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Italian Pages [332]
La fortuna umanistica di Elio Aristide
Recherches sur les Rhétoriques Religieuses Volume 30 Collection dirigée par Gérard Freyburger & Laurent Pernot
La fortuna umanistica di Elio Aristide
Daniela Caso
F
© 2019, Brepols Publishers n.v., Turnhout, Belgium. All rights reserved. No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means, electronic, mechanical, photocopying, recording, or otherwise without the prior permission of the publisher. D/2019/0095/94 ISBN 978-2-503-58237-5 eISBN 978-2-503-58238-2 DOI 10.1484/M.RRR-EB.5.116381 ISSN 0770-0210 eISSN 2566-0004 Printed in the EU on acid-free paper.
Prefazione
La collection « Recherches sur les Rhétoriques Religieuses » a déjà consacré plusieurs volumes à Ælius Aristide, cet orateur et dévot d’Asclépios, auteur d’une œuvre importante écrite en grec, dans l’Empire romain, au iie siècle après J.-C. (voir la préface du volume no 19 de la collection, qui porte le titre Ælius Aristide écrivain). L’investigation se poursuit aujourd’hui avec le présent ouvrage, dû à une brillante chercheuse italienne, Daniela Caso, qui publie le résultat de ses recherches en langue originale, avec un résumé détaillé en français. Il s’agit cette fois de la réception d’Ælius Aristide, domaine de recherche nouveau, sur lequel certaines contributions d’Ælius Aristide écrivain avaient commencé de lever le voile. Aristide, en effet, fut un auteur influent au Moyen Âge et à la Renaissance, avant de tomber dans un demi-oubli, d’où le tire opportunément la Modernité. Préservé et transmis en grec dans l’Empire byzantin, le texte des discours d’Aristide a passé en Italie grâce à des diplomates érudits comme Manuel Chrysoloras (vers 1350-1415) et comme le cardinal Bessarion (vers 1400-1472), et c’est alors qu’on entreprit de le traduire en latin. Daniela Caso se concentre sur quatre traductions, dont deux sont restées inédites jusqu’à ce jour, tandis que les deux autres furent publiées en leur temps, mais ne furent jamais réimprimées. La première paire comprend la traduction de l’hymne Dionysos par Cencio de’ Rustici, élève de Manuel Chrysoloras (1416), et celle de la Monodie sur Smyrne par Niccolò Perotti, secrétaire de Bessarion (1472). Ces deux textes sont conservés dans des manuscrits dont Daniela Caso a dressé la liste, étudié les variantes et débrouillé les liens d’interdépendance. Le groupe des imprimés se compose, quant à lui, de la traduction du discours Aux Rhodiens sur la concorde par Carlo Valgulio, secrétaire du cardinal César Borgia (1497), et de la traduction du Discours d’ambassade à Achille par Joachim Camerarius l’Ancien, réformateur et ami de Philippe Melanchthon (1535). Dans chaque cas, la recherche du texte-source, c’est-à-dire l’identification du ou des manuscrits grecs ayant servi de modèle aux traducteurs, apporte un éclairage sur la diffusion des œuvres d’Aristide en Occident aux xve-xvie siècles. La confrontation minutieuse du texte grec et du texte latin permet d’évaluer les méthodes de traduction, qui s’échelonnent d’une transposition rudimentaire, quand le grec ancien n’était pas encore bien compris, à des versions savantes et élégantes. L’objectif même de la traduction, qui varie selon les cas, est révélateur : il est pédagogique quand il s’agit de se former soi-même à la connaissance de la langue, par un exercice d’humilité et de précision à l’égard du modèle, et de former des élèves ; littéraire, quand les traducteurs s’essaient à acclimater les genres rhétoriques mis au point dans le monde grec antique, notamment cette sorte de discours funèbre appelée « monodie » ; politique, quand le contenu des textes traduits en vient à prendre une résonance
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p r e fa zio n e
imprévue dans un nouveau contexte. Par exemple, le thème de la concorde, traité par Aristide, redevenait d’actualité au moment de la crise opposant entre elles plusieurs villes italiennes à la fin du xve siècle. De manière plus inattendue, l’hymne à Dionysos fut utilisé par son traducteur comme un avertissement à l’intention des participants du concile de Constance (1414-1418), qui, d’après des témoignages concordants, menaient une véritable bacchanale en marge de leurs pieux travaux. C’est ainsi que l’étude de Daniela Caso offre une contribution neuve et de première main à l’histoire de l’humanisme italien et de l’humanisme rhénan. Gérard Freyburger & Laurent Pernot.
Premessa
Per il presente lavoro dedicato alle traduzioni umanistiche di alcuni discorsi del retore greco Elio Aristide (II sec. d.C.) realizzate tra l’inizio del XV e la prima metà del XVI secolo ci si è fondati sulle edizioni di riferimento di Bruno Keil del 1898 per i discorsi 18, 24 e 41 e di Friedrich Walther Lenz e Charles Allison Behr degli anni 1976-1980 per il discorso 16. In appendice sono presenti, per comodità del lettore, le riproduzioni dei discorsi e dei relativi apparati tratte dalle due edizioni di riferimento nel seguente ordine: or. 18, Monodia per Smirne; or. 24, Ai Rodiesi, sulla concordia; or. 41, Dioniso; or. 16, Discorso d’ambasceria ad Achille. Abbiamo premesso ai discorsi 18, 24 e 41 il conspectus, sempre tratto dall’edizione di Keil, e al discorso 16 quello di Lenz-Behr. Per quanto riguarda la struttura del lavoro, in ogni capitolo dopo un’ampia introduzione dedicata al contesto di produzione della traduzione, al singolo umanista, al discorso greco di Aristide, al tentativo d’individuazione dell’esemplare o degli esemplari greci impiegati la traduzione e infine all’analisi retorico-stilistica della versione fondata su un confronto tra il testo greco di Aristide e il latino, si presenta un’edizione delle epistole prefatorie, corredate di una nostra traduzione italiana, quindi delle versioni umanistiche di Aristide prese in esame. Per le traduzioni del Dioniso e della Monodia per Smirne si è approntata un’edizione critica corredata di due apparati: nel primo riportiamo il segmento testuale tratto dall’edizione di Keil con indicazione della pagina e del rigo tra parentesi quadre, quindi le varianti del codice o dei codici greci che l’umanista ha potuto plausibilmente consultare per la sua versione; nel secondo, redatto in forma positiva, compaiono le lezioni di tutti i testimoni che contengono la traduzione. Per l’edizione della traduzione del discorso Ai Rodiesi, sulla concordia, pubblicata a stampa nel 1497, si offre una trascrizione del testo corredata di due apparati: per il primo è valida la prassi esposta per le due traduzioni precedenti; nel secondo si è inserito un raffronto tra la prima stampa e gli errata corrige tratti dalla lunga lista posta al termine dell’incunabolo. Per l’ultima traduzione, quella del Discorso d’Ambasceria ad Achille, si fornisce una trascrizione del testo latino tratta dalla stampa del 1535. I dettagli delle trascrizioni sono indicati in ogni capitolo nella sezione Criteri editoriali. Per i testi di Aristide presi in esame in questo volume non esistono attualmente traduzioni italiane, pertanto, per i passi proposti nei diversi capitoli, la traduzione è nostra. Anche per le epistole prefatorie e per i luoghi tratti da opere umanistiche, laddove non diversamente indicato, forniamo una nostra traduzione. ***
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premessa
È d’obbligo fare alcuni ringraziamenti a coloro che hanno seguito da vicino e da lontano la genesi, lo sviluppo e la fine di questo lavoro. Innanzitutto un profondo ringraziamento va ai miei maestri: ai miei direttori di tesi, i professori Laurent Pernot ed Elisabetta Berardi, per tutto il tempo, la pazienza e le preziose riletture della mia tesi, che è alla fine diventata un libro; al mio professore e direttore delle tesi di laurea triennale e magistrale Giancarlo Abbamonte, per avermi insegnato a lavorare sui testi dell’Umanesimo e per avermi seguito in tutti questi anni; al professor Ermanno Malaspina, per essere sempre stato a disposizione per chiarire qualsiasi dubbio e per avermi fornito un supporto fondamentale; al professor Luigi Spina, per avermi incoraggiato a intraprendere un percorso di studi binazionale da lui fortemente voluto e per avermi dato sempre spunti di riflessione e analisi; ai professori e ai colleghi del CARRA dell’Université de Strasbourg, del dipartimento StudiUm di Torino e dell’ex dipartimento di Filologia Classica “Francesco Arnaldi” dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, per aver impresso con la loro presenza e i loro contributi dei segni fondamentali al mio percorso di studi. Sento di dover ringraziare la mia professoressa Marialuisa Zampella, insostituibile magistra vitae, per avermi trasmesso per prima la passione per lo studio delle materie classiche negli anni del liceo. Un ringraziamento particolare va agli amici Nadia, Gaia e Luigi, per avermi dato un sostegno che non è mai venuto a mancare; a mia sorella Francesca, che ha creduto più di chiunque altro nelle mie capacità; ai miei genitori, per avermi appoggiato sempre e per aver creduto che la formazione fosse l’investimento più importante da fare per un figlio. Infine a Piermario, che ha capito l’importanza di questo obiettivo e mi ha spinto a continuare a perseguirlo fino in fondo, con amore e premura. Daniela Caso Napoli, Torino, Strasburgo
Abbreviazioni
1.
Sigle e abbreviazioni bibliografiche
BAV BCCS BNM BNN BML CTC
DBI DELI Du Cange EP Hain
HC IGI ISTC LEI Niermeyer
P. G. ThGL ThLL
Biblioteca Apostolica Vaticana. Biblioteca Capitular y Colombina de Sevilla. Biblioteca Nazionale Marciana. Biblioteca Nazionale di Napoli “Vittorio Emanuele”. Biblioteca Medicea Laurenziana. Catalogus Translationum et Commentariorum. Mediaeval and Renaissance Latin Translations and Commentaries. Annotated Lists and Guides, I, ed. P. O. Kristeller, Washington 1960; II, edd. P. O. Kristeller F. E. Cranz, ibid. 1971; III, edd. Cranz-Kristeller, ibid. 1976; IV, edd. Cranz - Kristeller, ibid. 1980. Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1960-. Dizionario Etimologico della Lingua Italiana. Seconda edizione in volume unico a cura di M. Cortelazzo e P. Zolli, Bologna 1999. Glossarium mediae et infimae latinitatis conditum a C. Du Fresne, domino Du Cange […], ed. noua aucta a L. Favre, Niort 1883-1887. Enciclopedia dei Papi, 3 voll., Istituto dell’Enciclopedia italiana, Roma 2000. Repertorium bibliographicum, in quo libri omnes ab arte typographica inventa usque ad annum MD… recensentur, ed. L. Hain, 2 voll., Stuttgartiae-Lutetiae Parisiorum 1826-1838. Supplement to Hain’s Repertorium bibliographicum, ed. W. A. Copinger, London 1895-1902. Indice Generale degli Incunaboli delle Biblioteche d’Italia, 6 voll., Roma, Libreria dello Stato 1943-1981. Incunabula Short Title Catalogue, International Database of the fifteenth century European printing created by British Library. Lessico Etimologico Italiano, a cura di Max Pfister, Wiesbaden 1979-. Mediae latinitatis lexicon minus: lexique latin medieval-francais/anglais = a medieval latin-french/english dictionary. Composuit J. F. Niermeyer; perficiendum curavit C. Van De Kieft, Leiden 1976. Patrologia Graeca, J.-P. Migne (éd.), Paris 1857-1866. Thesaurus Grecae Linguae ab H. Stephano constructus… I-IX, Parisiis 18293 (fotorist. Graz 1954). Thesaurus Linguae Latinae, Lipsiae 1900-.
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a bbr e v i a zio ni
2. Abbreviazioni degli apparati (capp. I, II, III) a.c. add. corr. del. exp. mg. om. p. c. s.l. suprascr. ut uid.
ante correctionem addidit / addiderunt correxit deleuit expunxit in margine omisit / omiserunt post correctionem supra lineam additum et supra versum scriptum ut uidetur
Elenco delle traduzioni latine di Elio Aristide conosciute in ordine cronologico (1417-1566)
1. 2. 3. 4. 5. 6.
7.
Titolo latino
Titolo e numero del discorso di Aristide
Autore della traduzione
Anno e luogo di composizione / edizione
Bacchus Monodia in deploratione Smyrnae Aristidis oratio ad Rhodienses de concordia Aristidis oratio de urbe Roma Oratio Vlyssis legati ad Achillem authore Aristide Aristidis oratio, qua persuadere contendit Smyrnaeis non decere in festis deorum conviciis et infamibus comoediis uti; ejusdem in puteum Aesculapii Aelii Aristidis Adrianensis oratoris clarissimi Orationum tomi tres
Διόνυσος (or. 41) Μονῳδία ἐπὶ Σμύρνῃ (or. 18)
Cencio de’ Rustici Niccolò Perotti
1417 ca., Costanza 1471 ca., Roma
Ῥοδίοις περὶ ὁμονοίας (or. 24)
Carlo Valgulio
1498, Brescia
Εἰς Ῥώμην (or. 26)
Scipione Carteromaco Πρεσβευτικὸς πρὸς Joachim Ἀχιλλέα (or. 16) Camerarius
1519, Venezia e Firenze 1535, Haguenau
Περὶ τοῦ μὴ δεῖν Arnoul Le Ferron κωμῳδεῖν; Εἰς τὸ φρέαρ τοῦ Ἀσκληπιοῦ (orr. 29 e 39)
1557, Lione
Opera omnia
1566, Basilea
Willem Canter
Introduzione
1.
La fortuna di Elio Aristide nella letteratura tardoantica e bizantina
Publio Elio Aristide Teodoro1 (117 - circa 180 d.C.), rappresentante di spicco della Seconda Sofistica2 originario di Adriani, nella Misia, ed esponente dell’élite politica e culturale della provincia d’Asia al tempo degli Antonini, fu uno dei modelli più importanti di prosa greca fino alla caduta di Bisanzio. Egli compose numerosi scritti di cui è giunto a noi un corpus di 53 orazioni; queste possono essere divise in alcuni gruppi a seconda del genere e del nucleo tematico principale3: una serie di declamazioni, di cui una parte è di ambientazione storica (orr. 5-6, 7-8, 9-10, 11-15) e una sola su un soggetto mitologico (16); discorsi pronunciati in occasioni pubbliche, come le orazioni per Smirne (17-21), l’Eleusino (or. 22), i due rodiesi (23-24), i panegirici del tempio di Adriano a Cizico (27) e della fonte di Pergamo (53), il discorso contro le rappresentazioni comiche (29), e due elogi di città, quali il Panatenaico (1) e l’A Roma (26); discorsi d’elogio di persone, tra i quali si riconoscono gli elogi funebri per il giovane Eteoneo (31) e per il maestro Alessandro di Cotieio (32) e un’orazione per il compleanno del giovane Apella (30); discorsi polemici d’ambito retorico, di cui un’autodifesa per aver elogiato se stesso durante una declamazione (28) e una contro l’accusa di non voler declamare (33), tre orazioni antiplatoniche in difesa della retorica (2-4); un trattato sull’Egitto (36); un gruppo di inni in prosa (37-46); i Discorsi sacri (47-52), in larga parte autobiografici. La vasta opera di Aristide è tramandata da circa duecentocinquanta manoscritti4 che testimoniano l’ampia fortuna del retore in epoca bizantina; attualmente è in corso un progetto internazionale di pubblicazione degli opera omnia aristidei sulla base dell’intera tradizione manoscritta5. Le edizioni moderne finora comparse
1 Sulla biografia di Elio Aristide si veda Boulanger 1923; Pernot 1989; Behr 1994. Cfr. anche le note biobibliografiche presenti in Berardi 2006, pp. 81-95, e Miletti 2011, pp. 11-28. 2 Sulla Seconda Sofistica si vedano gli studi di Desideri 1978; Sirago 1989; Russell 1990; Pernot 1993; Nicosia 1994. 3 Boulanger 1923; Behr 1968. Di recente la catalogazione è stata riproposta in Miletti 2011, pp. 25-26. 4 La lista di Behr in Lenz-Behr 1976-1980, pp. IX-LXVI, è da integrare con Pernot 1981 (= 1992) e più recentemente Raïos 2009, Caso 2013. 5 Ci riferiamo al Programme Aristide, progetto internazionale coordinato dal prof. Laurent Pernot dell’Université de Strasbourg finalizzato all’edizione dell’opera di Elio Aristide per la Collection des Universités de France (CUF) - Les Belles Lettres. Numerosi riferimenti bibliografici aristidei, nonché tutti gli aggiornamenti relativi alle attività del Programme sono consultabili sul sito web www.
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d’altra parte hanno sempre fatto uso di pochi codici; l’edizione di riferimento è stata quella di Dindorf del 1829 fino alla pubblicazione di Bruno Keil nel 1898 del volume contenente i discorsi 17-53; le restanti orazioni 1-16 sono state quindi curate da Friedrich Walther Lenz e Charles Allison Behr e pubblicate da Behr tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso. Oggi è noto che già Aristide curava personalmente la pubblicazione dei propri scritti, corredandoli spesso di quei titoli con cui sono giunti fino a noi6. L’impegno profuso in tal senso rivela il desiderio di essere letto dai contemporanei ma soprattutto dai posteri, come egli stesso afferma in un passo dei Discorsi Sacri (51, 52). Le aspettative di Aristide non furono disattese, dal momento che già Ermogene, attivo alla fine del II secolo d.C., lo cita nelle sue opere (Sulle forme del discorso 1, 6; 2, 7; Progymnasmata 9); parimenti Frinico, almeno da quanto riporta Fozio nella sua Biblioteca7, mostra viva ammirazione per il retore. Altre attestazioni di stima ravvicinate nel tempo sono quelle di Galeno e Damiano d’Efeso, che rappresenta una delle fonti orali principali su Aristide nelle Vite dei Sofisti di Filostrato (2, 23, 605)8. Un posto particolare tra gli ammiratori di Aristide è occupato da Libanio, che palesò l’enorme influenza aristidea attraverso reminiscenze e imitazioni dirette o implicite nei suoi discorsi. Sebbene egli faccia di rado delle citazioni o delle allusioni esplicite, la sua opera risulta profondamente impregnata del modello aristideo; egli compose infatti inni in prosa, monodie e discorsi per rispondere a delle critiche mosse pubblicamente9. Ai nostri fini, come si vedrà più avanti10, è importante citare il caso dell’Antilogia (or. 5 Förster) composta da Libanio con spirito di emulazione nei confronti del celebre predecessore, in risposta al Discorso d’ambasceria ad Achille di Aristide (or. 16). Ovviamente, il milieu in cui Aristide è più presente è quello della retorica, come mostrano bene i Prolegomena di Sopatro11 e Menandro Retore, che nei suoi scritti cita i discorsi aristidei come modelli imprescindibili di oratoria epidittica12. Lo stile di Aristide, caratterizzato da una notevole erudizione, fu la ragione principale della sua fortuna; proprio in virtù di tale peculiarità Aristide è attestato negli studi di grammatica e lessicografia posteriori, dall’opera di Longino (III sec. d. C.), fino agli Scoli all’Edipo re sofocleo del corpus di Massimo Planude e all’Ecloga uocum Atticarum, compilata all’inizio del 1300 da Thomas Magister. La presenza di Aristide è attestata anche nei filosofi a lui successivi, tra cui è possibile menzionare Porfirio (III secolo d. C.), Olimpiodoro (VI secolo), Michele
classicalsace.unistra.fr, realizzato dal professore Luigi Spina dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, nel quadro della Chaire Gutenberg di cui è stato titolare nel 2009 presso l’Université de Strasbourg. 6 Vd. Pernot 2009. 7 Su Frinico ammiratore di Aristide vd. Jones 2008, pp. 253-262. 8 Vd. Robert 2009, pp. 150-151. 9 Sull’importanza di Aristide per Libanio vd. Robert 2009, pp. 145-146; Fontanella 2013, p. 204. 10 Cfr. infra, pp. 185-186. 11 Vd. Lenz 1959. 12 Vd. Robert 2009, p. 144; Fontanella 2013, p. 203.
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Psello (XI secolo) e Giorgio Gemisto Pletone (XV secolo); l’occorrenza di citazioni o reminiscenze aristidee in questi autori è dovuta ai suoi Discorsi platonici (orr. 2-4), incentrati su un’accesa difesa della retorica contro gli attacchi mossi da Platone verso questa disciplina. Questi dotti, seguaci della dottrina platonica, non potevano condividere il punto di vista di Aristide e lo biasimavano aspramente, ma proprio le loro critiche dimostrano che le orazioni aristidee erano lette in ambienti filosofici13. Se Psello condannò il punto di vista antiplatonico di Aristide, ne elogiò tuttavia la grande abilità retorica nel De operatione daemonum; in questo scritto il filosofo bizantino non esita a consigliare la lettura di Aristide accanto a quella di Isocrate, Tucidide e Demostene14. L’associazione Demostene-Aristide, già contenuta in forma di abbozzo nella Biblioteca di Fozio, è di particolare rilevanza in un autore successivo, Teodoro Metochite (morto nel 1332). Egli scrisse un Saggio critico su Aristide e Demostene, una sorta di σύγκρισις dei due autori sotto diversi punti di vista15; attenendosi agli schemi interpretativi contenuti nel summenzionato trattato sulle forme del discorso di Ermogene, Teodoro analizza nel Saggio i tipi di composizioni a cui i due oratori si dedicarono e compie un’importante contestualizzazione dei discorsi demostenici e aristidei, ponendo l’accento su come i tempi e i regimi politici diversi condizionarono le produzioni dei due autori. L’aspetto maggiormente interessante dell’opera di Metochite è che vi si enuncia che in vista dell’utilità pratica l’opera di Aristide, caratterizzata da discorsi epidittici composti sotto la dominazione di Roma, è preferibile alle orazioni di Demostene, realizzate in un’età, quella della democrazia ateniese, che non ritornerà più. I dati riportati documentano un interesse vasto e multiforme per la produzione aristidea. L’importanza di Aristide in epoca tardoantica e bizantina, in un primo tempo misconosciuta da André Boulanger nella sua monografia del 192316, è stata rivalutata di recente grazie a studi specifici17 che hanno messo in luce il ruolo di primo piano del retore nei diversi autori appena menzionati, contribuendo a tracciare una linea che collega l’epoca di Aristide con quelle successive, fino a una fase avanzata dell’impero bizantino.
2. I primi vettori dell’opera aristidea in Occidente Per quanto riguarda il periodo umanistico, l’arrivo di Manuele Crisolora a Firenze costituisce senza dubbio un evento determinante per l’avvio di una tradizione aristidea occidentale. Il dotto bizantino è stato riconosciuto come il tramite fondamentale per il passaggio degli scritti del retore greco da Bisanzio all’Italia da più fronti e in diversi momenti18; significativi a questo proposito sono due codici. 13 14 15 16 17 18
Vd. Robert 2009, pp. 146-148. Vd. Fontanella 2013, p. 206. Vd. Gigante 1969; Pernot 2006, pp. 100-115. Vd. Boulanger 1923, pp. 450-458. In particolare quelli già ampiamente citati di Robert 2009 e Fontanella 2013. Behr in Lenz-Behr 1976, p. XCVIII; più recentemente Fontanella 2013, pp. 215-220.
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Il primo è il Vat. gr. 129919, databile tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo; appartenuto a Giovanni Crisolora, nipote di Manuele, come si legge dalla nota di possesso, fu copiato da Giovanni Catrare, attivo a Salonicco nel primo trentennio del XIV secolo nella cerchia di Demetrio Triclinio e Thomas Magister20. Il secondo è il Vat. Urb. gr. 123, noto con la sigla U nelle edizioni di riferimento21 e databile all’inizio del XIV secolo; esso appartenne a Demetrio Cidone, uno dei membri dell’élite dei greci filolatini trapiantati in Italia, di cui fece parte anche Manuele Crisolora. Quest’ultimo codice reca sul f. 1r il titolo bilingue ἀριστείδης / aristides che rappresenterebbe, se non un ʻmarchio’22 di appartenenza del codice a Manuele Crisolora, almeno un sicuro indizio del rapporto dei codici con il dotto bizantino. Il Vat. Urb. gr. 123 compare nell’inventario della Biblioteca di Palla Strozzi, l’umanista nella cui casa in Casentino il Crisolora passò gli ultimi mesi del 1399, dopo aver lasciato Firenze a causa della peste, e presso il quale doveva aver depositato i suoi libri prima di recarsi al concilio di Costanza, dove sarebbe morto nel 1415. Nel 1469 poi il manoscritto fu esaminato da Francesco da Lucca, come si legge sempre al f. 1r, per conto del duca di Urbino ed entrò quindi a far parte della Biblioteca Urbinate23. Proprio Palla Strozzi figura nella cerchia degli allievi di Crisolora insieme a Leonardo Bruni, Pier Paolo Vergerio, Roberto Rossi, Jacopo Angeli da Scarperia, Antonio Corbinelli e Cencio de’ Rustici24. Cencio, insieme a Leonardo Bruni, recepì in maniera particolare l’opera aristidea, a conferma dell’importanza assegnata al retore da Crisolora, che insegnò il greco tra Firenze e Roma anche sui testi di Aristide portati con sé da Bisanzio25: Cencio fu infatti il primo traduttore di Aristide e Bruni, da parte sua, realizzò un’orazione originale sul modello del Panathenaikos26 (or. 1), discorso in cui Aristide tesse l’elogio di Atene dai tempi mitologici fino alla battaglia di Cheronea (338 a.C.). Un altro vettore importante dell’opera aristidea fu senza dubbio il Cardinale Bessarione, che, proprio come Crisolora, giunse in Italia spinto dall’intenzione di riavvicinare il mondo greco a quello latino all’insegna di una lotta contro la minacciosa avanzata dei turchi27. Bessarione arrivò per la prima volta in occasione del concilio di Ferrara nel 1438 e a partire da quel momento non interruppe più i suoi rapporti
19 Citato nelle seguenti edizioni aristidee: Keil 1898, p. XV e Behr in Lenz-Behr 1976, p. XXXVIII. Esso contiene le seguenti orazioni: 27, 30, 33, 18, 19, 20, 21, 17, 22, 34, 29, 39, 23, 16, 37, 38, 41, 26, 35, 42-46, 31, 32, 28, 24, 25, 36, 47-52. 20 Sui titoli bilingue dei codici di Crisolora vd. Pontani 1995; Rollo 2002 (1), pp. 54-56; Rollo 2002 (2); Zorzi, 2002, pp. 104-110. 21 Citato in Keil 1898, p. XIII; Behr in Lenz-Behr 1976 p. XLI; Pernot 1981 p. 201. U riporta i seguenti discorsi: 1, 3, 2, 4, 5-15, 28, 27, 30, 33, 18, 19, 20, 21, 17, 22, 34, 29, 39, 23, 16, 37, 38, 40, 41, 26, 35, 42-46, 31, 32, 24, 25, 36, 47-52. Su U si veda anche Menchelli 2008, pp. 93-97. Vd. anche infra, p. 25, n. 14. 22 Rollo parla di σϕραγίς; vd. Rollo 2002 (2), p. 55, n. 88. 23 Diller 1961, p. 316; Fontanella 2013, p. 216. 24 Vd. Rollo 2002 (2), p. 47 n. 53. 25 Sull’insegnamento del greco di Crisolora in Italia vd. Cammelli 1941; Berti 1987, pp. 3-73; Niutta 1990, pp. 13-24; Cortesi 1995. 26 Vd. infra, pp. 18-19. 27 Sulla presenza degli intellettuali greci in Italia nel XV secolo vd. Bianca 2010.
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con l’Occidente latino. Uno dei gesti più significativi per la custodia e la trasmissione del sapere greco in Occidente fu proprio la donazione da parte di Bessarione alla città di Venezia del suo patrimonio librario, che andò così a formare il primo fondo della Biblioteca di San Marco. Egli mise insieme una raccolta di libri greci di notevole importanza sia copiati di suo pugno sin dalla giovinezza sia acquistati con le proprie risorse, come riferisce in una lettera del 1468 al doge Cristoforo Moro in cui spiega le motivazioni del lascito28. Tra gli esemplari bessarionei figurano molti volumi contenenti opere di Aristide, come risulta dai cataloghi della biblioteca marciana29, pertanto è possibile individuare nell’attività di raccolta del Cardinale uno dei motori principali per la trasmissione del nostro autore ed è probabile che molti di questi testimoni provenissero dalla biblioteca di Giovanni Aurispa (1376-1459), umanista noto soprattutto per aver riscoperto importanti opere antiche e per aver portato in Italia di ritorno dai suoi viaggi a Costantinopoli alcuni pregevoli codici greci, come l’Iliade in due volumi (Marciani greci 453 e 454). Il patrimonio librario dell’Aurispa fu purtroppo smembrato dopo la sua morte, avvenuta nel 145930, ma è assodato che egli possedesse anche codici aristidei, dal momento che molti item dell’inventario della biblioteca sono occupati dal nome Aristides, anche se i manoscritti in questione non sono stati individuati31. Oltre ai dotti appena menzionati, tra i principali fautori della rinascita di studi aristidei in Occidente è necessario ricordare anche Francesco Filelfo, che al pari di Giovanni Aurispa andò a Costantinopoli a studiare il greco e a raccogliere codici; la sua attività si colloca negli anni 1420-1427 e tra gli autori da lui portati in Italia compare, tra gli altri, proprio Aristide, come Filelfo stesso annuncia in una lettera ad Ambrogio Traversari32. Manoscritti aristidei figurano già nei primi inventari della Biblioteca Vaticana ai tempi di Niccolò V33; sull’identificazione di tali codici e sulla loro origine occorre ancora indagare, soprattutto per gettare una luce sul riconoscimento preciso del modello a disposizione di uno dei traduttori di Aristide, l’umanista bresciano Carlo Valgulio, a cui è dedicato il secondo capitolo di questo volume.
28 Vd. Labowsky 1979, p. 147. 29 Vd. Zanetti-Bongiovanni 1740; Mioni 1960-1987; Labowsky 1979. 30 Ciò è stato acutamente osservato da Mioni, che ha ipotizza per il Marc. gr. 424, codice aristideo di notevole importanza, una simile provenienza. Vd. Mioni 1994, p. 236. 31 Vd. Franceschini 1976 pp. 64, 92, 112, 116-117. 32 Ep. 24, 32 in Mehus 1759. Sulle scoperte di Filelfo vd. Sabbadini 1967, vol. 1, p. 48. 33 Vd. Devreesse 1965.
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3. La ricezione di Aristide nella Laudatio Florentinae urbis di Leonardo Bruni Tra gli effetti immediati dell’arrivo dell’opera di Aristide in Occidente è opportuno ricordare ed esaminare più da vicino la summenzionata influenza del Panathenaikos di Aristide sulla composizione della Laudatio Florentinae urbis, orazione composta da Leonardo Bruni nel 1404. Sulla Laudatio Florentinae urbis di Leonardo Bruni è stato scritto molto e anche di recente34. Non si tratta di una traduzione stricto sensu, bensì di un discorso strutturato sul modello di un’opera aristidea, pertanto non occorre dilungarsi sulle circostanze e sull’analisi della composizione, ma è importante mettere in rilievo e ribadire il valore dell’incidenza di Aristide nell’encomio bruniano. Leonardo Bruni afferma in una nota lettera del 1437 a Francesco Pizolpasso35, che aveva criticato la Laudatio, di aver modellato deliberatamente il suo discorso sul Panathenaikos (or. 1) di Elio Aristide; egli scrive di aver avuto come guida Aristidem, celebrem apud Graecos oratorem, eloquentissimum hominem, cuius extat oratio pulcherrima de laudibus Athenarum. La Laudatio è dunque un panegirico e rientra in quanto tale nel genere della retorica epidittica. Numerose laudes urbis erano state realizzate nel corso del Medioevo, ma nessuna si fondava su solidi precetti retorici tali da celebrare degnamente la grandezza di una città come Firenze all’inizio del XV secolo. L’origine dell’ispirazione aristidea per un componimento come la Laudatio di Bruni va ricercata nell’attività di diffusione della cultura greca avviata da Manuele Crisolora in quegli anni a Firenze36. Il dotto bizantino infatti portò con sé i primi manoscritti con l’opera del retore e anche se l’esemplare a disposizione di Bruni non è stato riconosciuto, è certo che egli dovette consultare i manoscritti del maestro per la stesura della sua orazione. Un altro dato importante risiede nella sfera pedagogica: Crisolora infatti strutturò le sue lezioni non soltanto sulla base di traduzioni di classici greci, ma anche assegnando l’elaborazione di encomi originali. I discorsi di Aristide fornivano una miniera di topoi per questo tipo di composizioni, però il debito specifico di Bruni verso Aristide non risiede solo nel riuso di figure retoriche ed espressioni singolari. L’elogio bruniano deve al Panathenaikos senza dubbio la sua struttura concettuale; comune ai due componimenti è soprattutto il motivo della lotta nei confronti di un nemico straniero oppressore. La Laudatio fu composta in un periodo di eccezionale fioritura politica e culturale di Firenze: la Repubblica oligarchica aveva infatti da poco sconfitto la Milano dei Visconti, celebrando così il mito della libertas trionfatrice sulla ʻtirannia’ della dinastia lombarda. Il fatto di essersi ispirato a un elogio di Atene non è casuale; sebbene Bruni nell’epistola a Pizolpasso affermi di aver imitato Aristide tanquam ludus exercitatioque adolescentiae, è certo che la sua scelta non cadde sulla lode aristidea per un mero esercizio retorico. L’imitazione del Panathenaikos servì senza dubbio a Bruni per codificare al meglio un pensiero politico applicabile alla
34 Baron 1968; Garin 1970; Cambiano 1998; Baldassarri 2000; Revest 2007; Fontanella 2013. 35 Ep. 8, 4, in Mehus 1741. 36 Vd. Baldassarri 2000, pp. XVIII-XX.
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realtà a lui contemporanea; grazie al confronto con l’antica Atene elogiata da Aristide l’umanista fu infatti in grado di idealizzare al meglio la sua Firenze, esaltata nella Laudatio proprio in virtù della comparazione con l’antica polis attica trionfatrice sui Persiani descritta da Aristide. L’encomio bruniano dunque, strutturato puntualmente come il Panathenaikos nell’ordine degli argomenti37, trae la sua forza propagandistica proprio dalla synkrisis con la situazione ateniese e per questo risulta chiaro che l’intento sotteso alla Laudatio non fu soltanto retorico, ma anche politico38. È altresì opportuno sottolineare che Bruni oblitera un dato fondamentale interno al discorso di Aristide: dopo aver dispiegato un grande elogio di Atene e del suo storico imperium, il retore a un certo punto osserva come i tempi siano ormai cambiati per l’ex-città leader dell’antichità e come il nuovo status sia dovuto alla supremazia dell’impero romano, fautore di un nuovo tipo di libertas (1, 331-335). Di recente è stato messo in luce come in realtà il cancelliere fiorentino fosse consapevole di questo aspetto e avesse ripreso per il suo encomio di Firenze molti spunti anche dall’A Roma (or. 26), a conferma del fatto che Aristide, indipendentemente dai contenuti, rappresentasse per Bruni innanzitutto un modello retorico39. È innegabile, tuttavia, che il Panathenaikos offrì a Bruni in primis un ideale politico e che la Laudatio rappresenti per questo un notevole tentativo umanistico di riproposizione di valori antichi alla contemporaneità.
4. Le traduzioni di Aristide in Europa occidentale tra’400 e’500 Se la Laudatio di Bruni rappresenta un’importante testimonianza dell’influsso di Aristide su un’opera originale, le traduzioni dei suoi discorsi realizzate dagli umanisti nel corso del Rinascimento costituiscono il tentativo di trasporre in latino il dettato del retore greco allo scopo di trarre dai suoi testi insegnamenti di varia natura (politica, letteraria, retorica) da fornire al proprio pubblico. Possediamo, per il periodo che va dall’inizio del XV alla prima metà del XVI secolo, cinque traduzioni latine di altrettante orazioni aristidee: il Bacchus, di Cencio de’ Rustici (Costanza, 1416 ca.), traduzione del Dioniso (or. 41); la Monodia in deploratione Smyrnae di Niccolò Perotti (Roma, 1471 ca.), traduzione della Monodia per Smirne (or. 18); la versione latina di Carlo Valgulio (Brescia, stampa del 1497) dell’Aristidis oratio ad Rhodienses de concordia (or. 24); la traduzione dal titolo Aristidis oratio de urbe Roma di Scipione Carteromaco (Venezia e Firenze, stampa del 1519) del discorso A Roma (or. 26); infine l’Oratio Vlyssis legati ad Achillem authore Aristide di Joachim Camerarius, versione latina del Discorso d’ambasceria ad Achille (or. 16) (Haguenau, stampa del 1535). Come si può notare da questo elenco, l’ambito di diffusione di Elio Aristide nel XV secolo interessa in prevalenza l’Italia - se si eccettua il Bacchus,
37 Baron 1968, pp. 151 e 158-159; Revest 2007, p. 13. 38 Garin 1970, p. 29. 39 Vd. Fontanella 2013, pp. 223-231.
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i cui testimoni sono riconducibili all’ambito del Concilio di Costanza40, ma in ogni caso è il prodotto di un umanista italiano - e l’asse della ricezione inizia a spostarsi oltralpe solo nel 1535 con la prova versoria di Camerarius, umanista tedesco originario della Baviera. Restano fuori dal nostro esame, dal momento che appartengono alla seconda metà del XVI secolo, altre tre traduzioni. Due di queste, cioè le versioni del discorso Περὶ τοῦ μὴ δεῖν κωμῳδεῖν (or. 29) e dell’Εἰς τὸ φρέαρ τὸ ἐν Ἀσκληπιοῦ (or. 39), vennero realizzate in Francia e pubblicate a Lione da Arnoul Le Ferron, storico e magistrato francese41, nel 1557; la terza, che rappresenta la summa e il punto riferimento per qualunque studio relativo all’Aristide latino, è l’opera in tre tomi di Willem Canter contenente la traduzione latina degli opera omnia di Aristide, pubblicata a Basilea nel 1566.
5. Studi e giudizi precedenti sulla fortuna umanistica di Aristide Sebbene fino a oggi non sia stato realizzato nessun lavoro davvero completo sulle traduzioni latine dei discorsi di Aristide realizzate tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, tuttavia si conoscono alcuni giudizi a esse relativi; tali valutazioni si trovano in opere dedicate ai singoli umanisti che si cimentarono con il greco di Aristide o in studi generali sulla fortuna del retore. Purtroppo gli appunti di Keil sulla ricezione di Aristide nel Rinascimento sono andati perduti, ma alcune osservazioni in essi contenute sono state riportate da Behr nell’edizione moderna dei discorsi 1-1642. Alcuni di questi giudizi sono eccessivamente severi e, privi di una contestualizzazione, rischiano di ridurre le rese latine dei discorsi del retore prodotte nel corso dell’Umanesimo a dei puri divertissement retorici. La prima critica riguarda la versione latina del Dioniso aristideo (or. 41) di Cencio de’ Rustici. Behr, subito dopo aver elogiato la capacità di Leonardo Bruni di trarre spunto dal Panathenaikos di Aristide per la sua Laudatio, ricorda come Keil trovasse la traduzione di Cencio very poor. È indubbio, come si vedrà nel primo capitolo, che la prova versoria dell’umanista romano non sia la più riuscita tra quelle prese in esame e i motivi sono molteplici e di varia natura. Bisogna però tener presente l’importanza di questa resa all’interno della storia della fortuna occidentale di Aristide e riconoscere a Cencio il merito di essersi misurato con un testo difficile come l’inno in prosa in onore di Dioniso; inoltre la sua resa rappresenta un tentativo, seppur embrionale, di superare il modello uerbum de uerbo invalso durante tutto il Medioevo.
40 Vd. infra, I codici latini contenenti il Bacchus, pp. 49-51. 41 Sull’attività versoria di Le Ferron si veda Amato 2010; qui lo studioso si concentra sulla traduzione di Dione Crisostomo e fa solo un rapido cenno alle versioni aristidee. Un altro obiettivo futuro dunque è quello di approfondire l’argomento per allargare la panoramica delle traduzioni latine di Aristide anche alla seconda metà del 1500. 42 Lo studio di Keil, intitolato Aristideskritik seit der Renaissance, rimase inedito e a tutt’oggi i risultati di questa ricerca non sono conosciuti a causa della dispersione del materiale. Vd. Behr in Lenz-Behr 1976, p. XCVIII.
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La seconda traduzione di un discorso aristideo in ordine cronologico, quella della Monodia per Smirne (or. 18), da noi analizzata nel secondo capitolo, manca nel quadro dedicato alla fortuna occidentale di Aristide tracciata da Behr. È stato scritto in tempi recenti che fu realizzata da Niccolò Perotti solo a scopo di esercitazione retorica, al pari delle altre prove umanistiche quattrocentesche43. In realtà, se si guarda sia alla lettera prefatoria, in cui l’umanista marchigiano dichiara di volersi fare fondatore della monodia latina, sia al risultato finale di questa resa, è possibile dedurre che a muovere Perotti fu piuttosto un fine letterario, quello cioè di offrire un corpus di testi afferenti al genere monodico di alto livello stilistico ai contemporanei. Sulla traduzione di Carlo Valgulio dell’orazione Ai Rodiesi, sulla concordia (or. 24), da noi esaminata nel terzo capitolo, Behr sintetizza la sua opinione - questa volta non di Keil - nella sentenza a not bad bat crude translation. In questa prefazione non viene tenuto in conto il contesto storico di stesura della versione, che influì fortemente nella scelta di tradurre il discorso sulla concordia; Aristide viene infatti assunto come modello di esortazione alla pace civica in un momento di crisi e la storia contemporanea viene tenuta presente dal traduttore al momento della stesura. Per quanto riguarda la qualità della traduzione di Valgulio, questa, lungi dall’essere una resa meccanica, rivela una discreta letterarietà. Il discorso A Roma (or. 26) fu invece tradotto, secondo Behr, with greater skill than Valgulio da Scipione Forteguerri, detto Carteromaco, nel 1507, anche se la versione uscì a stampa solo postuma nel 1519 a Venezia in aedibus Aldi e a Firenze per l’editore Giunta nello stesso anno44. Forteguerri dedicò questa traduzione a Galeotto Franciotti della Rovere, nipote di papa Giulio II, ed è probabile che l’intento principale alla base della scelta di questo discorso fosse quello di proporre alla famiglia regnante degli Asburgo un modello di ordinamento imperiale esemplare, qual era appunto quello elogiato da Aristide nella sua orazione45. La traduzione di Forteguerri non rientra nella raccolta qui messa insieme, non solo in quanto si è scelto di esaminare come ultima versione quella di Joachim Camerarius, che rappresenta l’unica resa latina di un discorso aristideo prodotta al di là dei confini italiani per tutto l’arco cronologico preso in considerazione, ma soprattutto perché la versione del Carteromaco merita uno studio a parte, sia per l’ampiezza del discorso in sé sia per la sua rilevanza cruciale per la diffusione di Aristide. Di recente, inoltre, la ricerca sulla fortuna di Elio Aristide ha prodotto nuovi e considerevoli risultati: a Matteo Di Franco si deve infatti la scoperta di una nuova traduzione quattrocentesca dell’elogio a cura di Gaspare Zacchi46; di questi aggiornamenti dovrà pertanto tenere conto un futuro studio dedicato esclusivamente all’analisi di questo inno di Aristide.
43 Vd. Fontanella 2013, p. 223. 44 La stampa della traduzione di Carteromaco è segnalata in Cortesi - Fiaschi 2008, pp. 102-103. 45 A proposito della ricomparsa del discorso A Roma di Elio Aristide in Europa nel XVI secolo vd. Desideri in Fontanella 2007, p. 4. 46 La notizia della scoperta è stata presentata il 15 giugno 2017 dal prof. Salvatore Settis presso l’Accademia dei Lincei e approvata dall’adunanza dei membri dell’Accademia e uscirà pertanto nei Rendiconti.
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Il testo finale della nostra raccolta, di cui tratta il quarto capitolo, è, pertanto, la traduzione del Discorso d’ambasceria ad Achille (or. 16) di Joachim Camerarius, su cui non sono note critiche precedenti. Nella sua introduzione Behr si concentra sull’importanza della pubblicazione, che contiene anche l’editio princeps del discorso greco, ma non riporta nessun giudizio di valore sulla resa di Camerarius. L’umanista tedesco vi dispiegò la sua competenza linguistica e letteraria in maniera discreta, tenendo in mente il suo modello principe, Cicerone; tuttavia non è possibile parlare di una resa artistica, com’è stato rilevato per Perotti, e la causa di questa mancata letterarietà è da cercare probabilmente nel diverso fine del testo: non si tratta più infatti di una creazione letteraria autonoma da proporre a chi volesse cimentarsi in un genere inedito, bensì di uno strumento da impiegare a fini didattici, proprio come i commenti a Omero redatti da Camerarius nel corso della sua vita. Bisogna citare in conclusione l’utilissimo lavoro di Francesca Fontanella dedicato a una storia della fortuna occidentale di Aristide47. Il contributo rappresenta un sunto fondamentale per quel che riguarda la ricezione di Aristide in ambiente bizantino, quindi l’arrivo dei codici greci contenenti la sua opera in Italia e infine la sua ricaduta in Occidente. È proprio a partire dalle pagine della studiosa che prende le mosse il presente studio, che riunisce i risultati e le conclusioni di una tesi di dottorato svolta in cotutela tra l’Università degli Studi di Torino e l’Université de Strasbourg. Viene proposta pertanto un’analisi approfondita delle versioni latine dei discorsi di Aristide prodotte tra l’inizio del XV e la prima metà del XVI secolo da più punti di vista (storico, filologico, retorico e letterario) per dare una visione globale della vicenda dell’approdo dell’oratore greco d’età antonina, tanto importante per la sua funzione trait d’union tra Oriente e Occidente già nell’epoca a lui contemporanea, nella nostra parte d’Europa.
47 Vd. Fontanella 2013.
Capitolo Primo
La prima traduzione latina di Elio Aristide Il Bacchus di Cencio de’ Rustici
I.1
Cencio e l’Umanesimo: le scoperte e le versioni latine
Cencio de’ Rustici1, o, secondo il nome latino, Cincius Romanus, nacque da nobile famiglia romana tra il 1380 e il 1390, fu allievo di Francesco da Fiano e studiò il greco con Manuele Crisolora dal 1411 fino alla morte del maestro bizantino nel 1415. Rivestì la carica di segretario apostolico dal 15 settembre 1411 fino alla sua morte, sopraggiunta poco prima del 24 luglio 1445. Durante tutta la vita i suoi spostamenti furono condizionati dai continui trasferimenti della curia pontificia; per questo visse in un primo momento a Roma, dove imparò il greco grazie all’insegnamento impartito da Crisolora, che era approdato nella città insieme alla curia pontificia di Giovanni XXIII in seguito a una serie di missioni diplomatiche2. Dopo gli anni di formazione a Roma Cencio si spostò quindi a Costanza negli anni del Concilio (1414-1418) durante il pontificato di Eugenio IV, a Firenze (1435) e a Bologna negli anni 1436-1438. Cencio è noto, tra gli altri motivi, per il fatto di aver intrattenuto relazioni con i più celebri dotti dell’epoca3, tra cui Poggio Bracciolini, Bartolomeo Aragazzi da Montepulciano, Ambrogio Traversari, Flavio Biondo, Leonardo Bruni, tutti presenti in Curia, definita per la sua capacità di attrazione di intellettuali e la sua funzione di nodo intercittadino a quest’epoca un inter-italian meeting place4. Egli si distinse, oltre che per il servizio prestato presso la curia pontificia, per la sua attività di studioso che si esplicò sia attraverso lo studio dei testi antichi, sia con l’insegnamento. Per quanto riguarda l’attività filologica, essa fu portata avanti con la scoperta di opere antiche e il lavoro sui testi stessi. Cencio effettuò negli anni del Concilio di Costanza alcune importanti missioni con altri umanisti dell’epoca5; la più importante è senza dubbio quella effettuata nel 1416 di cui Cencio dà notizia in
1 Su Cencio vedi Lehnerdt 1901, pp. 147-172 e 289-318; Bertalot 1975, pp. 131-180; Kristeller 1985 (1), pp. 239-257; Lombardi 1983, pp. 23-35; Niutta 1990, pp. 21-31. 2 Vd. Sabbadini in Bognini 2009, pp. 125-126; Cammelli 1941, pp. 143-153. Sul discepolato di Cencio presso Crisolora vd. Niutta 1990, pp. 20-21. 3 Sui personaggi incontrati e frequentati da Cencio, i cui nomi si desumono dal suo epistolario, vedi un elenco in Kristeller 1985 (1) pp. 240-242. 4 Baron 1966, p. 312; Lombardi 1983, p. 24. 5 Per le scoperte dei codici antichi a Costanza vd. Sabbadini 1905-1914 (= 1967), vol. 2, pp. 72-82.
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una celebre epistola al suo maestro Francesco da Fiano6, durante la quale egli scoprì al seguito di Poggio Bracciolini e Bartolomeo Aragazzi da Montepulciano al monastero di San Gallo gli Argonautica di Valerio Flacco, il commento di Asconio Pediano a cinque orazioni di Cicerone, il De opificio hominis di Lattanzio, il De architectura di Vitruvio, le Partitiones XII uersuum Aeneidos e un Quintiliano privo di lacune, che però non è citato nell’epistola. Cencio, nel presentare la riscoperta del patrimonio librario di San Gallo come una liberazione del sapere antico dall’oscurità medievale7, si scaglia alacremente contro i responsabili della distruzione delle biblioteche nella storia che sono da lui individuati nei barbari, nei Romani stessi, e, fatto assai rilevante, in quei papi che avevano permesso lo scempio dei monumenti e la dispersione delle opere antiche, persino molti libri contenenti le Sacre Scritture8. Cencio lancia dunque un forte atto d’accusa verso chiunque abbia oscurato a causa della propria ignoranza e del proprio credo i tesori del mondo classico e mostra attraverso tali proclami di incarnare un’indole che potremmo definire laica, per quanto si tratti sempre delle parole di un curiale che possono costituire la manifestazione di idee tipiche, come quelle espresse ad esempio da Poggio in vari luoghi della sua opera. A ogni modo Cencio si dimostra consapevole dell’importanza di conservare i testi classici e il suo zelo in questo senso attesta che il suo interesse fu sincero. Oltre al ritrovamento dei testi antichi, Cencio si dedicò anche al loro studio; ne sono un esempio le traduzioni umanistiche che realizzò nel corso della sua vita. Si ricordano, a parte la traduzione del Dioniso di Elio Aristide, gli opuscoli plutarchei De uirtute et uitio (da lui intitolato De uirtute et malitia) tradotto tra il 1426 e il 1431 e dedicato a Angelotto Fosco vescovo di Cava e Animine an corporis affectiones sint peiores (col titolo di De passionibus animi et corporis) dedicato ad Antonio Loschi prima del 1435; undici lettere apocrife di Eschine prive di dedica tradotte durante il trasferimento della curia a Bologna tra il 1436 e il 1437 e, negli stessi anni, l’Assioco pseudo-platonico dedicato al cardinale Giordano Orsini e preceduto da una prefazione indirizzata a un certo Velio. Da alcuni anni si è aggiunta alla lista delle versioni latine di Cencio quella del De uirtute, un altro testo del Corpus Platonicum ritenuto apocrifo sin dall’antichità. Quest’ultima traduzione fu realizzata a Bologna tra il 1436 e il 1437,
6 L’epistola si trova nel manoscritto della Biblioteca Comunale di Siena G.VII.44 ed è pubblicata in Bertalot 1975, pp. 144-147. 7 L’umanista immagina che la biblioteca stessa urli queste parole a simboleggiare la prigionia a cui era stata sottoposta nei secoli: ne sinite, uiri lingue latine amantissimi, me per huiusmodi negligentiam funditus deleri; eripite me ab hoc carcere, in cuius tenebris tantum librorum lumen apparere non potest. Cfr. Bertalot 1975, p. 146. Espressioni molto simili sono usate da Poggio in un’epistola a Guarino Veronese datata 16 dicembre 1416 a proposito dello stesso ritrovamento, in cui in più l’umanista menziona l’opera di Quintiliano, ma omette le opere di Lattanzio, Vitruvio e Prisciano; Harth 1984-1987, vol. 2, 4, 5, p. 154. Vd. anche Sabbadini 1905-1914 (= 1967), II, pp. 78-79. 8 Cencio scrive ancora: sed huiuscemodi labes non solum his de quibus modo mentionem fecimus, sed preteritis urbis gubernatoribus summisque pontificibus ascribitur, qui huic rei perniciosissime humanique generis dignitatem minuenti nepharie assensi sunt. Per l’analisi e la traduzione francese dell’epistola vedi Gilli 1999, vol. 2, pp. 236-238.
l a p r i m a t r ad uz i o ne lat i na d i e li o ari st i d e
cioè negli stessi anni in cui Cencio lavorò sulle epistole di Eschine e sull’Assioco, e fu dedicata a Bornio da Sala, giurista bolognese9.
I.2
Cencio e l’insegnamento
Cencio manifestò il suo impegno intellettuale anche attraverso l’attività di insegnamento svolta nell’embrionale Studium Urbis negli anni del pontificato di Martino V (1417-1431) e probabilmente fino al 1435, quando si trasferì a Firenze a seguito dello spostamento della Curia10. L’antica Sapienza era animata sin dai tempi di Innocenzo VII (1404-1406) da eruditi come Iacopo Angeli, Poggio Bracciolini, Leonardo Bruni e Francesco da Fiano. Cencio dovette pertanto raccogliere la lezione del suo maestro e avviare un insegnamento del latino nella medesima sede, com’è testimoniato dall’esistenza di due prolusioni: la prima, costituita da dieci versi, alla Rhetorica di Cicerone, presente in un codice parigino appartenuto con ogni probabilità a un allievo di Cencio contenente il De partitione oratoria e il De oratore; la seconda al De officis, anonima ma attribuibile con sicurezza a Cencio11. L’interesse per Cicerone inoltre è attestato dall’esistenza di un codice che riporta le Epistulae ad familiares, il manoscritto Berlin, Staatsbibliothek, Preuss. Kulturbesitz Lat. fol. 609 interamente trascritto da Cencio12. Il codice, come si vedrà più avanti, risulta particolarmente importante per il nostro studio, dal momento che contiene alcuni lemmi greci che hanno permesso ad Antonio Rollo, attraverso un confronto paleografico con la mano del Dioniso nel manoscritto Wroclaw Akc. 1949 Kn. 60 (di seguito Wroc), antigrafo greco alla base del Bacchus, di identificare il copista dell’inno aristideo proprio in Cencio13. Tra gli autori greci studiati da Cencio c’era proprio Elio Aristide, che l’umanista ebbe modo di conoscere nel periodo del trasferimento della biblioteca greca del maestro Manuele Crisolora in Occidente; a questo proposito occorre ricordare che Crisolora lasciò a Cencio la quarta parte dei suoi libri depositati a Firenze presso Palla Strozzi14. Oltre all’interesse mostrato con la realizzazione del Bacchus, composto a
9 L’interesse per Platone da parte di Cencio è testimoniato dalla citazione del nome del filosofo nella prefazione al secondo opuscolo di Plutarco e in una delle epistole; vd. Lehnerdt 1901, pp. 161-162 e Bertalot 1975, pp. 154-155. Per l’opuscolo De uirtute vd. Kristeller 1985 (1), in particolare pp. 246-257. 10 Vd. Valentini 1936, pp. 217-223; Niutta 1990, p. 17. 11 La didascalia del codice parigino Carmina supradicta fecit Cinchius (= Cinthius) quando incoepit Rhetoricam Tullii non lascia spazio a dubbi. Si tratta del Paris, Bibliothèque Nationale, lat. 16225, proveniente dalla biblioteca della Sorbona. La prolusione del De officiis compare assieme ad altri documenti riferibili a Cencio nei due codici Vat. Ottob. lat.1487 e Siena G.VII.44. Vd. Valentini 1936, pp. 219-220; Lombardi 1985, p. 33-34. 12 Vd. Lombardi 1985, pp. 28-32. 13 Cfr. Rollo 1998, pp. 262-264. 14 Purtroppo nella copia del testamento redatto a Costanza nel 1415 (anno della morte di Crisolora) non figura la lista dei libri né è possibile ricavare indizi sui codici lasciati a Cencio dall’inventario della biblioteca di Palla, andata quasi completamente dispersa. Vd. Lombardi 1983, p. 26 n. 7. Per quanto riguarda il codice 7934, in cui, tra gli altri documenti collegati a Cencio, compare una copia
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Costanza mettendo a frutto gli insegnamenti di Crisolora, ci sono altri due luoghi in cui Cencio mostra il suo apprezzamento per il retore greco. Il primo si trova in un’orazione composta in occasione dell’incoronazione dell’imperatore Sigismondo e forse mai pronunciata15; Cencio a un certo punto, nell’assimilare l’ingresso in Roma all’entrata in cielo, afferma che «Anche Aristide, famosissimo oratore, lo dichiara apertamente nel tracciare l’encomio della città: “Roma non è terra, ma una parte del cielo”». La citazione, che non è di Aristide in realtà, ma di Libanio (ep. 453 Förster, § 1), si trova anche nella Synkrisis16, celebre discorso in cui Manuele Crisolora traccia un parallelismo tra Roma e Costantinopoli che doveva essere ben noto a Cencio e alla sua cerchia, dal momento che figura insieme al Dioniso nel summenzionato manoscritto di Wroclaw. Sebbene quindi Cencio sbagli nel menzionare la fonte, la citazione, che contiene un chiaro riferimento all’A Roma (or. 26), consente di affermare con sicurezza che egli era al corrente dell’esistenza di questo discorso di Aristide. Un altro luogo aristideo che finora non è stato messo in rilievo si trova in un’epistola di Cencio indirizzata al maestro Francesco da Fiano; la lettera contiene una polemica letteraria nei confronti dei poeti Nicola e Iacobello Arcionini di Capranica. Cencio si lamenta infatti dell’eccessiva libertà compositiva, soprattutto dal punto di vista metrico, dei due letterati e li accusa di non essere capaci di realizzare una scrittura poetica più ‘grave’ di quella che hanno esposto. Egli impiega come argomento a favore della sua critica un passo tratto dall’inno A Serapide (or. 45) di Elio Aristide, citato testualmente: … ita poetis, ne coactionem proportionemque pedum reformident, libera quedam scribendi facultas concessa est Aristidis uerbum ὥσπερ τύραννοί τινες τῶν νοημάτων ὄντες, idest poete sunt tanquam tyranni quidam nominum17. È notevole che Cencio rivolga la sua attenzione ancora una volta a un inno, mostrando così un discreto interesse per i discorsi di Elio Aristide deputati all’elogio delle divinità; l’umanista mostra con la sua citazione di aver colto la polemicità dell’incipit dell’A Serapide, in cui Aristide si lamenta appunto della ‘tirannia’ dei poeti e rivendica la possibilità di celebrare le divinità in prosa. In questo caso, dunque, è possibile concludere che egli avesse compreso il senso del testo greco che aveva
del testamento di Crisolora, si veda infra, I codici latini contenenti il Bacchus, p. 51. Del patrimonio librario di Manuele Crisolora fanno sicuramente parte due codici aristidei che contengono il Dioniso: il Vat. gr. 1299, con nota di possesso di Giovanni Crisolora, e l’Urb. gr. 123 (U), appartenuto a Demetrio Cidone. Quest’ultimo sarebbe appartenuto a Palla Strozzi e corrisponderebbe all’item 258 dell’inventario del 1431. Diller 1961, p. 316; Zorzi 2002, p. 105, 108, pp. 120-122. 15 L’orazione è pubblicata in Lehnerdt 1901, p. 158. Vd. anche Kristeller 1985 (1), p. 243; Fontanella 2013, pp. 218-219. 16 P.G. CLVI, 23-53. Si veda anche l’edizione più recente di Maltese-Cortassa 2000. 17 “… così ai poeti, perché non temano la costrizione e la proporzione della metrica, è concessa una certa libertà di scrittura, il detto di Aristide «poeti che sono come dei tiranni delle parole»”. La lettera è presente nel già menzionato manoscritto di Siena G.VII.44 ed è stata pubblicata in Bertalot 1975, pp. 150-151. Il passo greco di Aristide è stato integrato da Bertalot sulla base dell’edizione di Keil perché, come riferito da Remigio Sabbadini, al suo posto nel codice da cui è tratta la lettera c’è una lacuna; vd. Bertalot 1975, p. 150, n. 3.
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davanti citandolo in maniera consapevole a proposito delle licenze poetiche che taluni dotti si attribuivano. È possibile tuttavia ipotizzare un’altra eventualità, e cioè che le suddette citazioni fossero note a Cencio non grazie a una lettura diretta dei testi, bensì in quanto sententiae, cioè definizioni suggestive tratte da repertori che circolavano a quel tempo a uso degli umanisti. Qual che sia l’origine delle menzioni, resta in ogni caso innegabile l’importanza attribuita ad Aristide, che viene citato come auctoritas in più di una discussione già nella prima parte del XV secolo.
I.3
Il modello greco del Bacchus: il manoscritto Wroclaw Akc. 1949 Kn 60
Cencio dunque acquisì un metodo versorio per merito di Manuele Crisolora, incontrato a Roma nel secondo decennio del ’40018; grazie alla frequentazione del dotto bizantino l’umanista poté non solo imparare il greco e leggere direttamente i testi dell’antichità, ma ebbe anche accesso al ricco patrimonio manoscritto del suo precettore. Studi recenti19 hanno mostrato che Cencio de’ Rustici si servì per la sua traduzione del Dioniso di Elio Aristide del testo greco conservato nel già menzionato manoscritto Wroc20. Si tratta di un codice molto importante sia per la storia dell’apprendimento del greco all’inizio del ’400 sia perché fornisce l’antigrafo di una traduzione umanistica e pertanto rende possibile un confronto puntuale tra il testo originale e la sua resa latina21. Wroc è un manoscritto miscellaneo in parte pergamenaceo, in parte cartaceo, composto da sette fascicoli e databile all’inizio del XV secolo; le opere in esso contenute sono la Σύγκρισις o Epistula de laudibus utriusque Romae di Manuele Crisolora (ff. 3r-20r); il Liside (ff. 25r-46v) e il Lachete (ff. 47r-68r) di Platone; due lettere crisolorine al nipote Giovanni (ff. 69r-70v) e a Demetrio Crisolora (ff. 70v-72v); il Dioniso di Elio Aristide (ff. 73r-75r); un’epistola greca anepigrafa (ff. 75v-76r); alcune sententiae stoiche greco-latine (f. 76r) e due carmina latini in esametri (ff. 76v-77r). In origine collocato al Friedrichsgymnasium di Wroclaw, il codice è attualmente conservato alla Biblioteca Universitaria (Biblioteka Uniwersytecka) della stessa città. Al secondo foglio di guardia (f. 2r) ci sono tre note: la prima d’acquisto da parte di Pier Candido Decembrio Est P. Candidi emptus Senis 1442 die XIIIa septembris; sotto compare Iste liber mei Franuchum de Lomito (sic) e infine Galeacii Vicecomitis nec non amicorum emptus precio lb 6 et s 12 Januarii die p° 1503.
18 Vd. Sabbadini in Bognini 2009, pp. 126-127; Cammelli 1941, pp. 155-157; Bertalot 1975, pp. 131-180; Kristeller 1985 (1), pp. 239-257; Niutta 1990; Fontanella 2013, pp. 218-220. 19 Förstel 1994, pp. 111-121; Martinelli Tempesta 1995, pp. 27-45; Rollo 1998, pp. 257-274. 20 Cfr. Treu 1889, pp. 83-84; Kristeller 1963-1997, vol. 4, p. 434b. 21 Ringrazio Stefano Martinelli Tempesta per averci gentilmente fornito le fotoriproduzioni delle pagine del manoscritto Wroc contenenti il testo greco del Dioniso di Elio Aristide (ff. 73r-75r).
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Il codice, dopo la morte di Bartolomeo Aragazzi da Montepulciano22 (1429), suo primo possessore, finì a Torrita di Siena, presso la chiesa di S. Martino, come risulta da una nota al f. 1v; di qui passò a Siena, dove fu acquistato da Pier Candido Decembrio nel 1442, di cui ci resta la postilla autografa che abbiamo ricordato. Si deduce da una nota al f. 72v, alla base cioè della lettera di Crisolora a Demetrio, che nel 1586 esso fu consultato da Martin Crusius, interessato ai documenti crisolorini inediti; Crusius infatti ricopiò questi testi in un codice, l’Mb 10, conservato oggi alla Biblioteca Universitaria di Tübingen. Il filologo nella nuova copia inserì delle informazioni sul codice - cioè l’attuale Wroc - da cui aveva tratto i testi a cui era interessato e ricorda che questo gli era stato prestato dal Dottor Israël Spach di Strasburgo, autore di diverse opere d’ambito medico e filologico; la copia avvenne tra il 10 e il 17 agosto del 1586 e rinviato a Strasburgo il 20 dello stesso mese. Dunque il codice contenente, tra le altre opere, il Dioniso greco alla base della traduzione di Cencio era passato da Decembrio a Spach, al quale del resto appartenevano tutti e tre i codici greci inglobati nel fondo del Friedrichsgymnasium di Wroclaw per opera dell’umanista strasburghese Matthias Bernegger23. L’identificazione di Wroc come modello per la traduzione di Cencio è stata possibile grazie all’analisi del contenuto di una lettera di Bartolomeo Aragazzi inviata ad Ambrogio Traversari da San Gallo il 20 gennaio 141724; in questa lettera Bartolomeo, dopo aver informato il destinatario di essere passato dall’insegnamento di Manuele Crisolora a quello di Cencio de’ Rustici dopo la morte del primo, riferisce di aver trascritto, su esortazione di Cencio, una serie di opere: plurimaque Platonis opuscula, Protagoram, De amicitia, De fortitudine, eius uiri De laudibus utriusque Rome. Le opere platoniche sono i dialoghi Protagora, citato esplicitamente25, Liside e Lachete, menzionati come De amicitia e De fortitudine, mentre il De laudibus utriusque Rome è la summenzionata Σύγκρισις di Manuele Crisolora. Da più parti è stato messo in rilievo il legame di Wroc con uno dei due manoscritti del XV secolo contenenti l’epistola prefatoria e la traduzione latina del Dioniso di Elio Aristide realizzata da Cencio de’ Rustici: il Laur. plut. 90 sup. 42, manoscritto vergato interamente da Bartolomeo Aragazzi, come si legge nelle sottoscrizioni al
22 Su Bartolomeo Aragazzi vedi De la Mare 1973, pp. 85-90; Scarcia Piacentini 1985, pp. 236-254. 23 Vd. Förstel 1994, pp. 120-121. 24 […] Ego enim eius uiri (sc. Manuelis Chrysolore) ita amantissimus eram, ut, quoad possem et liceret, nusquam ab tanti Patris conuersatione discederem, fierique conabar eius sapientia doctior; neque dies erat, qua dulcissima secum familiaritate uersarer, non meliorem effectum me esse cognoscerem. Quo mortuo ad C(incium) Romanum probatissimum quidem uirum sepenumero me contuli, quem sicut natura et moribus, ita exercitatione et doctrina bonarum artium, et utriusque lingue eruditione ornatissimum audeo dicere. Ab hoc multa, que ab illo audierat, didici; que sciebam, non perdidi; plurimaque Platonis opuscula, Protagoram, De amicitia, De Fortitudine, eius uiri De laudibus utriusque Rome, ipso hortante et suadente conscripsi […]. Vd. Ambrosii Trauersarii… epistulae et orationes; Mehus 1759, ep. 24, 9, col. 982-983. 25 Secondo gli studiosi nonostante l’assenza del Protagora il contenuto di Wroc corrisponde a quanto elencato nella lettera. Questo dialogo platonico trascritto dall’Aragazzi è stato identificato nel ms. Riccard. gr. 54. Vd. Förstel 2002, pp. 209-218, 220.
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f. 45r e 64v; l’altro manoscritto che riporta la lettera di Cencio e il Bacchus, coevo del laurenziano, è il Vat. lat. 1883, per il quale però è ignota l’identità del copista26. Il manoscritto di Firenze riporta al f. 70v tra le altre opere un lessico bilingue in tre colonne redatto da Bartolomeo a partire da due opere presenti in Wroc: l’Epistula ad Ioannem di Manuele Crisolora, da cui sono tratti i lemmi greci delle colonne 1 e 2 e il Dioniso aristideo, di cui alcuni termini con relativa traduzione latina sono presenti alla colonna 327. Se sull’uso di Wroc per i termini greci c’è accordo tra gli studiosi, non si può dire altrettanto sulla possibilità che Bartolomeo abbia impiegato la traduzione di Cencio, presente nello stesso codice al f. 65r-v, come fonte per le corrispondenti parole latine. Förstel, che ha rilevato alcune discordanze tra la resa latina dei lemmi greci presente nel glossario e quella del Bacchus di Cencio28, ritiene che Bartolomeo si sia servito non solo della versione di Cencio, ma anche di un esemplare intermedio, che lo studioso immagina come una traduzione interlineare del discorso di Aristide frutto degli insegnamenti di Cencio o dello stesso Crisolora, al pari di quella di alcuni dialoghi di Luciano presenti nell’Urb. gr. 12129. Da parte sua, Martinelli Tempesta afferma invece che «Bartolomeo, pur variando e semplificando in alcuni casi, adoperò proprio la traduzione del maestro per leggere l’opuscolo in questione (sc. il Dioniso di Wroc)»30. Il lessico bilingue di Aragazzi, a ogni modo, costituisce per noi moderni un’importante testimonianza delle pratiche di apprendimento del greco all’inizio del ’400; esso mostra infatti come gli umanisti di quest’epoca in assenza di dizionari o sussidi similari fossero inclini a prodursi da sé strumenti atti alla memorizzazione del greco31. Un altro punto discusso tra gli studiosi riguarda l’identità del copista del Dioniso in Wroc; su questo argomento si sono pronunciati Förstel, Martinelli Tempesta e Rollo32. Förstel, ravvisando una coincidenza tra la mano che ha vergato il glossario nel laurenziano e quella di Wroc e fondandosi sulla presenza della sottoscrizione autografa B. de Montepoliciano al f. 49r del manoscritto di Wroclaw, dichiara che quest’ultimo è stato vergato in toto da Bartolomeo Aragazzi a partire da codici di proprietà di Manuele Crisolora a Costanza tra il marzo 1415 e il gennaio 141733; egli non contempla l’ipotesi di un confezionamento a più mani del codice, eventualità non presa in considerazione neppure da Martinelli Tempesta, che tuttavia fa un’osservazione sulla non totale omogeneità del manoscritto. Egli afferma infatti che è possibile isolare nell’esemplare tre blocchi in base alla fascicolazione e all’aspetto della grafia: il primo contenente il De laudibus… di Crisolora (fasc. 1-2, ff. 3-20r; ff. 20v, 21-24 bianchi); il secondo il Liside e il Lachete di Platone, le epistole di
26 Cfr. infra, I codici latini contenenti il Bacchus, pp. 50-51. 27 Una riproduzione del foglio è presente in Eleuteri-Canart 1991, p. 42 (tav. VIII). 28 Vd. Förstel 1994, pp. 115-117. 29 Cfr. Berti 1985, pp. 416-443 e 1987, pp. 3-73. Per la pratica della traduzione interlineare in età umanistica vedi anche Bianca 2002, pp. 133-150. 30 Vd. Martinelli Tempesta 1995, p. 20. 31 Cfr. Berti 1987, p. 71. 32 Vd. Rollo 1998, pp. 261-274. 33 Vd. Förstel 1994, in particolare pp. 112-113.
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Crisolora (fasc. 3-6, ff. 25r-72v); il terzo e ultimo con il Dioniso di Elio Aristide (fasc. 7, ff. 73r-75r). Mentre i primi due blocchi sono piuttosto omogenei dal punto di vista grafico, nonostante alcune difformità nella mise en page, - ad esempio il fatto che le epistole di Crisolora occupano uno specchio di scrittura più largo rispetto ai dialoghi platonici e che il fascicolo 2 ha un numero di linee per pagina maggiore (27) rispetto al resto del codice (20/21) - Martinelli Tempesta osserva che il terzo - quello, cioè, contenente il Dioniso - si distingue per un asse di scrittura leggermente inclinato a destra. Lo studioso non va oltre e non tenta di indagare l’identità dei copisti, ma conclude il suo ragionamento stabilendo dei paletti cronologici ancora più precisi rispetti a Förstel sulla base del contenuto, anche questa volta, del Laur. plut. 90 sup. 42. Il terminus ante quem per Wroc andrebbe posto secondo lui tra il maggio 1416, data dell’epistola di Poggio Bracciolini, copiata da Bartolomeo nel laurenziano ai ff. 66-67, e il 20 gennaio 1417, data dell’epistola ad Ambrogio Traversari in cui sono elencate le opere di Wroc; il terminus post quem sarebbe invece rappresentato dalla morte di Crisolora, sopraggiunta il 15 aprile 1415, momento dopo il quale Bartolomeo si pose sotto il discepolato di Cencio. C’è anche un altro argomento che forse è possibile aggiungere a favore dell’ipotesi che a trascrivere il Dioniso non sia stato Bartolomeo: egli infatti non nomina Aristide nell’elenco di opere dell’epistola ad Ambrogio Traversari, cosa piuttosto rilevante, mentre stupisce di meno che non nomini le sententiae o l’epistola anepigrafa. Un passo ulteriore riguardo all’identificazione del diverso copista del Dioniso in Wroc è stato compiuto da Rollo. Lo studioso ha notato che i caratteri inclinati verso destra con cui esso è vergato mostrano anche un’andatura più uniforme e regolare rispetto al resto del codice. Sulla base del confronto con la mano greca del ms. Berlin, Staatsbibliothek, Preuss. Kulturbesitz Lat. fol. 609 contenente le Familiari di Cicerone di mano di Cencio de’ Rustici34, Rollo arriva a concludere che a trascrivere il Dioniso sia stato Cencio stesso. Solo in un secondo momento, quindi, l’umanista avrebbe consegnato il suo fascicolo a Bartolomeo, che lo avrebbe unito ai materiali crisolorini e platonici; questo spiegherebbe inoltre, secondo lo studioso, l’assenza della menzione del Dioniso nell’elenco di opere dell’epistola indirizzata al Traversari. Cencio stesso, quindi, e non Bartolomeo sarebbe il copista dell’inno di Aristide in Wroc ed è plausibile che l’umanista abbia realizzato una copia di lavoro partendo dai manoscritti di proprietà di Manuele Crisolora35.
34 Vd. supra, p. 25. 35 Allo stesso modo è stato dimostrato che le opere riconducibili a Crisolora contenute in Wroc (le epistole e la Σύγκρισις) sono state ricopiate da Bartolomeo da un manoscritto autografo del dotto bizantino, il Laur. VI 20. Vd. Förstel 1994, pp. 117-119. Per la provenienza dei testi platonici contenuti in Wroc vedi Förstel 2002, pp. 209-221. A differenza delle altre opere contenute in Wroc, sull’antigrafo da cui Cencio avrebbe tratto il Dioniso non ci sono ancora ipotesi.
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I.4
L’epistola prefatoria del Bacchus
Cencio approntò dunque la traduzione del Dioniso, con il titolo di Bacchus, al principio del 141636, mentre si trovava a Costanza con il suo maestro Crisolora e altri celebri umanisti per svolgere le sue funzioni curiali al Concilio37. Le circostanze di tale composizione sono chiarite nella lettera prefatoria38, in cui Cencio espone le motivazioni alla base della sua scelta, con riferimento sia alle differenti prassi versorie sia al contesto storico in cui era immerso. Un problema testuale, che riguarda il destinatario dell’epistola, rimane da risolvere e anche in questo senso la ricerca sul testo di Cencio proseguirà oltre questo studio. A leggere il testimone L, il Laur. Plut. 90 sup. 42, che abbiamo scelto di seguire per la maggiore autorevolezza - si tratta infatti di un manoscritto vergato da Bartolomeo Aragazzi, umanista che conosceva personalmente Cencio e che lo seguì proprio a Costanza in occasione del Concilio39 - e per la correttezza delle lezioni, si nota che dopo il vocativo del pronome mi c’è uno spazio lasciato in bianco, mentre nell’altro codice preso in considerazione, il Vat. lat. 1883, siglato con V, la traduzione è indirizzata a un certo Pandolfo. È possibile ipotizzare che il Pandolfo menzionato in V fosse un personaggio presente al concilio; il riferimento più plausibile appare quello a Pandolfo Malatesta, nato a Pesaro nel 1390 da Malatesta dei Sonetti ed Elisabetta da Varano; dal 1407 egli fu arcidiacono di Bologna e venne nominato in un secondo momento amministratore apostolico del vescovato di Brescia. Successivamente prese parte ai lavori del Concilio tra i deputati delle nazioni e al conclave che l’11 novembre 1417 elesse papa Martino V, da cui fu poi nominato vescovo di Coutances in Normandia il 7 ottobre 141840. La lettera dedicatoria del Bacchus si apre con una sorta di recusatio; l’autore sente il bisogno di introdurre la sua versione latina del Dioniso con l’affermazione che molte opere greche, quando vengono tradotte, perdono due caratteristiche fondamentali: la patria dignitas e il patrius ornatus. Quanquam perdifficile sit mi [Pandulfe] uel homini grecarum litterarum latinarumque peritissimo aliquem ex grecis codicibus in latinum sermonem uertere, propterea quia apud grecos nonnulla sunt que in latinam linguam deducta, nullo modo patriam dignitatem patriumque ornatum conseruare possint, tamen in ocium uacuumque tempus habenti in mentem uenit, his presertim temporibus quibus Constantie diuersamur, Bacchi sermonem ab Aristide oratore accuratissimo confectum in latinam orationem uertere41.
36 La data si ricava dalla sottoscrizione di Bartolomeo Aragazzi da Montepulciano presente in uno dei due manoscritti che riporta la traduzione, il Laur. plut. 90 sup. 42, che ha al f. 64v: Finiui die VIII februarii MCCCCXVI Constantiae. B. de Montepoliciano. Questa data rappresenta dunque un utile terminus ante quem per la composizione del Bacchus. 37 Sul concilio di Costanza vedi Finke 1889; Wolmuth 1990; Cantor 1994. 38 La trascrizione della lettera è pubblicata in Bertalot 1975, p. 132. 39 Cfr. infra, I codici latini contenenti il Bacchus, pp. 49-51. 40 Vd. Pandolfo Malatesta in DBI, 68, 2007, pp. 95-97, voce di Anna Falcioni. 41 “Benché sia estremamente difficile, mio [Pandolfo], anche per un uomo espertissimo di lettere greche e latine tradurre dai codici greci un discorso in latino, poiché presso i Greci non c’è nessun’opera che, trasferita in lingua latina, possa conservare in alcun modo la patria dignità e l’originaria eleganza,
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L’insistenza sull’aggettivo patrius dà la misura della consapevolezza, da parte dell’umanista, della perdita del carattere originario e specifico di una data composizione, qualora questa venga trasferita da una lingua all’altra. Si tratta di un’osservazione importante, che continua anche nelle parti successive e che ha le sue radici nel dibattito sull’apprendimento del greco all’inizio del’400. Con l’impiego del termine ornatus Cencio si inscrive nel solco ciceroniano già dalle prime righe; l’ornatus infatti, come ricorda Cicerone nel De inuentione (1, 9) è uno degli obiettivi a cui deve mirare l’elocutio, la formulazione linguistica delle idee trovate nell’inuentio e ordinate nella dispositio42, e rappresenta pertanto quell’eleganza formale ottenuta sia con la corretta scelta sia con l’opportuna collocazione delle parole. L’intera epistola del resto denuncia una forte influenza ciceroniana, com’è testimoniato dall’impiego di alcune espressioni inerenti al dominio della parola. Cencio si mostra dunque consapevole che, con il passaggio dal greco al latino, è inevitabile perdere questa raffinatezza espressiva, che egli collega anche a una dignitas peculiare della lingua di partenza. Fatta questa premessa, Cencio afferma di essersi voluto cimentare in un’opera versoria per quanto essa sia perdifficile e chiarisce le circostanze della composizione, informando il destinatario di essersi cimentato nella traduzione del Bacchus di Aristide in un momento di riposo a Costanza: avrebbe infatti deciso di intraprendere l’opera avendo a disposizione otium uacuumque tempus. Se la riscoperta delle opere degli antichi diventa in questo momento storico un topos retorico, anche il riferimento all’ozio nel periodo del Concilio di Costanza ritorna in più di un’opera umanistica. Lo stesso Poggio Bracciolini nella summenzionata lettera sulla riscoperta dei classici latini afferma Fortuna quedam fuit cum sua, tum maxime nostra, ut cum essemus Constantie otiosi, cupido incesseret uidendi eius loci quo ille reclusus tenebatur43, riproponendo così il motivo del fruttuoso otium letterario. È possibile inoltre collegare il riposo di cui parla Cencio al momento di stallo dei lavori del Concilio compreso tra la cacciata di Giovanni XXIII, deposto il 29 maggio 1415, e l’elezione di Martino V, avvenuta l’11 novembre 141744. Cencio dunque, dopo aver dato notizia del luogo in cui si trovava e della sua condizione, approfitta della dedica per lanciare una frecciata dal sapore moralistico al degrado dei costumi dei partecipanti al Concilio che aveva potuto constatare durante il suo soggiorno. Con la frase successiva Nihil enim ad hunc locum pocius tuttavia, dal momento che ho a disposizione tempo libero e riposo, mi è venuto in mente, soprattutto in questo periodo in cui alloggiamo a Costanza, di tradurre in latino il discorso di Bacco, composto da Aristide, oratore di eccezionale ingegno.” (§ 1). 42 Cfr. Cic. Inu. 1,9. Sulla questione del ciceronianismo nel Rinascimento si vedano le due opere fondamentali di Sabbadini 1885, e Fumaroli 1994. 43 “Un caso fortunato per lui, e soprattutto per noi, volle che, mentre ero ozioso a Costanza, mi venisse il desiderio di andare a visitare il luogo dove egli (sc. Quintiliano) era tenuto recluso”; cfr. supra, p. 24, n. 7. Un’opera composta nel medesimo periodo di impasse nella risoluzione delle controversie papali fu del resto la traduzione dell’Etica Nicomachea a opera di Leonardo Bruni, ultimata e dedicata al nuovo papa Martino V nel 1418. Da essa scaturì una riflessione sul corretto modo di tradurre confluita nel De interpretatione recta, a testimonianza del rilievo attribuito al dibattito sul corretto uertere in auge nei primi decenni del XV secolo. Vd. Viti 2004. 44 Vd. Bertalot 1975, p. 132.
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quadrare uidetur, in quo omnes pene barbarico ritu debacchantur, quam Bacchum latinis litteris explicare, “Nulla infatti mi è sembrato quadrare di più con questo luogo, in cui tutti baccheggiano quasi alla maniera dei barbari, che riprodurre il Bacchus in lettere latine” (§ 2), egli si riferisce al clima lascivo creato nella città tedesca dai partecipanti al Concilio, com’è testimoniato da alcune cronache del tempo45 e da componimenti emblematici, come una facezia di Poggio che racconta della facilità con cui una donna a Costanza al tempo del Concilio era rimasta incinta46. Un motivo altrettanto se non più importante della scelta di tradurre Aristide viene spiegato più avanti. Cencio inserisce nella lettera un elogio del suo maestro, Manuele Crisolora, definito homo sine ulla dubitatione diuinus, e ne riporta la teoria sul corretto modo di tradurre47: viene infatti ripresa l’idea della necessità di superare la traduzione ad uerbum (sc. letterale), di stampo medievale, che andava ad alterare la natura dell’opera originale, e di acquisire un metodo fondato sulla resa ad sententiam (cioè del senso), fedele al testo di partenza. Nelle parole di Cencio c’è un’evidente ripresa della celebre teoria esposta da Cicerone nel De genere optimo oratorum (14), in cui l’oratore metteva in dubbio la validità della traduzione letterale, uerbum de uerbo, e poneva l’accento sull’importanza di conservare il genus omnium uerborumque uim48. 45 Citiamo a questo proposito un passo tratto dal diario fittizio ma realizzato a partire da tre cronache storiche del Concilio di Costanza (di Guillaume Fillastre, Ulrich von Reichensthal, e Jacques Cerretani) di Jacques de Ciresio, che collima perfettamente con quanto espresso da Cencio: « [19 juillet 1415] A côté de l’atmosphère plutôt grave du Concile, Constance présente tout un autre aspect moins édifiant… Il y aurait ici quelque 1700 joueurs de trombone, fifre, flûte et autres musiciens ; sans doute n’est-ce pas un mal, mais cela souligne les besoins de distractions qui ont provoqué cet afflux. Les femmes perdues, dans les maisons publiques, et celles qui ont loué d’autres maisons seraient au nombre de sept cents, sans compter celles qui ne se déclarent pas. Les fêtes se multiplient : les réceptions que donnent et ses rendent les délégations ; les tournois, les danses… Parfois des rixes éclatent, suites de beuveries, ou coups fourrés. Il faut évidemment une main énergique pour tenir bon ordre à tout cela». Cf. Glorieux 1964, pp. 108-109. 46 La facezia, che si intitola Ciuis Constantiae Soror Grauida Facta (27), recita così: Nobilis Episcopus ex Britanniis, ad ostendendam quam tunc multi requirebant Concilii Constantiensis libertatem, in magno Praelatorum conuentu hoc attulit testimonium. Fuisse ait Constantiae ciuem, cujus soror innupta grauida facta erat. Cum fratri tumor uentris innotuisset, accepto gladio, quid id esset, aut unde id prodisset, quaesiuit, percussori similis. Tum iuuenis exterrita, id esse Concilii opus, seque ex Concilio praegnantem. Hoc intellecto frater, Concilii metu ac reuerentia, sororem impunitam reliquit. Cum ceteri aliarum rerum libertatem quaererent, ille praetulit licentiam futuendi. “Per dimostrare quanta libertà molti si godessero al Concilio di Costanza, un nobile vescovo di Brittania raccontò il fatto seguente: ‘Vi fu’, disse, ‘un cittadino di Costanza, la sorella del quale era gravida, per quanto non avesse marito; ed egli, quando s’accorse della grossezza del ventre, afferrata una spada, e minacciandola di ucciderla, chiese che cosa ciò fosse, e donde provenisse. Atterrita allora la fanciulla, rispose che era opera del Concilio e che di questo ella era gravida: e quando queste cose il fratello ebbe udite e per riverenza e per timor del Concilio non punì la sorella; e mentre tutti gli altri vi cercavano tante diverse libertà, egli fra queste poneva per prima quella di fare all’amore’”. 47 Questo spasso è stato spesso citato per il suo valore nel dibattito umanistico sul uertere. Vd. Lehnerdt 1901, pp. 159-160; Cammelli 1941, I, p. 90; Bertalot 1975, pp. 132-133. 48 Cfr. Cic. Opt. Gen. 14: Nec conuerti ut interpres, sed ut orator, sententiis iisdem et earum formis tamquam figuris, uerbis ad nostram consuetudinem aptis. In quibus non uerbum de uerbo necesse habui reddere, sed genus omnium uerborum uimque seruaui. Come si può notare dal passo latino Cicerone, a differenza di Cencio, rivendica per sé la possibilità di tradurre ut orator e non ut intepres, in modo da conservare la forza espressiva del testo originale.
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Sed ut de interpretis natura aliquid dicam, ferebat Manuel, homo sine ulla dubitatione diuinus, conuersionem in latinum ad uerbum minime ualere. Nam non modo absurdam esse asseuerabat, uerum etiam interdum grecam sententiam omnino peruertere, sed ad sententiam transferre opus esse aiebat hoc pacto, ut hi qui huiusmodi rebus operam darent legem sibi ipsis indicerent, ut nullo modo proprietas greca immutaretur49. La preoccupazione maggiore del maestro sembra essere, in base a quanto riferito da Cencio, quella di non distorcere in alcun modo il dettato originario, né con traduzioni che ricalcano l’originale in maniera ossessiva e pedissequa, con un risultato ai limiti dell’assurdo, né con versioni che assomigliano a delle esegesi. Siamo ancora lontani dall’idea di una traduzione artistica, o comunque che tenga conto di un’esigenza di letterarietà e impieghi tutti gli strumenti messi a disposizione dall’arte retorica degli antichi50. Il fine del traduttore dunque, per Crisolora e, di conseguenza, per il suo allievo, consiste nel riferire il senso primario del testo da tradurre e non apportarvi nulla di nuovo e personale, insomma farsi interprete e non esegeta: … nam si quispiam, quo luculentius apertiusque suis hominibus loquatur, aliquid grece proprietatis immutarit, eum non interpretis sed exponentis officio uti51. In questo passo emerge come la lettera risenta del modello epistolografico ciceroniano; ciò si osserva dall’impiego dell’espressione quo luculentius apertiusque suis hominibus loquatur, “per parlare ai suoi in maniera più chiara”, dove alcuni termini, in riferimento ai uerba, ricorrono nelle Epistole ad Attico e nelle Familiari di Cicerone52. La riflessione condotta sulle parole del maestro porta Cencio a scusarsi con il suo interlocutore per la pochezza della propria traduzione: se egli troverà qualcosa di assurdo in
49 “… ma per dire qualcosa della natura del traduttore, Manuele, uomo senza alcun dubbio divino, sosteneva che la traduzione latina parola per parola non ha nessun valore. Infatti affermava che non solo è assurda, ma anche che essa talvolta stravolge del tutto il significato greco, ma diceva che occorre tradurre frase per frase in modo tale che coloro che si accingessero a (fare) un’operazione di questo tipo ordinassero a loro stessi di non alterare in nessun modo la natura propria dell’espressione greca” (§ 2). 50 Un pensiero analogo si ritrova nel preambolo alla versione latina di Poggio Bracciolini dello Iuppiter confutatus, in cui l’umanista afferma Conuerti autem non solum ut traductor uerborum, sed etiam sententiarum intepres. In queste parole riecheggia infatti la lezione crisolorina relativa alla necessità di tener conto delle esigenze della lingua in cui si traduce, per non obliterare quei precetti ciceroniani come dignitas, copia dicendi e ornatus, la cui importanza è ricordata da Cencio anche nell’incipit della sua lettera. Per le parole di Poggio vd. Fubini 1964-1969, vol. 4, p. 663; per un approfondimento della teoria esposta vd. Cortesi 1995, pp. 474-475. 51 “… infatti (diceva che) qualora qualcuno, al fine di comunicare con i propri colleghi in maniera molto più chiara, avesse cambiato qualcosa della specificità del greco, questi si sarebbe comportato come un esegeta e non come un traduttore” (§ 3). 52 Cf. Cic. Att. 12, 21,1: Cur ergo in sententiam Catonis? Quia uerbis luculentioribus et pluribus rem eandem comprehenderat. Per l’uso di apertis uerbis vd. Cic. Fam. 9, 22, 4: Itaque tectis uerbis ea ad te scripsi quae apertissimis agunt Stoici; Brut. 66: Nam ut horum concisis sententiis, interdum etiam non satis apertis [autem] cum breuitate tum nimio acumine, officit Theopompus elatione atque altitudine orationis suae – quod idem Lysiae Demosthenes –, sic Catonis luminibus obstruxit haec posteriorum quasi exaggerata altius oratio. Lo stesso uso si riscontra in Seneca, Ep. 21, 8: Et apertior ista sententia est quam interpretanda sit, et disertior quam ut adiuuanda. Si veda anche Seneca Retore Con. 7, pr., 2: Sententiae, quas optime Pollio Asinius albas uocabat, simplices, apertae, nihil occultum, nihil insperatum adferentes, sed uocales et splendidae.
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hac tantula lucubratione, “in questa piccola occupazione notturna”, ciò è dovuto alla scarsa bravura del traduttore sia in latino sia in greco e non ad Aristide, definito “nobilissimo”. Quam ob rem tu, qui latinarum litterarum abunde peritiam habes, a cuius grauissimo iudicio nequaquam prouocare licet, si quid absurdi in hac tantula lucubratione reperies non attribuito Aristidi oratori nobilissimo, sed mihi utriusque lingue non admodum docto53. Potrebbe qui trattarsi di una dichiarazione topica di modestia, come accade spesso nelle dediche di opere umanistiche in cui l’autore sminuisce il proprio prodotto letterario con diminutivi54, oppure di un’affermazione con cui Cencio mostra di essere consapevole del livello ‘iniziale’, quindi non ancora ineccepibile, della sua tecnica di traduzione. Ci troviamo infatti, come è stato già osservato, nei primi anni del ritorno dell’insegnamento del greco in Occidente: Manuele Crisolora era arrivato infatti a Firenze solo nel 1397 per dare corsi pubblici di greco. Precisamente per migliorare nella pratica della resa dal greco al latino Cencio dichiara di aver intrapreso l’arduo compito di tradurre Aristide; egli dice di averlo fatto exercitationis gratia, cioè per allenare la sua abilità di traduttore: Neque uero tantum mihi arrogo, ut hanc meam in latinum conuersionem legentibus uoluptatem allaturam esse confidam, sed egi exercitationis gratia, ueritus maioris Catonis prouerbium quod ait uitam humanam sine actione atque opere similem esse ferro alterius ferri refricationem atque tersuram minime habenti, in quo rubigine continuo serpere perspicuum est55. A sostegno della spiegazione offerta sulle ragioni alla base della sua scelta versoria inserisce in chiusura una citazione tratta da Catone il Censore (Carmen de moribus 3) riportata anche da Gellio (11, 2, 6) in cui si afferma che se la vita umana non viene allenata con l’operosità si deteriora esattamente come il ferro che, se non è sfregato e ripulito con un altro ferro, si arrugginisce. Nonostante l’influsso innegabile degli auctores classici riscontrato per alcuni sintagmi, Cencio nella chiusa indulge anche all’impiego di espressioni più tarde e ascrivibili a un latino medievale-umanistico. Per esprimere il concetto della necessità di un allenamento nella traduzione Cencio impiega due termini non appartenenti al latino classico (§ 5): refricatio (“strofinatura”) e tersura (“ripulitura”), forme nominali derivate dai corrispondenti verbi refrico e tergeo. La presenza di questi lemmi non classici spicca in un testo dalla forte ascendenza ciceroniana che, com’è stato rilevato, permea non solo il lessico ma anche i contenuti
53 “E per questo motivo tu, che hai una grande abilità nelle lettere latine, contro il cui severissimo giudizio in nessun modo ci si può appellare, se troverai qualcosa di assurdo in questo piccolo lavoro notturno, non dovrai imputarlo ad Aristide, oratore eccellente, ma a me, che non sono certamente dotto in entrambe le lingue” (§ 3). 54 Sull’impiego dei diminutivi per presentare con modestia la propria opera vd. Janson 1964, p. 146. 55 “E d’altra parte non ho una presunzione tale da confidare nel fatto che questa mia traduzione in latino arrecherà piacere a chi la legge, ma l’ho composta per esercitarmi, temendo quel proverbio di Catone il vecchio che dice che la vita umana senza azione e operosità è simile al ferro in cui, non beneficiando della sfregatura e della ripulitura di un altro ferro, è evidente che di continuo si insinui la ruggine. Queste parole (pronunciò) Catone. Ora ascoltiamo il sogno dello stesso Aristide” (§ 4).
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espressi. Il loro impiego denuncia pertanto la frequentazione di testi prodotti in un’epoca diversa da quella antica e rappresenta il segno più evidente dell’appartenenza di Cencio a un momento storico diverso rispetto a quello idealizzato da lui e dai suoi colleghi; inoltre non bisogna dimenticare che Cencio era uno scriba di curia e che dunque era abituato a scrivere in latino giuridico e canonico. La lettera si conclude con l’evocazione dell’inno aristideo attraverso il ricorso al lemma somnium. Il nunc ipsius Aristidis somnium audiamus, “ora ascoltiamo il sogno di Aristide stesso”, è infatti da mettere in relazione con l’apertura del discorso stesso, che inizia con la menzione dell’ispirazione onirica dell’elogio del dio: Ἡγείσθω μὲν αὐτὸς Ἀσκληπιὸς ὁ φήνας τὸ ὄναρ, “Sia guida Asclepio stesso, che ha mostrato il sogno”. La transizione dall’epistola al Bacchus è particolarmente riuscita perché consente un raccordo con il proemio dell’inno, in cui Aristide fa riferimento alla peculiare genesi onirica del discorso. La chiusa mostra dunque come Cencio abbia colto l’importanza dell’incipit del Dioniso, sezione che consente di ascrivere l’inno alla categoria dei μαντευτοί, i discorsi prescritti in sogno dalla divinità. Oltre al richiamo al tema onirico è opportuno osservare la presenza di un’ulteriore eco di grande pregnanza: l’audiamus posto in ultima battuta non può che essere la ripresa consapevole di un’altra chiusa celebre in ambito retorico, cioè quella di Cicerone che nel de optimo genere, prima della perduta traduzione, scrive sed de nobis satis. Aliquando enim Aeschinem ipsum Latine dicentem audiamus. L’apostrofe audiamus presente in Cencio pertanto denuncia ancora una volta l’aderenza al modello ciceroniano e anche la scelta della collocazione, al termine della prefazione, conferma tale orientamento stilistico.
I.5 Il Bacchus, traduzione del Dioniso di Aristide Il Dioniso di Aristide, in quanto μαντευτός56 – come riferisce l’autore stesso nell’incipit (§ 1) quando, nel collocare Asclepio in prima battuta, lo qualifica con la perifrasi ὁ φήνας τὸ ὄναρ57 - si inscrive nel gruppo dei discorsi 37-46, noto come ‘inni
56 Si tratta di una definizione fornita da Menandro Retore nella sua partizione oratoria per i discorsi dettati direttamente in sogno al retore dalla divinità; vd. Men. I, 343, 30-344, 4. Tenendo presente che il termine μαντευτός nei manoscritti UTA della tradizione aristidea precede il titolo dell’Atena (or. 37), si è pensato che la definizione risalisse al primo editore dell’opera, se non ad Aristide stesso; vd. Behr 1976, p. LXX. Si è ritenuto di separare il gruppo dei discorsi oracolari veri e propri (cioè i μαντευτοί), orr. 37-38 e 40-41, e quello dei discorsi che fanno riferimento a una tempesta o a una navigazione, cioè le orazioni 42-46, di cui fa parte l’A Serapide. A distinguere i due gruppi è anche l’impostazione del titolo: se i primi discorsi sono qualificati con il nome della divinità al nominativo, quelli appartenenti alla seconda tipologia hanno nel titolo la formula εἰς + accusativo dell’oggetto a cui è destinato l’encomio. 57 Dal momento che Aristide cita nel quarto Discorso Sacro (50, 25) tra i discorsi prescritti in sogno da Asclepio precisamente l’Atena e il Dioniso, è stato possibile ipotizzare con una certa sicurezza che il Dioniso sia stato composto tra il 145 e il 153. Behr afferma che il discorso fu prodotto nella prima parte del periodo di incubazione di Aristide nel tempio di Asclepio, cioè negli anni 145-147 d.C.; Goeken, da parte sua, invita alla cautela e propone il range cronologico più ampio che abbiamo fornito nel testo; cfr. Behr 1986, p. 415; Goeken 2012, p. 455.
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in prosa’58, componimenti di carattere oratorio che hanno come oggetto l’encomio di una divinità o di un oggetto divinizzato che comprende precisi topoi relativi alla divinità da lodare: natura (φύσις), nascita (γένος)e poteri (δυνάμεις), che includono le azioni (ἔργα) e le invenzioni (εὑρήματα)59. Per il contesto performativo è stato supposto che Aristide abbia eseguito il Dioniso nel corso di una festa al pari di altri inni60, anche sulla base della ricorrenza di espressioni che rimandano alla danza, come ad esempio la frase Διόνυσος αὐτὸς, ᾧ χορεῦσαι δεῖ, “Dioniso stesso, per il quale bisogna danzare”, (§ 1). In base a una serie di elementi interni studi recenti hanno messo in luce che il discorso potrebbe essere stato pronunciato all’interno di un quadro simposiale61 a Smirne, dov’è documentata una pratica conviviale regolata da norme precise e un sinodo preposto; si è immaginato, quindi, che il Dioniso possa esser stato pronunciato nel corso dei banchetti dei sacerdoti afferenti a tale sinodo62. Inoltre, nella chiusa dell’inno Aristide fa riferimento a un brindisi e le parole impiegate sottintendono una probabile πρόποσις (§ 13), cioè il gesto con cui si passa la coppa al proprio vicino sulla destra; Cencio però, come vedremo, per una ragione non chiara non traduce l’ultima frase della chiusa63. Nonostante quest’omissione, i molteplici riferimenti al bere (§ § 7-8, 10), oltre che la menzione delle Baccanti (§ 9) devono aver colpito l’attenzione di Cencio al momento della lettura dell’inno aristideo ed è proprio a essi che l’umanista accenna quando dice nella sua lettera che tale componimento si addice perfettamente all’atmosfera ‘bacchica’ di Costanza negli anni del Concilio
58 Vd. Norden 1898, pp. 844-845; Mesk 1927, p. 660; Reardon 1971, pp. 147-148; Bremer 1995, p. 261. Per la descrizione della struttura dell’inno retorico si veda Pernot 1993, pp. 220-238. 59 Vd. Pernot 1993, p. 221. Sebbene Aristide nell’incipit del Dioniso affermi di voler lasciare τελέους ὕμνους τε καὶ λόγους περὶ Διονύσου (“gli inni e i discorsi perfetti riguardanti Dioniso”) a Orfeo, Museo e agli antichi legislatori, il suo discorso si inquadra perfettamente nel genere innologico, in quanto contiene tutti i topoi del genere, come testimonia anche l’impiego del verbo ὑμνεῖν all’interno del discorso in due occasioni: la prima volta esso compare in riferimento a Pindaro (§ 6: ὡς Πίνδαρός τε ὑμνεῖ); la seconda invece, con un significativo valore metaletterario, in riferimento alla propria attività poetica, nella frase ἣν (sc. ἡ σκευή) ἀρτίως ὑμνοῦμεν (§ 9: “nella veste che proprio ora cantavamo”). Vd. Goeken 2012, pp. 27-28. 60 Vd. Pernot 1993, p. 93, n. 201. 61 Supporre che Aristide abbia pronunciato l’inno al cospetto di un pubblico colto e riunito per un’occasione conviviale è del tutto plausibile, soprattutto se si tengono presenti le numerose allusioni al Simposio platonico presenti nel Dioniso. Si vedano a proposito della presenza del Simposio nel Dioniso aristideo l’apparato di Keil e diversi studi dedicati al tema: Uerschels 1962, pp. 82, 113-114; Lenz 1964, pp. 221-222; Goeken 2012, pp. 188-201. 62 Anche la presenza dell’epiteto ‘Briseo’ (§ 5) associato a Dioniso ha fatto supporre a giusto titolo che il discorso sia stato pronunciato a Smirne: numerose iscrizioni della città orientale testimoniano la presenza di un sinodo collegato a Dioniso Briseo; inoltre, il riferimento nel discorso alla natura duplice del dio (barbuto e imberbe allo stesso tempo) ha a Smirne una corrispondenza numismatica. Si tratta di monete con la raffigurazione del dio giovane con la madre Semele e, sullo sfondo, una statuetta del dio barbuto. Goeken 2012, pp. 457-460. 63 Vd. infra p. 46-47.
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I.5.1
Il proemio
Nella sezione incipitaria Cencio si trova alle prese con le divinità enumerate da Aristide nell’exordium64 e i rispettivi appellativi; Ἀσκληπιὸς ὁ φήνας τὸ ὄναρ, “Asclepio stesso, che ha mostrato il sogno”, diventa con una traduzione puntuale Esculapius qui somnium ostendit, Ἀπόλλων … μουσηγέτης, “Apollo musagete”, è reso in maniera altrettanto precisa con Apollo ductor musarum; la traduzione più interessante, perché ci consente di risalire a uno dei modelli letterari di Cencio, riguarda proprio Dioniso. Aristide designa il dio a cui è consacrato l’inno con una proposizione relativa apposta al soggetto: Διόνυσος αὐτὸς, ᾧ χορεῦσαι δεῖ (“Dioniso stesso, per il quale bisogna danzare”) e Cencio traduce quest’espressione con cuius gratia coreis indulgere oportet. In essa è probabilmente contenuto un intertesto virgiliano tratto dal nono libro dell’Eneide. Dopo aver narrato la tragica fine di Eurialo e Niso, Virgilio riporta un discorso di Turno in cui il capo dei Rutuli opera un confronto tra la genuinità dei costumi del suo popolo e la mollezza delle usanze dei Teucri, ai quali, afferma Turno nei versi virgiliani, iuuat indulgere choreis (Aen. 9, 615). L’aggiunta dell’intertesto virgiliano impreziosisce senza dubbio il dettato e forse nel riferimento alle parole di Turno potrebbe celarsi una critica nei confronti dei comportamenti della folla accorsa nella città tedesca simile a quella espressa dal re dei Rutuli. Inoltre il parallelo indicherebbe una concezione di Dioniso come divinità deputata esclusivamente alle occupazioni ludiche (coreis), occupazioni che assumono un’accezione negativa proprio in virtù dell’allusione virgiliana. Un’altra espressione che denuncia dei precisi modelli linguistici è ut memorie proditum est, formula di larghissimo uso nel latino classico che si ritrova in Cicerone, Cesare, ma anche in Livio, Seneca, Valerio Massimo, Tacito e Gellio, per ὡς λόγος. Il ricorso a quest’espressione e l’intertesto virgiliano citato testimoniano come Cencio attingesse a un bacino di cultura letteraria fondata sullo studio della poesia e della retorica, soprattutto ciceroniana. Sempre nel proemio, dove Aristide precisa in che modi e con quali strumenti bisogna rivolgersi a Dioniso (§ 2), Cencio, oltre a esplicitare il concetto attraverso l’impiego dell’endiadi (ad Dionisii laudem gloriamque per περὶ Διονύσου, composita moderataque uoce per συμμέτρῳ τῇ φωνῇ - dove il σύμμετρος greco non indica l’aspetto metrico della prosa, ma la giusta lunghezza della composizione -, gratissime amicissimeque, con iperbole, per φίλον, e inuentorem industriumque hominem per πολυμηχάνους), inverte le due proposizioni che formano l’ultimo periodo di questa parte del discorso: laddove Aristide infatti afferma che τὰ ἐκ τοῦ ὀνείρατος συμβαίνει, τὸ δεῖν εἶναι πολυμηχάνους περὶ τοὺς λόγους, “accade quanto era nel sogno, che bisogna essere persone piene di inventiva nei discorsi”, Cencio traduce il periodo con etenim multarum rerum inuentorem industriumque hominem esse oportet eum qui de rebus accidentibus in somniis sermones gignit. Se in latino si perde l’idea del dato autobiografico aristideo dell’esperienza onirica, tuttavia resta integro il concetto originale relativo alla possibilità di scrivere discorsi su quanto accade nei sogni.
