinguismo dell 'altro e, come un ritornello, ne scandisce i passaggi, precisandosi sempre meglio: "•Non ho che una lingua, e non è la mia.,"'s. Abbiamo qui l'attestato di una fedeltà esclusiva, assoluta, gelosa nei confronti dell'unica, della sola lingua- il francese- nella quale ci si sente a casa, chez soi, e che si "abita" come la propria dimora, ma, al tempo stesso, anche l'ammissione, quasi sconsolata, che questa lingua non è la propria, viene dall'altro, da un'alterità inappropriabile: ..mai si abiterà la lingua dell'altro, l'altra lingua, mentre è la sola lingua che si parla, e che si parla nell'ostinazione monolinguc, in modo gelosamente e severamente idiomatico, senza tuttavia essere mai in essa presso di sé"46 • Questa sola e unica lingua, quella che si potrebbe chiamare "madre lingua", appresa sul bordo del Mediterraneo, viene da un'altra riva, come da un altro labbro, già da sempre e per sempre estranea e straniera. Esperienza di una UnheimlichkeitA 1 che solo nella lingua tedesca lascia pensare l'inquietante estraneità di ciò che è più familiare. Ma, come dicevamo, al di là del dato biografico, la paradossale affermazione da cui Derrida prende le mosse assume i tratti di un'antinomia che riguarda ogni parlante48 : .. l. non si
44. J. DmtRIDA, "Ho il gflsto del segreto", cit., pp. 34-35. D~. Il monolingui$mo dell'altro o lo prote.d d'origine, cii., p. S. 46. lvi, p. 75. Ela condizione che Di Cesare, ripercorrendo le pagine dc Il monolingJ1ismo de/l'oltm, ha opportunamente definito come "l'esilio di og11i parlante nello lingua" (D. DI Cf.SIIRE, Utopia del comprendere, cit., p. 174). 47. Sulla U11heimlichkeit. tra Freud, Hcìdegger c Derrida, mi permetto di rinviare a C. REsTA, L'Estraneo. Ostilita e ospitolila nel pe11siero del Novecento, Genova, il mclangolo, 2008. 48. "Chiunque, allora. deve poter dichiarare sono giuramento: 'non ho che una lingua e non è la mia, la mia lingua 'propria' è una lingua per me inassimilabile. l.a mia lingua, la sola che io mi intenda parlare c mi intenda nel parlare, è la lingua dell'altro"' (J. DERR.IDA, Il monoling11ismo dell'altro o la protesi d'origine, cit., p. 31 ). 45. J.
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parla mai che una sola lingua - o piuttosto un solo idioma. 2. Non si parla mai una sola lingua - o piuttosto non c 'è idioma puro'"'9• Questa legge contraddittoria che governa la lingua enuncerebbe anche .. la legge stessa come traduzione"50, una legge che Derrida non esita a definire ..folle". Infatti, se la "propria" lingua viene dall'altro, ciò significa che essa è, all'origine, espropriata, non propria e inappropiabile, già da sempre abitata da un'alterità irriducibile che obbliga aUa traduzione. Ne va, com'è evidente, dello stesso concetto di identità e di ipseità, in primo luogo linguistica, spesso assunto acriticamente in molte discussioni sul multiculturalismo. Si tratta, invece, di riconoscere come presupposto quella che Derrida chiama, in questo testo, "turba dell'identità" 51 , un'identità turbata e perturbante, perché in se stessa eterogenea e divisa, intaccata da un'alterità irriducibile ed espropriante. Ma cerchiamo di spiegare meglio i tratti di questa antinomia che fa perdere la testa, che rende folli, dal momento che costringe a pensare la propria c unica lingua come un dono venuto dall'altro, del quale nessuno può rivendicare il possesso, inappropriabile. Non si può mai possedere una lingua, né la si può mai davvero dire propria. 11 rapporto con la lingua, con l'unica e sola lingua che parliamo, ..non è mai di appartenenza, di proprietà, di potere, di padronanza"52 ; ogni fantasma o pulsionc di poteres3 e di appropriazione linguistici, ogni lingua che pre-
49. lvi, p. 12. 50. lvi, p. 14. 51. lvi, p. 20. 52. lvi, p. 29. 53. Cfr. J. DERRIDA, Spéc1.1ler - S1tr "Freud", in lA Carte Postale de Socrate à Freud et au-delà, Paris, Flammarion, 1980; trad. i t. dì L. G87..ziero, Id., SpeC11Iare su "Freud", a cura di G. Serto, Milano, Cortina. 2000; Id., "ttrejmrte avec Freud", L'lii.ftoire de lafolie à l'age de la psychanalyse, in Résistances de la psycha1ralyse, Paris, Galilée, 1996; trad. it. di G. Scibilia, Id., "Essere giusti con Freud". La storia della follia nell'età della psicoanalisi, ~ilano, Cortina, 1994 e Id., Étals d'iime de la psychanalyse. L'impossible au-delà d'une souveraine cruauté, Paris, Galilée, 2000; trad. it. di C. Furlanetto, Id., Stati d'animo della psicanalisi. L'impossibile aldilà di 11na sovrana crudeltà, Pisa, ETS, 2013. Si veda infra, cap. 4.
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tenda la padronanza assoluta di sé, attraverso la quale imporsi, anche, all'altro, dimentica che Pappartenenza ad una specifica lingua non è mai un dato naturale o antologico di cui si possa vantare il possesso: "la lingua detta materna non è mai puramente naturale, né propria né abitabile.[ ...] Non c'è habitat possibile senza la differenza di questo esilio e di questa nostalgia"54. Un movimento di ex-appropriazione55 inarrestabile e inarginabile impedisce alla lingua, come a ogni ipseità, la compiuta appropriazione di sé e ciò avrà, come vedremo, importanti conseguenze per quel che concerne una "politica della traduzione"'. E tuttavia, il fatto che mai ci si possa appropriare della lingua che si parla perché è sempre dell'altro, questa sorta di "alienazione senza alìenazione"56 costitutiva e permanente della lingua, che ne interdice sin dall'inizio il "proprio" e l'appropriazione, decretandola sempre in (corso di) traduzione, è all'origine de1la responsabilità etica, poetica e politica che nella lingua stringe i1 suo patto e pronuncia il suo giuramentoS 7• Ma è necessario scrutare ancora più a fondo il carattere antinomico di questa doppia ingiunzione, "di quella legge che,
54. J. DERRJDA,/1 mo~toli,guismo dell'altro o la protesi d'origirze, cit., p. 79. I.:inappropriabilità della lingua dipende dunque dal rauo che non si dà mai una lingua naturale o "materna" che si possa rivendicare come "propria" o appropriabile: "non c'è mai appropriazione o riappropriazione assoluta. Poiché non c'è proprietà naturale della lingua, questa dà luogo soltanto a una rabbia appropriatrice, a una gelosia scll7.a appropriazione" (ivi, p. 30). 55. Per il significato di questa espressione si veda soprattutto J. DERRIDA, "b}'OIIS. Deux essais sur la roisan, Paris, Galiléc, 2003; trad. it. e cura di L. Odello, Id., Stati canaglia. Due saggi sulla ragimre, Milano, Cortina, 2003, pp. 123124 e Id., Don11er le temps, Paris, Galilée, 1991; trad. it. di G. Berto, Id., Donare il tempo, Milano, Cortina, 1996, nota l, p. 171. 56. '"Alienazione' senza alienazìone, senza proprietà perduta per sempre (ci jamais] o di cui non ci si potrà riappropriare mai Uamais]" (J. DERRJDA, // mmrolirzgr~ismo dell'altro o la protesi d'origine, cit., p. 34). 57. Sul giuramento e sul patto stretto nella parola, che ha valore di "promessa" rinvio s11pm, cap. l, nota 40. Sulla fora pcrforrnativa della parola in quanto ..giuramento" importanti spunti si ritrovano in P. PR.om,/1 sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costih1zio11ale dell'Occidente, Bologna, il Mulino 1992 e G. AGAMnRN, Il sacramento de/linguaggio. Archeologia del giuramento, Roma-Bari, Laterza, 2008.
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del resto, è la lingua stessa, che è folle. Folle di per sé. Matta da legare" 58 •
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La singolarità poetica del/ 'idioma
Questa legge innanzi tutto afferma un monolìnguismo assoluto: non ho che una lingua, una lingua soltanto, una unica lingua, ma .. questo monolinguismo non fa uno con se stcsso"~ 9 • Non si parla mai che una sola lingua, benché questa lingua, non potendo essere propria, essendo dell'altro, è già più d'una. già in se stessa differente, una "lingua innumerabile'>60. Impossibile contarle, calcolarle, le lingue che parlano in questa unica lingua: è necessario dunque pensare !"'unicità senza unità'>6 1 della "monolingua del/'altro" 62 al di là dell'uno aritmetico, poiché essa sfugge a ogni calcolo possibile, così come ad una traduzione senza resto. "Nell'unicità o ne1la singolarità dì un tenere insieme la propria differenza a sé: nella differenza con sé piuttosto che da sé" 63 , J'unicità della Hngua è dunque il tratto singolare dell'idioma, l'unicità dell'iscrizione poetica, del "poema'>64 che è all'opera in ogni lingua, quando essa mira a non
58. J. DERRIDA, Il monolinguismo dell'altro o la protesi d 'migine, cit., p.
30. 59. M, p. 87. 60. lvi, p. 37. 61. lvi, p. 90. 62. Ibidem. 63. Ibidem. 64. Come, in diverse occasioni, Derrida ha precisato: "chiamiamo qui 'poema' l'unicità della firma, l'occorrcll2.8, l'evento di questa performance discorsiva là dove il senso non si lascia più separare da una frase, da un lessico c da una grammatica" (J. DERRIOA, Fidélité à plus d'un, cit., p. 224). In questo senso, "ogni poema ha la sua lingua, e una sola volta la sua lingua" (J. DF.RRIDA, Schibboleth per Pau/ Ce/an, cit., p. 45). Esemplare, a tale proposito, è il riferì· mento costante, nei tesli di Derrida, al "poema" di Celan, la cui scrittura "è già essa stessa un corpo a corpo con la lingua tede.~a che egli dcfonna, trasforma, che aggredisce lui stesso, incide. Alla mìa maniera e modestamente faccio la stessa cosa. con la lingua francese. È un corpo a corpo non solo tra due lingue, ma tra due lingue che sono esse stesse in una guerra intestina. C'è del corpo a
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cancellare il corpo della parola, la singolarità di una finna e di un indirizzo. L'idioma è ciò che rimane intraducibile65, che resiste66 tenacemente alla traduzione, ma, anche, ciò che la provoca e la richiede. D'altra parte l'idioma, unicità singolare che marca il darsi dell"evento poetico della lingua, nella sua singolarità e unicità, "non è mai il proprio o l'identità a sé del proprio: esso è già differente da se stesso, non è che in differen?.a. Esso inscrive uno scarto in se stcsso"67 • E questo scarto è la crepa attraverso la quale l'altro si è già da sempre insediato in quella che sem-
corpo all'interno di ciascuna lingua nazionale. Ogni volla che c'è scrittura. Non c'è scrittura che apra un passaggio, senza violenza sul corpo.(... ] È il mio corpo, questo è il mio corpo. Ogni poema dice: 'Questo è il mio corpo"' (J. DER.RIDA, lA vérité blessame. Ou le corps à corps des langues. Entreticn avec Jacques Derrida, "Europe" 901 (2004); trad. it., Id., lA \rerità che ferisce o il corpo a corpo delle lingue, intervista reali?.?.ata da É. Grossman, "Millepiani" 29 (2005), p. 27). 11 poema di Celan, che rasenta ad ogni verso l'intraducibilità, mostrerebbe in modo esemplare che "ogni corpo proprio è unico" (ivì, p. 26) c che "occorre rispettarlo come unico. Non ha luogo che una volta" (ibidem). Da questo punto di vista, proprio perché ogni traduzione tende a cancellare l'idioma, essa non può accadere senza violenza: "tradurre è perdere il corpo. La traduzione, anche la più fedele, è una violenza: si perde il corpo del poema che non esiste che in tedesco e una sola volta.~ un corpo a corpo, è un'aggressione" (ibidem). Per il costante riferimento a Celan, si vedano almeno: J. DERRIDA, Schibboleth per Pa11l Ce/an, cit.; Id.• Poétique et politique du temoignage, Paris, I.:Hemc, 2005; Jd., Béliers. Le dialogue ini11terrompu: entre dew: infinis, le poème, Paris, Galilée, 2003. Su quella che si polrebbe defmire la "poetica dell'idioma" di Derrida, che è. al tempo stesso, una "poetica della traduzione", si veda M. CREPON, /.angr1es sans demeure, cit. e Id., Déconstn1ction et trad11ction, cit. 65. l: idioma è un "elemento in ultima istanza irriducibile, intraducibilc" (J. DERRIDA, Foi et Savoir. Le Sièc/e et le Po.rdo11, Paris, Seui l, 2000; trad. il. di A. Arbo, Id .• Fede e sapere. Le due fonti della "religione'' ai limiti della semplice ragione, in AA.Vv., lA religione, Annuario filosofico europeo a cura di J. Derrida e G. Vattimo, Roma-Bari, Latera, 1995, pp. 5-6). 66. "È vero che l'idioma resiste alla traduzione. Ma esso non la scoraggia necessariamente, al contrario spesso la provoca" (J. DERRIDA, "Q11'est-ce que cela veut dire d'eire un philosophejrançais aujourd'lmi? ", cit., p. 338). 67. J. DERRIL>A, Fidélité à plus d'r.m, cit., p. 224; proprio per il fatto che viene dall'altro, "l'idioma, se ce n'è, ciò a cui si riconosce una firma, non si riappropria, per quanto paradossale ciò possa sembrare. Esso non può essere appreso che attraverso l'altro" (J. DF.RRIOA, "U11e 'folie' doit veiller sur la pen·'ée ", cit., p. 365).
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brava essere la mia esclusiva dimora. Se accade nell'evento poetico di una lingua, ogni volta che essa è capace di accoglierne la singolarità, "l'idioma, se ce n'è, non è mai puro[ ... ]. L'idioma è sempre e soltanto per l'altro, fin daWinizio espropriato (exappropriato)'o6S. Eppure questo desiderio di una lingua assolutamente idiomatica, questa monomania monolingue così tenace e inconfessabile nella sua aspirazione aiPintraducibile, così inaccettabile quando, dimentica del suo inevitabile scacco, alimenta il fantasma delle peggiori "politiche nazionalistiche deWidioma"69, in cui riecheggia sempre il lugubre intreccio, che soprattutto in una lingua è stato pensato, tra Sprache, Blut e Boden, una lingua, un sangue, un suolo, ebbene questo insano desiderio non solo è incstirpabile, ma senza questo "sogno'', che deve sapersi irrealizzabile, non vi sarebbe letteratura, se con questa espressione intendiamo, più in generale, l'intrinseca poeticità dell'idioma, di una lingua ogni volta singolare e unica, proprio là dove non si lascia leggere, ma soltanto ascoltare nella voce, nel suo inconfondibile timbro, nelle sue variazioni di tono. Si parla solo a partire da questo folle desiderio, da questa ossessione di unicità e singolarità, da questa insana passione: un amore folle per una lingua che mai potrò possedere, di cui mai potrò appropriarmi e dirmi "padrone.. e alla quale, tuttavia, prometto esclusiva e gelosa fedeltà. Di questo "sogno" si nutre la stessa scrittura di Derrida, al di là della facile partizione tra filosofia e letteratura70, sfidando ad ogni istante la traduzione, fino all'intraducibile, per troppo amore di una lingua che si dona sot-
68. J. D.!::RRIDA, Y a-t-il une langrte philosophique?, in Poims de suspension, cit., p. 240. 69. J. DERRIDA, Il monoling11ismo dell"altro o la prote.si d 'origine, cit., p. 75. 70. Come lo stesso Derrida ha confessato: "11 mio 'primo' desiderio non mi portava senza dubbio verso la filosofia, piuttosto verso la letteratura, no, verso qualche cosa che la letteratura accoglie meglio della filosofia. lo mi sento impegnato, da venti anni, in un lungo detor1r per raggiungere questa cosa, questa scrittura idiomatica di cui so la purezza inaccessibile ma di cui continuo a sognare" (J. DERRIDA, Desceller (''la vieille neuve langue "'), in PointJ· de .~uspension, cit., p. 127).
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traendosi ad ogni possibile cattura. I.:idiomaticità è '"una proprietà di cui non ci si può appropriare[ ...]. Voi sognate, è fatale, l'invenzione di una lingua o di un canto che siano vostri,[ ...] la vostra storia più illeggibile..71 • Per quanto, in ultima istanza, si debba riconoscere lo scacco- e il rilancio- di questo irrefrenabile desiderio, l'impossibile che esso promette talvolta accade: il poetico, inteso come un evento di linguaggio senza precedenti, ogni volta singolare e unico, si lascia cogliere proprio là dove l'idioma resiste ad ogni possibile traduzione. A proposito di Celan, con i cui versi si è costantemente misurato, Derrida ha scritto: "Babele è anche questo passo impossibile [... ] che riguarda la molteplicità delle lingue nell'unicità dell'iscrizione poetica: più volte in una sola volta, più lingue in un solo atto poetico. [...] Ciò che resterà sempre intraducibile in una qualsiasi altra lingua è la differenza marcata dalle lingue nel poema. [... ]Tutto sembra traducibile, salvo la marca della differenza tra le lingue aH 'interno dello stesso evento poetico"72 • Ma qui, sulla soglia di questa intraducibilità assoluta, si situa anche la richiesta, l'ingiunzione come abbiamo detto - della traduzione, di una traduzione che si faccia carico dell'impossibile13 • della possibilità dell 'impossibi-
71. Ibidem. A proposito di queslo "sogno" che, a differenza del fantasma, riconosce lo scarto tra il desiderio c la sua realizzazione, Derrida ha anche scritto: "sogno di una scrittura idiomatica[... ]; questo sogno è per sempre destinato a restare deluso; questa unità resta inaccessibile~( ... ] questo •sogno' istituisce la parola, la scrittura, la voce, il timbro. Non si può non avere questo sogno, questo desiderio sognato di una voce puramente idiomatica. che sarebbe ciò che essa è e che sarebbe indivisibile in qualche modo; anche se questo sogno è destinato a restare sogno, la promessa - è preferibile parlare di promessa anziche di sogno -la promessa. in quanto promessa, è un evento, esiste~ c'è promessa d'unità ed è ciò che mel1e il desiderio in movimento" (J. DE.RJUDA, "Dialogues ", in Points de S113pension, cit., pp. 145-146). 72. J. DERRJDA, Schibboleth per Paul Ce/an, cit., p. 44. 73. "Il poana situa senza dubbio il solo luogo propizio all'esperienza della lingua, cioè di un idioma che al tempo stesso sfida per sempre la traduzione e dunque richiede una traduzione che ingiunga di fare l'impossibile, di rendere l'impossibile possibile nel momento di un evento inaudito" (J. DERRIDA, Béliers, cit., p. 16). 97
le, dell'evento di una parola singolare, capace di restituire il timbro dell'unicità di una firma. Per questo "la traduzione è un altro nome de1Pimpossibile"74 • È come se, da questa lingua straniera che parla in ogni lingua e che si lascia udire soprattutto nella sua forma poetico-idiomatica, giungesse a] traduttore questa supplica: "inventa dunque nella tua lingua se puoi o vuoi comprendere la mia, inventa se puoi o vuoi farla comprendere, la mia lingua, come la tua"7s. Inventa senza calcolo possibile, senza possibile assicurazione di una buona riuscita, ogni volta come se fosse la prima volta, inventa, lascia venire la paro1a76 che risponde senza corrispondere, inventa per restare fedele 77 , anche quando il tradimento sembra la scelta migliore. Lascia che la traduzione ti sorprenda come un evento inatteso e imprevedibile in ogni parola, che avvenga, nell'invenzione, che venga senza neppure essere invitata, perché non ci sono ..che lingue d'arrivo, se vuoi, ma lingue che, singolare avventura, non arrivano a un punto d'arrivo, dal momento che non sanno più da dove partono, a partire da che cosa esse parlano, e qual è il senso del loro tragitto. Lingue senza itinerario [...]. Come se non ci fossero che arrivi, e quindi eventi, senza arrivo"78 •
74. J. DERRJDA, li monoli~tgllifmo dell'altro o la protesi d 'origine, cit., p. 74. 75. lvi, p. 76. 76. Per quanto si possano dare dei "criteri" per ouenerc una "buona" traduzione, tuttavia non è possibile fonnulare un "metodo". Tradurre è piuttosto dell'ordine dell'evento e dell'invenzione, accade al di là di ogni possibile calcolo c garanzia di riuscita; la traduzione "si deve inventare in ogni istante, in ogni frase, senza assicurazione, senza parapetto assoluto. Come dire che la follia, una certa 'follia\ deve spiare ogni passo, e al fondo vegliare sul pensiero, come lo fa anche la ragione" (J. DERRIDA, "Une Jolie 'doit veiller !mr la pensée ", ci t., p. 374). Per il nesso evento-invenzione si veda soprattutto J. DERRIDA, P:ryché. ln\•ention de l'autre, in Psyché. lnventions de /'autre l, cit.; trad. it., Id., Psycllé. Invenzione dell'altro, in P.ryché. Invenzioni dell'altro l, cit. Su tale rapporto mi permetto di rinviare a C. R.nsTA, L'evento dell'altro. Etica e politico in Jacqlles Derrida, Torino, Bollali Boringhicri, 2003, cap. l. 77. "Bisogna ogni volta inventare peT tradire il meno possibile e l'una e l'altro- senza alcuna assicurazione preventiva del successo" (J. DERRIDA, "Une 'folie 'doit veiller surla pensée ", cii., p. 371 ). 78. J. Df.RRIDA,/1 monolinguismo dell'altro o la protesi d'origine, cit., p. 83.
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È da questo desiderio di arrivare a un punto d'arrivo, a un punto fermo, in cui la migrazione delle lingue possa arrestarsi, che sorge i1 desiderio insopprimibile di "restituire", di saldare una volta per tutte il debito, la promessa di ricostituire e "restaurare" quella "pura lingua" dell'origine di cui parlava Benjamin come orizzonte mcssianico di redenzione della traduzione. Ma per Derrida questa ante-prima-lingua [avant-première /angue] 19 non c'è mai stata, è solo il fantasma di questo tenace desiderio, necessariamente votato allo scacco: "questa anteprima Jingua non esiste" 80 , non è mai stata presente (né mai potrà esserlo) e dunque, neppure è andata perduta; non arriva mai, nel suo arrivo, ad arrivare al punto di partenza, a chiudere il cerchio economico di un risarcimento o di una restitutio in integrum. Essa è solo una promessa, senza la quale nessuna parola potrebbe essere pronunciata. Non vi può essere altro che una lingua "d'avvenire, una frase promessa, una lingua dell"altro, ancora, ma tutt'altro che una lingua dell'altro come lingua del padrone o del colono"81 , anche se può sempre correre il rischio di diventarlo, quando si dimentica che a questo fantasma non si deve dare corpo né tantomeno parola. È per questo che una poetica della traduzione, della lingua come traduzione, comporta sempre anche una upolitica della lingua"82 e della traduzione.
6.
Politiche della traduzione
"Tutte le nostre inquietudini- ha scritto Derrida- convergono oggi verso questa grande questione, quella di una politica della traduzione"83 • Come evitare, infatti, che l'esigenza dell'i-
79. Ibidem. Come spiega la curatrice in una nola di traduzione, con qucsla espressione, coniata da Derrida, egli intende alludere all"'idea 'impossibile' di una lingua che precede la 'prima lingua', e che appaniene a un tempo mai riconducibile al presente" (ibidem, nola 24 di G. Bcrto). 80. lvi, p. 84. 81. Ibidem. 82. lvi, p. 47. 83. J. Dt:RRIDA, Fidélité ò pl11s d'un, cit., p. 254.
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dioma, lungi dalla consapevolezza del suo carattere sempre impuro e improprio, non si allei piuttosto al fantasma di un monolinguismo della padronanza assoluta e del padrone, al monopolio coloniale e all'imperialismo della lingua, come sta accadendo per Panglo-americano84, fomentando egemonie monoculturaliste o ideologie multiculturaliste differenzialiste fortemente identitarie e appropriatrici? Come evitare che il desiderio di idioma, che alimenta il tratto poetico della lingua, non sia piegato al fantasma che fomenta simboliche del 'proprio' o aggressioni nazionalistiche, com'è già accaduto e come accade ogni momento, anche nel cuore d'Europa? Come impedire che il monolinguismo dell'altro non si perverta nella lingua imposta dal Padrone? Tale rischio, sempre incombente, può essere scongiurato solo a partire dalla decostruzione di ogni pretesa appropriativa della lingua: il padrone non possiede in proprio, naturalmente, quello che tuttavia chiama la sua lingua, [... ] non può intrattenere con essa dei rapporti di proprietà o di identità naturali, nazionali, congeniti, ontologici [... ]; poiché la lingua non è un suo bene naturale, proprio per quesro egli può storicamente, attraverso la violazione di un 'usurpazìone coloniale, fingere di appropriarsene per imporla come 'la propria'ss.
