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Italian Pages 187 [195] Year 2007
Elio Aristide
A Roma traduzione e commento a cura di FrancescaFontanella introduzione di Paolo Desideri
I
EDIZIONI DELLA NORMALE
Indice
Introduzione di Paolo Desideri Scrittura pubblica e scritture nascoste Avvertenza AIAIOi APII:TEMOi EII: POMHN
Commento Bibliografia Indici Indice dei nomi e delle cose notevoli Indice dei termini greci notevoli
3
23 25 77 159 177 179 189
INTRODUZIONE
Questo volume costituisce uno dei risultati del lavoro dell'UR dell'Università di Firenze del progetto FIRB 2001 Il Mediterraneoanticoe medievalecomeluogodi incontTotTaOrientee Occidente,
Nord e Sud.
Scrittura pubblica e scritture nascoste
Il discorso A Romadi Elio Aristide, il testo che si presenta qui con il corredo - opera di Francesca Fontanella - di una nuova traduzione italiana e di un commento che mira a chiarirne specialmente gli aspetti storico,ideologici 1, è generalmente considerato, almeno a par, tire dalla Storiaeconomicae socialedell'imperoromano del Rostovtzeff (1926), un documento importante dell'integrazione delle élitesgreche nel corpo politico e amministrativo dell'impero di Roma2, anche se non mancano divergenze anche consistenti fra gli studiosi circa il modo di interpretarlo 3•
1
L'ultima traduzione italiana, di L. Achillea Stella, che era anche provvista di un
assai succinto commento, fu pubblicata nel 1940. 2 Vd. specialmente le pp. 181 sgg. della nuova edizione italiana accresciuta (curata
da A. Marcone), Milano 2003 (il Rostovtzeff definisce l'A Roma «il miglior quadro generale dell'impero romano nel secondo secolo, il più particolareggiato e il più completo che possediamo,.). 3
Elenco qui alcuni contributi - a mio parere i più significativi - all'interpretazione
DerPreis desAeliusAristides storica di questo testo negli ultimi decenni: V.J. BLEICKEN, auf dasramischeWeln-eich,in «Nachr. der Akad. der Wiss. in Gi:ittingen, Philol.-Hist. Kl.», VII, 1966, pp. 225-277 (il più deciso sostenitore del «valore del discorso come documento di una determinata condotta politica»: p. 234; importanti precisazioni sui criteri di lettura a pp. 254-255); E VANNIER,Aelius Aristideet la domination ramaine
d'après le discoursÀ Rome, in «DHA», II, 1976, pp. 497-506; R. KLEIN,Die Romrede desAeliusAristides.Einfuhrung,Darmstadt 1981; G. W. BowERSOCK,AeliusAristides,in The CambridgeHistory of ClassicalUterature,I: GreekUterature,ed. by P.E. Easterling, B.M.W. Knox, Cambridge 1985 pp. 658-662 (decisamente scettico sulla possibilità di vedere nel discorso qualcosa di più di un tour de forceretorico); R. SYME,Antonine
Monarchyand Gooeming Class, in lo., Roman PapersV, Oxford 1988, pp. 668-688, 681,683 ( «i sentimenti che egli [scil.Elio Aristide) esprime erano proprietà comune da tempo»: 681); J.M. CoRTlls, Elio Aristides.Un sofistagriegoen el Imperio Romano,
4 Paolo Desideri
Questo discorso sembra in effetti costituire la sanzione definitiva - nella misura in cui ne rappresenta la presa di coscienza intellettuale - di un processo di acculturazione politica i cui successivi sviluppi saranno poi la nascita del nuovo impero 'romeo' di Bisanzio, e più a lungo termine - possiamo forse aggiungere - la rifecondazione greca dell'Europa latino-germanica, a partire dalla diaspora culturale con cui si concluse quella nuova millenaria esperienza storica. E sarebbe importante verificare che ruolo in particolare abbia giocato la ricomparsa di questo testo, a partire dal XV secolo, nel circuito intellettuale europeo, dove avrebbe potuto servire a proporre in forme più elaborate il modello della Roma imperiale ai nuovi imperi che andavano allora strutturandosi: prima di tutto quello 'universale' degli Asburgo. Ma il problema che ci poniamo in questa sede è quello di capire quale sia stato il significato per cosl dire operativo di questo discorso nel momento in cui fu originariamente proposto in pubblico, o comunque nel contesto politico-culturale in cui deve aver successivamente circolato4. Sappiamo infatti che si trattò anzitutto di un discorso pronunciato a Roma al tempo dell'imperatore Antonino Pio, con tutta probabilità nel 144 d.C. 5, di fronte a un pubblico romano evidentemente di elevata qualificazione politica e culturale 6; ma è anche verosimile
Madrid 1995, pp. 38-54; S. SwAIN,Hellenismand Empire.lA.nguo.ge, Classicimand
Powerin the Greek World, AD 50-250, Oxford 1996, pp. 89-100 (ritiene che non ci sia nessun bisogno di pensare che Aristide creda a quello che dice su Roma (275, 279, 280; «sarebbe ingenuo supporlo,.: 283),dal momento che «elimina tutto quello che il suo uditorio non avrebbe gradito,. (282));L. PERNOT,Élogesgrecsde Rome, Paris 1997;K. BuRAsEus, Aelius AristeidesaLsPanegyriker und Mahner.Von Theorie und Praxisdes politisch-sova/en Gleichgewichts im griechischen Osten der Kaiserzeit,in Politische Theorieund Praxisim A!tertum,hrsg. von W. Schuller, Darmstadt 1998,pp. 183-203;J.M. CoRTts CoPETE , A Roma de ElioAristides,una historiagriegaparae! Imperio, in Costruzionee uso delpassato storiconellaculturaantica.Atti del convegno internazionale di studi (Firenze 18-20settembre 2003), a cura di P. Desideri, S. Roda e A.M. Biraschi, Alessandria 2007 (in corso di stampa), pp. 411-433. 4 Per qualche osservazione generale, nel contesto di una panoramica sui «discorsi
politici,. di Aristide, vd. il mio I.A.letteratura politicadelleélitesprovinciali,in Lo spazio
letterario dellaGreciaantica,I, 3, a cura di G. Cambiano, L. Canfora, D. Lanza,Roma, 1994,pp. 11-33,28-29. 5 Per la datazione mi attengo ai risultati dell'analisi dei dati prodotta da PERNOT 1997,pp. 163-170(AppendiceI). 6 Per le circostanze possibili della performance vd. PERNOT1997,pp. 19-21.
5 Scrittura pubblica e scritture nascoste
che il testo del discorso sia stato successivamente elaborato dall'autore in modo tale da poter circolare anche in una versione scritta, cioè più delle opere o meno nella forma che ancora oggi si conserva nel corpus 7 di Elio Aristide , e possibilmente, almeno all'inizio, in modo separato dal resto della produzione del sofista di Smirne. Ricostruire le vicende di questa originaria circolazione è al di là delle possibilità di un'indagine oggi; ma forse è possibile almeno tentare di ricavare dal testo una quantità maggiore di elementi - rispetto a quello che è fino ad oggi emerso - per quanto riguarda tanto le intenzioni comunicative, probabilmente varie, di un personaggio che era certamente un esponente di spicco della società greca romanizzata di Asia Minore, quanto la composizione dell'uditorio o degli uditori, reali o potenziali, di questi differenti messaggi. Un contributo alla discussione, in questi ultimi anni assai intensa, su quelle che sono state definite le «multiple identità» greche di età imperiale8, nella convinzione peraltro che almeno all'epoca che ci interessa il dibattito interno al mondo di cultura greco-asiana si polarizzi, in un'ottica che potremmo definire ancora plutarchea, attorno al tema del confronto Grecia-Roma. Di questo testo richiamerò preliminarmente e sommariamente i contenuti in quella che definirei la sua «scrittura pubblica»: cioè nella sequenza argomentativa del discorso principale, quale si presenta nell'ordine temporale e logico predisposto dall'autore forse già per l'uditorio al quale era destinata laperformance originaria; come vedremo, però, il testo ha anche una sua «scrittura nascosta», cioè propone una serie di discorsi minori paralleli o obliqui, indirizzati allo stesso o ad altri uditori (magari quelli raggiungibili soprattutto attraverso la versione scritta), nei quali si colgono contenuti comunicativi che
-
7
Per i rapporti tra performanceoratoria e redazione scritta nel contesto culturale
della della Seconda Sofistica vd. S. N1cos1A,La SecondaSofistica,in Lo spazioletterario Greciaanticacit., pp. 85-116, 108 sgg. Numerose e significative indicazioni circa i due diversi tipi di circolazione compaiono nei testi di Dione di Prusa, un intellettuale
e cronologicamente e tipologicamente vicino a Elio Aristide (vd. il mio Tipologia tlll'rietàdi funzionecomunicativadegliscritti dionei,in «ANRW», II, 33, 5, 1991, pp.
3903-3959,3914-3922). 8 Vd. ora C.P.JoNES,Multipleidentitiesin theageof the SecondSophistic,in Pa.ideia: The Worldof theSecondSophistic,ed. by B.E. Borg, Berlin-New York 2004, pp. 13-21, il quale ipotizza diverse possibili identità 'asiane' in Elio Aristide e soprattutto in Pausania.
6 Paolo Desideri
non fanno direttamente parte del discorso principale, eventualmente relativi a problemi lì non apertamente denunciati: una scrittura che cercheremo di recuperare nella seconda parte di questa introduzione 9• Il discorso si autodefinisce come l'adempimento del voto formulato dall'autore nel corso del viaggio compiuto per arrivare alla città (1-3 ): «che, se fossimo arrivati sani e salvi, avremmo salutato l'Urbe con un discorso pubblico,. 10; e inizia in effetti come un classico encomio" di città, con apprezzamenti e manifestazioni di ammirazione per la grandezza, la magnificenza e la prosperità di Roma (4-9). Ben presto però l'attenzione si sposta dalla città al suo impero (àpx~): chi «osserverà l'Urbe stessa e i suoi confini non si meraviglierà più che tutta l'ecumene sia governata da una così grande città,. (9); e a partire da questo momento, dopo una sezione di passaggio sulla funzione della città come polmone economico e culturale dell'impero ( 10-13), è l'impero stesso che ne costituisce fino alla fine l'oggetto esclusivo (14-109). Il discorso sull'impero si presenta a sua volta come esposizione delle ragioni della sua superiorità sugli imperi del passato, aperto da una nuova formula di passaggio: «non è facile decidere se sia più l'Urbe a superare
9
Con le espressioni «scrittura pubblica» e «scrittura nascosta» faccio riferimento
a quelle - «public transcript» e «hidden transcript» - usate da
J.C.Scott
nel libro
Dominationand cheArts of Resistance.Hidden Transcripts(New Haven-London 1990; per una definizione di questi termini vd. specialmente pp. 1-16). Questo libro- che,
J. Thomton
(Terrore,terrorismo e imperialismo. nell'etàdellaconquisr.a romana,in Terror et pavor.Violenza,intiViolenzae intimidazione midazione, clandestinitànel mondoantico.Atti del convegno internazionale (Cividale
per quanto ne so, solo ultimamente
del Friuli 22-24 settembre 2005), a cura di G. Urso, Pisa 2006, pp. 157-196, 177-178) ha introdotto nel dibattito storiografico dell'antichistica italiana - rappresenta una preziosa sistematizzazione in termini socio-antropologici di un concetto apparentemente ovvio, ma mai applicato con l'indispensabile rigore: la necessità di valutare le testimonianze storiche - specie quelle che si usano per ricostruire rapponi sociali e di dominazione politica - tenendo conto prioritariamente dei condizionamenti reali che stanno alla base del loro 'codice' comunicativo. IOEt crw8E[l]µEv, TTpooEpEi:v iv TciìµÉ.tv(I);
su questo carattere di ex-voto
vd. Commento. 11
Il termine compare (nella forma plurale) al par. 3 (Twv ÈyKwµ[wv TTpwTovàpx6-
sul genere vd. specialmente L. PERNOT,La rhétoriquede l'élogedans le monde gréco-romain,Paris 1993, pp. 178-216 (ma sui molti elementi di rilevante originalità µEvol);
dell'A Roma,vd. pp. 328-331, e In. 2004, pp. 26-28).
7 Scrittura pubblica e scritture nascoste
le città a lei contemporanee, o il suo impero a superare tutti gli imperi del passato» ( 13). Gli imperi del passato che vengono richiamati per il confronto sono anzitutto le àpxa( dei Persiani ( 15-23), di Alessandro (24-26) e dei Macedoni (27), e di seguito le ~yt:µov(m dei Greci (40-57); tra le due sezioni è inserita una prima ricognizione comparativa dei caratteri dell'impero romano, che verte sulle sue capacità amministrative, e sulle sue attitudini al contemperamento di dominio e libertà (28-39).Alla seconda fa seguito una seconda più ampia ricognizione comparativa (58-91), che partendo dal riconoscimento del valore strategico della concessione della cittadinanza romana (58-59), si diffonde poi sul carattere 'democratico' dell'impero (60-68), sulla pace universale che esso ha realizzato (69-70), ma poi anche sulla sua organizzazione militare (71-87), e infine sul ruolo dell'imperatore al centro dell'universo (88-89): in conclusione viene ribadita la superiore qualità dell'arte romana di governo (90-91). Chiude l'A Romauna sezione nella quale si sottolinea il ruolo centrale che in questo impero rivestono le città, specialmente quelle greche, viste come veicolo di diffusione universale della civiltà (92-99):è grazie alla valorizzazione e alla generalizzazione del modello urbano che i Romani hanno potuto imporre all'intera ecumene ordine e sicurezza, ottenendo che si realizzasse veramente il mitico ritorno dell'età dell'oro (100-109) 12• Cerchiamo di sgombrare subito il campo da un'iniziale difficoltà concettuale che mi pare rilevante, nonostante l'abilità retorica con la quale è gestita: il passaggio dal discorso sulla città al discorso sull'impero. Il problema si potrebbe porre in questi termini: per quale motivo quello che è essenzialmente un elogio dell'impero romano deve configurarsi come abnorme articolazione interna di un discorso sulla città di Roma? Si possono ipotizzare due risposte a tale quesito. La prima è la più ovvia: che in effetti l'impero di Roma, a differenza di tutti gli altri imperi fioriti nell'Oriente antico, e fino alle monarchie ellenistiche eredi dell'impero di Alessandro, è il risultato di una progressiva estensione, svoltasi nell'arco di secoli, di un dominio originariamente limitato al territorio di una città. La seconda è più sofisticata: non sarebbe stato comunque accettabile, né per la mentalità politica greca
-
12
Per una articolazione del discorso più rispettosa delle regole retoriche vd. PERNOT
1993, pp. 328-331; il Pemot sottolinea comunque (come si è ricordato) l'originalità dell'A Roma rispetto allo standard dell'elogio di città (331; vd. già BLEICKEN 1966, pp. 227, e poi
CoRT~
1995, pp. 43 sgg.).
8 Paolo Desideri
né, e forse soprattutto, per quella romana, che si proponesse - specialmente in una sede ufficiale quale presumibilmente fu quella in cui il discorso fu pronunciato - un elogio della forma-impero tout-court.A ciò avrebbe fatto ostacolo non solo e non tanto il fatto che non esistesse un genere retorico di questo tipo - questa era già piuttosto una conseguenza - quanto il fatto che l'impero, in quanto Stato territoriale considerato proprio dell'esperienza 'politica' orientale (e barbara), rappresentava la negazione stessa di quell'organizzazione cittadina, che tanto per i Greci quanto per i Romani era la sola possibile garanzia di libertà di esercizio dei diritti politici essenziali13• Dunque bisognava partire dalla città, in sostanza basandosi ancora sulla finzione di Polibio - un pensatore politico ben presente ad Elio Aristide - che aveva descritto l'organizzazione politica romana come quella di una rr6ALS; non per caso il nostro autore ripropone (90) la teoria dell'ordinamento politico romano come costituzione mista (una teoria che certo non è molto realistica a quest'epoca), e definisce - come vedremo - l'impero un' «unica democrazia universale» (60) 14: usa cioè una terminologia politica che è tipica dello Stato cittadino. Quanto all'inserimento delle egemonie delle città greche tra gli esempi storici di imperi da confrontare con quello romano, bisogna dire che, anche se si tratta di un elemento già presente in Polibio ( che menziona però esclusivamente l'egemonia spartana) e in Dionigi di Alicamasso, solo nel nostro elogio riveste - come vedremo - una precisa funzione all'interno dell'argomentazione comparatistica: per la prima volta queste egemonie acquisiscono il ruolo di precedente significativo, pur se per più versi inadeguato, dell'esperienza romana di uno Stato cittadino che si trasforma in un vero e proprio impero. L'interpretazione dell'impero romano che Elio Aristide propone ai suoi ascoltatori in Roma si sviluppa dunque dall'intuizione fon-
13
Cosa diversa è naturalmente la trattatistica sulla f3acnÀEta,che si configura come elogio delle virtù del re (ovvero critica dei suoi difetti), della quale sono esempio i discorsi I-IV di Dione di Prusa. 14
Ù~LOS, ÒÀÀÙKa8ÉoTT)KEKOLV~ TJÌS 'YJÌS {ÉVOS 6' oÙ6ELSOOTLSÒpXJÌS~ TTLOTEWS
(a proposito della possibilità offerta a chiunque di diventare cittadino romano). Altrove (38) la possibilità di ricorrere in appello è considerata come un qualcosa che «supera ogni forma di democrazia,. (TTWSovv rniha oÙK Èv To'is ÈTTÉKELva TTClCJT)S 6T)µoKpaT[as;). Su come si debba intendere il concetto aristideo di democrazia vd. BLEICKEN 1966, 252 sgg.
6T)µoKpaT[a ucj>'Évl T(jì àp[oT1p àpxovn
Kal KooµT)Tfi...
9 Scrittura pubblica e scritture nascoste
damentale che esso sia una sorta di dilatazione della città egemone, cellula originaria che si è moltiplicata in forma reticolare, adattando al suo sistema le entità politiche cittadine preesistenti, e creandone di nuove, fino a costituire la macrostruttura ecumenica che affascina l'intellettuale asiano 15• L'immagine del limes,il sistema di protezione dell'impero, presentato come un equivalente del muro di cinta della città (79-83), è quella che meglio esprime visivamente il concetto della città coestesa al suo enorme dominio. Ma più in generale è l'idea dell'impero come sistema di città che sta veramente alla base dell'analisi politica sviluppata in questo testo dall'intellettuale asiano 16• La ritroviamo per l'appunto nella descrizione dei caratteri, e soprattutto dei limiti fisiologici, delle egemonie greche, e nelle riflessioni che la seguono, dedicate all'illustrazione di come Roma abbia saputo superare questi limiti, ispirandosi al principio fondamentale che la lunga durata di un sistema politico può essere assicurata solo dal consenso dei sudditi, non da un impossibile uso della forza a tempo indeterminato. È sulla base di questa premessa che i Romani, veri maestri dell'arte politica, hanno saputo fare delle città la chiave di volta del loro dominio: infatti essi vi hanno sostituito i presidi militari - che avevano caratterizzato l'egemonia ateniese o spartana - con il ben più efficace strumento di controllo costituito dall'adesione delle élitespolitiche locali, guadagnate ad una leale collaborazione con Roma attraverso la concessione della cittadinanza romana (58-59). ln questo modo il governo dell'immenso impero si esercita sia attraverso gli organi amministrativi centrali (di cui subito parleremo) sia grazie all'azione convergente delle amministrazioni cittadine (64 ), e non c'è più bisogno di eserciti se non in funzione di protezione delle frontiere contro eventuali minacce da parte di popolazioni esterne. Anche nelle zone di confine destinate
-
15
PERNOT
1997, p. 40, parla di «mito politico»;
BLElCKEN
1966, pp. 240 sgg. esa-
gera la valorizzazione in termini di «riflessione politico-filosofica» di certi passi del discorso, nei quali in particolare vede una sorta di teorizzazione dell'impero come «stato universale». 16
Direi che è da valutare su questo sfondo anche l'unico apprezzamento che viene
riservato ad Alessandro (il cui impero è per il resto considerato del tutto incomparabile con quello di Roma): il fatto di aver fondato la città di Alessandria, che «fu un bene per voi, perché poteste avere sotto il vostro dominio anche quella che è la città più grande dopo la vostra» (26; cfr. anche 95); su questa sorprendente espressione 'teleologica' vd.
PERNOT
1997, p. 39.
10 Paolo Desideri
all'esercito vengono comunque fondate delle città (81), che costituiscono il presupposto per la realizzazione anche qui di quel modello consensuale di governo dell'impero che è già presente nei contesti di più antica urbanizzazione. E il finale dell'A Roma,con l'entusiastica descrizione della fioritura delle città, in particolare di quelle greche, sotto il dominio romano, ribadisce conclusivamente l'importanza che Elio Aristide annette alla componente urbana della società imperiale, vista ora come una sorta di palcoscenico monumentale sul cui sfondo si gioca la partita decisiva della sopravvivenza della cultura e del modo di vita greci, sotto la protezione romana 17• Tuttavia la molteplicità delle città non può di per sé costituire un sistema unitario: le tendenze centrifughe prenderebbero il sopravvento se non fossero presenti delle strutture di raccordo, quelle assicurate appunto dagli organi del governo imperiale che sono dislocati sul territorio. Alla trattazione di questo aspetto del dominio romano, nel quale si pone naturalmente il difficile problema del contemperamento della libertà cittadina con l'obbedienza imperiale, Elio Aristide funzionalizza il tema tradizionale del confronto con i grandi imperi del passato, in particolare quello persiano. Il discorso si concentra qui sull'analisi del ruolo e dei compiti della figura del governatore provinciale, il simbolo del governo di Roma nelle varie regioni dell'impero. Il confronto con il sistema persiano delle satrapie serve ad Elio Aristide per mettere a fuoco i requisiti fondamentali del 'buon governatore': l'essenziale è che non si tratti di una figura, tecnicamente, irresponsabile, cioè che il territorio non gli sia affidato - come accadeva con le satrapie persiane - per un periodo di tempo indefinito, senza alcun controllo sul suo operato da parte di un'istanza statuale più alta. Nel caso di Roma questa istanza è costituita dall'imperatore, il supremo garante di una giustizia assoluta il cui rispetto supera lo squilibrio di forza iniziale fra dominatori e dominati: tanto che l'oratore può proclamare di fronte ai Romani: «voi siete i soli. .. a governare su uomini liberi» (36) 18• È in questo contesto che Elio Aristide, debitamente riconosciuta l'importanza della possibilità di appello all'imperatore contro decisioni del governatore, parla dell'impero come di un ordina-
I? CoRT~S 18
pp.