64 Pernot 1993, p. 630.
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I.5.2 La sezione centrale
Dopo il proemio inizia la sezione inerente alla genealogia del dio, in cui Aristide mostra di aver selezionato di volta in volta il materiale da esporre; si sofferma pertanto sulla filiazione diretta di Dioniso da Zeus e, al fine di enfatizzare il momento della nascita del dio, narra i particolari insoliti (paradoxa), come la gestazione avvenuta nella coscia del padre. Egli sottolinea inoltre il carattere di unicità della nascita, affermando con un’elaborata circonlocuzione che οὔτε γὰρ αὐτὸς ἄλλῳ τῳ ταῦτα ἄμφω κατέστη οὔτε ἄλλος ἄλλῳ τῳ, “né lui per qualcun altro stabilì questo duplice legame, né un altro lo fece per qualcun altro” (§ 3)65. La principale peculiarità di Dioniso è sicuramente la sua natura duplice, che viene esposta nella sezione riguardante la φύσις (§ § 4-5); la causa viene individuata nel parto fatto da Zeus, per Dioniso padre e madre (§ 4). Il carattere doppio del dio si esplica in tre caratteristiche fondamentali: egli è annoverato sia tra gli uomini sia tra le donne, risulta imberbe e Briseo66, pacifico e bellicoso. L’elogio della compresenza di tratti antonimici in una sola entità, che rappresenta un topos retorico ben consolidato67, contribuisce a sottolineare l’eccezionalità del dio celebrato68. Cencio, alle prese con il racconto della straordinaria gestazione di Dioniso nella coscia di Zeus (§ 3), traduce la frase αὐτὸς δὲ ἀναλαβὼν τὰς αὑτοῦ γονὰς ἐρραψάμενος τῷ μηρῷ ἐφόρει δέκα μῆνας ἐξ ἀρχῆς, δίαιταν ἔχων ἐν Νύσῃ τῇ ὑπὲρ Αἰθιοπίας, “prendendo lui stesso con sé il proprio figlio, e cucendolo nella coscia, lo porta per dieci mesi, avendo fin dal principio dimora a Nisa, al di là dell’Etiopia”, con quod postquam effectum est sure uteri instat exculte Dionisium inseruit decimumque mensem deportans in Nysa diuersatus est, que antea Egipti ciuitas, in presentia uero Ethiopia appellatur. Martinelli Tempesta nel suo studio dedicato a Wroc69 ha individuato a ragione un fraintendimento nella resa di ἀναλαβών con quod postquam effectum est, “dopo che accadde ciò”, frase che non ha nulla a che vedere col greco; tuttavia nel seguito del periodo, per quanto riguarda τὰς αὑτοῦ γονὰς ἐρραψάμενος τῷ μηρῷ, “cucendolo (sc. il figlio) nella coscia”, è plausibile che Cencio abbia colto il reale senso del passo e forse l’equivoco è imputabile all’intervento maldestro dei copisti. Martinelli Tempesta infatti nel leggere suere uteri instat ha inteso questo sintagma come uno sdoppiamento di inseruit, che traduce a sua volta ἐρραψάμενος, e ha interpretato questa resa come il tentativo di Cencio di normalizzare un segmento particolarmente ‘strano’, qual era appunto quello relativo alla cucitura di Dioniso nella coscia. La lezione dei manoscritti latini Laur. plut. 90 65 In realtà si tratta di un dato che Aristide riferisce alla nascita di Atena nell’inno a lei dedicato (or. 37, 2) e che pertanto è da inquadrare nei meccanismi dell’elogio, che per sua natura è uno strumento retorico ‘opportunista’. Vd. Pernot 1993, p. 530. 66 Sull’importanza del doppio aspetto imberbe-barbuto per l’individuazione del possibile contesto di recitazione dell’inno vd. supra, p. 37, n. 62. 67 Vd. Pernot 1993, p. 708. 68 Il tema ritorna anche nella conclusione, quando Aristide afferma che Dioniso è al contempo il più antico e il più giovane tra gli dei (§ 13). Se la duplicità del dato ‘anagrafico’ figura nelle doti eccezionali del dio, la nota relativa alla maggiore anzianità rientra nel topos dell’età, che prescrive di mettere in risalto proprio l’antichità. Vd. Pernot 1993, p. 226. 69 Vd. supra, pp. 29-30.
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sup. 42 e Vat.lat. 1883 è sure uteri instat exculte Dionisium inseruit, ma se si immagina che Cencio abbia tradotto con sure uteri instar exculte Dionisium inseruit, “inserì Dioniso con molta attenzione nella gamba alla maniera di un utero”, quindi con instar,“alla maniera di”, al posto di instat, “incalza”, il senso greco relativo all’inserimento del dio nella coscia paterna resta integro. È possibile infatti che Cencio abbia scritto di suo pugno la lezione instar e che i copisti dei due codici che trasmettono la versione abbiano letto male la parola e abbiano inserito erroneamente instat, scambiando r per t70. Per quanto riguarda la seconda parte della frase, ἐφόρει δέκα μῆνας ἐξ ἀρχῆς, δίαιταν ἔχων ἐν Νύσῃ τῇ ὑπὲρ Αἰθιοπίας, Cencio viene tratto in inganno dalla lezione errata di Wroc che ha ὕστερ(ον) al posto di ὑπέρ, quindi si trova costretto a inventarsi «la storia di una Nisa, che prima (ἐξ ἀρχῆς = antea) sarebbe stata egiziana e poi (ὕστερον = in presentia) etiopica»71. La traduzione di Cencio non si qualifica soltanto per gli equivoci e gli errori; l’umanista dimostra spesso di aver inteso bene il greco di Aristide. Ad esempio, nel punto summenzionato in cui il retore parla dell’esclusività del legame tra Zeus e Dioniso (§ 3), affermando che οὔτε γὰρ αὐτὸς ἄλλῳ τῳ ταῦτα ἄμφω κατέστη οὔτε ἄλλος ἄλλῳ τῳ, “né lui -sc. Zeus- per qualcun altro stabilì questo duplice legame, né un altro lo fece per qualcun altro”, la frase greca si caratterizza per l’estrema concisione e per la ripetizione del pronome ἄλλος in anafora e in poliptoto. In latino un calco puntuale avrebbe prodotto un effetto pesante, e questo probabilmente è il motivo per cui Cencio sceglie di tradurre esplicitando qualche concetto che in greco è sottinteso. Nella sua resa neque enim is neque unquam ullo in tempore quiuis alius cuipiam se patrem matremque constituit si osserva la presenza di un solo alius, corrispondente ad ἄλλος, e soprattutto lo scioglimento dell’astratto ταῦτα ἄμφω κατέστη con se patrem matremque constituit. La stessa volontà di rendere più chiaro il testo greco si riscontra anche più avanti, quando per passare dalla parte relativa alla genealogia di Dioniso (§ 3) a quella contenente la descrizione della natura doppia del dio (§ 5)72, Aristide impiega la frase di raccordo καὶ τί ἂν εἴποις ὑπὲρ τοῦτο; (“e che cosa si potrebbe dire oltre questo?”). Cencio sente di dover ampliare il concetto, così inserisce in latino due termini affini che danno esito a un’endiadi e traduce con quid enim excellentius diuiniusque dici potest? Subito dopo, nella sezione in cui Aristide espone i rapporti di Dioniso con le altre divinità, Cencio opera alcune modifiche rispetto al testo originale, in parte in maniera arbitraria, in parte a causa del modello a disposizione. Una forma di arbitrio appare nel punto in cui si parla dei rapporti di Dioniso con Pan; Aristide a questo proposito afferma che διδόασι δ’ αὐτῷ καὶ τὸν Πᾶνα χορευτὴν τελεώτατον θεῶν ὄντα, ὡς Πίνδαρός τε ὑμνεῖ καὶ οἱ κατ’ Αἴγυπτον ἱερεῖς κατέμαθον, “a lui assegnano Pan come coreuta, che è perfettissimo tra gli dei, come Pindaro dice nel suo inno e compresero i sacerdoti in Egitto” (§ 6). Cencio traduce con quapropter Pindarus sacerdotesque
70 Di questo avviso è anche Fabio Vendruscolo, che ritiene il passo dei codici latini manifestamente corrotto; vd. Vendruscolo 1999, pp. 406-407. 71 Martinelli Tempesta 1995, p. 23. 72 Per una divisione in sequenze del Dioniso vd. Behr 1986, p. 415; Goeken 2012, p. 461.
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ludum Egipti facientes Pana deorum excellentissimum Dionisii psaltatorem canunt. Resta oscuro il motivo dell’omissione di ὡς… ὑμνεῖ, riferito a Πίνδαρος, e di κατέμαθον, verbo di οἱ κατ’ Αἴγυπτον ἱερεῖς; si tratta di termini presenti nel codice Wroc, pertanto si può parlare qui di omissioni arbitrarie. Diverso il caso dell’episodio narrato immediatamente dopo da Aristide, relativo alla riappacificazione resa possibile da Dioniso tra Era ed Efesto; mentre nel testo della uulgata si legge τὴν Ἥραν λέγουσιν ὡς μόνος θεῶν τῷ υἱεῖ διήλλαξεν, “si dice che lui solo tra gli dei abbia riconciliato Era con il figlio”, nel testo a disposizione di Cencio il litigio riguarda Era e Zeus, come si evince dalla lezione (τὴν Ἥραν λέγουσιν ὡς μόνος θεῶν) τῷ Διΐ διήλλαξεν di Wroc, tradotta in latino dall’umanista con Iouem deinde ferunt a Dionisio dumtaxat Iunioni conciliatum73. Anche la notizia successiva, cioè che Dioniso riuscì nella sua opera di riconciliazione conducendo Efesto in cielo in groppa a un asino, καὶ ταῦτα ἀναθεὶς ὄνῳ, “e per di più avendolo caricato su un asino”, in latino cambia radicalmente, dal momento che Cencio legge su Wroc ἄνω, “in alto”, al posto di ὄνῳ e questo lo porta a tradurre la frase con et hec hactenus. Si è osservato come talora Cencio apporti cambiamenti al testo in maniera arbitraria; altre volte emerge invece un’attenzione maggiore per l’eleganza nella resa. È il caso della traduzione della frase notevole dal punto di vista retorico καὶ ὡς μὲν αἴνιγμά ἐστιν ἐν τῷ λόγῳ δῆλον, δῆλον δὲ καὶ οἷ τελευτᾷ τὸ αἴνιγμα, “e come è evidente che nel racconto c’è un enigma, è anche evidente a quale scopo l’enigma miri” (§ 7), in cui si nota la posizione chiastica dei due αἴνιγμα e dei due δῆλον. Con questa frase Aristide intende anticipare il concetto, espresso subito dopo, che il significato sotteso all’episodio del litigio raccontato in precedenza consiste nella dimostrazione della potenza invincibile di Dioniso. Cencio traduce questa porzione di testo con quippe huic sermoni enigma inuolutum, etiam quoue hoc enigma inuolucrumque uerborum proficiscatur manifestum est; in latino si perde il doppio δῆλον, reso una sola volta con manifestum est, e si conserva la ripetizione di enigma, calco del greco αἴνιγμα. Interessante è l’aggiunta di inuolucrum uerborum, che si va ad aggiungere a enigma con la creazione di un’endiadi; il termine inuolucrum, inoltre, richiama foneticamente il precedente inuolutum. La scelta delle due parole, in cui si osserva la presenza di un omeoarco e un omeoteleuto, non sembra casuale: Cencio, cogliendo la raffinatezza della frase greca, deve aver tentato di restituire un corrispettivo latino di fattura simile. È interessante notare che proficiscor nel senso di “mirare, tendere a” (equivalente al greco τελευτάω), anziché il consueto “partire, recarsi”, si ritrova nel latino classico in ambito retorico a proposito dell’aspirazione a un certo tipo di discorso (cf. Rhet. Her. 4,16: Qui in mediocre genus orationis profecti sunt, si peruenire eo non potuerunt, errantes perueniunt ad confinii genus eius generis). Probabilmente dunque Cencio qui attinge di nuovo alle sue conoscenze letterarie, per applicarle al campo della traduzione ed elevare lo stile del dettato74.
73 La maggior parte dei codici riporta qui υἱεῖ; vd. Keil 1898, p. 331, r. 20. 74 Forse in questo punto non è necessario immaginare un’errata lettura del modello greco da parte di Cencio. Martinelli Tempesta ha infatti ipotizzato che qui a causa della divisione della parola greca tra due righi τε-λευτᾷ (f. 65r, l. 52) in Wroc Cencio abbia frainteso e tradotto in maniera poco
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Notevole è il comportamento di Cencio a proposito di uno dei verbi ‘simposiali’ del testo aristideo. L’allusione al bere è presente infatti nelle frasi unite per coordinazione συμπότης ὁ τέως πολέμιος, καὶ ὁ γέρων ἀνηβήσει, καὶ πίεται κινοῦντος τοῦ θεοῦ (§ 7), “ma anche colui che fino a quel momento è stato un nemico diventerà un convitato, e il vecchio ringiovanirà e berrà, se il dio lo incita”. Cencio traduce con accedit eodem compotatorem tamdiu esse quamdiu bellicis rebus indulget, minimeque dubium est huius dei uirtute senem repuerescere. Cencio omette quindi il verbo πίεται e traduce κινοῦντος τοῦ θεοῦ con huius dei uirtute, perdendo così il riferimento all’invasamento bacchico insito nel verbo greco. Non è chiaro se dietro l’omissione ci sia la volontà di censurare moralisticamente il riferimento all’ubriachezza - il che non avrebbe senso, visto che l’umanista nella sua epistola prefatoria dichiara di voler mettere in luce proprio la licenziosità dei membri del Concilio -, oppure se siano altre le ragioni; di certo Cencio poteva leggere il verbo, che è vergato in maniera chiara sul manoscritto. Un altro dato rilevante, sempre in questa porzione di testo, è l’uso di repuerescere in luogo del classico repuberescere: si tratta di nuovo di un termine del latino medioevale, come i già citati refricatio e tersura dell’epistola prefatoria75. Se attraverso alcuni degli esempi citati è possibile osservare come Cencio mostri una discreta conoscenza della lingua di Aristide, soprattutto se si tiene in considerazione il lungo periodo di ‘silenzio’ degli studi greci in Occidente che stava terminando proprio negli anni del Concilio, tuttavia, come risulta evidente, la sua versione non è esente da equivoci e omissioni non spiegabili con il modello di riferimento, ma con ogni probabilità imputabili a una mancata comprensione del dettato originale. Un importante fraintendimento riguarda uno degli elementi costitutivi del corteggio di Dioniso, ovvero i Sileni (§ 8); Aristide infatti scrive a proposito delle imprese eccezionali attribuite al dio che ταῦτα αὖ Σειληνοί τε μαρτυροῦσι οἱ περὶ τοῦτον χορευταί, καὶ τήν γε ῥᾳστώνην τοῦ κράτους νάρθηκές τε ἀντὶ δόρατος καὶ νεβρὶς ἀντὶ λεοντῆς αὐτῷ πεπορισμένα, καὶ κύλιξ ἀντὶ ἀσπίδος κοίλης, “ciò inoltre lo testimoniano i Sileni, quelli che danzano intorno a lui; e mostrano la facilità del suo potere le ferule, di cui è fornito invece delle aste, la pelle di cerbiatto invece di quella di leone e la coppa al posto dello scudo concavo”. Cencio traduce questo passaggio con quod intelligere licet ex silignis aliisque circa ipsum coreis indulgentibus atque eius potentie facilitas his argumentis signisque elucet: nam pro telo ferula, pro leonis pelle nebride, pro scuto poculo continuo utitur. Sembra che la difficoltà più grande per Cencio sia rappresentata dal lemma Σειληνοί, che nel Laur. plut. 90 sup. 42 è tradotto con la lezione ex silignis, mentre nel Vat. lat. 1883 si legge etsi linguis. Le due varianti manifestano un’incertezza dei due copisti relativamente a questo lemma dovuta con ogni probabilità a una traduzione di Cencio che non risultava chiara; se le cose stanno così è possibile comprensibile con il verbo di moto proficiscor; come abbiamo visto, il termine ricorre in realtà anche in latino in ambito retorico con lo stesso significato del verbo greco. Allo stesso modo la traduzione suxisse per ἀμέλγειν, che per lo studioso è dovuta a un’errata lettura della parola divisa tra due fogli (ff. 73v-74r: ἀ-μέλγειν), non appare scorretta dal momento che il verbo ha senza dubbio in primo luogo il senso di “mungere”, ma può significare anche “succhiare, bere”, con particolare riferimento alle api (cf. Theoc. 23, 25; Bion. 1, 48). Vd. Martinelli Tempesta 1995, p. 23. 75 Vd. supra, pp. 35-36. Si veda Du Cange t. 7, col. 136c.
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che l’umanista non avesse capito il termine greco che aveva davanti a causa della separazione della parola tra due righe differenti all’interno del modello greco: in Wroc. infatti al f. 74r il termine Σειληνοί è diviso tra la riga 5, che ha σει, e l’inizio della riga 6, che contiene la continuazione ληνοί. È possibile che Cencio abbia dunque inteso σει come (σ)ει, da cui avrebbe poi ricavato l’et-si latino; per quanto riguarda ληνοί, parola che significa “torchi, tini”, si può supporre che Cencio abbia tradotto in un primo momento con lignis, che per sineddoche potrebbe pertanto indicare i ληνοί greci e che la sua lezione originaria abbia dato luogo alle due varianti che si leggono nei due manoscritti latini V e L che non sono autografi, bensì copie di un originale che non abbiamo a disposizione; inoltre qui il sintagma ex silignis è legato tramite congiunzione -que all’espressione aliis… indulgentibus, mostrando ancora una volta la dipendenza della traduzione da Wroc, che ha καὶ οἱ περὶ τοῦτον χορευταί. Sempre nello stesso punto si può osservare come Cencio renda il sostantivo χορευταί con la formula coreis indulgentibus, coerentemente con la traduzione di χορεῦσαι δεῖ tramite coreis indulgere oportet rilevato nell’incipit dell’inno (§ 1). Si può supporre qui un probabile richiamo interno e non si può negare la predilezione per la formula indulgeo + dativo, che ricorre tre volte, di cui due a distanza ravvicinata (§ § 1, 7, 8). Se quest’ultimo esempio attesta un ‘attaccamento’ di Cencio a determinati sintagmi, l’umanista si mostra attento anche a diversificare la scelta delle espressioni al fine di evitare un’eccessiva monotonia. Ciò risulta evidente dalla scelta di aggiungere his argumentis signisque elucet, uariatio rispetto alla proposizione quod intelligere licet posto in principio di frase. L’amplificazione è dettata dalla volontà di chiarire il valore di μαρτυροῦσι, che si riferisce in greco sia alla prima parte relativa ai Σειληνοί sia all’elenco di segni tangibili del potere di Dioniso. Infine, sempre a proposito di questa sezione, è preferibile optare per la lezione nam pro telo del testimone laurenziano piuttosto che per il non pro telo del codice vaticano; la seconda variante infatti altera del tutto il significato dell’originale e non è giustificata dal greco contenuto in Wroc. Un punto interessante della resa latina del Dioniso di Aristide è localizzato nella sezione in cui Aristide parla delle Baccanti, ulteriore elemento del corteggio del dio (§ 9); l’espressione greca Βάκχαι δὲ καὶ ἀνθ’ ἱππέων αὐτῷ προϊοῦσαι καὶ τοξοτῶν, “lo precedono le Baccanti sostituendosi a cavalieri e arcieri”, viene tradotta da Cencio con Bacchantes autem mulieres equitum archariorumque loco sibi adscribuntur. L’umanista traduce qui τοξοτῶν con archariorumque, in luogo del classico sagittariorum, optando per una parola non appartenente al lessico classico. Archarii (o arcarii) per sagittarii è infatti attestato a partire dal Medioevo, come si legge in buona parte dei dizionari di latino medievale76; inoltre, la parola italiana “arciere”, che deriva dal francese archier (XII secolo), in ultima analisi avrebbe la sua origine nel latino arcariu(m), variante di arcuariu(m)77. Anche l’impiego di questo termine, dunque, come quelli indicati in precedenza78, testimonia l’influenza del latino medievale in Cencio, parallelamente a quello classico.
76 Cfr. Du Cange t. 1, col. 358c; Niermeyer p. 55, c. 2. 77 Cfr. LEI III, 859-860; DELI p. 122, c. 3. 78 Cfr. supra, pp. 35-36 e 42.
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Sempre nel parlare delle Baccanti ricorre un ulteriore indizio del fatto che Cencio abbia usato Wroc per realizzare la sua traduzione. Aristide, subito dopo averle qualificate al pari di cavalieri e arcieri, afferma che sono conformi nella veste che è da lui celebrata (§ 9): τῆς τε σκευῆς ἀκόλουθα ἣν ἀρτίως ὑμνοῦμεν, “conformi nella veste che cantavamo”. Cencio omette del tutto questa frase e lo fa perché nel suo modello τῆς τε σκευῆς, “nella veste”, manca (f. 74r, r. 16) e al suo posto c’è uno spazio bianco; probabilmente qui l’umanista, non capendo il senso del testo originale a causa dell’assenza del lemma greco, deve aver optato per l’omissione dell’intera proposizione. Ancora nella sezione relativa all’analisi dei rapporti di Dioniso con le altre divinità Cencio dà di nuovo prova di una resa che si allontana dall’uso classico del latino. Nel tradurre l’espressione Ἀφροδίτῃ μὲν γὰρ κοινωνήσας θέατρά τε ἀνοίγνυσι καὶ συμποσίων καὶ θιάσων ἔξαρχος γίγνεται, (Ἄρει δὲ…), “infatti in associazione con Afrodite inaugura i teatri ed è a capo di simposi e tiasi, (con Ares…)” (§ 10), Cencio opta per nam antea quam Veneri theatrum comunicet aperiatque symposium conuiuiaque efficitur. Se antea è il risultato di una correlazione (in greco infatti c’è Ἀφροδίτῃ μὲν… δὲ, tradotto in latino con Nam antea quam Veneri… deinde), la sua unione con quam non risulta chiara, mentre l’impiego del verbo communico con il dativo (nel nostro caso, Veneri), anziché il più consueto cum + ablativo, è testimoniato solo a partire da Tertulliano. Ancora una volta quindi si è di fronte a una deviazione dalla norma classica. Il seguito dell’esposizione dei rapporti con gli altri dei mostra che, se è indubbio che Cencio si servì di Wroc, tuttavia in un caso il testo latino sembra distaccarsi dal suo modello. Ancora a proposito delle divinità con cui Dioniso si accompagna abitualmente, Aristide aggiunge anche Atena ed Efesto (§ 10); la vicinanza di quest’ultimo rende il dio del vino per assimilazione dio del fuoco, come dichiara Aristide con la frase καὶ μὴν ἔμπυρός γε ἅμα Ἀθηνᾷ καὶ Ἡφαίστῳ γενόμενος, “è dio del fuoco nello stesso tempo con Atena ed Efesto”. Cencio non traduce però come se avesse sotto gli occhi l’aggettivo ἔμπυρος, “infuocato”, bensì ἔμπειρος, “esperto”, che pure è attestato in un ramo della tradizione dell’inno aristideo79; l’umanista infatti traduce la frase con opifexque effectus, Minerue atque Vulcano adheret. Il caso è singolare, perché Wroc riporta precisamente ἔμπυρος (f. 74v, r. 5), ma il fraintendimento di Cencio è spiegabile con ogni probabilità a causa dell’identica lettura empiros di ἔμπυρος - ἔμπειρος per iotacismo. Lo stesso fenomeno è alla base anche delle lezioni di Wroc ὡσπερὶ per ὡσπερεὶ (§ 2), φύσι per φύσει (§ 2), πατρῆ per πατρί (§ 3) e τοι in luogo di τι (§ 3); in questi casi però si tratta di varianti grafiche che non determinano nessun fraintendimento nella resa. Al di là dei cambiamenti originati dalla differenza del greco a disposizione, Cencio mostra nella sua resa anche di avere rispetto per il testo aristideo e al contempo di voler rendere comprensibile l’inno a un pubblico latino. Entrambi gli scopi si trovano insieme nella traduzione del segmento che tratta le azioni benefiche di Dioniso nei
79 Dall’apparato di Keil, p. 332, r.19 (in riferimento al γίγνεται della proposizione precedente Ἄρει δὲ εἰς ταυτὸν ἐλθὼν ἔνοπλος γίγνεται): γίγνεται AS, γίνεται FT, om. U, seclusi glossema ad ἔμπυρος spectans ἔμπειρος T; quod dicit Bacchum societatem (ἅμα - γιγνόμενος) cum Minerva et Volcano (vel cum Ἀθηνᾷ Ἡφαιστίᾳ) iniisse (ad ἔμπυρος cf. Plat. Prot. 321 CD) id redit fortasse ad Διόνυσον τὸν ἀπὸ ἐσχάρας (cf. Preller-Robert Gr. Myth. I 674,2).
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confronti degli uomini; la buona disposizione del dio è messa in evidenza in Aristide in particolare attraverso l’impiego dell’aggettivo φιλάνθρωπος che riflette l’importanza accordata all’idea di benevolenza divina che si esplica attraverso i doni e/o le azioni in favore degli uomini80. Aristide per esemplificare tale idea cita le guerre persiane81, momento in cui Dioniso avrebbe mostrato la sua solidarietà al popolo greco sotto forma di visione: μόνος γὰρ τῶν ἱερῶν φασμάτων ἐξεφοίτησεν ἐν τῷ κινδύνῳ τῷ Μηδικῷ· οὕτω τοῖς ὅλοις φιλάνθρωπος ὢν ἐπὶ τοὺς Ἕλληνας ῥέπει, “lui solo apparve tra le visioni sacre in occasione del pericolo persiano; così, benché sotto tutti gli aspetti amico del genere umano, il suo favore inclina per i Greci” (§ 10). Cencio, nel tradurre questo passaggio con Solus enim sacrorum phantasmatum in medico prelio medicoque periculo apparuit. Quo fit ut tametsi philantropos hominumque amator sit ad grecorum tamen beneuolentiam uehementius flectitur tenta sia di rimanere fedele all’originale, con la conservazione delle forme greche attraverso calchi puntuali, sia di palesare concetti appartenenti all’orizzonte letterario e storico greco - quindi non immediatamente accessibili per un audience latino - tramite spiegazioni apposte ai lemmi. Così ἐν τῷ κινδύνῳ τῷ Μηδικῷ viene tradotto con la duplicazione medico prelio medicoque periculo, mentre φιλάνθρωπος con philantropos hominumque amator, dove il primo termine, philantropos, non appartiene al lessico classico, ma risulta anche chiarito dal successivo hominumque amator. Cencio dunque, laddove ne ha la possibilità, fornisce una resa ‘didascalica’ per esplicitare concetti che in greco sono citati in maniera velata, come nel luogo appena esposto relativo alle guerre persiane; c’è un caso, però, in cui proprio l’allusività del greco costituisce probabilmente un limite per la comprensione. Ciò avviene all’interno della narrazione degli effetti del dio sugli uomini (§ 11); qui Aristide, nel parlare dei rapporti tra Dioniso e le Ninfe, parla della penetrazione dello spirito dionisiaco nelle viscere degli uomini che rende chiunque propenso ai giochi e alla danza. Nell’esprimere questo concetto Aristide opera un paragone con Euricle, il celebre indovino ventriloquo ateniese e afferma che Dioniso conduce i cori tra gli uomini ἀκριβέστερον Εὐρυκλέους τἄνδοθεν καταλαμβάνων, καὶ ποιεῖ χορευτὴν ‘ κἂν ἄμουσος ᾖ τὸ πρίν’, “invadendo le loro viscere con più abilità di Euricle, e rende coreuta qualcuno anche se in precedenza privo della grazie delle Muse”. Il passo di Aristide contiene dunque la menzione di Euricle, di cui parla Aristofane nelle Vespe82, e in più la citazione di un verso, κἂν ἄμουσος ᾖ τὸ πρὶν, “anche se in precedenza privo delle Muse”, tratto dalla Stenebea di Euripide (fr. 663 Kannicht). Aristide impiega la stessa citazione anche nel discorso A Roma (or. 26, 3) ma lo fa senza citare esplicitamente la
80 Sul termine φιλανθρωπία, assente negli inni poetici (sebbene l’idea da esso espressa sia ben presente) e attestato negli inni in prosa vd. Pernot 1993 pp. 230-231. 81 L’elencazione di questo e degli altri ἔργα del dio presentati nel Dioniso riflette bene la concezione religiosa tipica dell’epoca di Aristide che, debitrice dello stoicismo ‘volgarizzato’, immaginava la divinità come immanente e partecipe, attraverso i suoi poteri e le sue azioni, al corso degli eventi umani; vd. Pernot 1993, p. 237. 82 Cfr. vv. 1018-1020: τὰ μὲν οὐ φανερῶς ἀλλ’ ἐπικουρῶν κρύβδην ἑτέροισι ποιηταῖς, / μιμησάμενος τὴν Εὐρυκλέους μαντείαν καὶ διάνοιαν, / εἰς ἀλλοτρίας γαστέρας ἐνδὺς κωμῳδικὰ πολλὰ χέασθαι. Su questo passo e su altre occorrenze del ventriloquo Euricle nella letteratura antica si veda Braccini 2013/2014, pp. 23-26.
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fonte83. La traduzione di Cencio è del tutto differente dall’originale greco, in quanto l’umanista rende la frase greca con Euricleus uero a Dionisio assumptus diligentior ita effectus est ut qui antea inconcinne absurdeque canebat musicus euaserit. Nella prima parte Cencio non sembra aver capito che il soggetto è Dioniso e che Aristide effettua un paragone tra lui ed Euricle, anzi, l’umanista traduce come se fosse quest’ultimo a essere ‘posseduto’ dal dio; si può quindi desumere, sulla base di questa resa, che Cencio non abbia colto il senso del confronto probabilmente a causa dell’ignoranza del passo aristofanesco. Nella seconda parte del periodo Cencio non apporta grossi cambiamenti, ma il senso intero del passaggio è compromesso dal fatto di non aver inteso che il soggetto dell’azione di ποιεῖ χορευτὴν (“rende coreuta”) è Dioniso. I.5.3 La chiusa dell’inno
Nell’ultima parte dell’inno, che si conclude con la descrizione dell’azione combinata di Dioniso con Eros (§ 12) e con l’allusione all’influenza del dio sul giorno e la notte, Cencio opera delle variazioni arbitrarie rispetto al greco di Aristide. Per evidenziare la potenza di Dioniso Aristide afferma che νυκτὸς τοίνυν καὶ ἡμέρας πέρατα ἐπισκοπεῖ, “ancora, veglia sui confini del giorno e della notte”; Cencio sembra non capire che i πέρατα, “confini”, riguardano i due momenti della giornata e traduce alterando il senso originario con omni igitur temporis momento, noctu dieque extremis nationibus mundique finibus presidet, come se il dio esercitasse la sua autorità di giorno e di notte sui paesi più lontani e sui confini del mondo, concetto assente in greco. Subito dopo l’umanista traduce la frase τὴν μὲν ἡμέραν αὐτὸς δᾳδοῦχός τε καὶ ἡγεμὼν τῆς ὄψεως γιγνόμενος τὴν δὲ νύκτα ἑτέροις παριείς, “di giorno è lui stesso portatore di luce e guida della vista, di notte la cede ad altri” con die autem ipse facem portans, uisionibus dux efficitur, decedente uero luce, aliis hominibus adheret suam potentiam uiritim afferens, dove si osserva come Cencio attraverso l’aggiunta di suam potentiam, assente in greco, interpreti ed espliciti quello che nell’originale resta sottinteso, cioè che il fatto di portare la torcia, in latino fax, e quindi illuminare la terra rappresenta il fulcro della potenza di Dioniso. Nell’explicit dell’inno Cencio inserisce un’ulteriore modifica; Aristide infatti chiude il discorso con un’invocazione al dio affermando καί μοι χαίρειν ἤδη τὸν Ἴακχόν τε καὶ τὰ πολλὰ δὴ ταῦτα κεκλημένον, “a me ormai di salutare Iacco, anche chiamato in questi molteplici modi”. Nella traduzione cenciana tramite ego uero in
83 Nell’inno Aristide non riferisce esplicitamente l’origine del verso, mentre nell’A Roma si premura di precisare che l’origine è euripidea. Questa differenza si spiega tenendo presente il diverso contesto performativo e, soprattutto, la distanza dei due tipi di pubblico a cui Aristide si rivolge. Il Dioniso infatti era indirizzato a un audience di πεπαιδευμένοι, forse riuniti in una cornice simposiale; per questo Aristide non sentiva il bisogno di precisare la fonte della sua citazione. Inoltre, la sua collocazione risponde al bisogno di elevare il discorso in un punto delicato, quello cioè deputato a mostrare le δυνάμεις del dio. Nell’A Roma Aristide si rivolge a un pubblico di romani senza dubbio conoscitori della cultura greca, ma per precauzione inserisce l’espressione κατ’ Εὐριπίδην e lo fa nell’exordium dell’orazione, in una sezione dunque tradizionalmente finalizzata alla captatio beneuolentiae. Vd. Pernot 1993, pp. 733-734.
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presentia Iacchon aliaque huiuscemodi decantans si osserva la conservazione del termine greco, come avviene nel caso di philantropos (§ 10), attraverso il calco Iacchon, con desinenza alla greca; la variazione riguarda la seconda parte del periodo. Aristide infatti termina l’inno con πλήρης γὰρ ὡς τὰ νῦν ἡ φιλοτησία, “infatti adesso è piena la coppa dell’amicizia”, quindi con delle parole che si accompagnavano, nel contesto della performance retorica vera e propria, al gesto fisico della πρόποσις, cioè del brindare. Cencio non comprende che φιλοτησία sottintende il lemma κύλιξ84, “coppa”, e che la parola pertanto indica la coppa dell’amicizia e traduce con un’endiadi in absolutione perfectioneque huius sermonis letitia afficior; φιλοτησία è infatti un Realien della cultura greca di cui si era persa la nozione nel periodo umanistico. La resa latina è molto diversa dal testo di partenza sia per l’aggiunta del sintagma in absolutione perfectioneque huius sermonis, in cui si rileva l’endiadi absolutione perfectioneque, sia per il letitia afficior finale, che potrebbe rappresentare il tentativo di tradurre l’espressione greca relativa alla coppa appena discussa e un’ulteriore prova della volontà di mettere in risalto la potenza travolgente del vino. Cencio, nonostante l’omissione della “coppa”, comprende quindi che Aristide conclude il suo componimento con un riferimento simposiale e cerca di renderlo al meglio con una traduzione che trasmetta il senso dell’entusiasmo arrecato dal vino. I.5.4 Un giudizio complessivo sul Bacchus
In considerazione dell’analisi svolta e dei risultati emersi dal confronto dei passi, è possibile concludere che Cencio nel complesso della sua traduzione non amplia quasi mai il dettato di partenza, se non per chiarire concetti espressi in maniera concisa in greco o per rafforzare alcune espressioni, ad esempio attraverso l’uso delle endiadi e delle perifrasi esplicative; egli non inserisce mai espressioni cursorie dietro cui si possa celare un riferimento ai propri tempi, anche se in realtà, come afferma Cencio stesso nella lettera che introduce la traduzione, è il testo aristideo nella sua interezza a suggerire motivi di congiunzione con il quadro storico contemporaneo. Per quanto riguarda i fraintendimenti, la considerazione del contesto di composizione, ovvero quello relativo agli anni del ritorno del greco in Occidente, ci permette di inquadrare storicamente una serie di equivoci presenti nella versione e tentare di capire la loro genesi. Cencio spesso sbaglia, omette intere espressioni del Dioniso aristideo e fraintende il greco; altre volte tenta di normalizzare il discorso originale nei punti che gli sembrano meno chiari, come nel caso dell’inserimento della ‘zeppa’ quod postquam effectum est, in luogo di ἀναλαβών (§ 3). Inoltre, come ribadito più volte, la conoscenza dell’antigrafo a disposizione dell’umanista ci consente di capire il motivo di alcune scelte versorie che rimarrebbero altrimenti inspiegabili. È necessario quindi tener conto degli aspetti temporali e materiali in questione e, se è indubbio che molti errori di traduzione sono originati da una cattiva comprensione del greco, è anche vero che dalla lettura del Bacchus, nonostante la presenza di peculiari forme linguistiche del latino tardo, come archariorumque (§ 9) o Veneri comunicet (§ 10), 84 A partire da Teognide (fr. 489 West).
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è possibile risalire ai modelli letterari classici su cui è imperniata la scelta di alcune espressioni, come Cicerone e Virgilio. L’intertestualità e la presenza di figure retoriche finalizzate a elevare in alcuni punti lo stile consentono di leggere nella traduzione di Cencio uno dei primi tentativi di resa latina di un testo greco in maniera meno meccanica e letterale, esattamente come prescriveva Crisolora ai suoi discepoli. La versione di Cencio rappresenta in questo senso un tentativo di superamento della tecnica di traduzione di tipo medievale, anche se probabilmente la complessità del testo con cui si cimenta lo costringe talvolta a farsi commentatore e ad aggiungere nella sua traduzione glosse esegetiche, venendo meno alla prescrizione crisolorina di non comportarsi come un exponens di fronte a un’opera straniera. Cencio a ogni modo cerca, seppur con molte difficoltà, di restituire ai suoi contemporanei una versione latina di un testo di per sé non facile e il suo tentativo rimane apprezzabile, se non altro per l’avvio di una trasmissione latina di Aristide. Sull’opera versoria di Cencio i giudizi nel corso degli anni sono stati per lo più critici; all’umanista infatti è stato spesso imputato di produrre traduzioni di scarso rilievo e ricche di fraintendimenti85. Se gli si può imputare di non aver tenuto fede nella prassi alle linee programmatiche esposte nella lettera prefatoria del Bacchus, occorre tenere presente però, come è stato notato in passato, che le epistole «vengono ‘dopo’ e servono per giustificare un lavoro che parte da un livello essenzialmente pratico, che i metodi e gli obiettivi mutano in rapporto anche al genere letterario cui la traduzione si applica; che il bagaglio linguistico soprattutto dei primi traduttori è spesso esiguo e carente e gli strumenti a disposizione scarsi86». Ponendosi su questa stessa linea interpretativa, è necessario senza dubbio storicizzare l’opera di Cencio e notare come le obiezioni mosse alla sua capacità di traduttore siano state spesso condizionate dal confronto con le traduzioni ‘artistiche’ di umanisti come Leonardo Bruni. Come infatti nota Bertalot, pur riconoscendo le effettive deficienze dello stile di Cencio, va messo in evidenza il suo sforzo di mediazione della cultura greca87. L’impegno profuso in questo senso è innegabile ed è normale che le prime rese latine - prime sia per Cencio sia in senso assoluto, con il ritorno dell’insegnamento del greco all’inizio del ’400 - non siano ineccepibili. I meriti principali di Cencio risiedono nel fatto di aver partecipato al riavvio degli studi greci in Occidente, mostrando attraverso lo studio critico dei testi e la prassi didattica una passione per l’antichità che lo ascrive in toto al movimento umanistico, e nell’aver offerto delle traduzioni, tra cui si annovera il Bacchus, che da una parte riflettono una formazione fondata sui classici della letteratura latina, dall’altra testimoniano un impegno per il raggiungimento di un equilibrio e di un’eleganza formale estranei al modello di resa di tipo medievale.
85 Cfr. Introduzione, p. 10. 86 Vd. Cortesi 1995, pp. 471-472. 87 Bertalot 1975, p. 135.
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I.6
Edizione del Bacchus
I.6.1 I codici latini contenenti il Bacchus
Entrambi i codici contenenti la versione latina del Dioniso di Elio Aristide provengono dall’ambiente del concilio di Costanza (1414-1418). Di seguito si fornisce una descrizione. Il primo codice88 è il manoscritto di Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana 90 sup. 42. La sua storia rimanda all’ambiente curiale del primo Quattrocento, ovvero, al circolo di Poggio, Cencio de’ Rustici e Francesco da Fiano: è infatti Bartolomeo Aragazzi da Montepulciano, amico di Poggio e segretario di Giovanni XXIII, che, per uso personale - come indicano la stessa materia scrittoria, la mancanza di ornamentazione e il ductus molto veloce della scrittura - trascrive il De fato et fortuna e il Bacchus. Ma l’intero codice, in considerazione dei testi che racchiude, è un documento interessante per la storia culturale del Concilio di Costanza. Cartaceo, è stato vergato tra il 1414 e il 1416 (come si evince dalle note ai ff. 45r e v 64 ) e misura 302 × 217 mm. La foliazione moderna è eseguita in lapis rosso nell’angolo superiore destro, dove si intravedono tracce di una precedente e moderna paginazione (ff. 10r, 22r, 25r, 26r, 45r, 46r, 51r, 65r, 66r, 67r); sono bianchi i ff. 47v-50v e 67v-70r. Il codice è composto da 3 settenioni, 1 quaternione e 2 quinioni; richiami nell’ultimo foglio di ogni fascicolo al centro del margine inferiore. Lo specchio è di mm. 240 × 153 (160). Lo scritto è su due colonne nei ff. 25r-26r, 40r, 41 r-v, 46r-47r. La scrittura semigotica è della stessa mano eseguita in tempi diversi e con ductus più o meno veloce; l’inchiostro è scuro. Bartolomeo Aragazzi da Montepulciano si sottoscrive al f. 45r: «B. de Montepoliciano»; al f. 64v: «Finivi die VIII februarii MCCCCXVI Constantiae. B. de Montepoliciano» (nell’estremo margine inferiore, introdotto da un segno esplicativo, «Bartholomeus»). La legatura è in pergamena del sec. XVIII, di cui rimangono i lacci; sul piatto anteriore una targhetta cartacea: «Bibliothecae Laurentianae Franciscus III Imp. Aug. M.D.E. donavit anno MDCCLV ex plut. LXXXX sup. cod. 42». Tracce di ossido si trovano al secondo foglio di guardia, segno di una precedente legatura. Le opere contenute al suo interno sono: il De fato et fortuna di Coluccio Salutati (ff. 1-45); excerpta vari dal primo libro del De oratore di Cicerone (f. 45v); alcuni estratti dalle Tusculanae disputationes di Cicerone (ff. 46-47); un’opera dal titolo Epitoma chronicorum, quibus et generationes ab Adam usque ad Abraham, et a passione domini omnes consules et quae consequutae sint post finem Valentis usque ad quintum consulatum Valentiniani Imperatoris adiicimus, ricopiata a Costanza da Bartolomeo Aragazzi e ultimata l’otto febbraio 1416 (ff. 51-64v); l’epistola prefatoria al Bacchus e il Bacchus di Cencio de’ Rustici (ff. 65 r-v); l’epistola di Poggio Bracciolini a Niccolò Niccoli sui bagni di Baden (ff. 66-67); il lessico bilingue di Bartolomeo Aragazzi
88 La descrizione è mutuata da Bandini 1793, III pp. 573-574; De la Mare 1973, pp. 88-89; Bianca 1985, pp. XCVIII-CII.
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(f. 70v) con lemmi tratti dall’Epistula ad Ioannem di Manuele Crisolora e il Dioniso aristideo, contenute e visionate da Aragazzi in Wroc89. L’altro codice che contiene il Bacchus è il Vat. lat. 1883, codice membranaceo del XV secolo di 74 fogli. Si tratta di una miscellanea messa insieme per il Cardinale Giordano Orsini90, uno dei principali collezionisti di manoscritti del tempo che donò nel 1430 gran parte del suo patrimonio librario, di cui faceva parte anche il nostro codice, alla Basilica di San Pietro a Roma. Sebbene non si abbiano informazioni certe sul fatto che il cardinale Orsini sia entrato in possesso del Vat. lat. 1883 a Costanza - cosa che è certa per altri manoscritti confluiti nel dono del 1430 – è certo che egli frequentò il Concilio tra il 1414 e il 1418; inoltre, gran parte del materiale contenuto nel Vat. lat.1883 è stato composto a ridosso degli anni conciliari e molte opere sono state prodotte proprio a Costanza o comunque a ridosso degli anni del Concilio91. Dei quattro lavori umanistici presenti nel manoscritto, due sono stati composti infatti poco prima del Concilio: la traduzione della Vita Demosthenis di Plutarco a opera di Leonardo Bruni, realizzata nel 1412, e la traduzione di Guarino Veronese della Vita T. Quinctii Flaminini di Plutarco, composta nel 141192. Le altre opere sono la traduzione del Dioniso di Elio Aristide di Cencio de’ Rustici e un frammento dei Dialogi ad Petrum Histrum di Leonardo Bruni. Tutti questi indizi portano a ritenere che il Vat. lat.1883 fu prodotto proprio nel contesto del Concilio. Il Vat. lat. 188393, ex codice 239, come si legge su f. 2, è del principio del XV secolo, misura 246 × 180 mm ed è composto da 74 fogli. Esso è stato vergato da quattro mani coeve di cui la prima ha copiato da f. 1 a f. 11, la seconda da 12 a15, la terza da 17 a 66, la quarta da 67 a 74. Le lettere iniziali, inscriptiones e subscriptiones delle diverse opere sono in inchiostro rosso, come anche lo stemma degli Orsini, apposto su f. 1. Su f. 2v si legge la nota di possesso Est Augustini Triuultii Cardinalis S.R.E., ugualmente a f. 29v e a f. 74 Caesaris Triuultii καὶ τῶν φίλων. Sul dorso del rivestimento esterno sono presenti gli stemmi di Pio IX e del Cardinale e bibliotecario Lambruschini. Le opere in esso contenute sono: la traduzione latina di Leonardo Bruni della Vita Demosthenis di Plutarco (ff. 1-11); il primo libro mutilo dei Dialogi ad Petrum Histrum di Leonardo Bruni (ff. 12-15v); la Vita T. Quinctii Flaminini di Plutarco tradotta da Guarino Veronese (ff. 17-29); la cosmographia (ff. 30-44); l’Antonini itinerarium (ff. 44-66); un
89 Cfr. supra, pp. 29-30. 90 Vd. König 1906. 91 Si ritiene che il Vat. lat.1883 provenga da Costanza anche per alcune sue caratteristiche affini a quelle di altri due codici prodotti nella città tedesca negli stessi anni. In primo luogo esso contiene un frammento dei Dialogi ad Petrum Histrum di Leonardo Bruni contrassegnato con lo stesso titolo che si trova in un manoscritto commissionato a Costanza dal Cardinale Guillaume de Fillastre nel 1416 (oggi ms. no. 1111 della Biblioteca di Reims). Secondariamente, il Vat. lat.1883 potrebbe rappresentare una testimonianza dell’interesse umanistico del Cardinale Orsini al pari di un altro codice di Livio donato negli stessi anni al Cardinale dal duca Giovanni di Borgogna e confluito in un secondo momento, come il Vat. lat.1883, nel lascito alla Basilica di San Pietro. Vd. Baron 1955, pp. 140-144. 92 Anche queste due traduzioni si trovano in un manoscritto del Cardinale Fillastre, il no. 1338 di Reims, copiato a Costanza nel 1416. 93 Vd. Nogara, 1912, p. 335.
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estratto del primo libro delle Historiae aduersus paganos di Paolo Orosio (ff. 67-72); epistola prefatoria e Bacchus di Cencio de’ Rustici (ff. 72-74). Esiste un altro codice che contiene il Bacchus, il Vat. lat. 793494, manoscritto cartaceo del XVIII secolo, ma dal momento che è apografo del Vat. lat. 1883, come si legge dalla nota in alto a destra Ex codice Vaticano 1883 pag. 72 al f. 199r, esso non è stato preso in considerazione per la nostra edizione. Si tratta tuttavia di un codice importante per la storia degli studi su Cencio de’ Rustici, dal momento che contiene un cospicuo numero di documenti e di opere di Cencio trascritte, come il Bacchus, da altri codici vaticani; il codice fu messo insieme dall’erudito e vescovo di Cirene Pier Luigi Galletti95 probabilmente allo scopo di scrivere una biografia di Cencio. Il volume contiene: trascritte dal Vat. lat. 3910, la traduzione delle lettere di Eschine (ff. 183r-190v), una lettera al Loschi (f. 191), a Giovanni da Castiglione (f. 192r), a Pietro de Zardiere (f. 193), a Cosimo e Lorenzo de’ Medici (f. 194r), a Francesco da Fiano (ff. 195r-197r); dal Vat. lat. 1487 una lettera ad Alto de’ Conti; dal Vat. lat. 1883 il Bacchus di Elio Aristide (ff. 199r-201v), una lettera a Poggio (ff. 202r-205r), una lettera al Galletti (ff. 206r-207r); l’Oratio ad Sigismundum Imperatorem (ff. 208r-212r), la copia (ex tabulario Abbatiae Florentinae DD 84) del testamento di Crisolora (ff. 213r-214v), la lettera del Filelfo a Cencio (f. 215r) e inoltre (ff. 216r-226v) copie di documenti d’archivio e testimonianze sulla famiglia dei Rustici. I.6.2 Sui rapporti tra i codici latini contenenti il Bacchus
Per quanto riguarda i rapporti tra i due codici principali, essi sono separati da errori specifici e non risultano dipendenti l’uno dall’altro; questo ci ha fatto supporre che derivino da un comune antigrafo purtroppo perduto. Il Laur. 90 sup. 42, che chiameremo di seguito L, mostra in generale una maggiore correttezza rispetto al Vat. lat. 1883, da noi siglato con V. Nell’epistola prefatoria la differenza più vistosa tra i due esemplari ricorre nell’incipit; come detto in precedenza, L ha lasciato in corrispondenza del nome uno spazio bianco, mentre V riporta il nome del destinatario, un certo Pandolfo. Dal momento che L è un codice vergato da Bartolomeo Aragazzi, collega di Cencio de’ Rustici negli anni del Concilio, ci sembra plausibile ritenere che esso sia vicino alla volontà dell’autore della lettera, cioè Cencio, anche se allo stato attuale non risulta chiaro il motivo dello spazio lasciato in bianco in corrispondenza del nome: infatti L è nella maggior parte dei casi più corretto di V, quindi è improbabile che il suo copista, Bartolomeo Aragazzi, possa non aver compreso il nome sull’antigrafo. Sarà nostra cura indagare in futuro il motivo dell’omissione in L del nome e, al contempo, della sua presenza in V. In ogni caso l’assenza del nome di Pandolfo in L dimostra l’indipendenza dei due manoscritti.
94 Per il contenuto del codice vd. Lombardi 1983, p. 26. 95 Su Pier Luigi Galletti vd. Paoli 1793; DBI 51, 1998, pp. 586-587, voce di Massimo Ceresa.
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Per quanto riguarda la migliore qualità delle lezioni di L, uno degli esempi più probanti riguarda la scelta di (ab Aristide oratore) accuratissimo (p. 54, § 1, 8) in luogo di acutissimo, presente in V; la scelta dell’attributo accuratus per l’oratore Aristide nella sua forma al superlativo risulta calzante per via del suo frequentissimo impiego nelle opere retoriche di Cicerone a proposito dei discorsi (ad es. de orat. 1, 38, 9 e 1, 257, 2; Brut. 30, 2 e 253, 3). Abbiamo visto nella sezione relativa all’analisi dell’epistola96 come il modello epistolografico ciceroniano fosse ben presente a Cencio e questa scelta lessicale avvalora l’ipotesi di tale influenza. Altri due esempi provenienti dall’epistola che danno prova della maggiore correttezza di L riguardano absurdam (p. 54, § 2, 12), che si riferisce a conuersionem della frase precedente, in luogo di absurdum, riportato da V, e infine loquatur (p. 54, § 3, 16) di L, che risulta calzante nella proposizione finale quo luculentius… loquatur, mentre non si può dire lo stesso per loquitur di V. Nella traduzione vera e propria alcuni punti in cui L mostra una maggiore aderenza al testo greco di Aristide provano la sua accuratezza e lo separano da V. Quando Aristide parla della genealogia di Dioniso, dopo aver narrato dell’unione tra Zeus e Semele, afferma a proposito del padre degli dèi ὁ Ζεὺς βουλόμενος ἀμφότερα αὐτὸς ᾧ Διονύσῳ γενέσθαι, πατήρ τε καὶ μήτηρ (§ 3), “Zeus, volendo essere per Dioniso entrambi, padre e madre”; ora solo L ha ut eque matrem ac patrem Iuppiter sese Dionysio institueret, mentre V omette Iuppiter dalla frase. Un ulteriore esempio concerne l’enigma di Dioniso; dove il greco riporta καὶ ὡς μὲν αἴνιγμά ἐστιν ἐν τῷ λόγῳ δῆλον (§ 7), “E come è evidente che nel racconto c’è un enigma”, L ha il corretto Quippe huic sermoni enigma inuolutum esse… manifestum est, laddove V ha l’errato etiam. Il caso di nam/non nella parte latina problematica relativa sui Sileni (§ 8) è stato già analizzato e mostra ancora una volta la superiorità del testo di L97. L’ultima occorrenza esemplare di una lezione più adeguata in L rispetto a V riguarda la parte finale dell’inno in cui Aristide ricorda gli erga del dio verso gli uomini; Dioniso è chiamato in greco ἡγεμὼν τῆς ὄψεως, “guida della vista” (§ 13). Il manoscritto laurenziano ha qui uisionis dux, mentre il vaticano riporta lo scorretto uisionibus dux. I.6.3 Criteri editoriali
Per la nostra edizione dell’epistola prefatoria e del Bacchus di Cencio de’ Rustici ci siamo serviti dei due manoscritti appena esposti, L e V, prediligendo per lo più le lezioni del primo, che si sono dimostrate generalmente più corrette di quelle riportate da V. Per quanto riguarda i criteri ortografici, sia per la lettera che per la traduzione abbiamo conservato l’alternanza ci-ti per il gruppo ti seguito da vocale (ad es.: Constantiae, ocium) e le forme monottongate, secondo l’uso dei testi protoumanistici98.
96 Vd. supra, pp. 31-36. 97 Vd. supra, p. 43. 98 Cf. Baldassarri 2000, p. CI.
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La lettera prefatoria, divisa in paragrafi sulla base della struttura e dell’ordine sintattico del testo, è corredata di un apparato con le varianti di L e di V. Per la traduzione abbiamo fornito il testo di un doppio apparato. Nel primo si dà la lezione latina di Cencio, seguita dal passo greco corrispondente di Aristide dall’edizione di Keil con indicazione del numero di pagina e rigo, quindi si dà la lezione di Wroc, riconosciuto come l’antigrafo della traduzione di Cencio. Il secondo apparato riporta le varianti dei due codici L e V; in questo non abbiamo segnalato le varianti grafiche, ma solo le lezioni significative che ci hanno permesso di separare i due testimoni tra loro. Generalmente si è scelto di seguire L per le ragioni esposte in precedenza, ma in due casi abbiamo effettuato una correzione del testo latino: la prima volta a proposito di instar (§ 3), preferibile rispetto a instat, lezione di entrambi i codici L e V99, mentre la seconda volta abbiamo corretto conuiuaque (§ 10) con conuiuiaque.
Conspectus siglorum Antigrafo greco di Cencio de’ Rustici W =
Wroclaw, Biblioteka Uniwersytecka Akc. 1949 kn. 60
Codici latini V= L=
Città del Vaticano, BAV Vat. lat.1883 Firenze, BML Laur. 90 sup. 42
99 Su instar/instat vd. supra, pp. 39-40.
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1. Quanquam perdifficile sit, mi [Pandulfe], uel homini grecarum litterarum latinarumque peritissimo aliquem ex grecis codicibus in latinum sermonem uertere, propterea quia apud graecos nonnulla sunt que, in latinam linguam deducta, nullo modo patriam dignitatem patriumque ornatum conseruare possint, tamen in ocium uacuumque tempus habenti in mentem uenit, his presertim temporibus quibus Constantiae diuersamur, Bacchi sermonem, ab Aristide oratore accuratissimo confectum, in latinam orationem uertere. 2. Nihil enim ad hunc locum pocius quadrare uidetur, in quo omnes pene barbarico ritu debacchantur, quam Bacchum latinis litteris explicare, sed ut de interpretis natura aliquid dicam, ferebat Manuel, homo sine ulla dubitatione diuinus, conuersionem in latinum ad uerbum minime ualere. Nam non modo absurdam esse asseuerabat, uerum etiam interdum grecam sententiam omnino peruertere, sed ad sententiam transferre opus esse aiebat hoc pacto, ut hi qui huiusmodi rebus operam darent, legem sibi ipsis indicerent, ut nullo modo proprietas greca immutaretur; 3. nam si quispiam quo luculentius apertiusque suis hominibus loquatur aliquid graece proprietatis immutarit eum non interpretis sed exponentis officio uti. Quam ob rem tu, qui latinarum litterarum abunde peritiam habes, a cuius grauissimo iudicio nequaquam prouocare licet, si quid absurdi in hac tantula lucubratione reperies non attribuito Aristidi oratori nobilissimo, sed mihi utriusque lingue non admodum docto. 4. Neque uero tantum mihi arrogo, ut hanc meam in latinum conuersionem legentibus uoluptatem allaturam esse confidam, sed egi exercitationis gratia, ueritus maioris Catonis prouerbium quod ait uitam humanam sine actione atque opere similem esse ferro alterius ferri refricationem atque tersuram minime habenti, in quo rubigine continuo serpere perspicuum est. Hec Cato. Nunc ipsius Aristidis somnium audiamus.
Tit. Cincii Romani prologus L : Ex Dionisio translatio facta de greco in latinum per Cinthium Romanum incipit prologus V 1 spatium uacuum rel. L : Pandulfe V 2 aliquem L : om. V quia L : quod V 6 accuratissimo L : acutissimo V 10 nam L : om. V 11 absurdam L : absurdum V 15 loquatur L : loquitur V immutarit L : immutaverit V 18 tantula L : tantuli V 22 atque opere L : sine opere V
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1. Benché1 sia estremamente difficile, mio [Pandolfo], anche per un uomo espertissimo di lettere greche e latine tradurre dai codici greci un discorso in latino, poiché presso i Greci non c’è nessun’opera che, trasferita in lingua latina, possa conservare in alcun modo la patria dignità e l’originaria eleganza, tuttavia, dal momento che ho a disposizione tempo libero e riposo, mi è venuto in mente, soprattutto in questo periodo in cui alloggiamo a Costanza, di tradurre in latino il discorso di Bacco, composto da Aristide, oratore di eccezionale ingegno. 2. Nulla infatti sembra quadrare di più con questo luogo, in cui tutti baccheggiano quasi alla maniera dei barbari, che riprodurre in lettere latine il Bacchus, ma per dire qualcosa della natura del traduttore, Manuele2, uomo senza alcun dubbio divino, sosteneva che la traduzione latina parola per parola non ha nessun valore. Infatti affermava che non solo è assurda, ma anche che essa talvolta stravolge del tutto il significato greco, ma diceva che occorre tradurre frase per frase in modo tale che coloro che si accingessero a fare un’operazione di questo tipo ordinassero a loro stessi di non alterare in nessun modo la natura propria dell’espressione greca; 3. infatti (diceva che) qualora qualcuno, al fine di comunicare con i propri colleghi in maniera molto più chiara, avesse cambiato qualcosa della specificità del greco, questi si sarebbe comportato come un esegeta e non come un traduttore. E per questo motivo tu, che hai una grande abilità nelle lettere latine, contro il cui severissimo giudizio in nessun modo ci si può appellare, se troverai qualcosa di assurdo in questo piccolo lavoro notturno, non dovrai imputarlo ad Aristide, oratore eccellente, ma a me, che non sono certamente dotto in entrambe le lingue. 4. E d’altra parte non ho una presunzione tale da confidare nel fatto che questa mia traduzione in latino arrecherà piacere a chi la legge, ma l’ho composta per esercitarmi, temendo quel proverbio di Catone il vecchio che dice che la vita umana senza azione e operosità è simile al ferro in cui, non beneficiando della sfregatura e della ripulitura di un altro ferro, è evidente che di continuo si insinui la ruggine3. Queste parole pronunciò Catone. Ora ascoltiamo il sogno dello stesso Aristide.
1 Proponiamo qui la prima delle nostre quattro traduzioni in italiano delle epistole prefatorie che accompagnano le versioni umanistiche prese in esame nel presente lavoro. Per questa e per le successive traduzioni si è tentato di preservare da un lato il senso originario, dall’altro di dare una forma quanto più chiara possibile al testo, senza la pretesa di fornire una traduzione letteraria delle epistole, soprattutto in considerazione della difficoltà incontrata in corrispondenza di alcuni punti ostici del latino umanistico. 2 Si riferisce qui al suo maestro, Manuele Crisolora. 3 Carmen de moribus 3.
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1. Ipse quidem Esculapius qui somnium ostendit huius sermonis custos sit Dionysiusque ipse cuius gratia coreis indulgere oportet sermoni se presidem prebeat, idemque Apollo efficiat ductor musarum, illius quidem pater, huius autem frater ut memorie proditum est. 2. Perfectos quidem hymnos sermonesque industria elaboratos ad Dionysii laudem gloriamque pertinentes Orpheo atque Museo antiquisque legum latoribus relinquimus. Nos uero signi gratia ut initiati uideamur quam breuissime composita moderataque uoce deum salutemus. Atqui et longitudines et breuitates cetereque res que secundum naturam existunt gratissime amicissimeque deo sunt. Etenim multarum rerum inuentorem industriumque hominem esse oportet eum qui de rebus in somniis accidentibus sermones gignit. 3. Iuppiter Semeli se miscuit. Que ubi enixa est ut eque matrem ac patrem Iuppiter sese Dionysio institueret, Semelem flamma circumuentam e terra in celum educit. Quod postquam effectum est sure uteri instar, exculte Dionysium inseruit decimumque mensem deportans in Nysa diuersatus est, que antea Egipti ciuitas, in presentia uero Ethiopia appellatur. Cum autem temporis maturitas aduentaret, accitis Nymphis, suram dissoluit. Per hunc modum Dionysius in lucem editus est paterna maternaque ratione Ioui obligabatur. Quam ob rem preter omnes deos hominesque Iuppiter cum precipuo quodam honore complexus est. Neque enim is neque unquam ullo in tempore quiuis alius cuipiam se patrem matremque constituit. 4. Sed quoniam utriusque natura Iuppiter eum participem fecit uiri femineque effigiem habebat. In presentia uero alium sermonem audiuimus, ipsum scilicet Iouem non alium atque Dionysium esse. 5. Quid enim excellentius diuiniusque dici potest? Forma uero eius nature penitus respondet. Quemadmodum geminus pueri puelleque effigiem seruans. Maribus puellisque modo imberbem modo barba suffultum sese ostendit atque belli pacisque exercitatione reliquos deos facile superat. 6. Quapropter Pindarus sacerdotesque ludum Egypti facientes Pana deorum excellentissimum Dionysii psaltatorem canunt. Iouem deinde ferunt a Dionysio dumtaxat Iunoni conciliatum cuius rei gratia reueniens inuitusque Vulcanus in celum euectus est, sed hec hactenus. 7. Quippe huic sermoni enigma inuolutum esse, quoue hoc enigma inuolucrumque uerborum proficiscatur manifestum est. Plurima enim atque incredibilis dei potentia est ad omnemque rem peragendam paratissima ut non solum equos uerum etiam
20-21 in presentia : [p. 331, 5] ὑπέρ : ὕστερον W 21 Iouem : [p. 331, 20] ὑιεῖ : διὶ W 28 hactenus : [p. 331, 21] ὄνω : ἄνω W
Tit. Cincius Romanus sermonem hunc (hunc s. l.) bacchi ex greco in latinum transtulit L : tit. om. V 7 composita V : compositi L Atqui L : Atque V 10 in somniis accidentibus L : accidentibus in somniis V 11 miscuit L : inmiscuit V patrem Iuppiter sese L : patrem sese V 13 sure V : suere L instar correxi : instat VL 15 Ethiopia V : Ethiopie L 16 editus est L : editus V 18 Iuppiter cum V : cum Iuppiter L 19 quiuis L : quamuis V 23 geminus L : gemini V 29 esse L : etiam V
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asinos uolucresque alatos efficiat, proinde Laconicus poeta leenarum lac Dionysium suxisse testatur. Nihil profecto est aut mala ualitudine aut iracundia aut fortuna quadam uehementer implicitum cui rei fomentum salutemque Dionysius non adhibere possit. Accedit eodem compotatorem tam diu esse quoad bellicis rebus indulget, minimeque dubium est huius dei uirtute senem repuerescere. 8. Quod intelligere licet ex silignis aliisque circa ipsum coreis indulgentibus. Atqui eius potentie facilitas his argumentis signisque elucet: nam pro telo ferula, pro leonis pelle nebride, pro scuto poculo continuo utitur. Ex quo efficitur pugnam potationemque eandem rem Dionysio esse. Enimuero inter certamen uictoriamque paululum temporis interlabitur. Indos Tyrrenosque ab eo bello subactos ferunt, arbitrantes – ut mihi uidetur – per Tyrrenos occidentalem regionem intelligi, per Indos uero oram orientalem in Dionysii deditionem redactas esse. Proinde quasi gubernaculum suum, per uniuersum orbem deuagarit. 9. Bacchantes autem mulieres equitum archariorumque loco sibi adscribuntur. Adde preterea suam rem publicam suumque exercitum eque feminis ac uiris refertum. Neque enim magis ad Dionysium pertinet uiros in eneruem effeminatamque naturam immutare quam feminas uirorum constantiam atque robur exercere. Per hunc modum magnus ex uariis rebus armoniam facit. Quod hinc manifestum est. 10. Nam antea quam Veneri theatrum comunicet aperiatque symposium conuiuiaque efficitur, deinde eo proficiscens sibi armati Martis naturam induit, opifexque effectus, Minerue atque Vulcano adheret. Precones uero Eumolpideque ipsum fructus nutrimentaque hominibus afferentem Eleusinis cerimoniis ministrum instituunt. Quod autem huic rei conuenire mihi uidetur repente adiiciam. Solus enim sacrorum fantasmatum in medico prelio medicoque periculo apparuit. Quo fit ut tametsi philantropos hominumque amator sit ad grecorum tamen beneuolentiam uehementius flectitur. 11. Atqui Nymphis admixtus plurimum omnibusque ioci generibus apud homines ludit. Euricleus uero a Dionysio assumptus diligentior ita effectus est ut qui antea inconcinne absurdeque canebat musicus euaserit. Is uero Dionysius in triclinio lectuloque obuersans ludo coreis melodiisque indulget. Per hunc modum ad omnia peragendum suapte natura paratissimus est. 12. Etenim Amor mirabilis hominum tyrannus ex Dionysii fontibus fomentum exhauriens per uniuersum orbem eo duce proficiscitur. Dionysio enim absente thalamis lectisque sua actione atque opere Amor interdictus est. 13. Omni igitur temporis momento, noctu dieque extremis nationibus mundique finibus presidet. Die autem ipse facem portans, visionis dux
6 aliisque : [p. 332, 3] οἱ : καὶ οἱ W 13 adscribuntur : [p. 332, 11] τῆς τε σκευῆς : τῆς τε σκευῆς om. W 19 opifexque : [p. 332 18] ἔνοπλος : ἔνοπλιος W 20 nutrimentaque : [p.333, 1] τροφῆς : τροφῶν W 22 conuenire : [p. 333, 2] πρέπον : πρέπειν W adiiciam : [p. 333, 2] προσθεῖναι : προσθίσω W
4 quoad L : quam V 5 ex silignis L : etsi linguis V 6 atqui L : atque V 7 nam L : non V 12 redactas L : redactos V 15 enim magis L : enim id magis V eneruem L : eneruem a.c., ruem p.c. (ene del.) V 18 conuiuiaque correxi : conuiuaque VL 22 fantasmatum L : phantasmatum V 23 in L : ita V 25 atqui L : atque V 33 visionis L : visionibus V
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efficitur, decedente uero luce, aliis hominibus potentiam uiritim afferens adheret. Neque uero per hunc modum otiosus existit. In omni enim etiam temporis puncto continuo motu per uniuersam mundi partem graditur. At quemadmodum deorum antiquissimus est, ita ceteris diis minor natu existit. Presentis temporis sortisque amicus semper est. Ego uero in presentia Iacchon aliaque huiusmodi decantans cum absolutione perfectioneque huius sermonis letitia afficior. Finit sermo Bacchi per Cincium Romanum ex Aristide greco in latinum translatus
1 potentiam uiritim afferens adheret L : adheret suam potentiam uiritim afferens (suam add.) V 5 huiusmodi L : huiuscemodi V decantans (cum absolutione perfectioneque sermonis mg.) L : decantans in absolutione perfectioneque huius sermonis V Expl. Finit sermo Bacchi per Cincium Romanum ex Aristide greco in latinum translatus L : etc. sic. V
Capitolo Secondo
Il genere monodico tra antichità e Rinascimento Niccolò Perotti e la Monodia per Smirne
II.1
Una vita consacrata allo studio dei classici: l’umanista Niccolò Perotti
II.1.1 Le origini di Niccolò Perotti e i primi anni di formazione
Niccolò Perotti1 nacque a Sassoferrato alla fine del 1429 da Francesco e da Camilla de’ Lanci. Dal 1443 al 1445 studiò a Mantova presso l’umanista Vittorino da Feltre (Feltre 1378 - Mantova 1446) e subito dopo a Ferrara passò sotto il discepolato di Guarino Veronese (Verona 1374 - Ferrara 1460), che aveva appreso il greco direttamente da Manuele Crisolora a Costantinopoli. Perotti rimase presso Guarino fino al 1446 e durante la sua permanenza a Ferrara ebbe modo di conoscere il vescovo di Ely William Grey (1414-1478), umanista e ricercatore di antichi manoscritti; il nobile inglese rimase talmente colpito dalle doti del giovane Niccolò, che all’epoca aveva appena diciassette anni, che ne fece il suo collaboratore personale. Il periodo di permanenza presso il Grey va ascritto all’autunno del 1446 e in questo breve periodo Perotti compilò codici latini di retorica, dialettica, metrica e soprattutto di argomento grammaticale, il più importante dei quali è senza dubbio l’Urb. lat. 1180, segnato con il numero 461 e con il titolo di Grammatici Veteres nel primo indice dei codici di Federico d’Urbino2. Al seguito di Grey3 Niccolò arrivò a Roma agli inizi del 1447 dove conobbe il cardinale Bessarione (Trebisonda 1403 - Ferrara 1472)4, giunto per la prima volta in Italia per il Concilio di Ferrara nel 1438 allo scopo di promuovere la riunione tra la Chiesa orientale e quella occidentale. Nell’autunno del 1443 Bessarione si trasferì a Roma; qui riorganizzò le funzioni della chiesa dei Santi Dodici Apostoli, di cui era titolare e, con il permesso del papa, vi si fece costruire vicino una casa. In quegli anni attorno alla figura del cardinale iniziarono a raccogliersi numerosi umanisti, che
1 Sulla biografia di Niccolò Perotti vd. Mercati 1925; Kristeller 1985 (2); Perotti 1999. La più recente e completa bibliografia su Perotti è in Charlet 2011. 2 Per una descrizione del codice vd. Stornajolo 1902-1921, vol. 3, pp. 192 e sgg. 3 Accogliamo la tesi del Mercati, che riferisce che Niccolò giunse a Roma con l’accademico inglese, mentre secondo alcuni cronisti il distacco tra i due sarebbe avvenuto già al termine della trascrizione del summenzionato codice Urb. lat. 1180. Vd. Mercati 1925, p. 32. 4 Per la biografia di Bessarione si veda Mohler 1923-1942; Geanakoplos 1962; Bessarione in DBI 9, 1967, pp. 686-696, voce di Lotte Labowsky; Zorzi 1987; Fiaccadori 1994; Monfasani 1995; Bianca 1999.
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fecero della domus Bessarionea un punto di riferimento stabile per la discussione di questioni letterarie e la condivisione di ideali comuni5. II.1.2 Le prime traduzioni latine
L’incontro con Bessarione rappresentò un significativo impulso per l’attività versoria di Perotti, che già nel 1449 presentò a Niccolò V le versioni latine del De invidia di Basilio6, del De inuidia et odio e del De Alexandri Magni fortuna aut virtute7 di Plutarco; la datazione di queste traduzioni (1449-1450) si ricava da una lettera a Iacopo Costanzi da Fano, condiscepolo di Perotti presso Guarino Veronese a Ferrara, risalente al 1454-1455, in cui Niccolò afferma di averle composte quando aveva circa vent’anni. Un altro elemento utile ad ascrivere queste versioni al primo periodo di attività di Niccolò risiede nelle dediche: nell’offrirle al pontefice l’umanista specifica di averle composte spontaneamente, mentre le traduzioni realizzate negli anni successivi vennero commissionate dal pontefice8. Niccolò V accolse infatti le prime opere con grande favore e sollecitò l’umanista a tradurre anche Polibio, Taziano e Arriano; a questi autori Niccolò si dedicò negli anni 1450-1455, quando giunse a Bologna al seguito di Bessarione, nominato in quel periodo Legato Pontificio della città emiliana, con l’incarico di sedare le lotte politiche e riordinare l’Ateneo. Durante il periodo bolognese Niccolò ultimò, oltre alle versioni degli autori menzionati, anche le traduzioni del Manuale di Epitteto9 e del relativo commento di Simplicio, che restò lacunoso a causa del cattivo stato del manoscritto greco impiegato10. Riguardo a Epitteto11, Niccolò afferma di aver terminato l’opera in
5 Perotti parla a questo proposito di ‘Accademia’ bessarionea e ne cita i membri nel suo commento alle Siluae di Stazio; vd. Mercati 1925, pp. 77-80; Stok 2011, pp. 81-82. Sull’ ‘Accademia’ bessarionea come riunione di umanisti che condividevano lo studium litterarum e la similitudo morum, diversa dall’accademia pomponiana degli anni ’80 del XV secolo, regolata da norme e riti ben precisi, vd. Bianca 2008, pp. 25-56. 6 Lo stesso Bessarione si dedicò allo studio di S. Basilio e dei suoi manoscritti. Nei primi anni dopo il suo ritorno in Italia il cardinale niceno incaricò Giorgio di Trebisonda di tradurre il Contra Eunomium e ne offrì la versione, con un’epistola dedicatoria, a Tommaso di Sarzana (il futuro Niccolò V). Inoltre, egli stesso tradusse il De natiuitate Domini e lo dedicò a Eugenio IV; vd. Bessarione in DBI 9, 1967, pp. 686-696, voce di Lotte Labowsky. 7 Sulla possibilità che il De Alexandri Magni fortuna aut virtute sia la prima opera a essere stata tradotta da Perotti vd. Abbamonte-Stok 2011, pp. 221-222. 8 Abbamonte-Stok 2011, pp. 218-219. 9 Sull’Enchiridion latino di Niccolò Perotti vd. Oliver 1954. 10 Vd. infra, p. 75. 11 Di questo testo è nota anche la versione latina del Poliziano (1479) e quelle italiane di Lazzaro Papi (1812) e di Giacomo Leopardi (1824). Sul confronto tra la versione perottina e quella di Poliziano Sesto Prete ha svolto alcune importanti riflessioni, rilevando come Niccolò spesso, a causa della preoccupazione di attenersi all’originale, incorra in alcune incertezze dettate dall’insicurezza e al contempo osservando come il latino del Poliziano risulti decisamente “più spigliato”; lo studioso ammonisce però dal giudicare in maniera assoluta la traduzione perottina e si sofferma sulla distanza cronologica che separa le due opere. Nel venticinquennio intercorso tra le due prove versorie infatti, nota Prete, l’apprendimento del greco aveva fatto incredibili passi avanti e pertanto è normale che le traduzioni della fine XV secolo fossero più eleganti e meno tortuose rispetto a quelle realizzate nella
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una lettera al bibliotecario della Vaticana Giovanni Tortelli datata 30 dicembre 145012; per quanto riguarda la traduzione di Simplicio, anch’essa venne ultimata nello stesso periodo, come riferisce Niccolò sempre nella medesima lettera. II.1.3 Dagli anni bolognesi alla morte del Bessarione
Una volta arrivato a Bologna in compagnia del Bessarione, Niccolò spedì al pontefice, con lettera a Tortelli, in data 29 giugno 1451, la versione del Manuale di Epitteto e gli comunicava di aver quasi ultimato la versione di Taziano13. A partire dal giugno 1451 le cronache bolognesi del tempo registrano una serie di ribellioni da parte di una fazione di Carpi e lo stesso Perotti prese parte alla difesa della città, che si concluse con la cacciata dei rivoltosi. Il dato storico è importante perché sembra che proprio a causa di questi sommovimenti il Cardinale Bessarione sentì l’esigenza di inviare i suoi manoscritti a Firenze per metterli al sicuro14; di ciò riferisce Niccolò in una lettera a Tortelli15, osservando come i codici non fossero tornati ancora a Bologna nel febbraio del 1452; è presumibile che tale assenza di materiale avesse creato disagi al lavoro di traduzione. Al di là di questo inconveniente, la tappa bolognese di Perotti fu segnata in primo luogo dall’attività d’insegnamento. Grazie a Bessarione l’umanista fu infatti designato professore di eloquenza, retorica e poesia all’Università di Bologna e mise a frutto le sue conoscenze retoriche per comporre un’orazione encomiastica in occasione dell’arrivo a Bologna nel 1452 dell’imperatore Federico III, orazione che valse a Niccolò la laurea poetica, concessa dall’imperatore stesso. Nello stesso anno egli portò a termine anche la versione latina del terzo opuscolo plutarcheo, il De fortuna Romanorum, in cui compare l’appellativo, grazie alla recente concessione dell’alloro poetico, di “poeta laureato”. Dalla summenzionata lettera a Iacopo Costanzi16 sappiamo che in questi anni Niccolò compose alcune importanti opere per l’umanesimo italiano; in particolare, nel settore metrico, egli portò a termine il De metris e il De ratione carminum quibus Horatius Flaccus ac Seuerinus Boethius usi sunt; egli si dedicò in questa fase anche alla stesura di un epigramma in lode di Tolomeo. L’attività versoria proseguì con le traduzioni latine del giuramento di Ippocrate, dedicato a Bartolomeo Troiano, e dei primi cinque libri delle Storie di Polibio, dedicati
prima metà del ’400, quando gli umanisti iniziavano a riavvicinarsi al greco. La resa di Poliziano, sempre secondo lo studioso, risulta molto più scorrevole sia per la superiore capacità versoria sia per la maggiore attenzione al manoscritto impiegato. Cfr. Prete 1980. Quanto alla possibilità che egli conoscesse e si ispirasse all’opera perottina, oggi si ritiene che l’opera del Poliziano sia del tutto indipendente e autonoma. Oliver ha infatti dimostrato che Poliziano, nel redigere la sua versione dell’Enchiridion, non tenne presente quella di Niccolò e che quei passi che ne dipendono sono interpolazioni di Filippo Beroaldo, che si servì del testo di Perotti per integrare ed emendare quello dell’umanista toscano. Vd. Oliver 1957, pp. 253-271. 12 La lettera I è pubblicata in Cessi 1912, pp. 73-75. 13 La traduzione è oggi perduta, così come il codice originario. È presumibile che si tratti dell’Oratio ad Graecos; vd. Perotti 1999, p. 76. 14 Vd. Mercati 1925, pp. 144-146; Labowsky 1966, p. 153. 15 Lettera III, pubblicata in Cessi 1912, p. 77. 16 Vd. supra, p. 60.
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nella tarda estate del 1454 a Niccolò V17; per quest’ultima opera egli venne premiato dal papa con cinquecento ducati e fu molto apprezzato dai contemporanei, come testimonia Vespasiano da Bisticci nelle sue Vite, e dai posteri, tra i quali è possibile menzionare Enea Silvio Piccolomini18. Negli stessi anni l’attrito tra Niccolò e Poggio Bracciolini, iniziato per la mancata restituzione da parte di Perotti di un codice priscianeo, raggiunse il suo apice e sfociò in una serie di invettive, di cui si ricorda l’Oratio in Poggium di Perotti e le Inuectiuae quatuor in Nicolaum Perottum di Poggio. Gli anni seguenti furono costellati di incarichi per Niccolò: nel 1455 il nuovo pontefice Callisto III lo nominò Segretario Apostolico e gli concesse l’usufrutto perpetuo e l’amministrazione di alcuni terreni e beni immobili localizzati tra Fabriano e Camerino. Il papa successivo, Pio II, salito al Pontificato nell’agosto del 1458, lo nominò Arcivescovo di Siponto, con dispensa dall’età canonica e in grazia dei suoi meriti di letterato e di politico al servizio della Curia. Non stupisce dunque che, sulla scia di un tale favore papale, Niccolò pronunciasse nella cappella pontificia a Mantova il 15 agosto 1459 una nuova orazione, questa volta in occasione della Dieta dei principi cristiani convocata da Pio II per organizzare una crociata contro i Turchi; il discorso è intitolato De Assumptione Beate Virginis habita Mantuae in sacello summi Pontificis e, oltre a trattare, come annuncia il titolo, il tema religioso dell’assunzione della Beata Vergine, contiene nella parte finale una lunga invettiva contro Maometto II e un’invocazione alla crociata. Le peregrinazioni continuarono al seguito di Bessarione: Perotti lo accompagnò dapprima come legato a latere in Germania nel gennaio del 1460, in occasione della missione del Cardinale volta a promuovere la pace tra i principi tedeschi, quindi a Venezia nel luglio del 1463 per l’organizzazione dell’imminente crociata; durante quest’ultima spedizione l’umanista tradusse in latino l’oracolo di Apollo sull’istmo di Corinto. Nonostante i grandi preparativi e i proclami di Pio II, la crociata fu un fallimento e il 15 agosto 1464 la lega formata dalle forze di Mattia Corvino, dello Scanderberg e di Venezia si dissolse ad Ancona. Dopo la morte di Pio II nel 1464, il nuovo papa, Paolo II, nominò Niccolò governatore di Viterbo, capitale del Patrimonio di S. Pietro. Per la prima volta, a causa del nuovo incarico, egli dovette interrompere il sodalizio con Bessarione, che nel frattempo era stato eletto patriarca di Costantinopoli (15 maggio 1463). Il governo della città, che durò fino al 1469, non fu semplice per Niccolò; egli fu oggetto di numerose critiche da parte dei cronisti contemporanei e il suo operato venne aspramente condannato dalla cittadinanza. In particolare, egli ricevette l’accusa di aver fatto incetta di grano durante la carestia del 1468 e di averlo rivenduto a prezzi molto più alti19. Al di là della veridicità o meno di questi attacchi, conta osservare che nel 1466 Bessarione e Niccolò si ricongiunsero proprio a Viterbo e il 14 maggio 1468 il Cardinale niceno concluse l’atto di donazione dei suoi manoscritti greci, cui Niccolò fu chiamato a fare
17 Sulla versione perottina di Polibio vd. Pace 1989 e 1991. 18 Il futuro papa Pio II ricorda infatti l’opera nel suo De Europa, al capitolo 58. 19 Sul governo viterbese di Perotti si veda Pontecorvi 2011, pp. 73-84.
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da testimone, alla chiesa di San Marco a Venezia, costituendo così il primo nucleo della futura Biblioteca Marciana20. Nello stesso periodo Niccolò compilò i Rudimenta Grammatices, la prima grammatica latina dell’Umanesimo, e la dedicò al nipote Pirro. Al termine dell’esperienza viterbese, conclusasi il 17 aprile 1469, Niccolò ritornò a Roma e iniziò a lavorare ai commenti alle Siluae di Stazio e agli epigrammi di Marziale. A questo punto della sua vita si colloca la celebre disputa con Giorgio di Trebisonda, o Trapezunzio (Creta 1395 - Roma 1472/1473), innescata in primis dal volume di quest’ultimo sulle Comparatio philosophorum Aristotelis et Platonis, composto in risposta allo scritto di Giorgio Gemisto Pletone (1355-1450) Περὶ ὧν’Αριστοτέλης πρὸς Πλάτωνα διαϕέρεται (De Platonicae atque Aristotelicae philosophiae differentiis). Il Trapezunzio criticava la predilezione per la dottrina platonica contenuta in quest’opera, mostrandosi fiero difensore dell’Aristotelismo; egli si scagliava con forza contro il Neoplatonismo, che si diffuse a Firenze proprio in seguito all’arrivo del Pletone al concilio di Ferrara e Firenze del 1438 e che spinse Cosimo de’ Medici a fondare l’Accademia platonica fiorentina, di cui Marsilio Ficino fu il principale esponente. Bessarione, strenuo sostenitore del Platonismo, intervenne con una confutazione intitolata In calumniatorem Platonis, che, come mostra già il titolo, spostò l’asse della discussione su un piano latino rendendola fruibile a un pubblico molto più ampio. Questo dato consente di osservare che anche in campo filosofico il problema del trasferimento di un’opera greca in un’altra lingua per agevolarne la diffusione in un contesto culturale differente - tema che è oggetto primario del nostro studio - fu fondamentale; per Bessarione l’aiuto di Perotti fu basilare: l’umanista poté limare e correggere lo scritto del suo patrono, in modo da eliminarne le durezze tipiche di chi non praticava il latino come se fosse la propria lingua21. La polemica, lungi dal sedarsi, proseguì con la durissima Refutatio deliramentorum Georgii Trapezuntii Cretensis di Perotti stesso, che accusò il Trapezunzio anche di avere contatti con i Turchi, e all’attacco si unirono anche altri due celebri umanisti: Domizio Calderini (Verona 1446 - Roma 1478) e Andrea Contrario (Venezia, inizio del XV secolo Napoli? 1471 circa). Nel febbraio del 1471 intanto Niccolò fu nominato governatore di Spoleto da Paolo II, che dopo poco morì e al suo posto venne eletto Sisto IV; quest’ultimo, a causa di probabili dissapori con l’umanista, lo sollevò dall’incarico, affidandogli soltanto una Quaesturam Pontificalem sul territorio22. Subito dopo l’intervento pontificio Niccolò tornò a Roma presso il Bessarione, che il 22 dicembre 1471 era stato nominato Legato Pontificio presso il re di Francia. In questo periodo Perotti ultimò il corpus
20 Su questa donazione e sugli inizi della Biblioteca Marciana vd. Labowsky 1966; Zorzi 1987; Coccia 1988; Mioni 1994. 21 Si veda Monfasani 1981. Lo studioso non esita a definire Perotti un vero e proprio ‘ghostwriter’. In quest’ambito di lavoro si inserisce anche la revisione di una parte del corpus di opere teologiche dedicato a Paolo II. A questo proposito risulta interessante anche il manoscritto Neap. V.F.12. Il codice napoletano infatti contiene numerosi testi oratorî bessarionei tradotti in latino, come la Prima Olintiaca (or. 1) di Demostene, per i quali Monfasani non dubita di un intervento di revisione perottina. Ibid. pp. 194-195; per una descrizione del codice napoletano vd. Abbamonte 2006. 22 Vd. Mercati 1925, pp. 67-68.
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monodico e plausibilmente lo sottopose all’attenzione del suo patrono per avere la sua approvazione, in particolare per la versione latina della Monodia bessarionea per l’imperatore Manuele Paleologo23. Il 20 aprile 1472 Bessarione si mise in viaggio per realizzare la missione diplomatica in Francia. Quest’ultima ebbe esito negativo, nonostante l’accorta diplomazia del Cardinale, che, giunto a Ravenna stanco e ormai avanti negli anni, si ammalò gravemente e morì il 18 novembre 1472. Si concluse così l’unione tra l’insigne dotto, maestro e umanista Bessarione e il suo segretario e più fidato collaboratore Niccolò Perotti.
II.1.4 Gli ultimi anni di Perotti Nello stesso periodo di pubblicazione della raccolta di Monodie, Perotti ultimò il commento alle Siluae di Stazio, in cui compare l’elenco dei membri dell’‘Accademia’ bessarionea24, ed elaborò una prima esposizione di Marziale; nel 1472 egli compose le due lettere filologiche indirizzate al Cardinale Ammanati25. Nel biennio seguente egli risiedette a Roma, dove si dedicò allo studio e a un ozio ‘forzato’ che lo portò a terminare la sua edizione della Naturalis Historia il 7 maggio 1473, entrando in competizione con quella di Giovanni Andrea Bussi, cui lanciò gravi accuse di noncuranza e sciatteria per la sua precedente edizione del 147026. Contemporaneamente Niccolò riprese a dedicarsi al commento di Marziale, che divenne terreno di scontro con un altro umanista del tempo, Domizio Calderini; in numerose lettere a colleghi e amici, questi veniva accusato da Perotti di plagio per le notizie contenute nel suo commento a Marziale uscito in quello stesso anno e dedicato a Lorenzo de’ Medici. La contesa letteraria proseguì con la pubblicazione, da parte di Calderini, della Defensio adversus Brotheum (cioè Perotti, chiamato qui in causa con uno pseudonimo) aggiunta alla stampa del commento a Giovenale uscita nel 1474 a cui l’umanista sassoferratense rispose con altre epistole denigratorie. Da questa lunga serie di invettive e dai precedenti scontri con Poggio Bracciolini e Giorgio da Trebisonda è possibile delineare il ritratto di un uomo intento a ribadire in ogni momento le proprie posizioni letterarie, anche a costo di guastare la reputazione di dotti suoi contemporanei. Allo stesso periodo appartiene la celeberrima Epitome di favole di Fedro, dedicata al nipote Pirro e contenente trenta favole assenti nei codici, e l’orazione funebre composta in occasione della morte del Cardinale Pietro Riario, avvenuta il 5 gennaio 1474. Subito dopo, Sisto IV nominò Perotti governatore di Perugia, per poi revocargli la nomina nel 16 febbraio 1477, probabilmente per ragioni finanziarie. In questi anni e nell’ultima fase della sua vita, trascorsa nella villa Curifugia, nei pressi della città natale Sassoferrato, Niccolò si dedicò interamente al Cornu copiae, iniziato,
23 Vd. Monfasani 1981, p. 177. 24 Vd. supra, p. 60, n. 5. 25 Vd. Mercati, 1925, pp. 84-85. 26 Vd. infra, pp. 75-76.
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come ricordato sopra, nel 1472; l’opera, di dimensioni enciclopediche, si attestò al commento del Liber spectaculorum e del primo libro degli Epigrammi, e rimase incompiuta a causa della morte, sopraggiunta nel 15 dicembre 1480; fu il nipote Pirro a raccogliere questi scritti, che sono alla base di quello che è riconosciuto come il capolavoro di Perotti. Il lessico fu indirizzato al Duca Federico d’Urbino e la copia originale è conservata nell’Urbinate latino 301, oggi nella Biblioteca Vaticana. La prima edizione vide la luce a Venezia nel 1489 nella tipografia di Paganino de Paganinis, la seconda uscì per i tipi di Filippo Pincio nella stessa città nel 1499 e la terza, nello stesso anno, a opera di Aldo Manuzio. Già da alcuni anni è stata pubblicata, a opera di una équipe internazionale, l’ultima edizione del Cornu copiae; quest’ultimo lavoro editoriale ha contribuito a rinnovare l’interesse e gli studi dedicati all’umanista marchigiano27. A riprova del carattere enciclopedico del Cornu copiae e della sua importanza per la riorganizzazione umanistica del sapere antico, vedremo come esso fornisca anche informazioni sul genere letterario della monodia, definendone peculiarità e individuando in Simonide il precursore in ambito poetico di questo tipo di lamentazione28.
II.2 Il corpus dedicato a Pietro Foscari Sin dal 1466, anno della morte del fratello Severo, Niccolò aveva iniziato a cimentarsi con un nuovo genere letterario -‘nuovo’ nel senso di sconosciuto alla romanità -: la monodia, un tipo di discorso funebre contrassegnato dalla brevità e dai forti accenti patetici29. Questo sottogenere dell’epidittica funebre fu riscoperto nel corso dell’Umanesimo, come dimostrano alcuni lavori recenti relativi alla fortuna della sezione del trattato menandreo dedicata alla monodia30, l’unica a essere trasferita in latino fino al XVI secolo prima della traduzione dell’intera opera realizzata dal veneziano Natale Conti nel 155831; quest’ultima era fondata sull’editio princeps stampata da Aldo Manuzio nel 1508 come parte del primo volume dei Rhetores Graeci.
27 Vd. Charlet, Furno, Harsting, Stok, Pade, Ramminger, Abbamonte 1989-2001. 28 Cfr. infra p. 68 29 Per i tratti caratteristici della Monodia vd. Pernot 1993 (in particolare le pp. 191-202; 288-299); Di Marco 1999, pp. 217-240. 30 Per Menandro Retore si fa riferimento all’edizione di Russell e Wilson, 1981. La monodia è trattata ai capitoli 434, 10-437, 4. Sull’attribuzione dei due trattati tradizionalmente considerati menandrei vd. Gascó 1998, pp. 3110-3146 e Heath 2004. 31 La prima traduzione umanistica della parte del trattato menandreo sulla monodia è dell’inizio del XV secolo ed è conservata in due manoscritti e un incunabolo: la prima copia su manoscritto, datato 13 settembre 1423, è opera di Ditaiutus de Vitaliis da Osimo ed è conservato alla Biblioteca Vaticana (ms. Ross. 442); la seconda, vergata da Aurelio Romano, è databile tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo e si trova alla Biblioteca Comunale Augusta di Perugia (ms. C 61); la terza copia si trova scritta a mano sul uerso dell’ultima pagina stampata di un incunabolo della Biblioteca Vaticana contenente opere retoriche (Inc. II. 658), stampata a Venezia nel 1485. Tutte e tre gli esemplari sono apografi della traduzione originale, probabilmente esemplata a Roma e basata sul primo ramo della tradizione manoscritta greca. Si veda Harsting 1997; Buonocore 1997; Harsting 1999.
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Il corpus di Monodie è l’ultimo gruppo di traduzioni di opere greche in latino realizzate da Perotti nella sua vita. L’umanista, nei mesi che precedettero la sua nomina a governatore di Spoleto da parte di Paolo II, si dedicò nel 1471 alla redazione di questa raccolta che contiene la versione latina della Monodia per Smirne realizzata insieme a quella di altre due orazioni funebri: la Monodia per Giuliano di Libanio (or. 17 Förster) e la Monodia per Manuele Paleologo del Cardinale Bessarione32. A queste versioni Perotti aggiunse una monodia composta di suo pugno in occasione della morte del fratello Severo e dedicò l’intero corpus a Pietro Foscari, autorevole esponente ecclesiastico. Foscari, originario di Venezia, nel 1447 fu nominato protonotario da Niccolò V e nel 1468 Paolo II lo elesse cardinale in pectore, senza formalizzare però la nomina, che venne ufficializzata solo nel 1477 a opera del nuovo papa Sisto IV33. Dalla prefazione alle monodie34 è possibile ricavare importanti informazioni riguardanti le circostanze e il contesto di composizione dei testi. Nella prima parte spicca un lunghissimo elogio del cardinale Bessarione, patrono storico di Perotti, che inizia con l’elenco delle qualità fisiche che conferiscono al cardinale solennità e autorità (capelli bianchi, voce, sguardo e gesti), quindi continua con le canoniche qualità dell’animo (prudentia, temperantia, pietas, religio, magnitudo animi, munificentia) e con la lode della capacità di governo mostrata da Bessarione a Bologna (1450-1455), in Germania (1460-1461), in Gallia -intendendo con questa denominazione geografica non la Francia, bensì la parte est della Gallia Cisalpina controllata da Venezia35 - e in molte province orientali. Perotti si sofferma in seguito sulle doti culturali del cardinale: ne elogia la splendida biblioteca, l’eccezionale bilinguismo, la mirabile capacità di memorizzazione e l’eloquio. Da tutta questa serie di elementi nulla fa supporre che Bessarione fosse già defunto e ciò va a corroborare l’ipotesi della ‘pubblicazione’ del corpus intorno al 1471 e non già 1472, come si è ritenuto per molti anni36. Alla fine di questo lungo encomio, che occupa la maggior parte della lettera (§ § 1-5), Niccolò spiega le motivazioni che lo avevano spinto a tradurre e ad aggiungere la propria composizione in coda: egli, nel ripercorrere con la memoria la sua personale
32 P. G., CLXI, 615-620. 33 L’attività culturale di Pietro Foscari è testimoniata dalle dediche di opere di importanti umanisti, come quella del commento all’Etica di Aristotele di Ermolao Barbaro. Egli intrattenne inoltre rapporti con i maggiori umanisti del tempo, in particolare con quelli appartenenti alla cerchia del Cardinale Bessarione e in qualità di protonotario apostolico Foscari risultò testimone, come lo stesso Perotti, dell’atto notarile stipulato il 26 giugno 1468 a Roma, con il quale il Cardinale trasmise l’effettivo possesso della sua biblioteca ai procuratori di S. Marco, rappresentanti della Repubblica di Venezia. Vd. DBI 49, 1997, pp. 341-344, voce di Giuseppe Del Torre. 34 La lettera prefatoria è stata pubblicata in Mercati 1925, pp. 151-155 e più recentemente in Perotti 1999, pp. 122-126. 35 Vd. Monfasani 1981, p. 176. 36 Monfasani ha anticipato di un anno la pubblicazione del corpus rispetto a quanto sostenuto da Mercati; una delle ragioni dell’anticipazione risiede nel fatto che Perotti, nell’elenco delle missioni diplomatiche di Bessarione, non cita quella in Francia, che si data al 1472, anno della morte del Cardinale, proprio in quanto la ‘Gallia’, come specificato in precedenza, non si riferirebbe dunque alla Francia, bensì alla zona orientale della Gallia cisalpina sotto il controllo di Venezia. Vd. Mercati 1925, p. 70; Monfasani 1981, pp. 176-177.
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scoperta del genere monodico, ricorda come gli sia capitato casualmente tra le mani un liber quidam graecus, huius chirographo scriptus, contenente diversi opuscoli, tra i quali la Monodia per la morte di Manuele Paleologo composta da un Bessarione non ancora ventenne. Il termine chirographus indica che il manoscritto in questione era autografo37 ed è oggi acclarato che si tratta qui del Marc. gr. 533 (coll. 778)38, che raccoglie numerose opere giovanili del Cardinale, tra cui altre cinque monodie39. La tipologia di questi componimenti e la motivazione di ordine privato - cioè il dolore per la perdita del fratello Severo -, dovevano avere ispirato il progetto letterario che Perotti si assume nell’epistola prefatoria. Dopo essersi profuso in una nuova lode delle capacità compositive di Bessarione, che avrebbe potuto eguagliare con la propria monodia Demostene, Eschine, Isocrate o Aristide, Perotti riferisce quelli che, a suo parere, sono i tratti fondamentali della composizione bessarionea (e, quindi, quelli a cui egli stesso mira nel tradurre/ comporre le sue monodie): egli ne ricorda graues illas perspicuasque sententias et, ut dicam, seniores quam aetas illa ferebat, “quei concetti solenni e limpidi e, per dire, più adulti di quanto quell’età offriva”, con riferimento alla giovane età che il cardinale aveva quando compose la sua Monodia. Quindi Niccolò prosegue elogiando il genus orationis, da lui definito ualidum, acre, sublime, figuratum et totum aethereum, (“saldo, pungente, sublime, ornato di figure retoriche e del tutto celeste”) e soprattutto, con una climax, permotiones illas, perturbationes, affectus, concitationes, quibus certe ita mouebar, ut non tam legere opus illius quam uocem eius audire, et socias effundens lachrimas, oculos, frontem, uultum, gestum narrantis uiderer intueri, “quei sentimenti, quei moti dell’animo, quegli affetti, quei turbamenti, dai quali io mi sentivo senza dubbio così commosso, che mi sembrava non tanto di leggere la sua opera, quanto di ascoltare la sua voce, e, versando complici lacrime, mi sembrava di vedere i suoi occhi, la fronte, il volto e i movimenti del narratore” (§ 5). Da queste righe si intuisce che Perotti recepisce bene che la finalità precipua della monodia è quella di suscitare la commozione nel lettore e ciò viene ottenuto, osserva l’autore, soprattutto attraverso uno stile forte e ricco di figure retoriche, vigoroso ed ‘etereo’ allo stesso tempo. Nel prosieguo, Niccolò riporta una breve storia del genere: si trattava in origine di un canto funebre misto al pianto, il cui primo esponente fu proprio Aristide, seguito da Libanio; lo stesso tipo di canto era chiamato dai latini nenia, una lamentazione individuale di una prefica nel corso di un funerale. […] Hoc genus dictionis Graeci monodiam, quasi funebrem quemdam cantum et lachrimis mixtum, appellant: quales erant quae apud maiores nostros neniae dicebantur. Primus apud Graecos hoc dicendi genere usus est Aristides, deinde Libanius, praeter
37 Vd. Rizzo 1973, p. 100. 38 Mercati identificò per primo il codice; vd. Mercati 1925, p. 71, n. 1. Per la descrizione del codice vd. Rigo 1968, pp. 394-397. Sul Marc. gr. 533 vd. anche Ronchey 1994, pp. 47-65. 39 Si tratta di tre monodie per l’imperatrice Teodora di Trebisonda, una per la principessa Cleopa e un’altra per Teodora, moglie di Costantino, futuro imperatore di Costantinopoli. A proposito dell’influenza di Libanio sulle monodie di Bessarione contenute in questo manoscritto si veda Fatouros 1999, pp. 191-204.
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eos ex ueteribus nemo. Apud Latinos uero nullus adhuc, quod in meam notitiam uenerit, usus est40. La notizia relativa ad Aristide, che, a quanto si legge qui, sarebbe stato secondo Niccolò il primo autore di una monodia, è sconfessata in un luogo del Cornu copiae, il lessico monumentale organizzato come commento ai lemmi degli epigrammi di Marziale, di cui Perotti aveva approntato una prima redazione negli stessi anni dell’elaborazione e della dedica del corpus monodico41. A un certo punto del commento l’umanista, fondandosi sull’autorità di Orazio42, scrive: Item ab ode, hoc est a cantu, … monodia lugubris cantus qui fit a praefica in defunctorum funeribus, quasi unius cantus. Nam caeteris flentibus sola praefica canit. Huiusmodi cantus a nostris naenia dicitur… Naeniam siue monodiam primus instituisse dicitur Simonides poeta ex Cea insula […] Nam quod in laudem defuncti ante cadauer sepultum cani solet, a nostris naenia, a Graecis epicedium siue monodia appellatur43. In entrambi i testi - la lettera prefatoria del corpus dedicato a Foscari e il passo tratto dal Cornu copiae - la monodia è assimilata, con riferimento ai nostri (cioè ai latini), alla nenia, il canto funebre delle prefiche. Ciò che cambia è l’identità del fondatore di questo genere, che nell’opera lessicografica è individuato in Simonide di Ceo, mentre nella lettera a Foscari è Aristide. Forse la ragione della difformità di queste due notizie sta nel diverso oggetto della discussione: nel Cornu copiae Niccolò sta commentando dei versi di Marziale e di conseguenza si rifà a un’origine lirico-poetica per la monodia; nell’epistola dedicatoria, invece, è intento a trattare un genere oratorio e pertanto si appella all’auctoritas di Aristide in primis e in secondo luogo di Libanio. C’è tuttavia un elemento testuale che fa supporre che Perotti propendesse per l’idea di Aristide come indiscutibile fondatore del genere: nel passo summenzionato del Cornu copiae infatti ricorre per due volte la voce verbale dicitur, che, come in altri luoghi dell’opera, indica una presa di distanza da parte dell’autore nei confronti delle tesi riportate. Se si ammette dunque che l’intenzione perottina è proprio quella di dissociarsi da chi afferma che l’inventore della monodia è stato Simonide, allora il primato di Aristide in tale ambito, quale Perotti sostiene con convinzione nell’epistola che accompagna
40 “I Greci chiamano questo genere di discorso “monodia”, come se fosse un canto funebre misto alle lacrime: quali erano quelle composizioni che presso i nostri antenati erano dette “nenie”. Il primo tra i Greci a utilizzare questo tipo di discorso fu Aristide, quindi Libanio, eccetto loro nessuno tra gli antichi. Presso i Latini invero nessuno ancora, per quanto ne so, se n’è servito” (§ 6). 41 Vd. Mercati 1925, p. 75. 42 Vd. Harsting 1997, p. 18. 43 “Parimenti dall’ode, cioè dal canto, … la monodia, un canto lugubre che proviene da una prefica nel corso dei funerali dei defunti, come il canto di una sola persona. Infatti, in mezzo agli altri che piangono, la prefica canta da sola. Il canto di questo tipo è detto dai nostri (avi) ‘nenia’. Si dice che il primo ad aver istituito la nenia o monodia sia stato il poeta Simonide dell’isola di Ceo […] Infatti ciò che si canta abitualmente in lode del defunto davanti al cadavere sepolto è chiamato dai nostri ‘nenia’, dai Greci ‘epicedio’ o ‘monodia’”. Vd. Charlet, Furno, Harsting, Stok, Pade, Ramminger, Abbamonte 1989-2001, Cornu copiae 5, 10, 106 e 7, 117, 1. Sulla cultura greca di Perotti vd. Charlet 2013, pp. 259-280.
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il corpus monodico, ne uscirebbe avvalorato. Comune a entrambi i luoghi, invece, è l’assenza di ogni riferimento a Menandro Retore44. Nell’epistola a Foscari, Perotti, dopo aver affrontato la questione del protos heuretes del genere, argomenta la scelta di tradurre i due opuscoli di Aristide e Libanio con motivazioni di ordine estetico e sentimentale: Accepi subito Aristidem Libaniumque in manibus et eas monodias elegi, quae omnibus quas scripserunt, communi doctorum omnium iudicio pulchriores et affectibus pleniores habentur, hoc est Aristidis monodiam in Smirnae deploratione et Libanii in funere Iuliani imperatoris45. Lo studioso afferma dunque di aver collocato al terzo posto la traduzione della Monodia di Bessarione, che ritiene superiore per la quantità di affetti e per la ricchezza delle idee esposte. Perotti informa poi il lettore che avrebbe impiegato solo quattro giorni a realizzare le traduzioni; la notizia relativa alla celerità nella stesura delle corpus sotto l’effetto della commozione ricorda la rapidità di Aristide nel trasporre in retorica il dolore mediante la composizione della Monodia per Smirne, pertanto è lecito supporre che si tratti di un topos che Perotti interiorizza e impiega per le sue composizioni46. L’umanista afferma inoltre che sarebbe stato spinto a tale lavoro dal desiderio di offrire agli uomini ‘latini’ la fruizione diretta di opere tanto pregevoli, senza il bisogno di ricorrere a intermediari bilingui. Perotti fornisce così anche un’importante motivazione di ordine funzionale: […] repente et non amplius quam quatuor dierum spatio monodias ipsas omnes latinas feci… simul ut per te hoc quoque beneficii, ut pleraque alia, a Bessarione Latini homines haberent, ne in tam pulchro atque excellenti genere dicendi externa quaerere cogerentur, sed haberent Latina lingua quos facile possent imitari47… Nella conclusione Perotti aggiunge qualche informazione sulla propria monodia: posta volutamente in coda alle altre, essa fu composta in occasione della prematura morte del fratello Severo avvenuta nel 1466 (termine post quem per l’inizio dell’elaborazione del corpus). Perotti insiste sull’esiguità della propria opera, dichiarando la propria inferiorità rispetto agli illustri predecessori, ma allo stesso tempo mostra di essere il loro diretto discendente latino: […] Nos vero, ut non modo uerbis nostros homines ad hoc honestissimum munus hortemur sed etiam exemplo excitemus, nostram quoque monodiam post alias omnes 44 Vd. Harsting 1997, p. 18. 45 “Ho preso Libanio e Aristide tra le mani all’improvviso e ho scelto quelle monodie che, fra tutte quelle che essi scrissero, secondo la comune opinione di tutti i dotti, sono ritenute le più belle e le più ricche di sentimenti, cioè la Monodia di Aristide per la lamentazione di Smirne e quella di Libanio per la morte dell’imperatore Giuliano” (§ 6). 46 Cfr. infra, p. 77. 47 “[…]subito e in non più di quattro giorni ho tradotto tutte le monodie in latino… affinché attraverso te gli uomini latini abbiano anche questo beneficio, come molti altri, da Bessarione, in modo che i latini, in un tipo di discorso così bello ed eccellente, non siano costretti a cercare aiuti esterni, ma abbiamo a disposizione in lingua latina quelle opere che possono essere facilmente imitate” (§ 6).
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addidimus, quam paulo ante in Seueri fratris acerbissimo funere infoelices moeditati sumus. Hoc autem nemo me arroganter fecisse existimet, ut instar Aristidis primus ex Latinis in hoc dicendi genere et quasi dux essem, sed ut alios in uiam ponerem […] Tuae mansuetudinis erit, inter doctissimorum uirorum opera et ueluti aethereas aquilas passerculos quoque et columbulos nostros uolitantes non aspernari48. Queste ultime dichiarazioni, unite all’affermazione precedente sull’ignoranza da parte dei Latini della Monodia, rivelano la consapevolezza di Perotti di essere colui che ha introdotto un nuovo genere letterario nel contesto della latinità, proprio come lo fu Aristide, in ambito prosastico, per i Greci. Quest’aspetto è rilevante non soltanto per ciò che concerne la rielaborazione dei generi letterari antichi nel periodo umanistico, ma soprattutto per la volontà di Perotti di assurgere a fondatore di un tipo di composizione originale. In verità, dopo Perotti il termine monodia non fu più utilizzato per indicare un tipo di discorso funebre, bensì il recitativo cantato da un solo attore contrapposto allo stile polifonico, nel contesto delle esecuzioni musicali cinquecentesche; in questo senso sembra che il termine si sia riavvicinato alla sua accezione originaria, qual era appunto quella di canto ‘a solo’ di un personaggio all’interno di una tragedia49.
