A Roma con Nanni Moretti 8845282457, 9788845282454

Un diario di viaggio sui luoghi del cinema di Nanni Moretti ambientati a Roma, da Io sono un autarchico a Bianca, da Car

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Italian Pages 164 [141] Year 2016

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Table of contents :
Copertina
Abstract
Biografia
Frontespizio
Copyright
Ancora qualcosa da scoprire
Io sono un autarchico (1976)
Ecce Bombo (1978)
Sogni d’oro (1981)
Bianca (1984)
La messa è finita (1985)
Palombella rossa (1989)
Caro diario (1993)
Aprile (1998)
Il Caimano (2006)
Habemus papam (2011)
Mia madre (2015)
Roma, mia madre. Conversazione con Nanni Moretti
I film di questo libro
I libri di questo libro
Nota alla seconda edizione
Ringraziamenti
Indice
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A Roma con Nanni Moretti
 8845282457, 9788845282454

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A ROMA CON NANNI MORETTI Un diario di viaggio sui luoghi romani del cinema di Nanni Moretti, da Io sono un autarchico a Bianca, da Caro diario a Habemus papam fino a Mia madre, evocando le atmosfere, i personaggi, le battute proverbiali entrate nella memoria collettiva. Da queste pagine emerge non solo il rapporto del regista con Roma ma anche un suo ritratto a tutto tondo. Così, sulle tracce di Moretti, il lettore scopre una Roma diversa, fatta di case, di terrazze per niente mondane, di panchine, di piaceri anche minimi ma vitali come la musica, i dolci o semplicemente l’estate: una prospettiva sorprendente e “autarchica”. Chiude il libro un dialogo con il regista.

PAOLO DI PAOLO è nato a Roma nel 1983, mentre Nanni Moretti girava Bianca. Ha pubblicato i romanzi Dove eravate tutti (2011, Premio Mondello), Mandami tanta vita (2013, finalista Premio Strega), Una storia quasi solo d’amore (2016) e con Bompiani La mucca volante (2014). GIORGIO BIFERALI è nato a Roma nel 1988, mentre Nanni Moretti girava Palombella rossa. È autore del saggio Giorgio Manganelli. Amore, controfigura del nulla (2014) e ha curato Roma degli scrittori (2015).

TASCABILI BOMPIANI

558

PAOLO DI PAOLO GIORGIO BIFERALI A ROMA CON NANNI MORETTI

Le immagini fotografiche presenti nel volume sono riprodotte su gentile concessione della Sacher Film. Tutti i diritti sono riservati. eISBN 978-88-587-7427-4 © 2016 Bompiani/Rizzoli Libri S.p.A., Milano I edizione Tascabili Bompiani settembre 2016 In copertina: Nanni Moretti in Aprile © Sacher Film. Progetto grafico: Polystudio. www.bompiani.eu Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore. È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.

“Non mi sono mai mosso da Roma, ma dentro Roma sì che mi sono mosso.” Alberto Moravia, Nuovi racconti romani

ANCORA QUALCOSA DA SCOPRIRE

New York è la stessa città dopo un film come Manhattan di Woody Allen? Berlino è la stessa dopo Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders? Roma è la stessa città dopo Caro diario? Una macchina da presa non lascia segni tangibili sui luoghi che descrive, e tuttavia – in modo imprevedibile e definitivo – li

modifica.



forma

a

mappe

diverse,

inusuali,

a

volte

impraticabili, di questo o di quel luogo: nella forma di un racconto, cinema

di

un

come

vagabondaggio,

“mezzo

di

di

un’emozione

trasporto”



la

visiva.

definizione

è

Il di

Giuliana Bruno in Atlante delle emozioni: lo spettatore diventa un passeggero, si lascia muovere e commuovere, salta anche lui sulla Vespa di Caro diario; è là, in quella luce estiva, e non dimenticherà

più

quel

viaggio.

Non

dimenticherà

di

avere

atteso l’alba dalla parte sbagliata, davanti al mare di Ostia; di avere sostato su una panchina accanto a una ragazza – ma dove, di preciso? Ah sì, una piccola piazza romana che si chiama piazza dei Quiriti. E ancora: di aver baciato un’altra ragazza, qualche anno dopo, in una gelateria – quella gelateria di corso d’Italia; di essere stato rincorso da malintenzionati nell’arena

di

un

cinema;

di

essere

scivolato

a

bordo

di

un’utilitaria nella conca del Circo Massimo; di avere agitato le braccia festosamente sulle sponde dell’isola Tiberina, in un aprile fatale. Da

una

primavera

all’altra,

lavorando

a

questo

libro,

abbiamo cercato l’esatta collocazione di pasticcerie, scalinate, traverse nascoste, fontane e scuole. Sulle piste romane dei film di Nanni Moretti, alla larga – con qualche eccezione – dal monumentale e dal pittoresco, si è aperta davanti ai nostri occhi

un’altra

città:

senza

niente

di

teatrale,

da

piccola

bellezza più che grande, di piaceri anche minimi ma vitali – la musica, i dolci, o semplicemente l’estate. Una Roma di case – quartieri residenziali alti o popolari, centrali o periferici (in Caro diario Moretti vagheggia un film fatto solo di case, case

di sconosciuti) – di terrazze per niente mondane, di panchine, di

parchi.

Percorsa

in

macchina

(le

scene

al

volante

sono

frequenti, quasi un tic su cui Moretti ironizza in una scena di Mia madre),

esplorata

a

piedi

fino

quasi

a

perdersi,

come

accade al papa riluttante di Habemus papam, la città riserva sempre qualche fonte di stupore. Non foss’altro che per via della luce. Nell’intervista che chiude questo volume, il regista confessa il proprio amore per “la luce di giornate meravigliose come quella di oggi, una luce che credo ci sia in pochi posti del mondo”, e tale preferenza spiega il tratto prevalentemente solare dei suoi esterni romani. Ma d’altra parte è possibile raccontare

Roma

senza

cominciare

dalla

luce?

Narratori

e

poeti amati da Moretti – Pasolini, il Parise dei Sillabari – fanno lo stesso. La prima cosa di cui Parise parla nel racconto intitolato Roma è il cielo – “color violetta e tirato come una seta”. Sotto questo cielo maestoso e senza calendario, la città però cambia. E pochi cineasti come Moretti sanno fermare, se non perfino anticipare, l’“aria del tempo”. Fu proprio Parise, in una recensione

a

Ecce

Bombo

riconoscere

all’allora

sul

Corriere

venticinquenne

della

Moretti

la

Sera,

a

capacità

di

portare sullo schermo “un’aria di realtà”, “quell’eccetera” che ognuno ha sotto gli occhi, qualcosa magari di romanissimo ma non per questo provinciale e strapaesano. È una questione di autenticità: partire dalla strada sotto casa, da ciò che si conosce da vicino e profondamente. “A volte – spiega Moretti – più si va

nel

particolare,

più

si

ha

la

possibilità

di

diventare

universali.” Fa un certo effetto riprendere in mano la prima pagina della cronaca giorno

di in

Roma cui,

in

del una

Messaggero sala

del

d’essai

di

14

dicembre

Trastevere,

1976: veniva

proiettato Io sono un autarchico, mentre al cinema Fiamma davano il Casanova

di

Fellini

e

all’Eden

Brutti,

sporchi

e

cattivi. Il giornale ci informa che il pecorino salirà di 10 mila lire al chilo e che gli autobus si fermeranno per tre ore di protesta contro il teppismo. E l’8 marzo 1978, quando esce Ecce Bombo? È la festa della donna, la questura “autorizza quattro manifestazioni”. Di lì a otto giorni sarà rapito Aldo Moro. Mentre esce Bianca, il 24 febbraio 1984, viene sfrattato il circo Orfei dal Parco dei Daini, e al cinema Quattro Fontane danno Mystère dei fratelli Vanzina. Habemus papam va in sala

quindici giorni prima della beatificazione di Giovanni Paolo II, nell’aprile del 2011. Si potrebbe senz’altro scrivere una contro-storia di Roma e d’Italia dagli anni settanta attraverso i film di Moretti. Su più piani: i contenuti, comprese le battute diventate proverbiali, le “profezie” involontarie, il contesto, ovvero il clima sociale e politico in cui ogni film è uscito. E poi i set, le ambientazioni. Questo libro parte da qui, dal tentativo di mappare i luoghi romani del cinema di Moretti. In

coppia,

Moretti

due

girava

romani

con

Bianca,

taccuino

l’altro



uno

mentre

nato

mentre

Moretti

girava

Palombella rossa – hanno fatto un viaggio. Una giornata afosa di fine giugno per le strade della Garbatella, un mattino di settembre su viale Aventino, un pomeriggio ancora caldo di quello stesso mese al cinema Nuovo Sacher assediati dalle zanzare, un giorno grigio e freddo di fine gennaio come intrusi nell’ospedale Bisognava

Forlanini,

calpestare

indirizzi,

per

o

provare

circonvallazione ricalpestare

a

vie,

raccontarli

Gianicolense. piazze,

scovare

nell’intermittenza

tra

l’emozione, il ricordo di un film, e la realtà sfuggente di quel pomeriggio, di quella domenica mattina. Ne derivano pagine sospese fra un diario di viaggio – nel luogo, e poi nel film – e una guida possibile. Un libro pensato come alternativo “mezzo di

trasporto”

urbano:

il

lettore

può

salire

e

scendere

dove

vuole, ha a disposizione diverse mappe per orientarsi, e un buon numero di dettagli magari utili a rileggere, a ricordare o a scoprire i film e i luoghi di Nanni Moretti. Un viaggio dentro un viaggio. Con lo spirito, forse, di quei dadaisti che si davano appuntamento, eccentriche

nella

nella

Parigi

città.

degli

Chiese

anni

venti,

abbandonate,

per

escursioni

terreni

incolti,

luoghi poco conosciuti. Un volantino distribuito ai passanti nell’aprile

del

1921

invitava

a

rimediare

“all’incompetenza

delle guide e di sospetti ciceroni” partecipando ad alcune visite in luoghi scelti, di scarso interesse storico e anti-pittoreschi. Luoghi,

insomma,

esistere”. bisogna

“che

non

hanno

La partita non è ancora

agire

scrivevano

in

quei

fretta.

nostri

persa,

Partecipate!

bisnonni

o

nessuna

ragione

di

concludevano, ma

Sembrerebbe

trisavoli



“che

infatti si



possa

trovare ancora qualcosa da scoprire”. pdp

IO SONO UN AUTARCHICO (1976)

Castel Sant’Angelo | Prati | Trieste Castel Porziano | Ostia

“Casomai qualcuno si chiedesse: questo, come vive? Chi lo mantiene? Ha una casa, eppure non lavora… Così abbiamo chiarito, no?”

Capita a tutti di passare davanti a un luogo monumentale – un

luogo

averlo

imponente,

intravisto

averne

solo

in

carico

un

sentito

film,

parlare.

di

storia



ritagliato Questo,

senza

in

fermarsi.

Di

cartolina,

di

soprattutto

ai

una

capita

romani. Nanni Moretti, straniero per poco nella sua città (è nato a Brunico il 19 agosto 1953), spinto dalla curiosità e dalla consapevolezza che una vita non vale senza una certa dose di attenzione, Michele

ha

saputo

Apicella,

lungometraggio

fermarsi.

ideale

gli

fa

Prestati

alter

incontrare

i

ego, la

suoi nel

ragazza

trascorsi suo

a

primo

Silvia

su

una

panchina nei pressi della Mole Adriana, fra margherite oggi scomparse. Correva l’anno 1976, e un Moretti poco più che ventenne mostrava a tutti la sua autarchia. Non che sia facile, concretamente, fermarsi vicino a Castel Sant’Angelo. Oltre il breve tratto pedonale, le strade intorno sono

un

continuo

impazzite

e

brusio

consumate,

di

di

lamentele

parcheggi

e

clacson,

già

di

occupati.

marce

La

vera

fortuna sarebbe abitargli vicino, ma non troppo: quel tanto che basta per guardarlo, illuminato anche nelle ore notturne, e per aggirare le sue vie trafficate. Perché anche lui, questo grande mausoleo

che

ha

cambiato

mestiere,

ha

voluto

defilarsi:

parafrasando Moretti, “lo si nota di più se sta in disparte”. Luogo

di

sepoltura

degli

imperatori,

principale

fortezza

di

Roma per oltre mille anni, è diventato un castello. Il ponte, che rivendica la parentela con l’omonimia, è un corridoio a cielo aperto,

accompagnato

da

dieci

statue

di

angeli



più

due:

quelle di san Pietro e di san Paolo – progettato interamente da Gian Lorenzo Bernini, una sorta di cordone ombelicale del castello. Charles

Un de

sofisticato Brosses,

viaggiatore

giudicava

francese

quegli

del

angeli

Settecento,

“fuori

posto”:

“Non hanno l’aria di stare a loro agio qui.” Se provassimo a fermarci, a seguire realmente certe istanze “autarchiche”

del

film

d’esordio

di

Moretti,

non

sarebbe

difficile riconoscere l’angolo in cui Michele – a disagio anche lui – incontra Silvia per la seconda volta, quell’angolo in cui le dice: “Che caspita! Sempre a Castel Sant’Angelo ci dobbiamo vedere? Va be’, almeno mi vedo un po’ di Roma.” Che caspita, Michele ha ragione. Qui è davvero possibile vedere un po’ di Roma, e anche di più. Ci passano accanto i turisti, riconoscibili al volo, dagli occhiali da sole, a volte dal

colore dei capelli, o dai calzini lunghi sotto i bermuda. Sulle bancarelle, accanto ai libri, ritratti, cartoline e calamite del papa fanno compagnia ad altri cliché miniaturizzati (colossei, san pietri, castel sant’angeli, lupe che allattano gemelli), che intendono confermare i pregiudizi degli stranieri e restringere le soglie del “tipicamente romano”. I centurioni ci vengono incontro

con

atteggiamenti

intimidatori,

ci

scambiano

per

turisti e vogliono farsi riservare un posto ilare nell’album dei nostri ricordi romani, ci sorridono dicendo ovvietà, facendosi schiavizzare dai luoghi comuni: “Daje! Pupone! Quanto sei bella Roma! Anvedi che sole! Mica c’avemo la nebbia, noi!” Sono come souvenir ambulanti. Non è altro che il meccanismo digestivo di cui ha parlato il poeta Valerio Magrelli, che appare in Caro diario,

la

“lunga

opera

d’assunzione

che

vide

gli

stranieri assimilare Roma almeno quanto Roma li assimilò a sua volta”. Non

ci

rimane

che

percorrere

il

ponte,

lasciandoci

alle

spalle il castello, osservare il percorso del Tevere e scoprire che qualcuno, in preda all’ottimismo, tenta perfino la pesca. Il cielo, umorale e volubile, si impegna a posare per la solita cartolina d’epoca. Dopo due cortometraggi (Pâté de bourgeois, La sconfitta) e il mediometraggio Come parli, frate? (parodia dei Promessi sposi), nell’autunno del 1976 arriva il primo lungometraggio di Moretti: Io sono un autarchico. Il titolo, sostiene l’autore, si riferiva

all’“autosufficienza

protagonista”.

Altri,

sentimentale

diversamente

da

e

sessuale

Moretti,

del

l’avevano

interpretato come la rivendicazione di un’autonomia assoluta, di uno che scrive, gira, dirige, produce e che, dunque, fa tutto da solo. Il film comincia con una porta che si chiude, una telefonata deludente e una coppia in crisi. Michele,

il

protagonista,

è

un

giovane

disoccupato,

mantenuto dal padre: “Ciao papà, senti, sì sto bene, allora mi lasci

il

solito

assegno

mensile

da

duecentomila?

Sì,

come

sempre, certo. Come ogni mese, certo… Casomai qualcuno si chiedesse: questo, come vive? Chi lo mantiene? Ha una casa, eppure non lavora… Così abbiamo chiarito, no?” Moretti irrideva così l’alone di mistero dei “miti d’oggi” e di

allora,

ostentano

i

giovani

che

non

un’indipendenza

abitano

fittizia.

In

più

con

poche

i

genitori

battute,

e

rivela

l’inadeguatezza dei presunti rivoluzionari, stereotipati, ricchi di parole senza sostanza. Simbolica, in tal senso, sarà la scena sul prato in Ecce Bombo,

con

una

serie

di

luoghi

comuni

gravitanti intorno alla domanda “che lavoro fai?” Altri luoghi comuni assediano la coppia in crisi di Io sono un autarchico, formata da Michele e dalla moglie Silvia (nome ricorrente nei film di Moretti). Il figlio piccolo assiste alle discussioni, come fosse parte del pubblico in sala.

“Che caspita! Sempre a Castel Sant’Angelo ci dobbiamo vedere? Va be’, almeno mi vedo un po’ di Roma.”

SILVIA:

Come

faccio?

Come

faccio?

Non

riesco

più

a

leggere, a fare niente, ad avere una vita mia. MICHELE: Questo c’era nei film americani di quarant’anni fa, mi pare i tempi siano cambiati. SILVIA: Ma perché ci siamo sposati? MICHELE: E mica mi ricordo perché, perché, sì lo so, eh ma, no, non so, eh?! Poco dopo, Silvia lo abbandona e porta via con sé il figlio, scatenando una reazione melodrammatica di Michele. Intanto Fabio (Fabio Traversa), attore fallito, intende riunire amici e conoscenti per mettere su uno spettacolo di teatro sperimentale in una sala di via degli Scipioni, quartiere Prati. Tra risposte fugaci e faticati consensi, Fabio è costretto ad ascoltare anche l’istrionico Giorgio (Giorgio Viterbo), professore in erba, che si diletta al telefono imitando Moravia: “La bandiera? No, non la porto più! No, non la porto più la bandiera, m’hanno già menato tre volte. La deve porta’ Arbasino che c’ha pure un bandierone! Siciliano? Ma che vie’ pure Siciliano? No, ’n ce vengo più! No, non sai che combina quello, no!” Moretti

azzarda

una

parodia

dell’ambiente

intellettuale

romano, evocandone una delle figure di spicco, il romanissimo Moravia. E sarà proprio l’autore degli Indifferenti a scrivere uno

dei

commenti

più

rilevanti

all’esordio

morettiano:

“Io

sono un autarchico è un buon film comico perché è un film che rileva la consapevolezza critica del regista nei confronti della società giovanile che si è rivelata negli anni sessanta. Del resto il titolo è indicativo. Secondo il titolo, la rivoluzione del ’68 sarebbe almeno in parte autarchica; vale a dire che, sotto di essa,

spuntano

gli

eterni

problemi

della

nostra

piccola

borghesia mediterranea.” Ogni tanto, Michele ha la possibilità di passare un po’ di tempo con il figlio, cui trasmette una delle sue passioni più grandi:

i

dolci

(subito

un

classico

del

cinema

di

Moretti).

Oppure cerca di spaventarlo (“Chiamo la vecchia? O chiamo lo scimmione che sta di là in camera mia?”), con la vana speranza che spenga la luce e si metta a dormire. Intanto, Fabio

organizza

spettacolo,

così

diversi che

incontri

possano

con

gli

conoscersi

attori e

scelti

per

lo

comprendere

le

istanze del suo “sperimentalismo”. Ma uno dorme, un altro

accenna qualche nota con la chitarra, altri dialogano dei fatti propri: niente di quello che dice risulta accattivante. Quella di Moretti è una Roma nascosta, privata e intima: strade tra quartiere Prati – via San Tommaso d’Aquino – e quartiere Trieste – via degli Appennini –, case, stanze in cui la noia ha quasi sempre la meglio. Fabio, assieme agli altri, se ne allontana

per

poco

e

invano,

facendo

un

ultimo

tentativo

disperato di “affiatamento” del gruppo. Gli amici si spostano in

collina

Porziano





Canale

per

un

Monterano,

po’

di

Tor

San

allenamento

Lorenzo,

fisico.

E

Castel

proprio



Michele fingerà di cogliere un’occasione ideale e necessaria di fuga:

dai

rumori, il

dalle

appunto.

Lungo

bandiera

giallorossa,

persone,

cammino, diretto

dalla

incrociano allo

civiltà, un

stadio

a

da

tale,

Roma

munito

vedere

il

di

derby.

L’immagine, simbolica, esaspera i toni e le distanze dalla città, e suscita in Michele l’ennesima reazione isterica, di uno che si sente esiliato dal mondo e ha perso il senso del tempo: “C’è il derby! C’è Roma-Lazio!” Tornato in città e messa alle spalle la tentazione di fuggire, Michele

discorre

svogliatamente

con

Fabio:

“Ventimila

tesserati in più per quest’anno, per il nostro Partito, come se fossero Ecco

abbonamenti

un

probabile

della

indizio

Roma della

per fede

lo

Stadio

Olimpico.”

calcistica

morettiana.

Come in ogni leggenda che si rispetti, qualcuno racconta di averlo visto guardare le partite della Roma, teso, partecipe, empatico con i giocatori in campo e affetto da un nomadismo compulsivo, che lo induceva continuamente a cambiare posto. “Sono

un

credere Moretti?

tifoso

moderato,”

all’aggettivo

così

“moderato”,

si

è se

definito.

Ma

attribuito

a

si

può

Nanni

Strade, case, stanze in cui la noia ha quasi sempre la meglio.

Non mancano, in Io sono autarchico, le stilettate contro il cinema italiano (torneranno ferocemente, qualche anno dopo, in Ecce Bombo e in Sogni d’oro): “Alt! Alt, consigliati

oggi

dal

giornale.

