Nanni Moretti. Immagini e speranze di una generazione 9788893042215, 8893042215

L’Ego (e non solo) di Nanni Moretti attraverso i suoi tredici film per raccontarsi e raccontare le gioie e i dolori di u

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Italian Pages 94 [112] Year 2021

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Table of contents :
Nanni Moretti. Immagini e speranze di una generazione
Prefazione
Palombelle esistenziali e girotondi d’autore
di Roberto Lasagna
Nanni Moretti, immagini di una generazione
1. Che faccio mi metto a lavorare?
2. Che dici vengo?
3. Campare di rendita
4. Il cielo con un flipper
5. Il pappone di carote e zucchine
6. Le parole sono importanti
7. Il girotondo
8. Il parto di un ragazzo fortunato
9. Si muore per poter vivere
10. Gli uomini liberi
12. I due corpi del re
13. Tre piani di leggerezza
Bibliografia dei titoli citati nel testo
Crediti
Tra i Fogli volanti
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Nanni Moretti. Immagini e speranze di una generazione
 9788893042215, 8893042215

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Nanni Moretti. Immagini e speranze di una generazione Prefazione Palombelle esistenziali e girotondi d’autore di Roberto Lasagna Nanni Moretti, immagini di una generazione 1. Che faccio mi metto a lavorare? 2. Che dici vengo? 3. Campare di rendita 4. Il cielo con un flipper 5. Il pappone di carote e zucchine 6. Le parole sono importanti 7. Il girotondo 8. Il parto di un ragazzo fortunato 9. Si muore per poter vivere 10. Gli uomini liberi 12. I due corpi del re 13. Tre piani di leggerezza Bibliografia dei titoli citati nel testo Crediti Tra i Fogli volanti

Giovanni Scipioni Nanni Moretti. Immagini e speranze di una generazione

Una realizzazione Falsopiano/Fogli Volanti secondo gli standard dell’International Digital Publishing Forum

ISBN 9788893042215

Prima edizione digitale 2021

Nanni Moretti. Immagini e speranze di una generazione

Prefazione Palombelle esistenziali e girotondi d’autore di Roberto Lasagna

Moretti cresce, cambia, e con lui i suoi film, che sono parte di un lungo racconto, in cui ritroviamo figure familiari, volti di attori amici, pronti a raffigurare parti di quelle ossessioni che popolano la scena. Portandosi sin da subito dietro e davanti la macchina da presa, Moretti è interprete completo del suo tempo, e nella lettura di Giovanni Scipioni emerge quella caratteristica “girotondista” che non riguarda unicamente la partecipazione personale dell’autore a momenti della vita politica nazionale, ma disegna l’attitudine a considerare il racconto della vita attraverso i film come un movimento singolarissimo, il divagare coscienzioso tra le trame ballerine dell’esistenza che farà dell’autore un punto di riferimento per i cineasti europei. Ogni film di Moretti è parte di un discorso

che muove dalla crisi del personaggio per raccontare l’esistenza nella fase delicatissima del venir meno delle certezze, sino a quel “giù per terra” in cui si ritrovano presto Michele Apicella e Don Giulio e lo stesso Nanni Moretti senza più alcuna maschera. Un viaggio nel mondo di Nanni Moretti è allora anche un percorso nella storia dei comportamenti che il cineasta di Brunico, autore di tredici lungometraggi, ha osservato con sguardo disincantato sin dagli esordi, dall’autarchia dei cortometraggi e di Io sono un autarchico, passando per le maschere degli alter-ego Michele Apicella e di Don Giulio negli emblematici Bianca, Palombella rossa e La messa è finita, attraverso le apparizioni dell’autore-attore in carne ed ossa nella fase cine diaristica di Caro diario e Aprile, gli psicoanalisti di La messa è finita e Habemus papam, il fratello della regista Margherita in Mia madre sino al giudice severo di Tre piani, il film con cui il cineasta per la prima volta adatta il romanzo di un altro autore, quell’Eshkol Nevo e in cui si identifica per la capacità di osservazione di un mondo composto di (almeno) tre piani di complessità psichica. La vita còlta al livello umano, senza troppe certezze, è una condizione smascherata da Moretti e affrontata con eleganza e sinuosa curiosità da Giovanni Scipioni, che nel suo racconto della vicenda artistica del cineasta non tralascia alcun aspetto affrontato o sfiorato dai film diretti e interpretati dal cineasta, dalla storia sociale ai misfatti politici, per cogliere le voci dello smarrimento che i personaggi morettiani riflettono; un viaggio attraverso la vicenda artistica in cui il personaggio pubblico è ripercorso con la fenomenologia di uno sguardo, quello di Scipioni, in grado di cogliere i dissensi, le visioni personali di Moretti, laddove le parole, la musica, i ritornelli ossessivi sono parte di un discorso che vuole il cambiamento pur avendone il timore. Michele Apicella manifesta disagio e vezzi ossessivi, soprattutto perché si trova partecipe di una generazione in cui è difficile credere a qualcosa che ha perduto il suo senso, come lo hanno perduto le parole, mentre nuove invadenze omologanti sembrano prospettare poco di buono. Dal crollo degli ideali alla volgarità dei linguaggi, dalle crisi dei partiti alle radio libere, il personaggio morettiano si difende

polemizzando, mostrandosi irritante, e soprattutto svelandosi impreparato ad affrontare la vita. Ma non vuole fare di se stesso un portabandiera generazionale. Si permette di usare l’arma che non gli è stata sottratta, ovverosia la parola, e di esprimere (letteralmente) conati di dissenso. Naturalmente figlio della sua generazione, Michele/Nanni fa fatica a distaccarsene e si erge ad accusatore delle abitudini puerili dei coetanei, come nella celebre sequenza in cui, in Ecce bombo, lo si vede domandare all’amica Simona: “che lavoro fai… e l’affitto?… Questa sigaretta?”. Perché la risposta della ragazza - “Giro, vedo gente, mi muovo, conosco, faccio delle cose” diventa un motivo identificativo della generazione di Ecce bombo forse persino oltre le intenzioni dello stesso Nanni Moretti, il quale si avvierà, giovane autore, ad essere il polemista pronto a lanciarsi in invettive contro il cinema italiano più affermato e di successo, quello degli attorimattatori quali Alberto Sordi o di cineaste come Lina Wertmüller, il cui apprezzamento è confermato negli USA quando un Campus universitario le offre una cattedra. Il primo cinema autarchico di Moretti presenta quell’attitudine autoriflessiva difficilmente imitabile, e nello sguardo del giovane autore l’affilatezza dei toni e lo sguardo “antipatico” si affiancheranno al disegno delle fragilità, ma soprattutto alla carrellata di abitudini, caratteri tipici, luoghi comuni che potranno diventare analisi di comportamenti e preludio per affrontare i luoghi della mente, con le loro manie e ossessioni, che popoleranno il futuro cinematografico dell’autore. Le telefonate di Nanni nel suo primo cinema sono sia un momento di comicità disperata, sia un trattato d’impreparazione psicologica, come quando Michele Apicella invita una donna ad uscire con lui e s’ingarbuglia, finendo in trappola in una relazione tutta schemi e frasi fatte. Quelle frasi predisposte da schemi mentali o slogan che il Michele Apicella di Palombella rossa aborrirà quando sentirà parlare la giornalista e finirà per schiaffeggiarla. Frasi fatte avversarie di un cinema che, orgoglioso di sentirsi unico, si scaglia contro i luoghi comuni, le compiacenze, la barbarie di una cultura piegata alle nuove leggi dell’imbonitore di turno. Il quale a un

certo punto della vita del paese ha il volto di Silvio Berlusconi, a cui Moretti dedica il suo film Il caimano, un titolo presto incompreso, a più livelli di lettura e imprevedibile, soprattutto perché nella conclusione del suo racconto l’attore Moretti in carne ed ossa si mette a interpretare la parte del Cavaliere delle televisioni private. Ma perché non capire che mettersi nei panni del nemico è un modo dichiarato per scendere in campo? Per esporsi? Per non cercare attenuanti e mediazioni oltre la grande mediazione che un film, così allegorico e dalle venature para-tarantiniane, quasi filosoficamente favorisce? Persino il diventare Silvio Berlusconi è un atto di teatro, un balletto, una guitteria, per quanto potenzialmente drammatica, sconsolata, come sovente succede nel cinema di Moretti. Il quale coglie l’altro, il suo volto e il suo tormento, il suo disagio e il suo punto di vista, interpretandolo, facendolo diventare una sua possibile personificazione. Nanni Moretti diviene un insolito professore di matematica, in Bianca, per illudersi con la casistica di famiglie e relazioni attraversate dall’armonia perfetta dei numeri, un’armonia illusoria che nasconde la malattia mentale del personaggio. Nanni Moretti diviene sacerdote, ne La messa è finita, per rispettare e drammatizzare la solitudine del sacerdote, e cogliere, in una sceneggiatura che formula la direzione di un cinema narrativamente più strutturato, momenti del disorientamento del personaggio, in cui immette pagine del Moretti personaggio irriducibile, quel Don Giulio pronto a lasciarsi quasi annegare da posteggiatori volgari e violenti a cui egli oppone la sua testardaggine che muove però all’adesione emotiva (ma solo dello spettatore). Frasi e passaggi di un cinema che divengono intercalare comune, quali ad esempio “continuiamo così, facciamoci del male”, nota di sconsolato rimprovero ai commensali per un individuo, il professore di Bianca, che ama i dolci e non comprende il sadomasochismo di chi non conosce la Sacher Torte. Perché i dolci, beninteso, non sono soltanto dolci. Una lettura, quella di Scipioni, che riesce a cogliere come Moretti, attraverso qualcosa di assolutamente personale come la passione per i dolci, esprima una visione che filtra i comportamenti, regalandoci anche

monologhi sulla solitudine di un personaggio le cui ossessioni divengono anche motivo di isolamento. Nell’affrontare tutto il cinema di Moretti, sottraendosi alla mitologia e dando voce alla lingua morettiana, il libro si presenta come un lavoro originale e pedagogico, in grado di raccontare il mondo del cineasta come qualcosa che appartiene alla storia del nostro paese, per riconoscere nella sua attenzione per il linguaggio un tratto che si va perdendo. Dotato di ineffabile capacità di sintesi, il racconto di Scipioni scende però in profondità, ci racconta il pensiero e la crucialità di un autore sempre un po’ più in là rispetto a dove lo si vorrebbe inquadrare, cioè attento alla difficoltà umana affrontata dai suoi personaggi. E sono porte chiuse quelle che Moretti affronta e apre nei suoi film, come La messa è finita e La stanza del figlio. Sono momenti di riflessione sul personaggio che richiedono la complessità e l’urgenza del confronto, come conferma anche il tredicesimo lungometraggio dell’autore, Tre piani, calato nella vertigine del rapporto tra genitori e figli, nelle domande che rimangono sospese e in attesa di risposte, e che uno sguardo oltre le pareti del proprio appartamento ottiene di evocare in tutta la sua urgenza. La tenacia urtante del personaggio che commentava la sua generazione, la posizione del politico amnesico, la voce stridula del prete che intonava le canzoni di Bruno Lauzi, cercavano, nel passato del cineasta, una qualche armonia perduta. Il nuovo cinema di Moretti, da qualche tempo a questa parte, sembra allora rispondere al bisogno di una riflessione meditativa, rilanciata dalle pagine pasoliniane di Caro diario, rammentata dalla posizione scomoda e in attesa di un cambiamento del neoeletto Papa Michel Piccoli in Habemus Papam, ricomposta attorno all’immagine degli spettatori, tra i quali la protagonista Margherita Buy, che in Mia madre si ritrovano nella fila onirica per un film che sembra Il cielo sopra Berlino di Wenders e possono ascoltare quell’invito morettiano a “rompere un tuo schema, almeno uno”. Perché è quello che Moretti ci invita a fare, sempre, con il suo cinema. E oggi lo fa a tratti in maniera più evidente, scoperta. L’invito a rimettere in discussione il nostro punto di

vista su noi stessi e il mondo. E guardare oltre i tre piani, oltre le pareti dei quartieri bene di Caro diario. Ci invita a riconsiderare la storia intima di noi tutti come un fatto (anche) sociale. Con scrupolo e passione, Giovanni Scipioni ci racconta questo e molto altro ancora. In un’avventura tutta da leggere e da scoprire. Per i cultori di Moretti, questo libro è come un film che approfondisce anche aspetti storici, che i singoli film del cineasta contemplano e sfiorano più o meno direttamente. Per lo studioso di cinema, un agile manuale in cui trovare tutti i riferimenti per orientarsi nell’universo espressivo di uno dei nostri maggiori cineasti. Per gli amanti della buona lettura, un saggio che si legge d’un fiato e regala momenti divertenti. Per chi scrive questa breve nota introduttiva, i passi più gustosi sono quelli del Michele Apicella a confronto con il gentil sesso. O delle numerosissime occasioni in cui il linguaggio morettiano entra nell’immaginario. Nanni Moretti, il cui nuovo film, Tre piani, esce nelle sale dopo due anni di attesa, è abituato a spiazzare, e il nuovo racconto per immagini sembra allargare la portata metaforica del suo cinema, mentre per alcuni si tratta sin dal primo sguardo di un’opera ambiziosa ma irrisolta. La critica tante volte parla al presente sperimentando un po’ quell’amnesia del personaggio di Palombella rossa. Non rammenta cioè che ogni film dell’autore ha creato non di rado disorientamento al suo primo apparire nelle sale, perfino nel caso di un titolo, Caro diario, divenuto poi un punto di riferimento per la riflessione sull’intellettuale nell’Italia degli anni Novanta. Abbiamo allora il sospetto che anche la scelta di adattare un film da Nevo, cioè da un autore ebreo contemporaneo, portando la vicenda da Tel Aviv al quartiere Prati di Roma, non sia soltanto la ricerca di quell’universalità di sguardo a cui Moretti ci sta abituando, ma, appunto, una scelta di campo, il bisogno di guardare da lontano qualcosa che si vive abitualmente da vicino, tra le

pareti di un condominio che conosciamo benissimo ma di cui molto rimane segreto. Un invito a cogliere persino nella letteratura di un autore amato quella sottolineatura archetipica, innestandola nell’invito alla socialità che qualcuno non ha colto, ma che presenta oggi tutto il sapore dell’urgenza, ribadita a Cannes 2021 in conferenza stampa dal cineasta alla presentazione del film; proprio come quell’aspetto di relazione da cui ripartire, seriamente e con convinzione, per tornare a fare cinema e affrontare le aporie del presente. E Nanni Moretti lo fa da par suo, accogliendo una visione al contempo sorvegliata e distante, dove l’umanità ritorna anche nel disorientamento a cui, come ben sanno i morettiani più attrezzati, l’autore ci ha da tempo abituati.

Nanni Moretti, immagini di una generazione

Il cinema di Nanni Moretti è un girotondo. Una magnifica filastrocca dove Michele Apicella, il prete Don Giulio, lo psicanalista Giovanni, lo psicanalista Brezzi, il figlio Giovanni e il magistrato, protagonisti dei suoi film, sono pronti a smarrire il senso della vita, per poi riconquistarlo subito dopo al giro successivo. Il suo originale girotondo cinematografico gioca con il divertimento e la disperazione nel tentativo di cambiare le storie degli uomini, i luoghi comuni, le banalità, le lampade multicolori. È una gioiosa e vivace giostra dove al posto dei cavallucci e delle macchinine si alternano professori che non insegnano, studenti che non studiano, preti che non credono, psicanalisti che non capiscono e che preferiscono organizzare tornei di pallavolo, sofisticati letterati che si perdono al canto delle sirene televisive, registi che amano il dolce, il canto e il ballo. Un vero e proprio giro giro tondo, in attesa che caschi il mondo e la terra per poi doversi mettere tutti per terra ed evitare di cadere, di uccidere, di andare in carcere o su un’isola senza elettricità, di provare la palombella in una tiratissima partita di pallanuoto. Dal 1976 al 2021, da Io sono un autarchico a Tre piani, dall’autarchia alla diffusione del coronavirus, Nanni Moretti ha raccontato se stesso. L’ha fatto attraverso le storie dei suoi film, giocando con le proprie passioni. È stato figlio della borghesia sessantottina, un figlio che mette sotto accusa i genitori ma che non disdegna da parte loro l’aiuto economico. È stato professore di una generazione post sessantottina che parla, fa dibattiti, si vede, si sente, vede gente, sta un giorno qui e in un altro giorno là, senza vagliare, senza concludere o prendere decisioni. È stato un valente psicanalista alle prese con il dolore più grande, la morte del figlio, e un altrettanto competente strizzacervelli che non riesce ad annullare l’ansia di un Papa appena eletto che non vuole essere Papa. È stato un figlio e un fratello modello che sente il dovere di passare gli ultimi giorni della madre malata al suo capezzale e, con

