Orazio lirico [First ed.]


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Orazio lirico [First ed.]

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y\o'ra.

^

3RAZI0 LIRICO STUDI

GIORGIO PASQUALI

OPERA PUBBLICATA CON CONTRIBUTO DELLA FACOLTÀ DI LETTERE DEL

R. ISTITUTO DI

STUDI SUPERIOJÌI IN FIRENZE

1

>r^-

FIRENZE FELICE LE MONNIER 1920

4

pa

Proprietà letteraria riservata

ì

^

Firenze 1919.



Stabilimento Tipografico E. Ariani. (Ord. 2589).

ALLA PURA MEMOWA DELLO STORICO

ADALBERTO GARKONI CHE COMBATTÈ E MORI SENZA ODIO

PKEFAZIONE

Questo

libro

nou ha

forse bisogno

di prefazione

in principio e in fine di ciascun capitolo

ho detto

:

ciò

che in esso mi proponevo di dimostrare o credevo di aver dimostrato, assai chiaramente per ogni lettore libero da pregiudizi. Benché la mia opera sia venuta pili voluminosa che io non desiderassi, spero che non le i)ossa esser mosso rimprovero di mancare di unità chi la legga di seguito, docilmente, non corre rischio di smarrire il filo conduttore nonostante qualche giro :

e rigiro. Il

libro era tutto pensato e per

quando scoppiò

buona parte anche

guerra: durante la guerra continuò e finì la stesura, incominciò anche la stampa. Ma questa dovette ben presto essere sospesa per l'incertezza del mercato librario, i>er l'enorme aumento del prezzo della carta, che allora si credeva pjisseggero, per la scarsità della mano d'ojìera tipo-

scritto,

gratica.

La stesura

periodi di

non sospesa,

ma

frastornata da

cattiva salute dell'autore e da

militare sedentario, sere

fu

la nostra

ripresa

un generoso

solo

mn

gravoso.

nell'estate del

un

servizio

La stampa potè '11),

es-

e solo grazie a

sussidio concesso dalla Facoltà di Lettere

dell'Istituto di Studi 8u[)eri()ri in Firenze: e da allora



viri



in i)oi i)roce(lò lupidatiiciite. Xelhi revisioiie mi prestarono la loro opera volenterosa per la prima j)arte lina donna gentile ».

_ L' iiitcrjjretazione

commento

nel

questa

non da

« Perciò,

:

nie,

dipitro

Bassareo splendido

supplico,

ti

di

non

troppo in

giovinezza,

di

lungi

tieni

;

selvaggia,

cui

io

tengono

se e orgoglio vanitoso e ciarle

di

Chi intenda

ci

in

dovrà

così,

non dicono nulla

sia già stato detto

già troppo a lungo Orazio brietà, egli

formulata

e.

p.

sfrenatezza

segreti confidati ». ciie questi versi

confessare nulla che

con

l'ebrezza

amore soverchio

Vraditrici

coni' è

coiisucita,

Kiessling e Heinze, è a un dipresso

festeggiare

voglio

li

di

y)

nuovo,

di

questa stessa ode

ha vantato

i

:

pregi della so-

che pure non suole né ripetersi né indugiare comun pensiero solo. Né s' intende come i

mentatori possano vedere nominata o descritta l'ebrezza nei versi che ho trascritto, nei quali, per quanto a me pare,

menti la

si

parla solo del

sobrietà o

essi

il

corni e di timpani, istru-

tirso, di

che non hanno nulla a che fare con ubriachezza. E in qual modo spiegano

tutti di culto 1'

sub cUvom rapiam

?

Che anzi non

lo

spiegano e

traggono per lo più d' impiccio con espressioni

si

vaghe e

« Metonimia che sostipoco significative come questa tuisce il donatore al dono ». A me sembra che questo passo si possa intendere « Io non voglio prender parte alle processioni solo così :

:

orgiastiche in onor tuo, Dioniso al tuo volere di vizi». I

;

dietro

ai

;

un

tal culto è contrario

tuoi simboli

commentatori, costretti

cammina un

dalle

corteo

precise parole

Orazio a concedere ch'egli parla qui di un culto orgiastico, credono di spicciarsi poi di ogni difficoltà assedi

rendo che questo

culto

è

un' immagine,

e

quanto

ai

corni berecintii se ne sbarazzano con tutta faciUtà dicendoli tolti di peso dalle Baccanti di Euripide, che

erano già classiche ai tempi di Callimaco e che Orazio ha senza dubbio letto, tant' è vero che altrove (epist. I, 16; 73 sgg.) ne cita un verso. Il male è che qui Orazio

ma descrive un culto che quindi reminiscenze poetiche non hanno qui luogo, o, per meglio dire, possono al più spiegare la forma, non la sostanza. Se non fossero consernon

cita antiche opere letterarie,

del tennpo suo, e

vate

testimonianze

altre

che questo

pure indurre da esso che

in quel

passo,

dovremmo

tempo a Roma era

in

voga un culto dionisiaco

in cui

per così dire, cibelici

questo caso le parole di Orastesso valore di documento per

zio

avrebbero per noi

la

Roma

del

in

l6

suo tempo che

l'Atene dell'età sua. di processioni,

;

erano penetrati elementi,

quelle

poeta romano

Il

ci

di

Euripide

nelle quali istrumenti sacri erano portati

per la città a suono di timpani e di corni

in giro

ridisce al

veder celebrati nella sua

stranieri.

La

mystica,

spaventosa

Roma

;

di

vizi,

ai

occhi

suoi

dei vizi

in

inor-

culti orgiastici

turba fanatica, che teneva dietro alla

trasforma

si

per

parla con orrore

cista

una processione

che sogliono esser congiunti

con l'ebrezza. Il

dente

valore di questa interpretazione è affatto indipendalle

storia

la

dei

conseguenze che se ne possano trarre per culti romani, ne sarebbe strano che di

un culto orgiastico si

Dioniso nella

di

Roma

augustea non

riuscisse a scoprire altra traccia, giacché noi

sediamo

in

non pos-

questa materia tradizione che non sia fram-

mentaria. Eppure

caso

che noi impero un (alito orgiastico di Dioniso è attestato da molte iscrizioni (1). vServio c'informa che versi di Virgilio (ecl. V, 29) il

non aspettiamo. Per

i

ci

favorisce forse più

tempi più tardi

dell'

i

Daj>huÌ8 et Armeuias curru subiungere tigris instituit,

Dapbnis thiasos ìnducere Bacchi

et follia lontas intcxer^ iiiollilms liaBtas

(1)

I

I

passi sono indicati dal

Wissowa.

Heligion^, .103 sg.

_ alludono a Cesare constai

sacra

:

Liberi

4

-

hoc aperte ad Caesarem pertinet, quem patris

Fiomam.

tratistulisse

E

cy,v

adraiato in una grotta sulla

di

Ma

:

parole della profetessa nello Eumenidi (v.

aépco Si Nulicpag. sv5-a

ioxpaTYjYVjasv 9-eòg

corre pericolo

questo brivido gioioso.

Questo Dioniso ha altrettanto

sgjT;.)

tiaso,

nell'abisso.

del culto straniero orgiastico,

22

sublimi,

precipita dietro al dio nel tiaso

si

Altre

Baxxixà

òcvxpa

6),

So-

come

testimonianze raccoglie lo Stl'UNICZKa,



Ib

Roma, quanto le pure orgie Lo stesso poeta

in processione per le vie di

del poeta con l'ebrezza dell'uomo volgare.

potè scrivere l'ode a Varo e

canti dionisiaci.

i

II.

L'allegoria della nave

Se Orazio ha potuto

mosse da una citazione rito

14.

una sua poesia prender le cui egli ha inse-

in

Alceo, in

di

un'espressione sola, un'espressione, a dir vero, assai

caratteristica

suoi

è

I,

.di

Ennio,

ha potuto

se

comprendessero

lettori

questo un indizio

e

che

sicuro

far

gustassero

conto che

uomini

gli

i

tale tecnica, colti

della

Roma

augustea conoscevano bene non solo il poeta nazionale Ennio ma anche il lesbio Alceo. Eppure si suol

generalmente credere che Orazio abbia primo tra i Romani letto Alceo perfino uno studioso così dotto e di gusto così squisito come il Norden, ha scritto teste (1): « Nessun Romano prima di Orazio ha, per quanto sappiamo, letto Alceo e Pindaro ». Eppure qualche riga sotto egli giudica così l'arte di Orazio nelle Odi: « La ;

sua tecnica consueta (come già quella degli Alessandrini, p. e. di Teocrito 29 e quella di Catullo 51, 56, che deriva da tali modelli) consistè nel prendere a prestito motivi, ch'egli colloca a guisa di motto in principio e svolge poi

più o

meno originalmente

».

Come

due osservazioni ? Un motto può

si

accordano queste

eccitare

un determinato

sentimento solo in colui che abbia presente all'animo il contesto da cui esso è preso. Noi moderni sogliamo an-

(1)

Einl.

i.

d.

Ah.-Wiss.,

I,

504.

— Cora aggiungere

al

17

motto



di

sperare che

il

mentre diamo l'aria

la citazione esatta, e,

facciamo pompa della nostra erudizione, lettore riscontri

il

ci

libro citato. Orazio

invece non poteva neppure ricorrere a questo espediente nell'antichità persino la

nonché che

in quei

tifica

letteratura prosastica

la poesia, evita di citare

che

tempi uso

letteraria.

A

una

di

che

:

più alta,

esattamente, com'era anfilologia piuttosto

fine,

scien-

dunque, avrebbe Orazio

Roavessero saputi quasi a memani del suo tempo non moria, quasi così bene come il loro vecchio Ennio ? E già Catullo ha non tradotto ma trasformato, non so se con intenzione, una poesia, sia pure la poesia più celebre; di Saffo, ha rivestito di versi celebri la confessione del suo amore (1), ciò che non avrebbe potuto fare, se non avesse avuto ragione di supporre che quei versi erano a Lesbia altrettanto familiari quanto a lui. Anzi, com'avrebbe egli potuto chiamare Lesbia la sua amata, se non fosse innestato nel suo canto versi di poeti lesbici, se

i

li

sicuro che tutta la cerchia per la quale scriveva,

stato

avrebbe subito inteso quel nome ? E poco importa che noi non riesca di stabilire se questi giovani Romani amanti di arte greca abbiano qui in Roma in comune letto per la prima volta carmi lesbii, se li siano forse

a

i

spiegare

fatti

già

nella

dalla Latina Siren, o se

Verona un grammatico

sua

glosse lesbie e versi lesbici;

conoscenza è certa. Né letteraria,

che

a

io

comunque

Catullo abbia fatto

imparare

acquistata, quella

posso credere che l'educazione

le letture di

un fanciullo romano

dell'età

augustea siano state molto diverse dall'educazione e dalle letture di un giovinetto

di

Cesare e poi

(1)

11

naiiiente 2

di quella

WiLAMuwnz, (il

Sappilo u. Simonidex, 58-, ha trattato più

ogni altro di questo carme.

ti-

— greco contemporaneo

(1).

18



Si consideri

appunto

la tecnica

Catullo e di Orazio, e se ne rimarrà convinti.

di

Questa tecnica del « principio-motto » è stata osserin tempi recenti, e non poteva infatti essere scoperta, prima che non fosse scomparso il pregiudizio, qualche anno fa ancor più diffuso che non ora, che Orazio fosse un Alcaeus dimidiatus come Virgilio un di-

vata solo

La concezione

midiatus Homerus. zio

che

difendo,

io

si

è

dal giorno che la scoperta di di

di Oraqualche modo strada

dell'arte lirica

fatta in

alcuni versi di un epodo

Archiloco mostrò che Orazio non ha nei Giambi, nonché

tradotto

minate,

il

Parlo, neppure tolto da esso situazioni deter-

ma

solo imitato

il

tono e

lo stile (2).

Già

lo studio

Varo conferma che a un dipresso lo stesso si deve dire anche delle odi, come hanno già veduto, per citare solo alcuni tra i maggiori, il Reitzenstein, il Wilamowitz, il Norden (3). L'analisi accurata, quale ce la dell'ode a

siamo proposta, delle servati

riscontri

determinare

nella

poesia

quali sono con-

le

lesbia,

giova tuttavia a

più precisamente, quale sia stata la rela-

zione tra Orazio e

(1)

altre odi, per

i

suoi modelli, com'egli abbia conce-

Quintiliano discute seriamente

dei vantaggi

e

dei pericoli

per l'educazione morale che presenta nella scuola la lettura di Alceo;

sembra dunque supporre che essa fosse consueta

:

X,

1,

63 Alcaeus in

parte operis aureo plectro vierito donatur, qua tyrannos insectatns mnltum etiam moribus confert, in eloquendo quoque brevis gens

et

plerumque oratori

ribua tamen aptior. pitoli nella quale

similis, aed et lu8it et in

et

magnificus

et

dili-

amores descendit, viaio-

Però questo periodo fa parte di una

serie

di ca-

sono nominati anche scrittori che in quel tempo

certamente nessuno leggeva più, cosicché sarà più prudente astrarre

da questa testimonianza. (2) Cfr. Leo, de Archilocho et Horatio, progr. di Gottinga, 1900. (3) Al Noi?i)EN nuoce tuttavia quel pregiudizio che ho pur dianzi combattuto.

— pito la sua

dipendenza da

-

19 essi,

come

si

accordino queste

derivazioni con V uso larghissimo ch'egli presi dalla poesia

modo la

e

che

in

quali mezzi tecnici

con

materia tolta da

all'ode di

ellenistica,

altri.

La

dei

fa

egli

abbia trasformato

nostra ricerca

rivolge ora

si

ritiene imitazione più servile di

si

Alceo, a un'ode per la quale,

motivi

qual misura e in qual

come

fin

un carme

d'ora occorre

confessare, la formola « motto » è insufficiente e inade-

guata. Il

carme

I

14 è

stato

spiegato allegoricamente già

dagli antichi commentatori, dai quali attinge Quintiliano

Kukula

^VIII, 6, 44). Soltanto in tempi recentissimi R.

(1)

ha osato negare il carattere allegorico di questa poesia, che secondo lui è un vero propemptico indirizzato alla nave sulla quale Augusto nell'anno 30 compiè la traversata da Samo a Brindisi e ripartì poi 27 giorni più tardi per le Cicladi e l'Asia Minore secondo il Kukula il poeta ha scritto o fìnge di aver scritto l'ode nell'intervallo tra due viaggi. L' ipotesi è attraente, tanto più che Svetonio {Aug. 17, 3) ne informa che la nave che portò Augusto da Samo a Brindisi, aveva perduto il timone e una parte dei cordami attraente ma errata. Innanzi tutto nei ventisette giorni Augusto avrà avuto e, se non cura di far riparare la sua nave ammiraglia :

i

;

;

gli

fosse

per qualsiasi ragione riuscito, ciò che

non è

immaginare, di farvi mettere timone e gomene avrebbe fatto il viaggio su di un'altra nave siccome, a quel che narra Svetonio, egli era partito per r Italia con tutta una squadra di navi, e solo una parte di esse era andata perduta nella bufera, non avrebbe avuto altro imbarazzo che quello della scelta. Che quegli ch'era ormai il dominatore onnipossente del mondo,

facile a

nuove,

(1)

:

iViener Studicn,

XXXIV,

1912, 237,

-

ao

-

da Brindisi su una nave che faceva acqua, ne qui giova richiamarsi a una è congettura assurda più alta verità poetica. Orazio cadrebbe nel ridicolo, se dicesse mal ridotta una nave rimessa a nuovo o parsia partito

;

due navi diverse come se fossero una sola(l). E può incominciare in tutte le ma o 7iavis, referent in mare te novi fuctus niere fuorché dobbiamo forse immaginare che una nave, che voleva appunto uscire dal porto in mare, avesse poi timore di ciò che voleva (2) ? fortìter occupa p>ortum suona ben altrimenti che r E'JTiXooc opjjLGv Ixoizo di Teocrito VII, 62, che è un augurio benevolo, mentre la frase oraziana fa piuttosto l'impressione di un ammonimento severo, cui l'o quid agis? premesso aggiunge ancora forza; s'j-Xoo: opiJiov IV.oito, lasse di

poi un propemptico

;

così parla chi considera solo in generale

navigazione

una nave e

fortìter

;

può

che neppure lo scoglio

l'

interpretazione del

i

indicano anche secondo

per meglio dire,

marosi.

Kukula

dell'allegoria, tant' è vero

sollicitum qiiae miìii taeditcm,

o,

pericoli della

vede

un momento, un bastimento che in

solo a

riferire

vicinanza del porto combatte con

levis

i

esclama chi

in pericolo: occupa e l'azione di

fortìter si

il

occupa portum

che

Il

peggio è

riesce a evitare le

parole nuper

nunc desiderium curaque non lui una « nausea morale »,

riferiscono piuttosto alla situazione

si

di

Au-

pur sempre preferibile l'antica interpretazione

alle-

politica generale che

non

alla

nave ammiraglia

gusto.

E (1)

fosse

non

Dalle

parole

menzione

di

del

Kukula

un viaggio

e

di

parrebbe che nelle nostre fonti

una nave determinata,

ciò che

è.

(2) L'interpretazione che

bligo morale

errata

;

di esporti

da quando

tura etica

?

in

alla

il

Kukula dà furia della

([ua yéXtozx

non hai l'obdubbio contiene una sfuma-

del v. 15 « se

tempesta

ócpXtaxavetv

»

è senza

~ gorica. Così

ha inteso

pure respirava

~

'lì

nostro carme Quintiliano, che

il

la stessa aria intellettuale del nostro poeta.

Orazio stesso accetta altrove stoici d'interpretazione

(epist.

I,

2)

i

metodi cinico-

che possono ben

omerica,

dirsi

simbolici, giacche riducono gli eroi a rappresentanti di di-

La nave

versi generi di vita.

pretata

così

che, in

qualunque

modo

fonti

a

già

dallo

di

Alceo

Pseudoeraclito

tempo

ellenistiche

;

sia

(fr.

18) è inter-

{Probi,

vissuto,

liom.

attinge

e riesce difficile

a

5),

ogni

immaginare

che la Stoa si sia lasciata sfuggire un'occasione così bella di annodare considerazioni morali a un testo classico. Orazio avrà dunque letto Alceo in un'edizione commenche

tata, letto,

anche per

gli sarà stata indispensabile

il

dia-

avrà trovato in essa V interpretazione allegorica, e

dalla poesia di Alceo intesa allegoricamente avrà tratto

r ispirazione

di

questo carme.

Coir interpretazione allegorica molte difficoltà scompaiono immediatamente. Il poeta sta sulla riva e guarda il mare tempestoso. Una nave, ridotta male dalla tempesta, è pur riuscita con grande stento a giungere quasi alla

onde si

bocca del porto, la ricaccia

di

ma una nuova un tratto verso

furia di vento e di l'alto

mare.

Orazio

rivolge alla nave: « Perchè non resisti con più tenacia

Se non perduto

riesci il

?

ora a entrare in porto, tu sei perduta. Hai

timone, l'albero

travi, che, prive

è

acqua le tenevano strette,

spezzato, fanno

ormai delle funi che

le

non hanno più forza di resistere ai iiutti. Le vele sono lacere, le immagini degli dei tutelari sono state spazzate via dalle onde. Per quanto fatta di legno di pino pontico, per quanto nobile e celebre e quantunque ridipinta di fresco, è difficile che ti salvi una volta respinta di nuovo in alto mare, sarai zimbello dei venti. Tu che mi fosti pur dianzi ragion di disgusto, che eri ora la mia ;

cura e

il

mio amore, guai a

te se capiterai nei labirinti

-

2-2

-

Ponto è menzionato perchè il miglior legno per navi veniva di lì, senza che per questo vi sia bisogno di pensare a una leniiniscenza del celebre rocciosi delle Cicladi

phaselus catulliano phaselus ante saepe sibilum

fiiit

:

!

». Il

trucemve Ponticiim simun, uhi

cornata silva;

ediclit

coma.

Che

nam

iste

post

Cytorio in iugo loquente

anzi la reminiscenza

mi pare

esclusa da considerazioni stilistiche. Orazio avrebbe guastato l'efTetto del suo carme, richiamando alla

memoria

un lusus, uno scherzetto poetico. Le Cicladi sono nominate in questa poesia, perchè gli stretti tra r una e l'altra erano noti per pericolosi e fors'anche perchè erano state spesso cantate dai poeti ma non si può dire se Orazio alluda a un passo determinato di Alceo. In simile modo egli menziona altrove l'Egeo (e. Ili, 29, 57): non est meum, si mugiat Africis maliis j^^'oceldei lettori

;

ad miseras preces decurrere et votis pacisci, ne Cypriae Tytum me biremis riaeqiie merces addant avaro divitias mari praesidio scaphae tictum per Aegaeos tumultus aura feret lis,

:

Pollux. Il Ponto e le Cicladi sono nominati con speciale riferimento alla nave il sollicitum taediinn, il « disgusto inquieto », che esprime bene lo stato d'animo di Orazio negli anni che seguirono Filippi, quand'egli

geminiisque

;

non voleva più in

sentir parlare di politica e di politica era

fondo più appassionato che mai,

allo

stato

meglio

il

ciò che è

si

attaglia meglio

nave alla nave conviene desiderium, perchè non si può desiderare se non assente cura è detto bene di ambedue. Un

romano che

alla

;

;

tale conflitto di epiteti è inevitabile in qualsiasi allegoria.

L'

immagine corrisponde così bene alle condizioni romano (1) negli anni immediatamente pre-

dello stato

(1)

Chiedere con

il

KtiKULA ad Orazio, qnale

rappresentato dal rottame, è temerario

mente risposto

:

ree

Romana.

;

il

i^artito sia

per lui

poeta avrebbe probabil-

cedenti e seguenti alla battaglia di Azio, che riesce diffìcile datare il carme. In quegli anni lo stato romano sembrò spesso essere finalmente sul punto di entrare in porto, e fu di nuovo respinto in alto mare e sbattuto

pensare

onde.

Si

della

lotta

ultima tra

zioni

contro

dalle

suol

al

momento

dello scoppio

Ottaviano e Antonio, e

le obie-

presentate recentemente dal

questa data,

Hoppe

sono tutte di molto valore. Il Hoppe (1), non nega a ragione che l' immagine della nave convenga a una guerra esterna, ma non si accorge poi che la lotta tra Ottaviano e Antonio fu soltanto formalmente considerata tale. Certo, è verissimo che la guerra si dichiarò all' Egitto (2), che Ottaviano trionfò dell' Egitto, non di

Antonio ma questa concezione, che era quella ufficiale, doveva servire a imprimere il marchio di traditore sulla fronte di Antonio, che secondo essa sarebbe passato al nemico e infatti la segue nella descrizione dello scudo di Enea Virgilio, che voleva appunto bollare il tradimento di Antonio. Ma anche la partecipazione di un ;

;

naviglio

straniero

nell'opinione dei più

quella lotta era le si

guerra non

alla

carattere di

il

poteva trasformare guerra civile, che in

Da ambedue

principale e l'essenziale.

il

romani senatori romani erano dichiarati favorevoli ad Antonio e si erano ri-

combattevano

parti

(1)

N. Jahrb.

(2)

Dio, L,

3

spyw 8è

àTiicpYjvav,

d.

f.

4,

cittadini

(làXXov

nóXiiiO'j avxixp'jc; èmrjyyeiXav. Kpo7zoXé\xf.oi.

è7io{Y,aav, xy'ivtov

xaxà xò

ànsp kou

èxs'.vev.

cp:oavxo,

xw

xfj

5' "Avxo)vi(p

l'osprosaioiie del llitto

1

6,

4,

npcg

4,

4

xf^

Xóy':>

oùSèv

I^èv

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KXsoTiixpx xòv

5ià

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Ka'.aapog

w? xal

xr,v

5"^{^e/

xotoDxov

Koi.iiK (Uerm., XI. IX,

ad Antonio.

Antonio)

KXsonàxpav spyw 8à oOv KXsonixp-/. 5ià xxOxa xòv

|i.èv

|i£v

è

ànéSsigav.

ó irpò; xo 'Evostov èXO-óvxs; Tiivxa xx

vo|ii^ó|Jisvov

XóycjJ

1912, 693 agg.

xs (oggetto

Ti&Xs|Ji.tóv

Tiavxòg

XXIX,

Alt.,

hi.

;

èizrffys.t.Xci.^.

19U. 290\

di

cpvjxiaXio'j

v.al Tipòg

'Av-

tcóXeiìov è'^ri-

Imprecisa è

un Laudo

iu-



24

fugiati presso di lui. Orazio stesso,

qui le idee della corte o per lo

il

meno

(juale

rappresenta

della cerchia che

si

raccoglieva intorno a Mecenate, dice altrove chiaramente

che quella guerra fu una guerra

civile.

Quale altro senso

hanno

infatti le parole dell'epodo

IX,

1 1

emaneipahis feminae

fert

valium

Romanus ìieu {poet arma miles

steri negabitis) et

spadonibits servire rugosis potest, interque signa {turpel) mi-

conopium ? In che consiste l' ignominia che legioni romane combattono in servigio

litarla sol aspicit

se di

non uno

in ciò

stato straniero

gusto e

la

Nò gioverebbe

?

supporre che Au-

sua corte abbiano in tempi diversi concepito

forma giuridica di questa guerra l'epodo è stato probabilmente scritto (1) durante il blocco, che precedette la battaglia di Azio, e Dione (L, 8, 5) ci conferma che anche prima di quella vittoria l'opinione pubblica di Roma giudicò così. Velleio, regnante Tiberio, diversamente

la

;

considera quella battaglia

quando Augusto

Roma,

tornò a

finita vicesimo

la

pena

post

tutti,

amia

come

bellum

narra

fine delle

Actiaciim

guerre

;

Alexandrinumque

egli, si rallegrarono,

bella civilia (II, 89).

civili

Ma non

perch'erano vale neppur

di ricercare l'eco del giudizio della corte

augustea

nello storico o nel poeta, quand'ancora ci sono conservate le

parole di Augusto stesso. Corrisponde a quelle

norme

guardingo principe osservò per tutta la vita, che egli ancora nelle res gestae non chiami la guerra di Azio altrimenti che guerra di Azio (25, 3) iuravit in mea verba tota Italia sponte sua et me belli, quo vici ad Actium, ducem depoposcit. Qui egli non aveva interesse a mettere in rilievo che la coniuratio si riferiva a una guerra tra cittadini e cittadini. Ma dove si vanta di

cautela che

il



di

aver posto termine alle guerre intestine, egli ha

raggio

di scrivere,

(1) Gir.

:

il

co-

senza per vero nominare espressamente

sotto p. 38 sgg.

— Azio (34):

ubi civU]ia exstinxeram

b[e,lla

per consensum

Bomani arbitrinm

senatus p)opnlique

in

(1),

rerum oynniiim, rem puhìicam ex mea

universorum potitus potestate

-

-25

transtuli.

Qui ubi exstinxeram dev'essere congiunto strettamente con transtuli: «Appena io ebbi spento le guerre civili^ resi aj senato e al popolo il potere, di cui conforme al volere sovrano della nazione mi ero impadronito » :

non

può unire

si

bella civilia

quest' ultima proposizione

riferire

perchè non

Cesare,

di

sori

con

potitus

si

exstinxeram

al castigo

e

degli ucci-

può ammettere che Au-

gusto dichiari di essersi attribuiti poteri straordinari proprio

quando

il

pericolo più grave era scomparso

(2).

Questa concezione ufficiale e cortigiana della guerra contro Antonio ha anche solido fondamento nel diritto pubblico romano. Antonio non venne dichiarato hostis publicus solo perchè, come Dione osserva con bella preci-

non ce n'era bisogno, prevedennon avrebbe abbandonato Cleopatra non valeva la pena di deliberare l'odiosa messa al bando, dal momento che si vedeva chiaro ch'egli nel bando sarebbe da sé stesso caduto. Da quando Vabrogatio gli tolse il carattere di magistrato, egli aveva la scelta tra due partiti, dei quali non si sa dire quale sione di linguaggio

già di

dosi

(3),

che egli

sicuro

:

fosse

peggiore

il

o sciogliere

:

a discrezione a Ottaviano,

(1) 1

supplementi

o

il

suo esercito e arrendersi

seguitare a comandare le

sono assicurati dal

confrouto della verniono

fireca (2) Il (3)

L,

MoMMSKN 6,

1

IO)

dà l'interpretazione

5' 'Avxu)v((|)

chiarazione di K'ierra) O'Yjao'.xo

(o'j

Y^P

^^'->

où8=v

a'j|iPxvxog,

àvs'.Xsxo.

xaxà

xyj^

(cioè

niente di-

^'j

xai PouXó|i=voi xai aùxò zob-zo TipoasYxaXéaat :ix{ag 7ióX£|xov ixfov

ictoOiov

T^ £i5óTcC OTt xai aXXojj tioàsjkoìxììvkjv xòl toù Kaiaapog ;:patx6'.v £|ieXXs)

sti/^yY^^'-^'^

Ti^oio'ìq,

jjinsta.

8^ft^ev

oi, òxt

xòv uirèp xfic Aìyu-

Tia-piSoc;, |jiy,5£vò; a->x(ì)

SsivoO oixc{>'£v

ìSJqt.



"Ìiìi

souo

con istituzioni

italico dell' istituzione augustea.

che

che carica di ricchezze e di onori, senz' una ragione la vita nella

ha trattato

egg.), a cui uoii

Staat der Ilaìiker, 44 sgg., 92 sgg.

contrapposta

precede; epicureo b

61

relazioni storiche

le

fondamento

di appendice

bua in arditi». L'ode,

e uelle proviucie

(Bleiiesserae,

oraziani né

Rosknbkhg,

in pih chiara Ince (2)

Roma

Dei sodalicia iuvenum iu

sfuggiti né

8tH8

resto è oraziano e ro-

il

(2).

egregiamente

cria

tutto

;

Anche di al

seu mae-

Alceo

:

gente

mondo passò

stata nell'antica Grecia; quo

con quel che segue rendono testimonianza deiranu>re moderno per la campagna, del sentimento nostal-

pinna

ingene

albaqite

populua





104

VII.

Orazio imitatore di Alceo? 1.

L'esame accurato di quelle odi di Orazio per le quali hanno riscontri nei frammenti di Alceo, mostra che quegli non ha mai né tradotto ne parafrasato questo, ma che o ha preso da esso solamente lo spunto, il motto, si

gico che spinge a fuggire dalla città grande. Pure in quest'ode così

moderna spunto

:

è forse inserito

uno spunto

Orazio, scrivendo huc vina

amoenae ferre iuhe rosae, dnm atra

ricordò forse di

si

Tatg òuo3-ufit8àg Ttg, (fr.

36

:

i

V.

y^Bìidxw

All'

sororum

[làv Tiept

fila trinvi patiuntur

Talg Sépaiai mpd-izu) ^Xéx-

àSu

[l'jpov

1-2 sono stati cougiuuti con

tamente a ragione).

non più però che uno et ninmim irevia flores

unguenta

ree et aetas et

tkXX' àvV^xo)

xa5 Ss

aleaico,

et

i

v.a.x

tw

ai-qb-soq &[i\ii

seguenti dal Bergk, cer-

aneto Orazio ha sostituito la rosa, che è per

Eomani il fiore del convito (cfr. Hehx, Eulturpflanzen^ 255 sg.), come mostra anche l'ode ultima del primo libro mìtte sectari rosa quo locorum sera moretur, ha schivato di descrivere il modo come si i

,

sarebbe fatto versare addosso

l'

unguento, certo perchè

gli

spiaceva

minuta di un' azione molle. Ma gli unguenta, così rari in lui, fan pur pensare ch'egli derivi qui da Alceo. Nimuiin brevis res, come a me pare, romano, che flores è già di nuovo ellenistico non sarà plurale né vorrà dire generalmente le circostanze, ma si dovrà la descrizione

;

intendere nel senso concreto di patrimonio, ricchezza sei ricco e

godi, finché

:

giovane e la Parca te lo concede. Le strofe seguenti sino

alla fine sono di tati dal poeta

nuovo specificamente romane, romani

ma

posseduti dal ricco Dellio

la casa in città e la villa sul

Tevere

;

i

romano

non invenmontani e

lo spettro dell' erede,

che l'obbligo morale, che ognuno ha, di trasmettere

ma non

e

bei pascoli

il

capitale, usu-

mi pare rispecchi l'ordinamento gentilizio di Roma, che esige che la ricchezza rimanga nella stirpe. Anche ìnfima de plebe pare schiettamente romano. L' identità del motivo tra omnes eodem cogimur, omnium versatur urna seritis ocius sors exitura e la quarta strofa dell'ode romana III, 1 aequa lege Nefruito

intaccato, intero a chi vien dopo,



105



per passar subito a cantare romanamente sentimenti ignoti all'età del

Lesbio

;

o anche,

ma

raramente, ha composto

su argomenti cantati già da Alceo carmi di tal fatta che ricordassero al lettore dotto la poesia corrispondente,

non

però simile, del poeta antico, Orazio ha preso spunti non

da Alceo ma, coni' è noto, anche da Anacreonte ha scritto, non soltanto da vecchio, carmi che nello stile vogliono arieggiare Pindaro e che portano in fronte come motto la traduzione di sentenze del vate tebano ha inserito ai suoi carmi parole celebri di Ennio. Pure uè antichi ne moderni lo dicono imitatore di Anacreonte, di solo

;

;

Pindaro,

di

Bacchilide,

maggior parte sere anteriori

di

Ennio.

Ha

rielaborato

nella

non possono esall'ellenismo; eppure nessuno lo chiama delle poesie motivi che

seguace e continuatore della poesia

ellenistica, o dei con-

tinuatori romani della poesia ellenistica, dei vswxepoc. scritto su

Ha

argomenti romani odi romane, in cui né un

pensiero né un sentimento né un'espressione potrebbero essere stati pensati, sentiti, espressi in tal modo se non da un cittadino romano dell'età di Augusto; nessuno lo vanta poeta originale. Come si spiega questa parzialità di giudizio ?

Ne ha si

forse colpa

l'

interpretazione poco precisa che

suol dare dei passi di Orazio nei quali egli parla del-

omne capax movel urna nomen fornisce ima riprova. Dunque una reminiscenza da Alceo in un carme Anche la peuultinia che vuole e riesce bene ad essere moderno. strofa dell'ode per il ritorno di Augusto dio et argutae properet Seae. rae murreum nodo cohibere criuem vuol forse richiamare Alceo 4(5 xéXop,a£ Ttva xòv x°'P^-'''c* Mévwva xdXsooat, ai XP^Ì oi)[i7ioaiag èn' òvaatv £|Jioi YeyévyjaO-ai. Ma Alceo non ha certo aggiunto »i per invisum mora ianiiorem fiet, abito, che la pazienza non fu certo la virtìi principale di cavalieri le8l>ii, e quel che segue non può essere stato sentito e detto eesaitas aortitur insignis et imos,

forse



da

altri

che da Orazio.

i

— l'arte Il

vale

sua;

pena

la

più importante e

primo

lil)ro.

Orazio

di

accuratamente.

ponderarli

più chiaro è nell'epistola 19 del

il

si

^

106

lamenta degli imitatori

e in

primo

luogo di coloro che lo avevano preso troppo alla lettera: dal giorno ch'egli aveva condannato un genere di arte che sapesse più di acqua che di vino, poetucoli romani avevano preso a inebriarsi giorno e notte. Dal deridere lo scimmiottamento di esteriorità di nessun valore i

Orazio passa a poco a poco a dileggiare la pedissequa imitazione letteraria: rupif larbitam Timagenis aemula lingua, « larbita, per volere superare

cioè

:

zie,

cui

decipit

non era nato, rovinò

exemplar

vitiis

Timagene

se stesso »

cioè

imifabile,

ammirano

:

(1).

nelle face-

E

più oltre

un esemplare

« di

che è naturale saltino più facilmente agli occhi, ed imitano quequodsi pallereni casti, biberent sti ». L'esempio aggiunto exsangue cumìnum mostra che Orazio, ancorché enunci la

degno d'imitazione

essi

solo

i

difetti,

:

massima tori si

in

modo

generale, pensa a se stesso

gli imita-

:

studiano di riprodurre quelle peculiarità dell'arte

sua delle quali egli

si

è

ormai spogliato,

le

quali

egli

pems, ut mihi saepe bilem, saepe iocum vestri movere tumuUus; l'operosità incomposta degli imitatori, dei suoi imitatori gli mette addosso un po' rabbia, un po' voglia di ridere. Chiunque legga ora condanna:

o

imitatores, servom

queste parole, intende subito che seguiranno versi nei quali il poeta contrapporrà l'originalità propria alla servilità degli imitatori; e infatti

vacuom

viene appresso:

posili vestigia princeps, non aliena

qid sibi fidet, diix reget examen.

meo

libera

pressi

per

pede

;

Con queste parole Orazio

rivendica a se stesso l'originalità piena, cosicché esse non

(1)

Nou

che fingono

si

di

devono prendere sul

serio autoscliediasmi di scoliasti,

sapere che, per imitare Timagene, larbita, a furia di

sbraitare, scoppiò.



107



potrebbero in alcun modo conciliare con la confessione suoi imiche il poeta dipenda da modelli greci, come tatori da un modello latino. La costruzione stessa del si

i

periodo seguente Parios ego lìrimum iambos ostendi Latio, numeros animosque secutns Archilochi, non res et agenda

Lycamhen mostra che anche nella mente del poeta ho introdotto per primo nella poesia latina i ritmi di Archiloco, e ho cercato di riprodurre il tono del poeta Parlo ma ho scelto tutt'altri argomenti ». Poiché non vi sarebbe ragione di dubitare della veracità di Orazio, anche se non ne avessimo le prove, si potrebbe ricavare da queste parole che egli, come per il primo (che gli esperimenti isolati di Catullo non contano) ha ripristinato in luogo del senario, adattamento geniale di un ritmo greco alle leggi di accentazione e alla melodia caratteristica della lingua latina, il trimetro ionico originario, dando ad esso colore schiettamente archilocheo, non tragico o comico, così

verba

la proposizione ultima è la più importante. « Io

;

pure

non

si

sia studiato di riprodurre in

lo stile, di

di questo

Archiloco, ed abbia

al

generale

il

tono,

ma

più preso dai giambi

qualche spunto, senza seguir mai ne per intero

ne da vicino un carme determinato. Pure una conferma non sarà inutile la porge il ritrovamento di un epodo :

nuovo

di

Archiloco

Orazio nell'epodo di Archiloco, dello,

ma

riducendo

dell'odio contro

in

un papiro

X abbia



preso

le

mostrando come mosse da una poesia

(1),

abbia trasformato del tutto l'espressione

il

suo mo-

appassionata ed ingenua

un amico, che Archiloco, poiché ha

tra-

dito la santità dell'amicizia, vuol vedere naufrago e schiavo

un propemptico in tutta regola per un nemico letterario, dove non manca neppure la promessa consueta di un sacrifìcio alle Tempeste, se non

di barbari Traci, a

1)

lierliner Sitzu)if}»berichte,

1899, 857 spg.

— già lo salvino,

ma

ha mutato ogni sce quasi più

riodare

Leo

e

lo

lo

108

mandino

particolare,



— in

egli riproduce di

;

ma

stile

solo

il

poeta romano non si riconoArchiloco non già il pemalora.

che

Il

la poesia

tono generale, animos.

Il

ha tentato con buon successo la prova anche per quelli epodi, per cui o non sono conservati riscontri si hanno solo in frammenti, e ha dimostrato che Orazio ha anche preso l' idea dell'epodo II da Archiloco (fr. 25) ma che ha mutato il metro, sostituito al falegname Charon la figura caratteristica dell' usuraio, trasformato le lodi dell'agiatezza modesta nell'elogio della vita campagnola; che insomma svolge motivi quali non poterono venire in mente ad alcuno prima che si formassero città veramente grandi, prima cioè del periodo ellenistico. Parimenti l'epodo VI contiene sì un richiamo a un vanto archilocheo sv S' ÌTiirjxo!.\i.ca (jLsya, xòv Vwaxw? jxs òpwvxa (Ij

Sévvoc? (2) àvxoL^ti^zod-aLi xoLxolq (fr. 65),

ma

nel resto le mi-

nacce contro gli obirectatores non hanno di la poesia del Pario altro

che

la la^^ixri

lòéoc

comune con e

;

così gli

epodi VII, IX, XVI, pur riproducendo la situazione, con-

come

sueta al più antico giambo del

poeta che, oratore o araldo,

alla più antica elegia, si

presenta a parlare

dinanzi al suo popolo, sono tuttavia poesie romane, derne,

imitazione. e più

in

originali,

E

cui

chiaro è anche che negli epodi XIII e

XI neppure

ancora nell'epodo

ma

che

mo-

nessun particolare è frutto la

ca|jLi3i>c7j

di

XIV

'Mfx,

è

forma stilistica, in contrasto singolare e bello con la forma metrica, eh' è ancora per metà giambica, sono prettamente conservata,

gli

argomenti,

il

tono e

la

lirici (3).

(1)

De Horatio

(2)

E

et

strano che

ArcMlocho ci aia

dente della parola corrotta (3) Il

Leo

,

Gottinger

Programm

1900.

ancora chi ricusi questa emendazione evidiivoìg.

dice, troppo ristrettamente, elegiaci.

-

109



è non solo seciitus arte della sua anche equo estimatore sincero .... non res et agentia verba Lycamhen ricordano, ne la coincidenza sarà fortuita, la dichiarazione che Callimaco mette in bocca al suo Ipponatte redivivo nel proemio

Dobbiamo dunque riconoscere che Orazio

ma

:

dei coliambi ÒLziùovxoi.

lunghi

« Io

:

torno al

Bo'jTTaÀs'.ov

xTjV

tratti

(fr.

mondo

cpépoy^ Ta|ji^Jov



\i^ót:/r^'^

Ora dopo la scoperta un papiro di Ossirinco

90).

dei coliambi in

di (1)

possiamo far la riprova e scorger con gli occhi nostri che Callimaco ha di Ipponatte la forma metrica, non altro, non lo spìrito che Orazio riconosce di avere da Archiloco, numeros animosque.

Orazio dunque contrappone se agli imitatori e si vanta di essere stato originale, poiché di Archiloco

a voce alta

ha

solo lo spirito e la

forma metrica. Segue ac ne me quod timui mutare modos et car:

foliis ideo hreviorihus ornes,

minis artem

temperat Archilochi

:

musam

jjede

mascida Sap-

pho, temperat Alcaeus, sed rebus et ordine dispar, nec soce-

rum

quaerit

quem

famoso Carmine

versibus oblinat afris, nec sponsae

nectit.

La

laqueum

dottrina esposta in questi versi,

non facile (2), va messa in rilievo maggiore che generalmente non si soglia. Con queste parole Orazio, checché ne dicano gli interpreti, fa fronte alla teoria comune già nelle scuole (3) al tempo di Aristotele e da questo acerbamente combattuta nella Poetica (1447 b y sgg.), secondo la quale il genere letterario è determinato dalla forma esterna, in ispecie ritmica. nei particolari d' intendimento

(1)

Oxyrh. Pap., VII, n. 1011.

Il

fr.

90 ricoiupare nei versi testé

scoperti. (2) Salto è,

secondo me, detta pede mascula, appunto perchè ha

attinto ad Archiloco ritmi tutt* altro che femminili. (3)

che, p. e.

Non

com'è

c'è ragione di credere che Orazio ahl»ia letto la Poetica, noto, è stata nell'antichità molto meno' ])opolare clie

la Retorica.

non



Ilo

Orazio non

un

riconosce a

criterio

valore ed asserisce l'originalità

bene conceda che

di

così

alcun

esterno

Saffo e Alceo,

seb-

dipendono da Archiloco quanto ai ritmi (1). Così ritoglie in certo modo con la sinistra quel che aveva dato con la destra: di Archiloco egli ha gli

e

spiriti

i

essi

ma

ritmi,

l'originalità, tant'è

i

ritmi

non importano nulla

al-

vero che nessuno sosterrebbe imita-

tori Alceo e Saffo, i quali pure hanno preso i loro ritmi da Archiloco. Continua con htinc ego, non alio dictum prius ore, La-

immemorata ferentem ingenuis dove volgavi non può significare « tradussi », come non lo significa mai nella lingua latina dei buoni tempi, ma solo « resi noto, più noto ». Orazio rese Alceo popolare, scrivendo carmi che lo richiamavano alla memoria; già la pubblicazione stessa tinus

volgavi

fidicen

;

iuvat

ocidisque legi manihusque teneri

;

meliche latine doveva invogliare

di poesie

sfogliare

carmi

i

di

Alceo, ai

quali

somigliava nei ritmi, in alcuni spunti d'ora, nello

a

^[^rpic,

stile.

anzi

;

i

a

lettori

poeta nuovo

il

e,

diciamolo

Orazio non accenna qui in alcun

ri-

rasfin

modo

contemporaneo, che giungeva a questi

il

versi fresco della lettura del passo su Archiloco, doveva,

non messo

sull'avviso,

necessariamente

intendere

che

Orazio era originale rispetto ad Alceo come di fronte ad

Archiloco

e le parole

;

che vengono subito dopo, imme-

morata ferentem, non potevano se non confermarlo in que-

intende

(1) Egli

Heinze, che

i

Lesbii

senza dubbio, come spiegano bene Kiesslinghanno preso dai giambi e dai trochei di Archi-

loco gli elementi costitutivi della strofa alcaica e safQca, e sulla teoria varroniana,

consueta di ordine, quale e vuota

;

su cui v. sopra p. si

29.

fonda

mi pare troppo vaga

legge nei commenti,

io interpreterei rebus et ordine peduin

si

L' interpretazione

:

Alceo è diverso da

Archiloco negli argomenti e nella disposizione degli elementi ritmici

comuni ad esso con

lui.

sta interpretazione.

non

ego,

E

didum

alio

Ili

-

giacche tutta la proposizione hunc

prius ore, Latinus volgavi fidicen fa

perfetto riscontro a Parios ego

primum

ionibos ostendi Latio,

giacché anche nei versi su Archiloco Orazio aveva concesso di derivare da esso quanto ai ritmi,

dere che

le

parole

dobbiamo

cre-

che anche qui confessano in certo

modo una dipendenza, si riferiscano ai ritrai. Orazio dicit Alcaeum, non alio didum prius ore, perchè ne riproduce i

non per

ritrai,

poesia la parte

E

altro.

poiché

lettore antico,

il

nella

concludererao noi

più iraportante, egli,

corae avrà concluso

non sono

ritrai

i

sente pienamente

si

originale.

Che

il

metro non

per

sia

Orazio ribadisce nell'ode 32

Latinum,

barhite,

non istrumento,

se

lui

primo

del

Carmen Lesbio primum

libro

:

age

modulate dvi.

die,

Al-

ceo ha per primo intonato raelodie sue su quelle stesse

corde eolie sulle quali Orazio suona ora canzoni romane lesbia è la cetra, cioè lesbio

il

cpwvàsaaa

Non

metro,

il

ma

roraano

principio ispirato a Saffo 45 àye ^(ho'.o,

ma

dissimile è

roraani il

vanto

i

5r]

canto

il

-/ìa'j

olà

;

(l); \io'.

sensi. di originalità nell'ode

ultima

prima raccolta gloria di Orazio è princeps Aeolium Carmen ad Italos deduxisse modos. La parola deducere può significare o detorquere o pungere, o derivare o comporre; della

:

passo dipende dal significato di

la retta intelligenza del

A

prima vista

aspetterebbe piuttosto Aeolios modos ad Italum deduxisse Carmen, « aver ridotto a poesia

modos.

italica ritrai eolii »,

«

si

avere rivestito

di

ritrai

eolici

una

poesia latina»; e quasi fosse scritto

così, interpreta la

Ma

Orazio ha scritto e

maggior parte

(1) al testo

.310»;

L'ode assai

dei commentatori.

ò del resto sia

controversa

quanto all'interpretazione sia (luauto Wh.amowitz, Sappho n. Siinonides,

(cfr.

Rkitzknstein, Uh. Mns. LXVIII, 1913,

L'5l

sgg.).

— voluto altrimenti

:

di nmneri,

pecles

-

112

modi non è dunque qui sinonimo di non indica il metro o il ritmo, come

pure altra volta in Orazio

(I),

ma

Non

prio di melodia o modulazione. bia,

già che Orazio ab-

a essere cantate e

in generale, destinato le sue odi

abbia musicate egli stesso

le

sta nel senso più pro-

(2);

ma

giacché ogni lingua

ha la sua modulazione, la sua melodia particolare, così, carmi latini di Orazio pur rimanendo eolio il ritmo, i

suonano ben differentemente dalle liriche di Alceo. modi sono dunque

vanta dunque

melodie latine, suoni

«

aver composto

latini ».

Itali

Orazio

meloanche questa volta di non dipendere da Alceo se non nel ritmo e rivendica a se

si

di

in ritmi eolici

die latine, asserisce cioè

stesso l'originalità

A

(8).

giudicare più precisamente quale sia

tra Orazio e Alceo, della

la relazione

quale sappiamo solo che non

a determinare qual

nome secondo Orazio

fu

[j,c[xrjat?,

le

spettasse, giova, più che le disquisizioni teoretiche o

i

vani/i del poeta,

un passo

dell' epistola

stesso

a Floro, nel quale

argutamente e anzi un po' malignamente il modo di agire con lui di un emulo non benevolo (epist. II, 2, 87 sgg.). « Qui a Roma, un tempo due fratelli, egli tratteggia

giureconsulto l'uno, retore darsi

l'altro, si

a vicenda lodi smaccate,

(1) Epist.,

I,

3, 12, fidibusne latinis



erano accordati per

da uguagliarsi

l'

un

Thebanos aptare inodos studetì

« tenta di adattare alla poesia latina ritmi pindarici? »

;

epist.,

I,

19,

27, nel passo trattato dianzi, quod tinud mutare modos et carminis artem, « che sono rimasto fedele ai ritmi e al tono di Archiloco ». (2) Solo il

cantato

:

e

il

carme secolare fu evidentemente

passo nupta iam dice»

:

'

ego

dis

per essere

scritto

aniicnm

saeculo fesias

modorum vatis Horati (e. IV, 6, 41 sgg.) induce a credere che Orazio ahbia composto egli stesso la musica.

referente luces reddidi carmen, docili»

(3)

Poiché

« ridurre ritmi a

'

melodie » sarebbe concetto assurdo,

deduxisse è usato qui nel senso di aver composto.

I

— l'altro a si

Gracco

sottraggono

mento essere

e a



113

Muzio Scevola;

neppure

così

alla pazzia delle società di

i

poeti

mutuo incensa-

La storiella dei due fratelli ha tutta l'aria meno vera che il fatterello toccato al poeta, ».

di

non

di cui

avranno riconosciuto quei due altrettanto facilmente quanto l'emulo di Orazio: carmina compono, hic elegos: mirabile visu singolare rilievo, che il caelatumque novem Musis opus Orazio si compiace un po' ironicamente di dare alla finitezza del lavoro, fa subito pensare a un imitatore o a un questi

si

appresta subito

a

parlare

e

;

i

lettori

;

continuatore della poesia ellenistica, a un Alessandrino

osservanza stretta. Segue la descrizione del singoiar certame, a cui i due erano scesi in una sala di declamadi

zioni.

L'uno e

recitano le loro poesie

l'altro

cum spectemus vacuam Romanis

adspice primiim quanto

(v.

92 sgg.):

fasfu, quanto molimine circum-

vatibus

aedem

;

mox

etiam,

si

forte vacas, sequere et procul audi, quid ferat et quare sibi

nectat uterque coronam.

mimus hostem v. 93, tutto

lento

caedimur

et

totidem plagis consu-

Samnites ad lumina ptrima duello.

formato com' è

di

Il

spondei tranne nel quinto

ha suono davvero gladiatorio il dispondeo di cirdue versi, e il pesante vacuam Romanis accrescono ancora l' impressione di mole schiacciante. I leggieri dattili del v. 95 mox etiam, si forte vacas, sequere et procul audi esprimono bene la curiosità premurosa dello spettatore; e il ritmo grave di lento Samnites, la forma arcaica duello ridanno solennità alla chiusa. Chi legge, s'aspetta che un duello di tal genere non possa finire se non con la distruzione di uno degli avversari. Segue invece discedo Alcaeus puncto illitis, ille meo quis? quis nisi Callimachus? Il duello non era se non una finta, che doveva fornire occasione al riconoscimento vicendevole dei meriti dei due poeti contendenti. Il lettore ripensa necessariamente, non senza un sorriso, ai due piede,

;

cmnspedemus, diviso così tra

8

i

— fratelli

cipio.

compari

i

:



erano messi

Orazio è

lirico

Il

si

114

il

di accordo sin da prinsecondo Alceo; l'altro un Cal-

limaco redivivo. Chi può aspirare perzio

(1),

egli

si

nome

non Pro-

se

Mani

di

Filita e di

contenta del vanto

di

aver rinnovato l'elegia

timenti, l'adoratore



al

l'alessandrinissimo cesellatore di versi e di sen-

ma

alessandrina,

dei

vuole avere risuscitato

Callimaco?

la ionica, essere

un Mimnermo redivivo si plus adposcere visus, fit Mimnermns et optivo cognomine crescit. Orazio però, pronto di buon :

grado a sobbarcarsi a qualsiasi fatica nello scrivere pur di tenersi buona la genia irascibile dei poeti (la botta va diritta a colpire la sensibilità eccessiva di Properzio), non si rassegna poi a subire con volto sorridente letture di versi freddi e a piaggiare

Di tutto

il

il

versaiuolo declamatore.

passo importa a noi principalmente che

collega di Orazio, pur di essere riconosciuto

il

quale Cal-

limaco e

Mimnermo

nome come

Alceo; importa Voptivnm cognomen, che mostra nome di qualche an-

di

novello, concede a lui senz'altro

il

poeti aspirassero allora al

i

tico, aspirassero cioè

a soppiantarlo.

non

Properzio,

a imitarlo

ma

a pareggiarlo e

grande ammiratore

di

Calli-

maco, non l'ha imitato se non nel lavoro sottile dello stile, che quegli non ha mai cantato il suo amore in elegie (2) eppure, se crediamo ad Orazio, volle essere un se;

condo Callimaco. Quest'uso o questo programma poetico è già ellenistico, già callimacheo

:

Callimaco in principio di

coliambi, che di Ipponatte non hanno ne le res né gli animi, finge se stesso Ipponatte redivivo (3); il proemio

(1)

Che Orazio

si

faccia qui beffe di Properzio, è stato osservato

già da gran tempo, ed è anzi ormai l'iaterpretazione corrente. dimostrato che (2) Lo Jacoby {Rh. Mus., LX, 1905, 38 sgg.) ha nessun poeta ellenistico ha mai composto elegie sui propri amori. quale si mostra nel (3) Un Epicarmo convertito alla concisione,

papiro di Hibeh

(cfr.

ora Cronert, Rerm., XLVII, 1912, 102) è

tilt-

— come

degli Altea narra

vero

poeta

al

sulle pendici dell'Elicona appar-

Muse,

le

-

115

pronte a rispondere

domande intorno alle come un giorno avevano sue

«

cause

»

vello Esiodo

;

le

42), così

rivelato la loro sapienza al pa-

Esiodo. Callimaco rivendica a sé

store

a tutte

(AP. VII,

vanto

il

di

eppure, giacché scrive in metro e in

no-

istile

diverso, non si può dire che abbia preso dall'antico se non qualche glossa e il xpÓKoq, nel senso generalissimo nel quale questa parola è posta nell'epigramma, cui Calli-

maco 5ou

stesso



compose

in lode del

àzio\ia yj£: b tpórco?.

t'

Ma

poema

Arato

di

'Haió-

:

Arato, pur essendo più

non Callimaco, quanto non se ne 1' uno e l'altro poemi didasca(che Callimaco, col narrare di sé stesso una visione

simile ad Esiodo che

discostai Pure, scrivendo lici

simile a quella esiodea, dichiara gli Altea lico),

poema

didasca-

vollero l'uno e l'altro eguagliare Esiodo. Callimaco

procede anzi un passo più in

là e asserisce

che Arato è

più dilettoso a leggersi che non Esiodo stesso, che è cioè

non

solo

Sou tó JAY]

t'

un Esiodo nuovo

ma un

àeca|ia xal ó zgÒTZoc,



'Haeó-

:

òy.^é(ù

xò [leXr/pótatov tòjv sTréwv ó IioXz^jq àTiejià^axo.