II.3 Sui codici bessarionei alla base della versione latina della Monodia per Smirne Niccolò, rivolgendosi a un certo punto nella sua lettera a Pietro Foscari, afferma di essersi cimentato nella traduzione delle Monodie contenute nella sua raccolta ut per te hoc quoque beneficii, ut pleraque alia, a Bessarione Latini homines haberent, “perché attraverso te i Latini avessero da Bessarione questo beneficio, come molti altri” (§ 6). Qui l’umanista si riferisce al fatto che il Niceno, con la sua Monodia, aveva offerto ai contemporanei una grandissima prova di benevolenza. Tuttavia, dietro il significato più immediato, è possibile che egli accennasse con l’espressione a Bessarione anche alla provenienza di quei manoscritti di cui si era servito per mettere a punto la raccolta. Uno dei codici, quello contenente la Monodia bessarionea, è, com’è stato già rilevato50, il Marc. gr. 533; da un’indagine dei manoscritti greci di proprietà del Cardinale Bessarione, oggi conservati alla Biblioteca Marciana di Venezia, sono
48 “Noi in verità, al fine di stimolare i nostri contemporanei a questo giustissimo compito non solo con le parole, ma anche con l’esempio, aggiungiamo anche la nostra monodia dopo tutte le altre, che poco tempo fa, in occasione della prematurissima morte del fratello Severo, abbiamo composto, infelici. Ma che nessuno ritenga che io abbia fatto ciò con arroganza, per essere, al pari di Aristide, primo tra i Latini a cimentarmi in questo tipo di discorso, e per fare quasi da guida, ma per porre gli altri sulla strada… Sarà tua benevolenza non rifiutare tra le opere di uomini dottissimi, quasi delle aquile eteree, anche i nostri passerotti e i nostri piccoli colombi svolazzanti.” (§ 6). Qui, come già in Cencio, si nota l’impiego di diminutivi (passerculos… columbulos) per sminuire con topica modestia la propria opera; vd. supra, p. 35, n. 54. 49 Di Marco 1999; Carrozzo-Cimagalli 2008, pp. 11-24. 50 Vd. supra p. 67.
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emersi dati interessanti che ci hanno consentito di individuare alcuni esemplari che potrebbero essere stati consultati da Perotti51. I codici contenenti la monodia sono i seguenti: Marc. gr. 419 (coll. 792) (G) - Si tratta di un manoscritto cartaceo, datato al XIV52 secolo. Misura 212 X 140 cm ed è composto da 353 fogli (44 fascicoli). Si tratta di un manoscritto di Bessarione, come attestano due note di possesso: una è in latino al f. 5, dove l’ultimo possessore ha vergato Locus 69, orationes Demosthenis et Aristidis, est liber mei b(essarionis) car. Tusculani, un’altra è bilingue e si trova al f. 150v, in cui una mano ha scritto Aristides orator. meus. b. Car (dinalis) Tusculani; ἀριστείδης ὁ ῥήτωρ. ἐμοῦ Βησσαρίωνος καρδηναλέως τοῦ τοῦ Τουσκα (λάνου). Esso contiene opere oratorie: Demostene (ff. 5-61v), a cui, in margine alla pro Rhodiorum libertate (ff. 57-61v), è aggiunto l’argumentum di Ulpiano Συνεμάχουν Ἀθηναίοις (expl. πάντων τῶν Ἑλλήνων); Libanio (ff. 61v-131v). Le opere di Aristide iniziano al f. 140r. Il manoscritto contiene i seguenti scritti relativi ad Aristide (ff. 140r-150r): trattati B, TE, Ca53; scholium 3, 1, 1-24 al Panathenaikos; prolegomena al Panathenaikos (trattato PAN); un epigramma dell’Antologia Palatina (XVI, 320) intitolato Νεῖκος Ἀριστείδης. Le orazioni aristidee sono (ff. 151-187v): 1, 30, 33, 27, 34, 3, (Miltiades e Themistocles = 214, 20 Dindorf - 295, 18 Dindorf), 31, 18, 19, 20, 17, 22, 41, 39, 43, 42, 37, 45 e la pseudo-aristidea In Leptinem (LIV Dindorf). Marc. gr. 424 (coll. 759) (H) - Il Marc. gr. 42454 è un manoscritto del XIV secolo; misura 230x155 mm ed è composto da 317 fogli. È un codice cartaceo (fatta eccezione per due bifolia, uno all’inizio e uno in posizione finale, membranacei). Sebbene la carta sia di mediocre qualità e talvolta bucherellata a causa delle tarme, la scrittura è quasi sempre leggibile. Consta di 39 fascicoli ed è stato vergato da un solo scriba. Al f. 2v c’è la nota di possesso di Bessarione con il nome in greco e in latino: Locus 55. Aristides orator meus B(essarionis) car. Tusculani55. Il manoscritto contiene esclusivamente opere aristidee; i discorsi veri e propri sono preceduti da alcuni excerpta: f. I r-v: de rhetorica ad Platonem, I; f. 2r-v: prolegomena al Panathenaikos; f. 2v: epigramma in Aristidem (AP XVI, 320) et in rhetores (AP XVI, 315). Le opere aristidee che seguono sono: or. 1, trattati T, H1, scholium (3, 356, 21-357, 5 Dindorf), orr. 2, 3, 4, 5-15, 33, 18, 19, 20, 17, 21, 24, 41, 16, 34, 31, 22. Marc. gr. 426 (coll. 874) - Si tratta di un codice del XIV di 240x178 mm; è costituito da 269 fogli, raggruppati in 34 fascicoli. I fogli 15-268 sono vergati da un unico scriba, mentre i ff. 1-14v sono di una mano più recente e il f. 269 è stato aggiunto da una mano coeva a quest’ultima. Manca in questo manoscritto l’annotazione bessarionea, ma
51 I risultati di questa ricerca sono stati pubblicati in Caso 2013, pp. 443-452. 52 Mioni 1960-1987, Thesaurus Antiquus, vol. 2, p. 180. Behr lo data al XV secolo: vd. Behr in Lenz-Behr 1976-1980, vol. 1, p. LXIV. 53 Per le sigle di queste opere vd. Behr in Lenz-Behr 1976-1980, vol. 1, p. IX. 54 Per questo codice vd. anche Pernot 1981 (= 1992), p. 170. 55 Mioni ha ipotizzato che questo manoscritto possa essere stato acquistato dal Cardinale Bessarione dal cospicuo patrimonio di codici greci appartenuti a Giovanni Aurispa, inventariati dopo la sua morte, sopraggiunta nel 1459, dal genero Nando Palmieri. Vd. Mioni 1994, pp. 233-234. Per la biblioteca di Giovanni Aurispa vd. Franceschini 1976. Cfr. supra, Introduzione, p. 17.
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si può asserire con certezza che faceva parte del suo patrimonio in quanto è segnata nella donazione con il numero 283. Anche questo manoscritto contiene esclusivamente orazioni aristidee, di cui si dà di seguito un elenco: orr. 18 (da κατασκαφαὶ Θηβῶν; la Monodia pertanto è quasi del tutto scomparsa), 22, 8, 24, 13, 14, 10, 34, 17, 21, 29, 27, 30, 41, 39, 23, scholium (3, 439, 15-461, 21 Dindorf), 3, 3 (Cimone ripetuto in parte), 1, 31 (a causa dell’explicit mutilo, termina con ἔδει). Sul f. 269r-v è stato trascritto un frammento da un commento alle Sacre Scritture su Sara e Abramo, ma la scrittura è illeggibile. Marc. gr. 427 (coll. 875) (O) - Il Marc. gr. 427 è un manoscritto cartaceo del XIII secolo; esso misura 240x160 mm ed è composto da 360 fogli raccolti in 45 fascicoli. I testi ivi contenuti sono stati vergati da due scribi: il primo dal f. 4 al f. 72, il secondo la parte restante del codice. Al f. 4v c’è la nota autografa di Bessarione Plutarchi moralia quaedam. Il manoscritto contiene opere di Plutarco, Aristide e Luciano. Esse sono: ff. 1-3v: excerptum grammaticale; ff. 4-156 Moralia di Plutarco; orazioni di Aristide 12-15, 47-51, 34, 18, 22, 19, 20, 23, 28, 1, 3, 30, 21; ff. 349-360r: epistole di Luciano. Marc. gr. 428 (coll. 922) (Q) - Il Marc. gr. 428 è un manoscritto cartaceo del XIV secolo56; misura 320x215 mm e consta di 194 fogli vergati da un unico scriba; i fogli sono raggruppati in 24 fascicoli. In cima al f. 1 Bessarione ha segnato la nota Locus 69. Aristides Rhetor, orationes 35, liber meus car. Tusculani. Il codice contiene molte orazioni aristidee; frapposta a queste c’è l’Antilogia di Libanio, collocata subito dopo il discorso 16, come avviene di consueto nella tradizione di questi due discorsi57. I discorsi aristidei sono i seguenti: 18, 22, 19, 20, 24, 26, 30, 39, 34, 33, 16 (seguito dall’Ἀντιλογία di Libanio), 26, 42-46, 31, 32, 25, 37, 38, 41, 40, 47-51, 28, 36, 23. I discorsi sono numerati con lettere greche fino al f. 134 (da κβ´ a να´). Dopo le opere di Aristide il codice contiene altre due opere: ff. 174-181v: Panegyricus in imperatorem Anastasium di Procopio di Gaza; ff. 181v-184v: Consolatio ad Apollonium di Plutarco. Marc. gr. 44258 (coll. 554) (Z) - Il Marc. gr. 442 è datato al XIV sec. ed è cartaceo; misura mm. 165 × 125. Consta di 199 fogli raggruppati in 26 fascicoli. Gli scribi sono diversi; il primo ha vergato la maggior parte del codice: 1-166v, 176v-178r, 190-194
56 Behr lo data al XV secolo; vd. Behr in Lenz-Behr 1976-1980, vol. 1, p. XLIV. 57 Vd. Förster 1903-1927, vol. 5, pp. 303-360. 58 Questo manoscritto compare nel primo catalogo storico Zanetti-Bongiovanni senza la menzione della Monodia aristidea. Il primo ad accorgersi di questa lacuna fu l’erudito Jean-Baptiste-Gaspard d’Ansse de Villoison, che ne diede notizia nei suoi Anecdota Graeca, raccolta di testi inediti ricavati dalle ricerche condotte sui manoscritti delle biblioteche di Parigi e Venezia. Egli scrive: In… Marciano Cod. 442 statim fol. 84 rect. usque ad p. 85 uers. sequitur quoddam opusculum sine titulo, sine auctoris nomine, quodque eruditos Cl. Zanetti oculos effugit. Hanc autem agnouimus esse Aristidis Μονῳδία ἐπὶ Σμύρνῃ, scilicet de Smyrna terrae motu obruta lamentationem. Il discorso aristideo è sfuggito anche agli editori successivi: esso non compare infatti nella rassegna di Behr. Abbiamo individuato la presenza della Monodia aristidea in questo manoscritto nella recensio di Förster dell’orazione 17 di Libanio, verificata in seguito sul catalogo di Mioni e attraverso un esame autoptico. Vd. Zanetti-Bongiovanni 1740, pp. 226-230; Villoison 1781, p. 254; Förster 1903-1927, vol. 2, pp. 198-199; Behr 1976, pp. IX-LXVI; Mioni 1960-1987, Thesaurus antiquus, vol. 2, pp. 213-214; Caso 2013, pp. 443-445.
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(fino alla linea 11). La parte restante è vergata da diversi copisti: I) ff. 167r-173v; II) ff. 178v-180v; III) ff. 182r-188v (modulo di scrittura mutevole, forse uguale al II); IV) ff. 189r -v e 194r-197r . Al f. 1v c’è la nota di possesso in greco e in latino: locus 56. Libanii epistole et orationes Aeschinis. Liber b(essarionis) Car. Tusculanii. Si tratta di un manoscritto miscellaneo. Le opere ivi comprese sono: f. 1: epigramma anonimo; ff. 1-2r: excerpta di lettere di Filostrato; ff. 7-73: epistole di Libanio; ff. 74-83: 59, Monodia de Nicomedia, Monodia de templo Apollinis Daphnaei di Libanio; f. 83r-v: De muliere venefica di Adriano Retore; ff. 84-85v: (or. 18) di Elio Aristide; ff. 87-118: orazioni di Eschine; ff. 176v-180v: sei monodie di Alessio Lampeno. Marc. App. gr. VIII, 7 (coll. 1069) (V) - Tra i codici esaminati è il più antico: esso risale infatti alla prima metà dell’XI secolo60. È un manoscritto membranaceo di 300 fogli e misura 324x226 mm. È stato vergato da due scribi che si sono alternati nella trascrizione61. Il codice è stato oggetto di restauro: alla fine del XV secolo Cesare Stratego ha copiato i ff. 1-6 e 294-299, rimpiazzando gli originali che erano rovinati. All’incirca alla stessa epoca il manoscritto ha ricevuto una nuova rilegatura realizzata dal monaco francescano Urbano (Urbanus Bolzianus Bellunensis, † 1524). Il manoscritto contiene esclusivamente opere aristidee. Esse sono: B, C, or. 1 (Pan.), H1, T, E, Ca, I , II, IV, H2, 3 (le cui parti mancanti del principio del Cimone sono state aggiunte da una mano del XIV secolo), 5-12, 17, 16, 18, 22, 24, 34, 21, 29, 27, 30, 41, 39, 23, 37, 38, 40, 19. Su questi sette codici contenenti la Monodia per Smirne di Elio Aristide, tutti un tempo appartenuti al Cardinale Bessarione62, ci siamo soffermati su tre manoscritti in particolare, sia per le loro lezioni coincidenti con la traduzione di Niccolò Perotti, sia per alcuni dati interni rilevanti, tenendo presente che nessun codice bessarioneo conservato in biblioteche diverse dalla Marciana contiene la Monodia di Aristide63: si tratta dei Marciani greci 419, 427 e 442. Tutti e tre i manoscritti contengono opere oratorie64: il 419 (XIV secolo) ha discorsi di Demostene, Libanio e Aristide; il 427 (XIII secolo) comprende una serie di Moralia di Plutarco, orazioni di Aristide e alcuni scritti di Luciano; il 442 (XIV secolo), infine, riporta alcune epistole di Filostrato, orazioni e lettere di Libanio, un’opera di Adriano Retore, la Monodia per Smirne anepigrafa, tre orazioni di Eschine e sei monodie di Alessio Lampeno. Quello più interessante è sicuramente quest’ultimo volume, per una serie di ragioni. In primo luogo, si tratta di un codice che contiene un numero discreto di monodie, tra le quali
59 Le parentesi uncinate indicano che il titolo non compare nel manoscritto. 60 Accogliamo la più recente datazione proposta da Behr e da Pernot che corregge quella di Mioni, che datava il codice al XII secolo. Vd. Mioni 1960-1987, vol. 2, pp. 130-132; Behr 1976, p. XLVI, numero 73; Pernot 1981 (= 1992), p. 170. Il codice è già siglato come V nelle edizioni citate. 61 Vd. Behr in Lenz-Behr 1976-1980, vol. 1, p. XLVI, n. 169. 62 Vd. Mioni 1960-1987. 63 Così si apprende dal catalogo della Labowsky nella sezione Bessarion Manuscripts in Libraries other than the Biblioteca Marciana; vd. Labowsky 1979, pp. 483-494. 64 Vd. supra, pp. 70-73.
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figurano anche quelle di Libanio e Aristide tradotte insieme da Perotti65; inoltre il testo della Monodia, sfuggito agli editori precedenti di Aristide perché anepigrafo, presenta alcune varianti che collimano con la versione perottina. La prima variante riguarda il passaggio in cui Aristide si rivolge alla città con un’apostrofe (§ 5) dicendo οὕτω σοι τῇ πρότερον μὲν ὡραιοτάτῃ πόλεων, “un tempo a te, la più bella delle città”; la traduzione di Perotti in questo punto presenta l’omissione del pronome σοι e recita sic ista omnium olim uenustissima ciuitas, “così un tempo questa città, la più bella di tutte”. L’introduzione del deittico ista muta il modo di indirizzarsi a Smirne, che da diretta interlocutrice in Aristide diventa così l’oggetto di cui si parla in terza persona. La spiegazione di tale modifica potrebbe risiedere nella lettura del manoscritto Marc. gr. 442, che omette σοι in questo punto. Allo stesso modo è spiegabile la differenza tra il testo aristideo e il latino nell’espressione immediatamente successiva, che risulta piuttosto turbata, come si rileva anche dall’apparato di Keil relativo a questo passo66. Subito dopo l’apostrofe appena enunciata, Aristide esegue un raffronto con la realtà attuale della città e afferma νυνὶ δ̕ ἀωρίαν α……, περιῆν ἀφ’ ὅτου τις ἀεὶ θεωροίη, “ora invece anzitempo [***], c’erano intorno (punti) da cui uno sempre avrebbe potuto ammirarti”67. Perotti traduce questa parte con nunc uero omni pulchritudine carens, mesta atque deformis, mirum quemdam decorem prae se ferebat, “ora, d’altra parte, priva di ogni bellezza, triste e deforme, porgeva dinanzi a sé un incredibile decoro”68. Anche qui l’umanista, alle prese con un passo di difficile interpretazione, potrebbe aver avuto sotto gli occhi il codice Marc. gr. 442, che riporta su ἀωρία la correzione -ν ἐχούση ἃ περιῆν; la traduzione perottina pulchritudine carens, attraverso l’impiego della formula sostantivo + participio, infatti ricalca il sintagma ἀωρίαν ἐχούση. Un’altra variante significativa tra la uulgata della Monodia e la traduzione di Perotti si trova nel punto della lamentazione in cui Aristide esprime il lutto con un’iperbole (§ 7) chiedendosi ποῖαι συναυλίαι καὶ συνῳδίαι χορῶν πάντων τὴν καλλίχορον καὶ πολυύμνητον καὶ τριπόθητον ἀνθρώποις ἀρκέσουσιν ἀνοιμῶξαι πόλιν;, “Quali concerti e accordi di tutti i cori saranno sufficienti agli uomini a piangere la città dalle belle danze, tanto celebrata dagli inni e tre volte desiderata?”. La traduzione perottina recita qui Qui hominum concursus, quae tanta confluentium undecunque mortalium frequentia urbem, tum situ et natura loci, tum rerum omnium, quas appetere humanus animus solet abundantia, praeclaram atque florentem satis deplorare pro merito poterit?, “Quale affluenza di uomini, quale folla tanto grande di mortali provenienti da ogni luogo potrà piangere a sufficienza a buon diritto la città illustre e prospera sia per la posizione e la natura del luogo sia di tutte le cose che l’animo umano è solito desiderare
65 Per una descrizione del codice vd. Mioni 1960-1987, Thesaurus antiquus, vol. 2, pp. 213-214. 66 Cfr. Keil 1898, p. 9-10. 67 Si riporta la sezione dell’apparato di Keil relativa a questo passo controverso: ἀωρίαν ἀπεριην αφωτου τισ αἰεὶ θεωροίη A1 ἀωρίαν ἃ περιῆν ἀφότου τισ ἀεὶ θεωροίη TA2 (praeter ἀεὶ quod Ar), ἀωρίαν ἐχούση (suprascr. R2) ἃ περιῆν (ex ἀπεριῆν corr. R2) ἀφ’ ὅτου τις ἀεὶ (ἂν suprascr. R2) θεωροίη R; νυνὶ δὲ ἀωρίαν ἐχούση ἃ περιῆν ἀφότου τισ ἂν ἀεὶ θεωροίη D (at ἐχούση ἃ περιῆν in ras. multo breuiore D2) U (in quo ἃ super ras. add. m. 2, cf. AR); νυνὶ δὲ ἀωρίαν secl. Schwarz l. c. 82. 68 Cfr. infra, pp. 83-84.
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in grande quantità?”. Le differenze più vistose riguardano la resa dei tre epiteti riferiti a Smirne καλλίχορον, πολυύμνητον e τριπόθητον; la resa di Perotti tum situ et natura loci, tum rerum omnium, quas appetere humanus animus solet abundantia, praeclaram atque florentem tiene conto di lezioni diverse, e anche questa volta potrebbe trattarsi di quelle del Marc. gr. 442, che riporta in questo punto καλλίχωρον (“dai bei luoghi”), περιύμνητον (“tanto celebrata”) e περιπόθητον (“tanto desiderata”). L’ultimo caso filologicamente probante per l’ipotesi della consultazione del codice è contenuto all’interno di un’altra interrogazione retorica che Aristide si pone a proposito di ciò che è venuto a mancare con il terremoto nella città distrutta (§ 8). L’oratore si domanda ποῦ νέων καὶ πρεσβυτέρων σύνοδοι καὶ θόρυβοι διδόντων ἅπαντα;, “Dove (sono) riunioni e applausi di giovani e anziani che mi offrivano ogni cosa?”. Il latino qui ha Vbi iuuenum ac seniorum caterua et plausus omnia nobis abunde suppeditans?, “Dove la folla di giovani e anziani a offrirci da ogni parte l’applauso?”; l’uso di caterua non corrisponde al greco σύνοδοι, bensì a σύλλογοι, ancora una volta lezione del Marc. gr. 442. Le prove fornite finora non sono sufficienti a dimostrare con certezza che Niccolò si sia servito di questo solo manoscritto; inoltre, nel corso della collazione si è constatato che un altro esemplare bessarioneo, il Marc. gr. 427, ha le stesse varianti presenti nel Marc. gr. 442 fin qui elencate e pertanto non è possibile escluderlo come possibile modello. Si può pensare alla consultazione di più codici per giungere al testo considerato ‘migliore’; questo è particolarmente plausibile se si tiene presente la questione del titolo dell’opera aristidea. Come detto in precedenza, nel Marc. gr. 442 la Monodia è anepigrafa, ma Perotti mostra di conoscerne il titolo, da lui reso con Aristidis monodia in deploratione Smyrnae terrae motu collapsae. Un solo manoscritto, tra quelli esaminati, possiede una lezione che si adatta bene alla resa perottina, ed è il Marc. gr. 419, che intitola l’opuscolo con μονωδία ἐπὶ σμύρνη κειμένη (lezione senza iota sottoscritto del manoscritto), con κειμένη che si adatta bene a collapsae; tutti gli altri marciani consultati hanno infatti μονωδία ἐπὶ σμύρνη. L’ipotesi è inoltre avvalorata dall’uso aristideo nell’incipit (§ 1) dello stesso verbo riferito a Smirne, nel punto in cui l’oratore si chiede πότερον σιωπῶ Σμύρνης κειμένης;, “Devo forse tacere, mentre Smirne se ne sta prostrata a terra?”. Se la nostra supposizione risultasse vera attesterebbe l’impiego di più codici per realizzare la versione latina e contribuirebbe a delineare il metodo di lavoro dell’umanista alla base della traduzione. Tale modus viene esposto da Perotti stesso in più di un’occasione; un caso riguarda un’altra versione dal greco approntata alcuni anni prima. Nel tradurre negli anni’50 del 1400 per Niccolò V l’opera di Simplicio69 l’umanista si lamenta di aver avuto a disposizione un codice piuttosto lacunoso e, scusandosi per il ritardo, afferma di essere stato costretto a lasciare nel testo ampie fenestrae e che era in attesa di colmarle con l’arrivo di un codice migliore che Bessarione aveva richiesto dalla Grecia. Questo è un dato importante, dal momento che testimonia lo sforzo di rifornirsi di più manoscritti, qualora l’esemplare a disposizione sia frammentario e di difficile interpretazione, per arrivare al testo migliore. Un’altra attestazione in questo senso proviene dalla durissima critica alla preparazione della prima stampa della Naturalis Historia di Plinio 69 Vd. supra pp. 60-61.
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il Vecchio da parte di Gian Andrea Bussi, vescovo di Aleria, esposta da Perotti in una lettera a Francesco Guarnerio datata all’inizio del 1473, il cui valore è stato messo in luce anche da studi recenti70. Perotti in quest’epistola ricorda l’importanza di avere a disposizione più testimoni della stessa opera quando ci si trova davanti a un passo di difficile interpretazione per poter giungere al testo migliore e dà molti suggerimenti utili alla ricostruzione del pensiero originale dell’autore di cui ci si accinge a curare la stampa71. Questo potrebbe essere il caso anche della Monodia, tradotta a partire da un codice -presumibilmente il Marc. gr. 442, che contiene numerose monodie - e migliorata e integrata con il sussidio di altri esemplari, come il Marc. gr. 419. C’è infine un’ultima, ma non per questo meno rilevante, affinità tra il codice Marc. gr. 442 e la versione perottina. Quasi al termine del discorso (§ 9), Aristide innalza il pathos del discorso, coinvolgendo tutta la terraferma nel suo lutto; egli sostiene infatti che (sott. νῦν ἔδει) πᾶσαν δὲ τὴν ἤπειρον ἀποκείρασθαι, “(occorrerebbe) adesso che tutto il continente si tagliasse i capelli”. Perotti traduce questa frase con (oportebat) nunc omnem Epirum tonderi, “(occorrerebbe) che adesso tutto l’Epiro si radesse”. Il lemma Epirum, all’interno del contesto, sembrerebbe a una prima lettura inspiegabile e interpretabile forse con l’ignoranza, da parte dell’umanista, del significato di ἤπειρος, che andrebbe più correttamente reso con continens. Una spiegazione possibile è che Perotti fosse deviato nella sua interpretazione dalla notevole serie di nomi geografici presenti nel testo aristideo e pertanto credesse di trovarsi di fronte alla menzione del luogo, che in greco si esprime con lo stesso lemma Ἤπειρος. Tornando alle lezioni peculiari del Marc. gr. 442, è possibile tuttavia tentare una deduzione sulla base del tipo di grafia con cui è vergato il testo; una delle caratteristiche della grafia del copista della Monodia nel manoscritto preso in esame è la non separazione delle vocali del dittongo ει, in modo tale che si ha l’impressione che si tratti di un ι più spesso. Ci sembra dunque plausibile supporre che Perotti qui leggesse ἤπιρον e che a causa di un’assonanza con il latino Epirus/Epiros fosse stato portato a tradurre in maniera errata. Tale errore di lettura, che è stato originato da una peculiarità grafica e che ha condizionato anche la traduzione, rappresenta pertanto la prova della consultazione del codice da parte dell’umanista Perotti.
II.4 Una traduzione letteraria: la versione perottina della Monodia per Smirne Nel delineare il profilo biografico di Niccolò Perotti si è visto come una parte notevole della sua attività letteraria, oltre alla produzione di opere originali che contribuirono alla storia dell’Umanesimo italiano in maniera fondamentale72, consistette 70 Vd. Charlet 1999. 71 Sesto Prete a questo proposito ha osserva che «quelli del Perotti sono avvertimenti che mostrano la preoccupazione dell’umanista di avere a disposizione un testo corretto non tanto per la stampa (questo è il pretesto che ha dato occasione alla compilazione della lettera) ma soprattutto per la traduzione in latino di un’opera greca» (corsivo nostro). Vd. Prete 1980. 72 Vd. Kristeller 1985 (2).
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nella messa a punto di traduzioni dal greco. Una delle versioni latine approntate da Perotti - la seconda di un discorso aristideo, in ordine di tempo - è proprio quella della Monodia per Smirne di Elio Aristide, datata al 147173. La Monodia è un’orazione funebre composta nel 178 d.C74. in seguito al crollo della città orientale a causa di un terremoto. Il testo, come si ricava dalle soscrizioni antiche di accompagnamento ai discorsi75, sarebbe stato steso da Elio Aristide immediatamente dopo il sisma: il retore avrebbe infatti ricevuto la notizia mentre si trovava fuori città e in poche ore avrebbe steso il suo discorso di conforto ai cittadini di Smirne. Come già ricordato, questo discorso fu scelto per la messa a punto del corpus monodico da Niccolò Perotti, tra quelle antiche, insieme a quella di Libanio. Nella summenzionata epistola prefatoria l’umanista mostra la sua ammirazione per Aristide, di cui conosceva le opere grazie alla biblioteca greca del Cardinale Bessarione, collocandolo significativamente accanto a Demostene, Eschine e Isocrate76. Niccolò aveva inoltre senza dubbio una formazione retorica di alto livello, considerate le orazioni originali77 che compose nella sua vita; se dunque per giungere alle sue competenze studiò, come la maggior parte degli umanisti della sua generazione, le opere di Cicerone, la lettura delle opere degli oratori della Grecia classica e post-classica ebbero senz’altro un’influenza sulla sua scrittura. D’altronde è noto che la ricezione di questi autori in età umanistica fu forte e significativa, se si pensa ad esempio al gran numero di traduzioni latine dell’opera di Isocrate prodotte in questo periodo78. Niccolò dunque si avvicinò alla produzione aristidea per i suoi specifici interessi retorici, ma soprattutto per il genere letterario della lamentazione per Smirne, che rispondeva bene al modello che aveva in mente per la sua raccolta monodica79. II.4.1 Il titolo della versione perottina
Il titolo che Niccolò Perotti sceglie per la sua versione latina del discorso aristideo è Aristidis Monodia in deploratione Smyrnae terrae motu collapsae (incipit foeliciter). Si è osservato a proposito del possibile modello impiegato da Perotti che il Marc. gr. 419 è l’unico tra i manoscritti bessarionei contenenti la Monodia aristidea a riportare una lezione che collima con la resa latina, cioè μονωδία ἐπὶ σμύρνη κειμένη80. Oltre alla traduzione di κειμένη con collapsae si osserva già dall’intestazione della versione latina una tendenza all’allargamento dell’espressione, qui spiegabile con la probabile volontà di dare subito al lettore un’informazione sulla città di Smirne, crollata appunto a causa di un terremoto; come in questo caso, si riscontra anche più avanti l’abitudine
73 Data della dedica del corpus di cui fa parte la Monodia per Smirne. Vd. supra, pp. 66-67. 74 La data del 178 d.C., generalmente accolta dagli studiosi, è stata anticipata da Behr al 177. Vd. Behr 1981-1986, vol. 1, p. 358. 75 Or. 21, 2; subscriptio a or. 18; vd. Behr 1981-1986, vol. 1, p. 368, n. 1. 76 Vd. supra, p. 67. 77 Sulla produzione oratoria encomiastica durante il Rinascimento vd. O’ Malley 1979. 78 Vd. Gualdo Rosa 1984. 79 Sull’oratoria funebre nell’Umanesimo vd. McManamon 1989. 80 Vd. supra, p. 75.
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ad aggiungere a complemento della traduzione alcune spiegazioni di nomi propri forse non più comprensibili per gli umanisti del ’400. A proposito di questa esplicitazione, è interessante notare che Elio Aristide, che compose l’orazione a seguito del terribile terremoto che aveva distrutto la sua città d’adozione, in tutto il discorso omette qualsiasi riferimento evidente alla calamità, che non viene non nominata neppure per perifrasi; si può parlare pertanto di praeteritio per l’intero evento sismico81. Aristide parla infatti nel suo discorso genericamente di rovina/disgrazia con i termini πτῶμα (§ 1) e di κακόν (§ 7). Perotti esplicita così, già nell’intestazione, quello che nel testo di partenza era stato volutamente nascosto. Il sintagma in deploratione, che compare nel titolo, è attestato una sola volta in Seneca nella Consolatio ad Marciam82; il tono dell’opera consolatoria è in effetti decisamente affine a quello della Monodia. II.4.2 L’esordio della versione perottina
La tendenza di Perotti all’estensione, già ravvisata per il titolo, si riscontra in particolar modo nell’attacco del discorso, che è la sezione in cui in generale gli umanisti abbelliscono il dettato e fanno un uso maggiore di citazioni letterarie83. L’incipit aristideo (§ 1) Ὦ Ζεῦ, τί χρήσωμαι; πότερον σιωπῶ Σμύρνης κειμένης; “O Zeus, che cosa devo fare? Tacere, mentre Smirne se ne sta prostrata a terra?”, viene tradotto con Proh Iupiter quid agam? Quo me uertam? Quem implorem? Sileamne dirruptam, ac iacentem Smyrnam? Si nota subito l’impiego dell’amplificazione mediante l’aggiunta delle due interrogative retoriche Quo me uertam? Quem implorem? assenti nel testo greco. Perotti qui poteva contare su un’ampia tipologia di intertesti, da quelli poetici (Enn. Andr. v. 83: Quo accedam? Quo applicem?), a uno di natura teatrale (Ter. Hec. v. 516: Perii, quid agam? Quo me vortam?), fino a quelli retorico-giudiziarî (Cic. Verr. 2, 5, 2, 1-2: Quid agam, iudices? Quo accusationis meae rationem conferam? Quo me vertam?; Scaur. 19,5: Quo me vertam, iudices, aut quid agam?). L’originale aristideo è stato pertanto amplificato da Perotti con un intento letterario, attraverso il richiamo a illustri precedenti, allo scopo di conferire maggiore enfasi a una parte così importante come l’inizio del discorso. Anche dirruptam, che crea un’endiadi con iacentem, è un’aggiunta perottina. La domanda con cui Aristide si chiede come affrontare il lutto, τίνος μεταλαβὼν ἀδάμαντος φύσιν; “Assumendo così la natura di quale diamante?”, è tradotta da Perotti con At quam adeo duram adamantis naturam assumam, ut id facere possim?: la struttura
81 Vd. Franco 2005, pp. 477. Aristide a un certo punto enumera le disgrazie che possono abbattersi in generale su una città e tra queste nomina il terremoto, senza però soffermarsi su quello che ha colpito Smirne nello specifico: παιδιὰ… πόλεων δύσεις, καὶ πάνθ’ ὅσα πῦρ καὶ πόλεμοι καὶ σεισμοὶ μέχρι τοῦδε ἀπειργάσαντο (§ 7) (“un gioco… le cadute delle città e tutte le sciagure quante fuoco, guerre e terremoti ne hanno fino a questo momento realizzato”). 82 Sen. Cons. Marc. 9, 1, 1: «Vnde ergo tanta nobis pertinacia in deploratione nostri, si id non fit naturae iussu?», “«Da dove ci viene, allora, tanta ostinazione nel disperarci, se ciò non avviene per volere della natura?»” (traduzione di Paola Ramondetti). 83 Si vedano anche gli incipit delle traduzioni di Cencio de’ Rustici (vd. supra, p. 28) e Carlo Valgulio (vd. infra, pp. 142-144).
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participiale è esplicitata, come altrove, mediante l’uso del congiuntivo e l’espressione è ampliata da ut id facere possim. Le frasi interrogative Qua me patientia instruam? Quem adeo ferum, ac trucem animum induam? An uero eam deplorem, et in tam graui, atque acerbo casu deos hominesque contester? At quibus uerbis, quo fletu, quo gemito utar? sono tutte aggiunte di Perotti, a eccezione di An uero eam deplorem che traduce ἀλλ’ ὀδύρωμαι; “Devo, invece, affliggermi?”. La sezione iniziale della monodia è senza dubbio quella in cui Perotti inserisce la maggior parte di elementi estranei al testo greco, che di per sé è caratterizzato da una struttura fortemente ellittica e da frasi spezzate; l’accumulo di domande produce enfasi e l’insistenza sullo stesso concetto (Quem adeo ferum, ac trucem animum induam? è sostanzialmente una ripetizione di quam adeo duram adamantis naturam assumam) dà luogo a un effetto pleonastico. Il “chiamare dei e uomini a testimoniare” (deos hominesque contester) rappresenta una formula del linguaggio giuridico che si ritrova nella seconda Verrina (Verr. 2, 4, 67, 4), ma anche in altri luoghi ciceroniani e in numerosi altri scrittori (ad esempio in Livio 3, 72, 1 e lo Pseudo-Quintiliano decl. 18, 4, 26-27). Le amplificazioni perottine hanno spesso una coloritura retorica e danno spazio all’abilità letteraria dell’umanista, come nel caso del tricolon con climax quibus uerbis, quo fletu, quo gemito utar?, che risalta anche per l’allitterazione di qu con il suo suono cupo, allo scopo di intensificare il pathos e rendere al meglio l’idea della realtà lugubre e luttuosa. Nel testo perottino, tuttavia, non si rilevano soltanto allargamenti, ma anche significative omissioni. È il caso di Quantum mihi audaciae arrogem?, che traduce solo la seconda parte della domanda ποίαν ἁρμονίαν ἁρμοσάμενος, ἢ τίνα τόλμαν τοσαύτην λαβών; “Avendo accordato quale intonazione o quale audacia tanto grande assumendo?”. ποίαν ἁρμονίαν ἁρμοσάμενος manca del tutto nel latino e si perde al contempo sia la figura etimologica ἁρμονίαν ἁρμοσάμενος sia il primo riferimento al campo semantico della melodia e della musica, a cui appartengono molte espressioni aristidee che Perotti evita di rendere in latino o cambia deliberatamente. La frase con cui Aristide sottolinea l’inadeguatezza di un lamento di enormi proporzioni a piangere la disgrazia appena avvenuta, ὅσαι γὰρ Ἑλλήνων καὶ βαρβάρων φωναὶ, τῶν τε ὑπὲρ γῆς ἔτι καὶ τῶν ἐκ τοῦ παντὸς αἰῶνος γενομένων, εἰς ταυτὸν ἅπασαι λόγῳ συνελθοῦσαι ἐλάττους τοῦδε τοῦ πτώματος ἐγχειρῆσαι μόνον, μὴ ὅτι τὴν ἀξίαν σῶσαι, “Se infatti tutte quante le voci di Greci e barbari - di quelli che sono ancora su questa terra e quelli che ci sono stati nel passato - se tutte - dico - si riunissero nello stesso luogo, sarebbero poche semplicemente per metter mano a questa sciagura, senza voler considerare il preservarne le proporzioni”, viene resa da Niccolò con Nam si omnes graecorum ac barbarorum omnium uoces qui sunt, qui post conditum hominum genus aut fuerunt, aut futuri sunt in unum conueniant, ne repraesentare quidem tantae calamitatis initium poterunt, ne dicam magnitudinem aequare. La traduzione complessiva è abbastanza fedele al greco; si rileva a ogni modo una resa particolare di τῶν τε ὑπὲρ γῆς ἔτι καὶ τῶν ἐκ τοῦ παντὸς αἰῶνος γενομένων che l’umanista modifica in parte traducendo qui sunt, qui post conditum hominum genus aut fuerunt, aut futuri sunt: in Aristide non c’è infatti l’idea del futuro. La selezione dei tempi verbali è molto importante nei discorsi funebri; ovviamente il passato e il presente sono i tempi più utilizzati, in quanto il primo consente di riflettere malinconicamente su quanto di buono è scomparso e il secondo rende possibile la constatazione dell’attualità luttuosa. Anche il futuro è importante e può essere presente nell’orazione funebre, in virtù della creazione della
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futuri temporis imago84, l’immagine mentale del futuro che risulta tanto più incerto quanto più la situazione presente è drammatica. In questo punto Niccolò dunque, con l’inserzione di (aut) futuri sunt che rende l’idea del futuro, intensifica il pathos rispetto all’originale di Aristide anche attraverso la scelta dei tempi. Un altro esempio evidente di amplificazione è presente nella resa di ὦ μήκιστα μηκίστων ἰδὼν καὶ ἀκούσας ἐγώ, “Povero me, che ho visto e ascoltato troppo, troppo a lungo”, con Ó rem maximarum atque indignissimarum omnium rerum quas ego uel uidi umquam, uel audiui, maximam atque indignissimam. Huccine te redactam uidemus? Siccine collapsam aspicimus? Hancine praeclarissimae urbis iacturam sustinemus? Oltre all’inserimento ex novo del tricolon Huccine… Siccine… Hancine, e l’insistenza sull’idea di prostrazione della città distrutta mediante l’uso dei termini redactam, collapsam e urbis iacturam, Perotti sente anche il bisogno di amplificare μήκιστα μηκίστων aggiungendo a maximarum… maximam, dove si nota la conservazione del poliptoto greco, anche indignissimarum… indignissimam. Subito dopo il semplice ὦ πάντα φέρων χρόνος, “O tempo che reggi ogni cosa”, viene ampliato con la frase Ó cernens omnia, et omnia afferens, edax rerum omnium tempus, dove si osserva che il semplice participio φέρων viene rafforzato in latino dal termine cernens, in continuità con i precedenti verbi relativi alla vista uidi… uidemus… aspicimus. Il tempus qualificato come edax rerum omnium è un’eco ovidiana (met. 15, 234), a testimonianza della profonda erudizione dell’umanista, che amplifica il testo di partenza traendo ispirazione tanto dalla prosa quanto dalla poesia latina. L’apostrofe al tempo continua con οἵαν ἰδέαν πόλεως ἐξευρὼν καὶ τεχνησάμενος, “che specie di città hai inventato e costruito”, tradotto in latino in maniera puntuale con Qualem ciuitatis speciem cogitasti, qualem fabricasti; subito dopo però Perotti modifica il testo originale: laddove Aristide scrive εἶτα ἀναλώσας ἔχεις, “e poi hai cancellato”, l’umanista traduce con una finale ut… foret al cui interno inserisce una serie di qualifiche luttuose di Smirne, definita nunc diruta, prostrata, consumpta, miseriae atque infoelicitatis spectaculum. L’uso dei primi due attributi in unione a nunc è probabilmente un’allusione a un luogo delle Familiari (4, 5 , 4, 3-11) dove Servio Sulpicio Rufo, nell’esprimere le sue condoglianze a Cicerone per la figlia Tullia, ricorda di aver provato un grande sgomento di fronte alle rovine di Egina, di Megara e del Pireo. Ci sembra opportuno riportare la citazione, in particolare per il riferimento ai tot oppidum cadauera, particolarmente significativo per l’analogia alla fine luttuosa toccata a Smirne, ma anche, più in generale, per l’utilizzo del τόπος ἀπὸ τοῦ σώματος: Ex Asia rediens cum ab Aegina Megaram uersus nauigarem, coepi regiones circumcirca prospicere. Post me erat Aegina, ante me Megara, dextra Piraeus, sinistra Corinthus, quae oppida quodam tempore florentissima fuerunt, nunc prostrata et diruta ante oculos iacent. Egomet mecum sic cogitare: ‘hem’! nos homunculi indignamur si quis nostrum interiit aut occisus est, quorum uita brevior esse debet, cum uno loco tot oppidum cadauera proiecta iacent85? 84 Vd. Pernot 1993, p. 293. 85 “Tornando dall’Asia, mentre navigavo da Egina alla volta di Mègara, incominciai a guardare di lontano le regioni circostanti. Dietro di me vi era Egina, davanti a me Mègara, a destra il Pireo, a sinistra Corinto: città che un tempo furono floridissime e ora giacciono atterrate e distrutte dinanzi ai nostri
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II.4.3 La grandezza perduta di Smirne in Aristide e in Perotti
Si è visto dunque come nell’incipit della versione Perotti, in maniera fedele all’attacco dell’orazione aristidea, adotti una serie di misure formali atte a coinvolgere subito il lettore e a suscitare in lui commozione. L’aspetto letterario della translatio perottina non si esaurisce però nelle prime righe: si segnalano nella sezione centrale del discorso, relativa alla dolorosa constatazione di ciò che non esiste più a Smirne, diverse rese notevoli, sia per la capacità di Perotti di risolvere alcuni punti critici del testo greco sia per la capacità di dare una veste retorica alla propria versione attraverso alcune precise scelte lessicali. Dopo l’esordio, nella Monodia aristidea la lamentazione prosegue sul tema del confronto tra ciò che c’era un tempo e lo squallore del momento presente, con un elenco di luoghi e oggetti che la città ha perduto a causa del sisma; in questa lunga serie si osservano alcune traduzioni particolari che riflettono l’intenzione di Perotti di marcare in senso ‘romano’ il proprio dettato. Dove Aristide in greco parla di καὶ ἀγῶνες καὶ τρόπαια καὶ νῖκαι παρὰ τοῖς ἄρχουσι καὶ διὰ πάντων ἐθνῶν, καὶ λογίων περιηγήσεις ἀναγραφόντων καλλίστην τῶν ἁπασῶν (§ 2), “gare, trofei, vittorie dinnanzi a capi di tutti i popoli, descrizioni di dotti che la definirono la più bella di tutte”, Perotti compie alcune modifiche con et tot bella, uictoriae, triumphi, et doctissimorum uirorum descriptiones qui pulchritudinem eius caeteris omnibus praeferebant. Interessante qui è la resa di ἀγῶνες e di τρόπαια; l’umanista dà ai due termini greci, che rimandano a una contesa ludico-agonistica, un’accezione bellica, impiegando per il primo bella, in luogo di un più aderente certamina, e triumphi per il secondo lemma, laddove si sarebbe potuto servire agevolmente del calco tropaea. Un’ulteriore scelta versoria che contribuisce a caratterizzare l’opera perottina è presente nel punto in cui, una volta terminata l’enumerazione dei luoghi distrutti, Aristide esprime il suo dolore con delle domande in cui si chiede dove potrà ritrovare i beni di Smirne andati perduti (§ 7). Qui, come nel proemio, Perotti denuncia le sue influenze letterarie maggiori attraverso l’impiego di precise allusioni, che contribuiscono a dare una veste retorica alla sua traduzione. L’interrogativa ποῖαι συναυλίαι καὶ συνῳδίαι χορῶν πάντων τὴν καλλίχορον καὶ πολυύμνητον καὶ τριπόθητον ἀνθρώποις ἀρκέσουσιν ἀνοιμῶξαι πόλιν;, “Quali concerti e accordi di tutti i cori saranno sufficienti agli uomini a piangere la città dalle belle danze, tanto celebrata dagli inni e molto desiderata?”, viene tradotta da Perotti in maniera notevole con Qui hominum concursus, quae tanta confluentium undecunque mortalium frequentia urbem, tum situ et natura loci, tum rerum omnium, quas appetere humanus animus solet abundantia, praeclaram atque florentem satis deplorare pro merito poterit? I due sintagmi συναυλίαι καὶ συνῳδίαι χορῶν πάντων in latino sono resi con le espressioni hominum concursus e tanta confluentium undecunque mortalium frequentia, la cui fonte è ancora una volta
occhi. Allora incominciai a riflettere tra me in questo modo: ma come! Noi omiciattoli non sappiamo darci pace se è morto o è stato ucciso uno di noi, la cui vita è necessariamente più breve, mentre giacciono distesi in un solo luogo i cadaveri di tante città?” (traduzione di Giovanna Garbarino). Per l’uso del τόπος ἀπὸ τοῦ σώματος vd. Pernot 1993, pp. 191-195.
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ciceroniana86, e il tricolon di attributi relativi a Smirne καλλίχορον87 καὶ πολυύμνητον καὶ τριπόθητον viene reso semplicemente con praeclaram atque illustrem, con l’esposizione dei motivi della fama (tum situ… etc.) che in greco è assente. Anche qui, come nel caso dell’omissione di σοι (§ 5), la spiegazione della traduzione sembra risiedere nelle lezioni del modello; è probabile infatti che Perotti leggesse καλλίχωρον (“dai bei luoghi”), e non καλλίχορον (“dalle belle danze”), περιύμνητον (“rinomata”) e non πολυύμνητον (“molto celebrata con canti”) e infine περιπόθητον (“tanto desiderata”), termine generico rispetto a τριπόθητον (“tre volte desiderata”), come evidenziato sopra88. La resa del tricolon, dettata con ogni probabilità dal manoscritto a disposizione di Perotti, e la scelta di tradurre ποῖαι συναυλίαι καὶ συνῳδίαι χορῶν πάντων con due espressioni ciceroniane, segnano ancora una volta il distacco dal lessico lirico-poetico impiegato da Aristide, come si è rilevato nell’incipit a proposito di ποίαν ἁρμονίαν ἁρμοσάμενος (§ 1). Un’altra caratteristica dello stile di Perotti consiste nella volontà di far emergere quanto più chiaramente possibile ciò che nel dettato aristideo può restare oscuro a causa dell’estrema concisione e stringatezza delle espressioni, come nel caso delle frasi ellittiche. Anche in questo Perotti mostra di adottare una scrittura piana di tipo ciceroniano, anziché ricorrere a stilemi latini analoghi, quali si rinvengono ad esempio nella prosa senecana. Ciò emerge in particolar modo nella sezione che raccoglie tutte le impressioni positive che la bellezza di Smirne offriva, dove la resa di Perotti si segnala per il tentativo di precisare il greco attraverso una serie di aggiunte. In καὶ μὴν τά γε ὁρώμενα κρείττω διηγήσεως (§ 3), “E in verità ciò che si ammirava era superiore al racconto”, tradotto con Quin etiam aspectus ipse longe mirabilior erat, quam exprimi uerbis possit, l’umanista esplicita in forma più distesa con una principale e una subordinata comparativa il confronto tra vista e descrizione espressa nella concisa frase greca, che si segnala per l’ellissi del verbo, con il semplice comparativo e il secondo termine di paragone; notevole è anche la scelta per l’apertura del periodo di quin etiam che corrisponde al greco καὶ μὴν, nesso utilizzato moltissimo da Aristide anche in altri discorsi89. Lo stesso fenomeno si rileva in apertura della descrizione geografica della città. L’espressione προσιόντι μὲν εὐθὺς, “A chi si avvicina, subito…”, viene resa con Occurrebat mox oculis, dove si nota di nuovo l’aggiunta del verbo che Aristide, in ragione della brevitas asiana di cui il discorso è impregnato, tralascia; inoltre oculis sostituisce il participio προσιόντι. Un altro cambiamento analogo si rileva per la frase ταῦτα μὲν τὰ πρὶν ἐντυχεῖν90, “e questo prima di entrare”, che diventa in latino Postquam uero
86 Per concursus hominum si veda Cic. Verr. 2, 2, 187, 16; Brut. 317, 12; leg. 2, 65, 7. Per frequentia hominum in associazione con concursus vd. Cic. Verr. 2, 5, 16, 5; Arch. 3; Sest. 72, 10-11. 87 Per l’importanza del χορός nei discorsi di Aristide vd. Bowie 2006, pp. 73-77. 88 Vd. supra, p. 75. 89 Come accade nel discorso Ai Rodiesi, sulla concordia (or. 24), dove il nesso ricorre dieci volte. Vd. Keil 1898, pp. 54-71. 90 Franco, a proposito dell’estrema concisione di quest’espressione, parla della presenza di un’aposiopesi, che interrompe il flusso normale del discorso ed è sintatticamente marcata dall’estrema economicità dei mezzi espressivi. Vd. Franco 2005, p. 476.
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intra moenia uentum erat: si passa così dal “prima” aristideo al “dopo” l’ingresso nelle mura della versione perottina. Si tratta di un intervento autonomo di Perotti sul testo di Aristide che denota una tendenza alla modifica, seppur minima, del testo di partenza; anche questa variazione può essere interpretata col tentativo di rendere in maniera più estesa ciò che in greco è espresso con una frase stringata e che per di più è indipendente rispetto alle proposizioni precedente e successiva (συνουσίαι δὲ ὅσαι καὶ ὁμιλίαι τίνα μὲν κόρον ἔσχον ἀνθρώποις; “Quanti incontri e relazioni produssero tra gli uomini sazietà?”). Perotti invece collega la sua frase (Postquam…) con quanto segue, in modo da ottenere l’enunciato più ampio e disteso Postquam uero intra moenia uentum erat, (§ 6) incredibile dictu est quam grati omnibus forent mores, consuetudo, sermones… La stessa modalità di raccordo si rileva a proposito della traduzione della sentenza aristidea ἔμελλες ἄρα τοῖς Ἕλλησιν ᾄδεσθαι δευτέρων σχετλιωτέρων, “Eri in procinto di essere celebrata dai Greci «tra le seconde disgrazie più sciagurate»” (§ 7). Si tratta di un’inversione ironica del proverbio utilizzato da Aristide in altri luoghi della sua opera (orr. 20, 23 e 26, 101), dove invece la formula recita “i secondi tentativi sono migliori”. Perotti qui non rende letteralmente l’espressione, ma la collega alla frase del periodo precedente νῦν δ᾿ ἀποκρύψασα τὸ τῆς Ῥόδου πτῶμα, “ora hai oscurato la disgrazia di Rodi”, trasformandola in una finale ed esplicitandola in modo da renderla più comprensibile ai lettori: (Nunc nouo isto infoelicitatis genere Rhodi etiam calamitatem superasti) ut cuius dignitas, excellentia, maiestas, decantata olim à Graecis fuerat, eius nunc miserabile excidium uersa in luctum cythara caneret? In latino si segnala inoltre l’aggiunta della cetra, elemento supplementare che “canta” la distruzione della città, un tempo nota per ben altri motivi (cioè per dignitas, excellentia, maiestas); si tratta dell’unico caso in cui Perotti aggiunge un elemento musicale, dal momento che nella versione la tendenza maggiore è quella dell’eliminazione dei riferimenti alla sfera lirica. Perotti mostra anche di saper interpretare alcuni punti piuttosto oscuri del greco, punti che hanno portato i filologi successivi a postulare delle corruzioni e dei turbamenti nel testo aristideo. Questo aspetto ‘esegetico’ è particolarmente evidente nella sezione della Monodia dove l’antitesi tra lo splendido passato di Smirne e il lutto presente raggiunge il suo culmine; ciò avviene con la contrapposizione esplicita tra un ‘prima’ e un ‘dopo’, attraverso l’impiego del τόπος ἐκ τοῦ ἐναντίου91. Il contrasto espresso in οὕτω σοι τῇ πρότερον μὲν ὡραιοτάτῃ πόλεων, νυνὶ δ’ ἀωρίαν α … (§ 5)92, “così a te, un tempo la più splendida delle città, ora invece anzitempo…”, viene reso con sic ista omnium olim uenustissima ciuitas nunc uero omni pulchritudine carens, mesta atque deformis, dove si rileva la sostituzione di σοι, che nell’orazione aristidea dà luogo a un’apostrofe diretta alla città, con ista, per la probabile lettura di antigrafi greci privi del pronome93. La parte più interessante, che denota una riflessione da parte di Perotti sul testo, riguarda la seconda parte della comparazione, ossia il momento attuale, espresso in
91 Vd. Pernot 1993, pp. 292-293. 92 Il passo è corrotto e dopo νυνὶ δ’ ἀωρίαν si colloca una lacuna. Vd. supra, p. 74 n. 67. 93 Vd. supra, p. 74.
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greco con νυνὶ δ’ ἀωρίαν: Niccolò modifica infatti la lezione di partenza con nunc uero omni pulchritudine carens, mesta atque deformis. L’umanista, forse influenzato dall’ὡραιοτάτῃ precedente, traduce il termine come il contrario di ὡραῖος (scil. “bello”), mentre Aristide sta parlando in questo luogo dell’evento luttuoso che ha prematuramente colpito Smirne; ἀωρία è nella maggior parte dei casi l’intempestiuum tempus, mentre nel senso di deformitas è attestato soltanto nel bizantino Teodoro Metochite94. La prova di ciò sta anche nell’utilizzo di questo termine nella medesima accezione in altre opere aristidee (in particolare l’Epicedio per Eteoneo, or. 31, 12)95 e nel richiamo al topos dell’ἄωρος θάνατος, tipico del genere monodico. Perotti mostra però di cogliere bene l’opposizione tra il passato e il presente luttuoso, traducendo con l’avversativa nunc uero, quindi è probabile che qui si renda conto dell’esistenza di una lacuna e cerchi di sanare il testo nella maniera più accettabile, senza rinunciare all’inserimento di una delle sue consuete amplificazioni: la città è non solo pulchritudine carens, ma anche mesta atque deformis. È interessante osservare che questo fraintendimento conosce una lunga sopravvivenza, da Canter, che ha nunc autem deformis, a Reiske (1761), nunc merae deformitati, mentre Behr, editore della moderna traduzione inglese degli Opera Omnia di Aristide, traduce con untimely96. Un altro caso di interpretazione di un passo problematico è relativo alla frase immediatamente successiva a quella appena citata sull’ἀωρία, in cui Aristide, rivolgendosi direttamente a Smirne dice περιῆν ἀφ’ ὅτου τις ἀεὶ θεωροίη, “c’erano intorno (punti) da cui uno sempre avrebbe potuto ammirarti”; questo enunciato viene omesso in latino e quello seguente, νῦν δὴ τὸ κάλλιστον εἶδος παρέσται δοκεῖν, “Ora è possibile che appaia l’immagine più bella”, viene modificato con mirum quemdam decorem prae se ferebat. Dall’apparato di Keil si deduce che si tratta di un passaggio piuttosto turbato e proposte di emendazione furono avanzate da lui e da Wilamowitz; coerentemente con i tempi verbali utilizzati nel resto del testo, il futuro παρέσται non sembra infatti ammissibile in questa sezione del discorso e Perotti mostra con la sua resa di averlo compreso. Anche la possibile lettura di πάρεστι nei manoscritti 427 e 442 - gli unici Marciani che non riportano παρέσται - non giustifica la traduzione di Perotti, che opta volutamente per l’imperfetto; la scelta di prae se ferebat si avvicina inoltre alla stessa congettura fatta molto tempo dopo da Wilamowitz, che propone qui la lezione παρέσθαι97. Non mancano i consueti meccanismi di amplificazione perottina. L’umanista sembra prediligere questo espediente retorico soprattutto in corrispondenza delle
94 Come si legge nel ThGL s.u. ἀωρία. 95 Vd. Berardi 2006, pp. 27, 53, 126-127, 157-158. 96 Canter 1566, I, p. 261; Reiske in Dindorf 1829, p. 426; Behr 1981-1986, vol. 1, p. 7. 97 Da Keil 1898, p. 10: lacunas indicavi; verba παρέσται - γιγνομένῳ adeo corrupta, lacunosa, turbata glossematis, ut certi nihil adsequi liceat; e. g. propos. οὑτωσὶ τῇ - πόλει, νυνί δ᾽ ἀωρίᾳ (‘ruinae et intempestive mortuae urbi’), περιῆν – θεωροίη [νῦν δὴ] τὸ εἶδος παρέσθαι δοκεῖν - ἐκφανεῖ γιγνομένη τοῦτο δὲ κτἑ. Wil., οὕτω σοι τῇ - πόλει, νυνί δ᾽ ἀωρίαν (praepostere) ἀ περιῆν, ἀφ᾽ὅτου – θεωροίη, νυνδὴ τὸ - εἶδος παρεῖχες ἰδεῖν, τοῦτο μὲν ἐκφανὴς [ἐγ]γιγνομένη κτἑ. Kaibel.
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varie enumerazioni fatte da Aristide a proposito di luoghi e oggetti smirnaici celebri, monumenti distrutti, celebri disastri della storia. Un esempio si trova nell’accumulo di motivi di elogio della città; al polisindeto ἀστραπὴ κάλλους καὶ μεγεθῶν ἀριθμοὶ, καὶ μέτρα καὶ στάσεις ὥσπερ ἁρμονίας μιᾶς, “la luce della bellezza e le dimensioni, le proporzioni e la stabilità delle forme, come di un’ armonia” (§ 3), corrisponde il latino formae splendor, magnitudo, mensura, situs quasi eiusdem concentus moduli quidam inauditi, dove la similitudine viene amplificata, secondo il gusto perottino, con il sintagma supplementare moduli quidam inauditi. Nella rassegna dei luoghi scomparsi di Smirne, si evidenziano lo sdoppiamento in latino del segmento ὦ κόσμοι παραλίας, “O ornamenti della spiaggia” (§ 6) che diventa Ó naualia, ó rerum maritimarum monumenta praeclara, e la trasformazione dell’esclamativa ὦ πάντα ἐκεῖνα ὀνείρατα, “o tutti quei sogni” nell’interrogativa Quam omnia repente quasi somnia euanuistis?, che al contempo denota una volontà di uariatio e segna un aumento del pathos rispetto alla frase originaria, senza però alterare il senso dell’espressione. Anche per la lista aristidea di oggetti celesti e terrestri che hanno assistito alla rovina di Smirne, si rilevano in latino alcune aggiunte. È il caso di Quam taetrum, acerbum, luctuosum et diis hominibusque inuisum, esclamazione assente in greco e apposta in latino a spectaculum (gr. θέαμα, § 7). Subito dopo segue un’ennesima rassegna, questa volta delle disgrazie greche precedenti enumerate da Aristide per mostrare la superiore gravità del crollo di Smirne (la rovina di Troia, la conclusione catastrofica della spedizione ateniese in Sicilia del 415-413 a.C. e la distruzione di Tebe del 335). Perotti al termine di questa lunga serie inserisce una serie di interrogative retoriche, sulla falsariga di quelle dell’incipit, che sono assenti nel testo greco: Quae enim nunc reliquiae extant? Quid sperare amplius possumus? Quod nobis aut deorum aut hominum praesidium putamus affuturum? Anche questa volta l’aggiunta delle domande ha l’effetto di accrescere la drammaticità del momento, insistendo sull’idea d’assenza di prospettive future per Smirne e i suoi abitanti. Nel testo di Perotti, in maniera molto meno frequente rispetto alle amplificazioni, si rilevano alcune omissioni. Oltre alla reiterata soppressione delle espressioni e dei termini lirico-poetici già rilevata, si rileva la mancata resa di alcuni termini greci. Ad esempio, quando Aristide ricorda delle gare e delle vittorie che Smirne ha conosciuto nel suo passato glorioso, Perotti omette del tutto che queste sono state celebrate παρὰ τοῖς ἄρχουσι καὶ διὰ πάντων ἐθνῶν, forse perché non sa bene a quale carica specifica e qualificabile con un corrispettivo latino τοῖς ἄρχουσι rimandi. Non rientra nell’ambito delle omissioni, ma comunque è esemplificativo della perdita di una nozione importante del testo aristideo, il caso di una modifica. Nella descrizione delle tre parti della città (inferiore-mediana-superiore) Aristide parla di πόδες μὲν ἐπ᾿ἠιόνων καὶ λιμένων καὶ ἀλσῶν ἐρειδόμενοι, “i piedi che poggiano sulle rive, sui porti, sui boschi” (§ 3); Perotti traduce qui con ima ad littus, et portus, et nemora adnitebantur, facendo così venire mano il τόπος ἀπὸ τοῦ σώματος impiegato da Aristide, optando per ima in luogo di un corrispettivo del greco come pedes.
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II.4.4 L’explicit della Monodia per Smirne
Nella chiusa della Monodia Perotti mette in atto alcuni meccanismi versori già rilevati per le parti precedenti. Egli, come già osservato in più punti, opta per alcuni termini che denunciano il suo orizzonte culturale, fondato sullo studio dei classici e sulla sua esperienza umanistica. Quindi si serve dei consueti ampliamenti, sempre al fine di intensificare il pathos insito nelle parole di Aristide, e non manca di apporre dei sintagmi esplicativi ai nomi propri, con l’obiettivo di chiarire il testo. Si osservano infine nella sua resa ancora alcune omissioni che privano la versione latina di alcuni motivi fondamentali del genere monodico. Al termine del discorso Aristide dà avvio a una sezione autoreferenziale della Monodia (§ 8)98, in cui esprime cordoglio in relazione alla propria attività oratoria che non sarà più assicurata a Smirne. L’oratore si domanda quindi ποῦ γῆς νυνὶ μονῳδῶ; “in che parte della terra ora eseguirò la monodia?”; Perotti traduce l’interrogativa con Vbi nunc terrarum ista deplorem? dove si notano sia la scelta di tradurre μονῳδῶ con deplorem, forma verbale che richiama il titolo latino riportato dai manoscritti, sia un’ulteriore omissione di un riferimento alla sfera del canto, di modo che al lettore viene trasmessa la sola idea della lamentazione. In seguito si rilevano nella versione latina le aggiunte Vbi quaerar? Vbi lugeam?, che ripetono e amplificano l’interrogativa precedente. Dal momento che in questa sede del discorso Aristide concentra l’attenzione su di sé e sulla propria esecuzione oratoria, è normale trovare termini relativi al momento della declamazione; di notevole interesse risultano le modifiche perottine di alcune espressioni greche e i possibili motivi alla base delle specifiche scelte versorie. Emblematico è il caso seguente: laddove l’oratore greco si chiede sconsolato ποῦ μοι τὸ βουλευτήριον; “dov’è la mia assemblea?”, Perotti traduce Vbi iam mihi schola, ubi gymnasium erit? La resa perottina, con la consueta duplicazione, costituisce una resa degna di nota. Gli oratori della Grecia del II sec. d.C. eleggevano come sedi delle proprie declamazioni akroateria, odeia e teatri, e anche luoghi anticamente deputati al dibattimento politico, ormai degradati al rango di spazi destinati ad accogliere performances sofistiche. Uno di questi era proprio il bouleuterion99, l’antico Consiglio; Perotti, traducendo il termine con schola… gymnasium e non con il più immediato curia, come suggeriva del resto Cicerone nella seconda Verrina (Cic. Verr. 2, 2, 50, 14-15: deinde in curia Syracusis, quem locum illi βουλευτήριον nomine appellant), mostra di aver inteso il senso che Aristide dava al termine e, in generale, il significato che esso aveva assunto nella Grecia d’età imperiale. Così l’umanista attua la trasposizione tenendo presente il contesto umanistico contemporaneo, dove la schola era non solo il luogo dove si tenevano le lezioni, ma anche l’ambiente dove gli umanisti avevano la possibilità di sfoggiare l’abilità oratoria raggiunta attraverso l’esecuzione di declamazioni, proprio come la Monodia. Il legame tra oratoria e
98 Vd. Franco 2005, pp. 476-477. 99 Sui bouleuteria vd. Russell 1983, pp. 76-77; Sirago 1989, pp. 16, 18. Sull’archeologia dei luoghi delle declamazioni vd. Gallo 1979, 1994.
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‘scuola’ potrebbe essere ricondotto all’attività letteraria di Perotti relativa al biennio 1451-1452, in cui l’umanista insegnò retorica all’Università di Bologna e al contempo compose discorsi originali100. Nella parte conclusiva, in cui Smirne torna a fare da protagonista, alcune rese peculiari mirano a chiarire alcuni concetti e termini geografici non più immediatamente comprensibili per i contemporanei di Perotti, o semplicemente chiosano determinati lemmi per fornire informazioni supplementari. Ciò accade per ἦν ποτε ἐν τῷ Σιπύλῳ πόλις, ἣν κατὰ τῆς λίμνης δῦναι λόγος, “C’era una volta una città sul Sipilo che, secondo la leggenda, si immergeva in un lago”, che Perotti traduce con Fuisse olim in Sypilo urbem ferunt, quae terrae motu ab iis quae subiacent paludibus absorpta est: torna, come nel titolo latino, la precisazione che il crollo di Smirne è dovuto a un terremoto; dunque anche qui Perotti mostra un intento esegetico, come in altre parti del discorso, espresso mediante un’amplificazione. Anche il passaggio relativo al fiume Melete presenta un simile supplemento: ὦ Μέλης δι’ ἐρήμου ῥέων, “O Melete che fluisci attraverso luoghi deserti” (§ 9), diventa infatti in latino Ó Melas, olim tam celeber fluuius, nunc per deserta defluens loca, con l’apposizione di olim tam celeber fluuius a Melas. Infine, si può rilevare questo tipo di resa ‘esplicativa’ nell’illustrazione dei luoghi che saranno raggiunti dal lutto, che si allarga con la menzione dei siti posti ai confini estremi del mondo conosciuto (§ 10); nella frase ποῖον Βόσπορον, ἢ ποίους Καταρράκτας, ἢ τίνα Ταρτησσὸν τὸ σὸν, ὦ δαιμονία, κλέος οὐκ ἐπῆλθε; “Quale Bosforo, quali Catarratte, o quale Tartesso, la tua fama, o meravigliosa, non ha raggiunto?”, Perotti traduce in maniera peculiare Καταρράκτας con Nili plagas, espressione che si qualifica come una nuova aggiunta al pari di quella apposta a Melas (§ 9) o terrae motu (§ 8). C’è solo un caso, in tutta la Monodia perottina, in cui un nome proprio di luogo viene frainteso. Nel proseguire con l’esposizione iperbolica degli effetti della scomparsa di Smirne (§ 9), Aristide enuncia a un certo punto (νῦν ἔδει) πᾶσαν δὲ τὴν ἤπειρον ἀποκείρασθαι, “(ora sarebbe stato necessario) che tutta la terraferma si recidesse i capelli”, tradotto in maniera scorretta da Perotti con (oportebat) nunc omnem Epirum tonderi. Aristide qui, con l’evidente intento di gareggiare retoricamente con il suo predecessore Lisia, che nel suo epitafio (2, 60, 1) aveva scritto ἄξιον ἦν ἐπὶ τῷδε τῷ τάφῳ τότε κείρασθαι τῇ Ἑλλάδι, “sarebbe stato opportuno che la Grecia allora si tagliasse i capelli su questa tomba”, sta parlando qui del continente (in greco ἤπειρον), ma Perotti scrive in corrispondenza di questo luogo Epirum (l’Epiro, appunto). Il fraintendimento ci è apparso strano, dal momento che in nessun altro luogo del discorso Niccolò equivoca fino a questo punto il greco di Aristide, anzi, per lo più egli mostra di conoscere i nomi propri di luoghi e di volerli precisare apponendovi spesso delle ‘glosse’ esplicative. La spiegazione alla base di questo errore plausibilmente potrebbe risiedere ancora una volta nella lettura del manoscritto a disposizione, come è stato mostrato sopra101. Anche nel finale si rileva, come constatato in precedenza, una tendenza a tralasciare il lessico poetico aristideo. Questo avviene sia per la frase ὦ Σμύρνα, ὡς πόρρωθέν
100 Vd. supra p. 61. 101 Vd. supra p. 76.
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σοι τὸ προοίμιον ᾔδετο, “O Smirne, da quanto lontano il proemio fu cantato per te!”, modificata in latino in Heu quale hoc excidii tui praesagium Smyrna fuit?, dove si perdono i riferimenti alla poesia (τὸ προοίμιον diventa praesagium) e al canto (ᾔδετο), sia per la traduzione di ὦ τῶν προτέρων μελῶν τὰ παρόντα ἀντίφθογγα, “o le musiche presenti che rimandano il suono dei canti precedenti”, con Heu quam á prioribus cantibus diuersi sunt praesentes: in latino i canti non “rimandano” il suono di quelli di un tempo, come in greco, bensì sono semplicemente diuersi. Gli ampliamenti tornano, come nella sezione precedente, all’interno delle enumerazioni. Aristide al termine della lamentazione funebre, evocando i luoghi posti ai confini del mondo, afferma ποίᾳ Μασσαλίᾳ τὸ πένθος τοῦτο ὁρισθήσεται; ἢ τίνι Βορυσθένει;, “In quale Massalia o Boristene si porrà il confine di questo cordoglio?” (§ 10), interrogativa tradotta da Perotti con Quae Massilia, quis Boristhenes, quis tam longiquus, aut tam reconditus locus, quo non sit tanta calamitas peruasura?, dove si rileva l’amplificazione quis tam longiquus, aut tam reconditus locus. Anche la resa di τίς βαρβάρων οὕτως ἀδάμαστος καὶ ἀνάλωτος τοῖς τῆς Σμύρνης βέλεσι καὶ φίλτροις, ὅστις οὐκ ἀκοῇ μὲν ἤρα, ἀκοῇ δὲ ἀνιάσεται;, “Chi fra i Greci fu così al di fuori dall’Ellade, chi fra i barbari fu così incivile e intoccabile dai dardi e dal fascino di Smirne, che non l’ha amata dal racconto, dal racconto non ha provato afflizione?”, presenta alcune modifiche; la prima parte infatti è resa con quis barbarus ita ferox atque indomitus, con l’omissione di τοῖς τῆς Σμύρνης βέλεσι καὶ φίλτροις, la consecutiva invece diventa in latino quem et prius fama pulchritudinis Smyrnae ad eam uidendam non prouocauerit et nunc fama tam insignis calamitatis non moueat ad dolendum?, dove emerge ancora una volta la tendenza all’ampliamento dell’espressione greca: la correlazione espressa in greco da μὲν… δὲ diventa in latino et prius… et nunc e per la fama (gr. ἀκοῇ) Perotti sente il bisogno di specificare che si tratta in primo luogo di quella pulchritudinis Smyrnae e poi di quella tam insignis calamitatis, concetti che in Aristide restano sottintesi. Nella chiusa si individua un’altra omissione importante. Come già osservato, Perotti manca di tradurre alcuni lemmi che probabilmente non gli risultano chiari nel testo aristideo; la loro eliminazione determina in alcuni casi una perdita di senso profondo del greco di Aristide, sia dal punto di vista contenutistico sia da quello retorico102. È questo il caso della resa di ἢ τίνα Ταρτησσὸν τὸ σὸν, ὦ δαιμονία, κλέος οὐκ ἐπῆλθε (§ 10) con quem Tartessum tua gloria non penetrauit. Emerge subito l’assenza dell’apostrofe diretta a Smirne con l’appellativo δαιμονία. Si tratta di un termine molto importante, com’è stato dimostrato103, nell’economia del discorso, dal momento che evidenzia il carattere di predestinazione di Smirne alla catastrofe. La sua obliterazione dunque finisce per annullare il τόπος ἀπὸ τῆς τύχης, presente in tanti discorsi epidittici della Seconda Sofistica104.
102 Si veda sopra il caso di παρὰ τοῖς ἄρχουσι (§ 2) o del cambiamento di πόδες con ima (§ 3). Vd supra. p. 85. 103 Per l’importanza di questo termine nell’economia del discorso vd. Pernot 1983, pp. 125-126. 104 Vd. Pernot 1983, pp. 121-123.
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II.4.5 Conclusioni
La versione latina esaminata si discosta dal modello di traduzione uerbum de uerbo tipico del medioevo; Perotti infatti non opera mai calchi, o traslitterazioni dei termini greci, anzi, spiega spesso con delle perifrasi quello che sarebbe rimasto oscuro ai suoi lettori contemporanei con una resa letterale latina. Tale metodologia ha l’obiettivo di far comprendere il dettato aristideo nella maniera più immediata possibile, come del resto è specificato nella lettera prefatoria, anche a costo di fare aggiunte e modifiche. Perotti riesce in questo proposito, mostrando di intendere quasi globalmente il testo greco che ha davanti. La resa perottina inoltre, messa a confronto con il Bacchus di Cencio de’ Rustici, risulta più elaborata; in essa il dettato latino talvolta si discosta dal testo originale, contribuendo così a creare un’opera letteraria autonoma in cui emergono gli interessi letterari e le tendenze versorie dell’autore. È evidente che l’umanista nel realizzare la sua traduzione teneva ben presente il genere letterario della monodia: la lamentazione funebre infatti, in quanto discorso destinato a piangere una persona defunta (nel caso dell’orazione aristidea, una città distrutta), esigeva un tono patetico e il ricorso a una serie di accorgimenti, come la sovrabbondanza di interrogative retoriche e il massiccio utilizzo di figure di suono, volti ad aumentare la partecipazione del pubblico. In questo l’umanista seguiva la norma espressa dal grande avversario Giorgio Trapezunzio nella prefazione alla sua versione del discorso Sulla corona di Demostene secondo la quale non si traducono allo stesso modo gli storici, i padri della chiesa e gli oratori, ma ogni volta il traduttore deve badare al genere letterario dell’opera a cui ci si accosta105. Qui autem oratoris alicuius Graeci orationem Latinam facere cupit, is ignorare non debet non uerba, non sensum illius solum sibi sequendum, sed multo magis orationis genus et dicendi uarietatem Latine, quantum facere potest, esse exprimendum, quod maxime in Demosthene faciundum est106. Nel tradurre Aristide Perotti raramente fraintende, più spesso esplicita i passi più oscuri, colma le ellissi e amplia le frasi spezzate che caratterizzano, in pieno stile asiano, l’originale; si percepisce inoltre dalla lettura della sua versione una tendenza all’abbellimento, volta a creare una piccola opera d’arte piuttosto che una fedele e netta riproduzione, soprattutto per la presenza di tante amplificationes, che non hanno un senso specifico nell’economia generale del discorso, ma puntualizzano e accentuano il concetto originale; ciò sembra confermato dagli intertesti che danno un’impronta indubbiamente letteraria alla traduzione. Scientia rerum e ornatus, i due precetti fondanti della nuova teoria della traduzione promulgata da Crisolora107 e promossa
105 Vd. Berti 2007, p. 8. 106 “Colui che desidera tradurre in latino il discorso di un oratore greco non deve trascurare non solo di doversi attenere alle parole e al senso di quello, ma soprattutto di dover rendere in latino, per quanto sia possibile, il tipo di discorso e la peculiarità dello stile, cosa che occorre fare soprattutto nel caso di Demostene”. 107 Cfr. supra, pp. 31-36.
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da tanti suoi illustri allievi, sono rispettati da Perotti, che pur non rinunciando ad offrire un’opera personale, non arriva a stravolgere l’originale.
II.5 Edizione dell’Aristidis Monodia in deploratione Smyrnae Di seguito presentiamo l’elenco dei testimoni latini che riportano la traduzione e che sono alla base della nostra edizione e un’ipotesi sui rapporti tra questi ultimi sulla base di errori significativi. Per quanto riguarda l’epistola prefatoria del corpus di Monodie dedicato a Pietro Foscari si riporta senza modifiche, eccetto l’inserzione di una divisione in paragrafi, l’edizione pubblicata da Giovanni Mercati, corredata nella sua monografia dedicata a Perotti di un apparato negativo108. Per la sua edizione Mercati si fonda sul Vat. lat. 6835, autografo perottino che chiama A, e riporta in un apparato negativo le varianti dei Vaticani Latini 8086 e 8750, da lui siglati rispettivamente con le lettere C e B, mentre esclude il Vat. Lat. 6526 (da noi siglato con T) in quanto copia diretta del 6835. La lettera è assente nei codici V.F.12 (N) della Biblioteca Nazionale di Napoli e 7-1-35 (D)109 della Biblioteca Colombina di Siviglia. II.5.1 I manoscritti latini
Vat. lat. 6835 (A) - Il Vat. lat. 6835 è un autografo perottino, come riferisce Mercati nella sua monografia110; membranaceo, misura 241x147 mm. Il manoscritto è composto di 94 fogli, mutilo di due fogli nel primo quaternione e mancante di molti fascicoli alla fine. La legatura è del primo decennio di Leone XIII. Contiene le Monodie con l’annessa epistola dedicatoria (ff. 1r-51v), e ciò che rimane del commento alle Siluae di Stazio (ff. 54r-94v) Nel f. 1 (cartaceo, aggiunto) c’è la nota obituaria L. P. de S. Nicolaus… Perottus Torquatus ex ueteri codice manuscripto Ataui suo descripsit; questa nota può intendersi tanto di un vecchio codice semplicemente posseduto da Niccolò quanto di un suo autografo, in cui uno di casa (Mercati ipotizza che si tratti di Lelio Perotti) aveva segnato il proprio nome, e forse anche la morte dell’arcivescovo. In fondo ai ff. 1r, 2r e 53r c’è una non chiara impronta in nero di un piccolo sigillo con lo scudo inquartato dei Perotti. In calce al f. 2r si legge la nota cancellata Hic liber est Marcelli (?) Perotti e al f. 3r un indirizzo raschiato di due linee: “Al molto….”, di cui rimane intatta la fine: “a Roma”. Sigillo e scritture, sempre a detta di Mercati, sembrano dell’inizio del XVII secolo.
108 Vd. Mercati 1925, pp. 151-155. 109 Per la nostra edizione della traduzione latina di Perotti della Monodia per Smirne ci rifacciamo alle sigle di Mercati per i Vaticani latini 6835 (A), 8086 (C) e 8750 (B), mentre abbiamo dato al manoscritto napoletano V.F.12 e al codice di Siviglia 7-1-35 (3) rispettivamente le sigle N e D. Inoltre abbiamo attribuito ex nouo delle sigle anche ai Marciani greci collazionati, eccetto V, che compare già in precedenti edizioni. Vd. infra, pp. 70-74. 110 Mercati 1925, p. 132; vd. anche Marucchi 1985, pp. 99-104.
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Vat. lat. 6526 (T)111 – Si tratta di un manoscritto cartaceo miscellaneo112, di 282x206mm, messo insieme per la stampa nella quarta decade del XVII secolo, a partire dai codici Vaticani di Perotti e solo qualche volta da codici personali, da Torquato Perotti, discendente di Niccolò e cameriere segreto di papa Urbano VIII. Il manoscritto è composto da 272 fogli vergati da più mani. Esso reca sul foglio iniziale la scritta “Diverse scritture e memorie di monsignor Nicolò Perotti Arcivescovo Sipontino, tra le quali si trova eziandio una lettera di Sisto V, quando era ancora vescovo di S. Agata [cioè nel 1566] , ed alcune epistole latine del Iarzi”. Dal f. 1 al f. 21 ci sono vari scritti, tra cui due inni religiosi (ff. 1-2v) ed estratti trascritti da grafie diverse di epistole indirizzate a Torquato Perotti (f. 6r-v) e a Niccolò (ff. 7-20). Dal f. 21 al f. 222 il manoscritto contiene opere perottine: ff. 21-53: epistola prefatoria e corpus delle Monodie, ricopiate dal Vat. lat. 6835; ff. 54-66v: discorso De assumptione B. Virginis, dal codice Vat. lat. 5860; ff. 70r-76r: prohoemium in Aristotelem de virtutibus et vitiis, opera Ex codice authoris mss. apud T.P.; ff. 80-98r: Inuectiua in Georgium Trapezuntium, dal codice Vat. lat. 2934; ff. 100-112v: Epistula de generibus metrorum… ad Haelium Perottum, copiata dal Vat. lat. 3027; ff. 114r-133r: In librum de metris… ad Iacobum Schioppum Veronensem, sempre dal Vat. lat. 3027; ff. 134r-149: N. P. poetae laureati in Plutarchi libellum de fortuna Romanorum praefatio, col testo della traduzione plutarchea, dal Vat. lat. 3027; ff. 150-155r: N. P. epistula ad Bessarionem in laudem eius libri, qui Defensio Platonis inscribitur, dal codice Vat. lat. 2974; ff. 156-159v: In P. Papinii Statii Silvarum expositionem prohoemium, senza l’esposizione del commento vero e proprio, con dicitura marginale Ex M.SS. ipsius Perotti apud Perottum Torquatum; ff. 160-161r: epistola N. P. Batholomaeo Troiano con la versione latina del Iusiurandum Hippocratis, dal Vat. lat. 3027 ed Ex alio eiusdem P. M. SS. apud T.P.; ff. 162r-164r: epistola N. P. Iacobo Constantio Fanensi, e alcuni epigrammi, come il De Sigismundi Malatestae et Isottae de Attis mutuo amore, dal medesimo Vat. lat. 3027. Seguono altri estratti di opere perottine (in particolare lettere, come quelle a Giovanni Aretino) ai ff. 164r-181v. Ai ff. 182r-202r è contenuto il Nicolai Perotti in Epicteti Philosophi Enchiridium praefatio… ad Nicolaum Quintum Pontificem Maximum, e seguono le versioni di Simplicio ed Epitteto, sempre dal Vat. lat. 3027. Dopo altri excerpta di lettere e componimenti perottini si collocano a partire dal f. 222 fino alla fine una raccolta di notizie relative alla famiglia Perotti, con documenti in latino e in volgare (epistole, discorsi, traduzioni, ma anche una vita di Perotti ai ff. 222-225)113. Vat. lat. 8086 (C) – Il codice è cartaceo e le opere in esso contenute sono dell’ultimo ventennio del XV secolo, mentre l’indice e la paginazione sono dell’inizio del XVII secolo, come si legge da una nota posta nel margine superiore dell’indice che riporta la data Mense Iulii 1600. Esso misura 223x150 mm. Ci sono diverse grafie e il codice contiene testi di vario genere: ff. 1-3v frammenti di Apicio (tit.: Epimeles: liber primus); f. 4r: raccolta di precetti filosofici da Socrate ad Epicuro; ff. 6r-14v: storia della formazione delle
111 Per le Monodie il Vat. lat. 6526 (T) è descriptus del Vat. lat. 6835 (A), pertanto non è stato tenuto in considerazione ai fini dell’edizione. Inoltre è l’unico dei codici presi in esame del XVII secolo. 112 Mercati 1925, p. 135-138. 113 Su questa documentazione si veda Perotti 1999.
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province italiane nell’antichità romana (titolo: De Italie provinciis ex codice uetustissimo); ff. 14v-15r: estratto sulle leggi di Licurgo (titolo: Licurgi leges); ff. 17-35r: opuscolo di Guarino Veronese su Platone (titolo: Guarini Veronensis ad clarum phisicum Philippum Mediolanensem in Platonis uitam prohoemium); ff. 36-48v: glossario114 sull’agricoltura dell’opera di Columella e De re rustica di Giorgio Alessandrino; ff. 52-58v: breve storia delle origini delle istituzioni romane, con estratti di Eutropio; ff. 59r-59v: frammenti sull’ortografia di Mario Vittorino (tit.: Marii Victorini grammatici nobilissimi de ortographia et analogia); ff. 60r-74v: storia dei Longobardi; ff. 75-76v: indice degli imperatori di Roma e Costantinopoli da Ottaviano a Giustino; ff. 78-95v: indice alfabetico delle parole notevoli dell’opera successiva (Chronologia…) e indice alfabetico degli inizi dei capitoli della stessa; ff. 98-196v: cronologia dall’origine del mondo all’anno 1278; f. 199r-199v: prefazione di Ludovico Odasio (tit.: Lodouici Odaxii patavini praefatio in Plutarchi librum docentem quo pacto quispiam omnium ab adulatore discernat); ff. 199v-217: traduzione latina di Ludovico Odasio dell’opuscolo plutarcheo sulla distinzione tra un amico ed un adulatore (tit.: Plutarchi liber docens quo pacto quispiam adulatorem ab amico discernat e greco in latinum conuersus115); ff. 220r- 231r: opera indicata nell’indice del volume come De uiris quibusdam illustribus; ff. 236-239v: prefazione delle tre Monodie latine di Elio Aristide, Bessarione, e di Perotti per il fratello Severo; manca la Monodia di Libanio, diversamente da quanto preannunciato nell’epistola prefatoria116 (tit.: Nicolai perotti pontificis sypontini in Aristidis Libani et Bessarionis monodias a se greca lingua in latinum conuersas ad Petrum apostolicae sedis protonotarium prohoemium incipit foeliciter); ff. 239v- 241v: Monodia per Smirne di Elio Aristide tradotta in latino da Perotti (tit.: Aristidis oratoris monodia in Smirne terraemotu collapsae deploratione); ff. 241v-244v: Monodia per il fratello Severo (tit.: Nicolai Perotti Monodia in obitu Severi perotti fratris incipit; ff. 245r-251r. Monodia di Bessarione per la morte di Manuele Paleologo (tit.: Bessarionis Cardinalis Nicaeni Monodia in obitu Manuelis Paleologi Imperatoris incipit foeliciter); ff. 254r-255v: piccolo glossario di abbreviazioni antiche e relativi scioglimenti (tit.: Litteras et syllabas quibus maiores usi sunt pro dictionibus has inueni. Equidem existimo per plures alias inueniri. Sed de nostra industria desseramus); ff. 256r-258r: opuscolo sul battesimo. Vat. lat. 8750 (B) - Si tratta di un manoscritto cartaceo miscellaneo del XV secolo di 283 fogli; misura 225x145 mm. Esso contiene un cospicuo numero di opere in latino e alcune in volgare, tutte risalenti all’ultimo ventennio del 1400. La maggior parte delle opere latine sono discorsi e offrono una testimonianza della fiorente attività retorica umanistica. Le orazioni contenute in questo manoscritto sono di varie tipologie: epidittiche, di esortazione ai giovani, religiose e, in quantità maggiore, funebri117; la maggior parte dei discorsi sono anonimi. Non mancano opere non retoriche, tra le quali si segnalano: la traduzione latina fatta da Francesco Guarnerio di un poema greco di
114 Dove non indicato, il titolo manca. 115 Opuscolo noto con il titolo Quomodo adulator ab amico internoscatur. 116 Mercati ricorda come Förster, che conobbe il solo Vat. lat. 8086, non trovò la versione di Libanio. Vd. Förster 1903-1927, vol. 2, p. 204; Mercati 1925, p. 70, n. 5. 117 Il codice è citato anche in McManamon 1989, pp. 252, 285.
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incerta attribuzione con annessa epistola dedicatoria ad Alfonso Severo (ff. 252r-253r); la prefazione e la traduzione di Leonardo Bruni della Vita Ciceronis di Plutarco (ff. 259r-269v); la prefazione e la versione latina di Bruni allo pseudo-aristotelico Economico (ff. 272r-275v) e il commento bruniano alla stessa opera (275v-283r). In questo codice le Monodie non si trovano nella consueta successione: ai ff. 91v-97 si trova la traduzione della Monodia bessarionea, dal f. 98 al f. 101v c’è la Monodia perottina per la morte del fratello Severo e soltanto al f. 101v, fino al f. 105, troviamo l’epistola prefatoria, quindi dal f. 105v al f. 107v è vergata la Monodia per Smirne in versione latina; manca quindi la Monodia di Libanio. Questo codice contiene anche un altro scritto originale di natura retorica di Perotti (ff. 152r-161v), cioè l’Oratio habita in funere Peri [sic] cardinalis Divi Sixti; si tratta del discorso funebre per la morte del cardinale Pietro Riario, datato 1474. Neap. V.F.12 (N) - Il manoscritto Neap. V.F.12 si presenta come un codice miscellaneo per i documenti che contiene e fattizio nella sua forma attuale118. Si tratta di un codice cartaceo di 134 fogli del XV secolo, di 300x220 mm, scritto da cinque mani. La legatura è Farnese e del XVII secolo; le note marginali sono in rubro, sul dorso c’è il titolo in caratteri d’oro: NICEN/CARDIN/EPIST. Il codice consta di 14 fascicoli. Si distinguono all’interno del manoscritto 5 diverse grafie: grafia A, ff. 1r-30v; grafia B, ff. 41r-62v; grafia C, ff. 63r-86v; grafia D, ff. 91r-127v; grafia E, ff. 130r-134v. La maggior parte dei documenti contenuti nel manoscritto rimandano alla cerchia di Bessarione e alla sua attività politico-culturale volta ad allontanare la minaccia di un’espansione turca nei Balcani119. Esse sono: ff. 1-4v: card. G. Bessarione, Inclitis atque illustrissimis Italie principibus, epistula I de periculis imminentibus a Turchis (= P. G. 161, coll. 647-651); ff. 5-13v: card. G. Bessarione, Ad Italos [epistola II] de periculis imminentibus (= P. G. 161, coll. 651-659); ff. 14-23v: card. G. Bessarione, De discordis sedandis et bello in
118 Il ms. Neap. V.F.12 è stato descritto da Fossier 1982, pp. 270-272, Monfasani 1981, pp. 194-195, Lauletta 1995, pp. 77-81 e Abbamonte 2006, pp. 37-65. 119 Monfasani e Lauletta ritengono che si tratterebbe della copia di una raccolta di opere di Bessarione, Giorgio di Trebisonda e Perotti, messa insieme da quest’ultimo, investito com’era del compito di rivedere e correggere i testi del cardinale, che proprio in quegli anni avrebbe mostrato l’intenzione di donare una silloge dei suoi scritti latini a Paolo II. I due studiosi concludono che l’antigrafo del manoscritto napoletano sarebbe stato in possesso di Perotti stesso. Contro questa tesi si può obiettare che non si possiede prova di nessun documento che dalla casa dell’umanista di Sassoferrato sia passato alla biblioteca dei Farnese. Così l’unica soluzione plausibile è che la raccolta sia passata dalla biblioteca di Urbino a quella dei Farnese, allo stesso modo del codex Perottinus, cioè il codice napoletano IV.F.58. Un argomento a favore di questa tesi sta nell’Index uetus della biblioteca di Urbino, in cui è presente l’item n. 630 che richiama il titolo della prima opera presente nella raccolta del manoscritto napoletano: Bessarionis Episcopi Sabinensis et Cardinalis Niceni exhortatio ad arma capienda aduersum Turcum ad Italiae principes. Dal momento che non esiste nei codici Urbinati conservati nella Biblioteca Vaticana nessun altro codice bessarioneo contenente opere sul tema della crociata contro i Turchi, si può ipotizzare che l’opera segnata nell’Index o sia andata perduta o, più probabilmente, sia stata prelevata dalla seconda biblioteca di Urbino e portata altrove, proprio come è accaduto per il codex Perottinus. La conclusione a cui lo studio di Abbamonte giunge è che il manoscritto napoletano preso in considerazione e che contiene proprio una raccolta miscellanea di opere bessarionee sia giunto ai Farnese da Urbino e successivamente sarebbe arrivato a Napoli. Vd. Monfasani 1981, pp. 178-179, Lauletta 1995, p. 81 e Abbamonte 2006, pp. 53-58. Sul codex perottinus vd. Boldrini 1986, 1988.
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Turcum decernendo (= P. G. 161, coll. 659-669); ff. 24r-v: card. G. Bessarione, Persuasio [ad principes Italiae] ex auctoritate Demosthenis (= P. G. 161, coll. 669-670); ff. 24v-30v: Demostene, Oratio pro ferenda ope Olynthiis [trad. lat. Di Bessarione] (= P. G. 161, coll. 670-676); ff. 31r-40v: card. G. Bessarione, In illud Euangeli secundum Ioannem (= P. G. 161, coll. 623-640); ff. 41r-62v: Giorgio di Trebisonda, Bessarioni card. Niceno (28. VIII. 1469); ff. 63r-68v: [card. G. Bessarione], Oratio oratorum Electorum sacri Romani Imperii ad legatum, [recitata alla dieta di Neustadt, 1454]; ff. 68v-80r: card. G. Bessarione, Responsio domini legati ad responsionem dom. oratorum; ff. 80r-86r: card. G. Bessarione, Oratio de pace in conuentu Viennensi; ff. 91r-92v: Elio Aristide, Monodia in deploratione Smyrnae; ff. 92v-96v: Libanio, Monodia in obitu Iuliani; ff. 96v-100r: card. G. Bessarione, Monodia in obitu Manuelis Paleologi (= P. G. 161, coll. 615-620); ff. 101r-104v: Niccolò Perotti, Paulo II [post 31. VIII.1469]; ff. 104v-106r: card. G. Bessarione, In translatione capitis beati Andreae; ff. 106r-111r: card. G. Bessarione, Oratio in conuentu Mantuano; ff. 111v-116r: card. G. Bessarione, De pace habita; ff. 116v-125v: card. G. Bessarione, In conuentu Viennensi (testo diverso dal n. 10); ff. 126r-127v: card. G. Bessarione, In dissolutione conuentus Viennensis; ff. 130r-134v: Niccolò Gaddi, vescovo di Fermo, Oratio de obitu Bessarionis. Hisp. lat. 7-1-35 (3) (D) - Due delle Monodie latine del corpus perottino - quella per Smirne di Aristide e quella di Bessarione in morte di Manuele Paleologo - si trovano all’interno di un manoscritto composito, cartaceo, non registrato nei cataloghi di opere dell’umanista120: il ms. 7-1-35 della Biblioteca Colombina di Siviglia. Di esso dà notizia Kristeller, che riferisce di non averlo visto personalmente e di inserire la descrizione fornita da Bertalot e Lockwood121. Il volume, in cui si trovano anche le Monodie, raccoglie tre gruppi di fascicoli distinti, di cui il primo (1), del XV secolo, contiene un’opera intitolata Predica d’amor, poema in volgare di autore incerto in dodici fogli122; il secondo (2), datato al XVI-XVII secolo, contiene una commedia in dialetto siciliano di Caio Ponzio Calogero vergata su 24 fogli; infine, l’ultima parte del volume (3), che contiene le nostre Monodie, è intitolata Andree Contrarii Epistole nell’Abecedarium B di Hernando Colón123 (1488-1539), noto anche come Fernando Colombo, figlio di Cristoforo. Quest’ultimo gruppo di fascicoli risale al XV secolo (1475, da quanto si legge sul catalogo online della Biblioteca Colombina) ed è stato vergato da più mani in una scrittura umanistica corsiva; misura 223x151 mm ed è costituito da 114 fogli organizzati in 12 fascicoli: 1 binione, 2 ternioni, 2 quaternioni, 2 quinioni, 4 senioni, 1 settenione. Esso contiene opere riconducibili ad Andrea
120 Sia Mercati che Oliver menzionano i soli Vaticani Latini. Vd. Mercati 1925, p. 70, n. 5; Oliver 1954 pp. 139-140. 121 Vd. Kristeller 1963-1997, vol. 4, p. 623. Non abbiamo consultato il manoscritto direttamente, tranne per la versione latina della Monodia per Smirne, di cui abbiamo visionato le riproduzioni fototipiche forniteci dalla Biblioteca Colombina; il manoscritto, inoltre, è descritto nel catalogo online della Biblioteca Colombina e da Kristeller. Il codice è menzionato per la traduzione latina perottina della Monodia in morte di Manuele Paleologo nel database degli incipit delle orazioni funebri rinascimentali curato da John MacManamon; vd. MacManamon 2014, p. 859. 122 Vd. Álvarez 1994, pp. 285-286; Largaiolli 2008, pp. 79-80. 123 Sul catalogo di libri di Hernando Cólon vd. Marín Martínez 1970, pp. 453-515.
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Contrario124, umanista veneziano, in particolare un epigramma di Pietro Odo da Montopoli (f. 1) e molte epistole di Contrario a importanti personaggi del periodo (ff. 2-35v) come il re Alfonso d’Aragona, lo stesso Pietro Odo da Montopoli e Giorgio Trapezunzio; un ricco epistolario contenente lettere di Poggio Bracciolini (36r-54r) e di Giorgio Bevilacqua, Ludovico Cendrata e Guarino Veronese (ff. 54v-66r) in contatto epistolare con Isotta Nogarola. Segue un’orazione di Gerardo Vercellino in lode di Margherita di Bombelli (f. 66r-67r) e un discorso anonimo in onore di una donna defunta. In tale contesto di oratoria funebre si inseriscono le due lamentazioni di Bessarione (ff. 68r-73v) e di Aristide (ff. 74r-76r)125 tradotte da Perotti. Seguono ancora epistole (ff. 76v-106v), tra cui alcune di Antonio Panormita, e infine delle operette innografiche anonime (ff. 107r-113v). II.5.2 Ipotesi sui rapporti tra i manoscritti latini
Il Vat. lat. 6835 (A), manoscritto autografo di Niccolò Perotti, risulta generalmente corretto e non presenta errori particolari. Proprio perché si ha la fortuna di possedere l’autorevole autografo perottino si è ritenuto in un primo momento che la versione latina della Monodia per Smirne avesse una tradizione a codex unicus e che tutti gli altri manoscritti a disposizione (Vatt. latt. 8086 = C, 8750 = B, 6526 = T, Neap. V.F.12 = N e Siviglia 7-1-35 = D) derivassero da A. Da una collazione dei vari testimoni la conclusione appare però diversa; l’impressione finale è che la tradizione della Monodia perottina sia più complessa a causa della presenza di lezioni singolari nei testimoni presi in esame che difficilmente sono spiegabili come congetture del copista. Il dubbio è sorto in particolare per le lezioni presenti in due codici: il Neap. V.F.12 (N) e il manoscritto coevo Hisp. 7-1-35 (D). I due manoscritti sono sicuramente in rapporto l’uno con l’altro, in quanto condividono alcune varianti notevoli che li separano dall’autografo A e da C e B, qui elencate di seguito: 5, 6 aliqua]126 quaedam | 6, 19 monumenta] ornamenta | 8, 16 iis] his | 9, 23 campis] cantibus | 9, 24 conuersae] conuersi | 10, 7 quondam] tandem | earum lachrimas] lachrymas earum
124 Andrea Contrario risulta collegato al cenacolo intellettuale inaugurato da Niccolò V a Roma; qui a partire dal 1453 ebbe modo di conoscere umanisti come Teodoro Gaza e Lorenzo Valla, che gli dedicò un’ode perduta e un carme elogiativo. Egli, al pari di Perotti, prese parte all’attività di traduzione dei classici greci in latino promossa dal pontefice emendando la traduzione dell’opera di Eusebio di Cesarea De praeparatione evangelica, eseguita in maniera insoddisfacente da Giorgio di Trebisonda, contro cui in seguito si scagliò con l’invettiva Contra Georgium Trapezuntium calumniatorem Platonis. Anche quest’ultimo dato avvicina Contrario a Perotti, che difese alacremente l’opera platonica di Bessarione contro gli attacchi del Trapezunzio. Vd. supra, p. 63. Su Contrario vd. DBI 28, 1983, pp. 537539, voce di Rosario Contarino. 125 Correggiamo la numerazione dei fogli presente in Kristeller con le informazioni tratte dal catalogo in linea della Biblioteca Colombina di Siviglia, verificate per le due Monodie attraverso le riproduzioni fototipiche. 126 Il lemma tra parentesi quadre è quello attestato nei codici A(T)CB; quello riportato subito dopo le parentesi è quello di ND.
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Tra le lezioni riportate spicca il caso di cantibus in luogo di campis; la variante cantibus infatti è la traduzione corretta del lemma μελῶν contenuto nella frase greca corrispondente ὦ τῶν προτέρων μελῶν τὰ παρόντα ἀντίφθογγα (9, 14-15 Keil); campis è pertanto un chiaro errore che per di più si trova nell’autografo perottino e si perpetua nei restanti vaticani. Sembra difficile ipotizzare che il copista di N o di D avesse a disposizione il manoscritto greco e potesse confrontare la lezione di A e quindi correggere una svista di Perotti; è più plausibile che A non contenga l’ultima volontà dell’autore, ma rappresenti uno stadio precedente, che Perotti in seguito rivide ed emendò in un’altra copia, che non ci è pervenuta e che chiameremo Y, da cui sono poi derivati N e D. Un altro dato fondamentale che accomuna i due codici è l’assenza in entrambi della lettera prefatoria, che compare soltanto nei Vaticani Latini127. In un primo momento si è pensato a una dipendenza diretta di D da N, visto che il manoscritto sivigliano contiene una quantità maggiore di errori e sviste rispetto al codice di Napoli, come si può notare dalla lista di seguito: 1, 10 redactam]128 redactum | 1, 12 rerum om. | 2, 15 cure tum | 4, 2 uerbis] urbis | 4, 6 sol] sed | 6, 12 dictu] delictu | 6, 20 euanuistis] euanescitis | 7, 21 confluentium] fluentium | 7, 23 pro] pio | 7, 25 Gades est maris. O lucentium siderum circulus om. | 7, 26 potuisti] posuisti | 7, 8 decantata] decantatam | 9, 19 nunc] hunc | 10, 3 peruasura] peruersura | 10, 7 uero ó] uero ut Nonostante la vicinanza dei due codici N e D, tuttavia non si può ipotizzare una dipendenza diretta del secondo dal primo a causa della divergenza dei titoli; se N ha Aristidis Monodia in deploratione Smyrnae urbis quae motu corruerat (incipit foeliciter), D presenta Aristidis monodia in deploratione Sy (exp.) Smyrne urbis que in terre motu corruerat incipit feliciter. I due titoli sono molto simili, soprattutto se messi a confronto con quelli degli altri testimoni A(T)CB; A(T)C riportano infatti Aristidis Monodia in deploratione Smyrnae terrae motu collapsae (incipit foeliciter) e B, con una differenza minima nel titolo, Aristidis oratoris Monodia in Sinyrnae terraemoto collapsae deploratione. N e D, rispetto a A(T)BC, non hanno il participio collapsa (/ae) riferito a Smyrne (/ae), ma hanno in più il genitivo urbis e la relativa que (/ae)…, riferiti a Smyrne (/ae): soprattutto quest’ultima variante indica che il codice napoletano e quello sivigliano sono separati dagli altri. La lezione che li separa a loro volta – N ha il solo motu corruerat, mentre D ha in terre motu corruerat – ci ha fatto concludere che i due sono senza dubbio collegati tra loro, ma non sono direttamente dipendenti l’uno dall’altro e devono altresì provenire da un antigrafo comune. Una situazione simile (accordo tra due testimoni, ma non diretta dipendenza dell’uno dall’altro) si è verificata nel caso di C e B. I due Vaticani infatti condividono molte varianti:
127 Cfr. supra, p. 90. 128 Il lemma tra parentesi quadre è quello riportato nei codici A(T)CBN; quello successivo è la lezione di D.
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1, 4 eam]129 eum | 1, 10 huccine te] hiccine (te om.) | 5, 8 uenustissima om. | 5, 11 eam prospiceret] prospiceret eum | 6, 13 satietas] sanitas | 7, 2 et deuastatio] deuastatio (et om.) | 7, 3 anteacta] ante acti | 7, 5 putamus om. | 8, 16 Sipylo] Sypho | 10, 2 Boristhenes] Borischenes | 10, 5 eam uidendam] eum uidendum Anche nel titolo i due manoscritti sono affini, tranne per il fatto che B ha Sinyrnae anziché Smyrnae; si tratta in ogni caso con ogni probabilità di un errore del copista, che non ha capito il nome della città orientale. La vicinanza dei due codici è indubbia e sicuramente essi derivano da un comune esemplare, che può essere individuato in A. Essi presentano d’altra parte almeno un caso peculiare che li distanzia: nell’incipit (§ 1, 7) C riporta la lezione conte… con dei punti sospensivi, segno che il copista ha incontrato una difficoltà in questo punto. B riporta da parte sua l’erronea content quibus verbis, ma corregge nel margine con contester ut contendam, variante che si avvicina alla lezione giusta degli altri manoscritti e che non viene presa in considerazione da C, che non riporta aggiunte in margine. Ciò dimostra che l’uno non può essere copia diretta dell’altro, ma si tratta di due esemplari distinti, sebbene collegati tra loro. Inoltre, in generale, il copista di B sbaglia più spesso di quello di C, che invece si corregge varie volte, a testimonianza del fatto che quest’ultimo non copia direttamente da B il testo della Monodia130. In base alle osservazioni riportate è possibile ipotizzare la seguente situazione testuale: X
N. Perotti A
N. Perotti
C
Y
B
XVII secolo (Torquato Perotti)
N
D
T
129 Il lemma tra parentesi quadre è quello dei codici A(T)ND; quello successivo è la lezione di CB. 130 La generale mancanza di correttezza del testo vergato in B è stata già notata da Mercati nell’edizione dell’epistola prefatoria al corpus delle Monodie perottine. Lo studioso osserva che è possibile postulare, per le varianti contenute nei diversi codici esaminati (cioè i soli Vaticani latini), l’esistenza di un altro esemplare di mano di Perotti. In base alle differenze testuali rilevate in N e D, che però Mercati non cita nel suo studio, si può affermare che questa eventualità è del tutto concreta. Vd. Mercati 1925, p. 151.
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II.5.3 Criteri editoriali
Apparato greco - Nel primo apparato dell’edizione si dà la lezione latina di Perotti, seguita dal passo greco corrispondente di Aristide dall’edizione di Keil131 con indicazione del numero di pagina e rigo. Quindi si indicano le lezioni dei codici Marciani aristidei contenenti la Monodia, premettendo quella che più si avvicina alla traduzione di Perotti132. L’apparato è positivo e registra le varianti ritenute significative per determinare quali codici Marciani l’umanista possa aver consultato. Sono escluse pertanto le varianti grafiche non rilevanti, ad es. πελοπόνησος / πελοπόννησος (§ 2) o le lezioni di un singolo manoscritto che non possono essere state prese in considerazione da Perotti, come alcune omissioni (ad es. ἀγκάλας, omesso in V, è tradotto da Perotti con amplexum, pertanto si può escludere che l’umanista abbia preso in considerazione questo codice). Di seguito si propongono le varianti dei Marciani greci riportate nel primo apparato della nostra edizione messe a confronto con le lezioni dei codici citati nell’edizione di Keil. Dall’elenco emerge come la maggior parte delle volte non sia possibile accostare le varianti presumibilmente alla base della versione perottina - cioè quelle dei Marciani greci 419, 427, 442133 - ai codici dell’edizione a stampa; in generale infatti i codici optimi (ARDUT per la Monodia) selezionati da Keil non riportano le stesse lezioni dei Marciani. L’ultimo caso, quello di αὑτῶν (§ 9) con spirito aspro (tradotto da Perotti con suum) che si trova, tra i codici consultati direttamente, solo nel Marc. gr. 428, in realtà non ci sembra discriminante per l’individuazione dei possibili modelli perottini perché lo scambio dei due spiriti è un fenomeno piuttosto comune; inoltre è possibile che Perotti in base al contesto sia riuscito correggere la lezione αὐτῶν dei Marciani 427 e 442. Nel testo di Aristide si legge infatti ἦ που καὶ Γοργόνες εἰ περιῆσαν, οὐκ ἂν τὴν Μέδουσαν, οὐδὲ τὸν αὑτῶν ὀφθαλμὸν, ἀλλὰ τὸν τῆς Ἀσίας ἐπένθησαν, “o se ci fossero le Gorgoni in qualche luogo, non piangerebbero la Medusa né il loro occhio, ma quello dell’Asia”; Perotti traduce il passo con Profecto etiam Gorgones si in praesentia uiuerent, non Medusam, aut oculum suum, sed totius Asiae oculum deflerent extinctum. La lezione αὑτῶν (“proprio”, lat. suum), con riferimento all’episodio mitologico dell’unico occhio delle Graie rubato da Perseo, appare quella più sensata, mentre αὐτῶν (“di quelle”, lat. eorum) non ha nessuna attinenza con quanto enunciato da Aristide. Perotti dunque qui ha potuto plausibilmente correggere con facilità il testo a disposizione per la sua versione sulla base delle proprie conoscenze letterarie.