razionalità, abbandona il lavoro. È stato un assassino a fin di bene, se così si può dire, perché gli amici e le persone che ama non rispettano le regole etiche della famiglia e della società. Ha cercato di cambiare le cose, di rimettere insieme coppie separate ma è stato tutto inutile e così, ha ucciso per ristabilire l’ordine costituito dalle leggi morali. È stato Berlusconi, la sua minaccia politica e culturale ed è stato un dirigente comunista sconfitto dal frantumarsi del più grande partito comunista d’Europa. Ha raccontato se stesso, ha sempre parlato di sé e l’ha fatto attraverso le cose che lo riguardano, dalla pallanuoto al calcio, alla torta Sacher. Ma non si è immolato sull’altare del dio ego. Ha fatto del suo egoismo, del suo io, un fruttuoso cammino alla scoperta degli altri. Ha evitato in quarantacinque anni di cinema di perdersi, di svuotarsi raccontando la sua generazione nel corso degli anni ma anche le generazioni che, crescendo, l’hanno di volta in volta, accompagnato. Non ha risparmiato critiche feroci ed è sfuggito all’errore classico in cui cadono alcuni bravi registi chiusi nel proprio io. Moretti è stato più volte accusato di vivere da gigione nel suo esclusivo recinto emozionale, ma in realtà la sua cinematografia ha raccontato storie personali inserendole in contesti sociali, familiari e politici. Non ha mai perso di vista i meccanismi della nostra liquida società. Dall’autarchico del 1976 ai Tre piani del 2021. Dal giovane Apicella che guarda estasiato il movimento del mare per poi andarsene con l’indifferenza della gioventù alla vedova, magistrato in pensione, che cerca di riprendere la sua vita privata. Michele Apicella e tutti i suoi alter ego si sono immersi in una vasca di bagno piena d’acqua lasciandosi inondare. L’io di Moretti non ha lasciato la vasca senza acqua, non ha rinunciato a una convivenza ricchissima e complessa con gli altri. Per questo il suo cinema, apparentemente chiuso, è in realtà una singolare espressione artistica in grado di raccontare il nostro paese. Ha raccontato il tempo e la vita dei figli di papà, di cosa sono diventati da grande, dei loro figli e nipoti. Con il cinema Moretti ha percorso la stessa strada esplorata da Alberto Sordi negli anni della guerra, del dopoguerra, del boom, delle speculazioni edilizie e della corruzione. L’ha fatto a suo modo,

raccontando le emozioni d’intere generazioni e giocando con un particolare narcisismo costruttivo. Una sorta di cinema documento. Com’è stata l’avventura di Alberto Sordi iniziata negli anni Cinquanta e conclusa sostanzialmente negli anni Ottanta. Moretti ha cominciato a descrivere il nostro paese, i suoi amici, gli sconosciuti e se stesso nel lontano 1976, due anni prima il rapimento di Moro, per finire nell’anno della pandemia, interrogandosi con la generazione Covid. Curioso, ma forse non troppo, che il primo giro di manovella sia avvenuto con un profetico “Ce lo meritiamo Alberto Sordi”. Un inizio insolente verso un grandissimo attore interprete eccellente di vizi e virtù di una parte degli italiani, ma anche l’avvio di un lungo racconto per immagini che metterà a nudo le vacuità, le debolezze, le stupidità e le angosce di una buona parte dei nostri connazionali, così come aveva fatto Alberto Sordi. È come se tutti i suoi film avessero raccontato, di volta in volta, l’arresto del brigatista Renato Curcio, l’ergastolo agli autori del massacro del Circeo, la partita vittoriosa della nazionale italiana di tennis in Cile, giocata in un paese sotto una dittatura militare, l’inflazione, la strage alla stazione di Bologna, la crisi energetica, il decreto Berlusconi, i governi Berlusconi e le televisioni Berlusconi, la fine dei 45 giri, la beatificazione di due veggenti di Fatima, l’entrata dell’euro, lo storico scudetto della Roma, l’elezione di Papa Francesco, l’epidemia del coronavirus. Avvenimenti che hanno accompagnato le storie personali dei protagonisti dei suoi film, impossessandosi del loro privato. Vicende che hanno toccato le loro personalità, i loro malumori, le inefficienze della società e dei suoi interpreti più importanti. Michele Apicella e tutti gli altri alter ego di Moretti sono figli di una società che, in quarantacinque anni, non è mai riuscita a trovare il filo, magari leggerissimo, in grado di avvolgere le menti più disparate in un sistema comune. Ci hanno provato insegnanti, psicanalisti, allenatori, preti, ballerini, politici, studenti, magistrati, poliziotti, giornalisti, disoccupati e scansafatiche. Ci hanno provato in tutti i modi, anche uccidendo, ma senza raggiungere risultati apprezzabili. Comunque ci hanno provato e questo ha portato

miglioramenti alla loro scatola mentale. La società naviga ancora a vista, sembrano sussurrare tutti gli attori messi in campo, ma noi continueremo a provare a cambiare le cose. I film di Moretti sono come le città invisibili di Calvino che proiettano le loro ombre sullo schermo della nostra immaginazione. Sono sottili, nascoste, hanno i frontoni di marmi e i muri di pietra. Sembrano irreali, ma in realtà sono solo invisibili. Con i desideri, le gioie e le angosce le città diventano reali. Moretti ha proiettato le sue ambizioni e le sue inquietudini, ha scavato dentro la sua scatola mentale, svelando la realtà della società moderna. Ha messo sul lettino dello psicanalista il suo Io per poter convivere con noi spettatori sospesi sull’abisso del contemporaneo. All’uscita del tredicesimo film l’io del magistrato Moretti si veste di un’autorità necessaria per esprimere giudizi da Cassazione. Lo fa in un condominio di tre piani apparentemente tranquillo. Le tre famiglie che vi abitano in realtà nascondono una vita passata e presente piena di segreti e assai poco ordinata. Sono uomini e donne colpiti duramente dagli eventi ma che sembrano conservare la forza per continuare a lottare, a cambiare le cose. È Moretti ultimo, la sua speranza di un mondo migliore, fortemente voluta e cercata da Michele Apicella fin dal lontano 1976. Sta facendo l’ennesimo singolare girotondo, cercando, ancora una volta, di mettersi giù per terra per vedere meglio, per avere un’inquadratura a fuoco delle lampade multicolori della nostra società.

1. Che faccio mi metto a lavorare?

Interno casa. Corridoio. Michele Apicella, in piedi, è al telefono, seduto accanto a lui Fabio Traversa. “Ciao papà, senti… sì sto bene, allora… mi lasci il solito assegno mensile da 200mila, sì… come sempre… certo, come ogni mese…

certo, si va bene… ciao, saluti a tutti”. Michele riattacca e si rivolge a Fabio: “Perché mai qualcuno si chiedesse come vive, chi lo mantiene, ha una casa eppure non lavora… Fabio così abbiamo chiarito”. Michele è Nanni Moretti, Fabio è Fabio Traversa, il film è Io sono un autarchico del 1976, il primo lungometraggio di un geniale regista che ha saputo raccontare, attraverso personaggi strampalati, ironici e pungenti, oltre quarant’anni della nostra storia, della nostra società, dei giovani figli di papà e di quello che sono diventati da grandi. Il 1976 è, nel mondo, l’anno dell’ebola, della morte di Mao Tze Tung e dell’oscar a Qualcuno volò sul nido del cuculo, in Italia il terremoto in Friuli conta circa mille morti, viene ucciso da fascisti il giudice Occorsio, nasce il quotidiano “la Repubblica” e la Democrazia cristiana e il Movimento sociale approvano alla Camera un articolo della legge sull’aborto che considera la pratica un reato. È l’Italia che con difficoltà cerca di togliersi la polvere grigia accumulata nelle case e nelle istituzioni dopo il Sessantotto. I giovani, quelli che hanno tra i venti e trenta anni, diventano l’ennesima speranza di un mondo migliore. Ecco allora che l’alienata gioventù dell’epoca entra nel campo cinematografico morettiano. Gioventù fuori dagli schemi tradizionali, piccoli borghesi mantenuti, incapaci di rapporti con gli altri e con se stessi. Chiudono con i genitori che rappresentano il potere per poi utilizzare le loro economie. Michele Apicella, due anni prima il rapimento Moro, è uomo del suo tempo. Sfrontato, quasi villano, irriverente e incapace di essere marito e padre. Vive tra le nuvole della sua immaginazione, cullandosi in un realismo che non gli appartiene, vivendo, consapevole, un perfetto egoismo.

Casa. Cucina. Michele in piedi, Silvia, la moglie, seduta. “Insomma Silvia sono giovane, sono ancora giovane… tu pure sei giovane… quanti anni hai? Mannaggia non me lo ricordo mai. Devo lavorare per vivere, come faccio a mantenere il bambino, che faccio… mi metto a lavorare? Faccio i piatti… i letti… da mangiare? Ma perché ci siamo sposati? Mica mi ricordo perché… sì lo so… no non lo so”. Una fotografia della famiglia che stava per nascere in quegli anni dove la convivenza tradizionale dei padri e dei nonni era stata completamente stravolta. C’è il trionfo dell’io, senza passi o salti verso l’altro. Dove finisce la mia mente e dove inizia il resto del mondo? si chiedono due filosofi americani Andy Clark e David Chalmers. Per Michele Apicella il resto del mondo non inizia mai. Almeno mentalmente. Perché fisicamente c’è, c’è sempre stato e ruota intorno al proprio egoismo. La scatola nera del protagonista de Io sono un autarchico incorpora solo necessità, piaceri, tutto quello che gli permette di vivere lo stupore mentale del nuovo e del diverso. È un figlio viziato della generazione che ha vissuto la guerra, non conosce drammi, se non teoricamente, ed evita tutti i problemi, dal matrimonio alla responsabilità di dover crescere un figlio. Il mondo fuori dalla sua mente diventa interessante soltanto quando è in grado di soddisfare il proprio io. Via libera quindi a spettacoli, divertimenti ecc. Spiaggia. Michele in silenzio ammirando il mare. Arriva Fabio. - Che c’è? - Il mare. - Hai visto? Andiamo. - Mmmh. Anche quando il mondo mette in mostra lo spettacolo delle onde del mare che si battono sulla spiaggia Michele, con l’aiuto del suo amico, non si lascia prendere emotivamente più di tanto. Quel suono naturale così esaltante potrebbe distoglierlo dal prepotente cammino solitario che ha deciso di

intraprendere. È spinto in più direzioni ma non vuole prendere quella che lo porterebbe a vivere con gli altri in una società che disprezza. “Io non parlo di cose che non conosco” sentenzia in un film degli anni successivi. Per poi cambiare immediatamente idea: “va bene andiamo”, dice rispondendo a un amico che lo invita ad andare in un posto bellissimo.

Io sono un autarchico (1976)

Regia e sceneggiatura: Nanni Moretti Musiche: Franco Piersanti Interpreti: Luciano Agati: Giuseppe Lorenza Codignola: Valentina Simona Frosi: Silvia Nanni Moretti: Michele Beniamino Placido: critico teatrale Andrea Pozzi: Andrea durata: 95 minuti Costato appena 3 milioni e settecentomila lire e interpretato da attori non professionisti (amici, parenti, intellettuali), è il primo lungometraggio di Moretti, girato in Super8 e in tre mesi a Roma. Più per limiti tecnici che per scelta stilistica, è quasi interamente composto da riprese a camera fissa e da sequenze che per lo più si esauriscono in un’unica inquadratura. Il film è interamente doppiato.

2. Che dici vengo?

Le idee di Michele, gridate come slogan, fanno presto a cambiare. Ondeggiano come la sua personalità così apparentemente determinata e nello stesso tempo, indistinta. Cambiano, restando sempre le stesse, di anno in anno. Nel 1978 lo studente universitario Michele preferisce non andare. Non andare dagli amici. Non incontrarli. È al telefono. “Ma veramente non mi va, ho un mezzo appuntamento al bar con

gli altri. Senti… che tipo di festa è? Non è che alle dieci state tutti a ballare il girotondo e io sto in un angolo… no… no… se si balla non vengo… no… allora non vengo. Che dici vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo! Vengo e mi metto vicino a una finestra, di profilo in controluce. Voi mi fate: Michele vieni di là con noi. E io: andate, andate, vi raggiungo dopo. Vengo!, ci vediamo là… no, non mi va, non vengo. Ciao, arrivederci”. Il film è Ecce bombo. Michele è al telefono con ragazzi post-sessantottini, generazione altrettanto inconcludente della sua. Amano fare lunghe, interminabili riunioni di autocoscienza, parlando. Senza tregua e senza arrivare a una qualche soluzione. Generazione logorroica. Generazione ecce bombo che aspetta l’alba dove il sole tramonta. Che non sa mai dove stare e che quando decide di occupare o calpestare un luogo, è sempre quello sbagliato. È l’anno delle tv private, delle radio libere, delle comuni e delle occupazioni studentesche. È anche l’anno del rapimento Moro, della legge Basaglia che apre i manicomi e dell’elezione di Karol Wojtyła a papa. C’è confusione e Michele che prepara questi ragazzi all’esame di maturità, ne è cosciente. Si sente sempre più solo, ha il desiderio di chiudersi in se stesso nella propria scatola nera. Procede parallelo per due binari, per dirla alla Pasolini, perfetto analista della società italiana. Scrive: “L’Italia è un paese che diventa sempre più stupido e ignorante. Vi si coltivano retoriche sempre più insopportabili. Non c’è del resto conformismo peggiore di quello di sinistra, soprattutto naturalmente quando viene fatto proprio anche dalla destra”.

Campagna. Seduti a terra Michele e Cristina. - Michele: che lavoro fai?

- Cristina: Beh, mi interesso di molte cose, cinema, teatro, fotografia, musica, leggo… - Concretamente… - Non so cosa vuoi dire. - Che lavoro fai? - Nulla di preciso - Come campi? - Ma, te l’ho detto, giro vedo gente, faccio delle cose… - E l’affitto? - Vivo con mio fratello e non lo pago. - E i vestiti? - Un amico, per esempio, che va a Londra gli dico di portarmi delle cose, degli abiti… - E il mangiare? - Mi ospitano molto spesso. - Questa sigaretta qui! - Ho incontrato un amico stamattina e mi ha dato due pacchetti di queste. Michele è cresciuto rispetto all’autarchico, sembra meno egoista, più incline a capire gli altri. Universitario aiuta i giovani liceali. Esce dal suo io. Ma solo per poco. Ci rientra quando si accorge che quei ragazzi sono vuoti, allucinati, deboli e insicuri come lo era lui negli anni dell’autarchico. Guardando e commentando le stupidaggini di quei ragazzi Michele pian piano scopre se stesso. Sembra faccia finta di esser sano. Quel teatro surreale che si pone alla sua comprensione lo rende esigente. Con se stesso e con gli altri. Matura. Sembra trovare una dimensione sociale. Si fa maestro, anche se poi si accorge di aver insegnato poco o nulla ai maturandi. L’esame dei suoi ragazzi infatti è una farsa. Prima un giovane porta fisicamente davanti alla commissione un

“poeta contemporaneo” che in realtà è un suo amico, poi un altro studente, impreparato e ignorante, comincia a parlare di malgoverno democristiano ma non sa spiegarne il perché. “Non è d’accordo? dice al professore e aggiunge “Non capisco”. Ed è vero: non capisce. Parla solo per slogan tra l’imbarazzo della commissione. L’esame prosegue e il giovane dimostra di essere completamente impreparato. A questo punto interviene Michele che lo difende.“Basta. Questa è una vera tortura”. È stato Michele a prepararlo e il fallimento dell’esame è anche il fallimento del suo insegnamento. Non solo questi giovani post-sessantottini sono ignoranti e impreparati ma il suo professore di qualche anno più vecchio, immaturo e incapace nei suoi anni giovanili, non è in grado di insegnare alcunché. Due generazioni perdute mentre il malgoverno democristiano impera e la sinistra mostra il volto più congeniale, quello di non essere d’accordo su nulla e perdersi nei meandri più disparati. I giovani del film sono della piccola medio borghesia che hanno smesso di fare politica e abitano una città, Roma, definita di sinistra. Il fallimento dell’insegnamento è il tema dominante di Ecce bombo e dei film che seguiranno. Sarà più evidente nel 1989 quando esce Palombella rossa. “Come parla!, come parla! Le parole sono importanti” urla a una giornalista. Come dire: vogliamo cambiare questa società, allora facciamolo veramente dando il giusto significato alle cose e alle parole. Niente dibattiti inutili, niente parole al vento. Non perdiamo tempo: il nostro mondo, la nostra società si sta sgretolando. Gli inviti a capire non mancano.

Casa. Divano. Dibattito in salotto tra Michele e gli altri. Parla Fabio. Quel sole che abbiamo aspettato per tanto tempo quella notte a Ostia e che è poi è spuntato dalla parte opposta per me è stato un invito a capire. Secondo me in questo

periodo noi stiamo sbagliando pressoché tutto. Siamo scocciati, delusi, un po’ stanchi e abbiamo smesso di fare politica attiva. Siamo contenti perché cerchiamo di liberarci di questo peso, cerchiamo di divertirci, io però sono stanco perché non mi diverto… Sbagliamo tutto con lo studio, in famiglia, nel lavoro…L’accorato intervento di Fabio è un atto d’accusa a se stesso, ai suoi amici, a Michele, al loro mancato impegno nella società. Un invito a uscire dal proprio io, dall’egoismo generale. “Dobbiamo essere rivoluzionari” sostiene. Anche in questo caso non si misurano le parole. Cinque rivoluzionari in una stanza con divano che vogliono solo far passare del tempo. Generazione confusa come Michele del resto. Ma su una cosa ha le idee chiare: “Noi italiani siamo fatti così. “Rossi e neri tutti uguali” dice un cliente al bar. Michele si ribella, lo prende per il bavero: “Tutti uguali? Ma che siamo in un film di Alberto Sordi?”. Finalmente Michele esce dal suo io e violentemente attacca quel qualunquismo, male sociale diffuso nel nostro paese, che i personaggi di Sordi al cinema hanno sapientemente rappresentato. Viene scacciato dal bar, luogo agorà del periodo. Una parte della società di quegli anni pensa e ragiona per slogan. Non sono pochi e faranno proseliti nel corso degli anni. Alcuni diventeranno dirigenti, politici intellettuali. “Sono tutti uguali” è ora l’imperativo vincente. Si eliminano le differenze per poter continuare a vivere nella triste e felice banalità del sistema. Michele è solo. Il tentativo del suo io di uscire incontro agli altri è miseramente fallito. Non gli resta che la psicanalisi.

