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Italian Pages 164 [141] Year 2016
A ROMA CON NANNI MORETTI Un diario di viaggio sui luoghi romani del cinema di Nanni Moretti, da Io sono un autarchico a Bianca, da Caro diario a Habemus papam fino a Mia madre, evocando le atmosfere, i personaggi, le battute proverbiali entrate nella memoria collettiva. Da queste pagine emerge non solo il rapporto del regista con Roma ma anche un suo ritratto a tutto tondo. Così, sulle tracce di Moretti, il lettore scopre una Roma diversa, fatta di case, di terrazze per niente mondane, di panchine, di piaceri anche minimi ma vitali come la musica, i dolci o semplicemente l’estate: una prospettiva sorprendente e “autarchica”. Chiude il libro un dialogo con il regista.
PAOLO DI PAOLO è nato a Roma nel 1983, mentre Nanni Moretti girava Bianca. Ha pubblicato i romanzi Dove eravate tutti (2011, Premio Mondello), Mandami tanta vita (2013, finalista Premio Strega), Una storia quasi solo d’amore (2016) e con Bompiani La mucca volante (2014). GIORGIO BIFERALI è nato a Roma nel 1988, mentre Nanni Moretti girava Palombella rossa. È autore del saggio Giorgio Manganelli. Amore, controfigura del nulla (2014) e ha curato Roma degli scrittori (2015).
TASCABILI BOMPIANI
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PAOLO DI PAOLO GIORGIO BIFERALI A ROMA CON NANNI MORETTI
Le immagini fotografiche presenti nel volume sono riprodotte su gentile concessione della Sacher Film. Tutti i diritti sono riservati. eISBN 978-88-587-7427-4 © 2016 Bompiani/Rizzoli Libri S.p.A., Milano I edizione Tascabili Bompiani settembre 2016 In copertina: Nanni Moretti in Aprile © Sacher Film. Progetto grafico: Polystudio. www.bompiani.eu Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
“Non mi sono mai mosso da Roma, ma dentro Roma sì che mi sono mosso.” Alberto Moravia, Nuovi racconti romani
ANCORA QUALCOSA DA SCOPRIRE
New York è la stessa città dopo un film come Manhattan di Woody Allen? Berlino è la stessa dopo Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders? Roma è la stessa città dopo Caro diario? Una macchina da presa non lascia segni tangibili sui luoghi che descrive, e tuttavia – in modo imprevedibile e definitivo – li
modifica.
Dà
forma
a
mappe
diverse,
inusuali,
a
volte
impraticabili, di questo o di quel luogo: nella forma di un racconto, cinema
di
un
come
vagabondaggio,
“mezzo
di
di
un’emozione
trasporto”
–
la
visiva.
definizione
è
Il di
Giuliana Bruno in Atlante delle emozioni: lo spettatore diventa un passeggero, si lascia muovere e commuovere, salta anche lui sulla Vespa di Caro diario; è là, in quella luce estiva, e non dimenticherà
più
quel
viaggio.
Non
dimenticherà
di
avere
atteso l’alba dalla parte sbagliata, davanti al mare di Ostia; di avere sostato su una panchina accanto a una ragazza – ma dove, di preciso? Ah sì, una piccola piazza romana che si chiama piazza dei Quiriti. E ancora: di aver baciato un’altra ragazza, qualche anno dopo, in una gelateria – quella gelateria di corso d’Italia; di essere stato rincorso da malintenzionati nell’arena
di
un
cinema;
di
essere
scivolato
a
bordo
di
un’utilitaria nella conca del Circo Massimo; di avere agitato le braccia festosamente sulle sponde dell’isola Tiberina, in un aprile fatale. Da
una
primavera
all’altra,
lavorando
a
questo
libro,
abbiamo cercato l’esatta collocazione di pasticcerie, scalinate, traverse nascoste, fontane e scuole. Sulle piste romane dei film di Nanni Moretti, alla larga – con qualche eccezione – dal monumentale e dal pittoresco, si è aperta davanti ai nostri occhi
un’altra
città:
senza
niente
di
teatrale,
da
piccola
bellezza più che grande, di piaceri anche minimi ma vitali – la musica, i dolci, o semplicemente l’estate. Una Roma di case – quartieri residenziali alti o popolari, centrali o periferici (in Caro diario Moretti vagheggia un film fatto solo di case, case
di sconosciuti) – di terrazze per niente mondane, di panchine, di
parchi.
Percorsa
in
macchina
(le
scene
al
volante
sono
frequenti, quasi un tic su cui Moretti ironizza in una scena di Mia madre),
esplorata
a
piedi
fino
quasi
a
perdersi,
come
accade al papa riluttante di Habemus papam, la città riserva sempre qualche fonte di stupore. Non foss’altro che per via della luce. Nell’intervista che chiude questo volume, il regista confessa il proprio amore per “la luce di giornate meravigliose come quella di oggi, una luce che credo ci sia in pochi posti del mondo”, e tale preferenza spiega il tratto prevalentemente solare dei suoi esterni romani. Ma d’altra parte è possibile raccontare
Roma
senza
cominciare
dalla
luce?
Narratori
e
poeti amati da Moretti – Pasolini, il Parise dei Sillabari – fanno lo stesso. La prima cosa di cui Parise parla nel racconto intitolato Roma è il cielo – “color violetta e tirato come una seta”. Sotto questo cielo maestoso e senza calendario, la città però cambia. E pochi cineasti come Moretti sanno fermare, se non perfino anticipare, l’“aria del tempo”. Fu proprio Parise, in una recensione
a
Ecce
Bombo
riconoscere
all’allora
sul
Corriere
venticinquenne
della
Moretti
la
Sera,
a
capacità
di
portare sullo schermo “un’aria di realtà”, “quell’eccetera” che ognuno ha sotto gli occhi, qualcosa magari di romanissimo ma non per questo provinciale e strapaesano. È una questione di autenticità: partire dalla strada sotto casa, da ciò che si conosce da vicino e profondamente. “A volte – spiega Moretti – più si va
nel
particolare,
più
si
ha
la
possibilità
di
diventare
universali.” Fa un certo effetto riprendere in mano la prima pagina della cronaca giorno
di in
Roma cui,
in
del una
Messaggero sala
del
d’essai
di
14
dicembre
Trastevere,
1976: veniva
proiettato Io sono un autarchico, mentre al cinema Fiamma davano il Casanova
di
Fellini
e
all’Eden
Brutti,
sporchi
e
cattivi. Il giornale ci informa che il pecorino salirà di 10 mila lire al chilo e che gli autobus si fermeranno per tre ore di protesta contro il teppismo. E l’8 marzo 1978, quando esce Ecce Bombo? È la festa della donna, la questura “autorizza quattro manifestazioni”. Di lì a otto giorni sarà rapito Aldo Moro. Mentre esce Bianca, il 24 febbraio 1984, viene sfrattato il circo Orfei dal Parco dei Daini, e al cinema Quattro Fontane danno Mystère dei fratelli Vanzina. Habemus papam va in sala
quindici giorni prima della beatificazione di Giovanni Paolo II, nell’aprile del 2011. Si potrebbe senz’altro scrivere una contro-storia di Roma e d’Italia dagli anni settanta attraverso i film di Moretti. Su più piani: i contenuti, comprese le battute diventate proverbiali, le “profezie” involontarie, il contesto, ovvero il clima sociale e politico in cui ogni film è uscito. E poi i set, le ambientazioni. Questo libro parte da qui, dal tentativo di mappare i luoghi romani del cinema di Moretti. In
coppia,
Moretti
due
girava
romani
con
Bianca,
taccuino
l’altro
–
uno
mentre
nato
mentre
Moretti
girava
Palombella rossa – hanno fatto un viaggio. Una giornata afosa di fine giugno per le strade della Garbatella, un mattino di settembre su viale Aventino, un pomeriggio ancora caldo di quello stesso mese al cinema Nuovo Sacher assediati dalle zanzare, un giorno grigio e freddo di fine gennaio come intrusi nell’ospedale Bisognava
Forlanini,
calpestare
indirizzi,
per
o
provare
circonvallazione ricalpestare
a
vie,
raccontarli
Gianicolense. piazze,
scovare
nell’intermittenza
tra
l’emozione, il ricordo di un film, e la realtà sfuggente di quel pomeriggio, di quella domenica mattina. Ne derivano pagine sospese fra un diario di viaggio – nel luogo, e poi nel film – e una guida possibile. Un libro pensato come alternativo “mezzo di
trasporto”
urbano:
il
lettore
può
salire
e
scendere
dove
vuole, ha a disposizione diverse mappe per orientarsi, e un buon numero di dettagli magari utili a rileggere, a ricordare o a scoprire i film e i luoghi di Nanni Moretti. Un viaggio dentro un viaggio. Con lo spirito, forse, di quei dadaisti che si davano appuntamento, eccentriche
nella
nella
Parigi
città.
degli
Chiese
anni
venti,
abbandonate,
per
escursioni
terreni
incolti,
luoghi poco conosciuti. Un volantino distribuito ai passanti nell’aprile
del
1921
invitava
a
rimediare
“all’incompetenza
delle guide e di sospetti ciceroni” partecipando ad alcune visite in luoghi scelti, di scarso interesse storico e anti-pittoreschi. Luoghi,
insomma,
esistere”. bisogna
“che
non
hanno
La partita non è ancora
agire
scrivevano
in
quei
fretta.
nostri
persa,
Partecipate!
bisnonni
o
nessuna
ragione
di
concludevano, ma
Sembrerebbe
trisavoli
–
“che
infatti si
–
possa
trovare ancora qualcosa da scoprire”. pdp
IO SONO UN AUTARCHICO (1976)
Castel Sant’Angelo | Prati | Trieste Castel Porziano | Ostia
“Casomai qualcuno si chiedesse: questo, come vive? Chi lo mantiene? Ha una casa, eppure non lavora… Così abbiamo chiarito, no?”
Capita a tutti di passare davanti a un luogo monumentale – un
luogo
averlo
imponente,
intravisto
averne
solo
in
carico
un
sentito
film,
parlare.
di
storia
–
ritagliato Questo,
senza
in
fermarsi.
Di
cartolina,
di
soprattutto
ai
una
capita
romani. Nanni Moretti, straniero per poco nella sua città (è nato a Brunico il 19 agosto 1953), spinto dalla curiosità e dalla consapevolezza che una vita non vale senza una certa dose di attenzione, Michele
ha
saputo
Apicella,
lungometraggio
fermarsi.
ideale
gli
fa
Prestati
alter
incontrare
i
ego, la
suoi nel
ragazza
trascorsi suo
a
primo
Silvia
su
una
panchina nei pressi della Mole Adriana, fra margherite oggi scomparse. Correva l’anno 1976, e un Moretti poco più che ventenne mostrava a tutti la sua autarchia. Non che sia facile, concretamente, fermarsi vicino a Castel Sant’Angelo. Oltre il breve tratto pedonale, le strade intorno sono
un
continuo
impazzite
e
brusio
consumate,
di
di
lamentele
parcheggi
e
clacson,
già
di
occupati.
marce
La
vera
fortuna sarebbe abitargli vicino, ma non troppo: quel tanto che basta per guardarlo, illuminato anche nelle ore notturne, e per aggirare le sue vie trafficate. Perché anche lui, questo grande mausoleo
che
ha
cambiato
mestiere,
ha
voluto
defilarsi:
parafrasando Moretti, “lo si nota di più se sta in disparte”. Luogo
di
sepoltura
degli
imperatori,
principale
fortezza
di
Roma per oltre mille anni, è diventato un castello. Il ponte, che rivendica la parentela con l’omonimia, è un corridoio a cielo aperto,
accompagnato
da
dieci
statue
di
angeli
–
più
due:
quelle di san Pietro e di san Paolo – progettato interamente da Gian Lorenzo Bernini, una sorta di cordone ombelicale del castello. Charles
Un de
sofisticato Brosses,
viaggiatore
giudicava
francese
quegli
del
angeli
Settecento,
“fuori
posto”:
“Non hanno l’aria di stare a loro agio qui.” Se provassimo a fermarci, a seguire realmente certe istanze “autarchiche”
del
film
d’esordio
di
Moretti,
non
sarebbe
difficile riconoscere l’angolo in cui Michele – a disagio anche lui – incontra Silvia per la seconda volta, quell’angolo in cui le dice: “Che caspita! Sempre a Castel Sant’Angelo ci dobbiamo vedere? Va be’, almeno mi vedo un po’ di Roma.” Che caspita, Michele ha ragione. Qui è davvero possibile vedere un po’ di Roma, e anche di più. Ci passano accanto i turisti, riconoscibili al volo, dagli occhiali da sole, a volte dal
colore dei capelli, o dai calzini lunghi sotto i bermuda. Sulle bancarelle, accanto ai libri, ritratti, cartoline e calamite del papa fanno compagnia ad altri cliché miniaturizzati (colossei, san pietri, castel sant’angeli, lupe che allattano gemelli), che intendono confermare i pregiudizi degli stranieri e restringere le soglie del “tipicamente romano”. I centurioni ci vengono incontro
con
atteggiamenti
intimidatori,
ci
scambiano
per
turisti e vogliono farsi riservare un posto ilare nell’album dei nostri ricordi romani, ci sorridono dicendo ovvietà, facendosi schiavizzare dai luoghi comuni: “Daje! Pupone! Quanto sei bella Roma! Anvedi che sole! Mica c’avemo la nebbia, noi!” Sono come souvenir ambulanti. Non è altro che il meccanismo digestivo di cui ha parlato il poeta Valerio Magrelli, che appare in Caro diario,
la
“lunga
opera
d’assunzione
che
vide
gli
stranieri assimilare Roma almeno quanto Roma li assimilò a sua volta”. Non
ci
rimane
che
percorrere
il
ponte,
lasciandoci
alle
spalle il castello, osservare il percorso del Tevere e scoprire che qualcuno, in preda all’ottimismo, tenta perfino la pesca. Il cielo, umorale e volubile, si impegna a posare per la solita cartolina d’epoca. Dopo due cortometraggi (Pâté de bourgeois, La sconfitta) e il mediometraggio Come parli, frate? (parodia dei Promessi sposi), nell’autunno del 1976 arriva il primo lungometraggio di Moretti: Io sono un autarchico. Il titolo, sostiene l’autore, si riferiva
all’“autosufficienza
protagonista”.
Altri,
sentimentale
diversamente
da
e
sessuale
Moretti,
del
l’avevano
interpretato come la rivendicazione di un’autonomia assoluta, di uno che scrive, gira, dirige, produce e che, dunque, fa tutto da solo. Il film comincia con una porta che si chiude, una telefonata deludente e una coppia in crisi. Michele,
il
protagonista,
è
un
giovane
disoccupato,
mantenuto dal padre: “Ciao papà, senti, sì sto bene, allora mi lasci
il
solito
assegno
mensile
da
duecentomila?
Sì,
come
sempre, certo. Come ogni mese, certo… Casomai qualcuno si chiedesse: questo, come vive? Chi lo mantiene? Ha una casa, eppure non lavora… Così abbiamo chiarito, no?” Moretti irrideva così l’alone di mistero dei “miti d’oggi” e di
allora,
ostentano
i
giovani
che
non
un’indipendenza
abitano
fittizia.
In
più
con
poche
i
genitori
battute,
e
rivela
l’inadeguatezza dei presunti rivoluzionari, stereotipati, ricchi di parole senza sostanza. Simbolica, in tal senso, sarà la scena sul prato in Ecce Bombo,
con
una
serie
di
luoghi
comuni
gravitanti intorno alla domanda “che lavoro fai?” Altri luoghi comuni assediano la coppia in crisi di Io sono un autarchico, formata da Michele e dalla moglie Silvia (nome ricorrente nei film di Moretti). Il figlio piccolo assiste alle discussioni, come fosse parte del pubblico in sala.
“Che caspita! Sempre a Castel Sant’Angelo ci dobbiamo vedere? Va be’, almeno mi vedo un po’ di Roma.”
SILVIA:
Come
faccio?
Come
faccio?
Non
riesco
più
a
leggere, a fare niente, ad avere una vita mia. MICHELE: Questo c’era nei film americani di quarant’anni fa, mi pare i tempi siano cambiati. SILVIA: Ma perché ci siamo sposati? MICHELE: E mica mi ricordo perché, perché, sì lo so, eh ma, no, non so, eh?! Poco dopo, Silvia lo abbandona e porta via con sé il figlio, scatenando una reazione melodrammatica di Michele. Intanto Fabio (Fabio Traversa), attore fallito, intende riunire amici e conoscenti per mettere su uno spettacolo di teatro sperimentale in una sala di via degli Scipioni, quartiere Prati. Tra risposte fugaci e faticati consensi, Fabio è costretto ad ascoltare anche l’istrionico Giorgio (Giorgio Viterbo), professore in erba, che si diletta al telefono imitando Moravia: “La bandiera? No, non la porto più! No, non la porto più la bandiera, m’hanno già menato tre volte. La deve porta’ Arbasino che c’ha pure un bandierone! Siciliano? Ma che vie’ pure Siciliano? No, ’n ce vengo più! No, non sai che combina quello, no!” Moretti
azzarda
una
parodia
dell’ambiente
intellettuale
romano, evocandone una delle figure di spicco, il romanissimo Moravia. E sarà proprio l’autore degli Indifferenti a scrivere uno
dei
commenti
più
rilevanti
all’esordio
morettiano:
“Io
sono un autarchico è un buon film comico perché è un film che rileva la consapevolezza critica del regista nei confronti della società giovanile che si è rivelata negli anni sessanta. Del resto il titolo è indicativo. Secondo il titolo, la rivoluzione del ’68 sarebbe almeno in parte autarchica; vale a dire che, sotto di essa,
spuntano
gli
eterni
problemi
della
nostra
piccola
borghesia mediterranea.” Ogni tanto, Michele ha la possibilità di passare un po’ di tempo con il figlio, cui trasmette una delle sue passioni più grandi:
i
dolci
(subito
un
classico
del
cinema
di
Moretti).
Oppure cerca di spaventarlo (“Chiamo la vecchia? O chiamo lo scimmione che sta di là in camera mia?”), con la vana speranza che spenga la luce e si metta a dormire. Intanto, Fabio
organizza
spettacolo,
così
diversi che
incontri
possano
con
gli
conoscersi
attori e
scelti
per
lo
comprendere
le
istanze del suo “sperimentalismo”. Ma uno dorme, un altro
accenna qualche nota con la chitarra, altri dialogano dei fatti propri: niente di quello che dice risulta accattivante. Quella di Moretti è una Roma nascosta, privata e intima: strade tra quartiere Prati – via San Tommaso d’Aquino – e quartiere Trieste – via degli Appennini –, case, stanze in cui la noia ha quasi sempre la meglio. Fabio, assieme agli altri, se ne allontana
per
poco
e
invano,
facendo
un
ultimo
tentativo
disperato di “affiatamento” del gruppo. Gli amici si spostano in
collina
Porziano
–
–
Canale
per
un
Monterano,
po’
di
Tor
San
allenamento
Lorenzo,
fisico.
E
Castel
proprio
là
Michele fingerà di cogliere un’occasione ideale e necessaria di fuga:
dai
rumori, il
dalle
appunto.
Lungo
bandiera
giallorossa,
persone,
cammino, diretto
dalla
incrociano allo
civiltà, un
stadio
a
da
tale,
Roma
munito
vedere
il
di
derby.
L’immagine, simbolica, esaspera i toni e le distanze dalla città, e suscita in Michele l’ennesima reazione isterica, di uno che si sente esiliato dal mondo e ha perso il senso del tempo: “C’è il derby! C’è Roma-Lazio!” Tornato in città e messa alle spalle la tentazione di fuggire, Michele
discorre
svogliatamente
con
Fabio:
“Ventimila
tesserati in più per quest’anno, per il nostro Partito, come se fossero Ecco
abbonamenti
un
probabile
della
indizio
Roma della
per fede
lo
Stadio
Olimpico.”
calcistica
morettiana.
Come in ogni leggenda che si rispetti, qualcuno racconta di averlo visto guardare le partite della Roma, teso, partecipe, empatico con i giocatori in campo e affetto da un nomadismo compulsivo, che lo induceva continuamente a cambiare posto. “Sono
un
credere Moretti?
tifoso
moderato,”
all’aggettivo
così
“moderato”,
si
è se
definito.
Ma
attribuito
a
si
può
Nanni
Strade, case, stanze in cui la noia ha quasi sempre la meglio.
Non mancano, in Io sono autarchico, le stilettate contro il cinema italiano (torneranno ferocemente, qualche anno dopo, in Ecce Bombo e in Sogni d’oro): “Alt! Alt, consigliati
oggi
dal
giornale.
Attenti
al
Fabio, i film
buffone,
Divina
creatura, L’importante è amare, Garofano rosso, Amici miei, Pasqualino Settebellezze. Pasqualino Settebellezze, Fabio. Ma perché i critici consigliano questi film? L’innocente? Ma forse perché gli piacciono veramente? Dai, non è possibile!” D’altra parte il suo primo film venne proiettato per la prima volta in una sala d’essai: al Filmstudio, un’associazione culturale in via degli Orti d’Alibert, zona Trastevere. Nel ’77, in una puntata di Match, un programma televisivo che andava in onda su Rai3, condotto da Alberto Arbasino, Moretti ebbe l’occasione ghiotta di confrontarsi vis-à-vis con uno dei maestri dell’odiatissima commedia all’italiana, Mario Monicelli. Alla provocazione di Monicelli, che definì Io sono un autarchico un esempio moderno di commedia all’italiana, Moretti smentì categoricamente: “A parte il fatto, appunto, che non ho capito bene cosa sia questa commedia all’italiana, dico sempre, se ho capito un po’ che cos’è, che ci sono attori noti, si vuole un po’, bisogna un po’ compiacere il pubblico, si vuole ammiccare abbastanza. A me pare di aver fatto una cosa abbastanza avara.” Quanto a stilettate, sperimentale: movimenti scenette
musica
ce n’è anche e
danza
meccanici
nonsense.
e
La
che
rimpiazzano
stranianti
figura
del
per il teatro cosiddetto le
dell’attore
critico
parole,
i
marionetta,
teatrale
che
Fabio
insegue telefonicamente durante le prove, per convincerlo ad assistere
allo
spettacolo,
è
pienamente
inserita
in
questo
quadretto veritiero, ironico e dissacrante (si pensi, fra le altre, alla battuta: “Rileggendo Il Capitale, mi è sembrato un po’ kitsch!”).