131 Vd. Keil 1898 pp. 8-11. 132 Essendoci basati solo sulla lettura dei Marciani e dell’edizione di Keil, è opportuno precisare che sarà possibile ottenere una maggiore completezza di informazioni con la consultazione della nuova edizione del discorso 18 sulla base di tutti i manoscritti aristidei conosciuti, attualmente in preparazione per il Programme Aristide. 133 Vd. supra, pp. 70-76.
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Si presentano dunque i risultati della collazione tra l’apparato di Keil e i codici Marciani greci contenenti la Monodia per Smirne aristidea nei casi ritenuti significativi per l’individuazione dei possibili antigrafi di Perotti: p. 8 Tit.: ἐπὶ σμύρνη μονωδία (K)134 μονωδία ἐπὶ σμύρνη κειμένη] G135 (Perotti: Aristidis Monodia in deploratione Smyrnae terrae motu collapsae) μονωδία ἐπὶ σμύρνη] TU HOQ ἐπὶ σμύρνη μονωδία] AR V om. D Z p. 9, 23: οὕτω σοι (K) σοι om.] OZ (Perotti: sic ista) οὕτω σοι] DU GHQV οὕτωσ οἱ] ART p. 9, 24: ἀωρίαν α……, περιήν (K) ἀωρίαν ἐχούση ἃ περιήν] RDU GHOQZ (Perotti: omni pulchritudine carens) ἀωρίαν ἃ περιήν ἄφοτου (ἐχούση om.)] TA ἀωρίαν ἄφοτου (ἐχούση ἃ περιῆν om.)] V p. 10, 1: παρέσται (K) πάρεστι] OZ (Perotti?: prae se ferebat) παρέσται] ARDUT GHQV p. 10, 14: καλλίχορον (K) καλλίχωρον] DUA2 HO Q (p. c.) Z (Perotti: tum situ et natura loci) καλλίχορον] ART G κάλλιον χωρον] V p. 10, 14: πολυύμνητον καὶ τριπόθητον (K) περιύμνητον καὶ περιπόθητον] OZ (Perotti: praeclaram atque florentem) πολυύμνητον καὶ τριπόθητον] ARDUT GHQV p. 11, 7: σύνοδοι (K) σύλλογοι] OZ (Perotti: caterua) σύνοδοι] ARDUT GHQV p. 11, 17: αὑτῶν (K) αὑτῶν] U (at ‘et ῶν corr. m.2, αὑτῶν D² ex αὐτὸν D¹) Q (Perotti? suum) αὐτῶν] ART GHOVZ Apparato latino - Il secondo apparato contiene le diverse lezioni dei codici con la versione latina di Perotti della Monodia per Smirne. L’apparato è positivo e vi si riportano tutte le varianti, anche quelle grafiche, dei singoli manoscritti, ad es. (§ 10, 2): Boristhenes AN : Boriscenes D : Borischenes BC.
134 Con la sigla K si intende la lezione messa a testo nell’edizione di Keil. 135 Segnaliamo in grassetto i sigla dei codici da noi collazionati per l’edizione della Monodia perottina per distinguerli dai codici dell’edizione di riferimento di Keil: Marc. gr. 419 = G; Marc. gr. 424 = H; Marc. gr. 427 = O; Marc. gr. 442 = Z; cfr. Conspectus, p. 119. V è già stato siglato nelle recensiones delle edizioni precedenti; vd. supra, p. 73, n. 60.
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Sono state omesse le lezioni di T, descriptus di A. Nel realizzare l’edizione della versione latina della Monodia in deploratione Smyrnae di Niccolò Perotti ci siamo conformati quanto più possibile alla grafia di A. I dittonghi pertanto sono sempre messi a testo, come nell’autografo; anche nel caso di foelix e delle forme da esso derivate si è scelto di mantenere il dittongo oe. Parimenti si è conservata l’accentazione dell’interiezione O, presente in tutti i codici tranne in B e quella delle preposizioni a ed e, di cui si è registrata la presenza soltanto in A (es.: f. 11v á planis exurgebant; 12v é regione). Per quanto riguarda la punteggiatura, dopo il punto fermo, il punto esclamativo e il punto interrogativo la grafia è stata normalizzata secondo la prassi moderna, facendo iniziare la proposizione successiva con la lettera maiuscola (es. Quid agam? Quo me uertam?); inoltre, si è scelto di rendere generalmente i due punti con la virgola (es.: qualem fabricasti: ut nunc diruta: prostrata: consumpta diventa qualem fabricasti, ut nunc diruta, prostrata, consumpta). Generalmente nei codici esaminati è rispettato l’uso della maiuscola per i nomi propri. Nel caso di Epirum (§ 9) tutti i codici riportano la maiuscola, ma ciò deriva da un probabile fraintendimento del traduttore che in luogo di rendere ἤπειρον con “continente, terraferma” traduce come se si trattasse del nome proprio di luogo Ἤπειρον136.
136 Vd. supra, pp. 76 e 87.
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Conspectus siglorum Codici Marciani greci G H O Q V Z
Venezia, BNM Marc. gr. 419 Venezia, BNM Marc. gr. 424 Venezia, BNM Marc. gr. 427 Venezia, BNM Marc. gr. 428 Venezia, BNM Marc. gr. VIII, 7 Venezia, BNM Marc. gr. 442
Codici latini A C B N D
Città del Vaticano, BAV Vat. lat. 6835 Città del Vaticano, BAV Vat. lat. 8086 Città del Vaticano, BAV Vat. lat. 8750 Napoli, BNN Neap. V.F.12 Sevilla, BCCS Hisp. lat. 7-1-35(3)
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Nicolai1 Perotti pontificis Sipontini in Aristidis, Libanii et Bessarionis monodias a se e graeca lingua in latinam conuersas ad Petrum Foscarum apostolicae sedis protonotarium prohoemium incipit foeliciter.
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1. Soleo mecum saepenumero admirari Bessarionis nostri non modo ingenium, studium, mores, uirtutem, excellentemque doctrinam, sed quicquid in principe admiratione dignum censeri potest. Nam, ut ab iis quae leuiora esse uidentur incipiam, quanta est in ore illius dignitas? In uultu grauitas? In fronte seueritas? In oculis mansuetudo? In uenerabili illa barbae canitie maiestas? In uoce splendor? In gestu pondus? In incessu reuerentia? Denique in omnibus actibus decus? Tanta certe sunt, ut quemlibet hominem quamuis immanem et barbarum solo aspectu ad sui amorem excitare atque allicere uideantur. Quale uero est hominis ingenium, quam acre, subtile, acutum! Quae rerum et totius antiquitatis memoria! Nam studium tam incredibile semper in eo fuit atque assiduum, ut non possim aliquando a risu temperare, quando uel tu uel quiuis alius ex familiaribus nostris me studiosum uocatis, qui, si illi comparer, omnium profecto uideor mihi esse pigerrimus. Iam tanta est in hoc principe morum suauitas, tam dulcis consuetudo, ut inter iuuenes cum summa modestia et uirginali quodam pudore non senex inter senes, cum mira grauitate non iuuenis, inter Graecos numquam discessisse e Graecia, inter Latinos natus esse in medio Latio et lingua et moribus uideatur, nec modo factum eius aliquod inhonestum in omni uita uisum fuerit, sed ne uerbum quidem ex eius ore exciderit turpe aut indecorum. Virtutes ita in eo pariter omnes relucent, ut nescias quam cui debeas praeferre. Prudentia omnes superat: fortitudine nemini est secundus: temperantia excellit cunctos: iustitia non cedit alicui. Tanta est eius religio, pietas, clementia, mansuetudo, humanitas, ut hi foelices esse uideantur, quibus licet cum eo diutissime conuersari. Quae autem uis consilii, quae animi magnitudo, quae rerum experientia, quae belli et pacis artes in eo sint, tum Romanus pontifex et sacrosanctus urbis senatus in rebus maximis atque amplissimis quottidie experitur, tum Flaminia, Germania, Gallia et multae Orientis prouintiae testantur, ubi tot annis cum incredibili splendore, auctoritate et gloria summum imperium administrauit. 2. Quid liberalitatem eius munificentiamque commemorem? Declarant hanc non modo templa et sacrae aedes et magnificentissima palatia, quae tum domi tum foris aedificauit, sed pauperum etiam et calamitosorum ad eum frequens concursus, quos omnes pro uiribus adiuuat, sustentat, alit et subleuat. Declarant plerique studiosi, quos non modo in Graecia sed in diuersis Italiae gymnasiis, Perusiae, Senis, Florentiae, Bononiae sustinet, et ex propriis facultatibus omnia non modo ad uitam sed etiam ad comparandos libros necessaria suppeditat. Declarant ingenuae uirgines, quas saepe orbas parentibus cum honestissima dote uiris tradit. Declarat praeclara librorum suppellex, quam talem ac tantam comparauit, ut nullum existimem per uniuersam Graeciam et omne Romanum imperium utriusque linguae
1 Riproduciamo senza modifiche, fatta eccezione per l’inserimento di una divisione in paragrafi, l’epistola prefatoria alla traduzione del corpus di Monodie di Niccolò Perotti dedicato a Pietro Foscari pubblicata da Mercati con un apparato negativo in appendice alla sua monografia su Perotti. Vd. Mercati 1925, pp. 151-155; cfr. supra, p. 90.
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1. Sono solito meravigliarmi spesso non solo dell’ingegno, dello zelo, dei costumi, della virtù e dell’eccellente dottrina del nostro Bessarione, ma di qualunque aspetto che si può ritenere degno di ammirazione nel principe1. Infatti, per iniziare da quelle qualità che sembrano più modeste, quant’è grande il prestigio che viene dal suo aspetto? E la solennità del suo volto? E la severità nel suo viso? E la mitezza nei suoi occhi? E la solennità espressa da quella venerabile canizie della barba? Quant’è grande lo splendore nella sua voce? E l’autorità nei suoi gesti? E la soggezione che proviene dal suo incedere? E, infine, il decoro che comunica in ogni azione? Di certo sono tanto ingenti che parrebbero infiammare e portare qualunque uomo, per quanto barbaro e inumano, ad amarlo alla sola vista. Ma che ingegno, penetrante, fine e acuto! Che memoria degli avvenimenti e di tutta l’antichità! Infatti in lui lo studio fu sempre tanto incredibile e assiduo che talvolta non riesco a trattenermi dal sorridere, quando tu o chiunque altro dei nostri amici chiamate me “studioso”, io che, se fossi messo a confronto con lui, certamente sembrerei a me stesso l’uomo più pigro di tutti. Ormai è tanto grande in questo principe la soavità dei costumi, è tanto dolce la sua frequentazione, che in mezzo ai giovani, con un’eccezionale modestia e un certo pudore virginale, non sembra anziano tra gli anziani, né con singolare severità sembra giovane, tra i Greci sembra non essersi mai allontanato dalla Grecia, tra i latini sembra essere nato nel mezzo del Lazio sia per la lingua che per i costumi, e sembra che non solo non abbia fatto in tutta la vita qualcosa di disonesto, ma che neppure una parola turpe o sconveniente sia uscita mai dalla sua bocca. Tutte le virtù rifulgono in lui in una misura così eguale che non sapresti quale preferire. La lungimiranza è superiore a tutte; quanto a forza d’animo, non è secondo a nessuno; in temperanza si eleva su tutti; quanto a giustizia, non è inferiore a nessuno. Così grandi sono il suo sentimento religioso, la sua devozione, la clemenza, la docilità, l’umanità, che sembrano fortunati coloro ai quali è concesso frequentarlo per un lunghissimo lasso di tempo. D’altra parte quella abilità risolutiva, quella forza d’animo, quell’esperienza dei fatti, quelle capacità belliche e pacificatorie che sono in lui, sia il pontefice di Roma sia il sacrosanto senato della città le sperimentano ogni giorno, nelle faccende in assoluto più importanti e solenni, sia la Flaminia, la Germania e molte province dell’Oriente le possono testare, quando per tanti anni amministrò il sommo potere con incredibile splendore, autorità e gloria. 2. Perché dovrei ricordare la sua generosità e munificenza? La mostrano chiaramente non solo i santuari, i luoghi sacri e gli splendidi palazzi, che un tempo costruì sia all’interno sia all’esterno, ma anche la grande affluenza verso di lui di poveri e sfortunati che tutti, secondo i mezzi, aiuta, sostenta, nutre e assiste. La mostrano parecchi studiosi che egli
1 A proposito di Bessarione princeps di una vera e propria ‘Accademia’ di studi si veda Bianca 2008 p. 36, Hankins 2011 pp. 8-9 e in particolare Stok 2011 p. 83, dove lo studioso osserva che nella praefatio al commento a Stazio Niccolò Perotti si riferisce al cardinale proprio con questo appellativo.
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reperiri codicem posse, quem Bessario non habeat. O praeclaram suppellectilem! O bibliothecam omnium quas unquam uidimus uel uidere possumus iucundissimam atque pulcherrimam. Declarat postremo coetus ille doctissimorum uirorum, quos non modo domi secum alit, sustentat, fouet, amplectitur, sed etiam amplissimis praemiis atque muneribus honestat, ut domum eius existimes non tam unius principis regiam esse, quam Musarum templum, Gratiarum sacellum, omnium bonarum artium diuersorium et eruditorum hominum iucundissimum receptaculum. Quicquid in eo studii, consilii, laboris, industriae est; quicquid auctoritate, fide, facultatibus potest, id omne ad sustinendos ac subleuandos doctos homines et confert et praestat. Quo fit ut plus eruditorum uirorum una Bessarionis domus quam (quod sine inuidia dictum sit) quicquid est reliquum urbis; ut mihi uideatur, quemadmodum olim domus Isocratis officina eloquentiae dicebatur, ita Bessarionis regiam iure optimo philosophiae officinam uocari posse, sub cuius nomine non modo eloquentiae sed omnium optimarum artium studia compraehenduntur. 3. Quid caetera persequor? Nec fide nec facilitate nec comitate nec ullo genere uirtutis quenquam huius aetatis huic praeferendum existimo. Atqui doctrinam eius et summam eruditionem admirari potius licet quam laudare. Omnes artes, quas liberales uocamus, ita in proptu habet, ut habere eas, quemadmodum Augustus dicere solebat, in numerato2 praedicari possit. Philosophiam omnem pene memoriter tenet. Nihil est in diuinarum rerum scientia ita abditum atque reconditum, quod non de secretissimis illius fontibus excitauerit atque hauserit. Omnium rerum, uirtutum, officiorum; omnis naturae, quae mores hominum, quae animos, quae uitam continet, causas, originem, mutationes nouit; omnem praeterea historiam, omnem antiquitatem tenet, et ne legum quidem ac ciuilis et pontificii iuris scientiam neglexit. Ita in utraque lingua doctus atque eruditus est, ut ea magis uideatur excellere, in qua tum maxime uersatur: sic graece loquitur, nullam ut scire aliam linguam existimes; sic latine, ut Musae ipsae romana lingua loqui uideantur. Ita deinde ample, copiose, grauiter disserit, ut nihil sit oratione illius excelsius, nihil magnificentius; ita pure, clare, plane, dilucide, ut a uulgari genere orationis et consuetudine communi non uideatur uelle discedere. Non est sermo eius, ut quorundam nostri saeculi hominum, leuis, exilis, ieiunus, inculcatus, uulgaris, asper, sed grauis, copiosus, uarius, eruditus, amplus, liberalis et floribus quibusdam sententiarum mirifice intextus. Sunt plerique qui sententias habent graues et acutas, sed ita omni ornatu ac splendore sermonis carentes, ut omnium aures offendant. Alii uero ornate quidem et suauiter exprimunt quae uolunt, sed usque adeo carent sententiis, ut nihil sit eorum oratione insulsius, nihil puerilius. At Bessarioni nec sententiarum splendor deest, quas semper in omni genere rerum paratas atque expositas habet, nec ubertas atque elegantia uerborum, quae stillare ex ore illius quasi faui quidam dulcissimi uidentur. 4. Quid nunc opera eius referam, sive quae ex una in alteram linguam convertit, sive quae in utraque lingua vel in philosophia vel de rebus divinis vel de moribus scripsit tanta et sententiarum gravitate et maiestate verborum, ut nihil aetate nostra
2 Espressione impiegata da Augusto a proposito di Lucio Vinicio, oratore giudiziario a lui contemporaneo. Cfr. Aug., dicta et apophth. 2 Malcovati.
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non solo in Grecia, ma in diversi ginnasi d’Italia, di Perugia, di Siena, di Firenze e di Bologna sostiene, e, sulla base delle proprie ricchezze, rifornisce non solo dei mezzi necessari per vivere ma anche per comprare i libri. La mostrano le nobili vergini, che spesso, orfane di genitori, dà in matrimonio con una dote dignitosissima. La mostra la splendida suppellettile libraria, che si procurò di una entità e qualità tali che ritengo che non si possa trovare in tutta la Grecia e tutto l’impero romano un codice dell’una e dell’altra lingua che Bessarione non possegga. O splendida suppellettile! O biblioteca, tra tutte quelle che abbiamo mai visto o che possiamo vedere di gran lunga la più bella e la più gradita! La mostra infine quella folla di uomini dottissimi che non solo in casa con sé sostenta, incoraggia, abbraccia, ma anche ricopre di grandissimi riconoscimenti e funzioni, che crederesti che la sua casa non sia tanto la reggia di un unico principe, quanto il tempio delle Muse, il sacello delle Grazie e l’asilo graditissimo di tutte le arti pregevoli e il rifugio degli uomini eruditi. Qualunque cosa in lui concerne lo studio, l’assennatezza, l’applicazione, l’operosità; qualunque cosa sia possibile riguardo alla sua autorità, alla sua lealtà e alle sue facoltà, questo lui lo mette prontamente a disposizione per soccorrere e sostenere gli uomini eruditi. Perciò accade che una sola casa di Bessarione (ciò sia detto senza invidia) è più ricca di uomini dotti che qualunque altra casa della città; come mi sembra opportuno che, nel modo in cui un tempo la casa di Isocrate veniva definita “officina dell’eloquenza”, così la reggia di Bessarione possa essere chiamata in maniera meritatissima “officina della filosofia”, sotto il cui titolo vengono compresi non solo gli studi di eloquenza, ma di tutte le arti più elevate. 3. Cos’altro posso esporre? Io non ritengo preferibile a costui nessun contemporaneo, né per lealtà, né per indulgenza, né per compagnia, né per nessun altro tipo di virtù. Eppure conviene di più ammirare la sua dottrina e la sua somma erudizione piuttosto che lodarla. Egli ha così a disposizione tutte le arti che chiamiamo liberali che, com’era solito affermare Augusto, si può affermare che le ha “in contanti”. Ricorda quasi tutta la filosofia a memoria. Non esiste nulla nella scienza delle cose divine di così nascosto o recondito che lui non abbia destato e dalle cui segretissime fonti non abbia attinto. Conosce le cause, l’origine, i cambiamenti di tutte le cose, delle virtù, dei doveri, di tutta la natura, di ciò che attiene ai costumi umani, agli animi, alla vita; inoltre conosce tutta la storia, tutta l’antichità e non trascura neppure la scienza delle leggi né del diritto civile e pontificio. È così dotto ed esperto in entrambe le lingue che sembra eccellere maggiormente in quella in cui proprio in quel momento si sta esprimendo: parla così in greco, che crederesti che non parla un’altra lingua; così in latino, che sembra che le stesse Muse parlino nella lingua romana. Pertanto discute in maniera così magnifica, ricca e solenne che non c’è nulla di più eccelso di quel discorso, niente di più magnifico; così limpida, chiara, piana e cristallina che sembra non volersi allontanare dal tipo di discorso popolare e dall’uso comune. Il suo eloquio non è, come quello di alcuni uomini del nostro tempo, insignificante, povero, scarno, forzato, volgare, duro, bensì solenne, ricco, vario, dotto, pregnante, generoso e mirabilmente ornato di qualunque abbellimento del discorso. Ci sono molti che pronunciano frasi solenni e acute, ma così prive di tutto l’ornamento e dello splendore del discorso, che offendono le orecchie di tutti. Altri in verità esprimono in maniera elegante e soave ciò che vogliono, ma sono così privi di idee, che nulla appare più insulso e
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aeditum fuerit excellentius, nihil copiosius, nihil dignius? Quid eos libros, quos adversus rabulam nescio quem Platonis calumniatorem novissime aedidit, tanta rerum omnium copia, varietate, abundantia, suavitate, splendore referctos, ut miro doctorum omnium desyderio in exemplaria mille transcripti, iam non modo per totam Italiam sed etiam extra Italiam usque ad Gallias et Hispanias et Britanniam circumferantur? Sed quid ista, inquies, breuiter et quasi carptim de Bessarionis laudibus in praesentia retulisti, cuius res gestas et uitam pene omnem te scio satis magno uolumine satis esse complexum? 5. Equidem quo magis uiri huius consuetudine perfruor et opera eius lectito, eo uehementius illum admiror et satiari illius laudibus non possum, ad te praesertim scribens, qui eum non minus quam ego colis et ueneraris. Incidit mihi nuper manus liber quidam graecus, huius chirographo scriptus, in quo diuersa eius opuscula continebantur; inter quae deploratio quaedam erat, quam in funere Manuelis Paleologi imperatoris adhuc adolescens et nondum uigesimum aetatis suae annum ingressus graece aediderat. Eam cum legissem, tanta admiratione uel potius stupore affectus sum, ut uix mihi persuadere possem, quanquam id certo sciebam, opus hoc uiuentis hominis esse, et non potius aut Demosthenis aut Eschinis aut Isocratis aut Aristidis aut alterius ex iis, quorum tempore eloquentia maxime florebat. Notabam graues illas perspicuasque sententias et, ut dicam, seniores quam aetas illa ferebat, tum genus orationis ualidum, acre, sublime, figuratum et totum aethereum, in primis autem permotiones illas, perturbationes, affectus, concitationes, quibus certe ita mouebar, ut non tam legere opus illius quam uocem eius audire, et socias effundens lachrimas, oculos, frontem, uultum, gestum narrantis uiderer intueri. 6. Hoc genus dictionis Graeci monodiam, quasi funebrem quendam cantum et lachrimis mixtum, appellant: quales erant quae apud maiores nostros neniae dicebantur. Primus apud Graecos hoc dicendi genere usus est Aristides, deinde Libanius, praeter eos ex ueteribus nemo. Apud Latinos uero nullus adhuc, quod in meam notitiam uenerit, usus est. Accepi subito Aristidem Libaniumque in manibus et eas monodias elegi, quae omnibus quas scripserunt, communi doctorum omnium iudicio pulchriores et affectibus pleniores habentur, hoc est Aristidis monodiam in Smirnae deploratione et Libanii in funere Iuliani imperatoris. Quas cum Bessarionis monodiae comparassem et iniquus alioquin in eum iudex esse conatus forem, ut soleo opera amicorum eo acrius iudicare quo magis amo, longo sane interuallo praeferendum Bessarionis opus existimaui tum affectuum multitudine, tum sententiarum ubertate, tum elegantia et suauitate sermonis. Quapropter exhilaratus animo et quasi aliquem, cum quo Bessarionis mei uictoriam communicare possem, perquirens – ut ii facere solent quibus ex animi sententia foelix aliquid faustumque euenit – repente et non amplius quam quatuor dierum spatio monodias ipsas omnes latinas feci tuoque nomini, Petre Foscare, dedicaui, cuius optimam incorruptissimumque scio esse iudicium; ut qui tantopere Bessarionem colis et ueneraris, non longe post (ut augurari uideor) uirtutum tuarum meritis tu quoque ex senatoribus futurus in tam foelici uictoria mecum triumphares; simul ut per te hoc quoque beneficii, ut pleraque alia, a Bessarione latini homines haberent, ne in tam pulchro atque excellenti genere dicendi externa quaerere cogerentur, sed haberent latina lingua quos facile possent imitari. In qua re – meam in te obseruantiam testor – ne uel aliorum iudicio uel
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puerile del loro discorso. Invece a Bessarione non mancano splendide espressioni, che tiene sempre pronte in ogni situazione, né la ricchezza e l’eleganza delle parole, che sembrano stillare dalla sua bocca come da un dolcissimo favo. 4. Perché ora dovrei riferire delle sue opere, sia quelle che ha tradotto da una lingua all’altra, sia quelle che scrisse in entrambe le lingue, sia di filosofia, che di questioni divine, che sui costumi, con tanta solennità nei pensieri e maestà del linguaggio, che nella nostra epoca non è stato pubblicato nulla di più elevato, di più ricco, di più degno? Perché parlare di quei libri che, non so contro quale ciarlone calunniatore di Platone2 ha pubblicato recentemente, del tutto ricchi di una così grande abbondanza di tutti i concetti, di varietà, di abbondanza, di soavità e di splendore, che, trascritti in mille esemplari per uno straordinario desiderio di tutti i dotti, ormai non solo circolano in tutta l’Italia, ma anche fuori di essa, fino alla Gallia, la Spagna e a Britannia? Ma tu mi domanderai, «Perché ti sei messo a esporre queste idee brevemente e, per così dire, a morsi, a lode del Bessarione, le cui gesta e quasi tutta la vita so bene che hai racchiuso in un grande volume?». 5. In verità, quanto più godo della sua frequentazione e della sua opera abitualmente, tanto più ardentemente lo ammiro e non riesco a essere appagato delle sue lodi, soprattutto nello scrivere a te, che lo rispetti e lo veneri quanto me. Recentemente mi è capitato tra le mani un libro greco, scritto dalla mano di costui, in cui erano contenuti diversi suoi opuscoli, e tra quelli c’era una lamentazione, che egli aveva pubblicato in greco per la morte dell’imperatore Manuele Paleologo, quando era ancora adolescente e non aveva ancora vent’anni. Dopo che l’ebbi letta, fui preso da un’ammirazione, o per meglio dire, da uno stupore così grande che a stento potevo convincermi, anche se lo sapevo per certo, che si trattava dell’opera di un uomo in vita, e non piuttosto di un Demostene, un Eschine, un Isocrate o un Aristide, o di un altro tra di loro, alla cui epoca l’eloquenza viveva la sua massima fioritura. Osservavo quei concetti solenni e limpidi e, per dire, più adulti di quanto quell’età offriva, poi un tipo di eloquio saldo, pungente, sublime, ornato di figure retoriche e del tutto celeste, ma soprattutto quei sentimenti, quei moti dell’animo, quegli affetti, quei turbamenti, dai quali io mi sentivo senza dubbio così commosso, che mi sembrava non tanto di leggere la sua opera, quanto di ascoltare la sua voce, e, versando complici lacrime, mi sembrava di vedere i suoi occhi, la fronte, il volto e i movimenti del narratore. 6. I Greci chiamano questo genere di discorso “monodia”, come se fosse un canto funebre misto alle lacrime: quali per esempio erano quelle composizioni che presso i nostri antenati erano dette “nenie”. Il primo tra i Greci a utilizzare questo tipo di discorso fu Aristide, quindi Libanio, eccetto loro nessuno tra gli antichi. Presso i Latini invero nessuno ancora, per quanto ne so, se n’è servito. Ho preso Libanio e Aristide tra le mani all’improvviso e ho scelto quelle monodie che, fra tutte quelle che essi scrissero, secondo la comune opinione di tutti i dotti, sono ritenute le più belle e le più ricche di sentimenti, cioè la Monodia di Aristide
2 Qui Niccolò fa riferimento a Giorgio Trapezunzio, autore della Comparatio philosophorum Aristotelis et Platonis, completata nel 1458, opera che gli valse la confutazione di Bessarione intitolata In calumniatorem Platonis; cfr. supra p. 63.
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mea ipsius conscientia indulsisse aliquid Bessarionis amori uiderer, duo haec de industria seruaui: primum quidem plus laboris et diligentiae in superioribus monodiis interpretandis quam in hac ultima adhibui, latiniores quodammodo ac politiores eas reddere conatus; secundo Bessarionis monodiam postremo loco posui, quo ad eam priorum lectione iam quasi fastiditi lectores accederent. Quod tamen consilium meum maiorem tandem Bessarioni gloriam allaturum spero, si (quod certe confido futurum) monodia eius doctorum uirorum iudicio superioribus praeponenda esse iudicabitur. Nos uero, ut non modo uerbis nostros homines ad hoc honestissimum munus hortemur sed etiam exemplo excitemus, nostram quoque monodiam post alias omnes addidimus, quam paulo ante in Seueri fratris acerbissimo funere infoelices moeditati sumus. Hoc autem nemo me arroganter fecisse existimet, ut instar Aristidis primus ex Latinis in hoc dicendi genere et quasi dux essem, sed ut alios in uiam ponerem et – quod in prouerbio est – digito fontem demonstrarem. Tuae mansuetudinis erit, inter doctissimorum uirorum opera et ueluti aethereas aquilas passerculos quoque et columbulos nostros uolitantes non aspernari.
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per la lamentazione di Smirne e quella di Libanio per la morte dell’imperatore Giuliano. Nel momento in cui ho confrontato quelle con la monodia di Bessarione e mi sono sforzato peraltro di essere contro di lui un giudice impari, visto che sono solito giudicare tanto più severamente le opere degli amici, quanto più li amo, davvero dopo lungo tempo ho ritenuto che l’opera di Bessarione fosse da preferire, sia per la grande quantità di affetti, siaper la ricchezza delle idee, sia per l’eleganza e la dolcezza del discorso. Perciò, rallegrato nell’animo e quasi cercando qualcuno con cui potessi comunicare la vittoria del mio Bessarione – come sono soliti fare coloro ai quali succede qualcosa di lieto e inaspettato – subito e in non più di quattro giorni ho tradotto tutte le monodie in latino e le ho dedicate al tuo nome, Pietro Foscari, del cui giudizio ottimo e assolutamente integro sono certo; affinché tu, che fino a tal punto onori e veneri Bessarione, tra non molto (come mi sembra opportuno presagire) grazie ai tuoi meriti, futuro tra i senatori, anche tu trionfassi con me in occasione di un successo tanto lieto; ugualmente, affinché attraverso te gli uomini latini abbiano anche questo beneficio, come molti altri, da Bessarione, in modo che i latini, per un tipo di discorso così bello ed eccellente, non siano costretti a cercare aiuti esterni, ma abbiamo a disposizione in lingua latina quelle opere che possono essere facilmente imitate. Per questo motivo – prendo a testimonianza la mia stima nei tuoi confronti – perché non sembri che abbia fatto qualche concessione al mio affetto per Bessarione a giudizio di altri o secondo la mia coscienza, ho di proposito preservato questi due principi: innanzitutto ho profuso più lavoro e fatica nel tradurre le precedenti monodie che in quest’ultima, desiderando renderle in qualche modo più latine e più eleganti; in secondo luogo, ho collocato la monodia di Bessarione all’ultimo posto, affinché i lettori si avvicinino a essa quasi ormai annoiati per la lettura di quelle precedenti. E spero che tale decisione arrecherà una buona volta gloria a Bessarione se – ciò che senza dubbio confido che accadrà – la sua monodia sarà giudicata, a giudizio degli studiosi, degna di essere preposta a quelle precedenti. Io in verità, al fine di stimolare i nostri contemporanei a questo giustissimo compito non solo con le parole, ma anche con l’esempio, aggiungo anche la mia monodia dopo tutte le altre, che poco tempo fa, in occasione della morte estremamente prematura del fratello Severo, ho composto infelice. Ma che nessuno ritenga che io abbia fatto ciò con arroganza per essere, al pari di Aristide, primo tra i Latini a cimentarmi in questo tipo di discorso e per fare quasi da guida, ma per porre gli altri sulla strada e – come dice il proverbio – per mostrare la fonte con un dito. Sarà tua benevolenza non rifiutare tra le opere di uomini dottissimi, quasi aquile eteree, anche i miei passerotti, i miei piccoli colombi svolazzanti.
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ARISTIDIS MONODIA IN DEPLORATIONE SMYRNAE TERRAE MOTV COLLAPSAE INCIPIT FOELICITER
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1. Proh Iupiter quid agam? Quo me uertam? Quem implorem? Sileamne dirutam, ac iacentem Smyrnam? At quam adeo duram adamantis naturam assumam ut id facere possim? Qua me patientia instruam? Quem adeo ferum ac trucem animum induam? An uero eam deplorem et in tam graui atque acerbo casu deos hominesque contester? At quibus uerbis, quo fletu, quo gemitu utar? Quantum mihi audaciae arrogem? Nam si omnes graecorum ac barbarorum omnium uoces qui sunt, qui post conditum hominum genus aut fuerunt, aut futuri sunt in unum conueniant, ne repraesentare quidem tantae calamitatis initium poterunt, ne dicam magnitudinem aequare. Ó rem maximarum atque indignissimarum omnium rerum quas ego uel uidi umquam, uel audiui, maximam atque indignissimam. Huccine te redactam uidemus? Siccine collapsam aspicimus? Hancine praeclarissimae urbis iacturam sustinemus? Ó cernens omnia et omnia afferens, edax rerum omnium tempus. Qualem ciuitatis speciem cogitasti, qualem fabricasti, ut nunc diruta, prostrata, consumpta, miseriae atque infoelicitatis spectaculum foret? 2. Ó dissimilia postrema prioribus. Priora enim Curetum chori erant, educationes ortusque deorum, Pelopum transitus, Peloponnesus colonia et Theseus eorum conditor locorum, qui Sipylo monti subiacent, et natiuitas Homeri, et tot bella, uictoriae, triumphi, et doctissimorum uirorum descriptiones qui pulchritudinem eius caeteris omnibus praeferebant. 3. Quin etiam aspectus ipse longe mirabilior erat, quam exprimi uerbis possit. Occurrebat mox oculis formae splendor, magnitudo, mensura, situs, quasi eiusdem concentus moduli quidam inauditi. Ima ad littus, et portus, et nemora adnitebantur, media aeque et á planis exurgebant, et desistebant á summis. Summa meridiem uersus paulatim attollebantur, parique undique nixu sensim in arcem
Tit. ARISTIDIS MONODIA IN DEPLORATIONE SMYRNAE TERRAE MOTV COLLAPSAE : [p. 8 tit.] ἐπὶ σμύρνη μονωδία : μονωδία ἐπὶ σμύρνη κειμένη G: μονωδία ἐπὶ σμύρνη HOQ : ἐπὶ σμύρνη μονωδία V : om. Z
Tit. Aristidis monodia in deploratione Smyrnae terrae motu collapsae incipit foeliciter A : Aristidis oratoris Monodia in Smirnae terrae motu collapsae deploraratione C : Aristidis oratoris Monodia in Sinyrnae terrae moto collapsae deploratione B : Aristidis monodia in deploratione Smyrnae urbis quae motu corruerat incipit foeliciter N : Aristidis monodia in deploratione Sy (exp.) Smyrne urbis que in terre motu corruerat incipit feliciter D 1 dirutam ACBD : dirruptam a.c., dirutam p.c. (r-p exp.) N 2 Smyrnam AND : Smirnam C : Sinyrnam B 4 eam AND : eum CB contester AND : conte.... C : content quibus verbis (contester ut contendam add. mg.) B 5 audaciae ANCD : arrogantiae B 6 ac barbarorum ANCD : barbarorumque B 9-10 uel uidi umquam, uel audiui ANCD : ut uidi umquam uel audiui B 10 Huccine te AND : Hiccine (te om.) CB te redactam ANCB : redactum D uidemus ANBD : uidem C 11 Hanccine ANCD : Hanc ne B 15 rerum omnium ANCB : rerum om. D 15 curetum AN : cure tum D : ciretum CB 17 Sipylo AN : Sypilo CB : Sypylo D 20 formae splendor ANCD : splendor formae B 21 concentus ANBD : conceptus C
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desinebant et spectaculum tam maris, quam urbis praebebant amoenissimum. 4. Quod uero nec uerbis exprimi poterat, nec oculis percipi, sed nescio quo pacto omnem sensum effugiebat, quamquam alliceret inuitaretque omnium animos, supereminens urbi uertex erat, non deprauans oculos, ut Sappho inquit, sed augens et alens et rigans cum incredibili uoluptate, nec hyacinthi floribus similis, sed talis qualem neque sol, neque terra mortalibus unquam produxit. 5. Et quemadmodum imago aliqua singulari artificio ac diligentia elaborata undecunque spectantibus iucundissimum praebere aspectum consueuit, sic ista omnium olim uenustissima ciuitas, nunc uero omni pulchritudine carens, maesta atque deformis, mirum quendam decorem prae se ferebat, siue extemplo uenientibus appareret, siue é regione uideretur, siue ex suburbanis, aut littore, aut pelago, aut terra, aut mari quisquam eam prospiceret. Postquam uero intra moenia uentum erat, 6. incredibile dictu est quam grati omnibus forent mores, consuetudo, sermones, nulla umquam eorum satietas erat, nulla cum caeteris urbibus comparatio. Ó fontes, ó theatra, ó porticus, ó campi partim tecti, partim sub diuo patentes. Ó insignis et miranda fori species. Ó uiae ab auro, et uicinis deorum templis nomen habentes et instar fori amplae atque illustres. Ó portus in optatum suauissimae ciuitatis amplexum expositi. Ó gymnasiorum ineffabile decus, ó templorum et sacrarum aedium uenerabilis maiestas. Vbi nunc terrarum condita estis? Ó naualia, ó rerum maritimarum monumenta praeclara. Quam omnia repente quasi somnia euanuistis? 7. Qui torrens, quod flumen lachrimarum tantam aequiparare infoelicitatem ualebit? Qui hominum concursus, quae tanta confluentium undecunque mortalium frequentia urbem, tum situ et natura loci, tum rerum omnium, quas appetere humanus animus solet abundantia, praeclaram atque florentem, satis deplorare pro merito poterit? Ó casus Asiae, ó reliquae urbes, ó tellus omnis, et quicquid intra et extra Gades est maris. Ó lucentium syderum circulus, ó cernens ac perlustrans omnia sol. Heu quale cernere spectaculum potuisti? Quam taetrum, acerbum, luctuosum
8 sic ista : [p. 9, 23] οὕτω σοι : σοι om. OZ : οὕτω σοι GHQV 9 omni pulchritudine carens : [p. 9, 24] ἀωρίαν α…… : ἀωρία (-ν ἐχούση suprascr.) OZ : ἀωρίαν ἐχούση GHQ : ἀωρίαν (ἐχούση om.) V 9-10 prae se ferebat : [p. 10, 1] παρέσται : πάρεστι OZ : παρέσται GHQV 22 tum situ et natura loci : [p. 10, 14] καλλίχορον : καλλίχωρον HOZ : καλλίχορον a.c., καλλίχωρον p.c. Q : καλλίχορον G : κάλλιον χωρον V 23 praeclaram atque florentem : [p. 10, 14] περιύμνητον καὶ περιπόθητον OZ : πολυύμνητον καὶ τριπόθητον GHQV 2 uerbis ANCB : urbis D 5 nec ANBD : ne C hiacinthi a. c., hyacinthi p.c. A : hyacinthi CB : iacynthi ND similis AND : similes CB 6 sol ANCB : sed D aliqua ACB : quaedam ND 7 singulari artificio ac singulari diligentia (secundum singulari exp.) C 8 uenustissima om. CB 10 extemplo AN : ex templo CBD siue e regione ANBD : fuit e regione C 11 aut ANCD : atque B eam prospiceret AND : eum prospiceret B : prospiceret eum (sed litteris suprascr. b - a ord. corr.) C 12 intra AND : inter CB erat ANCD : est B dictu ANCB : delictu D 13 satietas AND : sanitas CB 15 fori ANBD : foris (-s del.) C 18 sacrarum ANCD : sacrorum B 19 monumenta ACB : ornamenta ND quam omnia quam repente (secundum quam exp.) N 20 euanuistis ANCB : euanescitis D 21 infoelicitatem ANCB : felicitatem D concursus ANCD : cursus confluentium ACBN : fluentium D undecunque ACBD : undeque (cum suprascr.) N 23 abundantiam AN : habundantia CBD praeclaram NCBD : praeclarim a.c., praeclaram p.c. A pro ANCB : pio D 25 Gades est maris. O lucentium siderum circulus om. D 26 potuisti ANCB : posuisti D
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et diis hominibusque inuisum. Heu heu ludus quidam fuit excidium Troiae, ludus Atheniensium in Sicilia calamitates, et deuastatio Thebarum, et exercituum clades et urbium subuersiones, et quicquid facere anteacta aetate ignis, terrae motus, bella potuere. Quae enim nunc reliquiae extant? Quid sperare amplius possumus? Quod nobis aut deorum aut hominum praesidium putamus affuturum? Heu, prius quidem forma, dignitate, fortunis, musis caeteras omnes urbes excellebas. Nunc nouo isto infoelicitatis genere Rhodi etiam calamitatem superasti, ut cuius dignitas, excellentia, maiestas, decantata olim á Graecis fuerat, eius nunc miserabile excidium, uersa in luctum cythara caneretur? 8. Ó dies infoelicis busti omnium graecorum. Ó dies Graecis omnibus infaustus. Quale totius generis caput sustulisti? Qualem euulsisti oculum? Quo lumine, quo splendore Graeciam priuasti? Ó decus orbis terrarum, ó Graeciae spectaculum. Ó nympharum et gratiarum manibus intextum opus. Ó ego haec omnia passus. Vbi nunc terrarum ista deplorem? Vbi querar? Vbi lugeam? Vbi iam mihi schola, ubi gymnasium erit? Vbi iuuenum ac seniorum caterua et plausus omnia nobis abunde suppeditans? Fuisse olim in Sipylo urbem ferunt, quae terrae motu ab iis quae subiacent paludibus absorpta est. Heu quale hoc excidii tui praesagium Smyrna fuit? Qualem sortita es fortunam? Quam tua uenustate, decore, pulchritudine indignam? 9. Nunc aues omnes uolitare in ignem oportebat, cuius infoelicissima urbs copiam praebet, nunc omnem Epirum tonderi, quandoquidem defluentibus capillis omnino deformata caesaries est, nunc ex lachrimis fieri fluuios, nunc naues nigris uelis per pelagus ferri. Ó Melas olim tam celeber fluuius, nunc per deserta defluens loca. Heu quam á prioribus cantibus diuersi sunt praesentes. Ó cygnorum cantus. Ó chorus lusciniarum ad fletum conuersae. Profecto etiam Gorgones si in praesentia uiuerent, non Medusam, aut oculum suum, sed totius Asiae oculum deflerent extinctum.
15 caterua: [p. 11, 7] σύνοδοι : σύλλογοι OZ : σύνοδοι GHQV 25 suum : [p. 11, 17] αὑτῶν : αὑτῶν Q : αὐτῶν GHOVZ
1 Troiae ACB : Troyae N : Troie D 2 et deuastatio AND : deuastatio (et om.) CB exercituum ACBD : exercituim (u suprascr.) N 3 anteacta AND : ante acti CB 5 putamus om. CB 8 decantata ANCB : decantatam D miserabile ANBD : mirabile C 9 caneretur ABD : caneret NC 12 splendore ANBD : splendorem C orbis ANCD : urbis B 13 intextum ANBD : contextum (inte mg.) C 14 querar ANBD : conquerar (con exp.) C schola AND : scholae BC 15 iuuenum ANCD : itiunium (ut uid.) B seniorum ANCB : senorum D 16 Sipylo AND : Sypho CB iis ACB : his ND 17 absorpta ANCB : absorta D excidii ACBD : excidium N 18 indignam ANCB : indignatam a.c., indignam p.c. (tam exp.) D 19 nunc ANCB : hunc D 20 quandoquidem ANBD : quondam C 22 Melas ACBD : Melos N 23 cantibus diuersi sunt praesentes ND : campis diuersi sunt praesentes AB : diuersi sunt campi praesentes C 24 lusciniarum ACBD : lasciniarum N conuersae ACB : conuersi ND
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10. Quem Bosphorum, quas Nili plagas, quem Tartessum tua gloria non penetrauit? Quae Massilia, quis Boristhenes, quis tam longiquus, aut tam reconditus locus, quo non sit tanta calamitas peruasura? Quis Graecus ita extra omnem Graeciam constitutus est, quis barbarus ita ferox atque indomitus, quem et prius fama pulchritudinis Smyrnae ad eam uidendam non prouocauerit et nunc fama tam insignis calamitatis non moueat ad dolendum? Heliades ferunt nimio fletu ob mortem fratris in populos quondam mutatas et earum lachrimas in electrum uersas fuisse. Te uero, ó quondam iucundissima ciuitas, tempus est ut iam arbores quoque deplorent. FINIT
2 Boristhenes AN : Boriscenes D : Borischenes CB 3 peruasura ANCB : peruersura D 5 eam uidendam AND : eum uidendum CB provocarit AD : prouocauerit NCB calamitatis ANCD : calamitas B 6 Heliades AND : Helyades CB 7 quondam ACB : tandem ND mutatas ANCB : mutates a.c., mutatas p.c D earum lachrimas ACB : lachrymas earum ND uersas ANBD : mutatas (uersas mg.) C te ANBD : tu (te mg.) C uero, ó ANCB : uero ut D
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Capitolo Terzo
La ‘concordia’ di Elio Aristide nella crisi del 1494 La traduzione latina di Carlo Valgulio del discorso Ai Rodiesi, sulla concordia
III.1 Il contesto storico Nel 1497 Carlo Valgulio, umanista bresciano (1434 ca. - 1517), diede alle stampe, in un volume comprensivo di diversi opuscoli1, la traduzione latina delle orazioni di Elio Aristide Ai Rodiesi, sulla concordia (or. 24)2 e di Dione di Prusa3 Agli abitanti di Nicomedia, sulla concordia con Nicea (or. 38). L’epistola prefatoria e le traduzioni furono dedicate al cardinale Francesco Piccolomini (1439-1503), legato di Alessandro VI presso Carlo VIII nel 1494 e pontefice con il nome di Pio III dal 22 settembre al 18 ottobre 1503, data della sua morte. La versione di Valgulio è la terza in ordine cronologico tra quelle esaminate, dopo quelle di Cencio de’ Rustici (1416) e di Niccolò Perotti (1471) ed è la prima che attiene a un discorso aristideo legato a un episodio storico, cioè la rivolta scoppiata a Rodi poco prima del 149 d.C. La storia fa da protagonista anche nella lettera con cui l’umanista introduce la traduzione: l’appello alla concordia lanciato da Elio Aristide ispirò infatti a Valgulio la sua traduzione a causa della crisi italiana della fine del XV secolo, che determinò la disgregazione dell’unità dei diversi stati italiani. Nell’epistola si fa riferimento alla guerra portata da Carlo VIII, re di Francia figlio di Luigi XI. Il sovrano, che rivendicava i diritti di successione nel regno di Napoli, passati per testamento e per parentela da Renato d’Angiò a Luigi XI, progettò e mise in atto una discesa in Italia che, seppure segnata da un successo effimero, mise in luce le debolezze dei tanti stati in cui era divisa la penisola4. Carlo VIII fu in grado di realizzare il suo progetto grazie alla situazione di difficoltà che si era creata dopo la morte di Lorenzo il Magnifico, avvenuta nel 1492. Grazie a un’accorta politica di alleanze con i principi e i sovrani che sarebbero stati d’ostacolo all’attraversamento delle Alpi, il sovrano francese dal marzo 1494 avanzò verso Milano, dove poteva confidare sull’appoggio di Ludovico il Moro, per giungere poi senza problemi a Firenze. Qui in un primo momento Piero de’ Medici gli garantì sostegno finanziario e il passaggio in punti strategici, ma in seguito, quando questi fu cacciato
1 L’incunabolo è indicato con la sigla ic0074100 nell’ISTC; altri riferimenti sono: HC 5450; IGI 3039. Per una descrizione vd. infra, pp. 156-157. La stampa è registrata in Cortesi-Fiaschi 2008, p. 102. 2 Keil 1898, pp. 54-71. 3 Arnim 1893-1896, vol. 2, pp. 29-43. 4 Sulla discesa di Carlo VIII in Italia si vedano le Mémoires di Philippe de Commynes; vd. Calmette, 1924-1925. Si veda anche Abulafia 1995; Balsamo 1998.
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dal popolo fiorentino per il suo conclamato servilismo nei confronti del dominatore straniero e si formò il governo provvisorio di Pier Capponi, Carlo VIII dovette accontentarsi di condizioni meno favorevoli, che comunque non gli impedirono di proseguire la sua discesa. Dopo essere passato per Siena, Carlo VIII arrivò a Roma, dove iniziò trattative segrete con papa Alessandro VI5 al fine di conseguire l’investitura del regno, per legittimare la sua conquista. Intanto a Napoli, che rappresentava la meta ultima del re francese, dopo la morte di Ferdinando I, noto come Ferrante (1424 - gennaio 1494), era salito al potere Alfonso II, che però dopo appena un anno, nel gennaio 1495, abdicò a favore del figlio Ferrandino. Quest’ultimo, abbandonato da tutti, non poté fare altro che fuggire e asserragliarsi a Ischia, mentre Carlo entrava vittorioso a Napoli il 22 febbraio del 1495. Tuttavia, nonostante la relativa facilità con cui il regno di Napoli era stato conquistato, presto i vari stati italiani e le diverse potenze europee si unirono per cacciare il dominatore straniero: l’impero degli Asburgo nella persona di Massimiliano d’Austria, Ferdinando il Cattolico con Isabella di Castiglia, Ludovico Sforza (che nel frattempo s’era fatto proclamare duca di Milano), il pontefice e Firenze, e in seguito anche Enrico VII d’Inghilterra, costituirono a Venezia una lega in funzione anti-francese. La portata internazionale delle alleanze dimostrò come i destini della penisola fossero ormai oggetto d’interesse dei regni d’Oltralpe e questo portò cambiamenti notevoli negli assetti politici italiani. Rapida fu la ritirata di Carlo VIII, che in seguito alla battaglia di Fornovo (6 luglio 1495) passò per Asti e quindi di nuovo attraverso le Alpi, e altrettanto immediato fu il ritorno a Napoli dell’aragonese Ferrandino nel luglio di quello stesso anno, sostenuto dalle milizie spagnole di Consalvo di Cordova.
III.2 Carlo Valgulio, umanista bresciano III.2.1 Gli anni di formazione e i rapporti con gli altri umanisti dell’epoca
In tale quadro storico-politico svolse la sua attività di segretario e intellettuale il bresciano Carlo Valgulio. Su Valgulio non si possiedono molte informazioni; l’unica biografia dedicata esplicitamente a lui, di Andrea Valentini, è dell’inizio del’900; a essa è seguita la recensione di Agostino Zanelli, che ha contribuito ad arricchire il quadro di notizie a nostra disposizione6. Gran parte delle notizie contenute in queste pubblicazioni sono relative ai suoi rapporti con i letterati del tempo, testimoniati da scambi epistolari, dediche e giudizi di eruditi che offrono l’immagine di un umanista apprezzato, profondo conoscitore del greco e dell’antichità in generale. Carlo sarebbe nato nel 1434 a Brescia da Stefano Valgulio, giureconsulto e abate della città nel 14467. La sua attività letteraria va inquadrata nel contesto della
5 Sui rapporti tra Carlo VIII e i Borgia vd. Cloulas 1994, pp. 41-50. 6 Valentini 1903; Zanelli 1904. 7 Zanelli 1904, p. 131.
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Brescia della metà del’400, quando la città conobbe un notevole sviluppo delle lettere e in particolare dell’insegnamento del greco, grazie anche alla diffusione precoce della stampa, strumento rivoluzionario in grado di garantire una più immediata trasmissione del sapere; in quegli anni il Comune, com’è testimoniato dai registri delle Provisioni e dagli statuti del tempo, incoraggiava, attraverso l’elargizione di stipendi e immunità, l’arrivo di dotti e in particolare di maestri di greco perché si occupassero dell’istruzione della gioventù bresciana8. Tra questi si ricordano Giovanni Calfurnio e Gabriele Concorreggio, che insegnarono a Valgulio il greco e il latino; l’apprendimento fu particolarmente proficuo, dal momento che l’umanista fu ricordato da più di uno dei suoi illustri contemporanei per la sua eccellente conoscenza delle lingue antiche. È probabile che Valgulio frequentasse anche le lezioni di Ubertino Puscolo, dotto bresciano allievo a Ferrara di Guarino Veronese, che, dopo essere stato fatto prigioniero dai Turchi durante un viaggio a Costantinopoli, tornò a Brescia dove aprì una rinomata scuola di grammatica9. Un’autorevole prova dell’ottima riuscita in questo tipo di studi è rappresentata dalla raccomandazione fatta da Marsilio Ficino nell’epistola De humanitate datata 1474 al fiorentino Tommaso Minerbetti10 di non perdere i contatti con Valgulio, che a quell’epoca si occupava dell’educazione dei figli. Ficino scrive infatti a Minerbetti: Perseuera etiam in familiaritate Caroli Valgulii nostri: est enim uir humanitate humanitatisque studiis tam Graecis quam Latinis excellens11. Questa notizia si collega senz’altro a un soggiorno fiorentino dell’umanista bresciano, di cui non si conoscono i dettagli12. Una testimonianza di questo periodo toscano è rappresentata da una lettera che nel 1475 Valgulio scrisse ad Angelo Poliziano mentre si trovava ad Arezzo. In questo documento l’umanista rende note le sue scoperte archeologiche e riferisce le sue ipotesi sulle origini del popolo aretino; egli si duole anche del fatto di non potersi intrattenere a Firenze con i suoi amici, tra cui cita esplicitamente proprio Poliziano, ma anche Marsilio Ficino, Panezio Pandozzi e Niccolò Michelozzi13. La stima per Poliziano fu contraccambiata, dal momento che il celebre letterato toscano espresse apprezzamento per Valgulio componendo in suo onore un epigramma in greco14. Altre informazioni biografiche su Valgulio sono desumibili dalle epistole preposte ad alcune sue traduzioni; dalla lettera dedicatoria della traduzione del De contemplatione orbium excelsorum di Cleomede a Cesare Borgia è possibile ricavare la notizia che
8 Sull’insegnamento del greco a Brescia nel XV secolo vd. Signaroli 2009; Monti 2012. 9 Zanelli 1904, pp. 130-131; per una profilo biografico aggiornato di Ubertino Puscolo vd. Valseriati 2012, pp. 163-230. 10 Tommaso Minerbetti fu un corrispondente di Marsilio Ficino e un uomo di lettere. La Biblioteca Riccardiana di Firenze conserva due manoscritti trascritti da lui: il 364 (M IV 20), contenente i Disticha Catonis, e il 620 (L IV 11), con la Tebaide di Stazio. Vd. Kristeller 1993, pp. 178-179. 11 Epistola 1, 55 Gentile. Vd. Gentile 1990. 12 Vd. Zanelli 1904, p. 131. 13 La lettera è conservata nel manoscritto Laur. Plut. 90 sup. 37; vd. Maïer 1965, pp. 391-393. 14 Vd. Valentini 1903, p. 15; Pontani 2002, pp. 11-12.
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Valgulio si sarebbe dedicato all’attività di traduttore dopo la morte di Falcone Sinibaldi15, noto per aver prestato servizio come protonotario apostolico e soprattutto per la sua carica di tesoriere generale di Innocenzo VIII a partire dal 12 settembre 148416; di lui Valgulio fu segretario dal 1481 al 1485. Negli anni in cui l’umanista fu al servizio di Sinibaldi prese in prestito un gran numero di codici dalla Biblioteca Vaticana, che frequentava con assiduità probabilmente proprio grazie alla sua attività di segretario; dalle note di prestito emerge che Valgulio consultò i volumi più disparati, a riprova della vastità dei suoi interessi, da alcuni codici aristotelici a un manoscritto contenente i Moralia di Plutarco, all’Almagestum di Tolomeo, fino all’Arithmetica di Nicomaco17. Dopo la morte di Sinibaldi, avvenuta nel 1492, Valgulio passò al servizio del Cardinale Cesare Borgia18, presumibilmente quindi dopo il 1493, quando il Valentino fu creato Cardinale dal padre Rodrigo, asceso al soglio pontificio con il nome di Alessandro VI. In questi anni di soggiorno nell’Urbe Valgulio dovette incontrare Pietro Gravina19, intellettuale palermitano noto per la frequentazione dell’Accademia Pontaniana e per la sua produzione latina in versi e in prosa realizzata a Napoli sotto la protezione di Consalvo di Cordova, quindi di Prospero Colonna. Questi visse anche a Roma e sappiamo che vi si soggiornò dal 1490, poiché al principio della sua Oratio de Christi ad coelos ascensu20, che pronunciò alla presenza del papa Alessandro VI il 16 maggio 1493, si legge che a quella data egli contava già tre anni di permanenza nell’Urbe. Si tratta precisamente del periodo in cui Carlo Valgulio venne a conoscenza del testo di Aristide e decise di tradurlo ed è plausibile immaginare che egli sottoponesse la sua versione latina a Gravina, che apprezzò molto lo scritto, come si può leggere dalla dedica anteposta nell’incunabolo alla traduzione valguliana, in cui Gravina chiama Valgulio “Aristide Romano”. Per la sua importanza riproduciamo di seguito la dedica di Gravina a Valgulio tratta dall’incunabolo del 1497. Petrus Grauina Carolo Valgulio Brixiano Aristidi Romano cognominato salutem Aristides Graecus tibi, Aristidi Romano, non minus debet quam sibi, quem una cum suorum imperio corruentem, non modo a fatorum iniuria uendicasti, sed etiam eadem qua fuerat elegantiae dignitate Latinis auribus oblatum, Romana ciuitate donasti. Beneficium me hercle rarum et immortale, cuius quidem emolumentum ac gloria non minor ad eum cui collatum est, quam ad conferentem peruenit. Tu itaque, Charole 15 Nell’epistola anteposta alla versione latina del De contemplatione orbium excelsorum di Cleomede (f. 2v), contenuta nello stesso incunabolo che reca le traduzioni dei discorsi sulla concordia di Dione e Aristide, Valgulio afferma: Ego vero, qui post mortem clarissimi et optimi viri Falconis Sinibaldi a negotiis vacuus et liber fui… dedicaui. 16 Sinibaldi fu parte attiva del movimento intellettuale romano sotto Innocenzo VIII, come testimoniano la sua amicizia con Iacopo Ammanati e i suoi scambi epistolari con Francesco Filelfo. Fu anche prossimo a raggiungere la porpora cardinalizia, ma fu stroncato in questo desiderio dall’ascesa di Alessandro VI al papato. Vd. Zippel 1904-1911, p. 61; Gualdo Rosa 1973 (2), p. 303, n. 27. 17 Müntz-Fabre 1887, pp. 287-292; Bertola 1942, pp. 56-57; Meriani 2005, p. 5 e 2011, pp. 237-239. 18 Vd. Eubel 1898-1901, vol. 2, p. 22. 19 Vd. Pietro Gravina in DBI 58, 2002, pp. 770-772, voce di Monica Cerroni. 20 Di questo discorso parla distesamente anche O’Malley a proposito della produzione retorica epidittica nella Roma rinascimentale; vd. O’Malley 1979, pp. 66, 94, 152, 162-163, n. 142.
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eruditissime, si te ita beneficum erga omnes praestiteris, tibi id ipsum non abnuente fortuna sine inuidia uendicaueris, ut quemadmodum praeclarorum uirorum memoriam a tenebris in lucem reuocas et reddis illustriorem, ita tuum nomen nulla fatorum series obscurabit. Vale21. Al di là dell’immagine topica della salvezza di un’opera dalle tenebre dell’oblio con l’impiego della frase non modo a fatorum iniuria uendicasti, Gravina dovette essere sinceramente grato a Valgulio per aver riportato in auge il retore greco; Gravina infatti ebbe per buona parte della sua vita interessi retorici, come dimostrano sia la sua formazione, avvenuta a Napoli presso Aurelio Bienato, allievo di Lorenzo Valla e lettore di retorica a Napoli nel decennio 1470-80, sia la sua stessa produzione letteraria, che comprende anche l’orazione pronunciata al cospetto di Alessandro VI. Sappiamo che Valgulio non tornò a Brescia prima del 1497, dal momento che nel summenzionato incunabolo con le traduzioni di Cleomede, Aristide, Dione e Plutarco pubblicato presso l’editore Angelo Britannico a Brescia egli è detto ancora “segretario di Cesare Borgia Cardinale Valentino”; a proposito di questa pubblicazione, il cronista Elia Caprioli22 narra che l’opera uscì in occasione dell’arrivo in città di Caterina Cornaro regina di Cipro. Egli morì in circostanze piuttosto oscure e in seguito romanzate; alcuni cronisti come Isidoro Del Lungo23 narrano che Valgulio morì di spavento alla vista di un fantasma, ma ben più credibile è la notizia riportata dal Palazzi, che parla di un omicidio avvenuto il 17 gennaio del 151724. III.2.2 Le traduzioni latine
Coerentemente con l’eccezionale perizia mostrata nelle lingue antiche e tanto elogiata dai dotti a lui contemporanei, Valgulio è ricordato soprattutto per le sue traduzioni dal greco al latino. L’umanista compose in una prima fase la traduzione latina di due opere isocratee, l’A Nicocle e il Nicocle, conservate nel manoscritto H.IX.10 della Biblioteca Comunale di Siena; non è possibile datare con precisione le versioni, ascrivibili al periodo in cui Valgulio prestò servizio come segretario presso il tesoriere Falcone Sinibaldi.
21 “Pietro Gravina saluta Carlo Valgulio di Brescia, soprannominato ‘Aristide Romano’. Aristide Greco non è meno debitore verso di te, Aristide Romano, che verso se stesso, lui che, andando in rovina insieme all’impero dei suoi contemporanei, non solo liberasti dall’offesa del triste destino, ma anche a cui donasti la cittadinanza romana offrendolo alle orecchie latine con quella stessa dignitosa eleganza che gli era stata propria. Un beneficio raro e immortale, certamente, di cui senza dubbio giunge utilità e gloria non minore a colui al quale è recato rispetto a chi lo reca. Tu pertanto, eruditissimo Carlo, se ti sarai mostrato benefico verso tutti, qualora la fortuna non lo neghi, avrai reclamato questo stesso per te senza invidia, sicché, come riporti alla luce il ricordo degli uomini illustri dalle tenebre e lo rendi più illustre, così nessuna serie di eventi oscurerà il tuo nome. Sta bene”. 22 Valentini 1903, p. 12. 23 Del Lungo 1867. p. 175. 24 L’omicidio è inoltre confermato nel diario di Marino Sanuto. Vd. Valentini 1902, pp. 13-14; Zanelli 1904, p. 132.
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Proprio per questo motivo un plausibile terminus ante quem è il 1492, anno della morte di Sinibaldi, mentre per il terminus post quem si può pensare al 1484, anno della nomina di quest’ultimo a tesoriere generale di Innocenzo VIII, come si legge in un documento dell’Archivio Vaticano (Reg. Vat. 694, f. 4v)25. Le traduzioni, ritenute anonime da Kristeller nell’Iter26, sono state attribuite a Carlo Valgulio dalla studiosa Lucia Gualdo Rosa27 e sono dedicate a Felino Sandeo, professore di diritto canonico a Ferrara e poi a Pisa, oltre che vescovo di Penne e poi di Lucca. Successivamente, Valgulio pubblicò a Brescia il 3 aprile del 1497 un cospicuo gruppo di traduzioni28: il trattato astronomico Cleomedis de contemplatione orbium excelsorum disputatio, dedicata a Cesare Borgia; le Aristidis et Dionis de concordia orationes (del primo l’or. 24, del secondo l’or. 38), al Cardinale Francesco Piccolomini; l’opuscolo plutarcheo De uirtute morali, con il titolo De uirtutibus morum, dedicato al papa Alessandro VI, e i Praecepta coniugalia, intitolati da Valgulio Praecepta connubialia, per Giovanni Borgia. Valgulio compose anche la versione latina dei Praecepta gerendae rei publicae di Plutarco, dedicandola ancora una volta a Francesco Piccolomini, in una data anteriore al 1503, anno della morte del Cardinale. Quest’opera ci è trasmessa con il titolo Plutarchi Praecepta ciuilia interprete Carolo Valgulio da due manoscritti: un Marciano del XV secolo siglato classis VI. codice LXIX (a stampa: cod. 150)29 e posseduto dall’abate Giacomo Morelli, che lo fornì di una legatura moderna, e un manoscritto della Biblioteca Universitaria di Pisa (ms. 554)30. Nell’incipit si legge il nome del cardinale Francesco Piccolomini, ma Valentini suppone che questo sia stato aggiunto in un secondo momento, dal momento che la dedica dell’opera è in realtà costituita da un lungo elogio dei soli Falcone Sinibaldi e Felino Landeo (probabilmente si tratta nuovamente del Sandeo dell’A Nicocle). Molto nota e apprezzata fu la versione latina del De musica31 dello pseudo-Plutarco, dedicata al cantante Tito Pirrino e pubblicata a Brescia per la prima volta nel 1507 dallo stampatore Angelo Britannico. Si tratta di «uno dei documenti più importanti dell’umanesimo musicale»32, e fu più volte pubblicata nel corso del XVI secolo e ristudiata nel 1735 da Pierre-Jean Burette per la sua edizione del testo greco. Valgulio compose anche una traduzione della storia di Arriano pubblicata con il titolo di Historia de rebus gestis Alexandri Magni a Venezia per Bernardinus Venetus de Vitalibus nel 150333; della stessa opera si ha notizia con il titolo Arriani historia de rebus gestis Alexandri Macedonis (Carolo Valgulio interprete), pubblicata tra il 1508
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Gualdo Rosa 1973 (1), p. 302, n. 25 e p. 303, n. 27. Vd. Kristeller 1963-1997, vol. 2, p. 166. Gualdo Rosa 1973 (1), p. 300. Per la descrizione del volume vd infra, pp. 156-157. Individuato da Valentini come l’unico manoscritto inedito di Valgulio; cf. Valentini 1903, pp. 26-27; Cosenza 1962-1967, vol. 4, p. 354. Becchi 2009, p. 32, Meriani 2011, p. 230, n. 7. Su questa versione vd. Meriani 2005, 2006 e 2011. Meriani 2005, p. 2. ISTC no. ia01084000. Nel CTC il volume è datato al 1508 (Hain 1811); cfr. CTC, vol. 3, 1976, p. 14.
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e il 151434; questa versione è conservata alla Biblioteca Comunale di Brescia e fu indirizzata ad Antonio Moretto. Di Plutarco Valgulio tradusse anche De placitis philosophorum, edita per la prima volta a Parigi nel 1514 in Aedibus Ascensionis. Infine Valentini dà notizia di una traduzione dell’orazione isocratea Sulla pace, riportando come fonte dell’esistenza di quest’opera la testimonianza del cronista Elia Caprioli, senza fornire però ulteriori informazioni. Non rientra nelle versioni latine, ma è comunque una testimonianza importante per la ricostruzione della vicenda biografica valguliana, un libello che lo studioso bresciano compose in difesa della legge suntuaria promulgata dalla sua città natale che mirava a limitare il lusso nelle cerimonie funerarie. Lo scritto, datato al 1509, è presente in due esemplari, uno appartenente alla biblioteca Pinelli (dal 1790 venduta a Londra) e un altro alla biblioteca milanese Braidense, al giorno d’oggi dispersa, ed è intitolato Valguli Carolus libellus in quo demonstratur Statutum Brixianorum de sumptibus funerum optima ratione nullum facere descrimen fortunae inter ciues, nec esse honores qui uulgo putantur; eiusdem contra uituperatores Musicae35.
III.3 L’epistola prefatoria della traduzione valguliana III.3.1 Il destinatario
Il volume uscito a stampa nel 1497 Valgulio conteneva una lettera con cui Valgulio dedicava le traduzioni dei discorsi di Elio Aristide e Dione di Prusa sulla concordia al cardinale Francesco Piccolomini36. La scelta del destinatario non è affatto casuale e risulta coerente con le altre dediche contenute nel libro, tutte indirizzate a membri della famiglia Borgia o a personaggi a essi collegati. Francesco Todeschini-Piccolomini fu proiettato da suo zio Pio II sin da giovanissimo in un circuito di relazioni internazionali che gli guadagnarono una serie di benefici ecclesiastici in terra tedesca; la sua carriera fu costellata di importanti incarichi, come l’assunzione nel 1464 della funzione di vicario generale in temporalibus per la città di Roma e per il patrimonio di S. Pietro, sempre grazie all’illustre zio, impegnato in quegli anni nell’organizzazione di una crociata contro i Turchi. Piccolomini fu inoltre più di una volta sul punto di essere eletto pontefice, in particolare nel 1492, quando morì Innocenzo VIII; in quest’occasione egli non rivelò però intenzioni serie rispetto a un’eventuale ascesa al soglio pontificio, ma conservò una posizione di rilievo in seguito all’elezione di Alessandro VI. Nel 1494, insieme ad altri porporati, convinse il papa Borgia a opporsi all’avanzata di Carlo VIII o quantomeno a non concedergli il passaggio attraverso lo stato della Chiesa; a
34 Valentini 1903, pp. 24-25. 35 Valentini 1903, p. 25. 36 Sull’attività culturale di Pio III e sui suoi rapporti con gli umanisti dell’epoca vd. Strnad 1964-1966, pp. 321-349; in particolare per Carlo Valgulio p. 332. Si veda anche Pio III in EP 2000.
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questo periodo è da ascrivere la riflessione che Valgulio fa nella sua lettera relativa all’opposizione di Piccolomini all’avanzata francese37. Quando i Francesi entrarono in Toscana e i Medici furono cacciati da Firenze, Alessandro VI lo designò come legato a latere per trattare con l’invasore; il cardinale però, di famiglia notoriamente filoaragonese, non fu accolto da re, che era a conoscenza, del resto, delle critiche che il Piccolomini gli aveva mosso in tempi recenti. Dopo aver comunicato al papa il fallimento dell’ambasceria, il cardinale si ritirò a Siena e lì finalmente incontrò Carlo VIII, ma in udienza privata e non in qualità di legato pontificio. Le parole del cardinale non sortirono però nessun effetto, dal momento che i Francesi entrarono a Roma il 27 dicembre e vi rimasero un mese. Alla morte di Alessandro VI, non senza difficoltà Francesco Piccolomi fu eletto papa il 22 settembre 1503; egli fu pontefice per pochissimo tempo, poiché morì il 18 ottobre di quello stesso anno. Occorre tuttavia osservare che nel corso del suo breve pontificato garantì la permanenza presso il palazzo papale di molti personaggi legati ai Borgia e confermò a Cesare l’autorità di gonfaloniere e vicario di Romagna, preservando così i rapporti con la famiglia che aveva servito per molti anni. Francesco Piccolomini fu per tutta la vita un cultore delle lettere e amante delle arti; acquisì la collezione statuaria di Prospero Colonna e la biblioteca di Giovanni Andrea Bussi, vescovo di Aleria e primo bibliotecario della Vaticana. Intrattenne inoltre rapporti con importanti umanisti, come Marsilio Ficino, Ludovico Odasio da Padova, Giovanni Cantalicio, Giannantonio Campano e il nostro Carlo Valgulio. III.3.2 Il contenuto della lettera
La lettera di Valgulio si apre con un riferimento al periodo storico contemporaneo; l’umanista dichiara da subito che i tempi segnati da divisioni e guerre gli avevano instillato il desiderio di parlare di pace e concordia: Turbulenta haec tempora, bellorum et discordiarium plena incredibile mihi desyderium pacis, quietis et concordiae iniecerunt38. L’impiego del dimostrativo haec unito a tempora in prima battuta sottolinea la volontà di raccordarsi al momento attuale, che costituisce lungo tutto l’epistola il motivo centrale intorno a cui gravita il messaggio valguliano; inoltre, compaiono già in queste prime righe i riferimenti alla discordia e al suo opposto, la concordia, in quell’antinomia che è alla base del discorso di Aristide e che viene riproposta da Valgulio in tutta la sua forza persuasiva. Questa considerazione iniziale si chiude con un assunto di natura sentenziosa: Nam plerique omnes tum bona cognoscere uidentur, cum ea abiere dilapsaque sunt39, con cui l’umanista mostra di voler ricavare dal momento
37 Vd. infra, p. 125. 38 “Questi tempi turbolenti, pieni di guerre e discordie mi hanno ispirato un incredibile desiderio di pace, tranquillità e concordia” (§ 1). La paragrafazione è nostra. 39 “Infatti quasi tutti sembrano riconoscere i beni solo una volta che questi sono scomparsi e sono stati distrutti” (§ 1).
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contingente un insegnamento di valore eterno e universale. Dal particolare, gli haec tempora incipitari, si passa così al generale, per mostrare come ciò che scorre davanti agli occhi in un momento preciso sia sempre collegabile all’immutabilità dei comportamenti umani. Dopo aver fornito al lettore questi primi spunti, l’umanista si rivolge al destinatario con la formula Tu… pater e ne introduce l’elogio riconducendo l’acquisizione dei bona, di cui il cardinale è fornito al massimo grado, da una parte alla nobile indole, come indica l’enunciato tum sponte praestantique mente tua concitus, “sia spontaneamente e incitato dalla tua mente straordinaria”, dall’altra alle sollecitazioni dell’illustre zio, concetto espresso con tum cohortationibus ac diligentia auunculi tui Pii Secundi summi pontificis ac summi uiri adiutus, “sia per le esortazioni e lo zelo di tuo zio Pio II, sommo pontefice e sommo uomo”. Segue l’encomio vero e proprio (§ 2), con la rassegna delle uirtutes topiche dell’animo che il cardinale, nonostante la minaccia straniera, non ha smesso di coltivare: pietas, religio, modestia, probitas, studium sapientiae. Valgulio afferma infatti che sebbene recentemente il furor Gallicus si sia abbattuto sull’Italia, qualità come prudentia…, constantia, patientia, animi uirtus, sono rimaste intatte nell’animo dell’illustre destinatario. Ancora una volta dunque viene inserito un accenno alla realtà storica e in particolare si ritrova qui il primo riferimento a un aggressore esterno. Il riferimento ai Francesi si fa più insistente subito dopo. Qui, come in altri punti dell’epistola, emerge la devozione di Valgulio per il mondo della storia e del mito, che viene espressa attraverso allusioni continue a personaggi ed episodi antichi, utili a proiettare sulle vicende a lui contemporanee una particolare solennità. Così lo scontro tra gli immanes Galli e Pio II assume i toni di una lotta tra la barbaria degli aggressori e l’humanitas italiana40, che, se da una parte ricordano le pagine cesariane del De bello Gallico, da un’altra risultano arricchiti del richiamo al valore peculiare dell’Umanesimo. L’humanitas solo in questo passaggio è ricordata tre volte: Credo immanes Gallos ideo in te potissimum saeuitiam suam exercere quod, cum humanitas atque barbaria contrario quodam habitu opposita sint, auunculus quondam tuus Pius Secundus Italiam, hoc est humanitatem, cuius erat praecipuus cultor, ab eorum barbarie uendicauerat tuque, eiusdem humanitatis legitimus heres […] suadere, hortari, obsestari non cessaras daretur opera ne copiae barbarae Alpes superarent41 […] Nel seguito dell’epistola la figura del cardinale Piccolomini resta sullo sfondo e vengono ricordate le gesta compiute contro i Francesi da Alessandro VI e da Cesare Borgia (§ § 3-4).
40 Sul concetto di barbarie nella cultura italiana ed europea nel Rinascimento vd. Hay 1960. 41 “Credo che i terribili Galli esercitino soprattutto contro di te la loro ferocia per i seguenti motivi: poiché la cultura e la barbarie a causa di un modo di vivere per così dire opposto sono contrapposte, e poiché il tuo compianto zio Pio II aveva liberato l’Italia, cioè la cultura, di cui era il principale animatore, dalla barbarie di quelli, tu, legittimo erede di quella stessa cultura, sentendo che i Galli minacciavano l’Italia, finché voce e polmoni ti bastavano, non avevi mancato di persuadere, esortare a che si facesse in modo che le truppe barbare non valicassero le Alpi” (§ 2).
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Risulta di particolare interesse l’accenno a un’impresa del Valentino che consente a Valgulio un paragone con Alessandro Magno; egli ricorda infatti dapprima l’episodio dell’espugnazione di una cittadella da parte del Macedone: In Alexandri Magni Macedonis clarissimis gestis ad ipsius magnitudinem animi declarandam hoc in primis memoriae traditum est, quod in oppidulum natura quidem permonitum, quod fortissimis et maximis exercitibus oppugnabat, primus, superatis muris, se deiecerit42, A Valgulio interessa mostrare che la grandezza del Valentino non è inferiore a quella del re macedone, come emerge dal racconto dettagliato della sua recente impresa. Non si tratta però questa volta di un’espugnazione, bensì di un’eroica fuga: At Caesar Borgia Cardinalis Valentinus, cum in oppido praealtis muris uallato a rege cum triginta milibus imanium barbarorum in ipsum cardinalem oculis et animis spectantium tanquam obses seruitutis Italiae custodiretur et omnis circa regio hostis esset, spretis opibus regiis quas spe firmissima habere poterat, ingenium consiliumque ad ineundam a barbaris fugiendi rationem et animum ad transigendum inuictum habuit43. La narrazione dell’episodio moderno si riferisce probabilmente alla liberazione di Cesare Borgia dopo la sua ‘cattura’ da parte dell’esercito francese nel gennaio del 1495 a Velletri. Dopo l’ingresso a Roma di Carlo VIII, Alessandro VI dovette acconsentire in garanzia dell’appoggio papale che Cesare Borgia accompagnasse in qualità di legato, ma in realtà come ostaggio, la spedizione francese; il condottiero riuscì tuttavia a fuggire dalla fortezza di Velletri, dov’era imprigionato, travestito da stalliere44. Anche se l’esaltazione dell’ardore del Valentino nella narrazione valguliana ci appare eccessivo, considerata la modalità di fuga di Cesare Borgia, la frase cum… tanquam obses seruitutis Italiae custodiretur appare calzante con l’episodio di Velletri. Se quest’ipotesi risultasse corretta sarebbe possibile datare la stesura della lettera e delle versioni di Aristide e Dione a ridosso di tale episodio e prima della ritirata di Carlo VIII, che avvenne nel luglio dello stesso anno e che non viene menzionata nell’epistola.
42 “Tra le gesta illustrissime del grande Alessandro il Macedone, per mostrarne la grandezza d’animo, si tramanda alla memoria soprattutto questa: che in una cittadella naturalmente fortificata, poiché combatteva con degli eserciti eccezionali e fortissimi, per primo, oltrepassate le mura, si gettò” (§ 4). Si tratta dell’episodio narrato nel finale del De Alexandri Magni fortuna aut uirtute (343 e - 345 b), in cui Plutarco, autore ben conosciuto da Valgulio, racconta di come Alessandro Magno combatté contro gli Ossidraci in India e penetrò nella loro fortezza lanciandosi da solo dalle mura sulle lance dei nemici. 43 “Ma il Cardinale Valentino Cesare Borgia, quando era tenuto sotto custodia in una cittadella trincerata con altissime mura con trentamila dei più terribili barbari che guardavano allo stesso cardinale con gli occhi e con gli animi come se fosse il garante della schiavitù dell’Italia, e pressappoco tutta la regione era nemica, sprezzate le forze regali, che poteva avere con speranza saldissima, ebbe ingegno e avvedutezza per decidere di fuggire dai barbari e un animo impenetrabile allo scendere a patti” (§ 5). 44 Vd. Cesare Borgia in DBI 12, 1971, pp. 696-708, voce di Felix Gilbert.
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Il confronto tra l’espugnazione della cittadella da parte di Alessandro Magno45 e l’opera di opposizione di Cesare Borgia serve a Valgulio a nobilitare quest’ultimo: indugiando sull’azione realizzata dal Valentino con dovizia di particolari maggiore rispetto al racconto relativo al condottiero macedone, l’umanista ne enfatizza così l’incredibile eroicità46. Per il Valentino infatti l’oppidulum precedente diventa un oppidum da cui scappare, per di più uallatum da muri che sono praealti e in più egli deve vedersela con triginta milibus nemici. L’umanista nel finale della lettera, indirizzandosi di nuovo al cardinale Piccolomini, fa una riflessione cruciale che sintetizza il suo pensiero sul tema della concordia. Egli afferma: Cum igitur, amplissime pater, tua quasi Cassandrae oracula spreta fuissent et Galli sic Italiam bellis et seditionibus compleuerint, ut non ciuitas, non oppidum, non familia, non domus, non cubiculum sit, quae seditionibus, simultatibus atque discordiis tamquam uenenis non sint infecta, concordiam tamen in monumentis ueterum inueni47 […] Valgulio inserisce in questo passaggio un ulteriore accenno al mondo antico, ricordando come le esortazioni più volte lanciate dal potente destinatario dell’epistola ai vari signori dell’Italia per reagire all’avanzata delle truppe straniere fossero state trascurate quasi Cassandrae, sottolineando così anche l’inefficacia degli appelli all’unione48. Inoltre qui l’inquietudine dell’umanista di fronte all’avanzata francese è ben espressa dall’accumulo per asindeto di termini che indicano spazi sempre più ristretti (si va dalla ciuitas al cubiculum), a indicare come la discordia sia riuscita a penetrare i più reconditi spazi del vivere umano. Valgulio termina la sua lettera in maniera circolare richiamando l’assunto iniziale: dal momento che i turbulenta… tempora, bellorum et discordiarium plaena gli avevano provocato un incredibile desyderium pacis, quietis et concordiae (§ 1), trovò questi ideali in monumentis ueterum, cioè nelle oratiunculas… Aristidis et Dionis, che scelse di tradurre in latino e dedicare al nome del cardinale. Valgulio conclude così con un argomento di notevole fortuna nella letteratura umanistica, che è quello del rifugio dell’erudito nei testi antichi alla ricerca di valori che sono assenti nella realtà contemporanea e possono servire da stimolo e ispirazione49.
45 Si tratta di un paragone topico delle lettere di dedica del XV secolo; vd. Gualdo Rosa 1973 (2), p. 74. 46 Per il carattere retorico della comparazione tra il laudandus e un illustre precedente si veda Pernot 1993, pp. 690-698. 47 “Dunque, dal momento che, padre mirabilissimo, i tuoi oracoli sono stati disprezzati pressappoco alla maniera di quelli di Cassandra e i Galli hanno riempito l’Italia di guerre e conflitti in maniera tale che non c’è città, cittadella, famiglia, casa, stanza che non sia stata infettata da rancori, lotte e discordie come (se) da veleni, tuttavia ho rinvenuto nei monumenti degli antichi la concordia […]” (§ 6). 48 Sull’opera di convincimento di Francesco Piccolomini a opporsi a Carlo VIII vd. supra, pp. 121-122. 49 Si tratta di un espediente di notevole fortuna. Sulla ‘frequentazione’ degli uomini antichi attraverso la lettura delle loro gesta già Plutarco, che in Vita di Emilio Paolo (§ 1) osservava come si potesse «vivere a stretto contatto con loro, come degli ospiti ricevere ciascuno, a turno, nel corso della narrazione». Occorre anche ricordare la famosa lettera XI di Machiavelli, più vicino temporalmente a Valgulio, a Francesco Vettori, in cui l’autore afferma metaforicamente di smettere «la veste cotidiana» e di entrare «nelle antique corti delli antiqui uomini». Questo atteggiamento è descritto bene nelle
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L’epistola valguliana costituisce dunque un documento prezioso della situazione storica italiana del tempo e offre al lettore il punto di vista del letterato bresciano di fronte agli avvenimenti trattati. Carlo Valgulio, prima segretario di Falcone Sinibaldi, poi del cardinale Cesare Borgia, appartiene a quel gruppo di umanisti che, grazie all’appoggio di individui molto influenti, svolsero la loro attività intellettuale in tranquillità e lontani dal tumulto della vita pubblica. Senza dubbio Valgulio, come molti altri dotti definiti ‘cortigiani’, si distingue sia dai rappresentanti dell’Umanesimo civile fiorentino dell’inizio del’40050, sia da quella categoria di umanisti i cui rappresentanti maggiori possono essere additati in Machiavelli e Guicciardini, che coltivarono sempre ambizioni politiche, pur non tralasciando mai gli la passione per gli studi. Valgulio è stato indicato come esempio di dotto che incarna la separazione avvenuta tra società civile e umanisti, sia per la scelta di alcuni testi tradotti, che riflettono l’isolamento in riflessioni mistiche51, sia per i motivi letterari presenti nelle sue lettere di dedica, motivi che denotano un ideale di vita del tutto immerso nella corte signorile. Tuttavia, se è fuor di dubbio che con la sua produzione letteraria Valgulio si prefiggesse di elogiare e promuovere l’azione dei potenti protettori, egli non sembra vivere avulso dalle vicende storiche e politiche del suo tempo: ciò è dimostrato proprio dalla scelta di tradurre i discorsi di Aristide e di Dione sulla concordia, che avevano una carica civile molto forte già nel periodo in cui furono composti. Alla fine del XV secolo, Carlo Valgulio scelse di tradurre queste orazioni per una ragione che va probabilmente oltre il semplice motivo letterario del conforto dei testi antichi. Di fronte ai disordini che imperversavano in Italia, l’umanista porge con le sue versioni alcuni spunti per la ricerca dell’unione e della concordia, resosi conto che la disgregazione politica sarebbe stata fatale al paese. È anche possibile che Valgulio individuasse nei membri della famiglia Borgia e in particolare in Cesare, proprio come Machiavelli nel Principe, una guida politica efficace per le diverse potenze in lotta; il Valentino, nell’ottica valguliana, sarebbe stato l’elemento unificatore degli stati italiani e, forte del sostegno della potentissima casata a cui apparteneva e delle sue doti belliche e strategiche, avrebbe appianato le divergenze per la realizzazione della concordia52.
pagine di Battaglia, che a proposito del metodo degli umanisti elencava come punto fondamentale «la proiezione del presente nelle immagini dissepolte e restaurate della storia, per vitalizzare dialetticamente l’esperienza attuale col retaggio antico»; vd. Battaglia 1969, p. 423. 50 A proposito della stagione dell’umanesimo civile vd. Baron 1966. 51 La traduzione del De uirtute morali di Plutarco dedicata ad Alessandro VI e quella del De contemplatione orbium excelsorum per Cesare Borgia, entrambe stampate nello stesso incunabolo contenente la versione aristidea Ai Rodiesi sulla concordia, costituirebbero l’esempio più eclatante del divario tra la cultura rinascimentale, che aveva tentato di proporre gli esempi antichi per il rinnovamento della società, e la realtà delle corti; la scelta di queste opere, secondo Gualdo Rosa, testimonierebbe il ripiegamento del letterato Valgulio nel culto della bella forma, divenuta ormai fine a sé stessa. Vd. Gualdo Rosa 1973 (1), p. 84. Per queste e altre versioni latine prodotte da Valgulio vd. supra, pp. 119-121. 52 D’altro avviso è Simon Swain, che vede una rottura tra l’opera di Valgulio e quella di Machiavelli; Swain, nel citare la lettera di Valgulio a proposito della ricezione di Dione nell’Umanesimo, osserva che la rilevanza degli scritti antichi di ‘ammonimento’, come le orazioni di Aristide e Dione sulla
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Per un lasso di tempo molto breve questo disegno parve realizzarsi con la significativa esperienza romagnola. Cesare Borgia infatti, dopo essersi impossessato di Imola e Forlì nel 1500, proseguì la sua politica fondata sull’eliminazione di avversari scomodi, come Oliverotto da Fermo, Vitellozzo Vitelli e Paolo Orsini, e procedette all’annessione del ducato di Urbino e Camerino, per poi passare alla conquista di Perugia e Città di Castello. Egli così strappò il potere ai singoli tiranni locali e diede al regno romagnolo un governo unico e stabile; tuttavia, la morte di Alessandro VI e l’ascesa al soglio pontificio di Giuliano della Rovere col nome di Giulio II causarono il declino del Valentino, che dapprima si rifugiò a Napoli nel 1504, quindi, arrestato dietro sollecitazione del papa e inviato in Spagna, fuggì presso il cognato Giovanni III re di Navarra nel 1506 e morì l’anno successivo combattendo sotto il castello di Viana. La parabola di Cesare Borgia mostra come la sua fortuna si leghi in maniera indissolubile al padre, cosicché la sua sconfitta va letta come conseguenza diretta della morte e quindi del mancato appoggio di quest’ultimo. Nonostante l’esito finale, la sua vicenda fu di grandissima ispirazione per gli storici e questo è mostrato dalle opere del Machiavelli, ma anche dall’epistola di Carlo Valgulio, che prestò servizio presso Cesare Borgia quando questi era già cardinale ed ebbe quindi l’occasione di conoscerlo e ammirarlo di persona. III.3.3 Il pensiero degli umanisti sulla crisi del 1494
Si è già osservato come la discesa di Carlo VIII abbia rappresentato l’occasione principale della decisione di Valgulio di tradurre le orazioni sulla concordia. L’arrivo del re straniero fu avvertito come un evento epocale da un’intera generazione e fu registrata dai letterati dell’epoca e da quelli successivi con toni contrassegnati da stupore e preoccupazione; l’atteggiamento comune a molti, che emerge dagli scritti del tempo, fu di ripiegamento nostalgico nel passato ‘mitico’ dell’Italia, come se l’arrivo fulmineo del re francese avesse rappresentato uno spartiacque tra un’epoca ormai conclusa fatta di ricchezza e prosperità - epoca iniziata il 9 aprile 1454 con la Pace di Lodi, accordo stipulato tra Francesco Sforza, Genova, Firenze e Mantova che garantì stabilità alla penisola per un quarantennio - e un’attualità piena di travaglio e insicurezze, il cui anno emblematico è il 1494. Il mito dell’Italia come magna parens frugum e Saturnia tellus, di sapore virgiliano53, venne spesso evocato in contrasto con il presente disastroso, fatto di guerre e divisioni; Paolo Giovio a tal proposito scrive di un’Italia fino a quel momento fiorente opima pace e Francesco Guicciardini, nella sua Storia d’Italia rievoca “lo stato tanto desiderabile” della penisola alla fine del XV secolo54. Negli ultimi anni della repubblica fiorentina, dopo la cacciata dei Medici, la concordia, diminuì rapidamente a partire da quest’epoca; i primi anni del XVI secolo videro infatti l’affermazione di opere scritte in italiano come il Principe di Niccolò Machiavelli e Il Cortigiano di Baldassarre Castiglione che segnarono, secondo lo studioso, non solo la fine della fase latina dell’Umanesimo, ma anche l’offerta ai despoti locali e stranieri di consigli politici nuovi; vd. Swain 2000, pp. 15-16. 53 Cfr. Virg. Georg. 2, 136-176. 54 Seidel Menchi 1971, p. 6.
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mitizzazione del passato si fece ancora più acuta e densa di significato proprio perché messa a confronto con gli avvenimenti rovinosi della fine del secolo. Sulla descrizione del 149455 come annus horribilis per la storia dell’Italia sono note numerose testimonianze, sia in poesia che in prosa. I versi dell’Orlando Innamorato di Boiardo sul passaggio di Carlo VIII a Reggio Emilia, sono stati richiamati come exemplum di patriottismo nella letteratura di questo periodo56; inoltre, l’evento è ricordato in molti canti popolari dell’epoca, di cui citiamo uno specimen particolarmente significativo per il contrasto ideale sottolineato in precedenza tra un’epoca di pace e prosperità e un momento funesto. Quatro novanta quatro cento e mille de l’anno che dio prese carne, essendo tutte le parte del mondo tranquille, le creature in gran pace vivendo, Marte con turbulente suo faville poner le volse insanguinoso mendo, mettendo in cuore a un tramontan signore de l’universo farsi Imperatore57. Fiorirono nella stessa epoca anche numerosi canti relativi alla calata del re invasore, indice del fatto che la sciagura aveva lasciato nella coscienza popolare una traccia importante58. L’evento improvviso determinò senza dubbio un cambiamento nei modi di combattere e di vivere le guerre, ma soprattutto mutò le categorie interpretative della realtà degli storici dell’epoca, che videro davanti ai loro occhi l’orizzonte del possibile restringersi a una vita precaria, da scandire giorno per giorno59. L’impresa di Carlo VIII viene evocata nelle diverse fonti con alcuni motivi ricorrenti, che si ritrovano anche in Valgulio. In primis, l’idea della barbarie dei Francesi, su cui l’umanista insiste molto nella sua lettera, è un topos rinascimentale che ricorre moltissimo negli scritti di Machiavelli e Guicciardini60. Anche il riferimento ai Francesi come ‘Galli’, che ricorre in tutta l’epistola valguliana e che si connette al tema del barbaro, si ritrova nel primo Decennale di Machiavelli, opera in versi in cui l’autore affronta il periodo che va dall’invasione di Carlo VIII alla caduta di Cesare Borgia61. 55 Su questo momento storico vd. Fiorato 1994. 56 Si fa riferimento in particolare a libro III, canto IX, stanza 26. Il poema restò tra l’altro incompiuto in questo punto proprio a causa dell’occupazione delle terre di Boiardo da parte del re francese. Vd. De Sanctis 1958, vol. 1, pp. 445-451. 57 Da Guerre horrende d’Italia, Venezia 1535, in Hale 1986, p. 94. 58 Vd. Fiorato 1994, pp. 179-225. 59 Vd. Fontana 1994, pp. 160-161. 60 Vd. Hay 1960, pp. 58-60. In realtà Machiavelli nutriva ammirazione per la stabilità e la grandezza della monarchia francese, che conosceva bene grazie alle quattro legazioni effettuate come segretario della Repubblica di Firenze prima del ritorno dei Medici. Della politica francese Machiavelli parla in particolare nel capitolo III del Principe, De principatibus mixtis; vd. Martelli 2006, pp. 69-99. 61 Qui Machiavelli fa un ampio uso di figure retoriche e poetiche, tra cui è notevole quello delle immagini metaforiche tratte dal mondo animale; questa scelta stilistica interessa anche i Francesi, che sono presentati come ‘Galli’ in una doppia accezione, sia cioè nel senso degli uccelli, sia in quanto abitanti della Gallia; vd. Russell Ascoli-Capodivacca 2010, pp. 190-205.
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Una corrispondenza significativa con i temi trattati da Valgulio nella lettera a Francesco Piccolomini si trova in un passaggio delle Storie fiorentine di Francesco Guicciardini, in cui lo storico parla proprio dell’avanzata di Carlo VIII e della fine della pace italiana (cap. XI). Lo storico toscano scriveva infatti: Ed era entrata in Italia una fiamma ed una peste che non solo mutò gli stati, ma e’ modi ancora del governargli ed e’ modi delle guerre […] Ora per questa passata de’ franciosi, come per una subita tempesta rivoltatasi sottosopra ogni cosa, si roppe e squarciò la unione di Italia ed el pensiero e cura che ciascuno aveva alle cose communi in modo che vedendo assaltare e tumultuare le città, e’ ducati ed e’ regni, ciascuno stando sospeso cominciò attendere le sue cose proprie […] Nacquono le guerre subite e violentissime, spacciando ed acquistando in meno tempo uno regno che prima non si faceva una villa; le espugnazione delle città velocissime e condotte a fine non in mesi ma in dí ed ore, e’ fatti d’arme fierissimi e sanguinosissimi62… Non si tratta di una ripresa consapevole delle parole di Valgulio - non ci sono infatti notizie di rapporti dell’umanista bresciano con i due principali storici fiorentini del Rinascimento-, ma è interessante notare come i moduli interpretativi della catastrofe siano analoghi: sia in Valgulio che in Guicciardini l’avvento dei Francesi è descritto come una peste, un morbo improvviso e dilagante che penetra e infetta ogni cosa; ciò si nota soprattutto dal confronto tra la frase era entrata in Italia una fiamma ed una peste e le varie realtà descritte da Valgulio come infecta dalle sedizioni (§ 6), presentate alla stregua di veleni. In Guicciardini si pone l’accento sulla lacerazione dell’unità del paese (come per una subita tempesta rivoltatasi sottosopra ogni cosa, si roppe e squarciò la unione di Italia) a causa dell’invasione dei ‘Franciosi’, proprio come Valgulio, nell’apertura della sua lettera, ricorda nostalgicamente i tempi della concordia, sconvolti dall’ingresso dei barbari, principali fautori dei turbulenta… tempora. Le differenze tra i due testi sono palesi: se Valgulio scrive a ridosso dell’invasione della penisola e inserisce la sua riflessione sulla crisi all’interno di un ampio elogio, offrendo così un prodotto cortigiano ai suoi potenti protettori, Guicciardini compone le sue Storie alcuni anni dopo con un approccio storico e un interesse finalizzato a evidenziare i mutamenti in campo bellico e strategico avvenuti in seguito all’invasione, come si nota nel passaggio Nacquono così… sanguinosissimi. Al di là delle diverse finalità degli autori che dedicarono una parte della propria riflessione al 1494, è innegabile che la calata di Carlo VIII destò in letterati di variegata provenienza lo stesso sentimento di destabilizzazione e rappresentò il punto di non ritorno per un mutamento radicale, persino nel modo di combattere le guerre, come osserva Guicciardini. L’avanzata del dominatore straniero era stata avvertita come una peste, un’infezione che si era diffusa endemicamente su tutto il territorio causando distruzione ma soprattutto stasis; del resto, non è un caso che lo stesso accostamento pace-salute e discordia-malattia si ritrovi proprio in Aristide63.
62 Montevecchi 1998, pp. 196-197. Il corsivo è nostro. 63 Cfr. or. 24, 16.
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III.4 Il testo greco e la versione di Carlo Valgulio III.4.1 L’orazione Ai Rodiesi, sulla concordia di Elio Aristide
L’orazione, composta da Elio Aristide poco prima del 149 d.C64. a Smirne, prende spunto da una situazione concreta e si prefigge uno scopo reale, come altri componimenti del corpus del retore65. Il testo costituisce un’esortazione all’homonoia e il fine deliberativo è centrale, dal momento che l’oratore si rivolge alla cittadinanza per spronarla a risolvere nel presente il problema politico delle lotte intestine. Al discorso non è estranea tuttavia una componente encomiastica: ciò che si elogia in esso è l’oggetto stesso dell’esortazione, cioè la concordia, e tale lode serve a rinforzare il consiglio dell’oratore per la popolazione rodiese, che viene spronata ad adempiere ai propri doveri attraverso il ricordo del suo glorioso passato66. Aristide dunque in quest’orazione mette al servizio di una causa civica la propria arte oratoria. Egli ricorda nell’incipit (§ 3) che già alcuni anni prima, quando si trovava in Egitto, era stato contattato dagli ambasciatori rodiesi in seguito al disastroso terremoto che distrusse l’isola nel 142 e si era messo a loro disposizione; sebbene Aristide resti vago sulla natura della collaborazione, è plausibile pensare a un contributo di natura oratoria, come nel caso della Monodia per Smirne, altro discorso del corpus ascrivibile al genos seismikon67. È verosimile che la catastrofe naturale avesse inciso anche sull’assetto sociale dell’isola e scatenato dei moti di ribellione, causando così la perdita dell’homonoia interna68. L’isola di Rodi non era nuova a questo tipo di problemi. Già altri autori antichi prima di Aristide avevano dedicato ampie pagine all’isola e alla sua difficile situazione ‘geopolitica’; basti ricordare l’orazione XV di Demostene, Per la libertà dei Rodii, e la Pro Rhodiensibus di Marco Porcio Catone69, riassunta da Gellio, in Noctes Atticae 6, 3. Inoltre, a causa di sommosse interne, la sua libertà nominale era stata revocata ben due volte: sotto Claudio nel 44 d.C. (poi restituita nel 53) e sotto Vespasiano (con successiva restaurazione di Tito) tra il 79 e l’8170. Aristide compose quest’orazione proprio per stornare altri interventi simili dell’autorità imperiale; l’elogio dell’homonoia e la condanna della stasis erano finalizzate, dal punto di vista di Aristide, ma anche di altri intellettuali dell’epoca, a mettere in guardia le poleis dal pericolo dell’intromissione romana negli affari locali, con conseguente riduzione della libertà d’azione. Ciò è particolarmente evidente a un certo punto dell’orazione, quando, nel corso dell’argumentatio il retore, al fine di
64 Vd. Franco 2008, p. 238, n. 89. Si veda anche Cortés Copete 2016, pp. 191-212. 65 Si fa riferimento in particolare al Panegirico a Cizico (or. 27), all’orazione Alle città, sulla concordia (or. 23), di tematica affine a quella composta per i Rodiesi, e ai discorsi del corpus smirnaico (orr. 17-21), composti al fine di attirare l’attenzione delle autorità romane sulla città dell’Asia Minore. 66 Vd. Pernot 1993, p. 712. 67 Vd. Franco 2008, p. 233. 68 Vd. Bianco 2011, p. 99. 69 Si veda per questo discorso l’edizione di Calboli 2003. 70 Vd. Boulanger 1923, p. 375 n. 1; Behr 1981-1986, vol. 1, p. 369; Franco 2008, p. 245.
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dissuadere la popolazione dal perseverare in atteggiamenti irresponsabili, paventa la possibilità di un intervento imperiale negli affari rodiesi: (§ 22) κἂν μὴ ἑκόντες ἐπιτρέψητε, ἄλλος ἀφίξεται ὅστις ὑμᾶς σώσει πρὸς βίαν, ὡς οὔτ’ ἀγνοεῖν τὰ τοιαῦτα τοῖς ἄρχουσι θεσμὸς οὔτ’ ἐν μηδενὶ ποιεῖσθαι λόγῳ. ὥστε εἰ μηδενὸς ἄλλου χάριν, τοῦ γ’ ὄντες ἐλεύθεροι ποιεῖν ὅ τι βούλεσθε, τῶν νυνὶ τούτων ἀπόστητε, ἵνα μὴ φοβῆσθε ἅμα ὅσον νῦν θαρρεῖτε καὶ μὴ φιλοτιμίαν ἀρχαίαν ἀποβάλητε71. La riflessione rappresenta il cuore dell’intero discorso72 e suona come un lucido avvertimento: se i Rodiesi, che storicamente si sono sempre vantati della propria libertà e del proprio regime democratico, non abbandoneranno i dissidi, qualcun altro interverrà a salvarli con la forza. La libertà di cui parla Aristide va inquadrata nel contesto di composizione del discorso e va identificata con quel margine di autonomia e di autogestione locale concesso da Roma alle municipalità sottomesse. Proprio in quanto bene ‘autorizzato’ dall’esterno, la supposta libertà poteva essere revocata in qualunque momento dall’autorità centrale, come del resto era già successo per Rodi in precedenza sempre a causa di moti di ribellione interni. Al tempo di Aristide, a Rodi come altrove la democrazia era senza dubbio, come la libertà, un valore da collocare in un assetto sociale prefissato e predeterminato; piuttosto, ciò che emerge dalle parole del retore è l’immagine di un dominio effettivo delle classi più facoltose sulle masse indigenti, com’è evidente anche da altri punti dell’orazione, ad esempio nel riferimento alla legge ‘naturale’ che prescrive al più debole di obbedire al più forte, riferimento che mostra una concezione cristallizzata della società73. Nell’orazione di Aristide, la concordia viene dunque celebrata al fine di scongiurare l’intervento romano nell’isola; lo stesso scopo era già stato perseguito da Dione di Prusa, che con il discorso Ad Nicomedenses (or. 38), tradotto in latino da Valgulio insieme a quello di Aristide, invitava i cittadini di Nicea e di Nicomedia a ricomporre i dissidi causati dalla uexata quaestio dell’attribuzione del titolo di “prima città” all’una o all’altra polis74.
71 “E, qualora non vi affidiate a un arbitrato di buon grado, verrà un altro che vi salverà a forza, poiché è norma per i governanti non ignorare simili fatti né tenerli in alcun conto. Sicché, se non per altro motivo, almeno per fare in libertà quello che volete, sottraetevi a questa situazione, per non provare timore nella misura in cui ora siete di buon animo e per non gettar via l’antica gloria”. 72 Ciò è mostrato anche dal fatto che Behr, nella sua divisione in sequenze, isola in maniera significativa il paragrafo dagli altri; vd. Behr 1981-1986, vol. 1, p. 369. 73 Si riportano a questo proposito le parole di Carlo Franco, che riassumono bene la reale situazione politica rodiese: «The Rhodians called ‘democracy’ what was in fact a timocratic and elitist form of rule, where most of the local power was in the hands of a restricted elite of families». Vd. Franco 2008, p. 248. 74 Il discorso dioneo, come quello di Aristide, affonda le sue radici nella concretezza storica. Dione lo pronunciò davanti all’assemblea di Nicomedia, metropoli della Bitinia, per appianare la discordia scoppiata tra questa città e Nicea per il possesso del titolo di ‘prima città’. La critica è divisa sulla data dell’effettiva esecuzione della performance oratoria, soprattutto in relazione all’esilio comminato all’oratore a un certo punto della sua vita. Secondo Jones il discorso fu pronunciato soltanto dopo il ritorno di Dione, dal momento che durante l’esilio fu vietato all’oratore di soggiornare in Bitinia; l’orazione andrebbe dunque collocata intorno al 98 d.C., tra la fine del regno di Nerva e l’inizio di
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Entrambi gli oratori d’età imperiale cercavano con i propri discorsi di promuovere una concordia interna, dal momento che quella esterna era già garantita dalla pax Romana. Sebbene lo spazio d’azione per gli oratori si fosse notevolmente ridotto in seguito alla conquista romana, l’attività retorica, portata avanti dagli esponenti della Seconda Sofistica, era viva ed era destinata a occasioni locali come i processi pubblici, le ambasciate presso le autorità romane o l’imperatore stesso, le esortazioni alla concordia e la gestione delle città. I retori delle città greche del II secolo avevano ancora la possibilità di esercitare il proprio peso attraverso la parola nelle realtà municipali dell’impero, esattamente come prescriveva Plutarco nei Praecepta gerendae rei publicae75. L’intellettuale di Cheronea affermava infatti che una delle poche attività politiche che restavano al tempo della dominazione romana era l’esortazione alla concordia e alla pace76. L’appello alla concordia di Aristide ispirò dunque l’umanista Carlo Valgulio, preoccupato per la disunione dei diversi regni italiani al momento dell’invasione francese. Egli si avvicinò ai testi dei due oratori, Aristide e Dione, durante il periodo del segretariato svolto presso il cardinale Cesare Borgia, quando si trovava, quindi, presso la città di Roma e poteva consultare i primi fondi di manoscritti greci della Biblioteca Vaticana. III.4.2 Sui possibili antigrafi impiegati da Carlo Valgulio
Come già ricordato77, Carlo Valgulio fu segretario apostolico dapprima al seguito di Falcone Sinibaldi (1481-1485) e in seguito del Cardinale Cesare Borgia almeno fino al 1497, anno in cui l’umanista tornò a Brescia. Negli anni di segretariato egli consultò con assiduità la Biblioteca Vaticana, come si apprende da numerose note di prestito78; la consultazione era funzionale in particolare all’attività di traduttore che lo rese celebre in Italia e nel resto d’Europa79. Valgulio attinse con ogni probabilità al patrimonio librario della Vaticana anche per la sua traduzione dell’orazione aristidea Ad Rhodienses, de concordia (or. 24)80, come si legge in una nota in uno dei primi registri di prestito della Vaticana81. La nota è inserita nel Vat. lat. 3966 in un elenco di volumi presi in prestito da Valgulio, che corrispondono ad altrettante opere tradotte dall’umanista nel corso della sua vita: di questa serie fanno parte infatti quello di Traiano; vd. Jones 1978, p. 135. Vd. anche Desideri 1978. Più di recente Cuvigny ha invece sostenuto che Dione pronunciò probabilmente questo discorso poco prima dell’esilio. Vd. Cuvigny 1994, pp. 19-25. 75 Praec. ger. reip. 824 A. 76 Vd. Pernot 2010, pp. 17-30 e Bianco 2011, p. 102. 77 Vd. supra pp. 117-118. 78 Ciò è stato evidenziato già per la traduzione del De musica; vd. Meriani 2011, pp. 237-238. 79 Per la fama di Valgulio oltre i confini italiani vd. supra, pp. 120-121. 80 Quest’ipotesi era stata già formulata da Bruno Keil; Behr infatti, nella prefazione all’edizione moderna di Aristide dei discorsi 1-16 scrive: Keil plausibly conjectured that the manuscript used was borrowed from the Vatican. Si tratta di un dato proveniente dallo scritto inedito di Keil Aristideskritik seit der Renaissance. Cfr. Behr in Lenz-Behr 1976-1980, vol. 1, p. XCIX n. 8. 81 Cfr. Bertola 1942, pp. 56-57.