Ecce Bombo (1978) Regia, soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti Fotografia: Giuseppe Pinori Montaggio: Enzo Meniconi

Musiche: Franco Piersanti Scenografia: Massimo Razzi Interpreti: Nanni Moretti: Michele Luisa Rossi: madre di Michele Lina Sastri: Olga Glauco Mauri: padre di Michele Piero Galletti: Goffredo Susanna Javicoli: Silvia Cristina Manni: Cristina Lorenza Ralli: Valentina Maurizio Romoli: Cesare Carola Stagnaro: Flaminia Fabio Traversa: Mirko Giorgio Viterbo: intervistatore Paolo Zaccagnini: Vito durata: 103 minuti Il film è stato girato in presa diretta in formato 16 mm, per motivi di risparmio, per essere poi successivamente “gonfiato” in 35 mm per la distribuzione nelle sale. Il titolo del film deriva da uno straccivendolo che andava in giro urlando così, riportato in una delle scene del film. Altri titoli ipotizzati ma scartati per il film furono: Sono stanco delle uova al tegamino, Piccolo gruppo, Senza caviglie e Delirio d’agosto. Il personaggio dell’attore poeta è interpretato da Luigi Moretti, padre del regista. Tra gli attori, nei panni di personaggi secondari, figurano anche Augusto Minzolini e Giampiero Mughini.

3. Campare di rendita

Il terzo film di Moretti è Sogni d’oro dove Michele è un regista che sta ultimando le riprese di un film su Sigmund Freud, il padre della psicanalisi. Non gli interessa tutto quello che vive fuori dalla sua stanza, dai suoi interessi. È arido. L’esattezza sociologica del cinema di Moretti e la sua attualità fanno muovere Michele verso esperienze che lo cambiano profondamente anche se il suo io cerca di resistere. È un io in fuga. Verso dove? Forse verso gli odierni prigionieri del web. “Non me ne andrò mai da questa casa” dice alla madre. Non diventerò mai grande, non ho alcun desiderio di crescere. Una scuola di pensiero sostiene che i borghesi non dicono mai “noi” ma sempre “io”. È un’analisi coerente con questi giovani e questa società. Siamo nel 1981. Michele continua a crescere solo d’età. Il mondo va a ruota libera. L’ex attore Reagan diventa presidente degli Stati Uniti, in Spagna c’è un tentativo di colpo di Stato, fallito, in Italia viene scoperta la lista della loggia massonica P2, tutti gli imputati per la strage di Piazza Fontana vengono assolti, il mostro di Firenze continua a uccidere. Succede di tutto. Il regista Michele usa il cinema come strumento di autoanalisi. Si trova in una piccola sala di quelle che in quegli anni facevano seguire il dibattito. È l’occasione per il regista Moretti di analizzare il suo cinema. “Sono tre anni che campi di rendita” urla uno spettatore infuriato. E ancora: “Sempre gli stessi argomenti, i giovani, il Sessantotto, la scuola, la famiglia. Dal primo, si capiva che dovevi cambiare ma ora è obbligatorio, che t’inventerai quest’anno”. In realtà gli “stessi argomenti” sono la piattaforma centrale della storia della società italiana dal 1976 ai giorni nostri. Moretti non cambia ma i racconti sono pieni di sfaccettature e la descrizione dei personaggi è, per dirla come Ferrarotti, il resoconto di un popolo di frenetici informatissimi idioti. Gli stessi che consegneranno i loro figli e i loro nipoti

all’“obesità catatonica e alla lordosi sedentaria”. È la frantumazione delle identità che Michele, nei primi anni Ottanta, tenta di arginare ma che dal 2000 in poi diventerà generale. Forse Michele appare più consapevole della propria fragilità ma, nello stesso tempo, si rende conto che i suoi amici, gli spettatori del suo film, la società esterna al suo io è sull’orlo di un fallimento culturale. Michele ha sempre visto il prossimo come un impedimento alla propria autoaffermazione. È una delle ragioni che lo spingono a insegnare, a voler cambiare con la conoscenza, generazioni di analfabeti. Nello stesso anno di uscita di Sogni d’oro, Fabrizio De André, poeta e sensibile cantautore, scrive una canzone che si intitola Quello che non ho. “Quello che non ho è un orologio avanti /per correre più in fretta e avervi più distanti /quello che non ho è un treno arrugginito /che mi riporti indietro da dove sono partito” canta. Si adatta perfettamente all’angoscia esistenziale del regista Michele. Vuole correre più dei suoi compagni, liberarsi delle catene sociali e psicologiche che imprigionano la sua mente ma ha bisogno di ritrovare un passato che non c’è più. Si accorge che il nemico interno da battere non è solo all’esterno, tra la generazione che tenta di istruire, ma vive e prospera dentro, nel suo io che, malgrado tutto, cresce con il successo del film. Una vera autoanalisi. Un combattimento contro il nemico interno che condiziona la sua vita, i suoi comportamenti. Sino a diventare, tre anni dopo, un professore di matematica pieno di manie e fobie. Igienista e osservatore della realtà e della gente che gli ruota intorno. “Vuol sapere il mio problema?” dice allo psicanalista. E aggiunge: “Non mi piacciono gli altri!”.

Sogni d’oro (1981) Regia, soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti

Fotografia: Franco Di Giacomo Montaggio: Roberto Perpignani Scenografia: Gianni Sbarra Interpreti: Nanni Moretti: Michele Apicella Piera Degli Esposti: la madre Dario Cantarelli: il critico Nicola Di Pinto: Nicola Alessandro Haber: Gaetano Laura Morante: Silvia Gigio Morra: Gigio Cimino Giampiero Mughini: presentatore Remo Remotti: Sigmund Freud Tatti Sanguineti: aiuto regista Claudio Spadaro: Claudio durata: 105 minuti Il film venne premiato con il Leone d’argento al Festival del Cinema di Venezia nel 1981. Il riconoscimento venne accolto nell’ambiente del Cinema con qualche dissenso.

4. Il cielo con un flipper

Siamo nel 1984, il film è Bianca. Michele è un professore che dai numeri ha ereditato la visione di un mondo perfetto ma che, inevitabilmente, deve fare i conti con una realtà assai

disordinata. Attraverso le scarpe, forma e colore, analizza con maniacalità la personalità degli uomini e delle donne che lo circondano. Gli studenti di Bianca, al contrario di quelli dei precedenti film, si formano in una scuola modello che si chiama addirittura Marilyn Monroe e che ha in ogni aula la foto di Dino Zoff al posto del Presidente della Repubblica. C’è il bar, la pista elettrica, il flipper e la slot machine e si tengono lezioni su Gino Paoli (“Quando sei qui con me /questa stanza non ha più pareti /ma alberi, alberi infiniti. Quando sei qui vicino a me/questo soffitto viola /no, non esiste più… /Io vedo il cielo sopra noi). Sono studenti preparatissimi. Si tratta di una generazione più consapevole? Certamente questi ragazzi sono più bravi dell’insegnante Michele. In una lezione capovolta dove i ragazzi “spiegano” al professore il cerchio magico di Dürer, Michele alle prese con una controinterrogazione, viene “salvato” dal suono della campanella. L’ignorante è lui, non più i suoi studenti, la giovane società. Cos’è successo per mettere all’angolo quell’onesto insegnante così animato da buoni propositi? Perché i tempi sono cambiati così velocemente? Perché Michele che voleva cambiare il mondo è rimasto al palo mentre quella generazione si è messa a correre, superandolo. Siamo nell’anno dell’avvio tecnologico: l’Apple presenta il primo computer della serie Mac, ma siamo anche nel punto di non ritorno in politica: muore Enrico Berlinguer, leader del Pci dai modi gentili e amato dagli italiani mentre Rete 4 viene acquistata da Berlusconi che fortifica la sua scalata nel mondo dei media facilitata da Bettino Craxi. Intanto il mostro di Firenze continua a uccidere. Una parte considerevole della classe dirigente del periodo sta incastrando importanti tessere per governare all’infinito. La televisione viene vista come il giusto veicolo per impacchettare le coscienze degli italiani. È un processo lungo che porterà, con alterne vicende, ai nostri giorni dove l’impacchettamento sembra a buon punto. Un processo importante che, nel 1984, verrà capito da pochi e sottovalutato da molti. Michele, l’insegnante di matematica impreparato di fronte ai suoi studenti è ormai obsoleto, è pronto per prendere la sua locomotiva arrugginita e i suoi

giovani studenti, così organizzati e brillanti, potrebbero rappresentare il futuro, la generazione in grado di fermare l’onda televisiva e imbonitrice. Esperienze amare per Michele. Gli restano solo i dolci, come consolazione.

“Lei non faccia il tunnel… Mi sta scavando sotto e mi toglie la panna, la castagna da sola sopra non ha senso, il Mont blanc non è come un cannolo alla siciliana che c’è tutto dentro, come uno zaino, lei se lo porta appresso e sta sicuro per un mese, il Mont blanc si regge su un equilibrio delicato non è come la Sacher torte… Lei praticamente non ha mai assaggiato la Sacher torte? Continuiamo così, facciamoci del male”. La scena, oltre che divertente, è un racconto di quello che sta succedendo in quegli anni. Non ci sono solo studenti preparati ma c’è un popolo superficiale, qualunquista, ignorante (non conosce la Sacher torte) e che affronta la vita come uno schiacciasassi, senza rispetto (taglia il Mont blanc scavando sotto). È una società impreparata e arrogante oppure Michele è un tipo strano, un disadattato che non è in grado di giudicare con equilibrio? A Moretti il dubbio viene e lo inserisce nella scena del laghetto di Villa Borghese dove Michele, vestito da scrittore di primo Novecento con il cappello di paglia e ombrellino, legge Proust su una barchetta. Perché si trova in quella situazione? È Remo Remotti a spiegarlo quando il professore si lamenta: “Insisti, insisti, tu sei strano, sei una curiosità, non s’è mai visto uno che legge Proust con un ombrellino in mezzo ad un laghetto”. Risponde Michele: “Non si è mai visto perché è una cosa da scemi!”. E ancora Remotti: “Ma dammi retta prima o poi qualcuno s’avvicina, attacca discorso vuole sapere chi sei…”. È l’estremo tentativo del proprio io di uscire con gli altri, senza perdere quella distanza, quella stranezza che lo distingue dalla massa. Un tentativo inutile perché Michele resta solo e si trova nella scena successiva sulla spiaggia dove tenta un approccio goffo con una ragazza in monokini stesa a prendere il sole. Viene naturalmente cacciato via mentre Battiato canta: “… tutti per le strade correvano andando a messa…”. In realtà Michele soffre della disgregazione della società in generale e della famiglia in particolare. Non c’è più la famiglia di una volta, verrebbe da dire, e spiando la coppia che abita di fronte

alla sua casa si accorge che il suo mondo matematico non è composto da numeri perfetti. La frantumazione delle identità porta all’inevitabile polverizzazione del matrimonio. Il castello matematico che ha costruito intorno al suo io sta crollando passo dopo passo. Scena dopo scena. La felicità è una cosa seria, sostiene Michele. E vorrebbe aggiungere: è la perfezione, dove tutto funziona al massimo, senza errori. Tutto funziona matematicamente. In realtà Michele si è reso conto che il mondo che lo circonda è imperfetto e allora per non soffrire ulteriormente tronca con Bianca. Le piace, l’ama e anche lei corrisponde. Ma un giorno questo grande amore potrebbe finire come tutte le cose imperfette di questo mondo e allora per evitare di soffrire, di incontrare una realtà che non gli piace, preferisce lasciare. “Sarò imperfetto ma non ci dobbiamo più vedere. La felicità è una cosa seria e allora se c’è, deve essere assoluta, senza ombre, senza pena…”. È la sua filosofia. Non accetta compromessi. Tutti lo fanno: i suoi amici, gli insegnanti, gli studenti. Ma Michele, il matematico, no. Il compromesso è una capitolazione e comunque non esistono compromessi felici. Michele giudica se stesso e gli altri: lo fa come se fosse un teorema. “Insieme a te non ci sto più, guardo le nuvole laggiù” canta Caterina Caselli. È disperato: “Chiami la polizia perché ora mi sparo” annuncia in un bar dopo aver messo due cucchiaini di panna in una tazza di caffè. È smarrito.

È come se il corso algebrico della sua vita avesse perso i numeri della sua sicurezza. Il problema, o meglio i problemi che è costretto ad affrontare, non danno mai il risultato giusto. La sua equazione matematica della vita non trova più il filo

rassicurante che tiene legato il suo io con il resto del mondo. Non gli basta più neanche il consolatorio barattolone di Nutella. È ormai alla deriva. Questa società si è spinta troppo oltre. Non ha punti fermi, vive ondeggiando a destra e a sinistra, senza soluzione. Troppo per un matematico. Anche la coppia che abita di fronte al suo terrazzo gli crea problemi. Michele controlla la loro vita così come fa con i suoi amici, con il mondo intero. Non riesce a riportare quello che vede nei giusti binari, in quello che crede siano i giusti binari. Un’incapacità a cambiare le cose, tipica della sua generazione. Allora c’è solo un modo per riportare le cose al punto di partenza, legittimo. Eliminare il problema. Così uccide, toglie dal suo io alcune convivenze interiori che lo disturbano. È il rifiuto della complessità e della profondità di una società seppure malata. La sua ricerca di semplicità e di ordine lo porterà a uccidere mentre negli anni a venire quello stesso rigetto spingerà molti nostri concittadini verso l’odio sociale. “Ogni scarpa una camminata, ogni camminata una diversa concezione del mondo. Comunque volete stare comodi in casa vostra? Fate quello che volete ma non le pantofole”. Michele prende atto che gli uomini e le donne che lo circondano utilizzano un’infinità di scarpe, diverse tra loro. La società è multiforme e il suo io non riesce a raccapezzarci. Se ne rende conto. Così com’è consapevole di essere un assassino. È fallita la sua ricerca di profondità e senso. Non può far altro che consegnarsi al commissario. La scena è di grande cinema. “Quando ho visto le sue scarpe, ho pensato: ora glielo dico subito. Sono io quello che cerca, sono stato io”. “Ma perché l’ha fatto, erano suoi amici, che cosa le avevano fatto?” ribatte il commissario. “Mi avevano deluso, gli amici ti deludono, la gente normale no, a me piacciono le coppie felici, io li aiuto, li indirizzo sulla strada giusta, gli do consigli però non li seguo più quando fanno quegli errori così stupidi. Cominciano a dirsi delle bugie, poi si separano, poi ritornano a stare insieme ma è troppo tardi perché ormai sono feriti e cattivi, e allora non li voglio più vedere. Una volta era più facile giudicare, come le scarpe c’erano solo alcuni modelli molto caratterizzati, erano quel tipo di scarpe e basta, ora

invece tutto è più confuso, uno stile si intreccia a un altro. Le cose non sono più nette. Gli amici non possono comportarsi così perché io mica divento amico col primo che incontro, io decido di voler bene, scelgo e quando scelgo è per sempre. La confessione di Michele è l’atto d’accusa finale al mondo che lo circonda che si sgretola davanti ai suoi occhi in modo disorganizzato. Michele ha fallito. Non è riuscito a cambiare il mondo e quello stesso mondo lo isola, lo allontana portandolo in carcere. È lui stesso a volerlo. Non ha più voglia di lottare e così decide di confessare e costituirsi. Quando i due agenti lo portano via, chiede: “Ha figli lei”, “Sì due”.“È triste morire senza figli”. È la frase che chiude il film e che ribadisce l’incapacità di Michele a lasciare un testimone delle sue idee. L’incapacità del suo insegnamento. Morirà in carcere, senza figli.

Bianca (1984) Regia e soggetto: Nanni Moretti Sceneggiatura: Nanni Moretti e Sandro Petraglia Fotografia: Luciano Tovoli Montaggio: Mirco Garrone Musiche: Franco Piersanti Scenografia: Giorgio Luppi e Marco Luppi Interpreti: Nanni Moretti: Michele Apicella Laura Morante: Bianca Roberto Vezzosi: commissario Remo Remotti: Siro Siri Claudio Bigagli: Ignazio

Enrica Maria Modugno: Aurora Vincenzo Salemme: Massimiliano Margherita Sestito: Maria Dario Cantarelli: preside Virginie Alexandre: Martina Matteo Fago: Matteo. durata: 96 minuti Il personaggio dello psicologo è interpretato da Luigi Moretti, padre del regista. Interessante la colonna sonora: Insieme a te non ci sto più, cantata da Caterina Caselli, musica di Paolo Conte e Michele Virano, testo di Vito Pallavicini. Il brano è stato utilizzato anche in un altro film diretto da Nanni Moretti, La stanza del figlio del 2001; Il cielo in una stanza composta e cantata da Gino Paoli; Dieci ragazze composta e cantata da Lucio Battisti; Scalo a Grado, composta e cantata da Franco Battiato

5. Il pappone di carote e zucchine

Morto Michele Apicella ecco apparire tra le pieghe di una società sempre più liquida, come direbbe Bauman, un prete. C’è bisogno di un servo del Signore nel paese che vede lo sgretolamento del concetto di comunità dove ognuno va per proprio conto. L’individualismo sfrenato non è minimamente paragonabile all’io che Michele ha messo in mostra negli anni passati perché Michele cercava comunque gli altri, anche se voleva cambiarli.

La società che pone le prime fondamenta nella metà degli anni Ottanta è estremamente fragile, non ha riferimenti certi. Secondo Bauman si assiste all’apparire come valore e il consumismo è una sorta di bulimia senza scopo. L’unica certezza è l’incertezza, sostiene il sociologo polacco. Le tv commerciali (ma anche in buona parte quelle di servizio) spingono il paese a un’effimera allegria priva totalmente di contenuti. Ecco allora entrare in campo, un anno dopo Bianca, Don Giulio de La messa è finita. È trascorso solo un anno dagli omicidi di Michele. Siamo nel 1985. Viene eletto presidente della Repubblica Francesco Cossiga, la nave da crociera Achille Lauro viene sequestrata da un commando palestinese, a Ginevra c’è il primo storico incontro tra Ronald Reagan e Michail Gorbaciov. La crisi della famiglia in Italia si accentua. Quello che sta accadendo nel nostro paese su sentimenti, stili di vita, moralità e programmi viene fotografato con una messa a fuoco perfetta da Don Giulio, rientrato da un piccolo paese in una parrocchia della periferia romana. Il prete ristabilisce i rapporti con la sua famiglia e cerca gli amici di un tempo. La sua ricerca è un disastro. Saverio, deluso da una storia d’amore, vive recluso in casa, Andrea, con un passato di terrorista ha attenzione solo per il processo, l’ex parroco inoltre ha messo su famiglia. Quando va a pranzo a casa dell’ex parroco, si accorge che litiga in continuazione con la sua compagna davanti al figlioletto. “No. Non litigate, a voi non lo permetto. Dagli altri accetto tutto, qui no”. Seduti a tavola l’ex parroco è in canottiera e la moglie è in pantofole. La disgregazione non è solo morale ma anche estetica. E Don Giulio non può che sottolinearlo. Quello che sta accadendo sotto gli occhi del prete è una frammentazione senza fine. Non c’è pace, ne tantomeno felicità. Anche il cibo fa schifo. “Questo pappone insipido di carote, zucchine e patate da dove viene?”. Non c’è niente che possa piacere a questo prete deluso e amareggiato.