Attenti

al

Fabio, i film

buffone,

Divina

creatura, L’importante è amare, Garofano rosso, Amici miei, Pasqualino Settebellezze. Pasqualino Settebellezze, Fabio. Ma perché i critici consigliano questi film? L’innocente? Ma forse perché gli piacciono veramente? Dai, non è possibile!” D’altra parte il suo primo film venne proiettato per la prima volta in una sala d’essai: al Filmstudio, un’associazione culturale in via degli Orti d’Alibert, zona Trastevere. Nel ’77, in una puntata di Match, un programma televisivo che andava in onda su Rai3, condotto da Alberto Arbasino, Moretti ebbe l’occasione ghiotta di confrontarsi vis-à-vis con uno dei maestri dell’odiatissima commedia all’italiana, Mario Monicelli. Alla provocazione di Monicelli, che definì Io sono un autarchico un esempio moderno di commedia all’italiana, Moretti smentì categoricamente: “A parte il fatto, appunto, che non ho capito bene cosa sia questa commedia all’italiana, dico sempre, se ho capito un po’ che cos’è, che ci sono attori noti, si vuole un po’, bisogna un po’ compiacere il pubblico, si vuole ammiccare abbastanza. A me pare di aver fatto una cosa abbastanza avara.” Quanto a stilettate, sperimentale: movimenti scenette

musica

ce n’è anche e

danza

meccanici

nonsense.

e

La

che

rimpiazzano

stranianti

figura

del

per il teatro cosiddetto le

dell’attore

critico

parole,

i

marionetta,

teatrale

che

Fabio

insegue telefonicamente durante le prove, per convincerlo ad assistere

allo

spettacolo,

è

pienamente

inserita

in

questo

quadretto veritiero, ironico e dissacrante (si pensi, fra le altre, alla battuta: “Rileggendo Il Capitale, mi è sembrato un po’ kitsch!”).

E,

come

l’avanguardia

comanda,

c’è

anche

il

coinvolgimento degli spettatori, tirati per la giacca a diventare attori. Tra gli spettatori coinvolti, appare anche Luigi Moretti, padre di Nanni, che apparirà spesso nei suoi film, in ruoli sempre diversi: in Ecce Bombo leggerà le sue poesie a una radio

privata,

in

Sogni

d’oro,

sarà

un

produttore

cinematografico, in Bianca, lo psicologo della scuola Marylin Monroe,

in

Palombella

rossa,

un

sindacalista

comunista

e

smemorato. Vista la reale professione del padre – professore di

epigrafia greca – tra lui e il regista c’era una sorta di patto: non doveva comparire nei titoli, né di testa né di coda; nei trailer; e non dovevano esserci sue foto sui giornali. Moretti, in questo film,

riserva

una

piccola

parte

anche

al

fratello

Franco,

studioso di letteratura, che interpreta un “buddista italiano”. Il finale coincide con la conclusione dello spettacolo, che Fabio vorrebbe posticipare aprendo un dibattito. Niente da fare, dal pubblico si alza un urlo: “No! Il dibattito no!” gb

ECCE BOMBO (1978)

Prati | Villa Pamphili | Tor di Quinto | Ostia

“Per me, quel sole che noi abbiamo aspettato per tanto tempo, quella notte a Ostia, e che poi spuntava dalla parte opposta, per me è stato un segno, un invito a capire. Secondo me, in questo periodo, noi stiamo sbagliando pressoché più o meno tutto.”

Esiste

un

luogo

tranquillo,

nel

quartiere

Prati,

da

cui

è

possibile ignorare la M bianca della metro su fondo rosso, non sentire

gli

odori

confusi

delle

pizzerie

quasi

nostrane,

non

accostarsi a manichini griffati in bella vista dietro le vetrine, non ricevere spallate per le quali non c’è il tempo di ricevere le scuse.

Questo

assecondano

luogo

la

è

forma

piazza

circolare.

dei

Quiriti.

Questo,

più

I

passanti

che

mai,

ne

è

lo

spazio della quotidianità. Al centro di un girotondo di cipressi e pini, una fontana provocante e scostumata, in una danza immobile di quattro statue di nudo femminile. L’inaugurazione delle sculture, nella primavera del 1928, fu rinviata per via delle delle

proteste

di

cariatidi.

cittadini

Che

puritani,

intanto

ci

scandalizzati

osservano,

dalla

posa

inscenando

un

carillon sensuale, e noi ricambiamo lo sguardo. Molti, seduti sulle

panchine,

le

ignorano,

pensano

a

sfamare

gabbiani

e

uccelli di ogni tipo. Ignorano le statue, la fontana, la piazza e naturalmente il fatto di essere seduti sulla stessa panchina di Michele Apicella, mentre dichiarava, in una scena di Ecce Bombo: “Come sono fatto male! Come sono fatto male!” Ci sediamo anche noi, afferrata la ragione di una delle tante ricorrenze morettiane: “Visti a partire dalla panchina, sono la percezione stessa e il suo

oggetto



il

mondo



ad

apparire

in

una

luce

altra”

(Michael Jakob, Sulla panchina). È dunque anche una storia di panchine, la storia di Ecce Bombo. Quella di piazza dei Quiriti e quelle – a quasi sei chilometri

e

diversi

fotogrammi

di

Pamphili, altro scenario romano del film.

distanza



di

Villa

Questo luogo è piazza dei Quiriti. assecondano la forma circolare.

I

passanti

ne

“Anch’io

voglio

andare

a

Villa

Pamphili,

mi

ci

porti?”

domandava un bambino a una mamma dopo essersi impicciato di una proposta fatta da un’altra mamma a un altro bambino, e aver

visto

quest’altro

bambino

manifestare

in

uno

sguardo

tutta la sua felicità. Non è un luogo comune, Villa Pamphili. Oltre centottanta ettari di terreno, aperto al pubblico nel 1972, qualche anno prima di Ecce Bombo. Fermandoci di fronte al parco, dove volano i palloni e sfrecciano le biciclette, pensiamo subito di aver dimenticato qualcosa, di esserci persi un dettaglio, magari un

divieto

abbondano

d’ingresso e

i

rivolto

padri

ai

padri.

mancano.

C’è

Perché una

qui

le

madre

madri

che

fa

l’insegnante, non guadagna molto, si sa, però è felice. È felice perché torna a casa per l’ora di pranzo e il pomeriggio può portare i figli a Villa Pamphili, e aspettare che costruiscano lì la propria infanzia. Belle le madri che parlano con altre madri: uno

dei

rari

formalità.

casi

Moretti

in

cui

avrebbe

è

possibile

forse

innamorarsi

preferito

questo

di

una

scenario

limpido, salubre, puro, diverso da quello hippie presente nel film, con un paradossale “Festival della felicità”. In cerca di panchine, due anni dopo l’esordio, Moretti torna con un film girato in presa diretta, tenendo il filo con Io sono un autarchico. “Se Ecce Bombo fosse andato male – racconta il regista – la colpa l’avremmo data al titolo.” Le alternative erano: Sono stanco delle uova al tegamino, Piccolo gruppo, Delirio d’agosto, Senza caviglie. Alla fine, Moretti ha scelto un suono, un rumore, la voce squillante di uno straccivendolo che gridava per strada: “Ecce Bombo! Ecce Bombo!” Nel film, uscito una settimana prima del sequestro Moro, un gruppo di giovani di sinistra, ex sessantottini, appartenenti alla piccola e media borghesia romana, sentendosi soli, annoiati e disillusi, decidono di smetterla con la politica e di dedicarsi, invece,

all’autocoscienza.

Michele

Apicella

(ovviamente

Moretti) è al centro di un gruppo di giovani “invecchiati”. Passa parecchio tempo in compagnia di alcune ragazze, con le quali alterna monologhi e silenzi. Come con gli amici, esiste un problema di fondo: vogliamo chiamarlo incomunicabilità? Le donne, momentanee comparse, sembrano somigliarsi tutte. E

lui?

“Come

sono

fatto

male!

Come

sono

fatto

male!”

confessa, appunto, sulla famosa panchina di piazza dei Quiriti,

seduto

accanto

confessione

a

un’amica

suona

dei

meccanica,

tempi

del

artefatta,

liceo.

come

La

sua

recitasse

una

parte nel vano tentativo di giustificarsi. O quando Silvia – la sua

presunta

compagna



parte,

lo

saluta

alla

Stazione

Ostiense, e lo abbandona per andare “fuori Roma” (forse è proprio questo il vero tradimento: uscire dalla città) in cerca di fortuna. Intanto Michele è conquistato da Flaminia, ignorando il fatto che sia la compagna del suo amico Cesare. La chiama a casa, fortunatamente risponde lei: “Ti volevo chiedere se ci potevamo

vedere

per

innamorarci

di

me.”

In

un

lapsus

apparente, costruito, previsto, c’è la sintesi efficace del suo egocentrismo.

Poi

si

vedono,

di

nascosto,

e

parlano

svogliatamente: FLAMINIA: Non capisco cosa c’è sotto. MICHELE: Cosa c’è sotto? FLAMINIA: Non lo so, te lo domando a te se c’è un motivo. MICHELE: Il motivo è in se stesso, e poi con te sto bene. FLAMINIA: Ma che stai bene! Ci siamo visti una volta e già dopo un’ora te ne saresti scappato. Già comunichiamo così poco, figuriamoci facendo l’amore. MICHELE:

Non

lo

so

se

c’entra,

abbiamo parlato talmente tanto…

sai?

Va

be’,

ormai

ne

“Come sono fatto male! Come sono fatto male!”

Quando si ritrovano in macchina, lei racconta di aver detto a Cesare del loro incontro. “Sta d’un male,” confessa Flaminia, ed

è

l’occasione

per

Michele

di

mostrare

tutto

il

suo

disinteresse, in un’aridità sempre attenta alla forma e mai ai contenuti: “Sta male, non sta d’un male! A Milano dicono sta d’un male, sta d’un bene…” È il dominio della noia, della solitudine che resiste anche in compagnia, come nella scena del prato, zona Tor di Quinto, resa celebre dalla battuta di Cristina: “Giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose.” Michele

si

definisce

“molto

possessivo”,

tanto

abile

nel

pretendere una presenza femminile quanto nell’allontanarla, una volta raggiunta. In una delle riunioni di autocoscienza con gli

amici,

rivela

chiaramente

le

sue

preferenze

empiriche

nell’evolversi di una non-storia: “Del rapporto con una donna mi piace l’innamoramento e corteggiamento, la prima volta che si fa l’amore, anzi i preparativi della prima volta, e quando ci si lascia. E restano i ricordi e la voglia d’incontrarsi per poi non saper più cosa dire.” Gli amici, il “piccolo gruppo” di amici somiglia più che altro a un arcipelago. Le loro riunioni, nella premessa nobile di colmare

le

distanze,

risultano

fallimentari

e

tradiscono

il

concetto stesso di “gruppo”, di “collettivo”, di “comunità”. A consacrare il loro inesorabile destino d’individui, è un’intera notte passata sul litorale di Ostia ad attendere l’alba. Il cielo comincia a farsi chiaro, ma non si accorgono dell’arrivo del sole,

che

ha

deciso

di

sorgere

alle

loro

spalle.

Potrebbe

apparire comica e paradossale, ma l’espressione attonita sui loro volti conferisce alla scena un retrogusto amaro. Infatti, in una delle loro riunioni, Mirko (Fabio Traversa) commenterà così l’accaduto: “Per me, quel sole che noi abbiamo aspettato per tanto tempo, quella notte a Ostia, e che poi spuntava dalla parte opposta, per me è stato un segno, un invito a capire. Secondo

me,

in

questo

periodo,

noi

stiamo

sbagliando

pressoché più o meno tutto.” Sono

tutti

inettitudine teorico,

coscienti

relazionale,

accettando

innato,

necessario,

Sastri),

una

dei ma

propri

rimangono

passivamente

il

generazionale.

ragazza

limiti,

schizofrenica

della

fermi

a

vittimismo

Persino ospitata

con da

un

propria discorso

come

fosse

Olga

(Lina

Mirko,

non

riescono a trovare lo stimolo giusto per uscire da se stessi. E le scene finali, fra Stadio Flaminio, piazza Caprera, lungotevere della

Vittoria,

negano

definitivamente

una

loro

possibile

redenzione, visto che – più per noia che per altro – decidono tutti di andare a trovare Olga, che è “un periodo che sta un po’ male”.

In

verità,

decisione.

solo

Trovandosi

Michele, davanti

però,

a

lei,

tiene

fede

senza

a

questa

ragioni,

senza

redimersi, senza dir nulla. Ecce Bombo è ormai un classico. Ed è il film che consacra Moretti, in cui lui stesso comincia a riconoscersi, a definire forse una poetica. La parodia di certe forme di partecipazione politica,

svelate

voyeurismo,

in

nella

loro

versione

sterile

telefonica.

autoreferenzialità. I

traumi

infantili,

Il che

Michele/Nanni rievoca e sui quali disegna la sua condizione esistenziale. La romanità dei luoghi e degli accenti: “Silvia, non la Silvia! Mamma, fortunatamente siamo a Roma, non a Milano. La Silvia, il Giorgio, il Pannella, il Giovanni. Cacare, non cagare! Fica, non figa!” In una delle scene finali, ambientata su una delle chiatte ormeggiate sul Tevere, si coglie l’importanza che hanno per Moretti – nei film e nella vita – la musica, il ballo. Ma il timbro

d’autore

è

l’ironia

sottile

e

spiazzante

di

alcune

conversazioni diventate proverbiali. Al telefono chiede: “Mi si nota più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?” In un bar di viale Carso, da cui poi viene cacciato, urla: “Ma chi è che sta parlando, chi è? ‘Rossi e neri sono tutti uguali’, ma che siamo in un film di Alberto Sordi?” “Con Ecce Bombo – ha confessato Moretti –, credevo di aver fatto un film doloroso per pochi, e invece mi resi conto di aver

fatto

un

film

Paradossalmente,

comico

questa

per

molti,

“discrepanza”

se

non

per

tutti.”

nietzschiana

(Ecce

homo, non a caso) tra Moretti e i suoi contemporanei sarà una delle ragioni principali della sua fortuna. Ha scritto il filosofo Giorgio

Agamben:

veramente

contemporaneo

perfettamente perciò,

in

“Appartiene

con

questo

esso



senso,

si

veramente

colui

che

adegua

alle

inattuale;

ma,

al

suo

tempo,

non sue

coincide

pretese

proprio

è

per

ed

è

questo,

proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo” (Che cos’è il contemporaneo?).

gb

SOGNI D’ORO (1981)

Monteverde | Prati | Pinciano

Un cancello rosso, muri screpolati sui quali gli studenti ripassano a modo loro i libri di storia. Liceo Manara, quartiere Monteverde.

Un

cancello

rosso,

muri

screpolati

sui

quali

gli

studenti

ripassano a modo loro i libri di storia: falci e martelli che coprono

celtiche,

sigle

antifasciste

che

ricorrono

percorso, saluti di disprezzo al capitano delle

SS

lungo

il

Priebke. Liceo

Manara, quartiere Monteverde. È il liceo che compare in Sogni d’oro. Una volta entrati, oltre un passaggio alberato, la viva sensazione di trovarci in una scuola che non è mai cambiata. Sulle pareti dal bicolore avventato, tra verde acqua e marrone chiaro tendente al giallo, bacheche, fotografie in bianco e nero, cartelloni

che

riassumono

in

uno

schema

il

pensiero

di

Platone. In

un’aula,

Leopardi.

c’è

Non

ci

il

professor

sembra

Michele

entusiasta,

Apicella

tutt’altro.

che

spiega

Ma

poi

ci

ricordiamo che lui in realtà, o quasi, è un regista, e che in quel momento sta solo sognando di insegnare Leopardi. E forse nel sogno, Apicella cerca di giocare con la memoria, di tornare sui banchi di scuola ma dall’altra parte. Con molta fatica. A

differenza

del

protagonista

del

film,

noi

non

stiamo

sognando. Non avendo più l’aspetto di maturandi, i professori ci trattano come fossimo studenti nostalgici che ritornano sui propri passi. A noi questo ruolo non dispiace, e ci muoviamo come

se

conoscessimo

i

luoghi,

come

se

sapessimo

che

è

possibile vedere il cortile dalle finestre, che la biblioteca si apre con un messaggio di Seneca, che i registri di classe – la mattina presto – riposano sui tavoli vicino all’ingresso. Una volta usciti, non lontano dal liceo Manara, ci avviamo verso una pasticceria. Una delle poche entrata nelle grazie di Nanni Moretti: Dolci Desideri, in via Anton Giulio Barrili. La vetrina mette in mostra la grande famiglia delle torte, e ci sembra quasi di vedere Apicella che ce le presenta, che ne declama i nomi secondo un ordine d’importanza, proprio come accade in Sogni d’oro, anche se in un’altra pasticceria, in un altro quartiere. Per arrivare alla Sacher Torte, la sua preferita, guardarla come fosse la prima volta e poi chiudere gli occhi, con lo stupore di chi recupera un pezzo di infanzia felice.

Liceo Manara, quartiere Monteverde. Una volta entrati, oltre un passaggio alberato, la viva sensazione di trovarci in una scuola che non è mai cambiata.

Sogni d’oro, terzo lungometraggio dal titolo ironico, è anche un

ritratto

fedele,

dall’archetipo

lucido

materno.

del

figlio

Michele

schiacciato Apicella

dolcemente

(Moretti

che

interpreta sé stesso, con un nome diverso e con il cognome della madre Agata, insegnante di liceo) sta girando il suo terzo film da regista, La mamma di Freud, in cui cerca di risolvere dubbi, angosce, fragilità, chiamando in causa il padre della psicanalisi. Michele e Freud (o presunto tale, come vedremo) condividono rapporto

il

con

complesso

l’universo

edipico

e

femminile.

la

Ogni

mancanza tanto,

di

un

Michele

si

addormenta, e si ritrova nei panni di professore di letteratura (oltre al cognome, nella dimensione onirica, Moretti riprende anche il mestiere della madre). E solo lì, solo nei suoi sogni “d’oro”,

si

concede

l’incontro

con

una

donna

(una

sua

studentessa, Laura Morante) che lo tormenterà al punto da portarlo alle soglie della pazzia e della mostruosità. Un film sul film nel film: Moretti gioca e si diverte con la “triplice intesa”: nuovi registi-critici-pubblico medio. I nuovi registi intendono ingraziarsi il pubblico medio (“Prova a farlo vedere a un bracciante lucano, a un pastore abruzzese, a una casalinga di Treviso!”) e strizzano l’occhio ai critici, perché bisogna cambiare. successo: “per

il

tutti”.

Hanno capito

disimpegno, Oramai,

i

bene

mascherato

film

di

qual è

da

la

impegno

Moretti/Apicella

chiave del leggero vanno

e in

direzione “ostinata e contraria”. Due registi a confronto, dunque. Michele Apicella e il suo cinema

d’autore;

Gigio

Cimino,

regista

ingenuo

e

poco

originale. Tra i due sfidanti, il secondo, ovviamente, ha quasi sempre la meglio. L’unico momento in cui Moretti/Apicella s’aggiudica il consenso degli spettatori presenti è nella sfida a parole.

Per

vincere,

però,

è

costretto

a

riscoprire

la

sua

romanità. E la riscopre attraverso l’insulto e la parolaccia. E quindi

vince,

sì,

con

“schiacciante

maggioranza”.

“La

volgarità, purtroppo, ha trionfato ancora una volta.” Nel finale, Apicella riserva un saluto speciale e sincero al pubblico ottuso, incolto, “a una dimensione”, che non è mai stato in grado di comprenderlo davvero: “Pubblico di merda! Pubblico

di

merda!

Pubblico

di

merda!”

E

il

pubblico,

grottescamente, non può che essere d’accordo con lui, urlando contento: “Pubblico di merda!”

Apicella vive ancora con la madre. Scopriamo la sua stanza, la sua vecchia stanza: il letto a una piazza, la scrivania piena di carte, le mensole cariche di libri, la schiera ordinata di vinili consumati, una foto in bianco e nero dall’effetto straniante che ritrae Michele (e quindi Moretti) con la macchina da presa. Moretti ha voluto riprodurre, nell’ordine dei suoi ricordi, la sua vecchia camera, quando abitava con i genitori in via San Tommaso D’Aquino, zona Trionfale. E proprio da lì, dove è andata in scena la “tragedia dell’infanzia”, il film comincia a muoversi fra sogno e veglia. Michele pensa a un nuovo film, un film su Freud che vive con la vecchia madre, e poi si addormenta. Si ritrova in classe, stavolta dall’altra parte della cattedra, dalla parte dell’autorità, a spiegare svogliatamente il pessimismo leopardiano. C’è chi si alza in piedi e declama versi, chi mangia, chi gioca a scacchi: nessuno lo ascolta. “Mi fate veramente schifo,” dice loro il professor Apicella, e pare che

il

sentimento

sia

reciproco.

Questo

non

risulta

solo

dall’assoluta indifferenza dei tanti, ma anche dallo sguardo freddo e immobile di una studentessa di nome – ancora una volta – Silvia (Laura Morante) che lo rimprovera per il modo di relazionarsi agli altri, richiamando – freudianamente – le innumerevoli

colpe

della

veglia,

colpe

di

cui

Michele

è

profondamente cosciente: “Non le interessa tutto quello che c’è fuori dalla sua stanza, cosa succede nel mondo, che vita fa la gente. Lei si occupa solo di sé stesso. Non ha speranze, non ha illusioni, non ha passioni. Lei è un arido, la sua vita è inutile e io la disprezzo.”

Silvia, suggestione leopardiana, che prima lo biasima, poi si vede con un altro, prima lo illude davanti a un caffè – gelateria Fassi, corso d’Italia – e poi parte.

Sarà proprio lei la figura centrale e lacerante dei “sogni d’oro” di Michele Apicella. Silvia, suggestione leopardiana, che prima lo biasima, poi si vede con un altro, prima lo illude davanti a un caffè – gelateria Fassi, corso d’Italia (non c’è più da molto tempo) – e poi parte, sempre con un altro e mai con lui, si allontana e lo lascia a terra, mentre grida, scalcia e si agita, in preda al dolore dell’abbandono. Quando si sveglia, Apicella si trova sul set per le riprese del suo terzo film: La mamma di Freud. La trama è semplice: Freud, o meglio un tale che è convinto di essere Freud (Remo Remotti), nonostante sia molto avanti con gli anni, convive ancora con la vecchia madre e si comporta come se non avesse mai superato la fase infantile. Le fa i dispetti, controlla nella busta della spesa il cibo appena comprato, si fa cantare la buonanotte in tedesco. In realtà, fu proprio Remotti a scrivere questo piccolo copione (La mamma di Freud) e a portarlo a Moretti

che,

entusiasta,

decise

di

usarlo

nel

suo

film.