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le Disputationes Arriani et Gesta Alexandri (prese in prestito il 24 giugno 1494)82, alcuni Moralia di Plutarco (il titolo ricorre in due note: una del 12 novembre 1494 e una del 10 febbraio 1495), e il già ricordato De musica, attribuito al Cheronese (26 settembre 1498). La nota relativa ad Aristide recita così: Ego superior83 Charolus habui a suprascripto Orationes84 Aristidis cum catena et in papyro, die VII octobris 1494. Restituit die XII novembris. La data è congruente con la composizione della traduzione, dal momento che nella lettera prefatoria si fa riferimento alla discesa di Carlo VIII che iniziò il 22 agosto di quell’anno e terminò con l’ingresso a Napoli il 22 febbraio 1495; è ragionevole pertanto immaginare che Valgulio abbia preso in prestito il manoscritto greco e ne abbia dedotto una copia per sé al fine di realizzare la sua versione, uscita a stampa nel 1497. Il nome di Aristide, del resto, compare già nei primi inventari della Biblioteca Vaticana ai tempi di Niccolò V e Sisto IV85. Per quanto riguarda il testo greco86, il discorso aristideo può essere consultato nell’edizione di Keil, fornita di un apparato che tiene conto delle lezioni dei codici ASDUT87; l’edizione e il relativo apparato, come abbiamo già osservato per il Bacchus di Cencio de’ Rustici e la Monodia in deploratione Smyrnae di Niccolò Perotti, hanno rappresentato il punto di partenza del confronto con la versione latina di Carlo Valgulio, che, rispetto alle lezioni messe a testo da Keil, presenta molte particolarità che spesso trovano un riscontro nelle varianti presenti in apparato. Dalla nostra analisi sono rimasti esclusi i casi in cui Keil è intervenuto sul testo ope ingenii, inserendo lezioni estranee nell’intera tradizione manoscritta. Sulla base delle cedole di prestito appare plausibile che il modello si trovi presso la Biblioteca Apostolica Vaticana88. Dal gruppo 82 Bertola ritiene che si tratti del Vat. gr. 325. Vd. Bertola 1942, p. 57. 83 Si riferisce alla nota precedente: Ego Charolus Valgulius, reuerendissimi domini cardinalis Valentini secretarius, habui commodo a reuerendo patre domino Io(hanne) Fonsalida bibliothecario pontificio uolumen graecum in quo continentur Disputationes Arriani et Gesta Alexandri et Porphyrius De abstinentia animalium ex papyro et pauonatio cum catena quem promitto restituere ad uoluntatem ipsius bibliothecarii, die XXIIII iunii MCCCCLXXXXIIII. - R(estituit) die 7 mensis octobris. 84 I discorsi di Aristide non sono menzionati, dunque, soltanto come sermones nei primi registri della Biblioteca Vaticana; vd. Zorzi 2002, p. 113, n. 112. 85 Vd. Devreesse 1965; nell’inventario al tempo di Niccolò V Aristide è nominato alle pp. 32-33; per quello di Sisto IV del 1475 vd. pp. 51, 52, 53, mentre per quello del 1481 pp. 95, 96, 106 e 107; per quello di Innocenzo VIII vd. p. 132. 86 L’orazione è conservata in tutta la tradizione aristidea in 41 manoscritti. Vd. Behr in Lenz-Behr 1976, pp. IX-LXVI. 87 Per una descrizione di questi codici vd. Keil 1898, pp. IX-XIV. 88 Per ottenere risultati più completi sarà necessario collazionare tutti i manoscritti aristidei contenenti l’orazione 24 che Valgulio ha potuto verosimilmente consultare nel corso della sua vita. Come ha osservato Meriani a proposito della traduzione valguliana del trattato pseudo-plutarcheo De musica, sarebbe ingenuo credere che un umanista del calibro di Valgulio si sia servito dei soli Vaticani greci e non abbia consultato manoscritti anche a Firenze o a Venezia nel corso dei suoi viaggi; ci proponiamo quindi di proseguire il raffronto dei codici che l’umanista può aver avuto a disposizione. Tuttavia, due aspetti differenziano la vicenda del De musica da quella del discorso Ai Rodiesi di Aristide: da un lato, le note che registrano i manoscritti plutarchei presi in prestito dalla Biblioteca Vaticana da Valgulio contengono la semplice menzione Plutarchi Moralia, e sappiamo che Valgulio tradusse più di un opuscolo plutarcheo nella sua vita; ciò rende difficoltoso il riconoscimento, in base a tali note, di quali manoscritti della Biblioteca Vaticana il nostro umanista abbia potuto servirsi per il De musica. Inoltre, come riferisce
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di codici contenenti il discorso aristideo attualmente presenti nella Biblioteca Vaticana sono esclusi per il nostro studio, a causa della data di arrivo successiva alla morte di Valgulio, il Palatino greco 90, in quanto appartenente a un fondo entrato nel 1623; il Reginense 120, arrivato solo nel 1690, come tutti i manoscritti della Regina Cristina di Svezia; gli Urbinati greci 122, 123, 125, giunti nel 1657; infine il Barberiniano II 61, afferente a un fondo costituito solo nel 190289. Poiché nella cedola si parla di un manoscritto in papyro, il modello di Valgulio potrebbe essere ritrovato tra i cartacei e pertanto ci siamo soffermati sui codici di questo materiale90. Dalla collazione dei Vaticani greci91, codici presenti nei fondi più antichi della Biblioteca Vaticana92, con la traduzione latina, abbiamo individuato i due esemplari che si avvicinano maggiormente alle lezioni seguite da Valgulio: i Vaticani Greci 932 (or. 24 ai ff. 44-54v) e 933 (ff. 204v-209v). Le varianti avvicinano i due manoscritti più al gruppo SDUT che ad A e, in particolare, a U. Il Vaticano Greco 932, di seguito Va, è un manoscritto cartaceo datato al 1319; esso consta di 388 fogli e misura 225x145 mm. Questo codice contiene soprattutto orazioni di Aristide: 12-15, 18, 22, 19, 20, 24, 27, 30, 39, 34, 33, 16 e la relativa ἀντιλογία di Libanio (or. 5 Förster), 26, 42-44, 45, 46, 31, 32, 25, 37, 38, 41, 40, 47-51, 28, 36, 23. Oltre ai discorsi aristidei esso comprende anche altre opere: i tre dialoghi di Luciano Symposium siue Lapithae, Cataplus siue tyrannus, Somnium siue Vita Luciani; le orazioni di Libanio De saltatoribus (or. 64 Förster), la summenzionata ἀντιλογία e la Monodia de templo Apollinis Daphnaei (or. 60); la Consolatio ad Apollonium di
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sempre Meriani, la traduzione latina del trattato sulla musica di Plutarco dipende da manoscritti evidentemente diversi dai Vaticani greci. Per quanto riguarda Aristide, sappiamo che Valgulio si dedicò soltanto al discorso 24 e ciò permette di ritenere che l’unica nota di prestito relativa ad Aristide si riferisca a un codice contenente quest’orazione; in secondo luogo possiamo affermare, dagli esempi riportati nel presente lavoro, che la traduzione valguliana del discorso Ai Rodiesi sembra dipendere in più di un caso da determinati manoscritti Vaticani greci. Per le ricevute di prestito dei codici Vaticani Greci contenenti il De musica vd. Bertola 1942, pp. 24, 26, 30, 34, 56-57, 120; Meriani 2011, pp. 238-239 e 254. Questi fondi sono stati recensiti in: Codices manuscripti Palatini graeci Bibliothecae Vaticanae, Henry Stevenson, Sr., ed., Bibliothecae Apostolicae Vaticanae codices manu scripti recensiti, Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1885; Codices manuscripti graeci Reginae Suecorum et Pii PP. II Bibliothecae Vaticanae, Henry Stevenson, Sr., ed., Bibliothecae Apostolicae Vaticanae codices manu scripti recensiti, Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana 1888; Codices Urbinates graeci Bibliothecae Vaticanae, Cosimus Stornajolo, ed., Bibliothecae Apostolicae Vaticanae codices manu scripti recensiti, Roma, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1895; Codices Barberiniani graeci, vol. 1, Codices 1–163, Valentinus Capocci, ed., Bibliothecae apostolicae vaticanae codices manu scripti recensiti, Roma, Bibliotheca apostolica vaticana, 1958; Codices Barberiniani graeci, vol. 2, Codices 164–281, Joseph Mogenet, ed., Bibliothecae apostolicae vaticanae codices manu scripti recensiti, Roma, Bibliotheca apostolica vaticana, 1989. I codici Vaticani Greci pergamenacei contenenti il discorso 24 sono il 74, 75 e 1299. I manoscritti collazionati sono stati i Vaticani greci 15, (74), (75), 77, 928, 931, 932, 933, 1001, 1151, (1299), 1899. Da questo elenco è rimasto escluso il Vat. gr. 929, che pure compare nella lista di Behr, ma risulta illeggibile in quanto l’inchiostro è quasi del tutto scomparso. Vd. Behr in Lenz-Behr 19761980, vol. 1, p. LXI. Si fa riferimento in particolare alle raccolte messe insieme al tempo di Niccolò V (1447-1455) e Sisto IV (1471-1484). Vd. Müntz-Fabre 1887.
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Plutarco; un’orazione anonima per Michele VIII Paleologo; una raccolta di proverbi e altri scritti di varia natura93. Il Vat. gr. 933, d’ora in poi V b, è un codice cartaceo del XIV secolo e misura 248x168 mm. Copiato da due scribi contemporanei, è appartenuto a Isidoro di Russia ed è entrato a far parte della Biblioteca Vaticana sotto Paolo II. (1464-1471). Esso è composto da 352 fogli e contiene le seguenti opere aristidee: orr. 1, H2, 3, scolio 3, 356, 21-357, 5 Dindorf, 2, 4, 21, 5-15, 18, 22, 19, 20, 24, 27, 30, 39, 34, 33, 16 sempre con relativa ἀντιλογία di Libanio, 17, 21, 32, 42, 43-46, 25, 37, 38, 41, 40, 47-51, 28, 36, 23. Il manoscritto dal f. 310r al f. 352r contiene, dopo le opere di Aristide, anche il Gorgia di Platone con scoli di Gregorio di Nazianzio, alcune Declamationes e l’Encomio per Andronico II di Gregorio di Cipro94. I due codici descritti contengono lezioni coincidenti con quelle valguliane e posseggono alcune note marginali che sono plausibilmente confluite nella traduzione. Gli altri manoscritti collazionati hanno quasi tutti delle varianti che non collimano con il testo latino e pertanto non possono essere considerati modelli plausibili per Valgulio. Esiste un altro manoscritto vaticano, il Vat. gr. 1595, da noi siglato con Vc, cartaceo e risalente al XV secolo, che è l’unico tra quelli esaminati a possedere una lezione corrispondente con un punto particolare della resa valguliana che non ricorre negli altri due Vaticani. Questo codice potrebbe essere stato consultato insieme a Va e V b, ma non può essere considerato il modello primario perché, oltre a possedere numerose lezioni che si discostano dalla traduzione latina, contiene, interposta all’orazione 24, il Rhodiakos (or. 25), dal f. 69r a 77r. La prima differenza tra la traduzione latina e il testo di Keil96 riguarda un punto dell’exordium (§ 4) in cui Aristide, dopo aver chiarito le circostanze di composizione, domanda al suo pubblico in maniera retorica se non sia strano ritenere la concordia il bene più salvifico, ma poi trascurarla e considerare giusto litigare (ἐρίζειν ἀξιοῦν). καίτοι πῶς οὐκ ἄτοπον περὶ αὐτοῦ μὲν τούτου πάντας συμφρονεῖν, ὡς καλὸν ἡ ὁμόνοια καὶ σωτήριον, ταύτης δὲ ἀμελήσαντας ἐρίζειν [ἀλλήλοις] ἀξιοῦν, καὶ ταῦτα ἀνήνυτα, καὶ τὰ μηδενὶ τῶν ἄλλων Ἑλλήνων ἢ βαρβάρων ἀγνοεῖν ἔχοντα καλῶς, ταῦτα ἐκφυγεῖν Ῥοδίους97; ἀλλήλοις SDUT2 Va V b Vc : om. AT1 Valg. Nonne absurdum est, quod de hac ipsa re unum sit omnium iudicium, praeclarum esse nescio quid concordiam ac salutare deinde illa neglecta inter sese
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Per la descrizione del 932 vd. Behr in Lenz Behr 1976-1980, vol. 1, pp. LXII; Schreiner 1988, pp. 172-176. Vd. Behr in Lenz-Behr 1976-1980, vol. 1, p. XXXIII; Pernot 1981 (= 1992), pp. 194-195. Per la descrizione vd. Mercati - Franchi de’ Cavalieri 1923. Dopo il passo greco tratto dall’edizione di riferimento indichiamo con il grassetto le lezioni di Va, V b e Vc da noi aggiunte per distinguerle dall’apparato di Keil. 97 “Eppure non è strano che tutti abbiano la stessa opinione proprio su questo, che la concordia è qualcosa di bello e salvifico, ma poi la trascurino e ritengano giusto scendere a contesa e per di più per cose improduttive, e che ciò che a nessuno degli altri, Greci e Barbari, sta bene ignorare, questo appunto sfugga ai Rodiesi?”.
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odiis decertare non dubitent et haec quidem inutilia quaeque nec Graecus, nec barbarus ignorat esse turpia, Rhodienses fugiant? Dopo ἐρίζειν Keil segnala di aver eliminato il pronome riflessivo ἀλλήλοις, che è omesso da AT1 ma è presente, come si legge nell’apparato, nei codici SDUT2; Valgulio sicuramente leggeva il pronome dal momento che traduce inter sese. La lezione è presente anche in Va, V b (supra lineam) e Vc. La seconda variante è una delle più significative per il riconoscimento del possibile modello valguliano. Nel punto in cui Aristide parla del bene della concordia (ὁμονοίας ἀγαθόν; § 9) troviamo nell’edizione a testo, riferito a “bene” l’attributo διαπεφυκός (“connaturato”). τριχῆ γὰρ δὴ διαστησώμεθα καὶ θεωρήσαντες μίαν οἰκίαν ἐκ πόλεως πρῶτον, εἶτα εἰς ἄνδρα ἕνα ἀναβῶμεν τῷ λόγῳ καὶ σκεψώμεθα, ποῖός τις ᾧ τις οὐκ ἂν αἰσχύναιτο ὁμοιούμενος. ἀλλ’ ἐνταῦθα καὶ μάλιστ’ ἂν κατίδοιμεν τὸ διαπεφυκὸς τῆς ὁμονοίας ἀγαθόν98. τὸ διαπεφευγός TU2 V b : διαπεφητικός Va : διαπεφοιτικὸς Vc Valg. Tripartita igitur haec erit distributio et, perspecta domo una e ciuitate primum, deinceps ad unum hominem nostra se recipiet oratio, et qualis sit is considerabimus, cuius si quis sit similis nequaquam eum pudeat. Sic enim uel maxime concordiae bonum elapsum atque amissum dignoscemus. Valgulio traduce con un’endiadi elapsum atque amissum, tenendo evidentemente presente un testo diverso. Nell’apparato di Keil si legge che TU2 ha διαπεφευγός (“sfuggito”), che è la stessa lezione riportata da V b; questa volta Va ha διαπεφητικός, probabilmente per un errore del copista e Vc ha una lezione simile, διαπεφοιτικὸς. A proposito degli aspetti negativi dell’opposto dell’homonoia, ovvero la stasis, Aristide introduce nella sua argomentazione il parallelismo di natura medica secondo il quale le malattie interne sono le più dannose per il fisico così come le discordie intestine sono le peggiori per il corpo civico (§ 18). καὶ μὴν εἴ γε τοῖς σώμασιν αὗται βαρύταται τῶν νόσων καὶ πλείστης δέονται τῆς ἐπιμελείας, αἵτινες ἂν τῶν ἐντὸς ἅψωνται, πῶς οὐ καὶ πόλει ταῦτ’ εἶναι τῶν ἀτυχημάτων ἔσχατα χρὴ δοκεῖν, ὑφ’ ὧν εἴσω φθείρεται; ἢ πολεμίους μὲν εἴσω τείχους παρελθόντας φοβερωτέρους κρίνομεν, αὐτοὺς δὲ ἐν μέσῃ τῇ πόλει πολεμεῖν ἀλλήλοις μικρόν τι νομιοῦμεν εἶναι99;
98 “Allora facciamo una tripartizione, considerando in primo luogo una sola casa dalla città, quindi passiamo col discorso a un solo uomo e riflettiamo su quale tipo mai sia quello a cui uno non si vergognerebbe di assomigliare. Ma in questa circostanza scorgeremmo soprattutto il bene connaturato della concordia”. 99 “Se appunto per i corpi queste sono le più gravi tra le malattie e necessitano di moltissima cura, quelle che colpiscano le parti interne, come non deve apparire che anche per una città queste siano tra le sventure quelle estreme, quelle da cui essa è danneggiata dall’interno? O giudichiamo che nemici giunti all’interno delle mura siano più temibili, ma crederemo che combattere in mezzo alla città gli uni contro gli altri sia un affare insulso?”
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ἀλλήλοισ μικρόν τι νομιοῦμεν εἶναι AT1U Vc, inter ἀλλήλοισ et νομιοῦμεν εἶναι lacuna 6 - 8 litt. relicta D : ἀλλήλοισ. ἀδεὲς τῶ κοινῶ νομίζει τις S et addunt mg. T2U1 Va V b Valg. Enimuero si morbi in corporibus qui interiora tangunt sunt grauissimi magnaque ac diligenti curatione indigent, cur non has quoque extremas esse ciuitati calamitates existimandum est, quibus interiora uitiantur? Si hostes qui moenia ingressi sunt terrifici habentur magis, qui in media urbe inter se iam belligerant, erit ne aliquis qui putet rei publicae non esse formidandos? Valgulio, rispetto al testo tradito da Keil, traduce inserendo una parte supplementare; egli infatti riporta qui in media urbe inter se iam belligerant, erit ne aliquis qui putet rei publicae non esse formidandos? È evidente che Valgulio tiene conto di una lezione diversa, qual è quella che troviamo in apparato riportata nel testo da S e come aggiunta marginale da T2U1: ἀλλήλοις ἀδεὲς τῷ κοινῷ νομίζει τις. L’aliquis qui putet infatti coincide con il νομίζει τις del greco e rei publicae non esse formidandos corrisponde a ἀδεὲς τῷ κοινῷ. La stessa aggiunta si trova in margine nei soli Va e V b. Un altro punto rilevante per l’individuazione del modello valguliano riguarda la parte dell’argomentazione in cui Aristide conduce una riflessione sul paragone tra i tempi attuali e quelli trascorsi (§ 20). καὶ μὴν οὐ νῦν μὲν δοκεῖ, πρότερον δ’ οὐκ ἐδόκει τῶν κακῶν ἔσχατον εἶναι. …. καὶ τοῦτο τοσούτῳ γὰρ μετριώτερον στάσεως ἡ τυραννὶς, ὅσῳ πρῶτον μὲν κουφότερον εἷς κακῶς ποιῶν πόλιν ἢ πάντες κύκλῳ, ἔπειτα ἐλευθερῶσαι μὲν πόλιν ὥστε στασιάζειν οὐδεὶς πώποτ’ εὖ φρονῶν ἠξίωσεν, ὑπὲρ δὲ τοῦ μὴ στασιάζειν τυράννους ἤδη τινὲς ἐξεπίτηδες ἐστήσαντο100. καὶ μὴν οὐ νῦν μὲν δοκεῖ, πρότερον δ’ οὐκ ἐδόκει SDUT1 mg. et Ar (nisi quod δὲ δόκει reliquit, quod in δ’ οὐκ ἐδόκει corr. A2) : καὶ μὴν οὐ νῦν μὲν ἄδεια πολλή πρότερον δ’ ἐδόκει (δὲ δόκει A) A1T Vc, add. mg. Va V b Valg. At nunc est multa licentia libertasque magna. Nam prius in malis extremis uersari uidebamur. Eo enim seditione moderatior est tyrannis, quo primum quidem leuius est ab uno quam ab omnibus deinceps per girum ledi, deinde ciuitatem quae seditionem esset exercitatura nemo unquam sapiens liberandam esse iudicauit; contra uero aliqui, ut seditiones tollerent, ultro tyrannos in ciuitatibus constituerunt. La parte per noi interessante è anche quella più controversa, come si nota dall’apparato: Keil accoglie la lezione di SDUT1, mentre A1T ha καὶ μὴν οὐ νῦν μὲν ἄδεια πολλή πρότερον δ’ ἐδόκει (τῶν κακῶν ἔσχατον εἶναι). Quest’ultima è sicuramente la lezione seguita da Valgulio che traduce At nunc est multa licentia libertasque magna. Nam prius in malis extremis uersari uidebamur; è evidente che
100 “Certo, ora non sembra in verità, ma prima non sembrava essere il peggiore dei mali. … infatti la tirannide è in questo più moderata della discordia, in quanto, in primo luogo, è più lieve che una sola persona faccia del male alla città che tutti da ogni parte, poi, liberare una città in modo tale che possa cadere in discordia, nessuno mai che avesse senno lo ritenne giusto, mentre perché non si venisse a conflitto alcuni misero al potere di proposito dei tiranni”.
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egli, eliminata la negazione οὐ, abbia avuto sotto gli occhi ἄδεια πολλὴ, tradotta in latino con l’endiadi licentia libertasque magna, e la frase successiva πρότερον δ’ ἐδόκει τῶν κακῶν ἔσχατον εἶναι, resa con nam prius in malis extremis uersari uidebamur. L’umanista può aver tratto questa lezione da Va e V b che hanno a testo la variante accolta da Keil καὶ μὴν οὐ νῦν μὲν δοκεῖ, πρότερον δ’ οὐκ ἐδόκει, ma su καὶ μὴν riportano entrambi un segno che rimanda a una nota marginale che recita καὶ μὴν οὐ νῦν μὲν ἄδεια πολλὴ πρότερον δ’ ἐδόκει (“e ora d’altra parte non c’è ora una grande libertà, ma prima sembrava…”); la stessa frase è presente in Vc, ma questa volta non a margine, bensì a testo. Un’altra lezione interessante risiede nel punto del discorso in cui Aristide, nel sottolineare come lasciarsi andare alle rivolte sia del tutto irrazionale in tempi in cui i Romani governano l’ecumene con le loro leggi e i loro magistrati, arriva a concludere che i Rodiesi perseverano nei loro errori non per ignoranza di ciò che è giusto, ma piuttosto per una qualche follia (ἀπονοίᾳ τινὶ) e perché sono soggiogati dal dissidio (καὶ τῶν διαφορῶν ἡττώμενοι; § 32). Egli afferma a questo proposito: οὐ γὰρ ἀγνοίᾳ τοῦ συμφέροντος ἁμαρτάνειν μοι δοκεῖτε τοσοῦτον, ὅσον, εἰ οἷόν τε εἰπεῖν, ἀπονοίᾳ τινὶ καὶ τῶν διαφορῶν ἡττώμενοι101. διαφορῶν ἡττώμενοι A : διαφορῶν ἑκόντες ἡττώμενοι SDUT Va V b Vc Valg. Non enim mihi tantum peccare uidemini errore atque ignoratione utilitatis quantum, si dici debet, arrogantia quadam et amentia dissidiis ultro superati. Nell’apparato di Keil si legge che SDUT ha ἑκόντες davanti a ἡττώμενοι; questa sembra essere la lezione letta da Valgulio che traduce arrogantia quadam et amentia dissidiis ultro superati; ultro infatti, inteso col significato di “spontaneamente, di propria iniziativa”, equivale all’ ἑκόντες riportato da SDUT e da Va e V b, oltre che da Vc. Sempre nello stesso punto Aristide dice che bisogna liberarsi dell’ira ὥσπερ ἐκ πολιορκίας (“come da un assedio”), come si può leggere nel passo seguente (§ 32): λέγω δὴ [κεφάλαιον], πρῶτον μὲν ὀργὴν ἅπασαν ἀπελθεῖν ἐκποδὼν ὥσπερ ἐκ πολιορκίας, τὰ ἑαυτῆς ἔχουσαν, ὡς οὐ τῷ θυμῷ κάλλιστα τὰ πράγματα κρίνεται102· ὡσπερεὶ πολιορκίασ A, ὥσπερει πολιορκίαν TU2 Va V b Vc ὥσπερει πολιορκία U1, ὥσπερ ἐν πολιορκίᾳ SD Valg. Caput igitur esto primum quidem, ut concitatus appetitus quasi quaedam obsidio ex animo pellatur; haud quidem ab ira de rebus praeclare iudicatur. La lezione ὥσπερ ἐκ πολιορκίας è una correzione di Keil modellata su ὡσπερεὶ πολιορκίας di A; SD ha ὥσπερ ἐν πολιορκίᾳ, mentre è ben più probabile che Valgulio
101 “Ecco, che la discordia sia il male estremo, non è troppo difficile da dimostrare, ma questo forse è arduo, trovare il modo in cui vi libererete di essa. Infatti mi sembra che sbagliate non tanto per ignoranza di ciò che è utile quanto per una forma di follia e perché siete vinti dal dissidio”. 102 “Io dico in primo luogo di scacciare via come da un assedio l’ira con ciò che essa ha in sé poiché le contese non si dirimono nel modo migliore in preda all’ardore”.
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abbia seguito la lezione ὥσπερει πολιορκίαν contenuta in Va, V b e Vc, che è anche quella di TU2, traducendo con quasi quaedam obsidio. Aristide poco dopo, nel continuare a fornire consigli ai Rodiesi, prescrive come regola generale il rispetto delle autorità superiori nel corpo civico proprio come si fa all’interno di un ambiente domestico, dove i figli rispettano il volere dei padri e gli schiavi gli ordini dei padroni. L’oratore per rendere al meglio quest’idea esorta i cittadini a imitare la composizione di una casa (§ 32). ἔπειτα φθόνον καὶ πλεονεξίαν ἑκατέρωθεν περιελεῖν· φθόνον μὲν λέγω τῶν ἐλαττόνων τοῖς μείζοσι, πλεονεξίαν δὲ εἰς τοὺς ἥττους τῶν μειζόνων· συνελόντι δ’ εἰπεῖν οἰκίας σχῆμα καὶ τύπον μιμήσασθαι103. μιμήσασθαι D Vc : μιμήσασθε S pr. m. : μιμήσασθε AUT Va V b Valg. Deinde inuidia atque auaritia utrimque abiicienda est; inuidiam inquam inferiorum in maiores, auaritiam uero in minores maiorum. Summatim autem, ut dicam, formam specimenque familiae imitamini. Anche qui Valgulio si discosta dal testo accolto da Keil, in quanto in luogo dell’infinito μιμήσασθαι riportato da D legge l’imperativo μιμήσασθε, lezione della prima mano di S, di AUT e di Va e V b, traducendo formam specimenque familiae imitamini. Qui Vc riporta invece l’infinito μιμήσασθαι. Se, in base alle varianti analizzate finora, Valgulio sembra aver realizzato la sua versione tenendo presente uno dei due Vaticani Greci 932 (Va) e 933 (V b), c’è un caso in cui Valgulio sembra discostarsi dai due manoscritti; si tratta del punto in cui Aristide afferma di voler sorvolare sugli encomi di Rodi fatti da chiunque l’abbia preceduto, eccetto Omero (§ 46), di cui cita alcuni versi relativi al sinecismo di Lindo, Ialiso e Camiro che aveva interessato l’isola in tempi antichi (Il. 2, 653-655). ἐνθυμήθητε δὲ ὅσην φιλοτιμίαν ὑμῖν ἔχει τὰ ὑπὸ τῶν ποιητῶν εἰς ὑμᾶς εἰρημένα, ὧν ἐγὼ τοὺς λόγους ὑπερβὰς τῆς Ὁμήρου μόνης μαρτυρίας μνησθήσομαι104. λόγους ATU1 Va V b : ἄλλους SDU Vc Valg. Reputate animis quantam uobis gloriam afferant quae de uobis poetae cecinerunt quorum ego, praeteritis aliis, testimonio Homeri contentus ero. Dal testo di Keil si legge τοὺς λόγους ὑπερβάς, ma Valgulio traduce praeteritis aliis, tenendo con ogni probabilità in conto la lezione ἄλλους già riportata da SDU. Questa si trova, tra gli esemplari che abbiamo esaminato, nel solo Vc. L’accordo del testo latino di Valgulio con Va e V b ritorna a partire dal punto in cui Aristide parla dei valori che avevano rinsaldato il legame dei primi fondatori
103 “Quindi abbattere l’invidia e l’arroganza sui due lati; intendo cioè da una parte l’invidia degli inferiori verso i più forti, dall’altra l’arroganza dei più forti verso i più deboli; per dirla in breve, imitare la forma e il modello di una casa”. 104 “Considerate quanto motivo di onore hanno i versi pronunziati dai poeti per voi, di cui, tralasciando i discorsi, ricorderò la sola testimonianza di Omero”.
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di Rodi, che si erano uniti ὑπὲρ πρὸς ἀλλήλους πίστεως (“in nome di una fiducia reciproca”, § 49). καὶ μὴν οὐδ’ ἐκεῖνο εὔλογον, τοὺς μὲν προγόνους ὑμῶν τριχῆ πρότερον μεμερισμένους συνελθεῖν εἰς ταυτὸ ὑπὲρ τῆς πρὸς ἀλλήλους πίστεως καὶ μίαν ἐξ ἁπασῶν πόλιν οἰκῆσαι, ὑμᾶς δὲ ἐκ μιᾶς πόλεως πολλὰς ἀποφῆναι τῷ διῃρῆσθαι105. ἀλλήλους πίστεως AT, at s. l. ὁμονοίας καὶ add. T1 aut T2 : ἀλλήλους ὁμονοίας καὶ πίστεως SDU Va V b Vc Valg. Neque uero illud cum ratione consentit, quod qui prius tris in populos diuisi erant concordia ac fide in una moenia conuenerint et unam e cunctis ciuitatem coluerint, uos ex una plures per seditionem ac diuisionem facere uideamini. La traduzione di Valgulio concordia ac fide riflette la lezione greca ὁμονοίας καὶ πίστεως, che è riportata sia da Va sia da V b (ὁμονοίας supra lineam), in accordo con SDU; la stessa lezione compare anche in Vc. Sempre per spronare i Rodiesi alla concordia, Aristide incita il suo pubblico a rifuggire comportamenti negativi emblematici; egli chiede infatti in maniera retorica se loro ritengano che sia saggio imitare i comportamenti dei Lesbii e dei Mitilenesi (§ 54), assunti come emblema di discordia civica. εἶτα ἐν νηὶ μὲν στάσις οὐχὶ σωτήριον, ἐν δὲ πόλει καὶ ταύτῃ περιρρύτῳ φθείρειν ἀλλήλους συνεζευγμένους σῶφρον ἢ τὰ Λεσβίων καὶ τὰ Μυτιληναίων κακὰ μιμεῖσθαι Ῥοδίους ὄντας106; λεσβίων δεῖ καὶ U Va V b : δεῖ om. ASDT Vc Valg. Ergo in naui seditio est pernitiosa, in ciuitate praesertim circumflua congregatos uosmet perdere prudentia est? An uobis, cum sitis Rhodienses, Lesbiorum atque Mitylenorum mala putatis esse imitanda? In Valgulio è espressa l’idea della necessità, che è assente in greco, dal momento che l’umanista traduce Lesbiorum atque Mitylenorum mala putatis esse imitanda, aggiungendo putatis e tenendo presente con ogni verosimiglianza il δεῖ posto dopo Λεσβίων che è presente in U e anche in Va e V b, e rendendolo con la costruzione perifrastica esse imitanda. Il δεῖ manca invece in Vc. Un altro elemento che ci induce a ritenere Va e V b alla base della versione valguliana si trova nel punto in cui Aristide parla dei Lesbii come emblema di discordia da cui i Rodiesi devono necessariamente distinguersi (§ 56); a questo proposito l’oratore afferma:
105 “E non è ragionevole che, mentre i vostri antenati, distribuiti da principio in tre parti, si riunirono verso lo stesso posto in nome di una fiducia reciproca e abitarono una sola città risultante da tutte, mentre voi con la divisione mostrate molte città da una sola”. 106 “Ebbene, la discordia non è salutare in una nave, ma in una città, per di più cinta dall’acqua, è saggio che uomini legati gli uni agli altri si danneggino reciprocamente o che voi che siete Rodiesi imitiate le azioni sciagurate dei Lesbii e dei Mitilenesi?”.
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καὶ πολλάκις ἠλέγχθησαν οὐχ ὡς δεῖ διακείμενοι107 δεῖ STD1 s. l. Vc : om. A1 : ἐπαγγέλλονται U Va V b Saepe deprehensi fuere non esse tales quales esse profitebantur. Appare chiaro dalla resa latina che Valgulio leggeva un testo in cui è omesso δεῖ e al suo posto compare ἐπαγγέλλονται, a cui corrisponde profitebantur; questa lezione peculiare è presente in U e in Va e V b, mentre è assente in Vc. Alla fine del discorso si trova una delle varianti che mostrano nella maniera più evidente quale sia il ramo di tradizione seguito da Valgulio; nel ricordare nostalgicamente l’epoca in cui a Rodi regnava la concordia, Aristide riproduce con tecnica mimetica le esclamazioni pronunciate all’unisono nel corso delle sedute assembleari in tempi di pace nell’isola (§ 56). Egli immagina così una vera e propria scena simbuleutica: … οὓς ἡμεῖς, ὅτε καὶ ἦμεν παρ’ ὑμῖν, τότε ἑωρῶμεν κἀν ταῖς ἐκκλησίαις οὐ μόνον μιᾷ φωνῇ χρωμένους, ἀλλ’ εἰ οἷόν τ’ εἰπεῖν καὶ ἑνὶ ῥήματι ὡς τὸ πολὺ· ‘ ὀρθῶς’ γὰρ καὶ ‘ στεφανοῦ’ καὶ τοιαῦθ’ ὑμῖν ἤρκει καὶ τοὔνομα τοῦ δημηγοροῦντος ἀνειπεῖν ἐνίοτε108· καὶ ‘ στεφανοῦ’ Wil., qui acclamationes agnovit : καὶ στεφάνου ASDT Vc, καὶ ἀντὶ στεφάνου U Va V b : ὀρθῶς γὰρ καὶ ἀντὶ στεφάνου καὶ τοιαῦθ’ ὑμῖν ἤρκει τοῖς δημηγοροῦσι παρ’ ὑμῖν, ὁρῶσι τὴν τοσαύτην ὁμόνοιαν καὶ συμφωνίαν add. mg. V b, om. καὶ συμφωνίαν Va Valg. … quos cum apud uos eramus ipsi nos uidimus non modo una uoce in concionibus sed dixerim uno uerbo plerunque [sic] uti erat; “profecto” mihi instar “coronae” apud uos concionanti, cum tantam aequanimitatem atque concordiam uidebam […] La prima differenza che si rileva tra la uulgata e la versione latina riguarda καὶ ‘στεφάνου’, lezione di tutta la tradizione tranne U, che ha ἀντὶ στεφάνου. Valgulio leggeva senza dubbio quest’ultima variante, tant’è vero che traduce in maniera puntuale “profecto” mihi instar “coronae”, dove instar corrisponde a ἀντὶ, che si trova del resto anche in Va e V b, mentre manca in Vc. La sua assenza in quest’ultimo è significativa e rappresenta l’elemento che più di tutti gli altri che abbiamo fin qui enumerato fa propendere per la sua esclusione come antigrafo di Valgulio e al contempo avvalora la tesi che l’umanista abbia impiegato come codici di prima mano proprio Va e V b. Anche nel seguito del periodo Valgulio offre una resa peculiare, che però questa volta non trova riscontro in nessuno degli esemplari citati da Keil nel suo apparato. La frase apud uos concionanti, cum tantam aequanimitatem atque concordiam uidebam sembra a tutti gli effetti un’aggiunta valguliana; a ben analizzare però i Vaticani 932 e 933 risalta una glossa marginale apposta in corrispondenza di ἀντὶ στεφάνου. V b ha
107 “Spesso dimostrarono di non essere disposti nella maniera opportuna”. 108 “… che noi, quando giungemmo presso di voi, allora vedevamo che nelle assemblee vi servivate non solo di un’unica voce, ma, se si può dire, per lo più di un’unica frase: «Giusto» e anche «Incoronatelo» ed espressioni simili per voi erano sufficienti e vi bastava proclamare questo e talora il nome dell’oratore”.
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infatti a margine la glossa ὀρθῶς γὰρ καὶ στεφάνου καὶ τοιαῦθ’ ὑμῖν ἤρκει, che ripete il testo principale, ma che continua con τοῖς δημηγοροῦσι παρ’ ὑμῖν, ὁρῶσι τὴν τοσαύτην ὁμόνοιαν καὶ συμφωνίαν; Va ha la stessa aggiunta, tranne per il sintagma καὶ συμφωνίαν, che è omesso; Vc non ha invece il supplemento marginale appena esposto. Ci sembra del tutto plausibile che Valgulio possa aver tenuto conto, come del resto ha fatto per le glosse citate in precedenza, di quest’aggiunta, ritenendo di doverla inglobare nella sua traduzione; se da un lato ciò chiarisce anche l’omissione di τοὔνομα τοῦ δημηγοροῦντος ἀνειπεῖν ἐνίοτε nel latino, l’espressione τοῖς δημηγοροῦσι παρ’ ὑμῖν corrisponde ad apud uos (mihi) concionanti e ὁρῶσι spiega il ricorso al verbo uideo in latino, che Valgulio però riferisce all’ego di chi declama il discorso - coerentemente, del resto, con mihi… concionanti -, infine τὴν τοσαύτην ὁμόνοιαν καὶ συμφωνίαν collima con tantam aequanimitatem atque concordiam. Solo V b, dunque, ha una coppia di termini affini, ὁμόνοιαν καὶ συμφωνίαν, mentre Va ha unicamente ὁμόνοιαν; verrebbe quindi da ipotizzare che Valgulio leggesse V b, anche se è opportuno osservare che l’endiadi è un tratto distintivo del metodo versorio valguliano, come si vedrà più avanti109. Quest’ultimo dato, unito alla lezione διαπεφευγός (§ 9) citato in precedenza, ci induce a ipotizzare che V b sia stato l’esemplare più vicino a Valgulio per la stesura della sua versione latina, mentre ci sentiamo di escludere Vc come modello primario, dal momento che reca un numero troppo alto di differenze rispetto alla traduzione latina. III.4.3 La traduzione del discorso Ai Rodiesi, sulla concordia
Abbiamo già illustrato le ragioni alla base della scelta di Valgulio di tradurre il discorso Ai Rodiesi, sulla concordia. L’umanista approntò la versione con ogni probabilità negli anni in cui prestò servizio come segretario presso Cesare Borgia e in essa profuse grande impegno, mostrando di meritare gli apprezzamenti di Ficino e Gravina relativi alla sua elevata conoscenza del greco. La versione valguliana non costituisce un prodotto artistico, né ha spiccate pretese di letterarietà; occorre però osservare che il tipo di orazione, ascrivibile all’ambito politico, risentiva di un influsso poetico minore rispetto alla Monodia per Smirne, per cui, come s’è visto, Niccolò Perotti aveva potuto realizzare una traduzione che rappresentava in se stessa un’opera originale dotata di un’impronta fortemente letteraria. Per il discorso Sulla concordia Valgulio mostra di attenersi al testo greco in modo preciso, senza discostarvisi mai bruscamente; tuttavia, non si può dire affatto che si tratti di una rielaborazione “rozza” del testo originale110. III.4.3.1 Il proemio dell’orazione
Come già rilevato per le versioni latine del Dioniso e della Monodia per Smirne di Perotti, anche per la traduzione dell’orazione Ai Rodiesi l’incipit rappresenta il punto in cui l’umanista tende a elevare maggiormente il tono del discorso attraverso una serie
109 Cfr. infra, pp. 149-150. 110 Sui giudizi precendenti della traduzione valguliana vd. supra, Introduzione, p. 21.
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di intertesti desunti dalla sua formazione. Spesso si tratta di semplici reminiscenze letterarie, come nel caso dell’impiego di singoli lemmi significativi provenienti da un bagaglio di conoscenze costruito sullo studio dei classici latini; altre volte siamo di fronte a riprese consapevoli di nessi o passi più ampi, che denunciano la volontà dell’umanista di raccordarsi consapevolmente a una fonte specifica. In entrambi i casi, il loro utilizzo contribuisce ad arricchire retoricamente la resa, che grazie alla presenza di tali elementi non risulta una mera traslazione del contenuto greco in un’altra forma, ma riflette la cultura classica recepita dall’umanista. In questa sezione Valgulio ricorre ad alcune espressioni tratte dalla poesia e dalla prosa, mostrando così di possedere una vasta erudizione. Nel proemio Aristide chiarisce l’occasione e le modalità della composizione; l’oratore dichiara subito che a causa della sua salute malferma gli era stato impossibile recarsi personalmente presso i Rodiesi e aveva dovuto affidare il suo messaggio a un testo scritto inviato alla popolazione dell’isola (§ 1); egli impiega il termine τὸ βιβλίον, verosimilmente un rotolo e non un codice111. Nel tradurre questa proposizione iniziale πρὸς δὲ ὑμᾶς ὑπόλοιπον ἦν πέμψαι τὸ βιβλίον, καὶ τοῦτον τὸν τρόπον συγγενέσθαι τὴν πρώτην, “per voi invece non mi rimaneva che inviarvi questo scritto e di incontrarvi per il momento in questa modalità”, Valgulio fa la prima delle omissioni presenti nella sua versione, rendendo la frase con ad uos uero libellum mittere statui et hoc pacto esse uobiscum. Egli dunque elimina τὴν πρώτην, sintagma che ha dato luogo a un dibattito tra gli studiosi di Aristide, in quanto secondo alcuni si tratterebbe del riferimento al fatto che Aristide “per la prima volta” si rivolge ai Rodiesi (determinando così problemi di attribuzione al retore orientale dell’orazione 25, nota altresì come Rhodiakos, sul tema del sisma che causò la distruzione di Rodi nel 142, quindi tradizionalmente ritenuta anteriore al discorso Sulla concordia)112, secondo altri, invece, che credono alla paternità aristidea del Rhodiakos, il sintagma dovrebbe essere tradotto come “per il presente”113. Aristide, dopo aver informato il suo pubblico sulle circostanze di produzione del discorso, afferma di assumersi il compito di perorare la concordia εἰκότως, “a buon diritto”114 (§ 2), proprio perché considera Rodi alla stregua della propria patria, quindi introduce un ragionamento di ordine generale sull’appartenenza sua e dei Rodiesi
111 Sul tipo di supporto indicato dal termine in Aristide vd. Pernot 2007 (2), p. 939 n. 27. L’invio di un discorso scritto è affine alla sua lettura in absentia, come si verifica nel caso di altre orazioni aristidee, ad esempio la Palinodia per Smirne (or. 21); vd. Pernot 1993, p. 435. Questa modalità di trasmissione è attestata per altri discorsi aristidei: si ricordano anche l’Epitafio per Alessandro (32), discorso funebre composto per la morte del maestro Alessandro di Cotieo e inviato all’assemblea cittadina, e l’Epistola su Smirne (19), indirizzata alle autorità imperiali per perorare la ricostruzione di Smirne. La lettera, o il generico βιβλίον, lungi dall’essere un veicolo per l’espressione di sentimenti privati rivolto a un unico destinatario, era impiegata da Aristide e da molti altri suoi contemporanei come un mezzo di diffusione di un messaggio a un pubblico vasto ed elevato, come nel caso dei discorsi summenzionati. Sul concetto di lettera che veicola uno scritto vd. Pernot 1993, p. 435 n. 55 e Vix 2010, pp. 66-70. 112 Keil ritenne il discorso spurio e anche Boulanger espresse la stessa opinione; vd. Keil 1898, p. 91 e Boulanger 1923, p. 374. 113 Vd. Franco 2008, p. 220. 114 Sul valore di εἰκότως in Aristide vd. Berardi 2006, p. 238.
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alla medesima comunità ellenica. Laddove Aristide per esprimere questo concetto usa una complicata circonlocuzione Ἑλλήνων τε γὰρ οὐκ εἰς ἐσχάτους δοκοῦντα τελεῖν παντὸς τοῦ Ἑλληνικοῦ κήδεσθαι νομίζειν αὑτῷ προσήκειν οὐ μάταιος ὁ λογισμὸς, “che uno che appare esser annoverato non fra gli ultimi tra i Greci ritenga che a lui spetti darsi cura di tutto ciò che è greco non è ragionamento insensato”, Valgulio traduce nec uanam rationem consiliumque esse censeo quod uir graecus, modo non extremae sortis homo, nullam rem ad Graecos spectantem a se alienam putet. Oltre all’endiadi, l’espediente retorico maggiormente utilizzato nella traduzione da Valgulio, presente nella resa di οὐ μάταιος ὁ λογισμὸς con nec uanam rationem consiliumque, si segnala nelle parole uir graecus… nullam rem ad Graecos spectantes a se alienam putet la probabile allusione alla famosa battuta contenuta al verso 77 dell’Heautontimoroumenos terenziano homo sum: humani nil a me alienum puto. Da una parte Aristide con le sue parole esprime l’importanza dell’appartenenza alla grecità, che, nonostante la presenza costante del dominatore romano, continua a rappresentare un valore di riferimento imprescindibile e unificante, dall’altra Valgulio denuncia in primo luogo, attraverso il richiamo alle parole terenziane, una formazione classica, ma soprattutto l’adesione al modello culturale improntato all’humanitas. In questo modo l’Hellenismos promosso da Aristide viene arricchito dall’accostamento al valore formulato in maniera del tutto innovativa, per i suoi tempi, da Terenzio che Valgulio, in quanto umanista, non poteva che condividere pienamente. Un’altra resa interessante, che cela un altro probabile intertesto, è quella di τῶν τε πρὸς ὑμας ἰδίᾳ μοι δικαίων ὑπαρχόντων οὐδ᾽ὑμεῖς ἐπιλέλησθε, “né avete scordato gli atti giusti messi a disposizione da me a voi in privato”, con nec uos oblitos esse reor meritorum quae in me priuatim contulistis. Nel testo di Aristide infatti è l’oratore che ha reso δίκαια ὑπάρχοντα ai Rodiesi, mentre Valgulio scrive che sono stati i cittadini dell’isola a rendergli merita, forse per influenza dell’eco ciceroniana uestra beneficia quae in me contulistis contenuta nella Pro Milone (100, 12). III.4.3.2 L’elogio della pace civica e l’esortazione alla concordia
Tutta l’argomentazione aristidea è fondata su due punti cardine: da un lato l’elogio dell’armonia poleica, che viene sia condotto attraverso il dispiegamento di numerosi exempla tratti dal mito e dalla storia, fino a un vero e proprio ritratto dell’homonoia, sia attraverso la costante deplorazione del suo opposto, la stasis; dall’altro l’accumulo di esortazioni ai Rodiesi a ricomporre i dissidi, che Aristide espone in maniera serrata e con motivazioni di stretta attualità. Anche qui, in continuità con il proemio, la resa di Valgulio riflette la sua erudizione per la scelta di espressioni ricavate dai classici. Quando Aristide asserisce che conoscere una via di salvezza e non praticarla è disumano, riferendosi al fatto che i Rodiesi preferiscono in maniera deliberata e stolta la discordia alla serenità, Valgulio traduce la frase significativa οὐ μὴν οὐδ’ εἰδέναι μὲν φάσκειν, ἑκόντας δὲ ὀλιγωρεῖν τῆς σωτηρίας ἀνθρώπινον (§ 4), “certo, no, neppure affermare di conoscere la via della salvezza e poi volontariamente disprezzarla è umano”, con quae si quis se non ignorare contendat, et sponte sua contemnat salutem humanitatem non sapit. Qui, oltre all’utilizzo delle due figure di suono dell’omeoarco e dell’allitterazione
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riconoscibili in contendat… contemnat, che denotano una cura stilistica particolare per questo passo, si nota il dotto accenno, sotteso all’ultima frase, al famoso verso di Marziale hominem nostra pagina sapit (epigr. 10, 4, 10). Ancora una volta il riferimento nella traduzione di Valgulio è a un altro autore che mette l’uomo al centro della sua opera; ciò non sembra casuale e stavolta, grazie alla notevole somiglianza delle due espressioni, l’allusione è ancora più probabile che nel caso terenziano summenzionato. Un valore significativo rivestono gli intertesti ciceroniani; come si è osservato già per Cencio de’ Rustici e per Niccolò Perotti e si noterà più avanti per Joachim Camerarius, l’opera dell’oratore e politico arpinate è senza dubbio quella più presente nelle traduzioni umanistiche prese in esame. La scelta di mutuare da Cicerone passi ed espressioni rilevanti per tradurre i discorsi di Aristide, uno dei maggiori esponenti della Seconda Sofistica, è particolarmente calzante per il genere letterario comune ai due autori, ma al contempo risulta anche una via obbligata per Valgulio, che si inscrive così nel solco tracciato dagli umanisti precedenti che avevano assunto Cicerone come somma auctoritas. Se è vero che già nell’incipit (§ 2) è ravvisabile un probabile rimando alla Pro Milone, anche tutta la sezione centrale del discorso contiene numerosi altri riferimenti di questo tipo. Uno dei punti in questione riguarda il segmento in cui Aristide, nel considerare il valore dell’homonoia a livello individuale (§ 10), si domanda οἷον τίς ἂν ἢ κηδεῦσαι τῷ τοιούτῳ πρὸ τοῦ ἑτέρου βούλοιτο, ἢ συμβαλεῖν ἢ συσκηνῶσαι, ἤ τι τῶν πᾶσι κοινῶν, ὁπόσαι πράξεις κατ’ ἀνθρώπους μετασχεῖν, ὅστις μηδ’ αὐτὸς οἶδεν ὃ βούλεται, “per esempio, chi vorrebbe stringere parentela con un uomo tale invece che con l’altro, o imbattersi in lui, o essergli compagno di dimora, o partecipare con lui a una delle imprese comuni, quante riguardano gli uomini, un uomo che non sappia neppure lui cosa vuole… ?”; Valgulio rende l’espressione ὁπόσαι πράξεις κατ’ ἀνθρώπους μετασχεῖν con in quacumque humana actione quotquot sunt inire societatem, optando per un nesso, inire societatem, che si ritrova in Cicerone (fam. 18, 8, 3: ut potius cum pluribus societatem defendendae libertatis iniremus quam cum paucioribus funestam orbi terrarum victoriam partiremur) e più di una volta in Gaio (inst. 2, 9, 16: Societatem inire possumus aut omnium bonorum aut unius alicuius negotiationis. Et potest ita iniri societas, si tamen hoc inter socios conuenit, ut unus pecunia det, alter operam suam pro pecunia ponat… Permanet autem inita societas, donec in ipso consensu socii perseuerant). Quest’ultimo esempio riguarda inoltre l’idea della promozione di una società concorde, concetto alla base del sistema di valori propugnato da Cicerone. Lo stesso collegamento ricorre nella traduzione di un altro momento dell’orazione. Aristide, nell’effettuare un parallelismo tra l’ordinamento di una comunità e la buona organizzazione di una casa, afferma che entrambe le dimensioni associative funzioneranno soltanto se da un lato i superiori non peccheranno di tracotanza verso i sottoposti e dall’altro se gli inferiori accetteranno di buon grado i comandi imposti dall’alto (§ 32-34). Questa teoria, ben sintetizzata nell’espressione νόμος γάρ ἐστιν οὗτος φύσει κείμενος… ἀκούειν τὸν ἥττω τοῦ κρείττονος (§ 35), “giacché questa è una legge che esiste per natura… che l’inferiore deve obbedire al superiore”, riflette il peso
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attribuito da Aristide alla conservazione della struttura sociale rodiese115. Il retore afferma quindi che ἄνευ δὲ ταύτης τῆς ἑκατέρωθεν εὐγνωμοσύνης οὐ ῥᾴδιον εὑρεῖν οἰκίαν ἥτις σωθήσεται (§ 33), “senza questo buon senso da entrambi le parti non sarà facile trovare una casa che verrà preservata”, e Valgulio trasferisce la frase in latino con sine hac utriusque partis conspiratione atque consensu animorum conseruatam domum inuenire difficile est. Nella resa valguliana utriusque partis conspiratione atque consensu animorum si osserva l’amplificazione di τῆς ἑκατέρωθεν εὐγνωμοσύνης con consensu animorum. L’umanista insiste sul concetto di conciliazione, ben evidente dalla scelta dei termini conspiratione… consensu, laddove Aristide parla piuttosto di buon senso (εὐγνωμοσύνης). L’utilizzo dei due termini latini rimanda a Cicerone e al suo lessico della concordia, sia con riferimento all’unione dei ceti abbienti (concordia ordinum), teoria peculiare della prima fase del pensiero politico ciceroniano, sia all’accordo di tutti i cittadini agiati e possidenti (consensus omnium bonorum), strategia teorizzata in un secondo momento ed espressa in particolare nella Pro Sestio. Non a caso i lemmi consensus e conspiratio compaiono abbinati proprio in Cicerone, esattamente come in Valgulio (fin. 5, 66, 9; off. 2, 16, 10; fam. 10, 10, 2, 6-7). È interessante a questo proposito rilevare lo scarto esistente tra la promozione dell’homonoia in Cicerone e in Aristide, tenendo ben presente la distanza temporale e il contesto politico in cui i due letterati componevano le proprie opere: se per il primo l’invito alla concordia era rivolto soprattutto ai ceti dominanti e rappresentava il collante necessario per la conduzione della società da parte di questi ultimi, per l’oratore greco l’homonoia era un bene a-temporale che in ogni epoca aveva costituito la prerogativa imprescindibile per il successo di un popolo. Per entrambi gli autori la concordia è uno strumento politico, ma mentre per l’arpinate questa diventa il punto cardine di un programma proposto ad una parte ben precisa della società, per Aristide, che compone i suoi discorsi due secoli dopo in una Grecia soggetta al controllo di Roma, l’invito alla conciliazione è destinato alla società intera, come lasciano intendere gli insistiti parallelismi κρείττονες-ἥσσονες116. Valgulio di sicuro non intendeva proporre un programma politico della portata di quello ciceroniano né tantomeno porsi a capo di un partito, da segretario apostolico qual era; tuttavia, con la sua traduzione intendeva porgere ai signori che governavano a quel tempo l’Italia un indirizzo improntato al valore della concordia al fine di scongiurare il pericolo del re straniero. Per questa distanza di prospettive possiamo sostenere con certezza che gli stilemi ciceroniani ritrovati nella traduzione valguliana costituiscono senza dubbio degli echi letterari e non dei riferimenti ideologici, ma è notevole rilevare come Valgulio li recepisca e li tenga presenti per la sua traduzione; la loro presenza senza alcun dubbio impreziosice il dettato e rivela una cultura di tutto rispetto.
115 Vd. Franco 2008, p. 249. Questa insistenza sull’importanza del mantenimento dell’ordine sociale precostituito potrebbe riferirsi velatamente al motivo dello scoppio dei disordini a Rodi che non viene mai esplicitato da Aristide nel corso dell’orazione. 116 Behr parla di class struggle e anche Franco ritiene che la stasis aveva messo in discussione, dopo il terremoto del 142 d.C., i normali assetti sociali dell’isola; vd. Behr 1981-1986, vol. 1, p. 368, Franco 2008, p. 240.
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Un’altra occorrenza di un termine di ascendenza ciceroniana è presente nella chiusa del discorso, quando Aristide parla dello sconvolgimento della società rodiese per mezzo dell’immagine del terremoto; egli invita caldamente i Rodiesi a deporre le ostilità con la chiara esortazione παύσασθε τοῦ σεισμοῦ τούτου (§ 59), “cessate questo terremoto”, dove τοῦ σεισμοῦ è reso da Valgulio con conquassatione, termine che ricorre nel latino classico una sola volta nelle Tusculanae Disputationes (4, 29, 3), nel punto in cui Cicerone spiega come la malattia fisica e il malessere psicologico (aegrotatio) sono generati ex totius ualetudinis corporis conquassatione et perturbatione, “da uno sconvolgimento e un turbamento della salute globale del corpo”. Se si allarga però la ricerca al verbo conquasso e ai suoi derivati, è possibile rintracciare pochi esempi (nove, in tutto), di cui alcuni sono relativi proprio alla sfera politica, quindi calzanti col contesto del discorso qui trattato. È interessante pertanto osservare più da vicino la ricorrenza del termine in particolare in due orazioni di Cicerone strettamente collegate: nella Pro Sestio (26,56) a proposito della lex Clodia de auspiciis emanata nel 58 a.C. che avrebbe gettato nel caos, secondo Cicerone, la situazione politica romana, arrivando a dire che, a causa della scellerata legge di cui era fautore l’odiato Clodio, etiam exteras nationes illius anni furore conquassatas videbamus (“finanche le nazioni straniere vedevamo messe a soqquadro dalla frenesia di quell’anno!”), e nell’arringa In Vatinium (8, 19), dove l’oratore accusa l’ex tribuno della plebe Vatinio, che aveva da poco testimoniato contro Sestio, di aver distrutto l’intera cittadinanza col suo operato. L’oratore infatti si rivolge con durezza al teste, con queste parole: adeone non labefactatam rem publicam te tribuno neque conquassatam civitatem, sed captam hanc urbem atque perversam putaris ut augurem Vatinium ferre possemus (“Fino a tal punto ritenevi non solo sconvolto lo stato, durante il tuo tribunato, e sovvertita la cittadinanza, ma addirittura Roma caduta in schiavitù e rovinata da poter noi sopportare un Vatinio augure117”)? In quest’ultimo esempio l’accezione di conquasso è la stessa che è presente nella summenzionata resa valguliana e tale elemento stilistico mostra ancora una volta l’aderenza dell’umanista al modello. Oltre a Cicerone, è possibile ravvisare una possibile eco poetica che riflette un costume tipicamente romano. Nel punto in cui Aristide incalza i Rodiesi con una serie di domande retoriche, insistendo su quanto sia illecito il loro comportamento nei confronti della divinità, Valgulio traduce la frase οὐ τὰς χεῖρας ἄρας ἄνω σὺν αἰδοῖ καὶ δέει συγγνώμην αἰτήσει τῶν μέχρι τοῦδε ἡμαρτημένων τοὺς θεοὺς; (§ 50), “Non chiederà agli dei perdono degli sbagli commessi fino a questo momento, levando in alto le mani con reverenza e timore?”, con Non passis manibus cum pudore ac metu ueniam praecabitur scelerum quae adhuc usque diem in deos admiserit? Se in greco l’espressione τὰς χεῖρας ἄρας ἄνω si riferisce al sollevamento delle mani (o delle braccia) in segno di riserbo e metus deorum (σὺν αἰδοῖ καὶ δέει), in latino il pandere manus fa pensare più all’ampia apertura dei palmi e al loro prolungamento in avanti. A ogni modo, entrambi gli atteggiamenti facevano parte della tipica postura assunta dall’orante,
117 Le traduzioni dei passi tratti dai due discorsi giudiziari sono di Giovanni Bellardi; cfr. G. Bellardi (ed.), Cicerone. Orazioni, III, 1979 Torino, p. 405 e p. 517.
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sia greco che romano, per stabilire un contatto con la divinità118. L’espressione latina impiegata da Valgulio si trova anche in Lucrezio (5, 1220: nec procumbere humi prostratum et pandere palmas), dove il poeta deplora gli eccessi della venerazione divina, e in tre luoghi del De bello gallico di Cesare (1, 51, 3, 2; 2, 13, 3, 3; 7, 47, 5, 2), in cui passis manibus fa sempre riferimento all’atteggiamento supplichevole mostrato ai Romani dalle popolazioni vinte. A innalzare la qualità del dettato valguliano contribuiscono non soltanto le allusioni letterarie, ma anche la discreta quantità di figure retoriche presenti nel testo. Solo per citarne qualcuna, si ricorda la coppia verbale contendat… contemnat (§ 4) con omeoarco e omeoteleuto, già osservata a proposito dell’intertesto marzialiano; sempre nella stessa porzione di testo si osserva la resa di ἀλλ’ ὑπὲρ μὲν τῶν πολιτειῶν αὐτῶν καὶ τῶν ἐν αὐταῖς νομίμων χωρὶς ἕκαστοι φρονοῦσι, “Ma sulle stesse forme di governo e sulle norme contenute in esse ciascuno ha un pensiero differente”, con De administratione rerum publicarum deque rebus in ipsis gerendis diuersi diuersa sentiunt, dove si osservano i poliptoti rerum-rebus, corrispettivo di αὐτῶν- αὐταῖς, e diuersi diuersa, assente in greco. Valgulio mostra anche di voler conservare in latino gli espedienti fonici dell’originale con degli equivalenti accorgimenti: è il caso della frase τὸ δ’ ἐπ’ ἀλλήλους τρέπεσθαι καὶ τὴν ἐπὶ τῇ κοινῇ σωτηρίᾳ κατοικίαν γενομένην ταύτην διαλύοντας καὶ διασπῶντας τὰ αὑτῶν εὖ τίθεσθαι νομίζειν ἑκάστους ἐξαίρει πᾶσαν ἀνθρώπων ἄνοιαν (§ 13), “ma rivolgersi gli uni contro gli altri e credere ciascuno di amministrare bene i propri affari distruggendo e dilaniando da ogni parte questo insediamento che è stato fondato per la salvezza comune, questo cancella ogni follia umana”, con cui Aristide condanna duramente l’attitudine sediziosa dei Rodiesi. Questo pensiero viene reso in latino da Valgulio con at in se conuertere uicissim impetum et uiuendi atque habitandi societatem quem ad communem salutem constituta est dissoluere atque conuellere, dum quisque sua se melius putat disponere, id omnem hominum dementiam exsuperat, dove i due infiniti dissoluere e conuellere presentano delle allitterazioni, proprio come i corrispettivi participi greci διαλύοντας e διασπῶντας. Al contempo è possibile ravvisare nell’accostamento di dissoluere e conuellere un ulteriore accenno a Lucrezio, dal momento che i due verbi sono usati a distanza ravvicinata e nello stesso periodo soltanto nel De rerum natura (4, 500-505). È opportuno segnalare infine, nella parte in cui Aristide conduce un parallelismo tra l’armonia musicale e quella civica, la presenza di una figura di parola nella versione valguliana. Aristide sostiene qui che καὶ μὴν οὐδεὶς χορὸς ἀσύμφωνος οὕτως ἄωρον θέαμα ὡς ὁ Ῥοδίων δῆμος μὴ ταυτὸν φθεγγόμενος (§ 52), “Eppure nessun coro disarmonico è uno spettacolo così brutto come il popolo dei Rodiesi che non pronuncia le stesse cose”. Il passo si segnala per l’abbondanza di lemmi relativi alla sfera del canto (τῶν χορῶν, ἀσύμφωνος, φθεγγόμενος), frequenti nel lessico della concordia sin dall’antichità119. Valgulio non opera variazioni significative e conserva lo stesso lessico nella 118 Vd. Chapot-Laurot 2001, p. 13. 119 Vd. Bianco 2011, p. 114, n. 52. Bowie si sofferma sulla ricorrenza del χορός nelle orazioni di Aristide, che rappresenterebbe, secondo lo studioso, una sorta di ‘microcosm of the Greek πόλις’, cioè una riproduzione in piccolo di quell’atteggiamento politico greco improntato all’armonia che aveva reso possibile secoli addietro la leadership ellenica; la frequente allusione ai ‘cori’ in Aristide sarebbe così spiegabile con la volontà di illustrare un comportamento e un’attitudine all’accordo mediante
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sua resa Etenim nullus chorus inconcinnus spectaculum est adeo importunum ut populus Rhodiensium non concinens idem, impiegando termini come chorus inconcinnus (χορὸς ἀσύμφωνος) e populus… non concinens idem (ταὐτὸν φθεγγόμενος), dove si rileva il ricorso alla figura etimologica inconcinnus-concinens. III.4.3.3 Su alcune peculiarità della versione valguliana
Un’osservazione particolare merita l’uso dell’endiadi come meccanismo di amplificazione ed enfatizzazione di alcune espressioni aristidee. Si tratta indubbiamente dell’espediente retorico che ricorre più spesso nella versione di Valgulio e se ne registrano moltissimi casi. Si riportano qui gli esempi più significativi per dare un’idea della rilevanza dello sdoppiamento sinonimico nell’economia del dettato latino. Oltre ai casi di rationem consiliumque per λογισμὸς (§ 2) e conspiratione atque consensu animorum per εὐγνωμοσύνης (§ 33) - quest’ultimo probabilmente motivato dalla volontà di raccordo alla fonte ciceroniana -, ci sono alcuni punti del discorso in cui l’umanista fa un uso particolarmente ampio di questo artificio e arriva a duplicare più di un’espressione nello stesso periodo; ad esempio quando Aristide, mettendo a confronto due tipi umani, uno in disaccordo con se stesso e un altro pacificato e stabile, a un certo punto domanda τίς γὰρ οὕτως ἔξω τοῦ φρονεῖν ἢ τίς οὕτως ἄπειρος τῶν ἐν τῇ φύσει, ὅστις ἂν τὸν εἰκῆ καὶ ῥᾳδίως μεταβαλλόμενον καὶ μηδέποτε ἐν ταὐτῷ μένοντα μηδὲ ἃ γνοίη φυλάττοντα ἀντὶ τοῦ διὰ τέλους χρηστοῦ καὶ βεβαίου προέλοιτ’ ἂν εἰς χρῆσιν; (§ 10), “Chi infatti sarebbe così fuor di senno o chi così inesperto della natura, da preferire per la frequentazione un uomo che muta pensiero a caso e con facilità e non resta mai nella stessa posizione, né mantiene fermamente ciò che pensa, in luogo di un uomo compiutamente eccellente e saldo?”. Valgulio rende la frase con Quis nam est adeo insanus et demens, aut imperitus naturae rerum, ut temerarium et mobilem atque inconstantem, et nunquam in eadem sententia permanentem, nec tuentem quae decreuerit in usu anteponat prae omnem uitam aequabili uiro ac probo et constanti?, evidenziando tutte le qualità espresse in greco attraverso espressioni doppie: ἔξω τοῦ φρονεῖν diventa insanus et demens, (ῥᾳδίως) μεταβαλλόμενον viene reso con mobilem atque incostantem e χρηστοῦ con aequabili ac probo, sicché tutti gli attributi riferiti ai due tipi di uomini in latino risultano amplificati. La resa di ἔξω τοῦ φρονεῖν con insanus et demens consente di osservare un altro aspetto del metodo versorio impiegato da Valgulio, ovvero la moderata inserzione di modifiche del testo di partenza al fine di chiarire un concetto o di aggiungere note personali. All’interno della traduzione si riscontrano infatti altri due luoghi in cui l’umanista calca con delle aggiunte l’idea di follia insita in chi preferisce la stasis all’homonoia. Già in Aristide la scelta deliberata della discordia è allo stesso tempo causa di infelicità e sintomo di malessere, com’è evidente dal passo in cui enuncia
un’immagine ben presente nella letteratura classica, quella del χορὸς appunto; vd Bowie 2006, p. 75. L’impiego di metafore affini si registra anche in altre orazioni aristidee. È il caso della Monodia per Smirne, dove si ritrovano espressioni simili sul tema dei cori (si veda la qualificazione di Smirne come καλλίχορον, 18, 7, e i rimpianti κύκνων ᾠδὴ καὶ ἀηδόνων χορὸς, 18, 9). Vd. supra, pp. 79, 81-82, 87-88.
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che ἡ κατ’ ἀλλήλων στάσις καὶ ἀπιστία καὶ τὸ μήτε κοινῇ ταυτὸν φρονεῖν μήτ’ αὖ καθ’ ἑκάστους ὑγιαίνειν αἴτιον τῆς τοσαύτης μεταβολῆς ἐγένετο (§ 29), “la discordia, la sfiducia reciproca e la fine della pubblica armonia e della salute individuale, sono state la causa di un rovesciamento di tale portata”; in greco si parla di una salute generica, mentre Valgulio, con la sua resa discordiam inter ipsas ac seditionem fidemque suspectam, non unum omnium consensum et singulorum mentem non sanam tantae mutationis causas extitisse comperietis, in cui si nota l’endiadi discordiam… seditionem per στάσις, con singulorum mentem non sanam sceglie di caratterizzare l’insanità come ‘mentale’, trasmettendo al lettore l’idea che la discordia e la disomogeneità dei pensieri individuali all’interno della stessa comunità siano strettamente legate a una componente psicopatologica. Con lo stesso intento, al termine dell’orazione, laddove Aristide, immaginando un ipotetico interlocutore del popolo rodiese, gli fa pronunciare la domanda ἄνδρες Λέσβιοι ποῖ προήχθητε; (§ 55), “O Lesbii, fino a che punto siete stati condotti?”, Valgulio opera una modifica mediante quo tandem amentiae progressi estis?; sebbene il senso sia lo stesso, in latino si nota l’insistenza sulla condizione mentale squilibrata di chi opta per la discordia, anziché scegliere il suo opposto. Se quelle viste finora sono delle variazioni che comportano un chiarimento del messaggio aristideo, in un caso Valgulio fa una scelta versoria che forse si può interpretare in senso storico. All’interno della lista dei benefici apportati dall’homonoia a una comunità (§ 42), Aristide cita un motto: τὸ λεγόμενον δὴ τοῦτο πάντα κοινὰ, “come dice il detto «tutte le cose in comune»”. Si osserva dunque qui la resa di τὸ λεγόμενον δὴ τοῦτο con quod frequenter usurpatur, con un verbo, usurpo, che serve a restituire l’idea di ripetitività di un messaggio, in consonanza con il concetto del “motto” espresso in greco. Viene d’altra parte spontaneo chiedersi se Valgulio non abbia però optato per questo verbo latino anche in funzione polemica con allusione all’azione politica del re francese, presentato nella lettera prefatoria come un usurpatore dei poteri legittimi. Un’altra caratteristica della traduzione valguliana risiede nella preferenza per la uariatio, onde evitare il ricorso agli stessi termini nel corso di un discorso così lungo. Questa viene applicata in particolare alla parole chiave di στάσις e ai verbi da essa derivati. Se infatti per quanto riguarda il termine ὁμόνοια si rileva una sostanziale uniformità, con il corrispettivo latino concordia, Valgulio impiega per tradurre στάσις in maniera indifferente discordia e seditio. La tendenza di Valgulio alla uariatio si riscontra in particolare in quei passi in cui termini greci uguali sono vicini tra loro; è il caso della summenzionata sezione (§ § 34-35) relativa alla necessità di obbedienza dei membri deboli della società a quelli più potenti120. È interessante notare, a questo proposito, le diverse rese latine dei politematici che hanno per oggetto il concetto di superiorità/inferiorità. A tale scopo può essere utile uno schema riassuntivo di questo confronto:
120 Vd. supra pp. 145-146, 150.
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§ 34. (τοὺς μὲν ἀξιοῦντας εἶναι) κρείττους ὅτι ἂν τοὺς ἥττους ἑκόντες διαφθείρωσι τὸ γὰρ εἶναι τοὺς ἥττους τοῖς κρείττοσιν ἔσονται κρείττους δεικνύναι τοῖς μείζοσιν
qui caeteris praestare student si inferiores sponte perdant in inferioribus situm est eorum si quibus excellant possunt ostendere fortunatiores
§ 35. ὑπὸ τῶν κρειττόνων τὸν ἥττω τοῦ κρείττονος
a potentioribus inferiores superioribus
In latino è evidente la necessità di variare l’espressione greca relativa ai ‘più forti’; infatti, mentre Aristide si serve soltanto una volta di un sinonimo per κρείττων, cioè τοῖς μείζοσιν, Valgulio per lo stesso termine greco impiega ben sei uariationes. Non sembra che la stessa esigenza sia stata avvertita per i ‘più deboli’, per i quali l’umanista ripete più volte inferiores, forse perché in greco il termine ἥττων ricorre un numero minore di volte rispetto a κρείττων. Dall’analisi finora condotta, ci sembra possibile affermare che la versione di Valgulio contenga elementi che denotano una discreta qualità stilistica e una volontà di rendere il testo aristideo in maniera accurata. Sono davvero pochi i fraintendimenti, per lo più riferibili a Realien greci non più immediatamente comprensibili per un umanista della fine del XV secolo. È questo il caso di ὥσπερ θεωρικοῦ (§ 30) tradotto con tamquam aliquid spectaculum; il sintagma ricorre nell’esortazione aristidea ai Rodiesi a non rinunciare ai beni presenti, dal momento che Roma lo rende possibile con la sua ‘tutela’, e questo non sarà più garantito, afferma Aristide rivolgendosi al suo pubblico, εἰ τὸ ἐπιβάλλον ἐφ’ ὑμᾶς μέρος ὥσπερ θεωρικοῦ προήσεσθε ἐξεπίτηδες, “se voi abbandonerete deliberatamente la parte di denaro che vi spetta come di fondo pubblico”. Probabilmente Aristide qui si riferiva al fatto che i Rodiesi, persistendo in una condizione di stasis, avrebbero rinunciato deliberatamente a un fondo pubblico, proprio come quello che all’epoca dell’Atene democratica consentiva anche ai cittadini più indigenti di partecipare alle rappresentazioni teatrali. Lo stesso riferimento alla sfera teatrale si riscontra in Canter, che scrive (uestram) quasi theatralis pecuniae portionem121. Mentre Canter rende alla lettera quello che era propriamente il θεωρικόν cioè il fondo pubblico per gli spettacoli tipico dell’Atene del V secolo, Valgulio, ricorre all’impiego di spectaculum. Valgulio traduce infatti il passo con quae pars uos tangit eam de industria tamquam aliquid spectaculum ultro abiicitis. Sembra quindi che l’umanista qui non abbia compreso a pieno il senso del lemma aristideo e che forse abbia inteso, con la sua traduzione, che i Rodiesi rigettavano quella parte di denaro come se si trattasse di un affare non esattamente serio, come uno spectaculum appunto.
121 Canter 1566, p. 333, rr. 9-10.
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Un fraintendimento simile si rileva nel punto in cui Aristide sostiene che è opportuno ripetere i discorsi sulla concordia, anche se ce ne sono a migliaia (§ 41); egli afferma, nella convinzione che repetita iuuant, che essi frutteranno dei risultati proprio come quegli ἐπῳδοί, cioè gli ammaliatori, che emettendo lo stesso suono più volte sembrano produrre qualche effetto. Valgulio traduce ἐπῳδοὺς con il calco epodos, mostrando di non intendere il termine nel senso di incantatori, come invece fa correttamente Canter che ha incantantes122. Allo stesso modo Valgulio non comprende il termine ὥρας, “stagioni”, citato da Aristide a proposito dei beni preservati dalla concordia (§ 42) e lo traduce con il calco horas, mentre Canter mostra di intenderlo nel modo giusto rendendolo con anni tempora123. Al di là di queste errate interpretazioni, che restano numericamente esigue nell’economia dell’intera versione, Valgulio ci consegna un buon esempio di traduzione umanistica, mostrandosi attento a variare le espressioni, per non creare un’eccessiva monotonia, e ad arricchire il suo latino con allusioni ai maggiori autori della classicità. Siamo ancora lontani dalla perfezione della traduzione cinquecentesca di Canter, ma possiamo scorgere nella prova valguliana un significativo progresso nell’apprendimento del greco rispetto ai primi cimenti di Cencio de’ Rustici.
III.5 L’Epistola sulla concordia agli abitanti di Sélestat di Beato Renano La traduzione latina di Carlo Valgulio dell’orazione Ai Rodiesi, sulla concordia è particolarmente significativa tra quelle analizzate perché possediamo la testimonianza della sua ricezione diretta all’interno di un contesto storico e geografico del tutto mutato. È importante ai fini della nostra ricerca rilevare come Aristide si sia diffuso in Occidente anche attraverso la mediazione di una versione latina, com’è accaduto nel caso del discorso sulla concordia. Meno di trent’anni dopo la pubblicazione dell’incunabolo contenente la versione valguliana, Beato Renano124 (1485-1547), umanista alsaziano dapprima passato alla Riforma, ma ritornato dopo poco alla fede cattolica, anche a causa di una solida amicizia instaurata con Erasmo da Rotterdam, compose nel 1523 un’epistola destinata agli abitanti della sua città di origine, Sélestat, per esortarli ad abbandonare i propositi rivoluzionari originatisi dalla diffusione della dottrina di Lutero e a ricomporre i dissidi. Si ha notizia per questo periodo di tentativi di sollevazione di alcuni luterani contro i magistrati della città, nonché della divulgazione di ideali contrari al cattolicesimo tradizionale e di denigrazione del clero. Basti citare il caso del chirurgo Hans Sigmund che, nel cercare nuovi adepti alla fede protestante, aveva iniziato a diffondere nella
122 Canter 1566, p. 334, rr. 35-36. 123 Canter 1566, p. 334, r. 37. 124 Su Beato Renano vd. Walter 1986; Hirstein 2000; Walter 2011.
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comunità selestadiense dei libretti di cui lui stesso era autore; quando fu scoperto, Sigmund lasciò Sélestat, ma fu fermato a Ensisheim e lì fu giustiziato125. Le rivolte religiose celavano spesso anche un malcontento sociale, come mostra la richiesta nel 1523 del Magistrato di Sélestat presso il Vescovo di Strasburgo di farsi portavoce, presso l’amministrazione imperiale, di un alleggerimento delle imposte. Beato Renano, come altri umanisti della stessa epoca, partecipava della vita politica del proprio tempo e già prima del 1523 aveva perorato la causa cattolica contro la diffusione della Riforma, ma l’atto più importante in questo senso è senza dubbio rappresentato da un’epistola scritta per i suoi concittadini in cui egli fa sue le istanze dei magistrati ed esorta gli abitanti di Sélestat ad abbandonare ogni atto sedizioso e contrario al Vangelo. Alcuni anni fa126 è stato sostenuto che l’umanista, nel redigere la sua lettera, fu influenzato dalla lettura dell’incunabolo contenente le traduzioni di Valgulio delle orazioni di Dione e Aristide sulla concordia. Beato Renano nel 1505, quand’era ancora studente a Parigi, aveva acquistato la raccolta, come mostra l’ex libris apposto sul frontespizio del volume oggi conservato alla biblioteca umanistica di Sélestat con segnatura k 1180a127 che recita Est Beati Rhenani | Parisiis 1505 | M.P. ed è. L’esemplare è stato rilegato per volontà di Beato Renano insieme a un altro incunabolo (k 1180b) che proviene dalla stamperia veneziana di Bernardino Benali e non è datato, ma lo si colloca tra il 1498 e il 1499 e contiene soprattutto traduzioni umanistiche128. Renano mostra nella sua epistola agli abitanti di Sélestat di aver mutuato dai due oratori antichi quattro principi relativi all’esortazione concordia: non fare apertamente i nomi dei sediziosi, in un’ottica di appianamento delle divergenze; parlare della concordia in generale; confrontare la concordia con il suo opposto, la discordia; applicare il discorso al caso particolare. Alcuni passi della lettera mostrano bene il ricorso a questi principi, che l’umanista alsaziano poteva aver desunto dalle traduzioni latine di Valgulio dei testi di Aristide e di Dione. Il primo punto, che riguarda la necessità di non riferirsi ai sediziosi con i loro nomi, ma di parlare di loro in maniera generica per non fomentare l’odio, si trova nell’incipit della lettera (§ 1)129 che recita Quandoquidem concordia stabilimentum est rei publicae, sine qua status ciuitatis perinde fluctuat ac nauis quae caret ancora, non immerito sapientibus uisum est ut communi tranquillitati consulatur: hanc esse fouendam atque conseruandam non solum ab iis qui praesunt magistratibus fungentes, sed etiam ab illis qui subsunt, “Dal momento che è la concordia ad assicurare la stabilità di uno stato e che, senza di lei, l’equilibrio della città è altrettanto danneggiato quanto quello di una nave priva di ancora, non senza motivo ai saggi è sembrato opportuno
125 Cfr. Walter 1986, p. 220. 126 Vd. Brouard 2000, pp. 285-298. 127 I dati relativi all’esemplare di Beato Renano sono tratti dal sito classicalsace.unistra.fr nella sezione Lire Aristide en Alsace. 128 In esso figurano l’opuscolo di Censorino De die natali dedicato a Quinto Cerellio, la Tabula Cebetis tradotta in latino da Ludovico Odasio, il De inuidia et odio di Plutarco e l’orazione di San Basilio De inuidia tradotti da Niccolò Perotti e infine l’epistola De uita solitaria di San Basilio a Gregorio di Nazianzo nella versione latina di Francesco Filelfo. 129 Vd. Walter 1986, p. 226.
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nell’interesse della tranquillità generale giungere a questa conclusione: che questa (sc. la concordia) dev’essere favorita e salvaguardata non solo da quelli che stanno al comando in quanto magistrati, ma anche da quelli che sono sottoposti”. Se il paragone di ambito nautico può essere stato desunto dal discorso di Dione, dove si parla dell’anarchia distruttiva che si crea su una nave qualora i marinai cedano al disaccordo (§ 14), sicuramente si ritrova qui ancora una volta l’accenno, già presente in Aristide, al bisogno che i sottoposti obbediscano ai superiori per garantire un ordine alla città130. I membri subalterni della società a cui si riferisce Renano sono verosimilmente coloro che hanno dato avvio ai disordini e, in rispondenza al dettame retorico summenzionato di parlare dei responsabili dei disordini in maniera vaga, per designarli impiega la formula qui subsunt. Renano si mostra sensibile anche al bisogno di parlare della concordia in maniera non circostanziata, ma in termini ampi e condivisi, com’è evidente dall’esortazione Videte itaque quid faciat concordia, mater pacis, qua magnae res crescunt, quid rursus mali inuehat discordia, qua maximae res dilabuntur, “Vedete dunque l’azione della concordia, madre della pace, per mezzo della quale tutte le cose progrediscono, e viceversa, quali mali porti con sé la discordia, a causa della quale tutto perisce”. Qui Renano impiega una citazione di un passo tratto dal Bellum Iugurthinum (10, 6), Concordia paruae res crescunt, discordia maximae dilabuntur, “Ciò che è di poco conto cresce per virtù della concordia, ciò che è più importante è distrutto dalla discordia”. È significativo che nella versione valguliana di Dione e di Aristide ci siano due espressioni molto simili: per il primo si legge concordia per quam cuncta maxima conseruant, cuius contrario omnia dilabuntur (§ 11), “la concordia è ciò attraverso cui tutte le cose più importanti si conservano, per mezzo del suo contrario tutto viene distrutto”, mentre nella traduzione di Aristide abbiamo Hoc igitur si cupimus, seruanda nobis publice patria est, ut habeamus qua gloriemur. Ergo discordia nostra dilabetur; si animis ac sensibus congruamus, clarior fiet ac maior (§ 37), “Dunque, se vogliamo questo, dobbiamo preservare pubblicamente la patria, per avere ciò di cui poterci gloriare. Infatti (la patria) sarà distrutta dalla nostra discordia; (ma), se concordiamo negli animi e nei sentimenti, essa diventerà più grande e illustre”. Il pensiero della rovina è dunque espresso in termini simili dai due umanisti ed è probabile che anche Valgulio avesse presente, per le proprie versioni, il passo sallustiano e che Renano, a sua volta, potesse essere ispirato dalla traduzione dell’umanista bresciano. Per quanto riguarda l’esigenza di circoscrivere il discorso sulla concordia al caso particolare, l’umanista si rivolge dopo i due momenti iniziali al suo pubblico, denunciando così il suo orizzonte cristiano, quando afferma Hanc concordiam cum omnes habere sategerint cum Hebraei tum gentiles Graeci et Romani, Christus, Seruator noster, sic propriam suis esse uoluit ut hac ceu signo quodam suos sectatores cognosci uoluerit…, “Questa concordia, tutti gli uomini, sia gli Ebrei che i pagani greci e romani, si sono sforzati di possederla, ma Cristo, nostro Salvatore, l’ha voluta così specifica dei suoi che ne ha voluto fare come un segno distintivo dei suoi discepoli…”. Parimenti Dione a un certo punto del suo discorso si rivolge in maniera specifica agli 130 Vd. supra, pp. 145-146.
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abitanti di Nicomedia, per convincerli a mantenere la concordia con Nicea (§ § 21-51), mentre Aristide, da parte sua, focalizza l’argomentazione sulla storia e i valori del popolo rodiese (§ § 37-59). La lettera di Beato Renano, com’è evidente dalla lettura di quest’ultimo passo, contiene un messaggio evangelico che è estraneo ai testi di Dione e Aristide ed è d’altra parte da inquadrare in un’epoca in cui era in atto un fervido dibattito tra umanisti cattolici e riformatori più intransigenti proprio sul tema della concordia nelle dispute dottrinali. Basti ricordare il trattato dell’umanista spagnolo Juan Luis Vives De concordia et discordia in humano genere, del 1526, indirizzata a Carlo V, e l’opera di Erasmo del 1530 De amabili ecclesiae concordia; se però il punto cruciale di questo dibattito riguardava soprattutto la scelta delle modalità del confronto - ad esempio se, come sosteneva Erasmo, si dovesse tener conto nell’affrontare le questioni dottrinali dell’aptum, oppure se, come sosteneva Lutero, non ci fosse nessuno spazio per la conciliazione e la discussione131 -, Beato Renano, come Elio Aristide, invitava la comunità a deporre le ostilità nei fatti e a optare per la concordia, per non rischiare di incorrere in provvedimenti autoritari e repressivi. In realtà tutti i testi presi qui in considerazione - le orazioni originali di Dione e Aristide, le traduzioni di Valgulio e la lettera di Beato Renano - contengono una carica civile e hanno lo scopo di incidere nella realtà storica in cui sono stati composti. Se da una parte la lettera di Beato Renano può sembrare più prossima al discorso aristideo in quanto diretta a una città in rivolta e finalizzata ad appianare le divergenze interne, è altresì vero che l’epistola di Carlo Valgulio non è priva di un intendimento politico, dal momento che risente fortemente del contesto in cui è stata realizzata. Inoltre, nel denunciare l’assoluta mancanza di concordia tra i diversi stati italiani, Valgulio si indirizza a determinate personalità di spicco (il cardinale Piccolomini, Pio II e Cesare Borgia) che nella sua ottica potevano offrire alla penisola una via d’uscita dalla crisi profonda in cui versava. Ciò che cambia è l’ambito di produzione e di diffusione dei testi: se Aristide e Renano si indirizzano a una comunità cittadina, Valgulio quando scrive ha in mente la realtà frazionata degli stati italiani alla fine del XV secolo. Sia l’umanista bresciano, però, che quello alsaziano, con propositi diversi e in due contesti molto lontani, avevano trovato nei discorsi di Dione Elio Aristide un’esortazione alla concordia e ne avevano accolto l’esempio; in questo modo entrambi mostrano di farsi portavoce di una delle lezioni più importanti dell’Umanesimo, cioè la riscoperta dei classici non come esercizio fine a sé stesso, bensì come strumento utile alla riproposizione ai contemporanei dei valori dell’antichità.
131 Vd. Rummel 2000, pp. 121-136.
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III.6 Edizione dell’Aristidis oratio ad Rhodienses de concordia III.6.1 L’edizione del 1497
L’incunabolo132 da cui abbiamo tratto la versione latina dei discorsi di Aristide e Dione sulla concordia è datato 3 aprile 1497 - terminus ante quem per la stesura dei testi valguliani - ed è stato prodotto a Brescia nella tipografia di Bernardino Misinta, attivo nella città lombarda fino al 1509133, per Angelo Britannico, che insieme al fratello Iacopo era il maggiore editore della città134. I fascicoli sono di quattro fogli (in 4°) e ognuno è numerato con lettere latine e numeri romani da I a IIII (es.: a, a II, a III, a IIII, b…). Il libro è noto con il titolo tratto dal f. 1: Si bono litterarum studio delectaris suauissime lector. Volumen istud lectioni tuae saepius occurrat facito. Eo enim continentur Cleomedis de contemplatione orbium excelsorum disputatio, Aristidis et Dionis de concordia orationes, Plutarchi praecepta connubialia, eiusdemque de uirtutibus morum. Quae omnia legentis animum et praecipue delectant et maximopere exornant eumque perbelle optimeque componunt. Vale. Il volume contiene esclusivamente traduzioni di opere greche a opera di Carlo Valgulio. Ognuna di esse è preceduta da lettere di dedica a personaggi insigni del tempo, tutti collegati alla famiglia Borgia: ff. 2-3135 - lettera che precede la prima opera del libro con dedica a Cesare Borgia Ad reuerendissimum et clarissimum Caesarem Borgiam Sanctae Romanae Ecclesiae Cardinalem Valentinum Charoli Valgulii Brixiani ipsius Secretarii; ff. 3v-36 - traduzione latina di Carlo Valgulio De contemplatione orbium excelsorum di Cleomede; f. 37 - dedica di Pietro Gravina136 a Carlo Valgulio Petrus Grauina Carolo Valgulio Brixiano Aristidi Romano cognominato salutem; ff. 38-44 - traduzione latina del discorso di Elio Aristide Ad Rhodienses, de concordia dal titolo Aristidis oratio ad Rhodienses de concordia. Carolo Valgulio Brixiano Cardinalis Valentini secretario interprete; f. 45 - lettera prefatoria alle traduzioni dei discorsi di Elio Aristide e Dione di Prusa sulla concordia con dedica a Francesco Todeschini-Piccolomini, posta dopo la traduzione di Aristide per errore di chi ha confezionato il volume, come si legge nel primo item dell’elenco di errata corrige alla fine del volume (f. 73); il titolo recita Ad reuerendissimum et sapientissimum Dominum Franciscum Piccolomineum Cardinalem Senensem et Pii Secundi Pontificis Maximi nepotem Caroli Valgulii Brixiani Cardinalis Valentini Secretarii epistola; 132 HC 5450; IGI 3039. Per il presente lavoro ci siamo serviti della copia conservata alla Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino con segnatura XV.VIII. 99/2. 133 Su Misinta vd. Veneziani 1986, pp. 1-23; Sandal 1986, pp. 17, 55, 114, 200; Semprini 1996; Pellegrini 2004, pp. 124-126. 134 Vd. Signaroli 2009, pp. 21-80. 135 Forniamo la nostra numerazione con indicazione numerica progressiva dei fogli. 136 Vd. supra, pp. 118-119.
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ff. 46-52 - traduzione del discorso di Dione di Prusa Ad Nicomedenses, de concordia, intitolato Dionis oratio ad Nicomedios de concordia cum Nicenis componenda. Interprete Carolo Valgulio Brixiano Cardinalis Valentini Secretario; f. 53 - epistola dedicatoria ad Alessandro VI Ad diuum Alexandrum VI Pontificis Maximi Caroli Valgulii Brixiani Cardinalis Valentini Secretarii; ff. 54-63 - traduzione del De uirtute morali di Plutarco col titolo Plutarchi de uirtute morum. Interprete Carolo Valgulio Brixiano; f. 65 - epistola dedicatoria a Giovanni Borgia, duca di Candia, figlio di Alessandro VI e fratello maggiore del Valentino, dell’opuscolo plutarcheo Praecepta coniugalia con l’intestazione Ad inclytum dominum Ioannem Borgiam Candiae Suessae ducem Alexandri Pontificis Maximi nepotem Caroli Valguli Brixiani Cardinalis Valentini Secretarii; ff. 66-72 - traduzione latina dei Praecepta coniugalia di Plutarco intitolata Plutarchi praecepta connubialia interprete Carolo Valgulio Brixiano Cardinalis Valentini Secretario. Al f. 72 dopo la traduzione compare un poemetto di Giovan Francesco Ducco di Brescia (prima metà del XV secolo - 1496 ca.) per il giureconsulto Hieronymus Calciavelius; inc. Quanta sit eximii uirtus interpretis…; ff. 73-76 - lista di errata corrige. III.6.2 Criteri editoriali dell’epistola e della traduzione latina
Per la nostra edizione abbiamo sciolto le abbreviazioni, molto frequenti nel testo valguliano. I segni di interpunzione, per lo più assenti, eccetto il punto fermo, sono stati ripristinati e di conseguenza anche l’uso delle maiuscole-minuscole è stato normalizzato. I due punti, usati nell’incunabolo per separare le parole, sono stati eliminati nella presente edizione e sostituiti, quando necessario, dai segni di interpunzione ritenuti più adatti. Abbiamo ripristinato i dittonghi in tutto il testo in vista di un’uniformità, dal momento che spesso nell’incunabolo forme monottongate e dittongate sono liberamente alternate. Un ultimo ma non meno importante gruppo di correzioni è stato fatto in base a quella che abbiamo considerato l’ultima volontà editoriale: al termine del volume infatti, come già osservato, compare un lungo elenco di errata corrige. Molti riguardano anche l’epistola e il testo della traduzione e abbiamo segnalato le modifiche apportate sulla base di questa lista in un apposito apparato dove v indica la lezione ante correctionem e v2 la versione definitiva. Per l’edizione della traduzione abbiamo trascritto il testo secondo i criteri appena enunciati, quindi abbiamo fornito la versione di due apparati: il primo contiene i casi di accordo discussi in precedenza137 dei due manoscritti Vaticani Greci 932 (Va) e 933 (V b) con determinati passi del testo valguliano; il secondo apparato, al pari di quello inserito nell’epistola, contiene le indicazioni relative agli errata corrige. Infine, abbiamo indicato nel testo latino tra parentesi tonde la fonte delle citazioni esplicite presenti nel discorso aristideo. 137 Vd. supra, pp. 134-142.
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Conspectus siglorum et notarum Codici Vaticani greci Va = V b =
Città del Vaticano, BAV Vat. gr. 932 Città del Vaticano, BAV Vat. gr. 933
Incunabolo (HC 5450) v = v2 =
lectio ante correctionem lectio post correctionem
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Ad Reuerendissimum et Sapientissimum dominum Franciscum Picolomineum Cardinalem Senensem et Pii Secundi Pontificis Maximi Nepotem Caroli Valgulii Cardinalis Valentini Secretarii epistola
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1. Turbulenta haec tempora, bellorum et discordiarium plena incredibile mihi desyderium pacis, quietis et concordiae iniecerunt. Nam plerique omnes tum bona cognoscere uidentur, cum ea abiere dilapsaque sunt. Tu uero, clarissime ac sapientissime pater, non modo bona, quibus innumeris et illis quidem excellentibus es illustratus, cognoscis semper, amplecteris et foues, sed ab ineunte usque pueritia, tum sponte praestantique mente tua concitus, tum cohortationibus ac diligentia auunculi tui, Pii Secundi Summi Pontificis ac summi uiri, adiutus, ea bona comparasti, quae nulla iniuria fortunae, nulla temporum commutatio eripere posset: pietatem – inquam – religionem, modestiam, probitatem, studium sapientiae atque doctrinae caeterasque animi uirtutes perpetuo studio coluisti. Quarum praesidio sic uitam tuam communiisti, ut nullus eam aries quatere, nulla uis uenti, nulla procella de statu deturbare locoue dimouere queat. Quam rem si quis antea dubitauerat, nuper furor Gallicus, qui in te unum fere concitatus esse uidetur, latissime declarat; prudentia tua, constantia, patientia, animi uirtus praeclara existit. 2. Credo immanes Gallos ideo in te potissimum saeuitiam suam exercere, quod cum humanitas atque barbaria contrario quodam habitu opposita sint, auunculus quondam tuus Pius Secundus Italiam, hoc est humanitatem, cuius erat praecipuus cultor, ab eorum barbarie uendicauerat tuque, eiusdem humanitatis legi[t]timus heres, imminentes Italiae Gallos sentiens, quoad uox et latera sufficiebant, suadere, hortari, non cessaras daretur opera ne copiae barbarae Alpes superarent, cum aliqui esse uiderentur qui censerent sibi atque Italiae utiles fore, tu contra rationibus paene quae sequuta inde sunt praesentantibus, cum uniuersae Italiae tum uel ipsis optantibus, pernitiem, euersionem et seruitutem allaturas contenderes. 3. Quod profecto euenisset, ni uigilantia, solertia ingenii et consiliorum quibuscumque casibus accommodatorum, felix ubertas Alexandri Sexti Pontificis Maximi et arma Veneta Gallorum ferociam et animos rebus secundis elatos retudissent, quamquam nullus auxilio locus fuisset, res uniuerso terrarum orbi et omnibus saeculis memoranda et uix prae magnitudine credenda, ni ipsum magnitudo animi et ardens amor Italae libertatis Cardinalis Valentini dedisset, qui adolescens, suomet spiritu suapteque uirtute concitus, pro salute Italiae periclitari non dubitauit.
1 medibile v : incredibile v2 8 posse v : posset v2 10 omni v : animi v2 13 declarare v : declarat v2 28 Italiae v : Italae v2
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Questi tempi agitati, pieni di guerre e discordie mi hanno ispirato un incredibile desiderio di pace, quiete e concordia. Infatti quasi tutti sembrano conoscere i beni una volta che essi sono venuti meno e sono svaniti. Invece tu, illustrissimo e sapientissimo padre, non solo riconosci sempre, accogli e proteggi i giovamenti, che in quantità incalcolabile ed eccellenti ti danno lustro, ma fin dalla fanciullezza, sia spontaneamente e incitato dalla tua mente straordinaria, sia per le esortazioni e lo zelo di tuo zio Pio II, sommo pontefice e sommo uomo, ti procurasti risorse tali che né alcun affronto della sorte né alcun mutamento dei tempi potessero mai strapparti. Intendo la pietà, la devozione, la modestia, l’onestà, l’applicazione allo studio e alla scienza, e tutte le altre virtù che hai coltivato con costante dedizione. Con il loro presidio fortificasti la tua vita in modo tale che nessun ariete né violenza di venti possa scuoterla, nessuna tempesta sconvolgerla o sradicarla dalla sua posizione. E se qualcuno prima aveva dubitato di ciò, da non molto la furia gallica, che sembra essersi sollevata quasi contro te solo, lo mostra nella maniera più ampia possibile; la tua saggezza, costanza, pazienza e virtù dell’animo appare illustre. (2) Credo che i terribili Galli manifestino soprattutto contro di te la loro ferocia per i seguenti motivi: poiché la cultura e la barbarie, a causa di un modo di vivere per così dire antitetico, sono state contrapposte, e poiché il tuo compianto zio Pio II aveva liberato l’Italia, cioè la cultura, di cui era il principale fautore, dalla barbarie di quelli, e tu, legittimo erede di quella stessa cultura, sentendo che i Galli minacciavano l’Italia, finché voce e polmoni ti bastavano, non avevi mancato di persuadere ed esortare affinché si facesse in modo che le truppe barbare non valicassero le Alpi. E mentre c’era chi pensava che le truppe straniere sarebbero state utili a sé e all’Italia, tu al contrario ribattevi a tutti quei ragionamenti che presentavano, per così dire, tutte le conseguenze che ne sarebbero derivate, che avrebbero portato rovina, rivolte e una condizione di servitù sia a tutta l’Italia sia a quegli stessi che le desideravano. (3) E ciò sarebbe sicuramente successo, se la sollecitudine, la solerzia dell’ingegno e delle decisioni opportune per qualunque situazione, la feconda ricchezza di Alessandro VI, Pontefice Massimo, e l’esercito veneto non avessero frenato la ferocia dei Galli e gli animi superbi per gli eventi favorevoli, per quanto non ci fosse nessuno spazio per un soccorso – eventi da ricordare in tutto il mondo e per tutta l’eternità e da credersi a stento a causa della loro entità – e se la grandezza d’animo e il fervido amore del Cardinale Valentino per la libertà italica lo avessero permesso, lui che da ragazzo per il suo spirito, spinto dalla propria virtù, non esitò a correre pericoli per la salvezza dell’Italia. (4) Tra le gesta illustrissime del grande Alessandro il Macedone, per mostrarne la grandezza d’animo, si tramanda alla memoria soprattutto questa: che in una cittadella naturalmente fortificata, poiché combatteva con degli eserciti eccezionali e fortissimi, per primo, oltrepassate le mura, si gettò. (5) Ma il Cardinale Valentino Cesare Borgia, quando era tenuto sotto custodia in una cittadella trincerata con altissime mura con trentamila dei più terribili barbari che guardavano allo stesso cardinale con gli occhi e con gli animi come se fosse il garante della schiavitù dell’Italia,
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4. In Alexandri Magni Macedonis clarissimis gestis, ad ipsius magnitudinem animi declarandam, hoc in primis memoriae traditum est, quod in oppidulum natura quidem permunitum, quod fortissimis et maximis exercitibus oppugnabat, primus superatis muris se deiecerit. 5. At Caesar Borgia Cardinalis Valentinus, cum in oppido praealtis muris uallato a rege cum triginta milibus immanium barbarorum in ipsum cardinalem oculis et animis spectantium tanquam obses seruitutis Italiae custodiretur et omnis circa regio hostis esset, spretis opibus regiis, quas spe firmissima habere poterat, ingenium consiliumque ad ineundam a barbaris fugiendi rationem et animum ad transigendum inuictum habuit. Quo factum est ut postea potentatus, qui tum fauere rebus Gallicis, tum conniuere uidebantur, pro uindicanda Italiae libertate iam profligata auspiciis Alexandri Sexti felicissimis contra Gallos foedus percusserint. 6. Cum igitur, amplissime pater, tua quasi Cassandrae oracula spreta fuissent et Galli sic Italiam bellis et seditionibus compleuerint ut non ciuitas, non oppidum, non familia, non domus, non cubiculum sit, quae seditionibus, simultatibus atque discordiis tamquam uenenis non sint infecta, concordiam tamen in monumentis ueterum inueni, cuius te participem quem huiusmodi genere lectionis insatiabiliter delectari scio, facere statui. Oratiunculas quasdam Aristidis et Dionis graecorum hominum de concordia, ad amicas ciuitates seditionibus et discordiis laborantes habitas, parum ocii nactus, in linguam latinam, ni fallor, uerti et tuo nomini dedicaui, quas pro tua singulari humanitate uniuerso orbi Christiano iam perspecta et studio semper plura cognoscendi lecturum non dubito.
19 lingua v : linguam v2 20 quasi v : quas v2
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e pressappoco tutta la regione era nemica, sprezzate le forze regali, che poteva avere con saldissima speranza, ebbe l’ingegno e l’avvedutezza per decidere di fuggire dai barbari e l’animo impenetrabile allo scendere a patti. Da ciò si ottenne che in seguito le potenze locali, che sembravano sia ben disposte agli affari gallici, sia a lasciar correre, per rivendicare la libertà dell’Italia, ormai avvilita, con i felicissimi auspici di Alessandro VI, strinsero patti contro i Galli. (6) Dunque, dal momento che, padre mirabilissimo, i tuoi oracoli sono stati disprezzati pressappoco alla maniera di quelli di Cassandra e i Galli hanno riempito l’Italia di guerre e conflitti in maniera tale che non c’è città, cittadella, famiglia, casa, stanza che non sia stata contaminata da rancori, lotte e discordie come se fossero dei veleni, tuttavia ho rinvenuto nelle testimonianze degli antichi la concordia, di cui ho deciso di fare partecipe te, che so che ti diletti in maniera insaziabile di questo genere di lettura. Ho tradotto in lingua latina, se non erro, approfittando di un po’ di ozio, alcune orazioni dei greci Aristide e Dione sulla concordia, composte per delle città alleate travagliate da liti e lotte interne, e le ho dedicate a te, che, per la tua singolare cultura ormai riconosciuta da tutto il mondo cristiano, non dubito che leggerai per il desiderio di conoscere sempre più cose.
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Aristidis oratio ad Rhodienses de concordia Carolo Valgulio Brixiano Cardinalis Valentini secretario interprete
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1. Si pro mea uoluntate desideriisque uestris Rhodienses affectum nunc mihi corpus esset, ipse ego ad uos traiecissem et uobiscum multis de causis sermonem contulissem. Sed postquam ut sumus affecti ad uos fortasse fama peruenit, quae ad memet pertinent permitto diis immortalibus, per quos ad hunc usque diem sum conseruatus. Ad uos uero libellum mittere statui et hoc pacto esse uobiscum. 2. Curiosus autem merito uideri non possum, nec debeo, cum urbem uestram patriae loco habeam. Nec uanam rationem, consiliumque esse censeo quod uir Graecus modo non extremae sortis homo nullam rem ad graecos spectantem a se alienam putet nec uos oblitos esse reor meritorum quae in me priuatim contulistis. Quo fit ut quicquid dicendum pro uobis, aut agendum esse existimem, eius a uobis ueniam iuste consequi possim. 3. Quo autem animo in calamitate a uobis terremotu suscepta fuerim et qualem me erga legatos uestros tum Egyptum petentes praestiterim ab ipsis uos arbitror intellexisse. Cum itaque mihi grauiora quaedam atque acerbiora quam fando explicari possint in praesentia denunciarentur, quod infidi uobis ipsis estis atque diuisi inter uos, tumultusque uobis minime conuenientes concitatis, nec cur credendum nec cur non credendum esset statuere potui. Nam et qui denuntiabant ciues erant uestri et illi quidem fide probati uiri et cur facile in uosmet huiusmodi flagitia admitteretis causa non apparebat. Si nunc Terpander Lesbius superesset eum ad uos optarem uenire; sed quoniam sola oratione res sunt constituendae, hoc munus mihi esse subeundum putaui. 4. Primum quidem illud uos uelim animaduertere quod de quacumque re alia disceptatur contrariae diuersaeque sententiae proferri possunt, de concordia autem nemo unquam dubitauit quin esset ciuitatibus maximum omnium bonorum. De administratione rerum publicarum deque rebus in ipsis gerendis diuersi diuersa sentiunt, quod uero in omni re publica nihil sit magis contrarium seditione magisque inimicum nec quod magis res bene constitutas labefactet, quasi una uoce consentiunt. Nonne absurdum est, quod de hac ipsa re unum sit omnium iudicium, praeclarum esse nescio quid concordiam ac salutare, deinde, illa neglecta, inter sese odiis decertare non dubitent, et haec quidem inutilia quaeque nec Graecus, nec barbarus ignorat esse turpia, Rhodienses fugiant? Quae si quis se non ignorare contendat et sponte sua contemnat salutem, humanitatem non sapit.