La disgregazione in atto è ancora più evidente nella sua famiglia. Il padre, ormai anziano, s’innamora di una giovane ragazza e lascia la moglie, la madre di Don Giulio. “Lo sai

come è fatto papà, gli piace sentirsi un po’ non capito” dice la madre di Michele in Ecce bombo, quasi un presagio di quello che sta accadendo in La messa è finita. La madre di Don Giulio, dopo un periodo di depressione, si uccide. “Perché l’hai fatto? Non ti perdonerò mai. Ti ricordi la prima volta che in un bar abbiamo preso la cioccolata calda con la panna e quel negozio al corso che regalava le palline di gomma a chi comprava le scarpe… Ero felice quando uscivo con te, mi sentivo al sicuro da piccolo perché sapevo che c’eri tu. È bello essere bambini…” . È caduto l’ultimo punto fermo del giovane prete. La madre, custode della sua fanciullezza e della sua moralità, si è tolta volontariamente da questo mondo. Ha tradito suo figlio. Così pensa Don Giulio che la colpevolizza. “Perché l’hai fatto? Ora chi ci pensa a me?”. È solo, è caduto anche l’ultimo affetto, l’ultima àncora della sua esistenza. Il suo io sembra ricordare l’io voglio di Nietzsche. Don Giulio è immerso in un grande dolore, dove sente i fantasmi del suo felice passato da bambino. Non si tratta dell’io egoistico di Michele che vuole cambiare il mondo a sua immagine, ma quello di un io di fede che vuole cambiare il mondo cercando nel ragionamento e nella bontà la forza di convinzione. La morte della madre non ferma la decadenza della famiglia. La sorella va a vivere da sola e annuncia al fratello di abortire il figlio avuto con il fidanzato Simone, giovane stravagante, immaturo, un po’ scemo. “La vita non ha senso. La vita è volgare” dice e va a letto alle sei di pomeriggio. La disgregazione del mondo intorno al prete è generale. Frantumazione dei sentimenti, dei comportamenti, delle idee. Don Giulio assiste a quella che Freud chiamava “la miseria psicologica della massa”. L’omologazione o come viene anche bonariamente definito “sano realismo”. Gli amici, i familiari, tutte le persone vicine e lontane da Don Giulio accettano l’esistente come è, senza interferenze morali o etiche. Perché quel mondo apparentemente vissuto da un’umanità così diversa è uno solo, l’unico, dove impera l’illusione della libertà. Non la libertà, ma soltanto l’illusione. È difficile essere se stesso, conoscersi. Quasi impossibile. Stanno tutti perdendo l’anima e un povero prete che tenta di recuperarla appare come

un Don Chisciotte che combatte i mulini a vento. Vive con la testa sott’acqua, viene costretto a tenere la testa sott’acqua, sotto l’acqua della società liquida. Indicativo l’incontro con tre energumeni che, per un parcheggio, lo bullizzano, lo prendono a calci e immergono la sua testa più volte (vuole ragionare ma non gli è permesso) nell’acqua di una fontana. La società appiattita non accetta razionalità o buon senso e cerca di eliminare l’“uomo superiore” che Don Giulio rappresenta benissimo in questo film. Ma anche il prete buono deve arrendersi. La confessione è la spiegazione del suo fallimento, di non aver potuto arginare la decadenza della società e della sua famiglia. “Io credo nella felicità” informa durante un matrimonio. Ma per lui, uomo di fede, è più facile credere. Cerca di raccogliere nella confessione i suoi tentativi, prova ad accettare i suoi limiti, in questi anni di ritorno a Roma è riuscito, per dirla con Nietzsche, a invecchiare la felicità. Le sue parole vengono ascoltate da un frate. “Sono confuso: non riesco più a capire quello che succede. Da quando mi hanno affidato la nuova parrocchia non riesco più a lavorare, non riesco più a concentrarmi. La gente ha tanti guai e vengono da me e mi parlano e spesso quando parlano io mi distraggo e penso ai miei problemi, mia sorella… Ogni tanto non do l’assoluzione perché non sono veramente pentiti, anzi a volte vorrei picchiare qualcuno… mi parlano solo di sesso, di peccati sessuali perché sanno che sono peccati veniali… ma dei peccati veri quelli contro gli altri non ne parlano mai… che gli posso dire io ci capisco meno di loro… Sì vorrei tornare al paese ma ora mi sembrerebbe di scappare”. È deluso dalla sua incapacità di influire sugli altri, non sa cosa fare, ma per il momento resiste. Vuole essere all’altezza del tempo che sta vivendo, non vuole bruciare possibili spazi di riflessione, anche se, scena dopo scena, il suo ottimismo, la sua determinazione viene meno. Michele ha fallito nell’insegnamento a scuola, Don Giulio è sul punto di alzare bandiera bianca nell’educazione dei buoni sentimenti. Due tracolli gemelli che coinvolgono la famiglia e la società. Michele e Don Giulio vorrebbero un paese felice abitato da gente felice. Come la città Zenobia di Calvino. “… chi abita

Zenobia e gli si chiede di descrivere come lui vedrebbe la città felice, è sempre una città come Zenobia che egli immagina”. Zenobia continua a dare forma ai desideri. Cosa che gli alter ego di Moretti non riescono proprio a fare. Non resta che partire. Durante un matrimonio annuncia il ritiro. “Vi devo salutare. Parto, vado molto lontano in un posto dove c’è un vento che fa diventare pazzi e dove hanno bisogno di un amico, qui non ci posso più stare. E per voi mi sono reso conto che non posso fare nulla. Ho provato ma non ce l’ho fatta. Spero sarete capaci di perdonarmi. La mia vita è bella perché sono stato molto amato, io sono un uomo fortunato… La messa è finita andate in pace”. L’amaro saluto. Non c’è più speranza? Don Giulio è costretto a emigrare in terre aspre e difficili perché qui il progresso ha ucciso i sentimenti? È un addio di pessimismo cosmico? Sembrerebbe così. In realtà Moretti alle ultime parole di Don Giulio mette in colonna sonora la canzone di Bruno Lauzi “Ritornerai”. Le parole gettano un velo di ottimismo al finale. “Ritornerai/lo so ritornerai / e quando tu /sarai con me /ritroverai /tutte le cose che /tu non volevi /vedere intorno a te /e scoprirai /che nulla è cambiato/ che sono restato /l’illuso di sempre…”. Anche le immagini rispondono alle parole della canzone. I due sposi cominciano a ballare, poi è Saverio, il compagno stupido della sorella, che invita Valentina. Ballano anche loro. In un attimo altri fedeli si mettono ballare. Don Giulio sorride, compiaciuto. C’è speranza che qualcosa possa cambiare. Non tutto è perduto. La messa è finita (1985) Regia: Nanni Moretti Soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti e Sandro Petraglia Fotografia: Franco Di Giacomo Montaggio: Mirco Garrone

Musiche: Nicola Piovani Scenografia: Amedeo Fago, Giorgio Bertolini Interpreti: Nanni Moretti: don Giulio Marco Messeri: Saverio Margarita Lozano: madre di don Giulio Ferruccio De Ceresa: padre di don Giulio Enrica Maria Modugno: Valentina Eugenio Masciari: Antonio Luisa De Santis: Lucia Pietro De Vico: frate Roberto Vezzosi: Cesare Vincenzo Salemme: Andrea Dario Cantarelli: Gianni Mauro Fabretti: Simone Giovanni Buttafava: avvocato Luigi Moretti: magistrato durata: 94 minuti Inizialmente la sceneggiatura prevedeva che Nanni Moretti interpretasse, oltre al ruolo del sacerdote, anche quello del terrorista, fratello gemello e completamente uguale a lui, con l’eccezione della barba. La parte fu poi riscritta, venendo affidata a Vincenzo Salemme. Per la colonna sonora il film segna la prima collaborazione di Moretti con Nicola Piovani. Della colonna sonora fanno parte anche il brano di Bruno Lauzi del 1964 Ritornerai, Sei bellissima di Loredana Bertè e I treni di Tozeur di Franco Battiato.

6. Le parole sono importanti

Nel 1989, due mesi prima della caduta del muro di Berlino, ritorna Michele Apicella. Il film è Palombella rossa. È la prima volta che il protagonista di un film di Moretti recita nei panni di un politico. È un funzionario del Partito comunista che in seguito a un incidente si ritrova senza memoria. “Ecco chi sono, sono un comunista. Com’era quel discorso? Il nostro progetto di trasformazione della società…”. Moretti mostra interesse alla “sofferenza” di un partito politico, da anni punto di riferimento sociale della classe operaia, degli intellettuali e di una buona parte della città. Il professore Michele non ha più niente da insegnare e non vuole più cambiare il mondo, ora vuole capire cosa è diventato e che cosa sta diventando questa società che non sa dove andare. Cadono i muri e le strade sono libere e infinite, ma non esiste un’indicazione, un consiglio su quale strada intraprendere. Si aprono tutti i muri sociali e psicologici ma la generazione che dovrebbe approfittarne non sa che fare. Parla per slogan (lo ha sempre fatto) e soprattutto parla male. Alle parole pronunciate da una giornalista (“Kitsch”, “Alle prime armi”) Michele s’irrita: “Ma come parla, le parole sono importanti” e la schiaffeggia. Prende a schiaffi il disagio e la superficialità dell’individuo inserito in uno scenario del tutto nuovo che non comprende. Prende a schiaffi il suo passato che non ricorda ma, a sprazzi, si rende conto di aver lasciato crescere una generazione poco consapevole. Prende a schiaffi il Pci che non è più insegnamento e indirizzo. Il partito si sta disgregando e con esso tutti quegli spiriti che hanno voluto e creduto in una società migliore. Il Pci diventa l’occasione per raccontare un’epoca che se ne va, una società che chiude le porte a ideologie e ideali. Durante una tribuna politica della Rai il dirigente risponde ai giornalisti con una domanda. “Che cosa significa essere comunisti oggi?” si chiede. Poi in piscina in un’altra scena trova la risposta dall’arbitro della partita di pallanuoto. “Siete un partito da rifare, galleggiate a

mezz’aria, mancate d’identità, avete almeno tre anime, chi siete? Siete un partito inutile, innocuo… Lei rimpiange la tensione morale di quegli anni…”. Il dirigente comunista pallanotista gioca fuori casa, in Sicilia, con il pubblico contro. Inoltre non ha memoria. È l’amnesia del Pci e della sinistra.

L’utilizzo dell’amnesia da parte del regista Moretti non è solo per raccontare il passato di un partito che sembra dimenticato ma anche per abbandonare il Michele Apicella professore bravo e assassino dei precedenti film. Ci riesce? Solo in parte. Perché, suo malgrado o forse grazie al suo

inconscio, anche in questo film torna in evidenza lo stesso io di Michele. Ora è più piccolo, meno nietzschiano, stordito e confuso. Un io complesso che cerca di capire non il suo fallimento o quello dei suoi studenti, ma quello della società in cui è cresciuto. “Ho trentacinque anni, non torneranno più le merendine di quando ero bambino… i pomeriggi di maggio… non torneranno più…”. La nostalgia dell’innocenza, di quando anche i sentimenti erano semplici. Dove andranno a finire ora che non abbiamo più attaccapanni sui quali poggiare le nostre coscienze? “Non andiamo forse errando in un infinito nulla? Non ci culla lo spazio vuoto? Non fa sempre più freddo? Non è sempre notte e sempre più notte?” scrive Nietzsche. Che strano per un comunista come il dirigente Michele che dovrebbe conoscere a memoria Marx, scendere negli abissi del pensiero con l’aiuto di Nietzsche. Per niente strana e fortemente intuitiva la lettura di Moretti sugli anni della caduta del più grande partito comunista occidentale che, con evidenza, presenta interessanti spunti filosofici e psicanalitici. Come in tutto il suo cinema del resto. La ricerca di Michele dirigente comunista è la stessa di Michele professore: la ricerca della felicità. “… la gente è infelice, la gente è troppo infelice e aspetta noi, noi sappiamo dove andare, noi sappiamo cosa fare, noi abbiamo tante idee, mamma! Mamma! sono tutti infelici e non siamo uguali agli altri, noi siamo come tutti gli altri, noi siamo diversi, noi siamo uguali agli altri, siamo diversi e siamo uguale agli altri, mamma! mamma! Vienimi a prendere”. Una delle domande più classiche della psicologia sulla nostra identità è: quanti siamo? Pochi? Tanti? Certamente portiamo nella nostra scatola nera un teatro di rappresentazioni, tanti giochi e un numero infinito di apparenze. E ogni volta che ci muoviamo all’esterno sveliamo la nostra capacità attoriale nell’interpretare il ruolo giusto. Il nostro sé, nato da piccoli e poi cresciuto negli anni, si trova a collaborare con gli altri in un processo continuo. Quando l’io diventa noi, l’io non è solo diventato un luogo di convivenza, ma una piattaforma dove può alloggiare una vera e propria comunità. Come un grande aeroporto dove atterrano e partono tantissimi aerei che si dirigono verso un’infinità di

mete e che ritornano atterrando con la stiva piena di esperienze fatte nei luoghi sorvolati. L’impegno di Michele per la ricerca di felicità collettiva è costante e determinata. Ma piena di contraddizioni. Impegno diverso e, nello stesso tempo, uguale agli altri. Io suo io, ora diventato noi, non riesce a uscirne e allora invoca la mamma, invoca, ancora una volta, i tempi dell’infanzia quando tutto era semplice, chiaro e lineare. L’infanzia del piccolo Michele e quella del dirigente Michele. È l’unica strada per salvarsi dalla società liquida. In una scena Michele bambino è sul terrazzino mentre ruba a un bambino più piccolo un gigantesco Mont blanc. I genitori lo processano. Parla il padre. “Questa non è la prima volta e neanche la più grave, però arriva per terza e noi avevamo stabilito che la terza volta non doveva arrivare mai. Io e la mamma siamo molto addolorati ma questa è una decisione che dovevamo prendere. Tu non sei certo il primo che finisce in carcere per i dolci e non sarai neanche l’ultimo. D’altra parte è molto meglio che in galera ti mandino i tuoi genitori che a una fermata qualsiasi una guardia o peggio un vigile”. Mentre parla il padre, Michele sta facendo la valigia. Scena successiva: Michele è in strada con la valigia in mano che si avvia mestamente verso la galera. Improvvisamente si accorge di avere ai piedi le pantofole. “Cosa c’entrano le pantofole, mamma! mamma! dove sono le mie scarpe?”. Si tratta di un sogno, il dirigente Michele sta sognando, un brutto sogno. Oltre all’odio personale di Moretti per le pantofole (sono diversi i riferimenti nei suoi film), c’è di nuovo la richiesta angosciata d’aiuto alla mamma che in un momento così difficile potrebbe essere l’unico sicuro conforto. Il porto dove approdare in un momento di mare tempestoso. È angosciato: sta andando in carcere con le pantofole. Per strada con le pantofole. Per fortuna si tratta di un sogno. Un sogno che racconta il suo passato di bambino e che sembra raccontare il passato di un partito determinato ed efficiente anche senza scarpe. Pochi giorni dopo la caduta del muro di Berlino il segretario del Pci Achille Occhetto annuncia che il partito cambierà nome, simbolo e programma politico mentre papa Giovanni Paolo II incontra in Vaticano Michael Gorbaciov. Il

comunismo sembra sepolto. Lo smarrimento è inevitabile e generale. Inutile per il pallanotista Michele provare a fare la palombella.

L’anno successivo Moretti realizza un documentario che s’intitola La Cosa. Il titolo fa riferimento alla definizione data da Occhetto del futuro organo politico derivante dalla trasformazione del Pci. Racconta il dibattito tra i militanti nell’ambito della rifondazione. Una lunga parentesi politica che lo vedrà nello stesso anno partecipare come attore al film di Daniele Lucchetti Il portaborse, dove interpreta un ministro infame e corrotto e dove i riferimenti all’attualità politica italiana sono evidenti. Sono i primi segnali visibili di quello che sta accadendo e che accadrà nel nostro paese. Tangentopoli è alle porte e in pochi mesi vengono uccisi Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, i due magistrati in prima linea nella lotta alla mafia.

Palombella rossa (1989) Regia, soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti Fotografia: Giuseppe Lanci Montaggio: Mirco Garrone Musiche: Nicola Piovani Scenografia: Giancarlo Basili Interpreti: Nanni Moretti: Michele Apicella Asia Argento: Valentina Silvio Orlando: Mario Marco Messeri: il padre di Michele bambino Luisanna Pandolfi: la madre di Michele Alfonso Santagata e Claudio Morganti: militanti politici

Raoul Ruiz: il guru Fabio Traversa: l’amico di Michele Mariella Valentini: la giornalista Antonio Petrocelli: il fascista Eugenio Masciari: l’arbitro Remo Remotti: la persona fondamentale nella vita di Mario Imre Budavári: se stesso Giovanni Buttafava: lo psicanalista Luigi Moretti: sindacalista durata: 89 minuti Nel film recita il pallanuotista Imre Budavári nella parte di se stesso.