E,
come
l’avanguardia
comanda,
c’è
anche
il
coinvolgimento degli spettatori, tirati per la giacca a diventare attori. Tra gli spettatori coinvolti, appare anche Luigi Moretti, padre di Nanni, che apparirà spesso nei suoi film, in ruoli sempre diversi: in Ecce Bombo leggerà le sue poesie a una radio
privata,
in
Sogni
d’oro,
sarà
un
produttore
cinematografico, in Bianca, lo psicologo della scuola Marylin Monroe,
in
Palombella
rossa,
un
sindacalista
comunista
e
smemorato. Vista la reale professione del padre – professore di
epigrafia greca – tra lui e il regista c’era una sorta di patto: non doveva comparire nei titoli, né di testa né di coda; nei trailer; e non dovevano esserci sue foto sui giornali. Moretti, in questo film,
riserva
una
piccola
parte
anche
al
fratello
Franco,
studioso di letteratura, che interpreta un “buddista italiano”. Il finale coincide con la conclusione dello spettacolo, che Fabio vorrebbe posticipare aprendo un dibattito. Niente da fare, dal pubblico si alza un urlo: “No! Il dibattito no!” gb
ECCE BOMBO (1978)
Prati | Villa Pamphili | Tor di Quinto | Ostia
“Per me, quel sole che noi abbiamo aspettato per tanto tempo, quella notte a Ostia, e che poi spuntava dalla parte opposta, per me è stato un segno, un invito a capire. Secondo me, in questo periodo, noi stiamo sbagliando pressoché più o meno tutto.”
Esiste
un
luogo
tranquillo,
nel
quartiere
Prati,
da
cui
è
possibile ignorare la M bianca della metro su fondo rosso, non sentire
gli
odori
confusi
delle
pizzerie
quasi
nostrane,
non
accostarsi a manichini griffati in bella vista dietro le vetrine, non ricevere spallate per le quali non c’è il tempo di ricevere le scuse.
Questo
assecondano
luogo
la
è
forma
piazza
circolare.
dei
Quiriti.
Questo,
più
I
passanti
che
mai,
ne
è
lo
spazio della quotidianità. Al centro di un girotondo di cipressi e pini, una fontana provocante e scostumata, in una danza immobile di quattro statue di nudo femminile. L’inaugurazione delle sculture, nella primavera del 1928, fu rinviata per via delle delle
proteste
di
cariatidi.
cittadini
Che
puritani,
intanto
ci
scandalizzati
osservano,
dalla
posa
inscenando
un
carillon sensuale, e noi ricambiamo lo sguardo. Molti, seduti sulle
panchine,
le
ignorano,
pensano
a
sfamare
gabbiani
e
uccelli di ogni tipo. Ignorano le statue, la fontana, la piazza e naturalmente il fatto di essere seduti sulla stessa panchina di Michele Apicella, mentre dichiarava, in una scena di Ecce Bombo: “Come sono fatto male! Come sono fatto male!” Ci sediamo anche noi, afferrata la ragione di una delle tante ricorrenze morettiane: “Visti a partire dalla panchina, sono la percezione stessa e il suo
oggetto
–
il
mondo
–
ad
apparire
in
una
luce
altra”
(Michael Jakob, Sulla panchina). È dunque anche una storia di panchine, la storia di Ecce Bombo. Quella di piazza dei Quiriti e quelle – a quasi sei chilometri
e
diversi
fotogrammi
di
Pamphili, altro scenario romano del film.
distanza
–
di
Villa
Questo luogo è piazza dei Quiriti. assecondano la forma circolare.
I
passanti
ne
“Anch’io
voglio
andare
a
Villa
Pamphili,
mi
ci
porti?”
domandava un bambino a una mamma dopo essersi impicciato di una proposta fatta da un’altra mamma a un altro bambino, e aver
visto
quest’altro
bambino
manifestare
in
uno
sguardo
tutta la sua felicità. Non è un luogo comune, Villa Pamphili. Oltre centottanta ettari di terreno, aperto al pubblico nel 1972, qualche anno prima di Ecce Bombo. Fermandoci di fronte al parco, dove volano i palloni e sfrecciano le biciclette, pensiamo subito di aver dimenticato qualcosa, di esserci persi un dettaglio, magari un
divieto
abbondano
d’ingresso e
i
rivolto
padri
ai
padri.
mancano.
C’è
Perché una
qui
le
madre
madri
che
fa
l’insegnante, non guadagna molto, si sa, però è felice. È felice perché torna a casa per l’ora di pranzo e il pomeriggio può portare i figli a Villa Pamphili, e aspettare che costruiscano lì la propria infanzia. Belle le madri che parlano con altre madri: uno
dei
rari
formalità.
casi
Moretti
in
cui
avrebbe
è
possibile
forse
innamorarsi
preferito
questo
di
una
scenario
limpido, salubre, puro, diverso da quello hippie presente nel film, con un paradossale “Festival della felicità”. In cerca di panchine, due anni dopo l’esordio, Moretti torna con un film girato in presa diretta, tenendo il filo con Io sono un autarchico. “Se Ecce Bombo fosse andato male – racconta il regista – la colpa l’avremmo data al titolo.” Le alternative erano: Sono stanco delle uova al tegamino, Piccolo gruppo, Delirio d’agosto, Senza caviglie. Alla fine, Moretti ha scelto un suono, un rumore, la voce squillante di uno straccivendolo che gridava per strada: “Ecce Bombo! Ecce Bombo!” Nel film, uscito una settimana prima del sequestro Moro, un gruppo di giovani di sinistra, ex sessantottini, appartenenti alla piccola e media borghesia romana, sentendosi soli, annoiati e disillusi, decidono di smetterla con la politica e di dedicarsi, invece,
all’autocoscienza.
Michele
Apicella
(ovviamente
Moretti) è al centro di un gruppo di giovani “invecchiati”. Passa parecchio tempo in compagnia di alcune ragazze, con le quali alterna monologhi e silenzi. Come con gli amici, esiste un problema di fondo: vogliamo chiamarlo incomunicabilità? Le donne, momentanee comparse, sembrano somigliarsi tutte. E
lui?
“Come
sono
fatto
male!
Come
sono
fatto
male!”
confessa, appunto, sulla famosa panchina di piazza dei Quiriti,
seduto
accanto
confessione
a
un’amica
suona
dei
meccanica,
tempi
del
artefatta,
liceo.
come
La
sua
recitasse
una
parte nel vano tentativo di giustificarsi. O quando Silvia – la sua
presunta
compagna
–
parte,
lo
saluta
alla
Stazione
Ostiense, e lo abbandona per andare “fuori Roma” (forse è proprio questo il vero tradimento: uscire dalla città) in cerca di fortuna. Intanto Michele è conquistato da Flaminia, ignorando il fatto che sia la compagna del suo amico Cesare. La chiama a casa, fortunatamente risponde lei: “Ti volevo chiedere se ci potevamo
vedere
per
innamorarci
di
me.”
In
un
lapsus
apparente, costruito, previsto, c’è la sintesi efficace del suo egocentrismo.
Poi
si
vedono,
di
nascosto,
e
parlano
svogliatamente: FLAMINIA: Non capisco cosa c’è sotto. MICHELE: Cosa c’è sotto? FLAMINIA: Non lo so, te lo domando a te se c’è un motivo. MICHELE: Il motivo è in se stesso, e poi con te sto bene. FLAMINIA: Ma che stai bene! Ci siamo visti una volta e già dopo un’ora te ne saresti scappato. Già comunichiamo così poco, figuriamoci facendo l’amore. MICHELE:
Non
lo
so
se
c’entra,
abbiamo parlato talmente tanto…
sai?
Va
be’,
ormai
ne
“Come sono fatto male! Come sono fatto male!”
Quando si ritrovano in macchina, lei racconta di aver detto a Cesare del loro incontro. “Sta d’un male,” confessa Flaminia, ed
è
l’occasione
per
Michele
di
mostrare
tutto
il
suo
disinteresse, in un’aridità sempre attenta alla forma e mai ai contenuti: “Sta male, non sta d’un male! A Milano dicono sta d’un male, sta d’un bene…” È il dominio della noia, della solitudine che resiste anche in compagnia, come nella scena del prato, zona Tor di Quinto, resa celebre dalla battuta di Cristina: “Giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose.” Michele
si
definisce
“molto
possessivo”,
tanto
abile
nel
pretendere una presenza femminile quanto nell’allontanarla, una volta raggiunta. In una delle riunioni di autocoscienza con gli
amici,
rivela
chiaramente
le
sue
preferenze
empiriche
nell’evolversi di una non-storia: “Del rapporto con una donna mi piace l’innamoramento e corteggiamento, la prima volta che si fa l’amore, anzi i preparativi della prima volta, e quando ci si lascia. E restano i ricordi e la voglia d’incontrarsi per poi non saper più cosa dire.” Gli amici, il “piccolo gruppo” di amici somiglia più che altro a un arcipelago. Le loro riunioni, nella premessa nobile di colmare
le
distanze,
risultano
fallimentari
e
tradiscono
il
concetto stesso di “gruppo”, di “collettivo”, di “comunità”. A consacrare il loro inesorabile destino d’individui, è un’intera notte passata sul litorale di Ostia ad attendere l’alba. Il cielo comincia a farsi chiaro, ma non si accorgono dell’arrivo del sole,
che
ha
deciso
di
sorgere
alle
loro
spalle.
Potrebbe
apparire comica e paradossale, ma l’espressione attonita sui loro volti conferisce alla scena un retrogusto amaro. Infatti, in una delle loro riunioni, Mirko (Fabio Traversa) commenterà così l’accaduto: “Per me, quel sole che noi abbiamo aspettato per tanto tempo, quella notte a Ostia, e che poi spuntava dalla parte opposta, per me è stato un segno, un invito a capire. Secondo
me,
in
questo
periodo,
noi
stiamo
sbagliando
pressoché più o meno tutto.” Sono
tutti
inettitudine teorico,
coscienti
relazionale,
accettando
innato,
necessario,
Sastri),
una
dei ma
propri
rimangono
passivamente
il
generazionale.
ragazza
limiti,
schizofrenica
della
fermi
a
vittimismo
Persino ospitata
con da
un
propria discorso
come
fosse
Olga
(Lina
Mirko,
non
riescono a trovare lo stimolo giusto per uscire da se stessi. E le scene finali, fra Stadio Flaminio, piazza Caprera, lungotevere della
Vittoria,
negano
definitivamente
una
loro
possibile
redenzione, visto che – più per noia che per altro – decidono tutti di andare a trovare Olga, che è “un periodo che sta un po’ male”.
In
verità,
decisione.
solo
Trovandosi
Michele, davanti
però,
a
lei,
tiene
fede
senza
a
questa
ragioni,
senza
redimersi, senza dir nulla. Ecce Bombo è ormai un classico. Ed è il film che consacra Moretti, in cui lui stesso comincia a riconoscersi, a definire forse una poetica. La parodia di certe forme di partecipazione politica,
svelate
voyeurismo,
in
nella
loro
versione
sterile
telefonica.
autoreferenzialità. I
traumi
infantili,
Il che
Michele/Nanni rievoca e sui quali disegna la sua condizione esistenziale. La romanità dei luoghi e degli accenti: “Silvia, non la Silvia! Mamma, fortunatamente siamo a Roma, non a Milano. La Silvia, il Giorgio, il Pannella, il Giovanni. Cacare, non cagare! Fica, non figa!” In una delle scene finali, ambientata su una delle chiatte ormeggiate sul Tevere, si coglie l’importanza che hanno per Moretti – nei film e nella vita – la musica, il ballo. Ma il timbro
d’autore
è
l’ironia
sottile
e
spiazzante
di
alcune
conversazioni diventate proverbiali. Al telefono chiede: “Mi si nota più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?” In un bar di viale Carso, da cui poi viene cacciato, urla: “Ma chi è che sta parlando, chi è? ‘Rossi e neri sono tutti uguali’, ma che siamo in un film di Alberto Sordi?” “Con Ecce Bombo – ha confessato Moretti –, credevo di aver fatto un film doloroso per pochi, e invece mi resi conto di aver
fatto
un
film
Paradossalmente,
comico
questa
per
molti,
“discrepanza”
se
non
per
tutti.”
nietzschiana
(Ecce
homo, non a caso) tra Moretti e i suoi contemporanei sarà una delle ragioni principali della sua fortuna. Ha scritto il filosofo Giorgio
Agamben:
veramente
contemporaneo
perfettamente perciò,
in
“Appartiene
con
questo
esso
né
senso,
si
veramente
colui
che
adegua
alle
inattuale;
ma,
al
suo
tempo,
non sue
coincide
pretese
proprio
è
per
ed
è
questo,
proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo” (Che cos’è il contemporaneo?).
gb
SOGNI D’ORO (1981)
Monteverde | Prati | Pinciano
Un cancello rosso, muri screpolati sui quali gli studenti ripassano a modo loro i libri di storia. Liceo Manara, quartiere Monteverde.
Un
cancello
rosso,
muri
screpolati
sui
quali
gli
studenti
ripassano a modo loro i libri di storia: falci e martelli che coprono
celtiche,
sigle
antifasciste
che
ricorrono
percorso, saluti di disprezzo al capitano delle
SS
lungo
il
Priebke. Liceo
Manara, quartiere Monteverde. È il liceo che compare in Sogni d’oro. Una volta entrati, oltre un passaggio alberato, la viva sensazione di trovarci in una scuola che non è mai cambiata. Sulle pareti dal bicolore avventato, tra verde acqua e marrone chiaro tendente al giallo, bacheche, fotografie in bianco e nero, cartelloni
che
riassumono
in
uno
schema
il
pensiero
di
Platone. In
un’aula,
Leopardi.
c’è
Non
ci
il
professor
sembra
Michele
entusiasta,
Apicella
tutt’altro.
che
spiega
Ma
poi
ci
ricordiamo che lui in realtà, o quasi, è un regista, e che in quel momento sta solo sognando di insegnare Leopardi. E forse nel sogno, Apicella cerca di giocare con la memoria, di tornare sui banchi di scuola ma dall’altra parte. Con molta fatica. A
differenza
del
protagonista
del
film,
noi
non
stiamo
sognando. Non avendo più l’aspetto di maturandi, i professori ci trattano come fossimo studenti nostalgici che ritornano sui propri passi. A noi questo ruolo non dispiace, e ci muoviamo come
se
conoscessimo
i
luoghi,
come
se
sapessimo
che
è
possibile vedere il cortile dalle finestre, che la biblioteca si apre con un messaggio di Seneca, che i registri di classe – la mattina presto – riposano sui tavoli vicino all’ingresso. Una volta usciti, non lontano dal liceo Manara, ci avviamo verso una pasticceria. Una delle poche entrata nelle grazie di Nanni Moretti: Dolci Desideri, in via Anton Giulio Barrili. La vetrina mette in mostra la grande famiglia delle torte, e ci sembra quasi di vedere Apicella che ce le presenta, che ne declama i nomi secondo un ordine d’importanza, proprio come accade in Sogni d’oro, anche se in un’altra pasticceria, in un altro quartiere. Per arrivare alla Sacher Torte, la sua preferita, guardarla come fosse la prima volta e poi chiudere gli occhi, con lo stupore di chi recupera un pezzo di infanzia felice.
Liceo Manara, quartiere Monteverde. Una volta entrati, oltre un passaggio alberato, la viva sensazione di trovarci in una scuola che non è mai cambiata.
Sogni d’oro, terzo lungometraggio dal titolo ironico, è anche un
ritratto
fedele,
dall’archetipo
lucido
materno.
del
figlio
Michele
schiacciato Apicella
dolcemente
(Moretti
che
interpreta sé stesso, con un nome diverso e con il cognome della madre Agata, insegnante di liceo) sta girando il suo terzo film da regista, La mamma di Freud, in cui cerca di risolvere dubbi, angosce, fragilità, chiamando in causa il padre della psicanalisi. Michele e Freud (o presunto tale, come vedremo) condividono rapporto
il
con
complesso
l’universo
edipico
e
femminile.
la
Ogni
mancanza tanto,
di
un
Michele
si
addormenta, e si ritrova nei panni di professore di letteratura (oltre al cognome, nella dimensione onirica, Moretti riprende anche il mestiere della madre). E solo lì, solo nei suoi sogni “d’oro”,
si
concede
l’incontro
con
una
donna
(una
sua
studentessa, Laura Morante) che lo tormenterà al punto da portarlo alle soglie della pazzia e della mostruosità. Un film sul film nel film: Moretti gioca e si diverte con la “triplice intesa”: nuovi registi-critici-pubblico medio. I nuovi registi intendono ingraziarsi il pubblico medio (“Prova a farlo vedere a un bracciante lucano, a un pastore abruzzese, a una casalinga di Treviso!”) e strizzano l’occhio ai critici, perché bisogna cambiare. successo: “per
il
tutti”.
Hanno capito
disimpegno, Oramai,
i
bene
mascherato
film
di
qual è
da
la
impegno
Moretti/Apicella
chiave del leggero vanno
e in
direzione “ostinata e contraria”. Due registi a confronto, dunque. Michele Apicella e il suo cinema
d’autore;
Gigio
Cimino,
regista
ingenuo
e
poco
originale. Tra i due sfidanti, il secondo, ovviamente, ha quasi sempre la meglio. L’unico momento in cui Moretti/Apicella s’aggiudica il consenso degli spettatori presenti è nella sfida a parole.
Per
vincere,
però,
è
costretto
a
riscoprire
la
sua
romanità. E la riscopre attraverso l’insulto e la parolaccia. E quindi
vince,
sì,
con
“schiacciante
maggioranza”.
“La
volgarità, purtroppo, ha trionfato ancora una volta.” Nel finale, Apicella riserva un saluto speciale e sincero al pubblico ottuso, incolto, “a una dimensione”, che non è mai stato in grado di comprenderlo davvero: “Pubblico di merda! Pubblico
di
merda!
Pubblico
di
merda!”
E
il
pubblico,
grottescamente, non può che essere d’accordo con lui, urlando contento: “Pubblico di merda!”
Apicella vive ancora con la madre. Scopriamo la sua stanza, la sua vecchia stanza: il letto a una piazza, la scrivania piena di carte, le mensole cariche di libri, la schiera ordinata di vinili consumati, una foto in bianco e nero dall’effetto straniante che ritrae Michele (e quindi Moretti) con la macchina da presa. Moretti ha voluto riprodurre, nell’ordine dei suoi ricordi, la sua vecchia camera, quando abitava con i genitori in via San Tommaso D’Aquino, zona Trionfale. E proprio da lì, dove è andata in scena la “tragedia dell’infanzia”, il film comincia a muoversi fra sogno e veglia. Michele pensa a un nuovo film, un film su Freud che vive con la vecchia madre, e poi si addormenta. Si ritrova in classe, stavolta dall’altra parte della cattedra, dalla parte dell’autorità, a spiegare svogliatamente il pessimismo leopardiano. C’è chi si alza in piedi e declama versi, chi mangia, chi gioca a scacchi: nessuno lo ascolta. “Mi fate veramente schifo,” dice loro il professor Apicella, e pare che
il
sentimento
sia
reciproco.
Questo
non
risulta
solo
dall’assoluta indifferenza dei tanti, ma anche dallo sguardo freddo e immobile di una studentessa di nome – ancora una volta – Silvia (Laura Morante) che lo rimprovera per il modo di relazionarsi agli altri, richiamando – freudianamente – le innumerevoli
colpe
della
veglia,
colpe
di
cui
Michele
è
profondamente cosciente: “Non le interessa tutto quello che c’è fuori dalla sua stanza, cosa succede nel mondo, che vita fa la gente. Lei si occupa solo di sé stesso. Non ha speranze, non ha illusioni, non ha passioni. Lei è un arido, la sua vita è inutile e io la disprezzo.”
Silvia, suggestione leopardiana, che prima lo biasima, poi si vede con un altro, prima lo illude davanti a un caffè – gelateria Fassi, corso d’Italia – e poi parte.
Sarà proprio lei la figura centrale e lacerante dei “sogni d’oro” di Michele Apicella. Silvia, suggestione leopardiana, che prima lo biasima, poi si vede con un altro, prima lo illude davanti a un caffè – gelateria Fassi, corso d’Italia (non c’è più da molto tempo) – e poi parte, sempre con un altro e mai con lui, si allontana e lo lascia a terra, mentre grida, scalcia e si agita, in preda al dolore dell’abbandono. Quando si sveglia, Apicella si trova sul set per le riprese del suo terzo film: La mamma di Freud. La trama è semplice: Freud, o meglio un tale che è convinto di essere Freud (Remo Remotti), nonostante sia molto avanti con gli anni, convive ancora con la vecchia madre e si comporta come se non avesse mai superato la fase infantile. Le fa i dispetti, controlla nella busta della spesa il cibo appena comprato, si fa cantare la buonanotte in tedesco. In realtà, fu proprio Remotti a scrivere questo piccolo copione (La mamma di Freud) e a portarlo a Moretti
che,
entusiasta,
decise
di
usarlo
nel
suo
film.
Il
copione, ha poi confessato Remotti, era molto fedele alle sue esperienze, sempre
al
rapporto
ritenuto
un
con
cretino.
una “I
madre
libri
di
castrante
che
psicologia
–
l’ha
scrive
Remotti nella sua autobiografia – ci insegnano che ai bambini bisogna rivolgersi come se fossero degli adulti, e invece queste madri si rivolgono ai loro figli adulti come se fossero sempre dei
bambini.