Orazio attesta dunque qui era diffuso al suo scussi, gli

Esiodo migliorato

où tòv àotoov £a)(atov, àXX'

mostra

tempo

Ennio, come

;

che questo ideale di arte che abbiamo già di-

in passi

di seguirlo egli

Alessandrini? Porse

antichi.

;

più

dicono

stesso. Imita

certamente i

critici,

e

i

egli

in

ciò

Romani più come Orazio

quantunque con un po' di mala grazia, fu già un alter Homerus (epist. II, 1, 50). E infatti Ennio stesso nel primo libro degli Annali aveva cantato come, cupa ombra piangente, il vecchio Omero gli era apparso in sogno per rivelargli che nel petto di lui era passata stesso riconosce,

t'

altra cosa: qui

cui compila.

il

compilatore scompare dietro

ai

poeta antico da

-

116

-

l'anima sua e per comunicargli

la

sapienza più riposta.

da Omero non già quale imiseguace, ma quale pari o successore, non già tatore quale Omeride ma quale Omero novello e proclama a

Ennio

si

fa riconoscere qui

;

un tempo ad alta voce che la poesia, che la letteratura romana non traduce o imita, ma continua e sostituisce quella greca (1). Ennio proclama se stesso Omero rinato in un sogno che fonde insieme la visione di Esiodo e .

quella

Callimaco,

di

così

come

il

suo

poema

è per lo

altrettanto ellenistico quanto omerico, così come sua in genere non torna in dietro di secoli e se-

meno l'arte

ma

quanto di nuovo avevano portato gli anche più recenti, mostrandosi così non imiAlessandrini coli,

profitta di

vera continuatrice dell'arte greca. E forse omerico, non alessandrino il sogno di Ilia? è omerica, non schiettamente romana la figura dell'amico di Serviho Ge-

tatrice

mino

?

ma

Romana

è la figura qual' Ennio la tratteggia,

ellenistico l'uso di inserire

un

ritratto

minuto

di

un

ma

per-

sonaggio secondario in un poema epico. Parimenti Orazio, dicendo se Archiloco nuovo ed Alceo nuovo, ripete un

vanto che fu già dei poeti Alessandrini, ma ripensa al vecchio Ennio, che fu nuovo Omero; mettendo se alla pari dei grandi poeti greci, rivendica

poesia

romana

il

a se

stesso nella

suo posto accanto all'archegeta; asseren-

dosi eguale dei Greci, segue la tradizione dei più grandi

Romani. In

poeti

solo a Ennio,

ma

ciò egli è più vicino agli antichi, al

che non a Catullo, il tamina senza grande (1)

mana d.

non

vecchio Plauto, che non ai veóxspot, quale, quando imita, traduce o conabilità

(2).

Della relazione tra Ennio e Omero, la poesia greca e la ro-

discorre finemente a proposito di questo sogno Fr. Leo, Gesch.

rom. Ut.,

I,

164 sgg.

carme 64, come dimostrerò maldestra di due modelli differenti. (2) Il

jìresto altrove, è

contaminazione

Nonostante

gli

sdegni e

tre contro certa rozzezza

mana essa

117

— dispregi di esteta, che nu-

i

vigorosa della letteratura ro-

primitiva, Orazio è per certi rispetti più vicino ad

che non

grandi Greci

ai

poeti

come Catullo

legato

dell'età

augustea

fronte ai

di

:

come Plauto ed Ennio, non

sente libero

si

e Calvo, la cui arte egli

del resto

sembra considerare superata e antiquata simius iste nil praeter Calvum et doctus cantare Catnllum. Anche in ciò Orazio si rivela figlio genuino dell'età augustea, che nella religione, nelle istituzioni politiche, nei costumi sempre :

volle e spesso

seppe

rifarsi alle

liche, oscuratesi negli ultimi

Plauto erano

e più

liberi

antiche tradizioni ita-

tempi della repubblica. Ennio nel

trattare

i

modelli

greci,

perchè non erano vincolati dalla scienza filologica come

ha a volte nel tradurre e nell' imitare scrugrammatico ma la grammatica, che ha nei suoi principi inceppato i vewxspot, ha pure liberato Orazio da Catullo, che

poli di

;

preconcetti: questi sa che altro è

compito del tradut-

il

tore e dell' imitatore, altro quello del poeta.

Quest'aspirazione a divenir l'eguale di un poeta antico era ai tempi di Orazio diffusissima; Properzio di il

aver bevuto

al fonte

ma

padre Ennio,

Eliconio, a cui

si

(III, 3)

era dissetato

aver tentato indarno

di

Roma, che Apollo ne

narra

di

cantare

aveva dissuaso e Calliope gli aveva spruzzato il viso con acqua Filitea. Anche qui dunque le sue ambizioni sono solennemente riconosciute, sono consacrate, e non più da Filita stesso, cui pure egli venera (1), ma dalla Musa. Chi dubiti ch'egli si asserisca originale, non ha che a leggere nell'elegia

le glorie di

(1)

quaeso,

III,

me

1,

1,

CaUimachi manes

sinite ire

nemuK

;

1

quoce pede ingressi

Coi

sacra

Philiiae,

in

restrum,

lìrimus ego ingndior puro de fonte saccrdos

Itala per Graios orgia ferre chorox in antro

et

lo

ì

;

dicite

quamre

quo paritrr carmeii

bihisiis

aquam'i

teiiuastit

— che è

prima del HI

la

118

libro

:

— opus hoc de monte sororum

1, 17) (1), Chi non avvede che l'acciiia Filitea lo rende pari degli alessandrini, non ha che a rileggere l'elegia a Mecenate III, 9, 43 Inter Callimachi sat erit placnisse lihellos et cecinisse modis, Coe poeta, tids. Callimaco è il maggiore, non il minore chi è degno di stargli a fianco, è anche un pari

nostra

detulit intacta jMf/tna

via (III,

si

;

di Filita

«

:

ara Philitaeis

certet

naeas urna ministret aguas

descrivendo

il

Romana

conjmbis

Cyre-

et

scrive egli stesso (IV, 6, 3) simbolico sacrifizio del vate. Non è un pa»,

reggiarsi di professo a Callimaco e incidentalmente anche

ad Esiodo, ad Omero, a Ennio lo scrivere « se io potessi comporre carmi epici, non canterei né la Titanomachia né Tebe né Troia ne le vicende antiche di Roma, :

ma

la

tua gesta. Augusto. Purtroppo l'epopea non con-

viene alla mia arte

sottile

;

mea

pectore Callimachus,

conveniunt duro praecordia versu Caesaris

condere nomen avos »

(II,

1,

En-

sed neque Phlegraeos lovis

celadique tnmulfus intonet angìisto

E

39)?

i?i

nec

Phrygios

l'ambizione sua di

ri-

valeggiare con un antico, senz' imitarlo, almeno nel senso,

consueto

(1)

di

Anche

nimento che più alto. In iibistia jìlica si

i

questa parola

qui,

(2),

come nei due carmi

è collocato apjjresso, III,

1

aquam ? In due grandi

era ambizione di mille altri.

dionisiaci di Orazio,

il

compo-

Properzio chiede ancora agli alessandrini quamve III, 3

beve egli stesso

ai

due

fonti. In III, 1 sup-

di lasciarlo entrare nel bosco a essi sacro.

fa consigliare e guidare da Apollo, consacrare

spruzzare a uno

il

pare indicare un' iniziazione di grado

viso di

acqua santa dev'essere

ma

In

III, 3

da una Musa. Lo

rito preso dai misteri.

un Linceo (il nome immaginaria fors'anche la persona) « né dialoghi platonici né carmi omerici giovano nell'amore: iu satius memorem Musis imUere FhiUlam et non inflati somnia Callimachi (II, 34, 31) ». Giacché narrazioni di sogni misteriosi non sogliono piegare fanciulle (2)

Properzio scrive non di se stesso

è certamente fìnto,

ritrose, bisogna intendere

di

:

:

« Solo elegie

aiutano in amore

».

-

119



Properzio scrive a un Pontico che lavorava a una Tebaide (I, 7, 3) ita sim felix, primo contendis Homero, sint modo fata tuis mollia carminibus. Questo passo basterebbe da solo a confermar vero ciò che abbiamo ricavato da Orazio, che come ambizioni così complimenti di tal fatta erano comuni tra i letterati del tempo. Properzio stesso, l'alessandrino, scrive di Virgilio con ammirazione sincera ch'egli non solo pareggia ma supera Omero (II, cedite Romani scriptores, cedite Grai nescio quid 34, 65) maius nascitur Iliade. Che Virgilio segue tutt' altre regole :

:

tutt' altri ideali di arte che non Omero, ha primo forse tra i moderni, e dimostrato benissimo Riccardo Heinze in un libro omai celebre; ne sarà sfuggito a Properzio che Virgilio, come Ennio e come Orazio, non solo rinnova in certo modo la poesia greca antica

e persegue scorto,

ma

continua quella ellenistica. Ch'egli

valeggiare con Omero, mostra già

il

abbia voluto

ri-

modo come ha con-

libri non solo l'Iliade ma anche l'Oromana: ne l'una ne l'altra potevano mancare nel suo poema, di cui tuttavia doveva essere pregio princi-

densato in dodici

dissea

pale la stringatezza, la concisione insegnata nelle scuole ellenistiche di poetica (1).

Come

si

chiama

nelle

lingue

colui che vuole porre a fianco opera nuova di bellezza pari,

antiche

Fattività

di

di

un'opera classica una

si

che la vicinanza del

modello, eccitando al confronto, renda più evidenti

i

pregi

moderpa ? In greco si chiama non ^l[xrp:;. ma CfjXo^, in latino non imitatio ma aemulatio. Pure Orazio, che loda SI una volta V imitatio di singoli pregi dei più antichi comici (s. I, 10, 17), non mai quella di un autore tutt' intero, che chiama imitator colui che riproduce servilmente di quella

(1)

di

La

emulare

S'^coiula aofistioa, gli

antichi,

si

elio

pur

si

contenta poi

prefigge di

anch'essa a parole

imitarli

pedissequamente.

modelli

non già

illustri (l),



ì-iu

l'artista

che penetra della sua

potenza creatrice e rivivifica materia già trattata e foggiata sia i)ure da mille altri, Orazio sembra evitare di termini aemulari e proposito di applicare all'arte sua solo una volta si arrischia a scrivere (e. IV, aemulatio i

;

Pindarum

2, 1)

sV^oOv, che,

dove aemulari sta mentre porta a rovina

rivaleggiare con

Pindaro, l'imitarlo in

quisquis studet aemulari;

appunto nel senso sicura

il

voler

di

modo

certa misura e in certo

come

è lecito,

infatti

Orazio

pindarico appunto in quell'ode

stesso imita lo stile

(2),

Perchè mai tanto ritegno nell'uso di questa parola? Il perchè, ce lo mostrano forse altri passi nei quali Orazio adopra aemulus, discorrendo di tutt' altro che di letteratura aemula nec virtus Capuae (epod. XVI, 5), riijnt lar:

bitam

Timagenis aemula lingua

(epist.

Roma, Timagene ischerzi di buono e

era la nemica di

concorrenza

in

animo non certo amichevole

I,

di

anche

;

19,

e larbita

15).

Capua

facevano

si

cattivo gusto con

la tibia tubae

aemula

dell'Arte Poetica (v. 202) fa concorrenza sleale all'istrumento per natura sua più sonoro: aemulus ha in Orazio,

come anche ostile,

in

che non

scrittori

altri

un non

latini,

osserva così spesso in

si

so che di

Ricercare

^f^^oc,.

questa differenza non è forse senz'interesso. la causa Per Aristotele lo ^fiXoQ nel senso più generale della di

parola è un

TiàO-og,

giudizio etico,

(1)

hnm

ma

e,

come

tale,

non soggetto

pur tuttavia proprio

A. 131 sgg. puiliea materies privati

in sé

al

che

ri-

di coloro

iuris erit, si



nec verbo ver-

curabis recidere fidiis interpres «ec desilies imitator in artum, unde

pedem proferre ptidor (2) libellos

Un

vetet

aut operis

lex.

concetto di tal genere in Plinio

meos..

.

cum componerem

orationi Bemostliems illos,

v.ot.zà.

;

quam

sane,

habui in manibus, ìion ut aemularer {improbum

enim ac paene furìosum), sed tavien imitarer diversitaa ingeniorum,

Minore, VII, 30, 4 qui

M£i§{o'J confers

maximi

et

et

sequerer,

quantum aut

minimi, aut cansae dissimilitudo paieretur.

tengono

121

— raagnanimi

se stessi capaci di cose grandi, dei

e dell'età

1388 a 32)

magnanima, il

della giovinezza; esso è {Rhet.,

dolore che uno prova scorgendo

tali

II,

che a

lui

sono simili per natura, in possesso di beni degni, che anch' egli potrebbe acquistare, dolore derivato però non dal possederli altri si

ma

dal

non possederli anche

contrappone quindi all'invidia, in quanto

lui

;

e

lo ^yjXwTcxó^

desidera acquistar per se quei beni, l'invido desidera che

non li abbia il prossimo suo. E il senso buono di ^f/.oq non scompare nella filosofia postaristotelica ancora Plutarco in un trattatello morale d'intonazione piuttosto eclettica che stoica, nel quomodo quis suos in virtute profedus setitiat chiama ^f^Xo^ il sentimento di Temistocle, cui i trofei di Milziade non lasciavano dormire in pace la notte; che (84 bc) tutti gli Ateniesi lodavano l'ardore e il valore di Milziade; egli solo, non pago di lodarli e di ammirarli, si studiava emularli (^rjXoOv) e imitarli. E poche righe più sotto egli contrappone l'emulazione non solo all'ammi:

ma all'invidia; che l'emulo onora, ammira, ama il buono, non l'odia (1). Ma già alcuni secoli prima che un moralista eclettico parlasse così, la Stoa più severa aveva dato il bando alle perturbazioni 7ià9-rj quali contrari alla dell'animo, aveva condannato perfezione etica. La lista di proscrizione dei ni.Q'ri, che

razione neghittosa,

i

non manca mai nei manualetti stoici gene VII, in Stobeo II, in Andronico stantemente

lo ^y^loc,,

stesso posto, tra

(1)

il

di (2),

morale, in Dio-

comprende co-

eh' è collocato invariabilmente allo

cpO-óvo?

e la ^YjXoiuTOa. Quello è definito

Al senso buono di ^riko^ rimane fedele la nomenclatura della

scienza letteraria di Dionigi t^uX'^S 'i^P^S O-aùjJLa -coD

vero solo (2) I

:

de im.

1, ir.

3 Us. C^Xó? èaxiv svépysia

Soxoòvcoc slvat xaXoO xivou|iév7)

primo impulso allo ^y,Xoj. passi nei frammenti degli Stoici dell'Arnim,

;

per

quest' è

il

III 391. 112-

1

11.

«

dolore per

beni altrui

i

-

122 »

lo i^y/o; «

:

possieda quei beni che uno non detto « che l'

«

anche

»

definizione,

ha

dolore perdi' Aristotele

v.

altri

aveva

non ha anche lui », e la soppressione delbasta qui a cambiare del tutto il senso della sopprimendo a un tempo stesso quasi ogni

distinzione tra

il

concetto dell'invidia e quello dell'emu-

lazione.

Tutta

la cultura

romana

è sotto

l'

influsso della Stoa,

più particolarmente della Stoa di mezzo. Nessuna mera-

romani arrischino

viglia che gli scrittori

rado di ado-

di

prare in senso buono una parola che già sui banchi della scuola avevano

con

udito

(Tusc, IV, 17) conserva

Romani

colti,

tra

il

che

stoico da lui ridotto agli

^O-óvoc e la

'^r^KovjrJ.ci.

un dipresso

dentia e Vobtrectatio; ne dà a

nizione

Cicerone

V aemulatio allo stesso posto

occupava nel manuale

lo C^jXoS

usi dei

accezione cattiva.

Vinvi-

la stessa defi-

Egli ag-

ch'era tradizionale in quei libriccini.

giunge, è vero, a scarico di coscienza, che aemulatio può

avere anche un senso buono,

di imitatio virtutis;

ma

assai

verisimilmente non la conoscenza sottile della lingua latina d'uso gnificato,

comune

ma

lo induce a registrare quest'altro siun'avvertenza simile nel modello che tra-

duce: anche Stobeo nota

{ed. II,

éxepw; Z%Xoy |xaxapca[x&v sòxXsoO;

92 W.)

lt(t'jb'X'.

(1), xal Iti aXXo);



-/.al

\ii\LrfS'.v (he,

av xpe-'tiovo;;

e Andronico (cap. 2) ha un'aggiunta, che

ma

senza ragione sufficiente, è considerata in-

di solito,

terpolazione per

i

:

r^

Neoattici la virtù letteraria più

impressole dalla Stoa

poteva più godere

(1)

àaxcióir^xo;

^y^Xo; [Jiaxap:a|Jiò;

Così propone

noscritti.

A me

£tov eXa/s;.

ex paaiXf^oc èaO-XoTaxo'j

ovjye^r^v

a'ji)-/][i£pòv

Trucppopéfov oo:

5y^ptc

7i:£|j.'|/a'.g

to^ót: xo'jpr^. "'ApTtjJL:c. xr//

'^7.0 \}7zeXoyoc, wSivojv

àvù

uTisp,

6à TiaiSòg

peiiHiero « (|uesto per ora

;

di più

per una grazia maggiore », è espresso qui con grande delicatezza, certo per riguardo cui

non

si

la formula

non

solo alla dèa

ma

anche alla piccola nata,

vuol dire cbc la nascita è sgradita. In poeti

non nasconde più

il

suo carattere di mercato

Tessalonica (VI 231)

:

meno

clV. p. e. Fi-

TieÀayo'Js

èpp'Joao

itvaooa, XYjX' 'evìyjj, S-uosi XP'^3'^"''--PWV xsjjiaSa; Getnlico

(VI 190)

lippo

1160

di

papuYUiov

dcTtcóoao voùoov,

Cornelio Longo (VI !)oxéovTa /.apixa.

|i'

saó'4'sai



la

5' ihg

a-j,

vouoo'j,

òaì|iov,

TtsvirjV, Scóou) tz'.uabow

Aàjiiv, sì

ci'

mq

'/inu^ow;

poso xaì uevìtj^, xaì lóxs ^cu-

a;ìS'J5oi5 àvxiXcrpeìv xy;v àTi' £|ìs'j

YjV

(VI 238)

formula diviene meno grossolana, quand'^ espressa

come da Agide (VI

generalmente,

5Ó01V



àXXà

iXàaasi; xaì

èy.

In quest' ultimo epigramma un gran signore sembra parlare

A un operaio. più

Iftl) ;

S' thq



ili

valenti

Sé xt [leì^ov eivj

8' èg

ScDpYjOirj

òXiyor^ iXl-^ri

Sattiov, àr.apgó|is9'a.

152) spyouv è^ òXìycuv òXìy'Iv

xwvSe noXuJtXaota o da Apollonido yip'.c,' si Ss SiSoìt^c nXsiGva, xai koXXwv,

xioet

150

Orazio non derivano da epigrammi, se non quando

vocazione

al

una poesia

dio introduce o

l'in-

amore o

d'

la

dedica del dono votivo. Alla medesima conclusione

passando

tra via,

ma

le

in

si

giunge anche per alcarmi oraziani,

rassegna non più

poesie ellenistiche,

ma

i

tipi

i

ellenistici

di

poesia

che avrebbero potuto servir di modello ad Orazio. Mentre epigrammi amorosi di quell'età, se non sostituiscono, per

lo

meno

riflettono liriche perdute, e{)igrammi che pos-

condensati si conservano solo in piccolo numero. Non costituiscono un' eccezione quei moltissimi epigrammi dedicatorii, che finiscono in una preghiera: questo tipo era antico e diffuso, perchè era consentaneo allo

sano

dirsi inni

spirito della religione antitìa

dio

mercede del dono.

E

in

che

il

donatore esigesse dal

questa categoria

annoverare quelle poesie, che, se non sono,

si si

devono fingono

composte per essere scolpite sulla base del simulacro del dio, come, oltre l'epigramma di Theodorida teste citato e più certamente di esso, uno attribuito falsamente a Nosside che ne è una cattiva imitazione, AP VI 273 (1). E un carattere tutto loro hanno anche quei carmi nei quali la preghiera maschera intenzioni o scoptiche, come nell'epigramma di Callimaco AP IX 566, che figura messo in bocca a un poeta drammatico vincitore (2), o erotiche come negli epigrammi di Posidippo AP XII 131, di Asclepiade AP XII 166 e di Dioscuride AP XII 171. Epigrammi che non contengono altro se non la preghiera e nei quali la preghiera è più che veste, non mancano per vero, sebbene i più siano posteriori all'età più veramente classica basti citare Alceo di Messene AP XII 64, An:

(1)

(2)

Su quest'ultimo, più difìusameute altrove. Qui la foruia è per giuuta anche, anatematica

tazioue più ])aiticolareggiata altrove.

:

un' interpie-

— X



151

VI 349, Giulio Polieno IX 7 X 24, Maccio IX 403 (1). Ma nessuno degli epigrammi citati ha quei segni, esterni quanto si vuole, ma che negli inni di Orazio non mancano, si può dire, mai e che li ricollegano, come vedremo meglio tra breve, alla liturgia (2) la ripetizione, il parallelismo, l' anafora in ispecie, che imprime air inno greco il suo stampo particolare, che, discreta ancora nei principi, risuona sempre più penetrante tipatro

e

Alfeo

9,

25,

Filoderao

IX

90,

Crinagora VI 244 e

:

all'

orecchio già nella lirica liturgica del

come ancora

quarto secolo

in quella del più tardo periodo imperiale.

Nes-

epigrammi prepone alla enumerazione delle gesta o degli attributi del dio un tu ripetuto ogniqualvolta si aggiunge la menzione di un'altra àpexrj, com'è di suno

di questi

regola nella lirica greca; Orazio

si

attiene per lo più seve-

ramente a questa, ch'egli evidentemente sente quasi legge



dello stile innologico.

un perdersi

in esteriorità

l'avvertire tale differenza paia :

a6 ripetuto, costringendo a

il

costruire le varie strofe simmetricamente, conferiva all'inno

maestà severa; richiamando

(1) Antifilo

non

perchè tradizionale, la paroletta, memoria, ogni qualvolta risuonava al-

di più,

alla

IX 404

agli dèi del culto

è

un

ma

po' diverso, perchè la preghiera

alle

Non manca invece neppure

(2)

di predicati vari alla divinità,

gramma

di Po.sidippo,

si

rivolge

divine api.

epigrammi l'attribuzioue forma relativa come nell' epi-

in questi

sia in

che abbiamo detto testé piuttosto erotico che

forma participiale come in Alceo, Filonominale come in Antifilo e Maccio. Certo, anche queste forme derivano dalla tradizione inuologica, dal rito (cfr. per le due prime gli esempi raccolti da Nordkn, Aijnoreligioso, e io Alfeo, sia in

demo, Giulio Polieno,

at08

sia in foruui

Theos 168 sgg., 166

Virtfi)

;

ma

citati sotto a p. ir)3,

non

uè la forma

raente propria dell' inno; il

per la terza p.

;

è caratteristico cho

il

parallelismo, l'anafora.

tv, nò,

di

si

«

corno

e.

1'

inno di Aristotele albi

trovi, se

non

negli opigranmii

predicazione » più partioohirsi

dichiaia meglio nel testo,

\:r2

r orecchio,

dava

voleva o

l)revità

sia quella relativa,

un

E

sia

o sostituire

li-

che anche

:

per chi a ogni

introdurre

predicazione

modo non

nessuno

esterno,

criterio

la

nel-

participiale

che pure appartengono propriamente

ghiera canta ex professo di

questa peculiarità alla

a quelli dell' età augustea di

e

r epigramma-preghiera

all'inno,

in

riflettere

hanno luogo sufTìciente per 1' anafora, come ha pure consentito agli epigrammatisti elle-

tre distici

nistici

conformarsi

di

rica alta cui

la

una patina d'antichità. Né d'al-

dica che la brevità stessa dell' epif^ramma

si

impediva

gli

preghiere più consuete e più venerabih',

le

alla poesia quasi

tra parte

^

la

di

potenza,

voglia acchetarsi a

epigrammi-pre-

questi i

pregi del dio, com' è

regola nell' inno greco e nella poesia più veramente Orazio, nessuno esalta le sue

religiosa di

Non

virtutes.

neir inno liturgico ha

le sue radici questa forma letterache pure dell'inno imita qualche movenza, ma, secondo ogni verisimiglianza, nell' elegia. Già il vecchio ria,

Solone aveva incominciato un poemetto jjioauvrjv \ioi

£Ù)(0[JL£V(p

;

che

e

in

distici Mvtq-

in

xal ZtjVÒ? JOXuixtiiou àyÀaà léxva. MoOaa'.

questo principio non

\l:s.p'.òcc.

si

/.ÀOié

debba rav-

visare r invocazione alla Musa, consueta in principio di

ogni carme

dimensioni anche minime, mostra

di

tenuto delle preghiere che seguono oX^ov jxaxàpwv òóxs xal

Tzpòc,

[xc.

iV^v stvac Se yXuxùv wSe

cpiXo^c.

iy^^poloi

Ii)'Ià(o*

ce Tttxpóv. xoìac jxev

7iàv~o)c -jazEpov rp.B'ò

chiede alle dea del canto beni di

canto

;

ne

si

perchè sono

(1)

Che

del poeta »

1

sia

con-

àTiàvxwv àvO-pwTcwv odti Só^av lyziw àya-

alòolGv. xoiGi 5È osivòv tosTv. )(pr^|xata 5' Ljxsipo) [xàv r/£ov,

ot -eTiòLod-oci ox)x

il

-pòc i^ewv

ò'.'/.r^.

àÒfxwc

Solone

tutt' altra sorta

che

riil

ad esse per altra ragione se non protettrici del poeta (1). In nessun epi-

rivolge le

questa

1'

ultima radice della

«

preghiera ellenistica

— gramraa antico, forse

-

153

nessuno anteriore

in

al terzo secolo,

si

trova la preghiera se non quale aggiunta alla dedica

di

un dono votivo. L'epigramma-preghiera non

che

dall'

uso del culto

sia sollevata a

si

stica,

perchè

l'

solo l'epigrafe ritmica,

condensata

ma

composti

nell'

età elleni-

non

del terzo secolo continua

anche, abbreviata, concentrata,

antica elegia.

1'

Di epigrammi-inno, l'

stati

epigramma

Ma

ha luogo.

dignità letteraria, perchè esso nel culto non

epigrammi-preghiera sono

forma

è

poco a poco a

epigrammi ohe serbano

di

del-

inno la ripetizione anaforica, la struttura simmetrica,

non conosco se non pochi esempi

come par

se

;

= Kaib.,

818)

ambedue

tologia,

si

io

tenga conto,

giusto prescinderne, della poesia tarda e non

buona, che è incisa sur una pietra

229

non

(1),

Paro (IG XII

di

posteriori al

5,

due tempo più propriamente carrai dell'An-

forse soltanto

uno la struttura è simmetrica si e anaforme solenni del culto son volte, quasi gio-

ellenistico. Neil' forica,

ma

le

cosamente, a fine frivolo è trasformata

-j'JiJiiJLayc.

xòv

v:cpó[jicVov. K'jTrp:.

rsio

Tiopcp'jpsf;)

XópYts, oCo^i

jJic.

l'

invocazione del dio

amato.

21

K-jTrpt

èjjLè

tòv fp'x/ióv

nccj-Gr/. xòv yj-óoi '^u^^/jV [x£,

di

giocoso

;

K'j-pc.

Naiaxo'j; ipt].

-pò;

òtrsTZÓzi.

lui,

come mezzo scherzoso

Anohe su questo

cpc-

Xt[i£vai;.

poeta sta

il

che, chi avesse letto

epigrammi, sapeva amatore

simbolo del mare anche in Orazio,

(1

KsX-

xòv oùosvl xoO^a XaXeOvxa,

xXu!Ió|i£vov T^eXócYcC, K'JTrpc cpcXop[xiax£ip3c.

per affondare, ha in bocca a di

primo è

cptXóvD[xcp£.

YaXrjvaiT].

Qui già r immagine delle onde, nelle quali suo libro

Il

K'JTipi IIóO-cov (if^isp àsÀXoTióocov. KuTtpt.

TÒv y^^iaTiaaiov ànb xpoxéwv x'.oi

nell'altro

AP X

quello di Filodemo. KÓTTpt òczauov

;

in quella del giovinetto

il

frivolo, qualcosa

a[ipare a noi questo III,

onnin' qiialrhu parolii

26 e

i

-

sacer votiva pnries indicai livida suspendisse potenti vestimenta

maris dea non può esser detto sul serio, ne alcuno disconoscerà la piccola malizia, che si nasconde nel confronto

con

delle semper vacua, semper atnahilis

aequora

gli

comune

per giuochi di questo genere è abitudine ellenistici.

Nel secondo, nell'epigramma

158

llólhov oÉaTCGtva Oerj uópe. ooi

oo'.

{!£

nihiXoc. "Epojc:

àXùxotat

uTieatópeasv. ^elvov

y'^I^-'^^'^

y^aXtvoìc;. tjxs'pw

5è TU)(elv àxX:v£o;

ìiigris

Afrodite marina

Servirsi del predicato di

ventis.

aspera

di

in poeti

Meleagro XII,

|i£.

BeóxAet?, àjipo-

£7il

^£''vrj:.

oaixàaa?

àXXà

cpiXtai;-

tòv

a-j

axépyovx' àTiavatveaL, où5é as {^éXyet oò xP*^vo?. où ^uvr^s a-^^oXa

aoi

7i£''paxa

Cwr)?

jioi

'5v3c^,

tXa29

cfr.

in

18,

il

collegio dogli artisti dionisiaci di

buon numero

anche (Jomptes-rendut de

ri-

l'

i

snoi

membri

a cantare

il

Aoadcmie den hiHcriptions, 1913,

sgg. (3) Anciic

membri

r inno a Ilestia comincia con nno ionico

dattilici,

ci

tenterò nu' analisi.

s'

;

e oltre

a

incontrano ancora giaml)i e gliconei. Altrove

— sta poesia è scritta per

i

il

componeva

quali Aristonoo

canto. i

onoravano Cleochare

Delfi



ir„s

Negli stessi anni nei

suoi poemi, forse nel 227, figlio

Bitone, Ateniese,

di

onore del dio aveva composto un prosodio e un peana e un inno, che dovevano essere can|ieÀ(T)v,

Tioir^TTjv

perchè

in

Theoxenie (.%/// 6G2). mutato Delfi dalla Nulla si era a fine dei quarto allo scorcio del secondo secolo; tranne che la musica era forse dai fanciulli nella festa delle

tati

divenuta più complicata con l'andar del tempo, giacche

due certi

provano, da professionisti del canto, dai tecniti dioAtene.

nisiaci di

Nò Epidauro ne ai

Delfo costituiscono eccezione: l'inno

Cureti scoperto nel tempio di Zeus a Palaicastro in Creta

XV,

(Ann. of the Brit. School at Athens, fu inciso in pietra in

certamente appunto cora più antico non cepiti l'

i

note furono cantati, come indizi

corredati di

inni

La

periodo ellenistico

si

può,

metrica,

perchè

;

;

quasi

risale

ritenerlo an-

Cureti

i

antichi

un proemio

strofe ioniche a maiori,

cantato

ma

al

quali personaggi storici,

umanità.

1908-09, 357 sgg.)

tempo imperiale,

sono con-

benefattori del-

giambi seguito da

in

mostra che anche quest' inno fu

e le libertà nella responsione degli ionici

si

spie-

ammetta accompagnamento musicale. \J invito, quasi il comando rivolto al dio, i^óps, mostra che i sacerdoti danzavano essi stessi. Verso la fine gano

solo se

si

dopo il 167, i Delii {Si/ll} 721) decretano onori ad Amphicle di Renea, [louaoxò? y.al [xeXwv TiocrjXTJc:, per aver egli composto un TrpoaóStov èjxjisXé? in onore della città, degli dei che hanno sede nella città e del secondo secolo, certo

del popolo ateniese e per avere insegnato ai figli dei cittadini Tipòs Xjpav TÒ [iéXos aSetv

(1)

in

(1).

E

Diversamente dovrà essere giudicato

quegli

stessi

anni

i

Cnossii {Syll.^

poesia per musica

1'

eucomio per

il

quale

722) ringraziano e rendono

— si

dovranno

15U

-

alla stessa stregua ritenere

prosodii,

i

poeti sono menzionati in primo luogo tra

agoni

gli

Thespie

di

i

cui

i

vincitori ne-

che abbracciano un pe-

in iscrizioni

riodo di quattro secoli, dal secondo avanti Cristo al se-

condo dopo (i). Che poesie nuove fossero composte in ispecie per nuovi culti, è naturale, che le religioni antiche saranno state i

venerabile per età e si saranno mostrate poco disposte a sostituirla con canti nuovi, ai fiere della loro liturgia

mancato

quali sarebbe

Ma

ouore

grauimatico Diosciuide

al

prestigio

il

è interessante che per

i

figlio di

della

nuovi

culti

tradizione

(2).

continuò, forse

si

Dioscuride di Tarso, che pare

XXXV 1900, 542) da twv ko.o' 'Oiir/pqj vo^ì-ijicdv. Dioscuride aveva luandato il suo scolaro Myrino TzoiriXÒiM ènwv xaì [isXtòv a Creta SiaO'Vjaió[isvov XX 7ie7toaY|JiaT£U|j.sva òtc' aÙTiù). Il decreto non dice che Myrino inperò sia da distinguere

Wilamowitz, Herm.

(cfr.

colui che scrisse l'opera Tispi

segnasse a un coro a cantare nò fa parola di esecuzione musicale, parla solo di àxpoaaei; dei Cretesi tutti (se no, èYy.u)|i.iov

xaxà tòv

1'

;

Onsp

èy^t" I^tov

troveremmo

Ttoivjxàv,

cioè

xòi

BCH

(1)

XIX,

la

è9-v:os, cioè

scritto xxq à^iàs KóXiog), è detto

lo

avrà declamato, forse

declamazione con qualche accordo

1895.

336

data

(la

che

il

BCR

;

(2)

IG VII, 1773 BCH XTX, spiega come negli agoni, mentre

XIX, 338

Così

si

;

;

di cetra.

Nordkn,

Theo» 160, attribuisce a quest'epigrafe, mi pare troppo alta)

1760

ma

in lode

secondo Omero. Esso, dnnque, sarà

composto in forma esametrica e Myrino

stato

aiutando e sostenendo

ó.\x(i>

Agnontoit ;

IG VII.

343. è frequentissima

menzione del TiotY]XYji; stcwv, non si faccia quasi mai, fuorché a Theepie, menzione di un TTOiy]TY)g TxpoaoStou: nelle lodi in esametri della grandezza della città, che avevano carattere profano, la novità piala

mentr' essa sembrava disdicovole nel prosodio, ch'era rito

ceva,

ligioso.

Dnrante

il

lo piii seguitato a

punto

i

cantare

il

peana

non avevano tra

poeti lirici, si poeti epici

Del resto

1

i

loro

(tre p. e.

gli agoni,

dell' antica liturgia.

collegi di artefici dionisiaci,

dei concorsi,

51).

ohe introduceva

sacrificio,

si

Per

che erano organizzati

re-

sarà per ciò apin

vista

membri, a quel che sappianu), in quello di Tolemaide Or. gr.

poeti epici o tragici avranno al bisogno saputo scri-

Tero qualche verso lirico.

\iA)

senz eccezione, a comporre musica e poesia

nuova, non

tentò di sostituire

si

verso recitativo, o l'encomio

al jiéXo;

musica

[)er

l'esametro, che ò

prosa solenne, che fuori del

in

culto dall'età ellenistica in poi viene sempre più in voga.

Nel 307

Ateniesi bandirono un concorso per un peana

gli

da cantare in onore del re deificato Antigono vinse, secondo narra Filocoro (Athen., XV, 607 a) llermocle di ;

Cizico.

La salma

di

Arato

trasportata, per suggeri-

fu

mento dell'oracolo delfico, da Egio a Sicione con accompagnamento di peani e di canti corali. Nelle feste sue natalizie, che per anni e secoli dopo la sua morte e la sua eroizzazione vennero celebrate dai Sicionii, un coro di tecniti

cantava

\iiXri

a suon di cetra (Plut., Arai., 53). In

Arcadia, l'unico paese della Grecia secondo Polibio (IV 20) nel quale l'educazione musicale

suo tempo,

si

al

era rimasti fedeli alla tradizione più antica,

e non la corporazione prezzolata

cantavano una volta l'anno inni

Che

non era decaduta

ma in

giovani cittadini

i

onore di Filopemene.

del resto lo storico arcade esageri per patriottismo

che anche a Delo, come dei cittadini erano istruiti

locale, parrà sicuro a chi ripensi

abbiamo veduto nel canto. Vero

testé,

i

figli

è tuttavia che a Delo, sull'arido scoglio

che ritraeva dal santuario ogni floridezza anche di commerci, i cittadini saranno stati più zelanti e più esperti del culto che non altrove. I Calcidesi, scampati all' eccidio per beneficio di Tito Plarainino, istituirono sacrifici

a

lui,

durante

i

quali cantavano

un peana

riporta la fine {TU., 16): tJ.ozivoì

yaXeuxtOTàxav opxoic cpuXàaaétv

\iéXKt-t

xoOpai

Tw[jiav xe Tt'xov ^' a[xa TwfJtatwv xe r.iaziv

awxep. stiere

(1)

altri

Anche (1).

di cui Plutarco

Ta)[JLa''wv a£^o|jL£v Tàv (is-

ii;.z

Zf^va

Tlacàv.

jiéyav Co

T:x£

qui cantavano cittadini, non artisti di me-

In quegli stessi anni la città di Teo, istituendo

WiLAMOWiTZ,

presso

esempi di inni cantati

;

Norden, Agnostos Theos per lo meno la maggior

,"92,

raccoglie

parte

si riferi-

— un culto che

i

alla

figli

-

regina ApoUonide di Pergamo, disponeva

dopo

dei liberi cantassero

fa,jw|x:Gv e le

un -a-

sacrificio

il

vergini incedendo processionalmente intona?-

un inno

sero

161

{Or. gr., 309, 8).

L' inno dunque anche nel tempo ellenistico era rimasto in complesso poesia per il canto e per l'uso pratico: l'epigramma, che è inadatto non dico al canto ma persino alla declamazione solenne, che è poesia per la let-

tura

più per la recitazione, che può talvolta essere

al

gustato solo da una cerchia di amici, la quale ne intenda tutte le finezze,

non poteva ne

sostituirlo

(3razio per lo più nei suoi inni

ne

non ha

fargli

ombra.

attinto a epi-

grammi ellenistici, perchè nella letteratura ellenistica epigrammi-inno non esistevano ha forse attinto a inni ellenistici, come a prima vista par naturale supporre? ;

È

assai difficile dare

canza

rende già

ellenistici

una risposta determinata. La man-

spiccatamente nuovi nei canti liturgici

di caratteri

di

per sé sola più

diffìcile la ricerca.

L' innologia di questo tetnpo ha così poco un' impronta

sua che persino conoscitori di vaglia e di gran nome ritennero ellenistico il peana ad Apollo e ad Asclepio, che in redazioni differenti era stato trovato a Totemaide e

ad Atene

in iscrizioni dell'era imperiale, finche

epigrafe scoperta ad Erythre mostrò che lo in Ionia già verso

il

360

a.

C. (1).

una nuova si

potrà stabilire nei casi singoli la dipendenza

singoiar ventura,

quando

si

di

si

di inni ora-

ziani dalla liturgia ellenistica, salvo che'per caso

battiamo proprio nell'esemplare

cantava

Come mai dunque

non c'im-

Orazio? E questa parrà

ripensi che la nostra cono-

scenza di questa letteratura dipende tutta da epigrafi, cioè è poco

meno che

fortuita.

8ce all'età imperialo, la quale

tuttavia

continuato nel cnlto la tradizione an;li

esempi da (1)

11

Cfr.

me

piìì

certamente per

lo più

avrà

antica een// innovare. Certo

raccolti se ne potrehbero aggiun^cero molti altri.

Wii.AMOwiTZ, yordioìiische

Steive,

11 tno

non

clii

sia sapientfj

£v

TY,ò'

|iO'jaOTOÀ£

/.X'JctV.

culto

"ày/.J.stT'

ao'fY,

aà tòv

:

'&r^yyyi\u

vafovìl-' i'òpav.

llàv,

y.yrjiyyzV/

tl7^f>.

'Apxàò«)v.

K/^p,

\'^^'rli 'JO'ffo

[ìt^

CllO

\ltih.-(\i' hlc..

'iz

fosse invocato |aoj707:óào;

l-*an

òj-j/ì'ucJ.ov

y.'/.ypt')

5vac. òj^yvcoaia

a'Jvì>-£'';.

st;-/]

vt-foxxónc/i:

,'jcXaT;

yìl-óv'

parrebbe

liei

iiiipos-

quand'anche il disprezzo del poeta per non iniziati non mostrasse ch'egli sdegnerebbe di scrivere per una festa popolare. Degli inni di Simniia Rodio Efestione non ci ha sil)ile,

i

conservato che 7cótv:7.

yX'jxh

[VJ/wv

(\).

priiici{)ii (juali

i

vjii'fàv

41,

à5pàv

Consbr.)

11)

Awp'.

esempi del metro: nàTco /.•jjìoxtOtoov

( 1

v^^^av' à).''fov

)

no: |iàv £'jt7r-o; £'j-ov.o:

;

'•>

èy/ca-a-

òwx£v aì/|iàv 'EvjzXlo; e-jaxo-ov £X£:v (41, 22): ai Tzc-.t Alò; àvà -ónaTa vsapà xóp£ vEJjpo/^Litov (42, 3) 'ìaz'.cc àyvà à-' £'j;£''vc)v [A£ax -o\yw) (20, J^aìlia; £xap£ 16); xaìfs ava^

Ào;

;

jiàxap

"Hlia;

12) (2).

(21,

ritmi,

I

peoni e

i

in

dattili

i

non gli anapesti, sono quelli della tradizione liturgica r accumulamento degli epiteti conviene bene

ispecie,

;

agli

inni cletici

;

la

posizione delle parole,

assai artifi-

che si aspetta da poeti alessananche quando scrivano per gli usi del

ciosa, è tuttavia quella

drini

culto.

di vaglia,

Ma

la scelta singolare degli dèi cantati fa

a poesia dotta per lettura

(1)

Forse

si

:

devo leggere (x')

Dioniso, Hestia,

'ripy.-^'

e

congettura

Hermann

si

(3)

iuteudeif Nereo. Che Do-

ride 8iu cliiamatii essa v;pavo; del mare, nou par possibile. la

pensare

Eracle

Xoa

so se

trovi già uella raccolta dei fraiumeuti di Siiiimia di

Fiìaxkkl, che ho

lotta

in

bozze,

ma

che ora non

ho

a

mano. (J) (»»nesto

frammento

e citato

da Kfestione sotto

la

denomina-

ma

zione xò -'.[inU-Ov, che in se stessa

si

stile è lo stesso di quello degli altri

frammenti. Gli scoliasti più tardi

non hanno saputo ritrovare

riferisce solo al

metro

;

h>

passo nel libro di Simmia, o forse esso tempo della composizione dei AeXcpixx. (3) A questo riferirei il frammento citato quale xò 2tiJ.|i{£'.o/ di solito scrivono v^/?a; con la minuscola. Non saprei dire a chi Enyail

è andato smarrito prima del

:

lio

abbia concesso la sua lancia.



J07

-

sono divinità consuete, ma culto di Doride e Nereo non e' è mai stato. Certo, il culto delle Nereidi fu in Grecia abbastanza diffuso (1); ma il répwv, che era adorato a Gytheion, non ha

un

(III 21,

9)

cioè per

i

comune con Nereo

di

dio marino, e

l'

non ha valore

non per

se

tempi della teocrasia

propone con una

se

non

di essere

identificazione proposta da Pausania l'età del periegeta,

e Pausania stesso la

;

formule con

di quelle

le

quali suole in-

trodurre le sue speculazioni piuttosto teosofiche che religiose

Quanto a Doride, nulla

(2).

deve concludere da

si

un'espressione cosi vaga come quella che Virgilio (Aeu. Ili et

73) adopera di Delo gratissima feìJus Nereidiim ynatri Neptuno Aegaeo, tanto più che sulla religione delia delle

Nereidi siamo bene informati grazie a un frammento della -oK'.-t'.y.

Arp.''or/

(Athen. Vili 296

di Aristotele

e),

narra che con esse è congiunto nel culto Glauco,

dove

si

(juale

il

possiede colà anche un oracolo (8). Per di più Efestione dove dice chiaramente e dove fa capire che gli inni di Simmia erano stichici, ciò che non conviene a poesia per

(1)

III

236 (2)

sg.

;

cfr.

in

Roscukk

cv òì òvoud^o'jat F'^Ssàxa". FspovTa. oixslv èv ^oCkìzit^ '^ìhìvo:,

Nyjpàa evia (3)

«la Weiszackkiì anche Wide, Lakonische Knlte, 221.

Le testimonianze sono raccolte

s'jp'.axov.

Poche righe prima Ateneo scrive

3-; tòv rXa'J/.o; U|Jiv(o

IloastSóivog aOxòv

EùàvO-v;; d' ó

uicv

slvat

èpa^^'lvcx,

k-.OT.o:>,c,

xaì Nai^oj

èxe

èv xeò

viii-^y^;

O-ò erpéco? y.axs-

ji'.Y^,''^'-

xì 'ApsiSvig èv Aiv] x^

ÀiicpB-y;.

Codesto Euautlie è omesso nello storio letterarie e nel Panly-

Wissowa. Siccome

egli è detto epico e nell'

ventura più complicata di in tri,

vr,oc;)

iiuel

inno raccontava un' av-

che possa esseie brevemente esposta

un {isXo;, il suo inno sarà stata una composizione epica in esamecome gli inni omerici e callimachei. Che sia identico con l'Eùàv&r^;

MsO-'Juvxto;

i

%'9-xpf|)ló-,

che verso

il

280 èji£5ì'5aTO

tq)

3-S(;>

in

Deh»

{liCH VII, 1883, 109) f Ih questo caso egli recitò il suo carme aioompagaandosi con qualche accordo di cetra, piìi simile in ([uesto ;ii vecchi aedi omerici che non a Calliraaco.

— meno che

musica, a



h.s

canti o meglio

la si

musicale durante

coiiii)agnameiito

la

si

reciti

con ac-

E

per la

marcia.

stessa ragione non crederemo destinato al canto l'inno (1) di

Filico

Corcira in esametri coriambici stichici, dal

di

quale Efestione TE

A7,|jir;xp''

-/.al

(:}(),

22) riporta

(I>cpa£-^óvr|

che a un carme da

recitarsi dal

polo non converrebbe iX''xo'j.

Y?3cii|JLax'.xo;',

che Filico

il

il

owpa

verso

r?,

XO-ov:y, h'j7t:x'>.

xal KX'j|i£vo) là Sòjpa. Si aggiunjja

vanto

popolo o dinanzi

auvO-éasto: r?^:

E

poco importa

-p^; Oixà:.

'^épo)

al j)0-

xaivoypx'f&'j

stesso, quale sacerdote di

Dioniso, marciasse

nella processione di Tolemeo Filadelfo descritta da Callixeno (Athen. V^I 98 e); giacche non è detto che egli fosse membro di quel collegio e dovesse quindi comporre canti per l'uso pratico; e se del resto fu membro, sarà stato tale non quale poeta melico, ma qual tragico, giacche in nessun elenco di collegio troviamo un jjieÀwv -oirjXTj?. mentre sappiamo che Filico appartenne alla Pleiade tragica alessandrina. E, poiché composto in priapei parimenti stichici, sarà stato destinato parimenti alla lettura l'inno che, secondo ne informa il Cherobosco (p. 241, 11), il grammatico alessandrino Eufronio compose in onore del dio di Lampsaco. Ma nessuna somiglianza di stile ci riesce di scoprire tra i giuochi abili sì ma di una destrezza un po' fanciullesca in testa agli artefici dionisiaci

di

Castorione e

menti

le

complicati e

Orazio

classici di

Simmia cariche pesanti dall' una parte, e

invocazioni di

(1)

parlano

Un i

gli inni

ma non due liriche anonime, che, non inganna, appartengono a un periodo po-

di

se lo stile

orna-

dall' altra.

Maggior somiglianza con liturgica

di

la poesia religiosa

Orazio palesano

inno fu di certo, perchè

trattati metrici latini

gralia del nome,

cfr.

ora

;

uu inno a Cerere e Libera Caes. Bass. 263, 25. Snll'orto-

di

cfr.

WiLAMOwnz,

Beri. Sitzungsber. Itil2, 549.



ItAl

steriore dell' età ellenistica

;

— intendo parlare dei due

io

frammenti d' inni a Tyche, V uno in dattilo-epiconservato da Stobeo {ed. I 6, 13), scoperto l'altro

inni o triti

pur dianzi in un papiro berlinese [Berliner Klassikertexte 2, 143), dove compare in una redazione assai lontana da

V

quella originale,

come mostrano

in dattilo-epitriti

come

numerose irregolarità metriche e parecchie espressioni, che, mentre paiono a prima giunta aver qualche senso, ne sono, chi ben guardi, affatto prive. Appartiene certo allo stesso genere anche un frammento d' inno, naturalmente parodico, all' oro, conservatoci da Diodoro (XXXVII 80) (1), composto esso pure il

l'

le

inno alla Tyche in Stobeo, con

quale esso presenta somiglianze notevoli.

hanno conservato

Tutt' e tre queste composizioni

le

forme degli inni liturgici 1" inno di Berlino chiede alla Tyche, come mai il poeta possa esaltare la sua potenza e la sua natura, tiòjs xpr^ tsàv ìa/'jv ts Zilcy,: za: Tsàv zòi-.v con quale predicato egli la debba invocare, se Clotho o :

;

Ananka

o Iris quest' è un accenno alla -oÀ'jcovu|ji.ta della dea consueta negli inni cletici (2 Il frammento serbato da Stobeo ha conservato la struttura simmetrica e l'anafora :

.

del fu:

t'j



Àà|Ji7i£'.

yjf-y-c

coi'f-év;

xal ao'^:a: ilxxs:;

Zco: aàv

o' à|jLa-/av:'a;

T'J

tura simmetrica

si

sòpa;;

--.io'y^y.



y.aÀòv...

yp'jjiav

xh

:

-ópov zlltz iv àXYsa'.v.

trova anche

nell'

La

ex asH-ev xtx

H

:

-Xàa-'.YY-

stessa strut-

inno all'oro

:

-àvTWv

Ma, per quanto questi tre inni, diversi del resto tra loro, presentino le forme comuni della lirica liturgica, si distinguono chiaramente da essa e si avvicinano alla parte di gran lunga magxpx-t'jTc, ;t7-viwv fjpavvs.

(1)

I-l

-àvTa

\\-i'/:;t:z.

l'ramuieuto, che segue ia IJioiloro,

«li

un inno

alla

-o-^'.y.

troppo breve e incolore, perchè se no possa dare giudizio. (2) Simile < anche la formnla di passaggio noli' inno omcriio A))ollo

rcio;

àpx

a'

'j[iv/,oc'>

::avtto; e'j'jiìvov ììvtx.

i-

;ul

-



ITU

giore delle poesie religiose di Orazio, perchè non possono essere state comj)Oste in

[)er

uso pratico. E, altrimenti che

ma come sempre

Sjmniia e in Castorione,

Orazio,

in

anche nell'ode che comincia nominando un santuario determinato,

diva f/ratum (juae

rer/is

una potenza cosmica, non più

il

Antium,

dio che

la divinità è

uomo

1'

antico

venera in un' effigie determinata esposta agli sguardi in un tempio determinato. L'Oro, la Tyche, come la For-

come

tuna,

il

Mercurio oraziano, son qui divinità non

adorate che dal pensiero

(1); pel resto le

somiglianze tra

i

due inni alla Tyche e l'ode alla Fortuna sono di tal fatta che converrà credere che Orazio dipenda non dai due mediocri componimenti a noi conservati ma dal loro modello comune. E ha conservato la forma degli inni liturgici, i»er quanto destinato evidentemente alla lettura, l'inno, scritto in esametri, di Cleante.

non umana,

Anche

è più la

ferente dall'

della mitologia

è un principio, anzi

unica di cui tutte ch'essa è

il

il

7iv£ù|xa

(2)

;

in

Ora-

;

Zeus

lo

principio cosmico, è

dif-

di Cleante

divinità

la

non sono che emanazioni, perche pervade il mondo. L'inno era

le altre

celebre nell' antichità

suo carme

come spesso

qui,

persona umana, o poco

zio, la divinità

;

Arato

lo

imita nel

Orazio, studioso di filosofia,

proemio del avrà cono-

1'

sciuto fin dalla prima giovinezza.

