Dall’avanguardia all’eresia. L’opera poetica di Elio Pagliarani


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Dall’avanguardia all’eresia. L’opera poetica di Elio Pagliarani

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centro di studi «aldo palazzeschi» Università degli Studi di Firenze Facoltà di Lettere e Filosofia

quaderni aldo palazzeschi nuova serie

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La collana ospita ricerche di area italianistica compiute da allievi della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze, giudicate meritevoli di pubblicazione dal Consiglio Direttivo del Centro di Studi «Aldo Palazzeschi». La Facoltà fiorentina intende in questo modo onorare la memoria e la patria sollecitudine di Aldo Palazzeschi, che l’ha costituita erede del suo patrimonio ed esecutrice della sua volontà.

Federico Fastelli

Dall’avanguardia all’eresia L’opera poetica di Elio Pagliarani

Società

Editrice Fiorentina

© 2011 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 [email protected] www.sefeditrice.it isbn: 978-88-6032-186-2 issn: 1721-8543 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata In copertina: Nanni Balestrini, Lezione di fisica, in «l’immaginazione», n. 190, agosto-settembre 2002 (per gentile concessione dell’autore e dell’editore)

A forza di dire: si capisce che è così, si rinunzia semplicemente a capire. B. Brecht Il sacrificio metodico della libido, la sua deviazione imposta inesorabilmente, verso attività e espressioni socialmente utili, sono la cultura. H. Marcuse

indice

premessa 11 gli anni dell’avanguardia 17 1. Una questione di «lettere»: reinventare i generi 17 2. Linguaggio crepuscolare e poesia come negazione 28 3. Metalinguaggio fisico e poesia come azione 37 4. «Brecht ai vostri figli ha già lasciato detto» 45 5. Nel regno dell’artificiale: messa a fuoco e Fecaloro 51 dal sessantotto al settantasette 67 1. Il Sessantotto come «Periodo Ipotetico» 2. La sintesi seriale di Nandi

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dal silenzio agli eccetera 85 1. Platone come supplente 2. Ideologia di un affresco: da Carla a Rudi 3. La Ballata del baro e la traccia della poesia 4. L’eresia della morale

85 96 109 116

Bibliografia 135 Intervista a Elio Pagliarani 149 Indice dei nomi 153

Nel licenziare questo volume desidero ringraziare sentitamente alcune persone. Anzitutto la prof. Maria Carla Papini per l’estrema pazienza e l’autorevole attenzione con cui ha seguito ogni fase redazionale della monografia. Ringrazio la prof. Anna Dolfi i cui consigli si sono rivelati determinanti al momento dell’ultima stesura; il prof. Gino Tellini che ha accolto cordialmente il mio lavoro; la prof. Elisabetta Bacchereti che ha mostrato gentile e gradito interesse per questo scritto già anni fa, quando si trattava solamente di una tesi di laurea; la dott. Teresa Spignoli, il dott. Daniele Fioretti e i colleghi dottorandi per tutto il supporto, l’aiuto e le preziose discussioni; il dott. Marco Corsi, puntuale e clinico lettore; Enrico Piovanelli, distensivo e personalissimo maestro di retorica. Ringrazio fraternamente Roberto Anselmi che mi ha accompagnato, incoraggiato e tollerato il giorno dell’intervista a Elio Pagliarani, come tanti altri giorni negli ultimi anni. Un pensiero a Matteo e Nicola. E a Chiara. A Elio Pagliarani, oltre la stima del lettore appassionato prima che dello studioso, va la calorosa riconoscenza per quella chiacchierata davanti a un Earl Gray. Grazie a Nanni Balestrini e all’editore Manni per la gentilissima concessione dell’immagine di copertina. Infine, un affettuoso grazie a C. M. per quella telefonata, quel pomeriggio, al momento della consegna del primo giro di bozze, nonché per il suo improprio rapporto con il termine “cancellare”. Questo lavoro non sarebbe stato possibile senza la competenza e l’abnegazione dei dipendenti della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e della Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna. Firenze, 17 giugno 2011

premessa

Il percorso poetico di Elio Pagliarani – che pure si presta a diversi approcci e valutazioni critico-metodologiche – appare profondamente segnato dalla pubblicazione, nel 1960, del poemetto La ragazza Carla1. Se l’apparizione delle prime due raccolte – nel 1954 Cronache e altre poesie2 e nel 1959 Inventario privato3 – aveva suscitato, soprattutto tra gli addetti ai lavori, un notevole interesse, è fuor di dubbio il fatto che, dopo la pubblicazione del poemetto, la poesia di Pagliarani conosca un momento di straordinaria fortuna che travalica i ristretti confini dell’accademia; tanto che molti critici, già dal­ l’anno successivo, sono concordi nel sottolineare il carattere di «classico contemporaneo» dell’opera4. E se un classico è – secondo la celebre definizione di Calvino – un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire, la classicità de La ragazza Carla potrebbe a Elio Pagliarani, La ragazza Carla, in «Menabò», 2, 1960; poi in La ragazza Carla ed altre poesie, Milano, Mondadori, 1962; di nuovo in La ragazza Carla e nuove poesie, a cura di Alberto Asor Rosa, Milano, Mondadori, 1978; ancora in Poesie da recita, a cura di Alessandra Briganti, Roma, Bulzoni, 1985; compreso in I romanzi in versi, Milano, Mondadori, 1997; infine in Tutte le poesie (1946-2005), a cura di Andrea Cortellessa, Milano, Garzanti, 2006, pp. 123-153. 2 Id., Cronache ed altre poesie, Milano, Schwarz, 1954; poi in La ragazza Carla ed altre poesie, cit.; ancora in La ragazza Carla e nuove poesie, cit.; quindi in Tutte le poesie (1946-2005), cit., pp. 69-90. 3 Id., Inventario Privato, Milano, Veronelli, 1959; poi in La ragazza Carla ed altre poesie, cit.; di nuovo in La ragazza Carla e nuove poesie, cit.; infine in Tutte le poesie (1946-2005), cit., pp. 91-121. 4 Cfr. Umberto Eco, Artecasa in libreria, in «Artecasa», 57, dicembre 1964-gennaio 1965, p. 3: «di questa generazione Elio Pagliarani è ormai uno dei giovani maestri, e la sua ragazza Carla (un lungo poemetto sulla Milano industriale, dalle cadenze che qualcuno ha definito brechtiane, salvo un asintattismo e un gioco sperimentale che era assente al didascalismo epico del poeta tedesco) è ormai un classico della giovane poesia italiana». 1



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maggior ragione essere dimostrata anche oggi, più di una cinquantina di anni dopo la sua comparsa, sia, certamente, per motivi legati alla novità della forma letteraria – soprattutto rispetto al raggiunto equilibrio tra la ricerca linguistica e il personalissimo realismo della descrizione – che per la portata extra-letteraria dell’analisi e della critica sociale implicite nei contenuti, espressioni di un dissenso la cui odierna nozione appare quantomeno problematica. D’altro canto, considerato che la tensione didascalico-educativa è una delle qualità che, per il suo valore di exemplum, è stata da più parti ravvisata nel poemetto, si può ben sostenere che la lezione di Pagliarani sia stata compresa: sono poche infatti le opere che nel secondo Novecento risultano altrettanto seminali. Se ricercassimo delle affinità in composizioni poetiche coeve o posteriori, affinità non tanto strutturali – che il poemetto per sua stessa natura si colloca in un ambito “narrativo” non troppo visitato negli anni seguenti – quanto alle soluzioni ritmiche e al giusto rapporto tra sperimentazione linguistica e comunicazione, si potrebbe realizzare in quale notevole misura il materiale verbo-ritmico del nostro sia penetrato più o meno avvertitamente all’interno di esse. E si potrebbero fare i nomi di Magrelli, Ce­pollaro, Nove, Frixione, Zeichen, Ottonieri, Ventroni, per non ci­tarne che alcuni. Ammesso e non concesso, insomma, che di “classici” si possa parlare, in generale e più in particolare in un’epoca segnata dalla moltiplicazione e dalla frammentazione di poetiche e di personalità autoriali, come quella degli ultimi sessant’anni, è probabile se non certo che La ragazza Carla di Elio Pagliarani possa rientrare in tale categoria. Nel 1961, un anno prima della pubblicazione mondadoriana in volume, alcuni brani de La ragazza Carla vengono inclusi nell’antologia I novissimi5, a segnalare un più esplicito inquadramento di Pagliarani all’interno di un ambito neo-sperimentale che reagiva alle tendenze poetiche del dopoguerra, superficialmente riconducibili sia sotto l’insegna del neorealismo che sotto quella perdurante quanto consunta di ermetismo. Da questo momento Pagliarani si ritaglia

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I novissimi. Poesie per gli anni ’60, a cura di Alfredo Giuliani, Milano, Rusconi e Pao­lazzi, 1961; poi Torino, Einaudi, 20003.

premessa   13

uno spazio originale ma allo stesso tempo liminare nel panorama intellettuale italiano in quanto egli è, forse, l’unico poeta che riesce a far convivere istanze avanguardistiche – che di lì a breve avrebbero trovato espressione nel Gruppo 63 – con quelle di realismo “neosperimentale” promosse dalla rivista «Officina», in particolare dal suo maggior animatore, Pier Paolo Pasolini. E se le prime trovano sbocco nel volontario e motivato ingresso nel Gruppo 63, queste si manifestano apertamente nella posizione minoritaria e spesso non allineata tenuta dal nostro all’interno dello stesso Gruppo6. Detto ciò sarà più chiaro almeno un punto: il 1961 rappresenta uno spartiacque determinante anche nell’approccio della critica a Pagliarani. Ciò non solo in considerazione dell’attenzione suscitata da La ragazza Carla tra gli addetti ai lavori, ma anche per la partecipazione del nostro al Gruppo 63, che influenza notevolmente il rapporto tra gli studiosi e il suo lavoro: dovendo inserire Pagliarani all’interno di quella dialettica polemica che di norma i fenomeni di avanguardia inaugurano, si deve tener conto, da questo momento in poi, anche Cfr. Romano Luperini, Collocazione di Pagliarani, in «l’immaginazione», 190, agosto/settembre 2002, p. 24: «fra i “novissimi” Pagliarani ebbe da subito una posizione diversa, defilata. Sanguineti non fa che riflettere questa situazione quando, nell’antologia Poesia del Novecento, che uscì a ridosso dell’esperienza del Gruppo 63, non lo colloca nella sezione della “nuova avanguardia”, bensì in quella dello “sperimentalismo realistico”. E in effetti egli, con Volponi e Leonetti, svolse un ruolo di cerniera fra l’esperienza di “Officina” (in parte continuata da “Il menabò” e da “Rendiconti” di Roversi) e quella del “Verri”, e cioè tra uno sperimentalismo nutrito da un’esigenza di moralità, di realismo e di comunicatività e uno invece animato da un intento di eversione prevalentemente linguistica in cui l’orizzonte della referenzialità e di socialità del senso rischiava di andare perduto. D’altronde l’influenza dei coetanei “novissimi” non è meno forte in lui di quella del filone “lombardo” (da Parini a Risi, per tracciare gli esiti estremi), più attaccato alle cose e a una risentita eticità. C’è nella sua poesia una esigenza di messaggio e di opposizione, una volontà di comunicazione che può assumere alternativamente le forme della narratività o quelle dell’epigramma ma che sempre si fonda su un robusto spirito musicale, su una solida ritmica: i versi di Pagliarani non ignorano un fondo epico di significatività collettiva, in cui il senso scaturisce anche da un empito quasi fisico di cadenze incalzanti, di accelerazioni e smorzature». Riconoscere il ruolo defilato di Pagliarani non significa tuttavia collocarlo al di fuori del movimento della neoavanguardia. Ci sembrano difficilmente difendibili le posizioni di chi, come Giorgio Bàrberi Squarotti, continua a sostenere che «Elio Pagliarani non ha mai avuto nulla a che fare con la neoavanguardia». Cfr. Giorgio Bàrberi Squarotti, La poesia del Novecento: il sublime e l’infimo, in È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo, Atti del convegno, Firenze il 23-24 marzo 2007, a cura di Dante Maffia e Carmelo Mezzasalma, Firenze, Passigli, 2007, p. 68.

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di un certo contrasto che nasce tra il proprio operato e quello del­ l’establishment culturale contro cui il Gruppo 63 si rivolge. Così, se da una parte La ragazza Carla ha condizionato notevolmente la critica nei confronti delle opere successive, perché l’aspettativa di ritrovare in queste una ricerca poetica simile a quella del poemetto è finita non di rado per falsare la specificità di tali nuovi tentativi poetici, un analogo condizionamento è stato in qualche modo provocato dalla militanza di Pagliarani all’interno del movimento della neoavanguardia, poiché l’implicazione di un acceso livello di polemica ha impedito la possibilità – almeno per tutti gli anni Sessanta – di un discorso critico più ampio sull’opera del poeta di Viserba, almeno da parte di chi non fosse direttamente coinvolto nel Gruppo 63. Ci pare dunque necessario ripercorrere con la necessaria distanza critica il percorso costitutivo dell’opera poetica di Elio Pagliarani. Considerando che La ragazza Carla separa di fatto due tempi della poetica del nostro, si intende segnalare le continuità e le discontinui­ tà che le varie raccolte successive al poemetto presentano tra di loro. Sarà tuttavia impossibile non riferirsi alle raccolte precedenti, siccome è forse proprio con queste che si delineano le specificità di una poetica, quella del nostro, che elegge come proprio referente primario la riflessione sulle condizioni e sulle forze sociali coinvolte nei processi della società, senza dimenticare che tali processi sono prodotti e subiti da individui. Per questo cercheremo di dare una certa rilevanza alle mutazioni storico-sociali di un contesto politico sempre determinante all’interno di una poesia tanto costantemente rivolta all’immediato presente, anche laddove si rifà a modelli passati. Ogni raccolta poetica di Pagliarani, a ben vedere, è funzionale al contesto storico in cui viene licenziata. Non solo egli attraversa e anima in un cinquantennio le maggiori correnti sperimentali italiane, ma – per fini politici – evita sapientemente anche la cristallizzazione dei suoi stessi tentativi poetici. Per questo le sue prove si modificano continuamente attraverso una ricerca sempre tesa a non fissare regole. E sempre per questo, non di rado, l’aspettativa della critica e, forse in minor misura, del pubblico è stata delusa. Il cambiamento imposto da Pagliarani alla propria poesia, da intendere come sperimentazione su differenti generi poetici nonché stilistici, sembra nonostante tutto volto proprio alla massima coerenza possibile e,

premessa   15

d’altro canto, taluni aspetti paradigmatici della sua ricerca – su tutti la tecnica del montaggio e quella del riuso di codici linguistici preesistenti – vengono riproposti mutatis mutandis di volta in volta. Se quindi, almeno in superficie, vediamo mutare radicalmente il genere e lo stile della composizione praticamente a ogni raccolta, andando in profondità possiamo anche ritrovare la congruente organicità propria di ogni grande autore.

Si è cercato, per quanto possibile, di rendere l’impaginazione originale delle poesie citate. Tuttavia, data la particolarissima composizione tipografica dei versi di Pagliarani, si dovranno sopportare, soprattutto nel caso di «Lezione di fisica e Fecaloro», alcune inevitabili variazioni. Per la corretta e definitiva impaginazione si rimanda al volume, curato da Andrea Cortellessa, Elio Pagliarani, «Tutte le poesie (1946-2005)», Milano, Garzanti, 2006.

gli anni dell’avanguardia

1. una questione di «lettere»: reinventare i generi Negli anni successivi alla pubblicazione de La ragazza Carla Pagliarani si dedica attivamente alla fondazione del Gruppo 63 ovvero a quella «stimolante, intensa, anche troppo seriosa, ma sostanzialmente anche molto allegra e lucidissima vicenda della neoavanguardia italiana»1. La poesia si regola, di conseguenza, alle nuove discussioni teoriche: la lingua di Pagliarani adesso beneficia dell’influenza delle istanze internazionali della linguistica desausurriana e dello strutturalismo propagandate dal Gruppo e può riproporsi all’interno di un panorama intellettuale del tutto inedito. In questo clima, nel 1964, per i tipi di Scheiwiller esce la prima edizione di Lezione di Fisica2. Una «serie di mutamenti di tono e linguaggio»3 di cui subito si accorge Umberto Eco sembrano determinare l’abbandono di quella narratività che costituiva forse il tratto più consistente e, per dir così, peculiare della poesia di Pagliarani. Non era soltanto una semplice predilezione per la poesia epica di stampo brechtiano a favorire tale andamento nelle prime opere – escluso Inventario privato, che per molti versi appartiene a una diversa poetica, che potremmo descrivere con Adriano Spatola come una sorta di «crepuscolarismo di ritorno»4 Elio Pagliarani, Pagliarani Elio, in Autodizionario degli scrittori italiani, a cura di Felice Piemontese, Milano, Leonardo, 1990, p. 251. 2 Id., Lezione di fisica, Milano, Scheiwiller, 1964; poi in Lezione di fisica e Fecaloro, Milano, Feltrinelli, 1968 in cui Pagliarani aggiunge le sezioni: E altri recitativi e Fecaloro; ancora in Poesie da recita, cit., in cui è aggiunta una poesia: Guernica nei giardini del Prado (1980/83); infine in Tutte le poesie (1946-2005), cit., pp. 156-228. 3 Umberto Eco, Artecasa in libreria, cit., p. 3. 4 Cfr. Adriano Spatola, E. Pagliarani: Lezione di fisica, in «il verri», 20, febbraio 1966, p. 97. 1



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– si trattava in verità del concretizzarsi poetico dell’opposizione teorica e radicale all’identificazione della nozione di poesia con quella di lirica, ovvero del «tutto con la parte» e propriamente con la parte dominante. Questa necessità, del resto, era spiegabile in virtù del fatto che negli anni dell’immediato dopoguerra, come scrive Pedullà, erano stati i postermetici a continuare «a trainare la lirica italiana, scavalcando il neorealismo trionfante in narrativa»5 e ciò aveva comportato una sorta di canonizzazione che prevedeva tra i propri corollari appunto l’egemonia della lirica e l’uso dell’io poetico. Se quindi quella che Barilli chiama «la coinè postermetica»6 era riuscita a superare «le prove della seconda guerra mondiale»7 cosicché, al momento della ricostruzione, si era trovata a essere l’unico punto di partenza possibile, sebbene legato a un’esperienza di per sé conclusa, si comprende perché «i poeti italiani, tutti insieme, erano affluiti in quella situazione, ma concordi ne conoscevano i limiti e cercavano di uscirne»8. In questo contesto Pagliarani aveva proposto fin da Cro­nache una sperimentazione volta anzitutto a una reinvenzione dei generi letterari, distante per più di un verso quindi dai tentativi di Pasolini9 e dall’entourage di «Officina». Questi tentativi infatti, pur proponendo un ampliamento, diciamo così, dello “spettro del poetabile”, nell’ottica di un rinnovamento tout court della cultura, risultavano complessivamente poco efficaci dal punto di vista lingui

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Walter Pedullà, Dalla resistenza ai fatti d’Ungheria, in Storia generale della letteratura italiana, a cura di Nino Borsellino e Walter Pedullà, Milano, Federico Motta Editore, 2004, 16 voll., xiv, p. 626. Renato Barilli, Verso una poesia «novissima», in La neoavanguardia italiana, Bologna, il Mulino, 1995, p. 13. Ibidem. Ibidem. Già nel 1954 Pasolini aveva polemizzato dalle colonne de «La Chimera» contro l’appendice ermetica, ma aveva incluso nel proprio attacco anche la poetica neorealista, così come non aveva risparmiato le posizioni stilisticamente defilate di alcuni poeti della sua stessa generazione. Come ha scritto Forti, Pasolini rimproverava all’estetica neorealista una tendenza rappresentativa che rischiava di appiattirsi a «una dimensione visiva e di semplice percezione fotografica», mentre condannava i suoi coetanei, in particolare Chiara e Erba, per aver tentato «un’estrema esaltazione dell’io con precisi meriti letterari ma senza fiducia di fondo in soluzioni collettive». Cfr. Marco Forti, Le proposte della poesia, Milano, Mursia, 1963, p. 23 e sgg. e per una panoramica della discussione teorica su sperimentazione e avanguardia in quegli anni Vincenzina Levato, Lo sperimentalismo tra Pasolini e la neoavanguardia: 1955-1965, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2002.

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stico in quanto compromessi dalla stessa utilizzazione del linguaggio tecnico della poesia lirica, con un evidente recupero dell’opera pascoliana10, e rifiutavano in ogni caso l’apertura verso influenze provenienti dall’estero, particolarmente da area anglosassone: non ha senso negare l’identificazione lirica = poesia senza una reinvenzione dei generi letterari. E ciò è già stato storicamente dimostrato: il tempo e la realtà incaricatisi di rompere un diaframma, la poesia allarga i suoi contenuti, ma non può farlo se non dilatando in corrispondenza il vocabolario poetico11.

Alcune chiusure formali da parte di «Officina» avevano avvicinato perciò Pagliarani all’altro grande polo di irraggiamento della sperimentazione poetica di quegli anni, ovvero al gruppo di intellettuali che Anceschi aveva riunito attorno alla rivista «il verri». L’apertura e la vocazione internazionale del gruppo, nonché l’individuazione di un comune campo di battaglia, che prevedeva come propri obiettivi polemici da un lato la “lingua poetica” canonizzata dalla tradizione ermetica e dall’altro la “tirannia dell’io”, si confacevano alla poesia del nostro. È in questo clima che nel 1961 Pagliarani era stato incluso nell’antologia I novissimi, che segna di fatto la nascita della neoavanguardia in Italia. Tuttavia le esigenze più strettamente sperimentali, ovvero il plurilinguismo, l’uso di stilemi polemici quali la satira Cfr. Alfredo Giuliani, Recensione a Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci, Milano, Garzanti, 1957, in «il verri», 4, 1957; poi in Gruppo 63. Critica e teoria, a cura di Renato Barilli e Angelo Guglielmi, Torino, Testo & Immagine, 20032 (già Milano, Feltrinelli, 1976) sotto il titolo di Poesia e errore, che comprende altri due interventi su Franco Fortini; e su «Il Menabò», pp. 25-26: «senso e sentimento si nutrono del vitalismo plebeo, ma la misura intellettuale (che vuol prevalere) è ambigua: non è elaborazione spontanea di quel contenuto, è invece applicazione dall’esterno di motivi ideologici estranei alla coscienza popolare e, in gran parte, già sfioriti». La stessa contraddizione viene individuata anni dopo da Pedullà, il quale rileva, questa volta a proposito dei romanzi, che Pasolini «impose ai suoi personaggi di trascinare una storia fatta di un parlato in sostanza indecifrabile: sopruso linguistico pari a quello fantastico con cui lo scrittore conduce alla più “incoerente” edificazione il protagonista di Una vita violenta, fornendogli una finale coscienza politica e morale del tutto inadatta al personaggio». Cfr. Walter Pedullà, La rivoluzione della letteratura, Roma, Bulzoni, 19722, p. 29. 11 Elio Pagliarani, La sintassi e i generi, in I novissimi. Poesie per gli anni ’60, cit., p. 199. Si tratta della composizione di due interventi precedenti ovvero Ragione e funzione dei generi, in «Ragionamenti», 9, febbraio-aprile 1957, pp. 250-252 e Perché realismo oggi?, in «Nuova Corrente», 16, ottobre-dicembre 1959, pp. 94-95. 10

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e il grottesco, e, soprattutto, l’urgenza del rapporto con la cultura europea, in Pagliarani rimanevano sempre a contatto con quell’esigenza di comunicazione, spesso estranea agli altri quattro poeti antologizzati, che trovava la propria origine letteraria in quella che Di Paola definisce come «“linea lombarda” illuministica»12. La speculazione di Pagliarani – anticipando in realtà alcune delle intuizioni sulla condizione della lingua che Jacques Derrida13 avrebbe di lì a poco affermato, ovvero ritenendo che «le parole sono là, hanno un senso; ci sono regole grammaticali; queste cose stabili sono convenzioni, prodotti storici»14 e che «la grammatica è un prodotto storico al pari della logica»15 – sembra conscia dell’impossibilità di aggirare i problemi connessi alla struttura sintattica della lingua, tanto da mettere in dubbio alcune poetiche di azzeramento del referente linguistico della stessa futura neoavanguardia. Come per Derrida, «questi prodotti storici sono stabiliti e garantiscono la lettura e l’interpretazione, danno dei limiti che impediscono di dire una cosa qua­lunque»16, e sta nel forzare i reciproci rapporti tra tali strutture la possibilità sia di un nuovo realismo sia dell’attuabilità di un rovesciamento dei valori sociali attraverso il linguaggio sperato dall’avanguardia. La nuova forma comunicativa della letteratura non procede quindi in direzione del lettore-consumatore per rassicurarlo e convincerlo, ma semmai cerca in lui, in quanto essere sociale, l’input – soprattutto per quanto riguarda il linguaggio orale – e l’output, in considerazione appunto di ciò che l’avanguardia17 deve prefiggersi. Gabriella Di Paola, La ragazza Carla: linguaggio e figure, Roma, Bulzoni, 1984, p. 13. 13 Cfr. Jacques Derrida, Della grammatologia (1967), Milano, Jaka Book, 19983. 14 Id., L’ordine della traccia, intervista a cura di Gianfranco Dalmasso, in «Fenomenologia e società», xxii, 2, 1999, p. 7. 15 Ibidem. 16 Ibidem. 17 Nel 1965 al convegno romano della C.O.M.E.S. (Comunità Europea degli Scrittori) Pagliarani pronunciò un importante intervento dal titolo Per una definizione dell’avanguardia in cui sono delineati i tratti salienti della propria teoria dell’avanguardia. Il nocciolo della questione – riassumibile nella formula «è d’avanguardia ogni opera che si offre, che si propone come avanguardia» – consiste in una analisi delle caratteristiche comuni ai movimenti d’avanguardia – cioè di quei movimenti che per Pagliarani, in polemica con Sartre, si organizzano solo da Baudelaire in poi. Vengono così individuati tre punti fondamentali di ogni movimento d’avanguardia: 1. «critica consapevole dei mezzi espressivi in situazione», 2. «critica, a tutti i livelli, della funzione dell’operatore e del rapporto operatore consumatore», 3. «criti12

gli anni dell’avanguardia   21

L’intero lavoro è in sostanza riassumibile nel tentativo di «mantenere in efficienza, per tutti, la lingua di tutti»18, in modo da «mantenere più vivo il discorso»19 verificando «la carica in atto delle parole, la vitalità delle parole nel tempo, nella storia»20. Non è attraverso l’“informale” insomma che si arriva a rendere una lingua efficiente; allo stesso modo non si può nemmeno considerare un «contenuto di per sé sufficiente a rinnovare la poesia»21. In verità per Pagliarani è necessario ricreare il significato eliminando, per quanto possibile, quelle contraddizioni politico-sociali che la lingua veicola in sé, indipendentemente dai contenuti che esprime, attraverso una sperimentazione in grado di mettere in evidenza direttamente o per contrasto i momenti determinanti di queste incongruenze, sempre però mantenendo aperta la possibilità della fruizione da parte del lettore, che, di quelle contraddizioni, deve essere informato. Si tratta di lavorare sia sui significanti che sulle strutture del discorso letterario. Più in particolare si rende necessaria l’utilizzazione da un lato di un plurilinguismo che dovrà individuare il proprio «intrinseco finalismo»22 nel­ l’«espressione monolinguistica»23 di un futuro in cui linguaggio e let­teratura saranno efficienti e significanti per tutte le classi sociali; dall’altro delle strutture sintattiche elastiche che evitino di avallare il potere diciamo pure discorsivo della borghesia capitalista: nessun vocabolo ha illimitate capacità di adattamento (e tante più ne ha tanto più è semanticamente avvilito); ogni vocabolo ha i suoi



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ca della finalità dell’opera e/o funzione dell’arte». Pagliarani pone l’accento in maniera particolare sul secondo punto, dato che il primo riguarda «ogni artista […] che non sia mero ripetitore», e il terzo vale anche per «movimenti o correnti artistiche» non propriamente d’avanguardia. Non è quindi la radicalità della critica dei mezzi espressivi il vero fulcro delle avanguardie, ma quel «rimando effettivamente extraletterario, extraartistico alla società contemporanea» che deriva da «qualsiasi critica della funzione dell’operatore» e si traduce nella «critica di una manifestazione sociale da un punto di vista sociale». Cfr. Elio Pagliarani, Per una definizione dell’avanguardia, in Gruppo 63. Critica e teoria, cit., pp. 312-317. Ivi, p. 316. Id., in Elio Pagliarani: noi, gratuiti vivificatori della parola, intervista a cura di Sara Ventroni, in «Liberazione», 27 luglio 2006, ora in «L’illuminista», 20-21, settembredicembre 2007, p. 110. Ivi, p. 112. Alfredo Giuliani, Introduzione a I novissimi, cit., p. 16. Elio Pagliarani, La sintassi e i generi, cit., p. 200. Ibidem.

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precisi problemi sintattici, si muove in una sua area sintattica. E la dilatazione lessicale postulerà una sintassi del periodo, non soltanto della mera proposizione. Le diverse soluzioni sintattiche imprimono al discorso tensione durata ritmo diversi: questa designazione di tonalità, questa specificazione di struttura appartengono per definizione ai generi letterari24.

Se, come sostiene Asor Rosa, in Pagliarani il linguaggio non è da considerare come «un punto d’arrivo ma solo come un punto di partenza»25, la necessità di ricostruire un terreno adatto, i generi appunto, per utilizzare il vocabolario nuovo che la storia impone, deve essere primaria. In questo senso Lezione di Fisica rappresenta in fin dei conti l’ulteriore tassello di un lavoro iniziato con Cronache. Il fil rouge della ricreazione dei generi letterari è rintracciabile a ben vedere in tutte le opere del nostro e rientra in posizione prominente tra i doveri che per questi gravano sull’intellettuale d’avanguardia: la ricerca poetica e lo sperimentalismo risulterebbero inservibili per gran parte della collettività senza quell’adeguato campo d’incontro che il genere letterario garantisce. D’altra parte, se uno dei fini della poesia pagliaraniana viene fissato nel tentativo di mettere in crisi, evidenziandole, le contraddizioni del potere, sarà chiaro che non è all’interno della tradizione poetica che il lavoro del poeta d’avanguardia potrà attuare questo scambio. A una attenta analisi la modificazione di poetica che sembrerebbe avvenire in Lezione di fisica – e per l’assenza di costruzione narrativa, e per l’inclinazione più intensa alla disarticolazione linguistica, emblema della neoavanguardia, nonché per l’utilizzo originale dello spazio della pagina (tanto è vero che la seconda edizione Feltrinelli del 1968 verrà stampata con un formato molto particolare – cm 32 x 12,5 – voluto da Valerio Riva) – risulta un approfondimento di una medesima teoria poetica. Se Pagliarani non tenta più di «mascherare attraverso immagini […] le intenzioni raziocinanti del suo di­ scorso»26 – e ciò vale a dire che il tema centrale della poesia di Lezione di fisica diventa la poesia stessa, le sue ragioni e addirittura i suoi Ivi, p. 199. Alberto Asor Rosa, I due tempi della poesie di Elio Pagliarani, in Elio Pagliarani, La ragazza Carla e nuove poesie, cit., p. 14. 26 Umberto Eco, Artecasa in libreria, cit., p. 3. 24 25

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modi di composizione – la scelta coincide con una variazione di ambito ovvero di genere, ma non di poetica tout court. L’assenza della storia narrata, ovvero di ciò che Gérard Genette27 definirà come contenuto di avvenimenti dell’enunciato narrativo, non corrisponde nella Lezione né all’assenza totale di narratività intesa come atto del narrare, né all’annullamento del racconto ovvero dell’enunciato narrativo in sé. La differenza rispetto alle opere precedenti si dimostra paradossalmente come un dato di caparbia continuità nella poetica della reinvenzione dei generi, integrando le influenze letterarie presenti fin dall’esordio con le nuove letture e permettendo una notevole evoluzione degli stilemi poetici consueti in Pagliarani, tra cui quello della “trascrizione”28. La prima sezione della Lezione si intitola, non a caso, Le lettere e consta di sei componimenti indirizzati ad amici e conoscenti: il tentativo, anche in questo caso dichiarato dall’autore, è quello di affrontare questioni tecniche e teoriche in merito all’acceso dibattito degli anni Sessanta sul ruolo e sul significato della poesia, del poeta e più in generale dell’intellettuale nella nascente società dei consumi. In maniera diretta – e non più raccontata come avveniva precedentemente – la poesia della Lezione di fisica si rivolge su sé stessa, si fa metapoesia, assecondando le tendenze di un’intera generazione di nuovi scrittori sperimentali, e si pensi, in ambito narrativo, al successo del Nouveau Roman francese, o agli episodi metaromanzeschi legati allo stesso Gruppo 63. L’uso della “lettera” come genere letterario, però, sovrappone a questa autoriflessività la sostanziale impossibilità di giungere a una conclusione definitiva, attivando così una sorta di movimento dialettico che potrà intendersi produttivo in corrispondenza di una risposta, ma che funziona, poi, benissimo anche in absentia di qualsivoglia interlocuzione: il genere lettera in versi o egloga mi serve per esempio perché postulando, in teoria, risposta cioè un proseguio di discorso, permette di lasciare impregiudicate quelle conclusioni che non so o che non mi

Cfr. Gérard Genette, Figure III. Discorso del racconto (1972), Torino, Einaudi, 1976, pp. 73 e sgg. 28 La prima trascrizione risale a Cronache e altre poesie. Si tratta appunto di Trascrizione (da Luciano Amodio). Cfr. Elio Pagliarani, Cronache e altre poesie, cit., p. 81. 27

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sembra possibile trarre ora. Così ho preferito cadere in contraddizione, piuttosto che evitare artatamente la contraddizione, credo29.

La continuità della nuova raccolta con quella che in ordine di pubblicazione la precede è ribadita dal titolo della prima poesia, indirizzata a Franco Fortini, Proseguendo un finale, da connettere alle «ultime due strofe della Ragazza Carla, esortative del capire e del­ l’amare»30. Il legame è piuttosto evidente: «l’angoscia intellettuale della gioventù quando scopre insufficiente | l’intelletto» ricalca il «ma non basta comprendere per dare empito al volto e farsene diritto»31 dell’ultima strofa del poemetto. In entrambe le situazioni si cerca di porre l’accento sulla differenza tra l’“educazione sentimentale” riservata ad alcune classi sociali privilegiate, e quella che spetta alle classi sottoposte: non solamente alla classe operaia, ma anche alla piccolissima borghesia di cui Carla è individuale e umanissima incarnazione. La riflessione sembra vertere, dunque, sul significato di un’«angoscia esistenziale»32 dal sapore esistenzialista il cui dominio, tuttavia, comprende solamente le classi alto-borghesi. Il privilegio di indagare intellettualmente una sofferenza di matrice non strettamente materiale – una sofferenza che presupporrebbe la consapevolezza di un per-sé, avrebbe detto Sartre, da cui possa naturalmente scaturire lo spleen33 – è tutt’altro che universale. Alle classi sottoposte tale possibilità è sottratta: la sofferenza è soltanto subita, il soggetto si pone a sé come oggetto, mentre la vita entra in una spirale di doveri, primo tra tutti il lavoro, che annichilisce le pulsioni e le speculazioni intellettuali. Attraverso questa distinzione, Pagliarani pone un problema centrale per il poeta nel periodo della contestazione, ovvero quello del­ l’impegno politico: se l’intellettuale o meglio, riprendendo Gramsci, il letterato è per definizione un esponente della borghesia dominante, in che modo è possibile un suo impegno politico in chiave rivoluzionaria che, in quanto tale, lederebbe i suoi stessi privilegi? E, Id., Note alla Lezione di fisica, cit., p. 225. Ibidem. 31 Id., La ragazza Carla, in Tutte le poesie, cit., p. 153. 32 Id., Proseguendo un finale, in Lezione di fisica e Fecaloro, cit., p. 161. 33 Cfr. Id., Note alla Lezione di fisica, cit., p. 225: «“Un male | alla milza, solo per ricchi voglio dire”: l’associazione è dovuta al fatto che milza in inglese si dice spleen». 29 30

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ammesso che tale lotta sia possibile, in che modo questi, isolato e abbandonato dalla società della produzione, può riuscire a non rinchiudersi nella celeberrima torre d’avorio, ovvero perdersi nella sterilità di un gioco letterario che, rimanendo pura teoresi, finirebbe per avvalorarsi come l’unica forma di cultura ammessa dalla società alienata? Per far fronte a queste potenziali incongruenze tra il lavoro letterario e la lotta politica, la nuova poesia di Pagliarani esplicita la scoperta dell’“inadeguatezza dell’intelletto”, cioè «la capacità della ragione di distinguere | com’è lontana»34 e l’insufficienza dell’«amore sintesi»35, in maniera tale che quello che Ballerini definisce come il pharmacon de La ragazza Carla – ovvero la finale «istigazione operativa che affida all’“amare altri” la soluzione del conflitto storia esistenza»36 – venga ridiscusso nelle proprie motivazioni. Mettendo in parallelo esistenza e lotta politica37 Pagliarani teorizza la necessità dell’idea di forza, nel senso primario di esaudimento dei bisogni umani fondamentali senza cui «amore e intelletto nemmeno servono | a definire se stessi»38. Come dire che, in fin dei conti, soltanto chi non deve preoccuparsi della propria sopravvivenza fisica, della propria personale “fame”, è chiamato a prendere parte attiva nei cambiamenti (o nei tentativi di cambiamento) della storia: E ti farò un esempio: solo nel Diciassette, messi in moto già sorte e tempo a ritmo di rivolta Lenin toccò con le sue mani un pane Id., Proseguendo un finale, cit., p. 161. Ibidem. 36 Luigi Ballerini, «Perché l’opposizione agisca da opposizione e abbia i suoi testimoni», in «l’immaginazione», 190, agosto/settembre 2002, p. 4. 37 È possibile scorgere in questa suddivisione la presenza di un ascendente saintsimoniano e positivista: l’«amore sintesi» potrebbe ricoprire la funzione di conciliazione tra intelletto e forza fisica. Il recupero dell’aspetto materiale – dopo «l’anatema» con cui era stata depressa dal Cristianesimo la condizione fisica dell’uomo – era uno dei temi centrali del sansimonismo che ripartiva quindi le funzioni umane in intelletto (pensiero), amore (sentimento), forza (materia). In questa stessa “trinità” si poteva dividere anche la società ovvero rispettivamente: insegnanti e corpo dei dotti, artisti e sacerdoti sociali, produttori e distributori industriali. Molto interessante per quanto ci riguarda è l’ulteriore divisione praticabile tra gli artisti in poeti (cioè coloro che inventano) e artisti tout court (cioè coloro che rappresentano). Cfr. Gian Domenico Romagnosi, Dei reati che nuocono alle industrie ec. Del sansimonismo, in Opere, Milano, Perelli e Mariani, 1845, pp. 269-289. 38 Elio Pagliarani, Proseguendo un finale, cit., p. 161. 34 35

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più costoso di tutti i suoi sospetti: proprio ciò sto insinuando, che se avesse capito di persona il prezzo infame della fame, a spezzare una spirale un ingorgo della storia, i suoi muscoli incapaci piuttosto che capaci come furono non avrebbero retto nello sforzo39.