Solo l'idea di una lingua in costante ex-appropriazione di sé e costitutivamente in traduzione, solo la convinzione che "non c'è mai appropriazione o riappropriazione assoluta"86 della lingua consentono di riconoscere l'idioma puro e assoluto come fantasma e sono in grado di contrastare, ri-politicizzando87 altrimenti, le politiche identitarie dettate da un monolingui84. Si tratta di "dissociare l'affennazione dell'idioma dalla volontà nazionalista, dalla riappropriazione in particolare in Europa nei confronti del· l'anglo-americano" (J. DERRIDA, Que.,tions à Jacq11es Derrida, in AA. Vv.,La philosophie au risque de la promesse, sous la dircction de M. Crepon et M. de Launay, Paris, Bayard, 2004, p. 20 l ). 85. J. DERR.IDA, Il monolìng11ismo dell'altro o la protesi d'origine, cit., pp. 29-30. 86. lvi, p. 30. 87. "Proprio qui sta ciò che permette di ri-poJiticizzare la posta in gioco. [... ] Dove non viene riconosciuta questa de-propriazione, proprio lì è possibile e
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smo dell'altro inteso come colui che impone la Legge della propria lingua, di una lingua "propriaH, di cui ha padronanza e si dice padrone, che detta legge "mediante una sovranità la cui essenza è sempre coloniale e che tende, in modo reprimibile e irreprimibile, a ridurre le lingue all'Uno, e dunque all'egemonia dell'omogeneo..88 , occultando il carattere eteronomo di questa Legge, il suo venire sempre da un altro inappropriabile. Riconoscendo apertamente il carattere "politico.. deUa sua riflessione sulla lingua89 in costante traduzione (decostruzione) di sé, Derrida ha affermato: "questo discorso suWex-appropriazione della lingua[...] apre a una politica, a un diritto e a un'etica; è addirittura, osiamo dire, il solo a poterlo fare, con tutti i rischi che questo comporta"90 • Certo, la "politica de11a traduzione" cui pensa Derrida non solo richiede, come abbiamo visto, un altro pensiero della traduzione, ma - cosa ancora più urgente - una diversa concettualilà politica, una decostruzione delle tradizionali categorie politiche alla quale Derrida infaticabilmente si è dedicato soprattutto a partire dagli anni Ottanta, come testimoniano i titoli dei seminari tenuti ali 'EHEES91 • Al di là di questo paziente lavoro diviene più necessario che mai identificare, talvolta per combatterli, movimenti, fantasmi, 'ideologie', 'felicizzazioni' e simboliche dell'appropriazione. Un simile richiamo pennene allo stesso tempo di analizzare i fenomeni storici di appropriazione e di trattarli poUticamenre, evitando in particolare la ricostitu~ zione di ciò che quei fantasmi hanno potuto motivare: aggressioni 'nazionalistiche' (sempre più o meno 'naturaliste') od orno-egemonia monoculturalista" (ivi, p. 86). 88. M, p. 48. 89. Come lo stesso Oerrida ha ribadito: ..ne // monolinguismo dell'altro ho provato a porre la questione dell'idioma in una prospettiva politica" (J. DER· RIDA, Questions ù Jacques Derrida, cit., p. 200). Su questa "politica dell'idioma" si è soffenoato M. CRmN, "C'est l'éthique meme". Note Sllr l'ìdiome du detti/, in IAngues sans demeure, cil. 90. J. DERRIDA, li mono/ing11ismo dell'altro o la proresi d'origi11e, cit., pp. 30-31. 91. Si veda l'elenco contenuto in J. DERRIDA, Séminuire /..a Peine de mort l (1999-2000), éd. établie par G. Bennington, M. Crépon, T. Dutoit, Paris, Galilée, 2012; trad. it. di S. Facioni, ld.,IA pena di morte l (1999-2000), ed. it. a cura di G. Dalmasso c S. Facioni, Milano, Jaca Book, 2014, p. 4. Per un'approfondita analisi dci risvolti politici della decoslru7.ione si rinvia a S. RlroAZ-
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dì decostruzione, in vista di quella che Derrida ha chiamato "democrazia a-venire,, si tratterà di pensare e di praticare una politica della traduzione senza Jimitarsi ai tradizionali luoghi istituzionali: "Questa 'politica della traduzione', per dover essere sostenuta, organizzata, volontaria, audace, crescente, non dovrebbe soltanto essere una 'politica' o una 'economia politica· lasciata alla sola iniziativa (per quanto necessaria) degli Stati o del mercato, ancor meno dei poteri teologico~politici che possono qua o là dominarle, identificarsi ad essi o lasciarsi da loro determinare"9 2. Essa richiede l'impegno di ciascuno, di ogni singolo parlante, affinché si presti la massima vigilanza rispetto a11a minaccia sempre incombente che l'affermazione dell'idioma non dia luogo a un nazionalismo, a un conservatorismo della lingua nazionale [... ], poiché sappiamo bene che la cultura dell'idioma è spesso pretesto per fantasmi, per tenta~ ~ioni nazionalistiche. (...] Essendo la lingua[ ... ] in certo modo inappropriabile, il nazionalismo o il colonialismo consistono nel fantasma dell'appropriazione della lingua e dell'idioma in quanto riappropriabile, quando invece ho provato a mostrare che l'idioma, là dove esso è assolutamente singolare, non è nappropriabile. Non solo non è nappropriabile dall'altro, dal momento che è il più intraducibile. ma neppure da me stesso. lo non posso appropriarmi di ciò che vi è di più idiomatico in •me• 93 .
Se dunque per un verso è innegabile che i fantasmi più temibili, in primo luogo quelli che si legano alle rivendicazioni nazionalistiche o comunitaristico-identitarie, sorgono e si affermano nella difesa ad oltranza di un idioma "puro" e assoluto, interamente appropriabile, istanza di riconoscimento di un 'iden-
La decostnaione del polìlico. Ut~dìci te.1i su Derrlda, Genova. il melangolo, 2006 e Id., Derrida. Bìopolitica e democrozia, Genova, il melangolo, 2012; si veda inoltre anche C. DI MARTINO, La politica e /'imlecostruibìle. in Oltre il segno. Derrida e J'esperiettza del/'impos.'iibile, Milano, Angeli, 2001. Per laluni, più specifici, aspetti mi permetto di rinviare a C. RF.STA, Poliliclle dell'ospitalità, in L'evento dell'altro, cit. 92. J. Dri.R.RIDA, Fidélité ci plus d'un, cit., p. 254. 93. J. DF..RRJDA, Qt1estions à Jacq11es Derrida, cit., p. 201.
ZONI,
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tità individuale o collettiva chiamata a tutelarne ad oltranza P integrità rispetto ad ogni possibile contaminazione, d'altra parte Derrida non intende per questo rinunciare alla difesa dcl1a singolarità di un idioma, purché questo sia pensato come già da sempre ìmpuro, sempre in se stesso differente, contaminato e anzi abitato daWaltro, da un,aherità irriducibile che è chiamato a ospitare senza rigetto. Cancellare quel resto dì intraducibilità attestato dall'idiomaticità di una lingua singolare, negare il sogno- che è ben diverso dal fantasma- di questa intraducibilità assoluta, significherebbe rinunciare all'esperienza poetica della lingua, impedire l'evento poetico della parola, che consente di accogliere la lingua dell'altro senza ridurla alla propria, anzi di sperimentare l'espropriazione già da sempre in corso della propria lingua, il suo darsi, fin dall'inizio, in traduzione. È il poetico, prima ancora che il politico, lo spazio aperto di un'ospitalità senza condizioni in cui l'affermazione più intransigente della singolarità dell'idioma rivela l'eteronomia che lo governa, in virtù della quale anche il mono1inguismo più assoluto viene sempre dall'altro, parla la lingua dell'altro. È dunque necessaria un'altra esperienza della singolarità.. dell'idioma, che non si leghi a quelle vecchie fantasmatiche che si chiamano nazionalismo c rapporto nazionalista con la lingua, con la singolarità, con il territorio, con il sangue, con il vecchio modello delle frontiere statal-nazionali. Vorrei pensare che il desiderio della singolarità, e anche il desiderio dello chez-soi. senza il quale in effetti non c'è né porta né ospitalità (in ogni caso diritto e dovere di ospitalità). il desiderio di ospitalità (che supera il diritto c l'istituzione), vorrei credere che questo desiderio incondizionato~ al quale è impossibile rinunciare, desiderio a cui non si deve rinunciare, non si leghi in modo necessario a quegli schemi o a quelle parole d'ordine chiamati nazionalìsmo, intcgralismo, e nemmeno a un certo concetto dell'idioma o della lingua- al quale opporrei un altro concetto e un'altra esperienza pratica, anche poetica, dell'idioma94.
94. J. DERRIDA • 8. STIEGL.ER, f::chogmphies de la télf?vision, Paris,
Galilée-INA, 1996; trad. it. di L. Chie..~. Id., Ecografie della televisione, Milano, Cortina, 1997, pp. 88-89. 103
Il desiderio dell'idioma, sempre differente in sé, in quanto attestazione di una irrinunciabile singolarità, lungi dal doversi necessariamente coniugare con le più bieche chiusure identitarie e nazionalistiche, può accompagnarsi all'esigenza dell'universale: "C'è la necessità al tempo stesso dell'universale c del radicamento singolare nel qui e ora, nell'idioma't95• Proprio perché l'idioma più singolare è già da sempre ex-appropriato, in traduzione c da tradurre, accoglienza dell'altro, ospitalità della lingua estranea e straniera fino a estraniare la "propria", questa singolarità si lega e si collega ad un principio di universalizzazione: l"'appello aWuniversalizzazione è un appello alla traduzione"96. È questa la sfida di fronte alla quale, in particolare, si trova oggi l'Europa, luogo elettivo della traduzione, in cui la pluralità delle lingue chiama ad una responsabilità politica nei confronti del plurale c del singolare, luogo che potrebbe essere paradigmatico nell'epoca della mondializzazione97 • Un'Europa per la quale, dunque, la questione della traduzione diverrebbe decisiva: "Quale filosofia della traduzione dominerà in Europa? In una Europa che dovrebbe ormai evitare sia le contrazioni nazionalistiche della differenza linguistica, sia l'omogeneizzazione violenta delle lingue attraverso la neutralità di un medium traduttore e che si pretende trasparente, metalinguistico, universalc?'"8
95. J. DERRIDA, Questions à Jacques Derrida, cit., p. 207. Se Derrida insiste sul fatto che "ciascuno, ovunque si trovi. si deve impegnare secondo l'idioma, la situazione concreta, la singolarità del luogo, dappertutto" (ivi, p. 207) è perché l'csigen7..a dell'universale, radicandosi sempre in una singolarità, non rischi l'astrattezza. 96. J. DERRil>A, Demeure. Maurice Bla11chol, Paris, Galiléc, 1998; trad. it. di F. Garritano, Id., Dimoro. Maurice Blanchot, Bari, Palomar, 2001, p. 120. 97. "Cosa farà una politica responsabile del plurale e del singolare a partire dalle differenze tra le lingue nell'Europa di domani e, sull'esempio dell'Europa, nella mondializzazione in corso'!" (J. DERRIDA, Ficlms, Paris, Galiléc, 2002; trad. il. di G. Berto, Id.,// sogno di Benjomin, Milano, Bompiani, 2003, p. 6).
98. J. DERRlDA, L'autre cap. La démocmlie ajournée, Paris, Minuit, 1991; trad. il. di M. Ferraris, ld., Oggi l'liuropa, Milano, Gat7..anti, 1991, p. 41.
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Un'altra politica della traduzione diventa dunque urgente e improrogabile, come una diversa concezione dell'idioma; lungi dal proiettare necessariamente l'immagine deiJ'intransitività e della chiusura, essi sono infatti anche la condizione dell'apertura e dell'ospitalità. Abitata fin dall'inizio dall'altro, la lingua impropriamente propria che parliamo, in quanto lingua dell'altro, costituisce lo spazio di un'accoglienza incondizionata che, lungi dal chiuderla nell 'intraducibile, richiede la costante traduzione, la rec1ama attraverso un'obbligazione al tempo stesso etica, poetica e politica che Derrida richiama spesso attraverso l'espressione, per molti versi intraducibile, il/aut. Sicché "ci vuole [i/ faut] la traduzione, si deve inventare un'esperienza della traduzione che renda possibile il passaggio senza livellare e cancellare la singolarità dell'idioma. È un'altra esperienza della Jingua, un'altra esperienza dell'altro che si deve [il faut] fare nella traduzione"99 • Il compito è infinito e richiede un'incessante transazionetraduzione per la quale non sussistono regole prestabilitc né programmi da attuare; volta per volta, e ogni volta singolarmente, si tratta di un'invenzione originale, come abbiamo visto, non assicurata da nulla, che tratta sempre in nome dell'intrattabile e traduce in nome dell'intraducibilel 00 • Poetica e politica della traduzione sono inscindibili e richiedono un doppio gesto, una "doppia fedeltà .., come la chiama Derrida, che rasenta l'impossibile, anzi che è la traduzione stessa come impossibile e necessaria. Ed è per questo che Derrida espone il compito (im)possibile della sua poetica-politica del1a traduzione attraverso una serie di incalzanti domande,
99. J.
OE.RRJDA
·B. STIWLF.R, Hcografie della televisione, cit., p. 89.
100. "Il compito è senza fine, ma se c'è qualcosa da negoziare è questo.
Quando si dice nego?..iazione, si dice compromesso, transazione, ma deve essere inventata ... Una buona transazione è un'invenzione originale quanto l'invcn· zione più inedita. Ci vuole la transazione in nome dell'intrattabile, in nome dell' incondizionato, in nome di qua \cosa che non sopporta la transazione, cd è quc· sta la difficoltà. La difficoltà del pensiero come difficoltà 'politica'" (J. DERRI· DA • B. STIEOLER. Ecografie della televisione, cit., p. 89).
105
piuttosto che in un progmmma, o mediante il ricorso a qualche regola aurea: Come, da una parte, riatrermarc la singolaritA dell'idioma (nazionale o non), i diritti delle minoranze, la differenza linguistica e culturale, ecc.? Come resistere all'uniformi?..zazione, all'omogeneiD...azione, allivellamento culturale o linguistico-mediatico, al suo ordine di rappresentazione e di redditività spcttacolare? Ma, dall'altra parte, come lottare per questo senza sacrificare la comunicazione la più univoca possibile, la traduzione, l'informazione, la discussione demoeratica e la legge della maggioranza? Bisogna ogni volta itrve11tare per tradire il meno possibile e l'una e l'altra- senza alcuna assicurazione preventiva del sucx:esso 101 •
E ancora: come coltivare la pocticità dell'idioma in generale, il suo presso di sé, il suo oikos, come salvare la differenza linguistica, regionale o nazionale, come resistere allo stesso tempo all'egemonia internazionale di una lingua di comunicazione (e per Adorno era già l'anglo-americano), come opporsi all'utilitarismo strumentale di una lingua puramente funzionale e comunicativa. senza tuttavia cedere al nazionalismo, allo statal-nazionalismo o al sovranitarismo statal-nazionalista, senza prestare queste vecchie anni arrugginite alla reattività identitaria e a tutta la vecchia ideologia sovranitarista, comunitarista e differenziai ista? 102·
In nome di questa "altra ecologia della lingua" 103, che eccedc ogni considerazione puramente economica del linguaggio come calcolo e bilancio tra dare, prendere e restituire, si deve, il faut, cominciare a pensare altrimenti l'oikos, la casa e il suo presso di sé [chez so1l; essa va pensata come un luogo in cui l 'accoglienza precede ogni possibile raccog1imento, porta aperta per l'ospite, lo straniero che già da sempre la abita, che è venuto prima di me, con una precedenza non computabile in un tempo cronologico, trasformando la mia ospitalità offerta in
10 l. J. DERR.IDA, "U~re 'folie 'doit vei/ler s11r lo pensée ", cit., p. 371. 102. J. DERRJDA, Il sogno di Benjami11, cit., p. 22. 103. Ibidem.
106
un'ospitalità già sempre ricevuta dall'altro e trasformando l'acasa-propria in una terra d'asilo 104 • Prima ancora di domandarci che cosa significa pensare, dovremmo chiederci che cosa significa abitare la casa della lingua- non c'è altro abitare che questo-, come pensare questo spazio a partire dalla sua soglia, a partire dal suo possibile-impossibi1e attraversamento. La politica della traduzione è dunque l'altro nome di una politica dell'ospitalità 105 , anzi: è l'ospitalità stessa pensata a partire da quella dimora nella quale tutti abitiamo: la lingua. Nessuna ospitalità senza una politica della traduzione, senza, cioè, quella necessaria decostruzione del fantasma di una lingua "propria", appropriata cd appropriante, Ja lingua del Padrone e della padronanza di sé come deU'altro. Il monolinguismo dell'altro, che viene dall'altro, pur essendo la lingua dell'unico, pur custodendo gelosamente la singolarità di un idioma, parla "la lingua dell'altro, la lingua dell'ospite, Ja lingua dello straniero, quindi deJl'immigrante, dell'emigrato o del1'esi1iatoH 106• Parla sempre una lingua straniera, una lingua venuta da altrove che chiede di essere accolta, di essere ascoltata, di non essere cancellata. Chiede un'ospitalità senza condizioni cui non ci si può sottrarre, se non si vuoi restare muti. Ospitare la lingua dell'altro, )asciarla risuonare nella propria lingua, questa legge della traduzione è la legge stessa delPospitalità, che dovrebbe ispirare un'altra poetica ed un'altra politica, in primo luogo della lingua.
104. Su questi temi l•interloeutore privilegiato di Derrida è Levinas, come esemplanncntc testimonia J. DERRIDA, Addio a Emmanuel Uvinas, c:it. Sul fondamentale rapporto tra Derrida c levinas e sulla politica dell'ospitalità mi permetto di rinviare a C. RESTA, L'evento dell'altro, cit. l OS. Come ha osservato Berto: ..La traduzione, nella sua fedeltà allo stra· niero, nel suo rispondere all'altro, all'intraducibilc, è sempre inadeguata; ma proprio questa inadeguatezza sì accompagna a un'ospitalità- per un ospite non invitato, non addomesticato e comunque sconosciuto[ ...]. Cintraducibilc, anzi· che rinchiudersi in sé, escludendo ogni transazione, coincide allom, paradossalmente, con la condizione dell'ospitalità, con l'apertura all'estraneo" (G. BERTO, Il disagio della lroduzione, cit., pp. XVII e XIX). 106. J. DERRlDA,l/ sogno di Benj'amin, cit., p. 6.
107
7.
A reipelago Doch kennt die lnseln der Schiffer. F. HùLDERLI!>o:, Patmos.
Lo ricordavo all'inizio, Plsola è circondata dal mare e impone, ogni volta, se si vuole migrare, la fatica di un attraversamento e di una traduzione. Per questo, come ha suggerito Derrida nelle ultime pagine del suo ultimo seminario La bete et le souverain, non c'è nulla di più incerto di un mondo comune. Persino nell'epoca della mondializzazionc c del villaggio globale, nulla di fatto ci assicura che esista qualcosa come un mondo, un solo mondo e non piuttosto una molteplicità di isole che H mare impedisce di collegare con stabili ponti o di unificare in una sola terraferma: "nessuno potrà dimostrare, secondo il significato rigoroso di dimostrare, che due esseri umani, voi e io, ad esempio, abitiamo lo stesso mondo, che il mondo è una sola e stessa cosa per ciascuno di noi" 107 • Per questo ..nuiJa è meno certo del mondo" 108• Infatti tra il mio mondo e tutti gli altri mondi, ci sono innanzitutto lo spazio e il tempo di una differenza infinita, di una interruzione incommensurabile a ogni tentativo di passaggio, di ponte, d'istmo, di comunicazione, di traduzione, di tropo e di transfert che il desiderio di mon-
l 07. J. DERRIDA, Sémi11aire La bète er le souveraìn li (2002-2003), éd. établic par M. Lissc, M.-L. Mallet, G. Mìchaud, Paris, Galilée, 2010; trad. it. di G. Carbonellì, Id., La Bestia e il Sovrono Il (2002-2003), ed. it. a cura di G. Dalmasso, Milano, Jaca Book, 20 IO, p. 339. È sorprendente constatare come, alla fine del suo cammino di pensiero, Derrida riprenda un tenace motivo che si era annunciato fin dall'inizio c ne aveva dato, per molti versi, l'avvio nella sua Introduzione a L'origine della geometria di Husserl, là dove veniva messa in dubbio l' appartcncn?..a degli uomini ad "un solo c medesimo mondo [... ] come orizzonte irriducibilmente comune della loro esperienza" (J. DERRlDA, Introduzione a lillsserl, L'origine della geometria, cit., p. 134) a partire dalla quale "la tradw.ione è di principio un compito sempre possìbile" (ibidem). Per un'analisi di questo testo rinviamo a C. DI MARTI:SO, Derrida a/l'origi11e, in J. DF.RRIDA, lnlroduzione a HllSserl, L'origi11e della geometria, cit. c Id., Oltre il segno, cit., cap. IL 108. J. DI!RRIDA, w Bestia il Sovra11o Il (2002-2003), cit., p. 340.
J08
do o la mancanza di mondo, la nostalgia di mondo tenterà di porre, di imporre. di proporre. di saabilizzare. Non c'è mondo, ci sono solo isole 1M.
L'Isola è il luogo per eccellenza dell'isolamento e della della separazione che taglia, divide, interrompe. Allora tutto lascia presupporre che non ci sia mondo, che nulla è meno certo del mondo, che c'è soltanto ..solitudine, isolamento, insularità di isole che non sono nemmeno nel mondo, lo stesso mondo, o su un mappamondo, che non c'è mondo comune"110. Tutto sembra rendere incomunicabili questi mondi, come se fosse separata solitudine~
un'isola dall'altra da un abisso al di là del quale nessuna riva è nemmeno promessa, cosi che nulla, anche minimo, potrebbe arrivare che sia degno della parola "arrivare", dell'indivisibile abissale, dunque dell'abisso tra le isole di questo arcipelago c dcll'intraducibile vertiginoso, al punto che la solitudine stessa di cui parliamo tanto non è nemmeno più la solitudine di molti in uno stesso mondo, la solitudine ancora condivisibile in un unico e stesso mondo co-abitale, ma la solitudine dei mondi, il fatto innegabile che non c'è mondo, nemmeno un mondo, nemmeno un unico e stesso mondo, non un mondo uno: il mondo 111 .
Tra il mio mondo e quello di ciascun altro "c'è un abisso insuperabile. C'è un'infinita molteplicità di mondi intraducibili"112. Siamo isole, una molteplicità di mondi separati da differenze invalicabili, senza un mondo che possa dirsi comune. Eppure, si tratta di una "im-possibilità del mondo che non è negativa" 113 ~ poiché solo essa può offrire la chance "di tutti i mondi possibili" 114 . Isole, lingue. mondi eterogenei, intraducibili, "assoluta-
109. lvì, p. 32. IlO. lvi, p. 341. Il l. lvi, p. 340. 112. J. DERRIDA, Comment ne pas trembler?, "Annali Fondazione europea del disegno (Fondation Adamì)" Il (2006), p. 108. 113. J. DEIUUOA, Fidélité à pliiS d'un, cit., p. 246. 114. lbìdem.
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mente incommensurabili" 115, sen7..a terreno comune, separati da un 'infinita distanza, a causa della quale tra loro vi è "un 'irriducibilità propriamente infinita, un'infinita eterogeneità..116• Ogni altro è tutt'altro 117 e il segreto 118 irriducibile della sua singolarità, della sua unicità sen7..a unità, impedisce ogni possibile ..fusione di oriz.zonti" 119• 115. lvi, p. 247. 116. Ibidem. 117. Per questa formula, di matrice levinassiana, si veda, ad es., J. DERRI· DA, Donner la mort, Paris, Galilée, 1999; trad. it. di L. Berta, Id .• Donare la morte, Milano. Jaca Book, 2002, p. 110-lll: "ogni altro è tutt'altro [tout autn'! u1 10111 autre). [... )Ciascun altro, ogni albo [tout autre) è infinitamente altro nella sua singolarità assoluta, inaccessibile, solitaria. trasccnden~. non manifesta, non presente originariamente al mio ego[ ... ]. Ogni albo (tout autre] (nel senso di ciascun altro) è tutt'albo [tollt autre] (assolutamente altro)". 118. Il segreto assoluto- di cui la morte rappresenta la cifra emblematica -è per Derrida il nome attraverso il quale pensare la singolarità come alterità irriducibile innanzitutto rispetto a sé: "io sono segreto, io sono al segreto [au secret] come a un altro. Una singolarità è per C$1ìCRZa al segreto [au secret]. Ora, vi è forse un dovere etico e politico di rispettare il segreto, un certo diritto a un cero segreto" (J. DERJUI>A, ''Autrui est secret parce qu 'il est autre ", in Papier Maclline, cit.; trad. it. di S. Maruzzclla, Id., Al di là delle apparenze. L'altro è ...egreto perclré è altro, Milano-Udine, Mimesis, 2010, p. 49 {trad. il. mod.]), cos\ come "altri [autru1] è segreto perché è altro" (ibidem [trad. it. mod.]). Cfr. S11pra, cap. l. 119. Ccspressionc, com'è noto. è un principio cardine dell'ermeneutica gadameriana: "/..a comprensione. invece, è sempre il processo di fusione tra que.fti orizzonti eire si riteng0110 indipendenti tra loro" (1-1.-G. GADAMER, Wahrheit un MethoJe, Tùbingen, Mohr (P. Siebeck). 1960; trad. it. e cura di G. Vattimo, Id., ~ritci e metodo, Milano, Bompiani, 1983, p. 3S6). Senza qui poterei addentrare in un confronto tra la decostruzìone derridiana e l'ermeneutica gadameriana, già peraltro ampiamente dibattuto, il quale, per brevità, si potrebbe riasswnere nella preferen7.a accordata all'interruzione c alla traduzione (Dcrrida), rispcno alla continuità e al dialogo (Gadamer), vorrei solo ricordare che, dopo un breve intervento (J. DE.RRIDA, "Bonne volonté de puissance ", "Revue intemationale de philosophie" 151 (1984); trad. il. di M. Ferraris, Id., Buone volontà di potenza. (Una risposta a J-1.-G. Gadamer), "aut aut" 217-218 [ 1987]), Derrida è tornato con maggiore genero..,ilà. a rimarcare le sue divergenze con l'ermeneutica, rendendo omaggio a Gadamer poco dopo la sua morte, in Id., Béliers. cit., pp. 9-23. Per una puntuale ricostruzione di questo confronto e dell'ampio dibattito che esso ha suscitato si veda D. DI CESARE, Il comprendere tra ermeneutica e deco.ttruzione, in Utopia del comprendere, cit. e Id., Stelle e costellazioni. Decostruzione. ermeneutica e differenza, in Ermeneutica della finitezza, Milano, Guerini e Assocìatì, 2004.
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Tra il mio mondo insulare, il mio idioma intraducibile, e quello di ciascuno altro, un abisso sembra spalancarsi e nessuna ardita "costruzionen potrebbe mai sostenere stabili, assicurati e durevoli transiti dall'una all'altra sponda. Eppure queste isole, irriducibili ali 'unità di uno solo e stesso mondo, refrattarie ad ogni reductio in unum, sono tuttavia Arcipelago: eterogenee, irriducibi1i l'una all'altra, sole, isolate, separate, uniche e quasi incomunicabili, non sono ab-solute, non sono mai sciolte, slegate, pur nella separazione, l'una dall'altra. Nonostante l'isolamento e l'assoluta distanza, nonostante la differenza abissale che le separa e che vieta loro di costituire un solo e medesimo mondo o una lingua che possa, senza resto, compiutamente tradursi in quella delle altre, ciò non impedisce che qualcuno, qualcosa arrivi, da una riva alJ'altra, che giunga da una sponda all'altra una parola inattesa, inaspettata, intraducibile c, proprio per questo, che chiede ospitalità, che domanda di essere tradotta. Proprio l'alterità irriducibile delJe isole è la condizione di (im)possibilità perché si dia l'evento di una traduzione che resti sempre da tradurre, che non possa esaurire una volta per tutte il suo compito impossibile, se vuole lasciare all'altro la parola, accoglierla, ospitarla e rispettarla nella sua alterità: '"vi è un 'infinità di mondi intraducibili e questa intraducibilità è la condizione dell'arrivo dell'uno per l'altro"120. Da una riva all'altra, senza possibile orizzonte d'attesa o fusione di orizzonti, l'altro, l'altra lingua, la lingua dell'altro, dell'estraneo e dello straniero arrivano senza invito e senza preavviso, un evento di parola che, fin dentro alla lingua che ciascuno di noi parla e ritiene "propria", si dà sempre in traduzione e chiede, supplica, prega di essere sempre ancora tradotta, di essere portata e trasportata da una riva aJI'altra, da un labbro ad un altro labbro, percorrendo le infinite rotte di questo mare ricco di isole, dell' Arcipelago 121 • Ciò che mette in movimento le isole, che le fa
120. J. DERRIOA, Fidélité à plus d'un, cit., p. 246. 121. Per la figura mediterranea dell'Arcipelago e le sue risorse geofilosofichc e politiche si veda: M. CACCIAR!, L'Arcipelago, Milano, Adelphi, 1997 e F. SAFFIOTI, La misuro dell'Arcipelago. Asimmetria e connessione, in Geofilosofia del mare, cit. Un accenno a11' Arcipelago quale figura paradigmatica del plu-
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scivolare, sospinte dal flusso deU' acqua, mostrandole nella loro perenne migrazione, come migranti sono le diverse lingue che parlano e che ospitano, è quel debito che ciascuna deve assolvere - e al tempo stesso non può mai interamente saldare - nei confronti dell'altra. Un debito di traduzione, iscritto nell'idioma il più intraducibile, già da sempre le trascina, le trasporta ad ascoltare e ad accogliere, a ospitare l'una la lingua dell'altra. A scoprirla dentro di sé, a portarla in sé. Arcipelago è il nome del mondo che non abbiamo, ma che sogniamo, che non è mai presente come uno, il nome delle isole e del mare nel quale senza posa ci traduciamo, una fragile speranza, tutt'al più una promessa, l 'invenzione, ogni volta, di un mondo (im)possibile. Forse non c'è un mondo che possiamo dire "comune", ma l'Arcipelago nomina almeno la possibilità - impossibile e necessaria - deiJa traduzione come invenzione poetica e politica, l'evento inaspettato e imprevedibile, di un mondo e di una democrazia a-venire.
riverso mediterraneo c della incessante traduzione tra le sue molte lingue e culture conclude C. RF.STA, Un mare e/re unisce e divide, in Geofllosofla del Mediterroneo, cit., pp. 107-111. A questo testo mi permetto di rinviare per proseguire la "tra-duzione" da una riva all'altra di questo mare, sull'altra sponda del quale Jackie Derrida ha cominciato il suo viaggio "filosofico" e intrapreso la sua prima, burrascosa, traversata sul piroscafo Ville d'Aiger.