Poesia per

dunque

gli usi pratici del culto seguita

a essere composta, in grande quantità

ma non

con mire

propriamente letterarie, anche nel periodo ellenistico, senza che dal quarto secolo in poi vi s'introducano novità

notevoli di pensiero e di

(1)

che

Di tale fatto

è già

"Fpw;

forma.

Tentativi

àviy.aTì \iy.yaw e in certo senso an-

Zs'jg, oaxic, jióx' sa-iv. (2)

Cfr.

il

isolati,

mio articolo su questo

nelle Charifes fiir Leo.

intrapresi nel primo

171



mezzo secolo

dell'

ellenismo, di sol-

levare questo genere a dignità letteraria, liberandolo dai vincoli della liturgia e trasformandolo in poesia dotta per

non ebbero forse successo felice a ogni pare congiunto a questi poeti e a questi

la recitazione,

;

modo Orazio non

carmi da una linea

diritta. Più tardi questi tentativi furono ripresi con successo migliore in poesie nelle quali il

dio inneggiato, sciolto

contingenze del culto, era (ì). A questa lirica faceva dai primordi dell' ellenismo il carme esadalle

trasformato in potenza cosmica riscontro fino

tempo

metrico di Cleante, Orazio subisce a un

gli

in-

questa poesia greca emancipata dal culto e delle ferme liturgiche, quali erano state introdotte ed elaborate

flussi di

romano da

nel culto

poeti molto maggiori che

stati gli oscuri artefici della liturgia dei

Parecchi degli

inni

di

Orazio,

tempi

non siano ellenistici.

l'esaltazione

oltre

della potenza del dio, che ne costituisce necessariamente la

parte essenziale, contengono, per lo

più in fine,

preghiera. Quest'è tradizione liturgica; che

gl'inni,

una di-

ciam pure fisici e cosmici composti per la lettura che abbiamo considerato in ultimo luogo, o non hanno preghiera di sorta,

come

l'inno alla

Tyche

del papiro ber-

che degli altri non si può dire, essendo frammentari), derivano in ciò dalhi hturgia (2). I proemi omerici quando chiedono àf>ìir',v -s •/.%: oX,3ov oppure àvx' (oòf^; [i'.o-ov iS-jjjiv'psa, rillettono secondo ogni linese, o se l'ebbero

(1) Il

cosiddetto Menandio, in un capitcdo del primo liluo

3Ki5eixTi7.(&v, il

^uoLxòg (2;

lettore



prescri/ioiii

intorno a un genere spe«;iale

nspL

pvY)

lìnisee

in

Xóyov

~%;x-

(Il 1-1. S

mia pregliifia.





ìri

K

probabilità antichissimi inni melici.

inni

gli

della

li-

turgia ellenistica non fanno per lo piò altro che tradurre in stile

termine

il

jjarole, salvo che che aveva ormai preso un

semplici

quclU;

fiorito

lirico

viene evitato

àfeiir,,

senso diverso da quello di prosperità l'^ilodamo chiède s'r^pwv xav^e -óÀ'.v

Aristonoo chiude

TioXbv

-/([xàc

/ops'js'.y.

come

óai'fov

quello ad

fcTta'.àv,

0)

Il

peana ad Apollo con

il

òà[jov il

T^jjLctspo:;

ijjjivoi;

"^([Aàc,

(1).

ZiZojc,

ilestia

y.ó\

le

tjv

^oi^wv

y.y.\

r/o VTa; àsi À:-aj>óil'povov àn'^l aàv

oÀjiJov

vecchie

formule siano

'^/.,j';>;

parole /apsl; è'firo-.:

otòoo ò'à|io'.^à$ iz ó-j-'ov

In tutt'e tre questi carmi la parola

le

ritornello di

•^'jÀaa'j*£'Ja''f")v:

presenti

ìt-'jui/.av

oÀ,'5o;

mostra

all'animo

dei

non di trascenderle. Né le trascende la chiusa del peana d'Isillo, quantunque essa non contenga più la parola tradizionale: poeti che

studiano

si

di

variarle,

yaìp' 'AaxXaTi'i, xàv aàv 'ETwi'òa-jpov jxaTpÓT^oXtv ajEov. quest'è

parafrasi di '^pcal

5i'ood àpsxyjv;

zàl a(ójxaacv

à|ioTu:

il

seguito

svapY'J'i? o'^y^e'-av à7-'.-£[jL7:ot;

parafrasa

salvo che al bene

oÀ,3ov.

generico è sostituito quel bene specifico che

il

dio Ascle-



pio è in grado di concedere, la salute del corpo, e

si

aggiunge qui, dell'anima. Assai più larga è la fine del secondo tra gli inni delfici corredati di note: àXX'w Ooì^s. a(j)^£

i^sóxxiaxov IlaXXàooc àaxu

xó^wv

òzrsTzòzi

(1)

Kpy]a:wv

In im iuno

che

-/w'jvcòv

x'

"/al

Xaòv xÀeivóv. auv X£ 0-eà

"Apx£[x:;

e

dalla

trae senz'ambagi le conseguenze. L'inno I

che né la l)ossouo

il

virfcti

far

omerici,

Cal-

mutata

finisce StSou x' àpst/jV x' le

sue parole, mostra

senza la ricchezza né la ricchezza senza la virtù

felice

parafrasata,

7.u5:axa,

significazione

poeta stesso, quasi glossando

l'uomo: ojx' àpsx^g axsp

àégsiv, O'Jx' àpsxv) àcpévoio. Alla line piìi

Aax.o

conserva la forma di quegli

limaco prende àpsxi^ nel senso nuovo acpsvóg xì; poi

7^Zì

ma

oJ.Jio;

sTiiaxaxa'. ìcvSpa-

Callimaco ripete la formula non

nel testo originale diSoo

S' àp£xr;v xe

Anche nella chiusa del Tolemeo di Teocrito (JpsxV; V. WiLAMOWiTZ, S(q)pho u. Simonides 171^.

-/.ai

sta nel scuso

cXpov.

nuovo.

— 'rj.izy.z Aó/.-fcov

v.y).

aTG'jc. Bày./o'j

i)-'

ma



tt^jAcÀsÌiI' a;xa tìv.vo'.;

!£pov:'xaca'.v

oopcaTSTC-ov xàp-£i Tto|xa''o)v cp£p£v:xav;

17;]

nonostante

òiiJtaaov y.-'x.-

a'j[ij3''o'.:

tàv xs

cù|ji£V£Ì; [xbXzxz TupoaTróÀota'.,

àp/àv

numero

il

cate e la sonorità delle parole

àyi'JpxTW

a'j^£''

delle divinità suppli-

pensiero non

il

B-àÀXo'j^av

presenta

nuovo. L'attualità ci si insinua soltanto di straquanto il coro chiede agli dei di esser benigni non solo al popolo Delfico ma anche all'impero di Roma. In Orazio in fine d' inni che cantano la divinità in se, sciolta da ogni legame con contingenze del suo culto terreno, l'attualità si aggiunge nella preghiera con deternulla

di

foro, in

minatezza mirabile

che

desiderio

si

Caesarem

in

iuveniim recens examen Eois

ti-

di particolari; sia

il

riferisca alla salute di Cesare: serves iturum

nltimos

orbìs

Britcmnos

et

mendum partibus Oceanoque

rubro

(I,

35), o a quella di

Jiaec

bellum lacrimosuni, lue miseram

pnlo

et

principe Caesare

motus aget prece

(1)

(I,

in

che Orazio supplichi

una

dio di render docile alle sue voglie cfic

modos,

lui latis

nuptiarum 11)

(2).

Li/de

qnibus obstinatas

equa trima campis ludit expers

et

Se quest'arte

adirne

a po-

Britcmnos vestra

Persas atque

21), sia

Roma

famem pestemque

il

bella riluttante

:

adpUcet auris, quae ve-

exsultiìn

protervo

sia originale,

ynetnitque

cruda

tancji

marito

non saprei

dire

(III,

con

come conchiude spesso gli epinici aggiungendo dopo il mito una preghiera di mirabile attualità, cosi anche nella chiusa del peana per Abdera sicurezza: certo Pindaro,

£[io[l

5=

£7.(o]v

£C7[X(T)v

£]'j7.X£a

[xpa'v(o]v

}(àp'.v|''A[iòlrjp£

y.y).

impinta clic ([ui la preghiera si amuiaiiti di profezia. Qui por vero la pregiiiera udii è in fiue ma poco dopo il principio. Se si confronta questo carme con I 30, vien fatto di pensare che Orazio riprenda «(ui nna seconda volta con solennità apimrontemeute maggiore il motivo di Posidippo e lo sviluppi, aggiungendovi un mito che in sé è serio. l>i ijui l'orse la complicatezza della com(1)

Polio

(2)

posiziono.

aT[faxòv] tTiTio/àpiiav [aà ^]ta y;

Tca-.àv

time

Tia-.àv

i/j

i)arole,



-

17Ì-

::'>)i[|i]fj) TeÀ£'j[Ta''](|) 7:po|5'.[ià;roi;

\v!,r^'-jzt Àe-'-o'.

non ha, tranne

nulla della formula,

ma

su[)|)lica

nelle ul-

con parole

suoi cittadini in eponimo di soccorrere ~'j/À[ì('> l'espressione l'ultima: essere deve una guerra che

originali l'eroe

quanto ardita

Le

sua

nella

h

TeÀEJxa-'o)

i

fonti

stringatezza

altrettanto

ellicace

(1).

ellenistiche della lirica religiosa

di

Orazio

non breve; modelli della lirica in poche parole. Questi carmi sbrigare civile si possono categorie, in \xÌAr^ -oÀ'.t'.-/.'/ si possono dividere in due

hanno

e in

richiesto discorso

ijaa'.Xr/.à,

\i.zl'fi

greci

trattatisti

i

per dirlo

con parola greca, come

d'eloquenza pa^-lavano

Alla prima appartengono

Aiyoi;.

cipio del terzo libro.

non abbiamo

La forma

audita

odi

di esse

un

romane

è

i

|jaa'./.:xò:

in prin-

originale

:

noi

diritto di rifiutar fede al poeta, quand'egli

proprio in principio della prius

le sei

di

Musarum

prima asserisce carmina non

sacerdos

rirginibus inierisque canto,

né questa volta basterà a spiegare il passo supporre che effli si vanti di aver sostituito la strofa alcaica al distico elegiaco che sarebbe stato il metro consueto di componimenti di cotesto genere. Orazio desidera che tendano 1'

orecchio

(1) iir:i«rr;iro



178



non vuole tuttavia escludere che Orazio nella scelta dei mezzi di espressione abbia tratto profìtto dai suoi studi di lirica greca. Il poeta parla

predizioni. Quest' asserzione

verso la fine di sé stesso,

mito i)rende qui daro, proprio

lo

Ma

mezzo.

il

come

Pindaro, e

talvolta

il

stesso luogo che negli opinici di Pin-

deve

la scelta della favola

ri-

cordare ai lettori un episodio celebre del poema classico di Ennio. Orazio ricanta qui liricamente una saga già svolta epicamente da Ennio, cosi come Pindaro attinge i suoi miti

Ma

alla tradizione dell' epos.

egli,

quasi costellando

i

suoi

che non dovevano sfugil quale aveva imparato a megire al lettore romano, moria gli Annali sulle panche della scuola, indica, vuole

versi di reminiscenze enniane,

indicare che queste odi sono davvero romane.



il

poeta

s'inganna nel giudizio sull'opera propria, onde converrà a noi trattare delle odi romane nella parte di questo libro destinata allo studio degli elementi romani nella lirica di Orazio.

Quanto

alle odi regie sarà

parte III 14 HercuUs

rifu,

bene lasciar per ora da

descrizione di

un

corteo, la quale

appartiene a un tipo particolare, e considerare in primo

luogo quelle liriche che o come IV

14 e

15

quae cura

patrum e Phoebus volentem sono tutte un inno al dio imperatore 0, movendo da concetti diversi, in un tale inno si assommano, quali I, 2 iam satis terris, l, 12 quem virum aiit heroa e particolarmente lY, 2 Pindarum qnisqnis studet. Derivano queste odi, come gli inni agli dèi celesti, da tradizioni più propriamente liturgiche o da modelli letterari celebri ?

Certo, quasi si

tìitti

i

concetti svolti o accennati in essi

ritrovano simili in iscrizioni contemporanee, in

titoli

pubblici di città asiatiche che parlano di Augusto quale di divinità evidente e presente

egli

ha arrecato

al

genere

ed esaltano

umano.

Il

i

benefici che

sovrano

o

anche

— il

-

179

magistrato rappresentante dello stato sovrano,

Roma,

chiamasse anche Verre, soleva ormai da secoli, già fin dai tempi di Quinzio Flaminino, essere onorato da Greci si

quale

e Orientali ator/,p (1),

rasse anche lui

ricusasse

gli

benefattore

e ricevere

e salvatore, eùepY^tr^; xal

divino.

Che Orazio conside-

suo Augusto quale dio vivente e non

il

gli

culto

dovuti a ogni divinità e più a

onori

quelle incarnate in

uomini, parrà naturale a chiunque

consideri la condizione degli spiriti nell'età augustea

senza che per questo

sia

ci

poeta andasse in cerca

bisogno

di pensieri

di

(2),

supporre che

il

e di espressioni nella

liturgia del culto imperiale, quale lo praticavano le pro-

vince orientali

dell'

quelle epigrafi.

Ma

impero e quale lo rispecchiano a noi con quelle epigrafi Orazio ha comune non dico tanto il sentimento che, restituita la

ben altro: pace e la sicurezza nel mondo grazie potere centrale, una nuova era



umano orcio,

che

il

al rafforzarsi di

aprisse

per

il

mac/nus ab integro saeclorum

un

genere nascitur

virgiliano mostra quanto diffuso fosse questo senti-

mento culto

(3)



;

romano

quanto l'identificazione, ignota

sin allora al

e tollerata dai magistrati solo

in Oriente,

del mortale pari agli dei il

si

con divinità determinate, quanto

concetto, pochissimo romano, che la bontà dell'impe-

ratore ha fatto della vita

una

festa perenne. Invitano al

confronto con Orazio tre documenti, la lettera del proconsole Paulo Fabio Massimo scritta nel 9 av. C. al con-

(1)

Sulla

Wendland, (2) Cfr. (3)

vatore

di

quest'attributo

V

su di essa lo studio del

Già nel 62 av. Cr.

Pompeo Magno mondo {Syll.

pace nel xoiz

storia

Ztschr. f. neutest. Wisa.

il

demos

vincitore

337)

:

ò

cfr.

la

geuialo

Nordkn

in N. Jahrb. VII 1901.

dei Mitileuci onorava ((uale sal-

dei 8à|i,05

pillati,

aver restituito

per

xòv èa'JTto

ató-cvjpa

xaxaaxovTa; xàv oinr^iévav noXéjiotg xal xaxà

Xaaoav.

ricerca del

335 sgg.

y*''

la

xataX-jaavix

'tal

xaxi

S'i-

18()

sorzio delle città greche dell'Asia, che ordinava loro di

cominciar tutte

il

loro

anno con

natalizio dell'Augusto,

il

decreto di esse città (Or. 458), e meglio ancora

il

l'iscri-

zione di Alicarnasso, Greek inscr. in the Brit. Mus. 894, che pare posteriore al 2 av. C. Si confrontino per esempio

con quest'ultima

IV

del

Iscr. dì

epigrafe alcuni

passi

regi

libro: Decreto del xoivdv

Alicarnasso

Orazio IV

2,

37

(Augusto) oO

|ióvcv

quo nihil maiua me-

àO-avaTOC xoù navxò;

xo'j? Tipo a'jxoù

Ysyo-

liuHve terrie fata do-

cpuaig TÒ nàyt jXOv Afot.-

vo[xas sOepYéxagÒTiep-

ènei

3-òv

i,

altóvio;

'/.a.^

npòc u7iepPaX?vO'j-

oa^

àv-

eùspYsa.a;

cv xoìg £oo|iévoig èX7c'.5[a

Kaioapa tòv i;E^aoTòv

3oX7Ì?

èvsvy.aiiévyj il[iò.c,

tco

0:toXi7:wv Otisc-

|j.èv

Y^P

tum

aurum

tem-



via exiget

8Ì8

sgg.

domus stupris, mos et lex maotdosum edolaudantur

simili prole puerperae,

culpam poena premit

IV 5,

sXtiì-

§a)v iièv xpiìi'jy.xo

è già fissa e

più tardi.

Non

Un

Tiepl i

ma

una

yvo'jc,

visita,

il

re

promulgò un de-

uapouaiav aùxoQ jxsya-

xyjv

Qui la terminologia medesimi che incontreremo anche i

tutti

ultimo rillesso

:

à-avxY^aeto:.

xf^c

soltanto

darono incontro,

(1)

incontro

riti

i

popolo, appena seppe che

Il

città di

ili

magistrati e la cavalleria i

cittadini

cu

:

(jióvov oi

gli

an-

xàc àpyjtc

tale lirica jjiiizza forse ancora nella bolsa

prosa poetica dell'esortazione a festeggiare

il

nuovo imperatore Traiano

ritrovata in un papiro di Giesson (3 K«)rn.).

l'JN

s/ovis;

|Ji£Tà

tTiTzéwv,

T(T)v

àXÀà

TxàvtSi;

y.al

le

sacerdotesse e

(p^av

i

sacerdoti

T^oXtia: ixexà xòjv si

presentano

[isxà Zz -aOia xoù; vao-j; àvi-

;

non manca mai

l'apertura dei tempii

:

oc

Al Dipilo

T£y.vo)v y.al YiJvaf/.òjv à-y;/ioiv aÒTolc;.

in

queste ce-

rimonie.

Un settant' anni più tardi una città del regno pergamene, forse Elea, dispone che qualora il re Attalo Filosacerdoti matore (138-113) la degni di una visita, tutti aprano i tempii e sacrifichino e preghino per la salute i

del sovrano [Or. 382, 27 sgg.) TióXiv

y^jxòJv, ....

vxcrjg

xwv

re.

xal

O-eòjv

àpyoyxy.c, xal xoìx; Espovc'xai;.... xal

xy;/

xobz.

xòv

xou? xs TipoYS-

axpaxyjYO'J?

xo'j;

il

Y^IJ-v^ca-'ap/^ov

^-2''-

[isxà

"^'j?

xòjv

xal xwv v[£wv xal x|òv -a'.oovóiJiov [x£xà xw[x r.T.Zor/ xal

è'^rjljojv

xo'j;

àvoi^avxa;

àTiavxf^aai oh aOxo)

xal xà; tópefa; xal

tepsT;

7rapaY''vr;-a'. ci;

Ispeóa?

xàc;

xòv Xi|java)xòv eu/caO-a: per

xal STitO-jovxa;

L' iscrizione continua

Ypajji{X£VOu;

oxav....

:

zal

tcpel;

xo'j;

xal xà; [Yuvalxac; xal T^apO-évo'j; 7:àv]xa; xal xobz

7i;oXc'xa;

èvoixoDvxa; èv èaS-f^at

Le

£ax£^av(0|i£vou;].

l[cc\inp'xXq

forme, almeno in Oriente, erano rimaste le stesse

tempo di Caligola, quando il popolo di Cizico udendo prossima la visita dei regoli bosporani Rhoemetalce e Polemone impose ai magistrati di presentargli un decreto di incontro, 'j)r,cp:a[j,a 6-avxr,c7£03; z'.'jrf/i^aaaO-a: aOxoT; un termine fisso per decreti l' esistenza di ancora

al

365),

{Sijll.

:

genere mostra quanto frequenti dovessero essere

di tal tali

occasioni.

porre

:

uTiò

xyjv

àvo-'^avxa; xà

atwvcou

I

magistrati

x£|ji,£vt] ....

otajiovf^?;

xal

si

aò-MV

dooòo'j

£'>/£aO'a:

xf^c,

affrettarono infatti a pro|X£V

zcr:c,

[xàv

xouxou awxTjp'a;.

qui le stesse, spesso letteralmente

grafe tanto più antica di Elea,

per la salute dei regoli, del

mondo, da

pianeti

si

xal xà;

zffi Faio-J

la

o£ Travia;....

luce

i£p£:'a;

Kat^apo:

Le formule sono

le stesse

che nell'epi-

tranne che, invece che

prega per quella del signore

cui essi derivano la loro autorità

riflettono

K'jZ'.xr^vo'j;

c£p£T;

ù-sp

del

sole.

UTiavxr^aavxa;

Il

\izxx

decreto

come

seguita

i

:

xwv àpyóvxwv xa-





199

Tòjv axscpavYjcpópwv àaTiàaaaOa'' zt I

ragazzi delle scuole non

anche qui

ii>

E

scpr^Sou;

xo-j;

l'^r^ljapyov

più splendidi, quelli

cortei

i

di descrivere feste,

tro agli dèi visibili, ai sovrani ? Si

quando Orazio canta sì

ma

modo

al

di origine ellenistica,

quanto

drini (1). Che, per

ha si

-r^v

iiz:

compiaceva,

si

lasciasse sfug-

si

che andavano incondovrà concludere che

ellenistico 1'

Zi

via.

divisi

xal xòv 7:a:5ovó|XGV

possibile che la lirica ellenistica, che

abbiamo veduto,

gire

qui,

due gradi secondo l'età: àya^slv

b-Av-rp'.v xal tòv

lo

e così

auvr^aO-f/^ai

xjcl

mancano neppur

una

festa,

romana

occhio a modelli alessan-

sia inteso

carme diversa-

il

mente, egli canta un corteo che all'uso greco va incon-

composto

tro al sovrano,

forse, è vero,

solo di

matrone

o di matrone e vergini con la moglie e la sorella del principe a capo. Kiessling-Heinze intendono che matrone

vadano

e vergini

vero che

in processione a porgere agli dèi

ma

grazia,

di

crifizio

questa spiegazione

in iiistis operata divis

sariamente senso

il

sa-

E

erronea.

è

V operata non ha neces-

perfettivo; bastano gli

esempi raccolti nel Porcellini a provare che anche in latino questo participio, come spesso altri di deponenti, può avere senso di presente, e

caico

si

sia

s'

intende facilmente come quest' uso ar-

mantenuto a lungo appunto

significazione sacrale.

che operata

divis

Ma

qui

in

un verbo

non potrebbe mai voler

come

dire,

tendono e traducono scialbamente Kiessling-Heinze: Dienst der Gotter

>>,

in servigio

degli dèi,

crificando agli dèi. Perchè venisse

commentatori

(1)

11

aver

Thcoa,

il

solo

« ini :

sa-

senso che

i

in

uso in

Imon naso, supponeva che Orazio ado-

152, ha avuto clniKuio

proseliti le iscrizioni,

due xónot ^ià

torno del monarca.

fuori

ma

;

in-

ostinano a volervi trovare, occorrerebbe

NouDKX, AguoslOH

i[uriudo, senz' prasstì qui

si

di

presente non dà senso

il

eti\

dlonistiia per

la

tosta dol

ri-

— che operata avesse senso

-UH)



di futuro

:

« per sacrificare »,

il

che è impossibile. No, Livia ha sacrificato agli dèi, e ora insieme con Ottavia, alla testa di una processione di matrone e di vergini, va incontro

ha qui

rata

il

senso

piìi

al

consueto

principe reduce

e ope-

;

di participio perfetto (1).

abbiamo detto, rito ellenistico. Non importa ma ha tuttavia qualche interesse i)er la storia della cultura, sapere se cerimonie simili non vi fossero anche nel rituale romano. Certamente vi erano, ma risalivano, credo, a origine greca. Qui V Ouàvcyjotg non è congiunta con il trionfo, che Angnsto aveva, com'è noto (Dio LUI, 26), rifiutato quest'onore decretatogli dal senato. Ma nel trionfo, se non 1' uTidvxyjoig propriamente detta che il corteo non andana incontro aW imiìeralor, ma si formava fuori della porta trionfale per accompagnare V imperator in città (Marquardt, ròm. Staaisvertvaltung II, 182 sgg.), avevano luogo molti di quei riti che, come abbiamo veduto, erano congiunti con l' ÓTrxvr/;^'.? nelle monarchie ellenistiche. I templi rimanevano aperti tutto il giorno (Plut. Aem. Paul. 32); ognuno bruciava incenso in onore degli dèi (Orazio e. IV 2, 51 dabimusque divis tura lenignis,, Ovid. trist. IV 2, 4). (1)

L' Ù7idvf/)aig

è,

nulla al nostro assunto,





Questi stessi

riti si

dei templi p.

e.

ritrovano

tali e

secondo Livio

quali nelle supplicazioni

(XXX

1' ;

apertura

17, 6) nella supplicatio decretata, al

giunger della notizia della vittoria definitiva sui Cartaginesi nel 203 (cfr. anche Liv. XXX 40, 4 XL 53, 6) la libagione d'incenso pure se;

;

condo Livio (X 23, 1) già nella supplicazione del 296. Anche da questi indizi, a cui si aggiungono per vero altri non meno certi, gli eruditi concludono generalmente (v. Wissowa, Religione 424) che nella sup1'

plicatio

da

fitti

non

antico nucleo

romano

strati di culto greco,

in età storica fosse avvolto e coperto che gli erano cresciuti intorno. Perchè

ritrarre dagli stessi riti la stessa conseguenza per

qui

il

che

il

nucleo romano

il

trionfo

?

Solo

mette a nudo più facilmente: è romano p. e. capitano vincitore indossi le vesti di Giove Capitolino, è ro-

mano che romano

si

deponga

egli

o italico che

i

nostre conchiusioni non

antichissima

;

le

insegne nel tempio del dio ottimo massimo

soldati cantino versi scherzosi e lascivi. si

può obiettare che

il

trionfo è istituzione

che noi non possediamo descrizioni particolareggiate cre-

dibili di trionfi antichi. Dalle descrizioni del trionfo di

Romolo

in Dio-

nigi di Alicarnasso (II 34) e di Cincinnato in Tito Livio (III, 29,

per

le

;

Alle

quali naturalmente quegli scrittori

trionfi del loro

tempo, passiamo suhito

hanno preso

al trionfo di T.

i

4),

colori dai

Quinzio Fla-

Anche

qui

non

Orazio



2Ui

riproducono a un dipresso particolari,

un

da questo

tipo,

parativi per

di

nell'

invenzione, se non nei

ne egli si diparte ancora o forse combina solo con esso un altro,

tipo ellenistico

pure tradizionale, quando il

diversamente che Alceo. Le prime strofe

procede

nelle cosiddette « imitazioni »

ci

;

trasporta in

convito festivo.

Ma

il

mezzo

pre-

ai

richiamo agli amori

giovanili nelle ultime due strofe porta nell' ode una nota personale e oraziana. Porse il poeta non avrebbe scritto neppure queste due stanze, se non avesse letto Callimaco ma sue e nuove esse sono ciò nonostante. Ora suoi

;

che l'arte con la quale il poeta corteo, così come gli passa dinanzi agli occhi,

importa solo descrive

ebbe

I

il

stabilire

riscontri, cioè modelli, nella lirica ellenistica.

frammenti nuovi mostrano che anche Alceo

carmi parenetici. Noi non conosciamo ancora

non r esortazione a una Melanippo, che

^àÀXso,

facile sapienza

tutti

«

:

|xr^

dobbiamo morire,

solo tentò di sottrarsi a questa necessità.

solo a morire due volte ».

Se

egli

di

scrisse

se

lui

\ìz'(Ì1wj

Itii-

e colui

che

Sisifo,

riuscì

abbia scritto molte

al-

gnomiche, è impossibile dire, ma parrà non probabile a chiunque ripensi come Orazio accumuli molti carmi di tal genere nel secondo libro, violando così quella norma della massima varietà possibile, che abbiamo veduto dominare nella raccolta alessandrina dei carmi di tre odi

Alceo. Orazio, par

si

odi parenetiche che

debba indurne, ha non Alceo, che nel

minino, descritto da Livio

(XXXIV

scritto tante più

distribuirle

non

nn)do del

resto assai

soiuraario e insufficiente, e a qnello di Emilio Paolo (Plut.

Acm. Paul.

32 sgg.

;

il

testo di Livio

se riscontriamo in

[XLV

52,

4)

in

40] è qui lacunoso).

tempi così recenti elementi

Che meraviglia,

ellenistici

f

ha più potuto

attenersi,

come

suole, al canzoniere di co-

ha raccolte tutte insieme. Ma anche questa sarà sempre conclusione non del tutto certa, perchè tratta da indizi forse insufficienti. Ad a.«:serzioni più sicure conduce l'esame degli argomenti delle odi pamodello e

(piale a

stui

le

renetiche.

L'ode a Dellio aequam memento

II 3,

Postumo

quella a

eheìi fuyaces II 14 e sino a un certo segno anche quella a Sestio solvitur acris hiems I 4, dove però il sentimento e alcuni particolari sono ellenistici, predicano a un diconviene saper vipresso la stessa sapienza che Alceo vere e non perder tempo, perchè si vive una volta sola. Gli altri componimenti parenetici (1) trattano temi che, se non per la prima volta impostati, per la prima volta furono trattati sistematicamente dalla filosofia morale :

ellenistica. II 2 nullus argento ricorda a Crispo Sallustio il

paradosso stoico

oti

[jióvo;

ó ao-^ò;

-Xo-jaio;.

impossibile

a concepirsi se non da chi avesse appreso, sentito, vissuto la filosofia di Socrate voc.

[AsaóxrjTo;

;

II

;

II

10 redius

16 otiuni divos un

iam panca aratro un

vives è

un

£7:aivo; £Ò\^'j[ji:a;

;

t-x.li

15

un 'i^óyo; xpu'^f,; v.y}. aby^poVvEpSeta; e contro 18 non ebur neque aureum Il l'aìa/poy.épòs^a si avventa parimenti III 16 indusam Danaem. L' invettiva xa-3c tXo'jxo'j III 24 intactis oindentior rivela un sentimento, l'ammirazione mista di invidia per i popoli selvaggi, che non suole sorgere se non in uomini stanchi per eccesso di cultura. Si è invero commesso spesso il torto di disconoscere che in queste odi parenetiche Orazio attinge a piene mani dal tesoro gnomico dell' antica melica (2) e dell' antica elegia il com'Y^^oz.

Tf^'yJi''(ti

;

;

;

(1)

Escludiamo per ora dal novero

le

consoìaiiones,

ohe sono di

tatt' altra natura. (2) il

È

motivo

noto di

p. e.

che

un carme

di

il

principio di non ebur neque aureum ripiglia

Bacchilide non dissimile neppure nel metro.

— mento



203

Kiessling-Heinze, specie nell' ultima

di

raccoglie troppi paralleli da moralisti popolari

troppo

ma

con tutto ciò non è possibile inganOrazio prende da altri poeti classici, oltre che da

pochi da poeti narsi.

edizione, e

;

cita anche qui, come suole. Ma r impulso a scrivere carmi tutti gnomici non gli viene né da Pindaro ne da Bacchilide, per i quali la sentenza

Alceo, spunti e colori

non

;

non un ponte di passaggio, un episodio, una chiusa, e neppure da Teognide o da Pocilide; specialmente non deriva, non può derivare da alcuno di questi la maniera di trattare ampiamente questi problemi, sfaccettandoli in mille guise, ragionando di etica eudeè per lo più se

monistica quasi

di professo, talvolta

pur troppo più an-

cora da professore che da poeta.

Orazio non ha potuto prendere dai poeti classici teresse semifilosofico per problemi morali.

Cicerone e

ma

;

i

tempo

rario.

E

ellenistico,

venuto ora

in-

passi paralleli dei filosofi fanno

vedere che Orazio attinge qui del

l'

dialoghi di

Seneca mostrano quest' interesse

trattati di

i

vivo nei Romani

I

i

suoi motivi a letteratura

non dicono a qual genere il

momento

di

lette-

chiederlo. Questo

problema si ricollega con l'altro, se Orazio derivi anche per la forma da quelle stesse fonti alle quali attinge per il

contenuto

;

in altre parole, se

rettamente da Alceo l'idea

di

Orazio abbia ripreso di-

scrivere odi gnomiche, nelle

quali poi per suo conto abbia trasfuso contenuto ellenistico di pensiero, o se invece abbia

formali, più

vicini

in

avuto modelli, anche

gnomica

poesia

dell'

età alessan-

drina.

Non

si

può supporre che Orazio, nello scrivere

abbia dimenticato pulso a comporre

le

letture

le Satire.

ma

Se

il

contenuto etico

Odi,

le

dalle quali ricevette di

l'

im-

que-

che esclusivamente, epicureo, una particolarità formale, che imprime su alcune di esse quasi un suggello distintivo, il dialogo con un ste è per lo più,

tutt' altro

-'

:i04



interlocutore fìnto ed evanescente, che salta fuori, scompare, si muta a piacere del poeta, deriva loro, come è noto ormai da anni, dalla diatriba cinico-stoica. Orazio riprende in esse spesso i motivi e assume il tono del predicatore che sulle piazze, ritto in mezzo a una cerchia di

problemi di etica e risponde che chiunque vuole, gli presenta, anzi ne

curiosi, discute

zioni

se stesso,

quando

gli

vien comodo.

alle obie-

fa egli a

meglio, Orazio di-

pende da rifacimenti letterari di tali prediche popolari, si può immaginare, in istile sì di conversazione ma pure ben più alto e più decoroso di quello che cotesti filosofi da strapazzo usavano nel disputare per le piazze. Sarebbe assurdo supporre che Orazio nello scrivere le Odi avesse del tutto dimenticato gli scrittori di composti già,

diatribe cari alla sua giovinezza.

Rimane

solo

gli occhi, oltre

il

dubbio, se egli non abbia avuto sotto

questa letteratura prosastica, anche carmi

parenetici alessandrini

limaco

p. e.,

hanno

fatto

(1).

Liriche dei maggiori, di Cal-

certamente no l'

arte per

l'

;

che

i

maggiori Alessandrini

arte senza

preoccupazioni mo-

E

neppure in epigrammi e in elegie dei minori avrebbe trovato facilmente modelli adatti. Il libro dell'Antologia che contiene gli epigrammi protreptici, il X, rali.

è

uno

126 epigrammi, da cui si deve togruppo dei primi 25, che è di componi-

de' più smilzi

gliere subito

il

;

menti non parenetici. Gli autori sono tutti recenti, poeti del tempo imperiale, Pallada e Luciano, o addirittura dell'era bizantina, Agathia e Paolo Silenziario. I pochi più antichi risalgono all'età di Tiberio,

come Basso,

di

(1) lu tutta la ricerca sarà prudente non prender mai come pietra paragone il motivo già svolto da Alceo « la vita è breve, la morte inevitabile », essendo esso diffuso in tutta la letteratura greca

di

e

:

romana

e in ogni genere letterario.





i205

Augusto, quali Antifilo e Bianore. Un paio di apoftegmi di filosofi ellenistici, p. e. Cleante, qualche citazione di versi sentenziosi di tragici, di Eschilo e di Euripide, o anche

anche

di Pocilide o

sotto

nome

il

di

una

(^ì

delle raccolte

Simonide, non mutano

che andavano

comcompo-

carattere

il

Il modo appunto come esso è prova che epigrammi gnomici ellenistici non ci furono se ci fossero stati, alcuno ne sarebbe conservato nell'Antologia sia pure tra un numero molto maglibri che contengono gli giore di imitazioni tarde. Cosi epigrammi sepolcrali, epidittici, erotici sono per la parte

plessivo del libro. sto, fornisce la ;

i

maggiore composti di poesie del tempo imperiale, ma contengono anche alcuni dei carmi più antichi, i quali in quelle poesie tarde

parente

:

si



rispecchiano.

un epigramma

di

Orazio a Licinio Murena rectius

di

un' eccezione ap-

Basso congiunge, come V ode vives

II

stesso ordine che Orazio, con la lode della

fronto dell'

uomo che

che sa evitare cosi Orazio

la

il

cautus

miitm premendo

Basso AP X 102

ncque

horresois, litus

con-

retto

al-

|J-VjX;

[is

y£:|aaxi

"óviog àyoc

lum semper urgcndo ncque, dtim procellas

il

cammino e della nave tempesta come la bonaccia (I):

batte

10

II

rectius vives, Licini,

10 e nello

iJ-saóty;;

ni-

iniquom

;

[oiSè

O-pas'Jj, -(iX-q'^riz

àpY;^S YjOTiaaxiJirjV ty,v rAXi vrjVEjiivjv a: |j.3jÓxyjXe; òcpiaxar ìkt, 5i xs Ksrjg'.sg

[àvSpwv,

aureum diìigit

quisquis

mediocritatem

y.aì

TcaXi |jiéxpiov syò»

tutus, etc.

CM'Tìv. xo'-jx'

Le coincidenze anche tali

xàpxiov y^jTiaji-

nell'

ày*'^") 9-^- Aa|ira

espressione sono tante

che, per quanto e la lode della mediocrità e

(1) 9-paa'Ji;

mare.

In Orazio e

della

il

couironto ò più plastico: Hasso parla

VYjV£|i'.r],

Orazio dell'attilla ))res8o

al

lido e

e

il

con-

di-l

tcóvxo;

dell'alto

— fronto della vita



iiO»)

umana con

il

corso di una nave siano

comunissimi nelle letterature antiche (1), par certo

esse

non siano fortuite. Che Orazio e Basso usino tutt' e due di uno stesso carme ellenistico, sia questo poi un carme melico o un epigramma, non si può naturalmente escludere del tutto

ma

;

un' altra spiegazione parrà più verisi-

epigramma è, come sembra, tutt' uno con lui, vive a Roma al tempo di Tiberio, canta la morte di Germanico (AP VII 391), celebra la leggenda di Enea con gli stessi concetti a cui si ispirano 1' Eneide e le odi romane di Orazio (AP IX 236). Sarebbe imprudente dedurre dal nome ch'egli fosse un signore romano dilettante se non fu, fu per altro almeno un Greco o un Orientale, che, ottenuta la cittadinanza romana, assunse nomi del suo patrono. E probabile che

mile

:

Lollio Basso, se

Basso

il

dell'

;

i

egli

abbia letto Orazio.

Quanto alle due elegie davvero gnomiche di buon tempo alessandrino, che ci sono giunte sperdute tra gli epigrammi dell'Antologia, quella di Leonida Tarentino « La vita è breve, (VII 472) riprende 1' antico monito quella di Posidippo quindi è forza moderare i desideri » (IX 359 Stob. 98, 57) svolge il motivo doloroso, frequente anche nei pochi frammenti che ci sono rimasti « Ogni condizione umana è dolore dell' antica elegia meglio non esser nati o esser morti appena nati » (2). :

;

=

:

(1)

secondo

Per gli

la

;

xnima vedi

p. e.

l'epigramma auouimo

AP

esempi raccolti dal Gerhard, Phoinix 98 sgg.

oraziani più completi nel

commento

di

X, 51 ;

gli

;

per

il

esempi

Kiessling-Hrinze a questo

passo. (2)

Mi par che

lo

1905, p. 80 sgg.) non

Schott

{Posidippi ep'ujrammaUi, diss. di Berlino

abbia ragione di dubitare che questi carmi

non era filosofo di menon è giusto esigere da lui che non si contraddica mai. La metrica, come confessa lo Schott stesso, è ottima una contravven-

siano del Posidippo celebre. Poiché Posidippo stiere,

;



-

207

Questi due componimenti mostrano che ancora in tempi alessandrini poeti di vaglia rimasero fedeli agli spunti e

forme

alle

dell' elegia ionica

parenesi filosofica di Orazio

congiunge

due

le

ma

;

la

un abisso, e nessun ponte

è

e'

carmi e

tra questi

rive.

In papiri di Heidelberg, di Londra, di Oxford furono

un

scoperti (e sono raccolti ora in

libro ricco di dottrina

da G. A. Gerhard) (1) coliambi filosofici di età ellenistica. Di un componimento contenuto in un papiro di Heidelberg si conosce 1' autore, il cinico Fenice di Colofone nello stesso rotolo sono congiunti con questo altri componimenti coliambici di autore diverso, ma di argomento, ;

di

tendenza, di arte simile

Due

(2).

dei tre temi trattati

in questo papiro sono svolti da Orazio nelle odi

simo

dell' ataypoxepòsca

saggio.

che

;

:

il

bia-

ricchezza giova solo

la

al

papiro di Londra e quello di Oxford contene-

Il

due uno stesso carme, anche questo un ^óyo; Solo il terzo carme del papiro di Heidelberg, una polemica assai diffusa contro gli amori maschili, non trova riscontro quanto al tema nelle Odi di Orazio, il

vano

tutt' e

aia/ po'/spoe-'as

.

zione a una regola che Fosidippo

di

aolito

segue, non

è pei" nxilla

pih grave delle molte divergenze che per qnesto rispetto corrono tra l'uno o l'altro di epigrammi suoi senza dubbio autentici. di Chares, Xdpvjxog

])rima

metà del

Yvcòjia!,,

III secolo avanti l'era volgare (G. A.

Abh.

delberger SUsungs'berichte, 1912, alla

storia della

13)

pedestre

si

quella delle antologie. Chares

poesia originale, a

può immaginare.

Gkriiakd, Hei-

appartengono, piuttosto che

adatta versi antichi in servigio della scuola, la lìiìi

— Le massime

scoperto recentemente in un papiro dcUn

Nessim

filo

forma è quanto

di

congiunge Chares con

Orazio. (1)

Phoinix von Kolophon. Lipsia 1909.

(2) Il

Gerhard

sce trovare

comandata,

;

(p.

secondo me, il

tono dello

103) vi scorge differenze che a piìi

stile

o

mono

me non

rie-

rigorosa che sia l'ascesi qui rac-

rimane sempre

convers.aziono garbata nui alla buona.

lo stesso,

quello di una





^208

quale, diversamente da quel che fa nelle Satire, qui per riguardo alla dignità letteraria evita di discutere dottri-

nalmente materie sessuali. Del resto la pederastia non Cinici del era forse argomento cosi attuale come per nelle Odi tózo: ricompaiono Anche tempo, alessandrino. non molto mutati. Anche in Fenice la vita umana è confrontata con una nave esposta al naufragio, anche qui si i

i

parla con biasimo della

chiunque

sia

r^jóyo; ab)(pox£po£''a?

TcoXXà

Iv0"£v

Ttpy'^aaetv

xa:

malus

to-j;

:

non

ad miseras

votis pacisci ne Ct/priae Tyriaeque merces tias

mari

(III 29,

57 sgg.).

La

i

versi del

èyòj [xàv ojv,

J)

voiv-Zzo^-v.: yyci'jzb^

£7_i)'pouc

verrà in mente

procellis,

xal

èiJta'JKò

tiox' scttsÌv

A

inutile del fabbricare.

Orazio nel leggere

heidelbergense 70 sgg.:

f;Xi)"£V £vO'' r)X9'£v,

giat Africis

di

etvai Tap^eOvi'

Ilàpvs, pouXo:'[xyjV Yj

pompa

un po' pratico



àXcov Zs '-^i^zo^

mii-

est tneiim, si

preces

decurrere

addant avaro

et

divi-

differenza consiste solo in

che Orazio immagina che il buttar via il carico, quale inutile, possa salvare la nave, l'anonimo rappresenta invece il naufragio già avvenuto, ed è distinzione

€iò,

zavorra di

poco conto.

A

chicchessia le

oì/.fat

èv.

X-'O-ou a[jiapaYO''xo'j

e le axoal 'L£xpàaxuXoo di Fenice (83 e 85) richiameranno alla memoria V aureiim lacunar e le columnae ultima recisae Africa di Orazio (II 18, 1 e 4) o anche la chiusa della

prima ode romana cur invidendis postibus et novo sublime ritu moliar atrium ? Il male è che, come mostra subito uno sguardo gettato sul commento del Gerhard, 1' uno e r

altro xÓTCog

cinici,

ma

sono comuni non solo ad Ora2do e

a un' infinità di

ai

poeti

altri scrittori, tra gli altri

ap-

punto a quelle diatribe cinico-stoiche, a cui sappiamo che Orazio attinse per le Satire non diversamente che a scrittori epicurei.

Pure io non dubito punto che Orazio, se non proprio noi, abbia letto altri coliambi i componimenti giunti a cinici. Il fatto stesso che in uno stesso rotolo sono con-

-

209

~

mi pare, che quenon agli amanti di letteraa gente che aveva per la propaganda

giunti poemi di autori diversi mostra, ste raccolte erano destinate

ma

tura raffinata

un

cinica

interesse pratico, a persone del popolo proba-

come fanno vedere

bilmente. Orazio,

buongustaio

popolare

quelli prosastici

avrà ricevuto

l'

avrà letto

i

stoica

e

problemi di etica popolare.

lirici

egli

un

era

Satire,

le ;

non meno che di morale p. e, epicurea. Ma non da qui impulso a trattare in istile alto e in me-

poetici di etica cinica

trattati

tri

letteratura

di

Lo

Fenice e

stile di

dei suoi correligionari è semplice e spoglio di ogni orna-

mento,

il

verso non sostenuto

prosa. Solo

una volta

il

ma

cadente e simile alla

tono del poeta predicatore

si

eleva di qualche grado, quando nel carme heidelbergense contro r ata)(pox£p5£ca assevera

l'

esistenza del

veglia sulle azioni degli uomini,

nome

TàÒ£ axGTTsc

|v£](X£c

sia i

5"

di

e

oa:(xwv,

éxàaxo)

il

che

buon

xyjV

pena 05

(v.

67 sgg.)

èv XP'^^'P

xaxatai'av [Jioìpav.

"^^

:

y^P? ^attv oò xa-ata)(6vec

laxtv

0-eTov

Ma



per lo più la poe-

riman fredda e vola terra terra. Né cui sono stati ritrovati ora frammenti nei pa-

questi

poeti di

piri,

vendicando

e,

della divinità negata e tenuta a vile, distribuisce

equamente premio he,

5a''[j.cov

Ioni

costituivano un'eccezione:

Parmenone

di

Bizanzio e

Hermeias di Kurion erano su per giù della stessa levatura. Invece Orazio in uno solo dei carmi gnomici, in II 2, nullùs argento color est adopra lingua qua e là volgare e stile basso volgarismi 2 lamnae, 13 hi/drops, 24 1' esatacervos sono stati già da tempo posti in rilievo tezza medica di tutta la strofa crescit induUjens sili dirus ;

i

;

hi/drops, nec sitim

pellit,

nisi

causa

morbi

ftii/erit

aquosus albo corpore languor in un argomento in

venìs et

cui

le

voci proprie ollendono, contrasta singolarmente con l'ele-

vatezza

che

di

tono consueta nelle Odi. Qui la dilferenza an-

stilistica, 14

diciamo a i)iacere dalla diatriba prosastica



210

— ma

minima;

dai coliambi cinici è

quest'ode è per ogni

rispetto eccezionale.

In generale, questi coliambi cosi discorsivi e ragionatori ci

aiutano

a renderci conto dell'origine

si

ma

di

alcune

non avessimo altro, dovremmo concludere che Orazio ha preso sì il contenuto dei suoi carmi gnomici da diatribe ellenistiche, ma è stato in-

satire

oraziane,

se

dotto a rifonderli nel crogiolo dell' ode dall' esempio dei

carmi

parenetici

tutto cosi

per lo

:

del

vecchio

Pure non è del ha cantato

Alceo.

meno un poeta

ellenistico

in metri lirici e in istile elevato, in certo senso più ele-

vato

di quello di Orazio,

poeta cinico Cercida

di

temi

frammenti del

pongono in grado capo a questo para-

ci

(1),

domanda formulata

di dare alla

I

Megalopoli, scoperti pochi anni

papiri di Ossirinco

or sono in

etica.

di

in

grafo una risposta diversa e più esatta.

Cercida tratta in metro e in

istile lirico

solo di etica

ma

quattro tra

nuovi frammenti dai quali

i

argomenti non

Ben due

perfino di metafisica.

si

di

quei

ricava qualche

senso, trattano della materia prediletta delle disquisizioni

poetiche dei Cinici. In quello peggio ridotto

(p.

39

fr.

4)

Cercida pare per vero piuttosto incoraggiare che non biasimare gli amori tra maschi, tutt' al contrario di quel che sogliono

menzione fu,

suoi

i

compagni

di setta

dell' efp^wc Zavwvixó?,

come ben

che femminili

si sa,

(2).

e

;

il

il

testo finisce con la

fondatore dello Stoa

propenso ad amori piuttosto maschili converrà credere che Cercida,

Ma non

nuovi mostrano che (1) Pap. 1082 (Vili p. 28 sgg.). I frammeuti Cercida poeta e filosofo è tutt'uno cou il legislatore e capitano niegalopolitano, che fiorì verso la metà del III secolo. nou nai(2) D. L. VII 13 rtaiSapioi? te èxprf^o OTravdcog, ócTtag 7; tic,

il

5i,axap[w

Ttv(,

malevolmente

Iva là

5o%oi7j \i.iooyùvr,i; slvai. Ateneo (XIII 563 e) esagera dove trasforma quella notizia così oòHtzozs y^va'-xl [ir)

èxpr]oa.zo, naiSixoìs 5'àet,

:

co?

"Avtìyovos o Kapuaxios lo-copeì Iv

icp Tiepl

— un argomento

in

211



cosi importante di

morale pratica pro-

fessasse opinioni affatto contrarie a quelle di tutti, dire,

i

Cinici

Le

(1).

distanza làc oè To[i]auxac

di

si

può

parole che precedono a poche righe axsTCToa'Jva?....

\ì'Q

OTiouoàv

7t:o'.£Ì-

ad-[at],

per quanto mutile, mostrano che Cercida distin-

gueva

tra

due diverse specie di amore. Egli avrà inteso la dottrina stoica, secondo la quale l'amore del sapiente ha per oggetto non solo il corpo, ma anche r anima (2), e, accettandola francamente, avrà raccomanrettamente

zoo p£oo aÙToO il

ed

;

è certo

che Diogene riproduce qui più fedelmente

pensiero dell'autore comune, Antigono.

MOWiTZ non commetterebbe più ora di

Diogene

l'

Ma

senza dubbio

come lo tradusse quand'era giovane più un giovinetto, di rado una ragazza

così

vizio per lo

il

ingenuità di tradiirre :

«

il

Aveva

Wilapasso al ser-

» {Antigouos von

Karystos 115). Qnest' interpretazione appare errata, anche perchè nell'antichità

non

schiava

»,

che

Il

Gerhard ha mostrato

al servizio « una o due volte una potevano licenziare a piacere come ora ; per disfarsene bisognava venderli o donarli. Del resto, a togliere ogni dubbio suir interpretazione, segue in Diogene ancora una storiella sur un'avventura amorosa di Perseo e del maestro. (1)

poteva

si

i

servi

non

avere si

(Phoinix 144 sgg.) che

zione solo ciarlatani dell'età imperiale, che coprono col

'

fanno ecce-

nome

rispet-

merce sospetta, oltre Bione, piuttosto che filosofo, quindi punto rigido nella fede ai dogmi della scuola a cui

tabile di Cinico

letterato e

pur professava di appartenere. (2)

Esagererebbe malamente chi credesse che

gli Stoici esigessero

nell'amore maschile la castità assoluta, riduceudolo così a un senti-

mento quasi del tutto none, specie

tunque

il

intellettuale.

Quel che

si

sa della vita di Ze-

particolare riferito da Diogene, che egli talvolta, quan-

assai raramente,

si

sia unito

anche con donno

«

per non parer

misogino», basterebbe a mostrare che egli considerava inditìercnte r atto sessuale in sé stesso anche se non soccorressero frammenti ;

espongono chiaramente questa opinione. Secondo (presso Sesto, Pyrrh. hypotyp., Ili, 205.246) non c'è nessinia

delle sue opere, che lui

differenza

tra

ciare con le

doloro.

Lo

1'

aver

mani stesso

contatto

sessuale con la

madre

qualsiasi altra parto del corpo di

Sesto (ibid. Ili, 245)

rijiorta

un

e lo stropic-

lei j)er

sedare un

jiasso delle 6ia

— dato

di scegliere

sumere che

21-2

un amato,



le cui fattezze

facessero pre-

almeno atto a ricesemi della virtù (1). La donna doveva sembrare vere meno suscettibile di educazione morale, onde dal contatto con lei r amatore non poteva apprender nulla. Ne egli

era o virtuoso

o

i

sorprende che il Cinico modello di vita morale

ha adottato senza

dell'

età ellenistica esalti quale

fondatore della Stoa

il

Zenone

:

quanto a etica sessuale, massime ciniche, fondendole nel suo sistema. Secondo la trascrupoli,

VI 58) si sarebbe congratulato con un bel giovane studioso di filosofia, perchè egli guidava a poco a poco alla bellezza dell' anima gli amadizione (Diog. Laert.

xpi^aJ, uel

quale Zenone eapone che uoa importa se

proprie voglie con TiaiStxa o con

mine. Cosicché non vi sarà

quando

scettico,

anche

oi

cavano

uspi

|xr)

j)ropri()

soddisfino le

si

uaiStxa, con maschi o con fem-

ragione di negar fede

riferisce (ibid. Ili, 200)

che non solo

al

medico

Cinici,

i

ma

xòv Ktxisa Zi^vcova xac KXeavd->]v xaì XpuotTtnov giudi-

affatto indifferente

1'

àppevop.i;ia.

