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Italian Pages 248/274 [274] Year 2015
Collana diretta da Roberto De Gaetano
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ROBERTO DE GAETANO
NANNI MORETTI
Lo smarrimento del presente Nuova edizione aggiornata
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Frontiere. Oltre il cinema Collana diretta da Roberto De Gaetano Comitato scientifico Gianni Canova, Ruggero Eugeni, Pietro Montani
Proprietà letteraria riservata © 2015 Pellegrini Editore - Cosenza - Italy 1a edizione maggio 2011 Via Camposano, 41 - 87100 Cosenza Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672 Sito internet: www.pellegrinieditore.it E-mail: [email protected]
I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.
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It’s time that we began to laugh and cry and cry and laugh about it all again. Leonard Cohen
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INDICE
Introduzione pag. 9 Parte I » » » »
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La maschera, il personaggio, la figura » Il corpo e lo sguardo » L’attore e l’autore »
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La profondità e la superficie Senso, non senso, perdita di senso L’amore impossibile Il cliché e i travestimenti della realtà Parte II
Parte III Moretti e il cinema italiano La commedia grottesca La pena e il dolore La formazione incompiuta
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Parte IV Il caimano: un mondo senza fuori pag. 205 Habemus Papam, lo smarrimento del presente » 213 Mia madre o dell’essere-accanto » 223 Filmografia » 237 Indice dei nomi e dei film » 247
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INTRODUZIONE
Nanni Moretti è l’autore italiano che più di altri ha saputo leggere il presente, percepirne gli smarrimenti, rappresentarne le fratture, riconsegnarcene le maschere, private e pubbliche, che lo hanno attraversato e per molti versi composto. Da Io sono un autarchico a Mia madre, nel cinema di Moretti è in gioco una radicale crisi della presenza, della presenza del soggetto al mondo, che assume e prende le forme della nevrosi e dello spaesamento, e che trova o copertura nella costruzione di maschere esagerate, idiosincratiche, capaci comunque di cogliere profonde verità, o espressione, più di recente (Habemus Papam e Mia madre), in alcuni grandi personaggi attraversati da inquietudine, senso di inadeguatezza e profondo dolore. La perdita della presenza, nel cinema di Moretti, è data dallo smarrimento delle coordinate capaci di regolare le forme di vita ordinarie di un individuo o di una comunità, sia essa piccola (famiglia) o grande (società). Ma le cose in fondo sono indisgiungibili: non c’è da un lato qualcosa come un individuo che entra in crisi per fragilità psicologica, e dall’altro una società come insieme oggettivo e astratto di valori condivisi. Tutt’altro, non c’è processo di individuazione che 9
Nanni Moretti
non si misuri con una generalità di cui è specificazione, e non c’è generalità che non sia soggetta ai processi di modificazione, frutto della creatività individuale. Detto altrimenti: quello che è in gioco nel cinema di Moretti è il destino del soggetto borghese, sospeso fra libertà e vincolo, individualità e legame, pressione del simbolico e derive dell’immaginario. Ma questo destino non è e non sarà mai risolto, perché nelle forme progressive e radicali di insularizzazione sociale il simbolico non fa più da argine, e il soggetto deflagra nella frattura fra domanda illimitata e impossibilità di soddisfarla, per cui ciò che emerge è una inesorabile deriva, che porta ad una vera e propria destrutturazione dell’identità, divisa tra dolore, spaesamento, e “copertura” attraverso maschere. Lo smarrimento della presenza è il contrassegno di un presente senza passato, rimosso nevroticamente o cancellato (Palombella rossa), e senza futuro, sospeso tra inimmaginabilità e sovraccarico d’ansia, abitato solo dal dolore (Mia madre), dallo spaesamento (Habemus Papam) o dalla spudoratezza (Il caimano). L’inesperienza è la forma che prende un presente senza spessore, senza respiro né individuale né collettivo, sospeso fra nevrosi e vuoto. Ebbene, questo presente che manca a se stesso, perché non riesce a fuoriuscire da sé, da un lato sembra poter prendere consistenza solo nelle maschere, dall’altro trova invece nei personaggi del suo cinema più recente, dal cardinale Melville alla regista Margherita, gli “intercessori” piu potenti di una interrogazione dolente sul senso della vita e sul sentimento di inadeguatezza 10
Introduzione
che accompagna la percezione di non avere risposte. Le maschere, rispetto ai personaggi, sono fragili, per quanto nascondano questa fragilità ribaltandola in aggressione, trasformando l’inadeguatezza in affermazione di principi astratti, la parola indecisa in giudizio inesorabile. E in questo non lasciano spazio, aria, si modellano sulla faccia del soggetto, non riuscendo però a nascondere le sue ferite. E se senza maschera il soggetto si trova abbandonato al suo spaesamento (Silvio Orlando nel Caimano), alla sua inadeguatezza rispetto a compiti che lo sovrastano (Habemus Papam), al suo dolore rispetto alla morte (Mia madre), è proprio togliendosela che può determinare le condizioni per una qualche verità su se stesso, sul mondo, sulla vita. Con la maschera, il soggetto rende il dolore più duro e pietrificato, perché lo nasconde a se stesso, e dunque si preclude la possibilità di risolverlo. Togliendosi la maschera, il soggetto entra nel mondo, e sia pur in forma dolorosa fa i conti con se stesso, con i suoi limiti, con quelli della condizione umana; non si preclude la possibilità di essere felice, anche se la strada sembra essere ancora lunga. Non c’è sapere o fede che possa restituire fiducia nel mondo. E un mondo senza fiducia, o necessita di un filtro comico-grottesco per poter essere tollerato e portato a rappresentazione, o passa per il racconto dell’esperienza del dolore che all’improvviso ci colpisce, riconsegnandoci a tutta la nostra fragilità e inadeguatezza, ma anche al nostro scetticismo. Le maschere del presente sono quelle che saldano il presente alla sua assenza, che ne sanciscono il dissolversi dietro atti e posture che non fanno che 11
Nanni Moretti
nascondere dietro una logica imperativa (il dover essere di Michele Apicella) l’incapacità di aprirsi alla vita nella sua radicale contingenza e imprevedibilità, che può emergere anche in tutto il suo carattere doloroso, come in Mia madre, ma che è l’unica condizione per non mancare alla vita. L’incontro con un presente imprevedibile e non controllabile diventa la forma radicale con cui il personaggio abbandona la maschera, intraprendendo un viaggio doloroso ma più vero, e senza approdo garantito. Nelle forme idiosincratiche e aggressive della maschera di Michele Apicella, o in quelle spaesate ed inquiete, modellate sullo stesso privato di Moretti (Caro diario e Aprile), fino alla crisi di Margherita in Mia madre, passando per la spudoratezza del caimano/Berlusconi e l’inadeguatezza di Melville (Habemus Papam), il cinema di Moretti ha saputo mettere in immagine come nessun altro il dolore, la rabbia, lo sconcerto e il ridicolo di tutte le forme di sopravvivenza (nella sconfitta o nell’illusorio dominio) in un presente oramai smarrito. Un presente i cui saperi e i cui poteri sembrano franati. Dalla scuola (Bianca) alla chiesa (La messa è finita) al partito (Palombella rossa), dalla psicoanalisi alla religione e al loro incontro (Habemus Papam), non sembra esserci nessun possibile orientamento nella comprensione del mondo e della vita (Mia madre), per cui l’individuo nella sua fragile autonomia non può far altro che difendersi (aggredendo), godere di un presente dissolto, smarrirsi (senza sicurezza di ritrovarsi). Roma, aprile 2015 12
Parte I
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LA PROFONDITÀ E LA SUPERFICIE
Nel cinema di Nanni Moretti è in gioco qualcosa che, se da un lato risponde all’emergere di istanze contingenti, determinate e attuali (la gioventù, il disagio generazionale, l’impegno politico, la maturità, Roma, il presente), dall’altro tira in ballo problemi di carattere universale, riassumibili nell’idea della continua, fragile, infinita, allo stesso tempo drammatica e comica, ricerca del senso dell’esistenza; una ricerca radicalmente sociale, che mette in relazione – conflittuale piuttosto che armonica – l’io e gli altri, l’io e la società, come è tipico del nostro cinema. È il dramma comico di una soggettività smarrita nelle forme inautentiche della vita sociale, rispetto alle quali non sa stare dentro né rimanere fuori, né isolarsi né adeguarsi. Da questo si sviluppa tutto il teatrino grottesco del continuo distinguersi, attraverso il perenne riposizionamento rispetto a se stessi, agli altri, al mondo. È il movimento surplace di una maschera crudele e spietata, che non lascia spazio alla vita, lontana dalla cinica ribalderia di un istrionismo e camaleontismo infantile (sono le maschere di Carlo Verdone), che non accetta di risolversi nel vincolo sociale, ma non accetta neanche di eluderlo («Io credo negli uomini»), e che sembrerebbe trovare nella minoranza («Io credo in una minoranza») una 15
Nanni Moretti
possibilità, un’alternativa, prima di rendersi conto che è proprio nella minoranza, nei cliché di nicchia, che si annidano i pericoli maggiori: tutto sommato è molto meglio, per il suo potere agglutinante, la musica leggera, Flashdance, Il dottor Zivago, rispetto al linguaggio allusivo di tanta critica “alternativa”. Un soggetto smarrito fra la sua ridicola pretesa di assoluto, con la conseguente crudeltà “idealistica” verso se stesso, che definisce il grottesco della maschera (si aggredisce ciò che manca all’ideale, dimenticando che è l’ideale stesso la forma della mancanza e dell’aggressione), e il riconoscimento che di assoluto c’è solo la relatività dell’esistenza, lo sciogliersi gioioso della maschera nella libertà del personaggio nel romanzesco diaristico: Caro diario e Aprile. Al di là di questo, sembra rimanere soltanto la presenza lancinante del dolore e della morte nella trasposizione basso-mimetica della forma tragica che, come nel dramma borghese, può prendere solo le forme della disgrazia, sostitutiva, ma non del tutto, della colpa: La stanza del figlio. È un cinema, quello di Moretti, che nel suo raccontare il presente, anche nelle forme della sua radicale contingenza e attualità (che passa pure attraverso l’inserimento di materiali esplicitamente datati ed eterogenei alla finzione, come spezzoni di telegiornali, di dibattiti politici ecc.), è attraversato – e perfino implicitamente strutturato – da modelli profondi, che trovano un radicamento nella nostra tradizione cinematografica. Sono: 1) da un lato i modelli della commedia grottesca, che funzionano come formante tematico e stilistico per esagerare e caricare situazioni e masche16
La profondità e la superficie
re, e che trovano la loro ragion d’essere nel racconto di un presente (privato o pubblico) la cui vicinanza totale, non riuscendo a tradursi in una messa a distanza narrativa e verosimile, trova nella lente grottesca il suo tratto di determinazione e definizione, che permette alla rappresentazione di eludere ogni istanza puramente cronachistica: Il caimano; 2) dall’altro le forme dell’immagine neorealista, dell’erranza, della veggenza e dell’imperativo etico, che non riescono a tradursi in azione, a segnare e definire i motivi più propriamente romanzeschi del cinema di Moretti; 3) infine le forme del tragico basso-mimetico, che definiscono un pathos e una forma-melodramma, sia pure congelata. Ma se commedia e romanzo affermano un principio dialogico, ambivalente, quel misto di tragico e comico, di riso e pianto, che caratterizza gran parte dell’opera di Moretti, il tragico basso-mimetico sposta le forme verso un piano monologico, verso un pianto senza riso, verso un dolore che non comporta distanza ironica. Il dolore che, definendo sempre uno spazio di autenticità, nei film precedenti a La stanza del figlio occupava una sorta di sfondo, di retropiano (contaminato sempre con elementi comici), in questo film occupa tutto lo spazio della scena. E questo ci permette di misurare la novità di un film che non presenta un nuovo assoluto dal punto di vista tematico (l’ideale, il dolore, la morte), ma che prosciuga ogni ambivalenza tragicomica, ogni segno grottesco, ribaltando tutto sull’univocità di un piano tragico. Con Il caimano Moretti, superata la parentesi patetica, torna alle forme della commedia grottesca. 17
Nanni Moretti
La questione del soggetto e della sua identità passa nella forma-commedia per la maschera, nel romanzesco per il personaggio, nel tragico per la figura. Nel caso della maschera, una maschera rigida e non modulabile (quella di Michele Apicella), il soggetto si manifesta come colui che, inscindibile dalla maschera stessa, la eccede; nel caso del personaggio romanzesco e della sua plasticità, il soggetto tende a sciogliersi nel personaggio, a farsi personaggio, e quindi ad acquisire tutta la libertà che ne deriva (Caro diario e Aprile); nel caso del tragico il soggetto si è fatto figura astratta, smarrendo la dialettica comica che definiva i rapporti irrisolti con la società, e la leggerezza che caratterizzava la ricerca di un destino nella forma romanzesca, e si ritrova con l’assegnazione dall’“esterno” di un destino, al quale sembrava essersi sottratto con quella raggiunta serenità quasi anodina (padre e marito felice), che non prevedeva alcun tipo di sviluppo né drammatico né comico (La stanza del figlio). I formanti impliciti del cinema di Moretti determinano modalità diverse di rappresentazione del problema dell’identità, della sua acquisizione incerta, comica, romanzesca, tragica. La maschera comica come affermazione di una dissonanza isterica: sempre contro, contro la «maggioranza», ma anche contro la «minoranza», contro l’amalgama asfissiante dei cliché sociali che costituisce l’unico mistificatorio piano di realtà, ma anche contro la disponibilità infinita di chi fugge la realtà, conducendo una vita senza forma, in una perenne evasione da se stessi e dal mondo (che prende le forme della evasività linguistica e comportamentale). A questa maschera dissonante, 18
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che non trova (ri)conciliazione con il mondo e con la società, non resta altro spazio che quello di essere dissonante con se stessa, affermazione di una eccedenza della soggettività che aderisce alla maschera ma senza risolversi completamente, che sta anche oltre e contro la maschera, che alla deformazione grottesca, all’aderenza carica sovrappone anche una distanza ironica. E, comunque, la maschera dissonante è affermazione della soggettività in forma puramente contrappositiva e infantile, un dire “no” come fanno i bambini per un’affermazione impotente e passiva della propria soggettività, che diventa potere solo per la desiderosa sottomissione degli adulti (Isole in Caro diario). E il giudizio, l’intransigenza del giudizio, la rigidità di un principio, morale in primo luogo, è manifestazione di una debolezza, della debolezza di chi dietro la maschera dell’intransigenza cela la sua incapacità di vivere, la sua mancanza di disponibilità nei confronti del mondo per paura: ed ecco allora l’aggressione come forma di difesa (Bianca). Sottratto alle gabbie della maschera, della maschera dell’oppositore1, il soggetto si fa personaggio,
L’oppositore è uno dei “tipi” che caratterizzano la commedia in generale, e diventano dominanti nella commedia grottesca e satirica; Frye, in Anatomia della critica (tr. it., Einaudi, Torino 1969, p. 223), utilizza la nozione di humor per spiegare la funzione di rigido e illusorio contrasto ricoperta da certi personaggi: «La funzione drammatica dello “humor” è esprimere uno stato di quella che può essere definita schiavitù rituale. Egli è ossessionato dal suo humor e la sua funzione nel dramma è soprattutto quella di ripetere la sua ossessione». Ora, la fissazione, la mania, che irrigidiscono il personaggio e ne fanno una maschera, toccano
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Nanni Moretti
personaggio romanzesco, sospende ogni giudizio morale (o se lo incorpora lo pensa e lo usa come “resto” e “citazione” della maschera), e si dispone al fluire della vita, al movimento zigzagante in vespa, al movimento ritmico, sintesi di corpo e spirito, del ballo e del musical (Caro diario e Aprile). Vi è un’accettazione dell’“altro”, della sua eterogeneità e differenza, come anche dell’irriducibilità del mondo ai principi e alle ossessioni dell’io. Il personaggio si viene a determinare sullo scioglimento della maschera, sulla sua dinamizzazione, sulla sua messa in movimento, che nel suo primo momento si definisce come movimento totale, sovrapposizione di livelli di realtà, di passato e presente, reale e immaginario, privato e pubblico, enunciandosi direttamente nelle forme propriamente romanzesche della ricerca di identità: Palombella rossa. Se, e nella maschera e nel personaggio, troviamo un esplicito riferimento alla persona – riferimento sottolineato dalla presenza imprescindibile dell’attore Moretti –, questo accade perché ciò che chiamiamo persona è inscindibile, anche etimologicamente, dalla maschera. Ciò che chiamiamo persona è il lato esistenziale della saldatura fra soggettività e maschera. La maschera dà forma alla faccia, fissa la sua potenziale eterogeneità mimica, e cancella il volto come quadrante espressivo. Atti, gesti, comportamenti – ma non espressioni del volto (un volto fondamentalmente
allo stesso tempo i confini del comico e del tragico: ne è un esempio la fissazione e l’ossessione – peraltro di ordine morale – del protagonista di Bianca e de La messa è finita.
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La profondità e la superficie
inespressivo) – definiscono il modo d’essere dell’attore Moretti, che si fa materia di un nodo indistricabile fra persona, maschera e personaggio. Nelle forme del comico-romanzesco, la soggettività vive una perenne relazione dialettica con la società, una relazione che mai si ricompone né si armonizza, anzi è attraversata costantemente dal dolore, dalla malattia, dalla morte, o dal riso come modalità più propria di risposta all’incompiutezza dell’esistenza. Nella trasposizione basso-mimetica di una storia tragica (il rapporto fra famiglia e morte) la maschera scompare, il personaggio diviene superficie che copre una figura tragica. E nella trasposizione di una struttura tragica, quando non c’è abbassamento comicogrottesco, rimane solo lo spazio per un pathos senza “altezza”, e quindi per una forma melodrammatica, sia pur congelata (La stanza del figlio). La moderna impossibilità tragica, che non viene abbassata comicamente, può diventare solo dramma borghese della disgrazia e del pathos. È l’amalgama familiare, il legame di un gruppo la cui solidità sembra non lasciare spazio ad alcuna individualità, e dove lo spazio della vita pubblica (lavoro) viene incorporato in quella privata (tanto che lavoro e vita privata di Giovanni si svolgono nello stesso ambiente), ad essere spezzato dall’assegnazione di un destino che porta ogni componente della famiglia all’isolamento come unica forma di individualizzazione. È come se la mancanza di destino individuale, attraverso la piena aderenza ad un destino sociale (marito, padre, professionista affermato), fosse la vera forma di “morte in vita” che si trasforma, attraverso il sopraggiungere della 21
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morte reale, della disgrazia, in una vita ritrovata attraverso la morte e il dolore. È come se dalla trasparente e asfissiante ragnatela della vita sociale, sancita dall’essere divenuti adulti, attraverso la costituzione di un nucleo familiare, si possa tornare ad un destino individuale solo attraverso la morte. Pensata nelle forme della tragedia (basso-mimetica) del sacrificio, del sacrificio del figlio da parte del padre per la sua colpa, aver rubato il fossile2, o come tragedia della morte del padre nel figlio, della fine di qualcosa (la giovinezza) che non ci sarà più con la crescita del figlio, La stanza del figlio misura uno scarto decisivo dal punto di vista dei modelli che lo informano, e il differente modularsi delle “stesse” tematiche non attenua per nulla la novità di un approdo ad una serietà tragica del tutto priva di elementi di ambivalenza comico-grottesca, che saranno ripresi poi nel Caimano. Se misurato con i film precedenti, La stanza del figlio diviene l’ultima tappa di un romanzo di formazione, che, partendo dalla contrapposizione giovanile, dall’indossare una maschera rigida e aggressiva, di fatto un fragile scudo dell’identità, passa all’età adulta attraverso momenti di crisi e di transizione (malattia, paternità), che ruotano intorno al tema della ricerca plastica, modulata – e quindi propriamente romanzesca – dell’identità, per giungere al pieno compimento sociale di un individuo adulto, che non è affermazione gioiosa del vincolo sociale, ma serenità Cfr. S. Bouquet, Le divan du père. La Chambre du fils de Nanni Moretti, in “Cahiers du cinéma”, n. 557 (2001), pp. 24-26. 2
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astratta che si dispone alla risoluzione tragica e fatale di quel vincolo. La fine del viaggio, la ricerca di una conciliazione fra individuo e società, fra soggettività e mondo non diviene l’approdo felice di un viaggio (come in un processo di formazione riuscito), ma uno spazio che cela dietro un’astratta armonia, la presenza silenziosa della morte. La serietà del mondo adulto non sembra lasciar spazio alla vita – alle sue inquietudini, alle sue lacerazioni, alle forze che l’attraversano –, e allora solo la morte – effetto di un incrocio fra fatalità e colpa – sembra riaprire, paradossalmente, uno spazio di vita, coincidente con un dolore che rimette in gioco tutto: si passa dalla chiusura di un gruppo familiare intorno ad un tavolo al suo sparpagliamento su una spiaggia. E, sia nelle forme esagerate, cariche e ambivalenti del comico-grottesco, sia in quelle “aperte” del romanzesco, sia in quelle del tragico basso-mimetico, emerge chiaramente come il cinema di Moretti abbia dei formanti forti – espliciti ed impliciti – che, in un cinema apparentemente giocato sulla superficie di un presente senza spessore, costituiscono i modelli che danno profondità, che permettono l’articolazione e lo sviluppo di tematiche complesse e universali: rapporto fra soggetto e mondo, desiderio e dovere, amore e dolore, vita e morte, privato e pubblico. Il cinema di Moretti – come esemplifica con forza Palombella rossa3 – riporta tutto alla superficie, le Cfr. la bella lettura che ne ha fatto Serge Daney e il confronto che ha operato con il film di Besson Le grand bleu, in Devant
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Nanni Moretti
profondità del tempo passato e le infinità (utopiche) del tempo futuro, e con uno stesso gesto si sottrae ai pericoli della psicologia, del posticcio morale ed estetico, e dell’audiovisivo. Tutto passa sulle superfici, perché l’immagine cinematografica può cogliere solo le superfici, ma è su queste superfici che prendono forma, si esprimono, si concretizzano le profondità (anche quelle della nostra tradizione cinematografica), dando, non tanto spessore all’immagine, quanto un “corpo”. Sia quando si irradia a partire dagli isterismi del corpo, tutto affidato al gesto e al detto, all’atto (anche linguistico) e alla postura, sia quando si irradia a partire dalle incrinature, sovrapposizioni, confusioni della mente, sia quando parte dallo sguardo per liberare e il corpo e la mente, ricercando una loro (utopica) armonizzazione, sempre il cinema di Moretti – e in questo sta la sua radicale modernità – ha riportato tutto alla superficie: la profondità dei modelli e delle forme (commedia, romanzo, tragedia) incorporate e metabolizzate, trasformate in atto, postura del corpo (dell’attore), o pratica dello sguardo (dell’autore). O meglio, è nella pratica di intercessione fra attore, autore, persona, maschera, personaggio (ed anche produttore, esercente, operatore culturale) che si costituisce il tratto più perspicuo dei transiti di superficie che animano il cinema di Moretti. Servirsi dell’“altro” per costruire un dire che, dietro il suo ap-
la recrudescence des vols de sacs à main, Aléas, Paris 1997, pp. 137-140.
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parente fondamento narcisistico, di fatto si determina come inassegnabile, impersonale, si distribuisce attraverso le tante figure di un io caleidoscopico. Quando questa pratica di intercessione si sospende, quando i transiti si arrestano, e le figure dell’io si dissolvono, il fare di Moretti diviene meno incidente, meno determinante, meno originale: come nei film in cui ha recitato come attore senza essere regista, o in quelli da lui soltanto prodotti, o come nel “fare” politica che non passa per la politicità del cinema. Di fatto, dietro l’esposizione dell’io, dietro la sua teatralità narcisistica, si nasconde la sua irreperibilità, il suo smarrimento, il suo glissare fra realtà e finzione (Caro diario), reale e onirico (Sogni d’oro), passato e presente (Palombella rossa), privato e pubblico (Aprile), persona e maschera (Ecce bombo), maschera e personaggio (La messa è finita), maschera singola e plurale (Il caimano), personaggio e figura (La stanza del figlio) ecc. Il cinema di Moretti, dietro la sua apparente autarchia, o forse proprio per questa, è attraversato da un’apertura che ne mette in questione l’identità. Apertura a un fuori di forme e modelli che lavorano come formanti e che ne definiscono l’appartenenza ad una tradizione; apertura verso una moltiplicazione dell’io che sancisce di fatto la sua frattura, la sua impossibilità di riduzione ad unità, l’abolizione dell’interno e dell’esterno (e la conseguente destituzione di ogni interiorità psicologica), a vantaggio di una pratica di intercessione che rende illocalizzabile l’assegnazione di un (luogo del) senso, che, partendo dalla profondità delle forme attraversa, in un perenne transito fra autore-attore-persona25
Nanni Moretti
maschera-personaggio, la superficie del testo (da dove la centralità dell’acqua, delle increspature di superficie sulle quali elevarsi, degli abissi profondi nei quali morire).
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SENSO, NON SENSO, PERDITA DI SENSO
Senso, non senso, perdita di senso. Il primo termine indica ciò in cui da sempre stiamo e che dobbiamo perennemente costruire: costruzione di qualcosa che definisca la nostra esistenza, al quale assegnare la felicità di un’esperienza e di un’intera vita; il secondo individua ciò che costituisce l’altra faccia del senso, non il suo limite, ma ciò che lo abita e lo attraversa dall’interno: così come la morte non viene dopo la vita, ma l’attraversa costantemente come la sua possibilità più propria, ciò che fa sì che una vita sia tale (cioè continua ricerca di senso); il terzo caratterizza ciò in cui abitualmente ci veniamo a trovare: tra la compiutezza di un’esperienza sensata (e felice) e l’abisso dell’emergenza del non senso si viene a determinare la perdita di senso, la sua diluizione nei cliché e negli stereotipi che attraversano come collanti la vita sociale. Il cinema di Moretti non pone altro tema che quello della ricerca di senso, di un’esperienza pienamente sensata, che sembra definirsi da un lato come orizzonte utopico e dall’altro come spinta etica: dare un senso alle nostre esistenze, un senso originario e nuovo, non può che essere un imperativo etico, la realizzazione del quale trova resistenze nelle forme di vita sociale, e quindi sembra spingersi in un futuro 27
Nanni Moretti
utopico e realizzarsi sotto forma di “illusione” ideologica (Palombella rossa). Questa ricerca di senso è attraversata sotterraneamente e minacciata dal non senso, dalla dissoluzione, dalla fine, dalla morte che accompagnano sempre l’impegno etico che sorregge una costruzione sensata: la fine di una storia d’amore come minaccia ad un’astratta felicità (Bianca, Il caimano), l’insorgere di una malattia grave (Caro diario), il sopraggiungere della morte (La stanza del figlio). Ma l’abbraccio stretto fra senso e non senso, felicità e dolore, vita e morte, tende a dissolversi nella proliferazione di cliché che costituiscono l’addensante della vita sociale, dove senso e non senso vengono occultati, nascosti, per poter vivere al riparo dalla felicità e dal dolore, in una sorta di anestetizzazione affettiva e mentale. Se l’abbraccio di senso e non senso definisce il fondo tragico dell’esistenza, la riduzione del senso, la sua perdita, la sua diluizione nei cliché della vita sociale caratterizzano la superficie comica: il loro intreccio determina il carattere doloroso della commedia di Moretti, quell’impasto di tragico e di comico che definisce il tratto propriamente grottesco del suo cinema. Ma senso, non senso, e perdita di senso non vengono a dividersi secondo un asse tragico-esistenziale che accoppierebbe i primi due, e uno comico-sociale che avvicinerebbe il primo e il terzo. Non esistono da un lato problemi eterni come la nascita e la morte, dall’altro mere contingenze individuali e sociali. È uno stesso binario che non smette di dividersi in una linea esistenziale, tragico-dolorosa, per cui il senso affonda nel non senso (La stanza del figlio), e in una 28
Senso, non senso, perdita di senso
linea comico-grottesca, per cui il senso non smette di cristallizzarsi e perdersi negli stereotipi comunicativi (Aprile, Il caimano). Non esiste da un lato un tema “alto” come la morte (su cui è impossibile non piangere), e dall’altro temi “bassi” come le illusioni di una generazione (su cui è impossibile non ridere). Non esiste da un lato un destino individuale, felice o doloroso e, dall’altro, i rapporti sociali fra individui, generazioni, sessi. E questo perché non esiste produzione di senso come compito individuale che non passi per un essere-con, per un essere-insieme, e quindi per le forme di vita sociale: un’esperienza sensata è tale non solo in rapporto al non senso, ma anche in rapporto alla diluizione e all’irrigidimento del senso operato dai cliché (comportamentali, linguistici, ideologici), rispetto ai quali dovrebbe manifestare una qualche forma di originalità (è la necessità di una parola nuova che presuppone nuove forme di vita: Palombella rossa, Aprile). E la perdita di senso, la cristallizzazione sociale del senso in cliché, stereotipi, presuppone – anche se in forma di rimozione – proprio il possibile e inquietante emergere del non senso. Il frastuono, le frasi fatte, la logorrea infinita dei mass media stanno lì a nascondere e a rimuovere il silenzio inquietante che accompagna l’emergere doloroso e silenzioso del “fondo” di non senso (La stanza del figlio). L’inesorabile (e spesso fallimentare) impegno del soggetto a costruirsi una vita sensata, cioè allo stesso tempo unica e condivisa (e condivisa proprio perché unica), si dovrà misurare sempre con il mondo. La costruzione, la perdita, e perfino il non senso appartengono ad una modalità di rapporto fra soggetto e 29
Nanni Moretti
mondo. Un rapporto che nel cinema di Moretti si determina come dissonante, e porta all’isolamento, coatto o volontario, dove la dissonanza si fa malattia del vivere, profondo dolore (Bianca, La messa è finita, La stanza del figlio), o porta a una discordanza comica espressa attraverso la costruzione di maschere grottesche. Ma spesso, in Moretti, ci troviamo di fronte alla sovrapposizione delle due dissonanze, quella tragica e quella comica. Ciò che è escluso – e in questo troviamo un indizio forte della sua modernità – è proprio la consonanza, il rapporto armonico fra soggetto e mondo, la realizzazione del soggetto nel mondo per il tramite dell’azione. Ciò che è escluso è proprio la forma epica, fondata sulla trasposizione estetica e narrativa dell’armonia (che non vuol dire mancanza di conflittualità, ma risoluzione di questa) fra uomo e natura, individuo e comunità. La forma epica è fondata sull’identità e sull’unità armonica fra soggetto e mondo1, sulla realizzazione del primo nell’azione che compie, tesa a modificare la situazione, e nell’atto di dialogo, teso a determinare un’interazione. Il senso per la “classicità” si dà comunque nella pienezza dell’azione pratico-dialogica, cioè nel rapporto pragmatico – efficace e felice, per quanto non privo di problemi e dolore – con il mondo. La felicità è nell’appartenenza dell’uomo alla natura, nella sua integrazione organica con il mondo e nella sua realizzazione pratica. La naturale conversione estetica di questa forma Cfr. su questo G. Lukács, Teoria del romanzo, tr. it., Pratiche, Parma 1994, pp. 57-66. 1
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a-problematica del vivere avviene propriamente nell’epos, nel racconto delle gesta di soggetti capaci di cambiare le situazioni e di agire in nome della comunità. Il senso è qualcosa di dato nella concretezza e determinatezza dell’esperienza, e non costituisce problema («Il greco conosce soltanto risposte, nessuna domanda»2). La costruzione del senso si afferma nella naturale continuità del vivere, senza fratture, in un rapporto organico uomo-mondo. Un rapporto fondato essenzialmente sulla prassi, sulla capacità di agire e di modificare le cose. Questo modello è ripreso nella forma epico-etica di tanto cinema americano classico. Ma cosa accade quando l’essenza non si realizza più nella vita? Cosa accade quando il senso non appartiene alle cose e al rapporto immediato dell’uomo con esse? Accade che viene proiettato in una sfera ideale, che non viene mai a corrispondere con la realtà delle situazioni: da qui la crisi del soggetto nel suo rapporto con il mondo. Crisi che può assumere le forme della «disillusione romantica» di un soggetto che ritrova proprio nel fallimento la prova della sua grandezza d’animo e che in un certo senso cerca la sconfitta (il successo come riconoscimento sociale sarebbe degradante per qualcuno che, affermandosi nella sua superiore autonomia, non riconosce alcun valore al mondo in cui vive e non cerca alcuna forma di riconoscimento), o può assumere le forme dell’«idealismo astratto», dove gli ideali dell’io vengono a cozzare contro la resistenza della realtà, non rinunciando il Ivi, p. 59.