28 inter sese : [p. 55, 28] [ἀλλήλοις] : ἀλλήλοις Va V b
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5. Reprehendendum autem non censeo quod uetera quis in suadendo commemoret ac nihil quicquam afferat noui. An non est inconueniens quod qui se dicunt damnare et accusare consulentem ea quae nimis sunt clara et uetera et quibus omnes consentiunt ipse adeo manifestis uti non audeant et inter sese non modo seditionem exerceant, sed perpetuo ad hunc usque diem dissideant? Nec mea quidem sententia qui consultat quique audiunt attendere hoc debent, ut ille dicat quae nemo antea, hi uero audiant quae alias numquam audiuerint uerumque ad publicam utilitatem sint collatura ea sunt proponenda. Nam neque in usibus corporis quisque uestrum dat operam, ut aliquid hauriat noui, sed ille optimus est medicus qui sanitatem parat nec uestrum quisquam debet succensere si iisdem remediis curetur quibus alius quoque fuerit curatus. 6. Vellem equidem quemadmodum in praesentia uos cupere arbitror, maiorem alicui copiam atque ubertatem in dicendo dari quam illis sit datum qui ante nos hisce de rebus disseruerunt, ita uos uobismet ipsis obsequi uelitis atque gratificari, ut non solum hoc tempore quo hanc orationem auditis consentanea his quae dicuntur, sed reliquo etiam tempore sentiatis – plane scio, illi parebitis, perspecta mihi est uestra dexteritas et discendi studium est compertum-. Reliquum est ut iis quae ad uos pertinent una eademque mente utamini ut re ipsa fidem orationi adhibuisse sentiatis. 7. Neminem autem uestrum discrepaturum arbitror quin, ut in iudiciis illas orationes quae plurimis atque notissimis testibus fulciuntur plurimum et fidei habere existimatis, sic illis qui ad deliberandum ueniunt, maximam fidem esse adhibendam putetis, qui plurimos uirtute atque sapientia praestantes testes habeant suorum dictorum. Hoc igitur ad Homerum communem graecorum consiliarum ac praesidem referatis, qui sapientissimum omnium, qui tum erant graecorum, una cum Nausicaa uirgine praecantem inducit unum domum, concordiam sibi ab diis immortalibus dari: “nihil praestantius nihilque optabilius esse quam cum concordi mente uir et uxor domum habitant. Multos inde dolores inimicis, magna gaudia amicis prouenire” (Od. 6, 182-185). 8. Nolite autem cogitare aliter domum unam et aliter uniuersam ciuitatem coli. Verum si concordia est unica domuum singularum salus, multo magis ea interest ciuitatum, quod unius domus dissidentis curatio in promptu est, ciuitatis uero haud ita facile inuentu remedium est unaque domus secunda an aduersa fortuna utatur paruum est uniuersis momentum, publicam uero prosperitatem in priuatas domos demanare compertum est. Si itaque eandem domum in habitaturis opportunum
8 corporis uestrum v : corporis quisque uestrum v2 12 ut quemadmodum v : ut del. v2
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esse duceret consiliarius precari, ut concordibus animis uiuerent, profecto id esset in primis precandum iis, qui a uetustis usque temporibus ciuitatem praesertimque tam claram coluere, caetera omnia secundo loco sunt habenda. 9. Tripartita igitur haec erit distributio et, perspecta domo una e ciuitate primum, deinceps ad unum hominem nostra se recipiet oratio et qualis sit is considerabimus, cuius si quis sit similis nequaquam eum pudeat. Sic enim uel maxime concordiae bonum elapsum atque amissum dignoscemus. 10. Quis nam est adeo insanus et demens, aut imperitus naturae rerum, ut temerarium et mobilem atque inconstantem et nunquam in eadem sententia permanentem, nec tuentem quae decreuerit in usu anteponat per omnem uitam aequabili uiro ac probo et constanti, ut aut cum huiusmodi homine affinitatem conflare, aut cum eo uersari, aut simul habitare malit quam cum altero, aut in quacumque humana actione quotquot sunt inire societatem? Qui neque sciat quod uelit et tamquam fretum sursum deorsuque feratur et qui ipse sibi bellum et seditionem moueat? Ergo huic contrarius excellit quibuscumque iudicibus, quicumque est simplex, ingenuus et uerax, eadem semper iisdem de rebus sentiens secum quoad fieri possit semper concors. 11. Cur igitur non est absurdum duobus uiris propositis, quorum alter dissidentem ciuitatem, alter, ut par est, concordem referat, aliusque uituperetur ut demens, alius ut optimus praebetur, quod decet decorumque est, et conuenit non seruare atque tueri et cum quo esset optandum non congredi eum in rebus publicis imitari uideamini? 12. Nulla enim turpitudo priuatis tantopere fugienda est, quantopere communi ciuitati; propterea quod quo latius specimen momentumque ipsius patet et quo plures sunt consociati eo magis omni flagitio atque iniuria uacare decet. Neque uero est simile discrimen; nam priuatus mente non constans nihil plus admittit sceleris quam qui est occisor sui et quantum est prauus tantum et plectitur. At ciuitas dissidens primum quidem duplicem fert amentiam, deinde ea patitur quae facit et ab ipsis paenas luit operibus. 13. Quae omnia Hesiodum praeuidentem omnes contentiones fuisse detestatum puto, praeter illam unam quam ad agendum prouocat et inuitat (Hes. Op. 11-24). Et recte quidem. Non ferrum enim, non uallum, non arma ciuitatibus sunt formidanda si modo uelint sapere, quamquam haec plerique amentia praecipites contra se reddunt ualidiora. Caetera enim si negligas certum afferunt detrimentum, nec omnibus suffragiis delinquitur. At in se conuertere uicissim impetum et uiuendi atque habitandi societatem quam ad communem salutem constituta est dissoluere
6-7 elapsum atque amissum: [p. 57, 10] τὸ διαπεφυκὸς : τὸ διαπεφευγὸς V b : τὸ διαπεφητικός Va
15-16 eadem semper concors. Vt igitur v : eadem semper iisdem de rebus sentiens secum quoad fieri possit semper concors. Cur igitur v2 17 aliumque v : aliusque v2 25 eam v : ea v2 28 illam unam v : illam del. v2 29 ferrum v : Non ferrum v2
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atque conuellere, dum quisque sua se melius putat disponere, id omnem hominum dementiam exuperat. 14. Non puto autem esse intempestiuum hoc loco mentionem facere Solonis, cum praesertim eius intersint leges ac rei publicae inquisitio. Ille itaque in elegiis commemorans a se in re publica gesta hoc in primis praeter caetera omnia gloriatur, quod plebem miscuerit cum potentibus ut una mente ciuitatem colerent, ut uidelicet neutri plus possent quam communis utilitas postularet (Sol. Frg. 5 Diehl). Hoc autem erat non modo ad concordiam hortantis, uerum etiam quo pacto ea conflari conueniret demonstrantis. 15. Sed quid recensere singulos oportet? Nullus enim est poeta, nullus legum lator, nullus orator qui fere aliunde ducat exordium, nec aliud quicquam magis efferat laudibus et commendet quam ueram inter se hominum amicitiam ac fidem et merito quidem ac necessario. Etenim si socii qui eosdem inimicos habent fidissimi ac summe necessarii existimantur, nequaquam est salutare, se ipsos ut inimicos contueri. Qui fieri enim possunt ut externis utantur quando se ipsos non habent? 16. Ab ipsa appellatione coniectari licet quanta labes sit in seditione, cum haec sola morbus ciuitatis uocetur. Sed profecto absurdum est quod morborum quibus aliqua pars corporis labefactetur prouidentiam tantam gerant, ut quam primum eorum curatio queratur, quae uero publice perdunt atque ciuitates euertunt eorum non queri quam celerrimam liberationem, sed operam potius dari ut quam plurimum progrediantur, et eorum quidem quae non sunt in nostra potestate ab diis immortalibus auersionem petere ut famis, pestis et eiusdem generis reliquorum. Quae uero maiorem afferunt perniciem cum prudentia atque consilio nostro curari possint nolimus. 17. Quid dicetisne pro concordia nolle precari? Quod nam aliud bonum uobis optabitis? Hercule libenter faciemus? Absurdum ergo est diis obstrepere ac nolle agere quae ipsi dii in uestra est potestate sciunt. 18. Enimuero si morbi in corporibus qui interiora tangunt sunt grauissimi magnaque ac diligenti curatione indigent, cur non has quoque extremas esse ciuitati calamitates existimandum est quibus interiora uitiantur? Si hostes qui moenia ingressi sunt terrifici habentur magis, qui in media urbe inter se iam belligerant, eritne aliquis qui putet rei publicae non esse formidandos? 19 Neque uero mihi illa sententia probatur quod tanto intestina seditio bello est infestior quanto pace est bellum. Video enim saepe contingere ut bellum paci sit praeponendum, seditionem uero numquam esse concordiae anteponendam. Multis enim cognouimus ad opes, ad gloriam, ad uires,
29-30 eritne aliquis qui putet rei publicae non esse formidandos : [p. 60, 13-14] μικρόν τι νομιοῦμεν εἶναι : ἀδεὲς τῷ κοινῷ νομίζει τις add. mg. Va Vb
9 quam v : quid v2 11 afferat v : efferat v2 uerum v : ueram v2
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ad aliaque generis eiusdem paranda bellum contulisse, seditione uero atque odio nihil commodi aut utilitatis fuisse cuique inuectum comperimus; tantum abfuit ut aliud praeterea comparetur. Vt autem, summatim dicam, in pace tanto deterius est ad seditionem quam ad bellum excitari quanto est perniciosius se ipsos ledere quam alios. In bello uero tanto est seditio detestabilior quanto pace est bellum execrabilius. 20 At nunc est multa licentia libertasque magna. Nam prius in malis extremis uersari uidebamur. Eo enim seditione moderatior est tyrannis, quo primum quidem leuius est ab uno quam ab omnibus deinceps per girum ledi, deinde ciuitatem quae seditionem esset exercitatura nemo unquam sapiens liberandam esse iudicauit; contra uero aliqui, ut seditiones tollerent, ultro tyrannos in ciuitatibus constituerunt. Cum tyranno nonnulli quoque legum latores condendas esse leges censueuerunt, in seditione uero aut primum constitui aut postea consistere posse iam constitutam rem publicam nullus unquam putauit. 21. Videre licet ciuitates a tyrannis gubernatas magnitudinis caeterarumque rerum incrementum aliquem accepisse, at qui discordia non perierint non est inuentu facile. Est autem inconueniens ut interfectoribus tyrannorum praemia proponantur, qui uero seditionem uelit sedare ne inueniri quidem illis qui aures praestent. 22. At uos uidelicet gloriamini uestra libertate popularemque statum tantopere laudatis ut ne immortales quidem optaretis fieri, ni quis uos sineret in hac ratione rei publicae permanere. Quamquam quid potest esse magis extra rationem quam illam ipsam tanti facere quam discordia uestra laceratis et inquinatis ac si quis constituere regnum uellet iniquo animo feratis? Quodque tot rationibus infestius esse demostraui, id sponte uestra amplificetis. Nec mehercule illud ratione assequi potestis fieri non posse quin, si ista hoc pacto progrediantur, periclitemini adeo estimatam a uobis libertatem perdere quam, ut sponte uestra enim tardatis, ueniet alius qui uos uel inuitos tueatur; haec fas non est magistratus nec principes ignorare nec in parua cura sunt habenda si non alia ratione. At saltem quod uestri arbitrii est uestraeque libertatis facere quodcumque libeat, ab his nunc igitur per deos immortales absistite ne tantum postea formidetis, quantum in praesentia confiditis et ne antiquam gloriam abiiciatis. 23. Libet in praesentia uti praeteriti temporis exemplis notissimis quae fortasse, si apud alios commemorarentur, puerile uideretur, sed apud uos qui puri Graeci estis, qui in illis ab usque pueritia fuistis educati, recensere non erit inutile. 24. Aduertite igitur animum, quaeso. Res publica Laceaedamoniorum uestrum genus Rhodienses quamdiu discors inter se fuit, non magis felix quam uicinorum fuit quin saepius ut
6-7 At nunc est multa licentia libertasque magna, nam prius… uidebamur : [p. 60, 25] καὶ μὴν οὐ νῦν μὲν δοκεῖ, πρότερον δ’ οὐκ ἐδόκει : καὶ μὴν οὐ νῦν μὲν ἄδεια πολλὴ, πρότερον δ’ ἐδόκει Va V b 12 primum constitui rem publicam v : primum constitui aut postea consistere posse iam constitutam rem publicam v2 14 ceterarum incrementum v : ceterarum rerum incrementum v2 25 princeps v : principes v2 29 praeteritique v : -que del. v2
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memoriae proditum est in bello superabatur. Sed postquam legibus institutisque Lycurgi fuit constituta Graecis imperitauit et per singulas ciuitates et uniuerse. 25. Atheniensium praeterea res considerate qui dum seditionem exercebant nec sibi ipsis nec aliis utiles esse poterant. At postquam tyrannis liberati unanimes inter se fuerunt, non modo suam ciuitatem, uerum etiam et ipsam Graeciam peropportunis temporibus uindicarunt. Accepto postmodum principatu quamdiu unam mentem congruentesque spiritus habuerunt omnibus fere hominibus terra marique fuerunt pares, postquam uero diuisi inter se fuerunt muros diruere nauesque tradere coacti sunt. 26. Tantaque calamitate populus affectus cum a gubernatione excidisset et rursus eam recepisset ac illos qui eum eiecerant et qui secum decertauerant ulcisci posset concordiam inire atque componere maluit, praeposita priuatis iniuriis atque criminibus publica salute ciuitatis. Iterumque ad res gerendas accessit et fere sola omnibus Graecis antestetit. Tantum malum ciuitatibus est seditio tantumque bonum quam primum illam sedare. 27. Quod si commemorare progenitores uestros Argiuos oportet memoriae traditum est cum inter se seditionibus iactarentur legatos Atheniensium ad eos esse profectos, qui cum docuissent quo pacto res suas composuissent argiuis concordiam peruasisse. 28 Nunc igitur Rhodienses ab omnibus his ciuitatibus existimare oportet communem legationem ad uos uenisse ad conciliandam inter uos concordiam adhortantem, nos uero praefari una precantes ea quae omnino uobis quam optima esse putamus. 29. Haud quidem tamen uobis esse faciendum censeo quod Athenienses fecerunt, ut talenta in signum fidei iis persoluantur qui contra uos mutua acceperant, impunis enim atque gratuita modestia proponitur, haec inquam reputantes, nec unam alteramue ciuitatem lustrantes, sed res communes Graecorum cunctasque Graecas ciuitates, illis non hostium legiones armatas, non equitum multitudines nec eorum quicquam quae terrifica existimantur, sed discordiam inter ipsas ac seditionem fidemque suspectam, non unum omnium consensum et singulorum mentem non sanam tantae mutationis causas extitisse comperietis. 30. Nec quisquam uestrum causam temporum sumat in licentiam, sed illud perpetuum esse contra omnem seditionem figat in pectore, quod ea praesentibus bonis suapte natura priuat. Praeter haec, Rhodienses, alia est calamitas maiorque hisce temporibus in quibus nullus existit metus, nullum periculum felicitate frui tanta licet, quanta uultis, quae pars uos tangit eam de industria tamquam aliquid spectaculum ultro abiicitis. 31. Dum res Graecorum diuisae erant, consentaneum
15 quam v : quod v2 29 omnes v : omnem v2
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erat expedire, si diuersi diuersa sentirent. Nunc autem quaenam est causa seditionis? Aut quae non potius ocii et tranquillitatis facultas? Nonne communis est uniuersus terrarum orbis? Non unus princeps? Non leges communes omnibus Administrandae rei publicae, tacendi, discedendi, standi tanta libertas, quantam quis posset optare? Quid igitur est opus creare sibi incommoda aut inani et superuacuo furore atque insania concitari? 32. Perdifficile autem non fuerit – dicet aliquis – ostendere discordiam esse ultimum omnium malorum, sed quo pacto liberari ea possitis inuenire, hoc labor, hoc opus est. Non enim mihi tantum peccare uidemini errore atque ignoratione utilitatis, quantum, si dici debet, arrogantia quadam et amentia dissidiis ultro superati. Caput igitur esto primum quidem, ut concitatus appetitus quasi quaedam obsidio ex animo pellatur; haud quidem ab ira de rebus praeclare iudicatur. Deinde inuidia atque auaritia utrinque abiicienda est; inuidiam inquam inferiorum in maiores, auaritiam uero in minores maiorum. Summatim autem, ut dicam, formam specimenque familiae imitamini. 33. Quid nam hoc est? Sunt in domo parentes liberis et domini seruis qui imperant. Quo nam igitur pacto hi bene simul habitant? Quando qui imperant non omnia sibi putant licere sed sua sponte aliquid detrahunt de potestate, hi uero quodcumque superioribus uisum est tamquam illis licuerit capessunt. Sine hac utriusque partis conspiratione atque consensu animorum conseruatam domum inuenire difficile est. 34. Haec ratio ad res publicas ciuitatis mihi uidetur esse referenda, ut consideretur quod qui caeteris praestare student, si inferiores sponte perdant, suamet ambitione labefactantur, propterea quod eorum lucrum in inferioribus situm est, si quibus excellant possunt ostendere. Qui uero diuitiis caeterisque fortunae bonis superantur, si pergant fortunatiores lacessere, multo magis salutem suam eunt perditum quam si parietem ultro in sese diruerent. 35. Est enim haec lex a natura posita et a potentioribus plane declarata ut inferiores superioribus auscultent. Et qui argumentum indiciumque libertatis esse statuit hanc legem tollere se ipsum fallit, nec secus facit quam si cuncti mortales conspirati diis inuidentes eos esse non putarent. 36. Quod si quis uestrum, quia multa ac grauia sit perpessus priusquam iniurias ulciscatur non putat inimicitias esse deponendas, primum quidem ipse sibi est contrarius. Quorum si tot malorum tantorumque seditio auctor est ut se quis uita dignum esse non existimet, ni quocumque modo poenas sumat, cur non est satius ac tutius ab ea fugere? Prudentium hominum est ab iis nolle discedere quibus
10 ultro superati : [p. 63, 22-23] ἡττώμενοι : ἑκόντες ante ἡττώμενοι add. Va V b 11 quasi quaedam obsidio : [p. 63, 24] ὥσπερ ἐκ πολιορκίας : ὥσπερει πολιορκίαν Va V b 14 imitamini : [p. 64, 2-3] μιμήσασθαι : μιμήσασθε Va V b 15 imperantur v : imperant v2
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animus delectatur et gaudet et quae tam dura tamque turbulenta et ubique tristia afflictationeque animi plena inuenerunt, ea quam primum sedare atque extinguere, malum rati non esse medicamentum malo, sed memoriam atque obliuionem opposita duo nomina esse existimantes duarum rerum contrariarum bonaque memoriae signo imprimi oportere, mala uero obliuione antiquari. 37. Deinde si ira urget uehementius, assumpto in cogitationes uetere inimico, sic est ratiocinandum et uobiscum dicendum: “Rhodienses sumus, si quis Graecorum aut barbarorum nobiscum de nobilitate contendat, superare ipsum uelimus”. Hoc igitur si cupimus, seruanda nobis publice patria est, ut habeamus qua gloriemur. Ergo discordia nostra dilabetur; si animis ac sensibus congruamus, clarior fiet ac maior. Quid igitur nos dissoluimus et nosmet imus perditum Haec si unus quisque cogitare et intra se dicere uoluerit nec irritamentis nec concitationibus locum dabit. 38. Profecto absurdum est quod omnes unanimiter eodemque spiritu, si oporteat, oratione patriam tueantur, ad ipsam uero conseruandam et ad fruendum ipsius laude bonorum esse concordes idemque sentire non audeatis, sed re ipsa destruatis quam oratione exornatis, an Cleomenis uictoriam expectabitis, qui corpus excarnificandum dedit, cum expulsus patria alienum regnum affectasset? 39. Aut quid per deos immortales fore existimatis, si hunc sibi quisque terminum statuat, ut tunc sapere et moderatus esse uelit, cum inimicos exegerit? An aliud relinquetur quam ut de tot uiris atque mulieribus unus unaque supersit, quemadmodum in diluuio contigisse proditur? Quid a mulieribus differetis, quae Pentheum dilaniarunt, quando ipsi uestrismet manibus commune corpus ciuitatis laceratis? 40. Oportet igitur eum qui iniuria sit lacessitus suos casus alicui tempori atque fortunae dare et hoc ipso nullum maius luchrum arbitrari et qui intulit iniuriam pudere facti, non ea gloriari, ultroque concordiam quaerere, dissolutis atque abolitis praeteritis odiis, in magnaque mercede ponere ut si non dent poenas id ultionis uindictae loco statuant. 41. Tanta autem mala inesse in discordia puto ut, si aliquem ab alio malo reuocare uelimus, quicquid in eo sit incommodi commemorare conueniat, hac autem in re omnino confert contrarium silere, potius quam eorum quae quisque sit perpessus mouere memoriam. Aliae quoque de concordia rationes afferri possent, sunt enim innumerae. Tamen epodos oportet imitari qui easdem uoces repetendo proficere uidentur. 42. Sola enim concordia horas a Ioue confirmat, sola obsignat cuncta, agros culturis exornans, suarum cuiusque rerum fructus aliarumque possessionem praestans, res
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uero urbanas gerens pro uotis, per quam maturae nuptiae, tum dando tum accipiendo in quos et a quibus libeat. Liberorum educationes atque eruditio secundum leges patrias, rei uxoriae facultas libera, commerciorum fides, hospitum, susceptiones, deorum cultus, accessus, chori et oblectationes perueniunt, conciones praeterea senatumque deorum antiquissima Themis cogit, pauperibus uiuendi rationes, diuitibus fruendi bonis facultas, senectutis procuratio, adolescentibus modesta moderataque uita et illud quod frequenter usurpatur, communia omnia tanquam splendor solis, a quo seruamur, adest. 43. An non est absurdum quod administrantium rem publicam eos potissimum laudetis qui quam plurimas uobis uoluptates parant aut spectacula exhibendo aut pecuniam distribuendo aut quocumque modo ciuitatem exornando, ipsi uero sponte uestra tantis uosmet bonis priuetis, quasi aliis non uobis ea damna inferatis? 44. Oportet igitur, ueluti si quis pictor utranque imaginem proponat, in utramque uicissim spectare, aut si quis poeta commemoret, uti haec est decora, compacta, bene colorata, gratiosa et undique per omnia quadrans sibi diligentiaque deorum in terram delapsa, altera uero teterrimum omnium spectaculorum, supino capite, labris liuentibus, oculis strabis, putrida, tumefacta, lachrymis subinde fluentibus, manibus incontinentibus, gladium intus ad pectus ferens, tenuibus et obliquis in nixa pedibus, eam ceu rete caligo ac tenebrae circumuoluant, e quibus pleraque sepulchris sacrorum uice obuersantur; oportet inquam in utranque contueri, cum ocioque considerare cum utra praestet uersari. 45. Cunctos enim mortales praeter caetera omnia studere concordiae decet. Quanto autem maiora sunt uobis ea quae potiora iudicantur quam caeteris, non est opus longa oratione demonstrare, qui a uetustis usque temporibus dorici e Peloponesso profecti estis, soli ad hanc usque aetatem perpetuo Graeci Herculidis et Asclepiadibus ducibus regibusque utimini. Praeterea uestra ciuitas pulcherrima est omnium apparatu rerum cunctarum Graeciae ciuitatum. Nimirum graue indignumque est quod corporis cultus ac formae rerumque externarum tanta sit cura et uos uestris rebus tam praeclaris enim parcatis nullamque prouidentiam earum geratis. 46 Reputate animis quantam uobis gloriam afferant quae de uobis poetae cecinerunt, quorum ego, praeteritis aliis, testimonio Homeri contentus ero. Sic enim inquit “qui claram tenuere Rhodon tria in oppida gentes diuisae, Lindum, Ialisumque, albamque Camirum” (Il. 2, 655-656). Angor equidem contemplans carmen, cum uideo quam eo indigne affecti sitis: nullo enim
21 utraque v : -que del.v2 27 indignum v :indignumque v2
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nunc huiusmodi ornamento praediti estis. Sed reliqua testimonia persequamur. “In tris diuisi populos, tria castra colebant. Ab Ioue dilecti qui est rex hominumque deumque” (Il. 2, 668-669). 47 Considerate ut poeta cum omnibus fere Graecis suas cuique laudes tribueret quam magnas uobis dederit. Vtrum igitur existimatis, discordiane ac turbulentia atque agitatione animorum ac rerum uosmet odiis persequendo magis esse diis cari et poetae dicta eo confirmare, an aequanimitate atque concordia rem publicam administrantes? 48. Si cari diis sitis utrum praestare putatis dissidere, perturbari et cum inimicorum imprecationibus aetatem agere, an contra agere pro uoluntate uotisque moderatorum et prudentium uirorum, colere deos, sese uicissim cognoscere, iuuare omnes atque dirigere? Quando igitur seditio uobis est aliena et diis inimica et in sola concordia apparet salus, conuenit tanquam in supputatione pecuniae sumere quod euenit, reliquumque existit. 49. Neque uero illud cum ratione consentit, quod qui prius tris in populos diuisi erant concordia ac fide in una moenia conuenerint et unam e cunctis ciuitatem coluerint, uos ex una plures per seditionem ac diuisionem facere uideamini. Superare uidetur fidem si qui tria prius loca diuersa colebant sententiis atque cogitationibus congruebant, nunc una habitantes inter uos bellum geratis. 50 Non ueremini solem, qui aliis est spectator operum, uobis autem insuper est dux? Non quisque uestrum primum illum fuisse diem insulae existimabit sui ortus, cum e mari emersit munere dei? Non dabit operam ne sacrilegis sceleratior uideatur diuinam inquinans et labefactans sortem? Non passis manibus cum pudore ac metu ueniam praecabitur scelerum quae ad hunc usque diem in deos admiserit? 51. Sed tamque in obscuro ac tenebris cum pernicie quoque uestra urbem solis euertetis? An putatis Cephalenios una cum Vlysse ita superis inuisos consceleratosque uideri quam uos qui urbem solis diripitis? Sed illud quoque addendum est quod dum mente optima bene consulenti obtemperabant et unanimes concordesque fuerunt, a bobus abstinuere et salui fuerunt atque incolumes, at postquam discordes esse coeperunt, periere. 52 Respicite tripodas qui sunt in fano Liberi patris, gaudetis certe cum eos intuemini. An uobis uidentur permanere posse si chori inter se pugnent? An dubitatis quin et si nec contraria nec alius aliud, quamquam eadem uerba modo non eodem tempore omnes canant, illis omnino sit fugiendum? Etenim nullus chorus inconcinnus spectaculum est adeo importunum ut populus Rhodiensium non concinens idem.
13-14 concordia ac fide : [p.68, 26] πρὸς ἀλλήλους πίστεως : ὁμονοίας καὶ ante πίστεως add. Va V b
6 firmare v : confirmare v2 22 adhuc v : ad hunc v2
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53. Illi, illi inquam qui piratas persequebantur, qui naualia celocibus magnisque illis triremibus, quas ipsi ante terremotum uidimus, per deos immortales, si non in Tyrrenos nec in piratica nauigia, sed contra se ipsos per naues singulas bellum gessissent, futurumne putatis ut illi maris domini fuissent totque ornamentis ciuitatem refersissent aut posteris rerum a se gestarum gloriam reliquissent? At illa opinor salutis uestrae causa gerebatis. 54. Ergo in naui seditio est perniciosa, in ciuitate praesertim circumflua congregatos uosmet perdere prudentia est? An uobis, cum sitis Rhodienses, Lesbiorum atque Mitylenorum mala putatis esse imitanda? Multo enim satius illis fuisset, si aequabilitatem uestram concupiuissent quam uobis perpeti ut eorum calamitatum aemuli atque imitatores sitis. 55. Perscite in eos dici potuisset: “Viri Lesbii quo tandem amentiae progressi estis? Qui iactare solebatis uniuersam insulam esse musicam atque hoc capiti Orphei acceptum referebatis, non uos pudet a musis esse usque adeo absonos? Qui citharedis quondam graecis omnibus praestabatis, nunc uobis ipsis consulere nescitis ut omnibus mortalibus posteriores esse uideamini. Solebant uestri homines ad externos profecti sedare discordias, nunc autem uos uobis ignoti estis”. Haec siquis eos obiurgare uellet recte in ipsos dici possent. 56. Sed iam pridem in hac praua ratione infelicitatis obduruerunt. Saepe deprehensi fuere non esse tales quales esse profitebantur, uerum nullo pacto hic uobis morbus conuenit, quos, cum apud uos eramus, ipsi nos uidimus non modo una uoce in concionibus, sed dixerim uno uerbo plerunque uti erat; “profecto” mihi instar “coronae” apud uos concionanti, cum tantam aequanimitatem atque concordiam uidebam mirificeque delectabar pro decreto capitis nutu uos animaduertens uti, ut solos quis posset dicere habere perpetuas inducias. 57. Quibus nunc indigna nec parum nec obscure ab illo animorum consensu discrepantia audio. Illud me praeterea angit, quod cum a primis incunabulis adeo pure Graeca uerba exprimere uideamini, ut nullum fere uerbum uel inquilinis quoque uestrus sit non doricum, in administranda re publica uestra patria harmonia et consonantia uere dorica praetermissa et abiecta, malorum peregrinorum et omnibus potius conuenientium quam uobis heredes sitis. 58. Nequaquam, uiri probi et aequi, indagite, uersate animo illud antiquitus decantatum, errata nemini, quocunque uertatur, esse abolendi potestatem, eum uero terminum habere qualem tempus attulerit; “Medicabiles sunt enim bonorum mentes” (Il. 13, 115) ut inquit laudator Rhodiensium. Diis geniti ab usque principio non sunt obnoxii peccatis, at in terra orti ne unus quidem est eorum expers. Decet
8 Lesbiorum atque Mitylenorum mala putatis esse imitanda : [p.70, 2-3] τὰ Λεσβίων καὶ τὰ Μυτιληναίων κακὰ μιμεῖσθαι Ῥοδίους ὄντας : δεῖ ante καὶ add. Va V b 18 non esse tales quales esse profitebantur : [p.70, 17] οὐχ ὡς δεῖ διακείμενοι : om. δεῖ et ἐπαγγέλλονται ante διακείμενοι add. Va V b 20-21 instar “coronae” : [p.70, 20] καὶ ‘στεφανοῦ’ : καὶ ἀντὶ στεφάνου Va V b 21-22 apud uos concionanti, cum tantam aequanimitatem atque concordiam uidebam : [p. 70, 21] τοὔνομα τοῦ δημηγοροῦντος ἀνειπεῖν ἐνίοτε : τοῖς δημηγοροῦσι παρ’ ὑμῖν, ὁρῶσι τὴν τοσαύτην ὁμόνοιαν καὶ συμφωνίαν add. mg. V b, om. καὶ συμφωνίαν Va
26 inquilinus v : inquilinis v2 32 ingeniti v : geniti v2
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uos recte monentibus parere uelle et hoc maxime pacto morem deo geri existimare cui hoc dictum poeta consecrauit “Qui et diis paret” (Il. 1, 218). Praeterea utilius esse arbitrari seruire quam pro commeatu malorum habere libertatem, quamquam non nullus metus est ne illam quoque amittatis. 59. Et quod est maximum omnium, sacra atque sepulchra ac Rhodi ad hunc usque diem optabile nomen ueriti, ab ista conquassatione desistite, quae uos circum quaque committatur, ne grauiora rursus ite tentatum infortunia, sitis intra uosmet ipsos ut nos quoque uobis quasi alteris bonis gloriari possimus et uos nobis ut his qui, cum tempus postulat, aliquam habent suadendi facultatem. Finis
7 infortuna v : infortunia v2
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Capitolo Quarto
Joachim Camerarius e il valore dell’imitazione La traduzione latina del Discorso d’ambasceria ad Achille
IV.1 Lo studio e l’insegnamento delle materie classiche in Germania tra la fine del’400 e la prima metà del’500 IV.1.1 Monasteri, corti e città
Tra la fine del XV e la prima metà del XVI secolo la conoscenza delle lingue classiche non era più appannaggio esclusivo degli umanisti italiani; se è vero che la rinascita dello studio del greco viene fatta coincidere con l’arrivo di Manuele Crisolora a Firenze, è altresì indubbio che circa un secolo dopo la competenza in questa lingua era stata acquisita anche in numerose città al di là delle Alpi. Com’è stato osservato1, i circuiti attraverso cui l’Umanesimo, inteso come movimento intellettuale fondato sulla riscoperta dei testi classici, si propagò oltre i confini italiani sono di natura varia. Innanzitutto i monasteri ebbero un ruolo centrale per questa diffusione; non si trattava più di luoghi chiusi ostili all’apprendimento di nuove materie, ma di centri vivi dove gli intellettuali andarono a formare veri e propri cenacoli. I più importanti sono quello cistercense di Adwert, vicino Groningen, che fu frequentato da personaggi di spicco come Alexander Hegius, Rudolf Agricola e Johan Wessel, e quello benedettino di Sponheim, animato dall’abate Trithemius (1516), che arricchì la biblioteca del luogo con duemila volumi, manoscritti e a stampa, in particolare greci ed ebraici. Trithemius è una figura significativa anche per la sua attività di aggregazione e animazione di quel circolo renano che contava membri come Agricola, Johann von Dalberg, Jacob Winfeling e Conrad Celtis, dotti impegnati nella riscoperta dei classici e cultori del mito di Petrarca2. Proprio quest’ultimo funge da raccordo con il secondo ambito di diffusione della cultura umanistica, cioè la corte; Petrarca infatti fu in contatto diretto con l’imperatore di Lussemburgo Carlo IV (1346-1378) a Praga e il suo ruolo di tramite e di ispirazione per gli intellettuali tedeschi è messo in risalto in una lettera indirizzatagli dal cancelliere dell’imperatore, Johann von Neumarkt3. Un’analoga funzione ebbe Enea Silvio Piccolomini, futuro papa Pio II, che in seguito al Concilio di Basilea (1431) entrò in relazione con la corte asburgica di Federico III (1440-1493) a Vienna. Questa città
1 Vd. Garin 1957; Brann 1988, pp. 124-131. 2 Sul ruolo di Petrarca e degli umanisti italiani nella prima fase dell’Umanesimo tedesco vd. Ijsewijn 1975 pp. 203-222. 3 La lettera, del 1352-1353, si trova in Rupprich 1938, p. 83. Su ruolo di Johann von Neumarkt vd. anche Spiz 1975, pp. 390-391.
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attrasse in seguito molti studiosi, tra cui l’astronomo Georg von Peuerbach, allievo di Nicola Cusano, e un suo studente, Johannes von Königsberg, soprannominato Regiomontanus, nonché il summenzionato Conrad Celtis, che vi istituì il Collegio dei Poeti e dei Matematici. Con il successore di Federico III, Massimiliano I (14931519), si raggiunse l’apogeo del patronato imperiale degli intellettuali. Anche i principi tedeschi non furono da meno in quanto a tutela e accoglienza di importanti uomini di cultura, mostrando di aver recepito il modello del letterato cortigiano in auge in Italia; ancora una volta i rapporti instaurati con gli ambienti umanistici italiani furono determinanti, come mostra il caso del conte Eberhard von Wüttemberg, che effettuò nel 1482 una visita a Firenze presso Lorenzo de’ Medici portando con sé Johannes Reuchlin, professore di latino e greco a Basilea, noto anche col nome grecizzato di Capnio. Reuchlin poté così venire a conoscenza delle idee filosofiche di Pico della Mirandola e Marsilio Ficino, membri di spicco dell’Accademia neoplatonica fiorentina, e trasferirle quindi in Germania. Se dunque, come vedremo più avanti, il contatto con gli umanisti italiani costituì la fonte di un senso di inadeguatezza e inferiorità culturale per molti dotti tedeschi, è altresì vero questi scambi diedero uno slancio fondamentale per lo studio degli autori classici al di là dei confini italiani; gli studia humanitatis, con la rinnovata esigenza di un ritorno alle fonti e il rifiuto della scolastica, crearono le condizioni per il successo e la diffusione della Riforma protestante, che faceva della corretta lettura delle scritture uno dei fondamenti della Chiesa rinnovata4. Un altro importante canale di diffusione dell’Umanesimo in Germania fu la città. In tal senso bisogna distinguere tre tipi5: le città in cui veniva assicurata un’istruzione secondaria di alto livello, come Schlettstadt e Strasburgo; quelle in cui il patriziato locale consentì la formazione di veri e propri circoli umanistici, come Norimberga e soprattutto Augusta, sede della Sodalitas Augustana, animata da Celtis e Peutinger; infine le città universitarie, tra le quali si possono annoverare Vienna (università fondata nel 1365), Colonia (1389), Erfurt (1392), Lipsia (1409), Friburgo in Brisgovia (1457), Basilea (1459), Ingolstadt (1472), Trier (1473), Mainz (1476), Tübingen (1477) e Wittenberg (1502). IV.1.2 Filippo Melantone e lo studio delle lingue classiche in Germania all’inizio del XVI secolo
Dai dati appena riportati è possibile rilevare l’importanza riservata all’insegnamento nelle città tedesche tra XV e XVI secolo; d’altronde è innegabile che l’Umanesimo in Germania fu incentrato sulla pedagogia6. Il valore accordato alla didattica raggiunse
4 Sull’importanza dell’Umanesimo nella Riforma vd. Spitz 1975, pp. 414-433; lo studioso afferma che «Humanism made the Reformation possible, for the knowledge of the languages, the critical handling of the sources, the attack on abuses, the national feeling, the war on scholasticism»; vd. Spitz. 1975, p. 414. 5 Vd. Brann 1988, pp. 128-131. 6 Vd. Garin 1957, pp. 195-211.
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il punto più alto con il protestante Filippo Melantone (1497-1560)7, noto anche come praeceptor Germaniae proprio per l’attenzione e la cura rivolte all’insegnamento. Egli espresse le sue convinzioni pedagogiche nelle orazioni dedicate agli studi, tra cui si ricorda in particolare la lettura inaugurale del 1518 all’università di Wittenberg intitolata De corrigendis adolescentium studiis, che costituisce una proposta di rinnovamento degli studi, e l’orazione De studiis linguae Graecae nel 1549. Si tratta di due documenti fondamentali per comprendere il ruolo degli studi classici nel sistema di valori della Riforma, che si fa tradizionalmente iniziare con l’affissione nel 1517 delle 95 tesi di Lutero sulla porta della cattedrale di Wittenberg, città dove non a caso Melantone pronunciò la prima delle due orazioni citate. In essa egli si scaglia contro i preconcetti comuni del suo tempo sulle lettere antiche, cioè che esse distraggano dalla filosofia, che siano aberranti e inutilmente difficili. L’umanista vi traccia anche una storia sub specie studiorum humanitatis dalle origini dell’impero fino ai suoi giorni, rilevando come la scomparsa del greco abbia determinato il declino non solo dell’insegnamento, con l’avvento della Scolastica, ma anche della morale e della carità cristiana. Il ruolo del greco nella formazione e nel miglioramento dell’individuo viene enfatizzato nella seconda orazione, De studiis, in cui la lingua greca è esaltata come l’idioma prescelto per la rivelazione divina e, in definitiva, una forza viva della storia. Queste tesi si univano al rifiuto di alcuni punti cardine dell’insegnamento medievale, come la supremazia della logica sulla grammatica e l’interpretazione allegorica dei testi classici, e andavano a corroborare l’importanza dello studio del greco, considerato la lingua fondamentale per un ritorno ad fontes. Melantone non intendeva rinnegare il valore del latino come lingua franca per la comunità cristiana, ma assegnava al greco un ruolo autonomo nella pedagogia che era uno degli aspetti culturali su cui gli umanisti tedeschi insistevano di più. L’apprendimento del greco nei territori extra-italiani ebbe in effetti un notevole successo, come testimonia del resto il fatto che l’espressione Graecia transuolauit Alpes, che Melantone nel suo De studio linguarum (1533) immagina esser stata pronunciata da Giovanni Argiropulo a Roma nell’ascoltare la perfetta pronuncia greca di Reuchlin-Capnio, conobbe una grande fortuna fino agli inizi del’9008. L’esaltazione della lingua greca in territorio germanico portò anche ad atteggiamenti di rifiuto della supremazia del latino, tema dibattuto lungamente già dal XV secolo, e di pretesa di derivazione del tedesco dal greco, talvolta con la creazione di leggende e genealogie ex nouo. Celtis, ad esempio, in stretta connessione col mito che voleva i Germani discendenti dei Troiani, sostenne l’idea che i Druidi, i sacerdoti dei Celti, scacciati in Gallia dall’imperatore Tiberio, nel I secolo d.C. scapparono in Germania attraversando il Reno. Egli, nel tentativo di raccordare la storia germanica con quella greca senza intermediari romani, arrivò a sostenere nel De origine, situ, moribus et institutis Norimbergae libellus (1502) che i Druidi parlassero greco e avessero usanze greche e che essi impararono il latino solo
7 Sull’importanza di Melantone nell’organizzazione della scuola e dell’istruzione vd. Garin 1957, pp. 202-208. 8 Ben-Tov 2009, pp. 196-210.
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con la conversione al Cristianesimo9. Nello stesso contesto culturale vanno situate opere in cui è evidente una lettura ideologica della Germania di Tacito; un esempio è l’Orbis terrae partium succincta explicatio di Michael Neander, pubblicata nel 1582. In questo manuale geografico Neander, riallacciandosi al commento dell’umanista protestante Andreas Althamer della Germania (1536), fa derivare molte parole tedesche da lemmi greci, al fine di dimostrare la diretta connessione tra il popolo germanico e quello ellenico. Nonostante le dichiarazioni di orgogliosa indipendenza dal retroterra culturale romano e l’ostentazione di innovazioni tecnologiche tutte tedesche come la stampa, la rivalutazione dell’importanza della grammatica e in generale dello stile, aspetti che erano stati messi in secondo piano nel corso del Medioevo, rendevano gli umanisti tedeschi ben consapevoli del bisogno di appropriarsi di un latino elegante, obiettivo che si poteva raggiungere soltanto con la lettura di numerosi auctores classici. Inoltre, il latino restava comunque la lingua del potere e della politica, veniva impiegato negli scambi diplomatici e in tutti gli ambienti di cultura, pertanto chiunque non volesse sentirsi escluso dai ranghi più alti della società doveva possedere una notevole competenza di questo idioma, competenza che poteva essere acquisita soltanto frequentando scuole di alto livello. Il curriculum di studi latino nella Germania degli inizi del’500 prevedeva a un primo livello di apprendimento alcuni testi preparatori in auge nei secoli precedenti tra cui i Disticha Catonis, ovvero una raccolta di versi moralmente edificanti attribuiti a Catone, e la traduzione latina di alcune favole greche ritenute esopiche; tali raccolte di taglio moraleggiante furono progressivamente sostituite da opere analoghe come gli Adagia (1500) di Erasmo, un’antologia di detti antichi a uso scolastico. Terenzio, considerato più imitabile dal punto di vista stilistico e moralmente opportuno per l’educazione dei giovani, continuava a essere preferito a Plauto. Alcuni testi di Cicerone, come le Epistulae ad familiares, i trattati De amicitia, De senectute, Paradoxa Stoicorum, erano considerati imprescindibili. Altre opere, in particolare quelle retoriche, erano riservate a uno stadio di conoscenza del latino più avanzato; queste erano il De oratore, l’Institutio oratoria di Quintiliano e lo pseudo-ciceroniano Ad Herennium. Gli storici più studiati erano Livio, Sallustio e Tacito, mentre le opere poetiche maggiormente praticate erano le Ecloghe e le Georgiche, ma anche l’Eneide, di Virgilio, le Odi di Orazio, l’epica di Stazio, il Bellum ciuile di Lucano, le Satire di Giovenale, le Metamorfosi e i Tristia di Ovidio e le tragedie di Seneca10. Lo studio dei classici era funzionale alla loro riproduzione in scritti originali e uno degli esercizi scolastici era l’imitazione di un autore in particolare, allo scopo di raggiungere il più elevato decorum linguistico. Sulla base di quanto detto finora, si può facilmente intuire come tutto il lessico medievale, ecclesiastico e ‘moderno’ fosse bandito da questa pratica, con l’obiettivo di cristallizzare la lingua latina in una forma unica e immutabile. I più radicali fautori di questo sistema erano i seguaci del ciceronianismo, che proponevano di accettare nella lingua scritta esclusivamente termini
9 Vd. Brann 1988, pp. 137-138; Ben-Tov 2009, pp. 189-191. 10 Vd. Jensen 1996, pp. 72-74.
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di origine ciceroniana; tale estremismo era già stato rigettato già da Lorenzo Valla, che nel XV secolo sosteneva che la realtà contemporanea esigeva la coniazione di parole nuove, secondo il noto motto noua res nouum uocabulum flagitat, che di necessità non potevano trovarsi nell’opera dell’Arpinate, ma la più drastica condanna arrivò, attraverso l’arma della parodia, con il Ciceronianus di Erasmo da Rotterdam (1528). Com’è stato sottolineato nei capitoli precedenti, l’imitazione di Cicerone è un aspetto comune a tutti gli umanisti finora trattati; ciò è evidente soprattutto dall’impiego frequente di espressioni desunte da opere ciceroniane e riflette una formazione fondata su un comune patrimonio culturale. Lo stesso può essere osservato anche per Joachim Camerarius, convinto assertore dell’utilità dell’imitazione.
IV.2 L’umanista Joachim Camerarius Joachim Camerarius11, nato il 12 aprile 1500 a Bamberga, si chiamava in realtà Joachim Liebhard; il suo cognome fu mutato in Kammermeister, “ciambellano”, per la carica da lui assunta presso il principe vescovo di Bamberga, quindi latinizzato in Camerarius. Figlio di Johann, nobile funzionario vescovile e consigliere di Bamberga, studiò a Lipsia dal 1512 sotto la guida di Georg Helt e acquisì una notevole conoscenza del greco da Richard Croke e Pietro Mosellano. Nel 1518 si spostò a Erfurt dove poté rinnovare la sua amicizia con Eobanus Hessus (1488-1540), erudito e poeta conosciuto a Lipsia; nella nuova città i due ebbero la possibilità di entrare a far parte del circolo umanistico sorto attorno a Corrado Muziano (1470-1526), letterato fornito di una vasta cultura neoplatonica acquisita in Italia. Dopo aver ottenuto la laurea magistrale si trasferì a Wittenberg, dove si iscrisse all’università il 14 settembre 1521 e iniziò a tenere corsi su Quintiliano. In questi anni egli divenne amico di Filippo Melantone, instaurando un rapporto che durò per tutta la vita; nel 1524 Camerarius lo accompagnò a visitare Bretten, città nativa di Melantone, a ovest di Karlsruhe, e da lì si spostò a Basilea, dove incontrò Erasmo da Rotterdam, portando con sé alcune epistole a lui indirizzate di Martin Lutero e Heinrich Stromer. Nel 1526 Camerarius diventò direttore della nuova scuola di latino di Norimberga e fu incaricato dell’insegnamento del greco; alcuni anni dopo, nel 1530, presenziò la dieta di Augusta con Melantone, contribuendo a compilare per quest’occasione la celebre Confessio Augustana, uno dei testi fondanti della Chiesta riformata. Nel 1535 Camerarius fu incaricato di riorganizzare l’università di Tübingen, di cui fu anche professore; successivamente, forse a causa degli scontri tra Luterani e seguaci di Zwingli, egli si trasferì nel 1541 a Lipsia, dove fu decano delle arti e rettore fino alla sua morte, sopraggiunta nell’aprile del 1574. Come risulta evidente dai dati biografici riportati, Camerarius incarna in toto la figura di umanista-pedagogo descritta in precedenza, dal momento che gran parte della sua vita fu occupata dall’attività di insegnamento e riorganizzazione delle istituzioni
11 Su Camerarius vd. Spiz 1975, p. 419; Baron-Shaw 1978; Bietenholz-Deuschter 1985-1987, pp. 247-248; Ben-Tov 2009 pp. 168-173.
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scolastiche di varie città tedesche. Della sua vastissima produzione letteraria è possibile menzionare numerose traduzioni, commenti ad autori classici, opere storiche, biografie e un ricco epistolario12. Tra le sue versioni latine più importanti ricordiamo la prima Olintiaca (or. 1) di Demostene (1524), il trattato Sull’equitazione di Senofonte (1539), ma anche opere contemporanee, come il Trattato delle proporzioni dei corpi umani dell’amico incisore Albrecht Dürer; quest’ultima opera riflette l’ideale umanistico propugnato da Melantone per cui anche le arti figurative, e in particolare quella di Dürer, erano strumenti fondamentali per l’elevazione spirituale dell’essere umano al pari del greco e del latino13. Per quanto riguarda le edizioni di autori greci, Camerarius pubblicò Teocrito (Hagenau, J. Sacer, 1530), sette tragedie di Sofocle (Hagenau, J. Sacer, 1534), Iliade e Odissea (Basilea, J. Herwagen, 1541), mentre sul versante latino è possibile annoverare sei commedie di Plauto (Magdeburg, C. Rödinger, 1536), sei di Terenzio (Lipsia, V. Bapst, 1549), le Bucoliche Virgilio con indicazione e commento di luoghi teocritei (Strasburgo, B. Fabricius, 1556). Camerarius mostrò anche un ampio interesse per la retorica; sulla scia delle opere melantoniane De rhetorica libri tres (1519) e l’Encomium eloquentiae, egli compose gli Elementa rhetoricae (Basilea, 1541), trattato che ebbe grande successo, come testimoniano le successive ristampe. Egli scrisse anche le vite degli amici Eobanus Hessus (Norimberga, J. von Bergen e U. Neuber, 1553) e Melantone (Lipsia, E. Voegelin, 1566) e compose opere storiche come l’Historica narratio de fratrum orthodoxorum ecclesiis in Bohemia, Morauia et Polonia, uscita nel 1605, e il Belli Scamaldici commentarius, pubblicato a Francoforte nel 1611.
IV.3 Camerarius e l’impiego dei classici: il commento a Omero e il De imitatione Per cercare di comprendere il metodo filologico e gli ideali letterari alla base della vasta opera di Camerarius è necessario guardare ai suoi commenti a specifiche composizioni della letteratura antica, in particolare il commento al primo libro dell’Iliade e quello al primo libro delle Tusculanae disputationes di Cicerone, entrambi del 153814. Come ha recentemente osservato lo studioso Ben-Tov15, nello spiegare il primo libro dell’Iliade Camerarius fornisce una traduzione dei versi omerici iniziali in cui mostra di dipendere fortemente nella scelta dei termini dall’incipit dell’Eneide. Ciò è evidente se si mettono a confronto i due testi: in corrispondenza del verso incipitario in cui il cantore chiede alla Musa di cantargli l’ira di Achille con Μῆνιν ἄειδε θεὰ Πηληϊάδεω Ἀχιλῆος / οὐλομένην, Camerarius traduce Iurgia pernitiosa cano tristemque furorem / Aeacidae longi Danais incendia luctus, con evidente richiamo al verso virgiliano Arma
12 Per un elenco completo vd. Baron-Shaw 1978, pp. 231-251. 13 Vd. Brann 1978, p. 148. 14 Ci riferiamo al commento al primo libro dell’Eneide con Camerarius 1538 (1), mentre a quello delle Tusculanae con Camerarius 1538 (2). 15 Vd. Ben-Tov 2009, pp. 168-173.
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uirumque cano (Aen. 1,1). Lo stesso accade per l’ottavo verso iliadico, dove il poeta si chiede quale dio abbia fomentato la contesa tra Achille e Agamennone, Τίς τ’ ἄρ σφωε θεῶν ἔριδι ξυνέηκε μάχεσθαι; viene reso dall’umanista con Musa mihi caussas memora quo nomine primum / Quoue Deo ductor Graecorum et diuus Achilles, / Correpti immani pugnarit praelia uoce. La menzione di Achille e Agamennone (ductor Graecorum) è dovuta all’inserzione del verso precedente Ἀτρεΐδης τε ἄναξ ἀνδρῶν καὶ δῖος Ἀχιλλεύς, in cui i due eroi sono presentati con le rispettive prerogative, che viene così traslato da Camerarius in una sede nuova rispetto all’originale. Ciò che qui è interessante notare ai nostri fini è l’aggiunta dell’invocazione Musa… primum che è assente in Omero e che echeggia l’ottavo verso del poema virgiliano Musa mihi causas memora, quo numine laeso. L’epica romana, del resto, è già di per sé influenzata dal modello greco e Camerarius con le sue riprese virgiliane mostra di essere consapevole della ricezione omerica nella letteratura latina. Gli esempi riportati illustrano come il commento di Camerarius risenta dell’influsso dell’opera epica latina e ancora una volta la spiegazione di tale aspetto è da cercare in ambito pedagogico. Le traduzioni latine di testi greci erano infatti usate come supporto didattico per le lezioni: gli studenti, sicuramente già provvisti di una buona conoscenza dell’epica virgiliana, potevano così riconoscere gli intertesti latini e cogliere più agevolmente il senso del testo greco. Il ricorso a questo metodo, come si vedrà più avanti anche per la traduzione del discorso 16 di Elio Aristide, mostra la chiara tendenza a esporre i testi greci con l’aiuto delle fonti romane; inoltre, il fatto di spiegare un poeta con un altro poeta rivela un’adeguata cognizione da parte di Camerarius del concetto di decorum, aspetto stilistico ampiamente dibattuto nel corso dell’Umanesimo. Secondo questo ideale di derivazione ciceroniana un buon poema non poteva includere frasi informali presenti, ad esempio, nelle lettere di Cicerone, e allo stesso modo uno scritto di prosa di qualità non doveva riportare espressioni di ascendenza poetica16. Il motivo dell’importanza della scelta del corretto modello da seguire ritorna in un’opera fondamentale della produzione di Camerarius: il trattato De imitatione, dedicato a Daniel Stilbar von Babeneck (1513-1555). Si tratta di uno scritto nato in origine come commento al primo libro delle Tusculanae disputationes di Cicerone, ma che ben presto, nel corso della redazione, assunse la natura di un testo autonomo di natura filosofica. Com’è intuibile dal titolo, in esso si affronta il tema dell’imitazione, argomento largamente discusso da molti letterati italiani tra il XV e la prima metà del XVI secolo; lo stesso Camerarius cita Bembo, Poliziano, Cortesi e Gianfrancesco Pico della Mirandola17, ma indubbiamente fu portato a occuparsi di questo tema dalla pubblicazione del Ciceronianus, opera in forma di dialogo con cui Erasmo si scagliò contro i fanatici del ciceronianismo. Anche Erasmo per il suo attacco era mosso dal
16 Vd. Jensen 1996, p. 74. 17 Poliziano, convinto assertore della uarietas dei modelli letterari da adottare, e Paolo Cortesi, ciceroniano, diedero origine alla prima grande discussione su questo tema, mentre la seconda contrapposizione in merito al ciceronianismo avvenne tra Gianfrancesco Pico della Mirandola e Pietro Bembo tra il 1512 e il 1513.
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desiderio di difesa del decorum, ma in senso storico: egli riteneva che la ripetizione di espressioni stereotipate di origine ciceroniana fosse a-storica, nella convinzione che il modo di parlare dell’oratore arpinate fosse irriproducibile a causa delle condizioni e dei tempi mutati. Ciò che interessa a Erasmo in realtà è dunque la veridicità nei confronti del presente18: il risultato di un’imitazione portata all’eccesso, come quella perseguita da molti ciceroniani, determina pertanto, secondo l’umanista, la perdita di tale veridicità con conseguente caduta nel ridicolo19. Camerarius affronta il problema da un punto di vista filosofico e parte da considerazioni di ordine generale: muovendosi in un contesto storico come quello rinascimentale, in cui, com’è noto, l’obiettivo primario è la trasmissione di un ideale classico di uomo e l’imitazione è intesa essenzialmente come similitudo ueterum, Camerarius sostiene che la mimesi costituisce un processo naturale messo in atto dall’uomo e pertanto, in virtù della sua naturalezza, è vista in una luce positiva; essa è da perseguire ovunque: nel lavoro, nella vita, nelle arti e nei costumi. L’umanista arriva anche ad affermare che la vita non sarebbe affatto possibile senza exemplum. Passando poi a parlare nello specifico della lingua, Camerarius afferma che essa è “interprete della ragione” (interpres intelligentiae): lingua e intelligenza sono dunque legate in una maniera inestricabile, sullo sfondo di una nota tradizione che vede interconnessi nella parola greca “logos” ratio e oratio. Quindi Camerarius si sofferma sulla trattazione del latino, lingua messa alla prova dal trascorrere di numerosi secoli e pertanto strumento atto a esporre la realtà meglio di qualunque altro; da qui sia l’esigenza di rivolgersi al latino per esprimere il pensiero nella maniera più adeguata sia, in un secondo momento, la ricerca del miglior modello da seguire in questo ambito. Egli lo individua in Cicerone, autore in cui tutte le vaste potenzialità della lingua si realizzano; secondo l’umanista rivolgersi ad altri autori non è solo esecrabile (turpe), ma anche riprovevole (flagitiosum)20. La padronanza e l’imitazione del latino ciceroniano però non sono dati scontati, ma vanno raggiunte per gradi, anzi, sono collocate da Camerarius al termine del processo di apprendimento dell’uomo. A ben vedere, Camerarius guarda al latino di Cicerone non da un punto di vista meramente formale: si tratta di un parlare a partire dalla sagacia21, intesa tradizionalmente come la conoscenza e l’azione originate dalle circostanze, dall’ibi et nunc, insomma dal presente storico. Un giudizio del presente è possibile, secondo l’umanista, solo a partire da una cognizione del passato e da una previsione del futuro. La sagacia 18 Vd. Gerl 1978, pp. 188-189. 19 Vd. Pigman 1979, pp. 158-161. Una riflessione importante tratta dal Ciceronianus a proposito del concetto di decorum in senso storico è enunciata da Buleforo, difensore dell’eclettismo e portavoce del punto di vista erasmiano contro Nosopono, schiavo dell’imitazione ciceroniana: Videtur praesens seculi status, cum eorum temporum ratione congruere, quibus uixit ac dixit Cicero, quum sint in diuersum mutata religio, imperium, magistratus, respublica, leges, mores, studia, ipsa hominum facies, denique quid non? […] Porro quum undequaque tota rerum humanarum scena inuersa sit, quis hodie potest apte dicere, nisi multum Ciceroni dissimilis? […] Quocumque me uerto, uideo mutata omnia, in alio sto proscenio, aliud conspicio theatrum, imo mundum alium; vd. Gambaro 1965, p. 126. 20 Camerarius 1538 (2), De imitatione 1, 22. 21 La studiosa Gerl impiega il termine Klugheit riferendosi a un passo del De imitatione che recita Atque hic est… fons Ciceronitatis, ut ita dicam: hoc est, non iam Latine modo, sed prudenter loquendi (1, 82).
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dunque in definitiva equivale al senso della storia; ma se l’eredità di Cicerone è, secondo Camerarius, il parlare sagacemente, cioè il parlare in base alla conoscenza di quanto è storico e dell’immodificabile, allora la sua imitazione non può consistere nella ripresa di una forma adoperata una volta, ma risiede nel parlare a partire dal presente. Parlare alla maniera di Cicerone viene collegato così alla storia e l’imitazione diventa una libera scelta che dà all’uomo la possibilità di autorealizzarsi: l’uomo come entità libera, aperta ad ogni possibilità, ha bisogno di essere definito e risponde al suo stesso essere aperto ricercando un modello che lo plasmi22. Con il suo discorso Camerarius intende mostrare dunque, in contrapposizione a quanto esposto da Erasmo, come l’imitazione non sia un processo a-storico e privo di originalità, bensì costituisca un’attività creativa in cui l’uomo realizza le sue possibilità di azione sulla realtà. Camerarius sviluppò un interesse peculiare per la tematica ciceroniana come conseguenza della pubblicazione del Ciceronianus23, ma contestò il trattato insieme al collega Julius Pflug (1499-1564) soltanto dopo la morte di Erasmo avvenuta nel 1536; non a caso, infatti, la pubblicazione del De imitatione risale al 153824. Entrambi gli aspetti qui presi in considerazione, ovvero l’esigenza di spiegare i testi greci attraverso l’uso di classici latini e la devozione verso Cicerone, possono essere riscontrati nell’analisi della traduzione latina del discorso 16 di Elio Aristide.
IV.4 La dedica dell’Oratio Vlyssis legati ad Achillem authore Aristide Nel 1535 Camerarius pubblicò ad Haguenau in un unico volume dedicato all’amico Ludovicus Carinus (1496-1569), umanista seguace di Erasmo, il testo greco del Discorso d’ambasceria ad Achille di Aristide, quello della quinta declamazione di Libanio, intitolata Πρὸς τὸν Ὀδυσσέως ἐν Λιταῖς πρεσβευτικὸν ἀντιλογία Ἀχιλλέως25, una parafrasi in greco del discorso di Odisseo e della risposta di Achille contenuti nel nono libro dell’Iliade e le versioni latine dei discorsi di Aristide e Libanio; queste ultime vennero anche ristampate a cura dell’editore Georg Henisch in un volume contenente diversi scritti sulla guerra di Troia intitolato Belli Troiani Scriptores Praecipui nel 157326. Il Discorso d’ambasceria e l’Antilogia sono spesso associati nei testimoni di Aristide perché tradizionalmente si ritiene che Libanio avesse dato ad Achille ‘diritto di replica’ a seguito della declamazione aristidea. Sull’eventualità che Libanio avesse composto il suo testo in risposta a quello di Aristide, come si vedrà meglio più avanti27, la critica è divisa. Camerarius propendeva senza dubbio per quest’ipotesi, tant’è vero
22 Vd. Gerl 1978, pp. 192-197. Si veda anche Chiarini 1988, pp. 43-46. 23 Vd. supra, p. 181. 24 Vd. Bietenholz-Deutscher 1985-1987, I, p. 248. 25 “Antilogia di Achille al discorso d’ambasceria di Odisseo tra le preghiere” Förster 1903-1927, vol. 5, p. 287. 26 Vd. Behr in Lenz-Behr 1976-1980, vol. 1, p. CIV, n. 21; si veda anche classicalsace.unistra.fr, nella sezione Éditions, traductions et commentaires de discours particuliers d’Aristide. 27 Vd. infra, p. 193, n. 61.
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che nella pagina d’apertura della sua raccolta l’autore, nel fornire una spiegazione del contenuto, scrive che il libretto contiene i due discorsi di Aristide e Libanio, che consistono in quanto Odisseo in veste di delegato acheo riferì ad Achille e in ciò che Achille a sua volta rispose; quindi l’umanista aggiunge di aver inserito anche le sue traduzioni latine e la parafrasi omerica. Il titolo apposto sul frontespizio recita infatti In libello hoc insunt Πρεσβευτικός Ἀριστείδου - Ἀντιρρητικὸς Λιβανίου. Hoc est quid dici amplius ab Vlysse legato ad Achille et responderi ab hoc potuerit. Vtraque oratio conuersa in latino a Ioach(imo) Camer(ario). Eiusdem et paraphrasis graeca Homerici utriusque loci addita est28. Subito dopo, in aggiunta a questo titolo, una nota supplementare in caratteri minori recita Habent studiosi artium egregium exemplum scholasticum cuius, ut opinor, simile non uiderunt; quest’ultima postilla, come si vedrà più avanti, è utile perché ci consente di ipotizzare che la raccolta di opere, comprese le traduzioni latine di Aristide e Libanio, fosse un sussidio erudito a uso scolastico. Nella lettera prefatoria inoltre Camerarius scrive, per chiarire il concetto già espresso nella pagina di apertura della raccolta, che Libanio aveva fatto parlare Achille perché non fosse più lasciato spazio ad un’ulteriore risposta: Libanius uero rhetoricas omnium ληκύθους uidetur impendisse, ut ita faceret loquentem Achillem, ne cui posteriori orationi locus relinqueretur29. L’edizione di Camerarius del 1535 rappresenta la princeps per il discorso aristideo; infatti, nella prima stampa degli opera omnia di Aristide del 1517 di Eufrosino Bonino per i tipi di Filippo Giunta non erano presenti né il discorso 16, né l’orazione 53 (Panegirico sulla sorgente d’acqua a Pergamo), poiché i manoscritti impiegati da Bonino (Laur. Abb. 9 e Laur. LX, 24 e 20) non contenevano questi testi30. Abbiamo dunque la fortuna di conoscere il testo greco di partenza della versione latina, in quanto compreso nella pubblicazione generale, ma allo stato attuale della ricerca non è ancora chiaro da quale testimone della tradizione manoscritta aristidea lo avesse tratto Camerarius31, anche se l’umanista nella lettera prefatoria dà qualche informazione sul manoscritto impiegato; egli riferisce che questo gli era stato fornito da Vincentius Opsopoeus, il cui vero nome era Vinzenz Heidecker, editore e traduttore bavarese
28 “In questo libretto ci sono il Discorso d’ambasceria di Aristide e il Discorso confutatorio di Libanio, cioè ciò che avrebbe potuto essere riferito in più dal delegato Ulisse ad Achille e ciò che da questo avrebbe potuto essere detto in risposta. Entrambe le orazioni tradotte da Ioachim Camerarius. È stata aggiunta una parafrasi del medesimo di entrambi i passi omerici” (§ 7). 29 “In verità sembra che Libanio abbia impiegato le ‘ampollosità retoriche’ di tutti, per far parlare Achille, cosicché non fosse lasciato spazio a nessun discorso successivo” (§ 8). Sul significato di ληκύθους vd. infra, p. 190. 30 Behr in Lenz-Behr 1976-1980, vol. 1, pp. CI-CIV; abbiamo indicato in bibliografia l’edizione come Giuntina 1517. 31 Così si legge in Behr in Lenz-Behr 1976-1980, vol. 1, p. CIV. Questo aspetto della ricerca è stato messo in evidenza anche nelle due relazioni di Jean-Luc Vix Le parcours éditorial du discours 16 d’Aelius Aristide, la déclamation sur l’Ambassade auprès d’Achille, presentata al convegno Présence de la déclamation antique (suasoriae et controverses grecques et latines), Strasburgo 31/5-1/6 2012, e La réception d’Aelius Aristide au XVIe siècle : une renommée en trompe-l’œil? tenuta in occasione dell’Atelier Aristide 2013, Strasburgo 21/03/2013.
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che pubblicò numerose versioni latine di classici greci32. Opsopoeus a sua volta aveva ricopiato il manoscritto alla base delle traduzioni di Camerarius e pervetusto codice di Cristophorus Pistorius, cioè Christoph Beck, rettore dell’abbazia di Wüzburg e maestro di Albrecht Alcibiades (1522-1558), Margravio di Brandeburg-Kulmbach: Haec (scil. gli scritti di Aristide e Libanio) mihi sunt missa quondam ab amico et necessario nostro doctissimo uiro Vincentio Obsopoeo, qui descripsisset e peruetusto codice Domini Christophori Pistorii, paedagogi principalis in aula Marchionis uicini ciuitatis nostrae33… Camerarius, nell’epistola premessa alla sua traduzione, indirizza un elogio topico al destinatario, Ludovicus Carinus, in origine Ludwig Kiel. Carinus, precettore di molti rampolli di famiglie nobili tedesche, era in contatto con Erasmo da Rotterdam; egli rientra pertanto in quella cerchia di umanisti che gravitavano attorno al dotto e che al contempo avevano fatto dello studio dei classici, come Camerarius stesso, un tratto peculiare della propria formazione. Originario di Lucerna, Ludovicus era figlio di Hans Kiel, membro del gran consiglio e secondo segretario della città. Sin da piccolo era stato destinato a Ludovicus un canonicato, di cui egli prese possesso nel 1513 con un grosso beneficio economico. Nel 1511 si immatricolò all’università di Basilea e lì ottenne nel 1514 la laurea; in questa città incontrò per la prima volta Erasmo da Rotterdam. Negli anni 1520-1521 Carinus fu segretario a Magonza del riformatore Wolfgang Capito (1478-1541) e divenne in seguito precettore di molti membri di famiglie nobili, in particolare di Erasmus Schenk von Limpurg, che accompagnò a Tübingen. Nel 1522 a Basilea incontrò di nuovo Erasmo e con lui instaurò un rapporto così profondo che Erasmo lo inserì come uno dei personaggi del suo Conuiuium poeticum, pubblicato nel 1523. Alcuni anni dopo egli documentò i suoi viaggi in compagnia di Erasmus Schenk in alcune epistole indirizzate a Camerarius, con cui intratteneva rapporti d’amicizia. Nel 1528, per motivi sconosciuti, il suo rapporto con Erasmo da Rotterdam entrò in crisi a un punto tale che in alcune epistole di Erasmo Carinus viene chiamato “Lucio Catilina”; negli anni seguenti egli continuò a peregrinare in diversi centri come Strasburgo (1531), Parigi (1533), Lovanio (1535), Padova (1541), dove ebbe tra i suoi studenti privati Ulrich Fugger, e Bologna (1544). Nel 1546 fu fatto canonico della chiesa di Saint Thomas a Strasburgo. L’ultimo periodo della sua vita fu scandito ancora dai viaggi, questa volta al seguito dei membri della famiglia Fugger, da cui poté ottenere importanti manoscritti e sussidi per la stampa di libri, com’è testimoniato da Hieronymus Wolf, che insieme al tipografo basileese Johannes Oporinus produsse un’importante corpus di storici bizantini34. Prima della dedica vera e propria a Carinus sono inseriti nella lettera riferimenti encomiastici ad altri personaggi dell’epoca, tra cui figura un giovane Limpergius; Camerarius
32 Su Heidecker vd. Jegel 1941, pp. 27-84. 33 “Queste un tempo mi sono state inviate dall’amico e nostro congiunto, il dottissimo Vincenzo Obsopeo, che aveva trascritto da un codice antichissimo del nobile Cristoforo Pistorio, maestro principale nel palazzo di Marchione della nostra vicina città…” (§ 7). 34 Vd. Bietenholz-Deutscher 1985-1987, I, pp. 266-268.
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afferma infatti cognoui de sermonibus tuis adesse te in comitatu Limpergii Iuuenis generis quidem claritate praestantissimi, sed uirtute longe etiam praestantioris35. Potrebbe trattarsi di Erasmus Schenk von Limpurg, futuro vescovo di Strasburgo che fu allievo di Carinus36, mentre più avanti si ricorda anche il principe vescovo di Bamberga, plausibilmente Georg Schenk von Limpurg, deceduto nel 1522; il dolore mostrato ex omnium ordinum querelis per la sua morte, dice Camerarius, era una prova indubitabile dell’incredibile valore di quest’uomo. Di entrambi i personaggi vengono lodati soprattutto la cultura e l’amore per l’arte, come avviene di consueto nelle dediche di opere letterarie. La parte encomiastica è destinata ai due uomini menzionati, mentre Carinus è trattato da Camerarius ‘alla pari’ come un cultore delle lettere; all’amico e collega sono riservate infatti riflessioni relative alla pratica umanistica dello scambio di doni letterari, che sono più graditi di aurum, argentum et aes (§ 3), e alcune notizie relative alle circostanze di composizione della raccolta di opuscoli cui la lettera è anteposta. In primo luogo l’umanista espone le ragioni che lo avevano portato a dedicarsi alle opere offerte; egli le introduce a Carinus sottolineando con topica modestia la loro ‘piccolezza’ tramite l’impiego di diminutivi (nidulos musaei…, opellas…)37 e solo più avanti, quasi alla fine della lettera, l’umanista esplicita che si tratta delle orazioni di Aristide e di Libanio. Tuttavia, afferma, per quanto marginali, queste operette non sono da disprezzare, praesertim hoc tempore: Excussi igitur nidulos Musaei nostri et offerentes se nobis quasdam opellas per quidem tenues illas, sed tamen non omnino, praesertim hoc tempore, contemnendas, institutas dudum nunc absolui et tibi pro munere amiciciae ac hospitii misi (…)38 Lo stesso accenno al momento storico ritorna poco più avanti, quando Camerarius afferma che opere come quelle offerte a Carinus posseggono un’erudizione intrinseca tale che necessitano un livello di formazione e di cultura superiore e non comune: Sed quod aiebam, hoc maxime tempore non contemnenda mihi haec uisa, eiusmodi est ut, quamuis bene alteque creuerint eruditionis quasi germina, tamen, ut fructum conuenientem etiam ferant, accurata cultura et fortasse nondum multum uulgoque usitata opus esse iudico39. 35 “… sono venuto a sapere dai tuoi discorsi che prendi parte al seguito del giovane Limpergio, di stirpe eccezionale per fama, ma ancor più ragguardevole per virtù” (§ 1). 36 Vd. nota 34. 37 Anche Perotti, nell’epistola che introduce la raccolta delle versioni latine delle monodie di Aristide, Libanio e Bessarione, fa uso di diminutivi funzionali a presentare il proprio prodotto letterario con la consueta modestia; egli infatti, rivolgendosi direttamente al destinatario Pietro Foscari, afferma: Tuae mansuetudinis erit, inter doctissimorum virorum opera et ueluti aethereas aquilas passerculos quoque et columbulos nostros uolitantes non aspernari; vd. supra, epistola prefatoria (§ 6), p. 108. 38 “Ho frugato pertanto le piccole dimore del mio Museo, e poiché si sono offerte a noi alcune operette tra quelle di pochissima importanza, ma tuttavia non del tutto trascurabili, soprattutto in questo periodo, preparate da un po’, ora le ho portate a termine e te le ho inviate come dono di amicizia e ospitalità…” (§ 5). 39 “Ma, ciò che dicevo, non mi pare conveniente che vadano disprezzate in questo momento in particolare opere di tal genere che, per quanto si siano sviluppate bene e in profondità come dei germogli di sapere, tuttavia, affinché portino anche un frutto opportuno, credo che necessitino un tipo di educazione raffinata e forse non ancora del tutto ordinaria” (§ 5).
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In questo passaggio, in cui l’umanista richiama e sottolinea quanto detto prima (Sed quod aiebam, hoc maxime tempore non contemnenda mihi haec uisa…), viene evocato anche il motivo della preparazione letteraria ‘adeguata’, cioè quella insegnata nelle università dell’epoca di Camerarius, appannaggio di un numero ristretto di persone (fortasse nondum multum uulgoque usitata). È probabile che l’insistenza sulla necessità di non trascurare opere come quelle di Aristide e Libanio soprattutto a quei tempi sia motivata ancora una volta da ragioni didattiche: Camerarius si rendeva conto, infatti, che una buona formazione retorica era richiesta ai più alti livelli della società, quelli cioè a cui apparteneva l’élite culturale delle università dove egli impartiva i suoi insegnamenti; a ciò si collega il livello dei testi offerti a Carinus che, come afferma Camerarius, non erano di larga diffusione né di facile apprendimento, bensì necessitavano una preparazione adatta per poter produrre un risultato efficace. Anche la summenzionata postilla collocata subito dopo il titolo nel frontespizio Habent studiosi artium egregium exemplum scholasticum cuius, ut opinor, simile non uiderunt si riferisce plausibilmente allo scopo che Camerarius immaginava per la propria raccolta, destinata a uomini eruditi (studiosi artium egregium) che potessero servirsene come modello scolastico (exemplum scholasticum). Sempre in questa nota l’umanista rivendica l’originalità del proprio lavoro, sostenendo che i dotti non hanno conosciuto fino a quel momento (non uiderunt) un’opera simile. A ciò si connettono le motivazioni espresse nell’epistola da Camerarius a proposito dell’opportunità di offrire questi scritti ai suoi contemporanei: egli si augura che i dotti possano fruire degli insegnamenti degli antichi contenuti in esse, ricollegandosi così all’idea umanistica della classicità come ‘guida maestra’ per l’uomo moderno; si tratta precisamente di quanto abbiamo affermato in precedenza a proposito dell’altissimo valore dell’imitazione e dell’exemplum che, per Camerarius, non investe soltanto il campo linguistico-letterario, ma anche la formazione umana in senso ampio40. Nulla autem est melior rectiorque cultura quam exemplorum et exercitii uerarum praeceptionum et doctrinae ueteris, in quo genere poni iure haec nostra debere arbitror, non quatenus a me sunt tanquam propagata - parui enim et ipse mea pendo, neque tam per se, quam imitationis gratia spectari uelim - sed quod horum est ex antiquis sophistarum scholis, e quibus magnam utilitatem studiosos litterarum (…) percepturos esse affirmare ausim41. Solo alla fine della lettera Camerarius esplicita che le opere in questione sono il Discorso d’ambasceria di Aristide e la declamazione di Libanio, che è da lui ritenuta una replica al πρεσβευτικόν aristideo (ne… relinqueretur, § 7)42. Camerarius definisce
40 Vd. supra, pp. 182-185. 41 “D’altra parte nessuna educazione è migliore e più corretta di quella degli esempi e dell’esercizio dei veri insegnamenti e della dottrina antica, nel cui genere credo che occorra riporre giustamente queste nostre opere, non in quanto da me sono per così dire diffuse - infatti le considero mie e di poco conto e non vorrei che fossero valutate di per sé quanto per l’imitazione -, ma ciò che di esse viene dagli antichi insegnamenti dei sofisti, dai quali oserei affermare che gli studiosi di lettere otterranno grande utilità…” (§ 6). 42 Vd. supra, p. 186.
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qui il discorso di Aristide una δευτερολογία, ovvero un secondo discorso con cui si potrebbe rispondere alle parole dell’Achille omerico del nono libro. Egli afferma poi che Libanio con la sua declamazione avrebbe fatto uso di λήκυθοι retoriche, rifacendosi così a un passo delle Epistole ad Attico in cui Cicerone impiega lo stesso termine per indicare in maniera figurata l’ampollosità del proprio stile43. Subito dopo Camerarius aggiunge che tutte le espressioni sono pressiora, più concise, che presso Omero, e anche che alcune parti sono tenuia, leggere, e in contraddizione con la persona loquens: Itaque multo sunt omnia quam apud Homerum pressiora, quaedam etiam meo iudicio sane tenuia et a persona dicentis abhorrentia44. Con queste parole Camerarius mostra di essere consapevole e di voler marcare la profonda differenza di stile che separa gli oratori d’età imperiale da Omero, da lui considerato la somma auctoritas. L’umanista si augura a ogni modo di essere riuscito con la sua traduzione a preservare lo stile dei discorsi, definito notevole per ricchezza di incisi e acutezza: Idem et de uersione dixero (…) cum sperem de hoc genere quodam singulari commatico ac argutae subtilitatis ita translatas sententias in Latinam linguam a nobis ut et illae expressae et huius proprietas custodita esse uideatur45. Occorre rilevare che lo scopo qui dichiarato si collega alla teoria della traduzione esposta da Leonardo Bruni più di un secolo prima. Camerarius, come l’umanista fiorentino, afferma di aver a cuore la proprietas delle sententiae greche; per l’intellettuale tedesco è fondamentale trasporre nella lingua in cui si traduce lo stile dell’originale, proprio come Bruni nel suo De interpretatione recta riteneva un buon traduttore solo colui che fosse capace di conservare il più possibile l’aspetto del testo di partenza (§ 14). Ciò è evidente dalla compresenza nello stesso segmento dell’epistola di Camerarius della riflessione sull’elocutio di Aristide e Libanio e dell’augurio di essere riuscito a preservarne le peculiarità; tale risultato, come osservava Bruni, può essere ottenuto solo con una conoscenza adeguata della lingua di partenza e di quella d’arrivo46.
43 Cfr. Att. 1, 14, 3: Totum hunc locum, quem ego varie meis orationibus, quarum tu Aristarchus es, soleo pingere, de flamma, de ferro (nosti illas ληκύθους), valde graviter pertexuit. “Egli (sc. Crasso) seppe tessere con notevole dignità formale la trama intera di quegli schemi retorici che io, nelle mie orazioni, delle quali tu sei l’Aristarco di turno, sono solito decorare con varietà di toni, come, per esemplificare, le fiamme degli incendi, la strage seminata dalle spade (a te non è ignota quella tal quale ampollosità del mio stile reboante)”. Traduzione di C. Di Spigno. 44 “Pertanto tutte le espressioni sono molto più concise che presso Omero, alcune anche del tutto leggere a mio parere ed estranee al carattere di chi parla” (§ 8). 45 “Allo stesso modo farò per la traduzione (…) dal momento che spero riguardo a questo stile particolare pieno di incisi e di vivace acutezza che le frasi siano state da noi tradotte in latino in modo tale che sia quelle siano ben espresse sia che la proprietà di questa lingua (il latino) sia custodita” (§ 8). 46 Si veda in particolare per il metodo esposto da Leonardo Bruni Cortesi 1995, pp. 477-483; Marassi 2009, pp. 123-141. L’edizione del De interpretatione recta è di Viti 2004.
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La lettera si chiude con una citazione omerica, in piena conformità ai testi selezionati per il destinatario. Camerarius infatti riporta un emistichio dell’Odissea tratto dal dialogo di congedo di Telemaco da Menelao, precisamente nel punto in cui il figlio di Odisseo chiede all’Atride di lasciargli in dono un oggetto prezioso in luogo dei cavalli offerti in precedenza (Od. 4, 600). L’umanista sceglie di incastonare l’emistichio δῶρον δ’ ὅττι κέ μοι δοίης, “il dono che mi vuoi dare”, all’interno della frase rivolta a Carinus relativa allo scambio dei doni letterari. Camerarius dichiara così di essere mosso da un desiderio diverso da quello di Telemaco, cioè di non volersi appropriare con la sua richiesta di una suppellettile di pregio, bensì di puntare a qualcosa che possa giovare alla comunità, proprio come un’opera letteraria. (…) tu uideris siue institutum iam ante opus, seu potius nouum remittere uelis: tuam enim esse electionem decet; mihi sane δῶρον γ’ ὅττι κε δὴ δοίης, non quidem κειμήλιον erit nobis, ut ille adolescens ait, sed una cum multis edito propositoque communi utilitati perfruemur47. Il pronome μοι del testo originale è omesso a causa del mihi anteposto e il κειμήλιον citato subito dopo nell’ultima frase proviene dal secondo emistichio dello stesso verso κειμήλιον ἔστω, “sia un oggetto prezioso”, mentre ille adolescens si riferisce a Telemaco. Si può affermare, in conclusione, che Camerarius riconosce alle orazioni di Aristide e Libanio un indiscutibile valore retorico ed è probabile, come vedremo dall’analisi della traduzione del discorso aristideo, che egli intendesse cimentarsi nella trasposizione in latino di uno stile greco peculiare impiegando una serie di nessi volti a rivelare la sua devozione ciceroniana piuttosto che a ornare lo stile. Le citazioni tratte dall’Odissea nella chiusa dell’epistola, inoltre, denunciano la notevole competenza di Camerarius relativa all’epos omerico, competenza che emerge anche dall’esame della sua versione. La scelta di dedicare la raccolta a Carinus, noto soprattutto per la sua funzione di precettore di membri di nobili famiglie tedesche, oltre che per le sue relazioni con Erasmo, rientra nell’ambito di quella sodalitas intellettuale che caratterizzò i legami tra gli umanisti prima italiani e in un secondo momento anche d’oltralpe e l’immagine topica del donum letterario, impreziosita dalla citazione omerica, è emblematica di questo tipo di rapporto48.
47 “… sembra o che tu abbia già preparato l’opera in precedenza, o piuttosto che tu voglia concederne una nuova; conviene senza dubbio che la scelta sia tua, proprio a me “tu faccia un regalo”. Non sarà affatto un ‘cimelio’ per noi, come ha detto quel giovane, ma, una volta pubblicato e diffuso insieme con molti altri, ci compiacciamo della comune utilità.” (§ 10). 48 Tale sodalitas, caratterizzata dal numero ristretto degli adepti e dall’alto profilo intellettuale, e l’attività didattica rivolta esclusivamente a giovani di elevato ceto sociale (come quella praticata da Carinus e da tanti altri dotti dell’epoca) costituivano secondo Garin dei limiti del programma pedagogico umanistico della Riforma promulgato da Melantone. Vd. Garin 1957, pp. 195-201.
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IV.5 Il Discorso d’ambasceria ad Achille di Elio Aristide Il Discorso d’ambasceria ad Achille di Elio Aristide è una melete49 di argomento mitologico, discorso che si immagina pronunciato da un ambasciatore acheo per convincere Achille a deporre la propria ira e a tornare a combattere contro l’esercito troiano. La materia del discorso deriva dal nono libro dell’Iliade, in cui vengono narrati la visita e gli interventi di Odisseo, Fenice e Aiace presso la tenda in cui si era ritirato il Pelide, allo scopo di persuaderlo a riprendere le armi; Aristide tiene qui in conto anche la risposta data da Achille a ciascuno degli eroi e ricorre ad argomenti epici di diversa provenienza. Il Discorso d’ambasceria è l’unica melete della produzione aristidea che non poggi su un argomento storico; le altre undici declamazioni sono basate su fatti e personaggi tratti dalla storia greca del V-IV sec. d.C50. È possibile assegnare questo discorso al genere deliberativo, dal momento che il suo obiettivo è quello di persuadere nel presente a compiere ciò che secondo l’oratore è necessario; inoltre, il riferimento alla persuasione rimanda alla tipologia oratoria delle suasoriae. Il presbeutikos logos in realtà non ebbe uno status autonomo e ben definito fino all’età ellenistica: gli oratori d’età classica come Eschine e Demostene si riferivano infatti alle parole pronunciate dagli ambasciatori con il termine demegoria, mostrando dunque di comprenderlo nell’oratoria simbuleutica51; una volta cessata l’autonomia delle città greche, l’importanza crescente delle ambascerie presso i nuovi dominatori segnò la progressiva formalizzazione del presbeutikos logos. Questo discorso ancora ai tempi di Quintiliano veniva però concepito in maniera classica alla stregua di un consiglio o una richiesta e la prova di ciò è contenuta nell’Institutio, dove l’autore, nel riferirsi all’ambasceria del nono libro dell’Iliade, la associa al consilium52. Che l’appartenenza del presbeutikos logos al genere deliberativo non escludesse tuttavia una componente encomiastica53 apparve evidente soprattutto in età tardo imperiale con la teorizzazione di Menandro Retore. Se Aristotele e Quintiliano nelle loro opere avevano già notato una vicinanza di principio tra elogio e deliberazione, senza però trarre alcuna conseguenza da quest’osservazione54, una novità in questo senso è rappresentata da Menandro, che fa rientrare il presbeutikos logos tra i discorsi
49 Per la definizione di melete si rimanda a Russell 1983; Anderson 1993, pp. 55-68; Nicosia 1994, pp. 93-116; Civiletti 2002; Pernot 2007 (1), pp. 209-234. 50 Si tratta di due arringhe di sostegno e, successivamente, di opposizione all’invio di soccorsi in Sicilia (Περὶ τοῦ πέμπειν βοήθειαν τοῖς ἐν Σικελίᾳ, or. 5; Εἰς τὸ ἐναντίον, or. 6 Lenz); due discorsi a sostegno della pace, pronunciati rispettivamente da un Ateniese nel 425 (Ὑπὲρ τῆς πρὸς Λακεδαιμονίους εἰρήνης, or. 7) e da un Lacedemone nel 414 (Ὑπὲρ τῆς πρὸς Ἀθηναίους εἰρήνης, or. 8); due discorsi sull’alleanza con i Tebani (Πρὸς Θηβαίους περὶ τῆς συμμαχίας λόγοι, orr. 9-10); cinque discorsi relativi alle conseguenze per Atene della battaglia di Leuttra (Λευκτρικοί, orr. 11-15). 51 Per lo sviluppo storico del presbeutikos logos dall’età classica a Menandro Retore vd. Pepe 2013, pp. 332-334. 52 Inst. 10, 1, 47. 53 L’elogio in molti casi può essere funzionale alla deliberazione, come già notato per l’orazione Ai Rodiesi, sulla concordia; vd. supra, p. 130. 54 Arist. Rh. 1, 1367 b 36 - 1368a 9; Quint. Inst. 3, 7, 28.
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epidittici55, riferendosi alle orazioni con cui gli ambasciatori d’epoca romana portavano le richieste delle proprie comunità all’imperatore o ai governatori delle singole province; questi discorsi in effetti, contenendo un duplice elogio, cioè del destinatario e del richiedente, potevano a buon diritto rientrare nel genere epidittico, mostrando come la demarcazione del limite tra l’oratoria encomiastica e quella deliberativa non fosse sempre netta56. Il Discorso d’ambasceria aristideo, proprio a causa del suo carattere fittizio, non rientra nella categorizzazione menandrea; in esso, infatti, l’elogio si riduce soltanto a un richiamo al coraggio di Achille (§ 29)57. Il discorso di Aristide, non affondando le sue radici in un contesto storico reale, è ben diverso dalle istanze presentate ai dominatori romani dai membri dell’élite greca, sia per la sua formulazione sia per gli scopi che si prefigge e pertanto può essere assegnato a pieno titolo al genere deliberativo. La natura retorica della materia del libro nono dell’Iliade58 ispirò ad Aristide la sua melete, basata su procedimenti articolati volti a mostrare, per opposizione, l’irrazionalità del comportamento di Achille. Anche a causa del carattere logico e retorico delle argomentazioni usate, sin dall’antichità si è pensato che, dei tre ambasciatori giunti presso la tenda di Achille, il possibile oratore dell’Ambasceria fosse Odisseo59. In effetti alcuni codici60 riportano il nome di Odisseo all’interno del titolo del discorso ed è probabile che questo fosse stato aggiunto da qualche copista che dopo il discorso aristideo si era trovato a trascrivere anche la replica di Libanio, ossia la V declamazione, nota come Πρὸς τὸν ̕Ὀδυσσέως ἐν λιταῖς πρεσβευτικόν ἀντιλογία Ἀχιλλέως, che nei manoscritti si trova spesso associata al Πρεσβευτικός61. È stato anche ipotizzato che il nome Ὀδυσσεύς fosse stato immesso sulla base delle sottoscrizioni dell’edizione aristidea più antica, secondo alcuni derivanti dagli appunti
55 Men. II, 423, 6 – 424, 2; vd. Russell-Wilson 1981, p. 181. 56 Pernot 1993, pp. 710-711. Sulla critica dell’appartenenza della melete ai soli due generi deliberativo e giudiziario e sulla presenza dell’elemento encomiastico in molte declamazioni sofistiche si veda Civiletti 2002 pp. 75-84. 57 Pernot 1993, p. 712 n. 238. 58 L’importanza di questo canto in ambito oratorio è messa in evidenza in Dentice di Accadia Ammone 2012. Sul Discorso d’ambasceria ad Achille come ‘variazione sul tema’ del nono libro dell’Iliade vd. Goeken 2014. 59 Delle tre suppliche del racconto omerico, quella di Odisseo appare infatti quella più improntata alla sagacia, mentre l’intervento di Fenice è volto a suscitare la commozione e le parole di Aiace, a loro volta, si caratterizzano per il tono veemente; tuttavia, tutti i personaggi adottano delle tecniche retoriche improntate alla persuasione, come mostra Dentice di Accadia Ammone 2012, pp. 176-202. 60 Dall’apparato critico dell’edizione Lenz-Behr 1976-1980, vol. 4, p. 799: ἀριστείδου πρεσβευτικὸς πρὸς ἀχιλλέα FKV (in hoc ὀδυσσεύς add. m. recentiss.) : πρεσβευτικὸς πρὸς ἀχιλλέα LaMaTU : πρεσβευτικὸς πρὸς ἀχιλλέα ἀποθέσθαι τὴν μήνιδα, i. m. ὡς ἀπὸ τοῦ ὀδυσσέως Va : ὑπὲρ ἑλλήνων πρὸς ἀχιλλέα ὀδυσσεύς q : ἀριστείδου πρεσβευτικὸς παρ’ ὀδυσσέως πρὸς ἀχιλλέα Lb. 61 Behr mette tuttavia in guardia dall’ipotizzare, come fa Förster nella sua edizione e come si registra da alcuni manoscritti tardi, che il discorso di Libanio fosse una risposta a quello di Aristide: non sarebbe infatti possibile affermare che Libanio pensasse che Aristide aveva in mente Odisseo come ambasciatore. Boulanger, da parte sua, sosteneva che Aristide avesse messo la declamazione in bocca a un quarto oratore dopo l’insuccesso dei tre precedenti. Vd. Förster 1903-1927, vol. 5, p. 287; Boulanger 1923, p. 273; Behr 1981-1986, vol. 2, p. 499.
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di Aristide stesso; sulla scorta di questa teoria, dunque, l’autore in persona avrebbe esplicitato ai suoi lettori il nome della persona loquens del discorso62. Occorre infine menzionare un dato interno all’opera di Aristide a supporto dell’identificazione dell’ambasciatore con Odisseo; nel Quinto Discorso Sacro (or. 51, 44) il retore parla di un sogno avuto nel corso di un viaggio a Cizico datato al quinto anno dopo il primo soggiorno nella stessa città, precisamente all’avvicinarsi delle feste dedicate a Olimpia; nel sogno l’oratore immagina di rivolgersi all’imperatore e, nel prendere la parola, si paragona proprio a Odisseo in ambasceria presso Achille. Ciò potrebbe contribuire a collocare cronologicamente il nostro discorso: se il riferimento all’episodio omerico e, di conseguenza, alla propria melete, non è casuale, si può avanzare l’ipotesi che la declamazione sia stata composta intorno al 169 d.C., cioè quattro anni dopo il primo viaggio di Aristide a Cizico del 16563. Sull’occasione di composizione e sulla destinazione del discorso, Boulanger, nel bollare le meletai di Aristide come «simples exercices d’école», esclude del tutto la possibilità che il retore le praticasse in vista dell’educazione di aspiranti retori, sostenendo quindi che con le sue declamazioni intendesse piuttosto intrattenere un pubblico di «honnêtes gens»64, ossia l’élite delle poleis greche del II sec. d.C. Per comprendere quali fossero il pubblico e lo scopo di queste declamazioni occorre tener presenti due aspetti. Innanzitutto, la melete era per i sofisti lo strumento più adatto a mostrare le proprie qualità oratorie e pertanto è plausibile ritenere che Aristide si sia dedicato a questo genere con lo stesso fine. In secondo luogo, la declamazione, oltre a rappresentare un evento sociale in cui il sofista faceva mostra della propria bravura, era un esercizio da proporre agli studenti delle scuole di retorica. Se è vero che Aristide non si dedicò durante tutta la sua vita all’insegnamento, tuttavia è fuor di dubbio che ebbe degli allievi; il più noto è sicuramente Eteoneo, per il quale l’oratore compose un epicedio, ma si ricordano anche Apella, proveniente da una nobile famiglia, e Damiano di Efeso. Nell’Epicedio per Eteoneo Aristide evoca a più riprese il tema oratorio, illustrando come la paideia del giovane defunto fosse di natura eminentemente retorica65. Dunque sembra plausibile ritenere che Aristide, nel produrre le sue meletai, tenesse presente sia il momento performativo vero e proprio,
62 L’ipotesi si trova in Moser 2000, p. 14. Si tratterebbe dunque dello stesso fenomeno constatato per alcune sottoscrizioni di epoca contemporanea a quella di Aristide, che risalgono all’autore stesso o a qualche personaggio a lui vicino e che si trovano in sei discorsi presenti nei manoscritti A, S e R; queste note contengono dati relativi alla vita dell’oratore e al contesto di composizione dell’orazione e non sono tratte dal discorso stesso né da altri luoghi dell’opera aristidea e devono pertanto derivare da una fonte indipendente; vd. Pernot 2007 (2), pp. 955-956. D’altro avviso rispetto a Moser è Goeken, per il quale Aristide avrebbe fatto pronunciare il discorso a un oratore non meglio precisato, come succede in altre declamazioni; vd. Goeken 2014, pp. 72-73. 63 Vd. Moser, pp. 3-4 e 16. 64 Vd. Boulanger 1923, p. 271. 65 Ciò si evidenzia in maniera particolare quando Aristide afferma che Eteoneo morì πανηγυρικὸν καὶ μελέτας βοῶν (§ 10), cioè proprio mentre era intento a declamare, e quando, in un momento di pathos, l’oratore esclama ὢ τοῦ τραγικοῦ δαίμονος, ὃς προδείξας ἀρτίως βουλευτήρια καὶ λόγους καὶ ζῆλον καὶ χαρὰν… (§ 13). L’esibizione mancata nelle sale di declamazione presuppone una solida esperienza che il pupillo di Aristide poteva aver acquisito soltanto attraverso un addestramento
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che poteva garantire successo mediante l’actio di fronte a un pubblico eterogeneo, sia la natura didattica del componimento66. Inoltre, considerato che nell’antichità l’epica occupava un posto primario nell’educazione67, il Discorso d’ambasceria ad Achille, trattando un tema omerico, poteva benissimo avere una finalità paideutico-retorica. Per quanto riguarda la cronologia del discorso, un’indicazione utile è fornita senza dubbio dal racconto del sogno avuto nel corso di un viaggio a Cizico raccontato nei Discorsi Sacri; un altro argomento a favore della datazione tarda è l’evocazione frequente dell’elemento barbarico, che sottintenderebbe un riferimento agli ultimi anni della guerra di Lucio Vero contro i Parti, da collocare intorno al 162-165 d.C. Il testo del Discorso d’ambasceria può essere diviso in una serie di sequenze piuttosto precise68: il discorso inizia con un invito a considerare i danni dell’ira eccessiva (§ § 1-3), per poi passare all’esortazione ad Achille a supportare i Greci contro i Troiani barbari (§ § 4-7); in seguito l’ambasciatore accenna alla perdita di fama da parte di Agamennone di fronte al suo esercito (§ § 8-9), per poi rivolgersi di nuovo al Pelide, sottolineando il contrasto tra il rifiuto di scendere in battaglia e la salvezza degli Achei (§ § 10-12) e facendo osservare quanto il dovere di combattere per la sua gente sia superiore ai sentimenti personali (§ § 13-15). Dopo aver fatto riferimento all’umiliazione subita da Agamennone (§ 16), di nuovo egli affronta il tema dell’incoerenza della condotta di Achille, sia rispetto alla guerra (§ 17), sia, con un’insistenza maggiore, riguardo all’acquisizione della gloria (§ § 18-25), valore ritenuto fondamentale nell’età eroica. Subito dopo l’ambasciatore invita Achille a porre un limite all’ira (§ § 26-28) e ritorna sul tema della reputazione, considerando quanto la viltà non si addica all’eroe (§ § 29-32); il discorso prosegue con la riflessione della inevitabilità del conflitto e della necessità di non rimandarlo (§ § 33-36). Segue un ulteriore ragionamento sulla giusta collera (§ § 37-38) e sulla necessità di dirigerla contro Ettore (§ § 39); l’Ambasceria si conclude infine con un nuovo appello a soccorrere i Greci con urgenza (§ § 40-41). Per quanto concerne le circostanze performative, la declamazione si immagina pronunciata in un’ora notturna, a causa del dato temporale τὴν ὥραν, νύκτα ταύτην69 collocato in chiusura e ribadito con l’invito ad Achille a mostrarsi ai barbari quando sorgerà il sole (ἅμα τῷ ἡλίῳ). È interessante anche notare come l’ambasciatore in più parti del discorso (in particolare § 14) moduli le frasi al plurale (οὐ τῶν αὐτῶν ἐστι τότε μὲν τὰ ἄλλα πάντα δεύτερα ποιήσασθαι, νῦν δὲ πρὶν ὧν ἕνεχ’ ἥκομεν πρᾶξαι διαστῆναι, o nel finale, ἔξιμεν… τίνας λόγους ἐροῦμεν… σπεῖσον μεθ’ ἡμῶν… τοὺς
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propedeutico. Vd. Berardi 2006, pp. 155-157. Sull’iter educativo delle scuole di retorica fondato sulla pratica delle esecuzioni declamatorie in pubblico prodotte dagli studenti, vd. Stramaglia 2010 e in particolare le pagine 126-128 dedicate all’Epicedio. A proposito dell’insegnamento della retorica attraverso i discorsi di Aristide si veda Vix 2010. Si è parlato a questo proposito di ‘educazione omerica’; vd. Marrou 1948, pp. 25-38. Vd. Behr 1981-1986, vol. 2, p. 499. Se l’editore del testo greco Friedrich Walter Lenz accoglie νύκτα ταύτην nel testo, sebbene sospetti che si tratti di uno scolio a τὴν ὥραν, ed espunge il successivo ἢ καὶ ἄστρα ταυτὶ, Behr, nelle note della sua traduzione, sostiene che νύκτα ταύτην sia una glossa e la espunge, mentre conserva il sintagma successivo; vd. Lenz in Lenz-Behr 1976-1980, vol. 4, p. 814; Behr 1981-1986, vol. 2, p. 501.
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πρέσβεις ἡμᾶς), lasciandoci supporre che non sia giunto da solo presso Achille, ma che faccia parte di un gruppo di più persone. In tutto il discorso vengono dispiegati vari argomenti utili a convincere Achille a deporre la sua ira e a tornare a combattere al fianco degli Achei; è possibile individuare quelli più importanti intorno ai quali l’oratore costruisce il proprio ragionamento persuasivo e osservare il modo in cui Camerarius li recepì e traspose in latino nella sua versione. IV.5.1 Sull’antigrafo alla base della versione di Camerarius
Da un confronto tra il testo greco di Camerarius pubblicato ad Haguenau nel 1535 e l’edizione moderna di Lenz del discorso 16 e il suo apparato è possibile ricavare alcune osservazioni, che lasciano aperta la strada per future ricerche sul modello impiegato dall’umanista tedesco. Innanzitutto appare degno di nota il fatto che nell’edizione più recente lo stesso Camerarius sia citato spesso in apparato, proprio perché possiede delle lezioni peculiari a sé stanti. Al di là di queste varianti, il codice siglato con Mb (Venetus Marcianus graecus 428) è il manoscritto che possiede il maggior numero di volte (ben 19) casi di coincidenza con il testo di Camerarius. In un’occorrenza questo manoscritto possiede una lezione comune a Camerarius separativa rispetto agli altri testimoni dell’apparato Lenz-Behr: dove in Lenz si legge ἧς τί (§ 17, r. 3), Camerarius e Mb hanno οὗ τί. Un altro manoscritto che possiede numerose lezioni (15) comuni a Camerarius è Mc (Venetus Marcianus graecus 440), che possiede una lezione che lo allontana dagli altri codici ed è comune al testo di Camerarius: dove infatti Lenz ha ταὐτὰ (§ 20, r. 8), i soli Mc e Camerarius, come già segnalato nell’apparato, hanno ταῦτα. In molte occasioni Camerarius possiede lezioni singolari non condivise da nessun ramo della tradizione; un esempio molto importante in questo senso è il saut du même au même al paragrafo 12, dove Camerarius passa da πότερον δεῖ τὴν παῖδα σώαν εἶναι ταύτην direttamente a (ἐι) ἀντὶ πάντων λειφθῆναι e traduce uel incolumem esse puellam istam uel amitti unam pro omnibus, utrum elegeris? Nell’edizione di Lenz invece compare il passo intero, senza l’omissione, πότερον δεῖ τὴν παῖδα σώαν εἶναι ταύτην, ἢ τὸ στρατόπεδον καὶ τὰ τῶν Ἀχαιῶν πράγματα; οὐκ ἂν οὔτε τὸν Δία τὸν σαυτοῦ πρόγονον τοῦτ’ ᾔτησας οὔτ’ ἄλλον θεῶν οὐδένα ταύτην ἀντὶ πάντων λειφθῆναι. È evidente dunque che Camerarius qui leggeva un testo con una lacuna generata dalla ripetizione di ταύτην a breve distanza. Un’utile direttrice da seguire per la futura individuazione del modello impiegato da Camerarius, come ha indicato anche Jean Luc Vix in più di un’occasione70 è la collazione di tutti i manoscritti che contengono sia la declamazione di Libanio sia quella di Aristide, in quanto l’umanista tedesco le ha pubblicate insieme, dopo averle ricopiate da un unico codice, nello stesso esemplare a stampa. Anche questo sarà uno dei prossimi obiettivi della ricerca sulla ricezione di Elio Aristide, al fine di completare il discorso portato avanti nei capitoli precedenti per gli umanisti italiani del XV secolo relativo ai manoscritti greci di partenza. 70 Vd. supra, n. 31.
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IV.5.2 La traduzione latina di Camerarius
Nel Πρεσβευτικός di Aristide compaiono alcuni nuclei tematici pregnanti a partire dai quali è possibile fare alcune riflessioni sia sul testo greco sia sulle scelte operate da Camerarius per la sua traduzione. I motivi principali, intorno ai quali si raggruppano lemmi ed espressioni che riflettono la forma mentis peculiare degli autori, sono l’ira e lo straniero. In una prospettiva linguistica e di intertestualità è possibile altresì individuare due aspetti, ovvero quello della resa di termini significativi non attestati in Omero e, dall’altra parte, quello della presenza di citazioni omeriche e della loro eventuale traduzione latina. Il confronto con l’Iliade risulta imprescindibile, dal momento che Aristide compose la sua melete tenendo presente, come già detto, il discorso d’ambasceria contenuto nel IX libro. Per quanto riguarda i due macro argomenti individuati, il tema dell’ira di Achille è senza dubbio uno dei principali dell’orazione, pertanto è interessante rilevare come Camerarius abbia scelto di rendere in latino la ricca gamma di espressioni impiegate da Aristide per indicare questo sentimento. Si è riscontrata una certa aderenza alla prassi aristidea di variare i termini di volta in volta: laddove l’oratore cambia il lemma o il sintagma atto a esprimere il concetto di ira, così l’umanista lo segue nel cercare un vocabolo equivalente in latino che non ripeta quelli precedentemente messi a testo. È possibile riconoscere il motivo dell’ira già dalle prime battute; l’orazione si apre infatti con alcuni termini chiave che fanno entrare il lettore in medias res: l’ambasciatore richiama il θυμοῦσθαι e il χαλεπαίνειν, “l’essere adirato e infuriato” di Achille (§ 1), evocando così con un’endiadi la peculiarità dell’indole dell’eroe nel poema iliadico; subito dopo menziona la causa dell’ira che risiede nella ὕβρις ricevuta. In questo modo già nelle prime righe dell’Ambasceria Aristide sembra colmare quel vuoto lasciato dai tre ambasciatori dell’Iliade, che nei loro discorsi non avevano fatto cenno esplicitamente all’offesa portata da Agamennone al Pelide, ma si erano piuttosto impegnati a prospettargli uno scenario luttuoso, parlando in maniera diffusa del disastro acheo e della pericolosa avanzata di Ettore con l’esercito troiano71. È possibile rilevare in Camerarius la resa dei due verbi con due sostantivi equivalenti, che hanno lo scopo di conservare l’endiadi presente in greco, retti da un unico verbo: così τὸ μὲν θυμοῦσθαί σε καὶ χαλεπαίνειν diventa ad iram indignationemque te concitasse. Si rileva l’occorrenza di indignatio per χαλεπαίνειν anche più avanti (§ 4), quando il delegato acheo sostiene che se è proprio necessario rimanere adirati, allora è meglio dirigere quest’energia contro i nemici. La protasi εἰ γὰρ δεῖ χαλεπαίνειν διὰ τέλους, “se bisogna essere adirati fino alla fine”, viene tradotta da Camerarius con Quod si in indignatione perseuerandum est, dove si osserva il passaggio da un moto dinamico espresso dal precedente ad… indignationem… te concitasse a una condizione statica, resa con in indignatione… est, che tiene conto dell’aggiunta in greco, rispetto al primo χαλεπαίνειν, di διὰ τέλους.
71 Proprio la mancanza della menzione della responsabilità di Agamennone avrebbe determinato il fallimento della supplica di Odisseo; vd. Dentice di Accadia Ammone 2012, pp. 182-183.