La parola

àSidcpopov usata

da Sesto sarà proprio quella adoperata da Zenone, come conferma Stobeo ed. II 65

W.

tò epàv aùxò

[jlóvov

à5iaq;opov slvai,

xal uepl cpaJXo'jg. Quindi I'Arnim (Wiener Studien, sgg.) avrebbe torto a volere integrare

mento

in

modo da

fargli dire

che

vedere certi spettacoli, ancorché

il i

il

-0x2

1912, 23

principio mutilo del fram-

sole chiude

suoi

sTieiSr; Y'-vstxì

XXXIV,

suo occhio per non

il

ingegnosi supplementi non

rendessero necessario, come rendono, di trasporre ijarecchie ijarole in

un passo lacunoso. La dottrina

muove

stoica dell'amore



da quella

platonica e la riproduce anche in punti molto scabrosi, come nel prescrivere che nella città ideale le donne siano comuni,

ma

fa conces-

sioni molto maggiori alla carne.

D. L. VII, 129 Hai

(1)

èpaad-T^asofl-at 6à xòv oocpóv

sp,fatvóvxa)v Sia xoù s'iSoug xyjv Ttpòg àpsxifjv EÙcputav

sta massima sono eitati •Kpfì)Z(p

nspl

finizione

B£(i)v

dell'amore

èn-^atvóiisvov si

che secondo

Zv^vcov

sv

x'g

UoXizBicf.

xat 'ÀTroXXóStopog sv x^ slvai xòv

soggiunge xai

gli Stoici esso in

'HO'txf;.

spwxa èniPoXYjv |ì,y)

;

xwv

xwv

xal XpuatTrTzog sv xtp

Subito dopo alla de-

cptXonoitag,

elvai ouvouoiag

vscov

quali fonti di que-

àXXà

5ià

cftXtag.

xaXXog

Che an-

genere non può fare a meno dell'unione



:iló



del suo corpo. Non è questa appunto la dottrina, adombrata da Cercida in questo frammento mutilo ? (1). Anche nel secondo meliambo, che è meglio conservato, Cercida tratta di amore, rivolgendosi a un tal Damonomo, a noi del tutto ignoto. Eros spira secondo lui due venti dalla bocca quegli tra mortali cui il vento soffia dalla gota destra del figlio di Afrodite, governa sicuro in bonaccia la nave di amore con il saggio timone della persuasione ma guai a colui cui il vento spiri procelloso dalla gota sinistra! Costoro avranno da comtori

i

:

;

battere con

il

mare grosso per

tutta la durata del loro

corso. Qui Cercida stesso ci informa che egli

non isvolgere, per vero Euripide

questi, a quel

:

due venti

(2)

assai largamente,

che pare, aveva solo parlato dei

senza insistere oltre

nell'

immagine

è invece qui svolta fino minuziosamente. «

que meglio

carnale,

si

»,

non fa se un verso di

Non

che dun-

(3),

è

seguita Cercida, « dei due venti scegliere

vede dall'esempio scelto

di

Tbrasonide che, sebbene avesse

non volle usar con lei, solo perchè si sapeva questo dell'astensione doveva pur sembrare un caso

in suo potere l'amata,

odiato da essa

;

eccezionale, se a motivarlo occorreva mettere in luce

golare di Thrasonide per

i

il

rispetto sin-

sentimenti dell'amata. Si scorge chiaro an-

che qui che l'atto sessuale in sé è considerato indifì'erente. (1)

Lo coincidenze sono molte

e notevoli in tutta questa materia.

Antistene esigeva ancora (Diog. VI, 11) che creare

figli

;

ma Diogene

voleva comuni

Platone e Zenone (Diog. VII, Ili,

206), così anche

ragione che

3.3).

i

savi sposassero per pro-

donne (Diog. VI, 72) come Come Zenone (Sext. Pyrrh. hypot.

Diogene giudicava

Cinico porta in difesa

le

lecite pratiche solitarie, e la

queste (Diog. VI, 46 cfr. anche VI, 69) è quella stessa che (v. sopra p. 211 n. 2) Zenone adopra per sostener permesso l'incesto, non essere maggior peccato strofinare una parte del eorpo che un' altra. il

(2) 6iaoà 7ivsu|JioiTa uvei^,

di

:

'Epwo finora frammento adespoto 187 N

*.

(3) Quest' è del resto assai familiare alla gnomica e in genere alla poesia greca cfr. Gkrhard, Phoiuix. 98 sgg. :





^I*

e, maneggiando con sagtimone della y)ersuasione, navigar dritto verso là possibile il varco con l'aiuto di Cipride ?» Qui man-

quello che a noi è favorevole,

gezza

il

ove sia cano sette righe, poi segue il consiglio di tenersi all'Afrodite di piazza, che non è fonte né di timori ne di turbamento al prezzo di un obolo ciascuno può immaginarsi ;

di giacere al fianco di un' si



Elena.

La concezione che

rispecchia in questi versi, concorda anch' essa con la

morale

stoica,

amore,

1'

secondo

quale

la

una accompagnata da

sono due specie

(I) vi

virtù, l'altra viziosa,

di

che

deve essere considerata quale pazzia. Nel tratto perduto Cercida doveva esporre brevemente che quanto a certi bisogni vi è farsi

servo

modo

di soddisfarli

della

passione,

prontamente anche senza anche senz' immischiarvi il

cuore che dev'essere risparmiato per qualcosa

Anche

qui

considerare

il

sessuale quale indifferente

è,

disforme dallo spirito della scuola,

VI

il

consigliava di avvicinare solo

3)

meglio.

come abbiamo veduto

bensì,

ma non

conforme a dottrine stoiche,

di sopra,

di

soddisfacimento del bisogno

il

è

neppure

cui fondatore (Diog. tali

donne che do-

vessero saperne grado.

Un

altro

biografica,

meliambo

ma non

a quel che pare,

si

direbbe

d'

indole piuttosto auto-

istuona in questa raccolta di carmi,

tutti filosofici.

Che

il

poeta in una poe-

sia parlasse di se stesso, era uso frequente nelle lettera-

ture antiche almeno dal

sorprende che

tempo alessandrino in poi, e solo carme autobiografico (2) non sia qui

il

proprio in fine del rotolo

(1)

Stob. ed.

àpsTYiv TToiòv Èp(j()xo|J.av^ óiioloìc,

II,

65

anooSatov

xiva.

-còv

;

com' è del resto certo, perchè

ÈpcoTiv-òv xai òiyj^ XiY£a%-a.'., xòv

òvxa, tòv 5è

Poi dopo

uua

xatà

ttjv xav.iav èv

i>roposizioue

XéysaS'ai zi^ dc^'.o^iXrjXcp xaL oò

tw

Su carmi autobiografici

cfr.

'"'?

Tìr^v

^"^

mutila xòv T'àgiépaaxov

à§La;:oXatjaxu>- za/ yÒLp àgtov

OTTOuSatou spwxog, zoùzo^ slvai àgiépocaxov. (2)

xaTà

tJ'^YVi

sotto.

segue

la sottoscrizione

Ci vien

fatto quasi di

-

215

amore Zenoneo. chiedere a noi stessi, se non fosse

al

raeliambo

sull'

altrimenti nella raccolta originaria delle poesie di Cercida

che r autorità

non

un manoscritto

di

-.

secondo secolo dopo

del

questo riguardo superiore

è per

a ogni soche Cercida, rivestendo il suo addio alla vita della forma di un ammonimento a se stesso e al suo cuore, è riuscito bene ad adattarlo al tono degli altri carmi e a dare anche ad esso Cristo

spetto. Del resto conviene riconoscere

colore parenetico. Altri ha spesso chiuso senza volerlo

occhi al sonno

gli

(1),

Cercida no

il

;

suo cuore è rima-

sto saldo e invitto, e ha divorato ogni cura. Perciò nes-

suna cosa bella

gli sfuggì, e

ciatore delle Pieridi.

grigio

il

Ora

i

suo animo fu ottimo cac-

il

capelli del poeta sono bianchi,

mento. Dai pochi versi che seguono ancora nel si ricava, che il periodo è mutilo.

papiro, poco costrutto

Ma

il

senso generale della parte perduta non è dubbio:

Cercida ha saputo vivere da savio, ora saprà rinunziare a speranze mendaci e morire

di

buona

ricorda la fine della epistola oraziana satis atqiie bibisti:

tempus abire Ubi

l'ideai et pulset lasciva decentius

è per di

me una

est,

voglia.

Chi non

Insisti satis, edisti

:

ne potum largius aequo

aetas? Questa somiglianza

ragione di più per credere che questo carme

Cercida fosse una volta V ultimo. Singolare è

mai

gli dèi

il

primo meliambo.

non tolgano

le

Il

poeta

ricchezze

ai

si

chiede come

prodighi e agli

avari, per concederle a chi rettamente al

savio

(2).

E

il

saprebbe usarne, dubbio angoscioso intorno alle ragioni

(1) [uoXXocJxij 8[iaì)-3ls ^pozbc, O'Jit èxwv vuol dire (|iie8to, come ha ben veduto M. Ckoiset, Journ. dea iSavani» 1011, 486, seguito dal

Fraccakoli, (2)

lìiv. di FU. XL, 1912, 129. L'Arnim ha ben veduto {Wiener Studien

XXXIV

1912, 13) che

non può essere se non un uomo che beve da un cratere unico insieme con altri, un tale cioè che appartiene a uu'assoil

xoivoxpaxYjpóaxucpos





21 r»

della giustizia divina apre l'adito alla

domanda,

Cercida non osa addirittura negarlo

esistano.

se gli dèi

ma

;

nel

suo ragionamento sono enunciate più o meno chiaramente le due premesse da cui la negazione dovrebbe logica-

mente

scaturire. Chi chiede

àTreouaXàxwTat

|iòs

ò

\ì-!^kox' 0"jv

zòLz

i'^^hÀ-

^Ì'/jxc

« forse l'occhio della giustizia

;

si

è in-

talpito?», pensa che la giustizia è attributo essenziale del

concetto della divinità. Più sopra è detto chiaramente

che nulla potrebbe impedire agli

dèi, se volessero, di in-

staurare in terra la giustizia: xal

xi

xò xwX'jov

f^c,,

oix

x'.(;

uno chiedesse perchè non hanno distribuito più equamente le ricchezze) (1) segue ^eTa yi'p ^ar. (o}(p' ìpo\i]xo

;

(se

;

dazione la qnale ha tra le sue coneuetndini quella del banchetto comune; ma ha torto poi di pensare che Cercida intenda parlare di un pover

uomo

qualsiasi,

il

quale, per jtoter bere vino, debba riunirsi

cietà con altri a che gli costi

pone costui

;

caro. Cercida, dal

in so-

momento che op-

allo spilorcio, al p'jnoy.i^òo'zóv.oìy v.aX xsO-vaxox!xÀxt8ag, e allo

sprecone, al

un savio

men

TzaXiyBv.yjù^e^i'zOi.c,

tù)v

or egli, per quanto

XTedvwv òXs9'pog, ne fa un virtuoso,

nomo

parte popolare,

di

non poteva

supporre qui tacitamente che ogni popolano e ogni povero mettesse in pratica la

massima

del

giusto mezzo. Anche per

sono rari in qualsiasi condizione sociale.

Il

i

Cinici

i

savi

xoivoxpaxTjpóoxocpog è dun-

que il savio cinico che mette a disposizione degli amici quel po' di danaro che basta, xàv òXXu^iévav SauavuXXav, per il banchetto comune. La parola che precede xotvoxpaTTjpóoxocpoc, smxaSsoTpcbxTaj, conferma quest' interpretazione xpióyeiv non può esser detto dell'uomo del popolo, che è costretto dalla necessità, ci provi gusto o no, a mangiare :

cibi semplici;

ma

pasticcini, ogni

del Cinico che assapora con voluttà, quasi fossero

cibo che ha a mano.

La

virtù

del y.oivoypaxvjpóoxu-

come sembra abbia veduto bene il Fraccaroli, MsxaSwg, come traduce ingegnosamente « Donoua ».

cpog è,

egli

(1)

senso

L'Arnim difende

di óp|iolxo e

xevó&oai e 5óp,ev.

grave scapito èxxeXé(o)oai 1

Ma

dell'

la lezione del ms. cpépoixo, spiegandola nel

facendo

dipendere

da questo verbo gli infiniti può conservare solo con

la scrittura del papiro si

che fisìa y^p èoxi &•£(}) nàv per parentesi, troppo lungo; e che

eleganza e del senso

XP'^M'' ètiI

voOv 6x'

Ì13

è,

:

dio, l'onnipotente « si accinga, tenti » di punire

o

ricompensare,

— £XT£X£acévat té-

qui moechis non voltis, ut omni parte laborent

Xog

aique

5'

T/jV fjSoVYjV, 7ioX?.à

ànavxàv xwXoxixà

(ICf?

atqtie

illis

multo corrupta dolore voluptas

haeo rara cadat dura ìnter saepe pericla,

x^ xoù [loixsusiv

TjSov^ xal £a6-'oxs

Xaxàg

hic se praecipitem tecto dedit

cpoy^S

Tj

;

ille flagellis

cp'j-

ad morlem

caesus;

fugiena

hic deeidit

acrem

>]

praedoìium in furiavi, dedit hic prò corpore nummos.

9-avdxou$,

'KoXXd^ic, 8è Ttpò xoóxtov yal xtvS'jvoug

xa-

132 discincta tanica fngiendumst ne

nummi

et

pede nudo,

pereant aut puga aut denique fama.

xàxòè7n,x-^psìvxTf]v

xoù àvSpòg s|o5ov à.Tzò xriz

XéóV



olxias xat

127 nec vereor

ne,

ianua frangatur,

dum

futuo, rir rure reourrat,

latret canis

èxSLVO'J ifpo-

vouvxwv.

Il

confronto è così chiaro che converrà oramai ragio-

nare inversamente e asserire che

i

passi oraziani confer-

mano che Origene riferisce con fedeltà la Epicurei. Non dunque senza ragione da un Cicerone (Tusc.

V 94)

(1) si

(1) obscenas voluptates....

aetate, figura

dottrina degli

noto passo di

suole indurre che gli Epicurei

non genere aut

loco aut ordine, sed

metiendas putant (cioè gli Epicurei).

forma,

— davano

gli stessi consigli

appare fedele,

se non



23r)

che Orazio; e Diogene di Enoanda maestro primo, almeno alla sua

al

scuola, (piando dice inutili alla felicità ricchezza e gloria

civica e

regno e

il

molle e

la vita

il

lusso della tavola,

non già le voluttà d'amore, ma il raffinamento nelle voluttà d'amore (1). Vero è, secondo me, che Orazio, quanto almeno al che la questione della forma è contenuto della Satira

e

tutt'

altra —



meno

deriva molto

molto più fedele

dai Cinici ed è rimasto

alle dottrine epicuree di

creda comunemente

ma

fu scolaro non di Epicuro

deve immaginare che

quanto ora

si

Solo bisogna ricordare che egli

(2).

i

non

di tardi epigoni, e

seguaci del Giardino siano

si

ri-

masti per secoli e secoli in tutto fedeli alle opinioni del maestro senza mutarle in nulla, che sarebbe contro la

natura delle cose

umane

Che difficoltà c'è ad ammetpropaganda abbiano adot-

(3).

tere che gli Epicurei nella loro

tato anch'essi un'idea diffusa nell'etica popolare e l'ab-

biano confortata di un

commedia

già svolto dalla

-zótzoc,

attica ?

(1)

bnb

Fr.

XXIII WiL.

xr,; cpuasco; xx'/jaiijsvot

aùxò 5'Jvaxai uapas/sìv xog p£o5 (ii^x'

y.%i

àXXo (2)

Si

può essere

xéXog

iiyjts

5óga

xpscns^wv uoX'jxéXsia

xi



felici

solo xò

8' èaxi, zo\izo.

uoXsix-.xy) [irjxe ^aatXóia [ìyjx'

£-i^y;-:o'J[ji£vov

cxt xs jiv^xs |iy,0-'

-XcOxo;

i^poSiai-

àcppoSsiaiwv £YX£À=Yp.iva)v

rfiowfx.1

iirfivj, cpiXoaocpia §5 Tiipmcilisl lióvvj].

Sulle fonti filosotìclie delle Satire spero di tornar presto al-

trove. (3)

Tra

i

segnaci di Epicnro sorsero spesso controversie di inno-

vatori con seguaci ortodossi delle dottrine del maestro nieglii,

ingegnosamente sostenuti

(Riv. di

FU.

XXXVII 1909, Mits. LXVI

LIPPSON [Eh.

60 sgg.)

ma le

arbitrari,

:

v.

contro

del nostro

i

di-

Bignonk

assennate osservazioni di R. Phi-

1911, 231 sgg.).

237

4.

In quest'ultimi tempi imhres e specie

24

I

due epicedi

i

quis desiderio

romane più

piuttosto con consolationes

neraria anteriore.

Da

che

precetti

i

ìion

di letteratura fu-

si

noterebbero

professori greci dell'età

1

periale impartivano nelle loro scuole di retorica alla

[j.ovq)o:a,

semper

confrontati

certe somiglianze, che essi presente-

rebbero con quelle, da certi riscontri che tra essi e

9

stati

tarde, soprattutto

che non con quel che resta

di Stazio,

li

sono

all' èTOxàcpco;,

al

uapaixut^Yjtcxó?,

come

im-

intorno divide

questa materia il secondo dei trattati attribuiti a un Menandro (1), o intorno all' èTziixrpioc, soltanto, come la com-

prende in un nome unico V ars dello pseudo Dionigi di Alicarnasso (cap. VI) (2), si è voluto inferire che Orazio attinge qui i motivi della sua lirica da manuali elleniche mette in versi luoghi comuni della retorica (3). Questa conclusione appare già a prima giunta sospetta stici,

:

parrà strano che

l'

della

influsso

retorica su

Orazio

si

scorga appunto quasi soltanto qui; possibile che egli proprio solo quando aveva a comporre, diciamolo pure brutalmente, una lettera poetica di condoglianze, rivolgesse la

agli studi retorici della sua adolescenza ?

mente

E

il

ragionamento, da cui quella conclusione scaturisce, è viziato

da più

Sia o

(1)

ambedue

i

di

un

no costui

errore.

il

retore

Monandro

«li

Laoclicea, par certo elio

trattati siano stati composti verso la fine del terzo secolo

dopo Cristo: Schmid, Pauhj-Wissowa VII, 1134. (2) In verità per (jnesta parto un manuale nini

:

Kadkrmacuek,

(3)

hi.

Ali.

nouKG

dell'età degli Anto-

Faulji-fViHsowa V, 969.

Un pensiero giusto e lino del Reitzenstkin XXI 1908, 82) ò stato esagerato e travisato {ibd.

XXV

1910, 271 sgg.)-

{N. Jahrb. f. d. da M. Sik-

così

— Infatti esso

trine retoriche,



238

non considera che (Jrazio, oltre 1(3 dotpoteva avere ed ebbe probabilmente pre-

sente tutta una letteratura poetica alla

giunge parimenti

quale

ricon-

si

la pratica e la dottrina dell'eloquenza

funeraria dell'età imperiale: anche se non fossero

come

servati,

con-

sono, frammenti di elegie mortuarie di Ar-

chiloco e di treni di Simonido, anche se non solo fossero

andati smarriti tutti gli epitymbii ellenistici, che sono di

natura un po' differente, notizia di epicedi

sandrini

;

lirici

ma

si

fosse perduta

ogni altra

o elegiaci composti dai poeti ales-

pure un passo appunto dell'ars dello pseudo-

Dionigi avrebbe dovuto mettere in guardia

Siebourg

il

e rattenerlo dal formulare asserzioni precipitose. Dionigi

Non avremo

scrive:

soltanto

collettivi

pieni di essi, sia

scarsità di modelli per

ma

individuali

;

«

che

cosiddetti epicedi, sia

i

v'è grande abbondanza

di tali discorsi in

i

epitafi

treni; cosi pure

i

forma prosastica

sia nella letteratura antica, sia in quella più recente »

modo come

Il

lo

pseudo-Dionigi propone

non

carmi sono

(1).

ai suoi discepoli

di retorica indistintamente

carmi e prosa ad imitare, ba-

sterebbe a indicare che

fu

ci

antica e che essa svolgeva a

una poesia funeraria più un dipresso gli stessi mo-

che ritroviamo in Orazio e nelle Consolazioni, anche se non sapessimo che la prosa d'arte, la cosiddetta eloquenza epidittica, quella appunto che s'insegnava a scrivere nelle scuole di retorica, sostituendosi anche in altri

tivi

campi anche

-

ambisce di continuarla per ogni rispetto; termine di [jiovwo'a non dicesse che

alla poesia,

se lo stesso

(1) II 278, 7 Us.

pa8stY|J.aT«)v),

èttsì

~oi

o'jy.

à7topr,ao|j.£v O'JSè tòjv Tipòg

xal Tà uotyjiiaxa

o'jTcos Gv&[Jta^ó[isvo'. ^y7,^/o'. to' èaT'.

TotO'JTWv

[iSVOlg.

XóYWV £V te

iole,

ixaaxov

{iEoxà toùtcov,

cbaatiitog nXo'noc,

uoXòg

naXai xai Toìg òXcyov

tòjv

ci

(scil. 7ia-

èmy.rfieioi

xaxaXcya5r]v

xi Tipo

7j|ji(j)v

ysvo-

— r eloquenza emula qui euripidei

239



pathos dei canti degli attori

il

(1).

Quindi, che motivi degli epicedi oraziani

con con cili

le i

prescrizioni

dei

accordino

si

magari siano identici

trattati, o

motivi, che s'intrecciano nelle poesie di troppo do-

discepoli della retorica, dell'autore della Consolatio ad

Liviam e

non prova nulla;

Stazio,

di

o dimostra tutt'al

più che è proprio della natura umana, quando o compiangere o consolare certi sentimenti e

mettere

rebbe la dipendenza

di

una sventura,

si

vuole

fare appello a

in luce certi pensieri.

Prove-

queste liriche dalla retorica chi

mostrasse che in Orazio ricorrono tutte o quasi tutte parti che

distinguono

trattatisti

i

negli

giù nello stesso ordine che essi prescrivono. cosi:

secondo

gli

insegnamenti dei

le

epicedi, su per

Ma non

è

trattati è parte indi-

spensabile sia dell'orazione funebre sia della consolazione

un encomio

del morto, distinto nelle lodi della schiatta,

della nascita, dell'indole

modo

dell'educazione,

del

dovrebbe seguire un'esaltazione Che c'è di tutto ciò in Orazio? Si obiet-

di vita, alle quali

delle opere (2).

(Ij

naturale,

Anche Menandro

cercati nella poesia,

ma

sa cbe

i

|jiov(o5{a vanno Omero, cbe introduce Andro-

primi esemiii della

risale sino a

maca e Priamo ed Ecuba a lamentare la loro sorte (p. 434, 11 Sp.). La derivazione non sorprenderà chi ripensi die per Platone Omero appartiene al Ysvog au|Ji|JLt>CTOv ma non credo che autori del buon tempo ;

avrebbero chiamato (2)

«è

Menandro

chiaro, dico

secondo stessi

àycoy^i;, Tìptxgswg»,

nell' àx(tìY>ì

1'

monologhi omerici.

i

e lo xisendo-Dionigi coincidono quasi letteralmente:

il

deve derivare dagli cpóaecos,

oiSai

(p.

278, 16), che la lode uell'epitalio

luoghi che nell' encomio

ma

poche righe

piìi

:

si

TtaxptSo;, Ysvoug,

innanzi egli distingue

àvatpo-^>^, la nai^sia, gli èTiixi^SeuiiaTa.

Monandro

(p.

420,

10) prescrivo per l'epitafio l'uso dei luoghi encomiastici consueti, ysvot>;,

YEvéaswg, cpuoecDg, àvaxpocp^S, TtaiSeiac,

è7rtT»]8eu|jiàxtt)v;

(420, 25) seguono quale parto principale le upagsij. è

che Menandro distingue la Yévsaij dal Y^vog

e

La

subito dopo

sola difterenza

considera categorie, coor-

— non

terà che

minute

ù ragiono

vi



!240

aspettarsi partizioni così

di

Ma questa osservazione che Hrica concettosa non può dipen-

in lirica così concettosa.

significa tutl' al più

dere dalla retorica, ciò che anch' poesia il

conformi

si

buona

di

poeta, a precetti di

genere,

tal

Stazio nelle Selve. Questi il

in ai

K come

credo.

se



vuole

mostra l'esempio

di

accomoderà a cantare anche

si

{siìv. II, 1, 72 e quasi con metterà 06 spiritosamente sgg.) 5, luce che essi discendono da progenie, relativamente più tra i servi, nobile si acconcerà a celebrare la

o

servi

di

yévos

le

io

mala voglia,

o di

liberti

V

parole

stesse

;

;

cultura

(II

113 sgg.) e

1,

50 sgg.)

le virtù (II 6,

di j;j5()

Musa

è profferita senza

tihi,

ì^er(/ili.

E

nome

(lubl)io in

non perchè ella aiuti l'amico nel canto fun(;l)re. Virgilio non è ancora parola: Orazio parla a se esorta sé a non vergognarsi del pianto, supplica

Musa

d'ispirargli

canto.

il

Il

pensiero occorreva certo

assai spesso nelle eonsolationes. L'ars dello pseudo-Dionigi si debbano dolore dei superstiti e non dargli subito addosso. Monandro annovera tra gli uffici del di-

prescrive

(p.

281, 8 Us.-Rad.) che nel consolare

far concessioni al

scorso consolatorio quello di mostrare la grandezza della

sventura (413, 6 sgg.) solo nella seconda parte dell'orail retore dovrà passare ai conforti (413, 22). E la ;

zione

ad Liviam si attiene così scrupolosamente a preche di 474 versi ben 329 sono spesi nel compianto, nel i>-pr^vo;. Che Stazio non dimentica neppur lui questo dovere del buon consolatore, non occorre neanche consolatio

cetti tali,

dire

(1).

Ma

il

«

luogo

», se

luogo

lo si

vuol chiamare, è

ben più antico della retorica quella stessa elegia di Archiloco che Orazio cita in fine del suo carme, la più an;

tica consolatio della letteratura

greca

notizia, incomincia

:

cosi

pixXésg, oòoi iiQ àaxtov

(fr.

9)

[jisjji-fójjisvo;

di cui ci sia

xifjzv.

O-aXcr^c

|ji£v

giunta

axovóevTa, Ile-

ii^/hz-%'.

oùoè -óXtc,

e continua toioug y^P v-axà y.Ojjia 7i:oÀu'^Xo:a,joto 9-a^aacjr]; la più aev, oLSaXéoug à{icp' ohòyrf, lyo]ì.zv 7:v£i>[xova; (2).

E

passata poesia ellenistica non

(1) II 1,

doma

;

(2)

II 6,

14

nemo

vetat

:

si

satiare malia

lascia

sfuggire

Menaudro ha

tra

i

suoi esempi oòòk

^vjTOÙvxag TOioùtov (p. 413, 20)

;

questo

aegrumque dolorem

17 quisnam haeo in ftinera missos eastiget |i£[j,"^o(i,ai

r/.X'j-

com-

libertate

hictìis ?

:i£v9-oDvTa; xxi

la coincidenza quasi letterale

mostra

— motivo,

ma



aggiungendogli

lo ripiglia,

chieste dall' etica di

ii31

una

le

restrizioni

scuola filosofica in

voga

ri-

in quel

tempo: Euforione, nel solo frammento conservato d'un epicedio (20 Scheidw.),

scrive

jxéxpca

yjxi

itov

Sp-lfjacci-

sv

:

xpscaaov où^àv 'Avàyxa^ axv:'atv,

xài;

'Op'feta

xa-

Questo significa in generale: « Neppure la sapienza di Orfeo seppe trovare un rimedio alla morte ». Ovidio scrive {Am. IH 9, 21): quid pater Ismario, quid mater profuit Orpheo? Carmine quid victas obstipuisse feras? cioè: « Anche il cantore mitico, Orfeo, dovette morire^ come te, grande poeta nostro, Tibullo ». Qui la forma speciale dell' esemplificazione è suggerita dalla, diciamo -tf^y.'ltzv

così,

Yf|pU(;.

comunanza

è più naturale

di professione tra Tibullo e Orfeo.

si

pensi,

come

qui in Orazio, al tentativo

disperato, che Orfeo fece, di strappare con

Euridice all'Ade, alla sua discesa agli il

Ma

signore dell'oltretomba, reso vano

suo canto

il

inferi, al

patto con

dall'amore troppo

molle del citaredo. Cosi è nell'epitafio per la morte di Bione, nel quale si può ancora scorgere come il poeta inetto e pure ambizioso di originalità abbia tentato

modificare (v.

il

xókoc,

di

tradizionale senza riuscirvi. Se potesse

115 sgg.), egli discenderebbe nella casa

di

Plutone

come Orfeo, come un tempo Odisseo, come prima Alcide: questo si chiama seminar nomi con il sacco, non con la

— mano. Si aspetterebbe gue invece « per vedere, :

che cosa canti

^2:à;



«

por strapparti agli Inferi »

e,

se tu canti a Plutone, per udire

L'invenzione è barocca.

».

Ma

il

;

se-

poeta-

stro vuole a ogni costo sfruttare sino in fondo la sua eru-

dizione mitologica.

canto

Bione deve cantare

siciliano, e Persefone,

come ha

alla luce Euridice, così ridonerà

carme

finisce:

E

«

se

un giorno

restituito

Pione

ai

un

stesso

egli

suoi monti.

11

anch'io avessi qualche abilità nel

suonar

la siringa, anch'io canterei a Plutone ». Chi non vede che qui un zóko^ non retorico ma poetico è malamente tagliato a mezzo ? che al poeta, disceso all'Ade

per impetrare con

il

canto la restituzione

di

persona cara,

un poeta che scende per vedere e udire cantare colà il suo maestro morto ? che al maestro è qui

si

sostituisce

attribuita la parte di Orfeo, quasi questi avesse impetrato

da Persefone la liberazione sua, non quella di Euridice? che il discepolo non può tuttavia far a meno di comparare anche sé con Orfeo ? Si scorge chiaro che un poeta più antico aveva cantato a un dipresso così « Anche Orfeo scese all'Ade, ma non potè, se non per poco, re:

Euridice alle aure terrestri »

stituire

di Bione, imitandolo, storpia

il

;

il

motivo

discepolo italico

(1).

Secondo ogni

verisimiglianza Orazio ha conosciuto quel poeta; lui le

ma

per

anime, sia dei buoni sia dei cattivi, sono apparenze

vane, immagini esangui, strofe è

à[iev7]và

xàprjva.

Lo

stile della

elegante di un'eleganza un po' ricer-

solito,

il

cata, che ritrae effetti dall'aggettivazione squisita e dal-

bene studiato delle parole. due ultimi versi tornano al modello

l'ordine I

(1)

Anche Stazio tenta

tradizionale

:

:

adoperare in modo nuovo l'esempio si è fatto intendere da selve

nepj)ure a Orfeo, che pure

e da fiere, riuscirebbe.... superstiti

di

classico, alla

II 1,

11

;

Y

1,

non 23.

di

piegare

gli

Inferi

ma

di consolare

i

— poesia di Archiloco da cui diirum,

secl levius

^0/



carme aveva preso

il

patientia quidquid corrigere

fit

le

mosse

est

:

nefas,

che

assomiglia, nella sua brevità, molto più alle parole

in Archiloco tengon subito dietro a quelle trascritte a p. 250, che non alle varie forme in cui quel tótco; com-

pare in poeti e v.axoTatv,

oj

'-pi'X',

filosofi

èul

tardi (1)

xpaieprjv

àXXà

:

0-sol

yàp

àvr^xÉcj-oia:

ed-saav

-Xr,[JLoa'Jvrjv

cpàpjxaxov

aveva spesso sulle labbra una sentenza che pare a prima vista non dissimile, se Svetonio (2) non inventa, là dove narra essere stato egli solito di dire che la virtù più utile all'uomo è la pazienza e che non vi Certo, anche Virgilio

è sorte così aspra cui

Ma

non vinca.

forte,

quidquid corrigere

:

pazientando prudentemente,

manca

proprio quella parte, la

trasforma la sentenza di archilochea

seconda, che stoica

il

in Orazio

est

nefas dice anzi tutt'

il

in

con-

due spunti classici incorniciano, per così dire, l'ode, conforme a un modo che abbiamo avuto agio di studiare nel primo capitolo. Su II 9 non semper imbres non occorre spendere tante parole: « Valgio, il mal tempo e l'inverno non durano trario, l

meno favorite da natura: tu non canti funebri per il tuo Anche Nestore cessò un giorno di lamentare

eterni neppure nelle plaghe

non

hai, giorno e notte, se

Mystes

(3).

(1) Cfr.

vivxa; sòpìlv

105

Marc.

:

Stesich. 51 àxeXéataxa

Ibyc.

27 oòx saxiv

;

2.

6,

Prop. IV 11, 2 sgg.

y.al

animava T0O5 9-a^wàg ili cpipjiaxov

nna

Senec. ad Polyb.

X

67

Ri£iKi'.

S0UU18

esse patientia ac

erat

ad 2, 1. 4, 1 430 b parrebbe ohe anche Al-

consolatio

npoxóiojisv yàp oòSèv àoifisvoi,

(2)

homini

;

Dallo parole di Ateneo

ceo 35 fosse frammento di xpéiiYjV'

yàp

àrtocpS-^névoig

passi di tragici e comici citati nella conaolatio ad Apollonium

i

;

sgg.

t'

p. e.

%ka.leu

dicere

ntillain aaperani

io



:

y^pr^

;

xxxoiai

&'j|iov

è-t-

Bóx^i.

nullam

virlutem

vommodiorem

adeo esse fortniiam,

qnam

prii-

dentcr patiendo vir forila non vinoal.

liUCHKLER pensava (M. Mua. XXX VII 1882, 231) che Mystes pseudonimo di nn figlio di Valgio ma paro altrettanto scou-

(3) Il

fosso lo

17

;



'iòa

Antiloco; anclie Priamo e



le sorelle

smisero un giorno

morte del loro piccolo Troilo. Tu canta piuttosto le vittorie nuovo di Cesare ». Il carme, squisito anche nei particolari, è molto più spontaneo e più uno che non l'epicedio a Quintilio. Il sentimento delle prime strofe è affine a quello che si specchia nelle strofe di mezzo il

lutto per la

di I 9 vides ut alta,

dunque

Anche

ellenistico (1).

qui la

pioggia cade sull'anima, l'anima è scossa dalla procella, il

ghiaccio toglie all'uomo ogni capacità

sentire. E, poiché

in

questa

il

l'uomo è tutt'uno con

di

poeta riconosce qualità umane:

zati dall'acqua

sono ispidi come

raccolto nel suo lutto, non

di

i

campi

sfer-

volto di tale che, tutto

il

rade più ne

si

pensare e

natura morta,

la

si

pettina (2);

che tormentano il Caspio, sono inaequales, come un padrone capriccioso (3); il gelo è iners, come iners è le procelle,

l'uomo

intirizzito;

i

querceti soffrono, lahorant, ai

degli aquiloni; gli ornelli sono delle foglie, viduantur, stretto.

Non

come

non

spogliati

ma

soffi

vedovati

un parente suo

chi perda

pare ancora necessario che

il

poeta abbia



avuto presente un modello determinato ma, se l'ebbe e vedremo presto che l'ebbe esso fu una poesia elle;



nistica.

Lo

stesso

motivo

,

ritorna,

accennato appena, nella

veniente che un consularis celebrasse un suo greco, quasi fosse un'amasia o

chiamato con

tico per la perdita di questo sia

amores.

Stazio mostrano quanto spesso

per

affetto

nome

lamento poeparola che soleva

la

esser titolo del libro di elegie amorose, 1'

sotto

figliuolo

un amasio, quanto che Le

pìieri

il

cotisolationes

delicati

di

divenisse

quasi paterno. (1) Cfr.

sopra, p. 81 sg. Simile è lo stato di animo,

dello spirito e del

mondo

esterno, anche in I 7 laudabnnt

il

olii,

consenso e specie

in I 4 solvitur acris hiems e nel cauto gemello della seconda raccolta

IV

7 dìffngere nives. (2)

L'osservazione è del Bucheler,

(3) Il

arbiter

sentimento è lo stesso che in I

Hadrìae maior,

tolìere seu

ponere

ibd. 3,

230.

14 rabiem Noti, quo non

voli freta.

-

-

259

ad Apollonnim, dove (103 b) il tempo bello e catcomparato con le sorti alterne e opposte degli uomini. Ma la coincidenza prova tutt'al più non già che Orazio dipenda qui dai retori, ma piuttosto che le conso-

consolatio

tivo è

lazioni dei filosofi e dei retori attingono a carmi elleni-

Che

veramente così, prova la quarta strofa (1). e Priamo non piansero eternamente i loro cari, e sì che l'uno e l'altro erano vissuti così a lungo per sentire tanto dolore, e sì che Antiloco era il più amabile dei giovani, Troilo l'ultimo dei figli e ancor bimbo (2). Un discepolo sempre fedele e non di rado servile degli Alessandrini, Properzio (li 13, 46 sgg.), ha commiscrato la vita troppo lunga di Nestore. A ter aevo functus.... senex stici.

sia

Anche Nestore

!

risponde a capello Nestoris

Segue

Properzio

in

mari,

diceret

non

:

aut «

mors,

visus post tria saecla cinis.

est

Antilochi vidisset corpus hu-

ille

mihi sera venis?

ciir

Cal-

».

limaco aveva scritto aver pianto più Priamo che Troilo Nestore e Antiloco, Priamo e Troilo

(Cic. Tusc. I 93) (3).

decedunt amores nee rapidum fugiente ha anche un riscontro nello pseudo-Plutarco, ohe (114 e) a tali che per una specie di pazzia perseverano senza fine nel lutto, vorrebbe (1) lieo tibi vespero surgente

solevi

èTct'^jS-éylaaS-at

xò 'Op,y]pixóv

'

|j,'jpo|i.svotat

5= xoìat [léXag

ìtiì

eanspog

r^Xfl-s'.

Un'allusione a un passo omerico converrebbe bene a un poeta alessandrino

il

:

lasciano

modello di Orazio direbbe pianto, noi no

il

».

Il

male

:

« gli eroi

a memoria, confonde in uno due versi differenti po5o5axxo?.05 'Hojg f,Xd-£v

a 423

(2)

La

=

W

o 306

109 o

xoioi



l'

come sempre

impube corpus

Htraziato dallo streghe, quale posset

[JiéXag

8è TOìat ètiI

cpàvyj

èaTtspoj;

in nuest'odo, ò squisita:

(e^iod.

V

13) del fanciulletto

impia mollire

Thraeum peciora un benia;

fa ripensare all' indole mito, che fece di Antiloco

mino dell'iracondo Polido. (3) La stossa massima senza nomo plutarchea 113

ma non

(xupo[i.=vo'.oi

T£puo|j,£Voiai

!

scelta delle parole,

impuhem Troilou ricorda

V amahilis

omerici, giunti a sera,

ò che lo pseudo-Plutarco, citando

f.

Lo Schueider

(fr.

apjìroda a nulla di I)uono.

di autore nella consolatio pseudo-

363) tenta di farne un trimetro,,





iitìU

due esempi, Peleo o Achille, due non svolti cosi diprolissa e fastidiosa enumerazione stosamento, in una è dei mali della vecchiaia, in Giovenale X 24jc,

spicciano con poche parole, rivolte

al dedicatario,



il

possa attribuire, in un senso quasi negativo, dai poeti

avevano

x'

rag-

si

poeta sente o crede che l'opera

il

più semplici sono usati dai

I

di distici o esametri

il

congedi

diversi secondo

presa questa parola nel significato più ampio clie

lici »,

le si

-

Le forme

in

quale

al

318

suoi Aixia erauo nua poesia esiodea, che nel

altermava se successore di Esiodo. Ennio, pure imitando

Callimaco, rivendica a se

il

vanto di essere originale di fronte

a lui,

nuovo Omero. Se Callimaco avesse considerato epopea i suoi Alila, come taluno sostiene, non lì avrebbe uè fatti precedere da una visione personale né conchiusi con uu commiato egli li voleva esiodei. Gli elegiaci ronuiui hanno seguito quanto ai congedi la

di essere

il

:

tradizione degli Aixia

;

Properzio e Tibullo avrebbero probabilmente

ascritto la loro poesia al genere didascalico. Questa osservazione .serve

forse a intendere

V Ars Jmandi

di

Ovidio.



319

-

via al cielo; abito a Napoli, e son quello che ha scritto

Bucoliche » haec super arvorum cultu pecorumque canebam et super arboribus, Caesar dum magnus ad alturn fidminat Euphraten bello victorque volentes per populos dal iura viamque adfectat Olympo; ilio Vergilium me tempore le

;

dulcis alebat Parthenope studiis fiorentem ignobilis

mina qui

tulae cecini

audaxque

pastorum

Itisi

tegmine fagi.

sub

mostra somiglianza collo

inventa,

Anche

il

tempo

te

dei

epistolare. Properzio

stile

tiene anch'egli a questo tipo,

car-

oti,

Titgre,

pa-

verbi si at-

modificandolo, nell'ultima

da amico qual sei, tu mi donde io sia. Sono di origine un mio parente è morto nelle stragi di Peru-

elegia del primo libro

:

« Tulio,

chiedi di che famiglia e

umbra, e

». La domanda è naturalmente fittizia: che Tulio, appunto perchè amico, avrà saputo donde fosse Properzio ma da Esiodo in poi era tradizionale che carmi didascalici si rivolgessero a una persona determinata, e anche la poesia di Properzio apparteneva per lui aU"Ha'.óoetoc xpÓTco?. Tulio è nominato nel primo e nell'ultimo carme del libro per indicare che a lui è offerto tutto il volume (1). Anche Orazio riprende questa forma in un'opera che egli stesso assegnava probabilmente al oiòaxTcxòv '(ivoz nell'ultima epistola della prima raccolta egli si accomiata non da un amico ma dal suo libro,

gia

;

:

dandogli

istruzione

di

dichiarare, richiesto dell' autore,

da cui meglio risalta il valore peranima senza celarne i diconfessarne l'età. Qui la sottoscrizione non è più

l'origine sua umile,

sonale, di descriverne corpo e fetti, di

presentazione,

'1)

11

Lko

diventa ritratto vero e proprio.

(Golt. Xachr.

congedo, perchè iiiesse ai testi

ma

lo

18i)8,

gindiciiva

469 sgg.) cre«leva

imitazione

classici nell'edizione alessandrina,

stanno in principio, non in

line.

mutilo qiustu

scherzosa delle ina (pifi

Vite ,iiot

pie-

o yévr^

-

-

320

modo un po' diverso, come ha un frammento scoperto di recente {Oryrh.

Gli Altea (iniviino in fatto vedere

Fap.

1011, voi. VII, V. 88):

casa

dei

delk^

Muse

ma

miei signori,

Salve, Zeus, e proteggi la

«

calcherò a piedi

io

»; xalf£,ZeO. ixéya xal

rs'j.

prato

il

5' [è[iò]v (1)

aào)

olxov

K difficile dire preannunzino giambi, come ho spie-

àvày.TWv. aOtàp b(ù) Moualojv

se le parole finali

Tie^òc; £t:£:|x'. vo|jiÓv.

un tempo, o non piuttosto 1' attività critica di Callimaco comechessia, assolto un compito, egli, guardando con compiacenza l'opera compiuta, ne promette gato

io

:

degli Amori, dif^hiara

un'altra. Così Ovidio, alla fine

accingersi a comporre tragedie

nerorum mater

Amonim

corniger increpuit gri is

post

raditur

:

thyrso

area maior equis;

mea mansunim Per altri generi

quaere noviim

:

Lyaeus

imbelles elegi,

;

pulsandast ma-

Musa

genialis

fata superstes opus

di te-

ultima meta meis...;

elegis

Iiic

graviore

votem,

valete,

(2).

venne in voga nell'età ellecommiato. In quel tempo usava

di poesia

forma di comporre epigrammi che si fingevano destinati a essere scolpiti sulla tomba di un classico non è necessario citare esempi, che basta aprire a caso il VII libro dell'Antologia. E probabile che almeno alcune di queste poesie nistica un'altra

:

precedessero o seguissero

il

testo in edizioni di classici.

A

mi poeta ellenistico, non sappiamo quale, venne in mente di chiudere la raccolta dei propri versi con un

(1)

di fatto

Supploiutnto del Wii.amowitz (Sappho che Callimaco uou Ja qui

il

suo nome,

intendere perchè non lo potesse, come

il

u.

Simonides 299).

ma

Sta,

confesso di non

Wilamowitz

asserisce.

Quel che è in mezzo tra principio e fine, esprime la compiacenza per il lavoro compiuto questa stessa impronta di sé la chiusa dei Remedia Amoris, dei terzo libro e incerto senso anche del primo (2)

;

dell'

Jr» Amaììdi.

— epigramma funebre su più antico è quello



321

se stesso

L' esempio per noi

(1).

visse al principio del terzo secolo

che

locria Nosside,

poetessa

della

(A P VII 718)

« Stra-

:

niero, se tu navighi verso Mitilene dai bei cori per ac-

cendervi

il

che io ero cara Locride mi dette vita appreso che era Nosside, prosegui pure il tuo cammino »;

fiore delle grazie di Saffo, di'

il

Muse

alle

e che

mio nome

(T)

d

^eìv'

TU ye

la

:

nlzXc,

nozl y^.aXkiyopov MuxcÀàvav. xàv

)(aptxo3v ocvS-o? £vauaó{i,£voi;. eÌTtelv

Aoxplc: Y^c xóxxev l'aat; 5' oxt

toc,

Mo'joccia'.

xoijvo|i.a

[xot

Asclepiade (A

P VII

dice

500)

Le

uno

:

di

che passi

tu

*

a xe

Noaafi;, l^i (2).

formule son quelle degli epigrammi sepolcrali :

Itocnfo'jc.

x' f^v

cpi'Xa

in-

nanzi alla mia vuota tomba, quando tu giunga a Ohio, di'

a mio padre Melesagora ch'io sono perito in mare

Uno

di

Callimaco

(ep.

12) imita

questo

di

».

Asclepiade,

superandolo in squisitezza « Se tu capiti a Cizico, poca fatica ti farà trovare Hippaco e Didyme, che nota è la :

famiglia; e dirai loro io

una parola

triste,

sto sopra al figlio loro Crizia ».

Ma

ma

pur

dilla,

Nosside non

che

manda

lontana della sua morte, anzi messaggio che un'altra Saffo è nata a Locri. L' epigramma sarà stato nell' ultima pagina di una raccolta di versi, probabilmente composta in tutto o in parte di ixsXy], poiché Nosside era celebre quale [s.zXo-

ad avvertire

la famiglia

invia a Mitilene

il

come testimoniano

TioLÓ;,

Saffo, alla quale essa

11

(1)

Wilaiuowitz

i

si

sono certo

clie si

(2) IvauaótJievoc e « |)er

carmi

accender colà sattici

21

»

;

come

è

il

(p.

e poiché

233 sgg.

che

ma

gli

sano

lesbico.

lia

imi derivau dagli altri.

e concettoso

poesia saftìca, per

nominativo

2!)9)

epigrammi,

dell'altro genere di

sia accorto

non corrotto

la face -

4. si

mostrerà che Orazio ebbe presente

(|uel iisXo;

an-

-

334



IV 12, il canto della roncomuni sono presentati in modo molto che più importa, Paolo in tutto il resto non

particolare più caratteristico di

dine

;

i

particolari

dissimile;

e,

presenta riscontri con l'ode oraziana,

ma

imita evidente-

mente Leonida. Converrà quindi supporre che egli, uomo colto, abbia innestato nella sua imitazione da Leonida un particolare ricavato da un altro carme, per lui classico tutti sanno che egli non fu se non un mosaicista. :

Orazio fonde qui secondo verisimiglianza, lo ripetiamo, due epigrammi ellenistici. Ma qui, dove imita epigrammi, egli è più che mai lirico e originale. Quanto sia nuova nelle variazioni scherzose di un solo motivo la seconda parte, abbiamo veduto dianzi: la prima somiglia anche in particolari dove più all'uno e dove più all'altro degli epigrammi in tal guisa che si direbbe che egli abbia avuto sott'occhio anche componimenti perduti. Ma egli ha saputo imprimere alla materia vecchia il suggello di uno stile nuovo, nobile e tutto suo. I primi versi somigliano, più che ad altri epigrammi, a quello di un poetucolo anteriore di una generazione, Thyillo, l'amico di Cicerone,

vento primaverile, che ma che differenza tra nelle vele;

accenna olò\iix

al

xoXTcoOxai [AaXaxà?

le

X

5.

Anche Thyillo

scava quasi un seno molli parole

òO-óva^ Zé-fupog e

il

f/5rj

àv*

solenne iam

quae mare temperante impellunt animae lintea

veris comites,

Thraciae.

v.c,

si

Le

dette

aure,

animae con parola in questo

senso propria solo del linguaggio antico o della poesia più

elevata

(1),

sono qui inalzate a dignità di persona, e di

compagne della primavera, modo di concepire caro oraziana; che ognuno leggendo ricorda rabiem

persona quasi divina: sono le

signore del mare

alla lirica

(1

Cfr.

i

:

le

questo è

passi, raccolti nel Thesaurus, di Accio,

crezio, Virgilio.

Varrone, Lu-

— Noti, quo freta (III

(I

335



non arhiter Hadriae maior, 8,

dux

Aiister

4) e

tollere seii

ponere

Thraciae che, attribuito per lo più a Borea,

3, 15). Il

è qui detto dello Zefiro, costringendoci a sostare e a riflettere, finche ricordiamo

mento

volt

Hadriae

turhidus

inquieti

la patria di tutti

che

la

un mo-

Tracia

è

venti, c'impedisce di trasvolare troppo

i

rapidamente sulla strofa anche questa quasi oscurità voluta è accorgimento di lirica alta. Dei fiumi che non più rumoreggiano gonfi di neve invernale, non è menzione negli epigrammi. Del mito della rondine non v'è più che un cenno negli epigrammi Satyro (X 6) scrive KsxpoTi'xsc 5' Y;/£jat e nulla più; un poetino contemporaneo di Orazio, Marco Argentario (1), fa intendere dottamente che conosce la leggenda chiamando balbo labbra il becco :

:

amante

della rondine ed essa

talamo,

r^Syj

xap-^''xy]v

TcrjXooo[i£t

xal

B-àXaiJLov

quanto Orazio, nidiim avis

et

Cecropiae, domiis

baras regum

est

Pan

suo

nido ye^Xea'.

fa

umana

la

gemens, infelix

aeternwn opprobium, qiiod male har-

del ^ouxoXtafiós (2) arcadico, è

il

-y^sXiStov

nessuno

Iti/n flebiliter

La

ulta libidines.

negli epigrammi,

tpauXcIat

ma

;

ponit

prole e

della

ònò

'^cXóisxvoc

terza strofa,

pur

non avendo gusto

concepita nel

dell'

che parla riscontro

ellenismo

non solo dei poeti bucolici ma degli epigrammatisti dal HI sec. in giù. Il suo paese, l'Arcadia, pur non cantata da Teocrito, è la terra clastardo.

è

il

dio preferito

sica della semplice

per Virgilio quegli, che

e,

vita

pastorale e del canto bucolico

prima che per

lui,

per Erycio e Glauco

visse sino al principio dell'età

;

augustea, co-

mincia un epigramma (A P VI 96) FXajxwv xal Kopjocov iJouxoXéoviec. Wpxàoec àjjt-fóxspot. attinge cioè a oi èv oupeac :

(1)

Intorno al

(2)

Del PovxoXcao|xó$,

tonipi) cfr.

ma

Rkitzknstein,

I'.

IF.

Il

712.

senza accenni all'Arcadia, parla, come

abbiamo veduto, anche una strofa

di

III

2S>.





:3:}6

quello stesso esametro al quale

Ecloghe per cantare

et

che visse

suo ambo

il

pares

et

si

è ispirato Virgilio nelle

Arcades ambo,

fiorentes aetatibus,

respondere parati (1) (VII

4).

Glauco,

primo secolo avanti Dafni, l' archegeta del

al più tardi in principio del

Cristo, finge PouxoXcaa[jió(;,

(A P IX 341) che incidendo lettere su

dia al suo amatore

pone cioè che

corteccie

un appuntamento

in

d' alberi (2),

Arcadia, sup-

sappiano arcade Dafni (3j. quanto al motivo a una concezione che è dell'ellenismo tardo, è quanto allo stile in perfetta armonia colla precedente come colà la rondine non viene menzionata col suo vero nome, così qui Pan è indicato con una circonlocuzione dicunt in tenero gramine pinguium custodes ovium carmina fistula delectantque

La

suoi lettori

i

strofe di Orazio, ispirata

:

:

deum

cui pecus et nigri colles Arcadiae placent

per selvosi, pare a

Le due odi I num (4) sono di

me

audacia

17 velox tipo

un'amica a visitare

il

amoenum

e

IV

diverso

villa,

scrizione delle gioie campestri,

neri colli,

felice.

alquanto

poeta in

i

;

ma

11 ;

est

esse

mihi no-

esortano

allettandola colla de-

qui

invito al convito

l'

(1) È difficile che Virgilio traduca in un carme bucolico il verso un epigrammatico mediocre, e del resto quell' epigramma non è intelligibile se non per chi conosca per fama arcadi Glauco e Corydon,

di

che

nell' idillio

quarto di Teocrito era dell'Italia meridionale. Proba-

bilmente la fonte comune sarà stata un

idillio

esametrico, del genere

di quelli che sono conservati nell' Apjjendix Bneolicorum

In ciò il Dafni di Glauco imita l'Acontio callimacheo. Per queste relazioni tra Virgilio e autori precedenti quanto all'Arcadia confronta Reitzenstein, Ep. u. Skol. 243 sgg. I due passi citati mi paiono i soli che provin qualcosa gli epigrammi di Erycio Diodoro Zona, che e Glauco appartengono alla corona di Meleagro v. Knaack in tiorì al tempo di Mitridate, ne mette in burla uno (2)

(3)

:

;

:

SusEMiHL, Alex. Ut. II 497. (4) Di un altro carme, nel quale Orazio mette

grammi

ellenistici,

si

forse a profitto epi-

ragiona nella seconda parte di questo capitolo.



-

337

IV

è insieme richiesta di amore, aperta in

appena

in I 17.