Così – come precisato nell’intervista Difficoltà ideologiche del lavoro poetico – la consapevolezza di scrivere per una «borghesia intellettualistica: cioè niente di più squallido»40, di lavorare per diventare «i giullari della borghesia che cerca diversivi postprandiali»41 non priva l’ipotesi della lotta politica delle proprie aspirazioni, se si vuole, rivoluzionarie. Al contrario l’avanguardia deve fissare il proprio scopo giustappunto nello sforzo «di discriminare al massimo fra borghesia e intellettuali, di inserire un cuneo nel sintagma borghesia intellettuale»42. Il nodo centrale della lettera indirizzata a Fortini riguarda, più nel concreto, l’interpretazione del concetto gramsciano di egemonia culturale e nello specifico discute la riorganizzazione sociale nella nuova società del boom industriale: se per Pagliarani «l’ipotesi di lavoro è data dal fatto che la somiglianza degli svolgimenti sociali [ha] creato o sia per creare anche in ambienti diversi bisogni di un certo livello sufficientemente simili tra loro, perché un determinato messaggio poetico, originatosi in uno di quegli ambienti, contenga in sé la possibilità di soddisfarli»43 questo significa che anche l’intervento – nel caso determinato di natura poetica – del letterato borghese può avere un peso nelle e per le altre classi sociali, e per Fortini il problema è affatto differente. Come interpreta Rappazzo, infatti, Fortini44 è convinto che «la costruzione programmata di un’egemonia che si Ivi, p. 162. Elio Pagliarani, Ferruccio Rossi-Landi, Difficoltà ideologiche del lavoro poetico. Sperimentalismo e impegno, in «Ideologie», 2, 1967, pp. 94-98; ora in «L’illuminista», 20-21, p. 105. 41 Ibidem. 42 Ibidem. 43 Ibidem. 44 Cfr. in particolare Franco Fortini, Verifica dei poteri. Saggi di critica e di istituzioni letterarie (1965), Torino, Einaudi, 1989. 39 40

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fondi su un ceto organico di intellettuali non solo risulterebbe […] velleitaria, ma sarebbe anche un processo indesiderabile e inopportuno: parallelo alla “integrazione programmata dall’alto”, suo doppio speculare e non antagonistico»45. In altri termini «tale processo non sarebbe che l’annessione degli intellettuali al processo di legittimazione dello Stato»46. La risposta a Pagliarani – vertendo essenzialmente in una critica dell’idea di forza47 – è da leggere quindi come una definitiva condanna della teoria dell’avanguardia48. Epperò, proprio alla luce di questa polemica, l’ipotesi pagliaraniana che sostiene il nuovo genere “lettera in versi” si dimostra convincente: questo meccanismo che «postulando, in teoria, risposta, cioè un prosieguo di discorso, lascia impregiudicate le conclusioni»49 consente a Pagliarani di aprire dei processi dialettici che possono raggiungere, come in questo caso, la controversia, ma che permettono, ogni volta, di tornare sull’argomento affrontato al fine di approfondirne l’interpretazione, senza l’obbligo di dover giungere immediatamente a risposte definitive. In questo modo il cimento di impedire che «l’età nostra privata e più quella del tempo»50 riducano gli uomini in solitudine, come ambiscono a fare, è perfettamente rispettato, e va ad assumere un significato bicefalo: da una parte ciò riguarda l’azione dell’intellettuale nella storia, dall’altra la partecipazione, ovvero l’u­ sci­ta dalla torre d’avorio che imprigiona i letterati, nella creazione di un discorso collettivo di collaborazione e progettazione di una società organizzata diversamente. Nell’ulteriore intervento di Pagliarani, datato novembre 1962, come in una adorniana dialettica negativa viene tenuta in conto la visione del contendente: esattissima, per quanto possibile, la tua definizione della mia idea di forza (perché suppongo che l’idea di forza espressa nella mia lettera partecipi anche di qualche elemento tragico, non riassumibile cioè), Felice Rappazzo, «Una funzione insopprimibile». Gli intellettuali per Franco Fortini, in Eredità e conflitto, Macerata, Quodlibet, 2007, p. 21. 46 Ibidem. 47 Cfr. Franco Fortini, Risposta di Franco Fortini a Elio Pagliarani, in «L’illuminista», 20-21, p. 51: «deboli o forti, sciocchi o intelligenti, vinti o vincitori, quando non si spera più per sé, lo si è solo con altri e in nome di altri. “Chi si gloria, si glori nel Signore”». 48 Cfr. Ibidem: «credo poco a questo genere letterario». 49 Elio Pagliarani, La replica di Pagliarani, ivi, p. 52. 50 Id., Proseguendo un finale, cit., p. 164. 45

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ma se c’è un salmo, esso recita inequivocabilmente: «chi si gloria, si glori nella classe»51.

La “non costrizione” a chiudere il processo – che anzi sembra dover proseguire negandosi continuamente – rappresenta allora la modalità con cui le “lettere in versi” di Pagliarani si propongono da pura riflessione di farsi prassi: di negazione in negazione lo scambio di pareri privati reso pubblico dovrebbe far sorgere la necessità di un’azione corale opposta all’attività canonicamente isolata degli intellettuali poiché «un essere solo | non è mai forte, né può amare o misurare l’intel­letto»52. 2. linguaggio crepuscolare e poesia come negazione La polemica Fortini-Pagliarani si gioca tuttavia anche su un altro terreno. Nella risposta fortiniana possiamo leggere: ma questi versi che ti mando vogliono essere una risposta: paradossalmente, contenuta nella contraddizione apparente fra titolo e testo. Apparente: perché alcuni tuoi amici che parlano di crepuscolarismo non hanno forse chiara la differenza, che pure c’è, anche se sottile, fra crepuscolo della sera e crepuscolo del mattino. Baudelaire, la conosceva bene. E quanti ci intronarono con le loro campane di mezzogiorno. Tuo. Franco Fortini.

Seguono questi versi: DUNQUE RICOMINCIARE Chi mi ha portato qui, dove tutto somiglia a qualcosa e dove il crepitio degli uccelli prima di sera consiglia [impreciso? Non dubitavi, sarebbe venuto quel tempo. Perché vanno da soli quei [giovani nel parco e ogni piacere è mozzato [corto e lo sguardo legge ormai chiaro ogni filo d’erba? Ma tu lo sai, rispondono i merli aguzzi, Id., La replica di Pagliarani, cit., p. 52. Id., Proseguendo un finale, cit., p. 164.

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la banda canaglia che giuoca all’eterno, i passerotti astuti, i composti piccioni53.

La lettera di Fortini fa riferimento, con molta probabilità, all’introduzione di Alfredo Giuliani all’antologia I novissimi e sembra polemizzare vis à vis contro uno dei punti cardine dell’intero apparato teorico del curatore. Per Giuliani la “novità” dei poeti antologizzati deve essere interpretata «anzitutto come un risoluto allontanamento da quei modi alquanto frusti e spesso gravati di pedagogia i quali perpetuano il cosiddetto Novecento mentre ritengono di rovesciarlo con la meccanica dei “contenuti”»54. Una separazione quindi da quella poesia sorta in ambito tardo neorealista che per Giuliani non è riuscita a proporre molto altro che «una forma di neo-crepuscolarismo, una ricaduta nella realtà matrigna cui si tenta di sfuggire mediante schemi di un razionalismo parenetico e velleitario, con la sociologia, magari col carduccianesimo»55. L’occasione della risposta a Pagliarani dà modo a Fortini di replicare, in considerazione del fatto che – a suo modo di vedere – la lettura di Giuliani si fonda su di un’incomprensione: sarebbe infatti metaforicamente necessario distinguere con Baudelaire un crepuscolarismo della sera e uno della mattina. Nei Fiori del male, nel dettaglio all’interno della sezione Quadri di Parigi, possiamo infatti leggere la lirica xcv – Le crépuscole du soir56 – e otto componimenti dopo Le crépuscole du matin57. Dall’ordine delle poesie e in secondo luogo dai contenuti, non è difficile individuare il senso della meditazione fortiniana: il crepuscolo della sera, de «le soir charmant, ami du criminel»58 fa in modo che «le ciel | se ferme lentement comme une grande alcôve»59 ovvero, come traduce Raboni, che l’orizzonte si chiuda. Contestualizzando ciò alla polemica con Pagliarani il crepuscolo della sera si può intendere come poesia della crisi e in un certo senso, estremamente negativo, poesia decadente. Il crepuscolo del mattino al contrario segue que Franco Fortini, Risposta di Franco Fortini a Elio Pagliarani, cit., p. 51. Alfredo Giuliani, Introduzione a I novissimi, cit., p. 16. 55 Ibidem. 56 Cfr. Charles Baudelaire, Le crépuscole du soir, in I fiori del male. E altre poesie, Torino, Einaudi, 19993, pp. 154, 156. 57 Cfr. Id., Le crépuscule du matin, in I fiori del male, cit., p. 170. 58 Id., Le crépuscole du soir, cit., p. 154. 59 Ibidem. 53 54

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sta «notte» e, esattamente come l’alba inaugura il giorno, si incarica di inaugurare una poesia nuova. I versi intitolati Dunque ricominciare assumono allora un valore esemplare: per il Fortini dei primi anni Sessanta, scrive Romano Luperini, si tratta in effetti di fare autocritica «rispetto alle teorizzazioni di una poesia paradossalmente ermetica […], tendenzialmente afasica, e al pericolo di un primato della politica che soffochi la salutare contraddizione letteraturapolitica»60. Nel tentativo di scongiurare qualsiasi «ipotesi di suicidio dell’intellettuale»61 per salvarne la funzione pur negandone il ruolo, la poesia di Fortini abbraccia «un punto di vista esplicitamente relativo, soggettivo, privato»62 e si contrappone dunque al tentativo di sabotare la letteratura proprio dell’avanguardia. La questione, che potrebbe sembrare una controversia sul ruolo e la tecnica della poesia in generale, nasconde in verità un’attenta contestazione che coinvolge gli stilemi poetici di Pagliarani. Più di un critico aveva sottolineato, già al tempo della querelle, il legame delle prime opere del nostro con la tradizione crepuscolare e con il suo linguaggio; lo stesso Giuliani aveva sentito il bisogno di segnalare una serie di distinguo per evitare possibili incomprensioni da parte dei lettori: «a differenza dei neocrepuscolari, egli [Pagliarani] non ha miticizzato (o storicizzato, che poi è lo stesso) il suo intelligente ritrovamento del­l’epica quotidiana dei De Marchi e dei Praga. Lo ha fatto con estrema naturalezza, con un gusto morale prima che per ripicca letteraria. Pagliarani non recita la parte dell’eroe bastonato, sebbene, come dice Porta, egli sia “l’unico autentico rappresentante della beat padana”[…]. Così l’atteggiamento sentimentale e quello letterario di Pagliarani perfettamente coincidono in uno stile “umile” e saldo, che sembra terra-terra e invece tocca un’esemplare drammaticità, sorda di fatica, frantumata in tante prove di coraggio e delusione, com’è il tempo del suo raccontare»63. La risposta di Pagliarani sarà invero perentoria, così come perentoria sarà anche la replica di Giuliani, quale emerge dalla Prefazione per la seconda edizione de I novissimi 64 del Romano Luperini, Per un profilo di Fortini. La poesia come contraddizione, in La lotta mentale. Per un profilo di Franco Fortini, Roma, Editori Riuniti, 1986, p. 34. 61 Ibidem. 62 Ibidem. 63 Alfredo Giuliani, Introduzione a I novissimi, cit., p. 23. 64 Cfr. Id., Prefazione 1965, ivi, p. 4: «il Neo-crepuscolare era ossessionato dalla voglia 60

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1965. Per Pagliarani non è sufficiente definire l’intenzione della poesia: la qualità rinnovatrice di qualsiasi componimento è da individuarsi all’interno della sua struttura linguistica. È possibile, per rimanere nella metafora, che una poesia proposta come alba di una nuova stagione poetica adotti in realtà un linguaggio destinato a una condizione di involuzione, di tramonto. In particolare – sembra avvertire Pagliarani – utilizzando un linguaggio crepuscolare non si fa altro che rifarsi a stilemi pregiudicati ormai dalla storia: infine, che c’è il tramonto e c’è l’alba, due crepuscoli, tu ricordi, che vanno distinti: e per me va benissimo, anzi, credo – ed è stato detto – che la cosa mi riguardi abbastanza direttamente. Ma nella fattispecie letteraria non li distinguiamo dalle buone intenzioni anzi proclami, li distinguiamo dal linguaggio. Il quale linguaggio non potrà poi definirsi «crepuscolare» in entrambi i casi, per la buona ragione che in letteratura la dizione «crepuscolare», con o senza neo, è interamente pregiudicata, riferita e riferibile unicamente ai tramonti. Proprio perciò Giuliani, che ha messo forse con scarsa cautela ma indubbiamente con ragione e vigore il dito o il pugno sulla piaga del neocrepuscolarismo, ha creduto di dovermi distinguere65.

Tuttavia, calcolando anche la cifra personale in ballo nella polemica, ci sembra di poter sostenere che soltanto con i risultati poetici di Lezione di fisica, Pagliarani chiarifichi la propria precisa scelta in direzione, diciamo così, novissima, rendendo evidente quella presa di distanza da quella che i neoavanguardisti definiscono la “piaga del neocrepuscolarismo”, e poggiandosi saldamente sulle distinzioni evidenziate da Giuliani. La polemica con Fortini si dimostra così una di stare all’Opposizione ma dentro la Storia, voleva che la poesia, da interiore e squisita, si facesse “estroversa” e popolare; era accanito, soffocato e verboso. Proiettando i suoi conflitti emotivi e le sue mitologie depresse su una problematica di sapore pubblicistico, montando il suo lirismo sul supporto di argomentazioni astratte dalla grezza cronaca culturale, si aggrappava alle forme più spurie della sociologia e del giornalismo, e finiva quasi sempre (tolti i pochi autentici momenti di rabbia) nel tono sbiadito e piangevole dell’autobiografia. […] La sua poetica, legata alla convenzionale nozione del “contenuto” quale insieme di pensieri visioni e sentimenti che valgono di per sé, fuori della poesia, e che dunque basta fissare metricamente per rendere “poetici”, era vecchiotta patriottica e particolarmente inefficace: per combattere il cosiddetto Novecento (ossia la piccola porzione italiana dell’intera tradizione moderna) era andata a rivisitare i nostri poveri sepolcri ottocenteschi». 65 Elio Pagliarani, La replica di Pagliarani, cit., p. 52.

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premessa fondamentale alla costruzione della nuova raccolta: gran parte degli sforzi teorici che reggono la Lezione sembrano indirizzati nel tentativo – molto complesso – di sciogliere i dubbi sulla presenza di quel più o meno programmato “intimismo dimesso” del linguaggio, che in qualche modo poteva accostare la poesia di Pagliarani, fino a La ragazza Carla, all’ambito etichettato da Giuliani come neocrepuscolare. L’aspetto linguistico pagliaraniano, certo discrepante rispetto all’opera di Pasolini come pure a quella di Fortini o del primo Leonetti, si era infatti avvalso per lungo tempo di elementi basso-quotidiani, ma aveva anche messo in evidenza – particolarmente nel finale de La ragazza Carla – alcune perplessità sulla concreta possibilità di impiego poetico degli stessi, in relazione agli aspetti più intimamente politici della propria produzione letteraria. Laddove l’incolmabile differenza di classe e di consapevolezza tra Carla e il personaggio del poeta66 e il pessimismo, ovvero l’incapacità di agire dell’intellettuale immerso nella cultura industriale67, rivelavano l’impossibilità da parte del poeta di operare sul proprio terreno – appunto quello della costruzione poetica –, anche le speranze del poter sortire dall’impasse del neocrepuscolarismo sembravano arenarsi. La critica fortiniana, pur ignorando (volutamente?) che la porzione linguistica «neocrepuscolare» ne La ragazza Carla partecipa di una struttura di complessa giustapposizione di registri, al fine di rendere un realismo che non sia fotografica descrizione, contribuisce, insieme certamente ad altre esigenze espressive e politiche, a far sì che Pagliarani renda più esplicita la propria indagine sul linguaggio, scegliendo, innanzitutto, di tornare a dare voce a un io poetico. Mentre nel poemetto – attraverso l’uso di una terza persona adoperata essenzialmente in funzione antilirica ossia con l’obiettivo di deprimere la qualità forse più consistente di quell’identificazione tra poesia e lirica che era la cosiddetta «tirannia dell’io»68 – la presa di parola del In particolar modo si noti la distanza stilistica tra narrazione, discorso in prima persona dei personaggi e gli incisi di commento dell’io poetico. 67 Non di rado, infatti, l’intellettuale sembra costretto in una posizione a sua volta subalterna dagli equilibri della città moderna. Equilibri che naturalmente privilegiano piuttosto la produzione materiale ed economica che quella per così dire coscienziale. 68 Come dichiarato dallo stesso autore il progetto stesso del poemetto trova la propria origine nel disagio di questi di fronte alla presenza dell’autobiografia nella propria poesia. Cfr. Elio Pagliarani, Cronistoria minima, in I romanzi in versi, cit.; poi in Tutte le poesie, cit., p. 464: «mi preoccupava il peso, che mi pareva eccessivo, delle 66

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poeta dava voce a un personaggio non esplicitamente coincidente né con il narratore né tanto meno con l’autore69, in Lezione di Fisica la scelta dell’epistolario comporta l’uso della prima persona. Il fatto di indirizzare i componimenti ogni volta a personalità reali e conosciute dallo stesso autore, poi, rende ancora più personale la raccolta, che sembra muoversi in limine alla diretta “confessione”. Occorre tuttavia prestare attenzione: il ritorno a un io poetico e a tematiche private inviterebbe a concepire La lezione come una sorta di materializzazione letteraria di una sconfitta concettuale della poesia epico-didascalica tentata ne La ragazza Carla. Il conseguente rifugio nella sfera personale sarebbe perciò dettato dall’impossibilità sociale della poesia di agire concretamente, ovvero, in un certo senso, da una sconfitta politica delle modalità dell’avanguardia. Invece, per quanto sopra detto su Proseguendo un finale, la poesia epistolare di Lezione di fisica appare piuttosto come un naturale e, per molti versi, inevitabile sviluppo di una stessa sperimentazione poetica, in direzione di una più decisa attenzione per quelle motivazioni sociali e politiche che restano il più concreto motivo della poetica pagliaraniana. mie vicende personali sulla mia poesia e m’era diventata pesante nello scrivere “la tirannia dell’io” […] avevo deciso di comporre un poemetto narrativo, con la sua brava terza persona, che si occupasse di vicende contemporanee che non mi riguardassero troppo direttamente». In realtà nel 1959, un anno prima dell’apparizione de La ragazza Carla, Pagliarani dà alle stampe Inventario privato, opera la cui poetica intimistica e vagamente elegiaca si distanzia, almeno in superficie, dai motivi per così dire più concreti delle altre due opere. Ciò è in parte spiegato dal fatto che la stesura dell’Inventario è posteriore a quella de La ragazza Carla. Quest’ultima, secondo la datazione offerta dall’autore, fu composta nell’arco di tre anni, ovvero dal 1954 – appena terminate le ultime liriche delle Cronache – al 1957. L’Inventario fu scritto di getto, da marzo a novembre del 1957. La tematica sentimentale dell’Inventario, ovvero la vicenda amorosa che coinvolge l’io poetico e da questi è narrata con malinconici accenti, appare ai margini nelle Cronache (nelle liriche Viaggio N. 2 e Canto d’amore), mentre è de-soggettivizzata ne La ragazza Carla. Date simili premesse possiamo ipotizzare che Inventario privato e La ragazza Carla siano sviluppi paralleli, nati da diverse esigenze poetiche: da un lato la narrazione della vicenda autobiografica, e con questa una maggiore attenzione all’evoluzione del proprio linguaggio, ovvero alla parole del poeta; dall’altro la rappresentazione della realtà sociale, e con essa la realtà proteiforme della langue. 69 Si noti in questo senso l’uso particolare del corsivo che ne La ragazza Carla contrassegna l’utilizzo di un linguaggio tecnico, ivi compreso quello poetico: cfr. per esempio Id., La ragazza Carla, cit., p. 147: «Autour des neiges, qu’est ce qu’il y a? | colorati licheni, smisurate | impronte, ombre liocorni | laghi cilestri, nuvole bendate, | risa dell’eco a innumeri convalli | la vita esala fiorisce la morte | solitudine imperio libertà».

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Eliminando il racconto in terza persona per riconfigurare attivamente un io poetico, Pagliarani, come scrive Schiavone, introduce «il passaggio da una poetica che crea, a quella della testimonianza diretta del reale che agisce politicamente e socialmente»70 che sfocia poi in un utilizzo programmatico della tecnica della trascrizione o della pseudo trascrizione71, per cui il materiale linguistico della scienza e dell’economia, selezionato e trascritto, è chiamato a reagire con il genere epistolare di modo che privato e pubblico interagiscano esplodendo l’uno sull’altro. La narrazione delle vicende personali opportunamente condotta con un linguaggio tecnico già pronto, prelevato da saggi e interventi preesistenti, non solo fa sì che il vocabolario poetico risulti enormemente dilatato, ma consente al lettore di ricostruire il senso, interpretando autonomamente porzioni di realtà scritta. Pagliarani sfugge quindi dal cul-de-sac di una costruzione poetica tradizionalmente accettata, facendo a meno di una struttura – in termini lacaniani – “metaforica” ed esorcizzando il rischio insito ne La ragazza Carla di proporre un testo che sia soltanto prodotto da subire, o, per dirla con Roland Barthes che sia soltanto leggibile72. Un testo, vale a dire, che prevederebbe un lettore-consumatore passivo, e che, in questo moto unidirezionale che procede dalla produzione alla consumazione, annullerebbe l’aspirazione rivoluzionaria della scrittura d’avanguardia, impegnata al contrario nel tentativo di vitalizzare e rendere attivo il fruitore. La seconda lettera, La pietà oggettiva, compie perciò quell’attraversamento che Proseguendo un finale aveva iniziato, regolando i conti con il nodo decisivo del linguaggio neocrepuscolare prima di Ivan Schiavone, Tecnica della trascrizione in Lezione di Fisica di Elio Pagliarani, in «Avanguardia», 34, 2007, p. 128. 71 La maggior parte delle trascrizioni sono interpolate in realtà da altre trascrizioni ovvero da creazioni d’autore. 72 Cfr. Roland Barthes, S/Z (1970), Torino, Einaudi, 1973, p. 10: «la nostra letteratura è segnata dal divorzio inesorabile mantenuto dall’istituzione letteraria fra il fabbricante e l’utente del testo, il proprietario e il cliente, l’autore e il lettore. Questo lettore si trova allora immerso in una sorta di ozio, d’intransitività, e, per dir tutto, di serietà: invece di essere lui a eseguire, di accedere pienamente all’incanto del significante, alla voluttà della scrittura, non gli resta in sorte che la povera libertà di ricevere o di respingere il testo: la lettura si riduce a un referendum. Rispetto al testo scrivibile si definisce così il suo contro-valore, il suo valore negativo, reattivo: ciò che può essere letto ma non scritto: il leggibile. Noi chiamiamo classico ogni testo leggibile». 70

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affrontare il problema della stessa creazione poetica e della figura di quel poeta-creatore che, dotato della tecnica della poesia, si colloca, lo voglia o meno, in una condizione sociale a un tempo privilegiata e inutile. Si tratta ancora di oltrepassare il livello raccontato di quello che è un vero e proprio ciclo dei vinti attraverso i collaudati toni crepuscolari, tentando di marcarne le insufficienze. Il proletariato, la piccola borghesia di Carla, si tramutano in personaggi realmente conosciuti dal poeta, le cui vite sono preda di crisi esistenziali, in una situazione da «ottocento d’appendice»73 dalle quali però «non si può cavarne una storia | nemmeno da mettere in versi: ci sono esperienze | che non servono a niente che si iscrivono | come puro passivo»74. L’«oggettività della pietà» non si configura allora come sentimento universale. Piuttosto si assiste al tentativo di pubblicare il privato, renderlo dominio della comunità di modo che, pur senza imporre una narrazione, il fruitore possa rapportarsi con quanto detto. L’io di Pagliarani si pone in altri termini come un io collettivo del quale – dirà nella poesia seguente – «il proprio lavoro la pena non se stessi ma il proprio modello sia utile | agli altri»75. La chiusa dell’epistola, setacciate finalmente le possibilità del registro neocrepuscolare, può rinvenirne l’esaurimento, interrompendo bruscamente l’andamento dell’intera composizione: Meglio sciupare la composizione con un brutto commiato. Certo qui non si salva la tua né la mia faccia vorrei vedere che non fosse così che si compisse nei versi la catarsi che bastasse questa pietà oggettiva che ci agghiaccia76.

La catarsi che non si compie non è solo al livello del contenuto. Sono certamente i personaggi descritti a non beneficiare di alcuna purificazione, ma a ben vedere anche il linguaggio che ne sovrastruttura i rapporti sembra ormai irrimediabilmente esaurito. Affrontare con Alfredo Giuliani – a cui è indirizzata la terza lettera della raccol Elio Pagliarani, La pietà oggettiva, in Lezione di fisica e Fecaloro, cit., p. 167. Ibidem. 75 Id., Oggetti e argomenti per una disperazione, in Lezione di fisica e Fecaloro, cit., p. 172. 76 Id., La pietà oggettiva, cit., p. 169.

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ta – il tema della morte in Oggetti e argomenti per una disperazione, significa prendere coscienza che quel linguaggio poetico non ha più l’efficienza ricercata dallo scrittore. La dichiarazione «poeta è una parola che non uso | di solito»77 – pur ricalcando le proclamazioni di quei poeti inscrivibili nel contesto del crepuscolarismo quali Gozzano, Corazzini e Palazzeschi – non si pone, al contrario di quanto sostengono molti critici, come affermazione di auto-poetica. La scelta di campo riguarda semmai quella «vergogna del poetare» tipica degli anni Sessanta che Walter Siti78 rintraccia in Pagliarani come in Sanguineti e Zanzotto, corroborata dalle improvvise manifestazioni di ironia, laddove lo stile dimesso documenta la sua pesantezza, la propria retorica, per usare un gioco di parole, “antiretorica”. È per questo motivo che l’andamento della composizione risulta continuamente spezzato proprio in quei luoghi in cui non solo è ormai impossibile esprimersi attraverso quel particolare vocabolario e quella specifica sintassi, ma anche dove il processo richiederebbe maggiore sforzo retorico: Tu corrispondesti quando ti dissi con dei versi che ho sofferto e ho avuto vertigine orgogliosa, temendo adolescente di non poter morire. O credendo. Faccio una pausa rileggo questo inizio non è male mi frego le mani dove c’è un po’ di reumatismo stagionale, sollevo gli occhiali79.

Pagliarani offre l’esempio di una poetica che, nel tentativo di negare la superiorità del linguaggio tecnico della poesia, fosse anche nella forma del sermo cotidiano crepuscolare, si nega continuamente. Vi è, dunque, un tentativo di superare la tessitura linguistica de La ragazza Carla: nel poemetto, l’alternativa di un linguaggio orale, spesso popolare o al limite del dialetto, si faceva latrice di una rinnovata possibilità ritmica attraverso la messa in evidenza – in un collage comunque non uniforme – della varietà potenziale di un’espressione poetica che corrispondesse alla nuova società industriale e alle Id., Oggetti e argomenti per una disperazione, cit., p. 170. Cfr. Walter Siti, Lezione di fisica e Fecaloro, in Il realismo dell’avanguardia, Torino, Einaudi, 1975, pp. 94-107. 79 Elio Pagliarani, Oggetti e argomenti per una disperazione, cit., p. 170. 77 78

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sue strutture foniche; qui, nella stessa interruzione diegetica («Faccio una pausa | rileggo questo inizio non è male […]»), si esibisce la negazione di una struttura complessiva che possa racchiudere le giustapposizioni che costituivano il piano narrato del poemetto, e quindi si ristabilisce la necessità di intervento dell’io poetico. Salvo che, tale intervento, funziona piuttosto come autocommento che come presa diretta di parola, evidenziando l’aspetto metapoetico: la denuncia di “non neutralità” non risparmia nemmeno quel linguaggio basso dalla possibilità ideologica alta80 che aveva contraddistinto la stessa poesia di Pagliarani fino a questo momento. Questo è il punto di partenza di Lezione di fisica: il lavoro riflessivo sulla poesia viene da qui approfondito e si accompagna alla necessità di una nuova prassi. Alla negazione, insomma, si tenta di sommare una nuova affermazione seguendo la rotta costruttiva del processo dialettico. 3. metalinguaggio fisico e poesia come azione Una volta compiuto il definitivo attraversamento del linguaggio tecnico della poesia crepuscolare e dei suoi toni, interviene nel tessuto linguistico quello che potremmo chiamare metalinguaggio scientifico. Pagliarani estrapola dai codici linguistici di alcuni ambiti della conoscenza scientifica porzioni di testo che intervengono nella composizione poetica sia nella forma eclatante della trascrizione – appunto come totale o parziale riscrittura di un intero testo preesistente – sia nella forma più moderata del collage tra porzioni trascritte da testi differenti, sia, infine, in una composizione personale che potremmo chiamare calco o imitazione, in quanto effettivamente mima strutture e vocaboli di tali ambiti linguistici senza riprodurre testi preesistenti. In questo modo le poesie vengono composte con un «linguaggio “altro”» certamente derivante, come interpreta Siti, «da un desiderio di liberazione del gioco formale, quindi da un desiderio antirepressivo»81 che ha in sé la doppia particolarità: da una parte Pagliarani può impiegarlo in forma riflessiva al fine di indagare il codice linguistico pertinente la tradizione poetica (onde metalin Cfr. Walter Pedullà, Ideologia «alta» e linguaggio «basso» di Elio Pagliarani, in Il morbo di Basedow ovvero dell’avanguardia, Cosenza, Lerici, 1975, pp. 47-91. 81 Walter Siti, Lezione di fisica e Fecaloro, cit., p. 105. 80

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guaggio); dall’altra quel «linguaggio altro» risulta il tramite di comunicazione con un lettore non più solo fruitore ma creatore del testo: come già accennato, ponendosi questo come una sorta di documento, si rende necessaria la produzione del senso da parte di chi fruisce dell’opera, di modo che qualsiasi lettura sia costretta a farsi interpretazione. Per dirla in termini barthesiani il metalinguaggio scientifico è lo strumento metapoetico di studio della scrittura e della composizione e dei contenuti della poesia, nonché il tramite indispensabile per trasformare un testo da leggibile in scrivibile82. Il componimento che dà il titolo alla raccolta, indirizzato a Elena – il cui nome, ci sembra di poter dire, al di là di qualsiasi dato biografico, diventa anche diretto riferimento all’archetipo femminile dell’Elena della mitologia greca ovvero un accenno alle origini dell’epos e a Omero – può essere preso a titolo d’esempio. L’introduzione di Luigi Confalonieri al Dibattito sulla meccanica quantistica e una tabella di Herman Kahn tratta da La strategia dell’era atomica offrono i repertori da cui trarre un linguaggio adatto a mettere in discussione la tradizione poetica e la consuetudine compositiva: Elena oh le sudate carte la luce è una granula di quanti, provo a dirti che esiste opposizione fra macrofisica e microfisica che il mondo atomico delle particelle [elementari è studiato dalla meccanica quantistica – scuola di Copenaghen – e da quella ondulatoria del principe di Broglie che ben presto i [fisici si accorsero come le due nuove meccaniche benché basate su [algoritmi differenti siano in sostanza equivalenti: entrambe negano negano che possano esistere precisi rapporti di causa e effetto affermano che non si può aver studio di un oggetto senza modificarlo83. Cfr. Roland Barthes, S/Z, cit., p. 10: «da una parte sta ciò che è possibile scrivere: ciò che è nella pratica dello scrittore e ciò che ne è uscito: quali testi accetterei di scrivere (di ri-scrivere), di desiderare, di avanzare come una forza nel mondo che è il mio? Tutto quello che la valutazione trova è questo valore: ciò che può essere oggi scritto (ri-scritto): lo scrivibile. Perché lo scrivibile è il nostro valore? Perché la posta del lavoro letterario (della letteratura come lavoro), è quella di fare del lettore non più un consumatore ma un produttore del testo». 83 Elio Pagliarani, Lezione di fisica, in Lezione di fisica e Fecaloro, cit., p. 175. 82

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L’utilizzo strumentale del codice linguistico della fisica così decontestualizzato serve al poeta per arrivare a dire, in accordo con le due diverse meccaniche, che non si può avere studio di un oggetto senza modificarlo, e ciò significa che Pagliarani non può interrogarsi sulla costruzione poetica e della stessa studiare i rapporti interni, linguistici, ed esterni, in rapporto ai fruitori, senza modificarla. In un ambito metapoetico tale alterazione è però già avvenuta dal momento che lo studio della poesia risulta essere in realtà la poesia stessa. La coincidenza tra soggetto e oggetto di una certa azione – ovvero quell’autoreferenzialità per la quale sembra di trovarsi di fronte al medesimo paradosso di Münchausen che, negli stessi anni, diventa dilemma esistenziale per Zanzotto84 – è il nodo che Pagliarani tenta di sciogliere. Il tutto – diversamente rispetto alla zanzottiana Beltà – è riflesso dall’attività poetica sulla base di una analisi eminentemente sociale: al centro della viscosa massa delle sabbie mobili, diciamo così, viene posta l’attività letteraria, come abbiamo già visto affrontando la polemica con Fortini, nel suo rapporto irrisolvibile con le classi sociali e la lotta politica. L’urgenza storica, il bisogno morale di contribuire quanto meno alla progettazione di una nuova società tramite una verifica del linguaggio, fa in modo che l’opposizione di Pagliarani all’organizzazione politica, sociale ed economica presente si traduca in una poesia d’opposizione al canone poetico e all’idea del poeta «che parla a nome del popolo». Contuttociò Pagliarani sembra conscio del fatto che l’assenza di un secco rapporto causa-effetto riguardi anche l’opera dell’avanguardia. Per questo verso, l’opposizione, non potendo essere niente di più di una scommessa, non deve interrompersi di fronte allo sterile alibi dell’«essere stata contro», ma al contrario manifestarsi come azione: «e invece non ci basta nemmeno dire no che salva solo l’anima | ci tocca vivere il no misurarlo coinvolgerlo in azione e tentazione | perché l’opposizione agisca da opposizione e abbia i suoi te­ stimoni»85. La risposta al Montale evocato di «codesto solo oggi possiamo dirti, | ciò che non siamo, ciò che non vogliamo»86, appare in Cfr. Andrea Zanzotto, Al mondo, in La Beltà, Milano, Mondadori, 1968, pp. 5152. 85 Elio Pagliarani, Lezione di fisica, cit., p. 178. 86 Eugenio Montale, Non chiederci la parola, in Ossi di seppia [1925], in Tutte le poesie, Milano, Mondadori («i Meridiani»), 1984, p. 29. 84

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effetti come mediata, ancora una volta, da un ripensamento di certi temi dell’esistenzialismo – si pensi al Mito di Sisifo di Camus – dove si afferma l’impossibilità («ci tocca») di un comportamento che prescinda da un impegno che appunto è squisitamente esistenziale («vivere il no»). Si tratta in fondo – ignorando quelle sirene del canto e della lirica il cui studio non può non lasciare delle tracce87 – di proseguire nel dar voce a questa poesia che nel contempo riflette su se stessa, si nega e si afferma attraverso il metalinguaggio, la poesia come azione: Per durare a vivere intendo realizzare dinuovo un atto che sia un’affermazione Giò robusto e chiaro: ma non puoi garantirci altro che la tua intenzione niente oggettivamente ci distingue baro da non baro No, no, è vero ma è solo una premessa, è vero epperò c’è una [distinzione non te ne accorgi e non c’è nei vent’anni necessaria incontinenza ma poi si impara dai polsi che il discrimine è nell’ottusa pazienza dell’artigiano, nella follia puntuale di un artigiano senza [committente88.

La necessità majakovskjiana di riconoscere l’arte e la poesia come “prodotti”, in polemica con quelle interpretazioni che vorrebbero fare dell’arte qualcosa che sfugge alla storia, si ripresenta unita alle necessità strutturalistiche e della nuova semiotica in direzione di un’apertura cosciente e voluta del significato dell’opera d’arte89. L’attacco contro il «filisteismo critico-romanzesco»90 – il quale tenta di far credere che «soltanto l’eterna poesia sfugge a ogni dialettica e che l’unico processo produttivo consiste nel sollevare ispirati la testa, in attesa che la celeste poesia-spirito discenda sulla calvizie, sotto forma di colomba, pavone, o struzzo»91 – è da leggere come sforzo di rista Cfr. Elio Pagliarani, Lezione di fisica, cit., p. 178: «anche in noi c’è dentro la voglia | di riassuefarci alla gioia, affermare la vita col canto». 88 Id., Dalle negazioni, in Lezione di fisica e Fecaloro, cit., pp. 181-182. 89 Cfr. in particolare Umberto Eco, Opera aperta: forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Milano, Bompiani, 1964. 90 Vladimir Majakovskij, Come far versi, in Poesia e rivoluzione, Roma, Editori Riuniti, 1966, p. 151. 91 Ibidem. 87

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bilire la natura sociale dell’ispirazione e della creazione letteraria e per tale motivo la Lezione di Pagliarani risulta soprattutto una lezione di poesia che «non esita a giocare allo scoperto, e a chiamare in causa il lettore, per renderlo partecipe della sua personale re­spon­sa­ bilità»92 che è in definitiva «la responsabilità della scelta dei mezzi»93 con cui il poeta lavora. Così in Come alla luna l’alone, che chiude la prima sezione, il dato metapoetico e quello strettamente politico raggiungono insieme, compenetrandosi, il loro massimo grado. In questo senso sembra pertinente ciò che scrive Asor Rosa, ovvero che «la produzione di nuovi significati spetta»94 per Pagliarani «alla società nella storia»95 mentre «la letteratura può assumersi invece un compito di “progettazione” che vuol dire […] allungare le mani fin dove il poeta può, cioè nel campo di un certo tipo di linguaggio, di un certo tipo di comunicazione»96 ovvero «fare proposte, che altri possono raccogliere»97: Nel mio mestiere hanno ridotto la memoria a memoria di seghe ginnasiali quando donne opposero il ventre sui binari ai treni della guerra di Libia (senza concitazione:) le donne dei militari sui binari dei treni della guerra di Libia (oppure:) le madri le mogli dei soldati sui binari dei treni della guerra di Libia (risulta ugualmente:) i corpi delle donne sui binari contro i treni della guerra di Libia a altre maledizioni98.

La lezione di poesia non potrebbe risultare più esplicita: come scrive Siti «non c’è dubbio […] che la prima redazione (“opposero il ventre”), sia la seconda (iterazione della preposizione “di”, rima interna “militari-binari”), sia la terza (ripetizione allitterante “le madri 94 95 96 97 98 92 93

Adriano Spatola, E. Pagliarani: Lezione di fisica, cit., p. 97. Ibidem. Alberto Asor Rosa, I due tempi della poesie di Elio Pagliarani, cit., p. 14. Ibidem. Ibidem. Ibidem. Elio Pagliarani, Come alla luna l’alone, in Lezione di fisica e Fecaloro, cit., pp. 186187.