1995,pp. 51 sgg.
Sul valore di quest'uso del 'voi' con riferimento ai Romani vd.
42-43.
PERNOT
1997,
11 Scrittura pubblica e scritture nascoste
mento addirittura migliore del sistema politico democratico 19 - dove non esiste appello - e dichiara ormai superate, al cospetto di questo «giudice supremo a cui nulla mai sfugge di ciò che è giusto» (38), anche le consuete forme di prevaricazione sociale, che affliggono gli altri tipi di Stato. «E qui si realizza una grande e bella uguaglianza fra il debole e il forte, fra lo sconosciuto e il famoso, fra il povero e il ricco, e fra chi è di oscure origini e chi è nobile, e si verifica il detto di Esiodo: "facilmente rende potente, facilmente abbassa il potente" questo giudice e signore, condotto dalla giustizia come la nave è condotta dal vento, che non favorisce e protegge di più il ricco e meno il povero, ma aiuta nello stesso modo chiunque gli capiti di incontrare sulla sua strada» (39)2°. Nell'attuale condizione di equilibrio sociale garantito dall'imperatore la totale libertà politica delle città non sarebbe tanto dannosa (come aveva affermato Plutarco 21), quanto inutilmente dispendiosa: al punto che l'oratore ritiene di potersi permettere di dichiarare in conclusione che in realtà il governo romano ha lasciati «liberi e autonomi» i migliori fra i Greci, «quelli che un tempo ebbero
-
19
Sulla 'democrazia' dell'impero secondo Aristide vd. BLEICKEN1966, pp. 239
sg.; 247 sgg.; CoRm 1995, 45 sg.; SwAIN 1996, pp. 281 sg.; T. ScHMITZ,Bildungund
Macht.Zursozia/enundpolitischen FunktionderzweitenSoprostik in dergriechischen Welt derKaiserzeit, Miinchen 1997, pp. 39 sgg. 20
Vd. anche 66 («è naturale che l'attuale stato di cose sia gradito e convenga ai
poveri come ai ricchi•); BuRASELIS 1998, 186 sgg. 21
Praec.824c. La differenza fra l'accettazione 'realistica' dell'impero da parte di Plutarco e il suo apprezzamento senza riserve da parte di Elio Aristide emerge chiaramente dalla messa in guardia formulata esplicitamente dal primo contro ogni tentazione dell'élite greca di farsi coinvolgere nell'amministrazione romana (814d); si parla naturalmente di posizioni ufficialmente assunte, giacché si deve mettere sul conto di una sorta di 'nicodemismo' aoont-lettreil fatto che lo stesso Plutarco, avendo in realtà ottenuto la cittadinanza romana, e peggio ancora esercitato una procuratela imperiale, ometta di farne in alcwi modo menzione ( vd. ora E. Lo CASCIO,Le città
dell'impero e le I.oroélitesnellatestimonianza di Plutarco,in Plutarcoe la culturadellasua età. Atti del X convegno plutarcheo (Fisciano-Paestum 27-29 ottobre 2005), a cura
di
P. Volpe Cacciatore, F.Ferrari, Napoli 2007, pp. 171-186, 184, con gli opportu-
ni riferimenti). La differenza - non di poco conto - sta dunque nel fatto che Elio Aristide proclama apertis 11erbis quello che Plutarco si era vergognato di ammettere (in mezzo c'è almeno una generazione).
12 Paolo Desideri
la supremazia», mentre anche agli altri in ogni caso sono garantite «moderazione, grande considerazione e cura» 22; solo i barbari sono trattati più o meno dolcemente a seconda della loro indole (96). Fin qui dunque la «scrittura pubblica» del discorso, ripercorso nella sua logica argomentativa e nell'articolazione dei suoi snodi principali: un discorso pronunziato, forse alla presenza dell'imperatore stesso23, di fronte a un pubblico romano elitario - del quale avranno fatto parte anche responsabili a livello centrale e regionale della struttura appena evocata (senatori, alti funzionari, governatori provinciali) - a cui viene evidentemente proposto un 'modello ideale', e l'invito a realizzarlo in pratica. Cerchiamo ora di vedere se al di sotto, o a fianco, di questo sia riconoscibile un livello di discorso configurabile come «scrittura nascosta», indirizzato obliquamente ad altri uditori. Potrebbe trattarsi della segnalazione di aspetti problematici dell'ordinamento imperiale occultati in quanto tali, o opportunamente mascherati, in modo da non influire negativamente nella ricezione del primo livello di discorso, ma da rimanere d'altra parte, come avvertimento o come raccomandazione, sullo sfondo del quadro idilliaco che figura in primo piano. Da questo punto di vista bisogna dire che non sarebbe in ogni caso difficile per l'ascoltatore identificare, dietro il quadro visibile, una serie di problemi; «questo discorso - dichiara Diane di Prusa in uno dei suoi Sullaregalità- fatto con semplicità, senza adulazione e senza acrimonia, di per sé solo consentirà di identificare e di apprezzare i caratteri del buon re, nella misura in cui gli somiglia, e di smascherare e infamare chi non li ha» 24• In ciascuno, o almeno in qualcuno, degli aspetti di quell'ordinamento che vengono presentati come altamente
22 Sembra
farsi eco del modo aristideo di considerare in forma 'integrata' il rapporto
fra città (greca) e impero Lo
CASCIO
2007, il quale insiste sulla limitata rilevanza
degli interventi del potere centrale nella vita politica cittadina, almeno fino alla fine del Il secolo; tuttavia il lungo discorso sull'esercito e l'allusione non tanto velata alla possibilità di usarlo con compiti repressivi ( 67; vd. oltre) mostra che per Elio Aristide lo 'Stato' imperiale è meno 'leggero' di quanto si potrebbe pensare. 23
Anche se questa presenza non può essere dimostrata:
24
1.15 (questa è naturalmente l'idea dello 'specchio del re').
1997,20 (lo stesso si deve dire per quanto riguarda i figli dell'imperatore, pur menzionati al par. 109). Condivido i dubbi di JoNES2004,p. 14 circa il carattere 'mercenario' della prestaziogrecquedeoontRome ne oratoria di Elio Aristide (come preteso da P.VEYNE, J.:identité et l'empereur,in «REO»CXII, 1999,pp. 510-567, 564). PERNOT
13 Scrittura pubblica e scritture nascoste
positivi si potrebbe cogliere cioè l'esistenza di un problema reale, del quale Elio Aristide - anche a rischio di essere accusato di adulazione, o di ipocrisia - intenderebbe semplicemente prospettare un certo tipo di soluzione; al limite l'A Romapotrebbe essere considerata, per lo meno ad un certo livello di struttura comunicativa, come un semplice elenco di problemi aperti, e di soluzioni possibili. E certo si dovrà fare un po' di tara, ad esempio, alle dichiarazioni appena riportate relative alla situazione di pace e armonia sociale che caratterizzerebbe l'impero - o almeno la sua parte orientale - a quel tempo; anche se Elio Aristide si guarda bene dal lasciar trapelare il minimo indizio che possa far pensare che ciò che egli descrive non sia una realtà di fatto, ma un puro auspicio. Tuttavia quello che a noi interessa non è tanto evidenziare gli elementi di implausibilità - che certamente ci sono - di un discorso encomiastico, quanto individuare fili di discorsi che rispondono ad una logica diversa da quella dell'argomentazione principale, anche se magari sono utilizzati per costruirla. Un indirizzo di ricerca promettente potrebbe essere ad esempio quello mirante ad inviduare non tanto critiche nei confronti dell'impero romano, quanto l'espressione di un risentimento, o meglio di un rimpianto, rispetto a quello che avrebbe potuto essere, e non è stato, un esito altrettanto glorioso della storia politica greca. Ecco il passo da cui si potrebbe partire, se volessimo tentare di ritrovare questa strada: «volevo esattamente dimostrare che prima di voi [scil. Romani] l'arte di governare nemmeno esisteva; se infatti fosse esistita, sarebbe esistita fra i Greci che certo si distinsero molto da tutti gli altri popoli in ogni genere di sapienza» (51); che dà la misura di un orgoglio 'identitaria' greco, certo più autentico - in quanto apparentemente incidentale - delle dichiarazioni enfatiche di ammirazione per Roma. In quest'ottica si dovrebbe prendere in considerazione preliminarmente una peculiare modalità espressiva del nostro testo: il fatto di collocare la descrizione del contemporaneo sullo sfondo di eventi o strutture che appartengono al passato, nella fattispecie un passato decisamente lontano. Ciò con cui l'impero romano viene comparato (giacché si tratta comunque di un ragionamento comparativo) non sono altre esperienze coeve- poniamo, l'impero partico- ma esperienze della storia del mondo greco di età 'classica', o di altri mondi (i Persiani) che hanno avuto contatti con i Greci in quell'età- e che sono comunque valutati sulla base di testimonianze greche e in un'ottica greca. Non si tratta certo di un tratto originale rispetto al panorama intellettuale dell'epoca: si sa che uno spiccato orientamento e gusto arcaistico è una caratteristica saliente dell'oratoria
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e della letteratura, ma anche della cultura figurativa del secondo secolo dell'impero, il secolo del 'rinascimento' greco25• Non è perciò il caso in questa sede di considerare globalmente il fenomeno, ma solo di riconoscere la presenza di questo elemento nell'A Roma,e di valutarne lo specifico impatto sul sistema complessivo di significazione di questo testo. Il riferimento a momenti politici qualificanti di quell'aureo passato, ormai lontano nel tempo ma tenuto sempre vivo nella coscienza collettiva del 'popolo greco' di Grecia e dell'Oriente ellenizzato da una capillare attività pubblicistica e letteraria dei maggiori intellettuali del tempo, serve a fissare i limiti dell'accettazione del dominio romano da parte di quel popolo. Ripensare la ragioni del fallimento dei tentativi 'imperiali' greci significa sì riconoscere la superiore abilità romana nel trasformare la vittoria sul campo in stabile modalità organizzativa di città e popolazioni vinte, ma anche alimentare sentimenti mai del tutto sopiti di rivalsa nell'élite politicoculturale greca, segnalando ad ogni buon fine quali sarebbero gli errori da non ripetere qualora si presentasse una seconda opportunità. Da questo punto di vista c'è un filo rosso, per cosl dire carsico, che lega la critica qui sviluppata da Aristide ad Atene e Sparta (40-57) - per non aver saputo creare strutture di consenso politico tra le varie città sulle quali hanno di volta in volta esercitato la loro egemonia - alla considerazione, più avanti (68), che le contese di un tempo erano state in realtà del tutto vane (guerre contro le ombre), alla denuncia, nel diverso contesto del discorso Sullaconcordiaallecittà, dell'incapacità di Pergamo, Efeso e Smirne di trovare fra loro un modus vivendi pur all'interno di un universo controllato da Roma 26• Si potrebbero cogliere qui anche altri collegamenti sotterranei - e dunque una rete di consonanze politico-intellettuali assai più estesa nello spazio e nel tempo - con le denunce più esplicite, fatte qualche decennio prima
25 Mi
limito a ricordare qui, anche per lo spazio che opportunamente accorda alla cultura figurativa, l'ultimo importante volume pubblicato su questo tema in Italia, esito di un Incontro tenutosi qualche anno fa (2000) presso l'Istituto Archeologico Germanico di Roma: Arte e memoriaculturaleneU'età dellaSecondaSofistica,a cura di O.O. Cordovana, M. Galli, Catania 2007; vi si troveranno tutti i principali riferimenti bibliografici atti ad orientarsi su una delle problematiche di storia culturale antica oggi più vivaci. 26 Or. 23 K. (vd. ora sull'interesse di questo discorso ai fini della tematica dell'identità
JoNES
2004, pp. 14-15).
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da Dione di Prusa, dello spirito di esasperata rivalità delle principali città greche di Bitinia, d'Asia o di Cilicia, che avrebbe consentito ai governatori romani l'impunità rispetto a qualunque abuso sulle popolazioni di queste stesse province. Appare suscettibile di essere interpretato, almeno in parte, in termini di «scrittura nascosta» anche lo spazio, che sembra decisamente eccessivo rispetto alle esigenze specifiche dell'argomentazione, dedicato da Elio Aristide alla descrizione dell'organizzazione militare romana 27; in fin dei conti, essendo menzionato solo qualche problema di frontiera considerato marginale (Geti, Libici, zona del Mar Rosso), ed essendo viceversa sottolineata l'universalità della pace romana (69-70), forse si sarebbe potuto fare a meno di insistere tanto su questo tema, che apparentemente è introdotto solo al fine di evidenziare per contrasto come l'impero romano si regga sul consenso, e non sulla forza. È per questo, in effetti, che «le città sono sgombre da guarnigioni», e che «coorti e truppe di cavalleria bastano a costituire il presidio di intere province», per di più «neppure ... ammassate nelle varie città di ogni popolo, ma... disseminate nei territori circostanti in mezzo al resto della popolazione, così che molte province non sanno nemmeno dove si trovi la loro guarnigione» (67). Potrebbe bastare; ma invece il nostro oratore, dopo aver celebrato le lodi della pace che grazie ai Romani regna nell'ecumene, riprende inopinatamente e senza una motivazione qualificata il discorso su questa componente dell'ordinamento imperiale - egli si limita in effetti a dichiarare, per così dire tautologicamente, che «ora è il momento di parlare dell'esercito e dell'organizzazione militare» (72). E così va avanti per diversi capitoli a disquisire sui suoi pregi: come opportunamente esso sia costituito da professionisti (71; 73), quanto lungimiranti siano le modalità del loro reclutamento (74-75; 76; 78), come sia curato il loro continuo addestramento (77); esaltando poi la grandiosità delle fortificazioni lungo tutto il confine dell'impero (79-83 ), e l'ancor più imponente schieramento dei soldati che ne rinforzano il dispositivo difensivo (84-86), per finire con considerazioni sulla tattica, sull'addestramento militare, e sul sistema di
-
27
1993, p. 330 sottolinea giustamente che Elio Aristide evidenzia in modo netto (72) il passaggio dalla descrizione dell'organizzazione civile a quella dell'organizzazione militare dell'impero; tuttavia questa seconda trattazione non è affatto preparata, anzi mi pare nettamente in contraddizione con tutto quanto precede. PERNoT
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comando (87,88 )28• Si potrebbe naturalmente pensare di giustificare l'inserimento di questa sezione con il fatto che già il sesto libro delle Storiedi Polibio (che come abbiamo visto è presente non solo nella ripresa del tema della 'costituzione mista') conteneva una descrizione dell'esercito romano; una giustificazione possibile ma di assai basso profilo rispetto alla complessità dell'impianto del discorso, tenuto anche conto del fatto che, comunque, Polibio aveva avuto i suoi buoni motivi per inserire questa descrizione nel contesto della sua trattazione della troÀL TELa romana. Non bisogna infatti dimenticare che Polibio considerava importanti per spiegare il successo della città tanto gli E0TJquanto i v6µ0L (6.47), e che quella descrizione dell'organizzazione militare romana gli serviva ad evidenziare l'integrazione dell'esercito con la società civile, e il suo ruolo di sede di gestazione e di convalida di valori universalmente condivisi nella cultura romana29• Si potrebbe dunque ipotizzare che anche per l'A Romavalga una motivazione di questo genere; ma la cosa già a priori appare poco probabile, dal momento che come si è visto Elio Aristide considera la separatezza e la professionalità dell'esercito come il primo degli aspetti positivi di questa parte dell'ordinamento imperiale romano. È vero che altre considerazioni sembrano dare indicazioni di segno djverso, in particolare quanto l'oratore afferma circa il fatto che gli uomini selezionati per entrare a far parte dell'esercito ricevono ipso facto la cittadinanza romana: «Nel medesimo momento in cui li avete fatti diventare cittadini, li avete dunque fatti diventare anche sol, dati, in modo tale che gli abitanti dell'Urbe non prestano il servizio militare, ma quelli che lo prestano sono nondimeno cittadini: non appena hanno preso servizio, hanno infatti perso la loro patria di origine, ma sono diventati, a partire da quello stesso giorno, cittadini e custodi della vostra» (75). Potrebbe cioè sembrare che Elio Aristide
28
E. GABBA, Le straregiemilitari,lefrontiereimperiali,in Storiadi Roma,4: Caratreri
e Morfologie,a cura di E. Gabba e A. Schiavone, Torino 1989, pp. 487-513, definisce a ragione questa sezione dell'A Roma «il miglior commento alla situazione militare dell'impero verso la metà del Il secolo d.C.» (p. 504); ma non so quanto questo sia compatibile con l'intento attribuito ad Aristide di presentare l'esercito come «un fattore positivo di unificazione attorno al nome di Roma» (p. 505). 29
Sono convinto che si possa dire questo, anche se la conservazione per estratti del
libro polibiano ha fatto scomparire i raccordi interni fra le sue varie parti, che di ciò avrebbero dato esplicitamente ragione.
17 Scrittura pubblica e scritture nascoste
intenda sottolineare come le modalità del reclutamento dell'esercito rappresentino una forma di potenziamento del consenso a Roma, nella misura in cui la concessione dello status di soldato costituisce di fatto un modo per promuovere l'ascesa sociale, anche tra i ceti inferiori della popolazione. È difficile però che Elio Aristide sia disposto ad accettare come un fatto positivo una così larga offerta di ascesa sociale - questo sarà stato piuttosto un prezzo da pagare all'esigenza di sicurezzadell'impero - mentre è tutt'altro che certo che sia questa la lezione che egli propone ai suoi ascoltatori di ricavare da questo comportamento romano. «Così tutte le città - prosegue infatti - sono grate a coloro che sono stati allontanati, come a uomini loro, ma nessuna singola città ha nemmeno l'ombra di una milizia composta dai suoi cittadini, e coloro che se ne sono andati non guardano altrove se non verso di voi» (76): quello che Aristide vede con piacere sembra essere piuttosto l'allontanamento dalle città di elementi economicamente e socialmente deboli, dunque fonte di turbolenza, anche in quanto potenzialmente massa di manovra di ambiziose aristocrazie locali. Anche questa considerazione potrebbe dunque rientrare nel registro 'nascosto' della messa in guardia delle élites cittadine: cosa che confermerebbe il sospetto che la lunga trattazione sull'esercito - a prima vista contraddittoria con il principio stesso ispiratore del discorso, e nonostante che l'esercito stesso sia presentato come un apparato rivolto a fronteggiare possibili minacce dall'esterno - debba essere interpretata piuttosto come strumento di dissuasione rispetto a possibili minacce interne alla stabilità dell'impero; in generale il destinatario sotterraneo di questa parte dell'encomio potrebbero essere spezzoni forse non irrilevanti dell'élite greco-orientale tentati da velleità separatistiche, o decisamente filo-partiche. Il nostro testo sembra dunque rivelare una pluralità di possibili piani di lettura, che delineano un progetto comunicativo assai più variegato rispetto a quello che appare in superficie. Nel suo commento la Fontanella prospetta un'altra possibile sfaccettatura di questo progetto: ci sarebbe anche un messaggio 'nascosto' relativo alla problematica delle arti di governo romane. Elio Aristide ammette in un passo (41) che i Romani hanno superato i Greci «per sapienza politica e moderazione», e in un altro (58) osserva che l'arte politica romana si è perfezionata in concomitanza con la crescita dell'impero: «da una parte, per la vastità dell'impero, necessariamente crebbe l'esperienza, dall'altra l'impero crebbe in modo giusto e conveniente proprio grazie all'arte di governare». In un terzo passo (68), rivolgendosi direttamente ai Romani, afferma che «comandare non è salutare per coloro che
18 Paolo Desideri
non ne hanno la capacità, mentre l'essere comandati da chi è migliore, cioè la cosl detta strada di riserva, sotto di voi si è ora dimostrata essere anche la via maestra». In un quarto passo (91) infine dichiara: «voi soli, se cosl si può dire, detenete il comando per natura. Gli altri che hanno avuto il potere prima di voi, diventando a turno padroni e schiavi l'uno dell'altro, come se fossero eredi illegittimi dei loro imperi, si succedevano scambiandosi di posto come nel gioco della palla, e i Macedoni sono stati soggetti ai Persiani, i Persiani ai Medi, i Medi agli Assiri; ma voi invece, tutti, dal momento stesso in cui vi conoscono, vi conoscono come dominatori ... ; avete scoperto un tipo di regime politico che nessuno ha mai avuto prima, e avete imposto a tutti leggi e ordinamenti ineludibili». Prese di posizione come queste fanno pensare ad una sintonizzazione di Elio Aristide su una linea di pensiero autenticamente romana, quella che, da Cicerone a Virgilio e oltre, ha rivendicato lo specifico titolo dei Romani, in quanto depositari di una superiore arte di governo, a realizzare un imperium tendenzialmente universale nell'interesse stesso delle popolazioni vinte e assoggettate. Si può pensare che Elio Aristide si prefigga qui l'obiettivo di far recepire in ambito greco quella linea di pensiero romana, che - come insegna il III libro del De re publica- aveva cercato di contrastare lo scetticismo di Carneade circa le buone ragioni della progressione imperiale di Roma 30• Un contributo originale in tal senso sarebbe l'idea della reciproca funzionalità della crescita dell'impero e dell'arte di governo; ma in generale saremmo di fronte ad una totale condivisione, tutt'altro che ovvia nel mondo greco, della concezione romana del diritto naturale e provvidenziale di Roma al dominio sugli altri popoli. Anche se riesce difficile accettare l'idea che un greco sia disposto a riconoscere la sua 'naturale' inferiorità rispetto ai Romani, sia pure limitatamente all'arte di governo, fino al punto di rassegnarsi al loro dominio, l'ipotesi ha certamente una sua plausibilità, specialmente se teniamo conto di alcuni importanti elementi di contesto, esterni all'opera di Elio Aristide. Particolarmente rivelatore in tale prospettiva è questo riferimento in senso filo-romano alla teoria della successione degli imperi: una
30 ScHMITZ
1997, p. 43 (ma dubito che Panezio e Posidonio possano essere forzati
greci e imperoromano: una in questa direzione: vd. quanto ho scritto in Intellettuali
vicendaattuale,in Storiaromanae storiamoderna. Fasiin prospettiva, a cura di M. Pani, Bari 2005, pp. 41-58, 50).