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O!KONOMIA: LA LEGGE DEL PROPRIO
l.
Una legge crudele
Che cosa ha da dire la decostruzione su quella che, forse impropriamente, chiamiamo la "crisi economica attuale"? Può un'analisi decostruttiva- quale quella incessantemente praticata da Derrida - iHuminare in qualche modo questa congiuntura epocale che, come e ancor di più di quella del '29, sarà ricordata come particolarmente prolungata e severa, di straordinaria ampiezza e gravità, essendosi propagata come un virus contagioso in quell"arcipelago felice che si riteneva essere l'Occidente in un mondo sempre più globale? Eppure, forse, solo alla luce del1a decostruzione ciò che sta accadendo, quello che impropriamente chiamiamo "crisi economica attuale"', può adeguatamente essere pensato e compreso. Nel cruciale trapasso dalle economie nazionali a quella globale e nello scontro, davvero senza precedenti, tra economia reale e finanza internazionale, quanto accade non andrebbe semplicemente considerato come un episodio, per quanto particolarmente grave, di una delle tante ricorrenti crisi (ottimisticamente interpretate come crisi di crescita) del sistema economico capitalistico, assunto dall'ideologia neo liberale di mercato come legge economica naturale. La decostruzione non intende limitarsi a una "critica"', anche la più severa, di quel sempre più complesso e intricato dispositivo che, nel divenire globale deli •economia e del Mercato, ha espresso la sua logica stringente e crode/e, i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti: un divario crescente tra ricchi e poveri, che riguarda ormai anche quell'oasi di re1ativo benessere rappresentata da1la vecchia ll3
Europa, oggi afflitta, nella maggior parte dei suoi stati membri, dalla "colpa" di debiti sovrani insolvibili, senza più possibilità di credito e di credibilità. {;imperativo economico deJl'austerità impone una ·~sa dei conti" la cui crudeltà sembra non trovare più alcun limite o freno, tanto meno un al di là. I suoi presupposti, osscssivamente perseguiti, si fondano sul debito-colpa [Schuldj 1 da saldareespiare, sulla virtù del rigore, anche quando si trasforma in rigor mortis, sulla necessità del Sacrificio. Benché la morte lo abbia colto prima di poter assistere all'esplosione di questa ultima crisi, il carattere crudele e sacrifica/e dell'economia di mercato globale non era sfuggito a Derrida: in ragione della struttura c delle leggi del mercato così come essa le ha istituite e le supporta, in ragione dei meccanismi del debito estero c di altre analoghe asimmetrie, la stessa ..società" fa morire o- differenza secondaria nel caso di mancata assistenza a persone in pericolo - lascia morire di fame e di malattia centinaia di milioni di bambini (quei prossimi o quei simili di cui parla l'etica o il discorso dei diritti dell'uomo), senu che alcun tribunale morale o giuridico sia mai competente a giudicare qui del sacrificio- del sacrificio dell'altro al fine di non sacrificare se stessi. Una simile società non solo partecipa a questo sacrificio incalcolabile, ma persino lo organizza. Il buon funzionamento del suo ordine economico, politico, giuridico, il buon funzionamento del suo discorso morale e della sua buona coscienza presuppongono l'operazione permanente di questo sacrificio2•
Sebbene riferite principalmente alla condizione dei paesi l. Sul tema del debito/colpa si rinvia alle acute analisi di E. STIMILLI, Il debito del vivente. Ascesi e capitalismo, Macerala, Quodlibet, 2011 e Id., Debito e colpa, Roma, Edicssc, 2015. Cfr. anche M. LAZZARATO, La fabriqlle de l'homme endetté. Essai sur la condition ttéolibérale, Paris, Éd. Amsterdam, 20 Il ; trad. it. di A. Cotulelli ed E. Turano Campello, Id., La fabbrica dell"uomo indebitato. Saggio sulla condizione neoliberisla, Roma, DeriveApprodi, 2012 e Id., Il governo dell'•lomo indebitalo. Saggio sulla condizione neo/iberista, trad. il. di I. Bussoni e M. laz2arato, Roma, DeriveApprodi, 2013. 2. J. DERRIDA, Donner la mori, Paris, Galilée, 1999; trad. it. di L. Berta, Id., DoiUlre la morte, Milano, Jaca Book, 2002, p. 118. Panendo dalla prospet-
tiva derridiana. Rcné Major ha offerto un'interessante lcnura dell'attuale crisi economica, che si potrebbe così riassumere: ..I.:cconomia del debito che arricchisce i ricchi e impoverisce i poveri è un'economia del sacrificio e della crudeltà" (R. MAJOR, Al4 caur de l'economie, i'incosciellt. Avoir 011 étre?, Paris,
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del Terzo mondo, al cappio, cui sono impiccati, del debito con· tratto con i paesi ricchi dell'Occidente, sempre molto "soccorrevoJi" nei loro confronti, oggi tali parole potrebbero perfettamente attagliarsi anche alla situazione presente, que11a del cappio del debito sovrano, in una sorta di "regolamento dei conti" che vede gli uni contro gli altri armati gli Stati di quella che dovrebbe essere l'Unione europea. Questa economia sacrificate e crudele, che fa seguito e talora si accompagna, seppure in forme diverse, a queiJa precedente, coloniale e post-coloniale, rende ancor più cupo il quadro già fosco dell'economia globale, in cui fiorenti sembrano soprattutto l'industria e il commercio degli armamenti, alimentati {e che alimentano) dall'esplosione di nuovi conflitti in sempre più vaste regioni del pianeta, segno di una instabilità che l'unificazione dei mercati non solo non ha saputo "ordinare" e "governare", ma che anzi ha provveduto a fomentare ed esacerbare, con la crescita a dismisura di squilibri intollerabili dowti alla concentrazione della ricchezza in una ristrettissima élite di pochi privilegiati e la condanna senza appello all'impoverimento, alla miseria, alla morte del resto della popolazione mondiale, cui si aggiungono i tanti immolati sugli altari della guerra, "centinaia di migliaia di vittime sacrificate non si sa neppure a chi o a che cosa, vittime innumerevoli di cui ogni singolarità è ogni volta infinitamente singolare, poiché ogni altro è tutt'altro"3• La decostruzione, prima ancora di aver finito per designare la pratica di pensiero di Derrida, non è riconducibile semplicemente ad un pensiero "critico", nel senso in cui il tennine "critica" assume specifica va]enza filosofica in Kant o nella teoGal ilée, 20 14, p. 17). Evidenziando anche il carattere anonimo, aslratto e artificiale del Soggetto di questa violenza economica, Mattci ne ha giustamente denunciato i risvolti francamente criminali: "quelle soggettività artificiali {... ], preoccupandosi unicamente di massimizzarc i profitti azionari e manageriali, commettono veri e propri crimini contro l'umanità e la natura" (U. MATTE!, l betri comllni tra economia, dirillo e filosofia, "Spazio Filosofico" l (2013), p. 113. Ulteriori, preziosi spunti di riflessione sono contenuti anche in altri interventi degli autori di questo interessante numero. interamente dedicato all'economia). 3. J. DF.RIUDA, Donare la morte, cit., p. 119.
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ria critica di Adorno. Neppure - per il tema che ci riguarda - la decostruzione dell'economia operata da Derrida è assimilabile ad una "critica dell'economia politica" alJa maniera di Marx. La decostruzione è ciò che accade - da cui la nota fonnula ça se déconstruir- ciò che è continuamente in corso, anche al di là di qualunque volere-potere. Sismografo deJl'accadere, di un evento mai interamente padroneggiabile, e per questo definito da· Derrida "impossibile", la decostruzione trema per ciò che accade, subendone l'urto e la scossa. Ma non resta a guardare. Difendendosi dalle frequenti accuse secondo le quali sotto questo nome si alimenterebbe "un'abdicazione quasi nichilistica nei confronti della questione etico-politico-giuridica della giustizia e nei confronti dell'opposizione fra il giusto e l'ingiusto"s, Derrida, con sempre maggiore insistenza, ha affermato: ciò non vuoi dire che l'esperienza decostruttrice non sia, non eserciti o non sviluppi in se stessa alcuna responsabilità, né alcuna responsabilità etico-politica. Mettendo in questione la filosofia riguardo al suo rapporto con l'etica, con la politica, con ìl concetto di responsabilità, non dirò che la decostruzione si regola su di un concetto ancor più alto della responsabilità, perché diffido, abbiamo imparato a diffidare anche di questo valore di altezza o di profondità (altitudine dell'altus), ma su di un'esigenza che credo più intrattabile della risposta e della responsabilità. Senza la quale ai miei occhi oggi nessuna questione etico-politica ha chance di aprirsi o di risvegliarsi. Non mi azzarderei a dire che qui si tratta di una "radicalizzazione" iper-etica o iper-politica, né ugualmente {... ] se i termini ..etica" e ..politica" siano sempre i più appropriati per nominare quest'altra esigenza, pacata o intrattabile, questa esigenza per l'appunto intrattabile dell'altro6.
4. J. DERRIDA, Letlre à un ami japonais, in P:ryché. Jnventions de l'autre Il, Paris, Galilée, 2003; ttad. il. di. R. Bal.zaroui, Id., Lettera a un amico giapponese, in Psyché. Invenzioni dell'altro Il, Milano, Jaca Book, 2009, p. 11. 5. J. DERRJDA, D11 droit à la ju.stice, in Force de loi. Le "Fondement mystique de l'autorité", Paris, Galilée, 1994; trad. it. di A. Di Natale, Id., Dal dirillo alla giustizia, in Fona di legge. Il "fondamento mistico dell'autorita ", a cura di F. Garritano, lbrino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 70. 6. J. DERRIDA, "Une Jolie' doit veiller sur la pensée", in Points de suspension. Entretiens, Paris, Gatilée, 1992. p. 375. Le implicazioni etico-politiche della dccostn.12ione erano state esplicitamente richiamate ad esempio già
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Un'esigenza, improrogabile e urgente, con la quale la stessa decostruzione si identifica: "non conosco niente di più giusto di ciò che chiamo ora la decostruzionen7 e che ha fatto pronunciare a Derrida la lapidaria fonnula: "la decostruzione è la giustizia"8. Una giustizia che lo stesso Derrida ha definito, una volta, in questi termini: "la giustizia come incalcolabilità del dono e singolarità dell'es-sposizione an-economica ad altri, 19• Non perdendo di vista questa Giustizia, che, per Derrida, come per Levinas, si pone al di là del Diritto 10, è possibile allora addentrarsi in quella che potremmo chiamare la decostruzione in corso dell'economia tardo capitalistica. dei suoi intoccabi-
in una conferenza del 1980 "Mochlos'" o il conjlillo delle facoltà: "la decoslru· zione dovrebbe non essere mai separabile da questa problematica politico-istituzionale e reclamare una nuova interrogazione sulla responsabilità, una interrogazione che non si affidi più necessariamente ai codici del politico o dell'etico ereditati., (J. DERRIDA, Moch/os: 011 le conjlit des facultés, in Du droit à la philosophie, Paris, Galilée, 1990; trad. it. di E. Sergio, Id., "Mochlos" o il conflitto delle facoltà, in Del diritto alla Filosofia, a cura di F. Garritane. Catanzaro, Abramo, 1999, p. 209). 7. J. DERRIDA, Dal diritto alla giustizia, cit., p. 72. 8. lvi, p. 64. 9. J. DERRIDA, Spectres de Marx. L'État de la dette, le trovai/ du deuil el la 11ouvelle /nternationale, Paris, Galilée, 1993; trad. it. di G. Chiurazzi, Id., Spettn' di Marx. Stato del debito, lavoro de/lutto e nuova Internazionale, Milano, Cortina, 1994, p. 33 [c.n.]. La giustizia sarebbe il dono di wt'inc:ondizionata accoglienza offerta all'alterità dell'altro. il riconoscimento della sua irriducibile singolarità: "è l'esperienza dell'altro come altro, il fatto che lascio l'altro essere altro, il che presuppone un dono senza restituzione, senza riappropriazione e senza giurisdizione" (1. DERRIDA, Artefactualités, in J. DERRIDA ·B. STli!· Gl.ER, tchographies de la télévision. Entreliet~sfilmés, Paris, Galilée-INA, 1996; trad. il. di G. Piana, Id., Artefattualità, in J. DERRIDA ·B. STIEOLER, Ecografie della televisione, rrad. il. dì L. Chiesa e G. Piana, Milano, Cortina, 1997, p. 23). Per questo "la giustizia non si ridurrà mai al diritto, alla ragione calcolatrice, alla disbibuzione nomica, alle norme e alle regole che condizionano il diritto fin nella sua storia e nelle sue trasformazioni in corso" (J. DERIUOA, Voyous. Deux essais s.1r la raison, Paris, Galilée, 2003; trad. it. e cura di L. Odello, Id., Stati canaglia. Due saggi s.llla ragione, Milano, Cortina, 2003, p. 212). 10. Mette bene in eviden7..a.lo scarto, ma, al tempo stesso, il necessario rapporto tra Diritto e Giustizia, R. Futeo, Essere insieme in 11n luogo. Etica. Politica. Diritto nel pensiero di Emmanuel Levìnas, Milano-Udine, Mimesis, 2013.
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li idoli, in primo luogo quello del Mercato, degli altari, su cui si immolano quotidianamente sacrifici umani cruenti, del suo "inattaccabile" apparato concettuale: la proprietà, il debito, il credito, l 'interesse, l 'utile, il profitto, lo scambio, ecc. Proprio perché la decostruzione di questi "concetti" è già da sempre in corso, quella che impropriamente abbiamo chiamato "]a crisi economica attuale .. non è semplicemente il contraccolpo della bolla speculativa prodottasi negli Stati Uniti a causa del crack dci crediti subprime o, in Europa, dell'enorme peso, in alcuni paesi, tra i quali anche l'Italia, di un debito pubblico ritenuto ormai a rischio di ìnsolvenza. Questi aspetti congiunturali non devono occultare l'aspetto strutturale di una decostruzione del sistema economico che, con molte varianti, chiamiamo 'capitalistico' e che riguarda, però, non solo questa economia po1itica, ma l'economia e la politica in quanto tali, ossia i concetti stessi de11'Economico e del Politico e la genesi di un Potere che sempre più apertamente dichiara il proprio statuto economico. Ciò che viene alla luce è il carattere autodistruttivo di un'economia che certamente nel sistema neo-Jiberale mondializzato del capitalismo globale trova la sua iperbo1ica e parossistica fonna di assolutizzazione dai visibili effetti auto-immunitari 11 • Non si tratta tanto di riconoscere l'ormai incondizionata sovranità del potere economico, che asservisce al proprio dominio quello·politico, diventando unico principe e principio di ragione che detta legge, al quale ogni altra istanza deve obbedire e uniformarsi. Essa semmai svela, alla luce della
l L Ha messo particolarmente in luce questo aspetto Major: "Da quando il neolibcra\ismo fondato sul\'accumulv.ione e sulla distruzione senza limite delle risorse naturali è di\•entato planetario e sfugge a ogni volontà politica concertata a livello mondiale, il lavoro della pulsione di morte che [... ] abita il sistema capitalistico e apre a sua insapula alla sua autodistruzione, non sarà più limitato dalle forze di Eros con le quali è nonnalmente chiamato a comporsi" (R. MAJOR, Au coeur de l'économie, l'incoscient, ci t., pp. l S- l 6); per questo è possibile parlare, nel senso in cui Derrida impiega questa espressione, di una "malattia auto-immune da cui si trova gravemente affetta l'economia di mercato" (ivi, p. 16). Sui risvolti più specificamente psicoanalitici si veda anche G. DOSTAI.IlR - B. MAR1s, CapUalisme er pulsion de mort, Paris, Albin Miche!, 2009. 118
decostruzione, come economia, potere, sovranità, principato e principio sono nomi diversi per indicare una medesima Legge crudele dell'economia 12, cui sembra impossibile sottrarsi.
2.
La Legge economica del proprio
Riportando il termine alla sua matrice greca, Derrida in moltissime occasioni ha enumerato i vari significati che si addensano intorno al concetto di oiko-nomia: Che cos'è l'economia? Tra i suoi predicati o valori semantici irriducibili, l'economia comporta senza dubbio i valori di legge (nomos} e di casa (oikos è la casa, la proprietà, la famiglia, il focolare, il fuoco dell'interno). Nomos non significa solo la legge in generale, ma anche la legge di distribuzione (nemein), la legge come spartizione (moira), la parte donata o assegnata, la partecipazione. Un altro tipo di tautologia implica già l'economico nel nomico come tale. Dal momento in cui c'è legge, c'è spartizione: dal momento in cui c'è nomia c'è economia. Oltre ai valori di legge e di casa, di distribuzione e di spartì· zionc, l'economia implica l'idea di scambio, di circolazione, di ritorno. Al centro- se si può ancora dirlo di un circolo-, sta evidentemente la figura del circolo. Essa sta al centro di ogni problematica dell'oikonomia, come di tutto il campo economico: scambio circolare, circolazione dei beni, dei prodotti, dei segni monetari o delle merci, ammortamento delle uscite, entrate, sostituzione dei valori d'uso e dei valori di scambio. Questo motivo della circolazione può far (donner à} pensare che la legge dell'economia sia il ritorno- circolareal punto di partenza, all'origine, quindi alla casa. Si dovrebbe cosi seguire la struttura odisseica del racconto economico. L: oiko11omia prenderebbe sempre il cammino di Ulisse. Questo far ritorno presso di sé o presso i suoi, si allontana solo in vista del rimpatrio, per ritornare al focolare a partire da cui la partenza è data (donné) e la parte assegnata Il.
12. Per questo ..la legge della crudeltà sarà dunque stata al cuore della legge dell'economia domestica" (R. MAJOR, Au coeur de J'éco110mie. l'inco· scienl, cit., p. 155). 13. J. DERRJOA, Donner le temps. l. La[a11sse monnaie, Paris, Galilée, 1991; trad. it. di G. Serto, Id., Donare il tempo. La falsa mo11eta, Milano, Cor· tina. 1996, pp. 7-8.
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I.: economia, in quanto oiko-nomia, nomina dunque la legge della casa, quel nomos che spartisce e distribuisce, che muove il circolo economico dello scambio, del dare-ricevere-restituire. Questa circolazione, all'interno della quale tutto transita, mostra come l'economia, in quanto legge della casa, sia in effetti la Legge del ritorno a casa, dello chez soi. Come il viaggio di Ulisse, il circolo economico descrive un movimento di allontanamento che è già in partenza un nostos e una nostalgia, uno spasmodico desiderio di ritorno, della chiusura del cerchio, della restituzione. Una spinta invincibile a tornare presso di sé, al punto di partenza, all'origine, in vista di una riappropriazione. La Legge della casa è allora la "legge economica del proprio" 14, della proprietà, dell'appropriazione, del possesso, del presente, nella prossimità della presenza a sé 15 • Da questo punto di vista potremmo affennare che tutto il pensiero della decostruzione, fin dal suo esordio, non è stato altro che Pincessante tentativo di decostruzione di quel 11proprio" [Eigen], che è anche al centro del pensiero di Heidegger. 2.1. La metafisica del proprio
Sulla scorta di Heidegger, il quale, com'è noto, fin dalle pagine di Essere e tempo, programrnaticamente annunciava una "distruzione" [Desnuktion, Ab-bau] dell'ontologia, in quanto pensiero deli' essere come presenza e presente, Derrida, in un passaggio di Della grammatologia (testo pubblicato nell'armo di
14. J.
0F..RRIDA,
Spéculer- sur "Freud", in La carte postale. De Socrote
à Freud et 011-dela, Paris, Flammarion, 1980; 1rad. it. di L. Gazziero, Id., Spe-
culare-- su "Freud", a cura di G. Berto, Milano, Cortina, 2000, p. 121. l S. Come ha osservato Major, sulla scorta delle analisi di Dcrrida: "C economia fondata sullo scambio, sulla condivisione, sulla reciprocità o quella fondata sullo sfruttamento, sull'indebitamento e sulla crudeltà non sono che la proiezione nello spazio soeiale e politico di questa economia psichica, di questo oikonomos, la legge della casa o la legge di ciò che apparterrebbe all'ordine del proprio, dell'appropriazione o della disappropriazione {dépropriationJ'' (R. MAJOR, Intervista a René Major, a cura di C. Furlanetto, in J. Dt::RRJDA, Stati d'animo della psicanalisi. l.'impos.çibile aldilà di una suvra11a cntdeltà, Pisa, ETS, 2013, p. 82).
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grazia 1967, in cui, con sorprendente contemporaneità, vedono la luce anche altre due opere cruciali: La voce e ilfenomeno 16 e La scrittura e la differenza 11 , che consegneranno questo filosofo, allora ancora quasi sconosciuto, alla notorietà), fa un esplicito richiamo a quella ''metafisica del proprio" 18 che, nel saggio dedi· cato ad Antonio Artaud, La parole soujjlée19, aveva denunciato come la minaccia sempre incombente sul suo intento trasgressivo e rivoluzionario. Il "teatro della crudeltà" - e crudeltà, per Artaud, come per Nietzsche, è sinonimo di "vita"- perseguendo, infatti, "il sogno di una vita senza differenza"20, corre il costante rischio di rimanere irretito entro le maglie di una "metafisica della carne, che determina l'essere come vita" 21 • Se ne La voce e il fenomeno Derrida aveva fatto i conti con la "metafisica della presenza" all'opera nella fenomenologia di Husserl, a causa di quel privilegio accordato alla voce in quanto auto-affezione e presenza a sé, che Derrida chiama "fono-logo-centrismo'\ nel testo su Artaud (apparso per la pri· ma volta nel 1965 nella sezione monografica a lui dedicata del 16. J. DER.IliDA, La voix et le pl1é,omène. J"'roductioll au problème Ju signe da11s la phénoménologie de Husserl, Paris, PUF, 1967; trad. it. di G. Dal· masso, Id., La voce e il /e11ome11o, Milano, Jaca Book, I984. 17. J. DERRJDA, L'écriture ella différence, Paris, Seuil, l967~ trad. it. di G. Pozzi, Id., La scritturo e la differenza, Torino, Einaudi, 1971. 18. J. OERRIDA, De la grammatologie, Paris, Minuit, 1967~ lrad. it. di R. Bal.zarotti, F. Bonicalzi, G. Contri, G. Dalmasso, A.C. Loaldi, Id., Della grammatologia, a cura di G. Dalmasso, Milano, Jar:a Book, 19982, p. 47. 19. J. DERRIDA, La parole souffiée, in J.'écriture et la différet~ce, cit.~ trad. it., ld.,ArlauJ: la parole soufflée, in La scrillura e la differetJZa, cit. Oltre a questo testo, la cui prima pubblicazione risaJe al 1965, La scrillura e la differenza comprende anche un altro serino dedicato ad Artaud, /l teatro della crudeltà e la c!Jiusuru della mppresentazione, dell'anno successivo. Derrida tornerà altre due volte in modo significato a parlare di Artaud: Id., Forcener le sltbjeclile, in P. THEVENIN • J. DERRJOA, A11tonin .Arta11d. Dessilrs et portruits, Paris, Gallimard. 1986; trad. it. e cura di A. Cariolato, Id., An1o11in Arlaud. Forsennate il soggel· ti/e, Milano, Abscondita, 2005 c Id., Arta11d le Momo. lnlerjections d'appel, Paris, Gali1ée, 2002; trad. it. di G. Motta, Id., Arta11d le Moma. Interiezioni, "Rivista di Estetica" 3 (1996) (si tratta di una conferenza pronunciata al Museum ofModcmArt (Moma) di NewYork, il16 ottobre 1996). 20. J. DERRJDA, Ar1a11d: la poro/e sojj1ée, cit., p. 232. 21. Ibidem.
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n. 20 della rivista "Tel Quel"), Derrida, pur con molta circospezione e cauteJa, accetta di misurarsi con quello che, insieme a Bataille, veniva considerato, soprattutto in quegli anni, un "mostro sacro" da filosofi come Foucault21 e Blanchot23 , o da scrittori come Sollers (peraltro fondatore di ..Tel Quel"). In parte discostandosi da tali letture, che enfatizzavano il carattere di rottura rivoluzionaria deWopera "inoperosa" di Artaud, secondo Derrida, ..Artaud sta sul limite..24; egli "si accanisce ancora a costruire o a preservare, nello stesso movimento"25 quella metafisica che invece intende distruggere. Un invincibile desiderio di immediatezza e di presenza piena condurrebbe allora Artaud non al di là della metafisica, che pure è violentemente contestata, ma nel movimento del suo compimento. Il suo gesto "rivoJuzionarid' correrebbe allora il rischio di esaurirsi nel mero "rovesciamento" della ragione in follia, in quella follia che Foucault, in quegli stessi anni, anche in riferimento ad Artaud, celebrava come l'altro dalla Ragione, come il Fuori assoluto, incorrendo nelle medesime critiche da parte di Derrida26 • 22. È infani all'insegna del binomio Nietzsche e Artaud, di questi due "puri folli", che si chiudono le pagine di quel lesto "epocale" di M. FoUCAULT che fu Histoire dc la folic à l'age classique, Paris, Gallimard, 1972 (ma la prima edizione risale al 1961 ); trad. it. di F. Ferrucci. Id., Storia della follia nell'età cla.çsica, Milano. BUR, 1976. Il nome di Artaud viene menzionato da Foucault anche in un testo assai significativo, dedicato a Blanchot: M. FoucAIJLT, La pellsée du dehors ( 1966), Paris, Fata Morgana, 1986; trad. it. di V. Del Ninno, ld.,/1 pensiero del fiwri, Milano, SE, 1998. 23. Si vedano, in particolare: M. DI.ANCHOr, A11aud, in Le Jivre à venir, Paris, Gallimard, 1959; trad. it. di G. Ccroneni e G. Neri, Id., Artaud, in Il libro a \'cnire, Torino. J:::inaudi, 1969 e Id., lA cruelle roi.mn poétique (rapace besoin d'em'OI), in L'entretien infitti, Paris, Gallimard 1969; trad. it. di R. Ferrara, Id., /.a cntdele ragione poetica (rapace bisogno d'itwolo), in L'infinito intmltenimet~to. Scritti sul/'"insensato gioco dì scri\'ere ",Torino, Einaudi, 1977. 24. J. DERRIDA, Artaud; la parole sofflée, cit., p. 253. 25. Ibidem. 26. J. Dr!RRIDA, Cogito et l1istoire de la folie ( 1963), in L'écriltlre el la différence, cit.; trad. it, Id., Cogito e storia della follia, in La scrillura e la differenza, cit. In questo testo, all'origine dì una vivace polemica con l'amico Foucault, ciò che soprattutto viene messo in questione è l'opposizione Ragione/Follia, che riflette una più generale topica Dentro/Fuori, cui Derrida contrappone quella della contaminazione c co-implicazione. 122
D'accordo con Heidegger, la metafisica non si lascia semplicemente superare [ ObenvindungJ attraverso dei meri rovesciamenti, i quali non fanno che riaffermare quanto intendono contestare. Rovesciamento e trasgressione rimangono irretiti in quella metafisica della presenza c del proprio che, lungi dal "superare", finiscono, invece, inevitabilmente per confermare27 • Cosi accade ad Artaud di richiamarne i più persistenti motivi, rimanendone in ultima istanza catturato: "la presenza a sé, l'unità, la identità a sé, il proprio, ecc. In questo senso, la Hmetafisica, di Artaud, nei suoi momenti più critici, completa la metafisica occidentale, la sua intenzione più profonda e continua,28 • La "metafisica del proprio, non è che metafisica della presenza e del presente vivente, della prossimità assoluta, della negazione e sutura di ogni differenza, sogno o, megJio, fantasma indistruttibile e potente, che sostiene il desiderio di risalire ad un'origine incontaminata, di pervenire ad attingere un esser-proprio,
27. È quanto Derrida contesta anche a Bataille, in un celebre saggio apparso sempre nel 1967 e ripreso in LA scritt11ra e la di.ffere1ua (J. Ol:iRRIDA, De l'économie restreinte à l'économie générale. Un hegclianisme sans reserve, in l.'écritllre et la d!flèrence, cit.; trad. it., Id., Dall'economia ristretta (l/l'economia generale. Un llegelismo se11zo riserve, in La scrittura e la differenza, cit.) La decostru?.ionc, in quanto pensiero della différance, ha sempre messo in guardia dal ritenere la "trasgressione" strategia sufficiente al"superamento" della metafisica, di cui, al contrario, va riconosciuta la cloll1re, come pure, sempre al suo i11temo, il possibile eccesso. Il caso di Bataille è, a tal proposito, paradigmatico: "ogni trasgressione [deve] conservare e confermare, in qualche modo, ciò che essa eccede. È il solo modo di affermarsi come trasgressione e di accedere così al sacro che 'è dato nella vioiCl\28 di una infrazione"' (M, p. 355). Più in generale, a proposito del "superamento" della metafisica: "Non c 'è trasgressione, se con ciò s'intende l'installarsi puro c semplice in un aldilà della metafisica, in un luogo che sia anche c prima di tutto, non va dimenticato, un luogo di linguaggio e di scrittura. Jnfalti, nelle stesse trasgressioni o aggressioni, si usa un codice a cui la metafisica è irriducibilmente legata, talché ogni gesto trasgressivo rinchiude all'interno della chiusura stessa nel momento medesimo in cui consente una presa su di essa" (J. DERRIDA, Position.'f, Paris, Minuit, 1972; trad. it. di M. Cbiappini e G. Sertoli, Id., Posizioni, a cura di G. Sertoli, Verona, Bertani, 1975, p. 50.11 brano appartiene ad un'intervisla pubblicata originariamente in "Lettres françaises'' 6 [ 1967]). 28. J. DERRIDA, Arta11d: la parole sofflée, cit., p. 253.