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le mogli”) presentino un maggiore grado di letterarietà rispetto alla quarta»99, ma di queste solamente quest’ultima è stata capace di raggiungere l’endecasillabo, segno della possibilità che «una figura tradizionale si formi senza dover pagare nessuna altro tributo alla letterarietà»100. Per questo motivo se da un lato «ogni elemento tradizionale attrae»101 come possibilità figurale, allo stesso tempo respinge per la sua matrice ideologica e culturale, ovvero Pagliarani discute in forma poetica la possibilità stessa di una poesia che – come avveniva ne La ragazza Carla – nasca dal basso quotidiano e si palesi capace di raggiungere la nobiltà della tradizione senza incorrere in debiti con questa. La tecnica della trascrizione non si limita soltanto a questa funzione metapoetica: dal punto di vista dei contenuti gli ambiti da cui Pagliarani decide di effettuare le trascrizioni non si dimostrano neutrali. I brani permettono un’indagine gnoseologica in merito a problemi contemporanei legati, in qualche modo, al campo delle scienze, a partire dal fatto che lo spostamento del codice linguistico da un contesto a un altro risulta capace di portare alla luce alcuni valori presenti ma invisibili nel codice di partenza: Se si vuole sapere se A è causa dell’effetto B se il microggetto in sé è inconoscibile se l’onda di De Broglie per i Fisici di Copenaghen non è altro che l’espressione fisica della probabilità posseduta dalla particella di trovarsi in un luogo piuttosto che in un altro [onda cioè generata dalla mancanza di un rigoroso nesso causale in microfisica Perciò l’atomica per la legge dei grandi numeri la probabilità tende alla certezza Perciò l’atomica Poi la teoria dell’onda pilota e quella, così cara al nostro tempo della doppia soluzione, e se esiste il microggetto in sé, se la materia può risponderci con un comportamento statistico Dio gioca a dadi con l’universo? E se la terra ne dimostrasse il terrore? Walter Siti, Lezione di fisica e Fecaloro, cit., p 105. Ibidem. 101 Ibidem. 99

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Non gridare non gridare che ti sentono non è niente mentre [graffio una poltrona Herman Kahn ha già fatto la tabella delle possibili condizioni postbelliche, sicché 160 milioni di decessi [in casa sua non sarebbero la fine della civiltà, il periodo necessario per la [ripresa economica sarebbero 100 anni; va da sé che esiste, egli scrive, un ulteriore [problema quello cioè se i sopravvissuti avranno buone ragioni per invidiare i morti102.

Mentre il codice linguistico delle scienze può trattare un tema come quello della guerra atomica in termini tanto asettici, la poesia di Pagliarani, attraverso bruschi passaggi di contesto, coglie la matrice ideologica che ne regola il funzionamento, rendendo evidente il carattere non imparziale anche di una teoria fisica, ovvero di una tabella indicante la ripresa economica dopo un potenziale conflitto nucleare. I frammenti prelevati subiscono insomma un processo di de-naturalizzazione attraverso cui viene messa in risalto l’assurdità del messaggio che abitualmente passa per norma. Nella sezione E altri recitativi103 tale procedimento è ancora più evidente: nel primo componimento, che non è una vera e propria lettera (non ha destinatario) ed è l’unica trascrizione praticamente integrale della raccolta, il «fondo del professor Di Fenizio apparso sulla stampa di Torino nel giugno del ’56»104 viene riscritto da Pagliarani. A esso l’autore giustappone, in maniera inusuale per la Lezione, una chiusa di commento riservata all’io poetico che, di fatto, de-naturalizza il punto di vista sottinteso nei precedenti componimenti ed esplicita la posizione di chi scrive. Si noti, in questo senso, come il Elio Pagliarani, Lezione di fisica, cit., pp. 176-177. La sezione raccoglie soltanto tre componimenti e segue Le lettere pur comprendendo la produzione cronologicamente anteriore (1956-1960). Questa scelta è molto significativa poiché, come ben commenta Schiavone, conferisce una raffinata simmetria all’intera raccolta. Se infatti Le lettere ricominciava dal finale de La ragazza Carla attuando una trasformazione di poetica e introducendo quello che abbiamo definito metalinguaggio, E altri recitativi prepara invece uno spostamento dalla trascrizione metalinguistica alla trascrizione montata e contaminata dell’ultima sezione – Fecaloro – aggiunta solo nella seconda edizione del 1968. Cfr. Ivan Schiavone, Tecnica della trascrizione in lezione di fisica di Elio Pagliarani, cit. 104 Elio Pagliarani, Note alla Lezione di fisica, cit., p. 226. 102 103

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carattere corsivo sia adoperato per segnalare anche tipograficamente il distacco: Il valore di una moneta non dipende tanto dalla misura delle riserve accumulate quanto dall’energia con cui questo valore è difeso in periodi di tensione. Merito delle riserve auree è dunque quello Sì, facciamo basta, e poi ci industriamo a fare i furbi – ma dove, dov’è che il serpente si morde la coda? 105

Il tema dell’oro, preso a simbolo dell’artificio del potere e che, in questo senso, grande rilevanza assumerà nella produzione successiva di Pagliarani, viene affrontato in modo da metterne in evidenza il significato storico-politico più sotteso. L’accenno al ruolo delle riserve aurifere in rapporto all’emissione di moneta106 pare indovinare quella crisi del sistema monetario internazionale conosciuto come sistema di Bretton Woods107, che si paleserà soltanto nel 1971 ovve Id., Vicende dell’oro, in Lezione di fisica e Fecaloro, cit., p. 193. Cfr. ibidem: «il resto nelle sacrestie | della altre banche centrali giova | alla stabilità monetaria || Però in qual grado è misura?». 107 Il nome del sistema deriva dal fatto che nel 1944, come riporta Dominick Salvatore, «i rappresentanti di Stati Uniti, Regno Unito e altri 42 paesi si incontrarono a Bretton Woods, nel New Hampshire, per decidere sull’assetto da dare al sistema monetario internazionale dopo la guerra. Il sistema progettato a Bretton Woods prevedeva la istituzione del Fondo Monetario Internazionale (FMI) allo scopo di: (1) vigilare sull’osservanza da parte dei paesi membri di un insieme di regole di condotta in tema di commercio e finanza internazionale e (2) fornire facilitazioni creditizie per paesi in temporanea difficoltà con la bilancia dei pagamenti» in Dominick Salvatore, Economia monetaria internazionale, Milano, Etas, 2002, p. 369. Questo sistema era un gold-exchange standard (ovvero una via di mezzo tra il sistema gold standard – nel quale l’oro è l’unica attività di riserva internazionale – e i sistemi puramente fiduciari – privi di qualunque connessione con l’oro). In questo sistema «gli Stati Uniti erano tenuti a mantenere il prezzo in dollari di un’oncia d’oro al valore fisso di $35 e dovevano rendersi disponibili a cambiare per quel prezzo dollari in oro (o viceversa), senza restrizioni o limitazioni. Gli altri paesi dovevano fissare il valore delle proprie valute in termini di dollari (e quindi implicitamente in termini di oro) e intervenire sul mercato dei cambi per evitare che il tasso di cambio si allontanasse dalla parità, al rialzo o al ribasso, più dell’uno per cento» (ivi, p. 370). Il sistema entrò presto in crisi dal momento che esso «prevedeva e consentiva variazioni delle parità in casi di squilibri fondamentali», ma nella realtà «i paesi industrializzati erano molto restii a mutare la propria parità»: «i paesi in disavanzo erano riluttanti a svalutare le proprie valute» mentre quelli in avanzo «si opponevano alla necessaria rivalutazione, preferendo piuttosto continuare ad accumulare riserve inter105 106

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ro, stando alla datazione offerta dall’autore, quindici anni più tardi rispetto alla data di composizione della poesia. Attraverso l’ordine con cui viene effettuata la trascrizione e soprattutto praticando una brusca interruzione sintattica che spezza la proposizione precedente il commento dell’io poetico, Pagliarani discredita i contenuti dell’articolo. Il corsivo di commento viene utilizzato anche in Conferenza dibattito sulla questione meridionale con una prospettiva differente: è tramite una trovata ironica, questa volta, che emerge il punto di vista di un io poetico impegnato nel condannare quella che si rivela come un’appassionata insincerità: – I terroni sono invadenti, ipocriti, ruffiani. La sogliola ha il colore della sabbia per sfuggire ai pescicani Amo le lodi, specie quelle false indice di potenza108.

L’obiettivo della critica sembra qui il presupposto concettuale che regola i rapporti tra potere e linguaggio, siccome la lode, indipendentemente dal proprio contenuto di verità, mette chi la riceve in condizione prominente rispetto a chi la tesse e gli offre la possibilità di rispecchiarsi in questa presunta superiorità. Sennonché, in questo caso specifico, il luogo comune che passa per lode falsa il risultato in quanto, chi lo esprime, si trova in partenza in una posizione privilegiata. 4. «brecht ai vostri figli ha già lasciato detto» Il nuovo rapporto che Lezione di fisica tenta di instaurare tra la confessione privata, di cui l’epistola è tradizionalmente espressione, e lo nazionali» (ivi, p. 373). Per questo motivo il sistema veniva privato «di gran parte della sua flessibilità e del meccanismo di aggiustamento della bilancia dei pagamenti» (ibidem). Nonostante l’istituzione di accorgimenti nel tentativo di ovviare i principali problemi (gli Accordi Generali di Prestito e i Diritti Speciali di Prelievo) il sistema collasserà nel 1971, quando il presidente degli Stati Uniti Nixon – a fronte di una presunta fuga di capitali liquidi dalla sua nazione – sospese la convertibilità del dollaro in oro. In questo modo il sistema mondiale diventò un dollar standard. 108 Elio Pagliarani, Conferenza dibattito sulla questione meridionale, in Lezione di fisica e Fecaloro, cit., p. 200.

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spazio pubblico specifico della poesia, rappresenta le fondamenta del genre “lettera in versi”. Questa architettura stabilisce il suo fine nella creazione di un nesso biunivoco tra poesia e collettività in virtù dell’esercizio di un mestiere, quello del poeta, il cui ruolo, come detto in precedenza, è nella e per la società. Pagliarani individua perciò nelle forme del teatro quelle adeguate categorie interpretative psicologico-pratiche con cui gestire il genre, donde l’intensificarsi e l’esplicitarsi di quelle componenti epiche – prossime alle tecniche descritte da Brecht per il suo teatro – già presenti nelle opere precedenti. In Note alla Lezione di fisica l’autore precisa di aver riunito nell’opera «Lettere in versi e/o Recitativi drammatici che costituiscono la parte più immediata»109 del suo lavoro di quegli anni «sia per quanto riguarda la partecipazione civile alle vicende della nostra società, sia per quanto riguarda la sperimentazione di linguaggi scientifici, come quelli dell’economia e della fisica, sia relativamente al dibattito in corso sulle poetiche»110. La puntualizzazione non è banale: il dato poetico, già di per sé doppio nella sua particolare meditazione relativa alla connessione pubblico-privato, si lega programmaticamente all’aspetto teatrale, per cui Pagliarani utilizza la nozione non priva di ambiguità di «recitativo drammatico»111. Se assumiamo con Brecht che la «differenza tra la forma drammatica e la forma epica veniva già ravvisata da Aristotele nella diversità delle tecniche costruttive»112 e che ciò avveniva soprattutto in considerazione del fatto che «le due tecniche dipendevano dal diverso modo in cui le opere venivano presentate al pubblico, queste mediante la scena, quelle mediante il libro»113, dobbiamo concludere che Pagliarani, indicando come drammatici i suoi recitativi, voglia in qualche modo determinare una prospettiva di messa in scena per le sue composizioni. Effettivamente, sulla spinta di fenomeni di sperimentazione teatrale degli anni Sessanta, quali il Living Theatre, il Laboratorio di Grotowski, le prime esperienze di Carmelo Bene e soprattutto l’Action Theatre, i testi di Pagliarani saranno scelti e rappresentati in più 111 112

Id., Note alla Lezione di fisica, cit., p. 225. Ibidem. Ibidem. Bertold Brecht, Teatro di divertimento o d’insegnamento, in Scritti teatrali (1962), Torino, Einaudi, 20012, p. 61. 113 Ibidem. 109 110

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occasioni: già nel 1963, addirittura un anno prima della pubblicazione cartacea, sotto la direzione e regia di Ken Dewey, è approntata la poesia Lezione di fisica come terzo testo di uno spettacolo di teatro d’azione a Palermo, presso la Sala Scarlatti del Conservatorio114. Come racconta Giuliani «la recitazione […] fu improntata all’idea di evitare che il pubblico potesse mai accorgersi di assistere alla dizione di una poesia. L’applicazione di questa idea poggiava su un fatto molto naturale: una sera di prove, gli attori stanchi avevano smesso di recitare la poesia e s’erano divertiti a cantarla in pop-music, imitando o improvvisando a turno i motivi dei diversi passaggi. […] A Ken non restò che dimostrare loro la legittimità di questa scelta, opinione che fu condivisa dall’autore»115. In questo modo «la recitazione mise in evidenza tutta una serie di livelli di lettura contenuti nella poesia (non soltanto lo scientifico e il sentimentale, ma, poniamo, il falso scientifico, lo scientifico-emozionale, lo pseudo-sentimentale, eccetera)»116. Qualche anno dopo (1967) nella serie di Free poetry sessions organizzata dal Dioniso Club di Roma l’esperienza della messa in scena sarà ripetuta per altri testi, attraverso la forma particolare del gioco-spettacolo: sotto la regia di Gian Carlo Celli fu allestita una specie di scacchiera fatta di corde sulla quale venne messa in atto una sorta di battaglia navale. Questa trovata sarà infine replicata, sotto gli occhi compiaciuti di Grotowsky, al festival di Spoleto, nello stesso anno. Date queste esperienze si può pensare Lezione di fisica come un’opera dalla natura duplice: per un verso – essendo costituita di «lettere in versi» – è certo un’opera poetica; per l’altro è una raccolta di «recitativi drammatici» ovvero un’opera pensata per il teatro. I testi di Pagliarani, infatti, se letti come opere teatrali tout court, assumono un diverso significato, nel senso che possono essere considerati come modello di quella nuova «poesia da recita»117 per rappre Su questo punto ci sia concesso di rinviare a Federico Fastelli, Il Gruppo 63 e il teatro: importazione di modelli e prodromi del nuovo teatro italiano di avanguardia, in Norme per lo spettacolo. Norme per lo spettatore, a cura di Giulia Poggi e Maria Grazia Profeti, Atti del convegno, Firenze 19-24 ottobre 2009, Firenze, Alinea, 2011, pp. 503-513. 115 Alfredo Giuliani, La poesia a teatro, in Le droghe di Marsiglia, Milano, Adelphi, 1977, p. 349. 116 Ivi, p. 350. 117 Non è un caso che la raccolta curata da Alessandra Briganti nel 1985 e comprenden114

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sentare la quale il teatro di quegli anni – come indica Giuliani – doveva superare i «modi della vecchia dizione»118, non più in grado di renderne la «dialogità interna, spesso addirittura strutturale e portante l’intero significato»119. In questo senso possiamo credere che la concezione teatrale di Lezione di fisica strutturi l’opera, e ciò permette di risolvere anche l’apparente contraddizione tra quel «macrotesto epico»120 relativo al kind del nuovo genere epistolare, e la nozione di «recitativo drammatico» che invece sottolinea la facoltà dell’opera di essere rappresentata a teatro. In conclusione l’ipotesi brechtiana della letterarizzazione del teatro viene accolta da Pagliarani nella forma originale della teatralizzazione della poesia121 e ciò provoca in Lezione di fisica sia una volontà di vera e propria messa in scena, sia un perfezionamento di alcune tecniche pertinenti il kind epico rispetto a La ragazza Carla. Così, se già nel poemetto la scena era portatrice primaria di senso e di narrazione, adesso anche il narratore torna a essere significante. Come nel passaggio tra teatro drammatico e teatro moderno ed epico descritto da Brecht non è più «solo lo sfondo scenico a prendere posizione di fronte agli avvenimenti che si svol­ g[ono] alla ribalta col rievocare su grandi cartelli altri avvenimenti che nello stesso momento si svolgevano in altri luoghi, col presentare o col contrapporre, mediante la proiezione di documenti, parole dette da determinate persone, coll’opporre a discorsi astratti cifre concrete, materialmente percepibili, coll’arricchire di cifre e di frasi vicende plasticamente evidenti, ma il cui significato poteva essere ambiguo»122, ma anche chi narra è apertamente schierato. L’urgenza te La ragazza Carla, Lezione di fisica e Fecaloro e Rosso corpo lingua pope-papa scienza. Doppio trittico di Nandi, sia intitolato Poesie da recita. 118 Alfredo Giuliani, La poesia a teatro, cit., p. 347. 119 Ibidem. 120 Cfr. Francesco Muzzioli, Montaggio e straniamento: la modernità radicale di Pagliarani, in «L’illuminista», 8-9, dicembre 2003, pp. 83-102. 121 Ci sembra calzante in merito a questo aspetto quanto sottolinea Guido Guglielmi: «per Brecht (parlando sommariamente) si trattava di narrativizzare il dramma, far uso del racconto e delle tecniche del montaggio per distanziare l’azione, liberarla dall’apparenza di necessità (in senso naturalistico), impedire l’effetto della mimesi. Pagliarani fa l’operazione inversa: drammatizza la narrazione, porta l’interesse dalla narrazione alla narrazione che si fa, alla continua narrazione che il mondo fa di se stesso». Cfr. Guido Guglielmi, In forma di recitativo, in «l’immaginazione», 190, agosto-settembre 2002, p. 23. 122 Bertold Brecht, Teatro di divertimento o d’insegnamento, cit., p. 63.

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comunicativa ripristina quindi la figura del poeta, ma soltanto in funzione dialettica con la società: paradossalmente il dato privato, trattato idiosincraticamente attraverso un linguaggio sperimentale, deve risultare talmente personale da rimanere difficilmente generalizzabile in modo che «nessun aspetto della rappresentazione»123 possa «più consentire allo spettatore di abbandonarsi, attraverso la semplice immedesimazione, a emozioni incontrollate (e praticamente inconcludenti)»124. In questo modo il kind epico è libero di proporre, come scrive Schiavone, l’io di Pagliarani come «prototipo per la narrazione del vissuto collettivo»125 evitando al contempo la passività del fruitore. La plurivocità del tessuto linguistico, offrendo «una narrazione più impersonale che tende a descrivere direttamente azioni di uomini nel loro tempo»126, funziona infatti come un vero e proprio contrappunto, ove le varie voci si incastrano senza fondersi: è come se i prelievi linguistici delle trascrizioni, a un livello, se si vuole, di recitazione della loro parte, praticando un’enorme forzatura nel rapporto tra significato e significante, come puntualizza Ballerini, non rinuncino «alla loro semanticità originaria pur acquistandone una nuova»127. Il significato, in altri termini, si comporta nei confronti del significante «un po’ come l’attore brechtiano [che] non si identifica col personaggio che vuole rappresentare»128, e ciò fa sì che allo stesso tempo possano essere raggiunti due diversi obiettivi: da un lato – come Brecht richiede al proprio attore di mettere «sotto accusa» il personaggio e «giudicarlo» nella maniera precisata da Molinari, «assumendo» cioè «nel giudizio un punto di vista determinato, o diversi punti di vista»129, – Pagliarani obbliga i significanti a mostrare i punti di vista impliciti contenuti nei codici linguistici dei brani trascritti; dall’altro questi si rivolge ai reali interpreti dell’ope Ibidem. Ibidem. 125 Ivan Schiavone, Tecnica della trascrizione in Lezione di fisica di Elio Pagliarani, cit., p. 135. 126 Ibidem. 127 Luigi Ballerini, Elio Pagliarani: la poesia come respiro (e come continuo saltare), in «Studi novecenteschi», 4, marzo 1973, p. 108. 128 Guido Guglielmi, Recupero della dimensione epica, in «Paragone», 160, 1963, p. 122. 129 Cesare Molinari, Teatro e lotta politica, in Storia del teatro, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 277. 123 124

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ra, i lettori, ai quali, mentre viene chiesto di interpretare il testo, viene anche impedito di lasciarsi trasportare della narrazione. Il lettore, come lo spettatore delle opere brechtiane, si trova in questo modo di fronte l’artificialità dell’operazione poetica, con i suoi «contrasti dia­ lettici»130, ed «è invitato a prendere posizione»131 mantenendosi «sem­pre lucidamente razionale»132. Il kind epico corrisponde quindi a un kind didascalico: in un certo senso l’intera raccolta si presenta come una riflessione sulla possibilità didattica della poesia nel suo rapporto col divertimento. Appropriandosi dell’asserzione per la quale «le scienze determinano in una misura affatto nuova la nostra convivenza sociale – vale a dire la nostra vita»133 Pagliarani può sperimentare con Brecht la potenzialità di un «piacere più proprio del­ l’uomo moderno, dell’uomo che vive in un’era scientifica: il piacere della conoscenza»134, il quale dovrebbe essere in grado di instaurare un nuovo rapporto con l’insegnamento, se non altro per una parte della società. Nel senso che per tutte le classi sottoposte l’elemento didattico dovrebbe infine risultare di grande interesse, se assumiamo con le parole di Brecht che «assai diversa è l’importanza che lo studio ha per i diversi strati sociali»135, e che «alcuni di questi [strati sociali] non pensano affatto a migliorare le loro condizioni di vita, poiché le giudicano ben soddisfacenti […] ma vi sono strati sociali, quelli “il cui momento non è ancora venuto”, […] che si sentono scontenti dei rapporti in cui vivono: costoro hanno per lo studio uno smisurato interesse pratico, vogliono assolutamente orientarsi, sanno che, senza lo studio, saranno perduti»136. Così il verso di Lezione di fisica si allunga e assume ritmiche che favoriscono l’oralità: le potenzialità della reale declamazione e della messa in scena esaltano la funzione pubblica della poesia, ovvero l’aspetto “drammatico” dell’opera che solo in conclusione si ricompatta con quello di “lettera in versi” nella stessa finalità didascalica. 132 133 134 135 136 130 131

Ivi, p. 278. Ibidem. Ibidem. Bertold Brecht, Breviario d’estetica teatrale, in Scritti teatrali, cit., 119. Cesare Molinari, Teatro e lotta politica, cit., p. 278. Bertold Brecht, Teatro di divertimento teatro d’insegnamento?, cit., p. 66. Ibidem.

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5. nel regno dell’artificiale: messa a fuoco e fecaloro La seconda edizione di Lezione di Fisica esce per Feltrinelli nel 1968 come Lezione di fisica e Fecaloro, con l’aggiunta, evidente sin dal titolo, di una terza sezione, appunto Fecaloro. Il neologismo risulta dall’unione dei termini «feci» e «oro», svelandosi immediatamente per la provenienza di ascendente psicanalitico137. Pagliarani integra nella complessa stratificazione linguistica della Lezione l’ulteriore codice linguistico offertogli dalla psicoanalisi, che negli anni Sessanta conosce anche nella refrattaria Italia un momento di grande fortuna138. L’interesse ricade in particolar modo su alcuni punti di contatto tra la teoria psico-analitica di rimozione e quelle marxiane di plusvalore e reificazione. Merito, forse, di un clima culturale che aveva prodotto e continuava a produrre opere sociologiche e filosofiche in cui marxismo e (certa) psicoanalisi venivano mostrati nei loro comuni propositi liberatori e, diciamo così, rivoluzionari139. Ci riferiamo genericamente a studi anche considerevolmente differenti l’uno dall’altro, ma la cui rilevanza risulterà straordinaria soprattutto nel­ l’ambiente culturale delle neoavanguardie. In particolare Pagliarani sembra interessarsi a quella congiunzione riferita chiaramente da Norman Brown tra il pensiero del giovane Marx e la critica psicanalitica al concetto di razionalità per cui «il desiderio di denaro prende il posto di tutti i bisogni genuinamente umani»140. In questo modo «l’apparente accumulazione di beni in realtà è l’impoverimento della natura umana, e la moralità che le è propria è la rinuncia alla na È stato Freud a riferirsi in termini psicanalitici a quell’identificazione tra le feci e l’oro «così radicata nell’inconscio sociale di molte culture»: cfr. Sandro Gindro, L’oro della psicoanalisi, Napoli, Alfredo Guida, 1993. Ciò che più sembra interessare la poesia di Pagliarani è il risvolto sociale di questo rapporto legato evidentemente con l’economia capitalistica. «Freud, si sa, analizzando i sogni dei suoi pazienti, ha interpretato il denaro come equivalente simbolico degli escrementi (questa cosa impura nauseabonda dove i diversi alimenti terrestri si trovano ridotti ad un residuo omogeneo) e descrive in modo esauriente il simbolismo anale del denaro». Cfr. Jean-Joseph Goux, La moneta e l’«argent», in L’economia svelata, a cura di Serge Latouche, Bari, Dedalo, 1997, in particolare pp. 113-114. 138 Per una storia della psicanalisi in Italia si veda l’ancora fondamentale Michel David, La psicanalisi nella cultura italiana, Torino, Boringhieri, 1966. 139 In ambito artistico, come noto, questa congiunzione era già stata individuata e propagandata dalla più tarda delle avanguardie storiche, il surrealismo. 140 Norman Oliver Brown, La vita contro la morte (1964), Milano, Adelphi, 20022, pp. 298-299. 137

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tura e ai desideri umani»141. In altre parole «l’uomo perde il contatto con il proprio corpo, e più specificamente con i propri sensi, con la sensualità e con il principio di piacere. E questa natura umana disumanizzata dà luogo a una coscienza inumana, la cui sola moneta è costituita da astrazioni separate dalla vita reale, lo spirito industrioso freddamente razionale, economico e prosaico»142. Una certa attenzione per la spersonalizzante azione della società sull’individuo compare evidentemente fin da La ragazza Carla: non sono rare nel poemetto quelle situazioni che chiamano in causa una riflessione al limite tra il concetto marxiano di «coscienza alienata»143 correlata «con l’economia del denaro»144 e la teoria psicanalitica della repressione del principio di piacere in funzione del principio di realtà: Perché non mangi? Adesso che lavori ne hai bisogno Adesso che lavori ne hai diritto molto di più S’è lavata nel bagno e poi nel letto s’è accarezzata tutta quella sera. Non le mancava niente, c’era tutta come la sera prima – pure con le mani e la bocca si cerca si tocca si strofina, ha una voglia di piangere di compatirsi ma senza fantasia come può immaginarsi di commuoversi?145

In Fecaloro l’analisi in merito a questa connessione viene approfondita: la messa a fuoco sul dato metapoetico e quindi sull’artificialità della costruzione letteraria si sovrappone alla consapevolezza della sostanziale artificialità della struttura sociale moderna dominata dal denaro. Attraverso la «critica dell’economia politica» di Marx – il quale, come interpreta Galimberti, descrive il processo di reificazione per il «mondo capitalistico, dove il valore d’uso di un bene, Ivi, p. 299. Ibidem. 143 Cfr. Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici, in Opere filosofiche giovanili, Roma, Editori Riuniti, 19814. 144 Norman Oliver Brown, La vita contro la morte, cit., p. 298. 145 Elio Pagliarani, La ragazza Carla, cit., pp. 135-136. 141 142

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ossia la sua capacità di soddisfare un bisogno, viene completamente assorbito dal suo valore di scambio, cioè dalla sua capacità di permutarsi con altri beni»146 – Pagliarani mostra che la trasformazione degli oggetti in merce coinvolge anche l’oggetto lingua:





Uso e scambi linguistici b) L’equazione di valore linguistico Consideriamo l’equazione x merce A = y merce B e applichiamola al linguaggio Dio è l’essere onnipotente Qui la quantità (x, y) per entrambi i termini è ridotta a uno c’è un solo Dio ed egli è l’unico essere onnipotente Sarebbe facile quantificare, dicendo per esempio che gli dei sono esseri onnipotenti seguendo l’analisi marxiana147.

In questo inizio del Dittico della merce, La merce esclusa, viene così trascritto un brano capitale e allo stesso tempo esemplificativo della complessa riflessione del filosofo e semiotico Ferruccio Rossi-Landi, al quale per altro la composizione è indirizzata. La relazione tra i concetti marxiani di valore d’uso148 e valore di scambio149 e il linguag Umberto Galimberti, Il mondo della tecnica e la reificazione dell’uomo, in Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 395. 147 Elio Pagliarani, Dittico della merce: I. La merce esclusa, in Lezione di fisica e Fecaloro, cit., p. 203. 148 Cfr. Karl Marx, Per la critica dell’economia politica, in Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, Roma, Editori Riuniti, 1986, 50 voll., XXX, pp. 305-306: «il valore d’uso ha valore solo per l’uso e si attua soltanto nel processo del consumo. Un medesimo valore d’uso può essere sfruttato in modo diverso. La somma delle sue possibili utilizzazioni si trova però racchiusa nel suo esistere quale oggetto dotato di determinate qualità. Questo valore d’uso, inoltre, è determinato non solo qualitativamente, bensì anche quantitativamente. Valori d’uso differenti hanno misure differenti secondo le loro particolari peculiarità […]. Qualunque sia la forma sociale della ricchezza, i valori d’uso costituiscono sempre il suo contenuto, che in un primo tempo è indifferente nei confronti di questa forma. […] L’essere valore d’uso sembra presupposto necessario per la merce, ma l’essere merce sembra per il valore d’uso una definizione indifferente». 149 Cfr. ivi, p. 306: «il valore di scambio appare in primo luogo come un rapporto quantitativo, entro il quale valori d’uso sono intercambiabili. Entro questo rapporto essi costituiscono la medesima grandezza di scambio. […] Astraendo quindi del tutto dal modo d’esistenza naturale e senza tener conto della natura specifica del bisogno per il quale sono valori d’uso, le merci si equivalgono in determinate quantità, si sostituiscono le une alle altre nello scambio, sono considerate equivalenti e 146

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gio, promossa dal saggio Il linguaggio come lavoro e come mercato150, viene chiarita dalla proposizione «Dio è l’essere onnipotente», che funge da esempio. Rossi-Landi tenta di dimostrare che persino in una definizione il portato retorico-ideologico modifica il valore reale delle parole poiché «il valore d’uso delle parole “essere onnipotente” viene posto a equivalente della parola “Dio”; come tale “ne cancella” il valore d’uso, rispecchiandone e esprimendone solo il “valore”. “Dio” assume quel valore di scambio relativamente a “essere onnipotente” e può venire immesso nella circolazione linguistica come portatore di tale valore»151. Ciò vale a dire che la produzione linguistica, analogamente a quella materiale, crea un mercato dominato dal valore di scambio che non corrisponde con il reale valore d’uso di quella merce-messaggio. Infatti, posto che «il linguaggio, e le lingue come suoi prodotti, si formano nella dialettica del soddisfacimento dei bisogni, cioè dentro al processo di istituzione dei rapporti di lavoro e di produzione»152, si ha che «anche il linguaggio è lavoro umano, e le lingue ne sono l’obbiettivazione necessaria»153, e da ciò che il linguaggio non è solo veicolo di alienazione sociale, ma risulta alienato esso stesso. Alla base di tale mercato linguistico starebbe infatti questa tecnica della definizione, che mistifica il messaggio misurando il termine ignoto con dei termini noti, ovvero, in termini marxiani, rendendo il valore di un certo numero di merci con un’unica merce esclusa154. Pagliarani sembra accogliere pienamente questo significato:



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in tal modo rappresentano la medesima unità malgrado la loro variopinta appa­ renza». Ferruccio Rossi-Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato, in «Nuova Corrente», 36, 1965, pp. 5-43; ora in Il linguaggio come lavoro e come mercato, Milano, Bompiani, 1968, pp. 7-75. Ivi, p. 45. Ivi, p. 12. Ibidem. In pratica è come se una definizione ribaltasse il termine ignoto con i termini noti ovvero, nell’esempio che offre Ferruccio Rossi-Landi: «L’arte è intuizione, ovvero | sentimento racchiuso in immagine, ovvero | momento teoretico particolare dello spirito | Ciò vuol dire che l’arte si misura come termine ignoto al resto dei termini noti, e, capovolgendo, che può essere l’unico termine noto della serie. In questa maniera Benedetto Croce introdusse nel mercato linguistico il valore di scambio “l’arte come intuizione, o come sentimento racchiuso in immagine, o come momento teoretico particolare dello spirito”. Dopo di che i crociani poterono scrivere

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la merce esclusa nella quale come valore d’uso avviene la misurazione del valore di [scambio di tutte le altre merci quali tempo di lavoro oggettivato corrisponde linguisticamente al termine noto di una serie [definitoria155.

In più, tuttavia, la critica alla retorica della definizione, mossa da Rossi-Landi, dà il la a una più ampia polemica con la verità scientifica, posta in relazione all’interno della riflessione poetica, in qualche modo attraverso la parola «Dio»156, con la verità dogmatica della religione. Al brano del filosofo viene infatti giustapposto – con un brevissimo raccordo di una terza trascrizione che completa quello che risulta un «recitativo a tre voci»157 generato da un «collage con tre elementi base»158 – il «problema di uno scolaro francese»159 tratto dal­l’Humour vert di Claude Sergent, nel quale il risultato matematico si dimostra comunque esatto nonostante la bizzarria dello svolgimento: Problema: un ragazzo vede conigli e polli in un cortile Conta 18 [teste e 56 zampe quanti polli e conigli ci sono nel cortile? Si consideri una specie di animale a sei zampe e due teste: il conigliopollo; ci sono nel cortile 56 [zampe: 6 zampe = 9 coniglipolli 9 coniglipolli che necessitano di 9 × 2, 18 teste restano dunque 18-18, 0 teste nel cortile laurea in filosofia poi lo cacciarono via non che violasse le leggi è che dissero basta la famiglia gli amici gli esempi dei libri di testo la sua [testa160.





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159 160 157 158

“l’arte, che come si sa è intuizione ect.”». Cfr. Id., Il linguaggio come lavoro e come mercato, cit., p. 46. Elio Pagliarani, La merce esclusa, cit., p. 206. Si noti come lo stesso testo in poesia allarghi il suo spettro semantico e come Pagliarani elimini trascrivendo le virgolette all’esempio «Dio è l’essere onnipotente» di modo che ciò che era solo un esempio nel codice linguistico di partenza diventi qui molto più significante. Id., Note a Fecaloro, in Lezione di fisica e Fecaloro, cit., p. 227. Ibidem. Ibidem. Id., Dittico della merce: I. la merce esclusa, cit., p. 204.

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Se dalla definizione iniziale, insomma, dipende lo svolgimento di qualsiasi processo, ciò deve valere anche nel caso delle scienze. Solo che tale definizione non è mai immune da connotazioni ideologiche: in accordo con quanto afferma Marcuse161, Pagliarani pare denunciare che dietro l’apparente neutralità del sapere scientifico, esista un’ineludibile ideologia. Più nel dettaglio ciò che sembra emergere della società della tecnica è il proponimento di configurare la ragione, in particolare la ragione scientifica, come unanime, e, quindi, il «progresso»162 come diritto cammino verso nuove libertà e nuove conquiste, verso un unilaterale miglioramento. In questo modo il reale e il razionale coinciderebbero, facendo in modo che la presente si Cfr. Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione (1964), Torino, Einaudi, 19993, pp. 22-23: «è mai possibile tracciare una vera distinzione tra i mezzi di comunicazione di massa come strumenti di informazione e di divertimento, e come agenti di manipolazione e di indottrinamento? Tra l’automobile come jattura e come comodità? Tra gli orrori e i comodi dell’architettura funzionale? Tra il lavoro che serve alla difesa nazionale e quello che giova soprattutto ai profitti delle società per azioni? Tra il piacere privato e l’utilità commerciale e politica connessa all’aumento del tasso di natalità? A questo punto ci troviamo nuovamente dinanzi ad uno degli aspetti più inquietanti della civiltà industriale avanzata: il carattere razionale della sua irrazionalità. La sua produttività ed efficienza, la sua capacità di accrescere e diffondere le comodità, di trasformare lo spreco in bisogno, e la distruzione in costruzione; la misura in cui questa civiltà trasforma in mondo oggettuale in una estensione della mente e del corpo dell’uomo, rendono discutibile la nozione stessa di alienazione. Le persone si riconoscono nelle loro merci; trovano la loro anima nella loro automobile, nel giradischi ad alta fedeltà, nella casa a due livelli, nell’attrezzatura della cucina. Lo stesso meccanismo che lega l’individuo alla sua società è mutato, e il controllo sociale è radicato nei nuovi bisogni che esso ha prodotto». 162 Cfr. ivi, pp. 30-31: «“progresso” non è un termine neutrale; designa un movimento verso fini specifici, e questi sono definiti dalle possibilità che esistono per migliorare la condizione umana. La società industriale avanzata si sta avvicinando allo stadio in cui la continuazione del progresso richiederebbe un rovesciamento radicale della direzione e organizzazione del progresso che oggi prevalgono. Questo stadio sarebbe raggiunto quando la produzione materiale (inclusi i servizi necessari) fosse automatizzata ad un punto tale da poter soddisfare tutti i bisogni vitali mentre il tempo di lavoro necessario sarebbe ridotto ai margini. Da questo punto in avanti, il progresso tecnico trascenderebbe il regno della necessità, dove ha servito come strumento del dominio e dello sfruttamento che limitavano per tal via la sua razionalità; la tecnologia diverrebbe soggetta al libero gioco delle facoltà nella lotta per la pacificazione della natura e della società […] La battaglia che oggi viene condotta contro questa alternativa storica trova una solida base nella massa della popolazione soggetta, e trova la sua ideologia nel fatto che il pensiero e il comportamento sono rigidamente orientati verso l’universo dato dai fatti. Convalidato dai successi della scienza e della tecnologia, giustificato dalla sua crescente produttività, lo status quo sfida ogni trascendenza». 161

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configuri come unica società possibile poiché «i controlli tecnologici appaiono essere l’incarnazione stessa della Ragione a vantaggio di tutti i gruppi ed interessi sociali, in misura tale che ogni contraddizione sembra irrazionale e ogni azione contraria impossibile»163. L’uomo alienato della nuova società tecnologizzata è quindi «l’uomo a una dimensione» per cui ogni altro pensiero che non sia afferente a questo tipo di razionalità si ritrova, sì, con un proprio specifico valore d’uso, ma questo va a tradursi con un valore di scambio modesto, se non inesistente. Vale a dire che laddove «i beni diventano merce, il cui valore è deciso dal mercato»164 la letteratura, per esempio (ma vale per l’arte in genere), non può assumere un ruolo sociale di primo piano in quanto non corrisponde al canone di razionalità: soprattutto al di fuori dei canali borghesi, questa struttura economica – la cui efficienza al contrario passa per razionale pur poggiandosi sull’illogica dinamica del valore di scambio e sull’artificio del denaro – determina la superfluità di ciò che non è produzione e possesso, instradando comportamenti a una dimensione «in cui idee, aspirazioni e obbiettivi che trascendono come contenuto l’universo costituito del discorso e dell’azione vengono respinti»165. Quindi, se da un lato le scienze sono responsabili – fosse anche per motivi di consumo – di incentivare la ricerca di bisogni ulteriori rispetto a quelli strettamente necessari alla sopravvivenza anche per le classi sottoposte, e ciò permette a Pagliarani di concepire, come detto, l’avanguardia come modalità d’azione al fine di spezzare l’identificazione intellettuale-borghese, dall’altro risultano, in sostanza, funzionali al potere, poiché gestiscono quella «spinta del progresso»166 che «porta la Ragione a sottomettersi ai fatti della vita, e alla capacità dinamica di produrre in maggior copia fatti connessi allo stesso tipo di vita»167. Se la nostra lettura è corretta, la critica pagliaraniana può essere interpretata come strenua difesa della funzione della poesia. In una società dominata da «quel processo per cui gli uomini e le relazioni sociali a cui essi danno vita diventano res, cosa»168, Pagliarani arriva 165 166 167 168 163 164

Ivi, p. 23. Umberto Galimberti, Psiche e techne, cit., p. 395. Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 27. Ivi, p. 25. Ibidem. Umberto Galimberti, Il mondo della tecnica e la reificazione dell’uomo, cit., p. 395.