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teoria che ha naturalmente una lunga tradizione alle spalle 31, ma la cui valenza anti-romana è ancora ben presente qualche decennio prima dell'A Romain Dione di Prusa. In un passaggio in cui si evidenzia l'intrinseca ingiustizia della logica imperiale e la fisiologica instabilità degli imperi che si sono susseguiti nel tempo, l'intellettuale bitinico affermava infatti: «i Medi provarono grande gioia ed entusiasmo quando ebbero preso le cose degli Assiri, e così fecero i Persiani rispetto ai Medi, e i Macedoni rispetto ai Persiani; tutti pensarono di essere divenuti felici e di star meglio, quando ebbero in mano i beni che erano appartenuti agli sventurati e infelici» 32• Nulla fa pensare che sia previsto qui un trattamento speciale per i Romani, gli ultimi della serie, che è facile immaginare non siano esplicitamente menzionati solo per motivi prudenziali; viceversa Elio Aristide evidenzia come si è visto la posizione assolutamente speciale che nella sequenza deve essere riconosciuta ai Romani, che chiudono per sempre la partita della titolarità del governo dell'ecumene. E per quanto riguarda specificamente la giustizia (o ingiustizia) romana, si tratta anche in questo caso di un tema tutt'altro che assente nella cultura greca della metà del II secolo. Basta pensare con quanta partecipazione lo storico alessandrino Appiano riviva nel libro Mitridatico- probabilmente attingendo a Posidonio - il dibattito sulle cause della prima guerra fra il re pontico e i comandanti romani; o ancor più nel libro Libico- questa volta sulla scorta di Polibio (36.9) - le fasi finali dell'ultima guerra fra Roma e Cartagine, anche qui con un'attenzione puntigliosa ai problemi del diritto di guerra e della fides dei Romani. Non si può dire che Appiano si schieri dalla parte degli avversari o dei critici dei comportamenti romani in queste circostanze, ma il solo fatto che egli riproponga analiticamente le problematiche che avevano accompagnato lo sviluppo degli eventi di due o tre secoli prima indica che si trattava di questioni ancora attuali, e forse anche che egli stesso era perplesso sul giudizio da darne; in ogni caso sembra lecito leggere su uno sfondo di questo genere i passi dell'A Romadei quali si è detto. Elio Aristide prendeva esplicitamente posizione a favore di Roma e della legittimità del suo impero: e lo faceva verosimilmente, più che per esibire il suo lealismo ai Romani che ascoltavano il discorso, a beneficio anche in questo
31
Vd. Commento, per una ricognizione e discussione delle fonti.
32
79.6.
20 Paolo Desideri
caso degli esponenti delle élites politiche locali - naturali destinatari della sua versione scritta - con speciale attenzione a quelli che mostrassero tiepidità o scarso entusiasmo nei confronti dell'amministrazione romana. Direi che si può interpretare nello stesso modo anche il sostanziale ridimensionamento della figura di Alessandro Magno, punto di riferimento tradizionale del revanscismo greco contro Roma. «Non consegul alcun risultato che fosse all'altezza della sua intelligenza e della sua abilità ... Quali leggi infatti stabilì per ciascuno dei popoli vinti? Quali contribuzioni regolari fissò, in termini di denaro, di soldati, e di navi? O con quale ordinaria amministrazione, che proceda automaticamente a scadenze fisse, governò gli affari pubblici? Quali misure politiche adottò per i popoli a lui soggetti?» (25-26). Al di là dello scontato richiamo alla brevità della sua vita, obiettivo impedimento alla realizzazione delle imprese della pace, questa esplicita denunzia della sua inefficienza organizzativa sconfessa clamorosamente l'ammirazione di Plutarco (nel De Al.exandriMagnifortunaaut virtute) per la sua opera di re civilizzatore, artefice di una miscelazione 'cosmopolitica' fra Greci e barbari, vero prototipo e antesignano della missione ecumenica di Roma 33• La liquidazione di Alessandro - la cui personalità carismatica è invece riproposta più o meno in contemporanea da Arriano, non senza richiami alla sua azione di integrazione fra Greci e barbari 34 - è forse il simbolo più vistoso di quelli che sono i limiti, molto ristretti, oltre i quali secondo Elio Aristide (almeno nell'A Roma) non deve spingersi la rivendicazione di un'eredità greca. Nello stesso senso mi pare che si possa leggere il passo nel quale si dichiara che «prima dell'avvento del vostro impero, tutto era messo sottosopra e condotto a caso, mentre, una volta che siete sopraggiunti voi, i tumulti e le discordie sono cessate, e sono subentrati l'ordine in tutte le cose e una luce splendente nella vita personale e politica, sono comparse le leggi e si è iniziato ad aver fiducia negli altari degli dèi» (103 ); un passo nel quale viene ribadita la condanna, già prima formulata (27), dell'esperienza dei regni ellenistici. In questo caso si
33
Vd. specialmente Mor. 328d-329d, e la mia discussione in Imperodi Alessandroe
Atti del convegno interimperodi RomasecondoPlutarco,in Plutarcoe l'etàellenistica. nazionale di studi (Firenze 23-24 settembre 2004), a cura di A. Casanova, Firenze 2005, pp. 3-21. 34 Vd. specialmente Anab. 7.11.8-9.
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deve registrare una evidente consonanza con quanto aveva affermato Plutarco nel De fortunaRomanorum: «le maggiori potenze ed egemonie fra gli uomini erano trascinate e sbattute dai rivolgimenti di fortuna, perché nessuna deteneva il potere e tutte lo bramavano, e non c'era rimedio alla assoluta rovina, allo sbandamento, all'instabilità dell'universo politico, finché, avendo acquisito Roma forza e sviluppo, e avendo avvinto a sé tanto genti e popoli, quanto regni stranieri e oltremarini, le strutture fondamentali (del mondo) trovarono un punto di riferimento e furono messe in sicurezza;la sua egemonia realizzòun ordine di pace e si mosse secondo un'orbita immutabile» (317 b-c). Se ci potevano essere contrasti fra i benpensanti greci di età altoimperiale sul modo in cui gestire la memoria storica di Alessandro, c'era invece identità di vedute circa l'impossibilità di valorizzare in senso positivo l'età della frammentazione politica che era succeduta alla sua morte: questo avrebbe in effetti significato una clamorosa sconfessione del ruolo storico-universale di Roma. E con questo possiamo concludere. La 'scrittura pubblica', ovvero il messaggioprincipale ed esplicito di questo discorso, indirizzato prioritariamente ai Romani, rappresenta l'espressione di un'ammirazione non priva di elementi adulatori per l'ordinamento politico realizzato da Roma; e qui la 'scrittura nascosta' consiste semplicemente nell'implicita sanzione di condanna nel caso che i Romani stessi mettano in essere comportamenti difformi da quelli che il discorso descrive come ottimali. Esistono però in questo discorso, come si è visto, altre 'scritture nascoste', che appaiono indirizzate essenzialmente al mondo greco, e quindi legate soprattutto alla circolazione scritta del discorso: nel loro complesso queste scritture costituiscono una sorta di avvertimento rivolto alle élitespolitiche locali circa l'opportunità non solo di mantenersi leali a Roma, ma anche di evitare che le legittime aspirazioni a riaffermare e veder riconosciuta una propria autonomia politica connessa all'identità greca déstino nei Romani anche semplicemente il sospetto di scarsa lealtà nei confronti dell'impero. A quel punto infatti si vedrebbe che l'apparato militare di cui i Romani dispongono può facilmente rivolgersi contro l'interno, anziché contro l'esterno, dell'impero: «e se una città, a causa della sua eccessiva grandezza,ha in qualche modo oltrepassato la capacità di autogovernarsi saggiamente, non rifiutate certo di inviare presso di loro chi possa governarla e proteggerla» (67). Sia o no questo un riferimento ad interventi militari operati ad Alessandria, l'avviso, anche se espresso in termini ipocritamente eufemistici, è naturalmente valido per tutti:
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o per meglio dire per tutte le città 35, ripresentate nella perorazione finale come il punto nevralgico dell'impero, e in quanto tali anche come luogo privilegiato della comunicazione culturale, e dunque della formazione dell' 'opinione pubblica' che conta. Non è certo un caso che in questa parte Elio Aristide tomi con forza - dichiarando di voler dare finalmente espressione a «un concetto che mi è venuto in mente già da tempo, e che spesso mi ha ostacolato la parola standomi sulla punta della lingua, ma che finora è stato sempre rinviato dallo sviluppo del discorso» - sulla grande diffusione delle città, che di quell'impero rappresenta visibilmente la dimensione civile e consensuale: «i vostri predecessori, anche quelli che hanno esercitato il potere su una gran parte della terra, lo hanno esercitato sui popoli come su nudi corpi...; [essi] sono tanto inferiori a voi. .. anche per il fatto che quando governarono gli stessi popoli che ora governate voi, questi non furono né uguali né simili a come sono oggi: ad ogni popolo di allora si può in effetti giustapporre una città che sorge ora in quel territorio» (92-93 ). E forse anche nella specifica sottolineatura della bellezza delle città della Ionia, una terra che ha «al giorno d'oggi tanto superato se stessa quanto un tempo sembrava superare gli altri popoli in grazia e splendore» (95 ), è lecito cogliere un messaggio dell'oratore ad una parte della grecità, quella d'Asia a lui particolarmente cara: richiamo di 'complicità' ad un uditorio con il quale ha speciali vincoli di comunione intellettuale, certo il livello più profondo della sua identità greca «a più strati» (Jones). Un'altra «scrittura nascosta», in questo caso semplicemente una sorta di firma, che svela gli affetti più riposti di una personalità portata del resto a vivere in pubblico anche il suo più personale privato. PAOLO DESIDERI
35
Lo stesso Elio Aristide dà nel discorso Rodiese(25 K.) una raccomandazione
chiara a comportarsi in modo da evitare un intervento romano: vd. BuRASELIS 1998, pp. 192 sgg.
Awertenza
Il testo greco riportato a fronte della traduzione italiana, fatta eccezione di pochi passi discussi nel commento, è quello dell'edizione di Klein (P. AELIIARISTIDISOrationemE/I POMHN, edidit, transtulit atque notis instruxit R. Klein, Darmstadt 1983, pp. 8-67), edizione quae basata a sua volta su quella di Keil (AELIIARisTIDISSMYRNAEI supersuntomnia, vol. II, orationesXVII-LIIIcontinens, ed. B. Keil, Berolini 1958 [Berolini 1898], oratioXXVI,pp. 91-124), l'ultimo ad aver preso visione dei manoscritti. A Keil si deve la numerazione in 109 paragrafi dell'orazione, accolta da tutti i successivi editori, anche se nella successione numerica si opera un salto fra il paragrafo 34 e 36, omettendo il numero 35, senza fornire alcuna spiegazione in apparato. La traduzione è per quanto possibile letterale, ma non a costo di compromettere la chiarezza e la fluidità del testo italiano; per questo, in alcuni passi, sono state inserite fra parentesi tonde alcune integrazioni per rendere più esplicito il senso. Il commento intende innanzitutto far emergere il pensiero e la posizione di Elio Aristide nei confronti di Roma e del suo impero. Per questo l'orazione è stata analizzata da un punto di vista prevalentemente storico culturale, senza però omettere alcune osservazioni di carattere filologico o storico-istituzionale essenziali per una comprensione d'insieme del testo.
Abbreviazioniusatenel commento Le abbreviazioni per le opere degli autori latini sono quelle usate nel ThesaurusLinguae Latinae. Per gli autori greci si seguono quelle del Liddell-Scott-Jones, Greek English Lexicon, eventualmente ampliate, qualora risultino eccessivamente compendiose, con i caratteri successivi alla troncatura ivi operata. Ai discorsi di Elio Aristide si fa riferimento usando la numerazione stabilita nell'edizio-
24 A Roma
ne Keil sopra citata (Praefatio,pp. 1v; xxx1x-xL) e accolta nell'edizione P. AELII ArusTrn1s, Opera quae exstant omnia val. I, orationes I-XVI complectens,orationesI et V-XVI ed. EW. Lenzt, praefationem conscripsitet orationesII, III, IV ed. C.A. Behr, Lugduni Batavorum 1976.Altre edizioni specifiche di autori antichi, cosl come i saggi di autori moderni, sono abbreviati indicando l'autore e la data di edizione a cui si fa riferimento; lo scioglimento di tali abbreviazioni si trova nella bibliografia finale. Le abbreviazioni dei titoli delle riviste e di altre operç a carattere enciclopedico o miscellaneo sono quelle usate nell'Année Philologique. Intendo qui innanzitutto ringraziare il professor Paolo Desideri, ispiratore di questa mia ricerca, per i suggerimenti e il sostegno offertimi durante tutto il lavoro, e il professor Filippomaria Pantani per il prezioso contributo alla traduzione del testo greco. Naturalmente solo mia è la responsabilità di eventuali errori o omissioni. FRANCESCA FONTANELLA
AIAIOY APIITEIL.\Oì' EII PQMHN
1. È usanza di coloro che compiono un viaggio per mare o per terra far voto di quello che a ciascuno venga in mente; e infatti un poeta già disse, per scherzo, di aver fatto voto di «incenso con coma d'oro»; ma noi, signori, durante il viaggio compiuto fin qui sulla terra e sul mare, abbiamo fatto un voto che non è né privo di grazia, né stonato, né privo di dottrina, e cioè che, se fossimo arrivati sani e salvi, avremmo salutato l'Urbe con un discorso pubblico. 2. Certo non era possibile far voto di un discorso pari alla grandezza dell'Urbe: in verità ci sarebbe stato bisogno di un altro voto ancora e anche di poter disporre di un oratore che fosse meglio di me in grado di tenere un discorso all'altezza di tanta imponente magnificenza dell'Urbe. E tuttavia l'impegno che abbiamo preso è di rivolgersi a lei come ci consentono le nostre forze, visto che c'è chi pensa che corrisponda addirittura alla grandezza degli dei quello che è commisurato alle sue forze. 3. Ma o signori che abitate questa grande città, se vi preme almeno un po' che io non manchi al mio voto, sostenetemi nella temeraria impresa, affinché, al momento stesso di dar inizio alle lodi, possiamo dire anche questo, che subito ci è stato dato di trovare uomini tali che, grazie ad essi, «anche uno che fino a quel momento sia stato incolto», come dice Euripide, immediatamente diventa intonato ed eloquente, capace di parlare anche di cose che sono più grandi di lui. 4. Tutti celebrano e celebreranno l'Urbe, ma la sminuiscono più che se tacessero, nella misura in cui tacendo non è possibile renderla più grande o più piccola di come è ed essa rimane intatta alla conoscenza; i discorsi invece ottengono l'effetto contrario a quello voluto: nel lodarla infatti non danno un'idea adeguata di ciò che ammirano. E come di un pittore che tentasse di rappresentare con la sua arte un corpo di eccezionale bellezza, e non ci riuscisse, tutti, credo, direbbero che sarebbe meglio non dipingere quel corpo, ma o lasciarlo vedere dal vero, o comunque non esporre una copia inferiore all'originale, così mi sembra che stiano le cose riguardo a questa città: 5. i discorsi le tolgono la gran parte delle sue meraviglie, e mi sembrano produrre più o meno lo stesso effetto di chi, volendo raccontare, pieno di ammirazione, la grandezza di un esercito, come, per esempio, quello di Serse, poi dichiarasse di aver visto diecimila o ventimila soldati e tanti e tanti cavalli, enumerando ciò che non è nemmeno una minima parte di tutte le cose che nel loro insieme hanno suscitato in lui meraviglia.
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6. È stata questa città a dimostrare per prima che la forza della parola non giunge a tutto; non solo non è possibile parlare di lei in modo degno, ma neppure è possibile osservarla come si deve e ci vuole dav, vero un Argo onniveggente, o meglio ancora il dio onniveggente che la governa. Guardando occupate tante cime di colli, edificate intere pianure, una così grande superficie riunita sotto il nome di una sola città, chi mai potrebbe pensare di contemplarla tutta in modo accurato? come trovare un punto di osservazione adeguato? 7. Quello che Omero diceva della neve, che cadendo ricopre «le cime degli alti monti e le vette dei colli, e le pianure erbose e i pingui campi arati degli uomini, e perfino- dice - si riversa sui golfi e sui promontori del mare canuto», si può dire davvero anche di questa città. Ricopre le vette dei colli, ricopre la pianura che sta in mezzo ad essi, e discende fino al mare dove si trova il comune emporio di tutti gli uomini e la gestione comune di tutto ciò che viene prodotto sulla terra. In qualunque luogo della città uno si trovi, non vi è nulla che gli impedisca di trovarsi ugualmente nel centro. 8. E per la verità non si estende solo in superficie, ma, ben al di là della similitudine, arriva quanto più in alto possibile su nel cielo, così che, per quanto riguarda l'altezza, non è da paragonare alla distesa della neve ma piuttosto agli stessi colli. E come un uomo che, superando di molto gli altri in corporatura e forza, non è soddisfatto se non sostiene anche altri uomini avendoli sollevati sopra di sé, così anche questa città non si contenta di estendersi su un territorio tanto grande, ma ha sollevato sopra di sé e regge l'una sull'altra altre città delle sue stesse dimensioni. Dunque il suo nome è in realtà un eponimo: qui non c'è nient'altro che 'Roma', cioè 'Forza'. Se qualcuno volesse semplicemente scomporla, disponendo l'una accanto all'altra, dopo averle appoggiate sulla terra, quelle città che ora sono sollevate in aria, penso che si riempirebbe tutto quanto il territorio d'Italia ora sgombro di città, e si formerebbe un'unica ininterrotta città estesa fino allo Ionio. 9. Ma nonostante sia tanto grande quanto io neppure ora sono forse riuscito a spiegare in modo adeguato, mentre gli occhi lo testimoniano meglio, non si può dire 'è tutta qui', come si fa con le altre città. Ciò che qualcuno ebbe a dire delle città di Atene e di Sparta, che la grandezza della prima sareb, be apparsa il doppio della sua potenza, e quella della seconda molto al di sotto della sua potenza - sia lungi da questo esempio ogni cattivo augurio -, nessuno potrebbe dirlo a proposito di questa città grande in tutto: cioè che non si sia costruita un potere pari a una così eccezionale grandezza; è possibile invece che uno che rivolga lo sguardo a tutto l'impero si meravigli dell'Urbe, al pensiero che una piccolissima parte governa su tutta quanta la terra, ma se osserverà l'Urbe stessa e i suoi confini non si meraviglierà più che tutta l'ecumene sia governata da
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una così grande città. 10. Infatti ciò che disse un prosatore a proposito dell'Asia, che quanta è la terra percorsa dal sole, su tutta questa governava un solo uomo, - non dicendo il vero, a meno che eccettuasse tutta l'Africa e l'Europa dal tramontare e dal sorgere del sole - questo ora è riuscito a diventare vero, che il cammino del sole e i vostri possedimenti si equivalessero, e che il sole compisse tutto il suo cammino attraverso i vostri possedimenti. Infatti né gli scogli del mare né le isole Chelidonie e Cianee, né la distanza di un giorno di corsa di un cavallo fino al mare segnano il confine del vostro impero, né regnate all'interno di confini stabiliti, né altri prescrive fin dove potete esercitare il vostro dominio. Il mare come una cintura segna il centro dell'ecumene e allo stesso tempo del vostro impero; 11. e intorno al mare si stendono i continenti, «grandi in grande spazio», che sempre vi forniscono in abbondanza qualcuno dei beni che da essi provengono. Qui confluisce da ogni terra e da ogni mare quello che generano le stagioni e producono le varie regioni, i fiumi, i laghi, e le arti dei Greci e dei barbari; se uno vuole osservare tutte queste cose, bisogna o che se le vada a vedere viaggiando per tutta l'ecumene, o che venga in questa città. Infatti quanto nasce e si produce presso ciascun popolo, non è possibile che non si trovi sempre qui addirittura in abbondanza. Tante sono le navi da carico che giungono qui trasportando tutti i prodotti da tutti i luoghi, in ogni stagione, in ogni volgere d'autunno, che l'Urbe sembra il laboratorio generale della terra. 12. E si possono vedere così tanti carichi dall'India e volendo anche dall'Arabia Felice, da potersi presumere che ormai a quei popoli gli alberi siano rimasti spogli, e che anche loro debbano venire qui a cercare i loro stessi prodotti, nel caso che abbiano bisogno di qualcosa; inoltre tessuti babilonesi e ornamenti dalle regioni barbare più lontane arrivano in molto maggiori quantità, e molto più facilmente, che se si dovesse venire ad Atene portando qualche prodotto di Nasso o di Citno; e l'Egitto, la Sicilia e la parte fertile dell'Africa sono come vostri poderi. 13. Gli arrivi e le partenze delle navi si susseguono senza posa, così che c'è da meravigliarsi non tanto che il porto, quanto che il mare stesso riesca, se pure riesce, a contenere un così gran numero di imbarcazioni. E veramente si può dire, come diceva Esiodo degli estremi confini dell'Oceano - che c'è un luogo dove tutto confluisce in un unico principio e in un'unica fine - che qui tutto converge, commerci, navigazioni, agricoltura, metalli lavorati, tutte quante le arti che ci sono o che ci sono state, tutto quanto è prodotto e generato dalla terra. Quello che non si riesce a vedere qui, non rientra nell'ordine delle cose che sono esistite o che esistono; per questo non è facile decidere se sia più l'Urbe a superare le città a lei contemporanee, o il suo impero a superare tutti gli imperi del passato.