Se
poi
reagisci
fermamente
o
addirittura
brutalmente, sei lacerato dai sensi di colpa. È un gioco al massacro” (Ho rubato la marmellata). Tra il film e il “film nel film” i rimandi sono numerosi. In una scena, Michele è a tavola con la madre e due convitati. Lei parla
e
risponde
con
luoghi
comuni,
con
frasi
fatte,
con
ovvietà, come farebbe la madre più comune con ospiti a cui non ha nulla da dire, e questo Michele non può accettarlo. Perciò comincia a infastidirsi e inizia a cantare una canzone di Mina (Non
credere):
“No,
non
crederle,
tu
per
lei
sei
un
giocattolo!” Poi comincia a schiaffeggiarla, biasimandola per i suoi “discorsi da autobus”. “Perché non te ne vai da questa casa?” intima lei. “Non me ne andrò mai da questa casa, non lo
voglio
superare
il
complesso
di
Edipo!”
urla
lui.
I
due
convitati, nel film, sono due aspiranti registi che importunano Michele riprese
e
con
numerose
imparare
telefonate,
qualcosa.
volendo
Saranno
anche
assistere le
vittime
alle del
celebre sfogo “Io non parlo di cose che non conosco!”, che Michele
stesso
placherà
attraverso
la
sacra
contemplazione
della Sacher, esposta in una delle pasticcerie storiche di Roma, Antonini, in via Sabotino, zona Prati.
La sacra contemplazione della Sacher, esposta in una delle pasticcerie storiche di Roma, Antonini, in via Sabotino, zona Prati.
“Questa è una delle poche pasticcerie di Roma dove fanno la Sacher Torte.”
In un’altra scena, “Freud” sta discutendo al telefono con Jung: “Sto lavorando molto, sì, soprattutto su mia madre. Vivo ancora
con
lei,
dell’autoanalisi!”
per
poco.
La
Autoanalisi,
telefonata
viene
Gustav,
interrotta
qui
si
fa
dall’arrivo
della madre, che “Freud” riconosce dai più piccoli rumori. Allora si nasconde, la sorprende nascondendosi, la abbraccia e poi finge di strozzarla: “Bella pacioccona! Che bella mamma! La
più
bella
mamma
del
mondo,
bella
come
il
sole!
Io
l’ammazzo! Io ammazzo mia madre!” Nella scena finale del film, ambientata nel bar Giolitti, al laghetto dell’EUR, ancora i sogni, i “contenuti latenti” oramai manifesti, da cui Michele “non si salverà”. Silvia è ritornata da un viaggio e dice, con un po’ di ovvietà, di sentirsi cambiata. Durante la cena, mentre lei tenta di ricucire i rapporti, Michele si accorge di non essere più in grado di ascoltarla e perde definitivamente ogni aspetto umano: “Sì! Sì! Sono un mostro. E ti amo!” Lei scappa via e lui la insegue. Che
sia
questa
l’unica
forma
d’amore
possibile,
per
Apicella? gb
BIANCA (1984)
Aventino | Monteverde | Monte Mario | Villa Borghese
MICHELE: La felicità è una cosa seria, no? Ecco, allora, se c’è dev’essere assoluta. BIANCA: E che vuol dire? MICHELE: Vuol dire senza ombre, senza pena. È difficile per tutti, per me invece è impossibile.
“Io i posti – ha confessato Nanni Moretti – i ristoranti, i bar, i
negozi
li
scelgo
non
per
come
si
mangia
o
perché
sono
rinomati, no: mi devo sentire a mio agio. Per me conta la familiarità, Quando
il
calore,
la
quello
che
trovo
situazione mi
del
piace,
suono,
mi
dei
rumori.
entusiasmo
e
vado
soltanto lì. Tendo a frequentare sempre gli stessi posti, anche con i cinema è lo stesso.” Come dice il suo alter ego in Bianca, lui sceglie di voler bene, e quando sceglie è per sempre. Se è in una
traversa
a
un
passo
da
piazza
Albania
–
via
di
Sant’Alessio – che Michele, nascosto e attento a non farsi vedere, assiste al commiato tra Bianca e il compagno, bisogna spostarsi a Monteverde per trovare la scalinata grigia su cui si affaccia la casa di Bianca, via Giovanni Pantaleo, che lega via Aurelio
Saffi
Monteverde
a
via
Fratelli
vecchio,”
ha
Bandiera.
dichiarato
“Il
mio
Moretti:
quartiere
qui,
oltre
è ai
profondi sospiri di Bianca, sono sparsi tasselli di Caro diario. In
via
Giano
Parrasio
c’è
l’officina
del
meccanico
Carlo
Faluomi che, avendo restaurato la Vespa di Nanni, è divenuta un
piccolo
“tempio
cinefilo”.
Nei
pressi,
c’è
la
pasticceria
Dolci Desideri, di cui Moretti è un abituale cliente. La scuola di Sogni d’oro, il liceo Manara. Villa Sciarra, dove Moretti andava con il figlio Pietro a portar fuori il cane Tempesta. Bianca esce nel 1984. L’intenzione del regista sembra quella di
ispessire
matematica, Marylin
la
trama,
Michele
Monroe
(si
il
filo
Apicella, tratta
narrativo. viene
della
Un
professore
assunto
scuola
nella
primaria
di
scuola
Giacomo
Leopardi, zona Monte Mario, che si intravede anche in Aprile) dove incontra e si innamora di Bianca. L’ambiente scolastico è surreale, visto l’entusiasmo folle del preside (Dario Cantarelli, il critico pedante di Sogni d’oro), un vecchio bar, una palestra adibita a sala giochi, il professore di storia (Giorgio Viterbo, già presente nei primi tre film) che tiene una lezione su Gino Paoli, e la presenza di uno psicologo (interpretato dal padre del regista), riservato unicamente alla classe insegnante. Intanto, il professore si stabilisce in una nuova casa fra Trastevere e il Gianicolo.
Comincia
a
osservare,
a
spiare
i
suoi
vicini,
a
cercare qualcosa nelle loro vite, scoprendole più interessanti della
propria.
Alla
maniera
hitchcockiana
(La
finestra
sul
cortile), ma senza l’aiuto di un binocolo e di una donna al suo fianco, Michele entra nelle case con lo sguardo. Conosce così Siro Siri, l’inquilino del piano di sopra, interpretato da Remo
Remotti
(“Freud”
in
Sogni
d’oro),
l’anziano
che
si
accompagna a giovani donne. Che altro? Una coppia logorata da litigi e tradimenti, che Moretti segue dal suo osservatorio speciale, la terrazza; un’altra coppia, in questo caso “aperta”, che millanta un benessere apparente. Entrambe le coppie, però, vengono
coinvolte
in
misteriosi
omicidi.
Il
commissario
comincia a convincersi che l’assassino possa essere uno e non di più: “Uno che entra in casa della gente come un amico, ma che non è un amico.” I sospetti ricadono su Michele, l’unico che
conosce
tutte
“coppie felici”.
le
vittime.
A
lui,
in
fondo,
piacciono
le
Bisogna spostarsi a Monteverde per trovare la scalinata grigia su cui si affaccia la casa di Bianca, via Giovanni Pantaleo, che lega via Aurelio Saffi a via Fratelli Bandiera.
Michele e Bianca lo saranno? Si incontrano a scuola, lei è un’insegnante di francese. Lui vive solo, lei convive con un uomo. L’unica rottura che Michele accetta è proprio quella tra Bianca e il suo compagno. Michele la spia, la segue, anzi la pedina,
per le vie alberate dell’Aventino. In
uno dei primi
incontri, tutti all’insegna dei dolci, Bianca va a casa di Michele e gli porta un po’ di gelato.
Ed è in una traversa a un passo da piazza Albania – via di Sant’Alessio – che Michele, nascosto e attento a non farsi vedere, assiste al commiato tra Bianca e il compagno.
MICHELE: Qui dentro che gusti ci sono? BIANCA: Fragola, limone, croccantino e panna. MICHELE: E per chi è? BIANCA: È per te! MICHELE: Ma non stanno bene insieme. BIANCA: Io invece credo di sì, hai mai provato? MICHELE: No. BIANCA: E allora come fai a saperlo? MICHELE: Ma le cose mica bisogna provarle per sapere se vanno bene oppure no, lo si può prevedere. Così, poi, non si fanno errori. Senza neanche essersi seduti a tavola, Michele e Bianca sono già al dolce. Vanno bene le coppie felici, ma lui con la felicità ha un rapporto faticoso. Inadeguato a partecipare alla vita, si limita a essere un osservatore poco discreto. Il letto da dividere, il fatto che ormai vengano considerati insieme e non come
individui,
un’altra
l’obbligo
persona,
per
di
farsi
Michele
carico
dei
rappresentano
trascorsi
di
un’ingerenza
eccessiva, un muro infranto oltre il quale non sa più difendersi, se
non
attraverso
l’evasione
metaforica
e
infantile
nel
barattolone di Nutella, nel sapore dolce della sua solitudine: MICHELE: Non è giusto che noi continuiamo a vederci. Io magari sarò imperfetto, però voglio essere coerente. Non ci dobbiamo più vedere. Mai più. BIANCA: Ma perché? MICHELE: La felicità è una cosa seria, no? Ecco, allora, se c’è dev’essere assoluta. BIANCA: E che vuol dire? MICHELE: Vuol dire senza ombre, senza pena. È difficile per tutti, per me invece è impossibile. Finché desiderio
si
tratta
di
incompiuto,
un
bisogno,
di
Michele/Moretti
un’illusione, è
in
di
un
grado
di
apprezzare il meccanismo amoroso. L’importante è non essere coinvolto, perché significherebbe esporsi, rischiare, mettere in gioco le proprie certezze: “Io mi devo difendere!” Anche da
g
p
p
ciò che accade agli altri, in una Roma “dimezzata”: bellissima all’aria aperta, brutale e spietata negli interni delle case.
“Ma dammi retta, prima o poi qualcuna s’avvicina, attacca discorso, vuole sapere chi sei, cosa fai lì. Ti guardavo prima, eri inquietante!”
Nel
finale,
perché?
Michele
Erano
suoi
domanda
stupito
risponde
Michele,
il
si
costituisce
amici,
che
cosa
commissario.
addolorato
per
come
“Mi il
le
assassino. avevano
avevano
destino
“Ma
fatto?” deluso!”
comune
delle
storie d’amore, per l’imperfezione di ogni esistenza. gb
LA MESSA È FINITA (1985)
Borgata Gordiani | Casal Palocco | Coppedè | Trastevere
“La gente ha distraggo.”
tanti
guai,
quando
mi
parla
io
mi
È una zona di villini bassi, casette rosa o gialle con i tetti rossi, sembrano disegnate da bambini. Balconi sovraccarichi, da
cui
si
affacciano
signore
in
pigiama;
orticelli.
Borgata
Gordiani venne su nei primi anni trenta a ridosso di un parco sulla
via
Prenestina.
La
parrocchia
di
don
Giulio,
il
protagonista di Messa è finita, è qui: quasi nascosta tra le case, su via Cori. Una signora ci invita a stare attenti, potremmo non vederla. Ma esce un nugolo di suore a braccetto che funziona da insegna. La chiesa fu completata nel 1950, e molto rimanda a quegli anni – gli anni in cui Pasolini scriveva Ragazzi di vita: “Dietro
alla
vedeva
tutta
borgata la
Gordiani,
periferia
con
in le
una
prateria
borgate,
da
da
dove
Centocelle
si a
Tiburtino, in fondo a un orto zuppo di guazza, ci stavano dei grossi
bidoni
arruzzoniti,
abbandonati
lì
insieme
a
altri
ferrivecchi, in un recinto.” Più tardi, Pasolini sarebbe tornato fra queste strade per girare il film Accattone. Se c’è qualcosa che ha modificato il paesaggio nella parte più interna della borgata, è il “muraglione” giallo – così lo chiamano qui – dell’eterno cantiere della Metro C. Quanto a quello umano, è un incrocio di lingue e di origini diverse: i tram
5
e
14,
che
percorrono
la
Prenestina,
sono
i
più
multiculturali della città. Una ragazza alta, bionda, tiene per mano un bambino nero, un cucciolo occhialuto. Si allontana svelta, con un cartone di pizza nell’altra mano. Un ragazzo esce da un “kebabbaro” – l’insegna recita così, a metà fra turco e romanesco – dicendo all’amico “Non ho ancora capito se io e lei semo fidanzati”. Sul muro di cinta della parrocchia Santa Maria Mediatrice un insolito manifesto elogia il presidente turco Erdogan per avere risolto il problema delle fogne. Un altro,
più
istituzionale,
descrive
le
catacombe
dei
santi
Marcellino e Pietro, il cui ingresso non è distante da qui, sulla via Casilina.
“A volte vorrei picchiare qualcuno. Sì, è un pensiero che ho sempre più spesso.”
Questa
piccola
chiesa
nella
periferia
est
è
l’approdo
del
prete di Messa è finita dopo una lunga assenza fuori città, su un’isola
mai
nominata
(Ventotene).
La
vicenda
si
sviluppa
grosso modo qui, tra la stanzetta di don Giulio, la canonica, il campo
da
calcio
riconoscibili,
il
dell’oratorio.
drive-in
di
Casal
C’è
poi,
Palocco
fra
(una
i
luoghi
canzone
di
Battiato in sottofondo e don Giulio che esclama: “Vi amo, voi tutti che siete in questo bar!”). L’attico della casa di un amico di don Giulio, in via della Polveriera, pieno centro storico, nei pressi del Colosseo. La casa dei genitori del sacerdote è nel quartiere
Coppedè
eccentrico,
–
disneyano:
il
più
via
fatato
Aterno,
della non
città,
lontano
un
liberty
da
piazza
Mincio. C’è una fontana ricostruita in piazza del Fante, nei pressi del lungotevere Oberdan (durante un’aggressione, don Giulio viene spinto nella vasca), c’è una libreria dell’usato in via Famagosta (esiste ancora, al numero 41, Pocket 2000), e c’è l’arena del Cinema Nuovo, in largo Ascianghi (non ancora diventato
il
Nuovo
Sacher
di
Moretti).
Ancora
Pasolini
la
descrive in questi versi, nella raccolta La religione del mio tempo: Entri nell’arena, all’ultimo spettacolo, senza vita, con grigie persone, parenti, amici, sparsi sulle panche, persi nell’ombra, in cerchi distinti e biancastri, nel fresco ricettacolo.
Ma
nel
film
di
Moretti
contano
molto
più
le
relazioni
affettive: i luoghi sembrano avere perfino qualcosa di ostile.
L’arena del Cinema Nuovo, in largo Ascianghi (non ancora diventato il Nuovo Sacher di Moretti).
È il primo film di Moretti in cui il protagonista non abbia legami espliciti con l’attore-regista. Don Giulio è un prete in crisi,
assediato
dai
problemi
altrui:
ha
idiosincrasie
“morettiane”, che spesso sfociano in autentiche crisi di nervi; in alcune osservazioni può combaciare con un alter ego di Apicella (“Le ciliegie e le fragole tutto l’anno! Che ricordi avranno
questi
bambini?”;
“Lei
tiene
sempre
la
televisione
accesa? Guardi che non è una buona abitudine”), fa rumore o alza il volume della musica quando c’è qualcosa che non vuole ascoltare, ama le canzoni (le note di Ritornerai di Bruno Lauzi accompagnano due scene, in un’altra si ascolta Sei bellissima), ma l’abito che indossa, la scelta che ha fatto, lo rendono un personaggio nuovo e autonomo.
Uno
costretto a
parlare
di
felicità e di amore universale, mentre si trova assediato da infelicità e amori che si complicano. È come al centro di una raggiera
di
problemi
altrui,
persone
che
chiedono
risposte,
mentre lui sente di averne poche anche per sé stesso. “La gente ha tanti guai, quando mi parla io mi distraggo” confessa. Eppure tutti continuano a parlargli, a cercare conforto. Sua sorella, che vuole abortire. Suo padre, che si innamora di una donna più giovane. Il compagno di gioventù con cui aveva condiviso l’avventura di un giornale, diventato nel frattempo un ex terrorista sotto processo.
L’amico poeta
depresso, in
cerca di qualcuno che condivida con lui “la fatica di vivere”. L’altro amico omosessuale; i due che si presentano al corso prematrimoniale con lei incinta. “Anche se davvero avessero bisogno di me, io che gli posso dire?” si domanda ancora don Giulio, mentre scopre che non c’è nessuna libertà nello stare da soli. Guarda perciò con un misto
di
curiosità
e
attrazione
alla
vita
quotidiana
dell’ex
parroco, che ha lasciato la tonaca per mettere su famiglia. “Io vi guardo, voi fate quello che dovete fare!” dice ospite della villetta, al numero 6 di via Cori. Si mette lì, e li osserva, con il consueto senso di esclusione dalla felicità altrui. pdp
PALOMBELLA ROSSA (1989)
Circo Massimo
“Io sono stato felice e non ho tanto desiderio di tornare nel ventre materno, e tutte quelle storie, no. Però di tornare lì, me bambino, con quelle due borse a tracolla… Sì, certo, per tornare lì, devo passare di là…”
Chiunque abbia voglia di visitare quello che fu teatro di corse
di
bighe
nell’antichità,
l’unico
luogo
romano
riconoscibile in Palombella rossa, conviene che ripieghi sul metodo classico del “farsela a piedi”. In
un
giorno
feriale,
il
Circo
Massimo
è
attraversato
soprattutto dai turisti. Una bambina corre verso l’obiettivo del padre e diventa ancora più piccola, anche per noi che la stiamo osservando.
Poi
ritorna,
sempre
correndo,
e
con
le
braccia
avvolge la gamba sinistra del padre. Sarà venuta un po’ mossa, non
essendosi
pianure
fermata
incoerenti
del
un
secondo.
circo
o
la
Rimarranno,
corte
delle
forse,
le
macchine
in
lontananza. È uno dei pochi luoghi nel mondo per cui le fotografie non bastano: richiede, a cuore aperto, un incontro. Magari di notte, come nelle pagine che Pasolini escluse da Ragazzi di vita: “Sui Cerchi batteva la luna; una luna piccola, impolverata, che tutti guardavano Massimo
per
traverso,
quant’è
d’immondezza.
perché
grande,
Sul
le
allagava
fratte
muricciolo
di
nere,
del
i
Circo,
luce selci,
che
si
il
Circo
le
frane
stendeva
intorno nel polverone della luna, con qua e là qualche torraccia smozzicata, se ne stavano seduti degli uomini, dei giovinotti, e più
giù
sparse
tutt’intorno
alla
fermata
della
circolare
si
vedevano delle ombre, raccolte in ghenghe.” Nel finale di Palombella rossa, il Circo Massimo è una voragine in cui tuffarsi a capofitto a bordo di una macchina. “Mamma, vienimi a prendere!” grida il protagonista, in una sorta di preghiera laica per un impossibile ritorno all’infanzia. Da tempo Moretti voleva dedicare un film a una delle sue passioni più grandi: la pallanuoto. Giocava nella
S.S.
Lazio
Nuoto e ancora oggi viene ricordato, nell’albo d’oro, come una “bella promessa” divenuta un regista di culto. Il protagonista, ancora una volta, è Michele Apicella, che qui ricopre il ruolo di funzionario del Partito comunista, che perde la memoria a causa di un incidente stradale causato da una distrazione: ha lasciato
il
volante
per
scambiare
bambini. La crisi d’identità del sciolto,
viene
Amnesia
che,
rappresentata, d’altro
canto,
boccacce
PCI,
con
un
paio
di
che di lì a due anni sarà
quindi, riporta
attraverso Michele
un’amnesia. indietro
tempo, nella bellezza pura e perduta della sua infanzia.
nel
Dopo
l’incidente,
gran
parte
del
film
si
sviluppa
in
una
piscina di Acireale, dove Michele, assieme alla sua squadra di pallanuoto
(il
Monteverde),
va
in
trasferta
per
giocare
una
partita decisiva per le sorti del campionato. “Sarebbe stato più facile girare il film in una piscina di Roma – ci ha rivelato Moretti
–
ma
pallanuotista
volevo
giocasse
che
la
questo
sua
partita
dirigente in
comunista
trasferta,
con
un
pubblico ostile sugli spalti.” Ogni tanto, Michele resta come incantato. In Sogni d’oro, si addormentava
ritrovandosi
nei
panni
di
un
professore
di
letteratura tormentato da una sua studentessa. Qui non inventa vite parallele, ma riesce a rivedere chiaramente, ad afferrare alcune scene chiave della sua vita di bambino. La madre che lo accompagnava in piscina e sedeva dietro di lui, la madre buona e
rassicurante,
gridavano
lontana
dall’isteria
“Impegnati!
degli
Impegnati!”
altri
ai
genitori,
figli
che
malcapitati
nell’acqua. “Sono contento che mia mamma non fa così.” La paura di tuffarsi per la prima volta, il tentativo di fuga dalle minacce traumatiche del maestro di nuoto: “Vieni in acqua, dai!
Guarda
alta!”
Il
che
ricordo
ti
porto
della
all’acqua
alta!
“passeggiata
di
Ti
porto
Nervi”
all’acqua (Genova),
quando, ancora bambino, era costretto a portare sulle spalle quelle due borse a tracolla così pesanti: “Io sono stato felice e non ho tanto desiderio di tornare nel ventre materno, e tutte quelle storie, no. Però di tornare lì, me bambino, con quelle due borse a tracolla… Sì, certo, per tornare lì, devo passare di là.” Il sogno del furto di un dolce, ai danni di un bambino più piccolo,
che
soprattutto,
costringe a
farlo
i
genitori
uscire
in
a
mandarlo
strada
con
in le
“galera”
e,
pantofole,
provocandogli un rigetto eterno nei confronti di questo tipo di calzature,
segno
manifesto
di
squallore
“No! In strada con le pantofole no!”
e
di
trascuratezza:
Il Circo Massimo è una voragine in cui tuffarsi a capofitto a bordo di una macchina.
Durante la partita di pallanuoto, fra un lampo di memoria e l’altro,
Michele
proiezioni
della
incontra sua
personaggi
coscienza.