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al concetto centrale in Fecaloro di reificazione e, proprio a partire dalla coscienza del problema economico-psicanalitico, può ribadire l’importanza della poesia: il componimento poetico è in grado sia di assumersi il compito di registrare le strutture linguistiche in cui si riverberano quelle sociali – cosicché lo stesso dato reificato che domina la società non è solamente narrato, ma diventa esperibile in quanto reificata è la poesia stessa e la propria tradizione – sia di tentare di forzare i valori gerarchici che costituiscono tale struttura, con risultati stilistici, nel caso per esempio di Trying/ to/ focus, inediti rispetto alle opere precedenti: Confidare disprezzo è non che obbietto questo per dimesso è si pruritano consigliere qualche e spesso caca [perché generale diventare può cesso al discorso il seguita che corpo del guardia una e lady la [fradorme che pisciare generale il vedendo soldati i esaltano si: naturale è [corporale bisogno nel appannare può lo vescica di debolezza né privato consiglio in cacare sole del nome col rinomato re del [Quattordici vale quanto liberale paese un in trafilare pisciare quel di foto mestiere suo del uno a sparare Luigi da è questo grande è piscia che sai Lo e spesso caca però fortissimo pagherebbero169.

La poesia, in quanto momento estremo di elaborazione linguistica, gode a differenza di altre forme comunicative della possibilità di abbattere le gerarchie sociali che il linguaggio manifesta. Così Trying/ to/ focus può essere letta al contrario (da destra verso sinistra) minando totalmente la norma, ma può anche continuare a essere letta a diritto assumendo l’inversione sintattica (anche esasperata nel caso degli articoli) come artificio stilistico. La polisemanticità diventa così anche plurivocità, libertà di messa a fuoco, possibilità di interpretazione linguistica, e quindi anche sociale, che preveda e anzi postuli Elio Pagliarani, Trying/ to/ focus, in Lezione di fisica e Fecaloro, cit., p. 213.

169

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la “dif-ferenza”, per dirla con Derrida, irriducibile, affidata a una comunicazione scritta che nega la presenza dell’autore stesso nell’opera e che si contrappone alla società fono-fallo-logo-centrica del potere capitalistico. «Mettere a fuoco» si potrà intendere certamente come processo di progressiva chiarificazione di un problema linguistico-sociale da un determinato punto di vista, accettando la metafora fotografica; ma si potrà anche osare l’interpretazione strettamente politica di rivoluzione, di mettere a fuoco nel senso di dare alle fiamme, poiché il valore di sperimentazione linguistica della poesia – come puntualizzato da Benjamin170 – è essenzialmente eversivo, in quanto non riconducibile a un’unica significazione. Una poesia della «disabitune» che ha il duro compito di resistere in quanto oggetto, con la propria carica significativa, e in quanto soggetto, come dialettica continua che contempla lo scontro piuttosto che la rinuncia alla lotta, sebbene la consapevolezza che al processo di reificazione «non sfugge neppure il lavoro, ridotto a merce-forza-lavoro»171 sia coscienza del fatto che anche quell’artigianato paziente del poeta – già dichiarato nella prima sezione di Lezione di fisica172 – venga sottoposto a tale processo. Per dirla con Brown, Pagliarani è consapevole – come lo era stato in altri tempi Orazio – che quella del fare poesia, come qualsiasi altra carriera, «è caratterizzata fondamentalmente dall’autosacrificio e dalla rinuncia degli istinti»173, e che, in definitiva, essa rappresenta la speranza dell’uomo, nella società dominata dall’istinto di morte, di non morire. La seconda parte del Dittico – Certificato di sopravvivenza – ben esprime tale tentativo di resistenza: esso da un lato prende la forma di un’opposizione all’annullamento di cui è portatrice la morte fisica, non tanto per coltivare una certa memoria dell’autore, quanto per preservare l’importanza del suo lavoro, del suo farsi modello, così come Pagliarani aveva già scritto in Oggetti e argomenti per una disperazione; dall’altro riprende le proprie fila squisitamente politiche in un’ostinata reazione a questo mondo che contempla «rapporti di Cfr. Mario Perniola, L’arte d’occasione, in Transiti: filosofia e perversione, Bologna, Cappelli, 1985, p. 166. 171 Umberto Galimberti, Psiche e techne, cit., p. 395. 172 Cfr. in particolare Elio Pagliarani, Dalle negazioni, cit., pp. 179-183. 173 Norman Oliver Brown, La vita contro la morte, cit., p. 358. 170

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cose fra persone e rapporti sociali fra cose»174. Quest’ultimo aspetto poi, a ben vedere, altro non è che l’aspetto sociale dell’istinto di morte, nel suo rapporto contiguo con la reificazione: L’arte anche a me pare di poco conto ma è il nostro affare e il nostro daffare al momento è saltare è saltare è saltare se no sulla coda ci mettono il sale175.

L’arte, in quanto «è forse il più visibile “ritorno del represso”, non soltanto sul piano individuale ma anche su quello storico e della specie»176 come sostiene Marcuse è «uno dei modi del tempo | di essere»177, da contrapporre ai maggioritari «modi di non essere del tempo»178. Essa si oppone alla reificazione. Per questo Pagliarani individua il fine del poeta nel continuare179 a fare il proprio mestiere, in vista di una funzione che si dimostra comunque di carattere collettivo180: Si tratta di dire io faccio questo e non ho ancora finito di farlo e poi questa gente mi esaspera Sono io la gente, certamente e bisogna che ci litighi181.

Dai presupposti economico-politici del Dittico della merce – che Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Roma, Editori Riuniti, 1964, libro i, p. 105. 175 Elio Pagliarani, Dittico della merce: II: Certificato di sopravvivenza, in Lezione di fisica e Fecaloro, cit., p. 207. 176 Herbert Marcuse, Eros e civiltà (1955), Torino, Einaudi, 20013, p. 171. 177 Elio Pagliarani, Dittico della merce: II: Certificato di sopravvivenza, cit., p. 207. 178 Ibidem. 179 La scelta del «continuare» diventerà poi refrain centrale ne La ballata di Rudi fino alla chiusa «Ma dobbiamo continuare | come se | non avesse senso pensare | che s’appassisca il mare». Cfr. Id., La ballata di Rudi, in Tutte le poesie, cit., p. 336. 180 Il verso «se no sulla coda ci mettono il sale» indica evidentemente il processo di reificazione, ma l’uso della prima persona plurale non sembra indicare solo l’io poetico e l’indirizzario dell’epistola, Toti Scialoja. Piuttosto quel «noi» assume un respiro sociale e collettivo. Più semplicemente senza arte il processo di reificazione sarebbe ancora più efficace in quanto meno contrastato. 181 Id., Dittico della merce: II: Certificato di sopravvivenza, cit., p. 208. 174

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apre la raccolta – si giunge così al dittico che la chiude, appunto Dittico del Fecaloro. Si noti ancora una volta l’attenzione per la distribuzione dei componimenti volta con ogni probabilità a mettere in risalto il dato più palesemente psicanalitico: Scirocco sui quaranta, tira scirocco sulla bocca dilatata dello [stomaco dei quaranta mi accarezzo la pancia e il significato Oblanda melanura Occhialone Occhiata Occhiogrigio Occhiogrosso Occhio spinoso dalle mezze fasce Ociuro codagialla Ocyurus chrysurus Ofidio maculato Ogcocephalus nasatus Ogcocephalus radiatus Ogcocephalus vespertilio Oligocottus io tiro i remi in barca tu tiri i remi in barca abbiamo dalla nostra anche l’araldica Marx che disse dopo il cinquanta Ragazzi ci aspettano vent’anni [di pausa e alle figlie esercizio di ricamo da un punto di vista topico l’elemento feci appare rimosso: nell’esperienza individuale vengono concesse o negate nell’ambito di una struttura [primordiale di lotta-scambio che ci sembra l’essenziale della situazione anale tirare i remi in barca182.



Il flusso di coscienza che unisce in catena nomi di pesci attraverso richiami analogici di suono tra le parole – per altro i tredici nomi di pesci iniziano tutti con la tredicesima lettera dell’alfabeto – descrive intuitivamente una situazione di difficoltà digestiva. La nozione lacaniana di significante come oggetto che richiama altri significanti da cui però la sfera dei significati resta separata secondo la celebre equazione S./s – ovvero significante su significato divisi dalla Id., Dittico del Fecaloro: I. Fecaloro, cit., pp. 216-217.

182

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barra che indica resistenza alla significazione183 – viene qui utilizzata coscientemente per elencare la probabile causa della cattiva digestione, appunto i pesci. L’intera situazione sembra coinvolta contemporaneamente in un processo metonimico per il quale l’indigestione si lega a uno stato di passività sottolineato dal «tirare i remi in barca» nel quale i pesci184 richiamano, in un raffinato gioco di specchi, la letteratura del disimpegno, quella letteratura dei Pesci rossi «alla Emilio Cecchi»185. Da un lato quindi, analogicamente, si passa dall’immagine dei pesci a quella della barca; dall’altro il significato figurato del tirare i remi in barca suggerisce una rinuncia all’opposizione precipua caratterizzante la poesia di Pagliarani, a vantaggio di una rimeditazione sul significato di un’intera stagione di lavoro poetico. In una situazione in cui lo scirocco soffia a quaranta nodi, nel probabile senso della percezione della tensione storica molto forte di quegli anni, «sopra» quei quarant’anni che Pagliarani compie nel 1967, il riposare giustificato dalla storia («araldica») – poiché persino Marx prevedeva momenti di stasi nel conflitto sociale – coinvolgerebbe il dato anagrafico: normalmente si comincia a tirare i remi in barca quando si invecchia. Questa lettura, a cui Pagliarani, per usare una metafora contestuale, vorrebbe farci “abboccare” a inizio componimento – e che ci spingerebbe a credere a una sorta di resa del poeta – si rivela presto una traccia errata: le cosiddette costipazioni vent’anni di pausa intestinale si possono sbloccare se si esamina il complesso del denaro nel [soggetto la serie può essere rappresentata usando il termine più [pregnante per ogni elemento feci dono denaro tempo l’originario interesse erotico per la defecazione destinato a esaurimento il denaro Cfr. Jacques Lacan, Il seminario. Libro IV, Torino, Einaudi, 2007 e Giorgio Antonelli, Estratto su J. Lacan, in . 184 Cfr. «e pesci blandi e meno blandi» in Elio Pagliarani, Note A Fecaloro, cit., p. 227. 185 Cfr. Emilio Cecchi, Pesci rossi, Firenze, Vallecchi, 1920. Nel 1969 sulla rivista «Quindici» (n. 16, marzo) Umberto Eco – in polemica con il dimissionario Giuliani – riprenderà la metafora nel celebre articolo Pesci rossi e tigri di carta. 183

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quasi il contrario dello scorrevole «visibile Dio» da noi [conosciuto186.

La riflessione si sposta sulla condizione generale della passivitàindigestione della società che si lega al carattere passivo-anale dell’uomo contemporaneo dominato dal “dio denaro”. L’indigestione, così, apre un ragionamento riguardante una «parte integrante del complesso del denaro e della costrizione al lavoro»187 – cioè dei concetti essenziali della sezione – che secondo Brown è «la confusione del superfluo con il necessario»188: se infatti «l’essenza del necessario è il bisogno di cibo»189 ciò che avviene nella società capitalistica è il mascheramento dell’escremento coll’alimento, ovvero per l’appunto del superfluo col necessario e perciò dell’irrazionale col razionale. A partire da questa «trasformazione di ciò che non ha valore in ciò che non ha prezzo, e dell’incommestibile in cibo»190 diciamo ancora con Brown «l’uomo acquista un’anima; diventa l’animale che non vive di solo pane, l’animale che sublima»191. Producendo più di quanto consuma, in un’ottica che rimanda continuamente il momento del beneficio di tale accumulazione, il tempo assume la funzione di unità di misura del lavoro divenendo simile al denaro e legandosi strettamente con l’istinto di morte. In virtù di questi assunti la scommessa poetica di Pagliarani tenta di perpetuarsi individuando dei punti fermi su cui insistere e su cui tentare di calibrare una sorta di redenzione terrena. Non è insomma Pagliarani che tira i remi in barca, poiché laddove si può esaminare «il complesso del denaro nel soggetto» si può anche fare in modo che «le cosiddette costipazioni vent’anni di pausa intestinale» si sblocchino, ovvero, fuori dall’allegoria, è possibile attivare una lotta qualora si possa avere coscienza dell’artificialità del sistema sociale ed economico dominante: se me la cavo me la cavo perché non ho barca c’è scirocco non c’è vento 188 189 190 191 186 187

Elio Pagliarani, Dittico del Fecaloro: I. Fecaloro, cit., p. 217. Norman Oliver Brown, La vita contro la morte, cit., p. 322. Ibidem. Ibidem. Ivi, p. 324. Ibidem.

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[portante sono scaricate le pile andrò avanti a bile a umori a me non mi occorre inventare rancori.

Chi tira i remi in barca è semmai una cospicua parte del proletariato e della piccola borghesia: la privazione della forza, di cui abbiamo detto riferendo della polemica con Fortini, è fondamentalmente abbandono al «vento portante» dell’inganno capitalistico, è tentativo anche dal basso di accumulazione di beni superflui, che sviano la reale coscienza di classe: è resa all’insincero dio denaro. La struttura economica capitalistica dirige infatti una dinamica per cui gli uomini, indottrinati dai prodotti industriali e commerciali, finiscono per non riconoscere più che il sistema «non contiene fatti che non siano veicolo del potere repressivo dell’insieme»192, interrompendo perciò qualsiasi forma di rivendicazione. Non utilizzare i remi significa irrevocabilmente abbandonarsi a una vita passiva e, in questo senso, le caratteristiche psicologiche del carattere anale dominano la società193. Questa negazione della vita obbliga l’umanità a una sublimazione continua che altro non è che «una mortificazione del corpo e un confinamento della vita del corpo in cose prive di vita»194: il denaro è in sintesi responsabile di una proiezione del corpo umano in oggetti esterni e artificiali, simboleggiati degli escrementi per la loro natura di «vita morta del corpo»195, con il deprimente risultato di far che l’uomo concepisca e tratti «come escrementi non solo il proprio corpo ma anche il circostante mondo degli oggetti, riducendo tutto a materiale inerte e a quantità inorga­niche»196. È in questo senso che, nella seconda parte del dittico, Pagliarani saggia le possibilità del tema poetico per eccellenza: l’amore. Il «fecamore» – dove il termine feci sottolinea il dato sublimato e in virtù della sua vicinanza semantica all’oro palesa l’essenza non vitale del­ l’amore nella società capitalistica – si pone proprio come oggetto da possedere e non da vivere: Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione, cit., p. 27. È proprio su questo punto che insiste il testo di partenza della trascrizione pagliaraniana Dittico del fecaloro: I. Fecaloro. Cfr. Elvio Fachinelli, Sul tempo denaro anale, in «Il corpo», 2, settembre 1965. 194 Norman Oliver Brown, La vita contro la morte, cit., p. 372. 195 Ivi, p. 368. 196 Ivi, p. 369. 192 193

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questo amore pretende possesso mi dibatto dalla stretta di me stesso contro il me il te che pretende possesso perciò perdo così spesso197.

La mortificazione del corpo nella società alienata è anche una sconfitta di Eros in quanto godimento e quindi del principio di piacere a vantaggio del principio di realtà: «le sublimazioni dell’uomo civile tolgono la magia dal corpo umano e così rappresentano una vittoria del principio di realtà. Ma togliere la magia dal corpo umano significa desessualizzarlo»198. Così la poesia si apre con la descrizione della difficoltà dell’atto fisico della congiunzione amorosa – subito trattato con quell’ironia che resta l’unica arma efficiente in rapporto alla reificazione – ma vira rapidamente verso quel dato metapoetico che sembra maggiormente interessare l’autore: Mi lodo della madre che in cinquant’anni che apparecchia la [tavola non l’apparecchia in ordine, negando l’abitudine dico è così è [giusto le somiglio mi somiglia è fisiologico non patologico per un mestiere come il nostro che ci consenta meraviglia199.

A ben vedere infatti il fecamore è a un tempo sia il sentimento diventato merce – e in quanto tale risulta il contenuto della poesia – sia, secondariamente, la pulsione di vita che applica una strenua resistenza alla reificazione, ovvero la poesia stessa. Poiché, come scrive Ricciardi, se «la “desertificazione” diventa metafora della società contemporanea»200, all’opposto «la vegetazione che lotta per combattere, per sopravvivere diventa una splendida e calzante rappresentazione traslata dell’idea di poesia secondo il Pagliarani di quegli anni»201. «La poesia deve» perciò «“resistere”, adattarsi, opporsi alla necrosi raccogliendo le poche gocce di umidità vitalità che il deser 199 200

Elio Pagliarani, Dittico del Fecaloro: II. Il fecamore, cit., p. 223. Norman Oliver Brown, La vita contro la morte, cit., p. 377. Elio Pagliarani, Dittico del Fecaloro: II. Il fecamore, cit., p. 220. Marco Ricciardi, Un cactus chiamato poesia nel deserto della Pedagogia urbana, in «L’illuminista», 20-21, p. 194. 201 Ibidem. 197 198

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to di cemento concede alla biologia del verso»202. Così se da un lato il tema dell’amore deve sopportare uno spostamento rispetto all’ottica dello stereotipato amore borghese, dall’altro si rivela nuovamente praticabile, come indica l’ambivalente e non conclusivo finale in cui la donna amata e la poesia si possono sovrapporre nuovamente, senza contrarre debito nei confronti della tradizione lirica: Tu sei lì, bionda, adesso, ironica Fecamore e rimescolo il patetico203.

Ibidem. Elio Pagliarani, Dittico del Fecaloro: II. Il fecamore, cit., p. 224.

202 203

dal sessantotto al settantasette

1. il sessantotto come «periodo ipotetico» «L’attività del “Gruppo 63”, consistita in una serie di riunioni annuali di lettura e discussione di testi inediti, si conclude nel 1967 con il convegno di Fano: ritenevamo ormai esaurito il suo scopo, quello di contribuire a formare una nuova generazione di scrittori e a elaborare nuovi discorsi teorici»1. Con queste parole Nanni Balestrini, nell’introdurre l’antologia di interventi giornalistici di «Quindici», ricorda lo scioglimento del Gruppo 63 e, implicitamente, colloca la fondazione della suddetta rivista un passo oltre l’attività ufficiale dello stesso, diversamente da chi, come Barilli per un verso e Giuliani per un altro, tende a considerarla come momento culminante e conclusivo della neoavanguardia italiana. La plurivocità di interpretazioni odierna da parte degli stessi che animarono le vicende di «Quindici»2, del resto, può essere considerata lo specchio di quelle divisioni interne al Gruppo che, conflittualmente, si manifestarono, per la prima volta pubblicamente e in maniera palese, proprio all’interno della stessa redazione, causando la rottura di equilibri che avevano retto per anni il movimento. La sostanziale ambiguità dell’iniziativa – dai contorni poco definiti fin dalle origini, specialmente riguardo al senso e al fine dell’operazione editoriale – è facilmente rilevabile non soltanto in considerazione del fatto che la sua nascita si collocherebbe – come appunto sottolinea Balestrini – esattamente nel momento ufficiale della morte del Gruppo, con un primo nu1



2



Nanni Balestrini, Nota del curatore, in Quindici. Una rivista e il Sessantotto, Milano, Feltrinelli, 2008, p. 5. Il nome della rivista come precisa Balestrini è ricalcato sulla francese «La Quinzaine» di Maurice Nadeau.

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mero che segue di qualche mese il convegno di Fano, ma anche tenendo presente che alcune forti incongruenze tra coloro che avrebbero costituito la nuova redazione erano già piuttosto evidenti a quella data. D’altro canto l’indipendenza di ogni autore “tesserato” al gruppo si era via via palesata già prima di allora, senza comunque compromettere un cammino comune: fin dai tempi del primo organo di comunicazione della neoavanguardia, «il verri», si erano delineate varie fazioni che, come ricorda Barilli, riunivano autori a seconda degli interessi e delle provenienze geografiche. Molte di queste correnti si erano anche dotate di una propria rivista, che, normalmente, pur affiancandosi a «il verri» nelle questioni generali, manteneva una sostanziale autonomia. Tra queste una particolare importanza era stata assunta da «Grammatica», fondata nel 1964 da un gruppo romano che si sarebbe dimostrato abbastanza coeso anche negli anni successivi, costituito oltre che da Giuliani anche da Angelo Guglielmi, Giorgio Manganelli e Pagliarani, che dalla fine del 1960 si era trasferito da Milano nella Capitale. Nelle intenzioni «Quindici» avrebbe dovuto sopperire a un problema di comunicazione, nel tentativo di arrivare «a un pubblico più vasto di quello delle riviste letterarie, dal “verri” a “Marcatré”, che avevano accompagnato il percorso della neoavanguardia»3. Il nuovo «organo di stampa», come ricorda Cortellessa, si rendeva necessario al Gruppo 63, dal momento che «la maggior parte delle collaborazioni giornalistiche»4 – in particolare quelle sui quotidiani nazionali – erano state precluse ai suoi componenti. Tuttavia appariva poco chiaro in merito a quali argomenti questa ricercata comunicazione dovesse essere improntata, tanto che l’iniziativa sembra prendere vita senza un reale progetto condiviso. Inizialmente per «salvaguardare il carattere collettivo dell’operazione»5, come ha scritto Barilli, la nuova redazione aveva visto affermarsi l’importanza del gruppo romano, dal momento che da un lato era stato scelto non «un direttore “forte”, ma solo un direttore responsabile individuato nella

3 4



5

Nanni Balestrini, Nota del curatore, cit., p. 5. Andrea Cortellessa, Volevamo la luna, in Quindici. Una rivista e il Sessantotto, cit., p. 453. Renato Barilli, Vita ulteriore e morte del Gruppo 63, in La neoavanguardia italiana, Bologna, il Mulino, 1995, p. 289.

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persona di Alfredo Giuliani»6, e dall’altro, per mantenere «il carattere policentrico del movimento»7, era stata eletta Roma come «sede di pubblicazione» nonché come «luogo fisico di raccolta e di redazione dei testi»8. Così, mentre «Giuliani riservava a se stesso una titolarità nella poesia»9, «l’ambito portafoglio della narrativa italiana»10 era assegnato a un altro romano, Angelo Guglielmi. A Pagliarani era poi affidata una rubrica di critica teatrale e dello spettacolo11, e gli era concesso uno spazio saltuario per interventi d’attualità e sulla situazione politica. Con questo assetto «Quindici» si presentava essenzialmente come rivista di cultura artistica, che non disdegnava, comunque, di riferirsi al contesto in cui l’arte presa in esame veniva messa in opera. I due aspetti su cui maturerà la spaccatura successiva, potremmo dire quello del “testo” e quello del “contesto” artistico, rimanevano in equilibrio. La distanza tra i membri del nucleo originale del Gruppo 63 andò pian piano ampliandosi in corrispondenza dell’esplosione delle rivolte studentesche e operaie in Italia: differenti approcci alla situazione e soprattutto al rapporto tra l’urgenza politica e il lavoro artistico portarono così a un conflitto interno al gruppo redazionale. Conseguentemente a ciò, l’aspetto peculiarmente artistico-letterario – almeno secondo qualcuno – fu collocato in posizione subalterna rispetto a quello direttamente politico, ovvero, per dirlo con Cortellessa, la rivista divenne «il grande collettore di un po’ tutte le forme che aveva assunto, in quegli anni sessanta, quella non a caso definita “controcultura”»12, dando spazio a numerosi portavoce della lotta studentesca e non. All’interno della redazione si trovarono contrapposti coloro che ritenevano ormai con 8 9

Ibidem. Ibidem. Ibidem. Ivi, p. 290. 10 Ibidem. 11 Tale attività giornalistica continuerà anche dopo la chiusura di «Quindici», quando Pagliarani diventerà un critico teatrale abbastanza influente scrivendo su «Paese Sera». In questi anni si approfondisce quel rapporto col teatro di cui abbiamo riferito nei capitoli precedenti. Si noti per altro che il nostro discorso prende in considerazione soltanto la produzione poetica, ma che esiste una produzione strettamente teatrale che, per espressa volontà dell’autore, non è rientrata nel fondamentale volume di tutte le poesie curato da Andrea Cortellessa e che andrà certamente approfondita in studi futuri. 12 Andrea Cortellessa, Volevamo la luna, cit., p. 453. 6 7

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cluso il capitolo della sperimentazione letteraria, che quindi era servita essenzialmente per preparare il terreno alla rivolta politica, e chi invece era convinto della necessità perpetua del lavoro artistico e poetico in chiave antirepressiva13. Nel numero 16 del marzo 1969 Giuliani annunciò la sua volontà di lasciare il proprio incarico di direttore, motivando la scelta con un articolo in apertura di numero. Le continue infiltrazioni di «materiale oscuro e demagogico»14 tra i repertori della rivista e quell’«Ortodossia del Dissenso»15, che a suo avviso faceva dell’opposizione stessa, in quanto ormai “moda”, una merce da consumare, determinarono tale scelta, mentre la sua sostituzione con Balestrini, fu il segnale che la rivista aveva optato per una più coraggiosa presa di posizione in direzione politica. Pur non potendo, qui, dare un resoconto più preciso sulle vicende di «Quindici», è necessario puntualizzare che, comunque le si voglia leggere, esse rappresentano un ponte unico in grado di ristabilire i legami tra il cosiddetto Sessantotto e le vicende artistiche della neoavanguardia e in particolare del Gruppo 63. In questo senso ciò che si rende necessario al nostro lavoro è tentare di inquadrare meglio i rapporti interni al movimento – e quindi approfondire lo scontro che avvenne tra il Sessantotto e il Sessantanove all’interno della redazione di «Quindici» – al fine di introdurre il contesto postsessantottesco in cui dobbiamo collocare i nuovi lavori poetici, nella fattispecie quelli di Pagliarani. Questi pochi dati riassuntivi ci sembrano dunque sufficienti al nostro intento, mentre, chiaramente, semplificano non poco la storia della rivista. Ciò che ci interessa sapere è che con le dimissioni di Giuliani si apre uno scenario culturale nel quale trovare una collocazione adeguata a Pagliarani non è cosa semplice. Del resto la posizione del nostro, come noto, è sempre apparsa ambigua o, quanto meno defilata, all’interno sia dei Novissimi che più tardi del Gruppo 63. Anche riguardo agli scontri del Sessantotto e alle pieghe Chiaramente stiamo semplificando: a ben vedere le posizioni erano molte e notevolmente differenti. Si andava da quella moderata di Barilli a quelle più radicali di Balestrini, da posizioni filomovimentiste ed extraparlamentari a posizioni socialdemocratiche. Tuttavia ciò che sembra emergere mettendo a sistema le varie posizioni è proprio una spaccatura forte tra due macro atteggiamenti. 14 Alfredo Giuliani, Perché lascio la direzione di «Quindici», in «Quindici», 16, marzo 1969; ora in Quindici. Una rivista e il Sessantotto, cit., p. 382. 15 Ivi, p. 383. 13

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prese da «Quindici», la quasi totale assenza di interventi teorici e un lavoro in rivista che, almeno in superficie, non si sbilancia nettamente sulle scelte redazionali più controverse, rendono il suo inquadramento molto complesso. Possiamo dedurre – interpretando l’attività successiva – che probabilmente Pagliarani non aveva mai creduto a un esaurimento della funzione della letteratura, rispettando quella risaputa sintonia con Giuliani e con molti degli altri «romani» del gruppo. In questo senso, se da un lato la sua attività e partecipazione a «Quindici» continuerà anche dopo il 16 marzo 1969, dall’altro occorre ricordare che, molto significativamente, il penultimo numero della rivista ospiterà i primi lacerti di quell’opera che diverrà La ballata di Rudi. Non sembra un caso infatti che, nel momento di maggiore politicizzazione della rivista, Pagliarani scelga di pubblicare degli scritti in poesia, tentando, in qualche modo, di riequilibrare quel rapporto tra «testo» e «contesto» di cui abbiamo detto. La mancanza di materiale teorico del biennio 1968-69 è in parte compensata dalla fondazione, nel 1970, di una nuova rivista, «Periodo Ipotetico», di cui Pagliarani sarà direttore responsabile. Per molti versi sembra possibile infatti interpretare «Periodo ipotetico» come una sorta di risposta, in direzione certo non antagonistica ma dialettica, a «Quindici». Fin dalla struttura e dalla composizione della redazione – organizzata attorno a un cospicuo sottoinsieme di quel gruppo romano di cui abbiamo detto, che, forse, non aveva accolto troppo entusiasticamente gli sviluppi dei numeri diretti da Balestrini – la nuova rivista manifestava una rinnovata attenzione per i rapporti tra attività artistica e contesto politico, nel tentativo di preservare l’autonomia dell’arte, pur nella coscienza della condizione eteronoma di ogni attività umana, dipendente, in ogni caso, sia dalla storia, sia da ciò che benjaminianamente sta sotto o a latere rispetto a essa. Così, nelle proprie uscite irregolari e limitate, «Periodo Ipotetico» distingue nettamente la parte riguardante l’attualità e la politica (Giornale) e quella riguardante l’attività letteraria (Rivista). In apertura del primo numero è la penna di Guido Guglielmi16 a introdurre le ragioni di questa scelta: nel polemizzare, seppur indirettamente, contro quell’«abolizione dell’arte» tentata dalla svolta, diciamo così, diretta Cfr. Guido Guglielmi, Letteratura e/o rivoluzione, in «Periodo Ipotetico», 1, 1970, pp. 10-14.

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mente politica di «Quindici», l’articolo di Guglielmi ribadisce implicitamente l’importanza di una doppia forma di lotta; il terreno del­ l’arte e quello della politica, pur essendo intimamente connessi, richiedono in sostanza di essere trattati con strumenti differenti. Più nello specifico l’abolizione dell’aspetto rivoluzionario proprio del­ l’ambito letterario, non solo, secondo Guglielmi, non arrecherebbe alcun miglioramento alla «causa rivoluzionaria» tout court, ma addirittura porterebbe la stessa su «una strada sbagliata», ovvero a una «proiezione all’esterno di ideologie neoromantiche, alla estetizzazione della politica, a restare insomma prigionieri di una immediatezza priva di concetto che liquiderebbe solo illusoriamente sia il Kitsch imperante sia il capitalismo»17. Al contrario la necessità di «una cultura intesa come luogo di produzione teorica e di progettazione rivoluzionaria che sappia trasformare concettualmente e formalmente l’ideologia in conoscenza»18 non può prescindere da una forma d’arte che sappia essere «costruzione e progetto»19. Certamente non possiamo avere la riprova che il pensiero di Guglielmi coincida con quello di Pagliarani, e del resto Pagliarani firmerà di suo pugno pochissimi articoli, di cui soltanto uno – per altro molto tardo e su cui avremo modo di tornare – può essere accostato in qualche modo a questa visione. È tuttavia la linea dell’intera rivista a dare adito a questa lettura: «Periodo Ipotetico» sembra essere una rivista piuttosto compatta ideologicamente pur mantenendosi aperta a moltissime collaborazioni di intellettuali a volte distanti culturalmente l’uno dall’altro. L’aspetto più interessante di questo approccio è, forse, l’intenzione non di rado evidente di un’inclusione delle collaborazioni, che non divenga mera concessione di uno spazio. A differenza di quanto era stato per «Quindici», insomma, i vari collaboratori erano chiamati a offrire al lettore qualcosa di più che una raccolta di pensieri individuali, a farsi dunque promotori di una reale cooperazione che, rispettando le differenze, fosse in grado di offrire un pensiero condiviso. La migliore dimostrazione dell’impianto a un tempo dialettico e includente della linea teorica di «Periodo Ipotetico» si ha, forse, con la lettura eterodossa proposta da Angelo Guglielmi per quell’opera Ivi, p. 13. Ibidem. 19 Ibidem. 17 18

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che per più di un verso si poneva come manifesto di una certa idea di Sessantotto, ovvero Vogliamo tutto20 di Nanni Balestrini. Dopo un’aggressiva requisitoria sul­l’onestà autoriale di Balestrini21, Guglielmi si domanda quale sia il vero senso dell’opera, escludendo categoricamente che possa trattarsi di un pamphlet politico22 e mostrando come, anche letto come ro­manzo, Vogliamo tutto può dare l’impressione di un ritorno al­l’«a­borrito neorealismo» o comunque a un «romanzo in presa diretta». Questa, che potrebbe apparire come una stroncatura senza riserve, sembra impostarsi in realtà come un tentativo di salvataggio, congiuntamente, e del carattere letterario del­­l’opera balestriniana, e del­l’importanza della sperimentazione linguistica nel suo aspetto rivoluzionario. Più nel concreto, secondo Guglielmi, Balestrini avrebbe utilizzato consciamente un linguaggio e una tematica diventata conformismo, ovvero materiale consentaneo al mercimonio societario di quel tardo capitalismo in grado di piegare anche il dissenso a una logica di vendita e acquisto, proprio in direzione di un’indagine spietata dei limiti della lotta politica di quegli anni. Per questo Guglielmi può affermare che è «indubitabile che Vogliamo tutto serve alla letteratura e non alla lotta politica»23. «Periodo Ipotetico» si muove in sostanza su un doppio binario occupandosi, a un tempo, di fatti di cronaca politica, di economia, di scienza, da un lato – si veda per esempio il corposo articolo dedicato alla morte di Pinelli ovvero l’analisi uscita sul doppio numero 2-3 sulla bomba atomica come “male radicale” – e di letteratura – ivi comprese discussioni teoriche e di critica – dall’altro. Del resto questa equilibrata coniugazione tra due aspetti che sembrano fondersi proprio manifestando nuovamente quell’«autonomia e eteronomia Cfr. Nanni Balestrini, Vogliamo tutto, Milano, Feltrinelli, 1971. Cfr. Angelo Guglielmi, Una favola primitiva, in «Periodo Ipotetico», 6, p. 3: «discutere onestamente di Balestrini è un’impresa ardua giacché Balestrini è un disonesto, né nella sua equivocità possiamo fargli un torto. E che sia un disonesto lo dimostra tanto più in questo Vogliamo tutto che è un viluppo intricato in cui confluisce la risposta a una domanda (interesse) di moda (la classe operaia le sue avventure), l’intento derisorio verso le sue (dell’autore) passate esperienze di scrittore, la ricerca di un consenso unanime travestito dalla necessità di scrivere parole che arrivino immediatamente a tutti, il desiderio di scandalo, l’opportunismo ideologico ecc.». 22 Cfr. ivi, p. 8: «Letto come pamphlet politico fornisce indicazioni grossolane e pericolose». 23 Ibidem. 20 21

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dell’arte», già direttiva teorica basilare agli albori della neoavanguardia24, sembra rispecchiare perfettamente la volontà del Pagliarani di quegli anni, sempre diviso tra la ricerca sperimentale del testo poetico e l’attenzione imprescindibile per il contesto. Non solo: se in fin dei conti la ricerca di una dimensione sovraindividuale e cooperativa è la vera scommessa della poesia di Pagliarani, altrettanto sembra proporsi la rivista, a dimostrazione di una coerenza di fondo – mai gridata e perciò troppo spesso invisibile – dell’intero percorso intellettuale del nostro. 2. la sintesi seriale di nandi L’esperienza editoriale di «Quindici» aveva rappresentato il primo specifico tentativo di contrapposizione promossa da (più o meno) giovani intellettuali nei confronti del mondo editoriale dominante negli anni Sessanta. A tale tentativo ne seguirono altri per molti versi analoghi: è il caso, tra i tanti, della Cooperativa scrittori, nata nel 1972. Fu ancora una parte di quella costola romana del Gruppo 63 – a cui ci siamo più volte riferiti – a farsi promotrice del progetto, al quale, questa volta, parteciparono, fin dagli inizi, anche personalità che non erano state coinvolte dalle vicende della neoavanguardia, come Calvino, Volponi e Zavattini, a ulteriore conferma che ormai i tempi erano mutati. Il fine della Cooperativa era di natura politica: si trattava, in pratica, di reagire alle tendenze del mercato di fine anni Sessanta e in particolare alla grande concentrazione di marchi e quindi di potere che, per prima, la casa editrice Rizzoli aveva cominciato a mettere in atto prendendo il controllo di molte altre case editrici in crisi. Le modalità con cui venne affrontato il problema ne fecero un’impresa, come scrive Ferretti, «squisitamente ed esclusivamente letteraria»25, che non riuscì però ad andare «molto al di là dalla pubblicazione di testi narrativi poco graditi alla logica com­mer­ ciale»26. Nondimeno merita ricordarla in questo contesto non tanto Si ricorderanno in merito i primi studi di Luciano Anceschi volti proprio in questa direzione. Cfr. Luciano Anceschi, Autonomia e eteronomia dell’arte (1936), Milano, Garzanti, 1992. 25 Gian Carlo Ferretti, Storia dell’editoria letteraria in Italia. 1945-2003, Torino, Einaudi, 2004, p. 237. 26 Ibidem. 24

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perché tra i fondatori c’era anche Pagliarani27, quanto in considerazione del fatto che nel 1977 – dopo ben nove anni da Lezione di fisica e Fecaloro – questi vi pubblicherà il volume Rosso corpo lingua oro pope-papa scienza: doppio trittico di Nandi, opera che per molti versi appare come uno dei pochi confini tracciabili nella carriera del nostro. Almeno apparentemente, infatti, Pagliarani utilizza qui per l’ultima volta le modalità di sperimentazione linguistica e i contenuti propri di Lezione di fisica, in molti casi estremizzandoli quasi volesse misurarne i limiti. La raccolta ancora successiva, Esercizi Platonici, d’altro canto, presenterà differenze sia stilistiche che tematiche tanto evidenti da far sì che si possa considerare Rosso corpo lingua come un lavoro di sintesi e di bilancio di tutta una poetica. Non sembra casuale, inoltre, che l’edizione del 1977 non sia mai stata ripresa e ripubblicata integralmente, essendoché, delle tre parti in cui l’opera è suddivisa, soltanto la prima sarà compresa nella versione definitiva di La ballata di Rudi (1995)28, mentre le altre due rimarranno escluse da ogni successiva raccolta e inserite tra le Poesie disperse anche nel volume definitivo curato da Cortellessa. Una scelta, questa, che in teoria potrebbe far pensare a un punto d’arrivo della poetica del “rimescolamento”, a maggior ragione calcolando che è soltanto la prima parte – appunto quella più volte ripubblicata – a fornire alla raccolta gli interi repertori linguistici che le altre due si limitano a ricombinare. Sia o no plausibile tracciare questa linea di demarcazione nel corpus poetico pagliaraniano, ciò che è certo è che il Doppio trittico aumenta al massimo grado una sperimentazione e una teoria, quelle di Lezione di Fisica, che nelle opere successive saranno utilizzate soltanto in parte e con finalità espressive ben differenti. Si noti nello specifico come, dal punto di vista formale, il verso resti lun­ghissimo e la tecnica del montaggio venga esaltata dalla ripetizione insistita dei medesimi repertori linguistici, mentre da quello con Pagliarani ne diverrà addirittura presidente. Si veda la testimonianza di Sara Ventroni rintracciabile in . 28 Benché la collocazione definitiva del Doppio trittico di Nandi sia probabilmente quella del 1995, proponiamo qui una lettura della pubblicazione del 1977. Ciò non solo perché quest’ultima potrebbe, a diritto, essere considerata come un’opera a sé stante, ma anche per inquadrare meglio il cammino protratto e articolato che ha portato al compimento della Ballata di Rudi. 27

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tenutistico, i motivi dell’opera precedente risultino condensati in una serie di parole-concetto, che sono poi le sei parole che costituiscono il titolo (consideriamo effettivamente «pope-papa» un’unica parola), con una «riduzione della consistenza quantitativa e qualitativa dei significanti»29 che, come ricorda Briganti, favorisce «un’espansione delle loro potenzialità concettuali»30. Se in Lezione di fisica la “verifica del linguaggio” avveniva tramite l’utilizzazione metalinguistica di codici non poetici trasposti in un contesto poetico, nella nuova opera è direttamente dichiarata dalle espressioni «proviamo ancora col rosso», «proviamo ancora col corpo» e «provano ancora con l’oro», «provano ancora col pope-papa», che, come si vede, manifestano lo schierarsi in prima persona dell’io poetico da un lato piuttosto che dall’altro. Si crea in questa maniera una sorta di contrapposizione tra due poli, uno positivo, costituito dai termini «rosso» e «corpo» e l’altro negativo formato appunto da «oro» e «pope-papa» che richiama quel contrasto che in Lezione di fisica si veniva a creare tra la società capitalistica dell’oro-denaro, responsabile colpevole dei processi di reificazione del corpo, e quelle attività capaci di limitare – e a volte addirittura impedire – questi stessi processi, come ad esempio l’arte. In altri termini al superfluo irrazionale che passa per norma tramite la propaganda del potere, l’io poetico oppone il «rosso», da leggere, come sostiene Cortellessa, non solo nella «sua carica ideologica»31, ma anche in quella «“carnalmente” intesa»32, poiché effettivamente il rosso è il colore del sangue e quindi del corpo. A quelle forme di potere non solo religioso simboleggiato dal termine «pope-papa» – e si noti come l’anglicismo universalizzi la parola papa, estendendone il significato e creando, se si vuole, una specie di personaggio grottescamente mostruoso – che umiliano il corpo privilegiando invece quell’anima che, come abbiamo già detto a proposito di Fecaloro citando Brown, è acquisizione derivata dal superfluo e organizzatrice del meccanismo della sublimazione, occorre reagire appunto «provando ancora col corpo». È lo stesso Pagliarani del resto a indicare la necessità di una poe Alessandra Briganti, Prefazione a Elio Pagliarani, Poesie da recita, cit., p. 13. Ibidem. 31 Andrea Cortellessa, La parola che balla, in Elio Pagliarani, Tutte le poesie, cit., p. 40. 32 Ibidem. 29 30

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sia «per il corpo» in un intervento per più di un verso cruciale apparso su «Periodo ipotetico» nello stesso anno della pubblicazione del­ l’opera. L’articolo è in verità una sorta di resoconto, con annessa antologia, dei risultati della prima edizione del «Laboratorio di poesia», vera e propria fucina poetica gratuita, che Pagliarani aveva crea­ to e diretto a Roma proprio nel 1977 e che verrà replicata quasi ogni anno, fino alla fine degli anni ’80. Questi laboratori – detto per inciso – avranno il grande merito di dare spazio e voce, per la prima volta, a poeti più o meno giovani tra i quali si ricorderanno i nomi di De Angelis, Magrelli, Zeichen, Testa, Ballerini, Rella, senza dimenticare Scalise e Spatola). Per tornare all’intervento su «Periodo Ipotetico», c’è da notare come diverse considerazioni teoriche accompagnino l’introduzione ai poeti antologizzati, tanto che forse non è inopportuno scorgere nell’articolo una vera e propria dichiarazione di poetica: dalla funzione di verifica del linguaggio si possono e devono trarre anche conseguenze più umili e decisive e immediatamente verificabili, come quella che permette di attivare sensi del corpo umano: come sono capaci di fare la parola, i costrutti, che colpiscano sensi e intelletto, per freschezza, novità, frequenza di significati, musicalità (ma di musica anch’essa contemporanea), capacità di insediamento nella memoria – donde l’importanza del ritmo, il grande specifico alleato delle arti, il collegamento principe al canale ipostorico e iperstorico (non metastorico, meta mai, sempre quaggiù) rappresentato dalla continuità biologica ed estensione, spazialità fisica del corpo umano.