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14. Dette tali cose, e così importanti, di certo arrossisco al pensiero che, in mancanza di meglio, mi si vedrà menzionare o qualche regno barbaro o una potenza greca, e sembrerò comportarmi in modo opposto ai poeti eolici: quelli, quando volevano deprezzare qualche realtà a loro contemporanea, la mettevano a confronto con una grande e famosa dei tempi antichi, pensando che questo fosse il modo più efficace di ridimensionarla. lo invece, non potendo mostrare in altro modo quanto la vostra potenza sia superiore, la metterò a confronto con potenze minori del passato: dico minori perché, data la vostra superiorità, anche le più grandi le fate apparire piccolissime. E sebbene io abbia scelto di menzionare solo le più importanti, forse voi riderete anche di queste. 15. Parto dunque dal considerare l'impero persiano, che un tempo fu molto famoso fra i Greci, e che valse al suo sovrano l'appellativo di 'Gran Re' - tralascerò gli imperi precedenti, dato che furono di minore importanza-; osserviamo tutto per ordine, tanto l'estensione di questo impero quanto ciò che gli capitò, dato che bisogna valutare anche questo, cioè quale vantaggio i Persiani abbiano tratto dai loro domini e in quale modo abbiano trattato i popoli a loro soggetti. 16. Innanzitutto, quello che è ora per voi l'Oceano Atlantico, questo, in pratica, era allora per il re persiano il Mar Mediterraneo: lì terminava il suo impero, così che gli Ioni e gli Eoli si trovavano agli estremi confini del suo territorio; ma una volta che questo sovrano 'di tutte le terre dal sorgere al tramontare del sole', tentò di passare in Grecia, suscitò meraviglia in quanto subì una grandissima disfatta, e l'unica prova che riuscì a fornire della sua magnificenza stette nel numero e nella grandezza dei territori di cui si lasciò privare. Questo re, che fu tanto lontano dall'impossessarsi della Grecia, e che ebbe per confine la Ionia, si dimostrò quindi senza alcun dubbio inferiore al vostro impero per una misura pari non al tiro di un disco o al lancio di una freccia, ma all'intera metà dell'ecumene e in più al mare. 17. Inoltre neppure all'interno di questi confini costui fu sempre re a tutti gli effetti, ma, a seconda delle alterne vicende della potenza degli Ateniesi, o della fortuna degli Spartani, ora era re fino alle terre degli Ioni, degli Eoli e fino al mare, ora invece non più fino agli Ioni, né fino al mare, ma solo fino alla terra dei Lidi, non potendo più vedere il Mare a occidente delle Isole Cianee; e, proprio come in un gioco di bambini, era re finché rimaneva nell'entroterra, ma poi quando scendeva verso il mare, mendicava il consenso di quelli che gli permettessero di regnare. Questa situazione fu resa evidente dall'esercito di Agesilao e, prima di costui, da quello dei Diecimila di Clearco, dato che l'uno penetrò fino alla Frigia come se attraversasse i propri territori, l'altro giunse oltre l'Eufrate come se fosse passato per un deserto. 18. E quale vantaggio i
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Persiani abbiano ricavato dall'impero !.osi può capire dalle sagge parole di Ebare, che per primo si narra abbia detto a Ciro, stanco dei troppi viaggi, che se davvero aveva intenzione di regnare, doveva necessariamente, volente o nolente, andarsene in giro per tutte le parti del suo impero; doveva pensare all'otre, che nelle parti in cui egli lo calpesta si abbassa e tocca terra, mentre in quelle da cui egli si allontana subito si risolleva, ma si riabbassa se lo calpesta di nuovo. Erano re erranti dunque, che si distinguevano dai nomadi Sciti solo in quanto andavano in giro non su carri, ma su cocchi, pressando davvero come un otre la loro terra per diffidenza e per paura di indugiare troppo in uno stesso luogo, tenendo in questo modo ora Babilonia, poi Susa, quindi Ecbatana, senza riuscire a governare tutto il territorio insieme contemporaneamente, né prendendosene cura come buoni pastori. 19. E veramente si comportavano in modo tale da non sembrare convinti che l'impero appartenesse a loro. Infatti non se ne prendevano cura come si fa con i propri averi, e non abbellivano e non ingrandivano né le città né i territori, ma come chi si avventa su ciò che non gli appartiene, rapinavano vergognosamente e dissennatamente, cercando solo di indebolire il più possibile i propri sudditi; in una specie di gara di assassinii, chi veniva dopo cercava via via di superare colui che l'aveva preceduto, come nel pentathlon, ma ciò in cui competevano era nel trucidare quante più persone possibile, distruggere quante più case e villaggi, commettere il maggior numero di spergiuri. 20. Questi erano dunque i vantaggi che riuscivano a trarre dalla loro tanto ammirata potenza, insieme alle conseguenze che per legge di natura ne derivano: odii e insidie da parte dei sudditi trattati in questo modo, ribellioni e lotte interne, continue discordie e incessanti conflitti. 21. Loro dunque godevano di questi 'vantaggi', come se avessero ottenuto l'impero più per una maledizione che per una preghiera; mentre i sudditi, dal canto loro, godevano di tutto ciò - a qualcosa ho accennato prima - che necessariamente subisce chi è governato da tali governanti: per i genitori era causa di timore la bellezza dei figli, per il marito quella della moglie, e andava incontro a morte certa non colui che avesse commesso più crimini, ma colui che avesse posseduto più ricchezze. E si distruggevano allora o si riducevano in rovina più città, potrei quasi affermare, di quante ora non ne siano fondate. 22. Ed era più facile salvarsi combattendo piuttosto che sottomettendosi: in combattimento, infatti, i Persiani erano facilmente sopraffatti, mentre, una volta che avessero acquisito il potere, lo esercitavano con violenze senza misura. Disprezzavano come uno schiavo chi assecondava i loro voleri, mentre punivano chi mostrava un atteggiamento più indipendente come un nemico e trascorrevano perciò la vita seminando e raccogliendo odio. E andava a finire che spesso temevano più i loro sudditi che i
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nemici, servendosi per lo più della guerra come mezzodi riconciliazione. 23. La causa di questa situazione era che né i Persiani erano in grado di governare, né i sudditi di soddisfare gli impegni che ne conseguono: non è infatti possibile comportarsi da buoni sudditi se chi è al governo si comporta da cattivo governante. Non si era ancora realizzata, infatti, la distinzione fra il governare e lo spadroneggiare, ma re e padrone erano la stessa cosa. E dunque naturalmente i governanti persiani non ottennero risultati significativi: perché il nome di padrone non può oltrepassare l'ambito dell'amministrazione domestica, e quando giunge a riguardare città e popoli facilmente diventa inadeguato. 24. Veniamo ora ad Alessandro che, pur avendo conquistato un grande impero - grande finché non è arrivato il vostro - e avendo attraversato tutta la terra, assomigliò più a un conquistatore di un regno che a un re vero e proprio. Mi pare infatti che abbia avuto la stessa sorte di un privato cittadino che, dopo aver acquistato molta e buona terra, sia morto prima di raccoglierne i frutti. 25. Avanzò infatti per gran parte della terra, sottomise tutti coloro che gli si opponevano e assaporò senza sconti tutte le difficoltà; non potè però costituire realmente un impero né apporre la parola fine alle sue fatiche, ma morl a metà strada dell'impresa. Si potrebbe dire che vinse moltissime battaglie, ma regnò pochissimo e fu un gran campione nel conquistarsi un regno, ma non conseguì alcun risultato che fosse all'altezza della sua intelligenza e della sua abilità: ebbe una sorte simile a quella di un atleta che, gareggiando nei giochi Olimpici e dominando gli avversari, muoia subito dopo la vittoria, prima di essersi ben aggiustata sul capo la corona da vincitore. 26. Quali leggi infatti stabilì per ciascuno dei popoli vinti? Quali contribuzioni regolari fissò, in termini di denaro, di soldati, e di navi? O con quale ordinaria amministrazione, che proceda automaticamente a scadenze fisse, governò gli affari pubblici? Quali misure politiche adottò per i popoli a lui soggetti? Costui ha lasciato una sola opera e un solo monumento degno della sua grandezza: la città che porta il suo nome in Egitto; e questa fondazione fu un bene per voi, perché poteste avere sotto il vostro dominio anche quella che è la città più grande dopo la vostra. Quindi Alessandro annientò il dominio persiano, ma egli quasi non governò affatto. 2 7. Alla morte di Alessandro subito i Macedoni si divisero in innumerevoli fazioni, dimostrando così, alla prova dei fatti, che l'impero era al di sopra delle loro forze; e non riuscirono più nemmeno a mantenere il potere sul loro paese, ma giunsero a tal punto di sventura che furono costretti a lasciare la loro stessa patria per poter governare terre straniere, come se fossero degli esiliati piuttosto che un popolo in grado di esercitare il potere: costituiva infatti un enigma il fatto che i Macedoni regnassero non in Macedonia, ma ciascuno dove
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poteva, fungendo da guardie di presidio a città e a territori piuttosto che da governanti, re banditi dal loro paese e innalzati alla loro carica non dal Gran Re ma da sé stessi, satrapi - se così si può dire - privi di un re. E non dovremmo dire che tale stato di cose somigliava più a una pirateria che a un regno? 28. Ora, invece, i confini del vostro impero hanno un'estensione davvero non disprezzabile,al punto che il territorio al loro interno non può nemmeno essere misurato; e addirittura, per chi inizi a camminare verso occidente a partire dai vecchi confini dell'impero persiano, il resto del vostro impero è molto più esteso di quanto lo fosse tutto quell'impero preso nel suo insieme. Nulla sfugge al vostro dominio, né città, né popolo, né porto, né villaggio, a meno che non ne giudichiate qualcuno inutile. Il Mar Rosso, le cateratte del Nilo, il lago Meotide, che prima del vostro impero venivano considerati come gli estremi confini della terra, ora sono per la vostra città come il muro di cinta del cortile di casa. E quell'Oceano che alcuni scrittori non credevano che esistesse, né che circondasse con le sue acque le terre emerse, ma che fosse un'invenzione dei poeti introdotta nelle loro opere per dilettare i lettori, questo Oceano lo avete esplorato così bene che non è sfuggita al vostro dominio nemmeno l'isola che in esso si trova. 29. Ma pur avendo un'estensione così grande, il vostro impero è molto più grande per l'ordine perfetto che vi regna, piuttosto che per il territoro racchiuso nel cerchio dei suoi confini. Né i Misi, né i Saci né i Pisidi occupano 'la terra del re', né altri popoli in mezzoa questi, alcuni essendovisi stabiliti colla forza, altri essendosi ribellati, senza poter essere in alcun modo tenuti sotto controllo; e la terra non è detta 'del re', mentre è di tutti quelli che sono in grado di impossessarsene, né i satrapi combattono l'uno contro l'altro come se non rispondessero ad alcun re, né alcune città passano ad alcuni, altre ad altri, accogliendo o cacciando, a seconda dei casi, le guarnigioni che vi vengono mandate; sotto il vostro impero, al contrario, tutta l'ecumene come un flauto ben ripulito canta un unico canto, in modo più unanime di un coro, pregando che questo impero duri in eterno: così bene e armoniosamente lo dirige il supremo capocoro, l'imperatore. 30. Ovunque e per tutti valgono le stesse leggi, e coloro che abitano sui monti sono più disposti a non ribellarsi di quelli che abitano nelle pianure più avvallate, mentre i contadini e i coloni delle aree più fertili sono vostri agricoltori; la terraferma non è più distinta dall'isola, ma tutto obbedisce senza discutere, come un solo territorio ininterrotto e un unico popolo. 31. Basta un comando o anche solo un cenno perché ogni ordine sia eseguito con meno sforzo di quello che occorre a far vibrare la corda di una lira; e se c'è bisogno che qualcosa sia fatta, basta averla decisa che è subito messa in atto. Ognuno dei governanti inviati
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alle varie città e ai vari popoli comanda su coloro che gli sono sottopo, sti, ma, in ciò che riguarda la loro stessa persona e nei rapporti reciproci, sono tutti ugualmente sudditi; si potrebbe anzi dire che solo per questo si distinguono da quelli a loro sottoposti, per il fatto che sono i primi a mostrare come si debba essere sudditi; così profondamente radicato è in tutti il timore di quel capo supremo che a tutto presiede, 32. che ritengono che egli conosca le loro azioni meglio di quanto non le cono, scano essi stessi e lo temono e lo rispettano più di quanto un servo non rispetti il suo padrone presente sul posto a sovrintendere e a dare ordini. Nessuno è così pieno di sé da essere capace, al solo suono del suo nome, di rimanere imperturbabile, ma balzato in piedi lo celebra e lo venera e innalza allo stesso tempo una duplice preghiera, una agli dèi per il bene dell'imperatore e una all'imperatore per il proprio bene. E se hanno anche un minimo dubbio su questioni giudiziarie e richieste, pubbliche o private, avanzate dai loro amministrati, cioè se qualcuno abbia titolo (ad ottenere ciò che chiede), subito gli mandano a chiedere che cosa si debba fare e aspettano, non meno di quanto faccia un coro col direttore, finché egli non palesi il suo parere. 33. Per questo non c'è bisogno che l'imperatore si logori a percorrere tutto l'impero, né che compaia ora presso un popolo, ora presso un altro, per regolare le questioni di quelli di cui in quel momento percorre la terra; ma gli è molto facile gover, nare il mondo intero tramite lettere, senza bisogno di muoversi; lettere che, quasi non appena scritte, arrivano a destinazione come portate da messaggeri alati. 34. Ma ora dirò ciò che più di ogni altra cosa merita ammirazione e stupore, e gratitudine, nelle parole e nei comportamenti. Infatti, pur possedendo un così grande impero e governandolo con tanto vigore e con grande autorità, voi avete realizzato un primato molto mag, giare, per quella che è una caratteristica solo e totalmente vostra: 36. voi siete i soli, fra quanti hanno mai posseduto un impero, a governare su uomini liberi. La Caria non è infatti consegnata a lìssaferne, né la Frigia a Farnabazo, né l'Egitto a qualcun altro, e nessun popolo è considerato il patrimonio personale di un qualche padrone, in realtà nemmeno lui libero, a cui quel popolo è consegnato perché lo serva; ma come accade nel governo delle singole città, così anche voi, che governate tutta l'ecumene alla stregua di un'unica città, designate i governatori, come se fossero dei magistrati eletti, per proteggere e curare i vostri sudditi, non per esserne padroni; così, allo scadere della carica, un governatore lascia il posto a un altro e nemmeno è facile che incontri il suo successore: tanto è lontano dal fare resistenza come considerando una sua proprietà la terra su cui ha governato. 37. Nei procesi di appello, come nei ricorsi
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degli uomini dei demi al tribunale (ateniese), quelli che hanno ricevuto l'appello provano, nell'emettere la sentenza, una trepidazione non minore di quella provata da chi l'ha presentato; si potrebbe quindi dire che ora i popoli sono governati dai magistrati a loro inviati solo nella misura in cui essi sono d'accordo. 38. Un tale stato di cose non supera forse ogni forma di democrazia? Nei regimi democratici non è possibile, dopo che il verdetto è stato dato nella città, rivolgersi altrove né ad altri giudici, ma è necessario rassegnarsi alle decisioni prese, a meno che non· si tratti di una città così piccola da aver bisogno di giudici stranieri. .. (invece nel vostro impero né chi sia stato condannato è costretto ad accettare una sentenza) ingiusta, né chi abbia intentato un processo e non abbia avuto successo è costretto ad accettare la sconfitta; ma presso di voi rimane un altro giudice supremo a cui nulla mai sfugge di ciò che è giusto. 39. E qui si realizza una grande e bella uguaglianza fra il debole e il forte, fra lo sconosciuto· e il famoso, fra il povero e il ricco, e fra chi è di oscure origini e chi è nobile, e si verifica il detto di Esiodo: «facilmente rende potente, facilmente abbassa il potente» questo giudice e signore, condotto dalla giustizia come la nave è condotta dal vento, che non favorisce e protegge di più il ricco e meno il povero, ma aiuta nello stesso modo chiunque gli capiti di incontrare sulla sua strada. 40. Passo ora, dato che il mio discorso è giunto a questo punto, a parlare della storia greca, anche se nel far questo provo un po' di vergogna e ho paura di sembrare uno che dà importanza a cose irrilevanti; non pretendo però con questa esposizione, come ho già detto poco fa, di istituire un paragone fra situazioni di pari importanza: il fatto è che, non essendoci altri esempi, sono costretto ad usare quelli che ci sono a disposizione. D'altra parte sarebbe ridicolo dichiarare, pieni di ammirazione, che non è possibile trovare presso gli altri popoli una potenza non solo uguale ma nemmeno simile alla vostra - che tutte le eclissa -, e rinunciare poi a fare confronti, in attesa del momento in cui si potrà far menzione di qualcosa che possa starle alla pari: non penso che si debba far così, in quanto, anche se potessimo individuare qualche realizzazione simile, non sarebbe in ogni caso altrettanto straordinaria. 41. So anche bene che gli Stati greci appariranno ancora più insignificanti di quelli che ho or ora esaminato, sia riguardo all'estensione del dominio sia riguardo all'importanza politica; tuttavia, il fatto che avete superato da una parte i barbari per ricchezza e potenza, e dall'altra i Greci per sapienza politica e moderazione, mi sembra che costituisca un argomento forte e perfetto per dimostrare il vostro valore, e un tema più glorioso di qualunque altro per il mio discorso. 42. Mi accingo dunque ad illustrare in che modo i Greci gestirono il loro potere, e quanto grande esso fu; e se
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si vedrà che non hanno saputo conservarlo nemmeno su un territorio assai più piccolo del vostro, è evidente a chi sarà dato il voto. 43. Gli Ateniesi e gli Spartani fecero di tutto per riuscire ciascuno ad affermare il proprio impero e la propria egemonia, ma il loro effettivo potere consisteva nel navigare il Mare, comandare sulle Cicladi, controllare le coste della Tracia, le Termopili, l'Ellesponto e il Corifasio: a ciò si riduceva il loro potere. Ed erano in una situazione simile a chi, desiderando esercitare il proprio dominio su un corpo, ne prendesse solo qualche unghia e dei capelli, senza possederlo nella sua interezza, e con questo pensasse di avere ottenuto ciò che voleva; così anche i Greci, mentre aspiravano all'egemonia, raccolsero in realtà solo isolette, promontori marittimi, porti e luoghi simili, e si logorarono sul mare sognando un'egemonia, piuttosto che mettendosi in grado di procurarsela. 44. Né l'una né l'altra città, comunque, riuscì a conservare quasi nemmeno per una generazione quella posizione di supremazia sui Greci che aveva conquistato sfruttando l'occasione, quasi nell'alternanza della fortuna; e agli effetti dell'egemonia la vittoria che riportavano gli uni sugli altri era quella che si dice «una vittoria Cadmea», come se gli uni non ritenessero giusto che solo gli altri fossero sempre oggetto d'odio, ma volessero anch'essi ricevere la propria parte. 45. Per cominciare, ci fu un comandante spartano che trattò così male i Greci che essi decisero spontaneamente di staccarsi dagli Spartani, e cercarono volentieri altri dominatori. Si affidarono dunque agli Ateniesi, ma non passò molto tempo che si pentirono di questo passo, non sopportando né gli eccessivi tributi, né quelli che li venivano a derubare con il pretesto di riscuoterli; erano inoltre costretti a recarsi ogni anno ad Atene per presentare un resoconto dei loro affari, mentre sulla loro terra erano inviati coloni ateniesi ed esattori per riscuotere, oltre ai tributi, altro denaro nel caso in cui vi fossero ulteriori necessità. 46. Inoltre non potevano tenere libere le loro acropoli, ed erano comunque soggetti ai demagoghi ateniesi - fossero ragionevoli o meno - e costretti a combattere guerre non necessarie, spesso in giorni sacri e durante le festività. Insomma, per dirla in breve, dalla supremazia ateniese non ricavavano nessun vantaggio tale che valesse la pena di sopportare in cambio questa oppressione. 47. Di conseguenza la maggioranza dei Greci, non sopportando più gli Ateniesi, di nuovo si rivolse agli Spartani nello stesso modo in cui prima, allontanatasi da questi, si era rivolta agli Ateniesi, ma fu di nuovo delusa. Gli Spartani infatti avevano proclamato di muovere guerra agli Ateniesi per la libertà dei Greci, e in questo modo avevano attirato i più dalla loro parte; ma dopo che ebbero abbattuto le mura di Atene e furono divenuti arbitri della situazione, e quindi padroni di fare tutto ciò che volevano, tanto superarono gli Ateniesi che istituirono in tutte le città greche
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delle tirannidi eufemisticamente chiamate «decarchìe,.. 48. Avendo abbattuto la signoria unica di Atene, la sostituirono dunque con molte altre a loro fedeli, che non vessavano più da Atene o da Sparta i popoli soggetti: ciascuna di esse, in effetti, si era direttamente e stabilmente insediata, come se vi avesse messo radici, sul territorio stesso di quei popoli. Così, se iniziando la guerra gli Spartani avessero detto ai Greci che combattevano contro gli Ateniesi per procurare loro mali maggiori e più numerosi, e per dimostrare loro che sotto gli Ateniesi essi erano in fondo stati liberi, non avrebbero potuto mantenere meglio la loro promessa. 49. Così accadde che furono subito sconfitti da un solo esule, abbandonati dai Tebani, e odiati dai Corinzi, e il mare si riempì dei loro 'armosti' (ordinatori), scacciati perché in realtà creavano disordine e governavano le città in cui si erano stabiliti in modo contrario al loro nome. 50. Successivamente, per le ingiustizie commesse dagli Spartani e per l'odio che a causa di queste i Greci provavano nei loro confronti, crebbe la potenza di Tebe, e i Tebani trionfarono nella battaglia di Leuttra; ma, non appena gli Spartani cedettero il campo, di nuovo nessuno poté sopportare nemmeno i Tebani, che in fondo avevano vinto una sola battaglia; anzi fu subito chiaro che sarebbe stato meglio se la Cadmea fosse stata ancora occupata piuttosto che i Tebani avessero vinto gli Spartani: tanto fu l'odio nei confronti di quelli. 51. E non ho raccolto tutti questi argomenti per muovere un'accusa collettiva ai Greci, come fece quell'uomo straordinario che scrisse Il mostroa tre teste - spero di non doverlo mai fare! - ma perché volevo esattamente dimostrare che prima di voi l'arte di governare nemmeno esisteva; se infatti fosse esistita, sarebbe esistita fra i Greci che certo si distinsero molto da tutti gli altri popot in ogni genere di sapienza; in effetti questa arte è proprio una vostra scoperta, che è stata estesa nel contempo a tutti gli altri popoli. E ciò che è stato detto a proposito degli Ateniesi è forse vero anche per tutti i Greci: essi dimostrarono di essere più valorosi di chiunque altro nel resistere ai dominatori, nel prevalere sui Persiani e sui Lidi, e nel sapersi comportare adeguatamente sia nella ricchezza che nelle avversità, ma non erano ancora preparati a governare, e provandoci fallirono. 52. Il loro primo errore fu quello di inviare soldati di presidio in numero sempre superiore a quello degli abitanti delle città presso le quali erano inviati; così insinuavano anche nelle città dove ancora non era stato inviato un presidio, il sospetto di voler risolvere tutte le questioni con la forza e la violenza. La conseguenza era duplice: da una parte non riuscivano a controllare le città in modo sicuro, e dall'altra erano odiati, raccogliendo quindi gli svantaggi anziché i vantaggi del potere: mentre il loro avido dominio era instabile si procuravano infatti la stabile fama di avidi dominatori. 53. Ebbene, che cosa