Nulla trattiene più Pillide

è innamorato

Telefo

si

amore

di Orazio. Nella villetta

a temere

l'

un' altra

di

11, dissimulata in città,

essa

;

sarà

1'

dacché ultimo

sabina Tindarb non avrà

ira del geloso Ciro.

campagna non sorprende ne un poeta ellenistico ne uno romano il desiderio angoscioso di tuffarsi nella natura divien più forte man mano che 1' uomo civile si strania dai campi per Il

sospiro del cittadino verso la

:

chiudersi in città

;

senso

il

il

natura

della

pari passo con l'urbanesimo.

Diceopoli degli Acarnesi,

contadini

I

il

di

Trigeo della Pace deside-

rano la campagna per satollarsi

Ma

vergine va

aristofaneschi,

frutta fresca, per go-

di

uomini del terzo secolo, si rifugiano in seno alla natura come noi moderni. Callimaco, che visse in Egitto, regione anche allora povera di alberi, finge che Acontio, malato di amore, erri per le selve e incida nella dersi la schiava

quando son

tracia.

gli

travagliati da angosce,

corteccia degli alberi

il

nome

dell'amata

(fr.

101). Nella

sveglia mattutina degli uccelli, che era nell'Hecale, un

rugiadoso » descrive l'alba rumorosa della città bene solo ad si attagliano

« vicino

grande, con particolari che

Alessandria

:

«

Non sono

che già ardono esce

come

i

lampade mattutine

rischiarandosi

casa

di

le

più in caccia

giudici delle

Vespe

;

il

le

»,

qua

dei ladri,

cioè la gente già

cammino

« già

mani

colla lucerna,

e là intona la sua

canzone tale che trae su l'acqua dalla cisterna », come « l'asse, scricsi fa ancora dai campagnuoli di Egitto ha la sua stanza chiolando sotto il carro, sveglia chi ;

sulla strada; gli il

orecchi »

dotto

i

fal)bri

(1).

schiavi dentro la bottega assordano

Qui parla non un uccello montano,

nato e cresciuto

ai

confini

del

mondo

ma

civile,

gn (1) 11 testo «rreco in Mitlvil. iiux di-r ri((muiluii(i

liainer

VI 22

18!I3, p.

12 dcll'eatratto.

-

-

338

sulla soglia del deserto, nella lontana Cirene, e costretto

ora a soggiornare nella grande Alessandria, parla e sfoga il

Che

disgusto del ciottolato rintronante.

bucolica se non un aprire cittadini

Ma l'età

via,

i

all'

le

finestre

altro è la poesia

dei

odore dei prati e dei greggi

Romani

salotti

tropj)0

?

degli ultimi tempi repubblicani

e

del-

augustea non sentivano meno il desiderio di fuggir appena potevano, dalle mura infocate. I ricchi e i

potenti edificano ville sui colli laziali e sabini; riducono

il

fanno

cortile delle loro case di città a giardino alberato,

dipingere sulle pareti delle loro stanze vedute campestri,

per godere della

campagna almeno

sono trattenuti in

Roma

l'

illusione,

dalle faccende

(1).

Come

quando Orazio

campagnuola, ci mostrano, ancor meglio che le Odi, le Epistole, dove meno poteva su lui la tradizione letteraria, dove egli con meno ritegno si lasciava andare a esporre i suoi sentimenti sinceri si ripensi solo a I 14 vilice silvarum et mi hi me reddentis agelli e a I 16 ne perconteris. Nella prima delle Odi, dove ci descrive colui che gode tranquillamente la vita, alieno dall' affaccendarsi soverchio, ce lo mostra mine viridi membra sub arbiito stratus, mine ad aqiiae lene caput sacrae, così come una generazione prima Lucrezio aveva cantato stesso sentisse la vita

;

felice

il

savio che

(II 29),

disteso sulla molle erba presso

un ruscello al rezzo di un albero alto nella stagione prati verdi, non quando la primavera cosparge di fiori i

chiede altro alla vita.

Il

senso di ciò che è bello nella

natura era dunque rimasto invariato, cioè

idillico.

Ne

si

pensi che Orazio nelle Odi riproduca un ideale letterario dei

tempi passati: scrivendo

(1)

Cfr.

Friedlander,

al

fattore, egli

Sittengeschichte

IP

compendia

il

199, che raccoglie an-

che testimonianze di questo senso della natura non artefatta.





339

suo tenore di vita nelle parole prope rivom somnus

et

(T

14, 35)

cena brevis iuvat

:

herba.

in

L'anelito verso la natura idilliaca, che

non comporlo odi,

ci si

ispirò a carmi

cietà di pouxóXo:

Teocrito e la so-

ellenistici.

appartiene, celebrano

cui

come mostrano

in villa,

anima quelle

porge un criterio per stabilire se Orazio nel

le

Talisie

le

loro

feste

come voleva

e

il

nome.

loro Il

(Ath.

campagna

convito semplice in

gramma

è cantato in

del terzo secolo, in quello

XV

673

b);

ma

in

Niceneto

di

un epiSamio

questo componimento, che Orazio

conobbe, poiché ne trasse profitto, come vedremo, per

il

congedo del primo libro, manca ciò che è caratteristico dei due carmi oraziani, l' invito alla donna, manca ogni accenno all'amore. Pure io credo di poter asserire che in I 17 Orazio si è ispirato a un carme ellenistico, credo di poterlo indurre con sicurezza dalla strofe ultiina. L'amatore si chiama Cyrus, qui come in I 33; qui egli è geloso e manesco, colà schiva l'amore della bella Lycoride, per correr dietro all'aspra Pholoe, che non vuol saperne di lui perchè brutto. Nessun greco di condizione libera si chiamò Kupog prima dell' età bizantina. Eppure il

nome

ricorre nella

[xo'jaz

TracÒr/.r^

di

Stratone, in

tone stesso (XII 206), che è dell'età adrianea, in

Tarso (XII

di

28), in

Frontone (XII

Stra-

Numenio

poco importa se

174),

per l'amatore o per l'amato. Io ne induco che esso era poesia erotica alessandrina e che a

adoprato

in

Orazio

ispirò in

è

s'

T

17.

Quanto a IV

11

il

nome

questa

di

Telefo

anch' esso attinto a poesia ellenistica, poiché compare

nome di amato pure nella [xoOaa gramma di un ignoto XII 88. Il carme qual

tipo di 117, tranne fici

che elementi, a

prevalgono: Telefo é

Lydia suscita

la

il

Tiatàxr',,

nell' epi-

presenta

lo stesso

dir così, autobiogra-

giovinetto, lodando

gelosia del poeta

(l

il

quale

13), lo stosso del

cui

— amore brucia Rhodo (IH



340

19); ora

fanciulla ricca. Fillide sarà l'ultima

celebra oggi

il

con garbo un carme mente,

meglio che

dovrà esser

canto

in

lei

17:

I

il

ma

ma

dal

ripromette se non conforto

si

annebbia

che

alla tristezza,

campagna: ben

visitarlo in

di

riu-

senso che quest'amore

delusa ne' suoi amori;

poeta non

il

anche qui

colora

mirabilmente nella chiusa.

l'ultimo, è espresso

che anch'essa è

di

poeta inserisce

Il

motivi tradizionali. Anzi vi è

i

Orazio chiede alla donna lo può,

una

amori, quale, sia pur frammentaria-

della sua personalità scito qui

di

Orazio, che

di

tipo ellenistico nella storia certo

di

delinea nel canzoniere;

si

amata

Mecenate.

natalizio di

fantastica dei suoi

innamorato

h.

tramonto della sua vita:

il

minuentur atrae Carmine curae.

Non

indizio che il carme a cui Orazio un epigramma: probabilmente qui, come nel resto della sua poesia di amore, egli ebbe presenti e

alcun

v' è

s'ispirò, fosse

continuò

]xiXri

ellenistici.

10.

Nel

«

congedo

»

del

primo

libro delle

Odi Orazio

rappresentato seduto sotto la pergola, coronato il

poeta

lirico

ha voluto che

sero bevente insieme

e

i

posteri se lo

pensoso

di

solo

conviti

e

Molti carmi oraziani figurano

si

fa

all'amore.

recitati

(I

nel

il

si

asserisce

di

amore.

di

;

poeta chiede

27) che confessi

il

11),

^ quis

devium

scortum

elicief

ma

amore, ?i\-

suo amore.

L' invito a bere, rivolto da Orazio a Quinto Hirpino finisce

:

di celebrar

convito

discorre

si

Durante un simposio

VOpuntiae frater Megillae

è

amore. Nell'ode ad

combattimenti

convito prendono parte etère,

al

si

mirto

immaginas-

Agrippa (I 6), lasciando a Vario il compito degnamente in versi epici le gesta degli eroi, nato a cantar

di

domo

(II

Lyden?

1

— Venga

ne

e

celebra

con

allieti

ritorno dalla

il

dianzi morto (III 14),

ordinare per

di

si

cetra

la

Spagna

».

Così

il

carme che

Augusto, creduto pur

di

chiude con

non

banchetto

il



341

comando

il

servo

al

vino, unguento,

solo

ma

anche una donna, Neera. Orazio, festeggiando il bere a prova con Lyde (III 28). Nel banchetto per il ritorno di Basso (I 36) questi beve a gara con Damalis, in cui tutti fissano molli sguardi. Le amate di Orazio temono le gelosie degli amanti ubriachi Tyndari ha paura di Ciro, che non esso, mentre Libero combatte con Marte, le metta le mani addosso e le strappi corona e abito (I 17). A Lydia le immodkae corone,

i

Neptimalia, canta tra

;

mero rixae hanno

segni

lasciato

spalle (I 13).

sulle

ma

lista potrebbe allungarsi a piacere,

gli

La

esempi recati

bastano a giustificare che canti simposiaci e canti amorosi siano qui trattati insieme.

Quest' unione

oraziana ranei

ma

anche

convito

del

rispecchia la

e

dell'

amore

nella lirica

costumi contempogreca classica, quale era vita dell'era

non soltanto

i

come osserva Ateneo

eternata nella melica. Per Alceo,

sua asserzione con meno passi che non avrebbe potuto, giacche altri ne possiamo aggiungere noi moderni, ridotti a giovarci di scarsi frammenti -, per Alceo ogni stagione e ogni circostanza della

(X 430

a)

che pur documenta

-

la

a dire gran parte della anche per lui il simposio non aveva allettamenti, se non vi partecipava 1' amato Mévwva xiXsaaa'.. ai y^pyj j'j|L7ioa.'ac "/,£AO|Jia: xiva xòv /ap.'svTa vita era

sua

buona per

lirica

bere, vale

Ma

era simpotica.

:

Ì7i

rjyxQ'.^ £[xoc -(t^(hrf\)-oi.i

geva

congiunti dalla

Liberum

et

carmi

lira eolica:

46).

Orazio,

come congiun-

et

Li/cum

scritti

nlf/ris

per

il

li

sapeva

Alceo, scrive egli stesso

Musas Veneremque

nim canehat l

(fr.

sua poesia convito e amore, cosi

nella

et

illi

ociilis

(l

semper haerentem

32), pìie-

nigrnque crine decorum.

convito vissero per secoli

nel

-

342



così, con Alceo, Anacreonte: «Cantami uno Alceo o di Anacreonte», dice un commensale nei AatxaXeì; di Aristofane (fr.223), mostra cioè che alla poesia di quegli antichi si dava lo stesso nome, scolio, che ai canti conviviali dei moderni. Crizia (Ath, Xlll 600 d) chiama Anacreonte eccitamento dei simposi, traviamento delle femmine, predice che l'affetto per lui ne invecchierà né morrà, finché siano al mondo banchetti e in voga il

convito: scolio di

gioco del cottabo. Per vero, in Atene norj si cantavano nei simposi soltanto versi d'amore, ma al tempo di Aristofane e di Eupoli classico,

ogni

che in origine

era stato corale,

Stesicoro, Pindaro o Simonide in quell'età

bere, o

i

sapevano

più

inventando

di

recitava un carme

convitato

E

(1).

i

di

Alcmane

o

semplici scoli, che

ancora improvvisare tra

sana pianta o rimutando versi

il

noti,

accompagnandosi con la lira o facendosi accompagnare non erano generalmente di argomento erotico, ma piuttosto gnomici e politici se almeno possiamo fidarci della raccolta attica conservata da Ateneo (XV 694 e sgg.), che risale però agli anni immediatamente sucdal flauto,

;

cessivi alle guerre

persiane,

e credere

che

l'

indole di

mutata in un cinquantennio. Ma carmi erotici prevalsero sempre più Aristofane {Equ. 1287) al malvagio Ariphrades dà colpa, oltre che di pervertimenti sessuali d'ogni sorta, di aver composto noXu[jLvr,ax£ta ^oXx>]i.vipxzi7. cantava non si sa bene chi in Gratino (fr. 305). Se l'antico Polymnesto di Coloqueste improvvisazioni non

si

fosse

:

;

fone, cui già Pindaro (fr. J88) conobbe, abbia scritto davvero cantilene lascive, non sappiamo bene, ma i TIoX-jijlv^^oieca di Ariphrades, forse

chiamati cosi solo perchè composti

nei molli ritmi ionici familiari a quel poeta, erano osceni.

(1)

I

passi dei comici che

comprovauo quest'uso, sono

dal Reitzfa'stein, Ep. nnd SkoL, 30 sgg.

raccolti

Dunque



343

tempo di Aristofane era in voga poesia lasciva moderna; dove la si sarà cantata se non nel convito? In questo tempo divien di moda recitare a tavola ^/.asi?, al

troviamo

tirate tragiche, quali

metriche

vano luoghi

che

carme

lirico di

qualche tratto Euripide, dove

un

avessero

Fidippide delle Nubi

sovente nelle parti

di

ma

specie di Euripide,

anche qui

forte sapore erotico

:

il

1353 sgg.) ricusa di cantare un

(v.

Simonide,

ribella all' imposizione di dire

si

Eschilo, e recita una

di

tri-

predilige-

si

^fp'.

la vita.

V. anche Asclepiade o Posidippo





40!2

A

che condizione sociale appartengano le attrici dei minuscoli drammi artiorosi di Orazio e dell' elegia, è ben noto: lo dice chiaramente, sia pure in forma negativa, Ovidio

Amandi:

in principio dell'Ars

este procul, vittae te-

nues, insigne pudoris, quaeque tegis medios instila longa pe-

des

(I

31) (1)

dunque non

:

slazione e più dai costumi Ci furono

donne

e

iade? Ce ne furono nel

matrone

le (2),

amori

ma

di

(jifese

dalla legi-

libertine e peregrine.

tal

fatta nell'antica El-

mondo greco

Delle etere della Grecia più antica

dell'

età ellenistica?

noi

dobbiamo con-

vogliamo essere sinceri con noi stessi, di saper poco; le amate del poeta antico che ha più ceduto ad amori femminili, Anacreonte, non erano da lui trattate, per quel che vediamo, né con stima né con rispetto (3). Le etere dei vasi attici non sono che carne. La donna a cui la maggior parte dei lettori avrà subito pensato, Aspasia, ci è, nonostante le molte notizie che intorno a essa abbiamo, del tutto ignota; che lo scherzo, lo scherno, fessare, se

la

leggenda

sono così

si

presto e così completamente

impadroniti della sua figura da realtà storica. cle

non

ci

sopraffare del

Caduto

il

tutto

la

verosimile che la TraXXaxrj milesia di Peri-

appaia etera se non perchè

riconoscendo

(1)

E

connubio con

la

legge attica, non

la straniera, lasciava libero

iu disgrazia ed esule, Ovidio cita in sua difesa questi

versi {Trist. II 243 sgg.), a ragione: cliè

1'

Ars Amandi

non

è fatta

per corrompere se non chi sia già corrotto. In fondo è un' opera assai innocente, il cui pregio consiste nel contrasto intenzionale tra la

forma saccente dell' insegnamento dottrinale e la tenuità dei contenuto. Un' Jrs Amandi in miniatura è già in Tibullo I 4 la risposta di Priapo al poeta. (2)

età;

il

La Lesbia

catulliana,

tempo ultimo

donua maritata, appartiene

restaurazione augustea. Del resto anche in

quel

un'eccezione scandalosa, come mostra la Caeliana. (3)

a un' altra

non la tempo Clodia era

della Repubblica fa molto più libero che

V. Fracoarolf,

Lirici.

II 270.

— campo



403

maldicenze dei nemici e ai frizzi dei comici. Del quarto secolo possiamo illuderci di sapere qualil

alle

ma

cosa di più,

documento

il

do-demostenica contro

Neaera,

orazione pseu-

1'

trasporta

ci

impenetrabili al sole dell' arte.

della vita

donne

principale,

non

augustea

età

dell'

in bassure

Del

troverebbero

quelle distinzioni così nette e secche tra eTaìpat, (cap.

'(uvaly.zc,

intorno

all'

intorno altro,

amore

Il

spiritose

569

vo'jaat

a)

(1)

(571

conserva

d).

le etere di

aneddoti,

e

quanto

si

cui sì

ma

si

narrano facezie

tutte

ji£Y3cXó|iia8-oi

sempre

pur

cortigiana celebre

thaina è pagata a notte (581 b)

dimenti consueti

materiale,

sono

voglia,

Anche una di quelle

tzocXXocy.'XÌ.

gran lunga maggiore più che di

e per la parte di

Ma

le

in

XIII di Ateneo, che è tutto

libro

meretrici,

alle

di curiosità.

spesso (p.

122).

resto

posto

:

[jiiaO-ap-

come Gna-

corrisponde

ai

proce-

signore che ella richieda per

giovane una somma favolosa a un vecchio orienche par poco pratico di Atene; essa è pronta, del resto, ad abbassare il prezzo, appena si accorge che il la figlia tale,

satrapo è più esperto di quanto essa credesse. Gli episodi

che

Machone narrava

di

lei

portati

in

Ateneo,

nelle Xpscac, quali sono

mostrano

che essa

ri-

concedeva a

si

chicchessia senza scegliere e che gli avventori la tratta-

vano senza troppi riguardi romani della

dei personaggi,

agiatamente

ancorché

vi%, si

(2). si

In

Menandro

e nei riduttori

vantino spesso

rispecchiano per

ma modestamente

lo

le

ricchezze

più cerchie sociali

borghesi.

Le amate

dei

romani sono libero, quand'anche libertine; le amate di Plauto, anche quelle che per amore di un giovane riescono a tenersi pure, sono o vengono ritenute schiave, poeti

(I)

L'opposto

(-J)

V.

in

»^

ispt^cic

ai p.

Èrti

-ù)v oìxyj[ixitov

r.so

i.

(ji.

óliJS

di,

iiuadraiittiiiaf.

che

padrone,

il

il



404

Uno, affitta o può affittare

al

miglior

offerente.

Gli

epigrammi

di

sono

Asclepiade

per

loro

natura

troppo frammentari, espressioni fuggevoli di momenti fuggevoli, perchè sia possibile dir molto sulle donne del poeta; pure chi è tutto inaridito dalle sofferenze, non

si

stanchezza della vita fa

contenta di amori vedere che il poeta ha posto nell' amore tutto l'animo suo. 1 pochi epigrammi erotici di Callimaco ci introducono in un mondo simile a quello della lirica oraziana e delfacili,

e

la

romana: questi giovani che sono o vogliono parer poveri, non cercano nell'amore soltanto uno sfogo del senso, ma amano con tutta l' anima. Il poeta protesta che la fonte pubblica non è per lui (ep. 28), vuole che nascosto agli altri (ep. 29). Epicyde il suo bello rimanga l'

elegia

ha disgusto

suma

della preda troppo facile (31), Cleonico

tutto (30),

l'amore segreto

si

si

con-

manifesta in sospiri

profondi (43); gli amati si insinuano con mille moine (44), fuggono per ritornare (45). Ma l'oggetto di quest' amore è sempre

un

giovinetto,

non una fanciulla

:

gli

di Callimaco sono sacri alla cfiXó-at; vóao;. Pure considerazioni generali e indizi certi

epigrammi mostrano

che donne simili a quelle della poesia augustea esisterono

nel

mondo

ellenistico.

moderna insegna che

il

libero

risce nelle città grandi: in

L' osservazione

amore

campagna

di

tal

della vita fatta

fiori-

e in piccoli centri

agricoli la distinzione tra la ragazza onesta e la meretrice è ancor oggi cosi netta come nella Grecia antica. Ma

come abbiamo veduto teste, aveva carattere non meno che Roma; essa era anzi in grande di città certo senso più moderna di questa, perchè viveva di industrie esercitate piuttosto da uomini liberi che da schiavi.

Alessandria,

Viene spontaneo di pensare che anche qui amore libero come nella soe urbanesimo andassero di pari passo, almeno per il Alessandria, per non Se cietà moderna.

-

405



non manca del resto un esempio illudi donna di cui qui parliamo. Nosside Locria fu donna di gusto squisito e di buona cultura, come mostrano gli epigrammi conservati di lei

mondo

ellenistico

stre di quel

genere

nell'Antologia. Tutto essa potè essere fuorché un' etera

volgare, eppure in

un epigramma celebre

(1)

(AP

V

170)

essa fa intendere francamente, anzi non senza un certo orgoglio, di conoscer bene

i

piaceri dell'

amore

:

«

Nulla

è più soave di amore: ogni altra beatitudine è più pic-

anche

cola:

miele dà nausea.

il

Questo

dice

Nosside.

Quegli cui Cipride non abbia baciato, non sa quali fiori le rose ». La poetessa parla per esperienza propria;

siano

a che, se no, quel firmarsi in fondo all'apoftegma sulla

amore? E la proposizione « Cui Venere non abbia baciato », appunto perchè posta subito dopo, beatitudine di

mette in rilievo che essa, la poetessa, è stata baciata da Afrodite. Nosside ha non si sa bene se pietà o dicostui è come se chi non sappia l' amore non conoscesse le rose. Chi parla, è non una meretrice comune, ma una docta pnella, come le amate

per

spregio tra

i

:

fiori

dei poeti romani. Ovidio esige dalle fanciulle a cui sono rivolti

i

precetti dell'ars

Amandi

(III

329),

conoscenza

dei poeti classici, degli Alessandrini più celebri, dei

mo-

voga Nosside non solo ha pratica di poesia, ma ne compone essa stessa. Le donne di Orazio (p. e. Ili 28, 11; 9, 10) sanno cantare accompagnandosi con

derni in

la

cetra;

;

cosi

le

discepole

di

Ovidio

(III 319).

Anche

questa forma una [jLO'jao'jpy^? del meretrasformazione è senza dubbio una di amore tricio, e meretrici sono le flautiste che prendono parte ai conviti su vasi attici. Ma via via che la cultura non

Nosside

la

soltanto

musicale

[xzXor.o'.óc

data allargando e

(l)

V. sopra

\t.

di

fu

questo genere

allìnando,

:upov

congiunti

:

u£xò;

r,v

y.al

(V

vjE...

vento

107) pioggia e -/.al

jiofÉr^;

']^'J7.?''^5-

ST'^i

vento che qui infuria, è quello stesso della poesia di Orazio, il tramontano tramontano e pioggia stanno, per vero, male insieme, ciò che mostra come

Anzi

5è [xóvo;.

il

:

Asclepiade abbia j)iuttosto cercato un effetto patetico che non osservato la natura, e fa vedere a un tempo che proprio il Borea doveva esser tradizionale in tale poesia, se veniva in mente e nella penna anche un po' fuor di proposito

vano

così in

miìii

pigra

un

(1).

Notte d'inverno e pioggia

uapaxXauaid'upov di Tibullo

nocent

hihernae

multa decida imber aqua Properzio

(I

;

iacentem frigidaque Eoo

(1 2,

29)

mediae nodes, me

me

dolet

:

non

non mihi cum

uno

notte, gelo e vento in

ine

16, 23);

frigora noctis,

ritro-

si

di

sidera piena

aura gelu: qui è ritratta

una notte serena d'inverno, come

in Orazio

(2).

L'accenno alla spietatezza dell'amata, cui la pietà degli estranei dà maggior risalto, era pure tradizionale. Callimaco nomina i vicini •^d.xo'^tc, oìxxecpoua:, ab o' oòo ovap. Onesta menzione, così naturale com'è, ha tutta l'aria di esser presa da canti popolari i vicini, vedendo il sup:

:

plizio del poveretto, esposto tutta la notte alle intemperie,

non è nulla, l'amata no una barbara dell'estremo nord, tenuta per giunta in riga dal timore di un marito con cui non si scherza, pur soffriresti di dovermi lasciare s'impietosiscono, essi cui pur egli

Orazio scrive invece: « Se tu

fuori ». Gli Sciti sono

(1)

Non

si

!

fossi

pensati qui crudeli

può uaturalmeute escludere che qua

ma



e

là,

di co-

per parri-

€olarità della posizioue geografica, venti che spirauo su per

giti

dal

nord, portino acqua. (2)

Il

verso precedente turpis

et

in

tepido

stra che la menzione della cjjuxpóxvjs della

Callimaco, era tradizionale.

limine

somnus

soglia, quale

si

erit

mo-

trova in

— stiimi illibati.

primitivi vien classe

Di concepire idealmente la vita fatto naturalmente a qualsiasi selvaggi

i

nazione,

sono venuti in voga nella

Giacomo Rousseau

Gian

di

popoli

di

persona satura e stanca di cultura. Nel

sociale,

mondo moderno Francia



427

mondo

Saint Pierre. Nel

e di Bernardino di

antico, per- cui pure

giustis-

i

simi Iperborei erano sin da età vetustissima modello virtù,

i

moda

venuti di

tempo

al

dei sofisti, o forse già a quello

non diremo filosofi ma che immaginarono come

dei primi

coloro

Savi così quella queste in

Anacarsi (1):

di

ragionatori

leggenda dei Sette

la

maturità precoce

queste generazioni

stirpi e di

manca

si

che per

per Erodoto

lo

più

Lo Scita Anauna figura ben nota, per quanto

si

creda nient' affatto in dovere

di

tutto quello che la tradizione narra intorno a

ha

di

manifesta anche

tuttora ai popolani dell'età nostra.

non

egli

di

ionici,

la

quella capacità di criticare se stesso,

carsi è

di

popoli viventi realmente nell' estremo nord sono

inteso

parlare

(IV

23) di

tutta

una

credere a lui.

tribù

Ma

egli

di Sciti,

che si nutrono, come gli Ipermescolato per vero a un liquido scuro che stilla da un albero: anche questi Calvi sono un popolo di sapienti, poiché gli altri Sciti si rivolgono a loro

gli 'ApYiuTcaìoi

borei,

di

o Calvi,

latte,

in qualsiasi controversia,

e di santi, poiché chiunque

si

rifugia presso loro, è rispettato. Gli Issedoni, sebbene ab-

biano l'usanza

di

invitare gli amici a cibarsi della carne

del padre morto, mescolata con quella delle vittime, sono

(IV 26) àXXw; 5''xaiot, in tutto il resto persone dabbene. A EIrodoto propriamente non tutte le ijsanze scitiche piacciono, ma l'abitare in carri di legno (IV 4G) invece che in città murate gli pare un'invenzione sapientissima, perchè

(l)

V.

Quanto airantiohità

VON DKK MChli-,

Féxlg.

di iiuestii vii. lo ossrrva/.ioiii assoniiato di /'.

I

Jiliiiniier,

12.")

sfi.

— li

428



rendo invincibili e irraggiungibili, assicurando loro

come non potrebbe nessuna

più piena indipendenza,

tuzione

popoli

di

respirare

1'

verso un

più

colti.

sentiamo

Nelle sue parole

ansia di tale che pur non rinnega la civiltà,

mondo

più libero e più puro. Tanti secoli dopo,

Orazio in una diatriba poetica, esalta degli Sciti quella

trovato

la

isti-

grazia

agli

III 24,

Intactis opulentior,

particolarità

stessa

che aveva

occhi di Erodoto: campestres

melius

quorum plaustra vagas vite trahunt domos, vivunt. Tra Orazio ed Erodoto la cultura era andata, sia pure con qualche zigzag, sempre crescendo, e di pari passo con la cultura il disgusto per la cultura. La diffusione della leggenda dello Scita Anacarsi è un buon indizio della forza delle tendenze romantiche avverse alla civiltà: egli diviene un santo prediletto dei Cinici. Nel tempo Scì/thae,

augusteo, proseliti,

come così

i

il

Cinici

rinati

disgusto per

guadagnano ogni giorno la

cultura

si

fa

sentire

sempre più forte: le catastrofi delle guerre civili dovevano ispirare a molti odio per istituzioni sociali che, complesse e raffinate com'erano, non avevano potuto impedire tanti orrori. Orazio sognò anch' egli nella sua giovinezza romantica un'isola dei beati in cui trovassero rifugio pochi pii non macchiati dalla corruzione gè-nerale, ed espresse il suo sogno in un carme di mirabile i

eloquenza (epod.

Roma tal

sogno

nella

16).

Dieci anni

più tardi

si

susurrò in

che Cleopatra vinta avesse anch'essa sognato un (1),

Roma

di

tanto diffusi erano stati d'animo di tal fatta quel tempo. Qualche decennio più tardi Se-

neca dedica tutta una lettera

(epist.

90) a lodare

i

sel-

vaggi e a confutare Posidonio, che aveva attribuito agli antichissimi savi 1' invenzione delle arti necessarie alla cultura. Tacito nella

(1)

Cfr. sopra p.

59.

Germania

esalta

non più

gli Sciti

— ma

i

Germani,

Romani

il

4-29



popolo giovane, l'ultimo con

Queste considerazioni

spiegano

mini nientemeno che

donna barbara con

femmina

dello Scita

poesia

ellenistica

alla

che non ha inventato nulla scorso (cioè

noto

il

risposta di

uno

è

di suo,

discorso)

chiama

scitico »,

una donna all'amato,

vuol persuaderlo per via lei

i

sprecarle.

di

come

rigidi,

no-

confronto beffardo della

gli Sciti. Il

la

ignoto

resto affatto

con

quale

perfettamente

Orazio nella sua serenata, pensando a costumi

§f;acv la

il

fossero entrati in contatto.

non era del Aristeneto,

:

(II

xr;/

20) «

y.Kb

il

di-

Sx-j^-wv

nella quale essa

proverbi che spender parole

Ma

menzione

la

un popolo

di

quasi favoloso a proposito dei costumi di una signora di

non poteva non sonare non diciamo scherno

tal calibro

ma

scherzo

scherzo, tuttavia

esempio dell'

di estranei

amato,

nominare pressione

solevano

si

vicini,

i

saevo

:

che pure in



nupta

viro,

un suo

tramontana

la

diritto,

amaro, specie

componimenti di tal genere confermano quest' im« per quanto crudele fosse

uomo

di

mondo;

è a casa sua

ed

travagliando chi di notte

uscire in istrada

(1).

quale

se,

impietosivano della sorte

particolari

I

tuo marito »; è invece nibus,

si

incolis

Aquilo-

esercita

quasi

arrischia

a

Tutte queste minuzie sarebbero

di

si

non avessero intento scherzoso. Lo ha ben inteso Lygdamo, se ha avuto dinanzi agli occhi Orazio, quando ha scritto (Tib. Ili 4, 91): te non ha genecattivo gusto, se

(1)

Ricercare con Kikssling-Hkixze anche in usperaa forte (jual-

che cosa di

pifi

contrasto tra

i

che

nn' espressione per

il

durum

limeii,

rozzi usci dei carri-capanne scitici e hi

vedervi un bclKi

porta

Roma, mi pare eccessivo; neppur gli usci romani saranno stati soffici. Dura è la porta, come dnra la donna che excliidil domiìiae dulces a limine duro cfr. Tib. II fi, 47 saepe ego cnm della casa di

:

(Kjnonco voccs e

il

passo di

;

Prop.

II

Lygdamo

20,

li3

interea

iiobi»

citato nel testo.

tionninnijiiam

ianita mollis,



rato barbara et

ticc

vso



Scythiae tellus horrendave

domus

dnris >ton habitanda

et lorif/e

Sirtijs,

ned eulta

ante alias omnes mitis-

sima mater. Se non avesse pensato a questo canne, sarebbe

ancor meglio dimostrato che noi nel credere alessandrino

il

ci

siamo bene apposti,

confronto con la Scizia

e de-

;

una poesia alessandrina sarebbe in questo caso passo, poiché anche la strofa seguente ha riscontro

rivato da

tutto in

il

Lygdamo. Ma

La

l'altra ipotesi

lievo gli splendori della

poeta e notte

pare più probabile.

strofa seguente mette, quasi di

la bella

stellata

inter pulcra

civiltà in

passaggio, in

mezzo

alla

ri-

quale

il

vivono, pur dipingendo di proposito la

(1)

quo strepitu

audis

:

satum teda remugiat

et

ianua, quo nemus

positas ut glaciet nivis

imroniumine luppiter? I tecta sono una bella casa di città, il nemus non è già cresciuto selvaggio, ma è stato piantato da mano umana nell'interno del palazzo. Pure anche nel peristilio

chiuso da quattro

vento, che scuote la porta

pida camera

;

parti

penetra

pure anche

di

muggendo

il

dentro alla te-

neve ghiacciata scricchiolare sotto il piede del viandante (2). Alla preghiera segue la minaccia velata di consiglio ingratam Veneri pone superbiamo ne currente benevolo retro funis eat rota. La minaccia è nel Tiapa/cXauai'tì'upov si

ode

la

:

parte essenziale

(3): di solito

l'amante dispregiato ricorda

all'amata che la vecchiaia viene per

sime nei poeti il

meno

abili e

meno

(1)

Lo

stellato

si

Non

ritrova,

mas-

delicati, la descrive

suo accompagnamento di canizie e

mente, villanamente.

tutti, spesso,

di

con

rughe, minuta-

fu così in origine

come abbiamo veduto,

:

lo

pseudo-

in Properzio.

Perchè non si possa intender così, ma occorra invece ricorrere a non so che figura grammaticale, non è chiarissimo. (2)

(3)

Manca

talvolta nel piìi spontaneo degli Alessandrini, nel

ligio a schemi, in Asclepiade.

meno





431

Teognide (II 1303) ricorda all'amato soltanto che non a lungo esso conserverà i doni di Cipride coronata di violette. Ancora Callimaco scrive semplicemente « La canizie ti :

richiamerà in mente tutto ciò

Anche

».

Teocrito nel primo dei Ilaioixà

aìoX'.xà

più riguardoso è

(XXIX

25):

« Io

che or fa un anno eri più giovane, e che diveniamo vecchi e grinzosi prima di sputare », cioè in un attimo. Il poeta ti

scongiuro per la tua molle bocca

accomuna

di ricordare

dove parla d'invecchiare, perchè il ricordo della canizie e delle rughe non l'offenda. Ma un poeta posteriore a Orazio, che pure ci serve bene sé all'amato, là

nelle nostre ricerche, perchè tratta spesso gli stessi motivi

mentre è certo che non lo imita, Rufino (A P V 103), dopo il primo distico, che esprime il pensiero: «Fin quando resterò qui a cantare il TrapaxXauxiS-upov ? », aggiunge solo: «

Già

ti

assaltano

i

capelli bianchi, e presto tu darai a

». Un altro suo epigramma, che non è un vero -apaxXauat^upov ma che pure si duole della durezza dell' amata, finisce un po' meno sguaiatamente, quantunque neppur esso con molto garbo (A P

me come Ecuba

V

92):

«

rughe

Priamo

a

e vecchiaia spietate, venite

affrettatevi: voi persuaderete

tivo con gli stessi

particolari

Rhodope si

».

un Bizantino, del console Macedonio (A P una donna che rimanda di giorno in giorno con il poeta e intanto prodiga il suo amore ad ae

;

— xio A

sa-Epó; iaii

stesso

mo-

ritrova nell'epigramma

di

éa-cpi-/j

più presto,

Lo

'{•xr/.'.y.Oyr. 'p,p'x.;.

V il

233), per

convegno

altri: l'\)o\ixt

àiJLETpv^xo) TiÀr^-

ha dettò « Ti vedrò questa « Qual è la sera delle donne? sera », il poeta chiede: La vecchiaia piena di rughe infinite ». Già il « Ti vedrò questa sera » dopo il « Ti vedrò domani » sa ili appiccicatura la riflessione così generica sul tramonto T>ó[i£vov ^ui-'ot.

lei

che

gli

:

;

della beltà femminile è teocritei (v.

120)

(jui

Philino

ricercata e fredda. Nei OaXuaix è

piìi

molle del cedano, e

le

-

432



donne gli gridano Ahi, Philino, il tuo bel fiore se ne va. In un giovinetto questo avviene con la pubertà. In altri epigrammi il consiglio di profittare della giovinezza è confortato dell'esempio dei fiori, che hanno pregio solo :

per breve tempo, poi appassiscono. Talvolta è largo, l'enumerazione prolissa,

come

doteocriteo (XXIII 27), che riproduce, non

con uguale

confronto

il

neir'EpaaK'jf; pseu-

dappertutto

poesia popolaresca: l'amante rustico,

abilità,

ormai risoluto ad appiccarsi, baciando

l'uscio dell'

amata

per prenderne congedo, dice: «So quel che avverrà: anche la rosa è bella, e

sce

tempo

il

e presto invecchia;

l'appassisce; e bella è la viola,

giglio è bianco, e anch'esso appassi-

il

dopo un confronto con

», e,

del fanciullo

ma

è bella,

poco

non molto valore sanno dare

poeti di

tono elegante: così Rufino (AP V all'amata una corona intessuta da fiori di

».

la bellezza

Talvolta anche

al

confronto un certo

74),

inviando in dono descrive

lui stesso, le

i

cui è intrecciata: essa, mettendosela in capo, pensi

umane. Più vivo a un tempo

alla caducità delle cose

più garbato

non

anche

la neve, «

vive

so se

vuoi bene,

l'

con ragione a Platone,

V

(A P

di essi

carmi è

di questi

«Io

79):

accettalo

e

ti

epigramma

ma

lancio

concedimi

certo

più antico

un pomo: la

e

attribuito

se tu

mi

tua verginità;

se

pensi quel che io non vorrei, presolo, considera quanto

breve

sia

posto, sia

giovinezza». L'artista squisito che l'ha comegli no il filosofo, sentiva la differenza di

tono che conviene osservare, quando

non a una meretrice

ma

si

chiede amore

a una vergine.

Oltre a questi motivi che, colorati diversamente,

trovano cui

si

tutti,

discorre subito,

anche un zòko; che quali ,e

si ri-

com'è naturale, nelle canzoni a dispetto, s'

è proprio degli

dovremo ragionare

presto vien la morte

;

di

incontra nelle richieste di amore

in altro

inviti a godere, dei

contesto: la vita è breve

a^che imporsi severità

di vita?

— perchè non godere risparmi

?

-

Asclepiade scrive (A

A

verginità.

la

433

P

85)

«

:

Tu

che prò? che scesa all'Ade,

non troverai chi ti arai. Tra i vivi è il diletto amore nell' Acheronte giaceremo ossa e cenere ». ognuno viene in mente l' invito di Orazio a Sestio

fanciulla, di

A

:

incohare

summa

beate Sesti, vitae

14):

(1 4,

lorujam

:

iam

brevis

spem nos

vetat

premei nox fabidaeque Mayies

te

et

(ìomus exilis Plictonia, quo simul mearis, nec regna vini sortiere talis

nec tenerum Lycidan mirabere, quo calet iuventiis

et mox virgines tepebunt. Ma il '/.tioó^z^-y. di Ascleprima persona plurale posta cosi in fondo, fa bene sentire all' amata che quella è sorte comune, che l'amante non parla per malevolenza, poiché i suoi ammonimenti hanno tanto valore per lui stesso quanto per lei in Teocrito abbiamo osservato pur dianzi uno stato d' animo assai simile (1). Orazio nella forma particolare della minaccia si attiene a un altro motivo forse più antico egli scongiura l'amata per bene suo che egli fa come se si dimenticasse di se di non offendere Venere. stesso per pensar solo a lei Un eccesso di castità è una bestemmia contro la dea, perchè sminuisce in qualche modo il suo regno. La concezione è antica: su essa si fonda la leggenda di Ip-

nunc omnis, piade, la

;

;





polito,

dite

si

quale

Euripide l' accolse dalla tradizione. Afrovendica di Ippolito, perchè egli con la sua castità

Tutti,

(1)

,

si

pnò

dire,

i

motivi del TnapaxXa'jaCO-opov

nell'esposizione sistematica dell'ultimo erede lenistica di amore, Ovidio

godere le

dell'etil a.

a.

;

tutti

Ili 59 sg».

rose cadono, lo spine restano

agli nizie

amanti ;

i

li

sospirerà

serpenti

Henza rinnovarsi.

mutano

pelle,

;

la

gli

altri,

conlliiiscono

della poesia el-

contiene l'invito alle fanciulle a

gli

anni scorrono come un tìnme

donna che

tien

;

chiusa la porta

invano. Presto vengono rughe e cai

cervi corna,

Nonostante la grazia

.iccumulati gli uni su L'8

presto

li :

romano

tediano.

le

donne invecchiano

di molti particolari,

i

lóirot,

— sovrumana

le fa torto,

spregiano:

il

ciò,

che



434

puniscono quanti

e gli dei

peccato del giovane

egli

L'altro peccato,

xoò

reverenza,

rifiutarle

il

Xév.Tpa

àvx''v£iat

14)

(v.

li

di-

trezenio consiste in '^jauei

'{7.\H})v.

sparlar di

lo

lei,

non sono che manifestazioni naturali e necessarie di una mente aliena dall'amore. Il motivo nei TcapaxXauaiO-upa e nei carmi afiìni non è frequente, e la ragione di questa sua rarità è chiara: oltraggia Venere chi resta vergine; le donne della poesia ellenistica eran tutt' altro che modelli di castità. Esso compare, come hanno notato nell' 'Oap'.aiu^ pseudoteocritea: questa assai vivi appunto come un giocolori con rappresenta

Kiessling-Heinze,

vane pastore

e riesca

tenti

cedere alle sue voglie. simile

tra

una

a indurre

fanciulla

a

situazione è qui in certo senso

dell'Ippolito, e perciò qui rinasce quel

quella

a

contrasto

La

Afrodite

Artemide,

e

tra

l'

e

à-f po^taioc

anima la tragedia di Euripide: al giovane che l'ammonisce di badare all'ira di Afrodite Và^xB\xÌGioq

(Theocr. o'jye.

'^ioc,

che

XXVII

15),

protezione di Artemide: xEficc

£ir\.

cpeO

cpej

xwpa, la giovinetta

xàc

risponde

figliuolo la poesia ellenistica

pseudo-teocriteo

:

)(óXov à^so

facendosi forte

^

x'^'-?^'^^

Di altri dispregintori, se

Xlacp-'a?

ITacpta- [Jióvov

iXao? "Ap-

non della dea,

conosce l'efebo

anche costui

(v.

5)

«

y.al

della

del suo

dell' 'Epaaxr^s

non sapeva che

mano, che amari dardi Eros se ne vendica atrocemente, facendogli cadere addosso la propria statua. Tutto è di una il componimento, così atroce nell' invenzione, maldestrezza sovrana nei particolari. E Orazio si mostra assai malizioso nel rivolgere un ammonimento cosi solenne a una maritata, che la dispregiatrice dell' amore, non la sposa che dell' amore dio sia amore, quale arco abbia in

scagli anche contro Zeus

gioisce

castamente,

poeta innamorato

si

».

ha a temere

dell'ira della dea:

foggia la divinità a suo modo.

il



435



Segue ne currente retro funis eat rota: l'imiiiagine è com' è noto, da un ingegno, per mezzo del quale, girando una manovella, si inalzano pesi; se' il carico è troppo forte, la fune va indietro, la ruota si muove all' incontrario, la manovella sfugge all' operaio e gira altolta,

l'indietro per

conto suo.

La metafora vuol

che Venere sdegnata non capovolga

con termini meno coperti:

lare

presto

il

:

Bada

«

Guarda che non venga

che correrai tu dietro all'amante

giorno

frequentissimo,

TÓTTo;,

«

dire

la situazione », a par-

come avremo agio

».

Il

di vedere, nelle

canzoni a dispetto, anche in quelle oraziane, non è raro

neppure nei 7rapaxXaua:8'upa Il primo HatOLxóv teocriteo, dopo aver detto a chiare note che si è giovani solo una volta e che rimpiangere la giovinezza non serve, finisce: « se tu lascerai che le mie preghiere vadano disperse ai quattro venti...., ora per te andrei sino ai pomi .

un giorno, non verrei per te neppure sino alla porta di casa, neanche se mi chiamassi ». Asclepiade, escluso da un'amata (A P V 164), invoca la notte a testimoniare che egli venne chiamato, e prega che Pythias debba un giorno star così sul vestibolo di delle Esperidi e al custode dei morti Cerbero;

libero dall' angoscioso desiderio,

La somiglianza con Teocrito

lui.

già nel pseudo-Teognide

(II

è grande.

1317),

il

(juale

11 motivo augura a un

(•

giovinetto crudele: « Nessuno, vedendoti, voglia aniarti

Ma

il

particolare

».

del vestibolo fa pensare che Teocrito

sia ricordato di Asclepiade o che derivino tutt' e due da un modello comune. Un po' diverso è l'augurio che egli grida (A P V 1G7) contro il suo amato Moseho, che

si

egli'

possa un giorno errar

pioggia, senz' aver

r

amante

come

lui

di

notte,

molle

innanzi ad alcun uscio.

'EpaaxYj? pseudo-teocriteo

dice

di

Così

amato

all'

«Verrà un giorno che anche tu amerai fanciulli sono nell'età del Lycida oraziano, \^ov

(83sgg.): sti

dell'

requie

». il

Quei\\\:\\o



436



perde ora

la testa tutta la gioventù presto, divenuti puproveranno essi stessi le pene di amore. Anche in questa forma il motivo è antichissimo, perchè l'amore sentimentale nasce in Grecia prima tra uomo e giovinetto che tra maschio e femmina: anche un poeta del secondo libro della silloge teognidea cerca di piegare l'amato, ricordandogli che egli presto sentirà amore (v. 1307) :

beri,

:

\ì.y\Koxt

xal

ziàos-iq

y^aXeTOov, wcjTìsp

CTÙ pnr^asat, o^ptixe

vOv w5'

£-,'(•)

insieme ingegnosamente

izaioiàv.

KuTrpoysvoO;

èrcl

o'

Ipyoìv

àv-

Tibullo combina

ao:.

motivo, diciamo pure, maschile con quello femminile nell'elegia a Pholoe (I 8, 71): la donna fa male a tormentare così il povero Maratho il

;

come

una volta sprezzante, soffre ora le pene di amore, così un giorno essa rimpiangerà la sua crudeltà: hic Marathus quondam miseros ludehat amantes, nescius ulquesti

torem post cajmt esse deum....; nunc omnes odit displicet

UH quaecumque

poena manet, ni desinis ì'evocare

diem

esse sicperba

solente a viso aperto

:

la

cupies votis

te

hunc

te

Peneìopen

« Penelope,

per riguardo

aveva

Venere (come

l'ira di

di

in-

difficilem procis

del suo alto lignaggio,

sdegno

ma

è più soltanto malizioso,

non

Tyrrhenus genuit parens. di sfidare lo

quam

nunc at

;

!

Quel che segue, non

buona fama

;

fastiis,

dura sera

oppositast ianua

forse

alla

ragione

Venere contro

sposa fedele sia un'invenzione impertinente del poeta,

abbiamo detto

padre era Toscano

teste); tuo

riguardo allo

al padre, per

stile,

il

».

Anche

poeta conferisce una

specie di dignità mitica, chiamandolo, invece che Etriiscus,

Tyrrhenus;

ma

la parola

solenne non poteva ingannare

alcuno. Gli Etruschi avevano nell'antichità

polo

lascivo

(IX

16) citato

:

oltre

il

fama

di

po-

passo di Dionigi di Alicarnasso

da Kiessling-Heinze, vale

la

pena

di leg-

gere quanto sui loro costumi narravano Aristotele, Timeo e specie

Teompompo

(Athen.

1

23

d,

XII 517 d

sgg.).





437

Molti particolari sanno di leggenda, sebbene essi

modo come

il

solevano rappresentare in pitture funerarie

dell' altra vita,

dere che

mente

il

piaceri

i

da



far cre-

pettegolissimo Teoporapo esageri qui maligna-

e svisi

munque

mostri popolo sensuale,

li

non però inventi

(1),

sana pianta. Co-

di

meritata o no fosse la loro fama, essa era così

un Romano

tempo di Augusto l'udir vantare la virtù di un'Etrusca doveva far la stessa impressione che a un Toscano del trecento il sentir parlare della castità delle donne bolognesi. Orazio dall'ammonizione scherzosa è passato all' ingiuria mal coperta; senz' effetto, che la porta resta chiusa. Ma l'amante tenta ancora uno sforzo, supplica ancora: « Benché nulla ti pieghi, abbi compassione » quamvis neque te mimerà nec preces nec tinctus viola pallor amantium nec vir Pieria imelice saiicius curvai, diffusa che a

del

:

suppUcihus tuis parcas, nec rigida mollior aesculo nec Mauris

animum

mitior

Le comparazioni ultime hanno

angicibus.

l'aria di specificare

con arte peculiare

(2)

motivi popolari

più importante all'effetto complessivo è la

con quamvis. che

il

I

doni, le preghiere,

pallore degli amanti,

freddo della notte tramuta in pavonazzo

(1)

K(JRTK, r.

(2) Il

Ma

palientior

africani

ÌV.

VI

stanno

(3),

754.

confioiito della rigidità dell'amata con la diuezza

getti iuauimati

doveva esser comune: Sicano,

erano

licei

8il

presenti

alla

el

di

parentesi,

si

sit

licei

chahjhe. I

et

di

og-

et

saxo

serpenti

Orazio anche altra volta

«fuggimmo

Canidia adjlasset peior serpentihus a/ris

sia detto Ira

16, 29

Proj). I

ferro durior

mente

secondo libro dei Sormoni tìnisce: illis

il

;

proposizione

ritrova in un

».

Il

:

il

quelle vivande, velut

motivo del

epigramma

di

iiato fetido,

Lucilio

A

1'

XI 239. (3)

KiKSSLlNG-HiciNzic o altri intendono che

solo caratterizzare leiiH

il

i)alloi(^

virgiliano, detto di

ticheremo che qui invernale.

dogli amanti,

ma

un pallore che sfuma

parla

un

il

linclns viola ddilia

nonostante in violetto,

il

viola /«i/-

non dimou-

amante che passa all'aperto

la notte





438

solo per introdurre l'ultima parte,

con una

disce, e per giunta

con una nei

ma

7iapaxXai)a:0%)pa,

Romana

ziano.

è forse

marito

clie la tra-

Questo motivo non si ritrova che io mi sappia, tutto ora-

Chloe.

'Iliressa

il

flautista o citaristia qualsiasi,

è,

invenzione del

1'

per la donna maritata con un

;:apa-/.Xa'ja{0-jpov

marito compiacente. Del

si augura che Delia gli apra senza far ruda non far sorgere sospetti nel marito (12, 31 sgg.). Nulla, per quanto so, prova che i liberti e la loro prole

pari Tibullo

more,

SI

avessero in Grecia

quegli

né è da credersi che

come

una

nel romano,

costumi che

stessi

mondo greco

essi nel

classe

malizioso di Orazio pare a

sociale a parte.

me

Roma,

in

formassero,

tocco

Il

felicissimo.

Ancora una minaccia chiude il carme, quella che sola poteva metter paura a una signora di quella risma: non hoc

semper

liminis

erit

Kiessling-Heinze

mente ambigue gliersi la vita.

xXauauS-upov.

tempi pure

credono che è

caelestìs

patiens

ultime parole

le

poeta minacci

il

donna non contrasta

in

nulla

1'

adempimento

domanda d'amore xaxaTzsatov

t'era già la -52)

forza della tradizione.

finisce quasi oè

:

con

Tisawv, xal xo\

la stessa

cità del pastore

piglia

innamorato

così

sul

serio

Il

y.tiao\iyj.,

KG}\i.oq

piut-

tan-

di Teocrito

formula: oò/éx" àsiow,

wos

X'r/,o'.

YÀuxl) zoùTo xaxà Ppó)(i^oto yévoixo.

egli

Tiapa-

com' è ovvia, così era tradizionale sin dai il giovane delle Ecclesiazuse, cui

del suo desiderio, finisce la sua

(III

to-

di

vero che questa chiusa del

tosto baldanzosa che disperata

7v£ca£u[xai

latns.

intenzional-

Aristofane:

di la

e

Ed

aquae

aiit

trovano

Qui

\i'

l'

eSovtat.

w^

(xéXi

zoi

ingenuità, la rusti-

manifesta anche in

ciò, che un motivo ormai antiquato.

si

Teocrito vuole che l'avveduto lettore sorrida del giovinetto che vuol mettersi giù e aspettare cheto cheto che i

lupi lo divorino. Si

in atto

il

può esser

certi

che egli non recherà

suo proposito, e male interpretò

le intenzioni

— del suo modello

quando

fìnse

il

che

rozzo imitatore che compose il

suo

àvr^p rzoX'y^iXz^oc,

E

soglia dell'efebo crudele. chi



439

giornale anche

'Epaa-y,;,

s'impiccasse sulla

fa torto al poeta alessandrino

attribuisce un' invenzione, che è da

gli

1'

cronaca

di

ad astrarre dalla chiusa, dalla statua di

Amore che salta addosso all' efebo mentre questo fa il bagno, e vendica l' indifferenza sua verso il morto, uccidendo lui. Properzio accenna un volta il motivo: II 17, 13 num tacere e duro corpus iiivat, impia, saxo, sumere et in

Ma

nostras trita velena manus.

non dice

quel che segue, mostra che

sul serio: nec licet in triviis sicca requiescere luna,

A

aut per rimosas mitiere verba fores.

che questi confort^

carme finisce col distico seguente: quod quamvis ita sit, dominam mutare cavebo; fum in ine senserit esse fidetn. Dunque non diceva fiebit, cum da senno. per uno che vuol morire?

11

No, né il suicidio conviene quale chiusa a questi amori così moderati e cittadineschi, né le parole di Orazio sono ambigue. Esse vogliono dire: « Io mi stancherò una

buona volta

è forse senza modelli. ti

Uvano,

si

Anche questa chiusa non Man mano che costumi si ingen-

di farti la corte ».

i

affievolivano anche le passioni: ai tempi

Teocrito la minaccia

di

per un amore di quella

di uccidersi

non ricambiato, sembrava pazzesca, sicché egli l'adopra solo per mostrare l'ingenuità rustica di un pastore vero. Là dove il poeta non vuole far sorridere di pastori veri, ma dipinge poeti vestiti da pastori, nei Thalysia (v. 122), egli dà all' amico Arato un consiglio di

fatta

altro

genere

:

«

Non facciamo

Arato, né consumiamoci il

triste

(1) Il

i

più

piedi;

il

la

canto del gallo metta

torpore (1) addosso a un altro torpore

è

cagionato

dal freddo, nò s'intende

perdio

guardia alla porta,

».