Due
insoliti,
surreali,
fanatici
che,
quasi
come
Re
Magi mancanti di un terzo, non fanno altro che importunare Michele,
portandogli in dono dei dolci (“Tieni, mangia, lo
sappiamo che ti piacciono!”) e ricordandogli il “gesto molto moderno” da lui compiuto il martedì passato, ospite di una trasmissione televisiva. Tutti si riferiscono a questo gesto, ma Michele non riesce a ricordarlo: “Cosa avrò fatto mai?” Poi incontra una giornalista impreparata e superficiale che vuole intervistarlo,
senza
cognizione
di
causa
e
senza
alcuna
competenza, capace di esprimersi soltanto con luoghi comuni e frasi fatte: LEI: Sì, ma io vorrei sapere qualcosa di oggi, lei mi ha parlato di quel periodo che poi, in fondo, è il periodo del femminismo e tutto il resto. MICHELE: Tutto il resto? Tutto il resto. No, il femminismo è venuto dopo perché in quegli anni le ragazze dicevano che in Italia le donne non erano oppresse come in America, per cui in Italia… LEI: È stupenda questa battuta, eh! MICHELE: Non è una battuta! Non era una battuta… LEI: No, io non lo so, però senz’altro lei ha un matrimonio alle spalle, eh, a pezzi.
“Noi siamo uguali agli altri, noi siamo come tutti gli altri, noi siamo diversi, noi siamo diversi, noi siamo uguali agli altri, ma siamo diversi, ma siamo uguali agli altri, ma siamo diversi… Mammaaa! Mammaaa! Vienimi a prendere!”
MICHELE: Che dice? LEI: No, forse ho toccato un argomento che non… MICHELE:
No,
l’espressione,
non
è
l’argomento!
Non
è
l’argomento! È l’espressione! “Matrimonio a pezzi”, ma come parla? LEI: Preferisce “rapporto in crisi”? Però, è così kitsch! MICHELE:
Kitsch?
quest’espressione?
Dove
l’è
Dove
andata
l’è
prendere
andata
prendere
quest’espressione? LEI: Io non sono alle prime armi! MICHELE: “Alle prime armi”, ma come parla? LEI: Anche se il mio ambiente è molto cheap. MICHELE: Il suo ambiente è molto? LEI: È molto cheap. MICHELE:
Come
parla?
Come
parlaaa?
Le
parole
“Chi
parla
sono
importanti! Moretti
è
profetico,
ancora
una
volta.
male,
pensa male e vive male”: un manifesto involontario. Michele s’imbatte anche in un cattolico, in un sindacalista (interpretato dal padre, nella sua ultima apparizione), ma senza ascoltarli, senza
essere
ascoltato.
Come
spesso
accade
nei
film
di
Moretti, tutti i personaggi sono perennemente distratti dalla propria esistenza, preoccupati di declamare per intero i propri monologhi,
all’insegna
del
più
estremo
e
lacerante
individualismo: “Ma quanti anni sono che parlo da solo?” Un vecchio compagno di scuola (di nuovo, Fabio Traversa) gli ricorda le sue esperienze giovanili (“Ti ricordi? Ti ricordi? Ti ricordi?”), di quando obbligarono un fascista a indossare un cartello
che
potesse
umiliarlo,
dei
discorsi
sulle
ragioni
profonde del loro essere comunisti. E quel programma in tivù, quel dibattito fittizio, artefatto, andato in scena, forse, in quel famoso martedì, quando Michele ribadiva meccanicamente gli obiettivi del Partito, spiegandone svogliatamente le istanze, gli ideali, i fondamenti teorici, e finendo per cantare una canzone di Battiato (E ti vengo a cercare).
Il Circo Massimo, teatro di corse di bighe nell’antichità, l’unico luogo romano riconoscibile in Palombella rossa.
Così commenta Alberto Arbasino, in uno dei suoi Ritratti italiani: “Non umiliato e offeso, o lì a reclamare il conto. Ma piuttosto, inebetito e risentito, sull’orlo del rincoglionimento, dopo
decenni
di
luoghi
comuni
‘che
hanno
pesato
come
macigni’. Dopo decenni di frasi e pensieri di Ingrao e Occhetto e Veltroni e D’Alema e Fassino e Napolitano e Amendola, di tanti
sindacalisti
e
comitati
centrali,
di
movimentismi,
di
cattocomunisti, di assemblee, di cortei, Nanni Moretti non ha dimenticato nessuno e non perdona niente. E gli basta ripetere con
accento
straniato
e
stracco
quelle
frasi
vuote,
dove
il
‘messaggio’ era dato solo dal ‘tono’, per metterne in evidenza l’insensatezza.” Nel “finale di partita”, spetta a Michele il rigore decisivo. Lo segna, prima del fischio dell’arbitro, e poi sbaglia. “La sconfitta”, come recitava il titolo del primo cortometraggio morettiano, di cui vengono riproposte alcune scene in questo film.
Affranto,
fallimento piscina,
più
politico,
come
un
per
l’infanzia,
Michele
bambino,
oramai
piange, mentre
grida invoca
persa, e
che
corre
la
per
il
a
bordo
madre
(“Mia
madre!”, che sarebbe poi diventato il titolo di un film). Il finale, commovente, interrompe il continuo alternarsi di infanzia
e
politica,
le
salda
in
un’immagine
tanto
leggera
quanto amara. Michele sta guidando, accanto a lui c’è la figlia (interpretata da una giovanissima Asia Argento). Lui continua a invocare la madre, a parlare degli altri che sono cambiati, che sono
“tutti
finiscono,
infelici”. con
la
In
una
macchina,
sterzata dentro
d’ira, al
padre
Circo
e
figlia
Massimo.
L’immagine finale raccoglie tutte le persone che Michele ha conosciuto nella sua vita, compreso se stesso bambino, che in cima al Circo Massimo vede sorgere, insieme agli altri, il “sol dell’avvenire”. Il bambino si copre gli occhi e ne ride, di un sorriso beffardo. gb
CARO DIARIO (1993)
Gianicolo | Parioli | Garbatella | Prati Spinaceto | Casal Palocco | Flaminio Monteverde | Ostia
“Sono uno splendido quarantenne!”
Il celebre viaggio di Moretti in Vespa per le strade di Roma – una vera e propria traversata della città nella luce estiva – non è facile da ricostruire. Occupa un episodio di Caro diario e somiglia quasi a un inseguimento. Ogni tratto percorso ha una sua colonna sonora, si passa da Leonard Cohen a Khaled, e la musica imprime al tragitto un’atmosfera esotica, straniata. Qualche
anno
millimetro
la
fa
c’è
mappa
stato
degli
chi
ha
ridisegnato
spostamenti
di
quasi
Moretti:
il
al sito
www.davinotti.com. Il punto di partenza è intorno a via delle Fornaci; dopo uno stacco la Vespa ricompare nel quartiere Parioli – viale Bruno Buozzi – con la voce narrante di Moretti che ragiona sui cinema chiusi o destinati a film pornografici e a
horror
dozzinali;
ancora
uno
stacco,
una
divagazione
narrativa, e ci ritroviamo nel quartiere Garbatella. È per una di queste
vie
che
Moretti
esclama
la
battuta
diventata
poi
proverbiale: “Sono uno splendido quarantenne!” Via Obizzo Guidotti, per l’esattezza. Chiediamo dove sia, ma nessuno sa indicarcela. Si ha la curiosa
sensazione
Garbatella
non
che
conosca
chi la
passeggia
Garbatella.
per Ma
le
strade
dov’è
della
allora
chi
conosce la Garbatella? In un bar di via Fincati domandiamo al ragazzo del bancone; indossa una maglietta con la scritta Stai sereno
e
intrattiene
gli
avventori
discutendo
–
fra
il
tono
accorato e cinico – di un uomo che si è suicidato nella zona. Non sa dove sia via Obizzo Guidotti. È quasi solo per caso che la scoviamo, dopo il terzo giro in tondo di piazza Bartolomeo Romano, sotto un sole che cuoce e altera le prospettive.
Il barista non sa dove sia via Obizzo Guidotti. È quasi solo per caso che la scoviamo, dopo il terzo giro in tondo di piazza Bartolomeo Romano, sotto un sole che cuoce e altera le prospettive.
Eccola, stretta, quieta come appare la Garbatella a quest’ora del pomeriggio di giugno e sempre, con i panni stesi fuori ad asciugare,
le
ombre
nei
cortili
silenziosi
–
dove
lo
stesso
Moretti si ferma fingendosi impegnato in un sopralluogo per un
film
su
un
pasticcere
trotzkista
nell’Italia
degli
anni
cinquanta. Film che diventerà un’ipotesi di musical, con Silvio Orlando nei panni del pasticcere, in alcune scene di Aprile (1998). La scusa consente a Moretti di indugiare fra le case anonime, di saziare la sua strana passione per le abitazioni altrui, viste da fuori e in questo caso anche da dentro. D’altra parte, ogni casa è anche una storia, una somma di storie, e uno dei poli magnetici da cui sembra attratta la Vespa di Moretti nell’episodio
che
apre
Caro
diario
è
proprio
l’esistenza
ordinaria, la vita altrui, quella di ogni giorno: spingendosi a Spinaceto e a Casal Palocco, interrogherà alcuni passanti sulle ragioni
per
cui
hanno
scelto
di
vivere
lì,
finendo
col
concludere che no, “non è niente male, Spinaceto, pensavo peggio. Non è per niente male”. Tornando alla Garbatella, non è difficile innamorarsi di via delle Sette Chiese, del suo raccoglimento e del pavé che la stacca
per
eleganza
napoletana,
mignon
dall’asfalto dieci
euro
intorno.
al
chilo;
Una una
pasticceria
ragazza
con
bambino a tracolla e due cani al guinzaglio; l’iscrizione per terra
che
segnala
le
Catacombe
di
Commodilla
–
cripte
risalenti al IV secolo, sotto le scarpe nostre e degli studenti che festeggiano
l’ultimo
giorno
di
scuola
correndo
per
Parco
Serafini, lanciandosi acqua, uova e farina presumibilmente da ore. Così pure su piazza Sauli impazza ancora la guerriglia di fine
anno
scolastico,
e
ci
si
mettono
anche
le
mamme.
Ragazzini armati di pistole ad acqua non risparmiano nessuno, non certo le auto parcheggiate dietro cui qualcuno, disarmato e zuppo dalla testa ai piedi, cerca invano di ripararsi. La scuola Cesare
Battisti,
che
dà
sulla
piazza
(Moretti
ne
osserva
la
facciata dalla Vespa; aveva già mostrato la scuola nella scena finale di Bianca), ha una facciata imponente, fuori moda, fra chiesa
e
sacrario
minacciosi
sulle
primo quattro
Novecento, colonne.
con
rapaci
L’architetto
di
marmo
Vincenzo
Fasolo, che la progettò, non avrebbe mai immaginato che al restauro
avrebbe
contribuito
la
produzione
della
fiction
televisiva I Cesaroni, che dal 2006 ha rilanciato la Garbatella, ambientando qui le vicende di una famiglia romana.
Ma la Garbatella nel suo insieme contraddice queste forme austere, è accogliente, rilassata, il suo cuore batte a sinistra e per la Roma, lo danno a intendere chiaramente i colori sulle saracinesche dei locali, lupe stilizzate che ricordano gloriosi scudetti
fuori
dai
bar,
ragazzi
combattenti
murales
sulle
calcistici
pareti
di
e
politici,
centri
volti
sociali:
in
di via
Passino, si ricorda Piero Bruno, giovane militante ucciso dalle forze
dell’ordine
proiezione
di
il
un
22
novembre
documentario
1975, sulle
e
si
annuncia
azioni
la
antifasciste
successive alla Liberazione. Moretti definisce la Garbatella “il quartiere che mi piace più di tutti”. Pasolini ne fece, in Una vita violenta, il fondale di un delitto ma seppe descriverla in poche righe, che “brillava al sole”,
come
in
questo
momento:
“Le
strade
in
salita
coi
giardinetti in fila, le case coi tetti spioventi e i cornicioni a piatti cucinati, i mucchi di palazzoni marrone con centinaia di finestrelle
ed
abbaini,
e
le
grandi
piazzette
portici di roccia finta intorno.” L’aria
che
cogli
archi
si respira
e
i
non è
quella del Bronx romano, come un tempo appariva, ma di un luogo
sospeso
tra
l’essere
popolare,
anzi
popolaresco,
e
l’essere di moda. A salvarla dai luoghi comuni della romanità di tendenza c’è questo fracasso di cicale e il verde, fitto qui come
in
pochi
altri
quartieri
di
Roma.
Questo
nacque
su
progetto di Marcello Piacentini, con lo spirito di creare una città-giardino;
la
prima
pietra
fu
posta
dal
re
Vittorio
Emanuele III nel 1920. Del nome Garbatella si sa poco: c’è chi lo
fa
risalire
a
un’ostessa
particolarmente
gradevole
che
gestiva una locanda e offriva le sue grazie insieme al cibo. Vero o no che sia, non troviamo né conferme né smentite. Resta
il
mistero,
insieme
a
quello
di
molti
toponimi
del
quartiere. Di Obizzo Guidotti, per esempio, non c’è traccia né su Google né sulla Treccani. E Pantero Pantera? Sembra un nome
inventato.
Era
un
gentiluomo
vissuto
fra
Cinque
e
Seicento, capitano della flotta pontificia. Lo ricorda una piazza su cui sfocia via Passino: è bello che da mezzo secolo abbia qui la sua bottega un orologiaio, uno che gli orologi – da polso, pendole, cucù – sa ancora ripararli. È come sapere che c’è qualcuno che ripara il tempo. Fa bene.
La scuola Cesare Battisti dà sulla piazza Damiano Sauli. Moretti ne osserva la facciata dalla Vespa.
Il film esce nel novembre del 1993, Fellini era morto da qualche giorno. Caro diario, anche a distanza di anni, resta sorprendente. Le strade di Roma d’estate percorse in Vespa non sono molto cambiate: forse solo un po’ meno deserte, in agosto.
Di
dettagli
quei
primi
minimi
che
anni
novanta,
valgono
più
Caro diario
di
molta
raccoglie
storiografia
e
sociologia. L’ondata dei figli unici; le premesse – nello sbarco a Panarea – di ciò che avremmo chiamato “Cafonal” e che Paolo
Sorrentino
avrebbe
messo
a
fuoco
nella
Grande
bellezza; lo studioso di Joyce che cita frasi di Enzensberger contro la televisione e però segue ossessivamente le vicende di Beautiful. Ma ciò che più colpì il pubblico e la critica fu la modalità “diaristica” del racconto: la parzialità dichiarata di un Io che vive e trascrive, annota; un Io spesso solo sulla scena come su quel campo da calcio vicino al mare, o nell’episodio del “pellegrinaggio” a Ostia, nel luogo in cui fu assassinato Pasolini. Caro
diario
è
un
film
di
lunghi
silenzi,
di
sequenze
accompagnate esclusivamente dalla musica; è un film che vaga e divaga (“vago per la città” dice Moretti all’inizio) e trova la sua
forma
in
questo
movimento
spezzato,
antinarrativo,
di
abbozzo compiuto; diremmo – se parlassimo di letteratura – “fra saggio e romanzo”. Una prospettiva interessante è forse proprio questa: osservare come la forma di Caro diario abbia fatto scuola anche fuori dal cinema. Quell’“autofiction” su cui tanto si è discusso, Moretti l’aveva già trovata – senza troppo cercarla – vent’anni fa; e così il tono della sua voce narrante – la
cadenza:
ironica,
finto-svagata,
curiosa
e,
in
modo
imprevedibile e perfino spietato, sincera – sia quella di molti cosiddetti “reportage narrativi” di là da venire. E ancora: il rapporto con il paesaggio, con la città (l’intuizione poetica di un
film
contatto
fatto fra
solo
di
pubblico
panoramiche e
privato
su
case
(ancora
più
qualunque);
il
trasparente
in
Aprile), il rapporto fra le circostanze della Storia e quelle della vita intima. Quei ritagli di giornale che sarebbero entrati in tanti libri “ibridi” di questi anni, non erano già in Caro diario e
in
Aprile?
Forse
non
ne
avevamo
soppesato
appieno
l’importanza – fragili e però luminosi tasselli di una personale archiviazione della memoria.
Su
un
piano
tematico,
l’ultimo
capitolo
di
Caro
diario,
intitolato “Medici”, apre un discorso – sul corpo, sulla malattia –
che
di
lì
a
poco
sarebbe
esploso
nella
narrativa
(i
“cannibali”; e i tanti diari o romanzi di “personaggi-uomo” pronti a diventare “personaggi-corpo”). Moretti sembra avere risposto indirettamente – e in modo memorabile – a Virginia Woolf
che,
nel
’26,
invocava
“romanzi
interi”
dedicati
all’influenza, “poemi epici alla febbre tifoidea; liriche al mal di denti. Ma no; salvo poche eccezioni – De Quincey tentò qualcosa del genere nelle sue Confessioni d’un oppiomane, un paio di volumi sull’infermità devono essere sparsi nelle pagine di Proust – la letteratura fa del suo meglio perché il proprio campo di indagine rimanga la mente; perché il corpo rimanga una lastra di vetro liscio attraverso cui l’anima appaia pura e chiara, e, eccetto che per una o due passioni come il desiderio e la cupidigia, sia nullo, e trascurabile e inesistente. La verità è tutto il contrario”. Moretti
ne
è
persuaso,
e
fa
affiorare
questa
verità
nel
labirinto di medici che attraversa. Uno di questi ha il volto del poeta Valerio Magrelli. Figlio di una madre medico, Magrelli si divertì molto (“L’idea di fare un medico che sbaglia mi parve splendida”) e sarebbe tornato sul tema del corpo, già molto
presente
nella
sua
poesia,
con
le
prose
di
Nel
condominio di carne. A legare Moretti e Magrelli fu anche la passione per la pallanuoto (giocarono in tempi diversi nella stessa squadra), per il tennis (“partite memorabili”) e per la Vespa (“ne avevo una più vecchia di quella di Moretti”). A mettere
meglio
a
fuoco
l’episodio
di
Caro
diario
del
pellegrinaggio sulle tracce di Pasolini a Ostia, c’è tra l’altro un testo
di
Magrelli
uscito
viaggetto. Scrive Magrelli:
alla
metà
degli
anni
ottanta,
Il
“E in fondo… In fondo lo speccolo sublime e lacerante dell’Idroscalo.”
Malgrado tutto, questa lingua di terra non cessa di affascinare. In effetti, la zona possiede una varietà davvero sorprendente. Accanto all’ignobile trofeo mortuario, si nascondono ricchezze inattese. Si tratta di una doppia dimensione industriale e turistica: da un lato i capannoni degli enormi cantieri nautici, dall’altro, invece, darsene, prati all’inglese, magnifici yacht che si dondolano pigramente. Produzione e
vacanza,
lavoro
e
lusso,
fioriscono
felici,
rigogliosi,
a
pochi
passi
dalla
desolazione. E in fondo… In fondo lo spettacolo sublime e lacerante dell’Idroscalo. Nei suoi film, nei suoi romanzi, nei suoi versi, Pasolini ha mostrato in che maniera squallore e povertà possano giungere a produrre poesia. Ecco il segreto di questo villaggio. Le costruzioni abusive diventano un presepe incantato, pervaso da quella stessa violenta bellezza che si ritrova in Messico o in India. È un sentimento estetico complesso, contraddittorio, forse anche riprovevole. Fatto sta che la riva sinistra della foce, con le sue case basse, le pergole, le frasche, un paio di ragazzi seduti sul vespino, materassi e barchette parcheggiati per strada, il Ranch Rosci, le statue
di
due
angeli,
la
sua
piazza
assolata,
forma
un
quadro
struggente,
indimenticabile.
Arriviamo anche noi, in un pomeriggio estivo, all’Idroscalo. Chiediamo informazioni, anche solo per cogliere l’espressione dei
passanti
quando
chiediamo
del
monumento
a
Pasolini.
Stupore, perplessità o cos’altro? Ci dicono di lasciarci il mare a
sinistra.
Davanti
a
una
fabbrica
di
materassi,
in
via
dell’Idroscalo, fatichiamo a individuare l’esatta collocazione del monumento al poeta, che a Magrelli fece l’effetto di un portachiavi, più che di una scultura. Rispetto a trent’anni fa, la situazione del parco è molto migliorata, tutto è curato, i versi di Pasolini accompagnano verso la stele bianca che lo ricorda. Ma il cancello è chiuso, e noi vorremmo entrare. Chiediamo a un meccanico, si mostra fiducioso: “La vedi quella macchina grigia? Ce parcheggi dietro, apri e vai ’ndo te pare!” Senza dover forzare troppo, il cancello si lascia aprire. E quel “vai ’ndo te pare” ha qualcosa di augurale, di speranzoso. pdp
APRILE (1998)
Isola Tiberina | Monteverde | Parco Nemorense Prati | Parioli | Africano | Monte Mario
L’isola Tiberina, con la sua forma da nave da guerra, appare eternamente quieta, distante dal tempo e dal caos.
È
già
sorprendente,
di
per
sé,
che
Roma
–
città
non
marittima – abbia un’isola. Nel cuore del centro storico, fra Ghetto e Trastevere, l’isola Tiberina, con la sua forma da nave da guerra, appare eternamente quieta, distante dal tempo e dal caos.
Anche
quando
il
traffico
sul
lungotevere
impazzisce,
l’isola appare sospesa e silenziosa tra le foglie dei platani. Un luogo
franco
e
Fatebenefratelli
ospedaliero:
risale
a
fine
l’antica
struttura
Cinquecento:
i
veri
del
romani
nascono, si curano, muoiono qui, in questo luogo appartato che gli antichi dedicarono al dio medico Esculapio e a metà Seicento
divenne
il
lazzaretto
cittadino
sotto
l’ondata
della
peste. Davanti all’ospedale uno striscione di protesta dice 500 anni di assistenza buttati ar fiume. I pini e le palme, intorno, quasi lo occultano, gli danno un’aria appena un po’ esotica. In un lungo fermo immagine di Aprile, Moretti lo mostra inquadrando
l’isola
dalla
parte
della
prua:
svetta
la
statua
bianca lassù in alto, in una mattina assolata di aprile, e tutto sembra
immobile.
