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Italian Pages 248 [252] Year 2009
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Il volume prende in esame le inedite Annotationes quaedam super Artem Poeticam Horatii di Alessandro Piccolomini, testimoniate da un manoscritto autografo conservato presso la Biblioteca Comunale di Siena. L'edizione del commento e preceduta da un saggio introduttivo che mira ad una collocazione critica del testo nel percorso intellettuale del filosofo e letterato senese. Ad una contestualizzazione dell'esercizio esegetico oraziano che muove dalla riflessione piccolominiana sulla methodus evocata nella glossa proemiale delle Annotationes, seguono alcune considerazioni sul modus operandi del commentatore e sulla sua scelta di commentare Orazio «per via d'annotationi». 'Ira i numerosi spunti offerti dalle glosse oraziane, la ricerca tenta di mettere a fuoco quelli che meglio permettono di valutare la poetica di Piccolomini
nel ricco contesto della riflessione critica del pieno Cinquecento: la portata sapienziale della poesia ed i suoi rapporti con la filosofia; la complessa dialettica tra diletto e giova-
mento poetico, significativamente oscillante nel confronto tra le Annotationes ed il commento alla Poetica aristotelica. pubblicato dallo stesso Piccolomini nel 1575; la riflessione,
infine, sulla specificità della materia poetica: plasmata da una teoria dell'imitazione ancora fiduciosa nella possibilità di conciliare res e verba, essa si basa su di una concezione
della parola poetica che, fortemente legata alla tradizione umanistica, deve fare i conti con le nuove istanze della siste-
mazione cinquecentesca del sapere e delle sue forme.
Eucenio Rerini (Siena, 1984) ha frequentato il corso ordinario presso la Classe di Lettere e Filosofia della Scuola Normale Superiore e si è laureato in letteratura italiana presso l’Università degli Studi di Pisa nel 2007. Già borsista dell'Università di Ginevra e dell'École Normale Supérieure di Parigi, è attualmente perfezionando in discipline filologico-letterarie moderne presso la Scuola Normale Superiore. Principalmente interessato ad argomenti di letteratura rinascimentale d'ambito italiano e francese, ha pubblicato studi sulla Hypnerotomachia Poliphili, su Ludovico Ariosto e la tradizione cavalleresca, su Alessandro Piccolomini, Giovan Battista Della Porta, Jean de La Taille, Guido Gozzano.
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Volume pubblicato con il contributo della Scuola Normale Superiore.
© Copyright 2009: maria pacini fazzi editore Via dell'Angelo Custode, 33 — 55100 Lucca www.pacinifazzi.it [email protected] Printed in Italy
Proprietà letteraria riservata Isen 978-88-7246-956-9
EUGENIO REFINI
PER VIA
D'ANNOTATIONI
LE GLOSSE INEDITE DI ALESSANDRO PICCOLOMINI
ALL Ans POETICA DI OraZIO
up maria pacini fazzi editore
Digitized by the Internet Archive in 2022 with funding from Kahle/Austin Foundation
https://archive.org/details/perviadannotatio0000refi
INDICE
INTRODUZIONE
Caprroro I «POETA IN HOC LIBRO, NON PHILOSOPHUS» METHODUS E ORDO NELLA GLOSSA PROEMIALE DELLE ANNOTATIONES 1. Il ‘non-metodo’ dell Ars poetica 2. Piccolomini nella discussione sulla methodus Caprroro Il COMMENTARE ORAZIO «PER VIA D'ANNOTATIOND» 1. Forme del commento 2. La «parafrase» e le «annotationi»
3. Per una tipologia delle Annotationes oraziane di Piccolomini CarrroLo III «FUIT HAEC SAPIENTIA PRIMA» LA POESIA NEL SISTEMA PICCOLOMINIANO DEI SAPERI 1. Orfeo, Anfione e le origini della poesia 2. Padova, Speroni e lo statuto della poesia nellInstitutione del 1542 3. La celebrazione della poesia nella prefatoria dei Cento sonetti (1549) 4. Le forme del sapere in prospettiva diacronica nell'epistola a Giulio III (1550) 5. Tra palinodia e riuso: la poesia nell /nstitution morale (1560) 6. Il retroterra umanistico 7. Lo statuto del poeta nelle Annotationi nel libro della Poetica (1575)
CaprroLo IV «NON SATIS EST PULCHRA ESSE POEMATA» DILETTO E GIOVAMENTO NELLA LETTURA PICCOLOMINIANA DI ORAZIO E ARISTOTELE 1. «Ars» e «natura» 2. Essenzialità del diletto poetico
602
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3. Affetti e passioni 4. Tra Maggi e Castelvetro: l'edonismo ‘etico’ di Piccolomini
CaprroLo V «SIC VERIS FALSA REMISCET» COSE E PAROLE TRA FALSO, VERO E VERISIMILE 1. «Verisimile» e «incredibilia» nelle Annotationes
2. Tra credibile e impossibile: la meraviglia nelle Annotazioni ad Aristotele 3. Imitazione poetica, conoscenza e procedimento metaforico
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107 107 E: 120
Nota al testo
19%
Annotationes super Artem poeticam Horatii
145
Apparato critico
2
Indice dei passi di autori classici
225 227 233
Indice dei nomi
Bibliografia
INTRODUZIONE
Il lettore, sia esso erudito o dilettante, lascia spesso tracce della propria lettura
sulle pagine dei volumi che legge. Se tali tracce, nella maggior parte dei casi, costituiscono per lo studioso materiali di scarso interesse, esse possono talvolta riservare sorprese. Note, glosse e marginalia di vario genere testimoniano nei secoli il confronto dei lettori con i testi, facendo dei volumi postillati uno strumento insostituibile per indagare i diversi modi di lettura.! La pratica di commentare i classici a mezzo di annotazioni marginali, per fare solo un esempio, è ben attestata dai numerosi
esemplari annotati conservati nelle biblioteche di tutto il mondo, ma un certo interesse hanno anche testimonianze secondarie che accertano la consapevolezza — più o meno precoce — della specificità del volume postillato. Se il catalogo della biblioteca romana di Pietro Bembo, compilato nel 1545 da Jean Matal, rivela la sensibilità del
bibliologo per lo statuto dei libri notati, l'immagine del volumetto postillato, interlocutore prezioso del gentiluomo letterato d’età umanistico-rinascimentale e attributo ampiamente diffuso nella ritrattistica cinquecentesca, fa la sua comparsa anche in
altri testi. Avviando uno studio su alcuni aspetti della lettura di Orazio nel Cinque-
1 Per un primo inquadramento di tali questioni, cfr. Libri a stampa postillati. Atti del Colloquio internazionale, Milano, 3-5 maggio 2001. a c. di E. Barbieri e C. Frasso, Milano, CUSL, 2003; Nel mondo delle postille, a c. di
E. Barbieri, Milano, CUSL, 2002; nonché le indicazioni programmatiche già offerte in G. Frasso, Libri a stampa postillati. Riflessioni suggerite da un catalogo, in «evum», LXIX (1995), pp. 617-640. Tra i contributi più recenti sulla vasta tradizione dei marginalia: W.W.E. Suicurs, Managing readers: printed marginalia in English Renaissance books, Ann Arbor, The University of Michigan Press, 2001: H.J. Jackson, Marginalia: readers writing in books, New Haven, Yale University Press, 2001; Talking to the text: marginalia from papyri to print. Proceedings of a conference held at Erice, 26 september-3 october 1995. a c. di V. Fera, G. Ferraù e S. Rizzo, Messina, Centro interdipartimentale di studi umanistici, 2002. Specificamente dedicato alle annotazioni ai classici greci, ma ricco di spunti anche per l'età rinascimentale è / classici greci e i loro commentatori: dai papiri ai marginalia rinascimentali. Atti del convegno, Rovereto, 20 Ottobre 2006, a c. di G. Avezzù e P. Scattolin, Rovereto, Accademia Roveretana degli Agiati, 2006. 2 La coscienza dello statuto bibliologico del postillato da parte di Jean Matal, allestitore del catalogo della bi-
blioteca romana di Pietro Bembo, datato 1545 e testimoniato dal ms. Additional 565 della University Library di Cambridge, è sottolineata da M. Danzi, La biblioteca del cardinal Pietro Bembo, Genève, Droz, 2005, p. 70. Per
la sezione del catalogo dedicata ai Libri quos vidimus P. Bembi manu aut alterius notatos, cfr. ivi, pp. 207 sgg. La complessa questione dello statuto dei postillati era sollevata, come ricorda Danzi, da A. Campana, Angelo Colocci conservatore ed editore di letteratura umanistica, in Atti del Convegno di studi su Angelo Colocci, Jesi, 13-14 settembre 1969, Jesi, Amministrazione comunale, 1972, pp. 257-272: 260.
cento, vale la pena prendere spunto da un episodio che Bernardino Daniello narra in apertura della sua Poetica: [...] avvenne ch'entrati una matina in camera di Messer Trifone Messer lacopo et io, e quivi per commandamento di lui a seder postici, venendomi per aventura nella destra mano di Messer Andrea veduto un libro, il quale egli di nascondere cercava,
temendo non forse da me vedute fossero alcune annotazioni che nel margine di quello (si com'io poi m'accorsi) erano, così verso lui rivolto a dire incominciai: - Cotesto, che libro è egli, Messer Andrea? Deh, se non vi è grave, lasciatemelo, vi
prego, vedere. — Orazio, — rispose egli; e datomelo e apertolo mi corse per aventura dinanzi agli occhi quel luogo della sua Poetica ov'ei dice «Fu prima questa sapienza, quella Che dal privato il pubblico divise».
L'attenzione di Daniello, appena entrato nello studio di Trifon Gabriele, è attirata dal libro che uno dei nipoti dell’umanista veneziano cerca di nascondere. Bernardino nota alcune «annotazioni» marginali e, incuriosito, chiede di vederlo. Si tratta di un Orazio postillato che, finalmente giunto nelle sue mani, si apre casualmente
alle pagine dell'Ars poetica. L'occhio dell'umanista cade sui versi emblematici in cui il poeta latino sancisce la natura filosofica e civilizzatrice della poesia: «Fuit haec sapientia quondam, Publica privatis secernere, sacra profanis».* Che la trattazione abbia origine proprio da qui è meno casuale di quanto l'abile espediente di contestualizzazione del dialogo intenda far credere.? La poetica di Bernardino Daniello, uno dei primi e più importanti esempi di sistemazione della tradizione esegetica oraziana nel Rinascimento maturo, dichiara infatti esplicita-
mente l'autorevolezza dell'insegnamento offerto dal poeta latino con l'epistola ai Pisoni.® L'Ars poetica, con largo vantaggio rispetto alla riscoperta della Poetica di 3 B. DanieLLo, La poetica, Venezia, Giovanni Antonio Nicolini da Sabbio, 1536; si cita da B. Wemerc, Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, Bari, Laterza, 4 voll., I, p. 233. 4 Hor., Ars poetica, 396-397 (d'ora in poi AP: per il testo si fa riferimento all'ed. C.O. Brink, Horace on Poetry. 2, The Ars Poetica, Cambridge, The University Press, 1971). 5 Indicazioni suggestive sulle strategie adottate dagli autori del Rinascimento per citare gli auctores mascherando in modo più o meno efficace le proprie citazioni nel recente volume di R. Rinaupi, Libri in maschera: citazioni e riscritture umanistiche, Roma, Bulzoni, 2007; ma cfr. anche G. BàrBerI SquaroTTI, Citazione letterale e traduzione,
in «Sigma», XXI (1996), 5-6, pp. 5-22.
6 Sulla figura di Bernardino Daniello, lucchese, discepolo di Trifon Gabriele nella Padova degli anni 20 e 730 del Cinquecento, corrispondente di Pietro Aretino, Jacopo Bonfadio e Federico Badoer, traduttore di Virgilio (1545) e, soprattutto, commentatore di Petrarca (1541) e Dante (1568), cfr. M.R. De Gramamca, Bernardino Daniello, in Dizionario biografico degli Italiani (d'ora in avanti DBI), Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, XXXII, 1986, pp. 608-610. Per il ruolo della sua Poetica nella storia della teoria letteraria rinascimentale, cfr. B. WeiNBERG, A History ofLiterary Criticism in the Italian Renaissance, Chicago, Chicago University Press, 1961, pp. 721-724. Un'attenzione particolare merita — anche nella prospettiva di una valutazione della sua impostazione oraziana - l'impegno di commentatore dei classici volgari; su questo aspetto si vedano E. Rarmonpi, Bernardino Daniello e le varianti petrarchesche, in «Studi petrarcheschi», V (1952), pp. 95-130; A. Varone, Trifone Gabriele e Bernardino Daniello dinanzi a Dante: con annotazioni, in «Studi mediolatini e volgari», X (1962), pp. 263-298;
Aristotele, costituisce una delle basi imprescindibili della teoria letteraria umani-
stico-rinascimentale e un punto di riferimento stabile per la codificazione cinquecentesca dei generi. La condizione del poeta, il suo ruolo nella società, la natura ei fini della poesia:
questi i temi più rilevanti che l'epistola oraziana propone all’attenzione degli umanisti. L/Ars poetica gode di una fortuna sostanzialmente ininterrotta tra antichità ed età moderna: ben presto corredata delle glosse dello Pseudo-Acrone e di Porfirione, supporto esegetico che la accompagnerà attraverso i secoli del Medioevo fin oltre la renovatio umanistica, l’epistola diventa in ambito retorico-scolastico un vero e proprio vademecum per la scrittura poetica.” Il tentativo, compiuto dai lettori medievali, di ridurre la sua disorganicità ad una serie precisa e mnemonicamente acquisibile di regole poetiche mira infatti ad applicare il metodo di lettura utilizzato per opere come la Rhetorica ad Herennium o gli scritti retorici di Cicerone e Quintiliano ad un testo che si presenta programmaticamente privo della struttura tipica del trattato. Ma tale natura dell'Ars — ed è questo uno degli aspetti su cui ci soffermeremo nelle pagine che seguono - sarà rivendicata soltanto nel pieno Cinquecento. Le glosse che nel Medioevo crescono sulla scia dei due commenti tardo-antichi sono innumerevoli, e molti sono i trattati che soprattutto nel basso Medioevo leggono l’Ars poetica secondo i parametri retorici di marca ciceroniana. L'epistola viene quindi interpretata come un elenco di precetti cui affiancare la trattazione degli errori relativi. Matteo di Vendóme, Goffredo di Vinsauf e Giovanni di Garlandia — per citare solo i casi più noti — applicano all'epistola oraziana i termini della retorica classica, facendone un testo canonico per la dottrina degli stili e delle rigide corrispondenze tra materia e generi poetici.* Nonostante le differenze che li distinguono, essi convergono nel tentativo sistematico di divisio textus, finalizzata ad individuare nell’Ars poetica prescrizioni precise su inventio, dispositio ed elocutio. Di tale impo-
G. BeLLoni, Sul Daniello commentatore del Canzoniere, in «Lettere italiane», XXXII (1980). pp. 172-202. Su Daniello traduttore di Virgilio: L. De Conti, Bernardino Daniello: “Georgiche”. Breve saggio di analisi, in «Misure critiche», XXXI (2002). pp. 5-34. 7 Una rassegna preziosa dei commenti tardo-antichi e umanistico-rinascimentali ad Orazio in Welnserc, A_History of Literary Criticism cit., pp. 71-249; in particolare, sullo Pseudo-Acrone e Porfirione, cfr. ivi, pp. 72-79,
per il testo dei quali si può fare riferimento ad Acronis et Porphyrionis commentarii in Q. Horatium Flaccum, ed. F. Hauthal, Berlino, Springer, 1864-1866 (rist. anast. Amsterdam, Schippers, 1966). 8 Sull’importanza dell’esegesi medievale nella storia della tradizione dell’Ars poetica si vedano K. Fius- JENSEN, The Ars poetica in Twelfth-Century France. The Horace of Matthew of Vendóme, Geoffrey de Vinsauf and John
of Garland, in «Cahiers de l'Institut du Moyen Age grec et latin», LX (1990), pp. 319-388; Eap., Medieval Commentaries on Horace, in Medieval and Renaissance Scholarship. Proceedings of the second European science
foundation workshop on the classical tradition in the Middle Ages and the Renaissance, London, The Warburg
Institute, 27-28 nov. 1992, a c. di N. Mann e B. Munk Olsen, Leiden-New York-Kóln, Brill, 1997, pp. 51-73;
C. Vita, Per una tipologia del commento mediolatino: l’Ars poetica di Orazio, in Il commento ai testi. Atti del seminario di Ascona, 2-9 ottobre 1989, a c. di 0. Besomi e C. Caruso, Basel-Boston-Berlin, Birkháuser Verlag, 1992, pp. 19-46.
stazione dell’esegesi oraziana, che domina incontrastata fino a tutto il Quattrocento, risentono ancora vistosamente i commenti umanistici.’
Se la princeps delle opere di Orazio si colloca negli anni Settanta del Quattrocento e se il primo corredo esegetico che circola in forma stampata è costituito dai due commenti tardo-antichi, l’affaccendarsi degli umanisti sui testi classici, tanto sul
piano filologico quanto su quello interpretativo, si condensa ben presto in apparati di ampio respiro destinati ad avere un notevole influsso sulla riflessione cinquecentesca. Apre la serie il grande commento di Cristoforo Landino (1482), seguito da Antonio Mancinelli (1492) e Josse Bade (1500). Nonostante la ricchezza degli spunti offerti (si pensi in particolar modo a Landino e Bade che vengono ben presto a costituire, insieme allo Pseudo-Acrone e a Porfirione, il canone interpretativo di riferi-
mento), il tipo di operazione condotta sul testo oraziano ancora fortemente legato ai metodi dell'esegesi medievale.!! I commenti e le glosse della prima metà del XVI secolo confermano quindi una linea schiettamente umanistica che sarà stemperata solo in concomitanza con la riscoperta della Poetica di Aristotele. 9 I primi commenti umanistici ereditano il bagaglio delle interpretazioni e delle sovra-interpretazioni precedenti,
muovendosi in continuità con la tradizione medievale. Cfr. WemvBERG, A History of Literary Criticism cit., pp. 79110; K. Frus-Jensen, Commentaries on Horace's Art of Poetry in the Incunable Period, in «Renaissance Studies»,
IX (1995), pp. 228-239. 10 La princeps oraziana è oggi considerata una stampa veneziana da collocarsi tra 1470 e 1471. Al 1474 risale
invece la prima edizione romana di Orazio con le glosse dello Pseudo-Acrone e di Porfirione (è il primo classico corredato di due commenti sinottici nella storia delle edizioni a stampa). Ripercorre in modo dettagliato la sequenza delle prime edizioni oraziane e dei commenti A. IuritLi, Orazio fra editori, esegeti e bibliofili dal XV al XVIII secolo. in Orazio e la letteratura italiana: contributi alla storia della fortuna del poeta latino. Atti del convegno di Licenza, 19-23 aprile 1993, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1994, pp. 571-620; ma occorre, per completezza, citare ancora J.W. Neunaus, Bibliotheca Horatiana, sive syllabus editionum Q. Horatii Flacci, interpretationum, versionum ab anno 1470 ad annum 1770, Lipsiae, apud Wilhelmum Gottlob Sommerum,
1775. Cfr. anche E. NivrTa, Da Antonio Zarotto a Bentley: commenti, annotazioni, scolii, in Postera crescam laude: Orazio nell’età moderna. Catalogo della mostra (Roma, BNC), Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1993, pp. 17-48. 11 In questo contesto il commento di Landino (C. Lanpini /n Q. Horatii Flacci libros omnes interpretationes,
Firenze, Miscomini, 1482), sinteticamente trattato da Cardini (C. Lanpino, Scritti critici e teorici, a c. di R. Cardini, Roma, Bulzoni, 1974, 2 voll., pp. 195-202, 245-257) e WemwBERG, A History of Literary Criticism cit., pp. 79-81, necessiterebbe di un'attenzione particolare, nonché di un'edizione moderna che ne mettesse in luce la stratificazione di moventi culturali: esso costituisce un punto di riferimento per tutti i commenti successivi, ed
una tappa fondamentale nel percorso intellettuale landiniano (per il quale cfr. almeno R. Carpini, La critica del Landino, Firenze, Sansoni, 1973; S. Foà, Cristoforo Landino, in DBI, LXIIL, 2004, pp. 428-433). Il testo integrale del commento nell'edizione fiorentina del 1482 è oggi accessibile su Gallica (http://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k60314q). Ancora su Landino lettore di Orazio: F. Di BenepeTTo, Fonzio e Landino su Orazio, in Tradizione classica e letteratura umanistica. Per Alessandro Perosa, a c. di R. Cardini et alit, Roma, Bulzoni, 1975, pp. 437453. Un discorso a parte andrebbe ovviamente fatto per le tangenze tra l’attività esegetica oraziana di Landino ed il suo impegno come commentatore di Dante. Non potendo fornire qui una bibliografia minimamente esaustiva sulla questione, si rinvia all'introduzione di Paolo Procaccioli in C. Lanpino,
Comento sopra la Comedia, a c. di P.
Procaccioli, Roma, Salerno ed., 2001, I. pp. 9-105 (regesto bibliografico alle pp. 195-216). Quanto al commento oraziano di Josse Bade (Q. Horatn Fracci de arte poetica opusculum aureum ab Ascentio familiariter expositum, Parigi, 1500), più volte riedito singolarmente ed insieme ad altri, cfr. Wervserc, A History of Literary Criticism
cit., pp. 81-85; per un primo inquadramento dell’umanista, figura centrale nell’editoria europea di primo Cinquecento, si veda P. Renovarp, Bibliographie des impressions et des @uvres de Josse Badius Ascensius, imprimeur et humaniste, 1462-1535, New York, B. Franklin, 1967, 3 voll.
10
L'idea che l'Ars poetica di Orazio derivi i suoi contenuti direttamente dal trattato aristotelico è il nodo intorno al quale si articola infatti, a partire dagli anni Trenta
e Quaranta del secolo, la ricezione parallela dei due testi.'? Allo stesso tempo la riflessione sui nuovi generi della letteratura in volgare mette progressivamente in crisi
la rigida griglia interpretativa che la scuola tardo-medievale ed umanistica aveva
imposto all Ars oraziana. Con Francesco Robortello, Vincenzo Maggi, Giason Deno-
res e gli altri commentatori del pieno Cinquecento l’interpretazione dell'epistola ai Pisoni non può più essere avulsa dallo studio di Aristotele ed è qui che si colloca la
graduale restituzione all’Ars della propria specificità letteraria. Del testo oraziano si fissano alcuni nodi contenutistici e, pur non rinunciando mai del tutto ad una sua lettura in chiave retorica, se ne sottolineano a più riprese il carattere asistematico e
la natura di testo poetico.? D'altro canto, anche le forme del commento all'epistola del venosino tendono a mutare: le annotazioni manoscritte che Bernardino Daniello narra di aver visto in margine al volumetto oraziano nello studio di Trifon Gabriele costituiscono a
questo proposito un dettaglio di notevole rilievo. La riflessione su questioni di poetica si congiunge per Daniello alla meditazione sull’Ars poetica oraziana, ma non più — o almeno non più in modo esclusivo — secondo gli schemi retorico-scolastici. L'immagine del volumetto a stampa postillato (perché indubitabilmente di una stampa si tratta, e, date le dimensioni implicitamente evocate dal racconto,
non sarebbe troppo rischioso ipotizzare che si tratti di un'aldina tascabile) evoca modi nuovi di studio e riflessione sui testi classici. Le postille, d'altronde, per la loro natura episodica e frammentaria, non ci aiutano soltanto nello studio dei testi
12 Sui rapporti che intercorrono effettivamente tra Ars poetica e Poetica aristotelica, filtrati dalla tradizione retorica ellenistica nota ad Orazio e rappresentata essenzialmente da Neottolemo di Paro, si vedano la ricca trattazione di C.0. Brinx, Horace on Poetry. 1, Prolegomena to the literary epistles, Cambridge, The University Press, 1963, e le ampie note di commento in Brin, Horace on Poetry. 2, The Ars Poetica cit. Cfr. inoltre, più in generale. P. Grimat, L'eclectisme philosophique dans l'Art Poétique d'Horace, in Iduemila anni dell’Ars Poetica, Genova, Dipartimento di Archeologia e Filologia classica, 1988, pp. 9-26; D. Lanza, Da Aristotele a Orazio: l’unità discreta della poesia, ivi, pp. 27-38.
13 La linea oraziana nella teoria letteraria del Cinquecento è trattata, oltre che in WeiNBERG, A History ofLiterary Criticism cit., pp. 71-249, anche in B. HarHaway, The Age of Criticism. The late Renaissance in Italy, Ithaca-New York, Cornell University Press, 1962 (fondamentale per gli sviluppi tardo-cinquecenteschi). Datati, ma ancora utili per il panorama che delineano: A. Vota, L'Arte poetica di Orazio nella critica italiana e straniera, Napoli, Pierro e figlio, 2 voll., 1901-1906: G. Curcio, Q. Orazio Flacco studiato in Italia dal secolo XIII al XIV, Catania, Battiato.
1913. Si vedano poi: W. Lupwic,
Horazreception in der Renaissance. Oder die Renaissance des Horaz. in Horace,
l’euvre et les imitations, un siècle d'interprétation. Neuf exposés suivis de discussions, Vandoeuvres, Genève, 24-
29 aoüt 1992, Genève, Fondation Hardt, 1993, pp. 305-379; A.M. GrimaLpi, L'arte poetica nei commenti e nelle
traduzioni del Cinquecento, in Orazio e la letteratura italiana cit., pp. 53-88; L. BonsErro, La poetica d'Horatio tradotta. Contributo allo studio della ricezione oraziana tra Rinascimento e Barocco, ivi, pp. 171-220: A. Moss,
Horace in the Sixteenth Century: Commentators into Critics, in The Cambridge History of Literary Criticism, MI, The Renaissance, a c. di G.P. Norton, Cambridge, Cambridge University Press, 1999, pp. 66-76. 14 Sulla specificità del ‘tascabile’ agli albori dell'età moderna è d'obbligo il rimando ad A. Petrucci, Alle origini del libro moderno. Libri da banco, libri da bisaccia, libretti da mano, in In., Libri, scrittura e pubblico nel Rinascimento, Roma-Bari, Laterza, 1979, pp. 137-150.
11
annotati, ma anche — e soprattutto — nella comprensione delle strategie adottate dai lettori che ci hanno preceduto.
È del tutto verisimile che proprio come insieme di glosse marginali ad un'edizione oraziana nasca anche l'inedito commento del senese Alessandro Piccolomini, oggetto di questo studio, che sembra fin dal titolo — Annotationes quaedam super Artem Poeticam Horatii — rivelare tale natura. Nel panorama dei testi teorici cinquecenteschi che si muovono tra Orazio ed Aristotele, le inesplorate glosse piccolominiane all’Ars
poetica, testimoniate da un manoscritto autografo della Biblioteca Comunale degli Intronati di Siena, assumono rilevante interesse.'^ L'inedito commento di Piccolomi-
ni si colloca infatti nella fase più avanzata di quel complesso processo intellettuale che Marvin T. Herrick ha definito come ‘fusione’ delle linee critico-teoriche aristotelica ed oraziana:!° in un quadro come quello delineato dallo studioso americano, la
posizione di Piccolomini, noto negli studi rinascimentali come raffinato commentatore aristotelico, ma non ancora sufficientemente studiato come interprete di Orazio, viene ad arricchirsi di sfumature ulteriori." Alessandro Piccolomini, anima dell’Accademia senese degli Intronati negli anni Trenta e Quaranta del Cinquecento, e poi ancora massima autorità nel conte-
sto cittadino dopo le drammatiche vicende della guerra che negli anni Cinquanta segna la caduta della Repubblica di Siena sotto il dominio mediceo, è figura estre-
15 Stena, Biblioteca Comunale degli Intronati, ms. H.VII.25. Per una descrizione del codice si rimanda alla Nota al testo che precede l'edizione delle Annotationes fornita in appendice a questo saggio. 16 Cfr. M.T. Herrick, The Fusion of Horatian and Aristotelian Literary Criticism. 1531-1555, Urbana, Illinois University Press, 1946. I limiti cronologici dell'indagine di Herrick, che pure non escludono utili cenni a testi che
ne stanno al di fuori, sono dati dal primo tentativo significativo di lettura parallela di Orazio con Aristotele (il commento all'Ars di Parrasio, 1531), e dall'edizione oraziana di Basilea (1555) che raccoglie gli strumenti esegetici ormai canonici (Pseudo-Acrone, Porfirione, Landino, Grifoli, De Nores, Luigini). La serie dei testi studiati
da Herrick comprende ovviamente anche i fondamentali commenti di Robortello (1548) e Maggi (1550), nonché quelli di Willichius (1539) e Pedemonte (1546). Sulla lettura in parallelo di Aristotele ed Orazio, cfr. anche A.H. Giusert-H.L. SNuccs, On the relations of Horace to Aristotle in literary criticism, in «The Journal of English and Germanic Philology», LVI (1947), 3, pp. 233-247; ma soprattutto il cap. The Confusion with Aristotle in WenBERG, A History of Literary Criticism cit., pp. 111-155. 17 Nella bibliografia ormai ampia su Alessandro Piccolomini, ci si limita ad alcuni rimandi essenziali: si veda in primo luogo F. Cerreta, Alessandro Piccolomini filosofo e letterato senese del Cinquecento, Siena, Accademia degli Intronati, 1900, saggio datato, ma ancora importante per la ricostruzione della biografia piccolominiana e per il tentativo di fornire un ritratto complessivo dell’umanista (su Piccolomini commentatore di Aristotele si vedano le pp. 119-167); ricognizioni sulla sua eclettica produzione in M. Rossi, Le opere letterarie di Alessandro Piccolomini, in «Bullettino senese di storia patria», XVII (1910), pp. 289-328, e XVIII (1911), pp. 3-53; E. DE VeccHi, Alessandro Piccolomini, in «Bullettino senese di storia patria», XLI (1934), pp. 421-454; utili indicazioni di lettura in R. Scrivano, Alessandro Piccolomini, in «Rassegna della letteratura italiana», LXVIII (1964), pp. 6384 (poi in Ip., Cultura e letteratura del Cinquecento, Roma, Edizioni dell Ateneo, 1966, pp. 11-50); la più recente monografia di A. BaLpi, Tradizione e parodia in Alessandro Piccolomini, Lucca, Pacini Fazzi, 2001, cui faremo
riferimento più avanti, indaga soprattutto la prima fase della produzione letteraria piccolominiana.
mamente variegata e non definibile in modo univoco.!8 Se nella giovinezza egli affianca alla formazione nello Studio senese una ricca e varia produzione lettera-
ria, il soggiorno padovano degli anni 1538-1542 segna una prima decisiva svolta nel suo percorso formativo. Negli stessi anni in cui compone le commedie L'amor
costante," L'Alessandro? ed il celebre dialogo La Raffaella" Piccolomini partecipa ad un volgarizzamento dei primi sei libri dell’Eneide, traduce l'Economico di Senofonte ed il XIII libro delle Metamorfosi ovidiane,? ma pubblica anche i primi frutti dei suoi studi scientifici e filosofici: il commento ad Alessandro di Afrodisia
18 Fonte storica imprescindibile per la ricostruzione delle vicende relative alla celebre accademia senese è S. Barcacii, Oratione in lode dell’Accademia degl’Intronati dello Schietto Intronato, in Delle commedie degl’Accademici Intronati di Siena, Siena, Matteo Florimi, 1611, pp. 452-553. Sorta con tutta probabilità agli inizi del terzo decennio del Cinquecento, l'accademia vive un momento particolarmente fortunato grazie alla presenza trai sodali del duca d'Amalfi a partire dal 1532. Chiusa durante la guerra, l'istituzione riapre i battenti sotto l'egida
di Alessandro Piccolomini nel 1558, per essere sciolta nel 1568 da decreto granducale e nuovamente riaperta all'inizio del secolo successivo. Cfr. E. CLÉpeR, Notice sur l'Académie Italienne des Intronati, Bruxelles, Librairie
Mucquart, 1864: L. Pergaccui CosravrINt, L'Accademia degli Intronati di Siena ed una sua commedia, Siena, La Diana, 1928: M. MayLenper. Storia delle Accademie d'Italia, Bologna, Cappelli, 1929, III, pp. 350-362; F. Iaco-
metti, L'Accademia degli Intronati, in «Bullettino senese di storia patria», XII (1941), pp. 189-198; L. Kosura, Notices et documents sur Antonio Vignali (1500-1559), in «Bullettino senese di storia patria», LXXXIX (1982), pp. 119-154: 129-136): Bapt, Tradizione e parodia cit., pp. 7-14. Tra i molti studi dedicati più in generale alla vita accademica senese, cfr. almeno A. MaurieLLo, Cultura e società nella Siena del Cinquecento, in «Filologia e letteratura», XVII (1971). pp. 26-45; R. Bruscacti, Les Intronati ‘a veglia’: l'Académie en jeu, in Les jeux à la Renaissance, a c. di P. Ariés e J.C. Margolin, Paris, Vrin, 1982, pp. 201-212; G. Caroni, Le palestre dei nobili intelletti. Cultura accademica e pratiche giocose nella Siena medicea, in I libri dei Leoni. La nobiltà di Siena in
età medicea (1557-1737), a c. di M. Ascheri, Siena, Banca Monte dei Paschi di Siena, 1996, pp. 131-169. Per alcune indicazioni sulla specificità degli interessi teatrali degli accademici senesi, è opportuno ricordare almeno L. Riccò, Introduzione, in S. Barcacti, / trattenimenti, a c. di L. Riccò, Roma, Salerno ed., 1989, pp. xm-Lxxvm; Eap., Giuoco e teatro nelle veglie di Siena, Roma, Bulzoni, 1993; Eap., La miniera accademica: pedagogia, editoria, palcoscenico nella Siena del Cinquecento, Roma, Bulzoni, 2002.
19 L’Amor costante. Comedia del S. Stordito Intronato composta del XXXVI. Nella quale comedia intervengono varii abbattimenti in tempi e misure di morescha, cosa non manco nuova che bella prima dizione datata risale al 1540 (Venezia, Al segno del Pozzo,
per la venuta dell'imperatore in Siena, l'anno di diverse sorti d’armi et intrecciati, ogni cosa [edizione priva di data e luogo di stampa]; la 1540). Il testo è oggi accessibile in raccolte di
commedie cinquecentesche: Commedie giocose del ‘500, a c. di A.G. Bragaglia, Roma, Colombo, 1947; Commedie del Cinquecento, a c. di A Borlenghi, Milano, Rizzoli, 1959, I, pp. 267-423; Commedie del Cinquecento, a c. di N. Borsellino, Milano, Feltrinelli, 1962, I, pp. 291-426. Esiste un'edizione anastatica curata da N. Newbigin
(Bologna, Forni, 1990). 20 Comedia intitulata: Alessandro, del sig. Alessandro Piccolomini conominato il Stordito, Roma, 1545. Cfr. A. PiccoLomini, L'Alessandro, edizione critica con introduzione e note di F. Cerreta, Siena, Accademia degli Intronati, 1966 (ma si vedano anche l'edizione anastatica Bologna, Forni, 1974, e, più recentemente, l'ed. A.
Piccorowit, Alessandro, translated, with an introduction and notes by R. Belladonna, Ottawa, Dovehouse Editions Canada, 1984). 21 Dialogo della bella creanza de le donne, Venezia, Curzio Navò, 1539. L'edizione di riferimento è oggi quella a
cura di G. Alfano, Roma, Salerno ed., 2001. 22 Il sesto di Vergilio tradotto dal S. Stordito Intronato, in lingua toscana, in versi sciolti da rima. Le due orationi
le quali sono nel terzo decimo libro del[le] Metamorfosi d’Ovidio |...] tradotte parimente dal medesimo S. Stordito [...]. Venezia, Al segno del Pozzo, 1540 (per il sesto libro dell’Eneide cfr. l'edizione collettiva / sei primi libri de l’Eneide di Vergilio tradotti a più illustre et honorate donne..., Venezia, Comin da Trino, 1540 — oggi disponibile
nell’edizione anastatica a c. di L. Borsetto, Bologna, Forni, 2002); La Economica di Xenofonte, tradotta di lingua greca in lingua toscana, Venezia, AI segno del pozzo, 1540.
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sui Libri Metereologicorum di Aristotele, i trattati De iride, De la sfera del mondo e De le stelle fisse di un lato; l’Institutione di tutta la vita de l’huomo nato nobile dall'altro.? Proprio a Padova Piccolomini avvia uno studio analitico delle opere del filosofo
greco, promosso anche dalle attività erudite della locale Accademia degli Infiammati padon fondata nel 1540, ebbe il senese come suo Princeps nel 1541.?* Il i vano influisce in modo determinante sulla carriera di Piccolomini, e costituisce la base
cui vanno ricondotte le opere erudite della maturità. Il programma di divulgazione del patrimonio scientifico-filosofico antico approntato dall’umanista viene realizzato nel corso degli anni successivi, dopo un breve periodo bolognese (1542- 1543), trai
lunghi anni romani (1546-1558) e l’ultimo periodo senese (1559-1579), parallelamente agli sviluppi della sua carriera ecclesiastica. Con gli anni Quaranta si chiude di fatto la fase giovanile della produzione letteraria: l’Orazione in lode delle donne e l'edizione romana dei Cento sonetti sono infatti gli ultimi testi propriamente letterari di Piccolomini, ormai votato all'impegno erudito. La Paraphrasis in Mechanicas Quaestiones Aristotelis, l'ambizioso Instrumento de la filosofia, manuale di logica e introduzione metodologica allo studio della filosofia, la Filosofia naturale. le Teoriche overo speculationi de ipianeti e il trattato Della grandezza della terra et dell’acqua confermano la varietà degli interessi del senese.° ma è soprattutto la pubblicazione 23 Alexandri Aphrodisiensis Maximi Peripatetici in Quatuor Libros Metereologicorum Aristotelis,
Commentatio
Lucidissima, Alexandro Piccolomineo Intreprete. Huc insuper accessit De Iride brevis tractatus, eodem Alexandro
Piccolomineo authore, Venezia, Girolamo Scoto, 1540; De la sfera del mondo libri quattro in lingua toscana e De le stelle fisse libro uno con le sue figure e le sue tavole, Venezia, Giovanni Antonio e Domenico Volpini, 1540: Institutione di tutta la vita de l’huomo nato nobile, e in città libera, libri X, Venezia, Girolamo Scoto, 1542.
24 La bibliografia sul contesto culturale padovano cinquecentesco è ampia: riferimenti bibliografici su aspetti specifici saranno forniti nelle pagine che seguono. Quanto allo Studio cittadino, punto di riferimento per gli ari-
stotelici di tutta Europa, cfr. almeno B. NaRDI, Saggi sull'aristotelismo padovano dal secolo XIV al XVI, Firenze, Sansoni, 1958; Rapporti tra le università di Padova e Bologna: ricerche di filosofia, medicina e scienza, a cura di L. Rossetti, Trieste, Edizioni LINT, 1988. Sull Accademia degli Infiammati, oltre al datato profilo offerto da MAYLENDER, Storia delle Accademie d'Italia cit., , III, pp. 266-270, si vedano intanto gli importanti contributi di F. Brun, Sperone Speroni e l'Accademia degli Infiammati, in «Filologia e letteratura», XIII (1967), pp. 24-71; R.S. SAMuELs, Benedetto Varchi, the Accademia degli Infiammati” and the Origins of Italian Academic Movement, in «Renaissance Quarterly», XXIX (1976), pp. 599. 634; V. ViaNELLO, 77 Deere l'accademia, il libro. Contri-
buti sulla cultura veneta del Cinquecento, Padova, Antenore, 1988; A. DanieLe, Sperone Speroni, Bernardino Tomitano e l’Accademia degli Infiammati di Padova, in Sperone Speroni, Padova, Editoriale Programma, 1989, pp. 1-54; M.T. GiraRpi, // sapere e le lettere in Bernardino Tomitano, Milano, Vita e Pensiero, 1995; Barr,
Tradizione e parodia cit., pp. 205-242. Per altre indicazioni bibliografiche, riguardanti aspetti specifici della storia dell'accademia padovana, cfr. oltre (specialmente cap. III, $ 2). 25 Lorazione è contenuta in H.C. Agrippa von Nerresnem, Della nobiltà et eccellenza delle donne, dalla lingua francese nella italiana tradotto. Con una oratione di m. Alessandro Piccolomini in lode delle medesime, Venezia, Gabriele Giolito, 1545. Peri sonetti l'unica edizione è: Cento sonetti di M. Alisandro Piccolomini, Roma, Vincenzo Valgrisi, 1549 (un'edizione commentata dell’interessante sillogeèdi prossima pubblicazione a cura di Franco Tomasi).
26 Alexandri Piccolominei in Mechanicas Quaestiones Aristotelis..., Roma, Antonio Blado, 1547; L'Instrumento de la filosofia, Roma, Vincenzo Valgrisi, 1551; La prima parte della filosofia naturale, Roma, Vincenzo Valgrisi, 1551; La seconda parte de la filosofia naturale, Venezia, Vincenzo Valgrisi, 1554; La prima parte de le jeune overo speculationi dei pianeti, Venezia, Giovanni Guarisco, 1558; Della grandezza della terra et dell’acqua, Venezia, Giordano Ziletti, 1558.
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delle traduzioni e dei commenti alla Retorica e alla Poetica di Aristotele, tra 1565 e
1575, ad occupare gli ultimi anni dell’umanista.?”
I contributi aristotelici di Piccolomini costituiscono, come notato puntualmente
da Bernard Weinberg, uno dei capitoli più rilevanti della riflessione poetico-retorica del tardo Cinquecento.?? Raccogliendo considerazioni ed analisi maturate nel corso della carriera piccolominiana, essi valutano l’intero arco del dibattito coevo sui testi aristotelici e discutono in modo più o meno esplicito le acquisizioni di teorici come Maggi, Robortello e Lodovico Castelvetro. In tale ottica la Parafrase della Retorica, e soprattutto le Annotazioni alla Poetica, permettono a Piccolomini di fare un bilancio
del percorso critico cinquecentesco sui testi di Aristotele, senza tuttavia precludergli la possibilità di gettare lo sguardo altrove. Nella formazione filosofica dell'umanista il peso di Aristotele e della tradizione aristotelica nelle sue varie fasi (antica, tardoantica e medio-umanistica) è predominante, ma la presenza di Platone non è certo secondaria. Il tentativo di far convergere la lezione aristotelica e quella platonica è anzi uno dei nodi su cui si incentra il percorso piccolominiano, come mostrano
vari testi su cui torneremo e, fra tutti, l'/nstitutione del 1542.? Un posto di rilievo all'interno della sua formazione spetta peró anche ad Orazio: il poeta latino, punto di riferimento costante nella vita di Piccolomini, è infatti per lui un importantissimo
modello poetico, filosofico e morale. I riferimenti ad Orazio e all’Ars nelle Annotationi nel libro della Poetica d’Aristotele sono numerosi e lo studio dell'inedito commento oraziano può restituire loro un
senso piu profondo. Le glosse a Orazio testimoniano infatti una dimestichezza notevole e diuturna con l'opera del poeta latino: pur concentrando qui la nostra attenzione sulle chiose all’Ars poetica, è infatti opportuno sottolineare che esse costituiscono solo l'ultima sezione di un piu ampio commento all'opera omnia oraziana, le Annotationes in Horatium, che Piccolomini non ha avuto il tempo di dare alle stampe. Il
27 Copiosissima parafrase di m. Alessandro Piccolomini nel primo libro della Retorica d’Aristotele, Venezia,
Giovanni Guarisco, 1565; Piena et larga parafrase di m. Alessandro Piccolomini nel secondo libro della Retorica d’Aristotele a Theodette, Venezia, Giovan Francesco Camozio, 1569; Piena et larga parafrase di M. Alessandro Piccolomini nel terzo libro della Retorica d’Aristotele a Theodette, Venezia, Giovanni Guarisco, 1572; / tre libri
della Retorica d'Aristotele a Theodette tradotti in lingua volgare da Alessandro Piccolomini, Venezia, Francesco de’ Franceschi, 1571; // libro della Poetica. Tradotto di greca lingua in volgare, da Alessandro Piccolomini, Siena, Luca Bonetti, 1572; Annotationi di Alessandro Piccolomini nel libro della Poetica; con la traduttione del medesimo libro, in lingua volgare, Venezia, Giovanni Guarisco, 1575. Ai tre volumi della Parafrase si farà d'ora in poi riferimento, rispettivamente, come Parafrase I, Parafrase II e Parafrase III; il commento alla Poetica sarà citato come Annotationi.
28 Wenger, A History of Literary Criticism cit., pp. 517-519, 543-563. 29 Il titolo completo del trattato è in tal senso esplicito: De la institutione di tutta la vita de l’huomo nato nobile
e in città libera libri X in lingua toscana. Dove e peripateticamente e platonicamente, intorno a le cose de l'ethica, iconomica e parte de la politica, è raccolta la somma di quanto principalmente può concorrere a la perfetta e felice vita di quello. Su alcuni giudizi espliciti di Piccolomini inerenti il confronto tra Platone ed Aristotele torneremo piü avanti: come vedremo, la differenza maggiore tra i due filosofi non è di contenuto, ma di metodo.
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ricco commento passa in rassegna odi, epodi, satire, epistole, carme secolare e arte
poetica, rivelando una familiarità del senese con il poeta latino che necessita di essere situata più precisamente all'interno del suo percorso intellettuale. Le annotazioni che, nel commento aristotelico, chiamano in causa Orazio non
stupiscono ove si pensi al bagaglio culturale di un letterato del Rinascimento, ma fanno sistema se messe in relazione con le poderose Annotationes. Esse non sono tuttavia le uniche tracce esterne alle glosse oraziane che possano illuminarci sul ruolo giocato da Orazio nel profilo culturale di Piccolomini. Procedendo a ritroso, infatti, non sor-
prenderà di incontrare il poeta latino nell’epistola prefatoria dei Cento sonetti indirizzata a Vittoria Colonna iuniore, nipote dell'omonima poetessa. L'autore afferma
che «buona parte de’ miei sonetti vedrete fondata in diverse materie morali e piene di gravità, ad imitazion d'Orazio, il quale ammiro grandemente e tengo in pregio».?! L'epistola è datata da Genova 1548 ed il canzoniere piccolominiano è pubblicato a Roma nel 1549: il sapore retrospettivo dell’indicazione offerta dall'autore fa pensare che lo studio di Orazio risalga agli anni della giovinezza, con una ricaduta a più livelli sulla sua formazione. Il poeta latino è prima di tutto maestro di poetica — molti sono infatti gli spunti teorici che la prefatoria a Vittoria Colonna trae dall'epistola ai Pisoni —, ma è al tempo stesso un modello poetico e filosofico da imitare, rispettivamente,
nella poesia e nella vita. Una conferma della sincerità di tale dichiarazione viene proprio dai Cento sonetti che, in molti casi, sono vere e proprie riscritture di testi oraziani. Del poeta latino Piccolomini riprende temi, motivi e immagini, ma non esita ad imitarne interi componimenti adattandoli alla misura del sonetto.” Orazio è individuato dal letterato come interlocutore privilegiato nell'ambito di quel dialogo quotidiano con gli auctores, di quella ‘conversazione meditata’ che tan-
30 Per informazioni più dettagliate sulla struttura dell’intero commento oraziano (che intendiamo editare integralmente in altra sede), cfr. la Nota al testo che precede l'edizione delle Annotationes quaedam super Artem Poeticam Horatii fornita in appendice, pp. 137-138. AI commento fanno riferimento B. Barpr, Vite inedite di matematici italiani, in «Bullettino di Bibliografia e di storia delle scienze matematiche e fisiche», XIX (luglionovembre 1886), p. 163; Rossi, Le opere letterarie di Alessandro Piccolomini cit., p. 28: CeRRETA, Alessandro Piccolomini cit., p. 95 n.6, 130 n.8; G. Bassi, Osservazioni su Alessandro Piccolomini come “pensatore politico”,
in «Bullettino senese di storia patria», LXVIII (1961), pp. 129-170: 170. Minime osservazioni sulla sezione del commento dedicata ai Carmina in R. BeLLADONNA, Astrologia, scienza e dialettica nelle Annotationes in Carmina Horatii di Alessandro Piccolomini, in «Critica letteraria», IIl (1975), 3, pp. 537-549.
31 Prccorournr, Cento sonetti, c. [A vii].
32 Per un esame più approfondito dell’epistola e della raccolta poetica piccolominiana, proprio in relazione al rapporto col modello oraziano, cfr. E. RErixt, Le «gioconde favole» e il «numeroso concento». Alessandro Piccolomini interprete e imitatore di Orazio nei Cento sonetti (1549), in «Italique», X (2007), pp. 15-57. Sull'epistola prefatoria torneremo nel cap. III, $ 3, pp. 62-68. Scarsa la bibliografia sulla silloge sonettistica di Piccolomini: la matrice oraziana della produzione lirica del senese era già individuata in G.B. PeLLIZZARO, I sonetti di Alessandro Piccolomini, in «Rassegna critica della letteratura italiana», VIII (1903), pp. 77-
111; Rossi, Le opere letterarie di Alessandro Piccolomini cit., pp. 16-28; Cerreta, Alessandro Piccolomini cit., pp. 61-66. Più recente, ed interessato ad altri aspetti della poesia piccolominiana, K. Ley, Alessandro
Piccolominis Cento sonetti zwischen Zensur und Selbstzensur. Zur Aktualitüt von Petrarcas “poesia civile" in der Krise der Renaissance, in «Italienisch», XXVI (2004), pp. 2-18.
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ta importanza assume nella caratterizzazione dell’intellettuale gentiluomo del pieno Rinascimento. Un Orazio tascabile simile a quello evocato da Bernardino Daniello è infatti ricordato da Piccolomini come compagno inseparabile nei piacevoli momenti del ritiro in villa e dell'otium letterario. All'irrequieto abate Bernardino Brisegno, nunzio apostolico che fu anche tra i destinatari poetici di Luigi Tansillo, Piccolomini suggerisce il modello offerto da Orazio, qui maestro di filosofia morale: lo tra chiari ruscei di poggio in piano, Ogni grave pensier posto in oblio, Lieto men vo”, non senz Orazio in mano, Che insegna altrui che cos'è 71 buono e 71 rio.3*
Una situazione analoga attesta l’accorato invito alla villa rivolto al ‘Deserto’ Intronato, al secolo l’amico Antonio Barozzi: Orazio è il libro che «mai cade di mano»,
il compagno inseparabile che guida l'intellettuale nel suo percorso di ogni giorno.?? Tra la frequentazione assidua del volumetto tascabile e le glosse marginali il passo è breve, e le Annotationes in Horatium potrebbero esserne l'esito.
La produzione di Piccolomini permette dunque di individuare già a cavallo degli anni Quaranta e Cinquanta una spiccata predilezione per Orazio. Stabilire con precisione una data per le Annotationes non è invece possibile: esse sono giunte — stando 33 Il tema del dialogo con gli auctores, caro al Machiavelli della lettera a Francesco Vettori, è affascinante e ricco
di implicazioni. Si rinvia, anche per la ricchezza delle indicazioni bibliografiche, a L. Borzowi, Lettura come dialogo con gli autori: un mito letterario fra Petrarca, Erasmo e Tasso, in «Rivista di letterature moderne e comparate»,
LVII (2004). pp. 287-301.
34 Piccoomni, Cento sonetti, XI, 5-8. È curioso come Piccolomini sfrutti proprio l'esempio oraziano per illustrare un caso di metonimia in Parafrase III, pp. 47-48: «Sarebbe metonimia ancora se io, volendo significar l'opera di qualche autore, o scrittore, la significasse col nome di quello: come saria dicendo che rari giorni sono che io
non pigli nelle mani Horatio, prendendo io nondimeno, non la persona del poeta stesso, ma l'opera e i versi suoi». Quanto alla figura del Brisegno, oltre a ricordare il sonetto destinatogli da Tansillo (cfr. L. TansiLLo, Canzoniere,
ed. Pèrcopo, sonetto CCXLI, Udendo il grand'ardir ch'ebber quell'acque), ci si può limitare qui solamente alla segnalazione di sue lettere a Pietro Vettori nel ms. MüNcnEN, Bayerische Staatsbibliothek, Clm. 736 (cfr. P.O. KiusTELLER, Iter italicum, London-Leiden, The Warburg Institute-Brill, 1963-1977, III, p. 615b). 35 PiccoLomini, Cento sonetti, XXVIII, 12. Barozzi è figura di un certo rilievo, ma ancora tutta da indagare,
nella prima felice stagione dell’Accademia degli Intronati. Poeta e commentatore di Petrarca, di lui ci restano due lezioni accademiche sui sonetti petrarcheschi Quando fra l'altre donne ad ora ad ora (Rvf XIII) e Amor che nel pensier mio vive et regna (Ref CXL), testimoniate dal ms. Stena, Biblioteca Comunale degli Intronati, H.IX.37 (cfr. Barpt, Tradizione e parodia cit., p. 124, n.6); quanto alla produzione poetica, anch'essa fortemente improntata dal modello oraziano e quasi integralmente inedita, si ricordino almeno i mss. FEnRAnaA, Biblioteca Ariostea, N.A.
5; Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Palat. 256 e Magl. VI.1389; Roma, Biblioteca Casanatense, 897; Siena, Biblioteca Comunale degli Intronati, L.X1.49: su di essi ha riportato l'attenzione M. Danzi, Storia e fortuna senesi
di un sonetto di Galeazzo di Tarsia, in «Italique», I (1998), pp. 61-78 (descrizione sommaria del contenuto alle nn. 7, 11). A stampa vanno ricordate le stanze edite in A. FerentiLI, Primo volume della Scielta di Stanze di diversi autori Toscani..., Venezia, Filippo e Bernardo Giunti, 1579. Il ‘Deserto’ compare come interlocutore di
Marcantonio Cinuzzi (lo Scacciato) nel primo dei Dieci Paradosse degli Accademici intronati da Siena, Milano,
Giovanni Antonio degli Antonii, 1564, ed è ricordato tra i sodales intronati, poeti e lettori di poesia, in G. BARGAGLI,
Dialogo de’ giuochi che nelle vegghie sanesi si usano di fare, a c. di P. D'Incalci Ermini, Siena, Accademia Senese degli Intronati, 1982, p. 51.
ij
almeno ai supporti documentari di cui disponiamo — in un unico testimone, il ms. H.VII.25 della Comunale di Siena, autografo, ma non datato. Le glosse ai Carmina
fanno riferimento a due trattati scientifici piccolominiani editi a Venezia nel 1558, ed è ragionevole assumere tale data come terminus post quem per la stesura delle Annotationes, o almeno di parte di esse.® L'esame del codice permette di collocarne la realizzazione materiale tra il settimo e l'ottavo decennio del Cinquecento, ma l'unico termine ante quem sicuro è il 1579, anno della morte dell'umanista.?' Sci-
pione Bargagli ricorda le Annotationes nell’Oratione nella morte del Reverendissimo Monsignor Alessandro Piccolomini: Non accenno delle Annotationi da lui sopra il poeta Oratio distese: delle quali il Sodo Intronato intendentissimo, sì come affettionatissimo di tale autore, giurò ultimamente ad amici suoi portargli maggiore invidia che del titolo, e della dignità di lui non faceva.
A detta di Bargagli, il ‘Sodo’ (al secolo Marcantonio Piccolomini) avrebbe invidiato il collega e amico più per le Annotationi oraziane che per il «titolo» e la «degnità di lui»? l'affermazione sembra riferirsi alla nomina di Alessandro a coadiutore dell’Arcivescovo di Siena del 28 luglio 1574. In uno dei rari contributi che
prendono in esame le Annotationes in Horatium, Maria Rossi inferiva dalle parole di Bargagli che l'inedito commento oraziano fosse da ascrivere allo stesso 1574.*! L'argomentazione non è particolarmente stringente, pur concordando con il fatto che la compilazione del codice senese risale agli ultimi anni di vita dell'umanista. La notizia offerta da Bargagli, unica fonte coeva sulle Annotationes, indica che il commento
36 Rileva il dato BeLLADonNA, Astrologia, scienza e dialettica cit., p. 538.
37 Per una descrizione del manoscritto, con l'indicazione degli elementi utili ad una sua datazione almeno approssimativa, si rinvia alla scheda inclusa nella Nota al testo, pp. 137-138. 38 S. Bancacur, Oratione nella morte del Reverendissimo Mons. Alessandro Piccolomini Arcivescovo di Patrasso ed
Eletto di Siena, Bologna, Giovanni Rossi, 1579, cc. [A 4]v-B [1]r. 39 Marcantonio Piccolomini, altra figura centrale nella storia dell’Accademia senese, meriterebbe, come Barozzi,
un supplemento d'indagine. Per alcuni primi ragguagli, cfr. R. BeLLaponna, Gli Intronati, le donne, Aonio Paleario
e Agostino Museo in un dialogo di Marcantonio Piccolomini, il “Sodo” intronato (1535), in «Bullettino senese di storia patria», IC (1992), pp. 48-90. Del ‘Sodo’ ci resta, oltre al dialogo edito da Belladonna secondo il ms. Siena, Biblioteca Biblioteca
Comunale degli Intronati, P.V.15 (ma cfr. altri due testimoni: Pienza, Palazzo Piccolomini, 95, e StenA, Comunale degli Intronati, H.X.12, ricordati, sulla base di segnalazioni precedenti, da Barr, Tradizione
e parodia cit., p. 125, n. 9), un'esposizione del sonetto petrarchesco Son animati al mondo de si altera (Rvf XIX) nel medesimo ms. senese P.V.15. Nelle sue vesti di accademico, Marcantonio compare come interlocutore nel terzo
dei Dieci Paradosse cit. Si coglie l'occasione per segnalare la presenza di Marcantonio Piccolomini nel ms. Miano, Biblioteca Ambrosiana, 5.94 sup. (che contiene anche materiali speroniani), nonché la comparsa del senese come interlocutore in S.M. Uconi, Ragionamento nel quale si ragiona di tutti glistati dell’humana vita, Venezia, Pietro da Fine, 1562 (presente anche nel ms. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, It. VIII.24).
40 Su questo momento della biografia piccolominiana, cfr. CerreTA, Alessandro Piccolomini cit., pp. 96-99. 41 Rossi, Le opere letterarie di Alessandro Piccolomini cit., XVII (1911), p. 28.
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di Piccolomini ad Orazio era con ogni verosimiglianza cosa nota nell'entourage intronatico, ma può essere difficilmente usata per datarne con precisione la stesura. Le
glosse oraziane, che presentano alcuni casi di disaccordo con posizioni espresse dallo stesso Piccolomini nel commento alla Poetica aristotelica edito nel 1575. saranno
pertanto da considerare come un corpus di postille cresciuto nel tempo, raccolto più tardi in un unico manoscritto. La riflessione pluriennale di Piccolomini su Orazio, confluita nelle Annotationes, va considerata come parallela e complementare
al lungo lavoro erudito condotto sui testi aristotelici. Essa rappresenta un elemento decisivo non solo per il Piccolomini umanista, ma anche per il poeta, ed proprio nel segno del dialogo costante e fruttuoso tra i diversi ambiti della sua esperienza di intellettuale che lo studio delle Annotationes può fornire elementi utili ad una più completa messa a fuoco del profilo piccolominiano. In virtù del carattere non sistematico del commento all’Ars, si è scelto di rilevarne
qui la complementarità rispetto alla poderosa esegesi che Piccolomini opera sui testi aristotelici della Poetica e della Retorica. Così facendo, è possibile individuare alcuni nodi importanti del lavoro critico-interpretativo del senese, per la definizione dei quali il supporto oraziano si confronta e si integra costantemente con quello aristotelico.
Ad una contestualizzazione dell'esercizio esegetico oraziano che muove dalla riflessione piccolominiana sulla «methodus» evocata nella glossa proemiale delle Annotationes (cap. I), seguono alcune considerazioni sul modus operandi del commentatore e sulla sua scelta di commentare Orazio «per via d'annotationi» (cap. II). Tra i numerosi spunti offerti dalle glosse oraziane, si è ritenuto opportuno mettere a fuoco
quelli che meglio permettono di valutare la poetica di Piccolomini nel ricco contesto della riflessione critica del pieno Cinquecento: la portata sapienziale della poesia ed i suoi rapporti — in primo luogo sul piano dell'inventio — con la filosofia (cap. III); la complessa dialettica tra diletto e giovamento poetico, significativamente oscillante
nel confronto tra le Annotationes ed il commento alla Poetica aristotelica (cap. IV); la riflessione, infine, sulla specificità della materia poetica: plasmata da una teoria
dell'imitazione ancora fiduciosa nella possibilità di conciliare res e verba, essa si basa su di una concezione della parola poetica che, fortemente legata alla tradizione
umanistica, deve fare i conti con le nuove istanze della sistemazione cinquecentesca del sapere e delle sue forme (cap. V). In appendice, l'edizione delle Annotationes è introdotta da una /Vota al testo che
fornisce una descrizione dell'autografo piccolominiano ed i criteri editoriali. Il testo è accompagnato da note esegetiche che intendono fornire le coordinate essenziali entro cui si inseriscono i piü rilevanti aspetti del commento oraziano. LOT EAS
Questo lavoro riprende e sviluppa la mia tesi di laurea, discussa nel luglio 2007 presso l'Università degli Studi di Pisa. Nel darlo alle stampe voglio esprimere la gratitudine che nutro
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nei confronti di coloro che hanno saputo e voluto fornirmi consigli ed aiuti preziosi durante le varie fasi della ricerca. Ad Alberto Casadei, che mi ha seguito come relatore, devo un ricco e continuo scambio di opinioni e riflessioni su temi che hanno suscitato e continuano a suscitare il nostro comune interesse. A Massimo Danzi sono grato per aver sostenuto con entusiasmo, in occasione di un fruttuoso quanto piacevole soggiorno di studio presso l’Università di Ginevra, il mio progetto di ricerca su Alessandro Piccolomini. Ringrazio Claudio Ciociola
per aver discusso con me gli aspetti propriamente filologici del lavoro; Marco Guardo per l'insostituibile aiuto che ha saputo darmi nella soluzione di alcune cruces durante la trascrizione dell'autografo piccolominiano e per le numerose indicazioni che ne hanno migliorato la traduzione italiana. Sono inoltre grato all'Accademia degli Intronati di Siena, nelle persone di Roberto Barzanti ed Enzo Mecacci, per la proficua collaborazione nata in margine alle mie ricerche su Alessandro Piccolomini. Tra le altre persone con cui ho avuto modo di discutere singoli aspetti del lavoro, e che ringrazio di cuore: Alessandro Benassi, Davide Conrieri, Virginia Cox, Luca D'Onghia, Francesco Ferretti, Matteo Residori, Mario Telò, Franco Tomasi. Mia è naturalmente la responsabilità di eventuali imperfezioni in ogni parte del lavoro. Riconoscenza profonda devo infine a Lina Bolzoni per aver accolto il mio libro nella colla-
na da lei diretta, ma soprattutto per il rigore e la straordinaria disponibilità con cui, prodiga di insegnamenti, ha seguito la mia formazione durante gli anni di studio alla Scuola Normale.
Dedico questo volume a mio fratello e ai miei genitori.
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CaprtoLO I
«POETA IN HOC LIBRO, NON PHILOSOPHUS» METHODUS E ORDO NELLA GLOSSA PROEMIALE DELLE ANNOTATIONES
1. Il ‘non-metodo’ dell’Ars poetica
Alessandro Piccolomini apre le Annotationes super Artem poeticam Horatii con
un breve proemio che mette subito in luce alcuni aspetti fondamentali della sua lettura. I primi temi che l'umanista discute sono la specificità del testo oraziano e
l'organizzazione della materia al suo interno. Studioso abituato ai procedimenti logici dei testi aristotelici, Piccolomini evidenzia il carattere asistematico dell’epistola oraziana, contrapponendosi in modo deciso ad una tradizione plurisecolare, me-
dievale ed ancora umanistica, che riduceva l'epistola ad una serie rigida di precetti poetici, un vero e proprio trattato in versi." Il titolo di Ars, messo in discussione dai commentatori del Cinquecento, si legava puntualmente, nell’ottica degli esegeti medio-umanistici, all'accezione medievale delle artes intese come trattazioni specifiche inerenti le varie attività umane, istruzioni per l’uso che, nel caso della poetica,
tradivano ancora una percezione ‘artigianale’ della produzione letteraria.* Piccolomini osserva che ogni tentativo di leggere l'Ars come un testo sistematico di poetica sarebbe vano: [1] In hoc libro de Arte poetica maxime animadvertendum est quod qui conabitur ita ipsum interpretari, ut continuare velit omnia ac si methodice scriptus sit, frustra laborabit. [2] Nam planum est hunc librum non fuisse methodico scribendi genere
scriptum, sicut scribi solent libri a philosophis scientifico quodam ordine doctrine, quales multos scripsit Aristoteles, inter quos librum etiam de Arte poetica. "*
42 Come osserva WkivBERG, A History of Literary Criticism cit., p. 73, è il commento dello Pseudo-Acrone ad inaugurare tale metodo esegetico: «It establishes a precedent for reducing the text to a set of fixed rules for the writing of poetry, a precedent which Renaissance commentators were to follow constantly».
43 Ci si limita qui ad evocare uno degli aspetti del complesso passaggio dal sistema antico e medievale delle arti alla concezione propria della prima età moderna. Su tutto questo si rimanda a P.O. KrisrELLER, /[ sistema moderno delle arti [1951-1952], a c. di P. Bagni, Firenze, Alinea, 1993, ma si vedano anche i saggi oggi raccolti in P.O. KrusteLLER, // pensiero e le arti nel Rinascimento, Roma, Donzelli, 1998. 44 A. Piccoromini, Annotationes super Artem poeticam Horatii, proem., 1-2 (d'ora in avanti, Annotationes; per
numerazione e paragrafatura delle glosse cfr. l'edizione fornita in appendice).
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Il testo non è scritto «methodice», né seguendo un «methodicum scribendi genus»: il termine di confronto è naturalmente costituito dai libri di Aristotele e, fra tutti, la Poetica. I filosofi, infatti, seguono nelle loro trattazioni un «ordo scientificus» del tutto estraneo all'Ars oraziana. Proprio sui concetti di «methodus» e «ordo» Piccolomini torna a più riprese nel proemio: Orazio non ha scritto l'Ars ordinando al suo interno i precetti poetici come si fa per un trattato filosofico; ma ha voluto scrivere in primo luogo un testo poetico e, più precisamente, lo ha fatto «cum sermonum
stilo».*? Piccolomini richiama l'attenzione sulla specificità stilistica dell’Ars poetica, un'epistola caratterizzata da uno stile affine a quello dei sermones, ossia delle satire. «Quasi satyricam epistolam scribens», Orazio ha unito alle «reprehensiones» i «praecepta ad poesim pertinentia»,** con un procedere affatto disorganico dal punto di vista della precettistica: se è vero che vengono toccati «quamplurima praecepta [...] de omnibus pene partibus poeseos»,*" sostanzialmente derivati da Aristotele, è anche vero che la loro esposizione non segue un ordine «methodicus et continuatus»,
ma «poeticus et praecipue satyricus».* Lo statuto specifico dell’Ars poetica sta molto a cuore a Piccolomini che, in chiusura di proemio, ribadisce a proposito di Orazio: «poeta enim est in hoc libro, non
philosophus». Che egli non sia filosofo è dimostrato, come già notava Porfirione, dall'incompletezza dei precetti poetici trattati." In sostanza, fornendo al lettore un indicazione basilare di accessus al testo, il commentatore punta sul carattere asi-
stematico dell'epistola, invitando a leggerla prima di tutto come un'opera poetica: [9] Et ita exponendus est liber hic: qui autem illum ad philosophicam et scientificam methodum et ordinem vi trahere voluisset, frustra conabitur, ac in quamplures angustias coarctabitur. Et hoc maxime dignum est animadversione.?
Le «angustiae» fanno pensare ai tentativi di divisio textus che avevano caratterizzato la lettura scolastica dell'Ars tra Medioevo e Umanesimo lasciando tracce in vari commenti cinquecenteschi.?! L'attenzione che l'umanista presta all'«ordo» e,
soprattutto, alla «philosophica et scientifica methodus» non si risolve peró in una
45 lvi, proem., 3. 46 Ibidem. 47 Ivi, proem., 4. 48 Ivi, proem., 5.
49 Ivi, proem., 7. Cfr. Ponpn., in art. poet. 1, laddove il glossatore sancisce la derivazione dell’Ars da Neottolemo
di Paro: «in quem librum congessit praecepta Neoptolemi toò Iapiavov de Arte Poetica, non quidem omnia sed eminentissima»,
50 Prccoomini, Annotationes, proem., 8.
51 Come vedremo, discutendo in concreto la struttura dell'epistola e la disposizione degli argomenti al suo interno, neppure Piccolomini rinuncia ad un tentativo, per quanto flessibile, di divisio textus. Cfr. cap. II, $ 3, pp. 45-46.
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polemica contro i metodi esegetici tradizionali, che pure ‘costringevano’ letteralmente l'epistola oraziana in griglie di lettura estremamente rigide, a scapito della sua essenza poetica e letteraria. L'insistenza sulla methodus chiama infatti in causa l'esperienza di Piccolomini filosofo e studioso di Aristotele e, più in generale, i dibattiti coevi su metodo e ordine nello studio e nella divulgazione del sapere. Che l'epistola ai Pisoni non fosse una vera ars nell’accezione del greco téyvn era già stato rilevato da Francesco Robortello, interprete aristotelico ben noto a Piccolomini, nella sua Paraphrasis in libellum Horatii qui vulgo de arte poetica inscribitur: Etsi libellus hic de arte poetica inscribitur, videturque ipsa inscriptio prae se ferre methodo quadam certa et ordinata praeceptiones tradi scribendorum poematum, puto tamen ego inscriptionem illam a poeta non fuisse appositam. Neque, cum ad
Pisones scriberet, in animo habuisse artem ullam aut methodum praeclare huius facultatis tradere; nam si id efficere voluisset, ab initio omnia repetens et naturae ordinem sequens praeceptiones omnes singillatim esset persecutus quae ad poema
recte scribendum spectant; hac enim commodiore ratione potuisse artem poeticae facultatis describi ab Horatio satis patet."
A detta di Robortello il titolo dell'epistola, Ars poetica, non può essere d'autore perché non si tratta di una ars: non vi é traccia, infatti, di una «methodus certa et ordinata», ovvero di una trattazione che si proponga di indagare «singillatim» e, soprattutto «naturae ordinem sequens», tutti gli aspetti della materia trattata, secondo un modo di procedere che farebbe proprie, non casualmente, le istanze del metodo
aristotelico. Nel preambolo alle Explicationes in librum Aristotelis qui inscribitur de poetica & lo stesso Robortello ad affermare che la «methodus» impiegata dal filosofo nella Poetica necessita di un'illustrazione e ricorre alla definizione che, con Filopono, se ne trova negli Analitict posteriori: Philoponus lib. II Post. Arist. ait ue9660vc esse quiddam èvvonpatixév per quod mens hominum proprias uniuscuiusque rei quaestiones percipit. Inventae autem
fuerunt methodi ut essent veluti viae quaedam menti cogitationique hominum." a
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5:
Il metodo è quindi un procedimento speculativo che consente all'uomo di percepire in modo ordinato la realtà nonché di impostare rigorosamente l'indagine.? 52 E RosorteLLo, Paraphrasis in librum Horatii qui vulgo De arte poetica ad Pisones inscribitur, Firenze, Lo-
renzo Torrentino, 1549, p. 1. 53 F. RosorteLLO, /n librum Aristotelis De arte poetica explicationes, Firenze, Lorenzo Torrentino, 1548, p. 4. Un primo inquadramento dell'esercizio esegetico di Robortello, cui capiterà di fare più volte riferimento, in WemNBERG,
A History of Literary Criticism cit., pp. 66-69, 388-400. 54 Quanto allo scarto tra la trattazione aristotelica ed i testi precedenti di poetica, esso risiede, secondo Robortello, nell'esigenza di ordine che sottende l'opera di Aristotele, premessa indispensabile ad ogni indagine filosofica. Cfr. RosorteLLO, In librum Aristotelis cit., p. 4: «Cum igitur Arist. esset pertractandum de poetice quae ab aliis
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Proprio la similitudine della methodus come via per la mente e la riflessione avrà largo seguito nel dibattito cinquecentesco sull’organizzazione del sapere: non potendo ripercorrere qui gli sviluppi più maturi del dibattito, basti ricordare almeno il contributo fondamentale di Giacomo Zabarella che, professore di logica nell'ateneo
padovano tra il 1563 ed il 1568, costituisce l'ideale punto d'arrivo di una riflessione che coinvolge, oltre allo stesso Piccolomini, filosofi quali Marco Antonio Zimara, Girolamo Balduino e Bernardino Tomitano. Nel De methodis, pubblicato in appendice agli Opera logica del 1578, Zabarella distingue puntualmente tra ordo e methodus,
permettendoci di chiarire il senso che i due termini assumono in autori come Piccolomini e Robortello. Mentre la nozione di ordo si riferisce alla disposizione e all'ordine progressivo in cui le nozioni o le discipline devono essere apprese, con methodus ci si sposta su un piano più propriamente gnoseologico: ‘metodo’ è infatti il procedimento attraverso il quale da cosa nota si deduce o inferisce cosa ignota.” La valutazione piccolominiana dell’Ars poetica presuppone un'osservazione metodologica funzionale ad un commento che consideri la natura specifica del testo:
un'epistola poetica in cui Orazio offre un affresco del dibattito culturale a lui contemporaneo sulle forme poetiche, ricca di indicazioni concrete sul fare poesia, ma non rispondente alla ratio di un trattato. Individuare la specificità letteraria del testo oraziano è la prima tappa del lavoro critico del commentatore. Il riferimento allo stile dei sermones è in tal senso rivelatore, e mira a sottolineare la dimensione critico-polemica dell’epistola, riferibile ad un genere letterario preciso, ma mortificata
dall'esegesi tradizionale." ue9oótkóc non fuerat ante tractata; necesse fuit ut in ea describenda, methodo uteretur. Alioqui omnia fuissent confuse tradita». 55 Chiara distinzione tra ordo e methodus in G. ZaBARELLA, De methodis libri quatuor, in Ip., Opera logica, Venezia, Paolo Meietti, 1578, col. 139 (accessibile nella ristampa anastatica a c. di C. Vasoli, Bologna, Clueb, 1985): «Aliud enim est hanc rem prius esse cognoscendam quam illam, aliud est ex hac re nota nos duci in cognitionem illius ignotae: hoc quidem methodi proprie sumptae munus est, illud autem ordinis; ordo enim nullam facit illationem huius rei ex illa, sed solum disponit ea, quae tractanda sunt [...] methodus vero non disponit scientiae partes, sed a noto ducit nos in cognitionem ignoti inferens hoc ex illo, veluti quando a mutatione substantiae ducimur in
cognitionem primae materiae [...] propterea dicunt proprium esse ordinis disponere, methodi autem notificare». A differenza dell'ordo, che consiste nella appropriata disposizione di nozioni già possedute, la methodus produce conoscenze nuove: come messo bene in luce da Antonino Poppi, Zabarella contribuisce, dopo Piccolomini e Tomitano, a ricondurre la nozione di metodo nell'alveo della dimostratività rigorosa che e propria dell’Organon
aristotelico, prendendo le distanze da derive poetico-retoriche che sarebbero proprie dell'approccio ramista (cfr. A. Poppi, La dottrina della scienza in Giacomo Zabarella, Padova, Antenore, 1972, p. 171, n.2). Tuttavia, proprio la vicinanza tra logica e arti del discorso è una delle acquisizioni più significative dei logici padovani: torneremo su questo nel cap. III.
50 E chiaro, dalle parole di Piccolomini, che lo «stile sermonum» apparenta le Satire e le Epistole. Sull'accezione ampia di tale registro stilistico, cfr. almeno F. DeLLa Corte, Orazio sermoneggiante, in Q. Orazio Fracco, Le opere,
Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1997, vol. IL, tomo I, pp. 9-89. Insisteva sull’appartenenza dell'Ars allo stile epistolare già RosorreLLo, Paraphrasis in librum Horatii cit., p. 1, che individua con grande chiarezza il senso dell’epistola: «Cum Romae sua aetate videret Horatius esse multos, qui poetae nomen sibi falso vendicabant; diesque totos in seribendo aliquo poemate ponebant, et ignorabant tamen, quanto in versibus scribendis opus esset artificio, diutius illorum inscitiam, et insolentiam aequo animo cum ferre non posset; sermone hoc satis longo cum Pisonibus habito, eos reprehendere instituit, ac singillatim omnes illorum errorum demonstrare, quibus
2. Piccolomini nella discussione sulla methodus
La riflessione insistita sul ‘non-metodo’ oraziano con cui si aprono le Annotationes è perfettamente in linea con gli interessi del glossatore. Alessandro Piccolomini occupa infatti un posto di rilievo, non ancora indagato in tutte le sue implicazioni, nell'ambito di quelli che Vasoli ha definito «i tentativi umanistici cinquecenteschi di un nuovo “ordine”».°” Nei suoi fondamentali contributi sulla nascita di una methodus e di un ordo decisivi per gli sviluppi della civiltà moderna pre-cartesiana, lo
studioso ha più volte fatto riferimento a Piccolomini? Nel momento in cui gli intellettuali del pieno Rinascimento si interrogano sulle forme del sapere, sulla loro organizzazione e sui rapporti tra le varie artes e le varie scientiae, la questione della methodus diventa centrale: sviluppando le indicazioni offerte dai classici (il canone suggerito da Vasoli comprende almeno l'Aristotele dei Topic, il Cicerone di Topica, De oratore e De inventione, Vlnstitutio oratoria di Quintiliano e la Rhetorica ad Herennium), umanisti come Giorgio Trapezunzio e Rodolfo Agricola gettano le basi di un dibattito sull'ordinamento del sapere e sul metodo da seguire nell'indagine filosofica che ha come perno la definizione dello statuto di logica e arti del discorso. Se proprio con il De inventione dialectica di Agricola, che inizia a circolare intorno al
1480. il termine methodus diventa il fulcro della discussione, i primi anni del secolo seguente segnano la diffusione sistematica della parola nell'accezione di via menti cogitationique." Da Erasmo a Melantone per giungere a Pietro Ramo, la ricerca patefactis dat operam, ut eos ad meliorem frugem reducat, praescribens rectam rationem scribendi poematis; in eo praesertim, in quo eos labi animadverterat; quo fit, ut ego existimem, temere a multis libellum hunc in plurimas, ac minutissimas praeceptiones fuisse dissectum; cum miro ordine totus liber fit contextus, perpetuamque prae se ferat, et minime interpellatam de eadem re orationem, ut conabor ostendere, ac facile perspicient ii, et probabunt, opinor, qui cognitam habent scribendi rationem, quam ubique secutus est Horatius in Epistolis». 51 C. Vasoti, Le filosofie del Rinascimento, Milano, Mondadori, 2002, pp. 398-415. Lo studioso ha dedicato numerosi lavori alla questione della definizione di una methodus filosofico-scientifica tra Umanesimo e Rinascimento, inquadrando il problema all'interno dei dibattiti sull'ordinamento delle varie discipline; particolarmente utile ai fini del nostro discorso l'oramai classico C. Vasori, La dialettica e la retorica dell'Umanesimo. “Invenzione” e “Metodo” nella cultura del XV eXVI secolo, Milano, Feltrinelli, 1968. Ma si veda anche N.W. Girgenr, Renaissance concepts of Method, New York, Columbia University Press, 1960.
58 Si veda, per esempio, Vasoti, La dialettica e la retorica dell’Umanesimo cit.. pp. 604-606; ma anche Ip., Le
filosofie del Rinascimento cit.. p. 414. 59 L'opera fondamentale di Agricola è oggi accessibile nell’ed. R. Acricora, De inventione dialectica libri tres, Hildesheim, Georg Olms Verlag, 1976. Per un inquadramento generale si veda Rodolphus Agricola Phrisius 1444-
1485. Proceedings of the International conference at the University of Groningen, 28-30 October 1985, a c. di F. Akkerman e A.J. Vanderjagt. Leiden, Brill, 1988. Sulla questione del rapporto che lega la dialettica alle altre scienze, cfr. G. Toxguu OLivieri, Per una storia della classificazione delle scienze: due prolusioni di Battista Guarino e
Rodolfo Agricola, in «Studi e Ricerche di Storia della Filosofia», CXIV (1977), pp. 311-332; J. Monrasani, Lorenzo Valla and Rudolph Agricola, in «Journal of the History of Philosophy», XXVIII (1990), 2. pp. 181-200; M. Van per Port, Rudolph Agricola s “De inventione dialectica libri tres”, in «Vivarium», XXXII (1994), 1, pp. 102-114. Giova qui ricordare che la fortuna italiana del testo è legata alla traduzione di Orazio Toscanella (R. Acnicora, Della invention dialettica, tradotto da Oratio Toscanella, Venezia, Giovanni Bariletto, 1567), figura centrale nella definizione di quella nuova accezione della topica che segna un'evoluzione importante nel dibattito sull’invenzio poetica nel secondo Cinquecento. I punti di contatto tra il sistema piccolominiano e la lezione di Toscanella sono
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sulla methodus viene sempre piùa coincidere con la questione dell’ordinamento di
tutte le arti. Vasoli ricorda, parafrasandola e in parte traducendola, la definizione di
Melantone che, con la sua Rhetorica (1519) e con i Dialectices libri (1525), dà un
contributo essenziale al dibattito: gli antichi avevano indicato con quel nome «il modo d'iinsegnare esattamente e con ordine, secondoi precetti dialettici» e ammonito a usarlo «in qualsiasi affare, con-
troversia, arte» proprio perché ritenevano inevitabile che «l'animo fosse costretto a vagare incerto», se non seguiva la sua ‘guida’, necessaria soprattutto a chi eserciti l'insegnamento.^?
In questa linea si inserisce anche Alessandro Piccolomini. Le opere di Rodolfo Agricola e Melantone sul metodo sono solo alcuni dei testi che l'umanista senese
verosimilmente conobbe, ma caratterizzano in modo decisivo quel dibattito sul metodo che ha proprio nella Padova di fine anni Trenta uno dei suoi luoghi d'elezione. Il Commentarium de certitudine mathematicarum pubblicato in appendice alla parafrasi delle Mechanicae quaestiones Aristotelis del 1547 è il primo, evidentissimo
frutto della partecipazione di Piccolomini alle discussioni sul metodo dell'indagine logico-filosofica. L'esigenza esplicitata nel Commentarium è proprio quella di un sistema cognitivo che, procedendo con ordine, fornisca all'uomo uno strumento in-
fallibile di discriminazione del vero dal falso quale premessa alla corretta distinzione del bene dal male.*! molti, soprattutto per quanto riguarda i procedimenti di indagine e divulgazione del sapere. Su questi aspetti dell’opera di Toscanella, cfr. in primo luogoL. Borzoni, Alberi del sapere e macchine retoriche, in EAp., La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici nell'età della stampa, Torino, Einaudi, 1995, pp. 26-56: 53-60, 11-75. Per altre indicazioni bibliografiche, cfr. p. 30, n. 72. 60 Vasout, Lefilosofie del Rinascimento cit., p. 402. Lo studioso sottolinea anche l'importanza della riflessione di Melantone sul metodo nei più tardi Erotemata dialectices (1547): «questo concetto, usato un tempo per indicare una via recta et compendiaria, aveva assunto per i dialettici un significato assai diverso, indicando l'ordine di un esposizione precisa e diretta. Il metodo era, insomma, “l’abito di colui che sa, o l'arte di procedere con un sicuro
discernimento”, per “scoprire una via attraverso la confusione”, e procedere “per luoghi impervi e inaccessibili ai sensi» (ibidem). Quanto alla figura di Melantone nei suoi rapporti con la cultura italiana, cfr. S. CaroneTTO, Melantone e l'Italia, Torino, Claudiana, 2000; ma anche N. Caserta, Filippo Melantone (dall'Umanesimo alla Riforma), Roma, LT.A., 1960; W. Maurer, Der junge Melanchthon: zwischen Humanismus und Reformation, Gottingen, Vandenhoeck und Ruprecht, 1967-1969 (si veda in particolar modo il vol. I, Der Humanist); nonché la recente raccolta di studi Melanchthon und die Neuzeit, a c. di G. Frank e U. Kopf, Stuttgart-Bad Cannstatt, Frommann-Holzboog, 2003. Per gli interessi strettamente retorici dell'umanista, che giocano un ruolo fondamentale nel suo profilo culturale, cfr. Q. Breen, The subordination ofphilosophy to rhetoric in Melanchthon: a study of his Reply to G. Pico della Mirandola, in «Archiv für Reformationsgeschichte», XLIII (1952), 1, pp. 13-28.
61 Il Commentarium de certitudine mathematicarum disciplinarum, in quo, de resolutione, diffinitione et demonstrattone, necnon de materia, et fine logicae facultatis, quamplura concinentur ad rem i ipsam, tum mathematicam
tum logicam maxime pertinentia (pubblicato nel 1547 in appendice alla /n mechanicas quaestiones Aristotelis Daranlisd cit.) meriterebbe indagine piü approfondita: esso costituisce infatti, insieme con l'/nstrumento della filosofia, uno dei testi più ricchi di implicazioni in relazione alla riflessione del filosofo senese sugli strumenti dell'indagine filosofico-scientifica. L'attenzione particolare che Piccolomini riserva alla logica, considerata come l’imprese ubi chiave d'accesso al sapere nelle sue varie forme,è infatti uno dei nodi più densi e stimolanti del
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Analogamente a quanto succede per gli altri umanisti padovani, la riflessione piccolominiana sul metodo si lega a quella sui rapporti tra filosofia, logica ed arti del discorso su cui avremo modo di tornare più avanti. Esse risentono fortemente della vicinanza di Piccolomini alla cerchia di Sperone Speroni e delle vicende culturali
dell’Accademia degli Infiammati, di cui Piccolomini fu Princeps subito prima dello stesso Speroni.? Nella breve ma densa storia dell’Accademia padovana e dei suoi
rapporti con l'Università cittadina, la figura di Piccolomini si lega a quelle di Speroni, Vincenzo Maggi, Bartolomeo Lombardi, Daniele Barbaro, Bernardino Tomitano, Benedetto Varchi: intellettuali variamente impegnati nello studio di Aristotele, ma soprattutto sensibili alla questione del metodo, anche nelle sue ricadute sullo studio
dei testi letterari e sullo statuto della poetica. A stretto contatto col circolo padovano, Piccolomini, coerentemente con le posizioni espresse da Speroni nei Dialoghi,
non soltanto progetta il programma di volgarizzamento e diffusione della tradizione classica che lo occuperà fino alla maturità, ma formula anche, come si è detto, l'idea dell «instrumento» della filosofia, anticipato dal Commentarium de certitudine mathematicarum e concretizzato di li a poco nell'omonimo trattato, premessa al grande
corpus della Filosofia naturale. La sequenza costituita dallInstrumento della filosofia, dalla prima e dalla seconda parte della Filosofia naturale (dove il primo elemento si presenta come un vero e proprio manuale di logica, ‘strumento’ indispensabile per l'accesso alla trattazione che lo segue). è già di per sé un esempio chiaro e concreto di applicazione rigorosa di una methodus e di un ordo consapevolmente meditati. Non potendoci qui soffermare su tali testi, può essere tuttavia utile ricordare alcune dichiarazioni di Piccolomini
profilo intellettuale piccolominiano. L'importanza dello strumento logico emerge chiaramente nel capitolo De scopo, sive fine logicae facultatis: «duas ipsius philosophiae primarias esse partes, quarum altera circa verum, in cognitione rerum tum divinarum, tum etiam earum quas in naturae gremio occultatas, indagare ratio potest; reliqua vero circa bonum ipsum, in administratione Rerumpublicarum atque domesticarum, necnon in ipsa pru-
denti, temperata, iusta ac forti ratione sciendi, versari debet. Verum quoniam ita natura institutum est, ut bonum et verum ita occultentur et lateant in latebris, ut a mente hominis, corporeis illigata vinculis, syncere ac dilucide inveniri ac dinosci posse difficillimum videatur; hinc est quod summi viri, hanc difficultatem videntes, ac superare cupientes, facultatem quandam, sive artem invenerunt, quam instrumentum quoddam construi posset, cuius
auxilio, Philosophia ipsa, veritatem a falsitate, bonitatem vero a malitia, distingueret et separaret. Quam quidem facultatem, quia circa illa versatur, quae ut dicit Ammonius in prima Sectione Perierm. non a natura ipsa, sed habito respectu ad res ipsas, a cogitatione, sive a ratione nostra, hoc habent quod sunt, Logicam appellarunt. Cuius
scopus, finis, sive intentio, vel (ut Latini vocant) subiectum principale, syllogismus est, et praesertim demonstrativus» (ivi, c. ixxmr). La specificità padovana del dibattito è evocata poco dopo (ivi, c. Lxxniv). Sul Commentarium ed una sua contestualizzazione nell'ambito della discussione padovana sulla certezza delle matematiche, cfr. G.C. Gracosse, Il “Commentarium de certitudine mathematicarum disciplinarum? di Alessandro Piccolomini, in
«Physis», XIV (1972), 2, pp. 162-193; In., La quaestio de certitudine mathematicarum all'interno della Scuola Padovana, in Atti del convegno di storia della logica: Parma, 8-10 ottobre 1972, Padova, Liviana, 1974, pp. 95-112; sulle importanti implicazioni seicentesche del dibattito, cfr. E. Sercio, Verità matematiche e forme della natura da Galileo a Newton, Roma, Aracne, 2006.
62 I dettagli relativi ai principes infiammati in VianeLto, // letterato, 1‘accademia, il libro cit., p. 71-74. Piccolomini fu princeps dall’aprile al settembre 1541, dopo Leone Orsini (giugno-luglio 1540), Giovanni Cornaro (agosto-novembre 1540) e Galeazzo Gonzaga (dicembre 1540-marzo 1541).
2d
che illuminano il senso del suo procedere e la sua concezione del metodo. La Prima
parte della filosofia naturale, pubblicata nel 1551, è introdotta da un'epistola a Giulio III, che già in apertura propone indicazioni simili a quelle di Melantone. Piccolomini afferma di aver tolta impresa più anni sono, Beatissimo Padre, di trattare in lingua Italiana la filosofia naturale e la morale, non d'una cosa o d'altra scrivendo discontinuatamente,
come han fatto alcuni innanzi di me, ma con ordine continuato, da i lor principii incatenando le cose, secondo la natura del corso loro, ponendo principalmente le
piante sopra le pedate peripatetiche.9?
I termini utilizzati dall'autore sono analoghi a quelli attestati nella glossa proemiale delle Annotationes oraziane: all'Ars poetica manca proprio quell «ordine continuato» che il filosofo deve perseguire nelle sue opere. Il concetto è ribadito poco dopo, quando Piccolomini dice di «scrivere il corso intiero e continuato di queste due parti dette della filosofia».** Il metodo seguito da Piccolomini nella sua trattazione coincide con quello aristotelico che, escludendo ogni forma di fictio, «con le cose aperte procede», mirando «al vero stesso puro e schietto». Torneremo più avanti sul rapporto tra le possibilità conoscitive offerte dalla poesia e i modi non poetici del filosofare, poiché tale aspetto costituisce uno dei nodi della lettura piccolominiana di Orazio ed Aristotele. Basti qui sottolineare la consapevolezza dell'umanista nell’affrontare la questione del metodo che, seppure e contrario, emerge in apertura delle glosse oraziane. È significativo che essa si riscontri anche nelle indicazioni offerte da Piccolomini sulla questione della lingua e, in particolar modo, sulla legittimazione d'uso del volgare.^? Affrontando per esempio il tema dei neologismi, egli non esita ad 63 PiccoLomini, La prima parte della filosofia naturale cit., c. 2r. La lunga epistola prefatoria A/ Beatissimo Padre e nostro Signore Papa Giulio Terzo, datata da Roma, 28 aprile 1550, alle cc. 2r-13v (d'ora in poi si farà riferimento a questo testo come Epistola 1550). 64 Ibidem. 65 lvi, cc. 5v-6r. Piccolomini ha deciso di scrivere «non con improprietà di parole ed esornation di clausole, né con misciamento di favole; ma per il contrario con piano stile e diritto, dichiarando, agevolando e aprendo» e si è «ingegnato di manifestare le cose come veramente le sono» (ivi, c. 6r). 66 L'attenzione che il filosofo mostra per la necessità di divulgare il patrimonio filosofico-scientifico dell'antichità
in lingua volgare è una costante nel suo percorso intellettuale: essa prende forma durante il giovanile periodo padovano e si concretizza nella ricca serie di trattati, traduzioni e commenti che scandiscono Bien produzione piccolominiana. Rinviando al cap. II alcune precisazioni sulla teoria della traduzione che Piccolomini elabora in
apertura dei volgarizzamenti e dei commenti aristotelici, basti qui ricordare l'adesione del filosofo senese al modello proposto a Padova da Sperone Speroni che, erede della lezione pomponazziana e convinto sostenitore della convenzionalità del mezzo linguistico, è trai massimi difensori della legittimità d'uso del volgare anche in contesto filosofico e scientifico. Su questi temi è d’obbligo il rinvio a 8. EM Dialogo delle lingue, a c. di A. Sorella, Pe-
scara, Libreria dell'Università, 1999 (ma cfr. anche l'ed. a c. di H. Harth, Miütchen) W. Fink, 1975). Per il dibattito sorto in seno all'Accademia degli Infiammati su latino e volgare, cfr. VaneLLO, Il letterato, l'accademia, il libro cit., pp. 94-132. Sulla specificità della posizione piccolominiaria: anche in rapporto alla sua provenienza senese, cfr. R.
BeLLaponna, Some Linguistic Theories of the Accademia Senese and of the Accademia degli Intronati ofiStena: an
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affermare che «tra tanti eccellentissimi filosofi che habbiamo oggi» non ce n'è stato «per anchora alcuno che delle cose di filosofia, non rottamente di questa o di quella parte (il che fare senza dedurre incatenatamente le cose da’ lor principii, partorisce più tosto confusione che scienza), ma con stile continuato habbia scritto nella lingua nostra». Il dato linguistico-stilistico fa tutt'uno con la necessità di un’argomentazione piana e limpida, essenzialmente basata sulla concatenazione degli oggetti esaminati: si tratta, in definitiva, di «portar altrui la ordinata filosofia nella lingua nostra»,° e la puntualità della riflessione di Piccolomini su questi aspetti rivela il peso che essi assumono nel suo sistema. Alle dichiarazioni programmatiche fanno infatti riscontro numerosi casi concreti di applicazione di methodus e ordo alla divulgazione del sapere. Chi sfogliasse la Para-
frase del secondo libro della Retorica, per esempio, si imbatterebbe in alcune «figure» che tentano di riassumere la materia in schemi ad albero di chiara derivazione ramista. La trattazione aristotelica di affetti e passioni (Rhet. II, 1377b 16-1388b 30) offre a Piccolomini lo spunto per una lunga Digressione intorno agli affetti humani che, dopo aver sinteticamente passato in rassegna le posizioni di Platone e della scuola stoica,
illustra quella di Aristotele. Giunto a trattare degli affetti prodotti dagli appetiti irascibile e concupiscibile, il parafraste sfrutta l'espediente degli schemi ad albero per riassumere e rendere più facilmente memorizzabile il contenuto del testo. La figura ricrea il procedimento logico alla base dell'articolazione aristotelica degli affetti, invitando il lettore a ripercorrerlo con gli occhi e con la mente: «Questi sono gli affetti dell'appetito irascibile, come meglio si potrà conoscer distintamente, gli uni e gli altri
nelle due seguenti figure: dove per meglio porgli dinanzi a gli occhi altrui, per via d'arbore, di ramo in ramo gli haviam distesi» [TAvv. 1-2]." Conoscere distintamente non significa altro che apprendere in modo ordinato e consequenziale, giacché la visualizzazione per via d’arbore permette di seguire puntualmente le ripartizioni diairetiche che danno vita al complesso sistema degli affetti. Al lettore è chiesto comunque lo sforzo di immaginare le prime due figure come parti di un medesimo schema: In questa prima qui di sopra già posta figura [Tiv. 1] si è disteso l'arbore del primo membro degli affetti, che è quello che appartiene all’appetito concupiscibile. Segue
hora la seconda figura [T. 2] dove si distende l'altro secondo membro de gli affetti, che appartiene all'appetito irascibile. Et ciò si è fatto, perché l'angustia della carta in una facciata non poteva capir l'arbore integro d'ambedue li detti membri. Ma ciascuno potrà facilmente per se medesimo riunir queste due figure insieme, e farne Essay on Continuity, in «Rinascimento», XVIII (1978). pp. 229-248; Eap., Tivo Unpublished Letters
About the Use
of the “Volgare” Sent to Alessandro Piccolomini, in «Quaderni d'Italianistica», VIII (1 987), 1, pp. 53-74.
67 Piccoromni, Epistola 1550, cc. Tv-8r.
68 Ivi, c. 8v.
69 Piccoomini, Parafrase II, pp. 10-39. Le tre figure, rispettivamente, alle pp. 25, 27, 36.
70 Ivi, p. 24.
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una sola, nascendo ambedue da una medesima radice d’arbore; come ognun può per se stesso conoscer senza fatiga alcuna." ci
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Come emerge chiaramente da questo esempio, l’obiettivo primario del commentatore è la facilità dell'apprendimento da parte dei lettori. Ilricorso allo schema ad albero, espediente rivitalizzato da Pietro Ramo e ampiamente sfruttato da umanisti vicini o noti a Piccolomini come Francesco Robortello, Giovan Battista Pigna e Orazio Toscanella, si rivela come una delle risposte più congeniali a tale esigenza,
confermando l’interesse consapevole del filosofo senese per la questione del metodo, tanto sul piano dell’indagine filosofica, quanto su quello strettamente pedagogico della diffusione del sapere.” Il caso delle figure che integrano la digressione sugli affetti umani nel secondo
libro della Parafrase, per quanto specifico, permette di cogliere Piccolomini alle prese con una trattazione che procede a tutti gli effetti in modo ordinato e metodico, chiarendo ulteriormente il senso delle affermazioni su methodus e ordo che abbiamo incontrato al principio delle Annotationes oraziane. Le dinamiche alla base della divulgazione delle scienze e della loro fruizione da parte dei lettori differiscono infatti
da quelle proprie della composizione e della lettura di un testo letterario propriamente detto. L'epistola a Giulio III offre a questo proposito un suggerimento prezioso che merita di essere riportato per intero: Non vorrei [...] che i lettori si pensassero d'havere a leggerle [le cose di filosofia, ndr] come si leggan historie o novelle, talmente che aprendo il libro dovunque se abbatti in leggendo, credino di poter senza avvertenza alcuna gustar le cose che
vi sono, perciò che fa di mestieri che color solamente legghino questi libri, i quali havendo in animo de intendere e imparar filosofia, con avvertenza procurino e pensino alle cose che leggano, cominciando dal principio et seguendo di mano in mano, secondo che le cose tra di loro incatenate, l'una dall'altra dependono. ?
La trattazione di argomenti filosofici richiede un metodo diverso da quello della narrazione di «historie o novelle», e tale differenza vale evidentemente anche sul versante della lettura. Il passo consente di chiarire le considerazioni di Piccolomini sulla
natura dell Ars poetica esposte nella glossa proemiale: l'insistenza con cui egli rileva 71 Ivi, p. 25. 72 Indicazioni sull'uso degli schemi ad albero, ampiamente diffuso in ambito veneto e più propriamente padovano, in Borzowt, Alberi del sapere e macchine retoriche cit., passim: si vedano in particolar modo le pp. 26-32 su Robortello; le pp. 53-57 e 65-73, dedicate a Toscanella, per il quale cfr. anche L. AnrzsE, Orazio Toscanella. Un
maestro del XVI secolo, in «Annali dell'Istituto di Filosofia dell'Università di Firenze», V (1983), pp. 61-95; L. Borzoni, Le «parole dipinte» di Orazio Toscanella, in «Rivista di letteratura italiana», I (1983), pp. 155-186; P.F. GrenpLER, La scuola nel Rinascimento italiano, Bari, Laterza, 1991, pp. 243-250, 261-262. Su Toscanella si veda
anche la sintesi offerta da Weimgerc, A History ofLiterary Criticism cit., pp. 167-169, 478-480.
73. Piccoromini, Epistola 1550, c. 10r.
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la mancanza di ordo e methodus nell'epistola ai Pisoni non ha un valore generico,
ma coglie, per opposizione, un aspetto preciso del testo. Il commentatore non vuole tacciare l'Ars poetica di disarmonia o disorganicità letterarie, ma anzi far risaltare la peculiarità stilistico-formale del testo chiarendo ciò che esso non è, ossia un trattato precettistico coerentemente elaborato. Si è visto come il termine di paragone esplicitamente citato da Piccolomini siano i libri scritti dai filosofi e, in particolare, la Poetica di Aristotele («quales multos scripsit Aristoteles inter quos librum etiam de Arte poetica»). Se è vero che anche Piccolomini, come tutti i commentatori cinquecenteschi, non esita a legare il conte-
nuto dell'epistola oraziana al trattato aristotelico, occorre tuttavia riconoscergli consapevolezza chiara della differenza statutaria dei due testi. A questo proposito risalta ciò che l'umanista afferma nell'importante Proemio alle Annotationi nel libro della Poetica: confutando la tesi di Vincenzo Maggi, per il quale il trattato aristotelico
avrebbe per oggetto la ‘poesia’ e non la ‘poetica’, Piccolomini sottolinea il carattere precettistico della Poetica e stabilisce un parallelo proprio con l'Ars oraziana. Aristotele intende «instruire e formar ben un poeta», «dargli leggi, precetti e regole per
quella facultà che l'habbia da poter denominar poeta, che è la stessa poesia con le varie spetie d'essa»."* A conclusione del proemio, il commentatore afferma: S'ha dunque da stimar precettivo questo libro, e per conseguente alla poetica non
usante, ma insegnante fu di prima intentione dall Autor suo disegnato. Per la qual cosa havendo questo libro Aristotele inscritto e intitolato della Poetica, con lasciar che di nostro supplendo dobbiamo aggiugnere e sopraintenderci arte, com'a dire dell'arte poetica, haviamo senza dubio da intender per tal arte la precettiva, o voeliam dire l'insegnante, e non la poesia; si come volse che s'intendesse il titolo della
sua Epistola, o ver del suo libro poetico Horatio.?