Questo è un con-

non solo dalla staiichozza ma il

Wilamowitz

{Goti.

Xachr.

aiiclio

lSi)l,

— sigilo di



440

Simichida, cioè di Teocrito, ad Arato. Immagi-

niamo che Arato

lo

segua

e

a se stesso o

ripeta

lo

all'amante, e ne verrà fuori una chiusa di

7T:a(>a-/.XauaL0upov.

L' intenzione di

Simichida è appunto quella di indurre non senza un fine egli ha poc' anzi supplicato e minacciato il dio protettore d"ei pastori, perchè aiuti Arato nell'adempiere il desiderio; non senza un Philino a cedere

fine

ha pregato

:

gli

Amori

E

di colpire Philino.

Philino, riflettendo che l'età

buona

perchè

è sul finire, ceda, egli

chiamato da Simichida (xaÀaxó(;(v. 105) e àTi-'oio TieTir'icpo; qui il poeta accenna un motivo che, lo abbiamo veduto, è comunissimo nel 7T;apa>tXa'ja''i)'upov « la stagione buona passa presto, dunque profittane », ma lo tratta con deè

:

:

licatezza e con malizia particolare, facendo le viste di

non

trovar desiderabile quel che l'amico non vuole avere e

che egli di tutto cuore andarsene dev' essere

di

gli

Anche

augura.

presa dalla

minaccia

la

del ua-

tradizione

paxÀa'ja:i)"upov.

Le canzoni a

La

dispetto

(l

25, III 10,

raccolta delle Odi contiene tre

IV

13).

canti a scorno di

donne che divengono o sono vecchie nell'uno il poeta rinunzia all'amore della femmina superba di una giovinezza che è già mezza sfiorita, e le augura con compiacenza dispettosa vicini i mali dell'età; in un altro celia crudelmente su una vecchia che non vuol darsi vinta e tenta :

invano gareggiare con

giovani

le

186) ueghi questa seconda causa

:

il

;

il

Pohlenz

terzo

(Charites

si

rallegra

filr

Leo 102)

ha ricordato opportunamente che per Galeno (VII 143 K.)

il

tor-

pore deriva appunto da umidità o freddo. Questa doveva essere opinione comune nell'antichità, ed è del resto fondata.

-



441

che egli aveva espresso in un Ttapa/.Xaua:0-opov, si sia adempito. Il motivo doveva allettare era compiaciuto di descrivere il poeta, che, giovane, si la libidine ributtante di vecchie megere; ma il freno

un

che

augurio

severo quale egli se lo era imposto nelle poesie

dell'arte,

due odi meneffetti troppo violenti. Il carme del quarto libro ricorda gli epodi molto più da vicino, come molti in genere nella seconda raccolta. Orazio è tornato in certo modo al romanticismo suo giovanile, o, per meglio

prima raccolta, zionate per prime gli delle

dire,

ha

poeta,

si

gli

ha vietato

nelle

lasciato più lenta la briglia alla sua

mostra più libero da

indole

men

restrizioni volute,

gio a un ideale classicistico. Solo in quest'ultimo egli osa descrivere in

metro

lirico la

di li-

carme

bruttezza della sgual-

non osano se

drina vecchia, mentre le altre due poesie

non accennare all'impressione che essa produce. I

25 Parcius iunctas contiene implicitamente, abbiamo

detto,

una rinunzia

alla richiesta di

villanie dettate dall'odio è vecchia,

gna:

il

che quel che

si

si

amore. Attraverso le

scorge chiaro che Lydia non

dice di

lei

è esagerazione mali-

poeta non osa negare che stuoli

di

giovani ubriachi

gettino ancora sassolini contro la sua finestra, che amatori più sentimentali e più sonnnessi cantino ancora serenate

nanzi alla sua porta: parcius quatiunt, audis minus iam, nulla di più.

Un

giorno,

quando, andrà essa l'amatore dispregiato

in

moechos anus arror/antis

flebis;

non il

erro, assai

(l)

in

noscere

Sembni verità elle,

se

poeta non osa egli stesso

cum

saeviet.

La

situazione

è,

se

somigliante a quella dell'elegia che chiude

libro terzo di Properzio, III

mino

di-

minus

casa degli amanti: quel giorno, e riconosce, non è ancora venuto:

dir

lo

ma il

et

24-25

(1). Il

poeta

si

accorge

evitlcuto elio i

Giuliano

e

mostra che

la

poesia ellenistica dava alla descrizione della vecchia la

forma dell'imprecazione, delle dirae, cioè àpai, come Properzio chiama la sua elegia. Orazio ha trasformato l'imprecazione in profezia. Il carme antico parlava, come s'in-

duce delle coincidenze tra Properzio e Giuliano, della canizie e delle rughe. Properzio ha reso più piccante il motivo, immaginando che la donna, man mano che incanuti che va scoprendo. Il confronto vecchia, si strappi tra Properzio e Orazio mostra che nel carme ellenistico si augurava alla donna superba che le fosse un giorno reso pan per focaccia il passo del Ilatotxóv teocriteo e gli epigrammi di Asclepiade fanno vedere che il motivo era comune (1). Giuliano, a cui importava più di spiegare la i

:

sua virtuosità miserella nella descrizione della bruttezza fisica, stile

ha soppresso l'accenno. Orazio, che per ragioni

di

rifuggiva ancora da particolari di corporale orrore,

l'ha allargato, togliendo

via

il

resto.

Ma

la

sua pittura,

pur rispettando il decorum, è grande di spietatezza. La sgualdrina vecchia che aveva lasciato fuori gli amanti, ora aspetta nel vicolo solitario

(1)

maschio tira

L'ha Filippo

(APXI

36);

il

iu

una canzone

casa

l'amante per la veste, Soji; kzspoic, xb

dell' antico

l'amore di cui

si

a dispetto,

la

tramontana,

composta pure per un

fanciullo che era stato sprezzante, ormai sfiorito,

dopo che quegli ha dato ad [A/jV Scop?;,

mentre

(2),

ma

questi non vuol saperne della stoppia

altri la

messe

^é^oQ. Qui,

amante,

ed

è

da

:

come lui

vùv cpiXov sXxwv, tyjv xaXociu Teocrito, l'amato

respinto

;

come

in

va in

Teocrito,

cauta, è maschile. I due carmi sono parenti stretti,

sebbene l'uno sia una domanda, l'altro un rifiuto d'amore. (2)

Toglie ogni efficacia alla descrizione chi con Kikssling-Heinze

che

soffia

rompe,

la

Non

bisogno



per la notte ventosa, cui nessun raggio di luna

gela sin dentro

che giovani lei.

447

ma

sete di

le ossa;

piange non già

essa

che vecchi ammogliati non guadagno la tormenta, ma

fisico incoercibile,

curin di

si

libidine,

un

quello stesso che fa impazzare

un bisogno fisico e il dispetto per 1' abbandono in cui vive. Pure in questa descrizione così possente Orazio ha saputo evitare ogni volgarità: la donna che una volta fu sprezzante, accetta ora chicchessia, ma non si abbassa sino a piangere, essa, come la vecchia di Nicarcho, forse un contemporaneo più giovane dell' Alessandrino (A P XI 73), la quale vuv lO-éXet ooOvxt |xcaO-òv eXaule

cavalle,

vo(i,£vy].

Invicem moechos amis arrogantis

angiportii,

in

flebis

solo

levis

Thracio hacchante magis (1) sub interlunia vento,

cum Ubi flagrans amor

libido,

et

quae

solet

matres furiare

equorum, saeviet circa iecur ulcerosum, non sine

quod pubes hedera

virenti

qiiestu laeta

gaudeat puìla magis atque mgrto,

uridas frondes Jiiemis sodali dedicet Euro.

Il

confronto della

vecchia etera con cavalle e con cavalle non più giovani, matres equorum, è un' ingiuria atroce men grave che a ;

noi paia, nonostante

intra

il

iecur ulcerosum

non ancilla tnom

18, 72):

I

saeviet,

Orazio ha

:

un giovane amico senz'ombra d'ingiuria

consigliato a (epist.

il

marmoreum venerandi limen

ulla

iecur ideerei

puerve

amici.

spieghi che es.sa sia rimasta nella sua cameretta e di

li

tenda invano

avvenga nel vicolo; a che in questo caso la menziono della tramontana o dciroseurità? E qual mai senso avrelihe l'orecchio a

Vili

quel

nella proposizione in solo jlchia anrjiporlnf (1)

Mafiia è giusto: era credenza antica che la lino e

al aóvo5o'., dei

Theophr. de l'orlirione

inventi, >

chia bamboleggi, «Laide molle che è insieme

Ecuba

nacchia, nonna di Sisifo e sorella di Deucalione

», si

e cor-

com-

piace d'immaginare che essa, la ritinta, dica a tutti tata

come un neonato. Orazio fantasie,

non

si

da queste

è tenuto lontano

ma

crudeli della sua

j)iìi

cattivo gusto,

di

anche nella sua poesia più recente, dove ha allargato alfreni dello stile. quanto In IV 13, Audivere, Lijce mi par di sentire, attraverso la prolissità delle sette strofe, un'ispirazione un po' stanca. i

Il

ma

quarto libro contiene carmi maravigliosi,

ì

pochi

di

amore paiono a me scolorati e alquanto convenzionali. Così anche questo, dove, nonostante particolari felicissimi, mi sembra di scorgere che Orazio non ha più la sua bella indipendenza

di fronte alla tradizione.

Il

principio richiama

una poesia precedente, appunto il r:aj>axXa'ja''i^)'i)pov III Gli dei hanno ascoltato la sua imprecazione, ed ella fatta vecchia fasi

:

:

10. si

è

questo pensiero è espresso con molta en-

audivere Lf/ce, di mea vota, di audivere, Li/ce.

L'unire in una raccolta di una canzone a dispetto che le predizioni e gli

versi

con un

auguri del primo, è

agli epigrammatisti greci,

come

quale, appunto perchè non

zapaxXa-jatii-jpov

mostrando avverate espediente non ignoto

lo citi,

fa

vedere

il

solito

Rufino

;

pone spesso diamorfo quei motivi che ritroviamo atteggiati originalmente da Orazio. Nel libro di Rufino, all'epigramma da noi spesse volte citato (A P V 103) che comincia \xiyy. z'^^o;. Ilpoòiy.rj. -apaxÀaóao \xx'. e prosegue constatando con compiacenza che già i canuti son lì lì per saltarle addosso, seguiva, certo non immediatamente, quest'altro che nella raccolta del Cefala lo precede (A P V 21): « Non ti avevo detto, Prodice: il

nanzi agli sguardi

in

originale, ci

istato, direi,

;

invecchiamo; presto verranno

(ì)

al §iaX'J3Cfi},0i

sono femminili.

8ono

e le

le separatrici degli

rnghe e

i

amici? (1)

capelli liianchi, che in greco

— Ora sono arrivate

rughe e

le



4-00

la canizie, e

cioso e la bocca non ha più le grazie di

qualcuno

più, superba,

adulazione

di

come che

?

Ora

avvicina? o

corpo è cen-

un tempo. Forse

rivolge preci piene

ti

passiamo dinanzi senza fermarci

ti

tomba».

dinanzi a una

io

ti

il

L'effetto di questa realtà

soglio chiamare autobiografica, era accresciuto nel

in

contemporaneo dal trovare la canzone a dispetto una raccolta che usciva ad anni di distanza da quella

in

cui

lettore

era'

il

Orazio

TùapaxÀauaiit'jpov.

alla fine dell'ode

richiama ancora una volta amori suoi giovanili. In Orazio segue una pittura simile a quella ([iiWiwor

panperis

Ibijci.

giovane, e

Anche Lyce vecchia

vuol

sembrar danzare e bere, e quando ha bevuto,

perde ogni ritegno.

Ma

qui

studia di

si

mancano

figure delle gio-

le

manca, prima di ogni altra, la figlia. I verbi sono accumulati un po' l'uno sull'altro, sicché le immagini non hanno quasi tempo di formarsi

vani che danzano con

lei,

dinanzi alla nostra mente. Solo la vecchia che con tre-

mula voce

un amore che non vuol venire,

sollecita

ci

richiama in mente una scena vigorosa delle Ecclesiazuse,

che più sopra abbiamo visto essere contesta popolareschi.

Una

vecchia

(877 sgg.)

uomini non vengano. Anche

una canzone

sola

ludit

e

ionica, cioè oscena:

«

uomini non vengono? sto

qui

si

E

lei

già da

ad aspettare senza

far

cuno

dei passanti.

tando per

con

(1)

i

motivi gli

canticchia sola

Perchè mai

tempo sarebbe

ora.

gli

E

io

nulla, impiastricciata di

belletto, vestita di giallo, e canticchio per

canzone. Eppure potrei

di

duole che

me

sola

una

miei canti afferrare qual-

Muse, venite qui sulla mia bocca, inven-

me una canzoncina

di

(judle ioniche

».

La can-

zone lasciva e triste con cui la meretrice di strada, spesso ebra, inganna a un tempo la vana attesa t^ tenta richiamare amanti, è un motivo doloroso ohe la j^oesia. sia (1) Kx{,'o'jj' oiK»;

mi

ii.iit^

la

lezione inij^littrc





A'iVì

popolaresca, sia rallìnata, ha spesso preso dalla realtà e volto in suo uso. Se Orazio

ricordasse di Aristofane,

si

che pure allora nei primi decenni dell'atticismo era autore

non saprei

scolastico,

Ma

nome

il

dell' amore trasporta Orazio in vede Cupido volar via dalle guance

del dio

tutt'altre sfere; egli

della

dire.

donna che avvizzisce

vane

flautista

ille

:

e posarsi su quelle della gio-

virentis et doctae psallere Chiaè pulchris

excubat in genis, importunus enim iransvolat aridas quercus et

refugit

te

quia luridi dentes,

nives. 1 particolari

vecchie o

sono

gli exoleti.

i

quia rugae turpant

te

soliti

Amore

degli

et capitis

epigrammi contro

vola oltre

le

le

querce inaridite,

dice Orazio: il Myrino della raccolta, pare, di Filippo, in un epigramma(l) nel quale finge che un àvòpóyuvov, raggiunta l'età in cui avrebbe dovuto morire, appenda a Priapo gli

strumenti delle sue grazie pretenziose, gli abiti meretricii e i capelli finti e il belletto e la cassa delle molli vesti di quercia di Venere»: il suo eroe « molle pensa a quelle querele che, morte ormai, divengono mollicce per una specie di carie che le divora, quali cotone, chiama egli

ciascun boschi.

di

noi

Delle

ha spesso

rughe e dei

visto e toccato

con mano

capelli bianchi

in

non occorre

dire quanto spesso ricorrano in questa letteratura. Solo Orazio ha tentato qui nella descrizione della bruttezza

un'audacia pant

stilistica,

capitis nives. Il

a

me

pare con buon successo: tur-

commento

di

Kiessling-Heinze ricorda

che r immagine era dispiaciuta a Quintiliano, asserisce che essa compare in greco per la prima volta nel contemporaneo Antipatro di Thessalonica (A P VI 198) do(hq ajx!,c TioXij) y'/P^- vt'^óijievov, accenna però che si

veva trovare in letteratura più carme o tradotto dal greco o (1)

Citato da Kiesslixg-Heinzi

un due carmi

antica, se Catullo in rifatto

di su



Parche

greci, scriveva delle vittae

(LXIV

457

A me

309).



roseae nlveo residebant vertice

:

pare che

arditezza non sia

1'

tanto nell'immagine quanto nel congiungere le nives con il

turparunt: la prima neve insudicia

Il

particolare più schifoso, dei denti gialli, è raro

capo della donna. anche

il

epigrammatica cosi scarsa di riguardo al buon gusto: Rufino nell'epigramma a dispetto citato (V 21) parla in genere della bocca che non ha più la grazia di prima: il Bizantino Macedonio scrive (XI 374): « Non aprir la bocca; chi ci ficcherà con inganno di farmaci la fila dei denti?» Solo Properzio nella canzone funebre per una ruffiana, che comincia non già sit Ubi terra levis, ma terra tuum spinis obducat, lena, sepidcrum, descrive con compiacenza, tra gli altri particolari schifosi della tisi che consumò la donna che gli aveva fatto male, anche i in

questa poesia

denti cariati collo

:

IV

67

5,

sputaque per dentis

certo imitato Orazio,

l'idi

ire

ego

rugoso tiissim concrescere

cruenta cavos: qui egli

come mostra

tutto

passo

il

non ha (1).

Ma, se i particolari sono ellenistici, la figura dell'Amore che vola via dalla donna vecchia e si ferma sulle gote della giovane, doveva ricordare ai lettori una strofa di Saffo, che è stata ritrovata testé, mutila pur troppo {Ox. Pap. p. 29, pap. 1231, fr. 10). Sono conservate

X

solo le ultime parole di ciascun verso



à[x9i^aax£c

Tiéxaxai

oi'óy.wv,

che nel carme era parola

(1)

di

ma

:



xpóa Y^^P^? ^i'^''i a stabilire

bastano

una vecchia; che qual-

Ragioni cronologiche, in contrario, non ve ne

qnarto libro delle Odi

i)

uscito, ò

vero, solo nel

1',^,

delle elegie properziaue era stato pubblicato giil nel

Ma

non

alla

può diro

pubblicazione,

venisse libro.

si

sott'

occhio

di

e a

sarebbero:

il

mentre l'ultimo 1(5

o l'orse

1").

quanto la composizione di IV 13 sia anteriore non è inverisiniile cbo un canuti dell* emulo Properzio audio prima di fsscr dato fuori in

— cimo



458

aggirava intorno, volava inseguendo: chi se non

si

Amore? (l). La strofa

seguente,

vesti

le

lusso

di

e

le

gemme

preziose che non riescono a mutare V età consegnata a

memorie tutto noti

il

sin

me

note, pare a

troppo

la

[)iìi

scolorita di

carme; l'espressione, nonostante la malizia dei nonostante l'arditezza del tempo che volando

fasti,

chiude r età passata immediatezza, priva riporta

in

un

libro,

di vigore.

mi sembra scarsa

Ma

l'accenno

non può ripensare senza rimpianto:

come osservano colei

di

passato

poeta alla sua lieta giovinezza, alla quale egli

il

dono, su

al

di

che

lei,

lo

egli s'intenerisce,

commentatori, ma non, come essi crema su di se. Essa non è per lui se non i

aveva rubato a

quo fuyit venu?,

se stesso:

heu, quove color? decens quo motus? Certo

grazia nel danzare tutto ciò

riferisce in

si

non interessa

non perchè quid habes

gli

e

ricordo della

primo luogo a

non impietosisce

ricorda giorni che per

illius,

il

il

furono più

lui

belli:

quae spirahat amores, quae me sur-

illiiis

puerat mihi felìx post Cinaram notaque facies? Nella poesia oraziana,

et

artium (jraturnm

dovunque compare Cinara,

essa simboleggia la giovinezza amorosa del poeta:

mo carme

ma

essa,

poeta, se

il

pri-

del quarto libro, che è proemio e quindi pro-

gramma, distingue

dall'età presente quella in cui Orazio

Per fare intendere a Mecenate che Orazio non può più stargli sempre a lato, perchè non

erat bonae sub regno Cinarae.

è più giovane, egli lo invita a rendergli

il

petto forte,

pelli neri e folti fin sulla fronte: reddes dulce loqui,

ridere

decorum

et Inter

vina

(epist. I 7, 28); perfino

il

i

ca-

reddes

fugam Cinarae maerere protervae

pianto per

1'

infedeltà dell'amata

perchè è parte di tempi migliori, in cui egli poteva piacere senza doni a una donna avida. L'Orazio gli è caro,

(1)

L'interpretazione

è del

Wilamowitz,

yi'iicJohrhucher 1914, 228^.

-



459

di Cinara è il giovane della vita elegante e sciolta: quem tenues decuere togae nitidique capilli, quem scis immunem Cinarae placuisse rapaci, quem hihulum liquidi media de luce Falerni (epist. I 14, 32), quello stesso deve ora contentarsi di un pranzo breve e non può rinunziare alla

siesta: la giovinezza è passata. Il

carme par

troppo presto

Ma

»,

finire in

un

sed Cinarae

sospiro: hreves

Cinara

«

annos

con arte che abbiamo mostrata

fata

tutt'altro

è

morta

dederunt.

che mcon-

sueta in Orazio (v. sopra p. 60 sgg.), il periodo che sembrava chiuso, seguita inopinatamente con un aggettivo verbale che introduce a sua volta una proposizione da cui

ne dipende ancora un'altra: serratura din parem vetulae temporibus Lycen, possent

ut

iuvenes

cornicia

visere

fervidi

multo non sine risu dilapsam in cineres facem. Orazio non

non per ischernire: fati non hanno ucciso anzi tempo Cinara se non per conservare (nel serratura si sente l'intenzione) Lyce sino a una età di cornacchia. Il confronto poco galante con la cornacchia longeva quali si è frequente negli epigrammi contro le vecchie; compiacciono anzi di formare nuove espressioni con la cornacchia a fondamento; la Themistonoe di Lucilio (AP XI si

è intenerito

se

i

i

(39)

è xpixópwvo:. « tre volte cornacchia »; l'ottocentenne

celebrata da Myrino (A

cornacchia e

di

P XI

Ecuba, Axi

hanno mostrato che

l'

67) è una Laide mista di

xopcDVExxpr^.

immagine

del

Kiessling-Heinze

tizzone

si

trova in

Meleagro (A P XII 41): « Non più scrivo bello Theron, né Apollodoto che un tempo rifulse (jual fuoco, ora è un tizzone ». Ma tutto il quadro della giovinezza che ride al veder la rovina di chi le ha nociuto, si ritrova anche presso un altro poeta latino, deriva quindi da poesia ellenistica: Tibullo prosegue cosi la descrizione profetica di colei quae fida fuit nuìli, ridotta ora a sostentarsi cun il

(ìlare la

lana

(1

0, (SI):

liane

animo (/andante

ridenf in-





460

venum/jue catervae commemorant merito

tempo

In complesso (luest'ultimo per

tot

tra

mala ferve senem. carmi oraziani i

a dispetto, più libero coni' è da troppo razionali

produce tuttavia

d' arte,

minore che

impressione

canoni

una freschezza

d'

due.

gli altri

L'ammonimento

l'

al fanciullo sprezzante

(IV

10).

Dove abbia compagni il Ligurino di crudelis adirne, abbiamo mostrato chiaramente nelle pagine precedenti :

forse in Anacreonte,

nei

teocritei,

TZT.iZ'.y.x

scorno delle quali

grammi

certo

nello

pseudo-Teognide,

nelle canzoni a

e

7iaj>a7.Xaua''i^'jpx

mandano- come un

ci

dell'Antologia.

più

I

sfiorire della bellezza puerile,

si

riflesso

parlano

antichi

ma

epi-

gli

dello

si

guardano bene

l'accennare senza veli al particolare disgustoso della

Una

nei

dalilpi^.

generazione più recente e più lasciva mostra minor

disgusto e

meno

riguardi

:

parecchie

filze

di

epigrammi

dell'Antologia sguazzano con compiacenza non dissimulata nella descrizione

fanciullo

riluttante

la

ripugnante,

sia

giovanetto che fu sprezzante. C'è chi

genericamente che

cennare

che predicano

al

pubertà, sia che la rinfaccino al

il

si

contenta

di ac-

bel fiore è ormai sparso

un ignoto Thymocle (A P XII 32), o ci sono, come Filippo di Thessalonica in un componimento che abbiamo in parte riportato di sopra (A P XI 36), come il suo coetaneo Diocle (A P XII 35), come un anonimo (XII 39) e come lo specialista e raccoglitore della Musa puerilìs, Stratone (A P XII 186 (1); così un poeta della Corona di Filippo, Auper terra,

che

i

(1)

peli

I

come

fa

verranno o che

due epigrammi ultimi sono riportati da Kiessi.ing-Hkinze

— tomedonte

di Cizico

(A P XI

quello più copertamente



326), e

(^p.tì-s;

appagano

un anonimo (XI

51),

con

questi

eaoj |xàv5prj;),

buona stadel fanciullo un adolescente, con il tempo

più franchezza, gione, che fa

461

che trasforma

si

il

di confrontare la

capretto in caprone. Questi sono ancora

ma appunto

la Musa piierilis contiene due o epigrammi, dove il mutamento è enunciato brutalmente e decomposto gelidamente nei suoi elementi. E meno male quando si distinguono solo gote e femore, i

raffinati,

di

tre filze

di Phania (A P XII Corona di Meleagro,

come nell'epigramma partiene ancora dell'

ignoto

XII 36)

!

alla

Asclepiade

sospetto

e

e

che apquello

in

(A P

Adramytteno

Un epigramma (A P XII

30), attribuito nella

Palatina ad Alceo da Messene, che in

abbiamo conosciuto poeta

31),

altri

componimenti

delicato, fa di peggio.

Kiessling-Heinze credono l'ode di Orazio derivata da

epigrammi

tali

dell'età

augustea e della repubblicana ul-

tima. Io penso che essi abbiano ragione e che veramente

questo componimento

grammi che con

si

ricolleghi piuttosto

Lo

odi perdute.

con

gli

epi-

fa sospettare la brevità,

inconsueta nel canzoniere oraziano. Inoltre, Orazio parla

chiaramente delle xp'.yzc, come soltanto gli epigrammatici recenti che abbiamo detto, non poeti ellenistici come i

essi,

altro

distingue

carme

il

egli

nessun carme

;

volto dal resto del corpo. Porse in nessun

segue cosi servilmente

i

suoi modelli (1);

comporta, oseremo dire, più passivamente rispetto all'ispirazione che la mancanza di origi-

in

si

:

nalità sia qui indizio di sincerità naturale e incoercibile,

(l)

Punioeae rosac saroblto secoiulo

pindiirica (.po.vixopóSoij

Ki^•y!^lin

sgg.

XXXV

un frammento nella raccolta 1900, 80).

A

dei

Esiodo attinge Pin-

si

faccia qui violenza allo spirito della leggenda, ancor-

ché il



465

metta in

si

che a esso non convenga,

rilievo, più

carattere pastorale degli amanti fortunati

(1).

Né pecca

più gravemente contro la santità del mito l'ardente giovinetto dell'

'Oap'.aT'j;,

che, per vincere la fanciulla ripu-

gnante al suo amplesso, asserisce Elena aver baciato spontaneamente, non rapita a forza, il pastore (v, 2); che Elena ha già nei poemi omerici cattiva fama. Gli esempi di Elena, di Venere stessa e Pasiphae, di Danae (II 32, 31 sg., 55sgg.) servono a Properzio di comodo pretesto per iscusare le infedeltà della sua donna: egli non desidera altro, s' intende, che di esser costretto a perdonare. La mitologia è per luì taìitum stuprorum examen {v. 41). Un'altra elegia (III 19) dà la prova che la libidine è ancor più femminile che maschile, citando

nomi

di eroine e storie mitiche.

carme va ancora un passo più

Orazio in questo

perchè non solo adopra frivolmento, come egli stesso altrove, in

ma

TU

25

27,

oltre,

come

gli altri e

(2) e peggio in ITI

1 1

(3),

svisa coscientemente la leggenda. Quest' osservazione

mostra di per se sola abbastanza chiaramente che Tode deve annoverarsi tra quelle animate da spiriti ellenistici (4).

L'imitatore

(1)

di «piegare

per

clie

e

lìlo

(2) (3)

non antentico

V. sopra p.

l\o'jy.oV.z-Aoc.,

ha sentitn

il

il

l>isogu(>

Endymione

fos-

uno

cre-

è siitatta che basta, a

carme.

2tK).

Qui Mercurio

ma

il

La dipendenza

sero davvero pastori. dere, a provar

ha scritto

per segno come Adonide ed

è addirittura

pregato

di

jìiegare lui

il

cuore di

ahueno il signilìcato profondo della leggenda delle Dauaidi, che deve ricercarsi appunto in antichissime credenze, .secondo le (piali vive infelice oltre tomba chi muore senza aver ricevuto il "zìXo^ yap.ot>, il « sacramento » del matrimonio. La concezione risale a un' età in cui si credeva ancora che all'anima del morto ikhi Lydia,

è rispettato

potessero dare (1) Gli

uu'oml>ra di vita

vita galante !iell'./r.i minnidi di :i()

.se

non

le otl'erte

dei suoi discendenti.

dei nominati quali prototipo insieme e giustihcazione della ()\idio,

sono

tìgli

dellt> stessn

spirito.

-

46, 2'ò)



47»)



caziono del libro terzo è coni' è noto,

23

il

;

nel 28 uscì

prima raccolta di carmi oraziani. Properzio però nei crocchi letterari poteva averne conosciuto qualcuno anche prima della pubblicazione: alcune imitazioni sue da Orazio la

sono note e certe; più se ne troveranno, se più

si

cer-

cherà.

La

ricerca

Del resto

la

deve questa volta

finire

in

un non

questione delle relazioni tra l'elegia

di

liquet.

Pro-

perzio e l'ode di Orazio è per noi affatto secondaria:

basta aver messo in luce

gli

ci

elementi della seconda, che

mostrano questa volta piuttosto essere ellenistico il mondo poetico di Orazio che derivar questo suo carme da modelli ellenistici.

L'amante fedele

e

il

lupo

(I

22).

« L'uomo onesto- e di coscienza sicura non ha bisogno di armarsi come un Mauro, qualunque paese egli debba traversare che un lupo ha avuto paura di me ed è fuggito, mentr' io in Sabina passeggiavo cantando Lasia nella zona torrida lage. Ora conosco il mio potere sia nella glaciale, amerò Lalage >>. Il poeta narra un prodigio avvenutogli, ma in ben altro tono che non faccia là dove canta come un fulmine a ciel ;

:

sereno

gli

richiamasse dal più profondo dell'animo

la re-

tempo soffocata dalla critica dove favoleggia di palombe che ripararono

ligione degli anni primi, da filosofica, o là

presagio di gloria futura, lui fanciullo Qui Orazio scherza: Arellio Fusco è un mattacchione che si diverte a finger di non capire chi con cenni degli occhi e con strette di mano supplica di esser di fronde novelle,

dormiente.

liberato da

un seccatore (serm.

I 9,

60

sgg.),

che

degli Ebrei circoncisi (ibd. 69) con espressioni

si

beffa

piuttosto



471

-

sanamente allegre che decenti. Non a lui Orazio avrebbe un miracolo vero. Ma un lupo che fugga via dinanzi a un passante, a un uomo per quanto inerme, non è spettacolo da far meraviglia sul serio. Al più può sembrare strano che Orazio incontrasse di pieno giorno un animale che va in giro solo di notte, sia pure per le balze rocciose e ripide del Monte Gennaro. egli ha inventato la storiella, o, se gli è capitata davvero, ha fatto del suo meglio per darle un aspetto terribile, che in verità non le conviene. Ricordare le armi dei Mauri, il giavellotto e l'arco con le frecce avvelenate, a proposito di un lupo, è esagerazione di quelle che non si dicono se non per ischerzo. Orazio vuole, crederei, che lettori, udendo 1' avventura capitatagli, pensino al fondatore di Cirene cantato da Pindaro, a Batto dinanzi a cui {Pyth. V 57), per volere di Apollo, anche i leoni fuggirono. Così il poeta, là dove narra delle fronde nuove di cui le palombe lo ricopersero, ha in mente la leggenda di lamo (Oli/mp. VI 52); ma il tono è, si è già detto, ben altro. Qui quel parlare per una strofa intera dei Mauri e delle loro armi, quel mettere le Sirti al primo posto tra i paesi pericolosi per belve, quel tornare a discorrere due strofe sotto ancora una volta della Mauritania, insistendovi su con una perifrasi suggerita dalle vicende politiche più recenti, ampliata con un oxijmoroìi ardito, è quasi un confessare l'origine del motivo. Finendo la strofa in cui narra del suo incontro con il lupo, col chiamare la terra di Giuba leonum arida nutrir, Orazio invita quasi il lettore che aveva studiato Pindaro, a confrontare lui con Batto. confidato

i

Pure, parlare di parodia, «di allegra derisione

peggio

di derisione di

un luogo comune

» e

tanto

della poesia ero-

come fanno Kiessling-Heinze, pare a me Orazio non schernisce qui le leggi del mondo

tica,

costruito dai poeti ellenistici, perchè le accetta

eccessivo.

fantastico e,

sia

pure

4-/"J



un sorriscLto sulle labbra, no la suo prò deriderle non converrebbe a uno le cui creature sono cittadine appunto di quel mondo. Orazio, se qui sorride, sorride di sé. fo non mi so immaginare che, sia l'avventura di Orazio in Sabina vera o no, prima di lui un poeta ellenistico ne abbia cantata una simile di ah: tutto ciò che, se non e, si

con

;

vuol dare per trasportato

[Ì£[jCf.o[X£vov,

per vita vissuta, non può essere

impunemente da un soggetto a un di lamo, perchè una confronta con

feriva di Pindaro, ed egli

si

trove, con piena coscienza.

Ma

egli avesse preso

da

altri

Orazio

altro.

narra di se la leggenda

simile

si

ri-

qui e

al-

lui,

sarebbe assurdo pensare che

l'invenzione dell'amante puro

che s'incontra non nelle Sirti ma in un paese abbastanza civile, se pure un po' aspro, non con un leone ma con un lupo, bestiaccia infine, ed egli doveva saperlo, tutt'altro che esuberante

È

«

di coraggio.

proprio vero, Fusco, che chi ha la coscienza pura,

non ha nulla da temere

».

Secondo Tibullo

l'amante può girare intusque sacerque anche la pericolosa

Roma

Amore non permette neppur

I 6,

che egli è sicuro tamen

media sic, oris,

est

da Pilodemo (A

in

per

che

(III 16,

anche

mezzo

ai

P V

25) e

11 sgg.) canta

sulle strade più

barbari di Scizia:

quisquam, sacros qui laedat amantis: Scironis ;

quisquis amator erit Scytliicis

licet

ambulet

Ma non vi è vediamo riflessi in questi abbiano inventato che, nonché barbari, anche le

nemo adeo i

ut noceat harharus esse volet.

poeti ellenistici che

i

belve risparmino

un

anche

simile,

pericoli ^della strada

ai

di esser rispettato

licei ire via

traccia che passi,

pensare

25 sgg.),

di notte,

un pensiero

13 sgg.). Properzio

infestate dai ladroni, nec

di

di notte, è espresso

Ovidio {Am.

E

s'intende.

(1 2,

tale

gli

amanti, che abbiano narrato

prodigio quale Apollo aveva riservato

niamino dei Orazio osa

fati,

al

fondatore della città possente.

inventarlo, anzi

se

di al

supporlo noto e ovvio.

be-

Ma «

E

-

-

47:i

proprio vero, Fusco, che....

E

».

l'invenzione è conforme

mondo erotico dei poeti che uomo buono e amante sono

alle leggi del ciò,

identici.

augustei anche in senz' altro pensati

ricompensa che secondo

Cosi da Tibullo quella

r opinione comune del tempo è destinata dopo morte buoni, è riservata agli amanti: la

sede riservata a essi

nero

sum semper Amori,

:

I 3,

ipsa

i

campi

Elisi

57 sgg. sed me, quod faciUs

Venus campos ducei

ac iuvenum series teneris immìxta puellis ludit lÀa

miscet

amor

;

illic est

te-

in Eli/sios....]

adsidue proe-

et

cuicumqtie rapax Mors venit amanti,

insigni myrtea serta

et gerit

ai

divengono

coma

Parimenti Properzio (IV

».

7,

55 sgg.) nomina tra

si

portarono bene o male in amore.

i

beati e

chi ben guardi, sono parallele

:

i

dannati solo donne che

Le due

concezioni,

per Orazio la cosa è così

ferma neppure a spiegare come mai il passeggiare oltre il termine del proprio podere con Lalage in mente, cantando Lalage, sia atto di pietà. A Lalage egli rimarrà fedele più che mai ora, che ha la prova della potenza dell'amore. Questo pensiero che, se lo si prende sul serio, diviene assurdo, non è neppure ovvia che egli non

enunciato,

ma

è

si

come

implicito nel passaggio dalla quarta Mettimi nella zona glaciale o nella

alla quinta strofa

:

torrida, seguiterò

ad amare

dolce voce».

La

«

la fanciulla dal

dolce

descrizione delle pigre stese polari che

nessun aratro ridesta, nessun albero rallegra,

Giove

ostile

riso, di

la

nebbia e

aduggiano, è posta nel primo luogo, perchè, se

dopo 1' accenno alla terra di fuoco umane, l'impressione scemerebbe di molto. La distinzione delle zone abitabili e inabitabili non è ancora al tempo di Orazio un'anticaglia poetica. Forse già Eratostene, certo Polibio e Posidonio avevano negato che la zona tropica fosse disabitata, ma Cleomede narra di Stoici di stretta osservanza, quali, non dandosi per vinti neppure dinanzi alle notizie dei viaggiatori che si

fosse collocata subito

negata

alle abitazioni

i

erano spinti nelle regioni

474

^ polemizzavano ap-

e(|uatoriali,

punto contro Posidonio (Ij. Cleomede, che pure visse nd secondo secolo dopo Cristo, dà loro ragione. Per Orazio chi cerca i confini del mondo, vuol vedere qua parte dehacchentur if/nes, qua nehuìue phiviique rores (111 3, 55j. Disopra abbiamo negato che la storiella del lupo possa avere modelli ellenistici

ne ha, credo, questa seconda parte

;

carme ellenistico, di cui ci sono conservati riepigrammi, due esprimeva in forma imperativale,

dell'ode, l'n flessi in

come io

Orazio,

pensiero: iec, siquem falles, tu periiirare timeto: commodat in lusm augn.stei

il

alieno

:

numina surda Venus, e divina di

II 8, 19 tu, dea, tu iuheas animi perinria puri

mare ferre Notos qui \'enere è colui che, cedendo alla potenza di lei, giura

Carpathiìim

tepidos per

:

la il

protettricifalso.





481

stifìcare la gelosia propria quasi fosse solo

nel primo libro

può

spergiuro

non punite

I

:

:

il

agli

dèi

28 e

il

26, lo spunto è

il

menzogne

le

25 desine iam revocare

Cìjnthia, et oblitos parce movere deos.

fra

in-

xòtzoc,

;

ricordare 15,

nel loro

con certa timidezza già troppo stroppia il rinnovamento dello

teresse. Properzio usa questo

prime

tuis perinria verbis,

Nel secondo, composto e svolto con una

ripreso

aggiunta curiosa Cynthia ha tradito il poeta ricongiungendosi con il pretore reduce d' Illiria guai a lei. Le :

;

procelle non infuriano a caso

seguita proprio

le fanciulle

;

il

fulmine

spergiure

:

per placidus peiuros ridet amantes luppiter aure preces aetheria

:

et

tiinc

et

47 non sem-

surda neglegit

vidistls toto sonitus perctirrere caelo

desiluisse

aquosus Orlon, nec rus

Giove per-

di

li 16,

ille

solet

ipse deus. L'

domo sic

:

de

punire

fulmi?iaque

non haec Pleiades faciunt ncque niìiilo

fidminis

piiellas,

ultimo verso par quasi

elegia citata dal primo libro

di

ira

cadit

;

periu-

deceptns quoniam fevit

una

risposta alla

Tibullo, pubblicato ap-

punto in quello stesso torno di tempo come lì Giove perdonava, conscio di aver dato lui il cattivo esempio, :

così qui punisce per dispetto degli inganni in cui egli è

caduto.

La

spiegazione fantastica delle tempeste autun-

mostra che Properzio prende qui in giro Cynthia, lettori. Un'elegia che segue questa nel medesimo libro, sta con essa a un dipresso nella medesima relazione che la seconda ode a Lyce con la prima: quel che il poeta ha presagito all'amata, si è purtroppo adempiuto; essa è malata; non tanto ne ha colpa la stagione inclemente quanto gli spergiuri II 28, 1 luppiter, affectae tandem miserere puellae ; tam formosa tuum mortua crimen erit; venit enim tempus, quo torridus aestuat aer, incipit et sicco fervere nali

sé e

i

:

Cane;sed non tam ardoris culpa est ncque crimina caeli, quam totiens sanctos non Imbuisse deos : hoc perdit miseras, hoc terra

perdidit ante puellas; quid quid iurarunt, ventus 31

et

unda

rapit,



482



e così via di seguito. In quello stesso torno di anni Tibullo,

che pure nell'ars amandi aveva trattato il motivo vecchio, introduce il nuovo in una delle sue più complicate e capricciose elegie: Maratho l'ha abbandonato, violando giurai

menti, per cupidigia del danaro offertogli da una donna

:

un giorno se ne pentirà (1). 11 poeta ondeggia tra l'odio e l'amore. Il carme comincia con parole di timore e di compassione I 9, 1 quid mihi, si fueras miseroa laeaunis amores, foedera per divos clam Violanda dabas? La puni:

zione è inevitabile: a

tamen

sera

Poena

tncitis

primo periuria

niiser, et si quis

ceìat,

Pure Tibullo ha

venit pedihus.

in-

teso dire, e spera sia vero, che spergiurare è lecito ai belli,

ma

per una volta sola:

pune

licere

j9arcH?>t'» omiiin, non è accettabile:

come avrebbe quod puben

latto

anche nn lettore antico ad accorgersi

libi crenrit

oiiniis, ucrvitits

crvucit

naca

i

ciie

in

adde

duo nominativi, che



486



scent]v cioè, crederei, al brindisi di costui

con un

egli al bevitore

TtoxT^p'.ov Si^o'jv. Il

:

:

« risposi all'invito ».

L' uso durava ancora in tempi recenti

piano del banchetto

Ateneo (X 44ò

di

di

Antifano che impongono

meno che

f)

:

1'

Ui-

brinda a un collega con versi

di scolare giù di

un

sol fiato tutta la

coppa;

pedanteschi dell'erudito arcaizzino anche nei costumi. Ancor oggi gli studenti tedeschi, quand'hanno tra di loro un a

ospite

i

sofisti

cui vogliono onorare,

kommen

ihvi

vine»

Ganziu

voi\

80 l'età e la salute gli(«lo jtornu't louo, riciiniliia la «irli--i:i

1

e i|iM'sti, Kicssliii:;-



512



già con un diapason più alto di quello che Anacreonte

raggiungeva per gradi (1). Questo in genere quanto alla situazione, ma anche particolari sono diversi. Il carme anacreonteo comincia con un lieto comando al coppiere, l'oraziano con una massima grave almeno in apparenza: Natis in usum laetitiae scyphis pugnare Thracumst. Noi vediamo il poeta, unico lucido in mezzo agli annebbiati, (^uasi tentato di ritrarsi indietro e prorompente poi in un'esclamazione indignata. La sostituzione dei Traci, che Anacreonte non poteva, ancorché ne avesse avuto voglia, nominare con ispregio in una poesia in cui si proponeva di imitare le Bassare, le baccanti tracie, deriva non tanto forse, come mostrano di credere Kiessling-Heinze, dall'influsso di un passo callimacheo (2), dove si parla con orrore d-ell'usanza tracia di bere a garganella vin pretto, quanto all'esser gli Sciti divenuti per Orazio un modello piuttosto di costumi rigidi che di sfrenatezza: campestres meliiis Scythae vivimi (3). Lo stile è già in questa prima sentenza assai più vigoi

roso e incisivo, assai più lontano dal linguaggio della conversazione, che

non

sia quello di

comune

Anacreonte,

il

Heinze osservano opportunamente che secondo Ateneo (XI 498 f), o eittadino e nessuna

piuttosto secondo Asclepiade di Myrlea nessun

persona di vita moderata e civile beveva dallo oxùcpog. cbo, che

fiorì

nel terzo secolo a.

durante un banchetto

di

C,

Ma

Hippolo-

narra (Athen. IV 129

e)

che

uoz/e macedone un altro Proteo, nipote del

la bella prodezza di vuotare d' uu sorso un intero Macedoni erano appunto rimasti lurchi.

primo, compiè :jV.ùxoc,:

(1)

ì

Non

sato, poiché

Anacreonte nel seguito narrasse di risse. diapason è già, nonché raggiunto, sorpas-

è probabile che

Nella seconda pericopa il

il

poeta cerca modo, proponendo

il

canto, di quietare

il

tumulto. (2)

Fr

109; l'elegia di cui quel

ora negli Oxyr. Pap. (3) V.

sopra

p.

XI 428.

85, u. 1362.

distico

fa

parte, è pubblicata





513

quale non presenta in nessun luogo arditezze pari alle tazze

nate in servizio della gioia. Già in quel che segue nella

prima strofa, il convito è rappresentato, pure molto audacemente, quale un sacramento: chi non vuole la pace, offende Dioniso, nume verecondo: tollite barbarum morem, verecundumque Bacchian sangidneis ])rohibete rixis. Nello scrivere queste parole Orazio avrà senza dubbio pensato, sorridendo, al

citò

le

dramma

di

Euripide

14 e più chiaramente

(e. II 19,

Baccanti

:

;

che anche altrove,

epist. I 16, 73) ricordò e

moderno, quale

suo Bacco, dio

il

esigeva la coscienza religiosa rinnovata, odiava gue. Egli, che altrove è àetio pacis mediusqiie 28),

ha qui

lucernis

in orrore la guerra.

in forma più concisa e concreta in si

Bacchihde XIII (XIV) 12: confanno la voce della lira e

banchetti

lo

san-

il

belli (II 19,

Quel che segue, vino

Medius acinaces immane quantutn

Ne

i

cori di

strepito del bronzo ».

et

discrepai, riproduce

un pensiero che

«

lo

si

trova

alle battaglie luttuose

Il

suono acuto, ne

riscontro

ai

non prova

che Orazio abbia pensato a Bacchilide, tanto più che il motivo doveva esser comune nell'antica lirica. Quel che

motivo della strofa precedente; impium clamorem, intelligibile perchè già nella prima strofa il poeta aveva ammonito di tener lontano Bacco dalle risse, rimane assai audace nulla meglio di queste audacie di espressione mostra quanto vigorosa sia la personalità stilistica di Orazio proprio là dove «imita». Può derivare da Anacreonte la situazione o anche solo qualche particolare delle quattro strofe rimanenti ? Io credo che si possa risponder di no con tutta sicurezza (1). Anacreonte non solo non rifiuta di bere, ma assegna egli stesso le proporzioni della miscela e propone

segue, riprende

il

:

(1) Ila risposto di

Cahducci

no

{Parini minore,

con li'"»))

aniniirabilo elio

dirittura

puro non ora un

di

^indi/io

jjrooista.

il

il

modo

del simposio

sembri a

514

quindi

;

tutti sufficiente la

— il

suo carme, anche se non

ragione che

ci

induce a cre-

seconda dere che dopo non poteva seguitare con un' accettazione del comando legata a condizioni che la fanno somigliare a un rifiuto. Questa considerazione sembra a me provi di per sé sola l'assunto; ma anche il giovane presente al convito solo con il corpo, mentre l'anima si consuma silenziosamente in un amore cui egli si vergogna di confessare, il giovane che, mentre più si studia di apparir lieto per nascondere il suo stato vero, non riesce a celare le sue condizioni a un occhio esperto, è tutt'altro che un tipo anacreontico. Per quanto poco ci sia conservato di Anacreonte, noi vediamo chiaro che egli fu spirito elegante strofa tutto tornasse in pace,

la

e grazioso

ma

ne profondo ne ardente: ne

accorto di un amore che cova così sotto i

suoi contemporanei

si

egli

sarebbero vergognati

cioè di avere relazioni sessuali con

si

sarebbe

la cenere,

una donna,



amare,

di

solo per-

chè essa fosse liberta. Il motivo del giovinetto sentimentale, il quale nasconde con grande studio la sua passione senza riuscire a sfuggire al poeta, che, appunto perchè poeta, è esperto di amori, ci appare nella poesia ellenistica non è probabile che esso sia anteriore al quarto secolo, che il Convito platonico, come ho accennato disopra, è il documento più antico della concezione sentimentale dell'amore. Già ;

Clearcho

(Athen.

XV

669) conosceva una credenza popolare secondo la quale agli innamorati le corone non rimangono intatte sul capo, ma lo scolaro di Aristotele,

si

sciolgono e

tentava

di

gioni più

si

sfogliano, e nei suoi

spiegare

meno

di Soli

il

amore

trattati di

fatto, accettato per vero,

con ra-

metafisiche, cioè cattive. Asclepiade e

Callimaco traggon profitto con molta abilità da questa superstizione.

Asclepiade

canta

(A

P XII

133)

:

olyoq

— epcoTog IXeyxo?

xaxrjcpè? £|3XeTC£.



o-jx

-/(o a-^iyxx^'elc

sarono Nicagora,

innamorato, che

il

gli

èvjataas (1) xa!

xal

axécpavo?

£[X£V£

capo e guardava un po'

le

«

;

io

vino è

il

molti brindisi accu-

i

quale assicurava a noi

vennero

Xc-

TioÀÀal

ai

fjXaaav

fjjxòv

xaì yàp è5àxpDa£v



paragone dell'amore;

la pietra di

il

àpveu[X£vov

£p3iv

*

xayóprjv TtpoTióaets

515

non essere

di

lacrime agli occhi e piegò

corona stretta

triste e la

torno alla testa non gli rimaneva

al

posto

qui la descrizione del giovinetto innamorato

il

in-

Mirabile è

».

quale, preso

da queir intenerimento che si impadronisce spesso di uomini deboli quando hanno bevuto, dà a divedere la sua tristezza; il particolare della corona è d'importanza secondaria:

rebbero

al

poeta

bastati.

contegno samotivo asclepia-

gli indizi ricavati dal

Callimaco riprende

il

deo con la mira palese di procacciarsi il vanto di avere aggiunto finezza a un componimento che già ai contemporanei dovette apparire scrive (ep.

43)

:

£Àxoc;

pòv 7uV£ù|xa Olà aiyjO-éwv

insuperabile per finezza.

e'/wv

(zlòec, ;)

ó

^£Tvog

£Xàvi)-av£v

àvrjYayExo, xò xpi'xov

xà 0£ póòa '^'jàXo^oXeOvxoc xàvopò?

'àrSo

ya{ia''- WTixYjxac [xsYa or, xc. txà òa''[i.ova;,

Egli

toc,

àvtT]-

-f^yix

Ek'.ve,

axc'^àvcov -àvx' iyv^ovxo

oùx arcò

^'jajxoO £Ìxà!^to.

non ci eravamo accorti che lo straniero avesse una ferita. Con che affanno (hai visto?) ha tratto a sé il fiato mentre beveva per la terza volta, petali, sono finite tutte dalla sua e le rose, perdendo corona in terra! Arde di un gran fuoco; per gli dèi, non congetturo a casaccio, ma, ladro, conosco le tracce del cpwpò; 5 l'evia

'f jjp

£[iaO-ov

;

«

i

(1) viisit

La parola

è ritonuta coiimni'iuente

corrotta,

caput, aiicorcbii senz'altro esempio (v. Kaibim,,

511 che, specie per questa ragione, vuol leggere parola del resto da

Ini

mostra l'etimologia (da constatare

come un poeta

zione più primitiva

ilie

zk\ì'^'{tt.Qe

costruita), ò per èvuoTaasv veùo)).

A

noi

piìi

il

senso de-

«siugbiozzìi»,

originario,

come

rimane altro elio una parola in acce-

moderni non

del III secolo adopri

prosatori

ma

Uerm. XXII 1887

antichi; v'è da stupirsene?



516



». Mentre Asclepiade espone una scena osservata un giorno durante un banchetto, Callimaco riferisce al-

ladro

l'orecchio di colui che gli giace accanto nel convito, quello

che ha scoperto dianzi, quello che va scoprendo ora. nel

carme

di Orazio, la lirica

accompagna, per

Come

cosi dire,

passo passo lo svolgimento dell' azione (l). Il tono dell'amico che incita un altro a osservare qualche cosa di curioso, è reso mirabilmente;

si

pensi a quell' «hai visto?»

che sorprende, per cosi dire, a volo un sospiro. I particolari sono rappresentati in modo assai più concreto e più vivo che non

da Asclepiade insuperabile per evidenza è la maniera come è espresso che le rose, perduti a uno a uno i petali, già non cingono più il capo, ma sono in terra. Maravigliosa anche l'abilità nell'evitare la cruda parola èpàv, sostituendole espressioni equivalenti del linguaggio sentimentale

:

:

esser ferito, bruciare, o più

propriamente essere arrostito da un gran fuoco.

Ma

Cal-

limaco, più che di queste bellezze particolari, sarà stato fiero dell'invenzione dell'ultimo distico.

Fin

lì si

poteva

sentire in quella descrizione e specie in quelle espressioni

compassione un po' ironica dell'uomo maturo ed esperto il giovinetto ancora alle prime armi, ma due versi ultimi mostrano al lettore che l' ironia, se pur v'era, era quella dell'uomo sentimentale, il quale ama scherzare più su se che su ogni altro. Callimaco confessa neir ultimo distico che, appunto perchè si trova o si è la

della vita per

(1)

Ci sarà bisogno di ripetere ancora una volta che

i

io

non

j)eu9o

punto a rappresentazione mimica, che io credo e questo epigramma e l' ode di Orazio composti per la lettura, ancorché essi siano adatti anche a recitazione monologica e non si veda perchè p. e. il poeta antico

non

li

abbia declamati in salotti alessandrini e romani.