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soggetto al suo tentativo di modificare le cose per adeguarle all’autosufficienza dei suoi ideali3. Un ripiegamento autoriflessivo nel primo caso, una dissonanza inconciliabile e conflittuale nel secondo. Anima contemplativa nel primo caso, anima avventurosa, con tutta l’inadeguatezza e il fallimento che l’accompagnano, nel secondo. Lontano da ogni “immediatezza” epica, la dissonanza del soggetto morettiano non è quella del sognatore, non abita le illusioni di un’anima romantica (perlomeno di un certo romanticismo), non si riflette compiaciuta nell’autosufficienza del suo mondo e della sua anima, rinunciando fin dall’inizio ad ogni tipo di conflittualità con il mondo, ma non è neanche quella di un novello Don Chisciotte che si lancia nel mondo provando a realizzare i suoi ideali, non vedendo né il mondo né se stesso, fallendo obiettivi e modalità d’azione. I personaggi di Moretti non sembrano essere né totalmente contemplativi né gettati inadeguatamente, spericolatamente, e illusoriamente nel mondo. E se da un lato c’è l’istanza contemplativa dello sguardo, della centralità del guardare contrapposto all’agire, dall’altro questo sguardo si fa giudicante, cioè si trasforma in azione4. L’anima parte da una sua presunta superiorità, dai principi astratti che la gui-
Sulla distinzione fra le forme del romanzo fondate sull’idealismo astratto o sul romanticismo della disillusione cfr. ivi, pp. 123 sgg. 3
Essendo il giudizio sempre un’azione, e l’atto linguistico che lo sostiene un atto illocutivo.
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dano, da un giudizio aspro nei confronti del mondo, ma questo giudizio alla fine coinvolge il soggetto stesso che lo formula, che non si ritrova superiore al mondo (che pretende di giudicare), ma che risulta più angusto del mondo stesso (Bianca, La messa è finita) e di chi nel mondo, nell’incompiutezza, precarietà, inautenticità dell’esperienza ci vive e prova a cambiarla. La pretesa superiorità del giudice (e dei principi che lo animano) di fatto maschera una più profonda piccolezza, quella di colui che, di fronte alla mancanza di senso e di compiutezza dell’esperienza, non sa mettersi in gioco, e tenendosi in disparte si limita a liberare uno sguardo critico, giudicante e, in fondo, rassicurante. L’animo angusto che non sa modificare situazioni e cose, e non si lancia avventurosamente nel mondo, si riduce ad essere spettatore; e i principi morali, religiosi, ideologici (Bianca, La messa è finita, Palombella rossa) che lo animano gli consentono di elevarsi, di mettersi in condizione di giudicare ciò che non riesce a capire e che non vuole comprendere: la vita in tutta la sua inautenticità e incompiutezza. Fra il soggetto e il mondo non c’è quindi separazione, ma aperta conflittualità: un soggetto intrattabile trova il mondo sempre troppo imperfetto rispetto ai suoi ideali. Una conflittualità che è effetto di un irrigidimento dissonante senza alcun autocompiacimento da parte di un soggetto animato dalla pretesa di rivelare le assurdità del mondo e di piegarle ai propri ideali e alla propria visione (morale) della realtà. Alla fine di questo conflitto fra l’io e il mondo, fra l’astrattezza dei principi e il divenire della realtà, non 33
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può che esserci la sconfitta, lo scacco, la rinuncia. E la ricerca di una felicità ideale non può che lasciare il passo ad un inevitabile dolore; così come l’inseguimento di una perfezione assoluta (Bianca, La messa è finita, perfino La stanza del figlio, dove il padre non accetta che il figlio abbia rubato a scuola e soprattutto che non glielo abbia confessato) non può che condurre al fallimento, alla sofferenza, alla solitudine. Questa discordanza soggetto-mondo, individuosocietà, può portare al tentativo di flettere il mondo a propria immagine, a costo di passare per l’atto più violento, l’omicidio (Bianca), oppure può portare all’abbandono, alla fuga, quando emerge l’assoluta impossibilità di modificare le cose e di comprendere il mondo stesso (La messa è finita o il Silvio Orlando del Caimano), o può proiettare la risoluzione della crisi in un futuro utopico (il sol dell’avvenir del finale di Palombella rossa). Ma se in Bianca e La messa è finita (meno in Palombella rossa) c’è un finale che porta a compimento un percorso (e quindi definisce un senso) che si conclude con l’esclusione (volontaria o imposta, fuga o reclusione) di un individuo dalla comunità a cui appartiene, negli altri film, soprattutto nei primi (Io sono un autarchico, Ecce bombo, Sogni d’oro), questa frattura, questa discrepanza fra soggetto e mondo viene fatta oggetto di rappresentazione comico-satirica, di aggressione grottesca, in forma di ritratto carico che sancisce l’unica modalità di tradurre esteticamente lo scollamento fra individuo e società. Se la commedia – secondo la formula di Frye – rappresenta il passaggio dall’illusione alla realtà («Illusione è tutto ciò che è fisso e definibile, e realtà è ciò 34
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che non lo è: qualunque cosa la realtà sia, certamente non è questo»5), e la commedia satirica e di costume rappresenta i personaggi in funzione di oppositori, gli humors (i vecchi rispetto ai giovani: è la maschera del senex iratus), coloro che si mantengono nell’illusione di non cambiare nulla, la commedia grottesca di Moretti, che adotta uno sguardo generazionale, ci dice che la società è passaggio da un’illusione all’altra, e che questo passaggio dallo stesso allo stesso può essere fatto oggetto di rappresentazione grottesca in base a principi – morali, ideali – che non garantiscono affatto una loro maggiore realtà e verità (non si liberano essi stessi dalla loro illusorietà): l’unica verità essendo forse quella del dolore. Il carattere doloroso e sofferente della commedia di Moretti risiede nella restituzione satirica di un mondo che non sembra avere un “fuori” (è uno dei temi di Aprile); o meglio, quel fuori diventa un punto ideale per chi il mondo non l’accetta, non lo sa comprendere né cambiare, ma solo criticare, riconoscendolo come un insieme soffocante di stereotipi e di cliché di cui fa parte il soggetto stesso (Palombella rossa, Aprile). È evidente che questa distribuzione soffocante di cliché e meccanismi illusori porta la commedia, e la commedia grottesca di Moretti, a spingersi verso un nucleo fortemente problematico e doloroso, che rivela come al fondo della inesauribile dialettica fra individuo e società, soggetto e mondo, emerga un N. Frye, Anatomia della critica, tr. it., Einaudi, Torino 1969, p. 225.
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dato essenziale, che spinge la conflittualità, la non armonizzazione verso una dimensione tragica, che attraversa tutto il cinema di Moretti e che emerge decisamente ne La stanza del figlio. Una dimensione che rende impossibile qualsiasi conciliazione sociale e improbabile, o perlomeno difficile, quella familiare. Quindi al fondo del rapporto fra senso e perdita di senso, fra il soggetto e le “mediazioni sociali” che sostengono la costruzione del senso, emerge una connessione costitutiva fra senso e non senso, fra la continua (felice) costruzione del senso e la sua (dolorosa) mancanza (magari improvvisa, come la morte per incidente). Dietro la perdita di senso, la sua diluizione, il suo smarrimento, la circolazione diffusa di cliché, risale intimo e doloroso il non senso, che non è tanto ciò che sfortunatamente viene ad intercorrere ed ostacolare il cammino continuo e faticoso della vita, ma è paradossalmente ciò che lo rende possibile, che gli dà senso. Come la morte non è solo la fine della vita, ma ciò che fa sì che la vita sia tale. L’accordo fra soggetto e mondo è sempre nuovamente da costruire non solo e non tanto perché il mondo è un insieme di cliché, quanto perché quell’accordo è intaccato e attaccato da un non senso che ne costituisce l’immagine interna. Allora, quei cliché sociali nei quali il senso viene a smarrirsi e perdersi si determinano come ancoraggi rassicuranti che l’uomo “medio” si dà per difendersi dall’abisso del non senso (le nevrosi e le paure come sostitutive dell’angoscia di essere al mondo). Da un lato l’unità-differenza di senso e non senso, 36
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che si colloca oltre la dimensione sociale ma senza poterne prescindere, senza stabilirsi in un mondo iperuranio separato dall’effettività dell’esperienza; dall’altro la perdita di senso che accompagna la circolazione di stereotipi nelle forme del sapere e del vivere sociale. Da un lato il fondo tragico-doloroso che tiene insieme senso e non senso, vita e morte, felicità e dolore; dall’altro la diluizione del senso nelle forme del vivere sociale, nei luoghi comuni che la informano e la solidificano, e che si rendono sopportabili solo se fatti oggetto di caricatura, di esagerazione comico-grottesca. Queste non sono linee parallele che non si incrociano mai, ma sono binari che si sovrappongono costantemente, anzi in un certo senso è uno stesso binario che non smette di suddividersi in una linea esistenziale, tragicodolorosa, per cui il non senso è l’altra faccia del senso, e in una linea sociale, comico-grottesca, per cui il senso non smette di cristallizzarsi e sterilizzarsi in cliché e frasi fatte. Da Io sono un autarchico a Mia madre la questione è, da un lato, come rappresentare comicamente la perdita di senso che attraversa la società contemporanea, dall’altro come lasciare emergere il dolore che segna l’inadeguatezza e la distanza fra soggetto e mondo, la “malattia” come indice di una incrinatura esistenziale, della fragilità costitutiva della natura umana. Fra le due linee quindi non c’è contrapposizione né mero parallelismo. In questo, l’eccezione de La stanza del figlio non è tematica, individua semmai una modalità diversa di rappresentare un tema – la morte – che attraversa tutto il cinema di Moretti nelle 37
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forme di morte paventata (la malattia in Caro diario), di morte assegnata (Bianca), di morte sociale (La messa è finita). Il comico si inserisce là dove il senso si smarrisce, si perde o meglio si irrigidisce nella serie di cliché privati e sociali che definiscono ad ogni livello la vita; cliché rispetto ai quali non resta altro da fare che restituirli in forma carica, esagerata, grottesca. Il tragico si inserisce e attraversa tutta la commedia della vita, quando la dissonanza fra soggetto e mondo si fa troppo radicale senza poter essere sostenuta da alcuna forma di ironia: là emerge il dolore, la malattia del vivere, che porta al silenzio, all’immobilità, al non detto perché non dicibile. Dal cliché al dolore: non sembra esserci alternativa. E se il cliché serve a nascondere il dolore, a rimuoverlo, al riso spetterà il compito di aggredire il cliché, farlo emergere in quanto tale, sostituirlo con altri. Ma fra la verità e il silenzio del dolore e lo stereotipo (comportamentale, linguistico, comunicativo) non sembra esserci via di mezzo, non sembra esserci parola che possa reinventare il mondo. Il compito della società – e della società contemporanea – è quello di far circolare il maggior numero di cliché come addensanti del tessuto sociale, e rispetto a questa circolazione non può che esserci una risposta inadeguata: tragica per l’inautentico che questi cliché manifestano, comica per la diffusione così totalizzante da non lasciare spazio a nulla di diverso che a una loro restituzione carica ed esagerata. Il sovrapporsi delle due risposte definisce o il grottesco, l’impasto di riso e pianto, di gioia e raccapriccio, o il sentimento di straniamento ironico (Silvio Orlando nel Caimano). 38
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Silenzio tragico, balbettio ironico, frasi fatte grottesche: non c’è spazio per nessuna parola nuova, e quindi per nessuna forma di vita nuova. Mutismo, balbettio o chiacchiericcio infinito: adesione tragica, spaesamento ironico, esagerazione grottesca. In un certo senso, la vita sociale è adesione o messa in questione dei cliché come collanti (il comune ridotto a “luogo comune”), e per riconsegnarci questo c’è l’ampia sfera del comico. Al di là di questo può emergere solo la dimensione esistenziale della sofferenza e del dolore. Ma è l’impasto di comico e di tragico, di riso e di pianto, ad essere il più adeguato a raccontare l’inesorabile, continuo, difficile impegno a far senso, la sua inevitabile lotta con il cliché (con la perdita di senso che questo comporta), con sullo sfondo minaccioso e inquietante l’emergere del non senso: l’insensato con cui il senso stesso ha un debito costitutivo.
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L’amore, in qualsiasi modo venga inteso, è ciò che dà senso all’esistenza per la connessione, l’unione, l’incontro che opera fra le persone. L’amore è in primo luogo superamento dell’“uno”1. E il dolore è ciò che emerge come minaccia per l’impossibilità d’amore, per la sua fine, e dunque per l’impossibilità di essere assoluto, di durare per sempre (come pretende il protagonista di Bianca). Il dolore è ciò che accompagna la fine, la fine di un’amicizia, la fine di un amore, quella di un sogno, la fine di una vita. Ma se è vero che solo la fine dà senso alle cose (così come la morte dà senso alla vita), è anche vero che il dolore e la sofferenza costituiscono non ciò che viene dopo l’amore, ma ciò che lo accompagna, l’altra faccia dell’amore, in un certo senso il suo orizzonte. Nei primi film (Io sono un autarchico ed Ecce bombo) il sentimento di unità e unificazione non era ancora amore, ma era un legame di amicizia che teneva insieme (o, in sua mancanza, isolava) gli elementi di un gruppo: era letteralmente un amore del
Ci permettiamo di rimandare su questo a R. De Gaetano, TraDue. L’immaginazione cinematografica dell’evento d’amore, Pellegrini, Cosenza 2008. 1
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gruppo, un tenersi insieme che comportava una condivisione totale di spazi e di tempi, di modi di vedere e di sentire. E, come in un vero sentimento d’amore, questa condivisione non implicava la necessità di fare qualcosa, bensì poteva risolversi in un continuo oziare, in un parlare senza senso, in un vuoto che veniva riempito solo dalla presenza (Ecce bombo). Ma quel sentimento del gruppo, quello stare insieme era tale anche perché unificato da stereotipi, cliché, brandelli ideologici, intorno ai quali si veniva a costituire e a rinsaldare una unione. Un sentimento che presupponeva, quindi, una condivisione di (pseudo) valori intorno ai quali si disponeva una “minoranza alternativa”, smarrita fra teatro d’avanguardia, sedute di autocoscienza, credo ideologici, ma in fin dei conti animata da incapacità e nevrosi individuali, che non potevano che condurre alla separazione degli elementi del gruppo e allo scacco di un’intera generazione2. Dall’amicizia come collante (fragile) di un gruppo costituito intorno ad un’“alternatività” vissuta come spazio narcisistico3, al sentimento d’amore, sofferen-
Uno scacco su cui Moretti non smette di tornare: in Caro diario fa vedere uno spezzone di film sulla crisi di una generazione che «gridava cose violente» e poi si è ridotta al “nulla” più assoluto (generazione rispetto alla quale Moretti afferma la sua differenza: «io gridavo cose giuste e ora sono uno splendido quarantenne»). Ma l’abisso nel quale affonderà un’intera generazione (chi realmente, chi solo simbolicamente) sarà il terrorismo, lo spargimento di sangue, la morte destinata agli altri e a se stessi (di questo Moretti in veste d’attore parlerà ne La seconda volta).
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Un’alternatività che porta ad una (apparente) contrapposizione con le istituzioni, e in primo luogo con l’istituzione familiare.
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te, doloroso, per una donna. Dal gruppo alla coppia, questo passaggio segna la progressiva “selezione” sociale nel processo di crescita: dal piccolo mondo degli amici di gioventù, definito dalla condivisione – naturale o forzata – di sentimenti, interessi e valori, al rapporto a due, alla relazione di coppia. Una relazione impossibile, come in Bianca, perché animata da un modello di felicità assoluta, senza ombre. La fluidità e l’apertura delle relazioni diventano inaccettabili all’occhio rigidamente morale del protagonista di Bianca, che non tollera che conoscenti e amici possano essere come tutti gli altri, cioè mentitori, traditori, disponibili ad accogliere tutto e tutti (per esempio a cenare insieme alle compagne e alle amanti). La restrizione di campo dall’amicizia all’amore di coppia segna il passaggio dall’inautentico all’impossibile, dal narcisismo errante e svagato ad un super-io spietato che non lascia spazio né agli altri né a se stesso; che non accetta – per principio – che possa esistere un amore che non sia “per sempre”, cioè che non ipotechi il futuro sottraendolo al suo potenziale di incertezza, dolore e angoscia. Rispetto alle ondulazioni, alla instabilità della vita e dei sentimenti, la soluzione non è nella messa in disponibilità del soggetto, ma nel dovere della limitazione, della rinuncia, del no. Un no a tutto ciò che possa incrinare l’assolutezza di un amore,
Apparente, perché è di fatto sommersa da istanze narcisistiche, che portano a sostenere persino posizioni antitetiche (dire una cosa alla madre ed esattamente l’opposto alla sorella) piuttosto che rischiare di perdere ogni centralità.
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di un’amicizia; un no che eviti tutto ciò che possa mettere in questione una felicità tanto perfetta quanto astratta: una ricerca ossessiva dell’armonia, una difesa assoluta dal dolore, e quindi dalla vita. Un no preventivo all’amore con Bianca, perché nell’inizio dell’amore è inscritta anche la sua fine, la sofferenza e il dolore. Perché l’amore radicalizza la forbice fra la pretesa di assoluto e l’impossibilità del suo raggiungimento, per la costitutiva fragilità e dispersività dell’esperienza. E di fronte a questa constatazione, o ci si mette in disponibilità nei confronti del mondo e della vita, o si fa dell’esperienza una colpa e si rivendicano le ragioni del principio e della sua astrattezza. È questa seconda strada quella che percorre il Michele Apicella di Bianca, indisponibile ad accettare la vita e quanto di contraddittorio, indecidibile, precario contiene. E per difendersi dal dolore e dalla sofferenza, causata dal riconoscimento dell’imperfezione umana, flette la realtà ai suoi propri principi, attraverso il compimento del gesto estremo: l’uccisione, l’annullamento dell’altro. L’“altro” nella forma del vicino di casa, dell’amico di lunga data, o della persona che si ama, non è mai riconducibile allo “stesso”, nel senso che proprio l’identità dello stesso è animata internamente da un’alterità che la sottrae a qualsiasi possibilità di identificazione logica, valida una volta per tutte (il soggetto non è mai un idem, un’identità logica, è semmai un ipse, una identità etica e in divenire4). L’incapacità di accettare Cfr. su questo P. Ricoeur, Sé come un altro, tr. it., Jaca Book, Milano 1993.
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quanto di “altro” proviene dal mondo e da noi stessi significa incapacità e paura di vivere. Significa difendersi dalla vita (e dai suoi cambiamenti), andando incontro alla morte: quella destinata agli altri, ma in primo luogo a se stessi, sotto forma di interdizione alla felicità, per paura di perderla. È quanto accade al protagonista di Bianca, collocato in una posizione di osservatore, spettatore di un mondo al quale non sa appartenere, e al quale non vuole (per paura) partecipare. E quando passa all’azione lo fa per effetto del suo sguardo giudicante, come giudice che, dopo aver, moralmente e crudelmente sentenziato, non può far altro che eseguire la condanna per rimettere le cose a posto, per non sentirsi ulteriormente minacciato dalla piega imprevedibile e incontrollabile che prendono le cose; per difendersi da quell’accettazione di tutto che rischia di diventare ciò che di più minaccioso possa esistere: il pericolo di una vita senza forma, senza controllo, aperta al dolore e alla sofferenza, esposta inesorabilmente alla contingenza delle cose, e alla singolarità e fragilità dell’esperienza. Un’esposizione che comporta sempre l’amore in quanto esperienza assoluta dell’altro, della sua introiezione, ma anche della sua irriducibilità: l’assolutezza dei sentimenti e la caducità delle cose, l’infinità di uno stato d’animo e la determinatezza e fragilità del qualcosa che lo determina e sul quale si proietta. E rispetto alla felicità dolorosa (il dolore essendo presente anche solo nel sentimento del carattere transeunte della felicità stessa) dell’amore, all’apertura affettiva agli altri e al mondo, è più tranquillizzante la chiusura, il no, il circuito ossessivo fra pulsione (scopica) ed oggetto, che fa dell’ossessione 45
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un sostituto dei sentimenti. L’ossessione come ritorno “controllato” all’oggetto, privato della sua apertura e imprevedibilità, soppianta il sentimento (d’amore) e la sua contemporanea infinità e determinatezza. E soprattutto ciò a cui conduce l’incrinatura ossessiva come sostitutiva del divenire dei sentimenti è l’impossibilità di costituire una vita interiore: il personaggio si blocca intorno all’idea fissa senza nessuna evoluzione interiore, senza alcun passaggio fra esperienze passate e prospettive future. L’effetto è la pretesa di eternizzare un presente felice (è quello che Michele pretende dagli altri), altrimenti non resta che la solitudine, come fuga, dagli altri, dai rapporti, dalle responsabilità, da se stessi. E il «triste morire senza figli» con cui si chiude il film è l’espressione che segna il destino più naturale di chi ha inseguito la purezza e l’astrattezza di qualcosa di assoluto (pretesa che in un certo senso ha giustificato e legittimato la sua inadeguatezza a vivere), che in quanto tale non può contemplare eredi, continuatori. L’affermazione idealistica dell’assoluto (che qui confluisce più propriamente in qualcosa di astratto) non può che portare alla morte assoluta, totale, senza appendici o eredità. Avere dei figli significa collocarsi immediatamente nel “relativo”, non scomparire del tutto, scegliere ed accettare l’avvicendamento. È la solitudine l’approdo a cui conduce il rifuggire il carattere determinato e rischioso dell’esperienza (affettiva in primo luogo). Una solitudine aspra e spietata, senza alcuna autocommiserazione e senza alcuna scelta, ma affermata come il luogo sicuro dal quale guardare la vita e le sue imperfezioni, rimanen46
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done sempre fuori. Senza alcun disincanto, e senza l’ironia e il grottesco5 di altri personaggi di Moretti, ma con tutta la serietà e la spietatezza morale di un giudice che non consente appelli. L’impossibilità dell’amore, dell’amore di coppia pensato in forma assoluta, si presenta anche ne La messa è finita, e fin dall’inizio del film, quando don Giulio prima di abbandonare l’isola per tornare a Roma celebra un matrimonio, dove afferma decisamente i valori che devono sorreggere un legame matrimoniale e il sentimento che lo deve animare: la fedeltà reciproca («vi giurate indissolubilmente una fedeltà che potrà essere interrotta solo dalla morte») e la gioia («vi auguro di vivere in gioia. È una grande virtù e un grande dono. Non siate mai tristi. Conservate la gioia e non abbandonatela mai»). È un augurio che nasconde non il timore, ma in un certo senso la certezza che quella gioia non sarà il protrarsi indefinito e illimitato di uno stato d’animo astratto, quanto l’orizzonte (difficile) di una ricerca animata costantemente al suo interno dalla tristezza, in un continuo oscillare fra la pienezza di senso (la gioia) e la sua mancanza o conversione nel non senso (tristezza). E sono proprio la tristezza e la solitudine a definire i modi di esistenza delle persone con cui don Giulio viene in contatto una volta tornato a Roma: la famiglia (genitori e sorella), vecchi amici, conoscenti, parrocchiani.
Grottesco che in Bianca permane soprattutto nella serie di maschere che compongono il personale docente della scuola “Marilyn Monroe”, a cominciare dal preside.
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E dall’amore impossibile per l’altro (Bianca) si passa all’amore impossibile per gli altri, quello di cui fa esperienza don Giulio. Questo spostamento del valore dell’amore emerge già nel primo dialogo che ha con il padre: «Stavo pensando all’amore universale. Esisterà veramente? Voi preti cosa ne pensate?», «Noi preti pensiamo di sì. E io anche». Ma l’amore universale – per un cristiano – non è l’amore per l’uomo in generale, pensato nella sua astrattezza, cioè l’amore per l’umanità (l’essenza dell’umano), ma è l’amore per ogni singola individualità, e non per una o alcune di esse, come nell’amore fra i sessi. E ogni individuo dovrebbe essere amato cristianamente nella sua interezza, non nonostante i suoi peccati, ma proprio per questi. È ciò che a don Giulio non accade, perché è attraversato da un moralismo e da uno spirito critico che non gli consentono alcuna comprensione; e il suo amore universale sfuma dietro la sua incapacità di comprendere la sofferenza, il dolore, la mancanza d’amore che segnano i rapporti umani in quanto rapporti affettivi. E così subito dopo lo scambio di battute con il padre sull’amore universale, don Giulio incalza la sorella sul suo rapporto con il ragazzo, sul perché non si sposano, sul «non fare come tutti gli altri» (ossessione che proviene direttamente dal Michele di Bianca). E poi c’è la crisi di Saverio, un vecchio amico, che non vuole vedere né ricevere più lettere da nessuno, in un perenne stato depressivo da quando la sua compagna – e sono passati tre anni – l’ha lasciato. Ed ancora, l’ex parroco che abbandona l’abito talare per amore di una donna da cui ha avuto un figlio, e sostiene che non c’è contrapposizione fra 48
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amore erotico e amore universale: «In amore non c’è sottrazione. Io amo loro, ma non ho smesso di amare tutti gli altri». Ma l’incapacità d’amare, di trovare una stabilizzazione dei sentimenti una volta per tutte, di corrispondere a quel «finché morte non vi separi» condanna il soggetto ad una perenne crisi nei suoi rapporti con gli altri, con il mondo, con se stesso. Smarrita l’identità fra ottativo e doveroso, la società essendo proprio quel tessuto che fa sì che ciò che è desiderabile e ciò che è doveroso vengano a coincidere, rimane un movimento centrifugo, per cui tutto diviene possibile nell’inseguimento di desideri che si fanno chimere e che permettono di fuggire il peso insostenibile delle responsabilità. Nel primo caso troviamo il padre di don Giulio che si innamora di un’amica della figlia, lascia la moglie e desidera avere un figlio da questa nuova donna: è l’illusione di arretrare il tempo, di ricominciare nuovamente quando tutto sembra finito, di distruggere una realtà consolidata (la moglie, gli affetti, la vita tra le cose che ci appartengono da sempre), perché quella realtà porta con sé la certezza più inaccettabile, quella della morte, e della morte in vita sotto forma di impossibilità di immaginare cambiamento alcuno. È il desiderio come chimera dietro la quale smarrirsi, piuttosto che rimanere ancorati ad una realtà che non prevede più inizi ma solo una fine. Il prezzo da pagare per l’inseguimento di un impossibile sogno sarà la morte, la morte dell’altro: il suicidio della moglie. Nel secondo caso rientra la sorella di don Giulio, nella sua affermazione di un desiderio di indipendenza, di libertà dal peso delle responsabilità (quella 49
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di avere un figlio: vuole abortire) e dall’inettitudine del suo ragazzo, che perde il suo tempo ad osservare rapaci. Il dovere a cui la richiama il fratello – il matrimonio, la costanza dei sentimenti, il pentimento che accompagna sempre le donne che hanno abortito – diventa lo spazio stretto e soffocante dal quale la ragazza vuole uscire, anche se il prezzo da pagare sarà la solitudine e l’infelicità: perché la felicità passa – come le dice il fratello – sempre per l’essere in due. Ma il punto non è soltanto lo slittamento dell’ottativo fuori dal doveroso, perché in questo slittamento è di fatto la storia dell’uomo, quanto una eccessiva elasticità sociale (una società a maglie tanto larghe da essere senza tenuta), che rende realizzabile e socialmente riconoscibile ogni rivendicazione alla realizzazione assoluta del desiderio. Una società che estende indefinitamente la sfera dei diritti, alla quale si oppone la posizione moralistica di don Giulio che segnala la necessità di doveri: in primo luogo quello della fedeltà e del matrimonio. Ma la posizione di don Giulio non può che essere perdente nel momento in cui impone astrattamente la chiusura, il limite, la prevenzione; quando alla confusione affettivosentimentale sa contrapporre solo una posizione moralistica, che non mostra alcuna comprensione: picchia il padre, aggredisce la sua amante, si rivolge alla sorella che gli confessa di voler abortire: «Se lo fai, prima ammazzo te e poi ammazzo me». E durante la celebrazione dell’ultima messa si rivolge alla madre suicida dicendole che non la perdonerà mai. Non accetta la sofferenza, lo star male, il dolore, e rispetto a questo si difende, aggredendo gli altri e se stesso, nell’illusione che la felicità possa trovarsi 50
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occupando le linee di fuga, limitando le possibilità di vita. E l’«io ci capisco meno di loro», con riferimento ai fedeli che si vanno a confessare, è il riconoscimento di una incapacità di comprendere, non tanto il male del mondo (don Giulio non è il curato di Bernanos e Bresson), quanto quel distillato di sofferenze, solitudini, dolori, ferite che attraversano la vita quotidiana di gente comune. E quel «vi amo voi tutti che siete in questo bar» è la risposta immediata e istintiva alla reale incapacità di amare e comprendere chi gli sta intorno; testimonia di un abbraccio immediato, dove l’universalità dell’amore contraddice la sua individualità (amare tutti perché non si è capaci di amare nessuno): da qui il fallimento della sua funzione di religioso. Il pugno contro un vetro è il gesto che sintetizza la crisi d’identità e il fallimento di una missione. Un fallimento molto più profondo di quello di chi gli sta intorno, perché animato da un ideale assoluto, quello dell’amore universale. Al fallimento, all’impossibilità dell’amore erotico, dell’amore di coppia, si aggiunge – con La messa è finita – quello dell’amore universale: l’approdo è di nuovo e sempre la solitudine. Don Giulio andrà in un Paese battuto da un vento che «fa diventare pazzi», e dove la follia diventa forse l’unico sollievo (o l’unica difesa) quando confusione e dolore si fanno troppo forti. Alla fine della celebrazione dell’ultima messa, quella del matrimonio di Cesare (dove don Giulio ribadisce l’impossibilità di coniugare felicità e solitudine), c’è un’immagine di ballo che rende indiscerni51
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bili i confini fra percezione reale e visione fantastica: gli amici presenti iniziano a ballare; è un’immagine gioiosa – di un realismo onirico – che stampa un sorriso sulle labbra di un don Giulio veggente. È come se soltanto attraverso la trasfigurazione onirico-fantastica del reale si potesse mettere in movimento il mondo, l’unione nelle coppie (nel ballo e nella vita) e delle coppie. È come se lo spettro della solitudine e del dolore potesse essere allontanato solo da una visione fantasmatica, l’unica capace di dare gioia ad un mondo attraversato dal dolore e dalla solitudine; e soprattutto dall’incapacità di comprendere, di capire e di amare (e questo dovrebbe essere il compito del prete): di amare l’altro, dal quale sembra dividerci comunque sempre un abisso, di amare gli altri, per i quali non basta semplicemente sacrificare o odiare se stessi. La dimensione fantasmatico-onirica diviene totalizzante in Palombella rossa, coinvolgendo l’amore di un comunista per il popolo, per i sofferenti, per gli infelici: «La gente è infelice e aspetta noi e noi sappiamo cosa fare… Abbiamo tante idee». Qui la crisi di un comunista sostituisce quella del prete; il farsi carico del mondo e della sua infelicità (così come dell’ultimo rigore da tirare) e il non sapere come farlo: le indecisioni, le incertezze, ma soprattutto le parole che mancano, le parole vuote che non vogliono dire niente, che si spengono nel nulla. Il tentativo disperato di «essere fedele agli ideali di quando ero ragazzo» si risolve di fatto in un moto di narcisismo, nell’«io voglio essere amato da tutti». Qui l’impossibilità di amare si trova nell’impossibilità di inventare una vita nuova (per mancanza di un linguaggio 52
L’amore impossibile
nuovo), una vita felice per riscattare la sofferenza del mondo. Una impossibilità che sembra divenire possibile solo in un futuro utopico (il sol dell’avvenire finale) o trasformarsi nella nostalgia di un passato felice, l’unico felice, quello che narcisisticamente ci vede al centro del mondo: l’infanzia, l’amore per la mamma che è soprattutto amore, senza confini e senza pretese, della mamma6. La perdita di confini fra realtà e immaginario, presente e passato comporta l’affondamento dell’azione e della sua progettualità politica in un meccanismo desiderante-rimemorante, nell’“originarietà” dell’acqua. Con Caro diario viene a smarrirsi la rigidità morale e, in fondo, adolescenziale, di Michele Apicella e di don Giulio, e viene a determinarsi una leggerezza che – nonostante il tenore drammatico, soprattutto dell’ultimo capitolo – diviene il tono dominante del film. Dalla crisi della malattia ne esce un uomo nuovo, la cui tensione morale abbandona la ricerca necessariamente fallimentare – e conseguentemente critica – di una felicità astratta, di un amore assoluto, erotico o universale, per accettare l’esperienza in tutta la sua determinatezza, singolarità e incompiutezza. L’inquietudine si risolve questa volta in un giro in vespa, in un solitario giocare a palla in un campo di calcio, o nel bere un bicchiere d’acqua. Sono gesti che indicano una ritrovata armonia fra soggetto e mondo, e ribaltano l’omicidio di Bianca o il vetro infranto de La messa è finita, segni di un dolore non Una felicità ricordata anche da don Giulio nel finale de La messa è finita. 6
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addomesticato, senza mediazioni, lacerante. La vena malinconico-satirica (primo capitolo), quella esistenziale-ironica (secondo capitolo) e quella drammatico-comica (terzo capitolo) non mettono in questione una sorta di gaiezza che attraversa il film, dove l’intreccio tra erranza del personaggio e sua trasformazione caricaturale non mette in questione uno sguardo leggero sulla vita, lontano dall’intransigenza nevrotica o dal romanticismo malato dei suoi film precedenti. È come se l’amore per la vita, accompagnandosi ad una spinta più gioiosa, stemperasse anche il dolore che sempre l’accompagna. In Aprile troviamo una conferma dell’alleggerimento dell’istanza morale, dove è propriamente tematizzata una scissione incomponibile fra dovere e piacere: da un lato il film da fare sull’Italia e sui suoi cambiamenti politici, dall’altro il desiderio irrealizzato di un musical sul pasticciere trotzkista; da un lato la sfida di «un uomo che deve diventare adulto», dall’altro la domanda «perché diventare adulto?»; da un lato l’esigenza di testimoniare – ed ecco il compito dell’artista – avvenimenti privati e pubblici, dall’altro la voglia di fare ciò che ci piace («Devo filmare quello che mi piace»). Ma se da un lato il fare ciò che si pensa di dover fare porta ad un totale fallimento (del materiale girato non se ne fa più nulla), dall’altro, forse, è facendo ciò che ci piace che facciamo ciò che dobbiamo, cioè troviamo la felicità, intesa, da un punto di vista etico, come realizzazione di noi stessi, lontano dal carattere prescrittivo della morale. E allora, forse, piacere e dovere si ritrovano non dal lato della morale ma da quello dell’etica: per cui l’unica cosa che 54
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conta è dare senso alle nostre esistenze, portarle a compimento, e questo può accadere solo rispondendo ai nostri desideri. È l’esperienza indiretta e mediata della morte a liberare l’eterno desiderio di fare un musical dal peso schiacciante di dover filmare l’Italia e i suoi cambiamenti politici: esperienza derivante dalla “spazializzazione del tempo”, dalla misurazione su un metro di quanto ci resta da vivere. Il breve tratto di vita che ci separa dalla morte non porta più all’anticipazione di quest’ultima attraverso il carattere (auto)punitivo dei principi morali astratti, tendenti proprio a delimitare, e di fatto a interdire, la vita altrui e la propria. La consapevolezza del breve tratto di vita che ci resta, comunque, da vivere, serve a liberare il desiderio per la sua possibile realizzazione; serve, se possibile, a realizzare i sogni, di certo ad inseguirli. Con La stanza del figlio il neo-padre di Aprile, che accompagnava la nascita del figlio con quel tanto di compiacimento e protagonismo narcisistico, diventa il padre e l’uomo adulto pienamente realizzato, professionalmente e privatamente. Una vita familiare serena, con moglie e due figli, un lavoro impegnativo e responsabilizzante – psicoanalista –, svolto con capacità e professionalità. Qui l’amore per una donna o quello universale per l’umanità, o quello ideologico per il popolo, si è fatto ménage matrimoniale, trasformandosi in amore per la moglie e per i figli. Un amore pienamente, felicemente, e serenamente realizzato nella convivenza a quattro che sostiene la vita di un gruppo familiare. Qui finalmente quella famiglia felice e serena che era stata immaginata e pensata come orizzonte utopico 55
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nei film precedenti diviene una realtà, e l’amore sembra il collante che tiene insieme quel micro-gruppo che è una famiglia. Ma dietro questa immagine di serenità e di amore si nasconde il dolore, la morte, ma non tanto e non solo come qualcosa che dall’esterno viene ad interrompere un idillio, quanto come qualcosa che è interno all’idillio stesso, che fa parte del suo stato di serena immobilità. È la morte che accompagna l’entrata piena nel mondo adulto, quando l’orizzonte del possibile sembra restringersi e definirsi; e proprio in questa definizione, nell’acquisizione di sicurezze e certezze, è contemplato il sentimento della certezza più irremovibile, quella della morte. È proprio nel passaggio alla piena giovinezza del figlio che è inscritta, non solo la morte di quanto di adolescenziale e giovanile poteva essere presente nel padre, ma anche di quanto di paterno (e quindi in un certo senso di simbolicamente necessario) rimaneva nel padre stesso: la crescita del figlio è la morte del padre. E questa morte è tanto più inaccettabile in quanto quella crescita avviene al di fuori dell’“immagine” del padre, e quest’ultima viene restituita alla sua intollerabile superfluità. È una morte come inesorabile accantonamento, al quale il padre risponde con un desiderio inconfessabile: sacrificare il figlio all’ideale del Padre e della Legge (infranta da un furto non confessato). L’impossibilità d’amore per un soggetto adolescenziale, amore erotico o universale, le sofferenze e i dolori che accompagnano l’amore irrealizzato o l’impossibilità d’amore non sono nulla rispetto all’ansia di un amore compiuto, il suo compimento 56
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coincidendo proprio con l’unione matrimoniale e con il divenire famiglia. È l’ansia di chi sente in quel compimento quello più grande e temibile: il compimento della vita, e quindi la morte. Davanti a quest’ansia (che è angoscia nei confronti della morte e del dolore) non sembra esserci spazio per nessuna rappresentazione comica. Tutto è affidato al circuito fra la morte e il dolore, con sullo sfondo il circuito più profondo e più inquietante: quello fra la serenità familiare (e la stabilizzazione affettiva) e la morte, fra il divenire adulto e il prezzo reale e simbolico che accompagna questo divenire. Con Il caimano, l’amore, colto nella sua dimensione coniugale (se si eccettua l’accenno alla relazione saffica della Trinca), viene rappresentato nel momento della crisi, della sfaldatura della coppia, dove emerge un elemento importante e nuovo: non più l’aggressività giudicante, ma un sentimento di spaesamento, di sconcerto, da parte del personaggio maschile, rispetto a una separazione che non vuole accettare. E ripiega su un duplice infantilismo, quello che lo porta ad “appaiarsi” ai suoi figli (la prima immagine della famiglia ce la mostra tutta intenta a cercare mattoncini di lego), e quello che lo induce a sollecitare la compassione di lei. L’amore di coppia, rifuggito, cercato, esorcizzato, passato attraverso il pathos tragico, nel Caimano trova il suo momento ironico e spaesante: l’uomo non aggredisce più, cerca con la sua insufficienza e il suo dolore i fili labili di una (im)possibile ricucitura.