Se anche, hegelianamente, la storia fosse sempre storia dei vincitori, Pagliarani sembra puntare la sua attenzione su ciò che sta sotto la storia e materialisticamente al di là di essa: appunto il corpo. Un corpo, quindi, sia sottoposto alla storia, in quanto sconfitto, reificato e ridotto al silenzio33, sia sovrapposto a essa, perché unica garan La mortificazione del corpo diviene negli anni Settanta tema centrale di numerose opere letterarie e poetiche composte da autori la cui matrice ideologica è a volte accomunabile a quella di Pagliarani – si pensi in particolare al Volponi di Corporale (Paolo Volponi, Corporale, Torino, Einaudi, 1974) – e altre volte distante da questa. Viene in mente, in tal senso, Il silenzio del corpo di Guido Ceronetti, in cui l’esigenza di una visione materialistica e corporale viene espressa da posizioni politiche

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zia della continuazione della specie ovvero unica possibile forma di immortalità. Il ruolo delle arti è quindi quello di attivare i sensi del corpo umano: in questa direzione è il ritmo l’aspetto più qualificante della poesia, non solo nella sua prerogativa, fin troppo umana, di pulsione vitale, di scansione temporale differente e antagonista rispetto al codice egemone del tempo misurato dal lavoro e dalla produzione, ma anche per la propria capacità di «insediarsi» nella memoria, sostituendosi o affiancandosi a quella memoria canonizzata che è la storia ufficiale. Per questo all’interno di un tessuto linguistico che apre nuovamente l’esperienza poetica a una ricerca musicale, e in particolare a quella che pone come proprio referente la contemporanea musica seriale, sembra di assistere a uno scontro tra due modi di intendere la società. Le parole-concetto che compongono il titolo – a cui abbiamo già fatto riferimento – riassumono infatti, o meglio sarebbe dire rappresentano, il cuore di questa tensione dialettica, per la volontà autoriale di soffermare l’attenzione all’aspetto «recitativo» dell’opera, sottolineato da una costruzione che ne esalta la potenziale performatività orale. E non sembra errato nemmeno rintracciare nel contrasto tra le due coppie «rosso»-«corpo» e «oro»«pope-papa» un’antitesi tra utopia e distopia, con una ripresa del­ l’aspetto costruttivo dell’ipotesi utopica, da interpretare non già come una la postulazione, per dirla con Huxley, di un Mondo nuovo situato in un luogo inesistente e organizzato da una convenzionalità regolata dall’asfissiante razionalità di una teoria, quanto come volontà di verifica e bilancio di questo mondo rispetto a una progettazione – questa sì razionale – di miglioramento sociale e umano34. In questo senso la contrapposizione tra ciò che è storia e ciò che è ipostoria/iperstoria, seguendo una fine speculazione che coinvolge ancora la necessità della poesia nella nuova società tardocapitalista, è in realtà conflitto tra questa propensione utopica di progettazione e la distopia opprimente della realtà sociale. Osservando in quest’ottica l’intera architettura dell’opera possiamo trovare collocazione agli altri due significanti che completano antitetiche rispetto all’ideologia socialista pagliaraniana. Cfr. Guido Ceronetti, Il silenzio del corpo. Materiali per studio di medicina, Milano, Adelphi, 1979. 34 Per una completa descrizione della storia del pensiero utopico si veda Arrigo Colombo, L’utopia, il suo senso, la sua genesi come progetto storico, in Utopia e distopia, a cura dello stesso, Bari, Dedalo, 1993, pp. 129-162.

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quello che risulta – appunto – un doppio trittico e che abbiamo per adesso tralasciato: i termini «lingua» e «scienza». Il primo è da aggiungere alla coppia «rosso» e «corpo»; allo stesso modo, il secondo affianca «oro» e «pope-papa» nell’ultimo trittico. Nella presentazione dei frammenti A(rosso) B(corpo) C(lingua) e A1(oro) B1(popepapa) C1(scienza), a cui assistiamo nella prima parte, emerge una netta differenza tra le sezioni A e B rispetto alle sezioni C. In un gioco combinatorio che intuitivamente suggerisce al lettore la formazione di tre coppie oppositive, che saranno esplicite soltanto nella seconda parte dell’opera, viene palesata una netta differenza tra le prime due e la coppia C-C1: se in quelle, come già sottolineato, l’io poetico si dichiara parteggiante per il primo elemento di ogni binomio, in questa il quadro viene complicato da una doppia polemica che precisa anche il ruolo del personaggio Nandi evocato dal titolo. Nel frammento (C) leggiamo: lingua: lingua di rosso sul rosso del corpo, lingua rosso canale del [corpo fra essere e avere, lingua per Nandi lingua rossa del corpo del rosso, lingua del cerchio creato da lingua [e da lingua spezzato mistica lingua del rosso mistica lingua del corpo mistica lingua del [cazzo (se è mistica è del privato, Nandi non sa che farsene, se è nel codice è già incastrata, Nandi ti abbiamo fregato) ma la tua lingua rossa del tuo corpo35.

L’io poetico, come si vede, non è presente fino agli ultimi versi quando sembra partecipare di quel «ti abbiamo fregato» che potrebbe riguardare quella progettazione linguistica che pertiene l’ambito poetico. La polemica è quindi rivolta anche contro la lingua. In prima istanza la lingua sembra avere una connotazione positiva in quanto canale «rosso» del «corpo» «fra essere e avere»; essa si riferisce in questo senso a un’arte che sia movimento contrario alla reificazione e che sia anche misurazione della validità della tessitura linguistica36 di cui è composta la realtà, restituendo la voce a ciò che non è storia e in Elio Pagliarani, Rosso corpo lingua Oro pope-papa scienza. Doppio trittico di Nandi, in Tutte le poesie, cit., p. 323. 36 Questo appare il senso delle espressioni «proviamo ancora».

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particolare al corpo. Di contro la lingua può diventare mistica, può invero chiudersi, tacere, allontanarsi dall’aspetto materiale del corpo e sociale; più in concreto può diventare strumento dell’avere e non dell’essere, proprio per il suo abbandonare l’essenzialità della materia, accogliendo la superfluità delle «cose spirituali» e allontanandosi perciò da Nandi, assunto qui come interlocutore collettivo di tutto il lavoro poetico37. Lo stesso dualismo che si forma tra le coppie «rosso»«oro» e «corpo»-«pope-papa» si ripete in un certo senso nel solo termine «lingua». In maniera simile viene trattato il termine «scienza»:



scienza: scienza è conoscenza che includa la garanzia della propria validità l’opposto della scienza è l’opinione caratterizzata per l’appunto dalla mancanza di garanzia circa la sua [validità Dall’idea adeguata dell’essenza formale di alcuni attributi di Dio si procede alla conoscenza adeguata dell’essenza delle cose Il [concetto fondamentale della scienza è quello della legge scientifica e lo scopo fondamentale della scienza è lo stabilimento di leggi L’armamentario della scienza dimostra Kappa punto Popper nella [Logica è diretto alla falsifica non alla verifica delle proposizioni: Nandi sembra più bello ma c’è sempre il tranello continuando a lustrare il coltello38.

Attraverso una citazione da Spinoza39 e una manifesta da Pop Il personaggio di Nandi – ne parleremo più avanti – avrà una più individuale e precisa caratterizzazione nella Ballata di Rudi, dove viene presentato come pescatore già in apertura di opera. A onor del vero era stato già Giuliani nel 1977 a rivelare che quello di Nandi era il nome «di un pescatore, un vecchio e fiero capobarca di Viserba (due passi da Rimini), grande anarchico all’antica» (cfr. Alfredo Giuliani, Trittico per un pescatore (1977), in «L’illuminista», vii, 20-21, p. 353); tuttavia il testo pagliaraniano nell’edizione del ’77 non fa alcun accenno all’individuo Nandi e sembra insistere al contrario sulla collettività del suo personaggio proprio in quanto referente simbolico del lavoro poetico. 38 Elio Pagliarani, Rosso corpo lingua Oro pope-papa scienza. Doppio trittico di Nandi, cit., p. 325. 39 «Dall’idea adeguata dell’essenza formale di alcuni attributi di Dio si procede alla conoscenza adeguata dell’essenza delle cose» è citazione proveniente dall’Ethica di Spinoza. 37

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per40, l’io poetico sembra volere istruire Nandi sulla differenza tra scienza e opinione, e si noterà che l’aspetto didattico anche in questo Doppio trittico si mantiene forte: ciò che ne emerge, a livello poetico, è un’apparente separazione tra il concetto di «scienza» e quello di poesia, derivante non tanto dal fatto che la poesia dovrebbe configurarsi a un’indagine scientifica come opinione, quanto perché se la scienza, popperianamente, si fonda sul concetto di falsifica, ovvero si contrappone a ciò che è dogma – nel senso di ciò che non accetta di essere messo alla prova della falsificazione – la poesia, pagliaraniamente, si pone come verifica delle strutture linguistiche, al fine di un controllo più eticamente attento riguardo a quella lingua che, abbiamo detto, lega essere e avere. In questo senso è la poesia, e con lei tutta l’arte funzionalizzata alla verifica delle strutture linguistiche mistificate dal potere, a contenere in sé, al massimo grado, la garanzia della propria validità, mettendo in continua discussione non solo i codici linguistici che affronta, ma anche il proprio, specifico linguaggio tecnico. In ciò non sembra insensato rintracciare una vena polemica nei confronti della teoria epistemologica popperiana che sarà più chiara nella terza parte della raccolta. Quella contrapposizione tra un polo positivo e uno negativo viene insomma complicata dai termini «lingua» e «scienza», di modo che l’impianto finale somigli più a uno ying-yang – relativizzando in un certo senso il bene e il male in base anche all’applicazione e alla finalità umane e sociali di certe possibilità della conoscenza – che a due blocchi totalmente contrapposti. La funzione di verifica del linguaggio per questo può leggersi anche in un altro senso: «proviamo ancora col rosso» «proviamo ancora col corpo» infatti sono affermazioni che sembrano aprire una riflessione polemica su quella «ortodossia del dissenso» su cui Giuliani si era espresso al momento di abbandonare la direzione di «Quindici». Pagliarani sembra comprendere come la «moda» del dissenso e in arte la moda dell’avanguardia rischino di compromettere il dato più concretamente rivoluzionario incluso nella protesta sociale come in quella artistica, ma fagocitato dall’economia della vendita e dell’acquisto come un qualsiasi altro bene. La «vis etica» dei tempi di Cronache non scompare del tutto ma si fonde Come palesa lo stesso Pagliarani il concetto di falsificabilità proviene dalla Logica della scoperta scientifica di Popper.

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alla propensione per una poesia da intendere come azione: anche in questo caso l’operazione di verifica delle strutture linguistiche deve passare per quella fase obbligata che prevede una sorta di misurazione del fiato dello spettatore per la quale è la reazione di chi ascolta a far variare l’azione, in questo caso la poesia, la quale a sua volta influenza lo spettatore41. Per questo motivo la vocazione orale dell’opera non solo tende a riunire collettivamente i linguaggi del corpo nella spettacolarizzazione di una lettura che, come sostiene Alessandra Briganti42, integra il gesto, il canto e il ballo, ma fa tutto questo misurando i propri tentativi con chi ascolta. Così nella seconda parte di Rosso corpo lingua gli stessi brani che componevano la prima non solo vengono ridisposti con un avvicinamento delle coppie in opposizione tra loro secondo lo schema (A)-(A1), (B)-(B1), (C)-(C1), ma viene anche modificata la scansione metrico-ritmica di ognuna delle sezioni. Un nuovo ritmo e una nuova disposizione dovrebbero infatti formare una nuova possibilità interpretativa nel fruitore, nonché suscitare in questi nuove emozioni: gli stessi materiali verbali, in altre parole, assumono un valore differente a seconda di quel ritmo che, più di qualsiasi altro aspetto della poesia, pertiene alla fase ricettivo-interpretativa. Nella terza parte infine i repertori linguistici vengono ricombinati fondendo le sei sezioni in sole tre, e invertendo i rapporti interni secondo lo schema [(A)-(B1)], [(B)-(A1)], [(C)-(C1)]. Le opposizioni delle prime due coppie si trovano così non solo scambiate, ma interne a un’unica sezione. Il contrasto, che nella parte precedente emergeva per la giustapposizione di brani tra loro in conflitto etico e ideologico, qui si manifesta tra verso e verso: Cfr. Elio Pagliarani, Il fiato dello spettatore, Padova, Marsilio, 1972, p. 9: «ogni tanto recito versi: io vario, essi variano, in funzione di chi ascolta, e viceversa. (E posso anche diventare bellissimo)». 42 Cfr. Alessandra Briganti, Prefazione, cit., pp. 5-6: «la recita di Pagliarani si riferisce quindi ad un trattamento spettacolare del testo e ad un modello di comunicazione estetica che sviluppa al massimo grado la funzione fatica, mentre si lascia polemicamente alle spalle l’altro modello, quello simbolista-ermetico, fondato sul melos, sul ritmo profetico e sulle suggestioni di stampo ipnotico. […] Il gesto, che rappresenta una componente essenziale dell’esecuzione di Pagliarani, almeno quanto la modulazione della voce, denuncia un rapporto, una filiazione o una matrice culturale che sembra essere sfuggita finora all’attenzione dei lettori. La cultura di questo autore è intimamente legata alla cultura dell’oralità, così come il modello di comunicazione estetica che ci propone tende a realizzare proprio quel modello di comunicazione nell’ambito del quale l’esecuzione appare il “principale fattore costitutivo”». 41

dal sessantotto al settantasette    83

Proviamo ancora col rosso: rosso, un cerchio intorno, poi rosso su [rosso: Nandi ci fosse provano ancora col pope: pope, intorno un gran colonnato, poi [pope su pope, Nandi ci fosse col rosso un cerchio di rosso un punto sette punti di rosso se [fossero sul pope un colonnato di popi, un punto sette punti del pope [caprini se fossero, e i tre sopraccigli cisposi la macchia a cavallo dei cerchi, di rosso che cola in angolo, mobile [rosso su cerchi la macchia a cavallo del pope, di pope che cola in un angolo, [mobile pope in colonna43.

Come si può notare dal solo schema, la terza coppia oppositiva non subisce invece scambi, pur accogliendo la fusione di (c) con (c1). In questo modo può emergere quella polemica antipopperiana a cui abbiamo già accennato. Nella chiusa, infatti, l’ultimo insegnamento dell’io poetico sembra proprio indicare al suo auditore Nandi di non lasciarsi convincere dal concetto di falsificazionismo scientifico, non tanto, come è stato detto44, per paura di una possibile caduta in un nihilismo scientifico nel quale il sapere non può darsi mai per certo, quanto in considerazione del fatto che, parimenti alle teorie spinoziane, Popper tenderebbe a conferire ai fatti un valore probatorio in maniera assoluta. Le teorie scientifiche così organizzate rischiano, infatti, di mettere in discussione quella pluralità di interpretazioni che Pagliarani cerca invece di mostrare attraverso un linguaggio poetico che si configuri il più possibile come collettivo e non univoco. È contro l’assolutezza delle scienze che Pagliarani sembra lanciare la sua invettiva più complessa: Il concetto fondamentale della scienza Elio Pagliarani, Rosso corpo lingua Oro pope-papa scienza. Doppio trittico di Nandi, cit., p. 420. 44 Cfr. in particolare Guglielmo Pianigiani, La ballata di Rudi di Elio Pagliarani, cit., p. 162: «lo sviluppo del pensiero scientifico contemporaneo, infatti, nonostante provenga ancora allo stabilimento di leggi, sembra procedere e contrario, essendo “diretto alla falsifica | non alla verifica delle proposizioni”. Dimostra che nulla è dimostrabile e che, sul piano logico, la sua unica certezza è quella di un relativismo assoluto». La nostra interpretazione tende al contrario a spostare il problema sulla differenza tra i concetti di «legge» e di «opinione» quali poi saranno approfonditi nell’opera successiva attraverso il Filebo di Platone. 43

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è quello della legge scientifica (se è mistica è del privato, Nandi non sa che farsene, se è nel codice è già incastrata, Nandi ti abbiamo fregato) e lo scopo fondamentale della scienza è lo stabilimento di leggi L’armamentario della scienza dimostra Kappa punto Popper nella [Logica è diretto alla falsifica non alla verifica delle proposizioni Ma la tua lingua rossa del tuo corpo45.

Anche la scienza è da interpretare in questo senso come una lingua. In quanto tale, allora, essa corre il rischio di farsi «mistica», ovvero da un lato di rendersi muta per tutti i non iniziati – verrebbe da dire per tutti i non «pope-papa» – dall’altro di cristallizzare il proprio codice linguistico evitando una salvifica autocritica metalinguistica. Se la scienza diventa lingua del privato non può interessare la collettività impersonificata da Nandi, non può essere quella «lingua rossa» del «corpo sociale» che Pagliarani sembra ricercare con urgente solerzia. D’altro canto l’opinione a cui la scienza vorrebbe contrapporsi si dimostra, paradossalmente, più dinamica ed efficiente: la «mancanza di garanzia circa la propria validità» fa sì che il suo codice linguistico sia, già in partenza, più incline ad accogliere critiche, a essere cioè «da lingua spezzato» accogliendo una molteplicità di interpretazioni propria della complessità del reale. Per questo, a differenza della scienza popperiana univoca e progressista, l’opinione sembra configurarsi come scienza del corpo sociale, l’unica che abbia in sé la garanzia di una validità collettiva: scienza: scienza è conoscenza che includa/ la garanzia della propria [validità/ l’opposto della scienza è l’opinione caratterizzata per l’appunto dalla mancanza di garanzia circa la sua [validità lingua rossa del corpo del rosso, lingua del cerchio creato da lingua [e da lingua spezzato46.

Elio Pagliarani, Rosso corpo lingua Oro pope-papa scienza. Doppio trittico di Nandi, cit., p. 423. 46 Ibidem. 45

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1. platone come supplente Per alcune congiunture che non sembrano casuali, i risultati linguisticamente più estremi dell’opera di Pagliarani, come abbiamo visto, vengono raccolti in opere significativamente edite nel 1968 e nel 1977 in esatta corrispondenza con quelle date simbolicamente assunte come culmine delle maggiori contestazioni studentesche e operaie. Ciò è indicativo non solo dell’attenzione con cui il nostro segue i grandi mutamenti socioculturali e politici in atto nel secondo Novecento, ma anche della acuta precisione con cui il corpus artistico di Pagliarani “insegue” il fiato dello spettatore e vi partecipa. Lungo questo cammino si potrebbe dimostrare infatti come Lezione di fisica e Fecaloro abbia tentato di aprire dal punto di vista poetico quella nuova stagione di progettazione, ovvero di impulso utopico con il quale commisurare la distopia della realtà vigente, che il clima del Sessantotto rappresentava a livello socioculturale. Allo stesso modo, come nel Settantasette, Rosso corpo lingua avrebbe fatto esplodere anche violentemente le pretese di mutamento di quella stessa realtà, scemando, forse, proprio per l’impossibilità di arrivare a un progetto globale e conclusivo. Sia o no plausibile questa lettura, ciò che pare certo è che con il passaggio dagli anni di piombo agli «anni di fango», per usare un’espressione montanelliana, la poesia di Pagliarani muta radicalmente registro e modalità di sperimentazione, ma non finalità. Mentre continua incessante il lavoro de La ballata di Rudi, con varie pubblicazioni in rivista di alcuni dei capitoli che comporranno il nuovo poemetto, nel 1985 Pagliarani dà alle stampe Esercizi platonici. Si tratta di venticinque composizioni numerate nelle quali, avverte lo stesso autore in una nota che chiude l’opera,

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non è stato «fatto altro che trascrivere e scandire il linguaggio colloquiale di Platone (del Filebo, soprattutto; ma anche delle Lettere e, nel­l’apertura finale, del Convito, come è trasparente) quale è stato reso in lingua italiana nella versione e interpretazione di Enrico Turolla, quel patito di classe»1. Come noto le dichiarazioni dei poeti sulla propria opera sono da prendere con precauzione e questo caso non fa eccezione: se infatti è vero che l’intero materiale verbale è di diretta provenienza platonica con il filtro di una versione «classica e cordialissima»2 come quella di Turolla, non è meno vero che il lavoro di Pagliarani non si pone come un esercizio di stile. Già nella scelta e nel montaggio di tale materiale che attraverso queste nuove combinazioni e soprattutto attraverso un nuovo ritmo imposto dal verso viene risemantizzato, si intuisce quanto l’operazione di Pagliarani non si configuri come un tentativo disimpegnato di ricercare nuove strade poetiche. Certamente sia il titolo sia la nota di esplicazione al testo si affrettano a sottolineare questa componente di divertissement, minimizzando il peso di quei contenuti che, al contrario, sono ricavabili sia all’interno del solo testo trascritto, sia dal rapporto che questo instaura con quello platonico di partenza. Se da un lato allora dobbiamo prendere per vera la dichiarazione secondo cui Pagliarani – iniziandosi a sentire prigioniero del suo «verso lungo, sempre più lungo, della fisarmonica spalancata»3 – avrebbe scelto il «linguaggio colloquiale» di Platone al fine di «riacquistare facoltà di articolazione più va­ riegata»4, dall’altro non possiamo né prescindere dai contenuti che emergono dalle trascrizioni, né non ricordare che la struttura ritmica del verso è nella poesia di Pagliarani significante primario. Il recupero di un versificare differente rispetto a Lezione di fisica e al Doppio trittico di Nandi ha, in questo senso, un significato poetico preciso: il respiro più sommesso serve fondamentalmente a rimeditare alcuni concetti tanto centrali quanto solo impliciti nelle precedenti opere, come il rapporto tra scrittura e oralità, quello tra gioco e serietà e infine quello tra autore e lettore o meglio tra destinatore e de

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Elio Pagliarani, Nota a Esercizi platonici, in Tutte le poesie, cit., p. 256. Pier Vincenzo Mengaldo, Platone narrato in versi, in «Panorama», 29 settembre 1985; ora in «L’illuminista», vii, 20-21, p. 355. Elio Pagliarani, Nota a Esercizi platonici, cit., p. 256. Ibidem.

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stinatario. Per far questo Pagliarani decide di fare a meno, in superficie, di quelle caratteristiche forse più congeniali alla sua poesia: la pluralità di voci, il verso lungo appunto, la contaminazione di codici linguistici differenti messi in scena, se così possiamo dire, come veri e propri attori. In una parola, insomma, sembra dimettere la sua collaudata «poesia da recita»: come scrive Edoardo Albinati «negli Esercizi eccetto l’ultimo che è una bella didascalia di congedo […] a parlare è sempre una voce fuori campo, che non si lascia vedere né accetta di prendere un nome (solo col Filebo alla mano riusciamo a distinguere le affermazioni di Socrate da quelle di Protarco, che qui sono maliziosamente fuse al punto da smarrire il motivo del loro contrasto)»5. Se così, dal punto di vista della tradizione letteraria ovvero del genre, i nuovi componimenti sembrano orientarsi verso una raccolta di poesia lirica – con un’unica voce, che poi è un io, a parlare –, per alcuni loro contenuti assumono un kind prettamente filosofico inserendosi nel dibattito, molto vivo, sull’interpretazione di Platone6: Perché farlo soffrire con tante immagini? Protarco, hai accettato di parlare in mia vece. Ma, ho davvero gonfiato le gote per dare importanza al mio Dio? Facevo per gioco; e voi vi siete lasciati veramente impressionare?7

Come si può vedere già da questi passi che costituiscono il primo componimento della raccolta, il problema cruciale del Filebo platonico – riguardante il nesso tra piacere e conoscenza e in particolare 5



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Edoardo Albinati, Il Platone di Pagliarani, in «Prato Pagano», 3, 1985, p. 21. Non sembra un caso che nello stesso anno di edizione degli Esercizi viene tradotta e pubblicata in volume anche in Italia La farmacia di Platone di Derrida, opera multiforme e provocatoria, che come scrive Petrosino ha il grande merito di incentrarsi su di un nodo centrale e non di rado eccessivamente semplificato del pensiero di Platone, ossia l’invenzione della scrittura in rapporto all’atto stesso del pensare e all’oralità (cfr. Silvano Petrosino, Ancora su il Pharmacon di Derrida, in Jacques Derrida, La farmacia di Platone, Milano, Jaka Book, 1985, pp. 7-47). Pagliarani – del resto – poteva aver preso visione dell’opera deriddadiana ben prima di quella data giacché nel 1968 questa era stata pubblicata su «Tel Quel» anche nell’edizione italiana. Elio Pagliarani, Esercizi platonici, in Tutte le poesie, cit., p. 231.

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la questione se nella vita umana sia un bene maggiore questa piuttosto che quello – non viene eluso da Pagliarani. A questo però, attraverso un’abile riflessione sulle possibilità interpretative di un medesimo testo, se ne accavalla un altro di matrice ancora una volta metapoetica: il linguaggio di partenza sembra allora divenire uno strumento di analisi interno alla stessa costruzione poetica, secondo una tecnica che in questo senso non è troppo distante da quella adottata per le trascrizioni di Lezione di fisica. Da un lato Pagliarani non azzera la potenzialità semantica di quell’interpretazione del Filebo che è la traduzione stessa, mentre dall’altro sovrappone a essa un nuovo senso globale che la arricchisce e la modifica. Per il fatto di evitare di rifarsi all’originale greco, si potrebbe pensare che Pagliarani non cerchi di sfruttare appieno l’eterogenea possibilità interpretativa dei termini che in Platone hanno una valenza, diciamo, tecnica. Al contrario è proprio nella scelta del testo tradotto, e quindi già precedentemente interpretato, che l’accumulo semantico pare agire con maggiore incisività poiché, in questo modo, si rende necessaria un’analisi sulla storicizzazione del dato interpretato, con la conseguente possibilità di un’eventuale critica dello stesso. Per fare solo un esempio, il termine «immagini» specchia sulla poesia di Pagliarani la critica platonica nei confronti della scrittura8, soltanto che mutata «la ragione e la funzione» del genere letterario, la riflessione del filosofo greco viene essenzialmente adoperata per fini interni alla poetica pagliaraniana. Così la terminologia platonica viene estrapolata dalla traduzione e assume una nuova funzione che, se propriamente riportata al testo platonico, è in grado di far sorgere nuovi spunti interpretativi ovvero critiche inusitate rispetto alla norma. Si potrebbe effettivamente immaginare che Esercizi platonici si configuri – e questo sarebbe forse il dato di maggior interesse dell’opera – come un «dialogo» che la poesia del nostro decide di intraprendere non tanto Cfr. quanto scrive Napolitano Valditara: la scrittura «inganna, perché come fa la skiagraphìa, la “pittura d’ombra”, con gli oggetti che riproduce, anch’essa muta le proporzioni reali dei piaceri e dolori dei personaggi tragici – personaggi in cui lo spettatore, specie se giovane e inesperto s’immedesimerà –, rappresentando quei piaceri e dolori come troppo grandi e vicini, cioè nello stato di massima intensità, quello in cui i piaceri ora goduti concentrano su di sé tutto il bene possibile e i dolori presenti del pari raccolgono su di sé tutto il male che si può soffrire». Cfr. Linda Napolitano Valditara, La visione dell’ombra, in Platone e le «ragioni» dell’immagine, Milano, Vita e pensiero, 2007, p. 9.

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con la filosofia platonica quanto con il linguaggio di questa, salvo poi realizzare che a tale linguaggio è in qualche modo legata una dimensione problematica che necessita senz’altro di riflessioni filosofiche. Più nello specifico, nel dialogo platonico, come scrive Gargano9, Socrate opera un vero e proprio smantellamento della teoria sofistica del piacere poiché, ponendo la questione se la vita debba essere orientata verso il piacere o piuttosto verso il pensiero, la ragione, dimostra da un lato che chi sceglie coerentemente il piacere edonistico non è in grado razionalmente di argomentare tale scelta (è il caso di Filebo, appunto, che si addormenta all’inizio del dialogo, cedendo così al piacere, ma lasciando i contendenti del dialogo liberi di criticarlo), mentre dall’altro evidenzia che chi vuole argomentare tale scelta è costretto ad ammettere la precedenza della ragione sul piacere (Protarco). A una lettura complessiva degli Esercizi, invece, è palese l’assenza di confutazioni nette: il rapporto descritto da Platone semmai sembra sottoposto a verifica; la «lezione» platonica che emerge dal dialogo viene perciò applicata in modo da misurare concretamente in quale misura la poesia si trova in rapporto al piacere e in che altra in rapporto con la conoscenza. In questo modo, scrive ancora Albinati, «la riduzione poetica di Pagliarani finisce dunque per mimare problematicamente il contenuto del dialogo platonico»10 attraverso l’esempio stesso della poesia, sottoponendo ad accertazione la teoria messa in bocca al personaggio Socrate da Platone. È lo stesso atto della costruzione poetica a compiere tale operazione: se Platone aveva infatti definito giochi i suoi dialoghi, lasciando intendere che le questioni importanti dovessero essere affidate piuttosto alla comunicazione orale, in grado di garantire, semplificando, la verità del messaggio, Pagliarani definisce esercizi le proprie composizioni collocandone la sfera semantica più vicino a un ambito, diciamo, didascalico-educativo che a quello edonistico. L’esercizio come momento applicativo di una certa lezione – quella di Platone in questo caso – può quindi tranquillamente avvenire attraverso la lingua scritta e, in questo senso, solo apparentemente la critica platonica all’arte viene mantenuta nella raccolta, ovvero solo superficialmente il ricorso alla scrittura e alle altre arti sensibili deformerebbe platoni9



Antonio Gargano, I sofisti, in . Edoardo Albinati, Il Platone di Pagliarani, cit., p. 21.

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camente il rapporto piacere-dolore nella vita quotidiana11, manomettendo la verità e anche la funzione della memoria. Senza addentrarci troppo in questioni eccessivamente complesse, infatti, si può notare che, se dal punto di vista dei contenuti gli aspetti dannosi della scrittura vengono ribaditi – «facevo per gioco», «perché farlo soffrire con tante immagini» dove «immagini» è assunto chiaramente come termine tecnico a indicare la poesia –, il semplice ma a un tempo sostanziale fatto per cui tale ripetizione – citazione e riscrittura vera e propria – è costretta in forma poetica crea una sfasatura tra il contenuto e la forma, tale per cui il reale significato dell’atto dello scrivere viene rivalutato. Come per il Derrida de La farmacia di Platone anche per Pagliarani la necessità primaria di non banalizzare il ruolo della scrittura fa sì che gli effetti di quest’ultima assumano una valenza doppia, o, per dirla col filosofo francese, siano da considerare una sorta di Pharmacon: Allora, se il divenire non possiede stabilità alcuna, in che modo potrà mai in qualche misura diventare affidabile e sicuro? In nessun modo credo. Ma così non è possibile atto mentale puro, scienza nessuna è possibile del divenire; nulla che possieda in sé le stimmate del vero12.

La scrittura è certamente in grado di «corrompere la memoria e la verità»13: in particolare il segno scritto sembra inadeguato a garantire nel divenire del tempo una stabile verità. Tuttavia essa si palesa anche come uno dei pochi mezzi con cui fissare la memoria in quanto, senza il segno, non sarebbe possibile nemmeno la ricostruzione del passato e quindi la coscienza del divenire. Il poeta, quindi, è sì colui che corre il rischio di fissare in scrittura ciò che comunemente si perderebbe, anche se il suo tentativo non eterna immutabilmente Cfr. Elio Pagliarani, Esercizi platonici, cit., p. 232: «Ma le scritture e le figure dipinte | ti sembrano in rapporto col tempo | presente e passato, e non col futuro? | O vuoi intendere invece | nel senso che tutte queste figure | sono rivolte in attesa al futuro? E che noi | per tutta la vita, siamo sempre pieni | di attesa e di speranza? Ma vi sono ancora | quelle immagini dipinte. E c’è chi arriva a vedere | oro». 12 Ivi, p. 239. 13 Jacques Derrida, La farmacia di Platone, cit., p. 107. 11

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quel preciso oggetto, bensì lo rende motivo di memoria ovvero lo concede – attraverso una forma – alla possibilità di differenti interpretazioni nel corso del tempo: Sicuro, ma costui, non certo gli enti eterni, bensì il divenire nel tempo, oggi domani ieri, ha scelto quale campo di fatica14.

D’altra parte i frutti della scrittura saranno da considerarsi, anche nel peggiore dei casi, meno mistificanti rispetto a quelli di un discorso orale, che si esige più prossimo alla verità. Pagliarani, in conclusione, lascia intendere che la scrittura può sì ingannare, ma anche un rapporto dialettico orale può farlo, con la differenza che, in quest’ultimo caso, il livello di mistificazione del vero sarebbe molto più pericoloso: Come dici? Vuoi dire forse due insieme dobbiamo gettare nella commistione l’arte, né pura né sicura, d’un regolo e d’un circolo mendace? Sì, è necessario, seppur ciascuno di noi deve trovare la via che conduce alla sua casa. E così pure, certo, la musica15.

Negli Esercizi platonici a ben vedere si ricrea quella contrapposizione che avevamo già affrontato nel Doppio trittico di Nandi tra la rigidità regolata dalla legge che pertiene alla scienza e l’opinione. Dietro il complesso rapporto tra l’oralità e la scrittura sembra, insomma, nascondersene uno più strettamente legato all’attualità del poeta per il quale la scrittura artistica – permettendo ancora una forma di «conoscenza che includa», per utilizzare un’altra espressione di Pagliarani, ovvero la possibilità interpretativa di ognuno («ciascuno di noi deve trovare | la via che conduce alla sua casa») – si contrappone ancora alla scienza. D’altro canto è proprio il Filebo a dare modo al poeta di ritornare sulla propria riflessione dal momento che, come sostiene Fornero, qui per Platone «tutta la vita dell’intelligenza, tutte le forme di conoscenza, da quella più alta a quella più bas Elio Pagliarani, Esercizi platonici, cit., p. 240. Ivi, p. 238.

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sa, devono entrare a far parte della vita umana»16. La conoscenza che porta l’arte è differente da quella che porta la scienza e se per Platone sono entrambe necessarie, nel discorso di Pagliarani la prima – concedendo la possibilità dell’interpretazione – resta più libera e contraria ai processi di regolazione razionale che il potere utilizza per conservarsi. Anche negli Esercizi quindi viene ribadito il ruolo essenziale in chiave antirepressiva svolto dall’arte e in particolare l’indispensabile misurazione dell’efficienza linguistica che la forma artistica della poesia propone: Nel caso in cui da tutte le arti si tolga via quella che procede a misurare e a pesare, di ben poco conto risulterà quanto rimane della singola arte. Resterebbe soltanto una capacità di congettura e di esercizio sui dati del sentimento, una certa pratica dovuta all’uso. In tal caso, si tira un po’ a indovinare; ed è appunto quello che molti chiamano arte17.