Piccolomini considera qui l'Ars poetica un testo precettivo: l'affermazione potrebbe sembrare contraddittoria rispetto a quanto esposto nelle Annotationes, ma in realtà non lo è. Nella glossa proemiale del commento oraziano egli si era limitato a riconoscere che, pur essendo presenti nell'Ars «quamplurima praecepta», essi non sono completi né esposti in modo ordinato e consequenziale. Egli non si spinge, come
invece fa Robortello, fino al punto di disconoscere la paternità oraziana del titolo Ars poetica, ed anzi sfrutta proprio l'accezione manualistica di ars per confermare il carattere precettivo del testo.?? Questo non esclude però l'intuizione di una sua specificità che, pur non negando la parentela col precedente aristotelico, individua
l'Ars poetica prima di tutto come testo poetico. 74 Piccoromini, Annotationi, c. [++8]r. 75 Ibidem. 76 È Orazio stesso, del resto, a riconoscere il proprio intento di maestro quando afferma «Ergo fungar vice cotis» (AP, 304). Cfr., su questo, PiccoLomini, Annotationes, ad loc., e nostre note di commento.
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CAPITOLO Il
COMMENTARE ORAZIO «PER VIA D'ANNOTATIONI»
1. Forme del commento
Alessandro Piccolomini sceglie di illustrare l'Ars poetica a mezzo di annotationes che, commentando segmenti testuali di varia estensione, si concentrano di volta in
volta su aspetti diversi del testo. Tale procedimento, applicato all’intero commento delle opere oraziane, non vuole essere sistematico e tanto meno esaustivo. L'obiettivo, come si vedrà, è piuttosto quello di prendere parte al dibattito avviato dagli interpreti precedenti." Ma che cosa significa, in concreto, commentare Orazio, e più specificamente un testo come l'Ars poetica, per annotationes?
Non potendo ripercorrere la vastissima tradizione dei commenti ai classici tra Medioevo e Rinascimento, ci limiteremo ad evocare le coordinate in cui si inseri-
sce il caso delle Annotationes piccolominiane. Il commento agli auctores assume nei secoli forme diverse, tra le quali si impone per priorità cronologica e fortuna quella delle glosse.'* Ad eccezione di alcuni casi più recenti e noti a Piccolomini - come quello della Paraphrasis di Robortello, - i commenti medio-umanistici ad Orazio procedono ancora per glosse, sulla scorta di quelli tardo-antichi. Le Annotationes di Alessandro Piccolomini, che fanno precedere ciascuna glossa dalla porzione di testo ad essa relativa [TAv. 3]. rispondono al tipo antico del «metatesto su supporto separato» che, come indica Louis Holtz, costituisce la forma di commento piu fortunata e longeva.” Rinviando alla Nota al testo per una descrizione
77 Indicazioni critiche suggestive sul genere del commento e sul circolo virtuoso costruito dalle inter pretazioni che, contribuendo allo Felina n del senso di un testo condiviso, si susseguono nel tempo, in Les
commentaires et la naissance de la critique littéraire. France-Italie (XIVe-XVIe siécles), a c. di G. Mathieu-Castellani e M. Plaisance, Paris, Aux Amateurs des livres, 1990 (si vedano soprattutto i saggi di P. Zuwrnon, La glose créatrice, ivi, pp. 11- 18: K. StierLE, Les lieux du commentaire, ivi, pp. 19-29). 78 L. Horrz, Le glosse e i commenti, in Lo spazio letterario del Medioevo. 1. Il Medioevo latino, III, La ricezione
del testo, Roma, Salerno ed., 1995, pp. 59-105; sul commento e le sue modalità tra Medioevo e Rinascimento si vedano anche Der lontani in der Renaissance, a c. di A. Buck e O. Herding, Boppard, Boldt Verlag, 1975; F. Lo Monaco, Alcune osservazioni sui commenti umanistici ai classici nel ni Quattrocento, in Il commento ai testi cit., pp. 103-154. 79 Hotrz, Le glosse e i commenti cit., p. 62: ma cfr. anche la classificazione proposta dallo studioso alle pp. 92
sgg. Una codificazione ormai canonica dei vari tipi di commento, separati o affiancati al testo, anche in C. Powrrz,
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puntuale del codice autografo di Piccolomini, sarà utile mettere a fuoco il grado di consapevolezza teorica ed il modo in cui l'umanista si confronta con tale genere di commento. La scelta delle annotationes non si spiega infatti esclusivamente in continuità con la tradizione, e deve essere inquadrata in una serie più ampia di riferimenti culturali. Un umanista di pieno Cinquecento intenzionato a commentare un classico ave-
va di fronte a sé una ricca gamma di opzioni ed è significativo che nella riflessione
sui generi trovino spazio anche il commento e le sue forme. Ciononostante la classificazione dei commenti è molto meno chiara di quanto si potrebbe credere, e ad una certa mobilità terminologica si unisce l'effettiva tendenza alla contaminazione
delle forme. Distinguere tra interpretatio, expositio, explanatio ed explicatio, così come discernere tra glosa, scholium, annotatio, observatio e nota non è facile per lo studioso moderno, ma non doveva esserlo neppure per i letterati medio-umanistici." Tra i molti esempi citabili, resta emblematico quello di Juan Luis Vives, che nel De ratione dicendi tenta di offrire una classificazione esaustiva dei vari tipi di commento: dopo aver discusso di parafrasi ed epitome, nonché distinto le
glosse dagli scolii, evidentemente assimilabili all'interno di una medesima tipologia, il letterato distingue i «commentarii simplices» dai «commentarii in aliud». A prescindere dall’accezione decisamente ampia che il termine «commentarius» assume in Vives (nel primo tipo vengono fatti rientrare testi come i Commentarti
di Cesare), ciò che interessa per il nostro discorso è piuttosto la varietà di forme incluse nel secondo tipo, il commento «in aliud».*! Ad una distinzione quantitativa l'umanista spagnolo ne allega una concettuale, lasciando intendere che è la natura del testo oggetto del commento a determinare la scelta del tipo di esposizione. Textus cum commento, in «Codices manuscripti», V (1979), 3. pp. 80-89. Nella vasta bibliografia sulla tradizione medievale dei commenti si vedano almeno alcuni contributi di carattere generale utili ad un inquadramento della questione: B. Munx OLsen, L'étude des auteurs classiques latins aux Xle et XIle siécles, Paris, CNRS, 1982-1987, 3 voll.; A.J. Minnis, Medieval Theory ofAuthorship. Scholastic Literary Attitudes in the Later Middle Age, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 1982; Medieval Literary Theory and Criticism c.1100-c.1375. The Commentary Tradition, a c. di A.J. Minnis e A.B. Scott, Oxford, Oxford University Press, 1988; Medieval and Ren-
aissance Scholarship cit. (si veda soprattutto C. Vita, / commenti ai classici fraXII e XV secolo, ivi, pp. 19-32).
80 Si sofferma su questo aspetto J. Céanp, Les transformations du genre du commentaire, in L'Automne de la Renaissance (1580-1630), XXIle Colloque international d'études humanistes, Tours, 2-13 juillet 1979, a c. di J. Lafond e A. Stegmann, Paris, Vrin, 1981, pp. 101-115; ma cfr. anche Der Kommentar in der Renaissance cit.. pp. 7-20. Sulla problematicità della terminologia tecnica relativa al genere del commento, con esempi specifici dall'antichità (Quintiliano) agli albori dell'età moderna (Erasmo), J. Hamesse, Parafrasi, florilegi e compendi, in Lo spazio letterario del Medioevo. 1. Il Medioevo latino, VI. La ricezione del testo, cit., pp. 197-220: 200-205. 81 LL. Vives, De ratione dicendi (Bruges, 1532), HI, 11: «[commentarii] in aliud sunt, quum sensus auctoris cujuspiam inquiritur, atque explicatur, qui sunt breves et contracti, diffunduntur vero, si de proposita materia disputatur, et quid adferre queat commentator experitur, quales fere sunt in Aristotelem, in Hippocratem, in Ga-
lenum» (si cita da J.L. Vives, De ratione dicendi. La retorica, a c. di E. Mattioli, Napoli, La città del sole, 2002). Sul sistema retorico di Vives, cfr. V. Der Nero, Linguaggio e filosofia in Vives. L'organizzazione del sapere nel De disciplinis (1531), Bologna, Clueb, 1991; E. HipaLco-Serna, La retorica filosofica di Juan Luis Vives, in Vives, De
ratione dicendi. La retorica cit., pp. vu-x1vn (amplia bibliografia alle pp. xLIx-LIV); e più recentemente P. Mack, Vires sDe ratione dicendi: Structure, Innovations, Problems, in «Rhetorica», XXIII (2005), 1, pp. 65-92.
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Come si vedrà, è proprio il confronto con i casi specifici che consente ad un esegeta di professione come Alessandro Piccolomini di scegliere la forma di commento più idonea al testo da esporre. Nella sua ricca attività di interprete di testi antichi Piccolomini sperimenta varie modalità di commento e, mostrando la consueta consapevolezza metodologica,
non tralascia di fornire al riguardo indicazioni teoriche precise. Si è visto quanto
conti per il letterato senese la lezione del metodo aristotelico e le affermazioni su ordo e methodus nell’epistola a Giulio III sono in tal senso estremamente esplicite:
l'esposizione scritta di concetti, almeno in linea di principio, deve procedere in modo ordinato, chiaro e consequenziale, riproponendo nella serie degli argomenti la concatenazione naturale delle connessioni causali che sottende l'ordine delle
cose (abbiamo visto come tale esigenza possa trovare un supporto in schemi ad albero quali le figure che corredano il secondo libro della Parafrase).8 Tale paradigma, applicato da Piccolomini alla trattazione della filosofia naturale, della morale e delle scienze, agisce anche nella sua attività di commentatore: pur distinguendo la trattazione ‘originale’ dall'esposizione di un testo della tradizione, l'umanista
presta in entrambi i casi particolare attenzione alla definizione del modo più adatto per procedere nel lavoro. Quanto alla pratica del commento, le possibilità che Piccolomini considera e sperimenta sono sostanzialmente due, la parafrasi e le annotazioni, ed in entrambi i casi egli tenta una giustificazione non solo metodologica, ma anche epistemologica della scelta effettuata, in termini affini a quelli
della trattazione di Vives.8 82 Cfr. cap. I, $ 2, pp. 29-30.
83 Pur soffermandoci in questa sede sui casi della parafrase e delle annotationi, è opportuno ricordare che l'impegno esegetico di Piccolomini non si esaurisce in queste due forme. Sul versante propriamente letterario, oltre ai grandi commenti alla Retorica e alla Poetica aristoteliche (cui faremo riferimento anche per la prossimità cronologica, tematica e parzialmente formale con le Annotationes in Horatium), occorre ricordare almeno la Lettura fatta nell'Accademia degli Infiammati (Bologna, Bartolomeo Bonardo e Marcantonio da Carpi, 1541), lezione accademica sul sonetto Ora te "n va superbo, or corre altero, composto in lode di Margherita d'Austria, figlia natu-
rale di Carlo V, dalla poetessa senese Laudomia Forteguerri, dedicataria di varie opere piccolominiane degli anni Quaranta. Sulla Lettura ha recentemente richiamato l'attenzione F. Tomasi, Le letture di poesia e il petrar-
chismo nell’Accademia degli Infiammati, in Il Petrarchismo. Un modello di poesia per l'Europa, a cura di F. Calitti e R. Gigliucci, Roma, Bulzoni, 2006, II, pp. 229-250. Per ulteriori indicazioni sull’esposizione
accademica del sonetto forteguerriano, cfr. M.-F. Piéyus, Une lecture académique d'Alessandro Piccolomini. La poésie féminine à l'honneur, in Les années trente du XVIe siècle italien, actes du colloque international (Paris, 3-5 Juin 2004), a c. di D. Boillet e M. Plaisance, Paris, C.LR.R.I., 2007, pp. 237-247; E. Rerini, «Come il Petrarca
fa
molte volte». Esercizio critico ed esperienza lirica nella Lettura padovana di Alessandro Piccolomini (1541), in Il poeta e il suo pubblico: lettura e commento dei testi lirici nel Cinquecento, Atti del convegno internazionale, Ginevra, 15-17 maggio 2008, a c. di M. Danzi e R. Leporatti, Genève, Droz (c.s.). La lezione sul sonetto della Forteguerri conferma la tendenza piccolominiana ad un esercizio esegetico polivalente, attento alle implicazioni
pluridisciplinari del testo commentato. Tale impostazione, che emerge anche nei commenti eruditi a testi non letterari, torna — con tutte le differenze del caso — nelle Annotationes in Horatium. Saggi parziali effettuati da chi scrive
mostrano infatti che le glosse oraziane, e soprattutto quelle relative ai Carmina e all’Epodon liber, costituiscono un campo d'indagine ideale per lo studio della convergenza tra le varie ‘forme’ del sapere che impegnano Piccolomini nell'arco della sua carriera (si rinvia a RerinI, Le «gioconde favole» e il «numeroso concento» cit., pp. 40 sgg.; ma cfr. già BEuADONNA, Astrologia, scienza e dialettica cit., passim).
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2. La «parafrase» e le «annotationi» Dovendo illustrare la Retorica di Aristotele, Alessandro Piccolomini si sofferma
in sede proemiale sulla definizione del metodo seguito, contemplando dapprima le varie possibilità che il genere del commento gli offre: N
Risoluto dunque di scriver nella Retorica d'Aristotele a Theodette, stetti per assai gran pezza sospeso poi in che maniera dovessi farlo: cioè o con tradottione, o con commento, o con scholii, o con annotationi, o con epitomi, o ver VOID 0 con parafrasi, con questioni, o con dialoghi, o con qualch'altro cosi fatto modo.?*
Almeno otto sono i tipi di commento che Piccolomini medita di utilizzare per «scriver nella Retorica d'Aristotele»: la traduzione è legittimamente annoverata tra le forme di esegesi quale primo passo di avvicinamento ad un testo attraverso l'esperienza interpretativa del traduttore;? al generico «commento», da intendersi come esposizione
discorsiva, seguono alcune sue declinazioni particolari. Gli scolii rimandano alla tradizione tardo-antica che Piccolomini, anche altrove, dimostra di aver frequentato; ad
84 Piccoomini, Parafrase I, p. 7. Anche nell'epistola Ai lettori delle Annotation Piccolomini ripercorre brevemente le sue precedenti esperienze di «spositore»: «Et perché varii modi si truovano in uso d'osservare e di seguire (scrivendo) un Autore, com'a dire traducendo, commentando o vero sponendo, annotando, parafrizando e compendiando, io, se ben son andato per cotai modi variando negli scritti miei, mentre che hora con puri commenti, hor con annotationi, hor con epitomi e compendii, e molto spesso con parafrasi, ho trattato diverse materie [...]» (Prccorourvt, Annotationi, c. [+4]r). 85 La riflessione sulla traduzione rappresenta uno dei nodi piu importanti del percorso piccolominiano: avviato negli anni padovani e in linea con le posizioni di Sperone Speroni e di altri accademici Infiammati, il programma dei volgarizzamenti rappresenta per Piccolomini uno degli strumenti più importanti di diffusione del patrimonio classico. In tale prospettiva la traduzione non è semplice trasposizione di un testo da una lingua ad un'altra, ma si configura già come un'operazione interpretativa ascrivibile al genere del commento. Non è un caso che, pur optando per un'esposizione parafrastica della Retorica, l'umanista ne pubblichi anche un volgarizzamento nel 1571. Ancor più lineare la genesi del commento alla Poetica: nel 1572 Piccolomini pubblica la traduzione e nel 1575 le Annotation. Oltre alleindicazioni proposte nel proemio della Copiosissima parafrase, Piccolomini affida una vera e propria ‘teoria’ della traduzione all'epistola che apre il volgarizzamento della Poetica. poi riproposta anche nelle Annotationi. Sull'utilità pratica delle traduzioni si veda la posizione espressa da Piccolomini già molti anni prima, a ridosso del periodo padovano, nellInstitutione di tutta la vita cit., Il, 8. La bibliografia sulla traduzione, le sue
funzioni e le sue codificazioni teoriche è vastissima. Per una messa a fuoco dei problemi teorici fondamentali cfr. almeno il classico G. SrrivER, Dopo Babele: aspetti del linguaggio e della traduzione, Milano, Garzanti. 1994. Su Piccolomini traduttore di Aristotele si veda il recente e dettagliatissimo A. Corucno, Piccolomini e Castelvetro traduttori della Poetica (con un contributo sulle modalità dell’esegesi aristotelica cinquecentesca), in «Studi di lessicografia italiana», XXIII (2006). pp. 113-219, che ripropone in appendice l’epistola At lettori di Piccolomini (ivi, pp. 208-219); ma cfr. anche le osservazioni di A. StetieRA, La “Poetica vulgarizzata et sposta per Lodovico Castelvetro” e le traduzioni cinquecentesche del trattato di Aristotele, in Ludovico Castelvetro. Letterati e grammatici nella crisi religiosa del Cinquecento, a c. di M. Firpo e G. Mongini, Firenze, Leo S. Olschki ed., 2008, pp. 25-45: 35-45. Giova infine ricordare che anche la traduzione trova spazio nella sezione del De ratione dicendi di Juan Luis Vives dedicata alle forme del commento (ivi, IIl, 12, l'ersiones seu interpretationes).
80 La dimestichezza di Piccolomini con la tradizione scoliastica è attestata nel proemio di Parafrase I, dove l'autore, nell'ambito di una sintetica storia degli studi relativi alla Retorica, si dice insoddisfatto per icommenti disponibili, ad eccezione di alcune «scholie grecche senza nome», anch'esse, tuttavia, «tronche e scorrette» (ivi, p. 3).
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essi si legano, almeno tipologicamente, le «annotationi» che, come vedremo, sembrano distinguersi dagli scolii per una maggiore flessibilità formale e contenutistica, ma che degli scolii condividono il carattere disorganico di appunti funzionali alla comprensione di singoli segmenti testuali.” L'epitome o compendio rientra invece nella serie dei commenti discorsivi ed ha l'obiettivo di presentare il testo in forma sintetica. Con la parafrasi ci si sposta su un piano di maggiore complessità perché, come Piccolomini stesso afferma poco piü avanti, in essa convergono le istanze della traduzione e dell’esposizione.* Le «questioni», infine, evocano le «quaestiones» medievali, ampiamente diffuse soprattutto in ambito filosofico e teologico;" mentre con i «dialoghi», oltre all'archetipo platonico, si richiama la tradizione ricchissima che tra Umanesimo e Rinascimento vede proprio nella forma dialogica uno strumento primario d'indagine,
esposizione e divulgazione del sapere.” 97 Chiara la distinzione in Vives, De ratione dicendi, IL 11: «Interpretatio singulorum verborum glossa est, seu glossema. nomen a lingua tractum, quasi lingua obscurior dilucidiore declaretur [...]; aliquanto fusius est scholium, ab exercitatione scholarum deductum, quod constat oratione facili, et demissa, omni prorsum cultu atque apparatu nuda». Sul passo richiama l'attenzione Cfarp, Les transformations du genre du commentaire, cit., p. 102.
88 Su epitomi e compendi cfr. Hamesse, Parafrasi, florilegi e compendi cit., pp. 209-218 (utile per risalire ad una bibliografia specifica e ricco di riferimenti a fonti medio-umanistiche sul tema). All'epitome dedica un intero paragrafo Vives, De ratione dicendi, III, 10, che individua in questo genere di commento un principio funzionale opposto a quello della parafrasi: «Paraphrasi contraria est epitome, quasi recisio eorum, quae ad praesentis rei vel intellectum, vel utilitatem non sunt necessaria; praesentem voco, quam sibi statuit, qui rescindit, in quo sunt inspiciendi auditores, quod eorum ingenium, quae eruditio circa eam ipsam rem, hinc enim facilior sit materiae intellectus, aut difficilior, tum cujusmodi est ea res, quam paramus abscindere, nam quae est ad intelligentiam aliarum rerum, vel ad suimet ipsius cognitionem accommodata, ea si a reliquo amputetur corpore, non epitomen relinques, sed detruncationem».
89 Per dettagli sulla parafrasi. cfr. infra. 90 Sulla quaestio, forma di commento rigidamente codificata, usualmente inserita nella serie expositio-quaestio-disputatio, cfr. Hovrz, Le glosse e i commenti cit.. pp. 70-71. Sulle sue origini in ambito grammaticale: L. Hovrz, Gram-
mairiens irlandais au temps de Jean Scot, in Jean Scot Erigène et la philosophie, Paris, CNRS, 1977, pp. 69-78. 91 Sulla fortuna del genere dialogico tra Umanesimo e Rinascimento la bibliografia è vasta: per un primo inquadramento: V. Cox, The Renaissance Dialogue: Literary Dialogue in its Social and Political Conteats, Castiglione to Tasso, Cambridge, Cambridge University Press, 1992; C. Forno, /[ “libro animato”. Teoria e scrittura del dialogo nel Cinquecento, Torino, Tirrenia stampatori, 1992; // sapere delle parole: studi sul dialogo latino e italiano del Rinascimento, giornate di studio, Anversa, 21-22 febbraio 1997, a c. di W. Geerts et alti, Roma, Bulzoni, 2001; A. Goparp, Le dialogue à la Renaissance, Paris, PUF, 2001: E. KusHner, Le dialogue à la Renaissance: histoire et poétique, Genève, Droz, 2004. Tra i contributi più recenti che affrontano la questione dal punto di vista della codificazione cinquecentesca dei generi letterari si veda G. ALrano, // racconto e la voce: mimesi e imitatio nel dibattito aristotelico cinquecentesco sul dialogo, in «Filologia e critica», XXIX (2004), pp. 161-200. Il saggio di Alfano offre anche indicazioni utili sul caso di Piccolomini che, pur frequentando il genere del dialogo solo nella Raffaella, ne tratta sul piano teorico all’interno delle Annotationi aristoteliche. Lecito ipotizzare che la concezione piccolominiana del genere dialogico risenta dell'esperienza di Sperone Speroni, autore di numerosi dialoghi di carattere ermenutico e filosofico. La teoria speroniana del dialogo, che Piccolomini ebbe modo di conoscere direttamente durante il soggiorno padovano, filtra probabilmente anche attraverso la rilettura di Bernardino Tomitano (cfr., su questo, il ricco saggio di Girarpi, // sapere e le lettere in Bernardino Tomitano cit., pp. 92-93). A ciò si aggiunga la fortuna di Alessandro Piccolomini come protagonista di dialoghi d'argomento filosofico e letterario: il senese è figura centrale nel paradossale G.B. Mopio, Il convito overo del peso della moglie. Dove ragionando si conchiude
far vergogna all'uomo, Roma, Valerio e Luigi Dorico, 1554 (con due ristampe nel che non può la donna disonesta
1558, rispettivamente a Milano, Giovanni Antonio degli Antoni, e Torino, Martino Cravoto: il dialogo è reperibile anche in Trattati del Cinquecento sulla donna, a c. di G. Zonta, Bari, Laterza, 1913, pp. 309-380). Sul significato
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Di fronte a tale ventaglio di possibilità e dopo un'attenta valutazione, il caso
specifico della Retorica aristotelica spinge Piccolomini a scegliere la parafrasi. Prima di illustrarne gli aspetti più importanti, egli rievoca il metodo seguito nei suoi lavori precedenti, sottolineando implicitamente la differenza tra la trattazione filosoficoscientifica autonomamente gestita e il commento. «Quanto alla sostantia delle cose» da trattare, Piccolomini ida di non essersi mai «partito dalla oppenione di quello Autore che io mi ponevo innanzi per guida», ovvero Aristotele «nelle cose logicali, naturali, morali e meccanice» e Tolomeo «nell'astrologiche». Alla fedeltà conte-
nutistica si affiancava però una libertà di esposizione che, pur dotata di una sua ratio, non necessariamente seguiva passo passo le autorità di riferimento; «quanto al
metodo e ordin[e]», Piccolomini sostiene di essere andato come di parer mio scrivendo, con allargarmi, restringermi, aggiugnere, levare, digredire, aprire, dichiarare, e ogni altra cosa in somma um che potesse meglio manifestare li sentimenti e gli spiriti dell'Autore, e agevolar le materie più che possibil fosse; come quello che a niuna cosa tanto ho procurato sempre ne i miei scritti, quanto d'esser ben inteso.
La complessità di un testo come la Retorica, però, non si prestava ad essere divulgata in questo modo. Piccolomini si rende conto che in questo caso non sarebbe stato sufficiente «manifestar, penetrare, distendere e disnodar la sostantia e la medolla» del testo aristotelico; per la sua «piena intelligentia» e per «fare insieme cosa
grata ai lettori», occorre «mutar metodo» e «aprire [...] passo per passo la sententia e la mente d'Aristotele».?* La prima ipotesi è quella di tradurre, ma una traduzione non avrebbe permesso
di «aprir tutte le difficoltà che vi sono». Dopo aver preso in considerazione il «comche assume la presenza del filosofo nell'operetta di Modio, cfr. L. Borzowt, /| mondo utopico e il mondo dei cornuti. Plagio e paradosso nelle traduzioni di Gabriel Chappuys, in «I Tatti Studies», VII (1999). pp. 171-196; Eap.. Poesia e utopia fra Cinque e Seicento, in La cultura italiana e l'identità europea. Atti del convegno linceo, 6-8 aprile 2000, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2001, pp. 207-230: 223-227. Il Piccolomini messo in scena da Modio, conciliatore e interprete di una medietas tutta oraziana, torna nel sesto dialogo dei già citati Dieci para-
dosse degli accademici intronati (15604), volto a dimostrare «che egli è più dannoso il fare ingiuria che riceverla». Ma il filosofo senese compare anche altrove nelle più severe vesti di maestro e pedagogo: è il caso del dialogo di B. Mepuna, Lo scolare, Venezia, Pietro Facchinetti, 1588. 92 Piccoromni, Parafrase I, p. 7. Alle due auctoritates egli fa riferimento anche nell'epistola Ai lettori delle Annotationi. Rievocando il suo percorso di studioso, Piccolomini spiega l’importanza dell’aver scelto due guide certe che lo tenessero al sicuro «almen dai maggiori precipitii»: «nell Astrologia Tolommeo, e nella Filosofia natur ale e nella morale, e nella Dialettica parimente, e nella Retorica e nella Poetica Aristotele stesso. a cui non si sa sin oggi ch’alcuno in tai facultà habbia posto mai piede innanzi» (Annotazioni, c. [-4]7). 95 Parafrase I, pp. 7-8. Esempi concreti del procedimento utilizzato da Piccolomini nelle sue opere ‘originali’, ossia di quei trattati che non si presentano come commento
0 parafr asi di un’ opera precisa, ma come sintesi di-
vulgative della tradizione filosofica antica, sono l'Institutione per la filosofia morale, Instrumento de la filosofia (1 551) per la logica e le due parti della //osofia naturale (1551-1554) giustappunto per la filosofia naturale. 94 Piccoromini, Parafrase I, p. 8.
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mento», Piccolomini approda alla « parafrase», e ne fornisce una definizione chiara: [è] questo genere molto accomodato a esprimer la mente dell’Autore, con vagar libero alle volte in discoprire e manifestar la sostantia de i suoi concetti, senza discostarsi da quella mai, onde tal genere ha preso il nome. È si può in un medesimo tempo con diverse parole aprir luogo per luogo i passi e snodar le difficultà con allargarle più o manco secondo 7] bisogno loro. E tutto questo con assai minor satietà e maggior diletto di chi sia per leggere, che ne i commenti non adiviene.??
La parafrasi segue dunque fedelmente l’andamento del testo commentato, e la sua flessibilità permette di approfondire l'esposizione laddove la complessità del testo lo richieda, di scorrere più rapidamente dove il senso sia chiaro di per sé, secondo
un'istanza metodologica già codificata nel De ratione dicendi di Juan Luis Vives. In tal modo si evitano le farragini del commento tradizionale rendendo anche più piacevole la lettura. La riflessione metodologica di Piccolomini sul genere di commento adottato per la propria esposizione della Retorica non si ferma però qui: il titolo dell'opera intrapresa, Copiosissima parafrase, necessita evidentemente di un'ulteriore specificazione. Vari sono, infatti, i tipi di «parafrase»: ce ne sono di «brevi e succinte e poco più larghe in somma che libere traduttioni»; altre sono invece «alquanto più piene ma non però tanto che coloro che le usano ardischin di vagare e di digredire molto lungi dalle proprie pedate del principal Autore»: è il caso delle parafrasi in cui il commentatore, in prima persona come se fosse l’autore stesso, non si allontana
troppo dalla lettera di quest'ultimo." C'è poi un altro tipo di parafrase, «assai più libera e assai più piena, nella quale colui che scrive suole, spogliato della persona
dell'Autore e della sua propria vestito, andar con assai lunghi discorsi e digressioni vagando»: in questo caso il commentatore aggiunge le «sue ragioni» ed i «suoi essem-
pi», «senza però lasciar passo per passo le pedate di quello [l'Autore, ndr] in tutto».
95 Ibidem. Sul genere della parafrasi cfr. Hamesse, Parafrasi, florilegi e compendi cit., pp. 197-209; A. Prcnani, La parafrasi come forma d'uso strumentale, in «Jahrbuch der ósterreichischen Byzantinistik», XXXII-XXXIII (1982), pp. 21-32. 96 Cfr. la definizione di parafrasi nel cap. De Paraphrasibus in Vives, De ratione dicendi, II, 9: «Paraphrasis est,
quum ex una oratione alia dilatatur, breviter intertextis quae lucem adferant, ac proinde adjuvent intelligentiam, est enim tamquam viam paullo latiorem reddere. eadem vero tenere semper in sensis».
97 Piccoromni, Parafrase I, p. 8. 98 Ivi, p. 9. Anche tale casistica sembra trovare un riscontro interessante in Vives, De ratione dicendi, Il, 9: «in qua expositione interdum auctoris persona servatur, alias paraphrastes ipse inducit suam, ut tertia persona sit auctoris; quandoque variat, prout locus videtur poscere, nam sunt quae commodius auctoris persona exponuntur,
sunt quae paraphrastae, quod in iis orationibus potissimum contingit, quae habent dramata, vel conciones, aut dialogismos, denique vim aliquam et motum, nam in descriptionibus aut praeceptis artium una est invariabilis totius sermonis facies, nihil opus est ea mutatione loquentium». Pur legittimando il ricorso alle digressioni, l'umanista spagnolo invita a contenerne le dimensioni: «Digressiones aut nullae erunt prorsum, aut perquam rarae, et eae breves admodum, idcirco enim paraphrasis nominatur, quod a proposita phrasi, hoc est oratione, non discedat; verum utilitati est serviendum, hoc est. intelligentiae rei, quocirca locis difficilioribus immorandum est
aliquanto diutius» (ibidem).
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La Parafrase piccolominiana appartiene, come indica l’attributo «copiosissima», a quest'ultimo genere. L'autore individua inoltre un modello di riferimento nella parafrasi di Temistio al De anima di Aristotele e, così facendo,si inserisce esplicitamente
in una tradizione esegetica consolidata." Quello della parafrasi era infatti uno dei metodi più diffusi e fortunati nella storia dei commenti aristotelici tra tarda antichità e Medioevo: la proverbiale difficoltà linguistica dell’opera aristotelica, spesso accessibile in versioni latine non propriamente ineccepibili, aveva trovato un argine
nell’esposizione parafrastica che, anche in virtù della sua natura ibrida di commentotraduzione, fu ampiamente utilizzata per la diffusione dei testi aristotelici, nonché
per quelli di Avicenna e Averroè.!9° La scelta piccolominiana di esporre la Retorica a mezzo di una parafrasi conferma pertanto la piena consapevolezza critico-metodolo-
gica del commentatore. Attraverso le sue parole è dunque possibile comprendere cosa egli intenda per parafrase. Analoghe dichiarazioni metodologiche chiariscono le motivazioni che lo spingono, altrove, a commentare per annotazioni. Il commento per annotationi ècontemplato, come si è visto, accanto agli scolii, tra i tipi di esposizione evocati nel proemio della Copiosissima parafrase (ed abbiamo potuto stabilire, sulla scorta di Vives, una sostanziale corrispondenza tra annotatio e glossa). Se le Annotationes in Horatium ci consentono di vedere il commentatore all'opera, esse non contengono però indicazioni esplicite sul metodo annotativo. Utilissima, a questo proposito, l'epistola Ai lettori che
apre il commento piccolominiano alla Poetica di Aristotele: qui, coerentemente con la consapevolezza metodologica mostrata nel proemio della Copiosissima parafrase. l'autore giustifica e spiega il significato del suo lavoro. Il desiderio di «scrivere qualche
99 [bidem: «si come tra gli altri usa di fare ne i libri d'Aristotele Themistio. e spetialmente in quelli dell'Anima». Quanto al modello, Piccolomini poteva leggere Temistio in una delle numerose edizioni cinquecentesche (la princeps veneziana dei Libri paraphraseos Themistii èdel 150 2). ed èaltamente probabile che lo studio piccolominiano del parafraste aristotelico si collochi negli anni padovani. 100 Per la fortuna del metodo parafrastico nell'ambito dell’esegesi aristotelica cfr. Hamesse, Parafrasi, florilegi e compendi cit.. pp. 205-208, da cui è possibile risalire ad una bibliografia specifica. Un quadro dettagliato della situazione relativa ai commenti medievali e rinascimentali ad Aristotele in C.H. Lonr, Medieval Latin Aristotle Commentaries, in «Traditio», XXIV (1968), pp. 149-245; XXVI (1970). pp. 135-216; In., Latin Aristotle Commentartes, II, Renaissance Authors, Firenze, Leo S. Olschki ed., 1988; In., Commentateurs d’Aristote au moven
áge latin. Bibliographie de la littérature sécondaire récente, Freiburg-Paris, Cerf, 1988. Sulla fortuna e diffusione rinascimentali della Retorica, con la messa a fuoco dei temi principali del dibattito cinquecentesco, L.D. GREEN,
The Reception of Aristotle s Rhetoric in the Renaissance, in Peripatetic Rhetoric after Aristotle, a c. di W.W. Fortenbaugh e D.C. Mirhady, New Brunswick-London, Transaction Publishers, 1994, pp. 320-348. Si segnalano, infine, alcuni repertori cui fare riferimento per un quadro delle prime edizioni della Retorica i C.H. Lonr, ltenaissance Latin Aristotle Commentaries, in «Studies in the Renaissance», XXI (1974),pp. 228-289, che prosegue in «Renaissance Quarterly », XXVIII (1975), pp. 689-741; XXIX (1976), pp. 714-745; ANN (1977), pp. 691-741; XXXI (1978), pp. 532-603; XXXII (1979). pp. 529-580; XXXIII (1980). pp. 623-734; XXXV (1982), pp. 164-256; EE. Cranz-C.B. Scuurrr, A Bibliography of Aristotle Editions. 1501-1600, Baden-Baden, Valentin
Kórner, 1984; P.D. Branprs, A History of Aristotle's Rhetoric: with a Bibliography of Early Printings, MetuchenLondon, Scarecrow Press, 1989. Per le traduzioni si veda P. Larver, Les traductions de la Rhétorique d Aristote à la Renaissance, in Traduction et traducteurs au Moyen Áge. Actes du colloque international du CNRS, Paris, IRHT, 26-28 mai 1986, Paris, CNRS, 1989, pp. 15- 30.
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cosa in lingua nostra sopra questo libro» si è concretizzato dapprima nella traduzione,
pubblicata autonomamente nel 1572. I preziosi contributi di «huomini dotti» quali Maggi e Robortello, che «con lor giuditiosi Commenti gran lume, chi ad alcuni difficili passi di quel libro, chi ad alcuni altri davano», lo hanno lungamente dissuaso dal ten-
tarne un'esposizione personale. Sentendosi però «in tanto assalir hormai assai gagliardamente dagli anni della vecchiezza», Piccolomini si è risolto a «dar effetto al giàconceputo [...] disegno, per quelle parti almeno di questo libro alle quali non mi pareva che dagli altri fusse stata finhora data quella chiarezza e quella fedel intelligentia che si converrebbe».! Il commento alla Poetica si prospetta quindi come un'integrazione, o
meglio come un completamento delle interpretazioni del testo aristotelico fornite dagli umanisti fino a quel momento. Tale istanza è subito confermata dall'esplicitazione del metodo impiegato: rinunciando all'originario «pensiero di far commento in questa poetica per via di spositione senza lasciar luogo ch'io non toccassi», Piccolomini decide di «farlo per via d'annotationi». La scelta di realizzare un commento «per via d'annotationi» si giustifica quindi con l'intento di evitare un ‘doppione’ di quei commenti del pieno Cinquecento con cui Piccolomini si confronta esplicitamente: gli «Spositori», e «spetialmente in molti luoghi il Vittorio e 1 Maggio», hanno infatti fornito spiegazioni con cui il senese si
trova in pieno accordo, e tale consapevolezza gli permette di rinunciare alla fatica «soverchia e forse arrogante» di illustrare di nuovo l'intero testo aristotelico dall'inizio alla fine."? Le annotazioni consentono infatti di soffermarsi su quei passi che necessitano di altra o più chiara spiegazione: Son io dunque andato in trascorrer con annotationi tutto 1 detto libro, quei passi e luoghi più succintamente trapassando e alcuni totalmente non toccando, nei quali ho stimato che gli altri habbian commodamente detto. E per il contrario più lungamente mi son disteso in quelli dove o cosa non tocca dagli altri ho detto (e questo è avvenuto in molti luoghi), o dall'altrui opinioni, con oppormi loro, mi son partito, e questo parimente è avvenuto spesso. !?
Scorrendo le Annotationi nel libro della Poetica salta infatti immediatamente agli occhi la diversa ampiezza delle varie annotazioni e una lettura analitica permet-
101 Piccoromini, Annotationi, cc. +10-++2r.
102 Il commento alla Poetica tradisce una lunga frequentazione del trattato ed i precedenti più frequentemente citati sono Robortello, Maggi e Vettori (Castelvetro è bersaglio polemico costante, ma mai citato esplicitamente): RosorteLLo. In librum Aristotelis cit. (1548); V. Macci-B. Lomgarpi, /n Aristotelis librum de poetica communes
explanationes, Venezia, Vincenzo Valgrisi, 1550; P. VETTORI, Commentarii in primum librum Aristotelis de arte
poetarum, Firenze, Giunta, 1560. Il contributo piccolominiano all'interpretazione dei trattati di Aristotele, da ascriversi pienamente al settimo decennio del secolo, costituisce anche in tal senso il punto di arrivo di una lunga discussione avviata in Italia, tra Padova e Firenze, negli anni Quaranta. 103 PiccoLomini, Annotationi, cc. ++10-++2r.
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te di individuare per quali passi del testo aristotelico Piccolomini fornisca una sua spositione in contrasto, in alternativa o ad integrazione di quelle fornite dagli altri spositori. Commentare per via d’annotationi significa di fatto prendere in esame un testo già studiato ed interpretato da altri, analizzarlo autonomamente, valutando al
tempo stesso i contributi offerti dalla tradizione esegetica disponibile e intervenendo nell’ideale dibattito tra gli studiosi solo dove ci sia una qualche discordanza interpretativa. Nulla a che vedere, quindi, con il carattere lineare ed organico di un commento parafrastico che, per sua stessa natura, non può rinunciare ad un'esposizione completa del testo preso in esame.
3. Per una tipologia delle Annotationes oraziane di Piccolomini Isolando nella produzione piccolominiana i due commenti aristotelici, ci troviamo di fronte a due esempi diversi di commento ad un testo non letterario della tradizione classica. La Copiosissima parafrase e le Annotationi testimoniano la versatilità piccolominiana di fronte al genere del commento, e le sue indicazioni teoriche al riguardo risultano utili anche per lo studio dell'inedito commento oraziano. Le Annotationes in Horatium condividono infatti l'impostazione delle Annotationi nel libro della Poetica: come per il trattato aristotelico, anche per l’opera omnia di Orazio un intellettuale di metà Cinquecento poteva contare su un ampio numero di commenti e contributi esegetici con cui confrontarsi. È veri-
simile che per la rinuncia ad un commento piano e disteso di Orazio in favore di uno per via d’annotationi valga l'argomentazione già addotta a proposito delle Annotationi aristoteliche. Che Piccolomini intervenga per lo più laddove intende discutere o confutare interpretazioni tradizionali, con l'intento di dirimere — se possibile — il luogo controverso, è d'altronde dimostrato dalle Annotationes stesse, che fanno spesso riferimento alle posizioni di altri interpreti («aliqui exponunt») per rifiutarle («sed non adhereo huic expositioni») o correggerle («sed mihi videtur [...]»).* Le Annotationes si confrontano con numerosi precedenti e, se in certi casi è possibile individuare una fonte o un bersaglio polemico in modo
104 Per avere un'idea del formulario piccolominiano, cfr. Annotationes, 24.1 («quamplures exponunt ut [...]; sed mihi videtur [...]»); 81.4-5 («sic exponunt quidam. Potest tam dici [...]») e 81.6 («Utraque expositio admitti potest, sed haec potior»); 105.1 («male exponunt qui [...]»); 193.7-8 («ne exponas [...]: sed expone [...]»); 202.1 «[...] secundum aliquos [...]; sed haec expositio non plene satisfacit»); 221.2 («prima expositio melior»); 227.45 («fere omnes exponunt quod [...]; sed huic expositioni non adhereo»); 234.5 («et ideo prior expositio melior»); 234.8 («haec posterior expositio magis mihi arridet»); 260.6 («sed expositio quam 2? loco posui melior»); 275.1 «aliqui sic [...]; sed mihi non satisfacit haec expositio»); 359.1-3 («aliqui exponunt [...]; ego non autem exponerem ut [...]»); 406.1-2 («sic exponunt aliqui. Sed potest exponi etiam et melius [...]»); 415.1 («aliqui exponunt de ...] sed melius est de [...]»); 438.2-3 («Exponunt aliqui quod [...]; sed haec expositio non videtur tuta») e 438.6 «oportet ergo hic exponere de [...]»); 459.1-2, 5-6 («Possunt haec et proprie et allegorice exponi. Proprie sic [...] ? huic expositioni olim acquiescebam, modo autem non adhereo [...]; sed tutius est exponere allegorice ut [...]»).
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abbastanza sicuro, in altri è opportuno procedere per ipotesi: spesso, infatti, una medesima idea interpretativa è condivisa da più commentatori. Il lavoro condotto da Piccolomini sul testo dell’Ars poetica permette del resto di scorgere una vasta conoscenza della tradizione esegetica oraziana da parte del letterato: un punto di riferimento costante sono senz altro le glosse dello Pseudo-Acrone e di Porfirione che, come si è detto, non cessarono mai di accompagnare i testi oraziani, ma un ruolo non meno importante è svolto dai commentatori umanistici. Prima di affrontare alcuni dei nodi più rilevanti della riflessione piccolominiana, facendo
proprio riferimento ad analogie e divergenze rispetto alla tradizione dei commenti, è però utile chiudere il discorso sulla forma e le funzioni che regolano il procedimento esegetico di Piccolomini. Guardando più da vicino le Annotationes, è infatti possibile fornire una classificazione di massima dei vari tipi di interventi che il letterato realizza sul testo dell’Ars poetica.
(1) In alcuni casi Piccolomini propone annotazioni di carattere filologico in cui
discute singole lezioni del testo tràdito, permettendoci tra l’altro di fare ipotesi sulle edizioni oraziane che probabilmente consultava. In tre di essi (Annotationes 98, 193,
319) il termine di confronto è l'edizione di Aldo Manuzio, citato esplicitamente.!® L'annotazione al v. 98 si sofferma su una questione di interpunzione (la presenza o meno del punto interrogativo alla fine del verso) che, secondo Piccolomini, implica una lezione diversa al v. 96 (cur pauper] cum pauper), ed un diverso significato da attribuire alla voce verbale «proiicit»: 98. Sr curat con. [1] Si versus hic legatur cum interrogationis nota, legendum erit in versu 96 CUR PAUPER, et non cum PAUPER. Et tunc verbum proncit pro verbo ‘profert’
seu ‘enunciat’ accipiendum est. Et sic legitur apud quaedam fide digna exemplaria. [2] Sed si legatur versus hic 98 absque nota interrogationis, ut legit Aldus et alii etiam codices, tunc in versu 96 cum PauPER legendum erit, verbumque PRonCIT pro ‘respuit’ seu ‘abiicit’ accipi debet. 9^
Qui il commentatore non prende posizione, ma si limita a corroborare la seconda
opzione (ossia l'assenza di punto interrogativo) con un auctoritas editoriale non indifferente: «ut legit Aldus et alii etiam codices». L'edizione oraziana di Aldo Manuzio del 1501, piü volte ristampata nel corso del secolo, sembrerebbe in effetti il testo di riferimento per Piccolomini che, nella trascrizione di segmenti testuali commentati, è in accordo con essa. Un accordo esplicito con il testo di Aldo è del resto dichiarato 105 Ealdina oraziana esce a Venezia nel 1501, con numerose ristampe cinquecentesche. Per la storia delle edizioni oraziane, cfr. ancora Iuriii, Orazio fra editori, esegeti e bibliofili cit., passim. 106 PiccoLomni, Annotationes, 98.1-2.
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nell'annotazione al v. 193, che accenna alla dibattuta questione del coro e del suo
ruolo («actoris partes chorus officiumque virile / defendat»): 193. Avcronis partes. [4] Aliqui legunt Acronis: sed melius Aucronis ut legit Aldus et quamplura fidelia exemplaria. Aucronis ergo, idest poetae,9? x
Sebbene la lezione oggi accettata sia proprio actoris, Piccolomini preferisce mettere a testo auctoris, trovando in Aldo un sostegno alla sua scelta («ut legit Aldus et quamplura fidelia exemplaria»). L'interpretazione del v. 193 è delicata perché esso definisce la natura degli interventi del coro all'interno del dramma. Leggendo auctoris, e considerando quindi il coro tragico come portavoce del poeta («Auctoris ergo, idest poetae»), Piccolomini legittima un parallelismo tra il ruolo del coro e quello del poeta epico che interviene esprimendo la sua opinione: [5] Solent enim poetae epici in rebus vel honestis vel turpibus, suam interponere sententiam, laudando vel vituperando, honesto semper faventes et vitia detestantes.
[6] Quod igitur in epicis facit ipse met poeta, in tragedia facere debet chorus. ''
Le implicazioni dell'osservazione filologica non sono secondarie, anche perché
esplicitano la posizione di Piccolomini sulla questione del coro tragico, una delle più controverse nelle poetiche classiciste rinascimentali e successive.!!!
Se in questo caso il testo di Aldo costituisce un punto di riferimento che rafforza l'argomentazione piccolominiana, nell'annotazione al v. 319, l'umanista non esita
ad affermare il suo disaccordo con la lezione iocis, cui preferisce la variante locis: 319. InteRDUM sPECIOSA Locis. [1] Aldus legit rocis, sed mea quidem sententia, me. 2 : lius Locis.'*
107 Hon., AP, 193-194. 108 PiccoLomini, Annotationes, 193.4.
109 Cfr. l'apparato dell'ed. Brink, Horace on Poetry. 2, The Ars Poetica, cit., p. 62, che non registra varianti relative alla lezione actoris. 110 Piccoromini, Annotationes, 193.5-6.
111 Che la questione, anche da un punto di visto filologico, sia delicata, è dimostrato dal fatto che il commentatore non rinuncia a discutere le potenzialità della variante actoris. Cfr. PiccoLomni, Annotationes, 193.7-9: «[7] Si vero legatur Acronis, ne exponas, ut aliqui, histrionem primarum partium; [8] sed expone quod, sicut duplici munere fungitur chorus in scaena, videlicet loquendo in ipsis actibus loco histrionis et canendo inter actus, sic etiam duplex erit eius officium: [9] unum videlicet sustinere actoris partes, histrionem scilicet agere; aliud vero defendere OFFICIUM VIRILE et quae sequuntur, cum canit scilicet». Si vedano, per ulteriori dettagli, le nostre note di commento ad loc. 112 Piccoromini, Annotationes, 319.1. Si osservi che, in questo caso, la variante è significativamente attestata dalla tradizione (la si legge, per esempio, in Porfirione). Cfr. l'apparato dell'ed. Brink, Horace on Poetry. 2, The Ars Poetica, cit., p. 66.
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Piccolomini sceglie qui di mettere a testo una lezione comunque attestata dalla tradizione dell’Ars poetica, e nell'annotazione successiva, ancora dedicata al v. 319,
glossando il verso lemma per lemma, illustra il significato della iunctura «speciosa
locis»: «Per speciosa locis intelligo actiones recte et ex arte expressas, et illas quidem pulchras, cum non quarumlibet actionum imitatio admittenda sit».!'?
(2) Pur avendo affermato nella glossa proemiale che l'Ars poetica non è un'esposizione ordinata e sistematica di precetti poetici, Piccolomini non rinuncia a qualche tentativo di divisio textus. Senza raggiungere il rigore delle divisiones della tradizione retorico-scolastica medievale ed umanistica, il commentatore riconosce all'interno dell Ars, e soprattutto nella prima parte di essa, alcune sezioni a suo avviso incentrate sui termini chiave della retorica classica. Eloquente, in tale ottica, l'annotazione al v. 1 che non commenta l'immagine del mostro composto da membra di animali diversi, preferendo soffermarsi sull'argomento generale dei vv. 1-23: Linea p.° Humano caprri. [1] Ab hoc principio, usque ad DENIQUE sIT QUIDVIS etc., si partes poeseos, inventionem scilicet, dispositionem et eloqutionem, considerare voluerimus, inventionem tangere dicemus hic Horatium, ac circa illam praecepta ponere. [2] Si autem partes poeseos considerabimus, quas qualitatis vocat Aristoteles, videlicet fabulam, mores, sententiam, dictionem, fabulam hic intelligemus ac circa
eius compositionem praeceptum: quomodo videlicet una et simplex esse debet. !!*
La prima sezione dell'epistola consiste quindi nei vv. 1-23, e tratta, secondo i termini della retorica latina, dell'inventio, ossia, per dirla con la terminologia ari-
stotelica, della fabula. Fin dall'inizio Piccolomini accosta le due tradizioni retoriche: per uno studioso di Aristotele è inevitabile fare riferimento alle «partes qualitatis», ma l'importanza della tradizione retorica latina, basata sulla tripartizione di inventio, dispositio ed elocutio, non può essere accantonata — e a maggior ragione non
può esserlo nel caso dell’Ars poetica, che di quella tradizione costituisce uno dei testi chiave. La divisio textus operata da Piccolomini é comunque molto flessibile e. ad eccezione dell'indicazione offerta sui primi 23 versi dell'epistola, tende a segui-
re l'andamento mobile dell'esposizione oraziana.'? Sintomatica di questa tendenza l'annotazione al v. 42, che riepiloga i termini di una possibile divisione del testo fino al v. 46: 42. OrpinIs Haec virtus. [1] Notandum quod, meo quidem iudicio, Horatius a principio usque ad hunc locum, perstitit in inventione et praecipue in fabulae constitutione.
113 Piccoromni, Annotationes, 319.7.
114 Ivi, 1.1-2. 115 Cfr. ivi, 14.1; 23.1; 24.1; 38.1.
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[2] Primum enim damnavit peccata circa illam; dehinc docuit quomodo in illa non incidamus, ibi scilicet Summrre. Si enim summetur materia etc. non evenient illa mon-
stra. [3] Cum autem id praecipiens dixerit quod si recte summetur materia, facillime dehinc sequitur facundia, idest bona elocutio, ac recta ordinis dispositio, ideo, sumpta hinc occasione, quia fecerat mentionem de elocutione et ordine, ideo statim addidit precepta circa utrumque, primum circa dispositionem, ibi ORDINIS HAEC VIRTUS, et
dehinc de elocutione, ibi IN verBis ETIAM. [4] Usque igitur ad SUMMITE MATERIAM, versatus est circa inventionem, primum damnans peccata circa illam, dehinc causam
reddens huiusmodi erratorum, ibi maxima Pans. !'^
Per avere un'idea di come proceda la blanda divisio textus piccolominiana, è sufficiente riassumere schematicamente le indicazioni offerte dall'annotazione al v. 42.
vv. 1-41:
vv. 40-41
vv. 42-45: vv. 46-490:
inventio/fabulae constitutio vv. 1-23: condanna degli errori poetici vv. 24-37 («Maxima pars vatum» etc.): cause degli errori vv. 38-41 («Sumite materiam» etc.): precetto poetico sull’inventio («Cui lecta potenter erit res, / nec facundia deseret hunc nec lucidus ordo»): cenno ad elocutio e dispositio come conseguenze naturali di una buona inventio precetto sulla dispositio («Ordinis haec virtus» etc.) precetto sull'elocutio («In verbis etiam» etc.)
L'affermazione che Orazio si sia trattenuto dall'inizio fino al v. 42 «in inventione» e soprattutto «in fabulae constitutione», non deve essere vista in contraddizione con quanto affermato precedentemente sui vv. 1-23. Si tratta piuttosto di un'integrazione che rivela il modo di procedere del commentatore nelle Annotationes: nel corso della lettura-commento dell'epistola, Piccolomini aggiunge dettagli, fa riferimento a
questioni già toccate, e la natura stessa di un commento per via d’annotationi non gli consente di proseguire in modo sistematico quelle osservazioni sulla divisione del testo che, forse anche per retaggio scolastico, tenta di produrre commentando i primi versi dell'epistola.
(3) Il commento dell’Ars poetica impone al glossatore di chiarire certe affermazioni dell'autore che, perspicue per i lettori d'età augustea, non lo sono per il lettore moderno. La sintetica rievocazione oraziana della storia dei generi teatrali, per esempio, dà adito ad una delle annotazioni più lunghe del commento piccolominiano.!!” Giunto alla «vetus comoedia» del v. 281, Piccolomini si sente in dove116 Ivi, 42.14.
117 La sintetica storia dei generi teatrali e del loro passaggio dalla Grecia a Roma in Hon., AP, 275-288. Per la
tragedia la successione oraziana comprende Tespi ed Eschilo; per la commedia si accenna alla «comoedia vetus»
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re di ripercorrere in breve le tappe evolutive del genere comico, ma è interessante osservare che il suo intento non mira solo ad una sintesi storico-letteraria come tante altre già fornite dai commentatori. L'attenzione con cui egli si sofferma sulla successione «comoedia», «comoedia vetus» e «comoedia nova» è infatti funzionale ad un chiarimento terminologico che possa eliminare l'ambiguità tra la «comoedia» degli esordi, nata insieme alla tragedia, e la «comoedia vetus»: nonostante l’attri-
buto, quest ultima non corrisponde infatti, secondo Piccolomini, alla prima forma di commedia, ma alla seconda. quella — per intendersi — frequentata da Aristofane e caratterizzata dalla «maledicentia». Basti qui riconoscere l'intento chiarificatore
dell'interprete che, potendosi avvalere di una già ricca tradizione esegetica tanto sul fronte oraziano quanto su quello aristotelico, cerca di eliminare errori interpretativi
dovuti ad ambiguità terminologiche.!!?
(4) Proprio perché alle prese con una cospicua serie di commenti e contributi teorici che avevano segnato il dibattito cinquecentesco sui generi letterari, Piccolo-
mini interviene in molti casi sul testo dell’Ars poetica per confutare interpretazioni fuorvianti. Così come Aldo è criticato nella scelta di una lezione, Piccolomini non
esita a contrapporre, sul piano più propriamente critico e teorico, le sue posizioni a quelle degli altri commentatori. A differenza di quanto accade nella Copiosissima
parafrase e nelle Annotationi aristoteliche, nel commento oraziano l'umanista non cita mai esplicitamente la controparte, limitandosi a quelle formule generiche cui si è già fatto riferimento.!!°
(5) Pur non potendo schematizzare troppo rigidamente la classificazione tipologica delle annotazioni piccolominiane, che spesso assommano in sé i caratteri specifici di più tipi, occorre infine rilevare la presenza di una serie numerosa di interventi
che. senza chiamare in causa altri spositori, mirano a chiarire a mezzo di sinonimi o perifrasi il senso di singoli lemmi oppure di intere proposizioni. Si tratta, in questi
e, implicitamente, alla sua evoluzione verso la commedia nuova; quanto al mondo latino, Orazio fa cenno alla
«praetexta» e alla «togata». La laconica rassegna oraziana, che vuole solo suggerire un percorso senza pretesa di esaustività manualistica, necessita evidentemente di integrazioni agli occhi dei lettori scolastici. Già lo PseudoAcrone sentiva l’esigenza di chiarire la successione dei vari generi teatrali, ma le sintesi che forniscono probabilmente a Piccolomini un inquadramento generale della questione sono quelle più recenti di Cristoforo Landino e Badio Ascensio. Cfr. le note di commento al testo. 118 Un esempio calzante, nonché limitrofo a quello della «comoedia vetus», è quello di Annotationes, 288 sulla corretta definizione di «fabula praetextata». Il caso è discusso non solo per il significato ‘storico’ da attribuire al genere della pretesta, quanto per la necessità di chiarire il rapporto tra genere e specie nella definizione di praetexta e togata.
119 Cfr. l'esemplificazione fornita alla n. 104, p. 42. Un caso sui cui sarà necessario tornare, e che rappresenta
al meglio questo tipo di interventi, nonché l'impostazione generale del commento piccolominiano, è quello della
posizione assunta dall’umanista sulla questione del diletto poetico (cfr. cap. IV). Per gli altri casi si rimanda alle note di commento al testo, in cui si è cercato di render conto degli interventi polemici di Piccolomini.
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casi, di esposizioni parola per parola che assumono un andamento non dissimile da quello delle più tradizionali glosse ai testi classici. 120
Nella consapevolezza del suo carattere riduttivo, il tentativo di classificare le
Annotationes permette di cogliere la varietà di interventi esegetici cui Piccolomini sottopone il testo dell’Ars poetica, mettendo in luce la naturà aperta e 'referenziale del lavoro piccolominiano. Le annotazioni dialogano quasi sempre con i commenti precedenti, ed anche se non costituiscono un commento ordinato e sistematico, confermando in tal modo la programmatica flessibilità dell’annotatio, attestano l'acu-
tezza con cui il loro autore guarda all’Ars poetica.
120 Questo tipo di annotationes risponde in modo puntuale alle definizioni coeve di glosa e scholium. Cfr. ancora
il già citato Vives, De ratione dicendi, III, 1 I, in cui, come si è visto, la glossa indica una singola parola che chiarisca il senso del lemma oscuro, mentre lo scolio è considerato come una nota quantitativamente più cospicua.
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CaprroLo III
«FUIT HAEC SAPIENTIA PRIMA» LA POESIA NEL SISTEMA PICCOLOMINIANO DEI SAPERI
1. Orfeo, Anfione e le origini della poesia L'idea di una convergenza di poesia e filosofia nell’alveo della sapientia è uno dei temi più importanti della riflessione umanistico-rinascimentale sullo statuto della poesia. Fra le molte auctoritates che la sanciscono, un posto di primissimo piano è occupato dai versi dell'epistola ai Pisoni che già abbiamo visto richiamare l’attenzione di Bernardino Daniello all’inizio della sua Poetica: [...] fuit haec sapientia quondam, publica privatis secernere, sacra profanis, concubitu prohibere vago, dare iura maritis,
oppida moliri, leges incidere ligno. '?!
La «sapientia» cui fa riferimento Orazio è la sapienza delle origini, quel sapere che, condiviso da figure mitiche come Orfeo ed Anfione, è alla base delle prime
forme di civiltà umana. La poesia è lo strumento con cui i primi poeti permettono agli «homines silvestres» di emanciparsi dallo stato ferino dei primordi, acquisire le prime regole del vivere in comunità condividendo una serie di norme, in primo luogo morali, che consentano loro di costruire società ordinate, non più in balia degli istinti e della natura. Il tema della funzione civilizzatrice della poesia è caro ad Orazio che si esprime in termini analoghi anche in Sat. I, 3: qui il poeta non parla esplicitamente di poesia, ma attribuisce alla genesi della comunicazione linguistica («verba» e «nomina») il potere di sedare gli istinti bestiali degli uomini primitivi, «mutum et turpe pecus».'? L’analogia con la «sapientia» poetica di Orfeo ed Anfione 121 Hon., AP, 396-399. 122 Hor., Sat., I, 3, 99-106: «Cum prorepserunt primis animalia terris, / mutum et turpe pecus, glandem atque
cubilia propter / unguibus et pugnis, dein fustibus atque ita porro / pugnabant armis, quae post fabricaverat usus, / donec verba, quibus voces sensusque notarent, / nominaque invenere; dehinc absistere bello, / oppida coeperunt munire et ponere leges, / ne quis fur esset neu latro neu quis adulter». Piccolomini sottolinea l'importanza della sfera sensibile nella percezione degli uomini primitivi glossando il v. 98 di Sat. I, 3 («atque ipsa utilitas mater
iusti»): «Quamvis potius causa aequi et iusti ipsarumque legum sit honestum ipsum quam utile; magis enim ab
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nell'Ars è ancor più evidente quando il poeta passa in rassegna i primi effetti di tale evoluzione: la cessazione delle guerre, la fortificazione delle città, l'imposizione delle leggi e, soprattutto, l'instaurazione di una morale condivisa. La funzione civilizzatrice della poesia «sapientia prima» è tema molto frequentato nella riflessione di Alessandro Piccolomini sulla poetica. Proprio la chiosa al v. 396 dell’Ars poetica nelle Annotationes offre a questo proposito alcuni elementi d'interesse che, se messi in relazione con altre dichiarazioni dell'autore, permettono
di far luce sulla concezione piccolominiana della poesia e del linguaggio poetico. Sintomatico di una meditazione prolungata sul tema potrebbe essere, d'altronde,
un errore nell’autografo delle Annotationes: nel segmento del v. 396 riportato all'inizio dell'annotazione ad esso relativa, la lezione oraziana «fuit haec sapientia quondam» è proposta nella curiosa variante «fuit haec sapientia prima». Un confronto con le edizioni critiche dell’Ars a nostra disposizione ed un'indagine sulle edizioni quattro e cinquecentesche inducono ad escludere l'ipotesi di una variante testimoniata dalla tradizione.'? Finché non emerga un testimone oraziano verosimilmente accessibile all'umanista che rechi la lezione sapientia prima, sono due le ipotesi possibili: data la correttezza metrica della lezione, che corrisponde perfettamente ad una clausola d'esametro, potrebbe trattarsi di una congettura di Piccolomini, forse
suggerita dall'occorrenza della medesima formula in &ptst. L, 1, 41.!°* In tal caso, però, ci si aspetterebbe un’argomentazione esplicita dell'intervento sul testo, analoga
a quella relativa al v. 319 cui si è già fatto riferimento.' Rinunciando all’idea della congettura, si dovrà allora ipotizzare un vero e proprio lapsus: pur non volendo attribuire ad un eventuale errore di questo genere significati profondi, occorre ammettere che, se di lapsus si trattasse, esso si colorerebbe di sfumature degne di nota.
honesto moveri debent homines quam ab utili; tamen si ipsum genus humanum considerabimus quatenus ab initio vel mundi vel post diluvium recens prorepserit in terris; profecto paulatim ab imperfectioni statu ad perfectionem progressum esse videbimus: priusque sensu, quam ratione usus. Itaquod sensu utilitas cognita prius fuit, quam honestum ipsum quod ratione dinoscitur. Fuit ergo utilitas mater iusti, idest origo iusti, non quia iustum ab ea primario loco pendeat, sed quia utilitas fuit causa et occasio prima, ut per leges distingueretur iustum ab iniusto: quod statim declarat ostendens quomodo utilitas sit mater et origo iusti» (PiccoLomini, Annotationes super Sermones Horatii, ad loc., c. T8v). L'«utilitas» è quindi «mater iusti» nel senso che gli uomini sono dapprima sensibili
alle ragioni ‘materiali’ dell'utile, e solo in uno stadio evolutivo più avanzato a quelle ‘intellettuali’ del giusto. In tale paradigma si inserisce quindi la funzione civilizzatrice del linguaggio e, per esteso, della poesia. 123 Cfr. ed. Brink, Horace on Poetry. 2, The Ars Poetica, cit., p. 69: l'editore non registra varianti al v. 396. Quanto alle edizioni quattro e cinquecentesche, non è stato finora possibile individuarne una che portasse la lezione «sapientia prima».
124 Hor., Fist. I, 1, 41-42: «Virtus est vitium fugere, et sapientia prima / stultitia caruisse». Che la clausola costituisca un tassello memorabile per Piccolomini può essere sostenuto guardando anche all'annotazione ad essa relativa, che delucida le implicazioni filosofico-morali della iunctura facendo ricorso ad un approccio schiettamente logico: «VIRTUS EST VITIUM FUGERE idest vitium fugere est principium virtutis et ideo aliquo modo virtus, proptereaquod initium rei est maxima pars rei. Eodemque modo de sapientia dicendum est. CaRUISSE STULTITIA est prima sapientia,
idest principium sapientiae» (Prccorowrwt, Annotationes in librum Epistolarum primum, ad loc., c. 1177)
125 Intervenendo sul testo di Aldo, Piccolomini esplicita per esempio la sua scelta: «Aldus legit rocis, sed mea quidem sententia, melius Locrs» (PiccoLomini, Annotationes, 319).
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Insieme con la memoria intertestuale di Epist. 1, 1, 41, che Piccolomini conosceva ed
aveva commentato, potrebbe infatti agire sulla dinamica dell’errore proprio quella riflessione sulla poesia come sapientia prima che, ampiamente diffusa nella tradizione esegetica oraziana, rappresentava un termine di confronto imprescindibile per i teorici del Rinascimento.^^ Avviando quindi una ricognizione sugli interventi dello stesso Piccolomini sul rapporto della poesia con la filosofia e sulla collocazione della poesia stessa nel.sistema delle arti, conviene prendere le mosse dall'annotazione al v. 396 dell'Ars poetica:
[1] A principio enim sapientia et philosophia in huiusmodi rebus posita erant, non in naturae ipsius naturaliumque divinarumque rerum cognitione; sed humanae vitae auxilio incumbebat, hominumque actiones mores et virtutes respiciebat. [2] lidemque erant poetae ac philosophi, qui huiuscemodi rebus incumbebant. Sic ergo exponendus est hic locus, et habet magnam emphasim.!?”
In origine la «sapientia» e la «philosophia» non riguardavano la natura né Dio,
ma avevano la funzione di aiutare gli uomini nel difficile cammino verso la costituzione di una vita comunitaria regolata da norme e leggi: esse si confrontavano con le azioni, i costumi e le virtù degli uomini. In tal senso i primi poeti erano al tempo stesso filosofi, laddove con philosophia si intende anzi tutto la filosofia morale. La glossa di Piccolomini è stringata, ma esplicita, come esplicito è il giudizio del glossa-
tore che, in modo non consueto per le Annotationes, sottolinea l'importanza dei versi oraziani («[hic locus] habet magnam emphasim»).!?8 L'affermazione trova larga eco nell'opera di Piccolomini, a cominciare proprio dalle Annotationes super Artem poeticam Horatti: le tre glosse immediatamente precedenti, dedicate ai vv. 391 sgg., ricordano che il poeta tratta qui l'«utilitas poeticae», le «poeticae facultatis laudes et utilitates et commoditates», sottolineando il carattere tutto particolare dei primi poeti che «furore [...] quodam divino aguntur [...], sicut spiritu prophetae»."? Piccolomini non rinuncia ad evocare il paradigma tradizionale del poeta-profeta che, animato dal «furor» divino, contribuisce in modo decisivo alla civilizzazione dell'uomo primitivo. Gli esempi canonici citati da Orazio ai vv. 391-396 parlano chiaro: Orfeo «sacer interpresque deorum» emancipa i «silvestres homines» dal bestiale stato di natura, e Anfione, «Thebanae conditor urbis»,
126 La lezione sapientia prima torna anche nella citazione dei vv. 396-397 che Piccolomini fa in Annotationes, 371.4: le due occorrenze tenderebbero a fare sistema, ma l'impossibilità di fornire al momento una giustificazione filologica concreta spinge a mantenere il beneficio del dubbio sulla natura della lezione piccolominiana.
127 Ivi, 396.
128 Per un caso di valutazione analoga, seppur non cosi esplicita, e probabilmente inteso a sottolineare la proble-
maticità del passo più che la sua importanza, ivi, 59.3 («Nota tamen hunc locum». 129 Ivi, 391.1-3.
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dà inizio ad una forma ordinata di vita comune muovendo le pietre col suono della lira. La poesia dei due poeti mitici, cui si potrebbero aggiungere gli altrettanto tra-
dizionali Lino e Museo, segna quindi il passaggio degli uomini, ancora incapaci di acquisire un insegnamento more scientifico et methodico, dalla natura alla civiltà. In questa fase è chiaramente privilegiata la componente affabulatrice e persuasiva della poesia, ma ciò non impedisce l'imporsi di contenuti filosofici etico-morali: la distinzione di pubblico e privato, sacro e profano: la sanzione di amori troppo liberi
e illegittimi; il matrimonio; la costruzione delle città; la definizione delle leggi: questi gli elementi che nella sintesi poetica oraziana segnano lo scarto tra lo stato di natura
e la civiltà disciplinata. La proiezione delle origini di una téxvn nel passato mitologico è un topos diffuso, e la forza persuasiva — se non propriamente coercitiva — del Aóyoc sapientemente gestito è tema caro alla tradizione retorica classica. In contesti analoghi si muovono, tra gli altri, Cicerone all’inizio del De inventione, Seneca rivolgendosi a Lucilio e
Quintiliano nella celebrazione di Orfeo e Lino. Il primo, alle prese con la formazione del buon oratore, considera la questione nell’ottica dell'eloquentia più che della poesia in senso stretto, ma la sua argomentazione segue la stessa linea del mito fondativo
proposto da Orazio per l'arte del poeta.' Seneca, d'altro canto, attribuisce esplicitamente alla philosophia l'emancipazione dell'uomo dallo stato di natura: è grazie
all'intervento (e al governo) dei sapientes che nell'età dell'oro domina la giustizia, dove il sapiens senecano è figura analoga al poeta-filosofo oraziano.!! Quintiliano, infine, definendo Orfeo e Lino «musici et vates et sapientes», conferma quel nesso originario di sapientia ed espressione poetica che, emblematicamente rappresentato
dai versi oraziani, giungerà arricchito di numerose implicazioni alla cultura medioumanistica e di lì al pieno Rinascimento.? La valenza essenzialmente morale della sapientia incarnata dalla poesia delle origini è confermata da un altro giro di versi dell'Ars poetica che, toccando la que-
130. Cic., De inv., I, 2-3. Cfr. il più sintetico passo in De or., I, 32-34: come Orazio di Sat. I, 3, Cicerone riconosce
nella comunicazione linguistica la superiorità dell'uomo sulle bestie, e quindi la possibilità di uscire dal ferino stato di natura («hoc enim uno praestamus vel maxime feris, quod conloquimur inter nos et quod exprimere dicendo sensa possumus»); e celebrando la funzione civilizzatrice dell'eloquentia si domanda: «quae vis alia potuit aut dispersos homines unum in locum congregare aut a fera agrestique vita ad hunc humanum cultum civilemque deducere aut iam constitutis civitatibus leges iudicia iura describere?». 131 Sen., Epist., XC, 5-6. Il sapiens senecano è tale, prima di tutto, in funzione della sua grandezza morale («inter
homines pro maximo est optimum»); questo fa si che la sua azione si concretizzi in sedare le violenze, difendere i deboli, mostrare il giusto e il dannoso. Anche nel momento in cui l'età aurea vede incrinato il suo sogno di pace e la comunità necessita di avere delle leggi, sono i sapientes che, come Orfeo e Anfione in Orazio, devono intervenire
(«Sed postquam subrepentibus vitiis in tyrannidem regna conversa sunt, opus esse legibus coepit, quas et ipsas inter initia tulere sapientes»).
132 Quiwr., Inst. or., I, 10, 9. Quintiliano, che pure parla qui della musica e non della poesia in senso lato, rivela
in modo non dissimile da Orazio il senso dell’allegoria orfica; egli spiega a proposito di Orfeo: «quia rudes quoque atque agrestes animos admiratione mulceret, non feras modo sed saxa etiam silvasque duxisse posteritatis memoriae traditum est».
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stione da un punto di vista prettamente precettistico, esplicita la portata del bagaglio filosofico richiesto al buon poeta: Scribendi recte sapere est et principium et fons: rem tibi Socraticae poterunt ostendere chartae,
verbaque provisam rem non invita sequentur."?
Le annotazioni di Alessandro Piccolomini a questi versi oraziani si collegano idealmente a quelle sui «silvestres homines» e sulla «sapientia» poetica dei primi poeti. La fonte dello «scribere recte» è infatti il «sapere», ossia la «sapientia» stes-
sa, che qui si configura come risorsa imprescindibile per la «materia» da trattare: l'importanza di trovare una materia idonea è dovuta al fatto che proprio da essa dipendono la «fabula», i «mores» e la «sententia», ovvero le «tres [...] primarias partes Tragoediae».?* La fase creativa dell'inventio si configura in definitiva come la più importante perché da essa — se ben conseguita — deriverà spontaneamente una buona elocutio. La priorità accordata da Piccolomini all'inventio, di per sé non sorprendente, si colora peró di un significato particolare legato alla competenza specificamente filosofica del poeta: «qui rerum copiam ex philosophia hausit ac in promptu retinet, non laborabit nec destituetur verborum copia».? Una materia ricavata «ex philosophia» garantisce di per sé il fluire delle parole, ed è qui che la teoria dell'espressione poetica si salda con il tradizionale paradigma latino del vir bonus dicendi peritus. ll riferimento alla tradizione retorica dell'eloquentia di marca ciceroniana infatti esplicitata dallo stesso Piccolomini: [3] Verba enim tunc recta elocutione ornata sunt, cum sententiarum et rerum pondere valent. [4] Quam qui recte inventionem nactus erit, eam facillime explicabit oratione, siquidem elocutio, ut dicit Cicero, est recta verborum et sententiarum ad inventionem accommodatio. [5] Itaque bonam preparatam inventionem elocutio
ultro sequitur: ac siquidem verborum ornatus et sonoritas sine pondere sententiarum contingit fieri, ibi non eloquentia, sed loquentia reperietur. ^
133 Hon., AP, 309-311. Il collegamento tra i vv. 391-401 sulle origini mitiche della poesia e i vv. 309-311 in cui Orazio affronta la questione delle competenze specifiche del buon poeta, è evidenziato anche da Brink: «Rhetoricians, Sophists, and philosophers claimed that poetry (or music) was their own sapientia at an earlier stage and could still serve as propaedeutic. On the other hand the poet is advised (v. 309) to turn to philosophy as scribendi recte ... fons» (Brink, Horace on Poetry. 2, The Ars Poetica cit., p. 389). 134 PiccoLomini, Annotationes, 309.1.
135 Ivi, 309.2. Il medesimo concetto esprime Piccolomini commentando Hor., 5at., IL 3, 1-2 («Sic raro scribis,
ut toto non quater anno / membranam poscas, scriptorum quaeque retexens») in Annotationes super Sermones
Horatii, ad loc., c. 98r. con tanto di rinvio alle «socraticae chartae» di AP, v. 305: «SCRIPPORUM QUAEQUE RETEXENS. Sic enim oportet facere qui recte scribere volunt; res enim et materia scribendi haurienda est ex ipsa philosophia,
ut dicit idem met Horatius in Arte poetica: REM TIBI SOCRATICAE POTERUNT OSTENDERE CHARTAE». 136 Piccoromni, Annotationes, 309.3-5.
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Una «recta elocutio» è condizionata dal «sententiarum et rerum pondus», e proprio Cicerone si impone come l'auctoritas di riferimento per quest affermazione. L’elocutio intesa come corretta associazione di parole e concetti permette di contrapporre all«eloquentia» la semplice «loquentia», ovvero la generica abilità di esprimersi a parole, priva dei significati filosofici propri del buon poeta e del buon ora-
tore. Costoro si distinguono infatti per la dimestichezza con la filosofia, soprattutto con la morale, e proprio in tal senso va inteso il «sapere» come «scribendi recte [...] principium et fons»: [6] Notandum autem est quod illud sapeRE, idest philosophia et sapientia ipsa, est fons imitationis, et non solum respicit fabulam, sed et mores et sententiam, in quarum trium partium qualibet decorum maxime servandum est; quod ex philosophia,
et praesertim morali, abunde dignosci potest, ut statim infert Horatius, Qui pIpICIT PATRIAE etc.^"
Piccolomini è chiaro: «sapere» significa «philosophia et sapientia ipsa», ed è condizione necessaria per una buona riuscita non solo della «fabula», ma anche dei «mores» e della «sententia». Si tratta, più precisamente, della filosofia morale, come
lo stesso Orazio sembra confermare nei versi successivi («ut statim infert Horatius [...]»), e come ribadito dalle glosse ai vv. 310 e 313: prima di tutto le «Socraticae [...] chartae» che permettono al poeta di trovare la materia (nelle parole di Orazio: «rem tibi Socraticae poterunt ostendere chartae») e che rappresentano in modo emblematico la filosofia («Per 'socraticas chartas" vel intelligit omnem philosophiam, vel potius moralem quae a Socrate hortum habuit»).!% Gli esempi dei vv. 312-316 fanno poi riferimento alle leggi morali che coordinano la vita comunitaria, la conoscenza delle quali, determinante al momento dell’inventio, è necessaria al poeta che intenda costruire correttamente e convenientemente i suoi personaggi.^?
Se le annotazioni ai vv. 391-401 sottolineano il nesso originario tra poesia e filosofia, facendo della prima un potente strumento di civilizzazione, quelle ai vv.
309-311 si muovono sul piano concreto dei precetti poetici: tutte condividono però l'idea che la poesia debba cercare il suo senso nel corredo filosofico del poeta. In tale ottica, sebbene Piccolomini — come vedremo - assegni nelle Annotationes un ruolo decisivo alla dimensione del diletto, la poesia, o meglio il linguaggio poetico, si legittima come importantissimo mezzo di conoscenza e diffusione del sapere. 137 Ivi, 309.6. Cfr. note di commento ad loc.
138 Ivi, 310.1. Sulla compattezza di questa interpretazione da parte della tradizione esegetica oraziana, cfr. oltre. Piccolomini specifica ulteriormente il senso dell'attributo «Socraticae», sottolineando la condivisione dell interesse morale da parte di platonici ed aristotelici: «Socraticas autem vocat tum quia ipse primus huiusmodi philosophiam peperit, tum etiam quia a Socrate tam Accademici, quam Peripatetici orti sunt» (ivi, 310.2) 139 Cfr. ivi, 313: «Haec omnia magis ad inventionem quam ad dispositionem et elocutionem pertinent, et ex moralis philosophiae praeceptis hauriunt».
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2. Padova, Speroni e lo statuto della poesia nell’Institutione del 1542 Il rapporto tra poesia e filosofia 0, se vogliamo, tra forma poetica e contenuti filosofici, si inquadra in un tema di discussione centrale nei dibattiti cinquecente-
schi sullo statuto della letteratura: quello della relazione tra eloquenza e sapienza. L'idea che l'uomo eloquente, per essere tale, necessiti di un ricco bagaglio culturale
e, più precisamente, filosofico è cara alla tradizione retorica latina e presto estesa
all'ambito della poetica. Uno dei massimi esponenti di questa linea è, nel XVI sec.,
Sperone Speroni che, facendo tesoro degli insegnamenti di Pietro Pomponazzi, difende con insistenza la complementarità di eloquenza e sapienza:' non si tratta
più, come hanno mostrato i lucidi contributi di Giancarlo Mazzacurati, dell’umanistica esaltazione delle lettere e della retorica come strumenti capaci di includere e risolvere tutti gli aspetti del reale, ma di una consapevolezza della crisi che tenta di
arginarne le derive.!*! L'esordio del primo discorso Del modo di studiare, che si apre con l'evocazione del Pomponazzi, è in tal senso molto esplicito: «Niuna cosa [...] dir soleva il Peretto esserci data dalla natura a gloria ed utilità de’ mortali, più propria
140 La lezione offerta da Speroni è, come si vedrà, fondamentale per Piccolomini. I testi cui fare riferimento per una trattazione esplicita e completa dei rapporti che intercorrono tra filosofia, logica, retorica e poetica nel sistema
speroniano — che pure meriterebbe ampio e approfondito riesame — sono il Dialogo delle lingue e il Dialogo della retorica: si vedano in Trattatisti del Cinquecento. Tomo I, a c. di M Pozzi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1978, pp. 585-682, ma cfr. anche il discorso Del modo di studiare, in S. SeeRonI, Opere, Manziana, Vecchiarelli, 1989 (rist. anast. ed. Venezia, Domenico Occhi, 1740), IL pp. 486-513, da cui si citano i passi che seguono. Per un inquadramento della questione, cfr. Trattatisti del Cinquecento cit., pp. 469-509. Tra le più lucide indicazioni sul caso
speroniano nel contesto della cultura padovana si vedano G. Mazzacurati, La questione della lingua dal Bembo all’Accademia fiorentina, Napoli, Liguori, 1965, pp. 39-108; e Ip., /[ «cortegiano» e lo «scolare» nel Dialogo delle
lingue di S. Speroni, in Ip., Conflitti di culture nel Cinquecento, Napoli, Liguori, 1977, pp. 141-182 (poi in Ip., // Rinascimento dei moderni, Bologna, il Mulino, 1985, pp. 261-295): lo studioso colloca l’esperienza di Speroni nel contesto del progressivo scollamento tra res e verba che contraddistingue la crisi del sogno umanistico e l'affer-
mazione dei nuovi linguaggi filosofico-scientifici, nonché la sclerotizzazione dell’alternativa tra le preoccupazioni eminentemente formali della poesia e l'interesse per i contenuti (anche a scapito della forma) di filosofi e scienziati. Altri studi sulla figura speroniana: M. Marti, Sperone Speroni retore e prosatore, in «Convivium», XII (1954), pp. 31-46; R. Scrivano, Cultura e letteratura in Sperone Speroni, in In., Cultura e letteratura del Cinquecento cit., pp. 117-141; Bruni, Sperone Speroni e l’Accademia degli Infiammati cit.; P. PLorIani, Sperone Speroni, letterato ‘nuovo’, in Ip., / gentiluomini letterati. Il dialogo culturale nel primo Cinquecento, Napoli, Liguori, 1981, pp.
112-129; Daniece, Sperone Speroni, Bernardino Tomitano e l’Accademia degli Infiammati di Padova cit. (per i rapporti con Piccolomini, v. pp. 3-5, 24-27, 38-41); M.R. Davi, Filosofia e retorica nell'opera di Sperone Speroni,
in Sperone Speroni cit., pp. 89-112; C. Vasour, Sperone Speroni: la retorica e le «repubbliche cittadinesche», in Ip., Civitas mundi. Studi sulla cultura del Cinquecento, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1996, pp. 279-295.
Resta inoltre ovvio il rinvio alla trattazione di Girarpi, Il sapere e le lettere in Bernardino Tomitano cit., passim, che, pur incentrata sul Tomitano, offre indicazioni preziose sulla diffusione delle idee speroniane ad opera dei suoi
allievi e compagni. Una ricognizione bibliografica in V. VianeLLo, Sperone Speroni: opere, stile e tradizione. Un ventennio di studi (1968-88), in «Quaderni veneti», IX (1989), pp. 203-222. 141 Per le analisi di Mazzacurati, cfr. le indicazioni bibliografiche alla nota precedente, ma si veda anche G. Mazzacurati, La crisi della retorica umanistica nel Cinquecento, Napoli, Libreria Scientifica Editrice, 1961: il
saggio, facendo leva sulla figura ‘inattuale’ di Antonio Riccobono, difensore della retorica umanistica nel secondo
Cinquecento, delinea in modo quanto mai chiaro i caratteri della divaricazione tra formalizzazione della letteratu-
ra e sviluppo anti-poetico di scienza e filosofia cui l'ambiente padovano degli anni ‘40 dà, in vario modo e con esiti
diversi, un contributo decisivo. Proprio in questo contesto deve essere collocata l’esperienza piccolominiana.
all'umanità, che sia il congiunger insieme l'eloquenzia e la sapienzia».^* LL)
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Il nesso è :
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ulteriormente sottolineato poco più avanti: Ma così come l’eloquenzia dalla sapienzia divisa è pura sciocchezza; così la sapienzia sola da se medesima e senza la compagnia di costei è cosa tronca e imperfetta, la quale priva della luce delle parole non può altrui le sue bellezze mostrare. [...] Dunque mal fa colui, che l'una dall'altra scompagna, separando la lingua dall’intelletto, del quale ella sola si puó dire istrumento usato da lui a partorire suoi ricevuti concetti, '?
Nell'ottica di Speroni, dunque, non si dà vera eloquenza senza sapienza, ed una
sapienza che non sappia esprimersi perde tutta la sua utilità. La retorica assume quindi secondo Speroni un ruolo fondamentale nel contesto della società civile, ma non come esercitazione formale fine a se stessa. La sapienza, d'altro canto, è intesa da
Speroni come scienza eminentemente civile: l'imperfezione umana implica, secondo il filosofo, che l'uomo non debba perdersi in speculazioni troppo alte e insolubili: egli dovrà piuttosto rivolgere le proprie capacità intellettive al mondo reale degli uomini, dominio non della verità, ma dell'opinione, della mutevolezza e del verisimile. Se-
condo un'impostazione in parte affine a quella di Juan Luis Vives, retorica e poetica sono infatti i soli strumenti che, se dotati di un solido corredo filosofico, permettono
al sapiente di entrare positivamente in relazione con gli altri uomini."* Di tale impostazione, condivisa da numerosi letterati vicini alla cerchia di Speroni e legati all'esperienza padovana dell’Accademia degli Infiammati, risente anche Alessandro Piccolomini. Giunto a Padova nel 1538, il senese affida la propria concezione della poesia ad alcuni paragrafi dell’Institutione di tutta la vita de l'homo nato nobile e in città libera. Proponendosi di colmare una lacuna nell'ambito della filosofia morale, a suo avviso negletta negli Studi e nelle Accademie, 142 Speroni, Opere cit., II, p. 486. Su questo importante testo di Speroni richiama l'attenzione P. FLorianI, Gram-
matici e teorici della lingua volgare, in Storia della cultura veneta, 3/u, Vicenza, Neri Pozza, 1980, pp. 138-181: lo studioso sottolinea il ruolo dell'ambiente padovano (erede di quello «spirito di sistema» che, «responsabile dello sviluppo del pensiero critico», anima già le Prose di Bembo) nella codificazione di un «progetto di una sistemazione complessiva, razionalisticamente fondata, della letteratura volgare» (ivi, pp. 148-149) e colloca puntualmente in questa linea la figura di Speroni (per la quale cfr. ivi, pp. 176 sgg.). 143 Srrnonr, Opere cit., Il, p. 488. 144 Si vedano le osservazioni speroniane di E. Garin, Discussioni sulla retorica, in In., Medioevo e Rinascimento, Bari, Laterza, 1954, pp. 124-149: 134 («sul piano storico non v'è luogo per le verità assolute delle scienze
dimostrative, ma solo per la mutevolezza delle conoscenze approssimate»); e 136 («all'uomo non appartiene la scienza perfetta, data la sua condizione mediana, ma solo quel sapere “umano” per ombre, ove regna la retorica, che, dunque, viene a costituirsi forma tipica dell'umano sapere»). Un'attenzione particolare meriterebbe in tale contesto il caso delle opere retoriche del valenziano Juan Luis Vives che, critico severo della tradizione dialettica medievale, rivendica il ruolo conoscitivo e socialmente imprescindibile del linguaggio. La retorica torna ad acquisire, nel suo sistema, un ruolo prioritario, ed il suo studio delle figure retoriche come declinazione quotidiana del
senso e del linguaggio comuni, sembrano presentare varie analogie con la riflessione speroniana e post-speroniana. Cfr. HipaLco-SERnA, La retorica filosofica di Juan Luis Vives cit.; De Nero, Linguaggio efilosofia in Vives cit.
Piccolomini intende raccogliere, come indica nel sottotitolo, «peripateticamente e
platonicamente intorno a le cose de l'Ethica, Iconomica e parte de la Politica» «la somma di quanto principalmente può concorrere a la perfetta e felice vita» dell'uomo.! Sulla base dell'insegnamento parallelo di Aristotele e Platone, aggiornato secondo il modello castiglionesco del Libro del Cortegiano. l'aristotelico Piccolo-
mini tratteggia un percorso formativo completo del gentiluomo rinascimentale: pur privilegiando in tal contesto la trattazione della «filosofia pratica» nella sua veste «attiva», il filosofo non rinuncia a fornire alcune indicazioni sul ruolo che devono assumere nella vita del gentiluomo le manifestazioni della filosofia pratica nella sua accezione «fattiva».!99 Sensibile alla questione dell’ordinamento delle arti e delle scienze, Piccolomini
propone infatti una classificazione che, restando sostanzialmente immutata nell’intero suo percorso, ne costituisce la ratio epistemologica. Nel capitolo De la diffinitione e divisione de la Filosofia Piccolomini definisce la filosofia «secondo Platone
145 Il programma piccolominiano è esplicitato nel lungo sottotitolo dell'edizione Venezia, Girolamo Scoto, 1542: De la institutione di tutta la vita de l’homo nato nobile e in città libera libri X in lingua toscana. Dove e peripateticamente e platonicamente, intorno a le cose de l’Ethica, Iconomica, e parte de la Politica, è raccolta la somma di quanto principalmente può concorrere a la perfetta e felice vita di quello. Composti dal S. Alessandro Piccolomini a benefitio del nobilissimo fanciullino Alessandro Colombini pochi giorni innanzi nato, figlio de la Immortale Mad. Laudomia Forteguerri. Al quale (havendolo egli sostenuto a battesmo) secondo l'usanza dei Compari de i detti librifa dono. Il trattato ebbe una certa fortuna e fu più volte riedito (due ristampe per i tipi di Scoto nel 1543 e nel 1545: altre due veneziane di poco successive: Giovanni Maria Bonelli, 1552 e Francesco Imperatore, 1559). Fortuna ben maggiore ebbe la versione del trattato modificata ed ampliata da Piccolomini tra 1554 e 1558, pub-
blicata nel 1560 col titolo di Della institutione morale di m. Alessandro Piccolomini libri XII. Ne’ quali egli levando le cose soverchie, & aggiugnendo molte importanti, ha emendato, & a miglior forma & ordine ridotto tutto quello, che già scrisse in sua giovanezza della Institutione dell’huomo nobile, Venezia, Giordano Ziletti. Sui rapporti che intercorrono tra le due versioni del trattato (d'ora in poi /nst. 1542 e Inst. 1560 — per quest’ultima le citazioni sono tratte dalla ristampa Ziletti del 1582). si vedano le indicazioni offerte da L. Venpruscoto, // problema filologico dell’Institutione di Alessandro Piccolomini, in «Filologia e critica», VIII (1983). pp. 161-177, ma solo un'edizione sinottica dei due testi potrebbe darne pienamente conto. Pur avendo più volte additato lInstitutione piccolominiana come uno dei trattati di filosofia morale più importanti del Cinquecento, la critica ha infatti spesso appiattito le due redazioni una sull'altra (cfr. per esempio E. Garin, L'umanesimo italiano, Bari, Laterza, 1964. pp. 196199). Per alcuni aspetti della più tarda riscrittura inerenti questioni di poetica, cfr. oltre. Sul trattato in sé, cfr. A. Buck, Alessandro Piccolominis moralphilosophische Lehre im Rahmen des Vulgàrhumanismus, in Italien und die Romania in Humanismus und Renaissance, a c. di K. Hempfer e E. Straub, Wiesbaden, Steiner, 1983, pp. 1-16;
A. Det Favre, Amore, famiglia e matrimonio nell'Institutione di Alessandro Piccolomini, in «Nuova rivista storica», LXVIII (1984), pp. 511-526; B. CesreLi Gui, Educare a essere “anticamente moderno”. L’ Instituzione del nobile secondo Alessandro Piccolomini, in Educare il corpo educare la parola nella trattatistica del Rinascimento, a c. di G. Patrizi e A. Quondam, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 165-180. 146 Per un inquadramento del trattato piccolominiano nell’ambito della filosofia morale del Rinascimento, cfr. PO. KrisreLLer, // pensiero morale dell'umanesimo rinascimentale [1961], in In., Il pensiero e le arti nel Rinascimento cit., pp. 23-74; A. Poppi, Il problema della filosofia morale nella scuola padovana del Rinascimento: platonismo e aristotelismo nella definizione del metodo dell'etica, in Platon et Aristote à la Renaissance, AVTème Colloque International d'Etudes Humanistes, Tours 1973, Paris, Vrin, 1976, pp. 105-146. Una più recente sintesi sugli aspetti più rilevanti della filosofia morale nel Rinascimento in J. KRAYE, Moral Philosophy, in Cambridge
History of Renaissance Philosophy, a c. di C.B. Schmitt, Cambridge, Cambridge University Press, 1988, pp. 303386. Quanto alle questioni più specificamente legate all'Institutione come ‘formazione’, restano fondamentali i contributi di Garin sulla cultura pedagogica tra Umanesimo e Rinascimento: E. Garin, L'educazione umanistica
in Italia, Bari, Laterza, 1949; Ip., L'educazione in Europa, Bari, Laterza, 1957.
DI
[...] notizia di tutte le cose humane e divine, overo secondo Aristotele (come dice Ammonio) arte de le arti e scientia de le scientie: poscia che la filosofia a tutte le arti e a tutte le scientie dà il principio».!*” In quanto «principio» di tutte le arti e di tutte le scienze, essa necessita di una rigorosa classificazione interna. Rifrutando l'idea che
la filosofia «Instrumentaria over Rationale» sia parte della filosofia propriamente
detta, ma considerandola come vero e proprio strumento di cui essa si serve, Picco-
lomini ripartisce la filosofia in due branche: la filosofia «speculativa» (divisa a sua volta in «naturale», «divina» e «matematica»), e la filosofia «prattica». Quest'ultima si articola nelle due accezioni cui si è già fatto riferimento: la «fattiva», che include le arti, e l'«attiva», organizzata in «etica», «iconomica» e «politica». Concorrono alla
perfezione umana la filosofia pratica attiva e la speculativa, ma l'ontologia mediana dell'uomo, sospeso tra la perfezione dei cieli e l'imperfezione della terra, gli impedisce di conseguire completamente i frutti della speculativa, ed è quindi opportuno che
egli si dedichi soprattutto alla filosofia pratica attiva. In questo quadro meritano un'attenzione particolare, secondo Piccolomini, le «scienze rationali», cui sono dedicati i capitoli successivi. Lo strumento fondamen-
tale dell’indagine filosofica è la «Logica over Dialetica», unico mezzo. condiviso da
tutte le altre scienze, per distinguere il vero dal falso.'*^ Poiché non tutti sono in grado di procedere per «sillogismo» ed «induzione», la logica è affiancata dalla Retorica
che, procedendo per «entimemi» ed «esempi», persuade al vero e al giusto muovendosi sul piano non del vero, ma del verisimile.!° Strettamente legata alla Retorica, nonché probabilmente più antica, è la Poetica, che opera sugli uomini mediante il
diletto originato dall’imitazione:
147 PiccoLomini, /nst. 1542, II, 1. c. 48r. Il riferimento ad Ammonio di Ermia, filosofo bizantino vissuto tra la
fine del V e l'inizio del VI sec. d.C., è una delle tante spie della dimestichezza di Piccolomini con la tradizione dell’esegesi aristotelica tardo-antica.
148 L'alternativa tra vita 'activa' e vita ‘contemplativa’ è uno dei temi cari alla riflessione morale umanisticorinascimentale. Cfr. almeno A. Porri, // prevalere della ‘vita activa" nella paideia del Cinquecento, in Rapporti tra le università di Padova e Bologna cit., pp. 97-125. 149 Piccoromini, /nst. 1542, III, 2, c. 49v: «la qual se in vero non è scienza, nondimeno è modo e via di far acquistar ogni scienza, non obligandosi né a questa, né a quella, anzi a tutti communemente servendo. La qual
dialettica per mezo di due prove, ch'ella per suoi instrumenti si fabrica, scopre il vero ne le scienze speculative, e l buono ne l’attive. E tai prove, sillogismo e induttion si domandano». Come vedremo, proprio nel fatto di non essere legate ad alcuna scienza specifica, risiede la stretta vicinanza tra logica, retorica e poetica. 150 L'importanza della retorica risiede prima di tutto nel suo essere una sorta di sostituto della logica per coloro
che non sono in grado di dominare i procedimenti sillogistici: «Ma perché gran parte de gli huomini tra 1 volgo e tra quei che ne la rozzezza de l’intelletto cresciuti sono, si consuma vivendo, coi quali nondimeno in mille negotii che occorrono fa di mestieri di conversare; e perché con simil genti saria vano il volere con ordinati sillogismi palesar la proprietà de le cause per le quali una cosa operar si debbi o non si debbi, per essere il lor intelletto non
bastante a sostenere tanta luce, fu di mestieri di cercare per altra via di persuadere loro o quel giusto, o quell’honesto, o quell'utile che n'occorresse; e questa fu la Rhetorica o vero arte del dire, per la quale con instrumento
più accommodato a l'orecchie de gli ignoranti, come son quelli instrumenti che entimema e esempio si chiamano, tra ragion probabili, o men che probabili, commovendo, infiammando, placando, inasprendo e simili, si habbia a
cercar di persuadere altrui, quel che di giorno in giorno n'occorre» (ibidem).
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E similissima a questa [alla retorica, ndr] fu la Poesia (o prima o poi che trovata fusse tra gli huomini, quantunque forse più antiqua stimar si debbi) la quale per il mezzo del diletto nato da l'imitatione (la quale imitatione è fondamento de la poesia, e per molte ragioni naturalmente dilettevolissima agli huomini), è fatto maggiore da la dolcezza de i rhitmi e misure, aggiontovi ancora la piacevolezza de le Favole, come coperta di quel che utilissimo dentro a quelle s'asconde, habbia a far bere al volgo quelle medicine de l’animo che per essere in superficie amare, senza
tal coperta di questo mele, difficil sarebbe che si bevessero.!9!
La poesia è dunque individuata in alcuni elementi che Piccolomini eredita da una tradizione radicata, già classica e cara alla civiltà umanistica: la «dolcezza» di «rhitmi e misure», la «coperta» delle «favole» e la metafora lucreziana della poesia-medicina convergono nella concezione della poesia come «utilissimo inganno» che sa «render gli huomini migliori», «tal che quasi essi stessi non se n accorghino».!?? La classificazione piccolominiana approda poi alla discussione dell'ordine in cui le varie scienze devono essere apprese:? se è vero che le razionali, strumenti per l'acquisizione della filosofia nelle sue varie forme, hanno diritto alla priorità, è pur legittima l'obiezione di chi, forte del paradigma classico, ritiene che la precedenza vada accordata all’acquisizione dei contenuti, ovvero alle scienze
propriamente dette. La difficoltà è risolta da Piccolomini che, non volendo rinunciare all'importanza delle scienze strumentali, elabora un sistema formativo che, 151 Ivi, III, 2, c. 50r.
152 Ibidem. Verificheremo piü avanti, a proposito dell'imitazione poetica che procede in modo analogo all'argomentazione sillogistica, la contiguità di poetica e retorica. La considerazione di queste due facoltà come ‘strumentali’ e, in quanto arti del discorso, vicine alla logica, è un'istanza che Piccolomini condivide con vari intellettuali del tempo attivi in ambito padovano: se la poesia rientra tra le arti razionali già nel Panepistemon di Poliziano (cfr. WemNBERG, A History of Literary Criticism cit., pp. 3-4), è soprattutto con Vincenzo Maggi, Bartolomeo Lombardi, Francesco Robortello e Benedetto Varchi che giova istituire un confronto (cfr. ivi, pp.