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Il cliché e I TRAVESTIMENTI DELLA REALTÀ
Uno dei grandi temi del cinema di Moretti è quello del linguaggio, dell’atto di parola, del suo rapporto con la realtà, della sua possibilità di mascherare e di celare, ma soprattutto del suo appartenere a tutti. La parola è sempre già segnata diacronicamente e sincronicamente: da un lato appartiene al passato della tradizione, dall’altro al presente dell’uso quotidiano. Un uso che in una società dominata dai mass media rischia di diventare stereotipato. È il dominio del cliché, la cui trasparenza e comprensibilità è segno anche della sua vacuità, della sclerotizzazione e del mascheramento del senso che opera, togliendo spazio a ogni parola nuova che inventi e generi un nuovo mondo. Come il linguaggio maschera la realtà? In Ecce bombo c’è un passaggio significativo e famoso, nel quale Michele incalza una ragazza per sapere quale realtà si celi dietro il carattere evasivo delle sue risposte. Il «faccio cose e vedo gente» con cui la ragazza parla di se stessa allude a tutta una forma del vivere, che sembra obliare il principio di realtà, e quindi non permette di spiegare la provenienza di «questa sigaretta, di questi vestiti». Il linguaggio allude a tutto un mondo di relazioni deboli, di aperture totali, di contatti infiniti, che rendono inassegnabile la “pro59
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prietà”, e quindi indefinibile l’identità: si indossano abiti regalati, in prestito, si fumano sigarette non comprate, si alloggia in case non proprie, si è in un certo senso ospiti della vita e del mondo. La messa in disponibilità del soggetto, con la conseguente fuga dalla realtà che questa comporta, trova nell’allusività del linguaggio la forma principale di rivelazione. In Ecce bombo il linguaggio viene aggredito non solo quando si fa allusivo e maschera, ma anche quando si fa modo di dire regionale, italiano dialettizzato («Silvia e non la Silvia, … cacare e non cagare» obietta Michele alla madre), cliché che risponde ad un’attitudine (come nei lecca-lecca linguistici degli adulti: «Dadà, Dedè, Dudù»), slogan qualunquistico («rossi e neri sono tutti uguali»). Ma il linguaggio si manifesta in tutta la sua inafferrabilità e inaccettabilità quando viene a codificarsi in linguaggio giornalistico. Come è esemplificato dalla recensione a Henry, pioggia di sangue che Moretti legge parodiandolo in Caro diario, dove è proprio l’allusività e cripticità del linguaggio («puro pus underground») ad essere fatta oggetto di critica. Un linguaggio che attraverso la sua forma criptico-allusiva si fa allo stesso tempo inafferrabile, indefinito, ma anche “mirato”, perché riferito ad un destinatario determinato, sia pur di nicchia. Coniugare nicchia e indefinito significa mettere in opera un rituale, fare della scrittura il luogo istituzionale dove si fonda e si riconosce una setta con il suo linguaggio per iniziati. Ma un linguaggio rituale si sottrae sempre alle istanze conoscitivo-interpretative che dovrebbero animare il discorso critico. Ma c’è una inafferrabilità contrapposta a quella 60
Il cliché e i travestimenti della realtà
del linguaggio criptico e allusivo; una inafferrabilità che passa per l’assoluta trasparenza, per la mancanza di opacità del cliché, dello stereotipo, del luogo comune. Il linguaggio nuovamente maschera un vuoto: la riconoscibilità immediata della parola, la sua circolazione infinita, svincolata da nicchie e settori sociali, e santificata dal linguaggio giornalistico, va di pari passo con la sua perdita di senso. Qui ciò a cui la parola si riferisce è fin dall’inizio un già-pensato da tutti, che equivale al non-pensato da nessuno. E se ogni parola parla da sé, il cliché è la parola che dice il suo essere da sempre già stata detta e quindi compresa, e si illude di eliminare ogni fraintendimento, riducendo le oscillazioni interpretative. La trasparenza vitrea del cliché stacca la parola dalla realtà per inscriverla nell’autosufficienza di un circuito comunicativo senza soluzione di continuità. Le parole non si riferiscono alle cose, al mondo, né esprimono la soggettività di chi le usa, ma circolano attraverso i parlanti e non appartengono a nessuno. Sono gli intollerabili cliché giornalistici, popolati di anglismi (trend, cheap), o i luoghi comuni che animano il gergo sportivo («questo non è uno sport per signorine»), o – sempre in Palombella rossa, ma anche nel Caimano – il linguaggio vuoto della politica che fa da supporto ai cliché ideologici e politici, all’ideologia come mascheramento del reale. Questo è un punto importante, perché nella sfera politica, come massima sfera dell’azione pubblica, si vengono a realizzare i travestimenti e gli occultamenti più potenti della realtà. Gli schemi ideologici sostituiscono la realtà, e l’ambiguità connaturata al linguaggio 61
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politico (i sensi differenti che vengono attribuiti a termini come libertà, uguaglianza, democrazia) si trasforma nell’inafferrabilità dei discorsi della politica, nel loro carattere sofistico che ne determina la potenza seduttiva (Il caimano): di nuovo una sorta di autosufficienza di un discorso che basta a se stesso e che elude e nasconde la realtà. E allora, ancora in Palombella rossa, la parola politica, stanca e vuota, si converte e si libera in canzone. Michele, durante una tribuna politica, rispondendo ai suoi intervistatori, passa da un accenno serio e stanco di risposta, «Questo sentimento popolare…», ad intonare la canzone di Battiato «…nasce da meccaniche divine». Canzone che sarà ripresa e cantata dal pubblico in piscina. Ma il linguaggio può incepparsi, tornare su se stesso, farsi intransitivo nell’ossessività di una ripetizione: è il «Marca Budavari!» ripetuto da Silvio Orlando, allenatore della squadra di pallanuoto. O può, percorrendo il filo di un’antinomia logica e un equilibrismo linguistico, mostrare tutta l’ambiguità e la contraddittorietà di un pensiero e di un sentimento politico, come nello slogan che Michele torna a ripetere: «siamo uguali, eppure diversi»1. La parola come cristallizzazione e sclerotizzazione del senso (cliché) e la parola come supporto al travestimento ideologico della realtà. È il costitutivo rapporto con la parola in quanto parola altrui che si fa parola di tutti e che non riesce a farsi parola propria, a
È lo slogan che sintetizza in forma icastica la conflittualità moderna fra eccezione e regola, individuo e società, individualizzazione e norma, particolarità e generalità.
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Il cliché e i travestimenti della realtà
determinare l’unico possibile contatto con la realtà. A questo sembrano fare eccezione da un lato il cliché che esibisce e palesa il suo essere tale, il cliché “estetico” e “popolare”, fattosi canto o finzione (il Dottor Zivago in Palombella rossa, ma più in generale la presenza della musica leggera nel cinema di Moretti), dall’altro l’uso del linguaggio come invocazione d’aiuto (il grido davanti alla videocamera in Sogni d’oro), o alla mamma, come appello ad un passato felice che non c’è più («le nugatine di quand’ero bambino…») e che non può tornare, se non nel ricordo. Nell’invocazione il linguaggio si fa preghiera, orazione; si sottrae al circuito comunicativo, diventa grido e appello a qualcosa che ci faccia uscire dall’inautenticità del presente. Ma è un appello disperato, senza fede (e senza trascendenza), e quindi non può che cadere nel vuoto. Ma l’uso del linguaggio corrisponde a forme di vita, a modalità di pensiero. Se «chi parla male, pensa male» – come dice Michele in Palombella rossa, aggiungendo che «per inventare un linguaggio nuovo bisogna inventare una vita nuova» –, allora come è possibile trovare, nella diffusione degli stereotipi che definiscono i circuiti comunicativi della contemporaneità, una parola nuova, originaria? È l’interrogativo di Aprile, dove è in gioco nuovamente la questione della politica e del suo linguaggio. E il «D’Alema dì qualcosa di sinistra, dì qualcosa!» non è tanto l’ironia su un certo modo di fare politica da parte della sinistra, quanto un’osservazione letterale sulla mancanza di parole, di parole nuove, di parole che aprano nuove vie, politiche, e quindi sociali e individuali. Ma la mancanza di nuove vie, 63
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l’impossibilità di sottrarsi al cliché, di inventare un linguaggio nuovo coinvolge lo stesso Moretti, incapace di trovare egli stesso un racconto per le trasformazioni politiche dell’Italia degli anni Novanta, incapace di dire ciò che pensa, perché «non so cosa penso»; incapace di fare delle domande nuove, siano esse rivolte agli albanesi sbarcati in Puglia o al deputato che decide di non ricandidarsi. E qui emerge l’unica possibile felice strada creativa, non tanto per cambiare e reinventare il mondo, quanto per “sopportarlo”, per demistificarlo, per lasciarlo emergere per quello che è: un insieme asfissiante di cliché; è la strada della restituzione satirica, caricaturale, dell’identità di pensiero e linguaggio nel cliché e nella sua diffusione asfissiante. Non rimane altro da fare che prendere in giro i cliché interni ed esterni che definiscono la nostra vita; e nel prenderli in giro prenderne le distanze senza poter individuare e generare nulla di più e nulla di meglio. Avvolgersi in un rotolo gigantesco formato da tutti ritagli di giornali: è questa l’immagine che riassume, allo stesso tempo, la copertura protettiva del cliché rispetto all’abisso di non senso, al dolore, alla sofferenza, e il suo carattere soffocante: perché nella rimozione di quel dolore, di quella sofferenza, c’è anche l’allontanamento di ogni possibile gioia e felicità. Quello che rimane è, da un lato, la nevrosi o la ninnananna catodico-comunicativa: dissoluzione di ogni interiorità ed esteriorità a vantaggio dell’unificazione dell’interno e dell’esterno, del pensiero e del linguaggio, del sentimento e del comportamento, nel cliché e nello stereotipo; dall’altro, è l’inquietante adesione a quei cliché, il dare loro linfa con sofismi 64
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linguistici e seduttivi, che definiscono le forme di una politica o meglio di un esercizio del potere, ad abolire ogni limite tra il proprio e l’improprio, l’istituzionale e il familiare, il privato e il pubblico, in un circo linguistico-mediatico, dove si vince se si è capaci di assumere insieme, senza alcun pudore, maschere diverse (Il caimano). Tutto radicato in uno spazio sociale, sia esso quello pubblico della politica che quello privato della nascita di un figlio2, il personaggio-Moretti non trova le forme di un dire nuovo, se non nella trasfigurazione estetico-fantastica del reale nel musical da fare sul pasticciere trotzkista nell’Italia degli anni Cinquanta. Impossibilitato ad essere cambiato, e perfino compreso, il reale può essere solo oggetto di trasfigurazione immaginaria ed estetica, animato esclusivamente dalla liberazione e realizzazione allucinatoria del desiderio. Porre la questione del senso dell’esperienza e dell’esistenza come radicalmente connaturato ad uno spazio sociale e fare di questo il luogo della distribuzione e diffusione di cliché significa porre la questione della parola altrui sotto l’onnipotenza della parola di tutti, della parola-cliché. Estrarre da questa parola altrui cristallizzata una parola nuova, una parola “propria”, una parola “poetica”, è impossibile. E
Anche in questo secondo caso la nascita del figlio è (quasi) sempre inserita, pensata e sentita in un contesto sociale: familiare (compagna e nonni) o coinvolgente una stretta cerchia di amici.
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non viene a determinarsi, se non raramente (e penso alla visita al monumento di Pasolini), neanche quella precondizione per la determinazione di una parola poetica, quel silenzio, quell’ascolto, quella sospensione del caos assordante, a cui faceva riferimento Fellini nel finale de La voce della luna. La parola-cliché non può essere depurata, rinnovata; e il linguaggio come forma di vita non riesce a trovare e a inventare nulla di nuovo. Il romanzesco della parola altrui si converte nel comico, e l’unica operazione possibile è la caricatura e la presa di distanza comica dal nostro appartenere ad una parola che, in quanto cliché, è parola di tutti e di nessuno. È l’estraneità familiare di un mondo come consolidato di cliché interni ed esterni, dove è affermata l’identità e l’indistinguibilità dello slogan e del pensiero: un pensiero che procede per slogan, e uno slogan animato da un contenuto noetico ridotto. Al di là di questo c’è il silenzio, il dolore muto (Ecce bombo), il ritirarsi dal commercio del mondo (Isole in Caro diario), l’impossibilità di dire e di raccontare (Aprile) lo spaesamento (Il caimano), la sofferenza senza parole; come quella che ne La stanza del figlio porta il padre a strappare lettere su lettere, incapace di comunicare all’amica del figlio ciò che è accaduto. Il grande dolore blocca la parola, la parola che cura (Giovanni interrompe il suo lavoro di psicoanalista); interdice la scrittura, impedisce il racconto, condanna al silenzio. Rimane solo un contatto umano, un viaggio in macchina, il disperdersi su una spiaggia: il tutto senza parole, senza parole salienti che possano far comprendere, accettare, avviare una nuova possibilità di vita. Sono il silenzio e il dolore 66
Il cliché e i travestimenti della realtà
a collocare tragicamente il soggetto in un al di là del linguaggio, della “medietà” sociale e comunicativa, e a porlo in un isolamento tragico. L’impossibilità di un dire nuovo, autentico, lascia solo al silenzio l’unica strada per sottrarsi al “circo” comunicativo, a quell’obbligo di dire (accompagnato dall’impossibilità di dire in forma nuova) che costituisce – direbbe Barthes – il carattere «fascista» della lingua. La totale riduzione del linguaggio a cliché, l’appaiamento e l’indistinzione fra cliché interni ed esterni (pubblicità e ricordi si sovrappongono nella piscina di Palombella rossa) sono segni che definiscono tutta la modernità novecentesca, dove la radicale trasformazione delle forme di vita sociale, la dominanza di quelle che Simmel ha chiamato le forme della cultura oggettiva (incarnate esemplarmente nella società contemporanea dai mezzi di comunicazione di massa) hanno determinato un cambiamento radicale nei rapporti soggetto/oggetto. Quest’ultimo, smarrito il suo carattere istituzionale e burocratico, gigantesco e lento, che sosteneva la forma-Stato, si è frammentato, dinamizzato, velocizzato, urbanizzato (reso indissociabile dalla metropoli), connesso non più al soggetto del sapere né a quello del fare, ma ad un soggetto desiderante, preda di un desiderio infinito ed errante, smarrito in una eterogeneità e frammentarietà di stimoli, rispetto ai quali il cliché funziona da argine, da difesa, con la sua capacità di preservare anche dall’esperienza, dalla fatica e dal rischio che l’accompagnano. Il cliché costituisce allora il minimo comune denominatore fra soggetto e mondo, il collante di una 67
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unificazione posticcia e fragile, che trova nei mass media il veicolo di trasmissione e diffusione. E non è un caso che un film come Palombella rossa sia allo stesso tempo un film sul linguaggio e sul cliché e un film che racconta il precipitare vertiginoso (in seguito ad uno choc) di frammenti di esperienza e di immaginario, che sovrappongono privato e pubblico, infanzia ed età adulta, ricordo ed utopia: una sorta di girotondo fantasmagorico tenuto insieme dalla circolazione infinita dell’impersonalità trasparente del cliché. La pubblicità (i torroni in piscina) e l’immaginario filmico (il Dottor Zivago), la politica e la musica leggera, le «merendine» dell’infanzia e le torte del presente, i cliché e il linguaggio ossessivo scorrono in una sorta di rullo continuo, in una impersonalità e in un anonimato, in cui sembrano essersi dissolti il mondo e l’io.
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Parte II
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LA MASCHERA, IL PERSONAGGIO, LA FIGURA
Due tipi possibili di costruzioni narrative: quelle che collocano il personaggio nella storia, nel plot, nell’intreccio, che, facendosi dominante, riduce il personaggio ad una sua funzione; quelle invece che discendono dal personaggio, che tendono ad individuarlo, a definirlo, di fatto a tipizzarlo, e che derivano cioè dal farsi maschera del personaggio. Nel primo caso sarà centrale l’architettura narrativa, lo sviluppo dell’intreccio con i suoi climax e le sue risoluzioni, nel secondo conterà la successione e la serie di motivi ed episodi distribuiti orizzontalmente sul piano narrativo. Nel primo caso possiamo parlare di vera e propria forma narrativa, nel secondo di forza racconto; nel primo caso è possibile parlare di logica narrativa, di rapporto fra intreccio e fabula, nel secondo di aleatorietà del racconto nella messa in serie degli episodi; nel primo caso di irreversibilità e unidirezionalità del movimento narrativo, nel secondo di reversibilità, di scambio, di assenza di progressione. Il cinema di Nanni Moretti appartiene, fondamentalmente, a questo secondo tipo di costruzione narrativa. Non troviamo mai – tranne rare eccezioni – la formazione di un arco narrativo con sviluppi e risoluzioni. Abbiamo invece la distribuzione oriz71
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zontale di episodi1, l’attraversamento di situazioni che “confermano” il personaggio-maschera (Ecce bombo); oppure la divisione, il triplicarsi delle situazioni (realtà, incubo, finzione) e il loro snodarsi parallelo in Sogni d’oro o nel Caimano; o l’attraversamento di situazioni che non fanno che confermare un modo d’essere del personaggio e la sua estraneità al mondo (La messa è finita); o il sovrapporsi di realtà e immaginario, percezione e ricordo, che determina il carattere assorbente e fantasmagorico della situazione stessa (Palombella rossa); per giungere alla struttura ad episodi di Caro diario, o allo sviluppo episodico, che intreccia due situazioni parallele, private e pubbliche, di Aprile. Sembrano fare eccezione Bianca e La stanza del figlio. Nel primo caso, l’eccezione è apparente, perché dietro la veste del giallo si snoda un film sulla malattia, sull’ossessione maniacale, sul congelamento affettivo e sentimentale, su una logica (quella di un professore di matematica) e una morale (rigida) che rispondono alla debolezza di un soggetto costretto,
«La struttura narrativa del film [Ecce bombo] risponde pienamente a questa assenza di legami proponendo un racconto in frantumi, un assemblaggio di sequenze compiute, un affastellarsi di unità drammatiche concluse. Ecce bombo viene a sostenersi su una narrazione essenzialmente paratattica che non prevede secondarie di diverso grado, bensì una catena apparentemente interminabile di coordinate. Ogni sequenza rappresenta un microevento, mette in scena un dolore che nasce e si consuma», F. Villa, «Oggi farò delle belle riprese, sì, anche se mi vergogno un po’». Percorso nel raccontar leggero, in AA. VV., Nanni Moretti, Paravia/Scriptorium, Torino 1999, p. 56.
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La maschera, il personaggio, la figura
per non saper vivere, a farsi giudice. Nessuna forma del giallo, né ricerca di indizi, né scoperte, né inseguimenti, né suspense; semmai un accordo e una sintonia fra Michele e il commissario sotto il segno di una loro comune solitudine e sofferenza. Ciò che vediamo non è lo sviluppo di un intreccio, ma lo snodarsi di episodi ed incontri che presentano e identificano la rappresentazione di un soggetto malato: la presa di possesso di una nuova casa, la scuola, l’incontro con Bianca, i vicini di casa; tutte situazioni che sono come tappe progressive di un sempre più radicale disadattamento del soggetto. Tutto discende dal soggetto e dai passaggi che definiscono la sua sempre più radicale estraneità al mondo, che culmina con il suo arresto. È con La stanza del figlio che la forma narrativa viene a cambiare, con il farsi dominante della struttura diegetica, dell’intreccio, sul personaggio. È la costruzione della storia che assoggetta i personaggi e arriva, di fatto, all’annullamento della maschera (non c’è più nulla da ridere). Ciò che conta qui è la messa in opera di un modello narrativo, di una struttura diegetica che fa irrompere un evento tragico in una situazione di partenza serena. E questo evento coinvolge un nucleo familiare: la sua unità, la sua separazione, la sua possibile ricomposizione intorno ad un “vuoto”. I personaggi sono subordinati a ciò che accade, all’inesorabile e astratto piano narrativo che prevede l’irruzione catastrofica di un evento tragico, che disgrega un’unità familiare e che porterà a sviluppi imprevedibili. Niente più spazio per l’«autocentricità» del personaggio, né per quella dell’attore. Tutto rientra e 73
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viene assorbito dalla finzione e dalla storia. C’è una evidente connessione fra tema e storia che rende il film più raccontabile rispetto agli altri, e dunque più riassumibile in termini narrativi. E questo non fa che rendere ancora più evidente la frattura fra La stanza del figlio e i film precedenti. Siamo molto distanti dalle erranze dei primi film: le tre parti, individuate dai luoghi – città, collina, teatro –, che articolano lo spazio e la narrazione in Io sono un autarchico; il mondo-acquario di Ecce bombo, dove l’erranza, il girare e il parlare a vuoto dei personaggi avvengono in spazi non determinati (i tavolini e le sedie di un bar anonimo, la stanza vuota delle sedute di autocoscienza), e la narrazione si definisce come serie, catena di episodi-racconto. È all’interno di un ambiente determinato e definito che può svilupparsi un’azione e quindi una storia quale che sia (la storia non essendo altro che racconto delle azioni). Ma in un ambiente che perde i principi di connessione e misurabilità, che smarrisce la differenziazione fra spazi pubblici e privati (come quando il gruppo di amici cerca un cineclub e piomba in una casa privata), fra amore e teatrino narcisistico2, il soggetto, sottratto alla sua capacità di incidere su situazioni e cose, viene abbandonato alla sua passività, o ad un’attività surplace, un’attività sterile;
Questo accade nelle simulazioni al telefono dell’approccio amoroso: «Sono innamorato di te… Mi intimidisci molto…», o nelle enunciazioni che accompagnano la fine di un rapporto: «Non so stare insieme ad una donna. Mi disprezzo. Sono fatto male. Oh! Come sono fatto male! Come sono fatto male!».