Il

copione, ha poi confessato Remotti, era molto fedele alle sue esperienze, sempre

al

rapporto

ritenuto

un

con

cretino.

una “I

madre

libri

di

castrante

che

psicologia



l’ha

scrive

Remotti nella sua autobiografia – ci insegnano che ai bambini bisogna rivolgersi come se fossero degli adulti, e invece queste madri si rivolgono ai loro figli adulti come se fossero sempre dei

bambini.

Se

poi

reagisci

fermamente

o

addirittura

brutalmente, sei lacerato dai sensi di colpa. È un gioco al massacro” (Ho rubato la marmellata). Tra il film e il “film nel film” i rimandi sono numerosi. In una scena, Michele è a tavola con la madre e due convitati. Lei parla

e

risponde

con

luoghi

comuni,

con

frasi

fatte,

con

ovvietà, come farebbe la madre più comune con ospiti a cui non ha nulla da dire, e questo Michele non può accettarlo. Perciò comincia a infastidirsi e inizia a cantare una canzone di Mina (Non

credere):

“No,

non

crederle,

tu

per

lei

sei

un

giocattolo!” Poi comincia a schiaffeggiarla, biasimandola per i suoi “discorsi da autobus”. “Perché non te ne vai da questa casa?” intima lei. “Non me ne andrò mai da questa casa, non lo

voglio

superare

il

complesso

di

Edipo!”

urla

lui.

I

due

convitati, nel film, sono due aspiranti registi che importunano Michele riprese

e

con

numerose

imparare

telefonate,

qualcosa.

volendo

Saranno

anche

assistere le

vittime

alle del

celebre sfogo “Io non parlo di cose che non conosco!”, che Michele

stesso

placherà

attraverso

la

sacra

contemplazione

della Sacher, esposta in una delle pasticcerie storiche di Roma, Antonini, in via Sabotino, zona Prati.

La sacra contemplazione della Sacher, esposta in una delle pasticcerie storiche di Roma, Antonini, in via Sabotino, zona Prati.

“Questa è una delle poche pasticcerie di Roma dove fanno la Sacher Torte.”

In un’altra scena, “Freud” sta discutendo al telefono con Jung: “Sto lavorando molto, sì, soprattutto su mia madre. Vivo ancora

con

lei,

dell’autoanalisi!”

per

poco.

La

Autoanalisi,

telefonata

viene

Gustav,

interrotta

qui

si

fa

dall’arrivo

della madre, che “Freud” riconosce dai più piccoli rumori. Allora si nasconde, la sorprende nascondendosi, la abbraccia e poi finge di strozzarla: “Bella pacioccona! Che bella mamma! La

più

bella

mamma

del

mondo,

bella

come

il

sole!

Io

l’ammazzo! Io ammazzo mia madre!” Nella scena finale del film, ambientata nel bar Giolitti, al laghetto dell’EUR, ancora i sogni, i “contenuti latenti” oramai manifesti, da cui Michele “non si salverà”. Silvia è ritornata da un viaggio e dice, con un po’ di ovvietà, di sentirsi cambiata. Durante la cena, mentre lei tenta di ricucire i rapporti, Michele si accorge di non essere più in grado di ascoltarla e perde definitivamente ogni aspetto umano: “Sì! Sì! Sono un mostro. E ti amo!” Lei scappa via e lui la insegue. Che

sia

questa

l’unica

forma

d’amore

possibile,

per

Apicella? gb

BIANCA (1984)

Aventino | Monteverde | Monte Mario | Villa Borghese

MICHELE: La felicità è una cosa seria, no? Ecco, allora, se c’è dev’essere assoluta. BIANCA: E che vuol dire? MICHELE: Vuol dire senza ombre, senza pena. È difficile per tutti, per me invece è impossibile.

“Io i posti – ha confessato Nanni Moretti – i ristoranti, i bar, i

negozi

li

scelgo

non

per

come

si

mangia

o

perché

sono

rinomati, no: mi devo sentire a mio agio. Per me conta la familiarità, Quando

il

calore,

la

quello

che

trovo

situazione mi

del

piace,

suono,

mi

dei

rumori.

entusiasmo

e

vado

soltanto lì. Tendo a frequentare sempre gli stessi posti, anche con i cinema è lo stesso.” Come dice il suo alter ego in Bianca, lui sceglie di voler bene, e quando sceglie è per sempre. Se è in una

traversa

a

un

passo

da

piazza

Albania



via

di

Sant’Alessio – che Michele, nascosto e attento a non farsi vedere, assiste al commiato tra Bianca e il compagno, bisogna spostarsi a Monteverde per trovare la scalinata grigia su cui si affaccia la casa di Bianca, via Giovanni Pantaleo, che lega via Aurelio

Saffi

Monteverde

a

via

Fratelli

vecchio,”

ha

Bandiera.

dichiarato

“Il

mio

Moretti:

quartiere

qui,

oltre

è ai

profondi sospiri di Bianca, sono sparsi tasselli di Caro diario. In

via

Giano

Parrasio

c’è

l’officina

del

meccanico

Carlo

Faluomi che, avendo restaurato la Vespa di Nanni, è divenuta un

piccolo

“tempio

cinefilo”.

Nei

pressi,

c’è

la

pasticceria

Dolci Desideri, di cui Moretti è un abituale cliente. La scuola di Sogni d’oro, il liceo Manara. Villa Sciarra, dove Moretti andava con il figlio Pietro a portar fuori il cane Tempesta. Bianca esce nel 1984. L’intenzione del regista sembra quella di

ispessire

matematica, Marylin

la

trama,

Michele

Monroe

(si

il

filo

Apicella, tratta

narrativo. viene

della

Un

professore

assunto

scuola

nella

primaria

di

scuola

Giacomo

Leopardi, zona Monte Mario, che si intravede anche in Aprile) dove incontra e si innamora di Bianca. L’ambiente scolastico è surreale, visto l’entusiasmo folle del preside (Dario Cantarelli, il critico pedante di Sogni d’oro), un vecchio bar, una palestra adibita a sala giochi, il professore di storia (Giorgio Viterbo, già presente nei primi tre film) che tiene una lezione su Gino Paoli, e la presenza di uno psicologo (interpretato dal padre del regista), riservato unicamente alla classe insegnante. Intanto, il professore si stabilisce in una nuova casa fra Trastevere e il Gianicolo.

Comincia

a

osservare,

a

spiare

i

suoi

vicini,

a

cercare qualcosa nelle loro vite, scoprendole più interessanti della

propria.

Alla

maniera

hitchcockiana

(La

finestra

sul

cortile), ma senza l’aiuto di un binocolo e di una donna al suo fianco, Michele entra nelle case con lo sguardo. Conosce così Siro Siri, l’inquilino del piano di sopra, interpretato da Remo

Remotti

(“Freud”

in

Sogni

d’oro),

l’anziano

che

si

accompagna a giovani donne. Che altro? Una coppia logorata da litigi e tradimenti, che Moretti segue dal suo osservatorio speciale, la terrazza; un’altra coppia, in questo caso “aperta”, che millanta un benessere apparente. Entrambe le coppie, però, vengono

coinvolte

in

misteriosi

omicidi.

Il

commissario

comincia a convincersi che l’assassino possa essere uno e non di più: “Uno che entra in casa della gente come un amico, ma che non è un amico.” I sospetti ricadono su Michele, l’unico che

conosce

tutte

“coppie felici”.

le

vittime.

A

lui,

in

fondo,

piacciono

le

Bisogna spostarsi a Monteverde per trovare la scalinata grigia su cui si affaccia la casa di Bianca, via Giovanni Pantaleo, che lega via Aurelio Saffi a via Fratelli Bandiera.

Michele e Bianca lo saranno? Si incontrano a scuola, lei è un’insegnante di francese. Lui vive solo, lei convive con un uomo. L’unica rottura che Michele accetta è proprio quella tra Bianca e il suo compagno. Michele la spia, la segue, anzi la pedina,

per le vie alberate dell’Aventino. In

uno dei primi

incontri, tutti all’insegna dei dolci, Bianca va a casa di Michele e gli porta un po’ di gelato.

Ed è in una traversa a un passo da piazza Albania – via di Sant’Alessio – che Michele, nascosto e attento a non farsi vedere, assiste al commiato tra Bianca e il compagno.

MICHELE: Qui dentro che gusti ci sono? BIANCA: Fragola, limone, croccantino e panna. MICHELE: E per chi è? BIANCA: È per te! MICHELE: Ma non stanno bene insieme. BIANCA: Io invece credo di sì, hai mai provato? MICHELE: No. BIANCA: E allora come fai a saperlo? MICHELE: Ma le cose mica bisogna provarle per sapere se vanno bene oppure no, lo si può prevedere. Così, poi, non si fanno errori. Senza neanche essersi seduti a tavola, Michele e Bianca sono già al dolce. Vanno bene le coppie felici, ma lui con la felicità ha un rapporto faticoso. Inadeguato a partecipare alla vita, si limita a essere un osservatore poco discreto. Il letto da dividere, il fatto che ormai vengano considerati insieme e non come

individui,

un’altra

l’obbligo

persona,

per

di

farsi

Michele

carico

dei

rappresentano

trascorsi

di

un’ingerenza

eccessiva, un muro infranto oltre il quale non sa più difendersi, se

non

attraverso

l’evasione

metaforica

e

infantile

nel

barattolone di Nutella, nel sapore dolce della sua solitudine: MICHELE: Non è giusto che noi continuiamo a vederci. Io magari sarò imperfetto, però voglio essere coerente. Non ci dobbiamo più vedere. Mai più. BIANCA: Ma perché? MICHELE: La felicità è una cosa seria, no? Ecco, allora, se c’è dev’essere assoluta. BIANCA: E che vuol dire? MICHELE: Vuol dire senza ombre, senza pena. È difficile per tutti, per me invece è impossibile. Finché desiderio

si

tratta

di

incompiuto,

un

bisogno,

di

Michele/Moretti

un’illusione, è

in

di

un

grado

di

apprezzare il meccanismo amoroso. L’importante è non essere coinvolto, perché significherebbe esporsi, rischiare, mettere in gioco le proprie certezze: “Io mi devo difendere!” Anche da

g

p

p

ciò che accade agli altri, in una Roma “dimezzata”: bellissima all’aria aperta, brutale e spietata negli interni delle case.

“Ma dammi retta, prima o poi qualcuna s’avvicina, attacca discorso, vuole sapere chi sei, cosa fai lì. Ti guardavo prima, eri inquietante!”

Nel

finale,

perché?

Michele

Erano

suoi

domanda

stupito

risponde

Michele,

il

si

costituisce

amici,

che

cosa

commissario.

addolorato

per

come

“Mi il

le

assassino. avevano

avevano

destino

“Ma

fatto?” deluso!”

comune

delle

storie d’amore, per l’imperfezione di ogni esistenza. gb

LA MESSA È FINITA (1985)

Borgata Gordiani | Casal Palocco | Coppedè | Trastevere

“La gente ha distraggo.”

tanti

guai,

quando

mi

parla

io

mi

È una zona di villini bassi, casette rosa o gialle con i tetti rossi, sembrano disegnate da bambini. Balconi sovraccarichi, da

cui

si

affacciano

signore

in

pigiama;

orticelli.

Borgata

Gordiani venne su nei primi anni trenta a ridosso di un parco sulla

via

Prenestina.

La

parrocchia

di

don

Giulio,

il

protagonista di Messa è finita, è qui: quasi nascosta tra le case, su via Cori. Una signora ci invita a stare attenti, potremmo non vederla. Ma esce un nugolo di suore a braccetto che funziona da insegna. La chiesa fu completata nel 1950, e molto rimanda a quegli anni – gli anni in cui Pasolini scriveva Ragazzi di vita: “Dietro

alla

vedeva

tutta

borgata la

Gordiani,

periferia

con

in le

una

prateria

borgate,

da

da

dove

Centocelle

si a

Tiburtino, in fondo a un orto zuppo di guazza, ci stavano dei grossi

bidoni

arruzzoniti,

abbandonati



insieme

a

altri

ferrivecchi, in un recinto.” Più tardi, Pasolini sarebbe tornato fra queste strade per girare il film Accattone. Se c’è qualcosa che ha modificato il paesaggio nella parte più interna della borgata, è il “muraglione” giallo – così lo chiamano qui – dell’eterno cantiere della Metro C. Quanto a quello umano, è un incrocio di lingue e di origini diverse: i tram

5

e

14,

che

percorrono

la

Prenestina,

sono

i

più

multiculturali della città. Una ragazza alta, bionda, tiene per mano un bambino nero, un cucciolo occhialuto. Si allontana svelta, con un cartone di pizza nell’altra mano. Un ragazzo esce da un “kebabbaro” – l’insegna recita così, a metà fra turco e romanesco – dicendo all’amico “Non ho ancora capito se io e lei semo fidanzati”. Sul muro di cinta della parrocchia Santa Maria Mediatrice un insolito manifesto elogia il presidente turco Erdogan per avere risolto il problema delle fogne. Un altro,

più

istituzionale,

descrive

le

catacombe

dei

santi

Marcellino e Pietro, il cui ingresso non è distante da qui, sulla via Casilina.

“A volte vorrei picchiare qualcuno. Sì, è un pensiero che ho sempre più spesso.”

Questa

piccola

chiesa

nella

periferia

est

è

l’approdo

del

prete di Messa è finita dopo una lunga assenza fuori città, su un’isola

mai

nominata

(Ventotene).

La

vicenda

si

sviluppa

grosso modo qui, tra la stanzetta di don Giulio, la canonica, il campo

da

calcio

riconoscibili,

il

dell’oratorio.

drive-in

di

Casal

C’è

poi,

Palocco

fra

(una

i

luoghi

canzone

di

Battiato in sottofondo e don Giulio che esclama: “Vi amo, voi tutti che siete in questo bar!”). L’attico della casa di un amico di don Giulio, in via della Polveriera, pieno centro storico, nei pressi del Colosseo. La casa dei genitori del sacerdote è nel quartiere

Coppedè

eccentrico,



disneyano:

il

più

via

fatato

Aterno,

della non

città,

lontano

un

liberty

da

piazza

Mincio. C’è una fontana ricostruita in piazza del Fante, nei pressi del lungotevere Oberdan (durante un’aggressione, don Giulio viene spinto nella vasca), c’è una libreria dell’usato in via Famagosta (esiste ancora, al numero 41, Pocket 2000), e c’è l’arena del Cinema Nuovo, in largo Ascianghi (non ancora diventato

il

Nuovo

Sacher

di

Moretti).

Ancora

Pasolini

la

descrive in questi versi, nella raccolta La religione del mio tempo: Entri nell’arena, all’ultimo spettacolo, senza vita, con grigie persone, parenti, amici, sparsi sulle panche, persi nell’ombra, in cerchi distinti e biancastri, nel fresco ricettacolo.

Ma

nel

film

di

Moretti

contano

molto

più

le

relazioni

affettive: i luoghi sembrano avere perfino qualcosa di ostile.

L’arena del Cinema Nuovo, in largo Ascianghi (non ancora diventato il Nuovo Sacher di Moretti).

È il primo film di Moretti in cui il protagonista non abbia legami espliciti con l’attore-regista. Don Giulio è un prete in crisi,

assediato

dai

problemi

altrui:

ha

idiosincrasie

“morettiane”, che spesso sfociano in autentiche crisi di nervi; in alcune osservazioni può combaciare con un alter ego di Apicella (“Le ciliegie e le fragole tutto l’anno! Che ricordi avranno

questi

bambini?”;

“Lei

tiene

sempre

la

televisione

accesa? Guardi che non è una buona abitudine”), fa rumore o alza il volume della musica quando c’è qualcosa che non vuole ascoltare, ama le canzoni (le note di Ritornerai di Bruno Lauzi accompagnano due scene, in un’altra si ascolta Sei bellissima), ma l’abito che indossa, la scelta che ha fatto, lo rendono un personaggio nuovo e autonomo.

Uno

costretto a

parlare

di

felicità e di amore universale, mentre si trova assediato da infelicità e amori che si complicano. È come al centro di una raggiera

di

problemi

altrui,

persone

che

chiedono

risposte,

mentre lui sente di averne poche anche per sé stesso. “La gente ha tanti guai, quando mi parla io mi distraggo” confessa. Eppure tutti continuano a parlargli, a cercare conforto. Sua sorella, che vuole abortire. Suo padre, che si innamora di una donna più giovane. Il compagno di gioventù con cui aveva condiviso l’avventura di un giornale, diventato nel frattempo un ex terrorista sotto processo.

L’amico poeta

depresso, in

cerca di qualcuno che condivida con lui “la fatica di vivere”. L’altro amico omosessuale; i due che si presentano al corso prematrimoniale con lei incinta. “Anche se davvero avessero bisogno di me, io che gli posso dire?” si domanda ancora don Giulio, mentre scopre che non c’è nessuna libertà nello stare da soli. Guarda perciò con un misto

di

curiosità

e

attrazione

alla

vita

quotidiana

dell’ex

parroco, che ha lasciato la tonaca per mettere su famiglia. “Io vi guardo, voi fate quello che dovete fare!” dice ospite della villetta, al numero 6 di via Cori. Si mette lì, e li osserva, con il consueto senso di esclusione dalla felicità altrui. pdp

PALOMBELLA ROSSA (1989)

Circo Massimo

“Io sono stato felice e non ho tanto desiderio di tornare nel ventre materno, e tutte quelle storie, no. Però di tornare lì, me bambino, con quelle due borse a tracolla… Sì, certo, per tornare lì, devo passare di là…”

Chiunque abbia voglia di visitare quello che fu teatro di corse

di

bighe

nell’antichità,

l’unico

luogo

romano

riconoscibile in Palombella rossa, conviene che ripieghi sul metodo classico del “farsela a piedi”. In

un

giorno

feriale,

il

Circo

Massimo

è

attraversato

soprattutto dai turisti. Una bambina corre verso l’obiettivo del padre e diventa ancora più piccola, anche per noi che la stiamo osservando.

Poi

ritorna,

sempre

correndo,

e

con

le

braccia

avvolge la gamba sinistra del padre. Sarà venuta un po’ mossa, non

essendosi

pianure

fermata

incoerenti

del

un

secondo.

circo

o

la

Rimarranno,

corte

delle

forse,

le

macchine

in

lontananza. È uno dei pochi luoghi nel mondo per cui le fotografie non bastano: richiede, a cuore aperto, un incontro. Magari di notte, come nelle pagine che Pasolini escluse da Ragazzi di vita: “Sui Cerchi batteva la luna; una luna piccola, impolverata, che tutti guardavano Massimo

per

traverso,

quant’è

d’immondezza.

perché

grande,

Sul

le

allagava

fratte

muricciolo

di

nere,

del

i

Circo,

luce selci,

che

si

il

Circo

le

frane

stendeva

intorno nel polverone della luna, con qua e là qualche torraccia smozzicata, se ne stavano seduti degli uomini, dei giovinotti, e più

giù

sparse

tutt’intorno

alla

fermata

della

circolare

si

vedevano delle ombre, raccolte in ghenghe.” Nel finale di Palombella rossa, il Circo Massimo è una voragine in cui tuffarsi a capofitto a bordo di una macchina. “Mamma, vienimi a prendere!” grida il protagonista, in una sorta di preghiera laica per un impossibile ritorno all’infanzia. Da tempo Moretti voleva dedicare un film a una delle sue passioni più grandi: la pallanuoto. Giocava nella

S.S.

Lazio

Nuoto e ancora oggi viene ricordato, nell’albo d’oro, come una “bella promessa” divenuta un regista di culto. Il protagonista, ancora una volta, è Michele Apicella, che qui ricopre il ruolo di funzionario del Partito comunista, che perde la memoria a causa di un incidente stradale causato da una distrazione: ha lasciato

il

volante

per

scambiare

bambini. La crisi d’identità del sciolto,

viene

Amnesia

che,

rappresentata, d’altro

canto,

boccacce

PCI,

con

un

paio

di

che di lì a due anni sarà

quindi, riporta

attraverso Michele

un’amnesia. indietro

tempo, nella bellezza pura e perduta della sua infanzia.

nel

Dopo

l’incidente,

gran

parte

del

film

si

sviluppa

in

una

piscina di Acireale, dove Michele, assieme alla sua squadra di pallanuoto

(il

Monteverde),

va

in

trasferta

per

giocare

una

partita decisiva per le sorti del campionato. “Sarebbe stato più facile girare il film in una piscina di Roma – ci ha rivelato Moretti



ma

pallanuotista

volevo

giocasse

che

la

questo

sua

partita

dirigente in

comunista

trasferta,

con

un

pubblico ostile sugli spalti.” Ogni tanto, Michele resta come incantato. In Sogni d’oro, si addormentava

ritrovandosi

nei

panni

di

un

professore

di

letteratura tormentato da una sua studentessa. Qui non inventa vite parallele, ma riesce a rivedere chiaramente, ad afferrare alcune scene chiave della sua vita di bambino. La madre che lo accompagnava in piscina e sedeva dietro di lui, la madre buona e

rassicurante,

gridavano

lontana

dall’isteria

“Impegnati!

degli

Impegnati!”

altri

ai

genitori,

figli

che

malcapitati

nell’acqua. “Sono contento che mia mamma non fa così.” La paura di tuffarsi per la prima volta, il tentativo di fuga dalle minacce traumatiche del maestro di nuoto: “Vieni in acqua, dai!

Guarda

alta!”

Il

che

ricordo

ti

porto

della

all’acqua

alta!

“passeggiata

di

Ti

porto

Nervi”

all’acqua (Genova),

quando, ancora bambino, era costretto a portare sulle spalle quelle due borse a tracolla così pesanti: “Io sono stato felice e non ho tanto desiderio di tornare nel ventre materno, e tutte quelle storie, no. Però di tornare lì, me bambino, con quelle due borse a tracolla… Sì, certo, per tornare lì, devo passare di là.” Il sogno del furto di un dolce, ai danni di un bambino più piccolo,

che

soprattutto,

costringe a

farlo

i

genitori

uscire

in

a

mandarlo

strada

con

in le

“galera”

e,

pantofole,

provocandogli un rigetto eterno nei confronti di questo tipo di calzature,

segno

manifesto

di

squallore

“No! In strada con le pantofole no!”

e

di

trascuratezza:

Il Circo Massimo è una voragine in cui tuffarsi a capofitto a bordo di una macchina.