4 sgg.). Muovendo da una posizione sostanzialmente averroista, i teorici aristotelici condividono una classificazione delle attività dell'intelletto che approda ad una distinzione fondamentale tra filosofia reale e filosofia razionale. In tale quadro la poesia, che non è un'arte propriamente detta, ma giustappunto una delle facoltà razionali, si riscatta ed eccelle in virtù della propria universalità. Che il poeta non sia ‘filosofo’ solo quanto ai contenuti, ma anche nella gestione della forma, è del resto esplicitato da Benedetto Varchi nella lezione Della poetica (1553): «ben è vero, che la dialettica, la loica, e la poetica sono quasi una medesima cosa, non essendo differenti sostanzialmente, ma per accidente, e così il dialettico, il retore, e il poeta si posson mettere in un medesimo grado di nobiltà e d'honore»; e ancora: «Delle cose dette si può cavare un corollario o vero giunta
e vantaggio, il quale è che essendo la poetica o parte o spezie della loica, pigliando per loica tutta la filosofia razionale, nessuno può essere poeta il quale non sia loico: anzi, quanto ciascheduno sarà miglior loico, tanto
sarà ancora più eccellente poeta» (si cita da B. Varcui, Lezzioni di m. Benedetto Varchi accademico fiorentino, lette da lui publicamente nell’accademia fiorentina, sopra diverse materie, poetiche, e filosofiche, Firenze, Filippo Giunta, 1590, p. 572). Cfr. anche quanto afferma su Speroni Mazzacurai, La questione della lingua,
cit., p. 51: «Nella sua visione [dello Speroni] (ereditata dal Varchi e da molti altri) il poeta diviene una specie di loico, di filosofo razionalista che ha a sua disposizione, per rilevare la verità, gli strumenti del verso, del ritmo, dell’immagine, invece del sillogismo e della dialettica». 153 Si tratta del cap. De l’ordine de le scientie, quanto a l’apprendersi prima o poi (Piccoromini, Inst. 1542, II, 3, cc. 50r-510).
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procedendo in parallelo, miri ad un progressivo e simultaneo arricchimento del contenuto e degli strumenti.^* Ma proprio qui si colloca un giudizio sulla facoltà poetica che merita di essere considerato attentamente alla luce dei più tardi sviluppi della poetica piccolominiana. Pur affermando, in consonanza con l’ideale classico del poeta-sapiente, che «nissun può essere buon Poeta che non sia d'ogni scienzia ripieno», Piccolomini
spiega che la poesia deve essere coltivata con moderazione e per semplice svago, sostenendo che il linguaggio poetico ha perso nell’età moderna, anche in virtù della «nostra divina leggie», la sua funzione originaria: Solo questo vi aggiungho poi, che quantunque s'habbia tosto da prendere i precetti de la Poesia, nondimeno non ha l'huomo in quella da esercitarsi, sennò ne la lingua
propria natia, e in quella modestamente, più per recreation de l'animo che per haversene a servire a quello per cui fu al principio la Poesia introdotta, conciò sia che per molte occasioni, e massimamente per la nostra divina leggie, è mancata la
necessità di cotai coverte di favole, e simili altre avvertenze Poetiche. Et è rimasta solo per mera dilettatione, come forse al suo luogo diremo. "°°
Le tre scienze razionali sono poi oggetto di una trattazione specifica: nel capitolo
sulla logica, di sicuro rilievo per la prospettiva critica con cui Piccolomini si rapporta alla tradizione dialettica medievale, egli propone un canone preciso di testi di riferimento che ruota attorno ad Aristotele." Della retorica si sottolinea l'importanza nella vita sociale, con una significativa apertura all’età moderna sul fronte delle 154 Indubbia, secondo Piccolomini, è la priorità della logica: «non è da dubitare [...] che innanzi a tutte le parti de la Filosofia si debbi apprender la Dialettica, con ciò sia che mai non si potranno ottener le scienze, se prima lo instrumento e la chiave da ottenerle non si possiede». Una qualche incertezza riguarda invece la retorica che. pur essendo essa stessa uno strumento, necessita dei contenuti derivati dalle altre scienze. Sarà dunque opportuno riconoscere che, essendo «tutte le scienze e altre facultà da impararsi insieme in un certo modo meschiate, non è maraviglia che perfettamente non si possa haver l'una che l'altra non s'habbia: tal che, quantunque una, al giuditio di tutti sia prima, nondimeno quando si saranno apprese quelle anchor che le seguano, quella prima parimente, quantunque innanzi appresa fusse, nondimeno più perfetta diventaranne» (ivi, III 3, c. 50v). 55er
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156 Ibidem.
157 La logica assume un posto di primaria importanza nella riflessione di Piccolomini sulle forme e gli strumenti del sapere. Oltre a quanto accennato nel cap. I, si ricordi che ad una trattazione approfondita della logica Piccolomini dedica lVInstrumento della filosofia (1551), la cui importanza è rilevata da E. Garin, Logica, retorica e poetica, in Ip., L'Umanesimo italiano cit., pp. 171-192; e Vasoti, La dialettica e la retorica dell'Umanesimo cit., pp. 604-606; Ip., / tentativi umanistici cinquecenteschi di un nuovo “ordine” del sapere cit., p. 414; ma cfr. anche il più generale C. VasoLi, La logica, in Storia della cultura veneta, 3/m, Vicenza, Neri Pozza, 1981, pp. 35-73. La
necessità della logica come strumento della filosofia nella ricerca del vero, complementare all’indagine morale e ben diversa dalla sterile dialettica scolastica, emerge in modo suggestivo in PiccoLomni, Instrumento della filosofia cit., c. 100: «Gli huomini adunque in quei primi tempi che dalla lor prima rozzezza a poco a poco dipartiti, alla nobil condition lor propria, avertiron con l'animo, conoscendo che la perfettion loro nella cognitione del vero e del buono consisteva, tirati da un desiderio che la natura ha impresso negli animi humani di conoscere e di sapere, cominciarono a volger l'occhio ad infinite belle cose che in questo mondo vedevano d'ogni intorno: e d'una cosa e d'altra maravigliandosi, da cotal maraviglia spinti a cercarne la cagione, vennero a dar principio alla filosofia».
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auctoritates." Nel capitolo sulla poetica, infine, si ribadisce che sono venute meno le motivazioni che legittimarono in principio il ricorso alla poesia: .
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De la Poetica [...] v'affermo hora, che io non mi curo che molto ne l'esercitation poetiche v'affatighiate, per essere ne i tempi nostri mancata quella necessità di persuadere le cose utilissime con la coverta di favole e col dolce de i rithmi e de i numeri:
volendo la nostra Divina leggie che apertamente i precetti di quella a tutti si predichino e si chiarischino, per depender la salute nostra più da la propria voluntà che da 'l fatto o non fatto, dove che al tempo che i Greci prima fiorivano e i Latin poi, forse il contrario accascava. Mancata è dunque in buona parte l'occasion de i Poeti, tal che solamente n'è restata la Poesia per non so che diletto e ricreation d'animo.^?
158 Dopo aver ricordato l'importanza di Ermogene, Cicerone e Quintiliano, Piccolomini riconosce l'imprescindibilità della lezione platonica, ma soprattutto di quella aristotelica. Tra i dialoghi di Platone, egli raccomanda Gorgta, Fedro e secondo libro della Repubblica, sottolineando però la difficoltà insita nella lettura del filosofo greco: «[...] sì come in tutte l'altre materie di che tratta Platone, così in questa parimente, bisogna esser molto diligente per mettere insieme le cose sue. Con ciò sia che egli per via molto lontana da quella d'Aristotele, per interrogazioni, divisioni e induzioni, va in questa e in quella parte de i suoi Dialoghi, or questa bella cosa e or quella lasciando, tal che non senza infinita avvertenza, non una o due volte fa di mestieri di leggere i suoi Dialoghi, ma molte e molte. sforzandosi di radunar insieme tutto quel che in una stessa materia ne insegna: tai cose raccolte insieme, se ben si considerano e ordinano in fra di loro, partorian dottrina maravigliosa» (PiccoLomni, /nst. 1542, II, 8, cc. 57r-50r). Ribadendo il giudizio che abbiamo incontrato affrontando la questione di ordo e methodus nella divulgazione e nell'apprendimento del sapere, il senese non nasconde la sua preferenza per la Retorica aristotelica, da integrare, possibilmente, con l'«esposizione» di una qualche «persona dotta»: a questo proposito Piccolomini ricorda la «dottissima interpretatione composta dal dottissimo e eccellentissimo M. Daniel Barbaro» che tutti si auspicano di veder presto stampata (ivi, III, 8, c. 577). Piccolomini si riferisce qui al commento di Daniele Barbaro alla Retorica tradotta dallo zio Ermolao, comparso a stampa nel 1544. Barbaro, noto come traduttore e commentatore di Vitruvio (1556), fu anche autore di un dialogo Dell'eloquenza (oggi in WevBERG, Trattati cit., Il, pp. 335-451). pubblicato nel 1557 ma scritto circa vent'anni prima proprio a Padova, dove il letterato, che vi restó fino al 1545. segui i corsi di Benedetto Lampridio e Vincenzo Maggi, fu sodale Infiammato con Speroni e Varchi ed in contatto con Aretino; su Barbaro, cfr. C. ALeRIGO, Daniele Barbaro, in DBI, VI, 1964, pp. 89-95. Piccolomini consiglia anche la lettura della Rhetorica ad Alexandrum, allora attribuita ad Aristotele: «Bellissima appresso a questa Rhetorica [la Retorica aristotelica in tre libri, nota come /tetorica a Teodette, ndr] è parimente quella che scrisse il medesimo Aristotele al grande Alessandro» (PiccoLomini, /nst. 1542, II, 8, c. 57r); il testo greco era accessibile nei Rhetores di Aldo Manuzio (Venezia, 1508), nonché nelle edizioni veneziane delle opere poeticoretoriche di Aristotele pubblicate da Bartolomeo Zanetti (1536) e Giovanni Griffio (1546). La traduzione latina della Rhetorica ad Alexandrum di Francesco Filelfo usciva invece, insieme alla traduzione latina della Retorica a Teodette di Giorgio Trapezunzio ed altri testi retorici, già nel 1504 (Venezia, Bernardino Vitali); ed ancora in una miscellanea retorica per i tipi di Aldo nel 1523 (Venezia, Aldo Manuzio e Andrea Torresano). Per un'edizione moderna del trattato pseudo-aristotelico, oggi attribuito ad Anassimene di Lampsaco, cfr. ANAxIMENIS Ars rhetorica quae vulgo fertur Aristotelis ad Alexandrum, ed. M. Fuhrmann, Leipzig, Teubner, 1966 (per la questione dell'at-
tribuzione si veda G. Kennepy, A New History of Classical Rhetoric, Princeton, Princeton University Press, 1994, p. 50). Vale la pena osservare che nell Institutione morale del 1560 (IV, 8) il canone degli interpreti moderni della Retorica di Aristotele sarà significativamente ampliato. Piccolomini non citerà più Barbaro, ma farà riferimento a Pietro Vettori (P. Verrori, Commentarii in tres libros Aristotelis De arte dicendi. Firenze, Bernardo Giunta, 1548), alla Retorica italiana di Bartolomeo Cavalcanti (B. CavaLcanti, La retorica divisa in sette libri, Venezia, Gabriele Giolito de’ Ferrari, 1558) e alla traduzione latina della Retorica aristotelica di Marcantonio Maioragio (AristoreLIS Rhetoricorum libri IIl. Quos M. Antonius Maioragius vertebat, Milano, Valerio e Girolamo Meda, 1550). Quest'ultima è un termine di confronto importante per Piccolomini, che la cita esplicitamente, insieme a quella di Giorgio
Trapezunzio, nel Proemio della Copiosissima parafrase. 159 Piccoromini. Inst. 1542, II, 9, c. 58r-v. In Piccoromini, /rnst. 1560, IV, 9, p. 138, si registra un'interessante
aggiunta che specifica la distinzione tra la situazione moderna, in cui la «Divina leggie» rende superfluo il ricorso
alla poesia come strumento per divulgare una verità che deve essere «apertamente» comumicata a tutti, e il tempo
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Laddove sembra non esserci più bisogno dell’«utilissimo inganno» poetico per «persuadere le cose utilissime», giacché la «Divina leggie» pretende di predicare a tutti apertamente i suoi «precetti», la poesia perde la sua funzione civilizzatrice e diviene semplice svago. Questo implica che il diletto poetico suscitato dall’imitazione, concretizzandosi l'imitazione in un atto di comunicazione linguistica, sia vera e propria funzione della lingua e che muti i suoi connotati col variare delle lingue nel tempo. Consapevole di tali mutazioni e forte del dibattito padovano sulla lingua, Piccolomini consiglia di non coltivare la composizione poetica in lingue morte e, rie-
vocando la condanna platonica dell'imperfezione poetica («la poesia è per tre gradi lontana da la verità» )'*^ invita a limitare anche la composizione poetica in volgare. Tutto ciò non implica che si debba trascurare lo studio della metrica, arte meritevole
d’essere appresa, e dei precetti poetici propriamente detti, per i quali occorre fare riferimento alla Poetica di Aristotele, affiancata da commenti come quello di Maggi.!0! Quanto alla frequentazione della poesia toscana, il canone minimo degli autori comprende Dante Alighieri e Francesco Petrarca, quello dei teorici include Pietro Bembo e Bernardino Daniello.'^?
3. La celebrazione della poesia nella prefatoria dei Cento sonetti (1549) Nell’Institutione del 1542 Piccolomini limita il ruolo della poesia nella formazione del gentiluomo: favorevole, sia pur non troppo, alla lettura dei poeti, ma assai
poco propizio alla pratica della facoltà poetica. Stupisce che il letterato si esprima in questi termini intorno al 1540, vale a dire nel suo più intenso periodo di produzione letteraria, ma tale posizione va inquadrata nelle finalità dell'opera: Piccolomini concepisce il trattato come funzionale alla formazione di Alessandro Colombini, figlio in cui «i Greci prima fiorivano e i Latin poi», quando «forse il contrario accascava bastando loro che in qual si voglia modo ipopoli e ’l volgo si riducessero sotto leggi e sotto il voler de? Principi» (in corsivo la porzione di testo aggiunta in /nst. 1560). L'aggiunta, di derivazione ciceroniana ed oraziana, chiarisce la funzione eminentemente ‘civile’ della poesia antica, qui contrapposta alla dimensione religiosa e spirituale evocata dal riferimento alla
«Divina leggie». E quantomeno curioso, come si vedrà, che quest aggiunta, atta a chiarire il senso dell’affermazione piccolominiana, si muova almeno parzialmente in senso diverso — se non opposto — rispetto alle sostanziose
aggiunte di /nst. 1560 su cui ci soffermeremo più avanti (cfr., qui, $ 5, pp. 72-76). 160 Prccorowir, Inst. 1542, III, 9, c. 59r. 161
«E se pur senza esercitarvi in far versi vi piacerà di conoscere in qualche parte i precetti de la Poesia, questa
non è sennò voglia honorata; e anchor tal cosa difficilissima sia e habbia mestieri di havere minutamente letti e riletti e os[s]ervati molti poeti Greci e Latini, Heroici e Tragici e Comici, nondimeno il vostro fondamento principal sia intorno a quel breve trattato de la Poetica d'Aristotele, procacciando d'odirla a viva voce dichiarar da qualche persona dottissima, e tanto più per non essere ch'io sappia interprete alcuno. E io in questo potrò giovarvi, con farvi parte di alcuni scritti che sono appresso di me de l'eccellentis[s]imo Filosofo il S.M. Vincenti Maggio [sic] & mio precettore: il quale dottissimamente ha tal Poetica d'Aristotele alluminata» (ivi, c. 59v) 102 «De la poesia spetialmente Toscana, oltra l'osservationi che dovete fare nel Petrarca e nel Dante, ci sono aleune persone dotte che hanno scritto de l'arte, come il Reverendissimo Bembo e M. Bernardino Danielli, e ogni
giorno non manca chi dottamente ne scriva» (ibidem).
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della dedicataria dell'opera, Laudomia Forteguerri, di cui fu padrino. Il senese è
quindi qui, in primis, filosofo morale e pedagogo. Guardando infatti ad altre opere
piccolominiane, il giudizio sulla poesia muta significativamente, ed il primo note-
vole scarto rispetto all Institutione è testimoniato dalla prefatoria dei Cento sonetti (1549) a Vittoria Colonna iuniore, nipote dell'omonima poetessa, figlia di Ascanio Colonna e Giovanna d’Aragona.!®
Dovendo giustificare la pubblicazione di un canzoniere che partecipa della fortuna cinquecentesca del codice petrarchista, Piccolomini tesse un elogio della facoltà
poetica che, pienamente in linea con le affermazioni proprie delle Annotationes oraziane, riscatta la poesia dalla condizione impostale nel trattato morale. L'epistola, che costituisce un vero e proprio trattatello sulla natura della poesia e, più specificamente, sul genere lirico, svolge il tema della funzione conoscitiva del linguaggio poetico che nell /nstitutione veniva considerata inattuale. Prima di affrontare i due nodi
centrali della riflessione (l'utilità e il diletto poetici), Piccolomini postula la priorità della poesia tra le «scientie e facultà che intiero e schietto mostrar si sforzano il vero e I buono», evidenziandone al tempo stesso il carattere universale: la poesia, infatti,
non restringendosi ad un campo d'indagine specifico, supera — o meglio, implica e comprende — tutte le altre scienze. Il poeta, come l'oratore aristotelico, deve avere
una competenza universale, rivelandosi «Geometra, Aritmetico, Astrologo, Naturale, Teologo, Economico e Politico, e in ogni arte finalmente dotto». La poesia, dunque.
non si definisce a partire dai contenuti che si propone di illustrare, ed è sintomatico, in quest ottica, che essa sia da anteporsi anche alla teologia. Ciò che definisce la
poesia è infatti quel «tralucente velame e trasparente vetro di lucida imitazione e di onesta favola» con cui il poeta riesce a far «manifestamente vedere» il vero e il buono. La poesia, in sostanza, è per Piccolomini una sorta di scienza ‘formale’, un linguaggio che si eleva al di sopra delle singole scienze e dei loro rispettivi contenuti al fine di illustrarli e renderli più perspicui. Il paradosso del «manifestamente vedere» attraverso un «velame», per quanto «tralucente», si spiega infatti con la similitudine squisitamente controriformistica della reliquia, laddove essa corrisponde al «vero» e
il reliquiario che la conserva al «velame»
dell'imitazione poetica.'^*
I due strumenti basilari del linguaggio poetico sono quindi la «lucida imitazione» e «l'onesta favola». Se la prima fa riferimento al piano dell'elocutio, si è legittimati a
ricondurre la seconda a quello dell'inventio, ed è proprio l'argomentazione dell’autore a condurre il lettore su questa strada. Dopo aver postulato l'utilità e il diletto della poesia, infatti, Piccolomini si sofferma approfonditamente sui due termini, legando 163 Piccorowini, Cento sonetti. L’epistola prefatoria (d'ora in poi Epistola 1548) alle cc. *iiijr-[A viii]r, è datata da Genova, 9 dicembre 1548.
164 Piccoromini, Epistola 1548, c. *itijv: «si come nel maneggiare e mostrar altrui qualche santa reliquia, colui sarà di più lode meritevole e di più fede, il quale per reverentia e rispetto, col mezzo d’alcun sottil velo o transpa-
rente cristallo la trattarà, e altrui mostrarà secondo che si conviene; che quell'altro non farà poi che, fuori d'ogni venerazione e riguardo, con le mani stesse non ben purgate, maneggiaralla a guisa di cosa vile».
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anzi tutto l’utilità al piano dei contenuti che, potenzialmente predisposto ad abbracciare tutte le scienze, può dirsi davvero universale. Da «l’amore verso Dio grandissi-
mo e la cognition di quello» a «la notizia de le cose de la natura», da «la prudenzia
e virtuosa vita nelle republice e ne le case nostre» a «qual'altro giovamento che rechi al mondo la Filosofia», la poesia si muove nei vari campi del sapere. La similitudi-
ne d'ascendenza lucreziana della medicina «ricoperta di qualche scorza dolce», più utile ad un corpo malato di «quell'altra che palesando l'amarezza sua, sarà recusata da "| gusto di chi l'ha da torre», spiega bene in che senso debba intendersi l'utilità
poetica secondo Piccolomini e, soprattutto, quali siano i suoi mezzi concreti: così parimente la medicina de l’intelletto, che non consiste in altro che ne la verità
de le cose e ne la virtù de l’uomo, se sincera e schietta ci sarà presentata nel modo che i particulari Filosofi soglian fare, subito per il senso, che può troppo in noi, mostrarassi amara e difficile ad inghiottirsi. Dove che, se con qualche soave ricoperta, come di gioconde favole o di numeroso concento o d’altra così fatta cosa, ci sarà posta innanzi, secondo che il Poeta, che universal Filosofo si domanda, suol
sempre fare, alora inghiottita quasi con utile inganno, non prima arà digerendosi dato principio di far palese la forza sua, che a gran corso sentirem divenir sana e felice la mente nostra.^?
Piccolomini riconosce — come più tardi farà Tasso - che la «verità de le cose» non è facilmente digeribile all'uomo se presentata «sincera e schietta». Il «senso», ovvero la dimensione sensibile e materiale dell'uomo, oppone resistenza agli inseenamenti dei «particulari Filosofi»: la notazione piccolominiana, affrancata da ogni forma di idealismo, mostra l'uomo nella sua naturalità e invita a riconoscere che egli tende per natura ad essere schiavo dei propri appetiti. Solo questa consapevolezza permette di ravvisare nella poesia un ‘farmaco’ che, sotto forma di «gioconde
favole o di numeroso concento», rende la verità appetibile e, restando nella metafora, deglutibile.!° Introducendo il concetto di "favola" come frutto dell'inventio poetica, Piccolomi-
ni si prepara a controbattere un'eventuale obiezione: parlare di «inganno», seppur «utile», può infatti essere rischioso, ed è necessario chiarire che la poesia non ha per oggetto il falso. Il ricorso a «favole e finzion» non implica che il fine della poesia
sia «trattare il falso»; al contrario, «la dolcezza di quel che si finge» fa sì che «più trapassi e meglio si digerisca nel petto degli uomini (che per il più sono ignoranti) 165 Ivi, ce. *ve-*vir. Sull topos lucreziano della poesia-medicina nel Rinascimento, cfr. V. ProspeRI, Di soavi licor
gli orli del vaso: la fortuna di Lucrezio dall'Umanesimo alla Controriforma, Torino, Aragno, 2004.
166 Evidenti le analogie con quanto affermato in PrccoLomini, /nst. 1542, IL 5, c. 34v: «e finalmente s[i]en cotai Novelle, insiememente di un certo che di dolcezza che di diletto ripiene, e d'uno invitamento a ben fare, adornate. Acciò che i fanciulli per il diletto di quella dolcezza, con grande attention di mente, si bevin cose, che col tempo gli habbin da essere di virtuose operationi essempio saldissimo». Ma si vedano anche le affermazioni già citate sulla
Poetica: ivi, III. 2, c. 50r (cfr. qui, $ 2, p. 59).
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il vero e ‘1 buono che i Poeti principalmente intendan di persuadere». Una rapida ricognizione tra i vari ambiti della poesia consente infatti a Piccolomini di mostrare che il linguaggio poetico — inteso come «utile inganno» — altro non è che un involucro atto a rendere gli intelletti umani più permeabili al vero e al bene, oggetti primari
della poesia. Al fine di rendere la propria argomentazione più convincente, l'umanista inizia col proporre l'esempio della poesia ‘teologica’, rappresentata emblemati-
camente da David, Mercurio Trismegisto e Museo «che han cantato teologicamente
del grande Iddio»: «crederem noi che tanto avessero in quei primi tempi, che rozzi erano gli uomini e come nuovi al mondo, radicato ne le menti di quelli la pianta de la religione e la cognizion di Dio, se con parole ignude d'ogni ornamento e vóte di ogni dolcezza di Poesia l'avesser fatto?».!?
Se la poesia e lo strumento che radica nelle menti degli uomini «la pianta de la religione e la cognizion di Dio», essa consente anche di svelare all'uomo la via delle «cose naturali» e. analogamente, della vita civile. L'esempio della poesia de rerum natura sembra in tal senso molto eloquente: Empedocle, Pitagora, Platone, Lucrezio, Arato, Manilio e Pontano non solo lasciarono «depinte le cose de la natura»,
ma «indussero gli uomini a ricercarle». Questo anelito allo studio della pAysis e alla
ricerca delle sue «cagioni» è da imputarsi alla ricchezza del profilo di Piccolomini, che fu filosofo naturale e scienziato, sempre attento a rivendicare le ragioni dell'eru-
dizione scientifica anche in ambito letterario.^?
L'utilità poetica e, infine, tanto più evidente qualora si rifletta sulla funzione civilizzatrice della poesia stessa, che ha propiziato il ridursi degli uomini primitivi, rozzi e ferini, «sotto a giogo di leggi e dentro a cerchio di mura, a la conversazion civile e mansueta». Avviando l'uomo sulla strada delle «azioni civili e domestiche», Anfione
ed Orfeo hanno infatti dato vita alle prime forme di civiltà. Il riferimento ai due poeti mitici che «col suono dei versi loro, quelli uomini rozzi alla civiltà reducendo, quasi fiere, sassi e arbori a sé tiravano», sfrutta il topos della poesia come strumento di fascinazione che vince le resistenze del mondo ‘materiale’ e lo disciplina." Ad uno stadio successivo, però, la poesia diventa utile anche sul piano dei precetti effettivi e
degli insegnamenti che può offrire ai componenti di una società: Util dunque si può concludere che la Poesia sopra tutte l'altre facultà stimar si debbi; col mezo de la quale, se a i tempi nostri le leggi e i precetti, che da prudenti Legislatori, così per accrescimento de la religione, come per sostentamento de le ben
167 Torneremo sulla questione del falso in poesia nel cap. IV. 168 Piccoromni, Epistola 1545. c. *viv.
169 L'interesse per il settore della poesia didascalica d'argomento scientifico approda alla celebrazione di Giovanni Pontano, ultimo e più recente cantore latino di argomenti celesti. Quanto alla convergenza di erudizione scientifica e poesia, il caso più emblematico cui fare riferimento resta la Lettura padovana del 1541 sul sonetto di Laudomia Forteguerri cui si è già fatto riferimento (cfr. cap. II, $ 1, p. 35, n. 83). 170 Per Anfione ed Orfeo, cfr. ovviamente Hon., AP, 391-401; ma anche PiccoLomini, Annotationes, 391, 396, 401.
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guidate case e ben corrette Republiche, fusser con misura di verso e sapore di Poesia mandate fuora, come avveniva in Grecia quando più fiorendo ella, fin dalle fascie
ad apprenderla incomminciavano, molto più profundamente e universalmente ne le menti nostre si radicarebbero, che non veggiamo far*oggi; ché rarissimi son coloro
che sappin la minima parte de i precetti che a le lor religioni appartengano e alla salute delle Città loro.!”!
s
Il confronto con la Grecia antica mostra che «le leggi e i precetti» stanno certamente alla base della società civile, ma sono «la misura di verso e sapore di Poesia» a far sì che essi possano agire davvero sugli uomini. I due piani, quello retorico-formale e quello contenutistico, concorrono dunque alla costruzione e, soprattutto, al mantenimento delle «Città».
Una volta illustrato il senso dell’utilità della poesia, Piccolomini passa alla questione del diletto che, in una prospettiva meramente oraziana, deve sempre associarsi al giovamento.'? Il piacere suscitato dalla poesia si fonda essenzialmente su
due «nervi»: l’imitazione e la «misura proporzionata delle parole». Sviluppando un ragionamento molto sottile, il letterato mostra che l'imitazione, «ne la natura de le cose stesse consistendo, vien'ad esser una stessa in tutte le lingue», mentre la seconda, «essendo radicata ne le parole medesime, vien per questo a variarsi secondo
che le lingue si van cangiando». Detto in altri termini: l'imitazione penetra «come più naturale con la sentenzia de le parole fin nel centro de l'intelletto», mentre la
«misura proporzionata de le parole» tocca «dolcemente il senso de l'odito nostro» grazie al «concento, che da ben misurato suono de le sillabe ne risulta». Se la prima,
volgendosi all'intelletto, si pone dunque al livello della sententia, la seconda - più propriamente legata al piano dell'elocutio — riguarda direttamente la gestione delle parole e la loro ricezione ‘uditiva’; è tuttavia la complementarità d'entrambe, res e
verba, a produrre il vero diletto poetico.
Il diletto nato dall'imitazione può essere facilmente illustrato dagli esempi della pittura e del teatro. Ciò che nella realtà arreca noia 0, addirittura, dolore, attraverso
l'imitazione si trasforma infatti, come già osservava Aristotele, in sommo piacere: per essempio ne la pittura si può vedere, dove qual si sia più e orrendo e spaventoso animale, o qual più dispiacevol cadavero o più orribile e noioso mostro che trovar
si possa, se dipinto ci si mostra innanzi, tanto più ci delettaremo di contemplarlo, 171 Piccoromini, Epistola 1548, cc. *viiv-*viür.
172 La commistione di docere e delectare è sancita in modo esplicito da Piccolomini: «manifestissima cosa è che de la Poesia è proprio offizio, non sol demonstrando e commovendo (come l'altre scienzie fanno), ma dilettando ancora, cercar di far conoscere il vero e ‘l buono» (ivi, c. *viiir); evidente il riferimento al canonico precetto oraziano di Ars poetica, 343-344: «Omne tulit punctum qui miscuit utile dulci, / lectorem delectando pariterque monendo». La ripresa di moduli oraziani prosegue subito dopo, laddove il poeta sottolinea l'impossibilità, per la poesia, di essere
mediocre (cfr. Ars poetica, 372-373: «[...] mediocribus esse poetis / non homines, non di, non concessere columnae»). Su questi temi, cfr. PrccoroMiwt, Annotationes, ad loc.; e, più diffusamente, cap. IV, $ 2, pp. 90-93.
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quanto più sarà somigliante a quella propria natural bruttezza che gli conviene. Medesimamente non si potrà trovare uomo, così per brutte e mostruose parti del corpo e per odiosi costumi e vili operazioni odiato e aborrito da ciascheduno, che, colui che facetamente, o in Commedia o in qual si voglia altro gioco, cercarà d'imitarlo,
tanto più non piaccia a i riguardanti, quanto più a la vera imperfezione de l'imitato si farà simile.!?
Individuando la dimensione peculiare del piacere frutto dell’imitazione — che
è comunque una finzione — Piccolomini formula l’idea di uno statuto particolare della poesia che sovverte i più usuali nessi di causa ed effetto attivi nel mondo reale. L'imitazione produce diletto in quanto tale, ed è proprio in questa consapevolezza che va cercato uno degli elementi più notevoli della riflessione di Piccolomini sulla
poesia e che sarà ripreso e approfondito nelle più tarde Annotazioni alla Poetica di Aristotele. !?* Più ampia e minuziosa è la trattazione del diletto procurato dal «concento» e dal «numero» che nascono «da la misura del tempo che ne la pronunzia de le sillabe si ritruova». Si tratta, in questo caso, di una vera e propria digressione sul sistema
metrico delle lingue moderne, delle differenze tra lingua e lingua e, soprattutto, delle differenze che lo distinguono dal sistema antico. Al di là delle considerazioni su
aspetti ‘tecnici’ della questione, vale la pena sottolineare la chiarezza con cui Piccolomini colloca il «concento» sul piano dell'elocutio, ammettendo che ciascuna lingua
ha il proprio sistema e troncando in partenza ogni possibilità di considerazione gerarchica dei vari sistemi metrici. L'unica regola alla base della loro differenziazione è infatti quella della «consuetudine», ed è proprio la forza della consuetudine a sancire una sorta di ‘relativismo metrico’ che mira, in primo luogo, a salvaguardare la legittimità del sistema "italiano ."? La prefatoria ai Cento sonetti celebra la poesia nel suo valore meta-storico, come
mezzo di conoscenza che non può prescindere dalla competenza filosofica del poeta. Numerose affermazioni piccolominiane ci riportano infatti alla tradizione umanistica
della difesa della poesia che si basava proprio sulla sua valenza conoscitiva, sapienziale e filosofica. Il «tralucente velame e trasparente vetro di lucida imitazione», le «gioconde favole» e il «numeroso concento» evocano per esempio i termini chiave
173 Piccorommi, Epistola 1548, c. Ajv. Cfr. Arist., Poet., 1448b 10-15: «Anche di ciò che ci dà pena vedere nella realtà godiamo a contemplare la perfetta riproduzione, come le immagini delle belve più odiose e dei cadaveri. La
causa, anche di ciò, è che imparare è un grandissimo piacere» (trad. Paduano).
174 Cfr. almeno PiccoLomini, Annotationi, 19, pp. 07-71. 175 «E in questa cosa, la consuetudine con la proprietà d’una lingua ritien tal parte che dove che appresso di noi il verso ne la quarta, ne la sesta e ne la decima sillaba sostenendosi, e forza prendendo al quanto, viene a nascer di undici, di sette e di cinque sillabe, secondo che in ITALIA per il più s'usa, come ognun vede. Altre nazioni poi,
come per essempio appresso gli Spagnoli o Francesi, d'altra maniera ricercano il verso, acciò che non offenda
l'orecchia loro» (Piccoomni, Epistola 1548, c. Aiiijr).
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dell'argomentazione boccacciana in difesa della poesia negli ultimi due libri della Genealogia deorum gentilium, che pure propone un catalogo di «poetae sapientes» non dissimile da quello piccolominiano."* L'idea che i primi poeti siano anche «theologi»
è uno dei temi più importanti della tradizione umanistica sulla poesia: l'identificazione di poesia e teologia attraverso l'esempio dei salmi davidiciègià in Petrarca," ma in Piccolomini, amico e corrispondente di Marcantonio Flaminio, essa si tinge di sfu-
mature che meriterebbero un supplemento d'indagine."* Considerando poi l'importanza del soggiorno padovano nella formazione del letterato senese, sarà opportuno
ricordare la frequentazione di Giuseppe Betussi che, volgarizzatore della Genealogia boccacciana, può aver contribuito a riportare l’attenzione degli Infiammati sul trattato latino, di cui si trovano tracce, per esempio, nei Ragionamenti del Tomitano."" 176 Cfr. Boccaccio, Genealogia deorum gentilium, XIV e XV. Quanto all'immagine del “velame’, cfr. almeno ivi, XIV, vi, 1: «ornare compositum inusitato quodam verborum atque sententiarum contextu, velamento fabuloso atque decenti veritatem contegere». Un'attenzione particolare meriterebbe la trattazione boccacciana del ‘falso’ in poesia che torna in termini sostanzialmente analoghi nei testi teorici di Piccolomini in difesa del codice poetico e
del suo statuto (cfr. ivi, XIV, xm, Poetas non esse mendaces). Su questi temi, e sul ruolo della poetica boccacciana nello sviluppo della cultura umanistica, cfr. il classico F. Tatto, Retorica e poetica fra Medioevo e Rinascimento, Bari, Adriatica, 1960.
177 È forse il caso di ricordare che l'assimilabilità del poeta al filosofo e, quindi, al teologo, è in Anisr., Met. 982b 17; ma cfr. soprattutto il commento di Tommaso D'Aquino, ad loc.: «unde primi, qui per modum quemdam fabularem de principiis rerum tractaverunt, dicti sunt poetae theologizantes». Sulla medesima linea si muove F. Perrarca, P'am., X, 1v, 1-2: «theologie quidem minime adversa poetica est. Miraris? Parum abest quin dicam theologiam poeticam esse de Deo: Cristum modo leonem modo agnum modo vermen dici, quid nisi poeticum est?
[...] apud Aristotilem primos theologizantes poetas legimus». Quanto all'esempio di David e alla poesia biblica dei Salmi, può valere il confronto con PErRAnCA, Fam., X, iv, 6; XXIL x, 10-11: Bucolicum carmen. X. 160-161; ma si
pensi anche al ruolo svolto nel percorso petrarchesco dall'elaborazione dei Psalmi penitentiales. Tra le auctoritates di riferimento in ambito cristiano, cfr. almeno Hier., Epist., LIII, 8 e Comm. in Abac., II, 1. 178 Il legame di Alessandro Piccolomini con Marcantonio Flaminio, umanista legato a Valdés e celebre per il suo lavoro esegetico sui Salmi, è attestato da due sonetti del senese a lui dedicati: oltre al sonetto 72 dei Cento
sonetti (Come quando ’l mar gonfia e negro il giorno), si coglie l'occasione per segnalare il sonetto Ecco ch'in mar a’ fieri venti intorno conservato nel ms. Crrrà peL Vaticano, Bibl. Apostolica Vaticana, Vat. Lat. 5220, c. 45r. A Piccolomini il Flaminio dedica il carme O sí dent mihi caelites ut ante (cfr. M. FLaminio, Carmina, a cura di M. Scorsone, Torino, Res, 1993: VI, 5, pp. 206-207). Manca un'indagine sui rapporti fra idue umanisti che potrebbe essere invece interessante ai fini di una più chiara messa a fuoco dei legami di Piccolomini con esponenti della cultura religiosa italiana tra Riforma e Controriforma. Per un primo inquadramento della figura di Flaminio, cfr. A. Pasrore, Marcantonio Flaminio, in DBI, XLVII, 1997, pp. 282-288.
179 G. Boccaccio, Genealogia de gli dei. I quindeci libri di m. Giovanni Boccaccio. Sopra la origine, & discendenza di tutti gli dei de’ gentili, con la spositione & sensi allegorici delle favole, & con la dichiaratione dell’historie appartenenti à detta materia. Tradotti, et adornati per messer Giuseppe Betussi da Bassano, Venezia. Gabriele Giolito de’ Ferrari, 1545. La traduzione betussiana ebbe numerosissime ristampe, segnando — insieme con i volgarizzamenti de / casi de gli huomini illustri (Venezia, Andrea Arrivabene, 1545) e del Libro delle donne illustri (Venezia, Comin da Trino, 1545) — una delle tappe più rilevanti della fortuna del Boccaccio latino nel Cinquecento. Un accenno alla presenza della Genealogia in Tomitano, con riferimento alla probabile mediazione betussiana, in GiraRpI, // sapere e le lettere, cit., pp. 51-52. Contatti tra Piccolomini e Betussi potrebbero risalire alla comune militanza nell'Accademia degli Infiammati. È significativo che Piccolomini contribuisca con un sonetto alle betussiane /magini del tempio della signora Donna Giouanna Aragona (Firenze, Lorenzo Torrentino, 1556): il senese aveva già partecipato con tre sonetti all'antologia allestita da Ruscelli (Del tempio alla divina Signora Donna Giovanna d'Aragona, Venezia, Plinio Pietrasanta, 1554) in omaggio alla moglie di Ascanio Colonna e madre di quella Vittoria cui sono dedicati i Cento sonetti. Piccolomini e Betussi sembrano quindi gravitare intorno all’Aragona e alla Colonna, e sarebbe utile verificare lo stato dei loro legami anche in forza dei rapporti che entrambi
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4. Le forme del sapere in prospettiva diacronica nell’epistola a Giulio III (1550)
La frequentazione del circolo padovano conserva tracce quanto mai evidenti nella riflessione poetica di Piccolomini che, proseguendo oltre il canzoniere del 1549, approda ad una sistemazione organica del ruolo della poesia nell’evoluzione dei modi d'apprendimento dell’uomo e dei suoi linguaggi. Alla celebrazione metastorica del poeta-civilizzatore si congiunge infatti una considerazione diacronica della poesia come strumento conoscitivo che deve fare i conti con l'affermarsi di un'indagine filosofica progressivamente emancipata dal «velame» poetico. La già citata epistola a Giulio IN che apre la prima parte della Filosofia naturale costituisce anche a questo proposito un documento di notevole importanza e controbilancia in qualche modo la celebrazione poetica premessa ai Cento sonetti, recuperando spunti già presenti nella precedente /nstitutione.!8° Dopo aver confermato il nesso che alle origini della storia umana unisce la filosofia al linguaggio poetico, Piccolomini — qui nelle vesti di filosofo — spiega che «tre modi [...] per quanto si ha notitia de’ tempi a dietro, sono stati al mondo di trattar le cose di filosofia: tutti in vero molto tra di lor diversi, ma proportionati a' costumi e alle qualità de’ tempi».'?'! L'ercursus prende le mosse da «quei secoli primi che la terra [...] di nuovo (come habbiam da credere) fu prodotta al mondo»: é l'«età dell'oro» in cui gli uomini «rozzi, barbari e ferini» vivono in una natura che,
«sommamente gravida con la sua fertilezza», offre loro spontaneamente ogni mezzo di sussistenza. Mancano però agli uomini, in questa prima fase, tutti gli elementi
propri della civiltà: essi vivono «senza cognition di legge o humana o divina», privi «d'ogni arte e d'ogni disciplina». «senza alcun buon discorso di ragione». Anche
se ci fosse stato qualcuno «di maggior discorso o di più chiaro intelletto», capace di «mostrar loro la vita che conviene a l'huomo» e di «palesare la forza dell'honesto e del vero». non gli sarebbe stato possibile farlo per l'incapacità degli uomini primitivi, schiavi dei sensi, di recepire una lezione di questo genere. L'unico modo possibile
ebbero con il senese Luca Contile. Su Betussi cfr. C. Murivt, Giuseppe Betussi, in DBI, IX. 1907, pp. 779-781; una ricostruzione più articolata della sua carriera, che necessiterebbe pero di indagini ulteriori, in L. Napin Bassani, // poligrafo veneto Giuseppe Betussi, Padova, Antenore, 1992.
180 Lepistola a Giulio III del 1550, cui si è fatto riferimento nel cap. I, $ 2. pp. 28-30, apre il trattato Della filosofia naturale di M. Alessandro Piccolomini parte prima, cit., cc. 2r-13v. 181 Piccoromini, Epistola 1550, c. 3v.
182 Ibidem. Piccolomini prosegue indicando come carenze dello stato di natura tutti quegli elementi che Orazio celebra nell’Ars e che emancipano l'uomo dalle proprie origini ferine: «in qualche pace e insipida libertà vivevano otiosamente e senza conoscer vincol di amicitia o di parentela con questa e quella delle donne loro, non distinguendo perché o madre o figlia o sorella fosse, dove l'impeto dell'affetto gli sopraggiugneva, si congiugnevano» (ivi, c. 47). 183 Ibidem: «questo nondimeno non potevano apertamente fare, acciò che quella moltitudine aspra e silvestre
che dal senso pendeva in tutto, non chiudesse l’orecchie e all'honeste amonitioni non ricalcitrasse». La resistenza dei primi uomini agli insegnamenti dei saggi è descritta da Piccolomini in termini analoghi a quanto affermato in Epistola 1548, c. [*v]v (l’accesso alla «verità de le cose» è reso difficile dal «senso, che può troppo in noi»).
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per emancipare gli uomini è trasmettere loro i contenuti della filosofia a mezzo del «velame» poetico: x
[...] quei pochi saggi che tra di loro si trovavano, con dilettevol velame di poetici ornamenti e di favole ricoprendo le persuasioni che volevan fare, cominciarono a
poco a poco ad inveschiar quelli animi di zelo e religione; e quindi sotto attioni e nomi delli Dii le cose della natura trattando, diedero principio a filosofare. Onde l'universo Pan domandando, Giunon l'aria, Nettunno l'acqua, Cibel la terra, Cerere le biade e il simil dell'altre cose facendo, quelle operationi a cotali Dii poetizzando assignavano, che alle stesse cose naturali veramente per la lor natura accadevano. Et in un medesimo tempo sotto simile utilissimo inganno, a regola e norma d'humana vita e sotto custodia di sante leggi, dentro a cerchia di mura finalmente quelle disperse genti se accoglievano di giorno in giorno, !8*
I «poetici ornamenti» e le «favole» ammantano pertanto verità troppo difficili da recepire per uomini ancora rozzi e incolti. La religione da un lato, le norme e le leggi della vita comunitaria dall'altro: grazie ai primi poeti-filosofi le genti fino ad allora «disperse» iniziano a raccogliersi «dentro a cerchia di mura». Ecco ancora una volta svelata la magia poetica dei «primi theologi e filosofi eccellentissimi [...] Museo, Lino, Orfeo, Mercurio e altri ancora» che fanno della poesia il primo strumento di
conoscenza fra gli uomini.! Piccolomini è a questo punto pronto per decostruire, come già aveva fatto Quintiliano, il mito di Orfeo e quello di Anfione: [...] non senza ragione fu detto poi che dalla dolcezza dell’harmonia fossero tirate le fiere e gli sterpi, e che i sassi stessi, tratti dal diletto, in forma di mura per se mede-
simi s'accogliessero. Peró che in vero non havevano dalle piante e dalle fiere molta dissomiglianza quei primi popoli, mentre che con dolce e utile inganno furono da chi più sapeva persuasi all'uso della ragione e dentro a città ridotti. '^^
Una volta che gli uomini escono dallo stato di natura e iniziano una vita improntata all'uso della ragione, anche i mezzi della conoscenza e gli strumenti di
divulgazione del sapere subiscono un'evoluzione. Il «secondo modo d'insegnare e di trattare le cose di filosofia» segna uno scarto rispetto allo statuto del linguaggio poetico, instaurando un rapporto piü ravvicinato, ma non ancora completamente scoperto con gli argomenti trattati: esso non era «cosi lontano, come il primo [...], dalle cose che si trattavano; né ancora si vicino che a punto con esso si mostrassero 184 Prccorouint, Epistola 1550, c. 4r-v. 185 Ivi, c. 4v. I poeti-filosofi, continua Piccolomini, «con la scorza dolce della poetica imitatione, che per se stessa agli huomini è suavissima, diedero cotal sapore alle medolle delle cose, che da i sensi de gli ascoltanti fu data ai lor
detti tal strada, che poco a poco nelle menti di quelli penetrando trovarono luogo» (ibidem). 186 Ivi, cc. 40-5r.
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le cose aperte come le sono». I Pitagorici spiegano il mondo con un linguaggio matematico: gli Accademici ne seguono talvolta l'esempio, ma non rinunciano del tutto alle «favole e allegorie di quei primi theologi». Platone, che affronta nei suoi dialoghi concetti alti e «sublimi», lo fa discutendo delle «cose basse, materiali e sensate», ossia attraverso il termine medio che gli offre il mondo sensibile, senza trattare
direttamente il ‘vero’. Per questo occorre attendere la «terza via» che, «più diritta e sicura» delle due
precedenti, si impegna ad indagare e, soprattutto, divulgare senza orpelli retorici gli oggetti filosofici in modo chiaro, distinto e ordinato. I rappresentanti di questa linea sono evidentemente i Peripatetici che, facendo tesoro del metodo aristotelico, ogni improprietà e metafora lasciando indietro, e ogni ombra o color poetico nemi-
cando, al vero stesso puro e schietto, in quel proprio luogo dove gliè posto per dritto camino d'arrivar s affannavano e quindi trattolo e in luce posto a gli altri con aperta manifestatione s'ingegnavan di far vedere.!9%
Al «velame» poetico si contrappone finalmente l'«aperta manifestatione» del «vero stesso puro e schietto», quel metodo e quell'ordine scientifici che Piccolomini chiama in causa nella glossa proemiale delle Annotationes oraziane, e che abbiamo
visto occupare uno spazio di rilievo nella sua riflessione. Da parte dell'umanista non c'è però un vero e proprio giudizio di valore, e l’excursus sui tre modi «d'insegnare e di trattare le cose di filosofia» rientra in un consapevole progetto di sistemazione
dei saperi e della loro divulgazione. Lungi dal criticare il modo poetico, Piccolomini
lo giustifica e assolve pienamente dalle accuse dei detrattori che, sottintese nell'epistola a Giulio III, erano evocate esplicitamente nella prefatoria dei Cento sonetti. Gli «huomini saggi» che «ne' tempi andati» hanno trattato e insegnato «la filosofia con veli di poetiche imitationi», non l'hanno fatto per «occultare in modo la notitia del vero e dell'honesto che rarissimi fosser quelli che l'asseguissero», ma perché mossi da un impeto pedagogico che scendeva a patti con «la rozzezza degli ascoltanti» e si adeguava «alla qualità del loro essere».
La valenza conoscitiva della poesia è quindi pienamente riconosciuta da Piccolomini e, soprattutto, finemente contestualizzata: una «qualità de’ tempi» di sapore guicciardiniano determina i modi e gli strumenti della comunicazione tra eli uomini
e, a maggior ragione, della diffusione del sapere. Nel momento in cui gli uomini si mostrano capaci di «filosofare», i «sapienti» possono abbandonare il «velame»
poetico, procedendo «con le cose aperte [...] nelle quali altra difficultà non è con-
TOA LVIMORDIS
188 Ivi, c. 5v. 189 Ibidem.
i
giunta se non quella stessa che le cose medesime portan seco».! Avendo a modello Aristotele, Piccolomini sceglie di intraprendere questa via nell'esposizione della sua
Filosofia naturale, senza preoccuparsi di coloro che, ancora «stupidi d'intelletto» e «inetti a filosofare», non potranno seguirlo.!! Ma quale spazio resta alla poesia nello scenario proposto da Piccolomini una volta che la trasmissione del sapere avviene
more scientifico? 5. Tra palinodia e riuso: la poesia nell’Institution morale (1560) Nell'Institutione del 1542 la poesia era contemplata come strumento educativo
per i fanciulli, incapaci di acquisire le verità filosofiche in quanto tali, e assumeva di fatto una funzione pedagogica analoga a quella incarnata dalla poesia agli albori della civiltà umana.!°? Trattando però in modo più specifico le facoltà dell'intelletto umano, nell’ambito di una classificazione inevitabilmente gerarchica, si è visto come l’ambito della «poetica» fosse fortemente ridimensionato. Dal momento che
gli uomini, infatti, possono ormai avvalersi di un metodo d'indagine basato sulla presentazione diretta degli oggetti filosofici, e non più strumentalmente mediato dal «velame», alla facoltà poetica rimangono due ambiti: da un lato l'esercizio della poesia, purché moderato, nei momenti di svago:'? dall'altro l'acquisizione di competenze teorico-precettistiche con finalità critiche.
190 Ivi, c. 6r.
191 Il ruolo di Piccolomini nella storia e nell'evoluzione del linguaggio scientifico è individuato acutamente da I. Pantin, Alessandro Piccolomini en France: la question de la langue scientifique et l'évolution du genre du traité de
la sphére, in La Réception des écrits italiens en France à la Renaissance: ouvrages philosophiques, scientifiques et techniques, Paris, Université Paris III Sorbonne Nouvelle, 2000, pp. 9-28. Ringrazio Isabelle Pantin per le indicazioni davvero preziose che mi ha fornito sull'argomento.
192 La successione diacronica individuata nell'epistola a Giulio III si ripropone nella vita del singolo individuo, dove il bambino che non ha ancora acquisito le competenze necessarie alla condivisione del codice filosofico vive una condizione analoga a quella del bruto. Entrambi devono essere ‘ingannati’ dal «velame» poetico che, facendo leva sul diletto provocato dalle «gioconde favole» e dal «numeroso concento», è l'unico strumento capace di far loro acquisire contenuti filosofici. Gli educatori, per esempio, dovranno porre un attenzione particolare nel raccontare ai fanciulli «favole» e «novelle» che siano «di quelle operationi e ragionamenti ripiene da le quali possino essi pigliar essempio di quelle honorate imprese che poi col tempo si converrà loro di operare» (PiccoLomini, /nst. 1542, II, 5, c. 34r). 193 Quanto alla legittimazione di un esercizio poetico misurato, requisito pressoché irrinunciabile per i *gentiluomini letterati” del Rinascimento, cfr. PiccoLomni, [nst. 1542, II, 9, De la lingua toscana: «lodo che un spirto nobile e bello debbi fin ad un certo termino ne la Poesia Toscana esercitarsi. E il termino sia questo: che non molto spesso, ma con qualche occasione occorrendo, sappia comporre un sonetto, una canzone, un'ode, o alcune poche stanze che ne mostrin la vivezza de lo spirto che in sé possiede, opere continue e perpetue in versi non lodo. Conciò sia che sol per un certo ornamento e recreation d'animo voglio che tal cosa alcuna volta si faccia, al qual ricreation con qualche opera continua in fastidio si volgerebbe. Sia dunque la poesia quanto a l'uso per superficial ornamento de l'huomo, e acciò che rinfrancandosi in tal guisa gli animi, stanchi da lo speculare e da l'operare, più vigorosamente a tai virtuose opre ritornin poi» (ivi, c. 457-r). L'idea della poesia come strumento ricreativo è d'altronde già oraziana (cfr. Hor., AP, 406: «et longorum operum finis [...]»).
Tale posizione, che non muta nella rielaborazione dell’Institutione realizzata da Piccolomini tra 1554 e 1558 e confluita nell'Institution morale del 1560, è però significativamente sfumata nella riscrittura del trattato. Il Proemio ribadisce anzitutto che la priorità dell'opera è l'illustrazione della filosofia civile, ossia della morale, e
questo implica che i riferimenti alle altre dimensioni della vita umana, dovuti ad
un'esigenza di completezza, non possano essere che cursorii e, dunque, non esausti-
vi."* Quanto al giudizio sulla letteratura, però, si registrano innovazioni significative
rispetto all Institutione del 1542. Nel capitolo Dell’ufficio del precettore dal quinto al decimo anno de" fanciulli, intorno a l'institution della grammatica e di quelle lettere che humane son dette, per esempio, Piccolomini aggiunge al canone degli autori di
«historie» una riflessione sul genere storiografico che apre prospettive illuminanti sul tema dei rapporti tra letteratura e storia. La storiografia è intesa — analogamente a quanto sostenuto da Piccolomini nella poco nota prefazione al Compendio ariostesco di Giovanni Orlandi — come genere atto a dilettare ed educare non solo il fanciullo,
ma l'uomo nel corso di tutta la sua vita.^ Essa è infatti funzionale al confronto con le variegate esperienze del passato che, in una sorta di coazione induttiva, dovrebbe
facilitare il riscontro dell'uomo con la realtà storica in cui vive. Quanto alla poetica, oltre ad una piü ricca esemplificazione di modelli stilistici moderni e contemporanei nel capitolo Della lingua propria natia, che pure non stempera l'invito a frequentare con moderazione l'esercizio poetico,! l'elemento più rilevante è costituito dalle in-
194 Piccoromini, Inst. 1560, proemio, p. 10: «[...] quantunque io tratti (come si vedrà) di ogni essercitatione, operatione, scientia e facultà convenevole alla compiuta perfettion d'un huomo; nondimeno quelle cose che son fuora delle morali, tratteró universalmente e leggiermente, come non principali nell'intention mia, dove che delle
morali assai più in lungo ragionerò, per esser quelle ch'io considero in questa opera principalmente, donde ella per tal causa morale si denomina, com'ogn un vede, conciosia che quanto alle scientie speculative e altre facultà che sono ornamento nell'huomo, non mancano hoggi molti che e con scritti e con viva voce ne le insegnano in molti luoghi». 195 Ivi, II, 9. pp. 105-106. Il canone degli storiografi comprende Plutarco, Polibio, Senofonte, Giustino, Tucidide, Livio, Cesare, Sallustio, Svetonio, Tacito, Appiano, Eusebio. La breve digressione trova un riscontro interessante nella prefazione di Alessandro Piccolomini a G. OrLanpI, Compendio dell'historie citate da Lodovico Ariosto
nel trigesimo tertio canto di Orlando furioso da lui composto (Roma, Valerio Dorico, 1555), dedicata all'utilità e al diletto che si ricavano dalla lettura delle «historie». Salutando con entusiasmo la fatica del compilatore, che ha
«raccolte in compendio le cose più importanti che sono occorse in Italia intorno a mill’anni» al fine di facilitare la lettura del canto XXXIII dell'Orlando furioso, Piccolomini osserva che «il diletto naturalmente è in modo congiunto con la notizia degli altrui fatti, che non solo in quelle cose che per vere intendiamo troviam piacere, ma a qu[e]ll'altre anchora che per false e quasi impossibili ci son racconte, avidissime porgiamo le orec[c]hie» (ivi, c. iij*]7). Proseguendo con la dimostrazione dell'utilità che, oltre al diletto, si ottiene dalla lettura delle «historie», Piccolomini avvicina lo statuto della finzione letteraria a quello della verità della narrazione storiografica. 196 Piccoromini, Inst. 1560, IN, 11, pp. 111-117. Il canone di riferimeno è così articolato: Annibal Caro, Claudio Tolomei, Baldassar Castiglione, Giovanni Guidiccioni, Francesco Torre, Bernardo Tasso, Marcantonio Piccolomini, Lodovico Domenichi, Girolamo Ruscelli per l’epistolografia; Sperone Speroni per il dialogo; Benedetto Varchi per l’oratoria. Uno spazio particolare è riservato ad autori ‘locali’, amici e colleghi di Piccolomini nell'Accademia degli Intronati: Bartolomeo Carli Piccolomini, Camillo Falconetti, Marcantonio Cinuzzi, Sallustio Mandoli, Piergiovanni Salvestri. Per quanto riguarda i modelli poetici, la lista include Francesco Petrarca, Pietro Bembo, Vittoria Colonna, Francesco Maria Molza, Annibal Caro, Bernardo Tasso, Benedetto Varchi, Ludovico e Ugolino Martelli, i senesi
Carli Piccolomini e Sallustio Mandoli.
TO
tegrazioni al capitolo Della poetica e dall’aggiunta del Discorso per modo di digressione intorno alla facoltà della Poesia. Dopo aver spiegato che il diletto poetico muta al variare delle lingue, argomento principale contro il culto inattuale dell’esercitazione poetica in greco e latino, Piccolomini riconosce l’esistenza di alcune «cose naturali», stabili nel corso dei secoli. L'imitazione poetica che le riguarda continua dunque a produrre i suoi effetti di
piacere e utilità: molte altre cose sono che, non ricevendo mutatione, come naturali siano, potranno in ogni tempo per mezzo della imitatione recar diletto, come per essempio adiviene nell'imitar le proprietà naturali dell'età giovenile, o della virile: le proprietà de’ Tiranni, de’ servi, de’ ricchi, de’ poveri e di altre simili distintioni d'huomini che per natura portan seco alcune proprietà: come i gioveni la liberalità, i vecchi l'avarizia, i potenti l’insolenza e simili. Le cose ancora puramente naturali, stando sempre le medesime
nelle specie loro, sono parimente per ogni tempo capaci della medesima imitatione.^?
Poiché esistono, dunque, categorie metastoriche come le «proprietà naturali dell'età» ed «altre simili distintioni» non soggette a mutamento, l'imitazione poetica
che rinvia ad esse non si esaurisce. Quest'idea, che suscita una eco anche nelle Annotationes all'Ars poetica laddove si parla dei ‘caratteri’! permette a Piccolomini di avviare una ritrattazione del giudizio sulla poesia espresso nella prima /nstitutione. Riconoscendo alla poesia alcune funzioni metastoriche, è infatti possibile giustificare l'utile e il diletto che essa continua a produrre negli animi umani in un età caratterizzata dal progressivo affermarsi di altri linguaggi (come quello filosofico propriamente detto e quello scientifico). Ecco quindi che la lettura dei poeti torna ad avere
nel paradigma formativo del nobiluomo cinquecentesco un posto rispettabile.?"? Il riscatto della lettura, che non implica una diversa posizione rispetto allo scetticismo nei confronti dell'esercizio pratico della poesia, ne chiarisce tuttavia il senso. Quello di Piccolomini é un rifiuto del dilettantismo in un'arte che, proprio in virtü della sua eccellenza, non tollera la mediocrità:
197 Il capitolo IV, 9 Della poetica di Inst. 1560 corrisponde al capitolo III, 9 di Inst. 1542. Il Discorso per modo di digressione intorno alla facoltà della Poesia, costituisce il capitolo IV, 11 di Inst. 1560 (pp. 143-150) e chiude la sezione dedicata alle scienze razionali (logica, retorica, poetica).
198 PiccoLomini, Inst. 1560, IV, 9, pp. 139-140. 199 Cfr. PiccoLomini, Annotationes,153-172. Si rimanda alle nostre note di commento ad loc. per ulteriori detta-
gli relativi all'interesse che Piccolomini mostra per la teoria dei caratteri, essenzialmente desunta dal II libro della Retorica di Aristotele. 200 Prccorowit, Inst. 1560, IV, 9, p. 140: «La onde non volendo io privar l’huomo di cosi gran diletto, concedo che egli habbia in ogni tempo della sua età da poter ricreare in qualche hora che più n'habbia bisogno, i più gravi studi e le fatiche sue, con legger qualche eccellente poeta. Et acciò che meglio possa gustare la forza della Poesia, giudico ben fatto che in questa età dal decimo al quartodecimo anno della quale parliamo al presente, impari le leggi e i precetti dell’arte Poetica: più per servirsene poi nel leggere e nell’intendere, come ho detto, i buoni poeti,
che perché egli habbia a scrivere e a comporre in tal arte».
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La quale arte ha bisogno di tanta perfettione e di tante scienze e inclination di natura per poter comparire e mostrarsi altrui, che per poter comporre in essa cosa che sia degna d’esser letta, non comportando essa alcuna mediocrità, bisognerebbe consumarvi tutta l'età. Et questa è una delle cause principali ch'io non mi son curato d'instituir l'huomo in scrivere poeticamente, si come io gli concedo di leggere i buoni poeti, li quali in ogni età furon rari"?!
L'aggiunta piccolominiana giunge poi alla rievocazione del giudizio platonico sull'imperfezione della poesia. già presente nella prima redazione dell Institutione. E vero che nella Repubblica Platone «dimostra il mancamento» della poesia, «per tre gradi [...] lontana dalla verità», e «in altri luoghi cerca di escludere i poeti dalle perfettissime città che forma», ma tutto questo altronde non nasce in Platone se non dal timor ch'egli ha che la gioventù non prenda mal essempio e mali costumi dalla lascivia e dall’imprudenza de' mali poeti, come io intorno a ciò potrei molte cose dire, le quali a questo luogo non s'appartengono."? Anche la posizione platonica è dunque debitamente sfumata, e la conclusione del
capitolo si apre alla legittimazione di un canone di autori poetici che, assente nella prima /nstitutione, è sostenuto dal richiamo all'esperienza personale di chi scrive. Per
«ricreation de la mente» l'uomo potrà quindi «prender non picciol diletto in legger qualche perfetto poeta, si come io stesso per esperienza provo alcuna volta con Oratio, con Lucretio, con Virgilio, con Omero, con Ovidio, col Petrarca, e qualche volta ancora con
l'Ariosto, o con alcun altro simile»."? [n definitiva Piccolomini invita a considerare la
201 Ibidem. Cfr. PiccoLomni, Epistola 1545, c. [*viij]e: «[...] sola la Poesia fra l'altre facultà non dà luogo a mediocre eccellenza: conció sia che dove che l'altre, perché le recano l'util solo, o piccolo o grande che lo portino,
qualche luogo ritruovan pure, ella, come che col diletto esserciti principalmente le forze sue, non può sennò eccellentissima dimostrarsi». Piccolomini torna sulla differenza tra la poesia e le arti che, in virtù della loro ‘necessità’, tollerano risultati mediocri, commentando Hon., AP, 369, 379 in Annotationes, ad loc.
202 PiccoLomini, /nst. 1560, IV. 9. p. 140. 203 Ibidem. La lettura dei poeti classici costituisce un elemento importante nel percorso intellettuale di Piccolomini: basti pensare, per Orazio, alle Annotationes e ai Cento sonetti, nonché a sporadici riferimenti a testi lirici oraziani nelle Annotationi aristoteliche. Per Virgilio e Ovidio il riferimento va ai già citati volgarizzamenti del VI libro delVEneide (1540) e del XIII dell Metamorfosi (1541). Quanto a Lucrezio si ha notizia di un commento piccolominiano al De rerum natura: l'umanista vi accenna come ad un lavoro in fieri nella dedica a Cosimo I della Prima parte de le teoriche overo speculationi dei pianeti (Venezia, Giovanni Guarisco, 1558); Belisario Bulgarini sosteneva che Piccolomini, una volta portato a termine il commento, avrebbe evitato di darlo alle stampe per «non dar vigore all'oppinion falsissima d'Epicuro intorno alla Provvidenza» (Cergeta, Alessandro Piccolomini, cit., pp. 77, 79, nn. 9-10). Al commento lucreziano si fa riferimento nella corrispondenza tra Gian Vincenzo Pinelli — che conobbe personalmente Piccolomini — e l'umanista francese Claude Dupuy: cfr. G.V. Piverti - C. Duruy, Une correspondance entre deux humanistes, a c. di A.M. Raugei, Firenze, Leo S. Olschki ed., 2001, vol. I, n°53, Dupuy a Pinelli (Parigi, 17 gennaio 1575), pp. 148-150; n*56, Pinelli a Dupuy (Padova, 18 marzo 1575), p. 157. Sul fronte delle letture “volgari 'di
Piccolomini, vale infine la pena sottolineare la concessione a vantaggio di Ariosto: oltre all'interesse per il furioso
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poesia nella sua accezione più alta, non meritevole di essere preda di facili dilettantismi, e conferma l’invito, peraltro già presente nella prima /nstitutione, a studiarne i precetti seguendo l'insegnamento aristotelico.??* 1 nel Discorso per modo seguito un hanno Poetica Della Le integrazioni del capitolo di digressione intorno alla facoltà della Poesia, che viene a costituire il capitolo IV, 11
della nuova Institutione morale e che suggella la sezione dedicata alla trattazione delle scienze razionali. Questa macroscopica aggiunta è uno degli elementi più vistosi della
riscrittura cui Piccolomini sottopone i materiali accumulati nel suo trattato morale, ed assume un ruolo importante nel cammino che stiamo compiendo perché si presenta come un vero e proprio riuso. Preceduto da un preambolo che ha tutto il sapore della palinodia, il testo della digressione altro non è infatti che l'epistola prefatoria ai Cento sonetti del 1548. L'elogio della poesia di gusto boccacciano e umanistico che apre il canzoniere di Piccolomini è qui riproposto a correggere la posizione parzialmente limitativa sulla facoltà poetica espressa dal letterato nei capitoli precedenti: Acciò che non sia alcuno che, da quel ch'io ho detto ne’ due capi precedenti, possa pigliare occasione di pensare ch'io habbia voluto detrarre o derogare alla nobiltà di così eccellente facoltà com'è la Poetica, e massimamente prendendola noi non come Intentionale o Rationale, ma come usuale e regale, voglio, quasi per digressione, distendermi alquanto in discorrere la sua eccellenza. E maggiormente che così fatto discorso non sarà forse inutile al nostro proposito principale.???
Il discorso «per modo di digressione» mira quindi a riconoscere l'eccellenza della poesia non solo come facoltà «intentionale o rationale», ma anche come «usuale»,
ossia sul piano della concreta produzione poetica. Piccolomini ripropone puntualmente il testo dell'epistola a Vittoria Colonna, omettendo soltanto la sezione finale dedicata alla celebrazione del moderno canone lirico cui i Cento sonetti si ispiravano, e conclude ribadendo il concetto espresso nel preambolo.??? indirettamente testimoniato dalla prefatoria al citato Compendio dell'Orlandi, la dimestichezza con la produzione ariostesca emerge nel commento alla Poetica. Dante, Petrarca, Boccaccio e Ariosto offrono infatti a piü riprese spunti
per esemplificare concretamente le questioni teoriche trattate dall’autore: per una prima sintetica mappatura delle citazioni di autori volgari nelle Annotazioni aristoteliche, cfr. Rerivt, «Come il Petrarca fa molte volte» cit., n.3. 204 All'interpretazione della Poetica di Vincenzo Maggi si aggiunge qui quella di Francesco Robortello; quanto alla poesia toscana, Piccolomini ripete le indicazioni offerte in [nst. 1542, II, 9, c. 59v (Dante, Petrarca, Bembo), limitandosi a sostituire il Daniello col senese Bartolomeo Carli Piccolomini. Cfr. PiecoLommni, /nst. 1560, IV, 9,
p. 141. Un interesse particolare riveste il riferimento al collega senese, cui sarà opportuno dedicare maggiore attenzione nell’ambito di una ricostruzione critica del contesto accademico senese gravitante intorno alla figura piccolominiana. Per un profilo biografico di Carli Piccolomini, cfr. V. Mancuerri-R.BeLLaponna, Bartolomeo Carli Piccolomini, in DBI, XX, 1977, pp. 194-196; sull'impegno esegetico dell'accademico richiama l'attenzione V. Cox,
Un microgenere senese: il commento paradossale, negli atti del convegno Il poeta e il suo pubblico cit., (c.s.). 205 Prccorouini, /nst. 1560, IV, 11, p. 143.
206 «E tanto voglio io che mi basti d'haver qua per digressione discorso dell’eccellenza della Poesia: acciocché si vegga che, se io nel capo nono di questo libro non ho lodato né essortato che profondamente e per lungo tempo
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6. Il retroterra umanistico
Come si evince dai testi teorici presi in considerazione, il giudizio di Piccolomini
sulla poesia non è univoco: in linea con quanto sostenuto nell’Institutione del 1542 e nell'epistola a Giulio III, Alessandro tralascia progressivamente gli svaghi letterari,
che pure lo hanno occupato nel corso della giovinezza, per dedicarsi ad un'attività di studioso ed erudito che, come mostrano i tardi commenti alla Retorica, alla Poetica
e le Annotationes in Horatium, privilegia, sul versante della facoltà poetica, la rifles-
sione critica rispetto all'esercizio pratico. I dati raccolti fin qui permettono di scorgere nel tema della poesia come forma originaria di «sapientia» uno dei fili conduttori della riflessione del senese. Le Annotattones, lette a fianco di testi come la prefatoria ai Cento sonetti e l'epistola a Giulio III, assumono un senso più profondo e vengono ad occupare un tassello non secondario nel sistema piccolominiano. I miti di Anfione ed Orfeo, carissimi alla tradizione platonica, agiscono anche sull’aristotelico Piccolomini, certamente non insensibile al fascino di quella che, per dirla con una iunctura ricca di risonanze e forte di una
lunga tradizione, era definita sapientia prima. Non potendo ripercorrere in questa sede tutte le tappe di una storia plurisecolare e ricchissima di testimonianze, in cui la tradizione del patrimonio letterario e filosofico classico si ibrida con quella della cultura cristiana, basti ricordare che
proprio sull'assunto petrarchesco e boccacciano della portata teologica della poesia delle origini, si innesta la concezione neoplatonica della poesia propria di Cristoforo Landino, autore di un fondamentale commento oraziano che Piccolomini mostra di
conoscere.” Commentando i vv. 391 sgg. dell Ars poetica, Landino esalta la funzio-
ne civilizzatrice della poesia ricordando che Orazio «ostendit Orphei et Amphionis exemplo quantum utilitatis ad humanam societatem conservandam attulerint poetae boni», ma soprattutto, che «iidem erant poetae et theologi», con una formulazione
di cui forse si ricorda lo stesso Piccolomini. L'eccezionalità dello statuto del poeta era già additata da Landino nel proemio del suo commento allArs, dove il «poeta»,
se non proprio paragonato a Dio che «ex nihilo creat», è comunque celebrato per il «divinus furor». Nessun genere di scrittori è mai esistito, afferma Landino, superiore ai poeti in eloquenza e saggezza («magnitudine eloquentiae et divinitate sapientiae»), e le glosse ai vv. 309 sgg.. sviluppando l'analogia tra il paradigma del poeta sapiente universale e quello del buon oratore di marca ciceroniana, insistono sullo
stesso punto:
l'huomo s'habbia ad occupar in quest Arte, gli ho fatto non perché ella non sia nobilissima a meraviglia, ma per
quelle ragioni che intorno all'imitatione e al concento de” versi ho quivi dette; e massimamente nella mi Greca e nella Latina, come ogni huomo di buon giudicio può ancora discorrere per se medesimo» (ivi, p. 150). 207 Al commento oraziano di Landino (1482) si è fatto riferimento nella nostra Introduzione. Si rinviano alle note di commento al testo delle Annotationes i paralleli landiniani più significativi.
1n
Scrisenpi RECTE. Non potest recte scribere qui non sapit idest qui non sit multa doctri-
na excultus. Sentit enim idem de poeta quod Cicero de oratore. Et profecto eloquentia nemo illustris erit sive orator sive poeta sit, nisi multas variasque disciplinas norit. Sed praesertim poeta qui suam poesim omnibus scientiis atque artibus exornanda
sibi proponit. [...] Omnis autem oratio ex verbis atque sententiis constat. Verba a grammatico rhetoreque petuntur; res autem a philosophia, mutuari oportet, "?
La lezione landiniana costituisce uno dei capitoli piü rilevanti della riflessione umanistica sul valore sacrale ed istruttivo della poesia, nata intorno alla discussione dei versi di Orazio sulla «sapientia» poetica, ed il suo contributo non si riduce al
commento oraziano. Nelle Disputationes camaldulenses, per esempio, è possibile leggere formulazioni ancor più organiche e complete dei medesimi concetti, e tutta la tradizione dell'umanesimo fiorentino potrebbe offrire in tal senso documenti
importanti e sostanzialmente concordi nella celebrazione del carattere sapienziale della poesia."? Ai fini del nostro discorso, però, e tentando di concludere il percorso
retrospettivo avviato dalla lettura delle glosse oraziane, può essere più utile cogliere i tratti di un ambiente culturale che ha influito fortemente sul pensiero di Piccolomini
e che, non troppo sensibile alle istanze del «furor» neoplatonico, si presenta come dichiaratamente aristotelico, ossia quello padovano dell’Accademia degli Infiammati. La poesia è definita «prima filosofia» nella Poetica di Bernardino Daniello che, ben prima della grande discussione sulla Poetica aristotelica, segue da vicino l'Ars
oraziana.?! Il caso di Daniello resta però emblematico di un approccio alle questioni poetiche che, certamente non innovativo ed anzi debitore della tradizione medioumanistica, fa leva sulla necessità di conciliare ars e ingenium, ribadendo l'esigen-
208 Lanp., ad loc. Ancora Landino, evidentemente sulla scorta dei commentatori tardo-antichi, sottolinea il significato morale di «socraticae [...] chartae»: «Socraticae idest philosophicae: nam a Socrate manavit omnis philosophia moralis» (ibidem). Cfr. Ps.-Acn. e Ponn., ad loc. 209 Cfr. C. Lanpino, Disputationes Camaldulenses, a c. di P. Lohe, Firenze, Sansoni, 1980: si veda soprattutto
il terzo libro, pp. 110-114, 119-120 (Landino si sofferma ampiamente su tutti gli elementi del topos umanistico della poesia come forma di filosofia e teologia). La medesima linea in C. SaLutaTI, De laboribus Herculis, ed. B.L. Ullmann, Turici, in Aedibus Thesauri Mundi, 1951 (cfr. almeno il capitolo I, 3, Quod poetica sit ars et que sit eius materia, et quod ex omnibus artibus sit composita, et quod ab ipsa natura profecta sit). La celebrazione del modello *orfico' anche in L. Bruni, Vita di Dante, in Ip., Opere letterarie e politiche, a cura di P. Viti, Torino, Utet, 1996, pp. 539-552: 548-549). Sul versante della produzione poetica resta evidentemente imprescindibile la celebrazione umanistica della poesia nelle Sy/rae di Poliziano e, in particolare, Nutricia (si rinvia alla recentissima edizione A. Poiziano, Opere, a cura di F. Bausi, Torino, Utet, 2000: il testo alle pp. 672-759; per indicazioni utili ad una contestualizzazione del caso di Poliziano nel panorama qui evocato, cfr. l’Introduzione del curatore, pp. 41-52). Cfr. anche A. Barristini-E. Rarmonpi, Retoriche e poetiche dominanti, in Letteratura italiana. Le forme del testo, I. Teoria e poesia, Torino, Einaudi, 1984, pp. 60 sgg.
210 Danretto, La poetica cit., in WeiNBERG, Trattati cit., I, p. 240, 21: «[...] la poesia prima filosofia si disse (come aver più volte in più luoghi letto mi soviene). Né si può dirittamente, senza alcuna cognizione di lei avere, alcun uomo vero e perfetto poeta chiamare, ma più tosto ignobile e di volgo». La consonanza con le posizioni espresse da Piccolomini nelle Annotationes è evidente, ed il parallelo è confortato dalla citazione esplicita che il letterato
senese, come si è visto, fa di Daniello nell’/nstitutione del 1542. Per ulteriori analogie cfr. nota successiva.
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za, per la poesia, di contenuti filosofici importanti. Nessuno può essere un «vero e
perfetto poeta» senza «cognizione se non di tutte le scienze e dottrine, almeno della maggior parte», giacché, parafrasando Orazio, «il sapere è principio e fonte dello iscriver bene e dirittamente le cose, e la filosofia sola è quella che ne può amministrar
gli alti concetti e le belle invenzioni» .2!!L'idea che il poeta debba istruire il proprio pubblico ha una esplicita valenza morale, importante nella tradizione retorica latina e ancor più nella cultura cristiana. Essa influenza inevitabilmente la ricezione della Poetica di Aristotele, che viene letta anche dai commentatori più rigorosi e vicini al testo — con la macroscopica eccezione di Lodovico Castelvetro — in un'ottica moralistica. Le letture aristoteliche svolte nell'Accademia padovana degli Infiammati giocano in tal senso un ruolo decisivo. Si vedano le parole che Bartolomeo Lombardi dedica al tema del poeta-filosofo nella sua prefazione In Aristotelis librum de Poetica ad Academicos Inflammatos: Ac sicuti hi philosophi, si poetae etiam sint, multo sint etiam praestantiores: ita poe-
tae sine Philosophia futiles ac nulli [...] Nonne iidem erant poetae atque theologi priscis? [...] in figmento fabularum vera Theologia.?'?
Oltre a ribadire le implicazioni filosofiche della poesia, Lombardi propone il parallelo ormai topico con la teologia e, poco dopo, il paradigma del poeta «sapiens» universale presente in Piccolomini. Ancor più significative le analogie che le annotazioni dell'umanista senese mostrano con il commento di Maggi all’Ars poetica (la vicinanza dei due intellettuali a Padova è ricordata esplicitamente nell Institutione del 1542 ed evocata costantemente nelle più tarde opere piccolominiane). Commentando i vv. 309-316 dell’Ars, per esempio, Maggi glossa i nessi «scribendi recte» e «socraticae [...] chartae» con parole che saranno presenti a Piccolomini durante la stesura della sue annotazioni: il «sapere», fonte e principio di una buona scrittura, è la filosofia morale che si apprende dalla lettura di Platone, e le «socraticae chartae» rappresentano l'insegnamento morale di Socrate confluito nei Dialoghi platonici." 211 Ivi, p. 244, 27. Daniello, prevenendo obiezioni sulla difficoltà per il poeta di dominare tutti gli ambiti dello scibile, afferma anche che «non essendo egli perfetto teologo e filosofo, abbia i principii almeno della sovranaturale, naturale, e morale filosofia» (ibidem): il paradigma formativo sotteso a tale affermazione, basato sulla tripartizione della filosofia, è analogo a quello elaborato da Piccolomini già all'altezza della prima /nstitutione. Cfr., in questo capitolo, il $ 2, pp. 55-02.
212 B. Lomgarpi, /n Aristotelis librum de poetica ad Academico Inflammatos praefatio, in Macci-LomBarpi, In Aristotelis librum de poetica cit., p. 3. Ma cfr. anche ivi, p. 7: «Iam videtis hominem poetam, non, ut loquimur, ingeniosum, prudentem, sed egregie virum singularem, hominem plane perfectum: id quod arbitror vidisse sapientes illos, qui ex lauro coronam censuere poetis dandam: sic enim perfectum innuebant hominem, cui nihil deesset:
quam nulli alii literarum causa dandam censuere: quanquam illi quidem poeta magis laurum hoc facto, quam poetam lauro decorabant».
213 Macci, In Horatii librum de arte Poetica interpretatio, in Macci-LomBarpi, [n Aristotelis librum de poetica
cit., p. 358: «[...] docet primo recte scribendi fontem esse sapere; hoc est Philosophiam moralem recte tenere: quam ex Platonis lectione facile assequi poterimus. Nam per Socraticas chartas Platonis dialogos, in quibus Plato
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In tale prospettiva, i vv. 391 sgg. rivelano la funzione eminentemente morale della
poesia, proiettandone le origini in un passato mitico."
La tradizione dei commenti all’Ars poetica consacra dunque la convergenza di poesia e filosofia, rafforzando l’idea di una funzione civilizzatrice e conoscitiva del linguaggio poetico. I vv. 309 sgg e 396 sgg. dell’epistola ai Pisoni si affermano tuttavia come topici anche al di fuori dell’esegesi oraziana, ed anche questo genere di riuso ne conferma l’importanza. Sfogliando i trattati di poetica e retorica del Cinquecento non è difficile imbattersi in citazioni spesso esplicite delle «socraticae chartae» o dell’«haec fuit sapientia quondam»: volendo limitare l'esemplificazione a due casi emblematici, si pensi a Giovan Battista Giraldi Cinzio e Anton Maria de’ Conti
che, in momenti e luoghi diversi, difendono il ruolo della poesia esplicitando il nesso tra facoltà poetica e filosofia. Nella Lettera a Bernardo Tasso sulla poesia epica del 1557, Giraldi offre una definizione di poesia che, in pieno dibattito sulla Poetica
aristotelica, si svincola dalle difficoltà interpretative del trattato greco aderendo in pieno all'umanistico paradigma oraziano.?! Ancor più completa è l'argomentazione nella quale Anton Maria De’ Conti, noto traduttore della Fetorica col nome di Mar-
cantonio Maioragio e ricordato come tale da Piccolomini nella Copiosissima parafrase, inserisce la citazione di Ars poetica, vv. 396 sgg. I poeti, secondo l'umanista, hanno saputo mostrare agli uomini l «honeste vivendi viam ac rationem» e i «morum praecepta» meglio di qualsiasi filosofo. Che la «poetica» coincida poi con la «sapientia seu philosophia» è dimostrato da Aristotele che, come Massimo di Tiro, annovera «inter poemata» anche i «doctissimos et elegantissimos Platonis dialogos, in quibus
maximae quaeque res et divinae et humanae tractantur».?'^ Maioragio ricorda poi Socratem de morali Philosophia disserentem inducit, intelligit [...]». Ottimo inquadramento della figura di Maggi nella recente voce di E. Selmi, Vincenzo Maggi, in DBI, LXVII, 2006, pp. 365-369 (che offre anche bibliografia aggiornata). 214 lvi, p. 366: « Horatius [...] non Poesis causas, sed ea, quorum ipsa Poesis causa est, enumerat [...] Huiusmodi autem sunt, rectam vitae rationem ostendere, immanes homines mites efficere, leges sancire, Deos heroasque decantare, ad bellum accendere. Item Poesim repertam esse dicit [...] ad animos post longos labores relaxandos». 215 G.B. Grnarpr Cinzio, Lettera a Bernardo Tasso sulla poesia epica (1557), in Wenger, Trattati cit., Il, pp. 457-458: «[...] usai quanto meglio mi fu concesso l'ingegno perché l'opera tutta fusse composta all’utile et all’onesto, parendomi che questo debba essere il fine del poeta e non il diletto solo. Però che, per quanto ne dicono gli auttori antichi, la poesia non è altro che una prima filosofia, la quale quasi occulta maestra della vita sotto velame poetico ci propone la imagine di una civile e lodevole vita, tratta dal fonte di essa filosofia; alla qual vita, quasi a proposto segno, abbiamo a drizzare le nostre azioni. Il che ci mostrò Orazio quando disse: Rem tibi Socraticae poterunt ostendere chartae, le quali parole si deono riferire alla filosofia morale, vera demostratrice delle azioni umane, alla quale fu tutto intento Socrate come quegli che dalla contemplazione ridusse i suoi pensieri al costume et alle cose agibili e lodevoli nella vita civile».
216 A.M. De’ Conti, De arte poetica (1550 ca.), in Werner, Trattati cit., Il, pp. 127-139: 131. Il riferimento aristotelico va a Poet. 1447b 10; cfr. il commento di Piccolomini ad loc.: «[...] poesie [...] veramente chiamar si possono i Dialoghi di Platone, dove ragiona Socrate; dei quali intende Aristotele in questo luogo» (PrccoLomni, Annotationi, 7. p. 22); lo stesso concetto in PrccoLomini, Epistola 1548, c. [*vi]v-[*vii]r. laddove Piccolomini spiega che non il verso, ma l'imitazione è condizione imprescindibile per un’opera poetica (in tale ottica «più poetici stimar si debbono i Dialogi di Platone e le Comedie di Sofrone e di Xenarcho, senza misura alcuna di verso, che i versi d'Empedoclè o altro simile, privi d'imitazione»).
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l'universalità della poesia, involucro atto a rivestire tutti gli ambiti del sapere e della vita umana, pervenendo ad una celebrazione della sua funzione civilizzatrice che
culmina nella citazione oraziana.?" Lo strettissimo legame che accomuna, fin quasi a farle coincidere, la poesia, la retorica e la filosofia è infine sancito dall'umanista sulla base dell'auctoritas ciceroniana: Maioragio spiega che le caratteristiche assegnate da Orazio alla poesia sono ascritte da Cicerone all'eloquenza e alla filosofia.
Per una sorta di proprietà transitiva le tre facoltà dell'intelletto umano vengono cosi a convergere.?!?
T. Lo statuto del poeta nelle Annotationi nel libro della poetica (1575)
Sulla scorta di quanto visto fin qui è possibile tornare a Piccolomini, che nel suo contributo più maturo su questioni di poetica, le Annotationi aristoteliche, conclude una riflessione complessa e articolata su più gradi. Commentando Poet. 1456a 3-7, dove si discutono le competenze e i requisiti del poeta, il filosofo si abbandona ad
un amara considerazione sullo statuto dei poeti, utile per cogliere il punto d'approdo delle sue osservazioni sulla poesia:?! Gran disvantaggio hanno col volgo e con l'imperita moltitudine tutti coloro che sudano e s'affatigano molti anni per conseguir qualche honorevol arte o qualche pregiata scientia e finalmente la conseguiscono. Poscia che le persone imperite, con-
sumando all'incontro gli anni loro nella pigritia e nel sonno, in voler poi far casuale lor giuditio dell'opre che nascon dai detti artefici e dai posseditori delle scientie [...] non si astengon di riprender coloro che con tanta dottrina l'hanno fatte. [...] Et se questo in tutte le facultà si ritruova, molto capace luogo truova nella facultà poetica: come in quella che, si come la notitia quasi di tutte l'altre facultà ricerca,
cosi fatigosissimo e lo studio suo: e per conseguente molto di rado si vien in essa a qualche straordinario grado di perfettione.""?
217 De’ Conti, De arte poetica cit., pp. 131-132: «Quanti tandem aestimandum est quod poetae qui primi virtute et consilio praestanti extiterunt, perspecto genere humanae docilitatis, ut orator ait, atque ingenii, dissipatos homines unum in locum congregarunt eosque ex feritate illa qua prius utebantur, ad iusticiam atque mansuetudinem traduxerunt? Tum res communem utilitatem continentes quas publicas appellamus, tum conventicula hominum,
quae postea civitates nominatae sunt, tum domicilia coniuncta quas urbes dicimus, invento et divino et humano iure, moenibus sepserunt; quod etiam Horatius ita canit: [AP, 396-401]». 218 Ibidem: «Quod igitur M. Cicero primo De inventione tribuit eloquentiae, quinto vero Tusculanarum ad phi-
losophiam transfert, id sine ulla dubitatione poeticae proprium est quae omnium laudatarum artium parens et procreatrix semper fuit». Cfr. Cic., De inv. I, 1-2; Tusc. V, 5. 219 Arist., Poet. 1456a 3-7, nella traduzione di Piccolomini (Annotationt, 93, p. 256): «Onde generalmente in
tutte quelle spetie convien fare sforzo di trovarsi instrutto, e se non in tutto, almeno nelle più importanti e nella maggior parte. E maggiormente che in questi tempi li poeti son facilmente esposti alle calunnie e alle riprensioni. Perció che vedendo le persone in ciascuna delle dette spetie, appartatamente in questa od in quella, trovarsi diversi buon poeti, vogliono ch'in tutte unitamente ancora un solo stesso poeta escella».
220 Piccoomini, Annotationi, 93, p. 257.
o1
Introducendo la delicata questione del giudizio poetico e del rapporto con un pubblico non necessariamente in grado di giudicare l’opera, ma anzi tacciabile d'«ingratitudine» nei confronti dei poeti, Piccolomini sottolinea il carattere pressoché universale della facoltà poetica, che «la notitia quasi di tutte l'altre facultà ricerca», e la sua straordinaria difficoltà, per cui «molto di rado si vien in essa a
qualche [...] grado di perfettione». L'umanista vagheggia un ideale altissimo di poesia che difficilmente può aver luogo nella realtà contemporanea. La lamentatio si chiude infatti con una significativa preterizione: «Ma non è hora il tempo di deplorare la conditione della professione dei poeti e degli amatori e professori delle dottrine e delle scientie e delle buone lettere». Eppure, proprio su tale deplorevole «conditione», Piccolomini torna nell'annotazione a Poet. 1458b 5-11: criticando l'earrogante inettezza» di chi sminuisce il lavoro poetico «non considerando la fatiga, il tempo, lo studio, l'arte e la diligentia che molti anni si pone nell acquisto
di questa e di quella scientia», Piccolomini riconosce che «grandissimo disvantaggio tengono gli studiosi delle buone lettere e gli investigatori delle scientie con la turba imperita degli ignoranti» che, novelli «Aristarchi», biasimano senza ragione
«quelle opere e quegli scritti che con la consumation di molti anni e con infinite vigilie, sudori e detrimenti della vita stessa, hanno li buoni scrittori perfettamente
e scientissimamente fatto».?*? Alla difesa della poesia si unisce quindi nelle Annotationi Vapologia del lavoro
poetico propriamente detto, poiché il labor limae, assieme all'elevatezza dei contenuti, contraddistingue la faticosa ricerca dei poeti. Affrontando la questione del diletto e del giovamento poetico nell'annotazione a Poet. 1459a 18-29, Piccolomini ribadisce del resto che «una così escellente, antica e principal facultà com'è la poesia
[...] non fra le arti ancelle e ministre, ma più tosto fra le signoreggianti merita haver luogo».?? Il commento a Poet. 1460b 13-21 conferma che il poeta deve essere filosofo universale, ovvero detentore di quella «sapientia» di cui abbiamo seguito le tracce lungo l’intera riflessione di Piccolomini: trattando dell’errore poetico, il commentatore coglie l'occasione per chiarire cosa sia effettivamente la competenza universale
del poeta e cosa significhi che il poeta debba essere «ottimamente instrutto e dotto in tutte le scientie e in tutte le arti».* Gli errori dei poeti, stando ad Aristotele, possono
essere «in sé» (riguardanti l'arte poetica), oppure «per accidente» (relativi ad altre arti)."? Accettando che la competenza del poeta non possa prescindere dal dominio 221 Ibidem. 222 Ivi, 119, p. 349. Anche in questo caso la preterizione finale: «Ma non essendo hora il tempo di deplorar la sorte e la fortuna dei letterati, a quel che segue ritorneremo» (ibidem).
223 lvi, 124, p. 370. 224 Ivi, 138, p. 397. 225 Ivi, p. 396: «Per sé e per sua colpa propria s'intende peccar il poeta quando pecca nella poetica arte sua [...]. Ma per accidente [...] errore non si dee stimar della facoltà poetica».
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dell’arte poetica in sé, la «sapientia» consisterà in «tutte le altre cose, fuora della sua
arte», che il poeta deve sapere: Primamente son tutte quelle cose che porta ordinariamente il mondo e la vita commune dell'huomo, delle quali ciascheduna persona, quantunque imperita e volgare, suol esser instrutta e capace. Le seconde son quelle cose ch'appartengono a quelle arti senza le quali non pare che la facultà poetica possa stare, come sono la gram-
matica, l’arte metrica [...]. Le terze son quelle cose che dei fatti degli huomini sono state dal mondo o per gli scritti o per la fama accettate, cosi appartenenti alle favole come all’historie.?°0
La complementarità di res e verba che sottende le sintetiche argomentazioni delle Annotationes all'Ars poetica trova riscontri importanti nel resto della produzione teorica e critica di Piccolomini che, muovendo da un'esperienza di esercizio poetico strettamente legata al divertissement accademico, giunge ad una concezione della
poesia come forma d'espressione difficilissima, dialetticamente in rapporto con varie dimensioni della vita umana. Esiste una poesia pienamente degna di questo nome, preziosa ma rara, ed esiste altresì una poesia di puro svago e ricreazione che non deve trascendere i limiti di un dilettantismo consapevole. Tra questi due poli si colloca la riflessione di Piccolomini sulla «sapientia» poetica, che pure deve confrontarsi
con la consapevolezza di vivere in un tempo in cui il progressivo 'disincantamento del mondo” indebolisce il linguaggio della poesia a favore di quello scientifico.
226 Ivi, p. 398. 03
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Caprroro IV
«NON SATIS EST PULCHRA ESSE POEMATA». DILETTO E GIOVAMENTO NELLA LETTURA PICCOLOMINIANA DI ORAZIO E ARISTOTELE 1. «Ars» e «natura»
La riflessione poetica di Alessandro Piccolomini sulla poesia come forma di sapientia assume, come si è visto, tratti diversi a seconda delle occasioni. Costanti sono però alcune implicazioni di tale riflessione su cui occorre soffermare la nostra attenzione. L'idea che il buon poeta debba dominare tutti gli ambiti del sapere per poterne divulgare i contenuti a mezzo della forma poetica si basa sull'idea che le res abbiano priorità sui verba e che l'inventio costituisca la prima tappa per ogni forma di composizione poetica valida. L'insistenza di Piccolomini sulla filosofia morale come «principium et fons» della scrittura poetica emerge chiaramente nelle Annotationes oraziane e negli altri testi teorici considerati. A ben vedere, però, il filosofo senese non pretende che la sola materia sia sufficiente per un’opera di poesia, e non rinuncia a sottolineare l'importanza della competenza poetica in senso stretto, intesa
come sapiente dominio dell'elocutio. All'importanza del dato contenutistico Piccolomini congiunge infatti un pieno riconoscimento dell'ars e del labor limae, intesi in senso schiettamente oraziano come elementi imprescindibili per un'opera poetica degna di tale nome. L'importanza accordata al dominio dell'ars è dichiarata a più riprese nelle Annotationes. La polemica oraziana nei confronti del modello poetico democriteo offre lo spunto per affermare: ingenium misera quia fortunatius arte
credit et excludit sanos Helicone poetas Democritus, bona pars non ungues ponere curat, non barbam, secreta petit loca, balnea vitat." 227 Hor., AP, 295-298. Il topos della follia poetica è demistificato anche in Hon. Carm., III, 4, 5-6 («Auditis, an me ludit amabilis / insania? Audire et videor pios / errare per lucos, amoenae / quos et aquae subeunt et aurae»), per cui si veda la glossa ad loc. di Piccolomini in Annotationes super Odas Horatii, c. 42v: «Avprris. Quasi exauditus a Musa sentit se furore quodam rapi, ac videri sibi iam errare per lucos musarum, earumque cantus
audire». Analogamente, Sat., II, 3, 321-322 («Adde poemata nunc, hoc est, oleum adde camino, / quae siquis
sanus fecit, sanus facis et tu») e Annotationes, ad loc., c. 105r: «OLeuM ape camino. Adagium est non dissimile nec valde diversum a praecepto Pythagorae de gladio ignem feriente de quo superius diximus. Insaniam vero
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La stigmatizzazione oraziana dei poeti che, fedeli all'ideale democriteo, si fingono invasati e fuggono la società degli uomini, era già sottolineata in tutta la sua rilevanza dai commentatori tardo-antichi.?? Piccolomini, inserendosi nella linea già acroniana per cui «ingenium non solum sufficit ad poeticam, nec ars»,"? nota puntualmente che Orazio «ex persona Democriticorum miseram vocat artem»??? e, con un'efficace argomentazione di sapore paradossale demolisce il paradigma poetico democriteo, rivendicando il ruolo dell'ars: 295. INGENIUM MisERA. [2] Quae hactenus dicta sunt ab Horatio de praeceptis artis poeticae frustra dicta essent, ipseque in vanum laborasset, si vera esset haec opinio Democriti. [3] Ideo necesse fuit illam respuere et oppugnare ut arti tribuantur quae tribuenda sunt?!
L'epistola oraziana, insomma, sarebbe inutile se fosse vera l'opinione di Democrito. La confutazione piccolominiana non si limita a legittimare Orazio con Orazio,
ed anzi confluisce in una delle sezioni piu importanti delle Annotationes: quella che, proprio sulla scorta della critica al modello democriteo, illustra il compito, il fine e la natura della poesia. L'ironia polemica di Orazio nei confronti dei poeti finti pazzi apre infatti la sezione dell'epistola più esplicitamente pedagogica. «Ergo fungar vice cotis», afferma Orazio accingendosi a tratteggiare la figura del buon poeta che, come
si vedrà, assomma in sé ars e ingenium:^? insaniae additam significat, poetas existimans insanos esse». Sulla follia dei poeti, con attenzione particolare alla perseveranza negli errori, Piccolomini si sofferma anche nell'interessante glossa di Annotationes. 459 dedicata alla figura di Empedocle. 228 Cfr. Ps.-Acr., ad loc.: «Quia Democritus dicit, plus valere ingenium quam peritiam, et quia dicit, non bonos
poetas esse, nisi qui insaniant; hoc idem et Plato ait, poetam putat non arte fieri sed natura nasci. Ergo quia Democritus ingenium felicius arte, ideo miseram eam dicit Horatius, et propterea multi fingunt furorem, ut poetae videantur. Misera autem ars est, siquidem non meretur nomen poetae accipere, qui habet artem, nisi qui habuerit etiam ingenium». 229 Ibidem. 230 PiccoLomni, Annotationes, 295.1.
231 Ivi, 295.2-3. 232 Per sezione ‘pedagogica’ non si intende una sezione meramente precettestica, ma piü propriamente forma-
tiva. La metafora del ferro e della cote, del resto, parla chiaro, e lo stesso Piccolomini vi riconosce l'allusione all'insegnamento (cfr. Annotationes, 304). Interessante osservare che proprio questa metafora pare avere in ambito umanistico-rinascimentale una certa fortuna: Castiglione la utilizza per esempio in riferimento al ruolo del buon cortigiano che deve contribuire alla formazione del suo principe (B. CastiGLIONE, Il libro del cortegiano, IV, 46). Per un intellettuale come Castiglione, formatosi in una temperie ancora prettamente umanistica, un modello retorico-poetico come quello offerto dall’Ars può senz'altro agire anche sul piano etico-politico e comportamentale (suggestive a questo proposito le indicazioni offerte da Mazzacurati, La questione della lingua dal Bembo all’Accademia fiorentina, cit., p. 45, che parla, per la civiltà umanistica di «pedagogia fatta di valori stilistici e filologici che si convertono in valori etici e dottrinari»). Il caso della metafora oraziana del ferro e della cote si presterebbe ad un esame delle sue riprese in ambito quattro-cinquecentesco per verificare quanto, effettivamente, l'istanza formativa e metapoetica di Orazio agisca in ambiti diversi da quello della precettistica poetica.
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306. Munus ET orrrerum. [1] Cum per irrisionem respuerit sententiam Democriti, ar-
temque poetis necessariam ac utilem esse concluserit, ac plura superius praecepta tradiderit, nunc de officio, de fine, et de natura huius artis se locuturum preponit.^?
L'«ars» è dunque non solo «necessaria», ma anche «utile» ai poeti, ed è quest'asserzione che segna il passaggio alla trattazione del compito, del fine e della natura
dell'arte poetica. Circa un centinaio di versi affronta questi aspetti della poesia ed è significativo che l'intera sezione (che include anche l'excursus sulle origini della poesia su cui ci si già soffermati), si chiuda ribadendo la necessaria complementarità di ars e natura: natura fieret laudabile carmen an arte quaesitum est. ego nec studium sine divite vena nec rude quid possit video ingenium; alterius sic Iter
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coniurat amice.
DA:
Alla domanda se una poesia sia resa maggiormente lodevole dalla natura o dall'arte, Orazio risponde che nulla valgono «studium sine divite vena» né un «rude ingenium»: i due elementi entrano reciprocamente in gioco, ed anche questo dato è
saldamente difeso dalla più tradizionale esegesi oraziana.*^ Alessandro Piccolomini collega esplicitamente il quesito di v. 408 all’ «ingenium misera» di v. 295, spiegando che la critica al modello democriteo non implica l'idea di una autosufficienza dell'ars rispetto all'ingenium: dopo aver difeso idiritti dell’arte, insomma, Orazio ricorda il rapporto di reciprocità che lega i due termini e «docet utramque, naturam scilicet et artem, requiri ad hoc ut poeta perfectus et laudabilis
esse possit».?^ La riflessione di Piccolomini si fa però più profonda: prevedendo un’obiezione che rivela il suo essere incline all'argomentazione logica, il commentatore spiega la ragione per cui Orazio, pur avendo posto il quesito «Natura fieret laudabile carmen an arte», non abbia preso partito per uno dei due termini, come hanno fatto, per esempio, Cicerone ed altri «doctissimi viri» attribuendo un'importanza maggiore alla natura che all'arte.^"
233 PiccoLomini, Annotationes, 306.1. 234 Hon.. AP, 408-411.
235 Si veda ancora, a titolo esemplificativo, Ps.-Acn., ad loc.: «Multi quaerunt, utrum poeta nascatur, an fiat. Ego utrumque dico habere poetam debere, id est, artem et ingenium». Anche la tradizione platonica, che pure insiste sul furor poetico in misura maggiore rispetto a quella aristotelico-oraziana, riconosce nei versi di Orazio
l'interdipendenza di ars e natura. Cfr. Lanp., ad loc. 236 PiccoLomni, Annotationes, 408.1.