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La maschera, il personaggio, la figura
non gli resta che l’erranza, motoria e mentale, come sintomo di un disagio profondo. Ciò che marca in forma distintiva il film è il rapporto che si viene a determinare fra chiusura spaziale, una vera e propria claustrofilia, e chiusura delle situazioni nelle quali vengono a trovarsi i personaggi. L’indeterminatezza dello spazio, che talvolta sembra arrivare ad una sorta di astrattezza, caratterizza quasi tutti gli ambienti chiusi, privi di finestre e di fonti naturali di luce, che ci sono restituiti attraverso luci artificiali (esemplificativa è la stanza dove si riunisce il gruppo di amici), ma anche gli spazi aperti, molto più rari, spazi non marcati significativamente (lo sterrato dove Michele si incontra in automobile con Flaminia, la moglie del suo amico Cesare; o il prato sul quale parla con un’amica; o il mare di Ostia, dove non è naturalmente possibile vedere l’alba, ma il tramonto). I micro-eventi narrativi che si sviluppano in questi spazi non solo non sono marcati da nessun tratto decisivo per lo sviluppo della storia, ma tendono a dissolversi, a sfumare, prima di qualsiasi possibile compimento. Domande senza risposte, fughe ingiustificate, sospensioni delle interlocuzioni, gesti estemporanei che scartano l’interazione e la dialogicità. La narrazione non opera quindi alcuna sintesi di elementi eterogenei, ma restituisce l’iteratività estraniante di una serie di esperienze tutte uguali (perché marcate e segnate da cliché ideologico-generazionali): si racconta il ritorno del sempre uguale non come ciò in cui ci ritroviamo, ma nel quale veniamo a smarrirci. Non è il sempre uguale del quotidiano, la continua infinita banale prassi quotidiana, l’agire grigio e a-eroico 75
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che regge le nostre vite. È l’essere nullafacenti, il vuoto che attraversa il tempo quotidiano e che trova rispondenza nello spazio vuoto e chiuso. In Sogni d’oro, la situazione è segnata, non da un insieme di luoghi dove accadono o si ripetono fatti nella loro irrilevanza, ma da un insieme di prassi che si sovrappongono e si confondono nella loro omogenea eterogeneità: il piano di realtà del regista che deve girare un film, quello della finzione che riguarda il set del film “La mamma di Freud”, il piano oniricoimmaginario, delirante, che vede Michele invaghito di una ragazza, fino alla sua finale metamorfosi in licantropo al grido di: «Sono un mostro e ti amo. Io ti amo. Non voglio morire». Qui abbiamo la vera e propria trasformazione di una situazione definita da un insieme di frammenti, di stasi, di catatonie, di isterismi, di nevrosi, in una situazione mentale, nella quale vengono a sovrapporsi e ad intrecciarsi realtà, finzione, sogno. I tre luoghi e i tre momenti di Io sono un autarchico, le situazioni dispersive di Ecce bombo, precipitano in una situazione che trasforma la crisi del soggetto in scissione, in moltiplicazione “mentale”, che determina una zona di indiscernibilità fra il grottesco del regista che litiga con il suo concorrente nel quiz televisivo, quello di Freud che svende i libri su una bancarella, e quello di Michele che si trasforma in mostro, in licantropo. È il mostruoso di chi (il regista) partecipa ad un match televisivo a base di insulti; è la malattia di chi (il personaggio del film) si crede Freud, non diversa da chi (il professore) diviene per impossibilità d’amore, e quindi per dolore, un mostro. La narrazione si smarrisce, si perde, non riesce 76
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a tenere insieme realtà, finzione e sogno nella loro sovrapposizione, che fa del regista, del personaggio che si crede Freud, e del professore, le tre figure nelle quali si viene a scomporre una stessa identità. Il disadattamento del soggetto si fa malattia, cioè perde i connotati di un disagio esistenziale per farsi malessere profondo, con gli approdi e le derive che ne conseguono. È Bianca, dove storia e personaggi sono di fatto proiezioni di Michele. Nessun reale sviluppo narrativo, nessun accadimento che muti realmente il corso delle cose, nessuna rivelazione, ma dall’inizio (Michele che prende possesso della sua nuova casa e disinfetta il bagno dando fuoco ai sanitari) alla fine (Michele che viene arrestato per gli omicidi commessi) non esiste che il percorso nell’ossessione e nel dolore che la anima. I personaggi che ruotano intorno a Michele sono frammenti che rifrangono e riflettono la sua identità ferita: le coppie che si separano (dirimpettai e amici), quelle che non si compongono (Michele e Bianca), quelle che si costituiscono (in una sorta di doppio speculare) per un comune sentire, ma per un diverso (re)agire (Michele e il commissario). E sono le tappe di don Giulio ne La messa è finita, i passaggi che scandiscono il suo isolamento, la sua incapacità di comprendere, di partecipare, e che lo costringono alla partenza, alla fuga. Anche qui la storia discende dal personaggio, in questo confermandone un certo tratto di maschera. Gli incontri, i passaggi, gli episodi non formano un arco narrativo, ma rappresentano l’acuirsi sempre più deciso della dissonanza fra soggetto e mondo, personaggio e situazione. Il dolore e la sofferenza che attraversano il 77
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personaggio velano la fissità comica della maschera, la rigidità del suo moralismo, la sua pretesa di imporre la felicità. La coralità dei personaggi è di fatto modulazione e variazione di una stessa situazione, quella che rivela il dolore che attraversa le esistenze umane, destinate ad una incompiutezza e precarietà che non vengono accettate da don Giulio. Ma è Palombella rossa che evidenzia quello che propriamente sono stati i personaggi di questi film, cioè figure mentali e grottesche, proiezioni del personaggio-maschera di Michele. Palombella rossa esemplifica tutto questo, costruendo una sorta di spettacolo di attrazioni, di maschere che si succedono divenendo profili frammentari di un’identità esplosa, e radicalizza l’episodicità narrativa trasformando un luogo reale, la piscina, in uno spazio mentale. Con Palombella rossa saltano tutte le distinzioni e differenziazioni spaziali e temporali, reali e immaginarie; e con loro le forme drammaturgiche fondate sull’illusorietà della finzione. L’ambiente piscina non è il luogo dell’azione, ma lo spazio mentale della visione, dove circolano maschere, linguaggi, frammenti di passato e di presente, e dove l’amnesia di Michele, in seguito ad un incidente, ad uno choc, determina una messa in questione radicale dell’identità. La narrazione non è più veridica, non tende più alla verosimiglianza, ma accede ad una verità colta attraverso la resa indiscernibile di realtà e immaginario, percezione e visione, presente e passato, finito e infinito (l’infinità dell’utopico sol dell’avvenire con cui si chiude il film). È l’identità cervello-mondo (le stratificazioni del primo e la complessità del secondo) ad essere posta sotto il segno della diffusione di 78
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cliché interni ed esterni, linguistici, comportamentali, ideologici. Per accedere ad una verità bisogna disfarsi della connessione automatica che regge la sfera della prassi (ideologia, linguaggio, comportamento), e la malattia, la sospensione delle coordinate spaziotemporali del quotidiano, è la precondizione per avviare una nuova comprensione di se stessi e del mondo. È quello che accade a Michele in seguito all’incidente d’auto. Questa identità cervello-mondo, anche se sotto il segno del cliché, è l’approdo più radicale dell’identità del personaggio e della situazione, o meglio della trasformazione del personaggio, del suo cervello, in situazione. Fare del personaggio e del suo funzionamento cerebrale, non un motore della prassi per modificare le situazioni, né uno sguardo passivo sospeso nella situazione, ma la situazione stessa da mettere in immagine significa trasformare radicalmente le forme di rappresentazione, sottraendole alla convenzionalità dell’“imitazione d’azione”, dell’interazione organica uomo-mondo, per aprirle all’insieme di forze che compongono la situazione e che presiedono alle relazioni, congiunzioni, stasi, sinapsi del funzionamento cerebrale. Non un cervello totalmente interiorizzato, un’interiorità psichica scissa dalla prassi sociale, bensì un cervello in contatto costante con questa, segnato da questa prassi, e in primo luogo dal linguaggio. Se il cliché salda l’interno e l’esterno rendendoli indistricabili (lo stereotipo essendo allo stesso tempo sociale e mentale: viene a dissolversi in esso qualsiasi spazio di distinzione), la malattia sociale e quella individuale incrinano il cliché e vanno di pari passo, si ritrovano in una contiguità stretta, 79
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che fa della seconda un sintomo della prima e della prima uno spazio di manifestazione della seconda. Ed ecco composto questo grande spazio psicosociale che è la piscina, unione dell’interno e dell’esterno, della psicologia e della società, sotto la potenza e la forza del linguaggio, sospeso fra le merendine dell’infanzia, l’inautenticità del cliché e l’impossibilità di una parola nuova. Palombella rossa è l’approdo più radicale di un personaggio che si è fatto situazione, contesto, e la storia si determina – fellinianamente – come l’insieme di fantasmi, maschere e figure che popolano questo contesto. Ed ecco che la verità, una verità, è quella colta attraverso uno stato patologico, effetto dello choc, nell’indiscernibilità che viene a determinarsi fra pubblico e privato, individuo e società, soggetto e mondo, presente e passato, ricordo e utopia. Il soggetto è costituito nella sua amnesia, nel suo spaesamento, proprio attraverso i frammenti eterogenei di questo caleidoscopio determinato dall’incidente. È l’incidente che determina la cornice narrativa, immettendo in uno spazio-tempo “altro”, carnevalesco, che destruttura e ricompone, sfigura e trasfigura. Con Caro diario salta la mediazione diretta della maschera e occupa la scena il personaggio. Ciò che viene a rappresentazione è un personaggio plasmato direttamente sulla persona, sul suo vissuto, sul suo corpo e sulla sua faccia. Si viene a costituire uno spazio di indiscernibilità fra vita e finzione, fondato sulla simulazione dell’attore, sul suo essere tra la persona e il personaggio: il farsi personaggio della persona e il radicamento del personaggio nella persona. È la 80
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simulazione attoriale ad occupare lo spazio instabile fra la persona e il personaggio. Ma la posta in gioco qui è più importante e riposa sulla tradizione della diaristica, cioè sul farsi storia, finzione, del vissuto. È in questo farsi storia – frammentaria, episodica – che il vissuto ritrova, dovrebbe ritrovare, un qualche senso, il profilarsi di un orizzonte di sensatezza, pur nel carattere “aperto”, incompiuto, delle configurazioni narrative. La struttura a capitoli non fa che radicalizzare l’andamento fortemente e primariamente “episodico” di tutto il cinema di Moretti. Qui, saltata la maschera, rimane l’erranza fra case, isole e medici, di un personaggio modulato sulla presenza dell’attore-autore; qui la pratica di intercessione si fa più forte, perché più illocalizzabile: l’autore diviene con l’attore e questo a sua volta con il personaggio, che è calcato direttamente sulla persona, e cioè, in un senso più generale, come indica l’etimologia, sulla maschera. La forma-personaggio e l’attenuazione della tipizzazione della maschera accompagnano anche la scrittura diaristica di Aprile. La necessità di raccontare un cambiamento radicale nella vita privata e pubblica porta nuovamente ad una sovrapposizione fra personaggio e persona. Qui la storia è il racconto di come l’intensità di una situazione – nascita di un figlio e vittoria politica del centro sinistra – trovi grandi difficoltà a tradursi in linguaggio, ad essere accompagnata dal rinnovamento delle forme del dire: da un lato esigenza (dovere) di dire il nuovo, dall’altro incapacità (impossibilità) di dirlo in modo nuovo. In Aprile la storia discende dal personaggio – dai 81
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suoi stati d’animo e dai suoi pensieri –, ma entrambi discendono dalla situazione. Non è più la strutturazione per capitoli di Caro diario, ma è la presenza di una situazione e del modo con cui preme su un uomo per poter essere raccontata a caratterizzare, da un punto di vista tematico, il film. E se in Palombella rossa il personaggio-maschera si faceva situazione, ora è la situazione che si fa personaggio, personaggi pubblici (Berlusconi, Fede, D’Alema, Bossi) e privati (il figlio Pietro, la compagna, i parenti, gli amici). E questi premono sul regista e sul padre, lo obbligano in quanto artista a sentire il dovere di raccontare, di testimoniare; testimoniare eventi che si ritengono irripetibili e decisivi per il destino individuale e sociale. Qui c’è un personaggio collocato in un momento preciso di una storia individuale e sociale. Ed è proprio il modo in cui un dato momento, un mese (aprile, appunto), ma in primo luogo un evento possano incidere e cambiare la vita di un uomo. Ciò che va raccontato è proprio il sentimento di un uomo in una data situazione, e la sua risposta a quella situazione. Il dovere di filmare ciò che accade, ma anche l’impossibilità di filmare qualcosa per dovere. Se le analogie con Caro diario sono facilmente rinvenibili nell’esposizione in prima persona di Moretti fin nel più intimo (lì la malattia, qui la nascita di un figlio), nel carattere aperto ed episodico della narrazione, la differenza emerge più propriamente nell’individuazione e nell’emergenza di un tema: il rapporto fra l’evento e la parola, fra qualcosa che preme per essere detto e l’incapacità o impossibilità di dire in modo nuovo. La pressione inesorabile ma 82
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sterile di un dovere – dover dire, dover parlare, dover testimoniare – e la gioia per la liberazione di un desiderio – fare un musical – che si collochi oltre il dovere: è su questa differenza che si sviluppa l’asse tematico del film. E, allora, personaggio e storia discendono, in questo caso, proprio dal racconto di una situazione come incarnazione di un tema. È con La stanza del figlio che tutto sembra cambiare: non abbiamo più a che fare con la centralità della maschera, del personaggio o della situazione, da cui discende o deriva la storia con la sua frammentarietà ed episodicità. Qui ciò che conta è in primo luogo la storia e la sua struttura forte, fondata sull’evento tragico, una disgrazia, che irrompe e sconvolge una famiglia felice e serena. I personaggi in un certo senso sono effetto di questo intreccio, sono determinati dalla storia. La morte del figlio determina allontanamenti, colpevolizzazioni fra i membri della famiglia, reazioni differenti, che definiscono l’eterogeneità delle forme di risposta alla morte. La dissoluzione dell’unità organica della famiglia genera l’eterogeneità, la differenziazione, la dispersione dei singoli membri. È nel finale che la struttura chiusa del film si converte in una forma aperta. Quell’unità dissolta – la famiglia – verrà comunque a ricomporsi, pur se privata di un suo elemento? O si dissolverà, animata da una diaspora senza rimedio? Fatto sta che la finzione fa della storia e dell’architettura narrativa un costrutto che domina i personaggi. In questo scompare l’“autocentricità” della maschera, l’“eccentricità” del personaggio, a vantag83
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gio dell’astrattezza della figura (tragica): Giovanni e il dramma che è costretto a vivere e che lo definisce. Vediamo come anche da un punto di vista narrativo questo film manifesti una cesura nella filmografia di Moretti: salta qualsiasi tonalità comico-grottesca, qualsiasi riferimento diretto o indiretto alla maschera, per una struttura totalmente drammatica affidata alla costruzione della storia. È il fatto che sia il primo film di Moretti che, da un certo punto di vista, possa essere narrativamente riassunto in una forma pertinente, testimonia della costruzione drammaturgica fortemente strutturata, quasi codificata, soprattutto nella prima parte fino all’arrivo della ragazza del figlio. Passiamo dalla maschera dei primi film (commedia grottesca: Io sono un autarchico, Ecce bombo) al personaggio-maschera (finzione ancora radicata sulla maschera: Bianca, La messa è finita), alla personapersonaggio (il romanzesco “diaristico”: Caro diario e Aprile), attraverso la figura, che ha annullato ogni residuo legame con la maschera, attenuando decisamente quello con il personaggio (La stanza del figlio), per tornare con Il caimano al trionfo delle maschere, utilizzate anche per dissolvere l’unità del personaggio e della persona. È il caso di Berlusconi che ci viene riconsegnato attraverso la costruzione di ben tre maschere o meglio tre facce di una stessa maschera, la cui somiglianza con l’individuo reale (tranne che in un caso) non esiste e non viene cercata, anzi l’ultima delle facce è costruita sul volto e sul corpo dello stesso Moretti. Con Il caimano l’architettura narrativa, tragico basso-mimetica, de La stanza del figlio viene abbandonata e il film si costruisce sulla messa in relazione di due maschere, quella spaesata 84
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di Bruno Bonomo e quella spudorata del caimano. Il caimano sancisce un ritorno alla costruzione di maschere, il cui tratto distintivo è il ricoprire una zona di indiscernibilità fra il sociale e il politico, il privato e il pubblico. È tutto un percorso che va dalla simulazione della maschera comica, fondata sull’“eccedenza” dell’attore, alla forma più nettamente romanzesca, con la costituzione di uno spazio di indiscernibilità fra vita e finzione, fino all’imporsi di una storia “patetica”, prima di ritornare al gioco grottesco delle maschere. La raggiunta maturità de La stanza del figlio viene ribaltata nuovamente dal grottesco nero del Caimano, dove l’aggressività sostituisce il lutto, l’esagerazione della maschera la profilatura del personaggio, l’episodicità narrativa la potenza dell’intreccio.
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IL CORPO E LO SGUARDO
Il ritaglio che il cinema di Moretti compie sul corpo dell’attore è decisivo per definire le modalità di composizione drammaturgica. La messa in scena – in quanto «profilo grafico dell’azione» (Ejzenštejn) – si definisce a ridosso del corpo nervoso, isterico, idiosincratico dell’attore Moretti. L’assenza d’azione e le composizioni-quadro rendono lo spazio un insieme di ambienti-acquario (Ecce bombo), che contengono e riflettono il personaggio, il suo corpo e le sue tensioni. Drammaturgia centripeta e frammentaria, che annulla e cancella ogni continuità e fluidità narrativa per concentrarsi sul corpo e sulle sue capacità di irradiare tensioni, nevrosi, isterismi. La episodicità narrativa interrompe il movimento del corpo in un atto, in un gesto, in una battuta: è la drammaturgia bozzettistica del corpo-maschera e delle situazioni frammentarie di Ecce bombo, o sono gli arresti del movimento fluido e continuo in vespa (Caro diario), che si risolvono nella piroetta – linguistica, comportamentale – di un corpo comunque compresso. Questa centripeticità e frammentarietà drammaturgica riporta tutto al centro narrativo e visivo: il corpo. Ambienti e personaggi ruotano (e si riflettono) intorno ad un corpo, che a sua volta ruota intorno 87
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al suo asse. E, da questo punto di vista, la messa in inquadratura deriva e discende da una messa in scena che si riduce ad una messa in gioco dell’attore e del suo corpo. E questa messa in gioco passa per una serie di gesti, di atti, di posture, che compongono la coreografia nevrotica e instabile di un balletto grottesco. Da Io sono un autarchico a Palombella rossa, tutta la composizione drammaturgica è incentrata sul corpo-maschera, le cui irradiazioni si proiettano sull’ambiente, facendone qualcosa di indistinguibile e indiscernibile da un luogo mentale, da uno spazio di rifrazione e di proiezione di fantasmi e doppi di una soggettività deflagrata. Il corpo di Moretti, che è «fonte d’irradiazione di violenza e accumulo psichico, sfogo atletico e voce stridula, inermità sociale e prepotenza infantile»1, risponde nella messa in serie di atti e comportamenti ad un disagio del soggetto che giunge fino alla malattia, e che nell’iterazione del gesto, che arriva fino al tic, ritrova una modalità di controllare l’ansia che accompagna sempre un’azione responsabile. Il “tornare su” è un modo di iscrizione della ciclicità nel tempo lineare dell’azione, e quindi un modo per allentare il peso e l’ansia che accompagnano sempre quest’ultima. La centripeticità dei corpi, il loro essere allo stesso tempo luoghi di captazione e di irradiazione di tensioni e di forze, risponde alla centripeticità delle menti, M. Sesti, La bella immagine. Aprile, in AA. VV., Nanni Moretti, Paravia/Scriptorium, Torino 1999, p. 15. 1
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al loro essere luoghi di assorbimento e di diffusione dei frammenti (linguistici, ideologici, comportamentali) di un mondo non più riducibile ad unità, attraversate da un’energia nevrotica, da un’isteria dissonante. Il corpo non può che rispondere alla mente e alle sue incrinature: non c’è nessuna autonomia e sensibilità del corpo; né scoperta, né incontro, né memoria dei corpi: non c’è eros né poesia del corpo (quasi sempre coperto, anche nell’unica scena di sesso, quella “domestica” de La stanza del figlio). E il corpo che risponde alla mente è un corpo sospeso fra stasi e gesto nevrotico. Un corpo in gabbia, oscillante fra immobilità, aggressione e ritualità. È il chiuso, l’incomunicabilità, l’impossibilità di superare l’isolamento mentale (non c’è mai dialogo che sia realmente tale) e corporeo (non c’è mai contatto fra i corpi che sia superamento del loro isolamento), che si ritrova nella chiusura dello spazio e nelle inquadrature fisse e oggettive che costituiscono il mondo-acquario di Ecce bombo; o è lo spazio chiuso del set, della casa e del sogno che si è fatto incubo di Sogni d’oro; o sono le “gabbie” vere e proprie che si costruisce il Michele di Bianca; o è l’“ammollo” (dove fuoriesce e circola di tutto) mentale che domina la piscina di Palombella rossa. Due prassi del corpo sospendono la sua quotidianità e lo dispongono ad una sorta di ritualità addestrata: lo sport e il ballo. Ma, di fatto, lo sport diventa atto più che azione; atto pulsionale, nevrotico, liberatorio, simbolico. La fuga a nuoto che apre La messa è finita o, nello stesso film, il gettarsi a capo fitto di don Giulio con tanto di tonaca in una partita a pallone tra ragazzi, o ancora, in Palombella rossa, il 89
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tirare un rigore in una partita di pallanuoto che diventa atto simbolico che raccoglie reale e immaginario, privato e pubblico, passato e presente: è tutta una vita raccolta in un gesto, in una partita, in un luogo. Ma il “tutta una vita” non rimanda solo a ciò che realmente è accaduto, alla “storia di una vita”, ma a tutto lo spazio di vita – inesauribile – che ha accompagnato gli accadimenti, a tutto il senza-storia che forse è quanto di più significativo una vita contenga: memorie, sogni, utopie, frammenti di immagini, di immaginario, di linguaggi, di corpi, di voci. Una deflagrazione del reale che viene a coincidere non tanto con il possibile (pensabile retrospettivamente solo a partire dall’effettività del reale), ma con il virtuale. Ed ecco che la drammaturgia del corpo diventa drammaturgia mentale. Il corpo in acqua, il corpo sportivo rifluisce e sconfina su una visionarietà che oltrepassa ogni percezione reale, dissolvendone i confini. È un atletismo tutto mentale, un atletismo atrofizzato, amputato: il corpo marca, si smarca, simula, si arresta, tituba, e alla fine sbaglia. È nell’inquadratura in campo lungo di Caro diario (Isole), che vede Moretti giocare da solo in un campo di calcio abbandonato a ridosso del mare, che possiamo trovare una immagine diversa del corpo sportivo, del corpo alle prese con un gesto, una postura atletica: un corpo al quale l’ambiente svuotato e isolato – spazialmente e temporalmente – concede la libertà di un gioco individuale e solitario. È la libertà concessa a chi è collocato – anche temporaneamente – al di fuori della società, nei resti (un campo sportivo abbandonato) della civiltà, alla sua periferia (isola). È come se spazio insulare, periferico, svuotato, concedessero 90
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al soggetto un gesto libero (e liberatorio), autonomo ed espressivo, come calciare un pallone, da solo, in giacca e pantaloni: un calcio senza partita, un gesto senza azione. È l’accordo del soggetto e del mondo dal punto di vista di una loro comune marginalità, espressiva e simbolica. In uno spazio come un campo sportivo, che dovrebbe essere abitato da molti, e in una pratica sportiva collettiva – il calcio –, emerge un gesto solitario e simbolico: calciare un pallone, calciarlo il più in alto possibile, e seguirne la ricaduta, e continuare a calciarlo, senza alcuna finalità che non sia quella dell’assoluta affermazione di una libertà individuale. Piegare e trasformare le regole che presiedono ad una pratica sportiva (e simbolica), e farlo in uno spazio in progressiva desimbolizzazione, restituito – attraverso l’incuria e l’abbandono – alla natura, significa affermarsi in un gesto liberatorio, che passa attraverso un corpo che non risponde più, direttamente, alle pressioni della mente. Per la prima volta sembrano essere il corpo e i suoi gesti a dare a pensare, nella loro incodificabilità e libertà; per la prima volta attraverso il corpo e il gesto sportivo si afferma la libertà che riconcilia soggetto e mondo. Il soggetto e il corpo non sono più il punto di vista deformante dal quale vedere situazioni e ambiente, ma c’è uno sguardo esterno che – in campo lungo – li inscrive nell’ambiente. Lo sguardo si libera dalla sua aderenza eccessiva al corpo-maschera per farsi autonomo, per guardare la poeticità di un gesto che segna l’accordo dell’anima e del mondo (un accordo possibile ai confini della civiltà). Un accordo che sembra accompagnare anche la corsa mattutina di Giovanni in La stanza del figlio, 91
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corsa che si conclude con la bevuta di un bicchiere d’acqua. Ma in questo film lo sport diventa il perno della finzione stessa, lo spazio di rivelazione di un problema (l’arrendevolezza del figlio nella partita a tennis è sintomo della sua colpevolezza per il furto compiuto a scuola e ripetutamente negato), o la causa della disgrazia (la morte del figlio durante un’immersione). Lo sport e il corpo alle prese con il gesto sportivo si caricano di una valenza simbolica: il figlio muore in una grotta in fondo al mare, in una “gabbia d’acqua” in cui ce lo “ricaccia” il padre, in un ritorno “uterino” come risalimento del condotto della generazione e della nascita. Morire tornando al punto dove si è nati significa cancellare quella che è stata la propria presenza nel mondo. Né il corpo né lo sguardo, la drammaturgia sembra subordinata alla pura istanza narrativa, al racconto congelato di una storia (melo)drammatica, perlomeno fino a quello snodo narrativo dato dalla comparsa della ragazza del figlio. Il ballo è l’altro ambito della mobilità corporea (presente ripetute volte nel cinema di Moretti), dove i movimenti del corpo, sottratti alle responsabilità dell’azione, oscillano fra codificazioni ed automatismi da un lato, e un divertente anarchismo dall’altro. Il ballo diventa l’oggetto di un desiderio assoluto, sintetizzato dal musical sul pasticciere trotzkista nell’Italia degli anni Cinquanta (a cui si fa riferimento prima in Caro diario e poi lo si immagina nel finale di Aprile). Qui, sul corpo e sul suo movimento musicale, viene a cucirsi una sorta di nostalgia di una forma: il musical. Ma anche Jennifer Beals e Flashdance (che «mi ha cambiato la vita»), e Silvana 92
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Mangano che balla in Mambo, sembrano costituire frammenti di immaginario nei quali il corpo, liberato dalle sue tensioni, si inserisce in una sorta di movimento di mondo. Diventare leggeri, saltare, danzare: liberarsi delle nevrosi, delle idiosincrasie, della forza di gravità, liberarsi di tutto questo nel ballo, nella danza, che uniscono ciò che è diviso (il finale de La messa è finita2), che affermano il desiderio oltre il dovere (il finale di Aprile). È come se attraverso il corpo danzante si affermasse una sorta di pienezza di vita, di gioiosa leggerezza, assente da ogni altra forma di esperienza. Da un lato lo sguardo, l’erranza, la veggenza, la passività spettatoriale, dall’altro o il corpo con le sue tensioni, isterismi, lacerazioni, patologie, il corpo a ridosso del quale si è costruita tutta una drammaturgia, o il corpo agognato, desiderato, il corpo leggero, che si fa aereo come nel ballo o liquido come in acqua; e che comunque perde il suo ancoraggio alla terra, alla struttura «molare» (Deleuze) che la definisce, alle sue segmentazioni, articolazioni, limiti. È il sogno impossibile di un corpo disancorato, libero dall’insieme di contrasti pulsionali, di tensioni disarticolanti, deformanti, laceranti. Questa libertà sembra ritrovarsi – in Caro dia-
È evidente l’analogia con il finale di 8 ½, tranne che per il fatto, non certo di poco conto, che nel film di Fellini il protagonista Guido entra a far parte del girotondo, mentre don Giulio rimane spettatore di uno spettacolo che non solo non lo vede partecipe, ma che segna il suo allontanamento dalla comunità a cui appartiene. 2
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rio – a partire dallo sguardo: la nostalgia del corpo, della libertà del corpo, sembra essere stata assunta dallo sguardo; lo sguardo si fa libero, meno schiavo del corpo nevrotico. È lo sguardo che accompagna il corpo, lo segue a distanza (In vespa), non a mo’ di un detective, ma come un angelo custode, lo protegge e gli concede la sua libertà: lo inscrive in uno spazio aperto, quello di una Roma svuotata o quello delle isole Eolie. È in una sorta di svuotamento della civiltà, nell’allentamento dei legami, dei rapporti, e dei tempi sociali (nell’otium estivo) che il corpo adegua il suo respiro e il suo sguardo al mondo: ai palazzi di Roma, alle isole Eolie3. Il corpo si apre allo spazio e in questo supera la sua chiusura – casa, set, scuola, parrocchia, piscina –, e diventa luogo di un’erranza, di una veggenza, e in primo luogo di un’esperienza. E quest’esperienza è la distensione del tempo nello spazio, il respiro del tempo che anima lo spazio, del tempo anche della storia del cinema, del cinema italiano, nell’omaggio a Pasolini con il sopralluogo ad Ostia, dove è stato
L’insularità appartiene anche a Roma (come ad ogni città), non solo per ciò che la separa dall’esterno, ma anche per ciò che la divide e l’articola all’interno: i quartieri, dove lo spazio e la geografia sono piani di proiezione di un asse temporale e diacronico: le varie epoche a cui appartengono le zone di Roma, dalla Garbatella a Casal Palocco. Ritrovare il tempo nello spazio, e attraverso questo le forme di vita e di abitare il mondo che hanno distinto le diverse epoche, come nel caso dei cani dietro i cancelli, delle pantofole e delle videocassette come segni dell’abitare in un quartiere residenziale come Casal Palocco sorto negli anni Sessanta, quando Roma era comunque una «città bellissima».
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ucciso, e con quello – più implicito, ma di fatto evidente – a Rossellini in Isole4. Due sguardi: quello critico e morale pasoliniano, e quello etico e pedagogico rosselliniano. Ed è proprio con Caro diario che osserviamo il passaggio dal corpo allo sguardo, dal corpo-maschera, che vincolava e schiavizzava lo sguardo, allo sguardo che libera il corpo dalle sue tensioni e lo restituisce ai suoi transiti, ai suoi passaggi, e forse alle sue esperienze: passaggio da una forma comico-commedica ad una romanzesca (coincidente qui con una forma diaristica). È con uno stesso movimento che la maschera si fa personaggio, il personaggio da nevrotico si fa “sereno”, lo spazio da chiuso si fa aperto, il corpo da centripeto si fa centrifugo e si proietta in un ambiente, e lo sguardo dalla sua sottomissione al corpo-maschera acquista la sua libertà. Ed è questo movimento che segna un cambiamento di drammaturgia, e il passaggio dalla teatralità drammatica del corpo al romanzesco dello sguardo. Uno sguardo che non è quello del personaggio, né quello sul personaggio, ma è quello con il personaggio (esemplificato dall’esser-con il personaggio della macchina da presa nel capitolo In vespa). È un corpo che non è più il centro assoluto di irradiazione di nevrosi e isterismi, ma vettore fluido che attraversa spazi (e tempi) e ambienti, capace finanche di provare, e non più solo di manifestare in forma esagerata, esperienze dolorose, tragicamente
Così come diretti e indiretti sono gli omaggi ad altri grandi autori del cinema italiano, in primis Fellini e Petri, presenti nel Caimano.
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dolorose, come la malattia (Medici). E questa libertà in Aprile si ritrova dal lato dell’affermazione della nascita, dell’inizio: nascita di un figlio, inizio di una fase politica, avvio di un film. È nell’inizio di un corpo, di un progetto politico, di un’opera, che si afferma l’inebriante e intensa vertigine del possibile che troverà definizione e determinazione con il passare del tempo. E se in Aprile c’è una questione del corpo, questa si ritrova nel corpo infantile, nel corpo politico e nel corpo-opera, ma tutti colti nel momento sorgivo e ancora non strutturato, nella libertà dell’avvio. E questa vertigine trascina (o dovrebbe trascinare) con sé i doveri del padre e del testimone (di un’epoca). Aprile è il mese della nascita e della rinascita, il mese del desiderio e della gioia che dovrebbe trascinare (il film è anche il racconto di questa lotta) le imposizioni di un Super-Io ingombrante. Il film è attraversato, come Caro diario, da una intensità e da una libertà che saranno negate dal successivo La stanza del figlio, e anche dal Caimano, dove in gioco non c’è alcuna nascita ma semmai la fine e la disgregazione, del progetto di un film, di una relazione coniugale, a cui fa da contraltare il ritorno della maschera, con il suo sorriso compiacente e il suo ghigno nero. Ne La stanza del figlio il corpo, invece, è il supporto di una identità, e in quanto tale è colto nella sua maturità, o nella sua possibilità di scomparire con la morte. E lo sguardo perde la sua libertà (la riconquista solo nell’ultima parte del film) per farsi veicolo narrativo, perno della finzione. Ma soprattutto qui il corpo torna ad essere ciò che è sempre stato nella nostra tradizione: oggetto di 96
Il corpo e lo sguardo
sacrificio, qualcosa che va sacrificato5. Il corpo sacrificato (il figlio) porta ad un corpo liberato (il padre) – dopo il passaggio per il vicolo cieco, l’impasse e l’immobilità –, corpo liberato dai vincoli che precedevano la disgrazia. Sono i corpi del finale, erranti su una spiaggia, incerti, malinconici, ma resi liberi da uno sguardo che si allontana (che fino a quel momento gli era stato a ridosso), e li riconsegna alla loro opacità e libertà, alla loro incertezza e avventura, alla loro singolarità e contingenza: lì di fronte al mare del corpo sacrificato, c’è il corpo liberato (dalla finzione e dallo sguardo), riconsegnato alla sua libertà che è anche la sua imprevedibilità, riconsegnato allo sforzo di inventare una nuova relazione con gli altri corpi, intorno a una nuova immagine del corpo familiare.
Cfr. infra il capitolo: «La pena e il dolore».
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L’ATTORE E L’AUTORE
Il cinema di Moretti è inscindibile dalla sua presenza d’attore, dalla sua maschera, dai suoi personaggi. Così come l’attore è inseparabile dall’autore; e le rare volte in cui si è separato, il risultato è stato una non rilevante prestazione attoriale in film poco significativi (Il portaborse, La seconda volta e Caos calmo). Il suo cinema è inscindibile, cioè, dalla costruzione della maschera e del personaggio. Una costruzione che è affidata in primo luogo all’attore e alla sua modalità di trasposizione delle attitudini, dei comportamenti, dei sentimenti, dei pensieri di una tipologia psico-sociale ben definita. Cosa significa quello che comunemente si dice sul fatto che Moretti interpreti se stesso? Significa che fra l’uomo e il personaggio c’è contiguità, vicinanza, o addirittura identità, o che tra l’uomo (la realtà) e il personaggio (la finzione) c’è un’istanza intermedia, l’attore, e dunque la simulazione: la realtà che si dispone alla finzione e la finzione che torna sulla realtà, rendendo l’uomo sia attore sia personaggio. Fra la singolarità dell’uomo e l’individualità del personaggio c’è la tipicità della maschera e l’attore abita lo spazio tra le tre figure (l’uomo, il personaggio e la maschera). 99
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La simulazione, che trasforma una materia in finzione, un corpo in personaggio, un volto in una maschera, definisce il lavoro dell’attore ad ogni livello. Dove è necessario operare le distinzioni è nel rapporto tra l’attore e il personaggio, tra la simulazione e la finzione (e rappresentazione), tra il corpo e la maschera. È allora che troviamo la distinzione fra attori «eccentrici» e «autocentrici», fra attori «indossatori di maschere» e attori «costruttori di maschere»1; fra chi si annulla nel personaggio, e chi invece lo assorbe; fra chi si immedesima totalmente nei suoi personaggi, e chi invece li attrae nella propria orbita, modellandoli sul proprio corpo d’attore. Questo passaggio, questo va e vieni fra il personaggio e l’attore, questo circuito fra l’attuale e il virtuale (l’attualità del personaggio è la virtualità dell’attore e viceversa) dà vita a due grandi modelli recitativi: uno che trova il suo fulcro nel cinema americano, e la sua codificazione nell’Actor’s Studio, fondato sul modello «eccentrico» dell’«indossatore di maschere», l’altro, più tipicamente italiano, che affonda le sue radici nella commedia dell’arte, e trova una sua rivitalizzazione nella commedia all’italiana,
Su questa distinzione cfr. M. Grande, Il sembiante e la maschera, in L. Micciché, De Sica, Marsilio,Venezia 1992, p. 122: «La versatilità è il requisito di base dell’attore eccentrico, il quale ha il compito di ridurre l’“estraneità” del personaggio a spese della “presenza attoriale”. Viceversa, l’attore autocentrico tende a porre la presenza scenica come attorialità che ingloba il personaggio. L’attore eccentrico opera la “trasfusione di identità” nel personaggio, l’attore autocentrico pratica la metamorfosi del personaggio nella presenza attoriale».