È, in conclusione, la poesia – nel doppio aspetto paradigmatico della produzione di Pagliarani, vale a dire da un lato scritto e dall’altro da recitare oralmente o teatralmente – a rivelarsi fondamentale per la conoscenza umana potendo gestire, elaborare e misurare ogni tipo di linguaggio compreso quello scientifico (Lezione di fisica), quello psicanalitico (Fecaloro), quello economico (Lezione di fisica e Fecaloro), e ancora quello giornalistico (Cronache), quello sentimentale (Inventario privato), quello filosofico (Esercizi platonici) e infine, come vedremo, quello religioso (Epigrammi). E se l’imitazione poetica dei codici linguistici è da considerarsi platonicamente deplorevole poiché, come scrive Iacono, «la copia possiede la non esaltante caratteristica di istituire un rapporto di servitù nei confronti del­ l’originale»18 e quindi è potenzialmente pericolosa laddove pretendesse di sostituirsi al reale, l’imitazione pagliaraniana elude tale ri Giovanni Fornero, Il bene per l’uomo: il Filebo, in Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Torino, Paravia, 1999, 4 voll., A, 2 tomi, i, p. 206. 17 Elio Pagliarani, Esercizi platonici, cit., p. 236. 18 Alfonso Maurizio Iacono, Autonomia, potere, minorità, Milano, Feltrinelli, 2000, p. 134. 16

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schio: la poesia dell’ultima produzione del nostro (da cui bisognerà escludere La ballata di Rudi che – lo vedremo più avanti – va collocata ideologicamente nel periodo precedente, pur essendo cronologicamente posteriore agli Esercizi) avverte il fruitore della propria artificialità, manifesta palesemente di essere copia e allo stesso tempo confessa di non voler ingannare nessuno. Compie in fondo un’operazione che anche Platone ammette, ovvero «imitare per gioco»: anche quella delle «immagini», cioè delle copie, è a ben vedere una conoscenza, purché certamente essa non voglia ingannare confondendo realtà e imitazione. La conoscenza scientifica, per questi motivi, non può porsi come unica e sufficiente in merito alla conoscenza umana, non solo per il suo rapporto quanto meno ambiguo – per quello che emerge dall’opera di Pagliarani – con il potere, ma anche «platonicamente» perché il sapere resta un oggetto proteiforme di cui l’aspetto epistemologico non risulta altro che una parte dell’attività gnoseologica tout court. Per quanto detto fin’ora si potrebbe azzardare un accostamento tra la prospettiva di Pagliarani e quella fornita nel 1979 da Lyotard nel suo La condizione postmoderna, evitando, sia chiaro, di entrare nella polemica spinosa e non di rado infruttuosa legata al termine “postmoderno”: la poesia di Pagliarani, ci sembra di poter dire in accordo con Luperini19, anticipa alcuni stigmi di quella poesia successiva, se vogliamo postmodernista, legata più o meno direttamente al Gruppo 93, pur rimanendo fedele a una fase estrema del modernismo e – come ricorda Balestrini20 – riuscendo ardua da inquadrare all’interno di rigide categorie. Fatto sta che al sapere scientifico dominante in epoca moderna (appunto era scientifica) Pagliarani sembra contrapporre un sapere tradizionale fondato sul racconto che risulta sorprendentemente simile a ciò che il filosofo francese definisce come «sapere narrativo». Scrive Lyotard: le posizioni narrative (destinatore, destinatario, eroe) sono distribui­ te in modo che il diritto di occuparne una, quella del destinatore, si fonda sulla duplice condizione di avere occupato l’altra, quella del destinatario, e di essere, attraverso il proprio nome, già stato rac Cfr. Romano Luperini, L’autocoscienza del moderno, Napoli, Liguori, 2006. In particolare pp. 45-50. 20 Cfr. Nanni Balestrini, Savonarola ’87, in «L’illuminista», 20-21, pp. 355-357. 19

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contato in un racconto, vale a dire situato in una posizione di referente diegetico di altre contingenze narrative21.

Negli Esercizi platonici il racconto è interamente svolto attraverso le parole di qualcun altro, attraverso una voce già esistente, come se chi racconta lo facesse in virtù del fatto che precedentemente gli è già stato raccontato qualcosa, ovvero perché è in attesa di ascoltare altri raccontare. Non solo i due punti teorici su cui il poeta più insiste sembrano trovare una qualche eco nell’esposizione del filosofo – sia la compartecipazione di locutore e destinatario22 nella produzione del sapere, sia l’importanza assoluta del ritmo che scandisce il tempo23 sono presentati da Lyotard come caratteristiche essenziali del sapere narrativo – ma anche il recupero dei testi di Platone funziona in un certo senso come parte integrante di questo sapere, nell’intenzione di voler ritornare alle origini di quella costruzione mitologica, essenzialmente narrata, che sorregge la società occidentale moderna. L’operazione che, se vogliamo, è una retrocessione nella memoria, ovvero una sorta di anamnesi, permette di mostrare che la conoscenza scientifica moderna necessita, anche solo per essere pensata, di una conoscenza precedente e tradizionale che è quella del racconto. Di quest’ultima Esercizi platonici rappresenta quasi l’apparato teorico che verrà riapplicato, con risultati più immediati, negli Epigrammi e in parte, negli ultimi capitoli de La ballata di Rudi: Ti pare che la scienza di costui nel caso che egli possieda unico discorso per il circolo e per la sfera, nella pura oggettività, possa ritenersi sufficiente? Sufficiente una tale scienza, se costui, questa umana sfera nostra che è sensibile, questi sensibili circoli, ignora?24 Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna (1979), Milano, Feltrinelli, 200617, p. 42. 22 Cfr. ibidem: «gli atti linguistici pertinenti per questo tipo di sapere non sono dunque attuati esclusivamente dal locutore, ma anche dal destinatario come pure dalla terza persona di cui si parla». 23 Cfr. ivi, p. 43: «un quarto aspetto del sapere narrativo meriterebbe di essere analizzato accuratamente: la sua influenza sul tempo. La forma narrativa obbedisce ad un ritmo, essa è la sintesi di un metro che scandisce il tempo in periodi regolari e di un accento che modifica la lunghezza o l’ampiezza di alcuni di tali periodi». 24 Elio Pagliarani, Esercizi platonici, cit., p. 237. 21

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La doppia valenza moderna della parola “sensibile” alludendo da un lato al corpo e dall’altro all’emotività serve essenzialmente a dimostrare per un verso la lontananza della scienza dalle questioni antropologiche quotidiane e per un altro la fredda insufficienza di una oggettività che tende a considerare soltanto pochi aspetti della conoscenza ignorando, al contrario, la complessità della realtà umana. Detto questo è ancora necessario fare chiarezza su ciò che abbiamo posto essere il problema centrale dell’opera, ovvero il tipo di rapporto che la poesia di Pagliarani instaura sia con il piacere che con il sapere: il lavoro di bilancio per cui l’arte poetica pagliaraniana sembra imporsi come raffinato strumento di conoscenza nel suo farsi continuamente specchio di una sedimentazione linguistica che rappresenta sia la storia (nel senso di storia dei vincitori), sia la memoria di ciò che abbiamo detto non essere storia, cioè la storia degli sconfitti, non spiega il senso di alcuni dei capitoli degli Esercizi. Resta difficilmente negabile il fatto, riportato anche da Albinati, che alcune trascrizioni sembrano costruite proprio per collocare la poesia in un ambito di piacere contrapposto a quello della conoscenza. In realtà, esattamente come nel Filebo, «piacere e conoscenza sono figure opposte solo in principio, e sono destinate a una graduazione che le riavvicinerà, nelle conclusioni, attraverso la specola di nuove figure concettuali (la misura ecc.)»25 e ciò vale a dire che la tmesi tra la lettura globale e quella di alcune singole poesie – in particolare si veda il tredicesimo frammento –, superficialmente inconciliabile, viene ricondotta a un’unità, nella quale certamente può essere messo in luce l’aspetto del piacere piuttosto che quello della conoscenza, ma che in sostanza tende a sovrapporli. Non si tratta qui solo di dimostrare, come fa Socrate nel dialogo, che la vita prevede la compenetrazione dei due aspetti, bensì di invitare a una meditazione per la quale la conoscenza stessa diventi piacere e il piacere sensibile, corporale, diventi conoscenza. Ciò è in parte riferibile ancora una volta alla risonante influenza delle teorie brechtiane nella poesia del nostro: secondo Brecht, lo abbiamo già ricordato a proposito di Lezione di fisica e Fecaloro, è in effetti di fondamentale importanza per le classi sottoposte, in chiave di un cambiamento sociale, sviluppare il piacere dell’apprendimento. Edoardo Albinati, Il Platone di Pagliarani, cit., p. 21.

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2. ideologia di un affresco: da carla a rudi Nel 1995 dopo una redazione lunga circa 34 anni Pagliarani dà alle stampe per i tipi di Marsilio La Ballata di Rudi. Il progetto dell’opera, annunciata fin dagli anni ’60, risale, secondo le datazioni offerte dall’autore, agli anni della pubblicazione de La ragazza Carla, di cui in principio avrebbe dovuto essere una sorta di continuazione, ovvero di opera gemella così come la sperimentazione e la tecnica impiegate palesano26. A conferma di ciò più di un critico ha ipotizzato che addirittura la vicenda narrata si intrecciasse in qualche modo con quella del poemetto precedente, e del resto Pagliarani stesso ha voluto raccogliere nel 1997 le due opere in Romanzi in versi27 facendo intendere in questo modo non solo la contiguità tra le stesse, ma anche che la giusta collocazione de La ballata di Rudi all’interno del proprio corpus è da porsi, indipendentemente dalla data di pubblicazione, accanto e in rapporto con La ragazza Carla in relazione al lavoro (e all’amicizia) con Elio Vittorini28. Questa sistemazione da un lato evidenzia lo scarto tra la Ballata e le opere a questa cronologicamente più prossime, lasciando così intravedere la sostanziale continuità tra Esercizi platonici e i successivi Epigrammi; dall’altro però appare quanto meno forzata. Nonostante le dichiarazioni del­ l’autore, infatti, non possiamo non rilevare che tra la pubblicazione dei due romanzi in versi resti una distanza cronologica notevole e che a tale scarto temporale ne corrisponda uno etico e semantico, che, anzi – a un’attenta analisi delle date di redazione dei singoli capitoli, per quanto possibile – pare via via ampliarsi in corrispondenza proprio del trascorrere del tempo. Ciò può essere in parte spiegato dal fatto che, in realtà, il progetto iniziale di Pagliarani, come dichiarato sulle pagine di «Quindici» nel 1969, prevedeva una finzio Cfr. Christian Eccher, Sulla Ballata di Rudi di Elio Pagliarani, in «Avanguardia», 20, 2002, p. 97: «il progetto iniziale dell’autore era quello di scrivere un’opera narrativa per certi aspetti simile a quella portata a termine con La ragazza Carla, con la contaminazione di diversi generi letterari (fra cui spiccava il romanzo, in quanto genre narrativo per eccellenza) in un’ampia descrizione delle vicende di alcuni personaggi, dal secondo dopoguerra allo scoppio del boom economico». 27 Cfr. Elio Pagliarani, I romanzi in versi, cit. 28 Cfr. Id., Cronistoria minima, cit., p. 469: «ecco: mi ero dimenticato che anche la Ballata di Rudi posso in un certo senso collegarla a Vittorini. L’ho scritta tutta a Roma, nel periodo dalla primavera del ’61 all’inverno ’94-95». 26

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ne narrativa meno prolissa di quella che possiamo leggere oggi, con un intervallo che partendo sempre dal ’49 doveva arrivare al ’60, comprendendo non più di un dodicennio. Nella sistemazione del 1995, come scrive Eccher, «solo le prime ventidue [sezioni] si svolgono nel periodo indicato dal poeta su “Quindici” a eccezione della sezione XXI che costituisce un richiamo al clima terroristico degli anni Settanta. Le restanti, a cominciare dal Doppio trittico di Nandi, furono scritte proprio durante gli anni Settanta e Ottanta ed in esse è evidente un notevole cambiamento di poetica»29. Come ricaviamo dalla struttura organizzativa dei brani poetici La ballata di Rudi viene terminata proprio allorquando manifesta la propria impossibilità di essere (de)finita, esprimendo piuttosto una sconfitta, o per usare una metafora consona, un naufragio di un certo tipo di sperimentazione. Più nello specifico, se la prima parte (I-XXII) costituisce il progetto iniziale, la seconda (XXIII-XXVII), che ne è il completamento, ne manomettete gli intenti ed esprime l’impossibilità poetica di pervenire nuovamente a una struttura coerente. Sebbene, insomma, al momento della pubblicazione l’opera sia stata salutata come il grande ritorno di Pagliarani, dopo trent’anni, a quella poesia narrativa con cui era partito e con cui aveva raggiunto le prime fortune poetiche, in realtà con il passare del tempo questo ritorno si è sempre più configurato come un tentativo fallito. Il gap temporale tra i due romanzi in versi rappresenta in fondo lo stacco tra due modelli di cultura, tra due diverse società, e, inevitabilmente, tra due modalità di creazione poetica: E certo al tempo della Ragazza Carla non solo l’autore coltivava svariate idee d’amore e di ingiustizia, ma anche tutto il nostro Pae­ se: non così certamente negli anni della conclusione della Ballata, e anche prima, anche molto prima30.

Se ne La ragazza Carla era proprio l’unicità della protagonista femminile a garantire uno svolgimento narrativo coerente e progressivo, nella Ballata ciò che predomina è l’aspetto frammentario e confuso del procedere delle vicende, sottolineato dalla scomparsa di un Christian Eccher, Sulla ballata di Rudi di Elio Pagliarani, cit., p. 98. Elio Pagliarani, Cronistoria minima, cit., p. 470.

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personaggio unitario a favore di una molteplicità di situazioni e di soggetti. E mentre nella prima parte tale molteplicità non pregiudica lo svolgimento della narrazione, nella seconda si assiste a una sorta di eclissi dei protagonisti medesimi e delle loro vicende31, inghiottiti da un caos non più descrivibile, a significare quella sconfitta che non è solo del poeta ma, collettivamente, dell’intero «nostro Paese». Da questa consapevolezza non può che derivare una poesia che si pone fondamentalmente come testimonianza di quelle modificazioni radicali avvenute in seno alla cultura italiana dal dopoguerra agli anni Novanta, evidenziando alcuni fenomeni di acculturazione32 che in questo lasso di tempo hanno portato alla sparizione della cultura tradizionale. Se si vuole è addirittura possibile pensare la Ballata proprio come un’opera che riguarda, latu sensu, il discorso coloniale, o meglio una narrazione dell’assoggettamento culturale dell’Italia nei confronti dei liberatori, o comunque di uno spirito neo-capitalistico estraneo alla cultura tradizionale. In questo senso «la complessità dell’elaborazione testuale», come sostiene Pianigiani, Cfr. Christian Eccher, Sulla ballata di Rudi di Elio Pagliarani, cit., p. 98: «i personaggi e le storie raccontate nelle prime ventidue sezioni non vengono più menzionati. Perché? Perché il sistema neocapitalista ha completamente distrutto la vitalità dei protagonisti della prima parte della Ballata». 32 Con fenomeni di acculturazione intendiamo antropologicamente quei fenomeni di modificazione culturale dovuti al contatto di una cultura con un’altra egemone. La società meno influente assorbe – in genere – le caratteristiche culturali dell’altra pur selezionandole e modificandole. Nel caso dell’Italia, dopo la liberazione, l’influenza culturale di chi aveva vinto la guerra e in particolare degli Stati Uniti segna delle trasformazioni culturali radicali e inedite che nemmeno forme di potere più centralizzate e meno liberali erano riuscite a imporre. Come scrive Pasolini nel 1973 «nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica, voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana. Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni». Cfr. Pier Paolo Pasolini, Sfida ai dirigenti della televisione, in «Corriere della Sera», 9 dicembre 1973; poi con il titolo Acculturazione e acculturazione, in Scritti corsari, Milano, Garzanti, 1975. 31

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«risponde ad un’idea di poesia come “rendiconto” costante»33 così che la stessa durata della stesura assume un proprio valore semantico, sia imitando in qualche modo i tempi dilatati della vicenda narrata che si estende definitivamente fino alla postmodernità e all’«era dell’anoressia», sia permettendo al lettore un punto di vista sempre differente con il passare degli anni. L’incastro tra le vicende dei personaggi, la storia globale che emerge dall’opera, e le vicissitudini di mezzo secolo d’Italia presenti in molteplici riferimenti alla cronaca e nell’uso della trascrizione di articoli o saggi, creano «un tessuto linguistico multiplo, fedele alla discontinuità della comunicazione attuale»34 in grado di sottolineare, sempre come puntualizza Pianigiani, che a una «visione oggettiva della realtà»35 corrisponde inevitabilmente una connaturata «parzialità del giudizio»36. Se ciò significa al livello del lettore che il «materiale critico documentario»37 si inserisce in una «logica strutturale interna»38 che si incarica di evidenziarne quel senso che pure resta «aperto alla volontà ricostruttiva della lettura»39, al livello dei personaggi questo comporta, anche nella prima parte, un’astratta indeterminabilità degli episodi descritti: il fatto che la vicenda globale non corrisponda alla somma delle particolari storie di ognuno, ma si organizzi seguendo delle dinamiche sempre sfuggenti alla comprensione di chi le sperimenta, implica spesso una perdita di controllo da parte dei personaggi del proprio vissuto, con una conseguente oscurità della stessa narrazione. Si tratta, forse, di una tecnica con cui Pagliarani espone quello sradicamento culturale che non riguarda solamente i personaggi descritti, ma che coinvolge anche chi li descrive e spesso chi ne ricostruisce i movimenti leggendo. Situazioni narrative simili si ritrovano, a conferma della nostra impressione, in un altro autore romagnolo che forte aveva sentito lo stacco culturale tra l’Italia dei suoi genitori e la propria, Tonino Guerra. Un confronto de La ballata di Rudi con la Guglielmo Pianigiani, La ballata di Rudi di Elio Pagliarani: romanzo-partitura e drammaturgia antilirica, in «Allegoria», 23, 1996, p. 149. 34 Ibidem. 35 Ibidem. 36 Ibidem. 37 Ibidem. 38 Ibidem. 39 Ibidem.

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sceneggiatura di Amarcord, ma anche con l’opera narrativa di Guerra, e in particolare con L’uomo parallelo40, può risultare, in questo senso, di estremo interesse. Ne L’uomo parallelo – ad esempio – il protagonista, che è anche narratore, non raramente smarrisce la propria identità per l’impossibilità di far ricorso a quella memoria culturale da cui sembra irrimediabilmente separato, e al cui recupero, pure, tende per l’intero romanzo. Questo causa al livello del racconto una distorsione delle sequenze narrative, che, soprattutto nel finale, ricorda in qualche modo lo smarrirsi dei protagonisti di Pagliarani nella Ballata. E se inoltre nell’opera di Guerra il rapporto conflittuale con la cultura dominante era esplicitato dal viaggio del protagonista negli Stati Uniti, ovvero in «quella parte della terra di nessuno in cui ti sparano di più, dove ti inchiodano di più anche se non sembra»41 dove «sei sempre con le mani alzate anche quando tieni le mani in tasca, sei una sagoma e basta»42, in quella di Pagliarani il medesimo conflitto è introdotto in maniera meno immediata e forse più pregnante attraverso la descrizione della penetrazione di alcune pratiche culturali nuove, che alterano radicalmente i comportamenti sia di chi le accetta che di chi non lo fa, in questo percorso che porta a una finale perdita di chiarezza nella narrazione e di spessore di ogni personaggio. In apertura di poemetto è la descrizione della nuova industria del divertimento, rappresentata dalle balere delle coste adriatiche, a mostrare come gli equilibri sociali storici vengono alterati con l’attrazione anche delle classi medie verso i nuovi prodotti. L’“invenzione” del benessere, qui tradotta dalla moda delle serate danzanti nel nuovo locale di Rudi, il Nido, resta il soggetto privilegiato del poema sino al III capitolo, con una progressione cronologica che diventa considerevole se accettiamo le indicazioni del testo, comprendendo l’intervallo tra il 1949 – dal titolo del primo capitolo – e la fine degli anni ’50 – dai riferimenti al mondo dello spettacolo del terzo43. Anche nei capitoli successivi Pagliarani prosegue il rendi Tonino Guerra, L’uomo parallelo, Milano, Bompiani, 1969; ora Rimini, Maggioli, 19972. 41 Ivi, p. 71. 42 Ibidem. 43 Cfr. Elio Pagliarani, Rudi spiega le cose, in La ballata di Rudi, cit., p. 264: «Barzellette | al microfono, l’amico del giaguaro, Walter Chiari la Maresca». Il richiamo in questo passo è al successo teatrale e cinematografico dell’attore Walter Chiari 40

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conto delle nuove abitudini, inframezzandolo sempre di più con voci altre, spesso trascritte da rotocalchi o riviste dell’epoca, che sottolineano i contrasti, la non linearità di quel progresso e di questa acculturazione capace di creare ogni volta nuove irriducibili differenze. Si veda per esempio il capitolo VII, Un cervo nel Massachusetts, in cui la vicenda americana – in sostanza Pagliarani riporta la storia di un anziano che nel Massachusetts sostiene di aver assistito al suicidio di un cervo – viene giustapposta con un contesto italiano caratterizzato dalla volgare e libidinosa furbizia di personaggi come Rudi44, con il risultato di un apparente non-sense. In realtà è proprio questo incastro, che sottolinea per altro la diffusione di storie e narrazioni americane in Italia, a creare un’atmosfera di apocalisse grottesca in cui ci sembra di scorgere anche un riferimento al celebre sismologo Raffaele Bendandi45 e alla sua teoria delle «crisi cosmiche»: In luglio l’omino ha dei compiti fa previsione sulle crisi cosmiche e guarda sorridendo Su alcuni tavoli cilindri di legno grandi e piccoli coperti da un sottile strato di [nero-fumo con esplicite allusioni alle pièces con Marisa Maresca e al film di Giuseppe Bennati, L’amico del giaguaro, del 1958. 44 Cfr. Id., Un cervo nel Massachusetts, ivi, p. 274: «Pranzo | a Bertinoro con l’albana in macchina a momenti soffocava | la Pupa a momenti soffocava quando Rudi frenò per quel gatto fortuna che Rudi | ha i riflessi pronti le ha tenuta ferma la testa con un braccio | le ha impedito di sbattere la testa sullo sterzo, sì che ridere lui stava venendo | lei ha mandato giù tutto di traverso». 45 Raffaele Bendandi (1893-1979) è stato un celebre scienziato faentino, ideatore della teoria sismogenica tramite la quale si tentava di prevedere i terremoti. Di grande importanza sono i suoi contributi sullo studio del sole. In particolare Bendandi aveva notato che all’aumento dell’attività solare, con la comparsa delle macchie solari, sulla Terra si verificavano fenomeni biologici particolari che coinvolgevano anche il corpo e la psiche dell’uomo. Questi periodi di iperattività del sole, della durata di otto giorni, furono battezzati «crisi cosmiche» da Bendandi. Nei giorni di crisi cosmica si poteva registrare un aumento dell’aggressività dei virus, quello di patologie cardiache e di morti improvvise; pure l’umore e la stabilità della psiche degli individui più sensibili si rivelavano compromessi, mentre la cronaca registrava un sensibile aumento della criminalità. Oltre agli effetti citati si registravano una intensa instabilità degli elementi atmosferici, elettrici, magnetici e degli esplosivi. Cfr. . Qui il collegamento con gli Usa è dato in virtù del fatto che le teorie sulle crisi cosmiche furono appunto riprese, approfondite e studiate dal Mit, proprio nel Massachusetts.

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segnati da una lunga penna d’oca Nel Massachusetts un cervo in luglio li indica successivamente con dei nomi, sfiorando la parete, il [pennino dell’inlinografo si stacca dal cilindro, ha una sorella maggiore dice che siamo i burattini del sole46.

Le situazioni descritte da Pagliarani sembrano infatti svolgersi nei giorni di «crisi cosmica» in cui, come spiega Bendandi, avvengono modificazioni biologiche ed eventi che solo all’apparenza sono determinati dal caso. La riflessione del nostro, però, come al solito si muove ambiguamente tra la narrazione e l’extra-narrazione, ossia tra la poesia e la metapoesia, cosicché l’apparente impossibilità di significazione di questi versi divenga in verità il suo più concreto significato. Con lo spostamento d’ambientazione da Viserba a Milano, dal capitolo X, Pagliarani inquadra più da vicino il contesto dell’Italia del pieno boom economico. È in particolare in quelle pagine che sono state definite un «romanzo nel romanzo» – ovvero quelle che vanno dal capitolo XI al XVII e che narrano le vicende di Armando, «un tassista abusivo che, di fronte all’opportunità subito svanita di guadagnare due milioni di lire tramite il riciclaggio di denaro sporco impazzisce»47 – che i dati della modernità e del neocapitalismo iniziano a mostrare il rovescio della propria medaglia. La burocratizzazione della vita di ogni giorno e l’inurbamento si accompagnano ai problemi economici e all’isolamento sociale: Armando, disposto a tutto per ottenere una licenza da tassista, si scontra con la corruzione e con la malavita. Per guadagnare il denaro necessario al pagamento della mazzetta che gli permetterebbe di ottenere la licenza, infatti, il tassista comincia a lavorare abusivamente trasportando i clienti di un giro di prostituzione nella cui gestione è in qualche modo implicato anche Rudi. Nel capitolo XIII lo troviamo coinvolto nelle vicende di un ospedale psichiatrico, Villa Grazia, dove probabilmente, è ricoverato egli stesso. Ciò che è certo è che lo scenario sempre più losco in cui Armando si avventura finisce per rendere obsoleto il fondo morale su cui erano state edificate le abitudini del Elio Pagliarani, Un cervo nel Massachusetts, cit., p. 273. Christian Eccher, Sulla Ballata di Rudi di Elio Pagliarani, cit., p. 101.

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le generazioni precedenti. La capacità combinatoria dei collage pagliaraniani, tuttavia, attraverso un vigile controllo dei livelli di drammatizzazione dei racconti, fa in modo che la crudezza realistica delle vicende non venga letta con un eccesso di pathos, provvedendo laddove necessario ad abbassare dal punto di vista formale e specie ritmico la tensione che invece traspare dai contenuti narrati. Il ricorso periodico a una specifica partitura musicale – già sperimentato in una sequenza de La ragazza Carla48, nella forma leggera della filastrocca – è adoperato spesso in questo senso: Armando Armando di questo core tu non conosci cos’è un signore tu non conosci che strada fare se un signore vuoi diventare con i quattrini che non hai tu esci dal night fa un fischio e monta su è più probabile per quanto labile rimediar ghelli andando nei bordelli da cliente che da autista compiacente. La strada più sicura per non combinare niente è far pena alla gente o litigare con il cliente49.

Il moralismo in Pagliarani non cede mai alla retorica: l’obiettivo primario resta, qui come altrove, quello di mostrare l’assurdità del­ l’inarrestabile processo di disumanizzazione innescato dal nuovo modello di sviluppo, e dunque di quegli ingranaggi in cui i personaggi della narrazione si ritrovano come impigliati; le note di commiserazione, che pure di tanto in tanto si lasciano intravedere, sono da leggere quasi sempre come pensiero autocosciente del singolo personaggio, piuttosto che come intervento diretto dell’io poetico. In questo caso il riferimento alla Traviata, a cui come sostiene Pianigiani la vicenda di Armando si lega «per alcune coincidenze tematiche (l’allusione al bordello, i soldi, il disprezzo, l’umiliazione)»50, Cfr. Elio Pagliarani, La ragazza Carla, cit., 144: «Casa mia casa mia | per piccina che tu sia | c’è Nerina con la pancia | con lo schiaffo sulla guancia | del marito che lavora | chi lo sa per quanto ancora | c’è la madre che permette | calze larghe calze strette | tutto bene come fosse | un bambino con la tosse | ogni giorno sempre uguale | c’è una volta carnevale | c’è una volta carnevale | c’è una volta». 49 Id., Ogni sabato mattina, in La ballata di Rudi, cit., pp. 289-290. 50 Guglielmo Pianigiani, La ballata di Rudi di Elio Pagliarani, cit., p. 157. 48

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spezza l’andamento cupo del resto del capitolo, dal momento che in questo contesto il senso drammatico dell’opera citata viene completamente estinto e può essere riletto in chiave meno tragica. Si potrebbe in altri termini pensare che tra la vera vita di Armando e il dramma teatrale ci sia un rapporto tale per cui la pur fosca atmosfera di questo sia nullificata dal confronto con la terribile realtà di quella. E, a proposito dell’aspetto teatrale della Ballata, occorre sottolineare che, attraverso l’interpretazione di Brecht, i personaggi sono qui chiamati ad assumere un valore esemplare senza creare nel lettore quell’immedesimazione che metterebbe a rischio la validità stessa dell’opera. Per questo motivo, a differenza de La ragazza Carla, l’io poetico evita il commento diretto, anche se non è difficile presentire la sua voce generalmente ben mimetizzata all’interno di numerose trascrizioni: egli stesso è parte del processo di reificazione, è invero cosificato, divenuto trascrizione di articoli di giornale o rotocalchi. Il poeta in altre parole si trasforma in regista conferendo al montaggio il vero significato del suo lavoro: la critica alla società dei consumi e alla normalizzazione della stessa, che pur si mantiene salda, avviene, se così possiamo dire, indirettamente, attraverso accostamenti di frammenti e un ricorso a un’ironia che ribalta abilmente alcuni degli assunti di base del nuovo sistema: Gira ruota gira gira e lavora per la lira per godere e riposare prima occorre lavorare e saper rischiare51.

Il rovesciamento ironico dei significati tràditi dai luoghi comuni assume in Pagliarani una vera e propria valenza da figura retorica: quella che è una messa in ridicolo di alcune convinzioni socialmente accettate agisce infatti soltanto al livello del lettore, mentre, per quanto riguarda i personaggi, quegli stessi convincimenti mantengono un carattere di abitudine che, quasi orwellianamente, assurge al ruolo di inattaccabile verità. In questo modo Pagliarani chiarisce l’importanza del processo interpretativo: la dimostrazione che medesimi repertori linguistici vengono percepiti diversamente – e ciò Elio Pagliarani, XV, in Id., La ballata di Rudi, cit., pp. 300-301.

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dipende essenzialmente da due punti, ovverosia, il contesto e la condizione socio-culturale del destinatario – è anche riflessione sull’impatto del potere linguistico esercitato da alcuni strati sociali su altri. Il disciplinamento linguistico governato dalle classi egemoni è finalizzato a standardizzare una determinata interpretazione, modificando in una piatta uniformità i modi di pensare e di agire. Insomma lo svelamento del controsenso di ciò che appare norma, che fa sì che tragico e comico convivano all’interno degli stessi brani, è un ulteriore sforzo della poesia del nostro in chiave antirepressiva: al lettore, tramite questa operazione, è consentito scorgere, infatti, il lato amaramente comico di quelle storie che, invece, rimangono tragiche per i personaggi che le vivono. Nei capitoli successivi, conclusa la narrazione delle vicende di Armando, vengono introdotti altri personaggi le cui vicissitudini, sempre più brevi e frammentate, servono essenzialmente a mostrare ulteriori effetti della nuova società neocapitalistica. È da leggere in questo senso il capitolo xix, Adesso la Camilla gioca in Borsa, nel quale alla speculazione borsistica, al guadagno “facile”, vengono contrapposte le resistenze morali ed esistenziali del personaggio di Camilla, una pensionata che viene convinta dal nipote Marco a investire la propria liquidazione, «dieci milioni», in azioni. Nonostante l’investimento vada a buon fine, infatti, Camilla si trova nella condizione paradossale di dover pagare una sorta di “debito etico” alle nuove condizioni imposte dal Capitale: andiamo all’Opera. tutta eccitata, e adesso è peggio che la borsa [sale e sale di corsa è di un depresso che non guarda nemmeno la tivvù, mio padre le [ha chiesto se sta male che deve andare dal medico, alti e bassi d’umore sì alti e bassi ma alla rovescia. Stato di ipocondria ha deciso il professore, niente [di grave però diventa più faticoso vivere, sopportare anche le minime difficoltà [della vita quali difficoltà, perché piangersi addosso se la Borsa sale e [canticchiare se la Bora scende finché papà gliel’ha chiesto bruscamente e lei ha detto se perdo [tutto adesso vuol dire che avevo ragione prima, che ho avuto ragione per [sessant’anni

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a vivere da poverina, sessant’anni giusti e uno sbagliato; adesso se [guadagno in un anno più che in quarantacinque di lavoro vuol dire che fino all’anno [scorso ho sbagliato tutto Io non accetto il cambiamento: o era giusto prima o è giusto [adesso non è che sono matta nella testa: difendo la vita nella sua [interezza52.

Il benessere economico, attraverso la vicenda di Camilla, è attaccato nei presupposti: la speranza tipicamente subalterna di una redenzione sociale subitanea come concessione di inedite possibilità patrimoniali si rivela per quello che è, un’illusione. Alla maggiore disponibilità di denaro non pare corrispondere in effetti un reale accrescimento della qualità della vita, per il fatto che, pur concedendo la “libertà” di acquistare oggetti, tale disponibilità si accompagna a problemi di nuove e preoccupanti proporzioni, di cui fungono solo da esempio depressione, ipocondria, e, come Pagliarani specifica in altri capitoli, abuso di farmaci, propagazione di nuove malattie come la bulimia e l’anoressia. L’apparente arricchimento insomma nasconde dietro l’irresistibile promessa di una vita agiata un proprio lato oscuro. Nel caso di Camilla però c’è di più: le condizioni imposte dalla nuova società del consumo sembrano affermarsi come preciso abbattimento del sistema assiologico che caratterizzava la società negli anni della giovinezza della donna. Camilla, semplicemente, non può accettare le nuove condizioni socio-economiche perché esse annullerebbero il senso dei suoi precedenti sessant’anni di vita, negando o invalidando quella serie di valori in base ai quali si era formata. Camilla, lo vedremo meglio più avanti, fa parte – insieme al solo Nandi – di una categoria di personaggi chiamati a rappresentare quella che nei termini posti da Homi Bhabha nella sua critica postcoloniale potremmo definire una minority, almeno a giudicare dalla loro volontà, o illusoria tensione, di non accettare le nuove condizioni poste, essenzialmente, dall’economia consumistica. Lo spazio descritto da Bhabha come marginale o della minoranza «non costi Elio Pagliarani, Adesso la Camilla gioca in borsa, in La ballata di Rudi, cit., p. 314.

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tuisce un luogo di automarginalizzazione celebrativa o utopica; esso piuttosto interviene in modo molto più incisivo su quelle giustificazioni della modernità – il progresso, l’omogeneità, l’organicismo culturale, le radici nazionali, il passato ancestrale – che razionalizzano le tendenze autoritarie e normalizzatrici nei rapporti tra culture in nome dell’interesse nazionale o della prerogativa etnica»53 e corrisponde a quello riservato a Nandi e a Camilla nella Ballata. Sono le categorie escludenti – per dirla diversamente – della nuova cultura egemone a marginalizzare chi non ne sposa entusiasticamente i fini o non ne apprezza i risultati, solo che l’apertura di spazi minoritari all’interno di una cultura che si presume univoca è la dimostrazione più evidente che il suo «luogo […] non è unitario e coeso, né può essere visto semplicemente come altro in relazione a ciò che è oltre o al di fuori di esso»54. Ciò vale a dire che in un certo modo la cultura egemone causa dei processi di ibridazione dei gusti, delle abitudini, delle opinioni, nei quali gioca un ruolo anche chi rimane ai margini con «l’inevitabile conseguenza che nella dinamica del processo politico si creino deboli luoghi di antagonismo politico e imprevedibili forze di rappresentazione politica»55. E in questo senso Nandi più di Camilla, forse perché per Nandi la resistenza è un discorso morale e ideologico prima che esistenziale, diventa emblema della cultura tradizionale e in particolare di quel «sapere narrativo» che abbiamo descritto a proposito degli Esercizi platonici: c’è la diga che taglia la corrente cambia d’ordine ai depositi di sabbia perciò quando Nandi dice butta giù bisogna buttarle giù subito le reti e girare quando dice gira e scendere quando dice di scendere [e fare l’arco quel numero preciso di metri che dice lui c’è la speranza che li tiene in gabbia di pescare tutte le sbornie dell’inverno in una sola volta c’è la matematica di Nandi, piuttosto, che fa le medie con la luna56. Homi Bhabha, Introduzione: narrare la nazione, in Nazione e narrazione (1990), a cura dello stesso, Roma, Meltemi, 1997, p. 37. 54 Ivi, p. 38. 55 Ibidem. 56 Elio Pagliarani, A tratta si tirano, in La ballata di Rudi, cit., p. 278. 53

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Nandi, che avevamo già trovato in Rosso corpo lingua oro pope-papa scienza, viene qui finalmente connotato come vecchio pescatore anarchico: l’ideologia politica da un lato e il mestiere tradizionale dall’altro conferiscono al personaggio un ruolo determinante all’interno degli equilibri della Ballata ed egli in fondo risulta l’unico personaggio a non essere compromesso con le rinnovate abitudini e soprattutto con la moderna idea di ricchezza. L’importanza allegorica di Nandi può essere rintracciata anche a livello della sistemazione e della progressione dei componimenti: i due capitoli che lo vedono protagonista (ix, xxiii), infatti, separano quelle tre parti a cui en passant ci siamo già riferiti. Dopo il capitolo ix infatti la vicenda dalle coste adriatiche si sposta a Milano, mentre, dopo il capitolo xxiii si assiste a una brusca interruzione, dopo la quale non soltanto l’ambientazione risulta totalmente disarticolata, ma addirittura le modalità poetiche paiono riformate, con la scomparsa all’interno di un coacervo linguistico delle vicende narrate precedentemente. Da qui in poi l’intera esposizione poetica è occupata da scandali finanziari, scandali sessuali, crack, lussi della moda, concorsi pubblici falsati, e – profeticamente si direbbe – violenze legate al mondo dello sport, ingerenza della Chiesa in questioni di scienza, bulimia e anoressia. Tutto in conclusione sembra essere esploso, la cultura tradizionale sembra essere stata spazzata via, come i capitoli dedicati a Nandi avevano preannunciato nel celebre refrain della raccolta, ossia quello dell’«appassimento del mare»: «e invece ha senso pensare che s’appassisca il mare»57 e «epperò ha senso pensare che s’appassisca il mare»58. Eppure l’epigramma che chiude la raccolta – sezione xxvii – ridesta qualche possibilità, non cede a un inoperoso pessimismo: Ma dobbiamo continuare come se non avesse senso pensare che s’appassisca il mare59.