Moretti
racconta
In
realtà,
sta
per
tessere
il
per
nascere
suo
un
diventare
bambino.
padre,
nella
primavera del 1996: le ansie, le scoperte, lo stupore. Su una sponda dell’isola si mette quasi a saltare, a correre, agitando le braccia
come
se
nuotasse,
solo,
appena
dopo
la
nascita
di
Pietro. Le note del pianoforte di Ludovico Einaudi aggiungono alla scena una commozione, più che trattenuta, gioiosa – e non è una contraddizione. La cortina rossiccia attorno all’ospedale è segnata, nelle immagini del film, da scritte in vernice bianca: in
una
si
Patroclo! come
legge Oggi
pezzi
D’estate
la
di
Betti
ti
risultano vita
sponda
amo,
in
coperte,
sepolti, destra
un’altra ma
vecchi
si
un
intuiscono
slanci
dell’isola
si
romanissimo
messi
riempie
a di
ancora, tacere. sedie,
tavolini, gazebo; quella sinistra, dalla parte di Ponte Fabricio, resta sempre più vuota e trascurata, più selvaggia. Verso il tramonto, i gabbiani piombano in picchiata e la dominano. Ogni tanto, sono costretti a lasciare spazio al passaggio di qualche
podista,
innamorata. circonda Pittoresca piazzetta macchia
Ai
camminatore primissimi
l’ospedale infine, della di
chiesa
bianco
caldi,
ospita
come
la di
solitario
i
la
San
contraddetta
una
coppia
erbosa
che
dell’abbronzatura.
qualunque
Bartolomeo, dalla
di
collinetta
pionieri
definisce
o
guida,
raccolta,
rossastra,
la
una
medievale
Torre Caetani – che la fronteggia, o la sorveglia. Sfilano frotte
di
turisti
col
gelato
in
mano;
un
vecchietto
vende
da
un
carrettino pannocchie arrostite, e la sora Lella, ritratta sulla porta del famoso ristorante, lo osserva bonaria. Roma, in Aprile, è molto presente. Moretti la evoca anche solo a parole, come quando – infastidito dall’odore di aglio che arriva dall’appartamento sopra al suo – domanda: “Che città è questa? Non si può fare niente senza l’aglio! Ora vado su e chiedo il motivo di tutto quest’aglio!” Oppure, quando va a
intervistare
documentario
il che
giornalista intende
Corrado
fare
Stajano
sull’Italia,
e
gli
per
il
domanda:
“Qual è il suo rapporto con la città di Roma?” Stajano allarga le
braccia:
“Eh,
ma
che
domande!”
Moretti
sorride
imbarazzato, pentendosi: “Oggi non sono in forma…” Dopo la nascita di Pietro, fra i messaggi di auguri che gli amici lasciano nella segreteria di Moretti, ce n’è uno in cui Nanni
viene
salutato
come
il
“leone
Monteverde, in effetti, c’è: il balcone
di
Monteverde”.
E
di casa Moretti, che
diventa il teatro del suo apprendistato alla paternità (o alla maternità di Silvia, che gli spiega il parto fase per fase); le strade che percorre ancora una volta in Vespa – in discesa da Monte Mario verso piazzale Clodio; e ancora viale Libia; via Valnerina,
costeggiando
lungotevere compleanno,
dell’Acqua pieno
il
parco
Acetosa
agosto,
di –
Villa nel
angosciato
Chigi,
giorno
dallo
e
del
scorrere
poi suo del
tempo, e lanciando infine i ritagli di giornale accumulati negli anni… Per essere precisi, i ritagli volano per le strade del quartiere Parioli, dintorni di piazza Euclide, via Bertoloni, via Gaudini, accanto all’Auditorium.
I luoghi del presente, nel film, danno infine il cambio a quelli del passato: il Parco Nemorense (o Parco Virgiliano), nel quartiere Trieste, tra Villa Torlonia e Villa Ada, un giardino anni trenta – tigli, pini, lecci, un laghetto.
I luoghi del presente, nel film, danno infine il cambio a quelli del passato: il Parco Nemorense (o Parco Virgiliano), nel
quartiere
Trieste,
tra
Villa
Torlonia
e
Villa
Ada,
un
giardino anni trenta – tigli, pini, lecci, un laghetto. Il parco della
mia
infanzia,
dice
Moretti:
“Ripenso
a
quand’ero
bambino, mi viene in mente anche una poesia da scrivere,” e intanto si interroga su come facesse sua madre, insegnante, a occuparsi finale,
delle
sfilano
poppate
altri
senza
luoghi
permessi
dell’infanzia
di
maternità.
(dice
Sul
esplicitamente
“Vado a cercare i luoghi di quando ero bambino”): la scuola elementare
Leopardi
a
Monte
Mario,
la
piscina
al
Foro
Italico… Nessuna nostalgia però, niente pose proustiane: “Non mi fanno particolare effetto… Non mi viene da piangere né da scrivere una brutta poesia…” Verso mezzogiorno della mattina grigia in cui raggiungiamo il
Parco
solcano
Nemorense, i
vialetti
di
babysitter
ghiaia
come
presumibilmente schierate
in
filippine
batteria.
Nei
passeggini, i bebè del quartiere Trieste si fanno sentire, fanno dei loro discorsi a voce alta, un po’ come le badanti dell’est, che si agitano al telefono mentre le vecchie badate guardano nel
vuoto.
Qualche
nonno
volontario
rischia
il
colpo
della
strega spingendo il nipotino sull’altalena. La vita pare scorrere pacatamente entro il perimetro del parco e fuori. Le signore in età
con
la
messa
in
piega
fresca
si
appoggiano
al
bastone
parlando dei casi altrui o delle funzioni più utili di un robot da cucina. Un ragazzo spiritato, con la chioma rasta, intanto corre spingendo un carrello vuoto lungo via Nemorense, e sorride, chissà a chi e perché.
Il Parco Nemorense il parco della mia infanzia, dice Moretti: “Ripenso a quand’ero bambino, mi viene in mente anche una poesia da scrivere.”
Forse
è
possibile
raccontare
un
film
come
Aprile
solo
attraverso un inventario, un’enumerazione. A cinque anni da Caro diario, Moretti riprende da lì il filo: i tre capitoli del film del ’93 vengono moltiplicati, una somma di segmenti narrativi produce il racconto di tre anni di vita del regista e dell’Italia. Dai risultati elettorali del marzo ’94, con la prima vittoria di Berlusconi (e seduto davanti al televisore accanto a sua madre Agata, Moretti decide di farsi una canna) all’estate del ’97, con Nanni che compie quarantaquattro anni e si interroga sul tempo
che
resta.
In
mezzo,
le
cose
che
accadono
e
che
passano, nello spazio pubblico e in quello intimo, privato. In che
rapporto
stanno,
l’uno
e
l’altro?
C’è
una
relazione,
un’influenza reciproca? A queste domande sembra rispondere Aprile, mentre racconta il trionfo di Forza Italia (“È andata così” dice Moretti. “È andata male” precisa sua madre), con Emilio
Fede,
allora
direttore
del
Tg4,
in
preda
alla
commozione; la manifestazione milanese sotto la pioggia del 25 aprile di quell’anno (“Ombrelli, ombrelli e ombrelli”); la campagna
elettorale
del
’96,
la
debolezza
di
una
sinistra
(“D’Alema, rispondi, di’ qualcosa di sinistra!”) che comunque va al governo con Romano Prodi… Il regista pensa con insistenza, spinto da un fastidioso senso del
dovere,
a
un
documentario
sull’Italia,
sulla
politica,
raccoglie materiali, acquista tutti i giornali possibili, ritaglia con ossessività articoli per archiviarli in cartelline specifiche (“polemiche
inutili”,
“maleducati”,
“personaggi
orrendi”),
colleziona le copertine dell’Espresso di allora, con le donne svestite, dialoga con i suoi collaboratori e si distrae pensando al film che insegue da anni, un musical surreale in costume, ambientato
negli
anni
cinquanta
con
protagonista
Silvio
Orlando nei panni di un pasticcere trotzkista. Il set è – tra verde e rovine – su viale di Porta Ardeatina, ma le riprese si interrompono subito.
Un musical surreale in costume, ambientato negli anni cinquanta con protagonista Silvio Orlando nei panni di un pasticcere trotzkista. Il set è – tra verde e rovine – su viale di Porta Ardeatina, ma le riprese si interrompono subito.
La maggiore e più potente “distrazione” per Moretti non viene
dalla
vita
gravidanza Aprile
della
1996:
comizi
dei
imminente
pubblica moglie
mentre
politici,
la
Silvia
vorrebbe sui
scompiglia
sconosciuta,
italiana:
o
con
Il
a
che
la
il
attenzione
è
è
con
di
della
preso
come
la
Pietro.
concentrarsi
vento
regista
fare
nascita
dovrebbe
sondaggi,
tutto.
sua
e
ha
sui
paternità
da
un’ansia
risucchiata
da
“eliminatorie” e “quarti di finale” per scegliere il nome del nascituro,
dai
suoi
abitini
(con
particolare
attenzione
–
ovviamente! – per le scarpe), si immedesima nei dolori del travaglio, improvvisa all’ospedale Fatebenefratelli un sit-in a favore
dell’epidurale,
subito
arginato
dal
personale
infermieristico… E la notte della vittoria di Prodi, mentre per le strade di Roma sfrecciano automobili in festa, sventolando le bandiere della vecchia Quercia o dell’Ulivo, lui trionfante sulla solita Vespa esulta: “Quattro chili e duecento grammi!” Il peso del figlio: in senso concreto e in senso figurato. Il peso, cioè,
di
un
modifica
figlio
la
–
nostra
e
dell’essere
percezione
diventato
del
mondo?
padre. È
un
Quanto continuo
passaggio, anche brusco, dai minuscoli ovvero enormi fatti che ci riguardano da vicino a quelli che riguardano una nazione o il mondo, dai primi bagnetti di Pietro alle preoccupazioni per ciò che sarà da grande (“Noi gli proibiremo di fare l’attore!”), dalla
patetica
dichiarazione
proclamata
da
immigrati
albanesi
indifferente
Bossi
dei
di
sul
fiume
al
largo
dirigenti
indipendenza Po
allo
di
politici,
della
sbarco
Brindisi,
dalla
Padania
disperato
di
nell’assenza
notazione
su
quegli
stessi dirigenti di sinistra cresciuti davanti a Happy days al piccolo
comizio
Speakers’
improvvisato
Corner
di
Hyde
dal
Park,
regista sul
a
Londra,
modello
nello
scolastico
dell’Emilia-Romagna… Ogni cosa si mescola e si aggrega, non c’è soluzione di continuità, nel film come nella vita. Quali sono le cose importanti? A un amico che gli rimprovera di non fare film da troppo tempo, Moretti risponde: “Sono successe cose più importanti.” Tutto
ciò
che
ricordiamo
e
tutto
ciò
che,
per
fortuna,
dimentichiamo. Forse Aprile è anche un film su questo? Sulla memoria degli eventi privati, che si incidono per sempre in noi, e sull’oblio dei fatti pubblici, che alla lunga evaporano, si dissolvono? E tutto ciò che sentiamo, sogniamo, temiamo dove resta impresso? Un progetto che la mente insegue per anni,
una
domanda
risposta,
sulla
nostra
l’improvvisa
stessa
voglia
di
infanzia
litigare
che
rimasta sale
senza
dopo
una
delusione politica, il tentativo di trovarsi pronti a un evento per cui nessuno può essere pronto, le notti insonni, un metro che possa misurare il tempo che ci resta, tutto si confonde (“Mi è rimasta un bel po’ di confusione” confessa Moretti verso il finale), e i ritagli di giornale, tracce di rabbie passate, infine volano e si perdono. Moretti se ne libera, “Via, tutto via!”, li lancia dalla Vespa in corsa, lanciando sé stesso verso qualcosa di buono, di meglio: “Devo filmare quello che mi piace, non le cose
brutte.”
Indossa
una
mantella
nera
invernale
che
non
aveva avuto mai il coraggio di indossare e, come Batman in sella a un motorino, corre lungo la Panoramica, alle pendici di Monte Mario, per salvare il sogno del film che davvero aveva voglia
di
fare.
Quello
sul
pasticcere
trotzkista
negli
anni
cinquanta: mentre tutti sono per Stalin, lui è per Trotzkij, e per questo è isolato e calunniato. Solo nel suo laboratorio, spiega Moretti, “tra le sue paste e le sue torte è felice, e dimentica, e balla”. Così l’intera troupe, sulle note di una musica dal ritmo contagioso,
dimentica
e,
come
spesso
accade
nei
film
di
Moretti, balla. P.S.
Fra gli episodi tagliati al montaggio, ce n’è uno molto
romano – esilarante – ambientato nel quartiere Prati: Il grido d’angoscia
dell’uccello
predatore.
Moretti
passeggia
lentamente all’angolo fra viale Angelico e viale delle Milizie e introduce il grande problema che grava, in autunno, sulla zona: gli storni. Dal balcone di casa di un’amica, la visione ricorda quasi
gli
uccelli
del
film
di
Hitchcock.
Un
improbabile
esperto, interpretato dal regista Carlo Mazzacurati, armato di megafono,
è
lì
per
allontanarli
emettendo
un
suono
inquietante, con risultati modesti. Il passaggio fa pensare a un ribaltamento comico del capitolo che Italo Calvino dedica agli storni nel suo ultimo libro, Palomar. Il signor Palomar osserva quasi estasiato la collettiva geometria del loro volo: “Nell’aria viola del tramonto – scrive – egli guarda affiorare da una parte del
cielo
un
pulviscolo
minutissimo,
una
nuvola
d’ali
che
volano.” Sembra così dimenticare le conseguenze più concrete che letteralmente piovono su balconi e strade. pdp
IL CAIMANO (2006)
Flaminio | Prati | EUR
“È sempre il tempo di fare una commedia!”
E se fosse soprattutto un film d’amore? Se il discusso film su Silvio Berlusconi, Il Caimano, fosse soprattutto un racconto sull’amore, sull’inadeguatezza, sul sogno di famiglia? C’è una scena
–
notturno
arriva del
inattesa
resto
del
e
ha
film
un
–
colore
che
meno
funziona
cupo,
come
meno
una
spia
luminosa. Bruno (Silvio Orlando) e Paola (Margherita Buy) sono
in
macchina
sul
lungotevere
Flaminio
verso
Monte
Mario, hanno appena firmato la loro separazione e si ritrovano accanto,
ciascuno
nella
propria
macchina,
si
salutano,
si
guardano, si sorridono, tutto sommato ancora complici, ancora legati. In sottofondo, le note di Damien Rice, The Blower’s Daughter, che spezzano il cuore raccontando la difficoltà di un addio. È un film in cui si aprono spesso piccoli spazi così: di vita intima, gesti minimi, di vita familiare che va in frantumi e per vie inaspettate si ricompone, riprende fiato e calore. La città è più sfumata del consueto, appare per lampi, bagliori veloci, non si fa in tempo a mettere a fuoco i luoghi che subito il racconto corre via, altrove. C’è l’Archivio di Stato, all’EUR, che diventa l’esterno del Palazzo di Giustizia, dove il Caimano sarà processato; c’è, in quei dintorni, una scena notturna con qualcosa di felliniano, stavolta sì: quando i camion della produzione attraversano la via
Cristoforo
Colombo
per
raggiungere
il
set
di
un
film,
appunto, su Colombo. C’è una trattoria nei pressi di Santa Maria Maggiore e un albergo di lusso con piscina, in alto su piazza della Repubblica.
Bruno e Paola camminano lungo il porticato dell’Auditorium Parco della Musica, si fermano davanti alla libreria mentre lui cerca di convincerla ad avere una parte nel nuovo film.
Ma la vita privata di Bonomo, produttore in disgrazia che cerca di recuperare terreno, è spostata verso il quartiere Prati. Dopo
una
crisi
di
gelosia,
Bruno
si
mette
a
correre
sul
lungotevere, passa da via Cola di Rienzo, corre fino a casa, la casa che era stata loro, e decide di distruggere il maglione azzurro che aveva regalato a sua moglie. In un’altra scena, Bruno e Paola camminano lungo il porticato dell’Auditorium Parco della Musica, si fermano davanti alla libreria mentre lui cerca di convincerla ad avere una parte nel nuovo film. Così, la scena del lungotevere Flaminio, naturale e toccante, rende più evidente l’uso che di Roma fa Moretti nel Caimano: la lascia sparire dietro le vicende, come Ancona nella Stanza del figlio, dà la sensazione che abitare fino in fondo un luogo è anche o soprattutto dimenticarsene, non vederlo più. D’altra parte, ciò che abbiamo dentro non pesa forse di più di ciò che vediamo fuori, intorno? Mentre le foglie dei platani sembrano impegnate a cambiare colore, e a trattenere la bellissima luce di fine ottobre, uomini in età si concentrano nelle partite a tennis nei circoli sportivi. Non è domenica, ma sul lungotevere passa sempre qualcuno che
fa
jogging,
imponenti.
C’è
passano
una
ragazze
strana
quiete
esili a
trascinate
quest’altezza
da di
cani
Roma,
un’aria distesa come le chiacchiere delle studentesse all’uscita da scuola, indossano i leggins come una divisa e gesticolano parecchio.
Per
una
di
loro,
sull’asfalto,
davanti
a
un
parcheggio di motorini, qualcuno ha scritto con una vernice bianca ormai un po’ scolorita: Le maree seguono il ritmo della luna, il tuo sorriso dà ritmo al mio cuore. Ecco cos’è quel che si dice un quartiere residenziale! A tratti il silenzio è quasi eccessivo nell’ora
dopo
pranzo, le
guardie giurate davanti alle banche ci provano eternamente con le ragazze in pausa sigaretta. Verso piazza Mazzini passano a frotte
giovani
aspiranti
e
avvocati
più
agé
e
aspiranti
urlano
al
attrici,
telefono
quelle “Ciao
non
più
tesoro”
e
organizzano aperitivi allo Zodiaco, in cima a Monte Mario. Roma ha da queste parti tratti boscosi, la cinepresa di Moretti li coglie: dal finestrino dell’auto di Margherita Buy c’è un gran verde, quasi fosse uscita dalla città. Su via Cola di Rienzo, dove il personaggio di Paola abita, lo shopping è eterno, come i perdigiorno sulle panchine, sempre abbastanza squallidi e
circospetti.
Uomini
minuti,
forse
indiani,
spolverano
libri
italiani ingialliti sui banchi dell’usato. Come un’apparizione, ne troviamo uno di saggi sul cinema di Moretti, sul suo “sguardo morale”. Il testo sul Caimano insiste
sull’impegno
politico,
sulla
volontà
del
regista
di
togliere la maschera a Berlusconi, interpretandolo lui stesso. Viene ancora da pensare che no, non sia soprattutto un film su Berlusconi
–
Berlusconi;
o
e
la
che
storia gli
del
tentativo
scatenati
di
detrattori
fare
un
politici
film del
su
film
abbiano perso di vista l’essenziale. La storia di un produttore in difficoltà, uno che aveva fatto fortuna con B-movie splatter tardivamente rivalutati dalla critica, e del suo incontro con l’imprudenza della giovinezza. Ovvero con la ragazza regista, Teresa
(Jasmine
raccontare
la
Trinca), scalata
intestardita
finanziaria
nel e
suo
obiettivo
imprenditoriale
di di
Berlusconi. C’è il film nel film, quindi, e il racconto – come già in Aprile – dell’inseguimento di un’idea, che deve tradursi in immagini (in Aprile la storia del pasticcere trotzkista, qui quella del Caimano, con valigie cariche di soldi che cadono dal cielo e sfondano il soffitto). Ma su tutto c’è, ancora una volta, il rapporto tra ciò che accade
fuori
–
il
paesaggio
dell’attualità
e
della
Storia,
il
paesaggio in genere – e ciò che accade dentro. Dentro Bruno Bonomo,
in
questo
caso:
nel
suo
faticoso
tentativo
di
riconquista. Di sé, di un’intimità familiare, di una passione messa a dura prova. Moretti entra con complicità e delicatezza in questo cantiere emotivo – e il difficile film su Berlusconi è solo uno dei fantasmi che agitano le sue giornate. Quelli più frastornanti hanno a che fare con ciò che ha perso, o sente di avere perso, con la solitudine, con l’essere doppiamente padre – un po’ goffo, di due bambini, sì, ma anche (e altrettanto goffo) di un progetto, di un progetto altrui. Che, rimettendo in moto la sua vita, la complica terribilmente.
È un film in cui si aprono spesso piccoli spazi così: di vita intima, gesti minimi, di vita familiare che va in frantumi e per vie inaspettate si ricompone, riprende fiato e calore.
pdp
HABEMUS PAPAM (2011)
San Pietro | Borgo Pio | Prati
“In questo momento, la Chiesa ha bisogno di una guida che abbia la forza di portare grandi cambiamenti, che cerchi l’incontro con tutti e che abbia per tutti amore e capacità di comprensione. Chiedo perdono al Signore per quello che sto per fare e non so se Lui potrà perdonarmi…”
È difficile ricordare, per un romano, quando ha visto per la prima
volta
il
colonnato
di
San
Pietro.
È
difficile
come
ricordare la prima vista del mare in una città di mare. La cupola – o “cupolone” – progettato da Michelangelo, la piazza disegnata
da
Bernini
con
le
sue
quasi
trecento
colonne,
i
centoquaranta santi che le sovrastano, sono formalmente in un’altra città, anzi in un altro stato, ma Roma non sarebbe Roma
senza
questa
enorme
piazza,
senza
il
suo
largo
abbraccio. Habemus papam comincia naturalmente qui, con la camera fissa sulla splendida facciata della basilica realizzata da
Maderno
all’inizio
del
Seicento:
dal
grande
balcone
centrale, la Loggia delle Benedizioni, si affaccia il papa nelle occasioni più solenni, compresa quella in cui si presenta ai fedeli
subito
dopo
essere
stato
eletto.