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L’attore e l’autore
fondato sul modello «autocentrico» del «costruttore di maschere». Al primo modello appartiene fondamentalmente il talento drammatico, al secondo il talento comico. Nel primo caso l’attore diviene un supporto della finzione, nel secondo eccede la finzione stessa, determinandone costantemente un’incrinatura. E questo comporta che nel primo caso l’attore si mette al servizio del film e del suo potere finzionale, nel secondo è il film che si piega a vantaggio dell’attore e della sua insufficiente o eccessiva operazione mimetica. In quest’ultimo caso l’attore diviene in un certo senso anche “autore”, facendosi esplicitamente carico della costruzione e sia della maschera sia del personaggio, a partire da una “regia” del corpo, che concerne somatica, attitudini e atteggiamenti. È la storia di tanti attori comici che diventano di fatto gli autori del film, nel senso proprio che il film gli appartiene, è cucito sul loro corpo. La storia, i personaggi sono effetto diretto della presenza dell’attore, della sua interpretazione: è proprio in questo senso che parliamo di un film di Totò, di Sordi, ecc. Moretti è un attore autocentrico, eccede e fagocita il personaggio; e questo accade, non nel senso di un talento comico che indossa tante maschere non incarnando che se stesso, le sue attitudini, i suoi tic (la camminata di Sordi, la marionettizzazione del corpo in Totò), ma attraverso la costruzione di personaggi che sono di fatto modulazioni di una “stessa” maschera, a sua volta modellata sul volto-corpo della persona. L’autocentricità dell’attore Moretti anima e si accompagna all’autocentricità del personaggio, dando vita alla maschera di Michele Apicella. Il bombo, il regista, il professore, il comunista 101
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sono le diverse facce (i diversi profili) di una stessa maschera, quella della dissonanza narcisisticoadolescenziale, isterico-ossessiva con il mondo; maschera costruita e fondata sul processo di simulazione che opera trasformativamente sul corpo e sul volto dell’attore. Ed è proprio questa “simulazione mascherante” che può investire allo stesso tempo la finzione e la realtà: è il personaggio-Moretti, o meglio la sua maschera, che passa dai film alla realtà, “recitando” anche al di fuori della finzione. È la maschera non in quanto sovrapposta al volto, ma in quanto modellata sul volto: è la faccia, il farsi maschera “naturale” – per effetto di un irrigidimento – del volto (così come del corpo, del comportamento, del linguaggio). La trasformazione silenziosa e lenta del corpo e del volto, delle attitudini e del linguaggio per incarnare il ruolo al quale la vita ci ha destinati e che ci siamo assegnati, è la costituzione progressiva e naturale della maschera sociale. Non si tratta, per Moretti, di abbandonare i personaggi alla finzione, e quindi di disporre l’attore ad un mimetismo e ad una «eccentricità» puramente diegetici; si tratta di raccogliere e accentrare la finzione sull’attore (maschera-personaggio) e sul suo carattere «autocentrico». Ma il tratto specifico del rapporto attore-personaggio, segnato propriamente dalla costruzione della maschera, è quello che potremmo individuare nella sovrapposizione fra dimensione ironica e costruzione grottesca. La tipologia sociale e culturale della maschera – il giovane intellettuale di sinistra – costruita da Moretti è quella a cui appartiene lo stesso attore-autore. È proprio questa sovrapposizione fra «autocentri102
L’attore e l’autore
smo» dell’attore, dell’autore, del personaggio, della maschera e della persona, a costituire il carattere perspicuo della saldatura inscindibile fra rappresentazione (personaggio-maschera), simulazione (attore) e realtà (persona). Ma la saldatura è solo l’immagine statica di una indiscernibilità fondata sulla pratica di intercessione fra i diversi ruoli, che ha come effetto l’impossibilità di identificare un luogo del senso, per uno scarto che attacca e problematizza l’identificazione pacifica dei singoli elementi. E questo permette di spiegare non solo l’esagerazione grottesca, ma anche la distanza propriamente ironica che definisce, con un doppio movimento, eccessivo e distanziante, la tecnica attoriale di Moretti. Eccesso nel caricare la maschera, distanza nel rivelarne l’intercapedine, lo scarto da chi la sta costruendo (l’attore). E in questo Moretti, nonostante ne prenda comicamente le distanze in Ecce bombo, è un perfetto erede di Alberto Sordi, soltanto che la maschera di Michele Apicella, rispetto alla varietà dei tipi costruiti da Sordi, è più definita e limitata, cronologicamente, geograficamente, ideologicamente; e come Sordi, Moretti costruisce una sorta di spazio vuoto nella maschera, un distanziatore interno: compone la maschera e ne determina contemporaneamente il commento. Uno tra i tanti esempi di questo commento alla maschera lo troviamo in Ecce bombo, nel modo in cui Michele risponde alla madre che pensa di conoscere il mondo dei giovani: «Che ne sai tu mamma di ciò che facciamo noi giovani?». Il tono e le modalità di enunciazione non contrappongono dialogicamente un 103
Nanni Moretti
punto di vista all’altro, ma sottolineano, caricandolo e smascherandolo, un luogo comune: quello della rivendicazione giovanile ad un’autonomia, estraneità e inconoscibilità totale rispetto al mondo adulto. Da un lato, Moretti restituisce in forma carica la maschera del giovane oppositore in famiglia, dall’altro la prende in giro, la smaschera, la rivela come un condensato di cliché: l’eccesso della maschera grottesca (isterica, dissonante, idiosincratica) e la presa di distanza ironica. Il moralismo che sta alla base della costruzione grottesca e aggressiva della maschera è accompagnato da un movimento autoriflessivo di tipo ironico che fa della (stessa) maschera un modo d’essere del soggetto aggressore. Come i cliché attraversano il mondo, il soggetto e l’oggetto, l’interno e l’esterno, così l’esagerazione grottesca e aggressiva non viene solo operata sull’oggetto, dall’esterno, ma anche all’interno stesso del soggetto (il sadismo della maschera è inscindibile da un suo masochismo). Ma tutto questo discorso non si capirebbe pienamente senza giungere alla questione di fondo, quella che concerne il rapporto fra attore e autore, e la pratica di intercessione che lo definisce. La “regia attoriale” non concerne solo il modo in cui l’attore costruisce la maschera e il personaggio, se in forma imitativa o in forma costruttiva, ma il modo in cui l’attore prende le veci dell’autore, se ne fa carico. Il quale, a sua volta, non sarebbe e non potrebbe essere tale senza la mediazione dell’attore; che a sua volta perderebbe gran parte della sua forza se fosse sottratto al circuito stretto, non solo con il personaggio-maschera, ma in primo luogo con l’autore, e si limitasse semplicemente ad interpretare un 104
L’attore e l’autore
personaggio (si limiterebbe ad essere, in questo caso, un bravo attore) o a dar vita ad una maschera. Con Moretti non ci troviamo di fronte né alla costruzione compiuta di personaggi né alla messa in serie di maschere. Nel primo caso avremmo l’affermazione piena della finzione con l’attore “dissolto” nel personaggio, ed entrambi ad animare il dramma e la narrazione; nel secondo caso avremmo la dissoluzione dell’attore nella maschera: una maschera che potrebbe fagocitare l’attore stesso (Fantozzi con Villaggio), o che potrebbe far risaltare – nella varietà di tipi – le qualità mimetico-istrioniche dell’attore (Carlo Verdone). In entrambi i casi verrebbe a mancare quel gioco di intercessione fra attore e autore che definisce il carattere precipuo del lavoro cinematografico di Moretti, per cui sarebbe inimmaginabile (perlomeno fino ad Aprile) un film di Moretti non interpretato da lui stesso, così come quel complesso gioco fra personaggio-maschera-attore senza la scrittura e la regia di Moretti stesso. Ma vediamo in che senso e come è possibile leggere questa pratica di intercessione fra attore e autore. L’attore, abbiamo detto, si fa carico della costruzione del personaggio, del personaggio-maschera (Michele Apicella), del personaggio-persona quando salta la mediazione della maschera e vediamo l’esposizione diretta dell’attore, dell’autore e dell’uomo (Caro diario e Aprile). Questo farsi carico significa in primo luogo prendere su di sé quel complesso rapporto fra la finzione – il personaggio e il film – e ciò che la eccede e la precede, che scarta la finzione stessa, cioè la simulazione, la trasformazione del reale in segno. È sul corpo dell’attore che si esibisce 105
Nanni Moretti
la costruzione del personaggio o della maschera, e questa esibizione intercede per l’autore, facendosi carico dell’operazione fondamentale di trasformazione delle cose in segni. Ma questi passaggi non sono mai suturati, sono attraversati da scarti, cesure, non coincidenze, rimandi incrociati. È un passaggio continuo, che dietro uno stato ne fa vedere un altro. Non si tratta di più movimenti, semmai di fasi di uno stesso movimento, quello che sorregge la pratica di intercessione come modalità di un discorso che sospende il suo carattere diretto per accedere al libero indiretto: l’autore parla con e attraverso l’attore, la maschera, il personaggio; e l’attore a sua volta parla attraverso l’autore che gli concede la parola2, e la libertà di manifestare il suo scarto dalla finzione, dalla maschera, dal personaggio. Fermarsi al personaggio significa fermarsi alla finzione affermata nella sua pienezza drammatica; fermarsi alla maschera significa fermarsi alla simulazione comica; fermarsi all’attore significa limitarsi al supporto e del personaggio e della maschera; fermarsi all’uomo significa limitarsi ad una istanza “documentaria”; fermarsi all’autore significa fermarsi ad un’istanza poetico-riflessiva. Ma attraversare e affermare il divenire attore-maschera-personaggioautore-uomo significa accedere a quella pratica di intercessione che diviene il segno di una costruzione
Questo è esemplificato dal frequente trattamento della voce in come voce off, con la conseguente creazione di uno spazio di indiscernibilità fra personaggio e autore (come all’inizio di Aprile). Cfr. infra il capitolo «La commedia grottesca».
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L’attore e l’autore
del senso affidata alla creazione di uno spazio di indiscernibilità e indecidibilità fra i diversi ruoli, per cui è l’attore stesso che si lascia intercedere dall’autore per essere propriamente ciò che è: il luogo di una dissonanza, di un dislocamento, lo spazio di una simulazione che è quella del cinema, del divenire cinema dell’oggetto, del divenire attore di un corpo, del divenire maschera di un attore. È questa simulazione “originaria” che la rappresentazione non solo non riesce a cancellare, ma a cui di fatto non può non rimandare. Ed è lo spazio inidentificabile di questa simulazione a determinarsi come il luogo precipuo di produzione del senso. È proprio l’intercessione reciproca di autore e attore che determina la loro insostituibilità, uno spazio di inassegnabilità delle loro identità e delle loro distinzioni: come identificare il personaggio e la maschera senza l’attore, e l’attore senza l’autore e viceversa, e senza che tutti insieme nei loro transiti rimandino a quella finzione per eccellenza che è l’uomo-Moretti, il cui privato entra nei film determinandone e definendone quell’autobiografismo che è proprio un effetto di queste pratiche simulanti? E tutto questo risulta ancora più amplificato dalla figura di Moretti “uomo pubblico”, dalla sua collocazione all’interno delle pratiche discorsive, critiche, giornalistiche e non: per cui si proietta sulla persona il personaggio e la maschera, sul personaggio la persona, sull’autore l’attore e viceversa, per la definizione di un’identità autoriale talmente complessa da essere di fatto inafferrabile, per i numerosi intercessori che l’attraversano e la costituiscono. E questa intercessione attraversa ogni livello del 107
Nanni Moretti
passaggio dalla simulazione (il divenire altro del reale) alla finzione (l’essere altro del reale), e determina anche i personaggi come intercessori dell’autore: registi, professori, preti, politici, psicoanalisti. Il tratto distintivo di tutti questi ruoli risiede nella loro incidenza pubblica, nello sforzo di comprensione e di comunicazione che richiedono. Comprendere e dire qualcosa all’“altro”: questo definisce anche l’esercizio rischioso e il compito etico di un regista. Il rapporto attore-regista è quindi il luogo di esibizione esemplare di una questione centrale nel cinema di Moretti: la simulazione che sta al cuore della rappresentazione, il cinema che sta dietro e oltre i film, il divenire (folle, Sogni d’oro, assassino, Bianca, smemorato, Palombella rossa, malato, Caro diario, padre, Aprile) che sta al posto dell’identità, la vita che sta oltre la finzione ma dentro la simulazione. Quell’istanza di simulazione che rende attore ogni uomo e che quindi può rendere uomo ogni attore; che può rendere regista ogni attore e quindi attore ogni regista; che può rendere fittizio ogni oggetto reale e quindi reale ogni oggetto fittizio. È un nucleo indistricabile, ma non chiuso, anzi animato da una differenza e non-coincidenza costante fra le “parti”, che segna la modernità del cinema di Moretti. Con La stanza del figlio viene a determinarsi una cesura: il personaggio si fa dominante, annulla non solo la maschera, ma anche i resti della maschera nel personaggio (presenti ancora in Caro diario e Aprile). La figura dello psicoanalista mantiene ancora una funzione di intercessione, ma la finzione questa volta assorbe personaggio, attore e autore. Nessuno spazio rimane alla simulazione: tutto si fa serio, troppo serio, 108
L’attore e l’autore
tutto si tiene in un tessuto, illusorio e astratto: è il tessuto delle identità e delle maschere sociali. In Giovanni troviamo la figura dell’uomo adulto, dell’uomo maturo, che ha superato ogni dissonanza con il mondo, indossando pienamente e seriamente la maschera sociale che lo porta a svolgere il doppio ruolo di padre e di psicoanalista. L’assunzione di responsabilità non viene più sentita come un peso a cui sfuggire, o come una maschera da indossare in forma eccessiva, per nascondere un disagio profondo, ma viene accettata e sostenuta dalle prestazioni: il soggetto si è fatto pienamente io sociale, il «principio di prestazione» si è saldato con il «principio di rappresentanza»3. E tutto questo comporta la fine e la morte di quanto di adolescenziale caratterizzava i personaggi precedenti. Lo statuto della simulazione, l’essere-tra, il divenire sono sostituiti dalla pienezza della finzione: affermazione dell’identità della storia, dei personaggi, e perfino dei loro sentimenti, per quanto contrastanti. E l’attore, la sua prestazione, non fa che limitarsi all’incarnazione di un ruolo, serio e doloroso: nessuno scarto, nessuna «autocentricità» (se non forse nell’aderenza del personaggio alla faccia e al corpo dell’attore), nessuna vera intercessione.
Sulla distinzione e sul rapporto fra principio di prestazione e principio di rappresentanza nella dialettica sociale dell’io, come è stata rappresentata dalla commedia all’italiana, cfr. M. Grande, La commedia all’italiana, a cura di O. Caldiron, Bulzoni, Roma 2003.
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Lo spazio finzionale si è fatto autonomo e il personaggio vi è pienamente inscritto. Nessun gioco è ormai possibile se non quello della finzione, sostenuto da un attore che smarrisce il grottesco e l’ironia a vantaggio dell’alternanza sentimentale della felicità e del dolore, della serenità e della sofferenza. E anche in questo che La stanza del figlio determina una frattura, ponendosi oltre l’intercessione fra attore ed autore; anzi è in un certo senso il primo film in cui la presenza di Moretti attore non va oltre la sua bravura, e forse non oltre la sua insostituibilità. Ma con Il caimano le cose cambiano, tornano alla loro forma dominante, cioè ad una costruzione di maschere che prescinde da ogni verosimiglianza e dunque da ogni calco sul corpo attoriale. Nessun mimetismo, nessuna finzione, c’è solo la verità che emerge dalla costruzione inverosimile e caricaturale, che porta perfino il volto e il corpo di Moretti a farsi caimano/Berlusconi.
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INSERTO FOTOGRAFICO
1-2 Io sono un autarchico (1976)
3-5 Ecce bombo (1978)
6-8 Sogni d’oro (1981)
9-11 Bianca (1984)
12-14 La messa è finita (1985)
15-17 Palombella rossa (1989)
18-20 Caro diario (1993)
21-23 Aprile (1998)
24-25 La stanza del figlio (2001)
26-28 Il caimano (2006)
29 Habemus Papam (2011)
30-32 Habemus Papam
33-34 Mia madre (2015)
35-36 Mia madre
37 Nanni Moretti sul set di Habemus Papam 38 Margherita Buy e Nanni Moreti sul set di Mia madre
Parte III
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MORETTI E IL CINEMA ITALIANO
Il cinema di Nanni Moretti si colloca all’incrocio fra due grandi tradizioni della nostra cinematografia: quella neorealista e quella della commedia all’italiana. O meglio, partendo da una riattualizzazione originale delle forme della nostra commedia, Moretti le ha innestate con un modo di concepire il cinema e la narrazione che affonda le sue radici nella tradizione del neorealismo, concepita non in termini contenutistici – cioè come emergenza esclusiva di tematiche, di tipologie di personaggi ed ambienti –, ma come modo di pensare la rappresentazione e l’immagine cinematografica, non solo da un punto di vista estetico, ma anche sotto il profilo di una spinta etica (è il compito a cui Moretti sente di dover rispondere filmando i momenti di cambiamento sociale e politico: Aprile e La cosa). È chiaro che un regista che ha colto in forma moderna l’attualità di un sentire, di un percepire, di un pensare, non può operare che attraverso una metabolizzazione profonda delle forme della tradizione, che esclude qualsiasi forma di citazionismo, o di riferimento esplicito1. Anzi, per quanto riguarda i rapporti con la nostra commedia,
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Nanni Moretti
Il cinema di Moretti sintetizza in forma originale due modi di coniugare la modernità cinematografica e la crisi della soggettività, cioè la sua impossibilità o incapacità di modificare situazioni e mondo tramite l’azione: da un lato l’azione fallimentare della commedia, dall’altro l’azione impedita del soggetto “patetico” neorealista. L’azione impedita determina le forme dell’erranza, della veggenza, della stasi (da Ecce bombo a Caro diario ad Aprile), l’azione fallita le forme del fallimento comico e della costruzione della maschera (nevrotica) come unica modalità di sopravvivenza e di rapporto con il mondo (la maschera di Michele Apicella). Oltre lo spazio dell’azione impedita e dell’azione fallita c’è l’azione raccontata dai mass media, che la riducono ad un collage di cliché e luoghi comuni (da Io sono un autarchico ad Aprile). La permanenza e l’influenza di quella che possiamo chiamare la linea neorealista della modernità la troviamo prevalentemente nella concatenazione narrativa senza sviluppo, nell’inanellamento di scene senza progresso, nella serie di “quadri” senza crescendo, che non costruiscono arco narrativo: dai primi film (Io sono un autarchico, Ecce bombo) passando per Caro diario – che trasforma il carattere
Nanni Moretti ha sempre negato qualsiasi tipo di debito, operando una vera e propria aggressione nei confronti della commedia all’italiana: dall’ormai famoso «Ve lo meritate Alberto Sordi!» al polemico dibattito televisivo, dopo Ecce bombo, con Mario Monicelli, il quale individuava proprio nella commedia all’italiana le ascendenze più proprie del cinema di Moretti.
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Moretti e il cinema italiano
episodico della narrazione in un film a episodi vero e proprio – ed Aprile fino ai disorientamenti e alle inverosimiglianze del Caimano. Ma la forma narrativa sembra essere conseguenza di una trasformazione più generale del modo di concepire il cinema, l’immagine e il personaggio, che non si integra organicamente e attivamente all’ambiente, ma ne diviene spettatore. La soglia che interdice l’azione viene tematizzata esplicitamente in Caro diario, nella difficoltà del passaggio dalla visione al ballo: ballare piuttosto che veder ballare. Ma passare al ballo non significa passare all’azione, significa mettere in movimento il corpo attraverso posture dinamiche ma codificate (o che perlomeno dovrebbero essere tali); significa superare la “stasi” della veggenza in direzione di un “dinamismo corporeo” che simula e trascende nella danza la sfera della prassi2. Una danza ricondotta comunque a pose cariche, esagerate, comiche (come quelle della Mangano in Mambo, riprese nel secondo capitolo di Caro diario). Ciò significa che lo scollamento del personaggio dalla situazione, la sua pura aderenza ottica al mondo (In vespa, primo capitolo di Caro diario) non determinano, come nel cinema neorealista, una dimensione patetica (nel senso del pathos come di qualcosa che dall’esterno colpisce il soggetto), ma si convertono in una dimensione comico-grottesca: il personaggio si fa maschera, il mondo condensato di cliché, l’azione si fa ripetizione maniacale e ossessiva o pende nostalgicamente verso Cfr. infra il capitolo: «Il corpo e lo sguardo».
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Nanni Moretti
il dinamismo del ballo (il musical da fare in Aprile) o la fluidità dei movimenti acquatici (l’acqua e la pallanuoto in Palombella rossa). La dissonanza, la mancanza di integrazione del personaggio con l’ambiente e le situazioni, il suo attraversarle senza comprenderle né giustificarle, fanno del personaggio un errante (da Io sono un autarchico fino a Mia madre, passando per Caro diario, Aprile e Habemus Papam) e un veggente (in un rapporto stretto fra sguardo e giudizio morale). Più si sospende l’azione, più lo sguardo diventa morale e giudicante. E veggenza ed erranza sono i segni di formazione dell’immagine neorealista e dell’avvio della modernità cinematografica. Segni che definiscono un soggetto socialmente debole (disoccupati, pensionati, e in primo luogo bambini sono i protagonisti del cinema neorealista), alle prese con situazioni che lo sopravanzano da ogni parte (la distruzione del dopoguerra, la povertà, la fame, la miseria), definito da una radicale passività che lo porta ad essere modificato dalle situazioni piuttosto che a modificarle. La storia di Ladri di biciclette è la storia di una serie di eventi che accadono a un padre e a un figlio nel loro “vagabondaggio”3 per le strade di Roma, volto al ritrovamento di una bicicletta: accade che ad un disoccupato danno un lavoro, accade che gli rubano
È questa una delle idee che attraversano la lettura del film che fa Bazin (Che cosa è il cinema?, tr. it., Garzanti, Milano 1996), che parla addirittura di Ladri di biciclette come della «storia della camminata per le strade di Roma di un padre e di suo figlio», p. 311.
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una bicicletta, accade che questa bicicletta, sempre sul punto di esserlo, non viene ritrovata, accade che questo disoccupato vede un’altra bicicletta e prova a rubarla, accade che viene catturato, e tutto questo sotto gli occhi del figlio: la camminata per le strade di Roma è di fatto il segno di un accadimento più grande, quello che segna la crescita di un figlio, che passa per il tracollo della figura paterna. Anche In vespa è la storia, o meglio la non-storia, di una erranza per le strade di Roma, accompagnata dalla veggenza come modalità di rapporto fra il soggetto e il mondo. Ma dal neorealismo situazioni e soggetto sono cambiati, pur permanendo invariata, in molti casi, la modalità del loro rapporto: un attraversamento delle situazioni sostenuto dalla veggenza. La situazione non è più disgregata e provvisoria, ma si costituisce come serie di scene, di “quadri” – le facciate dei palazzi di Roma –, che diventano oggetto di pura visione da parte di un personaggio che si fa spettatore. Le facciate dei palazzi, così come gli scorci dei quartieri di Roma, rimandano all’abitabilità degli interni, cioè alle diverse modalità di vita che vi si possono (o non possono) condurre. Ma dalla passeggiata per le strade di Roma di padre e figlio (Ladri di biciclette) ai tour in vespa di un “figlio” (In vespa), che nel momento in cui penserà di essere diventato padre e di essere morto come figlio rappresenterà la morte di un figlio (La stanza del figlio), esiste il passaggio decisivo da un’epoca, in cui il carattere dispersivo delle situazioni restituiva il soggetto (individuale e collettivo) alla sua impotenza, ad un’epoca in cui le situazioni, trasformate in un insieme di cliché, rimandano il soggetto (individuale) alla sua 117
Nanni Moretti
estraneità al mondo, e al suo tentativo di aderirvi o rifuggire in forma carica ed esagerata. In Moretti troviamo, quindi, l’eredità di una certa modernità avviata dal neorealismo, quella che vede il soggetto smarrirsi nella frammentarietà del mondo, trovarsi in una forma «bal(l)ade» (Deleuze), in un transito perenne da un posto all’altro (Caro diario), e che vede questo transito nell’impossibilità di convertirsi in un racconto (Aprile), transito “epocale” da una fase politica all’altra, o da un fase della vita all’altra: giovinezza, maturità, fino al matrimonio e alla sua dissoluzione (Il caimano). Ma abbiamo anche l’eredità di un’altra modernità4, quella di una certa commedia che trasforma questo transito, lo smarrimento del soggetto in un malessere che solo la costruzione di una maschera sembra rendere sopportabile: una maschera dissonante, che talvolta prende le sembianze di un conformismo “minoritario”, di una consonanza di nicchia (Io sono un autarchico ed Ecce bombo). Le stasi, i vuoti, le inazioni, le catatonie, l’erranza di Ecce bombo sono i segni di un malessere che neanche la (presunta) maschera di un’“alternatività” serve a celare. E da questo emerge solo la verità del dolore nella visita che Michele, nel finale del film, fa all’amica malata. Una verità che attraversa la maschera, l’attacca dall’interno, la disfa: dietro l’ossessione di perfezione
La modernità della commedia italiana si colloca su un altro versante rispetto a quella del neorealismo, ma in entrambi i casi è il soggetto e la sua identità ad essere messo in questione.
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e di felicità (Bianca e La messa è finita) si nasconde la lacerazione di chi non accetta l’incompiutezza dell’esistenza, di chi dietro la rigidità di un principio lascia emergere un’illusione, quella che si contrappone alla vita e al suo essere senza principi. La rigidità di un principio morale a partire dal quale misurare la risposta del mondo è affermazione comico-tragica di una dissonanza, rispetto alla società e alle sue forme di vita, alla realtà, al suo divenire, e all’impossibilità di costruirne degli argini, dei confini, dei limiti una volta per tutte. Ma questa interdizione al cambiamento, alla mobilità, al divenire in base all’irrigidimento morale intorno ad un principio, non deriva, come nella commedia classica, dalla contrapposizione fra i vecchi (illusione di immobilità) e i giovani (affermazione del divenire), ma si colloca dalla parte dei giovani stessi, dalla parte della maschera che Moretti stesso costruisce. Ed ecco che il moralismo intransigente e radicale contrappone un principio – quello della felicità assoluta – alla realtà e al suo divenire. Da qui due possibilità: o tentare di piegare – anche attraverso il gesto estremo dell’omicidio – la realtà al principio (Bianca), o, constatata l’impossibilità di qualsiasi risoluzione armonica, fuggire (La messa è finita). Ciò a cui i principi morali tendono a mettere un argine sono, da un lato, i principi vitali, quelli che affermano la vita nel suo continuo divenire indifferente al senso, nella sua incompiutezza e ambiguità (ciclo di morte e rinascita, fine e nuovo inizio): in questo caso il principio morale si afferma come istanza trascendente rispetto all’immanenza della vita, scarto fra l’umano e la natura; dall’altro 119
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lato, i principi morali vengono a determinarsi come difese contro le degenerazioni dei comportamenti privati e pubblici. In questo secondo caso i principi morali diventano le forme di aggressione e di critica all’attualità del presente e alle modalità di vita che lo caratterizzano (Il caimano). Se nel primo caso i principi morali – che dovremmo definire più propriamente etici – differenziano il mondo dalla vita e dal suo continuo fluire, nel secondo contrappongono due mondi, uno reale, oggetto di aggressione satiricogrottesca, l’altro ideale, possibile, un mondo nuovo, “vero” (che di fatto non si percepisce se non come il punto ideale dal quale criticare e mettere in questione quello “falso” e attuale). Il moralismo di Moretti – che in questo si riallaccia a parte importante della nostra commedia degli anni Sessanta – appartiene a questa seconda direttrice, e si definisce nelle forme di un grottesco critico, aggressivo, nero. Un grottesco morale senza alcuna spinta rigenerativa, che giudica il mondo, di cui fa parte lo stesso soggetto giudicante. La commedia grottesca di Moretti – come ogni commedia dove l’istanza satirico-aggressiva risulta dominante, cioè come ogni commedia di costume – colloca il mostruoso, il “colpevole” dalla parte della società; una società trasversale, che accomuna vecchi e giovani sotto il segno dominante di una inautenticità che attraversa comportamenti e usi linguistici. In questo si ritrova il carattere perennemente sovversivo della commedia, rispetto per esempio al giallo, fondato sull’individuazione di un colpevole, un capro espiatorio che permette alla società di liberarsi dalle proprie colpe e di sentirsi nuovamente “innocente”. 120
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La mancanza di integrazione fra soggetto e mondo, fra l’azione e la sua riuscita, l’impossibilità di ritrovare un senso di compiutezza nelle cose sono i tratti che definiscono il sottrarsi del personaggio e della storia alla definitezza e compiutezza dell’epos. Una compiutezza epica che è stata da sempre assente nel cinema italiano, dove abbiamo avuto semmai il ribaltamento, il capovolgimento comico dell’epos (La grande guerra, Tutti a casa). Da questa mancanza di compiutezza deriva il carattere “romanzesco” del nostro cinema (già individuato da Bazin nell’analogia tra cinema neorealista e romanzo americano), un carattere che a sua volta rimanda al processo di familiarizzazione e di avvicinamento comico con l’oggetto. Questo significa che non esiste cesura fra principio di rappresentazione comica e costruzione romanzesca, ma una profonda linea di continuità, fondata proprio sulla messa in questione dell’identità del soggetto, del mondo e dei loro rapporti5. Entrambi – comico e romanzesco – si oppongono all’unità e alla compiutezza del mondo epico: Il mondo epico è compiuto totalmente non solo come evento reale di un passato lontano, ma anche nel suo senso e nel suo valore; non lo si può mutare, né reinterpretare, né rivalutare. […] Il romanzo si è costruito non nell’immagine di lontananza del pas-
Da questo punto di vista, va ripensata la presunta frattura – troppo frettolosamente individuata da una certa tradizione critica – fra il neorealismo e la commedia all’italiana. 5
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sato assoluto, ma nella zona del contatto immediato con questa età contemporanea incompiuta6.
Il romanzo privo dell’unità – semantica, stilistica, tematica – dell’epopea, animato da un costitutivo plurilinguismo e da una dialogicità connaturata alla sua parola, che non è parola «monologica» come quella della poesia, ma è parola «dialogica», si viene a determinare, con tutta l’incompiutezza della sua forma, a contatto con il travestimento e la parodia comica, il riso popolare e la tradizione carnevalesca, la «sconsacrazione» comico-parodica del rapporto univoco fra parola e oggetto: «Il materiale epico è trasposto in quello romanzesco, nella zona del contatto, passando attraverso la fase della familiarizzazione e del riso»7. Il romanzesco e il suo fondamento comico-parodico si determinano così come forme di rappresentazione del presente e del suo carattere incompiuto e in divenire8. Questo è un tratto decisivo per capire un certo cinema e quello che ha accomunato, per esempio, neorealismo e commedia: personaggi de M. Bachtin, Estetica e romanzo, tr. it., Einaudi, Torino 1979, p. 459 e p. 480.
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Ivi, p. 457.
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Rappresentare il presente e l’attualità è – secondo Dürrenmatt – uno dei compiti della commedia che, a differenza della tragedia fondata su un sapere mitico condiviso, deve, attraverso la «trovata» o la deformazione grottesca, portare a rappresentazione il presente senza scivolare nel «tendenzioso» o nel «cronachistico»; cfr. F. Dürrenmatt, Lo scrittore nel tempo. Scritti su letteratura, teatro e cinema, tr. it., Einaudi,Torino 1982, p. 51.