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I due sostantivi che ricorrono più spesso in greco per indicare l’ira sono ὀργή e θυμός; Camerarius per essi non compie scelte versorie particolari e in corrispondenza di ὀργή impiega due volte iracundia (§ § 3 e 6), e due volte ira (§ § 36 e 41). Sebbene opti per lo più per una resa latina costante funzionale a rispettare l’identità dei termini greci, come già rilevato per χαλεπαίνειν, tuttavia Camerarius è incline anche a una certa uariatio per non creare monotonia con la scelta di parole sempre uguali, proprio come fa Aristide; quando si trova ad esempio a tradurre θυμός sceglie la prima volta (§ 7) di renderlo tramite animi impotentia, mentre la seconda (§ 37) adopera lo stesso vocabolo adottato per ὀργή, cioè iracundia. Da ciò si deduce un’equiparazione ὀργή - θυμός, che risultano interscambiabili nella resa latina. Questo è evidente anche più avanti (§ 39), quando Camerarius, davanti alla frase greca εἰ δεῖ καὶ τῆς κόρης ἕνεκα ὀργισθῆναι, εἰς τοὺς Τρῶας ἀφήσεις τὸν θυμὸν… ;, “Se è necessario adirarsi a causa di questa ragazza, non scaglierai il tuo ardore contro i Troiani…?”, con cui il delegato acheo cerca di convincere Achille a stornare la sua ira contro i nemici, traduce Quin, si meretur puella ut pro se conciteris ira, conuertis hanc totam in Troianos…?, impiegando per τὸν θυμόν il semplice pronome hanc, che rimanda all’ira (ὀργισθῆναι) precedente. È degna di nota anche una resa inelegante, che rappresenta il limite della traduzione di Camerarius: nel rimproverare ad Achille il fatto di restare nella sua tenda mentre l’esercito acheo viene attaccato (§ 28), l’ambasciatore ricorre all’efficace figura etimologica τὴν μῆνιν (νὴ Δί’) ἣν μηνίεις (ταύτην ὑμνήσεις ὥσπερ θεόν;), “(celebrerai come un dio) quest’ira (per Zeus) da cui sei irritato?”, ma Camerarius non conserva il gioco fonetico - probabilmente per la difficoltà di creare un calco fedele in latino - e omette del tutto ἣν μηνίεις, come si osserva dalla frase latina corrispondente Ac fortasse tu discordiam uestram et tuum furorem ut numen celebras?, dove a tuum furorem, che traduce τὴν μῆνιν, aggiunge discordiam uestram, che è assente nel testo originale. L’espressione appena esposta si trova in una sezione dove Aristide impiega numerose figure collegate al tema del canto; oltre a quella appena menzionata μῆνιν-μηνίεις, l’ambasciatore nel suo discorso accumula una serie di corradicali e ripete gli stessi termini, come si osserva nella serie ᾄδων… ᾄδων… ᾄδειν… ᾄδης… μελῳδῶν. Camerarius non rispetta in latino la coincidenza: questi verbi sono resi rispettivamente con accinens… decantans… praebere carminis… celebras… hac tua uoce, pertanto nella resa latina si perde, a causa della ricerca della uariatio, l’anafora insistita del canto. Il tema dell’ira viene esposto nella declamazione anche tramite l’impiego una tantum di un vocabolo significativo atto a esprimere il punto culminante di tale sentimento; quando il delegato acheo domanda come sia possibile che un sacerdote barbaro e nemico per natura (scil. Crise) sia stato capace di deporre l’ira, mentre Achille, nella condizione di ottenere una molteplicità di benefici materiali da parte di Agamennone, non accenni ad abbandonare la sua ira (§ 26), egli chiede al Pelide εἰσαεὶ μενεῖς ἐπὶ τοῦ παροξυσμοῦ;, “rimarrai per sempre saldo in quest’esasperazione?”. In luogo dei classici θυμός o ὀργή, impiegati fino a questo momento, Aristide sceglie il termine παροξυσμός, che indica appunto l’ira (come in Dem. Contro Stefano A 45,14), ma anche il parossismo di una malattia (Hp. Aph. 1, 11, 12; Gal. 17b, 387); Camerarius, da parte sua, per esprimere al meglio l’idea di eccesso insita nel termine παροξυσμός non fa riferimento all’ambito medico, ma opta per l’endiadi (nihil) acerbitatis et uehementiae
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indignationis tuae. Ritorna dunque ancora una volta il ricorso a indignatio per indicare l’ira, come si è visto già a proposito di χαλεπαίνειν (§ § 1 e 4). Il riferimento all’ira come malattia ritorna anche alla fine della declamazione, quando Achille viene invitato a deporla ὥσπερ νόσον (§ 41); si tratta di un motivo ben noto nel mondo antico, in particolare tra gli autori latini, che, nel condannare questo sentimento senza riserve, lo paragonavano spesso a un morbo. Nella mentalità dei latini, infatti, non c’era spazio per una collera positiva, a differenza di Aristotele, che ammetteva l’esistenza di un’ira opportuna (Eth. Nic. 4, 5), ma anche dello stesso Aristide, che nell’Ambasceria parla a un certo punto di un θυμός μέτριος; ciò avviene nello specifico quando l’ambasciatore acheo riferisce di Chirone, mitico centauro precettore di Achille, che incontrò una volta sul Pelio un ‘tale etolico’, probabilmente Meleagro, e nel parlare con lui esaltò una collera controllata, affermando che θυμοῦ γὰρ ἔφη μετρίου μὲν οὐδὲν ἂν κάλλιον ἀνθρώπῳ γενέσθαι, “nulla sarebbe più degno per l’uomo di una collera misurata” (§ 37), tradotto in latino da Camerarius con (Aiebat enim) nihil esse moderata iracundia melius hominibus. Cicerone in più luoghi della sua opera, in particolare nelle Tusculanae disputationes (3-4) e Seneca nel De ira mostrano di ritenere l’ira una condizione dell’animo del tutto nociva, proprio alla stregua di una aegritudo animi. Il testo delle Tusculanae disputationes, come detto in precedenza72, era ben noto a Camerarius e all’umanista non deve esser sfuggito un passo in cui Cicerone traspone in latino, per illustrare ai suoi lettori che lo stato collerico non si confà all’uomo saggio ed è fonte di aegritudo, alcuni versi tratti proprio dal nono libro dell’Iliade: con Corque meum penitus turgescit tristibus iris, / Cum decore atque omni me orbatum laude recordor (3, 18) egli traduce infatti ἀλλά μοι οἰδάνεται κραδίη χόλῳ, ὁππότε κείνων / μνήσομαι ὥς μ’ ἀσύφηλον ἐν Ἀργείοισιν ἔρεξεν (Il. 9, 646-647), “ma mi si gonfia il cuore di rabbia, quando ricordo / quei fatti, come m’ha reso ridicolo in mezzo agli Argivi73”. L’altro tema rilevante del Πρεσβευτικός con cui Camerarius deve misurarsi è quello dei ‘barbari’ nemici per natura. Si tratta di un argomento assente nel poema iliadico alla base del discorso di Aristide ed è interessante osservare come esso sia stato inserito in una declamazione d’età imperiale, determinando così un’attualizzazione della materia omerica. Il traduttore recepisce questa tematica e la filtra attraverso la sua formazione ciceroniana, come si vedrà più avanti a proposito della resa di alcuni termini chiave adoperati per qualificare le due dimensioni dell’uguale e dell’altro da sé. Nel discorso aristideo l’ambasciatore tenta sin dall’inizio del suo discorso (§ 4-7) di persuadere il Pelide della necessità di rivolgere ogni energia e furore contro questi ultimi, anziché danneggiare con l’inerzia sé stessi e i propri compagni di battaglia. La proposta di indirizzare le forze contro i barbari è senza dubbio di ispirazione isocratea74 e rappresenta una novità rispetto al testo omerico, dove il termine 72 Vd. supra, p. 182. 73 Traduzione di G. Cerri. 74 Boulanger individua una corrispondenza precisa tra il passo dell’orazione 16, 4 τοῖς βαρβάροις… [καὶ] τοῖς φύσει πολεμίοις (dove Lenz espunge il καὶ sulla base di due ulteriori passi aristidei, 1, 281 e 8, 13) e l’isocrateo τοὺς βαρβάρους τοὺς καὶ φύσει πολεμίους ὄντας (Paneg. 184). Vd. Boulanger 1923, p. 274, n. 2.
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βάρβαροι non è mai presente, com’è assente l’idea di una natura barbara75. Il concetto di appartenenza a una precisa stirpe ricorre anche più avanti, quando l’ambasciatore fa allusione agli Achei come ὁμόφυλοι (§ 6). Anche la menzione dei Greci come Ἕλληνες76 - altro termine assente nell’Iliade, eccetto che nel libro 2, 684, dove gli Elleni sono gli abitanti dell’Ἕλλας, regione della Tessaglia facente parte del regno di Peleo - si riferisce a un popolo che riflette su sé stesso e ha una precisa nozione della propria identità. La stessa terminologia si ritrova peraltro in altri discorsi del corpus aristideo; emblematico è il caso dell’orazione Ai Tebani sull’alleanza I in cui si trova il sintagma ἡμᾶς ὄντας Ἕλληνας καὶ ὁμοφύλους77, in riferimento alla comune origine degli Ateniesi e dei Tebani; inoltre più avanti compare l’esortazione a combattere contro “i barbari”. Come nell’orazione Ai Tebani, anche nell’Ambasceria gli ‘altri dai Greci’ sono chiamati sia ἀλλόφυλοι che βάρβαροι, probabilmente per un sottinteso riferimento alle popolazioni non ancora sottomesse all’impero romano e pertanto non ‘civilizzate’. Da questi dati emerge la tendenza di Aristide a riproporre la materia omerica in un’ottica modellata sul proprio tempo e sui propri riferimenti culturali. È stato sostenuto a questo proposito che il presbeutikos sia un discorso figurato78 e che dietro l’immagine dei Troiani-barbari si celino in realtà i Romani, loro discendenti79. Se è indubbio che Aristide con la sua opera si rivolgeva a un pubblico ellenico pepaideumenos, conoscitore dell’epica omerica e connotato da un’identità culturale ancora molto forte, forse è azzardato leggere nell’antinomia Greci-Troiani dell’Ambasceria l’espressione di un dissenso, mentre appare plausibile ipotizzare un riferimento alle campagne di Lucio Vero contro i Parti, unici ‘barbari’ non ancora inglobati nell’orbita romana80. Di certo Aristide tramite l’impiego dei termini βάρβαροι e Ἕλληνες attualizza il testo omerico e lo fa in maniera consapevole. L’oratore si appella nuovamente al motivo
75 L’unico termine affine che compare nei poemi omerici è βαρβαρόφωνοι (Il. 2, 867), riferito ai Carii per il fatto di parlare una lingua difficilmente comprensibile. Se è vero che i Carii parlano una lingua barbara, tuttavia non hanno, in Omero, una natura barbara. Solo a partire dalle guerre persiane, tra il VI secolo e il V secolo i barbari vengono identificati con i Persiani. Ciò avviene nel momento in cui i Greci iniziano ad autoconcepirsi come Hellenes e a vedere le popolazioni ostili in un’ottica di alterità. Vd. Hartog 1996, pp. 87-115. 76 Cfr. παιανίζων ἐπὶ ταῖς τῶν Ἑλλήνων συμφοραῖς (§ 31) e ποτ’ ἦλθε τὰ τῶν Ἑλλήνων πράγματα (§ 40). 77 A proposito di questo passo è stato osservato che “la definizione dei Greci come Ἕλληνες è ampliata con la precisazione ὁμόφυλοι che rimanda all’opposizione ὁμόφυλος-ἀλλόφυλος, invalsa in età imperiale per classificazioni etniche in sostituzione dell’ormai desueta opposizione polare greco/ barbaro”; Capano 2012, p. 45. Su questo tema si veda Asirvatham 2000, pp. 213-221; 2008, pp. 212-216. 78 Sulla possibilità che gli oratori della Seconda Sofistica facessero velate allusioni alla realtà contemporanea attraverso l’uso dell’ἐσχηματισμένος λόγος si veda Pernot 2007 (1), pp. 209-234. 79 Vd. Moser 2000, pp. 60-63; Harris 2008, p. 2; Goeken 2014, pp. 77-78. Contrario alla teoria che l’opera di Aristide contenga critiche velate all’impero romano è Glen Bowersock, dal momento che i discorsi del retore, secondo lo studioso, sarebbero perfettamente integrati nella realtà storica a lui contemporanea; vd. Bowersock 2013, pp. 37-38. 80 Cfr. supra, p. 195. Allo stesso modo nella declamazione Ai Tebani I (§ 24) è possibile che Aristide, nell’evocare le guerre contro i barbari pensi ai Parti e che, attraverso la menzione del νόσημα, si riferisca all’epidemia di peste scoppiata nel corso della campagna di Lucio Vero del 165; vd. Capano 2012, pp. 149-150.
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della razza nel momento in cui accusa Achille di avvantaggiare Crise, ἱερεὺς βάρβαρος, e di non darsi pensiero ὑπὲρ δὲ τῶν ὁμοφύλων, ovvero delle genti della sua stessa stirpe (§ 11). Il termine impiegato da Aristide per indicare quelli della stessa stirpe, ὁμόφυλοι, è reso entrambe le volte da Camerarius con il sostantivo ciues. La prima occorrenza di questo lemma, che è usato per indicare gli Achei, riguarda un punto della declamazione in cui l’ambasciatore paventa l’eventualità che Achille appaia codardo agli occhi della società, qualora perseveri nella sua inerzia. Egli, rivolgendosi all’eroe, gli dice apertamente μισεῖν τοὺς ὁμοφύλους δοκεῖς καὶ φοβεῖσθαι τὴν μάχην, “Sembra che tu disprezzi i tuoi fratelli di stirpe e che temi la battaglia”; Camerarius traduce la frase greca con infensus esse ciuibus et pugnam declinare crederis. La stessa resa torna poco oltre, quando Achille viene rimproverato per il fatto di tenere in maggior conto un sacerdote barbaro, cioè Crise, rispetto ai propri compagni di razza; qui l’ambasciatore incalza il suo interlocutore chiedendogli come può ὑπὲρ μὲν τοῦ ἱερέως τοῦ βαρβάρου τὸν θεὸν ἀξιοῦν αἰδεῖσθαι, ὑπὲρ δὲ τῶν ὁμοφύλων τοσούτων τὸ πλῆθος μήτε θεοὺς τοὺς κοινοὺς μήτε ὁσίαν μήτε σπονδὰς ἐθέλειν αἰσχυνθῆναι;, “Ritenere giusto venerare il dio a vantaggio del sacerdote barbaro, mentre per una moltitudine della tua stessa gente non voler onorare né i nostri dei comuni, né la pietà, né le libagioni?”. Anche qui Camerarius opta per lo stesso vocabolo latino al fine di restituire in maniera coerente l’idea insita in ὁμόφυλοι e traduce l’interrogativa con Quod reuerendum barbari sacerdotis numen censueris, tot uero ciuium respectu non moueri te, neque communes deos, pietatem, foedus curare, cui non indignissimum uideatur? Per cercare di comprendere l’idea alla base della traduzione latina occorre guardare anche alla resa della parola opposta a ὁμόφυλοι, cioè ἀλλόφυλοι. Questa ricorre quando Aristide fa menzionare all’ambasciatore, tra le varie ragioni per cui i componenti dell’esercito acheo vennero spinti a partire per la guerra di Troia, l’oltraggio subito da parte di coloro che non appartengono alla stessa razza (ὑπὸ τῶν ἀλλοφύλων, § 13). Gli Achei risultano perciò motivati dal τὸ κοινῇ πάντας ὑβρίσθαι δοκεῖν ὑπὸ τῶν ἀλλοφύλων, cioè “il sembrare essere stati oltraggiati in comune da quelli diversi per stirpe”, espressione tradotta in latino da Camerarius con opinio communis contumeliae qua affecti ab alienigenis essemus. Per quest’ultimo termine è interessante notare come nel ThGL ἀλλόφυλοι sia presentato come il lemma corrispondente dell’alienigena latino e in maniera speculare nel ThLL ad alienigena sia accostato ἀλλόφυλοι, seguito da ἀλλοεθνής, suo sinonimo, e ξένος, più genericamente “straniero”81. Le attestazioni e gli impieghi del termine alienigena mostrano come già nella letteratura classica, riflesso della mentalità della classe dirigente romana, il concetto di alterità fosse presente e venisse letto in chiave negativa. Al duplice fine di esemplificare tale idea e di indagare le possibili origini della resa di Camerarius dei termini greci impiegati da Aristide può essere utile la menzione di alcuni passi ciceroniani in cui emerge la contrapposizione tra il diverso per natura e 81 Su alcune riflessioni relative al termine alienigena ringraziamo la dott.ssa Silvia Fusco, che ci ha gentilmente dato l’opportunità di consultare il suo elaborato di tesi triennale in Lingua e Traduzione latina dal titolo Usi e significati di alienigena dal primo Carmen Marcianum al primo secolo a.C., che la dottoressa ha discusso nel 2013 presso l’Università degli Studi di Torino e ha presentato anche nel corso di uno degli appuntamenti del Seminario di traduzione dal greco al latino tenuto dal prof. Ermanno Malaspina.
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incolto e il ciuis dotato di urbanitas. I passi in questione sono tratti da un’orazione, la Pro Fonteio, che Cicerone pronunciò nel 69 a.C. in difesa dell’ex governatore della Gallia Narbonese Marco Fonteio accusato di concussione da Marco Pletorio. Il contesto e gli argomenti impiegati dall’Arpinate si focalizzano sulla differenza di genere, secondo alcuni quasi razziale82, esistente tra Romani civilizzati e Galli barbari. Cicerone evoca infatti nella sua arringa la contrapposizione tra alienigenae e ciues per avvalorare la difesa di Fonteio, e ciò appare evidente soprattutto in tre momenti. Il primo di essi concerne la denigrazione dell’accusa, portata avanti da alcuni rappresentanti dei Galli; Cicerone chiede dunque Quae est igitur ista accusatio, quae (…) libentius ignotis quam notis utatur, alienigenis quam domesticis testibus, planius se confirmare crimen libidine barbarorum quam nostrorum hominum litteris arbitretur? (§ 4), “Che accusa mai è dunque codesta, che (…) preferisce strumentalizzare persone sconosciute piuttosto che conosciute, testimoni stranieri piuttosto che connazionali, che ritiene di poter dare una prova più schiacciante della verità dell’imputazione servendosi della passionalità dei barbari che non dei documenti dei nostri concittadini?”83. Cicerone continua sulla stessa falsariga nel cuore dell’argomentazione, allorché presenta gli avversari di Fonteio come degli uomini empi e irrispettosi del costume religioso romano. Egli chiede così all’uditorio come possano mai essere preferiti ignotos notis, iniquos aequis, alienigenas domesticis, cupidos moderatis, mercennarios gratuitis, impios religiosis, inimicissimos huic imperio ac nomini bonis ac fidelibus et sociis et ciuibus, “sconosciuti a delle persone conosciute, dei nemici della giustizia a chi della giustizia è rispettoso, degli stranieri a dei compatrioti, dei faziosi a chi è pieno di moderazione, dei prezzolati a chi è disinteressato, degli empi a dei pii, dei nemici a oltranza del nostro impero e della nostra gloria a degli alleati e a dei concittadini buoni e fedeli”. L’antitesi tra stranieri e persone note in quanto appartenenti al proprio gruppo sociale è qui ancora più marcata, come si evidenzia dalla presenza di sociis et ciuibus: chi sta accusando, avverte Cicerone, non può essere annoverato tra i concittadini, ma resta fuori da questa categoria e va di conseguenza ad aumentare la compagine dei ‘diversi per natura’. Infine, nell’ultimo appello ai giudici Cicerone torna a insistere sulla maggiore validità della testimonianza dei compatrioti rispetto a quella di chi è straniero, concludendo A quo periculo defendite, iudices, ciuem fortem atque innocentem; curate ut nostris testibus plus quam alienigenis credidisse uideamini, plus saluti ciuium quam hostium libidini consuluisse, “Allontanate, signori giudici, questo pericolo da un cittadino valoroso e innocente; fate sì che risulti evidente che avete prestato fede alle nostre testimonianze più che a quelle straniere, che vi siete
82 Se questa critica, che si fonda sull’osservazione dell’atteggiamento del tutto opposto tenuto da Cicerone alcuni anni prima nel processo contro Verre, può apparire un po’ troppo moderna, è interessante ricordare quanto sostenuto da Emanuele Narducci, che ha notato come Fonteio non fosse percepito come un oppressore alla maniera del governatore siciliano, perché mentre quest’ultimo era a capo di una cittadinanza italiana o comunque greca semi-romanizzata, il neogovernatore della provincia Narbonese aveva a che fare con una folla di barbari incolti quali erano, nell’ottica romana benpensante (che emerge del resto anche nel De bello Gallico di Cesare), i Galli. Vd. Narducci 2009, p. 132. 83 Le traduzioni dei passi della Pro Fonteio qui e più avanti sono di G. Bellardi; il grassetto è nostro.
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preoccupati della salvezza dei nostri concittadini più che dei desideri irragionevoli dei nostri nemici”. Dai brani appena citati emerge bene come uno degli argomenti fondanti della difesa ciceroniana risiedesse proprio nell’opposizione tra alienigena e cittadini; questo è evidente soprattutto nel secondo passaggio, con l’accumulo di aggettivi antonimici. Sembra indubbia la dipendenza di Camerarius da Cicerone, dal momento che l’umanista mette in luce la polarità insita nelle parole di Aristide impiegando gli stessi lemmi ciceroniani; si richiama a questo proposito ancora una volta l’importanza dell’opera ciceroniana espressa nel trattato De imitatione, dove l’arpinate è assunto come sommo exemplum da seguire84. La scelta di tradurre ὁμόφυλοι con ciues sarebbe dettata quindi all’umanista dall’esigenza di porsi sulla scia diretta dell’autore latino; traducendo con “cittadini” egli sceglie inoltre di dare al termine una connotazione politica, o meglio civica, che non è necessariamente implicita nella parola greca. Veniamo ora all’analisi degli aspetti linguistici in relazione al poema omerico, ovvero la traduzione di lemmi estranei all’Iliade e le citazioni omeriche. Si è visto come la contrapposizione tra barbari e membri della stessa stirpe sia una novità aristidea; la resa di Camerarius dei lemmi relativi a questa tematica denuncia una lettura dei classici latini, in particolare di Cicerone, che fornisce nella sua opera un lessico idoneo a esprimere tale concetto. Una lettura in questo senso è possibile anche per l’impiego di determinate espressioni che rimandano a un contesto poleico piuttosto che alla struttura sociale che emerge dal poema omerico e che pertanto concorrono, come l’antinomia ὁμόφυλοι-ἀλλόφυλοι, all’attualizzazione della materia omerica. Uno dei lemmi più significativi in questo senso è παρρησία, termine assente in Omero e che rimanda piuttosto all’Atene democratica del V secolo85. L’ambasciatore al cospetto di Achille chiede per sé a un certo momento la libertà di parlare con franchezza affermando καί μοι πρὸς Διὸς ἔστω παρρησία, δίκαιον γὰρ, ἄλλως τε καὶ παρ’ ἀνδρὶ τιμῶντι τἀληθὲς (§ 12), “e, per Zeus, possa io parlare liberamente; infatti è giusto, soprattutto di fronte a un uomo che onora la verità”. È interessante notare come Camerarius scelga di rendere l’espressione. Egli traduce la frase con liceat enim mihi libera uerba apud te, in primis amatorem ueritatis, facere; in particolare, nella resa di μοι… ἔστω παρρησία con liceat enim mihi libera uerba facere si osserva la compresenza del concetto di licentia, presente nel verbo liceat che traduce ἔστω e di libertà, che si ravvisa nell’attributo libera apposto a uerba. Tale unione riflette il pensiero e la discussione degli autori antichi sul valore da attribuire a una parola complessa e densa di significato come παρρησία. A proposito della resa di questo vocabolo in latino, è stata evidenziata l’oscillazione nella letteratura tra libertas e licentia86; la difficoltà di tradurre tale termine derivava ai Romani dal fatto 84 Vd. supra, pp. 182-185. 85 Nell’antichità la parrhesia, identificata con la “possibilità di dire tutto”, era antitetica alla phronesis, cioè la capacità di ponderare bene i propri pensieri prima di dar loro voce con la parola. Questo dato confuterebbe l’ipotesi che l’oratore del discorso 16 sia Odisseo, emblema per eccellenza della phronesis. Sul tema della parrhesia si rimanda a Foucault in Pearson 1985 (= 1996), e in Gros 2008 e 2009; agli studi di Spina 1986 e 2005; Sluiter-Rosen 2004. 86 Vd. Scarpat 1964, pp. 109-116.
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di vivere in un regime politico del tutto differente da quello greco dell’età classica, dove i cittadini, potendo godere di isonomia ed eleutheria, avevano ben presente la forte valenza democratica di questa parola. Il termine licentia, tra l’altro, connesso con libertas, nella mentalità del ciuis romanus dal semplice significato di “facoltà”, “liceità”, viene ad assumere un valore negativo, proprio come la democrazia ateniese, dove ciascuno poteva dire liberamente, almeno entro certi spazi, ciò che voleva87. La stessa compresenza individuata in Camerarius di licentia e libertas è attestata d’altra parte in Quintiliano a proposito di un tentativo di traduzione di παρρησία. A un certo punto della sua Institutio (9, 2, 27) egli prende le distanze da Cornificio rispetto alla licentia, vista ormai ai tempi quintilianei come la versione deteriore della libertas, cioè la possibilità di dire o fare ciò che si vuole senza alcuna remora, affermando che quod idem dictum sit de oratione libera, quam Cornificius licentiam uocat, Graeci παρρησίαν. Camerarius sembra dunque aver ben presente la tradizione classica; egli infatti sceglie di tradurre parrhesia sdoppiando il termine con le due espressioni liceat… libera uerba facere. La scelta versoria di Camerarius è molto vicina all’affermazione di Quintiliano (quod… de oratione libera…), e con essa egli sottolinea l’importanza retorica del termine con il richiamo ai uerba; attraverso l’uso di liceat, inoltre, fa riferimento anche alla possibilità, quindi a ciò che in latino è appunto, nel senso migliore e non deteriore del termine, la licentia. Nella declamazione, a riprova dell’aderenza di Aristide ai propri tempi, sono presenti altri spunti relativi a un contesto non più tipico dell’età eroica, bensì poleica, come nel caso in cui ad Achille viene riconosciuto il merito di aver lasciato vivo Agamennone, pur avendo la possibilità di eliminarlo; l’ambasciatore riconosce infatti, rivolgendosi al Pelide, che παρ’ αὐτὴν μὲν τὴν ὀργὴν οὕτω πολιτικῶς ἔσχες ὥστ’οὐδ’αὐτὸν τὸν Ἀγαμέμνονα ᾤου δεῖν τεθνάναι (§ 8), “nel corso della tua ira hai agito in modo così degno di una società civile che neppure Agamennone stesso hai ritenuto che dovesse morire”. Camerarius ha in corrispondenza di questa frase Atque in ipso quidem aestu ita ciuiliter iram excercuisti, ut iugulare Agamemnonem nolueris; osserviamo in latino non solo la traduzione puntuale di πολιτικῶς con il corrispettivo latino ciuiliter, ma anche un’amplificazione: laddove in greco Aristide dice semplicemente “hai agito in maniera così degna di una società civile”, l’umanista aggiunge che Achille ha “fatto uso dell’ira in maniera così civile”, rafforzando in tal modo il riferimento all’aestus evocato subito prima. È interessante inoltre rilevare una resa latina indipendente dal testo di partenza e leggibile con un’accezione civica, come nel caso di ὁμόφυλοι-ciues. Nel momento in cui l’ambasciatore contrappone passato e presente, egli ricorda con parole amare l’atteggiamento onorevole di Achille di un tempo con queste parole: τότε μὲν δόξαν ἀφώρμας δύναμιν συλλέγων τῷ στρατοπέδῳ, νυνὶ δ’ ἅπασι λελυμασμένος, “Mentre un tempo ti slanciavi in questa gloria, radunando forze per l’esercito, proprio ora hai oltraggiato tutti” (§ 30), enunciato tradotto da Camerarius con Quae plenissima
87 Cicerone credeva che la possibilità di dire ciò che si vuole non fosse identificabile con la libertà, ma piuttosto con la licentia; cfr. Cic. rep. (3, 13, 23): Si uero populus plurimum potest, omniaque eius arbitrio geruntur, dicitur illa libertas, est uero licentia.
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futura sit turpitudinis, cum illis per summam gloriam auxeris rem publicam. La frase latina si presenta alquanto diversa rispetto all’originale: l’umanista inverte l’ordine di idee del testo greco collocando in primo luogo la vergogna che deriva dal cambio di condotta (turpitudinis…), proiettandola nel futuro, e poi il passato glorioso, mettendo in evidenza l’opposizione tra i due tempi con un cum + congiuntivo (cum… auxeris); è probabile che Camerarius qui abbia avuto difficoltà con l’espressione δόξης ἀφορμὰς, presente sul suo testo greco, in luogo di δόξαν ἀφώρμας, lezione accolta da Lenz. Il confronto tra il testo greco di Camerarius e l’apparato di Lenz mostra che qui l’umanista doveva seguire una lezione affine a quella di Mb, cioè il Marc. Gr. 428 nel conspectus dell’edizione Lenz-Behr, che ha sia δόξης sia ἀφορμὰς88. Oltre alla costruzione e alla resa, che si caratterizzano per una certa libertà rispetto al modello, si osserva in latino anche l’inserimento di rem publicam, con l’aggiunta dunque di un’idea di ‘stato’ che in greco è assente e che va ad avvalorare l’ipotesi di un’insistenza, da parte di Camerarius, su un concetto più innovativo di civiltà rispetto a quanto espresso in primis da Omero, ma anche dallo stesso Aristide. Nonostante la presenza di termini ‘moderni’, Aristide non manca affatto di riprendere in maniera più o meno puntuale alcuni versi o spunti dell’Iliade, riferimento imprescindibile per la sua declamazione. Camerarius, da parte sua, era ben consapevole di questo riuso grazie alla sua conoscenza diretta del poema omerico ed è possibile che nello stendere la sua versione lo tenesse presente, come mostrano alcuni punti della sua resa. Ad esempio, quando l’oratore menziona per la prima volta i δῶρα offerti e promessi da Agamennone per esortare Achille a tornare a combattere, egli si rifà a due passi iliadici che contengono il medesimo fine persuasivo: il motivo dei doni di Agamennone infatti è presente sia nel discorso di Odisseo (Il., 9, 261 ss.) sia in quello di Fenice (Il., 9, 515-516), sulle cui parole (εἰ μὲν γὰρ μὴ δῶρα φέροι τὰ δ’ ὄπισθ’ ὀνομάζοι / Ἀτρεΐδης…, “se il figlio di Atreo non ti portasse doni, se non te ne assicurasse per il futuro…”) Aristide modula le proprie (καὶ δῶρα τὰ μὲν δίδωσι, τὰ δ’ ἐπαγγέλλεται, “ti offre doni e altri ne promette”, § 1). Camerarius traduce il passaggio aristideo con et dona offerat, partim quae iam adeo percipias, partim quae paulo post pollicitus exoluat; nella frase latina si nota subito l’amplificazione, che ha lo scopo di rendere più chiara la contrapposizione partim… iam… partim… paulo post; in più è lecito ipotizzare che l’umanista, grande conoscitore di Omero, come dimostra il suo commento ai primi due libri dell’Iliade e anche nello specifico del nono libro89, avesse tenuto in considerazione anche i versi omerici, dal momento che inserisce nel latino post, che è assente in Aristide e corrisponde all’ὄπισθεν iliadico. Un altro punto in cui Camerarius sembra più vicino al testo omerico è quello in cui il delegato, nel presentare come folle la rinuncia da parte di Achille alla possibilità di salvare al contempo la donna amata e l’esercito acheo, afferma che οὐ γὰρ μόνων τῶν Ἀτρειδῶν ἦν τὰς ἑαυτῶν γυναῖκας φιλεῖν (§ 12), “giacché non era prerogativa dei soli Atridi amare le proprie donne”. Si tratta di un’eco dei versi di Omero ἦ μοῦνοι
88 Vd. Camerarius 1535, p. 28; Lenz in Lenz-Behr 1976-1980, vol. 4, p. 810. 89 Vd. supra, p. 182. Per Camerarius studioso di Omero vd. Bleicher 1972; per lo studio specifico del nono libro dell’Iliade vd. Ben-Tov 2009, p. 171.
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φιλέουσ’ ἀλόχους μερόπων ἀνθρώπων / Ἀτρεΐδαι; …, “Amano forse le loro compagne soltanto gli Atridi / fra tutti gli uomini?…” (Il. 9, 340-341). Per questo passaggio è probabile che l’umanista tenesse presente il dettato omerico traducendo con Sed non Atridae tantum suas coniuges diligunt, resa che ci sembra più aderente ai versi iliadici che ad Aristide per l’assenza dell’idea di peculiarità (“è proprio di…”) espressa tramite il verbo εἰμι + genitivo. In un altro momento della declamazione Camerarius sembra però attenersi più ad Aristide che al testo omerico; sempre a proposito dei δῶρα di Agamennone, l’ambasciatore, nel dire che questi non potrebbero mai fare leva sull’animo di Achille, impiega un’immagine iperbolica contenuta nella frase οὐδ’ ἂν τὴν ψάμμον καὶ τὴν κόνιν παρέλθῃ τῷ πλήθει (§ 23), “neppure qualora superasse la sabbia e la polvere nel loro numero”. Qui è presente la ripresa puntuale di un verso della replica del Pelide a Odisseo contenuta nell’Iliade (9, 385: οὐδ’ εἴ μοι τόσα δοίη ὅσα ψάμαθός τε κόνις τε). Camerarius traduce questa frase senza particolari modifiche con etiam si arenae et pulueris uincant numerum, anzi mostrando con numerum, che corrisponde a τῷ πλήθει, di tenere in maggior conto la soluzione aristidea rispetto al verso omerico. IV.5.3 Conclusioni sulla traduzione di Camerarius
La traduzione di Camerarius del Discorso d’Ambasceria ad Achille è improntata a una generale correttezza; Camerarius non compie fraintendimenti e al contempo le sue scelte lessicali denotano una conoscenza dei testi classici latini. Le rese di termini chiave come parrhesia o dell’opposizione omophyloi/allophyloi, di primaria importanza nel mondo antico, sono la dimostrazione di un approccio problematico al testo di partenza e di una volontà di interpretazione che va al di là della traduzione uerbum de uerbo; esse inoltre denunciano anche i modelli letterari dell’umanista, in primo luogo Cicerone. L’imitazione dello stile ciceroniano, che si riscontra nel riuso di espressioni del celebre oratore latino, era presente a Camerarius all’atto della traduzione. Oltre a Cicerone, che resta il modello principe, il traduttore era con ogni probabilità lettore dell’opera di Quintiliano e, senza dubbio, dell’Iliade di Omero. La versione di Camerarius denota una rilevante padronanza sia del greco, come si evince dalla parafrasi greca dei luoghi omerici della scena dell’Ambasceria omerica pubblicata insieme alle edizioni e alle versioni dei testi di Aristide e Libanio, sia del latino, come abbiamo appurato dall’analisi della versione, che rispecchia in pieno la complessità del pensiero aristideo. Tuttavia, occorre mettere in luce alcuni limiti della traduzione di Camerarius; l’umanista tende a non cercare la trasposizione di figure retoriche greche nel suo testo latino, mostrando così di non voler elevare il proprio dettato in senso letterario. A differenza dei traduttori precedenti di Elio Aristide si ha pertanto l’impressione che gli intertesti, rilevabili a livello di singoli lemmi, contribuiscano a denunciare un orizzonte di formazione piuttosto che a fornire un’opera stilisticamente elaborata. Camerarius probabilmente aveva tradotto Aristide con un intento didattico, proprio com’è stato mostrato per il commento al
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primo libro dell’Iliade90, ed è plausibile che l’augurio che egli formula nell’epistola prefatoria, cioè di essere riuscito a rendere in maniera adeguata la prosa aristidea, rientri nell’obiettivo di fornire uno strumento utile a comprendere al meglio dei testi percepiti come difficili per l’impiego di uno stile caratterizzato da una ricchezza di incisi e da una arguta subtilitas. È possibile ipotizzare che i discorsi di Aristide e Libanio, parte di un curriculum di studi avanzato, fossero proposti da Camerarius ai suoi studenti in dialogo con l’opera di Omero. A tal proposito si può sostenere a ragione che il motivo principale alla base dell’interesse di Camerarius per gli opuscoli (opellae, come le definisce lui nell’epistola) dei due retori risiedesse da un lato proprio nel loro rapporto con la materia omerica, dall’altro nel rinnovato interesse per la retorica nell’età della Riforma protestante, com’è testimoniato dai summenzionati scritti di Melantone e Camerarius sull’arte della parola91.
IV.6 Edizione dell’Oratio Vlyssis legati ad Achillem authore Aristide IV.6.1 L’esemplare 1 If 30 della Bibliothèque du Grand Séminaire di Strasburgo
Per la nostra edizione dell’Oratio Vlyssis legati ad Achillem di Joachim Camerarius ci siamo serviti dell’esemplare con segnatura 1 If 30 della Biblioteca del Grand Séminaire di Strasburgo92. Il volume ha una rilegatura in pelle posteriore al 1564, che è la data della più recente delle edizioni rilegate, e anteriore al 1581, data d’acquisizione da parte del Collegio di Molsheim. Una mano del XVI secolo ha vergato con inchiostro nero nel retro della copertina (lato anteriore), in basso, la parola Philologi[a], forse in riferimento al contenuto del volume. L’esemplare riunisce quattro edizioni del XVI secolo così intitolate: – Antoni Houaei haecmundani abbatis echternacensis electi Zuermondiu, uel de temporis nostri statu ac conditione dialogus. Coloniae, apud Materno Cholinum MDLXIIII; – Luciani dialogi (opera senza frontespizio né pagina finale, quindi senza data); – Contra Aristogiton, Demosthenis orationes due doctissimae, à Philippo Melanchtone iam primum latinitate donatae. Item alia quaedam, quorum titulos in proxima pagella lector reperies. Haganoe per Iohan. Secerium Anno M.D. XXVII, Mense Augusto; - In libello hoc insunt Πρεσβευτικός Ἀριστείδου - Ἀντιρρητικὸς Λιβανίου. Hoc est quid dici amplius ab Vlysse legato ad Achille et responderi ab hoc potuerit. Vtraque oratio conuersa in latino a Ioach. Camer. Eiusdem et paraphrasis graeca Homerici utriusque loci addita est. Habent studiosi artium egregium exemplum scholasticum cuius, ut opinor, simile non uiderunt. Hagan. An. XXXV (i.e. Haguenau 1535).
90 Vd. supra, pp. 182-183. 91 Vd. supra, pp. 178-181. 92 Si veda per questo volume la sezione Lire Aristide en Alsace, Bibliothèque du Grand Séminaire de Strasbourg su classicalsace.unistra.fr.
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La divisione delle opere di Camerarius contenute nel volume, che è provvisto di una numerazione per pagine, è la seguente: – pp. 3-12: lettera prefatoria; – pp. 13-33: testo greco del Πρεσβευτικὸς εἰς Ἀχιλλέα di Elio Aristide; – pp. 34-80: testo greco del discorso di Libanio; – pp. 81-100: testo greco di una μετάφρασις ἐν πεζῷ λόγῳ τοῦ πρεσβευτικοῦ ἐν Ἰλιάδος Ι; – pp. 101-103: traduzione latina del discorso di Aristide; – pp. 133-207: traduzione latina del discorso di Libanio. Sul frontespizio, in basso, con inchiostro nero compare la scritta liber Collegii Molshemensis Societatis Iesu 1581, mentre a p. 207 c’è la nota liber Collegii Societatis Iesu Molshemii anno 1581. Lo stato del volume è buono; i testi greci di Aristide e Libanio hanno ricevuto parecchie annotazioni marginali (traduzioni latine, parafrasi, osservazioni lessicali etc.) a opera di un lettore colto, che ha sottolineato e annotato anche le altre edizioni che compaiono nel volume. Il libro è stato stampato nell’atelier di Pierre Brubach93, successore di Johann Setzer nell’attività tipografica ad Haguenau dal 1532 al 1536. Egli fu probabilmente un allievo di Melantone e pubblicò numerosi scritti relativi alla Chiesa riformata, tra i quali spiccano le traduzioni latine di Opsopeus delle opere composte in volgare da Lutero. Egli pubblicò molti testi di autori classici, tra cui Isocrate, Sofocle, Luciano tra i greci, mentre per il settore latino Giustino, Virgilio e Orator, Topica, Pro Archia e Pro Milone di Cicerone annotate da Melantone. Dall’officina di Brubach uscirono anche alcune versioni latine di testi greci come quella delle Filippiche e dell’Economico pseudo-aristotelico a opera di Christoph Hegerdorf, Sofocle, Aristide e Libanio da parte di Camerarius e infine, Isocrate tradotto in latino da Giorgio Sabino (Schüler)94. IV.6.2 Criteri editoriali
Per l’edizione dell’epistola e della traduzione abbiamo trascritto il testo tentando da un lato di uniformare determinati fenomeni, dall’altro di rispettare la prassi grafica del testo originale. Abbiamo dunque provveduto a sciogliere sempre le abbreviazioni e a ripristinare i dittonghi, qualora essi si trovino nella stampa originaria sotto forma di e cedigliata. Abbiamo eliminato nell’epistola lo scempiamento, frequente ma non omogeneo, di littera e delle forme derivate (ad es. literarius), ripristinando la forma classica, e abbiamo sostituito nella traduzione le forme caussam (§ 10) e autores (§ 39) con causam e auctores. Nel rispetto dell’ortografia dell’originale abbiamo conservato nel testo le forme utranque per utramque, l’uso di foelix per felix e relativi derivati, tanquam per tamquam
93 Vd. Hanauer 1904, pp. 94-100. 94 Sulle traduzioni di Isocrate realizzate da Giorgio Sabino vd. Gualdo Rosa 1984, pp. 100-102.
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e abbiamo mantenuto l’alternanza del gruppo ti / ci seguito da vocale (ad esempio: amiciciae, precia, ocium; excellentiae, pestilentiam). Nell’epistola prefatoria abbiamo provveduto a sciogliere alcune particolari abbreviazioni; abbiamo infatti integrato l’intestazione IOACHIMVS CAMERARIUS QV. Ludouico Carino humanissimo doctissimoque Iuueni S. D. con IOACHIMVS CAMERARIVS QV(AESTOR) Ludouico Carino humanissimo doctissimoque Iuueni S(alutem) D(icit), desumendo il lemma Quaestor da altre opere in cui il nome dell’umanista compare accompagnato dallo stesso appellativo, come si legge ad esempio sul frontespizio dell’edizione del 1536 del volume Planetae ac menses duplices. Disticha95. Abbiamo quindi esplicitato nella nostra edizione la data posta in calce alla lettera Calen(dis) Ian(uarii) salutiferi M.D. XXXV (1535). Per quanto riguarda la punteggiatura, abbiamo rilevato nel testo di Camerarius una generale correttezza nell’uso del punto fermo e della virgola, mentre di frequente abbiamo sostituito i due punti con il punto e virgola.
95 Baron-Shaw 1978, p. 235. Nelle prime righe del frontespizio si legge Ioachimi Camerarii Quaestoris Opuscula aliquot elegantissima.
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Ioachimus Camerarius Quaestor Ludouico Carino humanissimo doctissimoque Iuueni salutem dicit
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1. Incredibili me uoluptate affecit aduentus nuper tuus, Carine, eoque maiore quo minus expectatus ille speratusue, quasi inquinauerat hanc opinione sua. Itaque tum, et si facies et uox tua plane significabat qui esses, tamen nomen idque infixum pectori nostro statim non sucurrebat nobis, scilicet retentum maximo gaudio. Sed mihi ille multo etiam gratior multoque delectabilior extitit, posteaquam cognoui de sermonibus tuis adesse te in comitatu Limpergii Iuuenis, generis quidem claritate praestantissimi, sed uirtute longe etiam praestantioris. 2. Etsi enim iucundissimo semper motu tangit animum meum cognitio litterariae culturae, quam persequantur ii quos fortuna reliquis excellere uoluit, quod illorum uita in utranque partem propter eminentiam plurimum momenti habeat moueatque in primis studia et uoluntates uulgi, tamen huius Iuuenis hac in parte foelicitas pene immodica me laeticia perfudit. 3. Venit enim in mentem gentilis ipsius laudatissimi Principis Pabebergensis, qui qualem uitam egerit ex omnium ordinum querelis de morte eius intelligi potest, neque enim quisquam est uirtutis bonarumque artium amans, qui post tam longum tempus deplorare illam desierit. Ac mihi quidem, ut alia taceam, satis est argumenti et familia et gentili suo dignam hunc Iuuenem mentem gerere, quod te assumpserit asciueritque sibi qua de re, et ob amorem familiae illius et curam patriae meae, exultat animus meus gratulatione et spe, quarum altera debetur Clarissimi Iuuenis generi, cuius propinqui de patria nostra publice nobisque priuatim optime meriti sunt, altera cupidissime a nobis fouetur desyderio eruditionis et uirtutis, quam exortam florentemque cum ubique gentium tum apud nos maxime cernere gestio. 4. Sed redeo ad te, mi suauissime Carine, ac quonam munere quaue gratificatione excipiam te aduenientem quaero, quem et humanitatis ipsius et nostrorum hominum morem esse scimus. Diuites quidem et qui beati uulgo putantur aurum, argentum, aes donant; alii epulis exquisitis amicos excipiunt, uina mittunt, conuiuia instruunt. Sed non haec mihi uis, non tibi talium res est aut animus delitiarum egens. Vtinam reliqua quoque meo iure subtexere atque ita ut tu certe gaudes carminibus, carmina possemus donare tibi. Verum hac in parte et ipse sentio quam sint exiguae ac potius nullae facultates meae et non grauatim concedo aliis hanc laudem famamque studiorum; non tamen ita me infeliciter impendisse labores et uigilias a puero meas confido, ut nullus mihi in officina Musarum locus esse debeat. Qua autem re te, doctissimum Iuuenem, delectatum uehementius iri existimem quam litteratis muneribus? 5. Excussi igitur nidulos Musaei nostri et offerentes se nobis quasdam opellas per quidem tenues illas, sed tamen non omnino, praesertim hoc tempore, contemnendas, institutas dudum nunc absolui et tibi pro munere amiciciae ac hospitii misi; dicerem et clarissimo Iuueni Limpergio. Non enim dubito quin libenter et haec a nobis suscepturus et studium nostrum admissurus fuerit, nisi illius excellentiae maius et sublimius opus a nobis elaboraretur. Sed quod aiebam, hoc maxime tempore non contemnenda mihi haec uisa: eiusmodi est ut, quamuis bene alteque creuerint eruditionis quasi germina, tamen, ut fructum conuenientem etiam ferant, accurata cultura et fortasse nondum multum uulgoque usitata opus esse iudico.
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(1) Il tuo arrivo di poco tempo addietro mi ha dato una gioia incredibile, o Carino, e, essendo (la gioia) tanto più grande quanto meno quello era atteso o sperato, tale evento aveva come guastato questa per la sua fama. Pertanto allora, anche se il volto e la tua voce mostravano chiaramente chi tu fossi, tuttavia anche quel nome impresso nell’animo non ci veniva subito in mente, sicuramente in quanto frenato dall’enorme letizia. Ma l’arrivo mi è apparso molto più gradito e piacevole dopo che sono venuto a sapere dai tuoi discorsi che prendi parte al seguito del giovane Limpergio, di stirpe eccezionale per fama, ma ancor più insigne per virtù. (2) Per quanto senza dubbio con un’emozione sempre molto piacevole tocchi il mio animo la conoscenza letteraria, a cui aspirano quelli che la fortuna ha voluto che si elevassero su tutti gli altri – la loro vita infatti ha la massima importanza nell’una e nell’altra parte a causa dell’eccellenza e muove più di tutti gli altri le passioni e i desideri del popolo – tuttavia il successo di questo Giovane in tale ambito mi ha riempito di una gioia quasi smisurata. (3) Viene dunque in mente lo stesso nobile onoratissimo principe di Bamberga, di cui è possibile capire quale tipo di vita abbia condotto dai lamenti di ogni tipo relativi alla sua morte, e non c’è infatti nessuno che ami la virtù e le belle arti che dopo un periodo così lungo abbia smesso di piangerla. E a me senza dubbio basta come prova, per tacere le altre cose, che questo Giovane sia disposto degnamente verso la famiglia e verso il suo parente, poiché ti ha preso e ti ha accolto con sé, riguardo alla qual cosa, sia per l’amore della sua famiglia sia per la cura della mia patria, il mio animo esulta per la riconoscenza e la speranza, delle quali una è dovuta alla discendenza dell’illustre Giovane, i cui familiari hanno reso, riguardo alla nostra patria, favori altissimi pubblicamente e a noi in privato, l’altra è alimentata moltissimo da noi per mezzo di un desiderio di erudizione e di virtù, che desidero ardentemente vedere esaltata e prospera sia presso genti di ogni dove sia soprattutto presso di noi. (4) Ma torno a te, mio carissimo Carino, e medito con quale favore e con quale piacere accogliere al tuo arrivo te, che sappiamo essere della stessa cultura e indole dei nostri uomini. Certo, i ricchi e quelli che sono considerati felici dal popolo regalano oro, argento e bronzo, altri ricevono gli amici con banchetti squisiti, inviano vini e preparano conviti. Ma tu non vuoi da me queste offerte, cose di tal genere non ti si addicono, né il tuo animo sente la mancanza di tali delizie. Magari potessi aggiungere altri componimenti a mio piacimento e donarti versi, di modo che tu certamente possa rallegrartene! Ma in questo campo io stesso sento quanto siano esigue e piuttosto nulle le mie facoltà e non concedo con difficoltà ad altri tale lode e fama negli studi, tuttavia confido di non aver speso i miei sforzi e le mie notti insonni sin da ragazzo in maniera così inutile che non debba esserci per me nessun posto nell’officina delle Muse. D’altra parte per quale motivo dovrei ritenere che tu, Giovane dottissimo, verrai molto più dilettato in altri modi che con dei doni letterari? (5) Ho frugato pertanto le piccole dimore del mio Museo e poiché si sono offerte a noi alcune operette tra quelle di pochissima importanza, ma tuttavia non del tutto trascurabili, soprattutto in questo periodo, preparate da un po’, ora le ho portate a
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6. Animaduerto enim, cum optima res cecidit, adolescentiam e studiis litterarum et artium euadere bellulam ac uenustam, quasique, ut dicam, uernantem; constantiae quidem et firmitatis in paucis signa notare potui. Nulla autem est melior rectiorque cultura quam exemplorum et exercitii uerarum praeceptionum et doctrinae ueteris in quo genere poni iure haec nostra debere arbitror, non quatenus a me sunt tanquam propagata – parui enim et ipse mea pendo neque tam per se, quam imitationis gratia spectari uelim – sed quod horum est ex antiquis sophistarum scholis, e quibus magnam utilitatem studiosos litterarum, si ut diligenter ita neutiquam temere illas frequentarint, percepturos esse affirmare ausim. 7. Haec mihi sunt missa quondam ab amico et necessario nostro doctissimo uiro Vincentio Obsopoeo, qui descripsisset e peruetusto codice Domini Christophori Pistorii, paedagogi principalis in aula Marchionis uicini ciuitatis nostrae, quorum utrique, si quibus horum lectio fructum delectationemue attulerit, gratiam habere debebunt. Sane oraueram Vincentium saltem πρεσβευτικόν ut conuertere in linguam Latinam uellet, sed cum cessante ipso ualetudinario peteretur a typographo libellus, nostram quidem misimus traductionem, sed si quo pacto fieri poterit, etiam ab illo curabimus impetratam adiungi. 8. De genere ipso scripturae uerba facere in praesentia non lubet neque necesse esse arbitror. Quod autem ad argumentum attinet, est πρεσβευτικός Aristidae tanquam δευτερολογία quaedam, qua Homerici Achillis orationi potuerit responderi. Libanius uero Rhetoricas omnium ληκύθους uidetur impendisse, ut ita faceret loquentem Achillem, ne cui posteriori orationi locus relinqueretur. Itaque multo sunt omnia quam apud Homerum pressiora, quaedam etiam meo iudicio sane tenuia et a persona dicentis abhorrentia. His addidimus nos παραφράσεις utriusque Homerici loci, cum ueteri tanquam paterna eloquentia plane pueriliter balbutientes καὶ ὑποψελλίζοντες. (9) Quas equidem non est cur lecturis uel commendare uel abiicere nimium uelimus, consecutumque omnia me putabo, si ad similes conatus studiosos litterarum prouocauero. Idem et de uersione dixero, de qua ne astute agam, siue uero iudicio seu fauore, splendidius sentio quam ut nihil fieri merito posse credam, cum sperem de hoc genere quodam singulari commatico ac argutae subtilitatis, ita translatas sententias in Latinam linguam a nobis, ut et illae expressae et huius proprietas custodita esse uideatur; ἀλλὰ γένοιτο καὶ ταύτης περί, ὅπερ τῇ τύχῇ φίλον.
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termine e te le ho inviate come dono di amicizia e ospitalità, e direi anche all’illustre giovane Limpergio. Non dubito infatti che accoglierà da noi con piacere anche queste opere e che il nostro impegno non sarà perso, a meno che non elaboriamo un’opera più grande e sublime di quella prova di eccellenza. Ma, tornando a ciò che dicevo, non mi pare conveniente che vadano disprezzate in particolare in questo momento opere di tal genere che, per quanto si siano distinte bene e in profondità, quasi al pari di germogli di sapere, tuttavia, affinché portino anche un frutto opportuno, credo che necessitino un tipo di educazione raffinata e forse non ancora del tutto ordinaria. (6) Mi accorgo infatti, quando le cose vanno nel modo migliore, che l’adolescenza viene fuori dagli studi delle lettere e delle arti elegante e aggraziata, quasi, per così dire, rifiorita; ho potuto veramente osservare le tracce della perseveranza e della costanza in pochi. D’altra parte nessuna educazione è migliore e più corretta di quella degli esempi e dell’esercizio dei veri insegnamenti e della dottrina antica, nel cui genere credo che occorra riporre giustamente queste nostre opere, non in quanto da me sono per così dire diffuse – infatti le considero mie e di poco conto e non vorrei che fossero valutate di per sé quanto per l’imitazione -, ma ciò che di esse viene dagli antichi insegnamenti dei sofisti, dai quali oserei affermare che gli studiosi di lettere otterranno grande utilità, purché le abbiano frequentate non solo con diligenza, ma anche in modo assolutamente non superficiale. (7) Queste un tempo mi sono state inviate dall’amico e nostro congiunto, il dottissimo Vincenzo Obsopeo, che le aveva trascritte da un antichissimo codice del nobile Cristoforo Pistorio, maestro principale nel palazzo di Marchione della nostra vicina città, a ciascuno dei quali, qualora la lettura di tali opere avrà apportato a qualcuno frutto e diletto, si dovrà essere grati. Certamente avevo chiesto a Vincenzo se volesse tradurre in lingua latina almeno il “discorso d’ambasceria”, ma, dato che lui stesso indugiava poiché era malato, dal momento che il libretto era richiesto dal tipografo, abbiamo inviato proprio la nostra traduzione, ma se sarà in qualche modo possibile, ci preoccuperemo che sia inserita anche quella da lui ultimata. (8) Non è opportuno dilungarsi sul genere stesso dello scritto e non credo che sia necessario. Per quanto riguarda l’argomento, però, il “discorso d’ambasceria” di Aristide è come una sorta di ‘secondo discorso’, con cui si potrebbe rispondere a quello dell’Achille omerico. In verità sembra che Libanio abbia impiegato le ‘ampollosità retoriche’ di tutti, per far parlare Achille, cosicché non fosse lasciato spazio a nessun discorso successivo. Pertanto tutte le espressioni sono molto più concise che presso Omero, alcune anche del tutto leggere a mio parere ed estranee al carattere di chi parla. A queste noi abbiamo aggiunto ‘parafrasi’ dell’uno e dell’altro luogo omerico, con l’antica, per così dire, paterna eloquenza, farfugliando e ‘balbettando’ in maniera del tutto infantile. (9) Certo non è perché vorremmo raccomandarne troppo o svilirne la lettura, e riterrò di aver conseguito pienamente il mio obiettivo, se avrò incitato gli studiosi delle lettere a simili imprese. Allo stesso modo farò per la traduzione, sulla quale per non comportarmi in maniera astuta, che sia invero per giudizio o che sia per favore personale, la penso in maniera troppo positiva per credere che non se ne possa cavare nulla di buono a buon diritto, dal momento che spero riguardo a questo stile particolare pieno di incisi e di vivace acutezza che le frasi siano state da noi tradotte in
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10. Te, mi Carine, rogo ut haec nostra accepta tibi esse patiare et, quando ita ueteres factitarunt et consentaneum est, dabis operam ut munerationis similis, id est litterariae, aliquid nobis rependas, cuius, quicquid erit, certum habeo futurum tale ut pro nostris χαλκοῖς a te χρύσεια reddita esse appareat. Sed, si aestimatione uirium precia rerum fieri par est, cum quae potuerimus a nobis elaborata fuerint, satis preciosa haec uideri debent; quod, si et tu feceris, non uidebuntur preciosa tua, sed omnino erunt. De quo quidem tu uideris siue institutum iam ante opus, seu potius nouum remittere uelis: tuam enim esse electionem decet, mihi sane δῶρον γ’ ὅττι κε δὴ δοίης Non quidem κειμήλιον erit nobis, ut ille adolescens ait, sed una cum multis edito propositoque communi utilitati perfruemur. Vale. Calendis Ianuariis Anni salutiferi 1535
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latino in modo tale che sia quelle siano ben espresse sia che la proprietà della lingua d’arrivo sia custodita; “ma avvenga anche riguardo a questa ciò che è caro alla sorte”. (10) Ti prego, mio Carino, di sopportare di buon grado l’offerta di questi nostri doni, e, dal momento che gli antichi così hanno fatto abitualmente ed è ragionevole, ti impegnerai a ripagarci con qualche offerta simile, cioè di natura letteraria, di cui, qualunque cosa sarà, sono certo che sarà tale che sembri che in cambio dei nostri ‘pezzi di bronzo’ siano dati da te ‘pezzi d’oro’. Ma, se è giusto che il valore delle cose venga fissato sulla base della stima dei mezzi, dal momento che è stato realizzato da noi ciò che era nelle nostre possibilità, è necessario che esso appaia abbastanza prezioso; e a questo proposito, se anche tu avrai agito così, le tue opere non sembreranno, ma saranno in tutto e per tutto di gran pregio. E riguardo a ciò sembra o che tu abbia già preparato l’opera in precedenza, o piuttosto che tu voglia concederne una nuova; conviene senza dubbio che la scelta sia tua e che proprio a me “tu faccia un regalo”. Non sarà affatto un ‘cimelio’ per noi, come ha detto quel giovane, ma, una volta pubblicato e diffuso, godremo insieme con molti altri della sua comune utilità. Stai bene Calende di gennaio dell’anno salutare 1535
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Oratio Vlyssis legati ad Achillem authore Aristide
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1. Non est Achille, uir fortissime, inconueniens ad iram indignationemque te concitasse ea quae per summam contumeliam perpretata in te scimus, sed hactenus tamen et nunc tandem si compescueris efferuescentem animum, reprehensione omni cariturus uidere. Ego quidem, si in pristina sententia persisteret Agamemno, siue detrectaret confessionem peccati, deprecationis prouinciam non coepissem patererque te indulgere cupiditatibus animi tui. Nunc uero cum ad obtestationes ille descenderit et dona offerat, partim quae iam adeo percipias, partim quae paulo post pollicitus exoluat, quis redarguat oratione confitentem delictum? Sed ut per illum aperta uia est defensioni tuae, ita me Achille impetrabilem deprecatorem admittere debebis. Quod nisi feceris, uide ne absurdum sit, primum te permanere in sententia tua, cum ille mutarit suam, (2) deinde odium erga eum tuum nos luere? Si enim uniuersis succenses, dic quaeso quo commerito nostro? Sin alios culpa liberas, cum in eodem uersemur omnes discrimine, quae iusta causa cur nos deseras afferri a te poterit? Scilicet quo inuisiorem haec eum nobis reddant inquies? At ego uereor ut iam qui oderint superstites magis futuri sint, tanta est in bello cadentium crebritas. 3. Quo modo autem, per Deos immortales, in te animatos Graecos nunc esse credis? Profecto metuendum, ne speratum studium erga te illorum hac peruicacia tua commutetur, neue indignationem ab Agamemnone suam transferrant in te. Noli enim putare non tam te immoderatum iri uisum qui infinitam iracundiam tenueris, quam illum culpandum qui author huius extiterit. 4. Sed ut de his taceamus, non magis tuum est Achille iusti odii, quam communis sociorum salutis rationem inire. Quod si in indignatione perseuerandum est, uidetur hoc aduersum barbaros faciendum, quibus ipsa natura inimicitias nobiscum intercedere uoluit quibusque maximis de rebus atrocissima crimina intendere possimus. Quae igitur haec est peruersitas, Agamemnoni te infestum esse, qui nuper offendit animum tuum, eos autem qui hostes in lucem nobis editi sint, non solum inuiolatos uelle, sed etiam esse sociis tuis, cum quibus illi te primum conspicati fuere, tantopere superiores? 5. Nam, per deos immortales, si certum fixumque est animo tuo delere uniuersum exercitum, quin mox te cum barbaris coniungis includisque nos in medio uestri, hinc a Sigeo inferens signa, illis ex urbe irruentibus? Sed hoc nimirum ferri tibi nullo pacto uidetur posse, qui tamen nihilo segnius nunc facias cum barbaris perdasque nos ocio et cessatione tua, quibus quidem ipsis, quod nemo quae gerantur fugere te putet, species socordiae non abest, (6) ut duplici iam probro onereris: nam et infensus esse ciuibus et pugnam declinare crederis. Quod tu certe minime facis. Quae cum ita se habeant, primum omnium tibi constituendum, utrum duobus his praepositis suscipere malis, ut uel omnem animi saeuitiam effundas in nos, siquidem adhuc iracundia praeualet oppressa mente tua, uel hac usurpante rationem et intelligentiam et ipsa tibi constes neque in diuersum trahi te sinas, neque parcas nobis ut sociis, deseras uero ut hostes. Atque hoc tibi persuadeas, quae nunc agis eo esse nocentiora quam si cum barbaris nos oppugnares, quo grauiorem esse proditionem legitimo bello constat. 7. Tu uero si nunc aduenerint a Priamo legati amicitiam societatemque petentes, non, ut opinor, admiseris illos in tabernaculum tuum, at idem tamen quae Troiani optauerint factis tuis exequere desidiaque tua et animi impotentia subuertis
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omnia et quoniam a ferro igneque abstines, ideo misericors tibi uidere. Nec idem sane interrogatus cur facias utrisque dicere habeas, pari tamen euentum et a nobis et ab illis discedis. Vel ut plane loquatur, opitulari uis neutris, cum hostibus faueas, qui tot sunt modis superiores nobis. 8. Atque in ipso quidem aestu ita ciuiliter iram excercuisti, ut iugulare Agamemnonem nolueris; mori enim, ut apparet, eum oportere non censuisti, nuncque uno conseruato cuius tibi interficiendi potestas erat nemini omnium uitam relinquendam esse ducis. Atqui multo erat rectius una cum aliis uel indignum illum tueri, quam committere ut propter ipsum uniuersi funditus delerentur, daturum ex hac re natum supplicium tibi. 9. Dic enim mihi, quid aliud uolueris, quam infamem eum maledictis incessi et inuisum esse totis castris? Sed hoc et ab iis eum manet, qui ad hoc usque tempus interiere et iis qui posthac conseruabuntur. Cedem enim illis procurasse Agamemno uidebitur, qui societate ipsis belli tuam eripuerit iniuriis suis, hi autem ope tua extra omnes mortales salutem se retinuisse fatebuntur, ut quantum per eum stetit, nemo uiuat magis, quantum autem per te, nemo omnium interierit. 10. Iam mihi et causam considera dissidii uestri, quod nulla certe alia fuit quam cura salutis Graecorum tua. Nam et frequentia funerum motus, concionem aduocasti et Calchantem hortatus es ut confidenter, quae sciret, eloqueretur, qui cum formidare se malum diceret ab aliquo praestantiore se quem forte offendisset iudicio suo, iureiurando eum confirmasti, quod diceres te eum non deserturum. Ita Calchas protulit causam pestilentiae Agamemnoque ira in ambos exarsit neque tu tamen nisi perfecta re salutis nostrae destitisti. 11. Quomodo igitur conuenit, quorum caussa inimicitias suscepisti, eos per illas nunc interemptos uelle? Et cum fortunae aduersitates correxeris, te studiose exitium nobis moliri? Neque admittere mentionem eorum, pro quibus uota tunc diis immortalibus nuncupaueris? Quid? Quod reuerendum barbari sacerdotis numen censueris, tot uero ciuium respectu non moueri te neque communes deos, pietatem, foedus curare, cui non indignissimum uideatur? Quae etiam inconstantia est, dudum amicam neglexisse, ut nos salui essemus, nunc autem cum illius ademptione cupere commutatam uniuersi exercitus euersionem. 12. Quod si daretur optio tibi Achille, – liceat enim mihi libera uerba apud te, in primis amatorem ueritatis, facere -, uel incolumem esse puellam istam uel amitti unam pro omnibus, utrum elegeris? Iam uero cum simul hanc tibi, simul retinere Graecis uitam suam concedatur, magisne cordi tibi erit carentia huius, et Graecorum perditio. Cui autem non praepostere factum a te uidebitur, si malum malo permutare scisse dicaris, quae uero absque detrimento habiturus esses, eorum praetulisse priuationem? Sed non Atridae tantum suas coniuges diligunt. 13. Quis id ait? Immo hac etiam in parte fortuna belli admirabilis reperitur. Nam si initio expeditionis unicuique nostrum hoc uenisset in mentem, Menelaus suae coniugis gratia copias cogit, cur ego igitur derelictis, uxore, liberis, decrepitis parentibus, domo, familia, extra Graeciam classe uehar ad bellum ubi uitae discrimen ad eundum sit, quae omnibus mortalibus preciosior una esse consueuit et prior, quam alia omnia bona, sicut fortissimus Graecorum definit: haec in animum si quisque suum induxisset, omnino excercitus comparatus non fuisset. Verum duo erant, ut arbitror, quibus tum mouebamur, coniuratio antecedens, diui certe alicuius prouidentia et opinio communis contumeliae qua affecti ab alienigenis essemus quodque illos
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impune hanc auferre pati non deberemus, fortasse et tertium hoc, aequum esse parere iis qui cum imperio essent. 14. Sed quae caussa nos ad bellum congregarit, quid attinet quaerere? Prius certe dissolui atque confecta re quam propter rem omnia reliquerimus, indecorum ac turpe, neque consentaneum praetextui expeditionis, sed expeditioni ipsi contrarium fuerit. Etsi profecto nihil est simile teque oro Achille ut benigne audias non te accusantem, sed cupientem lenire. Cum enim puella non redderetur tibi, poterat uideri non reprehendendum propositum tuum, at ille non hanc modo restituit, sed insuper alias septem offert, ut caetera innumerabilia dona omittam. 15. Neque te fugit si Troiani reducere Helenam et rependere ablatas cum ipsa res uellent, disceptationi locum non futurum, adiicientibus uero et sua, qua uoce repelli possent? Nam haec nostra initio postulata fuere, sed facere neque illorum quisque uoluit et tibi qua spoliatus fuisti nunc reuertitur ea cum multis. 16. Sed expetis fortasse et ultionem acceptae contumeliae, quid? An non habes et quidem maximam? Nam ut taceam interemptos tot milites, quale tibi uidetur, formido et humilitas illius? Nunc enim prorsus ipsam regiam personam exuit, supplex tibi pro imperatore et ex ingenuo seruus factus et in sola, si uerum fatendum, misericordia omni spe posita, quamuis eum aliis omnibus fortuna praetulerit. 17. Velim et haec, si quidem memoranda sunt, Achille cogites, qua quondam cum copiae cogerentur, promptitudine belli societati te obtuleris. Statim enim ad conspecta arma prosilusti, quamuis annis minor et inter uirgines absconditus esses, quis ergo non uitio tibi dederit, nunc arma non capessere, sed praetextus quaerere perdendarum rerum, cum sis grandior et filius tuus ad eam aetatem excreuerit, ut et ipse in consilio et acie uersari possit, neque quisque tecum famae claritate sit conferendus, quique non dubitarit relinquere charissimum, ut aequum est, natum uxoremque dignitate et genere comparem, eum istius alterius puellae gratia diuersa statuere de republica, uide ne uix in Deidamia nedum uiro cuius et mentio honorifica uidetur, tolerabile fuerit. 18. Audiuimus etiam differentem te de gemino fato exposito a matre, cui planissime esset exploratum. Equidem animi dubius sum utrum serio an ioco prouectusque studio contendendi, dixeris. Non enim haec tua oratio, neque congruens cum rebus a te gestis uidetur esse. Sed dixeris maxime serio, inter haec tamen ipsa consilium licet ineas dedecoris uitandi. 19. Ac ego quidem existimo in primis adduxisse te ad hanc sententiam genetricem tuam, cum ad eandem pro uiribus instructus et a patre et magistro tuo esses. Nam in hoc potissimum illa summa fuerit indignitas, te in expositione et cognitione fati tui, tantum praestitisse animi robur, ut gloriam et honestatem, non solum ignobilitati, sed etiam longaeuitati anteposueris, electa autem et constituta meliore parte, te mutare sententiam et ferri in diuersum, quique tum uita tua potiorem putaris exercitum, nunc minoris una muliercula illum pendere, uel potius uno muliebri casu. 20. Maioremque te honorem habere puellae isti quam uel tibi ipsi, uel communi Achiuorum. An non enim et pluris illam te ipso facis, cum gloria tibi charior salute tua fuerit, puella autem ista sit gloria? Quin hoc pacto et matrem mendacii et te insipientiae conuincere uideberis. Statim enim, his cognitis, in patriam remigrare ad quietem et ocium, penes iudicium fuit animi tui, implicatum uero belli in exercitu periculis, non tenere propositum, hominis fuerit inconstantis et leuis, quod in te non sine maxima turpitudine tua dici uere poterit, cum tanta cupiditate laudem uirtutis et integritatis sequare. Neque enim aliud loquentes ac
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sentiant tantummodo uanitatis accusaueris, sed eos etiam qui subinde eadem de re sententiam suam mutent, aliique iam atque dudum inueniantur. 21. Ne hoc quidem Achille effugiat cogitationem tuam, nondum ab imperatore coacto milite, esse sui iuris et suum quasi imperatorem unumquemque, postea uero quem locum ordinemque sibi assignatum occuparit, tenendum hunc esse, aut improbum nihilique perhiberi. Nunc igitur non te quidem deliberare in re integra quisque dicet, sed inde quo adductus propria uoluntate sis et propemodum a signis discedere, quod tibi si per somnum occurrat, pudori maximo futurum pro certo habeo. Bene et laudabiliter factum est a te, qui statuisti non esse longam uitam expetendam homini absque uirtute et honestate actionum. Vbi autem praecones puellam adducere a te uidisti, ideo ingenium animusque tuus alius est factus? Desine Achille subire uelle duplicis probri utriusque deterrimi iudicium, formidinis et perfidiae, quae ne inimicorum quidem tibi quisque obiecit. Nam obsecro te, quid ageres si horum te Agamemno argueret? 22. Ac ego quidem existimo omnium rerum exitus deo relinquendos, quod cernis nobis omnibus esse constitutum, nihil enim est hac in re opus remota sapientia, sed nemo ignorat multo praestare pacem bello, sed et aeuum sine dimicationibus, periculis, sanguine transigi non posse, non tamen iccirco fidem fallimus, relinquentes deo quae ipsius dominii sunt, uiri autem esse proprium ducentes effugere censum improbitatis iis in rebus quae ratione et consilio gubernari soleant. 23. Verum enimuero indigna ais te munera esse, neque passurum ut percellant animum tuum, etiam si arenae et pulueris uincant numerum. Egregie dicis, uir clarissime, agnoscoque iam sermones tuos, neque author tibi sum ut donis moueri te ad subueniendum Achiuis sinas, ego enim hoc facere ausim, et tam contemptum de te sentire? Immo tu hoc tribues aequitati et officio, munera autem, si uoles, ut amicitiae signum admittes, aut si repuleris, non pugnabo. De affinitate etiam uacuo animo consultaueris. Non enim sum tam imperitus, ut, si ego suaserim, te arrepturum statim esse sperem. 24. Tu uero et illum ingenue facere, cum haec offert, credes, alia autem erunt quae te excitent et in acie sistant, nimirum ea quae ipse paulo ante commemorauisti, eximia et nullis bonis comparanda facinora. 25. Sed cuius fuerit absurditatis ac impudentiae, coepisse te ductorem militis nostri, duodecim urbes mari, terra autem una minus, cum nulla cura tui rerumue tuarum tangere, non fatigationis, non discriminis, non assidui laboris, non conseruandae quam cuique charissimam esse affirmas, animae tuae tuaque Achiuos opera locupletes beatosque esse factos, nunc uero te illis expetitum salutis auxilium denegare. Vnde, obsecro te, uirginem istam habes, praetermittam enim alia, nonne de beneficiis erga nos tuis, est enim inter haec cum alio ex lorocum tum etiam Lyrnessi expugnatio, itaque non isti uirgini exercitum, sed huic aliisque rebus a te gestis ipsam pro cumulo accedere aequum fuerit? 26. Hoc autem omnem peruersitatem uidetur superare, Chrysen recepta filia non ulterius progressum execrationibus tanquam contra hostes, sed irae suae hunc finem fecisse, hominem barbarum et naturae instinctu aduersarium nostrum atque etiam periclitatum de uita, te uero cum et reddatur tua tibi puella et tot illi addantur, cum pecunia, oppidis, regionibus, affinitate quae quamuis ingentia, ut non esse admirationi tibi, ita neque contemni oportere censeo, nihil tamen remittere acerbitatis et uehementiae indignationis tuae. 27. Chryses quidem precibus suis auertit pestilentiam et tu dubitas succurrere
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laborantibus in bello? Atque ille geminam declarauit uim Achiuis, unam interitus multitudinis, quem execratione, alteram communis salutis, quam precibus suis obstinuisset, tu uero unam modo et eam quidem interitus imitandam tibi proponis, atqui multo erat satius ostendere hanc salutis, quam illam alteram usurpare, hanc refugere. Sane cum indignum duxeris ut tuam amicam retineres exercitum prodi. Cur metuis conseruationem huius illa recuperata? 28. Et nunc Hector omnia ferro et flammis obit proque nihilo putat Troiam solummodo defendere, at tu hic sedes fidibus accinens, hoc igitur quaeso te facies aliorum res decantans? Sed praestabat aliis materiam laudabilem praebere carminis. Ac fortasse tu discordiam uestram et tuum furorem ut numen celebras? Utinam non intempestiua hac tua uoce funera Achiuorum resonet tabernaculum! 29. Mox te uideri cupis amantem uitae tuae neque pudet te mentiri aduersum naturam tuam. Quem autem tam leui puerilique ingenio esse credis, qui persuaderi sibi passurus sit Achillem amore uitae suae ad iactum telorum non accedere, quod sciat mortuis ab inferis reuersionem non esse. Quae effutiret alia Phocensis Epeus? Immo hic quoque in pugilum certamine mallet oppetere mortem quam palmam aduersario tradere. Huiusmodi igitur in Thersiten conuertent, uel si quis Thersitae est similis. Tu uero obsecro Achille, ne nugare, neue arroga timiditatem, cum qua nihil tibi sit commercii. 30 Non enim fidem facies neque nobis neque, ut arbitror, ipsi tibi. Sed iam nauem deduxeris in mare et solutis illis fereris in altum. Poteris autem Nereidum cognatarum tuarum pudorem sustinere, in tam dissimili a prioribus hac nauigatione tua? Quae plenissima futura sit turpitudinis, cum illis per summam gloriam auxeris rem publicam. 31. Quid ego dicam terrestres propinquos tuos, an illis hoc factum tuum dignum inuenietur, qui ad obsidionem huius urbis quondam aduecti, non ante retro pedem tulere, quam expugnationem confecissent imperatori suo. Quod uero, per deos te obtestor Achille, quod nomen impones sacrificio crastino, de quo aiebas, uocabis ne gratiarum actionis, uel quid aliud? An non pudet te facere deos quoque testes facinorum tuorum, sacrificiis, libationibus, cantu prosequens calamitatem sociorum, qui tibi persoluere omnia uidentur, cum oculos confers in campum refertum cadaueribus eorum, qui nescio ante quot dies sub tuis auspiciis in acie steterint. 32. Quae etiam quaeso futura est species nauigationis tuae, quaeue oratio eorum qui uiderint aut audierint. Num dubitas quin ad hunc modum locuturi sint? Reuehitur in patriam Achilles. Quid secum ille ducit spoliorum? Quid diis exemptum e praeda? Quas coronas ac praemia domum reportat priuatim suis, publiceue ciuitati? Appellentur ne etiam honeste naues tuae Scyro. Quid ibi dices filio, quibus uerbis probabis laudes tuas uxori? Sed nihil moror Scyron et uxorem tuam, quid Troiani nonne te fugere, desperata salute, si maneas, perhibebunt? Scilicet in tanta ignominia contingere sibi uelit aliquis Priami cum Nestoris senecta concretos annos? 33. At tu hoc quidem non facies, desidebis tamen hic dum Hector, omnibus caesis, ad tabernaculum tuum copias adducat, tum tu illis ostendas qui uir sis. Si usque adeo uiribus abundas, Achille, turpissimum fuerit expectare te hoc tempus internicionis exercitus ac non illis potius ad omnium incolumitatem uti uelle, sin est hac in re non nihil difficultatis faciendum certe tibi, ut dum licet, opem nobis feras.
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34. Ac mihi quidem minime incredibile est, uel solum te satis atque etiam superiorem futurum uniuersis barbaris, omnino autem occasionem ipsam et tempus plurimum posse arbitror. Non ideo solum, quod gloriosior excellentiae istius ostentatio futura in magna turba spectantium esse uideatur, uerum ideo quoque, quia tum necessitate adactus a te perpulsasse hostiles impetus, nunc uero prodire ad propugnationem excitatus precibus tuorum, existimabere gratiaeque plurimum lucri facies. 35. Fieri etiam nequit ut quasi cellarius belli promas quae tu uelis, acciderintque forte cum laetis et tristia nonnulla et aliquis perierit acceptissimus tibi. Vtque alios faciam missos, quid prohibet nos qui abs te compellamur amantissime, ad quorum conspectum exiluisti, quibus cratera illum protulisti et iussisti misceri meracius, una cum aliis in strage interemptorum iacere et madefacere terram post hanc libationem sanguine nostro, statuique in Hectoris uictoria crateras et accini laeta carmina, te, pro magne Iuppiter, superstite? 36. Quid fiet autem si captis castris et nauibus incensis charissimam tibi puellam et ipsam iugularint, aut inter alios captiuos receperint, quae nunc caput est totius negocii. Quid si Agamemno abstractam a te statim, uel intra tuum tabernaculum necari curasset, lubet audire qualis in hunc euentum erga ipsum futurus, quaue mulcta ac precio redimi beneuolentiam tuam passurus fueris, qui acquiescere nolis, illo et remittente uiuam et iusiurandum dante quali tu maxime delectari debeas, sed eousque procedas irae, ut nisi ab uniuersis poena tibi pendatur, per nationes, ciuitates, corpora etiam singulorum, iniucundam uitam tibi futuram putes. Vide ne quando istam puellam oderis, propter quam funditus deletus fuerit tantus exercitus. 37. Narrare tibi uolo sermonem Chironis magistri tui, quem cum quodam Aetolo habuit quondam in Pelio. Aiebat enim nihil esse moderata iracundia melius hominibus, immodica uero nihil deterius. Nam hanc apud inimicos finiri ultione et poena illorum, eum uero qui excerceat perpetuo malo consumi. Quare Achille, cauendum tibi ne quid agas neu patiare indignum. Cogitare etiam debes omnibus rebus a natura quasi terminos quosdam constitutos, neque quicque in terris sempiternum esse, non bellum, non pacem, non beneuolentiam, non odium, non quicquam aliud. 38. Ergo hi inuenti sunt amicitiae quae intercederet cum rege tibi, dissidii autem nulli erunt? Atqui longe rectius fuerat amicitias immortales esse, quam his fortunae succumbentibus, iram intercidere non pati uelle. Duo autem numina deorum omnia humana circumeunt, Nemesis et Iusticia, quae supra sortem humanam attolli animo non sinunt, neque illis quicquam est procliuius quam ex magnis paruos facere. Tibique huius rei exemplum e longinquo non est petendum, qui enim dudum te spreuit, quem non est iam infra humilitate? 39. Velim autem existimes, haec a nobis dici nostris quidem uerbis, sed re ipsa Hectoreos esse sermones quos audias. Cuius maledicta et ferocia quid memorem? Quod uero somno te obrutum oppressurum se gloriatur neque cedere proauum suum Dardanum Aeaco tuo, et praetendere te indignationem formidini suae asserit, mihi auditu intolerabile uidetur. Pro quibus quis tuo nomine ultionem exiget Achille? Exurge tu tandem obsecro te per omnia Deorum numina. An tibi non dolet hactenus dilatam esse uindictam, nec detrimentosam putas quantulamcunque moram? Quin, si meretur puella ut pro se conciteris ira, conuertis hanc totam in Troianos auctores tristiciae tuae? Qui nisi turbantes bellum mouissent, magnumne an parum quicquam aduerse hoc in loco cedidisset?
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40. Veniat hoc quoque tibi in mentem Achille, inter Aeacum ac te Pelea solum esse, Aeacum inquam ad quem olim unum res Graecorum deuenerint. Quod ipsum tibi ad laudem aptissimum uidetur, nam si rationem aui sequi uolueris, gloria illum superabis, cum illius auxilium uotorum et precum fuerit, tu autem opem ferens laborantibus reipsa, omnium uotis satisfacturus sis. 41. Postremo hoc Achille, ut est, miserabile putes, cum mox recedendum nobis sit, hunc esse reditum nostrum infectis omnibus, quid dicemus illis, quid respondebimus, expectantibus nos et accurrentibus cupide et sciscitantibus de euentu legationis. Quid igitur illis dicemus? Quid taces Achille? Libato Ioui seruatori nobiscum, non ultimam hanc libationem, sed reueritus et publicam necessitatem, et legatos nos, et nocturnum legationis tempus, atque adeo sydera, deos, heroas communes Graeciae, ira te tanquam morbo exolue et cum sole exorere barbaris.
Conclusioni
Al termine di questo studio possiamo provare a tirare le fila dell’incidenza della diffusione dell’opera di Elio Aristide in Europa occidentale. Aristide fu senza dubbio un autore letto e studiato per il suo stile durante il XV e il XVI secolo e l’interesse mostrato per le sue opere da parte degli umanisti derivò soprattutto dalla sua fama di retore. Se la causa primaria dello studio umanistico dei discorsi aristidei risiede senza dubbio nella singolarità della sua lingua e del suo stile, le ragioni alla base delle versioni latine e le ripercussioni di queste stesse nell’Umanesimo europeo sono risultate diverse e variegate a seconda delle epoche e dei contesti culturali. Per il primo traduttore di Aristide, Cencio de’ Rustici, abbiamo rilevato una ricaduta della resa latina di ordine linguistico; egli stesso nella lettera prefatoria dice di essersi voluto cimentare nella traduzione di un’opera greca, per quanto si tratti di un’attività perdifficile (Bacchus, ep. praef., § 1), e di essere stato spinto a dedicarsi al Dioniso di Aristide dal contesto circostante, quello cioè dei ‘Baccanali’ di Costanza. Dalle parole della lettera e dal risultato della prova versoria di Cencio crediamo che l’umanista non abbia colto il profondo retroterra religioso e culturale alla base dell’inno aristideo, dedicato a una divinità ambigua e problematica e composto con ogni probabilità per un’occasione simposiale. Quello che è certo è che la traduzione di Cencio fornì a un suo allievo, Bartolomeo Aragazzi, il materiale adatto per realizzare un lessico bilingue. Aragazzi infatti, come abbiamo visto nel primo capitolo1, dopo la morte di Crisolora diventò discepolo di Cencio e, in mancanza di sussidi per lo studio del greco, che faceva la sua ricomparsa in Occidente proprio in quegli anni, si servì sia dell’antigrafo (Wroc) sia della traduzione latina del Dioniso del maestro. L’immediato effetto di questa versione consistette proprio nella creazione di uno strumento a uso personale derivato dagli insegnamenti di traduzione di Cencio. La fama di Aristide, come abbiamo già avuto modo di rilevare nell’introduzione, è stata collegata sin dall’antichità ai grandi nomi dell’oratoria classica. Ciò è vero anche per l’epoca umanistica, com’è emerso dalla lettura della lettera prefatoria di Niccolò Perotti, in cui il retore viene accostato a Demostene e Isocrate ed è riconosciuto come il fondatore della monodia in prosa. L’interesse specifico di Perotti per il discorso funebre di Aristide indirizzato alla città di Smirne è di natura letteraria: l’umanista dichiara infatti chiaramente di volersi fare epigono del celebre retore nel genere monodico. Anche se la monodia latina in prosa dopo Perotti non ebbe un seguito, almeno da ciò che sappiamo, possiamo affermare con sicurezza che l’umanista di 1 Vd. supra, pp. 27-30.
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Sassoferrato colse a pieno le peculiarità dell’orazione aristidea e seppe trasporle in un latino elaborato, mostrando di aver colto la lezione della monodia greca. Il nome di Aristide ancora alla fine del’400 era sinonimo di abilità retorica, come dimostra la breve dedica di Pietro Gravina contenuta nell’incunabolo con le traduzioni di Carlo Valgulio dei discorsi sulla concordia. L’umanista si rivolge al suo collega con l’appellativo di “Aristide Romano”, nella convinzione che il dotto bresciano fosse riuscito a equiparare l’eloquenza aristidea con la sua opera. La resa valguliana è in effetti di livello notevole, ricca com’è di nessi di ascendenza classica e figure retoriche; inoltre essa testimonia soprattutto un’attenzione particolare alla tematica del discorso di Aristide, cioè la pace civica. La versione di Valgulio ebbe, a differenza delle due precedenti, una ricezione diretta in un’opera successiva, cioè l’epistola agli abitanti di Sélestat composta nel 1523 da Beato Renano; in questo caso il messaggio politico di Aristide arrivò attraverso la mediazione valguliana in un contesto del tutto mutato, ma venne diffuso con lo scopo sempre uguale di ripristinare l’ordine sociale. È significativo che con l’avvento della stampa una traduzione latina di Aristide abbia varcato i confini italiani - a differenza delle versioni precedenti, rimaste prive di un’ampia diffusione, in quanto vergate su codici manoscritti – e sia circolata in un ambiente così differente da quello d’origine. È stata quindi la pubblicazione a Brescia che ha conferito all’opera di Valgulio, e di conseguenza anche alle idee e allo stile di Aristide, un’eco internazionale. La necessità di rivolgersi a un autore come Aristide emerge anche a distanza di pochi anni da Renano, nel 1535, con Joachim Camerarius, che sente il bisogno di ribadire nella sua lettera di dedica a Ludovicus Carinus l’esigenza di studiare opere come quelle di Libanio e Aristide praesertim hoc tempore, soprattutto ai suoi tempi, che sono quelli della riscoperta dell’importanza dell’istruzione fondata sullo studio dei classici e del ritorno ad fontes. L’interesse di Camerarius per i due autori, come abbiamo visto, era determinato dal rapporto delle loro opere con l’epica omerica e dall’importanza di offrire dei modelli retorici (egli parla di exemplum scholasticum nel frontespizio della raccolta) ai dotti contemporanei a uso didattico. La preparazione fondata sullo studio di questi testi non era certamente comune, bensì doveva collocarsi a un livello progredito del curriculum scolastico. La cura dedicata a opere come quelle di Aristide e Libanio riflette pertanto la rinnovata importanza destinata agli studi di retorica in epoca protestante, che non si esaurì con la pubblicazione di Haguenau, ma persistette in ambiente renano, come dimostra la ristampa di queste traduzioni a Basilea nel 1573. Aristide dunque fu considerato nel corso dell’Umanesimo alla stregua di un modello linguistico utile per l’esercizio versorio e in quanto veicolo di messaggi letterari e politici, ma soprattutto e in ogni fase del Rinascimento come eminente rappresentante della retorica antica, le cui peculiarità rispetto agli scrittori precedenti vennero sempre messe in rilievo e fornirono agli umanisti la motivazione necessaria per cimentarsi nella traduzione della sua opera. Se questo è vero per tutte le traduzioni affrontate nella nostra ricerca, le due orazioni civiche più importanti di Elio Aristide, il Panathenaikos e l’A Roma, ebbero una risonanza particolare nel Rinascimento. Abbiamo già rilevato per la traduzione Ad Rhodienses, de concordia di Carlo Valgulio una motivazione storico-politica sottesa
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alla scelta del discorso 24. Questo aspetto emerge però soprattutto in Leonardo Bruni e in Scipione Carteromaco che, in momenti e situazioni del tutto diverse, poterono fruire dei modelli politici contenuti nelle orazioni aristidee e rifunzionalizzarli a seconda del contesto di ricezione2. Questo dato ci induce quindi a ritenere che Elio Aristide fosse un autore letto e studiato in epoca umanistica non esclusivamente a scopi retorico-scolastici, ma anche per la portata politica della sua opera.
2 Vd. Introduzione, pp. 7-8 e 11.
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Indice dei nomi propri di persona
A Achei: 195, 196, 200, 201 Achille: 5, 7, 11, 14, 19, 22, 177, 182, 183, 186, 190, 192-199, 203-207, 212, 213, 216-222 Adriano (imperatore): 13 Afrodite: 44 Agamennone: 183, 195, 197, 198, 204, 205, 206 Agricola, Rudolf: 177 Aiace: 192, 193 Alcibiades, Albrecht: 187 Alessandro di Cotieio: 13 Alessandro, Magno: 124, 125 Alessandro VI (papa): 115, 116, 118, 119, 120, 121, 122, 123, 124, 126, 127, 157, 161, 163 Alessio Lampeno: 73 Alfonso, d’Aragona (re): 95 Alfonso II (re): 116 Alto, de’ Conti: 51 Ammanati, Jacopo: 64, 118 Angeli, Jacopo da Scarperia: 16, 25 Antonini (famiglia): 13 Apella: 13, 192 Apollo: 38, 56, 62 Aragazzi, Bartolomeo da Montepulciano: 23, 24, 28, 29, 31, 49, 50, 51, 221 Arcionini, di Capranica, Nicola e Iacobello: 26 Ares: 44 Argiropulo, Giovanni: 179 Aristarco: 190 Arriano: 60, 120 Asburgo (famiglia): 21, 116, Asclepio: 5, 36, 38 Asconio Pediano: 24
Atena: 36, 39, 44 Atreo, Atridi: 191, 205, 206, 217 Aurispa, Giovanni: 17, 71 B Bacco, Baccanti: 32, 37, 43, 44, 55 Barbaro, Ermolao: 66 Beck, Christoph: 187 Bembo, Pietro: 183 Beroaldo, Filippo: 61 Bernegger, Matthias: 28 Bessarione (Cardinale): 16, 17, 59, 60-64, 66, 67, 69, 70-73, 75, 77, 91-95, 103, 105107, 109, 186 Bevilacqua, Giorgio: 95 Bienato, Aurelio: 119 Biondo, Flavio: 23 Bonino, Eufrosino: 184 Borgia (famiglia): 116, 121, 122, 126, 156 Borgia, Cesare: 117-120, 123-128, 132, 142, 155, 156, 161 Borgia, Giovanni: 120, 157 Borgia (papa): 121 Bornio, da Sala: 25 Briseo (appellativo di Dioniso): 37, 39 Britannico, Angelo: 119, 120, 156 Buleforo (personaggio del Ciceronianus): 184 Burette, Pierre-Jean: 120 Bussi, Giovanni Andrea: 64, 76, 122 C Calciavelius, Hyeronimus (giureconsulto): 157 Calfurnio, Giovanni: 117 Callisto III (papa): 62 Calogero, Caio Ponzio: 94
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in d i c e de i n o m i p ro p r i d i p e r s o n a
Camerarius, Joachim: cap. IV Campano, Giannantonio: 122 Cantalicio, Giovanni: 122 Canter, Willem: 11, 20, 84, 151, 152 Capponi, Pier: 116 Caprioli, Elia (cronista): 119, 121 Carlo VIII (re): 115, 116, 121, 122, 124, 125, 127, 128, 129, 133 Cassandra: 125, 162, 163 Catrare, Giovanni: 16 Cendrata, Ludovico: 95 Cencio, de’ Rustici (Cincius Romanus): cap. I Cerretani, Jacques: 33 Cicerone: 22, 24, 25, 30, 32, 33, 34, 36, 38, 48, 49, 52, 77, 80, 86, 145, 146, 147, 180, 181, 182, 183, 184, 185, 190, 199, 202, 203, 204, 206, 208 Cidone, Demetrio: 16, 26 Claudio (imperatore): 130 Cleopa (principessa): 67 Colombo, Cristoforo: 94 Colonna, Prospero: 118, 122 Colón, Hernando (Colombo, Fernando): 94 Columella, Lucio Giunio Moderato: 92 Concorreggio, Gabriele: 117 Consalvo di Cordova: 116, 118 Conti, Natale: 65 Contrario, Andrea: 63, 95, Corbinelli, Antonio: 16 Cornaro, Caterina (regina di Cipro): 119 Cornificio: 202 Corvino, Mattia: 62, Cosimo de’ Medici: 51, 63 Costanzi, Iacopo da Fano: 60, 61 Crisolora, Manuele: 15, 16, 18, 23, 25, 26, 27, 28, 29, 30, 31, 33, 34, 35, 48, 50, 51, 55, 59, 89, 177, 223 Crisolora, Giovanni: 16, 26 Cristina di Svezia (regina): 134 Crusius, Martin: 28 D Damiano d’Efeso: 14, 194 Decembrio, Pier Candido: 27, 28
Del Lungo, Isidoro: 119 Demostene: 15, 63, 67, 71, 73, 77, 89, 94, 107, 130, 182, 192, 223 Dione di Prusa: 20, 115, 118, 119, 121, 124, 126, 131, 132, 153, 154, 155, 156, 157, 163 Dioniso: 7, 19, 20, cap. I, 142, 223 Ditaiutus de Vitaliis da Osimo: 65 Ducco di Brescia, Giovan Francesco: 157 Dürer, Albrecht: 182 E Eberhard von Wüttenberg: 178 Efesto: 41, 44 Enrico VII d’Inghilterra: 116 Epicuro: 91 Era: 41 Erasmo da Rotterdam: 152, 155, 180, 181, 183, 184, 185, 187, 191 Eros: 46 Eschine: 24, 25, 36, 51, 67, 73, 77, 107, 192 Eteoneo: 13, 84, 194 Ettore: 193 Eugenio IV (papa): 23, 60 Eurialo: 38 Euricle: 45, 46, 57 Eutropio: 92 F Fabricius (editore): 182 Federico d’Urbino (Duca): 59, 65 Federico III (imperatore): 61, 177, 178 Fedro: 64 Fenice: 192, 193, 205 Ferdinando il Cattolico: 116 Ferdinando I (re Ferrante): 116 Ferrandino: 116 Ficino, Marsilio: 63, 117, 122, 142, 178 Filelfo, Francesco: 17, 51, 118, 153 Fillastre, Guillaume: 33, 50 Fonteio: 202 Forteguerri, Scipione: 21 Foscari, Pietro: 65, 66, 68, 69, 70, 90, 102, 109, 188 Fosco, Angelotto: 24 Francesco da Fiano: 23-26, 49, 51 Francesco da Lucca: 16
i n d i c e d e i no mi pro pri d i pe rso na
Francesco de’ Lanci: 59 Franciotti della Rovere, Galeotto: 21 Frinico: 14 Fugger, Ulrich: 187 G Gaddi Niccolò (vescovo): 94 Galeno: 14 Galletti Pier Luigi: 51 Galli (popolo): 123, 125, 128, 161-163, 202 Giovanni da Castiglione: 51 Giovanni di Borgogna: 50 Giovanni III (re di Navarra): 127 Giovanni XXIII: 23, 32, 49 Giovenale: 64, 180 Giovio, Paolo: 127 Giuliano (Paleologo imperatore): 66, 69, 109 Giulio II (Giuliano della Rovere, papa): 21, 127 Giunta, Filippo: 21, 186 Giustino (imperatore): 92 Giustino (storico): 208 Gorgoni, Graie: 98 Gravina, Pietro: 118, 119, 142, 156, 224 Gregorio di Nazianzio: 135, 153, Grey, William (vescovo): 59 Guarnerio, Francesco: 76, 92 Guicciardini, Francesco: 126-129
J Johann von Neumarkt: 177 Johannes von Konigsberg: 178 K Kammermeister (alias Camerarius): 181 Keil, Bruno: 7, 14, 16, 20, 21, 26, 37, 41, 44, 53, 74, 82, 84, 96, 98, 99, 115, 132, 133, 135-139, 141, 143 Kiel, Hans (padre di Ludwig): 187 Kiel, Ludwig (Ludovicus Carinus): 187
H Hegerdorf, Christoph: 208 Hegius, Alexander: 177 Heidecker, Vinzenz: 186, 187 Helt, Georg: 181 Henisch, Georg: 185 Herwagen, Johann: 182 Hessus, Eobanus: 181, 182
L Lambruschini (cardinale): 50 Landeo (Sandeo), Felino: 120 Latini (popolo): 67-70, 103, 106-109, 118, 119, 199 Le Ferron, Arnoul: 11, 20, Lenz, Friedrich Walter: 7, 13, 14, 15, 16, 20, 37, 71-73, 132-135, 185, 186, 192, 193, 195, 196, 199, 205 Leone XIII: 90 Leopardi, Giacomo: 60 Libanio: 14, 26, 66-69, 71-74, 77, 92-94, 107, 109, 134, 135, 185-191, 193, 196, 206208, 213, 224 Licurgo: 92 Liebhard, Joachim (Camerarius): 181 Livio: 38, 50, 79, 180 Longino: 14 Lorenzo de’ Medici (il Magnifico): 51, 64, 178 Loschi, Antonio: 24, 51 Luciano: 29, 72, 73, 134, 208 Lucio Vero (imperatore): 195, 200 Ludovico il Moro: 115 Luigi XI (re): 115 Lutero, Luterani: 152, 155, 179, 181, 208
I Iacco (Dioniso): 46 Innocenzo VII (papa): 25 Innocenzo VIII (papa): 118, 120, 121, 133 Ippocrate: 61 Isabella di Castiglia: 116 Isocrate: 15, 67, 77
M Machiavelli, Niccolò: 125-128 Malatesta, Pandolfo: 31, 51 Manuzio, Aldo: 65 Maometto II: 62 Margherita di Bombelli: 95 Marte: 128
249
250
in d i c e de i n o m i p ro p r i d i p e r s o n a
Martino V (papa): 25, 31, 32 Marziale: 63, 64, 68, 145 Massimiliano d’Austria: 116 Massimiliano I: 178 Massimo, Valerio: 38 Medici (famiglia): 122, 127, 128 Medusa: 98, 112 Melantone, Filippo: 178, 179, 181, 182, 191, 207, 208 Meleagro: 199 Menelao: 191 Mercati, Giovanni: 59, 60, 61, 63, 64, 66, 67, 68, 90-92, 94, 97, 102, 135, Michelozzi, Niccolò: 117 Minerbetti, Tommaso: 117 Misinta, Bernardino: 156 Morelli, Giacomo (abate): 120 Moretto, Antonio: 121 Moro, Cristoforo: 17 Mosellano, Pietro: 181 Muziano, Corrado: 181 N Neander, Michael: 180 Nerva (imperatore): 131 Neuber (editore): 180 Niccolò Niccoli: 49 Niccolò V (papa): 17, 60, 62, 66, 75, 95, 133, 134 Niso: 38 Nogarola, Isotta: 95 O Odasio, Ludovico: 92, 122, 153 Odo da Montopoli, Pietro: 95 Olimpiodoro: 14 Oliverotto da Fermo: 127 Orazio: 68, 178 Orfeo: 37 Oporinus Johannes: 185 Opsopoeus, Vincentius: 184 Orsini, Giordano: 24, 50 Orsini, Paolo: 127 Ossidraci (popolo): 124 Ottaviano, Augusto: 104, 105
P Paganino de Paganinis: 65 Paleologo, Manuele: 64, 66, 67, 92, 94, 107 Paleologo, Michele VIII: 135 Palmieri, Nando: 71 Pan: 40, 41 Pandozzi, Panezio: 117 Panormita, Antonio: 95 Paolo II (papa): 62, 63, 66, 93, 135 Papi, Lazzaro: 60 Parti (popolo): 195, 200 Peleo, Pelide: 200 Perotti, Niccolò: 11, 19, 21, 22, cap. II, 115, 133, 142, 145, 153, 188, 223 Perotti, Pirro: 63-65 Perotti, Severo: 65-67, 69, 70, 92, 93, 109 Perotti, Torquato: 91, 97 Perseo: 98 Petrarca, Francesco: 177 Pflug, Julius: 185 Piccolomini, Enea Silvio (Pio II): 62, 121, 123, 155, 161, 177 Piccolomini, Francesco (Pio III): 115, 120, 121, 122, 125, 129 Pico della Mirandola: 178, 183 Piero de’ Medici: 115 Pietro de Zardiere: 51 Pincio, Filippo: 65 Pio IX (papa): 50 Pindaro: 37, 40 Pirrino, Tito: 120 Pistorius, Christophorus (Christoph Beck): 187 Pizolpasso, Francesco: 18 Planude Massimo: 14 Platone: 15, 25, 27, 29, 71, 92, 107, 135 Plauto: 180, 182 Pletone, Giorgio Gemisto: 15, 63 Pletorio, Marco: 202 Poliziano, Angelo: 60, 61, 117, 183 Porfirio: 14 Psello, Michele: 15 Puscolo, Ubertino: 117
i n d i c e d e i no mi pro pri d i pe rso na
Q Quintiliano: 24, 32, 79, 180, 181, 192, 204, 206 Quinto Cerellio: 153 R Reiske: 84 Renato d’Angiò: 115 Reuchlin, Johannes (Capnio): 178, 179 Riario, Pietro: 64, 93 Romano, Aurelio: 65 Rossi, Roberto: 16 Rutuli (tribù): 38 S Sabino (Schüler), Giorgio: 208 Sacer (editore): 182 Sallustio: 180 Sanuto, Marino: 119 Scanderberg: 62 Schenk, Erasmus von Limpurg: 187, 188 Semele: 37, 52, 56 Seneca: 34, 38, 78, 180, 199 Servio Sulpicio Rufo: 80 Setzer, Johann: 208 Severo, Alfonso: 93 Sforza, Francesco: 127 Sforza, Ludovico: 116 Sigismondo (imperatore): 26 Sigmund, Hans: 152, 153 Sileni: 42, 52 Simonide: 65, 68 Sinibaldi, Falcone: 118-120, 126, 132 Sisto IV (papa): 63, 64, 66, 133, 134 Sisto V (papa): 91 Socrate: 91 Spach, Israël: 28 Stilbar, Daniel von Babeneck: 183 Stratego, Cesare: 73 Stromer, Heinrich: 181 Strozzi, Palla: 16, 25, 26 T Tacito: 38, 178 Taziano: 60, 61
Telemaco: 189 Teodora di Trebisonda (imperatrice): 67 Teodoro Gaza: 95 Terenzio: 144, 180, 182 Tertulliano: 44 Tiberio (imperatore): 179 Tito (imperatore): 130 Tolomeo: 61, 118 Tommaso di Sarzana (Niccolò V): 60 Tortelli, Giovanni: 61 Traiano (imperatore): 132 Trapezunzio (di Trebisonda), Giorgio: 60, 63, 64, 89, 93-95, 107, Traversari, Ambrogio: 17, 23, 28, 30 Triclinio, Demetrio: 16 Trithemius (abate): 177 Troiano, Bartolomeo: 61, 91 Tucidide: 15 Tullia (figlia di Cicerone): 80 Turno: 38 U Ulisse: 184 Ulpiano: 71 Ulrich von Reichensthal: 33 Urbano (monaco): 73 Urbano VIII: 91 V Valentino (duca): 118, 119, 124, 125-127, 157, 161 Valgulio, Carlo: 11, 17, 19, 21, 78, cap. III, 224 Valgulio, Stefano: 116 Valla, Lorenzo: 95, 119, 181 Vatinio (tribuno della plebe): 147 Velio: 24 Venetus de Vitalibus, Bernardino: 120 Vercellino, Gerardo: 95 Vergerio, Pier Paolo: 16 Veronese, Guarino: 24, 50, 59, 60, 92, 95, 117 Verre: 202 Vespasiano (imperatore): 130 Vettori, Francesco: 125 Visconti (famiglia): 18
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Vitelli, Vitellozzo: 127 Vittorino da Feltre: 59 Vittorino, Mario: 92 Voegelin (editore): 182 W Wessel, Johan: 177 Wilamowitz: 84
Winfeling, Jacob: 177 Wolf, Hyeronimus: 187 Wolfgang, Capito: 187 Z Zacchi, Gaspare: 21 Zeus: 39-41, 52, 78, 198, 203 Zwingli: 181
Indice dei nomi di luogo
A Adriani: 13 Adwert: 177 Aleria: 76, 122 Ancona: 62 Arezzo: 117 Argo, Argivi: 199 Asia: 13, 80, 98, 111, 112 Asia Minore: 130 Asti: 116 Atene, Ateniesi: 16, 18, 19, 151, 192, 200, 203 Augusta: 178, 181
Ceo (isola): 68 Cheronea: 16, 132 Cirene: 51 Città di Castello: 127 Cizico: 13, 130, 194, 195 Corinto: 62, 80 Costantinopoli: 17, 26, 59, 62, 67, 92, 117 Costanza: 11, 16, 19, 20, 23, 25, 26, 29, 31-33, 37, 49, 50, 55, 223 Coutances: 31 Creta: 63 Curifugia (villa di Niccolò Perotti): 64
B Balcani: 93 Bamberga: 181, 188, 211 Basilea: 11, 20, 177, 178, 181, 182, 187, 224 Baviera: 20 Bisanzio: 13, 15, 16 Bitinia: 131 Bologna: 23, 24, 31, 60, 61, 66, 87, 105, 187 Boristene: 88 Bosforo: 87 Brandeburg: 185 Brescia: 11, 19, 31, 116, 117, 119-121, 132, 156, 157, 224 Bretten: 181 Britannia, Brittania: 106, 107
E Egina: 80 Egitto: 13, 40, 130 Ellade: 88 Ely: 59 Ensisheim: 153 Epiro: 76, 87 Erfurt: 178, 181 Etiopia: 39 Europa: 21, 22, 62, 132, 223
C Camerino: 62, 127 Camiro: 139 Carpi: 61 Casentino: 16 Catarratte: 87 Cava: 24
F Fabriano: 62 Feltre: 59 Ferrara: 17, 59, 60, 63, 117, 120 Firenze: 11, 15, 16, 18, 19, 21, 23, 25, 29, 35, 49, 61, 63, 105, 115-117, 122, 127, 128, 133, 177, 178 Forlì: 127 Francia, Francesi: 20, 63, 64, 66, 115, 122, 123, 128, 129 Francoforte: 182 Friburgo in Brisgovia: 178
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in d i c e de i n o m i d i lu o g o
G Gallia: 66, 102, 106, 107, 128, 179 Gallia Cisalpina: 66 Gallia Narbonese: 202 Genova: 127 Germania: 62, 66, 102, 103, 177-180 Grecia, Greci: 31, 45, 55, 68, 70, 75, 77, 79, 83, 86-88, 103, 105, 107, 134, 135, 139, 144, 146, 157, 195, 200 Groningen: 177 H Haguenau: 185, 196, 207, 208, 224 I Imola: 127 India: 124 Inghilterra: 116 Ingolstadt: 176 Ischia: 116 Italia: 15-17, 19, 22, 59, 60, 93, 94, 102, 105-107, 115, 123-129, 132, 146, 160, 161-163, 178, 181 K Karlsruhe: 181 Kulmbach: 187 L Lesbo, Lesbii: 140, 150, 164, 167, 176 Lindo: 139 Lione: 11, 20 Lipsia: 178, 181, 182 Lodi: 127 Londra: 121 Lovanio: 187 Lucca: 120 Lucerna: 187 Lussemburgo: 177 M Macedonia, Macedone: 120, 124, 161, 162 Magdeburg: 182 Mainz (Magonza): 178, 187 Mantova: 59, 62, 127 Massalia: 88
Megara: 80 Melete, Melas (fiume): 87, 112 Milano: 18, 115, 116 Misia: 13 Mitilene, Mitilenesi: 140 Molsheim: 207 N Napoli: 14, 63, 90, 93, 96, 115, 116, 118, 119, 127, 133 Neustadt: 94 Nicea: 115, 131, 155 Nicomedia: 73, 115, 131, 155 Nisa: 39, 40 Norimberga: 178, 179, 181, 182 Normandia: 31 O Olimpia: 194 P Padova: 122, 187 Parigi: 72, 121, 153, 187 Pelio: 199, 221 Penne: 120 Pergamo: 13, 186 Persia, Persiani: 19, 200 Perugia: 64, 65, 105, 127 Pesaro: 31, Pireo: 80 Pisa: 120 Praga: 177 R Ravenna: 64 Reggio Emilia: 128 Reims: 50 Reno: 179 Rodi, Rodiesi: 7, 21, 82, 83, cap. III, 192 Roma, Romani: 11, 13, 15, 16, 19, 21, 23, 24, 26-28, 45, 46, 50, 59, 63-66, 90, 92, 95, 102, 103, 116, 118, 119, 121, 122, 124, 131, 132, 134, 138, 146-148, 151, 154, 179, 200, 202, 203 Russia: 135
i nd i ce d e i no mi d i lu o go
S Salonicco: 16 San Gallo: 24, 28 Sant’Agata: 91 Sassoferrato: 59, 64, 93, 224 Schlettstadt: 178 Sélestat: 152, 153, 224 Sicilia: 85, 112, 192 Siena: 24-26, 28, 105, 116, 119, 122 Sipilo: 87 Siponto: 62, Siviglia: 90, 94, 95 Smirne, Smirnaico: 7, 13, 19, 21, 37, cap. II, 130, 142, 143, 149, 223 Spagna: 107, 127 Spoleto: 63, 66 Sponheim: 177 Strasburgo: 28, 153, 178, 182, 186-188, 207 Studium Urbis (La Sapienza): 25 T Tartesso: 87 Tebe, Tebani: 85, 192, 200 Tessaglia: 200 Torino: 156, 201
Torrita di Siena: 28 Toscana: 122 Trebisonda: 59 Trier: 178 Troia, Troiani, Teucri: 85, 111, 112, 179, 185, 195, 198, 200, 201, 216, 218, 220, 221 Tübingen; 28, 178, 181, 187 Turchia, Turchi: 62, 63, 93, 117, 121 U Urbino: 16, 93, 127 V Velletri: 124, Venezia: 11, 17, 19, 21, 62, 63, 65, 66, 70, 72, 116, 120, 128, 133, 156 Verona: 59, 63 Viana: 127 Vienna: 177, 178 Viterbo: 62 W Wittenberg: 178, 179, 181 Wroclaw: 25-29 Wüzburg: 187
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Indice degli autori e dei testi citati dell’Antichità, del Medioevo e del Rinascimento Laddove presente, l’indicazione fuori parentesi fa riferimento a un luogo preciso dell’opera citata, mentre quella tra parentesi rinvia sempre al numero di pagina del volume.