237 Ivi, 408.2: «Sed posset mirari aliquis cur Horatius non posuerit suam opinionem, quod nam horum duorum
plus conferat ad poesim, sicut questionem proposuerat, dicendo NATURA FIERET etc., praesertim cum Cicero et alii
doctissimi viri plus tribuant naturae quam arti, ita ut qui maxime valeat, etiam si in consequenda arte parum la-
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Il discrimine che Piccolomini individua nell'opzione oraziana di una complementarità di natura e ars risiede nella volontà di tratteggiare i requisiti del poeta
sommo e non del mediocre; se il mediocre puó comporre sulla base della sola ispirazione, il sommo non puo farlo, e deve acquisire le competenze relative al dominio dell'elaborazione formale. Che questo non implichi una svalutazione dell'ingentum
è poi confermato dall'affermazione per cui, mentre l'ars puó essere acquisita con studio e fatica, l'ingenium è un dono di natura: [...] quamvis aliquis natura sola absque arte possit aliquid scribere, tam id non erit perfectum poema. [4] Cum ergo Horatius de laudabili tantum carmine proposuerit dubitationem, solvit illam respiciendo summum non mediocrem poetam. [5] Et ideo dicit naturam et artem requiri simul. Et statim quo ad artem hortatur ad labores et studium, sine quibus ars non acquiritur. [6] Ad naturam autem adipiscendam non hortatur, quia id nostrum non est, nec virium nostrarum, cum opus sit naturae. 2???
L'indagine di Orazio è quindi rivolta alla poesia lodevole che, per essere tale, non
può essere mediocre, e necessita di perfezione in tutte le sue componenti. Una poesia mediocre, infatti, non potrà mai conseguire gli obiettivi della facoltà poetica che, solo in virtù di una sapiente compenetrazione di ars e ingenium, può determinare la
dinamica dell'utile dulci. Date queste coordinate, Orazio si sofferma esplicitamente sul «munus et officium» della poesia: munus et officium nil scribens ipse docebo, unde parentur opes, quid alat formetque poetam, . . . 92 quid deceat, quid non, quo virtus, quo ferat error.^? Il programma oraziano è chiaro nel suo insieme, ma non è scontata la distinzione
tra «munus» e «officium».?" Piccolomini spiega che il primo è propriamente il ‘fine’
boraverit, possit aliquid scribere, qui autem tantum arte valeat, nihil in scribendo possit». Piccolomini torna sulla liceità dell'interrogativo oraziano in Annotationi, 21, p. 75; illustrando la particella relativa alla corrispondenza
aristotelica tra disposizione naturale del poeta e tipo di poesia frequentata (Poet. 1448b 24-28), il commentatore confuta la tesi di chi, in virtù di una presunta coincidenza di arte e natura, considera «vana» la «dubitatione» del
poeta latino. Per il lungo passo, cfr. le nostre note di commento ad Annotationes, 408. 238 PriccoLomini, Annotationes, 408.3-0.
239 Hor., AP, 306-308.
240 Cfr. il commento di Brink, ad loc., p. 336: «Horace who is not writing a straightforward ars but a poetic letter reflecting an ars, adds a little more alqm Munus et officium. Though the queer is sometimes defined by the latter, each Sd twU words had its own emotional overtones. For munus [...] belongs to a class of words with a predominantly juridical and religious significance [...], officium on the other hand came to stress social and moral obligation» (Brink propone anche paralleli con Cic., Resp. IL, 69; De fin. IV, 36; Tusc. VL, 15). Tra i due termini, come testimonia anche Ism., Etym. VIII, 7, 10, è «officium», traduzione del greco £pyov, ad essere utilizzato normalmente nell'ambito delle artes. i
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del poeta, mentre il secondo è piuttosto il ‘compito’, ossia ciò che il poeta deve fare
per raggiungere il fine preposto. «Officium enim est imitari, et in imitatione decorum servare; finis nam utilitas et delectatio», dove l'utile e il diletto sono sullo stesso piano.?*! Cercando di mettere ordine nei versi oraziani, Piccolomini spiega che il poeta si appresta a trattare «de officio, de fine et de materia», ossia di tre degli otto «capita» che i greci definiscono «prolegomena», la considerazione dei quali è necessaria a
chiunque voglia illustrare e tramandare un'arte.?? L'ordine con cui Orazio affronta i tre temi è però inverso rispetto a quello in cui li ha annunciati: in primo luogo la «materia» ai vv. 309 sgg. («primo enim de materia subministranda, cum dicit ScriBENDI RECTE»); secondariamente l’«officium» ai vv. 317 sgg. («dehinc officium tradit, imitationem scilicet, cum dicit RESPICERE EXEMPLAR» ): per ultimo il «munus»
ai vv.
333 sgg. («dehinc tandem finem, ibi scilicet Avr PRODESSE voLunT»).245 Quanto alla fase dell inventio, al «sapere» come «principium et fons» dello «scri-
bere recte», si è già visto il ruolo che la riflessione sulla portata sapienziale della poesia gioca nell'esegesi piccolominiana di Orazio e in che senso la filosofia morale costituisca la chiave per il reperimento di una materia valida. Per quanto riguarda «munus» e «officium» Piccolomini fa il punto nell'annotazione al celeberrimo v. 333 dell'Ars. «aut prodesse volunt aut delectare poetae». Avendo già dichiarato che il compito del poeta è imitare ed il suo fine l'unione di giovamento e diletto, il com-
mentatore polemizza con chi confonde i due termini: 333. Avr PRODESSE VOLUNT. [1] Poetarum finis duplex: utilitas et delectatio. [2] Aliqui autem vocant officium, non finem. [3] Sed sicut in oratore officium est dicere apte ad persuadendum, finis vero ipsum persuadere; [4] sic in poesi officium est dicere apte ad iuvandum et delectandum, quod consistit in recta imitatione. Finis vero iuvare seu prodesse et delectare.?**
Il confronto con l'ambito oratorio consente di fare chiarezza: cosi come il compito dell’oratore è «dicere apte ad persuadendum» ed il suo fine è propriamente l'atto di persuadere, il compito del poeta & «dicere apte ad iuvandum et delectandum» ed il suo fine è giovare e dilettare. Il parallelismo tra oratore e poeta sottolinea la distinzione tra i fini e gli strumenti di retorica e poetica. Da un punto di vista logico,
quindi, l'argomentazione piccolominiana contribuisce ad accostare le due forme di comunicazione verbale che abbiamo già viste incluse nell’ambito delle facoltà razio-
241 PiccoLomini, Annotationes, 300.3.
242 Ivi, 306.4: «Proponit igitur se dicturum de officio, de fine et de materia, quae sunt tria ex illis octo capitibus quae a Graecis prolegomena appellantur, quorum capitum consideratio pertinet ad omnes qui artem quampiam tradant».
243 Ivi, 306.5. 244 Ivi, 333.
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nali. Dal momento che il fine è raggiungibile esclusivamente attraverso un corretto uso dello strumento, emerge qui tutta l’importanza che nel sistema piccolominiano assume la messa a punto delle competenze comunicative, retoriche o poetiche che
siano. Non separate dalla «materia» e fini a se stesse (in tal caso, ricordiamolo, non si avrebbe e-loquentia), ma funzionali alla sua diffusione.?*° | D'altro canto, se possiamo facilmente distinguere sul piano teorico le varie componenti della facoltà poetica, in concreto esse si legano strettamente le une alle altre. Possiamo sì individuare come fine della poesia l'unione di diletto e giovamento, ma
il raggiungimento di tale fine è condizionato da un appropriato uso del linguaggio poetico e, in primis, del suo elemento più importante: l'imitazione nell'accezione aristotelica di mimesis. Nella consapevolezza di tale complementarità, sarà utile tentare
di scomporre i fattori dell’argomentazione piccolominiana con l’intento di valutarne i rapporti reciproci e far luce sul denominatore comune che sottende la lettura e il commento di Orazio ed Aristotele. 2. Essenzialità del diletto poetico Se la formulazione del v. 333 dell'epistola ai Pisoni concede ai poeti l'alternativa tra «prodesse» e «delectare», il v. 334 riconosce la possibilità di «simul et iucunda et idonea dicere vitae», e proprio tale linea è apertamente confermata dai vv. 343-344: omne tulit punctum qui miscuit utile dulci, D DAT lectorem delectando pariterque monendo.^*
L'idea oraziana di unire l'utile al dilettevole non necessita di particolare acume interpretativo per essere intesa: lo stesso Piccolomini, seguendo una linea di lettura che muove inalterata dalle glosse acroniane, si limita a osservare che il poeta capace
di dilettare e giovare si guadagna il «suffragium» da parte di tutti («hoc est ab omnibus laudatur»).** Nell'annotazione al v. 377 si registra però uno scarto significativo rispetto alla tradizionale interpretazione medio-umanistica del binomio giovamento-diletto come fini della poesia. Senza sconfessarla, Piccolomini tenta infatti un esame del «sic animis natum inventumque poema iuvandis» che mira a precisare la
245 Cfr. cap. III, $ 2, pp. 58-62.
246 Cfr. Piccoomni, Annotationes, 309.5: «[...] siquidem verborum ornatus et sonoritas sine pondere sententiarum contingit fieri, ibi non eloquentia, sed loquentia». 247 Hon., AP, 343-344. 248 PiccoLomini, Annotationes, 343. Cfr. Ps.-Acn., ad loc.: «Omnium suffragium, omnium iudicium meretur ille, qui et dulcis est et utilis [...] Item aliter: solus suffragia et iudicium populi tulit, qui utile et dulce poema scripsit, et qui prodest et delectare potest».
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dialettica diletto-giovamento. Dopo aver glossato «iuvandis» con «oblectandis», il
commentatore sente evidentemente l’esigenza di chiarire i rispettivi ruoli del diletto e del giovamento poetici che. in virtù della loro consustanzialità, sono troppo spesso appaiati senza distinguere ciò che è dell'uno da ciò che è dell'altro. Il primo distinguo sancisce i rispettivi ambiti di priorità: 377. Sic ANIMIS NATUM POEMA rUvANDIS. [1] luvandis, oblectandis; quamvis enim poeseos finis sit non tam delectatio, sed etiam utilitas, ut vidimus, tamen, quia horum finium utilitas est prior ordine perfectionis, delectatio num ordine temporis et naturae.2*?
L'utile ha una posizione di preminenza «ordine perfectionis», ma — ed è questo un punto ricco d'implicazioni — il diletto è prioritario «ordine temporis et naturae». Come Piccolomini spiega di seguito. il piacere suscitato dall'imitazione è ciò che orieina la poesia e, in quanto tale, ha una priorità naturale e temporale rispetto all'utile. Le considerazioni del commentatore meritano di essere ripercorse integralmente: [2] Ex delectatione enim imitationis propria orta est poesis; quare cum imitatio sit fere anima et essentia et forma poeseos, videtur delectatio etiam essentialior in
ipsa quam utilitas. [3] Tempore etiam videtur prior, quia a delectatione imitationis propria et naturali, primum ortum habuit poesis: qua dehinc sapientes ipsi usi sunt ad hominis vitam moribus ac virtutibus decorandam.?9°
Piccolomini individua dunque nell'imitazione l'anima, l'essenza e la forma della
poesia, e dal momento che la poesia stessa nasce dal piacere che l'uomo prova naturalmente per l'imitazione, il piacere risulta più essenziale alla poesia dell'utilità. Facendo leva sul piacere, i «sapientes» sfruttarono anticamente la poesia «ad hominis vitam moribus ac virtutibus decorandam», e Piccolomini rinvia qui esplicitamente ai versi sulla «sapientia» cui abbiamo dedicato la nostra attenzione nel capitolo precedente.??! Se abbiamo già analizzato la questione dal punto di vista dell'utile, indivi-
duando nella sfera della morale le acquisizioni più rilevanti che la poesia delle origini consente agli uomini primitivi, è adesso il caso di soffermarci sul piano del diletto: Piccolomini sottolinea infatti che fu possibile per i «prudentes viri» impiegare la poesia come strumento civilizzatore in virtù della sua dolcezza («ob eius suavitatem»). 249 PiccoLomini, Annotationes, 311.1.
250 Ivi, 377.2-3. 251 Ivi, 377.4: «Nam ut praecepta melius ab hominibus perciperentur, suavitate poetica ea condire conati sunt.
Et ideo inferius dicit Horatius FUIT HAEC SAPIENTIA PRIMA, PUBLICA PRIVATIS etc.». Il riferimento va ovviamente a Hon., AP, 396 sgg.
252 PrccoLomini, Annotationes, 377.5: «Usi igitur dehinc sunt prudentes viri hac arte, ob eius suavitatem ad
vitam praeceptis instituendam, ac cum delectatione utilitatem coniunxerunt, ut admixta delectatio alliceret homines, ad utilitatem properius admittendam».
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L'attenzione del commentatore per la dimensione edonistica della poesia si traduce in
un'affermazione decisiva nella sua riflessione poetica, giacché la priorità naturale e
temporale del diletto implica l’impossibilità, per la poesia, di essere mediocre: [6] Fuit ergo poesis prius ad delectationem quam ad utilitatem inventa. Et ideo, hunc delectationis finem maxime ponderans Horatius hoc in loco ut magis naturalem et essentialem, respuit mediocritatem in poesi. [7] Nam poesis ipsa si careat
propria delectatione ac suavitate, quamvis praecepta traderet ad vitam et mores pertinentia, tamen inutilis esset; non enim a quoquam libenter et patienter audirentur ea praecepta, si frigida, vili et nullo artificio confecta imitatione a poetis ineptis 95° preponerentur.?95
Un'opera poetica che non generi diletto è inutile perché il giovamento determinato dall’acquisizione dei suoi contenuti è strettamente dipendente dal diletto stesso. L'atto di comunicazione poetica si basa quindi, pena il venir meno del giovamento, sulla veste formale, perché è l’involucro poetico a suscitare il piacere del destinatario rendendolo inconsapevolmente ben disposto nei confronti di un messaggio che altrimenti non saprebbe recepire. La funzionalità della poesia si gioca quindi sulla sua perfezione, e il rifiuto della poesia mediocre è già esplicito nell'Ars oraziana. Il celebre «ut pictura poesis».??? prima di costituire un nodo imprescindibile della riflessione umanistico-rinascimentale sui rapporti tra letteratura e arti figurative, offre per esempio ai commentatori
di Orazio lo spunto per un’interpretazione quanto mai letterale della comparazione. Piccolomini, che segue tale linea, illustra il verso spiegando la similitudine con la
riflessione sugli errori poetici: 361. Ur PIcTURA possis ERIT. [1] Quamvis peccata in poematibus, si rara et exigua sint, venia sint digna et tolleranda, tamen quam paucissima, quam rarissima, et
quam minima esse debent; [2] quia poesis quae sub luce velit videri, et quae non sit formidatum acumen iudicis, mediocritatem non admittit.295
La poesia è come la pittura nel senso che, qualora voglia essere vista da vicino, senza temere l'acume del critico, non può permettersi errori e carenze.?9° 253 Ivi, 371.6-1. 254 Hon., AP, 361. 255 PiccoLomini, Annotationes, 301.1-2.
256 Cfr. B. Tomrrano, Quattro libri de la lingua toscana, Padova, Marcantonio Olmo, 1570, f. 260r che cita Arist.. Rhet. IN, 1414a-b: nel dialogo l'interlocutore Speroni sottolinea che «Aristotele rassomiglia l'orazione fatta al popolo a quelle pitture che vogliono l'aspetto di lontano e lo serivere fa sembiante a quelle che minutamente dipinte ricercano la vicinanza de spettatori, ove l'arte è molto più diligente e studiosa» (sul passo riporta l'attenzione anche Girarpi, // sapere e le lettere cit., p. 91 n. 83).
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Ancora più esplicito è il commentatore nell'annotazione al v. 379 («ludere qui nescit»): dopo aver ripetuto che i «poemata mediocria» non meritano nessuna forma di elogio e che i poeti privi di doti naturali e di competenze nell’arte poetica non devono scrivere, Piccolomini insiste sull'impossibilità per la poesia, diversamente da altre arti, di essere mediocre («dixerat mediocritatem in poematibus non habere locum, sicut in quampluribus aliis artibus habet»). Orazio offre a questo proposito due prescrizioni: in primo luogo non seriva chi non sa scrivere perfettamente, ovvero chi non è in erado di conciliare ars e ingenium; in seconda battuta,
anche chi sappia farlo, non rinunci a sottoporre le proprie opere al giudizio di critici severi," La buona poesia non può che essere conseguita «studio, arte et diligentia, cum natura etiam ad scribendum apta».
3. Affetti e passioni Il modello di poeta che Piccolomini delinea sulla scorta dell'Ars oraziana è evi-
dentemente molto selettivo ed esclude, coerentemente con le posizioni espresse altrove dall'umanista, ogni forma di dilettantismo poetico.??° Le annotazioni oraziane confermano infatti il quadro che emerge dagli altri interventi teorici dell’autore, offrendo al tempo stesso chiavi di lettura, se non nuove, certamente più esplicite:
nella dinamica diletto-giovamento, alla base della comunicazione poetica, per esempio. le Annotationes accordano un certo privilegio al diletto. Tale posizione, diversa da quella delle Annotationi nel libro della poetica d'Aristotele che, nel pieno rispetto delle norme critiche post-tridentine, privilegia il giovamento sul diletto, non deve però essere vista in contraddizione con essa, né si dovrà pensare ad un'evoluzione del pensiero piccolominiano. A ben vedere, infatti, il commento oraziano e quello
aristotelico sono accomunati dal modo di intendere la funzione sociale della poesia e le dinamiche psicologiche che la sostengono. L'auctoritas oraziana è chiara: non satis est pulchra esse poemata; dulcia sunto : PNE 260 et quocumque volent animum auditoris agunto. à
257 PiccoLomini, Annotationes, 319.1-2.
258 Ivi, 379.3: «Primum quod si vel ob difectum ingenii et naturae, vel ob ignorationem artis, nescimus perfecte
scribere, nolimus scribere [...]»; e 379.7: «Secundum autem ponitur ibi st quin TAMEN oLim [Hor., AP, 386]. et est quod etiam si ex arte et natura scribere possumus, tamen consulere debemus aures et iudicium aliorum eruditorum poetarum».
259 Cfr., tra i testi discussi nel capitolo precedente, almeno le sezioni sulla poetica nelle due /nstitutioni (1542 e 1560), ma soprattutto la prefatoria ai Cento sonetti (1548). 260 Hon., AP, 99-100.
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Per poter agire sull’animo del pubblico, l’opera poetica non deve essere semplicemente «pulchra», ma anche «dulcis»: la prescrizione oraziana, che confluisce nel °°! si lega alla vaga ma celeberrimo «si vis me flere, dolendum est / primum ipsi tibi» tanto importante riflessione aristotelica sulla necessità, per il poeta, di condividere — o almeno conoscere - le passioni che intende attribuire ai suoi personaggi. Se ne veda
la traduzione dello stesso Piccolomini nelle Annotationi nel libro della poetica: Et in quante più cose sia possibile, dee chi compone alle medesime forme ch'ad
esprimer s'hanno figurare e quasi commuover se stesso: essendo dalla stessa natura
accommodati a persuader, coloro che nei medesimi affetti sono. E per questo agevolmente stimola chi è veramente stimolato, e adira commuove chi si truova acceso d'ira. Là onde la poesia è molto propria o di trattabili e d'acuti ingegni, o d'animi
per furor astratti: posciache gli uni di costoro son ben atti a ricever qual si voglia forma: e gli altri son di natura investigativi e accomodati all'inventione.?*?
Nel commento alla particella aristotelica Piccolomini spiega, confutando la di Maggi, che le osservazioni di Aristotele non riguardano l'«instruttion degli strioni», ma sono volte ad «instruir li poeti»: per agire sull'animo del pubblico corre che le parole dei personaggi siano conformi agli affetti che li muovono,
tesi hiocma
essendo i personaggi frutto della creazione poetica, è necessario che il poeta, per assegnare ai suoi personaggi parole idonee, ‘si vesta’ di quegli stessi affetti." La medesima puntualizzazione torna nel commento oraziano: glossando i vv. 104 sgg. dell’Ars, Piccolomini si esprime infatti in termini analoghi a quelli dell'annotazione
aristotelica."^* Insistendo sul fatto che «male exponunt qui histrionum praecepta hic accipiunt», il commentatore è esplicito nel definire le finalità dell'epistola oraziana: «poetas enim instruit Horatius in hoc libello et presertim in hoc loco, non artis histrionicae praecepta tradit». Concentrandosi quindi, in entrambe le sedi, sul ruolo
del poeta e non su quello degli attori, Piccolomini riflette sulle dinamiche su cui poggia la scrittura poetica, considerando puramente accidentali eventuali carenze
nella trasmissione del testo poetico ad opera degli «histrioni». L'umanista senese non intende peraltro sminuire il peso della rappresentazione nella diffusione al pubblico
261 Ivi, 102-103. 202 Arisr., Poet. 1455a 20-34, in PrccoLomini, Annotationi, 88, pp. 244-245. Per le implicazioni della traduzione piccolominiana dell'ultima proposizione del passo aristotelico, cfr. cap. V, $ 3, pp. 127-128.
203 Il passo aristotelico è commentato da Piccolomini nelle Annotazioni, 88, pp. 245-248; le parole di Aristotele sono volte ad «instruir li poeti, dando loro per precetto che se vogliono che tutto quello che fingono e scrivono possa far momento negli animi degli spettatori, e che le cose che fan dire o fare alle persone da loro introdotte possin parere necessariamente nate da quegli affetti e da quelle conditioni e qualità che in quelle fingono, fa di bisogno ch'eglino stessi facciano a se stessi impeto e forza d'accendersi e di vestirsi di quei medesimi affetti, costumi e qualità che vogliono far apparir nelle rappresentate persone loro» (ivi, p. 245)
264 Hor., AP, 104-105: «[...] male si mandata loqueris, / aut dormitabo aut ridebo [...]». 265 Priccorouir, Annotationes, 105.1.
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di un testo drammatico: se nelle Annotationes si limita infatti a rilevare che l'epistola non si rivolge agli attori e non riguarda l'arte scenica, nel più ampio commento aristotelico, pur non rinunciando mai alla priorità del testo poetico in quanto tale,
egli azzarda l'ipotesi che nella ricezione di un testo teatrale da parte del pubblico la rappresentazione sia, se non essenziale, certo della massima importanza. Pur ribadendo che una tragedia deve determinare il suo effetto («il movimento del timore e della compassione») a prescindere dalla messa in scena, Piccolomini, forte di un'esperienza teatrale ricca e non estranea al confronto diretto con gli aspetti più materiali dell'evento teatrale, insinua il dubbio che proprio la rappresentazione giochi un ruolo importante «nel movimento del diletto» :299 [...] non mai ho saputo ben risolvermi se quel diletto, che s'ha da trarre dalla tragedia in leggerla od in udirla leggere, habbia da essere, come pare ch'Aristotele voglia, quello che se ne prende in vederla recitare: vedendo io ragioni da una parte e dall’altra, e spetialmente dalla parte affermativa l’energia e l’efficacia che suol poter recar alle parole il modo di proferirle, quantunque dall’altra parte si possa dire che così fatti histrionici proferimenti e movimenti siano tutte cose accidentali all'essentia e alla natura stessa della tragedia, dalla quale natura pare che habbian di ragion da venire gli effetti d'essa. Ma lasciando questa disputa pendente, lascio parimente che ciascuno la determini a modo suo.?^
Questa significativa apertura alle ragioni della rappresentazione teatrale, che non contraddice l'impostazione di fondo della riflessione poetica di Piccolomini, conferma tuttavia un attenzione particolare alla sfera del diletto poetico nelle sue
266 Prccorowiwt, Annotation, 71, p. 202: «[...] si dee giudicar la tragedia come separata da tal recitatione e apparato scenico, e per la lettura stessa vedere s'ella si truova composta in modo che possa li detti affetti muovere e l’uffitio (in somma) della tragedia fare. Salvo che forse nel movimento del diletto». Il medesimo concetto è ribadito in Annotationes, 192.4. 267 PiccoLomni, Annotationi, 71, p. 202. Il fatto che Piccolomini si ponga il problema è meritevole d'attenzione:
pur proponendo una lettura ‘ortodossa’ di Aristotele che privilegia l'autonomia del testo (e dei suoi effetti) in quanto tale, ossia prescindendo dai mezzi di diffusione ‘accidentali’, l'attenzione per la dimensione materiale dei generi teatrali e della messa in scena deriva al senese dalla propria esperienza di commediografo e allestitore di spettacoli teatrali in seno all'Accademia degli Intronati di Siena: oltre ad essere quasi sicuramente coinvolto
nella stesura collettiva degli Ingannati (1531), Piccolomini è autore dell'Amor costante (1536) e dell Alessandro (1544). i due testi più significativi della rigogliosa commediografia senese del Cinquecento, ed è con ogni probabilità implicato nella redazione dell’Hortensio (1561), la commedia che segnò la ripresa dei divertissements accademici dopo la caduta di Siena sotto il dominio mediceo. La coscienza dello specifico teatrale che emerge dalle commedie piccolominiane trova un riscontro di eccezionale interesse in sede teorica e, soprattutto, nelle Annotationi nel libro della poetica: dovendo supplire alla mancanza di informazioni esaustive sul genere comico all’interno del trattato aristotelico, Piccolomini si basa infatti in primis sulla propria esperienza di commediografo, facendo a più
riprese esplicito riferimento all'attività teatrale degli Intronati e ai propri testi. Nell'ampia bibliografia sul teatro degli Intronati nella storia della commedia regolare cinquecentesca, ci si limita a ricordare il ricco inquadramento di D. Seracnoti, // teatro a Siena nel Cinquecento. «Progetto» e «modello» drammaturgico nell’Accademia degli
Intronati, Roma, Bulzoni, 1980. Per i rapporti tra la scrittura teatrale di Piccolomini e la sua esperienza di teorico
del genere, si veda invece il capitolo che gli dedica A. Guimorni, Scenografie di pensteri. Il teatro del Rinascimento
fra progetto e sperimentazione, Lucca, Pacini Fazzi, 2002.
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varie forme. Prescindendo dalle specificità di ciascun genere poetico e, quindi, dai modi che il «movimento del diletto» può assumere di volta in volta, ciò che emerge
tanto nel commento aristotelico quanto in quello orazianoè l’idea che senza diletto
non si ha giovamento. Questo emerge in una formulazione chiarissima proprio nell'annotazione al v. 99 dell’Ars: «non solum debent docere poemata, sed etiam afficere ut delectent», con l'ulteriore specificazione che «affici enim ob aliorum affectus iucundissimum est» 299
Una delle componenti del diletto che Piccolomini cita esplicitamente è quindi la condivisione degli affetti e delle passioni. Si tratta di un elemento caro alla linea oraziana, esemplarmente individuato nella Paraphrasis di Robortello: [...] non satis esse, ut poemata venusta sint, et dignitatem suam servent; nam dulcedine quoque, et suavitate quadam sunt conspergenda, ut possint auditoris animum
inflectere in quancunque voluerint partem; ita enim comparatum
est natura,
ut homines eodem genere perturbationibus moveantur, quo illum moveri vident,
qui loquitur??? L'azione della poesia è dunque basata sulla «dulcedo» e sulla «suavitas» che pos-
sono muovere l'animo del pubblico rendendolo partecipe degli affetti e delle passioni che animano la «sententia» e i «mores» del componimento poetico. Come per la retori-
ca, l'azione della poesia, ovvero la forza del linguaggio poetico, si costruisce su una relazione triangolare che ha i suoi vertici nel poeta, nell'oggetto poetico e nel pubblico.
Il poeta — come l'oratore — se vuole essere convincente nella presentazione dell'oggetto poetico e innescare nel pubblico il processo di identificazione, deve egli stesso condividere le passioni e gli affetti rappresentati. Ben lungi dal sostenere la necessità di una ‘reale’ identificazione emotiva del poeta con il proprio opus. Picco-
lomini si limita, nelle Annotationes, a sostenere che il poeta — stando al principio per cui le parole derivano da un pensiero o uno stato d'animo precedentemente formato al nostro interno —, potrà produrre parole consone al caso rappresentato solo se interiormente disposto in modo coerente con esso." Che questo non implichi, per il poeta, la necessità di una effettiva condivisione degli affetti dei personaggi di cui scrive nel momento in cui ne scrive, è confermato dallo stesso Piccolomini che, anche nelle Annotationi aristoteliche, prende le distanze da ogni interpretazione psicologistica della poesia. Aristotele non è «cosi sciocco» — afferma Piccolomini commen268 PiccoLomini, Annotationes, 99.1. 269 RosomrELLo, Paraphrasis cit.. p. T.
270 Per la lunga Annotatio 105, si rimanda al testo. Ma cfr. almeno l'argomentazione di carattere generale (Prccoromini, Annotationes, 105.0-7): «[6] Ratio autem est quia tunc recte verba affectibus congruentia proferemus, conceptusque affectibus convenientes formabimus, cum nos ipsi iisdem affectibus disponemur. (7] Siquidem prius intus animo afficimur, et dehinc conceptum ac sermonem tandem affectui congruum exprimimus; adeo quod si vere affectus non erit intus, male poterit aut conceptu aut verbis exprimi».
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tando la particella 88 (Poet. 1455a 29-34) cui si è già fatto riferimento — da voler «ch'il poeta sia preso veramente da sua propria ira o timore o altro affetto a voglia sua senza occasion d'oggetto». Egli deve piuttosto, basandosi essenzialmente sulla
propria esperienza, cercare di «trasfigurarsi in quei movimenti che egli cerca di far apparire che siano in altri», ossia nei propri personaggi." Quanto al pubblico, il piacere che esso prova nel condividere gli affetti e le passioni rappresentati in poesia si basa su una tendenza naturale che, ampiamente argomentata dalla tradizione retorica, è già evocata nelle glosse pseudo-acroniane:
«adfectus omnes in animis nostris habemus ex nostra natura, et singuli moventur,
cum imagines suas viderint in aliis»."? Introducendo un esempio ciceroniano, il glossatore antico ribadisce che «substantiae harum rerum sunt formatae in animis no-
stris a natura»: il poeta e l'oratore non dovranno dunque fare altro che stimolare gli affetti già presenti negli uomini, innescando un procedimento maieutico che unisca al piacere intellettuale della conoscenza quello più propriamente emotivo che l'imitazione poetica suscita nel pubblico.” Un esempio chiarissimo di come retorica e poetica si incontrino su questo punto così delicato è offerto dal commento di Landino all’Ars: glossando proprio il v. 99,
egli afferma che «non satis est habere ornatum orationis nisi pathetica sit oratio».
Un «oratio pathetica» può infatti «auditores in quencunque affectum movere» perché «animi nostri sua natura ad omnem affectum proclives sunt. Sed maxime moventur cum videntur imagines suas in aliis»."* In modo non dissimile dalla glossa acroniana, Landino individua una caratteristica naturale dell'uomo su cui far leva affinché il discorso, poetico o retorico, possa raggiungere i suoi obiettivi. Se tendiamo a piangere o ridere vedendo chi piange o ride, afferma Landino chiamando esplicitamente in causa Cicerone, «ardeat orator si vult iudicem incendere» .?^? 271 Piccoromini, Annotationi, 88, p. 246. 272 Ps.-Acr., in art. poet., 101.
273 La glossa acroniana introduce l'esempio di Cac., De or., II, 188, in cui si celebra il «flumen gravissimorum optimorumque verborum» di Crasso che non solo infiamma il giudice, ma dà l'impressione che ad ardere sia
Crasso stesso («ut mihi non solum tu incendere iudicem, sed ipse ardere videaris»): nonostante che l'impostazione della riflessione ciceroniana sia analoga a quella dell'oraziano «si vis me flere», vale la pena osservare che mentre nella definizione del buon oratore scrittura e actio coincidono, per il poeta — stando alla linea interpretativa cui
Piccolomini aderisce — tutto si gioca in primis sul piano della scrittura. 274 Lanp., in art. poet., 99.
275 Ibidem. Il riferimento ciceroniano va evidentemente al passo di De or., cit. Su tutta la questione degli affetti e delle passioni, fondamentale ai fini della caratterizzazione dei personaggi nell'opera poetica (e tanto più in quella destinata alla scena), cfr. le indicazioni di L. Borzoni, Fra corpo e anima: lo statuto delle immagini, in Eap., La stanza della memoria cit., pp. 135-186 (si vedano in particolare le pp. 104-174). Tra i letterati che, nel pieno Cinquecento, tentano una riflessione sulla costruzione dei ‘caratteri’ in funzione dell'esame di affetti e passioni, Piccolomini occupa un ruolo non trascurabile, ma ancora tutto da indagare: accanto alla già citata Digressione intorno a gli affetti umani in Parafrase IL, pp. 10-39 (cfr. cap. I, $ 2), un testo di straordinario interesse è costituito dall'epistola prefatoria ad Antonio Cocco dell'edizione del 1501 de La sfera del mondo (Venezia, Giovanni Guarisco). Piccolomini racconta di aver steso un repertorio di scene teatrali basate su una ricca e articolata tassonomia di personaggi, soffermandosi sul catalogo di tipi comici preliminare all'elaborazione di un qualsiasi testo teatrale.
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Di ná90oc Piccolomini non parla esplicitamente nelle Annotationes, ma nel com-
mento aristotelico si sofferma puntigliosamente sulla «locutione pathetica». «Pain essa si tr attan cose atroci, terribili e thetica» può essere una «locutione» « quando i
piene di horrore, di sangue e di spavento»: è questo il caso delle tragedie «pathetiche» in cui il dilcito dell'imitazione poetica è messo a rischio dall'eccessivo «commovimento» degli affetti. Ci sono poi il ná90c dell'oratore (è «pathetico il parlar nostro quando con esso procuriamo d'esercitar affetti non indirizzati a diletto o giovamento di coloro che ascoltino o legghino, ma a utile e ad interesse nostro») e quello del poeta («quando il parlare tiene convenientia e conformità con l'affetto che si truova in colui che parla o vuol mostrare ch'in lui si truova»). Sulla scorta di Poet. 1455a 29-34, quest’ultima accezione è anche quella dei versi oraziani intorno al «si vis me flere» 27° Le Annotationi e le Annotationes convergono quindi su un punto determinante nella storia delle interpretazioni della Poetica aristotelica e dell Ars oraziana,
ossia sul modo in cui si imposta il rapporto tra autore e pubblico e, più specificamente, sulla dinamica che permette l’azione del primo sul secondo.
4. Tra Maggi e Castelvetro: l’edonismo ‘etico’ di Piccolomini
È necessario, in definitiva, che ipoemata non siano solo pulchra, ma anche dulcia,
proprio perché il giovamento poetico è veicolato dal diletto che la dulcedo produce sul pubblico. Si è visto come nelle Annotationes, pur confermando la complementarità di giovamento e diletto, Piccolomini accordi al diletto una priorità naturale e temporale
che lo rende quasi più essenziale alla poesia del giovamento. L'importanza che il filosofo attribuisce alla dimensione propriamente edonistica della poesia non lo induce però ad accettare una soluzione radicale come quella di Lodovico Castelvetro: com'è noto, nella Poetica d'Aristotele vulgarizzata e sposta del 1570, il modenese afferma
con insistenza che il fine della poesia secondo Aristotele è il diletto.” Rifiutando ogni Ha riportato l'attenzione su questa importante lettera D. SeracnoLI, La struttura del personaggio e della “fabula” nel teatro del Cinquecento, in Il teatro italiano del Rinascimento, a c. di F. Cruciani e D. Seragnoli, Bologna, il Mulino, 1987, pp. 297-317.
276 Piccoromni, Annotationi, 88, pp. 246-247. Cfr. ivi, p. 248: «Di questo adunque terzo modo di locution pathetica, stimo io ch'intenda Aristotele in questa particella; dando precetto in essa da poter ben formar così fatta
locuzione espressiva degli affetti altrui. Il qual precetto comprende parimente la formatione di quella maniera di morata, o ver di costumata locutione, per la qual si faccian palesi gli altrui costumi».
277 L. CasrktvETRO, Poetica d’Aristotele vulgarizzata et sposta, Vienna, Stainhofer, 1570. Una seconda edizione «riveduta, et ammendata» è in Basilea, Pietro de Sedabonis, 1576. Oggi si legge nell'edizione a c. di W. Romani, Roma-Bari, Laterza, 1978, 2 voll. Per un primo inquadramento della ita figura del Castelvetro, si vedano B. Wenger, Castelvetro s Theory of Poetics, in Critics and Criticism ancient and Tem a c. di R.S. Crane, Chicago University Press, 1952, pp. 349-371; E. Ramon, Gli scrupoli di un filologo: Ludovico Castelvetro e il Pe-
trarca, in «Studi petrarcheschi», V (1952), pp. 131-210; Weserc, A History of Literary Criticism cit., pp. 502511; W. Romani, Nota critico-filologica nell'ed. cit., Il, pp. 375-418; V. MancugrrI-C. Pargizi, Ludovico Castelvetro, in DBI, XXII, 1979, pp. 8-21; G. Mazzacurati, Aristotele a corte: ilpiacere e leregole (Castelvetro el'edonismo), in
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impostazione moralistica e pedagogica, Castelvetro si pone di fatto come un unicum tra i teorici del secondo Cinquecento: Piccolomini lesse e studiò attentamente il commento castelvetrino che, pur non essendo mai citato esplicitamente, costituisce uno
dei bersagli polemici più importanti nelle Annotazioni nel libro della poetica8 Castelvetro, intellettuale ‘irregolare’ rispetto ai canoni della cultura contro-riformistica e ferreo sostenitore di un approccio critico razionalistico al testo letterario, non esita
ad affermare che «la poesia è stata trovata principalmente per diletto, e non per utilità», contestando che l'utilità debba essere un criterio di valutazione dell'opera d'arte poetica." Commentando la definizione aristotelica di tragedia (Poet. 1459a 18-22), Castelvetro rincara la dose, criticando non solo chi antepone il giovamento al diletto, ma anche chi li colloca sullo stesso piano: Coloro che vogliono che la poesia sia trovata principalmente per giovare, o per giovare e dilettare insieme, veggano che non s'oppongano all'autorità d'Aristotele,
il quale qui e altrove non par che le assegni altro che diletto; e se pure le concede alcun giovamento, gliele concede per accidente, come è la purgazione dello spavento e della compassione per mezzo della tragedia???
Limitando un'esemplificazione più che riduttiva della posizione di Castelvetro a
quest unico passo, risulta chiaro come il letterato modenese scardini l'impostazione vulgata della ricezione rinascimentale della Poetica. Non potendoci qui soffer-
mare sulla specificità della lettura castelvetrina, per certi aspetti più ‘filologica’ di quelle offerte da altri commentatori post-tridentini, basti registrarne l’importanza in relazione al caso di Piccolomini. Facile sarebbe infatti confrontare, nel segno di
un opposizione radicale, la Poetica di Castelvetro con un commento come quello di Vincenzo Maggi che punta tutto sulla valenza morale della poesia. Con Alessandro
Ip., Rinascimenti in transito, Roma, Bulzoni, 1996, pp. 131-157. Un'ottima ricognizione sul metodo ‘razionalista’ castelvetrino anche al di fuori del commento aristotelico in A. Roncaccia, // metodo critico di Ludovico Castelvetro,
Roma, Bulzoni, 2005 (cui è possibile fare riferimento anche per l'ampia ed aggiornata bibliografia); ma si vedano anche le osservazioni di V. GroHovaz, Introduzione in L. CasteLverro, Correttione d'alcune cose del Dialogo delle lingue di Benedetto Varchi. a c. di V. Grohovaz, Padova, Antenore, 1999, pp. 1-69 (specialmente il cap. IL 7] labo-
ratorio del Castelvetro critico ed esegeta, pp. 31-49). Tra i contributi più recenti, oltre al già citato Corucno, Piccolomini e Castelvetro traduttori della Poetica cit. (incentrato su Castelvetro traduttore di Aristotele), si segnala la ricca raccolta di studi Ludovico Castelvetro. Filologia ed ascesi, a c. di R. Gigliucci, Roma, Bulzoni, 2007; nonché, in Ludovico Castelvetro. Letterati e grammatici nella crisi religiosa del Cinquecento cit., gli interventi di C. VasoLI,
Ludovico Castelvetro e la fortuna cinquecentesca della Poetica di Aristotele, pp. 1-24; Stetiera, La “Poetica vulgarizzata et sposta per Lodovico Castelvetro” e le traduzioni cinquecentesche del trattato di Aristotele, pp. 47-63;
V. Gronovaz, Lodovico Castelvetro traduttore della Poetica di Aristotele, pp. 47-03. 278 Nelle Annotationi Piccolomini allude sistematicamente a Castelvetro con la perifrasi «spositore in lingua nostra». 279 Casrenverro, La poetica vulgarizzata e sposta cit., L pp. 359-360 (il commento si riferisce ad Arist., Poet., 1453b). 280 Casrervenro, La poetica vulgarizzata e sposta cit., Il, p. 112. Per la priorità che Castelvetro assegna al diletto,
cfr. anche ivi, pp. 169-175, 360-307, in riferimento, rispettivamente, a Poet. 1460a 12-17 e 1462b 12 sgg.
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Piccolomini ci troviamo invece di fronte ad un lettore di Aristotele e Orazio che, pur non sconfessando il ruolo pedagogico e formativo della poesia, esalta la specificità della poesia stessa come linguaggio dotato di caratteristiche peculiari che lo differenziano dalla lingua quotidiana, e che molto deve alla dimensione del diletto. Guardando infatti al suo poderoso commento alla Poetica di Aristotele con in mente le dichiarazioni di elogio della poesia che compaiono in altri suoi testi teorici,
emerge una posizione che, al di là della semplice celebrazione, si configura come una riflessione filosofica sulla facoltà poetica, sul suo statuto e sulle proprietà del suo linguaggio. Il Proemio delle Annotationi nel libro della Poetica offre in tal senso alcune indicazioni che saranno sviluppate all’interno dell’opera e che individuano nella consequenzialità del rapporto tra imitazione, diletto e giovamento il fulero della riflessione piccolominiana sulla Poetica. Dovendo fornire una definizione di poesia, il filosofo spiega che essa può essere intesa come «operatione» ovvero «facimento» ed in tale accezione afferma che la Poesia non sia altro che imitatione, non solo di cose o naturali o artifitiose, ma principalmente d'attioni, di costumi e d'affetti humani, fatta col mezo princi-
palmente del parlare, o ver della locutione nel lor universale, a fine di dilettare e dilettando finalmente giovare alla vita umana. ^!
Quanto alla poesia come «habito», si tratta di un habito dell'intelletto per il quale diviene l'huomo pronto e habile ad imitar ogni volta ch'ei voglia non solo cose naturali o artifitiose, ma principalmente le attioni, e DES
DI o CCNI
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quel che segue nella già posta diffinitione."
Il sistema in cui si inserisce la doppia definizione piccolominiana di poesia è evidentemente quello prospettato dall Etica nicomachea che, non a caso, Piccolomini cita poco più avanti. In Aristotele l'arte è una «disposizione creativa accompagnata da ragione» che riguarda «la produzione e il cercare come possa prodursi qualcuna delle cose che possono sia esserci sia non esserci e di cui il principio è in chi crea e non in ciò che è creato».?? Piccolomini, avendo ben presente la trattazione dell'Eti-
ca, che studió ed espose durante il periodo padovano, trova proprio nella definizione aristotelica il sostegno all'idea che la poesia, in quanto arte, è «un habito dell’intel-
281 PiccoLomini, Annotationt, proemio, c. [++5]r. 282 Ibidem. 283 Amsr., Eth. Nic. VI 4, 1140a 8-15 (si cita da ARISTOTELE, Opere, Roma, Laterza, 1973). Il passo aristotelico
prosegue specificando che «l’arte non riguarda le cose che sono o che si producono necessariamente, né per natura, in quanto queste hanno il loro principio in se stesse. E poiché la creazione artistica e l’azione sono cose diverse. necessariamente l’arte riguarda la creazione e non l’azione».
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letto prattico intorno a cose fattibili» che deve in qualche modo servire e giovare alla vita umana." Questa collocazione consente di accostare la poesia alla «civil prudentia, architetonica di tutte le arti», investendola di un ruolo importante nella società: gli auctores la considerano antichissima ed atta ad «infiammarci e ad escitarci alla virtù» seguendo l'esempio delle azioni degli «huomini illustri» che essa imita. Se emerge qui un'impostazione ancora debitrice della concezione umanistica della poesia come strumento educativo basato sul confronto del lettore con gli exempla, è più significativa, ai fini del nostro discorso, la presa di posizione esplicita nel giudizio di contributi teorici più recenti: dopo aver accennato all’utilità di tragedia e commedia in termini analoghi a quelli della tradizione umanistica, Piccolomini af-
ferma che sul fine della poesia sono preferibili le opinioni di Vettori e Maggi a quella di Robortello, partigiano del diletto poetico. Ma il termine polemico di riferimento è soprattutto l'innominabile Castelvetro che, oltre a privilegiare il diletto come fine della poesia, pretende di attribuire tale opinione ad Aristotele.?8° La posizione di Piccolomini si chiarisce in alcune annotazioni dedicate alle dinamiche dell'atto comunicativo poetico. Traducendo Poet. 1448b 5-9, il filosofo afferma che le «cause» che hanno dato «origine e nascita» alla poesia sono due, ed entrambe «naturali», ossia la disposizione naturale dell'uomo all'imitazione ed il diletto che naturalmente ne ricava.?*” Il diletto provocato dall'imitazione è poi il fulcro della particella successiva che propone l'esempio del piacere provato dall’uomo nell'osservare le «figure» e le «imagini» di quelle cose che, in realtà, ci sono moleste.?8
284 PiccoLomini, Annotationi, proemio, c. [++6]v. Nella stessa carta troviamo il riferimento alla «diffinitione ch'egli [Aristotele] nella sua Ethica assegna all'arte, come ben considerolla Eustratio, poscia ch'egli per aprir meglio quella diffinitione, disse espressamente che l’arte non sarebbe arte se qualche fine non riguardasse che servisse e giovasse alla vita nostra». Il riferimento ad Eustrazio di Nicea (ca. 1050-1120), autore di commenti al II libro degli Analitici posteriori ed ai libri I e VI dell’Etica Nicomachea, conferma l'interesse di Piccolomini per l’esegesi aristotelica bizantina e, soprattutto, per quei commentatori che, proprio come Eustrazio, fecero largo uso
di ragionamenti logici e dialettici nell’interpretazione dei testi di Aristotele. Fin dalla metà del XIII sec., Eustrazio fu tra i più noti commentatori bizantini dell Etica, e come tale dovette conoscerlo Piccolomini durante il soggiorno padovano (i commenti di Eustrazio furono pubblicati a Venezia tra 1534 e 1530).
285 PiccoLomni, Annotationi. c. [++7]r. 286 Cfr. ivi, c. [4 7]v: «[...] volendo noi intorno al proprio fine [della poesia] caminare per la strada del vero e porre i piedi nelle pedate dello stesso Aristotele, giudico esser più sicuro l’accostarsi all'opinion del Vittorio e del Maggio ch'a quella del Robortello, il quale pone per il fine di così nobil arte il diletto; e molto manco a quella d'un moderno Spositore nella Poetica d'Aristotele in lingua nostra, il quale, non solo afferma questo medesimo, ma
vuole ancora che aristotelica opinion sia». Per una più precisa confutazione della tesi castelvetrina, basata sulla particella 124 della Poetica (1459a 18-29), Piccolomini rinvia ad locum (Annotationi, pp. 367-374). Cfr. oltre. 287 PiccoLomini, Annotationi, 18, p. 61: «Hor due par che siano con effetto le cause che habbian da prima dato origine e nascita alla poesia, e ammendue naturali. L'una l'essere agli huomini da prima lor fanciullezza cosa
naturalissima l’imitare, come ch'in questo siano differenti dagli altri animali, che sopra tutti attissimo ad imitare è l'huomo e le stesse prime notitie acquista e si procaccia col mezzo dell'imitatione; l'altra [cagione] è poi l'esser parimente natural all'huomo il sentir piacere e diletto dell'imitatione». Nell'annotazione relativa a questa particella, Piccolomini tenta di fare ordine tra le posizioni di Averroè, Maggi, Robortello e Vettori. Cfr. ivi, pp. 01-07. 288 Su questo aspetto, decisivo nell'articolazione della teoria aristotelica del piacere, cfr. Arist., Poet., 1448b 10-
18 (cfr. note successive), ma soprattutto la trattazione ad esso relativa in /thet. I, 1370a-b.
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La ragione di questo fenomeno è che «l’acquistar notitia e imparar di nuovo è cosa giocondissima, non solo ai filosofi, ma parimente agli altri»??? Commentando il pas-
so, Piccolomini spiega che l'imitazione poetica produce conoscenza in modo analogo al procedimento sillogistico e, rimandando anche alla sua trattazione delle metafore nella Parafrase al terzo libro della Retorica, propone un esempio concreto: Poniam per caso ch'io vegga in pittura il ritratto di qualche cosa che mi sia nota, com'a dire d'un mio amico; in tal caso per la somiglianza ch'il ritratto tiene con l'ami-
co, andrò io quasi per modo di velocissimo sillogismo argomentando e concludendo che quel sia ritratto del mio amico. Perciò che essendo in ogni discorso sillogistico necessari tre termini dei quali sia cosa nota che due habbian convenientia col terzo;
mediante questa convenientia si conclude che quei due parimente convenghin tra lor medesimi.?°
Il filosofo conferma tale argomentazione rinviando al suo trattato di logica («come chiaramente ho dicchiarato nel mio /nstromento della filosofia»), e dati i tre elementi dell'esempio («il mio amico, il depinto ritratto suo, e l'imagine interna del mio
amico»), spiega che grazie al terzo di essi (l’immagine che ho nella memoria) posso rilevare la somiglianza dei primi due e stabilire che il ritratto rappresenta l’amico. Tale procedimento, che illustrato «con l'essempio della pittura, si può dimostrare in
ogni altra sorte d’imitatione e principalmente in quella della poesia», è di fatto una specie di anamnesi:??! la conoscenza che si acquista attraverso l'imitazione proviene in realtà da noi stessi, e in questa sorta di auto-rivelazione si colloca il diletto.??? Se Piccolomini affronta qui la questione da un punto di vista ‘fisiologico’. la
necessità di prendere una posizione nell'alternativa «prodesse/delectare» emerge nell'annotazione relativa alla dibattutissima definizione aristotelica di tragedia. Dovendosi pronunciare sulla ká9apoic, il senese prende le distanze dalle interpretazioni di Maggi, Robortello e Vettori facendo chiarezza su un punto essenziale:
289 Piccoromini, Annotation, 19, p. 67 (Poet. 1448b 10-18). 290 Ivi, p. 68.
291 Il procedimento mimetico appena descritto, assimilato al sillogismo retorico, sta di fatto anche alla base della metafora, cui Piccolomini dedica una lunga ed importante trattazione proprio nelle Annotationi: commentando la particella 112 (Poet. 1457b 26-33), il filosofo stende un vero e proprio trattato sulla metafora che, affrontando la questione da un punto di vista logico prima che strettamente poetico, ne rivela la natura sillogistica. Rinviando al cap. V un esame piü attento di questa sezione del commento aristotelico, che necessita di essere messo in relazione alla trattazione sulla metafora nella Parafrase della Retorica, nonché all'armamentario logico messo a punto da Piccolomini nell[strumento della filosofia, ci si limita ad osservare che, secondo l'autore, spetta al filosofo la priorità nella formazione delle metafore: l'affermazione, che confluisce in un elogio della filosofia, conferma di fatto la sensazione che, pur accordando alla poesia, un'importanza straordinaria nella storia della civiltà umana, la sistemazione
gerarchica del sapere e delle sue forme tende a privilegiare in Piccolomini il filosofo sul poeta (ivi, p. 324). 292 Cfr. Piccoomni, Annotationi, 19, p. 69: «Con questo [esempio] dunque [...] si può conoscere come l’imitatione ci faccia acquistar notitia procacciata in noi da noi medesimi e quasi da noi stessi guadagnata. Et perché le cose che vengon da noi e sono opere nostre ci si rendon sempre più amabili che le altrui, nasce da questo che
conseguentemente ci rechin maggior diletto».
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lo sono stato sempre di parere ch'il fin principale, non solo della tragedia, ma di tutte le spetie di poesia e anche della poesia stessa, non sia il diletto, come voglion
alcuni; ma l'utile e I giovamento, accompagnandosegli come fin secondario, aiutatore e mezano a questo, il diletto ancora.^?
Non potendoci trattenere sull’interpretazione piccolominiana della x49aporg, che pure meriterebbe un'analisi approfondita che la inquadri nel sistema filosofico-morale dell'umanista, basti confrontare la perentorietà dell'affermazione sul giovamento
poetico con la priorità accordata al diletto nelle Annotationes oraziane. Quella che potrebbe sembrare a prima vista una clamorosa contraddizione può rivelare la sua funzionalità qualora ci si soffermi sugli attributi assegnati al diletto: si tratta di un fine «secondario» sì, ma «aiutatore» e, soprattutto, «mezano».
L'essenzialità del diletto
poetico può dunque essere letta come conditio sine qua non del giovamento, il che implica, evidentemente, una notevole considerazione del diletto da parte del filosofo.??* A questo proposito, un'utile conclusione alla nostra ricognizione è offerta dall'annotazione alla particella 124 che, volta a confutare l'edonismo castelvetrino,
rivela la complessità della posizione di Piccolomini. Aristotele parla del piacere che si ricava da una trama ben ordita, costruita intorno ad un'«azione sola, intera e compiuta, con un inizio, un mezzo e una fine» come se fosse un «unico organismo vivente». L'affermazione aristotelica offre secondo Piccolomini lo spunto ad «alcuni spositori in lingua nostra» — il riferimento è a Castelvetro — per «inferire ch Aristotel voglia che il fine della poesia non sia il giovamento, o il dilettare e giovar insieme, ma lo stesso diletto solo», escludendo categoricamente la sfera dell’utile, «di cui non vogliono che la poesia tenga conto».?" Che Piccolomini non sia, come per esempio il suo maestro Maggi, un partigiano del solo giovamento è dimostrato dall'associazione ch'egli fa, contro la tesi castelvetrina, del «giovamento» e del «dilettare e giovar insieme». Tuttavia la sua argomentazione si regge tn primis, come già accennato
nel Proemio, sulla concezione di arte che Aristotele esplicita nell’Etica nicomachea. Citando ancora il commento di Eustrazio, Piccolomini prende le mosse dall’assunto che un’arte è tale se «s'indirizza a qualche giovamento della vita humana», ma aggiunge subito che «non ogni diletto che recar possa come suo fine qualche arte» può dirsi «vitioso». L'«interpositione di qualche diletto» nelle «attioni serie e gravi» che siamo chiamati a vivere quotidianamente ha anzi un salutifero scopo ricreativo, ed
293 Ivi, 34, p. 101 (Poet. 1449b 21-29). 294 Cfr. affermazioni analoghe in Piccoomini, Annotationi, 73, p. 207; 155, p. 419.
295 Arist.. Poet. 1459a 18-22 (trad. Paduano). Cfr. la traduzione di Piccolomini in Annotationi, 124, p. 307: «[...] le favole [...] intorno ad una sola attione si ravvolghino; la qual sia un tutto intiero et perfetto, che principio et mezo et fine habbia in maniera ch'a guisa d'un intiero animale, possa causar proprio et diterminato piacere nella vista [...]». 296 lvi, p. 369. Cfr. CasTELvETRO, La poetica vulgarizzata e sposta cit. II, p. 112, passo cit.
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accanto ai «giuochi e sollazzi honesti» atti a rinfrancare gli animi umani si collocano
legittimamente le arti «degne dell’huomo libero» e la poesia stessa: x
[...] così parimente quelle arti che qualche libero, ingenuo e honesto diletto procacciar ci possono, non solo non doveranno essere giudicate dannose, ma giovamento evidente ci apporteranno in ristaurare il vigore e le forze per ben oprare. Così fatte sono la musica, il ballo, la caccia e altre somiglianti facultà non servili, ma degne
dell’huomo libero. Fra le quali connumerar potiamo parimente la poesia, poi che col fin suo del diletto che ella ci porta mentre che qualche tragedia o qualche commedia leggiamo o rappresentar veggiamo, o ver qualche poema heroico leggiamo o recitar sentiamo, gustiamo una dilettation efficacissima e giovevolissima a ricrearsi e a rinforzarsi gli animi."
Il diletto della poesia, associato a quello della musica, del è qui inteso nell'accezione che anche l'Ars poetica contempla rum finis» e che pure nelle Annotationes guadagna l'attenzione tratta di una dimensione importante della vita umana, nonché
ballo e della caccia, di «longorum opedi Piccolomini.” Si di una componente
essenziale della paideta classicista del nobiluomo cinquecentesco, ma nel commento al passo aristotelico Piccolomini è interessato a dimostrare che la poesia è molto di più. Prescindendo dal fatto che neppure la musica, la danza e la caccia si esauriscono nell'istanza ricreativa, ma «portano col diletto ancor esse giovamento»,?? il
filosofo avvia una definitiva confutazione della tesi castelvetrina prendendo le mosse dall'ipotesi che il fine della poesia e delle altre arti ‘ricreative’ sia effettivamente
il diletto e che il giovamento sia un eventuale puro «accidente»? [n tal caso esse «vengon ad esser quasi ancelle e ministre delle più importanti scientie e delle più nobili arti e gravi attioni a cui quella ricreatione è utile», ma in questo quadro non può
certamente inserirsi la facoltà poetica, a meno di non volerne sminuire l'eccellenza. Vale la pena ripercorrere la difesa piccolominiana della poesia che approda in questa sede ad una definizione del suo valore pienamente “etico”: [...] tra esse connumerar non si dee una così eccellente, antica e principal facultà com'è la poesia; la quale, non fra le arti ancelle e ministre, ma piuttosto fra le signoreggianti merita d'haver luogo. Là onde dato bene che ella creando ricreatione possa anch'ella in quel medesimo modo giovare a dar forza alle gravi seguenti attio-
297 Piccoromini, Annotationi, 124, p. 369. 298 Hor., AP, 406. Cfr. PiccoLomini, Annotationes, 406.1-3. 299 Sul giovamento prodotto da musica e caccia, cfr. le suggestive indicazioni di PiccoLommi, Annotationi, 124, p.
370: «[...] la musica, la caccia, e altre così fatte facultà portano col diletto ancor esse giovamento, potendo la musica, se ben è usata, escitar lodevoli e moderati affetti, e li trabbocchevoli ridurre al mezzo. E dalla caccia nasce non picciol giovamento alla sanità del corpo e non picciola instruttione nella militia stessa. essendo ella quasi un'immagine e un essempio di questa. E il simile si potrebbe discorrer nell'altre facultà trovate per la ricreation dell’huomo». 300 Ibidem.
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ni dell'huomo, che giovan le raccontate dilettevoli arti, non per questo s'ha da dire che altro più a lei propinquo e più proprio fine che questo fine estrinseco non le sia posto innanzi. Troppo, troppo nobil in vero è questa facultà della poesia a volerle dar un fine così ignobile che per se stesso non habbia assoluta ragion di fine, s'ad
un altro fine estrinseco non sia soggetto. Et quantunque il bene utile si riferisca per sua natura ad altra cosa, e il dilettevole esser possa assoluto in se medesimo, nientedimanco altro da questo non segue, se non che dicendo noi la poesia esser utile,
la facciam referir al fin suo, che è il giovamento. Né questo le reca imperfettione dovendo ogni cosa che ha fine riguardare o riferirsi al suo fine. Ma il giovamento, che è il fine della poesia, non diciam noi che sia utile, quasi che ad altra cosa di
necessità si riferisca; ma diciamo che egli è l’utile.0!
Pur ammettendo la legittimità e l'importanza del diletto poetico in sé, Piccolomini spiega che, in quanto fme «estrinseco», esso non impedisce che ce ne sia un altro, ossia
l'utile. Tantomeno deve sembrare imperfetto l'utile perché riferito «per sua natura ad altra cosa», mentre il «dilettevole» puó essere «assoluto in sé medesimo»: lo scarto che permette di accordare una priorità al giovamento in senso etico, e che distingue la poetica piccolominiana dalle più tradizionali interpretazioni moralistiche, è infatti la consapevolezza che il giovamento non è utile perché si riferisce ad altro da sé, ma coincide con l'utile. Il ragionamento si chiarisce quando, subito dopo, Piccolomini distingue
tra «utile» come «parola aggiunta» e «utile» come «parola sostantiva», spiegando che «nel primo caso ad altra cosa si riferisce e non sempre nel secondo». La «dilettatione» prodotta dalle «facultà ricreatrici», d'altro canto, non può essere «libera in se stessa,
ma è obligata a riguardar altro fine» (in tal senso Piccolomini definiva il diletto come fine «estrinseco»).# L'argomentazione si conclude infine con una petizione d'impossibilità per la tesi della poesia come puro strumento di ricreazione che si basa su una considerazione empirica delle origini e della storia della poesia stessa: Et è veramente fuor di ragione il credere che da prima gli huomini, non quei del vile,
imperito volgo, ma quei di maggior valore e di più alto intelletto e di più acuto ingegno, fusser nella prima età tanto solleciti inventori della poesia, e tanti poi nobilissimi poeti antichi e moderni con tanto affetto e studio l'havesser abbracciata e fomentata sempre, se non havessero stimato di far con l’uso d’essa altro giovamento alla vita humana, che sol giovamento di ricreare e ristorar le forze dell'animo all'altre attioni, nel modo che . dw ^ : * © ; : x ‘a ea e 5 21308 fanno i giuochi, gli scherzi, i sollazzi e altri così fatti modi di ricreare gli animi.
Non potendo negare che nella storia della civiltà umana la poesia sia stata qualcosa di più che un mero svago, la posizione di Piccolomini sulle finalità dell’espres-
301 Ibidem. 302 Ibidem.
303 Ivi, pp. 370-371.
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sione poetica — che ha nel diletto, se non il fine primario, una componente comunque essenziale — si conferma nei termini lucreziani della poesia-medicina.?* La dialettica diletto-giovamento occupa un posto di primo piano nell’articolazione della concezione poetica di Alessandro Piccolomini e la distanza che egli prende dal-
l'edonismo castelvetrino non implica una condivisione totale dell'istanza rigorosamente pedagogica propria di un Maggi: mettendo in relazione le stringate affermazioni delle Annotationes con la più complessa costruzione concettuale del commento aristotelico, emerge infatti una posizione che, pur centrata sul topos lucreziano, riconosce piena-
mente le ragioni del diletto poetico. La piacevolezza derivante dalla poesia è accettata nei termini di ristoro dalle fatiche quotidiane, ma è anche riconosciuta come strumento essenziale per educare la «moltitudine» che, come i fanciulli, non è in grado di confrontarsi direttamente con quei contenuti che solo la poesia sarà in grado di trasmettere.?®
Il diletto poetico si articola quindi su più piani e l'interpretazione piccolominiana, rifiutandosi di scegliere rigidamente tra utile e dilettevole, insiste sulla loro necessaria compresenza. L'ultimo attacco a Castelvetro, sferrato nella penultima
annotazione del commento aristotelico, riprende del resto il confronto con le altre «arti e scientie» che non si risolvono in un unico fine, lasciando adito all'ipotesi di
una soluzione poliedrica e proponendo una chiave di lettura valida anche per quelle auctoritates che legittimano la priorità del diletto poetico sul giovamento: [...] potiamo ancor dire che si come molte altre arti e scientie hanno diversi fini, l'uno non di meno ordinato all'altro, dei quali un finalmente è l’ultimo, così parimente la poesia riguarda come suo fin vicino il diletto, per conseguir col mezzo di
quello l'utile che principalmente va cercando di recar all'humana vita. Et così parimente si dee rispondere a coloro che con l'autorità di Platone cercan di far difesa e forza alla detta lor opinione, che il diletto s'intenda essere il fine della poesia. Poscia che tutti quei luoghi, li quali in Platone accennano e danno inditio di cotal opinione, con la distintione e limitatione ultimamente detta, si deono intendere e limitare.3°
304 Cfr. ivi, p. 372: «[all'utile] è dato per compagnia il diletto come ministro e compagno, acció che più volentieri l'huom si ponga a ricever quel giovamento, nella guisa che a i fanciulli infermi, che han da prender qualche medicina, s'addolcisce o con zuccaro o con mele l'orlo, o ver il labro del vaso: acciò che con la compagnia di quel
dolce prendin piü facilmente la medicina e ricuperino la lor salute, come benissimo dice Lucretio in quei soavissimi versi suoi». In tale prospettiva si inserisce, ancora nell’annotazione alla particella 124 della Poetica. la difesa della
commedia da quei detrattori che la considerano un genere dannoso (cfr. ivi, p. 371). 305 Cfr. ivi, 153, p. 415, in cui torna l'idea che abbiamo incontrato altrove (si pensi all'epistola prefatoria della
Filosofia naturale) della «moltitudine» incolta, bisognosa del velame poetico per accedere a quelle verità che i dotti possono acquisire come tali, senza bisogno di ricorrere alla mediazione poetica: «[...] così le tragedie come gli epici poemi si compongon principalmente per giovare e dar diletto alla moltitudine. Conciosiacosaché alle persone perite e giuditiose e amiche delle virtù e delle scientie non faccia di mestieri per instruirle e per giovar loro di condire col diletto gli ammaestramenti e gli avvertimenti che si dian loro, come è necessario di farlo per instruire la moltitudine». Tale argomentazione, che si basa sull'idea di una molteplicità di linguaggi adatti a situazioni comunicative diverse, si conclude poi con un riferimento alla prassi concreta di fruizione dei (o almeno di alcuni) testi poetici che intende sottolinearne la destinazione tendenzialmente ‘di massa”: «Là onde così le tragedie recitandosi in scena, come gli epici
poemi recitandosi nelle piazze in corone d'huomini, riguardano per lor legittimi spettatori la moltitudine» (ibidem) 306 Ivi, 156, p. 421.
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CaPrroLo V
«SIC VERIS FALSA REMISCET». COSE E PAROLE TRA FALSO, VERO E VERISIMILE
1. «Verisimile» e «incredibilia» nelle Annotationes
Dopo aver passato in rassegna alcuni degli aspetti centrali della riflessione di Alessandro Piccolomini sulla poesia, può essere utile soffermare la nostra attenzione su aleune componenti essenziali della facoltà poetica e del linguaggio che le è proprio. Fermo restando che la poesia è per Piccolomini una forma di sapienza atta a giovare dilettando, e senza ridurre la sua concezione poetica a puro formalismo, è il
caso di vedere cosa contraddistingua in concreto il linguaggio poetico e quali siano le sue specificità. tanto sul piano delle res quanto su quello dei verba. A questo proposito, le Annotationes quaedam super artem poeticam Horatii offrono nella loro disorganicità spunti di riflessione che, legandosi alle più ap-
profondite trattazioni dei commenti ad Aristotele, possono contribuire a definire la concezione dello ‘specifico’ poetico (se non più genericamente letterario) di Piccolomini. Nel primo Cinquecento Ariosto rispondeva agli interrogativi sulla materia della poesia mettendo costantemente in discussione i confini tra vero e falso: Forse era ver, ma non però credibile a chi del del senso suo fosse signore: ma parve facilmente a lui possibile, ; AR 307 ch'era perduto in via più grave errore. »
A] vero, per essere credibile, non basta necessariamente di essere vero. Tutta-
via, per distinguere il credibile dall'incredibile, occorre essere «signori» del proprio «senso», e chi è smarrito nella selva dell’errore può facilmente considerare come
«possibile» qualcosa d'«incredibile». Prescindendo dal contesto in cui si inserisce la celebre serie degli sdruccioli ariosteschi e dal fatto che, in tal caso, la causa del-
l’errato giudizio è Amore (ma è ancora l’ironico Ariosto a ricordarci che il «giudicio
307 L. Arrosto, Orlando furioso, I, 1vi, 1-4.
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uman» «spesso erra»),% si osservi che il poeta gioca con categorie che saranno di lì a poco protagoniste di un dibattito centrale nella cultura cinquecentesca. La giocosa ridda di «vero», «credibile» e «possibile» che anima l'ottava del Furioso si colloca infatti ancora al di qua degli studi che, nel tentativo di definire il
campo d'indagine della poesia, pretenderanno di fare chiarezza proprio su quei termini, scongiurando la ‘pericolosa’ noncuranza con cui un poeta come Ariosto poteva affermare a proposito dell'ippogrifo che «non è finto il destrier, ma naturale». D'altra parte, la riflessione sul ‘falso’ dei poeti non è una novità cinquecentesca e si citerà almeno il caso della Genealogia deorum gentilium di Boccaccio per evocare un tema che, vivo nel Medioevo e nell’età umanistica, non lo era di meno nell'antichità
classica. La riscoperta della Poetica di Aristotele segna nel corso del XVI secolo una tappa fondamentale di tale dibattito, avviando un confronto critico con le categorie aristoteliche che si consolida come vera e propria indagine logico-filosofica. «Il falso e il vero dei poeti», per utilizzare il titolo di un'importante raccolta di contributi
sull’argomento, diventa così nella seconda metà del Cinquecento il tema forse più rilevante della riflessione sullo statuto della letteratura, ed un intellettuale come
Alessandro Piccolomini non rinuncia a prendervi parte.?'? È quanto mai significativo che proprio le Annotationes oraziane si aprano facen-
do riferimento alla questione. Dopo aver sancito che la «fabula» deve essere «una et simplex», Piccolomini si sofferma sulla sua costruzione: [3] Et quia in fabulae constitutione non admittitur verum ut verum ut in historia, sed quatenus verisimile, et ideo etiam falsum ipsum fictumque, dummodo verisimile sit, ideo ne quis credat quodlibet falsum, et quodlibet figmentum posse recipi, ponit praeceptum dicens quod tale falsum debet eligi quod conveniens ac verisimile sit?!!
Nella «fabula» non é ammesso il vero in quanto tale, ossia il vero proprio della narrazione storica: la distinzione tra poesia e storia, cara agli interpreti della Poeti-
308 Ivi, I, vn, 2. 309 Ivi, IV, xv, 1.
310 Il quadro in cui si inserisce l'indagine su vero, falso e verisimile in Alessandro Piccolomini è quello offerto dai contributi di C. Scarpati: Tasso, Sigonio, Vettori, in Ip., Studi sul Cinquecento italiano, Milano, Vita e Pensiero, 1982, pp. 156-200; Poetica e retorica in Battista Guarini, in lp., Studi sul Cinquecento italiano cit., pp. 201-238; Icastico e fantastico, in lp., Dire la verità al principe, Milano, Vita e Pensiero, 1987, pp. 231-269. Ma si veda an-
che la Premessa al volume C. Scanpari-E.. BeLuinI, // vero e ilfalso dei poeti. Tasso, Tesauro, Pallavicino, Muratori, Milano, Vita e Pensiero, 1990 (all'interno del volume, il saggio di C. Scarpati, Vero e falso nel pensiero poetico del Tasso, pp. 3-34). Gli studi di Scarpati, incentrati sulla riflessione poetica di Tasso e di intellettuali a lui vicini, offrono numerose indicazioni sull'ambiente padovano che, erede della lezione speroniana, ma anche fortemente legato alle istanze culturali aristoteliche dell’ateneo cittadino, è un punto di riferimento imprescindibile per la riflessione sul linguaggio poetico e le sue implicazioni retoriche e dialettiche. Per riferimenti più precisi, cfr. oltre. 311 PiccoLomini, Annotationes, 1.3.
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ca, si basa quindi, in primo luogo, sulla materia trattata.?! L'esclusione del «verum ut in historia» potrebbe lasciare campo libero al «falsum» e al «fictum», ma non è così. La glossa piccolominiana approda infatti. dopo aver esplicitamente bandito
dalla poesia il «falsum» ed il «fictum» non verisimili, alla definizione dell'ambito di competenza della facoltà poetica che, avendo escluso il vero storico, non può essere altro che la finzione, purché «conveniens» e «verisimile». Il commentatore mette
quindi subito in campo i due termini chiave delle poetiche classicistiche di marca oraziana, la convenienza e la verisimiglianza. Corollario di tale affermazione è di necessità che, essendo il verisimile proprio dei poeti, essi devono preferire un falso verisimile ad un vero che non sia tale.?'? L'immagine del mostro composto da membra di animali diversi incoerentemente assemblate, che legittima nello stesso secolo l’uso pittorico delle grottesche, è inter-
pretata da dispositio. sodi, delle L'esigenza
Piccolomini come ma di inventio, e digressioni e delle della variatio. cui
un esito artistico da cui rifuggire: non si tratta qui di proprio nella costruzione della fabula, come degli epidescrizioni, non è concesso prendersi troppe licenze.?'* pure il senese riconosce piena legittimità, non giustifica
infatti la mescolanza di elementi eccessivamente eterogenei. Variare significa evitare la noia del lettore rendendo la fabula più attraente: il tentativo, di per sé lodevole, non deve però dare adito a «monstra et prodigia», ed il commentatore ribadisce l'istanza di misura ed equilibrio che contraddistingue l'Ars oraziana.?! Piccolomini torna sullo stesso tema commentando i versi oraziani sull’abilità di Omero, indiscussa su tutti i piani della creazione poetica. L'attacco del poema «in medias res» senza bisogno di ricominciare ogni volta ab ovo, la capacità di tralasciare ciò che non merita di essere raccontato e la gestione armonica delle parti, unita-
mente alla sapiente mescolanza di vero e falso, sono gli elementi che si traducono in un eccellente scrittura poetica: 312 Arisr.. Poet. 1451a 36-b 12. Nella traduzione di Piccolomini: «Può esser adunque, per quello che si è detto, manifesto non esser uffitio e opera del poeta il dir le cose secondo che veramente son accadute, ma secondo ch'accascar doverebbero. E dee dir (in somma) quelle che sono in sé possibili secondo 1 verisimile o secondo 1 necessario. Imperoché son tra di lor diversi l'historiografo e I poeta; non per esser il parlar loro o legato da versi o sciolto: poscia che gli scritti d'Herodoto si potrebber ridurre in versi, e nondimeno non punto manco sarebber col verso historia che senza '| verso: ma in questo consiste la differentia loro, che l'uno dice e pone le cose ch'avvenute sono: e l’altro tali le dice e le pone quali doverebber esser accadute» (PiccoLomini, Annotazioni, 52, p. 137).
313 Piccoromini, Annotationes, 1.4: «Ita enim verisimile proprium est poetarum, ut potius admittere debeant falsum verisimile, quam verum ipsum quod verisimile non sit». Nelle parole con cui Piccolomini commenta l'im-
magine del mostro che apre l'epistola ai Pisoni, è vivo il ricordo di Poet. 1460a 12-b 5 (per il fondamentale passo aristotelico, cfr. oltre). 314 Per la convergenza di fabula, episodi e descrizioni nell'ambito dell'invenzione, cfr. PrccotoMrNt, Annotatio-
nes, 1.7. Che il mostro oraziano non si riferisca, secondo Piccolomini, a questioni di disposizione, e esplicitato ivi, 8: «Non damnat peccatum in dispositione (ut aliqui volunt) cum membra suis in locis collocet in monstro:
sed inventionem damnat, praesertim fabulae constitutionem, cum membra diversarum specierum iungat in ipso monstro». Sulla questione, cfr. note di commento.
315 Ivi, 24.2: «Cum enim variatio ipsa per se laudabilis sit, dum variare nimis cupimus, monstra et prodigia facimus, quippe qui extremum in hoc sequimur. Nam nimia variatio evadit monstruosa».
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semper ad eventum festinat et in medias res non secus ac notas auditorem rapit, et quae desperat tractata nitescere posse, relinquit, atque ita mentitur, sic veris falsa remiscet, primo ne medium, medio ne discrepet imum.3!0 x
Invenzione e disposizione si rincorrono nei versi oraziani, e la lettura di Picco-
lomini, che pure non rinuncia ad un qualche tentativo di schematizzazione, sembra
avvedersene. Se il mostro dell'incipit era immagine della fabula, qui Orazio passa a trattare degli episodi; tuttavia, più che la distinzione tra fabula ed episodi — la co-
struzione dei quali rientra comunque nell'ambito dell'inventio — ci interessa l'atten-
zione per la materia poetica che li costituisce. Affinché gli episodi non siano estranei al tessuto della fabula, è opportuno che, proprio come la fabula, siano materiati da una mistione di vero e falso oculata e verisimile («in quorum compositione requiritur verisimilis mixtio falsi cum vero»).?! Sulla scorta della tradizione esegetica oraziana, il «sic veris falsa remiscet» è inteso come gestione ‘congrua’ della finzione poe-
tica. La glossa pseudo-acroniana al v. 151 afferma per esempio che Orazio insegna «quomodo falsa confingas», e prescrive che tutte le componenti della fabula siano congruenti («ut omnia congrua videantur»): i poeti, in sostanza, «discrepantiam in
eo quod fingunt vitare debent» ?'^ ] glossatori antichi e medio-umanistici convergono su questa linea, ma si limitano per lo piü a codificare il canone della finzione poetica
in modo generico. I due termini della glossa pseudo-acroniana sono la congruità da un lato, la «discrepantia» dall'altro, ed un commento come il Materia attesta che la
questione è percepita, ancora nel Medioevo, soprattutto nell'ottica della dispositio: glossando il v. 151, proprio il Materia esplicita che una corretta fictio si definisce in antitesi al «vitium de incongrua partium positione».?? La questione torna tuttavia a porsi anche nei termini dei contenuti della fabula,
e non solo del modo in cui le sue parti vengono combinate: ereditando uno spunto già presente nella riflessione medievale sui generi poetici, Cristoforo Landino esemplifica per esempio il «sic veris falsa remiscet» con il discusso quarto libro dell Eneide che sarebbe, a suo avviso, un chiaro e riuscito esempio di mistione di vero e falso.??
316 Hon., AP, 148-152. 317 Annotationes, 149.6. L'affermazione e riferita evidentemente al v. 151. Cfr. l'intera annotazione ai vv. 148
sgg. per la distinzione tra ordo della fabula e ordo degli episodi. 318 Ps.-Acn., ad loc. 319 Mareria, 151: «Hic exemplo Homeri innuit quomodo debeant poete fingere. Et est contra illud vitium de
incongrua partium positione» (si cita da Glose in Poetriam Horatii, in K. Frus-Jensen, The Ars poetica in Twelfth Century France cit.; il testo del Materia alle pp. 336-384). 320 Lanp., ad loc. Dopo aver glossato il lemma «Veris falsa» con la lapidaria affermazione «Nam hoc poetae est», il commentatore afferma: «Nam et si vera nonnulla de Aenea narret Maro, de Didone vero omnia ficta: tamen ita cun-
cta contexit ut primis sequentia conveniant; neque ex figmento oritur aliqua discrepantia». La riflessione di Landino
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In tal caso, però, la distinzione tra vero e falso pretende di collocarsi sul piano della historia: il soggiorno di Enea a Cartagine è inteso come aggiunta di pura invenzione
all’interno di una fabula che pretende di essere — almeno inparte — vera. La sua funzionalità consiste nell’essere verisimile e coerentemente legato al resto della vicenda. Diverso, invece, il caso degli «incredibilia». Le importanti ma vaghe indicazioni di Orazio sull'equilibrio richiesto dalla mistione di vero e falso assumono un'evidenza maggiore laddove il poeta si sofferma su casi noti di vicende della tradizione letteraria che eludono ogni criterio di verisimiglianza: Ne pueros coram populo Medea trucidet,
aut humana palam coquat exta nefarius Atreus, aut in avem Procne vertatur, Cadmus in anguem. Quodcumque ostendis mihi sic, incredulus odi?!
Piccolomini spiega che due generi di azioni non dovrebbero essere messi in scena: eli «incredibilia» da un lato, come le metamorfosi di Procne in uccello e Cadmo in
serpente; i «turpia» dall'altro, come il delitto compiuto da Medea.?? Coerentemente a quanto esaminato fin qui, l'attenzione del commentatore si rivolge soprattutto al genere degli «incredibilia»: si tratta infatti di un caso concreto su cui misurare la funzionalità delle prescrizioni su vero, falso e verisimile. Lo scarto che i versi oraziani su Procne e Cadmo segnano rispetto a tali prescrizioni e offerto dalla nozione di incredibilità: trattando di vero, falso e verisimile, non si era infatti ancora mai toccata la questione del credibile. La difficoltà offerta dalla «Cadmi versio in
anguem» consiste proprio nel suo essere «incredibilis», e l'incredulità del pubblico è tale sotto il duplice profilo auditivo e visivo."? Affrontando la questione con la consueta razionalità, Piccolomini lascia infatti intendere che, se riteniamo una cosa non
credibile, udirla o vederla non dovrebbe fare differenza.??* In tal caso, il problema
sull’episodio di Enea presso Didone si articola su due piani: l'episodio è di pura invenzione all'interno di un testo che racconta vicende vere, ma la sua legittimità è garantita da una congrua connessione con ciò che lo precede. Il libro di Didone, che pone nel Medioevo non pochi problemi ai lettori di Virgilio, è un esempio di «congrua materie variatio» secondo MatERIA, accessus, 5: «Est autem congrua materie variatio, quando dimissa materia aliquid assumitur quod et materiam ornat et contrarietatem devitat, sicut facit Virgilius qui materiam suam dimittit et Eneam ad Didonem
venire fingit. Sed tam callide interserit quod legens Virgilium de textu historie illud esse credit». 321 Hor., AP, 185-188. 322 Piccoromini, Annotationes, 185: «Duo genera actionum removenda sunt ab oculis spectatorum: incredibilia,
ut de Progne et Cadmo, et turpia, vel ob crudelitatem, ut de Medea, vel ob obscaenitatem, ut de virgine vitiata
a Cherea, de quo tacuit Horatius quia notum per se est». Per l'articolazione dei «turpia», con il riferimento all'esempio di Cherea, cfr. note di commento.
323 Ivi, 188.1: « Si odio dignum est Medeae facinus, incredibilis vero Cadmi versio in anguem; ergo odio id habebimus incredulique erimus, tam si visu, quam si auditu haec perceperimus». 324 lvi, 188.2: «Nam si Cadmi versio ex se ipsa incredibilis est, quomodo nos audientes id evenisse credemus?».
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non si porrebbe nei termini oraziani del «multaque tolles / ex oculis quae mox narret facundia praesens», ma esigerebbe di essere risolto escludendo sempre dalla finzione poetica gli «incredibilia», tanto nei generi teatrali quanto nei generi destinati alla
lettura o all’ascolto. Le vie della percezione sono tuttavia più flessibili, ed èproprio Piccolomini a riconoscerlo: avendo già osservato che i«nuncii» riescono a rendere «quasi praesentia» le azioni «quae pes intus sunt», il commentatore non puo sottacere le diverse
dinamiche che sottendono i vari modi di fruizione di un testo poetico.? Ciò che risulta incredibile alla vista, può infatti essere accettato all'ascolto, e su questa con-
sapevolezza si basa la maggiore licenza concessa all'epica rispetto alla tragedia: [3] Solve, quia res auribus perceptae minus imprimunt in animo, quam quae visu percipiuntur. [4] Et ob id Horatius dixit sEGNIUS IRRITANT ANIMOS etc., causam reddens, cur quae visa sint, appareant incredibilia et odibilia, audita tamen non ita odio habeantur, nec ita incredibilia videantur. [5] Quia igitur oculi certius et acutius percipiunt, ideo ex scena removenda sunt, quae ita movere debent, ut eorum incredulitas et impietas minus appareant."
Spiegando Orazio con Orazio, il commentatore ricorda quanto già affermato dal poeta ai vv. 190-181 sulla fisiologica differenza tra percezione oculis e per aurem
(«Segnius irritant animos demissa per aurem, / quam quae sunt oculis subiecta fidelibus [...]»). Gli «incredibilia» devono quindi essere esclusi dalla rappresentazione teatrale, ma hanno legittima esistenza nella poesia che si legge o si ascolta. Dal momento che non rientrano, proprio in quanto «incredibilia», nel canone del verisimile,
essi vengono di fatto a costituire quell'ambito che proprio la teoria cinquecentesca, anche sulla scorta delle letture aristoteliche, definisce come il ‘meraviglioso’.
Sarebbe difficile assegnare alla meraviglia un posto rilevante nel sistema oraziano e, come si vedrà, è Aristotele che permette di darle una qualche legittimità poetica.?""
Se è infatti vero che la meraviglia in senso aristotelico è condizione imprescindibile per la conoscenza, e che l’uomo ricava piacere dal conoscere, con l'Ars oraziana il piacere è sensibilmente delimitato dai confini del verisimile. «Ficta voluptatis causa
325 Ivi, 184, che glossa il lemma oraziano «quae mox narret facundia praesens».
326 Ivi, 188.3-5.
327 Per una rassegna delle reazioni dei teorici cinquecenteschi al tema aristotelico della meraviglia, cfr. WernBERG, A History of (eim Criticism cit., passim, ma si veda anche D. Acuzzi BansaGLI, Ingegno, acutezza and meraviglia in the Sixteenth Century great Commentaries to Aristotle’s Poetics, in Petrarch to Pirandello. Studies
in Mor of B. Corrigan, Toronto, Corano University Press, 1973, pp. 73-93. Un utile inquadramento della questione, in relazione ‘alleredità antica e medievale, in // meraviglioso e il verosimile tra antichità e medioevo, a
c. di D. Lanza e O. Longo, Firenze, LeoS. Olschki ed., 1989. Si veda infine, per le suggestive prospettive che apre,
Diletto e maraviglia: die "uck und Wirkung in der Kunst von der Renaissance bis zum Barock, a c. di C. Góttler et alii, Emsdetten, Edition Imorde, 1998.
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sint proxima veris», afferma Orazio circoscrivendo il campo dell’imitazione poetica al verisimile, e propiziando una glossa piccolominiana che ribadisce significativamente i concetti già espressi all’inizio delle Annotationes: «Verisimilitudo enim ita amplecti a poetis debet, ut pro illius defensione, veritas ipsa relinquenda sit». L'epistola ai Pisoni fonda in tal senso un istanza fortemente limitativa nei confronti dell'immaginario poetico, ed è rilevante che essa sia sottolineata in modo compatto dai numerosi lettori che, nel corso dei secoli, hanno contribuito a ricavare dall'Ars
poetica quel canone di riferimento intramontabile che siamo soliti definire ‘classico’. Cristoforo Landino, probabilmente memore della lapidaria glossa pseudo-acroniana al v. 338 («quae fingit poeta voluptatis causa, verisimilia debent esse»), spiega che, dopo aver fornito i «praecepta [...] circa utile», Orazio «nunc praecipit de voluptate» e «admonet ut quae voluptatis gratia finguntur verisimilia sint».?? Il tentativo oraziano di ridurre l'imitazione poetica a imitazione del verisimile è quindi colto in pieno dalla tradizione esegetica, e sarebbe superfluo soffermarci sulle numerose ma sostanzialmente concordanti testimonianze offerte dai commenti umanistico-rina-
scimentali all Ars.??? Il piacere poetico e quindi garantito, nell'ottica oraziana, dal rispetto del verisimile, ma la prescrizione si articola ulteriormente: «ne quodcumque velit poscat sibi fabula credi, / neu pransae Lamiae vivum puerum extrahat alvo».#! Il racconto non pretenda di far credere tutto ció che vuole, e tantomeno di estrarre un bambino vivo
dal ventre della strega Lamia. Glossando quest'ultimo verso, e piu specificamente il lemma «puerum extrahat alvo», Piccolomini si abbandona ad un'osservazione mi-
nima e apparentemente pleonastica: «Extrahat, poeta scilicet imitando». L'estrazione del fanciullo dal ventre della strega, che pure sarebbe meglio evitare in poesia per la sua inverosimiglianza, si realizzerebbe ad opera del poeta attraverso l'imita-
zione, ossia a mezzo delle parole. La glossa, nel suo voler sottolineare che l'azione incredibile non avviene realmente, ma attraverso l'imitazione, riconosce alla parola il potere di elaborare una realtà diversa dal piano del vero, che costituisce, di fatto,
l'ambito della finzione poetica. E. quindi legittimata, almeno in linea di principio, l'ipotesi che il poeta, imitando, possa dare vita ad un'azione incredibile e non verisi-
mile: il fatto che la prescrizione oraziana lo vieti, è secondario rispetto alla possibilità che l'imitazione poetica concede.
328 Hon., AP, 338, e Piccoromini, Annotationes, ad loc.
329 Ps.-Acr., ad loc.; Lanp.. ad loc. 330 Ci si limita a ricordare il caso di P. Gaunico, Super arte poetica Horatii, Roma, Valerio Dorico, 1541, ad loc., per il quale gli oggetti della finzione poetica non dovranno essere semplicemente «verisimilia», ma addirittura
«verisimillima». Per formulazioni di più ampio respiro ed indicative di una ricezione compatta del precetto in questione, cfr. RosorteLLo, Paraphrasis cit., p. 18, e Macct, In Horatii librum cit., ad loc. 331 Hor., AP, 339-340. 332. Prccoromini, Annotationes, 340.
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2. Tra credibile e impossibile: la meraviglia nelle Annotationi ad Aristotele
Colmando il carattere succinto delle Annotationes oraziane con la profusione di
dettagli che Piccolomini offre nel commento alla Poetica di Aristotele, è possibile mettere a fuoco la sua posizione sull'imitazione poetica e i suoi ambiti di competenza. Commentando le particelle 18 e 19 del trattato aristotelico (Poet. 1448b 5-18), egli si sofferma — come si è visto — sulle origini naturali della poesia ed individua nel-
l'imitazione una proprietà congenita all'uomo che permette di acquisire conoscenza e che, in tal modo, produce piacere.? La poesia, che è una forma di imitazione, è quindi uno strumento di conoscenza che, in quanto tale, reca diletto agli uomini. La condizione di tutto ciò è però che, secondo Piccolomini, essa imiti il verisimile: [...] a voler che la poesia diletti, fa di mestieri che le cose imitate sian tali ch'ognun conosca che verisimilmente dovevan esser tali: altrimenti non diletterebbero. Perciò che, sì come il verisimile, e quello che verisimilmente dovrebbe essere, è la materia della poesia, e non il vero, così la notitia che se n'ha d'haver innanzi, acciò che
nasca il diletto, ha da esser non intorno al vero delle cose, ma intorno a quello che verisimilmente le debbin essere.??*
Una volta stabilito che il vero non è materia della poesia, è necessario prevenire i detrattori pronti ad obiettare che, allora, materia della poesia dovrà essere il falso,
replicando in tal modo all’accusa di falsità che ricade sulla facoltà poetica. Nell’annotazione al celebre passo aristotelico sulle differenze tra il poeta e lo storico (Poet. 1451a 36-b 12), Piccolomini confuta l'idea che «il falso come falso sia la materia della poesia».*? Sfruttando il confronto aristotelico tra poesia e storia, il commentatore mostra che «il dire o il falso o il vero è cosa al poeta accidentale». La differenza tra storico e poeta non consiste infatti «in dire l'uno il vero e l'altro il falso», ma «in tener l'uno l'occhio a dire le cose vere, e l'altro a dirle tali quali dovevano, 0 ver quali verisimilmente o necessariamente potevan essere», prescindendo
dal fatto che «vere o false [...] fussero».?" Se «le cose vere» sono materia dello storico, per il poeta non conta l'opposizione vero / falso, ma valgono esclusivamente i
333 Cfr. quanto detto a proposito di diletto e giovamento poetici nel cap. IV, $ 4, pp. 101 sgg. 334 PiccoLomini, Annotationi, 19, p. 71.
395 INIID2EPA135 336 Piccolomini confuta apertamente Robortello, che avrebbe confuso il «finto» con il «falso», anche nel Proemio
delle Annotationi (cc. [++5]v-[++6]r): «[...] manifestamente appare quanto il Robortello) li quali vogliono che il falso sia materia della poesia. [...] Non imitatione si faccia per se di cosa falsa, o di cosa vera: ma essendo necessario 1] verisimil d'essa, ne segue che, sì come non solo il falso, ma il vero ancora,
s’ingannin coloro (e di questi uno è è dunque necessario che la poetica che per se si faccia di cosa secondo si può congiugnere col dovuto e col
verisimile, così parimente può per accidente avvenire che non solo il falso, ma anche il vero. possa divenir soggetto
e materia della poesia. Ma questo accasca (com'ho detto) per accidente». 337 Ivi, p. 138.
LH
criteri di verisimiglianza e necessità, dove quest'ultima non va confusa con la realtà:
rigettando l'interpretazione di Robortello, Piccolomini spiega che la necessità men-
zionata da Aristotele non è «quella ch'è posta nelle cose ch'assolutamente necessarie sono», ma quella «che si truova nel conseguimento di una cosa da un’altra che si
supponga». L'imitazione di azioni verisimili concatenate secondo il principio uni-
versale dei nessi di causa ed effetto implica che il poeta sappia prevedere tali nessi:
una capacità di questo genere, diffusa e banale nella quotidianità, non è cosa comune se concepita in senso universale. Piccolomini non nasconde infatti un ragionevole
dubbio sulla capacità umana di prevedere la necessaria concatenazione di azioni conseguenti: «[...] per l'imperfettion dell’huomo, il più delle volte occorre che le sue attioni accaschino o più o manco fuora di quello ch'accascar doverebbero» 85°
Dal momento che l'uomo comune - come ci insegna l'esperienza — non può prevedere ogni conseguenza di tutte le azioni possibili, la competenza del poeta, che ambisce all'universale. deve spingersi molto oltre.?? Aristotele avvicinava la poesia alla filosofia sulla base della comune tendenza a considerare l’universale, e in tale ottica affermava che «la poesia è più filosofica e più seria della storia» che, invece, si limita a «raccontare i particolari» .?#' Prendendo spunto dall'affermazione aristote-
lica, Piccolomini giunge a forzare il testo e traduce: «la poesia è cosa più degna del
338 /bidem. Piccolomini specifica ulteriormente che «questa è quella necessità familiar dei poeti, in procurar
sempre che nel voler far succedere e seguir una attione doppo l'altra attione, habbia tal seguimento da essere o verisimile o necessario».
339 Ibidem.
340 La spiegazione di ‘verisimiglianza’ come concatenazione ipotetica di eventi secondo nessi necessari di causa
ed effetto permette ancor meglio di capire in cosa consista l'universalità della poesia. D'altro lato la storia vede rafforzata la sua natura induttiva, che procede ritagliando singoli segmenti di realtà, senza avere alcuna pretesa di offrire sintesi generali. Il confronto aristotelico tra storia e poesia assume così un significato importante anche ai fini di una classificazione inter-dipendente dei due ambiti: il poeta-filosofo, che non sia un vate ispirato dal furor, può accedere al sapere facendo leva esclusivamente sulle potenzialità dell'intelletto umano; in tal senso l'indagine storica può essere uno strumento utile per la conoscenza del mondo. Attraverso la prolungata e meditata considerazione delle vicende storiche è infatti possibile procedere induttivamente nell'indagine del reale con l'obiettivo di cogliere, grazie all'analisi di una casistica ampia e variegata, le leggi fondamentali che lo governano,
utili anche per chi voglia dominare più facilmente i possibili nessi tra le azioni che sono oggetto dell'imitazione poetica. Un progetto di questo tipo, variamente percepibile dalle riflessioni di Piccolomini (cfr. quanto detto sulla storia nella prefazione al Compendio dell’Orlandi del 1555, e nell’/nstitution morale del 1560), deve d'altronde fare i conti con esperienze cinquecentesche di riflessione storiografica (si pensi soprattutto a Guicciardini) che mettono invece in evidenza l’impossibilità di fare affidamento su leggi universali che governino la storia e le azioni degli uomini. Il quadro di riferimento per Piccolomini resta però quello padovano: cfr. le suggestive indicazioni sui rapporti tra storia, retorica e poetica in SCARPATI, 7ss0, Sigonio, Vettori, cit., passim. Se il tentativo di Carlo
Sigonio, che influenza fortemente la riflessione tassiana, è quello di mantenere una coesione tra le varie discipline incluse nei tradizionali studia humanitatis facendo leva sul valore propedeutico della «verborum scientia» (ivi, pp. 157-158), nel caso di Piccolomini la poesia non perde di fronte alla storia quel respiro di universalità che Aristotele le concedeva: «Piccolomini [...] insisteva nelle Annotazioni sulla natura esplorativa, conoscitiva della nostra risposta ai processi mimetici e artistici, sottolineava la dimensione intellettuale del diletto provocato dal-
l’opera poetica, ma anche difendeva con calore la dignità della poesia fino ad assegnare ad essa una precedenza
rispetto alla storia» (ivi, p. 193). 341 Arisr., Poet. 1451b 5-7 (trad. Paduano).
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Il poeta potrà dunque accedere all'universale solo se sarà al tempo stesso filosofo: ?9 quello Filosofo» e «maggiore studio e consideration ricerca che non fa l'historia».
342
che Piccolomini afferma tra le righe della sua traduzione è coerente con quanto più volte sostenuto negli altri testi teorici cui si fatto riferimento e, soprattutto, con
quanto vedremo a proposito di alcuni aspetti fondamentali dell'inutatio. La materia poetica non si riduce però, lo si è già visto nelle Annotationes. al verisimile e al necessario: l'estrazione del fanciullo dal ventre della strega Lamia, azione incredibile ed in quanto tale rifiutata da Orazio, può essere infatti oggetto d'imitazione poetica. La sfera degli «incredibilia», che l'Ars tende ad escludere dalla poesia, è d'altronde esplicitamente chiamata in causa dalla Poetica, laddove Ari-
stotele afferma che, in virtù delle differenze percettive di vista ed udito, la tragedia ammette il meraviglioso (16 9avuactóv) mentre l’epica l’irrazionale (16 dAoyov), che del meraviglioso è matrice.?** Il passo aristotelico tocca uno dei nodi più importanti
342 Annotationi, 52, p. 137. Aristotele si limita ad affermare che qUioooqórepov xai onovóatórepov noínotc ioropíac gotiv (Poet. 1451b 6-7), accostando per analogia la poesia alla filosofia: alla lettera, la poesia è più filosofica e seria della storia. Da quest’affermazione, peraltro chiarissima, Piccolomini ricava che «la poesia è cosa più degna di filosofo», lasciando intendere che il buon poeta deve essere anche filosofo. Il traduttore sembra sfruttare
uno spunto già presente in CasteLveTRO, La poetica vulgarizzata e sposta cit., I, p. 246, che traduce: «[...] la poesia è cosa più da filosofante e da assottigliato negli studi che non è l’istoria, percioché la poesia dice le cose più universali e l'istoria le particolari» (cfr. la relativa «sposizione» alle pp. 255-256: «Aristotele tira dalle cose dette una conclusione: che la poesia è più da filosofante e da essercitato negli studi che non è l'istoria, percioché se l'istoria ha per soggetto proprio le cose avenute, non fa mestiere di lunga considerazione né di sottilità d'ingegno o a ritrovarle, essendo avenute e porte dal corso del mondo, o a comprenderle, essendo cose communi e sottoposte a’ sensi, o a disporle, portando esse con esso seco certo ordine naturale. Ma le cose possibili ad avenire e non avenute, che sono il soggetto della poesia, ricercano speculazione d'ingegno e molto avedimento, non solamente perché conviene trovare o comprender quello che non è mai avenuto e è possibile ad avenire a ciascuno particolare cotale secondo il verisimile o la necessità, ma ancora disporlo»). Traduzione analoga in Verront, Commentarti in primum librum Aristotelis de arte poetarum cit., p. 93: «Quare et philosophum magis, et magis studiosum poesis. quam historia est», cui fa riscontro il commento: «Cum ostendisset poétae munus esse, neglecta plerunque veritate rerum, commemorare illas ut fieri debuere, non ut factae sunt, hinc elicit corollarii loco. poesim esse rem magis
philosopham et magis studiosam gravemque, quam historiam. [...] Poesis enim potius, quae in universum: historia autem, quae singillatim fiunt, dicit». Più aderente al testo aristotelico la traduzione di Alessandro Pazzi de’ Medici, cui ricorre RogorteLLO, /n librum Aristotelis cit., p. 89: «sed hoc differunt, quod hic quidem [historicus] res gestas, ille [poéta] ut geri potuerunt, exponit. Quo fit, ut sapientius atque prestantius poésis historia sit»; nel
commento Robortello, chiamando in causa la traduzione di Pazzi, spiega così l'aggettivo qVoooqorepov: «hanc dictionem vertit Paccius sapientius, ego tamen, eo quo dictum est modo, verterem. nam Aristotelis sententia est haec. Poésin Philosophicum quiddam magis in se habere, quam historiam. hoc est, philosophiae magis esse similem, quia poésis exprimit, ac sectatur universalia; historia autem particularia» (ivi, p. 91). 343 Piccolomini spiega in modo chiaro cosa significhi, nel concreto della scrittura poetica, costruire una «favola secondo l'universale». Si tratta, di fatto, di ricorrere ad un procedimento deduttivo che solo una vasta conoscenza delle cose del mondo consente: «Formata che ha il poeta la favola secondo l’universale, cioè guardando non come fusse stata veramente cotal attione, né com'il capitano (per essempio) o il tal cavaliero, o il tal magnanimo, o il tal forte, o il tal irato, o simili veramente fussero, ma come ciascheduni secondo le lor conditioni considerati in
universale e nelle lor idee dovevano essere o dovevan fare; fatto (dico) ch'il poeta harà questo, allhora potrà applicare, con assegnation dei nomi, questo caso e questa attione in universal considerata o a persone che siano già
veramente state, comiltragico il piu delle volte fa; o ad altre che, come da lui finte, non si sappia che siano state, come fa il più delle volte il comico» (Prccorowivt, Annotationi, 52, p. 140). Sulla costruzione della fabula cfr. anche Prccotowiwt, Annotationes, 317.2-3, con gli esempi di Enea in Virgilio e Ciro nella Ciropedia di Senofonte. 344 Arist., Poet. 1460a 12-13: «Nelle tragedie si deve realizzare il meraviglioso, mentre nell'epica si trova spesso
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dell'estetica antica e moderna, ed è, non a caso. uno dei più discussi dalla tradizione
esegetica. Edizioni, traduzioni e commenti cinquecenteschi rivelano tuttavia che la
preziosa distinzione tra meraviglioso ed irrazionale è una conquista tarda della filo-
logia aristotelica, merito dello straordinario acume interpretativo di Pietro Vettori. La tradizione manoscritta del trattato è infatti curiosamente compatta nel testimo-
niare una lezione problematica: anziché &Aoyov i codici — e quindi le prime edizioni a stampa — leggono infatti àváXoyov. Le traduzioni contribuiscono a diffondere una lezione ben testimoniata, ma molto meno suggestiva di quella cui ci hanno abituato le moderne edizioni critiche della Poetica. Piccolomini, che aveva sotto mano tutti i
suoi predecessori — Vettori incluso — non fa eccezione: Convien dunque alla tragedia il far nascer ammiratione: ma molto più, data la proportione [dell'altre qualità] si può far ciò nell’epopeia. Onde può massimamente generarsi da essa la maraviglia, per non vedersi quivi le persone nell’atto stesso delle lor attioni.?*? Rifacendosi alla Retorica, Piccolomini ricorda che «fra le cose sommamente gioconde» rientra il diletto che nasce nell'uomo «dalle cose ammirande e dall'ammiration che le recano». Prendendo atto di questo principio, e dal momento che il diletto
è necessario alla poesia per poter «più facilmente giovare», urge che «quando li poeti posson commodamente far nascer ammiratione e stupore, si debbian ingegnar di farlo». Segue una definizione di meraviglia che, pur in linea con la tradizione del
Yadya aristotelico, rivela un'accezione non scontata: «la maraviglia suole spetialmente nascere dall'estrordinaria novità delle cose, quando pare che avanzino in un certo modo l'ordinaria forza della natura e l'uso ordinario e consueto delle cose».34° In sostanza, provoca meraviglia tutto ciò che esce dalle attese proprie dell'uomo e
l'irrazionale, che & la matrice fondamentale del meraviglioso, per il fatto di non vedere i personaggi in azione»
(trad. Paduano). Cfr. le preziose indicazioni dello stesso C. Papuano, // valore della letteratura, in AristoTELE, Poetica, traduzione e introduzione di G. Paduano, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. ix-xxix.