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boli ed erranti nella dispersività delle situazioni del dopoguerra e personaggi smarriti (e sconfitti) nelle mitologie a basso prezzo del boom o nei cliché ideologici. In entrambi i casi quello che viene a mancare è l’azione efficace che modifica le situazioni, fondata sull’unità del mondo e del soggetto, un’unità reale e ideale che rimanda il soggetto al suo agire in nome di una comunità, e il mondo al suo essere un insieme di valori condivisi. Negli esempi più significativi di cinema neorealista e di commedia all’italiana il contatto con il presente, con un presente in divenire, ha piegato la forma verso il romanzesco – l’ellissi, la struttura aperta, la casualità –, o verso la sintesi fulminea del bozzetto satirico e grottesco e la galleria di maschere come sostitutiva della struttura del personaggio. Questi elementi, che definiscono il carattere propriamente dialogico della forma e della rappresentazione, li troviamo tutti, miscelati in forma diversa, nel cinema di Moretti. E se il romanzesco è identificabile nel tentativo di raccontare la complessità e l’incompiutezza del presente, di un’esperienza nel suo farsi (Caro diario, Aprile), il comico si inserisce là dove quest’esperienza fallita si cristallizza intorno alla maschera e alle sue esagerazioni comico-grottesche. La commedia, la caricatura, il grottesco ribaltano su un piano “attivo” il pathos neorealista, trasformano l’impossibilità di vivere, di modificare cose e situazioni, in incapacità di vivere, trasformano l’azione impedita in azione fallita, l’erranza (del soggetto) in movimento surplace (della maschera), l’imprevedibilità dell’incontro nel già-visto del cliché, ed entrambi – cinema neorealista e commedia – 123
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sanciscono l’inadeguatezza del soggetto rispetto al mondo, l’incompiutezza a cui è condannato. Il “romanzesco” neorealista, la veggenza e l’erranza del soggetto, l’eterogeneità dei materiali che compongono il discorso (materiali privati e pubblici, come in Aprile), il carattere episodico della narrazione che giunge fino al film ad episodi vero e proprio (Caro diario), il fondamento “documentario” e l’impegno sociale e politico (La cosa) attraversano il cinema di Moretti mostrando un’evidente eredità da tutta una tradizione del nostro cinema. Un’eredità assunta, metabolizzata e contaminata con gli elementi della commedia, con un modo comico di rappresentare i rapporti fra individuo e società, con quella dialettica infinita fra consonanza e dissonanza, fra adesione al cliché – linguistico, comportamentale, ideologico – e sua messa in questione critica, satirica, morale. Ed è proprio lo sguardo morale il debito più profondo che Moretti ha contratto con una certa commedia grottesca, perché il grottesco è – come dice Dürrenmatt – l’«arte dei moralisti», e la restituzione caricaturale, esagerata, delle linee che definiscono il reale è tale proprio perché risponde all’emergere di un’istanza morale. In questo la commedia costituisce l’altra faccia dell’impegno etico del neorealismo. L’etica come risposta ad un dettato, ad un compito a cui non ci si può sottrarre: è il compito e l’urgenza di filmare, in Aprile, un cambiamento politico (ma anche privato), o quello di filmare la fine di una fase storico-politica, quella segnata dal PCI (La cosa). Fra etica (compiti) e morale (principi), fra pathos e commedia, fra veggenza ed esagerazione grottesca 124
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si snoda un cinema che, ereditando propriamente dalla nostra commedia, anche nelle sue forme politiche (Il caimano), prende di fatto – come abbiamo visto – anche dalle forme dell’immagine neorealista: lo sganciamento senso-motorio e il conseguente concatenamento ottico con il mondo, l’inappartenenza del soggetto alla realtà, la restituzione della situazione, non come contesto d’azione, ma come insieme di “scene” in quanto luoghi che si attraversano senza potersene appropriare, spazi ai quali non si riesce ad appartenere (Caro diario). Questa doppia eredità la ritroviamo anche nella definizione dei personaggi: il prete e il comunista (La messa è finita, Palombella rossa) come figure sociali che ereditano dalla nostra commedia9, e il regista (Sogni d’oro, Caro diario, Aprile, Il caimano, Mia madre) come erede di un’altra modernità, quella che, tematizzando le forme e i procedimenti della visione, di fatto tematizza se, e in che modo, la nostra esperienza privata e pubblica possa accedere a rappresentazione, ad immagine; se esista una parola nuova, una forma nuova, un’immagine nuova che possa inventare inedite forme di vita. Ma è questa possibilità di una parola originaria, pura, di un modo di dire nuovo che Moretti esclude, collocandosi pienamente nelle parole dette, nelle parole scritte, nelle parole “troppo dette” e “troppo
È il modello di Don Camillo e Peppone. A questi bisogna aggiungere le figure del professore e dello psicoanalista, i cui ruoli si definiscono propriamente come cerniera fra individuo e società.
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scritte”, nelle parole televisive e giornalistiche, nei cliché. La parola di Moretti non è solo internamente “dialogica”, ma appartiene esplicitamente agli “altri”, a tutti gli altri; parola che risuona nei discorsi giornalistici, politici, ma anche quotidiani. È la parola detta che appartiene a tutti e a nessuno, trasparente e inafferrabile. È verso questa parola – che sembra non avere alternative nella società contemporanea – che si viene a determinare la critica e la restituzione satirica e grottesca del luogo comune, del cliché. È l’impossibilità del poetico e della poesia nella società contemporanea; impossibilità di una parola che si liberi dalle scorie del già-detto. Il poetico non concerne il cinema di Moretti, che è invece radicato nella tradizione comico-romanzesca, animato dalla costante pratica di intercessione fra regista ed attore, autore e personaggio. Il regista parla con l’attore, l’autore con il personaggio e viceversa. E quando questa intercessione viene ad interrompersi, allora rimane l’attore (Il portaborse, La seconda volta, Caos calmo), ma non c’è più il cinema. L’attore “serve” al regista per la sua rappresentazione del mondo. E il regista “serve” all’attore per sottrarlo al suo compito meramente mimetico: interpretare un ruolo, dar vita ad un personaggio. È questa pratica di intercessione reciproca fra attore e regista ad interessare Moretti. È l’uso pieno, simulante, romanzesco di quella che Pasolini ha chiamato «soggettiva libera indiretta» ad essere al centro del cinema di Moretti, e non l’uso «pretestuale» che per Pasolini definiva invece il «cinema di poesia», animato da una coscienza estetica che ha preso le forme dell’inquadratura 126
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«ossessiva» di Antonioni, di quella «elegiaca» di Bertolucci ecc10. È questa tradizione “poetica”, fondata sull’affermazione di una coscienza estetica, ad essere distante dal cinema di Moretti, tutto radicato nella tradizione dialogica, comico-romanzesca, della nostra cinematografia. Nel primo capitolo di Caro diario, che è uno dei momenti più alti del cinema di Moretti, vengono a manifestarsi in forma esemplare queste due tradizioni della nostra cinematografia. L’episodio alterna momenti in cui il personaggio è preso visivamente dalle situazioni che attraversa (le strade e i palazzi di Roma), e questo attraversamento, con il suo fondo emotivo legato ad una esperienza di visione, è sottolineato dalla colonna sonora, dall’uso di canzoni (Leonard Cohen e Keith Jarret) che accompagnano il movimento di erranza e veggenza, con momenti in cui questa visionarietà emotiva si arresta su motivi e situazioni comico-grotteschi, a partire dall’elenco dei film porno in programmazione a Roma in pieno agosto, passando per la lettura di una recensione critica su Henry, pioggia di sangue, fino agli scambi di battute con gli abitanti di alcuni quartieri di Roma. Il commento satirico e grottesco punteggia tutto il film, così come il movimento in vespa per le strade vuote di Roma da lineare si fa ondeggiante, accompagnando visivamente e comicamente (si tratta di un vero e proprio ballo in vespa) la canzone di Youssou N’Dour. Ed il ballo da oggetto di una Cfr. P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1981, p. 183.
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visione desiderante (anche attraverso il sogno di fare un musical su un pasticciere trotzkista) si trasforma in oggetto di “imitazione caricaturale”, esagerata e grottesca: Flashdance come film che può cambiare la vita, l’incontro con Jennifer Beals, l’entrata improvvisa nell’orchestra che canta una canzone sudamericana. Il capitolo finisce, dopo la visione dei titoli dei giornali che ne annunciavano la morte, con un giro in vespa nella parte di Ostia dove Pasolini è stato ucciso, e dove ora è eretto un monumento, attorniato da erbacce incolte, vicino ad un campo di calcio abbandonato. Il movimento in vespa “intorno” al monumento diventa figura della centrale marginalità, della lateralità ingombrante di Pasolini nella cultura italiana: una lateralità che se sembra renderlo non immediatamente classificabile11, gli assegna una funzione testimoniale insostituibile. E in questo si ritrova il riconoscimento e l’omaggio di Moretti ad un autore la cui funzione di testimonianza culturale e politica è passata attraverso l’esposizione del privato, di quanto di più privato abbia un uomo, cioè il proprio corpo12. E questo circuito privato-pubblico diviene centrale nella “memorialistica” di Caro diario, di Aprile e di Mia madre. Una messa in gioco radicale e totale di se stessi che passa attraverso la trasfigurazione dell’esperienza – privata
Proprio per il suo essere ovunque, per il suo essere-tra lo scrittore, il regista, l’intellettuale, il corsivista, il poeta, l’attore, il moralista. 11
Cfr. su questo Corpus Pasolini, a cura di A. Canadè, Pellegrini, Cosenza 2008. 12
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e pubblica – in immagine, in rappresentazione, in discorso, in arte. Sottrarre il dire alla confusione e al silenzio, al detto male e al non detto: questo è il compito (impossibile, forse, nel mondo contemporaneo) dell’arte. Come per il monumento a Pasolini: è la macchina da presa a sottrarlo alla dimenticanza, a rivitalizzarne il suo essere monumento (che ci chiama al ricordo), al di là del suo essere documento dell’incuria e del degrado in cui è precipitata la salvaguardia del passato e della memoria. Se Pasolini viene ricordato è perché è un’icona, l’icona di una presenza testimoniale, di un’etica intransigente, la cui affermatività è passata per un costante essere-contro. Ma un altro paio di momenti del primo capitolo di Caro diario lo rendono significativo per misurare il rapporto fra Moretti e la tradizione del cinema italiano. Gli spazi deserti di una Roma estiva richiamano, sia pur in forma indiretta, quelli vuoti di Antonioni, ma con una differenza sostanziale, che misura l’inclinazione estetico-poetica (perfino metafisica) di quest’ultimo e quella commedica di Moretti: in Antonioni, lo spazio svuotato è uno spazio postumano, che ha esaurito le sue potenzialità drammatiche, mentre in Moretti lo spazio deserto, le facciate e i palazzi di Roma rimandano alla loro abitabilità (così come la bellezza di un attico rimanda alla sua possibile ristrutturazione), i quartieri alla vita che vi si può condurre o meno (come a Casal Palocco si rischia di vivere una vita divisa tra «cani dietro ai cancelli, videocassette, pantofole»). Il vuoto non è allora lo svuotato, ma ciò che può essere riempito con 129
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l’immaginazione, con la vita; è uno spazio virtuale, un foglio bianco su cui poter scrivere. In un altro passaggio, rivolgendosi ad un automobilista fermo al semaforo, Moretti osserva: «Anche in una società più decente di questa, io mi troverò sempre con una minoranza di persone. Ma non nel senso di quei film dove c’è un uomo e una donna che si odiano, si sbranano, su un’isola deserta, perché il regista non crede nelle persone. Io credo nelle persone, però non credo nella maggioranza delle persone. Mi sa che mi troverò sempre a mio agio e d’accordo con una minoranza». Credere nelle persone, sia pur in una (ideale) minoranza, credere in un punto di vista (morale) dal quale criticare la maggioranza (reale) della società, significa rifuggire le forme di un certo cinema, di una rappresentazione nera e apocalittica del mondo, dove il grottesco si fa orrido e si coniuga come catastrofismo senza rinascita, arretrando l’umano verso il ferino: è il caso di Ferreri (a cui fa riferimento l’osservazione di Moretti), e del senso apocalittico di fine civiltà che caratterizza il suo cinema. Il grottesco nero con cui si chiude Il caimano è un grottesco sociale e politico (rimanda a Petri) e non ha alcun carattere “metafisico”. Nel secondo capitolo di Caro diario, Isole, i motivi del viaggio, del movimento, del transito da un’isola all’altra alla ricerca di un’ispirazione creativa sono motivi ereditati da un immaginario “romantico” ripreso da tanto cinema moderno. Ma in questo immaginario si inseriscono costantemente elementi che lo spingono verso un abbassamento comico e grottesco, incentrato su maschere sociali: Gerardo, l’amico che 130
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non vede la televisione, ma finisce per impazzire per le telenovelas; il sindaco con le smanie di fare qualcosa di assolutamente nuovo e stupefacente per la sua isola13; le organizzatrici di feste e di vita mondana che offrono «idee, creatività, contatti»; l’isola dominata dai bambini che riducono a comportamenti infantili e ridicoli i genitori; Lucio che, rifiutando gloria e successo, ha fatto la scelta di vivere in completa solitudine ad Alicudi, «senza radice alcuna». Ma è nella visita a Stromboli che il rimando a Rossellini e al sublime che accompagna l’incontro con il vulcano viene subito abbassato e reso triviale dalla richiesta di Gerardo di sapere come va avanti Beautiful14. Nel passaggio da un’isola all’altra, nel transito tra un luogo e l’altro, emerge la figura dell’artista in cerca delle condizioni che possano favorire la sua creazione, ma una volta giunti sull’isola, tutto cambia. L’isola è un microcosmo che ci è riconsegnato attraverso un’immagine caricaturale e grottesca: non è più lo spazio-tra, lo spazio liscio della superficie del mare, ma lo spazio delimitato, isolato, dove il mondo si chiude e le maschere prendono vita.
Così parla il sindaco nel suo delirio di onnipotenza e con le sue manie di grandezza: «Vorrei chiedere a Ennio Morricone una musica da trasmettere in ogni dove che faccia da colonna sonora all’intera isola. E poi chiederò a Storaro di occuparsi delle luci e dei tramonti di Stromboli. Per una nuova Stromboli! Per una nuova Italia! Tutto nuovo!».
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Qui viene presentato in forma felicemente sintetica l’innesto fra le due grandi tradizioni – neorealismo e commedia – del nostro cinema, e come la seconda costituisca una forma di abbassamento comico del carattere sublime e patetico della prima.
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Senza più il filtro della maschera di Michele Apicella, Caro diario, Aprile e in seguito Mia madre aprono uno spazio “memorialistico”, dove l’immagine diventa testimonianza dei fatti, talvolta radicalmente privati, come la malattia in Caro diario, la nascita del figlio in Aprile o la morte della madre in Mia madre; e i fatti, a loro volta, diventano situazioni investite visivamente da un personaggiospettatore, o si trasformano nelle varie forme di un teatrino grottesco. Nel circuito fra immagini e fatti e nell’investimento visivo di questi troviamo l’eredità più propria di una certa immagine che il neorealismo ha costruito e che poi vediamo svilupparsi in alcuni fra gli esempi più significativi del cinema degli anni Sessanta; una eredità forse secondaria, minoritaria rispetto a quella della commedia, ma che se non venisse colta lascerebbe incomprese alcune questioni centrali del cinema di Moretti. Il quale, collocandosi di fatto nella tradizione più alta della nostra commedia grottesca, metabolizzando elementi decisivi del “romanzesco” neorealista e della modernità che questo avvia, prende le distanze e dalla visione apocalittica di un grottesco nero e orrido (nel quale si inseriscono invece autori come Ciprì e Maresco), e dalla visione estetizzante di un certo cinema “poetico”, che esigerebbe forme e risposte ben distanti da quelle che dà il suo cinema15.
Un autore del nostro cinema nel quale è evidente la contaminazione delle due tradizioni, e nel quale sono rintracciabili motivi e forme che si ritroveranno in Moretti (e penso in primo 15
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Di fronte alla diffusione asfissiante di cliché e frasi fatte, di fronte al rumore assordante di una vita senza vita, non sembra esserci possibilità di lasciare emergere una verità che non sia quella affermata dal e nel dolore, muto e silenzioso. Oltre l’erranza e l’attraversamento delle situazioni, oltre i cliché e la loro restituzione carica ed esagerata, non sembra esserci altro spazio che quello del dolore muto, di un pathos non espresso. È La stanza del figlio, un grumo di dolore non risolto, che sospende la tradizione comico-romanzesca, e si colloca in quella di un tragico basso-mimetico, il cui evento fondamentale diventa una disgrazia, con tutto il suo potere disarticolante. E pur se è vero che esiste fra questo film e i precedenti una significativa continuità tematica, l’emergere del dolore (che nei film precedenti rimaneva comunque il sottofondo che attraversava situazioni e personaggi), il suo divenire evento totalizzante, dietro il quale si profila l’angoscia più profonda, quella che accompagna il non senso dell’esistenza, colloca il film in una posizione anomala, distante dalle forme della tradizione che hanno ispirato il cinema precedente e quello successivo, e in una posizione che sospende i legami vitali, costitutivi e tipici del comico-romanzesco, fra individuo e società. La stanza del figlio rimane un film sulla morte,
luogo a Palombella rossa) è Federico Fellini. Ci permettiamo di rimandare al capitolo da noi dedicato a Fellini, in Il corpo e la maschera. Il grottesco nel cinema italiano, Bulzoni, Roma 1999, pp. 49-60.
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e sul rapporto fra questa e la famiglia (come tipico della tragedia) in quanto struttura mediana fra individuo e comunità: i rapporti fra individuo e società si riducono a quelli fra individuo e gruppo familiare. Non si tratta più del malessere che attraversa un individuo nei suoi rapporti con il mondo, con la società; del suo allenamento per resistere e non soccombere, del suo continuo indossare le maschere più rigide, più dissonanti. Si tratta del dolore (della disgrazia) che piomba su una famiglia, segnandone il destino (il congelamento emotivo del film, cioè l’interdizione del libero scioglimento delle emozioni, evita la pendenza melodrammatica, che rimane comunque come orizzonte minaccioso). Ma di fronte alla disgrazia, al tragico basso-mimetico, non c’è spazio per nessuna ambiguità grottesca né per alcuno spunto romanzesco. Sembra esserci solo lo spazio per la costruzione astratta di una tragedia domestica che si colloca su un piano “monologico”. È un’altra tradizione della nostra cinematografia ad essere presente, presente in maniera silenziosa, congelata e miscelata con altre: Le vicende imperniate sulla verità della vita quotidiana, verità non cercata nei fatti esteriori, ma nella concretezza stessa dell’esistenza di ognuno, il dissolversi improvviso, fatale di una felicità che sembrava raggiunta e che invece, di colpo, il caso, il fato ci toglie da sotto gli occhi con terribile inesorabilità, non sono forse questi gli argomenti che più veramente interessano la maggioranza? Allora, si obietterà, il pubblico ama solo la rappresentazione delle sciagure? No. Quello che ama di più è 134
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vedere come, attraverso l’opera dello stesso fato, per mezzo delle storture raddrizzate, nei limiti resi possibili dall’umanità stessa, o infine, grazie alla rassegnazione là dove inutile e vana è la lotta, si possa arrivare a una felice conclusione, a una più umana e sopportabile condizione di vita16.
Con queste parole Raffaello Matarazzo descriveva il senso profondo dei suoi film, la struttura melodrammatica che li animava. Una struttura rinvenibile nel film di Moretti, nella costruzione “astratta” della sceneggiatura, nell’idea di disgrazia, di “ironia del destino”, nella morte, nella disgregazione che ne segue, e nella possibile apertura derivante da un legame passato che torna, preso come pretesto per aprire la situazione. E, come sempre, la tragedia17 – anche nella forma basso-mimetica della “tragedia domestica” – concerne sempre la famiglia, il legame di sangue fra i suoi componenti. Su questo profondo nucleo melodrammatico Moretti opera quel congelamento emotivo, che permette di spostare il film su un altro piano: il
16 R. Matarazzo, Trentasette milioni di spettatori hanno visto i miei film, in “L’Unità”, 18 dicembre 1955, citato in V. Spinazzola, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965, Bulzoni, Roma 1985, p. 70.
Sul melodramma come «soluzione di compromesso» nella quale «recuperare (e far riaffiorare) quel tragico che il comico perennemente espunge da sé» insiste Gianni Canova in L’infiammazione della lacrima: il paradosso del mélo nel cinema italiano, in Appassionatamente. Il mélo nel cinema italiano, a cura di O. Caldiron e S. Della Casa, Lindau, Torino 1999, p. 7. 17
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venire dal passato come condizione dell’apertura del futuro (la ragazza) devia il film dall’inesorabilità del destino verso la dinamica aperta dell’incontro e della sua imprevedibilità, con il mettersi in viaggio del gruppo, il ripartire, il provare a vivere; fermo restando un debito evidente – soprattutto nella prima parte – con le strutture melodrammatiche di un certo cinema popolare italiano. Debito che, tra l’altro, Moretti aveva già reso esplicito in Caro diario con il riferimento ad Anna di Lattuada e in Palombella rossa con quello al Dottor Zivago. È come se il dolore, l’incapacità e l’impossibilità di vivere, l’inazione e l’ossessione maniacale, la malattia e la sofferenza, che hanno attraversato i suoi film precedenti come elementi che emergevano in forma più o meno continuativa o esplicita (da Bianca a La messa è finita), ne La stanza del figlio si concentrassero nell’evento più doloroso e lacerante: la morte di un figlio. Un evento di tale portata segna inesorabilmente il film e lo colloca su una direttrice inequivocabile, fatale, senza permettere tutte le sfumature e la complessità della rappresentazione tragico-comica, serio-grottesca, romanzesca, dei destini dell’individuo moderno, e dei suoi rapporti con la società. La società e l’individuo ridotti di fatto alla famiglia (se si eccettuano le brevi – e talvolta stereotipate o quasi-bozzettistiche – presenze dei pazienti di Giovanni), e questa che passa da una iniziale «situazione anodina»18, definita da una Secondo una classificazione delle situazioni narrative operata da Hegel nell’Estetica (tr. it., Einaudi, Torino 1997), che indivi18
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felicità astratta, attraverso una catastrofe centrale, fino all’apertura finale: non più una famiglia chiusa in una casa, ma una famiglia che si ritrova su una spiaggia, in forma sparpagliata e aleatoria. Dall’astratta illusione iniziale alla realtà finale attraverso l’esperienza del dolore: non c’è più spazio in questo percorso per nessuna immagine ambivalente e dialogica. Tutto è affidato all’inesorabile monologicità di un tragico basso-mimetico, fondato su una struttura narrativa che non lascia grande spazio ad invenzioni, esagerazioni e caricature. L’“eterogeneità romanzesca”, il circuito stretto fra i fatti e le immagini, la costruzione aleatoria e episodica della storia, l’intreccio fra privato e pubblico, personaggio e autore, attore e regista, l’andare a zonzo del personaggio da un lato, e la grande tradizione dialogica comico-grottesca, le maschere, l’aggressione satirica dall’altro si convertono in una forma-melodramma travestita, il cui congelamento emotivo evita sì il profluvio di lacrime, ma non il sentimento di trovarsi di fronte ad una sorta di trasferimento unidirezionale di un nucleo di dolore dal film allo spettatore, senza lasciare a quest’ultimo alcuna libertà. In questo film il dolore è tanto più forte quanto più univoco, tanto intenso quanto senza sviluppo, rappresentato nell’atroce e intollerabile semplicità e purezza di una morte inaccettabile: quella di un figlio. Il film proprio per il modello che lo informa duava proprio nella situazione anodina quella priva di potenzialità drammatiche e narrative.
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non è attraversato (perlomeno fino all’arrivo della ragazza del figlio) dalla felicità inventiva e creativa dei film precedenti, dalla costruzione di quei mondi complessi, ambigui, eterogenei, mai pacifici – e il dolore assoluto in fondo lo è –, sempre sul crinale fra commedia e tragedia, ed animati tutti dal sentimento di una costante incompiutezza come dato connaturato alla nostra vita e alla nostra esperienza (anche quella che segna la ricerca di assoluto di un prete, La messa è finita, e di un comunista, Palombella rossa, o l’esigenza di fare un film di “testimonianza”, Il caimano). Il cinema di Nanni Moretti si pone all’incrocio e come attualizzazione di tre significative tradizioni del nostro cinema, tradizioni fortemente popolari. Se l’alveo in cui si muove è quello della commedia grottesca, anche politica, l’eredità etica ed estetica del neorealismo e una certa linea della modernità cinematografica è decisiva (soprattutto in film come Caro diario, Aprile e La cosa), e con La stanza del figlio il debito con la tradizione melodrammatica risulta evidente proprio a partire dal travestimento e dallo spostamento che ne viene operato. L’operazione che compie Moretti diventa tanto più significativa in quanto è una metabolizzazione implicita di queste tradizioni. Una riattualizzazione complessa che usa queste forme per costruire dei discorsi del tutto nuovi, che da quelle forme sembrano essere distanti, ma che invece proprio in quelle tradizioni rinnovate, trasformate, ampliate trovano il loro originario orizzonte di senso. È questa l’operazione esteticamente più rilevante compiuta da un cinema capace di elaborare e attualizzare, facendo perfino 138
Moretti e il cinema italiano
dimenticare i modelli di riferimento19, le forme della tradizione. Per cui l’erranza e la veggenza del soggetto neorealista diventano la malattia – reale e metaforica – del soggetto moderno nel suo rapporto con il mondo e con se stesso, le maschere della nostra commedia alle prese con le più basse mitologie si trasformano nella deriva di un soggetto comicamente smarrito fra cliché e stereotipi comunicativi, le forme del melodramma e della tragedia basso-mimetica si coniugano in quelle moderne di una riflessione sul dolore e sulla morte. È proprio la mediazione di queste tradizioni che permette a Moretti di toccare alcuni grandi temi dell’esistenza umana e dell’attualità sociale e politica mantenendo e anzi progressivamente ampliando il suo rapporto con un pubblico sempre più vasto, e non solo italiano.
Con l’eccezione forse del Caimano con i riferimenti a Fellini e Petri (e con la presenza di Montaldo).
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LA COMMEDIA GROTTESCA
Se la tragedia – per Dürrenmatt – si fonda sulla riattualizzazione di un passato mitico, la commedia è incentrata sul contatto con il presente, incompiuto e indefinibile; se la prima si fonda su un sapere comune ad autore e spettatori, cioè su un «soggetto familiare a tutti»1, che annulla ogni sorpresa, la seconda è incentrata sull’invenzione, sulla trovata, sulla trasformazione del reale in intreccio, in storia. Ma il contatto con il presente, e quindi con qualcosa di non compiuto, non definito e non definitivo, può risolversi, o in una costruzione narrativa, nella «trovata» e nell’«invenzione» che sviluppano la storia, o può determinarsi come aderenza alla realtà, non più mediata dall’intreccio, ma affidata all’unica forma di distanziazione possibile nella rappresentazione di un presente che non si fa storia: il ritratto esagerato, carico, grottesco. Se nel primo caso la commedia sarà commedia d’intreccio, nel secondo sarà commedia di caratteri o commedia grottesca. Se nel primo caso il rapporto di vicinanza fra realtà e rappresentazione passa per Cfr. F. Dürrenmatt, Lo scrittore nel tempo. Scritti su letteratura, teatro e cinema, tr. it., Einaudi,Torino 1982, p. 50. 1
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la mediazione della storia come racconto del movimento della società, del passaggio generazionale, dell’inserimento sociale dei giovani attraverso il matrimonio e il lavoro, nel secondo caso l’adesione del reale all’immagine, non avendo più mediazione narrativa, passa solo attraverso una modalità di restituzione carica, esagerata, grottesca del reale stesso. Saltata la mediazione narrativa, il contatto fra presente e rappresentazione mantiene un argine «senza scivolare nel tendenzioso o nel cronachistico»2, se e solo se passa per il grottesco come stilizzazione ed iperbole estrema, come modalità fulminea e sintetica che permette alla rappresentazione di contenere, esagerandolo, un reale non più tenuto insieme dall’architettura narrativa. Esiste cioè una commedia che, pur ribadendo il legame, il concatenamento stretto con la realtà, con la realtà quotidiana di gente comune, non filtra e non compone narrativamente questo rapporto, ma lo risolve (e lo dissolve) nella frammentarietà ed episodicità narrativa, ma soprattutto nel ritratto carico e grottesco, esagerato ed iperbolico. Di fatto, dall’architettura narrativa si passa all’episodio e all’episodico, dal personaggio al tipo, dal volto alla maschera, dal comportamento all’atto, dall’azione alla visione, dal sentimento alla pulsione. La commedia all’italiana ha attraversato propriamente queste due fasi: negli anni Cinquanta è stata commedia di intreccio, dove alla costruzione della storia era affidato il compito di raccontare una società Ivi, p. 53.
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in movimento e l’integrazione dei giovani attraverso il matrimonio e il lavoro (Due soldi di speranza); negli anni Sessanta la commedia è diventata propriamente commedia grottesca, commedia di caratteri, ed ha rappresentato non più l’integrazione sociale, ma la disintegrazione, non più una società «ascensionale» ma «discensionale» (Divorzio all’italiana e I mostri)3. Il cinema di Nanni Moretti appartiene propriamente alla tradizione grottesca della nostra commedia, distante dalla costruzione ed elaborazione di intrecci «ascensionali», e vicina invece alla restituzione grottesca di una società slabbrata e sfilacciata, attraversata dal dolore e dalla morte. Perché il grottesco, perlomeno un certo grottesco, non è scindibile da un elemento nero e mortuario. E qui è importante operare una distinzione nel grottesco e nella commedia grottesca. Abbiamo infatti da un lato il grottesco gioioso, festoso, carnevalesco, dove il movimento di abbassamento e negazione è sempre accompagnato da un movimento di rinascita e rigenerazione (è il grottesco di un certo Fellini): è la maschera come affermazione di una perennità della vita che si sottrae alla morte (sono le maschere della commedia dell’arte); dall’altro c’è il grottesco che smarrisce ogni momento affermativo e gioioso per farsi grottesco nero, malinconico, aggressivo, satirico (è il grottesco di Risi, Ferreri, Petri)4. Cfr. su questo M. Grande, La commedia all’italiana, a cura di O. Caldiron, Bulzoni, Roma 2003, p. 83.
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Su queste due fasi del grottesco nel cinema italiano, riman-
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È a questa seconda fase del grottesco, quella la cui origine Bachtin individua nel romanticismo, che appartiene il cinema di Moretti. La maschera non è più affermazione dell’inesauribilità della vita, ma pietrificazione, irrigidimento, di una modalità di vivere e di essere al mondo in nome di una dissonanza narcisistica, di una originalità affermata a tutti i costi contro tutto e contro tutti. La maschera (con la sua rigidità morale) diviene l’appiglio a cui aggrapparsi, per salvaguardare un’esistenza senza approdo. Ed il grottesco si inserisce proprio nelle modalità di restituzione di una maschera, in cui l’istanza critica nei confronti del mondo e di se stessi nasconde la fragilità di chi non è capace di vivere, cioè di modificare situazioni e cose. E il principio morale che sorregge il giudizio non raramente sembra trasformarsi in moralismo. Il personaggio morale rischia di indossare una maschera moralista, e con questo palesa e manifesta la sua incapacità (soggettiva) e impossibilità (oggettiva) di vivere eticamente, cioè di dare compiutezza alla vita, di realizzarsi felicemente. La felicità diventa allora una ossessione che si pretende dagli altri (Bianca e La messa è finita), perché si sa fin dall’inizio che si è incapaci di realizzarla. Ed è proprio una certa distanza dalla vita, una certa inettitudine a vivere e ad agire, che libera lo sguardo giudicante, lo sguardo di colui che, estraneo agli altri e a se stesso, è capace solo di indossare la maschera di una dissonanza eccessiva. diamo al nostro Il corpo e la maschera. Il grottesco nel cinema italiano, Bulzoni, Roma 1999.