Durante la partita di pallanuoto, fra un lampo di memoria e l’altro,

Michele

proiezioni

della

incontra sua

personaggi

coscienza.

Due

insoliti,

surreali,

fanatici

che,

quasi

come

Re

Magi mancanti di un terzo, non fanno altro che importunare Michele,

portandogli in dono dei dolci (“Tieni, mangia, lo

sappiamo che ti piacciono!”) e ricordandogli il “gesto molto moderno” da lui compiuto il martedì passato, ospite di una trasmissione televisiva. Tutti si riferiscono a questo gesto, ma Michele non riesce a ricordarlo: “Cosa avrò fatto mai?” Poi incontra una giornalista impreparata e superficiale che vuole intervistarlo,

senza

cognizione

di

causa

e

senza

alcuna

competenza, capace di esprimersi soltanto con luoghi comuni e frasi fatte: LEI: Sì, ma io vorrei sapere qualcosa di oggi, lei mi ha parlato di quel periodo che poi, in fondo, è il periodo del femminismo e tutto il resto. MICHELE: Tutto il resto? Tutto il resto. No, il femminismo è venuto dopo perché in quegli anni le ragazze dicevano che in Italia le donne non erano oppresse come in America, per cui in Italia… LEI: È stupenda questa battuta, eh! MICHELE: Non è una battuta! Non era una battuta… LEI: No, io non lo so, però senz’altro lei ha un matrimonio alle spalle, eh, a pezzi.

“Noi siamo uguali agli altri, noi siamo come tutti gli altri, noi siamo diversi, noi siamo diversi, noi siamo uguali agli altri, ma siamo diversi, ma siamo uguali agli altri, ma siamo diversi… Mammaaa! Mammaaa! Vienimi a prendere!”

MICHELE: Che dice? LEI: No, forse ho toccato un argomento che non… MICHELE:

No,

l’espressione,

non

è

l’argomento!

Non

è

l’argomento! È l’espressione! “Matrimonio a pezzi”, ma come parla? LEI: Preferisce “rapporto in crisi”? Però, è così kitsch! MICHELE:

Kitsch?

quest’espressione?

Dove

l’è

Dove

andata

l’è

prendere

andata

prendere

quest’espressione? LEI: Io non sono alle prime armi! MICHELE: “Alle prime armi”, ma come parla? LEI: Anche se il mio ambiente è molto cheap. MICHELE: Il suo ambiente è molto? LEI: È molto cheap. MICHELE:

Come

parla?

Come

parlaaa?

Le

parole

“Chi

parla

sono

importanti! Moretti

è

profetico,

ancora

una

volta.

male,

pensa male e vive male”: un manifesto involontario. Michele s’imbatte anche in un cattolico, in un sindacalista (interpretato dal padre, nella sua ultima apparizione), ma senza ascoltarli, senza

essere

ascoltato.

Come

spesso

accade

nei

film

di

Moretti, tutti i personaggi sono perennemente distratti dalla propria esistenza, preoccupati di declamare per intero i propri monologhi,

all’insegna

del

più

estremo

e

lacerante

individualismo: “Ma quanti anni sono che parlo da solo?” Un vecchio compagno di scuola (di nuovo, Fabio Traversa) gli ricorda le sue esperienze giovanili (“Ti ricordi? Ti ricordi? Ti ricordi?”), di quando obbligarono un fascista a indossare un cartello

che

potesse

umiliarlo,

dei

discorsi

sulle

ragioni

profonde del loro essere comunisti. E quel programma in tivù, quel dibattito fittizio, artefatto, andato in scena, forse, in quel famoso martedì, quando Michele ribadiva meccanicamente gli obiettivi del Partito, spiegandone svogliatamente le istanze, gli ideali, i fondamenti teorici, e finendo per cantare una canzone di Battiato (E ti vengo a cercare).

Il Circo Massimo, teatro di corse di bighe nell’antichità, l’unico luogo romano riconoscibile in Palombella rossa.

Così commenta Alberto Arbasino, in uno dei suoi Ritratti italiani: “Non umiliato e offeso, o lì a reclamare il conto. Ma piuttosto, inebetito e risentito, sull’orlo del rincoglionimento, dopo

decenni

di

luoghi

comuni

‘che

hanno

pesato

come

macigni’. Dopo decenni di frasi e pensieri di Ingrao e Occhetto e Veltroni e D’Alema e Fassino e Napolitano e Amendola, di tanti

sindacalisti

e

comitati

centrali,

di

movimentismi,

di

cattocomunisti, di assemblee, di cortei, Nanni Moretti non ha dimenticato nessuno e non perdona niente. E gli basta ripetere con

accento

straniato

e

stracco

quelle

frasi

vuote,

dove

il

‘messaggio’ era dato solo dal ‘tono’, per metterne in evidenza l’insensatezza.” Nel “finale di partita”, spetta a Michele il rigore decisivo. Lo segna, prima del fischio dell’arbitro, e poi sbaglia. “La sconfitta”, come recitava il titolo del primo cortometraggio morettiano, di cui vengono riproposte alcune scene in questo film.

Affranto,

fallimento piscina,

più

politico,

come

un

per

l’infanzia,

Michele

bambino,

oramai

piange, mentre

grida invoca

persa, e

che

corre

la

per

il

a

bordo

madre

(“Mia

madre!”, che sarebbe poi diventato il titolo di un film). Il finale, commovente, interrompe il continuo alternarsi di infanzia

e

politica,

le

salda

in

un’immagine

tanto

leggera

quanto amara. Michele sta guidando, accanto a lui c’è la figlia (interpretata da una giovanissima Asia Argento). Lui continua a invocare la madre, a parlare degli altri che sono cambiati, che sono

“tutti

finiscono,

infelici”. con

la

In

una

macchina,

sterzata dentro

d’ira, al

padre

Circo

e

figlia

Massimo.

L’immagine finale raccoglie tutte le persone che Michele ha conosciuto nella sua vita, compreso se stesso bambino, che in cima al Circo Massimo vede sorgere, insieme agli altri, il “sol dell’avvenire”. Il bambino si copre gli occhi e ne ride, di un sorriso beffardo. gb

CARO DIARIO (1993)

Gianicolo | Parioli | Garbatella | Prati Spinaceto | Casal Palocco | Flaminio Monteverde | Ostia

“Sono uno splendido quarantenne!”

Il celebre viaggio di Moretti in Vespa per le strade di Roma – una vera e propria traversata della città nella luce estiva – non è facile da ricostruire. Occupa un episodio di Caro diario e somiglia quasi a un inseguimento. Ogni tratto percorso ha una sua colonna sonora, si passa da Leonard Cohen a Khaled, e la musica imprime al tragitto un’atmosfera esotica, straniata. Qualche

anno

millimetro

la

fa

c’è

mappa

stato

degli

chi

ha

ridisegnato

spostamenti

di

quasi

Moretti:

il

al sito

www.davinotti.com. Il punto di partenza è intorno a via delle Fornaci; dopo uno stacco la Vespa ricompare nel quartiere Parioli – viale Bruno Buozzi – con la voce narrante di Moretti che ragiona sui cinema chiusi o destinati a film pornografici e a

horror

dozzinali;

ancora

uno

stacco,

una

divagazione

narrativa, e ci ritroviamo nel quartiere Garbatella. È per una di queste

vie

che

Moretti

esclama

la

battuta

diventata

poi

proverbiale: “Sono uno splendido quarantenne!” Via Obizzo Guidotti, per l’esattezza. Chiediamo dove sia, ma nessuno sa indicarcela. Si ha la curiosa

sensazione

Garbatella

non

che

conosca

chi la

passeggia

Garbatella.

per Ma

le

strade

dov’è

della

allora

chi

conosce la Garbatella? In un bar di via Fincati domandiamo al ragazzo del bancone; indossa una maglietta con la scritta Stai sereno

e

intrattiene

gli

avventori

discutendo



fra

il

tono

accorato e cinico – di un uomo che si è suicidato nella zona. Non sa dove sia via Obizzo Guidotti. È quasi solo per caso che la scoviamo, dopo il terzo giro in tondo di piazza Bartolomeo Romano, sotto un sole che cuoce e altera le prospettive.

Il barista non sa dove sia via Obizzo Guidotti. È quasi solo per caso che la scoviamo, dopo il terzo giro in tondo di piazza Bartolomeo Romano, sotto un sole che cuoce e altera le prospettive.

Eccola, stretta, quieta come appare la Garbatella a quest’ora del pomeriggio di giugno e sempre, con i panni stesi fuori ad asciugare,

le

ombre

nei

cortili

silenziosi



dove

lo

stesso

Moretti si ferma fingendosi impegnato in un sopralluogo per un

film

su

un

pasticcere

trotzkista

nell’Italia

degli

anni

cinquanta. Film che diventerà un’ipotesi di musical, con Silvio Orlando nei panni del pasticcere, in alcune scene di Aprile (1998). La scusa consente a Moretti di indugiare fra le case anonime, di saziare la sua strana passione per le abitazioni altrui, viste da fuori e in questo caso anche da dentro. D’altra parte, ogni casa è anche una storia, una somma di storie, e uno dei poli magnetici da cui sembra attratta la Vespa di Moretti nell’episodio

che

apre

Caro

diario

è

proprio

l’esistenza

ordinaria, la vita altrui, quella di ogni giorno: spingendosi a Spinaceto e a Casal Palocco, interrogherà alcuni passanti sulle ragioni

per

cui

hanno

scelto

di

vivere

lì,

finendo

col

concludere che no, “non è niente male, Spinaceto, pensavo peggio. Non è per niente male”. Tornando alla Garbatella, non è difficile innamorarsi di via delle Sette Chiese, del suo raccoglimento e del pavé che la stacca

per

eleganza

napoletana,

mignon

dall’asfalto dieci

euro

intorno.

al

chilo;

Una una

pasticceria

ragazza

con

bambino a tracolla e due cani al guinzaglio; l’iscrizione per terra

che

segnala

le

Catacombe

di

Commodilla



cripte

risalenti al IV secolo, sotto le scarpe nostre e degli studenti che festeggiano

l’ultimo

giorno

di

scuola

correndo

per

Parco

Serafini, lanciandosi acqua, uova e farina presumibilmente da ore. Così pure su piazza Sauli impazza ancora la guerriglia di fine

anno

scolastico,

e

ci

si

mettono

anche

le

mamme.

Ragazzini armati di pistole ad acqua non risparmiano nessuno, non certo le auto parcheggiate dietro cui qualcuno, disarmato e zuppo dalla testa ai piedi, cerca invano di ripararsi. La scuola Cesare

Battisti,

che



sulla

piazza

(Moretti

ne

osserva

la

facciata dalla Vespa; aveva già mostrato la scuola nella scena finale di Bianca), ha una facciata imponente, fuori moda, fra chiesa

e

sacrario

minacciosi

sulle

primo quattro

Novecento, colonne.

con

rapaci

L’architetto

di

marmo

Vincenzo

Fasolo, che la progettò, non avrebbe mai immaginato che al restauro

avrebbe

contribuito

la

produzione

della

fiction

televisiva I Cesaroni, che dal 2006 ha rilanciato la Garbatella, ambientando qui le vicende di una famiglia romana.

Ma la Garbatella nel suo insieme contraddice queste forme austere, è accogliente, rilassata, il suo cuore batte a sinistra e per la Roma, lo danno a intendere chiaramente i colori sulle saracinesche dei locali, lupe stilizzate che ricordano gloriosi scudetti

fuori

dai

bar,

ragazzi

combattenti

murales

sulle

calcistici

pareti

di

e

politici,

centri

volti

sociali:

in

di via

Passino, si ricorda Piero Bruno, giovane militante ucciso dalle forze

dell’ordine

proiezione

di

il

un

22

novembre

documentario

1975, sulle

e

si

annuncia

azioni

la

antifasciste

successive alla Liberazione. Moretti definisce la Garbatella “il quartiere che mi piace più di tutti”. Pasolini ne fece, in Una vita violenta, il fondale di un delitto ma seppe descriverla in poche righe, che “brillava al sole”,

come

in

questo

momento:

“Le

strade

in

salita

coi

giardinetti in fila, le case coi tetti spioventi e i cornicioni a piatti cucinati, i mucchi di palazzoni marrone con centinaia di finestrelle

ed

abbaini,

e

le

grandi

piazzette

portici di roccia finta intorno.” L’aria

che

cogli

archi

si respira

e

i

non è

quella del Bronx romano, come un tempo appariva, ma di un luogo

sospeso

tra

l’essere

popolare,

anzi

popolaresco,

e

l’essere di moda. A salvarla dai luoghi comuni della romanità di tendenza c’è questo fracasso di cicale e il verde, fitto qui come

in

pochi

altri

quartieri

di

Roma.

Questo

nacque

su

progetto di Marcello Piacentini, con lo spirito di creare una città-giardino;

la

prima

pietra

fu

posta

dal

re

Vittorio

Emanuele III nel 1920. Del nome Garbatella si sa poco: c’è chi lo

fa

risalire

a

un’ostessa

particolarmente

gradevole

che

gestiva una locanda e offriva le sue grazie insieme al cibo. Vero o no che sia, non troviamo né conferme né smentite. Resta

il

mistero,

insieme

a

quello

di

molti

toponimi

del

quartiere. Di Obizzo Guidotti, per esempio, non c’è traccia né su Google né sulla Treccani. E Pantero Pantera? Sembra un nome

inventato.

Era

un

gentiluomo

vissuto

fra

Cinque

e

Seicento, capitano della flotta pontificia. Lo ricorda una piazza su cui sfocia via Passino: è bello che da mezzo secolo abbia qui la sua bottega un orologiaio, uno che gli orologi – da polso, pendole, cucù – sa ancora ripararli. È come sapere che c’è qualcuno che ripara il tempo. Fa bene.

La scuola Cesare Battisti dà sulla piazza Damiano Sauli. Moretti ne osserva la facciata dalla Vespa.

Il film esce nel novembre del 1993, Fellini era morto da qualche giorno. Caro diario, anche a distanza di anni, resta sorprendente. Le strade di Roma d’estate percorse in Vespa non sono molto cambiate: forse solo un po’ meno deserte, in agosto.

Di

dettagli

quei

primi

minimi

che

anni

novanta,

valgono

più

Caro diario

di

molta

raccoglie

storiografia

e

sociologia. L’ondata dei figli unici; le premesse – nello sbarco a Panarea – di ciò che avremmo chiamato “Cafonal” e che Paolo

Sorrentino

avrebbe

messo

a

fuoco

nella

Grande

bellezza; lo studioso di Joyce che cita frasi di Enzensberger contro la televisione e però segue ossessivamente le vicende di Beautiful. Ma ciò che più colpì il pubblico e la critica fu la modalità “diaristica” del racconto: la parzialità dichiarata di un Io che vive e trascrive, annota; un Io spesso solo sulla scena come su quel campo da calcio vicino al mare, o nell’episodio del “pellegrinaggio” a Ostia, nel luogo in cui fu assassinato Pasolini. Caro

diario

è

un

film

di

lunghi

silenzi,

di

sequenze

accompagnate esclusivamente dalla musica; è un film che vaga e divaga (“vago per la città” dice Moretti all’inizio) e trova la sua

forma

in

questo

movimento

spezzato,

antinarrativo,

di

abbozzo compiuto; diremmo – se parlassimo di letteratura – “fra saggio e romanzo”. Una prospettiva interessante è forse proprio questa: osservare come la forma di Caro diario abbia fatto scuola anche fuori dal cinema. Quell’“autofiction” su cui tanto si è discusso, Moretti l’aveva già trovata – senza troppo cercarla – vent’anni fa; e così il tono della sua voce narrante – la

cadenza:

ironica,

finto-svagata,

curiosa

e,

in

modo

imprevedibile e perfino spietato, sincera – sia quella di molti cosiddetti “reportage narrativi” di là da venire. E ancora: il rapporto con il paesaggio, con la città (l’intuizione poetica di un

film

contatto

fatto fra

solo

di

pubblico

panoramiche e

privato

su

case

(ancora

più

qualunque);

il

trasparente

in

Aprile), il rapporto fra le circostanze della Storia e quelle della vita intima. Quei ritagli di giornale che sarebbero entrati in tanti libri “ibridi” di questi anni, non erano già in Caro diario e

in

Aprile?

Forse

non

ne

avevamo

soppesato

appieno

l’importanza – fragili e però luminosi tasselli di una personale archiviazione della memoria.

Su

un

piano

tematico,

l’ultimo

capitolo

di

Caro

diario,

intitolato “Medici”, apre un discorso – sul corpo, sulla malattia –

che

di



a

poco

sarebbe

esploso

nella

narrativa

(i

“cannibali”; e i tanti diari o romanzi di “personaggi-uomo” pronti a diventare “personaggi-corpo”). Moretti sembra avere risposto indirettamente – e in modo memorabile – a Virginia Woolf

che,

nel

’26,

invocava

“romanzi

interi”

dedicati

all’influenza, “poemi epici alla febbre tifoidea; liriche al mal di denti. Ma no; salvo poche eccezioni – De Quincey tentò qualcosa del genere nelle sue Confessioni d’un oppiomane, un paio di volumi sull’infermità devono essere sparsi nelle pagine di Proust – la letteratura fa del suo meglio perché il proprio campo di indagine rimanga la mente; perché il corpo rimanga una lastra di vetro liscio attraverso cui l’anima appaia pura e chiara, e, eccetto che per una o due passioni come il desiderio e la cupidigia, sia nullo, e trascurabile e inesistente. La verità è tutto il contrario”. Moretti

ne

è

persuaso,

e

fa

affiorare

questa

verità

nel

labirinto di medici che attraversa. Uno di questi ha il volto del poeta Valerio Magrelli. Figlio di una madre medico, Magrelli si divertì molto (“L’idea di fare un medico che sbaglia mi parve splendida”) e sarebbe tornato sul tema del corpo, già molto

presente

nella

sua

poesia,

con

le

prose

di

Nel

condominio di carne. A legare Moretti e Magrelli fu anche la passione per la pallanuoto (giocarono in tempi diversi nella stessa squadra), per il tennis (“partite memorabili”) e per la Vespa (“ne avevo una più vecchia di quella di Moretti”). A mettere

meglio

a

fuoco

l’episodio

di

Caro

diario

del

pellegrinaggio sulle tracce di Pasolini a Ostia, c’è tra l’altro un testo

di

Magrelli

uscito

viaggetto. Scrive Magrelli:

alla

metà

degli

anni

ottanta,

Il

“E in fondo… In fondo lo speccolo sublime e lacerante dell’Idroscalo.”

Malgrado tutto, questa lingua di terra non cessa di affascinare. In effetti, la zona possiede una varietà davvero sorprendente. Accanto all’ignobile trofeo mortuario, si nascondono ricchezze inattese. Si tratta di una doppia dimensione industriale e turistica: da un lato i capannoni degli enormi cantieri nautici, dall’altro, invece, darsene, prati all’inglese, magnifici yacht che si dondolano pigramente. Produzione e

vacanza,

lavoro

e

lusso,

fioriscono

felici,

rigogliosi,

a

pochi

passi

dalla

desolazione. E in fondo… In fondo lo spettacolo sublime e lacerante dell’Idroscalo. Nei suoi film, nei suoi romanzi, nei suoi versi, Pasolini ha mostrato in che maniera squallore e povertà possano giungere a produrre poesia. Ecco il segreto di questo villaggio. Le costruzioni abusive diventano un presepe incantato, pervaso da quella stessa violenta bellezza che si ritrova in Messico o in India. È un sentimento estetico complesso, contraddittorio, forse anche riprovevole. Fatto sta che la riva sinistra della foce, con le sue case basse, le pergole, le frasche, un paio di ragazzi seduti sul vespino, materassi e barchette parcheggiati per strada, il Ranch Rosci, le statue

di

due

angeli,

la

sua

piazza

assolata,

forma

un

quadro

struggente,

indimenticabile.

Arriviamo anche noi, in un pomeriggio estivo, all’Idroscalo. Chiediamo informazioni, anche solo per cogliere l’espressione dei

passanti

quando

chiediamo

del

monumento

a

Pasolini.

Stupore, perplessità o cos’altro? Ci dicono di lasciarci il mare a

sinistra.

Davanti

a

una

fabbrica

di

materassi,

in

via

dell’Idroscalo, fatichiamo a individuare l’esatta collocazione del monumento al poeta, che a Magrelli fece l’effetto di un portachiavi, più che di una scultura. Rispetto a trent’anni fa, la situazione del parco è molto migliorata, tutto è curato, i versi di Pasolini accompagnano verso la stele bianca che lo ricorda. Ma il cancello è chiuso, e noi vorremmo entrare. Chiediamo a un meccanico, si mostra fiducioso: “La vedi quella macchina grigia? Ce parcheggi dietro, apri e vai ’ndo te pare!” Senza dover forzare troppo, il cancello si lascia aprire. E quel “vai ’ndo te pare” ha qualcosa di augurale, di speranzoso. pdp

APRILE (1998)

Isola Tiberina | Monteverde | Parco Nemorense Prati | Parioli | Africano | Monte Mario

L’isola Tiberina, con la sua forma da nave da guerra, appare eternamente quieta, distante dal tempo e dal caos.

È

già

sorprendente,

di

per

sé,

che

Roma



città

non

marittima – abbia un’isola. Nel cuore del centro storico, fra Ghetto e Trastevere, l’isola Tiberina, con la sua forma da nave da guerra, appare eternamente quieta, distante dal tempo e dal caos.

Anche

quando

il

traffico

sul

lungotevere

impazzisce,

l’isola appare sospesa e silenziosa tra le foglie dei platani. Un luogo

franco

e

Fatebenefratelli

ospedaliero:

risale

a

fine

l’antica

struttura

Cinquecento:

i

veri

del

romani

nascono, si curano, muoiono qui, in questo luogo appartato che gli antichi dedicarono al dio medico Esculapio e a metà Seicento

divenne

il

lazzaretto

cittadino

sotto

l’ondata

della

peste. Davanti all’ospedale uno striscione di protesta dice 500 anni di assistenza buttati ar fiume. I pini e le palme, intorno, quasi lo occultano, gli danno un’aria appena un po’ esotica. In un lungo fermo immagine di Aprile, Moretti lo mostra inquadrando

l’isola

dalla

parte

della

prua:

svetta

la

statua

bianca lassù in alto, in una mattina assolata di aprile, e tutto sembra

immobile.