7. Il girotondo Nel 1993, l’anno dopo, il Paese sembra riprendersi. Ciampi diventa presidente del Consiglio, Totò Riina capo di Cosa Nostra viene arrestato dopo 24 anni di latitanza, la Democrezia Cristiana dopo la valanga tangentopoli si scioglie ufficialmente e il democratico Bill Clinton è il nuovo presidente degli Stati Uniti. Sembra un anno di speranze. Non c’è posto per Michele Apicella. Per nessuno degli Apicella. Infatti il regista Moretti lo accantona ed entra in campo in prima persona con Caro diario. Tre episodi che raccontano tre stati d’animo e, questa volta, senza metafore o rappresentazioni. Una sorta di diario aperto. C’è in questo film la voglia e il desiderio di parlare nuovamente del proprio io, ma senza gabbie narrative. Il teatro della sua mente si svela

senza palcoscenico. E lo fa per tre volte. Tre momenti personali. Il primo episodio In vespa racconta le passeggiate estive di Nanni tra i quartieri di una Roma semideserta. Le bellezze della città e le sue riflessioni come in un girotondo fanciullesco. “Mi piace vedere le case e i quartieri e il quartiere che mi piace di più è la Garbatella… me ne vado in giro tra i lotti popolari. Non mi piace solo vedere le case dall’esterno, a volte mi piace vedere come sono fatte dentro e allora suono un citofono e faccio finta di fare un sopralluogo e dico che sto preparando un film. Il padrone di casa mi chiede: di che parla questo film e io non so che dire… Di che parla? È la storia di un pasticcere troskista nell’Italia degli anni Cinquanta, un film musicale, musical… però mica male un musical sul pasticciere troskista nell’Italia conformista degli anni Cinquanta”. A Moretti piace vedere le case da fuori che raccontano epoche passate e piace entrare nelle case che raccontano invece la vita familiare, se c’è. È il suo cinema, quello del noi, del voi e soprattutto quello dell’io. La sua curiosità è sempre fortissima. “A me piacciono gli attici… un giorno un attico che mi sembrava più accessibile di altri io e Silvia (sua moglie) siamo anche andati a vederlo, abbiamo chiesto quanto costava e ci hanno risposto: 10 milioni a metro quadro. Dieci milioni a metro quadro? Eh sì non si può fare un discorso di tanto al metro quadro perché via Dandolo è una via storica, Garibaldi qui ci ha fatto la resistenza”. Il viaggio in vespa continua. La sua esplorazione continua. Roma appare come una città sottile, deserta ma vissuta. Ha tutto per essere una grande città. Soprattutto sembra, come in alcune città invisibili di Calvino, che ci sia un capriccio, forse un incantesimo che la disegna come i nostri desideri. O meglio come i desideri di Moretti. L’episodio è un atto d’amore per la città dove vive, dove ha sempre vissuto. Una carezza poetica. In vespa si sposta sul ponte bianco di corso Francia. “Sarò malato, ma io amo questo ponte, ci devo passare almeno due volte al giorno”.

Nanni Moretti è un artista, ormai consacrato, che sente il bisogno di pensare ad altro, di evadere dai professori che insegnano e uccidono e di liberarsi del tema sulla società italiana in piena e continua decadenza. La politica è stata, in parte, una delusione e si sente di scoprire luoghi e argomenti più privati, meno sociali. Una scelta minoritaria. Se ne rende conto quando si ferma con la vespa al semaforo rosso e gli si affianca un giovane, probabilmente benestante, con un’auto mercedes “scoperta”. “Sa cosa stavo pensando? Stavo pensando una cosa molto triste, io in una società più decente di questa mi ritroverò sempre con una minoranza di persone, ma non nel senso di quei film dove c’è un uomo e una donna che si odiano, si sbranano su un’isola deserta perché il regista non crede nelle persone. Io credo nelle persone, non credo nella maggioranza delle persone, mi sa che mi troverò a mio agio e d’accordo sempre con una minoranza…”. Oltre al riferimento al cinema di Lina Wertmüller, Moretti s’accorge che il suo mondo, razionale e fantasioso, non sarà mai il mondo di tutti. Anche Michele professore prova a cambiarlo a sua immagine ma quando si accorge che i suoi tentativi sono stati inutili, uccide. Nell’episodio In vespa Moretti non uccide. Perché sulla vespa non c’è Michele, alter ego cinematografico ma Moretti stesso che ha l’intransigenza di Michele ma anche la consapevolezza dell’inutilità di voler cambiare il mondo. È un Moretti melanconico, personale. Il suo cammino alla scoperta dell’arte della convivenza, con gli altri e con se stesso, in una Roma deserta, ha la grazia di chi vuole scavare nel proprio passato per capire cosa è diventato. Lo fa naturalmente con ironia. “In realtà il mio sogno è sempre stato quello di saper ballare bene, Flashdance si chiamava quel film che mi ha cambiato letteralmente la vita, è un film solo sul ballo, saper ballare, e invece alla fine mi riduco sempre a guardare, è anche bello… però è tutto un’altra cosa” dice mentre attraversa piazza Mazzini. Basta analizzare la realtà che lo circonda e tentare di modificarla. È il momento di viverla. Al meglio. Il girotondo per le strade di Roma continua. Tocca anche la periferia. La sua vespa attraversa Spinaceto, quartiere di

riferimento negativo per tutte le scuole di pensiero di quegli anni. “… Mi ricordo che un giorno ho letto un soggetto che si chiamava Fuga da Spinaceto. Parlava di un ragazzo che scappava dal quel quartiere, da casa e non tornava mai più. Allora andiamo a vedere Spinaceto”. Quando arriva alla fine di una strada incontra un ragazzo seduto sul muretto che chiude la strada. “Spinaceto, pensavo peggio, non è per niente male”. “Infatti” risponde il ragazzo che probabilmente vive in quel quartiere. Moretti critica i luoghi comuni che imperversano nella cultura dominante dell’epoca. Invita con il sorriso a non limitarsi a guardare ma a “ballare”, a entrare direttamente nelle cose con attenzione. Michele criticava la generazione che parlava per slogan, Moretti quelli che giudicano e vivono per luoghi comuni.

Il viaggio sulle ali della leggerezza di Moretti si conclude a Ostia, nel luogo dove è stato ucciso Pier Paolo Pasolini. È un momento di grande tensione. Il girotondo è accompagnato dal

piano di Keith Jarrett, il concerto di Colonia, una pietra miliare della musica del Novecento. Il suono dolce e nervoso contribuisce a un finale di amore e rabbia. Cinque minuti di spiagge, strade di periferia, pinete abbandonate, prati, casermoni, rifiuti. Un viaggio verso il monumento allo scrittore. Quando arriva, ferma la vespa e scende. Lo spettacolo che ha davanti agli occhi è desolante: il monumento di Pasolini è seminascosto da una marea di erba incolta. Abbandonato da tutti. Sono passati poco meno di venti anni dall’omicidio, ma sono stati sufficienti per coprire un delitto impunito. “L’altro è sempre infinitamente meno importante dell’io ma sono gli altri che fanno la storia” scriveva Pasolini. La storia fatta dagli altri è sempre un percorso fatto di erbacce che crescono su tutto e tutti. I quartieri di Roma attraversati dalla vespa di Moretti sono in realtà isole di una grande metropoli. Isole con il mare intorno che rende difficile comunicazioni e incontri. Isole come quelle del secondo episodio: Le isole appunto. Un secondo viaggio, dopo quello fatto in vespa, alle isole Eolie per trovare quella tranquillità perduta nella città. L’occasione è anche quella di andare a trovare un amico che si è “ritirato” a Lipari undici anni fa. “Da allora sta studiando solamente l’Ulisse di Joyce. Io sto cominciando a scrivere il mio film e mi sono portato dietro i miei ritagli che mi servono per il lavoro e che ho conservato negli ultimi anni. Sono sicuro che a Lipari combinerò qualcosa”. A Lipari invece non combinerà nulla. C’è troppa confusione e così insieme all’amico Gerardo decide di abbandonarla. Si dirigono a Salina. C’è qui una delle scene più belle dell’episodio girata con la stessa leggerezza del viaggio in vespa nei quartieri di Roma. Moretti, mani in tasca, passeggia su un campo di calcio. In lontananza il mare e un traghetto che entra lentamente nell’inquadratura. La macchina da presa segue Nanni e traghetto da destra a sinistra fino a inquadrarli tra i pali di una porta di calcio, poi il traghetto, più veloce di Moretti, scompare dietro un cespuglio e il regista resta solo a guardare il mare che noi spettatori non vediamo. Perché il regista ha voluto godere del richiamo del mare da solo? Perché non ci ha voluto deliziare della magia delle onde?

Ricordate quando in Io sono un autarchico Michele si ferma incantato sulla spiaggia davanti al rumore del mare e il suo amico Fabio, gli dice: “Che c’è?” e lui risponde semplicemente: “Il mare”. In quel caso il mare veniva fatto vedere anche agli spettatori, ora in questo episodio lo nasconde. Nel 1976 era Michele ad ammirare le onde, ora è il regista. Nel 1976 il giovane regista pretendeva che il suo alter ego, Michele, alle prese con un io ingombrante, si lasciasse solo accarezzare dalla bellezza della natura, inconsapevole di far parte del Tutto mentre ora quel senso di partecipazione è fortissimo ed esclusivo, si rende conto di far parte dell’universale armonia ma sa anche che agli altri, agli spettatori, quella bellezza può solo farla intravedere per non perdere la primordiale magia. A Salina Moretti non dimentica la famiglia. La racconta, con una divertentissima telefonata, dalla parte dei figli piccoli. Squilla il telefono, risponde la piccola Sara. “Come va?” dice. Pronto sarebbe stato banale. Dall’altra parte del filo, in una cabina telefonica, risponde Lorenzo. Il dialogo è surreale. “Sara, sono Lorenzo il papà di Daniele, ti ricordi? Senti… mi passi papà per favore? Il micio? Come fa il micio? Miao miao”. Sara: “Come fa il grillo?” “Ma il grillo fa cri cri, lo sai no… sì, sì … tu adesso passami papà”. E ancora: “Come fa la pecora?”. “La pecora fa bee, il gallo fa chicchirichì… Sara ti prego passami il papà… ih oh, l’asinello fa ih oh, lo sai questo, ma non li conosco tutti”. In quel momento entra in campo Moretti. “Da anni ormai Salina era dominata dai figli unici, ogni famiglia aveva un figlio, un figlio solamente a cui veniva affidato il comando della situazione”. La scena finisce con tutti al telefono ostacolati dai figli unici. La generazione viziata che dovrà diventare dirigente e che sa già come prendere il comando e escludere i propri genitori dalla vita sociale. Nel frattempo Gerardo sta scoprendo la televisione, in particolare si sente affascinato dalle soap opera. Un genere della fiction televisiva con storie di amori, tradimenti, passioni che si raccontano in un numero infinito di puntate. Sono

esteticamente orribili ma creano dipendenza nel telespettatore. In genere catturano, in quegli anni, le numerose casalinghe di Voghera orfane di fotoromanzi e storie strappalacrime. Gerardo è un uomo colto ma ha trascorso undici anni da recluso. Forse per questo ne sente il richiamo. Si trova a Stromboli insieme a Moretti. Sono seduti sopra la terra nera del vulcano. Scopre che vicino a loro c’è un gruppo di americani. Vuole conoscere in anticipo le puntate prossime future. La soap opera Beautiful, in voga in quegli anni, viene trasmessa dalla tv italiana in ritardo rispetto a quella americana. Chiede l’aiuto di Moretti che urla a distanza verso gli americani. “Nancy, di chi è la moglie Nancy”. Voce fuori campo che sembra venire da un mondo lontano. “Di Thorn”. Moretti continua a muoversi tra la polvere del vulcano. “Ma Stefanie dove aveva messo i microfoni?” Chiede Moretti a Gerardo da lontano che risponde: “Nella casa della sua nuova moglie e ex marito”. “Perché?”. “Perché è gelosa”. Finalmente Moretti arriva davanti a un gruppo di turisti americani. Chiede ancora urlando a Gerardo qual era il problema di Sally Spectra. Risposta: “Aspetta un figlio. Il marito lo sa o no?”. Ora Moretti può chiedere agli americani in un curioso inglese tutti i dubbi e le richieste di Gerardo. Poi si rivolge sempre urlando all’amico: “Gliel’ha detto!” E ancora: “In questa fase Nancy è pazza d’amore per il maestro di tennis, non ci sono speranze per Thorn”. In questo allegro minuetto i piccoli passi dei turisti, seduti come una tribù indiana, e di Gerardo contrastano con quelli di Moretti, più lunghi, che evidenziano la volontà di capire la storia e il suo successo. La critica di Moretti, anche in questo caso con una buona dose di allegria e leggerezza, sembra rivolta maggiormente al suo amico e a quello che rappresenta nell’episodio. Gerardo è un uomo colto, come può impazzire davanti alle corbellerie di Beautiful come una casalinga qualsiasi? In realtà ormai il suo amico è attratto da ogni programma televisivo, trovando in ognuno di essi moventi intellettuali. Anche quando espongono una merce davvero scadente. È imperante in quegli anni l’abitudine di scrivere e parlare di tv, di abitarla nel bene e nel male. Pasolini che

vent’anni prima ne aveva indicato i pericoli è ormai completamente dimenticato da coloro che dovrebbero prenderne il testimone. L’Italia è ora un Paese di apparenze. È anche un Paese bulimico e come i bulimici che mangiano violentemente e di continuo per combattere l’angoscia del niente e si ammalano per non morire, il nostro Paese ingurgita il “cibo” buono delle nostre menti migliori per ingrassare di vacuità. È il trionfo del nulla. Moretti e Gerardo incontrano il nulla a Panarea. Scendono dall’aliscafo in un porto pieno di giovani che “fanno socialità”. Girano, si muovono, per dirla alla Moretti, ma in realtà stanno fermi nell’isola del divertimento e delle feste continue. I due amici vengono trattenuti da una giovane fanciulla che sembra guidare in prima persona questo girotondo. “Benvenuti, benvenuti a Panarea. Da dove venite?”. “Da Stromboli”. “Che noia. Io sto preparando una bellissima festa in omaggio al cattivo gusto, ci ho messo quasi un anno a organizzarla, e poi sabato ci sarà la festa della separazione per il mio divorzio”. Gerardo immalinconito: “Lei organizza sempre feste di questo genere?”. “Il mio studio offre un po’ di tutto, cocktail, cene d’affari, viaggi, ambientazioni, posso trovare un elefante bianco per una cena esotica, un fotografo sorprendente per un matrimonio, un watusso, una serata mondana, idee, attività, atmosfere, contatti…”. I due amici sono stralunati. Sono arrivati nell’isola del vuoto divertimento. Non possono far altro che riprendere le valigie e tornare di corsa sull’aliscafo. “Arrivederci e grazie” è il saluto frettoloso a quella fanciulla. Arrivederci e grazie è rivolto anche a quella parte della società italiana che, complice la televisione, sta attraversando un’opera di omologazione distruttrice di ogni concretezza e autenticità. La fanciulla delle pubbliche relazioni è il miglior esempio per raccontare la distruzione dei modelli migliori del nostro paese a favore di un collettivismo, di un pensare comune che annulla ogni diversità. Nessun uomo è un’isola, ogni uomo è un pezzo del continente, si dice in psicanalisi. In realtà le isole visitate da Moretti sembrano mondi chiusi, con riferimenti importanti verso l’esterno, ma con una vita propria e spesso non salutare. Il mare che le delimita sembra un

confine invalicabile anche per raggiungere le isole dello stesso arcipelago. Le delusioni per Moretti e l’intellettuale Gerardo sono numerose. Resta l’ultima possibilità: Alicudi, la più selvaggia, quella senza corrente elettrica. Lucio, personaggio interpretato da Moni Ovadia, racconta a Moretti perché vive in quest’isola. “Io voglio vivere qui, senza radici, le nostre radici sono troppe pesanti, in tutti questi anni ho avuto vergogna dell’Italia, della sua gente… Noi ci siamo ritirati qui per pensare agli altri, gli italiani sono uno dei popoli più condizionati e volgari del mondo, questo paese ha così sfrenatamente voglia di ridere, che cosa c’è da ridere?”. I due amici trascorrono diversi giorni ad Alicudi, si trovano bene. È silenziosa, spartana, semplice, priva di ogni corbelleria contemporanea. Riescono a concentrarsi. “Qui c’è molta calma, una calma terribile”, sottolinea Moretti, denotando i primi cedimenti. C’è amore per questa terra ma serpeggia la solitudine che sta diventando, giorno dopo giorno, pesantissima, quasi un vizio solitario. Gerardo è sul punto di scoppiare. “Sto scrivendo una lettera al Papa perché ha scomunicato le telenovelas, dice che sono un pericolo dell’unità della famiglia…”. E fa l’elenco del palinsesto televisivo: Ines una segretaria, ore 10,30, Sentieri 12,50, Quando si ama 14, Maria 14,25, Santa Barbara stessa ora ma su un altro canale, Celeste 16,25, Beautiful 19,15. Poi mente: “Da un po’ di giorni non vedo la televisione, comunque non ne sento la mancanza”. Lucio lo riporta alla dura realtà: “Comunque in quest’isola non c’è elettricità, non ci sono televisori ad Alicudi”. Nella scena successiva si vede Gerardo correre come un forsennato su un viottolo dissestato per riuscire a prendere il traghetto che lo porterà nella cosiddetta civiltà. La televisione trasmette il nulla? come dice Hans Magnus Enzensberger. Non capisce niente. Come fa Gerardo a vivere senza televisione? Come fanno gli intellettuali dell’epoca? Come possono liberarsi di un elettrodomestico ormai entrato nelle coscienze degli italiani? Non ci riesce neanche Gerardo che era animato da buone intenzioni, essendo vissuto per oltre undici anni in isolamento. Non c’è isola che tenga. Le ha girate tutte con l’aiuto dell’amico Moretti, ma alla

fine ha dovuto capitolare e fuggire. Fuggire per poi ritornare a vivere nelle luccicanti gabbie della civiltà del consumo. “La televisione non corrompe i bambini, anzi i bambini sognano a occhi aperti come una volta con le fiabe” giustifica con queste parole il suo salto nell’altro mondo, quello della terraferma.