345 Annotationi, 132, p. 386. Analoghe le traduzioni di Pazzi: «Sane convenit Tragoediae ipsum praebere mirandum, magis autem Epopoeiae: quod videlicet proportione respondeat. ideoque mirandum maxime huic convenit,
quoniam in ea ad ipsum agentem minime respicimus» (il testo latino di Pazzi è riproposto anche in RosonrELLo, In librum Aristotelis cit., p. 280); CasreLveTRO, La poetica vulgarizzata e sposta cit., Il, p. 101: «Adunque si dee nelle tragedie fare la maraviglia, ma più è licito nell'epopea proporzionevolmente; laonde aviene massimamente la
maraviglia per non aversi riguardo alla persona posta in atto». Pietro Vettori, proponendo una correzione che è poi stata accolta dai filologi moderni, mette a testo áÀoyov, e traduce di conseguenza, distinguendo puntualmente tra admirabile e quod ratione caret: «Oportet quidem igitur in tragoediis facere admirabile: magis autem contingit in epopoeia quod ratione caret, ob quod evenit maxime id, quod admirabile est, quia non spectant in eum, qui gerit»
(Verront, Commentarii in primum librum Aristotelis de arte poetarum cit., p. 255). L'intervento, rigorosamente ope ingenii, è giustificato nella glossa di commento alla particella (ivi, pp. 256-257). Alla traduzione di Castelvetro, che non tiene conto dell'emendamento di Vettori, fa riferimento Scarpati, Tasso, Sigonio, Vettori cit., p. 182, che peró non approfondisce ulteriormente la questione. Sul dibattito intorno a Poet. 1460a 12-13, con considerazioni sulla vicenda testuale della lezione emendata da Vettori, ci proponiamo di tornare in altra sede.
346 PiccoLomini, Annotationi, 132, p. 387.
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dalle sue abitudini più consuete. Il meraviglioso forza l'ordine di natura, ed è quest'accezione di davpaotév che più si avvicina al 16 &Aoyov restaurato da Vettori, ma non accolto da Piccolomini, che pure mantiene ineccepibilmente la ratto bipartita
del passo. L'«ammirando» e l'«ammiratione» si articolano infatti anche nel commento piccolominiano su due livelli rispondenti ad una gradazione che è funzione dei due diversi generi poetici presi in considerazione. L'epica dà più spazio al meraviglioso di quanto non possa fare la tragedia e la ragione di tale scarto consiste nelle differenze di fruizione proprie dei due generi cui si è già fatto riferimento. Vale la pena percorrere velocemente l'intero passo piccolominiano ad esse relativo per mettere meglio a fuoco quanto detto a proposito dell'oraziano «segnius irritant animos demissa per aurem» e individuare la funzione dell'intelletto cui Piccolomini attribuisce la gestione delle immagini che si presentano alla vista dell'uomo: [...] nell'epopeia più facilmente truova luogo l'ammirando e l'ammiratione, che non fa nella tragedia. Perciò che, essendo il senso della vista tanto più potente a recar la verità degli oggetti suoi dinanzi all'intelletto per mezzo della fantasia, che non e la lingua in
narrargli; quanto più efficaci sono a farsi conoscer le cose che son presenti, come son quelle che si veggono, che non son le assenti e lontane, come son quelle che s'odon narrare e referire; ne segue da questo che, dovendosi la tragedia, e le attioni che in quella s'imitano, mostrar presenti agli occhi degli spettatori in scena; molto più difficile
le sarà a recar cose ammirande in luogo, dove per esser presenti, possa facilmente esser
conosciuta la causa della novità e dell'impossibilità che ammirande le fa parere, che non avviene all'epopeia. Poscia che non vedendosi presenti le cose che ella narra, agevolmente non s'avvertendo, si renderà credibile la novità e l'impossibilità di quelle?"
Giova qui osservare che se la fantasia è la funzione intellettiva che sottende la percezione e, soprattutto, l'acquisizione delle immagini da parte dell'individuo, l'immaginazione si libera dal freno della vista nel momento in cui l'atto di comunicazione poetica prescinde da essa, basandosi esclusivamente sull'ascolto e sulla lettura. Quando
non occorre sottoporre l'oggetto dell'imitazione poetica alla verifica autoptica imposta dalla rappresentazione teatrale, e proprio perché non si vedono «presenti le cose che ella narra», la loro «novità» e «impossibilità» saranno facilmente credibili. Confermando una spiccata sensibilità per lo specifico teatrale, Piccolomini coglie l'occasione offerta dall'esempio aristotelico della «persecutione e incalciamento» di Ettore per sottoporre a verifica empirica le affermazioni del filosofo greco: una scena epica e drammatica come quella dell'inseguimento di Ettore, che ha «molto dell'ammirando e dell'incredibile», se portata sulla scena, diventerebbe «non solo non credibile, ma ridicola» ?*9 341 Ibidem.
348 Ivi, p. 388: «[...] havendo (dico) questa cosa molto dell'ammirando e dell'incredibile; s'ella s'introducesse in scena, potrebbe divenire non solo non credibile, ma ridicola; per non potersi asconder a gli occhi degli spettatori
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Una volta stabilita in modo chiaro la differenza tra i limiti imposti ai generi teatrali dalla rappresentazione scenica e la maggiore licenza propria dell'epica, è però opportuno porre in luce i termini entro i quali l'incredibile può aver spazio nella fabula poetica. Aristotele esplicita l'opportunità di «preferire l'impossibile verosimile
al possibile incredibile», e si è già visto come la prescrizione sia accolta senza riserve da Piccolomini anche nel commento oraziano.# Questa particella mostra in modo incontrovertibile, secondo il filosofo, che Aristotele non intende il falso come materia della poesia. Ribadendo che «l’esser la cosa 0 possibile, o non possibile, o vera, o falsa, è cosa accidentale alla materia della poesia», Piccolomini si sofferma sulla
distinzione tra possibile e credibile, implicitamente accolta nelle sue argomentazioni sul tema, ma non ancora definita apertamente: Né s'ha da maravigliar alcuno, ch'il possibile sia cosa diversa dal credibile, nascen-
do essi da diversi fonti. Conciosiaché la credibilità derivi da una convenientia per la quale possa alcun credere che dovesse condursi ad effetto la cosa che si crede. Dove che la possibilità nasce dal potere l'effetto non trovar impedimento nell'uscir dalla potentia sua e dalla causa sua. La notitia dei quali impedimenti, perché nella moltitudine e nel più degli huomini spesse volte non si ritruova, viene a parer loro spesso la cosa possibile, non credibile, ancora che necessaria fusse. Come sarebbe (per essempio) ch'il sole sia molto maggior della terra; e che gente si truovi nell’opposto hemisperio al nostro, che tenga volte le piante dei piedi in contra alle piante dei piedi nostri; e altre cosi fatte verità, dagli imperiti con difficultà credute.??
Mentre la credibilità riguarda in primo luogo il destinatario dell'opera poetica, la possibilità che un'azione si verifichi inerisce all'azione stessa, e consiste nella mancanza di «impedimenti» effettivi alla sua realizzazione. Il fatto che una cosa possibile, se non addirittura necessaria, sia percepita come incredibile, nasce proprio
dall'ignoranza di quegli «impedimenti» da parte del destinatario: è questa la condizione della «moltitudine» e degli «imperiti» che stentano a credere che il Sole sia piü grande della terra e che nell’emisfero australe gli uomini camminino a testa in giù. L'idea che in poesia si debbano privilegiare le «cose credibili quantunque impossibili» rispetto alle «possibili che non son credibili» è affermata da Aristotele in Poet.
un non so che di non verisimile, che mostrerebbe quell’incalciar che facesse Hettore, e quel fuggire che facesser i
Greci, e quello star dei Troiani, quasi in corona intorno senza punto muoversi».
349 Arisr., Poet. 1460a 27-33 (trad. Paduano): «Si deve preferire l'impossibile verosimile al possibile incredibile, e non comporre le storie con parti irrazionali (ix pepov àAóyov), o almeno lasciarle fuori dalla trama [...]». Nella traduzione della particella Piccolomini aggiunge specificazioni atte a rendere il testo più chiaro, dovendo questa
volta confrontarsi apertamente con la nozione di &Àoyov: «Si debbono appresso di questo più tosto elegger le cose impossibili e nondimen credibili, che le possibili e incredibili. E oltra ciò non conviene connettere e compor le favole di parti, che [poco verisimili e] fuor di ragione appaiano; anzi grandemente procurar si dee, che cosa non vi si vegga, che non habbia del ragionevole» (PiccoLomini, Annotationi, 134, p. 391).
350 Ivi, p. 392. 119
1461b 9 sgg., passo peraltro corrotto. Il paradigma idealistico, di cui l'aneddoto di Zeusi èemblema, risponde all’esigenza di «ridur le cose al meglio»; d'altro canto
il filosofo riconosce che le cose «che paion fuor di ragione e del convenevole» talvolta non lo sono, «essendo verisimile che fuora del verisimile accaschino le cose alle vol-
te». Posto di fronte alle rischiose concessioni e aperture che il testo aristotelico offre all'áAoyov, Piccolomini ricapitola quali sono, in poesia, i tre tipi di «impossibilità difendibile», con il curioso intento di dana
chi havesse posto nel suo poema
qualche cosa che potesse parer impossibile»: il primo è l'impossibile credibile; il secondo è l’impossibile che nasce dall’intento di conferire all’oggetto dell'imitazione poetica una «maggiore escellentia» (è il caso dell’esperimento di Zeusi); il terzo è, infine, l'impossibile ammesso per «fama» e accettato dalla «commune opinion» .?*
3. Imitazione poetica, conoscenza e procedimento metaforico
Delimitati i confini del meraviglioso sul piano dell’inventio, resta aperta la questione del rapporto tra materia poetica e procedimento imitativo. Gli elementi esaminati fin qui permettono di collocare Piccolomini, aristotelico senese di formazione
padovana, in un contesto culturale che trova proprio nella definizione degli strumenti della creazione poetica una tappa necessaria alla collocazione di quest'ultima nel sistema delle arti e delle forme del sapere. Si è già mostrato come per Piccolomini l'imitazione poetica proceda in modo sillogistico permettendo all'uomo di acquisire conoscenza. Se questo non bastasse a contrassegnare in direzione logico-retorica
la concezione piccolominiana della poesia, è lo stesso filosofo a suggerire un’analogia tra il procedimento sillogistico costitutivo dell'imitazione ed una forma particolare di espressione poetica come la metafora. Senza giungere a posizioni di rottura come quella di Jacopo Mazzoni, che sulla scorta di Proclo scova in Aristotele una legitti-
mazione della priorità poetica del «fantastico» sull’«icastico», ma sposandone una - per intendersi — più vicina a quella di Tasso, Piccolomini rifiuta il concetto della forma poetica totalmente avulsa dalla realtà.?* Annoverando la poetica, come si è 351 Si cita dalla traduzione di Piccolomini in Annotazioni, 151, p. 412. 352 Ivi, pp. 412-413.
353 Basti pensare all’esempio del ritratto in Annotationi, 19, p. 68; per il passo, che commenta Poet. 1448b 1018, cfr. cap. IV, $ 4, p. 102. 354 Come ha mostrato Scarpati (/castico e fantastico, cit.). il caso di Jacopo Mazzoni apologeta di Danteè emblematico di un modo nuovo di considerare il fatto poetico che risente in modo decisivo della riflessione aristotelica, e specificamente padovana, sulla poesia come scienza razionale imparentata con la logica e strumento di conoscenza. Il recupero del commento di Proclo a Prar., Resp. X, 595 (ma cfr. anche Leg., 66Tc--668b) consente a Mazzoni di formalizzare una concezione della fantasia come voù na9nuxóc che, certamente inferiore al vote
propriamente detto, è comunque dotato di una funzione specifica nell'attingimento della verità (Scarpati, /castico e fantastico, cit., p. 240). Mazzoni «si sforza di accentuare unilateralmente la nozione di “credibile” [...] che nel trattato aristotelico quasi furtivamente viene a turbare l'orientamento mimetico e rappresentativo che lo domina»
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avuto modo di osservare, tra le scienze logico-razionali, Piccolomini si trova nella
delicata posizione del filosofo che, pur accordando al linguaggio poetico priorità cronologica sulle altre forme di comunicazione, nonché un eccezionale valore meta-
storico, afferma con convinzione la maggiore idoneità del codice filosofico-scientifico alla diffusione del sapere nell'età moderna. Come hanno mostrato i contributi di Claudio Scarpati su Mazzoni e Tasso,
la separazione tra res e rerba, prodotta dalla classificazione della poetica tra le scienze razionali e dal suo accostamento alla logica, costituisce la premessa della concezione poetica seicentesca per cui la parola sarà in grado di dare vita a infiniti
mondi possibili valutabili ed esplorabili in quanto tali. Piccolomini, intellettuale attento alle caratteristiche più stringenti del discorso scientifico e filosofico, ma sensibile alle istanze della creazione poetica, risente di queste tendenze e si trova a dover conciliare un'impostazione razionalistica del sapere e delle sue forme con il
rispetto di una concezione della poesia che. ben lungi dall’essere intesa come puro edonismo, mira piuttosto a riconoscere nella facoltà poetica uno strumento di diletto intellettuale, conoscenza e giovamento etico. «La Poetica aristotelica, ristudiata analiticamente, si manifesta come ridefinizione del ruolo della mimesi nei processi
della conoscenza»: il giudizio di Scarpati può essere applicato anche al caso piccolominiano, che aderisce in pieno all'idea di un accostamento tra «apprensione intellettuale» e conoscenza poetica.??
(ivi, p. 242). e la reazione di Tasso di fronte al pericoloso avvicinamento della poetica all'ambito della sofistica rivela una cautela non dissimile da quella che emerge nella trattazione piccolominiana sul concetto di ‘credibile’:
«Fedele all'idea boccacciana del poeta teologo, il Tasso si ritraeva nel punto in cui il Mazzoni identificava l'idolo con una nozione assoluta d'immagine che puó prescindere dall'esistente e puó essere enucleata e indagata di per sé, per mezzo di un linguaggio che, svincolato dal riferimento rappresentativo, può muoversi lungo i labili sentieri
del credibile come si muove il linguaggio del Sofista» (ivi, p. 244). Che il confronto con la poetica tassiana possa essere utile ai fini di una messa a fuoco della riflessione più cronologicamente avanzata di Piccolomini, è suggerito a posteriori dall'interesse di Tasso per le Annotationi nel libro della poetica: dopo essersele procurate, Tasso rese
visita a Piccolomini (gennaio 1576), sottoponendo all'attenzione degli intellettuali senesi il XII canto della Gerusalemme. Cfr. A. SoLerti. Vita di Torquato Tasso, Torino, Loescher, 1895, I, p. 217. Ma si vedano anche T. Tasso, Le lettere, Firenze, Le Monnier, 1854-1855, I. 46, 82, 87 (cfr. le medesime nella recente edizione T. TAsso, Lettere
poetiche, a cura di C. Molinari, Milano-Parma, Fondazione Pietro Bembo-Guanda, 1995). La conoscenza delle Annotationi piccolominiane da parte di Tasso è testimoniata anche dall'esemplare con postille autografe del poeta
conservato tra i postillati barberiniani della Biblioteca Apostolica Vaticana; cfr. S. Miano, Le postille di Torquato Tasso alle “Annotationi” di Alessandro Piccolomini, «Aevum», LXXIV (2000), pp. 721-750 (le postille sono di prossima pubblicazione nell'ambito dell’Edizione Nazionale dei postillati tassiani. Ringrazio i proff. Maria Teresa
Girardi e Claudio Scarpati per la segnalazione). 355 Scarpati, /castico e fantastico, cit., p. 245. Cfr. ivi, pp. 245-247 per una rassegna non completa ma indicativa degli intellettuali che, gravitanti nell'ambiente padovano, contribuiscono sensibilmente alla stabilizzazione della
poetica tra le facoltà razionali (Bernardino Tomitano, Bartolomeo Lombardi, Benedetto Varchi, Scipione Ammirato). Punto d'arrivo di questa linea è Giacomo Zabarella che con i suoi Opera logica (1578) costituisce la premessa essenziale per la posizione di Mazzoni. Cfr. W.F. Enwanps, Jacopo Zabarella: a Renaissance Aristotelian's View of Rhetoric and Poetry and their Relation to Philosophy, in Arts libéraux et philosophie au Moyen Age, Montréal, Institut d'études médiévales-Paris, Vrin, 1969, pp. 843-854: Poppi, La dottrina della scienza in Giacomo Zabarella
cit. pp. 149-160. Cfr., infine, quanto detto a proposito della classificazione piccolominiana delle facoltà razionali nel cap. III, $ 2, pp. 58-02.
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Per quanto riguarda le implicazioni che tale discorso ha nel profilo di Piccolomini, è opportuno osservare che, se l'imitazione poetica è esplicitamente additata come strumento di conoscenza, una delle sue forme più rilevanti è la metafora.?° Commentando le tre particelle della Poetica che trattano la metafora, Piccolomini rinvia alla «lunghissima digressione di molte charte» da lui dedicata alla medesima figura nella Parafrase del terzo libro della Retorica, limitandosi a dirne «in questi luoghi della poetica a punto tanto, quanto all'intendimento delle parole d' Aristotele
luogo per luogo penserò che faccia di bisogno»? Premessa indispensabile alla trattazione della metafora, che Piccolomini ha modo
di esplicitare parafrasando il terzo libro della Retorica, è la nozione di scarto tra uso ‘comune’ e uso ‘insolito’ — ovvero figurato — del linguaggio. Alle parole «appropriate» che, significando semplicemente «le cose da loro significate», non dicono nulla in più di quello che dicono, si contrappongono le parole «non proprie», caratterizzate da «un non so che di discostamento dal trito uso del parlar commune e una certa novità di dire». Così come sul piano dei contenuti, anche su quello dell'e/ocutio gli uo-
mini apprezzano l'insolito e l’inusitato che, riscattando il linguaggio dal grado zero che contraddistingue il sermo cotidianus, lo rendono più accattivante e piacevole.??
356 La bibliografia critica sulla metafora è vastissima. Ci si limita qui ad alcune indicazioni utili allo studio del caso specifico che è oggetto della nostra indagine. Per un primo inquadramento ed alcuni rimandi bibliografici essenziali, si veda comunque M.P. ELLero-M. Resipori, Breve manuale di retorica, Firenze, Sansoni, 2001. pp. 110-114 (bibliografia specifica alle pp. 123-124). Utilissima la rassegna commentata di fonti greche e latine sulla metafora in G. Guorizzi-S. Bera, La metafora, Pisa, ETS, 2000, cui si rimanda anche per la ricca bibliografia (ivi, pp. 221-230). Sulla codificazione aristotelica della metafora ed i suoi sviluppi successivi, cfr. almeno Peripatetic Rhetoric after Aristotle cit. (si vedano, in particolare, i contributi di D.M. ScHENKEvELD, «Ta asteia» in Aristotles Rhetoric: The Disappearance of a Category, pp. 1-14; e Green, The Reception of Aristotle's Rhetoric in the Renaissance cit., pp. 320-348), nonché il classico P. Ricogvn, La métaphore vive, Paris, Editions du Seuil, 1975 (in particolare il capitolo dedicato ad Aristotele, Entre rhétorique et poétique: Aristote. pp. 13-61). Suggestive indicazioni sulla complessità dell'atto comunicativo metaforico, anche dal punto di vista del metodo d'analisi, offre PM. BenriNETTO, On the Inadequateness of a Purely Linguistic Approach to the Study of Metaphor, «Italian Linguistics», IV (1977), pp. 7-85: e In., ‘Come vi pare’. Le ambiguità di ‘come’ e i rapporti tra paragone e metafora, in Retorica e scienze del linguaggio, Roma, Bulzoni, 1979, pp. 131-170: ma si vedano anche i più recenti Teorie della metafora. L'acquisizione, la comprensione e l'uso del linguaggio figurato, a c. di C. Cacciari, Milano, Cortina, 1991; M.A. Pinro-M. Danesi, La metafora fra processi cognitivi e processi comunicativi, Roma, Bulzoni, 1992. Ringrazio Valentina Bambini per le conversazioni avute su questi temi. 357 Piccoomini, Annotationi, 110, p. 295. La trattazione aristotelica relativa alla metafora in Poet. 1457b 6-33 (che corrisponde alle particelle 110-112); da integrare, ovviamente, con Rhet. IN 1404b 1-1413a 29. Il commento piccolominiano in Parafrase III, pp. 28-36 (Digressione prima nel capo secondo, intorno alla distintion delle parole in molte spetie, con la dichiaration di quelle) e soprattutto 44-80 (Digressione seconda nel secondo capo intorno alla metafora, e varie spetie di quella). 358 Piccoromini, Parafrase III p. 36. Le parole «appropriate» sono «quelle che spetialmente e peculiarmente sono state imposte a significare le cose da loro significate: di maniera che appropriata allhora si potrà dire una parola quando la cosa da essa significata la possiede come veramente sua e non come aliena»; e ancora, dopo
aver chiarito le opposizioni parole proprie/straniere e appropriate/trasportate, di queste ultime dice che «per loro stesse, senza pigliare aiuto d'altra parte, e senza alteratione alcuna di loro stesse, puramente e simplicemente sono ordinate a denotare le cose da loro significate» (ivi, pp. 34-35).
359 La parafrasi individua ancora una volta la dinamica del piacere nell’«ammirazione» prodotta dalle «cose lontane»: «communemente gli huomini sogliono havere in ammiration le cose che son lontane molto piü che quelle che
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Tra le varie forme della comunicazione verbale, la poesia è quella che maggiormente ricerca soluzioni lontane dal comune, giacché più urgente è per lei la necessità di produrre diletto a mezzo della meraviglia: [...] havendo tutte l'altre sorti di parole fuor che le proprie, per la novità che portan seco e per l'insolito uso loro, più del maraviglioso, del grande e del dilettevole che le proprie non hanno, ed essendo la poesia, più che alcuna altra facultà, indrizzata al diletto; e havendo ella per sua materia e soggetto, per il più, cose di maggior grandezza e di maggior degnità che non ha il parlar commune che si fa nella conversatione e ne' negotii che si trattan cotidianamente; di qui è che non senza ragione li poeti ne i poemi e ne i versi loro danno ricetto ad ogni sorte di parole che possin con la lor novità tener grandezza: e accogliono in somma tutti quei modi di parlare che. allontanandosi dall’usitato e dal consueto, generar possono ammiratione.?^?
Confermando la tendenza della poesia all'inusitato, tanto sul piano dell’inventio
quanto su quello dell'e/ocutio, la parafrasi introduce finalmente la digressione dedicata alla metafora che, parola ‘non propria’ per eccellenza, si afferma come uno degli strumenti più potenti della lingua poetica. Metafora significa, alla lettera, «trasportamento», ed in quanto genere di parola non propria, si articola in varie specie: stando al sistema aristotelico, sono forme di trasportamento non solo la sineddoche, l'antonomasia, la catacresi e la metafora
propriamente detta, ma anche la similitudine, l'allegoria e l'enigma, mentre epiteto, proverbio ed iperbole lo sono solamente nel caso in cui contengano parole metaforiche.® Alla metafora come specie, ovvero a quella figura che comunemente chiamiamo metafora, è dedicata la trattazione della Poetica che, come vedremo subito, offre
a Piccolomini vari spunti di riflessione??? Seguendo da vicino la trattazione aristotelica, il filosofo definisce la metafora
come «trasportamento che si fa d'una parola dal suo luogo proprio ad un altro che non le é proprio» quando «si truova certa convenientia e somiglianza tra la cosa donde la parola si toglie, e quella dove la si pone»."? La «convenientia» tra le cose - e tra le parole — puó essere «essenziale» o «accidentale»: a fronte di tre «sorti» di presentemente son lor dinanzi; e per conseguente quelle le quali per esser remote dall'uso nostro sono odite come cose lontane, vengon per questo ad apparir maggiormente maravigliose. Onde perché l'ammirare porta seco diletto [...] ne segue che parimente divenga dilettevole il parlare, che dal proprio si parte e dall'usitato» (ivi, p. 37). 360 Ivi, pp. 37-38. Il passo è particolarmente interessante perché conferma la priorità sostanziale del diletto come fine della poesia: lontano da considerazioni moralistiche, il filosofo si sofferma qui sul funzionamento effettivo del linguaggio poetico, e può ribadire senza remore l'importanza della componente dilettevole. Sulla complessa questione del rapporto tra diletto e giovamento poetici, cfr. cap. IV.
361 Per la sintetica ma esaustiva rassegna delle varie figure afferenti al genere dei traslati, cfr. PiccoLomini, Parafrase III, pp. 44-46. 362 Sul senso ampio in cui Aristotele intenderebbe la metafora nella Retorica, ed il senso stretto che invece le sarebbe proprio nella Poetica, cfr. l'avvio della digressione piccolominiana, ivi, p. 44. 363 Piccoromini, Annotationi, 110, p. 299.
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metafora basata su una somiglianza essenziale (si tratta dei tre «trasportamenti» che combinano variamente generi e specie), quella basata su una somiglianza «che nasca dalla qualità o da altro accidente»?* dei due oggetti considerati (metafora di proporzione o analogia) «di splendore, di ornamento e d'utilità supera tutte l'altre».?? Dopo aver offerto una definizione di proporzione («somiglianza di rispetti, o habitudini, o ragioni che vogliam dire, che hanno tra di loro piü cose insieme»), cui segue un'esemplificazione matematica dettagliata, Piccolomini propone un quadro
del reale che lascia campo aperto all'uso del linguaggio metaforico: Hor non solamente si puó trovar nei numeri questa proportione, ma etiamdio in
tutte le altre cose; non potendosi [...] trovare due cose tanto tra di lor separate e dissimili, che se ben adentro le riguardiamo, non vi si possa conoscer qualche habitudine e rispetto tra l'una e l'altra; e non solo un rispetto, ma molti ancora. E
dalle somiglianze che hanno poi tai rispetti l'uno all'altro, la proportione nasce della metafora. Le quali somiglianze saranno alle volte tanto manifeste ch'ogni mediocre ingegno le potrà conoscere: e alle volte saranno in modo ascose che di piü aiuto farà di bisogno per ritrovarle.^
Le potenzialità riconosciute da Piccolomini alla metafora, figura basata sulla possibilità di individuare somiglianze e nessi anche tra le cose più apparentemente
distanti, sono di un certo peso: l'assunto per cui ogni oggetto, se guardato «ben adentro», può rivelare un'inaspettata analogia con qualsiasi altro, assume un ruolo rilevante nell'economia della poetica piccolominiana, soprattutto se considerata in relazione all'esplosione del linguaggio metaforico che contraddistinguerà i decenni immediatamente successivi. Che le metafore possano poi essere «manifeste» o
«ascose» dipende dalla qualità dell'ingegno che le elabora: l'analogia tra due oggetti che sembrano non avere nulla in comune potrà infatti essere scovata, «più al vivo considerandoli», solo da un «intelletto più acuto», reso tale dalla «dottrina» o dalla
«sperientia», se non già «per natura ingegnoso» 50” Ad una lunga e dettagliata esemplificazione, segue l'annotazione alla particella
112 che, esponendo il caso della metafora per parola mancante (catacresi), ci conduce direttamente al nodo della riflessione. Come traduce Piccolomini, «alle volte ad
alcune di quelle cose che proportionevolmente insieme si riguardano e si rispondono, non è imposta parola aleuna. Ma non punto manco per questo si posson proportio364 Ibidem.
365 Ivi, 111, p. 302. La trattazione della metafora di proporzione inizia nella particella relativa ad Arisr., Poet. 1457b 15-26.
366 Piccoomni, Annotationi, p. 304. 307 Ivi, pp. 304-305. Si veda, in particolare, p. 305: «In tutte le cose adunque a chi saprà ben a dentro le lor na-
ture e le lor qualità e conditioni considerare, potrà trovar habitudini e rispetti ch'in qualche parte haran del simile; e sopra tai somiglianze harà commodità di formare metafore. Et quanto l'huom sarà poi, o per natura ingegnoso, o per dottrina, o sperientia acuto, tanto più frequenti, più appropriate, e più belle metafore saprà trovare».
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nevolmente usare».
[n questo caso la metafora supplisce una parola mancante, ma
Piccolomini si premura di spiegare che è cosa puramente «accidentale alla metafora di proportione che la cosa alla qual si trasporta un nome alieno, cioè il nome d'un'altra cosa, habbia o non habbia ancor essa il suo appropriato nome». La riflessione
su tale aspetto offre al commentatore lo spunto per una lunga digressione sulla storia della metafora che, prendendo le mosse dalle sue origini, ne illustra dettagliatamente il ciclo vitale sulla scorta di Aristotele e Quintiliano." Tre sono le ipotesi sulla nascita della metafora: 1) necessità di supplire alle parole mancanti facendo leva sulla somiglianza tra le cose: 2) volontà di rendere più chiare le cose già dotate di nome;*? 3) «natural piacere» provocato dal parlare metaforico.” Fermo restando che conditio sine qua non della metafora è l'analogia tra gli oggetti considerati. l'ipotesi che la sua origine debba essere ricondotta al piacere prodotto dal parlare metaforico presenta essa stessa un’analogia con quanto si è detto a proposito del diletto ricavato dall'imitazione poetica. L'uomo desidera naturalmente conoscere, e la conoscenza acquisita attraverso l'imitazione reca diletto: giacché la metafora. rivelando analogie nascoste tra le cose, produce conoscenza e quindi diletto, essa funziona nello stesso modo dell'imitazione. Per di più, dal momento che ricavo
da me stesso parte di quella «cognitione», e poiché le cose che ci appartengono recano diletto, l'analogia con il processo imitativo è totale. Mettendo ordine tra le varie cause della metafora, Piccolomini opta infine per una loro ragionevole concorrenza: tuttavia,
mentre egli considera come causa accidentale la necessità di colmare lacune lessicali,
la ricerca di maggiore chiarezza e diletto sono intese come cause essenziali.?? 368 Arist.. Poet. 1457b 26-27. La traduzione di Piccolomini in Annotationi, 112, p. 313. 369 Ivi, p. 316.
370 Ivi, pp. 317-330. Analogo excursus in Parafrase III, pp. 69-77. Quanto alla trattazione quintilianea della metafora. cfr. Quiwr., Inst. or., VIIL 6, 4-18; 44-50. 371 La sezione relativa alle ipotesi sulle origini della metafora segue uno schema diffuso. Bastino, a titolo di esempio.
Quiwr., /nst. or., VIII, 6, 5-6 («Copiam quoque sermonis auget permutando aut mutuando quae non habet, quodque est difficillimum, praestat ne ulli rei nomen deesse videatur. Transfertur ergo nomen aut verbum ex eo loco in quo proprium est in eum in quo aut proprium deest aut tralatum proprio melius est. Id facimus aut quia necesse est aut quia significantius est aut, ut dixi, quia decentius»), e G.G. Trissino, La quinta e la sesta divisione della poetica, Ve-
nezia, Andrea Arrivabene, 1562, c. 40r (si veda il testo in WeiNBERG, Trattati cit., ll, p. 77), che lo segue da vicino. 372. PiccoLomni, Annotationi,
112, p. 317: «Voglion alcuni, che d'altronde non sia ella [la metafora], come da suo
principio, nata, che dalla stessa necessità, che habbia sforzato a trasportar d'altronde gli altrui nomi, a significar le cose, che non hanno appropriato nome».
373 Ivi, p. 319: «Altri sono stati poi, li quali vedendo, che molte volte si son trasportati e si trasportano li nomi
a quelle cose, a cui non mancano appropriati nomi; [...] hanno giudicato per questo che non la necessità sia stata la sola e la vera e la principal occasione di far nascer le metafore; ma piü tosto habbia a far questo indotto altrui il cercar di render le cose più manifeste». 374 Ivi, p. 320: «Altri [...] si pensano che non per altro sie stata principalmente introdotta, se non per render con
essa la locution più soave e più dilettevole: essendo senza dubio il parlar metaforico, quando gli è fatto giuditiosamente, atto a recar a color che l’odono natural piacere».
375 L'esigenza di dare un nome ad oggetti che ne sono privi, o comunque di chiarire il senso di ciò che si deve
dire, è all’origine del parlare metaforico in Cic., De or. III, 155, che introduce la celebre similitudine degli abiti:
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La ricognizione sulle dinamiche del procedimento metaforico si conclude individuando la causa «effettiva» della metafora negli «ingegni» e «intelletti» che «son habili a saper trovar nelle cose le convenientie e le somiglianze». La «materia» della metafora è costituita dalle «parole stesse che si trasportano» e la sua «forma» altro non è che la «somiglianza e convenientia che si ricerca tra le cose».?° Così come limitazione è connaturata all'uomo, anche la metafora sembra una via comunica-
tiva percorribile da tutti («usan dunque le metafore, come tutto 1 giorno vediamo, d’ogni sorte huomini»):"" se questo implica, da un lato, una valutazione in senso ampio di tale strategia linguistica, è dall’altro evidente che esiste una grande varietà di metafore, strettamente dipendenti dal grado culturale del parlante e dai codici che esso impiega. Sulla scorta di una sintetica casistica, il filosofo tenta una classificazione qualitativa delle metafore: Hor da questa gran diversità di così varii inventori delle metafore e dei proverbii, che anch'essi per la maggior parte son metafore, nasce che molte se ne sentino argutissime, molte freddissime, molte piene di rozzezza, e molte finalmente migliori e
molte peggiori; e per conseguente differentissimo sarà il diletto che portan seco."
Gli attributi «argutissime» e «freddissime» proiettano infatti la riflessione di Piccolomini verso gli sviluppi che nei decenni successivi segneranno la teoria della metafora: ferma restando l'idea aristotelica e quintilianea che tutti ci esprimiamo metaforicamente, la distinzione tra metafore migliori e peggiori si basa sulla convin-
zione che solo un intelletto «sottile» possa cogliere le analogie tra le cose e tradurre tale competenza nella produzione verbale di metafore. D'altro canto, la funzionalità della metafora dipende anche dal contesto e dalla condivisione di un codice comune
al mittente e al destinatario.?? In questo quadro l'abilità nel creare metafore viene
inventati per riparare dal freddo, ossia per una necessità materiale, hanno poi assunto anche una funzione esornativa («tertius ille modus transferendi verbi late patet, quem necessitas genuit inopia coacta et angustiis, post autem delectatio iucunditasque celebravit. nam, ut vestis frigoris depellendi causa reperta primo, post adhiberi coepta est ad ornatum etiam corporis et dignitatem, sic verbi translatio instituta est inopiae causa,
frequentata delectationis»); sul passo ciceroniano si veda Gumorizzi-Beta, La metafora cit., pp. 188-193, e soprattutto A.D. Leeman, Orationis Ratio. Teoria e pratica stilistica degli oratori, storici e filosofi latini, Bologna, il Mulino, 1974, pp. 164-169. Il medesimo concetto è peraltro espresso in Cic., Or. 92 e Top. 32. La posizione ciceroniana è puntualmente ripresa da DanieLLO, La poetica cit., pp. 83-84 (cfr. il passo in WetNBERG, Trattati cit., I, pp. 280-281). 376 Piccoomini, Annotationi, p. 322.
377 Ivi, p. 323. 378 Ivi, p. 324. 379 Cfr. ivi, p. 323, dove Piccolomini osserva che gli uomini sono soliti formare le metafore «ciaschedun [...] da quelle cose, che più son propinque e domestiche alla condition della vita loro; e all’uso dei lor costumi, e
all'arte finalmente e alla profession che tengono». Dopo aver proposto un’esemplificazione che comprende le metafore dei contadini, i proverbi degli artigiani, e i giochi dei bambini, il filosofo espone un aneddoto autobiografico che sintetizza icasticamente la necessità che il destinatario, per sciogliere la metafora, condivida il
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scopertamente a coincidere con la maggiore o minore «cognitione» delle cose del mondo. La metafora consente infatti al destinatario di cogliere le segrete analogie delle cose e, quindi, di acquisire conoscenza; non può tuttavia essere prodotta se non da chi già conosca tali analogie e sappia rilevarle attraverso un'indagine autonoma. Non stupisce, a questo punto del discorso, che il miglior autore di metafore sia per
Piccolomini il «Filosofo»: [...] sì come tra tutte le arti e tra tutte le professioni, non è alcuna che di nobiltà avanzi quella del filosofo, come che le cose del mondo tutte habbia per sua materia; e che né anche alla civile, che è l'architettonica di tutte le altre, si può dire che sia veramente sottoposta: così parimente, conoscendo ella meglio di tutte l’altre le convenientie che han tutte le cose tra di lor insieme; può per conseguente meglio dell’altre trovare e formar metafore tali, che di bontà e d'artifitio, tutte le altre avanzino.38°
Queste parole fanno eco alla traduzione piccolominiana del passo aristotelico su
poesia, storia e filosofia («la poesia è cosa più degna del filosofo»)?! e si mostrano assolutamente coerenti con l'interpretazione cinquecentesca di Poet. 1455a 33-34,
condivisa da Piccolomini sulla scorta di Robortello e Vettori: dopo aver affermato che la poesia è «molto propria o di trattabili ed acuti ingegni, o d’animi per furor
astratti» (diò edpvodc i)roux éotiv fjpavikod). la traduzione piccolominiana rivela le conseguenze di una scelta testuale assai rilevante: «posciache gli uni di costoro son ben atti a ricever qual si voglia forma (oi pèv eòmaoto1); e gli altri son di natura investigativi e accomodati all'inventione (oi 6 gfetaotiKoi)». La preferenza accordata da editori e traduttori cinquecenteschi alla lezione #fetaotiIKoi (atti ad investigare) contro la variante gkotatikoi (inclini ad uscire di sé, a testo nelle edizioni moderne), esplicita la competenza filosofica degli «acuti ingegni», che sono — proprio come i filosofi — «di natura investigativi e accomodati all'invenzione»."* La necessità, per il
codice del mittente: «Et io a questo proposito mi ricordo, ch'andando già su le galere del Signore Antonio Doria da Livorno a Genova, m’accad[d]e di sentire, nel ragionare che facevano nella galera dove io era alcuni ministri d'essa, e altri pratichi delle navigazioni, dir molte cose che si poteva congetturare esser metaforicamente dette; delle quali molti ridevano e gran gusto si vedeva che ne pigliavano: e io nondimeno, non mi essendo noti quei termini e quella professione, non ne rideva, né gusto ne prendeva alcuno» (ivi, p. 324). L'episodio evocato si riferisce al transito di Piccolomini per Genova nel 1548, testimoniato dalla prefatoria dei Cento sonetti, datata giustappunto dalla città ligure il 9 dicembre di quell’anno. 380 /bidem. 381 Arist., Poet. 1451b 6-7; cfr. Piccolomini, Annotationi, 52, p. 137 (si veda quanto detto in proposito qui, S 2):
382 Per la traduzione piccolominiana di Anisr., Poet. 1455a 33-34, cfr. Prccorowiwt, Annotationi, 88, p. 245.
Tra i traduttori cinquecenteschi, Alessandro Pazzi optava per la lezione &kotatikoi: «Quapropter vel versatilis ingenii viri, vel furore perciti poética est, etenim poetarum aliqui ab ipsa natura ad poeticam bene formati sunt, aliqui autem a mente abstrahuntur»: Robortello, che ricorre nel suo commento alla traduzione latina di Pazzi, la
contesta, proponendone una che si basa sulla sostituzione di &&graoiko( a gKotatiKoi. e che mette in evidenza il
profilo filosofico del poeta: «[...] ex his enim hi quidem ficti factique sunt ab ipsa natura apti ad confingendum et comminiscendum,
illi vero optime indagant, inquiruntque omnia propter incredibilem aciem mentis. Vel, si
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poeta, di essere «universal filosofo» è d'altronde idea ribadita da Piccolomini nella prefatoria dei Cento sonetti, nelle Annotationes oraziane e, più o meno esplicitamente, in altri suoi scritti teorici. L'importanza di tale posizione risiede, di fatto, nel riconoscimento della priorità che il profilo del Filosofo ha su quello del Poeta, e
permette di chiarire in che senso il linguaggio poetico — ovvero l'imitazione, anche nella forma della metafora — possa essere strumento di conoscenza. Il ‘filosofo’ Piccolomini, sostenitore in ambito filosofico-scientifico del metodo aristotelico, che mira a presentare il «vero nudo e schietto», anticipa e risolve una pos-
sibile obiezione che rischierebbe di coglierlo in contraddizione: se il modo migliore di divulgare il sapere è presentarlo oggettivamente, senza orpelli retorici e facendo anzi quanto più possibile uso di parole «appropriate», come si giustifica il privilegio conoscitivo della metafora? Piccolomini spiega che essa, grazie alle relazioni che rivela tra le cose, arricchisce le nozioni individuabili nelle parole «appropriate»: il confronto tra
le proposizioni «già il Sole [è] arrivato quasi sopra dei capi nostri» (A) e «già si trova la lampada del mondo sopra dei capi nostri» (B), mostra che la decifrazione della metafora contenuta in (B) fornisce numerosi elementi in più sull’oggetto ‘sole’ di quanto non faccia l'uso «appropriato» di (A). In tal senso si può dire che «viene a generar in
me maggior notitia la parola metaforica che l'appropriata». e ancora che «l'uso della metafora rende con le sue parole trasportate non solo più manifesta, ma ancora più dilettevole la locuzione, che le parole appropriate non posson fare» .?8? paucioribus verbis volueris referre, sic: hi enim apti sunt ad fingendum, illi vero ad inquirendum et indagandum» (RosortELLO, /n librum Aristotelis cit., p. 199). Analogamente Verront, Commentarii in primum librum Aristotelis de arte poetarum cit., p. 166 («Quare ingeniosi hominis poética est, aut furiosi: horum enim hi quidem facile formantur: hi autem facti sunt ad inquirendum»); più complesso il caso di Castelvetro che, rifiutando l'idea che un poeta possa essere «furioso», traduce l'intero periodo aristotelico come segue: «Per la qual cosa la poetica è da persona fornita di buona natura e non da furiosa; percioché di questi, alcuni sono trasmutabili e alcuni investigativi» (CasteLvetRO, La poetica vulgarizzata e sposta cit., I, p. 470: per l'esposizione castelvetrina del passo, cfr. ivi, p. 486). Anche su questo passo aristotelico, problematico in sede ecdotica e critica, ci proponiamo di tornare in altra sede. Basti qui ricordare che il dibattito intorno alla variante &taotixo( per &kotatiko( non si è spento
con il Cinquecento: messa a testo da Vahlen (1885), è ampiamente discussa — e respinta — nel commento di Alfred Gudeman alla Poetica (Berlin-Leipzig. De Gruyter, 1934, pp. 307-309). 383 Ivi, 112, pp. 320-321: «Percioché poniam per essempio, ch'aleun mi dica esser già il sole arrivato quasi sopra dei capi nostri; certa cosa è ch'altra notitia non si genera in me con queste parole, se non quella che puramente mi è data con esse, cioè ch'il sole sia già sopra dei capi nostri. Ma se alcun mi dirà, che già si truova la lampada del mondo
sopra dei capi nostri; tai parole senza dubio non mi daranno espressa notitia, né mi diranno espressamente ch'il sole sia quivi arrivato; ma mi daran bene occasione, che mediante la somiglianza che si truova tra la lampada e ‘1 sole nel far luce; io vada per me medesimo con veloce e impercettibil discorso e quasi sillogismo guadagnandomi tal notitia argomentando, che per convenir il sole con la lampada in questo terzo termin di render luce, venghino a convenir parimente tra lor medesimi, in maniera ch'il sole in un certo modo può intendersi per la lampada, aggiuntavi questa parola, del mondo, che lo fa distinguer da quella lampada, che fa lume nel tempio. Vengo io dunque da me medesimo ad acquistar in qualche parte questa notitia, ch'il sole si ritruovi in quel sito, poiché quelle parole non me lo dicono espressamente. Oltra che in sentir dire la lampada, e non il sole, vengo nel discorrere, che per lampada s'ha da intender il sole, a concepir con l'intelletto, non solamente la stessa cosa significata, che è quel pianeta, ma ancor quella luce e quella illuminatione; la quale non harei conceputo per le sole parole». 384 Ivi, p. 321. Un quadro dello snodo che tra fine Cinque e inizio Seicento segna l'affermarsi di concezioni dell'ar-
tificio metaforico analoghe a quella suggerita dalla ricognizione aristotelica di Piccolomini (metafora non come falsificazione sofistica, ma come via di conoscenza). in Scareati-BecunI, /[falso e il vero dei poeti, cit. Pur considerando il
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Il rischio della contraddizione tra il privilegio accordato al linguaggio scientifico, non figurale e privo di elementi esornativi, e le potenzialità conoscitive insite nel parlare metaforico potrebbe essere evitato distinguendo rigidamente l'ambito poetico da quello filosofico-scientifico, ossia sostenendo che mentre il «vero nudo e schietto» è obiettivo del filosofo e dello scienziato, gli artifici retorici spettano al poeta e all'oratore. La riflessione sviluppata da Piccolomini nei commenti alla Retorica e alla Poetica non si concentra però esclusivamente sulle forme del linguaggio letterario, giacché l'interprete individua - sulla scorta dello stesso Aristotele — costanti che caratterizzano il linguaggio e la comunicazione tra gli uomini in senso più ampio. La priorità della chiarezza (cagrveta) sulle altre virtù del discorso, stabilita da Aristotele in Poet. 1458a 19-20 («la virtù e l'eccellentia della locutione consiste in esser manifesta e aperta, e in non esser humile e vile»), offre infatti a Piccolomini lo spunto per uno sguardo retrospettivo sulla propria produzione filosofico-scientifica, caratterizzata dallo sforzo costante «di scriver chiaro e di render facile la intelligen.?*? tia [...] dei miei concetti» All'apologia della chiarezza fa eco la glossa sull'enigma, figura sostanzialmente
analoga alla metafora, ma di piü difficile comprensione. Piccolomini, pur dovendo fare i conti con l'eccesso di figuralità causato dall'incapacità di mantenere le metafore entro i ranghi di un ragionevole equilibrio, non si lascia sfuggire la possibilità di ribadire, con Aristotele, il principio filosofico che e alla base del procedimento metaforico. In Poet. 1459a 26-27, il filosofo greco afferma, nella traduzione piccolominiana, che «la forma e l'essentia dell'enigma consiste in questo, che nel dir cose che veramente
siano, si congiunghino insieme cose, ch'appaiano impossibili a star insieme».?^ Come si è già visto, congiungere ciò che sembra impossibile (16 Aéyovra ónápyovra àó0vata ovváyau) attiene al filosofo: d'altro canto, il principio dell’analogia universale tra le cose non legittima la possibilità di superare i limiti del decorum, soprattutto laddove questo implichi il venir meno della comprensibilità di ció che si afferma. Tesauro come punto d'arrivo ultimo di un processo che Piccolomini si limita ad intuire, si veda la chiara contestualizzazione di Scarpati nella Premessa, pp. 1x-x: «Secondo il Tesauro la letteratura trova il proprio terreno quando va al
di là del “nudo, schietto e cotidiano stile”, quando altera l'andamento rettilineo della lingua di chi dimostra e di chi ‘insegna’, poiché, noi avvertiamo, in un'epoca in cui si afferma il primato della visione, l’arte della parola, per il suo strumento lineare e cieco, deve colmare un dislivello e conquistare una visibilità che le è consentita solo in seconda
istanza». Cfr. anche Barrisrivi- Rarvowpr, Retoriche e poetiche dominanti cit., pp. 100-104. Per un inquadramento della trattazione della metafora in Emanuele Tesauro, cfr. A. Benassi, Lo “scherzevole inganno”. Figure ingegnose e
argutezza nel Cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro, in «Studi secenteschi», XLVII (2006). pp. 9-55. 385 PiccoLomini, Annotationi, 116, pp. 344-345: «la chiarezza s'ha da stimar per cosa che sopra tutte l’altre
convenga alla favella. Onde io in tutte quelle cose ch'io ho trattato in tutti li libri miei, mi sono sforzato con ogni diligentia di scriver chiaro e di render facile la intelligentia, più che ho potuto, dei miei concetti. Di maniera che
forse ad alcuni paruto sarà che io, per seguir con tanta diligentia la chiarezza, che è una delle virtù e bontà della favella, sia alle volte caduto in troppa bassezza di dire, che è opposta ad un'altra virtù di quella, che consiste in fuggir la viltà e l'humiltà del dire. Ma sì com'in tutte le cose è difficile il trovar la via del mezzo, così io nel cercar questa via, harò potuto non men trovarla, ma mi sono sforzato, se pur io haveva da uscir punto fuora della dritta linea, d'haver più tosto piegato verso l'estremo del troppo chiaro, che del troppo alto».
386 Ivi, 117, p. 346. 129
Ben lontano dal riconoscere una libertà metaforica che scorpori le parole dalle cose, Piccolomini si premura infatti di inquadrare il ricorso alle metafore in una serie di prescrizioni atte a limitarne le possibili derive. La metafora può collegare
ogni oggetto ad ogni altro, individuando anche le analogie più segrete tra le cose, ma l’intuizione delle potenzialità insite nella trattazione aristotelica dei traslati è sensibilmente contenuta entro i limiti di quella «convenientia» ‘di ascendenza oraziana che sottende l’intera riflessione piccolominiana sulla poesia:?” Resterebber ancor molte cose da essaminarsi e da dichiararsi appartenenti alle metafore; come sarebbe l'assegnar precetti e regole, non solo intorno a quelle cose, che com utili alla perfettion di quelle, s'hanno da osservare; ma ancor a molte altre, che come dannose, e atte a dar loro imperfettione e freddezza, s'hanno da schivare. Come sarebbe la molta lontananza, la poca affinità, l'oscenità, la troppo aperta somiglianza, gli oggetti odiosi a i sensi, e altre molte cose che s'hanno da fuggire.?98
I criteri della «molta lontananza», della «poca affinità», dell’«oscenità», della
«troppo aperta somiglianza» e simili, tentano di rispondere positivamente all’esigenza di ordine razionale che anima la concezione piccolominiana della facoltà poetica. Le particelle 121 e 122 offrono in tal senso l’occasione per una disamina approfondita degli errori più frequenti nella formazione delle metafore, nonché di alcuni precetti utili per evitarli. Quattro sono gli errori che più facilmente rendono «lontana» la metafora: in primo luogo la mancanza di una «convenevol somiglianza [...] tra la cosa donde si trasporta e quella a cui si trasporta», come se dicessimo «pioggia di sospiri [...] essendo cosa chiara che la pioggia non ha buona convenienza coi sospiri». Secondariamente, la metafora puo risultare imperfetta per «occulta natura», ovvero quando sia basata su un'analogia poco nota e peregrina." Il terzo errore, che consiste nel basare una metafora su «non ben nota historia, o favola, o arte, o scientia», rinvia
all'idea che la funzionalità del traslato dipende anche dalla condivisione di un codice comune al mittente e al destinatario. Metafore costruite sul bagaglio culturale di un antico greco potrebbero essere ancora oggi intese da uomini colti e preparati, ma 387 Il richiamo al decorum è esplicito nell'annotazione piccolominiana a Poet. 1458b 11-15 (PiccoLomni, Annotationi, 120, p. 350). 388 Ivi, 112, p. 329. 389 Ivi, 121, p. 353. Altri esempi che permettono di chiarire in cosa consista la carenza di «convenevol somiglianza» sono «li correnti monti» e «li volanti scogli», laddove è evidente che «l'epitheto volanti non quadra agli scogli come quadrerebbe alle navi; e l'epitheto correnti non ha da far coi monti com harebbe da far coi fiumi»
(ivi, pp. 353-354).
390 Ivi, 121, pp. 354. Basti riportare il primo dei due esempi: «per occulta natura sarebbe lontana la metafora quando a dimostrar che per la civil discordia d'una città, distruggendosi li cittadini l'uno l'altro, siano per essere la ruina di quella, dicessimo che li lecci finalmente della città nostra finiran di perquotersi e di mandarsi a terra, nel
qual essempio si vede che, per non esser cosa universalmente a tutti nota che la natura di quegli arbori gli muova, quando son vicini, a percuotersi e sbattersi l'uno l'altro, si viene a formar la metafora in somiglianza oscura».
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sarebbero di difficile comprensione per quella «moltitudine» che — secondo un'ottica affine a quella di Castelvetro — i poeti devono considerare come destinataria principale delle proprie opere.?! Il «quarto modo di lontananza», infine, è «quando la parola trasportata da un individuo, niente altro porta seco di più che se fusse trasportata dalla spetie di quello». A fronte di una definizione non immediatamente perspicua, il primo esempio proposto da Piccolomini aiuta a chiarire che un simile
errore dà vita ad un'antonomasia imperfetta: Questo avverrebbe (per essempio) quando in vece di dire *Usciva degli occhi suoi un fiume di lagrime”, dicessimo che n'uscisse “un Rodano di lagrime”: se già non s adducesse qualche grandissimo fiume, come il Nilo, il Gange, o simile. Però che in
tal caso l'addurre l'individuo e non la spetie, recherebbe qualche cosa di più, cioe l'abbondantia di quelle lagrime.'??
Fuggire il difetto della lontananza non significa dover cadere nel vizio ad essa contrario, ossia la superficialità: un traslato basato su eccessiva somiglianza tra i due oggetti considerati non produce infatti quel di più di senso che deve contraddistinguere la metafora.??* La particella 122. che ribadisce l«effetto non triviale» delle espressioni che si discostano dall'uso proprio, individua definitivamente la priorità della metafora sulle altre figure retoriche: «importantissimo sopra tutto è l'esser ben metaforico: essendo sola questa cosa fra le altre tale che da altri non si può imparare o prendere; e fa inditio d'acuto ingegno. Poscia ch'il ben trasportar le parole nelle metafore non è altro in sostantia che saper ben vedere il simile nelle cose». Commentando questo passo, suprema sintesi della trattazione aristotelica della metafora, Piccolo391 Ivi, 121, pp. 354-355. Dopo aver proposto alcuni esempi concreti di metafore difficili d'ambito letterario e scientifico, Piccolomini introduce una specifica importante che contribuisce a chiarire, all'interno del suo sistema poetico, il rapporto tra il poeta ed il suo pubblico, offrendo anche una notazione interessante sulla letteratura coeva di facile consumo: «Queste e altre simili metafore, se ben per esser molto note agli huomini non volgari le historie e le scientie dove le son fondate, potrebber in qualche ragionamento fatto appresso di quelli esser ricevute per buone e recar diletto: nientedimanco in bocca d'uno che parlasse alla moltitudine, alla qual principalmente han rispetto o haver deono li poeti, sarebbe pericolo che non paresser prese troppo da lontano. Si come, per il contrario, quando si fondasser in qualche historia, o favola la quale, o vera o falsa che la fusse, apparisse oggi communemente nota: come sarebbe se fusse di cosa molto segnalata, accaduta a i nostri tempi; o di cosa letta nei
libri che son tutto il giorno in man d’ognuno, come è oggi l'Ariosto, e simili; in tal caso, senz' alcun dubio, cotai metafore non si potrebbero stimare tolte da lontano, come senz’assegnarne essempi, ciascheduno per se stesso ne puó trovare» (ivi, p. 355).
392 Ibidem. 393 Ibidem. Come Piccolomini spiega di seguito, il medesimo errore può verificarsi in un imperfetto «trasportamento» da specie a genere (ivi, 121, p. 350). 394 «[...] la metafora non ha da avvicinarsi tanto con la somiglianza che ne divenga tanto trita, nota e familiare, che per la troppa cognitione e affinità che habbia la cosa donde si trasporta il nome, con la cosa a cui si trasporta e che s'ha da intendere; offerisca all’altrui mente e concetto più tosto medesimità (per dir cosi) che somiglianza» (ibidem). 395 Ivi, 122, p. 357; il passo corrisponde a Poet. 1459a 3-7.
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mini sottolinea la difficoltà dei traslati, tanto più nei casi in cui si intenda scovare
il simile nel dissimile." Esistono precetti, ma si tratta di prescrizioni generali: cia-
scuno, armato del proprio ingegno, deve individuare per conto proprio le analogie tra le cose del mondo. Nessuno può infatti prevedere tutti i casi possibili: come il giudice deve di volta in volta confrontarsi con il caso particolare applicando ad hoc la regola generale, così il poeta deve essere pronto a creare metafore nuove e funzionali facendo leva sulla propria capacità di scorgere somiglianze più o meno
evidenti tra le cose.?? L’annotazione alla particella 122 si conclude con una digressione sul rapporto tra similitudine («immagine») e metafora che, pur seguendo puntualmente la traccia aristotelica, mette in evidenza alcuni aspetti delle due figure non secondari per l'evoluzione delle poetiche contemporanee: se — con il filosofo greco — metafora e similitudine coincidono nella sostanza, le differenze formali che le caratterizzano rivelano procedimenti retorici e mentali parzialmente diversi. A ben vedere, individuate
alcune analogie tra due oggetti X ed Y, il rapporto di somiglianza può originare almeno tre formulazioni: è possibile esplicitare tale somiglianza a mezzo di una comparazione (X è come Y); stringere la comparazione in una pretesa d'identità (X è Y); sottintendere infine la somiglianza tra i due termini dicendo X per Y, ossia usando X per nominare Y e viceversa. Tutti e tre i casi, per ragionare in termini aristotelici,
producono conoscenza e risultano quindi piacevoli: tuttavia, in virtà della sua maggiore concisione, la metafora è secondo Aristotele più piacevole della similitudine. Quest'ultima, non postulando un'identità tra i due oggetti. ma limitandosi ad esplicitare il rapporto di somiglianza, non stimola nella mente del destinatario un vero e
proprio atto di comprensione. Come rilevato da Adriano Pennacini a proposito del passo quintilianeo su metafora e similitudine («in totum autem metaphora brevior
est similitudo, eoque distat quod illa comparatur rei quam volumus exprimere, haec pro ipsa re dicitur»),°* l'analogia tra i due oggetti genera confronto nella similitudine e sostituzione nella metafora, ovvero — detto in termini logico-conoscitivi — «la
similitudine innesta un processo di tipo analitico, in cui i due termini restano distinti ed autonomi, mentre la metafora è intuitiva e in essa i due concetti coesistono ed
interagiscono l'un con l'altro».???
396 Piccoromini, Annotationi, 122, p. 358. 397 Ivi, 122, pp. 358-359: alla difficoltà del «saper cavar il simile dal dissimile» si aggiungono le molte «cautele» necessarie alla formazione di buone metafore (Piccolomini ripercorre qui in estrema sintesi quanto già detto nei paragrafi precedenti e nella digressione della Parafrase). Quanto ai limiti da imporre nell’uso e nella formazio-
ne delle metafore, cfr. Arist., Rhet. IN, 1406b, dove si mette in guardia dalle metafore inadeguate (petagopai àmpereic), ovvero da quei traslati che scadono nel ridicolo, nell'eccessiva solennità o che sono oscuri perché tratti troppo da lontano; Cic., De or. WI, 162-167; Quiwr., Inst. or. VIII, 6, 14-18.
398 Quir., /nst. or. VIII, 6, 8. 399 Si veda la nota di Pennacini nell'ed. QuivriuaNo, Institutio oratoria, a c. di A. Pennacini, Torino, Einaudi, 2001, IL, pp. 843-844.
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Un'interpretazione di questo tipo rinuncia evidentemente a considerare la metafora come semplice sostituzione di un termine con un altro, individuando la ricchezza della figura nella possibilità di evocare, a mezzo di uno solo dei due termini in questione, quella sorta di intersezione semantica che li lega, più densa di significato rispetto a ciascuno di essi singolarmente preso. Dal canto suo Piccolomini, discutendo nelle Annotazioni il rapporto tra similitudine e metafora, sembra aprirsi ad una concezione della figura che non si risolve semplicemente nella teoria aristotelica della sostituzione. A fronte del procedimento effettivamente analitico alla base di una similitudine ben congegnata, l'immediatezza e l'apparente spontaneità della metafora hanno molto in comune con l'immediatezza dell’intuizione.! Questo implica che mentre la prima, paradossalmente più artificiosa, sembra adattarsi bene alle istanze della scrittura poetica, la seconda è più adatta all'oratoria, giacché l'impeto di chi sia infiammato da una qualche passione si esprime più spontaneamente a mezzo di metafore che attraverso similitudini: [...] a coloro che son gagliardamente presi da qualch'affetto, come da ira, da odio, da invidia, o simile, vien ad esser più accommodato l'uso delle metafore che delle
comparationi. Conciosiaché l'impeto di quegli affetti non lasci haver patientia a distender le comparationi, e ad usarvi arte intorno: ma ne sforzi a dir brevemente quello che stia nell'animo.*?!
In definitiva, il ricorso ad X per nominare Y non é solo un fatto di sostituzione del primo termine con il secondo: grazie alla metafora, infatti, «senza che si perda tempo in dire che la tal cosa sia come quell'altra, si nomina col nome di quell'altra,
come se fusse quella».*? Proprio il come se fusse quella rivela il principio identitario e non semplicemente sostitutivo che rende la figura cosi potenzialmente evocativa. Piccolomini si muove sulle tracce di Aristotele, ma non è escluso che egli avesse presente l’aggiornamento della teoria aristotelica fornito da Ermogene nel De inven-
400 Il carattere analitico e non spontaneo della similitudine è oggetto di un'attenta ricognizione da parte del commentatore in PiccoLomni, Annotationi, 122, p. 365: «[...] ricercandosi nelle comparationi maggior distendimento di parole che nelle metafore, e dovendosi a parte a parte far rincontro di tutto quello che si descrive e si spone nella cosa donde si toglie la comparatione, e applicarlo ornatamente ed ordinatamente alla cosa che comparar vogliamo; non è dubio ch'essendo gli ornamenti e li ripulimenti del parlare più proprii del poeta che dell'oratore, parimente le immagini saranno maggiormente sue domestiche: posciaché quel dire che l'una cosa sia simile ad un'altra, e il mostrar in che sian simili, porge inditio che colui che questo dice habbia consideratamente ponderato così fatta somiglianza: e per conseguente maggiore studio e artifitio si presumme che ci habbia usato. Dove che nella metafora può più agevolmente colui che l'usa parere ch'improvisamente e senz havervi pensato et fattovi studio sopra, habbia chiamato una cosa col nome d'un'altra per la somiglianza ch'all'improvista habbia conosciuto esser tra di loro». 401 /bidem. 402 Ibidem.
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tione, testo ampiamente diffuso nel Cinquecento. Come ha mostrato Michel Patillon,
Ermogene evidenzia l'ambivalenza semantica della parola metaforica, interpretando la sostituzione di X con Y come compresenza di X ed Y laddove l’uno sia utilizzato
al posto dell’altro.?® Sullo sfondo di un ambiente culturale come quello gravitante intorno a Padova
nella metà del Cinquecento, in cui i fatti di poetica sono intesi e codificati non solo con un approccio retorico tradizionale, ma anche logico-dialettico, la posizione di Piccolomini è caratterizzata da una forte esigenza di ordine che non disconosce le specificità e le esigenze dei diversi linguaggi. Il sistema aristotelico, unitamente
alla tradizione umanistica, gli offre lo spunto per far slittare progressivamente la facoltà poetica nell’ambito della filosofia, ma senza dichiararlo in modo esplicito. La lettura capillare che il senese fa della Poetica e della fetorica gli consente
infatti di definire minuziosamente i vari aspetti della poesia, giudicandola arte eccellentissima, antichissima e di grande utilità nella storia dell'uomo. Ogni volta che egli si trova però a dover giustificare gnoseologicamente la funzione della for-
ma poetica, la convinzione che il dominio dello scibile passi dapprima attraverso la competenza del filosofo fa sì che la garanzia del ‘sapere’ poetico possa essere offerta solo da quello filosofico. Questo succede per l'imitazione poetica in generale e, a maggior ragione, per la
metafora, della quale Piccolomini sembra intuire acutamente le potenzialità espressive e conoscitive. Azzardando un parallelismo tra il piano delle res e quello dei verba su cui potrebbe essere fruttuoso indagare, il diletto provocato dal parlar metaforico può essere accostato a quello suscitato, sul piano dei contenuti, dal confronto del pubblico con il meraviglioso. La metafora opera, come si è visto, sull'inusuale e possibilmente inusitato accostamento di termini diversi che si colloca, proprio come
il meraviglioso, fuori dall’«uso ordinario e consueto delle cose».*?* In un momento in cui la separazione tra res e verba si acuisce sempre di più, Piccolomini sembra voler evitare che la distanza tra i due ambiti si radicalizzi. Giacché per il filosofo senese la metafora non è solo fatto verbale, ma mantiene un raccordo
con le cose (ed è questo che le permette di essere uno strumento di conoscenza), il legame tra i vari piani della creazione poetica si rafforza anziché affievolirsi. Con
403 Herm., De inv. IV, 10. Cfr. l'ed. Hermocène, L'art rhétorique, a c. di M. Patillon, Paris, L'Àge de l'homme,
1997, pp. 306-308; in particolare p. 306, n. 3: «dans son emploi métaphorique le nom s'intégre, ici, maintenant, aux deux sujets. En d'autres termes il renvoie simultanément à deux modeles référentiels étrangers l'un à l'autre.
D'oü un enrichissement polysémique dans ce contexte du nom métaphorique et un tension dans le discours». Si veda anche M. PariLLon, La théorie du discours chez Hermogène le Rhéteur. Essai sur la structure de la rhétorique
ancienne, Paris, Les Belles Lettres, 1988, pp. 314-319: Gumorizzi-Beta, La metafora cit., pp. 201-202. Sull'importanza di Ermogene nel Rinascimento, cfr. A.M. ParrERSON, Hermogenes in the Renaissance: Seven Ideas of
Style, Princeton, Princeton University Press, 1970. 404 Annotationi, 132, p. 387.
l'idea che la metafora sia una forma privilegiata di imitazione poetica, dotata di una notevole potenzialità conoscitiva, è infatti possibile prevenire gli esiti più spre-
giudicati del concettismo barocco facendo leva proprio sul legame tra significato e significante, razionalisticamente considerato da Piccolomini come imprescindibile in qualsiasi atto di comunicazione linguistica?
405 L'interesse della posizione di Alessandro Piccolomini risiede anche nel suo non essere isolata: spazio ben più ampio meriterebbe un riesame della teoria della metafora applicata a generi letterari e para-letterari come il gioco da veglia, l'impresa o l'emblema, centrali nella cultura accademica senese — e non solo senese — di secondo Cinquecento. Basti qui ricordare la ricchezza di spunti offerti in tal senso dall’opera di Scipione Bargagli, del quale andranno almeno chiamati in causa / Trattenimentt (oggi accessibili nella pregevole edizione curata da L. Riccò, Roma, Salerno ed., 1989) e, soprattutto, il trattato Delle imprese, pubblicato a Venezia per Francesco de’ Franceschi nel 1594, ma composto a partire dagli anni Settanta (La prima parte dell'imprese usciva a Siena, presso Luca Bonetti, già nel 1578). L'importanza del nesso che si stringe intorno alla riflessione intronatica sulla metafora coinvolgendo in primis Bargagli e Piccolomini, è stata evidenziata da C. Vernizzi, La metafora tra gioco e impresa, in «Intersezioni», XV (1995), 2, pp. 217-243.
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NOTA AL TESTO
1. Il manoscritto
Il commento di Alessandro Piccolomini agli opera omnia di Orazio, di cui le Annotationes quaedam super Artem Poeticam costituiscono l’ultima sezione, è conservato da un unico testimone:
Stena, Biblioteca Comunale degli Intronati, ms. H.VII.25' Cart.: ottavo decennio del XVI sec. (entro il 1578); max. mm. 300x215: cc. II +
168 + IV: numerazione originale per fascicoli; cartulazione progressiva più tarda in cifre arabe; il codice è formato da 16 fascicoli: 6 quin. A-r; 1 sen. c; 7 quin. 4-c; 1
sen. H; 1 sett. *; interamente autografo di Alessandro Piccolomini; legatura in pergamena coeva (mm. 306x223) con due titolature sul dorso: «Piccol: |Alex |in |Horat:» e, di difficile lettura nel senso della lunghezza, «Ales: Piccolom: [ . ]».? Nel risvolto di guardia anteriore datazione al secolo ed indicazione del numero delle carte che non tiene conto di quelle bianche: «Sec. XVI. c. 136»? A c. Ir il titolo
1 Dell'autografo piccolominiano si ha notizia in L. ILARI, Indice per materie della Biblioteca comunale di Siena,
Siena, Tipografia all’insegna dell’ancora, 1844-1848, vol. I, p. 290: «Piccolomini Alexandri, Annotationes in Horatium. Ms. cartaceo autografo, in foglio di c. 136. Sec. XVI. Vi sono altre carte bianche intermedie che non sono state comprese nel sudd. numero. — H.VII.25 —». Cfr. anche P.O. KrisreLLER, /ter italicum, London-Leiden, The
Warburg Institute-Brill, 1963-1997, vol. II [1977], p. 154: «H VII 25. s. XVI. Id. [Aless. Piccolomini, ndr] annotationes in carmina Horatii. Cfr. Ilari I, 290». AI codice fa riferimento M. Rossi, Le opere letterarie di Alessandro
Piccolomini, «Bullettino senese di storia patria», XVIII (1911), pp. 3-53 (28): la studiosa colloca le Annotationes intorno al 1574 in virtù di un cenno che ad esse fa Scipione Bargagli nell’Oratione nella morte del reverendissimo Mons. Alessandro Piccolomini (Bologna, Giovanni Rossi, 1579). Il ms. è citato, ma senza ulteriori specificazioni,
in F. Cerreta, Alessandro Piccolomini letterato e filosofo senese del Cinquecento, Siena, Accademia degli Intronati, 1961, pp. 95 n.6, 130 n.8; e G. Bassi, Osservazioni su Alessandro Piccolomini come «pensatore politico», «Bullet-
tino senese di storia patria», LXVIII (1961), pp. 129-170 (170). Si veda infine R. BeLLaponna, Astrologia, scienza e dialettica nelle Annotationes in Carmina Horatii di Alessandro Piccolomini, in «Critica letteraria», III (1975), 3, pp. 537-549, che non fornisce però descrizione del codice.
2 Il fatto che la numerazione dei fascicoli riprenda dal settimo, in concomitanza con l'inizio della sezione di commento dedicata ai Sermones, fa pensare che il codice riunisca due parti inizialmente separate, cui si aggiunge l'ultimo fascicolo
che, numerato diversamente dai precedenti, costituisce un'altra sezione autonoma (il commento all'Ars poetica). 3 Cfr. quanto riportato in Iranr, /ndice, cit., l, p. 290.
197
dell’opera in italiano: «Piccolomini Alessandro |Commento sopra Orazio», probabilmente posteriore all’acquisizione del ms. da parte della Biblioteca. A fondo pagina una nota datata attesta la donazione del codice da parte di Piccolomo Piccolomini alla Biblioteca: «Regalato alla Libreria dell’Università di Siena |dal Sig." Cav." Piccolomo Piccolomini |q(ues)sto di 8. Giugno 1765.».
L'esame delle filigrane non ha permesso di risolvere in modo univoco la questione della datazione del codice. L'ultimo fascicolo, che contiene le Annotationes
quaedam super Artem poeticam Horati, € identificato da una medesima filigrana (cc. 154, 157, 160, 162, 163, 165, 166) che compare almeno in altre 16 cc. del
ms. Si tratta di uno stemma con cinque mezze lune disposte a croce greca (1-3-1) che corrisponde allo stemma Piccolomini. La filigrana non è registrata da Briquet, ma si collega evidentemente ai tipi 5370-5380 in cui le cinque lune sono disposte a croce greca ed inscritte in una circonferenza. Essa puó dunque essere collocata cronologicamente tra il sesto e l'ottavo decennio del Cinquecento.* Tra le altre filigrane presenti nel codice, le uniche che sembra possibile accostare a filigrane registrate da Briquet sono: aquila incoronata (cfr. Briguer 95);? giglio inscritto in circonferenza sormontato da stella (molto simile a Briquer 7318, 7319);* cerchio sormontato da croce (molto simile a BriqueT 3041, 3049, 3050)." Si individuano inoltre un angelo orante in profilo (vagamente simile a Briquer 615), ed un agnello pasquale che non trova riscontri in Briquet. Il commento ad Orazio è così suddiviso all’interno del ms.:
I. Annotationes super Odas Horatit, cc. 1r-62v; Il. Epodon liber, cc. 603r-TOr; III. Annotationes super Sermones Horati, cc. T2r-115r; IV. 1. Liber epistolarum Primus, cc. 116r-140r;
2. Liber secundus epistolarum, cc. 144r-151r; V. In Carmine Seculari, c. 152r-v;
VI. Annotationes quaedam super Artem poeticam Horatii, cc. 155r-16 Tr. 4 Cfr. la nota introduttiva di C.M. Briquer (Les filigranes. Dictionnaire historique des marques du papier, Leip-
zig, Hiersemann, 1923) al tipo in questione: «Les cinq croissants disposés 1, 3, 1, ordinairement chargés sur une croix grecque et inscrits dans un cercle, pourraient étre des armoiries, peut-étre celles des Piccolomini. Les papes Pie II et Pie III ont frappé des monnaies dont l'empreinte rappelle beaucoup ce filigrane». Le filigrane raggruppate da Briquet in questa categoria sono testimoniate da codici di varia provenienza e datazione, ma con una significa-
tiva concentrazione in area napoletana nel decennio 1567-1577, molto probabilmente spiegabile con la presenza di un importante ramo della famiglia Piccolomini nel Ducato d' Amalfi (cfr. specialmente Briquer 5377 e 5378). L'unica filigrana che rappresenti uno stemma con cinque mezze lune, disposte però a T, è Briguer 1234 (Laibach, 1568, di provenienza veneziana).
5 Briquer 95 è una filigrana attestata Pisa 1566-1568. 6 Briquer 7318 e 7319 sono anch'esse attestate Pisa, rispettivamente 1581-1584, e 1592.
7 Briquer 3041, 3049, 3050 sono filigrane attestate rispettivamente Reggio Emilia 1580, Salò 1576 e 1578.
136
2. Criteri d’edizione
Avendo a disposizione l'autografo, e verificata per il momento l’irreperibilità di altri testimoni, l'edizione delle Annotationes non può che essere basata su
criteri conservativi.® Nella trascrizione del testo si è dunque scelto di mantenere alcune oscillazioni grafiche che caratterizzano l'usus dell'autore. È il caso dei dittonghi: si registra alternanza di -ae-/-e- nel prefisso prae-, nelle desinenze della prima declinazione. nel sostantivo scaena, nei lemmi equabilis/aequabilitas (114.1, 126.1, 159.2): analoga alternanza di -oe-/-e- in tragoedia e comoedia. infoelicitas/felicitas (209.2). Oscillazioni anche nella resa di velare davanti a -u-: al normale elocutio si alterna eloqutio (1.1, 24.1); più regolare l'uso di -quu- nei participi passati dei verbi composti di sequor (217.1: «consequuta»; 267.1: «con-
sequutus»; 267.2: «assequutus»).? Incerta anche la resa di idcirco, cui si alterna la forma assimilata iccirco («iccirco»: 1.6, 14.2, 234.7, 265.1, 281.8, 358.9; «idcir6034 200.1.351:1, 459.12." Costante l'uso della -m- geminata, probabilmente per attrazione della consuetudine volgare, nella resa di alcuni lemmi che ne sarebbero normalmente privi: immago per imago (59.1-3): le forme del verbo sumo («summere»: 148.6; «summit»: 132.9, 132.12, 182.1; «summat»: 42.2, 42.5, 240.9; «summendum»:
132.1; «summite»: 38, 42.2, 42.4; «summetur»: 146.1, 148.3; «summenda»:
148.3; «summen-
dam»: 240.1). con l'unica eccezione di 133.1 («sumuntur»); la forma «ommiserunt» (281.10) del verbo omutto:!! le forme del sostantivo drama e dell'aggettivo dramaticus («drammatica»: 82.1; «drammaticis»: 81.4, 251.2; «drammaticum»: 136.3; «drammatico»: 136.1; «drammata»: 82.4). L'oscillazione più vistosa di tale serie è però quella del sostantivo comoedia: a prescindere dal dittongo, in molti casi esso è
reso nelle forme commedia (82.1, 154.1, 189.1, 234.5), e commoedia (81.1, 82.3, 66.1, 86.3, 234.4, 281, 281.1). Il testo delle Annotationes così come ci è testimoniato dall'autografo si presenta
8 Per l'autografia del codice è dirimente il confronto con altri autografi piccolominiani come il ms. Stena, Biblioteca Comunale degli Intronati, H.VII.24, contenente la redazione manoscritta delle Annotationi nel libro della Poetica, pubblicate a Venezia nel 1575. L'affinità grafica tra i due codici può inoltre offrire un
ulteriore sostegno alla datazione che si è proposta per la stesura del commento oraziano testimoniata dal ms. H.VII.25.
9 La grafia -quu- nelle forme del participio passato dei composti di sequor (come in casi analoghi), è normale nel latino medio-umanistico. Cfr. le numerosissime occorrenze individuabili spogliando la sezione Medi Aevi Scripto-
res/ Recentior Latinitas della Library of Latin Texts
CLCLT-5.
10 La forma «iccirco» è tipica del latino medievale: valgano anche in questo caso le occorrenze numerose fornite
dal CLCLT-5.
11 Si tratta di consuetudini grafiche diffuse nel latino medievale: per immago cfr. già il MyrnocnaPnUs Varicanus I (1, 78, e I, 98) e Rapurenvs Grass, Historiarum libri quinque (V. iv, 24). Quanto alle voci di ommitto e summo. le
occorrenze individuabili nel CLCLT-5 (cfr. nota precedente) sono troppo numerose per un'esemplificazione.
139
ad uno stadio d’elaborazione avanzato, se non forse propriamente compiuto. hace curatezza dell'impaginazione, con i lemmi del testo oraziano in corpo maggiore e un margine abbastanza ampio sulla sinistra di ogni facciata, unitamente alla rigorosa
numerazione per fascicoli e ai rimandi tra una carta e l’altra, fanno infatti pensare ad una copia pronta (o quasi) per lo stampatore. Da un punto di vista testuale, l'autografo si caratterizza per la presenza di errori corretti dall’autore stesso, fra i quali una cospicua serie di anticipazioni che atte-
stano la presenza di almeno un antigrafo.? Gli interventi correttori sul testo delle Annotationes sono per lo piü ascrivibili alla fase di scrittura (Piccolomini, tendenzialmente, commette un errore, lo depenna e corregge di seguito), ma ci sono anche
interventi che risalgono ad una fase successiva di revisione del testo (lezioni depennate, aggiunte o correzioni in interlinea o in margine, ecc.).!* Gli unici interventi sul testo riguardano: la normalizzazione dell'uso di u/v, di
-ij in fine di parola e delle maiuscole; la regolarizzazione della punteggiatura; lo scioglimento delle abbreviazioni. Si rende conto nell'elenco seguente dei pochi errori
presenti nell'autografo piccolominiano. La lezione messa a testo è seguita dopo parentesi quadra chiusa da quella erronea testimoniata dal ms.: 45.2
laudabilia] laudibilia
59.3 dal
tamen potest etiam e converso accipi] tamen potest etiam e converso potest etiam accipi qualem] qualem quam
128. . ProprIE] PROPRIA 146.2 praeceptum) praecetum Sp iidem] eaedem 14 similem] similes 294.1
media] medi (integrazione di lacuna materiale per margine della carta usurato)
5.9
accessum ad commediam] accessum ad commedia
TT
ad inventionem] ad inventione
200.3
operae celeris] culpae celeris (correzione sulla base di AP, v. 261)
12 Come emerge dagli elementi forniti nel saggio introduttivo, la possibilità di datare materialmente il codice tra gli anni Sessanta e Settanta non esclude che le Annotationes possano essere un agglomerato di appunti stesi in un lasso di tempo più ampio: la natura non organica e non sistematica del lavoro, insieme ad alcuni dati contenutistici, permettono infatti di considerare alcune delle glosse oraziane come precedenti ai commenti piccolominiani alla Retorica (1565-69) e alla Poetica (1575) di Aststdtelon che, presentando anch'essi una notevole stratificazione di elementi, impongono di scorgere alle loro spalle un'elaborazione pluriennale. 13 Cfr. apparato: proem. 3, 23.1, 53.3, 86.4, 132.9, 136.1, 215.1, 218.1, 234.7, 259.2. 278.1, 281.6 (32941, 300.5.
14 Si fa riferimento alla distinzione tra Sofortvariante (varianti immediate) e Spátkorrekturen (varianti tardive)
proposta nell'ambito di una classificazione delle varianti d'autore in A. Srussr, Introduzione agli studi di filologia italiana, Bologna, il Mulino, 1994, pp. 182 sgg
140
22 8.8
lexis non recte] lexis non non recte natus est] natum est
2.2
Enim] Haec Enim
406.
Loncorum] Loncum
8.8 462.1
denuo] denuos Supple] Suple
sese] sesse
Nell'apparato critico si forniscono indicazioni sugli interventi correttori dell'autore, individuando dove possibile il processo genetico della singola lezione. Si è fatto uso dei seguenti diacritici:
[abc] — per testo di lettura incerta: [...] per testo illeggibile; «abc»
per testo integrato.
La paragrafatura sfrutta il rimando ai versi dell Ars poetica di Orazio che Piccolomini indica all'inizio di ogni glossa, ed è integrata con la suddivisione delle glosse
in sottoparagrafi con numerazione in cifre arabe tra parentesi quadre. I lemmi oraziani, in corpo maggiore nell’autografo, sono resi in maiuscoletto, e cosi le citazioni del testo all'interno delle singole annotazioni, usualmente contrassegnate da forcelle nel manoscritto.
3. Il testo dell’Ars poetica
Moltissime sono le edizioni cinquecentesche delle opere di Orazio e Piccolomini ha senza dubbio avuto modo di consultarne più di una. L'unica citata esplicitamente nella discussione di alcuni lemmi dell’Ars poetica è però quella di Aldo Manuzio,
stampata a Venezia nel 1501 e più volte ristampata nel corso del secolo.'^ Il confronto tra le porzioni del testo oraziano citate nel commento e l'aldina fa pensare che proprio l'edizione di Aldo costituisca il punto di riferimento primario per Piccolomini. Il commentatore approva la punteggiatura dell'edizione di Manuzio in relazione al v. 98 (cfr. Annotationes, 98.1-2) e accetta la lezione «auctoris» di 15 Laddove Piccolomini inizia a scrivere una parola, ma la depenna prima di terminarla, se possibile, si è integrata la porzione mancante al fine di rendere più chiara la natura dell'errore e, per alcuni dei casi di cui alla nota 13, l'anticipazione di un vocabolo.
16 La verifica sul testo di Aldo si è basata sulle ristampe del 1509 e del 1527 negli esemplari conservati presso la Biblioteca Universitaria di Pisa (rispettivamente S.R.6.44 e NN.f.237). Più vaghi i riferimenti ad altri testimoni: «ut legit Aldus et alii etiam codices» (Annotationes, 98.2); «ut legit Aldus et quampluria fidelia exemplaria» (ivi, 193.4).
141
Aldo al v. 193, problematicamente contrapposta alla variante «actoris» (cfr. Annotationes, 193.4), ma non esita a contestare Manuzio nella scelta della variante «iocis» al posto di «locis» per il v. 319 (cfr. Annotationes, 319.1). Ci si limita qui a segna-
lare che in almeno quattro casi il testo seguito da Piccolomini si discosta dall'aldina. Se al v. 23 la variante minima «denique sit quid vis»] «denique sit quod vis» non fa difficoltà (oltre ad essere abbondantemente attestata dalla tradizione, essa dipende dallo scioglimento non sempre univoco dell'abbreviazione per «quod»/«quid»), le lezioni adottate dall'umanista ai vv. 128, 369 e 396 non sembrano trovare riscontri
significativi nella tradizione testuale dell'Ars, e non stato ancora possibile individuare testimoni accessibili a Piccolomini che possano giustificarle:'? v. 128: Piccolomini legge «difficile est propria communia dicere» a fronte di una tradizione compatta che legge «proprie». Si tratta probabilmente di una svista per attrazione del neutro plurale «communia».!
v. 369: Piccolomini legge «consultus iuris et auctor», mentre in Aldo si trova
la lezione «actor» oggi messa a testo dagli editori. In questo caso la tradizione manoscritta dell'Ars non è compatta: Brink non registra varianti in apparato, ma la lezione «auctor» è segnalata nelle edizioni critiche Ritter (1956), Villeneuve (1927). Bo (1957). Dal momento che le prime edizioni a stampa di Orazio testimoniano la lezione «actor» (che qui non significa ‘attore’ in senso teatrale, ma ‘attore’ in senso giuridico), è improbabile che Piccolomini opti per una lezione periferica nella tradizione manoscritta, ed è più economico pensare ad una replica, effettuata forse per distrazione, della scelta di «auctor» contro «actor» al v. 193.
v. 3996: il lemma commentato da Piccolomini, «fuit haec sapientia prima» è isolato rispetto alla tradizione che legge «fuit haec sapientia quondam». Nessuna delle edizioni critiche dell Ars registra la variante «sapientia prima», di cui non sembra che ci sia traccia neppure nelle edizioni antiche. Per una trattazione più approfondita di tale
lezione e delle sue implicazioni critico-contenutistiche, si rinvia al cap. HI, $ 1. Nella trascrizione dei segmenti testuali oraziani si è utilizzato un criterio conser-
vativo, limitando gli interventi alla correzione di una svista palese al v. 406.20 17 Cfr. cap. II, $ 3, pp. 43-45. 18 Per una ricognizione sulla tradizione testuale dell'Ars, oltre ad uno spoglio delle edizioni antiche, si è fatto riferimento all’edizione critica di Brink.
19 Si è provveduto ad emendare: cfr. $ 2.
20 Piccolomini, omettendo probabilmente un segno di abbreviazione, scrive «et longum operum finis» per «et longorum operum finis». Che si tratti di una svista e non di una lezione alternativa è dimostrato dalla corretta interpretazione del verso nella glossa, nonché da ragioni di ordine prettamente metrico. Cfr. tavola degli errori
(82)
142
4. La traduzione
La traduzione italiana fornita a fronte del testo latino è puramente di servizio: data la natura dell'originale, spesso brachilogico, ripetitivo nelle sue forme e privo di
ricercatezze stilistiche, si è optato per una resa fedele, funzionale ad una più agevole lettura delle Annotationes. | lemmi oraziani, data la loro natura di segmenti testuali non autonomi, restano in latino. Il medesimo criterio si è utilizzato per le citazioni
dal testo dell’Ars all'interno delle annotazioni, proposte in traduzione solo quando concesso dalla natura della citazione e dal contesto. Per la resa dei termini tecnici del
lessico aristotelico, dopo una valutazione delle varie opzioni, si è scelto di seguire la terminologia adottata nella traduzione della Poetica di Guido Paduano.?!
21 AristoTELE, Poetica, traduzione e introduzione di G. Paduano, Roma-Bari, Laterza, 1998.
143
E 4
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lc. 155r| Annotationes quaedam super Ar-
Annotazioni sull Arte poetica di Orazio
tem poeticam Horatii
[proem.] [1] In hoc libro de Arte poetica maxime
animadvertendum
[proem.] [1] In questo libro sull'arte poetica occorre in particolar modo osservare che faticherebbe invano chi cercasse di interpretarlo cosi da voler disporre ordinatamente tutto e come se il volume fosse scritto in modo metodico.' [2] E infatti evidente che esso non fu
est quod qui
conabitur ita ipsum interpretari, ut continuare velit omnia ac si methodice scriptus
sit, frustra laborabit. [2] Nam planum est hunc librum non fuisse methodico scribendi genere scriptum, sicut scribi solent libri a philosophis scientifico quodam ordine doctrine, quales multos scripsit Aristoteles, inter quos librum etiam de
composto secondo un tipo di scrittura metodica, come sono scritti solitamente i libri
dai filosofi, ossia secondo un qualche ordine scientifico, come molti ne compose Aristotele, tra i quali anche il trattato sull’arte poetica. [3] Questo testo, invece, non è scritto da Orazio in veste di filosofo, ma quale poeta svincolato da un metodo continuativo ed ordinato, come è proprio dei filosofi: particolarmente esso è composto nello stile dei sermones, come fa Orazio in quest'opera, scrivendo quasi un'epistola satirica, mischiando precetti poetici con critiche rivolte a questa o quella persona, secondo il costume dei satiri. [4] In questo libro, dunque,
Arte poetica. [3] Verum hic liber scriptus est ab Horatio non tamquam philosopho, sed tamquam a poeta qui non cogitur ita
continuata, ac in ordinem digesta methodo, ut faciunt philosophi: praesertim cum sermonum, stilo scribitur, sicut facit in hoc
libro Horatius, quasi satyricam epistolam scribens, dum praecepta ad poesim pertinentia cum
reprehensionibus
huius vel
illius more satyrorum miscet. [4] In hoc igitur libro insunt quidem quamplurima praecepta ad artem poetarum spectan-
sono contenuti svariati precetti che riguar-
tia, et de omnibus pene partibus poeseos, tum ad qualitatem, tum ad quantitatem
dano l'arte dei poeti e quasi tutte le parti
pertinentibus; ortum etiam illius et augu-
quantità; tratta la sua nascita e la sua evolu-
mentum tangit et presertim ea persequitur quae tragediam, primariam poeseos spe-
la tragedia, il principale tra i generi poetici.
della poesia, inerenti ora la qualità, ora la zione, e in particolar modo ciò che riguarda
1 Sulla glossa proemiale e le implicazioni della riflessione piccolominiana su methodus e ordo, cfr. cap. I. 2 La matrice aristotelica della riflessione critica di Piccolomini, già individuabile nel riferimento alla Poetica, è rilevabile nell’applicazione delle categorie di ‘qualità’ e ‘quantità’ alla trattazione oraziana. Tale istanza, peraltro mai univoca, si affianca al tentativo di conciliarla con quella retorica di stampo ciceroniano. Quanto alla definizione di tragedia come «primaria poeseos species», cfr. la posizione assunta da Piccolomini stesso nel dibattito sulla
priorità del genere tragico su quello epico in Annotationi nel libro della Poetica d'Aristotele (Venezia, Giovanni Guarisco, 1575), 154-155, pp. 416-419 (d'ora in poi Annotationi). Commentando Arisr., Poet. 1462a 5 sgg., Piccolomini spiega che, a differenza dell'epica (che deve imitare a mezzo di parole e le parole e le azioni degli uomini), la tragedia ha la possibilità di imitare «con le parole le parole e con le attioni le attioni, o vogliam dir, con le cose le cose» (Annotationi, p. 417); la priorità del genere tragico è poi confermata dal fatto che esso reca un diletto più unitario: «[...] perché il diletto che reca la tragedia, per esser la sua favola più raccolta in uno, vien ad esser più raccolto e in un certo modo più ristretto insieme, che non è quello che reca l'epopeia; [...] ne segue da tutto questo ch'il diletto che nasce dalla tragedia venga più unito et più intenso negli animi degli ascoltatori e per conseguente maggiore, che non fa quello che nasce dall’epopeia» (ivi, p. 419).
145
ciem, tangunt. [5] Ita quod non multa ab
[5] Così che non sono molti gli argomenti di
Aristotele dicta sunt, quae vel prolixius, vel brevius non attingantur; sed alio ordine, non ita quidem methodico ac continua-
cui scrisse Aristotele che non siano toccati in modo ora più esteso, ora più cursorio, ma in
to, sed poetico et praecipue satyrico. [6] Miscet enim praecepta et modo ad qualitatis partes accedit, modo ad quantitatis, et dehinc ad qualitatem redit, modo hunc vel illum carpit, modo praecipit, modo tangit unum, dehinc relinquit digrediens
et alio in loco absolvit. [7] Poeta enim est in hoc libro, non philosophus; satis est quod quampauca praecepta demittit. [8] Et ita exponendus est liber hic: qui autem illum ad philosophicam et scientificam methodum et ordinem vi trahere voluisset, frustra conabitur, ac in quamplures angustias coarctabitur. Et hoc maxime di-
gnum est animadversione.
un altro ordine:? non così metodico e ordinato, ma poetico e, principalmente, satirico. [6] Orazio combina infatti i precetti; si accosta ora alle parti della qualità, ora a quelle della quantità, per tornare ancora alla qualità; ora
biasima questo o quello; ora insegna, adesso tocca una questione, poi la lascia per una digressione e la tratta altrove. [7] In questa sede, infatti, egli è poeta, non filosofo, ed è già abbastanza che tralasci solo pochissimi precetti.* [8] Questo libro deve essere esposto cosi: chi volesse invece ridurlo con la forza ad un metodo filosofico e scientifico e ad una trattazione ordinata, faticherebbe invano e
sarebbe stretto da molte difficoltà. E.questo è soprattutto degno di biasimo.
Linea p.* Humano carrrr etc. [1] Ab hoc principio, usque ad DENIQUE SIT QUIDVIS
v. 1 Humano carrri etc. [1] Dall'inizio fino
etc., si partes poeseos, inventionem scilicet, dispositionem et eloqutionem, considerare voluerimus, inventionem tangere dicemus
nere. [2] Si autem partes poeseos considerabimus, quas qualitatis vocat Aristoteles,
derare le parti della poesia, ovvero l’invenzione, la disposizione e l'elocuzione, diremo che qui Orazio tratta dell’invenzione ed espone i precetti che la riguardano. [2] Se invece considereremo le parti della poesia che Aristotele definisce ‘della qualità’, os-
videlicet fabulam, mores, sententiam, dic-
sia trama, caratteri, pensiero, dizione, qui
tionem, fabulam hic intelligemus ac circa
intenderemo la trama ed il precetto rela-
hic Horatium, ac circa illam praecepta po-
a DenIQuE stT QUIDVIS ete..® volendo consi-
3 Pur non pronunciandosi mai sui rapporti effettivi che legano l’Ars alla Poetica di Aristotele, Piccolomini condivide l’idea, diffusa lungo tutto il Cinquecento, di una derivazione diretta dell’epistola oraziana dal trattato greco. Anche per lui, dunque, la Poetica è il referente primario su cui basare un'analisi dei contenuti teorico-precettistici dell’Ars: molte sono infatti le glosse in cui Aristotele è esplicitamente chiamato in causa come auctoritas idonea a spiegare Orazio. Cfr. infra. 4 Che l'Ars non abbia alcuna pretesa di completezza è dimostrato dalla mancata trattazione di vari precetti poe-
tici. Anche in questo caso, la verifica di completezza è svolta in relazione alla Poetica di Aristotele. 5 La glossa proemiale si chiude con una nota polemica nei confronti di quegli interpreti che pretendono di ridurre l’epistola ai Pisoni ad una serie ordinata di precetti. L'impostazione esegetica presa di mira da Piccolomini è evidentemente quella della tradizione retorico-scolastica medievale e umanistica che, sulla scorta della trattatistica retorica latina, aveva estratto dall’Ars oraziana regole ben presto divenute canoniche. Su questi aspetti, cfr. cap.
I, 8 1, pp. 21-24.
6 Hor., Ars poetica (d'ora in poi AP), 23.
eius compositionem praeceptum:
quomo-
tivo alla sua composizione: ovvero in che modo essa debba essere una e semplice."
do videlicet una et simplex esse debet. [3]
Et quia in fabulae constitutione non ad-
[3] E poiché nella costruzione della trama
mittitur verum ut verum ut in historia, sed
non sono ammessi il vero come vero stori-
quatenus verisimile, et ideo etiam falsum
co — ma solo come verisimile —, il falso ed il finto — a meno che non siano verisimili — per questa ragione, affinché nessuno creda che possa essere accolto qualcosa di falso e finto, Orazio prescrive che si deve scegliere un falso conveniente e verisimile.
ipsum fictumque, dummodo verisimile sit,
ideo ne quis credat quodlibet falsum, et quodlibet figmentum posse recipi, ponit praeceptum dicens quod tale falsum debet eligi quod conveniens ac verisimile
sit. [4] Ita enim verisimile proprium est
[4] Il verisimile è infatti proprio dei poeti,
poetarum, ut potius admittere debeant falsum verisimile, quam verum ipsum
tanto che essi devono ammettere un falso verisimile piuttosto che un vero non verisimile." [5] Tutta questa sezione, dunque,
quod verisimile non sit. [5] Tota ergo haec pars usque ad DENIQUE SIT etc. potest et
fino à DENIQUE SIT etc., può e deve essere
debet ad inventionem applicari, et ad eam praecipue inventionis partem, quae fabu-
riferita all'invenzione, ed in particolar modo a quella parte dell'invenzione detta
la dicitur. [6] Mores enim et sententia ad
trama. [6] I caratteri, infatti, ed il pensiero
inventionem pertinent, de quibus nulla fit
attengono anch'essi all'invenzione, ma ad
hic mentio: et iccirco tutius est totum hoc
essi non si fa qui alcun cenno; é perció piü sicuro riferire tale precetto alla costruzione
praeceptum
ad fabulae
constitutionem
della trama. [7] Anche le stesse descrizioni,
applicare. [7] Descriptiones enim etiam et
7 Nonostante la reticenza a considerare l'Ars come un trattato, Piccolomini tenta una divisio textus flessibile, ma
significativa (cfr. cap. IL 8 3. pp. 45-46). I vv. 1-23 sarebbero pertanto dedicati all'inventio ovvero alla fabula: il commentatore da prima applica al testo la terminologia retorica latina (inventio, dispositio, elocutio), ma prospetta subito la possibilità di ‘tradurla’ nei termini aristotelici delle partes qualitatis (fabula, mores, sententia. dictio), per le quali cfr. Poet. 1449b 36-1450a 12 (e la relativa trattazione in Annotation, 39, pp. 111-112). Per una chiara applicazione all'ambito poetico della tripartizione retorica di matrice ciceroniana, cfr. l'esempio di B. DawigLLo, La poetica (Venezia, Giovan Antonio Nicolini da Sabio, 1536), oggi in Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, a c. di B. Weinberg. Bari, Laterza, 1970, I, p. 243. Quanto alla prescrizione che la «fabula» sia «una
et simplex», è d'obbligo il rimando ad Arisr., Poet. 1450b 21 sgg. e alla relativa trattazione dell'intero (tò óAov). Cfr. Annotationt, 47-51, pp. 124-136, in cui Piccolomini si sofferma ampiamente sull'unità della trama, le sue parti e gli episodi. Su questo aspetto cfr. anche Poet. 1451b 34-1452a 1, e relativo commento in Annotazioni, 56, p. 155-156, dove il filosofo tenta di fare chiarezza sui concetti di «favola», «favola semplice» e «una», «episodi»: «[...] Episodi sono le imitationi di quelle attioni che si fingon aggiunte e commodamente annesse e innestate alla primaria attione; [...] Favola dunque si suol assolutamente chiamare alle volte, non solo il connettimento e l'intessimento delle attioni, ch'intrinsecamente concorrono a quell'una attione, di cui l'imitatione propriamente si domanda favola; ma ancora quel composto che dai convenienti episodi risulta» (p. 155). Piccolomini offre una sintetica disamina dei «cinque modi», ossia delle cinque accezioni del termine «episodio», in Annotationi, 04, p.
187 (cfr. anche Annotationi, 90, pp. 252-253: 94, p. 259). Per le implicazioni dell'attributo «semplice» riferito alla trama, cfr. invece Annotationi, 69, pp. 198-199, ma anche 95, p. 200.