Moretti

racconta

In

realtà,

sta

per

tessere

il

per

nascere

suo

un

diventare

bambino.

padre,

nella

primavera del 1996: le ansie, le scoperte, lo stupore. Su una sponda dell’isola si mette quasi a saltare, a correre, agitando le braccia

come

se

nuotasse,

solo,

appena

dopo

la

nascita

di

Pietro. Le note del pianoforte di Ludovico Einaudi aggiungono alla scena una commozione, più che trattenuta, gioiosa – e non è una contraddizione. La cortina rossiccia attorno all’ospedale è segnata, nelle immagini del film, da scritte in vernice bianca: in

una

si

Patroclo! come

legge Oggi

pezzi

D’estate

la

di

Betti

ti

risultano vita

sponda

amo,

in

coperte,

sepolti, destra

un’altra ma

vecchi

si

un

intuiscono

slanci

dell’isola

si

romanissimo

messi

riempie

a di

ancora, tacere. sedie,

tavolini, gazebo; quella sinistra, dalla parte di Ponte Fabricio, resta sempre più vuota e trascurata, più selvaggia. Verso il tramonto, i gabbiani piombano in picchiata e la dominano. Ogni tanto, sono costretti a lasciare spazio al passaggio di qualche

podista,

innamorata. circonda Pittoresca piazzetta macchia

Ai

camminatore primissimi

l’ospedale infine, della di

chiesa

bianco

caldi,

ospita

come

la di

solitario

i

la

San

contraddetta

una

coppia

erbosa

che

dell’abbronzatura.

qualunque

Bartolomeo, dalla

di

collinetta

pionieri

definisce

o

guida,

raccolta,

rossastra,

la

una

medievale

Torre Caetani – che la fronteggia, o la sorveglia. Sfilano frotte

di

turisti

col

gelato

in

mano;

un

vecchietto

vende

da

un

carrettino pannocchie arrostite, e la sora Lella, ritratta sulla porta del famoso ristorante, lo osserva bonaria. Roma, in Aprile, è molto presente. Moretti la evoca anche solo a parole, come quando – infastidito dall’odore di aglio che arriva dall’appartamento sopra al suo – domanda: “Che città è questa? Non si può fare niente senza l’aglio! Ora vado su e chiedo il motivo di tutto quest’aglio!” Oppure, quando va a

intervistare

documentario

il che

giornalista intende

Corrado

fare

Stajano

sull’Italia,

e

gli

per

il

domanda:

“Qual è il suo rapporto con la città di Roma?” Stajano allarga le

braccia:

“Eh,

ma

che

domande!”

Moretti

sorride

imbarazzato, pentendosi: “Oggi non sono in forma…” Dopo la nascita di Pietro, fra i messaggi di auguri che gli amici lasciano nella segreteria di Moretti, ce n’è uno in cui Nanni

viene

salutato

come

il

“leone

Monteverde, in effetti, c’è: il balcone

di

Monteverde”.

E

di casa Moretti, che

diventa il teatro del suo apprendistato alla paternità (o alla maternità di Silvia, che gli spiega il parto fase per fase); le strade che percorre ancora una volta in Vespa – in discesa da Monte Mario verso piazzale Clodio; e ancora viale Libia; via Valnerina,

costeggiando

lungotevere compleanno,

dell’Acqua pieno

il

parco

Acetosa

agosto,

di –

Villa nel

angosciato

Chigi,

giorno

dallo

e

del

scorrere

poi suo del

tempo, e lanciando infine i ritagli di giornale accumulati negli anni… Per essere precisi, i ritagli volano per le strade del quartiere Parioli, dintorni di piazza Euclide, via Bertoloni, via Gaudini, accanto all’Auditorium.

I luoghi del presente, nel film, danno infine il cambio a quelli del passato: il Parco Nemorense (o Parco Virgiliano), nel quartiere Trieste, tra Villa Torlonia e Villa Ada, un giardino anni trenta – tigli, pini, lecci, un laghetto.

I luoghi del presente, nel film, danno infine il cambio a quelli del passato: il Parco Nemorense (o Parco Virgiliano), nel

quartiere

Trieste,

tra

Villa

Torlonia

e

Villa

Ada,

un

giardino anni trenta – tigli, pini, lecci, un laghetto. Il parco della

mia

infanzia,

dice

Moretti:

“Ripenso

a

quand’ero

bambino, mi viene in mente anche una poesia da scrivere,” e intanto si interroga su come facesse sua madre, insegnante, a occuparsi finale,

delle

sfilano

poppate

altri

senza

luoghi

permessi

dell’infanzia

di

maternità.

(dice

Sul

esplicitamente

“Vado a cercare i luoghi di quando ero bambino”): la scuola elementare

Leopardi

a

Monte

Mario,

la

piscina

al

Foro

Italico… Nessuna nostalgia però, niente pose proustiane: “Non mi fanno particolare effetto… Non mi viene da piangere né da scrivere una brutta poesia…” Verso mezzogiorno della mattina grigia in cui raggiungiamo il

Parco

solcano

Nemorense, i

vialetti

di

babysitter

ghiaia

come

presumibilmente schierate

in

filippine

batteria.

Nei

passeggini, i bebè del quartiere Trieste si fanno sentire, fanno dei loro discorsi a voce alta, un po’ come le badanti dell’est, che si agitano al telefono mentre le vecchie badate guardano nel

vuoto.

Qualche

nonno

volontario

rischia

il

colpo

della

strega spingendo il nipotino sull’altalena. La vita pare scorrere pacatamente entro il perimetro del parco e fuori. Le signore in età

con

la

messa

in

piega

fresca

si

appoggiano

al

bastone

parlando dei casi altrui o delle funzioni più utili di un robot da cucina. Un ragazzo spiritato, con la chioma rasta, intanto corre spingendo un carrello vuoto lungo via Nemorense, e sorride, chissà a chi e perché.

Il Parco Nemorense il parco della mia infanzia, dice Moretti: “Ripenso a quand’ero bambino, mi viene in mente anche una poesia da scrivere.”

Forse

è

possibile

raccontare

un

film

come

Aprile

solo

attraverso un inventario, un’enumerazione. A cinque anni da Caro diario, Moretti riprende da lì il filo: i tre capitoli del film del ’93 vengono moltiplicati, una somma di segmenti narrativi produce il racconto di tre anni di vita del regista e dell’Italia. Dai risultati elettorali del marzo ’94, con la prima vittoria di Berlusconi (e seduto davanti al televisore accanto a sua madre Agata, Moretti decide di farsi una canna) all’estate del ’97, con Nanni che compie quarantaquattro anni e si interroga sul tempo

che

resta.

In

mezzo,

le

cose

che

accadono

e

che

passano, nello spazio pubblico e in quello intimo, privato. In che

rapporto

stanno,

l’uno

e

l’altro?

C’è

una

relazione,

un’influenza reciproca? A queste domande sembra rispondere Aprile, mentre racconta il trionfo di Forza Italia (“È andata così” dice Moretti. “È andata male” precisa sua madre), con Emilio

Fede,

allora

direttore

del

Tg4,

in

preda

alla

commozione; la manifestazione milanese sotto la pioggia del 25 aprile di quell’anno (“Ombrelli, ombrelli e ombrelli”); la campagna

elettorale

del

’96,

la

debolezza

di

una

sinistra

(“D’Alema, rispondi, di’ qualcosa di sinistra!”) che comunque va al governo con Romano Prodi… Il regista pensa con insistenza, spinto da un fastidioso senso del

dovere,

a

un

documentario

sull’Italia,

sulla

politica,

raccoglie materiali, acquista tutti i giornali possibili, ritaglia con ossessività articoli per archiviarli in cartelline specifiche (“polemiche

inutili”,

“maleducati”,

“personaggi

orrendi”),

colleziona le copertine dell’Espresso di allora, con le donne svestite, dialoga con i suoi collaboratori e si distrae pensando al film che insegue da anni, un musical surreale in costume, ambientato

negli

anni

cinquanta

con

protagonista

Silvio

Orlando nei panni di un pasticcere trotzkista. Il set è – tra verde e rovine – su viale di Porta Ardeatina, ma le riprese si interrompono subito.

Un musical surreale in costume, ambientato negli anni cinquanta con protagonista Silvio Orlando nei panni di un pasticcere trotzkista. Il set è – tra verde e rovine – su viale di Porta Ardeatina, ma le riprese si interrompono subito.

La maggiore e più potente “distrazione” per Moretti non viene

dalla

vita

gravidanza Aprile

della

1996:

comizi

dei

imminente

pubblica moglie

mentre

politici,

la

Silvia

vorrebbe sui

scompiglia

sconosciuta,

italiana:

o

con

Il

a

che

la

il

attenzione

è

è

con

di

della

preso

come

la

Pietro.

concentrarsi

vento

regista

fare

nascita

dovrebbe

sondaggi,

tutto.

sua

e

ha

sui

paternità

da

un’ansia

risucchiata

da

“eliminatorie” e “quarti di finale” per scegliere il nome del nascituro,

dai

suoi

abitini

(con

particolare

attenzione



ovviamente! – per le scarpe), si immedesima nei dolori del travaglio, improvvisa all’ospedale Fatebenefratelli un sit-in a favore

dell’epidurale,

subito

arginato

dal

personale

infermieristico… E la notte della vittoria di Prodi, mentre per le strade di Roma sfrecciano automobili in festa, sventolando le bandiere della vecchia Quercia o dell’Ulivo, lui trionfante sulla solita Vespa esulta: “Quattro chili e duecento grammi!” Il peso del figlio: in senso concreto e in senso figurato. Il peso, cioè,

di

un

modifica

figlio

la



nostra

e

dell’essere

percezione

diventato

del

mondo?

padre. È

un

Quanto continuo

passaggio, anche brusco, dai minuscoli ovvero enormi fatti che ci riguardano da vicino a quelli che riguardano una nazione o il mondo, dai primi bagnetti di Pietro alle preoccupazioni per ciò che sarà da grande (“Noi gli proibiremo di fare l’attore!”), dalla

patetica

dichiarazione

proclamata

da

immigrati

albanesi

indifferente

Bossi

dei

di

sul

fiume

al

largo

dirigenti

indipendenza Po

allo

di

politici,

della

sbarco

Brindisi,

dalla

Padania

disperato

di

nell’assenza

notazione

su

quegli

stessi dirigenti di sinistra cresciuti davanti a Happy days al piccolo

comizio

Speakers’

improvvisato

Corner

di

Hyde

dal

Park,

regista sul

a

Londra,

modello

nello

scolastico

dell’Emilia-Romagna… Ogni cosa si mescola e si aggrega, non c’è soluzione di continuità, nel film come nella vita. Quali sono le cose importanti? A un amico che gli rimprovera di non fare film da troppo tempo, Moretti risponde: “Sono successe cose più importanti.” Tutto

ciò

che

ricordiamo

e

tutto

ciò

che,

per

fortuna,

dimentichiamo. Forse Aprile è anche un film su questo? Sulla memoria degli eventi privati, che si incidono per sempre in noi, e sull’oblio dei fatti pubblici, che alla lunga evaporano, si dissolvono? E tutto ciò che sentiamo, sogniamo, temiamo dove resta impresso? Un progetto che la mente insegue per anni,

una

domanda

risposta,

sulla

nostra

l’improvvisa

stessa

voglia

di

infanzia

litigare

che

rimasta sale

senza

dopo

una

delusione politica, il tentativo di trovarsi pronti a un evento per cui nessuno può essere pronto, le notti insonni, un metro che possa misurare il tempo che ci resta, tutto si confonde (“Mi è rimasta un bel po’ di confusione” confessa Moretti verso il finale), e i ritagli di giornale, tracce di rabbie passate, infine volano e si perdono. Moretti se ne libera, “Via, tutto via!”, li lancia dalla Vespa in corsa, lanciando sé stesso verso qualcosa di buono, di meglio: “Devo filmare quello che mi piace, non le cose

brutte.”

Indossa

una

mantella

nera

invernale

che

non

aveva avuto mai il coraggio di indossare e, come Batman in sella a un motorino, corre lungo la Panoramica, alle pendici di Monte Mario, per salvare il sogno del film che davvero aveva voglia

di

fare.

Quello

sul

pasticcere

trotzkista

negli

anni

cinquanta: mentre tutti sono per Stalin, lui è per Trotzkij, e per questo è isolato e calunniato. Solo nel suo laboratorio, spiega Moretti, “tra le sue paste e le sue torte è felice, e dimentica, e balla”. Così l’intera troupe, sulle note di una musica dal ritmo contagioso,

dimentica

e,

come

spesso

accade

nei

film

di

Moretti, balla. P.S.

Fra gli episodi tagliati al montaggio, ce n’è uno molto

romano – esilarante – ambientato nel quartiere Prati: Il grido d’angoscia

dell’uccello

predatore.

Moretti

passeggia

lentamente all’angolo fra viale Angelico e viale delle Milizie e introduce il grande problema che grava, in autunno, sulla zona: gli storni. Dal balcone di casa di un’amica, la visione ricorda quasi

gli

uccelli

del

film

di

Hitchcock.

Un

improbabile

esperto, interpretato dal regista Carlo Mazzacurati, armato di megafono,

è



per

allontanarli

emettendo

un

suono

inquietante, con risultati modesti. Il passaggio fa pensare a un ribaltamento comico del capitolo che Italo Calvino dedica agli storni nel suo ultimo libro, Palomar. Il signor Palomar osserva quasi estasiato la collettiva geometria del loro volo: “Nell’aria viola del tramonto – scrive – egli guarda affiorare da una parte del

cielo

un

pulviscolo

minutissimo,

una

nuvola

d’ali

che

volano.” Sembra così dimenticare le conseguenze più concrete che letteralmente piovono su balconi e strade. pdp

IL CAIMANO (2006)

Flaminio | Prati | EUR

“È sempre il tempo di fare una commedia!”

E se fosse soprattutto un film d’amore? Se il discusso film su Silvio Berlusconi, Il Caimano, fosse soprattutto un racconto sull’amore, sull’inadeguatezza, sul sogno di famiglia? C’è una scena



notturno

arriva del

inattesa

resto

del

e

ha

film

un



colore

che

meno

funziona

cupo,

come

meno

una

spia

luminosa. Bruno (Silvio Orlando) e Paola (Margherita Buy) sono

in

macchina

sul

lungotevere

Flaminio

verso

Monte

Mario, hanno appena firmato la loro separazione e si ritrovano accanto,

ciascuno

nella

propria

macchina,

si

salutano,

si

guardano, si sorridono, tutto sommato ancora complici, ancora legati. In sottofondo, le note di Damien Rice, The Blower’s Daughter, che spezzano il cuore raccontando la difficoltà di un addio. È un film in cui si aprono spesso piccoli spazi così: di vita intima, gesti minimi, di vita familiare che va in frantumi e per vie inaspettate si ricompone, riprende fiato e calore. La città è più sfumata del consueto, appare per lampi, bagliori veloci, non si fa in tempo a mettere a fuoco i luoghi che subito il racconto corre via, altrove. C’è l’Archivio di Stato, all’EUR, che diventa l’esterno del Palazzo di Giustizia, dove il Caimano sarà processato; c’è, in quei dintorni, una scena notturna con qualcosa di felliniano, stavolta sì: quando i camion della produzione attraversano la via

Cristoforo

Colombo

per

raggiungere

il

set

di

un

film,

appunto, su Colombo. C’è una trattoria nei pressi di Santa Maria Maggiore e un albergo di lusso con piscina, in alto su piazza della Repubblica.

Bruno e Paola camminano lungo il porticato dell’Auditorium Parco della Musica, si fermano davanti alla libreria mentre lui cerca di convincerla ad avere una parte nel nuovo film.

Ma la vita privata di Bonomo, produttore in disgrazia che cerca di recuperare terreno, è spostata verso il quartiere Prati. Dopo

una

crisi

di

gelosia,

Bruno

si

mette

a

correre

sul

lungotevere, passa da via Cola di Rienzo, corre fino a casa, la casa che era stata loro, e decide di distruggere il maglione azzurro che aveva regalato a sua moglie. In un’altra scena, Bruno e Paola camminano lungo il porticato dell’Auditorium Parco della Musica, si fermano davanti alla libreria mentre lui cerca di convincerla ad avere una parte nel nuovo film. Così, la scena del lungotevere Flaminio, naturale e toccante, rende più evidente l’uso che di Roma fa Moretti nel Caimano: la lascia sparire dietro le vicende, come Ancona nella Stanza del figlio, dà la sensazione che abitare fino in fondo un luogo è anche o soprattutto dimenticarsene, non vederlo più. D’altra parte, ciò che abbiamo dentro non pesa forse di più di ciò che vediamo fuori, intorno? Mentre le foglie dei platani sembrano impegnate a cambiare colore, e a trattenere la bellissima luce di fine ottobre, uomini in età si concentrano nelle partite a tennis nei circoli sportivi. Non è domenica, ma sul lungotevere passa sempre qualcuno che

fa

jogging,

imponenti.

C’è

passano

una

ragazze

strana

quiete

esili a

trascinate

quest’altezza

da di

cani

Roma,

un’aria distesa come le chiacchiere delle studentesse all’uscita da scuola, indossano i leggins come una divisa e gesticolano parecchio.

Per

una

di

loro,

sull’asfalto,

davanti

a

un

parcheggio di motorini, qualcuno ha scritto con una vernice bianca ormai un po’ scolorita: Le maree seguono il ritmo della luna, il tuo sorriso dà ritmo al mio cuore. Ecco cos’è quel che si dice un quartiere residenziale! A tratti il silenzio è quasi eccessivo nell’ora

dopo

pranzo, le

guardie giurate davanti alle banche ci provano eternamente con le ragazze in pausa sigaretta. Verso piazza Mazzini passano a frotte

giovani

aspiranti

e

avvocati

più

agé

e

aspiranti

urlano

al

attrici,

telefono

quelle “Ciao

non

più

tesoro”

e

organizzano aperitivi allo Zodiaco, in cima a Monte Mario. Roma ha da queste parti tratti boscosi, la cinepresa di Moretti li coglie: dal finestrino dell’auto di Margherita Buy c’è un gran verde, quasi fosse uscita dalla città. Su via Cola di Rienzo, dove il personaggio di Paola abita, lo shopping è eterno, come i perdigiorno sulle panchine, sempre abbastanza squallidi e

circospetti.

Uomini

minuti,

forse

indiani,

spolverano

libri

italiani ingialliti sui banchi dell’usato. Come un’apparizione, ne troviamo uno di saggi sul cinema di Moretti, sul suo “sguardo morale”. Il testo sul Caimano insiste

sull’impegno

politico,

sulla

volontà

del

regista

di

togliere la maschera a Berlusconi, interpretandolo lui stesso. Viene ancora da pensare che no, non sia soprattutto un film su Berlusconi



Berlusconi;

o

e

la

che

storia gli

del

tentativo

scatenati

di

detrattori

fare

un

politici

film del

su

film

abbiano perso di vista l’essenziale. La storia di un produttore in difficoltà, uno che aveva fatto fortuna con B-movie splatter tardivamente rivalutati dalla critica, e del suo incontro con l’imprudenza della giovinezza. Ovvero con la ragazza regista, Teresa

(Jasmine

raccontare

la

Trinca), scalata

intestardita

finanziaria

nel e

suo

obiettivo

imprenditoriale

di di

Berlusconi. C’è il film nel film, quindi, e il racconto – come già in Aprile – dell’inseguimento di un’idea, che deve tradursi in immagini (in Aprile la storia del pasticcere trotzkista, qui quella del Caimano, con valigie cariche di soldi che cadono dal cielo e sfondano il soffitto). Ma su tutto c’è, ancora una volta, il rapporto tra ciò che accade

fuori



il

paesaggio

dell’attualità

e

della

Storia,

il

paesaggio in genere – e ciò che accade dentro. Dentro Bruno Bonomo,

in

questo

caso:

nel

suo

faticoso

tentativo

di

riconquista. Di sé, di un’intimità familiare, di una passione messa a dura prova. Moretti entra con complicità e delicatezza in questo cantiere emotivo – e il difficile film su Berlusconi è solo uno dei fantasmi che agitano le sue giornate. Quelli più frastornanti hanno a che fare con ciò che ha perso, o sente di avere perso, con la solitudine, con l’essere doppiamente padre – un po’ goffo, di due bambini, sì, ma anche (e altrettanto goffo) di un progetto, di un progetto altrui. Che, rimettendo in moto la sua vita, la complica terribilmente.

È un film in cui si aprono spesso piccoli spazi così: di vita intima, gesti minimi, di vita familiare che va in frantumi e per vie inaspettate si ricompone, riprende fiato e calore.

pdp

HABEMUS PAPAM (2011)

San Pietro | Borgo Pio | Prati

“In questo momento, la Chiesa ha bisogno di una guida che abbia la forza di portare grandi cambiamenti, che cerchi l’incontro con tutti e che abbia per tutti amore e capacità di comprensione. Chiedo perdono al Signore per quello che sto per fare e non so se Lui potrà perdonarmi…”

È difficile ricordare, per un romano, quando ha visto per la prima

volta

il

colonnato

di

San

Pietro.

È

difficile

come

ricordare la prima vista del mare in una città di mare. La cupola – o “cupolone” – progettato da Michelangelo, la piazza disegnata

da

Bernini

con

le

sue

quasi

trecento

colonne,

i

centoquaranta santi che le sovrastano, sono formalmente in un’altra città, anzi in un altro stato, ma Roma non sarebbe Roma

senza

questa

enorme

piazza,

senza

il

suo

largo

abbraccio. Habemus papam comincia naturalmente qui, con la camera fissa sulla splendida facciata della basilica realizzata da

Maderno

all’inizio

del

Seicento:

dal

grande

balcone

centrale, la Loggia delle Benedizioni, si affaccia il papa nelle occasioni più solenni, compresa quella in cui si presenta ai fedeli

subito

dopo

essere

stato

eletto.