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vita che rinnega la morte da cui è lacerata, grido che rifiuta di riconoscere illogos come il suo altro. Ma, al di là di Artaud, e persino al di là del confronto con la fenomenologia trascendentale di Husserl~ risulta evidente come )a decostruzione prenda inizialmente di mira, parlando di "metafisica del proprio.., quello che Dcrrida, in un dialogo del 1971 con J.L. Houdebine e G. Scarpetta, definisce "il filo più continuo e difficile del pensiero heideggcriano"29, cioè il "valore di proprio (proprietà, appropriare, appropriazione: insomma, tutta la famiglia Eigentlichkeit, Eigen, Ereignis)"30 , giungendo a ravvisarvi "la difesa più 'profonda' e più 'potente"'31 di quella metafisica della presenza che, paradossalmente, proprio la Destruktion heideggeriana ha contribuito in maniera dirompente a scuotere. Da questo punto di vista, è come se la decostruzione, nel prendere le distanze da questa pervicace "venan metafisica che percorre il pensiero di Heidcgger, d'altra parte ne volesse assumere anche l'eredità, radicalizzando ulteriormente, attraverso una vigilanza ancora più esigente, quella decostruzione della "metafisica del proprio" che Heidcgger non avrebbe saputo condurre fino in fondo. Come vedremo più avanti, Derrida sembra, nel corso del tempo, smor1..are la nettezza di questa critica, giungendo infine a riconoscere anche la possibilità di un •altra lettura del plesso heideggeriano del 'proprio'. pur mantenendo l'esigenza di ribadire uno scarto irriducibile con il pensiero di Heidegger, non solo rispetto a questa cruciale questione. Cercando di seguire le fasi di questo confronto sulla costellazione del 'proprio', tuttavia quel che più ci interessa è mostrare come, attraverso Heidegger, Dcrrida riesca sempre meglio a focalizzare alcuni aspetti e alcune concatenazioni concettuali essenziali per delimitare quello che, fm da1l'inizio, costituisce il terreno elettivo della decostruzione, anzi la questione a partire dalla quale essa ha preso avvio, come lo stesso Derrida dichiara nel medesimo co1loquio; dopo aver ribadito la sua posizione critica nei confronti di "questo valore di proprietà e di auten-
29. J. DtiRRIDA, Posizio11i, cit., p. 87. 30. Ibidem. 31. lvi. p. 88.
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ticità originale,.32 , Derrida ricorda: ..anzi sono partito proprio da esso [... ]. Ovunque s'imponevano i valori di proprietà, di senso proprio, di prossimità a sé, di etimologia, ecc., a proposito del corpo, della coscienza, del linguaggio, della scrittura, ecc., io ho cercato eli analizzare il desiderio e i presupposti metafisici che vi operavano. Questo si può già vedere in La parole sou.fflée ( 196Sf33 • Torniamo allora li da dove eravamo partiti, alle pagine di Della grammatologia. Dopo aver indicato ne La parole soujjlée l'avvio di una decostruzione della "metafisica del proprio", più avanti, in un passaggio cruciale in cui viene introdotto il termine "traccia", fa la sua comparsa un riferimento a Heidegger, rispetto al quale Derrida manterrà sempre la delicata posizione di chi intende raccoglieme l'eredità e, al tempo stesso, marcare uno scarto. Volendo in qualche modo giustificare l'adozione de11a parola "traccia", strategicamente decisiva per la decostruzione della metafisica della presenza, Derrida ricorda come il termine Spur rivesta un ruolo cruciale nel discorso di Nietzsche, e ancor più in quello di Freud, e segnala come soprattutto in Levinas esso assuma esplicitamente la funzione di una critica deWontoJogia che, per Derrida, tuttavia, è necessario "sintonizzare" (contrariamente a quanto pensa lo stesso Levinas) con Heidegger, con "lo scuotimento di un'antologia che, nel suo corso più interno, ha determinato i1 senso dell'essere come presenza"34. Con Heidegger, ma anche al di là della sua Destruktion dell'antologia classica, si tratterà, per la decostruzionc di Derrida, di "rendere enigmatico ciò che si crede di intendere sotto i nomi di prossimità, immediatezza, presenza (il prossimo, il proprio ed il pre- della presenza)"35 • Ma è soprattutto nella celebre conferenza del 1968 La différancel 6, in questo che, per molti versi, può essere conside-
32. Ibidem. 33. Ibidem. 34. J. DERRIDA, Della grammatologia, cit., p. 103. 35. Ibidem. 36. J. Dl:RIUDA, La différa~rce, in Marges de la philosopl1ie, Paris, Minuit, 1972~ trad. ìl. e cura di M. Iofrida, Id., La différance, in Margini della filosofia, Torino, Einaudi, 1997.
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rato il "manifesto programmatico" deUa decostruzione in quanto pensiero della di.fférance, che Derrida, dopo aver ricordato gli importanti apporti arrecati al concetto di utraccia" dal pensiero di Nietzsche, Freud e Levinas, dedica una particolare attenzione proprio a Heidegger, attraverso una minuziosa e articolata analisi de// detto di Anassimandro31 , in cui la questione in gioco, colta agli albori del pensiero occidentale, ruota intorno aiJ'essenza della presenza [das Wesen des Anwesens] e alla relazione privilegiata tra presenza e presente che segna il "destino" metafisico di questa storia in quanto oblio della verità dell'essere (dell'essenza della presenza), in cui sprofonda Ja stessafriihe Spur, la traccia originaria della differenza ontologia tra essere (presenza) ed ente (essente presente), Ja cui cancellazione ne custodirebbe, tuttavia, anche Ja possibilità di salvaguardia. Se Heidegger, per un verso, sostiene che la traccia -la differenzanon può mai apparire in quanto tale, tuttavia non sembrerebbe trarre da questa affermazione le dovute conseguenze, prima tra tutte la radicale messa in questione dell'in quanto tale, che provocherebbe un contraccolpo decisivo sul piano dell'ontologia: Che non vi sia, a queslo punto, un'essen7.a propria della différance, ciò implica che non vi sia né essere né verità[ ... ). Per noi la di.fP· rance resia un nome metafisico e tutti i nomi che essa riceve nella nostra lingua sono ancora, in quanto nomi, metafisici. In particolare quando dicono la detenninazionc della di.f/érance come differenza della presenza dal presente (Anwesen/Anweseml), ma soprattutto, e di già, nel modo più generale, quando dicono la detcnninazione della di.f/éra11ce come diffcren7.a dell'essere dall'cnte38 .
La différance è upiù 'vecchia' dell'essere stesso~ [ ... ) non c'è nome per questo, neanche quello di essenza o essere, neanche quello di di.fférance che non è un nome [ ... ]. Non ci sarà
37. M. HF.tDRGGER, Der Spruch des Anaximander, in llolrwege, hrsg. von F.-W. Hcrnnann, Gesamtausgobe, Bd. 5, Frankfurt a.M., Klostermann, 1978: trad. it. di P. Chiodi, Id., Il detto di Anassimand1v, in Se,ieri interrotti, Firenze, La Nuova Italia, 1968. 38. J. DERRJDA, La différance, cit., pp. 55-56. 126
nome unico, foss'anche il nome de1l'essere"39 • La différance viene prima della stessa differenza antologica, poiché, se è impossibile pensare la differenza in quanto tale, l'essere stesso non è che differenza, ossia non si dà altro che differenza, anzi différances (al plurale), niente che possa darsi nella presenza di un presente o di cui ci si possa appropriare. Facendo giocare Nietzsche- il Nietzsche di Deleuze40 - contro Heidegger, Derrida denuncia l'aspetto che gli sembra più irriducibilmente metafisico de il detto di Anassimandro: "la ricerca della parola propria e del nome unico' 141 • Ma è soprattutto in Ousia e gramrné. Nota su una nota di Sein und Zeit, la cui prima pubblicazione risale al 1968, lo stesso anno del testo su La différance, che Derrida avverte la necessità di un confronto davvero serrato con la "distruzione" dell'ontologia intrapresa da Heidegger proprio sul terreno "elettivo" della questione del tempo, a partire dalla quale risulta ancor più evidente e comprensibile la determinazione del senso dell'essere come parousìa o ousia, il cui significato ontologicotemporale è que11o di presenza, anche nel senso temporale di presente. Non avrebbe senso ripercorrere adesso le minuziose analisi di Dcrrida, che hanno reso giustamente celebre questo testo. Quello che ci interessa notare è che, in conclusione, nonostante la tremenda scossa che fa tremare l'ontologia classica, la Destruktion heideggeriana, che prende le mosse in Sein und Zeit proprio da una "distruzione" de] tempo, secondo Derrida, "resta ancora compresa nella grammatica e nel lessico della metafisica'"'2, soprattutto a motivo del fatto che rimane intrappolata in quella opposizione- tipicamente metafisica- tra proprio-autentico (eigentlich] e improprio-inautentico [uneìgentlich]. cosi
39. lvi, pp. 56-57. 40. Derrida cita espressamente G. DllLEUZE, Nietzsclre et la philosophie, Paris, PUF, 1962; 1rad. i t. e cura di F. Polidorì, Id., Nietzsche e la filosofia e altri testi, Torino, Einaudi, 2002. 41. J. DERRIDA, La difTérance, cit., p. 57. 42. J. DERRIDA, Ousia et gramme. Note sur 1me note de Sei11 und Zeil, in Marges- de la philosophie, cit.; trad. it., ld., Ousia e grammé. Nota su una nota di Sein und Zcit, in Margini della filosofia, cit., p. 99.
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come in quella tra "originario" [ursprung/ich] e "derivato-decaduto-scadente-deietto.. (le varie implicazioni, di ascendenza teologica e platonica, del Verfallen). È quanto Derrida, in modo sintetico, ma efficace, chiarisce in una nota: l:originario, l'autentico è determinato come il proprio (eigentlich), cioè il vicino (prope, proprius), il presente nella prossimità della presenza a sé. Si potrebbe mostrare come questo valore di prossimità e di presen7.a a sé interviene, all'inizio di Sei11rmd Zeit e altrove, nella decisione di porre la questione del senso dell'essere a partire da un'analitica esistenziale del Dasein. E si potrebbe mostrare il peso della metafisica in una taJc decisione e nel credito qui accordato al valore di presenza a sé. Questa questione può estendere il suo movimento a tutti i concetti che implicano il valore di "pro~rio" (Eigen, eigens, ereignen, Ereignis, eigentumlich, Eignen, ecc.)4 •
Dopo aver registrato questa ricaduta entro le maglie del discorso metafisico, Derrida si confronta con Il detto di Anassimandro, impiegando la medesima strategia di lettura e le stesse espressioni che compaiono anche nel coevo La différance. Medesima è anche la conclusione: la diflérance è più antica della differenza heideggeriana tra essere ed ente, tra presenza e presente, per questo non vi è "nome" che possa dirla, non potendo essere riconducibile ad un registro ontologico. La différance è al di là dell'essere e dell'essenza. Una diagnosi che Derrida riprende, quasi alla lettera, anche nel contesto di un'altra analisi, che implica, ancora una volta. un serrato confronto con Heidegger, quella riguardante il "proprio" dell'uomo, condatta in Fini dell'uomo, testo di una conferenza risalente anch'essa al 1968, poi ripreso in Margini della filosofia. Stavolta, tuttavia, i riferimenti coinvolgono anche altri testi di Heidegger, in particolare Tempo ed essere44 e la Lettera su/l"'umanismo •'4S: .. Jl motiVO de] proprio (eigen, eigent/ich) e
43. lvi, p. 100, nota 33. 44. M. llmDEOGER, Zeil w1d Sein, in Zur Sacile des Denkens, Tiibingen, Nie· mcycr, 1969~ trad. il. di E. Ma.zzarella, Id., Tempo ed essere, Napoli, Guida, 1980. 45. M. HEIDP.OOER, Briefuber den .. llumanismus", in ~gmamn, hrsg. von F.-W. von Hcmnann, Gesamtallsgabe, Bd. 9, Frankfurt a.M., Klostermarm,
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dei diversi modi del propriare (in particolare l' Ereignen e l'Ereignis) che domina come tema tanto ricorrente la questione del~ la verità dell'essere in Zeit und Sein (1962) è da lungo tempo ali' opera nel pensiero di Heidegger. In particolare nella Lettera
sul/ 'umanismo•t46. I1 riferimento a Zeit und Sein, contenuto in questa nota, non sembra, per il momento, introdurre alcuna sostanziale variazione ne11 •analisi di Derrida, che anzi vi trova confennata quella "metafisica del proprio., che si annunciava fin dalla pagine di Sein und Zeit. Così come risulta confermato il rapporto intrinseco tra prossimità [Niihe], prossimazione, approssimazione e propriazione-appropriazione (percepibìle ancora nel latino propre, proprius)47 , ancora una volta a partire da un passo di ZeU und Sein, citando il quale Derrida sembra non accorgersi che la com~ parsa di termini come Obereignen [trans-propriare] potrebbero gettare una nuova luce sulla problematica dell'essere in quanto Ereignis. In una nota a La différance, datata 1972, e dunque aggiunta successivamente, in occasione della ripubblicazione del testo in Margini della filosofia. Derrida, invece, pare rendersi conto che, proprio alla luce di Zeit und Sein e del pensiero dell' Ereignis, forse andrebbe quantomeno maggiormente problematizzato il giudizio sulla "metafisica del proprio,. in cui resterebbe impigliata la distruzione dell'ontologia intentata da Heidegger, preannunciando "la necessità di un percorso avvenire"48• Che la decostruzione della "metafisica del proprio.. sia, al contempo, il movente e l'obbiettivo principale da cui il pensiero di Derrida prende le mosse è, d'altra parte, esplicitamente annunciato anche in nmpano49 , il testo che introduce gli scritti raccolti in Margini della filosofia, in cui il martellante richiamo
1976; trad. it. di F. Volpi, Id., Lettera sull""'umanismo", in Segnll\lia, Milano, Adelphi, 1987. 46. J. OE.RR.IOA, Lesfins de l'homme, in Marges- de la philosophie, cit.; trad. il., Id., Fini dell'llomo, in Margini della filosofia, cit .. p. 177, nota 23. 47. Si veda ivi, pp. 180·181, nota 26. 48. J. DERRIDA, La différance, cit., p. 55, nota 12. 49. J. DERRIDA, 'fYmpan, in Marges- de la philo..'lophie, cit.; trad. it., Jd., Timpano, in Margini della filosofia, cit.
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al proprio, all'appropriazione e alla riappropriazione, cosi come al suo altro, risuona ad ogni pagina come ripetuti colpi di gong. È tuttavia solo in alcune importanti pagine di Sproni 50 , la cui prima stesura risale al luglio del 1972, in occasione del Convegno su Nietzsche di Cerisy-la-Salle, che il giudizio su Heidegger e sulla sua "metafisica del proprio'' subisce una rilevante "correzione,. Senza qui poter entrare nel merito della complessiva interpretazione derridiana di Nietzsche~ 1 • questo intervento si concentra, come annunciato fin dalle prime battute, sulle questioni de1lo stile c del femminile che, per Nietzsche, sono strettamente legate a quella deiJa verità. Affermando che "non c'è una verità di Nietzschc o del testo di Nietzsche"~ 2 • Derrida intende prendere le distanze da ogni interpretazione univoca di quest'opera così "frammentaria" e contraddittoria, in primo luogo da quella di HeideggerS3, che forse più di ogni altra, con la sua straordinaria forza teoretica, ha "inchiodato" Nietzschc entro la cornice della metafisica, attraverso un 'incalzante analisi delle "parole fondamentali" del suo pensiero. È su questo sfondo che, come tra una lunga parentesi, si inseriscono le pagine cui facevamo riferimento, tese a mostrare come all'interno deJla stessa interpretazione di Heidegger, si possano trovare elementi decisivi per intraprendere una differente lettura di quella costellazione del 'proprio', sinora intesa da Derrida solo nei suoi risvolti metafisici. Il contesto è que11o del femminile e della differenza sessuale- una questione singolarmente assente nell'interpretazione heideggcriana di Nietzsche- che, nel pensiero di Nietzsche, incrocia la questione del 'proprio', "il processo di propriazione
50. J. D!~IUUOA, Éperons. Les styles de Nietzsche, Paris, Flammarion, 1978; trad. it. di G. Cacciavillani, Id., Sproni. Gli ..uìli di Niefzsche, Milano, Adelphi, 1991, pp. 99-112. Sl. Per una ricogni7.ionc di questo rapporto, con particolare riferimento ai temi della scrittura e dello stile, si veda l. P~LGRF.FFI, Scrittura e filosofia. Jacques Derrida interprete di Nietzsche, Roma, Aracnc, 2014. 52. J. DERRII>A, Sproni, cit., p. 94. 53. M. HEIDEOOER, Nietzsche, Pfullingcn, Neske, 1961,2 volt.; trad. it. di F. Volpi, Id., Nietzsclle, Milano, Adelphi, 1994.
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(appropriazione, espropriazione, presa, presa di possesso, dono e scambio, padronanza, servitù, ecc. )" 54 • Dcrrida mostra come la donna, per Nìetzsche, rappresenti il punto iperbolico c vertiginoso in cui il dare e il prendere, il dono, l'abbandono e H possesso si rovesciano continuamente l'uno nc!Paltro, così come verità c finzione, fino a fare della donna l'istanza di questa infinita pcrvertibilità, a causa del1a quale la stessa differenza sessuale, in quanto opposizione dei generi, appare come un gioco di maschere o di specchi. Ad essere messa fuori gioco, secondo Derrida, è la stessa logica (metafisica) del proprio, dal momento che, come Nietzsche mostra attraverso la donna, "il processo di propriazione sfugge sia a ogni dialettica sia a ogni decidibilità ontologica" 55 • Ciò comporta che non sia più possibile domandarsi "che cosa è il proprio, l'appropriazione, l'espropriazione, la padronanza"56 • La decostruzione del proprio operata da Nietzsche sarebbe dunque andata molto più lontano di quella di Heidegger? Se la questione del proprio precede la questione dell'essere, ciò comporterà che il problema del senso e della verità dcll 'essere, così come Heidegger lo ha posto, secondo Derrida, non sembra in grado di venire a capo del problema del proprio, .. non ne è capace in quanto vi si trova inscritto" 57 • Ma non bisogna affrettare le conclusioni, soprattutto - avverte Derrida- non ci si può esimere, per questo, dal confrontarsi con la problematica antologica e con i suoi risvolti critici, così come Heidegger l'ha posta, come se si potesse affi'ontare direttamente il problema del proprio, "come se si sapesse che cos 'è il proprio, la propriazione, lo scambio, il dare, il prendere, il debito, il costo, ecc." 53 . Pur rimarcando i limiti delPapproccio ermeneutico della lettura heideggeriana. che chiude la filosofia di Nietzsche entro il recinto della metafisica, della quale, anzi, rappresenterebbe H compìmento, Derrida intende complicare il gioco, non si accontenta di
54. J. DE.RRIDA, Sproni, cit., p. 100. 55. lvi, p. 103. 56. Ibidem.
57. lbìdem. 58. lvi, p. l04.
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un facile scambio delle parti, in virtù del quale Nietzsche semplicemente prenderebbe il posto di Heidegger quale pensatore post-metafisico. Per la prima volta Derrida è disposto a riconoscere come, ogni qual volta la questione deJI"essere si apre a quella del 'proprio', non ci si può limitare a constatare che essa si richiude metafisicamente nel privilegio deJla 'propriazione' e del 'propriare'. Benché l'intera analitica esistenziale sembri organizzarsi nelle pagine di Sein und Zeit intorno all'opposizione tra Eigentlichkeit e Uneigent/ichkeit, con la valorizzazione della prima a scapito della seconda, e sebbene Derrida ribadisca, ancora una volta, che ''una certa valorizzazione del proprio e dell' Eigent/ichkeit- la valorizzazione medesima- non s'interrompe mai"59 , tuttavia sarebbe possibile riscontrare una deiscenza [déhiscence), una dischiusura, che aprirebbe la strada in un 'altra direzione, pur senza rappresentare né una svolta, né un 'interruzione sulla via maestra che si indirizza al 'proprio'. Un "movimento obliquo''60 è inscritto nel processo di propriazione che subisce l'attrazione fatale del proprio, introducendovi un'alterazione, la quale rivela quella che Derrida chiama adesso "struttura abissale del proprio"61. Il proprio è un abisso, è Ab-grund, senza-fondo, dal momento che la sua struttura costantemente si de-struttura, si decostruisce, è en abyme, sprofonda in un inarrestabile gioco di specchi, "passa nell'altro'-62• La metafisica del proprio heideggeriana toccherebbe qui il suo limite- che è il limite della metafisica tout court- tra un proprio e un im-proprio che non si oppongono più, che non sono più dialettizzabili. Pertanto: "se la forma dell'opposizione, la struttura opposizionale, è metafisica, il rapporto della metafisica col proprio altro non può più essere oppositivo"63. Neli 'ultimo capitolo del Nietzsche di Heidegger, Die Erinnernng in die Metaphysik, Derrida trova le risorse necessarie 59. 60. 61. 62. 63.
lvi, p. 106. lvi, p. l07. Ibidem. Ibidem. Ibidem.
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almeno per cominciare a intraprendere un 'altra possibile lettura deJla "metafisica del proprio•• heideggeriana a partire dal pensiero dell'Ereignis. Attraverso questo tennine- che è impossibile tradurre - Heidegger cerca di pensare ]•accadere [Geschehen] della verità dell'essere altrimenti che come accadere di qualcosa: '"Nichts geschieht, das Ereignis er-eignettM. I:essere, dunque, e-viene, si dà come evento-appropriazione che tuttavia è appropriazione di niente. Derrida accenna solo di sfuggita a questi importanti passaggi, decisivi per comprendere quel pensiero dell• Ereignis, di cui si è potuta appre1.zare fino ìn fondo la portata solo dopo la pubblicazione dei Beitriige65 e di altri scritti postumi, ma viene colpito soprattutto da un passo nel quale l'e-venire dell'Ereignis è messo in rapporto al dis-velamento della verità dell'essere come velamento: "La nobiltà dell•evento dignitoso dell'inizio è t•unica liberazione come eventoappropriazione [Er-eignis], il dis-velamento [Ent-bergung] è il velamento (Verbergung] - e ciò perché è la proprietà [das Eigentum] del fondo abissale [Ab-grund].'66• Questo il commento di Derrida, che conviene riportare per intero, poiché introduce a quella lettura "obliqua•• che si apre, attraverso questi passaggi, una strada che conduce oltre quella "metafisica del proprio'' alla quale Heidegger sembrava essere stato condannato senza appello: la proprietà o la propriazione del proprio viene precisamente denominata ciò che non è proprio a niente, e quindi a nessuno, ciò che non decide più dell'appropriazione della verità dell'essere, e rinvia nel senza-fondo dell'abisso la verità come non-verità, lo svelamento come vclamento, l'illuminazione come dissimulazione, la storia dell'essere
64. M. HEID!i.GGER, Die Erinnenmg indie Melaplrysìk, in Nielzsche, cit; trad. ìt., Id., Il ricordo che entra nel cuore della metofuica, in Nielzsche, cit., p. 935. 65. M. HEIDEGGER, Beitriige zur Phìlosopllie. (Vom Ereigflis), hrsg. von F.·W. von Herrmann, Gesamtausgabe, Bd. 65, Frankfun a.M., Klostennann, 1989; trad. il di A. ladicìcco, Id., Contributi alla filosofia (Da/1"(.-vefll(}}, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 2007. 66. M. HEIDEOOER, !l ricordo che entra nel cuore della metafuica, cit., p. 935.
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come storia nella quale nulla. nessun essente si produce, ma solo il processo senza fondo dell' Ereignis, la proprietà dell'abisso (das Eigentum der Ab-gnmdes) che è necessariamente l'abisso della proprietà c anche la violenza di un evento che si produce sel17.a essere. L: abisso della verità come non-verità, della propriazione come appropriazione/a-propriazione67.