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E allora il grottesco viene ad occupare lo spazio lasciato vuoto dall’azione e dalla narrazione; quello spazio che non facendo del soggetto un personaggio lo destina (è uno dei possibili destini) a diventare maschera, a definirsi intorno all’irrigidimento di alcuni tratti tipici che caratterizzano il suo rapporto (impossibile) con il mondo. Perché il mondo stesso sembra aver perso di autenticità, sembra essersi ridotto ad un insieme di cliché, che vengono anch’essi restituiti in forma esagerata e iperbolica. C’è uno smarrimento nel cliché, uno smarrimento non inconsapevole ma percepito in quanto tale: il cliché non diventa una modalità di conformazione e di comprensione immediata del reale, ma la forma di distanziazione e di allontanamento dal reale stesso, che trova nel grottesco la modalità di rappresentazione comicosatirica. Si smaschera il cliché come ciò che occupa e annulla sentimenti, pensieri, azioni; ciò al di fuori del quale c’è il silenzio, la malattia, la morte. Tutti i film di Moretti sono attraversati da personaggi (per quanto minoritari, secondari) che fuoriescono dalla “medietà” del vivere sociale e dai cliché che la compongono, per un dolore, una malattia, che li condanna alla solitudine, alla emarginazione, al silenzio. Al di là dell’aderenza irriflessa al cliché, ci sono la critica e la satira o il silenzio e il dolore. Il cinema di Moretti appartiene propriamente alla commedia perché è radicato nel presente e nell’attualità (non sono poche le datazioni iscritte nei suoi film, e affidate direttamente a documenti televisivi o giornalistici); ma quella di Moretti non è commedia della società, ma è commedia (tragica) nella società stessa: non la commedia come movimento di integra145
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zione sociale, dinamica e ascensionale, la commedia della società che si sviluppa attraverso la costituzione (difficoltosa) di nuovi nuclei sociali; ma la commedia tragicomica a cui è condannata una società senza sviluppo e senza dinamica, una società che si trasforma direttamente in commedia perché composta, formata da maschere che non possono che appartenere ad intrecci fin dall’inizio grotteschi, o disperdersi in episodi, frammenti di situazioni che non fanno che confermarle nella loro iperbolicità. La maschera, non più popolare, diventa allora la forma di individualizzazione narcisistica e di separazione dalla piazza, una piazza che non appartiene più al popolo (come nella grande tradizione del grottesco carnevalesco), ma diviene settaria, politica, occupata da un certo gruppo, da una certa generazione di sinistra. Ed ecco allora il processo di selezione e individualizzazione a partire da un’appartenenza, lo stare insieme per marcare una dissonanza, e allo stesso tempo ironizzarvi sopra: ecco la maschera dissonante, rispetto sia alla società nel suo insieme, sia alla nicchia alla quale appartiene, sia a se stessa. Questo è mostrato chiaramente in diversi momenti del cinema di Moretti, come nel primo episodio di Caro diario, quando Moretti, andando a vedere un film che racconta dei fallimenti di una generazione che diceva «cose terribili» e che poi si è ridotta male, commenta: «Voi dicevate cose terribili. Io dicevo cose giuste, e ora sono uno splendido quarantenne». Qui vediamo il costituirsi di una distinzione nell’appartenenza – generazionale, ideologica –, l’esibizione di una dissonanza, la maschera che si individualizza all’interno del riconoscimento di una comunanza. 146
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Ed ancora, in Ecce bombo nel dialogo con un’amica, Moretti assume l’atteggiamento adulto di chi difende il principio di realtà, e incarna una posizione responsabile, che passa per la richiesta di spiegazioni all’amica su come vive concretamente, al di là della vaghezza delle sue risposte sul «faccio cose, vedo gente»; ma subito prima e subito dopo non smette invece di occupare un punto di vista adolescenziale contrapponendosi per partito preso agli adulti, ai genitori. In tutto questo, ciò che emerge è sempre l’occupazione di un punto di vista dissonante da tutto e da tutti: satira e critica del mondo, della società e in primo luogo di se stessi. Non c’è niente che sembra salvarsi da quest’aggressione satirica, perché ciò che sembrava essere il punto esterno dal quale determinare la critica diventa, con un cambiamento di posizione, interno, esso stesso criticabile. Essere sempre contro, appartenere sempre a «una minoranza» (come sostiene in Caro diario), essere sempre lo sguardo critico, moralista, contraddittorio, che non si integra mai con una posizione dominante, perché è proprio della posizione dominante essere un insieme di cliché. E non ha importanza che questo continuo contrapporsi sia spesso animato da contraddizioni. Il grottesco occupa i vuoti dell’azione, o i vuoti del carattere, facendo e dell’azione e del carattere qualcosa di iperbolico ed esagerato. In Moretti è l’azione a mancare, l’azione riuscita, felice, l’azione come espressione del soggetto che la compie, ed affermazione della pienezza del senso che le dovrebbe appartenere. Lontano da qualsiasi risonanza epica e da qualsiasi nostalgia romantica, 147
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lo sbandamento, l’incompiutezza, il narcisismo, la pressione ideale definiscono la maschera di Michele Apicella, che raccoglie e sintetizza nel giudizio satirico e nella dissonanza smaccata la sua incapacità di agire per paura, paura di sbagliare, paura di fallire, paura di amare, paura di vivere. L’aderenza al reale, l’adesione al presente, l’insistenza sull’attualità, non potendosi sviluppare in azione, perché l’azione è schiacciata dalla doppia morsa del narcisismo e del giudizio critico che la bloccano fra autocompiacimento e interdizione, e quindi non potendo dar vita a veri e propri intrecci (si pensi al carattere episodico e frammentario dei tre primi film), trovano nel grottesco l’unica condizione per la creazione di una distanza che possa permettere alla rappresentazione del presente di evitare la cronaca e il documentario. L’istanza testimoniale, l’essere presente per raccontare ciò che deve essere raccontato (è il caso di Aprile ma anche ne La cosa), non si converte mai in “neutralità” documentaria, neanche per La cosa, ma passa sempre attraverso il setaccio straniante del grottesco, come all’inizio di Aprile, quando Moretti, dopo aver appreso dalla televisione della vittoria politica di Berlusconi, commenta con una voce in trattata come una voce off (da personaggio a narratore) che per la prima volta «mi feci una canna»: qui non abbiamo solo l’abbassamento grottesco della “grande canna” a commento della notizia, ma abbiamo anche uno scarto, una presa di distanza dal personaggio da parte del narratore (con una sovrapposizione romanzesca dei punti di vista), uno slittamento dal presente (del dialogo) al passato (della narrazione), come sancisce il tempo del verbo 148
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utilizzato e il trattamento della voce5. È proprio il grottesco che permette ad un presente senza respiro, senza sviluppo, senza percorso epico né tragico, ma neanche puramente commedico, sospeso fra adolescenzialità e isterismi, dissonanza e fuga (dalle responsabilità), presunzione ed incapacità di agire, di accedere a rappresentazione con quel misto di tragico e di comico che lo contraddistinguono, con quel sorriso amaro, quella satira acre, che sembra trovare vitalità solo nell’aggressione, o nella trovata iperbolica che sancisce e sottolinea l’unica modalità di rappresentazione di un mondo che ha smarrito il principio di realtà. E, fin da Io sono un autarchico, la dispersione dell’azione in tre luoghi – città, teatro, collina –, gli abbassamenti parodici (per esempio del western nel training in montagna), lo sguardo satirico sull’avanguardia teatrale sono solo alcuni degli aspetti che segnano e individuano la dilapidazione di una soggettività senza storia e senza destino, sospesa fra abbandono da parte della moglie, paternità precoce, assegno paterno che periodicamente lo sostiene, velleità artistiche. L’erranza, l’azione incompiuta, l’episodicità narrativa trovano nel grottesco la «forma di un’assenza di forma»6, la forma dell’incompiuto, e il riso che accompagna quest’incompiuto. Non totalmente padre, né figlio, né marito, né lavoratore,
Cfr. S. Bernardi, Moretti e Diderot, ovvero “il nipote di Moretti”, in AA. VV., Nanni Moretti, Paravia/Scriptorium, Torino 1999, p. 7. 5
F. Dürrenmatt, Lo scrittore nel tempo, cit., p. 42.
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né disoccupato, né uguale agli altri (i tanti) né completamente diverso (i pochi): sono questi i segni che definiscono una maschera la cui unità può essere ritrovata solo nel grottesco, cioè nella modalità di rappresentazione esagerata e satirica che, unica, sembra dare senso al non senso. In Ecce bombo sono i tanti scorci (il bar, la stanza, ecc.) di un mondo-acquario al quale è ridotta Roma a determinarsi come gli ambienti senza fuori nei quali i personaggi, o meglio le maschere, si muovono come tanti zombie. È il bombo come parodia dello zombie. Il bombo come zombie reso grottesco: da qui l’assenza di aria, di luce, di aperto che attraversa il film. Qui, nuovamente, il grottesco occupa lo spazio reso vuoto dall’azione, e definisce i “quadri”, le scene frammentarie, interrotte, sospese, da un gesto, da un parola che le rimanda al loro non senso, come unico senso possibile in un mondo senza unità né identità né integrità, senza percezione che non sia intrisa di narcisismo, di ridicolo desiderio di essere altrimenti; desiderio non sostenuto da alcuna capacità reale di pensare e fare altrimenti. Rimane solo il vezzo, la velleità, l’irrilevanza di una dissonanza ed eccentricità come unica forma di una maschera narcisista. Il «vedo gente, faccio cose» diventa allora lo slogan di un modo d’essere la cui infinita disponibilità è la forma che prende un’aderenza (narcisistica) al reale, senza il sostegno del principio di realtà, e dei limiti e delle necessità che lo definiscono. In Sogni d’oro la frammentazione della storia, l’impossibilità di costruire un’architettura narrativa unitaria, si determinano come triplicazione delle linee narrative che definiscono la scissione del personag150
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gio. La scissione è il modo d’essere del reale, quando le duplicazioni non riescono a comporsi nell’unità del divenire; e quindi il grottesco si definisce in una forma propriamente nera, inquietante (come sancisce la metamorfosi in licantropo del finale del film)7. La prima scissione è inscritta nell’idea stessa di un film sul cinema, su un regista (Michele, che vive con la madre) che sta preparando un film. La seconda è inscritta nel personaggio del film: un pazzo che si crede Freud, il padre della psicoanalisi che vive con la vecchia madre (il titolo del film è, appunto, “La mamma di Freud”). La terza è letteralmente l’apertura di uno spazio onirico in cui Michele si vede nella veste (prosaica) di un professore innamorato di una sua alunna; ma lo spazio onirico si converte in incubo (il divenire licantropo) e quest’ultimo in allucinazione: il piano reale si confonde con quello immaginario, la percezione con la visione. Il film è strutturato come rappresentazione delle due facce grottesche di una stessa identità, quella di Michele. Abbiamo, da un lato, il narcisismo e la megalomania nel sogno ad occhi aperti del film sul pazzo che si crede Freud: una sorta di doppio parodico, di travestimento carnevalizzato di Michele8; un carnevale gioioso, un’atmosfera di festa
Non distante da quello che accadrà nel Caimano, dove abbiamo una duplicazione delle linee narrative (la storia privata di Bonomo e quella pubblica del caimano), con un finale altrettanto inquietante e nero.
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Cfr. F. De Bernardinis, Nanni Moretti, Il Castoro Cinema, Milano 2001, p. 63.
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che attraversa il set, un banchetto in cui si discute e si ricorda una pasta e fagioli capace di salvare la produzione di un film, che non vedono partecipe Michele, il quale invece sembra vivere una sorta di carnevale in solitudine mangiando pasticcini. Dall’altro lato, invece, questo «carnevale vissuto in solitudine» (Bachtin) assume i toni dolorosi e neri di un grottesco allucinatorio nel sogno-incubo del professore innamorato e si converte in un grottesco gotico dai toni lugubri con la trasformazione finale di Michele in licantropo che, urlando, si perde nel bosco. Qui il grottesco si pone come modalità di rappresentazione della scissione di un soggetto, di una maschera, e dei teatrini immaginario-onirici che la animano: lo spazio-tempo carnevalizzato della finzione, una sorta di liberatoria ribalta isterico-narcisistica alla quale Michele forse vorrebbe, ma non sa, partecipare (e il carnevale non ammette spettatori, ma solo partecipanti). È un carnevale solitario e lugubre a trasformarlo in un lupo mannaro. È il grottesco che configura ed incarna nelle sue immagini contrapposte e complementari la lacerazione del soggetto, estremizza e rende iperbolica l’incrinatura irrefrenabile verso un narcisismo plateale e teatrale, o verso una prosaicità malinconico-dolorosa. In entrambi i casi è il dolore che lacera il soggetto, ne incrina l’equilibrio che sorregge l’azione; e la visionarietà soppianta il reale e la percezione. Il grottesco – come sempre nella tradizione del nostro cinema – si misura con le tensioni mentali che disarticolano un soggetto; e dà immagine e forma a questa disarticolazione, a questa scissione ai confini 152
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della patologia. C’è tutta una drammaturgia mentale che sostituisce l’azione e che trova nel grottesco la sua forma specifica di rappresentazione. La frammentarietà ed episodicità narrativa ritrova unità in Bianca, dove il grottesco si determina come inserto che proietta le azioni e i comportamenti narrati in un contesto che gli restituisce un tasso di irrealtà, e gli fa perdere quella verosimiglianza che definirebbe una situazione “reale”. È il caso della scuola “Marilyn Monroe”, dove va ad insegnare Michele, che è composta di ambienti e personaggi che abbassano i momenti alti della cultura e della formazione, spingendoli verso l’eccentrico, l’inverosimile e il «circo Barnum», come dice il preside. Ed ecco che l’intreccio giallo non smette di essere incorniciato da situazioni, ambienti e figure grottesche. Il mondo diviene proiezione mentale dei personaggi, fantasma che popola la loro mente; personaggi che incarnano questi fantasmi, doppi che radicalizzano, estremizzano in forma grottesca facce e lati di una personalità scissa. La clownerie circense del preside, la serietà patetica del commissario, la goliardia dell’amico Siro Siri compongono le facce grottesche di un Doppio sfaccettato. O meglio, formano una serie di doppi impossibili, di riflessi nei quali si scinde e con i quali interloquisce la maschera di Michele, incapace di identificarsi con uno di essi, cioè con un modo di vivere la libertà che appartiene all’esistenza umana non ridotta a quella infinita serie di limitazioni, di imposizioni, di divieti, di negazioni, di doveri che definiscono e scandiscono la sua giornata, privata della libertà e quindi del rischio: «Io devo lavorare, 153
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a scuola almeno sono costretto. A casa mi costruirò una gabbia, degli orari, dei metodi, degli obblighi dentro cui lavorare». E questa gabbia è difesa e interdizione alla vita, trasformazione di una debolezza (incapacità di vivere) nella forza ossessiva, maniacale del no diffuso e totalizzante; un no che assume anche la forma della necessità del sì, di una sorta di autoimposizione del sì nonostante le difficoltà, le incertezze, i dubbi, lo spazio grigio che definisce la vita concreta, e non l’idea della vita, la vita sussunta alla rigidità di principi astratti ed ideali come quelli che afferma Michele «Io almeno dico: questo è sano, questo è malato; questo è bello, oppure è brutto. Qui c’è il bene, qui c’è il male». Ma è nel rapporto con Bianca, fin dalla sua prima apparizione, che si rivela il carattere allo stesso tempo funzionale e immaginario degli altri personaggi nei confronti di Michele. Bianca è e non è un personaggio reale, il suo nome corrisponde ad una certa trasparenza e impalpabilità del personaggio, sottolineata dal biancore del trucco che ne accentua il carattere fantasmatico. Michele la vede per la prima volta dal finestrino del pullman in partenza. Scende, dopo aver fatto fermare il pullman, ma non vede nessuno: non c’è nessuno. Dallo schermo del finestrino si manifesta il carattere “immaginario” del personaggio: appare come fantasma, in questo caso come “doppio complementare” con cui emerge la possibilità (paventata) di comporre una coppia, di provare quella felicità che pretende dagli altri e che pensa di imporre agli altri, ma che teme per sé. Perché la felicità è quanto di più temibile ci possa essere per chi vuole solo difendersi dal dolore, perché 154
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è destinata a finire, come confessa Michele a Bianca. Perché tutto cambia, tutto diviene, tutto si trasforma, e questo è quanto di più inaccettabile ci possa essere. Allora la nevrosi ossessiva e la mania diventano le difese più naturali dalla morte e dalla vita, perché di fatto anticipano la morte senza aspettarla; affermano il ritorno del sempre uguale, l’immodificabilità, l’annullamento di ogni possibilità di vero cambiamento, nell’ossessività del controllo, nel non lasciarsi sfuggire nulla che possa rimandare all’imprevedibilità della vita e della morte. Per questo è più confortante e rassicurante l’assegnazione della morte (la morte sottratta alla sua imprevedibilità), la morte destinata agli altri, a coloro che mettono fine alle illusioni di felicità eterna (gli amici che si lasciano), e la morte sociale assegnata a se stessi – attraverso la confessione al commissario della propria colpevolezza –, che non è altro che l’approdo radicale della posizione isolata e spettatoriale dalla quale si è attraversata, o meglio osservata, tutta la vita: la galera. Ma Bianca proietta queste figure grottesche, che vanno dalle maschere carnevalesche del tipo “spettacolo e sport” (i manifesti da Dean Martin a Zoff) della scuola “Marilyn Monroe”, alla presenza gotica e vampiresca di Michele, a quella più fantasmatica di Bianca, in un contesto da film giallo che dà corpo ai personaggi, proietta i loro tratti fantasmatico-grotteschi in una volumetria che concede loro spessore finzionale. O perlomeno, il motivo “giallo” della ricerca di un colpevole manifesta come l’identità sia tale solo al momento dell’imputazione di una colpa, cioè nell’attribuzione o nell’assunzione di responsabilità per un’azione compiuta. Ma al di fuori e prima della 155
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domanda “chi è stato?” c’è la domanda “chi sono io?”, che apre e determina un pendio ripido, un movimento vertiginoso, per cui l’“io” non è quello che si determina in rapporto all’“altro”, ma quello che non fa che difendersi dai suoi stessi doppi deformanti, che sfugge all’altro (persecutorio: preside, commissario, l’amico stesso che pretende da lui ciò che non potrà mai fare), capace solo di affermarsi ossessivamente, maniacalmente, nell’identità senza tempo di un idem, che aspira idealmente a vedere realizzata negli altri e tra gli altri quell’unione armonica che lui è incapace di realizzare: l’immagine della coppia felice. Il tradimento di quest’ideale da parte degli amici è di fatto il crollo di una illusione, un crollo che Michele è incapace di accettare e di sopportare. E allora la vita si ritrae e si svolge fra sguardo giudicante, ossessione morale, azione criminale. Non c’è spazio, non solo per l’azione, perché di spazio per l’azione non ce ne è mai stato, ma neanche per la teatralità narcisista di Sogni d’oro. Rimane solo la paura, l’interdizione, il no, l’omicidio. Se Sogni d’oro ha riguardato in un certo senso l’Estetica, cioè come il cinema e il sogno hanno incarnato e animato in forma grottesca la scissione onirica del soggetto, e se Bianca ha trasformato il sogno nell’incubo di una Morale rigida e ossessiva, La messa è finita sancisce lo scacco e il fallimento di un’altra forma di sapere, la Religione (prima di giungere alla Politica di Palombella rossa), come modalità di comprensione degli altri e del mondo. Qui la commedia inizia come di solito dovrebbe finire, con un matrimonio, con l’“integrazione sociale” celebrata da don Giulio, con l’affermazione della 156
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continuità della specie attraverso la procreazione («educare i figli»). Ma questa felice unione sembra concernere solo uno spazio insulare (l’isola dalla quale proviene don Giulio), e non la vita cittadina, dove il movimento è inverso, e a dominare è la dissoluzione, la separazione, la disgregazione, la messa in questione della continuità sociale attraverso la possibilità di interruzione di una gravidanza (quella della sorella di Michele) e del naturale corso della vita (il suicidio della madre). E qui la religione come comprensione del prossimo, amore universale, accettazione della realtà, è un totale fallimento. E il rapporto del prete con le tante situazioni difficili con cui viene a contatto non si risolve in parole di conforto, tanto meno in consigli, quanto in sguardi, la cui passività, la cui impotenza, non possono che risolversi in forme di aggressività. Aggredisce la sorella, il padre, l’amico, incapace di agire e di capire, lacerato davanti al dolore del mondo, alla separazione, alla morte e alla propria inettitudine. E qui il grottesco si insinua come modalità di rappresentazione della frattura fra soggetto e realtà: per il modo ingenuamente infantile con cui il fidanzato della sorella nega la realtà, la fugge, andando in montagna ad osservare rapaci; o per il modo in cui l’amico Saverio si chiude in casa per una storia d’amore finita da ben tre anni; o per le modalità (esagerate ed eccessive) con cui Cesare si converte al cattolicesimo, manifestando addirittura l’intenzione di dedicarsi al sacerdozio; o per i modi in cui l’ex parroco, Antonio, si lancia con fastidioso entusiasmo nel suo nuovo ruolo di marito e di padre. Ma soprattutto per le forme in cui don Giulio reagisce a tutto questo: picchia la sorella 157
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e il padre, sbatte lo sportellino del confessionale in faccia all’amico terrorista, “regredisce” mettendosi a giocare a macchinette con l’ex parroco, facendo smobilitare il figlio di lui, e lanciandosi con tanto di tonaca in una partita di calcio con i ragazzi della parrocchia. In tutti questi casi il grottesco, l’esagerazione comica del comportamento, dell’atto, del gesto, fanno sì che la frattura, l’inadeguatezza, la distanza fra io e mondo, individuo e società siano sottratte al loro potenziale esclusivamente e totalmente drammatico, per essere colte anche sotto il loro profilo “comico”, cioè nel loro divenire “sociali”, maschere sociali e figure comiche: il senex rimbecillito per amore, il fidanzato distratto e fuori dal mondo, il neofita cattolico e il prete secolarizzato, ma soprattutto e in primo luogo il moralista, l’uomo delle astrazioni e dei principi, costantemente sconfitto e sopraffatto dalla realtà e dal suo divenire. È soprattutto nel finale che il grottesco si intensifica e si determina in una forma allucinatoria, mettendo in scena la realizzazione di un desiderio impossibile nella realtà: l’unione armonica delle coppie, un accoppiamento agognato e sperato, ma soddisfatto solo in forma allucinatoria. Qui ritroviamo uno dei grandi segni della nostra commedia grottesca (a partire da Divorzio all’italiana): l’impossibilità e l’incapacità di modificare il reale si trasformano – sotto la pressione di un desiderio inarrestabile – nella sua modificazione visionaria e puramente allucinatoria. Ed ecco che l’integrazione e l’unità sociale con cui dovrebbe chiudersi ogni commedia sono affidate all’allucinazione di don Giulio, mentre sul piano di realtà il film si conclude in forma propriamente 158
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tragica, con l’esilio volontario del prete, il suo allontanamento dal corpo sociale, il fallimento – o forse il differimento – dell’amore universale. Le tonalità comico-grottesche permettono di cogliere il lato sociale – e quindi universale – dei dolori individuali, diversamente dalle tonalità tragico-drammatiche che colgono il lato individuale dei drammi sociali. In Palombella rossa il grottesco sfalda e dissolve la pur tenue tenuta dei concatenamenti logici affidati alla permanenza di un intreccio, sia pur frammentario ed episodico, e diventa la modalità di restituzione di un mondo che smarrisce i confini fra reale ed immaginario, vero e falso, percezione e visione, sogno e ricordo. Anzi, è proprio la cornice narrativa a manifestare esemplarmente il carattere grottesco del film. L’incidente che occorre al parlamentare comunista Michele Apicella gli sottrae la memoria, il tempo passato dell’esperienza acquisita e della tradizione a cui appartiene, e quindi gli sottrae l’identità. L’incidente sospende il tempo come sviluppo progressivo, come movimento del futuro verso il passato, e apre un’immagine del tempo come coesistenza, simultaneità e sovrapposizione. Ma sospende anche lo spazio come spazio riconoscibile, spazio-ambiente, situazione d’azione, ed immette in uno spazio “altro”, in uno spazio mentale, che contiene e ribalta tutti gli ordini di spazialità. L’incidente, l’evento eccezionale che sospende la continuità spazio-temporale del quotidiano, determina una crisi d’identità. È proprio questa crisi che genera uno spazio di libertà assoluta, di caos, 159
Nanni Moretti
di confusione, di sovrapposizioni di voci, di immagini, di personaggi, di figure. Il grottesco si insinua là dove il reale perde la sua connessione, garantita dal quotidiano, e si dispone ad essere reinventato, sottratto ai vincoli della tradizione e del passato, e proiettato verso un futuro puramente utopico, come il sol dell’avvenire del finale. La piscina e la partita di pallanuoto definiscono le coordinate “eccentriche” (extra spazio-tempo ordinario) di un grottesco che intreccia maschere sociali e psicologiche, e diventa la modalità più propria di messa in immagine di un mondo mentale. Sottratta l’ultima resistenza di un “riferimento al mondo”, esaurito il “residuo” di una presenza della realtà, pur in tutta la sua ambiguità e problematicità, Palombella rossa non ha più bisogno di “mediatori” narrativi come garanti di una narrazione verosimile – il regista, il professore, il prete –, ma trova un intercessore – come sempre una figura anche pubblica – in un politico, la cui “malattia” lo mette in una condizione di spaesamento. È proprio questa condizione che non viene vista nella sua progressività, né nei suoi effetti sul comportamento, ma viene introdotta con uno choc, un incidente, che colloca in una situazione immaginario-simbolica, dove si accavallano e si incrociano fantasmi individuali e maschere sociali. La galleria di maschere che ruotano come su una giostra impazzita, le urla che si ripetono come su un disco incantato, le immagini che si accavallano in una libertà sfrenata, ma sempre animate da un’istanza parodico-dissacrante, compongono lo spazio-tempo di una rappresentazione grottesca capace di convertire lo spazio psicologico (la cioccolata, le merendine, 160
La commedia grottesca
la mamma, l’acqua uterina) in spazio sociale (la politica, il comunismo, il giornalismo, l’uso stereotipato del linguaggio), o meglio capace di creare una sorta di indiscernibilità fra privato e pubblico, sociale e individuale, psicologico e politico, come è individuato dalla risposta che si dà Michele al «Chi sono io?», «Sono un comunista». L’identità individuale sembra risolversi nello spazio sociale, composto da quell’insieme di valori, di credenze, di attitudini che definiscono una “ideologia”. Se alla sfera pubblica è dato il compito di cambiare le cose, di fatto esso sembra determinarsi come lo spazio di realizzazione alienante della soggettività individuale, per cui non è vero che la nostalgia delle «merendine di quand’ero bambino» sostituisce l’impegno politico, ma è proprio quest’ultimo, definito da luoghi comuni e irrealizzabili utopie, a convertire la nostalgia del passato verso quella del futuro, e a sovrapporle, a pareggiarle, a renderle l’una la faccia parodica dell’altra, come il finale con il sol dell’avvenire e l’immagine di Michele bambino sghignazzante sembrano testimoniare. C’è ribaltamento dell’una nell’altra, conversione, pareggiamento: ciò che viene esclusa è proprio la pienezza epico-etica dell’espressione della soggettività nell’azione e nel discorso, la realizzazione dell’io nell’azione, privata o pubblica. In Moretti non è mai questione di cinema ombelicale, come qualcuno sembra aver pensato, perché ciò che viene semmai tematizzato è l’inautenticità del privato attraversato da una patetica nostalgia, e animato da un pubblico che si è fatto pubblicitario, da un linguaggio che si è fatto insieme di cliché. La 161
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questione del linguaggio è centrale perché è proprio il linguaggio che sancisce il suo essere allo stesso tempo pubblico e privato: il suo appartenere a tutti, condizione necessaria per la comprensione, e il suo appartenere ad ognuno in un modo assolutamente individuale. Ma questo rapporto sociale/individuale viene a “corrompersi” in quell’amalgama soffocante che riduce e la complessità del carattere sociale del linguaggio e il suo uso individuale alla circolazione di slogan comunicativi e di cliché. Nel linguaggiocliché scompare il passato della tradizione e il futuro dei progetti, e rimane solo un presente senza spessore, senza memoria, e dove il futuro si fa puramente utopico. Un presente che si dispone alla deformazione satirica e grottesca. Se in Palombella rossa (come in genere in tutto il cinema di Moretti) l’ossessione è il cliché, è proprio perché il cliché annulla la dialettica sociale (contrapposizione di posizioni, di linguaggi, di sessi) e determina un territorio indistinto, definito da una socialità diffusa e trasparente, affidata alla dominanza dei mezzi di comunicazione di massa e al loro linguaggio standardizzato, nel quale l’individualità sembra annullarsi, e proprio nella generalità e medietà del linguaggio e del comportamento. La trasparenza del cliché e l’immediatezza della sua comprensione annullano l’opacità, la singolarità e la resistenza del reale, essendo abolita in un sol colpo sia l’individualità del parlante, la singolarità ed originalità dell’atto di linguaggio, sia la lingua in generale, attraverso la sua riduzione a collezione di stereotipi: è l’annullamento allo stesso tempo della soggettività di chi parla e dell’oggettività singolare 162
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del reale nel cliché come trionfo dell’amalgama indistinto del si dice. È per questo che il grottesco sancisce allo stesso tempo la scomparsa del reale e quella della soggettività. Perché il cliché, ciò che può essere restituito solo in forma grottesca, rende pari soggetto ed oggetto, uomo e mondo, interno ed esterno: è il punto del loro contatto, della loro unione, del loro coappartenersi nelle forme di una pura socialità senza alcuna società; quindi senza le articolazioni e le differenziazioni di quest’ultima, soffocate dalla diffusione di un fluido sociale comunicativo e informativo che rende inidentificabili e inassegnabili percezioni, voleri, desideri, atti, azioni, idee, ideologie, usi linguistici. È anche questa l’ossessione che attraversa Palombella rossa, dove il grottesco serve proprio a dare corpo, spessore, rilievo alla rappresentazione di una società senza mondo e quindi ridotta alla trasparenza di una pura e continua circolazione comunicativa. E questo è valido anche per Caro diario e Aprile, dove il grottesco risiede nel completo farsi pubblico del privato, ma non nel senso della cosiddetta mancanza di privacy, che è di nuovo una categoria sociale che fa riferimento ad una sorta di nucleo dell’individuo che deve essere sottratto all’uso e all’abuso pubblico, e quindi tutelato in termini di legge, ma nel senso che il vissuto, l’esperienza interiore non sono altro che un composto di modelli e stereotipi, che li sottraggono ad ogni originalità e autenticità9. È l’in Permane sempre in Moretti una sorta di nostalgia per qualcosa che non è mai stato: per un orizzonte mitico e originario
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sieme dei comportamenti dei genitori tiranneggiati dai figli unici in Isole; o il ribaltamento improvviso di chi – l’amico Gerardo, sempre in Isole –, dopo aver vissuto anni senza televisione, esce fuori di testa per Beautiful; o, in Aprile, l’impossibilità di dire qualcosa di nuovo, di parlare in modo nuovo, di fare domande nuove, impossibilità che coinvolge non solo politici e giornalisti, ma anche lo stesso Moretti e il suo privato, a partire da quell’esperienza unica e singolare che è la nascita di un figlio; o, nel Caimano, sono i racconti di Bonomo ai suoi figli, che riprendono solo personaggi e storie del suo cinema “grottesco popolare”. Il grottesco occupa lo spazio lasciato vuoto da un privato che perde lo spessore di insieme di esperienze vissute per ridursi a serie di cliché, che perde la forza dei sentimenti per ridursi ad una serie di nevrosi e di pulsioni. L’anestetizzazione dei sentimenti e la loro conversione in pulsioni li dispone ad una rappresentazione grottesca: e così – come sempre nella grande tradizione della nostra commedia – quello che poteva essere il potenziale drammatico, come quello di una malattia (Caro diario), si contamina con elementi grotteschi e diventa, più che un dramma, la storia del permanere di un sintomo (il prurito, un’irritazione cutanea che costringe il corpo ad una serie di posture e di gesti grotteschi che sembrano un abbassamento comico della serietà del male) e dei suoi fallimenti
definito da una incontaminata autenticità. Una sorta di punto ideale dal quale liberare uno sguardo satirico-grottesco sul mondo presente.
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interpretativi da parte della medicina (i transiti da un medico all’altro, da un professore ad un medico cinese e via dicendo, e poi l’accumulo di ricette, di medicine). Trattare in forma comico-grottesca un tema intensamente drammatico (come quando uno dei medici, dopo un esame diagnostico, commenta che si giocherebbe una palla sul fatto che si tratta di un tumore al sistema linfatico) significa collocarlo oltre la sfera privata, il dramma interiore, la denuncia sociale, e cogliere tutto il carattere beffardo e grottesco di un fastidioso prurito che nasconde un male serio, di pacchi, di ricette e di medicine che non servono a nulla, di medici che non ti ascoltano, di un elenco di alimenti a cui si è allergici, di medici cinesi che intuiscono dov’è il problema, di cure spossanti, e della gioia che accompagna la fine di tutto questo, l’esserne usciti fuori, sintetizzabile nel piacere più semplice, quotidiano, quello di bere un bicchiere d’acqua prima di colazione. E in Aprile il discorso non cambia, anzi sembra in un certo senso radicalizzarsi. Il parallelo, l’intreccio fra pubblico e privato testimoniano da un lato della trasformazione del pubblico in pubblicitario, in slogan, frasi fatte, come quelle pronunciate da giornalisti e politici in televisione, dall’altro del trasformarsi del privato, segnato da un evento decisivo come la nascita di un figlio (rinascita dopo la morte paventata), in un teatrino grottesco. Per cui, in un percorso parallelo, per quanto capovolto, a quello di Medici, la profonda trasformazione che nella vita di un uomo comporta la nascita di un figlio si riduce ad una serie di motivi comico-grotteschi che incarnano l’insieme di ansie, nevrosi, pulsioni che accompagnano quest’evento e 165
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che sostituiscono, o meglio occupano, lo spazio vuoto dell’interiorità, dei sentimenti, degli affetti. Ed ecco che la nascita si riduce ad un torneo di tennis per scegliere il nome, ad un confronto fra nonne sui vestitini e le scarpe migliori per il nascituro, all’insieme di ansie che attraversano il padre – più che la madre – nell’attesa; e poi, durante e dopo il parto, c’è l’esaltazione dell’epidurale, il confronto fra il peso dei bimbi alla nascita, la montata lattea, la paura del contagio di malattie durante le visite. La pulsione sostituisce il sentimento, la nevrosi il comportamento, la visione l’azione, e con ciò vengono a determinarsi alcuni dei segni di composizione di un grottesco moderno che fa del soggetto un impasto pulsionale più che l’origine di sentimenti ed azioni. E poi anche qui c’è l’ossessione del linguaggio, del linguaggio giornalistico, dei cliché che lo animano e lo attraversano, sintetizzabile nell’immagine dell’avvolgersi di Moretti in un gigantesco foglio composto di giornali. Come dire una parola nuova? Come porre domande nuove? Come non cadere nel già detto? Non sembrano esserci risposte. Ciò che rimane è solo lo spazio per uno sguardo satirico, grottesco, carico, sui cliché e su quelle forme ossessive, maniacali, del comportamento che definiscono le nostre nevrosi. Allora il grottesco, il tragicomico, il satirico diventano le modalità più proprie di restituzione di un mondo senza interno e senza esterno, e quindi senza dialettica sociale, di un mondo dove l’appaiamento di pubblico e privato avviene sotto il segno del cliché, e ciò che viene a mancare è comunque l’azione, e i sentimenti che dovrebbero ispirarla. Rimangono 166
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solo le infinite tensioni e spinte delle pulsioni, e le differenti maschere che devono corrispondergli. Ma se davanti alla malattia e alla nascita, così come di fronte alle tante maschere della pulsione di morte che attraversano il cinema di Moretti, l’arma del grottesco, la sua ambivalenza, sembravano essere allo stesso tempo meccanismi di difesa e modalità di rappresentazione dell’incompiutezza tragicomica e grottesca del presente, di fronte alla morte, all’evento della morte, alla morte inaspettata, il grottesco scompare e si apre tutta un’altra storia. Emergono i sentimenti, i patimenti, il dolore senza possibilità di travestimento alcuno, il dramma della morte e della vita: è La stanza del figlio, dove vediamo il pressoché totale accantonamento del grottesco. Ma si tratta di una parentesi, e con Il caimano le forme della commedia grottesca, anche nei suoi connotati politici, riprendono con grande forza, prima di stemperarsi nel romanzesco di Habemus Papam e ancor più radicalmente di Mia madre.