Le

immagini

di

repertorio riportano ai giorni della morte di Giovanni Paolo II, nell’aprile

del

commozione

2005:

della

popolarissimo

e

le

folla

durato

lunghe

veglie

per

fine

la

quasi

di di

trent’anni;

preghiera, un e

la

pontificato quel

vento

inclemente, furioso, il giorno dei funerali, che sfogliava una Bibbia aperta sulla bara di legno semplice e faceva volare gli zucchetti dei cardinali. Il film ruota intorno a un paradosso, che oggi non sembra più tale: la Loggia delle Benedizioni che resta vuota. Fra le tende rosse, aperte come un sipario, non appare nessuno. Il nuovo papa non si affaccia. Si ritrae, rinuncia. Sembrava un apologo quasi surreale sull’inadeguatezza; è stato riletto, dopo le dimissioni di Benedetto XVI nel febbraio 2013, come una profezia. Certo è che le parole con cui nel film il cardinale Melville, neoeletto papa, comunica ai fedeli la rinuncia sono simili

in

modo

impressionante

a

quelle

che

avrebbe

usato

Joseph Ratzinger per annunciare il proprio ritiro: “In questo momento, la Chiesa ha bisogno di una guida che abbia la forza di portare grandi cambiamenti, che cerchi l’incontro con tutti e che abbia per tutti amore e capacità di comprensione. Chiedo perdono al Signore per quello che sto per fare e non so se Lui potrà perdonarmi…” Così, l’invenzione (o profezia involontaria) di Moretti è tutta giocata sulle premesse di questo gesto eclatante, sul papa che non vuole e non riesce a essere papa, va in analisi (il primo analista, il professor Brezzi, è interpretato da Moretti), esce in

abiti

civili

dal

Vaticano

per

raggiungere

un’altra

analista

(Margherita Buy), sale in tram, va a dormire in un albergo in cui alloggia anche una compagnia di teatro alle prese con le prove del Gabbiano di Cechov. E proprio in un teatro il papa riluttante sarà costretto a tornare in Vaticano dall’assedio dei cardinali. Gli itinerari del film sono dunque in gran parte “fuori le mura” vaticane: è proprio seguendo il percorso del papa che si finisce lontani da San Pietro. D’altra parte, se una scena nei Giardini Vaticani è in realtà ricostruita in una villa viterbese, il cortile interno della residenza papale è il cortile del bellissimo Palazzo

Farnese.

Lo

studio

dell’analista

è

nell’elegante

via

Ricciotti del quartiere Prati, quasi all’incrocio con quella via Settembrini amata da gente di cinema e di televisione (la sede Rai

è

poco

distante,

su

viale

Mazzini)

per

gli

aperitivi.

È

comunque nel quartiere Prati che il papa prova a svincolarsi dal controllo delle guardie del corpo: via Fabbri; un cortile di viale

Mazzini.

A

Trastevere

invece,

su

piazza

Trilussa,

si

ferma davanti a un’edicola per leggere sgomento i titoli dei giornali che lo riguardano; in una piccola chiesa quasi vuota di via

di

Santa

Dorotea

si

ferma

ad

ascoltare

la

messa.

Un

colloquio fra il portavoce e il pontefice si svolge fra le rovine del Foro di Augusto, in una mattinata di sole. La surreale partita

di

pallavolo

che

lo

psicanalista

Brezzi

organizza

coinvolgendo i cardinali in un cortile del palazzo pontificio è in realtà girata nel cortile interno di Palazzo Farnese.

È proprio seguendo il percorso del papa che si finisce lontani da San Pietro.

Nel

Teatro

Valle



il

più

antico

della

città,

nel

rione

Sant’Eustachio: fu inaugurato nel 1727 – è ambientata la scena in

cui

i

cardinali,

come

un

piccolo

esercito,

braccano

finalmente il papa per riportarlo in Vaticano. Nelle cronache degli

ultimi

striscioni questa

anni,

danno

via

artigiane

e

avverte

un

Valle

ancora

stretta di

il

ed

è

stato

conto

(Si

cartello).

“teatro

occupato”:

dell’esperienza,

elegante,

“sediari”

il

di

gallerie

impagliano

Arriviamo

al

spiccano

d’arte,

sedie

gli

di

Valle

in

botteghe ogni

da

tipo

piazza

Sant’Eustachio dopo aver bevuto un caffè – già zuccherato, un euro e venti – nella storica torrefazione (sta lì dal 1938 e vanta avventori come Kissinger) sempre affollata anche di politici (il palazzo

del

Senato

è

a

due

passi),

e

dopo

essere

finiti

nell’inquadratura di un turista giapponese. Nel foyer del Valle, mentre passiamo, danno una partita dei Mondiali di calcio, ma il collegamento wi-fi cede e lo schermo si blocca su un’azione fondamentale. Ci fermiamo a parlare con un “sediaro”, è di pessimo umore, dopo qualche minuto già assicura che non ha intenzione di passare al figlio il mestiere. Mettere

bottega,

dice, è una condanna a vita: eppure c’è passione sotto la scorza burbera,

viene

pazienza,

lo

fuori

stupore

quando che

lui

racconta

stesso

prova

la

precisione,

di

fronte

a

la

certi

portacappelli creati da suo padre. Ma questa bottega finisce con me, ripete, e inveisce contro Equitalia. Raggiungiamo

a

piedi

Ponte

Sant’Angelo,

sempre

affollatissimo: spiccano due sposi; mentre il fotografo li guida, li posiziona, i turisti intorno hanno già cominciato a scattare. La luce del tardo pomeriggio riveste con la sua cera la vista dal ponte. L’arrivo sull’enorme piazza della basilica è preparato dall’infittirsi di negozi a tema religioso: in uno si nota una tshirt blu in vetrina, il “papa venuto dalla fine del mondo” disegnato come un supereroe. È buffo pensare che nel film di Moretti

veniva

sudamericano tassisti

poco

evocato

della mistici

anche

Storia.

Sul

un

possibile

largo

commentano

il

intitolato sedere

di

primo a

papa

Pio

una

XII,

turista

bionda letteralmente cotta dal sole, mentre si alza quel vento romano che sembra esistere solo nei proverbi e nelle canzoni – e invece esiste. I santi che svettano sul colonnato della piazza sembrano una folla di gente ibernata in un sovratempo, in qualcosa che in effetti somiglia all’eternità. I turisti si siedono sulle gradinate basse, si tolgono i sandali e leggono a voce alta

le

indicazioni

della

guida

ad

accompagnatori

distratti,

o

distrutti. Appena oltre il colonnato ci si infila in quel piccolo paese ancora verace che è Borgo Pio: fra quei vicoli ancora al riparo

dai

locali

più

turistici,

i

cardinali

neozelandesi

di

Habemus papam vorrebbero fare colazione, ispirati dalla fama intercontinentale delle bombe alla crema.

Il Teatro Valle, il più antico della città, nel rione Sant’Eustachio: fu inaugurato nel 1727.

Nel Teatro Valle è ambientata la scena in cui i cardinali, come un piccolo esercito, braccano finalmente il papa riluttante per riportarlo in Vaticano.

Un

vecchio

papa

appena

eletto,

vestito

come

un

uomo

qualunque, se ne va a piedi per le vie di Roma. A piazza Augusto

Imperatore

si

ferma

ad

ascoltare

una

cantante

di

strada che intona Todo cambia di Mercedes Sosa. Sale su un autobus, parla da solo. Le luci sul lungotevere all’altezza di piazza

Cavour



è

notte



fanno

disegni

strani

fuori

dal

finestrino. Una città! Il suo movimento, il suo segreto: c’è qualcosa di misterioso e perfino struggente, nell’inquadratura in movimento. L’uomo parla da solo, gli altri lo guardano con pietà o alzando le spalle. E lui ha questo viso aperto e gentile di Michel Piccoli, ha gli occhi piccoli, arresi, dolci. Bisbiglia le

prime

parole

disorientati

da

l’inestimabile

del

discorso

quel

soglio

fortuna

che

dovrebbe

vuoto:

di

“Noi

credere,

tenere

tutti

abbiamo

ai

che il

fedeli

abbiamo

dovere

di

conoscere, di capire le cose… ma da un po’ di tempo la nostra Chiesa ha difficoltà a capire le cose.” Se il neoeletto Melville – il cui nome rinvia a una novella dell’autore

di

Moby

Dick,

Bartleby

lo

scrivano,

con

quell’insistente, ossessivo “Avrei preferenza di no”, si sottrae al

ruolo

assegnato



così

fanno

in

qualche

modo

pure

i

cardinali. Meglio: si distraggono dal ruolo, e per ingannare l’attesa si abbandonano a un improbabile torneo di pallavolo arbitrato dallo psicanalista Brezzi (Moretti). colorata,

un

tenero

e

scanzonato

inno

L’invenzione

alle

cose

è

(quasi)

impossibili. Non è quasi impossibile che un papa rinunci al suo

incarico?

Non

è

quasi

impossibile

che

un

papa

possa

confidarsi con uno psicanalista? Non è quasi impossibile che i cardinali palazzo partita

si

mettano

apostolico? viene

a

giocare

Quando

sospesa,

lo

il

a

pallavolo

portavoce

psicanalista

li

resta

nei

cortili

richiama

del e

la

profondamente

deluso: “Ragazzi, non scherzate, fermatevi, non potete fare questo.

Dobbiamo

giocare

le

due

semifinali

e

poi

le

due

vincenti…” Così, i cardinali tornano in parte, rientrano nel ruolo: Moretti insiste ancora sul rapporto fra ciò che siamo, possiamo

essere,

e

ciò

che

dobbiamo



anche

molto

seriamente – “recitare”. “E poi per me lei è un’astrazione, non riesco a vedere una persona, vedo solamente il papa” confida Brezzi al neoeletto Melville. E ancora: “Ma lei lo vuole fare il papa?”

Il rimando al teatro è continuo, in Habemus papam: nella messinscena della guardia svizzera che, papa assente, muove le

tende

dell’appartamento

per

rassicurare

i

fedeli;

e

soprattutto nell’antico sogno teatrale del cardinale Melville. Voleva fare teatro (come Wojtyla, grande papa teatrale), non ci è riuscito e adesso che gli tocca la parte più importante, niente, non si sente pronto. È infine in una sala teatrale che i cardinali e

le

guardie

svizzere

lo

sorprendono

e

praticamente

lo

costringono a tornare in Vaticano. C’è una scena molto intensa: il papa, in abiti borghesi, è a tavola con la compagnia di attori impegnata nel Gabbiano di Cechov. Alle parole della cena si sovrappongono le battute del testo di Cechov: ciascuno ha il suo ruolo, ciascuno recita la sua parte nel mondo e sulla scena (sulla scena del mondo), ma non il papa, non quel papa spaesato che ha disertato il suo palcoscenico. Non a caso più volte le tende rosse della finestra su piazza San Pietro le vediamo sbattere per il vento come un sipario aperto da cui nessuno si affaccia. “Quel teatro – dice il personaggio

Medvedenko

nel

Gabbiano

–:

sta

lì,

nudo,

informe, come uno scheletro, e il sipario sbatte per il vento. Quando

ieri

sera

ci

sono

passato

accanto

mi

è

parso

che

qualcuno là dentro piangesse.” Fa una grande impressione ripensare Habemus papam alla luce del Gabbiano: non è forse quello di Cechov un dramma sull’inadeguatezza? “Non potete capire la condizione di chi sente che sta recitando in modo orrendo.” E ancora: i sogni disillusi, la capacità di sopportazione (ancora Cechov: “la cosa più importante non è la gloria, non è lo splendore, non è ciò che

io

sognavo,

bensì

la

capacità

di

sopportazione.

Sappi

portare la tua croce e credi”). Il rischio di impazzire, come il pazzo di Gogol’ citato nel Gabbiano, come l’attore nel film di Moretti

portato

via

dall’ambulanza,

per

troppa

immedesimazione nella parte. “Cammino

sempre

e

penso,”

dice

il

personaggio

Nina

ancora nel Gabbiano – e così il papa di Moretti ha bisogno di camminare (“Ho bisogno di camminare un po’” spiega al suo portavoce,

già

molto

in

allarme).

Ha

bisogno

di

ricordare

qualcosa: le presenze della sua vita che, come in un incubo da sveglio, vede allontanarsi e sparire – e insieme accettare di dimenticare tutto.

È

un

film

che

ha

spiazzato

molti

fan

di

Moretti,

quasi

quanto La stanza del figlio, che si concentrava su un indicibile dolore familiare. In modo più radicale che nel Caimano o in altri film,

tuttavia, Moretti è tornato in Habemus papam a

parlare dell’inadeguatezza alle aspettative altrui, del non poter essere/non poter fare. Sceglie una via che, nel 2011, appariva estrema,

se

non

surreale:

un

papa

rinunciatario.

Gli

eventi

successivi hanno ripiombato il film nella realtà, restituendolo – più che a un ambito profetico – a una disarmante verità storica. Presagita, poetici:

certo,

gli

conquistata

unici

in

grado

involontariamente, di

spingere

con

perfino

un

mezzi ateo

a

immedesimarsi nell’angoscia dei cardinali riuniti in conclave nella Cappella Sistina. Quando sulla loro testa grava l’ipotesi di essere scelti, l’eventuale ambizione si sbriciola sotto il peso della paura di non essere all’altezza. “Non io. Ti prego. Non io, non io…” implora il cardinale Cincotta. E Moretti ci fa sentire i pensieri di tutti gli altri – atterriti, disarmati –, lascia che si sovrappongano come onde sonore, voci di un coro da tragedia sull’inadeguatezza. Si

può

segnato?

fuggire

da

Melville

ci

confonde nella folla,



stessi,

prova,

da

sveste

si lascia

un gli

trattare

ruolo, abiti male,

da

un

“di in

destino

scena”,

si

un caffè

di

Trastevere, da un barista che non vede, non può vedere in lui il papa, si lascia soccorrere dalla commessa di un negozio, come un anziano qualunque, si lascia interrogare docilmente da una psicanalista sui traumi infantili, sulle possibili conseguenze di un “deficit di accudimento”. Prova a far perdere le tracce di sé, sfuggendo al controllo dei gendarmi che presidiano il quartiere Prati – via Fabio Massimo, via Cola di Rienzo, il cinema Eden –,

si

nasconde,

si

nega:

“Abbiate

pazienza,

vi

prego,

ho

bisogno di tempo… Adesso devo ricordare tante cose della mia vita, cose che ho dimenticato.” pdp

MIA MADRE (2015)

Gianicolense | Flaminio | Prati Africano | Monteverde

“In questo posto sono tutti troppo intelligenti, ci vorrebbe qualcuno un po’ più scemo per risollevare un po’ il morale.”

È

quasi

innaturale

accostare

senza

una

ragione

precisa

questo vasto condominio dell’attesa, presidiato dai pini, che quasi lo schermano, lungo un tratto di Gianicolense. Venne su negli anni del fascismo, una lapide all’interno ricorda che fu edificato in ventiquattro mesi per volere di Mussolini e per via della

furiosa

dell’ospedale

epidemia San

di

spagnola.

Camillo-Forlanini,

Il

con

corpo i

centrale

suoi

toni

fra

arancio e rosa, le torrette e i lampioncini liberty rimanda subito a

quei

tardi

riaggancia

anni

al

venti.

presente,

La

luce

così

al

come

neon

l’aria

lungo

i

corridoi

concentrata,

tesa,

anche stravolta, di chi entra o esce, senza guardarsi intorno – un mazzo di fiori in mano, la busta con la biancheria, i fogli di impegnative o analisi. Chi aspetta il tram 8, appena oltre i cancelli,

seguita

a

parlare

di

casi

di

salute,

sospeso

fra

ottimismo e rassegnazione. Da un luogo come questo la città non esiste, è un intralcio, una ridondanza inutile. Qualcosa

di

superfluo,

come

diventano

per

i

fratelli

Margherita e Giovanni – nel film Mia madre – i rispettivi mestieri. Lei regista, lui ingegnere. Il cuore del racconto e del tratto di esistenza che Moretti porta sullo schermo è tutto in una stanza di questo ospedale: il fascio di luce tenue, sbiadita che entra dalla finestra della stanza dove la signora Ada è ricoverata,

certifica

Nient’altro.

Così

caso

del

solo

ogni

che

Roma,

ospedale

Fatebenefratelli,

sul

è

fuori,

un’isola:

Tevere,

c’è

ancora.

raddoppiata

fondale

di

un

nel

evento

gioioso – la nascita del figlio – in Aprile. In ogni caso, un tempo

diverso,

di

attesa,

che

esclude

tutto

il

resto:

per

Margherita e Giovanni, più si avvicina il momento del distacco dalla

madre,

più

si

annebbia

tutto

il

resto,

il

flusso

e

il

movimento del presente. Quello che in realtà non si è mai interrotto,

e

continua

tuttora.

La

vita

della

città,

il

chiacchiericcio sul tram, gli appuntamenti per la cena, i “daje” e

gli

“scialla”,

che

a

tendere

l’orecchio

intercetti

davvero,

insieme alle lamentele sul freddo di una signora in pelliccia.

Una scena a metà fra sogno e veglia, Montecitorio, davanti al Capranichetta.

in

piazza

Intanto, Bianco,

volendo

la

alzare

nuvolaglia

si

gli

è

occhi

fatta

all’altezza

rossiccia,

la

del

luce

Ponte

è

calata

all’improvviso, nell’ospedale è già ora di cena. Fra le prime scene del film, ce n’è una che mostra Margherita indecisa su cosa portare alla madre, dentro una rosticceria in via dei Colli Portuensi. È sera – e l’intero film si sviluppa più su scene notturne

che

accadere,

diurne.

accade

Tutto

di

sera,

ciò

che

di

di

notte,

più

o

importante

di

mattina

deve

presto.

L’incontro della regista Margherita con il protagonista del suo film (interpretato da John Turturro), un percorso in macchina per le strade di Roma con l’attore su di giri che si affaccia al finestrino dell’auto e grida una serie di nomi di grandi registi italiani, la cena che segue in un ristorante ai Parioli; l’ultima scena del film – di notte, in una piazza Mancini deserta –, un teso

confronto

ancora,

una

di

Margherita

scena

a

metà

con

fra

il

proprio

sogno

e

compagno

veglia,

in

e

piazza

Montecitorio, davanti al “Capranichetta” cinema riconvertito a sala convegni: Margherita è come assediata dalla propria vita, il

fratello

la

invita

a

riconquistare

leggerezza.

Ma

il

lutto

incombe, incombe l’orfanezza. La notizia della morte della signora Ada arriva di notte. La nipote ragazzina si gira nel letto e piange. Poi, accanto al padre, si affaccia da una terrazza che



sulle

strade

del

quartiere

africano:

le

luci

di

viale

Somalia, la tangenziale in lontananza. Il cielo si schiarisce appena,

in

prossimità

naturalmente,

ed

è

notte

dell’alba. quando

È la

notte casa

di

negli

incubi,

Margherita



ricostruita a Monteverde vecchio, via Maurizio Quadrio – si allaga; deciderà di trasferirsi nella casa della madre, in via Crescenzio. L’esterno non si vede mai, ma si intravede uno di quei

grandi

cortili

piuttosto

dimessi

che

puntellano

questa

strada in leggera pendenza dalla Mole Adriana verso piazza Risorgimento. Austera e quieta, al riparo dallo shopping di via Cola

di

Rienzo,

ha

questa

schiera

di

massicci

palazzi

umbertini, gialli o rossicci, con vecchie portinerie. Attraversata da vie che portano i nomi di poeti latini, si svecchia all’altezza di locali alla moda e per via delle Smart che la percorrono in eterna ricerca di parcheggio.

MARGHERITA: Vittorio mi ha detto delle cose tremende su di me. GIOVANNI: E come osa? MARGHERITA: Mi ha detto delle cose terribili sui miei rapporti con gli altri. Poi io ci ho pensato eh?! Erano così esatte, così giuste.

C’è un filo che lega Mia madre al Caimano, alla parte più intima di quella storia – la difficoltà di tenere insieme quello che facciamo, o che proviamo a fare, e quello che sentiamo, quello che ci accade nella vita cosiddetta privata. Ma è un tema che riporta anche alla Stanza del figlio, e ancora indietro, ad Aprile e a Caro diario. Il “privato” invade il resto della vita di

Margherita

e

Giovanni,

proprio

come

l’acqua

invade

i

pavimenti della casa di lei, non ci si può opporre. La morte della madre, per i due fratelli, è un fatto inaccettabile. Lui, ingegnere, si prende un periodo d’aspettativa che durerà per sempre. Lei, regista, sta girando un film sul tema del lavoro che

forse

non

riuscirà

a

finire.

Cercano

in

ogni

modo

di

rassicurare la madre e, forse, di rassicurarsi. Ada era stata una grande insegnante. “Di vita,” come dice un suo ex alunno nel film.

E

la

sua

casa,

piena

dei

suoi

libri

ma

adesso

così

silenziosa, sembra preparare i figli all’assenza. La casa, ci ha spiegato

Moretti,

può

essere

considerata

quasi

una

protagonista del film. Torna in mente il diario tenuto da Roland Barthes nei giorni della morte della madre (è stato pubblicato con il titolo Dove lei non è): “Tutto scoppia” annota lui testualmente, cita Proust che

scrive

a

un

amico

che

ha

perso

un

genitore:

“Lei

conserverà sempre qualcosa di spezzato.” Così tutto scoppia e allo stesso tempo continua: con più o meno certezze? Il film parla anche di questo, di molte certezze che vanno in frantumi, di altre – anche terribili – che si guadagnano. La commozione viene dalle cose, dai fatti, non è mai suggerita o pretesa, come la scena del motorino: la figlia adolescente di Margherita sta imparando a guidarlo, i genitori che prima gliel’hanno negato adesso la accompagnano e la osservano, lei così misteriosa. È un

pomeriggio

sereno

su

via

Aurelio

Saffi,

e

familiare è raccontata con una grazia rara, luminosa.

l’intimità

La figlia adolescente di Margherita sta imparando a guidare il motorino. È un pomeriggio sereno su via Aurelio Saffi.