Le
immagini
di
repertorio riportano ai giorni della morte di Giovanni Paolo II, nell’aprile
del
commozione
2005:
della
popolarissimo
e
le
folla
durato
lunghe
veglie
per
fine
la
quasi
di di
trent’anni;
preghiera, un e
la
pontificato quel
vento
inclemente, furioso, il giorno dei funerali, che sfogliava una Bibbia aperta sulla bara di legno semplice e faceva volare gli zucchetti dei cardinali. Il film ruota intorno a un paradosso, che oggi non sembra più tale: la Loggia delle Benedizioni che resta vuota. Fra le tende rosse, aperte come un sipario, non appare nessuno. Il nuovo papa non si affaccia. Si ritrae, rinuncia. Sembrava un apologo quasi surreale sull’inadeguatezza; è stato riletto, dopo le dimissioni di Benedetto XVI nel febbraio 2013, come una profezia. Certo è che le parole con cui nel film il cardinale Melville, neoeletto papa, comunica ai fedeli la rinuncia sono simili
in
modo
impressionante
a
quelle
che
avrebbe
usato
Joseph Ratzinger per annunciare il proprio ritiro: “In questo momento, la Chiesa ha bisogno di una guida che abbia la forza di portare grandi cambiamenti, che cerchi l’incontro con tutti e che abbia per tutti amore e capacità di comprensione. Chiedo perdono al Signore per quello che sto per fare e non so se Lui potrà perdonarmi…” Così, l’invenzione (o profezia involontaria) di Moretti è tutta giocata sulle premesse di questo gesto eclatante, sul papa che non vuole e non riesce a essere papa, va in analisi (il primo analista, il professor Brezzi, è interpretato da Moretti), esce in
abiti
civili
dal
Vaticano
per
raggiungere
un’altra
analista
(Margherita Buy), sale in tram, va a dormire in un albergo in cui alloggia anche una compagnia di teatro alle prese con le prove del Gabbiano di Cechov. E proprio in un teatro il papa riluttante sarà costretto a tornare in Vaticano dall’assedio dei cardinali. Gli itinerari del film sono dunque in gran parte “fuori le mura” vaticane: è proprio seguendo il percorso del papa che si finisce lontani da San Pietro. D’altra parte, se una scena nei Giardini Vaticani è in realtà ricostruita in una villa viterbese, il cortile interno della residenza papale è il cortile del bellissimo Palazzo
Farnese.
Lo
studio
dell’analista
è
nell’elegante
via
Ricciotti del quartiere Prati, quasi all’incrocio con quella via Settembrini amata da gente di cinema e di televisione (la sede Rai
è
poco
distante,
su
viale
Mazzini)
per
gli
aperitivi.
È
comunque nel quartiere Prati che il papa prova a svincolarsi dal controllo delle guardie del corpo: via Fabbri; un cortile di viale
Mazzini.
A
Trastevere
invece,
su
piazza
Trilussa,
si
ferma davanti a un’edicola per leggere sgomento i titoli dei giornali che lo riguardano; in una piccola chiesa quasi vuota di via
di
Santa
Dorotea
si
ferma
ad
ascoltare
la
messa.
Un
colloquio fra il portavoce e il pontefice si svolge fra le rovine del Foro di Augusto, in una mattinata di sole. La surreale partita
di
pallavolo
che
lo
psicanalista
Brezzi
organizza
coinvolgendo i cardinali in un cortile del palazzo pontificio è in realtà girata nel cortile interno di Palazzo Farnese.
È proprio seguendo il percorso del papa che si finisce lontani da San Pietro.
Nel
Teatro
Valle
–
il
più
antico
della
città,
nel
rione
Sant’Eustachio: fu inaugurato nel 1727 – è ambientata la scena in
cui
i
cardinali,
come
un
piccolo
esercito,
braccano
finalmente il papa per riportarlo in Vaticano. Nelle cronache degli
ultimi
striscioni questa
anni,
danno
via
artigiane
e
avverte
un
Valle
ancora
stretta di
il
ed
è
stato
conto
(Si
cartello).
“teatro
occupato”:
dell’esperienza,
elegante,
“sediari”
il
di
gallerie
impagliano
Arriviamo
al
spiccano
d’arte,
sedie
gli
di
Valle
in
botteghe ogni
da
tipo
piazza
Sant’Eustachio dopo aver bevuto un caffè – già zuccherato, un euro e venti – nella storica torrefazione (sta lì dal 1938 e vanta avventori come Kissinger) sempre affollata anche di politici (il palazzo
del
Senato
è
a
due
passi),
e
dopo
essere
finiti
nell’inquadratura di un turista giapponese. Nel foyer del Valle, mentre passiamo, danno una partita dei Mondiali di calcio, ma il collegamento wi-fi cede e lo schermo si blocca su un’azione fondamentale. Ci fermiamo a parlare con un “sediaro”, è di pessimo umore, dopo qualche minuto già assicura che non ha intenzione di passare al figlio il mestiere. Mettere
bottega,
dice, è una condanna a vita: eppure c’è passione sotto la scorza burbera,
viene
pazienza,
lo
fuori
stupore
quando che
lui
racconta
stesso
prova
la
precisione,
di
fronte
a
la
certi
portacappelli creati da suo padre. Ma questa bottega finisce con me, ripete, e inveisce contro Equitalia. Raggiungiamo
a
piedi
Ponte
Sant’Angelo,
sempre
affollatissimo: spiccano due sposi; mentre il fotografo li guida, li posiziona, i turisti intorno hanno già cominciato a scattare. La luce del tardo pomeriggio riveste con la sua cera la vista dal ponte. L’arrivo sull’enorme piazza della basilica è preparato dall’infittirsi di negozi a tema religioso: in uno si nota una tshirt blu in vetrina, il “papa venuto dalla fine del mondo” disegnato come un supereroe. È buffo pensare che nel film di Moretti
veniva
sudamericano tassisti
poco
evocato
della mistici
anche
Storia.
Sul
un
possibile
largo
commentano
il
intitolato sedere
di
primo a
papa
Pio
una
XII,
turista
bionda letteralmente cotta dal sole, mentre si alza quel vento romano che sembra esistere solo nei proverbi e nelle canzoni – e invece esiste. I santi che svettano sul colonnato della piazza sembrano una folla di gente ibernata in un sovratempo, in qualcosa che in effetti somiglia all’eternità. I turisti si siedono sulle gradinate basse, si tolgono i sandali e leggono a voce alta
le
indicazioni
della
guida
ad
accompagnatori
distratti,
o
distrutti. Appena oltre il colonnato ci si infila in quel piccolo paese ancora verace che è Borgo Pio: fra quei vicoli ancora al riparo
dai
locali
più
turistici,
i
cardinali
neozelandesi
di
Habemus papam vorrebbero fare colazione, ispirati dalla fama intercontinentale delle bombe alla crema.
Il Teatro Valle, il più antico della città, nel rione Sant’Eustachio: fu inaugurato nel 1727.
Nel Teatro Valle è ambientata la scena in cui i cardinali, come un piccolo esercito, braccano finalmente il papa riluttante per riportarlo in Vaticano.
Un
vecchio
papa
appena
eletto,
vestito
come
un
uomo
qualunque, se ne va a piedi per le vie di Roma. A piazza Augusto
Imperatore
si
ferma
ad
ascoltare
una
cantante
di
strada che intona Todo cambia di Mercedes Sosa. Sale su un autobus, parla da solo. Le luci sul lungotevere all’altezza di piazza
Cavour
–
è
notte
–
fanno
disegni
strani
fuori
dal
finestrino. Una città! Il suo movimento, il suo segreto: c’è qualcosa di misterioso e perfino struggente, nell’inquadratura in movimento. L’uomo parla da solo, gli altri lo guardano con pietà o alzando le spalle. E lui ha questo viso aperto e gentile di Michel Piccoli, ha gli occhi piccoli, arresi, dolci. Bisbiglia le
prime
parole
disorientati
da
l’inestimabile
del
discorso
quel
soglio
fortuna
che
dovrebbe
vuoto:
di
“Noi
credere,
tenere
tutti
abbiamo
ai
che il
fedeli
abbiamo
dovere
di
conoscere, di capire le cose… ma da un po’ di tempo la nostra Chiesa ha difficoltà a capire le cose.” Se il neoeletto Melville – il cui nome rinvia a una novella dell’autore
di
Moby
Dick,
Bartleby
lo
scrivano,
con
quell’insistente, ossessivo “Avrei preferenza di no”, si sottrae al
ruolo
assegnato
–
così
fanno
in
qualche
modo
pure
i
cardinali. Meglio: si distraggono dal ruolo, e per ingannare l’attesa si abbandonano a un improbabile torneo di pallavolo arbitrato dallo psicanalista Brezzi (Moretti). colorata,
un
tenero
e
scanzonato
inno
L’invenzione
alle
cose
è
(quasi)
impossibili. Non è quasi impossibile che un papa rinunci al suo
incarico?
Non
è
quasi
impossibile
che
un
papa
possa
confidarsi con uno psicanalista? Non è quasi impossibile che i cardinali palazzo partita
si
mettano
apostolico? viene
a
giocare
Quando
sospesa,
lo
il
a
pallavolo
portavoce
psicanalista
li
resta
nei
cortili
richiama
del e
la
profondamente
deluso: “Ragazzi, non scherzate, fermatevi, non potete fare questo.
Dobbiamo
giocare
le
due
semifinali
e
poi
le
due
vincenti…” Così, i cardinali tornano in parte, rientrano nel ruolo: Moretti insiste ancora sul rapporto fra ciò che siamo, possiamo
essere,
e
ciò
che
dobbiamo
–
anche
molto
seriamente – “recitare”. “E poi per me lei è un’astrazione, non riesco a vedere una persona, vedo solamente il papa” confida Brezzi al neoeletto Melville. E ancora: “Ma lei lo vuole fare il papa?”
Il rimando al teatro è continuo, in Habemus papam: nella messinscena della guardia svizzera che, papa assente, muove le
tende
dell’appartamento
per
rassicurare
i
fedeli;
e
soprattutto nell’antico sogno teatrale del cardinale Melville. Voleva fare teatro (come Wojtyla, grande papa teatrale), non ci è riuscito e adesso che gli tocca la parte più importante, niente, non si sente pronto. È infine in una sala teatrale che i cardinali e
le
guardie
svizzere
lo
sorprendono
e
praticamente
lo
costringono a tornare in Vaticano. C’è una scena molto intensa: il papa, in abiti borghesi, è a tavola con la compagnia di attori impegnata nel Gabbiano di Cechov. Alle parole della cena si sovrappongono le battute del testo di Cechov: ciascuno ha il suo ruolo, ciascuno recita la sua parte nel mondo e sulla scena (sulla scena del mondo), ma non il papa, non quel papa spaesato che ha disertato il suo palcoscenico. Non a caso più volte le tende rosse della finestra su piazza San Pietro le vediamo sbattere per il vento come un sipario aperto da cui nessuno si affaccia. “Quel teatro – dice il personaggio
Medvedenko
nel
Gabbiano
–:
sta
lì,
nudo,
informe, come uno scheletro, e il sipario sbatte per il vento. Quando
ieri
sera
ci
sono
passato
accanto
mi
è
parso
che
qualcuno là dentro piangesse.” Fa una grande impressione ripensare Habemus papam alla luce del Gabbiano: non è forse quello di Cechov un dramma sull’inadeguatezza? “Non potete capire la condizione di chi sente che sta recitando in modo orrendo.” E ancora: i sogni disillusi, la capacità di sopportazione (ancora Cechov: “la cosa più importante non è la gloria, non è lo splendore, non è ciò che
io
sognavo,
bensì
la
capacità
di
sopportazione.
Sappi
portare la tua croce e credi”). Il rischio di impazzire, come il pazzo di Gogol’ citato nel Gabbiano, come l’attore nel film di Moretti
portato
via
dall’ambulanza,
per
troppa
immedesimazione nella parte. “Cammino
sempre
e
penso,”
dice
il
personaggio
Nina
ancora nel Gabbiano – e così il papa di Moretti ha bisogno di camminare (“Ho bisogno di camminare un po’” spiega al suo portavoce,
già
molto
in
allarme).
Ha
bisogno
di
ricordare
qualcosa: le presenze della sua vita che, come in un incubo da sveglio, vede allontanarsi e sparire – e insieme accettare di dimenticare tutto.
È
un
film
che
ha
spiazzato
molti
fan
di
Moretti,
quasi
quanto La stanza del figlio, che si concentrava su un indicibile dolore familiare. In modo più radicale che nel Caimano o in altri film,
tuttavia, Moretti è tornato in Habemus papam a
parlare dell’inadeguatezza alle aspettative altrui, del non poter essere/non poter fare. Sceglie una via che, nel 2011, appariva estrema,
se
non
surreale:
un
papa
rinunciatario.
Gli
eventi
successivi hanno ripiombato il film nella realtà, restituendolo – più che a un ambito profetico – a una disarmante verità storica. Presagita, poetici:
certo,
gli
conquistata
unici
in
grado
involontariamente, di
spingere
con
perfino
un
mezzi ateo
a
immedesimarsi nell’angoscia dei cardinali riuniti in conclave nella Cappella Sistina. Quando sulla loro testa grava l’ipotesi di essere scelti, l’eventuale ambizione si sbriciola sotto il peso della paura di non essere all’altezza. “Non io. Ti prego. Non io, non io…” implora il cardinale Cincotta. E Moretti ci fa sentire i pensieri di tutti gli altri – atterriti, disarmati –, lascia che si sovrappongano come onde sonore, voci di un coro da tragedia sull’inadeguatezza. Si
può
segnato?
fuggire
da
Melville
ci
confonde nella folla,
sé
stessi,
prova,
da
sveste
si lascia
un gli
trattare
ruolo, abiti male,
da
un
“di in
destino
scena”,
si
un caffè
di
Trastevere, da un barista che non vede, non può vedere in lui il papa, si lascia soccorrere dalla commessa di un negozio, come un anziano qualunque, si lascia interrogare docilmente da una psicanalista sui traumi infantili, sulle possibili conseguenze di un “deficit di accudimento”. Prova a far perdere le tracce di sé, sfuggendo al controllo dei gendarmi che presidiano il quartiere Prati – via Fabio Massimo, via Cola di Rienzo, il cinema Eden –,
si
nasconde,
si
nega:
“Abbiate
pazienza,
vi
prego,
ho
bisogno di tempo… Adesso devo ricordare tante cose della mia vita, cose che ho dimenticato.” pdp
MIA MADRE (2015)
Gianicolense | Flaminio | Prati Africano | Monteverde
“In questo posto sono tutti troppo intelligenti, ci vorrebbe qualcuno un po’ più scemo per risollevare un po’ il morale.”
È
quasi
innaturale
accostare
senza
una
ragione
precisa
questo vasto condominio dell’attesa, presidiato dai pini, che quasi lo schermano, lungo un tratto di Gianicolense. Venne su negli anni del fascismo, una lapide all’interno ricorda che fu edificato in ventiquattro mesi per volere di Mussolini e per via della
furiosa
dell’ospedale
epidemia San
di
spagnola.
Camillo-Forlanini,
Il
con
corpo i
centrale
suoi
toni
fra
arancio e rosa, le torrette e i lampioncini liberty rimanda subito a
quei
tardi
riaggancia
anni
al
venti.
presente,
La
luce
così
al
come
neon
l’aria
lungo
i
corridoi
concentrata,
tesa,
anche stravolta, di chi entra o esce, senza guardarsi intorno – un mazzo di fiori in mano, la busta con la biancheria, i fogli di impegnative o analisi. Chi aspetta il tram 8, appena oltre i cancelli,
seguita
a
parlare
di
casi
di
salute,
sospeso
fra
ottimismo e rassegnazione. Da un luogo come questo la città non esiste, è un intralcio, una ridondanza inutile. Qualcosa
di
superfluo,
come
diventano
per
i
fratelli
Margherita e Giovanni – nel film Mia madre – i rispettivi mestieri. Lei regista, lui ingegnere. Il cuore del racconto e del tratto di esistenza che Moretti porta sullo schermo è tutto in una stanza di questo ospedale: il fascio di luce tenue, sbiadita che entra dalla finestra della stanza dove la signora Ada è ricoverata,
certifica
Nient’altro.
Così
caso
del
solo
ogni
che
Roma,
ospedale
Fatebenefratelli,
sul
è
fuori,
un’isola:
Tevere,
c’è
ancora.
raddoppiata
fondale
di
un
nel
evento
gioioso – la nascita del figlio – in Aprile. In ogni caso, un tempo
diverso,
di
attesa,
che
esclude
tutto
il
resto:
per
Margherita e Giovanni, più si avvicina il momento del distacco dalla
madre,
più
si
annebbia
tutto
il
resto,
il
flusso
e
il
movimento del presente. Quello che in realtà non si è mai interrotto,
e
continua
tuttora.
La
vita
della
città,
il
chiacchiericcio sul tram, gli appuntamenti per la cena, i “daje” e
gli
“scialla”,
che
a
tendere
l’orecchio
intercetti
davvero,
insieme alle lamentele sul freddo di una signora in pelliccia.
Una scena a metà fra sogno e veglia, Montecitorio, davanti al Capranichetta.
in
piazza
Intanto, Bianco,
volendo
la
alzare
nuvolaglia
si
gli
è
occhi
fatta
all’altezza
rossiccia,
la
del
luce
Ponte
è
calata
all’improvviso, nell’ospedale è già ora di cena. Fra le prime scene del film, ce n’è una che mostra Margherita indecisa su cosa portare alla madre, dentro una rosticceria in via dei Colli Portuensi. È sera – e l’intero film si sviluppa più su scene notturne
che
accadere,
diurne.
accade
Tutto
di
sera,
ciò
che
di
di
notte,
più
o
importante
di
mattina
deve
presto.
L’incontro della regista Margherita con il protagonista del suo film (interpretato da John Turturro), un percorso in macchina per le strade di Roma con l’attore su di giri che si affaccia al finestrino dell’auto e grida una serie di nomi di grandi registi italiani, la cena che segue in un ristorante ai Parioli; l’ultima scena del film – di notte, in una piazza Mancini deserta –, un teso
confronto
ancora,
una
di
Margherita
scena
a
metà
con
fra
il
proprio
sogno
e
compagno
veglia,
in
e
piazza
Montecitorio, davanti al “Capranichetta” cinema riconvertito a sala convegni: Margherita è come assediata dalla propria vita, il
fratello
la
invita
a
riconquistare
leggerezza.
Ma
il
lutto
incombe, incombe l’orfanezza. La notizia della morte della signora Ada arriva di notte. La nipote ragazzina si gira nel letto e piange. Poi, accanto al padre, si affaccia da una terrazza che
dà
sulle
strade
del
quartiere
africano:
le
luci
di
viale
Somalia, la tangenziale in lontananza. Il cielo si schiarisce appena,
in
prossimità
naturalmente,
ed
è
notte
dell’alba. quando
È la
notte casa
di
negli
incubi,
Margherita
–
ricostruita a Monteverde vecchio, via Maurizio Quadrio – si allaga; deciderà di trasferirsi nella casa della madre, in via Crescenzio. L’esterno non si vede mai, ma si intravede uno di quei
grandi
cortili
piuttosto
dimessi
che
puntellano
questa
strada in leggera pendenza dalla Mole Adriana verso piazza Risorgimento. Austera e quieta, al riparo dallo shopping di via Cola
di
Rienzo,
ha
questa
schiera
di
massicci
palazzi
umbertini, gialli o rossicci, con vecchie portinerie. Attraversata da vie che portano i nomi di poeti latini, si svecchia all’altezza di locali alla moda e per via delle Smart che la percorrono in eterna ricerca di parcheggio.
MARGHERITA: Vittorio mi ha detto delle cose tremende su di me. GIOVANNI: E come osa? MARGHERITA: Mi ha detto delle cose terribili sui miei rapporti con gli altri. Poi io ci ho pensato eh?! Erano così esatte, così giuste.
C’è un filo che lega Mia madre al Caimano, alla parte più intima di quella storia – la difficoltà di tenere insieme quello che facciamo, o che proviamo a fare, e quello che sentiamo, quello che ci accade nella vita cosiddetta privata. Ma è un tema che riporta anche alla Stanza del figlio, e ancora indietro, ad Aprile e a Caro diario. Il “privato” invade il resto della vita di
Margherita
e
Giovanni,
proprio
come
l’acqua
invade
i
pavimenti della casa di lei, non ci si può opporre. La morte della madre, per i due fratelli, è un fatto inaccettabile. Lui, ingegnere, si prende un periodo d’aspettativa che durerà per sempre. Lei, regista, sta girando un film sul tema del lavoro che
forse
non
riuscirà
a
finire.
Cercano
in
ogni
modo
di
rassicurare la madre e, forse, di rassicurarsi. Ada era stata una grande insegnante. “Di vita,” come dice un suo ex alunno nel film.
E
la
sua
casa,
piena
dei
suoi
libri
ma
adesso
così
silenziosa, sembra preparare i figli all’assenza. La casa, ci ha spiegato
Moretti,
può
essere
considerata
quasi
una
protagonista del film. Torna in mente il diario tenuto da Roland Barthes nei giorni della morte della madre (è stato pubblicato con il titolo Dove lei non è): “Tutto scoppia” annota lui testualmente, cita Proust che
scrive
a
un
amico
che
ha
perso
un
genitore:
“Lei
conserverà sempre qualcosa di spezzato.” Così tutto scoppia e allo stesso tempo continua: con più o meno certezze? Il film parla anche di questo, di molte certezze che vanno in frantumi, di altre – anche terribili – che si guadagnano. La commozione viene dalle cose, dai fatti, non è mai suggerita o pretesa, come la scena del motorino: la figlia adolescente di Margherita sta imparando a guidarlo, i genitori che prima gliel’hanno negato adesso la accompagnano e la osservano, lei così misteriosa. È un
pomeriggio
sereno
su
via
Aurelio
Saffi,
e
familiare è raccontata con una grazia rara, luminosa.
l’intimità
La figlia adolescente di Margherita sta imparando a guidare il motorino. È un pomeriggio sereno su via Aurelio Saffi.