Una lettura "obliqua" del pensiero heidcggeriano dell'Erei-
gnis lo mostrerebbe allora in grado, al pari di quello di Nietzsche, di scardinare quella "metafisica del proprio" solidale ad un pensiero dell'essere come presenza, qual è quello dell'antologia classica e di collocarsi al di là dell'essere, mostrando il carattere abissale, sen7.a fondo del proprio, della proprietà e dell'appropriazione. Il 'proprio' non è propriamente niente, è quell'Ab-grund in cui disvelamento e velamento si rispecchiano l'un l'altro, scivolando, passando l'uno nell'altro. In questo punto vertiginoso in cui verità e non verità sembrano coincidere, secondo Derrida il cammino di Nietzsche potrebbe incrociare quello di Heidegger, e diventa difficile stabilire chi dei due abbia fatto più strada lungo il percorso della decostruzione della "metafisica del proprio", ossia della metafisica intesa come antologia della presenza e del presente. Ma I'Ereignis, in quanto es gibt Sein, in quanto darsidonarsi dell'essere è al centro, com'è noto, soprattutto di Zeit und Sein 68 , un testo sul quale- come abbiamo visto- Derrida si era già soffermando, senza tuttavia coglierne fino in fondo la portata dirompente per la questione del proprio. A questo cruciale testo si rivolge finalmente la sua attenzione, nelle ultime battute di questa importante parentesi su Heidegger, che si trova in Sproni. Ricordando come in tale opera il pensiero dell'essere prenda la forma di un pensiero "del dono abissale"69, attraverso il quale lo stesso processo di propriazione vira dalla '"metafisica del proprio" nella direzione di un pensiero al di là deJl'essere c dell'essenza, aprendo anche la via per quella che avrebbe
67. J. DBIUUDA, Sproni, cit., p. 109. 68. M. HEIDEGGER, Tempo ed essere, cit. 69. J. DERRIDA, Sproni, cii., p. 110.
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potuto essere, da parte di Heidegger, una diversa interpretazione del pensiero di Nietzsche (quella intrapresa da Derrida), Derrida ammette: "non vi è essenza deWes gibt nell'es gibt Sein, del dono e della donazione dell'cssere"70• In nota, poi, cita anche un lungo passo da Tempo ed essere, in cui Heidegger mette in guarda daWinterpretare l'espressione "Essere come Ereignis" nel senso di un nuovo nome da dare all'essere, che si aggiungerebbe a quelli volta per volta succcdutisi nella storia del pensiero occidentale (idea, energheia, actua/itas, volontà). I.:Ereignis non è un'ulteriore interpretazione dell'essere, che, intesa in tal modo, rimarrebbe presa entro l'orizzonte metafisica della sua storia. I.:Ereignis nomina invece il dileguarsi dell'essere nell'evento (Sein verschwindet im Ereignis11 ), il suo darsi-donarsi- e consumarsi - nell'ereignen, nell'e-venire o venire a "destinazione". Per questo l'Ereignis non sarebbe un modo deWessere, ma nominerebbe l'accadere del 'proprìo' dell'essere come dono (abissale): "die Gabc von Anwesen ist Eigentum des Ereignens"72. Derrida interrompe qui la sua lettura, che, non solo, malgrado Heidegger, tenta di mostrare una sorprendente convergenza con Nietzsche (con la lettura di Nietzsche offerta da Derrida neJie pagine di Sprom}, ma soprattutto tenta di sottrarre Heidegger, almeno un certo Heidegger, a quella "metafisica del proprio" che fino a questo momento sembrava essere l'unico vettore interpretativo, rispetto al quale Derrida aveva ripetutamente preso le distanze. Due cose ci srupiscono, lo confessiamo: l) a fronte di letture ben più analitiche e minuziose intraprese da Derrida rispetto ad altri testi (anche heideggeriani), il confronto con un'opera cruciale come Zeit und Sein appare quantomeno sfuggente, relegato peraltro in una nota. Anche quando Derrida formulerà il proprio pensiero dell'evento, che tanti punti di contatto mostra
70. Ibidem. 7 L "l: essere svanisce neii'Ereigni:r.. (M. IIEIDI!GGER, Tempo ed e.m!re, cit., p. 123).
72. "La donazione di presenza è proprietà dell'appropriare a sé il proprio" (ibidem).
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di condividere con il pensiero heideggeriano dell'Ereignis 13 , ciò non accadrà- almeno non esplicitamente- attraverso un articolato confronto con queste pagine; 2) è singolare che Derrida interrompa la propria lettura del testo heideggeriano nel punto che abbiamo segnalato. Poche righe più sotto si sarebbe potuto imbattere in un'affermazione, che probabilmente più di ogni altra sarebbe stata in grado di incrinare il verdetto che così a lungo Derrida ha lasciato pendere sul pensiero di Heidegger, circa la sua appartenen7..a a quella "metafisica del proprio, che pure avrebbe, come pochi altri, contribuito a scuotere dalle fondamenta. I.:affennazione è questa: "esso (l'Ereignis] sottrae ciò che gli è più proprio [sein Eigenstes] a1l'illimitato disvelamento [EntbetgUng]. Pensato a partire dall'appropriare [vom Ereignen] questo significa: esso si dis-propria [sieh enteignet]. A lP Ereignis come tale appartiene l'Enteignis, la dis-propriazione. Per il suo tramite l' Ereignis non rinuncia a sé stesso, ma salvaguarda quello che gli è più proprio" 74 • Un implicito riferimento a questo fondamentale passo di Zeit und Sein lo ritroveremo qualche anno più tardi. nella conferenza pronunciata nell'estate del 1980 a Cerisy-la-Salle, nel corso di una decade dedicata al suo pensiero: "Vieni al di là dell'essere, viene dall'al di là dell'essere e chiama al di là dell'essere, introducendo forse al luogo in cui l' Ereignis - che non si 73. Sul rapporto tra Derrida e Heidcgger, a proposito del tema dell'evento, ma anche riguardo ad altre questioni, mi permetto dì rinviare 8 C. RESTA, Pensare a/limite. Tracciati eli Derrida, Milano, Gucrinì e Associati, 1990. Più in generale, sull'evento nel pensiero di Dcrrida rimando 8 C. RllsTA, L'ewmto dell'altro. Etica e politica in Jacques Derrida, Torino, Bollati Boringhicri, 2003; si vedano anche gli importanti contributi di C. DI MARTINO, fi'gl1re dell'evento. A partire da Jacques Derrida, :Milano, Gucrìni e Associati, 2009 e Id., Evento, auto-imm•mità e messilmico, in AA.Vv., L'a·venire eli Derrida, a cura di G. Dal· masso, C. Dì Martino, C. Resta, Milano-Udine, Mimcsis, 2014. Si veda inoltre S. PtiROSINO, Pe11siero del/ 'e~·ento ed esercizio della decostruzione, in AA.Vv., Su Jacques Derricla. Scrillurafilosofica e pratica eli decostnaione, a cura di P. D'Alessandro c A. Potcstio, Milano, LED, 2008. 74. M. HF.IDEGGER, Tempo ed essere, cit., p. 124. Si veda anche quanto riportato nel Protocollo seminario/e: "L' Ereig11ìs è in se stesso di.~·propriazione [Enteignis}" (M, p. 144); e, poco più avanti: "all'Ereignis appartiene in una maniera essenziale l'Entegnis" (ivi, p. 146).
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può più tradurre con avvenimento - e l' Enteignis dispiegano il movimento di propriazione"75 • A molti anni di distanza, nel contesto dell'intervista sul quel "major event" che siamo ormai abituati a menzionare attraverso la sua data: Il settembre 2001, Derrida torna ancora una volta, in modo significativo, sul nesso Ereignis-Enteignis, ponendo finalmente l'accento sul carattere espropriante dell'evento e offrendo una interpretazione decisamente più generosa di Heidegger: "il pensiero dell' Ereignis, in Heidegger, non è rivolto solamente all'appropriazione del proprio (eigen). ma anche a una certa espropriazione che Heidegger nomina Enteignis. Il decorso dell'evento, ovvero ciò che nel suo decorso si apre e al contempo resiste all'esperienza, consiste, mi sembra, in una certa inappropriabilità di ciò che accade"76. Forse Heidegger è andato più lontano, nella decostruzione della "metafisica del proprio", di quanto Derrida non sia stato per molto tempo disposto ad ammettere.
7S. J. DERRIDA, D'u11 ton apocaliptyque adopté naguère e11 philosopllie, Paris, Galilée, 1983; trad. it. di A. Dell'Asta e P. Perrone, Id.• Di un tono apocalittico adoltato di recente in filosofia, in AA. Vv., Di-segno. La giustizia nel discorso, a cura di G. Dalmasso, Milano, Jaca Book, 1984, p. 141. 76. J. DERJUDA, A.mo-imn1unìtés, suicides réels el symboliques. Un dialogr1e avec Jacques Denidil, in J. OE.RR.!DA • J. HABE.RMAS, Le "concept" du l l septembre. Dìalouges à New York (octobre-décembre 2001), présentés et commentés par G. Borradori, Paris, Galilée, 2004; trad. it. di G. Bianco, Id., Autoimmunità, Sllicidi ff!tlli e simbolici. U11 dialogo con Jacques Denida, in G. BoRRADORI, Filosofia del terrore. Dialogl1i con Jiirgen Habermas e Jacques Derrida, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 98. Si potrebbe aggiungere che anche i temi della "casa" e della Heimal sono da Heidegger costantemente messi in relazione con il moti\•o di una spaesatezza {Heimallosigkeìt] "originaria" fin dalle pagine di Essere e tempo dedicate all'angoscia e con quello dello Unl1eimliche, cosi caro anche a Derrida. Per una lettura in questa chiave mi permetto di rinviare a C. REsTA, /l luogo e le vie. Geografie del pen.';iero ì11 Martin /leidegger, Milano, Angeli, 1996. Per una sintetica, ma puntuale trattazione del problematico rapporto con Heidegger a proposito della 'metafisica del proprio" sì ''Cda M. VERGANI, Jacques Derrida, Milano, Bruno Mondadori, 2000, pp. 96-105.
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2.2. La pulsione del proprio Al di là di Artaud. di Nietzsche e del1o stesso Heidegger, Ja decostruzione dell Joikonomia in quanto legge dello a-casa e "metafisica del proprio" affila le sue anni forse più taglienti e trova le sue risorse forse più preziose e di lunga durata nel confronto con Freud e in particolar modo con quel testo davvero crucialeJ per Derrida, Al di là del principio di piacere, al quale tornerà a riferirsi innumerevoli volte. Speculare - su "Freud,..,, rappresenta una tappa importante nel1a decostruzione della Legge del proprio e deJl'cconomia (inconscia) che vi obbedisce, anzi, probabilmente decisiva, poiché la psicoanalisi freudiana consente forse di gettare uno sguardo ancor più profondo - e radicale - in quella "struttura abissale del proprio", in quell'Ab-grund che abbiamo visto spalancarsi discutendo di Nietzsche e di Heidegger. Non potendo ripercorrere tutti i passaggi né dar conto di tutte le numerose implicazioni della lettura particolannente minuziosa e attenta ad ogni oscillazione che di questo testo ci offre Dcrrida- un testo divenuto celebre perché Freud vi espone per la prima volta la scoperta della puJsione di morte - ci limiteremo a enucleare que1la economia della morte che, para-
77. J. DliRRIDA, Spéculer - sur "Fnmd ", in La carie poslale. De Socrale ti Freud et Oll·delà, Paris, Flammarion, 1980; trad. it. di L. Ga?.ziero, Id., Speculare- s11 "Freud", a cura di G. Berto, Milano, Cortina, 2000. TI testo riproduce l'ultima parte di un seminario, dal titolo l.a vie la mort, tenuto all'Écolc Nonnale Supéricure nel 197S, dunque grosso modo nello stesso giro di anni degli altri testi che abbiamo sin qui preso in esame. Partendo da Nietzsehe, questo seminario si articolava attraverso un confronto con la biologia c le scienze della vita, l'analisi dell'interpretazione heideggeriana di Nietzsche (di cui, come abbiamo visto, Sproni costituisce un primo affondo) e, infme, un'analitica lettura di Al di là del principio di piacere, l'unica Si:Zione pubblicata da Derrida all'interno dei testi raccolti in Lo carie postale. Uno slralcio di una seduta è stato pubblicato con il titolo Logico del vivente, in J. DI:RRIDA, Olobiogrophies. L'enseignement de Nietzsche el la politique d11 11ome propre, Paris, Galiléc, 1984; trad. il. di R. Panattoni, Id.• Otobiogrophìes. L'insegnamenlo di Nietzsche e la politica del11ome proprio, a cura di M. Ferraris, Padova, Il Poligrafo, 1993. Purtroppo sinora non è stalO pubblicato il Seminario nella sua interezza.
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dossalmente, mantiene in vita la vita e quella pulsione del proprio che alimenta e caratterizza il movimento circolare della vita che, dalla morte, riconduce alla morte, attraverso una più o meno lunga deviazione [Umweg]. Benché il testo freudiano non sia facilmente fissabile in una "posizione"' o in una "tesin (Derrida parla infatti di "a-tesi"'), il che gli imprime il suo marcato andamento ..zoppicante", e sia caratterizzato da un continuo tornare sui propri passi e da una singolare incertezza di direzione - Freud stesso ammette, in conclusione, il carattere "incerto" e "provvisorio, delle sue anaJisi -, potremmo tuttavia prendere le mosse daWassunto freudiano secondo il quale ogni organismo vivente tende a tornare ano stato inorganico dal quale ha preso origine, sicché, più in generale, la vita, fin dal suo insorgere, tenderebbe alla morte. La vita non sarebbe altro che un Umweg, una diversione, una deviazione momentanea, in virtù della quale la vita si mantiene in vita e si conserva, affinché la morte possa sopraggiungere per ragioni interne18 , immanenti allo stesso organismo, il quale, perciò, organizza le sue difese contro tutto ciò che im-propriamente lo minaccia dall'esterno. Utilizzando espressioni non molto distanti da quelle che impiegherà Heidegger in Essere e tempo, Freud ritiene che l'organismo, con il soccorso delle pulsioni parziali di conservazione, deve compiere il proprio cammino verso la morte, aspira a morire di una morte ..propria": "l'organismo vuole morire solo a11a propria maniera"79 • Come commenta
78. "Se possiamo considerare come un fatto sperimentale a$SOllllamcnte certo c senza cccc7joni che ogni essere vivente muore (ritorna allo stato inorganico) per motivi interni, ebbene, allora possiamo dire che la meta di llllto ciò che è vivo è la morte, e, considerando le cose a rilroso, che gli esseri privi di vita sono esistiti prima di quelli viventi" (S. FREUD, Jenseit:;; des Lustprinzips ( 1920), in Jenseils cles L11stpri11zips. Massenpsycllologie 11nd lch-Analyse. Das /eh 1111d das Es. Und a1ulere Werlce OIIS de'l Jal1ren 1920-1924, in Gesammelte ~rke: Werke uus den Jahre11 1920-1924, Bd. XIIl, Frankfurt a.M., Fischcr, 1998; trad. it. di A.M. Marictti e R. Coloro i, Id., Al di là del princìpio di piacere, in Opere /917-1923. L'lo e l'Es e altri scrilli, ed. dir. da C.L. Musatti, Torino, Boringhieri, 1977, vol. 9, p. 224). 79. lvi, p. 225.
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Derrida, evidenziando il valore del 'proprio' messo in campo da Freud: Le pulsioni parziali sono destinate ad assicurare che l'organismo muoia della sua morte, che segua il proprio cammino verso la morte. Che vada a morte al passo che gli è proprio (zigene Todesweg). Si tengano alla larga (weg! Si direbbe, fornzuhalten, dice Freud) tutte le possibilità di ritorno all'inorganico che non gli sono .. immanenti". Il passo deve accadere nell'organismo, da sé a se stesso, fra sé e sé. Bisogna dunque allontanare il non-proprio, riappropriarsi, far ritorno (dal) fino alla morte. lnviarsi il messaggio della propria morte80•
Come ancora chiarisce Derrida: Tale sarebbe la funzione di queste pulsioni parziali: aiutare (funzione ausiliaria) a morire della propria morte, aiutare (funzione d'assistenza: assistere nella morte) acciocché la morte sia un ritorno a ciò che è più proprio, al più prossimo a sé, come alla propria origine, secondo un circolo genealogico: inviarsi. I:organismo [ ... ] si preserva, si risparmia, si conserva attraverso lutti i generi d'avvicendamento differenziato, dì destinazione intermedia, di corrispondenza a corto o lungo termine, a corto o lungo raggio. Non per guardarsi dalla morte o contro la morte, soltanto per evitare una morte che non gli toccherebbe, per sottrarsi ad una morte che non sarebbe la sua o quella dei suoi81 •
Risulta allora più comprensibile in che senso si possa parlare di una ..economia della morte.., non dimenticando che per Derrida l, oikonomia è la legge della casa che, in quanto legge del ritorno a casa, nomina la legge del proprio e dell'appropriazione. La morte differisce, si allontana da sé per riappropriarsi di sé, per far ritorno a sé; la morte è questa différance, questa deviazione, dilazione e divergenza che le è immanente e che chiamiamo vita, non il suo opposto, ma la sua differenza interna. Ciò che chiamiamo ..vita"82 non si oppone dunque alla mor-
80. J. DF.RRIDA, Speculare- su "Freud", cit., p. 114. 81. lvi, pp. 114-115 [c. n.].
82. Sul tema della vita in Derrida, con particolare riferimento alla paradossale logica dell'(auto)immunità, cfi'. C. DI MARTINO, Derrida e il pettsiero del vivente, "EPEKEINA. Intcmarional Journal of Ontology. History and Cri·
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te, ma solo ad una morte im-propria, che, provenendo dall'esterno, impedirebbe la perfetta chiusura del cerchio economico deUa restituzione e del ritorno (a sé), della riappropriazione. La morte deve tornare a se stessa nell'arco di una vita per potersi appropriare di sé: solo così, in questo movimento circolare, può ri-appropriarsi ed essere, per un vivente, la propria morte. Una morte che il vivente dovrebbe fare di tutto per darsi-donarsi da sé. La morte sarebbe dunque "propria, nella misura in cui la vita si deve suicidare (da sé). Ma che cosa spinge la morte a restituirsela, a restituirsi, a riappropriarsi, a far ritorno a casa, al punto di partenza, in questa che, a tutti gli effetti, è una oikonomia, anzi, dovremmo forse dire, l'economia tout courf! Quale spinta83 qui si annuncia, potente al punto di mettere in moto e di far girare l'intero circuito economico della n-appropriazione? Derrida, andando anche al di là delle stesse conclusioni di Freud, osserva: La pulsìone del proprio sarebbe più forte della vita e della morte. [... ) Se[... ] la pulsione del proprio è più forte della vita e più forte della morte, il fatto è che, senza appartenere alla vita o alla morte, la sua forza non la qualifica altrimenti che attraverso la propria pulsìvità e che questa pulsività sarebbe lo strano rapporto a sé che si definisce rapporto al proprio: la più pulsiva delle pulsioni è la pulsione del proprio, in altri tennini quella che tende a riappropriarsi. Il movimento di riappropriazione è la pulsione più pulsiva. Il proprio della pulsività è
tics" l-2 (2012); preziose indicazioni emergono anche da S. GERACI, La qate· stione del vivente: traccia, biologia. macchinalilà, in AA.Vv., L'a-venire di Derrida, cit. Per una sintetica esposizione delle questioni in gioco si veda la voce LA VITA LA MORTE, curata da F. Vitale, in S. FACIONt, S. REGA7.1.0NI, F. ViTA· LE, Derridario. Dizionario della decostruzione, Genova, il melangolo, 2012. 83. Derrida ha in più d'una oc:casione insistito sul carattere dinamico, di spinta della pulsione. Il 1rieb va concepito come "una forLa, una spinta, una potenza pulsionale" (J. DERRIDA, Specatlare -su "Freud", cit., p. 112); come "un movimento, un processo, una 1enden1.a, una forza piuttosto che una cosa" (J. DERRIDA, Séminaire lA béte et le souverain Il (2002-2003), éd. établie par M. Lissc, M.-L. Mallct, G. Michaud. Paris. Galilée, 2010; trad. it. di G. Carbonel1i, Id., La Bestia e il Sovrano Il (2002-2003). ed. it. a cura di G. Oalmasso, Milano, Jaca Book, 2010, p. 149); anzi non è nemmeno ''una for.ta in senso sostanziale, soggettivo o oggettivo del termine" (ibidem), quanto piuttosto ''un forzamento. una forzatura" (ibidem).
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il movimento o la forza di riappropriazione. Il proprio è la tendenza
ad appropriarsi 84•
Il 'proprio' non sarebbe dunque altro che pulsione di appropriazione, la spinta ad appropriarsi che provoca, avvia, mette in moto l'intero circuito economico, l'economia stessa in quanto Legge del proprio. Ma se la legge del ritorno e della restituzione implica, come abbiamo visto, una diversione, una deviazione e un rinvio, una différance, immanente al cammino di morte, in sé altro da sé, che chiamiamo ''vita" - una vita che non sarebbe altro se non una più o meno lunga deviazione dalla strada maestra della morte, che comunque ad essa fa ritornoallora l'appropriazione (la "propria" morte) è, al contempo, una es-propriazione (deve necessariamente passare per l'altro da sé, la vita): "I:eterologia entra in gioco, ragion per cui c'è forza, [ ... ] allontanamento da sé e delegazione, invio. Il proprio non è il proprio e, se si appropria, il fatto è che si espropria- propriamente, impropriamente. La vita la morte non vi si oppongono più"ss. La vita la morte, senza virgola e senza congiunzione, non stanno dunque in un rapporto di opposizione escludente. La vita la morte nominano la différance come Legge del proprio-improprio, di un movimento simultaneamente appropriante-espropriante, che rende l'appropriazione in ultima istan?.a impossibile, dal momento che la morte, per ritornare a sé, deve passare nel suo altro, che è la vita, così come la vita, questa deviazione, tende a tornare a casa, al punto di partenza, chez soi, tende alla propria morte e, per conservare questa meta e questa direzione, per salvaguardarla come la propria, non può che dar-si la morte, expropriarsi, lasciarsi dirigere dall'altro-di-sé per farvi ritorno e dare la morte a tutto ciò che, dall'esterno, ostacola o ostruisce ìJ cammino di questo nostos. La vita deve morire della propria morte, si deve sui-cidare, si deve d~re la morte da sé, ma può farlo solo a partire dall'altro di sé, da quella morte che non è il suo contrario. ma la sua origine e la sua ultima destinazione, lungo la 84. J. Dr:AAIDA, Speculare -su "Freud", ci t., p. Il S.
85. Ibidem.
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via "errabonda"86 che è chiamata a percorrere. La morte è il mittente e il destinatario cui questa missiva - la vita - si indiri?..za come alla propria destinazione in un percorso che espropria, che rende impropria tanto l'lUla (la vita) che l'altra (la morte). Per quanto Freud non giunga pienamente a riconoscerla, secondo Derrida, nelle pagine di Al di là del principio di piacere, si troverà enunciata la legge del la-vita-la-morte come legge del proprio. La vita e la morte non si oppongono che per servirla. Al di là di tutte le opposizioni, senza identificazione o sintesi possibile, si tratta proprio di un'economia della morte, d'una legge del proprio (oikos, oikonomia) che governa la diversione e ricerca infaticabilmente l'evento proprio, la propria propriazìone (Ereignis) piuttosto che la vita e la morte, la vita o la morte. Il prolungamento o l'abbreviazione della diversione sarebbero al servizio di questa le1ge propriamente economica o ecologica del se stesso come proprio8 .
La morte, dunque, sarebbe l'auto-affezione (l'auto-infezione) delJa vita, come la vita l'auto-affezione (l'auto-infezione) della morte, essendo l'lUla già da sempre contaminata dall'altra. La différance in gioco tra esse non consiste in Wl rapporto di opposizione, ma nel desiderio di auto-appropriazione, che tuttavia comporta una necessaria ex-appropriazione88• La salvaguardia del proprio è al contempo la sua vulnerabilità, "la sua improprietà essenziale, l'es-appropriazione [exappropriation] (Enteignis) che lo costituisce"89 • Per questo, come affenna Freud, le pulsioni conservatrici, il cui compito è quello di salvaguardare la vita, sono al tempo stesso, le sentinelle della morte90; il che
86. È lo stesso Freud a impiegare questa espressione: "Queste vie errabonde che portano alla morte, fedelmente serbate dalle pulsioni conservalrici, si presenterebbero oggi a noi come l'insieme dei fenomeni della vita" (S. FREUD, Al di là del principio di piacere, cit., pp. 224-225). 87. J. DERRIDA, Specularr:- su "Freud", cit., p. 118. 88. Per il significato di questa espressione si veda soprattutto J. DllRRlDA -B. SnEGLHR, Ecografie della televisio1re, cit, pp. 123-124. 89. J. DERRIDA, Specu/arr: - su "Freud", cit., p. 119. 90. "Anche questi custodi della vita sono stati in origine guardie del corpo della morte" (S. FREUD, Al di là del princìpìo di piacere, cit., p. 225).
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significa che "ciò che conserva la vita resta nella sfera di ciò che riserba la morte"91 • Se "la struttura cs-appropriatrice [exapropriatrice] risulta ( ... ] irriducibile e non scomponibile"~ 2 , allora la "legge economica del proprio'193 rivela il caratte unheimlich di ogni a-casa94 , l'Estraneo che è al cuore del familiare e del focolare, cosi come ogni oikonomia, in quanto Legge della casa e del proprio, deve fare i conti con quell'Estraneo che ospita, con la sua potenza di estraneazione espropriante "che impedisce costantemente alla riappropriazione di chiudersi o di compiersi in circolo, sia esso il circolo economico oppure quelJo di famiglia'195. La spinta, che tende a chiudere il cerchio in una economia possibile, è la stessa che incessantemente ne provoca l'apertura, che ne rende impossibile la perfetta sutura. La pulsione del proprio continuamente si es-propria da sé nel suo tentativo, nel suo desiderio di appropriarsi di sé. C economia è già da sempre intaccata, alterata, da un'istanza an-economica che, al suo interno, impedisce la chiusura del circolo. Da questo folle desiderio di appropriazione integrale sorgono da sempre i fantasmi più inquietanti di restituito in integrum (integralismi, fondamentalismi, "restituzionismi" anche economici}, in grado di attingere e di mobilitare le pulsioni inconsce più arcaiche, a partire da quella di una crudeltà che, come affermava Nietzsche96, non ha con-
91. J. OF.ItRJD.I\, Speculare- su "Freud", cit., p. 120.
92. lvi, p. 121. 93. Ibidem. 94. "Il più familiare diventa il piìa inquietante. I..:essere 'a casa propria' economico o ecologico dcll'oilws, il prossimo, il familiare, il domestico, anzi il nazionale (lreimlicl•), si fa paura. Si sente occupato, nel segreto (Ge/reim.f) del suo interno, dal più estraneo, il lontano, il minaccioso" (J. DF.RRIDA, Spettri di Marx, cit., p. 182). Sul tema della Unlreimlicltkeit tra Freud, Heidegger c Derri~ da, mi permetto di rinviare a C. RESTA, /.'inquietante estra11eìtà del familiare: Freud e 1/eidegger, in I.'Bslrtlneo. Ostilità e ospitalità nel pensiero del Novecento, Genova, il melangolo, 2008. 95. J. DERRIDA, Speculare- Sll "Freud", cil., p. 122. 96. F. NmrzscHF., Zur Genealogie der Mora/. Eine Streitscrift, in Jenseits von Gut und Bi:ise. Zur Genealogie der Moro/ (1886-1887), in Werke. K.ritisC'he Gesamlausgabe, h.rsg. von G. Colli und M. Montinari, Abt. 6, Bcrlin-New York,
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trari, poiché si co11oca al di qua del bene e del male, accompagnando e anzi tenendo a battesimo la stessa costituzione delJ'ipseità. Prima tirannica anceUa de la vita la morte. Se la pulsionc del proprio97 è dunque ciò che alimenta il desiderio di appropriazione, essa, attraveiSo l'es-propriazione con cui deve costantemente fare i conti, viene da questa costantemente messa in scacco, rivelando che, in ultima istanza, un'appropriazione totale e senza resti è impossibile, cosi come il sogno di assoluta padronanza, in quanto appropriazione di sé come dell'altro. !:appropriazione è unfantasma98 , il fantasma che sostiene, alimenta, fomenta quella "metafisica del proprio" che attraversa e caratterizza il discorso filosofico fin dal suo sorgere. Con il supporto della psicoanalisi freudiana, Derrida giunge a gettare uno sguardo in quella "struttura abissale del proprio.., nel cui senza-fondo avevano osato cominciare a guardare "maestri del sospetto" come Nietzschc, Freud e lo stesso Heidegger. 11 fatto che si tratti di un fantasma, più che diminuire, ne fa accrescere la potenza, senza la quale, d'altra parte, nessuna ipseità o identità potrebbero prendere forma. Per questo, ancora una volta, per Derrida non si tratta di operare un mero rovesciamento, di sostituire il proprio con l'improprio, l'appropriazione con l'es-propriazione. Ciò non riuscirebbe minimamente a scalfire il registro metafisico che presiede ad ogni opposizione. Si tratta, piuttosto, di riconoscere l'abisso del proprio, il doppio movimento di appropriazione-espropriazione che lo attraversa, già da Heidegger individuato nel binomio Ereignis-Enteignis. Come afferma Derrida, il termine ex-appropriazione intende nominare "un movimento di appropriazione flnito•t99, il fatto Walter de Gruyter, 1968; trad. ìt. dì F. Masìni, Id., Get1ealogia della morale. Uno scritto polemico, a cura di G. Colli e M. Montìnari, Milano, Adclphi, 1984. 97. In quanto pulsionc di appropriazione innanzituno di sé, la pulsione del proprio incrocia quello che Freud ha chiamato Benriic!Jtìgrmgstrieb, pulsione di appropriazione, di padronanza [maitrise], dì dominazione, di im-presa [emprtse), di potere, cui si lega la stessa costituzione dell'ìpseità. 98. "Il proprio e la proprielà., o perlomcno ilfantasma della proprietà" (J. DERRIDA -A. DUFOUR.\!A.,TELLE, De f"hospilalité, Paris, Calmann-Uvy, 1997; trad. ìt. dì I. Landolti, Id., Sull'ospitalità, Milano, Baldini&Castoldi, 2000, p. 92). 99. J, DEIUt.lDA - B. STIEGt.ER, Ecografie della televisione, ci t., p. 123.