Lo spiraglio riaperto da Pagliarani è certamente soltanto imma Ivi, p. 279. Ivi, p. 325. 59 Ivi, p. 336. 57 58

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ginativo, nel senso che quel mare probabilmente sta appassendo comunque, o fuor di metafora, che la cultura del pescatore Nandi – che poi sembra essere la medesima dell’io poetico –, che se ne prenda atto o meno, è sottoposta, come il mare è sottoposto a un inquinamento che ne mette in seria difficoltà la sopravvivenza, a un processo di scomparsa inesorabile. Tuttavia se questa vaga propensione a reiterare una forma di resistenza che, giova ricordarlo, corrisponde finalmente alla poesia, rappresenta l’estremo tentativo del poeta di non arrendersi alle logiche degradanti del tardo capitalismo, di certo essa deve poter essere rivolta a qualcuno e da qualcuno essere ispirata. Che il referente privilegiato del lavoro di Pagliarani sia il luogo delle minority sembra abbastanza chiaro sia per ragioni testuali, in particolare la collocazione dell’io poetico nel Doppio trittico di Nandi di cui più volte abbiamo detto, sia per ragioni extratestuali, con i ripetuti tentativi di instaurare una collaborazione che dia un qualche peso sociale, e quindi «politico», tra chi da solo non ne avrebbe, e si veda particolarmente la Cooperativa scrittori e i laboratori di poesia, iniziative pronte, entrambe, ad accogliere e a dare la parola a giovani poeti, a «gratuiti vivificatori della parola»60, per usare un’e­ spressione più vicina al nostro autore. 3. la ballata del baro e la traccia della poesia Per quanto detto fin qui è lecito sostenere con Aldo Nove che La ballata di Rudi è in fondo «l’unico documento in versi di quarant’anni di storia d’Italia della prospettiva paradossale della storia stessa e dei suoi protagonisti in minore»61. In questo senso è necessario sottolineare che se, come abbiamo detto, la vera protagonista della narrazione è la nuova cultura neocapitalista che si insedia prima, diventa egemone poi e infine si rivela per ciò che è nell’«apocalittico» finale, resta in ogni caso determinante la particolare angolatura del fenomeno che i diversi personaggi riescono a rendere. Sebbene non sia errato concludere con Pianigiani che «la natura poematica e “pro Espressione ricavata dall’intervista Elio Pagliarani: noi, gratuiti vivificatori della parola, cit. 61 Aldo Nove, «Facendo finta che non s’appassisca il mare», in «Poesia», aprile 2006; ora in «L’illuminista», vii, 20-21, p. 367. 60

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gressiva” dei testi»62 crea soltanto «l’illusione del racconto disseminandone il senso nel contributo che ogni singola sezione offre alla ricomposizione del mosaico diegetico»63, non per questo è lecito ignorare quelle che Derrida chiamerebbe le “tracce” di tale narrazione: questa imperizia critica, del resto, ha portato non raramente a letture a nostro avviso difettive della raccolta pagliaraniana, falsate generalmente dall’aspettativa pregiudiziale di ritrovare ne La ballata di Rudi «la calda colloquialità del racconto»64 de La ragazza Carla. Ma sta proprio nel gioco delle tracce, nella perdita progressiva dei diversi percorsi, il senso profondo della raccolta: La ballata di Rudi si dimostra un’opera di estrema originalità in un panorama culturale, quello italiano, che aveva visto imporsi, attraversata la metà degli anni Settanta, una sorta di ritorno all’ordine, con un riflusso della narrativa nel realismo e un rientro della poesia nel soggettivismo e nel «protagonismo lirico»65, mantenendosi al contrario fedele a istanze avanguardistiche vicine ai risultati narrativi del Dos Passos della trilogia66. Come nell’opera dell’autore statunitense, la disseminazione del senso non si presenta come un artificio o un espediente letterario autoreferenziale/autocelebrativo. Essa deriva da una constatazione e da un’analisi storica, dalla lettura e dall’interpretazione Guglielmo Pianigiani, La ballata di Rudi di Elio Pagliarani: romanzo-partitura e drammaturgia antilirica, cit., p. 150. 63 Ibidem. 64 Fabrizio Bajec, Recensione a Federico Italiano, Nella costanza, in Poesia 2004, a cura di Giorgio Manacorda, Roma, Castelvecchi, 2004, p. 280. 65 Specchio di questo periodo di «vuoto teorico e produttivo» è la pubblicazione di antologie come La parola innamorata (1978) e Poesia italiana degli anni Settanta (1979) che segnano un ritorno alla “parola poetica”. Il clima culturale si trovava fondamentalmente orfano delle istanze propositive della neoavanguardia, ormai definitivamente spente, e la divisione tra gli ex-animatori della stessa – essenzialmente divisi tra coloro che si erano irrigiditi su posizioni di sperimentazione ortodossa, la quale però, non di rado, andava a creare una sorta di «neoclassicismo» dell’avanguardia, imponendo involontariamente tipologie e regole compositive e limitando, finalmente, le possibilità della poesia, e altri che al contrario, inseguendo nuove possibilità, erano finiti per smarrire la carica corrosiva e polemica della sperimentazione linguistica – non contribuiva alla creazione di un terreno comune di pianificazione e azione poetica. Cfr. Vittorio Boarini, Pietro Bonfiglioli, Avanguardia e Restaurazione, Bologna, Zanichelli, 1976; La parola innamorata. I poeti nuovi (1976-78), a cura di Enzo Di Mauro e Giuseppe Pontiggia, Milano, Feltrinelli, 1978; Poesia italiana degli anni Settanta, a cura di Antonio Porta, Milano, Feltrinelli, 1979. 66 Si tratta dei romanzi The 42nd parallel (1931), 1919 (1932), The Big money (1936). 62

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di periodi notevolmente protratti nel tempo. L’impossibilità di approdare a qualsivoglia linearità razionalizzata del reale non proviene da una scelta, si potrebbe dire, irrazionalistica, quanto da una constatazione che del dato storico preso in esame mette in luce i limiti, condannando essenzialmente l’univocità ovvero l’unidirezionalità di ciò che comunemente è definito reale: i dati documentari – trascrizioni di giornali, interventi, dibattiti – sono adoperati precipuamente in una chiave straniante di modo che possa essere manifestato il loro reale nonsenso. Allo stesso modo, sempre come in Dos Passos, il carattere “collettivo” della narrazione dipende da un approccio ideologico che rifiuta l’individualismo del romanzo borghese e annulla quindi la figura del protagonista. Tali modalità espressive premiano la frammentazione e la ripetizione di elementi significanti all’interno di una narrazione a volte non coerente, in maniera tale per cui, volendo trovare altri possibili paragoni, bisognerebbe domandare piuttosto a certo cinema che alla nostra tradizione poetica. Taluni paralleli con la produzione di Godard, con L’année dernière à Marienbad di Alain Resnais, ovvero con alcune esperienze del New American Cinema, non sarebbero infruttuosi. La costruzione di una catena significante nella quale elementi uguali si richiamano in momenti diversi del testo, assumendo, ogni volta, un significato leggermente diverso, è ben presente nella Ballata e appare come un’azione di disseminazione del senso condotta a partire da modelli di montaggio perfezionati dal cinema sperimentale. Ha detto una volta il regista David Lynch che «se si ha una visione parziale l’impatto è più forte che non di fronte a un quadro completo della situazione»67, per cui «l’intero può avere una logica, ma il frammento, tolto dal suo contesto assume un eccezionale valore di astrazione»68 cioè «può diventare un’ossessione»69. Questo sembra descrivere perfettamente la riflessione pagliaraniana: ne La ballata di Rudi ogni frammento possiede un senso individuale che resta lontano da quello che si può dedurre al momento di una lettura globale. La successione narrativa – imponendo tra frammento e frammento Cfr. David Lynch, Lynch secondo Lynch, a cura di Chris Rodley, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 1998. 68 Ibidem. 69 Ibidem. 67

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dei legami e dei richiami che saldano in sé l’intero testo dell’opera e costringendo il lettore all’attività ricostruttiva – smentisce finalmente l’idea del singolo frammento o quantomeno ne pretende una revisione. Le singole parti, insomma, pongono dei dubbi sul senso dell’intero progetto che, viceversa, mette in crisi l’apparente significato del frammento. E se, soprattutto nella parte finale, i frammenti sembrano autonomizzarsi, come fossero semplicemente giustapposti, ciò succede proprio per dare concretamente idea di una superficiale molteplicità: gli ultimi frammenti introducono infatti diversi aspetti della società degli ultimi dieci anni che trovano il proprio minimo comune denominatore in una stessa rappresentazione di una piatta e inesorabile decadenza dell’uomo occidentale e, più in particolare, della società italiana. Siano affrontati, infatti, scandali finanziari, lussi dell’alta moda o problemi relativi alla ricerca genetica, ciò che pare emergere è una decisa inclinazione pessimistica per la quale – a un’analisi più attenta – la sperimentazione della Ballata si dovrà considerare estremamente diversa non solo da quella de La ragazza Carla, ma anche da quella di Lezione di fisica e Fecaloro, benché le tecniche di versificazione, comunque superficialmente simili, possano trarre in inganno. La ballata di Rudi, in sintesi, registra, tentando di darne un bilancio, questi ultimi quarant’anni di storia, e, a differenza di qualsiasi altra raccolta pagliaraniana, non concede campo a spunti propositivi, salvo un disperato ricorso alla resistenza delle minoranze di cui abbiamo detto: i risultati antropologici di quel benessere che pasolinianamente si configura come un male radicale sono tutto ciò che viene esposto nella Ballata. Per quest’altro verso il tema già affrontato dell’“appassimento del mare” va considerato con una diversa sfumatura di significato. Nel capitolo vi, A spiaggia non ci sono colori, definito da Pianigiani un «manifesto di poetica», possiamo leggere: Le parole hanno la sorte dei colori disteso sulla sabbia parla un altro sulla sabbia supino con le mani dietro la testa le parole vanno in alto chi le insegue più bocconi con le mani sotto il mento le parole scendono rare

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chi le collega più sembra meglio ascoltare in due il tuo corpo e tu ma il suono senza intervento è magma è mare non ha senso ascoltare70.

La scissione della personalità dal corpo, effetto della spersonalizzante società dei consumi, si accompagna qui a un’inquietante incapacità di adoperare il linguaggio in maniera coerente. Ne deriva che i suoni delle parole, aumentati a dismisura dai moderni mezzi di comunicazione massmediatica, perdano di senso. Soltanto laddove chi parla (e chi ascolta) “insegue”, sa “collegare” i suoni che produce e percepisce, può esservi un significato; in tutti gli altri casi il materiale verbale è soltanto un magma, un mare di suoni. Se, come abbiamo detto all’inizio di questa trattazione, per Pagliarani spetta alla società nella storia il compito di produrre quei significati linguistici di cui il poeta si serve in seconda battuta misurandone la reale efficienza – da qui la fiducia mai perduta nella tecnica del montaggio – e proponendo, al più, soluzioni maggiormente equilibrate per tutte le classi sociali, La ballata di Rudi rende palese che dalla comunità sociale non emergono più significati, e quindi linguaggi, da utilizzarsi in poesia. Il neocapitalismo ha appiattito tutte le differenze in un magma insignificante: non ha più senso nemmeno ascoltare perché tutto è ormai uniformato in un inesorabile processo di appassimento: Il mare è discreto il sole non fa rumore il mondo orizzontale è senza qualità La sostanza è sostanza indifferente precede la qualità disuguaglianza71.

Non si deve fare confusione relativamente ai concetti di uguaglianza e diseguaglianza: l’uguaglianza dei diritti e delle possibilità Elio Pagliarani, A spiaggia non ci sono colori, in La ballata di Rudi, cit., p. 271. Ivi, p. 272.

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sociali – che era stato ed è anche nella Ballata un valore fondante del pensiero laico materialista e socialista del poeta di Viserba – è cosa ben diversa dall’indifferenziazione imposta dalla società dei consumi. Quest’ultima è invero un deformante ingabbiamento, una conduzione violenta all’uniformità del linguaggio, per cui quelle differenze sociali – di ceto, di cultura, di potere e opportunità – che permangono, ad anzi aumentano sempre più, non sono più nemmeno rintracciabili all’interno dei tessuti linguistici della società. Il poeta, quindi, non ha più modo di progettare un linguaggio “più efficiente per tutti” perché è lo stesso bacino linguistico, è la stessa società produttrice dell’input verbale, a non offrire più alcuna possibilità. È il mare del linguaggio a essere inquinato, tanto da non permettere più alcuna forma di opposizione ai processi reificatori della società capitalistica. Non sembra un caso che le altre opere coeve o successive alla Ballata cerchino un linguaggio lontano nel tempo e nella forma – estrapolando brani da Lutero e da Savonarola – nel tentativo di perdurare nella propria lotta: non viene più dalla società contemporanea la resistenza e tanto meno l’opposizione. Il fatto che la figura di Nandi, simbolo di quella minority che è l’unico spiraglio in direzione di una differenza che sia qualità, sia tratteggiata come quella di un anziano pescatore, la dice lunga su questo punto: anche la fiducia nelle possibilità delle nuove generazioni sembra definitivamente tramontata. Droghe, anoressia e bulimia assumono la funzione di veri e propri simboli: è attraverso le nuove malattie e le nuove dipendenze che Pagliarani cerca di dare misura del fallimento di una società e di un modello di sviluppo economico che pare fissare tra i propri fini un progressivo annichilimento dell’etica del dissenso. Solo cercando lontano – indietro – si può ritrovare per Pagliarani, almeno da questo momento della sua carriera in poi, un linguaggio sufficientemente caustico per «continuare» a lottare «come se | non avesse senso pensare | che s’appassisca il mare». A questa conclusione, comunque, Pagliarani giunge solo attraverso un’acuta attenzione agli sviluppi della società dei consumi, e si vedano in particolare le ultime poesie disperse, finalizzata alla ricerca, talvolta disperata, di possibilità di contrapposizione e resistenza nel presente. L’interesse per i movimenti ritmici inediti forniti dalle varie culture giovanili tramite i quali la poesia potrebbe non tanto conservare se stessa quanto salvaguardare la propria carica antirepressiva è, forse, da leg-

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gere in questa chiave. Le variazioni musicali date dai versi della Ballata di Rudi funzionerebbero, accettando questa lettura, come un vero e proprio sistema di scandaglio delle possibilità di reazione della società via via che trascorrono gli anni. Ne deriva un percorso coe­ rente, una traccia, quindi, che si salva in qualche modo anche dopo la scomparsa e la morte dei personaggi, assumendo magari una forma inconsueta, lontana dalla tradizione lirica, ma comunque sufficiente per l’espressione poetica, come è ad esempio il caso del rap. L’intera Ballata è attraversata da forme metriche che sillabano lo svolgimento delle vicende molto più coerentemente di quanto non faccia il contenuto narrato delle stesse, e ciò crea una sorta di contrapposizione tra i personaggi e ciò che per ricalcare un’espressione di Cortellessa potremmo chiamare «il ballo» delle parole. Come scrive Siriana Sgavicchia, nella Ballata di Rudi si trovano «i ritmi ora graduali di un valtzer ora scatenati come un boogie, alcune volte quasi melo’, altre addirittura rap»72 tali per cui la poesia, utilizzandoli, si colloca in uno spazio ambiguo all’interno dei mutamenti culturali descritti: da un lato essa ne resta ai margini, compiendo in un certo senso un percorso inverso rispetto a quello del protagonista Rudi, che invece, nel tentativo di inserirsi appieno nella nuova società, e in particolare volendo pervenire rapidamente a luoghi di potere, si perde prestissimo, non resiste all’impatto del cambiamento e scompare misteriosamente; dall’altro si assicura un certo valore sociale, come dimostra la quantità di personaggi che si muovono al suo ritmo nella Ballata. La condanna morale pagliaraniana, che innegabilmente c’è, è dettata in conclusione dalla convinzione che le possibilità di miglioramento sociale siano ormai tramontate inesorabilmente: il ragionamento in ogni caso è a posteriori, segue un’analisi induttiva che, per altro, fornisce al lettore i repertori documentari utilizzati. Tornando alle tracce narrative da cui siamo partiti si può quindi concludere che solo inseguendone il senso e connettendo quest’ultimo ai frammenti che lo compongono è possibile leggere complessivamente un’opera come la Ballata. Facendo questa operazione risulterà anche più comprensibile il motivo per cui Pagliarani scelga proprio Rudi come pro Siriana Sgavicchia, Kipling, Brecht, Eliot nella «Ballata di Rudi», in «L’Illuminista», vii, 20-21, p. 224.

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tagonista. Rudi non è un personaggio positivo, né tanto meno è quello che occupa maggiormente lo spazio della narrazione73. Al contrario, egli si presenta come un caso emblematico di quella generazione di giovani che, nel periodo del dopoguerra, abbandonando la cultura dei padri, fu conquistata dalle nuove speranze e dai sogni promossi dal potere neocapitalistico. Rudi – come detto – si immette toto corde nei rinnovati meccanismi sociali, con l’aspirazione primaria del potere e del denaro. Per far questo accetta di prendere parte a organizzazioni al limite della legalità, o anche del tutto illegali, tanto che, riprendendo un’espressione del Pagliarani di Lezione di fisica, sembra di assistere alla metamorfosi dell’uomo in “baro”. Il guadagno, misurato in termini di potere e rispetto, di successo con le donne e nelle proprie attività semicriminali, giustifica i mezzi con i quali è ottenuto, e poco importa se, in definitiva, esso sia temporaneo e solo apparente, come ben dimostra la fine del personaggio74. La traccia di Rudi è in ogni caso molto significativa: da un lato essa corrisponde alla storia del capitalismo italiano, con il risultato di configurarsi come una fine delle speranze e delle propulsioni utopiche che avevano segnato gli anni della giovinezza del poeta, dall’altro diventa – come suggerisce Eccher – allegoria dell’intellettuale contemporaneo, obbligato ad accettare le “regole del gioco” e quindi a partecipare a un meccanismo, quello dello Stato, che nella visione dell’ultimo Pagliarani si configura essenzialmente come “criminoso”. 4. l’eresia della morale Nel 1987, due anni dopo la pubblicazione degli Esercizi platonici e otto anni prima della conclusione de La ballata di Rudi, Pagliarani La storia o «romanzo nel romanzo» di Armando è molto più prolissa e dettagliata. Rudi muore in Svizzera, probabilmente durante una cura del sonno o comunque in circostanze volutamente lasciate oscure dalla narrazione. Non sembra casuale l’accenno alla cura del sonno: si tratta di una pratica psichiatrica conosciuta anche col nome di «narcoterapia» la quale prevede, in sostanza, l’induzione attraverso farmaci o attraverso processi ipnotici del sonno per periodi prolungati al fine di curare psicosi e nevrosi. Nella poesia di Pagliarani il riferimento a tale terapia medica sembra assumere una doppia valenza: da un lato essa finisce per svelare quanto di malato e problematico ci sia sotto il superficiale potere e l’apparente benessere di Rudi; dall’altro funge da indiretta critica al sistema medico e in particolare ad alcune teorie psichiatriche.

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aveva pubblicato – con una fondamentale prefazione di Romano Luperini – un volume intitolato Epigrammi ferraresi. Interrompendo l’ordine cronologico seguito fino a questo momento nel nostro lavoro abbiamo preferito rinviare la trattazione degli epigrammi pagliaraniani a questo capitolo, dopo – si vuol dire – aver affrontato il nodo cruciale de La ballata di Rudi. Ciò, da un lato, si rivela necessario al nostro discorso al fine di riallacciare meglio le prossime considerazioni alle conclusioni poste dal capitolo precedente; dall’altro risulta giustificato dal fatto che la prima edizione degli Epigrammi ferraresi in realtà non sembra assumere quei tratti “definitivi” in merito alla nuova poetica epigrammatica a cui si dedica l’ultimo Pagliarani, per i quali occorrerà invece attendere la seconda: Epigrammi da Savonarola Martin Lutero eccetera, Manni, Lecce 2001. In verità, diciamo per chiarire, la prima edizione si configurava in maniera non troppo differente dagli Esercizi platonici come una ricerca linguistica e ritmica che da un lato avrebbe dovuto concedere ancora l’ipotesi della contrapposizione politica, mentre dall’altro era chiamata a instaurare un dialogo con un testo passato in direzione di un ritorno a un sapere non scientificamente votato alla coerenza razionalizzata, ma narrativo. Abbiamo già accennato riferendo de La ballata di Rudi che al processo di modernizzazione imposto dal neocapitalismo attraverso, soprattutto, l’idea di benessere, l’industria del divertimento e i mezzi di comunicazione di massa, Pagliarani aveva reagito inaugurando un’amara riflessione sui limiti linguistici e quindi concettuali della nuova società. In particolare, attraverso una messa in evidenza dei “luoghi comuni”, La ballata di Rudi aveva reso esplicita la motivazione per cui Pagliarani, fin dal 1985 con gli Esercizi platonici, stava tentando di utilizzare nuovi input linguistici per i consueti montaggi, non più estrapolando da contesti contemporanei – ormai divenuti inefficaci perché non più in grado di offrire un linguaggio oppositivo al potere – i brani da rimontare, ma saggiando la possibilità di recuperare una dimensione critica e antagonista attraverso il ricorso a un linguaggio più distante, ma capace di manifestare il ricercato dissenso75. In questo senso Si consideri che tale ricerca in ogni caso avviene per fini eminentemente contemporanei come manifesta indirettamente lo stesso Pagliarani, laddove, nella Nota agli Epigrammi Ferraresi, scrive: «non che tra le poesie vere e proprie di padre Gie-

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gli Esercizi platonici sono da leggere come una tappa intermedia – fosse solo per il fatto che utilizzano non già il testo originale greco, bensì la versione in lingua italiana – verso i successivi epigrammi, che invece almeno formalmente76, scelgono il testo originale come testo di partenza77. A mettere in relazione Esercizi e Epigrammi è del resto lo stesso Pagliarani nella Nota al testo degli Epigrammi ferraresi che palesa concrete similitudini con quell’altra Nota posta in calce agli Esercizi: qui ho trascritto, scandito, sottolineato (o saccheggiato: certo talvolta, una volta o due, distolto bruscamente dal contesto) brani delle Prediche di Frate Hierolamo da Ferrara, segnatamente quelle Sopra Ezechiel […]. Ne ho rimessi in luce ben pochi frammenti, alcuni forse ridotti a brandelli (e uno, ma soltanto uno, è del tutto apocrifo)78. ronimo manchi l’attualità (“Felice ormai chi vive di rapina | l’usura si chiama or filosofia”), ma come è evidente a chiunque abbia anche soltanto sfogliato Poesie e Prediche del Savonarola, l’impatto linguistico originale e la tensione lirico-drammatica stanno quasi esclusivamente nelle Prediche». Cfr. Elio Pagliarani, Nota in Epigrammi da Savonarola Martin Lutero Eccetera, in Tutte le poesie, cit., p. 368. 76 Occorre tener presente che – come scrive Francesca Bernardini Napoletano – «Pagliarani non ha semplicemente trascritto (il che implicherebbe una sostanziale fedeltà), sottolineato, evidenziandone l’intrinseco valore espressivo e comunicativo, e scandito, cioè moderatamente piegato il testo di fra’ Girolamo a esigenze ritmiche e prosodiche, bensì lo ha sottoposto a riscrittura». Per questo motivo benché in massima parte Pagliarani utilizzi il testo originale di partenza si ha che «al di là di una patina arcaica che permane grazie all’episodica conservazione della grafia antica, di sintagmi tipici del frate o di costruzioni sintattiche che conservano il sapore dell’oralità, il linguaggio viene per lo più normalizzato all’uso corrente; la punteggiatura (la virgola, ma anche il punto) viene drasticamente ridotta, talvolta del tutto eliminata, al fine di sostituire alle pause logiche le pause ritmiche ed evidenziare i cola all’interno del verso, ma anche in funzione stilistica. Ciò risulta ancora più evidente nella manipolazione, all’interno della frase, dell’ordine delle parole, che vengono intenzionalmente marcate in senso prosastico e oggettivo, e depurate pertanto dell’enfasi oratoria o di un eccessivo lirismo: l’attributo viene posposto, come di consueto in Pagliarani, al sostantivo, l’avverbio al predicato, l’oggetto interno viene evidenziato». Cfr. Francesca Bernardini Napoletano, Da Savonarola al­ l’avanguardia, in «Avanguardia», 9, 1998, pp. 18-20. 77 Come più volte ripetuto La ballata di Rudi al contrario sembra dover essere collocata al di fuori o meglio al di sopra di questa nuova speculazione teorica e poetica. 78 Elio Pagliarani, Nota in Epigrammi da Savonarola Martin Lutero Eccetera, cit., p. 368. Si ricorderà la Nota degli Esercizi platonici: «qui non ho fatto altro che trascrivere e scandire il linguaggio colloquiale di Platone» in Elio Pagliarani, Nota a Esercizi Platonici, cit., p. 256.

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Se, come scrive Luperini, nelle opere precedenti agli Esercizi «l’elemento straniante derivava dall’accostamento e dall’interazione di lacerti strappati dai rispettivi contesti» mentre in quelle successive «l’elemento ludico (e dissacratorio) è assente»79 ciò significa che «il testo su cui l’autore gioca le proprie carte – sia esso il Filebo platonico o le prediche savonaroliane Sopra Ezechiel – non è né passivo strumento del gioco né oggetto di una contestazione. Piuttosto i suoi lacerati frammenti diventano citazioni […] con la densità allegorica che tale trasformazione comporta»80. Ma se, per questa medesima assenza di un diretto rovesciamento semantico dei testi trascritti, gli Esercizi platonici e gli Epigrammi sembrano appartenere allo stesso tipo di sperimentazione poetica – per cui è il «gesto» della citazione ad assumere un valore di estrema significazione – va segnalata anche una differenza sulla quale, forse non casualmente, sembra insistere l’autore stesso. Sempre nella Nota del 1987 possiamo leggere: «per me non si è trattato solo di un esercizio: e mi auguro che ciò risulti dalla lettura»81. Il distinguo che sembra emergere tra i “non esercizi” e gli Esercizi platonici non pare casuale poiché, appurato che, in fondo, questi ultimi – per quanto riferito precedentemente e comunque al di là del tentativo autoriale di sottolinearne la componente di esercizio di stile82 – siano da considerarsi un’opera poetica indirizzata più che altro agli addetti ai lavori, per la caratteristica, probabilmente unica nella produzione del nostro, di anteporre questioni estetiche e di natura teorica a quelle etiche e pragmatiche, gli Epigrammi al contrario perseguono uno scopo opposto, o quanto meno differente. La questione inizia a chiarificarsi sin da una prima lettura attraverso quello che è forse il dato più convincente dell’opera, ovvero una nuova esigenza di interazione con la collettività, ben individuata da Cataldi, per cui Pagliarani sembra ricercare insistentemente e direttamente la presenza extratestuale di un lettore inteso però ben diversamente rispetto alle opere precedenti. Il fatto che «il Romano Luperini, Introduzione a Epigrammi ferraresi, in Elio Pagliarani, Epigrammi, cit., p. 17. 80 Ivi, pp. 17-18. 81 Ivi, p. 18. 82 Abbiamo già tentato di mostrare in precedenza quanto poco convincente ci appare il tentativo di liquidare l’opera come una semplice prova stilistica. Cfr. il paragrafo Platone come supplente.

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testo epigrammatico»83 si configuri storicamente come «un gesto pub­ ­blico»84 che convoca «un rituale e pone in esercizio valori col­lettivi»85 sembra determinante ai fini della scelta del nuovo genere letterario affrontato e rifunzionalizzato come di consueto avviene nel­­l’opera del nostro. Pagliarani sembra sfruttare allora la potenzialità sociale del genre epigramma nel tentativo di rintracciare un «coinvolgimento dell’interlocutore»86 a cui viene demandata «una complicità contestuale nel momento stesso in cui [si] mette in campo un atto di accusa»87. Insomma, diciamo ancora attraverso le parole di Cataldi, «come il guanto gettato dallo sfidante, l’epigramma stabilisce un terreno comune d’intesa e apre un conflitto sul senso, sollecitando così al massimo, ancora, la natura sociale della parole e del referente»88 per determinare, alla fine, un lettore che sia a un tempo “il complice” e “il nemico”: Nell’insipienza mia dico che mi bisogna parlare. Costoro dicono che è beato chi ha roba. Quelli sei con la mannaia in mano furono tutti angeli89.

La contrapposizione tra l’io poetico e un «costoro» esterno a esso potrebbe anche somigliare a quella che emergeva dalle precedenti opere, solo che adesso l’io non partecipa con la stessa «violenta fiducia»90 – per usare un’espressione di Ballerini – di quella minoranza che lo aveva legato in passato al pescatore Nandi. Come nota anche Luperini «nei venticinque lacerti»91 che costituiscono la prima sezione degli epigrammi «incontriamo tutt’e sei le forme del prono Pietro Cataldi, Gli epigrammi di Pagliarani, in Elio Pagliarani, Epigrammi da Savonarola Martin Lutero eccetera, Lecce, Manni, 2001, p. 7. 84 Ibidem. 85 Ibidem. 86 Ibidem. 87 Ibidem. 88 Ibidem. 89 Elio Pagliarani, Epigrammi ferraresi (I), in Epigrammi da Savonarola Martin Lutero eccetera, in Tutte le poesie, cit., p. 341. 90 Cfr. Luigi Ballerini, Della violenta fiducia ovvero di Elio Pagliarani in prospettiva, in «Carte italiane», vol. 1 (2004), febbraio 2005, a special edition on the poetry of Elio Pagliarani, pp. 1-27. 91 Romano Luperini, Introduzione a Epigrammi ferraresi, cit., p. 19. 83

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me personale, dall’io al noi, al voi, dalla terza singolare alla terza plurale. E se la seconda persona (singolare e plurale) è rivolta al destinatario di una comunicazione a cui Pagliarani non ha mai voluto rinunciare, in una salutare e ininterrotta fiducia nella “funzione sociale della letteratura” (come l’ha chiamata), la prevalenza della prima singolare e della terza plurale non sembra affatto casuale»92. L’io, potremmo dire, quasi totalmente orfano di un «noi», si rivolge adesso frontalmente al tu-voi, che poi altri non è se non il lettore, tentando di costringerlo a schierarsi e a reagire. Attraverso una tecnica peculiare della letteratura satirica, è la decisa posizione arroccata su di un modello morale molto elevato a stabilire le condizioni di necessità di una poesia che si pone essenzialmente come «predica», svelando un altro motivo per cui Pagliarani ricorre ai testi del frate Girolamo Savonarola93: Fanciulli voi non avete fatto ogni cosa. Lavate via il resto tutta questa quaresima. Lavate via l’anatema: voi avete la maledizione in casa. (Hanno tanta roba che vi affogano dentro)94.

Il carattere ammonitivo e paternalistico assume nella raccolta una valenza politica eversiva: dalla constatazione che non è stato fatto tutto quello che occorreva fare per allontanare la maledizione “della roba”, in questo caso, si passa, nei versi centrali, a due imperativi che non ammettono repliche. La depurazione dalla dannazione del possesso sembra venire addirittura ordinata, mentre la causa di questa necessità – la morte della società che affoga nel superfluo degli oggetti – è posta tra parentesi, come fosse soltanto ricordata, come fosse, in altri termini, ben nota. Il tutto è quindi riportato a una dimensione politica eminentemente contemporanea, e se da un lato lo scarto semantico col testo di partenza è ottenuto proprio attraverso tale attualizzazione, dall’altro questo emerge anche dal contrasto tra la spiritualità cristiana – il cui movimento è diretto verso Ibidem. Cfr. ivi, p. 17: «recita e retorica, oralità e persuasione, forza di pronuncia e ethos: non è questa anche la struttura delle prediche? L’incontro con Savonarola sembra avere qualcosa di fatale, realizzarsi con la puntualità di un destino». 94 Elio Pagliarani, Epigrammi ferraresi (IV), cit., p. 344. 92 93

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una giustizia ultraterrena e quindi si sposta dalla terra verso il cielo – e il materialismo pagliaraniano di direzione opposta95. Ciò si ricava chiaramente da quello che l’autore stesso definisce uno «pseudocolophon, anzi commiato extratestuale»96, ovvero i due distici in corsivo posti nella parte bassa delle ultime due pagine degli Epigrammi ferraresi: Aurelius Augustinus: Rhythmus Rhythmus ad membra Christi97. Aurelius Augustinus: Rhythmus Rhythmus in corpore vili98.

La tensione materialistica e anticlericale con l’aspirazione al dissenso, a una sollevazione politica dai tratti, si direbbe, insurrezionali99, trovano completamento – come accennato – solo nell’edizione 2001, con l’aggiunta delle sezioni Ancora da Savonarola, Sette epigrammi dai detti conviviali di Martin Lutero – che già aveva visto una pubblicazione autonoma in volume100 – e E gli eccetera di un contemporaneo ai primi xxv frammenti. Alcune riflessioni poetiche e extrapoetiche latenti nella sezione degli Epigrammi ferraresi vengono non solo così chiarificate, e ciò si rivela, col senno di poi, determinante per una comprensione generale dell’opera, ma anche esibite con maggiore incisività. Le nuove parti sembrano agire anzitutto a livello linguistico: nella sezione Ancora da Savonarola Pagliarani pare testare la resa della nuova poetica su trascrizioni più estese. Si noti la differenza con la prima sezione: Su questo punto cfr. Andrea Cortellessa, La parola che balla, cit., p. 53: «Perché prediche, infine, sono pur quelle dell’esacerbato moralista, del tempestante “contemporaneo” romagnolo: che conserva intero l’astio anticapitalista e anticonsumista delle parole antiche, […] ma rovescia di segno il procedimento, già allegorizzante, degli originali». 96 Elio Pagliarani, Nota in Epigrammi da Savonarola Martin Lutero Eccetera, cit., p. 368. 97 Id., Epigrammi ferraresi, cit., p. 366. 98 Ivi, p. 367. 99 Cfr. Id., Epigrammi ferraresi (XX), cit., p. 360: «Ancora non resuscita questo Lazaro. || Io vi dico che bisogna rompere questo sepolcro». 100 Id., 7 epigrammi da Martin Lutero, con 7 acquaforti e acquatinte di Achille Perilli, Roma, La librericciuola, 1991. 95

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La carne è un abisso che tira in mille modi Così intendi la libidine dello Stato101. Gli occhi nostri non veggono se non manna, & l’anima nostra è [fatta arida & secca & ricordavansi della carne & e de’ pesci, & de’ cocomeri, & de’ [poponi, & de’ porri, & de gli agli, & delle cipolle: che sono sette cose, le [quali mangiavano coloro in Egitto: & significano la universalità de gli scelerati, & [bruttissimi vitii, a’ quali vorrebbono tornare con loro che gl’incresce durare fatica a camminare per il deserto della penitentia, per andare in terra di [promissione et non li piace la manna102.

Nella prima citazione si svela appieno il paradigma che regola gli Epigrammi ferraresi: lo straniamento – finalità imprescindibile e fondante le motivazioni poetiche in Pagliarani – è ricavato questa volta dalla «pagina bianca intorno a un verso isolato o a un piccolissimo gruppo di versi, che carica di tensione e talora di violenza la citazione, conferendole forza drammatica e/o epigrammatica»103, mentre l’altra caratteristica peculiare della poetica del nostro, ovvero la narratività, sembra «ora abbandonata, in modo ancor più netto e risoluto che non in Esercizi platonici»104. Diversa la natura della sezione successiva, Ancora da Savonarola, dove il verso si riallunga pur senza riprendere la misura “a fisarmonica” dei tempi di Lezione di fisica, mentre la poesia si estende nuovamente all’interno di strofe abbastanza ampie. La potenzialità semantica di quel linguaggio antagonistico conserva tutta la propria efficacia in trascrizioni più lunghe. Si fa più esplicito in compenso il ricorso a un italiano arcaico nella grafia e anche nei costrutti: è tramite questo particolare utilizzo linguistico che nella sezione si esprime la carica straniante dei versi di Pagliarani. Ciò, del resto, è probabilmente da leggere come un’espli Id., Epigrammi ferraresi (xv), cit., p. 355. Id., Della manna di Maastricht, mormorazioni, in Ancora da Savonarola, in Epigrammi, cit., p. 372. 103 Romano Luperini, Introduzione a Epigrammi ferraresi, cit., p. 18. 104 Ivi, 19. 101 102

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citazione del contatto del nostro con quelle nuove tendenze sperimentali che si erano cominciate a sviluppare tra fine anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 e che avevano fatto del riuso di linguaggi lontani uno dei propri complementi. In particolare il nostro pare assumere un ruolo in un certo senso di maestro105, o comunque di uno dei maestri, per quei gruppi di poeti facenti riferimento alle riviste «Baldus» e «Altri Luoghi», i quali, da una parte avvertivano la necessità di esprimere forme di dissenso rispetto alla società, ma dall’altra non intendevano rifarsi a modelli come quelli dell’avanguardia: l’esplicita consapevolezza del fatto che la letteratura ormai non era più in grado di inserirsi efficacemente all’interno della dialettica sociale106 negava ormai la credibilità di qualsiasi contro-egemonia. In questi ambiti, infatti, in cui, in sintesi, la permanenza di una necessità progettuale e “di resistenza” si lega alla coscienza della marginalità di fatto della realizzazione letteraria, il modello di Pagliarani resta utile perché capace, come dice Biagio Cepollaro, di insegnare a «coniugare allo sperimentalismo delle forme la tensione etica nei confronti di ciò che non è letteratura»107. E proprio la poesia di Cepollaro può essere presa come esempio della vicinanza linguistica e concettuale tra Pagliarani e il Gruppo 93: li umani non supportano troppa realtà Cfr. Id., Collocazione di Pagliarani, cit., p. 24: «l’attualità di Pagliarani presso i poe­ ti della generazione più recente (da Cepollaro e Voce a Ottonieri e alla Lo Russo, per fare solo qualche nome), che si sentono ormai lontani dallo sperimentalismo avanguardistico, ma che ritrovano in lui il gusto della citazione e della ibridazione linguistica e l’apertura a forme musicali della postmodernità (rap compreso), uniti a una non arresa volontà di messaggio: un altro e diverso sperimentalismo, insomma. Che per questo Pagliarani venga oggi, in anni di postavanguardia, sentito dai giovani come un maestro mi pare riconoscimento non solo giusto, ma storicamente necessario». 106 Come scrive Cataldi infatti «le procedure dell’avanguardia si definiscono storicamente come un’aspirazione a occupare il centro dello spazio culturale, concependo la rottura formale come dotata di intrinseco significato anche politico. Al contrario, i vari esponenti del Gruppo 93 prendono atto dell’inquinamento irreparabile dei meccanismi culturali e del loro rapporto con il “sistema” del potere; così che appare piuttosto praticabile una tensione verso i margini del sistema culturale». Cfr. Pietro Cataldi, Le idee della letteratura. Storia delle poetiche italiane del Novecento, Roma, La Nuova Italiana Scientifica, 1994, p. 183. 107 Biagio Cepollaro, in Intervista a Biagio Cepollaro, a cura di Enzo Rega, in «Quaderni Radicali», xvi, 33/34, aprile-settembre 1992; ora in http://www.cepollaro.it/ MasCepT.pdf 105

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e manco io ca mento per star dentro e non uscire che de pistillo in occhiata se smove e basta per appena un po’ aperta la porta e se spalanca non ce sono castelli né strade e architetture sane ma svolazzi annusate che l’hai già votata la testa e non resta altra strada alla visione e ria ria ria il detto si tiene se unico è il flusso e chi lo genera ma chi tra noi toccato dal buio ce lo racconta?108

Nel tentativo di protrarre la sperimentazione letteraria senza però cadere in una nuova istituzionalizzazione del linguaggio poetico, Pagliarani aveva affrontato – a differenza di altri ex-esponenti della neovanguardia – problemi di natura più o meno simile a quelli che si erano trovati di fronte poeti sperimentali di qualche generazione più giovani: se le coincidenze linguistiche sono il miglior esempio per palesare questi punti di incontro e quelle che alla fine si configurano come reciproche influenze, è però altrettanto interessante notare che, proprio attraverso quella “tensione etica” per l’aspetto extraletterario di cui abbiamo detto, la posizione di “ponte” tra diverse generazioni di poeti assunta da Pagliarani si carica di un valore sui generis: in un certo senso egli sembra tentare l’impresa di far conflui­ re ovvero consociare la carica moralistica e moralizzante di un approccio sociologico all’attività letteraria con quella totale assenza di punti di riferimento, id est di speranze di cambiamento, che invece caratterizza l’esplosione letteraria sorta in questo periodo e riunita ambiguamente sotto la categoria di «letteratura postmoderna». Se quindi vogliamo considerare che «l’uso indifferente e indifferenziato del linguaggio del passato è una caratteristica del post-moderno»109 possiamo anche osservare che la raffinata operazione di Pagliarani, pur utilizzando e quindi attraversando tale tecnica, la sopravanza, impreziosendone la carica polemica – come sottolinea Luperini – con «tutta la sua ricchezza di moralista ex-officinesco e di sperimentale ex-novissimo»110. È, in altre parole, sempre la possibilità del dis Biagio Cepollaro, Luna Persciente, in Luna Persciente, Roma, Mancosu, 1993, p. 38. 109 Romano Luperini, Introduzione a Epigrammi ferraresi, cit., p. 23. 110 Ibidem. 108

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senso, come organizzazione teorica e applicazione pratica, la vera protagonista delle nuove sperimentazioni linguistiche. Modificandosi il contesto Pagliarani modifica anche il testo mostrando che in conclusione l’attenzione è quasi interamente rivolta allo stretto contemporaneo. Diverso il discorso per la terza e la quarta sezione degli epigrammi che formalmente tornano a un «corpus», come scrive Pianigiani, «essenziale, scarnificato in un dittico di sette componimenti per sezione»111, in maniera simile a quanto avveniva negli Epigrammi ferraresi. Ciò che cambia sono i testi di partenza: non più da Savonarola, ma da Martin Lutero, nella terza, mentre di mano dell’autore quelli della quarta. Il passaggio da Savonarola a Lutero appare, come sostiene ancora Pianigiani, quasi «obbligato nel nome di una riforma che tra Quattro e Cinquecento è universalmente percepita come ineluttabile»112. E i sette epigrammi tratti dai Discorsi a tavola o Detti conviviali del monaco agostiniano sembrano effettivamente portare alle estreme conseguenze le riflessioni della prima sezione poiché se «nel Ferrarese è rintracciabile lo spirito polemico del castigatore che con la propria lingua smaschera le sottili trame del potere e prova a ristabilire una comune verità di riferimento»113 al contrario «in Lutero lo scisma si è già consumato: le sue richieste sul piano etico sono nette, inflessibili, ogni giudizio rimane senza appello, il bersaglio viene apertamente attaccato senza cedimenti»114. E questo bersaglio è, alla fine, il Potere. La direzione della “predica” di Pagliarani verso il «corpus vilis» chiarifica qui tutto il suo significato dissidente attraverso una grottesca democratizzazione del corpo umano: Contro le tradizioni umane non conosco esempio migliore del culo; non si lascia stringere, vuol farla da padrone e basta115.