Nella bellissima scena finale, alla madre viene chiesto a cosa stia pensando. “A domani,” risponde lei, dal suo letto di ospedale. Com’è possibile accettare il fatto di sopravvivere alla propria madre? Margherita e Giovanni sono fratelli, ma

sono

soprattutto

figli. Due figli che pendono dalle labbra dei medici che spesso usano parole strane, che non si fanno capire, che parlano una lingua

diversa

rassicurato,

da

una

quella

lingua

di

che

chi

soffre

suona

e

vorrebbe

fredda

e

essere

spietata

alle

orecchie di chi vive nell’attesa e non sa bene cosa porterà quell’attesa e perché. E tutte quelle parole strane che usano i medici, stesso

tutti

quei

concetto:

discorsi,

la

madre

non sta

fanno

altro

morendo.

che

E

ripetere

con

lei

se

lo ne

andranno il latino e il greco, gli anni di studio, e tutti quei libri letti e riletti e spiegati rimarranno chiusi e per un po’ di tempo si vestiranno solo di polvere. “Tutto questo – scriveva ancora Barthes – definisce il distacco da qualsiasi lavoro”: distacco che condivide Giovanni, che si licenzia dall’azienda per cui lavora. Moretti, qualche giorno prima che Mia madre uscisse nelle sale, in un’intervista rilasciata al Venerdì di Repubblica, aveva confessato: “Ho rivisto Un’altra donna di Woody Allen, ma non

ho

rivisto

il

film

di

Haneke,

Amour

che

avevo

sulla

scrivania. E soprattutto non ho letto Roland Barthes. Dopo la morte di mia madre un’amica mi aveva regalato Dove lei non è, il diario del lutto, che Barthes scrisse durante la malattia della madre. Quell’amica mi aveva detto che a lei aveva fatto molto bene. L’ho aperto, una pagina a caso, ho letto due righe che mi hanno fatto stare molto male e l’ho richiuso. Alla fine delle riprese l’ho tolto dalla scrivania e rimesso nella libreria. Per fortuna non avevo più bisogno di immergermi nel dolore.” Ma forse è perché certi dolori si somigliano, pur essendo lontani nel tempo e nello spazio, che Moretti, che si nasconde nei gesti, negli sguardi, nei silenzi dei due fratelli, sembra provare

le

stesse

emozioni

che

provava

Barthes

mentre

scriveva quel diario: “È assenza e dolore, dolore dell’assenza – forse dunque amore?”, “Abito la mia tristezza, e ciò mi rende felice”, “Poter vivere senza qualcuno che si amava, significa forse

che

lo

si

amava

meno

di

coraggioso, non essere coraggiosi”.

quanto

credessimo?”,

“È

pdp, gb

ROMA, MIA MADRE

Conversazione con Nanni Moretti

Per i suoi film, la scelta dei set è già definita in fase di sceneggiatura o si completa nel corso delle riprese? NANNI

MORETTI:

Scrivendo,

non

ho

presente

luoghi

specifici, così come non so (tranne qualche eccezione) quali saranno gli attori che interpreteranno i personaggi. Scrivendo, m’interesso racconto

della

(tranne

storia,

dei

quei

casi

personaggi, in

cui

dello

il

sviluppo

film

l’ho

del

scritto

direttamente mentre lo stavo girando e in cui è capitato che non ci fosse nemmeno la sceneggiatura, come per l’episodio della Vespa in Caro diario). Allora quando e in base a quale criterio sceglie i luoghi? Li

scelgo

periodo

naturalmente

che

scelgono

i

durante

precede

le

riprese;

luoghi,

cerco

di

la

si

preparazione,

scelgono

spiegare

la

gli

che

attori

mia

è e

idea

il si di

ambientazione allo scenografo, che poi vede diversi posti e me li propone. Alle volte, degli ambienti particolari possono dare una nota, un colore nuovo alla pagina che fino a quel momento era solo scritta e immaginata a tavolino. Tornando

a

quanto

diceva

poco

fa

a

proposito

di Caro

diario, lei aveva già stabilito quale itinerario avrebbe percorso in Vespa? Andavo ideale,

in

giro

ossia

con

quella

pochissime

che

considero

persone:

il

mio

la

mia

socio

troupe Angelo

Barbagallo guidava una jeep su cui era piazzata la macchina da presa;

il

direttore

della

fotografia

era

anche

l’operatore

di

macchina, poi c’erano soltanto un assistente operatore e un elettricista

che

faceva

quello

che,

in

una

troupe

normale,

avrebbero fatto quattro elettricisti e quattro macchinisti. Con questa formazione, per esempio, ho girato anche l’incontro con

Jennifer

spiritosa,

è

Beals

anche

che

in

quella

bella

(e

non

scena,

c’era

oltre

che

truccatore,

brava

non

e

c’era

parrucchiere, non c’erano luci aggiunte). Avevo un’idea vaga

dei

quartieri

in

cui

volevo

girare,

sapevo

però

che

volevo

marcare le differenze sociali e architettoniche tra un quartiere e un altro, tra un’“isola” e un’altra. Per esempio, una delle tante scene che poi ho tagliato durante il montaggio l’ho girata ai

Parioli

(quartiere

borghese

per

eccellenza),

e

mostrando

quel viale e quelle case la mia voce fuori campo rifletteva sull’inesistenza della borghesia italiana e romana. In quell’estate del ’92 stavo preparando un altro film, che poi non ho mai realizzato; trovandomi a metà agosto a Roma, ho

avuto

voglia

di

fare

un

cortometraggio

sulle

mie

passeggiate in Vespa in giro per la città, per poi proiettarlo solo al Nuovo Sacher prima di un lungometraggio. Poi ho visto il materiale girato e mi sono detto: “Ma no, io voglio fare tutto un film così!” E allora mi sono messo a scrivere altri capitoli: quello delle isole Eolie, quello della mia malattia e un altro,

che

essere

poi

non

Silvio

ho

girato,

Orlando.

l’irresponsabilità

e

la

in

Volevo

cui

il

girare

leggerezza

protagonista un

intero

mi

avevano

che

doveva

film

con

colpito

vedendo in proiezione il materiale girato e che mi ricordavano i

miei

primi

cortometraggi

in

Super8.

E

comunque,

molte

scene che avevo girato nell’estate del ’92, le ho poi girate nuovamente nell’estate successiva. Perché le ha girate di nuovo? Perché magari al primo tentativo c’era qualche automobile di troppo, le strade di Roma non erano proprio vuote. Però, per esempio, ho rigirato nel ’93 tutta la sequenza dell’Idroscalo, intorno

ai

luoghi

montaggio

ho

dove

invece

è

stato

ammazzato

preferito

le

Pasolini,

prime

riprese,

ma

al

girate

leggermente al rallentatore, che avevano una luce, un ritmo e un’atmosfera abbastanza speciali. In altri casi, ho utilizzato le riprese della seconda estate. La scena in cui attraverso piazza Mazzini l’ho girata proprio all’ora di pranzo del 15 agosto, che nel ’93 cadeva di domenica, con la città assolutamente deserta. A

proposito

pensa

di

della

averla

leggerezza

cercata

fin

di da

cui

parlava

subito,

da

poco Io

fa,

sono

lei un

autarchico? Quando

uscì

Io

sono

un

autarchico

tutti

mi

dicevano:

“Vedendo il film si capisce proprio che vi siete divertiti tanto!” In realtà durante le riprese ero molto angosciato, anche se stavo girando solo un piccolo film in Super8, che pensavo non

g

p

p

p

avrebbe visto quasi nessuno. Certamente non immaginavo che sarebbe arrivato un grande successo nel piccolo circuito dei cineclub

e

conosciuto,

dei

cinema

alcuni

d’essai.

Poi

sono

andati

film

ho

cominciato

anche

molto

a

essere

bene,

e

questo, inevitabilmente, crea aspettative, non solo negli altri ma

anche

in

te

stesso.

E

rischi

di

essere,

uso

un

termine

sportivo, “contratto”. Ecco, questa responsabilizzazione non c’era nell’episodio della Vespa, proprio perché pensavo che sarebbe

stato

un

filmino

che

avrebbero

visto

solo

pochi

spettatori al Nuovo Sacher, duemila o tremila persone. È stata una scelta naturale quella di lavorare perlopiù a Roma e di renderla riconoscibile nei suoi film? C’erano alcune costanti nei miei film (i pranzi in famiglia, le telefonate, il giocare con la palletta nella propria stanza, la scuola) e sono tutte cose che facevano parte della mia vita. Quindi,

scrivendo

una

sceneggiatura,

andavano

a

finire

naturalmente nella storia del protagonista. Lo stesso vale per le ambientazioni. In Ecce Bombo, non ho pensato di mostrare o raccontare il quartiere Prati. Era il quartiere in cui vivevo e mi è venuto naturale girare a piazza dei Quiriti o in un bar vicino a piazza Mazzini. Poi, ci sono ambienti su cui, insieme allo scenografo, ho lavorato di più, come la scuola di Bianca, la parrocchia della Messa

è

finita

e

la

piscina

di

Palombella

rossa. Mi piace lavorare e girare in un ambiente dal vero che però trasformo e utilizzo come fosse un teatro di posa. La scuola elementare Giacomo Leopardi, a Monte Mario, che ho frequentato da bambino, in Bianca è diventata il liceo Marilyn Monroe. Il refettorio dove nella realtà mangiano gli alunni della scuola lo abbiamo trasformato in una sorta di sala giochi per i professori. Per La messa è finita, non volevo una chiesa che fosse protagonista, piena di storia, troppo antica, né volevo che fosse architettonicamente troppo moderna. Cercavo una chiesa che non avesse un’immagine, un segno troppo forte, e quindi ho scelto una parrocchia che mi sembrava fosse più adatta

per

il

mio

film

e

per

il

personaggio

del

prete.

L’appartamento di don Giulio è stato creato dallo scenografo nello spazio di quello che un tempo era il cinema parrocchiale. In Habemus papam, per far giocare i cardinali, ho trasformato il cortile di ghiaia di Palazzo Farnese in due campi di pallavolo in terra rossa.

A Cinecittà ha mai girato? In Sogni d’oro lo studio televisivo del match tra i due registi è stato costruito a Cinecittà, così come l’appartamento dove io vivo con mia madre (anche se mi sono portato da casa i miei libri e la mia libreria). Per Habemus papam la facciata della basilica di San Pietro è stata costruita in esterno a Cinecittà e, in teatro di posa, la Cappella Sistina e la Sala Regia. Parliamo della scelta di uscire da Roma per Palombella rossa e per La stanza del figlio. Palombella rossa, il primo film mio prodotto dalla Sacher: avrei risparmiato molto se l’avessi girato in una piscina di Roma. Pressappoco sarebbe stato lo stesso film. Però, appunto, è in quel “pressappoco” che c’è la differenza tra un libro e un altro, tra un film e un altro. Io volevo girare e giocare quella partita, subire quella sconfitta in trasferta, volevo che Michele Apicella, pallanuotista comunista, avesse il pubblico contro, volevo che ci fosse un andare e un tornare da quel luogo. Per La stanza del figlio, ambientato ad Ancona, credo ci siano due motivi: mi sembrava di aver ormai consumato Roma, di averla inquadrata, filmata, raccontata, mostrata da tanti punti di vista; e poi, soprattutto, volevo che la storia si svolgesse in una città piccola,

non

volevo

che

questo

grande

dolore

si

perdesse

nell’anonimato della grande città, della metropoli. Volevo che Paola e Giovanni sentissero la partecipazione degli altri al loro dolore. Volevo che si sentisse una comunità intorno a loro. Con

scarsissima

autostima

gli

anconetani

mi

chiedevano

sorpresi: “Ma come mai sei venuto a girare qua?!” Ho scelto Ancona per ambientare – e in qualche modo anche nascondere e proteggere – la storia che volevo raccontare. Ho scelto una città di mare perché il mare ha a che vedere direttamente con la morte del figlio. Avevo pensato anche ad altre città. Trieste era troppo metaforica, città di frontiera, città in cui è nata la psicoanalisi

in

Italia,

troppo

carica

di

storia,

architettonicamente molto importante. La Spezia mi sembrava un po’ troppo carina e pittoresca.

Livorno l’avevo

esclusa,

perché non volevo fare invasione di campo nei confronti di Virzì.

E

insieme,

a

Genova

tante

città

mi

sembrava

diverse.

E

che

ci

fossero

nemmeno

Bari

tante o

città

Taranto

andavano bene, perché girare un film al sud avrebbe creato

negli spettatori aspettative di un film sociale, di un film sul Mezzogiorno.

Giorgio Biferali e Paolo Di Paolo con il regista sulle scale del cinema Nuovo Sacher.

Vorremmo chiederle che rapporto ha con Roma, ma in una scena di Aprile lei stesso lo chiede al giornalista Corrado Stajano e lui, alzando le spalle, risponde: “Che domande!”… Non è una battuta casuale, detta così al volo, era scritta in sceneggiatura. Talvolta anche gli appassionati di cinema non capiscono

che

battute

che

possono

sembrare

improvvisate

sono in realtà scelte di dialogo, di sceneggiatura. Il senso vero di Aprile è il contrario del suo senso letterale. Letteralmente cosa succede? Che io finalmente comincio a girare il musical sul

pasticcere

trotzkista

documentario

sull’Italia

letteralmente,

ma

il

e di

senso

non

riesco

a

oggi.

Questo

è

vero

del

concludere ciò

film

è

che

un

accade

esattamente

il

contrario: interpretando Nanni Moretti e facendo finta che non mi va di girare il mio documentario, in realtà faccio vedere delle

immagini

pubblico

(e

sull’Italia

invece,

di

oggi

purtroppo,

che

temo

voglio che

il

mostrare musical

al sul

pasticcere trotzkista negli anni cinquanta non lo girerò mai…). Io non sono per vedere in maniera arida un film, con il rischio di vivisezionarlo e non emozionarsi. Però mi sembra che ci sia spesso un modo molto grossolano di vedere i film. Ricordo qualcuno che dopo aver visto Aprile mi ha detto: “Ah, ma se non ti andava di girare, perché hai fatto questo film?” Non hanno capito che avevo scritto e interpretato e inventato la figura di un regista che scappa dal suo documentario, dal suo “dovere”, ma che in questo modo sono comunque riuscito a mostrare immagini, momenti e personaggi dell’Italia di quegli anni che mi sembrava importante raccontare. A proposito del rapporto con il pubblico, molti spettatori, anche per via di battute memorabili, considerano lei e i suoi film già dei classici. Sì, ma questa è una cosa che sfugge per primo al regista. Quando in quel prataccio in Ecce Bombo c’è il dialogo tra me e quella ragazza, ecco, quella scena è nata dai discorsi che sentivo

in

quel

periodo.

Anzi,

in

quel

caso

lo

so

con

precisione: mentre preparavo il film ho incontrato un’aspirante attrice, che poi ha fatto altro nella vita, che mi fece proprio quel

discorso

sceneggiatura. immaginato



e

Ma

cose

io non

come

me ho

l’appuntai mai

“questa

è

per

pensato una

scena

inserirlo a

nella

tavolino

che

o

rimarrà”,

“questo dialogo lo citeranno anche tra trent’anni”. Se allora me l’avessero detto, non ci avrei assolutamente creduto. Qualcuno

considera

i

miei

film

addirittura

dei

classici?

Temo che il sottotesto di classico possa essere “la classica mummia”. Sulla classicità non riesco a dire molto, posso forse dire

qualcosa

sull’autenticità.

Penso

che

molti

spettatori

ritrovino dell’autenticità nei miei film, che non c’entra niente con la spontaneità, che non è di per sé un valore, né nel cinema né nella vita. Mi riesce difficile pensare i miei film come dei classici, perché sono dei film molto personali. Anche la scelta delle

ambientazioni

lo

dimostra.

Quando

uscì

Ecce Bombo

molti dicevano che era troppo un film su Roma, anzi troppo un film su Roma nord, anzi troppo sul quartiere Prati, anzi troppo su piazza Mazzini. Ed è successo perché quello era il luogo dove

io

vivevo

e

frequentavo

amici.

Spesso,

più

si

va

nel

particolare, più si ha la possibilità di diventare universali. Su una sua vocazione o qualità profetica, forse, si è insistito in modo anche un po’ caricaturale, però è vero che certi film involontariamente anticipano qualcosa… Mi ricordo che quando uscì Palombella rossa, un giovane critico del un

film

PCI

(non un vecchio trombone) scrisse che il mio era

vecchio

e

che

non

era

sul

PCI

di

allora,

il

PCI

di

Occhetto, che invece non aveva certo una crisi d’identità. Già. Dopo due mesi crollò il Muro di Berlino e il

PCI

non esisteva

più. Partire da sé e avere la fortuna di riuscire a raccontare gli altri… Quando uscì Bianca, molti dissero che il mio film era riuscito a interpretare e raccontare una generazione, ma io non avevo voluto fare questo, non l’avevo certo programmato. E su questo modo di vedere e “leggere” i miei film ho anche un po’ cambiato idea: tanti anni fa scalpitavo insofferente quando i giornalisti dicevano che raccontavo una generazione, che a sua volta si rispecchiava nei miei film. Mi sembrava

un modo

riduttivo di giudicare il mio lavoro, troppo sociologico e poco cinematografico. Ora, invece, se ripenso a questa cosa, se è vero che ho avuto la fortuna di interpretare e raccontare la mia generazione, be’, è una cosa che mi fa piacere e che mi rende orgoglioso. Ma vale anche per gli ultimi anni. Un finale come quello del Caimano, tempo…

nel

2006,

sarebbe

diventato

più

chiaro

con

il

Uno

dei

compiti

del

cinema



e

della

letteratura



è

raccontarci le cose che ancora non riusciamo a vedere. Ecco, nel Caimano ho fatto il contrario: ho voluto raccontare le cose che non riuscivamo più a vedere, perché ci eravamo assuefatti ad anormalità e anomalie inaccettabili in una democrazia. Le profezie

non

c’entrano,

ero

semplicemente

stato

un

po’

attento, ho impedito a me stesso di dimenticare quello che era stato detto e fatto negli anni precedenti da Silvio Berlusconi. Recitando

quel

l’imitazione.

ruolo,

Come

non

attore,

mi

interessava

volevo

solo

la

parodia

restituire,

né con

semplicità e freddezza, la pericolosità di quelle parole dette tante volte e a cui eravamo ormai assuefatti. E il giorno in cui si è dimesso Papa Benedetto XVI, lei cos’ha pensato? Gliel’avranno già chiesto in parecchi. Molti

spettatori

hanno

avuto

un

atteggiamento

ingenuo

quando è uscito Habemus papam, anche all’estero. “Ah, ma non è un film di denuncia!” dicevano lamentandosi, perché molti pretendevano che ritagliassi alcuni articoli dai giornali sugli scandali in Vaticano e costruissi in questo modo una sceneggiatura

facile,

che

rassicurasse

il

pubblico

raccontandogli cose che già sapeva: gli scandali finanziari, la pedofilia. Ho cercato invece di battere una strada un po’ più difficile. Anzitutto, evitando di dare al pubblico quello che il pubblico si aspettava da un film sul Vaticano. E fare una critica più complessa, far vedere che basta il semplice gesto di un uomo per far crollare un intero edificio religioso, istituzionale, politico. Basta non affacciarsi alla finestra di San Pietro, basta un gesto umano, una rinuncia, per far crollare tutto. Anche rivedendo La messa è finita, si sente un modo forse inconsueto per l’epoca – era il 1985 – di raccontare la figura di un sacerdote, la sua solitudine, la sua difficoltà a farsi carico dei problemi altrui. Anche in quel film volevo fare scelte contrarie rispetto alle aspettative del pubblico. Da un mio film ci si aspettavano i tormenti

sentimentali

e

sessuali

di

un

prete.

E

proprio

per

questo non ho voluto raccontarli. Quindi, alle volte, certe mie scelte avvengono per negazione: per negare le aspettative del pubblico o per allontanarmi da film che non mi sono piaciuti. Da cosa è nato il film Mia madre?

Dalla morte di mia madre. Se non avessi attraversato questa esperienza, non avrei fatto questo film. Alle volte, i film ti vengono

in

mente

per

delle

paure,

per

dei

fantasmi,

per

esempio La stanza del figlio. Altre volte, parti da fatti che ti sono realmente accaduti. Ci siamo lasciati indietro la domanda a cui lei, in qualche modo,

deve

rispondere,

ovvero

quella

fatta

a

Stajano

sul

rapporto con Roma. La prima cosa che mi viene in mente è la possibilità di girare in Vespa, non solo d’estate, di andarsene in giro per la città senza meta. La seconda cosa a cui penso è la luce di giornate meravigliose come quella di oggi, una luce che credo ci sia in pochi posti nel mondo. Che rapporto ho con Roma? Mah, me la potrei cavare dicendo che è mia madre. È come la domanda “che rapporto hai con tua madre?” Tua madre è tua madre, è quella che ti ha dato la vita. Un’ultima domanda: un film non suo, anche più di uno, che pensa abbia raccontato qualcosa di questa città? Be’, Estate romana

di

Garrone,

Pranzo di ferragosto

di

Gianni Di Gregorio. Tutti film recenti… E allora anche Accattone e Mamma Roma di Pasolini. E di Fellini, La Dolce Vita e Roma.

I FILM DI QUESTO LIBRO

Io sono un autarchico (1976)

Al

governo

dell’aborto. sequestrata

c’è

Nel la

Aldo

mese

di

pellicola

di

Moro.

Si

manifesta

settembre, Novecento

a

a

favore

Salerno,

Atto

I

di

viene

Bernardo

Bertolucci. A Sesto San Giovanni il 15 dicembre viene ucciso in uno scontro a fuoco il brigatista Walter Alasia. Il 14, giorno di uscita del film, sulla prima pagina della cronaca romana del Messaggero si parla dei rincari del pecorino e del caffè. Io sono un autarchico uscì nell’unica copia esistente in Super8 al cineclub

FilmStudio,

seguente

fu

dove

distribuito

restò

dall’ARCI,

per che

sei

giorni.

aveva

L’anno

“gonfiato”

il

Super8 in 16mm, in diverse sale d’essai. Al cinema Fiamma danno Il Casanova di Fellini, all’Eden Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola, al Quattro Fontane Il sapore della felicità di Nora Roberts. regia: Nanni Moretti soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti fotografia: Fabio Sposini musica: Franco Piersanti montaggio: Nanni Moretti interpreti: Nanni Moretti, Simona Frosi, Andrea Pozzi, Fabio Traversa,

Beniamino

Placido,

Giorgio

Viterbo,

Agati, Paolo Zaccagnini, Lorenza Codignola produzione: Nanni Moretti distribuzione:

ARCI

durata: 95 min.