8 Come accade in altri contributi umanistici sull'Ars, Piccolomini affronta immediatamente la questione del verisimile: la libertà dei poeti, cui si riferiscono anche le Annotationes 8 e 11, è discussa per esempio in modo esemplare in Josse Bape, In Terentium praenotamenta (in P. Terenti Apri Comedie a Guidone Juvenale explanate et a Jodoco Badio Ascensio annotate..., Lugduni, Trechsel, 1493: d'ora in poi Bap. Asc., Praen.), I, dove Ascensio commenta proprio i vv. 9-13 di AP. Sui rapporti tra vero, falso e verisimile nella poetica piccolominiana, cfr. cap. V, 8 1-2, pp. 107-120.
147
ipsae inventionem
respiciunt, et quamvis
fabulae partes non sint, tam ita conspici debent ut fabulam respiciant, illique quadrare possint; et ideo, quamvis descriptio-
nes tangat, tam in hoc fabulae compositionem non neglexit. Et idem dicendum
infatti, riguardano l'invenzione, e sebbene non siano parte della trama, devono essere
considerate in modo da potersi legare coerentemente ad essa; pertanto, sebbene tratti delle descrizioni, Orazio non ha trascurato
est de episodiis.
la composizione della trama. E lo stesso va detto per quanto riguarda gli episodi.
|c. 155v| 8. Ur NEC PES, NEC capUT etc. [1] Non damnat peccatum in dispositione (ut
8. Ur nec Pes NEc caPUT etc. [1] Quando pone le membra del mostro in quei luoghi,
aliqui volunt) cum membra suis in locis
non condanna un errore nella disposizione
collocet in monstro: sed inventionem damnat, praesertim fabulae constitutionem, cum membra diversarum specierum iungat in ipso monstro.
(come sostengono
alcuni): congiungendo
nel medesimo mostro membra di specie diverse, biasima l’invenzione e, in particolar
modo, la costruzione della trama.
scit veniam, quasi peccatum sit audere, sed
11. Scimus, ET Hanc veNnIaM etc. [1] Non chiede licenza, come se prendersi delle li-
petit ut id concedatur; hac lege tamen ut
bertà sia un errore, ma chiede che ciò sia
11. Scimus, ET HANC vENIAM etc. [1] Non po-
concesso, a patto che, tuttavia, non si uni-
non coeant immitia.
scano animali feroci con i domestici. 10
locum hunc intelligunt, non ob id inven-
14. IvcEPTIS cRAvIBUS etc. [1] Si trattiene ancora sull'invenzione. [2] Chi intende invece questo luogo in riferimento agli episo-
tionem
di, non per questo non tocca l'invenzione;
14. InceprIs cRAviBUS etc. [1] Perstat adhuc in inventione. [2] Qui autem de episodiis non
tangunt;
episodia enim
sunt
9 Che l'immagine del mostro riguardi l'ambito dell'invenzione e non quello della disposizione significa ricondurre l'effettiva collocazione delle parti della fabula all'atto inventivo della sua costruzione. La gestione di episodi, digressioni e descrizioni rispetto alla linea principale del racconto poetico, che pure puó essere considerata un fatto di ordo, è intesa da Piccolomini come inerente alla fase dell'inventio. La formula parentetica «ut aliqui volunt» si riferisce — in modo probabilmente generico — agli interpreti che legano l'immagine del mostro alla disposizione: l'ambiguità della questione emerge del resto già nella stringata glossa di Ps.-Acn., ad /oc., ma la considerazione dell'incipit oraziano in termini di disposizione sembra essere soprattutto tipica dell'esegesi medievale. Fra gli innumerevoli esempi, cfr. Marerta, 1-8, che considera l'immagine del mostro come rappresentativa del primo dei sei errori poetici ricavabili dalla trattazione oraziana, ossia la «partium incongrua positio» (cfr. ivi, accessus, 1). Per un inquadramento della posizione non sempre evidente che la dispositio assume tra le «partes poeseos», cfr. M.P. ELLeRo-M. Resmori, Breve manuale di retorica, Firenze, Sansoni, 2001, pp. 47-66 (bibliografia specifica a p. 66). 10 La glossa al v. 11 è esempio emblematico del modo in cui il commentatore si rapporta al testo commentato:
laddove, subito dopo i vv. 9-10 («Pictoribus atque poetis / quidlibet audendi semper fuit aequa potestas») ci si aspetterebbe un'annotazione relativa alla licenza dei poeti e dei pittori, tema suggestivo e caro a tanta riflessione
critica sull'ut pictura poésis, Piccolomini si preoccupa semplicemente di chiarire la lettera del testo. L'ambiguità del verbo «petimus» al v. 11, riferibile tanto al ‘critico’ quanto al poeta, era del resto già indicata da Ps.-Acr., ad loc.: «Sicut nos licentiam concedimus aliis scribere, ita nobis petimus licere. Petimus, quasi poetae, damus, quasi critici»; e a proposito del v. 12: «Ita debemus habere licentiam scribendi, et sic debent esse artificiosa poemata, ut non mitia adiungantur asperis immoderate».
partes fabulae, et iccirco ad inventionem pertinent.
eli episodi sono infatti parte della trama e riguardano pertanto l'invenzione. Hi
16. Assurrur Pannus. [1] Tunc assuitur cum describitur lucus.
16. Assurrur Pannus. [1] Il panno è cucito insieme quando viene descritto il bosco. 12
16. Assurrur
16. Assurrur pannus. [2] Sebbene, infatti, la porpora risplenda e sia di grande pregio, tuttavia, se un uomo di nobile aspetto che indossi una veste scura vi applica alcune bende color porpora, sarà ridicolo: non perché le bende purpuree non rifulgano e, indossate, non rechino di per sé diletto, ma perché
enim
purpura
pPannus
etc.
splendeat
[2] Quamvis ac
magni
sit
praecii, tam, si quis vir gravis pulla veste indutus, fasciolas quasdam purpureas assueret, ridiculus evadet. non quia pur-
pureae fasciolae non splendeant, ac per se sumptae non delectent, sed quia altae
non convengono ad una veste nobile e ad un
vesti, viroque eius aetatis et gravitatis non conveniunt. [3] Sic etiam perpolitae ac venustae poetarum descriptiones, pro-
uomo di quell’età e nobiltà.!* [3] Così anche le raffinate e graziose descrizioni dei poeti,
lixae ac iucunditatis plenae, quamvis per se sumptae delectationem afferre possint, tam si in materia quadam gravi et in poe-
estese e piene di diletto, benché possano recare piacere di per sé. tuttavia, se non inserite a tempo e luogo in una materia solenne e in
mate grande non suo loco ac tempore po-
un’opera poetica elevata, non saranno confacenti all'impianto grandioso della materia e perciò risulteranno ridicole.'* [4] Intenderei
nantur, maiestati materiae non convenient
et ob id ridiculae evadent. [4] Descrip-
11 Aulo Giano Parrasio individua qui un passaggio alla dispositio: «recte post totius operis convenientiam dispositionem ordinemque collocat» (Parr., ad loc.. in Quin. Horati FLacci poetae Venusini Omnia poemata, Venezia, Girolamo Scoto, 1544). Fra i commentatori che intendono i vv. 14 sgg. come inerenti gli episodi, V. Macci, In Horatii librum de arte Poetica interpretatio (Venezia, Vincenzo Valgrisi, 1550), p. 331: «Egit, ut diximus, Horatius de fabula: nunc vero de episodiis, hoc est egressionibus, verba facit: eos damnans, qui illis prave utuntur. li enim cum de gravibus, magnisque rebus scribere sint aggressi, ut legentium animos aliqua varietate recreare possint, pulchras quidem et quae magnopere delectent, digressiones afferunt: exempli causa, lucorum, amniumque, et huiusmodi descriptiones. Sed cum propositae rei non satis conveniunt, parum prudenter id faciunt. Non enim, quia tantum pulchrae sint, sed quia conveniant rei, qua de agitur, et aptae sint, interpositae digressiones potissimum laudantur». Sulla pertinenza degli episodi all'ambito dell'invenzione cfr. Annotationes, 1.7. Che nella tradizione esegetica oraziana i vv. 14 sgg. siano intesi come riferiti agli ‘annessi’ della fabula, non all’inventio in sé, è attestato da Ps.-Acr., ad loc.: «Docet, non inportune inducendam esse parabolam aut descriptionem», che stabilisce di fatto un'analogia tra episodi e descrizioni sul piano della struttura del racconto. Cfr. anche Annotationes, 16.3-5. 12 La stringata glossa di Piccolomini mira a svelare la metafora oraziana individuando nella descrizione del bosco l'elemento ‘annesso’ alla fabula. Segue un approfondimento nell’annotazione successiva, ancora dedicata al v. 16. 13 L'immagine del «vir gravis» reso ridicolo da strisce di seta applicate all'«alta» veste propria del suo rango, anche in G. De Norrs, /n Epistolam Q. Horatii Flacci de arte poetica interpretatio (Venezia, Andrea Arrivabene, 1553), c. 10r, che aggiunge una gustosa nota attualizzante: «Purpureus: Qui pannus licet purpureus sit, e coloreque ipso per se splendeat, adhibitus tamen inceptis gravibus, tanquam graviori alicuius primarii viri vestimento. gravitatem imminuit. Quis enim non derideat, si vestibus, quibus Venetiis utuntur nobiliores, quae gravitatis quiddam habent, variorum colorum ornamenta assuantur? ». 14 Per l'esempio della veste cui vengono applicate ridicole bende, cfr. DanteLLo, La Poetica cit., pp. 249-250:
«Ora, come sarebbe egli possibile che voi di ridere vi poteste astenere se voi vedeste un uomo d'anni e d'auttorità
149
tiones ergo hoc in loco intelligerem, non digressiones et episodia; exempla enim de
pertanto in questo luogo le descrizioni, non le digressioni e gli episodi; gli esempi del
luco Dianae, de aqua properanti, magis videntur descriptiones innuere quam epi-
bosco sacro a Diana e dei ruscelli sembrano
sodia. [5] De quibus tam si locum hune
episodi. [5] Peraltro, se volessimo intendere
alludere, infatti, più alle descrizioni che agli
intelligere velimus, poterit etiam ad ipsa
questo luogo come riferito agli episodi, esso
accomodari, ut episodia non extranea ab ipsa fabula, sed ipsi aptabilia ac credibilia
potrebbe essere loro assegnato allo scopo di
invenienda doceat.
trovati estranei alla trama stessa, ma adatta-
insegnare che gli episodi non devono essere
bili ad essa e credibili.!° 23. Denique
sit qupvis
etc.
23. DeniQue sit QUIDVIS etc. [1] Riepiloga il precetto già posto; tutto ciò che è stato detto precedentemente, dall’inizio fino a qui, tende infatti a questo, ossia all’unità della
[1] Colligit
praeceptum iam positum; ad hoc enim cun-
cta tendunt, quae superius ab initio, usque in hunc locum posita sunt, ad unitatem scilicet fabulae.
trama.!”
grave sovra gli altri senatori della nostra republica stimato, con una di quelle veste in dosso che essi usano di portare le cui estremità fossero poi d’oro e di seta o di diversi colori riccamente ricamate e fregiate? Certissimo mi rendo che voi in niuna maniera ritenervene potreste già mai. Sia dunque, figliuoli, quella materia che di trattar intendete (come io vi ho pur dianzi detto) quella istessa sempre dal cominciamento insino al fine». 15 Sul senso che assume la critica alle descrizioni digressive nella concezione della poetica oraziana, cfr. il commento di Brin, ad loc. (Horace on Poetry. The us poetica", Cambridge, Cambridge University Press, 1971,
pp. 95-96). Il «describitur» del v. 18 sembrerebbe d'altronde Ue
chei vv. 14.sgg. debbano riferirsi alle
descrizioni. BrINK, p. 98, sottolinea la valenza retorica della descriptio, per cui cfr. almeno Cic.. De or. III, 205 e Quir., Inst. or., IX, 2, 40 sgg. 16 E importante sottolineare la specificità d'uso di «invenienda», giacché esso conferma la pertinenza, secondo Piccolomini, della riflessione sugli episodi all'ambito dell'inventio, evidenziando la priorità che l'interprete
assegna alla prima fase della composizione poetica. Le oscillazioni nella considerazione, da parte dei commentatori, di descrizioni, digressioni ed episodi conferma la loro natura comune di elementi ‘annessi’ alla fabula
e pertinenti all'inventio. Importante la richiesta che gli episodi siano «adattabili» alla fabula (ossia coerenti con essa) e soprattutto «credibili». Sulla riflessione di Piccolomini intorno al ‘credibile’ poetico, cfr. cap. V.
81-2, pp. 107-120. 17 L'unità della fabula è in effetti uno dei temi più cari a Piccolomini, ed è connesso alla gestione degli episodi e delle ‘parti’ dell’opera poetica. Si tratta di una questione affrontata a più riprese nel commento alla Poetica aristotelica, nonché dirimente ai fini della classificazione gerarchica di tragedia ed epica; fra i molti passi si veda almeno il riepilogativo Annotationi, 150, pp. 419-420: «Essendo l’unità di quella importantia all'essentia et alla perfettion d'un poema [...]; non è parimente di poco momento a far conoscer qual sia migliore, o la tragica poesia, o l'epopeia, il vedere in qual di loro maggior unità si ritruovi». La particella aristotelica commentata (Poet. 1462b 3 sgg.) conferma, secondo Piccolomini, che «minor unità si truovi nell'epopeia che nella tragedia;
e per conseguente venga la tragedia ad esser migliore di quella» (ivi, p. 420). Sulla priorità tragica, cfr. Annotationes, proem., 4 («primaria poeses species»); anche G.G. Trissino (La quinta e la sesta divisione della poetica. in Trattati di poetica e retorica cit., Il, p 56) accordava alla tragedia il privilegio dell'unità. Sull'unità della
fabula Piccolomini richiama l'attenzione già in Annotationes, 1.2, con la formula oraziana «una et simplex».I termini aristotelici implicati da «unum» sono tò £v e tò 6Aov; «simplex», che si contrappone all’accezione negativa di «varium», specifica «unum». L'annotazione successiva (24), che critica l'eccesso di varietas, We l'adesione del commentatore a tale linea. Per «totum», cfr. anche Annotationes, 34.1.
150
24. Maxima pars vaTUM etc. [1] Quamplures
24. Maxima pars vaTUM etc. [1] Molti riten-
exponunt ut sit praeceptum de eloqutione, seu de lexi, vel dictione; sed mihi videtur adhuc persistere in inventione et fabula, ac reddere causam, quare circa illam peccare
gono che sia un precetto inerente l'elocuzione, ossia la lexis, ovvero la dizione;'? ma a me sembra che tratti ancora di invenzione e
soleant qui peccant; et est quia decipiun-
liti commettere errori riguardo ad essa coloro che errano; ed è perché sono ingannati
trama, spiegando il motivo per cui sono so-
tur specie recti. [2] Cum enim variatio ipsa per se laudabilis sit, dum variare nimis cu-
dall'apparenza del giusto. [2] Nonostante la
pimus, monstra et prodigia facimus, quippe qui extremum in hoc sequimur. Nam
varietà sia lodevole di per sé, quando desideriamo variare troppo, giungendo al limite estremo, creiamo mostri e assurdità. Una varietà eccessiva e infatti fuori del naturale.
nimia variatio evadit monstruosa.
[3] Et
quod hoc sit verum, quod scilicet decipia-
mur specie recti, affert plura exempla, in brevitate videlicet, in characteribus stili.
[3] E su quanto sia reale l'inganno ad opera dell'apparenza del giusto, il poeta adduce
quae
vari esempi relativi alla brevità e al carat-
quamvis
locutionem
tangant.
tam
hoc in loco ponuntur ut exempla ad confirmandum quod decipiamur specie recti. [4] Et haec deceptio est incauta quod monstra superius descripta fiant a poetis dum quaerunt variare (quod quidem in se laudabile
tere dello stile che, pur riguardando l’elo-
est); sed dum nimium variant, DELPHYNUM
tentativo di variare (cosa di per sé lodevole): ma quando variano troppo, «dipingono un delfino in un bosco ecc.».!°
cuzione, sono presentati in questo luogo a conferma del nostro errore. [4] Questo inganno è rischioso: le mostruosità precedentemente descritte siano create dai poeti nel
APPINGUNT SYLVIS etc.
26. SECTANTEM LEVIA. [1] Levia, dulcia, iucunda; non enim tangit hic stili characterem sicut cum dehinc dicit PROFESSUS GRAN-
26. SECTANTEM LEVIA. [1] Levia, cose dolci, liete; infatti non tocca qui il carattere dello
DIA etc.
SUS GRANDIA etc.??
stile come quando in seguito scrive PROFES-
18 Anche in questo caso la polemica ha probabilmente come bersaglio il commento di Maggi che intende i vv. 24 sgg. come riferiti esplicitamente all'elocuzione: «Ostendit Horatius errores, qui circa fabulam, atque episodia contingunt: nunc eos, qui circa dictionem usu veniunt, tangit; ut ab illis cavere possimus: omniumque eorum
communem causam esse declarat, desyderium scilicet fugiendae culpae, carens arte» (Macci, In Horatii librum cit., p. 333). In linea con Maggi anche De Nonzs. /n Epistolam cit., c. 12r. Per l'uso del termine aristotelico «lexis», qui considerato sinonimo di elocutio, cfr. Poet. 1456b 20 ed il relativo commento in Annotationi, 99, p. 268: «La
parola Aé&c, della quale Aristotele si serve per una delle parti della tragedia, se bene in nostra lingua importa il
parlare, il sermone e simili; tuttavia mi è paruto meglio di chiamarla locutione. [...] la parola Aé&c, appresso degli scrittori dell’arte della retorica e della poetica, riguarda ugualmente e communemente il parlare, senza restringerlo
o a prosa o a verso». Piccolomini specifica ulteriormente il senso della traduzione volgare «locutione» spiegando in cosa differisca da «elocutione» intesa come parte della retorica: «La chiamo adunque locutione, non intendendo però una stessa cosa con la elocutione: essendo l’elocutione una delle parti della retorica e ancora della poetica, che si pone in numero con l’inventione e con la dispositione». 19 AP, 30: «Delphinum silvis adpingit, fluctibus aprum». Come altrove, le glosse di Piccolomini chiariscono il senso delle metafore oraziane senza rinunciare a formularle come tali.
20 I vv. 26-27 riguardano quindi, rispettivamente, le res («levia» fa riferimento alla materia), e lo stile («professus grandia» si riferisce all'elocutio).
151
lc. 1567] 29. Qui variare currr etc. [1] Ad
29, Qui variare cuPIT etc. [1] In questo er-
hanc
rore confluiscono, come esempi, i quattro
deceptionem
diriguntur,
tamquam
exempla, quatuor praecedentes deceptiones.
errori precedenti.
34. Quia PonERE TOTUM NESCIET. [1] Torum,
34. Quia PONERE TOTUM NESCIET. [1] Torum, ossia tutte le parti. [2] Ugualmente una trama le cui parti non siano senza difetti non
idest omnes partes. [2] Et ideo fabula, cuius aliqua pars non erit recta, tota etiam non erit laudabilis: sicut qui oculos, capillos et
alias partes non tam omnes habet laudabi-
les, quam videlicet non nasum, tunc totus non poterit laudabilis esse. [3] Sic etiam et fabula requirit omnes partes perfectas, quarum una si non recta fuerit, tota a sua perfectione deficiet.
.
SO)
sarà interamente lodevole: così come chi
non ha gli occhi, i capelli e tutte le altre parti del corpo tanto lodevoli quanto, ad esempio, il naso, allora non potrà essere lodevole nella sua interezza. [3] Così anche la trama richiede tutte le parti perfette, e se anche solo una di esse non sarà priva di difetti,
tutta mancherà della propria perfezione.”
38. SuMMrTE MATERIAM etc. [1] Adhuc perstat
38. SUMMITE MATERIAM etc. [1] Si trattiene
in fabulae constitutione. [2] Sed hactenus
ancora sulla costruzione della trama. [2] Tuttavia fino a questo punto ha condanna-
damnavit peccata; nunc ostendit quomodo peccata illa possint evitari.
to gli errori; adesso mostra in che modo si
possano evitare.
41. Nec racuNDIA DESERET etc. [1] Dispo-
41. Nec rACUNDIA DESERET etc. [1] Tocca la
sitionem
sumpta occasione, de his dat praecepta:
disposizione e l'elocuzione e, colta l’occasione, fornisce precetti ad esse relativi: confu-
prepostere tamen, quia primum de ordine et de dispositione, et dehinc de facundia idest de elocutione.
e la disposizione, poi sulla facondia, ovvero sull'elocuzione.??
et elocutionem
tangit,
et hac
samente tuttavia, perché prima sull’ordine
2] Nel precetto poetico sulla variatio esposto ai vv. 29-31 («Qui variare cupit rem prodigaliter unam, / delphinum silvis adpingit, fluctibus aprum: / in vitium ducit culpae fugae, si caret arte») convergono i quattro esempi di errore esposti ai vv. 25-28: la brevitas che diventa fattore di oscurità («brevis esse laboro, / obscurus fio»); il venir meno dello spirito quando si cercano argomenti leggeri («sectantem levia nervi / deficiunt animique»); il sublime che diventa gonfio («professus grandia turget»); l'eccessiva timidezza che produce stile troppo basso («serpit humi tutus nimium timidusque procellae»).
22 Cfr. Bap. Asc., Praen., XXIII: «Ut vero totum opus decorum suum habeat, non satis est partes singulas bonas esse et artificiosas: sed oportet ut omnes inter se bonam habeant congruitatem decenterque cohereant. Sicut enim in picturis non esset satis facere bonum caput aut bonas manus aut etiam omnia membra seorsum accepta bona, nisi unius corporis formam debitam simul capiant. Ita non est satis ad bonum poema facere in aliquo genere bona carmina aut in uno stilo bene incipere: nisi in eodem bene proficiatur, et nisi tota structura cohereat». Dopo aver sottolineato l'importanza di ‘semplicità’ e ‘unità’ della fabula, Piccolomini esplicita adesso in che senso essa debba essere interamente perfetta. Per i termini puntualmente aristotelici della questione, cfr. Annotationes, 1.2, 23.1 e note relative
23 Una volta che il poeta si sia fatto carico di una materia idonea alle proprie possibilità, elocutio e dispositio verranno da sé: come spiega Piccolomini, Orazio associa qui i due termini («nec facundia deseret hunc nec lucidus
42. Orpinis Haec virtus.
[1] Notandum
42. Onpivis Haec virtus. [1] Occorre osser-
quod, meo quidem iudicio, Horatius a principio usque ad hunc locum, perstitit in inventione et praecipue in fabulae
vare che, almeno a mio avviso. Orazio si è
constitutione. [2] Primum enim damnavit
ne della trama. [2] Prima ha infatti condan-
peccata circa illam; dehinc docuit quomodo in illa non incidamus, ibi scilicet Sum-
nato gli errori ad essa pertinenti; in seguito
MITE. Si enim summetur materia etc. non
evenient illa monstra. [3] Cum autem id praecipiens dixerit quod si recte summetur materia, facillime dehinc sequitur facundia, idest bona elocutio, ac recta ordinis dispositio, ideo, sumpta hinc occasio-
ne, quia fecerat mentionem de elocutione et ordine, ideo statim addidit precepta circa utrumque, primum circa dispositio-
nem, ibi OrpINIS HaEc virtus, et dehinc de
elocutione. ibi In verBis ETIAM. [4] Usque
soffermato dall'inizio fino a questo luogo sull'invenzione e soprattutto sulla costruzio-
ha insegnato a non commetterli, dove scrive Summe.?* Se infatti si affronta il peso della materia, quegli aspetti che sono fuor di na-
tura non avranno luogo. [3] Dopo aver detto nel suo insegnamento che se si sceglie in modo ponderato la materia, assai facilmente
ne conseguono la facondia, ossia una buona elocuzione, ed una giusta disposizione dell'ordine; per questo — colta qui l'occasione — dopo aver fatto menzione dell'elocuzione e dell'ordine, subito aggiunge i precetti relativi ad entrambi, prima quelli sulla disposi-
circa inventionem, primum damnans pec-
zione (dove afferma OrpiNIS naEc VIRTUS)? poi quelli sull'elocuzione (dove dichiara IN
cata circa illam, dehinc causam reddens
VERBIS ETIAM).°° [4] Pertanto fino a suMwrTE
huiusmodi erratorum, ibi MAxIMA Pans. [5]
MATERIAM si e rivolto all'invenzione, condannando dapprima gli errori che la riguardano, spiegando poi la causa di tali errori dove
igitur ad SUMMITE MATERIAM, versatus est
Causa enim cur poetae in constituenda fabula conficiunt monstra faciuntque faest quia
scrive MAXIMA PARS." [5] La ragione infatti
decipiuntur specie recti. [6] Nam illa va-
bulam non simplicem et unam,
riatio et fictio, si recte se haberet, lauda-
per cui i poeti, nel costruire la trama, creano mostri e non la rendono semplice ed unita-
bilis esset, sed decipiuntur quia nimium variant. [7] Sicut etiam qui volunt esse
ria, è perché sono ingannati dall'apparenza del giusto. [6] Quella varietà e quella finzio-
breves, qui grandes, qui tenues, qui dul-
ne, d'altronde, se fossero ben congegnate,
ordo»), ma fornisce i precetti relativi in ordine *confuso'. Nella tradizione retorica la trattazione della dispositio segue normalmente quella dell’inventio, ma in Anrsr., het. IN, 13-19 viene dopo l'elocutio. Di fatto i due termini, come
Piccolomini mette, a più riprese, bene in luce, sono intimamente legati (ma cfr. già Quivr., /nst. or., HI, 3, 8-9). 24 AP,38-40: «Sumite materiam vestris, qui scribitis, aequam / viribus et versate diu, quid ferre recusent, / quid valeant umeri». 25 Il precetto relativo alla dispositio in AP, 42-45: «Ordinis haec virtus erit et venus, aut ego fallor /ut iam nunc dicat iam nunc debentia dici, / pleraque differat et praesens in tempus omittat. / Hoc amet, hoc spernat promissi
carminis auctor». Cfr. Annotationes, 43, con ulteriori specifiche sulla buona dispositio. 26 La sezione propriamente dedicata all'elocutio in AP, 46-48 e sgg.: «In verbis etiam tenuis cautusque serendis /
dixeris egregie, notum si callida verbum / reddiderit iunctura novum». Cfr. Annotationes, 46 e, per gli aspetti più
specifici cui fa riferimento Orazio, 53 e sgg.
27 AP, 24. È questo un altro esempio della divisio textus cui Piccolomini sottopone la parte iniziale dell’epistola. Cfr. cap. II, $ 3, pp. 45-40.
sarebbero lodevoli, ma i poeti si ingannano
ces, decipiuntur dum in laudabilium extrema labuntur.
poiché variano eccessivamente. [7] Così anche coloro che vogliono essere brevi, solenni, lievi, dolci, si ingannano quando portano al-
l'eccesso ciò che di per sé sarebbe lodevole. 45. Hoc amer, Hoc sPERNar. [1] Aliqui expo-
45. Hoc AMET, Hoc sPrRNaT. [1] Alcuni in-
nunt poetam ipsum debere ex propria sui
terpretano che il poeta stesso deve talvolta
persona quandoque suum iudicium in poe-
interporre in prima persona la propria opi-
mate interponere, ac quaedam laudare, quaedam vero damnare. Sed non adhereo
nione nell'opera poetica, lodando alcune
huic expositioni. [2] Praecipit enim Horatius
vido quest interpretazione." [2] Orazio raccomanda infatti che il poeta sia quanto mai
cose, condannandone altre. Ma non condi-
ut poeta diligentissimus sit in examinandis ac perfundendis omnibus, ita ut recte eligere sciat quae laudabilia sunt, demittere vero quae non adeo admittenda sunt.
diligente nell'esaminare e nel rivestire ogni argomento, cosi da saper scegliere corretta-
mente ciò che è degno di lode, tralasciando invece ciò che non deve essere accolto.?°
lc. 15600] 46. In verBis ETIAM. [1] Elocutio-
46. In verBis ETIAM. [1] Tocca in parte l'elo-
nem aliquantisper tangit ac de verbis innovandis praecipit, quomodo scilicet innovari
debeant, et quam cautus esse debeat poeta
cuzione?" e dà precetti sulle parole da rinnovare, ovvero sul modo in cui debbano essere rinnovate, e sulla cautela necessaria
in novis formandis verbis.
al poeta nelle neoformazioni.
scilicet artis. [2] Et in hoc consistit opti-
43. Ur 1am nunc picar etc. [1] DEBENTIA [«le cose da dire»]. ossia secondo l'ordine naturale; DIFFERAT [«rimandi»] ovvero secondo l'or-
ma dispositio, ut quid primum dici debeat,
dine artificiale?! [2] Proprio in questo con-
43. Ur 1M Nunc picaT etc. [1] DEBENTIA, ordine
scilicet naturae;
DIFFERAT,
ordine
28 Cfr, per esempio, Macer. In Horatii librum cit.. p. 335: «si non referantur ad superius dicta (quod mihi tamen magis placet) Horatium dicemus, ut suum huic parti hoc addidisse. poetam heoricum debere hoc amare, id est virtutes commendare: hoc vero spernere, vitia nimirum ipsa, quae sibi refellenda, ac vituperanda erunt». Anche in questo caso Piccolomini rivela come la sua preoccupazione principale nella lettura dell'epistola oraziana sia l'aderenza alla lettera del testo. 29 La necessità di saper omettere ciò che non merita di entrare nella fabula è condizione esemplarmente puntualiz-
zata da Ps.-Acr., ad loc.: «hoc eligat, hoc praetermittat poeta, ut non omnia, quae illi veniunt in mentem, dicat». 30 Inizia la sezione dell’Ars poetica dedicata all’elocutio (cfr. C. Lanpino, In Q. Horatii Flacci libros omnes interpretationes, Firenze, Miscomini, 1482, ad loc.: «Praeceperat de dispositione. Nunc nonnulla quae pertinent ad elocutionem»). L'opportunità della cautela nell'innovazione linguistica, peraltro ribadita nelle annotazioni successive, è già sostenuta in Ps.-Acn., ad loc.: «Si facienda sunt tibi nova verba, observa, ut ea dicas, quae placeant, et ea, quae habeant auctoritatem».
31 La glossa al v. 43 segue nel ms. quelle ai vv. 45 e 46: si tratta, con tutta probabilità, di un errore nella trascrizione delle Annotationes dall'antigrafo. La distinzione canonica tra «ordo naturae» e «ordo artis» si basa sulla distinzione tra gestione della materia narrativa in ambito poetico ed in ambito storiografico. Cfr. a titolo d'esempio, Bap. Asc., Praen., XXIII: «Ordo autem in poematibus est alius quam in hystoriis aut in aliis rebus.
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quid dehinc et quid deinceps ete. optime perspiciatur, ac poematis partes, tum in fabula, tum in episodiis, et in toto tandem poemate, recte collocentur.
siste un'ottima disposizione: che si esamini con somma cura quello che deve essere detto prima, quello che deve essere detto in conseguenza di ciò, e quello che occorre dire in seguito, ecc.; e siano correttamente disposte le
parti dell'opera, tanto nella trama quanto neeli episodi e, infine, in tutto il componimento.
53. GnaEco FONTE capant.
[1] In nomi-
53. Gnarco FONTE capant. [1] Nell'innovare
nibus innovandis debemus transportare ex Graeco sermone in Latinum verba, sed parce detorquendo; idest debemus totum nomen Graecum et aliquantisper detorquere et immutare,
i nomi dobbiamo trasportare le parole dalla
lingua greca alla latina, ma piegandole con moderazione; ovvero dobbiamo piegare un po e mutare tutto il nome greco, tuttavia non completamente, ma in modo che riceva
non penitus ta-
men, sed ut Latinum sonum accipiat. [2] Exempli gratia. si stellam novo nomine
il suono latino. [2] Per esempio, se vogliamo fregiare la stella di un nuovo nome, non è opportuno accogliere aster immutato, ossia la voce greca, ma con lieve innovazione dire-
decorare volumus, non aster integer, scilicet dictio Graeca, accipienda est, sed aliquatenus innovando astrum dicemus. [3] Quod autem quidam interpretantur parce detortum nomen, idest Latina desinentia terminatum, ac ex declinatione per casus
Latinorum
Grammaticis
mo astrum. [3] Che alcuni invece spieghino ‘nome dotato regole latini,
regulis subiec-
piegato con discrezione’ nel senso di di desinenza latina e sottomesso alle grammaticali per il tramite dei casi non soddisfa, perché ciò non sareb-
tum, non satisfacit, quia id non esset, ex
be ‘piegare da fonte greca”. [4] Se infatti il
Graeco fonte detorquere. [4] Si enim non
nome non fosse sottoposto alla grammatica latina, non sarebbe appunto un nuovo nome
subiiceretur nomen Latinae grammaticae, iam non esset novum nomen Latinum, sed
esset omnino Graecum.
latino, ma interamente greco. [5] Sulla desi-
[5] De termina-
tione igitur nominum non oportet ponere praeceptum, cum ex grammatica ipsa fieri
nenza dei nomi, dunque, non occorre fornire un precetto, poiché i lemmi latini devono essere ricavati sulla base della grammatica
debeant Latina. [6] Detorta igitur erunt nomina, si aliquatenus immutata fient. [7]
vati qualora vengano
Vel dic, PARCE DETORTA, idest non frequen-
misura.? [7] Ovvero puoi dire «piegati con
stessa. [6] I nomi, pertanto, saranno derimutati in una certa
Nam hystoriographi in rebus narrandis servant ordinem quo geste sunt. Poetee autem sepe a medio hystoriarum
incipiunt, nec omnia ut hystoriographi describunt ad longum, sed multa presupponunt aut paucis verbis tangunt». Chiara formulazione delle differenze che intercorrono tra ordine naturale e artificiale in A. Lionarpi, Dialogi della inventione poetica, in Trattati di poetica e retorica cit., Il, pp. 222, 252-253, 209.
32 Sull’acquisizione della desinenza latina da parte di un nome di origine greca, cfr. De Nonrs, /n Epistolam cit., c. 28r: «parce detorta: Nunc accedit ad verba de Graeco in Latinum, quae etiam nova sunt, cum iis incipimus uti, et
ad nostrum sermonem transferre [...] hoc enim est, quod ait parce detorquenda. Quod fit, cum Graeco nomini [...)
Latinam desinentiam attribuimus». Piccolomini illustra la dottrina oraziana dei neologismi anche glossando Arisr., Poet., 1457b 34-1458a 7 in Annotationi, 114, pp. 340-341: «Le parole di nuovo fatte non è difficil cosa il veder quali
siano, essendo tutte quelle che noi di nuovo sentiamo, non usate già mai da noi, né come proprie, né come forestiere, né in altra maniera alcuna, come quelle ch'il poeta stesso habbia di nuovo fatte. Et era questa licentia più largamente
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moderazione», ossia non spesso e non senza
ter et absque necessitate, sed cum necesse est. [8] Sed magis placet prior explanatio: nam quo ad posteriorem, iam dictum fueràt, LICENTIA SUMPTA PUDENTER.
necessità, ma solo quando è necessario. [8] E tuttavia preferibile la spiegazione preceden-
te; per quanto riguarda infatti la seconda, il concetto era già espresso dove Orazio scrive
LICENTIA SUMPTA PUDENTER.
est sicut immago
59. SIGNATUM. PRAESENTE NOTA etc. [1] «Con un impronta del presente», ossia con una nuova significazione; la significazione in un nome
[2] Quamvis enim e converso
è infatti come l'immagine su una moneta.”
59. SIGNATUM PRAESENTE NOTA etc. [1] PRAESENTE NOTA, idest nova significatione; significatio enim in nomine
in nummo.
[2] Sebbene infatti da un lato il nome sembri imposto alla significazione, ovvero alla cosa significata, come l'immagine è impressa sulla moneta, così, allo stesso modo in cui la moneta è valutata e stimata in base all'immagine, anche il significato della cosa è conosciuto attraverso il nome, dal momento che i nomi sono espressione di ciò che si prova; [3] tuttavia, dall'altro, può anche essere accolta
videatur significationi. seu rei significatae imponi nomen, sicut immago imponitur nummo, ita ut, sicut immagine perpenditur et estimatur nummus, sic et nomine dinoscitur rei significatus, cum nomina sint
passionum notae; [3] tamen potest etiam e converso accipi significatio in nomine loco
immaginis in nummo; dum volumus huic nomini attribui hanc significationem. Nota tamen hunc locum.
la significazione nel nome come l'immagine
sulla moneta, quando vogliamo che questa significazione sia attribuita a quel nome. Tieni tuttavia ben presente questo luogo.
conceduta in quel tempo a i poeti greci che non è oggi conceduta a i poeti nostri. Né s'ha da intendere o da pensar per questo che libera in tutto e senz'alcuna legge o conditione fusse la lor licentia in farlo. Con ciò fusse cosa che fusser astretti ad alcune avvertentie in formar nuove parole, che Horatio pone nella sua Poetica: com'a dire che le parole che si formasser di nuovo fusser parcamente piegate, e non lontane dal suono di quella lingua in cui si formano e altre conditioni ancora si ricercavano, che non importano all'intendimento di questo luogo». La trattazione piccolominia-
na nel commento aristotelico prosegue con la classificazione dei tre «modi utili a far nomi nuovi» (cfr. ibidem). 33 AP, 51. Con la consueta tendenza a razionalizzare l'interpretazione di un testo, Piccolomini dichiara di pre-
ferire la prima spiegazione perché la seconda è già contemplata dai vv. 48-51, laddove si riconosce la necessità di esprimere concetti antichi a mezzo di ‘segni’ nuovi («Si forte necesse est / indiciis monstrare recentibus abdita rerum»), a patto che essa sia soddisfatta con moderazione («fingere cinctutis non exaudita Cethegis / continget, dabiturque licentia sumpta pudenter»). 34 Per la metafora ‘numismatica’, cfr. Ps.-Acn., ad loc.: «Hoc nomen a nummis tractum est, quia nummi in nova
fusura iuvant inopiam. Praesente nota. ld est, notamine ipsius temporis, et praeter vetustatem». Come nota BRINK, p. 146, «in view of the frequent changes of the coin-face by the tresuiri monetales the metaphor is in point», e rimanda anche a Quiwr., [nst. or., I, 6, 3 per confermare l'uso dell'immagine del conio applicata alla formazione delle parole («consuetudo vero certissima loquendi magistra, utendumque plane sermone, ut nummo, cui publica forma est») 35 L'affermazione può essere chiarita sulla base di De Nonss, /n Epistolam cit., c. 29r: «praesente nota: praesentibus et novis nominibus. Nomina enim sunt notae, et indicia rerum, quibus tanquam notis designatae significantur,
quemadmodum nummorum pretia ex publica moneta. Verbis enim utendum esse ait Cicero, ut nummis, publica moneta, signatis».
36 L'acuta considerazione di Piccolomini sembra ventilare qui l'ipotesi del linguaggio metaforico. Per la sensibilità del commentatore verso le potenzialità dell'uso metaforico del linguaggio, cfr. cap. V, $ 3. pp. 120-135.
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70. Murra nENAscENTUR. [1] Nomina enim
69. Murra nENAsCENTUR. [1] I nomi che in-
quae iam vetustate periere, cum dehinc renascuntur, haberi debent pro novis no-
poi tornano in auge, devono essere conside-
minibus.
rati come nuovi.”
73. Res cesta.
fatti si sono estinti perché obsoleti, quando
[1] Numerorum seu me-
73. Res cESTAE. [1] I tipi di misura, ovvero
trorum genera ad lexim, hoc est ad elocu-
di metro, riguardano la /exis, ossia l'elocuzione, che Aristotele pone tra le parti della qualità. e non quella parte che egli chiama
tionem
pertinent,
quam
Aristoteles
inter
qualitatis partes ponit; non autem ad illam
partem quam rhitmum vocat. [2] Metrum
"ritmo". [2] Il metro, infatti, è una specie del
enim est rhitmi species.
ritmo.??
91. ET POPULARES VINCENTEM sTREPITUS. [1]
81. ET POPULARES VINCENTEM STREPITUS. [1] Le tragedie e le commedie scritte in metro diverso dal giambo non piacciono agli spettatori come quelle in giambi. [2] Per questa
tragediae et commoediae quae in alio genere
carminis
quam
iambico
scribuntur,
non ita spectatoribus placent sicut quam
iambico.
[2] Itaquod cum
scriptae alio
ragione lo strepito del popolo era placato con grandissima difficoltà quando si ascoltavano drammi composti in altro metro. [3] Al
carmine audiebantur. difficillime sedaba-
tur strepitus popularis. [3] E contra vero cum iambico metro percipiebantur, attentionem et favorem consequebantur. Vincit ergo iambus strepitus populares, hoc est illos sedat: adeo quod fabulae alio metro
contrario, quando si sentivano i giambi, esse
ottenevano attenzione e favore. Il giambo vince pertanto i clamori del popolo, ovvero li placa, tanto che i drammi composti in metro diverso venivano fischiati. [4] Lo strepito era dunque frenato da questo metro [il giambo]
compositae |c. 157r] pene exsibilabantur. [4] Sedabatur ergo hoc carmine strepitus et alio carmine excitabatur, propterea
e fomentato dagli altri, perché si tratta di
quod maxime conveniens est hic metrus drammaticis fabulis. Sic exponunt qui-
un metro massimamente adatto ai drammi.
dam. [5] Potest tam dici MNCENTEM sTREPI-
VINCENTEM STREPITUS, nel senso che, sebbene
TUS, idest quamvis sit aptus iambicus metrus alternis sermonibus et similis familiari colloquio, tamen non penitus humilis et pedestris est, sed fit etiam aliquid tumoris,
il giambo sia adatto ai dialoghi e simile alla
Così espongono alcuni. [5] Si può però dire
conversazione quotidiana, tuttavia non e totalmente umile e semplice, ma è anzi dotato di una qualche enfasi, al punto di poter vin-
37 Come ricorda FepeLi (Orazio, Epistole. L'arte poetica, testo critico di P. Fedeli, trad. di C. Carena, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 1997), ad loc., la riflessione oraziana sul ciclo vitale delle parole è da mettere in relazione con Cic., De or. III, 153 («inusitata sunt prisca fere ac vetustate ab usu cotidiani sermonis iam diu
intermissa, quae sunt poetarum licentiae liberiora quam nostrae»). Si tratta di tema caro ad Orazio, che vi torna in Epist. Il, 2, 115-118: «Obscurata diu populo bonus eruet atque / proferet in luciem speciosa vocabula rerum, / quae priscis memorata Catonibus atque Cethegis / nunc situs informis premit et deserta vetustas». 38 Sull'implicazione di ritmo e armonia nell'imitazione poetica, cfr. Annotationes, 211 e 251; ma anche Annota-
tioni, 2, p. 8. Per un'articolata definizione di "ritmo, cfr. Annotationi, 4, pp. 14-19. La distinzione ritmo/metro in Arist., Rhet. III, 1408b 33 sgg. Si vedano, a titolo di confronto, G.G. Trissino, La Poetica (I-II), in Trattati di poetica e retorica cit., I, pp. 44-45; A. SecnI, Lezioni intorno alla poesta, in Trattati di poetica e retorica cit., II, p. 7.
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cere e superare gli strepiti del popolo; ovvero possiede una sonorità maggiore della stessa
adeo quod vincere ac superare potest populares strepitus; hoc est maiorem sonum
habet, quam quotidianus ipse sermo. [6]
conversazione quotidiana. [6] Entrambe le
Utraque expositio admitti potest, sed haec
interpretazioni sono ammissibili, ma e pre-
potior.
feribile quest'ultima."
82. Er NATUM REBUS AGENDIS. [1] Solae enim
82. Er waruM mEBUS AGENDIS. [1] Solo la
tragedia et commedia sunt poemata penitus drammatica, actiones ipsas imitantia,
tragedia e la commedia sono infatti com-
ponimenti completamente drammatici che
sine aliqua anangelia seu narratione inter-
imitano le azioni stesse, senza alcuna anan-
posita. [2] Videntur ergo in illis res ipsae
gelia, ovvero narrazione interposta." [2] In questi generi teatrali si assiste dunque alla
agi, non exponi narrarique ut in epicis. [3] Cum autem actiones humanae fiant alternis sermonibus, tota enim vita ipsa communis alternis collocutionibus plena est;
rappresentazione delle azioni, che non sono
esposte o narrate come nel poema epico.?!
[3] Giacché le azioni umane si svolgono at-
ideo, quia in commoedia et tragedia vitam
traverso i dialoghi, tutta la stessa vita è piena
ipsam communem
sermonibus,
di comuni conversazioni; ugualmente, dato che nella commedia e nella tragedia imitiamo con l’azione proprio la vita comune, che
aptus etiam erit ipsis agendis rebus: ac-
è costituita di dialoghi, il giambo, quanto
tiones enim mutuis collocutionibus confi-
mai adatto a discorsi di tal genere, sarà anche adatto alle azioni da recitare: le azioni si confanno infatti alle conversazioni.
agendo imitamur, quae
alternis sermonibus ducitur, iambus, cum
sit aptissimus huiuscemodi
ciuntur.
39 L'idea che il giambo plachi i «populares strepitus» perché particolarmente adatto ai dialoghi si affianca alla consapevolezza che anche il più colloquiale e comune dei metri implica uno scarto rispetto alla reale conversazione quotidiana sufficiente ad imporsi sulla confusione della folla (cfr. Arisr., Poet. 1449a 24 sgg.: 1459a 12 sgg.: Cro.. De or. III, 182). Le due ipotesi ventilate da Piccolomini non sono contrapposte, ed anzi la sfumatura che le distingue è minima. Sembrano peraltro entrambe giustificabili da un'intepretazione come quella di Ps.-Acn. ad loc.: «et populares Vinc. strep. Altius sonantem in scena quam clamor populi. Tales enim strepitus excitat iste pes, ut vincat etiam populi clamores. vincentem. Quia iambus vincit clamores spectantium». Su questo verso cfr. Macr, In Horatii librum cit., pp. 338-339: «illud et populares Vincentem strepitus, nihil sane aliud significat, nisi populum ipsum hoc carminis genere maxime delectari. Unde fabula, quae hoc carmine continetur, magnum populi favorem, atque applausum lucratur. Vel forte et melius dicere possumus, iambum esse colloquiis, atque actionibus ipsis aptum, et vincere strepitus populares: quoniam maiorem habet consonantiam, quam sit quotidianis sermonis harmonia. Hanc enim popularem strepitum appellat, ut innuat iambum harmoniae plus habere quam, strepitus
popularis, hoc est, sermo quotidianus habeat». Per l’uso ricercato del verbo «exsibilo», cfr. le «exhibilationes» di cui parla ad loc. De Nonrs, In Epistolam cit., c. 34v. Sullo «strepitus popularis» si veda anche l'ironica descrizione della folla che frequenta i teatri romani in Hor., Epist. II, 1, 182 sgg., nonché la sintetica domanda retorica dei vv. 200-201: «Nam quae pervincere voces / evaluere sonum referunt quem nostra theatra?». 40 Per il termine greco anangelia, che Piccolomini traslittera in alfabeto latino, e che parafrasa «narratio in-
terposita», cfr. àvayyeMa, “annuncio”, dal verbo àavayyÉMo. ‘riportare notizie. riferire’: il commentatore intende evidentemente la narrazione in scena di fatti e vicende avvenuti fuori scena. Cfr. Annotationes. 184 sulla capacità che la parola ha di rendere ‘presenti’ le cose avvenute altrove.
41 La definizione dei generi drammatici si basa sulla tripartizione canonizzata in generi narrativi, drammatici e misti. Cfr. Ban. Asc., Praen., Il: «Nam graece quaedam dicuntur dramatica, quaedam exegematica et mixta. Dragmatica dicuntur latino vocabulo activa: hoc est imitativa seu representativa, in quibus poeta ipse nusquam
loquitur; sed introducit loquentes et rem ipsam agentes et representantes».
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82. Er NATUM REBUS AGENDIS. [4] Et ideo fa-
82. Er NarUM REBUS AGENDIS. [4] Per lo stes-
bulae tragicorum et comicorum drammata
vocantur, ex Graeca ethimologia, ab actionibus sumpta.
so motivo i componimenti dei poeti tragici e comici si chiamano ‘drammi’ secondo l'etimologia greca derivata dalle azioni.”
96. DescRIPTAS SERVARE vicrs etc. [1] Quia
86. DescRIPTAS sERVARE vices. [1] Poiché Ora-
dixit Horatius
zio ha affermato che il giambo è comune alla tragedia e alla commedia, qualcuno potrebbe avanzare dei dubbi e anzi ritenere che nulla ci sia di diverso in esse quanto al metro.
iambum
esse communem
tragediae et commoediae, posset quis ambigere, immo existimare nihil quo ad car-
men ipsum reperiri diversum in illis. [2] Ideo removet hoc ob id quod, quamvis sit
[2] Egli dissipa perciò tale dubbio: benché si
idem
iambicum carmen scilicet, tamen non so-
tratti dello stesso metro per quanto riguarda la misura, ovvero il giambo, tuttavia non è
lum opus est servare vices in metro eligen-
solamente
do. ut dixit, sed etiam curare debet poe-
assegnate nella scelta del metro, come ha
ta ne idem color maneat in ipso iambico
carmine in utroque hoc poemate. [3] Alio
detto, ma il poeta deve anche preoccuparsi che il verso giambico non conservi il medesi-
enim colore indiget in commoedia, alio in
mo tono in entrambi i componimenti. [3] C'è
genus
carminis
quo ad numerum.
necessario
osservare
le funzioni
tragedia. [4] Carmina enim non tantum
infatti bisogno di un tono per la commedia,
variari debent metro, sed etiam gradu quodam et colore. ut aliud sublimius sit. aliud humilius; ut statim infert cum dicit.
di un altro per la tragedia. [4] I componimenti poetici non devono differire solo nel metro, ma anche nel grado e nel tono, affin-
VERSIBUS EXPONI TRAGICIS etc.
ché uno sia più sublime, un altro più umile. come subito afferma dove scrive vERSIBUS EXPONI TRAGICIS etc.*?
42 Per la nota etimologica, cfr. anche Arist., Poet. 1448a 29-30 nella trad. dello stesso Piccolomini: «voglion’alcuni, che cotali imitationi drammati si domandino, [nome, ch'importa operatione, & negotiamento] poi che quivi persone in atto poste de operatione, si rappresentano» (Annotazioni, 16, p. 58). La stessa attenzione, in contesto oraziano, in Lanp.. ad loc.: «comoediae atque tragoediae commune nomen sumunt graece dramata: nam dran agere est». Tra le formulazioni più chiare, cfr. anche F. RosorteLLO, Explicationes de satyra, de epigrammate, de comoedia, de elegia, in Trattati di poetica e retorica cit., I, p. 517: «Tertia differentia quae inter poemata con-
stituitur, sumitur a modo diverso imitandi: comoedia imitatur homines quasi negociantes et agentes, quamvis et
hoc commune illi sit cum tragoedia. Unde factum est ut tam comoediae quam tragoediae ópápaca, idest “actus”, a veteribus dicantur amò tod ópàv, quod est “agere” seu “negociari”». 43 AP, 89: «versibus exponi tragicis res comica non vult». Il rimando ai vv. 89 sgg. per spiegare il v. 86 («descriptas servare vices») è un espediente già praticato da Lanp., ad loc.: «Descriptas servare vices. Ad multa puto produci huiuscemodi praeceptum: ut in omnibus scribendis servare vices sit: ut pro materie qualitate eligatur genus poematis: quod illi rei attributum est: ne de re comica tragoediam: aut de re tragica comoedia[m] scribamus: quod paulo post apertius loquitur. Eligatur carmen idoneum. Accomodetur stilus» (corsivi nostri); e cfr. la glossa al v. 89: «Versibus. Exponit quid sit servare vices. Nam nec materia comica tragica grandiloquentia extollenda supra modum est: neque rursus tragica humilitate comica deprimenda: nisi raro & cum altera ab altera aliquid mutuatur». Analogamente a quanto afferma Landino, Piccolomini spiega che, nonostante la comunanza ‘metrica’, i versi tragici si distinguono da quelli comici per un color specifico: materia e stile sono
concepiti come direttamente proporzionali, ed il commentatore tace sulla possibilità delle mescidanze stilistiche concesse dai vv. 93-98. Il rimando ai vv. 89 sgg. nei termini in cui lo fa Piccolomini sembra risentire anche della glossa di Maccr, /n Horatii librum cit., p. 339: «Quamvis Tragoedia Comoediaque id habeant commune,
159
98. Si curar cor. [1] Si versus hic legatur
98. Si curat con. [1] Qualora si legga questo
cum interrogationis nota, legendum erit in versu 96 cUR PAUPER, et non CUM PAUPER. Et tune verbum Pnoncrr pro verbo ‘profert' seu ‘enunciat’ accipiendum est. Et sic legitur apud quaedam fide digna exemplaria.
verso con un punto interrogativo, al v. 96 si dovrà leggere CUR PAUPER, e non CUM PAUPER. Ed allora il verbo eRorcir deve essere inteso come ‘profert’ o ‘enunciat’. E cosi si legge in
alcuni testimoni autorevoli. [2] Ma qualora si legga il v. 98 senza punto interrogativo,
[2] Sed si legatur versus hic 98 absque nota
come leggono Aldo ed anche altri codici,
interrogationis, ut legit Aldus et alii etiam codices, tunc in versu 96 cum paUPER legendum erit, verbumque nori pro "respuit seu 'abiicit" accipi "debet.
allora si dovrà leggere al v. 96 cum PAUPER, ed il verbo PRorrcrr deve essere inteso come ‘respuit’ o 'abiicit."*
99, Now saris EST PULCHRA etc. [1] Non so-
99, Now saris EST PULCHRA etc. [1] Le opere
lum debent docere poemata, sed etiam afficere ut delectent; affici enim ob aliorum af-
poetiche non devono soltanto insegnare, ma
anche produrre sentimenti tali da dilettare: è infatti piacevolissimo provare le passioni di altri. [2] Per puLcHRA, d'altro canto, dobbiamo intendere opere poetiche composte correttamente e con arte. [3] Orazio sembra toccare qui alquanto quella parte della tragedia definita da Aristotele ‘pensiero’ ed anche i ‘caratteri’.
fectus iucundissimum est. [2] Per PULCHRA, autem, recte et ex arte confecta intelligere
debemus. [3] Videtur Horatius hoc in loco aliquantisper tangere illam tragediae partem qualem ab Aristotele sententiam nuncupatam ac mores etiam.
104. Mare st MANDATA LOQUERIS. [1] Non si
104. Mare sr Manpata LOQUERIS. [1] Non
male loqueris, sed si loqueris male mandata
se reciti male, ma se reciti ciò che il poeta
quod iambicis utuntur carminibus, verborum tamen et sententiarum ratione invicem distant. Res enim tenues ac facetae quae ad Comoediam spectant, versibus tragicis, id est verbis seriis ac gravibus sententiis exprimi non
debent; neque etiam graves severaeque res humili, atque abiecto sermone scribendae sunt: sed unumquodque, ut decet, apte explicandum est. Idem vero hic significant versus, et carmina, quod verba, quae carminum sunt materies:
atque Ita totum
pro parte capit».
44 L'annotazione, di carattere filologico, cita esplicitamente l'aldina oraziana che costituisce con ogni probabilità l'edizione di riferimento per Piccolomini. Mentre Aldo legge correttamente cum pauper al v. 96, altri testimoni
autorevoli noti al commentatore («quaedam fide digna exemplaria») attestano la variante cur pauper. Cfr. cap. JS D 45 La pulchritudo di un'opera poetica non è necessariamente sufficiente a rendere l'opera stessa attraente ed è necessario che la dulcedo attiri i lettori/ascoltatori. Su questo fascino della poesia, ai limiti dell'ambiguità, cfr. Bap.
Asc., Praen., che glossa cosi i vv. 99-100: «Nam ultra hoc requiritur quod habeat quendam dulcorem et quamdam gratiam suavitatis, qua alliciat et attrahat ad se animum auditoris». Un'interessante distinzione di «pulchra» e
«dulcia» in De Nores, /n Epistolam cit., c. 39v: «Pulchra igitur intellige ad ornamenta, figurasque orationis, quibus expolitum esse poema debet: dulcia ad affectiones animorum concitandas, easque maxime quae ad misericordiam spectant». In senso squisitamente moralistico si muove Macci, /n Horatii librum cit.. p. 241: «Inquit igitur non fore satis ut poemata pulchra sint verbis ac sententiis exornata, si misericordiam excitare velimus; sed illud magis observandum, ut dulcia sint, hoc est affectus inducant. Affectibus enim, quos in auditorum animos Poesis
iubet induci, perinde ac habenis quibusdam, qua lubet, auditores trahuntur». Sulle implicazioni dell'oraziano «non satis est pulchra esse poemata» nella poetica piccolominiana, cfr. cap. IV.
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a poeta; poetas enim instruit Horatius, non
ha malamente composto; Orazio infatti istruisce i poeti, non gli attori.
histriones.
|c. 1570] 105. Tristia MarsrUM ete. [1]
105. Trisria maestuM etc. [1] Espongono
Male exponunt qui histrionum praecepta
ratius in hoc libello et presertim in hoc
male coloro che intendono qui i precetti come destinati agli attori; Orazio, infatti, in questo libello, e specialmente in questo
loco, non artis histrionicae praecepta tra-
luogo, istruisce i poeti, non espone 1 precetti
dit. [2] Haec ergo. et quae de irato, de
della recitazione. [2] Queste affermazioni, e
ludente etc., quae sequuntur, ad poetam referri debent, ut videlicet ita scribat, ut
quelle che seguono sul personaggio adirato, sul personaggio allegro ecc., devono riferirsi al poeta: così che scriva in modo che le
hic accipiunt; poetas enim instruit Ho-
verba conceptus exprimentia seu concep-
tus per verba exprimendi, quadrent fortunis, affectibus et habitibus eorum, qui
parole esprimenti concetti o i concetti da
introducendi sunt. [3] Si ergo introducet
esprimere a mezzo delle parole siano coerenti con la sorte, le passioni e le condizioni
poeta quempiam iratum. debet mandare illi verba conceptusque irato convenien-
Se dunque il poeta introdurrà qualcuno in
di coloro che devono essere introdotti. [3]
tia convenientesque, et sic de aliis. [4] Quomodo autem hoc possit facere et cur
preda all'ira, deve fornirgli parole e concetti
id fieri debeat, statim Horatius ducet cum
che gli convengano, e così per gli altri. [4] In che modo possa invero fare ciò, e perché ciò
addit FoRMAT ENIM etc. [5] Si igitur poeta
debba essere fatto, subito Orazio lo illustrerà
vult bene mandare et componere verba affectibus convenientia, opus est ut ipse prius sic afficiatur eodemque affectu, ac
quando aggiunge Formar ENIM etc.?” [5] Se insomma il poeta intende assegnare e comporre in modo corretto parole coerenti con le passioni, occorre che egli stesso dapprima sia
dispositione intus in animo formetur ac disponatur, quo vult quempiam introdu-
affetto dalla medesima passione, e formi e
cere. [6] Ratio autem est quia tunc recte
disponga interiormente il suo animo secondo
verba affectibus congruentia proferemus, conceptusque affectibus convenientes for-
quella disposizione con cui vuole introdurre un qualche personaggio. [6] La ragio-
46 Cfr. De Nores, In Epistolam cit., c. 40r: «male si mandata loqueris: ab ipso authore te introducente male concepta, et male tibi tradita». Ma si veda la n. 49. Piccolomini discute la posizione sintattica di «male», che puó unirsi, in effetti. sia a «loqueris» che a «mandata». Nel primo caso il precetto sarebbe rivolto all'attore, mentre nel secondo — come sostiene Piccolomini — la raccomandazione riguarderebbe il poeta. E. del medesimo avviso, sulla base di un
confronto con AP, 441 ed Fpist. II, 1, 233, Brink, p. 187. Tra gli interpreti rinascimentali che legano invece «male» a «loqueris», indirizzando il discorso oraziano all'attore, Brink ricorda Lambin: «Lambinus, though aware of this interpretation, connected male with loqueris, the adressee then being not the imaginary mythical hero but the actor
playing the part, and Horace's topic, contrary to his indications, not style but gestures and acting» (ibidem). 47 AP, 108-111: «Format enim natura prius nos intus ad omnem / fortunarum habitum: iuvat aut inpellit ad
iram / aut ad humum maerore gravi deducit et angit; / post effert animi motus interprete lingua». 48 Cfr. Parr., ad loc.: «Format enim. Ratio praecepti. Si enim, inquit, lingua animi interpres est, oportet ut ea quae
lingua exprimit, prius animo impressa videantur». È significativo che, parlando della capacità del poeta di interiorizzare stati d'animo, passioni ed affetti Piccolomini non faccia qui riferimento alla tradizione del furor poetico, esplicitata per esempio a proposito del «Si vis me flere» (AP, 102) in Parr., ad loc.: «poeta cum opus scribit, personam eius
inducat oportet, quem introducit et eosdem adfectus concipiat, nec si lugentem faciat, levis animus ac remissus in
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ne, qua formandi sunt, qui introducendi
ne di ciò è che produrremo parole coerenti con le passioni e formeremo concetti adatti ad esse quando noi stessi saremo disposti secondo le medesime passioni. [7] Dal momento che siamo prima disposti nell'animo, ed esprimiamo poi un concetto e un discorso alla fine coerente alla passione provata, se una passione non albergherà all’interno del nostro animo, potrà essere espressa male con un concetto e con parole. [8] Pertanto il poeta che, scrivendo, deve affidare parole a coloro che reciteranno sulla scena i perso-
sint, vel irati vel mites etc; et dehinc sic
naggi, deve — se vuole farlo correttamente
dispositus, scribat, et det mandata. [9] Quare qui in scaena agere debet Telephum calamitosum exempli gratia, si ab
- adeguarsi dapprima alla disposizione interiore secondo la quale devono essere formati coloro che vanno introdotti sulla scena, ora adirati, ora gentili ecc.; ed in seguito, disposto in tal modo, scriva e assegni le parole ai personaggi. [9] Per questo motivo, per esempio, chi deve interpretare sulla scena lo sventurato Telefo, se il poeta stesso non gli
mabimus, cum nos ipsi iisdem affectibus
disponemur. animo
[7] Siquidem
afficimur,
et dehinc
prius intus conceptum
ac sermonem tandem affectui congruum exprimimus; adeo quod si vere affectus non
erit intus, male poterit aut concep-
tu aut verbis exprimi. [8] Poeta igitur qui scribendo dare debet mandata illis qui in scaena
introductas
personas
acturi sint,
cogitur, si recte mandata dare velit, se ipsum prius intus formare ea dispositio-
ipso poeta non acceperit verba calamitatibus congruentia, tunc ita loquetur, ut qui spectent, dormitent ac osciteant; et hoc ob
difectum poetae, non histrionis.
avrà assegnato parole idonee alle sventure,
parlerà in modo tale che gli spettatori dormicchieranno e sbadiglieranno: e questo per colpa del poeta, non dell'attore.*?
verbis adpareat, hinc a Platone Democritoque in scriptis relictum est. Bonum poetam sine inflammatione animorum existere non posse, et sine quodam adflatu quasi furoris, quomodo enim poterit is qui audit, dolere, odisse, invidere,
et ad fletum misericordiamque deduci nisi omnes hi motus in ipso loquente impressi atque immisti videantur». 49 Piccolomini contesta che le indicazioni di Orazio si riferiscano qui all'attore. Tra coloro che «male exponunt» (oltre a Lambin: cfr. n. 44), forse sulla scorta dell'ambigua glossa di Ps.-Acn., ad loc., anche Macci, [n Horatii librum cit. p. 341, che, seguendo il celebre passo di Arisr., Poet. 1455a 30-34 («sono più credibili infatti quelli che per loro natura si trovano ad avere certe emozioni; sconvolge nel modo più autentico chi è sconvolto, spinge all'ira chi è adirato»; trad. Paduano), fa esplicito riferimento alla necessità, propria dell’attore, di esprimere un ‘volto’ idoneo al ruolo da interpretare. Alla posizione di Piccolomini, già espressa nella glossa precedente, fa riscontro una più ampia trattazione
in Annotationi, 88, p. 245, dove la critica a Maggi è esplicita: «questo precetto [...] non penso io che sia posto, come stima il Maggio, per instruttione degli histrioni: volendo ch'Aristotele dica che se gli histrioni voglion poter ben far apparire e far parer veri gli affecti e le qualità di coloro le cui persone sostengono, fa di mestieri ch'eglino nei gesti, nel volto, e in ogni movimento si sforzino di formare e quasi figurar se stessi di quei medesimi affetti e passion d'animo
ch'esprimer vogliono. A questa spositione non adherisco, come quello che son di parere che Aristotel in questo luogo non habbia intentione d'instruir gli histrioni; ch'ad altra arte in un certo modo pare che convenga; ma che piü tosto vada seguendo d'instruir li poeti, dando loro per precetto che se vogliono che tutto quello che fingono e scrivono, possa fra momento negli animi degli spettatori, e che le cose che fan dire o fare alle persone da loro introdotte possin parere necessariamente nate da quegli affetti e da quelle conditioni e qualità che in quelle fingono; fa di bisogno ch'eglino
stessi facciano a se stessi impeto e forza d’accendersi e di vestirsi di quei medesimi affetti, costumi e qualità che voglion far apparire nelle rappresentate persone loro». Che il problema riguardi propriamente il poeta era affermato anche in DanigLo, La Poetica cit., p. 250: «Né è solamente da vedere che le parti delle materie che si prendono a trattare abbia-
162
106. IRATUM PLENA MrNARUM. [1] Et ideo si introducitur iratus quis, debet poeta
mente se viene introdotto un personaggio
mandare
adirato, il poeta deve fornire a chi lo inter-
GS
illi, qui iratum
verba
minarum;
exprimentia acturo
autem
106. Iratum PLENA MiNARUM.. [1] Analoga-
illum acturus
conceptus ludente,
plenos
preterà parole che esprimono concetti pieni
verba
di minacce; a chi reciterà la parte di un personaggio scherzoso, parole scherzose ecc.
lasciva etc.
112. Si DICENTIS pica. [1] Agsona tandi modus. [2] Horatio, ut saepe
ERUNT FORTUNIS ABSONA piera, non absonus reciPoeta enim instruitur ab dixi, non histrio.
112. SI DICENTIS
ERUNT
FORTUNIS
ABSONA
piCTA. [1] «Parole stonate» non in riferimento al modo di recitare.?" [2] Da Orazio, infatti, e istruito il poeta, come ho piü volte detto, non l'attore.
114. IvrERERIT MULTUM Davus. [1] Videtur
114. InTERERIT MULTUM pavus. [1] Sembra trat-
adhuc magis attingere partem tragoediae
licet ut sint boni, congrui, similes et equa-
tare ancora, per lo più, la parte della tragedia che Aristotele definisce ‘caratteri’: Aristotele pone quattro condizioni ad essi relative, ovvero che siano buoni, adatti, somiglianti e
biles, seu sibi constantes.
coerenti, ossia costanti con se stessi.?!
qualem Aristoteles vocat mores: quorum quatuor conditiones ponit Aristoteles, vide-
120. Si ronrE REPoNIS AcurreM. [1] Tangit illam conditionem morum quae similitudinem importat. [2] Oportet enim personam ab aliis acceptam ita formare ut similis ab aliis iam descriptae sit; hoc est ut talis appareat qualis tractata fuerit.
120. Si ronrE nEPONIS AchirLem. [1] Tocca quella condizione dei caratteri che consiste
nella somiglianza. [2] Occorre infatti caratterizzare un personaggio tratto da altri in modo che sia simile a quello già descritto
dagli altri; ovvero. che appaia nello stesso modo in cui era già stato trattato."
no fra loro convenientia, ma che quelle ancora che alle persone si mandano convenientissime, proprie et accomodate siano; et oltre a ciò, che il parlar che si dà loro sia di soavità, di mansuetudine, di gravità, d'allegrezza, di dolore, e
finalmente pieno degli affetti tutti, secondo però la qualità, la degnità. l'abito, l'ufficio e l'età di ciascuna». Tutto questo implica evidentemente la straordinaria competenza ‘filosofica’ del poeta. Su tale aspetto, cfr. cap. IV, $ 3, pp. 93-98. 50 Che «absona» non riguardi il modus loquendi dell'attore, ma si riferisca alla scrittura poetica, implicando la necessità di una corrispondenza tra parole ed affetti, si deduce anche da Landino che, in effetti, non menziona
l'istrione; cfr. Lanp., ad loc.: «[...] cum poetica naturam immitari debeat: natura autem velit orationem correspondere affectibus irridebunt auditores eos poetas qui verba absona et minime convenientia affectibus formant». 51 La classificazione delle quattro condizioni dei ‘caratteri’ è desunta da Arist., Poet. 1454a 16-32 (16 xprjotov, 16 appéttov, tò dpotov, tò ouaAóv). Nella traduzione piccolominiana: «Intorno hora a i costumi, quattro sono le conditioni e le cose alle quali fa di mestieri d'havere l'occhio per conseguirle. L'una e la prima e che li costumi bontà, o ver honestà contenghino. [...] la seconda conditione che li costumi ricercano sarà che sian convenevoli. [...] La terza conditione dei costumi consiste in esser simili.[...] La quarta finalmente condition d'essi è posta in esser a sé medesimi con una certa equabilità costanti» (Annotationi, 77, p. 217). Cfr. anche l'esame dettagliato che Piccolomini ne fa di seguito (ivi, pp. 218-221). Cfr. anche Arisr., /thet. III, 1408a 25 sgg. sull’ethos. Ampia trattazione relativa alle quattro condizioni dei caratteri in RosonrELLo, Explicationes cit., pp. 524-525; ma si veda anche Trissino, La quinta e la sesta divisione cit., pp. 29-30.
52 Un personaggio della tradizione non può essere stravolto nei suoi attributi essenziali. Su questo aspetto cfr.
Lanp., ad loc., ma si vedano anche DanieLLo, La Poetica cit., p. 251: «E perché ne' poemi si pongono persone o
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126. ServeTuR AD Imum. [1] Aliam conditio-
126. SEnvETUR AB 1MUM. [1] Tocca un'altra
nem morum tangit, aequabilitatem scilicet.
condizione dei caratteri, ossia la coerenza.
128. DIFFICILE EST PROPRIA COMMUNIA DICERE.
128. DIFFICILE EST PROPRIA COMMUNIA DICERE.
[1] Formare scilicet personam novam.
[1] Ovvero creare un personaggio nuovo.
129. Recmus ILracum. [1] Rrcrivs, facilius;
129. Recmius Iucuw. [1] Recrrivs, più facile; si contrappone infatti a DIFFICILE pon
opponitur enim illi DIFFICILE EST.
131. Pusrica MarznrEs. [1] Un personaggio trattato da altri; le cose che sono infatti precedentemente trattate da altri, sono poi
131. Pusrica mareRIEs. [1] Persona ab aliis tractata; quae enim ab aliis prius tractata
sunt, omnibus videntur dehinc exposita.
accessibili a tutti.?°
note (e cioè da altri iscrittori per là adietro introdotte) o elle si fingono di novo, bisogna avertimento avere, volendone noi di quelle introdurre che altre volte sieno state da altri scrittori introdotte, di seguitare la fama et il grido di quelle, tali descrivendole quali elle da loro state prima descritte siano»; e Trissino, La quinta e la sesta divisione cit., p. 30, che connette esplicitamente la prescrizione aristotelica della somiglianza con AP, 123-124: «E questi [i costumi] secondo Aristotele mio duce si considerano in quattro modi, l'uno dei quali è che i costumi siano buoni [...] Il secondo modo è che i costumi siano convenienti, cioè che si convengano e stiano bene alle persone che sono nella favola introdotte [...] Il terzo modo è che i costumi siano simili, cioè che siano simili a quelle persone che sono state descritte da altri e che noi poi le introducemo nelle nostre favole; e, come dice Orazio: “Sit Medea ferox invictaque, flebilis Ino, / Perfidus Ixion, Io vaga, tristis Orestes". Il quarto modo è che siano equali, cioè che dal
principio fino alla fine della favola siano sempre essi costumi di una medesima qualità». 53 Nella discussa interpretazione del neutro plurale communia, Piccolomini si schiera dalla parte di chi lo intende come riferito agli argomenti «ancora indistinti e per ciò universali ed astratti» (Rosracwt, ad loc. in Orazio, Arte poetica, a c. di A. Rostagni, Torino, Chiantore, 1930), ovvero quegli argomenti «desunti dalla tradizione e dalla storia, che è difficile esprimere in modo personale (proprie)» (FepeLi, ad loc., cui si rinvia per ulteriori approfondimenti). Tale interpretazione prende le mosse dalla glossa di Ps.-Acn., ad loc., per il quale «communia dicere» significherebbe «dicere intacta: nam quando intactum est aliquid commune est [...] Item communia idest non ante dicta, quia, si quid dixeris, iam tuum esse proprium». La tradizione che intende invece communia come materia
comune e condivisa (ovvero nota e già trattata), risale a PorpH., ad loc. (in tal caso, communia diventa sinonimo ed anticipazione di «publica materies» al v. 131). 54 AP, 128: «rectius Iliacum carmen deducis in actum». Piccolomini sottolinea la contrapposizione tra la dif-
ficoltà di trattare temi e personaggi nuovi e la maggior facilità insita nel seguire la tradizione. Cfr., su questo, Annotationi, 53, p. 144: «trovando maggior difficoltà il poeta in cercar intorno a persone vere, e a qualche attione veramente accaduta a quelle, nuovi modi e vie d'appropriar con la sua fintione a sé quelle cose che son communi e dinanzi a ciascun poste, che non si truova in finger ogni cosa a libero voler suo; vien per cagion di questa difficultà, s'egli valorosamente la vince, a dar inditio di maggior escellentia». 55 Una chiara definizione di publica materies in GranEANUS, ad loc.: «Publicam materiem intelligo, non, ut iam diximus, communem, intactam atque indictam: sed contra a multis dictam, et in publico etiam notam ac
celebratam quam tamen privatam posse fieri poeta docet, quemadmodum Virgilius Troianam hitoriam, quae publice celebrata fuit, et a multis scripta, tamen ingenio atque inusitato genere elocutionis velut sibi propriam fecit» (il commento di Henricus Glareanus in Orazio Fracco, Omnia poemata, cit.). Sull’opportunità di attingere alla tradizione rendendo di dominio privato («privati iuris erit») argomenti che appartengono al patrimonio collettivo («publica materies»), Piccolomini torna in Annotationi, 54, p. 146, con particolare riferimento ai soggetti tragici. L'autorità di Orazio è chiamata esplicitamente in causa a sostegno dell'esegesi piccolominiana: «io per anco non mi lascio distoglier dal creder che sia più sicura cosa il dire che le tragedie migliori habbian da esser fondate sopra persone note [...] Né stimo io d'haver contra Horatio, come forse alcuni potrebber credere per quello, ch'egli dice nell’Arte sua poetica della privata materia e della commune, e del farsi propria la commune. Perciocché quando egli parla della privata materia in comparation della commune, nella difficultà
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132. Non circa virEM etc. [1] Qui tractat
132. Non circa viLem etc. [1] Chi affronta
tractata ab alio, quamvis quo ad |c. 1587]
ciò che e stato trattato da altri, benché — per quanto riguarda l'invenzione — ne ricavi il soggetto, tuttavia, nell'elocuzione e nella disposizione, deve esprimere qualcosa di suo e non prendere da chi l'ha preceduto, giacché la disposizione e l'elocuzione costituiscono, per cosi dire, la forma e la perfezione dei
inventionem materiam summat ab illo, tamen in elocutione et dispositione debet promere quid de suo et non accipere ab alio, cum dispositio et elocutio sint quasi forma et perfectio poematum: forma autem debet proferri de suo, ad hoc ut communis materia fiat propria. [2] Vocat
componimenti poetici: la forma deve essere
ergo ORBEM totum alicuius poema: nam qui
inventata di propria mano in modo che un
omnia ab alio accipit, videtur versari circa orbem quemdam, dum non recedit ab illo. [3] Et dieitur viLe quia inertis ingenii est id facere. [4] ParuLuM autem vocat quia alterius acceptum poema omnibus patet. [5] Ita quod non recedere penitus ab alio
soggetto comune diventi proprio.” [2] Orazio chiama pertanto «orbita» un’opera altrui nella sua interezza: infatti chi ricava tutto da un altro, sembra ruotare in un'orbita, finché
non se ne allontana. [3] Ed è detta «vile» poiché fare così è proprio di un ingegno pri-
vo di forza. [4] La definisce inoltre «aperta a tutti» perché un’opera ricavata da altri è
vilissimum est, et magis pertinet ad inter-
pretem quam ad poetam. [6] Debet ergo poeta ex suo disponere et eloqui, ac personas tantummodo accipere ab alio, quae ad inventionem pertinent. [7] Et circa inventionem quoque debet multa afferre de suo. variando episodia etc.
riconoscibile da tutti.?” [5] Non allontanarsi neppure in minima parte da un altro è cosa vilissima ed è propria del traduttore più che
del poeta. [6] Il poeta deve dunque disporre [la materia] e parlare autonomamente, accogliendo i personaggi da altri solo per quanto riguarda l’invenzione. [7] Ed anche nell’invenzione deve mettere molto del suo, variando gli episodi ecc.
del trattarle, non intende egli per privata materia, come stiman alcuni, le persone e le attioni totalmente dal poeta finte, né di così fatta materia parla egli mai, come quello che non la giudicava per buona; ma intende egli per materia privata quella che da altro poeta non sia stata tocca» (Annotationi, 54, p. 146). Dopo aver fornito due esempi chiarificatori (il soggiorno di Enea presso Didone in Virgilio come materia ‘privata’; la vicenda di Ifigenia in Euripide come materia ‘comune’). Piccolomini torna su Orazio: «Cosi dunque intende Horatio la materia commune e la privata, aggiugnendo esser più difficile il trattar la commune che la privata, per trovarsi il poeta in maggior angustia e bisognargli maggior artefitio in saper appropriar a sé la materia commune, in modo che non appaia la medesima forma di favola con quella dell'altro precedente poeta che trattata l'habbia. Onde appare che non solo l'autorità d'Horatio non favorisce l'opinione che la tragedia debbi farsi sopra persone non note, ma dal poeta finte; di che egli (com'ho detto) non fa parola; ma chiaramente la contraria opinione aiuta, com haviam veduto» (ivi, pp. 146-147: il medesimo concetto è poi ribadito a p. 149, e cfr. ancora Annotationi. 75, pp. 212-213; 89, pp. 249-251). 56 Le glosse al v. 132 illustrano chiaramente l'idea che Piccolomini ha dell'originalità poetica. L'acquisizione di un soggetto comune passa attraverso una elaborazione formale che lo renda qualcosa di nuovo rispetto ai precedenti. Esse introducono anche la questione del traduttore che è ripresa in Annotationes, 133. 57 Per la spiegazione di «vilem» e «patulum» cfr. la stringata glossa di De Nors, /n Epistolam cit., c. 49v: «vilem autem, et patulum orbem translative inventionem appellat, quod omnibus pateat, et communis sit, ac sine elocutione nullam omnino laudem mereatur».
165
tione, neque in dispositione, neque in elo-
132. PvruLUwQue. [8] Non allontanarsi in nulla da un altro poeta e non ricavare nulla da se stessi, se non la sola traduzione delle parole, non è infatti difficile e può essere cosa manifesta a tutti. [9] Orazio dice pertanto «orbita» perché chi fa cosi, e non si allontana da altri poeti nell'invenzione, né nella
cutione, sed omnia ab alio summit, videtur inter alterius poematis terminus coarctari,
ricava tutto, sembra costringersi nei limiti
132. Parurumour. [8] Non enim est difficile ac omnibus patere potest non recedere in aliqua re ab alio, nihilque ex se ipso afferre, praeter solam verborum
interpretationem.
[9] Vocat ergo Horatius oRBEM quia qui sic facit, et ab alio poeta non recedit in inven-
disposizione, né nell'elocuzione, ma anzi ne
ita ut extra illius fines non audeat egredi, adeo sese coarctans intra illas angustias, ut
dell'opera altrui, non osando valicarli e chiu-
intra circulis cireumferentiam inclusus esse
inscritto all'interno di un cerchio. [10] Dopo
videatur. [10] Debet ergo poeta, postquam sumpsit personas tractatas ab alio, illas dehinc propria dispositione et elocutione formare, ac suas facere. [11] Non autem debet elocutionem et dispositionem acci-
aver preso personaggi trattati da altri, il poeta deve dunque caratterizzarli attraverso una disposizione ed un'elocuzione originali, rendendoli suoi. [11] Non deve invece accogliere l'elocuzione e la disposizione da colui che gli
pere ab illo, a quo sumpsit personas, sed
ha fornito i personaggi, ma soltanto qualco-
tantum aliquid inventionis ac materiae et non totam ipsam inventionem, quippe
sa inerente l'invenzione e il soggetto — però non l’intera invenzione, poiché deve il poeta
cuius etiam partem de suo afferre debet.
ricavarne una parte da se stesso. [12] Se non
[12] Haec autem si non servat, sed ab alio cuncta summit, non fungitur poetae officii,
rispetta ciò, ma deriva tutto da un altro, non svolge il compito del poeta, bensì quello del
sed interpretis.
traduttore.
133. NEc vERBUM vERBO CURABIS etc. [1] Non docet hic Horatius quomodo interpretandum sit, ut aliqui opinantur, sed quomodo tractandae persone sint, quae sumuntur ab alio: et dum hoc facit, simul ex acci-
133. Nec vERBUM VERBO CURABIS etc. [1] Orazio non insegna qui in che modo si debba tradur-
denti aperit officium interpretis, cuius lex et munus est verbum verbo maxima fide reddere. [2] Qui autem ponunt hic Horatium transire ad praecepta interpretandi, conantur fateri officium interpretis esse non reddere verbum verbo, quod falsum
est. [3] Vult enim quod interpres teneatur reddere verbum verbo. [4] Ne construas ergo sic: NEC CURABIS INTERPRES REDDERE
dendosi tra quelle strettezze così da sembrare
re, come ritengono alcuni, ma in che modo
debbano essere trattati i personaggi che si traggono da un altro poeta: così facendo, nel contempo egli illustra accidentalmente il compito del traduttore, il cui obbligo doveroso è tradurre parola per parola con la fedeltà più assoluta. [2] Chi ritiene invece che Orazio
passi qui ai precetti della traduzione, tenta di affermare che il compito del traduttore non è tradurre parola per parola, il che è falso. [3] Orazio pretende infatti che il traduttore debba tradurre parola per parola. [4] Non
58 Piccolomini sposa qui una posizione che non pare maggioritaria tra i commentatori di Orazio. Un riscontro troviamo in GrnEANUS, ad loc., che pure sottolinea la problematicità del passo: «Quanquam: ut ingenue fatear,
nullus commentarius mihi satis hoc explicat, quo minus haesitem. Porro de fido interprete, sententia ab omnibus
etc.; sed ordina litteram sic: NEC CURABIS REDDERE VERBUM VERBO, INTERPRES FIDUS,
costruire pertanto cosi: «non ti curerai, tra-
duttore, di restituire, ecc.»; ma ordina le parole cosi: «non ti curerai di restituire parola con parola, come traduttore fedele», ovvero come se tu fossi un traduttore, che deve avere cura di ciò.”
idest tamquam si esses interpres, qui id curare debet.
133. Nec veRBUM vERBO etc. [5] Non docet
133. Nec venBUM veRBO etc. [5] Non insegna
interpretari transferendo, sed docet facere privati iuris publicam materiem, et deducere Iliacum et alienum carmen in actus.
a tradurre, ma insegna a rendere privata una materia pubblica, ed adattare alla scena un canto omerico composto da altri?
135. Pupor vereT. [1] Pupon, dum te vide-
135. Pupon verer. [1] La «vergogna», os-
licet pudet relinquere inceptum opus inter-
sia quando ti vergogni di abbandonare una traduzione iniziata.
pretandi. 135. Orrnis LEX. [2] Lex scilicet interpre-
135. OpeRIs LEX. [2] Ovvero la legge del tradurre, cui hai condannato te stesso.
tandi, cui te ipsum addixisti.
136. Nec sic incipies. [1] Forte pertransit ad partes quantas poeseos,
136. Nec sic increies. [1] Passa, come per caso, a considerare quante siano le parti della tragedia (il prologo, gli episodi ecc.). e tratta prima alcune poche cose inerenti il
quae in tra-
c. 158v| gedia sunt. prologus. episodia
etc., ac prius de prologo pauca quaedam
prologo, unendo nella trattazione la poesia
tangit: ac epicam poesim cum tragica et comoedia iungit: videtur enim hoc prae-
epica con la tragica e la commedia:*' questo
ita allegatur, quasi Horatius voluerit dicere, non esse fidi interpretis verbum verbo reddere, cum Horatius contrarium sentiat. Qui ex publica materia privatam facere velit, non debere hoc facere quod fidus facere solet interpres: cuius officium est. quam maxime fieri queat, et linguarum patiatur proprietas, verbu verbo reddere». 59 Corroborando la propria interpretazione con una nota di carattere sintattico (Annotationes, 133.4), Piccolomini insiste sulla necessità di non intendere il precetto oraziano come riferito al compito del traduttore (che deve. infatti, rendere effettivamente parola per parola il testo che traduce). Il commentatore rifiuta quindi una lunga tradizione che leggeva in questi versi dell’Ars un precetto contro la traduzione letterale (cfr. Hrer., De opt. gen. interpr., 5: «sed et Horatius, vir acutus et doctus, hoc idem in Arte poetica erudito interpreti praecipit, “nec verbum verbo curabis reddere fidus interpres»). 60 Illustrando il senso del verso, e ricapitolando la sezione immediatamente precedente, il commentatore mantiene inalterata la metafora giuridica sfruttata da Orazio. 61 Per le «partes quantae poeseos», cfr. Anisr., Poet. 1452b 14-24, di cui si propone l'elenco nella traduzione
piccolominiana: «Quelle [parti] poi che sono secondo la quantità e in cui, com 'in suoi distinti e separati membri divien divisa la tragedia, queste sono il prologo, l'episodio, l'esodo (o vogliam dir l'uscita) e il coro (o ver il canto del coro), il quale in due è distinto, l'uno chiamato parodo (o ver entrante e venente), e l'altro stasimo (o vogliam dire stabile)» (Annotationi, 64, p. 175). Efficace la distinzione tra «parti della quantità» e «parti della qualità»: «Le parti appartenenti alla quantità d'una cosa, s'intendon esser quelle, una o più delle quali che le mancassero, non si potrebbe più dire esser la cosa tutta; come sono (per esempio) li membri d'un animale: e per questo si domandan parti integrali. Il che delle parti appartenenti alla qualità non adiviene, denominando ciascheduna d'esse a guisa di forma tutto il corpo: la qual denominatione non può far la parte integrale» (ivi, p. 176; segue un'ampia digressione sulle singole parti alle pp. 176-187).
167
ceptum esse commune epico et drammatico. [2] Dat autem exemplum in epico, arguens a maiori. [3] Magis enim videtur debere esse turgidum principium epi-
precetto sembra infatti comune all'epica e al dramma. [2] Fornisce peró, a mezzo di una dimostrazione a maiori, un esempio
corum,
poemi epici sembra infatti dover essere piü solenne, e tuttavia non deve esserlo troppo; dunque tanto meno sarà di tal fatta l'inizio
et tamen
non
ita turgidum
che risiede nell'epica. [3] Il proemio dei
esse
debet; ergo tanto minus erit huius modi apud ipsum drammaticum poetam.
dell'opera presso il drammaturgo stesso. 146. Nec nEprruM Dromeprs. [1] Avendo det-
146. Nec nEDrTUM Diomepis. [1] Cum de principio dixerit quale esse debeat, [leve] scilicet, docet unde summendum sit. [2] Et
to in che modo deve essere il proemio, ossia lieve, insegna da dove lo si debba ricavare.
hoc non solum ad prologum, sed etiam ad ipsa episodia praeceptum pertinet; episodia enim non debent a lunge peti.
[2] Questo precetto non riguarda solamente il prologo, ma anche gli stessi episodi; essi,
148. Semper AD EvENTUM etc. [1] Tetigit
148. SEwPrR AD EVENTUM etc. [1] Ha trattato
principium; tangit modo medium et finem.
dell'inizio; adesso tratta il mezzo e la fine.
infatti, non devono essere tratti da lontano.
148. SemPER AD EVENTUM etc. [2] Quamvis
148. SemPER AD EvENTUM etc. [2] Pur sem-
videatur repetere de dispositione et ordine,
brando ripetersi a proposito della disposi-
de quo iam dixerat ibi OnpiNIs HAEC VIRTUS, non tam idem repetit. [3] Tractat enim hic
zione e dell'ordine, dei quali ha già parlato dove dice Orpinis Harc virtus, tuttavia non ripete lo stesso tema. [3] Orazio, infat-
de episodiis, unde summenda sint et quo
ti, affronta qui gli episodi: da dove debbano essere tratti, come debbano essere formati rispetto al mezzo e alla fine, cosa in essi debba essere accolto e cosa tralasciato. [4] Parlando in quel luogo dell’ordine, poiché all'ordine rinviano l'inizio, il mezzo e la fine, ugualmente aggiunge ed accenna accidentalmente ad inizio, mezzo e fine. [5] Qui del resto, parlando della costruzione di ciascun episodio, sembra di conseguenza toccare anche l'ordine stesso. [6] Li dunque ha trattato dell'ordine degli episodi e delle parti dell'opera poetica, ovvero da dove gli episodi debbano prendere inizio, in che modo debbano essere svolti, quali cose vadano scelte e quali tralasciate nella loro
medio et quo fine formandi sint, quid in ipsis summendum, quid relinquendum sit.
[4] Ibi igitur cum de ordine loqueretur,
quia ad ordinem refertur principium, nec non medium et finis, ideo addidit quasi ex
accidenti, atque innuit de principio, medio et fine. [5] Hic autem cum de constructione cuiusque episodii loquatur, videtur ex
consequenti tangere etiam ordinem ipsum. [6] Ibi ergo de ordine episodiorum ac poematis partium tractavit, hic vero de com-
positione ipsorum episodiorum, videlicet unde
episodia
initium
sumere
debeant,
quomodo deducenda, et quae in eorum formatione eligenda, et quae relinquenda sint, eo quod nitescere nequeant: in quo-
602. AP, 42. Cfr. Annotationes, 42, 43.
168
verisimilis
costruzione affinché non possano dare nel-
mixtio falsi cum vero. [7] De qualitate
l'occhio: nella loro composizione è richiesta
rum
compositione
requiritur
dispositione
una mistione verisimile di falso e vero. [7]
hoc in loco, superius vero de eorum ordine locutus est.
Ha parlato pertanto in questo luogo delle qualità degli episodi e della loro disposizio-
igitur episodiorum, et eorum
ne, precedentemente invece del loro ordine.
151. Arque rrà wENrITUR etc. [1] Videtur repetere quae dixerat a principio de monstro, non tamen repetit. [2] Nam hic de
151. ATQUE rr MENTITUR etc. [1] Sembra ripetere ció che aveva detto inizialmente sul mostro, ma in realtà non si ripete. [2] Qui
connexione episodiorum eorumque compo-
sitione, tractat; ibi vero de tota fabula, ut
tratta infatti della connessione degli episodi e della loro composizione; li invece di tutta
una sit.
la trama, che sia una.9?
153. Tv quin Eco ET PoPuLUS etc. [1] Cum
superius
dixit
IwrERERIT
MULTUM
Davus
153. Tu quip Eco ET PoPULUS etc. [1] Quando precedentemente ha detto INTERERIT MULTUM
etc. tetigit eam tragediae partem, qualem ab Aristotele mores appellatam, dixitque
Davus ete..°* ha toccato quella parte della tra-
multum referre, ut personis secundum varias earum differentias tribuantur verba a
ed ha affermato che è importante siano assegnate dal poeta ai personaggi, secondo le
poeta, habita aetatum, sexus, nationum, ac studiorum ratione. [2] Nunc vero aperit
loro varie differenze, parole adeguate ad età.
quomodo id faciendum sit, et quae cuique
spiega in che modo si debba farlo, e quali caratteristiche debbano essere attribuite a cia-
tribuenda sint. Et quia varietas ob aetatem longe maioris est momenti, ideo dili-
gentius aetatum proprietates percurrit. [3] De natione vero et patria et huiusmodi non poterat Horatius specialiter praecepta tra-
dere, quemadmodum circa aetates, siquidem aetatum
mores,
cum
a natura fluant,
apud omnes iidem sunt: aliarum. autem differentiarum mores, nationum scilicet
etc., cum non ita communes ac iidem apud
gedia che è chiamata da Aristotele ‘caratteri’,
sesso, nazione e cultura.° [2] Ora, invece,
scun personaggio. Poiché la differenza d'età è di gran lunga la più rilevante, per questa ragione si sofferma in modo più preciso sulle proprietà delle età. [3] Su provenienza, patria e altre caratteristiche analoghe Orazio non poteva tramandare precetti specifici così
come fa per le età, poiché i costumi dipendenti dall'età, derivando dalla natura, sono i medesimi per tutti; i costumi relativi alle al-
omnes sint, nequeunt singillatim exponi. [4] Preterea ceterae differentiae, nationum
tre differenze (come la provenienza ecc.), non
videlicet, fotunarum etc., non sunt omni-
no essere esposti uno ad uno. [4] Inoltre tutte
essendo comuni e identici in tutti, non posso-
63 Cfr. Annotationes, 1, 14, 16.
64 AP, 114 sgg. 65 I vv. 153-178 sono dedicati ai «caratteri» (mores), sui quali cfr. già le annotazioni relative ai vv. 114-127, e la
trattazione di riferimento in Arist. Poet. 1454a 16-1454b 19. Nel commento ad essa relativo in Annotationi, 17, pp. 217-221, Piccolomini rimanda al secondo libro della Retorica in cui Aristotele si è diffuso più lungamente sul
tema. Il medesimo rinvio nella glossa oraziana 172.1 (cfr. infra).
le altre differenze (provenienza, fortuna ecc.) non sono cosi note a tutti come lo sono le proprietà delle età; per questa ragione gli spettatori riconosceranno qualcosa di sbagliato in queste più che gli errori nelle altre differenze. [5] Affinché dunque gli spettatori ascoltino con maggiore attenzione, Orazio si sofferma a definire queste proprietà delle età.
bus ita notae sicut aetatum proprietates
sunt; quare spectatores magis |c. 159r] percipient quicquid in his peccatum fuerit,
quam [quid] peccetur in aliis differentiis. [5] Ut igitur spectatores attentius audiant, immoratur Horatius in his aetatum pro-
prietatibus disegnandis.
[1] Donec scilicet
154. AuraEA MaNENTIS. [1] Ossia finché alla
in fine tragediae vel commediae tollantur sursumque eleventur aulaea; nam dum recitantur fabulae strata manent.
fine della tragedia o della commedia vengo-
154. Aurara MawENTIs.
no sollevati e tirati su i sipari; infatti durante le recite essi restano abbassati.”
155. DonEc caNTOR vos PLAUDITE DICAT. [1]
155. DonEc cANTOR vos PLAUDITE DICAT. [1] Non enim ab histrione id dicebatur; nam histriones ea ratione, qua histriones spectatores alloqui non debent.
Questo, infatti, non era detto dall attore; gli attori osservano la regola per cui non devo-
no rivolgersi agli spettatori. 156. Axraris curusque etc. [1] Queste affermazioni non sono in contrasto con ciò che è stato detto precedentemente, ovvero dove
156. AzrarIS curusoue ete. [1] Non repu-
gnant haec iis quae superius dicta sunt, ibi videlicet SERVETUR AD IMUM QUALIS etc.;
66 Piccolomini si sofferma più diffusamente sulle differenze d'età che distinguono i vari personaggi perché si tratta di un aspetto generalizzabile. Tale carattere di universalità permette di estrapolare una precettistica minima che attribuisce alle varie età dell'uomo alcuni tratti specifici (cfr. Annotationes, 159, 172). Analoga impostazione in DanieLLo, La Poetica cit., p. 250-251, che dedica un intero paragrafo alla tripartizione giovani-adulti-vecchi, per riassumere poi in modo cursorio le altre «differentiae». Vale peró soprattutto il confronto con la Digressione che Piccolomini dedica alla questione nella Piena et larga parafrase nel secondo libro della Retorica (Venezia, Giovan Francesco Camozio, 1569: d'ora in poi Parafrase II), pp. 221-226: commentando Rhet. II, 1391a 20-1391b 6, il filosofo spiega che Aristotele ha trattato solo alcune delle «differentie» che distinguono i «caratteri» per esigenza di sintesi. La «riduzione a capi» di una trattazione che potrebbe essere quanto mai particolareggiata, è espediente condiviso da Ermogene, Cicerone ed altri (ivi, p. 222), ma è soprattutto significativo che la riflessione metodologica sulla classificazione dei caratteri approdi alla Poetica aristotelica e all'Ars oraziana: «et in vero non pare che il discorrere e assegnar minutamente costume per costume le proprietà che seguon tutte le diverse sorti e qualità di persone, appartenga semplicemente all’arte della Retorica, essendo
cosa per sé infinita e che depende dall'osservation che faccia l'huomo con la propria esperientia e diligentia sua. Il che si vede parimente avvenire nell'arte della Poetica, che è legittima sorella di questa facultà. Conciò sia che coloro, che trattan di quell’arte, solamente dicono quanto ai costumi che nell'imitatione s'ha da avvertir di
fargli quadrare, assomigliare e proportionare alle qualità delle persone di cui si parla. Et esprimendo i capi di cotai qualità gli scrittori di quell'arte non consuman tempo in assegnare quai costumi e conditioni sieno spetialmente proprii dei detti Capi, come cosa che non appartiene ad essi, come si può veder fra gli altri scrittori discorrendo la Poetica d'Aristotile. Et se alle volte qualche parola ne dicono alcuni, come fa Horatio toccando alcune proprietà dell'età, degli habiti, delle nationi e degli affetti, questo fa egli solo per cagion d'essempio, e non per propria intention dell'arte; perché se per tal intention lo facesse molto diminuto sarebbe, non toccando una minima particella di tali proprietà» (ivi, p. 223).
67 Il particolare uso dei sipari antichi è illustrato anche in De Noms, /n Epistolam cit., c. 58r: «[...] donec iterum post actam fabulam in altum aulea tollantur, quae demissa fuerant, cum fabula agi coepta est».
170
nam dum servatur ad imum, debet simul
scrive SERVETUR AD IMUM QuALIs etc.:9? infat-
haberi ratio morum
ti mentre ci si mantiene [coerenti] fino alla
ad aetates pertinen-
tium.
fine, si devono al tempo stesso considerare i caratteri in modo pertinente alle età.
159. Gest PARIBUS coLLUDERE. [1] Illud COLLUDERE facit proprietatem huius aetatis: non autem illud parius. [2] In omni enim aetate paribus et aequalibus delectamur, sed non colludere, nisi in ipsa pueritia.
159. Grsrrr raniBUs coLLuDERE. [1] È il «giocare insieme» che individua la caratteristica propria di quest'età, non «con i coetanei». [2] In ogni età, infatti, ci dilettiamo con i nostri coetanei e simili, ma il ‘giocare insieme” non ci diletta se non nell’infanzia stessa.^?
172. Spe Loncus. [1] Non quia spe vivat et
172. Spe Loncus. [1] Non perché viva nel-
omnia consequi se posse speret; nam hoc
2 Rhet. [2] Spe igitur longus hoc in loco di-
la speranza e speri di poter conseguire ogni cosa; questo è infatti proprio della giovinezza, come testimonia Aristotele nel II libro della
citur, quasi longiorem inchoet spem, quam
Retorica. [2] È dunque detto qui ‘di lunghe
iuventutis est proprium, teste Aristotele, in
consequi possit, quemadmodum dicit Ho-
speranze’ quasi che dia inizio ad una speran-
ratius in ode quarta primi libri, «vitae summa brevi spem nos vetat inchoare longam».
za più lunga di quanto possa effettivamente
[3] Et hoc maxime verum est in senibus qui
libro, «vitae summa brevi spem nos vetat inchoare longam».”! [3] Questo è vero soprattutto nei vecchi, che sono più vicini alla mor-
ottenere, come dice Orazio nell'ode IV del I
morti viciniores sunt: nam omnis spes in il-
lis longa est.
te: ogni
5
E
&
ag
p.
79
speranza, infatti, in essi è lunga. ^ [o)
68 AP, 125-127: «Si quid inexpertum scaenae conmittis et audes / personam formare novam, servetur ad imum, / qualis ab incepto processerit, et sibi constet». Piccolomini si premura di sottolineare che non c'è contraddizione
tra il principio della coerenza, per il quale un personaggio — specialmente se creato ex novo — deve mantenersi caratterialmente coerente dall'inizio alla fine, e l'esigenza di adeguare i personaggi alle proprietates aetatum, che per costituzione mutano col tempo.
69 Sulle età si veda anche la trattazione particolareggiata di Trissino, La quinta e la sesta divisione cit., Vl, pp. 65-66, che, ovviamente, rimanda alla Retorica aristotelica (cfr. Annotationes, 172). 70 Arist.. Rhet. IT, 1389b-1390a.