Nella bellissima scena finale, alla madre viene chiesto a cosa stia pensando. “A domani,” risponde lei, dal suo letto di ospedale. Com’è possibile accettare il fatto di sopravvivere alla propria madre? Margherita e Giovanni sono fratelli, ma
sono
soprattutto
figli. Due figli che pendono dalle labbra dei medici che spesso usano parole strane, che non si fanno capire, che parlano una lingua
diversa
rassicurato,
da
una
quella
lingua
di
che
chi
soffre
suona
e
vorrebbe
fredda
e
essere
spietata
alle
orecchie di chi vive nell’attesa e non sa bene cosa porterà quell’attesa e perché. E tutte quelle parole strane che usano i medici, stesso
tutti
quei
concetto:
discorsi,
la
madre
non sta
fanno
altro
morendo.
che
E
ripetere
con
lei
se
lo ne
andranno il latino e il greco, gli anni di studio, e tutti quei libri letti e riletti e spiegati rimarranno chiusi e per un po’ di tempo si vestiranno solo di polvere. “Tutto questo – scriveva ancora Barthes – definisce il distacco da qualsiasi lavoro”: distacco che condivide Giovanni, che si licenzia dall’azienda per cui lavora. Moretti, qualche giorno prima che Mia madre uscisse nelle sale, in un’intervista rilasciata al Venerdì di Repubblica, aveva confessato: “Ho rivisto Un’altra donna di Woody Allen, ma non
ho
rivisto
il
film
di
Haneke,
Amour
che
avevo
sulla
scrivania. E soprattutto non ho letto Roland Barthes. Dopo la morte di mia madre un’amica mi aveva regalato Dove lei non è, il diario del lutto, che Barthes scrisse durante la malattia della madre. Quell’amica mi aveva detto che a lei aveva fatto molto bene. L’ho aperto, una pagina a caso, ho letto due righe che mi hanno fatto stare molto male e l’ho richiuso. Alla fine delle riprese l’ho tolto dalla scrivania e rimesso nella libreria. Per fortuna non avevo più bisogno di immergermi nel dolore.” Ma forse è perché certi dolori si somigliano, pur essendo lontani nel tempo e nello spazio, che Moretti, che si nasconde nei gesti, negli sguardi, nei silenzi dei due fratelli, sembra provare
le
stesse
emozioni
che
provava
Barthes
mentre
scriveva quel diario: “È assenza e dolore, dolore dell’assenza – forse dunque amore?”, “Abito la mia tristezza, e ciò mi rende felice”, “Poter vivere senza qualcuno che si amava, significa forse
che
lo
si
amava
meno
di
coraggioso, non essere coraggiosi”.
quanto
credessimo?”,
“È
pdp, gb
ROMA, MIA MADRE
Conversazione con Nanni Moretti
Per i suoi film, la scelta dei set è già definita in fase di sceneggiatura o si completa nel corso delle riprese? NANNI
MORETTI:
Scrivendo,
non
ho
presente
luoghi
specifici, così come non so (tranne qualche eccezione) quali saranno gli attori che interpreteranno i personaggi. Scrivendo, m’interesso racconto
della
(tranne
storia,
dei
quei
casi
personaggi, in
cui
dello
il
sviluppo
film
l’ho
del
scritto
direttamente mentre lo stavo girando e in cui è capitato che non ci fosse nemmeno la sceneggiatura, come per l’episodio della Vespa in Caro diario). Allora quando e in base a quale criterio sceglie i luoghi? Li
scelgo
periodo
naturalmente
che
scelgono
i
durante
precede
le
riprese;
luoghi,
cerco
di
la
si
preparazione,
scelgono
spiegare
la
gli
che
attori
mia
è e
idea
il si di
ambientazione allo scenografo, che poi vede diversi posti e me li propone. Alle volte, degli ambienti particolari possono dare una nota, un colore nuovo alla pagina che fino a quel momento era solo scritta e immaginata a tavolino. Tornando
a
quanto
diceva
poco
fa
a
proposito
di Caro
diario, lei aveva già stabilito quale itinerario avrebbe percorso in Vespa? Andavo ideale,
in
giro
ossia
con
quella
pochissime
che
considero
persone:
il
mio
la
mia
socio
troupe Angelo
Barbagallo guidava una jeep su cui era piazzata la macchina da presa;
il
direttore
della
fotografia
era
anche
l’operatore
di
macchina, poi c’erano soltanto un assistente operatore e un elettricista
che
faceva
quello
che,
in
una
troupe
normale,
avrebbero fatto quattro elettricisti e quattro macchinisti. Con questa formazione, per esempio, ho girato anche l’incontro con
Jennifer
spiritosa,
è
Beals
anche
che
in
quella
bella
(e
non
scena,
c’era
oltre
che
truccatore,
brava
non
e
c’era
parrucchiere, non c’erano luci aggiunte). Avevo un’idea vaga
dei
quartieri
in
cui
volevo
girare,
sapevo
però
che
volevo
marcare le differenze sociali e architettoniche tra un quartiere e un altro, tra un’“isola” e un’altra. Per esempio, una delle tante scene che poi ho tagliato durante il montaggio l’ho girata ai
Parioli
(quartiere
borghese
per
eccellenza),
e
mostrando
quel viale e quelle case la mia voce fuori campo rifletteva sull’inesistenza della borghesia italiana e romana. In quell’estate del ’92 stavo preparando un altro film, che poi non ho mai realizzato; trovandomi a metà agosto a Roma, ho
avuto
voglia
di
fare
un
cortometraggio
sulle
mie
passeggiate in Vespa in giro per la città, per poi proiettarlo solo al Nuovo Sacher prima di un lungometraggio. Poi ho visto il materiale girato e mi sono detto: “Ma no, io voglio fare tutto un film così!” E allora mi sono messo a scrivere altri capitoli: quello delle isole Eolie, quello della mia malattia e un altro,
che
essere
poi
non
Silvio
ho
girato,
Orlando.
l’irresponsabilità
e
la
in
Volevo
cui
il
girare
leggerezza
protagonista un
intero
mi
avevano
che
doveva
film
con
colpito
vedendo in proiezione il materiale girato e che mi ricordavano i
miei
primi
cortometraggi
in
Super8.
E
comunque,
molte
scene che avevo girato nell’estate del ’92, le ho poi girate nuovamente nell’estate successiva. Perché le ha girate di nuovo? Perché magari al primo tentativo c’era qualche automobile di troppo, le strade di Roma non erano proprio vuote. Però, per esempio, ho rigirato nel ’93 tutta la sequenza dell’Idroscalo, intorno
ai
luoghi
montaggio
ho
dove
invece
è
stato
ammazzato
preferito
le
Pasolini,
prime
riprese,
ma
al
girate
leggermente al rallentatore, che avevano una luce, un ritmo e un’atmosfera abbastanza speciali. In altri casi, ho utilizzato le riprese della seconda estate. La scena in cui attraverso piazza Mazzini l’ho girata proprio all’ora di pranzo del 15 agosto, che nel ’93 cadeva di domenica, con la città assolutamente deserta. A
proposito
pensa
di
della
averla
leggerezza
cercata
fin
di da
cui
parlava
subito,
da
poco Io
fa,
sono
lei un
autarchico? Quando
uscì
Io
sono
un
autarchico
tutti
mi
dicevano:
“Vedendo il film si capisce proprio che vi siete divertiti tanto!” In realtà durante le riprese ero molto angosciato, anche se stavo girando solo un piccolo film in Super8, che pensavo non
g
p
p
p
avrebbe visto quasi nessuno. Certamente non immaginavo che sarebbe arrivato un grande successo nel piccolo circuito dei cineclub
e
conosciuto,
dei
cinema
alcuni
d’essai.
Poi
sono
andati
film
ho
cominciato
anche
molto
a
essere
bene,
e
questo, inevitabilmente, crea aspettative, non solo negli altri ma
anche
in
te
stesso.
E
rischi
di
essere,
uso
un
termine
sportivo, “contratto”. Ecco, questa responsabilizzazione non c’era nell’episodio della Vespa, proprio perché pensavo che sarebbe
stato
un
filmino
che
avrebbero
visto
solo
pochi
spettatori al Nuovo Sacher, duemila o tremila persone. È stata una scelta naturale quella di lavorare perlopiù a Roma e di renderla riconoscibile nei suoi film? C’erano alcune costanti nei miei film (i pranzi in famiglia, le telefonate, il giocare con la palletta nella propria stanza, la scuola) e sono tutte cose che facevano parte della mia vita. Quindi,
scrivendo
una
sceneggiatura,
andavano
a
finire
naturalmente nella storia del protagonista. Lo stesso vale per le ambientazioni. In Ecce Bombo, non ho pensato di mostrare o raccontare il quartiere Prati. Era il quartiere in cui vivevo e mi è venuto naturale girare a piazza dei Quiriti o in un bar vicino a piazza Mazzini. Poi, ci sono ambienti su cui, insieme allo scenografo, ho lavorato di più, come la scuola di Bianca, la parrocchia della Messa
è
finita
e
la
piscina
di
Palombella
rossa. Mi piace lavorare e girare in un ambiente dal vero che però trasformo e utilizzo come fosse un teatro di posa. La scuola elementare Giacomo Leopardi, a Monte Mario, che ho frequentato da bambino, in Bianca è diventata il liceo Marilyn Monroe. Il refettorio dove nella realtà mangiano gli alunni della scuola lo abbiamo trasformato in una sorta di sala giochi per i professori. Per La messa è finita, non volevo una chiesa che fosse protagonista, piena di storia, troppo antica, né volevo che fosse architettonicamente troppo moderna. Cercavo una chiesa che non avesse un’immagine, un segno troppo forte, e quindi ho scelto una parrocchia che mi sembrava fosse più adatta
per
il
mio
film
e
per
il
personaggio
del
prete.
L’appartamento di don Giulio è stato creato dallo scenografo nello spazio di quello che un tempo era il cinema parrocchiale. In Habemus papam, per far giocare i cardinali, ho trasformato il cortile di ghiaia di Palazzo Farnese in due campi di pallavolo in terra rossa.
A Cinecittà ha mai girato? In Sogni d’oro lo studio televisivo del match tra i due registi è stato costruito a Cinecittà, così come l’appartamento dove io vivo con mia madre (anche se mi sono portato da casa i miei libri e la mia libreria). Per Habemus papam la facciata della basilica di San Pietro è stata costruita in esterno a Cinecittà e, in teatro di posa, la Cappella Sistina e la Sala Regia. Parliamo della scelta di uscire da Roma per Palombella rossa e per La stanza del figlio. Palombella rossa, il primo film mio prodotto dalla Sacher: avrei risparmiato molto se l’avessi girato in una piscina di Roma. Pressappoco sarebbe stato lo stesso film. Però, appunto, è in quel “pressappoco” che c’è la differenza tra un libro e un altro, tra un film e un altro. Io volevo girare e giocare quella partita, subire quella sconfitta in trasferta, volevo che Michele Apicella, pallanuotista comunista, avesse il pubblico contro, volevo che ci fosse un andare e un tornare da quel luogo. Per La stanza del figlio, ambientato ad Ancona, credo ci siano due motivi: mi sembrava di aver ormai consumato Roma, di averla inquadrata, filmata, raccontata, mostrata da tanti punti di vista; e poi, soprattutto, volevo che la storia si svolgesse in una città piccola,
non
volevo
che
questo
grande
dolore
si
perdesse
nell’anonimato della grande città, della metropoli. Volevo che Paola e Giovanni sentissero la partecipazione degli altri al loro dolore. Volevo che si sentisse una comunità intorno a loro. Con
scarsissima
autostima
gli
anconetani
mi
chiedevano
sorpresi: “Ma come mai sei venuto a girare qua?!” Ho scelto Ancona per ambientare – e in qualche modo anche nascondere e proteggere – la storia che volevo raccontare. Ho scelto una città di mare perché il mare ha a che vedere direttamente con la morte del figlio. Avevo pensato anche ad altre città. Trieste era troppo metaforica, città di frontiera, città in cui è nata la psicoanalisi
in
Italia,
troppo
carica
di
storia,
architettonicamente molto importante. La Spezia mi sembrava un po’ troppo carina e pittoresca.
Livorno l’avevo
esclusa,
perché non volevo fare invasione di campo nei confronti di Virzì.
E
insieme,
a
Genova
tante
città
mi
sembrava
diverse.
E
che
ci
fossero
nemmeno
Bari
tante o
città
Taranto
andavano bene, perché girare un film al sud avrebbe creato
negli spettatori aspettative di un film sociale, di un film sul Mezzogiorno.
Giorgio Biferali e Paolo Di Paolo con il regista sulle scale del cinema Nuovo Sacher.
Vorremmo chiederle che rapporto ha con Roma, ma in una scena di Aprile lei stesso lo chiede al giornalista Corrado Stajano e lui, alzando le spalle, risponde: “Che domande!”… Non è una battuta casuale, detta così al volo, era scritta in sceneggiatura. Talvolta anche gli appassionati di cinema non capiscono
che
battute
che
possono
sembrare
improvvisate
sono in realtà scelte di dialogo, di sceneggiatura. Il senso vero di Aprile è il contrario del suo senso letterale. Letteralmente cosa succede? Che io finalmente comincio a girare il musical sul
pasticcere
trotzkista
documentario
sull’Italia
letteralmente,
ma
il
e di
senso
non
riesco
a
oggi.
Questo
è
vero
del
concludere ciò
film
è
che
un
accade
esattamente
il
contrario: interpretando Nanni Moretti e facendo finta che non mi va di girare il mio documentario, in realtà faccio vedere delle
immagini
pubblico
(e
sull’Italia
invece,
di
oggi
purtroppo,
che
temo
voglio che
il
mostrare musical
al sul
pasticcere trotzkista negli anni cinquanta non lo girerò mai…). Io non sono per vedere in maniera arida un film, con il rischio di vivisezionarlo e non emozionarsi. Però mi sembra che ci sia spesso un modo molto grossolano di vedere i film. Ricordo qualcuno che dopo aver visto Aprile mi ha detto: “Ah, ma se non ti andava di girare, perché hai fatto questo film?” Non hanno capito che avevo scritto e interpretato e inventato la figura di un regista che scappa dal suo documentario, dal suo “dovere”, ma che in questo modo sono comunque riuscito a mostrare immagini, momenti e personaggi dell’Italia di quegli anni che mi sembrava importante raccontare. A proposito del rapporto con il pubblico, molti spettatori, anche per via di battute memorabili, considerano lei e i suoi film già dei classici. Sì, ma questa è una cosa che sfugge per primo al regista. Quando in quel prataccio in Ecce Bombo c’è il dialogo tra me e quella ragazza, ecco, quella scena è nata dai discorsi che sentivo
in
quel
periodo.
Anzi,
in
quel
caso
lo
so
con
precisione: mentre preparavo il film ho incontrato un’aspirante attrice, che poi ha fatto altro nella vita, che mi fece proprio quel
discorso
sceneggiatura. immaginato
lì
e
Ma
cose
io non
come
me ho
l’appuntai mai
“questa
è
per
pensato una
scena
inserirlo a
nella
tavolino
che
o
rimarrà”,
“questo dialogo lo citeranno anche tra trent’anni”. Se allora me l’avessero detto, non ci avrei assolutamente creduto. Qualcuno
considera
i
miei
film
addirittura
dei
classici?
Temo che il sottotesto di classico possa essere “la classica mummia”. Sulla classicità non riesco a dire molto, posso forse dire
qualcosa
sull’autenticità.
Penso
che
molti
spettatori
ritrovino dell’autenticità nei miei film, che non c’entra niente con la spontaneità, che non è di per sé un valore, né nel cinema né nella vita. Mi riesce difficile pensare i miei film come dei classici, perché sono dei film molto personali. Anche la scelta delle
ambientazioni
lo
dimostra.
Quando
uscì
Ecce Bombo
molti dicevano che era troppo un film su Roma, anzi troppo un film su Roma nord, anzi troppo sul quartiere Prati, anzi troppo su piazza Mazzini. Ed è successo perché quello era il luogo dove
io
vivevo
e
frequentavo
amici.
Spesso,
più
si
va
nel
particolare, più si ha la possibilità di diventare universali. Su una sua vocazione o qualità profetica, forse, si è insistito in modo anche un po’ caricaturale, però è vero che certi film involontariamente anticipano qualcosa… Mi ricordo che quando uscì Palombella rossa, un giovane critico del un
film
PCI
(non un vecchio trombone) scrisse che il mio era
vecchio
e
che
non
era
sul
PCI
di
allora,
il
PCI
di
Occhetto, che invece non aveva certo una crisi d’identità. Già. Dopo due mesi crollò il Muro di Berlino e il
PCI
non esisteva
più. Partire da sé e avere la fortuna di riuscire a raccontare gli altri… Quando uscì Bianca, molti dissero che il mio film era riuscito a interpretare e raccontare una generazione, ma io non avevo voluto fare questo, non l’avevo certo programmato. E su questo modo di vedere e “leggere” i miei film ho anche un po’ cambiato idea: tanti anni fa scalpitavo insofferente quando i giornalisti dicevano che raccontavo una generazione, che a sua volta si rispecchiava nei miei film. Mi sembrava
un modo
riduttivo di giudicare il mio lavoro, troppo sociologico e poco cinematografico. Ora, invece, se ripenso a questa cosa, se è vero che ho avuto la fortuna di interpretare e raccontare la mia generazione, be’, è una cosa che mi fa piacere e che mi rende orgoglioso. Ma vale anche per gli ultimi anni. Un finale come quello del Caimano, tempo…
nel
2006,
sarebbe
diventato
più
chiaro
con
il
Uno
dei
compiti
del
cinema
–
e
della
letteratura
–
è
raccontarci le cose che ancora non riusciamo a vedere. Ecco, nel Caimano ho fatto il contrario: ho voluto raccontare le cose che non riuscivamo più a vedere, perché ci eravamo assuefatti ad anormalità e anomalie inaccettabili in una democrazia. Le profezie
non
c’entrano,
ero
semplicemente
stato
un
po’
attento, ho impedito a me stesso di dimenticare quello che era stato detto e fatto negli anni precedenti da Silvio Berlusconi. Recitando
quel
l’imitazione.
ruolo,
Come
non
attore,
mi
interessava
volevo
solo
la
parodia
restituire,
né con
semplicità e freddezza, la pericolosità di quelle parole dette tante volte e a cui eravamo ormai assuefatti. E il giorno in cui si è dimesso Papa Benedetto XVI, lei cos’ha pensato? Gliel’avranno già chiesto in parecchi. Molti
spettatori
hanno
avuto
un
atteggiamento
ingenuo
quando è uscito Habemus papam, anche all’estero. “Ah, ma non è un film di denuncia!” dicevano lamentandosi, perché molti pretendevano che ritagliassi alcuni articoli dai giornali sugli scandali in Vaticano e costruissi in questo modo una sceneggiatura
facile,
che
rassicurasse
il
pubblico
raccontandogli cose che già sapeva: gli scandali finanziari, la pedofilia. Ho cercato invece di battere una strada un po’ più difficile. Anzitutto, evitando di dare al pubblico quello che il pubblico si aspettava da un film sul Vaticano. E fare una critica più complessa, far vedere che basta il semplice gesto di un uomo per far crollare un intero edificio religioso, istituzionale, politico. Basta non affacciarsi alla finestra di San Pietro, basta un gesto umano, una rinuncia, per far crollare tutto. Anche rivedendo La messa è finita, si sente un modo forse inconsueto per l’epoca – era il 1985 – di raccontare la figura di un sacerdote, la sua solitudine, la sua difficoltà a farsi carico dei problemi altrui. Anche in quel film volevo fare scelte contrarie rispetto alle aspettative del pubblico. Da un mio film ci si aspettavano i tormenti
sentimentali
e
sessuali
di
un
prete.
E
proprio
per
questo non ho voluto raccontarli. Quindi, alle volte, certe mie scelte avvengono per negazione: per negare le aspettative del pubblico o per allontanarmi da film che non mi sono piaciuti. Da cosa è nato il film Mia madre?
Dalla morte di mia madre. Se non avessi attraversato questa esperienza, non avrei fatto questo film. Alle volte, i film ti vengono
in
mente
per
delle
paure,
per
dei
fantasmi,
per
esempio La stanza del figlio. Altre volte, parti da fatti che ti sono realmente accaduti. Ci siamo lasciati indietro la domanda a cui lei, in qualche modo,
deve
rispondere,
ovvero
quella
fatta
a
Stajano
sul
rapporto con Roma. La prima cosa che mi viene in mente è la possibilità di girare in Vespa, non solo d’estate, di andarsene in giro per la città senza meta. La seconda cosa a cui penso è la luce di giornate meravigliose come quella di oggi, una luce che credo ci sia in pochi posti nel mondo. Che rapporto ho con Roma? Mah, me la potrei cavare dicendo che è mia madre. È come la domanda “che rapporto hai con tua madre?” Tua madre è tua madre, è quella che ti ha dato la vita. Un’ultima domanda: un film non suo, anche più di uno, che pensa abbia raccontato qualcosa di questa città? Be’, Estate romana
di
Garrone,
Pranzo di ferragosto
di
Gianni Di Gregorio. Tutti film recenti… E allora anche Accattone e Mamma Roma di Pasolini. E di Fellini, La Dolce Vita e Roma.
I FILM DI QUESTO LIBRO
Io sono un autarchico (1976)
Al
governo
dell’aborto. sequestrata
c’è
Nel la
Aldo
mese
di
pellicola
di
Moro.
Si
manifesta
settembre, Novecento
a
a
favore
Salerno,
Atto
I
di
viene
Bernardo
Bertolucci. A Sesto San Giovanni il 15 dicembre viene ucciso in uno scontro a fuoco il brigatista Walter Alasia. Il 14, giorno di uscita del film, sulla prima pagina della cronaca romana del Messaggero si parla dei rincari del pecorino e del caffè. Io sono un autarchico uscì nell’unica copia esistente in Super8 al cineclub
FilmStudio,
seguente
fu
dove
distribuito
restò
dall’ARCI,
per che
sei
giorni.
aveva
L’anno
“gonfiato”
il
Super8 in 16mm, in diverse sale d’essai. Al cinema Fiamma danno Il Casanova di Fellini, all’Eden Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola, al Quattro Fontane Il sapore della felicità di Nora Roberts. regia: Nanni Moretti soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti fotografia: Fabio Sposini musica: Franco Piersanti montaggio: Nanni Moretti interpreti: Nanni Moretti, Simona Frosi, Andrea Pozzi, Fabio Traversa,
Beniamino
Placido,
Giorgio
Viterbo,
Agati, Paolo Zaccagnini, Lorenza Codignola produzione: Nanni Moretti distribuzione:
ARCI
durata: 95 min.