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accadde in conseguenza di tutto ciò? Che, essendo sempre frammentati e divisi fra loro, diventarono sempre più deboli in patria e, a forza di cercare di possedere il territorio degli altri, divennero incapaci di difendere il loro. Alla fine, infatti, con tutto il gran numero di soldati inviati, non riuscivano ad aver ragione di quelli su cui desideravano esercitare il dominio, e d'altra parte, cosl facendo, non si lasciavano alle spalle le forze necessarie alla loro stessa difesa: erano troppo pochi fuori, troppo pochi in patria. Estendere l'impero divenne per loro un'impresa impossibile, dato che alla fine non ebbero gli strumenti per poterlo mantenere. In realtà con i loro sforzi ottennero l'opposto di ciò di cui avrebbero avuto realmente bisogno: era un problema e quasi una maledizione se riuscivano a ottenere quello che si erano prefissi, mentre se non ci riuscivano la situazione si alleggeriva e i timori diminuivano. Più che dominatori, sembravano un popolo disgregato che si affaticava per il gusto di affaticarsi. Quando si arrivava alla fine tutto il sistema non si sa come si sfaldava, e, come dicono i poeti, ripiombava di nuovo giù al punto di partenza. 54. E c'è ancora da osservare che a loro non era utile né che i popoli soggetti fossero forti, perché avrebbero potuto ribellarsi, né deboli, perché bisognava trarre qualche vantaggio dall'alleanza durante le guerre dall'esterno. Avevano piuttosto verso di loro, pressappoco, lo stato d'animo di quelli che, nel gioco, prima spingono innanzi le pedine, e poi le ritirano indietro, senza sapere che uso ne faranno; era come se desiderassero che i sudditi esistessero e allo stesso tempo che non esistessero, e volevano guidarli e dirigerli, ma senza essere in grado di dire quali fossero i loro obiettivi. 55. Ma ecco la cosa più ridicola e assurda di tutte: costringevano a marciare contro gli alleati che si erano ribellati quelli rimasti fedeli, ma che avevano già in mente di fare la stessa cosa. In questo modo era come se volessero persuadere i ribelli ad andare contro sé stessi: non consideravano, infatti, che conducevano contro gli insorti gente che era dalla stessa loro parte, gente a cui non era certo utile mostrare, a proprio svantaggio, sollecitudine nel correre in aiuto di altri. Così anche in queste circostanze ottenevano l'opposto di ciò che desideravano e che sarebbe stato per loro vantaggioso. 56. In conclusione, volendo ricondurre a sé gli insorti, facevano ribellare anche quelli che erano rimasti a loro fedeli: mostravano infatti a questi ultimi che, rimanendo dalla loro parte, sarebbero stati usati gli uni contro gli altri, mentre insorgendo tutti insieme avrebbero sicuramente acquistato la libertà, dato che alla fine non sarebbe rimasto più nessuno da inviare per sottometterli. Così si procurarono da se stessi un danno maggiore di quello provocato dagli alleati ribelli: questi infatti erano insorti ciascuno per proprio conto, mentre essi, in conseguenza della loro condotta, provocarono una insurrezione generale. 57. Si può dun-
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que dire che a quei tempi non esisteva ancora un sistema ordinato di potere imperiale e che quindi si inseguiva il potere senza sapere come; ma, sebbene avessero solo dei piccoli possedimenti, lembi estremi di un territorio e lotti coloniali, non ebbero la forza di preservare neppure questi a causa della loro inesperienza e della loro incapacità a governare: non riuscendo a reggere le città con la benevolenza, e non essendo in grado di controllarle con la forza, si dimostrarono infatti allo stesso tempo opprimenti e deboli. E alla fine, privati delle piume come la cornacchia di Esopo, si trovarono a combattere da soli contro tutti. 58. Ma ciò che era sfuggito, direi, quasi a tutti gli uomini è stato tenuto in serbo solo per voi, perché lo scopriste e lo realizzaste;e non c'è da meravigliarsi affatto. Come infatti in ogni altro campo le arti si dispiegano quando ci sono i materiali a loro necessari, così quando si costituì un impero grandissimo e una potenza superiore a tutte le altre, allora su questa si formò e vi si introdusse anche l'arte (di governare), e ambedue si rafforzarono l'una grazie all'altra: da una parte, per la vastità dell'impero, necessariamente crebbe l'esperienza, dall'altra l'impero crebbe in modo giusto e conveniente proprio grazie all'arte di governare. 59. Ma c'è una caratteristica che più di tutte merita di essere osservata ed ammirata, poiché al mondo non esiste niente di simile, ed è la grandezzadell'organizzazionepolitica e della sua concezione: avendo distinto in due parti tutti gli abitanti dell'impero - e dicendo impero ho detto tutta l'ecumene - ovunque avete reso partecipi della vita politica o addirittura facenti parte del vostro stesso popolo gli uomini migliori, più nobili e più potenti, mentre tutti gli altri li avete resi sudditi e sottoposti al vostro governo. 60. Né il mare, né le enormi distanze di terre impediscono di essere cittadini romani, né, a questo riguardo, c'è più differenza fra l'Asia e l'Europa, ma tutte le opportunità sono a disposizione di tutti: nessuno che sia degno di posti di comando o di fiducia è infatti considerato uno straniero, ma si è costituita un'unica democrazia universale, sotto un unico uomo, il miglior capo e ordinatore, e tutti si riuniscono come in un foro comune, ciascuno per ricevere ciò che a lui si conviene. 61. Ciò che è una città per i suoi confini e per il suo territorio, questo è oggi Roma per tutta l'ecumene, come se fosse stata proclamata patria comune a tutta la terra, così che si potrebbe dire che si riuniscono in questa unica acropoli tutti i perieci o quelli che, ripartiti in demi,abitavano in un altro territorio. 62. Roma non ha mai respinto nessuno, ma come la superficie della terra sostiene tutti, così anch'essa accoglie gli uomini di tutto il mondo, come il mare riceve i fiumi. E con il mare ha un'altra caratteristica in comune: né il mare aumenta per il fatto che in esso sfociano dei fiumi, perché è stabilito che abbia una
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determinata grandezza che già comprende l'apporto dei suoi affluenti, né, alla città accade alcun mutamento palese per via della sua grandezza. Cosl, come quelli che ripongono qualcosa nelle pieghe delle vesti, l'Urbe prende e nasconde ogni cosa, essendo e apparendo sempre uguale nonostante l'entrata e l'uscita delle persone. 63. E ciò sia detto così, en passant,dato che il discorso ha toccato questo argomento. Tornando a quel che dicevamo prima, voi che siete un grande popolo avete dato delle dimensioni grandiose alla vostra città, e non l'avete resa degna di ammirazione comportandovi in modo altezzoso, cioè precludendola a tutti gli altri popoli, ma avete cercato una popolazione degna di lei e avete fatto sl che 'romano' non indicasse l'appartenenza a una sola città, ma fosse il nome di una specie di stirpe comune, non una fra le tante, ma tale da controbilanciare tutte le altre. Infatti ora non distinguete più gli uomini in Greci e barbari, né vi siete limitati a dimostrare loro come ridicola quella distinzione, dato che la vostra città da sola è più popolosa, per cosl dire, di tutta la stirpe greca: voi invece avete distinto tutta l'umanità in Romani e non Romani: a tal punto avete esteso il nome dell'Urbe. 64. Dobbiamo dire che, operata questa distinzione, in ogni città ci sono molti che sono vostri concittadini, non meno dei cittadini della loro stessa stirpe, anche se alcuni di loro non hanno ancora visto l'Urbe; per questo non c'è bisogno di guarnigioni che tengano sotto controllo le acropoli, ma ovunque i cittadini più importanti e potenti custodiscono le loro patrie per voi; così voi potete tenere sotto controllo le città in due modi, da Roma, e ciascuna (dall'interno) grazie a costoro. 65. L'invidia non mette piede nel vostro impero; voi infatti siete stati i primi a non provare gelosia, avendo messo tutto a disposizione di tutti e avendo concesso alle persone che ne sono capaci la possibilità di comandare a propria volta, non meno che di essere comandati. Per di più, nemmeno gli esclusi dai posti di potere covano rancore: infatti, dato che vige un unico sistema di governo comune a tutti, come se si trattasse di un'unica città, è naturale che coloro che comandano trattino quelli a loro sottoposti non come stranieri, ma come concittadini; e inoltre, sotto il vostro governo, anche le larghe masse popolari si sentono tutelate rispetto a quelli che presso di loro detengono il potere ... giungendo subito su di loro la vostra collera e il vostro castigo se osano sconvolgere l'ordine stabilito. 66. Così è naturale che l'attuale stato di cose sia gradito e convenga ai poveri come ai ricchi e non è rimasto nessun altro modo di vivere. Èsorto un unico armonioso sistema di governo che comprende tutti, e quelle condizioni che prima non sembrava potessero coesistere, sotto di voi si sono avverate contemporaneamente: esercitare il potere su un impero talmente grande, gover-
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nando con mano sicura ma non senza benevolenza. 67. Cosl le città sono sgombre da guarnigioni; coorti e truppe di cavalleria bastano a costituire il presidio di intere province e neppure queste truppe sono ammassate nelle varie città di ogni popolo, ma sono disseminate nei territori circostanti in mezzo al resto della popolazione, così che molte province non sanno nemmeno dove si trovi la loro guarnigione. E se una città, a causa della sua eccessiva grandezza, ha in qualche modo oltrepassato la capacità di autogovernarsi saggiamente, non rifiutate certo di inviare presso di loro chi possa governarla e proteggerla. Per questo tutti, nell'inviarvi i tributi, sono più contenti di quanto altri lo sarebbero a riceverli loro da terzi, ed è naturale che così avvenga. 68. Infatti comandare non è salutare per coloro che non ne hanno la capacità, mentre l'essere comandati da chi è migliore, cioè la così detta strada di riserva, sotto di voi si è ora dimostrata essere anche la via maestra. Dunque tutti si tengono stretti a voi e non pensano di potervi lasciare più di quanto i naviganti pensino di poter lasciare il loro timoniere. Ma come i pipistrelli nelle caverne stanno appiccicati l'uno all'altro e alla roccia, così tutti si sono attaccati a voi e hanno molta paura e stanno molto attenti a che nessuno cada giù dalla fila: temerebbero di essere abbandonati da voi, piuttosto che pensare loro ad abbandonarvi. 69. I popoli non contendono più per l'impero e per la supremazia, cause di tutte le guerre precedenti, ma alcuni, come l'acqua che scorre quietamente, vivono volentieri in pace, contenti di aver posto fine ad affanni e sventure, accortisi che in realtà avevano combattuto invano contro delle ombre; altri neppure sanno che un tempo ebbero un impero, né se lo ricordano, ma proprio come nel mito di Er panfilio, o quanto meno di Platone, le città, che già giacevano sulla pira funeraria a causa delle rivalità e delle contese reciproche, all'istante sono tornate in vita non appena tutte insieme hanno accolto la vostra egemonia. Non sanno dire come siano giunte a questo, e non sanno fare nient'altro che meravigliarsi della situazione in cui si trovano: ma si sentono come chi, essendosi destato, al posto dei sogni che stava facendo fino a poco prima all'improvviso vede da sveglio la nuova realtà e vi si trova immerso. 70. Le guerre non si crede più che siano realmente esistite, ma, al contrario, i più ne ascoltano il racconto come se si trattasse di un mito; e se pure si verificano degli scontri ai confini, come è naturale che avvenga in un impero cosl grande e immenso, a causa o della follia dei Geti, o delle sofferenze dei Libici, o della malvagità di quelli che abitano attorno al Mar Rosso - si tratta infatti di popoli incapaci di godere dei beni presenti - sia questi scontri che i racconti relativi scompaiono rapidamente, proprio come dei miti. 71. Così grande è la vostra pace, anche se il
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combattere è un vostro patrio costume ... non accade infatti che quelli che ieri erano calzolai e artigiani oggi siano fanti e cavalieri, né, come sulla scena teatrale, che si trasformi in soldato chi appena un momento prima era un contadino; né vi siete scambiati anche voi i compiti come in una povera casupola dove le stesse persone cucinano, custodiscono la casa e fanno i letti; né avete aspettato che quelli che si trovano in altre occupazioni diventassero per necessità soldati, né avete lasciato ai nemici il compito di chiamarvi alle armi, ma ... 72. Ho parlato finora dell'impero nel suo insieme e della sua struttura politica, in che forma l'avete pensata e come l'avete stabilita; ma ora è il momento di parlare dell'esercito e dell'organizzazione militare, come, di nuovo, li avete concepiti e quale ordine gli avete dato. Infatti anche riguardo a ciò la vostra sapienza è stata ammirevole e non ha assolutamente paragoni. 73. In effetti, anche gli Egiziani erano arrivati a tenere distinte dal resto della popolazione le forze armate e sembravano aver trovato una soluzione molto intelligente, cioè che quelli che combattevano per difendere il paese fossero stanziati in luoghi separati rispetto a tutti gli altri - anche in molte altre cose gli Egiziani avevano la fama di essere particolarmente saggi rispetto agli altri, o almeno così si dice -. Ma voi, pur avendo dato lo stesso giudizio su tale questione, non vi siete comportati in modo identico al loro, ma avete operato una distinzione più bella e più saggia di quella egiziana: nel loro ordinamento, infatti, non esisteva un'uguaglianza politica fra gli uni e gli altri, ma quelli che combattevano erano in una posizione inferiore rispetto a quelli che vivevano in pace, pur essendo i soli a sostenere continuamente fatiche, - e dunque probabilmente non erano neppure contenti di questa situazione. Presso di voi, invece, avendo tutti uguaglianza di diritti, è possibile stabilire (senza provocare risentimenti) che chi combatte risieda separatamente. In questo modo il coraggio dei Greci, degli Egiziani e di qualunque esercito uno possa menzionare, è inferiore al vostro. 74. E tutti i popoli, che sono tanto inferiori a voi nella pratica delle armi, sono da considerarsi ancor più indietro per quanto riguarda la concezione dell'esercito; voi infatti, da un lato avete considerato che se i cittadini dell'Urbe dovessero prestare servizio nell'esercito e sopportarne le fatiche, non ricavarebbero nessun vantaggio degno dell'impero e della felice condizione presente; d'altro canto non vi siete fidati degli stranieri. Ma i soldati erano indispensabili prima del momento del bisogno. Come dunque avete fatto? Avete trovato un vostro proprio esercito senza incomodare i vostri cittadini. E questo ve lo ha procurato il vostro orientamento generale sull'impero, e il fatto di non considerare straniero nessuno rispetto a ciò che ciascuno debba e sia in grado di fare. 75. In cosa consiste dunque la leva e in che modo viene effettuata? Percor-
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rendo tutto il territorio a voi soggetto, avete cercato uomini che fossero in grado di prestare questo servizio e, una volta trovatili, li avete staccati dalla loro patria e contemporaneamente avete dato loro in cambio la vostra stessa cittadinanza: così, in seguito, essi stessi si sono vergognati di dichiarare il loro paese di origine. Nel medesimo momento in cui li avete fatti diventare cittadini, li avete dunque fatti diventare anche soldati, in modo tale che gli abitanti dell'Urbe non prestano il servizio militare, ma quelli che lo prestano sono nondimeno cittadini: non appena hanno preso servizio, hanno infatti perso la loro patria di origine, ma sono diventati, a partire da quello stesso giorno, cittadini e custodi della vostra. 76. In questo modo tutti vi seguono e nessuna città è malcontenta, in quanto da ciascuna avete richiesto una quantità di uomini tale da non essere di peso per coloro che la fornivano, e allo stesso tempo insufficiente a costituire un numero completo di effettivi di un esercito autonomo; così tutte le città sono grate a coloro che sono stati allontanati, come a uomini loro, ma nessuna singola città ha nemmeno l'ombra di una milizia composta dai suoi cittadini, e coloro che se ne sono andati non guardano altrove se non verso di voi, poiché solo a questo fine sono stati onorevolmente reclutati. 77. Inoltre, dopo aver chiamato alle armi gli uomini più adatti da ciascuna regione, avete escogitato un altro provvedimento che si è rivelato non poco vantaggioso: non avete infatti ritenuto giusto che debbano essere scelti ed allenati in vista delle feste solenni e delle gare in cui c'è in palio una corona gli uomini dotati di migliore complessione e di superiorità fisica; e che, al contrario, gli uomini che saranno impegnati in combattimenti ben più grandi e reali, e che, al servizio di un così grande impero, risulteranno vincitori di quante vittorie vorrà assegnargli la sorte, si trovino insieme solo al momento del bisogno: ovvero che non siano scelti e addestrati molto tempo prima della battaglia i più prestanti e soprattutto i più adatti, in modo da avere la meglio non appena schierati al loro posto di combattimento. 78. E dunque avendoli selezionati e divisi per contingenti nazionali, li avete introdotti nella comunità di coloro che comandano non senza concedere loro quei vantaggi che ho detto, e facendo in modo che non provino più invidia verso coloro che rimangono in città - dato che in origine non avevano i loro stessi diritti - ma considerino un onore il fatto di aver ottenuto la partecipazione alla cittadinanza; e così, dopo averli trovati e sottoposti a questo trattamento, li avete condotti ai confini dell'impero e là ciascun contingente è stato schierato a difesa di una diversa regione. 79. Bisogna dire che, anche per quanto riguarda le fortificazioni, voi avete progettato ed escogitato qualcosa di nuovo, e ora vale la pena di parlarne. Non si potrebbe infatti dire che questa città
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sia priva di mura alla maniera tracotante di Sparta, né, d'altra parte, che ne sia cinta alla maniera grandiosa di Babilonia, o di ogni altra città che prima o dopo di lei abbia potuto vantare mura ancor più maestose: avete dimostrato che anche quella fortificazione era come un gioco da ragazzi e davvero l'opera di una donna. 80. Avete infatti ritenuto che cingere l'Urbe di mura, come a volerla nascondere, o a voler fuggire i popoli a voi soggetti, fosse una cosa ignobile e non conforme a tutto il resto del vostro modo di pensare, come se un padrone mostrasse di aver paura dei suoi stessi servi. E dunque non avete trascurato le mura, ma le avete costruite intorno all'impero, non all'Urbe; e le avete innalzate il più lontano possibile, splendide e degne di voi, visibili per quelli (subito) all'interno del loro perimetro: ma per chi partisse dall'Urbe, il viaggio per andare a vederle durerebbe per mesi e anni. 81. Avete infatti tracciato, al di là dell'estremo cerchio dell'ecumene, un altro cerchio più flessibile e più facile da essere difeso, proprio come una seconda cinta in una città fortificata, e qui avete collocato delle mura e avete edificato in varie zone delle città di confine; queste città le avete riempite di abitanti, ai quali avete procurato degli utili mestieri, mentre le città stesse sono state fomite di tutto quello che poteva servire. 82. Ècome un 'vallo' che cinge tutto intorno un accampamento, in modo che il perimetro di questa cinta, a volerlo calcolare, non è di dieci parasanghe, né di venti, né di poco di più, non potresti dire esattamente quanto misura, ma quanto è lo spazio racchiuso dalla zona abitata dell'Etiopia e dal Fasi da una parte, e dall'Eufrate verso l'interno (dell'Asia), e ad Occidente dall'ultima grande isola, tutto questo si può definire il giro e la cinta delle mura. 83. E queste mura non sono costruite con bitume, né con mattoni cotti, né si innalzano scintillanti di stucco - sebbene ve ne siano dovunque, e molte, anche di queste che sono più usuali, costruite con pietre saldamente e accuratamente connesse, come disse Omero a proposito del muro di una casa, immense per grandezza e più splendenti e lucenti del bronzo. 84. Ma l'altra cinta, molto più grande e più maestosa, da ogni parte assolutamente infrangibile e indistruttibile, di gran lunga più splendente di tutte le altre mura, compatta come nessuna di quelle che sono mai esistite, questa cinta la proteggono uomini non avvezzi alla fuga, uniti l'uno all'altro con tutti gli strumenti di guerra, in quella compagine in cui Omero dice che erano uniti i Mirmidoni paragonandoli, appunto in quel passo, a quel muro che io dicevo. Gli elmi sono così uniti l'uno all'altro che non è possibile che ci passi in mezzo una freccia, mentre gli scudi sollevati sopra le loro teste potrebbero sostenere delle piste da corsa sopraelevate addirittura più solide di quelle costruite in città, tanto che sarebbe possibile anche a dei cavalli correrci sopra; e allora potresti davvero citare il verso di Euripide: si
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vede «una pianura di bronzo». Lecorazzesono così attaccate l'una all'altra che, se tu collocassi un uomo inerme in mezzoa due armati, le corazze di questi basterebbero a coprirlo dall'una e dall'altra parte, come saldandosi nella parte centrale. E i giavellotti si susseguono fitti gli uni dopo gli altri, come piovuti da Zeus. In siffatta armonica compagine sono serrati tanto il cerchio delle mura e dei passaggi (del confine), quanto il cerchio di confine che veglia su tutta la terra. 85. Mentre infatti un tempo Dario, con Artafeme e Dati, fu capace di conquistare una sola città di una sola isola avendola presa come in una rete, voi invece, avendo avviluppato, se si può dire, tutta l'ecumene come in una rete, così la salvaguardate con quegli uomini che ne fanno parte come cittadini e allo stesso tempo come stranieri, e che, come ho detto, avete scelto fra tutti e condotto fuori dalle loro terre, e ai quali avete dato la speranza che non avranno di che pentirsi a dimostrarsi uomini di valore. Non sarà infatti sempre di una famiglia nobile colui al quale sarà data la possibilità di occupare i primi posti di comando, né di una inferiore colui a cui sarà dato il secondo posto, e così via per tutte le altre posizioni, ma ciascuno avrà il grado che si merita, poiché non le parole ma i fatti distinguono nel vostro esercito gli uomini di valore. E di ciò avete offerto esempi lampanti a tutti, così che tutti considerano l'inattività come una disgrazia e pensano che l'azione sia l'occasione per raggiungere ciò che si augurano; per questo sono concordi quando si tratta di combattere contro i nemici, ma fra loro sono in competizione durante tutta la vita perché vogliono essere in prima linea, e soli fra tutti gli uomini fanno voti per incontrarsi con un nemico. 86. Così quando si osservi la preparazione e l'ordinamento dell'esercito, risulterà vero quel verso di Omero che dice: se anche gli avversari fossero «dieci e venti volte tanti», nondimeno, volti velocemente in fuga, sarebbero affrontati e vinti uno per uno fino all'ultimo. Ma quando ci si volga a guardare il reintegro e il reclutamento delle truppe, verrà da dire e da pensare la stessa cosa di quell'Egiziano che, in piedi sulle mura di Tebe, porse a Cambise, che depredava i beni della terra d'Egitto e saccheggiava i templi, una zolla di terra e una coppa di acqua del Nilo: in questo modo voleva fargli capire che, finché non fosse stato capace di trasportare via la stessa terra dell'Egitto e il fiume Nilo, e non avesse condotto via queste cose come bottino, non si sarebbe impossessato delle ricchezze egiziane, perché, rimanendo loro il fiume e la terra, velocemente gli Egiziani avrebbero riavuto tesori non minori dei precedenti e mai la ricchezza sarebbe mancata all'Egitto. Ecco, la stessa cosa si può pensare e dire anche a proposito del vostro esercito: finché gli uomini non saranno capaci di sollevare la terra stessa dalle sue sedi e di svuotarla dei suoi abitanti e finché l'ecumene dovrà rimanere al suo posto, non sarà passi-