71 Hor., Carm., I, 4, 15.
72 Sulla base della trattazione dei caratteri nella Retorica, il fatto che il vecchio sia definito qui «spe longus», fa difficoltà (la lezione è del resto problematica e costituisce, a partire da Mueller, una delle cruces più dibattute tra gli editori dell’Ars: cfr. Brink e FepeI ad loc. per le correzioni proposte ed ulteriori dettagli). Commentando il passo della Retorica aristotelica in cui si delineano i tratti essenziali dei vecchi, Piccolomini afferma: «Poca speranza ancora soglion haver sempre nelle lor cose i vecchi, e difficilmente sperano: il che nasce da due cagioni. L'una è che l'esperientia ha fatto lor conoscere quanto poco si debbia porre speranza nelle cose frali di questo mondo, e quanto sia nelle più il mal che il bene [...] L'altra cagione che tolle la speranza ai vecchi potiam affermar che sia la lor natural timidità, essendo il temer contrario allo sperare [...]» (Parafrase II, p. 194). Quanto a «spe longus» nell Ars, il commentatore risolve la difficoltà affiancando all'autorevolezza di Aristotele un rimando intertestuale oraziano: il vecchio è «spe longus» nel senso in cui, nell'ode Solvitur acris hiems, Orazio dice che la brevità della vita deve spingere l'uomo a non avere speranze troppo lunghe (Carm., I, 4, 15: cfr. R.G.M. Nisser-M. Husnanp, A Commentary on Horace. Odes, Oxford, Clarendon Press, 1970-1978, vol. I, pp. 58-72). La difficoltà della
171
182. Ipse simi TRADIT. [1] Ha tratto da se stesso attingendolo con i propri occhi; e non l'ha tratto dalla forza e dall'artificio dell'opera poetica.”
182. Ipse sisi tRADIT. [1] Tradit sibi, propriis oculis hauriens; et non ex vi et arte poematis summit.
182. Non TAMEN "INTUS, DIGNA GERI etc. [2] Aristotele prescrive che la tragedia deve essere composta in modo da muovere le passioni di per sé, ed il meno possibile per mezzo delle macchine e della scena."* [3] Dice ugualmente che è da preferirsi quel genere di fatti miserabili e terribili che scaturiscono dalla composizione stessa a quello che si otterrà grazie alle macchine e all’apparato scenico, poiché il primo è meno artificioso.^ [4] Le trame pertanto devono essere composte dal poeta in modo che, anche tolta la scena, possano toccare e commuovere alla sola lettura. Le cose che accadono potranno
182. Non TAMEN INTUS, DIGNA GERI etc. [2] Praecipit Aristoteles ita componi tragoe-
diam ut affectus moveat ex se ipsa, et quam minimum ex machina et ex scaena.
[3] Ideo dicit prestantius esse illud genus miserabilium et terribilium quod a compositione ipsa proficiscitur, quam quod per machinas et per scenae apparatum atque aspectum acqueritur, cum hoc minus artificiosum sit. [4] Fabulae igitur ita componi debent a poeta ut, etiam sublata scaena,
possint ex sola lectione afficere et commovere. Ita quod, quae geri contigerint, per-
cipi recte possint.
così essere comprese correttamente.'?
184. QuAE MOX NARRET FACUNDIA PRAESENS. [1] Nuncii, dum exponunt quae facta intus sunt, videntur reddere illa quasi praesentia:
184. QuAE MOX NARRET FACUNDIA PRAESENS.
[1] I messaggeri, mentre espongono ciò che è accaduto all’interno, sembrano
render-
iunctura «spe longus» era rilevata anche in De Nonzs, /n Fpistolam cit., c. 62v: «spe longus: licet enim iam vitae cursum peregerint, ad extremumque illius terminum pervenerint; sperant se tamen adhuc victuros, et aliquid earum rerum, quas quasi divinant, perspecturos. Nisi malumus spem pro desiderio accipere, quod senectuti maxime proprium est. unde avidum et futuri appellat». T3 Cfr. Ps.-Acn., ad loc.: «Scilicet visu. Quia ipse mihi trado, quod video, et alter mihi tradit quae narrat». 74 Cfr. Arist., Poet. 1450b 15 sgg. (rapporto testo/scena); 1454a 32-1454b 8 (necessità che lo scioglimento venga dalla trama stessa); 1462a 11 sgg. (necessità che l’effetto della tragedia sia ottenuto anche a mezzo della sola lettura).
75 L'attenzione per la «compositio ipsa» della fabula e, quindi, per una necessaria e naturale concatenazione delle azioni e di stretta osservanza aristotelica; cfr. a questo proposito Annotationt, 57, p. 157, che mostra come «le attioni che s'hanno da contener nella favola, appaian tali che non a caso sian connesse, ma l'una dall'altra nasca». Per il riferimento alle «machinae» nella gestione e nella risoluzione dell’intreccio, cfr. Arist., Poet. 1454a 32-1454b 8, e Annotationi, 19, p. 226.
76 «Sublata scaena», la fabula deve commuovere anche alla sola lettura («sola lectione»): la glossa ad Orazio sfrutta evidentemente qui l'indicazione offerta da Aristotele, e già puntualmente sottolineata da Piccolomini in Annotationi, 46, p. 123, dove si spiega che l'«apparato» e la «melodia» «non s'han da intender esser le [parti della
tragedia] necessarie ed essenziali [...] di maniera che se ben la tragedia per se stessa, non rappresentata in scena, ma particolarmente letta o ascoltata leggersi, non reca forse il medesimo diletto ch'ella reca in scena, si come recar può forse il medesimo giovamento, nientedimanco non ogni diletto è propriamente suo, né s'ha da ricercar in lei;
ma quel solo che com’a tragedia le conviene e se le ricerca». Cfr. più avanti Annotationes, 202.1-3. Sul ruolo dello spettacolo nella ricezione del testo teatrale in Poet. 1453a 22-30 e nel relativo commento di Annotation, 71, p. 202, cfr. cap. IV, 8 4.
12
praesens
enim per nuncios praeteritum est.
fit, quod iam
lo quasi presente: attraverso i messaggeri,
infatti, viene reso presente ciò che è ormai m
trascorso. ''
185-187.
Nec PUEROS
CORAM
etc. AUT IN
185-187.
Nec PUEROS
CORAM
etc. AUT IN
AVEM ProcnEs etc. [1] Duo genera actionum
AVEM ProcnEs ete. [1] Due generi di azio-
removenda sunt ab oculis spectatorum: incredibilia, ut de Progne et Cadmo, et turpia. vel ob crudelitatem, ut de Medea, vel ob obscaenitatem. ut de virgine vitiata a Cherea, de quo tacuit Horatius quia notum per se est.
ni devono essere tenuti lontani dagli occhi degli spettatori: quelle incredibili, coine le vicende di Procne e Cadmo, e quelle turpi, o per crudeltà, come nel caso di Medea, o per impudicizia, come in quello della fanciulla stuprata da Cherea, di cui Orazio tacque perché episodio noto di per sé."
|c. 159v| 188. IncrepuLus op. [1] Si odio
188. IncrepuLus opi. [1] Se il delitto di Medea
dignum est Medeae facinus, incredibilis vero Cadmi versio in anguem; ergo odio id habebimus incredulique erimus, tam si
è degno d'odio. la metamorfosi di Cadmo in serpente è senza dubbio incredibile; avremo pertanto
in odio queste vicende
e restere-
77 Piccolomini fa riferimento ad un espediente tipico della tragedia classica, ovvero il ricorso a personaggi — spesso messaggeri — che rievocano fatti accaduti precedentemente e fuori scena. Il teatro tragico cinquecentesco farà
ampio uso di tale espediente. privilegiando al suo interno la tendenza alla narrazione. 78 La tipologia di azioni non rappresentabili sulla scena risponde ad un canone consolidato nella tradizione oraziana. Cfr. DanieLLo, La Poetica cit., p. 252: «Oltre a ciò, perché o le cose in scena si soglion fare o refferirvisi le fatte, è da vedere quali fare vi si deono e quali no. Quelle che far non vi si deono sono le crudeli, l'impossibili e le disoneste». L'esempio di «actio turpis ob obscaenitatem» è desunto dall Eunuchus
di Terenzio, in cui il gio-
vane Cherea seduce Panfila e se ne approfitta. E notevole che l'elenco dei «turpia» e degli «incredibilia» (Medea, Atreo, Procne, Cadmo), tratto dal repertorio tragico, sia integrato con l'eremplum di lascivia della commedia di Terenzio. Prevale forse qui un'impostazione moralistica, peraltro già attiva in DanieLLo (ibidem), che parafrasando i medesimi versi dell’Ars, ricorda non solo Medea e Progne, ma anche «i lascivi basci, gli abbracciamenti et i
congiugnimenti venerei» delle commedie latine. Un riscontro puntuale in De Nonss, /n Epistolam cit., c. 64v che classifica le azioni non rappresentabili in scena e spiega perché l'esempio terenziano è desumibile dalle parole di Orazio: «[...] aut a Cherea cum Thaide stuprum committi, quod turpe admodum sit, ac inhonestum. [...] Tria igitur sunt tantummodo referenda, non autem agenda in scena, quae terribilia sunt, et miserabilia; quae fieri non possunt; et quae obscaena sunt. [...] Unde non mactatur in conspectu omnium apud Euripidem Polixena [...] nec apud eundem evanescit ex omnium oculis, dum victima duceretur, Iphigenia [...] neque in scaena spectantibus omnibus a Cherea stuprum committitur apud Terentium, sed, ut est intus commissum, Antiphoni enarratur. De hoc vero tertio rerum tantummodo referendarum genere, quod in turpitudine et obscaenitatem positum diximus,
nihil Horatius, quod nunquam fere in tragoedia ipsa contingat, de qua hoc in loco praecipue loquitur, ut ex adductis ab eo exemplis licet coniicere». Piccolomini aveva già affrontato la questione in Annotationi, 19, pp. 69-70 dove, confutando il ricorso di Robortello ad AP, 182-184 («non dovendosi recar in scena imitation di morti, di
ferimenti, di tormenti e d'altre tali acerbe cose») a proposito del diletto generato dall'imitazione, spiega che la prescrizione oraziana non ha propriamente a che fare con l'imitazione, ma con la delicata questione delle passioni: «il non doversi recar in scena imitation di morti, d'ammazamenti, di ferimenti e simili, non nasce dal non potersi
nella scena imitar cose, che dispiaccino, imitandosene quivi molte; ma da altra causa procede». In Annotationi, 63,
illustrando infatti il concetto aristotelico di pathos, Piccolomini riconosce ancora la validità del divieto oraziano, ma spiega che Aristotele non si pronuncia su questo aspetto: «Et quantunque si debbi ragionevolmente credere non esser ben fatto il fargli apparir apertamente in scena, come par ch'osservino gli miglior poeti nelle più perfette
tragedie loro, e chiaramente l'afferma Horatio, e (quel ch'importa più) da molti luoghi di questo libro d'Aristotele
si possa dedurre, nondimeno in questa particella non lo vieta» (ivi, p. 174).
175
visu, quam si auditu haec perceperimus.
[2] Nam si Cadmi versio ex se ipsa incredibilis est, quomodo nos audientes id eve-
nisse credemus? [3] Solve, quia res auribus perceptae minus imprimunt in animo,
quam quae visu percipiuntur. [4] Et ob id Horatius dixit SEGNIUS IRRITANT ANIMOS etc., causam reddens, cur quae visa sint,
appareant incredibilia et odibilia, audita tamen non ita odio habeantur, nec ita in-
credibilia videantur. [5] Quia igitur oculi certius et acutius percipiunt, ideo ex scena removenda sunt, quae ita movere debent, ut eorum incredulitas et impietas minus
appareant.
189. Neve minor NEU srr etc. [1] Non do-
cet quanta, idest quam longa debeat esse tragoedia,
seu
commedia:
possent
enim,
quamvis haberent quinque actus, et longiores et breviores esse, ob actuum scilicet longitudinem vel brevitatem. [2] Dicet ergo numerum istorum actuum, quot videlicet esse debeant. 191. Nec peus ivrensmr. [1] Non Deos interloquentes in tragoedia intelligit, ut aliqui
opinantur, sed ex machina loquentes, tam in solutione fabulae, quam quavis alia occasione. [2] Si qui personas tragicas loquuntur non ex loquitur Horatius. ces sunt nodorum.
enim quandoque dii inter interponuntur in fabula, machina, deque his non [3] Non enim tunc vindi-
mo increduli tanto vedendole che udendole narrare. [2] Se la metamorfosi di Cadmo è infatti di per sé incredibile, come potremo credere, all’ascolto, che sia avvenuta? [3] Risolvi così: le cose che udiamo si imprimono con minor forza nell’animo di quelle che vediamo. [4] E per questa ragione Orazio ha detto «più debolmente colpiscono gli animi ecc.»,7 spiegando il motivo per cui le cose viste appaiano incredibili e riprovevoli, mentre le cose udite non siano tenute altrettanto in odio e non appaiono altrettanto incredibili. [5] Poiché dunque gli occhi percepiscono in modo piü vivo e acuto, occorre tenere lontano dalla scena i fatti che devono muovere in questo modo gli spettatori, affinché la loro incredibilità e la loro empietà si manifestino in modo attenuato.?
189. Neve MINOR NEU sir etc. [1] Non spiega quanto grandi, ovvero quanto estese, debbano essere la tragedia o la commedia: pur avendo cinque atti, potrebbero infatti essere sia più lunghe che più brevi, a seconda della lunghezza o della brevità degli atti. [2] Dice dunque il numero di questi atti, ossia quanti debbano essere.
191. Nec pus ivrEnsrT. [1] Non intende gli Dei che dialogano nella tragedia, come alcuni credono, ma quelli che parlano dalla machina, tanto nello scioglimento della trama quanto in qualsiasi altra circostanza. [2] Se infatti talvolta alcuni Dei sono introdotti tra i personaggi tragici, non parlano dalla machina, e Orazio non si riferisce a questi. [3] Essi infatti non sciolgono gli intrecci.8!
79 AP, 180-181: «Segnius inritant animos demissa per aurem / quam quae sunt oculis subiecta fidelibus [...]». 80 Cfr. Arisr., Poet., 1460a 12-18 e Annotationi, 132, pp. 386-388. Su tutto questo, cfr. cap. V, $ 1-2.
81 Il verso oraziano si riferisce al ricorso, frequente in tragedia, al deus ex machina come espediente per sciogliere un intreccio complesso. Piccolomini spiega che Orazio non si riferisce qui alle divinità che intervengono come
personaggi veri e propri: in tal caso, infatti, esse non sono chiamate a sciogliere l’intreccio. Sulla questione, cfr.
192. Nec QUARTA LOQUI etc. [1] Eodem scilicet tempore in scaena: plures enim quam tres personae simul in scaena loqui non debent, et si quarta addatur, parce loquatur. [2] Et hoc videtur servatum et apud
192. Nec quarta LOQUI ete. [1] Ovvero in scena allo stesso tempo: non devono infatti parlare in scena più di tre personaggi alla volta, e qualora ne sia aggiunto un quarto,
parli poco. [2] E ciò sembra rispettato sia
comicos et apud tragicos, et magis apud
dai comici che dai tragici, e maggiormente da questi ultimi."
hos. 193. Aucromis PARTES CHORUS etc. [1] Non
193. Aucronis PARTES cHORUS etc. [1] Non
auctorem
difenda l'autore, ma la parte, ossia la sostenga e faccia ció che l'autore stesso farebbe se introdotto tra i personaggi tragici; [2]
defendat,
sed auctoris
partes,
idest sustineat eius partes, idque faciat quod auctor ipse faceret si interponeretur
inter personas tragicas; [2] quod non contingit, faciat igitur chorus quod ille faceret
poiché non accade, il coro faccia dunque ció
che l'autore farebbe se ció accadesse; questo fa l'autore stesso nel poema epico ogni
si id contingeret; quod tum in epico poema-
volta che, interrompendo la narrazione, interviene con la propria opinione.
te auctor ipse id facit, quotiens narrationem demittens, suum iudicium interponit.
195. OrricrumQue viriLe. [3] Virie, ad virtutem pertinens, ut statim ostendet Horatius, dum singillatim percurret quae ad chorum pertinent.
193. OrrrcrumQue viriLe. [3] «Virile», che
riguarda la virtù, come subito mostrerà Orazio passando in rassegna ordinatamente ciò che concerne il coro.?
193. Avcronis PARTES etc. [4] Aliqui legunt Acronis: sed melius Avcronis ut legit Aldus et quamplura fidelia exemplaria. Avcronrs
193. Avcronis PARTES etc. [4] Alcuni leggono Acronis ['dell'attore']: ma è meglio Avcronis
['dell'autore'] come leggono Aldo e numerosi
ovviamente la prescrizione aristotelica di Poet., 1454b 1-2, puntualmente recepita, per esempio, da Tiussio, La
quinta e la sesta divisione cit.. p. 27: «Ancora è manifesto [...] che le buone soluzioni delle favole denno venire dalla istessa favola e non dallo introdurvi per via della macchina della scena qualche iddio che la solva [...] Perciò che i dèi non vi si denno introdurre se non per chiarire le cose che sono fuori della favola, cioè che non si contengo-
no nella azione che si imita [...] E però Orazio disse “Nec Deus intersit dignus nisi vindice nodus”». Osservazioni sul deus ex machina in tragedia in G.B. Giranpi, Lettera sulla tragedia, in Trattati di poetica e retorica cit., II, p. 474 (l'umanista, difendendo la propria produzione tragica di ispirazione virgiliana, illustra i casi in cui la presenza delle divinità è ammessa). 82 Il commentatore illustra la norma (non si ammette che parlino in scena più di tre personaggi), per poi ventilare la possibilità che essa sia talvolta infranta. In termini sostanzialmente analoghi Bap. Asc., Praen., XIV («aut una est secum loquens aut duae aut tres raro quattuor. Plures autem quam quattuor esse non possunt: et si quarta
fuerit rarissime loquetur. Unde dicit Horatius in libro de arte poetica») che offre una sorta di aggiornamento rispetto al più tassativo PorpH., ad loc.: «si tamen quarta interponitur, non loqui debet, sed adnuere statimque dimitti». L'affermazione che i tragediografi sembrano rispettare la regola dei tre personaggi in modo più sistematico dei commediografi nasce probabilmente dalla conoscenza diretta dei numerosi casi in cui la commedia latina infrange la norma. 83 Cfr. l’accezione moralistica di «officiumque virile» in De Nores, /n Epistolam cit., c. 72v: «Quod ad unamquamque virtutis partem spectaverit. Hoc enim officium virile intelligo, cum nihil magis in vita homines efficere deceat, quam quod cum virtute coniunctum sit».
175
ergo, idest poetae. [5] Solent enim poetae
testimoni autorevoli. AUCTORIS dunque, ossia
epici in rebus vel honestis vel turpibus, suam interponere sententiam, laudando vel vituperando, honesto semper faventes
‘del poeta”. [5] I poeti epici sono infatti soliti inserire la loro opinione riguardo a cose one-
et vitia detestantes. [6] Quod igitur in epicis facit ipse met poeta, in tragedia facere debet chorus. [7] Si vero legatur Acronis,
do sempre l'onesto e rimproverando i vizi. [6] Ciò che, dunque, nell'epica fa il poeta
ste o turpi, lodarido o biasimando, approvan-
stesso, nella tragedia deve svolgerlo il coro.
ne exponas, ut aliqui, histrionem primarum partium; [8] sed expone quod, sicut duplici munere fungitur chorus in scaena,
[7] Se invece si legge Acronis, non intendere —- come alcuni - l'attore delle prime parti; [8]
videlicet loquendo in |c. 160r] ipsis actibus
doppia funzione sulla scena (parla in veste di attore all'interno degli atti stessi e canta
ma considera che, come il coro esercita una
loco histrionis et canendo inter actus, sic
negli intervalli tra di essi), cosi duplice sarà anche il suo fine: [9] uno, vale a dire reggere
etiam duplex erit eius officium: [9] unum videlicet sustinere actoris partes, histrionem scilicet agere; aliud vero defendere OFFICIUM VIRILE et quae sequuntur, cum canit scilicet.
le parti dell'attore, ovvero recitare; l'altro, invece, difendere l’oFFICIUM VIRILE e ciò che
segue, ossia quando canta.5
84 La scelta di accogliere a testo «auctoris», esplicitamente discussa da Piccolomini in Annotationes, 193.4, si
basa sulla lezione tradita dall'aldina e dai «quamplura fidelia exemplaria» cui si riferisce il commentatore (Aldo Manuzio, per esattezza, legge al v. 193 «autoris»). La variante, non registrata nelle moderne edizioni critiche
dell’Ars poetica (cfr. Buixk e FepELI ad loc.), costituisce uno dei punti maggiormente discussi dai teorici cinquecenteschi perché determinante ai fini di una definizione del ruolo e dello statuto del coro. «Auctoris partes chorus [...] defendat» significa fondare su Orazio la concezione del coro come portavoce del poeta, assimilando la funzione del coro nei generi teatrali a quella degli interventi autoriali nel poema epico. Del medesimo avviso De Nonzs, /n Epistolam cit., c. 71v: «Cum in tragoedia et comoedia chorus interponatur, qui vel aliquid inter unum et alterum actum solus concinat, ut detineat spectatores; vel interdum unius personae munere fungens cum reliquis histrionibus colloquatur; coniunctim praecipit quem illi sermonem in utraque re tribuamus. Huiusmodi autem convenire, inquit, ut eas partes suscipiat deferendas, quas author, si ei daretur in tragoedia vel comoedia locus, ut in epopeia, ipse defenderet [...] authoris partes defendat: quas ipse author defenderet, si ei, ut in epopeia, ita in tragoedia vel comoedia daretur locus. Solent enim plerumque authores in rebus bonis, aut malis suas sententias interponere vel reprehendentes, ut res postulaverit, vel commendantes».
85 Ancora De Nonrs (ibidem) discute la lezione «actoris», messa per esempio a testo da Grifoli: «Actoris legit Grifolus, actorem intelligens per excellentiam hypocritam, qui primas partes agit, ut Aiacem, Horestem, Medeam: cuius partes choro defendendas esse, ait intellexisse Horatium: quod cum iis videtur pugnare, quae dicuntur in his carminibus. Quomodo etenim bonis faverit et peccare timentes se amare ostenderit, si Medeam defenderit omnium, qui unquam fuerunt et scelestissimam et immanissima chorus? [...] Chorus itaque actorem, seu hypocritam
non semper tuetur, ut putat Grifolus, sed si bonus fuerit, et dignus defensione. Nam malos non sed iis etiam imprecabitur: ut a Sophocle et Euripide servatum licet coniicere. Quam ob rem quam authoris scripsit Horatius, hoc sensu dixisse crediderim. Agat primum chorus et actoris deinde ita agat, ut virili officio satisfaciat, idest vehementer, et ut viro dignum est; postremo, ne
solum accusabit. si actoris potius partes sustineat: extra propositum
evagetur. Non enim satis est, si vehementer, animoseque agat, notandis vitiis, virtutibusque extollendis: sed hoc etiam requiritur, ut ea, quae agendo pronunciat, cum ipsa re, idest cum tragoediae argumento cohaereant». Cfr.
anche Macer, /n Horatii librum cit., pp. 350-351. La riflessione piccolominiana sul coro è ulteriormente articolata nel commento alla Poetica: rinviando ad altra sede una disamina puntuale delle osservazioni di Piccolomini sul coro, anche in vista di una chiara definizione dello ‘specifico’ teatrale cui l'umanista si mostra particolarmente sensibile, cfr. almeno Annotationi, 26, pp. 81-85; 64, pp. 180-183; 131, p. 386. Basti qui osservare che, come in altri casi, il commentatore esprime la sua preferenza per una lezione, ma non rinuncia ad esaminare il significato
della variante concorrente.
176
[1] Ti-
197. Er AMET PECCARE TIMENTES. [1] Ossia
mentes virtutis scilicet amore, non timore
197. Er AMET PECCARE TIMENTES.
che temono per amore della virtù, non per
poenae.
timore della pena."^
200. ILLE TEGAT commissa. [1] Hoc est laudet
200. ILLE rEGAT commissa. [1] Ossia: lodi co-
tegentes commissa ac fidem probet.
loro che proteggono i segreti ed approvi la fedeltà.
202. Tigia non vr Nuwc. [1] Partem illam tragediae tangit secundum aliquos, quam Aristoteles vocat melodiam. et aliquantisper aliam etiam partem quam vocat Aristoteles apparatum. Sed haec expositio non plene satisfacit. [2] De apparatu autem aliquantis-
202. Tipi4 non vr Nunc. [1] Secondo alcuni tocca quella parte della tragedia che Aristotele chiama ‘melodia’ e in parte anche un altra, che Aristotele chiama ‘apparato’.8”
Ma questa spiegazione non soddisfa pienamente. [2] Dell’apparato, invero, parlerà un
per loquetur inferius, quasi per transitum.
po' più avanti, quasi di passaggio. [3] Que-
[3] Haec enim duae partes, videlicet melodia et apparatus, magis ad artem scaenicam quam ad poeticam spectare videntur, de qua conscribitur hic libellus. [4] Hoc igitur in loco preparat se Horatius ad ostendendum
ste due parti infatti, la melodia e l’apparato, sembrano riguardare più l’arte scenica che
la poetica, alla quale si circoscrive questo libro. [4] Qui Orazio si prepara a mostrare in
quomodo satyri introducti sint, locumque habuerint in tragoedia, et quomodo introdu-
che modo siano stati introdotti i satiri, in che modo abbiano avuto posto nella tragedia ed in che modo debbano essere portati sulla
cendi sint; quod docet ibi VERUM ITA RISORES
scena, cosa che illustra dove dice VERUM ITA
etc. [5] Dum autem ad id se preparat, profectum tragediae describit.
rIsoREs etc. [5] Mentre si prepara a questo,
però, delinea l'evoluzione della tragedia.
209. Vinoque DIURNO PLACARI Genius. [1]
209. Vinoque piURNO PLACARI Gentus. [1] Al
Genio sacra fiebant a singulis in eorum
genio venivano dedicati dei riti dai singoli,
diebus natalibus.
[2] Est enim deus in
cuius
quisque
ciascuno nel proprio giorno natale. [2] Esso è un dio che tutela chiunque nasca, ed è buono
tutela,
cum
natus
est, ve-
nit, et est vel bonus vel malus, sicut alii ad infelicitatem nascuntur, alii ad foelici-
o cattivo, così come alcuni nascono destinati
tatem. [3] Unusquisque ergo in suo natali
dunque sacrificava al proprio genio nel giorno del compleanno, e questo con vino e latte, ma senza sangue, poiché non pareva conveniente privare della vita altri esseri viventi
sacra suo genio faciebat, et hoc cum vino et lacte, sine sanguine, cum non videretur
congruere, ut quo die lucem suscipimus
all'infelicità, altri alla felicità. [3] Ciascuno
86 La glossa trova un riscontro puntuale in De Nonrs, /n Epistolam cit., c. 73v («Non timentes propter propositas poenas, sed virtutis amore timentes peccare»), ma e opportuno ricordare che entrambi i commentatori hanno a
che fare con un testo corrotto. Tra gli editori moderni, Brink inserisce tra cruces la lezione «peccare timentes», mentre Fedeli mette a testo «pacare timentes» nel senso di ‘tranquillizzare chi è in preda al timore”, evitando cosi la ripetizione del concetto già espresso da «bonis faveat» al v. 196. Cfr. Brink e Fepku, ad loc.
87 Arist., Poet. 1450a 9-12; 1450b 15-20 (e cfr. le relative Annotationi, 39 e 46). 88 AP, 225.
nascentes, aliis animantibus lucem adima-
nel giorno in cui, nascendo, noi l'abbiamo
mus. [4] Placabatur ergo, idest colebatur
ricevuta. [4] Era dunque placato, ossia ve-
genius in diebus festis, hoc est in diebus
nerato il genio nei giorni festivi, ovvero nei
natalibus. [5] ‘Placare’ autem pro coli ac-
giorni natali. [5] ‘Placare’, del resto, deve
cipi debet: nam genius cum mitissimus sit
essere inteso per ‘venerare’: il genio infatti,
deus, magis est colendus quam placandus.
essendo una divinità quantomai mite, è più da venerare che da placare. [6] Drurno vino, invece, perché i sacrifici al genio si svolgevano di giorno e non di notte come le orge.
[6] Drurno autem vino, quia de mane sacra genio fiebant, non autem noctu velut orgia.
210. Frsris rMPUNE pIEBUS. [1] IMPUNE, sive
210. Festis mpune
absque infamia et labe, vel sine lege ac
mente», ossia senza infamia.” ovvero sen-
DrEBUS.
[1] «Impune-
censura architriclinii seu symposiarchi, vel sine ebrietate. [2] Ebrietas enim videtur esse quaedam poena eorum qui nimium bibent. [3] Vel potius dic mune, hoc est, passim.
za ordine e censura del maggiordomo o del simposiarca, vale a dire senza ubriachezza.
[2] L'ubriachezza sembra infatti essere proprio una punizione per coloro che berranno troppo. [3] O piuttosto intendi «impunemente» nel senso di ‘senza distinzione”.
211. Accessit NUMERISQUE MoDIsQUE. [1] La
211. Accessit NUMERISQUE MoDISQUE. [1] Rhitmo enim et harmonia, non solum voce,
tragedia imita non solo con le parole, ma
imitatur tragedia; an autem rhitmo seu numero, et harmonia simul considera.
anche con il ritmo e l'armonia;? oppure considera il ritmo, ovvero la metrica, insie-
me con l'armonia.
212. INpocrus QuiD ENIM saPERET etc. [1]
212. INbocrUs QUID ENIM saPERET etc. [1] Non è esposta qui, come intendono alcuni, la ragione per cui il flauto era stato debole ai primordi; ma spiega perché si aggiunse poi una maggior licenza. [2] Il motivo era che il popolo igno-
Non redditur hic, ut aliqui putant, causa cur priscis temporibus tenuis fuerit tibia; sed redditur causa cur accesserit dehinc li-
centia maior. [2] Causa autem erat quia populus indoctus, confusus etc., non poterat gravitatem tragediae patienter ferre, nisi auctis et novis oblectamentis detineretur.
rante, smarrito ecc., non poteva sopportare
[3] Fuit ergo ILLECEBRIS ET GRATA NOVITATE
di svago. [3] Lo si dovette dunque «trattenere e sedurre con una gradita novità»?! come Orazio dice anche nella I epistola del II libro.??
pazientemente la solennità della tragedia, se non trattenuto da forme accresciute e nuove
MORANDUS ut etiam dicit Horatius in epistu-
la prima secundi libri.
89 Cfr. De Nonrs, [n Epistolam cit., c. 82v: «Impune. Sine ulla infamiae nota, cum antea infames putarentur apud castos, verecundosque homines illius aetatis, qui suis libidinibus quotidie indulgerent, nec a morum censoribus impunes relinquerentur». Si veda anche Lanp., ad loc.: «Impune. Nulla paena a censoribus adibita». 90 Che ritmo, armonia e melodia siano «instromenti» con cui le varie «spetie» della poesia imitano, è affermato da Piccolomini in Annotationi, 2, p. 8. Il medesimo concetto è ripetuto in Annotationes, 251.
91 AP, 223: «inlecebris erat et grata novitate morandus».
92 Cfr. Hor., Epist. II, 1 (soprattutto i vv. 182 sgg, 215). "Do?
178
[c. 160v| 214. Morumoue ET LuxURIAM. [1] Circa rhitmum in saltationibus, maiorem licentiam ac luxum.
214. MoruwQuk Er LUxURIAM. [1] Una maggiore licenza e ricercatezza nel ritmo dei balletti.
215. TRAXITQUE vaGUs etc. [1] Cum enim iam
215. TraxrrQue vacus etc. [1] Poiché il flauto
esset in maiori praecio tibia tibiarumque ars, tibicen, ad augendam et tuendam maiestatem, cepit uti demissiori veste, ta-
e l'arte flautistica godevano già di maggior pregio, il flautista cominciò ad indossare una veste più modesta, ossia la veste talare,
lari scilicet.
per aumentare
216. Sic ETIAM FIDIBUS. [1] Cum tribus sequentibus carminibus. [2] Ostendit non solum incrementum accepisse eam tragediae partem quae melodia dicitur, ac etiam illam quam apparatum vocant, sed alias etiam partes, lexim videlicet sive elocutionem et sententiam, dum elocutio seu dictio facundior et sententia prudentior evasit.
e conservare
la maestà.”
216. Sic ETIAM FIDIBUS. [1] Con i tre versi successivi. [2] Non mostra solo che si svilupparono quella parte della tragedia che è detta melodia e pure quella che chiamano
apparato, ma anche le altre parti, ovvero la lexis o elocuzione e il pensiero, finché l'elocuzione o dizione divenne più sciolta
e il pensiero più profondo. [3] Pertanto ai
[3] Non tantum igitur priscis poematibus
primi componimenti poetici non soltanto si
additus est luxus et ornatus, sed etiam addita est gravitas et facundia in ipsis verbis
aggiunsero lo sfarzo e l’eleganza, ma anche solennità e facilità d’elocuzione nelle parole
atque sententiis.
stesse e nei concetti.
216. Voces CREVERE sEVERIS. [4] Vel quia
216. Voces cREvERE sEvERIS. [4] O perché
auctus fuerat numerus chordarum fidibus
fu aumentato il numero delle corde alle lire severe, che in precedenza erano più severe.
severis, quae prius severiores erant. [5] Vel quia odarum cantus additus et auctus est,
[5] O perché fu aggiunto e si estese il canto
ut statim explanat. [6] Prius enim canebant
delle odi, come spiega subito. [6] Prima in-
laudes illustrium quae severae erant; dehinc
fatti cantavano le lodi degli uomini illustri che erano austere; in seguito anche gli amori e i banchetti.
etiam et amores, atque convivia.
217. Er TULIT ELOQUIUM INSOLITUM FACUNDIA
PRAECEPS. [1] Sicut melodia augumentum accepit, sic et lexis exornationes ampliores consequuta est. [2] PnaEcEpPs autem, quia
217. Er TULIT ELOQUIUM INSOLITUM FACUNDIA PRAECEPS. [1] Come la melodia ricevette un incremento, così anche la /exis conseguì ornamenti maggiori. [2] «Impetuosa» invero,
93 Per l'immagine della veste esuberante, cfr. Hor., Fpist. Il, 1, 204-207: «[...] quibus oblitus actor / cum stetit in scaena, concurrit dextera laevae. / “Dixit adhuc aliquid?" *Nil sane”. “Quid placet ergo?” / *Laena Tarentino violas imitata veneno"».
94 Rilevando lo scarto repentino con cui Orazio passa dalla musica alla parola, Piccolomini sottolinea lo sviluppo parallelo delle varie componenti della poesia: cfr. Annotationes, 217-218.
de ore facundo videntur verba quasi flumen fluere.
perché da una bocca eloquente le parole sembrano fluire come un fiume.
218. UriLIUMQUE sacax etc. [1] Cum caeteris
218. UriniUMQUE sacax etc. [1] Con le altre
tragediae partibus, etiam et ea pars quam
parti della tragedia anche quella che Aristotele chiama ‘pensiero’ ottenne un accre-
sententiam
vocat
Aristoteles
augumentum
sumpsit.
scimento.
220. Carmine QUI TRAGICO etc. [1] Docet
220. CaRMINE QUI TRAGICO etc. [1] Insegna in
quomodo et quare fabula satyrica sit introducta in tragedia apud Graecos scilicet. [2] Quamvis autem longe ante Horatii tempora
che modo e perché presso i Greci la favola satirica sia stata introdotta nella tragedia. [2] Nonostante i satiri siano stati esclusi dai poeti greci molto prima dell'epoca di Orazio, tuttavia, poiché presso i Romani al tempo di Orazio erano in uso per la medesi-
satyri a Graecis poetis exclusi fuerint, tamen,
quia forte apud romanos
tempestate
Horatii in usu erant, ob eamdem rationem,
ut scilicet illecebris detineretur spectator etc., ideo Horatius satis magna diligentia, hanc rem tractat hoc in loco; [3] docetque quales introduci debeant satyri et qua locu-
ma ragione, onde lo spettatore fosse sedotto
da attrattive ecc., per questo motivo Orazio tratta qui tale argomento con una discreta
diligenza; [3] e spiega quali satiri debba-
tione ac de qua materia loquentes introducendi sint.
no essere introdotti, con quale eloquio, e di
220. Carmine QUI TRAGICO etc. [4] Arbitrantur plerique satyram inductam fuisse in tragoedia loco chori inter actus. [5] Ego
220. Carmine QUI TRAGICO etc. [4] La mag-
vero
atti.^? [5] Io invece penso che i satiri siano
existimo
inductos
in ipso corpore
quale soggetto debbano discorrere.
gior parte ritiene che la satira sia stata inserita nella tragedia al posto del coro fra gli
tragoediae, in ipsisque actibus, loquentes
stati introdotti proprio all'interno della tra-
cum personis tragicis. [6] Dicit Aristoteles
gedia e negli atti stessi a parlare con i per-
quod,
sonaggi tragici. [6] Aristotele afferma che,
trum
post
reiectam
carmen,
demptum
quod
fuit, ac
satyram, satyrae
iambicum
tetrame-
aptum
erat,
eius
loco
sumptum, trimetrum scilicet. [7] Si ergo
dopo l'esclusione della satira, il tetrametro, che le era adatto, fu tolto via e fu assunto al suo posto il metro giambico, ovvero il trime-
95 Tra i «plerique» cui si contrappone il commentatore, cfr. De Nores, /n Epistolam cit., c. 87r-v, che offre una testimonianza speculare a quella piccolominiana: «Hos [Satyros] autem loco chori introductos intelligit, non, ut quidam volunt, in ipsa tragoedia, cum praesertim dicat factum, ut grata novitate detinerentur spectatores: quod inter unum et alterum actum fit, chori loco».
96 Arisr., Poet. 1449a 19-24: «[...] partendo da trame brevi e da un linguaggio scherzoso dovuto all'elaborazione dell’elemento satiresco, la tragedia acquistò col tempo solennità, e il metro da tetrametro si trasformò in giambo. All'inizio usavano il tetrametro perché la composizione era satiresca e orientata verso la danza; ma quando si affermò il parlato, fu la natura stessa a trovare il metro idoneo: il giambo è infatti il metro più colloquiale, come
prova il fatto che nella nostra conversazione ci capita di fare molti giambi e pochi esametri, e solo quando ci si allontana dal ritmo discorsivo» (trad. Paduano). Cfr. la traduzione di Piccolomini in Annotazioni, 27, p. 85: 28. pp. 87-88, con relativa esposizione, ivi, pp. 88-89.
loco chori inter actus fuisset satyra, non oportebat in tragoedia uti tetrametris,
AR
in trimetrum. [8] Nam quod inter actus non fuerit necesse
haberi, ita ut
miscere tetrametra
:
VUA
ta tra gli atti al posto del coro, non sarebbe stato necessario fare uso dei tetrametri nella tragedia, né mutare quel metro in trimetro.
nec opus fuisset dehinc id carmen mutare ponitur, potest seiunctum
3
tro. ^ [7] Se pertanto la satira si fosse trova-
[8] Infatti ciò che si pone tra gli atti, può es-
in
corpore tragoediae. [9] Arbitror ergo sa-
sere considerato a sé, così che non sarebbe stato necessario mescolare i tetrametri nel
tyros interponi solitos commixtos
in ipsa
corpo della tragedia. [9] Io ritengo pertanto
tragoedia et cum tragicis personis collo-
che i satiri fossero solitamente inseriti nella tragedia stessa e che dialogassero con i per-
quentes.
[10] Et huic expositioni favet
quod Horatius addit NE QuicuMQUE DEUS etc. Ne mox dicam.
sonaggi tragici. [10] A questa interpretazione è favorevole l'aggiunta di Orazio, dove 97 SES afferma NE QUICUMQUE DEUS etc." Non dirò di più.
220. CeRTAvIT 08 HIRcUM. [11] Non ille met qui certavit, sed intelligit tragicos poetas:
220. CeRTAVIT 08 HiRcum. [11] Non proprio colui che gareggiò, ma intende i poeti tragici; per la descrizione del poeta tragico.
per tragici poetae descriptionem.
lc. 161r| 221. Nupavir ET Aspen. [1] AsrER,
221. Nupavir ET AsPER. [1] AspPER, ovvero, essendo precedentemente asPER e troppo austero senza i satiri e i loro svaghi. [2]
prius scilicet, cum antea esset asper et nimis severus sine satyris eorumque oblecta-
mentis. [2] Vel 4sPEm idest agrestis, cum
Oppure asPeR nel senso di agreste, giacché i satiri trattavano di cose silvestri; 0 ASPER
sylvestria tractarent satyri; vel AsPER mo-
ribus. Prima expositio melior.
quanto ai caratteri. La prima interpretazione e la migliore.
97 AP, 227. Cfr. Annotationes, 227. Quanto ai satyri in tragedia, si veda il commento di Piccolomini a Poet. 1449a 19-24 in Annotationi, 27, pp. 86-87. Commentando questa dibattuta particella, Piccolomini rifiuta le interpretazioni di Maggi, Robortello e Vettori (ivi, pp. 85-80), e ne propone una che contribuisce a chiarire il senso della glossa oraziana: «[...] le tragedie nei primi tempi loro eran molto brevi; come che semplicemente non contenessero, se non la pura, si può dir favola, poco manco ch'ignuda d'episodi. Onde perché per l'una e per l’altra di queste cagioni, cioè per la loro brevità e per la detta nudità, non grandemente dilettavano, pensaron,
per riparare ad ambidue questi mali, d'introdurvi satiri, le attioni dei quali venisser'ad allungar la recitatione della tragedia; e con quelle lor ridicolose attioni, a dilettare. Né s'ha da intendere, che quei satiri alterasser punto la favola tragica con le loro operationi e coi loro negotii, quasi che di due cose così diverse, una sola se ne facesse, e se n'incorporasse, come pare ch'intendino alcuni dei nominati interpreti, che satiriche chiamano quelle tragedie; come che con satiri incorporate. Ma s'interponevano in modo i satiri tra attione e attione della stessa favola, che distinti da quella apparivano i lor maneggi: se già per accidente con alcuni degli histrioni della favola, qualche parola non havesser detto. Ma col tempo poi, considerata meglio la poca convenientia, che
havevan quelle ridicolose cose con la gravità e maiestà della tragedia; e che più tosto offuscavano ogni diletto e ogni avvertimento e attentione che si dovesse haver verso la tragica favola: cercarono, per tor via da essa li satiri, di riparar altrimenti alla lunghezza di quella e in un medesimo tempo alla mancanza del proprio diletto suo. Et questo rimedio fu l’ornarla e accrescerla con episodi» (ivi, pp. 86-87). Per un inquadramento della questione, in relazione alle affermazioni oraziane, cfr. Brink e FepeLi, ad loc. 98 Cfr. Hor., Epist. I, 18, 6, dove «asperitas agrestis» evoca la rozzezza campestre.
181
siquidem ebrii videntur nullam nec honesti, nec religionis rationem habere.
224. Porus Er exLEX. [1] L'ubriachezza toglie infatti ogni timore e amore delle leggi; EXLEX pertanto, quasi senza ogni misura, poiché gli ebbri sembrano non avere alcuna cognizione dell'onestà e della religio.
227. Ne QuicUMQUE DEus etc. [1] Ne scili-
227. NE QUICUMQUE DEUS etc. [1] Ovvero che
cet persona tragica, quae modo gravissima sese ostenderit, si cum satyrica persona dehinc contingat illi loqui, humilissime
un personaggio tragico, che si sia mostrato in un dato momento in tutta la sua solennità, qualora gli accada poi di parlare con
224. Porus er exLEx.
[1] Ebrietas enim
omnem
et amorem
legum timorem
EXLEX igitur, quasi extra omnem
aufert;
rationem,
se gerat. [2] Et e contra, ne dum cum sa-
un satiro, non prenda a comportarsi in modo
tyris colloquitur, nimium velit tueri suam
troppo umile. [2] E, al contrario, che non voglia mantenere troppo la sua solennità tragica mentre parla con i satiri. [3] Con ‘eroe’ e ‘dio’, personaggi tragici, intende la tragedia che, ammettendo i satiri, deve spogliarsi par-
tragicam gravitatem. [3] Et per HeroEM et Deum, videlicet personas tragicas, tragediam intelligit quae, dum admittit satyros, debet aliquantisper deponere de sua maiestate, quod statim declarat exemplum
227. NE quicumouE DEUS etc. [4] Fere omnes exponunt quod qui modo in tragoedia
personam regiam representavit, si dehinc representat personam satyri, nimis humili sermone non utatur. [5] Adeo quod ex hac
expositione
zialmente della sua grandezza, come è subito
mostrato dall’esempio della matrona.”
matronae.
oportet
intelligere
eundem
histrionem,
postquam representavit et egit personam tragicam, statim post illum
227. NE QUICUMQUE DEUS etc. [4] Quasi tutti
spiegano come segue: chi ha interpretato un personaggio regale nella tragedia, qualora interpreti poi il personaggio del satiro, non ricorra ad un eloquio troppo umile. [5] Bisogna così intendere da questa spiegazione
che il medesimo attore, dopo aver interpretato un personaggio tragico, subito dopo
rosum esset totiens eundem histrionem in-
quell’atto, viene in scena impersonando il satiro, e poi nell'altro atto impersonando il re, e via di seguito. Ma non condivido questa interpretazione. [6] In primo luogo perché sarebbe troppo faticoso per lo stesso
dui (sic) varias personas. Praesertim cum
attore interpretare
in habitu regio multa requirantur, quae deponenda sint, ut satyri persona effinga-
actum, venire in scaenam sub persona sa-
tyri, et dehinc in alio actu sub personam regis, et sic deinceps. Sed huic expositioni
non adhereo. [6] Primum quia nimis ope-
tante volte personaggi
est non
diversi, giacché specialmente nel costume del re sono richieste molte cose che devono essere tolte per rappresentare il personaggio del satiro, nella finzione e costume del qua-
facilis apparatus, dum cornua, pedes, vultus, et totum fere corpus, ad formam satyri
le, sebbene nudo, è richiesto un apparato non facile affinché le corna, i piedi, il volto e
reducatur. [7] Si ergo finito aliquo actu,
quasi tutto il corpo siano adattati all’aspetto
tur, in cuius fictione et habitu, quamvis nudus
introducatur,
necessarius
99 AP, 231-233: «Effutire leves indigna Tragoedia versus, / ut festis matrona moveri iussa diebus. / intererit Satyris paulum pudibunda protervis».
rex exiens de scaena et statim loco chori
del satiro.!° [7] Se dunque, finito un atto,
procedere debent satyri, quomodo idem
il re esce dalla scena e i satiri subito devono entrare al posto del coro, in che modo il me-
met histrio poterit tam celeriter instrui, ut tam diversis personis inservire possit? [8]
desimo attore potrà essere preparato tanto
Praeterea decorum personarum non debet perpendi, quo ad illum qui representat, sed
velocemente
quo ad illum qui representatur. [9] Quare si quis varius et idem histrio in comme-
dei personaggi non deve essere giudicato in relazione a chi interpreta, ma a in relazione
da poter
interpretare
bene
personaggi cosi diversi? [8] Inoltre il decoro
dia representat senem severum et dehine
a chi è interpretato. [9] Per questa ragione,
ancillam, dum ancillam agit non debet in decoro servando considerare quod paulo
se qualcuno di versatile, il medesimo attore
ante senem representaverit. [10] Sed dum
vero e poi l'ancella, mentre interpreta l'an-
agit ancillam, ancillae verbis et sententiis debet uti, et dum senem agit gravia debet loqui. Idem ergo histrio si prius acturus est regem et dehinc satyrum, dum
cella non deve considerare, nel mantenere
satyrum agit, non debet rationem habe-
ancella e mentre interpreta il vecchio deve
re
dire cose austere. Il medesimo attore, dunque, se reciterà prima la parte del re e poi
personae
regiae
quam
prius
egerit.
[11] Existimo ergo satyros inter personas tragicas inductos esse, atque hoc in loco
precipere Horatium quod qui ponunt satyros in tragedia debent animadvertere ne tragoedia ob id nimium vilescat, siquidem
in una commedia, interpreta il vecchio se-
il decoro, di aver interpretato poco prima un vecchio. [10] Ma mentre recita la parte dell'ancella, deve usare parole e concetti da
del satiro, mentre interpreta il satiro non deve tenere i modi del personaggio regale che aveva prima impersonato. [11] Ritengo
personae tragicae cum satyris colloquan-
pertanto che i satiri fossero introdotti tra i personaggi tragici e che Orazio in questo
tur: nec etiam nimis tueantur hanc tragi-
passo insegni ciò: coloro i quali pongono i
cam maiestatem; sed aliquid deponant de
satiri nella tragedia devono badare che essa
ea gravitate, ut statim exemplo matronae confirmat.
non si abbassi troppo quando i personaggi tragici abbiano a conversare con i satiri; né i personaggi tragici conservino troppo que-
sta grandezza propria della tragedia, ma depongano un po’ di quella solennità, come subito conferma l’esempio della matrona.
229. MicnET IN oBscuras TABERNAS. [1] In sermonem scilicet tabernis illis obscenis et humilibus omnino similem.
229. MIGRET IN OBSCURAS TABERNAS. [1] Ovvero in un eloquio del tutto simile alle taverne oscene e umili.
100 Sulla caratterizzazione ‘costumistica’ del satiro, cfr. RosorreLLo, Explicationes cit., p. 500: «[...] ea autem fuisse figura qua solent effingi a sculptoribus et pictoribus. Ego sane in antiquis numismatis multos spectavi facie humana et corpore usque ad umbilicum, reliqua ex parte equo similes, et caudam equinam habentes, pedes capri-
nos, caput cornigerum, barbam et eam quidem exiguam et modice prolixam e media et inferiore mandibulae parte
propendentem, vultu plane petulco ac lascivienti».
quod elocutio satyrica debet esse media
234. Now Eco InoRNATA etc. [1] Il senso è che lo stile satirico deve essere medio tra il tragi-
inter tragicam et comicam, non ita depres-
co e il comico, non così basso ed umile come
sam et humilem ut haec, nec ita sublimem
il secondo, né così sublime come il primo. [2] Le parole, dunque, non devono essere così
234. Now Eco Inornata etc. [1] Sensus est
ut illa. [2] Verba ergo, non ita ornata et dominantia, idest magnifica, debent esse, ut tragica videantur, nec ita a tragedia
ricercate e importanti, ossia grandiose, come
sa-
appaiono le tragiche, né così lontane dalla tragedia da avere il sapore della humilitas
piant, sed medio |c. 161v| quodem modo.
comica, ma di una certa medietas. [3] Per-
[3] Inornara igitur, idest valde ornata, et idem est quod pominantia. Unum ex
per pominantia. Il poeta fa dunque cenno
distantia,
ut humilitatem
comicam
duobus extremis ergo innuit ibi NoN Eco INORNATA etc., aliud unum
extremum ibi,
Nec sic ENITAR ctc.. [4] Si autem INORNATA, idest vilia exponamus, opus est exponere DOMINANTIA idest non ornata, sed propria,
tanto INORNATA, ovvero ben ornate, e lo stesso
ad uno dei due estremi dove scrive Non EGO INORNATA etc., all'altro dove afferma Nec sic ENITAR ete.!! [4] Se invece intendiamo inor-
NATA per ‘spoglie’. occorre intendere powiNANTIA non come grandiose, ma come usate
utrum extremum, non accessum scilicet ad
in senso proprio, con la loro forza, e senza uso metaforico: in tal caso da Orazio sarebbe toccato soltanto uno dei due estremi, ovvero
commoediam.
il non avvicinarsi alla commedia. [5] Dovre-
tamquam in suo regno, absque translatio-
ne [. ]; et tunc tangetur tantum ab Horatio [5] Aliud num extremum,
non accessum scilicet ad maiestatem tragicam, subintelligere debebimus. Nam illud Nec sic ENITAR, intelligit non accessum ad commediam; bis ergo tangetur utrum extremum, numquam aliud; et ideo prior
mo sottintendere l’altro estremo, ossia il non
avvicinarsi alla grandezza tragica. Infatti Nec sic ENITAR non significa il non avvicinarsi alla commedia; due volte è toccato uno dei
expositio melior.
due estremi, mai l’altro; per questo motivo la precedente esposizione è migliore.
234. NON EGO INORNATA ET DOMINANTIA etc.
234. NON EGO INORNATA ET DOMINANTIA etc.
[6] Si INORNATA et DOMINANTIA pro propriis
[6] Se INORNATA e DOMINANTIA vengono intesi
omnique ornatu carentibus nominibus in-
come ‘nomi comuni privi di ogni ricercatez-
telligantur, ut translatis opponantur, sicut aliqui putant, tunc tam hic quam ibi Nec SI ENITAR etc., loquetur Horatius de non ac-
za’, sì che si oppongano a quelli usati metafo-
cessu ad humilitatem comicam, iubens scilicet ne accedat satyra nimis ad comicam
tenuitatem.
[7] Aliud autem membrum,
ut scilicet non accedat nimis ad sublimi-
ricamente, come credono alcuni, allora tanto
qui che dove scrive Nec st ENITAR etc., Orazio intende il non avvicinarsi alla humilitas comica, prescrivendo che la satira non si acco-
sti alla leggerezza propria dello stile comico. [7] Un altro membro, riferito al fatto che la
tatem tragediae, subintelligendum erit. [8] Verum si exponas INORNATA, idest valde
satira non salga troppo alla sublimità della
ornata,
interpreti INORNATA come ‘ricercate’, e DOMI-
et DOMINANTIA,
hoc est magnifica,
tragedia, dovrà essere sottinteso. [8] Se però
101 I due estremi evocati dal poeta sarebbero rispettivamente AP, 234-235 («Non ego inornata et dominantia nomina solum / verbaque, Pisones, Satyrorum scriptor amabo») e AP, 236 («nec sic enitar tragico differre colori»)
tunc loquitur Horatius ibi de non accessu ad tragicam sublimitatem: et sic utrumque extremum habebimus vitandum esse, et iccirco haec posterior expositio magis mihi arridet.
NANTIA nel senso di ‘grandiose’, allora Orazio parla in questo passo del non avvicinarsi alla sublimità tragica: e cosi avremo che entrambi eli estremi sono da evitare, e perció preferisco
240. Ex voro ricruM etc. [1] De inventio-
240. Ex noro ricruM etc. [1] Parlando del-
ne ac materia satyrarum cum tragoedia annexarum loquens, praecipit. huiusmodi materiam, circa quam versari debet satyra, quem locum in tragoedia habere debeat, summendam esse de medio, idest de rebus communibus et vulgo passimque notis: nec
l'invenzione e della materia delle satire annesse alla tragedia Orazio illustra la materia di questo genere, sulla quale deve intrattenersi la satira, quale posto debba avere nella tragedia, che deve essere tratta dal mezzo, vale a dire dalle cose comuni e ovunque note
"
.
questa seconda interpretazione.
i)
!'?
debet esse acuta, subtilis et recondita. [2]
al popolo; la satira, poi, non deve essere acu-
Compositio vero, seu dispositio et nominum
ta, sottile ed ermetica. [2] La composizione
verborumque collocatio, maxima diligentia
et arte adhibenda est. [3] Et ita, quia mate-
invero, 0 la disposizione, e la collocazione di nomi e parole, devono essere realizzate con
ria summetur communis et omnibus nota,
massima diligenza e perizia. [3] In tal modo,
facilitatem praeseferet; sed artificiosa verborum collocatio laborem dabit audentibus idem facere.
poiché vi si tratterà una nota a tutti, essa rivela cazione artificiosa delle faticare coloro che osino
245. Ne veLUT INNATI TRIVIIS etc. [1] Tam ad inventionem seu materiam, quam ad elocutionem spectant haec. [2] Possumus enim
245. NE vELUT INNATI TRIVIIS etc. [1] Queste cose riguardano tanto l’invenzione, ossia la materia, quanto l’elocuzione. [2] Possiamo
materia comune e facilità; una colloparole farà invece fare lo stesso.
102 Pur convenendo, sulla scorta di Ps.-Acn., ad loc., sul fatto che Orazio proponga qui un canone di mediocritas stilistica, i critici cinquecenteschi interpretano variamente gli attributi «inornata» e «dominantia», oggi comunemente intesi dagli studiosi nel senso, rispettivamente, di parole ‘spoglie’ e ‘usate in senso proprio. Dominantia
sarebbe, nel latino classico, l'unica attestazione del termine con il significato degli aristotelici tà kbpia: cfr. Brink e FepeLi, ad loc.; su dominantia nel senso di vocabula propria, cfr. anche Ponpu., ad loc.: «dominantia nomina sunt, quae propriis vocabulis nuncupantur». Piccolomini ricorda questa interpretazione (Annotationes, 234.4, 6),
ma preferisce intendere «inornata» e «dominantia» nel senso di parole ‘ricercate’ e ‘grandiose’ sulla base di un'argomentazione attenta alla struttura del più ampio segmento testuale oraziano: poiché il poeta sta qui teorizzando
la necessità di uno stile medio, che non svetti verso la grandezza tragica, ma non scenda neppure alla bassezza comica, è sensato ipotizzare che i due estremi dell’oscillazione stilistica paventata siano espressi entrambi in modo esplicito. Tra le diverse posizioni cinquecentesche, cfr. almeno Macci, /n Horatii librum cit.. p. 353: «Quoniam
sua quoque decens locutio Satyris est tribuenda, docet hic Horatius non debere nos, cum Satyros exprimimus, verba, nominaque inornata affectare, seu dominantia, hoc est, communia et vulgaria. Nam, quod forte quispiam
putaret, rudem atque incompositam prorsus esse debere Satyrorum locutionem, id Horatio non placet». Come Piccolomini, intende dominantia nel senso di parole stilisticamente elevate De Nores, /n Epistolam cit., c. 90r-v,
per il quale «inornata» sta per «abiecta atque obsoleta et nullum ornatum afferentia orationi»: «dominantia»,
invece, per «tumidiora, qualibus utuntur domini servos alloquentes, idest cum imperio et fastu». Sulla base di questinterpretazione, è facile per De Nores criticare i commentatori che, come Maggi. intendono il verso oraziano «de verbis propriis».
185
lascivire et maledicere in poematibus et circa materiam
et circa verba.
infatti, nei componimenti poetici, lasciarci andare e parlar male sia nel contenuto che
nelle parole. 247. IcNoMINIOSAQUE DicTA. [1] Nimis videlicet mordacia et acerba; haec enim fuit causa cur apud Graecos exclusi fuerint satyri ex tragoedia. [2] Monet ergo Horatius atque
247. IcnominiosaQue DICTA. [1] Vale a dire
troppo mordaci e àmare; questa fu infatti la ragione per cui presso i Greci furono esclu-
instruit ne in eandem causam incidant qui
si i satiri dalla tragedia. [2] Orazio dunque avvisa e prescrive che gli scrittori di satire a
Romae scribunt satyras.
Roma non facciano lo stesso.
250. Donantve corona. [1] Ex hedera scilicet confecta.
250. Donantve corona. [1] Ovvero fatta di edera.
251. SvLLaBa LONGA BREVI. [1] Cum tragi-
251. SyLLaBa LoNca BREVI. [1] Giacché il
cus non solum sermone imitetur, sed etiam rhitmo et harmonia, quaedam hic de rhit-
poeta tragico non imita soltanto con la parola, ma
anche con ritmo e armonia,
qui
mo tangit. [2] Nam cum superius genera
Orazio dice qualcosa sul ritmo. [2] Avendo
carminum distribuerit singulis poeseos speciebus, iambicumque metrum drammaticis
precedentemente stabilito una corrispondenza tra i generi di metro e le singole spe-
poematibus
cie di poesia, e adattato il metro giambico
aptaverit,
compositionem
ac
ai componimenti drammatici, ne illustra la
mensuram illius docet.
composizione e la misura.!9
252. Accrescere russi.
[1] Addidit tri-
252. AccrescERE IussIT. [1] Ha aggiunto e
buitque nomen, siquidem, cum vocaretur, seu vocari posset exameter, quia sex pedes habet, vocatus est trimeter ob eius celeri-
assegnato il nome, poiché, essendo chiama-
tatem.
tro in virtù della sua rapidità.!°
254. Now rr PRDEM. [1] Non multo prius recepit spondeum, cum prius esset PRIMUS
254. Now rra PRIDEM. [1] Non molto prima
to o potendo essere chiamato esametro per
il fatto di avere sei piedi. fu chiamato trime-
accolse lo spondeo, poiché in precedenza «il
103 Orazio passa a considerare alcune nozioni basilari di metrica. Sul passaggio dalla trattazione precedente a questa sezione, cfr. De Nonrs, /n Epistolam cit., c. 95r: «Cum de inventionis, dispositionisque ac elocutionis praecipuis partibus, quae ad comoediam et tragoediam videbantur pertinere copiosissime supra praeceperit: recto ordine hoc in loco de ultima elocutionis comicae et tragicae parte: de carminum scilicet ratione pertractat». Per la sezione relativa alla corrispondenza tra forme metriche e generi poetici, cfr. AP, 73 sgg. e relative Annotationes. 104 Cfr., tra gli antichi, Ponrn., ad loc.: «quaeri autem solet, cur trimetri appellentur, cum senos accipiant pedes: quoniam scilicet tanta brevitas est pedum, ut iuneturae binos complectantur pedes»; e, cronologicamente piü
vicino a Piccolomini, De Norts, c. 95r-v: «[...] ait autem ex prima syllaba brevi et secunda longa lambum pedem constare, senarium a senis ictibus appellatum, sed propter pedum celeritatem trimetrum postea dictum. [...] cum enim sex pedibus lambicus versus constaret: quia tamen ob nimiam celeritatem scansio binos copulavit, nomen trimetri sortitus est».
[c. 162r] Ap ExrREMUM sims sibi. [2] Et hoc NON ITA PRIDEM respicit tempora Graecorum:
primo era simile all'ultimo». [2] Now rra rniDEM riguarda i tempi dei Greci; infatti presso
apud romanos enim poetas Ennium, Accium etc. rarus inveniebatur huismodi versus iambicus spondeis immixtus, ut statim dicit.
privo di spondei, come dice subito il poeta, !»
256. In 1uRA PATERNA. [1] Dedit quod hereditarium habebat.
256. Iv ruRA PATERNA. [1] Ha dato ciò che aveva in eredità."^
251. Commopus ET PATIENS. [1] Satis enim
257. Commopus ET PaTHENS. [1] Fu infat-
fuit commodus et patiens, cum plures sedes alteri dederit. quam sibi ipsi retinuerit.
ti abbastanza ‘paziente e accomodante’, avendo dato all'altro più sedi di quante ne
i poeti romani Ennio, Accio ecc., raramente si
trovava un verso giambico di questo genere,
ha tenute per sé. ^
7
258. SociaLiteRr. [1] Alternas videlicet sedes
258. SocraLiteR.
sibi, ac spondeo distribuens.
sedi alterne a sé ed allo spondeo.!9
259. NosiLiBus TRIMETRIS.
[1] Ovvero concedendo
[1] Cum dicat
259. Nosiugus rRIMETRIS. [1] Dicendo che
versum hunc iambicum spondeis distinctum in trimetris Ennii et Accii raro vel numquam inveniri, dicendum est quod nobiles vocaverit eorum versus Horatius
questo verso giambico ornato di spondei raramente o mai si trova nei trimetri di Ennio e Accio, occorre dire che Orazio aveva
ironice; [2] si tam non ironice vocatos in-
ma se non li intendiamo come detti in senso ironico, la nobiltà è da ascriversi ad un altro motivo, di certo non al genere del metro.
telligamus, adscribenda est nobilitas alteri causae, non autem carminis generi. Sed ironicum hoc dictum tutius est accipere.
260. In scAENAM wrssos etc. [1] Vel construe sic: hic (versus scilicet iambicus cum spondeis immixtus) premit versus missos ab Ennio videlicet et Accio, in scaenam cum magno
pondere, premit, inquam,
crimine
aut operae celeris, aut operae carentis arte,
definito quei versi ‘nobili’ ironicamente; [2]
Ma è più sicuro intenderli ironicamente. 260. IN scaENAM Missos etc. [1] O costruisci così: questo (ovvero il verso giambico privo degli spondei) mette alle strette i versi mandati in scena con grave pondo da Accio ed Ennio, li mette alle strette — dico — per il crimine di composizione veloce o di cattiva
105 Per quanto riguarda la problematica formula «non ita pridem» (cfr. FepeLI, ad loc.), Piccolomini segue Ps.-Acn., ad loc: «id est, non multo ante, hoc est ante parvum tempus»,
specificando — sulla base di un confronto
con la tradizione latina arcaica — che il riferimento temporale va al mondo greco.
106 La sintetica glossa, volta ad esplicitare la metafora oraziana, risulta, nella sua stringatezza, di difficile resa. Gli spondei sono, di fatto, “adottati” dal verso giambico, assumendo tutti i diritti garantiti dalla nascita. Cfr. Ps.Acr.. ad loc.: «in suum metrum, in ius proprium, quasi ad domicilium suum suscepit». 107 Il giambo mantiene solo due sedi, la seconda e la quarta, contro le quattro sedi che ammettono sostituzione
spondaica. 108 L'annotazione spiega l’avverbio socialiter (‘in modo socievole’), neologismo oraziano cui farà ricorso, per
primo dopo Orazio, solo S. Agostino (cfr. FepELI, ad loc.).
aut ignoratae artis; dehinc duo versus, idest
fattura o di non conoscere l'arte; poi due
Non qui vis etc., per obiectionem dicuntur,
Versi, Ossia NON QUI VIS etc.? sono detti per
cui respondet cum dicit IpciRco NE VAGER
obiezione, cui risponde quando dice Ipcimco
etc. [2] Ita ut sit sensus, quod ex hoc quod
NE VAGER etc. !!° [2] Il senso sia pertanto che,
rarus apparet ille versus in versibus illorum
comparendo di rado tale tipo di verso tra i versi di quei poeti, essi possono essere incolpati o di composizione veloce ecc. [3] Oppure costruisci così: il critico incolpa i versi mandati in scena ecc. — dico — o di composizione
poetarum, culpari possunt crimine, vel ope-
rae celeris etc. [3] Vel construe sic: Iudex praemit versus missos etc. premit, inquam,
vel crimine operae celeris etc., hoc est crimine vel celeritatis, vel negligentiae, vel
veloce ecc., ovvero di velocità, negligenza op-
ignorantiae. [4] Illud autem Now Qui vis etc.
pure ignoranza. [4] Non Qui vis, invece, con
cum
continet,
il verso successivo contiene un’obiezione, che
quam dehinc solvit. [5] Dictio autem 1u-
poi risolve. [5] La parola rupex serve due verbi, vale a dire il verbo PRAEMIT e il verbo vipET;
sequenti versu obiectionem
DEX, duobus verbis inseruit, videlicet verbo PRAEMIT, et verbo vipET; non enim lego duos
infatti non leggo i due versi Non Qui vis etc.
illos versus Now Qut vis etc., per parenthe-
tra parentesi, come fanno alcuni, ma come
sim ut aliqui faciunt, sed eo quo dixi modo; et quamvis duriuscula sit structura, non tamen omnino est absona et aliena a stilo
ho detto; e sebbene la struttura sia alquan-
sermonico et satyrico. [6] Posset etiam quis
[6] Qualcuno potrebbe anche ordinare così: accusa i versi mandati in scena di composizione troppo veloce e priva di attenzione, o di
to dura, tuttavia non è del tutto dissonante ed estranea allo stile dei sermones e satirico.
sic ordinare litteram, nimium operae celeris
curaque carentis, aut nimium ignoratae ar-
sed expositio, quam 2° loco posui melior.
eccessiva incompetenza ecc., ma l'esposizione che ho presentato per seconda è migliore. !!!
264. Venta EsT INDIGNA. [1] INpiGNA, non ex persona obiicientis, sed quae Horatio videtur indigna.
264. VENIA EST INDIGNA. [1] «Indegna», non a giudizio della persona di colui che presenta i versi, ma che ad Orazio sembra indegna.
265. Iccirco NE vacrn. [1] Quia scilicet non
265. Iccirco NE vacer. [1] Poiché non tutti
omnes vident immodulata poemata.
riconoscono opere poetiche disarmoniche.
tis, praemit versus missos in scaenam etc.,
109 AP, 263-264: «Non quivis videt inmodulata poemata iudex / et data Romanis venia est indigna poetis». 110 AP, 265: «Idcircone vager scribamque licenter? (...]». 111 Come in altri casi, Piccolomini propone un interpretazione della lettera oraziana sulla base di un'analisi sintattica del contesto, senza però rinunciare all'esposizione di altre possibilità. La prima lettura prospettata (260.1), che corrisponde a quella comunemente accettata dagli interpreti moderni, riconosce nel soggetto di praemit il giambo stesso, ovvero la sua personificazione, già soggetto nei versi precedenti. Il commentatore preferisce però considerare il termine idea (v. 203) come soggetto unico delle voci verbali praemit (v. 262) e videt (v. 263), sostenendo contestualmente che i vv. 203-204 non sono un inciso, come molti lettori ritengono, ma parte integrante del periodo (si tratterebbe, per l'esattezza, di un'obiezione a versi precedenti risolta poi dai successivi). L'alternativa tra i due soggetti possibili emergeva, per esempio, già chiaramente nelle glosse di Ps.-Acr., ad loc.; e Lanp.. ad loc. Piccolomini giustifica infine la propria interpretazione facendo riferimento allo stile delle satire che, come il commentatore ha già sostenuto, ha molto in comune con quello dell'Ars (cfr. la glossa proemiale).
188
266. An omnes visuros. [1] Quamvis scilicet
266. An omnes visuros. [1] Anche se tutti
omnes
non sint visuri peccata mea, tamen
non vedranno
i miei errori, devo tuttavia
ita scribere debeo ac si omnes visuros esse putem.
scrivere come dranno.
se pensassi che tutti li ve-
266-2067. TUTUS ET INTRA SPEM VENIAE CAU-
266-267. TUTUS ET INTRA SPEM VENIAE CAUTUS,
TUS, VITAVI etc. [1] Si autem evenerit quod
vrravi ete, [1] Qualora, invece, accada che io
vel in hoc sim tutus ut non videantur peccata mea, meque hac confidentia tuear, vel
sia protetto in questo, ossia che i miei errori non siano visti e jio mi mantenga di quest avviso, oppure che, anche se visti, mi venga tuttavia data venia, cosa sarà dunque? Cosa
si videantur, detur tamen mihi venia, quid
tandem erit? Quid consequutus fuero? [2] Certe nihil aliud, nisi quod vitavero culpam. sed hoc non debet esse satis: nam laudem non assequutus ero, quod praeci-
avrò ottenuto? [2] Certamente null'altro, se non che avrò evitato la colpa, ma ciò non
est.
deve essere abbastanza: infatti non avrò conseguito la lode, che deve essere sperata e ricercata principalmente dai poeti.
267. Vos EXEMPLARIA GRAECA. [3] Ut igitur
267. Vos ExEMPLARIA GRAECA. [1] Affinché
tandem, non solum culpam vitetis, sed etiam laudem mereri et adipisci possitis, EXEMPLARIA GRAECA VERSATE etc.
dunque, infine, non solamente evitiate la colpa, ma possiate anche meritare e ottenere la lode, «sfogliate i modelli greci ecc.».
lc. 162v| 273. Scrwvs InuRBANUM etc. [1] Hoc
273. Scimus INURBANUM etc. [1] Questo riguarda saLEs. [2] Sappiamo distinguere quali lazzi siano da lodare.
pue a poetis desiderandum et quaerendum
respicit illud sares. [2] Scimus cognoscere qui sales laudandi sint. 274. LrcirPerIMUMQUE sonum etc. [1] Hoc respicit illud ET NuMEROs; scimus namque dignoscere quis numerus rhitmusque laudandus sit.
274. LeciPrIMUMQUE sONUM etc. [1] Questo riguarda Er NuMEROs;? sappiamo infatti distinguere quale metro e ritmo sia da lodare.
275. IcvoruM rRacicaE etc. [1] Aliqui sic
275. IGNOTUM TRAGICAE etc. [1] Alcuni lega-
continuant haec cum praecedentibus; cum iam dixerit EXEMPLARIA GRAECA etc., reddit eius dicti causam, quia scilicet Graeci invenerunt huiusmodi poemata et auxerunt. Sed mihi non satisfacit haec expo-
sitio. Continuo autem sic. [2] Cum alias
no cosi queste parole alle precedenti; avendo già detto EXEMPLARIA GRAECA ete.,!! Orazio fornisce la ragione di ció che ha detto, ovvero il motivo per cui i greci inventarono componimenti poetici di questo tipo e li fecero fiorire. Ma questa interpretazione non
tragoediae
mi soddisfa.!!* Pertanto congiungo così. [2]
partes
tractaverit
Horatius,
1127 4D-2 10; 113 AP, 268.
114 Linterpretazione contestata, per esempio, in De Norrs, /n Epistolam cit.. c. 100r.
illam nunc tangit quam apparatum vocat Aristoteles: et simul originem et augmentum docet.
Avendo trattato Orazio le altre parti della
278. PaLLAEQUE REPERTOR HONESTAE. [1] HoNESTAE: Thespis enim usus etiam est persona et palla non magnifica ac nobili, sed vili ex lino scilicet.
278. PALLAEQUE “REPERTOR HONESTAE. [1] Honesrar: Tespi fece infatti ricorso ad un
tragedia, adesso tratta quella che Aristotele chiama apparato: e allo stesso tempo ne illustra origine e sviluppo.
aspetto e ad una veste non magnifica e nobile, ma vile, ossia di lino.
quia ante Aeschi-
280. Macnumouve Logui. [1] Eschilo fu infatti un autore magniloquente quasi fino all’eccesso, e la sua elevatezza fu temperata da Sofocle. [2] Oppure Orazio ha detto «parlare in modo elevato e calzare il cotur-
lum omne personarum genus adhibebatur
no» poiché, prima di Eschilo, ogni genere
280. Macnumove roour. [1] Fuit enim Aeschilus author quasi grandiloquus usque ad vitium, quam granditatem Sophocles tem-
peravit. [2] Vel dixit Horatius MAGNUMQUE LOQUI, NITIQUE COTURNO,
et admittebatur in tragedia. [3] Aeschilus
di personaggi era mostrato e ammesso nella
autem primus tragoediam ad illustres per-
tragedia. [3] Eschilo invece limitò per pri-
sonas coarctavit.
mo la tragedia ai personaggi illustri.!!°
281. SUCCESSIT vETUS HIS COMMOEDIA. [1] Si vetus comoedia fuit post tragediam, tra-
281. Successit verus HIS comorpia. [1] Se la commedia antica venne dopo la tragedia, la
gedia autem ortum habuit simul cum Comoedia teste Aristotele; videtur veterem
tragedia invero, secondo la testimonianza di Aristotele, nacque insieme con la commedia;!!° sembra che la commedia antica abbia
commoediam
praecessisse
comoediam.
[2] Solve quia forte vetus comoedia sic
preceduto la commedia.
appellabatur ob mediam et novam
quae
commedia antica era chiamata cosi in virtü
successere. [3] Prius ergo fuit comoedia,
della commedia di mezzo e quella nuova che le seguirono. [3] Dapprima ci fu dunque la
ante veterem comoediam, sed fuit dicta vetus non illa quae cum tragoedia simul
nata est, sed ea quae illi successit maledicentiaque usa est. [4] Nam comoedia quae orta est simul cum tragedia non est
illa quae maledicentia uteretur, qualis in Aristophane; sed haec maledica successit illi, et fuit dicta vetus respectu mediae quae, remotu iure maledicendi, successit veteri maledicae, chorisque caruit; cui quidem mediae comoedie successit
[2] Risolvi che la
commedia, precedente alla commedia antica, ma non fu detta antica quella che nacque insieme con la tragedia, bensi quella che le segui e che si caratterizzó per la maldicenza.
[4] Infatti la commedia che nacque insieme con la tragedia non è quella che faceva uso della maldicenza, come in Aristofane; anzi, questa commedia maldicente venne più tardi, e fu detta antica rispetto alla commedia di mezzo che, bandito il diritto di biasimare.
115 Per questa seconda interpretazione, cfr. De Nores, /n Epistolam cit., c. 101r: «[...] ut significaret primum Aeschylus personas illustres et heroicas in tragoediis induxisse, cum antea sine ullo discrimine adhiberentur». 116 Anisr., Poet. 14492.
tandem nova qualis apud Terentium. [5] Sciendum
enim
est quod post primam
comoediae originem, cum tragedia simul
ortae, triplex successit diversis temporibus comoedia, vetus, media et nova. [6] Ante autem veterem latuit pene comedia, quippe quae non ita in precio erat sicut
tragedia; quare non recepit chorum a magistratu, sicut tragedia sed choro volontario utebatur: donec succederet et insurgeret comedia quae aliquantisper nobilis haberetur, ita ut a magistratu tandem chorum obtineret; et haec fuit comoedia vetus, vitia maxime reprehendens et
mordens. [7] Quod populo atheniensi non displicebat, cum mortuos, nobiliores cives attingerent:;
quapropter
cum
status
tunc
Athenis popularis esset, obtinuit chorum, ut dixi, comoedia, ac in praecio habita
segui alla commedia antica maldicente e fu priva del coro; a questa commedia di mezzo segui finalmente la nuova, come in Terenzio.
[5] Bisogna infatti sapere che dopo la primitiva origine della commedia nata insieme con la tragedia, in tempi diversi si susseguirono tre tipi di commedia: l'antica, quella di mez-
zo e la nuova. [6] Prima dell’antica la commedia era quasi inesistente, poiché non era tenuta in pregio come la tragedia; per questo motivo non ottenne un coro dal magistrato, come la tragedia, ma si avvaleva di un coro
volontario, finché non si affermò un tipo di commedia ritenuto sufficientemente nobile da ottenere finalmente un coro dal magi-
strato; e questa fu la commedia antica, che, soprattutto, riprendeva e mordeva i vizi. [7]
est. [8] Dehinc democratia per tyrannos
Questo non dispiaceva al popolo di Atene, giacché le critiche erano rivolte ai morti ed ai cittadini più nobili. Per questa ragione,
sublata, lege cautum fuit, ne nominatim
poiché Atene era a quel tempo uno stato po-
cives carperentur, chorique iccirco sublati
polare, la commedia ottenne il coro, come ho
sunt, cum non esset qui publice sumptum faceret, sicut faciebat populus in demo-
soppressa la democrazia ad opera dei tiranni,
cratia. [9] Successit ergo media comoedia, quae nec nominatim, nec adeo manifeste reprehendebat, ut vetus comoedia; carpebat tamen, non autem aperte, sed similitudine personarum, quibus personati erant histriones, et dum antiquorum quorundam errata carpebant, presentes etiam
detto, e fu tenuta in pregio. [8] In seguito, fu stabilito per legge che non si riprendessero nominalmente i cittadini, e perciò i cori furono banditi, in mancanza di qualcuno disposto ad una spesa pubblica, come faceva il popolo
ai tempi della democrazia. [9] Seguì dunque
omne penitus ius nocendi; et nova fuit ap-
la commedia di mezzo, che non biasimava né nominalmente né così apertamente come l’antica; tuttavia riprendeva, certo non direttamente, ma attraverso la somiglianza dei personaggi interpretati dagli attori, e mentre essi criticavano gli errori di alcuni antichi, in qualche modo toccavano anche i contempo-
pellata, qua usus est Terentius.
ranei. [10] Ma poi omisero anche questo, per
quodam modo tangebant. [10] Sed dehinc hoc etiam ommiserunt, potentium civium indignationem timentes, ac tandem come-
diam adinvenerunt, in qua sublatum fuit
timore dell’indignazione dei cittadini potenti, e giunsero infine a creare una commedia cui fu tolto ogni diritto di nuocere; e fu chiamata nuova, di cui fu esponente Terenzio. !!”
117 Per l'evoluzione in tre fasi del genere comico, cfr. Ps.-Acn. e Lanp., ad loc.; Bp. Asc., Praen., VI. Ma anche lo stesso Piccolomini in Annotationi, 24, p. 80: «(la commedia] da quella antica sua forma nella quale da principio,
284. TURPITER OBTICUIT SUBLATO IURE NOCEN-
284. TURPITER OBTICUIT SUBLATO IURE NOCEN-
pi. [1] Non nocendi turpiter, sed obticuit
pi. [1] Non ‘di nuocere in modo turpe’, ma
turpiter, idest non virtutis amore, sed legis et paenae timore.
amore della virtü, ma per paura della legge
‘ha taciuto turpemente , ovvero
non per
e della punizione.!'?
286. VESTIGIA GRAECA AUSI DESERERE. [1] Non
286. VESTIGIA GRAECA AUSI DESERERE. [1] Non
quo ad artem sed quo ad argumenta fabularum.
trame.
quanto all'arte, ma quanto ai soggetti delle
288. Ver qui PRAETEXTAS etc. [1] La fabula
lc. 163r| 288. VeL Qui PRAETEXTAS etc. [1] Praetextata fabula est species togatae:
praetextata è una specie di togata: in che modo dunque Orazio ha fatto convergere la
quomodo ergo speciem cum genere con-
numeravit?
specie con il genere? [2] Risolvi cosi: questa non è una divisione, ma un accorpamento
[2] Solve, quia haec non est
divisio sed abbreviatio specierum, ut si dicas sentit homo, sentit canis, sentit tan-
delle specie, come se dicessi l'uomo sente,
dem animal. [3] Vel autem solve: accipit
il cane sente, dunque l'animale sente. [3]
enim togatas pro vilioribus fabulis, vocans speciem nomine generis, quando innominata est; ut mos est philosophorum.
[4] Togata ergo dividitur in praetextatam
Oppure risolvi diversamente: intende infatti le togate come drammi più umili, definendo la specie - quando è priva di nome — con il nome del genere, com'è costume dei filoso-
tamquam nobiliorem speciem, et in aliam
fi. [4] La togata pertanto si divide in una
viliorem, nomine carentem, quam generis
nomine appellant.
specie alquanto piu nobile, la pretesta, ed in un'altra piu bassa, priva di nome, che definiscono con il nome del genere.!!°
294. PeRrFECTUM DEcirEs etc. [1] Ne construas PERFECTUM DECIES sed casricAviT DECIES. PrR-
204. PERFECTUM DECIES etc. [1] Non costruire PERFECTUM DECIES, ma cCAsTIGAVIT DECIES,?
com haviam detto, era nata, passò prima ad una miglior forma, e finalmente poi a quella più perfetta della commedia nuova, approvata da Menandro e seguita da Plauto e da Terenzio, e oggi dai poeti migliori seguita, come veggiamo». Particolarmente interessante l’attenzione che Piccolomini mostra nello stabilire un nesso preciso tra lo
sviluppo dei generi letterari (in questo caso la commedia) e le istituzioni politiche. Il legame tra la libertà d'espressione della (oa
antica e un assetto politico democraticoè esplicitato dall'umanista già in Annotazioni, 17,
p. 60. Più ampia l'ulteriore trattazione che il commentatore propone ivi, 30, pp. 92-95; cfr. ancora ivi, 24- 25, pp. 90-81 e 64, pp. 178-179.
118 Piccolomini rifiuta l'iperbato turpiter nocendi e preferisce legare turpiter ad obticuit; cfr. già Ps.-Acn., ad loc.: «quia prohibitus est lege, quasi reprehensus vitiis».
119 Si noti l'argomentazione strettamente logica dell'interprete, volta, come altrove, a chiarire un fatto di terminologia. Come spiega piü diffusamente Bap. A Praen., XIII — sulla scorta di Acrone: «Comediarum genera ut Acron dicit sex sunt: stataria, motoria, pretextata, tabernaria, togata, palliata p^ jl posset dici togata a toga roma-
norum habitu. Verumtamen quia nobilibus romanis congruit specialis toga quae pretextata dicitur, ideo comedia romana quae de nobiliorum mediocri fortuna conficiebatur pretextata dicebatur». 120 Cfr. Ps.-Acn., ad loc.; De Norts, In Epistolam cit., c . 1040: «Decies perfectum. Hoc est per decem annos semel
unoquoque anno emendatum».
192
FECTUM autem, non exponas absolutum, et omni perfectione preditum; sed PERFECTUM,
Non intendere d'altronde PERFECTUM come assoluto e dotato di ogni perfezione; ma
idest confectum ac ut perfectum abste habitum, ac sepositum.
concluso e messo da parte.
295. INGENIUM MisERA etc. [1] Ex persona
295. [NGENIUM MrsERA etc. [1] Definisce misera
Democriticorum miseram vocat artem.
l'arte dal punto di vista dei Democritei.!!
295. INGENIUM MISERA etc. [2] Quae hacte-
295. InceniUM MISERA etc. [2] Le cose dette fino a questo punto da Orazio sui precetti
PERFECTUM, 0SSIa compiuto, e da te ritenuto
nus dicta sunt ab Horatio de praeceptis artis poeticae frustra dicta essent, ipseque in vanum laborasset, si vera esset haec opi-
dell’arte poetica sarebbero dette invano, ed egli stesso si affaticherebbe inutilmente, se
nio Democriti. [3] Ideo necesse fuit illam respuere
et oppugnare
fosse vera l'opinione di Democrito? [3] È stato perciò necessario respingerla e opporvi-
ut arti tribuantur
quae tribuenda sunt.
si per riconoscere all'arte ciò che le è dovuto.
304. Enco ruwcan vice coris. [1] Quamvis
304. Enco ruvcan vice coris. [1] Sebbene
nequeat Horatius dici poeta ex Democriti
Orazio non possa essere detto poeta secon-
opinione, tamen non ob id non potest artem
do l'opinione di Democrito, tuttavia non
docere: non enim necessario iungitur artis
per questo non puo insegnare l'arte: infatti la conoscenza dell'arte non si unisce necessariamente alla pratica o all'opera stessa; ma spesso sono unite,'?
notitia cum operatione, seu cum opere ipso:
sed saepe seiunguntur.
306. Muwvs er orricrum. [1] Cum per ir-
306. Munus Er orricrum. [1] Avendo respin-
risionem
artemque poetis necessariam ac utilem esse
to, deridendola, la posizione di Democrito, avendo concluso che l’arte è necessaria ed
concluserit,
utile ai poeti ed avendo precedentemente
respuerit
sententiam
Democriti,
ac plura superius praecepta
121 Piccolomini rifiuta l'idea di una poesia che scaturisca solo dall'ispirazione poetica: tale modello è, attraverso il filtro oraziano, esemplificato nella posizione di Democrito. Rispetto all'esegesi umanistica precedente di marca spiccatamente platonica, Piccolomini sembra voler ridurre la questione dei rapporti tra ars, natura e furor, ad una dialettica basata essenzialmente sui due soli termini dell’ars e della natura (ovvero dell'ingenium). Cfr. la stringatezza con cui glossa il v. 391. Su tutta la questione, trattata nelle glosse ai vv. 295-313, cfr. cap. IV, $ 1. 122 Cfr. De Nores, In Epistolam cit., c. 105r: «[...] nisi horum Democriticorum opinionem Horatius hoc in loco refutasset, frustra de poetica facultate in hac ad Pisones epistola praecepta [...] tradidisset: cum arte ipsa repudiata, ab his tantummodo insaniae et furori daretur locus».
123 La suggestiva metafora del ferro e della cote permette ad Orazio di rivendicare il ruolo del ‘precettore’, cote che affila, ma di per sé non taglia. Cfr. De Nores, /n Epistolam cit., c. 107r che oltre ad esprimersi in modo analogo
a Piccolomini, ricorda le fonti retoriche dell'immagine (Isocrate e Cicerone): «Ergo fungar vice cotis. Hoc est, nil scribens ipse docebo alios scribere, coti similis, quae cum sit exors ipsa secandi, reddit tamen ferrum acutum ad secandum: hanc autem similitudinem ex Isocratis apophtegmate sumspit, quem, cum interrogaretur quo modo
posset alios docere publica tractare, cum ipse loqui publice non auderet? Respondisse ferunt etiam cotes quamvis ipsae secare non possint ferrum tamen acutum reddere, et a M. Tullio in quinto de finibus bonorum et malorum:
ubi ait: absurdum non est, ut qui poemata scribere non possit, illius tamen rei possit tradere praecepta».
195
tradiderit, nunc de officio, de fine, et de natura huius artis se locuturum preponit.
offerto vari precetti, adesso il poeta si appresta a parlare del compito, del fine e della natura di quest arte.
306. Munus rr orricium. [2] Duo dicit non unum, siquidem aliud est officium, aliud munus: duo ergo dicit, finem et officium. [3] Officium enim est imitari, et in imitatione decorum servare; finis nam utilitas et delectatio. Proponit ergo se dicturum de utroque; et etiam de materia huius artis, unde haurienda sit, praeponit cum dicit
306. Munus Er orricrum. [2] Ne dice due, non uno soltanto, poiché una cosa e il compito, un altra il fine: ne dice dunque due, il fine e il compito. [3] Il compito è infatti imitare e mantenere il decoro nell’imitazione: il fine, d'altra parte, sono l'utilità e il diletto. Orazio si propone dunque di parlare di entrambi; e
parla anche della materia di quell'arte, da
UNDE PARENTUR OPEs. [4] Proponit igitur
dove debba essere ricavata, quando scrive
se dicturum de officio, de fine et de materia, quae sunt tria ex illis octo capitibus quae a Graecis prolegomena appellantur,
UNDE PARENTUR OPEs.'^* [4] Egli si appresta
quorum
capitum
consideratio
pertinet
ad omnes qui artem quampiam tradant. [5] Tria ergo ut dixi proponit Horatius et singula dehinc exequitur, ordine tamen retrogrado: primo enim de materia subministranda, cum dicit SCRIBENDI RECTE,
dehinc officium tradit, imitationem scilicet, cum dicit RESPICERE EXEMPLAR, dehinc tandem finem, ibi scilicet AUT PRODESSE
quindi a parlare del compito, del fine e della materia, che sono tre di quegli otto principi detti dai greci prolegomena, la considerazione dei quali riguarda tutti coloro che traman-
dino un'arte. [5] Orazio annuncia dunque tre cose, come ho detto, e poi le sviluppa una
per una, ma in ordine inverso: prima infatti
parla della materia da fornire, quando dice SCRIBENDI RECTE, poi del compito del poeta, ossia dell'imitazione, quando scrive RESPICERE EXEMPLAR; in conclusione il fine. ovvero dove
voLunT. [6] Officium autem, quod est imi-
dice Aur Propesse voruwr."? [6] Il compito,
tari cum decoro, ex materia redundabit, ex philosophiae moralis scilicet, eiusque
del resto, ossia imitare in modo conveniente, deriverà dalla materia, ovvero dalla filosofia
praeceptis et doctrina.
morale, dai suoi precetti e insegnamenti.
309. ScrIBENDI RECTE etc. [1] Quod prae-
309. ScrisenDI RECTE etc. [1] Sviluppa ciò che ha anticipato ed in primo luogo ciò che riguarda la materia, dalla quale dipendono
posuit exequitur et primum quo ad materiam,
ex
qua
et fabulam
et mores
et
tragoediae suppeditantur. [2] Lexis enim
trama, caratteri e pensiero, ovvero le tre parti principali della tragedia. [2] Qualora
seu elocutio, si haec recte se habeant, non
tali componenti siano date correttamente, la
sententiam, tres videlicet primarias partes
124 AP. 307.
125 Il programma esposto da Orazio ai vv. 300-309 prevede che il poeta-precettore si soffermi sul fine della poesia, sul compito del poeta e sulla materia da trattare. Piccolomini mette ordine nei versi successivi spiegando
che i tre punti sono affrontati in ordine inverso: la materia in AP, 309 («Scribendi recte sapere est et principium et fons»); il compito del poeta in AP, 317-318: «Respicere exemplar vitae morumque iubebo / doctum imitatorem et vivas hine ducere voces»; il fine in AP, 333: «Aut prodesse volunt aut delectare poetae / aut simul et iucunda et idonea dicere vitae».
invita sequitur: siquidem qui rerum
co-
borum copia. [3] Verba enim tunc recta
lexis, o elocuzione, ne deriva infatti spontaneamente, poiché chi ha tratto abbondanza di cose dalla filosofia e le serba pronte, non si affaticherà e l'abbondanza di parole non
elocutione ornata
verrà meno. [3] Le parole infatti sono ornate
piam ex philosophia hausit ac in promptu retinet, non laborabit nec destituetur versunt, cum
sententiarum
et rerum pondere valent. [4] Quam qui recte inventionem nactus erit, eam facillime explicabit oratione, siquidem elocutio, ut dicit Cicero, est recta verborum et sententiarum
modatio.
ad inventionem
accom-
[5] Itaque bonam preparatam
inventionem elocutio ultro sequitur: ac siquidem verborum ornatus et sonoritas sine pondere sententiarum contingit fieri,
ibi non eloquentia, sed loquentia |c. 163v| reperietur. [6] Notandum autem est quod illud sarERE, idest philosophia et sapientia ipsa. est fons imitationis, et non solum
respicit fabulam, sed et mores et sententiam, in quarum trium partium qualibet
decorum maxime servandum est; quod ex philosophia, et praesertim morali, abunde dignosci potest, ut statim infert Horatius, QUI DIDICIT PATRIAE etc.
di un'elocuzione corretta quando prendono
forza dal peso dei pensieri e delle cose. [4] Chi realizzerà un'invenzione di tal sorta, la esprimerà assai facilmente con parole, poiché l'elocuzione, come scrive Cicerone, è il
corretto accomodamento delle parole e dei pensieri con l'invenzione. [5] E cosi l'elocuzione segue spontaneamente un'invenzione
ben congegnata: e se davvero accade che ci siano stile e suono senza spessore di concetti, in quel caso non si ha eloquenza, ma parole.
[6] E da notare invece che quel sapERE, vale a dire la filosofia e la sapienza stesse, è la fonte dell'imitazione e non riguarda solo la trama, ma anche i caratteri e il pensiero, in qualunque delle quali tre parti occorre mantenere
massimamente il decoro; questo può essere abbondantemente inteso a mezzo della filosofia, e soprattutto la morale, come subito
afferma Orazio: QuI DIDICIT PATRIAE etc. !0
310. Rem TIRI SocraticaE. [1] Per ‘socraticas
310. Rem miBI Socraticar. [1] Per “carte so-
chartas’ vel intelligit omnem philosophiam, vel potius moralem quae a Socrate ortum
morale che nacque da Socrate. [2] Le chia-
habuit.
[2] Socraticas autem
vocat tum
quia ipse primus huiusmodi philosophiam
cratiche’ intende ogni filosofia, o piuttosto la ma socratiche sia perché Socrate dette per primo origine alla filosofia di questo genere,
peperit, tum etiam quia a Socrate tam Ac-
sia perché da Socrate hanno avuto origine
cademici, quam Peripatetici orti sunt.
tanto gli Accademici quanto i Peripatetici.
313. Quo sir amore PanENS etc. [1] Haec omnia magis ad inventionem quam ad di-
313. Quo sir amore PaRENS etc. [1] Tutte queste cose riguardano l’invenzione più che
126 AP, 312 sgg. Un'invenzione ben «preparata» si basa sul bagaglio di conoscenze — eminentemente filosofiche — del poeta: il «sapere» del v. 309 è «principium et fons» dello ‘scrivere bene”. Una chiara codificazione dei requisiti
del poeta in DanieLLO, La Poetica cit., p. 244: «Essendo, adunque, non solamente l'umane operazioni tutte ma le
cose divine ancora allo scrittore soggetto, fa di mestieri che egli abbia eziandio cognizione se non di tutte le scienze e dottrine, almeno della maggior parte. E non essendo egli perfetto teologo e filosofo, abbia i principii almeno della sovranaturale, naturale, e morale filosofia. Conciò sia cosa che il sapere è principio e fonte dello iscriver bene e dirittamente le cose, e la filosofia sola è quella che ne può amministrar gli alti concetti e le belle invenzioni».
spositionem et elocutionem pertinent, et ex
moralis philosophiae praeceptis hauriunt. 317. Respicere
ExEMPLAR
etc. [1] Debet
poeta in quolibet vitae vel morum genere imitando respicere non quae in ipsis singularibus heroibus reperiuntur, sed ideam illius vel vitae, vel morum generis, aut conditionis, videlicet senatoris, fratris, et sic de
aliis: ita ut semper respiciat naturam et formam exactam cuiuslibet rei; quod per moralem philosophiam maxime facere poterit.
[2] Itaque ex huiusmodi ideis debet poeta ducere vivas voces illas applicando singulis
la disposizione e l'elocuzione, e derivano dai precetti della filosofia morale. 317. RrspicERE EXEMPLAR etc. [1] In qualsiasi genere di imitazione di vita o caratteri il
poeta non deve güardare ciò che si trova nei singoli eroi, ma l'idea di quello o della vita o del genere di caratteri o di condizione, come
del senatore, del fratello e cosi per gli altri: osservi sempre la natura e la forma esatta di qualsiasi cosa, il che potrà fare soprattutto grazie alla filosofia morale. [2] E cosi, da idee di questo genere, il poeta deve trarre le ‘voci vive’, applicandole ai singoli personaggi che
personis quas imitaturus est: ut facit Vergilius qui actiones Aeneae imitaturus, non quae in ipso fuerint respexit, dum pium,
imiterà: come fa Virgilio che, dovendo imitare le azioni di Enea, quando lo ha creato pio,
magnanimum, fortem et prudentem illum
vato ciò che fu in lui stesso, ma le idee di pie-
formavit, sed ideas pietatis, magnanimita-
tà, grandezza d'animo, forza e prudenza, che
tis, fortitudinis et prudentiae, quas dehinc
poi gli ha attribuito — e dalla stessa fonte ha tratto le ‘vive parole”. [3] Parole vive, dunque, ovvero di singole persone che vivono, facendone emergere una, nello stesso modo
Aeneae tribuit, vivasque de ipso duxit voces. [3] Voces ergo vivas, idest viventium et singularium. personarum primendo,
quemadmodum
[quampiam]
ex-
Xenophon
ex-
primet Cyri vitam, exemplar et ideam vitae regiae respexit, eamque Cyro tribuit. 319. InteRDUM sPECIOsA Locis. [1] Aldus legit locis, sed mea quidem sententia, melius LOCIS.
magnanimo, forte e prudente, non ha osser-
in cui Senofonte comporrà la vita di Ciro: egli ha osservato il modello e l'idea della vita di
un re e l’ha attribuita a Ciro. 319. IntERDUM sPECIOSA Locis. [1] Aldo legge iocis, ma almeno a mio avviso è preferibile
LOCIS.
319. INTERDUM sPECIOSA Locis etc. [2] Sen-
319. InTERDUM sPEcIosA Locis. [2] Il senso è:
sus est: illud poema, et praecipue tragoe-
quel componimento poetico, e specialmente
127 Le indicazioni sul modo in cui si debba costruire un personaggio sono desunte da Arist.. Poet., 1454b 8-
19; si veda in particolare Poet. 1454b 11-14 nella traduzione dello stesso Piccolomini: «così parimente il poeta dovendo imitar persone iraconde o mansuete, o ch'altri così fatti costumi tenghino, dee nel far questo accostarsi all'essempio, o ver alla idea dell’honestà, o della durezza, o simili, come fanno in Achille Agathone e Omero»
(Annotation, 80, p. 227). L'«essempio» o «idea» di cui parla qui il commentatore è analogo all'«exemplar» oraziano esemplificato attraverso i casi di Enea in Virgilio e Ciro in Senofonte, e l’annotazione aristotelica esplicita tale legame: «il poeta nell'espression dei costumi nella sua imitatione, ha da tenere l'occhio al proprio essempio di quegli, cioè all'idea e all'universale. Com'a dir, volendo attribuir iracundia o crudeltà o clementia al tale, ha da
riguardare non quali a punto fussero tai qualità e costumi in esso, ma quali sono nel lor universale e nel sommo loro» (ivi, pp. 227-228). Cfr. anche il cursorio riferimento alla costruzione dei personaggi, con confutazione della posizione di Giulio Cesare Scaligero, in Annotation, 31, pp. 96-97.
dia, in qua recte se habent tres eius partes, videlicet fabula, mores et sententia,
una tragedia, in cui siano realizzate correttamente le sue tre parti inerenti l'invenzione
quae ad inventionem pertinent, lexis non
(trama, caratteri e pensiero), ma non ci sia
recte se habeat, quippe quae careat ver-
una corretta /exzs, poiché carente della forza delle parole e dell'arte, recherà maggior diletto di quanto ne recherebbe se, al contrario, ci fossero la forza delle parole ed una loro collocazione a regola d'arte senza una corretta
borum pondere et arte, magis delectabit quam si e contra inerit verborum pondus
artificiosaque eorum
collocatio sine illa-
rum
recta
trium
partium
constitutione.