Il mondo della terraferma è effimero, superficiale. Anche la scienza e alcuni medici sembrano infettarsi di questo atroce

virus dei tempi. Nell’ultimo episodio, Medici, Moretti racconta della sua odissea, vissuta realmente, e in parte filmata dalla vita reale, alle prese con un linfoma di Hodgkin, diagnosticato dopo un’infinità di consulti, pareri e cure completamente inutili. Anche in questo caso, malgrado la gravità della sua malattia, il racconto è ironico, semplice e in piena leggerezza narrativa. “Nulla di questo capitolo è inventato” tiene a precisare Moretti. Medici e medicine a volontà del tipo che se non fosse tragico sarebbe ridicolo. Ricette con tantissimi farmaci come se fosse l’elenco dei calciatori della serie A. Poi i vaccini, i cinesi che gli consigliano finalmente dei controlli al torace, l’agopuntura. Alla fine dopo numerose peripezie il suo prurito viene classificato come linfoma. “Una cosa però l’ho imparata da questa vicenda. I medici sanno parlare ma non sanno ascoltare e ora sono circondato da tutte le medicine che ho accumulato nel corso di un anno”.

Caro diario (1993) Regia, soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti Fotografia: Giuseppe Lanci Montaggio: Mirco Garrone Musiche: Nicola Piovani Scenografia: Marta Maffucci Interpreti: Nanni Moretti: Nanni Renato Carpentieri: Gerardo Antonio Neiwiller: sindaco di Stromboli Claudia Della Seta: donna seconda coppia Lorenzo Alessandri: uomo seconda coppia Raffaella Lebboroni: donna prima coppia

Marco Paolini: uomo prima coppia Moni Ovadia: Lucio Riccardo Zinna: abitante di Alicudi Jennifer Beals: se stessa Alexandre Rockwell: se stesso Conchita Airoldi: abitante di Panarea Giulio Base: automobilista al semaforo Giovanna Bozzolo: attrice Sebastiano Nardone: attore Roberto Nobile: ultimo dermatologo Antonio Petrocelli: attore Oreste Rotundo: radiologo Umberto Contarello: assistente medici cinesi Gianni Ferraretto: principe sostituto Pino Gentile: allergologo Sergio Lambiase: secondo dermatologo Franco Lucarelli: tecnico radiologo Valerio Magrelli: primo dermatologo Carlo Mazzacurati: critico cinematografico Yu Ming Lun: medico cinese Serena Nono: riflessologa Mario Schiano: principe dei dermatologi Italo Spinelli: muretto di Spinaceto Tou Yui Chang Pio: medico cinese Gianfranco Mecacci: a Casal Palocco durata: 100 minuti

Nell’episodio In Vespa è presente un cameo dell’attrice Jennifer Beals, di cui Moretti tesse le lodi e che vede comparire mentre passeggia lungo le mura di Porta Metronia in compagnia del regista Alexandre Rockwell, all’epoca suo marito. Un altro cameo, sempre nello stesso episodio, è quello del regista Carlo Mazzacurati, che veste i panni di un critico cinematografico assalito dai rimorsi per aver scritto recensioni lusinghiere di alcuni film, quali Henry, pioggia di sangue, Il pasto nudo, Cuore selvaggio e altri.

8. Il parto di un ragazzo fortunato

Cinque anni dopo Caro diario, la scatola nera di Nanni Moretti abbandona il racconto dell’io per abbracciare il noi. Noi abitanti di un paese in subbuglio politico, noi genitori alle prese con un figlio. Doppia linea narrativa. Il film è Aprile che si apre, da una parte, con il discorso del giornalista Emilio Fede che annuncia la vittoria di Berlusconi nel 1994, dall’altra c’è l’impegno che il regista prende per la cura del figlio Pietro. Pubblico e privato. Ecco la doppia linea: il regista che pensa di girare un film su Berlusconi e che poi cambia idea per fare posto a un musical (ci risiamo), e Moretti padre. Il nuovo capitolo di Moretti dedicato alla società italiana si occupa di giornalismo. “Mi accorgo che i giornali sono uguali e soprattutto usano e scambiano sempre gli stessi giornalisti. C’è quello che scrive di politica su un quotidiano, di cinema su un settimanale di sinistra e di letteratura su un mensile di destra, c’è quell’altro che scrive contemporaneamente sul Corriere della Sera, sul settimanale femminile e sul mensile delle Ferrovie dello Stato e naturalmente vignette e satira politica ovunque, perché la satira non ha padrone, quindi sta bene su ogni padrone, insomma un unico grande giornale”.

Tutti fanno tutto e naturalmente con estrema superficialità. Anche i giornalisti che dovrebbero raccontare il presente con attenzione. La critica di Moretti al mondo dell’informazione è calzante. Una denuncia troppo severa? Il malessere della società di quegli anni disegnati dalla presenza ingombrante di Berlusconi e delle sue televisioni, è diffuso. Tra i politici, ma anche tra i giornalisti che dovrebbero raccontare con sapienza ed equilibrio il contemporaneo, molti dei quali generazione sessantotto, c’è disagio, inquietudine. I giornalisti poi sembrano aver dimenticato l’impegno di una volta. Il film esce nel 1996 quando la coalizione politica dell’Ulivo, guidata da Romano Prodi, interrompe l’impero di Berlusconi. È aprile e il titolo del film è un evidente omaggio alla vittoria del centro sinistra. Un insolito Moretti sente il bisogno di andare a Hyde Park dove tiene un discorso. Lo fanno tanti mattarelli perché non può farlo il regista che stava girando un film su Berlusconi? “Per noi italiani di sinistra il modello deve essere l’Emilia Romagna, la regione in cui ci sono i migliori asili del mondo, i migliori ospedali…”. A Londra Moretti ha dimenticato la notte del 28 marzo 1994 quando vinse la destra. “Per la prima volta in vita mia mi feci una canna”. È davanti al televisore con la mamma. La canna è in realtà un cannone, una canna gigantesca. Ne aveva bisogno per ammortizzare l’atroce delusione. In televisione appare il volto sorridente e suadente di Berlusconi. Sta parlando agli italiani. “… Mio figlio all’asilo quando gli hanno chiesto che mestiere faceva suo padre aveva detto: mio papà aggiusta le televisioni. Adesso dovrò spiegare a mio figlio che papà non avrà più tempo di aggiustare le televisioni perché probabilmente dovrà aggiustare l’Italia”. L’io politico di Aprile non risparmia neanche D’Alema, leader della sinistra. “Che tortura questa campagna elettorale, speriamo che finisca presto”. Sta seguendo un dibattito a stare Porta a Porta. Tra gli altri ci sono Berlusconi e D’Alema. Berlusconi attacca i giudici. “D’Alema reagisci… di’ qualcosa… reagisci… dai di’ qualcosa, D’Alema rispondi, non ti far mettere in mezzo sulla giustizia proprio da Berlusconi,

D’Alema di’ una cosa di sinistra, di’ una cosa anche non di sinistra, di’ qualcosa… una cosa… reagisci!”. È irritato.

È invece impaurito il suo io quando si deve occupare di suo figlio. Se ne occupa quando è ancora nella pancia della madre. “Stamattina la pancia era più su, è un po’ scesa?” “Forse sì”. “Come forse sì? … Pietro? Pietro? È il papà che ti parla, ho bisogno ancora di un mese e mezzo, dammi ancora un mese e mezzo devo ancora fare quel documentario sulle elezioni. Ti ricordi?”. Poi s’informa sulle varie fasi del travaglio, sulle contrazioni e sul parto con evidente nervosismo, giocando con il libro di Yehoshua e con il telefono leggero di Giugiaro. Linda, la moglie di Moretti, è tranquilla al contrario di Nanni che si sente come un atleta in attesa di giocare la finalissima. “La cosa importante è non farsi prendere dal panico” dice Linda. Moretti replica: “Io senz’altro mi faccio prendere dal panico”. “ Tu mi devi fare coraggio”. “E a me chi fa coraggio” rivela Moretti in questo divertente siparietto che mette in evidenza quella piccola variante dell’io privato fatta di tenerezza e di sottile gelosia per la madre di Pietro. Lo stesso morbido affetto che Moretti mette in scena nel bagnetto del piccolo. “Sono un ragazzo fortunato” canta sulla canzone di Jovanotti. C’è Pietro con la sua magnifica e gigantesca presenza, che vuoi che sia quella politica così indecente. È un paese senza memoria, deve riflettere su se stesso, è il consiglio di un giornalista francese. Un amaro consiglio per il nostro regista che cerca di allontanare le macerie di etica politica del nostro paese virando verso un musical. Il ballo come gioia, leggerezza, divertimento, comunione. S’intitola “Un pasticciere trotzkista nella Roma degli anni Cinquanta”. Ricordate? Una vecchia idea avanzata anche in Caro diario. La musica è latinoamericana. La scena è esilarante. Silvio Orlando è un perfetto pasticciere. Canta, balla circondato da ballerine e ballerini tutti gioiosamente vestiti da “donzellette”. C’è un verso della Divina Commedia, nel IX Canto del paradiso, che recita: “S’io m’intuassi come tu m’inmii”, ossia se io potessi entrare in te come tu entri in me. Il termine intuarsi è perfetto per

descrivere il senso di empatia. Non a caso uno scienziato italiano Vittorio Gallese l’ha indicato per esprimere quel senso di empatia attivato dai neuroni a specchio. Scrive lo scienziato: “Questo intuarsi implica per l’io la possibilità di connettersi al tu senza perdersi in esso, attribuendo all’altro azioni, emozioni e sensazioni che tuttavia l’io conosce in quanto parte della propria esperienza vitale”. Una perfetta descrizione per questo musical costruito a immagine e somiglianza della regista del film nel film e di Moretti.

Tanti colori investono l’immagine del musical mentre un nastro, tipo quelli che negli aeroporti trasportano le valigie, fa girare torte e pasticcini in gran quantità. Sullo sfondo il regista e la troupe che durante le riprese accennano passi di danza. È la scena finale. Gli dèi che sorvolano il nostro paese si sono

ammalati con le penose vicende politiche nazionali, ma ora sono guariti. Guardano il nostro mondo con occhi diversi. Sono tornati ad allegrare l’umanità. Ballano.

Aprile (1998) Regia e sceneggiatura: Nanni Moretti Fotografia. Giuseppe Lanci Montaggio: Alberto Nicolini Scenografia: Marta Maffucci Interpreti (tutti interpretano se stessi): Nanni Moretti Silvio Orlando Silvia Nono Pietro Moretti Agata Apicella Moretti Nuria Schoenberg Silvia Bonucci Quentin de Fouchécour Renato De Maria Daniele Luchetti Nicola Piepoli Corrado Stajano Angelo Barbagallo durata: 78 minuti

Vengono citati diversi capolavori contemporanei, in particolare Strange Days di Kathryn Bigelow, definito da Moretti “una cazzata memorabile”.

9. Si muore per poter vivere

L’io politico di Moretti torna in scena otto anni dopo con Il Caimano, apologo tragico sulla “monarchia” di Berlusconi. Prima, nel 2001, torna a narrare della famiglia, alle prese con la prova più dura e violenta della vita: la morte di un figlio. Il film è La stanza del figlio. Un tema delicato, pieno d’insidie dove è facile sconfinare nel melodramma, ma Moretti evita tutte le trappole possibili con estrema leggerezza facendo identificare tutti i genitori spettatori, apprensivi e non, con i due genitori del film. I critici cinematografici hanno ricordato numerosi scrittori e registi che in qualche modo, hanno ispirato Moretti nell’intraprendere con lucidità il tema della morte. Certamente Kieslowski, sicuramente Mc Ewan nello sgretolamento dei rapporti tra il padre e la madre. In questo film l’io di Moretti diventa altro, restando in verità sempre se stesso. Non è più Michele, studente e poi professore, non è più Moretti regista e poi padre. Ora è Giovanni psicoanalista. Un torturatore delle menti, un muratore dell’inconscio. Cosa c’è di più difficile per uno psicoanalista nel cercare di mettere ordine nella propria scatola mentale dopo un dolore così insuperabile? Ne ha riparate tante di scatole mentali altrui, ora tocca alla sua. La guarigione più difficile. Per questo Moretti ha voluto uno strizzacervelli (“Erano anni che volevo interpretare uno psicoanalista”) in questa famiglia che oltre al figlio maschio vede anche una figlia femmina e la madre, dolce e affettuosa. Una famiglia “normale” come tante, alle prese con le inquietudini dei figli adolescenti. Vivono ad Ancona, una piccola città. Moretti abbandona Roma

probabilmente perché in una grande città il dolore più forte rischia di disperdersi, al contrario Ancona sembra rappresentare con più forza una comunità in grado di partecipare al dolore. Una famiglia normalmente felice prima dell’incidente, una famiglia disperata dopo la morte di Andrea.

La famiglia felice è in auto. Padre e madre davanti, i figli dietro. Stanno ascoltando una vecchia canzone di Paolo Conte cantata da Caterina Caselli “Insieme a te non ci sto più”. Le parole della canzone sembrano anticipare i tempi. “Chi se ne

va che male fa? / E quando andrò /devi sorridermi se puoi, /non sarà facile /ma sai si muore un po’ per poter vivere… /Arrivederci amore ciao, /le nubi sono già più in là…”. Quando gli eventi si spiegano dolorosi la musica cambia. Entra nel film quella di Michael Nyman che Giovanni sta ascoltando. A modo suo. Con nevrosi. Con il telecomando la interrompe per poi farla ripartire allo stesso punto dopo pochi secondi. Lo fa all’infinito come per ricordare, per non dimenticare, o anche per allontanare il dolore facendolo ripetitivo. La musica irrompe con forza nella casa. Investe il dolore sommesso della moglie, seduta a testa bassa sul lettino della stanza del figlio, colpisce la figlia mentre sta studiando nella sua stanza. Spezzoni di musica, spezzoni di ricordi. Quelli passati con il figlio a correre. Un frammento di antica felicità. Tutti in casa soffrono. Ognuno secondo la propria personalità. Le scene del dolore sono malinconiche: la telefonata non riuscita di Giovanni in ospedale, l’incontro con il padre dell’amico del figlio, l’arrivo dei compagni di scuola mentre sta decidendo le formalità del funerale, l’arrivo del copri bara mentre sono tutti davanti al feretro, il bacio della sorella, il bacio di Giovanni. Scene angoscianti come quelle che sembrano presagire l’atto violento della morte. Mentre Andrea sta per iniziare quella che sarà la sua ultima immersione in mare, la madre è al mercato e viene inavvertitamente strattonata da un probabile ladro in fuga, come accade alla sorella sul motorino. Giovanni invece è in auto, è distratto ma il clacson di un camion nella corsia opposta gli evita possibili pericoli. Piccoli segni di una tragedia che si sta per compiere. Quando la tragedia si compie tutto perde di significato e il matrimonio comincia a sgretolarsi. Anche la professione di Giovanni non è più quella di prima. “Certi pazienti non riesco più ad ascoltarli, non ascolto nemmeno quello che dicono, con altri invece sono troppo coinvolto come se fossi al loro posto, ora certo non li sto aiutando, non sto aiutando nessuno…”. Nella camera da letto della casa Giovanni è ai piedi del letto e

sta parlando con la moglie, semidistesa sotto le coperte. Tenta di rincuorarlo. “Forse hai ricominciato troppo presto” dice con affetto. Sa che non ci sarà mai il tempo giusto per dimenticare, per alleviare il dolore. Lo sa, sente sul suo cuore un macigno che non riuscirà mai a sollevare, ma spera che almeno Giovanni possa incamminarsi su una strada meno tortuosa. Non è ancora il momento. Non è il momento neanche quando i “reduci” della famiglia si trovano di fronte al mare, accompagnati dalla musica di Brian Eno. La carrellata del pullman che si allontana li riprende mentre vagano sulla spiaggia ognuno per proprio conto. Sono comunque vicini. Non è il momento della guarigione che non ci sarà mai, ma sono i primi segnali di un lento ritorno alla vita. È la scena finale del film. La famiglia è disperata, ma solo restando insieme, padre, madre e sorella possono continuare a esistere.