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che H proprio è già da sempre ex-appropriato e che dunque vi è un limite insormontabile che impedisce ogni appropriazione assoluta. "Metafisica del proprio" è, piuttosto, dare credito a e alimentare questo fantasma.
3. L'eco11omia del possibile 3.1. Il pri11cipio di potere Se dunque l' oikonomia nomina la Legge metafisica de] proprio, definita da un movimento circolare che riporta chez soi, di cui la hegeliana Fenomenologia dello spirito sarebbe il più coerente esempio sul piano filosofico, questo ritorno a sé definisce anche il processo che conduce alla presa di sé, l'insorgere di una ipseità sovrana. padrona di sé, che si auto-pone mediante l'appropriazione di sé. Senza oikonomia, senza movimento di ri-appropriazione, nessuna ipseità e identità possono costituirsi, nessuna "proprietà, può essere rivendicata, nessuna padronanza conquistata, come nessun padrone di casa potrebbe ospitare la venuta dell'altro. Ma, al tempo stesso, il desiderio del proprio e della n-appropriazione, in quanto incondizionato. è a1l'origine di quel "fantasma" che è la sovranità 100, delirio di un potere (di appropriazione) senza limiti, che non tarda a mostrare, nel suo abuso costitutivo, la più spietata crudeltà 101 •
l00. Sulla decoslruZionc del fantasma della sovranità si vedano soprattutto S. REOA1.7.0NJ, La decoslnaione del politico. Undici tesi su Derrida, Genova, il melangolo, 2006 e Id., Al di là della pulsione di potere. Derrìda e la decostruzione della sovmnilà, in J. DautiDA, /ncondizionalità o sovranità. L'Universìlà alle frontiere dell'Europa. trad. it. di S. Regazzoni, Milano. Mimesis, 2008. Cfr. anche P. LEMBO, Figurazioni sovrane. Bios. ipseità e politica nella filosofia di Jacques Derrida, "Metabasis.it" 8 (20 13) (www.mctabasis.it). 101. Non è possibile qui soffennarsi sull'importanza e sulla cenlralità che il tema della crudeltà assume via via sempre più marcatamente nel pensiero di Derrida. Lo lasceremo volutamcnte sullo sfondo, limitandoci a farvi continuo riferimento. Esso accompagna in particolare, come un basso continuo, gli ultimi seminari di Dcrrida. inlrCCciandosi strettamente alla questione de "la vita la morte", i cui principali riferimenti sono, per Derrida, Nietzsche e Freud: J. DER·
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Come abbiamo visto, la pulsione del proprio è dunque ciò che alimenta il desiderio di appropriazione e che instaura quell'economia della morte cui nessun vivente può sottrarsi. Ma essa gioca un ruolo del tutto eccezionale nella strutturazione stessa deU'ipseità, in quanto processo di appropriazione di sé. Per questo è possibile affermare che Ja Legge del proprio, "l'oikonomia è [ ... ] la condizione generale di questa ipseità come padrone sovrano" 1ol. È ancora in Al di là del principio di piacere che Derrida scorge un importante accenno a quella pulsione che Freud chiama Bemiichtigungstrìeb, pulsione di appropriazione, di padronanza (maftrise], di dominazione, di im-presa [emprise], pulsionc di potere 103 • la quale avrebbe un privilegio quasi-trascendenRIDA, Seminoìre. La béle elle SOIIVemin l (200/ -2002), ed. établie par M. Lissc, M.-L. Mallct, G. Michaud, Paris, Galilée, 2008; trad. it. di G. Carbonelli, Id., La Bestia e il Sovmno l (2001-2002), ed. it. a cura di G. Dalmasso, Milano, Jaca Book, 2009; Id., La Bestia e il Sovmno Il (2002-2003), cit.; Id., Séminaire. La peine de mort l (1999-2000), éd. établie par G. Bennington, M. Crépon, T. Dutoit, Paris, Galilee, 20 12; trad. it. di S. Facioni, Id., La pena di morle l (19992000), ed. it. a cura di G. Dalmasso e S. Facìonì, Milano, Jaca Book, 2014; Id., Séminaire La Peine de mori Il (2000-2001), éd. établie par G. Bennington, M. Crépon, Paris, Galilée, 2015. In particolare è tutto incentrato sulla questione della crudeltà e di un suo im-po.r.ribile al di là J. DERRlDA, ÉtaiS d'cime de la p:sychanaly.se. L'impossible au-delà d'une sor.weraine cntcluté, Paris, Galilée, 2000; trad. it. di C. Furlanetto, Id., Stali d'animo della psicanalisi, cit. Per wt'analisi approfondita dci presupposti psicoanalitici del tema della crudeltà, in relazione al pensiero di Derrida, si vedano soprattutto gli studi di R. MAJoR, La cn1auté originai~ et le principe de pouvoir, in AA.Vv., Empri:se etliberté, Paris, I'Harmattan, 1990; Id., Au commencemenl. /..a vie la mori, Paris, Galilée, 1999; Id., La Démocralie en Cruaute, Paris, Galilée, 2003. Si veda in proposito anche la penetrante analisi di S. GERACI, Pulsione dì cntdellà. Derrida e la psicoanalisi, in AA. Vv., L'evento dell'ospilalilà tm etica, politica e geofilosofia. Per Caterina Resia, Milano-Udine, Mimesis, 2013. 102. J. DF.ItRIDA, La Bestia e il Sovrano l (2001-2002), cit., p. 3SS. 103. Derrida ritornerà in modo significativo a parlare di pulsione di potere nel C9. È onnai celebre questa affennazionc, più volte ricordata dallo stesso Derrida, ges à New York (octobre-décembre 2001), prés.cntés et commentés par G. Borradori, Paris, Galilée, 2004; trad. it. di G. Bianco, Id., Autoimmunità, suicidi reali e simbolici. Un dialogo con Jacques Derrida, in G. BORRADORI, Filosofia del terrore. Dialoghi co11 Jrirge11 Habermas e Jacque.f Derrida, Roma-Bari, Laterza, 2003, pp. 104-IOS: "Che cos'è un evento traumatico? In primo luogo, ogni evento degno di questo nome, anche se è •felice ', ha in sé qualche cosa di traumatizzante. Esso infligge sempre una ferita al corso quotidiano della storia, alla ripetizione come all'anticipazione normale di ogni csperien:za. Un evento traumatico non è solamente segnato, in quanto evento, dalla memoria, anche incosciente, di ciò che è successo. [... ]È l'avvenire che determina l'inappropriabilità dell'evento, non sono né il presente, né il passato. (... ] Si ltatta di un trauma, dunque di un evento, la cui temporalità non procede né dall'ora presente né dal presenle passato, ma da un im-presentabile ancora al di là da venire. Un'ar· ma ferisce e lascia per sempre una cicatrice incosciente; ma quest'anna è terrificante perché viene dall'avvenire, da un avvenire cosi radicalmente a venire da resistere anche alla grammatica del futuro anteriore. {... ] Il trauma e prodotto dall'awenire, dalla minaccia del peggio a venire piuttosto che da un'aggressione 'bella c fmita'". Benché queste rinessioni riguardino, nello specifico, il trauma relativo al major event dell'li settembre, esse mettono bene in luce, piu in generale, il carattere traumatico di ogni evento (degno di questo nome), che irrompe, rompe e interrompe, dissesta l'assetto cronologico del tempo, indispensabile al suo padro11eggiamento. Da questo punto di vista, gli stessi concetti psicoanalitici di "coazione a ripetere" e di "ripetizione", che si legano al trauma, rivelando anche il loro legame con la pulsione di morte, non appaiono sufficienti. li carattere traumatico dell'evento non si legherebbe, infatti, solo al passato e al suo possibile "ritorno", ma- cosa ancor più terrificante- riguarda in primo luogo una minaccia che, provenendo dal futuro, nella sua costitutiva impresentabilìtà (non è infatti anticipabilc o prevedibile), risulta ancor più temi· bile e rende il trauma ancora piu intenso, facendo sperimentare la costitutiva vulnerabilità di un'esistenza esposta, indifesa ed inerme. Il terrorismo utilizza esattamente questa dinamica come la sua arma più letale. 9. J. DERRIDA, Psycllé. l11vention de l'autre, in Psyché. bwention.-r de l'autre l, Paris, Galilée, 1998; ttad. il. di R. Ba17.arotti, Id., Psyché. Invenzione dell'altro, in Psycllé. lln'enzioni dell'altro l. Milano, Jaca Book. 2008, p. 28.
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che compare in Psyché. Invenzione dell'altro. Quasi ossessivamente, nelle più diverse circostanze, Derrida non si stanca di riaffermare che "la decostruzione, se ce n'è, non è una critica, ancor meno una operazione teorica o speculativa metodicamente condotta da qualcuno, ma[ ... ] se ce n'è, ha luogo[ ... ) come esperienza dell' impossibile"10 • La decostruzione è dunque evento non nel senso di una possibilità-reale, ma dell'impossibile in quanto evento dell'altro. di un 'alterità irriducibile, inanticipabile, inappropriabile; evento in quanto esperienza possibile di questo impossibile che accade, accade realmente 11 , anche se questo accadimento reale
Questo testo viene richiamato ad es. anche in J. DERRIDA, Sa11/ le nom. (PostScriptum), Paris, Galilée, 1993; trad. it. di F. Garritano,ld., Salvo il nome. (Posrscriplltm), in// segreto del nome. Chora, Passioni, Salvo il nome, a cura di G. Dalmasso e l~ Garritano, Milano. Jaca Book, 1997, p. 137: "La 'decostruzione' è sovente stata definita come l'esperienza stessa della possibilità (impossibile) dell'impossibile, del più impossibile, condizione che essa divide con il dono, il 'si', il 'vengo', la decisione, la testimonianza, il segreto, etc. E forse la morte". lO. J. DF.ftRIDA, Po11r l'amour de IAcall, in Résislonces de la psychonalyse, Paris, Galilée, 1996; trad. it. di G. Scibilia. Per l'amore di l.ocan, ..aut aut'' 260-261 (1994), p. 161. Cfr.: la "decostruzione, che è impossibile o l'impossibi· le, [ ... ] non è un metodo, una dottrina, una meta filosofia speculativa, ma quel che accade" (J. DERRIDA, L'11niversità se11Za co11dizione, cit., pp. 60-61} e, quasi alla lettera: "non è né una filosofia, né una scienza, né un metodo, né una doHrina, ma [... ]l'impossibile come ciò che sopraggiunge" (J. DERRIDA, "Autnti est secret parce qu 'il esi o11tre ", in Papier Machine. Le ruban de machine à ecrire el aulres répo1zses, Paris, Galilée, 2001; trad. it. di S. Maruzzella, Id., Al di là delle appa· renze. L'altro è segreto percl1è è altro, Milano-Udine, Mimesis, 2010, p. 21). Il. Derrida insiste molto, in più occasioni, sul carattere ..reale" e non meramentc ideale, o, peggio, virtuale, dell'evento, che si impone con un'urgel17.a indifferibile: "questo im-possibile non è quindi un'idea' (regolatrice) o un ideole. È ciò che vi è di più iMegabilmente reale" (J. DllRIUf.IA, Ji:lyous. Deux essais Sllr la mison, Paris, Galilée, 2003; tra.d. it. e cura di L. Odello, Id., Stati canaglia. Due saggi sulla ragione, Milano, Conina, 2003, p. 128). Altrove Oerrida chiarisce e ribadisce questo riferimento dell'impossibile alla realtà: "quanto alla decoslnlZione dellogocenlrismo, dellinguisticismo, dell'economismo (del proprio e del presso dì sé (chez soi}, oikos, dello stesso), etc., quanto all'affermazione dell'impossibile, esse sono sempre s:tate aval17..ate i11 nome del reale, della realtà irriducibile del reale- non del reale come attributo dealla cQSQ [res] obiettiva, presente, sensibile o intelligibile, ma dc1 reale come venuta o evento dell'alb'o, là dove esso resiste a ogni riappropriazione, fosse pure all'appropriazione ana-onto-
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resta impresentabile e non è l 'attuazione o il risultato di nessun possibile che lo avrebbe potenzialmente anticipato, previsto o programmato. Dunque solo l'impossibile awiene, poiché l'evento, per essere dawero tale, è evento di un'alterità imprevedibile, incalcolabile, c perciò impadroneggiabile. Il soprawenire di ciò o di chi non possiamo aspettarci; l'im-possibile, appunto: "Se un evento è possibile, se si iscrive in condizioni di possibilità, se non fa che esplicitare, svelare, rivelare, compiere ciò che era già possibile, allora non è più un evento. Affinché un evento abbia luogo, affinché sia possibile, è necessario che sia, in quanto evento, in quanto invenzione, la venuta dell'impossibile" 12• Ogni qualvolta si prevede, si programma anticipatamente qualcosa, per renderla possibile, non accade proprio nulla che assomigli ad un evento, ma avremo solo il conseguimento di un risultato o l'attuazione/reali728Zione di un programma: "Si tratta di pensare il possibile come impossibile. Se l'evento è possibi1e, se accade ciò che è prevedibile, ciò che è programmato, ciò che è inquadrabile in un campo dato, [... ) a questo punto non c•è più evento"13• E invece accade che l'evento mi sorprenda, mi venga addosso quando meno me lo aspetto, proprio là dove non ero ad attenderlo: Un evento per essere tale deve essere una sorpresa assoluta, deve interrompere il corso della storia e di conseguenza l'intreccio delle possibilità. C evento deve essere possibile come impossibile, non può essere un evento se non a condizione che giunga laddovc non è anticipabile, dove sembrava impossibile. Se si sapesse che avverrebbe,
fcoomelogica. 11 reale, è questo im-possibile non negativo, questa venuta o queinvenzione im-possibile dell'evento il cui pensiero non è Wl'onto-fcnomenologia. Si tratta di un pensiero dell'evento (singolarità dell'altro, nella sua venuta inanticipabile, hic et nunc) che resiste alla sua riappropriazione da parte di una ontologia o di una fenomenologia della presenza come tale" (J. DJ::RR.IDA, Comme si c 'était possible, ..withìn such limits" ..., in Papier Machine. Le ruban de machine à écrire et autres réponses, Paris, Galiléc, 20 Il, p. 315 ). 12. J. DERRIDA, La scommessa, 1ma prefazione, forse una trappola, prefazione a S. PETROSINO, Jacq11es Derrida e la legge del possibile. Un 'introdll· zione, Milano, Jaca Book, 19972, p. 12. 13. J. DERRIDA, L'ordine della traccia, intervista a cura di G. Dalmasso, "Fenomclogia e società" 2 ( 1999): Jacques Derrida dalla fenomenologia all"elica, p. 13.
sta
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non sarebbe un evento. ( ... ] Se ci interroghiamo sulle condizioni di possibilità dell'evento, è necessario che questo appaia impossibile. È la condizione di impossibilità. Laddove l'evento non appare possibile deve accadere.[ ... ) L'avvenire di qualcosa, affinché sia veramente evento (l'altro avviene in quanto altro), deve essere imprevcdibile 14 •
Il che significa, anche, che "questa condizione di possibilità deWevento è anche la sua condizione di impossibilità" 1s. Da dietro, da sopra, da sotto o alle spalle, invisibile, impresentabile, non fenomenologico, proprio perché non si lascia vedere venire 16, "l'evento deve annunciarsi come im-possibile; deve quindi annunciarsi senza prevenire, annunciarsi senza annunciarsi, senza orrizzonte d'attesa[ ... ]. Dunque, mai come tale" 17 • La decostruzione, in quanto pensiero dell'evento possibile come impossibile, è anche quello che in più occasioni Derrida, con chiaro riferimento a Nietzsche, ha chiamato un pensiero del "forse" [peut etre] 18 , del pericoloso forse, per sottolinearne il carattere non deterministico di alea, di chance, ma anche di rischio ineludibile.
14. lvi, pp. 13-14. 15. J. 0ERRJDA, Spettri di Marx, cil., p. 87. 16. !:evento è "quello che non si vede venire, quello che si attende senza attendere c senza ori7.zonte d'attesa" (J. D~:RRIDA - B. STIEGLI!R, Ecografie della televisione, cit., p. 117). I.:impossibilità di un orizzonte d'attesa viene confer-
mata anche altrove: "Perché ci sia un avvenire come tale, una sorpresa, un 'alterità, bisogna 11e plus voir venir, bisogna che non ci sia nemmeno Wl'anticipazione, un orizzonte di auesa. E dunque che l'avvenire mi venga addosso- mi avvenga, proprio quando meno me lo attendo, non lo anticipo, non lo vedo venire- significa che l'altro c'è prima di me, che mi previene. !:altro non è nemmeno semplicemente il futuro, è, per così dire. il p~vcnire, il pre-avvcnire" (J. DERRIDA, "Ilo U gusto del segreto··, cit., p. 102). 17. J. DE.R.RJOA, Stati canaglia, cit., p. 204. 18. "Un pensiero del 'forse' [peut etre], di quella pericolosa modalità del 'forse' di cui parla Nictzsche [... ].Non c'è avvenire né rapporto con la venuta dell'evento senza esperienza del 'forse'. [... ) I.:evento appartiene a unforse che si accorda non al possibile ma all'impossibile" (J. DERRIDA, L'r~niversità senza condizione, cit., p. 61 ). Intorno a questo pericoloso .. forse" ruota tutta interpretazione del tema dell'amicizia in Nictzsche condotta in J. DERRIDA, Politiques de /'amitle, Paris, Galilée, 1994; ttad. it. di G. Chiurazzi, Id., Politiche dell'amici· zia, Milano, Cortina, 1995.
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Incalcolabile, l'impossibile dell'evento annuncia anche il suo carattere di eccezione, l'incontestabilc venire di un evento che ogni volta accade in modo singolare e unico, destabilizzando e sconvolgendo gli ordini esistenti. Ciò che o chi viene, prima ancora di ogni possibile determinazione, è un 'alterità assoluta che resiste a ogni possibile riappropriazionc. Prova del non-veder venire e del non sapere, l'esperienza dell'impossibile si sottrae alla presa proprio mentre si offre. Proprio mentre cerchiamo di afferrare e di comprendere, per meglio fronteggiarla, proprio quando pensiamo di potercene appropriare, questo tentativo, in ultima istanza, è destinato a fallire, poiché l'imprevedibilità, la sorpresa, 1' assoluta alterità che irrompe. non possono mai essere ammortizzare interamente in una possibile com-prensione o in un sapere. Se dunque la decostruzione non è altro che l'esperienza dell'evento impossibile, del suo venire, essa, prima ancora di essere una pratica teorica, nomina l'accadere di quanto accade, il venire di quel che viene. In questo senso, come Derrida afferma spesso. la decostruzione si fa da sé, è il nome stesso del processo di incessante decostruzione già da sempre in corso: Non basta dire che la decostruzione non può ridursi a un insieme di strumenti metodologici, a un insieme di regole o di procedure trasferibili. Non basta dire che ogni "evento" di decostruzione resta singolo, o comunque quanto più vicino possibile a un idioma e a una firma. Bisognerebbe anche precisare che la decostru1.ione non è neanche un allo o una operazione. Non solo perché ci sarebbe in essa qualcosa di "passivo" o di ''paziente" (più passivo della passività, direbbe Blanchot, della passività che si oppone all'attività). Non solo perché non compete un .'>oggetto (individuale o collettivo) che se ne assumerebbe l'iniziativa e la applicherebbe a un oggetto, a un testo, a un tema, ecc. la decostruzione ha luogo, è un evento cbe non attende la deliberazione, la coscienza o l'organizzazione del soggetto, neppure della modernità. Ciò si decostruisce [ça se déconstruit]. Qui il ça non è una cosa impersonale che si opporrebbe a una qualche soggeuivitl egologica. È in decostnaione (Lìttré diceva: "Decostruirsi ( ...)perdere la propria costruzione"). E il "si" di "dccostruirsi''. che non è la riflessività di un io o di una coscienza, si fa carico di tutto l'enigma 19. 19. J. OF.RRIDA, Lettre à 1111 amijaponais, in Psyche. Jnventions de /'amre 1/, Paris, Galilée, 2003; trad. it. di. R. Bal7..arotti, Id.• /.ellera a "" amico giapponese, in PsyciJé. Invenzioni dell'altro Il, Milano, Jaca Book, 2009, p. Il.
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I:impossibile dell'evento è allora il nome di "una certa inapp1Vpriabi/ità di ciò che accade"20 per una ipseità che sperimenta la sua non padronanza, il suo non potere, la sua impotenza di fronte alla potenza debordante dell'evento. I:im-possibile dice dunque al contempo la possibilità, il potere, e il non potere, la possibilità di una stra-potenza che. eccedendo la mia capacità di controllo, revoca il mio potere e mi espone all'altro, "a ciò di cui non ci si può appropriare: a quel che c'è, prima di noi. senza di noi; c'è qualcuno, qualcosa, che (ci) avviene, e che non ha bisogno dì noi per avvenireu21 , a un evento che "nessuno padroneggia, che nessuna coscienza. nessun soggetto cosciente può appropriarsi o padroneggiare"22 • Tocchiamo qui il cuore della questione, il cuore stesso dì questa im-possibile potenza che impedisce ogni appropriazione: l'evento arriva "al di là della padronanza, al di là dell"io posso', al di là dell'economia di appropriazione di un 'ciò è in mio potere', di un 'ciò mi è possibile', di 'questo potere mi appartiene "'23 • Se P evento fosse semplicemente la realizzazione, l'attuazione del possibile, di un possibile di cui una ipseità ha padronanza, esso sarebbe ancora dell'ordine del potere di un io posso padrone di sé, ma proprio questa padronanza ne impedirebbe la venuta. Si dà evento, invece, solo là dove "non sono padrone di me" 24 , solo quando la potenza dirompente di un evento è più forte di me. Senza una certa passività niente potrebbe aceadcnni. L'im-possibile è il nome di questa passione, "esperienza senza padronanza c dunque senza soggettività attiva"2s, che, d'altra parte, "non è nean-
20. J. DERRIDA, Autoimmu11ità, suicidi re.oli e simbolici, cit., p. 98. 21. J. Dr:RRIDA, "//(} il gusto del segreto", cii., p. 57. 22. J. DERRIDA, Une cerlaine possible impossibilite de dire l'événemenl, in J. DEIUUDA, G. SOUSSANA, A. Nouss, Dire l'événement, est-ce pos,çib/e? Sémi· naire de M(}ntreal, pour Jacques Derrida, Paris, I.:Harmattan, 20()1, p. 105. 23. J. DBRRIDA, f..'tals d'time de la psychanalyse. L'ìmp(}ssìble au-delà d 'une sou11eraine cn1auté, Pari s. Galilée, 2000; trad. it. di C. Furlanetto, Id., Stati d'a11imo della psicanalisi. L'impo.-rsJ'bile aldilà di rma sovrona crudeltà, Pisa, ETS, 2013, p. 36. 24. J. DERR.IDA, "Ho il gusto del segreto", cit., p. 102. 25. J. DERRIDA, Demt-'Ure. Ma urice Blancll(}l, Paris, Galiléc, 1998; ltad. i t. di F. Garritano, Id., Dimora. Maurice Blanch(}l, Bari, Palomar, 2001, p. 105. 174
che semplicemente passiva..26: senza la vulnerabilità di una ipseità esposta alla venuta di un'alterità che la depone, facendole sperimentare i1 suo non poter più potere27 , nulla davvero potrebbe accadere, e non vi sarebbe più avvenire: "aprirsi a ciò che viene può essere un modo per esporsi all'avvenire o alla venuta dell'altro, alla venuta di ciò che non dipende da me. Questa esposizione è sottoposta alla legge della singolarità de1l'altro''28. Esposizione, apertura alla venuta dell'altro che, proprio perché non padroneggiabile, espone al massimo rischio, al "pericoloso forse.,29 che perverte la promessa in minaccia, alla continua indecidibile commistione tra desiderio, speranza, timore e persino terrore30.
2.
L'impossibile: un altro pensiero del possibile
Come non tremare, come non avvertire la scossa, l'urto traumatico deWevento che sopraggiunge nel timore o nel desiderio, nel timore e nel desiderio, di quel che non possiamo veder venire e che così si sottrae alla nostra padronanza? Come non tremare davanti alla legge dell'im-possibile, la legge della mia im-potenza e del mio non potere, una legge che proviene dal26. Ibidem. 27. È stato soprattutto Levinas a mettere in evidenza come l'epifania del volto dell'altro ')laralizza lo stesso potere di potere" (E. LF.VINAS, 1òtalité et lnjini. Essai sur l'extériorité, La Haye, Nijhoff, 1961; trad. il. di A. Dall'Asta, Id., Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità, Milano, Jaca Book, 1980, p. 204) e annuncia "la fine dei poteri" (M, p. 86), che si traduce, affermativamente, nella "impossibilità di sottrarsi all'appello del prossimo" (E. LEVINAS, Autrement qu 'étre ou 011-delà de l'esse11ce, La Hayc, Nijhoff, 1974; trad. i t. di S. Petrosino e M.T. Aiello, Id., Altrimenti che essere o al di là dell'essenza, Milano, Jaca Rook, 1983, p. 161), a partire da una responsabilità che precede ogni impegno liberamente assunto. obbligo che richiede "di arrendersi" (ivi, p. 189) all'altro senza condizioni. 28. J. DERRIDA, "Ho il g11sto del segreto", cit., p. 54. 29. Vedi supm. nota 18. 30. "È l'esposizione (il desiderio, l'apertura, ma anche il timore) che si apre, che ci apre al tempo, a ciò che ci capita [vient :rur no11s], a ciò che accade, all'evento" (J. DERRIDA, Autoimmunita, Sllicidi reali e simbolici, cì1 .. p. 129).