Non

può dir lo stesso anche di lirica moderna? «E poi si vuol asserir tutto ai moderni il vanto di aver drammatizzato la lirica », scrive il Carducci. Ma grecisti moderni si sdegnano che si osi interpretare un

si

inno di Callimaco quale lirica drammatica, in questo senso drammatica.

i

— trovato

nelle

sorridendo di

condizioni



517

stesse di quel giovinetto, egli,

sorride di se stesso.

lui,

poeta

Il

si

serve

un suo amore quale a un uomo moderno che

dello spunto asclepiadeo per far parola di

modo

in quel solo

nel

faccia professione di qualche serietà, è lecito confessare

un

certe debolezze, con sulle labbra

sorriso per

i

com-

prima che per ogni altro, per se. Nell'ode oraziana non v'è traccia alcuna della senti-

pagni

sventura

di

e,

ma

mentalità callimachea, vela con

mentre più

segreto, proprio

che

lo stesso

tipo del giovinetto che ri-

il

suo contegno durante una festa

il

studia

si

suo amore

il

dissimularlo, è

di

Asclepiade e in Callimaco. Sebbene

in

poeta romano abbia del

il

tutto rinunziato a ricavare ef-

fetti poetici dalla superstizione

greca, simile è anche la

situazione; l'uso, diciam pure, della «tecnica progressiva»

che

lo stesso

Callimaco. Voglio

in

perciò che

asserire

Orazio in quest'ode attinga all'epigramma callimacheo

Neppur per sogno, ma confronti con poeti ellenistici mostrano com'egh senta ellenisticamente la sua figura, i

mettono meglio Anacreonte.

in luce

il

i

contrasto tra l'arte sua e quella

di

Il

una di

fratello di Megilla

liberta

:

Opuntia

Orazio in quest' ode sia

tutt'altro

com'esso sia ellenistico soltanto nistica

si

vergogna

si

questa pennellata mostra come

che

perchè

la

il

di

amare

sentimento

anacronistico,

cultura elle-

continua senza stacco e senza salto

in

quella

augustea. Noi non troviamo nella letteratura greca che i

poeti

si

da loro

preoccupino più che tanto dei natali delle donne

amate; o

schiava e libera h

tutt'al più, essi

(1).

romano; romana

e

Il

fanno

differenza tra

contrasto tra lihertimis e ingenims

conforme

alla

natura un po' rude di

Orazio è la libertà, la brutalità dello scherzo sull'amore per una libertina.

(l)

V. sopra

p.

IHy 8gg.

-

518

-

E neanche il confronto della femmina rapace e tenace con mostri celebri della favola sarà preso da Anacreonte: che esso, se non erro, appartiene a quello stesso i

tempo a stica di

cui risale

Omero

l'

e in

interpretazione allegorica e morali-

genere

di

ogni mito. Infatti

le

etere

non hanno soprannomi presi in prestito da tali portenti se non nella commedia di mezzo. I commentatori sogliono opportunamente citare un passo della Nsotti? di Anaxila (Athen. XIII 558 a sgg.), nel quale le etere sono prima confrontate in generale con dragonesse o con la Chimera spiratrice di fiamma o con Cariddi o con Scilla tricipite, con la Sfìnge, l' Idra, una leonessa, una vipera, le schiatte alate delle Arpie, e poi ciascuna delle più famose etere attiche è comparata in particolare con uno di questi mostri Plangon « mette a ferro e fuoco » i barbari come la Chimera; solo un cavaliere scampò da essa la vita, lasciandole tutte le sue suppellettili e fuggendo di casa. Nannion è Scilla, perchè, divorati due compagni, va a caccia del terzo, e buon che questo si è salvato con remo di abete! «Ma Frine poco lontano fa la parte di Cariddi, e, afferrato il nocchiero, se lo è inghiottito con tutta la nave ». Anaxila è contemporaneo di Platone noi vediamo che questo nei suoi dialoghi combatte contro persone che ricercavano nei poemi omerici le ÓTcóvoca:, significati profondi e riposti {lon. 530 e, se è autentico Resp. II 378 d e altrove). Il suo contemporaneo più vecchio, Antistene, che aveva composto su Omero una quantità quasi :

:

;

VI

incredibile di opere (Diog. Laert.

personaggi omerici a più

tardi

(I)

gli

tipi ideali di

Stoici,

Cfr. gli scolii al

come Orazio

primo verso

17-18), riduceva

virtù e di vizi

dell'

X

i

come

stesso nella seconda

Odissea

librato suir iuterpretazione omerica di Autistene

Leipziger Studien,

(1),

:



giudizio equi-

dà Ernst Weber,

226 sgg.

i

— primo

epistola del libro

519



Non siamo

(1).

certi che, proce-

dendo ancor oltre, egli allegorizzasse, umanizzandoli, anche mostri omerici. Pure, o egli stesso o qualche sofista contemporaneo o di poco anteriore deve aver fatto questo passo, se Anaxila e forse i belli spiriti della società attica di quell'età identificarono i mostri con meretrici, certo servendosi a fini scherzosi di metodi che la scienza prendeva sul serio. E infatti per il più grave storico del mostri omerici, almeno il Pitone quarto secolo, se non chiamato drago per la sua ma un uomo drago, non è un i

i

crudeltà

(2).

Nella letteratura posteriore

tali

interpretazioni

una yyn, y.x-óe.xaaaa /.al oò tyjd-oc, o'jvo[x' r/ouax, una donna di mal affare e che non portava a torto il suo nome: egli intende qui certamente parlare non della Scilla omerica ma della figlia dilagano: per Callimaco

(fr.

184) Scilla è

del re di Megara, Niso, che tradì a la patria,

ma

Minosse

espressione non ha alcun

1'

il

padre e

sapore se non

per chi sappia

come

omerica fosse

diffuso. Dall' età alessandrina in poi. quel

genere

di esegesi

il

confronto tra cortigiane e la Scilla

invade anche

i

compendii più o meno

scolastici: perii cosiddetto Eraclito de incredihilihus (p. 73,

13 Festa) la Scilla omerica è un'etera; una cortigiana è pure la Chimera per lo scoliasta townleyano dell'Iliade (Z 161). Meleagro finisce un

epigramma (AP

V

190), in

paragona sé a una nave che va alla deriva per il mare di amore: « Vedremo di nuovo Scilla lussuriosa », cioè torneremo all'amata da cui ci credevamo liberi per sempre. Ne fa maraviglia il favore di cui godono spiecui

gazioni cosi puerili

:

lo

scorgere nei mostri omerici, ogni-

qualvolta sono di sesso femminile, donne belle e lascive,

(1) (2)

Cfr.

anche

WirPKKCHT,

(Tubingen 1908),

la

quinta satira del secondo

£'«/i('JcA/MHf/

p. 9.

libro.

dir rationalistischen

ìlulhetidetitung II



520



conveniva perfettamente a gente che faceva dei re del passato benefattori dell'umanità, la quale riconoscente

tri-

buta loro culto; Leone di Fella ed Ecateo di Abdera si sono fatti paladini di questa concezione, che grazie ai romanzi di

Euemero



da

e di Dionisio Skytobrachion (1)

impadronirsi di

tutti gli spiriti ;

la fede di Orazio: Caelo

Musa

venne

in

voga

questa fu anche

beat: sic lovis interest optatis

con quel che segue. seconda parte dell'ode oraziana rispecchia

epulis inipiger Hercules

Tutta

la

il

sentire proprio della società e della letteratura ellenistica

La nostra analisi ha messo in luce che qui Orazio esprime il mondo lirico suo, ricco di elementi ellenistici, senza attingere a carmi determinati. ed ellenistico-romana.

Rimane a dire una parola sulla tecnica della composizione. Che Orazio finga di cantare, mentre l'azione gli si svolge dinanzi dell'Augusto,

non

agli occhi,

arte consueta in lui, III 14,

fa maraviglia:

come mostra

il

questa è

carme per il ritorno credevamo questa

Herculis ritu. Noi

tecnica invenzione ellenistica: Callimaco descrive spesso

liricamente corteggi e

Ma

riti,

man mano che

si

svolgono.

quel che è conservato dell'ode di Anacreonte, mostra

chiaro che già gli antichi Ioni conoscevano e sfruttavano

abilmente

artifici di tal genere. Poiché non è il caso di pensare a rappresentazione, poiché questa è non arte mi-

ma

metica,

riproduzione,

ma

stilizzazione

letteraria

di

forme mimetiche da quel carme si dovrà conchiudere che già Anacreonte pensa, scrivendo, al libro, quando anche suoi carmi siano stati sovente recitati davvero ;

i

in banchetti.

(1)

Intoruo allo svolgimento del sistema,

cfr.

nell'

Enciclopedia

Pauly-Wissowa, l'articolo dello Schwartz su Dionysios Skijtobraehion e quelli del Jacoby sn Sekataios von Ahdera ed Eumeros.

di





SENTIMENTO DELLA NATURA.

IL

h)

521

Pensieri e sentimenti di Orazio lirico sono spesso de-

terminati

natura che

dalla

circonda: egli o

lo

sente

si

con essa o si ribella alle impressioni che da essa riceve. Ai soffi tepidi del vento di primavera, in accordo perfetto

insieme con

non appena

il

gelo, che stringeva

venti

i

cam-

ghiaccio, che copriva pur dianzi le

il

pagne, fonde

hanno cessato

cuore del poeta

il

di

torna in pace anche l'animo. L'avvicendarsi ra-

ornelli,

pido delle

stagioni, l'alternarsi incessante

della

vita e

morte nelle cose che diciamo inanimate, invita poeta a profittare dell'ora. Il rumore delle onde che della

infrangono

sugli

lo eccita

scogli,

nell'amore difesa contro il

le

a cercare nel vino e

cure del domani;

ma

dall'anima

il

fuoco e

il

freddo, che sale a essa dalla con-

templazione del paesaggio nevoso. Orazio tura

(1),

perchè gode con

dipender da

Ma egli

con

Del Sentimento

ma

lei

;

non sa

della

dei

quando

vale a dire, egli sente

in

genere, con se

uscir di sé per sprofondarsi

natura in Catullo ed

una dissertazione

scritta nel 189.5.

le espressioni

sente la naribella

si

connette la natura con l'uomo

Vattiisso in

sano),

perchè

lei.

stesso in particolare;

(1)

e

lei

ella lo invita a rattristarsi

M.

il

si

vino devono aiutarlo a mettere in bando non solo dal

corpo

di

;

scuotere cipressi e

Orazio

di laurea pubblicata nel

L' autore raccogli»»

tutte le

due poeti connesse con fenomeni

vagliare quanto di esse sia bagaglio

tradizionale,

lia

discorso

1910 (Pos-

immagini

naturali,

e

senza

quanto manifesti

sentimenti del poeta. Del metodo infantilo non faremo carico a uno studioso che

ha

fatto

opera così utile in altre parti delle scienze sto-

riche. Il vecchio libretto di

chen Naturninn

Karl Wokumann,

dir (iriechen u.

finezza pur sempre insuperata,

bra equo.

Iliimer

ma

il

(Monaco,

Ueber

dm

hinducha/tli-

1871) pare a

me

di

giudizio su Orazio non mi sem-

— tutto in

lei.

campagna

Nella

allo spirito stanco, ai

522

vita

egli cerca riposo e sollievo

più conforme che

ragione non

dettami della

— la

cittadina

corrotta. Nulla h per

lui

più dolce che starsene sdraiato nell'erba alta, all'ombra

porgendo tra il sonno l'orecchio al morun ruscelletto. Per contro, egli non sa contemplare con gioia profonda il cader della neve e la

fitta di alberi,

morio uguale furia del

di

mare

e la lotta dei venti nel bosco,

sguardo solo

fisa lo

un momento

e ne

ma

vi af-

lo ritorce via su-

bito con raccapriccio, per gustare meglio, con gioia

more

l'amore. Nel paesaggio egli

mità,

E

me-

ben riparata, il vino, ricerca non maestà né subli-

del raccapriccio, la stanza

ma

amoenitas.

conforme a questa disposizione del suo

rappresenta quasi sempre paesaggi

idillici,

spirito egli

bucolici.

Come

non descrive, tranne un'unica volta, della quale presto discorreremo, l'alta montagna, se non quale sfondo lontano, così non si compiace di mostrarci l'ondeggiar delle messi, ma ci pone piuttosto dinanzi agli occhi monti boschivi di altezza mediocre, prati declivi, fonti ombreggiate spiccianti dalla roccia viva. Egli non sembra sentire ciò che in natura è più grandioso. Nel carme per molti indizi giovanile, nel quale vanta Tivoli sopra ogni altro soggiorno più ricco di ricordi e

più favorito dalla

(I 7), non trascura di nominare il bosco sacro di Tiburno e il santuario della dea Albunea risonante di acque correnti (1); s'indugia con amore sui frutteti fre-

natura

(1) I lit

versi di Virgilio, {Aen. VII 82 sgg.) lucoscpie sub alta consit-

Albunea, nemorum quae maxima sacro fonte aonat saevamque exhalat

opaca mephitiin, mi sembra che mostrino esser Albunea piuttosto la ninfa del bosco che del fonte,

nome che

il

quale poteva, a dir vero, avere

come osserva

lo

Servio. Kiessling-Heinze

as-

seriscono che donius sigHÌfichi qui la « grotta » descritta da Virgilio,

ma

stesso

questi di grotta

il

bosco,

non

fa parola.

A

ogni

modo

il

sacello di

Albunea



5^i3



schi dell'acqua dei ruscelli che corrono giù verso l'Aniene

per precipitarsi in essa con lieve salto: uda mobilibiis po-

maria

rivis;

invece per

le cascate,

la cui vista fa a noi

moderni scorrere piti veloce il sangue nelle vene, non ha che due parole sbiadite: praeceps Anio (1). Il poeta antico ferma con compiacimento maggiore lo sguardo sulle coste di Taranto ricche di viti, di olivi, di sciami di api o canta una fonte più lucida del cristallo, che scaturisce da una roccia cui un'elee sovrasta; o descrive ;

un pendio

di

monte coperto

di

boschi: nel

dentra una valle solinga chiusa

ai

monte

si

ad-

raggi della canicola,

donna che colà voglia, cantando sulla cetra facili canzoni e bevendo vino leggiero di Lesbo (2), dimenti-

atta a

care le vicende tumultuose della vita e degli amori cittadini.

Orazio anima

il

più delle volte di figure le sue

cam-

pagne, appunto perch'esse non sono per

lui che sfondo quadro ma proprio le figure che egli sceglie, sia di uomini sia di animali, accrescono l'impressione bucolica che in noi eccitano paesaggi, quali li descrive nella sua lirica. Nelle odi compaiono non contadini quanto armenti e pastori. Nell'ode, per così dire, tarentina II 6, Septimi, Gades, è, prima ancora che il miele e la verde bacca, nominata la corrente del Galaeso cara alle pecore coperte di pellicce. Sul Lucretile (I 17) errano, senza timore di

del

;

i

non ha che fare con topografi antichi e

A me

non

(1)

il

la

cascata

è riuscito udir qui

La cascata

;

Deasau (CIL.

è

dubbio

XIV

debba cercare cou Acque Albule. acque correnti.

se lo si

nessun rumore di

era diversa e minore, perchè

in quel tratto sotto Gregorio

i

p. 135) presso le

XVI; pure

il

fiume fu regolato

(luche ai tempi di Strabouo

(V 238) esso formava una cateratta, gettandosi da grande altezza una gola profonda e lioscosa. (2)

I

vini Leslìii erano

in

raccomandati dal medico forse più auto-

revole dell'età ellenistica, Erasistrato: Pliu.

n.

It.

XIV,

7lì.



5^24



serpenti velenosi e di lupi, le mogli odore, cercando corbezzi e timi: la

del marito di forte

zampogna

di

Fauno

riempie sempre quelle solitudini. L'opera giornaliera dei

può dire, ignota ai carmi oraziani: gli agricoltori non compaiono nelle odi se non per ballare un trescone la cui pesantezza è pari soltanto all' ardore dei danzatori (III 18); dei campi egli nei carmi non parla con particolari se non in una sola ode, dove l'enumerazione dei pericoli cui i colti sono esposti, giova a dare contadini

è,

si

amabile della

rilievo alla figuretta

figlia di contadini, la

rustica Pìiidyle (III 23), dalla quale gli dèi di vittime

ma

soltanto purità

nell'altro passo la di

non esigono lusso

d'intenzione; nell'uno e

vita agricola fa parte

del

quadretto

genere.

Solo in un epodo

i

lavori campestri, gli umili diletti

dei contadini, le loro consuetudini semplici sono tratteggiati

Alfio:

con

affetto, proprio

non che qui

nell'epodo che beffa l'usuraio

sia deriso

l'amore per quel genere di

prende giuoco solo della poca sincerità tempo facevano pompa di quel sentimento. Pure vari passi dei Sermoni e delle Epistole mostrano che l'affetto per il paesaggio piuttosto bucolico

vita; Orazio

si

dei molti che al suo

che rurale era radicato profondamente nell' anima sua, che egli non esprime nelle odi sentimenti puramente idillici solo in ossequio a leggi di stile. Il podere che egli accettò in dono

da Mecenate, che

egli,

possiamo bene

supporre, desiderò gli fosse regalato da Mecenate, posto

com' era in una valle ombrosa che divide due monti (1), ricco di querce e di elei (epist. I 16, 5 sgg.), era eviden-

(1)

Non ho ragione

di

occuparmi della controversia sul luogo

preciso del Sabìnum di Orazio; la regione di Roccagiorine è ancora

boscosa e più adatta alla pastorizia che all'agricoltura, aucora tutta bucolica.

— 525 — temente più adatto agli armenti e alla vita idilliaca di quel che non rendesse a chi voleva coltivarlo pregio principale una sorgente sana e fresca. Egli aveva desiderato (semi. Il 6) un poderino con un orticello e acqua di melius corrente, con un po' di bosco per soprappiìi fecere. Eppure quell'angolo di mondo avrebbe prodotto ancor più facilmente pepe e incenso che uva (epist. I 14, 23). All'amatore della città, Arelio Fusco, egli vanta secondo il solito (epist. I 10, 18) i sonni tranquilli, i colori e gli odori dei prati, l' acqua limpida e leggiera. Nella vita che conduce lì in comune coi suoi contadini servi, gli piace la famigliarità libera da convenzioni soegli si rallegra di potersi quanto ciali (serm. II 6, 63 sgg.) vuole cibare di vivande grossolane, di bere a suo talento, sciolto da ogni legge conviviale; si rallegra che i bnnbetti schiavi nati in casa sentano così poca soggezione di lui che divengono quasi insolenti. Ma dei lavori campestri, anche in questi componimenti in cui non lo impacciava il riguardo alla dignità o anche alla stringatezza dello stile, non parla altrove che nell'epistola, poco importa se fittizia, diretta al fattore che voleva scambiare il posto in villa con uno in città (I 14). Qui, insieme con :

;

:

il

ballo pesante dei popolani e degli

sembra,

al

cuore del poeta, sono

schiavi, così caro,

tratteggiati

anche

la-

vori campestri (v. 2G sgg.). Orazio, per dare al castaido

un buon esempio, gli ricorda che anch'egli, il padrone, servi a smuovere zolle e sassi, non isdegna di aiutare i

per quanto ne ridano

i

vicini, rident vicini (jlaehas et saxa

moventem. Chi legge, è tentato d'immaginare che Orazio

avrà lavorato nel campo

di

non proprio con

la

chi sa se Il

rado e per breve tempo, e

mira

sentimento del paesaggio è

quasi soltanto bucolico.

Non

si

di

maravigliare

in Orazio,

dica nò

si

i

abbiamo

creda che

contemporanei non potessero sentire altrimenti

vicini.

detto, i

suoi

la natura.



5^20



poeti dell' età augustea

Degli

altri

giore,

aveva

almeno uno,

timento assai

mag-

il

del paesaggio e della vita campestre

un sen-

vasto e più profondo, più antico

più

in-

sieme e più moderno. Virgilio anche nelle Egloghe, dove per lo più imita poesia teocritea, mostra qua e là di sen-

maniera differente dal suo modello et iam summa procul villariim culmina fumant maioresque cadimi altis de montibus umhrae (I 82 sgg.) fa pensare non al terreno frastagliato di Cos o della Sicilia, quale lo rappresenta Teocrito, ma a una pianura sulla quale lo sguardo spazia liberamente nell' aria quieta della sera, a un paese disseminato di casali, a un orizzonte chiuso solo per un certo tratto da altissimi monti lontani, appunto alla valle padana, nella quale, come mostrano allusioni personali, si svolge l'azione. Teocrito non ha mai, che tire

paesaggio

il

io sappia,

in

:

come

descritto

pendio molle molle se

subducere

(IX

7).

colles

dall'

i

colli

sollevano con

si

immensità della pianura

:

incipiunt tnolUque iufjum demittere

Chi osserva con

E

qua clivo

tanta acutezza quel che è più

caratteristico delle forme di

ama.

primi

anche

un paesaggio pianeggiante,

che popolano questo paesaggio, bestie e uomini, sono sentite diversamente da quel che non soglia la poesia teocritea la vaccherella che, stanca di aver cercato tutto il giorno per lo sente e lo

le figure

:

i

boschi un giovenco,

si

butta giù nelle erbe palustri che

crescono in riva a un ruscello, e riman accorgersi che intorno a

nemora rivum

atque

altos

lei

annotta,



a lungo senza

fessa

iuvencum per

quaerendo bucula lucos propter aquae

procumbit

idva perdita, nec serae

meminit

decedere noeti (Vili 85 sgg.), è creatura fornita di

ragiqne

quasi

viridi

in

umana, come suole immaginare

contadino.

La campagna

zio delle api,

verso rauco

ma

di Virgilio è

i

suoi

piena

animali sì

il

del ron-

anche del canto dello sfrondatore, del delle palombe, del gemito delle tortore di



-

527

sull'olmo: hinc alta sub rupe canet frondator

tamen interea

cessabit turtiir ab

tono davvero nell'idillio

ulmo

56

sgg.).

Tra

rumori che

i

vicinanze di una fattoria,

nelle

suo pur

(I

ad auras ; nec

cura, palumhes nec gemere aeria

raiicae, tua

meno

si

sen-

Teocrito

bucolico e più rurale, in quello

che odora davvero di estate pingue e di raccolto, fa menzione per vero anche del gemito della tortora eaTSve xpuywv (v. 141). Ma quanto men sobrio è il quadro Teocrito descrive il concento che un gruppo di amici ode disteso all'ombra di pioppi e di olmi, su giacigli di giunco e di pampini freschi, mentre ai loro piedi e ai loro fianchi rotolano giù dagli alberi mele e pere, mentre rami carichi di prune si curvano sino a terra; si ode di lon:

!

tano i

il

grido della calandra

;

cicale fanno

le

il

verso per

rami; cantano allodole e cardellini; volano, ronzando,

sciami di api. Qui la voce della tortora non è che una tra molte;

pascono

Virgilio, oltre al ronzare della

in

le api, la

accompagnano

solo

siepe cui

verso rauco di un

il

uccello che sta al cuore del contadino, di un uccello di

palomba, e

cortile, la

l'umile lavoro.

che tanta ricchezza artificiata,

il

Leggendo

canto

umano che accompagna

Teocrito, vien subito in

non

di particolari è, se

falsa,

mente almeno

che quella è campagna fatta apposta per

la

brigata cittadinesca, la quale, quando, attratta dalla pro-

messa

di

una

città sino al

festa,

podere

un bel verziere, si

si

di

avventura per una volta fuor di un amico, vuol trovare per lo meno

ricco di acqua, di canti, di odori, in cui

possa meriggiare

al fresco

con

tutti

i

comodi. Virgilio

con incomparabile parsimonia di mezzi, quasi soltanto ricordando voci di uomini e di animali, ci trasporta nella

campagna quale

essa è davvero, abitata e coltivata da uomini che vivono non della comoda pastorizia ma dell'opera assidua delle loro mani.

Nelle Georgiche

Vii-gilio,

smessa

la

veste

idilliaca,

— che del resto non a

di vita

stava bene addosso, dipinge modi

gli

cari per

lui



048

il

ricordo dell' infanzia e dell'ado-

campagnola. L' indole precettistica delgli impedisce per lo più di ritrarre luoghi deterl' opera minati pure due tocchi rapidi ci mettono sott' occhio la pianura intorno a Mantova, tutta prati, per quali il Mincio serpeggia lento lento, popolato di cigni: et qualem lescenza

sua

;

i

infelix amisit

Mantua campum pascentem

mine cycnos

(II

lattiginosa

cum

7iiveos

herhoso fiu-

198); quest' è paesaggio

ben diverso da quelli oraziani. E Virgilio sente profondamente spettacoli naturali ai quali né Orazio né i poeti bucolici sembrano avere rivolto attenzione: la pioggia di primavera, che cade incessante sul campo di grano, irto di gambi ancor verdastri con in cima la spiga non ancor soda, ancora :

et

turgent

il

(l

313);

imhriferum ver, spicea iam campis cum cum /rumenta in viridi stipula lactentia pampino che a primavera, senza paura

ruit

messis inhorruit

dell'austro o della pioggia che gli aquiloni tiran giù dal cielo,

butta fuori

tuit surgentes

le

gemme

e spiega le fronde

pampinus austros aut actum

gemmas

lonibus imbrem, sed trudit

vendemmia che

(Il

333); la mite

fin

dentro su per

i

et

caelo

:

nec me-

magnis

aqiii-

frondes explicat omnes

ai soli

sassosi colli solatìi

:

d'autunno

si

cuoce

alte mitis in apricis

coquitur vindemia saxis (II 522). Nella lirica di Orazio acqua, alberi, bestie

sono elementi decorativi; nelle Georgiche

forze vive e creature fornite di senso.

come

non è tenue soave mormorio

Virgilio la descrive,

che con

il

sdraiato tra le erbe della sponda,

che scorre per

il

canale e per

contadino in servigio dei

i

colti

il

L'acqua corrente,

ruscelletto limpido,

invita al sonno

ma

è

il

il

poeta

liquido di vita,

mille canaletti scavati dal :

mentre

sul

campo

arso

ogni vegetazione langue prossima a morte, egli trae fuori dal ciglio erboso di

tando giù per

un

clivo

sassi levigati,

l'onda;

questa,

precipi-

ne cava un mormorio rauco

— campi

e porta soccorso ai

inducit rivosque sequentes, aestuat illa

assetati

deinde satis

:

tramitis

clivosi

cadens raucum per levia murmiir saxa

arentia temperai arva

rami fecondi verso

nuove

e

frutti

i

Il

undam

ciet,

elicit

cielo e

non suoi

ammira

novas frondes

va

toro vinto in duello se ne

regno avito, lamentando

con

egli stesso le fronde

ad caelum ramis non sua poma

ingens exsilit

:

:

scatebrisque

106). L'albero innestato balza

miraturque

felicibus arbos (li 80).

il

(I

fluvium

exustus ager morientihiis

ciini

et,

ecce supercilio

ìierhis,



529

et

in esilio via dal

amore, che l'avversario

gli

ignominia e il suo ha rubato senza che egli possa

vendicarsene

La

società delle api è dipinta nel

(III 224).

propria

la

quarto libro con colori umani. In Arato

gli

animali non

sono che segni del tempo buono e cattivo, concessi agli agricoltori e ai naviganti da una provvidenza benevola. Virgilio in

una parte

deriva certamente dai

del primo libro (v. atvó[jL£va (1), fa,

I

851

sgg.),

che

dei segni, creature

viventi, senzienti, pensanti. Arato, poiché gli sta

davvero

a cuore insegnare, ordina sistematicamente ed elenca mi-

nuziosamente tutti i versi e tutti i movimenti di qualunque animale da cui si possano ritrarre prognostici; Virgilio descrive soltanto quelle voci e quegli

che paiono meglio rispecchiare

l'

anima

Le vacche

dipinge queste con molto più colore. (v.

prima che cada

955),

la pioggia,

in alto, l'aria, àjz

ac^épo; wa-f py,aavxo

giUana tenta

atterrare le aure

di

patulis captavit naribiis

auras

(I

;

atteggiamenti

delle bestie,

fiutano, la

con

376). In

guardando

muccherella le

ma

aratee

vir-

larghe narici,

Arato

all'

avvi-

narsi della tempesta la cornacchia, tra molti altri segni,

(1)

I

zione del

passi corrispondenti sono

Maass;

indicati

delle Georgiche ò etata spintji innanzi con

Jahn, non

è stata studiata l'arte

la materia grezza.

accuratamente

nell' edi-

negli ultimi tempi, mentre l'analisi del contenuto

con

la

zelo

felice, specie

da

P.

quale Virgilio anima di poesia



530

-

che essa dà e che Virgilio tralascia per non guastare l'unità dell'impressione, si aggira presso l'acqua, gracidando a voce piena, aipécpsiai uap'u5wp Tta/éa xpw^o-jaa (v, 953). descrive lo stesso segno così: «La cornacchia maligna con voce piena chiama la pioggia, e sola con se stessa passeggia sulla rena secca »; tum cornix piena pluVirgilio

viam vocat harena

(I

improba

388).

voce et sola in

sicca

secum

spatiaUtr

corvi di Virgilio al ritornar del sereno

I

fanno strepito tra loro negli alti nidi tra le foglie, nescio qua praeter solitum dulcedine laeti (I 412): essi godono, passata la pioggia, di rivedere la piccola prole e nidi, iuvat imbribus sere nidos.

actis

Arato scrive:

credere che

si

«

i

progeniem parvam dulcesque

Qualcuno

rallegrassero»

(v.

alle lor grida

dolci revi-

potrebbe

1006)1

Pure un sentimento della natura così esteso e così rimane nell'età augustea un'eccezione. I più sentivano allora la campagna in modo non diverso da Orazio i grandi di quei tempi villeggiavano quasi soltanto in riva al mare o su colline non troppo guaste dalla civiltà e dal lavoro umano (1), andavano in cerca della amoenitas. Le pitture dell'età augustea scoperte a Roma, quando non rappresentano fantastici paesaggi esotici, le rive giuncose del Nilo, popolate di pigmei e gru, mostrano non pingui colti, non campi di grano o vigneti o frutteti, ma contrade rocciose e boschive, rinfrescate da ruscelli, animate da greggi e da pastori, disseminate di altari e di rustici santuari (2). Paesaggi di tal genere, montani e idillici, ci son posti sott'occhio dai due freschi del triprofondo

;

(1)

DBR,

Lo mostra

1'

Sittengeschichte (2) Il

elenco delle villeggiature

*,

romane

in

Friedlax-

II 108 sgg.

materiale è ora riprodotto in figure assai belle e studiato

da RosTOWZEW, Hellcnistisch-romische Architelturlandschaft (in Eom. Mitt. XXVI, 1904, 1-185); il Rostowzew ha ritratto da esso quanto si

poteva per la conoscenza dell'arte

e della cultura.





531

Livia sul Palatino e dagli della Farnesina (1). Questo gusto per-

clinio della cosiddetta casa di

stucchi del soffitto sistè tra

i

Romani anche

ture pompeiane

del

sembra, coincidono

che

seguente

nell' età

terzo

stile,

con

1'

cui

i

nelle

;

principii,

era volgare, la

pit-

a quel predile-

zione per gli sfondi lontani, per V acqua corrente, per stante obiezioni recenti, è certo,

sono creazioni originali,

ma

i

i

come, nono-

campestri è ancor più spiccata. Se,

sacelli

pompeiani non

freschi

copie e imitazioni di quadri

indicano almeno che il gusto dall'era tempi romani non era gran che mutato, che,

ellenistici (2), essi

ellenistica ai

come

tra la cultura dell'impero

romano

e la cultura del

regno tolemaico e del seleucidico non vi è stacco netto, per quanto Augusto si studiasse di restaurare la romanità, così il pubblico romano seguitava ad avere quanto a paesaggio le stesse predilezioni di Teocrito e dei suoi lettori.

Non

a caso nomino, a proposito di Orazio,

più propriamente

sono detti

i

poeti che

paesaggio del fons Bandusiae, il ruscello limpido che sgorga dalla roccia ombreggiata da un pino, si trova tale e quale, come

(1)

Figg.

2,

dei

e di santuari si ritrovano sia (p. 114

pergameni del III secolo, detta a torto

meno

alessandrina,

sia i

(p.

100 sgg.)

Il

Rostowzew.

11, 12, 13 nell'opera del

Rostowzew mostra che alcuhi

(2) Il

case

1,

bucolici.

tipi

arcliitettouici di

sgg.) in

vasi

a rilievo

una

serio

di rilievi

in

cui esemplari più antichi risalgono al-

al principio del III secolo.

Lo sfondo

roccioso

rappresentato

non conviene punto all' Egitto. Delle formo architettoniche pitture romano e pompeiane, mentre alcune si riconoscono fa-

in questi

delle

cilmente egizio, altre ])aiouo derivate dall'Asia Anteriore. Noi secondo stile

i

due olemouti hanno

jionderano stile,

che

(juelli

o

attri-

altro introcciaro l'anima loro alle vi-

cende dell'anima propria. {3j

Le

restrizioni del \\'(iriiiann (p. Il) sono

\

er nic inintelligibili.





544

romana;

così tutta la poesia

periodo augusteo, certo

un

altro

poeta

meno romano

e più

ellenistico

che

del

aver abbandonato l'amata

di Orazio, Properzio, pentito di

per cercar fortuna oltre mare, parla agli alcioni

17, 2);

(I

lamenta le sue pene nel bosco solitario (I 18, 1 sgg.) invoca a testimonio della fedeltà i faggi e i pini, sulle cui cortecce egli, non immemore di Acontio, aveva inciso il nome di Cynthia (I 18, 19 sgg.). Anche in Roma vi erano spiriti i quali si lasciavano andare ad affidare ;

ai silenzi della i

personaggi

selva

di

i

sentimenti loro più riposti,

Teocrito e

il

come

Orazio non

non voleva bene a Properzio

è di questi; egli

troppo grave era

(1),

perchè

dissidio dei loro ideali d'arte.-

Questo

austeramente

sostenere

Ma

Callimaco.

di

piena del sentimento senza

la

concederle di erompere, è in Orazio, crederei, intenzione:

qualunque arte aspira a essere classica, qualunque arte cioè, piuttosto che classica, è classicistica che la clas-



vera è inconscia

sicità

di sé

sfoghi sfrenati della passione,

medesima

ama



aborre dagli

,

lasciar travedere, piut-

tosto che mettere in mostra, l'affetto esuberante. I

paesaggi oraziani

Nelle

descrizioni

sono assai

teocritee

specie di uccelli, alberi, brio.

Le capre

nulla più

le

;

si

fiori

cibano

fronde che

di

la

Fauno,

le

laggio,

non sono altrimenti

scarsi

di particolari.

nominata un' infinità (2). Orazio è molto più

è

corniole e di timi

sparge

selva

erbe dei prati sui quali

si

in

di

so-

(I 17, 5),

onore

di

spassa l'intero vil-

specificate.

Una

ragione di

questa sobrietà consiste certo nella concisione delle Odi la lirica oraziana non ha tempo di soffermarsi sui par:

ticolari,

92

perchè essa corre senza

(.1)

V. sopra p. 112 sgg.

(2)

V. p.

sgff.

e.

I 21 sgg.,

e così via.

riprender

fiato,

106 sgg., 132 sgg.; IV 25;

V

non

si

55 sgg.,

-

545



adagia comodamente su qualunque sedile essa incontri, come l'idillio teocriteo. Un'altra ragione bisognerà cercarla nella povertà lessicale delle Odi, cosi conscia di se mede-

come

ben diversamente che nelle Epistole e specie nelle Satire, adopra pochissime parole. Ogni lingua, per divenir classica, deve far sima

nelle Odi,

:

getto di

come

una parte

è noto, Orazio

del suo lessico

le sorti della francese,

:

l'ha ridotta e peggio la vorrebbe ridurre l'Accade-

mia, forniscono una chiara prova di questa osservazione.

E

agli artisti,

per lo più

Anche

quando aspirano a

lo stesso

esser classici, avviene

che alla lingua nazionale

per questo rispetto

si

in genere.

mostra efficace quella legge

del risparmio dei mezzi che per molti altri

abbiamo ve-

Ma

duta (1) dominare nell'arte di Orazio lirico. due ragioni non paiono a me sufficienti.

queste

Chi si chieda a che fine intenda tanta ricchezza di nomenclatura negli idilli di Teocrito, dovrà rispondersi che essa mira a effetti coloristici. Pur troppo la maggior parte delle volte i nomi specie delle piante nominate da Teocrito non dicono nulla ad alcun lettore o almeno a quello che non sia assai pratico di campagna. Ma in quelle descrizioni che s'intendono per intero in ogni particolare, è evidente il desiderio di comporre un quadro di colori vivaci cosi nella descrizione della radura nella quale Dioscuri trovano Amyco. Una fonte :

i

chiara sotto la roccia; nel fondo

argento;

cristallo e

tutt'

intorno

bianchi e platani e cipressi e

come

qui siano

versi

non

scelte

solo nelle

contrastino

?

ciottoli

fiori

somigliano a abeti e pioppi

odorosi. Chi

non scorge

piante di fogliame e tronchi di-

forme

ma

anche nel

colore,



che

Teocrito, colorando così, non fa che seguire

le tradizioni della

(1)

i

alti alberi,

V. sopra

p.

poesia classica,

188 8gg.

senza del

resto rag-

— giungere

1'



546

di questa. Pindaro,

ardire

stra spesso di avere studiato,

si

che Teocrito mo-

cimenta

audacie co-

in

non raggiunte neppure dall'arte dei nostri contemporanei. Teocrito non ha mai rischiato nulla di simile al quadro del bimbo lamo, nascosto nel giunco e tra i rovi, bagnato il molle corpo nei raggi gialli e loristiche forse

purpurei delle viole. Molto più discreta è la tavolozza dei prire di tinte

sono

nella

vivaci

le statue.

gli dèi sia detto

alle rose (III 15,

purpureum 15) e al

(II 12, 3),

tendo insieme

(III 3,

i

mentre, applicato

splendido,

mare insanguinato

tella

il

con quello più vivo

bedue

dalla rotta

pioppo bianco

(II 3, 9),

un modesto contrasto di colori; dove (I 25, 17) congiunge il verde

ricerca forse l'ottiene là

Ma

Orazio

lo ricerca e

della

dell'edera e contrappone

effetti

mor-

am-

secche, trastullo del

al color rossastro delle foglie

vento autunnale.

modesti.

significherà rosso di porpora. Met-

pino e

il

più

Augusto accolto tra cigni; che 12) come

volto di

il

quell'epiteto vorrà dir qui

cartaginese

rico-

gli effetti coloristici

molto

ancor

oraziana

lirica

Assai poco significa che

Ma

amava

che

poeti ellenistici, lontani ornai dall'età

molto più vivi

dal contrasto di forme e colore tra piante e

ritraggono fiori

diversi

Meleagro e FiHppo, dove spiegano come sono composte le loro corone (AP IV 1, 2). In un'ode giovanile (I 7, 19) sono contrapposti lo scintillio delle aquile nell'accampamento e l'ombra densa di Tivoli nello stesso carme il bianco Noto (1) terge via dal cielo oscuro le nubi (v. 15). Orazio è un poco più audace, dove parla del mare: negli Epodi aveva chiamato caerula la donna del mare, la ;

donna che era tutt'uno con

domum

caerula

(2)

te

il

revehet.

mare: Nelle

(1)

Nero

(2j

L'espressione è piaciuta a Properzio

è

l'Euro in epod. 10,

13,

Odi

16 nec mater egli

dipinge

5. :

II 9, 15 caerula mater



547



l'Adriatico scuro tutto ravvolto nella caligine biancastra dello scirocco sinus

:

III 27,

18 ego quid

ater

sit

Hadriae novi

quid albus peccet lapyx.

et

Qualche

cosa di più

cercando,

potrà trovare

si

ma

rimarrà saldo che Orazio è sobrio nel ritrarre fenomeni poeti leEppure proprio emulati, proprio, se non Alceo, Saffo aveva

atmosferici ed effetti di luce.

da

sbi

lui

i

rappresentato la notte illuminata dalla luna in

modo che

noi leggendo laviamo l'anima in quel chiarore argenteo.

A «

piacque singolarmente dipingere

lei

astri

Le

minori di fronte

impallidir degli

l'

maggiore essa aveva cantato luna nascondono d' un tratto il

al

:

:

stelle intorno alla

volto lucente, quand'essa, piena, più illumina la terra

Qui

quasi per vergogna

menti berlinesi dita,

di

il

volto

compagna

dinanzi a una

donne

(1)

al levarsi della luna,

più bella.

salso insieme

e

il

sole, la

astro, diffonde

sulla

campagna

Orazio non ha nulla

che vuole confrontare

astri

il

come

dei nuovi fram-

di

i

luna dalle rosee

suo lume sul mare

fiorita,

bella rugiada, e fioriscono le rose e ».

Uno

parla di un' amica che « brilla tra le

Lydia come, calato

vincendo ogni

meliloto

».

sono sentite come creature vive, che celano

le stelle

e

si

moUi

simile

spande

la

timi e florido :

le

due volte

maggiori col minore, egli usa

forma sbiadita che quel paragone aveva preso nella egli non si è ricordato di Saffo, né negli' là dove descrive le notte testimone del Epodi (15, 1) giuramento non mantenuto dall'amata nox erat et caelo fìdgebat luna sereno inter minora sidera, né nelle Odi dove (I 12, 46) compara Io splendore della gens lidia con quello la

lirica corale

;

:

delle stirpi

men

celebri

:

micat inter

velui inter ignis luna minores.

omne^i

lidium sidus

Quest'ultimo passo rammenta

piuttosto Bacchilide, che celebra così un vincitore (Vili

(1)

Bdliucr

Kl(t»siLirtvxir,

V

2,

IH.

-

28): TievxaéO'Xo'.'jiv '{à^ svéTipETZcV Òr/o\xriY.ooi sù'^eyY',;

Orazio abbia letto



548

t'o-

y.rJZ^A'r/ o'.axf'vci

vjxtc-;

'^àr^

Ma, quantunque paia certo che Bacchilide, poiché in questo carme

asXàva.

Orazio pindareggia e poiché in quella stessa strofa pre-

cede una metafora presa

peso da Pindaro,

di

si

supporre che quella similitudine, appartenendo della

glio tradizionale

che

spalla di Chlori

Il

forse

al

baga-

trovasse, oltre

lirica dei cori, si

in Bacchilide, in Pindaro.

può

confronto della bianca

18) con lo splendore della pura luna

(II 5,

mare notturno pare a me scarso di effetto così pure che in II 11, 10 è nominata quale esempio di un fenomeno passeggiero. Persino del motivo romantico della notte buia, del quale Orazio si era giovato negli Epodi per aumentare

nel

;

la ruhens luna,

nell'animo dei lettori

terrore e l'orrore

il

nerie crudeli di Canidia

(5,

49 sgg.)

(1),

per

le

strego-

egli fa nelle

Odi

uso molto più discreto. In un'ode, che sta ancora assai vicina agli Epodi per il metro (2) e in cui il sentire alessandrino si palesa con minor ritegno che in qualsiasi altra, I 4,

tre la

men-

solvitur acris hiems, nella notte primaverile,

luna pende

sui*

capi,

Grazie congiunte alle Ninfe

Venere conduce carole

e le

battono la terra con piede

alterno: iam Cytherea cìioros ducit Venus imminente luna

iiin-

Nymphis Gratiae decentes. Quasi le stesse parole tornano nel canto di primavera della seconda raccolta,

ctaeque

(1) Cfr. 5,

5,

15; 15, 1 sgg. Anche le pratiche di magia narrate in

45 sono notturne. (2)

Come mai

o beate Sesti mostri che Sestio fosse in quell'anno

console, onde convenga

assegnare

zione della prima raccolta,

il

23,

il carme all'anno della pubblicanon mi riesce ben chiaro beatus :

romano agli occhi di un poeta povero, quale era Orazio. Né credo che un console sarebbe stato lusingato nel vedere che 1' ode a Virgilio precedesse quella a lui uomini di stato non si sono in nessun tempo stimati da meno di poeti.

è qualsiasi signore

:



549



7, dif[ii(jere nives, così simile a questo primo; ma insieme con Venere è scomparsa la luna, e nulla dice più che le dee danzino di nottetempo Gratia ciim Nymphis

IV

:

geminisque sororihus audet ducere nuda choros. Negli Epodi

Odi è rappresentato un giuramento di fedoltà, che un'amata presta di notte, invocando luna e stelle a testimonio; ma, mentre nell'epodo ÌO'{v. 12 sgg.) il poeta ricorda quella notte per minacciare vendetta, sia pure allegra vendetta, alla spergiura, nell' ode (II 8, 9) del pari e nelle

egli, nel

momento

stesso in cui ricorda le taciturne stelle

e dèi che non sanno la gelida morte, mostra di non prender sul serio né la maestà della notte ne il giuramento né gli dèi invidiosi del giuramento né quelgli

l'amore.

non

Altrove la notte

più.

contiene

con molto maggior rigore che non

mente

la

sentimento

il

ingenua-

poesia

classica.

Un carme di sentir la

di

Orazio, abbiamo detto, mostra un

natura del tutto diverso da quelli

nora abbiamo avuto occasione

una poesia Il

amanti,

d' estate è l'ora degli

classicismo conscio

Il

d'alta

dio che lo

montagna,

ha riempito

di parlare.

III 25,

di

modo

cui si-

Orazio ha scritto

quo me Bacche rapis

di sé, lo

ha rapito

sui

(1).

monti

coperti di selve, scavati di spelonche. Dall'alto, lontano ai

rumori degli uomini,

egli

guarda

come una Baccante

r Ebro e

Tracia candida di neve e

la

le ripe

e

il

vuoto

stupisce contemplando

bosco, così

il

monte Rhodope,

tpiel che non detto da altra bocca. Egli è trasfigurato, è ormai non più uomo, ma compagno delle Ninfe e delle Baccanti e segue il dio per rocce e vette. Orazio mostra in questo carme quello stesso senso della montagna, che unicamente e di rado si

cui solo piedi barbari calcano.

gli è

avvenuto, è

Orazio sa che

singolare, nuovo,

;

(1)

V. Hopia p.

M

so;j,'.

— riscontra

nella

550



letteratura greca classica. L'orgia dioni-

siaca ha rivelato agli Ateniesi dell'età classica la

tagna

alta.

L'uomo normale

campagna opulenta

di quell'era

mon-

compiace della

si

o dei prati ombreggiati e irrigati, e

non sa immaginare che

si

rifugino nelle foreste

montane

che scalino le più alte vette se non femmine frenetiche. Quelle che il dio trace ha reso folli, di pini e di abeti,

non

il

buona famiglia e di posizione sicura, buone tradizioni e serba intatto il senso misura, s'intende bene che fuggano dalle loro case cittadino di

che rispetta della

le

per passare negli

alti

monti giorni e

cantando, dan-

notti,

zando, cadendo poi in un sonno profondo, da cui

si

ri-

svegliano solo per cantare e danzare di nuovo. Dinanzi ai loro

passi zampillano dal terreno rivi di latte, di vino,

Le

di miele. alti alberi

deboli

mani

con tutte

delle

donne invasate strappano

le radici (1).

Le Baccanti

di Euri-

che esprimono miticamente il senso dionisiaco della vita, sono, sì, un inno alla montagna; ma a colui che le ha composte, la montagna non ha versato in cuore serepide,

nità,

come per

ebbrezza nato,

lo più ai

di vita intensa,

moderni,

durante

ma ha la

infuso smaniosa

quale taluno, alluci-

non ripugna dal sangue. Parimenti

il

carme

ora-

ziano di cui diciamo, appunto perchè dionisiaco, ditirambico, canta la natura più selvaggia.

Una provato

sola generazione in tutta l'èra antica pare aver il

piacere dell' orrido, la generazione che fra tutte

era la più malata, la più stanca dell'eccesso di cultura, la

neroniana

:

Seneca

{de tranq. an. 2,

13) descrive rac-

animo perennemente inquieto, ricercano, stanchi dell'amenità della capricciando ricchi signori che, per ingannar

(1) Cfr.

1'

Eurip. Bacch. 33, 135 sgg., 689 sgg. 734 sgg.

— Campania, Calabria Il

libro,

tato

:

551



squallide solitudini della Basilicata e della

le

(1).

sentimento che anima l'ultimo carme del secondo

non è, chi ben guardi, identico. Ennio aveva cannemo me dacrumis decoret, nec fiinera fletu faxit: curi Orazio riprende

per ora virum.

volito vivus

noto a ciascuno dei

quest'epigramma,

sformandolo

lo

tra-

pianti e che risparmino che sarà cenotafio, cigno, volerà non per le bocche

anch'egli prega

:

spunto di

suoi lettori, i

gli onori sul suo sepolcro aperto (2),

mentr'egli, trasformato in degli uomini,

ma

per

cieli

i

(3).

Il

sospiro per la libera

serenità dell'aria è nei Greci ben più antico che l'amore

per l'alta montagna, e non ha nulla che fare con l'esal-

gambe

tazione dionisiaca. Alcmane, malfermo omai sulle

danze delle vergini, si augura d'onda, cerilo con le alcioni, scevro

e incapace di guidare le di poter volare a fior il

cuore di pene

(fr.

quando disperano terra

ci) Il

(4).

Del pari

gli eroi

euripidei, solo

sventura che li non aver le ali per volar via probabile che colui che in un frani-

di potere sfuggire alla

rimpiangono

opprime, dalla

26).

È

di

passo è citato dal Frieolandeu, Sitleng.

W

215, che cerca

comodo alla credenza che gli antichi non ricercassero nella natura se non l'ameno. Del senso dionisiaco della montagna egli non parla le prime ediperò smiiiuirue

1'

importauza, uoii

toruauclo

esso

:

zioni della sua opera sono, del resto, anteriori ai libri del Nietzsche

e del Rohde. (2)

rato

Solone, in un carme che Orazio certo conosceva, 21) di addolorare

(fr.

(3)

A

morendo

era augu-

torto Kiessliug-Heinze citano a proposito di Orazio

di Teognide, nel quale questi ali

si

gli amici.

per volare

in terra e

mare

si

(v. 237)

:

in cigno,

ha preso

spunto da Toognidf,

ma

al

il

passo

suo amato

Orazio parla della sua tra-

quindi di un miracolo, non della

sformazione lo

vanta di avere fornito

Orazio

iia

fama. Ennio

trasforumto

il

motivo

enniano. (4)

I

passi di

Euripide sono ractoUi dal WiiitMANN, p. 47.

— mento

552

— che Orazio mostra

dello stesso Euripide (903 N.),

qui di conoscere, canta la sua trasformazione in uccello,

un

sia

come noi,

infelice cui gli dèi

spesso in fine dei drammi, alla sua pena. Così pure

ignorando

mao

sottraggono con un miracolo,

che contesto fossero un personaggio

in

sofocleo, nei quali

versi dell'Oino-

i

augura

si

di di-

venire aquila per volare di là dall' infecondo etere verso

mare turchino

sebbene Aristofane {Av. 1337) li che non già tenta di sfuggire a un'anfaccia citare da goscia, ma dichiara di aver addosso la pazzia uccellare, il

(1),

tale

possiamo bene immaginare che nella tragedia quel personaggio fosse uno sventurato, cui la metamorfosi avrebbe sottratto a sorte peggiore. Ma, se per lo più nelle tragedie rimpiangono di non poter volare uomini che hanno ragione di essere stanchi di vivere, almeno un passo Aristofane, certo per molti rispetti poeti

del

V

secolo,, fa

vedere che

di

più moderno tra

il

Greci

i

di

i

quell'età

provavano anch'essi quello stesso sentimento, misto di sdegno per la vita terrena e di desiderio di contemplar le cose dall'alto, che si rispecchia nelle tante liriche popolari moderne, dove uno si rammarica ingenuamente di non aver ali le Nubi (v. 280 sgg.) esaltano la loro beatitudine, perchè dalle vette chiomate delle montagne esse scorgono cime che splendon da lungi, e la santa terra rigogliosa di frutti e il rumore dei fiumi e il mare cupomuggente. Un sentimento simile anima Orazio qui, dove immagina di contemplar dall'alto nel suo volo, ben più sicuro che quello d'Icaro, e i lidi del Bosforo e le Sirti :

e le pianure degli Iperborei

(2),

I

Greci sentivano

come

Euripide avrà pensato all'uccello chiamato aquila marina. Secondo Kiessling-Heinze il volo ricondurrebbe Orazio nella sua dimora, tra gli apollinei Iperborei. Ma nulla nel carme indica (1)

(2)

che

gli

minati,

Iperborei siano il

il

termine del viaggio

poeta riprende me Colchus

et..,.

;

Dacus

anzi, et

dopo averli no-

ultimi noscent

Oe-

— noi

desiderio di

il

l'alto

Pure molto

tardi e di

loro anelito a orizzonti più liberi in imprese

contemplare dalrado questo

librarsi in alto, di

paesaggio.

il



553

che

alpine,

indusse a cimentarsi

li

poche ascensioni delle quali

le

dall'età ellenistica in poi ci è giunto ricordo, furono per

imprese per ragioni

lo più

scientifico o

anche

bravano miracoli

di

utilità pratica o di interesse

fenomeni che

di curiosità per

(1).

L'uomo

antico non riesce a supe-

rare l'orrore che prova dinanzi alla foeditas

non

sem-

Alpium,

se

una

fe-

è invasato da Dioniso.

1.

// sacrificio alla fonte (III

Questo carme è forse composto schiettamente romana,

sta

i

13).

alla vigilia di

Fontanalia

(2)

senza preconcetti, intende subito che anche e

legge

dolce vino

dei quali la fonte è degna, le saranno offerti

fiori

i

chi

:

il

il

appunto per i Fontanalia l'uso di gettar fiori nelle acque è attestato da Varrone {l. l. VI 22). Non che esso fosse del tutto ignoto al culto greco, sebbene, che io sappia, ne sia fatta menzione una sola volta in un passo di Strabene (3) giorno seguente insieme con

capro

il

;

ora

;



Ioni e così

via.

terra

Iperborei

definii

pre più remoti, se stesso

dove

piìi

finirà

le Sirti si !

trovano sulla

il

il

alla scui-

nò cliiedere a

sno viagjjio. Aggiungere, interpretando, troppi

un po'

vaglie, ò

peccato mor-

buon gusto.

pochi esempi sono raccolti dal Fkikdi.anmku,

(1)

I

(2)

Ne haduI»itato

iy08,

mena

in paesi

clic»

inaccessibili, senza dire al lettore

particolari a fantasie per loro natura tale contro

strada

No, Orazio inunagiiia di volare

il

IvKii/KNsrKrN,

A'.