La stanza del figlio (2001) Regia e soggetto: Nanni Moretti Sceneggiatura: Linda Ferri, Heidrun Schleef, Nanni Moretti

Fotografia: Giuseppe Lanci Montaggio: Esmeralda Calabria Musiche: Nicola Piovani Interpreti: Nanni Moretti: Giovanni Laura Morante: Paola Jasmine Trinca: Irene Giuseppe Sanfelice: Andrea Sofia Vigliar: Arianna Renato Scarpa: il preside Roberto Nobile: il prete Silvio Orlando: Oscar Stefano Accorsi: Tommaso Stefano Abbati: un paziente Dario Cantarelli: un paziente Paolo De Vita: papà di Luciano Roberto De Francesco: commesso del negozio di dischi Claudio Santamaria: commesso del negozio di articoli subacquei Antonio Petrocelli: Enrico Lorenzo Alessandri: papà di Filippo Alessandro Infusini: Matteo Silvia Bonucci: Carla Marcello Bernacchini: Luciano Alessandro Ascoli: Stefano Emanuele Lo Nardo: Filippo durata: 99 minuti

10. Gli uomini liberi

Nel 2006, anno di uscita de Il Caimano la maggior parte degli abitanti del nostro Paese ha la sensazione di vivere la cosiddetta libertà perfetta, quella che sembra darti la possibilità di poter fare ogni cosa senza sapere che cosa esattamente si deve fare. Il “monarca” Berlusconi governa dal 1995 e continuerà a farlo, con alcuni vuoti, fino al 2011. Ha “immobilizzato” la nazione con le sue televisioni e giornali e ha imperato per anni contrastato solo da qualche mente illuminata e da alcuni magistrati coraggiosi. In realtà Moretti analizza, com’è suo costume, non tanto il leader della destra quanto i danni inferti dal suo governo e dalle sue televisioni. A Moretti interessano quei cittadini che si sono fatti abbindolare, che credono alle sue parole e che cercano di imitare i suoi comportanti. Il Caimano è un film sul berlusconismo, sul consumismo irrefrenabile della merce e delle idee. Il racconto del film vede un produttore cinematografico di serie B in un momento difficile, sia professionalmente che umanamente. È sull’orlo del fallimento e il suo matrimonio sta andando in pezzi. La sua unica àncora di salvezza sembra essere il copione di una giovane regista, Teresa, che vorrebbe girare un film, intitolato Il Caimano sulla vita di Berlusconi. C’è da trovare l’attore. Seduti sul divano il produttore e la giovane regista da una parte e l’attore famoso (interpretato da Michele Placido) dall’altra in vestaglia. “Una bella idea” dice. Poi riceve una telefonata e risponde: “Bella mia! Dove t’eri cacciata? Senti… dove sei… che vuoi fare? Vuoi venire a casa?”. La scena è esilarante. I due inizialmente sorridono compiaciuti. L’attore famoso si mette una mano davanti alla bocca per non farsi sentire, inutilmente. “Sto con degli amici, prendi un taxi…”. Si alza dal divano e cerca di scomparire

dalla scena. Continua a parlare al telefono. “Quando hai preso il taxi, levati le mutandine, senza farti vedere dal tassista, anzi fai una cosa: fatti vedere, appena appena, anzi… sono indeciso… l’ultima volta non è andata bene. Io ho fatto montare nella camera da letto sul soffitto uno specchio gigantesco…”. Il produttore spiega alla giovane regista: “Lui è fatto così, scanzonato, è perfetto per il film, quasi sessant’anni non ha una ruga…”. Problemi per ingaggiare il grande attore ma anche per le comparse. “Novecento comparse? Ma sono troppe, non ci sono i soldi”. È difficile anche ricostruire una casa vistosa, un po’ cafona. Con i pochi soldi a disposizione la regista viene informata che tutto si può fare a metà. Metà ambienti, metà piano di lavorazione, metà comparse, metà pellicola. La metà di tutto. Dal privato al politico perché il film, almeno per alcune scene, va avanti. C’è l’entrata in politica di Berlusconi, spiegata in modo netto e lineare. L’accusa: “Lei lo sta facendo soltanto perché la sua azienda ha 5mila miliardi di debiti e i giudici stanno per arrivare ai conti all’estero. Lei vuole entrare in politica perché sennò andrebbe in galera”. E poi: “Tutti quei soldi caduti dal cielo da dove vengono?”. Il movimento del denaro e dei titoli di stato che attraverso San Marino, si trasformano in denaro contante. Il capo della Guardia di Finanza che invece di arrestare i ladri, passa al nemico. Il denaro va all’estero in conti segreti. Ma Berlusconi non batte ciglio. “Preferivate la tv di Stato con due canali grigi e con i programmi che finivano alle undici di sera e con quelle ballerine tutte vestite. Era questo che volevate? Hanno cercato di fermarci, hanno cercato di oscurarci ma noi li abbiamo fermati e non lo abbiamo fatto per me, l’ho fatto per voi, perché voi aspettavate tutto questo da anni” dice mentre sculettanti ballerine si muovono al ritmo di una musica da facile ascolto. È la filosofia di Berlusconi, secondo Moretti. È il berlusconismo imperante tra i nostri concittadini che ormai ha infettato tutti gli angoli della nostra società. Ha cambiato la testa dei nostri connazionali, un processo iniziato venti anni prima con i garruli programmi delle sue televisioni.

La scena finale del film che il produttore di serie B sta girando è inquietante. Porta i suoi figli alla visione. È bene che le nuove generazioni siano presenti, sembra dire il regista.

Berlusconi ora è Moretti. È in tribunale. “Non sono un’anomalia, l’anomalia in Italia sono i comunisti e l’odio verso me. Il loro uso politico della giustizia è l’anomalia italiana”. Non risponde alle domande del magistrato. Non ha tempo, dice. Viene condannato a sette anni. Scontro silenzioso con il magistrato (Ilda Boccassini interpretata da Anna Bonaiuto) poi l’uscita dal Palazzo con dichiarazioni da dittatore del Sudamerica. “La casta dei magistrati vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori. Direi che è arrivato il momento di fermarli. Con la mia condanna la nostra democrazia si è trasformata in un regime”. Poi la minaccia: “Tutti gli uomini liberi come voi hanno tutto il diritto di resistere”. Se ne va in auto. I giudici escono dal Palazzo e provano a scendere dalla scalinata. Vengono travolti da fischi e urla e grazie ai carabinieri vengono protetti da lanci di sassi e molotov. Sono i bagliori di una rivolta contro quei giudici che, nel rispetto della legge, hanno condannato il “prescelto” dal popolo. Il volto di Moretti/Berlusconi, in primo piano, mentre ritorna a casa in auto, con una espressione dura, allarmante e vendicativa. Il nero sulla sua faccia chiude il film lanciando agli spettatori strali di angoscia sul futuro prossimo. In quest’opera l’io di Moretti sembra aver lasciato il posto all’io di Berlusconi, al suo inconscio da dittatore. In realtà l’inconscio è una metafora flessibile che si può applicare al singolo che alla società in cui vive. Ed è stata questa l’operazione fatta da Moretti. Non ha soltanto messo in immagini un leader politico, il suo io, per raccontare la parabola di un imprenditore prestato alla politica per salvare i suoi interessi, ma anche la dispersione dell’io, del suo ego, che non è sordo a se stesso altrimenti verrebbe calpestato ma in perfetta sintonia con il popolo che lo ha votato e applaudito. In questo caso l’io di Moretti-Berlusconi potrebbe assomigliare a quello di Michele professore. Ma solo in parte. Il Michele professore di Bianca diventa un assassino a fin di bene, se così si può dire. Gli altri non rispettano le regole etiche della società. E così, dopo inutili tentativi di cambiare le cose, uccide, per ristabilire l’ordine costituito delle leggi morali. Il suo io chiude i rapporti con il tu e con il voi. L’io

Moretti/Berlusconi, al contrario, apre a dismisura i collegamenti con il tu e con il voi, cerca di portare sotto la propria ala protettrice la maggior parte degli italiani. Ci riesce ma non si accontenta. Il suo ego smisurato non permette che alcuni giudici e una piccola parte della società gli sia contro. È irritato, il suo io è così convinto di fare il bene agli italiani, che non capisce come sia possibile che ci siano persone che non lo amano. Non è più l’inconscio a entrare in campo ma la sua coscienza, quella che il filosofo Alva Noe, la fa assomigliare più alla danza che alla digestione. È l’esterno che la muove. “Somiglia all’immagine di un’orchestra che suona da sola” scrive Noe. L’io di Moretti/Berlusconi è la prova d’orchestra di un tentato colpo di Stato. La critica di Moretti regista indirizzata alla società italiana è sempre più stringente e sostanziale.

Il caimano (2006) Regia: Nanni Moretti Soggetto: Nanni Moretti e Heidrun Schleef

Sceneggiatura: Nanni Moretti, Federica Pontremoli, Francesco Piccolo Fotografia: Arnaldo Catinari Montaggio: Esmeralda Calabria Musiche: Franco Piersanti Interpreti: Silvio Orlando: Bruno Bonomo Margherita Buy: Paola Bonomo/Aidra Jasmine Trinca: Teresa, giovane regista Michele Placido: Marco Pulici / Silvio Berlusconi Elio De Capitani: Silvio Berlusconi Paolo Sorrentino: il marito di Aidra in “Cataratte” Paolo Virzì: dirigente maoista in “Cataratte” Giuliano Montaldo: Franco Caspio, anziano regista Tatti Sanguineti: Beppe Savonese, critico cinematografico Toni Bertorelli: Indro Montanelli Lucia Aricò: Marika la sceneggiatrice Nanni Moretti: se stesso / Silvio Berlusconi Jerzy Stuhr: Jerzy Sturovsky, produttore polacco Matteo Garrone: direttore della fotografia Luisa De Santis: Marisa, segretaria di Bonomo Anna Bonaiuto: Ilda Boccassini Valerio Mastandrea: Cesari, capitano della Guardia di Finanza Antonio Catania: dirigente Rai Sofia Vigliar: baby-sitter Cecilia Dazzi: Luisa Carlo Mazzacurati: cameriere

Antonio Petrocelli: avvocato del caimano Dario Cantarelli: critico gastronomico durata:112 minuti

11. La balena di Melville Dalla monarchia di Berlusconi a quella del Papa il passo è breve. Breve fino a un certo punto perché dopo Il Caimano Moretti distribuisce agli spettatori Habemus Papam cinque anni dopo. È la storia del cardinale Melville che viene eletto Papa, ma prima ancora che venga proclamato ha un attacco di panico e non riesce ad affacciarsi su piazza San Pietro. Il conclave resta in clausura e Melville, in forte stato di depressione viene affiancato da uno psicoanalista, un luminare. Il ruolo è interpretato da Nanni Moretti. Il regista torna così a interpretare lo psicanalista dopo La stanza del figlio. In questo caso non dovrà occuparsi di se stesso ma dell’uomo che rappresenta il riferimento più alto del mondo cristiano e non. Dovrà occuparsi del Papa che non si sente in grado di sostenere il ruolo che gli è stato affidato. “Io sento di essere tra coloro che non possono condurre ma essere condotti. In questo momento posso dire soltanto: pregate per me, la guida di cui avete bisogno non sono io, non posso essere io”. L’io di Berlusconi così tenace e così stupidamente sicuro di condurre l’Italia a sua immagine e somiglianza è in forte contrasto con l’io del cardinale Melville, così colto e così tormentato da dubbi che solo un’anima di estrema intelligenza può possedere. Può una persona istruita, sapiente fare il Papa? si chiede in questo film Moretti. Può essere il capo di un’umanità gigantesca e diversissima? Può essere in grado di consigliare, indirizzare e consolare le anime perdute? L’io del cardinale che non vuole fare il Papa non lo permette. Il suo io ha paura. Ha una radice interna, forte e radicata da anni di

studi, ma l’interiorizzazione del suo ruolo sociale, il capo della Chiesa, complica la situazione. L’occasione di un cardinale che non vuole essere Papa diviene per Moretti la possibilità di raccontare il Vaticano e i suoi abitanti. Di riportare lo stile di vita dei cardinali in conclave in attesa delle decisioni del papa eletto. Un’indagine dal di dentro con venature ironiche di estrema leggerezza, com’è costume del regista. Il primo incontro dello psicoanalista con i cardinali che hanno deciso di chiamarlo perché non sanno a che santo votarsi è decisivo. “I cardinali sono disponibili a chiedere il sostegno della psicoanalisi nonostante il naturale scetticismo che lei senz’altro immaginerà”. E ancora: “Il concetto di anima e inconscio non possono assolutamente coesistere”. La risposta è laconica: “Vabbè, ora vediamo”. Finalmente l’incontro con il Papa. “Buongiorno, come va? Come si sente?”, “Scusi…non so cosa dire”, “Non si preoccupi…bene cominciamo…”. I due sono letteralmente circondati dai cardinali. Moretti psicoanalista chiede gentilmente di essere lasciati soli. Nessuno se ne va. Prova a iniziare la seduta con il conclave in ascolto. Non ci riesce. Non c’è intimità o almeno lo strizzacervelli pensa che non ci sia. Si alza e chiede al cardinale decano: “Immagino che io non possa chiedere…”,”No” è la risposta immediata. “Immaginavo che di sesso non si poteva… un accenno alla mamma?”, “In questo momento potrebbe risvegliare episodi lontani…”, “Appunto!”, “No”, “E affrontare fantasie e desideri non realizzati?”, “No”, “Qualcosa dell’infanzia?”, “Con molta discrezione”, “ I sogni invece sì?”, “Dipende dai sogni, comunque no, meglio di no”, “Perfetto, grazie” e si siede nuovamente davanti al Pontefice per iniziare la seduta. Gli fa l’occhietto. “Senta, ha problemi con la fede?”. In realtà il Papa non ha problemi di fede, si sente solo inadeguato al ruolo. Fa i conti con la propria fragilità.

In questo breve dialogo tra lo psicoanalista e il cardinale decano c’è un riferimento ai temi toccati dal cinema di Moretti dal 1976: il sesso, la mamma, l’infanzia, le fantasie, i desideri, i sogni. Manca l’amicizia e l’insegnamento ma c’è una buona parte delle cose amiche che incontriamo nel corso di una vita. Una buona parte per le quali vale la pena vivere. Come può

riuscire uno psicoanalista, anche se bravissimo, a sollevare la depressione del Papa se non può affrontare questi temi? I cardinali gli sono contro. Probabilmente non credono che un muratore del cervello possa scavare nella scatola nera di un timorato di Dio, tanto più se quel credente è il pastore numero uno di quel gregge. Nelle scene successive lo psicoanalista ha un altro dialogo con il cardinale decano, quando si trova a formare le squadre di pallavolo per un torneo interno in attesa degli eventi. Si gioca a pallavolo per far passare il tempo. Lo psicoanalista fa l’arbitro, del resto appare l’unica persona che si trova tra le mura vaticane in grado di prendere decisioni. Partite finite dieci a zero, altre molto più combattute. Sono le più belle. La sfida rende più forti e giustifica il gioco della vita. Le squadre sono composte secondo la nazionalità dei cardinali: Europa A, Europa B (i cardinali europei sono più numerosi), Asia, Africa, America del Sud, Oceania ecc. Giocano in cortile come a scuola negli anni Settanta e indossano pettorine non appariscenti come si conviene a cardinali. ”Io non capisco perché non possiamo fare una squadra di soli italiani” si lamenta un cardinale. La risposta dell’arbitro psicoanalista non lascia speranze. “No, voi italiani giocate o nella squadra dell’Europa A o nella squadra dell’Europa B. Non mi scardinate questa griglia che ci ho lavorato tutta la notte”. Tutti partecipano con allegria e divertimento alle fasi del gioco. Anche la guardia svizzera addetta alla protezione del Papa. Vede schiacciate e alzate da una finestra e applaude abbandonando la visione della tv dove si trasmettevano importanti partite a biliardo. Improvvisamente tutti si fermano e guardano verso la finestra, la tenda si muove. “Il Santo Padre” sussurrano indicando la finestra. Dietro quella tenda in realtà c’è la guardia svizzera e la sua obbedienza nel far credere alla presenza del Papa. “Era un caso così interessante per me, ma sono pieno, ormai non posso far nulla” mente lo psicoanalista, ormai prigioniero, preferendo di gran lunga arbitrare un torneo così combattuto che indagare su un scatola nera che non collabora. Che non vuole collaborare malgrado ci sia un miliardo di persone ad aspettarlo. “Non si può fare che io scompaio, sparisco, tutto

questo non è mai accaduto, nessuno mi ha mai visto, nessuno mi vedrà più, lo prometto. Lasciatemi andare via, vi prego”. Vuole scomparire, vuole cancellare il suo io. È il sacrificio dell’io. Si dice in psicoanalisi che non si può sopprimere il doppio che ci cammina a fianco se non sopprimendo noi stessi e il cardinale Melville è su questa strada. Non si vuole incontrare perché sa che potrebbe incontrare ciò che non vorrebbe essere. Non vuole essere Papa, ma restare un umilissimo uomo. Vuole far dormire l’io che potrebbe guidare i fedeli e risvegliare l’io confuso ma intelligente che cerca, tra i gesti quotidiani della gente comune, il senso della vita. Esce dalla sua casa, la casa di tutti i fedeli, per attraversare Roma. Si perde tra le strade della città. È il suo desiderio quello di perdersi tra gli altri, tra la confusione dell’umanità. Ma è anche la consapevolezza di chi sa che non può servire Dio stando sulla sedia papale. Ha paura di non essere all’altezza del ruolo, anche se la sua fede è sempre forte e non vacilla. Il papa scompare mentre nella sua casa, nei cortili chiassosi e gioiosi dell’infanzia, finisce il torneo di pallavolo. Scrive Roberto Calasso ne Il libro di tutti i libri: “Saul si nascose tra i bagagli, in questo simile a Harpo Marx, perché era stato colpito dal terrore dell’elezione. Un terrore che la sua gente più di ogni altra avrebbe provato nella storia. Era il terrore del caso, della sorte che avrebbe potuto eleggerlo un attimo dopo (…) Il caso e il destino stavano per sovrapporsi in lui. Opprimente saldatura. Non avrebbe più respirato senza pensare a niente”. Lo stesso terrore che colpisce il papa. Lo opprime, non lo fa respirare, non lo fa vivere. Il Papa non vuole più stare sul treno, nascondersi tra i bagagli, e vedere la vita attraverso il finestrino. Non vuole soffermarsi sul proprio riflesso nel vetro, desidera che il treno non lo riporti a casa. Vuole scendere, muoversi da solo, tra i pericoli e i misteri dell’umanità. A piedi.

Il cardinale che viene eletto Papa si chiama Melville. Non un nome dato a caso. In questo film come del resto anche, in buona parte, negli altri, i nomi attribuiti ai personaggi arricchiscono di significati la personalità del personaggio. Melville è, come noto, lo scrittore americano di Moby Dick il

romanzo che porta la nave capitanata dal capitano Achab all’affondamento da parte di una balena gigante. Melville ha sempre amato l’avventura e l’ha raccontata benissimo nei suoi libri. Il Melville cardinale inizia a viaggiare quando fugge dal Vaticano. Inizia a conoscere tra i vicoli e le case della capitale. Se fosse rimasto sulla sedia papale, se avesse accettato il risultato dell’elezione, la sua comprensione del mondo si sarebbe sgretolata al primo grande ostacolo. Come la barca di Achab davanti alla balena.