Ecce Bombo (1978)

Luciano

Il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro viene sequestrato

dalle

Brigate

Rosse

il

16

marzo.

Sulla

prima

pagina della cronaca romana del Messaggero dell’8 marzo, giorno di uscita del film, si parla della guerra contro i topi e si dà conto delle manifestazioni autorizzate dalla questura per quel

giorno

studentesse disoccupate

a

seguito

romane a

a

piazza

di

accese

piazza Santa

proteste:

Navona, Maria

raduno

Maggiore.

sit

in

delle Al

delle donne

Cinema

Fiamma danno Giulia di Fred Zinneman, all’Eden La ragazza dal pigiama giallo di Flavio Mogherini, al Quattro Fontane L’ultimo sapore dell’aria di Ruggero Deodato. regia: Nanni Moretti soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti fotografia: Giuseppe Pinori musica: Franco Piersanti montaggio: Enzo Meniconi interpreti: Nanni Moretti, Luisa Rossi, Glauco Mauri, Lorenza Ralli, Fabio Traversa, Lina Sastri, Luigi Moretti, Age, Piero Galletti,

Maurizio

Romoli,

Giorgio

Viterbo,

Paolo

Zaccagnini, Cristina Manni produzione: Film Alpha/Alphabeta distribuzione:

CIDIF

durata: 103 min.

Sogni d’oro (1981)

È l’anno dell’attentato a Giovanni Paolo II e della morte del bambino Alfredo Rampi, in un pozzo di Vermicino. Franco Battiato pagina

canta della

Centro cronaca

di

gravità

romana

permanente. del

Sulla

Messaggero

prima

del

10

settembre, giorno di uscita del film, si invitano i cittadini a preferire

prodotti

alimentari

nazionali

“in

attesa

di

prezzi

onesti”. Tre deputati radicali fanno irruzione negli studi del Tg2 al grido di “Ladri di verità!”. Al cinema Fiamma danno La

disubbidienza

di

Aldo

Lado,

dal

romanzo

di

Moravia,

all’Eden Sogni d’oro di Nanni Moretti, al Quattro Fontane Quella villa accanto al cimitero di Lucio Fulci.

regia: Nanni Moretti soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti fotografia: Franco Di Giacomo musica: Franco Piersanti montaggio: Roberto Perpignani interpreti: Nanni Moretti, Piera Degli Esposti, Remo Remotti, Laura Morante, Nicola Di Pinto, Alessandro Haber, Gigio Morra,

Giampiero

Mughini,

Dario

Cantarelli,

Claudio

Spadaro, Luigi Moretti produzione: Opera Film/RaiUno distribuzione: Gaumont durata: 105 min.

Bianca (1984)

L’anno dell’incubo di George Orwell è, in Italia, quello della scomparsa del leader comunista Enrico Berlinguer e del giornalista gennaio

antimafia

1984.

La

Pippo

prima

Fava,

pagina

ucciso

della

a

Catania

cronaca

romana

il

5

del

Messaggero del 24 febbraio, giorno di uscita del film, spiega come

umidità

Borghese,

che

dell’ubicazione Cinecittà

e

o

le

traffico

abbiano

riaprirà del

nuovo

caserme

di

forse

danneggiato

la

Galleria

in

Si

discute

auditorium: viale

Giulio

estate. zona

EUR

Cesare?

Colombo, Al

cinema

Fiamma danno Ballando ballando di Ettore Scola, all’Eden Il console

onorario

di

John

Mackenzie,

al

Quattro

Fontane

Mystère di Carlo Vanzina. regia: Nanni Moretti soggetto: Nanni Moretti sceneggiatura: Nanni Moretti, Sandro Petraglia fotografia: Luciano Tovoli musica: Franco Piersanti montaggio: Mirco Garrone interpreti:

Nanni

Moretti,

Laura

Morante,

Roberto

Vezzosi,

Remo Remotti, Dario Cantarelli, Giovanni Buttafava, Luigi

Moretti, Giorgio Viterbo produzione:Faso Film / ReteItalia distribuzione:

CIDIF

durata: 96 min.

La messa è finita (1985)

A settembre muore Italo Calvino. Nel mese di ottobre, a riempire

le

prime

pagine

sono

il

dirottamento

del

transatlantico Achille Lauro e il caso diplomatico della base aerea di Sigonella. La cronaca romana del Messaggero il 15 novembre,

giorno

di

uscita

del

film,

apre

con

un

viaggio-

inchiesta sul malcontento che spinge in piazza “i figli dei miti del

’68”.

Gianni

Borgna,

dirigente

del

PCI

trentottenne,

sostiene però che non si tratta di un movimento politico vero e proprio. Al cinema Fiamma danno Interno berlinese di Liliana Cavani, all’Eden La foresta di smeraldo di John Boorman, al Metropolitan Ritorno al futuro di Robert Zemeckis. regia: Nanni Moretti soggetto: Nanni Moretti, Sandro Petraglia sceneggiatura: Nanni Moretti, Sandro Petraglia fotografia: Franco Di Giacomo musica: Nicola Piovani montaggio: Mirco Garrone interpreti: Nanni Moretti, Marco Messeri, Margarita Lozano, Ferruccio

De

Ceresa,

Enrica

Maria

Modugno,

Eugenio

Masciari, Vincenzo Salemme, Giovanni Buttafava, Luisa De Santis, Luigi Moretti produzione: Faso Film distribuzione: Titanus durata: 94 min.

Palombella rossa (1989)

Il film di Nanni Moretti precede di appena due mesi (e quasi profetizza) la cosiddetta svolta della Bolognina – novembre

’89: il segretario del

PCI

Achille Occhetto annuncia di voler

cambiare il nome al partito – e la caduta del Muro di Berlino. La cronaca romana del Messaggero, il 15 settembre, giorno di uscita del film, dà conto della rinuncia di Oscar Luigi Scalfaro alla candidatura come capolista

DC

a Roma. Anche i Verdi in

difficoltà sulle candidature. Al cinema Fiamma danno Corsa di primavera di Giacomo Campiotti, all’Eden Scarlatti di Frank Laloggia, al Farnese New York Stories di Scorsese-CoppolaAllen. regia: Nanni Moretti soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti fotografia: Giuseppe Lanci musica: Nicola Piovani montaggio: Mirco Garrone interpreti:

Nanni

Moretti,

Asia

Argento,

Silvio

Orlando,

Claudia Morganti, Alfonso Santagata, Luigi Moretti, Marco Messeri,

Luisanna

Pandolfi,

Raoul

Ruiz,

Fabio

Traversa,

Remo Remotti produzione: Sacher Film distribuzione: Titanus durata: 89 min.

Caro diario (1993)

Il 1993 è l’anno dell’arresto del leader di Cosa Nostra Totò Riina, degli attentati a Firenze, Milano e Roma, della fine della Prima Repubblica nell’onda di Tangentopoli. La cronaca romana del Messaggero il 12 novembre, giorno di uscita del film,

avverte

i

cittadini

dello

stop

delle

automobili

non

ecologiche, il monossido di carbonio ha superato ancora il livello

di

guardia.

Da

un

sondaggio

francese

emerge

che

Roma è in fondo alla classifica delle metropoli europee per qualità della vita. Unico dato positivo: seconda per il cinema. Al cinema Fiamma danno America oggi di Robert Altman, all’Eden Caro diario di Nanni Moretti, al Farnese Film blu di Krzysztof Kies´lowski. regia: Nanni Moretti

soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti fotografia: Giuseppe Lanci musica: Nicola Piovani montaggio: Mirco Garrone interpreti: Nanni Moretti, Renato Carpentieri, Moni Ovadia, Valerio

Magrelli,

Mario

Schiano,

Carlo

Mazzacurati,

Jennifer Beals produzione: Sacher Film, Banfilm, La Sept Cinéma distribuzione: Lucky Red durata: 100 min.

Aprile (1998)

È l’anno della strage del Cermis – un aereo partito dalla base di Aviano trancia il cavo della funivia –, della visita di Giovanni

Paolo

II

a

Cuba

e

della

nascita

ufficiale

della

moneta unica europea. Il I Governo Prodi, al suo secondo anno,

sarà sfiduciato dalle Camere

in ottobre. La cronaca

romana del Messaggero il 27 marzo, giorno di uscita del film, apre

con

la

notizia

dello

scontro

fra

Comune

di

Roma

e

Telecom, rapporto interrotto. Al Club del Liscio una serata danzante con Nilla Pizzi, regina della canzone italiana. Al cinema Fiamma danno L.A. Confidential di Curtis Hanson., al’Eden Aprile di Nanni Moretti, al Farnese In & Out di Frank Oz. regia: Nanni Moretti soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti fotografia: Giuseppe Lanci montaggio: Angelo Nicolini interpreti: Nanni Moretti, Silvia Nono, Agata Apicella, Pietro Moretti,

Silvio

Orlando,

Angelo

Barbagallo,

Daniele

Luchetti, Andrea Molaioli, Corrado Stajano produzione: Sacher Film, Bac films, Canal+, La Sept Cinéma, Les Films Alain Sarde, Radiotelevisione italiana distribuzione: Tandem

durata: 78 min.

Il Caimano (2006)

È l’anno delle Olimpiadi a Torino e della vittoria dell’Italia ai

Mondiali

Bernardo

di

Calcio.

Provenzano;

il

Viene

arrestato

governo

il

Berlusconi

boss II

mafioso

cade

il

17

maggio, con la vittoria del centrosinistra ancora guidato da Romano Prodi. A Roma – si legge sulla prima pagina della cronaca cittadina del Messaggero del 24 marzo,

giorno di

uscita del film – ventisette arresti per droga. Torna a vedere la luce l’Ara Pacis, mentre un manto di grandine ha mandato in tilt

il

traffico.

Al

cinema

Fiamma

danno

Transamerica

di

Duncan Tucker, all’Eden Truman Capote. A sangue freddo di Bennett Miller, al Quattro Fontane La vita segreta delle parole di Isabel Coixet. regia: Nanni Moretti soggetto: Nanni Moretti, Heidrun Schleef sceneggiatura: Nanni Moretti, Federica Pontremoli, Francesco Piccolo fotografia: Arnaldo Catinari musica: Franco Piersanti montaggio: Esmeralda Calabria interpreti:

Silvio

Orlando,

Margherita

Buy,

Jasmine

Trinca,

Michele Placido, Elio De Capitani, Nanni Moretti produzione: Sacher Film, Bac films, Canal+, France 3 Cinema con la collaborazione di Wild Bunch, Cinecinema distribuzione: Sacher Distribuzione durata: 112 min.

Habemus papam (2011)

È

l’anno

della

“primavera

araba”,

delle

proteste

degli

Indignados in Spagna e di Occupy Wall Street negli Stati Uniti. Al governo c’è Silvio Berlusconi, dimissionario nel mese di novembre. Il film esce a due settimane dalla beatificazione di Giovanni

Paolo

II

(e

due

anni

prima

delle

dimissioni

di

Benedetto

XVI).

Proprio

della

beatificazione

imminente

si

parla nelle pagine di cronaca cittadina del Messaggero; il 15 aprile,

giorno

dell’uscita

del

film,

si



conto

di

una

manifestazione di protesta che ha mandato il traffico in tilt, e delle

dimissioni

dei

vertici

del

trasporto

pubblico

ATAC.

Al

cinema Fiamma danno La fine è il mio inizio di Jo Baier, al Farnese Sorelle Mai di Marco Bellocchio, all’Eden Habemus papam di Nanni Moretti. regia: Nanni Moretti soggetto:

Nanni

Moretti,

Francesco

Piccolo,

Federica

Pontremoli sceneggiatura:

Nanni

Moretti,

Francesco

Piccolo,

Federica

Pontremoli fotografia: Alessandro Pesci musica: Franco Piersanti montaggio: Esmeralda Calabria interpreti:

Michel

Piccoli,

Nanni

Moretti,

Margherita

Buy,

Jerzy Stuhr, Renato Scarpa, Franco Graziosi, Camillo Milli produzione: Sacher Film, Fandango, Rai Cinema distribuzione: 01 Distribution con la collaborazione di Sacher Distribuzione durata: 104 min.

Mia madre (2015)

L’anno inizia con l’attentato alla sede del giornale satirico Charlie

Hebdo

a

Parigi

e

si

chiude

con

quelli

al

teatro

Bataclan di Parigi. Mia madre è in concorso al Festival di Cannes insieme a Youth di Paolo Sorrentino e Il racconto dei racconti

di

Matteo

Garrone.

Il

film

esce

il

16

aprile;

la

cronaca di Roma si apre con una lite fra il sindaco Marino e l’ex

sindaco

Alemanno

sull’inchiesta

Mafia

capitale.

Al

cinema Fiamma danno Mia madre di Nanni Moretti, all’Eden Il padre di Fatih Akin,

al Farnese

Nicolas di Laurent Tirard. regia: Nanni Moretti

Le

vacanze

del

piccolo

soggetto: Gaia Manzini, Nanni Moretti, Valia Santella, Chiara Valerio sceneggiatura:

Nanni

Moretti,

Francesco

Piccolo,

Valia

Santella fotografia: Arnaldo Catinari montaggio: Clelio Benevento interpreti: Margherita Buy, John Turturro, Giulia Nanni

Moretti,

Beatrice

Mancini,

Enrico

Lazzarini,

Ianniello,

Tony

Laudadio, Renato Scarpa produzione: Sacher Film, Fandango, Rai Cinema, Le PacteArte France Cinéma distribuzione: 01 Distribution durata: 106

I LIBRI DI QUESTO LIBRO

Giorgio

Agamben,

Che

cos’è

il

contemporaneo?,

nottetempo, 2008 Alberto Arbasino, Ritratti italiani, Adelphi, 2014 Roland

Barthes,

Dove

lei

non

è,

trad.

di

V.

Magrelli,

Einaudi, 2010 Giuliana

Bruno,

Atlante

delle

emozioni,

Bruno

Johan

&

Levi, 2015 Italo Calvino, Palomar, Mondadori, 2016 Anton Cechov, “Il gabbiano” in Teatro, trad. di G.P. Piretto, Garzanti 2014 Michael Jakob, Sulla panchina. Percorsi dello sguardo nei giardini e nell’arte, trad. di G. Girardello, Einaudi, 2014 Valerio Magrelli, Il viaggetto, L’Obliquo, 1991 Valerio Magrelli, Nel condominio di carne, Einaudi, 2003 Herman Melville, Bartleby lo scrivano, trad. di G. Celati, Feltrinelli, 2015 Goffedo Parise, Sillabari, Adelphi, 2009 Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di vita, Garzanti, 2014 Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, Garzanti, 2015 Pier Paolo Pasolini, Una vita violenta, Garzanti, 2015 Remo Remotti, Ho rubato la marmellata, Iacobelli, 2012 Virginia Woolf, Sulla malattia, trad. di N. Gardini, Bollati Boringhieri, 2006

NOTA ALLA SECONDA EDIZIONE

Sono passati quarant’anni e altri undici film da Io sono un autarchico,

proiettato

Trastevere,

il

14

per

la

dicembre

prima

1976.

volta

E

al

che

Filmstudio,

cos’è

a

cambiato?,

verrebbe da chiedersi. L’autarchico, in quel film, è Michele Apicella alla sua prima comparsa. Come i suoi amici, Michele si annoia, è alla continua ricerca di un passatempo. Legge Marx e non lo capisce, si chiede se per caso abbia sbagliato ideologia, e finisce sempre per parlare al telefono, giocare a subbuteo e commentare i film appena usciti. Alla fine, aiuta anche

un

amico

sperimentale.

Ci

a

mettere

sono

i

su

uno

telefoni

spettacolo

fissi,

di

quindi,

le

teatro cabine

telefoniche, il subbuteo, oggetti diventati cult che ogni tanto ritornano. C’è un rapporto di coppia che non funziona, gruppi di

amici

che

autocoscienza,

si ma

confessano, nessuno

che

che

fanno

parli

riunioni

davvero.

C’era

di il

problema dell’incomunicabilità, allora, e purtroppo c’è ancora, nonostante gli smartphone, le mail e i social network, che sembrano più un’alternativa all’incontrarsi dal vivo. Michele tiene in camera delle riviste pornografiche, scopre che lì ci scrivono metà degli intellettuali italiani, e dice di non capire il “nudo d’arte”. Le riviste pornografiche, sì, che hanno resistito fino agli anni Novanta, per poi lasciare spazio alla Rete, a un mondo dove tutto è a portata di mano, e la vera trasgressione è coprirsi,

lasciare

intravedere

Michele

preferisce

quello

qualcosa.

Al

pornografico,

cinema

privo

di

erotico, velleità

artistiche. C’è un critico che viene inseguito e pregato perché vada a vedere lo spettacolo di questo regista esordiente. Il critico si fa desiderare, ma poi accetta di andare, carico di pregiudizi, con gli occhi coperti da tutto quello che ha letto e studiato, e quando si trova a tu per tu con il regista usa un linguaggio volutamente elitario e snob, per non farsi capire, quarant’anni prima che apparisse Mario Bambea con i suoi sdoppiamenti e le sue crisi d’identità.

Poi si va avanti, passano gli anni e arrivano le panchine, le prime dichiarazioni d’amore con i primi ripensamenti, le prime battute memorabili. “Giro, vedo gente, mi muovo, faccio delle cose”, “Io non parlo di cose che non conosco!”, “Continuiamo così, facciamoci del male”, “Vi amo, voi tutti che siete in questo bar”, “Come parla?! Le parole sono importanti!”, “Io credo nelle persone, però non credo nella maggioranza delle persone”. L’amore viene spiegato con una vaschetta di gelato, i sogni diventano un rifugio dal presente dove sono tutti così adulti, il corpo diventa un diario in cui raccontarsi, la nascita di

un

figlio

diventa

festa

nazionale,

un

papa

passeggia

in

borghese e si nasconde a teatro, l’umanità viene raccontata attraverso

le

scarpe:

“ogni

scarpa

una

camminata,

ogni

camminata un diversa concezione del mondo”. C’è una via a Roma che si chiama via Piccolomini, è come un piccolo cuore che non smette mai di battere, neanche a notte

fonda,

neanche

a

ferragosto

quando

Roma

è

quasi

deserta. Da lì, si può andare sull’Aurelia Antica, a Prati, al Gianicolo,

sull’Olimpica,

a

Gregorio

VII,

andare

verso

Monteverde vecchio o nuovo, Trastevere, Testaccio, guardarsi intorno e scegliere da quale parte di Villa Pamphili entrare. Ma non è per questo che la sera si riempie, che si vedono arrivare macchine che fanno avanti e indietro, si fermano per un po’ e poi se ne vanno. Via Piccolimini nasconde un segreto, che i più fortunati scoprono nell’adolescenza. Da via Piccolomini si vede, in lontananza, la cupola di San Pietro, che dagli occhi di chi la guarda disterà più o meno quattrocento metri d’aria. È stando in macchina o su un motorino, magari su una vespa, che ci si accorge di quel segreto, che è quasi un miracolo, come scoprire all’improvviso un nuovo modo di guardare il mondo. Più ci si avvicina alla fine della via, il punto più vicino a San Pietro, più la cupola si allontana. Anzi, diventa piccola piccola e si confonde con il resto della città. Più ci si allontana, più

la

cupola

si

avvicina,

nostro

campo

visivo.

Ma

ritorna com’è

grande

e

possibile?

occupa In

tanti

tutto

il

hanno

parlato di prospettive, di effetti ottici, di cose che andrebbero bene

per

bastargli

quelli mai

e

come allora

Escher,

che

preferiva

il

mondo

sempre

sembrava

non

inventarsene

uno

nuovo. Guardare i film di Nanni Moretti è come passare per caso in via Piccolomini. C’è chi li guarda da lontano, senza fermarsi, senza fare avanti e indietro, e pensa che dentro quei

film ci sia soltanto una grande cupola tondeggiante che occupa tutto lo schermo. Ma chi ha il coraggio di avvicinarsi, invece, si accorge che c’è un panorama nascosto, fatto di case, di sguardi, di silenzi, di riunioni di autocoscienza, di solitudine, di corse disperate a bordo piscina, di vespe che volano per la città, di amori mancati, di dolci, di amnesie politiche, di balli inaspettati, di madri protettive, di papi che non hanno voglia di affacciarsi. gb

RINGRAZIAMENTI

Desideriamo ringraziare prima di tutto Nanni Moretti, per la grande

disponibilità.

Annamaria

Cocchioni,

sua

storica

collaboratrice, per il supporto e la pazienza. Grazie a Giovanna Nicolai, Nuovo

primo Sacher,

“tramite”, Elio

Valerio

Montanari

Magrelli,

del

liceo

Armando

Manara,

del

Giulia

Flenghi, Giulia Gerosa e Alessandro Coticelli per il supporto nelle

ricerche.

creduto

in

Grazie

questo

a

Franco

progetto,

realizzazione delle mappe.

e

Lozzi,

alla

Lozzi

che

per

primo

Publishing

per

ha la

INDICE

Ancora qualcosa da scoprire Io sono un autarchico (1976) Ecce Bombo (1978) Sogni d’oro (1981) Bianca (1984) La messa è finita (1985) Palombella rossa (1989) Caro diario (1993) Aprile (1998) Il Caimano (2006) Habemus papam (2011) Mia madre (2015) Roma, mia madre. Conversazione con Nanni Moretti I film di questo libro I libri di questo libro Nota alla seconda edizione

Io sono un autarchico (1976), stazione dell’Acqua Acetosa

Ecce Bombo (1978), Tor di Quinto

Bianca (1984), scuola Giacomo Leopardi, Monte Mario

La messa è finita (1985), parrocchia di S. Maria Mediatrice, via Cori, Pigneto

Caro diario (1993), via Dandolo

Habemus papam (2011), esterno di Cinecittà

Mia madre (2015), piazza di Montecitorio