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bile che vi manchino moltitudini di soldati, ma ce ne saranno tante e quante volete provenienti da ogni possibile angolo della terra. 87. E veramente in materia di tattica avete mostrato che tutti gli uomini in confronto a voi sono dei bambini. Infatti avete prescritto ai soldati e ai comandanti di esercitarsi sotto questo aspetto non solo contro i nemici ma innanzitutto contro se stessi. Cosl ogni giorno vivono schierati e nessuno mai lascia il posto assegnatogli, ma, come in un coro eterno ognuno conosce e tiene la sua posizione e il subalterno non invidia chi ha più onori, perché a sua volta comanda con rigore quelli di cui lui stesso è il superiore. 88. Mi rincresce che altri, prevenendomi, abbiano detto a proposito degli Spartani che, fatta eccezione per pochi, il loro esercito consisteva di comandanti che comandavano su altri comandanti; infatti bisognava che queste parole fossero tenute in serbo per voi e che per la prima volta fossero pronunziate a vostro riguardo, mentre quell'autore le ha proferite prima del dovuto. Ad ogni modo, l'esercito degli Spartani finiva per essere composto da cosl pochi uomini, da non essere inverosimile che tutti fossero comandanti; mentre nel vostro esercito, in un numero di reparti e di popoli cosl grande che non è nemmeno facile scoprirne il nome, si inizia da un uomo che esamina tutto e sorveglia tutto, - popoli, città, legioni e gli stessi generali - e si finisce con un uomo che comanda quattro o due uomini - e abbiamo tralasciato tutto ciò che sta nel mezzo -, e si scende sempre, come nella tessitura di un filo, dai più ai meno, e così, essendo tutti disposti in ordine gerarchico gli uni sopra gli altri, si giunge fino alla fine: e non dovremmo dire che tutto ciò supera ogni organizzazione umana? 89. Mi viene da citare questo verso di Omero, cambiandone un poco la fine: «Così dev'essere l'impero di Zeus Olimpio al suo interno»; infatti quando uno solo comanda su tanti, e quando i suoi funzionari e legati sono molto inferiori a lui, ma molto superiori a quelli a cui devono provvedere, e compiono tutto in silenzio, senza mormorii e senza disordini, e quando l'invidia è tenuta lontana, e tutto ovunque è pieno di giustizia e di rispetto, e a nessuno sfugge il frutto della sua virtù, come non risulta trionfalmente vero questo verso? 90. E anche nella stessa Urbe mi sembra che abbiate istituito una forma di governo diversa da quelle di tutti gli altri uomini. Prima infatti si riteneva che ci fossero fra gli uomini tre tipi di regimi politici: due con due nomi ciascuno, essendo ognuno dei due considerato tirannide o oligarchia, regno o aristocrazia, a seconda dell'atteggiamento assunto da coloro che ne erano a capo; il terzo, invece, aveva il nome di democrazia, sia che fosse governato bene che meno bene. Le città si ripartirono
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dunque l'uno o l'altro tipo, a seconda che vincesse presso di loro la libera scelta o il caso. Tuttavia il vostro regime politico non è uguale a nessun altro, ma è come un misto di tutti, senza la parte peggiore di ciascuno; perciò è proprio questa forma di governo che è risultata vincente. Tanto che, quando uno consideri il potere del popolo e come facilmente ottiene tutto ciò che desidera e richiede, penserà che si tratti di una democrazia e che non vi manchi niente fuorché gli errori commessi dal popolo; quando poi osservi il senato che delibera ed esercita il potere, penserà che non esista un'aristocrazia più perfetta di questa; ma avendo infine rivolto lo sguardo all"eforo' e al 'pritano' di tutto questo, grazie al quale al popolo è dato di ottenere ciò che desidera e ai 'pochi' di governare e di avere potere, vedrà proprio colui che detiene la monarchia più perfetta, libera dai mali della tirannide e superiore ad ogni prestigio di re. 91. E non è strano che voi soli abbiate operato questa ripartizione, e siate stati così lungimiranti, sia per quanto riguarda gli affari esterni che quelli interni alla stessa Urbe; voi soli infatti, se così si può dire, detenete il comando per natura. Gli altri che hanno avuto il potere prima di voi, diventando a turno padroni e schiavi l'uno dell'altro, come se fossero eredi illegittimi dei loro imperi, si succedevano scambiandosi di posto come nel gioco della palla, e i Macedoni sono stati soggetti ai Persiani, i Persiani ai Medi, i Medi agli Assiri; ma voi invece, tutti, dal momento stesso in cui vi conoscono, vi conoscono come dominatori. Giacché essendo liberi fin dall'origine e come nati per esercitare da subito l'impero, vi siete attrezzati con tutto ciò che serviva a questo scopo e avete scoperto un tipo di regime politico che nessuno ha mai avuto prima, e avete imposto a tutti leggi e ordinamenti ineludibili. 92. Forse ora non sarebbe il momento sbagliato per esprimere un concetto che mi è venuto in mente già da tempo, e che spesso mi ha ostacolato la parola standomi sulla punta della lingua, ma che finora è stato sempre rinviato dallo sviluppo del discorso. Quanto superiate tutti per la grandezza dell'impero, la forza e la sapienza del regime politico, l'ho già detto; ora mi sembra che uno non sbaglierebbe dicendo anche questo, che tutti i vostri predecessori, anche quelli che hanno esercitato il potere su una gran parte della terra, lo hanno esercitato sui popoli come su nudi corpi... 93. Infatti quando mai vi furono città tanto importanti nell'interno o sul mare o quando mai furono così ben provviste di tutto? O chi mai poteva un tempo fare un viaggio come ora, contando le città in cui è passato dal numero dei giorni di viaggio, e talvolta passando addirittura lo stesso giorno per due o tre come attraverso delle stradine di una città? Così i precedenti dominatori sono tanto inferiori a voi non solo per ciò che riguarda le caratteristiche
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essenziali dell'impero, ma anche per il fatto che quando governarono gli stessi popoli che ora governate voi, questi non furono né uguali né simili a come sono oggi: ad ogni popolo di allora si può in effetti giustapporre una città che sorge ora in quel territorio. Veramente si potrebbe dire che quegli uomini furono come re di deserti e fortezze, mentre solo voi siete signori di città. 94. Ora, sotto di voi, tutte le città greche risorgono e le offerte votive che vi si trovano e le arti e tutti i loro ornamenti vi fanno onore come l'ornamento di una bella periferia. Le regioni sul mare e nell'interno pullulano di città, in parte fondate in parte ingrandite sotto di voi e da voi. 95. La Ionia, da sempre oggetto di contesa, liberata da guarnigioni e da satrapi, è davanti a tutti regina di bellezza, avendo al giorno d'oggi tanto superato se stessa quanto un tempo sembrava superare gli altri popoli in grazia e splendore. La maestosa e grande città di Alessandro in Egitto è diventata un ornamento del vostro impero, come una collana o un braccialetto fra i molti altri averi di una ricca signora. 96. E vi prendete stabilmente cura dei Greci come di quelli che vi hanno educato, tenendo la vostra mano sopra di loro per proteggerli, quasi risollevandoli dalla loro prostrazione: lasciate infatti liberi e autonomi i migliori fra loro, quelli che un tempo ebbero la supremazia, gli altri li governate con moderazione, con grande considerazione e cura. I barbari invece li educate in modo più dolce o più duro a seconda della indole che ha ciascuno di loro: è naturale infatti che, essendo dominatori di popoli, non siate inferiori ai domatori di cavalli, ma abbiate studiato le loro differenti nature e li governiate come a ciascuno si conviene. 97. E infatti tutta l'ecumene, come celebrando una festa, ha deposto la sua vecchia veste, il ferro delle armi, e si è rivolta in piena sicurezza agli ornamenti e a tutte le forme di diletto. Tutte le altre rivalità hanno lasciato le città e quest'unica contesa le occupa tutte, cioè come ciascuna potrà apparire più bella e più piacevole possibile. Dovunque sorgono ginnasi, fontane, atri, templi, laboratori di artigiani, scuole, e si può dire, con linguaggio medico, che tutta l'ecumene, che inizialmente era come malata, ha recuperato la salute. 98. I doni che da voi giungono a queste città non vengono mai meno e non è possibile trovare quelle a cui ne siano toccati di più grandi perché la vostra generosità è uguale verso tutte. 99. Le città, quindi, rifulgono di splendore e di grazia e tutta la terra è stata adornata come un giardino. Il fumo che si levava dalle pianure e i segnali di fuoco di amici e nemici, come se un vento li avesse dissipati, sono scomparsi al di là della terra e del mare; li ha sostituiti una serie incantevole di spettacoli e un numero infinito di gare. Così la celebrazione di feste, come un fuoco sacro e inestinguibile, non s'interrompe mai, ma passa dagli uni agli altri, e sempre si trova da
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qualche parte, dato che tutti si trovano nelle condizioni di poterle celebrare; così che restano solo da compiangere coloro che si trovano fuori del vostro impero, se per caso ve ne sono, per tutti i beni di cui sono privi. 100. E davvero voi avete dimostrato nel modo migliore quanto sia vero ciò che tutti dicono, che la terra è la madre e la patria comune di tutti. Ora infatti è possibile al Greco e al barbaro, sia portandosi dietro i suoi beni sia senza di essi, viaggiare facilmente dove vuole, proprio come se passasse da una patria all'altra; e non fanno paura né le Porte Cilicie, né gli stretti e sabbiosi passaggi attraverso l'Arabia per l'Egitto, né le montagne inaccessibili, né la grandezza sconfinata dei fiumi, né le stirpi selvagge dei barbari, ma per essere sicuri basta essere un Romano, o piuttosto uno dei vostri sudditi. 101. E ciò che aveva detto Omero, «la terra certo è comune a tutti», voi l'avete fatto diventare realtà, avendo misurato tutta l'ecumene, avendo gettato ponti d'ogni sorta sui fiumi, avendo tagliato i monti in modo che vi fossero spazi percorribili dai cavalli, avendo riempito il deserto di stazioni di posta, e avendo civilizzato tutto il mondo col vostro modo di vivere e coll'ordine che avete dato. Così che personalmente ritengo che la vita prima di voi fosse quella che si pensa sia stata prima di Trittolemo, una vita dura e selvaggia e di poco distante dal modo di vivere che si conduce in montagna, e che la città di Atene abbia sì dato inizio alla vita civile che viviamo tuttora, ma che anche questa sia stata garantita e consolidata da voi, che siete stati i secondi ma, come si dice, migliori dei primi. 102. E non c'è più bisogno di scrivere guide che descrivano la terra, né di enumerare le leggi che usano i singoli popoli, perché voi stessi siete diventati le guide comuni a tutti gli uomini: avete infatti spalancato tutte le porte dell'ecumene e fornito a chiunque lo desideri la possibilità di vedere tutto direttamente; avete imposto leggi comuni a tutti; avete sanato situazioni che potevano anche essere piacevoli a raccontare, ma che, a rifletterci bene, erano insopportabili; avete reso possibili e validi ovunque i matrimoni, e organizzato l'intera ecumene come una sola famiglia. 103. Prima dell'avvento del dominio di Zeus, così narrano i poeti, tutto era pieno di discordia, di tumulto e di disordine, ma quando Zeus giunse al potere, tutto fu messo in ordine e i lìtani se ne andarono nei più profondi recessi della terra, spinti da lui e dagli dèi che erano dalla sua parte; ecco, se si riflette sulla situazione esistente prima di voi e su quella attuale sotto di voi, si comprende che esattamente allo stesso modo, prima dell'avvento del vostro impero, tutto era messo sottosopra e condotto a caso, mentre, una volta che siete sopraggiunti voi, i tumulti e le discordie sono cessate, e sono subentrati l'ordine in tutte le cose e una luce splendente nella vita personale e politica, sono comparse le
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leggi e si è iniziato ad aver fiducia negli altari degli dèi. 104. Prima infatti, come evirando i loro padri, gli uomini saccheggiavano la terra, e, anche se non divoravano i propri figli, comunque uccidevano gli uni quelli degli altri e anche i propri nelle discordie civili e perfino davanti ai santuari. Ma ora una sicurezza totale, comune e evidente a tutti, è stata data alla terra stessa e ai suoi abitanti; e mi sembra che gli uomini si siano liberati di ogni occasione di sofferenza, e abbiano invece raccolto le molte opportunità che hanno avuto per essere ben governati, mentre gli dèi, guardando dall'alto, aiutano voi a far prosperare l'impero e a rendere stabile il suo possesso: 105. Zeus, dato che per suo conto vi prendete cura in modo eccellente dell'ecumene, che è, come dicono, il suo eccellente capolavoro; Era perché i matrimoni si svolgono secondo le leggi; Atena ed Efesto perché le arti sono onorate; Dioniso e Demetra perché i loro frutti non sono oltraggiati; Poseidone perché il suo mare si mantiene indenne da battaglie navali, ricevendo navi mercantili al posto di quelle da guerra; mentre il coro di Apollo, Artemide e le Muse non cessa mai di vedere dall'alto i suoi ministri nei teatri, e anche Hermes è reso partecipe delle gare e delle ambascerie e Afrodite delle seminagioni. Quando c'è stata un'occasione più propizia per le Grazie, o quando mai alle città toccò di partecipare ai loro doni in misura maggiore? I benefici di Asclepio e degli dèi egiziani ora hanno fatto i più grandi progressi fra gli uomini. E nemmeno Ares è stato disonorato da voi, né vi è timore che sconvolga ogni cosa per non essere stato degnato di uno sguardo come nel banchetto dei Lapiti, ma sulle rive dei fiumi di confine danza una danza continua preservando le armi pure dal sangue. E Helios, che vede tutto, non ha più visto commettere sotto di voi atti di violenza o di ingiustizia, nè fatti simili che pure erano molto numerosi nei tempi passati; così che a ragione osserva il vostro impero con grande piacere. 106. Mi sembra che anche Esiodo, se fosse stato un poeta perfetto e un profeta quanto lo fu Omero, come questi non ignorò che sarebbe esistito il vostro impero, ma lo previde e lo proclamò nei suoi versi, così appunto anche Esiodo, esponendo la genealogia umana, non avrebbe iniziato, come invece ha fatto, dall'età dell'oro né, anche se avesse posto questo inizio, trattando dell'ultima generazione, quella del ferro, avrebbe detto che la sua fine sarebbe stata «quando i neonati verranno alla luce colle tempie bianche»; avrebbe piuttosto detto che quando la vostra signoria e il vostro impero si fossero affermati, in quel momento la generazione del ferro sarebbe perita sulla terra; avrebbe infatti fissato proprio in quel momento il ritorno della Giustizia e del Rispetto fra gli uomini, e avrebbe compianto quelli nati prima di voi. 107. Tutte le vostre istituzioni saranno sempre tenute in grande onore,
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istituzioni che realmente voi stessi avete introdotto, e che via via si consolidano sempre di più. E l'attuale grande principe, come un campione, supera nettamente i suoi predecessori tanto quanto - e non è facile a dirsi quanto -, lui stesso supera tutti gli altri uomini; si potrebbe dire che davvero è giustizia e legge tutto ciò che costui decide; e, a questo proposito, si può chiaramente osservare prima di ogni altra cosa che coloro che partecipano al governo, che egli considera come propri figli, uguali a lui stesso, sono più numerosi di quelli avuti da qualsiasi suo predecessore. 108. Ma la gara intrapresa all'inizio, di far corrispondere questo discorso alla grandezza dell'impero, è al di sopra di ogni possibilità, e avrebbe bisogno quasi di un tempo uguale a quello della durata dell'impero cioè di tutta l'eternità. Dunque è meglio, come i poeti dei ditirambi e dei peani, chiudere il discorso dopo aver aggiunto una preghiera. 109. E siano invocati tutti gli dèi e i figli di dèi e concedano a questo impero e a questa città di prosperare in eterno e di non avere fine fino a quando il ferro non navighi sul mare e gli alberi cessino di fiorire a primavera; e al grande principe e ai suoi figli di mantenersi sani e salvi e di continuare a presiedere ai beni di tutta la terra per il bene di tutti gli uomini. La mia impresa è compiuta; e ora potete pronunciarvi dicendo se sia riuscita bene o male.
COMMENTO
1. Informazioni sul viaggio a Roma sono fomite da alcuni passi del secondo DiscorsoSacro (48,5-7; 60-70) e del quarto (50,1-2; 12; 3237). Aristide partì dalla Misia probabilmente all'inizio dell'inverno del 143 d.C.: passato lo stretto dei Dardanelli, attraverso la Tracia e la Macedonia, lungo la via Egnazia, giunse fino a Durazzo dove si imbarcò per Brindisi e da qui proseguì per la via Appia fino a Roma. Sostengono, fra gli altri, la datazione del 143, pur con argomenti in parte diversi, OuvER 1953, 886-887; KLEIN1981a, 77; lo. 1981b e CoRTÉSCoPETE 1995, 180-181 nota 2. Collocano invece il viaggio a Roma nel successivo inverno del 143/144 BouLANGER1923, 124; 161; BEHR1968, 23-25; PERNOT1997, 17; 163-170. BEHRperò (ibid., 24 nota 6; 88-89 nota 92 e ArusTIDES1981, 373 nota 1) seguito da SwAIN 1996, 265-266, sostiene che il discorso A Romanon sia stato pronunciato in occasione di questo viaggio a causa della malattia che iniziò ad affliggere gravemente l'autore proprio in questa circostanza come viene indicato da un passo del secondo dei DiscorsiSacri(48,6064). Ipotizza perciò un secondo viaggio a Roma nel 155 d.C. sulla base di un vago e presunto riferimento ad esso nel sesto dei Discorsi Sacri (52,3) e di due passi della stessa A Roma (nei§§ 37 e 70) che presupporrebbero, sempre secondo Behr, una datazione dell'orazione posteriore al 143 d.C.: per l'infondatezza di tale presupposto vd. infra il commento al § 37 e KLEIN1981b, 339-342; PERNOT1997, 169170. Basti intanto osservare che la labile congettura del Behr risulta superflua se si considera sia il carattere prevalentemente letterario dei riferimenti contenuti nei DiscorsiSacrial periodo romano della malattia (CoRT~ CoPETE1995, 181 nota 6), sia la natura ipocondriaca della stessa, con alternarsi di momenti di crisi a momenti di salute (ARISTIDE1984, 192 nota 36; PERNOT1997, 170), sia il fatto che il discorso A Roma poteva essere già stato preparato, nelle sue linee essenziali, prima dell'inizio del viaggio (KLEIN1981b, 340). 'ICaTà XPWOICEf)(I) ALPaNTOil':per l'uso greco della doratura delle coma degli animali nei sacrifici cfr. Pt., Aie., 2, 149c. Fin dal primo
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paragrafo dell'orazione incontriamo una delle numerose citazioni tratte dai testi della letteratura greca e disseminate nell'A Roma; in questo primo caso, però, non conosciamo il poeta di cui Aristide riferisce il detto che è erroneamente attribuito a Pindaro in uno scolio bizantino all'orazione (su cui si veda LENZ1964, 67) contenuto nel codice Parisinusgraecus2995 (testi di Demostene e di Aristide): cfr. KEIL1913 (ma Maehler lo edita fra i Fragmentaincertorumlibrorumdi Pindaro, pur rimandando nell'apparato all'articolo di Keil: PINDARUS 1975, fr. 329, p. 151; precedentemente Kock lo aveva ritenuto un frammento comico: CAF, 3, fr. 784 ). Sull'utilizzazione retorica delle citazioni letterarie nell'elogio cfr. PERNOT1993, 727-738 dove si osserva come negli autori della seconda sofistica il rimando alle opere della Grecia classica, oltre a svolgere un'evidente funzione «d'autorité et [... ] d'omament» (p. 728), abbia anche la funzione di prendere a fondamento e allo stesso tempo di diffondere e perpetuare una cultura alla quale autore e pubblico riconoscono di appartenere (p. 738). Ma vedi anche infra il commento al§ 3. nìv 1r6A.Lv: la trOÀlS per antonomasia è evidentemente l'Urbe, e così traduco quando non vi siano ulteriori specificazioni che, anche nel caso di Roma, permettano di tradurre senza ambiguità il vocabolo uoÀLS con l'italiano 'città'. All'inizio dell'esordio (§§ 1-5 della nostra edizione) Aristide presenta quindi la sua orazione come un ex-voto: questo è uno dei fattori che portano RArr1 1971, 325-341, a leggere la struttura del discorso A Romacome quella di un inno alla dea Roma (e così ancora, pur con qualche precisazione, MÉTHY1991). Ma in realtà l'orazione rientra, pur con molti tratti originali, nella tipologia dell'encomio di città, di di Isocrate comcui il più antico esempio pervenuto è il Panathenaikos posto nel 339 a.C., nel quale l'autore sottolinea diverse caratteristiche di Atene (grandezza eccezionale della città, carattere metropolitano, superiorità della sua costituzione rispetto a quella di altri stati, confronto con altri imperi, benefici del suo dominio ecc.) che ritroviamo anche nell'elogio aristideo di Roma. Solo un secolo dopo Aristide il retore Menandro (cito dall'edizione MENANDER 1981) nel suo primo trattato 6w(pECJlS Twv Èm6nKTlKwv dedicava parte del secondo libro ed il terzo all'encomio di città che doveva articolarsi affrontando 0ÉCJlS (I,ii,347), yÉvos (I,ii,353 ), Èm T~6EUCJlS (I,iii,359) e trpciçELS (I,iii,361) della città in questione. Nel trattato veniva anche lodato l'encomio A Roma nella parte in cui tratta della costituzione mista dell'Urbe (I,iii,360). Lo schema menandreo non trova evidentemente una corrispondenza esatta nella struttura dell'A Roma, dove manca-
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no, ad esempio, la storia della città e del suo fondatore (-yÉvos), o, all'interno della eéms, la trattazione del clima, o, all'interno delle rrpciçELS,una descrizione delle virtù del popolo romano. Si può perciò affermare che Aristide ha tenuto presente il modello retorico dell'encomio della città usato nel mondo greco, ma di questo ha selezionato solo alcuni temi adatti a quella particolare città che era Roma: cfr. KLEIN 1981a, 114-115 e PERNOT1993, 178-215 e 328-331, dove si fornisce un'analisi della struttura dell'orazione con una breve rassegna (e confutazione) di altre diverse proposte di classificazione di questo discorso. Sempre Pernot (ibid., 302), analizzando la disposizione della materia all'interno degli elogi, sottolinea come nell'esordio sia sempre presente l'esposizione dei motivi, anche personali come un ex-voto, che sono all'origine dell'encomio; inoltre, così facendo, Aristide lega in qualche modo il suo discorso alla volontà e quindi all'ispirazione divina, motivo anche questo ben attestato in tutta l'oratoria epidittica: PERNOT1993, 625-634, specialmente p. 629 e lo. 1997, 22-28.