.Jahrb. /.

n

comusenza

-

554



ma

insieme con i fiori vieu promesso alla fonte vin pretto, merum, che la parola qui, in un passo di significato sacrale, dovrà avere il suo valore preciso, quand' anche Orazio

la usi

di vino

non mescolato sono estranee

altrove senz'altro per vino

demone buono, consueta

neir invocazione del

giuramento, forse nel

chetti, nel

libazioni

e le

;

tranne

al culto greco,

rituale

dei

mentre non sappiamo che nel culto romano

ban-

nei

ci

morti

(1),

fosse

una

tale restrizione.

Ma, se incarna,

Come mai

il

rituale è

romano,

Bucolici, cosi

i

poeti di

i

paesaggio

la descrizione del

come abbiamo veduto

dianzi, ideali

ellenistici.

epigrammi non finiscono

la limpida gelida fonte che, spicciando

di celebrare

dalla viva roccia su cui

si

erge un albero

alto, offre ri-

storo agli armenti e ai pastori. Già in alcuni tra

i

molti

epigrammi nei quali Anyte ha svolto quel motivo, il quadro è quasi completo uno {App. Pian. 228) invita il viatore stanco a sostare sotto l'olmo: «Riposa le membra affaticate, straniero, sotto l'olmo, che un venticello :

soave mormora tra fresco zampillo

grande calura (A P IX 313) questo

le

».

Gli stessi motivi

lauro e attingi

membra

riconfortare le

mostrare

una certa

il

grato ristoro dalla

tornano

« Siedi sotto le belle

:

bevi alla fonte

verdi fronde, e

quest'è ai viandanti

:

in

un

altro

foghe rigogliose di

dal bel rivo dolce bevanda,

per

ansanti dalla fatica d'estate, per-

diffidenza, che, se si gettano corone

nello spro-

fondo arcadico dal quale scaturiscono PAlfeo e l'Eurota, esse ricompaiono in quello dei due fiumi che si è invocato nel gettarle.

KiKCHER, Salvale Bedeutung des Weììis {Eeligionsgesch Vers, u. IX 2) 22^ Stexgel. Opferhrduche 186. Libazioni di vino puro occorrono anche, come il Kircher rammenta, nel culto didymeo di (1)

.

Vorarh.

Apollo,

;

ma

1'

sia pregreco.

idolo in

forma

di pilastro fa qui

pensare che

il

rituale

ODO



cosse ora dal soffio di zefiro »

(App. Pian.

XVI

230) avverte

fermerà allo stagno,

ma

Leonida

(1).

Taranto

di

viandante che, se non

il

si

spingerà qualche passo oltre

si

vacche pascono, presso il pino pastorale » (2), egli troverà un rivo che sgorga attraverso la roccia ricca d'acqua, più gelido della neve di Borea. E anche altrove non omette di ricordare che la sorgente scaturisce dalla roccia presso un pino A P VI 334. Come il fonte di Bandusia balza giù cavis saxis, così la fredda sorgiva di Leonida da una pietra doppia (A P IX 326), TtéxpY;; ex o^aar^?. L'ombra fitta della fonte perduta tra il verde è esaltata in un com« La valle vicina ponimento anonimo, A P IX 374 stilla una fonte perennemente pura in servigio di chi « sopra l'alta vetta

che solo

le

:

:

passa

coronata

;

io rinfresco

tutt'

intorno di platani e lauri coltivati,

questa chiostra ombrosa

tempo d'estate cacciata la riposo anche la stanchezza della via oltre in

onde non passar con il Quest'epigramma

:

sete, conforta

:

».

pare piuttosto recente, sia per uria certa esuberanza

di

particolari estranea alla poesia ellenistica più antica, sia

per la compagnia in cui nell'Antologia

tornano in

stessi particolari

di

Cicerone: « Belli davvero

i

zefiri,

della stanchezza e della ÒKoay.'Ati

(1)

(2)

cui è

A P IX

lo stesso

ma

gli

contempora-

un bosco verdeg-

del sole »

Ì7^''òpo(xov.

quadro,

ma

con

;

aXxap

tz'jx-.vòv

òoìtt.-

abI)ondiiiiz:i

5'

àXao;

o'''|y]c

xal

minore di

31J, App. Pian. 291, tutti di Anyte.

Cioè « cui 80UO appese otìerto di pastori

un seggio pastorale

notfisvta Tiixut.

il

;

manoscritto

viandanti rimedio della sete e

fiamma

X'f^Xtd-xo'/, Z.f^-jpoi'j'.v

Descrivono

particolari,

ai

il

lauri, e bella scaturisce

dal fondo l'acqua, e folto l'ombreggia giante, corso dai

trova

si

che

13,

che a Satyro, a Thyillo,

attribuisce, oltre

neo

APX

»

(cfr. sojìra p.

'^'A'y) ?

» i

11

oppure

« presso

greio ha ~àp

xì'.va





550

Qui

xa|iàxou xal cp^oyò? f^eXfou.

risentiamo

il

te

flagrantis

atrox hora Caniculae nescit tangere. Proprio la Canicola è

nominata

un epigramma (X 12), anonimo, sì, ma buon tempo, a giudicare dalla discretezza dell'arte: in esso una statua di Hermes, dopo aver promesso ai passeggeri stanchi che « venticello e sedile ben ombregche par

in fine di

di

giato e la fonte sotto la roccia riposeranno la stanchezza

grave

membra

alle

», finisce: «

E, sfuggiti all'ansito meri-

diano del Cane estivo, venerate, com'è ben giusto, l'Her-

mes toc.

della via

O'éixig,

:

svàov oh cpuYÓvts;

»

'Ep\xr^v sìvóocov x-'eTe

ÒTicop'.voO

•/.•jvò;

aaO-ixa,

(I).

Non che Orazio descriva di maniera poiché sul fonte Bandusia sorgeva un'elee, un'elee egli canta, mentri :

di

pure

i

poeti

ornano

ellenistici

loro fonti di

le

pini,

di

pioppi bianchi, di platani, di quegli stessi alberi che anche lo stesso

Orazio nomina quando vuole dare un' immagine

della vita riposata che

si

può menare

in

campagna

quo

:

pinus ingens albaque pòpulus umhram hospitalem consociare

amant ramis? (H pinu

iacentes (II

dere che qualcuno i

egli nel di questi

Poiché

riscontri.

oppure sub

3, 9),

11,

13).

E non

è

alta vel platano vel hac

neppur necessario

cre-

comporre l'ode avesse presenti tutti o epigrammi, per sorprendenti che siano il

gusto era rimasto

lo stesso dal terzo

secolo in giù, egli vede nel paesaggio principalmente quegli

elementi di bellezza che

Né mancano

altre differenze

logia, poiché per lo più

(1)

A me

gli :

epigrammatisti esaltano. gli

epigrammi dell'Anto-

sono o fingono di essere sia

sembra di riconoscere qui

la

mano che

lia scritto

l'

in-

App.

Pian. 227: quest'epigramma è composto del pari di quattro distici; in

ambedue Hermes esorta

viandante

il

al riposo

;

il

quadro

è simile,

tranne che nella seconda poesia manca la fonte. L'ultimo distico è xaù[ia

5'

:

ÒTiwpivolo cpoy^v %'jvig àXcog àfisiòsts a'jpiov. "Epfisivj xoOt' své-

che

due componimenti formassero una coppia^

Tiovxi ^tiO-su.

Si direbbe

come spesso

nella poesia ellenistica.

i

.»/

un

vito che

dante,

un uomo pietoso rivolge a un vian-

dio o

più raramente,

sia,



il

ringraziamento di tale che la

fonte ha ristorato, parlano dei benefici che l'acqua reca

uomini

agli

;

Orazio dipinge un quadro di natura morta

tu frigus amabile fessis vomere tauris praebes

Gli epigrammisti in

zio

pecari vago.

descrivono dal principio alla

forme molteplici tutta

Ora-

;

invece compone

ticolari,

che

fine,

poesia mira sempre a

questa

sempre, chi ben guardi, pittorica il suo inno in tal modo che

ecfrastici, è

fini

et

:

i

par-

presentandosi dinanzi alla nostra mente l'un dopo

come

sono, da pro-

l'altro

molto a

messe

di vittime e di gloria, solo in fine si

dinanzi

ai

rilento, intramezzati,

compongono

nostri occhi in unità di quadro.

Un

inno egli ha voluto scrivere, come mostra la paronomasia del te, che dell' inno è contrassegno esterno :

hora Caniculae nescit tangere; tu frigus ama-

inficiei tibi...; te

praebes;

bile....

fies

nobilium tu quoque fontium; eppure l'inno

dà a noi l'impressione

di

un epigramma. Delle promesse

l'una soltanto, quella di vittime, è vera promessa

poeta cJonferisce gloria alla fonte promette, solo nominandola.

che consistono unicamente

in

Ma

atto stesso che

nell'

può

sono pure epigrammi una promessa, come quello

forse mostrare probabile

gramma

porre quest' inno.

Il

148).

E

infatti

che proprio da un epi-

Orazio abbia preso

celebre

mosse nel com-

le

primo epigramma

di Teocrito dice

« Queste rose rugiadose e questo fitto serpillo son le

Muse

;

per

te,

Peana Pythio, son

che

il

lauri

li

:

per

dalle

la roccia delfica;

tuo altare questo capro cornuto, velloso,

or rode l'ultimo

(1)

quei



nere foglie, poiché essi a te consacrò

insanguinerà

il

la

vi

di Filippo di Tessalonica citato sopra (p. si

che

:

Se Teocrito facesse

ramo

di

briicar»' al

xà ^òlx

pistacchio

>

suo capro

pistacchio, piTihè

proprio la resina odorosa di ijuclla jtianta

il

fosse usata

(1):

come incenso

xa O(^ooozvxy.

'aol:

a xaxaTi'Jxvo;

'EXixo^viàaiv

xal

%

ETiel O'jxoi;

x:v.

XcìTa:

ll'jih£

5' yl\iylt'.

[ia)|Jiòv

xaì;

Ila'.àv, y.cf aò;

ó [xaXóc, xepixiviJ'Ou xpwyoiv ia/axov àxf-enóva.

carmi

i

sf-TiuA/.o;

cy/^vai

|JieÀà|jicpuÀXo'.

TiÉxpa xoùxó xot àYXàtaev

AeX'f l?

xpàyoc

ambedue

sx£'.va

In

sono distinte dalle

vegetali

le offerte

ambedue, mentre alle prime si accenna, le seconde sono promesse chiaramente. Che tutt'e due le volte la vittima sia un capro, cui già sono spuntate le gli animali che più comunemente corna, può esser caso si scannano in onore di un dio, si riducono a poche specie (1). Ma non sarà fortuito che in ambedue i carmi cruente

;

in

:

torni l'espressione: « l'altare, l'altra ficiet

le

capro insanguinerà

il

acque

Ubi rubro sanguine rivos)

»,

nam

5' a:[jià^£t,

(^a)|jLÒv

l'una volta gelidos

in-

tranne che Orazio con arte

;

molto maggiore ha ricavato da quella formula un effetto

quantunque, come suole, discreto, mettendo quasi in contrasto l'acqua chiara e il rosso sangue che la chiazza (2). E meno che mai fortuita sarà la coincidenza in ciò che a tutt'e due i carmi dà una fisionomia propria pittorico vivo,

di fronte agli infiniti votivi

pietre.

Il

cor bruca

conservati nell'Antologia o su

capro di Teocrito è ancora vivo e vegeto, an-

un cespuglio

scivi suboles gregis

;

ma

sarà l'ultima volta

per l'amore e per la lotta contro frons turgida cornibus primis Il

!

La

la-

entra ora in un'età che le dà le armi

sentimento, misto di

et

i

rivali

venerem

et

:

invano;

cui

!

proelia destinai.

devozione serena e punto senti-

nel culto, non saprei dire. Il sacritìcio di certi animali è spesso ri-

tenuto dagli anticLii punizione di loro delitti contro qualche dio. (1)

p

242

;

(2)

Capretti e agnelli

3, 18) in

ceae

sono

offerti

alle

Ninfe già nell'Odissea,

una capra in Teocrito V 12. Anche 1 Diecimila scannano una vittima

modo che

immolano

corso di acqua.

il

sangue

coli

{SijU.' 615, 35)

nelP acqua

alcune

;

al

fiume {Anah. IV

del pari quei

di

vittime sulla sponda di

Myun





559

mentale, alla divinità e di rimpianto per la forza giovane

che non

del bell'animale,

rilevato in Orazio, è

glio

gli servirà

a nulla, assai me-

anche l'epigramma fu

evidente

Teocrito.

in

Secondo il Wilamowitz (1) scritto sotto a un quadro l' ipotesi non parrà necessaria a chiunque :

ripensi che questa poesia è tutta descrittiva, anzi pitto-

Orazio ha con

rica.

l'epigramma

tutta probabilità letto

nel suo Teocrito. 2.

La I

Fauno

festa campestre di

(ITI

18).

pastori teocritei sentono, quanto lontani

gH

Olimpii,

il dio Pane, con il quale essi si permettono famigliarità di ogni genere, sino a ingiuriarlo e minacciarlo, se non esaudisca la loro preghiera, cosi come popolane di Napoli fanno ora con santi più moderni. Neil' idillio VII Simichida (v, 103 sgg.) augura al dio che, se egli conceda ad Arato la grazia di condurgli tra le braccia il suo amore, i fanciulli Arcadi non

altrettanto vicino a sé

sua statua, come solevano in un

picchino la gli

scoliasti

ci

danno

notizia

tutto

il

di cui

:

corpo dalle

che abbia a passar zia.

rito

non esaudisca

male che possa esser lacerato unghie e dormir sulle ortiche, inverno in Tracia e l'estate in Beo-

l'amico, gli impreca ogni

per

se invece

;

l'

Simichida, poiché è lo stesso Teocrito, travestito



un poco, ma in tal modo che lo si riconosca sotto la maschera, non ha ragione di affettare troppa pietà conmandriani del primo tadinesca e pastorale ma anche subito in idillio trattano Pane quasi come uno di loro i

;

:

principio

canto,

(1)

il

bovaro promette

un dono Textgeschichtc

al

capraio, ricompensa

inferiore solo a quello

dei'

ìinkoliker 120.

che avrà

il

del dio.



-

500

(iiiesLi pastori, appunto perchè Pan è sempre preanche perch'egli può ogni momento mescolarsi nella loro vita, Io temono l)en più che gli altri dèi, e si guardano bene dallo stuzzicare la sua ira. Verso mezzogiorno, nell'ora che d'estate è la più silenziosa, Pan, stanco Ben lo sa il della caccia, si riposa. Guai a disturbarlo capraio e risponde al bovaro che suoni e canti verso

Eppure

sente,

1

quell'ora sono

pericolosi

iroso

:

salta l'ira al naso, e allora....

Del pari naturale

i

Pan

e facilmente

gli

(1).

poeti augustei, che

del paesaggio

è

avevano educato

leggendo

Bucolici,

i

il

senso

ogniqual-

con l'animo di bivenerano nel silenzio misterioso della dio Fauno. Il nome è rombano, e senza dub-

volta tentano di mettersi all'unisono folchi e di pastori,

campagna

il

una divinità pastorale

bio

di

rogava, ben prima che

mano

tutto

il

mondo

Pan

il

nome con

questo

propri ricevette culto e impartì

a

vaticini

chi

caratteri l'

inter-

man

arcade, conquistato

Roma. Ma

greco, giungesse a

nel-

augustea già da gran tempo Fauno era tutt'uno con Pan Orazio (I 17) si rallegra che Fauno, lasciato il Lycaeo, protegga dall'estate e dallo scirocco le sue caprette. Virgilio invoca in principio delle Georgiche i Fauni, agre-

l'età

:

stium praesentia numina

;

il

conmiento del cosiddetto Probo

a questo luogo narra che Fauni sono stati spesso visti proprio nei pressi di Roma. Io non dubito punto che contadini e pastori latini conservassero la loro

Fauno

italico

;

devozione per

credo benissimo che

dela, celebrando la festa di

Fauno

il

pastori di

i

il

Man-

giorno delle nonae

Nell'epigramma 5 della raccolta teocritea un pastore propone auouare appunto per disturbare il sonno di Pan, che dorme, pare, nell'antro. Qui un imitatore sembra aver voluto (1)

all'altro di cantare e

rappresentare la famigliarità che corre tra le tinte

per superare

il

modello.

il

dio e

i

pastori, caricando

— decemhres non

accorgessero

si



5()1

di

mescolar con

lui

nel rap-

un dio arcade ma parola praesens ricorda un concetto che è mente

presentarselo alla in Virgilio la

la figura di

;

capitale nella religione ellenistica, rs7::-^ày£:a o meglio la

nume (1); le Dryades sono Pan o dei Pani con le Ninfe

del

uapo'ja.'a

l'unione di

divinità greche, più consueta di

qualsiasi altra nell'arte greca.

Orazio

abbiamo

sa,

detto,

che Pane protegge

armenti brucanti corbezzoli e timo per cretile, sa

lupi,

che

appena

suoi

i

pendici del Lu-

le

sue caprette non temono ne vipere ne

le

le valli e

i

sassi lisci del costone di Ustica

risonano del dolce suono

di

una

misteriosa

fistola

:

nec

metuont colubras nec Martialis haediliae lupos, utcum-

viridis

que dulci,

Ttjndari,

personiiere saxa

(I

giunge or no, di presente. Questo tardo, che certo sa quanto a chi

fistula valles et

17, 8 sgg.).

una zampogna

Fauno non ha

è

il

Usticae cubantis

levia

Nel suono lontano, che or il

poeta ravvisa Fauno

Pan greco

letto Orazio,

sa quanti carmi

un

novelliere

ma ha

attinto chi

:

bucolici

ora

perduti,

immagina che una schiera di soldati, la Longo quale ha recato ingiusto danno a pastori devoti del dio, sia ammonita di riparare al misfatto da molti segni dell'ira di Pan, tra questi un misterioso suon di siringa che s'ode venire da una rupe scoscesa, non dilettoso tuttavia come di siringa, ma minaccioso come di tromba (II 26, 2) fìnge che non appena il capitano si accinge all'espiazione, da quegli stessi sassi si senta di nuovo la siringa, non più guerresca e paurosa ma pastorale e quale suol menare al pascolo le mandre (Il 28, 3). E gt-eoo è per molti segni il Fauno di (juest'ode. Greco è il dirlo Veneris sodalis, chò l'accoppiamento di Pan con Afrodite, ignoto a Roma e non frequente nemmeno nella religione greca, Sofista,

:

(1)

V. Hopni

•Mi

p.

179

sjr-.

— si

di

562



trova pure, oltre che in alcune opere, d'arte, nel culto

come mostra Pausania (V 15, come testimoniano un'iscrizione

Olimpia,

attico,

e in quello

6),

e

Strabene

(1):

due divinità riunite forse appunto in un carme attico, probabilmente in uno di quei cori di tragedie che così spesso cominciano invocando questo dio. Greco è 1' immaginar Pan in caccia di Ninfe non che noi lo vediamo sovente su rilievi o in isculture affannarsi dietro a un'amata, ne che udiamo di tali inseguimenti da poeti, che le Ninfe sono per lo più facili e non lasciano altri a lungo per se sospirare ma quella concezione doveva esser diffusa nell'antichità più che da Orazio avrà trovato

le

;

;

noi

non

scorga, se gli Stoici furono costretti a ricor-

si

rere alle loro

allegorie,

solite

come solevano

qualvolta non s'arrischiavano a dar

di

fare ogni-

cozzo contro cre-

denze popolari. Per Cornuto (27, p, 49, 14 Lang) le Ninfe da Pan simboleggiano le emanazioni umide

inseguite della

terra,

quali

delle

tutto gode, perchè senza esse

il

Del resto, che l'uiia non potrebbe sussistere ninfa. Eco o Siringa, relutti all'amore di Pan, !

detto altrove il

dio «

;

e

solito

il

non cessa mai

di

noia alle Ninfe Epimelidi

Longo

o l'altra si

trova

asserisce che (II 39, 3)

molestare

le

Dryadi e

di

dar

».

Anzi, la prima strofa del carme oraziano getta forse luce nuova su concezioni religiose greche. Orazio

prega Pan, che corre all'impazzata per monti dietro alle Ninfe, di badare a moderar la corsa quando passa per il podere del poeta, e di rimaner lontano dai capretti teneri: i

questo significano (1) I il

le

parole

passi sono citati dal

confronto pare a

me

per la quale nec desunt

manca vino

al cratere

Heinze citano solo

il

Fanne nympìiarum fugientum

:

Gkuppe,

favorisca

1'

Griech. Mijth.

ti.

EtUgionsg. 1396;

interpretazione accettata nel testo

Veneris sodali

che mesciamo

vina craterae

in

passo di Pausania.

onore

di

vuol dire

Pan

».

«



Kiessling-

— amator,

meos

jjer

finis et

-

563

aprica riira lenis incedas abeasque

parvis aeqiios alumnis. In molti testi greci e latini è espressa

credenza

la

mente

che

armenti

gli

dimagrino

o

Pan

infurino per malefizio di

o

misteriosa-

Fauno

di

o di

cui è spiegato meno (1). Nei pochi passi (2), oscuramente che parlar chiaro degli effetti terribili dell' ira di un dio è imprudente, perchè può irritarlo, pare evidente che Pan tormenti sino alla pazzia mandando

Silvano

in

come

sogni e visioni spaventevoli

mandrie.

Ma

un'altra credenza

I

suo piede

morranno. Qui

e

consumeranno

si

Pan

corsa di

la

Greci

è tutt'uno

non

antichi

dai popoli occidentali dell'evo medio. Nel fru-

scio delle foglie morte, nel

schi e forre di

essi

!

selvaggia temuta dai

la caccia

meno che

mentre Pan inparano sul suo cammino guai

si

ai capretti sfiorati dal

con

agli

guai alle capre che,

:

furia dietro le Ninfe,

man mano

uomini così alle mostra che vi era anche

la strofa oraziana

mugghiare

del vento per bo-

contadini antichi sentivano

i

Artemide o

di

Hecate, così

di

il

come

passo,

Pane. Pan è cacciatore

pazzamente per i monti, ha, come esse, ninfe a compagne, sia pure che talvolta esse si ricusino alle sue voglie com'esse è temuto dai mor-

com'esse,

corre anch' egli

;

tali;

com'esse è più pericoloso nell'ora meridiana

KoscnKH,

(1)

Ephidltcs (iu Liipzitjer

M

Abhandl. XX',

(3).

s;^>;..

Né 70.

72 sgg. (2) (.3)

'ò'M

ROSCHEK, p. t>9 sgg. Caulo Dimiiky hu forse per

che corre per monti lei

il

XXV

primo {Rh. Mus.

1870,

sgg.) riconosciuto la cacciatrice nell'Arteruido dell' inno omerico 27,

le

e

vette scuotendo

1'

arco

:

tremano

cime dei monti, risuona la selva dei gridi

vidiscono terra e mare.

I

punto Diana

'ò'M).

(v.

già per Teocrito

colà p. ;

1'

di>llo

dinanzi a

fiere,

rabbri-

vedono nel demone meridiano apPan è, per così, dire demone meridiano

Cristiani

inno omerico in suo onon»,

il

10,

t-

assai

simile

interpretazione che Kiessling-Hcinzc danno del jiasso di Orazio, ])are a me troppo vaga.

al 27. L'

— si

deve dimenticare che

una

festa

564 il



carme

di

Orazio è scritto per

invernale, della sta^^ione in

infuriando sui monti sabini, suscita

cui

vento, più

il

mille rumori

miste-

riosi (1).

Orazio, fermatosi solo un

vaggia, ne storna poi subito

momento sguardo,

lo

sulla caccia

come

orribili cose, per volgerlo alla festa presente. «

si

sel-

suol dalle

Fauno, non

podere nelle tue corse sfrenate, tienti lontano dai miei capretti, se noi festeggiamo il giorno tuo secondo il rito ». La vetus ara, il santuario campestre s' incontra a ogni passo, in forme svariate, ma tutte semplici, tutte

mi rovinare

il

primitive nella pittura di paesaggio dell'età ellenistica (2). Orazio mostra pure altrove di sentire anch' egli questo

romantico per

amore un

po'

la lettera

dell'

araator della

le

rovine di vecchie cappelle:

campagna all'amatore

della

Fusco, è dettata post f animi putré Vacunae (epist. I, 10, La descrizione della danza rozza dei contadini, che

città, 49).

sembrano rea di

gioire di calpestare

aver dato loro tanto

olandesi di paesaggio. il

paesaggio

idillico

con

i

piedi pesanti la terra

affanno,

Appunto

i

ricorda

pittori

quadretti

che riscoprirono

per l'arte moderna, amarono

collo-

care nel centro del quadro persone di aspetto rude, mal vestite, di gesti incomposti.

Natura morta

e animali sono

carme più intensamente che Orazio non soglia, e quindi più profondamente umanizzati. In altre poesie essi non hanno altro valore che di elementi dequi la selva non è spogliata contro sua voglia corativi dal vento d'autunno, ma sparge essa stessa di buon grado non solo buoi hanno vale sue fronde a onore del dio

sentiti in questo

:

;

i

(1) Conciò non intendo punto accettare l'identilìcazione di Faunus «on Favonius, proposta ora per ragioni fonetiche dall'OxTO (P. W. VI, 2057) i venti decembrini non preannunciano la primavera. ;

(2)

V. sopra p.

ii35.

— ma

canza,

perfino le

565



mandrie si vedono scherzare sul uno spettacolo al dio il lupo gli agnelli, che mostrano di non

prato, quasi volessero dare

;

avanza pacifico tra temerlo. Questo è un miracolo che Pan e Fauno sogliono ambedue fare Orazio lo ha accennato, nascondendo quasi quanto è in esso di prodigioso, in I 17: appena si sente si

:

la fìstola del dio, le

romano

è Lupercus,

appunto quello e

la festa dei

caprette cessano di temere. il

Il

Fauno

suo compito, cioè, era in origine

di tener

lontano

Lupercalia, che

il

lupo dagli stazzi (1);

Augusto (Sueton, Aug. 31)

rinnovò, mostra che questa concezione era viva sino in

tempi tardi. Ma, come narra Eliano (/*. a. XL 6), nei monti di Arcadia era una grotta sacra a Pan, dentro la quale le greggi avevano rifugio sicuro dai lupi, che non osa-

vano penetrarvi per e)

rispetto al dio.

LA RELIGIONE.

Augusto, vincitore sull'Oriente ad Azio, mise subito

mano

a restaurare nella vita pubblica o negli

religione.

Non

tuttavia che egli

dare di spugna su secoli

si

storia e ricondurre

di

poranei ad adorare nelle forme originarie nerate dai contadini della prima

Roma.

dèi erano, com'egli sapeva, morti per

spiriti

di

illuso

sia

I

le

i

la

poter

contem-

divinità ve-

più tra quegli

sempre; né

la

ri-

cerca erudita del più grande conoscitore di antichità patrie,

Varrone, poteva riconquistare loro la venerazione

dei moderni. lette

Le

soltanto

Antiquitates rerum divinarum saranno state

da persone

anzi dotte, da quelle aveva spento ogni ardore

colte,

stesse nelle quali la filosofia

(1) L. DKU»NKK(Jrc/(. /. i:j.) ha difeso beue l'etiraolof^ia di Lupercus da ìiipiim arerò, mostrando che cerchio majjico i riti più antichi della festa mirano a disof^nart» nn ln])i non pos'^oiio entrare. dentro il (piale i

di

ingenua

fede

il

;

56()



popolo, sul quale

utiicainente ogni

riformatore convinto fa assegno, non poteva interessarsi

né per

la

recondita dottrina storica ne per

che, applicando

principi

dèi forze naturali, né per l'etimologia,

minare l'essenza

di

ogni

dio.

il

simbolismo,

voleva ravvisare

stoici,

che doveva

negli illu-

L'autore stesso, stabilendo

categoria, forse molto

sulle quali

numerosa, di divinità non era potuto giungere a risultati sicuri,

di

confessava

un' intera

incerti,

i

in

modo che

certo

il

suo

libro,

quantunque dedicato a un uomo grande, che,

se la morte tempo, avrebbe riformato anche la religione, a C. Cesare, era opera di ricerca, non di fede, intesa a esporre il passato, non ad agire nel presente.

gliene avesse lasciato

Augusto, debole

di

il

nervi e cagionevole di salute, in-

clinava a timori superstiziosi. Superstiziosa chiameremmo noi moderni

anche

di ogni specie (1)

;

la

sua fiducia in sogni e in presagi

a buon diritto, purché non vogliamo

credere che egli fosse un mistico fatta sono

comuni appunto

;

che credenze di quella uomini di stato

in capitani e

oscuramente in se un qualche cosa di irrazionale, che trascende la natura umana, s'immaginano, senza confessarselo chiaramente, che cielo e terra partecipino alle vicende della loro vita. Né su questa fiducia di Augusto nei presagi filosofi che egli si era scelti avranno trovato a ridire a consiglieri, ascritti alla Stoa, quantunque certo, come grandi, in persone le quali, sentendo stesse

i

(1)

Della delicatezza di Augusto

e delle sue frequeutissime

lattie parla Svetouio uei capp. 81 e 82

;

ma-

della sua paura dei fulmini

nel cap. 90; della sua fiducia iu tiomnia e omina nei due capitoli seguenti. Nell'autobiografia di Augusto

cua, come mostrano ancora

i

presagi avevano parte cospi-

frammenti 4 e 5 Peter a essa risale la narrazione dei miracoli che annunciarono e accompagnarono la sua nascita secondo Dione XLV e Svetonio 94 (Blumexthal, jriencr Siudien,

XXXV,

1913. 122)

i

;

-

567

-

tutti in quell'età, inquinati di eclettismo,

e

suoi

i

Theone

Dionysio

figliuoli

(1)

la

:

Areio Didymo

Athenodoro,

Nicànore,

e

Stoa faceva uso della mantica senza scru-

poli,

grata alla Prov^videnza che avesse concesso all'uomo

una

stella per guidarlo attraverso

gusto, se ebbe Stoici

che modo Stoico pensato,

i

egli

come Varrone

il

mare

Au-

della vita.

direttori di coscienza, fu in qual-

Della religione egli avrà Agahd), che la forma sua non possa uscire dalle quattro

stesso. 7

(fr.

più vera, la theolof/iapJu/sica,

pareti della scuola e scendere in piazza senza mettere a

Per un principe che pensi governo il primo imj)eratore si sarà accorto, ben prima dei sagaci organizzatori dei grandi stati moderni dell'Europa centrale, che appunto la forma amministrativa dello stato, da lui inauperiglio l'ordine della società.

così, la religione è

gurata, doveva,

di

:

che qualsiasi

piti

legami. In fondo

Varrone

mezzo

cuore

al

altra,

restringere quei

Augusto avrà pensato, come

54 a, 55), che, poiché gli dèi veri ne accetne si commuovono per preci, il filosofo, se toccasse a lui di fondare una città nuova, dovrebbe or-

tano

(fr.

sacrifici

dinare

il

culto a

perchè egli

si

norma

di

natura, cioè

di

trova sempre a essere cittadino

verità, di

uno

ma

stato

nel quale le forme religiose sono tradizionali, è suo ob-

bligo tenersi alla tradizione e procurare per giunta che

volgo

la

il

veneri anziché dispregiarla. Forse Augusto, cre-

mezzo a una generazione romantica, avrà senuna certa vaga simpatia per la religione romana, perchè essa era stata parte di un mondo che tutti sospiravano scomparso e si illudevano forse di poter risuscitare. Ma anche quest'afi^'etto, se vi fu, non aggiunse molto

sciuto in tito

calore alla sua fede.

Un (1)

riformatore

Le notizie su

che

essi

ragioni

sono raccolte

cosi

ifur, an-

his

res repeterent, et

per hos

lingua latina non erano

45. Si suol credere

che

i

collegi

vetustissimi dei fratres Arvales e dei sodales Titii fossero

già scomparsi in tempo molto più antico

;

ma

quest' opi-

nione contrasta con la chiara testimonianza di Varrone

che degli uni (V 85) dice qui sacra publica faciunt, parla (1) Suet. [2)

Oic,

,

Caes.

iid

Fi».

70, 2. 8,

e gli

altri passi citati

da \Vi>>u\va,

/.'t7.

,

Dal luogo ili Cicerone si ricava che Compitalia furono oelrbrati in citt.^ ancora nel 58. I Compitalia festeggiati in caniitagna dalla l'amiUa rustica avevano tutt'altro carattere e non furono corto toccati 172.

dai divitti.

i

— di uccelli (1)

qualcosa

di

auguriis certis observare

mostra

feziali

-

r>7()

solenf.

che

simile,

di

secondi

i

passo citato

II

dianzi sui

Varrone sapeva ben distinguere

che

in

tra

passato e presente.

Quanto a

riti

Svetonio

stranieri

che

dice {Au(/. 93)

l'imperatore distingueva tra antichi e introdotti di fresco, in altre parole tra greci e orientali iniziare

mente

ai

mentre

:

misteri eleusinii e ne rispettava

si

faceva

scrupolosa-

da escludere il consiglio e il pubblico una causa intorno ai privilegi dei sacerdoti di Demetra Attica, non volle durante un viaggio in Egitto veder l'Api, e approvò che suo nipote G. Cesare non avesse supplicato nel tempio di Gerusalemme. Il principe, che volle trascendere l'ellenismo, mostra chiaramente nei culti da lui fondati o rinnovati o calsegreto

il



dalla discussione

di

deggiati di prediligere ritus Achivus.

novensides

i

di origine

Egli ordinò di bruciare

le

greca e

raccolte di

il

ora-

che correvano per le mani del pubblico (2), certo perchè avversari astuti non ne potessero approfittare per coli,

rivolgere contro di luì

la vittoria,

ma non

si

suo governo, presagita a essa

il

arrischiò ad assalire l'autorità dei

eppure la raccolta messa insieme soltanto nel andata a fuoco Si contentò Sibillini

mostrando voluta dagli

creduli,

i

dèi l'opposizione contro

:

!

puliti dalle interpolazioni

ufficiale

di

non

;

ordinare vi è

testo di far rivedere criticamente ^curato

che fossero

tolti

da esso

di

essi

dopo che un'

76,

i

il

(2'

TI

12).

le

Le

ri-

dubbio che, col pretesto,

Augusto avrà

passi pericolosi.

I

libri

Palatino

qui lacunoso.

Sull'opera di Angusto quanto ai Sibillini e agli oracoli

in ispecie

era

che fossero

così espurgati ripose sotto la base dell' Apollo

(1) Il testo è

era stata altra

testimonianze di

difificoltà

cfr.

Svetonio (Aug. 31) e di Tacito {Ann.

cronologiche uOu

importano al nostro assunto.

— per accrescere

571



santità del suo dio

la

Ai

famigliare.

Si-

quando volle, celebrando feste secolari, solennemente dalla religione che il suo principato apriva un'era nuova. I frammenti epigrafici billini (1) ricorse,

far

confermare

dei

commentari

mostrano che

(2)

furono

colo greco,

greci:

lettera ai quindecemviri a S-solg

non già

[ji£iXc/''ot:,

prodigivas Achivo

Augusto fare

a un ora-

ispirati

esorta nella

11)

(r.

offerte

milkheìs,

deis

ai

immola (r. 91) \hostkts\ Moerae, non alle Parcae sa-

agli Inferi;

ritu alle

;

invoca

crifica deis Ilithìjis e

riti,

i

Ilithjia

con

il

nome

suo

greco,

non con il romano. Orazio, poeta e quindi persino nel carme ufficiale, che fu cantato nell'ultimo dei tre giorni da un coro di fanciulli e fanciulle, meno ligio alle formule che il Cesare sacerdote usava nel sacrificare, ha identificato, sia

pure con qualche scrupolo,

Ilithijia

con

la

Lucina romana: Ilitlujia,... sive tu Lucina probas vocari sex Genitalis; ha inalzato la preghiera alle Parcae senza far menzione del nome greco ha detto Ceres la dea che Augusto, traducendo il Faìa dell'oracolo, aveva chiamato ;

Non

Terra mafer. nie secolari

calcolare

il

;

ma

il

ellenistico,

;

la festa.

che più

Come

cerimo-

rito delle

orientale, cioè ellenistico, è

secolo

anima

cetto che

soltanto è achivo

il

modo

importa,

il

di

con-

attesta Censorino in

una

parte della sua opera in cui attinge largamente alle Au-

humanae

tiqtiitates

di

Varrone

(17, 18), era

credenza dei

Romani, come già

dei più antichi Etruschi, che

uomo

i

vivesse oltre

anni durasse

()

;

uso

Augusto adotta un calcolo

se-

conservato da PlieU'jyon (Macrub.,

4i v

saeculum.

testo dell'oracolo

11

(1)

Zosiiuo II

il

deli'

nessun

cent' anni, in altre parole che cento

»•

cdiziouf critica del DiELS,

Sibiilìiniurìic

ISIiilter.

133 8gg. (2)

Adopro

epii/raphica,

32323

8



infrerjuenS)

mondo grande

e ter-

del miracolo lo induce a

riflet-

ripensa a quanto avviene in questo ril)ile.

La contemplazione

scosso dal prodigio,

tere sul mistero delle cose

umane, suggerendogli che su

domina un qualche cosa che, perchè sottratto ai umano, pare ostile, sembra prendersi beffa di noi. Questo qualcosa egli lo chiama Fortuna, come T'j/Y] lo aveva chiamato Polibio. Jam valet tutto

calcoli dell' intelletto

ima summis mutare

et

insignem attenuai

deus ohscura pro-

non può esser riferita che a Giove^ poiché la Fortuna non è stata ancora nominata; quei versi rendono del resto, com'è noto, un passo del proemio delle Opere e Giorni, famigliare probabilmente anche al ^sta ò' àp-'^r^^ov lettore romano Esiodo aveva scritto 7nens

:

la parola deus

:

:

Ma

questo stesso potere era attribuito dai poeti

sofeggianti non più a Zeus di Berlino,

con

[lèv u'ic'^af^

axót'.ovj,

:

cosi

l'

filo-

inno

y,oC:

xà Òì

fondono

poiché

parole che,

con altre prese dallo splen-

dall'altezza

tolte

dore, ricordano ancor più



Fortuna

alla

che nella sua forma presente è posteriore a

Orazio, invoca la dea

immagini

ma

il

poeta romano yàv

a£[xvà.... òuV^piza; Tiotl

'-paOXa y.x\ xaTTSivà.... s:;

vi'^o;

u']>o;

che Esiodo

:

àix-^'.b-r,y,y.[>.h[oc

ì^iti^ocQ

.

11

pub-

romano, leggendo Orazio, non poteva sorprendersi di trovar subito dopo nominato non più Giove ma la Fortuna,^ perchè sapeva che Giove e Fortuna sono nomi diversi di un ente solo, il d-zlov. Il Pseudo-Dione proprio da quei versi esiodei argomenta (II p. 150 Arn.) che Zeus e Tyche sono una sola cosa (1). blico

(1)

Lo

Jiiger

role seguenti,

malamente

xaTs^w

[jlèv

cita toOto

apa

mostrano che

costruzione, è glossema, sia pur sensato stesso.

f,v

ó Zau;,

Tuxyì, :

il

r,

T'jyy,

;

le

pa-

poiché interrompe la

senso generale rimane

1(

— La

603



libazione della villanella ai Lari (III 23).

purché tu non

« Phidyle,

dimentichi

di inalzare

ai

Lari la preghiera ogni volta che la luna è nuova, pur-

ché tu bruci

in loro

sacrifichi tutt'al più

campo

onore incenso,

una

offri loro le

primizie,

scrofa, guastatrice dei colti,

il

non soffriranno danni. I buoi sono riservati alle cerimonie dei pontefici da te gli dèi del poderuccio, piccoli com'è piccolo questo, non aspettano ecatombi di pecore adulte, ma si contentano che tu cotuo

e le tue greggi

;

roni le loro statuette di

porta solo che una

desta

di

mano

un innocente,

rosmarino e mirto. A loro impura tocchi Tara l'offerta mo:

farro e grani

riesce ai

di sale,

Penati più accetta che vittime sontuose offerte da che essi disdegnano ».

Secondo

interpreti

gli

quest'odicina

tale

rispecchierebbe

più fedelmente di ogni altra costumanze e religione ro-

mana. In

è molto

quest' osservazione

rappresenta qui

le

veramente

suo tempo.

al

di

Orazio

vero.

pratiche devote dei contadini, com'erano I

delle plebi agricole italiche,

Lari sono divinità alle

proprie

quah non corrisponde

nulla di simile nella religione greca (1); e alle (1)

tini

Al Lar famiUaris deirAuliilaria e del Triuummo

corrispondeva negli esemplari greci un r^pw:, un

piccole

(v. 39) plau-

y,ptus



il

nome

a una commedia di Monandro. Ma il Lare non è nella casa di città ve lo hauuo poruè originario uè genuino (Wissowa, Rei., 1(38) :

tato

servi

campagna ad aumentare la fnmiìia urlmna a man mano clie nei padroni cresceva con 1' agia-

venuti

di

«pese della rustica, tezza

anche

il

bisogno di

in città

comodità.. Glie sia così,

sono celebrate

non ha in città, campagna segua

clie 1'

io

le feste

altrt'.

vede dal luogo :

il

dove

compUum

sappia, alcuu valore giuridico, mentr'esso

in

come costumi

e

intorsera/iouo

legge italica esigevano, corrono tnitandola dallo

si

maggiori dei Lari

di'i

tutt'

viu/^J, che,

intorno a una proprietà,

dcii-

— statue di i

giori, e

che sorgevano nei crocicchi

esse,

campestri^

campi attigui avranno ripreghiera con maggior fiducia che a dèi magperciò appunto più lontani dall'anima loro come

proprietari e

volto la



()(j4

i

lavoratori dei

;

ancor oggi

i

contadini pregano, con più effusione di cuore

che nelle chiese, dinanzi ai tabernacoli della Madonna, alle « maestà », che hanno sostituito i sacelli dei Lari

campagna. Phidyle compie lo stesso che con quelle stesse forme in quello stesso giorno molte altre figlie di agricoltori celebrano. La legge saai

canti delle vie di

rito

crale,

che permette solo

mente con crifici, non

in

lui si

padre

di

famiglia

applica al culto dei Lari.

è religione degli umili

Un

al

e,

sua vece, alla matrona di

:

ciascuno ha

il

La

congiuntaoffrire sa-

religione loro

diritto di suppli-

non certo proclive ad assegnare troppo posto nel culto anche domestico a servi, Catone, concedeva, anzi imponeva a una donna di condizione servile, la vilUca o fattora, di onorare Lari; come mai quest'eccezione, se non era radicata negli usi ? Nel de agrìcultura (§ 43) al severo divieto rem divinam ne faciat neve mandet qui prò eo faciat, iniussu domini aut doìninae, dove iniussu si dovrà intendere « senz'ordine espresso », dopo una frase che ribadisce ancora la proibizione, dicendo chiaro che anche dinanzi agli dèi conta solo il padrone, scito dominum prò tota fumilia rem divinam facere, segue carli.

antico,

i

:

kalendis, idibus, nonis, festus dies ciim erit, coronam in

cum

fo-

indat per eosdemque dies Lari fayniliari prò copia siip-

plicet.

Le Calende sono appunto, originariamente, il nopoiché Tibullo, come Orazio, menziona solo una

vilunio

;

indurremo che solo il Calende era considerato di stretta osservanza e indispensabile. Forse proprio alla ragazza di casa se non vogliamo accettare era affidato il culto dei Lari

unica festa mensile dei Lari, ne sacrificio delle

:

senz'eccezioni



testimonianza del Lare plautino {Aid,





605

professa grato delle libagioni quotidiane

23

sgg.),

di

incenso e vino, delle corone offertegli dalla

che

si

quale

nandro, nel

Tibullo

stico,

10,

(I

che accompagna di

si

il

Medome-

può render qui un passo

famiglia, perchè Plauto

di

parlava del culto dell'eroe

22 sgg.)

la figlia piccola

mostra

ci

di

figlia

padre, mentre questi porta all'idoLetto

legno una focaccia, segno

animo grato per un

di

fa-

vore ricevuto.

Anche suo

nelle

interprete

Phidyle o meglio il agli usi. Plauto (1)

piccola

offerte la

Orazio

conforma

si

{AuL 23, 385; Trin. 39), Tibullo (I 3, 34), Giovenale (XII 89) mostrano concordi che ai Lari si solevano appunto offrire incensi e corone di fiori. Lo stesso Tibullo in un altro passo

spighe

10, 22) parla proprio di serti di

(I

nale altrove (IX 137),

La consuetudine qualvolta

le

di

offerte

che delle corone,

oltre

consacrare

ai

Giove-

:

farro.

di

un porco, ogni-

Lari

incruente sembrassero

insufTicienti,

è ricordata da Orazio, oltre che in questo luogo, in uno

Sermoni

dei

(II 3,

solito, Tibullo.

impinzati

1G5)

si

;

accorda con

Per Properzio (IV

1,

lui,

secondo

crocicchi, cioè la sede del culto dei Lari, era

i

consuetudine della prisca

Roma. Di

maiali vi

essere nell' Italia antica grande allevamento, se

erano

Un manda che (I

personaggio del liudens plautino di far preparativi

egli

1,

vittima più consueta nel culto privato

la

ha già

per

il

il

(v.

(1)

La

la

suini

1206 sgg.) co-

i

porci, gli agnelli. Tibullo

ai

Lari un vi-

modestia della propria condiziono che

cui testinioiiiaiiza

lia

valore per

confortata da quella di altri autori. (2)

i

(2).

lusso del suo avo, che per la

salvezza di innumerevoli giovenchi offriva

con

dovette

sacrificio ai Lares familiare^i,

in pronto, oltre

19 sgg.) confronta

tello,

il

23) lustrare con porci

WissowA,

;.'

ò

— gli

permette



()06

un agnello

dì sacrificar loro più di

doveva essere rara eccezione

dell'avo

(1).

due passi aiutano a intendere più precisamente terza e quarta dell'odicina oraziana.

che pascola tra querci ed

La

quella

;

Questi

ultimi

le strofe

vittima consacrata,

nevoso o cresce su non è una pecora, ma V hostia maxima, il bue. Solo di un bue si può àìve pontifìciim securis cervice tinguet, che né buoi né pontefici hanno nulla per

i

elei sull'Algido

prati dei colli Albani,

a che fare con

il

culto domestico dei Lari. Tutta la strofa

terza significa: « Nutrir mandrie di buoi conviene ai pon-

non a

tefici,

ma

blici,

te,

che non hai obbligo tenerti buoni

devi solo

strofa seguente,

te

i

di

pub-

sacrifici

Nella

tuoi Lari ».

multa caede biden-

nihil attinet temptare

tium, parvos coronantem marino rore deosque fragilique mìjrto,

alcuni interpreti intendono bidentium in generale di vit-

time adulte secondo

il

valore originario dell'espressione, (2), e non come pure solevano adoprare non eruditi e poeti. Quest'in-

noto ancora agli antiquari romani di quell'età

propriamente

di

quella parola

i

pecore, prosatori

terpretazione è erronea

Lari non e agnelli

sessore di lui

si ;

:

i

dai testi citati

si

ricava che ai

solevano sacrificare altre vittime che porci

l'offerta di

un

vitello indica per Tibullo

innumerevoli mandrie

il

pos-

di buoi, vale a dire, è

per

una singolarissima eccezione. Orazio non può quindi

parlar qui di altro bestiame che d'ovino, che sacrificare ai

sarebbe stata una stranezza. Il poeta inAi pontefici allevare armenti di buoi per i sa-

Lari buoi

tende

(1)

:

«

Forse solo iu un caso

po' maggiore. Cicerone

si

sacrificava

{de leg. II .55)

ai

Lari uua vittima

pare prescrivere

un.

al padre, di

famiglia di scannar montoni ai Lari per ribenedire la casa contami-

nata da nna morte (2)

Le

;

ma

il

passo non è chiarissimo.

loro disquisizioni intorno all'uso di questa jiarola

vano raccolte da Gellio (XVI

6);

il

si

tro-

capitoletto è messo a ruba dagli

autori delle compilazioni erudite posteriori.

— orifizi offerti

da

607

— popolo romano

essi per la salute del

che hai obblighi solo verso

te,

buon numero anche soltanto

i

di

;

tuoi Lari, scannare

pecore adulte

per

un

sarebbe

già troppo; basta un'agnella, e un'agnella sola».

Ogni particolare delle consuetudini ritratte si attaglia bene a contadini italici, quali veramente essi erano. E probabile che a lettori raffinati, che vivevano in città e non avevano molta pratica di usi rustici, questo carme facesse lo stesso effetto che a noi recci di

Giovanni Pascoli

voluttà

come

;

poemetti

certi

che anch'essi

rapire a volo e tufTare in

si

una

neppur sospettata, che tuttavia per virtù

ville-

sentissero con vita da loro

dell'

intuizione

destata in essi dal poeta riconoscevano reale. Pure que-

prende le mosse, li riprofondamente, è animato specchia fedelmente e li risente da un sentimento che, piuttosto che italico, è originariamente greco, pur convenendo bene a uomini che, senza sto carme,

il

quale da usi

italici

cessare di essere Romani, avevano accolto in sé lo rito

spi-

greco ed ellenistico di umanità.

La

religione

romana considera

le relazioni

con

gli dèi

alla stessa stregua che quelle tra uomo e uomo, come rapporti giuridici. Il iiis divinum, nettamente distinto dalin età storica, si è svolto parallelamente a esso, per opera della stessa magistratura a cui erano affidate anche le norme fondamentali di quello, affinchè con-

l'umano

sigliasse

nei

casi

dubbi,

i

Chi profferisce

pontefici.

un

voto, stipula un contratto, obbligandosi a dare un determinato oggetto al dio, (qualora questo a sua volta adempia certe condizioni. Stipula in certo il

magistrato

per

il

dola,

il

bene della s'

modo un

contratto

quale offre alla divinità la propria patria, sese devocet

impegna a procacciar

la

;

il

vita

nume, aceettan-

vittoria

al

popolo

ro-

mano. Del pari, il console, che, prima di dare l'assalto a una città assediata, evoca da essa gli dèi, garantisce loro-

culto pubblico in

Roma

608

in

-

contraccambio della loro riche fino allora essi

nunzia alla venerazione del popolo

avevano

protetto, nella città in cui

A

domicilio.

che un contratto

sentimento interno dei contraenti,

male

Livio

giuridico.

dell'atto

ma

(I

Numa, con

Un

stabilì

quali

importa non

il

la perfezione for-

20, 5)

stesso re che primo ordinò le istituzioni

e

avevano

fino allora

sia valido,

che

narra

umane

di

lo

Roma,

da quali magistrati e con quali vittime formule

dovessero essere onorati

una preghiera

voto è nullo,

infruttifera,

dèi»

gli

se

certe

parole non sono pronunziate in un ordine determinato e

accompagnate dai gesti prescritti, così come nel diritto romano la forma più antica del contratto, la stipulazione, non è valida, se non sono profferite le formule solenni, se non è eseguito dalle parti un piccolo mimo simbolico. La coscienza comune dei Romani non ha mai, pare, trasceso questo

concetto della religione, quanto chiaro,

altrettanto ristretto e utilitario.

Le

intenzioni^ la dispo-

animo, l'altezza morale di chi sacrifica o sup-

sizione di

non hanno valore alcuno per gli dèi di Roma. Un contemporaneo di Orazio, Tibullo, proibisce (li 1, 11 sgg.) di intervenire al sacrifìcio a chiunque non sia casto, perchè casta placent superis, ma la castità, checché asseriplica,

scano interpreti benevoli, è intesa q^ui in senso affatto poiché l'atto sessuale, comunque compiuto, materiale :

contamina, è escluso dal notte precedente concesse indossi abiti puliti o

non

si

rito le

colui a cui

sue gioie,

sia lavato

Venere

nella

non mani prima

al pari di chi

bene

le

di toccar l'ara. Il

culto

romano apprese

dalla civiltà greca a

sfog-

giare lusso. Nei tempi ultimi della Repubblica e ancor più

durante

l'

Impero

le

confraternite antiche,

non più paghe

delle hosfìae soUemnes prescritte dalla legge sacra del sodalizio,

che parevano meschine

non osando cambiare

alle

ricchezze aumentate,

gli statuti venerabili

per l'antichità

-

-

G09

consacrata dalla religione, aggiungevano a quelle tradizionali altre vittime,

non

ma Roma

neppure vietate

richieste

dal rituale, hostiae honorariae. In timi tempi della Repubblica

filosofi,

i

soltanto negli ul-

asserendo che la

di-

bada alle intenzioni e all'animo di chi offre, non numero delle vittime ne alla sontuosità del sacrificio, raccomandano semplicità anche nel culto. La religione non diviene di formale intima, se non assai lentamente,

vinità al

Impero. Altrimenti in Grecia, Polibio (VI 56, 6 sgg.) ammira la ÒEfjioxtixovia romana, perchè atta a ribadire nelle menti della plebe insieme con il timore de-

durante

l'

ma

tempo dà a divedere strano compiere trovavano greci contemporanei suoi

alla ragion di stato,

-che

i

leggi morali, e conforme quindi

r efficacia delle

gli dèi

nello stesso

con tanto scrupolo pratiche esterne;

Ò£tai5at[xov:a

già per

Greci della fine del quarto secolo indica superstizione bacchettona, e, come mostra un Carattere di Teofrasto, è coni

siderata difetto ridicolo.

popoli primitivi, avranno utilitario

come

i

come tutti modo cosi Omero applicano

Greci più antichi,

I

i

inteso la religione in

Romani. Gli

eroi di

senz'ambagi all'attitudine loro verso gli dèi il do ut des: Nestore dice chiaro nell' Iliade (1 497 sgg.) che questi,

come si

gli

uomini, perdonano qualunque

fallo,

quando

quantità sufficiente di incenso e vittime

plachi con

li

;

appunto quei versi movevano a sdegno Platone {Rep. 3G5 e). I Greci poterono romper presto le pastoie di questa concezione cosi bassamente commerciale, perchè essa non si era, come in Roma, cristallizzata nelle formule rigide di un sistema giuridico. Verso la fine del secoli dopo,

licro

4U IlAKUV ScHMiDT, '

i

lìcli(jionsge»ch.

39

Ver»,

i

testi

veteri'n it.

mi

iia

reso si-rvigii)

philonophi (iiiotmxìo

ì'onirl),,

IV

!).•

il

lavoro accurato

iii(}ic(trrrin(