Habemus papam (2011) Regia: Nanni Moretti Soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti, Francesco Piccolo, Federica Pontremoli Fotografia: Alessandro Pesci Montaggio: Esmeralda Calabria Musiche: Franco Piersanti Interpreti: Michel Piccoli: cardinale Melville / papa Nanni Moretti: psicoanalista Brezzi Renato Scarpa: cardinale Gregori Jerzy Stuhr: Marcin Raijski Franco Graziosi: cardinale Bollati Margherita Buy: psicoanalista, moglie di Brezzi Camillo Milli: cardinale Pescardona Dario Cantarelli: Dario Roberto Nobile: cardinale Cevasco Roberto De Francesco: attore teatrale

Gianluca Gobbi: guardia svizzera durata 102 minuti

12. I due corpi del re

Nel 2015 l’io di Moretti si sdoppia, due facce di se stesso. Diventa fratello e sorella, figli di una madre insegnante malata che si avvia serenamente verso la fine della sua vita. Il film è Mia madre. Giovanni, interpretato dallo stesso Moretti, è un uomo generoso e premuroso sia con la madre che con la sorella Margherita, interpretata da Margherita Buy, ansiosa e problematica. Fa la regista e sta girando un film sull’occupazione operaia di una fabbrica venduta a una multinazionale che vuole avviare dei licenziamenti. Giovanni e Margherita sono i due corpi, le due identità dello stesso io. Vivono nella quotidianità in attesa della morte. Nel film è quella della madre ma non è escluso che i “due” sentano nella ripetitività della vita qualcosa di ineluttabile. Sono fortemente legati, complici. C’è un’atmosfera di socialità tra l’io di Giovanni e quello di Margherita. Un io molteplice, come spesso è negli umani, con un ventaglio di significati, tutti riconducibili all’io del regista Moretti. Il doppio corpo sembra completarsi davanti al dolore della madre ricoverata in ospedale. La madre: “In questo posto sono tutti troppo intelligenti, ce ne vorrebbe qualcuno un po’ più scemo per risollevare un po’ il morale”. Giovanni e Margherita sono ai piedi del letto e stanno preparando per il pranzo. Giovanni: “Che vuoi dire mamma? Di chi parli?”. “Di tutti, tutti dicono devi fare così…”. Giovanni: “Ma sei in ospedale, così funziona”. “Che faccia brutta che ho oggi”. Giovanni: “Faccia brutta?”. Giovanni e Margherita insieme: “No”. È il momento in cui il doppio anche se per pochi secondi, si unisce e Giovanni diventa complice di Margherita o il contrario. In questa scena il doppio corpo è evidente: sono uno a destra e

l’altro a sinistra della madre e si muovono contemporaneamente. Come dire: il corpo spiega la mente, rivela quello che pensiamo, quello che penso. Giovanni poi, più pratico tra i due, si occupa del cibo. “Allora… pasta, pomodoro e basilico, però oggi pasta corta perché l’altra sera i tagliolini erano un po’ incollati, poi la spigola…”. La madre: “E le spine?”. Giovanni rassicurante: “Ho spinato tutto”. Margherita asserisce ed è contenta dell’attenzione del fratello, è soddisfatta che l’altro del doppio sia così diverso da lei. Ancora Giovanni: “Il sugo è ancora caldo, se controlli per piacere… parmigiano… ti metto un po’ di parmigiano… ecco partiamo!”. Il doppio è unito. Margherita e Giovanni sono la stessa persona. Sembra ricordare le parole di Parmenide con gli uomini a due teste “per cui l’essere e non essere è lo stesso e non è lo stesso”. L’immagine della madre malata ricorda le parole di Ungaretti: Alzerai tremante le vecchie braccia,/come quando spirasti/dicendo: Mio Dio, eccomi.

Seguendo la storia del film impariamo a vedere il doppio in modo separato. Margherita regista stanca di ripetere le stesse cose da anni, mentalmente ingabbiata da uno schema di vita che non cambia mai. Un sistema che scricchiola, vuole separarsi dal compagno Vittorio e i problemi adolescenziali e

scolastici della figlia Livia sembrano diventare ostacoli insormontabili. Non ha morbidezza di carattere. È indecisa, incerta e per questo si comporta con se stessa e con gli altri come una lama sottile pronta a verificare sentimenti e affetti. Margherita è davanti al cinema dove si proietta il film di Wim Wenders Il cielo sopra Berlino. C’è una fila chilometrica in attesa di entrare. La carrellata della macchina da presa l’accompagna alla scoperta degli anonimi spettatori. Non tutti. C’è sua madre che saluta e c’è anche suo fratello che improvvisamente esce dalla fila. “Margherita, fai qualcosa di nuovo, di diverso, rompi almeno un tuo schema, uno su duecento, non riesci ogni tanto a lasciarti andare, a essere un po’ leggera? Dai!”. Di nuovo si costituisce il doppio corpo. Giovanni, più razionale, invita Margherita ad alleggerire il suo stile di vita, a vivere con maggiore sobrietà. Poi Margherita continua la sua passeggiata abbandonando il corpo di Giovanni. Rimane solo il doppio mentale, le anime contrapposte della scatola nera di Moretti. I due corpi si sono momentaneamente allontanati. Margherita vive la sua vita privata come quella lavorativa. Il rapporto con Vittorio non funziona più. “Tanto lo sappiamo che è così, abbiamo già deciso, no?”. No, non l’abbiamo deciso, tu l’hai deciso”. Dal privato al pubblico, il suo modo di girare film, di fare il regista. “Ma perché continuo a ripetere le stesse cose da anni. Tutti dicono che io sia capace di capire la realtà. Io non capisco niente”. Poi le liti con l’attore protagonista americano (John Turturro bravissimo) e ancora gli scontri con la figlia adolescente. La sua testa è sospesa nel cielo come si conviene a un’artista ma con i piedi ben piantati in terra. In Margherita c’è il Moretti capace di cogliere dalla dispersione del molteplice l’identità dei simboli e liberarli. Con Giovanni, Moretti gioca con l’abituale cercando di evitare infrazioni, scossoni affettivi e sentimentali. Giovanni assume nella sua coscienza quel tanto di leggerezza che lo porta a non rispettare ordinati schemi di vita. Abbandona il lavoro per seguire la madre. Lo fa consapevole delle conseguenze ma con estrema levità. Due corpi separati. E quando il doppio corpo

s’incontra sembra di assistere a un monologo di Moretti davanti allo specchio. Al tavolo di un ristorante. “La poltrona reclinabile l’ho presa”, “ Va bè, quanto hai speso?”, “Non ti preoccupare”, “Ma dimmelo, facciamo a metà”, “Va bene poi te lo dico”, “Ho parlato anche con l’infermiera e abbiamo fissato gli orari”, “Erano quelli che avevamo pensato noi?” “Sì, sì le vanno bene”, “ Hai visto Vittorio?”, “Sì ci siamo salutati prima”, “Ieri in ospedale ci siamo fatti spiegare bene come dobbiamo fare con la bombola d’ossigeno, è abbastanza semplice”, “Ce la possiamo fare?”, “Sì…Vittorio ha detto delle cose tremende su di me”, “Come osa?”, “Mi ha detto delle cose terribili sui miei rapporti con gli altri… io ci ho pensato… erano così esatti, così giusti… anche come io tratto le persone. Ha ragione… però è strano perché nessuno me l’ha mai detto?… Me l’hai dette?”. Giovanni fa cenno di sì. “Perché mai non le ho capite?”. Coesistenza tra l’io e il tu. Il mondo si fa ampio perché comprende la visione di Giovanni e l’altrui idea del mondo e quella di Margherita che l’indirizza nel serbatoio rassicurante del fratello. È una delle scene più significative del film nel tratteggiare l’io di Nanni Moretti con evidenti suggestioni psicoanalitiche. Moretti comunque in questo film non abbandona il sociale e racconta attraverso la storia del film che sta girando Margherita la crisi industriale e lavorativa di un paese ormai comprato dalle multinazionali. A decidere i licenziamenti è un manager americano, un tipo che obbedisce ai suoi azionisti. È questo il futuro del nostro paese? Forse, chissà, certamente l’attore che occupa questo ruolo, pur dimenticando le battute, è un magnifico manifesto di ottimismo, un’impronta decisiva alla comprensione di anni difficili e complessi. Turturro che balla con la troupe alla fine della lavorazione e il valore affettivo e culturale che lascia la madre insegnante ai suoi studenti, sono l’esplosione narrativa di uno stupore sapientemente infantile e, nello stesso tempo, serbatoio essenziale per il corso della vita. Lo scrive Schopenhauer: tutto ciò che esiste per la conoscenza, e cioè il mondo intero, non è altro che l’oggetto in rapporto al soggetto… in una parola rappresentazione. Al centro della vita di Giovanni e Margherita c’è Nanni Moretti che costruisce

e abita con i due protagonisti sicurezze e incertezze, gioie e dolori, dubbi e certezze. È lo stile della sua complessa personalità d’artista.

Mia madre (2015) Regia: Nanni Moretti Soggetto: Nanni Moretti, Valia Santella, Gaia Manzini, Chiara Valerio Sceneggiatura: Nanni Moretti, Francesco Piccolo, Valia Santella Fotografia: Arnaldo Catinari Montaggio: Clelio Benevento Scenografia: Paola Bizzarri Interpreti: Margherita Buy: Margherita John Turturro: Barry Huggins Giulia Lazzarini: Ada Nanni Moretti: Giovanni Beatrice Mancini: Livia Stefano Abbati: Federico Anna Bellato: Attrice Lorenzo Gioielli: Interprete Enrico Ianniello: Vittorio Toni Laudadio: Produttore Tatiana Lepore: Segretaria di edizione Pietro Ragusa: Bruno Monica Samassa: medico Vanessa Scalera: infermiera Renato Scarpa: Luciano

durata: 106 minuti

13. Tre piani di leggerezza

Nella primavera del 2020 avrebbe dovuto uscire Tre piani, il tredicesimo film di Nanni Moretti, ma la pandemia, la diffusione del coronavirus e la conseguente chiusura dei cinema ne ha bloccato la distribuzione. Una causalità naturalmente, ma il tema del film che per la prima volta non affronta un soggetto originale di Moretti ma la storia del romanzo omonimo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo, si occupa di tre famiglie che vivono blindate nelle loro case e che nonostante abitino piani diversi del palazzo finiranno per incontrarsi e scontrarsi. La vita del condominio, quella che buona parte del mondo ha vissuto nella primavera del 2020. Il romanzo ambienta la storia a Tel Aviv, Moretti la trasferisce nella sua città amata: Roma. Anche in questo caso i protagonisti sono apparentemente normali. Ma come abbiamo visto nella filmografia precedente la normalità non è di casa nelle storie morettiane.

Tre piani e tre famiglie. Al primo vive una giovane coppia con due bambine, che a volte affida la maggiore agli anziani vicini di casa. Un giorno, però, l’uomo, affetto da Alzheimer scompare con la piccola per alcune ore finché i due vengono ritrovati in un frutteto. La storia è raccontata dal padre della

bambina, che sospetta che la figlia sia stata abusata. Al secondo piano vive una donna che si sente trascurata dal marito sempre in viaggio e che non si sente appagata dalla sua vita da casalinga. Un giorno si presenta alla porta il cognato, con cui il marito ha rotto da anni, che le chiede ospitalità perché ricercato da polizia e creditori. Questa storia è raccontata in prima persona dalla donna. Al terzo piano vive una giudice in pensione, rimasta vedova, che riallaccia i rapporti con il suo unico figlio. La storia è raccontata dalla giudice. Tre storie raccontate da tre protagonisti come fossero tre pazienti adagiati su un lettino dello psicoanalista pronti a spiegare i passaggi del proprio corpo e della propria mente. Storie che s’intrecciano, s’ingarbugliano come accade quando si tenta di far luce sulle numerose ombre che attanagliano la nostra scatola mentale. I tre piani del resto sono tre luoghi, i livelli psichici secondo Freud: l’es, l’io e super io. Il primo luogo è il serbatoio dell’energia vitale. È l’inconscio privo di ogni logica, è la parte oscura. Scrive Freud: “È tutto ciò che è ereditato, presente sia dalla nascita, stabilito per costituzione, innanzitutto le pulsioni che traggono origine dall’organizzazione corporea e che trovano qui, in forme che non conosciamo, un’espressione psichica”. L’es è nel film l’impulsivo Riccardo Scamarcio convinto che qualcosa di orribile sia accaduto alla sua bambina. Il secondo luogo è l’io che abbiamo attraversato, dal 1976 a oggi, in tutte le sue possibili direzioni grazie al regista Moretti e ai suoi numerosi protagonisti. In questo film l’io è quello interpretato da Alba Rohrwacher, una madre sola con un figlio appena nato che si divide tra istinti e razionalità. Tutto quello che avviene nell’io viene cercato nell’es. Cerca di mediare i possibili conflitti con il mondo esterno ma deve tenere conto della spinta travolgente del super io. Scrive Freud: “Spinto così dall’Es, stretto dal Super Io, respinto dalla realtà, l’Io lotta per venire a capo del suo compito economico di stabilire l’armonia tra le forze e gli impulsi che agiscono in lui e su di lui; e noi comprendiamo perché tanto spesso non ci è possibile reprimere l’esclamazione: la vita non è facile!”. Ne sa qualcosa Alba con un bimbo da crescere, sola e abitante di una “giungla

condomina”. Il terzo luogo è il super io, la psiche del controllo e del divieto. Chi poteva interpretare questa particolare istanza freudiana? La risposta è semplice: Nanni Moretti nei panni di un magistrato. Secondo Freud il super io nasce nel bambino, libero da qualsiasi principio morale, sotto la spinta dell’educazione dei genitori. Il giudice di Tre piani ha probabilmente vissuto un’infanzia di regole e divieti. La legge morale è nata e masticata dentro la sua casa. Ma solo un magistrato in età avanzata, può oscillare senza perdersi nei conclamati schemi di valore bene/male, giusto/sbagliato, buono/cattivo ecc. Un magistrato che è stato, in circa 45 anni di storie cinematografiche, studente, insegnante, professore, assassino, prete e psicoanalista. Un lento processo dell’io verso l’inevitabile super io. Il magistrato Moretti vuole essere soprattutto un super uomo nietzschiano che va oltre se stesso e crea nuovi valori e si rapporta, come dice Vattimo, in modo nuovo con la realtà. È il super uomo che stiamo aspettando, è la trasformazione di una società che non ci piace, è il desiderio di mettere ordine e tranquillità in un mondo confuso e caotico, regno apparente della connessione tecnologica ma arido deserto di sentimenti e respiri per una vita migliore. È l’augurio di Nanni Moretti gridato ad alta voce in questo film.

Tre piani (2021)

Regia: Nanni Moretti Soggetto: Eshkol Nevo Sceneggiatura: Nanni Moretti, Federica Pontremoli, Valia Santella Interpreti: Riccardo Scamarcio Margherita Buy Adriano Giannini Alba Rohrwacher Nanni Moretti Elena Lietti Denise Tantucci Alessandro Sperduti Anna Bonaiuto Tommaso Ragno Paolo Graziosi Stefano Dionisi

Bibliografia dei titoli citati nel testo

- Zigmunt Bauman, Amore liquido, Laterza. - Eugenio Borgna, Il tempo e la vita, Feltrinelli. - Eugenio Borgna, Di armonia risuona e di follia, Feltrinelli.

- Roberto Calasso, Il libro di tutti i libri, Adelphi. - Italo Calvino, Le città invisibili, Einaudi. - Sigmund Freud, Il disagio della civiltà, Feltrinelli. - Vittorio Lingiardi, Io, tu, noi, Utet. - Herman Melville, Moby Dick, Feltrinelli. - Alva Noe, Perché non siamo il nostro cervello, Raffaello Cortina. - Martin Heidegger, Parmenide, Adelphi. - Oliver Sacks, Ogni cosa al suo posto, Adelphi. - Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, Bompiani. - Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo. 106 poesie, Mondadori.

Crediti

Giovanni Scipioni Nanni Moretti. Immagini e speranze di una generazione

Una realizzazione Falsopiano/Fogli volanti secondo gli standard dell’International Digital Publishing Forum

ISBN 9788893042215

Progetto grafico: Studio MalaMente

Per l’immagine in copertina: Nanni Moretti, Aprile (1998)

L’autore e l’editore ringraziano Nanni Moretti e Sacher Film per l’amichevole disponibilità.

Tra i Fogli volanti

Jack London, Autobiografia alcoolica Edgar Wallace, Il cavallo grigio e la mosca assassina Oscar Wilde, Teleny Charles H. Hinton, Il re di Persia Edgar Wallace, La doppia vita di Kate Annie Vivanti, I divoratori Edgar Wallace, La melodia della morte Robert Louis Stevenson, Il Club dei suicidi Edgar Wallace, La maledizione del libro onnipotente Elinor Glyn, Quel certo non so che – It Elinor Glyn, Sei giorni Ambrose Bierce, Dizionario del Diavolo Jack London, I Servi di Mida Edgar Wallace, Il sindacato del crimine Honoré de Balzac, Il capolavoro sconosciuto Ambrose Bierce, Il Club dei parenticidi Jules Verne, Un biglietto della lotteria Umberto Boccioni, Taccuini futuristi Augusto De Angelis, Il Commissario De Vincenzi. Cinque inchieste Robert Louis Stevenson, La cassa sbagliata Augusto De Angelis, Il Commissario De Vincenzi. Quattro inchieste Filippo Tommaso Marinetti, Come si seducono le donne Marc Bloch, Apologia della storia Augusto De Angelis, La prima inchiesta. Il banchiere assassinato

Montesquieu, Riflessioni e pensieri inediti Henri Barbusse, L’inferno Augusto De Angelis, Il Commissario De Vincenzi. Il do tragico George Ohnet, Il padrone delle ferriere. Storia di Claire e Philippe Augusto De Angelis, Il Commissario De Vincenzi. Le sette picche doppiate Ethel Lina White, La scala a chiocciola Ethel Lina White, La signora scompare