2. La difficoltà a svolgere un'orazione adeguata al soggetto in questione costituisce un altro tema obbligato dell'esordio degli encomi: cfr. sempre PERNOT1993, 302 e fonti alla nota 250. ical.µ.ElCovos: traduco in modo simile a Klein (ARISTIDES 1983, 9: «Vielleicht bedarf es eines begabteren Mannes»), facendo dipendere il genitivo µE((ovos (sott. «oratore») dal precedente rrpocrE6E'iTo. 3. icaT' Eùpuri.8T1v: il frammento, citato da Aristide anche nel Dioniso(41, 11), è attribuibile alla tragedia perduta Stheneboea: TruF 2004, fr. 663, p. 652 in cui sono riportate le numerose testimonianze che attestano l'ampia fortuna goduta dal passo. Il fenomeno delle citazioni tratte da opere della letteratura greca di età arcaica e classica da parte degli autori greci del secondo secolo d.C., è stato accostato a una tendenza arcaizzante e classicheggiante rintracciabile anche nello stile e in molti contenuti trattati da tali autori: cfr. Bowrn 1974 (1970) e SwAIN 1996, 65-100. Se tale tendenza ha sicuramente l'effetto di richiamare alla memoria il glorioso passato storico-letterario dell'Ellade, non è però generalizzabile l'interpretazione di questo richiamo come una voluta contrapposizione al dominio romano; per alcuni, infatti, che 'anti-romani' non erano, «by re-creating the situations of the past the contrast between the immense prosperity and the distressing dependence of the contemporary Greek world was dulled» (Bowrn 1974 [1970], 209), ovvero «since Greek identity could not be grounded in the real political world, it had to assert itself in the
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cultural domain and so as loudly as possible» (SwAIN 1996, 89). Ma per quanto riguarda in particolare l'orazione A Roma,i numerosi passi di autori classici che vedremo inseriti all'interno dell'argomentazione e variamente adattati e resi funzionali al tema dell'encomio sembrano anche mostrare che «les autorités de la culture grecque sont convoquées pour louer Rome. L'Empire est jugé à travers leurs mots, leurs concepts. Il n'est pas seulement loué pour lui-meme, mais aussi, peutetre surtout, en raison de sa conformité avec les valeurs et les idéaux de la Grèce archa'ique et classique. On est ainsi en présence d'une interpretatioGraeca,d'une lecture hellénique de l'Empire, sur laquelle se fonde l'adhésion de l'orateur»: PERNOT1997, 47.
4. ln questo paragrafo dell'esordio Aristide sostiene la tesi dell'incapacità della parola a rappresentare ciò che gli occhi vedono, e quindi l'idea, tradizionale nel mondo antico, che gli occhi sarebbero testimoni più sicuri degli orecchi. Presa alla lettera questa idea implicherebbe in realtà la condanna della retorica, «mais heureusement ce n'est qu'un thème d'exorde, et les orateurs ont tot fait de surmonter leur embarras pour tenter tout de meme l'éloge»: PERNOT1993, 673-674 e fonti alla nota 73. In Aristide cfr. anche 17,1 (Orazione perSmirne); 18,3 (Monodia perSmirne); pittura o scultura inferiore alla realtà 17,12 (OrazioneperSmirne). Ma vedi infra § 6 e c.ommento.
6. È evidente come Aristide voglia sottolineare il fatto che, di fronte alla grandezza di Roma, si rivela inadeguato anche il topossopra ricordato della insufficienza della parola rispetto a ciò che gli occhi vedono, dato che anche la vista risulta inadeguata per contemplare la magnificenza dell'Urbe. 1ravo1rTou 8EoilSei.:Oliver, individuando in ,rav6TTTTJS un epiteto specifico del sole, pensa che Aristide si riferisca al dio Helios e indirettamente all'imperatore dato che fin da Caligola e Nerone è attestata questa identificazione lmperatore-Helios, che arriverà fino a Costantino (OuvER 1953, 909 con fonti citate). Klein, in ARISTIDES 1983, 68 pur sostenendo che l'aggettivo ,rav61TTTJSben si addice al disco solare, non ritiene sicuro il fatto che Aristide intenda indicare con esso il dio Helios come 'reggente' di Roma, e nemmeno, altra ipotesi avanzata sempre da Oliver (loc. cit.), Apollo Palatino il cui imponente e importante santuario, situato in prossimità della Casa di Augusto, fu edificato proprio per volere del primo imperatore e assunse ben presto un posto di rilevo nella vita anche politica (a volte vi si radunava il senato) della città: cfr. GRos 1993, 56. In ogni
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caso, usando in senso opposto le testimonianze prodotte da Oliver, Klein ritiene che l'allusione al sole escluderebbe ogni riferimento all'imperatore in quanto Aristide si guarderebbe bene dallo stabilire un nesso, attraverso l'identificazione col Sole, fra l'imperatore e gli screditati Caligola e Nerone. Quest'ultima osservazione di Klein non è condivisibile: a differenza di Adriano, Antonino Pio si mostrò infatti favorevole alla teologia solare e, proprio in questo periodo, la simbologia solare viene reintrodotta nella monetazione anche in connessione colla figura dell'imperatore: BEAUJEU 1955, 320-325. Inoltre, al§ 105dell'orazione Aristide parla di o'YEµ~v rrcivT' Èopwv WHÀLOS (per l'espressione cfr. HoM., Il., 3, 277) riferendosi quindi sempre all'onniveggenza del Sole. Evidentemente però, il dio che governa Roma di questo paragrafo 6 non può essere il Sole se non come figura dell'imperatore. Ma può darsi che in questo passo l'aggettivo rravoTTTTJS non implichi nessun richiamo al Sole: tale aggettivo si trova infatti frequentemente riferito, oltre che naturalmente, e, direi, per antonomasia, ad Argo (come appena prima in questo stesso passo di Aristide e in AESCH.,Supp.,304; EuRIP., Ph., 1122; ARISTOPH., Ec., 80) anche a Zeus (AEScH.,Eu., 1045;SoPH., Oedip.,1086):cfr. TLG Vll,1, 1954, 157 s.v. rravoTTTTJS, Aristide potrebbe quindi voler indicare Zeus, la somma divinità protettrice dell'impero (A Roma, 105) di cui l'imperatore è come la personificazione sulla terra (A Roma, 89). In ambedue i casi, il riferimento al «dio onniveggente che governa» Roma potrebbe servire a richiamare comunque la dimensione divina del potere imperiale - come avviene in diversi passi delle orazioni: cfr. oltre A Roma§ 32 e commento, 19,5 (Lettera
agliimperatoriper Smirne);20,8; 11 (Palinodia per Smirne);23,13; 79 (Sulla Concordia) - e insieme la capacità dell'imperatore, esaltata anche in altri passi dell'A Roma,di conoscere (e anche di intervenire) su tutto ciò che accade nell'impero: vd. infra§§ 32-33;88. 7. O'll'Epyàp È'll'LTiìs XLOVOS' wo1,1.11pos è♦11, xv8E'ìaav aùn)v 'iJ+11).civ ... ical à1CTa'ìs': HoM., Il., 12,282-284.Per l'importanza di Omero negli scrittori della seconda sofistica, cfr. KINDSTRAND 1973e KoRENJAK
2003.
TÒ ICOI.VÒVàv8pc,,rc,v ȵ.,ropLov ical TIICOLVTI TcilvÈv 'Yfl ♦uoµ.Évc,v 8t.ollC1)C7LS': per Roma come centro commerciale del mondo civile, vd. infra §§ 11-13e commento. 8. c,s 8È ical i)6E... ♦épeL dllas È'II''dllaLs: Aristide si riferisce evidentemente ai palazzi con più piani di appartamenti (insulae) che
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si trovavano nell'Urbe. Per l'eccezionale altezza, rispetto ai tempi, degli edifici e delle case romane cfr. PuN., Nat., 3,5,67: .. .si quisalti-
tudinemtectorumaddat, dignamprofectoaestimationemconcipiatfateaturquenulliusurbismagnitudinemin toto orbepotuisseei comparari.Si può immaginare, al di là delle esagerazioni retoriche, che lo scrittore greco, vedendo Roma per la prima volta, rimanesse effettivamente impressionato da tali altezze. ia\scipaÈ1rc;.vu1,1.ov airrftTovvo1,1.a ical o'ÙSÈv àll' 'Ì1~11-11 Tà Tfi6E: 'P&»IJ.1) in greco è «Roma», ma la parola pwµri significa «forza».0PELT 1965 ha mostrato come tale etimologia del nome Roma sia stata probabilmente coniata nel terzo secolo a.e. da uno storico greco di euma filoromano (citato in Festo p. 328 Lindsay) forse identificabile, come fa Jacoby (FGrH, III B, n. 576, fr. 3, p. 679), con Hyperochos, un autore appunto del terzo secolo a.e. di cui possediamo solo altri due frammenti di attribuzione certa. In ambito greco, sempre per quanto riguarda il periodo repubblicano, usano tale etimologia il poeta alessandrino Licofrone (terzo secolo a.e.) che nel suo poema Alessandra.la collega, pur senza intenti encomiastici, alla profezia della nascita di Romolo e Remo (vv. 1232-1233) e la poetessa Melinno nel suo componimento in lode di Roma riportato da Stobeo (3,7,12 = SupplementumHellenisticum1983, n. 541, pp. 268 s., dove, contro la communisopinioche colloca il componimento nell'età ellenistica, si ipotizza una datazione all'età di Adriano). Tale etimologia non avrebbe invece avuto fortuna in ambito romano, dove, a partire da Fabio Pittore si affermò l'etimologia collegata al nome del fondatore della città Romolo.
9. o TLS'el1rev 1repl Tijs 'A81)vai.«òv ical Aaice6aL1,1.ovi.«òv 1r68È TÒPAciacf,111,1.ov Toil 1rapa6ei.y1,1.aTos: Aristide si AE«òS',, .. à'll'El.1) riferisce a un passo di Tucidide (1,10,2) nel quale lo storico osserva che se di Sparta e di Atene restassero solamente le rovine, si stenterebbe a credere che la potenza di Sparta sia stata realmente pari alla sua fama, mentre si attribuirebbe ad Atene una potenza superiore a quella che in realtà ha avuto. La deprecazione di Aristide - «sia lungi da questo esempio ogni cattivo augurio» - si spiega probabilmente proprio col fatto che Tucidide fa riferimento a una futura distruzione delle due città. T~v 0A11vàpx~v: il vocabolo àpx~ e le forme verbali ad esso connesse, assumono diversi significati all'interno dell'orazione che si possono comunque tutti ricondurre all'idea dell'esercizio di un potere di comando e quindi di governo su vari ambiti e soggetti via via speci-
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ficati. In senso assoluto, quindi, àpx~ è il governo di Roma sul mondo abitato, e cioè il suo impero. Cfr. anche MASON1974, 110-113. imò TOO«VTT)ScipXETaL1rtiaa 11olicovp.ÉVT1: questa concezione ecumenica dell'impero romano, precisata da Aristide anche nel seguente paragrafo dell'orazione, è ben rintracciabile fin da Polibio (ad es. 1,1,5; 3,1,4; 3,9; 6,50,6) ed era diventata uno dei temi dominanti della propaganda imperiale a partire da Augusto: cfr. N1coLET 1989a, specialmente i primi due capitoli (pp. 3-48). Più avanti, nella stessa A Roma,ai §§ 28, 70 e 99, Aristide ammetterà implicitamente quello che tutti ben sapevano e cioè che l'impero ecumenico di Roma aveva dei fines che non coincidevano in realtà con quelli del mondo abitato, dato che esistevano popoli al di là di essi non assimilati all'impero. Ma come osserva Lo CASCIO1998, 336 «in verità, la contraddizione sembra essere apparente più che reale: e questo perché l'affermazione di un dominio sull'orbisterrarumsi accompagna a una precisa consapevolezza della netta distinzione che vi è tra l'esercizio di un'egemonia, che non ha bisogno di delimitazioni geografiche precise, e il controllo territoriale, che una delimitazione geografica precisa deve averla». Cfr. anche GABBA1989, 494,498 e vd. anche infra§§ 28, 70, 81-82 con commento.
1O.01rEpyap TLSE♦'I T(l)VA.oyo1rOL(l)V 1replTijs 'Aai.as... T«VTT)s ff.ou PciaL).É(l)s: il re persiano: cfr. supra§ 15. icaf. TOLTytv TOLaVTT)v icaTciaTaaLv...TIpaaL>.Ei.~fl'poaEOLICÉvaL ♦1\aop.Ev;: da osservare che Aristide rivolge ai diadochi l'accusa di essersi comportati più come predoni che come re, accusa che invece in altri testi, di chiara ascendenza filosofica, è rivolta direttamente ad Alessandro: cfr. Auo., Civ., 4,4 (la cui fonte è probabilmente Cicerone, dato che la fine dell'aneddoto si trova anche in un frammento del De Republicatrasmessoci da Nonio: Rep. 3,24, dal discorso iustitiaquid sunt regnanisi magnalatrocidi Furio Filo): Remotaitaq_ue
nia?Eleganterenim et veraciterAlexandroillimagnoquidamcomprehensus piratarespondit.Nam cum idem rex homineminterrogasset, quid ei videretur,ut mare infestaret,illeliberacontumacia: Quod tibi, inquit, ut orbemterrarum;sed quia id egoexiguonavigiofacio, latrovocor;quia tu magnaclasse,imperator.Si veda anche SEN., Ben., 1,13 dove si critica aspramente ogni accostamento di Alessandro ad Ercole: Quid enim illisimilehabebatvesanusadulescens,cui pro virtuteeratfelix temeritas? Herculesnihil sibi vicit; orbem terrarumtransivitnon concupiscendo, sed iudicando,quid vinceret,malorumhostis,bonorumvindex, terrarum marisquepacator;at hica pueritialatrogentiumquevastator,tam hostium perniciesquam amicorum,qui summum bonumduceretterroriessecunctis mortalibus,oblitusnon ferocissimatantum, sed ignavissimaquoque animaliatimeriob malum virus.Per una tradizione ostile alla figura del re macedone affermatasi prevalentemente in ambito filosofico e che emerge anche nel quarto discorso Sullaregalitàdi Dione di Prusa, cfr. DEsmERI1978, 288-297 e note alle pp. 335-344.
28. ff).qv ELTLV(l)V cipacixpT)aTf.av icaTÉyll(l)TE: come già osservato nel commento al§ 9, l'aspirazione romana a un'egemonia universale si accompagna alla consapevolezza di un controllo territoriale che invece ha dei fines, nel senso che esistono popoli e territori non direttamente soggetti all'amministrazione imperiale: «Dalla morte di Augusto l'Impero è una totalità limitata: ha dei fines [... ] Mescolando
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curiosamente errori, menzogne e illusioni, si affermò che se questi fines non erano quelli del mondo vero e proprio, erano però quelli del mondo 'utile'» (N1coLET1989b, 476). Cosl Strabone aveva notato che solo i territori inaccessibili dei Nomadi erano esclusi dall'impero e che i Parti avevano comunque riconosciuto il dominio di Roma (6,4,2); Aristide in questo paragrafo osserva che «nulla sfugge al vostro dominio, né città, né popolo, né porto, né regione, a meno che non ne giudichiate qualcuno inutile» e anche in seguito, nel paragrafo 70, affermerà che fuori dell'impero restano solo «i popoli incapaci di godere dei beni presenti», che vengono comunque facilmente e rapidamente allontanati dai confini, e che «restano solo da compiangere coloro che si trovano fuori del vostro impero, se per caso ve ne sono, per tutti i beni di cui sono privi» (§ 99); infine Appiano nella Prefazim,ealle sue Storie osserverà che i Romani, possedendo la parte migliore della terra e del mare, non hanno voluto estendere il loro dominio all'infinito su popoli e su regioni che non sarebbero stati per loro di nessuna utilità, rifiutando anche di accogliere come loro sudditi tribù barbare che si sarebbero sottomesse spontaneamente al loro dominio(§ 7). ln realtà, studi recenti (ad es. lsAAC1990; WHITTAKER 1994), dimostrando come altamente improbabile l'ipotesi che esistesse una strategia politica globale di delimitazione dei confini dell'impero (ipotesi sostenuta da LuTTWAK 1976), hanno risposto alla domanda «Why did the frontiers stop where they did?» (WHITTAKER 1994, 60) in modo non molto diverso da quanto affermato da Appiano nel passo della Prefazim,e sopra ricordato, o da Aristide in questo stesso paragrafo: l'occupazione diretta di alcuni territori, avrebbe comportato costi troppo alti per l'impero in termini economici, ecologici e demografici: «In other words, Roman emperors had some awareness, however crude, of what we would cali the marginai costs of imperialism» (WHITTAKER 1994, 86 e in generale e per la documentazione pp. 60-97). Ma cambiando le condizioni o semplicemente la valutazione delle condizioni che rendono 'utile' l'acquisizione di un territorio, dato il presupposto ideologico della coincidenza fra orbisRomanus e orbisterrarum(vd. anche supra§§ 9 e 10 e commento) si può e si deve procedere alla sua diretta acquisizione: «[... ]in spite of the static (though never totally static) frontiers or terminiimperiiof the administered provinces, which were advocated ( though never rigidly) by Augustus and developed (though with much licence) by his successors, there is nothing in the evidence of the sources or the behaviour of the Romans to convince [... ] that there had ever been a reversal of imperiiand imperiumsinefine» (WHITTAKER the ideology of prorogati.o
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1996,38). Il modo con cui anche in.questo stesso paragrafo Aristide indicherà i 'confini' (vd. infra) conferma ulteriormente questa visione di un impero ecumenico potenzialmente, anche se spesso non effettivamente (cfr. GABBA 1989, 494-502), 'in espansione', che ben emergeva già nei §§ 9 e 10. Èpv8pci. TE ecilaTTa ical Net~ov icaTappa.lCTaL ml ~LP."'I MaLCiTLS: per gli antichi la denominazione 'Mar Rosso' poteva riferirsi o solo all'attuale Mar Rosso, o comprendere più in generale i mari orientali fino all'Oceano Indiano. Il lago Meotide era l'attuale Mare di Azov. aù~iìs Épna: ÉpK(ov aÙÀTJSè espressione omerica: HoM., Il., 9,476. ovye p.11v111r1.0Tovv TLVÈSTwv~oyo1r0Lwv ... ♦vxayc,y1.as iveica ELS 'l'OL1l(7LV8Ei.vaL: evidente il riferimento a Erodoto 2,23 ( «Colui poi che parlò dell'Oceano, avendo portato il suo discorso su cose oscure non può neppure essere preso in esame; io per parte mia non so affatto che ci sia un qualche fiume Oceano, ma credo che Omero o qualcuno dei poeti vissuti prima di lui abbia inventato il nome e l'abbia introdotto nella poesia») e 4,36,2 ( «lo rido a vedere che molti hanno disegnato la mappa della terra e che nessuno l'ha spiegata in modo ragionevole. E costoro rappresentano l'Oceano che scorre 1984). attorno alla terra[ ... ]»: trad. it. di lzzo d'Accinni in ERODOTO q ÈvTav8a vfiaos: la Britannia: vd. infra § 82 e cfr. PLuT., Caes., 23,2-3: «La spedizione contro i Britanni fu celebrata per l'audacia dimostrata: per primo infatti Cesare [... ] movendo alla conquista di un'isola di non nota grandezza e che fece discutere a lungo moltissimi storici, tanto che si è parlato di nome o di finzione di cosa non esisitita e non esistente, estese il dominio romano al di fuori della terra cono1987). La conquista della sciuta» (trad. it. di Magnino in PLUTARCO Britannia e la riduzione a provincia della parte meridionale dell'isola avvenne sotto l'imperatore Claudio; successivamente le conquiste romane vennero consolidate ed ampliate dal generale Agricola che penetrò fino alla Scozia. Negli anni del viaggio a Roma di Aristide c'erano però state nuove battaglie fra Romani e Britanni conclusesi nel 142 con le vittorie del legato Lollio Urbico. In quello stesso anno era iniziata la costruzione del Vallo di Antonino Pio poco più a nord del Vallo di Adriano: cfr. PAus., 8,43,4;H1sT.Aua., Pius, 5,4 e FRERE
1978 (1967), 165-193. Il modo in cui Aristide indica le aree geografiche periferiche fino alle quali cui si estendeva l'egemonia romana conferma il fatto, già più volte sottolineato, che per tale egemonia non si concepivano confini 'scientifici', lineari come negli stati moderni, ma piuttosto zone di penetrazione assoggettate o comunque sempre potenzialmente
100 A Roma
soggettabili al controllo romano: cfr. WHITIAKER 1994, 10-59 e pp. ~-59 per una ricognizione di questi territori 'periferici' dell'impero. t particolare «the eastern frontier, as it is traditionally described, Jm the Pontic shore to the Red Sea was in essence a line of comunication and supply, the base from which the Romans extended teir contrai without any sense of boundaries» (ibid.,59). 29. où yàp Mvaoi.... où8È:UicaL où8È0Lai.8aL:i Misi e i Pisidi ano popoli dell'Asia Minore che non si assoggettarono mai del tutto Persiani. Lo stesso avvenne per i Saci, popolazione nomade del.ran, designati dai Persiani e dai Greci anche come Sciti: cfr. HoT., 64: TotJTOVS6È ÈovTas I:ru0as 'Aµvp-y(ovs WKUS ÈKllÀEOV'ol -yàp Épam TTaVTasToùs I:Kv0as KaXÉovaLI:aKas.