A Adriano Retore De muliere uenefica (73) Ps. Aethicus Cosmographia (50) Althamer, Andreas Commentaria Germaniae in P. Cornelii Taciti Equitis Rom. libellum de situ, moribus et populis Germanorum (180) Apicio Excerpta (91) Aristide, Elio Prolegomena in Aelii Aristidis orationem Panathenaicam (71) Scholia in Aelii Aristidis orationem Panathenaicam (135) Oratio 1 (Panathenaica oratio) (13); (16); (18); (19); (20); (71); (73); (135) Oratio 2 (Oratio platonica I, pro Rhetorica) (13); (15); (71); (135) Oratio 3 (Oratio platonica II, pro Quatuorviris) (13); (15); (135) Oratio 4 (Oratio platonica III, ad Capitonem) (13); (15); (71-73); (135) Oratio 5 (Oratio sicula I) (71); (73); (135); (192) Oratio 6 (Oratio sicula II) (71); (73); (135); (192) Oratio 7 (Oratio pro pace Lacedæmoniis concedenda) (71); (73); (135); (192) Oratio 8 (Oratio pro pace Atheniensibus concedenda) (71-73); (135); (192)
Oratio 9 (Oratio de societate I) (24); (71); (73); (135); (192); 24 (200) Oratio 10 (Oratio de societate II) (7173); (135); (192) Oratio 11 (Leuctrica oratio I) (71); (73); (135); (192) Oratio 12 (Leuctrica oratio II) (71); (73); (134); (135); (192) Oratio 13 (Leuctrica oratio III) (71); (134); (135); (192) Oratio 14 (Leuctrica oratio IV) (71); (72); (134); (135); (192) Oratio 15 (Leuctrica oratio V) (71); (72); (134); (135); (192) Oratio 16 (Oratio presbeutica ad Achillem) (7); (11); (14); (19); (22); (72); (73); (134); (135); cap. IV Oratio 17 (Oratio Smyrnaea politica) (13); (71-73); (130); (135) Oratio 18 (Monodia de Smyrna) (7); (11); (13); (19); (21); cap. II; (130); (133-135); (142); (149); (188) Oratio 19 (Epistula de Smyrna) (13); (71-73); (130); (134); (135) Oratio 20 (Palinodia de Smyrna) (13); (71-73); (130); (134); (135) Oratio 21 (Oratio Smyrnaea gratulatoria) (13); (71-73); (130); (134); (135) Oratio 22 (Eleusinia oratio) (13); (7173); (134); (135) Oratio 23 (Oratio de concordia ad civitates Asiae) (72); (130); (134); (135)
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indice degli autori e dei testi citati dell’antichità, del medioevo e del rinascimento
Oratio 24 (Oratio de concordia ad Rhodios) (7); (11); (19); (21); (7173); (82); cap. III; (224) Oratio 25 (Oratio Rhodiaca) (72); (134); (135); (143) Oratio 26 (Oratio in Romam) (13); (19); (21); (26); (45); (46); (72); (134); (224) Oratio 27 (Panegyrica oratio Cyzicena) (72); (73); (130); (134); (135) Oratio 28 (Oratio de paraphtegmate) (134); (135) Oratio 29 (Oratio de non agendis comoediis) (11); (20); (72); (73) Oratio 30 (In Apellam genethliaca oratio) (13); (72); (73); (134); (135); (194) Oratio 31 (In Eteonem epitaphius) (13); (71); (72); (84); 10 (194); 13 (194) Oratio 32 (In Alexandrum epitaphius) (72); (134); (135); (143) Oratio 33 (Oratio contra criminantes quod non declamaret) (71); (72); (134); (135) Oratio 34 (Oratio contra proditores mysteriorum) (71-73); (134); (135) Oratio 36 (Oratio Aegyptiaca) (72); (134); (135) Oratio 37 (In Mineruam oratio) (13); (14); (36); (71-73); (134); (135) Oratio 38 (In Asclepiadas oratio) (13); (14); (36); (72); (73); (134); (135) Oratio 39 (In puteum Aesculapii oratio) (11); (13); (14); (36); (72); (73); (134); (135) Oratio 40 (In Herculem oratio) (13); (14); (36); (72); (73); (134); (135) Oratio 41 (In Bacchum oratio) (13); (14); (20); cap. I; (223) Oratio 42 (In Aesculapium oratio) (13); (14); (36); (71); (72); (134); (135) Oratio 43 (Hymnus in Iovem): (13); (14); (36); (71); (72); (134); (135) Oratio 44 (In Aegaeum pelagus oratio) (13); (14); (36); (72); (134); (135)
Oratio 45 (In Sarapim oratio) (13); (14); (36); (71); (72); (134); (135) Oratio 46 (Isthmica in Neptunum oratio) (13); (14); (36); (72); (134); (135) Oratio 47 (Oratio sacra I): (13); (72); (134); (135) Oratio 48 (Oratio sacra II),: (13); (72); (134); (135) Oratio 49 (Oratio sacra III): (13); (72); (134); (135) Oratio 50 (Oratio sacra IV): (13); 25 (36); (72); (134); (135) Oratio 51 (Oratio sacra V): (13); 52 (14); (72); (134); (135); 44 (194, 195) Oratio 52 (Oratio sacra VI): (13) Oratio 53 (Panegyrica de aqua Pergamena oratio) (13); (186) Aristofane Vespae, vv. 1018-1020 (45) Aristotele Ethica Nicomachea 4,5 (199) Rhetorica 1, 1367 b 36 – 1368a 9 (192) Ps. Aristotele Oeconomicus (trad. lat. di Christoph Hegerdorf) (208) Oeconomicus (trad. lat. di Leonardo Bruni) (93) Augusto (imperatore romano) Dicta et apophthegmata 2 Malcovati (104) B Basilio De invidia (trad. lat. di Niccolò Perotti): (60); (153) De vita solitaria (trad. lat. di Francesco Filelfo) (153) Beato Renano Lettre aux Sélestadiens, 1, 11, 14, 37 (152-155) Bessarione Basilio, Cardinale (P.G. 161) Ad Italos de periculis imminentibus (93) De discordis sedandis et bello in Turcum decernendo (93) De pace habita (94)
indice degli autori e dei testi citati dell’antichità, del medioevo e del rinascimento
In calumniatorem Platonis (63) ; (107) Inclitis atque illustrissimis Italie principibus, de periculis imminentibus a Turchis (93) In conuentu Viennensi (94) In dissolutione conuentus Viennensis (94) In illud Euangeli secundum Ioannem (94) In translatione capitis beati Andreae (94) Monodia in obitu imperatoris Manuelis Paleologi (92); (94); (106); (107) Oratio de pace in conuentu Viennensi (94) Oratio in conuentu Mantuano (94) Oratio oratorum Electorum sacri Romani Imperii ad legatum (94) Persuasio [ad principes Italiae] ex auctoritate Demosthenis (94) Responsio domini legati ad responsionem dom. oratorum (94) Bione Id. 1, 48 (42) Boiardo, Matteo Maria Orlando Innamorato, III, IX, 26 (128) Bracciolini, Poggio Epistulae 1, 46 (49); 2, 4, 5 (24) Facetiae 27 (33) Bruni, Leonardo De interpretatione recta (32); 14 (190) Dialogi ad Petrum Histrum (50) Epistulae, 8, 4 (18) Laudatio Florentinae Urbis (18-20) C Catone Carmen de moribus 3 (35); (55) Pro Rhodiensibus (130) Ps. Catone Disticha Catonis: (117); (180) Celtis, Conrad De origine, situ, moribus et institutis Norimbergae libellus: (179) Cencio de’ Rustici (Cincius Romanus) Epistulae: (24); (26) Oratio ad Sigismundum Imperatorem (26)
Censorino De die natali (153) Cicerone, Marco Tullio Brutus 30, 2 (52); 253, 3 (52); 66 (34); 317, 12 (82) Cato Maior de senectute (180) Laelius de amicitia (180) De finibus bonorum et malorum 5, 66, 9 (146) De legibus 2, 65, 7 (82) De genere optimo oratorum 14 (33) De inuentione 1, 9 (32) De officiis (25) ; 2, 16, 10 (146) De oratore 1, 38, 9 (52) ; 1, 257, 2 (52) De partitione oratoria (25) Epistulae ad Atticum 12, 21,1 (34); 1, 14, 3 (190) Epistulae ad familiares (30); 4, 5, 4, 3-11 (80); 9, 22, 4 (34); 18, 8, 3 (145); 10, 10, 2, 6-7 (146); (180) In Vatinium 8,19 (147) In Verrem actio secunda 2, 2, 187, 16 (82); 2, 4, 67, 4 (79); 2, 5, 2, 1-2 (78); 2, 5, 16, 5 (82); 2, 2, 50, 14-15 (86) Orator (208) Paradoxa Stoicorum (180) Pro Archia 3 (82); (208) Pro Milone (208); 100, 12 (144) Pro Fonteio 4 (202) Pro Scauro 19,5 (78) Pro Sestio 72, 10-11 (82); 26,56 Topica (208) Tusculanae Disputationes (49); 3-4 (199); 4, 29, 3 (147); (182) Cleomede Astronomo De contemplatione orbium excelsorum (117); (118); (120); (126); (156) Contrario, Andrea Contra Georgium Trapezuntium calumniatorem Platonis (95) Epistulae (95) Crisolora Manuele Epistula ad Ioannem (29); (50) Epistula de laudibus utriusque Romae (Σύγκρισις) (27) ; (28) ; (29) ; (30)
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indice degli autori e dei testi citati dell’antichità, del medioevo e del rinascimento
D de Ciresio, Jacques (33) De Italie prouinciis ex codice uetustissimo (92) Demostene Oratio 1 (Oratio pro ferenda ope Olynthiis, trad. lat. di Bessarione) (94) Oratio 1 (63); (182) Oratio 4 (208) Oratio 6 (208) Oratio 9 (208) Oratio 10 (208) Oratio 15 (71); (130) Oratio 18 (89) Oratio 25 (trad. lat. di Filippo Melantone) (207) Oratio 26 (trad. lat. di Filippo Melantone) (207) Oratio 45, 14 (198) Dione di Prusa Oratio 38 (115); (118); (119); (121); (124); (126); (131); (132); (153); (154-156); (163) Dürer, Albrecht De symmetria partium humanorum corporum (trad. lat. di Joachim Camerarius) (182) E Epitteto Enchiridion (trad. lat. di Niccolò Perotti) (60); (61); (91) Erasmo da Rotterdam Adagia (180) Ciceronianus, siue de optimo genere dicendi (181); (183-185) De amabili ecclesiae concordia (155) Ermogene di Tarso De ideis 1, 6 (14); 2, 7 (14) Progymnasmata 9 (14) Esiodo Opere 11-24 (166) Euripide Stheneboea, fr. 663 Kannicht (45)
Eusebio De praeparatione evangelica (trad. lat. di Andrea Contrario) (95) F Filostrato Vitae sophistarum 2, 23, 605 (14) Flacco, Valerio Argonautica (24) Fozio Bibliotheca (14) G Gaddi, Niccolò Oratio de obitu Bessarionis (94) Gaio Institutiones 2, 9, 16 (145) Galeno In Hippocratis Aphorismos Commentarii 17b, 387 (198) Gellio, Aulo Noctes Atticae 11, 2, 6 (35); 6, 3 (130) Giorgio Alessandrino De re rustica (92) Giovenale, Decimo Giunio Saturae (180) Gravina, Pietro Epistula Carolo Valgulio (118) Oratio de Christi ad coelos ascensu (118) Gregorio di Cipro Encomium in Andronicum II (135) Guarino Veronese Guarini Veronensis ad clarum phisicum Philippum Mediolanensem in Platonis uitam prohoemium (92) Guicciardini Francesco Storie Fiorentine (129) I Ippocrate Aphorismata 1, 11, 12 (198) Iusiurandum (trad. lat. di Niccolò Perotti) (91) Isocrate Oratio 4, 184 (199)
indice degli autori e dei testi citati dell’antichità, del medioevo e del rinascimento
Oratio 7 (119) Oratio 8 (119) Oratio 10 (121) Itinerarium Antonini (50) L Lattanzio De opificio hominis (24) Libanio Declamatio 5 (14); (72); (134); (135); (185-191); (193); (196); (206-208); (212); (213); (224) Epistula 453 (26) Oratio 17 (Monodia de obitu Iuliani) (66); (72); (73); (94); (108); (109) Oratio 60 (Monodia de templo Apollinis Daphnaei) (73); (134) Oratio 61 (Monodia de Nicomedia) (73) Oratio 64 (De saltatoribus) (134) Licurgo Excerpta (tit. Licurgi leges) (92) Lisia Epitaphium 2, 60, 1 (87) Livio, Tito Ab urbe condita 3, 72, 1 (79) Lucano, Marco Anneo Bellum ciuile (180) Luciano Cataplus siue tyrannus (134) Somnium siue Vita Luciani (134) Symposium siue Lapithae (134) Lucrezio, Tito Caro De rerum natura 5, 1220 (148); 4, 500505 (148) Ludovico Odasio Lodouici Odaxii patavini praefatio in Plutarchi librum docentem quo pacto quispiam omnium ab adulatore discernat (92) M Machiavelli, Niccolò Epistola a Francesco Vettori (125) Il Principe (126-128)
Mario Vittorino Marii Victorini grammatici nobilissimi de ortographia et analogia (excerpta) (92) Melantone, Filippo De corrigendis adolescentium studiis (179) De rhetorica libri tres (182) De studiis linguae Graecae (179) De studio linguarum (179) Encomium eloquentiae (182) Menandro Retore I, 343, 30-344, 4 (36); II, 434, 10-437, 4 (65) Michele Psello De operatione daemonum (15) N Nicomaco Arithmetica (118) O Odo da Montopoli, Pietro Epigramma (95) Omero Ilias 1 (182), (183), (207); 2, 655-656 (139); (172); 2, 867 (200); 9 (185), (197), (199), (205), (206), (208) Odyssea (182); 6, 182-185 (165); 4, 600 (191) Orazio Carmina (180) Orosio Historiae aduersus paganos (51) Ovidio Metamorphoseon libri (180) Tristia (180) P Perotti Niccolò Cornu copiae, seu linguae Latinae commentarii (64); (65); 5, 10, 106 (68); 7, 117, 1 (68)
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indice degli autori e dei testi citati dell’antichità, del medioevo e del rinascimento
De Assumptione Beate Virginis habita Mantuae in sacello summi Pontificis (91) De metris (61) De ratione carminum quibus Horatius Flaccus ac Seuerinus Boethius usi sunt (61) De Sigismundi Malatestae et Isottae de Attis mutuo amore (91) Epistula de generibus metrorum ad Haelium Perottum (91) Inuectiua in Georgium Trapezuntium (91) In librum de metris prohoemium ad Iacobum Schioppum Veronensem (91) In P. Papinii Statii Silvarum expositionem prohoemium (91) Monodia in obitu Severi Perotti fratris (66); (92); (93) N. P. Batholomaeo Troiano Iusiurandum Hippocratis (91) N. P. epistula ad Bessarionem in laudem eius libri, qui Defensio Platonis inscribitur (91) N.P. epistula Iacobo Constantio Fanensi (91) N. P. in Epicteti Philosophi Enchiridium praefatio ad Nicolaum Quintum Pontificem Maximum (91) N. P. poetae laureati in Plutarchi libellum de fortuna Romanorum praefatio (91) Oratio habita in funere Peri [sic] cardinalis Divi Sixti (93) Oratio in Poggium (62) Prohoemium in Aristotelem de virtutibus et vitiis (91) P. Papinii Statii Silvarum expositio (60); (63); (64); (90) Refutatio deliramentorum Georgii Trapezuntii Cretensis (63) Rudimenta Grammatices (63) Philippe de Commynes Mémoires (115) Platone Gorgias (135) Laches (27) ; (28) ; (29) Lysis (27) ; (28) ; (29)
Protagoras (28); 321 CD (44) Ps. Platone Assioco (trad. lat. di Cencio de’ Rustici) (24); (25) De uirtute (trad. lat. di Cencio de’ Rustici) (24) ; (25) Pletone, Giorgio Gemisto De Platonicae atque Aristotelicae philosophiae differentiis (63) Plinio il Vecchio Naturalis Historia (64); (75) Plutarco Animine an corporis affectiones sint peiores (trad. lat. di Cencio de’ Rustici) (24) Consolatio ad Apollonium (72); (134) De Alexandri Magni fortuna aut uirtute 343 e – 345 b (124) De Alexandri Magni fortuna aut virtute (trad. lat. di Niccolò Perotti) (60) De fortuna Romanorum (trad. lat. di Niccolò Perotti) (61) De inuidia et odio (trad. lat. di Niccolò Perotti) (153) De placitis philosophorum (trad. lat. di Carlo Valgulio) (121) De uirtute et uitio (trad. lat. di Cencio de’ Rustici) (24) De uirtute morali (trad. lat. di Carlo Valgulio) (126) Praecepta coniugalia (trad. lat. di Carlo Valgulio) (120); (156); (157) Praecepta gerendae rei publicae 824 A (132) Praecepta gerendae rei publicae (trad. lat. di Carlo Valgulio) (120) Quomodo adulator ab amico internoscatur (trad. lat. di Ludovico Odasio) (92) Vita Aemilii Pauli 1 (125) Vita Ciceronis (trad. lat. di Leonardo Bruni) (93) Vita Demosthenis (trad. lat. di Leonardo Bruni) (50) Vita T. Quinctii Flaminini (trad. lat. di Guarino Veronese) (50) Ps. Plutarco De musica (trad. lat. di Carlo Valgulio) (120); (132-134)
indice degli autori e dei testi citati dell’antichità, del medioevo e del rinascimento
Polibio Historiae (libri I-V, trad. lat. di Niccolò Perotti) (60-62) Ponzio Calogero, Caio Comedia (94) Procopio di Gaza Panegyricus in imperatorem Anastasium (72) Q Quintiliano Institutio oratoria 9, 2, 27 (204); 10, 1, 47 (192); 3, 7, 28 (192); (180); (192) Ps. Quintiliano Decl. 18, 4, 26-27 (79) R Rhet. Her. 4,16 (41); (180) S Salutati, Coluccio De fato et fortuna (49) Seneca, Lucio Anneo Consolatio ad Marciam 9, 1, 1 (78) De ira (199) Epistulae 21, 8 (34) Tragoediae (180) Seneca Retore Controuersia 7, pr., 2 (34) Senofonte De re equestri (trad. lat. di Joachim Camerarius) (182) Simplicio Commentum ad Epicteti Enchiridion (trad. lat. di N. Perotti) (60); (61); (75); (91) Sofocle Oedipus Tyrannus (14) Sopatro Prolegomena (14)
Stazio, Publio Papinio Siluae (60), (63), (64), (90) Thebais (117) T Tabula Cebetis (153) Tacito, Publio Cornelio Germania (180) Teocrito Id. 23, 25 (42) Teognide fr. 489 West (47) Teodoro Metochite Saggio critico su Aristide e Demostene (15) Terenzio Hecyra 516 (78) Thomas Magister Ecloga vocum Atticarum (14) Tolomeo Almagestum (118) Trapezunzio (di Trebisonda), Giorgio Comparatio philosophorum Aristotelis et Platonis (63) ; (107) Epistulae Traversari, Ambrogio Epistulae 24, 9 (28) V Vespasiano da Bisticci Vite (62) Virgilio Aeneis 9, 615 (38); (180); (182); (183) Bucolica (180); (182) Georgica 2, 136-176 (127); (180) Vitruvio De architectura (24) Vives, Juan Luis De concordia et discordia in humano genere (155)
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Indice delle principali parole latine e greche
A Actio: 195 Aegritudo: 199 Alienigena: 201, 203 Aptum: 155 Argumentatio: 130 Auctor/auctores: 35, 145, 180 Auctoritas: 68, 190
I In absentia: 143 Inscriptio/inscriptiones: 50 Inuentio: 32 Imperium: 19 In pectore: 66 Intempestiuum tempus: 84 Interpres: 184
C Chirographus: 67 Ciuis/ciues: 202, 204 Consilium: 192 Conspectus: 7, 205 Corpus: 13, 14, 21, 24, 63, 65, 66, 68, 69, 77, 90, 91, 94, 97, 102, 130, 187, 200
L Laudandus: 125 Libertas: 18, 19, 203, 204 Licentia: 203, 204
D Dignitas: 31, 32, 34, 83 Dispositio: 32 Ductus: 49
O Opera omnia: 13, 20, 84, 184 Oratio: 182 Ornatus: 31, 32, 34, 89
E Editio princeps: 22, 65 Elocutio: 32, 188 Excerptum/excerpta: 49, 71, 72, 73, 91 Exordium: 38, 46, 135
P Pax Romana: 132 Persona loquens: 190, 194 Praeceptor: 179 Praeteritio: 78 Proprietas: 34, 190
F Fontes: 179, 224 G Genus orationis: 67 H Humanitas: 123, 144
M Modus: 75
R Ratio: 184 Recusatio: 31 S Schola: 86 Scientia rerum: 89
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in d i c e de l l e p r i n c i pal i paro l e l at i n e e greche
Sententia; ad sententiam: 27, 30, 33, 190 Similitudo morum: 60 Similitudo ueterum: 184 Sodalitas: 191 Studia humanitatis: 178 Studium litteratum: 60 Suasoria: 186, 192 Subscriptio: 50, 77 Summa: 20 T Tricolon: 79, 80, 82 V Variatio: 43, 85, 150, 151, 198 Varietas: 183 Verbum; uerbum de uerbo; ad uerbum: 20, 33, 89, 206 Vulgata: 41, 74, 141 Α Ἀλλόφυλος: 200 Ἀωρία; ἄωρος θάνατος: 74, 84 Β Βιβλίον: 143 Βουλευτήριον: 86 Γ Γένος: 37 Δ Δημηγορία: 192 Δευτερολογία: 190 Δυνάμις / δυνάμεις: 37, 46 Ε Ἐλευθερία: 204 Ἑλληνισμός: 144 Ἔργα: 37, 45
Ἐσχηματισμένος λόγος: 200 Ἐυρήματα: 37 Θ Θεωρικόν: 151 Ι Ἰσονομία: 204 Λ Λήκυθοι: 190 Μ Μαντευτός: 36 Ο Ὁμόνοια: 130, 136, 144, 145, 146, 149, 150 Ὁμόφυλοι: 200, 201, 203, 204 Π Πάθος: 76, 79, 80, 85, 86, 194 Παρρησία: 203, 204, 206 Παροξυσμός: 198 Πόλις: 19, 131, 148 Πρεσβευτικόν: 189, 192, 197, 199, 200 Πρῶτος εὑρετὴς: 69 Σ Στάσις: 129, 130, 136, 144, 146, 149, 150, 151 Σύγκρισις: 15 Τ Τόπος; τόποι: 32, 39, 69, 80, 81, 83, 84, 85, 88, 128 Φ Φρόνησις: 203 Φύσις: 37, 39 Χ Χορός: 82, 148, 149
Indice dei manoscritti citati
Berlino Staatsbibliothek: Preuss. Kulturbesitz lat. fol. 609: 25, 30 Città del Vaticano Biblioteca Apostolica Vaticana: Barber. II 61: 134 Ottob. lat. 1487: 25 Pal. gr. 90: 134 Reg. gr. 120: 134 Reg. Vat. 694: 120 Ross. 442: 65 Urb. gr. 122: 134 Urb. gr. 123: 16, 26, 134, 272, 299 Urb. gr. 125: 134 Vat. gr. 15: 135 Vat. gr. 74: 134, 299 Vat. gr. 75: 134, 272 Vat. gr. 325: 133 Vat. gr. 929: 134 Vat. gr. 932: 134, 135, 139, 141, 157, 158 Vat. gr. 933: 134, 135, 139, 141, 157, 158, 299 Vat. gr. 1299: 16, 26, 134 Vat. lat. 1487: 51 Vat. lat. 1883: 29, 31, 40, 42, 50, 51, 53 Vat. lat. 2934: 91 Vat. lat. 2974: 91 Vat. lat. 3027: 91 Vat. lat. 3910: 51 Vat. lat. 3966: 132 Vat. lat. 5860: 91 Vat. lat. 6526: 90, 91, 95 Vat. lat. 6835: 90, 91, 95, 101 Vat. lat. 7934: 25, 51 Vat. lat. 8086: 90, 91, 92, 95, 101 Vat. lat. 8750: 90, 92, 95, 101
Firenze Biblioteca Medicea Laurenziana: Laur. Abb. 9: 186, 273 Laur. VI 20: 30 Laur. LX 20: 186, 299 Laur. LX, 24: 186 Laur. plut. 90 sup. 37: 117 Laur. plut. 90 sup. 42: 28, 30, 31, 39, 42, 49, 51, 53 Biblioteca Riccardiana: 54: 28 364 (M IV 20): 117 620 (L IV 11): 117 Napoli Biblioteca Nazionale di Napoli: Neap. V.F.12: 63, 93, 95, 101 Parigi Bibliothèque Nationale de France: Paris lat. 16225: 25 Perugia Biblioteca Comunale Augusta: C 61: 65 Pisa Biblioteca Universitaria: 554: 120 Reims Bibliothèque d’Étude et du Patrimoine: Reims 1111: 50 Reims 1338: 50
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in d i c e de i m an o s c r i t t i c i tat i
Siena Biblioteca Comunale: G.VII.44: 24, 25, 26 H.IX.10: 119 Siviglia Biblioteca Colombina: 7-1-35 (D): 90, 94, 95, 101 Tübingen Biblioteca Universitaria: Mb 10: 28 Venezia Biblioteca Nazionale Marciana: Marc. gr. 419: 71, 73, 75, 76, 77, 98, 99, 101
Marc. gr. 424: 71, 99, 101 Marc. gr. 426: 71 Marc. gr. 427: 72, 73, 75, 84, 98, 99, 101 Marc. gr. 428: 72, 98. 101, 196, 205, 299 Marc. gr. 440: 196 Marc. gr. 442: 72, 73, 74, 75, 76, 84, 98, 99, 101 Marc. gr. 533: 67, 70 Marc. App. gr. VIII, 7: 73, 101 Marc. classis VI. cod. LXIX: 120 Wroclaw Biblioteka Uniwersytecka: Akc. 1949 Kn. 60: 25-30, 39, 40, 41, 43, 44, 50, 53, 223
Incunaboli e libri rari
Città del Vaticano Biblioteca Vaticana: Inc. II. 658: 65
Strasbourg Bibliothèque du Grand Séminaire: 1 If 30: 207
Sélestat Bibliothèque humaniste: k 1180a: 153 k 1180b: 153
Torino Biblioteca Nazionale Universitaria: XV.VIII. 99/2 (HC 5450; IGI 3039): 156
Riproduzione dei discorsi di Elio Aristide dalle edizioni di riferimento
Si forniscono di seguito, come indicato nella Premessa, i testi dei discorsi in greco tratti dalle due edizioni di riferimento, corredati dai due Conspectus in apertura e dai relativi apparati. Non si presenta qui una riproduzione speculare dei testi delle due edizioni: alcune parti dell’apparato sono state infatti omesse, qualora non siano risultate funzionali al confronto con la traduzione latina corrispondente. Si segnala infine che i numeri delle righe non combaciano sempre con quelli dell’edizione di riferimento; tuttavia in alto a sinistra sono indicati i numeri delle pagine corrispondenti, di modo che il lettore possa eventualmente verificare di persona sui volumi originali.
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INDEX NOTARVM quae in volumine altero occurrunt A = Laurentianus LX 3 (cf. praef. p. VII) = Γ Ddf. Ar revisor libri A A2 manus recentiores libri A A = Vaticanus graec. 1899 (p. IX) a = Vaticanus graec. 75 (p. IX) B = Bodleianus Canonicianus graec. 84 (p. XI) C = Laurentianus LIX 15 (p. X) D = Laurentianus LX 7 (p. XII) = Δ Ddf. E = Parisinus graec. 2950 (p. XII) F = Angelicanus III C 11 (p. XII) Q = Vaticanus graec. 1297 (p. X) R = Vaticanus graec. 1298 (p. X) S = Urbinas graec. 122 (p. XI) T = Laurentianus LX 8 (p. XIII) = Θ Ddf. U = Urbinas graec. 123 (p. XIII) O = prima scriptura librorum omnium O = consensus librorum A2 Aa in or. LIII Rsk. = J. J. Reiskius in Animadv. in auct. Graec. vol. V Rsk. 2= J. J. Reiskius in schedis Hanniensibus (p. XXXVI) Ddf. = Guilielmus Dindorf in editione Wil. = Udalricus de Wilamowitz – Moellendorff (p. XXIX) Schmid = W. Schmid, der Atticismus in seinen Haupvertretern, vol. II Aelius Aristides [voces] quae in libris extant deletae quae in libris extant additae / una // duae litterae erasae
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XVIII. (20) , - 15 - ’ , , , 20 _____________________________________________________ Or. XVIII : libri ARDUT = O
_____________________________________________________
Tit. AR : TU (D in indice), om. D 15 A1R1UTD2 : D1 et p. ras et A et R 17 20 O : Laur. Abb. 9 (Junt.) ; cf. Schwarz, Wien Stud. D 1A 2 1886, 79 ; hiatus ut removeatur, fort. scribendum ; post (9,1) transponi vult Kaibel (distinguens ante ) D1 mg. R2, in ras. (integram vocem aut priorem syllabam) corr. A2R2D2, ut A1R1 fuisse certum sit : TU (cf. p. 28,3)
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, . , , , . . 5 , , , ..... , , . 10 . , ’ , , , ’ 15 , . , ’ ’ , , 20 (frg. 94; 127 B4), ’ , , ’ . , , ’ ……, TESTIMONIVM 23 cf. Menand. Epid. p. 170 W. (350 Sp.) 1 ] sc. (cf. or. XXV § 19) 5 ] in 6 ] auget quae narrat p. 2, 11; 23, 20 ] DU 7 ras. T2 lacunam indicavi ; fuit quod illis v. 4 responderet (e.g. ….) 8 Ddf. e Baroc. 136 et Oxon. Nov. Coll. 259, falsus ; imperatores Romani et senatus intellegendi ; cf. or. XIX § 13 U1 ] e.g. Strab. XIV 646 11 scripsi : O 16 A (at ex parte eras.) RTD : 18 ] in ras. T2 ; § 3 continentur quae oculis cerni U ] D1 et verbis describi possunt ; § 4 quod vero neque cerni nec describi potest, est ; cf. or. XVII § 19 et 20 ; deleri vult Wil. () O ; ArR2D2 20 T1 Sapphonis A2U2, R2 add. U2 23 fragmenta composuit Wil. 22 ] in ras. R2 DU : ART ; Wil., ARDU1 : TU2 Schwarz l. c. 82 24 RT TA2 (praeter quod A1 Ar), (suprascr. R2) (ex corr. R2) ’ ( suprascr. R2) R ; D (at in ras. multo breuiore D2) U (in quo super ras. add. m. 2, cf. AR); secl. Schwarz l. c. 82.
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’ . , ….. , , ’ , , , , . . , , , ’ , ’ , , , , . - , , , , , , , . , , , ’ . , ’ 1 verba - adeo corrupta, lacunosa, turbata glossematis, ut certi nihil adsequi liceat ; e.g. propos. - , ’ (‘ruinae et intempestive mortuae urbi’), – [ ] – , . Wil., - , ’ (praepostere), , ’ – , - , – [] . Kaibel 2 AT2 mg. c. . R (at et in ras. R2) ; T ( et T2) ; DU, at in ras. (cf. T) et mg. c. . pr. m. ; lacunam indicavi, deest e.g. , ni plura ; cf. 3 RT, or. XX § 14 et Panath. I 156, 20 Ddf. ; secl. Rsk.2 U1 AD O 4 om. D 6 U, (s. l.) in ras. U2 ; Rsk. ; i. q. cf. Dion. Byz. p.3, 8 W. 9 Canter : O 10 - ADU : R1 omisso , quod add. mg. pr. m. et post in textum induxit R2 , T omisso ; cf. p. 22, 8 11 om. Thom. Mag. 266, 16 13 D 14 15 Wil. 16 prius om. U 18 ] in ras. DUA2 20 U 22 DUT R1T2
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˙ . 8 , , . . , , . , , . , . , . 9 - ’ -, , -, , . ’ ˙ , ... ˙ , , , 10 . , , , , , ; , , . 1 ] or. XXV 2 ] cf. ad. p. 22, 23 RDUT : A2 in ras. 7 corrupta ; videtur subesse sententia : ‘plausus qui mihi omnia praebebant’ ; plausu auditorum orator ad orationes, quae ei rerum omnium instar erant (cf. or. XXXIII p. 577, 22 sqq. Ddf.), incitabatur, ita ut plausibus illis omnia sibi dari profiteri posset 8 cf. or. XVII § 3 10 U, 11 T - ] superare studet personatum R2 Lysiam II 60 15 lacunam indicavi : e.g. , ˙(cf. v. 26) ; (propter pro dictum) dicit quae de pulcherrimo Smyrnae suburbio or. XVII § 14 sq. praedicaverat ; his sunt , quibus queritur, quod ’ iam Meles fluat ; iam olores et luscinias, quae pulcherrimum suburbium quondam incoluerant, iubet ; e Vindob. IV 326 Schwarz l. c. 79 17 ART, U, at ‘et corr. m. 2, D2 ex D1 19 om. D Subscr. AR, hic ’ addit ; T
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XXIV. (44) , , , , ’ , ’ , ’ 20 , Libri ASDUT = O Titulum om. D 17 A1, Ar T, A2 (aut Ar); , sc. in litteris, quibus Rhodii oratorem ut insulam visitaret invitaverant (Wil.) U D 21 del. U2 – ] cf. ad tit. or. XXV D (ci. Rsk.2)
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. ’ , ’ ' . ’ , ’ ’ , , , , ’ ’ . ’ . , , . , . ’ , ’ [] ’ , ’ . , , [] , , , ’ , . ’ , 3 O 10 DUT : AS 11 ’ S SDU2 ’ ATU1 13 iunge - ’(14) 14 SD 15 U om. D D 18 ] D 21 O ; cf. p. 44, 22 23 secl. Kaibel ( Rsk.) monens dativum ad mente facile suppleri, praesertim cum vv. ’ – subsequantur ; pro ci. Wil. ATU : D, S 26 D 27 SDUT2, om. AT1, seclusi 29 SDT : / / A, U 30 D
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’ . , , , , , , ’ , . ’ , , ’ ’ ’ , ’ . ’ ’ , , [ ] – † , – . , , , D AT et certo S1: D et in ras. et S2 et U2 2 | 3 ASU : D, T AS S1 5 D 7 S (brevi ras. praecedente) DU1 T (Junt., unde . Rsk.) 9 ] D om. SU 14 S om. U 15 D 16 D (cf. ) 17 p. corr. et S et U : O - ADUT, om. S, secl. iam Canter; frustra def. Schmid, Philolog. 1869 (I), 378 18 DUTA p. corr.: S (A a. corr., ut vid.) ] D ADUT, S ; verb corrupta necdum emendata ; pro ci. (, - ) Wil. (ut sit ‘afficiemini’) ; e. g. proposuit () , - , Kaibel ; fort. glossema ad D, U (A2) (sc. , v. 16) Rsk., inutiliter 22 D (Thom. Mag. p. 270, 19) 23 DU (v. 25) T1 omissis verbis – , quibus non repletis (ut desint in T) tantum in ] D (Thom. Mag. p. 271, 2) U corr. T2 D ] U
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, . , , ’ ’ , ’ ’ ( 182 sqq.). , 8 ’ , ’ ’ , , , , . , . . 9 , , . ’ . 10 [] , 2 A 5 U et libri Hom. 7 U 9 S ’] ’’ DT U, ex Homero corr. 10 T in confinio paginarum (fol. 189 r v) proponit e schedis Canteris Rsk.2 DU 11 ] Rsk. 13 D ADUTS2 mg. : S1 (quae del. S2) 14 scripsi : ’ O (ex praecedente natum) 15 ST : 17 ADU 16 A1 (corr. Ar), D T 18 ante ras. 3 litt. S 19. 20 - - SDT : - – A, - - U, add. mg. U2; evincit auctorem interpretamenti - legisse SD ad Ar (aut A1) mg. minutissimis litteris , quod cum praecedentibus iunctum voluit 22 24 T 23 DUS2 (- in ras.) : At (et fort. S1) TU2 25 seclusi : D, ASUT ; etiam post abesse vult Wil. ] humanae naturae
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[ ] ’ [ ] , , ’ , ’ , ’ , ’ , , , 11 ; , , , , , ’ ’ , [ ] 12 , . , ’ , , ’ , ’ 13 . ….. , . 1 ] S1 2 - seclusi; quo interpretamentum arguitur, om. SD 4 seclusi, glossema eiusdem interpretis ac v. 2 A : T pr. m., SDU 5 7 O U : AT, SDT1 mg. (edd.) T a. ras. 9 S a. corr. SDU 10 a. 12 AT : . corr. et S et T, D 11 D1 mg. T1, SUD2, D1, cf. v. 21 om. S1 13 ’ S 14 DUTA2 : S1 (corr. S2), A1 15 ] D Rsk. suspectum, expunxit D2, seclusi om. U, SDUT 17 A1S1U : ArDTS2 21 D fortasse recte 20 ] AU1, S, D ] in ras. S2 A 22 ’ DUT et in ras. S1 : ’ A 24 lacunam indicavi; e. g. . ; Hesiod. OD. 1124 D 25 S1
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, , , ’ . , ’ ’ . 14 , . (frg. 5 B4.) , , , . ’ , . ’ 15 , , , , ’ . , . ’ , 16 . , , [ ], , ] cf. ad p. 41, 4 A1, corr. post corr. ex S2 7 ADT, S1 ] Rsk., cf. Thom. Mag. p. A2 119, 19 ; - Lex. Vindob. p. 71, 6 ; 93, 12 11 O 13 A1 (corr. A2) S ( AUT : SD 17 D, cf. § 24 ) 14 ] A1T 18 D, ASUT ; genuinam esse lectionem (in D fortasse coniectura inventam : ‘subaudi Rsk.) non tam grammatica quam sententia evincit ; interpretamentum alius lectionis : voluit interpres - – 19 D 22 dubito an non genuina ; languent ] T DT A1 24 ] D 26 [ ] seclusi monente (corr. Ar) D Kaibelio e sanae sententiae ratione flagitari ; cf. p. 62, 20. 64, 28
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’ , , , , ’ , ’ ’ , ’ ’ , ’ ’ , ’ , , . , . ’ ’ , ’ . ’ , . , . , ’ . …… 1 D 3 AT1: U pr. m., SDT2 mg. c. . ] T S 8 om. D . SUT : A, . D 13-14 AT1U, inter et lacuna 6 - 8 litt. relicta D : . S et addunt mg. T2U1, cf. ad v. 25 14 ‘ neque ea mihi probatur ratio, ex qua tanto perniciosiorem discordiam civilem bello esse autumant, quanto pace bellum’ 20 add. Kaibel 21 24 ] U S 25 , A1, corr. A2 ’ SDUT1 mg. et Ar (nisi quod reliquit, quod in ’ corr. A2) : ’ ( 26 A : om. SDUT ; A) A1T, hausit interpetres sua e p. 63, 5 indicavi lacunam; argumentum fuerit : immo discordia semper visa est semperque videbitur esse amentia, quae liberam civitatem dedeceat ; adeo enim indigna viris liberis est, ut proavi nostri, qui maxime sua libertate superbiebant, vel tyrannidem interdum praestabiliorem discordia civili duxerint, idque recto usi iudicio.
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, , ’ , . (Plat. leg. IV 710 DE) , ’ ’ . 21 , . , 22 ’ , . , ’ , , , , , ’ , ’ , , . ’ ’ . , ’ , , . 23 ’ , , , 1 D 6 ] DU U 7 ASD : T, ( = ) U 9 ] cf. § 45, or. XXVII § 13 DU, cf. p. 62, 3 11 14 ATU1 : SDU2 A1, corr. Ar 16 ] S D U O (i. e. ) ; Canter 20 ’] ’ D - om. S1, add. S2 mg. 21 ADU (‘mihi consilianti tanquam medico’, cf. – ) : ST 23 ASD : UT 25 ’ 26 SD : ATU 29 sq. AD : S, UT ; suspectum
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. , , , , , , , . , , , , . , , , , , . , , , . ’ , . ’ . , , ’ , . , , , . ’ , , ’ , ’ 1 om. T 3 A ] Laur. 60, 20 (inde Junt.) U 11 SD ] D 12 S1 posterius om. A 14 sic O 16 UT 19 D U 22 .] nescio quo haec spectent ; ad Thuc. V 61 relata vult Wil. T 24 (sic) D 28 D 30 ] S 32-33 ’ D
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, ’ ’ , ’ ’ ’ ’ . - 30 , ’ . , , , , , ’ . , ….. 31 , - . , , , , , 32 , ’ , ’ . , , , . [] , 1 D 2 om. D et fortasse delendum 4 D ] 7 ] D 9 D 6 SDA2U2 : AU1T1 10 ( D) SDU2 : - , ATU1 11 ’ ] e Desmosth. XVIII 254 13 lacunam suspicatus est Rsk. ; argumentum fuerit : consentaneum erat e re fore 16 ] sc. ut homo privatus 17 Rsk. : O 20 scripsi : O (defendit Kaibel) ; ci. Rsk. D 22 A : SDUT, ob oppositum v. 21 additum 23 seclusi, cf. p. 64, 2 om. A, quorum in locum cessit 24 scripsi : A, TU2 U1, SD ; comparatio haec (urbis expugnatae) causa facta est, ut etiam v. 26 (cf. p. 64, 16) diceret ; ‘duarum partium’ quas statim ipsis nominibus appellat, cf. p. 64, 7
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, . ’ , . ’ , ’ , ’ . . , - , …. - , , , , . , . , , . , , . ’ , ’ , ’ , , , 2 D, S pr. m. : AUT 3 ’ D ’ U 6 DUS2 ( in ras., S1 incertum) : AT ] in ras. S2 7 ADUT2 ( in ras.) : S (et certo T1) r 8 SD : A TU, , ut videtur, A1 9 apud aegre careo 12 A1 (corr. A2) ; pronomine 10 add. U2 mg. futura ( - ) elegantiae : Krüger, Gr. Gr. § 53, 7, 1 13 lacunam indicavi : ad sententiam (vel ) desideratur om. S (lacuna amplior) 18 ] in ras. S2 U 22 UTA2, S1, A1 22 ] in ras. A2, A1 incertum 24 D 27 S 28 S : ADUT, cf. p. 62, 20 29 ] infra ras. corr. U2, D
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, , . ’ , 5 , ‘ , , ’ . , , ’ ’ , 10 . ’ , . , , ’ 15 , ’ , , , , [] , , ’ 20 , , 1 U, corr. U2, S A 4 deletum vult Wil., ne appositio a verbis, quibus subiuncta est, D separata sit ; cf. ad p. 53, 24 5 AD a. corr. U1T D 7 A p. ras. SDTU (at o in ras. U2) : A a. ras. 8 - S : - U, - D, 9 A1 (corr. Ar) S1 - AT1 ( T2) D S 10 D AT S, D 16 scripsi (cf. v. l. p. 66, 4) : O ; cf. Herodot. VI 75, 84 17 ST, U 18 secl. Wil. D 19 ASU1T : DU2 ; activum quod optimi libri testantur, apud a scriptoribus serioribus (e. g. Polybio) interdum exhibitum Rsk.2 : ASUT, D 20 an ? /////// D, c. 3 litt. eras. 22 D 23 . ‘ qui mala perpessi sunt, tribuunto ea fortunae adversae, idque pro summo habento solacio, quod fortunae illi () licet ea adscribere neque oportet tribuere ipsorum peccatis’ ; at cf. ad p. 66, 1
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, , , , , . 41 ’ , , , . ’ , , , 42 . , , , ’ ’ , ’ , , , , , , , , , 43 , ’ . , ] Wil. ; ut 1 T1, , add. U2 non necessarium, ita fortasse verum 2 addidi ] T 4 ] S1 ] D, . U2 mg. 7 11 cave temptes ( 13. 14) ] DU 8 U1 U A a. ras. : SDUTA p. ras. ( Rsk.) 12 15 ] in ras. ] D 14 ] in ras. S2 18 ] in ras. U2, A (- ex archetypi ) 19 Ar 21 U (ci. Canter) : om. D AU1 ; cf. or. XXVII § 14 23 D : SUT ASDT 22 S1, ut videtur A ArSDUT 24 D 26 U, . U2 mg.
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, , , ’ 44 5 [ ], , ’ , , , 10 , , , , , , , ’ ’ 15 , . 45 , , 20 , . . 1 ( A) AU : T, SD (cf. Schmid p. 76) 2 AT U pr. m., SD 3 4 D 5 U, D AT U1 p. corr. (corr. pr. m.) - seclusi : verba post ADUT, post S ; incerta sedes, inconcinna dictio (deest quod vv. . respondeat), ipsa brevis sententiae comprehensio v. 14 evincunt glossema (fort. ad explicandum inventum) 6 SDU2 ; cf. v. l. p. 3, 22 10 UT : ASD post add. A 11 D SDUTA2 mg. c. . : 1 A ; , si quid, sunt lacrimae nefandae, quae non ob bonam causam diffunduntur ; quod huius non est loci ] dubitanter Rsk. in litteris (J. J. Reiskes Briefe ed. Foerster p. 454 ; cf. J. J. Reiskens Lebensbeschreibung p. 459) 12 A1U : 13 ] S A2T1, D T2 mg. U1 mg. c. . ’ ] sc. 14 ] SD U T 15 (- Ar) A1 A U1 16 D 19 - 21 ] Rhodii nusquam Macedonum vel Aegyptiorum dicionis erant, deinde sub imperio Romano libera civitas : ergo semper Graeci, non Macedones nec Aegyptii (nec Romani). Ad spectat et et (Hom. B 653 sqq.), ad solum (or. XXXVIII § 13) 20 U om. D 21 DUT : A, S, delendum censeo
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, . , . , , . (B 655 sq.) ’ , , . ’ , . (B 668 sq.) ’ . , ’ . , , , ’ , , . ’ , , . ’ , 5 aut 4 ATU1 : SDU2 7 D, ut Homeri Vindob. AS Rsk.2 Aristidi non tribuendum videtur 9 haereo in (pro ) at fort. tolerandum AU : SDT A (deest spiritus) ST 11 ’ AU 13 om. U (quare in antecedentibus corr. U2) 14 () SUT pr. m. in ras. : () ADT a. ras. 16 U1 ] D 19 ] immo ; Canter 22 DS : ( = - ) T pr. m., AU AT : SDU 23 AT : SDU 25 D 26 AT, at s. l. add. T1 (aut T2), SDU; ‘pro fide quam vobis invicem habebatis’ ] sc. , quod e suppleveris
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, ’ . , , , ’ ; ’ , ’ , , , . - - ’ ’ , ’ , , . . , , , ’ , ’ , , ’, , . 1 ’ D 4 ] Rsk. ; potius deleverim 6 S1 8 A : SDUT ; cf. or. XXII § 11 9 AS a. corr. (corr. S1) ; ludit in et (‘quanquam – incolitis’) 9 ] T 10 S1DU ASUT, D 11 , ut videtur, A1 (corr. D 14 D : ASUT; praecedit A 2) (v. 12) SDUT D 19 ’ 21 D 22 SD : AUT 23 S1T ] D - ] cf. or. XXV § 4 ; locorum similitude praetor ceteras causa fuerit, ut Aristidi or. XXV addiceretur 24 ] cf. or. XXV § 4 ; Athen. Mitth. 1895, 223 om. A 25 28 D, cf. ad p. 73, 8 O 26 ] A2 UT ] Canter
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, , 55 . , ‘ , ’ , ’ , ’ ’ ’ 56 . ’ , , , , ’ , , ’ ’ , ‘ ‘’ ’ , 57 ’ . , . , 2 U ASDU : T 3 UTA2, DS 9 ] an ? 10 D 11 om. D 13 ] T ’ om. S om. D 14 hic inserui, post add. Laur. 60, 20 (inde Junt. edd.), Rsk.; at unam quasi notionem efficient ‘vere et (quia) pro illorum salute’; idem v. 6 17 S1 STD1 s. l.; om. A1, UA2 AS 18 ] S transposui : 19 ] ‘vel’ in comitiis, ubi maximus tumultus esse solet 20-21 ‘’ Wil., qui acclamationes agnovit : ASDT, U ; ceterum cf. Dio. Prus. Rhod. § 110 21-22 - suspecta mihi post ’ 23 - ] irrealem in modum dicta, quia oratio ad Rhodios missa est discordes, qui manus in iam continerent (sed rem manibus gererent) ; ludit in () 24 ] D
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572 J 844 D
, ’ ’ , , 5 . , 58 , ’ , ’ , ’ , , (Hom. N 10 115), ’ , , ’ , , ‘ ’ (Hom. A 218), 15 , ….. ’ 59 , , , 20 , , ’ ’ . ] fuit in civitate Rhodiaca certum 3 U : ASDT quoddam ius , quod peregrinis non aliter ac ius vel Rhodii factis populi scitis condonabant ; cf. IGI. I 49, 50. 383 (Rhodiorum) ; 762. 766 (Lindiorum) ; exaggerare oratorem Rhodiorum Dorismum patet DU (ci. Rsk.2) : AST 4 SU, postea 7 ] Pind. O. II 15 sqq. contulit Kaibel 8 U : inseruit T1 8 D 9 DU ] A a. ras. 10 ] ’ D Simonidis frg. 5, 10 sqq. B.4 exprimit 11 ’ ( D) ( U) 11 SDUT (cf. Simonid. l. c. v. 17) : A, interpretamentum 13 ] in ras. S2, D aptius post legeretur (respondet v. 6) ; fortasse inter verba supplevit interpres quod mente ex suppletum orator voluit ] D 14 ] A AU : ST (Hom.), D ; at etiam Eunap. p. 56 Boiss., ubi nunc , dedisse videtur 15 om. lacunam indicavi ; desunt e. g. , ita ut v. 16, quod nunc sensu caret, suam habeat explicationem; Aristides significat quae p. 61, 20 minatus erat 16 ] D 19-20 ] cf. ad or. XX § 23 Laur. 60, 20 (inde Junt. edd.) : O 22 ante ras. 1-2 litt. T ArUT Subscr. AT
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XLI. .
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[] , , , , 15 , , . ’ , 20 . , . ________________________________________________________________ Oratio XLI : libri ASFUT = O Orationem Aristides testari videtur or. L § 25 14 seclusi AU : SFT 18 ] Platonem (quare ) dicit respiciens legg. II 665 A sqq. ; cf. ad p. 332, 1 ; 333, 7 19 ’ ] ’ Canter (ex Junt.) ; Krüger, Gr. Gr. § 53, 2, 6
I 47 D I 28 J
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48 D
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, , , , , . , , , . . ’ , , [ ]. . . , , . ’ , (frg. 99 B.4) ’ . , . , , , ’ , , , , 1 SFUT 4 A1 (corr. Ar) SFU 5 AU (-) ; auctorem habet Herodot. II 146 ; cf. ad v. 19 7 FU ; eadem verba p. 325, 12 7 FUT 10 SFUT : om. A 11 STU2 : om. AFU1 12 seclusi, quae ex corrupta esse dubitanter ci. Kaibel .] cf. Preller-Robert, Gr. Myth. I p. 664, 2 13 U 16 post lacunam ind. Ddf. ; potius mente supplendum ] i. e. () : si inter viros (solos) eum spectes ; aut deleri aut scribi vult Wil. T ; i. q. barbatus, cf. Macrob. sat. I 18, 9 ‘item Liberi patris simulacra partim puerili aetate partim iuvenis fingunt ; praeterea barbata specie, senili quoque, uti Graeci eius quem , item quem apellant’ 17 om. U 19 ’ ] cf. Herodot. II 145 20 in ras. T1, . U1 mg.; F pr. m. 24 ] ut Neptunus, quippe qui Pegasi pater diceretur 25 ] Alcman. fr. 34 B4 (cf. Bergkii notam ad v. 5) 26 .] cf. p. 326, 18 ; Plat. Tim. 41 AB
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, ’ . , , ….. 8 . , , , . . , , 9 . ’ , , . . 10 , [], . 1 ] ci. Kaibel om. FU; lacunam post statuit Rsk. supplens , ut responderent - - - ] cf. Plat. legg. 671 E , ’ , 666 B .., 2 alterum om. U deleta vult Wil., at ad respondere videtur ; dubitanter ci. Kaibel 3 om. U AF 5 A1 (corr. A2) ; AFU1 : (sic) STU2 (Junt. Steph. Jebb) 3 6 ] in ras. ceterum cf. Aristot. poet. 1457 b 20 (Vahlen ad h. l. p. 50) U (ci. Rsk.) : ASFT 7 AS1 a. ras. T : S2 10 SFT : A, U 11 ’ S1 p. ras. FU FUT : ’ AS SUT : AF ] F 14 post add. US2 mg. (item addi voluit Rsk.2) 15 - 16 omissa add. U1 mg. FT F1 17 - ] Plat. symp. 177 E 18 ] ?; cf. etiam Eur. Bacch. 302 sqq. FU U AS : FUT A : SFUT ; cf. p. 305, 2 19 AS, FT, om. U, seclusi glossema ad spectans ; quod dicit Bacchum societatem ( – ) cum Minerva et Volcano (vel cum ) iniisse (ad cf. Plat. Prot. 321 CD) id redit fortasse ad (cf. Preller-Robert Gr. Myth. I 674, 2) 20 ] cf. Pind. I VII 3
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, . , . 5 ’ , , , ‘ ’ , . . 10 , ’ ’ ’ . , [] , [] ’ 15 ’ , ’ . [] , ’ . . . 2 U pr. m. ( = ) : ASFT A : SFUT ] cf. p. 305, 1. 2 3 ] cf. or. XXII § 6, pro Quattuorv. II p. 282, 18, or. (II) Sicil. I p. 589, 8 Ddf. 5 om. U 6 ] cf. Aristoph. vesp. 1019; Paroemiogr. Gr. I 340 7 – ] cf. p. 92, 10 ; falsa Kock FCA. III 496 frg. 468 - ] cf. Plat. legg. 653 E sq. AS : om. FUT 9 U T1 a. corr. ] impugnat Eur. Andromedae frg. 136, 1 N2. ’ ; item quae de Amore Plat. symp. 196 E ad Bacchum (v. 7) rettulit neque casu verbis v. 16 . memoriam Plat. symp. 178 C. 196 A suscitavit 10 / F 11 S : om. A (si recte enotavi) FUT; fort. e Soph. Ant. 990, ubi mox (v. 999) ( : , cf. p. seclusi, debebat hic , 318, 20) 13 U1 p. corr. v. 14 esse (cf. Schwarz, Zschr. f. öst. Gymn. 1885, 329 sq.) 14 U seclusi ; cf. ad v. 13 15 Ar : O FUT 15 ’ ] A 16 seclusi : AS, FUT ; ad insequentia cf. Eur. Bacch. 424 sq. ’ ] A 18 – ] cf. pro rhet. II p. 155, 8 Ddf. – Subscr. AST
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CONSPECTUS CODICUM ORATIONIS XVI a = Parisini graeci 2951 m. rec. (vide no. 39) B = Bodleianus Canonicianus graecus 84 (vide no. 36) D = Laurentianus graecus LX, cod. 7 (vide no. 21) F = (Romanus) Angelicanus III C II (vide no. 5) K = Vaticanus graecus 74 (vide no. 47) L = Laurentianus graecus LX, cod. 9 (vide no. 23) La = Laurentianus graecus LX, cod. 20 (vide no. 25) Lb =Laurentianus graecus LXXXV, cod. 9 (cuius collatio, quae est a R. Foerster facta – vide ed. Libanii vol V, p. 292 – invenitur in Guil. Krause dissertatione inscripta : Coniectanea in Aelii Aristidis πρεσβευτικὸν πρὸς Ἀχιλλέα, Glaciae 1875 (vide no. 26) Ma = (Venetus) Marcianus graecus 424 (vide no. 65) Mb = (Venetus) Marcianus graecus 428 (vide no. 67) Mc = (Venetus) Marcianus graecus 440 (vide no. 68) Pa = Parisinus graecus 963 (vide no. 35) Pb = Parisinus graecus 2961 (vide no. 42) q = Vaticani graeci 1297 m. rec. (vide no. 55) T = Laurentianus graecus LX, cod. 8 (vide no. 22) U = Vaticanus Urbinas graecus 123 (vide no. 63) V = (Venetus) Marcianus graecus appendix VIII, cod. 7 (vide no. 73) Va = Vaticanus gracus 933 (vide no. 53) O = consensus omnium codicum BDFKLTUV sive omnium sive exceptis eis qui nominatim afferuntur Camerarius = ed. A.D. 1535 ; vide Praefationis p. CIV Krause= dissertatio Guil. Krause, laudata supra s.v. Lb Norrman= ed. A.D. 1688; vide Praefationis p. CVII De nominibus aliorum virorum doctorum in apparatu laudatorum et de ceteris abbreviationibus, consulas conspectus pp. 4-5 p. 799 L
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XVI. (LII D.) , ’ 1 , . ’, 5 , , , ’ , ’ , ’ ’ , 10 , 2 ’ . , ’ , , . 15 . 3 ; , , 2 ~ 425 J(ebb), 548 D(indorf)
3 ~585 D.
12~586 D.
2 FKV (in hoc add. m. recentiss.) : LaMaTU : , i. m. Va : q : ’ Lb : Camer. 17 DFLUVaq : BKLaLbMaMbMcPaPbTVa Camer.
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. , ’ . , , . , [] . . , ’ , ’ , , ’ . , , . ’ . , ’ , , ’ , , , , ’ , . , 1 ~ 426 J.
6 ~ 587 D.
21 ~ 588 D
5 O : McPa Camer.
21 O : LMaPaPbq Thom. Mag. Camer.
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’ , , [’] , ’ . , , 5 , . ’ 8 ’ ’ , . ’ . 10 ’ ’ , ’ [] ’ . ’ 9 , 15 . ’ , . , . 3~427 J.
15~589 D.
6 McU : O Camer. : La : (sup. et ) Pa ; cf. Her. IX 70 7 ’ O : ’ Camer. () DFV : BKLaLbMbPbTVa Camer. : MaMb2 (i. m. .) : ( ultim. i. ras. U2, fuitne ?, Mc) ’ ( Vat. graec. 2250) ( Pa) F2LMa (i. m. .). Mb2 (i. m. .). McPaUaq Vat. graec. 2250, cf. Keil Praefat. Vol. II, XVIII et Lenz Ph. W. 55, 1935, 30-32 Aristeidesstudien Berol. 1964, 1305 et 132 sq. : cum hiatu Krause 9 DFV q : ( B) BKLLaLbMaMbMcTUVa : Pb Camer.
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10 , , ’ , . , , , . , . , 11 ’ ’ . , , , , , ’ ; , ; , , , ; 12 - , ’ - ’ 8~428 J.
16~590 D.
17 BDFL2 (i. m. .). PbUV (om. ). a cf. 812, 14 : (om. Mb) B1 (i. m.). Mb (i. m.). Va i. m., om. ), cf. 800, 20 : . LLaT : Lb : ( i. ras. K1) KMaMbMc Camer. : (post sup. lin. add. ) Va : Pa
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. , , , . ’ ’ 13 . ’ , , , , [ ] - , ’ . , [ ]. ’ . , 14 , ’ , , , ’ , . , ’ ’ , . , ’ . 9~592 D.
11~429 J.
16~593 D.
1 … om. Camer. 2 om. LLaPb Camer. 6-7 (om. V) ’ – DFPbUV : ( T) ( L) 10 Lenz : BKLLaLbMaMbMcTVa Camer. O Camer. 13-14 - uncis seclus. Lenz, qua glossa deleta hiatus quoque tollitur : - Camerarius
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, ’ . , 15 . ’ , . ’ , , . ’ ’ , ’ , , . 16 ’ , . , , , , . 17 , , , , , , , , [] 6~594 D.
12~430 J.
7 ’() BKMbTVVa : ’() DFLLaLbMaMb (ex corr.). McPbU Camer. 14 ] L : FV : DKLLaMaMbMcPbTUVa Camer : b Camerarius
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, , ’ , , , ’ 5 . , . 18 . , 10 . ’ , . 19 , . 15 ’ , ’ , , , 1~595 D.
13~596 D.
17~431 J.
3 - B ( i. ras. B2) DFK2LMcUV : () F1 (i. m. .) KLbTV1 (i. m. .) : (ssc. ) . Ma : . . ( ex 12 corr., quid sub. fuerit non dispicitur) Mb Camer. : . Pb Pb : O Camer. : fort. : Keil : vel Reiske ; Behr 15 ’ O : ’ ( postea add.) Mb : Camerarius 17 DFLMaUV : BKLaLbMbMcPbTVa Camer.
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, , 20 . , . , , ’ , . ’ , , . , , . 21 , , , , . ’ , ’ . , , . , . 14~597 D
2 U, ’ i. m. add. U2 : ’ Camer. 6 DF1KLLbMaU : FV: LaMa (ex corr.) MbMcPbTVa Camer. : ’ B 7 L primo om., tum corr. in et repet. T 9 Mc Camer. O : Camer. 14 LPb : O (ex corr. Mb) Camer.
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, ; . , ’ 22 5 , . , . ’ , ’ , 10 , . [ ] ’ ’ ’ 23 , ’ . - , , . 15 - ’ ’ 2~432 J.
4~598 D.
6 DMa : FLaLbMc : (corr. ex ) U : BKMbTVVa Camer. : 6 LPb : fort. verba vel delenda sunt 7 DFMaMcUV : BKLLaLbMbTVa Camer. : 13 DFMcPbU : V : ’ Pb ; cf. II 120 VII 3 BKLLaLbMaMbTVa Camer.
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. , , 24 . , , , . 25 , . , , ’ ’ , , , , , , ’ ’ . , , ’ . . , . 26 , [ ], ’ , , ’ , 4~599 D.
10~600 D.
4 om. LV Camer. BMa Camer.
13~433 J.
’ () McPbV Camer.
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, , ’ , 27 , ’ 5 , , ’ , 10 , ; ’ 28 , , ’ ’ 15 . , , . . , , 29 , , 20 , ’ , 4~601 D.
15~434 J.
19~602 D.
1-2 , ’ Lenz, Philol. 109, 1965, 150 sq. : ’ ( Mc) BDFLLaMbMcV (in hoc i. m. ) Camer. : ’ Pb : KT (in hoc post interp.) Va : LbMaU : 3 om. Camer. i. m. Va 10 Dind. : Camer.
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, . . , , 30 . ’, , . ’ 5 31 , . , ’ , ; 10 , , ’ , , ’ , , 15 32 , . , , , 10~603 D.
7 D : FKLaMaTUVVa Camer.: BLb : (sup. sign. vel litt. incert.) Mb : LMc : Pb ; cf. Soph Ai. 289 sq. … : Reiske : [] M. Hertz apud Krause
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. ’ , , 5 . , , 33 , , , 10 , ’ ’ † , ’ . , 34 . 15 , ’ ’ , ’ , . 35 ’ . ’ 20 ’ . . , ’ , , , 2~435 J.
9~604 D.
4 () F2 ( i. ras.) LLaMaPbUV : LbMc : Mb (ex corr.) : BDKMa (ex corr.) MbTV1 (in hoc i. m. ; ) Va Camer.
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, , ’ , 36 ’, , , ’ , , , , , ’ , ’ , ’ , ’, , . ’ , ’ . 37 , ’ ’ . , . , . . , , , , , 38 . 1~605 D.
6~436 J.
15~606 D.
7 DFKLLbMaMbMcUVVa : BLaPbT LbMaU : BDFK2LMbMcVVa Camer. : K : T, T1 : La : Pb 11 DFMaU : () KLLaMbMcPbTVa Camer. : BV 23 BKLLaLbMbTUVa : DFMaMcPbV Camer.
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, . , , 5 , , . . , ’ , 39 10 , . , , , . 15 ; , , , , 20 , , , 40 ’ . 8~437 J.
10~607 D.
21~608 D.
4 BDFLaLbTVVa : (ssc. sup. ) U : KMbMc Camer. : Pb : L 6 O : Camer.
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. , ’ 41 . - , , - . , - - 5 ; ’ , , ’ , [ ] , 10 , . 1 V: - O Camer. FKMaMcV Camer. BKLLaLbMaMbMcPbTVa Camer. : DFUV
2
Indice
Prefazione Premessa Abbreviazioni Elenco delle traduzioni latine di Elio Aristide conosciute in ordine cronologico (1417-1566)
5 7 9 11
Introduzione
13
Capitolo Primo. La prima traduzione latina di Elio Aristide: Il Bacchus di Cencio de’ Rustici
23
Capitolo Secondo. Il genere monodico tra antichità e Rinascimento: Niccolò Perotti e la Monodia per Smirne
59
Capitolo Terzo. La ‘concordia’ di Elio Aristide nella crisi del 1494: La traduzione latina di Carlo Valgulio del discorso Ai Rodiesi, sulla concordia
115
Capitolo Quarto. Joachim Camerarius e il valore dell’imitazione: La traduzione latina del Discorso d’ambasceria ad Achille
177
Conclusioni Bibliografia Indice dei nomi propri di persona Indice dei nomi di luogo Indice degli autori e dei testi citati dell’Antichità, del Medioevo e del Rinascimento Indice delle principali parole latine e greche Indice dei manoscritti citati Incunaboli e libri rari Riproduzione dei discorsi di Elio Aristide dalle edizioni di riferimento La fortuna umanistica di Elio Aristide. Résumé détaillé
223 227 247 253 257 265 267 269 271 319
La fortuna umanistica di Elio Aristide Résumé détaillé
Aelius Aristide (117 - après 180 après J.-C.), né en Mysie au nord de la côte d’Asie Mineure, est l’un des principaux représentants de la Seconde Sophistique. Appartenant à l’élite politique sous la dynastie des Antonins, il fut l’un des plus importants modèles de prose grecque, et ce jusqu’à la chute de Byzance. Il composa de nombreuses œuvres, parmi lesquelles cinquante-trois discours qui nous sont parvenus, transmis par le biais de deux cent cinquante manuscrits témoignant de la grande fortune du rhéteur à l’époque byzantine. Un programme international en cours vise à la publication des opera omnia d’Aelius Aristide, fondée sur l’ensemble de la tradition manuscrite. Jusqu’à présent, les éditions modernes ne prenaient en considération qu’un petit nombre de textes. Jusqu’à la publication par Bruno Keil en 1898 des discours 17-53, l’édition de référence était celle de Wilhelm Dindorf, datée de 1829. Les discours 1-16 ont, quant à eux, été édités par Friedrich Walter Lenz et Charles Allison Behr, et publiés par ce dernier dans les années 1870-1880. L’auteur était déjà cité par les Anciens, parmi lesquels Hermogène qui, à la fin du deuxième siècle de notre ère, le mentionne dans ses écrits (Sur les formes du discours 1, 6 et 2, 7 ; Progymnasmata, 9). De même, Phrynichos, selon ce que Photios rapporte dans sa Bibliothèque, vouait une vive admiration à l’œuvre du rhéteur. D’autres auteurs tiennent en grande estime les écrits d’Aelius Aristide, parmi lesquels Claude Galien et Damien d’Éphèse ; ce dernier représente la principale source orale concernant le rhéteur dans La Vie des Sophistes de Philostrate d’Athènes (2, 23, 605). Parmi ses admirateurs, les discours de Libanios montrent combien l’influence d’Aelius Aristide est importante, l’auteur du ive siècle y faisant écho ou employant des imitations directes ou implicites. L’un des exemples les plus emblématiques est celui de l’Antilogia (or. 5 Förster), composée dans un esprit d’émulation envers l’auteur, comme une réponse à son Discours d’ambassade à Achille (or. 16 Lenz -Behr). De toute évidence, le milieu où Aelius Aristide est le plus présent est celui de la rhétorique, comme le montrent les Prolégomènes de Sopatros et Ménandre le Rhéteur, qui cite les discours d’Aelius Aristide comme des modèles d’oratoire épidictique. Son style, caractérisé par une remarquable érudition, est la principale raison de sa fortune dans les œuvres lexicographiques. C’est en raison de cette particularité que plusieurs passages sont repris dans les travaux de Longin (iiie siècle), dans les scholies à l’Œdipe Roi de Sophocle de Maxime Planude (xiiie siècle) ainsi que dans l’Ecloga vocum Atticarum de Thomas Magister, rédigée au début du xive siècle de notre ère. L’influence d’Aelius Aristide est également attestée dans des œuvres philosophiques, parmi lesquelles les écrits de Porphyre (iiie siècle), d’Olympiodore le Jeune (vie siècle), de Michel Psellos (xie siècle) et de Gémiste Pléthon (xve siècle). Tous reprennent les Discours Platoniciens (orr. 2-4), qui constituaient une vigoureuse défense de la
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rhétorique face aux attaques de Platon. Ces philosophes, tous adeptes de la doctrine platonicienne, ne partageaient aucunement le point de vue d’Aelius Aristide et le blâmaient sévèrement. Cela montre toutefois que les discours de ce dernier étaient lus au sein des cercles philosophiques. Si Michel Psellos condamne la perspective anti-platonicienne du sophiste, il fait cependant l’éloge de ses compétences rhétoriques dans le De operatione daemonum, où il conseille sa lecture aux côtés d’Isocrate, de Thucydide et de Démosthène. L’auteur byzantin Théodore Métochitès (1270-1332) écrit, quant à lui, un Essai critique sur Démosthène et Aristide, sorte de σύγκρισις des deux auteurs, sous différents points de vue. La postérité de ses œuvres témoigne l’intérêt multiple et varié pour les écrits d’Aelius Aristide. Alors que la place qu’il occupe dans la littérature de l’Antiquité tardive est méconnue d’André Boulanger lors de la parution de sa monographie Aelius Aristide et la sophistique dans la province d’Asie au IIe siècle de notre ère en 1923, celle-ci a été récemment réévaluée par plusieurs études, qui mettent en évidence le rôle de premier plan du rhéteur dans la production littéraire des auteurs contemporains et tardifs, permettant ainsi de lier Aelius Aristide aux époques plus récentes, jusqu’à l’empire byzantin tardif. Pour le début de l’Humanisme en Italie, l’arrivée de Manuel Chrysoloras (1355-1415) à Florence représente un événement décisif dans la tradition occidentale d’Aristide. En 1397, Coluccio Salutati (1331-1406), alors chancelier de la République de Florence, offre au grand érudit byzantin la première chaire publique de grec. C’est à cette période que débute le véritable Humanisme, entendu comme une période de redécouverte de la civilisation et de la langue grecques à travers la lecture des textes, dont on avait perdu toute mémoire en Europe occidentale. Parmi les textes apportés en Italie par Manuel Chrysoloras se trouvaient certainement des discours d’Aelius Aristide. Ils sont étudiés par son élève Leonardo Bruni (1370-1444), célèbre humaniste et homme politique de la République de Florence, qui n’en établit pas une véritable traduction mais analyse le Panathénaïque (or. 1), en tire les plus importants topoi et les emploit pour donner une structure rationnelle à sa description de Florence (Laudatio Florentinae urbis). Un autre élève de Chrysoloras, Cencio de’ Rustici (1380-1445), accomplit la traduction du Dionysos lors du Concile de Constance (1414-1418). Manuel Chrysoloras est donc un intermédiaire fondamental dans la transmission des écrits du rhéteur grec, de Byzance à l’Italie. Parmi les manuscrits apportés par le byzantin se trouvent le Vat. Gr. 1299, daté entre la fin du xiiie et le début du xive siècle, et le Vat. Urb. Gr. 123, daté du début du xive siècle, connu sous la dénomination U dans les éditions de référence Le cardinal Bessarion est une autre figure à l’origine de la diffusion de l’œuvre d’Aelius Aristide. À l’image de Manuel Chrysoloras, il arrive en Italie à l’occasion du Concile de Ferrare en 1438, avec l’intention de rapprocher le monde grec du monde latin, dans la perspective de lutter contre la menace turque. Afin de conserver et de transmettre le savoir grec en Occident, le cardinal offre à la ville de Venise sa bibliothèque, qui forme aujourd’hui le premier fonds de la Bibliothèque de SaintMarc. Parmi les ouvrages se trouvent de nombreux volumes contenant des œuvres d’Aelius Aristide, comme l’indiquent les catalogues de l’époque. Plusieurs n’ont pas pu être identifiés avec précision, puisque de nombreuses entrées de l’inventaire de la
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bibliothèque se réduisent à la mention du nom d’Aristide. Un grand nombre de ces livres devait provenir de la bibliothèque de Giovanni Aurispa (1376-1459), humaniste connu pour la redécouverte de nombreuses œuvres anciennes, et dont la bibliothèque a été dispersée à sa mort. De ses voyages à Constantinople, l’érudit aurait rapporté des textes grecs rares, tels l’Iliade en deux volumes (Marc. Gr. 453-454). Parmi les érudits à l’origine de la promotion des textes d’Aelius Aristide en Europe occidentale se trouve également Francesco Filelfo (1398-1481), qui voyagea lui aussi à Constantinople afin d’y étudier le grec et d’y collecter des manuscrits. Actif entre 1420 et 1427, il mentionne dans une lettre destinée à Ambrogio Traversari (1386-1439), théologien et humaniste, l’importance du rhétoricien. Les manuscrits d’Aelius Aristide apparaissent également dans les premiers inventaires de la Bibliothèque Vaticane, établis sous le pontificat de Nicolas V (1447-1455). Cependant, l’identification de ces exemplaires et de leurs origines doit encore être étudiée. On possède, pour l’analyse de la réception d’Aristide en Occident, cinq traductions latines de textes grecs d’Aelius Aristide, datées entre le début du xve siècle et la première moitié du xvie siècle. Il s’agit, par ordre chronologique de parution, du Bacchus traduit par Cencio de’ Rustici (1416 à Constance) à partir du Dionysos d’Aelius Aristide (or. 41) ; de la Monodia in deploratione Smyrnae traduit par Niccolò Perotti (1471 à Rome) à partir de la Monodie pour Smyrne (or. 18) ; du Aristidis oratio ad Rhodienses de concordia traduit par Carlo Valgulio (1497 à Brescia) à partir du discours Aux Rhodiens, sur la Concorde (or. 24) ; du discours In laudem Romae traduit par Scipione Carteromaco (1519 à Venise et Florence) à partir de l’À Rome (or. 26) ; et enfin de l’Oratio Vlyssis legati ad Achillem, traduit par Joachim Camerarius (1535 à Haguenau) à partir du Discours d’Ambassade à Achille (or. 16). Aucune étude complète des traductions latines d’Aelius Aristide n’est encore publiée à ce jour. Il nous a donc paru opportun de diviser notre étude en quatre chapitres, chacun traitant sous différents aspects (historique, linguistique et philologique) l’apport des humanistes avec les textes d’Aelius Aristide, lus et traduits en latin. Notre but est d’offrir un aperçu de la fortune du rhéteur durant l’époque humaniste, et ainsi de mettre en valeur son impact sur la formation des savants ayant vécu au xve siècle et au début du xvie siècle. Seulement la traduction de l’À Rome n’apparaît pas dans ce projet, cette œuvre monumentale méritant une étude distincte. La première traduction analysée est celle du Dionysos (or. 41), hymne en prose consacré à la divinité grecque de l’ivresse, traduit sous le titre Bacchus par Cencio de’ Rustici en 1416. Né à Rome entre 1380 et 1390, il fut l’élève de Francesco de Fiano (1340-1421) et étudia le grec avec Manuel Chrysoloras de 1411 jusqu’à la mort du maître en 1415. Il occupa le poste de secrétaire apostolique entre le 15 septembre 1411 et sa mort en juillet 1445. Tous ses déplacements étaient soumis aux mouvements de la Curie papale : il vécut d’abord à Rome, où il apprit le grec avec Manuel Chrysoloras qui s’y était installé après plusieurs missions diplomatiques, en suivant la Curie pontificale de Jean XXIII. Cencio de’ Rustici se rendit ensuite à Constance entre 1414 et 1418, au moment du Concile sous le pontificat d’Eugène IV, puis à Florence en 1435, et enfin à Bologne entre 1436 et 1438. Connu pour les liens qu’il entretenait avec les plus grands savants de son époque, parmi lesquels Poggio Bracciolini, Bartolomeo Aragazzi de Montepulciano, Ambrogio Traversari, Flavio Biondo et Leonardo Bruni,
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il se distingua pour son service à la Curie papale, la découverte de textes anciens, leur traduction et leur analyse philologique, ainsi que pour son activité d’enseignement. Au cours des années du Concile de Constance, Cencio de’ Rustici effectua plusieurs voyages en Europe avec d’autres humanistes, en quête de manuscrits anciens. Le plus fructueux s’avéra être celui de 1416, où il découvrit au monastère de Saint Gall, en compagnie de Poggio Bracciolini et de Bartolomeo Aragazzi, les Argonautica de Valerius Flaccus ainsi que l’Institutio oratoria de Quintilien dans sa version complète. Le récit de cette découverte est relaté par Cencio de’ Rustici lui-même, dans une célèbre lettre adressée à Francesco da Fiano. Cencio de’ Rustici se consacra également à leur étude et à leur traduction. Outre la traduction du Dionysos d’Aelius Aristide, il traduit le De uirtute et uitio et le Animine an corporis affectiones sint peiores de Plutarque, des lettres apocryphes d’Eschine, ainsi que le dialogue pseudo-platonicien Axiochos, qu’il dédia au cardinal Giordano Orsini iuniore. Grâce aux liens qu’il entretenait avec Manuel Chrysoloras, il eut accès au riche héritage manuscrit de son maître. En effet, plusieurs études récentes ont démontré que Cencio de’ Rustici a, pour sa traduction du Dionysos, utilisé un texte grec conservé dans le manuscrit Wroc, composé de sept cahiers écrits en partie sur parchemin et en partie sur papier, daté du début du xve siècle de notre ère et qui appartenait à Bartolomeo Aragazzi, lui aussi élève de Manuel Chrysoloras. Il s’agit d’un témoignage essentiel pour l’histoire de l’apprentissage du grec ancien au début du xve siècle, puisqu’il fournit le modèle d’une traduction humaniste, et permet ainsi de comparer de manière précise le texte grec original et sa version latine. Cette dernière nous est transmise par deux manuscrits datés de la première moitié du xve siècle : le Vat. Lat. 1883 et le Laur. Plut. 90 sup. 42. Celui-ci, rédigé par Bartolomeo Aragazzi et conservé à Florence, est d’une grande importance puisque s’y trouve un lexique bilingue des termes grecs connus dans le Wroc avec les correspondances latines de la traduction du Dionysos (f. 70v). Il s’agit de l’une des premières tentatives de réalisation d’une œuvre lexicographique, ainsi qu’un témoignage fondamental pour l’étude du grec à l’aube de l’humanisme. Dans les deux manuscrits latins du Bacchus se trouve également une préface, où Cencio de’ Rustici explique qu’il composa la traduction au début de l’année 1416, alors qu’il était à Constance, entouré de Manuel Chrysoloras et d’autres humanistes. Dans les premières lignes, il déclare qu’il s’est engagé dans un travail ardu, qu’il définit comme « perdifficile ». La difficulté réside dans la tentative de rendre en latin, de manière élégante et appropriée, le texte original en respectant la patria dignitas et le patrius ornatus. L’auteur explique avoir été inspiré par le contexte dans lequel il évoluait : le Dionysos s’accordait bien avec l’atmosphère du Concile, où tous semblaient être plongés dans des fêtes bachiques, ambiance d’ailleurs confirmée par des chroniques de l’époque et par une Facétie de Poggio Bracciolini (1380-1459). Les propos de cette préface montrent que l’humaniste n’avait pas saisi la réelle signification de l’hymne d’Aelius Aristide, qui contient un grand nombre de références à l’aspect « duel » de la divinité et possède donc, de fait, un profond sens religieux. La question du destinataire du Dionysos se pose également : alors qu’aucun nom n’est mentionné dans le Laur. Plut. 90 sup. 42, Cencio de’ Rustici adresse la préface du manuscrit Vat. Lat. 1883 à un certain Pandolfo. Il s’agit, selon toute vraisemblance, de Sigismond Malatesta de
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Rimini (1417-1468), un évêque italien du xve siècle, fils de Malatesta IV Malatesta et d’Elisabetta da Varano, qui fût à la tête de l’évêché de Brescia et de Coutances, et qui prit part aux travaux du Concile de Constance. Ayant commencé sa préface par le cadre de composition de sa traduction, Cencio de’ Rustici rappelle l’importance de l’enseignement méthodologique transmis par Manuel Chrysoloras, pour qui il s’agissait surtout de dépasser la traduction ad uerbum (le mot à mot), héritée du Moyen-Âge, pour acquérir une méthode de traduction ad sententiam (traduction au sens), qui respecte davantage le texte original. Cencio de’ Rustici affirme avoir effectué ce travail dans un moment d’otium littéraire, en marge des travaux du Concile exercitationis gratia, c’est-à-dire pour éprouver ses compétences de traducteur. Malgré ces déclarations, la traduction de Cencio de’ Rustici reflète encore le stade précoce et rudimentaire où se trouvent des études grecques au début du xve siècle. Plusieurs passages ont été mal compris, et les nombreux ajouts du traducteur visent surtout à expliciter le texte et ne l’embellissent d’aucune façon. Toutefois, Cencio de’ Rustici a le mérite d’être parmi les premiers humanistes à diffuser, en langue latine, des textes grecs jusqu’alors inconnus. L’édition actuelle du Bacchus se fonde en grande partie sur les deux exemplaires manuscrits du xve siècle sus-mentionnés : un manuscrit rédigé à Constance entre 1414 et 1416 et conservé à la Bibliothèque Laurentienne de Florence, le 90 sup. 42 (désormais abrégé sous la forme L), contenant plusieurs variantes ; et un manuscrit de la Bibliothèque Vaticane, le Vat. Lat. 1883, qui présente plusieurs textes rassemblés durant les premières décennies du xve siècle pour le cardinal Giordano Orsini iuniore. Le deuxième discours d’Aelius Aristide traduit à l’époque humaniste est la Monodie pour Smyrne (or. 18), un discours funèbre composé en 178 après J.-C., après la destruction de la ville de Smyrne suite à un séisme. La traduction a été établie par Niccolò Perotti (1429-1480). Originaire de Sassoferrato, dans la région des Marches d’Ancône, il est surtout connu pour sa charge d’archevêque apostolique de Siponto à partir de 1458, et pour la rédaction de l’Appendix Perottina. Il apprit le grec auprès de Guarino de Vérone (1370-1460), lui-même formé par Manuel Chrysoloras, mais c’est surtout sa rencontre avec Bessarion et son poste de secrétaire auprès du cardinal qui lui donna l’élan nécessaire à l’étude de la langue grecque et à son activité de traducteur. Cette longue relation débute dès 1447, alors que Niccolò Perotti est en voyage à Rome auprès de l’ambassadeur anglais William Gray, et ne prend fin qu’à la mort du cardinal le 18 novembre 1472. Au cours de ces années, de nombreux humanistes se réunissent autour de Bessarion et font de la domus Bessarionea un lieu d’échanges littéraires et de partage d’idéaux communs. L’une des plus importantes activités patronnées par le cardinal a été le travail philologique sur les manuscrits de sa vaste bibliothèque. Les humanistes établissaient des traductions du grec vers le latin, collaboraient avec les typographes en vue de l’impression de certaines œuvres, et recopiaient divers manuscrits. L’ensemble du patrimoine livresque de Bessarion ayant été donné à la basilique Saint-Marc, nos recherches se sont principalement concentrées sur ce fond. En 1449, Niccolò Perotti soumet au pape Nicolas V la version latine de De invidia de Saint Basile de Césarée et du De inuidia et odio de Plutarque. Il continue à se consacrer aux traductions entre
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1450 et 1455, lorsqu’il suit le cardinal Bessarion à Bologne où ce dernier a été nommé gouverneur. Parmi elles se trouve celle de la Monodie pour l’empereur Manuel II Paléologue (1391-1425) : le texte original se trouve être un manuscrit autographe de Bessarion (Marc. Gr. 533), qui contient de nombreuses œuvres de jeunesse du cardinal dont cinq monodies. Ces dernières inspirèrent fortement Niccolò Perotti, qui décida de compiler plusieurs discours similaires. Ainsi, il réalisa en 1472 un corpus de monodies dédié au protonotaire apostolique Pietro Foscari (1417-1485), et qui comprenait la Monodie pour Smyrne d’Aelius Aristide, celle de Libanios pour la mort de Julien l’empereur, celle du cardinal Bessarion et pour finir un discours original composé par Niccolò Perotti à l’occasion de la mort de son frère Severo. Dans la préface, après un long éloge du cardinal Bessarion, l’humaniste dit avoir voulu se consacrer à ce genre ignoré des Latins, après avoir découvert un manuscrit chirographus, écrit de la main même de Bessarion (identifié par Giovanni Mercati comme étant le Mar. Gr. 533). Impressionné par la prégnance de la Monodie de Bessarion, il aurait éprouvé le désir de diffuser l’œuvre au public latin. Faisant une courte historiographie du genre, il rappelle que ce type de discours funèbre fut inventé par Aelius Aristide, puis repris par Libanios. Bien qu’il existe, chez les Latins, un genre similaire nommé nenia, personne n’avait encore produit des compositions analogues à celles du rhéteur. La traduction du texte d’Aelius Aristide se fonde d’une part sur les lectures personnelles de Niccolò Perotti, d’autre part sur son intention de répandre un genre littéraire encore inconnu de ses contemporains. Cette démarche l’amène à proposer une traduction assez libre, où sont insérés des intertextes littéraires destinés à embellir le discours alors que d’autres passages sont volontairement omis. L’aspect pathétique du texte reste, quant à lui, inchangé, et est destiné à émouvoir le lecteur. Grâce à la technique de traduction employée, plus élaborée que celle utilisée par Cencio de’ Rustici, l’entreprise est fructueuse : il ne fait pas de fautes, sauf aux endroits où quelques variantes sont présentes dans l’antigraphe, qui l’induisent en erreur. Le texte final est fidèle à l’original, la version latine émouvant le lecteur grâce au recours à de nombreuses figures de style, que Niccolò Perotti maîtrisait du fait de sa solide formation rhétorique. Quant à l’identification de l’antigraphe, la comparaison des manuscrits de Bessarion conservés à la bibliothèque de Saint-Marc et contenant la Monodie d’Aelius Aristide, nous a permis de reconnaître dans le Marc. Gr. 442 l’exemplaire dont s’est servi Niccolò Perotti pour sa traduction, celui-ci comportant un passage qui aurait pu induire en erreur l’humaniste. En effet, le terme ἤπειρον doit être traduit par « continent, terre ferme » ; alors que Niccolò Perotti y voit le nom de la région grecque de l’Épire. Cette faute est due à la graphie de la diphtongue ει dans le Marc. Gr. 442, qui peut être lue ἤπιρον. Il s’agit d’un témoin qui jusqu’à aujourd’hui avait échappé à l’attention aux éditeurs d’Aristide parce que le discours n’est signalé ni par le titre ni par le nom de l’auteur. Après avoir établi quel texte grec était à l’origine de la traduction de Niccolò Perotti, nous avons accompli l’édition de la traduction latine en nous fondant sur cinq témoins : les manuscrits Vat. Lat. 6835 (autographe), Vat. Lat. 8750 et Vat. Lat. 8086 de la Bibliothèque Vaticane ; le manuscrit V.F.12 de la Bibliothèque Nationale de Naples ainsi que le manuscrit 7-1-35 de la Bibliothèque Colombine de Séville. Nous
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n’avons pas pris en considération le manuscrit Vat. Lat. 6526, puisqu’il s’agit d’une copie du manuscrit Vat. Lat. 6835. L’édition contient deux types d’apparat critique : le premier indique les points où la traduction s’éloigne du texte de la uulgata, le second contient les variantes des différents manuscrits latins. En outre, nous avons établi les rapports entre les textes latins à partir de leurs variantes, en reconstituant un archétype aujourd’hui disparu, que nous appelons « X ». Le troisième texte d’Aelius Aristide a été traduit en 1497 par Carlo Valgulio (1434-1517), humaniste originaire de Brescia et secrétaire du trésorier papal Falco Sinibaldo puis du cardinal César Borgia (1475-1507). Il publia dans un volume la traduction latine du discours Aux Rhodiens, sur la concorde (or. 24) d’Aelius Aristide ainsi que celle d’Aux habitants de Nicomédie, sur la concorde avec Nicée (or. 38) de Dion de Pruse (40-120 après J.-C.). Le premier a été rédigé pour les habitants de Rhodes en 149 après J.-C., afin de les exhorter à la concorde et de conjurer l’intervention de l’autorité romaine suite à la violente révolte qui secoua l’île. Ce discours fait écho à la crise politique italienne de la fin du xve siècle, qui conduisit à la dissolution de l’unité des différents états italiens. Au moment de la première guerre d’Italie et de l’invasion du roi de France Charles VIII, Carlo Valgulio traduit, à dessein, les discours d’Aelius Aristide et de Dion de Pruse, et dédie ses versions latines au cardinal Francesco Todeschini Piccolomini (1439-1503), neveu de Pie II, d’abord légat d’Alexandre VI auprès de Charles VIII en 1494, puis pape sous le nom de Pie III pour une brève période entre le 22 septembre et le 18 octobre 1503. La préface de la traduction permet de saisir les motifs de ce choix : l’auteur y explique avoir réalisé les traductions en raison de la situation de crise et de discorde que connaissent plusieurs villes italiennes, suite à l’incursion du roi de France. L’actualité y est évoquée à de multiples reprises, et il est possible de reconnaître dans le discours de Carlo Valgulio une exhortation à l’unité, adressée aux souverains italiens, afin de faire face aux Français et à Charles VIII, définis comme Galli et décrits comme de féroces ennemis. L’humaniste suggère que seule la réunion des villes italiennes autour d’objectifs communs permettra d’opposer une réelle résistance au souverain français, tout comme Aelius Aristide avait prescrit aux Rhodiens de ταὐτὰ φρονῆσαι, c’est-à-dire de concevoir les mêmes idées, afin d’éviter l’intervention romaine. Contrairement à Aelius Aristide qui n’a pu encourager d’action politique parmi les Rhodiens, Carlo Valgulio a, par le biais de son œuvre, incité à l’union des territoires italiens sous l’égide d’un seul dirigeant. En effet, une figure politique fondamentale de cette époque apparaît dans sa préface : il s’agit de César Borgia, fils du pape Alexandre VI, dont les actions sont assimilées à celles d’Alexandre le Grand. L’analyse comparative entre le texte grec et la traduction latine par Carlo Valgulio montre que la traduction reste assez fidèle au texte d’origine, peu de modifications y étant apportées. Les intertextes montrent la culture classique de l’humaniste, puisqu’il fait référence à Térence, Cicéron, Martial, Lucrèce, Quintilien et Gaius. Les références à Cicéron y occupent une place spécifique, puisque lui-même avait fait de la concorde entre les classes dirigeantes le pivot de son programme politique. Cela permet de revenir, en partie, sur le jugement négatif émis par Charles Behr dans l’introduction de l’édition moderne de Lenz-Behr des discours 1-16 d’Aelius Aristide, qui considère la version de l’humaniste comme « a not bad, but crude
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translation ». L’analyse des deux textes permet de comprendre la technique de traduction de Carlo Valgulio, qui semble employer l’hendiadis comme principale ressource rhétorique. Dans la traduction, elle est utilisée jusqu’à quarante-sept fois et permet au traducteur d’amplifier certaines notions, sans en altérer le sens. En effet, la version latine contient assez peu d’interventions et de rajouts arbitraires. L’emploi de dédoublements permet ainsi d’insister sur certaines idées, et de mettre l’accent sur des passages du discours d’Aelius Aristide. Cette traduction n’est en aucun cas marginale, comme cela a été dit par le passé. En 1998, B. Brouard a démontré que Beatus Rhenanus (1485-1547) avait utilisé en 1523 la version latine de Carlo Valgulio pour la composition d’une épitre destinée à pacifier les révoltes internes à la ville de Sélestat, suite à la diffusion des idées de la Réforme protestante. Il s’agit d’un cas de réception à valeur politique, puisque les paroles d’Aelius Aristide ont permis, d’abord à Carlo Valgulio puis à Beatus Rhenanus, de louer les bienfaits de l’homonoia dans une société divisée, où l’intérêt individuel ne s’adressait qu’à son propre « particulare », comme le disait l’historien florentin Francesco Guicciardini (1483-1540). En ce qui concerne l’identification du texte grec utilisé par Carlo Valgulio, l’étude de l’apparat critique de l’édition de Keil de 1898 a permis de relever tous les cas où le traducteur s’éloigne des leçons de la uulgata. Nous sommes donc en mesure de déduire que l’humaniste avait à sa disposition un manuscrit lié à la famille du codex U (Urb. Graec. 123). Une recherche parmi les manuscrits de la Bibliothèque Vaticane contenant le discours 24, que l’humaniste a pu consulter lorsqu’il était secrétaire de César Borgia, a permis de concentrer l’attention sur deux manuscrits : le Vat. Gr. 932 et le Vat. Gr. 933. Plusieurs de leurs variantes correspondent à la traduction latine de Carlo Valgulio, permettant d’envisager que l’un de ces deux exemplaires ait pu servir à l’humaniste. Le dernier texte étudié est celui du Discours d’ambassade à Achille (or. 16 Lenz), une melete de sujet mythologique traduit en 1535 par l’humaniste allemand Joachim Camerarius l’Ancien (dont le véritable nom est Joachim Liebhard, 1500-1574), sous le titre Oratio Vlyssis legati ad Achillem authore Aristide. Le contexte de traduction diffère largement de celui de Carlo Valgulio. En effet, si au cours du xve siècle, la connaissance du grec était l’apanage des humanistes italiens, dès le début du xvie siècle, son apprentissage se répand au nord des Alpes. Les principaux foyers à l’origine de cette diffusion sont les monastères, devenus lieux de rencontres et d’échanges pour les savants, ainsi que les grandes villes humanistes comme Sélestat, Strasbourg, Nuremberg, Cologne et Augsbourg, centres culturels où se développe une éducation de haut niveau, surtout en ce qui concerne les matières littéraires. C’est dans ce cadre du renouveau de l’enseignement des langues anciennes, lié à la Réforme protestante, que s’inscrit l’intense activité d’étude et de traduction des textes classiques par Joachim Camerarius. Né le 12 avril 1500 dans une famille noble de Bamberg, il étudia le grec à Leipzig sous l’égide d’Eobanus Hessus (1488-1540), érudit et poète. Après avoir obtenu sa maîtrise, il s’installa à Wittenberg où il enseigna Quintilien à l’Université, dès le 14 septembre 1521. Durant ces années, il devint ami avec l’humaniste Philippe Mélanchthon (1497-1560), avec qui il resta en contact toute sa vie. En 1526, Joachim Camerarius accéda au poste de directeur de la nouvelle école
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latine de Nuremberg, et fut chargé d’enseigner le grec. Quelques années plus tard, en 1530, il assista à la Diète d’Augsbourg avec Philippe Mélanchthon, et l’aida à rédiger la Confession d’Augsbourg, l’un des textes fondateurs de la Réforme protestante. En 1535, il fut chargé de réorganiser l’Université de Tübingen, où il possédait également une chaire. Probablement en raison des controverses entre les luthériens et les partisans d’Ulrich Zwingli, il déménaga en 1541 à Leipzig, où il devient doyen de la Faculté des Arts et recteur jusqu’à sa mort en avril 1574. Comme l’indique sa biographie, Joachim Camerarius incarna toute sa vie la figure du pédagogue humaniste, occupé qu’il était par l’enseignement et la réorganisation des institutions universitaires de plusieurs villes allemandes. De ses écrits, on peut retenir de nombreux commentaires et traductions d’auteurs classiques, des ouvrages historiques, des biographies ainsi que de riches échanges épistolaires. Parmi les traductions les plus importantes se trouvent la version latine de la première Olinthyenne de Démosthène ainsi que le traité De l’équitation de Xénophon. Il édita également des auteurs grecs et latins tels Homère, Théocrite, Térence, Cicéron et Virgile, et s’intéressa à la rhétorique, à l’image de son ami Philippe Mélanchthon, comme le montre son Elementa rhetoricae, publié à Bâle en 1541. Sa « découverte » d’Aelius Aristide est liée à l’étude de l’Iliade, comme l’indique le type d’ouvrage où Joachim Camerarius publie sa traduction du Discours d’ambassade à Achille (or. 16 Lenz). Elle apparaît dans un volume dédié à Ludovicus Carinus (pseudonyme pour Ludwig Kiel, 1496-1569, humaniste et ami d’Érasme), publié en 1535 à Haguenau, où figurent également le Discours d’ambassade à Achille d’Aelius Aristide ; le Πρὸς τὸν Ὀδυσσέως ἐν Λιταῖς πρεσβευτικὸν ἀντιλογία Ἀχιλλέως de Libanios (écrit en réponse au rhétoricien) ; une paraphrase grecque du discours d’Ulysse et le discours d’Achille du livre IX de l’Iliade ; ainsi que les versions latines des discours d’Aelius Aristide et de Libanios. Dans le lettre à Ludovicus Carinus qui ouvre l’ouvrage, Joachim Camerarius cite et loue les écrits de l’humaniste allemand, et donne un jugement sur l’ensemble des textes qu’il choisit de publier. Il y affirme que ces œuvres possèdent une telle érudition qu’elles exigent un haut niveau de compétence, et insiste ainsi sur la nécessité de dispenser une bonne formation rhétorique, rendue possible seulement dans le cadre de l’enseignement supérieur, offert par les universités allemandes où Joachim Camerarius enseigne lui-même. L’analyse de la traduction du texte d’Aelius Aristide révèle deux aspects : le premier est un objectif didactique puisqu’il s’agit d’expliquer le texte grec avec des expressions tirées de la littérature latine ; le second est l’importance de Cicéron qui constitue, pour l’humaniste, un modèle. Il s’éloigne ainsi de la position défendue par Érasme dans le Ciceronianus, contre les imitateurs pédants de l’orateur d’Arpino. Toutefois, la traduction de Joachim Camerarius ne brille pas par une élégance particulière, en particulier parce que l’auteur ne tente, en aucune façon, de transporter en latin les figures rhétoriques grecques. Pour cette raison, nous estimons que le principal objectif de cette traduction était d’offrir aux jeunes étudiants universitaires allemands un instrument de rhétorique, utile et fondé sur l’imitation des auteurs latins. Pour l’édition du texte de Joachim Camerarius, nous avons utilisé l’exemplaire imprimé 1 If 30 de la Bibliothèque du Grand Séminaire de Strasbourg, qui contient les œuvres de plusieurs auteurs grecs. Aux pages 3 à 207 de ce volume se trouvent
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les publications de Joachim Camerarius datées de 1535, notamment la préface, les discours d’Aelius Aristide et de Libanios, une paraphrase grecque d’Homère et les deux traductions latines, à ce jour inédites. En ce qui concerne la recherche du modèle sur lequel l’humaniste s’est appuyé pour sa traduction latine, la comparaison entre le texte imprimé et les critiques présentes dans l’apparat critique de Lenz permettent de considérer le manuscrit Marcianus Graecus 428 (Mb) comme la possible source. Il semble toutefois indispensable de mener une recherche sur l’ensemble des manuscrits présentant les discours d’Aelius Aristide et de Libanios, puisque l’humaniste les a probablement copiés depuis un même manuscrit. Notre étude a permis d’exposer plusieurs théories sur la fortune d’Aelius Aristide à l’époque humaniste, et plus particulièrement sur son incidence dans le contexte culturel de l’Europe Occidentale, durant la période comprise entre le début du xve siècle et la première moitié du xvie siècle. Si la principale raison de l’étude d’Aelius Aristide par les humanistes réside dans la singularité de son langage et de son style, la destination des versions latines et leurs répercussions sur l’Humanisme européen sont diverses et variées, selon les époques et les contextes culturels. Le premier traducteur d’Aelius Aristide, Cencio de’ Rustici, nourrissait une motivation d’ordre linguistique. Dans la préface de son ouvrage, il dit lui-même qu’il voulait s’essayer à la traduction d’une œuvre grecque, même s’il s’agissait d’un travail perdifficile, et seule l’atmosphère « bachique » du Concile de Constance lui avait été propice. Les propos de la préface et la traduction en elle-même nous incitent à croire que l’humaniste n’avait pas saisi la profonde signification religieuse de l’hymne, dédié à une divinité ambiguë et problématique, et composé sans aucun doute pour un symposium. Il reste assuré que la traduction de Cencio de’ Rustici a donné à son élève, Bartolomeo Aragazzi, le matériel suffisant pour créer un lexique bilingue grec/latin. La renommée d’Aelius Aristide est, très tôt, liée aux grands noms de la rhétorique classique. Cela est également vrai pour la période humaniste, comme l’indique la lecture de la préface de Niccolò Perotti, où le rhétoricien est comparé à Démosthène et Isocrate et reconnu comme étant le fondateur de la monodie en prose. L’intérêt de Niccolò Perotti pour son discours funèbre est de nature éminemment littéraire : l’humaniste propose de servir d’épigone à Aelius Aristide pour le monde latin. Bien que la monodie latine en prose ne connaisse pas de véritable succès, l’humaniste de Sassoferrato a su saisir les particularités du discours du rhétoricien, et les transposer dans un latin élégant. La traduction de Carlo Valgulio montre un niveau plus remarquable que celui des traductions précédentes. Riche en figures de style et imitations classiques, elle témoigne avant toute chose d’une attention particulière portée au fondement du discours d’Aelius Aristide, à savoir la paix civique. La version de l’humaniste, contrairement aux traductions de ses prédécesseurs, est réemployée dans l’épître aux habitants de Sélestat, composée en 1523 par Beatus Rhenanus. Le message politique d’Aelius Aristide, par le biais de Carlo Valgulio, est utilisé afin de restaurer l’ordre social. Il est particulièrement significatif qu’après l’avènement de l’imprimerie, une traduction latine d’Aelius Aristide ait franchi la frontière italienne alors que les versions précédentes n’avaient circulé que sous forme manuscrite, dans un environnement
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différent. Ce fut la publication de cette œuvre à Brescia qui donna aux écrits de Carlo Valgulio, et par voie de conséquence au style et aux idées d’Aelius Aristide, une portée internationale. Peu de temps après, c’est Joachim Camerarius qui informe les lecteurs de la traduction du Discours d’ambassade à Achille de la nécessité d’étudier des œuvres d’auteurs grecs comme Libanios et Aelius Aristide, dans le contexte de redécouverte des classiques, et de leur importance dans l’enseignement. L’intérêt de l’humaniste allemand pour les deux auteurs était déterminé par leurs liens avec l’épopée homérique, et par l’intention de fournir des modèles rhétoriques et didactiques (il parle d’exemplum scholasticum dans la collection publiée à Haguenau en 1535), aux savants contemporains. Il recommande l’analyse de ces textes à un niveau avancé du curriculum scolaire. En outre, l’attention donnée aux écrits d’Aelius Aristide et de Libanios reflète l’importance renouvelée des études de rhétorique à l’époque protestante. Aelius Aristide a donc été apprécié dans le milieu humaniste à la fois comme modèle essentiel à l’exercice de la traduction linguistique, comme véhicule pour des messages littéraires et politiques mais surtout comme représentant exceptionnel de la rhétorique ancienne. Les deux discours civiques les plus importantes d’Aelius Aristide, à savoir le Panathenaikos (or. 1) et À Rome (or. 26), méritent des études particulières, que nous n’avons pu mener en raison de leur ampleur. Toutefois, il convient de noter que ces deux discours ont eu, elles aussi, une résonance particulière durant la Renaissance. Nous avons mis en exergue la motivation politique et historique de la traduction du discours Aux Rhodiens, sur la concorde de Carlo Valgulio. Cela suggère qu’Aelius Aristide était un auteur lu et étudié durant la période humaniste, non seulement à des fins rhétoriques et didactiques, mais encore pour les implications politiques de ses écrits. L’intérêt porté à ce célèbre orateur de la Seconde Sophistique, témoin privilégié des échanges fructueux entre le monde grec et l’Empire romain sous la dynastie des Antonins, était donc motivé. Tous les humanistes qui étudièrent et traduisirent Aelius Aristide eurent des rôles de premier plan dans l’administration, la culture, l’enseignement et les réformes religieuses de leur temps. L’œuvre d’Aelius Aristide contribua non seulement à l’apprentissage du grec, mais aussi à la formation humaniste, ce qui se reflète dans les décisions et les actions de ses lecteurs. Il s’agit, sans aucun doute, de la plus grande postérité des œuvres anciennes redécouvertes au cours de l’Humanisme. *** Le présent ouvrage est issu d’une thèse de doctorat en cotutelle entre l’Università degli Studi di Torino et l’Université de Strasbourg soutenue le 2 mars 2015 à Turin, sous la direction des professeurs Elisabetta Berardi et Laurent Pernot. C’est grâce aux enseignements et à l’inspiration reçus dans trois universités, Naples, Strasbourg et Turin, que j’ai mené mon étude en essayant d’apporter un éclairage sur un thème encore inexploré. Une expression de gratitude spéciale va à M. M. Gérard Freyburger et Laurent Pernot, qui ont montré de l’intérêt pour ma recherche et m’ont donné l’occasion
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de voir ses résultats réunis dans ce volume, en l’accueillant dans cette collection prestigieuse consacrée aux recherches sur les rhétoriques religieuses. Un sincère remerciement va aussi aux centres de recherche des deux universités de la cotutelle de thèse : le département StudiUm (Dipartimento di Studi Umanistici) de l’Università degli Studi di Torino et l’unité de recherche CARRA (Centre d’Analyse des Rhétoriques Religieuses de l’Antiquité) de l’Université de Strasbourg, où j’ai pu toujours compter sur le soutien des membres du Programme Aristide. Le soutien scientifique et matériel de ces institutions et les enseignements des professeurs, collègues doctorants et chercheurs m’ont été particulièrement précieux.