[3] Itaque vult Horatius docere utrum-
resa di quelle tre parti. [3] Pertanto Orazio
que esse fugiendum, videlicet et rerum illustrem inventionem sine luce verborum: et hanc lucem sine rerum pondere. Verum
vuole insegnare che entrambe le cose vanno fuggite: tanto una nobile invenzione dei sog-
sì non possumus utrumque consequi, mi-
luce senza la forza dei soggetti stessi. Non potendo invero conseguirli entrambi, sarà un male minore mancare nelle parole che nelle
getti senza la luce delle parole, quanto questa
nus erit malum deficere in verbis quam in
rebus. [4] Illud autem IntERDUM non ressic speciosae locis et recte moratae semper
cose.!8 [4] IvrERDUM, d'altra parte, non riguarda la parola oBLECTAT, giacché tali trame
oblectent; sed respicit illud sPEcros4 LOCIS ET MORATA. Non enim semper fabulae mo-
piacciono sempre; ma si riferisce a SPECIOSA
ratae erunt, ut dicit Aristoteles, asserens
LOCIS ET MORATA. Infatti le trame non saranno
quampaucas iuniorum fuisse moratas. [5] Dicit ergo Horatius INTERDUM sPECIOSA LO-
sempre costumate, come sostiene Aristotele affermando che pochissime delle più recenti
CIS ET MORATA, quia haec duo non semper
furono costumate. [5] Scrive dunque Orazio
iuncta simul sunt, sed si contingat iungi
INTERDUM SPECIOSA LOCIS ET MORATA poiché queste due cose non sempre sono congiunte, ma qualora accada che lo siano (questo
picit verbum osrEcrar, cum tales fabulae
cosi belle per i oct e correttamente costumate
(quod rmvrERDpUM contingit), tunc fabula magis oblectabit quam vkRsus INoPES etc. [6] Per wonaraM autem intelligo fabulam exprimentem
mores
eorum,
significa INTERDUM), allora la trama recherà diletto più che «versi sciatti ecc.».'? [6] Per MORATAM intendo invece una trama che espri-
qui introdu-
cuntur in fabula, ut tales videantur quales
128 La dipendenza dell’elocuzione dall'invenzione è uno dei temi più cari alla riflessione piccolominiana sulla poetica e, nonostante l’importanza accordata all’elaborazione formale, si ha l'impressione che, tra res e verba, la
priorità vada alle prime. L'annotazione 319 conferma che, in linea di principio, è bene conseguire tanto il «pondus rerum» quanto il «pondus verborum», ma se proprio uno dei due aspetti deve presentare qualche mancanza, «minus erit malum deficere in verbis quam in rebus» (Annotationes, 319.3). Per le tre parti dell’invenzione tragica («fabula, mores et sententia»), cfr. Arist., Poet. 1450a 4-8 e il relativo commento in Annotation, 38, p. 109: più nel dettaglio. Arisr., Poet. 1450a 38-1450b 12. e le relative Annotationi, 43-44, pp. 117-122. Piccolomini, usando nel commento oraziano tali categorie, dà evidentemente per scontate le distinzioni codificate nelle Annotationi aristoteliche: «Li costumi (in quanto son parti della tragedia) s'intendon esser quelli [...] che sparsi nel parlare, fanno in esso notitia e danno inditio dell’elettione e del voler dell’huomo [...]. La sententia, in quanto è parte della tragedia, s'ha da intender esser quella che posta nella locutione, fa inditio di qualche operatione e sentimento e concetto dell’intelletto [...]. Differisce dunque la sententia dai costumi nella tragedia: perché se bene ammendue si manifestano nella locutione, nondimeno i costumi son inditio d’operationi delle potentie appetitive, e
principalmente della volontà [...], dove che la sententia è inditio di qualche operatione o asserimento e sentimento dell'intelletto» (ivi, p. 119). 129 AP, 322: «quam versus inopes rerum nugaeque canorae».
197
videri volumus. [7] Per srEciosa LOCIS in-
ma i caratteri di quelli che vi sono introdotti,
telligo actiones recte et ex arte expressas,
affinché sembrino tali quali vogliamo che appaiano.! [7] Per spEcrosa Locis intendo azioni espresse rettamente e secondo l’arte, che
et illas quidem pulchras, cum non quarum-
libet actionum imitatio admittenda sit. [8] Per venerem autem intelligo verborum
siano belle, dal momento che non è ammis-
et collocationem,
sibile l’imitazionè di un'azione qualsiasi. [8]
quae ornatum et leporem parit; quo leposucco et venere. [9] Sine PONDERE autem, hoc est sine gravitate verborum |c. 1647]
Per veNEREM intendo poi una bella selezione e collocazione delle parole, che produca ornamento e grazia; se le parole mancheranno di questa grazia, saranno vane e senza succo e
sine arte, hoc est verbis nullo artificio
bellezza. [9] Sine PONDERE, ovvero senza so-
collocatis, atque ornatis. [10] NucaEQUE
lennità delle parole, senz’arte, ossia con pa-
CANORAE idest sonus et tinnitus verborum
role collocate e ornate senza alcun artificio. [10] NucaEQUE canorae vale a dire il suono squillante di parole timide senza succo, senza
venustam
selectionem
re si verba carebunt, nugosa erunt et sine
tumidorum sine succo, sine pondere, sine rebus.
peso, senza sostanza. !!
323. Gnans mNGENIUM etc. [1] Graeci in
323. Grams INGENIUM etc. [1] I Greci furono
utraque re valuerunt, in inventione, scilicet
eccellenti in entrambe le cose: nell'invenzio-
recte fabulas componentes moresque optime effingentes decorumque servantes; et in elocutione ipsa ac dispositione, artificiose eloquentes ac disponentes. [2] Romani num
ne, ossia componendo rettamente le trame,
magis ingenio valebantin inveniendo, quam
d'arte. [2] IRomani erano invece, in virtü del-
studio et artis labore in scribendo.
l'ingegno, migliori nell'invenzione che nello
fingendo ottimamente i caratteri e mantenendo il decoro; nell'elocuzione stessa e nella
disposizione, parlando e disponendo a regola
scrivere con sforzo e applicazione dell'arte.
323. Ore rorunpo. [3] Rorunpo, perfecto, sicut figura rotunda figurarum perfectissima est; vel rotundo, idest periodico; ROTUNpo autem ore dixit Horatius elocutionem innuens, sicut INGENIUM dixerat inventionem demonstrans.
323. Ore noruxpo. [3] «Rotondo», perfetto, così come la figura rotonda è la più perfetta tra le figure: oppure rotondo, ossia periodico: Orazio ha detto oRE RoTUNDO in riferimento all'elocuzione, cosi come aveva detto INGENIUM intendendo l'invenzione.'??
130 Per una definizione di «fabula morata», cfr. Annotationi, 36, p. 107, che esplicita la dinamica posta alla base della rappresentazione dei costumi intesi come abiti intellettuali che spingono il personaggio ad agire nel modo in cui agisce: «un poema si domanda propriamente costumato quando egli tutto composto in modo che sia atto a instruire e ad escitare all'honesto e alla virtù. Dove che il costume, ch'è parte di qualità nella tragedia, s'ha da intender quello che fa nel parlare apparir elettione e inclination d'animo a seguire o a schivar qualche cosa, o lodevole, o vituperabile ch'ella si sia. E per conseguente viene a manifestar gli habiti che sono nell'appetito nostro». 1931 Si osservi come Piccolomini insista, in Annotationes, 319.8-10 sull'importanza delle res.
132 Cfr. anche De Nonss, /n Epistolam cit., c. 115r: «Ingenium. Quod attinet ad inventionem ipsam excogitan-
dam. Ore rotundo. Quod attinet ad elocutionem».
333. Avr PRODESSE voLuNr etc. [1] Poetarum finis duplex: utilitas et delectatio. [2] Aliqui autem vocant officium, non finem. [3] Sed
333. Aur PRODESSE VOLUNT etc. [1] Il fine dei poeti è duplice: l'utile e il piacere. [2] Alcuni invece parlano di compito, non di fine. [3]
sicut in oratore officium est dicere apte ad persuadendum, finis vero ipsum persuade-
Ma come per l'oratore il compito è parlare in modo appropriato per persuadere, ed il fine è
re; [4] sic in poesi officium est dicere apte
invero il persuadere stesso, [4] così in poesia
ad iuvandum et delectandum, quod consis-
il compito è parlare in modo appropriato per giovare e dilettare, cosa che risiede nella’ corretta imitazione; ma il fine è propriamente giovare, ovvero recare giovamento e dilettare.'?
tit in recta imitatione. Finis vero iuvare seu
prodesse et delectare.
335. Ur cito picra. [1] Cito dicta, non cito
335. Ur crro picra. [1] ‘Velocemente dette”,
percipiant.
non ‘intendano velocemente. !?*
335. Esro snEvis. [2] Brevitas non in paucitate
335. Esro BREVIS. [2] La brevitas non è inte-
praeceptorum intelligitur - nam multa praecipere debet Poeta, multaque praecepit Ho-
sa nella pochezza di precetti — il poeta deve
ratius — sed in singulis praeceptis pertractan-
insegnate molte — ma nel trattare i singoli
dis: quae pertractatio brevis esse debet, omni dempta verborum superabundantia.
precetti:? tale trattazione deve essere breve,
336. PERCIPIANT ANIMI DOCILES TENEANTQUE
330. PERCIPIANT ANIMI DOCILES TENEANTQUE FI-
infatti insegnare molte cose, e Orazio ne ha
priva di ogni sovrabbondanza di parole.
FIDELES. [1] Intellectu apprehendant, me-
peLES. [1] Apprendano a mezzo dell'intellet-
moria retineant serventque.
to, trattengano e serbino con la memoria.
338. Ficra voLupraTIs causa. [1] Verisimi-
338. Ficra voLuptaTIS causa. [1] La verosi-
litudo enim ita amplecti a poetis debet.
miglianza
deve infatti essere abbracciata
133 Piccolomini afferma qui che il fine della poesia è duplice (delectare e prodesse), ma non esiterà a privilegiare, almeno in certa misura, il diletto sull’utilità. Un'analoga prospettiva non esclusivamente pedagogica in Bap. Asc., Praen., I. dove Ascensio, fornendo una definizione dell’«officium» poetico, richiama proprio AP, 333-334.
e difende la possibilità di una poesia dilettevole: «Poetae [...] aut volunt prodesse [...] Aut volunt delectare [...] aut volunt utrumque facere ut qui utilem rem et sanctam iocunde perscribunt. Inter quos ne quis dicat eos qui delectare volunt inutiles et respuendos esse. Sciemus diversis diversa congruere»; fermo restando che «qui vero
lubrica et impudica componunt, omnino damnandi atque inutiles sunt» (ivi). L'argomentazione di Piccolomini svolta in Annotationes, 333.3, basata sul parallelismo con l'oratore, trova un riscontro puntuale in DanteLLO, La
Poetica cit., p. 243: «L'ufficio veramente è poi lo scrivere cose atte ed accomodate allo insegnamento et al diletto, il fine, per mezzo di quella scrittura insegnare e dilettare parimente; come ancora l'ufficio dell'oratore e il parlare atto e conveniente alla persuasione, il fine, attamente parlando persuadere; e del medico il curar con diligenza
l'infermo, il fine, con la cura sanarlo». Cfr. cap. IV. 134 Contesta qui la glossa di Macer, /n Horatii librum cit., p. 361.
135 Sintetico ma chiaro De Norts, /n Epistolam cit., c. 1160, a proposito di AP, 333 sgg.: «[...] ait autem quosdam utilitati, quosdam oblectationi, quosdam oblectationi simul et utilitati studere. Utilitati brevitatem: oblectationi verisimilitudinem; oblectationi simul et utilitati studentibus utrumque praecipiens, ut quae utilia sunt breviter dicta facilius memoriae commendentur, quae vero afferunt oblectationem ex verisimilitudine ipsa statim credantur».
199
quenda sit.
dai poeti al punto di dover abbandonare, a sua difesa, la verità stessa.
340. PuERUM ExTRAHAT Aryo. [1] EXxTRAHAT, poeta scilicet imitando.
340. PuERUM ExTRAHAT ALvO. [1] «Estragga», ovvero [lo faccia] il poeta a mezzo dell'imi-
ut pro illius defensione, veritas ipsa relin-
tazione.
342. Cesi PRAETEREUNT. [1] Celsi, elati non tum corpori, ut alii exponunt,
sed animi,
quales iuvenes esse solent; senes vero demissi et magis abiecti.
x
342. Cesi praereREUNT. [1] Nobili, elevati non nel corpo, come altri intendono, ma nell’animo, quali sono d’abitudine i giovani; i vecchi invece dimessi e più trasandati.
343. Omne TuLIT PuvcrUM. [1] Laudis scili-
343. Omne ruLit PuNcrUM. [1] Della lode,
cet suffragium; hoc est ab omnibus laudatur, a senibus et a iuvenibus.
ovvero il suffragio: vale a dire che viene lodato da tutti, dai vecchi e dai giovani.
347. Sunr pELICTA TAMEN. [1] Ne multitu-
damus, sublevat et in spem erigit.
347. SunT pELICTA TAMEN. [1] Affinché per la moltitudine di precetti tramandati in quest'arte non ci si perda d'animo e ci si disperi, dà sollievo ed eleva nella speranza.
351. VERUM UBI PLURA NITENT etc. [1] Poeta
351. VERUM UBI PLURA NITENT etc. [1] Il poeta
qui raro peccat, peccat ut homo, et idcirco
che raramente commette errori, sbaglia in
ipsi ignoscendum est. [2] Qui vero raro non
quanto uomo, e per questo occorre scusarlo.
peccat, peccat ut poeta, quare venia non
[2] Chi invece sbaglia di frequente, lo fa in quanto poeta, per la qual cosa non é degno di perdono. [3] Nessuno che non commetta
dine praeceptorum in hac arte traditorum
animo cadamus, et in disperationem inci-
est dignus. [3] Nemo igitur admittendus in numero
poetarum
qui raro non peccat, et
nemo excludendus qui raro peccat.
errori raramente è dunque da ammettere nel novero dei poeti, e nessuno che sbagli di rado deve esserne escluso. '?
353. AUT HUMANA PARUM CAVIT NATURA. [1]
353. AUT HUMANA PARUM CAVIT. NATURA. [1]
Dum aliquantula ignorantia laborat, nullus enim omnia potest scire, nec absolute, nec
Finché si affatica per una benché minima
quamvis in arte.
né in assoluto, né limitatamente all’arte.
358. Cum nisu. miror. [1] Cum risu, idest cum irrisione. [2] Miror vero quia raro id
358. Cum nisu wrgon. [1] Con il riso, ossia con scherno. [2] Mi meraviglio, invero, per-
evenit; indignor quia pene irascor quod poeta velit appellari, cum ita raro non pec-
ché ció accade raramente; mi indigno poi-
ignoranza; nessuno infatti può sapere tutto,
ché quasi mi arrabbio per il fatto che voglia
136 Inizia la trattazione relativa agli errori: sull'inammissibilità della mediocrità in poesia, cfr. cap. IV.
cet; nemesis enim est cum dolemus aliquo bono quod alius eo indignus habet.
essere chiamato
c. 1640) 358. QUEM BIS TERQUE BONUM etc. [3] Si, ut quidam volunt, affertur hic
358. QuEM BIS TERQUE BONUM etc. [3] Se, come
causa risus, admiratio scilicet, tunc non poterit exponi risus pro irrisione, cum admiratio sit causa non irrisionis, sed veri
poeta pur commettendo
errori cosi di frequente; nemesis è infatti quando ci doliamo per un bene posseduto da un altro che non lo merita.
vogliono alcuni, è esposta qui la causa del riso, ossia lo stupore, allora il riso non potrà
essere inteso come scherno, giacché lo stupore non è causa dello scherno, ma del riso
risus. [4] Videtur tam accipiendus hoc in loco risus pro irrisione: ut irrisio sit, quia
vero e proprio. [4] Sembra tuttavia che si debba intendere in questo luogo il riso come
illud bonum adeo rarum, contingit casu
scherno; che si tratti di scherno è dato dal
non autem ex arte; itaque irridetur quasi
fatto che quel bene così raro si verifica per
casuale, et artificio carens. [5] Mrror au-
caso e non invece per arte; pertanto è deriso
tem dicit quia quae raro contingunt ad-
in quanto quasi casuale, privo d'artificio. [5]
mirationem gignunt. [6] INpicNoR autem dicit quoniam indignatio est de bono in iis, eo indigni sunt. [7] Cherilus autem, pessimus poeta, non erat dignus ea lau-
Scrive invece «mi stupisco» perché le cose che accadono raramente generano stupore. [6] Afferma poi «mi indigno» perché l’indignazione ha per oggetto il bene presso coloro
de. quae potuisset dari ob ea quae recte ab ipso dicta fuerant. [8] Laude enim non
che non ne sono degni." [7] Cherilo del resto, poeta pessimo, non era degno di quella
erant digna quia casu et non ex arte dicta
lode che gli poteva essere tribuita per ciò che
fuerant: nam
aveva detto correttamente. [8] Ciò infatti non era degno di lode perché detto per caso e non per arte: se infatti fosse stato per arte, questo non sarebbe accaduto così raramen-
si ex arte, non ita raro id
contigisset. [9] Iccirco Horatius indignatur de bono illius, qui ipse non erat dignus.
te. [9] Per tale motivo Orazio si indigna del bene di costui che non ne era degno. 359. QuawpoovE Bonus etc. [1] Aliqui exponunt QUANDOQUE pro *quandocumque,
359. Quanpoque Bonus etc. [1] Alcuni in-
et coniungunt illud inpiGNoR cum QUANDOQUE, ut sit sensus Horatium indignari
congiungono INDIGNOR con QUANDOQUE, affinché il senso sia il seguente: Orazio si indigna che Omero in alcuni casi non sia stato simile
Homerum in quampaucis non fuisse sibi ipsi similem. [2] Construunt ergo litteram sic: et idem ego indignor quandocumque Homerum video peccare seu dormitare.
tendono QUANDOQUE per ‘quandocumque?”, e
a se stesso.! [2] Costruiscono dunque così:
«ed io stesso mi indigno quando vedo Omero commettere errori o sonnecchiare». [3] Io
137 Come il commentatore spiega nella glossa successiva, «indignor» è da collegarsi, a suo avviso, alle parole che lo precedono e non a quelle che lo seguono. 138. Cfr. De Nores, /n Epistolam cit., c. 126v. Sull'opportunità di unire «indignor» alle parole che lo seguono, cfr. FepeLi, ad loc.
invece non esporrei in modo che INDIGNOR sia unito alle parole precedenti; infatti l'in-
[3] Ego non autem exponerem ut indignor iungatur cum superioribus; nam indigna-
tio non est de malo alterius, sed de bono,
dignazione non riguarda il male dell'altro,
quo dignus non sit qui illud possidet. [4]
ma il bene di cui non sia degno colui che lo possiede. [4] Dicendo che mi indigno perché quel saggio è povero, non faccio uso corretto della parola ‘indignazione’, come se invece affermassi di indignarmi per il fatto che
Ut si dicam indignor quod ille sapiens pauper sit, non bonum usus fuero indignationis nomine, sicut si dixerim indi-
gnor quod ille insipiens dives sit.
quello sciocco è ricco.^?
peccata in poematibus, si rara et exigua sint, venia sint digna et tolleranda, tamen quam paucissima, quam rarissima, et
361. Ur rrcruma Porsis Emir. [1] Sebbene gli errori nei componimenti poetici, purché rari e di poco conto, siano degni di scusa e da tollerare, tuttavia devono essere quanto
361. Ur rrcruma Porsis ERIT. [1] Quamvis
quam minima esse debent; [2] quia poesis
più pochi, rari e di minor entità possibile,
quae sub luce velit videri, et quae non sit formidatum acumen iudicis, mediocritatem non admittit.
[2] poiché la poesia che voglia essere esaminata da vicino, senza temere l’acume del
365. Harc PrAcUIT SEMEL etc. [1] Nihil est tam rude et tam negligenter scriptum, quod semel legi non contingat, sed statim dehinc abiicitur nec amplius legitur.
365. Harc PrAcurr sEMEL etc. [1] Niente è così rude e scritto con si grande negligenza da non essere letto neppure una volta, ma subito poi lo si abbandona e non si legge più.!#!
366. O maror ruveNUM etc. [1] Pater enim ita eruditus in poesi erat ut iis praeceptis
366. O Marion rvvENUM etc. [1] Il padre era
critico, non ammette mediocrità. '*?
infatti tanto dotto in poesia da non aver bi-
non indigeret; minor frater non adhuc idoneus ob aetatem erat, ad tot praecepta per-
sogno di quei precetti; il fratello minore non
se habebat.
era atto ad apprendere tanti insegnamenti a causa dell'età. [2] Ma il fratello maggiore si trovava in una via di mezzo.
307. FIncERIS ET PER TE saPrs. [1] Ad poesim,
307. FINGERIS ET PER TE sAPIS. [1] Queste cose
non ad mores sunt referenda haec.
vanno riferite alla poesia, non ai costumi.
cipienda. [2] Sed maior frater medio modo
139 L'interpretazione corrente dei versi oraziani su Cherilo e Omero vuole che «miror» si riferisca al primo (mi stupisco se il cattivo poeta fa qualcosa di buono), mentre «indignor» al secondo (suscita in me indignazione il grandissimo poeta che commette un errore). Piccolomini, difendendo il significato di indignatio, ritiene opportuno riferire anche la seconda voce verbale al caso di Cherilo. 140 Il parallelismo simonideo tra pittura e poesia (cfr. PLur., Mor 17f, 58b, 346f; Rhet. ad Her., 4, 39) dà adito ad un'annotazione volta a ribadire la necessità, per la poesia, di ambire alla perfezione. L'interpretazione piccolominiana, lungi dal soffermarsi sulle implicazioni del motto oraziano in termini di effettiva comparazione delle due
arti, si limita ad una chiara esposizione della lettera. Cfr. cap. IV. 141 Cfr. De Nonzs, /n Epistolam cit., c. 129v: «Inepta scilicet semel tantummodo placuit primo aspectu: cum si bis, aut ter legatur et consideretur, non possit non repudiari».
202
369. CowsurTUS IURIS ET AUCTOR etc. [1] Propter scilicet utilitatem ac necessitatem
369. CowsurrUs IURIS ET AUCTOR etc. [1] In virtù dell'utilità e della arti, è tollerabile una esse, poiché necessarie, risultato mediocre come poesia, nata e inventata
harum artium, tollerabilis est earum mediocritas; quia necessariae sunt, non respuitur
mediocritas, sicut respuatur in poesi, quae ad delectationem innata et inventa sit.
377. SIC ANIMIS NATUM POEMA IUVANDIS. [1]
necessità di queste loro mediocrità: in non è respinto un è invece respinto in per dilettare.!?2
377. SIC ANIMIS NATUM POEMA TUVANDIS. [1] Per giovare, per dilettare [l'animo]; sebbe-
luvandis, oblectandis; quamvis enim poe-
seos finis sit non tam delectatio, sed etiam utilitas, ut vidimus, tamen, quia horum finium utilitas est prior ordine perfectionis, delectatio num ordine temporis et natu-
piacere, ma anche l'utilità, come si è visto; tuttavia, poiché di questi due fini l'utilità è
rae. [2] Ex delectatione enim imitationis
precede in ordine di tempo e natura. [2] Pro-
propria orta est poesis; quare cum imitatio
prio dal piacere dell’imitazione è infatti nata la poesia; per questo, essendo l'imitazione
ne infatti il fine della poesia non sia solo il
il primo in ordine di perfezione, il piacere
sit fere anima et essentia et forma poeseos, in
quasi l'anima e l'essenza e la forma della
ipsa quam utilitas. [3] Tempore etiam vi-
poesia, il diletto sembra in essa ancor più
videtur
delectatio
etiam
essentialior
essenziale dell’utilità.!# [3] Sembra priori-
detur prior, quia a delectatione imitationis propria et naturali, primum ortum habuit poesis: qua dehinc sapientes ipsi usi sunt ad hominis vitam moribus ac virtutibus
decorandam.
tario anche in ordine di tempo, poiché proprio dal piacere naturale dell'imitazione ha avuto la sua prima origine la poesia, di cui si servirono gli uomini saggi per abbellire con
[4] Nam ut praecepta me-
lius ab hominibus perciperentur, suavitate
virtù e costumi la vita dell'uomo. [4] Perché
poetica ea condire conati sunt. Et |c. 1657] ideo inferius dicit Horatius FUIT HAEC SA-
i precetti fossero meglio appresi dagli uomini, essi cercarono infatti di infonderli con la
PIENTIA PRIMA, PUBLICA PRIVATIS etc. [5] Usi
dolcezza poetica. E. perciò più in basso scri-
igitur dehinc sunt prudentes viri hac arte,
ve Orazio FUIT HAEC SAPIENTIA PRIMA, PUBLICA
ob eius suavitatem ad vitam praeceptis
privatis etc.^* [5] Pertanto, in seguito, gli
instituendam, ac cum delectatione utilitatem coniunxerunt, ut admixta delectatio
uomini prudenti fecero uso di quest'arte in virtù della sua dolcezza al fine di regolare la
142 Cfr. Bap. Asc., Praen., I: «qui circa poeticum furorem atque altisonum stilum scribunt, si aptissime decorum
servant, poete vocari possunt [...] Dico si aptissime quia licet in aliis artibus mediocres laudantur, iuxta quod dicit philosophus mediocre laudamus tamquam bonum. In poeta tamen nullus laudatur nisi in suo genere scribendi ad summam usque ad perfectionem pervenerit». Di seguito Badio Ascensio cita proprio Hor., AP, 372-373, e prosegue: «immo necesse est ut [poetae] summi sint aut a poetica professione abstineant». Piccolomini ripete il medesimo concetto in Annotationes, 377.6-7. Il confronto con le altre arti è dirimente ai fini del riconoscimento che la poesia non può essere mediocre. Cfr. De Nonzs, /n Fpistolam cit., c. 129r, a proposito di AP, 366 sgg.: «reddit rationem, quare summum ac perfectissimum esse poema debeat, non autem mediocre, aut tolerabile. Quia
scilicet non ad necessitatem: ut reliquae fere artes, in quibus mediocritas toleratur, sed ad animorum oblectationem inventum conscriptumque sit».
143 Significativamente diversa la posizione ‘pubblica’ dell'umanista Piccolomini che, in Annotation, 34, pp. 100-103, accorda la priorità al giovamento. Su questo, cfr. cap. IV.
144 AP, 396-397.
203
alliceret homines, ad utilitatem properius
vita con precetti, ed unirono l'utilità con il
admittendam.
diletto, perché il piacere misto [all'utile] con lusinghe inducesse gli uomini ad accogliere in modo più sollecito l’utilità. [6] La poesia fu pertanto inventata prima per dilettare che per giovare. Per questo motivo, considerando qui Orazio soprattutto il fine del piacere come più naturale ed essenziale, rifiuta la mediocrità in poesia. [7] Qualora la poesia stessa mancasse infatti del proprio piacere e della dolcezza, pur divulgando precetti sul-
[6] Fuit ergo poesis prius
ad delectationem quam ad utilitatem inventa. Et ideo, hunc delectationis finem maxime ponderans Horatius hoc in loco ut magis naturalem et essentialem, respuit
mediocritatem in poesi. [7] Nam poesis ipsa si careat propria delectatione ac suavitate, quamvis praecepta traderet ad
vitam et mores pertinentia, tamen inutilis esset; non enim a quoquam libenter et pa-
tienter audirentur ea praecepta, si frigida, vili et nullo artificio confecta imitatione a poetis ineptis preponerentur.
la vita e i costumi, sarebbe tuttavia inutile;
quei precetti infatti non sarebbero ascoltati volentieri e pazientemente da nessuno se
fossero proposti da poeti incapaci in modo freddo, vile e senza alcun artificio.?
379. LupERE Qui wEsciT etc. [1] Quia dixerat poemata mediocria non habere aditum ad
379. Lupere
Qui NEscIT etc. [1] Giacché
aveva detto che i componimenti poetici me-
laudem, ideo monet quod qui artem poe-
diocri non propiziano la lode, ugualmente
ticam non optime calleant ingenioque ad
prescrive che coloro i quali non sappiano ottimamente l’arte poetica e non si dedi-
ipsam vigeant, nullo pacto scribant.
chino con ingegno ad essa, non scrivano in nessun modo.
379. LupeRE Qui NEScIT etc. [2] Dixerat mediocritatem in poematibus non habe-
re locum, sicut in quampluribus aliis artibus habet; ut igitur non mediocris sed perfectus esse possit poeta, duo dat no-
bis animadvertenda.
[3] Primum
quod
si vel ob difectum ingenii et naturae, vel ob ignorationem artis, nescimus perfecte scribere, nolimus scribere, quia sic etiam
in aliis artibus id evenire videtur et etiam
in ludis. [4] Nec etiam fidendum est divitiis, nobilitati, virtutibus moralibus, et huiusmodi bonis animi, corporis aut for-
tunae. [5] Haec enim nequeunt tueri mala poemata, quae non huiusmodi bonis indi-
379. LupERE Qui NEscIT etc. [2] Aveva affermato che la mediocrità non ha spazio nelle opere poetiche, come lo ha in moltissime
altre arti; affinché dunque il poeta possa essere non mediocre, ma perfetto, Orazio ci dà due prescrizioni. [3] In primo luogo che, non sapendo scrivere in modo perfetto, o
per difetto dell'ingegno e della natura o per ignoranza dell’arte, non si voglia scrivere, dal momento che ciò sembra verificarsi anche in altre arti e perfino nelle gare sportive. [4] E non si deve fare affidamento nelle ricchezze, nella nobiltà, nelle virtù morali e nei
beni dell'animo, del corpo o della sorte. [5] Questi mezzi infatti non possono difendere le
145 Sulle molte implicazioni di questa glossa, cfr. ancora il cap. IV.
gent ut laudentur, sed studio, arte et dili-
cattive opere poetiche, che non hanno bisogno di questo tipo di beni per essere lodate, ma di applicazione, arte e diligenza, insieme
gentia, cum natura etiam ad scribendum
apta. [6] Quae si non inerunt nobis, non erit ullo pacto scribendum. Hoc est ergo primum animadvertendum, ibi positum
ad una natura adatta a scrivere. [6] Se non
LUDERE. [7] Secundum autem ponitur ibi
scrivere in nessun modo. Questo è dunque
SI QUID TAMEN OLIM, et est quod etiam si ex
il primo consiglio, dove scrive Lupere. [7] Il
possederemo questi requisiti, non dovremo
tamen
secondo è invece posto dove afferma st Quin
consulere debemus aures et iudicium alio-
TAMEN oLIM!*° ed è che, pur essendo in grado
rum eruditorum poetarum. [8] Nam homo
di scrivere secondo arte e natura, dobbiamo tuttavia rivolgerci alle orecchie ed al giudizio
arte
et natura
ipse natus
scribere
est tam
possumus,
perpensus
suis rebus.
di altri poeti esperti. [8] L'uomo è infatti per natura rivolto alle sue cose al punto di ama-
ut poemata propria ita amet ut filios, ut
dixit Aristoteles; ne igitur proprio suorum carminum amore decipiatur, consulat alios bonos poetas et premat sua poemata per plures annos, ut saepius hoc tempore possit ea perpendere tamquam aliena et delere quae delenda sunt.
re le proprie opere poetiche come figli, come ha sostenuto Aristotele; per non essere dunque ingannato dal proprio amore per le sue poesie, egli consulti altri buoni poeti e trattenga le sue opere per molti anni, affinché
più frequentemente in questo tempo possa esaminarli come se fossero poesie altrui ed eliminare quelle che sono da eliminare.'**
384. VrrioQUE REMOTUS AB OMNI. [1] Ab omni vitio ad mores pertinente, non ad poeticam artem.
vizio pertinente i costumi, non l’arte poe-
396. Ip TIBI IUDICIUM EST, EA MENS. [1] In hoc scilicet quod dixi, a non callentibus artem poeticam non esse scribendum, et nihil 1Nvira Minerva faciendum. [2] Enim eius es iudicii, ut recte cavere possis, ita ut haec servans scribas. [3] Sed hoc non est satis;
396. Ip TBI rUDICIUM EST, EA MENS. [1] Ovvero [essere consapevole in merito a] ciò che ho detto: non devono scrivere coloro che non hanno competenza nell'arte poetica, e nulla deve essere fatto «contro la volontà di Minerva».! [2] Sei infatti di quell’avviso, proprio
384. VITIOQUE REMOTUS AB OMNI. [1] Da ogni tica. !^?
146 AP. 386-388: «[...] Si quid tamen olim / scripseris, in Maeci descendat iudicis aures / et patris et nostras [...]». 147 Dopo aver ripercorso i precetti oraziani sulla scrittura poetica (chi non sa scrivere, non scriva, mentre chi sa farlo, lo faccia con straordinaria attenzione e sottoponga il proprio operato al giudizio di critici severi), Piccolomini evoca le dinamiche psicologiche per le quali ciascuno è pessimo giudice di se stesso. Giacché, sulla scorta di Aristotele, i propri versi sono come figli, è necessario raggiungere un certo distacco per giudicarli obiettivamente. 148 Come puntualizza il commentatore, non basta essere vir bonus per essere dicendi peritus: la costante dialettica
oraziana tra integrità morale del poeta, predisposizione naturale alla poesia e dominio dell’arte poetica offre a più riprese a Piccolomini l'occasione per ribadire la consustanzialità delle tre componenti nel profilo del buon poeta. 149 AP, 385. «Invita Minerva» è formula proverbiale (cfr. FepeLI, ad loc.), come attestano Ps.-Acr., ad loc.: «et est proverbium artificum [...] quia et ipsa Minerva inter ceteras artes etiam poesi praeest»; e Crc., De off. I, 110: «invita Minerva [...] id est adversante et repugnante natura» (i due esempi rivelano la consueta oscillazione tra ars e natura come componenti essenziali della poesia).
205
oportet enim, si quid artificiose scripseris, Ib IN METII DESCENDAT etc.
perché tu possa fare in modo di scrivere osservando queste prescrizioni. [3] Ma questo non e abbastanza; occorre infatti che, qualora tu abbia scritto qualcosa di artificioso, quello
«passi al vaglio del giudizio di Mecio ecc.».^? 388. NoNUMQUE PREMATUR IN ANNUM. [1] Non ut ociose pressa maneant, sed ut hoc tem-
pore saepius relegas, corrigas et consultoribus ostendas. 389. Memgranis INTUS. Posrris. [1] Cum sequentibus iungendum, non cum praecedentibus, ut aliqui ordinant litteram, sed non bene.
388. NoNUMQUE PREMATUR IN ANNUM. [1] Non perché restino chiuse nell'ozio, ma affinché piü spesso tu le rilegga, corregga e le mostri a chi possa consigliarti. 389. MemBranis INTUS Posrris. [1] Da unire alle parole successive, non alle precedenti, come alcuni ordinano, ma non bene.'?!
c. 165v| 391. SuvzsrREs Homines. [1] Utilitas poeticae, quae finis eius est simul cum delectatione, nunc exponitur, cum de delectatione iam dixerit.
391. Sirvestres Homines.
391. SrvesrRES HowiNEs. [2] Ut praecepta
391. StlvesTRES HOMINES. [2] Perché i precetti tramandati in questo libello siano accolti con
in hoc libello tradita aequioribus animis re-
cipiantur, poeticae facultatis laudes et utilitates et commoditates refert, ut promptius quae dicta sunt admittantur, et serventur.
[1] Avendo già
parlato del diletto, è ora trattata l'utilità della poesia, che, insieme con esso, ne costituisce il fine.'??
animo meglio disposto, Orazio tesse le lodi e i vantaggi e i profitti della facoltà poetica, affinché più prontamente siano approvati ed osservati gli argomenti esposti.
391. InTERPRESQUE DEORUM. [3] Furore enim quodam divino aguntur poetae, sicut spiritu prophetae.
391. INTERPRESQUE DEORUM. [3] I poeti sono
396. Furr HAEC SAPIENTIA PRIMA. [1] A princi-
396. Furr HAFC saPrENTIA PRIMA. [1] In origine
pio enim sapientia et philosophia in huius-
sapienza e filosofia riguardavano questo ge-
infatti mossi da un qualche furore divino,
come i profeti dallo spirito.^?
150 AP, 387: cfr. Annotationes, 319. 1-8.
151 Diversamente da quanto accolto nelle edizioni moderne (cfr. ed. BrINK, ad loc.). 152 Peri
vv. 391-396. cfr. cap. III.
153 L'istanza platonica per cui il poeta è mosso da un furor divino è proposta qui da Piccolomini come inevitabile glossa all'oraziano «interpresque deorum», ma l'impostazione complessiva delle Annotationes, coerentemente con
le posizioni espresse altrove dall'umanista, non privilegia questo aspetto. Si tratta tuttavia di un elemento caro alla tradizione esegetica di marca platonica. Cfr. Lanp. ad loc.; ma anche Bap. Asc., Praen.. I, che, rifiutando l'idea di un'autosufficienza dell'ispirazione ‘divina’ come garanzia di una buona opera poetica, tenta di distinguere il
poeta dal propheta: «sunt qui [...] furorem poeticum habent: sed non carmine immo soluta oratione eloquuntur, sic tamen ut furore poetico accensi videantur. Et hi potius vates et prophete vocantur quam poete eo quo poetarum officium sit facere divina carmina».
modi rebus posita erant, non
in naturae
mores
nere di cose, non la conoscenza della natura e delle cose naturali e divine. Erano piuttosto rivolte all'aiuto della vita umana, e avevano come oggetto le azioni, i costumi e le virtù
et virtutes respiciebat. [2] lidemque erant
degli uomini. [2] I medesimi erano poeti e
poetae ac philosophi, qui huiuscemodi rebus incumbebant. Sic ergo exponendus est hic locus, et habet magnam emphasim.
filosofi, i quali si dedicavano a questo tipo di questioni. Questo passo deve dunque essere spiegato così, ed ha molta importanza. '^*
401. Post nos Insienis Homerus ete. [1]
401. Post nos msicnis Homerus etc. [1]
Cum prius poetae usi fuerint poetica arte ad ea quae iam enumeravit Horatius, et philosophiae partes implerent, dehinc
Avendo i poeti fatto precedentemente ricor-
Homerus et Tyrtaeus usi sunt hac arte ad incendendos animos ad preclara belli gesta. Sed diversi modo. [2] Homerus enim
tavano le parti della filosofia, in seguito
scribendo heroum illustrium gesta inflammat homines ad eos imitandos ac ad res preclare gerendas ob laudis cupiditatem, ut scilicet etiam et ipsi poetarum carmi-
azioni di guerra. Ma furono differenti nel modo. [2] Omero infatti scrivendo le gesta
nibus perpetuo viverent. [3] Tyrtaeus autem acuerat etiam et ipse animos ad for-
per desiderio di lode, ovvero perché anch'es-
ipsius naturaliumque divinarumque rerum cognitione; sed humanae vitae auxilio incumbebat,
hominumque
actiones
titer gerendum in bello; dum Spartanos iam victos suo carmine ita erexit, acuit et inflammavit ut vires adderet, ita ut ex victorum manibus victoriam eripuerint, ut apud Iustinum.
so all’arte poetica con quei fini che Orazio ha già enumerato, e giacché essi incremenOmero e Tirteo usarono quest'arte per ac-
cendere gli animi ad intraprendere eccelse
di eroi illustri infiamma gli uomini ad imitarli e a compiere azioni in modo grandioso si vivano in eterno nei carmi dei poeti, P?
[3] Anche Tirteo aveva stimolato gli animi a comportarsi valorosamente in guerra; egli
fomentò, accese ed infiammò gli Spartani ormai vinti al punto di ridar loro forza, co-
sicché strapparono la vittoria dalle mani dei vincitori, come si legge in Giustino.^^
406. Er LoNGORUM OPERUM FINIS. [1] Finis laborum et actionum clarissimarum et rerum praeclare gestarum est ipsa memoria, quam viri illustres ex poetarum carminibus
406. Er Loncorum oPeRUM FINIS. [1] Il fine delle fatiche e delle azioni eccellenti e delle gesta straordinarie è la memoria stessa, che gli uomini illustri ottengono dalle opere dei
154 Per le glosse ai vv. 391 sgg. si rinvia al cap. III. 155 Per l'exemplum di Omero, cfr. BA. Asc., Praen., I, ad loc.: «venit insignis Homerus ingeniorum et omnis artis
princeps et pater: qui laudando et approbando heroicas virtutes virorum fortium effecit ut multi consimilis laudis avidi fortiter agerent».
156 Quanto all’analogo ruolo di Tirteo in ambito spartano, la testimonianza addotta come spiegazione del verso oraziano è lusr., Hist., IIl; anche per questo cfr. Bap. Asc., ivi («ut refert Iustinus in iij. lib. hystoriarum»). Significativo il rimando a Giustino nelle Annotationes che, eccezion fatta per Aristotele, Cicerone e Senofonte, sono prive di rimandi
espliciti ad autori della tradizione: la citazione di uno storiografo (cfr. il riferimento a Senofonte in Annotationes, 317.3) suggerisce l’esistenza di nessi tra narrazione storica e scrittura poetica. Si veda, a questo proposito (ma il discorso meriterebbe di essere approfondito), quanto detto nel cap. III, $ 5, p. 73, e cap. V. $ 2. pp. 114-110.
poeti. Così espongono alcuni. [2] Ma si può anche spiegare meglio: finis laborum, ossia riposo dell’animo e del corpo, ottenendo il quale, dopo i vari lavori degli uomini e le varie attività necessarie alla vita, [gli uo-
consequuntur. Sic exponunt aliqui. [2] Sed potest exponi etiam et melius, finis laborum idest requies animi corporisque, quam post
diversos hominum labores, variasque exer-
citationes vitae necessarias, ipsi consequen-
tes refocillantur; dum videlicet alii post
mini stessi] vengono ristorati; altri poi si
diurnos agriculturae labores quiescunt et recreantur. Et sic de aliis; huiusmodi enim
rilassano dopo le fatiche quotidiane dell'agricoltura. E così a proposito degli altri. Proprio le poesie possono servire moltissimo a questo genere di riposo e ristoro. [3] Ed
quieti et recreation! maxime ipsa carmina
inservire possunt. [3] Ac etiam in ipso met labore, illum leniunt et minus sentire permittunt fessique animi cantu mirum in modum relaxari solent.
anche durante il lavoro, esse lo addolciscono e permettono di sentire meno la fatica,
408. NATURA FIERET LAUDABILE etc. [1] Quia superius dixerat [INGENIUM MISERA etc., ir-
408. NarURA FIERET LAUDABILE etc. [1] Poi-
e gli animi stanchi sono soliti rilassarsi in modo meraviglioso grazie al canto.!9”
ché in precedenza aveva detto INGENIUM MISEra etc.,? deridendo quelli i quali pensavano che la natura sola bastasse a comporre bene un'opera poetica, ed aveva attribuito molta importanza all'arte, ora, affinché nessuno creda che la sola arte possa bastare a ció senza la natura, ovvero senza un ingegno disposto dalla natura alla poesia, mostra che en-
ridens eos qui solam naturam sufficere ad poemata recte conficienda opinabantur, ac plurimum tribuerat arti, nunc ne quis cre-
dat solam artem sufficere ad id posse sine natura, hoc est sine ingenio ad poesim a natura accomodato, docet utramque, naturam scilicet et artem, requiri ad hoc ut poeta perfectus et laudabilis esse possit. [2] Sed posset mirari aliquis cur Horatius
trambe, natura ed arte, sono richieste perché
il poeta possa essere perfetto e lodevole.!9° [2]
Ma qualcuno potrebbe stupirsi del fatto che Orazio non abbia espresso la sua opinione su
non posuerit suam opinionem, quod nam horum duorum plus conferat ad poesim, sicut questionem proposuerat, dicendo vaTURA FIERET etc., praesertim cum Cicero et
quale di queste due conti maggiormente per la poesia, cosi come aveva proposto la domanda dicendo NATURA FIERET etc., giacché soprattut-
alii doctissimi viri plus tribuant naturae
157 Sulla valenza puramente ricreatrice della poesia, valido sostegno alle fatiche fisiche e pregevole strumento di ristoro, cfr. cap. IV. Ma si veda anche la chiara glossa di Ps.-Acn., ad loc., che individua puntualmente questo aspetto: «ludusque repertus. ld est, lyra vel oblectatio, ut relaxarent se homines carminibus. Ludus et longorum operum finis xatà 1 avrò dixit, quod, quando vult aliquis post laborem requiescere, utitur lyra et carminibus. Et est perpetuum epitheton /ongorum operum, id est laborum molestorum» (il tema è già aristotelico: cfr. Arist., Pol. VII, 3, 1137b 42; 5, 1339a 16). 158 Nel dilemma sulla priorità di ars o ingenium, Piccolomini prende posizione a favore di una necessaria consustanzialità dei due elementi. In Annotationi, 21, p. 75, confuta con argomentazione squisitamente logica coloro che, in virtù di una presunta coincidenza di arte e natura, considerano gratuita la «dubitatione» oraziana. Cfr.
comunque cap. IV.
159 Il riferimento è ai vv. che ironizzano sulla posizione democritea. Cfr. AP, 295-297: «Ingenium misera quia
fortunatius arte / credit et excludit sanos Helicone poetas / Democritus»; sui quali Annotationes, 295.1-3. 160 Cfr. De Nonzs, /n Epistolam cit., c. 143v.
208
quam arti, ita ut qui maxime valeat, etiam sì in consequenda arte parum laboraverit,
possit aliquid scribere, qui autem tantum arte valeat, nihil in scribendo possit. [3] Sed solve: quia, quamvis aliquis natura sola absque arte possit aliquid scribere,
tam id non erit perfectum poema. [4] Cum ergo Horatius de laudabili tantum carmine proposuerit dubitationem, solvit illam respiciendo summum non mediocrem
poetam. [5] Et ideo dicit |c. 166r| naturam et artem requiri simul. Et statim quo ad artem hortatur ad labores et studium, sine
quibus ars non acquiritur. [6] Ad naturam autem adipiscendam non hortatur, quia id nostrum
non
est,
nec
virium
nostrarum,
to Cicerone ed altri uomini dottissimi danno più importanza alla natura che all'arte; cosi che chi valga moltissimo, anche se non avrà faticato abbastanza nel conseguire l'arte, possa scrivere qualcosa; chi invece valga sol-
tanto nell'arte, nulla possa nello scrivere. [3] Ma risolvi: sebbene qualcuno possa scrivere qualcosa solo in virtà dell'ingegno, ma senza arte, tuttavia non si tratterà di un’opera
poetica perfetta. [4] Avendo pertanto Orazio proposto un dubbio che riguarda esclusivamente la poesia lodevole, lo risolve riferen-
dosi al sommo poeta, non al mediocre. [5] E perciò dice che natura e arte si ricercano
insieme. Subito esorta, per quanto riguarda l'arte, alle fatiche e all'applicazione, senza le quali l’arte non si acquista. [6] Non esorta invece a conseguire l'ingegno, poiché questo
cum opus sit naturae.
non è nostro né proprio delle nostre forze, essendo un dono di natura.
414. AssriNUIT vENERE ET vino. [1] Cum praecedentibus. non cum sequentibus iun-
414. AnsrINUIT VENERE ET vivo. [1] È da unire alle parole precedenti, non alle succes-
gendum est.
sive. 10!
415. Qui Pyrara cavraT TIBICEN. [1] Aliqui
415. Qui Pvrum cavraT TiBICEN. [1] Alcuni si
exponunt de Pindaro, sed melius est de omni tibicine intelligere, sicut de omni ad metam currente dixerat. Est enim inductio ex diversis artibus.
riferiscono a Pindaro, ma è meglio pensare ad ogni suonatore di flauto,? così come aveva
417. Occuper ExraEMUM.
417. Occuper ExrREMUM. [1] Non si curano di eccellere in poesia, ma per loro è sufficiente non essere gli ultimi. Ed in questo sbagliano, poiché quest'arte non tollera la mediocrità. !®
[1] Non curant
enim excellere in poesi, sed satis illis est
non esse postremos. Et in hoc peccant, quia haec ars non fert mediocritatem.
detto di tutti quelli che corrono alla meta. Si tratta infatti di un'induzione da arti diverse.
161 Cfr. ed. Brink, ad loc.
162 Anche in De Nores, /n Epistolam cit., c. 145r-v si contesta l’interpretazione di Grifoli («De Pyndaro, inquit Grifolus, videtur esse dictum, quippe qui Pythia scripserit»), affermando che «loquitur igitur generatim de omnibus tibicinibus, qui ad tibiam canebant, non de Pyndaro, qui scribebat». 163 Il poetastro che si accontenta di non essere ultimo è emblema di ciò che un poeta non dovrebbe mai essere: l'immagine offre a Piccolomini lo spunto per ribadire uno dei concetti chiave della sua argomentazione in sede di discussione sullo statuto della poesia, ovvero che essa non tollera forme di mediocrità.
negligentiam poetarum sui temporis car-
419. Ur PRAECO AD MERCES etc. [1] Avendo a tempo debito ripreso la negligenza dei poe-
psisset dicens NUNC SATIS EST DIXISSE etc.,
ti scrivendo Nunc SATIS EST DIXISSE etc.,19*
occasione hinc sumpta ostendit causam imperitiae et arrogantiae illorum; nam ab assentatoribus in illud vitium impellebantur, quorum fraude sibi ipsis nimium
Orazio coglie qui l'occasione per mostrare la causa della loro imperizia e arroganza;
essi erano infatti spinti a commettere quel vizio dagli adulatori, dall'inganno dei quali
placere pene cogebantur. [2] Potest etiam
erano quasi costretti a piacere troppo a se
et deduci locus hic, quia, cum
stessi.^ [2] Questo luogo può anche essere
419. Ur rnaECO Ap MERCES etc. [1] Cum
superius
hortatus sit Pisones ut quae scripserint op-
dedotto, poiché avendo
precedentemente
timi iudicis aures consulentes emendanda
esortato i Pisoni a sottoporre ció che aveva-
preponerent, nunc cautos reddere vult ne
no scritto alla critica di un ottimo giudice,
omnium iudicio confidant, sed proborum et prudentium virorum, qualis Quintilius;
chiedendo ció che era da correggere, ora vuole renderli cauti affinché non facciano affidamento nel giudizio di tutti, ma solo
nam maxime animadvertendum
ne in as-
sentatores incidamus.
degli uomini onesti e prudenti, come Quin-
tilio; occorre infatti guardarsi soprattutto dal cadere nelle mani degli adulatori.
425. VERUMQUE BEATUS AMICUM. [1] Assentatores enim ita sciunt bene imitari verbis et gestibus veros amicos, ut ab illis dinosci
425. VERUMQUE BEATUS AMICUM. [1] Gli adulatori sanno infatti imitare cosi bene con parole e gesti i veri amici, che non possono
nequeant. [2] Bratus autem ut sibi ipsi esse videtur, praesertim assentatorum fraude deceptus.
essere riconosciuti da quelli. [2] «Felice» é d'altronde il poeta qualora gli appaia l'inganno, specie ad opera degli adulatori.
426. Tu seu ponaris etc. [1] Non vetat Horatius donare, quod liberalis hominis est, sed
426. Tu seu povanis etc. [1] Orazio non vieta di donare, azione propria dell'uomo ge-
docet ita esse donandum, ut assentatoribus non sit inserviendum, nec illorum laudatio-
neroso, ma insegna che occorre donare in modo da non asservirsi agli adulatori e da
nes muneribus emantur.
non comprare con doni le loro lodi.
428. Prenum rarTITIAE. [1] Ob crapulam scilicet pinguesque coenas ad quas assen-
428. PLENUM LaErITIAE. [1] Ossia per l'ubriachezza; le cene abbondanti cui sono invitati
tatores ipsi vocati sint, ut ferculis eorum laudationes permutentur.
gli adulatori stessi per barattare le loro lodi con le portate.
164 AP, 4106.
165 Inizia qui la sezione sugli adulatori. Con la consueta attenzione per i nessi tra le varie parti dell'epistola, Piccolomini sottolinea che si tratta di un completamento per differentiam di quanto già detto sull' «ottimo giudice». La trattazione di riferimento, rivitalizzata dalla riflessione umanistico-rinascimentale su amicizia e adulazione è Cic., De am. 89, 91.
434. Reces DICUNTUR etc. [1] Non adducit
434. Reces pIicunTUR etc. [1] Non adduce
exemplum
tormentum
l'esempio dei re come modo per riconoscere gli adulatori, quasi che i poeti debbano fare uso dello stesso metodo per evitarli e distinguerli, ovvero a mezzo della tortura
scilicet vini; [2] sed dicit quod sicut reges.
del vino; [2] ma dice che, come i Re, per
ne decipiantur ab assentatoribus, quaerunt illos dinoscere, sic et nos debemus omni studio et diligentia uti in observandis et pernoscendis assentatoribus | nostrorum
non essere ingannati dagli adulatori cercano di riconoscerli, cosi anche noi dobbiamo applicarci ed essere attentissimi nel distinguere e riconoscere gli adulatori dei nostri
carminum.
carmi.
438. QuintILIO st quin etc. [1] Ad veros amicos et ad viros tum doctos, tum probos confugiendum est. ut eos consulamus et assentatorum fraudes evitemus.
438. QuivriLIO si Qu etc. [1] Dobbiamo rifugiarci presso i veri amici e gli uomini dotti e onesti, per consultarli ed evitare gli inganni degli adulatori.
438. QuinTILIO st QUID. etc. [2] Exponunt
438. QuinTILIO st QUID etc. [2] Secondo alcuni
aliqui quod cum Horatius descripserit falsos amicos, assentatores scilicet, nunc veros amicos describens, eorum officium
Orazio, dopo aver descritto i falsi amici, ossia gli adulatori, descrive adesso i veri amici,
ostendat. [3] Sed haec expositio non vi-
pretazione non sembra sicura; precedente-
detur tuta; nam superius dixerat quod assentatores in laudandis poetis ita imitabantur veros amicos, ut difficillime ab
mente, infatti, aveva detto che gli adulatori, nel lodare i poeti, imitavano i veri amici in modo tale da poter essere assai difficilmente
dorum
regum
prae
assentatorum,
modo
quasi
dinoscen-
eodem
etiam
modo usi debeant poetae in vitandis et dinoscendis
assentatoribus,
per
mostrando il loro ruolo. [3] Ma questa inter-
illis |c. 166v| distingui possent. [4] Si ergo
riconosciuti da quelli. [4] Se dunque il ruo-
officium verorum amicorum est quale de-
lo dei veri amici è come viene descritto in
scribitur in Quintilio, manifesto opponetur
Quintilio, si opporrà evidentemente a quello
assentatorum officio iam descripto. Valde
degli adulatori appena tratteggiato. È infatti molto diverso lodare, battere per terra, esclamare «bene, bravo!» rispetto a correg-
enim
discrepat laudare,
terram
tundere,
exclamare BENE, RECTE ab hoc quod est corrigere et iubere delere. [5] Tantum ergo
gere e ordinare di cancellare. [5] Tanto e
abest ut assentator laudando, exclamando
lontano
BENE
l’adulatore, lodando, esclamando
ut
«bene, bravo!», dall'imitare il vero amico,
maxime ab illo se diversum ostendat. [6] Oportet ergo hic exponere de officio boni iudicis, et non de amico. Quod confirmatur quia statim infert ViR BONUS ET PRU-
Occorre dunque qui intendere il compito del buon critico, e non dell'amico. Ciò è confer-
DENS, quasi innuens quod facere id quod
DENS,^ quasi significando che compiere le
RECTE,
imitetur
verum
amicum,
quanto anzi se ne mostra diversissimo. [6]
mato poiché subito dice Vir BoNUs ET PRU-
166 AP, v. 445.
211
Quintilius faciebat sit officium iudicis non quatenus
amici,
sed quatenus
boni
viri.
Sed videtur tamen quod hoc facere perti-
neat etiam ad amicum. [7] Quomodo igitur assentatorem non distingui nec dinosci ab amico dixit? Forte id dixit intelligens quod assentator illud idem faciebat in laudandis carminibus laude non dignis, quod amici faciunt in amicorum laudabili carmine, siquidem amici laudabilia amicorum carmina vere laudant, minus autem laudabilia
corrigunt. [8] Assentatores non respiciunt merita carminum, sed tantum placere student, et semper illud idem faciunt, quod
azioni di Quintilio sia il compito del critico non in quanto amico, ma in quanto uomo onesto. Sembra tuttavia che fare ció riguardi anche l'amico. [7] In che modo dunque ha detto che l'adulatore non si distingue né si riconosce dall'amico? Forse ha affermato ció intendendo che l'adulatore, lodando poesie
non degne di lode, faceva quella medesima
cosa che gli amici fanno per un carme lodevole composto da amici; gli amici lodano
infatti sinceramente le poesie lodevoli degli
amici, ma correggono quelle meno lodevoli. [8] Gli adulatori non osservano i meriti delle poesie, ma studiano solo di piacere, e fanno
amici faciunt non semper, sed cum opus
sempre ció che gli amici non sempre fanno,
est, laudantes scilicet laudanda, emendantes emendanda.
ma solo quando è opportuno: lodare ciò che deve essere lodato, correggere ció che deve essere corretto. ^"
445. Vir BONUS ET PRUDENS etc. [1] Officium
445. Vir BONUS ET PRUDENS etc. [1] Il compito del giudice onesto e corretto delle poesie altrui.
boni et recti iudicis aliorum carminum.
445. Versus INERTES. [2] Sine arte, sine dili-
gentia factos, nihil habentes nisi sonum.
445. Versus INERTES. [2] Fatti senz'arte, senza diligenza, che niente sono se non rumore.
446. Duros, ivcowrris. [1] Duros ob structuram inextricabilem ac vocabula obsoleta et aspera. [2] Incompris, omni exornatione
446. Duros, incompris. [1] «Duri» a causa della struttura inestricabile e per l'uso di vocaboli obsoleti e aspri. [2] «Disadorni»,
destitutis.
privi di ogni ornamento.
447. AunrriosA. [1] Superflua, superstitiose ornata, luxuriantia, redundantia.
447. AuarrIOsA, [1] Supeflui, esageratamente ornati, sovrabbondanti, ridondanti.
448. Parum cranis. [1] Ob obscuras sententias.
448. Parum cLaris. [1] Per i concetti oscuri.
449. AunicUE picrum. [1] Ob obscura ver-
449. Amsicue picrUM. [1] A causa di paro-
167 Che il ruolo dell'optimus iudex, in quanto opposto a quello dell'adulatore, sia avvicinabile a quello dell’amico, è secondario — per Piccolomini — rispetto all'oggetto primario della trattazione oraziana: il poeta delinea qui, sulla base della figura di Quintilio, il buon critico, che deve curarsi solamente di giudicare in modo oggettivo il componimento poetico che gli è sottoposto. L'oscillazione interpretativa tra i due termini (lo iudex e l'amicus) è radicata nell’esegesi oraziana: cfr. il caso emblematico di Lanp., ad loc.
ba, quia duplicia; et ob amphibologiam ex mala compositione.
le oscure, poiché ambigue; e per anfibologia causata da una cattiva composizione di parole. !6?
452. ExcEPTUMQUE sInIsTRE. [1] Non ab as-
452. ExcEPTUMQUE sinistre. [1] Maltratta-
sentatoribus, ut aliqui dicunt, sed a populo, vel ipse met, vel sua ipsius mala poemata,
to, non dagli adulatori, come alcuni dicono, ma dal popolo, o egli stesso, o le sue cattive
vel ... male exceptum. [2] Si (quidam] enim
poesie, o ...; [2] chi inizia ad essere deriso,
incipit derideri, confestim vitatur, agitatur etc., siquidem cum semel videbitur derideri, audent et alii idem facere.
subito viene evitato e vituperato, giacché,
457. Versus mucTATUR. stomacum
[1] Evomit, quasi
nimis plenum optimis carmini-
poiché sembrerà deriso una volta, gli altri osano
fare lo stesso.
457. Versus RUCTATUR. [1] Vomita, quasi credendo di avere uno stomaco troppo pie-
bus habere credeat.
no di ottime poesie.^?
459. In PUTEUM Foveamve etc. [1] Possunt haec et proprie et allegorice exponi. [2]
459. In PUTEUM FovEAMVE etc. [1] Queste pa-
Proprie sic. ut vere intelligamus poetas
allegorico. [2] Alla lettera cosi: intendiamo
sibi met placentes et qui, cum sibi videantur esse optimi, castigationem respuunt,
veramente che i poeti i quali piacciono a se
solere quasi quodam furore ductos (ut de Democriticis superius dixerat) multos et malos versus ructare et elatos, ac faciendis carminibus intentos incedere, ita ut ob id contingat illos in foveas cadere. [3] Horatius ergo illos irridens, hortatur cives ne illis cadentibus credi eos non
opem
ferant, cum
possit
invitos ita se precipitasse,
ac si educantur, iterum sese precipitaturos. [4] Et ne hoc credi nequeat contin-
role possono essere intese in senso proprio o
stessi e, ritenendosi eccellenti, rifiutano la critica, sono soliti, spinti da un furore quasi
divino (come aveva detto precedentemente a proposito dei democritei) ruttare molti versi cattivi e con velleitaria tendenza al sublime, e camminare intenti alla composizione di poesie, cosicché, per questo, capita loro di cade-
re nei fossi. [3] Orazio dunque, deridendoli, esorta i cittadini a non soccorrerli quando essi cadono, giacché si può credere che essi non siano precipitati involontariamente, e se ven-
gere posset, affert exemplum Empedoclis.
gono tirati fuori, di nuovo vi si getteranno. [4]
[5] Huic expositioni olim acquiescebam, modo autem non adhereo. Nam si prudens sese proiecerat, cur clamat «io cives»? Ad
E perché non si possa credere che ciò possa verificarsi, adduce l’esempio di Empedocle.
hoc tam posset responderi quod stultus ille poeta, qui sese proiecit in foveam, cla-
zione, ma adesso invece non la condivido. Se
[5] Un tempo accoglievo questa interpreta-
infatti si è gettato di proposito, perché grida
168 Le annotazioni ai vv. 445-449 delineano in concreto alcune caratteristiche della buona scrittura poetica che
Piccolomini ricava dall’Ars oraziana: inventio ed elocutio si muovono evidentemente di pari passo ed il quadro offerto dalle glosse configura un criterio stilistico basato su un uso moderato e sorvegliatissimo di sententiae e verba.
169 L'ultima sezione dell'epistola conferma la sua parentela con le satire: cfr. Macci, /n Horatii librum cit., p. 369: «Digressio est, qua in malos invehitur poetas; quos quidem et reprehendit, et velut satyricus irridet. Atque ob id nihil est huiusmodi in Aristotele quaerendum».
«Oh cittadini!»? A ciò si potrebbe rispondere che quel poeta stolto che si è gettato nel fosso, esclami «Oh cittadini!» per farsene beffe
met «io cives», ut illos eludat ac |c. 167r] irrideat, si auxilium ferre velint. [6] Sed tutius est exponere allegorice ut, sicut anceps merulis intentus in foveam cadit.
e deriderli qualora vogliano aiutarlo. [6] Ma è più sicuro interpretare allegoricamente: come un uomo intento à guardare i merli cade in
sic poeta intentus suae met de se ipso suasioni, dum sibi videtur esse optimum, in foveam errorum et arrogantiae cadit; et
un fosso, così il poeta intento a persuadere se
aliqui-
stesso, mentre gli sembra di essere eccellente,
bus tradat suos versus, tam aeque fert nec
cade nel fosso degli errori e dell’arroganza;
recipit emendationem, quippe qui in erro-
e benché chiami in soccorso e sottoponga i propri versi ad alcuni per correggerli, tuttavia
quamvis clamet, emendandisque
ribus suis persistere gaudet. [7] Hortatur ergo Horatius
ut huiusmodi
resta sulle sue posizioni né accoglie correzioni, poiché gioisce di permanere nei suoi erro-
poetae sibi
ipsis apparentes optimi cum mali sint, et suis erroribus indulgentes, et emendationem respuentes, sinantur praecipitari, ac manere in suis ipsius erroribus, quia non
essendo mediocri, che sono indulgenti verso i
inviti in eos inciderunt. [8] Nam si inviti
propri errori, e che rifiutano le correzioni, sia-
peccarent, emendationemque magni facerent, sublevandi essent. Sed quia non invi-
giacché ci sono caduti volendolo. [8] Se in-
ri. [7] Orazio invita pertanto a consentire che
poeti di questo tipo, che si credono ottimi pur
no lasciati cadere e restino nei propri errori,
fatti avessero commesso errori loro malgrado, e avessero fatto gran conto delle correzioni,
ti, immo prudentes sese in errores et in sui
inanem suasionem precipitant, negligendi sunt, in suisque erroribus relinquendi, nec educandi, quia vanum illud esset, cum de-
dovrebbero essere tratti fuori. Ma poiché cadono negli errori e nella vuota stima di sé non
nuo in eosdem errores sese deicturi essent.
[9] Et ne mirum hoc videri possit affert
a malincuore, e anzi spontaneamente, devono essere trascurati, abbandonati nei loro
exemplum Empedoclis. Sed in hoc differt
errori e non condotti fuori, giacché sarebbe
Empedocles ab iis poetis, quod Empedocles sese morti dedit quia ambitione ductus et desiderio gloriae in furorem inciderat;
vano, dal momento che di nuovo si gettereb-
hi vero ob nimium
amorem
suorum
bero nei medesimi errori. [9] E perché questo
non possa sembrare assurdo, porta l'esempio di Empedocle. Ma Empedocle differisce in questo da quei poeti: Empedocle si suicidò perché, spinto dall'ambizione e dal desiderio
car-
minum in furorem precipitus sese dede-
runt. [10] Furor ergo tam hosce in foveas errorum ducit, quam Empedoclem in Aet-
di gloria, era impazzito; questi invece impaz-
nae incendium. [11] Causa autem furoris
zirono per eccessivo amore delle proprie poe-
diversa erat: in Empedocle nimius amor
sie. [10] La pazzia dunque spinge costoro nel
gloriae, in his nimius
propriorum
fosso degli errori tanto quanto Empedocle nel
carminum. [12] Idcirco, sicut Empedocli
quia in illos volentes cadunt. [13] Huius
fuoco dell'Etna. [11] Ma la causa della pazzia era diversa: in Empedocle l'eccessivo amore della gloria, in questi il troppo amore delle proprie poesie. [12] Perció, come non si dovette soccorrere Empedocle per salvarlo dal fuoco, poiché egli vi si era gettato di sua vo-
autem
lontà e consapevole, cosi costoro non devono
amor
auxilium non erat prestandum, ut ab in-
cendio liberaretur, quia volens et noscens in illud se periecerat, sic istis non est succurrendum, nec ab errore sunt revocandi, furoris, quo
laborant
huiusmodi
14
furentes poetae, quaerit Horatius causam ibi NEC saris APPARET; adeo enim acerba videri potest horum punitio ac vexatio, ut vehementissimo delicto adscribenda sit, vel quia IN PATRIOS CINERES ete.
essere aiutati né richiamati dall’errore, poi-
ché ci cadono volontariamente. [13] Orazio chiede la ragione di questa pazzia, che vessa i folli poeti di questo genere, dove afferma Nec
saris APPARET; Ja pena e la sofferenza di costoro possono infatti sembrare così dure da essere attribuite ad un delitto crudelissimo, o contro le «ceneri dei padri ecc.»H1
460. CLamer lo crves. [1] Dubitatur nam si
460. Cramer To cives. [1] È infatti dubbio
hic poeta qui nimium sibi placet, persuasum
se questo poeta troppo sicuro di sé sia convinto di essere un ottimo poeta: perché im-
habet se optimum poetam esse; quo implorat opem ab aliis, quasi emendationem,
quasi noscat errorem suum? [2] Solve quia huiusmodi hominum est natura, ut quam magis se probant, et propriis erroribus de-
lectantur, tanto magis videri volunt optare corrigi. Et tamen
siquis ingenue corrigere
plora aiuto dagli altri, come se riconoscesse la correzione e il suo errore? [2] Risolvi: la natura di uomini di tal fatta è che quanto
più si compiacciono, e prendono piacere dai propri errori, tanto più vogliono apparire desiderosi di essere corretti. E tuttavia se
qualcuno osasse correggerli sinceramente,
audebit, graviter id ferent.
lo sopporterebbero di mal animo.
462. Qui scis AN PRUDENS. [1] Supple: dicas, QUI ScIs etc.
462. Qui scis AN PRUDENS. [1] Completa: tu dica ‘chi sa se’ ecc.?!?
465. Fuicirpus Aetnam. [1] Vel FRIGIDUS ob
465. Fricmus Aernam. [1] O «freddo» per la
timorem
paura e la presenza della morte, poiché tanto l'ambizione e l'avidità di gloria superavano quel timore. [2] Oppure Orazio dice «freddo» in modo ironico ed alludendo al fuoco dell'Etna quasi che chiedesse di essere riscaldato.
et presentiam
mortis, cum
tam
ambitio et gloriae aviditas superarent illum timorem. [2] Vel FRIGIDUS, dicit Horatius, irridens et alludens ad incendium Aetnae quasi calefieri quaereret. 469. Her Homo. [1] Sapiet, resipiscet.
469. Fer Homo. [1] Sarà prudente, tornerà in sé.
170 AP, v. 470. 171 AP, v. 471. Le due glosse ai vv. 459-460 affrontano un tema già emerso in relazione alla critica nei confronti
del modello poetico democriteo, ossia quello del poeta-folle. Annotationes, 359 € un esempio particolarmente interessante del metodo esegetico di Piccolomini: in questo caso il commentatore ventila l'ipotesi di una lettura letterale e di una allegorica, accordando la sua preferenza a quest’ultima. Il confronto con la morte di Empedocle gli permette, in chiusura del commento oraziano, di ribadire la necessità del labor limae e di una critica severa da accettare con umiltà.
172 La glossa mira a colmare un ‘vuoto’ sintattico: sottintendendo un «dicas» prima della domanda «Qui scis an prudens huc se proiecerit atque / servasi nolit?» (vv. 402-463), la voce verbale «dicam» del v. 463, andrà intesa in senso assoluto come risposta alla domanda e coordinata dal verbo «narrabo» del v. 464.
469. Fimosae mortis. [1] Spaventosa perché
469. Fimosae mortis. [1] Opprobriosae quia ambitionis causa oppetebatur. [2] Vel famosae in bonam partem, idest gloriosae, et tunc accipiendum est ex persona et iudicio
cercata per ambizione. [2] Oppure famosa in senso positivo, ossia gloriosa, e va inteso dal
sese occidentis, quasi per hunc modum glo-
punto di vista della persona e dal giudizio di chi si uccide, quasi che potesse in questo
riam immortalem consequi poterit.
modo ottenere una gloria immortale.
475. Quem vero aRRIPUIT. [1] Captum sci-
475. Quem vero ARRIPUIT. [1] Ovvero cat-
licet donis, vel uncta caena, alio quopiam
turato con doni o con una ricca cena o con qualche altro beneficio; chi ne sia catturato e costretto quasi a ripagare il prezzo del dono con l'ascolto delle opere di quel poeta.
beneficio, quo captus aliquis cogitur quasi praecium muneris solvere auscultatione poematum illius poetae.
CN
APPARATO CRITICO
Proem., 3 hic liber scriptus est ab Horatio non tamquam philosopho] scriptus est seguito da non cassato (anticipazione) — proem., 6 modo ad quantitatis] modo a inizio di rigo preceduto da m(o)d(o) cassato alla fine del rigo precedente —— 1.1 Humano capri etc. Ab hoc principio] Ab segue humano cassato 1.3 ut in historia] aggiunto in interlinea con segno di inserimento dopo verum —dicens quod tale falsum] tale corregge di seguito hui cassato —16.5 poterit etiam ad ipsa accomodari, ut episodia] ut sostituisce in interlinea dum cassato —’invenienda] corregge di seguito intelligenda cassato —— 23.1 Colligit praeceptum iam positum. Ad hoc] Colligit segue Ad cassato (anticipazione) ^ 24.4 sed dum nimium variant] dum aggiunto in interlinea con segno di inserimento dopo sed — DELPHYNUM APPINGUNT sviviIs etc.] preceduto da et prodigialiter variant cassato (cfr. precedente) 42.2 dehinc docuit] docuit corregge di seguito posuit» cassato —— 42.3 idest bona elocutio] elocutio corregge di seguito di«ctio» cassato — 42.6 si recte se haberet] recte corregge di seguito be cassato — quia nimium variant] risulta dalla correzione immediata di quia nimium variare quaerunt (-nt soprascritto a -re; quaerunt cassato) —— 43.2 tum in episodiis, et in toto] episodiis corregge di seguito to cassato (anticipazione) 53.3 terminatum] terminatum seguito da non satisfacit cassato (anticipazione) —— ex Graeco fonte detorquere] ex aggiunto in interlinea sopra Graeco — 53.6 si aliquatenus immutata fient] seguito da ac latinorum sono cassato — 59.2 significationi] segue parola cassata illeggibile — 13.2 species] sostituisce in interlinea pars cassato — 81.6 sed haec potior] potior aggiunto in interlinea con segno di inserimento dopo haec 86.2 sed etiam curare] curare segue a inizio rigo parola cassata e illeggibile a fine del rigo precedente ^ 86.4 ut statim infert cum dicit] infert corregge di seguito dicit cassato (anticipazione) 99.1 non solum debent docere poemata, sed etiam afficere ut delectent] risulta dalla cassatura di et delectare dopo docere risolta nell’aggiunta di seguito di sed etiam afficere ut delectent — 104. MALE SI MANDATA LOQUERIS] sostituisce di seguito TeLEPHE VEL PELEU cassato
104.1 male man-
data a poeta] a poeta segue male cassato (ripetizione) ^ 105.4 et cur id fieri debeat, statim] et cur id fieri debeat aggiunto in interlinea con segno di inserimento prima di statim — 132.9 non recedit in inventione, neque in dispositione] recedit seguito da ne cassato (anticipazione) 132.11 quippe cuius etiam partem] etiam aggiunto in interlinea con segno di inserimento prima di partem —— 136.1 epicam poesim cum tragica et comoedia iungit] et comoedia segue iungit cassato (anticipazione) 153.1 ut personis] personis corregge di seguito homi cassato 153.2 aetatum proprietates percurrit] percurrit corregge di seguito persequitur cassato — 153.3 apud omnes iidem sunt] iidem corregge in interlinea eaedem cassato — 188.1 ergo odio id habebimus] id aggiunto in interlinea con segno di inserimento dopo odio tam si visu] visu corregge di seguito vide cassato —— 188.4 sint] in interlinea su sint cassato (annullamento di correzione) — 188.5 percipiunt] corregge di seguito hauriunt cassato — 193.5 poe-
217
tae epici] epici aggiunto in interlinea con segno di inserimento dopo poetae — 209.3 sine sanguine] sine preceduto da ne non cassato — 209.5 magis est colendus] corregge di seguito non —210.1 infamia et indiget cassato — 209.6 piurno autem vino] seguito da colebatur cassato labe] et nota tironiana aggiunta tra i due termini — 215.1 Cum enim iam] Cum seguito da 216.4 severiores erant] severiores corregge in interlinea (con iam cassato (anticipazione) segno di inserimento prima di erant) severae cassato — 216.5 additus et auctus] et auctus aggiunto in interlinea con segno di inserimento dopo additus — 218.1 et ea pars quam sententiam vocat Aristoteles] pars corregge di seguito se cassato (anticipazione) — 220.3 de qua] corregge in interlinea pronome relativo abbreviato, cassato e illeggibile 220.5 lo—227.6 pedes, vultus] vultus agquentes cum personis tragicis] personis segue aliis cassato giunto in interlinea con segno di inserimento dopo pedes —— 227.7 scaena et statim] et aggiunto in interlinea con segno di inserimento dopo scaena —— 227.8 non debet perpendi, quo] risulta dalla correzione di non debet in hoc perpendi, ut con cassatura di in hoc e ut sostituito di
234.2 Verba] corregge in interlinea Exempligratia cassato — 234.6 iuseguito da quo bens] corregge in interlinea docens cassato —— 234.8 tunc loquitur Horatius ibi de non accessu] ibi segue de cassato (anticipazione) ^ 240.2 nominum] corregge di seguito rerum cassa—259.2 carminis geto 259.1 dicendum est] corregge di seguito oportet accipere cassato neri] carminis segue generi cassato (anticipazione) 260.5 Dictio autem] Dictio corregge in —266.1 omnes non sint interlinea (con segno di inserimento prima di autem) verbum cassato visuri] non sint visuri corregge in interlinea (con segno di inserimento dopo omnes) videant cassato — 273.1 Hoc respicit illud saLes. Scimus] aggiunto in interlinea con segno di inserimento prima di Scimus 275.1 Sed mihi non satisfacit] mihi in interlinea tra sed e 278.1 non magnifica ac nobili, sed vili] non magnifica segue sed vili cassato (anticipanon. zione) ^ 291.6 sed choro volontario utebatur] aggiunto a margine —— donec succederet et] succederet et aggiunto in interlinea con segno di inserimento dopo donec comoedia quae | corregge in interlinea parola cassata illeggibile ^^ nobilis] seguito da et grata cassato — ita ut a magistratu tandem chorum obtineret] magistratu corregge di seguito choro cassato (anticipazione) ^ 281.9 carpebat tamen] seguito da chorisque carebat cassato — 294.1 non exponas absolutum] exponas segue abs cassato (anticipazione) —— 304.1 Quamvis nequeat] Quamvis corregge in interlinea (con segno di inserimento prima di nequeat) Cum cassato — 306.1 irrisionem] sostituisce in interlinea ironiam cassato —’se locuturum] se aggiunto in interlinea con segno di inserimento prima di locuturum — 306.4 tradant] corregge di segui—306.5 Tria] corregge di seguito Singul cassato (anticipazioto docent cassato ne) 9309.2 nec destituetur] nec corregge in interlinea parola cassata illeggibile — 317.1 videlicet senatoris, fratris] senatoris e fratris entrambi preceduti da vel cassato — 317.2 fortem et prudentem] fortem aggiunto in interlinea con segno di inserimento prima diet — 319.4 asserens] corregge di seguito aff cassato — 319.10 sonus] corregge in interlinea sonitus cassato — 323.2 valebant] risulta dalla correzione di valentes per cassatura di -ntes sostituito in interlinea da -bant — 323.3 Rorunpo autem or] risulta dalla correzione di vel rotundo ore per cassatura di vel ed aggiunta in interlinea di autem con segno di inserimento dopo rotundo 335.2 singulis] corregge di seguito cuius cassato — 359.2 ergo litteram] litteram aggiunto in interlinea con segno di inserimento dopo ergo — 361 annotazione preceduta da lemma cassato e non annotato 359. Stc ANIMIS NATUM POEMA 1uvanpIs — 369.1 sicut] sostituisce in interlinea cum cassato — ad delectationem] corregge in interlinea (con segno di inserimento dopo ad) utilitatem cassato — 317.1 quia horum] quia aggiunto in interlinea con segno di inserimento prima di horum ordine temporis] temporis corregge in interlinea parola cassata illeggibile con segno di inserimento dopo ordine — 317.4 dicit Horatius FUIT HAEC SAPIENTIA
2198
PRIMA] fuit haec aggiunto in interlinea con segno di inserimento prima di sapientia — 317.5 prudentes viri] preceduto da poesi cassato —377.6 ideo hunc, delectationis] hunc aggiunto in
interlinea con segno di inserimento tra ideo e parola cassata illeggibile — ut magis naturalem] ut corregge di seguito quasi cassato — 371.1 propria delectatione] corregge di seguito fine cassato —— perponerentur] corregge di seguito offerreantur cassato — 384.1 ad poeticam artem] poeticam in interlinea con segno di inserimento dopo ad —— 386. E MENS] E in interlinea su EA cassato — 396.2 ita ut haec servans scribas] risulta dalla correzione di ita ut recte scribas con cassatura di recte ed aggiunta interlineare di haec servans con segno di inserimento dopo ut — 401.1 et philosophiae partes] et in interlinea con segno di inserimento prima di philosophiae ^ 401.3 ex victorum manibus] victorum in interlinea su victis cassato —— 406.2 ipsi consequentes] ipsi in interlinea su parola cassata illeggibile con segno di inserimento prima di consequentes — dum videlicet alii] dum in interlinea con segno di inserimento prima di videlicet — Et sic de aliis] Et segue huicusmodi» cassato (anticipazione) 406.3 illum leniunt et minus] leniunt et in interlinea con segno di inserimento dopo illum 408.2 suam opinionem] opinionem segue hanc cassato —— 419.2 optimi iudicis] segue ad cassato in interlinea su parola cassata illeggibile ^^ 425.1 et gestibus] et aggiunto in interlinea con segno di inserimento prima di gestibus — 445.2 nihil habentes] nihil in interlinea su non cassato con segno di inserimento sottoscritto — 449.1 ex mala compositione] mala compositione /n interlinea con segno di inserimento dopo ex —— 452.1 mala poemata] mala in interlinea con segno di inserimento prima di poemata — 459.2 multos et malos] et malos in interlinea con segno di inserimento dopo multos — 459.6 fert nec recipit] nec recipit in interlinea con segno di inserimento dopo fert — 459.9 dedit quia ambitione] quia in interlinea con segno di inserimento dopo dedit ^ 475.1 auscultatione] corregge di seguito audi cassato
219
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6-33 15-26 26-27 26-33 34-1458a 7 19-20 20-27 5-11 11-15 3-7 12 sgg. 18-22 18-29 12-13
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109. 114 5 THO 2T 147 167 102. 99 16-32 163 16-1454b 19 169 32-1454b 8 1/72 1-2 15: 8-19 196 11-14 196 29-34 94. 97,98 30-34 162 33-34 112270 3-7 81 151 20
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15/7 125 132 158 150
101 29 171 170 122 132 163 157 92
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Rhet. I, 1370a-b II, 1377b 16-1388b 30 II, 1389b-1390a IL, 1391a 20-1391b 6 HII, 1404b 1-1413a 29 III, 1406b III, 1408a 25 sgg. III, 1408b 33 sgg. III, 1414a-b Eth. Nic.
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43 93 94 110 111 44
Carm. I. 4, 15 III, 4, 5-6
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Epist. I, 1, 41-42 I, 18, 6
85 88 D» 44, 45
IL, 1, 204-207 II, 1, 215 II, 1, 233 IL 2, 115-118
338 339-340 343-344 361 309 312-313 371 379 380 391-396 391-401 396-397 396-399 406 408-411
179 178 161 157
Sat.
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49, 91 12; 104 87
QUINTILIANO Inst. or. [EG IE 30: 0. III, 3, 8-9 VIIL 6, 4-18 VII, 6. 5-6 VIIL 6, 8 VII, 6, 14-18 VII 6, 44-50
IX, 2, 40 sgg.
II, 1, 182 sgg. II, 1, 200-201
226
50, 51 181 156, 178 158
40) 49 53 85
156 52 153 125 125 132 132 125 150
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Epist. XC, 5-6
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INDICE DEI NOMI*
9, 10, 12, 21, 43, 47, 78, 86, 87, 90, 97. 110, 113, 148, 149, 154, 156, 158, 162, 164, 172, 185, 187, 188, 191, 192, 205, 208 Agricola Frisius, Rodolphus 25, 26.
Balduino, Girolamo
Agrippa von Nettesheim, Heinrich Cornelius
Bargagli, Girolamo (il Materiale) 17 Bargagli, Scipione (lo Schietto) Roo Barozzi, Antonio (il Deserto) 157219 Bassi, Giuseppina 16, 137
Acrone, ps.
Aguzzi Barbagli, Danilo Akkerman, Fokke |25
Alberigo. Giuseppe
14
112
61
Alessandro di Afrodisia 13,14 Alfano, Giancarlo 13,37
Alighieri, Dante
8, 10, 62, 76, 78, 120
Ammonio di Ermia
58
Anassimene di Lampsaco 61 Anfione 49, 51, 52, 65, 70, 77 Appiano 73 Aragona, Giovanna
63, 68 Arato di Soli 65 Aretino, Pietro 8, 61 Ariés, Philippe 13 Ariosto, Ludovico 73, 75, 76, 107, 108, 131 Aristofane 47, 190 Artese, Luciano 30 Ascheri, Mario 13 Averroè 40, 101 Avezzù, Guido 7 Avicenna 40
Bade, Josse (Jodocus Badius Ascensius)
LO AN, 147, 152; 154, 158, 160, 175, 191, 192, 199, 203, 206, 207
Badoer. Federico
Baldi, Andrea
8
12, 13, 14, 17, 18
Baldi, Bernardino
16
24
Bàrberi Squarotti, Giorgio
8
Barbaro, Daniele 27, 61 Barbieri, Edoardo 7
Battistini, Andrea
Bausi, Francesco Belladonna, Rita Bellini, Eraldo
Belloni, Gino
78, 129
78 13, 16, 18, 28, 35, 76, 137 108,128
9
Bembo, Pietro 7, 55, 56, 62, 73, 76, 86, 121 Benassi, Alessandro 129 Bertinetto, Pier Marco 122 Besomi, Ottavio 9 Beta, Simone 122, 126, 134
Betussi, Giuseppe
08, 69
Boccaccio, Giovanni Boillet, Danielle
Bolzoni, Lina
68, 76, 108
35
17, 26, 30, 38, 97
Bonfadio, Jacopo
8
Borlenghi, Aldo Borsellino, Nino
13 13 Leo Borsetto, Luciana Bragaglia, Anton Giulio 13
Brandes, Paul D. 40 Breen, Quirinus 20 Brink, Charles Oskar 8, 11, 44, 50, 53, 88, 142, 1502150 10110 74 5 1:091 7010191053200: 209
* Non sono indicizzati i nomi di Aristotele, Orazio e Alessandro Piccolomini.
Daniello, Bernardino
138
Briquet, Charles-Moise
Campana, Augusto
De Conti, Lina 9 De Gramatica, Maria Raffaella De Vecchi, Elena 12
7
Caponetto, Salvatore
8, 9, 11, 17, 49, 62, 76, 79,
79, 126, 147, 149, 162, 163, 170, 173, 195, 199 Danzi, Massimo 7,17,35 Davi, Maria Rosa |.55 David 65, 68 3 D'Incalci Ermini, Patrizia T
in Brisegno, Bernardino Bruni, Francesco 14,55 Bruni, Leonardo 78 Bruscagli, Riccardo 13 Buck, August 33, 57 Cacciari, Cristina 122 Calitti, Floriana 35 20
10 Carli Piccolomini, Bartolomeo —73, 76
Del Fante, Alessandra
Caro, Annibal
Della Corte, Francesco
Cardini, Roberto
Del Nero, Valerio
73
Caruso, Carlo 9 Caserta, Nello 26 Castelvetro, Lodovico 15, 36, 41, 79, 98, 99, (Odo 0026191
Democrito
De Nores, 100 178, 199,
Castiglione, Baldessar
37, 57, 73, 86 Catoni, Giuliano 13 Cavalcanti, Bartolomeo 61 Céard, Jean 34,37 o Cerreta, Florindo 1215316
Cinuzzi, Marcantonio (lo Scacciato) Cléder, Edouard 13 Cocco, Antonio 97 Colombini, Alessandro Colonna, Ascanio
Cornaro, Giovanni Cox, Virginia
Eusebio
75 121
122, 148
65, 86, 213, 214, 215 17, 25, 34 61, 133, 134, 170
73
Falconetti, Camillo (il Cieco) |73
Fedeli, Paolo 157,164, 171, 176, 177, 181, 185, 187, 201, 205 Fera, Vincenzo 7 Ferentilli, Agostino ila Ferraù, Giacomo 7 Filelfo. Francesco 61 Filopono 23 Firpo, Massimo 36 Flaminio, Marcantonio 68 Floriani, Piero 55,56 Foà, Simona 10 Forno, Carla 37
57, 62
27
37, 76 98
40
Cruciani, Fabrizio 98 Curcio, Gaetano 11
Daniele, Antonio
73
Ermogene di Tarso
Crane, Ronald 8S.
Danesi, Marcel
10
Domenichi, Ludovico
Empedocle
36,99
Cranz, Ferdinand E.
12, 149, 151, 155, 156, 158, 150172 RZ MZ 186, 189, 190, 192, 193, 198, 203, 208, 209
Erasmo da Rotterdam
Colonna, Vittoria (iuniore) 16, 63, 68, 76 Conti, Anton Maria de’ (Marcantonio Maioragio) 61, 80, 81 Cotugno, Alessio
24
Di Benedetto, Filippo
Ellero, Maria Pia
63, 68 03
Colonna, Vittoria
Giason MORO 180, 185, 201, 202,
Edwards, William E.
17,73
57
34, 56
85, 86, 87, 102, 193, 208
Dupuy, Claude
Cesare, Caio Giulio 34, 73 Cestelli Guidi, Benedetta 57 Cicerone, Marco Tullio 9, 25, 52, 53, 54, 61, 62, ''1, 91, 87, 88, 97, 125, 126, 132, 145, 147, OM TA AZ0M03R10520582078209) 210
8
Forteguerri, Laudomia 35, 57, 63, 65 Fortenbaugh, William W. 40 Frank, Günter 26
122 5 14, 55
Frasso, Giuseppe
220
7
9:10,110
Friis-Jensen, Karsten Fuhrmann, Max
61
Gabriele, Trifone
Jackson, Heather J.
113
Kennedy, George
37
Kopf, Ulrich
Giacobbe, Giulio Cesare
Gigliucci, Roberto
27
35,99
Gilbert, Allan H. 12 Gilbert, Neal W. 25 Giovanni di Garlandia 9 Girardi, Maria Teresa 14,37, 55, 68. 92 Giraldi Cinzio, Giovan Battista 80,175 Girolamo, Sofronio Eusebio 167 Giulio III, papa (Giovanni Maria Ciocchi del Mon16825. 20. 35. 69) 74; 72177 Giustino, Marco Giuniano 73, 207 Glareano, Enrico 164, 166 Gottler, Christine 112 Godard, Alain 37 Goffredo di Vinosalvo (Geoffroy de Vinsauf) 9
Gonzaga. Galeazzo
27
Green, Lawrence D. 40. 122 Grendler, Paul E. 30 Grifoli; Jacopo 12, 176, 209 Grimal, Pierre 11 Grimaldi, Anna Maria 11 Grohovaz, Valentina 99 Gudeman, Alfred 128 Guidiccioni, Giovanni 73 Guidorizzi, Giulio 122, 126, 134
Guidotti, Angela
95
Hamesse, Jacqueline
Harth, Helene
7
34, 37, 39, 40
Kosuta, Léo
Kraye, Jill
28
11
Hauthal, Ferdinand Hempfer, Klaus W.
9 57
Herding, Otto 33 Herrick, Marvin T. 12 Hidalgo-Serna, Emilio 34, 56 Holtz, Louis 33,37 Hubbard, Margaret 171 13
61
26
13
57 17, 21, 57, 137
Kristeller, Paul Oskar
Kushner, Eva
37
Lafond, Jean
34
161, 162
Lambin, Denis
Lampridio, Benedetto
61
Landino, Cristoforo 10, 12, 47, 77, 78, 87, 97, 110, 113, 154, 159, 163, 178, 188, 191, 206, 212
Lanza, Diego
11,112
Lardet, Pierre 40 Leeman, Anton D.
126
Leporatti, Roberto Ley, Klaus 16
35
Lionardi, Alessandro Livio, Tito
155
73
Lo Monaco, Francesco Lohe, Peter 78 Lohr, Charles H. 40 Lombardi, Bartolomeo
Longo, Oddone
33
27, 41, 59, 79, 121
112
Lucrezio Caro, Tito
64, 75
Ludwig, Walther 11 Luigini, Francesco 12
Mack, Peter
34
Maggi, Vincenzo
Hathaway, Baxter
Iacometti, Fabio
10, 43
50, 57, 60
Gaurico, Pomponio
Geerts, Walter
137
Iurilli, Antonio
8.11
Garin, Eugenio
llari, Lorenzo
11, 12, 15, 27, 31, 41, 59, 61,
62, 76, 79, 80, 94, 98, 99, 101, 102, 105, 106, 113, 149, 151, 154, 158, 159, 160, 162, 176, 181, 185, 199, 213 Mancinelli, Antonio 10 Mandoli, Sallustio
Manilio, Marco
73
05
Mann, Nicholas 9 Manuzio, Aldo 43, 61, 141, 142, 176 Marchetti, Valerio 70,98 Margolin, Jean Claude 13 Martelli, Ludovico 73
Martelli, Ugolino
73
Marti, Mario
55
Massimo di Tiro 80 Matal, Jean 7 Mathieu-Castellani, Giséle Matteo di Vendóme 9 Mattioli, Emilio 34 Maurer, Wilhelm 260 Mauriello, Adriana 13
33
Pazzi de’ Medici, Alessandro 116, 117, 127 Pedemonte, Francesco Filippo 12 Pellizzaro, Giovan Battista 16 Pennacini, Adriano 132 Petracchi Costantini, Lolita 13 Petrarca, Francesco ‘ 8, 16, 17, 35, 62, 68, 73, 75, 76 Petrucci, Armando 11
Piccolomini, Marcantonio (il Sodo)
Maylender, Michele
13,14 Mazzacurati, Giancarlo 55, 59, 86, 98, Mazzoni, Jacopo 120, 121
Melantone, Filippo 25, 26, 28 Miano, Simona 121
39 Pinelli, Gian Vincenzo 75 Pinto, Maria Antonietta 122 Pitagora 65
Mirhady, David C.
Plaisance, Michel
Meduna, Bartolomeo
38
40 Minnis, Alastair J. 34 Modio, Giovan Battista Molza, Francesco Maria Monfasani, John 25 Mongini, Guido 36 Moss, Ann 11
Munk Olsen, Birger Mutini, Claudio
37,38 73
Pignani, Adriana
33,35
Platone? 153299517204. 659 Gl 79 MORSO 120, 162 Plutarco 73, 202 Polibio 73 Poliziano, Angelo 59, 78 Pomponazzi, Pietro
55
Pontano, Giovanni
9, 34
65
Poppi, Antonino
69
18, 73
Piéjus, Marie-Frangoise 35 Pigna, Giovan Battista 30
Pozzi, Mario
24, 57, 59, 121
55
Neottolemo di Paro 11,22 Neuhaus, Johann W. 10 Newbigin, Nerida 13
Porfirione, Pomponio 9, 10. 12, 22, 43, 44, 78, 164, 175, 185, 186 Powitz, Gerhardt 33 Procaccioli, Paolo 10 Proclo 120
Nisbet, Robin George M.
Prosperi, Valentina
Nadin Bassani, Lucia
Nardi, Bruno
69
14
Niutta, Francesca Norton, Glynn P.
171
11
Omero 75, 109, 196, 201, 202, 207 Orfeo 49,51, 52, 65, 70, 77 Orlandi, Giovanni 73, 76, 115 Orsini, Leone Paduano, Guido
64
10
27
67, 103, 115, 117, 119, 143, 162, 180 Pantin, Isabelle 72 Parrasio, Aulo Giano 12, 149, 161 Pastore, Alessandro 608 Patillon, Michel 134 Patrizi, Giorgio 57, 98 Patterson, Annabel M. 134
Quintiliano, Marco Fabio
9, 25, 34, 52, 61, 70, 12513291505 15::]150 Quondam, Amedeo 57
Raimondi, Ezio
8,78, 98, 129
Ramo, Pietro (Pierre dela Ramée) Raugei, Anna Maria 75 Refini, Eugenio 16,35, 76
Renouard, Philippe
10
Residori, Matteo 122, 148 Riccobono, Antonio 55 Riccò, Laura 13, 135 Ricoeur, Paul 122 Rinaldi, Rinaldo 8 Rizzo, Silvia 7
25, 30
Robortello, Francesco
11,12, 15. 23, 24, 30, 31. B0:11559 26396101109 :113:5114- 115; 1:16 119202312: :128:1597 163.173: 181. 185 Romani, Werther 98 Roncaccia, Alberto 99 Rossetti. Lucia 14 Rossi, Maria 12, 16, 18, 137
Rostagni, Augusto
164
Ruscelli. Girolamo
68. 73
Salutati. Coluccio
Tasso, Bernardo
73,80
Tasso, Torquato
64, 108, 120, 121
Tateo, Francesco Temistio
608
40
Terenzio Afro, Publio 147,173, 191, 192 Tolomei, Claudio 73 Tolomeo, Claudio 38 Tomasi. Franco 14. 35 Tomitano, Bernardino
78
Sallustio Crispo, Gaio 73 Salvestri, Piergiovanni 73
Tonelli Olivieri, Grazia Torre, Francesco 73
Samuels, Richard S. 14 Scaligero. Giulio Cesare 196
Toscanella, Orazio
108, 115. 117, 120, 121. 128,
Scarpati, Claudio
129 = Scattolin. Paolo Schenkeveld. Dirk M. 122 Schmitt. Charles B. 40. 57 Scorsone, Massimo 68 Scott, Alexander B. 34 Scrivano. Riccardo 12, 55
Segni. Angelo
25, 26,30 Trapezunzio, Giorgio 25, 61 Trissino, Giovan Giorgio 125, 150, 157, 163. 164, 171, 175 Tucidide 73
Vallone, Aldo 8 Van der Poel, Marc
25
Vanderjagt, Arie Johan Varchi, Benedetto
Seragnoli, Daniele 95. 98 Sergio, Emilio 27
Vasoli. Cesare
Siekiera, Anna
36,99
Vernizzi, Cristina
Sigonio, Carlo
115
29; 26, 55, 60, 99
7
Viola, Alberto 9% r7
27, 28, 36, 37. 5 5:50: 59701.
34
57
135 17, 41, 61, 101, 102, 116, 117, Vettori, Pietro 118, 127, 128, 181 Vianello. Valerio 14, 27, 28, 55 Villa, Claudia 9,34
12
Steiner, George 26 Stierle, Karlheinz. 23 Straub. Enrico 57 Stussi, Alfredo 140
25
27, 59, 61, 73, 121
Vendruscolo, Livia
Socrate 54. 78, 79. 80, 195 Solerti, Angelo 121 Sorella. Antonio 28
Speroni, Sperone 73, 92 Stegmann, André
18 78
128
Vahlen, Johann
Selmi. Elisabetta 80 Seneca, Lucio Anneo 52 Senofonte 13. 73. 116. 196, 207
Snuggs. Henry L.
25
Ugoni, Stefano Maria Ullmann, Berthold L.
157
Slights, Villam WE.
24, 27, 37, 55, 68, 92,
121 Tommaso d'Aquino |.68
11
Virgilio Marone, Publio 8, 9, 75, 111, 116, 164, 165. 196 Viti, Paolo 78 Vives, Juan Luis 34, 35, 36, 37, 39, 40, 48, 56 Weinberg, Bernard
8, 9, 10, 11, 12, 15, 21, 23,
30, 59, 61, 78, 80, 98, 125, 126
Svetonio Tranquillo, Gaio
73
Zabarella, Giacomo
24, 121
Zimara, Marco Antonio
Tacito. Publio Cornelio Tansillo, Luigi
17
73
Zonta, Giuseppe Zumthor, Paul
37
24
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Orazio FraAcco, Quinto: Omnia poemata, cum ratione carminum et argumentis ubique insertis interpretibus Acrone, Porphirione, lano Parrhasito (sic), Antonio Mancinello, necnon lodoco Badio Ascensio viris eruditissimis. Scoliisque d. Erasmi Roterodami, Angeli Politiani, M.Antonii Sabellici, Ludovici Caelii Rodigini, Baptistae Pii, Petri Criniti, Aldi Manutii, Matthei Bonfinis, & lacobi Bononiensis nuper adiunctis. His nos praeterea annotationes doctissimorum Anto-
nii Thylesii Consentini, Francisci Robortelli utinensis, atque Henrici Glareani apprime utiles addidimus. Nicolai Peroti Sipontini libellus de metris odarum. Auctoris Vita ex Petro Crinito
Florentino. Quae omnia longe politius, ac diligentius, quam hactenus, excusa in luce prodeunt, Venezia, Girolamo Scoto, 1544.
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Finito di stampare nel mese di novembre 2009 per conto di MARIA PACINI FAZZI EDITORE in Lucca
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«MORGANA» COLLANA
DI STUDI DIRETTA
E TESTI DA
LINA
RINASCIMENTALI BOLZONI
I. Massimiano Rossi, La poesia scolpita. Danese Cataneo nella Venezia del Cinquecento 2. Lucia Napin, Carte da gioco e letteratura tra Quattrocento e Ottocento
3. La rappresentazione dell'altro nei testi del Rinascimento, a cura di Sergio Zatti 4. Percorsi fra parole e immagini (1400-1600), a cura di Angela Guidotti e Massimiliano Bolzoni
5. Anprea Batpi, Piccolomini
Tradizione
Rossi, prefazione di Lina
e parodia
in Alessandro
6. CHRISTIAN Rrvorerri, Le metamorfosi dell'utopia. Anton Francesco Doni e l'immaginario utopico di metà Cinquecento
7. Maria Pra ELLERO, Lo specchio della fantasia. Retorica, magia e scrittura in Giordano Bruno 8. Davinpe Conrirri. Scritture e riscritture secentesche
Q. ALESSANDRA VILLA, /strutre e rappresentare Isabella D'Este. Il Libro de natura de amore di Mario Equicola 10. Marco Arnaupo, Il trionfo di Vertunno. Illusioni ottiche e cultura letteraria nell’età della Controriforma i1. Eucento Rerini, Per via d'annotationi. Le glosse inedite di Alessandro Piccolomini all’Ars Poetica di Orazio
ISBN 978-88-7246-956-9
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«MORGANA» COLLANA
DI
STUDI
DIRETTA
E TESTI DA
LINA
RINASCIMENTALI BOLZONI
Ed io chi dedicarrò il mio Candelaio? A Sua Santità? no. A Sua Maestà Cesarea? no... A voi tocca, a voi si dona... dotta, saggia, bella e generosa mia signora Morgana. Giordano Bruno
Morgana è la fata della tradizione cavalleresca, immagine dell’Occasione - di conoscenza o di godimento - che va colta all’istante o si allontana per sempre. A questa figura femminile, sfuggente e piena di fascino, s'intitola questa collana,
frutto di una collaborazione fra studiosi di diversi paesi e discipline. Dedicata soprattutto alla letteratura italiana del Rinascimento, essa intende occuparsi anche di ciò che sta tradizionalmente ai margini, di ciò che viene sentito come ‘altro’, come diverso. Oltre ai rapporti con le altre letterature europee, “Morgana” è interessata a
percorrere quelle zone di frontiera in cui l'esperienza letteraria si intreccia con la filosofia, le arti, la scienza.
Comitato scientifico (nuova serie): Jean Philippe Antoine, Maria Pia Ellero, David Quint, Matteo Residori, Massimiliano Rossi, Sergio Zatti.
R T A IATA (ATvSUel / (t(Yy_