aùA.os: si tratta di una congettura proposta da OuvER 1953, 916 984 (al posto di aùXfts 1rep(~0Xosdei manoscritti) avanzata anche 1llabase del confronto con un passo di Diane di Prusa (D. CHR., 48, I in cui si applicano sempre al contesto politico le metafore del coro e !l flauto, (anche se se il riferimento preciso al flauto, che pur si trova !i manoscritti, è considerato un'interpolazione dalla maggioranza avvt;i6ELvÈv Kal !gli editori): KaXòv -yap, wa1repÈv XOP!flTETa-yµÉv, lÙTÒµÉXos, àUà µ~ lTOVTJpOU Tp01TOV Òp-yavov6wÉpEa0m6L1TXous l6-y-yovsTE Kal ~xovs à1roa(vovTas à1rò 6L1rXwvKal TTOLK(Xwv ~0wv p61rov aùXou KaTea-y6Tos 6L1TXaswvas].Metafore musicali sono
1piegate nell'A Romaanche nei successivi§§ 31, 32 e 87. xopov ciicpLPÉO'Tepov EV ♦8É'Y'YETaL: cfr. XENOPH.,Cyr., 3,70: .1TOÀÙ µaXXov xopou àKpl~WS el66TES 01TOV E6EL ÉKOOTOVaÙTWV ,vÉa0m. O'UVEUXOllÉVI) µÉVELVTÒVavaVTa al~va T11V8ET~V CÌPX~V:cfr.
fra§ 109. Il vocabolo alwv, a cui Platone nel Timeo (37c-38c) aveva mferito il significato di 'eternità extratemporale' assume a partire da .ristatele (Cael. 279a) il significato di 'tempo infinito' e con questo gnificato viene recepito nel mondo romano e usato in età imperiale tsieme ai suoi equivalenti latini aetemitase saeculum:DEGANI2001 961), in particolare p. 48. L'eternità dell'impero romano era stata :omessa dallo stesso Giove secondo VERG.,Aen., 1,279: lmperium 'le fine dedi.Per l'affermarsi, durante l'età augustea, della concezione !ll'eternità di Roma e per i successivi sviluppi cfr. KocH 1952 e EAUJEU 1955, 144-152. imò TOV8ETO\I icopu♦ai.ou 11'YE110VOS: cfr. DEMOSTH.,21,60 (In lidiam) che presenta un'immagine analoga a quella del nostro isso, anche se, pure in questo caso, non si può forse trovare l'esat-
101 Commento
to corrispondente dell'espressione aristidea ~yEµwv Kopvq>afos in quanto la maggioranza degli editori, con Reiske, espunge nel testo di Demostene proprio Kopvq>afos:os vvv µÈv Kal yÉpwv ÈaTlv ~6TJ KGLLOWS~TTWVXOPEVTtjS,~V 6É 1T00'~yEµwv T~S q>VÀ~S[Kopvq>a'ios] LOTE6È 6tjTTovTou0' on TÒv ~yEµ6va àv àq>ÉÀU ns, OLXETm ÀotTTÒS xop6s. Nell'A Roma, l'imperatore viene definito oltre che con iter, mini ~yEµwv e àpxwv (31; 39; 60; 107; 109) che esprimono l'idea di
o
comando e di supremazia, anche con altri termini tratti dal lessico politico greco (TTpvTavEvwv;6tKaaTtjs; Èq>opos:39; 60; 90; 109) che, indipendentemente dal fatto che abbiano o meno un significato pre, ciso riconducibile alle antiche magistrature greche (vd. ad es. infra commento al§ 90) servono comunque a inserire il potere imperiale in un contesto vagamente magistratuale, in modo analogo alle defi, nizioni di sapore repubblicano che erano state usate per il definirsi dei poteri del principato augusteo. Non a caso, il termine paatÀEVS, usato per i re persiani, non viene mai riferito all'imperatore nell'A Roma.Probabilmente ad Aristide interessava, conformemente anche ai voleri dell'imperatore Antonino Pio, sottolineare come il potere di quest'ultimo si esercitasse non in maniera autocratica, ma avvalen, dosi della collaborazione di tutta la classe dirigente: vd. in particolare infra § 107 e commento.
30. imò 1rci.VTc.,v 6è 1raVTaxo11 taov dpxeTaL:OuvER 1953, 898 e 917 interpreta il passo come una continuazione della precedente metafora musicale e traduce «the keynote is taken by all, everywhe, re, in the same way», intendendo la parola àpx~ come 'keynote' e ÙPXETm come sostitutivo di àpx~ ÀaµpcivETm. Ma il confronto con quello che dice Aristide a proposito di Zeus nell'inno a lui dedicato (43,30: raov 1TavTaxov 1TavTwv KpaTwv), fa propendere decisamente per un significato non metaforico del nostro passo. icat ol p.ÈvÈv Toi.s opeaL... TÒ p.~ àVTLTci.TTea8aL: l'affermazio, ne di Aristide si comprende bene tenendo presente che il pensiero antico distingueva, a partire da un cenno in Erodoto (9,122) ma in modo più esplicito dal trattato Sullearie, sulleacquee sui luoghidello Ps. Ippocrate (cap. 24 ), fra abitanti della montagna più selvaggi e bel, licosi, e abitanti della pianura (anche lo Ps. Ippocrate parla di KoLÀa xwp(a) più docili e pacifici: cfr. lsAAc2004, 64,65; 92,93 e special, mente il cap. X (Mountainersand Plainsmen), pp. 406,410. Anche Strabone (2,5,26), in cui è ugualmente presente questa distinzione, aveva osservato che' Pwµafo[ TE TTOÀÀà È0VTJ1TapaÀap6vTESKal T~v q>OOLV àvtjµEpa 6tà TOÙST01TOVS ~ TPGXELSOVTGS~ àÀtµÉvovs ~
102 A Roma
i!Juxpoùs ~ àtr' .ELS: la cl>LÀav0pwrr(a è considerata una dote essenziale di governo già in Senofonte (Cyr. 1,2,1) che la attribuiva a Ciro, il sovrano ideale. Isocrate nell'orazione A Nicocle(lsoc. , 2,15) affermava che chi governa uno stato cl>LÀav0pwrrov Elvm 6E1 Kal cl>LÀorroÀLv e sempre Isocrate nel Filippolodava la filantropia appunto del sovrano macedone (5, 114 e 116).Anche Panezio doveva probabilmente riconoscere a Filippo questa dote, se, come sembra, l'humanitasche troviamo attribuita al re macedone nel De del Officiisdi Cicerone traduce in realtà la parola greca cl>LÀav0pwrr(a filosofo stoico: PhilippumquidemMacedonumregemrebusgestiset gloria superatuma filio,facilitateet humanitatevideosuperioremesse (1, 90). In epoca ellenistica la cl>LÀav0pwrr(a era stata infatti considerata una dote essenziale del sovrano ideale, così come testimoniano i vari trattati
118 A Roma
dell'epoca, di ispirazione stoica, sulla regalità: cfr. BRINGMANN 1993; HIDALGO DELA VEGA1998,1018-1023.In ambito romano, ricordiamo la famosa epistola di Cicerone al fratello Quinto proconsole d'Asia nel 59 a.C. nella quale si richiama il dovere di comportarsi con humanitas verso tutti i popoli soggetti, ma specialmente verso i Greci, il popolo non modoin quo sit sedetiama quo ad aliospen,enisseputeturhumanitas
(Ad Q. fr., 1,1,27dove la parola humanitasesprimerà allo stesso tempo i significati di TTOL6E(ae . Il propone l'integrazione Els uµcrs KaTaEl'.,yELv, senso generale è comunque chiaro: anche il popolo delle città trova nei Romani una difesa dai soprusi dei governanti locali (cfr. supra§§ 38,39, dove si trovano osservazioni simili a proposito dei tribunali locali e dell'appello a Roma, e commento, e OuvER 1953, 929,930; Klein in ArusTIDES1983, 93 nota 76). Una conferma di questa inge, renza romana negli affari pubblici delle città greche la offre un passo
126 A Roma
dei PraeceptagerendaeRei publicae(PLUT., Mor., 814f), dove però Plutarco critica i dirigenti locali che rimettono «sia le piccole questioni sia quelle più grandi nelle mani dei governanti» e «costringono i dominatori a essere loro padroni più di quanto essi non vogliano».
66. oVTc.ical 1rÉvqaLical 1rA.ovaLOLS ElicoTc,sTà ,rapoVTa mì. CÌpÉalCEL ical av11~PEL:vd. supra§ 39, ma anche§§ 59-60 e relativo commento. icaì.yÉyoVE1,1.i.a cip1,1.ovia 1roA.L TEi.asd1raVTasavy1CEicA.t1icuia: Cfr.
PoLYB.,6,18,1, dove, a proposito del rapporto reciproco esistente fra i vari organi che costituiscono il sistema politico romano (consoli, T~S ÉKaaTou senato, popolo) si parla di àpµo-y~: TmaVTTJS6' OVCJTJS µEpwv 6uvaµEWS'ELS'TÒ KaÌ. pÀa'TTTELV KaÌ. CJ\/VEp)'ELV ÒÀÀ~ÀOLS', ,rpòs ,raaas auµpa(vEL Tàs TTEpLaTaCJELS 6E6VTws EXELVT~v àpµo-y~v a-ÙTwv,WCJTE µ~ ol6v T' Elvm TaVTTJSEUpELVàµE(vw TTOÀLTELas aooTaCJLVe VOLPE2001, 308. TWV
ICpclTOS cipxfis... dpXELVÈyicpaTEi.s: il testo suscita qualche dubbio
nonostante gli emendamenti proposti da OuvER 1953, 930 e 987 e accolti da Klein in ARISTIDES1983, 40. Il senso è comunque reso chiaro dal fatto che i pregi attribuiti al governo romano sono il rovesciamento dei difetti attribuiti nel § 57 ai Greci che «non riuscendo a reggere le città con la benevolenza, e non essendo in grado di controllarle con la forza, si dimostrarono [... ] allo stesso tempo opprimenti e deboli». Per la LÀav0pw,r(acome dote di governo vd. supra§ 57 e commento.
67. icaltA.aL:il vocabolo greco LÀm fornisce l'equivalente del latino ala:MASON1974, 56 e 164-165. EL6É 11'0V1l'Ol.LS 8L' V11'EpP0Aitv 1,LEyÉ8ous inrEpTjplCE TÒ 8uvaa8CIL aw+poVEi.v icae•«ÙTllv:Aristide potrebbe avere in mente Alessandria, come suppongono OuvER 1953, 932 e Klein in ARISTIDES1983, 94 nota 79, ipotizzando un riferimento a quei disordini, menzionati nel Discarsodi Alessandriadi Diane di Prusa, che resero necessario l'intervento delle truppe romane in città: cfr. D. CttR., 32, 71-72 su cui DEsmERI1978, 97-11 O, che ritiene però probabile datare questi avvenimenti al regno di Vespasiano. Ma forse Aristide potrebbe semplicemente riferirsi al fatto che la città di Alessandria era priva di un proprio consiglio cittadino: vd. supracommento al § 26. ov8È TOUTOLS è♦8oV11aaTE Tc.,vÈ1rLaTT)ao1,1.É.,..,v TE ical 8La♦u>.a EoVTc.v:tenendo sempre presente il caso di Alessandria (vd. supra),
OuvER 1953, 932 pensa che Aristide intenda affermare che Roma
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mandi un presidio là dove avvengono rivolte causate da mot1v1 sociali. Può darsi però, sia che Aristide alluda, senza necessariamente riferirsi alla rivolte, al particolare status di Alessandria direttamente attribuita a un praefectusAlexandreaeet Aegypti(vd. sempre commento al§ 26), sia che non abbia esclusivamente in mente questa città, e pensi invece, ad esempio, ai curatoresrei publicae,cioè a quei funzionari amministrativi creati con Traiano e incaricati essenzialmente di sorvegliare le finanze cittadine locali, ma, in alcuni casi, considerati anche più in generale come garanti del buon funzionamento della città: cfr. SARTORI1989. Se infatti il vocabolo greco propriamente equivalente a curatorreipublicaeè À.oytaT~S' (Coo. luST., 1,54,3; cfr. MASON1974, 66), anche il vocabolo ÈmaTciTTJS'può venire usato ad esprimere questo stesso concetto, così come i verbi ÈmaTaTÉw ed È( aVTpoV 0E TOOOL Elev: HoM., Il., 9,379: où6' EL µot 6EKciKtSTE Kal ELKocrciKtSTocra 60LTJ.
T«XÉCl)S' av a'ÙToùs1TEpLaTpact,éVTas dv6pa ,rapà eva AEL♦&iìvaL: «The verb crTpÉw[ ••• ] is a militar therm thrice used of tactical manoeuvres by Xenophon, Lac.XI,9-10. The prefix TTEpl-strengthens refers to the deploythe simple verb [... ] The word TTEptcrTpaÉvTas ment of a group»: OuvER 1953, 940. Per il significato di ÀEL..a sana ratio, qua nunc carent, redderetur; neque enim Marti belligeranti Romanum Martem arma sanguine omnino prohibere licet; ȵu>..(ou: dicit»: ARISTIDES 1898, 123). Non credo però che l'integrazione proposta da Keil sia necessaria, in quanto, come si evince dai precedenti paragrafi dell'orazione, - sia da quelli in cui si esalta la pace che regna nell'ecumene grazie all'impero (70-71), sia in quelli dedicati all'esercito e ai confini (78-85) -, Aristide vuole evidentemente elogiare la politica di difesa dei confini condotta più con lo stanziamento delle truppe che con offensive belliche: cosl anche OuvER 1953, 949 (che, per l'immagine di Ares che danza rimanda a PL, Lg., 830d dove si prescrive che il legislatore, per tenere in esercizio i cittadini voµo0ETtjCJELCJTpaTE\/ECJ0m TTpOCJTClTTWV µaÀLCJTaµÈv ÉKClCJTTfS ~µÉpas TCl )'E xopovs TE ELSTGUTGdµa Kal yuµvaCJTLK~V crµLKpàxwpls TWV OTTÀWV, irdcrav cruvTE(vwv;), e Klein, in ArusTIDES1983, 119 nota 142. Il passo
della HistariaAugusta (H1sT. Avo., Pius, 13,4) citato parzialmente e non esattamente da Stella (in ARISTIDES 1940, 137 nota 128: sine dvili sanguine... , quantumadse ipsumpertinebat... rexit) in sostegno della integrazione di Keil, mi sembra che, citato integralmente, possa in realtà fornire un sostegno alla nostra interpretazione: prarsussine dvili
sanguineet hostili,quantumadse ipsumpertinet,vixit. Per tutto questo paragrafo cfr. OuvER 1953, 950 che fornisce una tabella in cui segnala alcuni aspetti (da un punto di vista metricoritmico, lessicale e tematico) della struttura di questo catalogo delle divinità. Numerosi sono i punti che richiamano a tematiche già trattate nell'orazione: l'identificazione fra ecumene e impero (§§ 9; 10; 29; 36 ecc.) e l'imperatore che governa la terra per conto di Zeus (§ 89); la celebrazione delle nozze(§ 102); il prosperare della tecnica, dell'agricoltura e del commercio ( §§ 11-13); le arti, la bellezza e la grazia che fioriscono in tutte le città dell'impero (§ 95); il coro di Apollo, Artemide e le Muse che richiama l'immagine del coro già usata per i governatori romani (§ 32) e per lo stesso esercito (§ 87); l'eccellenza nell'arte militare ( § 71); la differenza fra il passato e l'attuale stato di pace e di benessere nell'impero(§§ 69; 97-99; 102).
106. ciia1rEpÈicE'ivos oùic 11yvoT1aEvTflV ÙII.ETÉpav àpx11v HoM., Il., 20,307-308 dove Poseidone Èao11.ÉVT1V, ... Èv TOLS' E'll'EOLV: predice che, dopo la stirpe di Priamo, sarà quella di Enea a regnare per molte generazioni sui Troiani. La profezia è ripresa in VERG.,Aen., 3,97-98 ed estesa a tutti i popoli: Hic domusAeneaecunctisdominabitur
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oris / et nati natorum et qui nascenturab illis.Per il mito troiano delle origini di Roma, ricordo solo BoYANCÉ1943 e, recentemente, GRUEN 1992, 6-51 da cui attingere la precedente bibliografia. oùK iìv ciiu1repvvv à1rò xpvaov yévovs cipEaa8aLyeveaA.oy(l)v: HEs., Op., 109-201 dove tratta delle cinque età attraversate dall'umanità. eÙT' iìv 'YELVOIJ.EVOL 1roA.LoKpOTact,oL TEA.É8cùaLv: HEs., Op., 181 Kal ALKlJ6È Kal AL6oi. TOT' iìv à1ro8ovvaLKci8o6ovELs àv8pw1rovs: vd. supra§ 89. Nelle Operee i Giorni, v. 200 si parla in realtà di Aidos e Nemesische abbandonano gli uomini e non di Dike e Aidos, ma la Nemesis di Esiodo è in realtà «right division who gave each man his due»: OuvER 1953, 951. Dike e Aidos li troviamo invece nel mito sulle origini del genere umano narrato in PL., Prt., 320c-322d (già citato nel commento al§ 89). Il ritorno all'età dell'oro, celebrato fin dai poeti augustei (come ad esempio nella famosa IV Eglogadi Virgilio) è proclamato anche Adriano nel 121 d.C., così come testimonia la legenda'saeculumaureum'sulle monete di questo periodo: cfr. BEAUJEU 1955, 153-157.
107.
o ye µ.~vvvv cipxwvµ.Éyas:Antonino
Pio Kal 6~ ct,alriTLS iìv 6LKaLoauvrivKal voµ.Lµ.ovelvaL ToilTo ws o TL KpLVELEV OVTOS:in questo passo si può vedere un riferiàA.ri8(1)s che troviamo nei trattamento alla teoria del re come v6µos-Eµ41uxosti ellenistici Sullaregalità:cfr. GooDENOUGH1928; DELATIE1942, 37 e 245-253; AALDERS1969, CttESNUT 1978, 1315-1317. Vi si può però anche leggere un riferimento alle importanti riforme di Antonino Pio nel campo del diritto: a questo proposito cita infatti il nostro passo HOTTL 1933, 71 nota 2. OTLTOÙS TT)S àpxl)s KOLVWVOUS,•.. 1TA.ELOVSTIT(l)V 1TpÒaÙTov TLS: la lacuna fra ÉaunrJ e TTÀELOUS'è supposta da Klein che in apparato suggerisce come integrazione «e.g. EXEL ». In questo passo, comunque, Aristide si riferisce evidentemente a coloro che più da vicino condividevano con l'imperatore il governo dell'impero e che costituivano una sorta di consiliumprincipis:si veda CRooK 1955, ma anche EcK 2000 dove si osserva come sia più probabile che questi consiglieri non formassero un organo fisso di consultazione convocato regolarmente, ma fossero piuttosto a disposizione dell'imperatore che, a seconda del tipo di parere di cui avesse avuto bisogno, si rivolgeva a quelli che riteneva più adeguati a quella determinata circostanza. L'assenza di ogni formalità nella prassi del consiliumsembrerebbe venir meno proprio a partire da Adriano, anche se la sua istituzionalizzazione
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.; ,
definitiva si ebbe solo con il consistoriumdel dominato: TALAMANCA 1989, 476-477. In particolare per l'imperatore Antonino, cfr. H1sT. AuG., Pius, 6, 11 (Neque deprovinciisneque de ullis actibusquicquam constituit, nisi quod prius ad amicosretulit,atque ex eorum sententia formascomposuit); H0TTL 1933, 78-79 e nota 20; CRooK 1955, 66-69; MAROTTA1988, 39-49.
108. 'AUà
TÒ
È'apxiìs aywvLaµ.a... trapLawaaL
T(Ì) TllS apxiìs
µ.eyÉ8EL TÒVAoyov:vd. supra§ 2 ELTI6' àv oÙTOSò tréìsatwv: cfr. supra§ 29 e commento. Ricordiamo in particolare come il motivo dell'eternità di Roma fosse stato ripreso con forza dall'imperatore Adriano in connessione con la fondazione (nel 128) del tempio di Roma e Venere (dedicato nel 136/137), e come venisse quindi celebrato in numerose monete dell'epoca di Adriano e di Antonino Pio con la legenda'Romaaetema':cfr. BEAUJEU 1955, 128-161; 297-298.
109. trplv àv µ.v6poLTE vtrÈp8aAciTTTIS trÉwcnv: rrÉumu, è congettura di Oliver 1953, 953 e 991; i codici hanno invece rrÉaoLEJI che Keil emenda in rrÉawaLv (ARISTIDES1898, 124 ), Klein (ARISTIDES 1983, 66) in vÉwaLv. Aristide riprende, evidentemente, HoT., 1, 165,3 dove i Focesi gettano un pezzo di ferro in mare e giurano di non tornare a Focea finché questo non sia tornato a galla: rrpòç &È TaUTlJCTL Kal µu6pov m6tjpEOV KGTETTOVTwaavKal wµoaav µ~ rrplv Èç wKmav
~çELv rrplv ~ TÒv µu&pov TOVTov avaav~vm. L'episodio e la formula
del giuramento sono ricordati anche in HoR., Epod.,16, 17-26 ical 6Év6pa ~PL 8ciAAovTatraua11TaL:cfr. PL, Phdr., 264d, dove si riporta l'epigrafe incisa sulla tomba di Mida re della Frigia: XaÀK~ rrap0Évoç Elµl, ML6a 6' Èrrl atjµan KELµm. / p' à11 v6t0p n vpoauvT] 41; 110-111 LÀ.av0pwrr(a66, 98; 117-118, 126, 148 'EÀ.EU0Epta 'l