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l'altro, non da mcJ dall'altro prima di me? Se soltanto "là dove l'altro può giungere c'è avvenire"31 , la legge dell'impossibile si impone come una eteronomia32 più forte della legge dell'io, della sua autonomia, più potente del potere di una ipseità sovrana33 . È solo in virtù di questa legge dell'im-possibile che, d'altra parte, può "venire" ali 'io una decisione o una responsabilità; è solo a partire dall'altro, dalla legge dell'altro impossibile, che può accadere, nella sospensione di ogni orizzonte, calcolo o certezza, l'istante di una decisione o di una responsabilità, che non possono attendere. La legge delPimpossibile, infatti, nomina anche, neJl'evento, l'urgenza, l'imminenza, il non-poter aspettare, l'ingiunzione che non c'è tempo da perdere: "Questa esposizione all'evento che può arrivare o non arrivare (condizione dell'alterità assoluta) è inseparabile da una promessa e da un'ingiunzione che esige di impegnarmi senza attendere, e che anzi impedisce di astenersi dall'impegno. [... ] I:urgenza più concreta, e la più rivoluzionaria, è proprio quiu3 4 • La legge eteronoma dell'evento come impossibile è dunque, innanzitutto, l'ingiunzione di una resa, impone di "'arrendersi all'imminenza di ciò che viene o sta per venire, all'imminenza dell'evento"35 , richiede un disarmo totale, un ..arrendersi senza condizione" 36:
31. J. DI!RRIDA • É. ROUDINf:.SCO, De q11oi demain ... Dialogue, Paris, Fayard-Galilée, 2001; trad. it. di G. Brivio, Id., Q11ale domani?, Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p. 80. 32. "Eteronomia-- ovvero l'altro è la mia legge" (ibidem). Come anche altrove Derrida ribadisce: "Ne va qui, come nel caso della venuta di ogni evento degno di questo nome, di una venuta imprevedibile dell'altro, di una eteronomia. della legge venuta dall'allro, della responsabilità e della decisione dell'altro -·dell'altro in me più grande di me, e che mi precede" (J. DERR!DA, Stali canaglia, cit., p. 127). 33. Ciò che o chi viene "eccede anche i calcoli c le strategie della mia capacità di controllo, della mia sovranità o della mia autonomia. [... ]È qui che mi trovo esfHJ:Uo e, per così dire, felicemente. vulnerabile" (J. DERR!DA - ~. RouDINESCO, Quale domani?, cit., Torino, Bollati Boringhieri, 2004, p. 80). 34. J. DliRRIDA, Marx & Sons, cit., pp. 279-280. 35. J. DEJt.RIDA, Artefollualità, cit., p. Il. 36. J. DERRIDA, L'llniver.sità .~enza condizione, cit., p. 15.
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Ci deve essere un momento di disarmo assoluto. [... ) Il rapporto con l'evento, l'alterità, il caso, l'occasione, ci rende del rutto inermi; e si deve esserlo. Il si deve dice si all'evento: è piò forte dì me; e'era prima di me; il sì deve è sempre il riconoscimento di ciò che è più forte di me.[ ...] Perché qualcosa avvenga. bisogna che mi manchi una certa for7.a, e che mi manchi abbastanza. Se fossi più forte dell'altro, o di ciò che avviene, nulla mi potrebbe avvenire. Ci vuole una debolezza, che non necessariamente è fiacchezza, imbecillità, deficienza. o malattia, infermità. [... ] Questa affermazione di debolezza è incondizionata37.
Essa decreta- e questo verdetto è insieme, al tempo stesso, sentenza di vita e di morte, la vita la morte come legge dell'impossibile- una resa incondizionata. Al di là della necessità o del dovere, bisogna (ilfaut] arrendersi, e questo ilfaut, questo "si deve" ha il carattere ingiuntivo di un disarmo assoluto, di una esposizione all'altro "'senza potere', 'senza difesa ...38, "senza protezione [... ], disarmati, in balia dell'altro"39 e - aggiunge Derrida- "non si può, non si ha il potere di fare altrimenti't40. Impossibile. Questa "esposizione vulnerabile a quel che arriva•t4J, de-ponendomi in quanto io sovrano, mi lascia nella mia nudità senza difese, nella mia radicale impotenza, inerme, imponendomi una rinuncia esorbitante: non si tratta soltanto di rinunciare ad essere, come si dice, padroni della situazione, ossia ad esercitare la nostra padronanza sull'evento, per neutralizzarne glì effetti più dirompenti (il che, in qualche misura, accade sempre, poiché, se è vero che "io devo restare assolutamente disarmato (... ), tuttavia, questo disarmo, questa vulnera-
37. J. DERRIDA, "Ho il gusto del segreto", cit., p. 57. 38. Ibidem. 39. J. DllRRIDA, Apories. Mourìr - s 'attendre aux "limites de la vérité ", Paris, Galilée, 1996; trad. il. di G. Beno, Id., Aporie. Morire - attendersi ai "limiti de la verità", Milano, Bompiani, 1999, p. 12. 40. J. DER.R.IOA, Sémìnaire. /.a béte et le souvemin Il (2002·2003), éd. établie par M. Lissc, M.-L. Mallct, G. Michaud, Paris, Galilée, 2010; trad. il. di G. CarboneUi, Id., /.a Bestia e ìl Sovrano Il (2002-2003), ed. il. a cura di G. Dalmasso, Milano, Jaca Book, 2010, p. 304. 41. J. DERRIDA, Comme sì c'était pcssible, "withìn such limits"... , cit., p. 311.
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bilità, questa esposizione non sono mai pure e assoluteu42 ). La legge dell'impossibile, ingiungendo una resa senza condizioni, espone l'ipseità non a questa o a quella particolare minaccia, ma alla minaccia assoluta. Se ·l'ipseità - come anche testimonia la preziosa ricerca condatta da Benvcniste nell'ambito delle lingue indoerupoee43 , alla quale le riflessioni di Derrida spesso attingono - è l'istanza di un 'io posso', in quando medesimezza, identità di sé con sé e appropriazione di sé; se potere e ipseità dicono la stessa cosa, cioè il potere di un io sovrano e autonomo, l' autos in quanto legge dello stesso, autonomia ed oikonomia di una appropriazione di sé, allora la legge dell'impossibile, l'eteronomia stessa in quanto legge dell'altro, intacca, attacca, potremmo dire anche infetta, per riprende il paradigma immunitario, o infesta, per usare quello della spettralità, l'ipseità, infliggendole un colpo mortale, poiché il non poter più potere, per essa, equivale alla rinuncia a sé, al sacrificio di sé. La legge dell'im-possibile si annuncia con una potenza più forte del potere dell'ipscità, più forte di quella irriducibile pulsione di potere [Bemiichtigungstrieb ]44, di cui parla Freud, che innanzitutto consiste nella presa su di sé, nella padronanza e appropriazione di sé, che è all'origine del fantasma della sovranità. La decostruzìone, in quanto legge dell'evento impossibile, è la legge di una incessante ex-appropriazione45 , l'ammissione
42. J. DER.RIDA, Urte certaine pos.çib/e impossibilité de dire l'éw!nement, cit .. p. 98. 43. E. BENVF.NISrE, L"lrospitalité, in Jvcabulaire des institutìons ùrdoeuropéennes l. f.'c01romie, parelllé. société, Paris, Minuit, 1969~ trad. it. di M. Lìborio, Id., L'o$pilalità, in Il vocabolario delle istituzioni imloeuropee l. Economia, parentela, società, Torino, Einaudi, 1976, pp. 64-7S. 44. Per i significati che il Bemiichtìgrmgstrieb assume nel contesto dell'opera di Freud si veda J. LAPlAtA, Nombre de oui, in Psyché. lnventions de l'autl'f! 11. cit.; trad. it. di. R. Bal?.arotti, Id., Jnnumef"i si, in Psyché. lt~venzioni dell'altro Il, ci t.
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La venuta dell'evento è ciò che non si può né si deve mai impedire, un altro nome dell'avvenire stesso. Non che sia buono, buono in sé, il fatto che tutto o qualsiasi cosa accada; non che si debba rinunciare a impedire che alcune cose avvengano (non vi sarebbe allora alcW18 decisione, alcuna responsabilità, etica, politica o di altro genere), ma ci si oppone sempre e soltanto a eventi che mettono fine alla ~sibilità dell'evento, all'apertura affermativa per la venuta dell'altro 7•
Per questo Derrida può affermare: ''I.:apertura dell'avvenire è meglio, ecco l'assioma della decostruzione"78 • Perché vi sia evento, l'esperienza cbe si lascia attraversare da ciò che viene o da chi viene, da ciò che arriva o da chi arriva, dall'altro a wmire, una certa rinuncia incondizionale aJia sovranità è richiesta a priori. Prima ancora dell'atto di una decisione. [...] Necessità di pensare contemporaneamente l'imprevedibilità di un evento necessariamente senza orizzonte, la venuta singolare dell'altro e, di conseguenza, una forza debole79 .
È perciò necessario pensare insieme l'imprevedibile venu-
ta singolare dell'altro che mi disarma, che impone di arrendermi (passività) e il lasciarsi disarmare (attività), doppio movimento attivo-passivo che consiste in una resa incondizionata. Ma, proprio perché l'impossibile non è negativo, ma affermativo, questo arrendersi, questa im-potenza, pur rendendomi inerme, non mi lascia inerte: innanzitutto "questa forza vulnerabile, questa forza senza potere espone incondizionatamente a ciò che o a chi viene a colpirla..80, deponendo il fantasma della padro-
77. J. DERRIDA - B. STIF.CiL!i.R, Ecografie della televisione, ci t., p. 12. 78. J. DERRIDA, Artefattualità, ci t., p. 22. Cfr. J. DERRIDA, "Ho il gusto del segreto", cit., p. 100: "è meglio che ci sia un avvenire piuttosto che non ci sia. Perché qualcosa venga bisogna che ci sia un avvenire, c dunque, se c'è un imperativo categorico, è di fare tutto ìl possibile affinché l'avvenire resti aperto.[...] L'avvenire è l'apertura nella quale l'altro avviene [... ]. l:altro può venire, può non venire, non posso programmarlo, ma lascio un posto perché possa venire se viene, è l'erica dell'ospitalità". 79. J. DEIUUDA, Stati canaglia, cit., pp. 13-14. 80. lvi, p. 14.
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nanza e del potere, della sovranità di un 'io posso'; ma soprattutto, proprio in quanto forza disarmante, proprio e soltanto in quanto '•forza deboJeH, può addirittura l'im-possibile. Derrida così descrive la potenza di questa debolezza: "senza potere ma senza debolezza. Senza potere ma non senza forza, foss 'anche una certa forza della debolezza, 81 • Si tratta dunque di una debolezza incondizionata e paradossale, "che può trasfonnarsi nella più grande forza" 82 • I..:altro pensiero del possibile, che intende pensare, a partire dali 'im-possibile, una potenza senza potere e una debolezza 'potente', eredita qui -come è evidente -la parola di Paolo, nella quale si condensa il carattere sovversivo del Cristianesimo83 : "e gar dynamis en astheneia teleitai"' (2 Cor 12, 9), la potenza ha compimento nella debolezza84, termine che risuona anche nell'espressione, impiegata da Benjamin in una delle sue tesi Sul concetto di storia, "una debole forza messianica (eine schwache messianische Krafl]" 8s.
81. J. DERJUDA, fnconditionnalilé 011 sor1veroineté. L'Université auxfrontières de I'Europe, Athènes, Patakis, 2002; trad. it. e cura di S. Regazzoni, Id., h1C011dizionalità o sovronità. !.'Università alle frontiem dell'Europa, MilanoUdine, Mimcsis, 2008, p. 44. 82. J. DERRIDA, "Ho il gusto del segreto"', cit., p. 57. 83. Tra i nwnerosi riferimenti a san Paolo che costellano i testi derridiani, a testimoniall7.a dell'interesse nei suoi confronti, basti citare questa dichiarazione: "siamo ben lontani da poterla fare finita, io ne sono ben lontano, con san Paolo" (J. DERRIDA, Un ver à soie, in J. DERIUDA • H. CIXOUS, Voi/es, Paris, Galilée, 1998; trad. it. di M. Fiorini, Id., Baco da seta, in J. DERRIDA - H. CIXOUS, Yeli, Firenze, Alinea, 2004, p. 63). 84. Come ben traduce la Vzdgota: "nam vinus in infirmitate perficitur". 85. W. BENJAMIN, Ol>er den Begriff der Ges,·hichte, in Gesommelte Schriften. Abhandlungen, hrsg. von R. Tiedemann und H. Schweppenhiuser, Bd. l/2, Frankfurt a.M., Suhrka.mp, 1974; trad. it. e cura di G. Bonola c M. Ranchctti, Id., Srll concetto di storia, Torino, Einaudi, 1997, Il tesi, p. 23. Sulle sotlili prese di distanza avanzate da Derrida nei confronti di Benjamin, sia per quanto riguarda la distinzione tra una fona 'debole' e il senza-forza, che in merito alla formula "messianicità senza messianismo", si rinvia in particolare a J. OF.RRJDA, Marx & Son.f, cit., pp. 280-287. Su questo confronto si veda alme· no S. RF.GAZZONt, Al di là della p11lsione di potere. Derrida e la decostruzione df!lla sovranità, introduzione a J. DERRIDA, lncondizionalità o sovronità, cit. e S. GF.R.ACI, "Il messianico: la fede, l'a-venire", in L'ulh'mo degli ebmi. Jacq11es
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La potenza si compie, diviene 'perfetta', raggiunge il suo telos, solo quando diviene im-possibile, incondizionata
im-potenza di una deboleu_a che solo cosi diviene più forte del possibile tanto da potere l'impossibile, potenza senza potere, senza sovranità, ma altrettanto incondizionata, che può, al di là e oltre il possibile, solo quando rinuncia alla propria forza: ..La forza più grande si manifesta nella rinuncia infinita alla forza, nell'interruzione assoluta della forza ad opera del 'senza forza"'86. Qui, come ha osservato Derrida, ..la fora più grande e la più grande debolezza si scambiano stranamente"87 , qui si comprende che, seguendo la legge dell'impossibile, "l'impotenza non è il contrario della potenza; è l'impotenza stessa a fare l'impossibile..88. E Derrida si domanda: "Che cos'è la forza? La forza stessa, la forza assoluta, se esiste? Da dove viene? Da che cosa la si riconosce? Con che la si misura? Quale è la for.t...a più grande? La forza invulnerabile? E se questa forza infallibile fosse il luogo della massima debolezza, come ad esempio 'l'essere senza difesa' della morte?..89 • !:altro pensiero del possibile come impossibile scopre incessantemente all'opera, all'interno del potere, della potenza del potere, un vertiginoso principio di inversione capace di pervertire la debolezza in forza e la forza in debolezza, sicché "arrendersi è vincere•>90, perché l'im-possibile è più forte, più potente del possibile, lo vince sempre, impoDe"ida e l'eredità di Abramo. Milano-Udine, Mimesis, 20 l o. pp. 266-280. Più in generale, sulla questione di una •forza' senza potere, anche per i suoi risvolti politici, si vedano: S. RI:OAUONI, La decostruzione del politico. Undici tesi SII De"ida, Genova, il melangolo. 2006 e Id.• Derrida. Biopolìtica e democrazia, Genova, il melangolo, 2012 (in part. cap. V: "Forza senza potere", pp. 55-63). 86. J. DEAAII.>A, Louis Marin, in Chaquefois unique, la fin du monde, p~ senté par P.-A. Brault et M. Naas, Paris, Galilée. 2003; trad. il. di M. Zannini, Jd., Louis Marin, in Ogni volta unica, la fine del mondo, Milano, Jaca Book, 2005, p. 164. 87. J. DERRIDA, Du droil à la jllSlice. in l•òrce de /oi. Le "Fondement myslique de /',IUlorite", Paris, Galilée, 1994; trad. il. di A. Di Natale, Id., Dal diritto alla giustizia, in Fono di legge. Il "fondamento mistico dell'autorifà ",a cura di F. Garritano, Torino. Bollati Boringhieri, 2003, p. 54. 88. J. DERRIDA,IIélène Cixous, per la vila, cit., p. 104. 89. J. DF.RRJDA, Louis Marin, cit., p. 162. 90. l DERRIDA, Hélène Cixo11s, per la vita, cit., p. 159.
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nendo una resa incondizionata. La legge del più forte non è quella del1a forza, ma quella della debolez7..a, "forte nella sua propria debolezza'>9 1• Si tratta di comprendere come la potenza del potere sia attraversata da questa differenza di forze che non si oppongono semplicemente, poiché sono asimmetriche ed eterogenee: "La logica della forza rivela, entro Ja sua logica, una legge più forte di questa stessa logica"92 , una legge, quella dell'impossibile, più forte di quella della forLa, che comanda incondizionatamente di revocare la forza nel "senza forza". Servendosi del paradigma immunitario, Derrida dichiara: "la legge della potenza [è] autoimmune"93 • Ma come pensare, allora, questa (forza)-senza-forza? Né il termine forza, né il termine debolezza possono essere più impiegati senza infinite precauzioni, poiché tanto l'uno quanto l'altro sembrano incapaci di cogliere l'im-potenza, la potenza senza potere che qui è in gioco. Non ci si potrà accontentare, dunque, come fa Benjamin, di parlare di una "debole forza"; non si tratta, infatti, di verificare di quanta forza si disponga, ma di seguire fino in fondo il telos di questa for7..a, fino al suo compimento, al suo fine e alla sua fine. Tra il 'debole' e il 'senza' della forza va seguita fino in fondo non solo la traiettoria della forza, che trova compimento nella sua fine (revoca), ma anche la rottura, il salto, forse un salto infinito, dalla Legge e daJla logica del possibile, alla Legge c alla (a)logica dell'impossibile che conduce aHa scoperta di una forza senza potere, cui il termine stesso di forza non si addice più94 • Ci mancano dunque Je parole per dire
91. J. DERRIDA, Nietzsche and the Macltine (interview wit/1 Richard Beardsw(}rth), "Joumal ofNietzscbe Studies" 7 (1994); trad. il. c cura di l. Pel· greffi, [d., Nietzsche e la macchi11a. Imervista con Rìchard BeardswQrt/1, Milano-Udine, Mimesis, 2010, p. 43.
92. Ibidem. 93. J. DERRIDA, Hélène Cixous. per la vila, cit., p. 139. 94. Benché: abbia assai di frequente impiegalo questo termine, perfino nella definizione della différance come diffcrcn7.a di forze, riprendendo e riattivando una certa lettura di Niet7..sche, Dcrrida non ha tuttavia mancato di confessare in numerose occasioni anche il proprio disagio, la propria diffidenza e ritrosia nei confronti della parola c del concetto di forza, come del suo contra-
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questa potenza di non potere, cui, d'altra parte, non possiamo, non dobbiamo evitare di pensare. Di più: che non possiamo, non dobbiamo evitare di patire fino a farne la nostra più folle passione: bisogna, occorre (ilfaut] una "sopportazione infinita dell' im-possibile come impossibile"95 • 4.
Come non tremare? Tremare- ancora fremere- in ogni istante, a causa di questa giustizia stessa. È necessaria questa debolezza. Era necessario questo allen1amento senza viltà della virilità. E. LF.VINAS, Altrimenti che essere o al di là dell'esse11za.
Ma come non trcmare96 ascoltando questa ingiunzione? Come non tremare nel momento del disarmo assoluto, quando, senza difese e senza protezioni, vulnerabili, siamo esposti, inenni, alla venuta dell'altro, lo lasciamo-far venire, ci lasciamo attraversare dalla sua potenza espropriante, rinunciando all"appropriazio-
rio, debolezza: "Mi sono sempre trovato a disagio con la parola 'forza"' (J. DERDal diritro alla girLStizia, cit., p. 54). Cfr. anche J. DliRRIDA, Barbaries el papiers de verre 011 La petite monnaie de l"'actuel". Lellre à un arclritecte américaill (frugment), in Les arts de l'espace. Écrits et interventìons sur l'architeclrlre, Paris, La Différence, 2015; trad. it. di F. Vitale, Id., Lellera a Peter Eisen· man, in Adesso l'arclritettura, a cura di F. Vitale, Milano, Scheiwiller, 2008, p. 212 (la lettera è datata 12 ottobre 1989): "Ogni volta che l'eccesso si annuncia [... ] esito da p~ mia a servinni di parole quali forza o debolezza". 95. J. DF.RRJDA, Perdo11are, eh., p. 100. 96. Questa espressione: "Come non tremare" viene ripetula tre volte ali' inizio del testo letto da Derrida alla cerimonia di cremazione di Blanchot (J. DERRIDA, Maurice Blanchot, in Chaquefois unique, la fin du monde, cit.; trad. it., Id., Maurice Blanchot, in Og11i volta unica, la fine del mondo, cit., p. 285). Sono numerosi, sparsi in IUtta la vastissima opera di Derrida, i luoghi in cui egli accenna al tremare, certamenlc anche in ascolto del kierkegaardiano Timore e tremore, come accade ad esempio in J. DERRIDA, Donner le mort, Paris, Galilée, 1999; trad. it. di L. Berta, Id., Donare la morte, Milano, Jau Book, 2002, pp. 89~95, in cui il tremore si lega al non-sapere e al segrelo di un evento inanticipabile. Particolarmente intenso, quasi testamentario, è poi J. OERRJDA, Comment ne pas trembler?, "Annali della Fondazione Europea del Disegno (Fondation Adami)" II (2006). RIDA,
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ne, a1 potere, alla padronanza, de-ponendo ogni 'io posso', ferita mortale inflitta alla stessa ipseità sovrana, alla sua legge della possibilità del possibile, al suo principio di potere, la cui spinta è una pulsione di potere, che Freud riteneva inestirpabile? Come rinunciare a questifantasmi? Ma si può forse evitarlo? Non c'è scampo, per chi ha a cuore l'a-venire: come abbiamo già ricordato, perché si dia a-venire, "una certa rinuncia incondizionata alla sovranità è richiesta a priori''l97• Ed è per questo che la decostruzione trema, ha paura, è scossa dallo stesso timore e tremore di Abramo sul monte Moria, chiamato a fare l'impossibile. Come non tremare di fronte a questo non-sapere, di fronte a questa esposizione senza difese? Ma il tremore non rivela solo il timore, la paura di fronte all'evento imprevedibile; esso attesta, con tutto il corpo, la scossa di una effrazione e di una espropriazione di sé: "il tremore degno di questo nome fa tremare un 'io' al punto che non può più porsi come il soggetto (attivo o passivo) di un tremore violento che gli accade [arrive], di un evento che lo priva della sua padronanza, della sua volontà, della sua libertà, dunque del suo diritto alla ipseità. [... ]Tremare fa tremare l'autonomia dell'io, lo installa sotto la legge dell'altro- eterologicamente'o98• Per questo ..un segreto fa sempre tremare•t99: come non tremare davanti all'impossibilità di sapere, vedere, padroneggiare, di fronte a questo sentirsi disarmati, senza più difese e protezioni, esposti senza riparo alla minaccia sempre incombente, davanti all'ignoto? Quando, ancor di più, si lascia venire un a-venire imperscrutabile, ci si espone ad esso nella rinuncia e nell'abbandono incondizionato a potere, ad ogni potere, sospinti solo dalla potenza esorbitante ed incondizionata di una im-potenza, di una potetl28 di esposizione e di accoglienza fmo al sacrificio di sé, di quanto è proprio? È possibile questo impossibile, questa incondizionalità senza sovranità, che da ultimo Derrida ci ha lasciato da pensare attraverso le figure impossibili deJl 'ospitalìtà, del dono, del per-
97. J. DERRIDA, Stati canaglia, cit., p. 13. 98. J. DERRIDA, Comment ne pas trembler?, cit., p. 94. 99. J. DERRIDA, Donare la morte, cit., p. 89 c Id., Comment ne pas tremM!r?. cit., p. 97.
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dono, di una giustizia eterogenea al dìrittoJ della democrazia a-venire o dell'Università senza condizione? Figure del non-potere che affennativamcnte alludono non ad una impotenza, ma ad un eccessoJ alla potenza stessa delPimpossibile. Figure che è impossibile, proprio per la loro eccedenza, imprigionare entro facili delimitazioni, quali quelle dell'etica, del diritto o della politica, dalle quali sono separate da un'interruzione abissale. Ma proprio il loro costante debordare sfianca i limiti dell'etico-giuridico-politico, lo costringe incessantemente a ridefinire i propri bordi, a lasciarsi persino, talvolta, ispirare da esse o a dover negoziare con esse. È possibile non tremare di fronte alla passione più 'insana' che ci sia, quella per l'impossibile? Certo, ci vuole molto coraggio. Non l'arrogante coraggio della forza, ancora una volta dal Jato del possibile e del potere, ma un coraggio che trema, il coraggio stesso di tremare, il coraggio di avere paura, di affrontare in primo luogo la paura, la propria paura, la paura per il proprio sé minacciato, per la propria ipseità, la quale non solo ha paura, ma sorge dalla paura che si fa, da quell'auto-minaccia che ogni Uno, per poter dire 'io posso', tenta di scongiurare 100 • "Coraggio! Coraggio, dunque! Bisogna avere cuore e coraggio per pensare'' 101 , esorta Derrida. Partendo proprio dal
100. Cfr. J. DF.R.RIDA, Mal d 'an:-hMo. ci t., p. t 03: "Dal momento in cui c 'è dell'Uno, c'è assassinio, ferita, traumatismo./.'U11o si guarda dall'altro [l 'Un se garde de l 'auln-]. Si protegge contro l'altro, ma, nel movimento di questa gelosa violenza, porta con sé in sé. conservandola anche, l'alterità o la differenza a sé (la diffcrew.a del con sé) che lo rende Uno. !:'Uno che differisce da se stesso'. t: Uno come Altro. Assieme, allo stesso tempo, ma in uno stesso tempo disgiunto, l'Uno dimentica di ricordarsi a se stesso, conserva e canccna l'archivio di quella ingiustizia che lui è. Della violenza che fa. l/Uno si fa viole11za [l 'U11 se fait viole11ce]. Si viola e violenta ma si istituisce anche in violcn7.a. Diviene ciò che è, la violenza stessa -che egli si fa. Auto-determinazione come violenza. l: Uno si guarda dall'aJtro per farsi violenza (perché si fa violen7.a c in vista del farsi violenza)". Cfr. anche J. DERRIOA, Politiche dell'amicizia, cit., p. 370: "come l'Uno si divide e si oppone, si oppone a se stesso opponendosi, respinge c viola la diffcren7.a che porta in sé, fa la guerra, si fa la guerra, si fa pa11ra e si fa violenza, si trasforma in violenza impaurita nel guardarsi dall'altro, poiche si guarda dall'altro, sempre, Lui, l'Uno. 'differente da se stesso"'. 101. J. DERRIDA, La Be.dia e il Sovrano 1/ (2002-2003), cit., p. 201.