Ecce Bombo (1978)
Luciano
Il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro viene sequestrato
dalle
Brigate
Rosse
il
16
marzo.
Sulla
prima
pagina della cronaca romana del Messaggero dell’8 marzo, giorno di uscita del film, si parla della guerra contro i topi e si dà conto delle manifestazioni autorizzate dalla questura per quel
giorno
studentesse disoccupate
a
seguito
romane a
a
piazza
di
accese
piazza Santa
proteste:
Navona, Maria
raduno
Maggiore.
sit
in
delle Al
delle donne
Cinema
Fiamma danno Giulia di Fred Zinneman, all’Eden La ragazza dal pigiama giallo di Flavio Mogherini, al Quattro Fontane L’ultimo sapore dell’aria di Ruggero Deodato. regia: Nanni Moretti soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti fotografia: Giuseppe Pinori musica: Franco Piersanti montaggio: Enzo Meniconi interpreti: Nanni Moretti, Luisa Rossi, Glauco Mauri, Lorenza Ralli, Fabio Traversa, Lina Sastri, Luigi Moretti, Age, Piero Galletti,
Maurizio
Romoli,
Giorgio
Viterbo,
Paolo
Zaccagnini, Cristina Manni produzione: Film Alpha/Alphabeta distribuzione:
CIDIF
durata: 103 min.
Sogni d’oro (1981)
È l’anno dell’attentato a Giovanni Paolo II e della morte del bambino Alfredo Rampi, in un pozzo di Vermicino. Franco Battiato pagina
canta della
Centro cronaca
di
gravità
romana
permanente. del
Sulla
Messaggero
prima
del
10
settembre, giorno di uscita del film, si invitano i cittadini a preferire
prodotti
alimentari
nazionali
“in
attesa
di
prezzi
onesti”. Tre deputati radicali fanno irruzione negli studi del Tg2 al grido di “Ladri di verità!”. Al cinema Fiamma danno La
disubbidienza
di
Aldo
Lado,
dal
romanzo
di
Moravia,
all’Eden Sogni d’oro di Nanni Moretti, al Quattro Fontane Quella villa accanto al cimitero di Lucio Fulci.
regia: Nanni Moretti soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti fotografia: Franco Di Giacomo musica: Franco Piersanti montaggio: Roberto Perpignani interpreti: Nanni Moretti, Piera Degli Esposti, Remo Remotti, Laura Morante, Nicola Di Pinto, Alessandro Haber, Gigio Morra,
Giampiero
Mughini,
Dario
Cantarelli,
Claudio
Spadaro, Luigi Moretti produzione: Opera Film/RaiUno distribuzione: Gaumont durata: 105 min.
Bianca (1984)
L’anno dell’incubo di George Orwell è, in Italia, quello della scomparsa del leader comunista Enrico Berlinguer e del giornalista gennaio
antimafia
1984.
La
Pippo
prima
Fava,
pagina
ucciso
della
a
Catania
cronaca
romana
il
5
del
Messaggero del 24 febbraio, giorno di uscita del film, spiega come
umidità
Borghese,
che
dell’ubicazione Cinecittà
e
o
le
traffico
abbiano
riaprirà del
nuovo
caserme
di
forse
danneggiato
la
Galleria
in
Si
discute
auditorium: viale
Giulio
estate. zona
EUR
Cesare?
Colombo, Al
cinema
Fiamma danno Ballando ballando di Ettore Scola, all’Eden Il console
onorario
di
John
Mackenzie,
al
Quattro
Fontane
Mystère di Carlo Vanzina. regia: Nanni Moretti soggetto: Nanni Moretti sceneggiatura: Nanni Moretti, Sandro Petraglia fotografia: Luciano Tovoli musica: Franco Piersanti montaggio: Mirco Garrone interpreti:
Nanni
Moretti,
Laura
Morante,
Roberto
Vezzosi,
Remo Remotti, Dario Cantarelli, Giovanni Buttafava, Luigi
Moretti, Giorgio Viterbo produzione:Faso Film / ReteItalia distribuzione:
CIDIF
durata: 96 min.
La messa è finita (1985)
A settembre muore Italo Calvino. Nel mese di ottobre, a riempire
le
prime
pagine
sono
il
dirottamento
del
transatlantico Achille Lauro e il caso diplomatico della base aerea di Sigonella. La cronaca romana del Messaggero il 15 novembre,
giorno
di
uscita
del
film,
apre
con
un
viaggio-
inchiesta sul malcontento che spinge in piazza “i figli dei miti del
’68”.
Gianni
Borgna,
dirigente
del
PCI
trentottenne,
sostiene però che non si tratta di un movimento politico vero e proprio. Al cinema Fiamma danno Interno berlinese di Liliana Cavani, all’Eden La foresta di smeraldo di John Boorman, al Metropolitan Ritorno al futuro di Robert Zemeckis. regia: Nanni Moretti soggetto: Nanni Moretti, Sandro Petraglia sceneggiatura: Nanni Moretti, Sandro Petraglia fotografia: Franco Di Giacomo musica: Nicola Piovani montaggio: Mirco Garrone interpreti: Nanni Moretti, Marco Messeri, Margarita Lozano, Ferruccio
De
Ceresa,
Enrica
Maria
Modugno,
Eugenio
Masciari, Vincenzo Salemme, Giovanni Buttafava, Luisa De Santis, Luigi Moretti produzione: Faso Film distribuzione: Titanus durata: 94 min.
Palombella rossa (1989)
Il film di Nanni Moretti precede di appena due mesi (e quasi profetizza) la cosiddetta svolta della Bolognina – novembre
’89: il segretario del
PCI
Achille Occhetto annuncia di voler
cambiare il nome al partito – e la caduta del Muro di Berlino. La cronaca romana del Messaggero, il 15 settembre, giorno di uscita del film, dà conto della rinuncia di Oscar Luigi Scalfaro alla candidatura come capolista
DC
a Roma. Anche i Verdi in
difficoltà sulle candidature. Al cinema Fiamma danno Corsa di primavera di Giacomo Campiotti, all’Eden Scarlatti di Frank Laloggia, al Farnese New York Stories di Scorsese-CoppolaAllen. regia: Nanni Moretti soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti fotografia: Giuseppe Lanci musica: Nicola Piovani montaggio: Mirco Garrone interpreti:
Nanni
Moretti,
Asia
Argento,
Silvio
Orlando,
Claudia Morganti, Alfonso Santagata, Luigi Moretti, Marco Messeri,
Luisanna
Pandolfi,
Raoul
Ruiz,
Fabio
Traversa,
Remo Remotti produzione: Sacher Film distribuzione: Titanus durata: 89 min.
Caro diario (1993)
Il 1993 è l’anno dell’arresto del leader di Cosa Nostra Totò Riina, degli attentati a Firenze, Milano e Roma, della fine della Prima Repubblica nell’onda di Tangentopoli. La cronaca romana del Messaggero il 12 novembre, giorno di uscita del film,
avverte
i
cittadini
dello
stop
delle
automobili
non
ecologiche, il monossido di carbonio ha superato ancora il livello
di
guardia.
Da
un
sondaggio
francese
emerge
che
Roma è in fondo alla classifica delle metropoli europee per qualità della vita. Unico dato positivo: seconda per il cinema. Al cinema Fiamma danno America oggi di Robert Altman, all’Eden Caro diario di Nanni Moretti, al Farnese Film blu di Krzysztof Kies´lowski. regia: Nanni Moretti
soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti fotografia: Giuseppe Lanci musica: Nicola Piovani montaggio: Mirco Garrone interpreti: Nanni Moretti, Renato Carpentieri, Moni Ovadia, Valerio
Magrelli,
Mario
Schiano,
Carlo
Mazzacurati,
Jennifer Beals produzione: Sacher Film, Banfilm, La Sept Cinéma distribuzione: Lucky Red durata: 100 min.
Aprile (1998)
È l’anno della strage del Cermis – un aereo partito dalla base di Aviano trancia il cavo della funivia –, della visita di Giovanni
Paolo
II
a
Cuba
e
della
nascita
ufficiale
della
moneta unica europea. Il I Governo Prodi, al suo secondo anno,
sarà sfiduciato dalle Camere
in ottobre. La cronaca
romana del Messaggero il 27 marzo, giorno di uscita del film, apre
con
la
notizia
dello
scontro
fra
Comune
di
Roma
e
Telecom, rapporto interrotto. Al Club del Liscio una serata danzante con Nilla Pizzi, regina della canzone italiana. Al cinema Fiamma danno L.A. Confidential di Curtis Hanson., al’Eden Aprile di Nanni Moretti, al Farnese In & Out di Frank Oz. regia: Nanni Moretti soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti fotografia: Giuseppe Lanci montaggio: Angelo Nicolini interpreti: Nanni Moretti, Silvia Nono, Agata Apicella, Pietro Moretti,
Silvio
Orlando,
Angelo
Barbagallo,
Daniele
Luchetti, Andrea Molaioli, Corrado Stajano produzione: Sacher Film, Bac films, Canal+, La Sept Cinéma, Les Films Alain Sarde, Radiotelevisione italiana distribuzione: Tandem
durata: 78 min.
Il Caimano (2006)
È l’anno delle Olimpiadi a Torino e della vittoria dell’Italia ai
Mondiali
Bernardo
di
Calcio.
Provenzano;
il
Viene
arrestato
governo
il
Berlusconi
boss II
mafioso
cade
il
17
maggio, con la vittoria del centrosinistra ancora guidato da Romano Prodi. A Roma – si legge sulla prima pagina della cronaca cittadina del Messaggero del 24 marzo,
giorno di
uscita del film – ventisette arresti per droga. Torna a vedere la luce l’Ara Pacis, mentre un manto di grandine ha mandato in tilt
il
traffico.
Al
cinema
Fiamma
danno
Transamerica
di
Duncan Tucker, all’Eden Truman Capote. A sangue freddo di Bennett Miller, al Quattro Fontane La vita segreta delle parole di Isabel Coixet. regia: Nanni Moretti soggetto: Nanni Moretti, Heidrun Schleef sceneggiatura: Nanni Moretti, Federica Pontremoli, Francesco Piccolo fotografia: Arnaldo Catinari musica: Franco Piersanti montaggio: Esmeralda Calabria interpreti:
Silvio
Orlando,
Margherita
Buy,
Jasmine
Trinca,
Michele Placido, Elio De Capitani, Nanni Moretti produzione: Sacher Film, Bac films, Canal+, France 3 Cinema con la collaborazione di Wild Bunch, Cinecinema distribuzione: Sacher Distribuzione durata: 112 min.
Habemus papam (2011)
È
l’anno
della
“primavera
araba”,
delle
proteste
degli
Indignados in Spagna e di Occupy Wall Street negli Stati Uniti. Al governo c’è Silvio Berlusconi, dimissionario nel mese di novembre. Il film esce a due settimane dalla beatificazione di Giovanni
Paolo
II
(e
due
anni
prima
delle
dimissioni
di
Benedetto
XVI).
Proprio
della
beatificazione
imminente
si
parla nelle pagine di cronaca cittadina del Messaggero; il 15 aprile,
giorno
dell’uscita
del
film,
si
dà
conto
di
una
manifestazione di protesta che ha mandato il traffico in tilt, e delle
dimissioni
dei
vertici
del
trasporto
pubblico
ATAC.
Al
cinema Fiamma danno La fine è il mio inizio di Jo Baier, al Farnese Sorelle Mai di Marco Bellocchio, all’Eden Habemus papam di Nanni Moretti. regia: Nanni Moretti soggetto:
Nanni
Moretti,
Francesco
Piccolo,
Federica
Pontremoli sceneggiatura:
Nanni
Moretti,
Francesco
Piccolo,
Federica
Pontremoli fotografia: Alessandro Pesci musica: Franco Piersanti montaggio: Esmeralda Calabria interpreti:
Michel
Piccoli,
Nanni
Moretti,
Margherita
Buy,
Jerzy Stuhr, Renato Scarpa, Franco Graziosi, Camillo Milli produzione: Sacher Film, Fandango, Rai Cinema distribuzione: 01 Distribution con la collaborazione di Sacher Distribuzione durata: 104 min.
Mia madre (2015)
L’anno inizia con l’attentato alla sede del giornale satirico Charlie
Hebdo
a
Parigi
e
si
chiude
con
quelli
al
teatro
Bataclan di Parigi. Mia madre è in concorso al Festival di Cannes insieme a Youth di Paolo Sorrentino e Il racconto dei racconti
di
Matteo
Garrone.
Il
film
esce
il
16
aprile;
la
cronaca di Roma si apre con una lite fra il sindaco Marino e l’ex
sindaco
Alemanno
sull’inchiesta
Mafia
capitale.
Al
cinema Fiamma danno Mia madre di Nanni Moretti, all’Eden Il padre di Fatih Akin,
al Farnese
Nicolas di Laurent Tirard. regia: Nanni Moretti
Le
vacanze
del
piccolo
soggetto: Gaia Manzini, Nanni Moretti, Valia Santella, Chiara Valerio sceneggiatura:
Nanni
Moretti,
Francesco
Piccolo,
Valia
Santella fotografia: Arnaldo Catinari montaggio: Clelio Benevento interpreti: Margherita Buy, John Turturro, Giulia Nanni
Moretti,
Beatrice
Mancini,
Enrico
Lazzarini,
Ianniello,
Tony
Laudadio, Renato Scarpa produzione: Sacher Film, Fandango, Rai Cinema, Le PacteArte France Cinéma distribuzione: 01 Distribution durata: 106
I LIBRI DI QUESTO LIBRO
Giorgio
Agamben,
Che
cos’è
il
contemporaneo?,
nottetempo, 2008 Alberto Arbasino, Ritratti italiani, Adelphi, 2014 Roland
Barthes,
Dove
lei
non
è,
trad.
di
V.
Magrelli,
Einaudi, 2010 Giuliana
Bruno,
Atlante
delle
emozioni,
Bruno
Johan
&
Levi, 2015 Italo Calvino, Palomar, Mondadori, 2016 Anton Cechov, “Il gabbiano” in Teatro, trad. di G.P. Piretto, Garzanti 2014 Michael Jakob, Sulla panchina. Percorsi dello sguardo nei giardini e nell’arte, trad. di G. Girardello, Einaudi, 2014 Valerio Magrelli, Il viaggetto, L’Obliquo, 1991 Valerio Magrelli, Nel condominio di carne, Einaudi, 2003 Herman Melville, Bartleby lo scrivano, trad. di G. Celati, Feltrinelli, 2015 Goffedo Parise, Sillabari, Adelphi, 2009 Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di vita, Garzanti, 2014 Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, Garzanti, 2015 Pier Paolo Pasolini, Una vita violenta, Garzanti, 2015 Remo Remotti, Ho rubato la marmellata, Iacobelli, 2012 Virginia Woolf, Sulla malattia, trad. di N. Gardini, Bollati Boringhieri, 2006
NOTA ALLA SECONDA EDIZIONE
Sono passati quarant’anni e altri undici film da Io sono un autarchico,
proiettato
Trastevere,
il
14
per
la
dicembre
prima
1976.
volta
E
al
che
Filmstudio,
cos’è
a
cambiato?,
verrebbe da chiedersi. L’autarchico, in quel film, è Michele Apicella alla sua prima comparsa. Come i suoi amici, Michele si annoia, è alla continua ricerca di un passatempo. Legge Marx e non lo capisce, si chiede se per caso abbia sbagliato ideologia, e finisce sempre per parlare al telefono, giocare a subbuteo e commentare i film appena usciti. Alla fine, aiuta anche
un
amico
sperimentale.
Ci
a
mettere
sono
i
su
uno
telefoni
spettacolo
fissi,
di
quindi,
le
teatro cabine
telefoniche, il subbuteo, oggetti diventati cult che ogni tanto ritornano. C’è un rapporto di coppia che non funziona, gruppi di
amici
che
autocoscienza,
si ma
confessano, nessuno
che
che
fanno
parli
riunioni
davvero.
C’era
di il
problema dell’incomunicabilità, allora, e purtroppo c’è ancora, nonostante gli smartphone, le mail e i social network, che sembrano più un’alternativa all’incontrarsi dal vivo. Michele tiene in camera delle riviste pornografiche, scopre che lì ci scrivono metà degli intellettuali italiani, e dice di non capire il “nudo d’arte”. Le riviste pornografiche, sì, che hanno resistito fino agli anni Novanta, per poi lasciare spazio alla Rete, a un mondo dove tutto è a portata di mano, e la vera trasgressione è coprirsi,
lasciare
intravedere
Michele
preferisce
quello
qualcosa.
Al
pornografico,
cinema
privo
di
erotico, velleità
artistiche. C’è un critico che viene inseguito e pregato perché vada a vedere lo spettacolo di questo regista esordiente. Il critico si fa desiderare, ma poi accetta di andare, carico di pregiudizi, con gli occhi coperti da tutto quello che ha letto e studiato, e quando si trova a tu per tu con il regista usa un linguaggio volutamente elitario e snob, per non farsi capire, quarant’anni prima che apparisse Mario Bambea con i suoi sdoppiamenti e le sue crisi d’identità.
Poi si va avanti, passano gli anni e arrivano le panchine, le prime dichiarazioni d’amore con i primi ripensamenti, le prime battute memorabili. “Giro, vedo gente, mi muovo, faccio delle cose”, “Io non parlo di cose che non conosco!”, “Continuiamo così, facciamoci del male”, “Vi amo, voi tutti che siete in questo bar”, “Come parla?! Le parole sono importanti!”, “Io credo nelle persone, però non credo nella maggioranza delle persone”. L’amore viene spiegato con una vaschetta di gelato, i sogni diventano un rifugio dal presente dove sono tutti così adulti, il corpo diventa un diario in cui raccontarsi, la nascita di
un
figlio
diventa
festa
nazionale,
un
papa
passeggia
in
borghese e si nasconde a teatro, l’umanità viene raccontata attraverso
le
scarpe:
“ogni
scarpa
una
camminata,
ogni
camminata un diversa concezione del mondo”. C’è una via a Roma che si chiama via Piccolomini, è come un piccolo cuore che non smette mai di battere, neanche a notte
fonda,
neanche
a
ferragosto
quando
Roma
è
quasi
deserta. Da lì, si può andare sull’Aurelia Antica, a Prati, al Gianicolo,
sull’Olimpica,
a
Gregorio
VII,
andare
verso
Monteverde vecchio o nuovo, Trastevere, Testaccio, guardarsi intorno e scegliere da quale parte di Villa Pamphili entrare. Ma non è per questo che la sera si riempie, che si vedono arrivare macchine che fanno avanti e indietro, si fermano per un po’ e poi se ne vanno. Via Piccolimini nasconde un segreto, che i più fortunati scoprono nell’adolescenza. Da via Piccolomini si vede, in lontananza, la cupola di San Pietro, che dagli occhi di chi la guarda disterà più o meno quattrocento metri d’aria. È stando in macchina o su un motorino, magari su una vespa, che ci si accorge di quel segreto, che è quasi un miracolo, come scoprire all’improvviso un nuovo modo di guardare il mondo. Più ci si avvicina alla fine della via, il punto più vicino a San Pietro, più la cupola si allontana. Anzi, diventa piccola piccola e si confonde con il resto della città. Più ci si allontana, più
la
cupola
si
avvicina,
nostro
campo
visivo.
Ma
ritorna com’è
grande
e
possibile?
occupa In
tanti
tutto
il
hanno
parlato di prospettive, di effetti ottici, di cose che andrebbero bene
per
bastargli
quelli mai
e
come allora
Escher,
che
preferiva
il
mondo
sempre
sembrava
non
inventarsene
uno
nuovo. Guardare i film di Nanni Moretti è come passare per caso in via Piccolomini. C’è chi li guarda da lontano, senza fermarsi, senza fare avanti e indietro, e pensa che dentro quei
film ci sia soltanto una grande cupola tondeggiante che occupa tutto lo schermo. Ma chi ha il coraggio di avvicinarsi, invece, si accorge che c’è un panorama nascosto, fatto di case, di sguardi, di silenzi, di riunioni di autocoscienza, di solitudine, di corse disperate a bordo piscina, di vespe che volano per la città, di amori mancati, di dolci, di amnesie politiche, di balli inaspettati, di madri protettive, di papi che non hanno voglia di affacciarsi. gb
RINGRAZIAMENTI
Desideriamo ringraziare prima di tutto Nanni Moretti, per la grande
disponibilità.
Annamaria
Cocchioni,
sua
storica
collaboratrice, per il supporto e la pazienza. Grazie a Giovanna Nicolai, Nuovo
primo Sacher,
“tramite”, Elio
Valerio
Montanari
Magrelli,
del
liceo
Armando
Manara,
del
Giulia
Flenghi, Giulia Gerosa e Alessandro Coticelli per il supporto nelle
ricerche.
creduto
in
Grazie
questo
a
Franco
progetto,
realizzazione delle mappe.
e
Lozzi,
alla
Lozzi
che
per
primo
Publishing
per
ha la
INDICE
Ancora qualcosa da scoprire Io sono un autarchico (1976) Ecce Bombo (1978) Sogni d’oro (1981) Bianca (1984) La messa è finita (1985) Palombella rossa (1989) Caro diario (1993) Aprile (1998) Il Caimano (2006) Habemus papam (2011) Mia madre (2015) Roma, mia madre. Conversazione con Nanni Moretti I film di questo libro I libri di questo libro Nota alla seconda edizione
Io sono un autarchico (1976), stazione dell’Acqua Acetosa
Ecce Bombo (1978), Tor di Quinto
Bianca (1984), scuola Giacomo Leopardi, Monte Mario
La messa è finita (1985), parrocchia di S. Maria Mediatrice, via Cori, Pigneto
Caro diario (1993), via Dandolo
Habemus papam (2011), esterno di Cinecittà
Mia madre (2015), piazza di Montecitorio