Guglielmo Pianigiani, Per Sette epigrammi dai detti conviviali di Martin Lutero e E gli eccetera di un contemporaneo, in «l’immaginazione», 190, agosto-settembre 2002, p. 33. 112 Ibidem. 113 Ibidem. 114 Ibidem. 115 Elio Pagliarani, Sette epigrammi dai detti conviviali di Martin Lutero (1), in Epigrammi, cit., p. 379. 111

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L’accanito spirito “resistenziale” e il riferimento a uno spirito «luterano» richiamano questa volta non tanto i poeti più giovani, quanto il Pier Paolo Pasolini del periodo “eretico” e “luterano”, con evidenti riferimenti a Empirismo eretico116, Scritti corsari117, Lettere Luterane118, nonché a quell’opera che – forse più di ogni altra nel corso degli anni Settanta – fonde aspirazione alla resistenza e deformazione grottesca: il film Salò e le 120 giornate di Sodoma. È, del resto, lo stesso Pagliarani a fare il nome di Pasolini. Un’aggiunta alla Nota al testo posta nell’edizione del 2001 riporta: dopo aver compiuto e pubblicato questa ricerca, mi accorsi che la mia parte di lavoro potevo e dovevo definirla un omaggio a Pasolini. L’ho detto una volta o due in pubblico, ora ci tengo a vederlo stampato qui.

Il rapporto tra Pagliarani e Pasolini merita a questo punto qualche precisazione: i due poeti – in contatto fin dagli anni Cinquanta119 – avevano condiviso per anni atteggiamenti e finalità politiche del lavoro letterario, rimanendo però in contrasto su alcune questioni fondamentali riguardanti la ricerca sul linguaggio e le modalità d’azione dell’intellettuale negli anni del boom economico italiano. Pasolini, in generale, aveva sempre interpretato i movimenti d’avanguardia come delle manifestazioni di borghesi riuniti nella tradizione “massonica e mafiosa” del gruppo e in particolare aveva giudicato, in sintesi, il Gruppo 63 come un tentativo del potere stesso di aggiornare i gusti e le sensibilità del mondo della letteratura alle necessità del mondo neocapitalistico. Durante gli anni della neoavanguardia perciò Pagliarani si era trovato tra quegli autori invisi a Pasolini pur continuando a condividere con questi la necessità di un 118 119 116 117

Pier Paolo Pasolini, Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972. Id., Scritti corsari, Milano, Garzanti, 1975. Id., Lettere luterane, Torino, Einaudi, 1976. Non solo Pagliarani fu invitato da Pasolini e Roversi a prendere parte al progetto di «Officina», ma Pasolini fu anche uno dei primi critici a occuparsi della poesia del nostro. Cfr. Pier Paolo Pasolini, Il neosperimentalismo, in «Officina», 5, 1956; poi in Passione e ideologia, Milano, Garzanti, 1960; infine in Saggi sulla letteratura e sull’arte, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Mondadori («i Meridiani»), 1999, pp. 1213-1228; e Id., La libertà stilistica, in «Officina», 9-10, giugno 1957; poi in Passione e ideologia, cit.; infine in Saggi sulla letteratura e sull’arte, cit., pp. 1229-1237.

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realismo letterario, ovvero non accettando la deriva informale di molte prove dei novissimi, nonché dando un’interpretazione, diciamo, sociologica e contrappositiva dell’avanguardia. Durante gli anni Sessanta le aggressioni verbali e le polemiche tra Pasolini e i neoavanguardisti – che d’altro canto rimproveravano al poeta di amministrare egli stesso un notevole potere, nonché di essere linguisticamente conservatore e reazionario nella fiducia individualistica del proprio io lirico – avevano ancora una volta determinato una posizione defilata di Pagliarani, il quale era probabilmente più propenso ad aprire un processo dialettico costruttivo tra le due parti, che procedere con tale infruttuoso scontro. Specchio del rapporto ambiguo tra Pasolini e Pagliarani è una lettera di Enzo Golino a Elio Pagliarani pubblicata da «l’immaginazione» nel numero monografico dedicato ai settantacinque anni del poeta di Viserba: ma un altro nodo da sciogliere con il ricordo è legato a Pier Paolo Pasolini, per un’incredibile serie di coincidenze legate ad un anno, il 1975. Era il 23 maggio, venerdì. Alle ore 21, presso la libreria Remo Croce, in Corso Vittorio Emanuele, il numero 156, si presentava il libro sulla rivista «Officina» che Giancarlo Ferretti aveva pubblicato da Einaudi un paio di mesi prima. […] Alla presenza dell’autore, parlammo del suo lavoro Enrico Ghidetti e io, ma l’interesse testimoniale dell’incontro era certamente incrementato dalla partecipazione di Pier Paolo Pasolini e Angelo Romanò, redattori di Officina insieme ad altri sodali (Francesco Leonetti, Roberto Roversi, Gianni Scalia, Franco Fortini). A un certo punto della serata, caro Elio, t’alzasti dalla sedia dov’eri tra il pubblico e gridasti a Ferretti – non mi sovviene per quale disaccordo di prospettiva – che aveva fatto carriera attaccando il Gruppo 63 del quale eri uno dei protagonisti fin dalla fondazione, già campione della neoavanguardia poetica nell’antologia I Novissimi (1961). L’obiettivo del tuo dissenso era Ferretti, ma non escludo – ripensandoci – che ci fosse anche l’implicito desiderio di polemizzare con Pasolini. Nel Novembre di quell’anno, il 1975, Pasolini sarebbe stato ucciso. Vent’anni dopo, nell’anniversario dell’omicidio, L’Espresso volle ricordare il poeta assassinato: mi fu affidata la cura di un dossier, che uscì nel numero 42, datato 22 ottobre 1995. Insieme agli articoli di Gianni Vattimo, Giovanni Raboni, Renzo Paris, Barth David Schwartz, Enzo Siciliano, Giacinto Spagnoletti, Anna Modena, alle interviste con Martin Scorsese e Luca Ronconi, nel dossier pubblicammo poesie scritte per l’occasione in memoria di Pasolini. Le avevo chieste a Al-

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berto Arbasino, Attilio Bertolucci, Giovanni Giudici, Mario Luzi, Valerio Magrelli, Nico Naldini, Maria Luisa Spaziani, Emilio Tadini, Andrea Zanzotto. Tutti accettarono subito, ma tu, caro Elio, non volevi partecipare, mi dicesti al telefono che non te la sentivi, avvertivo un tuo imbarazzo, e alla fine rifiutasti. Dopo qualche giorno mi chiamasti per dirmi che ci avevi ripensato e accettavi perché lo dovevi a Pier Paolo120.

Le affinità e le divergenze tra il pensiero di Pasolini e quello di Pagliarani non si mantengono dunque identiche ininterrottamente: se nel 1975 ancora la contrapposizione tra i due c’è, ed è abbastanza netta – come ricorda in un certo senso Golino – vent’anni dopo pare essere cambiato qualcosa. Pagliarani in realtà approfondendo, via via che la stesura de La ballata di Rudi prosegue, la propria analisi sul benessere e soprattutto sul potere, sembra riconsiderare parte delle meditazioni “eretiche” di Pasolini. In particolare, come palesa la poesia uscita su «l’Espresso», Pagliarani riapre il dialogo con Pasolini nel momento in cui arriva a concepire che la partecipazione dell’intellettuale ai meccanismi «criminosi» di uno Stato che esercita la violenza del potere è in realtà un atto di resa, di deposizione di quell’arma che più di ogni altra deve tenersi lontana dalla corruzione di palazzo, la verità: La rabbia che mi facevi con l’esempio dei contadini friulani che stavano meglio prima, negli anni Trenta/Quaranta l’angoscia della tua voce incrinata spezzata da un vento gelido di morte che mi pareva a [effetto, e pensai «perché mi parli dell’India con toni così drammatici e agitati, [quando non c’è pubblico» – in piazza del Popolo semideserta, quando mi [raccontavi del tuo (primo?) viaggio in India, con toni drammatici e agitati potrò perdonarti di aver detto la verità, che questo benessere è una [rovina che tu avevi prevista, che l’uomo più sta bene più è egoista

Enzo Golino, Storicismo lirico, in «l’immaginazione», 190, agosto-settembre 2002, p. 22.

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potrò mai perdonarmi che quel grido quel vento altro che a effetto, altro che artificiale erano le tue stimmate era nelle tue viscere ti era consubstanziale. (Solo dopo aver trascritto epigrammi da Savonarola La carne è un abisso che tira in mille modi. Così intendi della libidine dello Stato/ mi resi conto che dialogavo ancora con te)121.

E così, se dalle trascrizioni savonaroliane Pagliarani recupera, come scrive Cortellessa, «una necessità assoluta»122 di dire, sembrerebbe, proprio di gridare, «quella verità»123, è infine con gli epigrammi tratti da Lutero che si appropria attraverso «toni viscerali e specificatamente “ventrali”, appunto, dell’etimo di tempestante intransigenza che proprio Pasolini ha associato alla qualifica di luterano»124. Il verbo «dialogare» non sembra poi casuale: come ricorda Cataldi infatti l’epigramma nell’antica Grecia aveva anche un impiego sepolcrale che «serviva a parlare con il morto tanto quanto a parlare di lui, a dare voce al morto oltre che agli eredi della sua memoria»125. Come, insomma, per mezzo degli epigrammi del nostro parlano Savonarola e Lutero, ma «le parole di costoro sono commenti riassuntivi che ne esprimono l’assenza»126, allo stesso modo il dialogo che Pagliarani intavola è diretto verso Pasolini non solo per ricordare nel presente la sua assenza, ma anche per dare nuovamente parola a quel dissenso che l’autore degli Scritti corsari aveva pubblicamente manifestato e che, dopo la sua morte, pochissimi se non nessuno avevano ripreso con la medesima aggressiva determinazione. È sempre la necessità d’opposizione, quindi, a determinare le scelte poetiche, anche negli Epigrammi: la riflessione sul bene, sul male e sul loro ribaltato rapporto nella società capitalistica, ne è forse l’esempio più lam Elio Pagliarani, L’angoscia della tua voce incrinata spezzata da un vento gelido di morte, in «L’espresso», 42, 22 ottobre 1995; ora in Poesie disperse, in Id., Tutte le poesie, cit., pp. 436-437. 122 Andrea Cortellessa, La parola che balla, cit., p. 50. 123 Ibidem. 124 Ivi, p. 51. 125 Pietro Cataldi, Gli epigrammi di Pagliarani, cit., p. 8. 126 Ibidem. 121

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pante. Negli epigrammi 5 e 6 tratti da Lutero, in particolare, la convivenze dell’uomo pubblico con quello privato e delle leggi divine con quelle umane vengono relazionate tenendo conto di tale avvenuto ribaltamento di valori e le relazioni sociali sembrano venir messe duramente in crisi: Tommaso Muntzer disse che cacava addosso a quel Dio che non parlava con lui127. La legge dice ogni persona è pubblica o privata. A quella privata la legge dice: «Non uccidere» A quella pubblica «Uccidi» dice128.

«La citazione riguardante Müntzer» infatti «inserisce attraverso un contenuto blasfemo»129, per dirla con Pianigiani, «un lato problematico delle fedi riformate: la richiesta di un rapporto diretto con il divino in assenza di mediazioni gerarchiche»130. Perciò «l’appello alle leggi divine in Müntzer diviene condanna di coloro che vi si oppongono. I suoi nemici sono i potenti di sempre, i tiranni, i ricchi e contro questi è degno impugnare le armi e combattere»131. D’altra parte è lo stesso pensiero luterano a oscillare «in distinzioni potenzialmente violente e “rivoluzionarie”»132 che sembrano essere condivise, almeno parzialmente da Pagliarani, ma che sono alla fine anche le basi delle moderne democrazie occidentali dopo la rivoluzione francese poiché «se il singolo non deve uccidere, l’uomo pubblico, all’interno quindi di un organismo di protesta sociale, è legittimato a sconfiggere il tiranno che lo opprime»133. A questo «côté politico e “protestante”»134 appartengono pure i sette Eccetera di un contemporaneo. Tuttavia lo sprone al dissenso as Elio Pagliarani, Sette epigrammi dai detti conviviali di Martin Lutero (5), in Epigrammi, cit., p. 383. 128 Ivi, 384. 129 Guglielmo Pianigiani, Per Sette epigrammi dai detti conviviali di Martin Lutero e E gli eccetera di un contemporaneo, cit., p. 34. 130 Ibidem. 131 Ibidem. 132 Ibidem. 133 Ibidem. 134 Ibidem. 127

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sume qui dei tratti più tetri: un certo malumore sembra derivare dalla cognizione del finale fallimento dei tentativi di opposizione all’onnivoro sistema capitalistico. Come se si fosse ripercorsa negli Epigrammi la parabola della riforma protestante, resta – con la sconfitta del popolo nelle guerre contadine e l’uccisione di Müntzer – solo una rabbia viscerale e il presentimento della fine, a chi continua a opporsi: Si fa sempre più fatica a respirare Sarà roba di dentro i miei polmoni o roba di fuori i miei coglioni135.

Qualsiasi prospettiva di cambiamento è decaduta: l’ipotesi di un’utopia che fosse anelito a una società diversa, luogo ideale attraverso il quale misurare quello reale, è stata sostituita con la violenza distopica del profitto, dell’utile, del pratico. Se già in Cronache – siamo nel 1956 – Pagliarani aveva tentato di descrivere in che modo le aspirazioni e i sogni fossero controllati dal potere e diversificati a seconda del ceto, in questi novissima verba lo stesso controllo e i suoi risultati si assolutizzano: Adesso studio nelle commerciali ma da grande farò lo spazzino all’aperto, perché ci voglio bene a Milano e le strade le voglio pulite e mi piacciono tanto le tute e darò una mano all’agente se una coppia calpesta il giardino e picchierò i bambini che saltano perché mi ricordo mio nonno che non voleva vedermi giocare contento: «i bambini devono piangere gli uomini lavorare»136.

Elio Pagliarani, Gli eccetera di un contemporaneo (I), in Epigrammi, cit., p. 389. Id., Due temi svolti, in Cronache e altre poesie, cit., p. 73.

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dal silenzio agli eccetera    133

voglio fare da grande il pedone giurato con il mitra di Stato sparare alle gomme137.

In Cronache c’era una cultura tradizionale che, debitamente strumentalizzata, frenava l’aspirazione al cambiamento di chi stava crescendo, ma, allo stesso tempo, conservava una morale. All’interno di tale contenuto assiologico, quindi, si poteva distinguere un bene e un male, sbagliato o giusto in assoluto, che fosse; ciò dava modo a ciascuno – almeno – di crearsi delle motivazioni, reali o imposte che potessero essere. Nella nuova opera, viceversa, qualsiasi motivazione è cancellata nell’assenza di possibilità di discernere bene e male. Resta la volontà, che poi in fin dei conti è una necessità, di sopravvivere, e per far questo di partecipare al processo violento – “terroristico” si direbbe – con cui il Potere conserva sé stesso stritolando chi decide di non accettarlo. Il «pedone giurato» sembra diventare immagine poetica insomma del cittadino comune che per sopravvivere compie su di sé e sugli altri la violenza estrema della menzogna, della non verità. Per questo Pagliarani chiude la raccolta, e – sostanzialmente – la propria carriera, con un distico che, accordandoci a quanto ha scritto Cortellessa, «è come un pugno in faccia […] a tutti, a tutto. Naturalmente anche a sé stesso»138: Non so se avete capito: siamo in troppi a farmi schifo139.

Id., E gli eccetera di un contemporaneo (VI), cit., p. 394. Andrea Cortellessa, La parola che balla, cit., p. 53. 139 Elio Pagliarani, E gli eccetera di un contemporaneo (VII), cit., p. 395. 137 138

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intervista a elio pagliarani

Giovedì 12 gennaio 2006 Il mio lavoro vorrebbe tentare di collocare il suo poemetto La ragazza Carla all’interno del dibattito linguistico che si sviluppò nella seconda metà degli anni Cinquanta e che vide come maggiori protagonisti da una parte «Officina» e Pasolini, dall’altra «il verri» di Anceschi e degli intellettuali che confluiranno poi nel Gruppo 63. Quale era la sua posizione in quegli anni, considerando che lei è stato collaboratore di entrambe le riviste? La sua posizione si è modificata nel tempo? Negli anni Cinquanta credevo che io e Pier Paolo volessimo, in sostanza, la stessa cosa. Però la mia lingua mi sembrava più moderna della sua. Io gli dovevo molto: Pasolini era sempre un estremista in tutto quello che faceva, si buttava in tutte le cose come se fossero le ultime della sua vita. Vi racconto un aneddoto: Pasolini lesse il mio primo libro di poesia e gli piacque, si eccitò, tanto è vero che ne parlò con entusiasmo sul primo o secondo numero di «Officina» (1956). Fui invitato da Pasolini a recarmi a Bologna – dove era la prima sede di «Officina» – nella casa di campagna di Roberto Roversi. Era un incontro di lavoro e conobbi il trio Pasolini, Roversi, Leonetti. Volevano probabilmente un redattore per «Officina», ma forse io non andavo bene. Parlammo del più e del meno, ma soprattutto dei problemi della lingua. In quel periodo c’era un altro critico letterario molto attivo e molto bravo che aveva fondato «Poesia», si chiamava Enrico Falqui. Il giorno di Natale del ’47 o del ’48 mandai a Falqui 2 o 3 poesiole. Fu molto cortese e mi rispose dicendo che non poteva pubblicarle. Poco dopo – sempre Falqui – annunciò su «La fiera letteraria» – un giornalino settimanale dalla vita molto lunga che nell’ultimo periodo fu utilizzato soprattutto a favore di Carda-

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relli – che stava pubblicando un’antologia di giovani poeti degli anni ’40 e ’50. Da lì a qualche giorno fu pubblicata – nuovamente sulla «Fiera» – la prefazione di tale antologia. Il nome «Pagliarani» non veniva nemmeno menzionato. Allora io presi una copia delle Cronache e con un atto di coraggio – atto sempre difficile perché si sa tra il dire e il fare… – la mandai a Falqui precisando che secondo me la mia opera doveva entrare di diritto nell’antologia. Infatti finii nell’antologia – che si chiama La giovane poesia del ’56 – e questo perché Pier Paolo aveva insistito con Falqui – penso. Pasolini fu sempre gentile nei miei confronti, una volta si arrabbiò con Sereni che aveva definito la mia poesia volgare. Sapete l’ambiente letterario nel suo piccolo… Per esempio vi siete mai chiesti perché Federigo Tozzi non è mai stato inserito nel canone? E per quanto riguarda i rapporti tra «Officina» e «il verri»? Penso che molto dipenda dai personaggi. Come ho già detto Pasolini quando si innamorava di una cosa, di un’idea, un modo di fare, una persona, era sempre sopra le righe, in entusiasmo. Anceschi invece era un timido, era allora uno yes-man, aveva un po’ paura un po’ rispetto di tutti, aveva una grande apertura culturale, amplia e onesta. Una volta mi fece un grande onore: quando lavoravo all’«Avanti!» a Milano, Anceschi venne di persona a portarmi il primo numero de «il verri». Allora l’«Avanti!» contava abbastanza, c’era molta libertà. Avevamo come vicedirettore un personaggio molto simpatico, si chiamava Carletto Colombo. Pubblicò le mie prime due poesie fatte sui fatti di cronaca del giorno e rimase così soddisfatto che al momento del pagamento mi disse: «quanto ti devo dare? 30000, 50000?». Niente, presi il prezzo fisso che mi spettava, allora di 3000 lire. Su «L’Unità» all’epoca non si poteva scrivere, in buona fede, ma cose da pazzi. Per tornare ad Anceschi e Pasolini: Anceschi corrispondeva con me per l’interesse letterario di ambito europeo, mentre a Pasolini ciò non importava, anzi – forse – credeva fosse una brutta cosa. È con l’incontro con Eliot e Pound che la mia poesia fece il salto. In particolare ebbi uno slancio quando lessi The Waste Land per la vitalità dei versi, del ritmo. Concludendo comunque non credo che bisogna vedere per forza «il verri» e «Officina» in contraddizione tra loro: il problema cen-

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trale era quello del linguaggio. La distinzione linguaggio poetico e linguaggio non poetico non era più buona. Noi sperimentali volevamo distruggere la tirannia dell’io e la parola poetica. Uno dei punti cardine di quel dibattito fu sulla poetica di Pascoli. Secondo lei la rivoluzione linguistica e tematica che ha portato alla poesia moderna è avvenuta proprio con il poeta di San Mauro – come sosteneva, in sostanza, Pasolini – oppure soltanto successivamente con il futurismo? Secondo me tra l’Ottocento e il Novecento c’è stato un forte rovesciamento che ha coinvolto tutte le arti. Nell’Ottocento si cercava l’armonia, la bellezza mentre nel Novecento – complessivamente – si premia l’opposto. Nel dire questo vorrei ricordare un mio caro amico, Mimmo Rotella, scomparso in questi giorni; frequentavamo lo stesso ristorante a Roma negli anni Sessanta. Una volta mi disse di essere un poeta epistartico, uno cioè che fa poesie col naso. Ora è proprio questo il punto: il Novecento è così. Ma cosa era avvenuto a fine ’800? Vorrei ricordare due pittori: Turner e Goya. Entrambi già presentavano caratteri rivoluzionari, il primo un senso spregiudicato per l’astratto, il secondo un’insolita freschezza. Questo si ricollega a quanto lei dichiarò nel 1965 al C.O.M.E.S, e cioè che si può parlare di avanguardia soltanto da Baudelaire in poi… Sì, era un convegno organizzato da Vigorelli. Si può parlare di avanguardia solo da Baudelaire in poi perché prima il poeta guardava al passato, il fine era avvicinarsi ai grandi, a Dante. C’era una ricerca continua di un maestro. Con Baudelaire si inizia a cercare il maestro nel futuro, un vero e proprio capovolgimento. Nelle arti figurative c’è l’impressionismo. Per me la grande poesia dell’Ottocento è quella di Foscolo, Leopardi, Carducci, Pascoli e anche D’Annunzio. Se uno guarda a Pascoli noterà di certo che c’è già molto d’avanguardia. La sua è una sintesi straordinaria e modernissima, ma certo, la grande fanfara la tira su il futurismo. Il futurismo fu una scossa volgare e necessaria. Ma anche in poeti come Marino Moretti si possono rintracciare tratti di una modernità precocissima. Voglio dire un verso come «Piove. È mercoledì. Sono a Cesena» non ha bisogno di commenti. Tornando a Pascoli c’è da aggiungere che fu un grande plurilin-

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guista e mi arrabbiai tantissimo quando il Garboli, curando tutte le sue opere, non inserì Italy, capolavoro del plurilinguismo. Come ha scritto in Cronistoria minima la vicenda della moderna educazione sentimentale, cioè come si impara o non si impara a crescere, che in definitiva è la vicenda de La ragazza Carla era nata come soggetto cinematografico. In effetti come qualcuno ha già notato la regia del poemetto ricorda quella di una macchina da presa. Che importanza ha avuto il cinema per la sua letteratura e più in generale per la letteratura tout court di quegli anni? Il cinema fu un motore culturale straordinario: La ragazza Carla l’ho scritto quando ero impiegato alla Itanorient, una compagnia import-export, come una cartella per il cinema. C’è una componente autobiografica però trasferita. La compagnia in cui lavoravo era in piazza Duomo, proprio come la Transocean di Carla. In quel periodo mi piaceva molto Ladri di biciclette. Stimavo De Sica e il suo scrittore Zavattini. L’idea era proprio quella di spedire la mia cartella ai due. Poi non lo feci. L’avanguardia oggi esiste ancora. Può essere ancora utile? Oggi si fa sempre più difficile: se prima il senso era aggiungere qualcosa al già detto nel Novecento la tendenza è stata di dire il mai detto e oggi diventa molto complesso.

indice dei nomi

Abbagnano, Nicola 92n Albinati, Edoardo 87 e n, 89, 95 e n Alighieri, Dante 151 Anceschi, Luciano 19, 74n, 149, 150 Antonelli, Giorgio 62n Arbasino, Alberto 129 Aristotele 46 Asor Rosa, Alberto 11n, 22 e n, 41 e n Bajec, Fabrizio 110n Balestrini, Nanni 67 e n, 68n, 70 e n, 71, 73 e n, 93 e n Ballerini, Luigi 25 e n, 49 e n, 77, 120 e n Bàrberi Squarotti, Giorgio 13n Barilli, Renato 18 e n, 19n, 67, 68 e n, 70n Barthes, Roland 34 e n, 38n Baudelaire, Charles Pierre 20n, 28, 29 e n, 151 Bendandi, Raffaele 101 e n, 102 Bene, Carmelo 46 Benjamin, Walter 59, 71 Bennati, Giuseppe 101n Bernardini Napoletano, Francesca 118n Bertolucci, Attilio 129 Bhabha, Homi 106, 107n Boarini, Vittorio 110n Bonfiglioli, Pietro 110n

Borsellino, Nino 18n Brecht, Bertolt 17, 46 e n, 48-50 e n, 95, 104 Briganti, Alessandra 11n, 47n, 76 e n, 82 e n Brown, Norman Oliver 51 e n, 52n, 59 e n, 63-65 e n, 76 Calvino, Italo 11, 74 Camus, Albert 40 Cardarelli, Vincenzo 150 Carducci, Giosuè 151 Cataldi, Pietro 119, 120 e n, 124n, 130 e n Cecchi, Emilio 62 e n Celli, Gian Carlo 47 Cepollaro, Biagio 11, 124 e n, 125n Ceronetti, Guido 77n, 78n Chiara, Piero 18n Chiari, Walter (pseud. di Walter An­ nicchiarico) 100n Colombo, Arrigo 78n Colombo, Carletto 150 Confalonieri, Luigi 38 Corazzini, Sergio 36 Cortellessa, Andrea 11n, 15, 68 e n, 69 e n, 75, 76 e n, 115, 122n, 130 e n, 133 e n Croce, Benedetto 54n Dalmasso, Gianfranco 20n d’Annunzio, Gabriele 151

154   Dall’avanguardia all’eresia

David, Michel 51n De Angelis, Milo 77 De Laude, Silvia 127n De Marchi, Emilio 30 Derrida, Jacques 20 e n, 59, 87n, 90 e n, 110 de Saussure, Ferdinand 17 De Sica, Vittorio 152 Dewey, Ken 47 Di Fenizio, Ferdinando 43 Di Mauro, Enzo 110n Di Paola, Gabriella 20 e n Dos Passos, John Roderigo 110, 111 Eccher, Christian 96-98 e n, 102n, 116 Eco, Umberto 11n, 17 e n, 22n, 40n, 62n Eliot, Thomas Stearns 150 Engels, Friedrich 53n Erba, Luciano 18n Facchinelli, Elvio 64n Falqui, Enrico 149, 150 Ferretti, Gian Carlo 74 e n, 128 Foscolo, Ugo 151 Fornero, Giovanni 91, 92n Forti, Marco 18n Fortini, Franco (pseud. di Franco Lattes) 19n, 24, 26-32 e nn, 39, 64, 128 Freud, Sigmund 51n Frixione, Marcello 12 Galimberti, Umberto 52, 53n, 57n, 59n Garboli, Cesare 152 Gargano, Antonio 89 e n Genette, Gérard 23 e n Ghidetti, Enrico 128 Gindro, Sandro 51n Giudici, Giovanni 129 Giuliani, Alfredo 12n, 19n, 21n, 29-

32 e nn, 35, 47 e n, 48 e n, 62n, 67-71 e nn, 80n, 81n Godard, Jean-Luc 111 Golino, Enzo 128, 129 e n Goya, Francisco José de 151 Gozzano, Guido 36 Goux, Jean-Joseph 51n Gramsci, Antonio 24, 26 Grotowski, Jerzy 46, 47 Guerra, Antonio detto Tonino 99, 100 e n Guglielmi, Angelo 19n, 68, 69, 72, 73 e n Guglielmi, Guido 48n, 49n, 71 e n, 72 Huxley, Aldous Leonard 78 Iacono, Alfonso Maurizio 92 e n Italiano, Federico 110n Kahn, Herman 38 Lacan, Jacques 34, 61, 62n Latouche, Serge 51n Leonetti, Francesco 13n, 32, 128, 149 Leopardi, Giacomo 151 Levato, Vincenzina 18n Lo Russo, Rosaria 124n Luperini, Romano 13n, 30 e n, 93 e n, 117, 119 e n, 120n, 123n, 125 e n Lutero, Martin 114, 126, 130, 131 Luzi, Mario 129 Lyotard, Jean-François 93, 94 e n Lynch, David 111 e n Maffia, Dante 13n Magrelli, Valerio 12, 77, 129 Majakovskij, Vladimir Vladimirovič 40 e n Manacorda, Giorgio 110n Manganelli, Giorgio 68

indice dei nomi   155

Marcuse, Herbert 56 e n, 57n, 60 e n, 64n Maresca, Marisa 101n Marx, Karl Heinrich 51-54 e nn, 60n Mengaldo, Pier Vincenzo 86n Mezzasalma, Carmelo 13n Modena, Anna 128 Molinari, Cesare 49 e n, 50n Montale, Eugenio 39 e n Moretti, Marino 151 Müntzer, Thomas 131, 132 Muzzioli, Francesco 48n

Pontiggia, Giuseppe 110n Popper, Karl Raimund 81 e n, 83 Porta, Antonio (pseud. di Leo Paolazzi) 110n Pound, Ezra Weston Loomis 150 Praga, Emilio 30 Profeti, Maria Grazia 47n

Orazio Flacco, Quinto 59 Ottonieri, Tommaso (pseud. di Tom­ maso Pomilio) 12, 124n

Raboni, Giovanni 29, 128 Rappazzo, Felice 26, 27n Rega, Enzo 124n Rella, Franco 77 Resnais, Alain 111 Ricciardi, Marco 65 e n Risi, Nelo 13n Riva, Valerio 22 Rodley, Chris 111n Romagnosi, Gian Domenico 25n Romanò, Angelo 128 Ronconi, Luca 128 Rossi-Landi, Ferruccio 26n, 53-55 e nn Rotella, Mimmo 151 Roversi, Roberto 13n, 127n, 128, 149

Palazzeschi, Aldo (pseud. di Aldo Giurlani) 36 Parini, Giuseppe 13n Pascoli, Giovanni 151 Pasolini, Pier Paolo 13, 18 e n, 19n, 32, 98n, 127-129 e nn, 149-151 Pedullà, Walter 18 e n, 19n, 37n Paris, Renzo 128 Perilli, Achille 122n Perniola, Mario 59n Petrosino, Silvano 87n Pianigiani, Guglielmo 83n, 98, 99 e n, 103, 103n, 109, 110n, 112, 126 e n, 131n Piemontese, Felice 17n Pinelli, Giuseppe 73 Platone 83n, 85-89, 91-94, 119 Poggi, Giulia 47n

Saint-Simon, Claude-Henri de Rou­ vroy (conte di) 25n Salvatore, Dominick 44n Sanguineti, Edoardo 13n, 36 Sartre, Jean-Paul Charles Aymard 20n, 24 Savonarola, Girolamo Maria Francesco Matteo (frate) 114, 118, 119, 121 e n, 126, 130 Scalia, Gianni 128 Scalise, Gregorio 77 Schiavone, Ivan 34 e n, 43n, 49 e n Schwartz, Barth David 128 Scialoja, Toti 60n Scorsese, Martin 128 Sereni, Vittorio 150 Sergent, Claude 55 Sgavicchia, Siriana 115 e n

Nadeau, Maurice 67n Naldini, Nico 129 Napolitano Valditara, Linda 88n Nixon, Richard Milhous 45n Nove, Aldo (pseud. di Antonio Cen­ tanin) 12, 109 e n

156   Dall’avanguardia all’eresia

Siciliano, Enzo 128 Siti, Walter 36 e n, 37 e n, 41, 42n, 127n Spagnoletti, Giacinto 128 Spatola, Adriano 17 e n, 41n, 77 Spaziani, Maria Luisa 129 Spinoza, Baruch 80 e n Tadini, Emilio 129 Testa, Enrico 77 Tozzi, Federigo 150 Turner, Joseph Mallord William 151

Turolla, Enrico 86 Ventroni, Sara 12, 21n, 75n Vigorelli, Giancarlo 151 Vittorini, Elio 96 e n Vattimo, Gianni 128 Voce, Lello 124n Volponi, Paolo 13n, 74, 77n Zanzotto, Andrea 36, 39 e n, 129 Zavattini, Cesare 74, 152 Zeichen, Valentino 12, 77

quaderni aldo palazzeschi

1. Roberto Leporatti, Per dar luogo a la notte. Sull’elaborazione del «Giorno» del Parini, 1990. 2. Guido Gozzano, Albo dell’officina, a cura di Nicoletta Fabio e Patrizia Menichi, 1991. 3. Laura Melosi, Anima e scrittura. Prospettive culturali per Federigo Tozzi, 1991. 4. Cinzia Giorgetti, Ritratto di Isabella. Studi e documenti su Isabella Teotochi Albrizzi, 1992. 5. Simone Casini, Carlo Emilio Gadda e i re di Francia. Retroscena di un testo radiofonico, 1993. 6. Irene Gambacorti, Verga a Firenze. Nel laboratorio della «Storia di una capinera», 1994. 7. Riccardo Tesi, Dal greco all’italiano. Studi sugli europeismi lessicali d’origine greca dal Rinascimento ad oggi, 1994. 8. Nicoletta Fabio, L’«entusiasmo della ragione». Studio sulle «Operette morali», 1995. 9. Francesca Serra, Calvino e il pulviscolo di Palomar, 1996. 10. Elena Parrini, La narrazione della storia nei «Promessi Sposi», 1996. 11. Edi Liccioli, La scena della parola. Teatro e poesia in Pier Paolo Pasolini, 1997. 12. Simone Giusti, Sulla formazione dei «Trucioli» di Camillo Sbarbaro, 1997. 13. Benedetta Montagni, Angelo consolatore e ammazzapazienti. La figura del medico nella letteratura italiana dell’Ottocento, 1999. 14. Il rabdomante consapevole. Ricerche su Tozzi, a cura di Marco Marchi, 2000.

15. Laura Diafani, La «stanza silenziosa». Studio sull’epistolario di Leopardi, 2000. 16. Alessio Martini, Storia di un libro. «Scoperte e massacri» di Ardengo Soffici, 2000. 17. Fornaretto Vieri, Intorno alle «Fiale». Incunaboli del protonovecento govoniano, 2001. 18. Costanza Geddes da Filicaia, La biblioteca di Federigo Tozzi, 2001. nuova serie 1. Stefano Cipriani, Il “libro” della prosa di Vittorio Sereni, 2002. 2. Riccardo Donati, L’invito e il divieto. Piero Bigongiari e l’ermeneutica d’arte, 2002. 3. Irene Gambacorti, Storie di cinema e letteratura. Verga, Gozzano, D’Annunzio, 2003. 4. Pietro Bembo, Stanze, edizione critica a cura di Alessandro Gnocchi, 2003. 5. Paolo Maccari, Spalle al muro. La poesia di Bartolo Cattafi, con un’appendice di testi inediti, 2003. 6. Francesca Mecatti, La cognizione del­l’u­ mano. Saggio sui «Pensieri» di Giacomo Leopardi, 2003. 7. Lucia Denarosi, L’Accademia degli Innominati di Parma: teorie letterarie e progetti di scrittura (1574-1608), 2003. 8. Nicola Turi, L’identità negata. Il secondo Calvino e l’utopia del tempo fermo, 2003. 9. Nada Fantoni, «La Voce della Ragione» di Monaldo Leopardi (1832-1835), 2004.

10. Antonella Ortolani, La parola disarmonica. Lorenzo Viani tra realismo grottesco e deformazione espressionista, 2004. 11. Silvia Chessa, Il profumo del sacro nel «Canzoniere» di Petrarca, 2005. 12. Monica Farnetti, Il manoscritto ritro­ vato. Storia letteraria di una finzione, 2006. 13. Francesca Mecatti, Aforisti italiani del Settecento. Pensieri al crocevia della modernità, 2006. 14. Chiara Biagioli, L’«opera d’inchiostro». Storia editoriale della narrativa di Guerrazzi (1827-1899), 2006. 15. Rodolfo Sacchettini, L’oscuro rovescio. Previsione e pre-visione della morte nella narrativa di Tommaso Landolfi, 2006. 16. Emilia Toscanelli Peruzzi, Diario (16 mag­ ­gio 1854 - 1 novembre 1858), a cura di Elisabetta Benucci, 2007. 17. Benedetto Croce - Guido Mazzoni, Car­ teggio 1893-1942, a cura di Michele Monserrati, 2007. 18. Nicola Turi, Testo delle mie brame. Il metaromanzo italiano del secondo Novecento (1957-1979), 2007. 19. Fabio Bertini, «Havere a la giustitia sodisfatto». Tragedie giudiziarie di Giovan Bat­

20. 21. 22. 23. 24.

25. 26. 27. 28.

­­ tista Giraldi Cinzio nel ventennio con­ci­ liare, 2008. Luca Degl’Innocenti, I «Reali» dell’Altissimo. Un ciclo di cantari fra oralità e scrittura, 2008. Marica Romolini, La «memoria velata» di Alfonso Gatto. Temi e strutture in «Morto ai paesi», 2009. Alessio Decaria, Luigi Pulci e Francesco di Matteo Castellani. Novità e testi inediti da uno zibaldone magliabechiano, 2009. Alessandro Camiciottoli, L’Antico roman­ tico. Leopardi e il «sistema del bello» (18161832), 2010. Fabio Bertini, «Hor con la legge in man giu­dicheranno». Moventi giuridici nella drammaturgia tragica del Cinquecento ita­liano, 2010. Mimmo Cangiano, L’Uno e il molteplice nel giovane Palazzeschi (1905-1915), 2011. Tommaso Tarani, Il velo e la morte. Saggio su Leopardi, 2011. Leonardo Manigrasso, «Una lingua viva oltre la morte». La poesia “inattuale” di Alessandro Parronchi, 2011. Federico Fastelli, Dall’avanguardia al­l’e­ re­sia. L’opera poetica di Elio Pagliarani, 2011.

Finito di stampare nell’ottobre 2011 da Tipografia Monteserra (Vicopisano - Pi)