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significato delle parole "cuore" e "coraggion, e dal pensiero racchiuso in questa derivazione etimologica, soprattutto quando si tratta "del coraggio della propria paura.. 102, perché "il coraggio non può che essere il coraggio di una paura" 103 • Se non si ha paura, se non si trema, se ci si pensa invulnerabili, se ci si immunizza, persino, dalla paura di avere paura, per troppa paura di provarla, per eluderla e, con essa, per scongiurare l'inquietudine e l'angoscia che potrebbero afferrarci, allora non si ha coraggio, né si comprende che cosa esso significa. 11 coraggio che trema, lontano da ogni retorica di virile eroismo104, viene dall'impossibile, dal non potere, dal dover sop-portare la straordinaria potenza di un'alterità che ci comanda una resa incondizionata. È dwtque, in primo luogo, il coraggio di arrendersi. La decostruzione è il ''pensiero del coraggio spaventato, del terrore coraggioso,[... ) liberato da qualsiasi immagine di virilità, militare, atletica o dalla mistica dell'esposizione eroica, del coraggio e del martirio. [...) Non c'è coraggio senza paura, non c'è coraggio, il cuore assoluto, senza panico asso1uto, 105 • Perché il coraggio è tale solo quando è "coraggio di portare ]a morte"106, di sop-portar/a, di portarla in sé, di rcstarle fedeli per la
102. Ibidem. l03. lvi. p. 202. 104. In un passo delle sue Considerazioni attuali sulla guenu e sulla morte Freud, con il suo consueto spietato disincanto, svela quello che chiama il liCgrelo dell'eroismo, quel coraggio che è sprezzo del pericolo e che spinge perllino a dare o a darsi la morte. Al di là delle ragioni, più o meno plausibili, che esso adduce, l'eroismo è tutt'altro che coraggioso: come l'inconscio, esso non conosce né la morte, né la negazione c dunque solo per questo le può sfidare, in un delirio di onnipotenza che fa sentire l'eroe immortale e invincibile, inaHaccabile. I.: eroismo è dunque il coraggio del potere, della pulsionc di potere che, dal suo punto di vista, ritiene di potere tutto, di essere onnipotente. Potremmo dire - e non sarebbe solo una battuta - che è pura incoscienza (S. FREUD, Zeit1/.emiiftes uber Krieg rmd Tod ( 191 5), in Gesammelte Werke: Werke aus den Jalr· re11 19/J-19/7, Bd. X, Frankfurt a.M., Fiseher, 1991; trad. it. di C.L. Musatti, Id., Considerozioni attuali sulla guerra e la morte, in Opere 19/5-1917. lnlro· tluziotre alla psicoanalisi e altri scritti, vol. 8, ed. dir. da C.L. Musartì, Torino, Boringhieri, 1976, p. 144). 105. J. DERRIDA, La Bestia e il Sowuno Il (2002-2003). cil., p. 202. 106. lvi, p. 208. Per questo tema si veda supra. cap. 2.
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vita, per tutta la vita. fino alla morte. "Die Welt ist fort, ich muss
dich tragen, 107 , come enigmaticamente suggeriscono alcuni versi di Celan, ripetutamente commentati da Derrida, soprattutto in Bélier108• Il coraggio di portare l'altro, il totalmente altro, in sé, come un lutto originario e inelaborabile che struttura un'ipseità capace di accogliere l'incredibile, l'inaccettabile, l'impossibile della sua stessa morte. Solo da qui si comincia a pensare, solo da qui si trova anche "il coraggio di lasciarsi andare [... ) a ciò che accadcnU)9 e di sostenente la portata, rispondendo al richiamo, aW ingiunzione deWimpossibile. Ci vuole cuore, coraggio per questo pensiero: "dal cuore stesso dell'im-possibile, si ascolterebbe così la pulsione e il polso di una 'decostruzione, 110, il suo respiro ansimante, la sua tachicardia, poiché essa è costantemente inquieta, in ansia, chiamata a pensare e a fare sempre più di quanto sia possibile fare, senza aspettare, senza indugiare, sempre sospinta dali 'urgenza, e per questo, e di questo, trema. Per la vita, la decostruzione, ha un'inguaribile passione, anche se e proprio perché sta dalla parte del1a morte, non la rimuove, capace di portarla dentro di sé come una madre il suo bambino, come in un lutto si custodisce il morto per mantenerlo in vita. Essa la custodisce come il proprio inviolabile segreto. Perché non vi può essere vita né a-venire se non si è disposti ad accogliere la morte, in primo luogo di sé. Questo è l'a-venire della decostruzione, la sua promessa, la sua minaccia. Un folle desiderio dell 'impossibile, per nutrire almeno la promessa e la speranza, il timore e tremore che, al di là della possibilità del possibile, altro, totalmente altro possa accadere. Non c'è altro a-venire che questo.
107. P. Cl\LAN, Grosse, G/iihende Wolb11ng, in Anremwende, Frankfun a.M., Suhrkamp, 1967; trad. it. di G. Bevilacqua, Id., Grande, infocata volla, in Poesie, Milano, Mondadori, 1998, p. 671 (questa la traduzione del verso, che chiude la poesia, proposta nell'edizione italiana: "11 mondo non c'è più, io debbo reggcrti"). Dcrrida insiste molto sultragen, in quanto por1are e sop-portare. l 08. J. DF.RRIDII, Bé/ier. Le dialogue inìnlerrompu; entre de~u: injì11is, le poème, Paris, Galiléc, 2003. 109. l DERRJDA,I/é/ene Cixo11S, per la vita, cit., p. 169. IlO. J. DF.RRJDA, Comme sì c 'étail po:rsìble, "within such limits" ... , cit., p. 308.
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UNA COSMOPOLITICA A-VENIRE Credo che bisognerebbe, al di là del vecchio ideale cosmopolitico greco-cristiano (stoico, paoliniano, kantiano) annunciare un'alleanza o una solidarietà universale che vada al di là dell'internazionalità (degli Stati-nazione) e dunque della cittadinanza. J. OF.RRIDA, Autoimmunità, suicidi reali e simbolici.
l.
Il Muro, le Torri
Due eventi simbolicamente scandiscono quel fenomeno che ormai da tempo siamo abituati a chiamare 'globalizzazione', due date e due città simbolo, almeno sinora, ne hanno scandito due tappe fondamentali: Berlino, 9 novembre 1989: la caduta del Muro che, per quasi trenta anni, aveva diviso la città in due fronti nemici, esibendo, nel cuore dell'Europa, la divisione del mondo in due blocchi contrapposti; New York, 11 settembre 200 l: il crollo de1le Twin Towers 1, un colpo al cuore nel centro nevralgico della città, un vulnus all'intangibilità della superpotenza americana. Due eventi, proprio nel senso che Derrida ci ha insegnato a pensare: inanticipabili, incalcolabili, improvvisi, un'incredibile accelerazione nel corso della storia, che la interrompe, introducendovi altro, la promessa (Berlino), ht minaccia (New York). Lacerazioni che disconnettono il tempo, che lo scardinano: "The time is out of joinf', afferma a più riprese Derrida, citando t• Amleto di Shakespeare2• l. Cfr. J. BRAUDILLAJW, Power Inferno, Paris, Galilée, 2002; trad. it. di A. Serra, Id., Power Inferno, Milano, Cortina, 2003. 2. Cfr. in particolare J. D:e.RRJDA, Spectre.s de Marx: l'état de la dette, le tniVail du deuil et/a nouvelle lnternationale, Paris, Galilée, 1993; trad. it. di G. Chiurazzi, Id., Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del/alito e nuova lnter· n11:ionale, Milano, Cortina, 1994.
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Il Muro, la Torre: due costrutti architettonici la cui potente valenza simbolica non può certo essere trascurata. Se i11492, con la scoperta del Nuovo Mondo, segna la data da cui, secondo Ja magistrale ricostruzione di Cari Schmitt, prende l'avvio la globale Zeit3, è certo la caduta del Muro di Berlino, nell989, a decretarne la conclamata effettività. Si sgretola e si polverizza con straordinaria rapidità, quasi si fosse invisibilmente corrosa, nonostante la sua apparente inossidabilità, la cortina di ferro la cui tenuta, fondata sull'instabile equilibrio del terrore atomico, sembrava destinata a non cedere così facilmente e improvvisamente. Finisce dunque un interregno- ora possiamo dirlo- una tappa intermedia verso queH"unità del mondo che, irresistibile, senza più argini e steccati, può infine dilagare. Ma i1 crollo di uno solo dei due guardiani del mondo, ha lasciato neJle mani di un'unica superpotenza, gli Stati Uniti d'America, la guida di questo processo che, dopo l'euforia iniziale, ha mostrato ben presto il carico irrisolto delle sue contraddizioni. Se, come in molte occasioni Schmitt ci ha ricordato, "il nomos può essere definito come muro'"', recinto, delimitazione dello spazio, indispensabile a ogni possibile ordinamento localizzato, la caduta del Muro simbolicamente attesta la fine di ogni nomos che si voglia pensare come connessione tra ordinamento [Ordnung] e localizzazione [Ortung], segnalando, nel modo più evidente, la decostruzione in corso di quello che Derrida ha chiamato il "topolitico.., ovvero il rinvio stringente all'iscrizione del politico nel luogo, nello spazio, in un territorio. Duplice fine della politica, di quel Politico paradigmaticamente pensato da
3. Cfr. C. SCHMIIT, Der Nomos der Erde im Volkerrecht des Jus Publicum Europaeum, Koln, Grcven, 1950; trad. it. di E. Castrucci, Id., Il nomos della tenu nel diritto internazionale dello ''Jus publicum Europaeum ", a cura di F. Volpi, Milano, Adclphi, 1991. Su questi temi dello Schmitt intcmazionalista mi permetto di rinviare a C. REsTA, Stato mondiale o Nomos della Terra. Carl Schmilltra universo e pilm'~~erso, Reggio Emilia. Diabasis, 2009 (n. ed.] e ld., Mondializzaziolle e 11icili/ismo: Ernst Jii11ger e Cari Schmitt, in Nichi/ismo Tecnica Mondializzazione. Saggi Sll Schmi". Jiìnger. Heidegger e Derrida, Milano-Udine, Mimesis, 2013. 4. C. ScHMITT, Il nomos della terra 11el diritto internazio11ale dello ".h1s publicum Europaeum ", cit., p. 52; vedi anche pp. 19, 64-65. 198
Schmitt, da un lato, come nomos, ordinamento concreto indissolubilmente legato alla Terra e al Luogo, e, dall'altro, come possibiJità sempre possibile- e dunque sempre reale- di individuare nemici, all'insegna di una ostilità insopprimibi1e e perciò permanente5• La caduta del Muro segna il tramonto della politica del confine, delle chiare e nette delimitazioni, in primo luogo quella tra interno ed esterno, rende attraversabili le frontiere, porose le linee di divisione. Senza più limiti chiaramente definibili, dove cadranno ormai i confini di ciò che è proprio, dove quelli dell'estraneo, e come de-cidere chi è il nemico, senza il quale sarà inevitabile dubitare anche di noi stessi?6• Lo sgretolarsi delle Torri gemelle, d'altro canto, non è che il prodromo di un sisma che scuote ormai la terra intera. Se la Torre7, nella sua valenza teologica, è l'emblema architettonico dell'eterna sfida dell'uomo a rivaleggiare con la potenza divina, ancora una volta la distruzione della Torre ammonisce contro ogni tentativo di violenta reductio ad unum, contro l'insano proposito di "farsi un nome, ( Gn, 1l, 4 ), di insignorirsi e di appropriarsi del Nome Unico, ribadendo la babelica confusione della molteplicità delle Hngue- un pluriverso irriducibile nella forma
5. Cfr. C. SCHMJn, Der Begriff de.ç Politischen. Berlin, Duncker & Humblot, 1963; lrad. it. di P. Schiera, Id., Il concetto di 'politico·. in !.e categorie del 'politico'. Saggi dì teoria politica, a cura di G. Miglio e P. Schiera. Bolo· gna, il Mulino. 1972. Per una rilcttura di questo fondamentale testo mi permei· todi rinviare a C. Rr:srA. Ostilità e ospitalità: Cari Schmitt e il Politico, in J:E:~trolleo. Ostilild e ospitalità 11el pensiero del Ncwecento. Genova, il mclangolo, 2008. 6. Cfr. J. DERRIOA. Politiques de /'amitié, Paris, Gal iléc, 1994; trad. it. di G. Chiura:ai,ld., Politiclrede/l'amicizia, Milano, Cortina. 1995, pp. 94-IOS. 7. Un significativo riferimento alla Torre di Babele come simbolo dell'unità ricorre in C. SCUMlTT, Die Einlreit der Welt, in Id., Staat, Gro]Jnmm, Nomos. Arbeiten aus den Jahren 19/6-1969, hrsg. von G. Maschkc, Berlin. Duncker & Humblot. 1995; trad. it. e cura di G. Gurisatti, Id., L'unitd del mondo, in Stato, gmnde spazio, nomos, Milano, Adelphi, 20lS, p. 272. La Torre di Babele è al centro di un importante saggio dell980 dedicato da Dcrrida al tema della traduzione in Benjamin: J. DERRlDA, Des tours de Babel, in Psyclré. /nventimu: de l 'ardre I. Paris, Galiléc, 1998; trad. il. di R. Ba17.arotti, Id., De:r tours de llahel. in Psyché. Invenzioni dell'altro l, Milano. Jaca Book, 2008. Per lo svi· luppo di questo tema, fondamentale per la docostrw:ione, si veda Sltpra, cap. 3.
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di un Weltstaat- che assegna all'umanità dispersa il compito intenninabilc della traduzione, ma anche la custodia dell'intraducibìle come suo resto ineliminabile. Scossa da questi eventi, la decostruzione non poteva non registrarne l'urto, il trauma, l'ambivalente e indccidibile annuncio in quanto insieme e al tempo stesso promessa e minaccia. Non poteva, decostruendo, che tentare di comprendere la decostruzione in corso, mai così evidente, mai così icasticamente raffigurata come nel caso della "decostruzione" del Muro e delle Torri. Nulla diviene dunque meno eludibile del tema delJa mondialìzzazione, come dimostrano la maggior parte degli interventi e delle opere di Derrida successivi al 1989. In una pagina di Politiche dell'amicizia, pubblicato in Francia nel 1994, ma che raccoglie riflessioni svolte in un seminario tenuto all'EHESS tra il 1988 ed ill989, Jacqucs Derrida registrava, come un sismografo, il sisma con il quale si annunciava l'avvento della globalizzazione: Noi upparte,iamo (... ] al tempo di questa trasformazione, che è per l'appunto una terribile scossa nella struttura e nell'esperienza dell'appartellenza. E dunque della proprietà. Dell'appartenenza e della condivisione comunitaria: la religione. la famiglia, l'etnia, la nazione, la patria. il paese, lo Stato, la stessa umanità, l'amore e l'amicizia, 1'ainumce, pubblica e privata. Noi apparteniamo a questa scossa, se possibile, noi tremiamo in essa. Essa ci attraversa, transita in noi. Le apparteniamo sell7.a appartenerle. Thtti i grandi discorsi[ ... ) risuona· no in essa, quando si assumono il rischio c la respOnsabilità, ma anche quando s; sol/omettono alla necessità di riflettere e formalizzare, per così dire, la dislocazione assoluta, il dissesto senza contomo8•
2.
La mondialatinizzazione
Piuttosto che di globalizzazione, Derrida preferisce parlare di mondializzazione, anzi, come vedremo, conia appositamente un neologismo, quello di "mondialatiniZ?..azione". Come lo stesso Dcrrida ribadisce in diverse circostanze. la preferenza per il
8.
J.
DERRIDA.
Politic/re dell'amicizia, ci t.. pp. 99·1 00.
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termine mondialisation, rispetto all'inglese globalization o al tedesco GlobaliJ·ierung e ai loro derivati, dipende dal voler mantenere un forte riferimento al termine 'mondo', e in particolare al concetto di mundus, di ascendenza latina e cristiana che, pur tra molte declinazioni e denegazioni, giunge fino a Heidegger9: "Conservo la parola francese mondialisation per globalization o G/obalisierung, allo scopo di mantenere il riferimento a un 'mondo' - world, Welt, mundus - che non è il globo, né il cosmos, né l'universo.. •o. Si tratta dunque di marcare la distanza non solo rispetto al concetto meramente geografico di mondo, impJicito nel riferimento al globo terrestre e alla sfericità della terra, ma anche rispetto al concetto greco pre-cristiano di cosmos, nel quale è implicita l'idea di un tutto ben ordinato; pur nella sua oscurità, acuita, più che rischiarata, dalle molte declinazioni possibili, Derrida preferisce riallacciarsi piuttosto al concetto cristiano di mondo, quel mundu.rr al cui significato possiamo awicinarci a
9. In riferimento alla centralità che il concetto di Welt assume nelle pagine di Essere e tempo, secondo Derrida "riuscito o meno, il progetto di Heidegger, fin da Sein und Zeit, è slato quello di sottrarre il concetto di mondo e di essere-nel-mondo a questi presupposti greci o cristiani" (J. DERRIDA, L'Univer.vité sans condition, Paris, Galilée, 2001; trad. it. dì G. Berto, Id., /.'università .venza condizione, Milano, Cortina, 2002, p. 44). Interessanti osservazioni a proposito del concetto husserliano di mondo e di terra come fondamento ultimo della nostra Mitmenschheìt si ritrovano i n J. DERRJDA, lntroduction à I'Orgine de la Géometrie de Husserl, Paris, PUF, 1962; trad. it. e cura di C. Di Martino, Id., lntroduzio11e a Husserl L'origine della geometria, Milano, Jaea Book. 1987, pp. 136-140. Per una ripresa più recente di quesle questioni, si veda J. DERRJDA, Ndélìté à plus d'u11. Mériter d'hériter où la gé11éalogie fait défout, "Cahiers lntcrsignes" 13 ( 1998): ldiomes nationalités déconstntctions. Rencontre de Rtlhal avec Jacques Derridt~, pp. 242-245. IO. J. DERRIDA, /.'università .•umza condizione, cit., p. 10. Un ulteriore ltcccnno all'opportunità di questa dislinzionc, più avanti: "A differen7.a di glohalization o di Globalisienmg, mondialisalion sottolinea il riferimento a quel valore di mondo carico di una pesante storia semantica, in particolare cristiana: il tnondo [... )non è né l'universo, né la terra o il globo terrestre, né il cosmos" (ivì. p. 45). E anche altrove: "Il mondo non è né la terra, né l'universo, né il cosmo" (J. DERRJDA, "Qu 'est-ce que cela veut dire d'eire un pltilosophe françaìs mljourd'htti? ··, in Papier Machine. Le ruban de machilre à écrire et autres t'èpo11ses, Paris, Galilée, 2001, p. 344).
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partire dal concetto di creatio ex nihilo e di saeculum. Lamondializzazione sarebbe dunque il processo in virtù del quale questo mondo, questo concetto di mondo, di ascendenza cristiana, si mondializza e si afferma su scala planetaria; perciò è necessario chiamare questo processo facendo risuonare, nel suo nome, il riferimento imprescindibile alla complessa eredità semantica che il concetto di mondo ha acquisito nella storia europea, fortemente segnata dal cristianesimo: "il concetto di mondo resta un concetto cristiano", così come "il concetto di secolarizzazione non ha senso al di fuori del Cristianesimo,11 • Proprio per enfatizzare il rilancio di questa eredità cristiana- e dunque latina- Derrida conia un nuovo termine: 'mondialatinizzazionc'12; con esso si intende indicare "un evento unico"13 che condensa, in modo per molti versi oscuro e non privo di stridenti contraddizioni, un processo di Jatinizzazione - cui non è estraneo il cosiddetto "ritorno del religioso" 14 -il quale veicola una certa universalizzazione, la cui lingua di espansione, paradossalmente, è l'angloamericano 15 • t: imporsi di tale lin-
Il. J. DF.R.RIOA, "SurloiJI pas de journalistes! ", Paris. L'Heme, 2005; trad. it. di T. Lo Porto, Id., "...sopratllltto: niente giornalisti!". Quel che il SignoredisseadAhramo, Roma, Castelvccchi, 2006, p. 27. Derrida aggiunge: "l'Illuminismo resta ai miei occhi un concetto cristiano" (ibidem). t:ascenden7.a cristiano-secolarizzata dei Lumi c della loro eredità, in primo luogo quella dei Dirirti dell'uomo, viene ribadita costantemente e in diverse circostanze da Derrida. 12. Il termine compare sopraHutto in J. DERRIDA, Foi et Savoir, in Foi et Savoir. Le Sièc/e et le Pa1'don, Paris, Seui!, 2000; trad. it. di A. AJbo,Jd., Fede e sapere. Le d11e fonti della "religione" ai limiti della semplice rogio11e, in AA.Vv., La religione, Annuario filosofico europeo a cura di J. Derrida e G. Vauimo, Roma-Bari, Latcr1.a, 1995. 13. lvi, p. 33. 14. Su questo tema, ampiamente sviluppato soprattutto in Fede e .fapere, Dcrrida osserva: "11 cosiddeuo 'ritorno del religioso', c cioè il frangersi di un fenomeno complesso c sovradeterminato, non è un semplice ritorno, perché la sua mondialità e le sue figure (tclc-tecno-media-scientifiche, capitalistiche e politicocconomiche) restano originali e sen1.a precedenti. E non è un ritorno semplice del religioso perché comporta, in una delle sue due tendenze. una dislruzione radicale del religioso" (ivi, p. 46). 15. lvi, p. 32.
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gua è indissolubilmente legato a un discorso politico dominante sulla scena mondiale, che riguarda sia il modello economico capitalistico, che la scienza-tecnica, che uno specifico dispositivo giuridico-politico-militare. Dunque "la globalizzazione è un'europeìzzazione" 16, purché si comprenda anche l'effetto di ritorno di questo processo, che provoca la trasfonnazione stessa dell'eredità europea, la sua stessa "auto-etero-decostruzione" 17 con effetti autoimmunitari, che mettono in campo "un potenziale inesauribile di crisi e di decostruzione, 18, in primo luogo quel1o dello stesso eurocentrismo e dell'eredità coloniale, tanto che "globalizzazione dell'europeità e contestazione de1l'eurocentrismo,19 procedono di pari passo. La mondialatinizzazione è costituita, dunque, da un singolare intreccio, da una "strana a11eanza del cristianesimo, come esperienza della morte di Dio, con il capitalismo teletecnoscientifico"20. Essa rivela una ormai visibile sinergia tra il processo dì globalizzazione e lo specifico ruolo che vi gioca la religione cristiana, assumendo i tratti di una "imposizione su scala planetaria della parola cristiana religione, della parola religione, qual è stata cristianiz?..ata e romanizzata, per coprire un gran numero dì fenomeni, molti dei quali non sono sicuro dipendano dalla religione"21 • Ciò che rende particolarmente complesso tale fenomeno, dipende anche dal carattere autoimmunitario e autodecostruttivo dc] cristianesimo, in virtù del quale il processo di secolarizzazione, prima ancora di colpirlo dall'esterno, lo attraversa e si alimenta al suo stesso interno, gli è consustanziale. Si
16. J. DP.RRIDI\ - É. ROUDII'.'ESCO, De quoi demain ... Dia/ogue, Paris, almasso, C. Di Martino, C. Resta, Milano-Udine, Mimcsis, 2014.
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abbiamo visto, anche in virtù della nuova forza di espansione messa a disposizione dalle telecomunicazioni e dalla teletecnoscienza. Come già aveva prcsentito Jiinger3 2, è la tecnica che di fatto realizza l'unificazione del mondo c, in particolare, quella branca della tecnica che si occupa di accorciare, se non addirittura di azzerare, ogni distanza. Anche secondo Derrida si assiste a "una potenza tecnica di effettiva universalizzazione mai raggiunta prima"33 • Essa consente ormai quasi ovunque "l'accesso alle reti mondiali (transnazionali o transtatali) di tclecomunicazione e tcletecnoscienza"34 • Proprio l 'unificazione teletecnica del mondo, resa possibile da una serie impressionante di telemacchine e di tele-dispositivi (telefoni cel1ulari o satellitari, fax, scanner, televisione, antenne satellitari, computer, attraverso i quali scambiarsi e-mail, collegarsi a internet, ecc.) segna un passaggio decisivo: quello in virtù del quale mundus e globus finiscono per coincidere: il concetto cristiano di mondo si adegua al concetto di terra, il mondo diventa globo terrestre. [... ] Noi arriviamo ai limiti della terra, che solo oggi sono raggiungibili in un istante (grazie alla televisione c ai satelliti). Arriviamo ai limiti della terra quando abbiamo abbandonato la terra. L'equazione "mondo" in senso cristiano'"" "pianeta terra" s'instaura nel momento in cui la tecnica può lasciare la terra.[ ... ] Ma lasciare la terra è cristiano. Il rapporto tra il terrestre c il sovraterrestre, tra il celeste e il mondo, è una storia cristiana. Ciò non è affatto strano, non c'è alcuna novità nel fatto che tutto ciò che accade di veramente nuovo oggi sia collocabile nella struttura del messaggio cristiano35.
32. Cfr. E. JONGE.R, Der Welrsraat. Organismus 1md Organisation, in Siimtliclze Werke, Bd. 7, Stuttgart, Klctt-Cotta, 1980; trad. il. di A. ladicicco, Id., /.o Stato mondiale. Organismo e organizzazione, Parma, Guanda, 1998. Per una rilettura di Jiinger quale "profeta" della globalizzazione mi permetto di rinviare a C. REsTA, Verso assetti planetari, in L. Bo~sto • C. RESTA, Passaggi al bosco. Ernst Jiinger nell'era dei ntani, Milano, Mimesis, 2000 c C. RESTA, Mondializ· zazio11e e nicllilismo: Emst Jiinger e Cari Schmitt, cit. 33. J. DERRIDA, " ... soprattutto: niente giornalislì! ", cit., p. 31. 34. J. DF.RRIDA, Fede e sapere, cii., p. 47. 35. J. DERRIDA, " ... soprammo: niente giornalistì! ", ci t., p. 32
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3.
Le tele-tecnologie
Cingrcsso delle teletecnologie ed il loro massiccio impiego hanno ormai profondamente mutato la nostra stessa esperienza del mondo: lo spiegamcnto differenziale della techne, della tecno-scienza, o della tele-tecnologia[ ... ] ci obbliga più che mai a pensare la virtualizza?.ionc dello spazio e del tempo, la possibilità di eventi virtuali il cui movimento e la cui velocità non ci consentono più onnai [... ) di opporre la presenza alla sua rappresentazione, il 'tempo reale' al 'tempo differito'. l'effettività al suo simulacro, il vivente al nonvivente, in breve il vivente al morto-vivente dei suoi fantasmi 36•
Senza qui poter approfondire la complessa analisi che Derrida svolge in più occasioni delle nuove teletecnologie, in particolare di quelle che riguardano il campo della comunicazione e dell'informazione, vale la pena almeno accennare ad alcuni paradossali effetti di dislocazione, delocalizzazione, espropriazione e sradicamento che l'innovazione teletecnologica provoca e che sono indispensabili per comprendere il processo di mondializzazione. Quello più vistoso è un effetto di presentificazione, una sorta di "idolatria della presenza 'immediata', in diretta"37, una immediatezza che tende alla cancellazione stessa del mezzo (la diretta televisiva). Oltre a rendere indiscernibile il virtuale e il reale, il tele- è in grado di proiettare l'istante 'vivente' 36. J. DERRIDA, Spettri di Marx, cit., p. 212. Su questi temi si veda in particolare J. DE.RRIDA - B. STIEGLER, Écogrophies de la télé..,ision. Entretie11s filmés, Paris, Galiléc-INA, 1996; trad. it. di L. Chiesa e G. Piana, Id., Ecografie della televi.t N. Hansson, Paris, Albin Miche!. 2001 (si trana degli Atti del XXXVII Colloquio degli intellettuali ebrei di lingua francese, svoltosi a Parigi dal S al 7 dicembre 1998). 127. Sulla contrapposizione di questi due paradigmi ruotano i saggi contenuti in C. R.t:.sTA, L'E.,trrmeo, cit., cui mi permetto di rinviare.
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INDICE
PREFAZIONE
9
l. IL SEGRETO DELLA DECOSTRUZIONE
13
2. OSPITARE LA MORTE
37
3. POETICA E POLITICA DELLA TRADUZIONE
76
4. 0/KONOMIA: LA LEGGE DEL PROPRIO
113
s.
167
L:IMPOSSIBILE, IL NON POTERE
6. UNA COSMOPOLITICA A-VENIRE
197