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Ciò che definisce la commedia, la commedia grottesca, è il ribaltamento sul piano sociale e pubblico di drammi e di scacchi individuali. O meglio, è la loro indistinzione ad assumere rilievo: una sovrapposizione di nevrosi individuali e collettive, di una individualità come insieme di cliché e di una società come deposito e accumulo di nevrosi individuali. Ciò che viene cancellato è il sentimento, l’interiorità, l’azione, la dialettica “sana” fra individuo e società. Ne La stanza del figlio questa dialettica sembra essersi risolta armonicamente, perché la società non è più l’insieme eterogeneo degli altri con cui veniamo a contatto e in rapporto, ma l’insieme più ristretto della famiglia, spazio mediano fra l’io e il mondo. E l’io non è più colto in una fase adolescenziale, né in un momento di crisi, né di transizione, ma è un io pienamente e compiutamente adulto, realizzato e come marito e come padre e come psicoanalista. La famiglia è vista come unità di affetti, di sentimenti, di progetti. La casa – luogo abitativo e di lavoro – è lo spazio privato che comporta una sorta di azzeramento, o meglio di assorbimento, di quello sociale, presente solo attraverso i pazienti di Giovanni. E la famiglia, che nei film precedenti era rappresentata come un teatrino di nevrosi e isterismi, 169
Nanni Moretti
spazio aperto di una inalienabile conflittualità, ora diviene nucleo di connessione, dove il collante affettivo, sentimentale e simbolico costruisce e realizza felicemente quello spazio di mediazione fra l’io e il mondo che è il nucleo familiare. C’è un parlare, un dialogare a fil di voce che conferma e rappresenta un’acquisita consapevolezza e solidità sui ruoli e le posizioni da occupare all’interno della famiglia. Tutto sembra astratto nella sua compiutezza e nella sua serenità. Anche le modalità con cui si viene a porre il problema del furto del fossile e della bugia del figlio non contemplano nessuna esplicita conflittualità né contrapposizione. E se per Giovanni il possibile furto da parte del figlio costituisce un problema, questo non viene mai esplicitamente posto in una contrapposizione frontale padre-figlio, ma passa per la mediazione della donna (moglie e madre), a cui Giovanni chiede conforto, conferma e rassicurazione per le sue ipotesi, e a cui il figlio finalmente confessa la sua colpa, riconoscendo di non aver avuto il coraggio di dirlo al padre: «Volevo dirlo a papà, ieri, siamo andati a fare una passeggiata, solo che stavamo bene, e lui era contento». Sembra abolita ogni nevrosi, e l’equilibrio armonico su cui si regge l’unità familiare può essere infranto solo da una disgrazia. Sottratta la dimensione sociale, pubblica e politica, dell’individuo e della famiglia, rimane solo uno spazio privato, chiuso, autosufficiente, stabile nella sua sicurezza e serenità. E quindi animato da una certa astrattezza. Da qui si parte: c’è una famiglia, due figli adolescenti senza il fuoco dell’adolescenza, due genitori la cui presenza e il cui sguardo amorevole non sembra 170
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soffocarli (come quando ascoltano la figlia parlare di canne con il suo fidanzato senza intervenire: o meglio, il padre vorrebbe ma la madre lo blocca), e che fanno sesso la sera a letto dopo la lettura di un libro. Tutto rientra nel modello astratto di una famiglia borghese e della medietà affettiva e simbolica che la sostiene: una medietà che rifugge gli estremi passionali, conflittuali, caratteriali, in un trionfo – perlomeno apparente – dello smussato, del composto e ricomposto1. In questa felice stasi irrompe l’evento disgregatore: la morte del figlio. Una disgrazia che incide come evento doloroso e traumatico su ognuno dei componenti della famiglia, portandoli all’isolamento, a reagire differentemente rispetto ad un pathos lancinante, che obbliga ad una passività, ad una impotenza, che non sembrano prospettare alcuna possibile risposta. Il dramma de La stanza del figlio è quello di una morte individuale, definitiva, senza possibilità di rinascita. La morte dell’individuo (figlio) e nell’individuo (padre), la morte nella famiglia, la morte nella casa non lasciano altro spazio che quello di sancire un dolore insanabile. Quella illusione di eternità che accompagna la serenità di una vita familiare nel suo procedere armonico e quotidiano viene infranta cruentemente. E lo choc è tanto più forte quanto la situazione nella quale si viene a determinare non portava nessun segnale di possibile rottura: nessun Che a volte sembra il “rincollato”, come la teiera rotta da Giovanni dopo la morte del figlio.
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litigio serio, nessun conflitto, nessuna crisi reale (il furto del fossile non si pone in famiglia come un problema reale da risolvere, semmai come una tensione sotterranea che attraversa il padre), ma una situazione astrattamente felice, quasi anodina. L’irruzione drammatica della morte è un grumo di intensità senza articolazione; dolore allo stato puro, senza complessità, senza sviluppo. Con uno stesso movimento Moretti sospende e introietta ogni dimensione sociale, annulla ogni elemento grottesco, converte il tragicomico in melodrammatico congelato: il dramma di una serenità familiare interrotta per sempre, di un’armonia infranta per una disgrazia. È il dissolversi di un’illusione, quella di una stabile serenità. L’illusione si dissolve per il passaggio alla realtà, non quella del divenire, del cambiamento (sociale), come ci racconta la commedia, ma la realtà della morte, della fine; la fine della vita del figlio e del padre (attraverso la morte del figlio), ma anche la fine dei periodi della vita: la giovinezza del padre che finisce con la crescita del figlio. Il film è come un nucleo chiuso, impermeabile e impenetrabile, quello che caratterizza un dolore insolubile, a cui non sembra esserci altra risposta che non sia un vagare in un presente senza spessore, o meglio dove lo spessore è dato solo dall’adesione in forma ossessiva ad un passato che blocca l’azione e il suo sviluppo. Il tempo rimane cesura inesorabile, senza alcuna possibile sutura. Il vuoto determinato dalla morte, dal destino, o come si dice dalla sua ironia, segna il passaggio dall’intensità di un legame affettivo fra i quattro 172
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membri della famiglia alla dispersione, allo scioglimento, alla separazione, determinata dalla sparizione del collante, dal venire meno del legame. Il circuito affettivo si interrompe: padre, madre, figlia non ce la fanno a riempire un vuoto, perché quel vuoto non può essere riempito; è l’emergere del non senso che accompagna l’effettività e fragilità del nostro vivere. Il continuo, inesauribile, faticoso – e talvolta gioioso – dare senso alla vita sul fondamento di un non senso che dall’interno la abita viene meno, si arresta, e quel non senso emerge dal fondo, risale, occupa totalmente il vissuto (come nelle psicopatologie dei pazienti di Giovanni). E, allora, non si tratta più di ricominciare a tessere con gli affetti, le aspettative, le esperienze condivise, il tessuto connettivo dell’esistenza familiare, perché quel tessuto si è irrimediabilmente sfilacciato, le ferite del dolore non prospettano cicatrici. E allora i confini fra lo star bene e lo star male, la felicità e il dolore, la gioia e la disperazione sono sottili, tenui, facilmente oltrepassabili. Il nostro essere è nella nostra fragilità, nel nostro essere esposti agli incontri, felici o dolorosi, produttivi o improduttivi. E, allora, fra lo psicoanalista Giovanni e i suoi pazienti viene a determinarsi una zona di indiscernibilità: impossibilità di lavorare, di vivere; arresto del tempo e suo ritorno in forma ossessiva. L’interruzione traumatica della continuità del tempo, la sua cesura insuturabile, lasciano emergere la banalità mostruosa del capriccio del destino, della morte, del suo effetto scioccante, che arriva – così per caso – ad interrompere dolorosamente la tessitura continua del senso che un individuo, e una famiglia 173
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vissuta come sua estensione, non può smettere di fare. All’improvviso, la vita sembra perdere di senso, e la morte diviene scioccante perché non ammaestrabile, insensata. È questo non poter dar senso alcuno alla morte – che arriva così nella sua estemporaneità – e quindi alla vita, presente e anche futura, lo scandalo inaccettabile e intollerabile: il dolore che non può essere lenito, in primo luogo quando concerne il nostro futuro e il nostro passato, e quindi la nostra identità: la parte di noi stessi che muore insieme alla scomparsa di un figlio, e quella che è morta con la sua crescita. Il dolore, il dolore di vivere, il patire che segna il vivere sono indizi dell’errare, faticoso e incerto, che caratterizza la ricerca continua di un senso che definisca le nostre esistenze (che sembra perennemente sfuggire nel dolore che si fa malattia, o ingaggiare una strenua lotta con il non senso, in tutte le forme che questa lotta può assumere nel continuum delle nostre esperienze). La stanza del figlio è fondato sul rapporto fra il dolore, la morte e la famiglia. È un film sulla famiglia e sul senso che abita, si deposita, si stratifica nella vita familiare, e che può andare smarrito quando viene a mancare un anello decisivo del circuito affettivo. Se il film ha una struttura eminentemente astratta è perché rappresenta la perdita che lacera gli affetti e il dolore che ne deriva, sottraendoli ad ogni dimensione sociale e alla complessità che ne deriverebbe. È la società che in tutte le sue forme e nelle sue pratiche attribuisce un senso alla morte: la vita sociale è di fatto determinata e definita come incessante lavorio 174
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sulla morte, sulla trasfigurazione simbolica della morte individuale: dai riti e dalle feste della cultura popolare2, che ribaltano la morte in vita, e aprono costantemente il futuro, ai monumenti funebri, alle cerimonie rivolte al passato, alla memoria, della cultura ufficiale, per giungere ai riti e alle “consolazioni” religiose (quelle che rifiuta Giovanni). Ma una volta giunti a questo punto, sentiamo che non tutto è risolto, che qualcosa rimane fuori da questo discorso. È vero, c’è la morte, la famiglia, il dolore, la disgregazione, la (possibile) ripresa nel finale. Ma una domanda, come un’ombra inquietante, accompagna il film fin dall’inizio: è stata fino in fondo una disgrazia? O nel trasferimento ad un livello basso-mimetico di uno schema tragico – e questo è al dunque La stanza del figlio –, il film porta con sé l’ambivalenza tipica del tragico fra colpa e destino? È del tutto e per tutti una disgrazia o non c’è anche una colpa? O è proprio sull’ambivalenza ma anche sulla frattura fra colpa e disgrazia che si gioca buona parte del film, a partire dall’effetto della morte sui singoli membri della famiglia? La colpa tragica è e non è una colpa. Il soggetto tragico non può essere del tutto colpevole, perché altrimenti ci troveremmo di fronte ad una pura figura del male estranea al tragico (la sua «colpa estetica»
È sufficiente pensare – tra gli altri – al motivo del «funerale gioioso», della conversione del lutto nella festa, della morte nella vita, nella tradizione del comico-popolare. Cfr. su questo M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, tr. it., Einaudi, Torino 1995.
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si trasformerebbe in «colpa etica»), ma non è del tutto innocente perché in tal caso «sarebbe snervata la collisione tragica»3. Kierkegaard ha detto parole insuperate sull’«ambiguità estetica» della colpa tragica, che assume sempre una «determinazione sostanziale»4: un misto di passività e attività, di «patire» e «atto», di destino e colpa. Ora, a ben vedere, ne La stanza del figlio, la morte del ragazzo è e non è qualcosa di esclusivamente subito dalla famiglia. O meglio, la divisione della famiglia di fronte alla morte e al dolore ci fa percepire un diverso rapporto con l’evento luttuoso da parte dei suoi componenti. E, allora, ripercorrendo il film ci accorgiamo che la famiglia era già divisa fin dall’inizio, con la definizione di una linea propriamente maschile padre-figlio, sorretta dagli “ideali dell’io”, che creano aspettative e proiezioni che non accettano di essere deluse. Per questo, dopo l’immagine di una felicità ebete, quella del gruppo degli Hare Krishna, il film indica l’asse della Legge, padre-preside, che inciderà sul senso da assegnare alla disgrazia. Il sospetto sulla possibile colpevolezza del figlio nel furto del fossile getta il padre in uno stato di inquietudine: non vorrebbe, ma deve andare ad un incontro con il ragazzo che accusa il figlio; continua a chiedere alla
Cfr. S. Kierkegaard, Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, in Id., Enten-eller II, tr. it., Adelphi, Milano 1977, p. 25.
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Cfr. ivi, p. 24.
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moglie conferme che possano fugare i suoi dubbi, e nello stesso tempo lancia sommessamente sospetti, come dopo la remissiva partita a tennis del figlio. Gli ideali dell’io proiettati sul figlio non riescono ad avere conferma. Quella trasparenza, integrità morale e voglia di vincere del padre non trovano riflesso né rilanci nell’opacità anonima del figlio. La stanza del figlio è già vuota prima della sua morte, quando il padre vi si proietta dentro cercando non si sa bene cosa. L’assenza per lui comincia da lì. E, quando sceglie di accorrere da un paziente piuttosto che andare a correre con il figlio (dopo averlo faticosamente convinto), ecco che l’«ambiguità estetica» della colpa tragica (che esclude la colpa morale) viene pienamente a realizzarsi. La morte per disgrazia non rende innocente il padre, che in un certo senso voleva la morte di un figlio incapace di corrispondergli, di corrispondere ai suoi ideali. Questo volere non può venire a coscienza, ma è certo che emerge dopo la morte del figlio, quando il dolore atroce che prova il padre assume le forme di una colpevolizzazione (il senso di colpa come versione borghese della colpa tragica). Si sente colpevole per aver abbandonato il figlio (non essere andato a correre con lui), ma sente in fondo che questa mancanza è il sintomo di una colpa inammissibile: quella di aver desiderato la scomparsa di colui che non è stato capace di amarlo, cercarlo, idealizzarlo (e che solo dopo lunghe insistenze aveva accettato di andare a correre con lui)5. Al fondo, come sempre, e in continuità con gli Flavio De Bernardinis sottolinea come «Giovanni si ama attra-
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altri personaggi di Moretti, il narcisismo complesso, innestato sugli ideali dell’io, non lascia spazio che ad un ritorno di gratificazione, e quando questo non avviene – soprattutto da parte di un figlio – si tende a negare, a cancellare chi perennemente ci sconfessa. Il senso di colpa del padre lo porta a voler tornare ossessivamente indietro per arrestare il tempo, per deviarlo, per tornare al momento dove tutto si è deciso: alla corsa mancata. E rifarla questa corsa, immaginarla, ricostruirla: rifare la realtà quando questa si fa inaccettabile nella sua spiacevolezza. Tornare indietro, fermare il tempo, non aprirne il futuro (Giovanni non riesce a scrivere la lettera alla ragazza del figlio), provare (invano) a interromperlo nel suo fluire, che allo stesso tempo comporta l’assenza (del figlio) e il dolore colpevole (del padre). E qui interviene una differenza con Paola, la moglie. Il dolore di Giovanni si fa pena in Paola. È ancora Kierkegaard ad illuminarci: La pena contiene sempre in sé qualcosa di più sostanziale che non il dolore. Il dolore suppone sempre una riflessione sulla sofferenza, che la pena non conosce. […] Tanto più fa la sua comparsa la rappresentazione della colpa, tanto più grande è il
verso i suoi pazienti. Quando Oscar […] lo chiama al telefono, Giovanni non esita nemmeno per un istante. Tronca l’impegno con il figlio, torna indietro, cambia lo spazio-tempo, e va verso Oscar. Il padre predilige il paziente Oscar, che gli chiede aiuto. Il figlio non si appella mai al padre […]», in Nanni Moretti, Il Castoro Cinema, Milano 2001, p. 158.
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dolore, tanto minore la profondità della pena6.
Quella riflessione sulla sofferenza che definisce il dolore è l’emergere della colpa, o meglio del senso di colpa. È questo che definisce il dolore di Giovanni, l’atto che nonostante tutto ha compiuto, o desiderato di compiere: togliere quella copia sbiadita e neutra dell’immagine di sé che non lo riconosceva, non lo confortava, non lo gratificava, e per ciò stesso lo metteva in questione. Quello che doveva essere il più naturale, il migliore dei suoi “pazienti” si sottraeva al gioco, alla relazione. Da qui l’inquietudine per un furto, che rivela l’angoscia per un vuoto, per un vuoto profondo (di nuovo l’entrata nella stanza prima della morte), per la mancanza di uno spazio di proiezione di sé nel futuro attraverso il figlio. Da qui il tentativo ossessivo-maniacale di tornare indietro, di “allungarsi” nel passato per cambiare il corso del tempo. Paola è esclusa da tutto questo, la sua pena è libera dalla colpa. Non è inquieta per il possibile furto del figlio, gli crede; non è preoccupata per la sua arrendevolezza durante la partita di tennis; la sua è propriamente la pena di chi subisce, una disgrazia, una morte. La sua pena è, in fondo, più profonda, libera da sensi di colpa, non comporta delusioni di aspettative né ritorni ossessivi al passato: è lì nel presente che si misura tutta l’atrocità di una mancanza. È una pena senza angoscia, è un pathos che espone il soggetto a tutta la radicale passività della S. Kierkegaard, Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, cit., pp. 29-30. 6
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sua esistenza. È lì distesa sul letto, le gambe raccolte, gli occhi umidi: l’immagine di una pena inenarrabile, ma non rosa dalla colpa, e quindi se pur impaurita più pronta a rispondere attivamente; è lei che prende il telefono e chiama la ragazza del figlio. Allora non è solo e tanto il fatto – come Moretti ha spesso dichiarato – che il dolore separa. Il fatto è che fra marito e moglie c’è una differenza che ritrova e individua nel primo il dolore, accompagnato dal senso di colpa, e nella seconda una profonda pena per una mancanza incolmabile. E in entrambi i casi è escluso il lutto e la sua elaborazione, che – lo sappiamo da Freud – passa per l’incorporazione dell’oggetto assente. E, da questo punto di vista, il lutto ha potere di unificazione, perché comporta lo “smembramento” del morto per la costituzione di un’unità ulteriore: l’insieme di coloro che lo piangono e che sono rimasti in vita. In gioco ne La stanza del figlio non c’è nessuna elaborazione del lutto, ma la rappresentazione della differenza che intercorre fra dolore e pena in quanto sentimenti che accompagnano, da un punto di vista estetico, lo schema tragico, e la sua trasposizione basso-mimetica. Fra la dolcezza della madre e l’ossessività del padre esiste la frattura che intercorre fra l’abbandono esposto all’esistenza (al di fuori di qualsiasi dimensione etica e ideale), e il doloroso, ossessivo, colpevole tentativo di controllo dell’esistenza stessa, fra la passività di chi è segnato dal destino e quella di chi di quel destino si sente in qualche modo responsabile. Ma tutto questo ancora non sembra bastare. C’è un terzo movimento che bisogna compiere, dove la 180
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famiglia, il dolore e la disgrazia del primo movimento passa attraverso il tragico del secondo, quello che Stéphane Bouquet sui “Cahiers du cinéma” ha chiamato la tragedia del «sacrificio»7, che vede al centro la figura paterna, per giungere ad un terzo movimento, che apre una serie di interrogativi sul rapporto fra individuo e famiglia, libertà e vincolo, movimento e stasi, vita e morte. E, forse, la disgrazia sembra meno l’irruzione della morte subita (primo momento) o voluta (secondo momento) che la paradossale apertura di una linea di vita che passa per lo scioglimento di un legame stretto: la famiglia. E, forse, nella serenità astratta che precede la disgrazia è inscritta la morte stessa, perché quella stasi a-conflittuale, quella composizione armonica nella risoluzione dei problemi, quel risolvere le questioni a fil di voce e con il massimo della comprensione sono in un certo senso già la morte vista sotto il profilo dell’astrattezza illusoria di un’autosufficienza serena e privata, svincolata dallo spazio sociale. È in quello spazio chiuso e recluso della casa che una famiglia – una famiglia borghese – come estensione dell’io, di un io privato e sociale (definito attraverso ruoli) ma Cfr. S. Bouquet, Le divan du père. La Chambre du fils de Nanni Moretti, in “Cahiers du cinéma”, n. 557 (2001), pp. 24-26. Ogni tragedia è di fatto la dimensione estetica di un sacrificio rituale, la «mimesi del sacrificio»; cfr. su questo N. Frye, Anatomia della critica, tr. it., Einaudi, Torino 1969, p. 285. E qui non c’è nessun dio a fermare la mano di Abramo, e non c’è nessuna fede che possa far credere nell’impossibile possibilità: perdere tutto per riavere tutto.
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non politico, è essa stessa l’immagine della morte. È nello spazio chiuso e soffocante della famiglia (e della provincia), tanto più chiuso e soffocante perché raccolto in un’immagine armonica e serena, dove il futuro non lascia prevedere sorprese se non in negativo, che irrompe la catastrofe, a sciogliere quel nodo che ha sancito la completa e totale risoluzione sociale del soggetto, a cui non sembrano restare spazi di eccedenza8. La morte del figlio rimette necessariamente in gioco la totale resa sociale del soggetto; sottrae il collante, stacca i pezzi (come la teiera rotta), toglie la copertura della maschera legata alla professione, e Giovanni diviene paziente, non è più capace di fare lo psicoanalista. Il ritorno a sé, al proprio dolore, forse è una precondizione per un’apertura alla vita, simbolizzata da Arianna, da colei che ha il filo e che farà uscire la famiglia dal labirinto in cui si trova. Colei che li farà viaggiare, che li porterà al confine, che li condurrà al mare. L’isolamento dei componenti della famiglia in seguito alla morte è anche il recupero di una dimensione assolutamente individuale. Se la sofferenza separa e isola, scioglie il vincolo, questo comporta anche la possibilità di una nuova scoperta, l’emergere di una singolarità inalienabile. La morte e il dolore divengono allora le condizioni per il ricostituirsi di un’individualità al di là di qualsiasi legame e vincolo sociale. In questo senso il dolore diventa un’espe Un’eccedenza che invece aveva definito il soggetto (distinto dall’io) nei film precedenti.
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rienza di verità: è nel dolore che si è soli di fronte a se stessi, senza alcuna possibilità di trasfigurazione, di mistificazione, collocati sul confine rischioso fra senso e non senso. Il dolore e la pena sconvolgono, scompaginano, disarticolano, ma determinano anche le condizioni per nuove combinazioni e riconfigurazioni. Il tempo e lo spazio sociale si sospendono e la famiglia, guidata da Arianna, si mette in viaggio: l’approdo e l’arresto è un’erranza sulla spiaggia, preludio a nuove combinazioni o nuove stasi, di certo messa in questione di quel vincolo che risolveva socialmente (una socialità ridotta a nucleo familiare) il destino di un individuo. Il movimento ternario del film, da questo punto di vista, è evidente: dalla commedia iniziale, dall’unione, dalla felicità, dalla serenità, attraverso il passaggio per la catastrofe tragica (dissoluzione dell’unione a vantaggio dell’individualizzazione e della solitudine), per giungere alla riconfigurazione di un legame che sarà necessariamente costruito su basi e in forme diverse, di certo meno prevedibili, e necessariamente più aperte. Se «il senso della tragedia come preludio alla commedia sembra inseparabile da tutto ciò che si definisce come cristiano»9, la commedia come preludio alla tragedia definisce il movimento tragico che dall’unione passa alla separazione individuale, ma questa, a sua volta, con un ultimo momento, diviene il preludio ad una riconfigurazione del legame e del rapporto: un’immagine di famiglia e di società Ivi, p. 287.
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composta in forma aleatoria e non prevedibile da un insieme di individui; e non un ordine nel quale questi individui si risolvono e si compiono. Vediamo come il movimento sia esattamente opposto a quello che abbiamo ritrovato nel cinema precedente di Moretti: non si tratta più di rappresentare la dialettica infinita e acre dei rapporti individuosocietà, visti dal punto di vista dell’incapacità o impossibilità di un’appartenenza piena al vincolo sociale; si tratta di percepire che una volta dentro, resta impossibile individuare possibilità di movimento e di libertà, si resta incastrati e “castrati”: per cui quando il padre (e la sua legge) individuano un vuoto simbolico proprio nel figlio, tutto sembra vacillare, quel pieno che si credeva aver acquisito non è più tale. E allora, forse, serve una catastrofe, che non è solo il sacrificio all’ideale, ma anche sacrificio dell’ideale borghese di una famiglia come mappa degli affetti e dei ruoli, a vantaggio di un altro ideale borghese, quello che ritrova nell’individualità, rifondata e ridefinita dal dolore, l’origine di tutto. Non più dall’adolescente isterico all’uomo adulto, ma dalla serietà borghese dell’uomo adulto (affermato e realizzato) alla solitudine, ancora borghese, di un individuo che è tale proprio perché formato dal dolore, e dalla sua impossibilità di essere condiviso. Un dolore che aprirà dei nuovi spazi di libertà, mettendo in questione tutto, spingendo verso quel confine, quel limite, da cui ha tutto origine e dove tutto ricomincia, e verso il quale solo il dolore sembra poterci condurre. Giunti alla famiglia come nucleo sociale di condivisione di affetti, sentimenti, interessi, e di 184
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realizzazione dell’individuo adulto, ecco che questo nucleo viene a dissolversi nel mito della individualizzazione come affermazione di sé, nel e attraverso il destino (individuale) che ci è stato assegnato e che non può semplicemente coincidere con il destino sociale, l’avvicendarsi delle generazioni, i giovani che sopravvivono ai vecchi, i figli che apprendono dai genitori. È al di fuori (ma un fuori interno, cioè un fuori che quell’interno presuppone) di uno spazio sociale costituito che viene a determinarsi l’autenticità di un’esperienza, e questa non può che passare per il dolore e la morte. La commedia della società, l’infinita acre grottesca commedia che definiva i rapporti fra io e mondo, l’annullamento soffocante nel cliché che faceva emergere il tentativo disperato, ma non per questo più autentico, di distinguersi, e che ricopriva tutto sotto un’istanza satirica finisce – dopo un passaggio attraverso la libertà del romanzesco – nella serietà come approdo ultimo della formazione borghese: ma questa serietà, definita dalla coincidenza fra ottativo e doveroso, rischia sempre di soffocare, e di spezzarsi quando il doveroso schiaccia l’ottativo. E, allora, il sacrificio del figlio agli ideali del padre diventa il momento intermedio che apre al sacrificio degli ideali (e della serietà dell’etica) alla ripresa della vita, se ci lasciamo condurre dalle tante Arianne che ci porteranno fuori dai labirinti. C’è una libertà che attraversa l’ultima parte del film, una libertà che si respirava in tanti momenti di Caro diario, soltanto che questa libertà passa ora per una catastrofe, per una precipitazione, attraverso la 185
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morte. La dialettica fra io e mondo rimane irrisolta, il rapporto fra individuo e società non riesce a comporsi, la felicità iniziale era astratta, preludio ad una disgrazia. Soltanto che lo sguardo questa volta è totalmente serio, pienamente adulto, compiutamente borghese, lontano dalle contaminazioni e dalle ambivalenze del grottesco, dallo scarto messo in scena dal comico (e dalla eredità, più o meno consapevole, della tradizione popolare che questo comporta). Dramma borghese invece di dramma grottesco, dimensione tragica (anche se basso-mimetica) piuttosto che tragicomica, piano monologico invece che dimensione dialogica, pianto (sia pur congelato) e sua codificazione simbolica, invece che l’ambivalenza inquietante e incodificabile del riso: queste distinzioni definiscono il crinale sul quale si staglia La stanza del figlio, l’approdo di un mito borghese che recupera individuo e libertà non prima dell’ingresso nella società (a questo ci pensa la commedia), ma dopo, dopo la serietà, la compiutezza e la realizzazione, ma soprattutto, come è definito dalla nostra tradizione occidentale, attraverso il sacrificio. E, allora, visto in rapporto ai film precedenti e successivi, La stanza del figlio costituisce una parentesi inedita. Inedita nello stile, nei modelli e nei generi attivati e ripresi, e definisce l’approdo provvisorio di un processo incompiuto di formazione, che dalla gioventù porta alla maturità, lasciando irrisolto il problema della compiutezza dell’io, e del rapporto fra individuo e società, come emerge chiaramente nel Caimano, e come emergerà in Habemus Papam e Mia madre. 186
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Si è detto dell’opera di Moretti che può essere letta di fatto come una sorta di romanzo di formazione, come racconto del passaggio dalla gioventù all’età adulta, e di questo passaggio ognuno dei film costituirebbe una sorta di tappa. Le cose non sono così semplici. Abbiamo visto l’appartenenza di Moretti alla tradizione comico-romanzesca del nostro cinema, di cui sembra incarnare le forme di un anti-Bildungsroman, di un romanzo di formazione fallimentare, incompiuto, abortito, irrealizzato, come è indicato esemplarmente dalla gioventù del protagonista, una gioventù che non vuole farsi adulta, e che è definita soprattutto dall’appartenenza generazionale. Una generazione (quella degli anni Settanta) che è stata più giovane delle altre, che ha fatto della gioventù il simbolo di un essere contro, di una trasformazione costante della società, di una contestazione come perenne movimento tellurico (simbolo della vita stessa), che viene a destituire quella che nelle società più stabilizzate è la figura dell’anziano, del saggio. È l’affermazione di una gioventù contro, di una gioventù senza il modello di una maturità. Il mondo dei padri, l’entrata nel quale comporta sempre e comunque il pagamento di un prezzo (questo accade 187
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sempre, anche nelle dialettiche generazionali “sane”), è sentito non semplicemente come vincolante, ma come indesiderabile fine della libertà, da abbattere e contestare (anche se magari se ne dipende economicamente, come nel caso del Michele Apicella di Io sono un autarchico ed Ecce bombo). La rivolta non è individuale, ma generazionale, e comporta quindi uno spazio di socializzazione alternativo. Un essere alternativi, rispetto alla società adulta, che risulta fallimentare, o perché è permanenza inconcludente e sterile in una disponibilità totale e assoluta (il «faccio cose, vedo gente»), o perché è esso stesso segnato dai codici e dai vincoli dell’appartenenza ad un gruppo, e quindi non si tratta più dell’affermazione della libertà individuale, ma di contrapporre ideologia ad ideologia, cliché a cliché. Non esiste cioè la forma di contrapposizione individuo-società, che porterebbe alla sconfitta tragica del primo in rapporto alla durezza e ostilità della seconda. Ci troviamo di fronte, invece, da un lato ad una socializzazione “minoritaria”, di gruppo, sotto l’ombrello ideologico, che diventa occultamento dell’inanità individuale, dall’altro ad una supposta grande socializzazione del corpo esteso della società adulta, che è di fatto un corpo molle, senza resistenza, preda della rivendicazione narcisista e infantile di una gioventù incapace di tutto, tranne che di rivendicare uno spazio di intoccabilità, perfino di inconoscibilità («che ne sai tu mamma di noi “ggiovani”»), e di picchiare e allontanare i genitori (il padre in Ecce bombo). Ma il caso di Michele Apicella in Ecce bombo è ancora più complesso, perché non rinuncia, pur 188
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facendo parte di un gruppo, alla determinazione di una individualità distinta, e questo può accadere solo attraverso l’assunzione di una posizione contro: contro il padre, naturalmente, l’istituzione, ma anche contro gli amici, i coetanei, gli altri giovani, come quando di fronte all’affermazione dell’aleatorio e infinitamente disponibile orizzonte di vita dell’amica che non si sa bene come riesca a vivere, Michele si appella al principio di realtà: «Ma questa sigaretta chi te l’ha data?». Ed è indicativa la neutralizzazione dell’esperienza che avviene in questi primi film, attraverso, da un lato il ritorno del sempre uguale – stessi luoghi, stesse facce, stesse parole, stesso vuoto –, dall’altro il taglio del racconto, la sua struttura episodica, l’amputazione di qualsiasi respiro narrativo. Coazione a ripetere (che caratterizza comportamenti sociali e individuali) e ritratto quasi bozzettistico e fulmineo: su questo doppio binario si determina l’amputazione sia dell’esperienza di vita sia di quella narrativa. Non c’è formazione, perché non c’è rapporto fra interno ed esterno, soggetto ed oggetto, io ed istituzioni: entrambi sembrano regredire fino ad un infantilismo narcisistico occupato solo da maschere, e da quella di Michele in particolare. Qui il romanzesco, il personaggio romanzesco, arretra o meglio parte dalla maschera comica, senza ampiezza sentimentale e conoscitiva, e con i tratti irrigiditi. La permeabilità assoluta fra giovani e adulti (questi ultimi di fatto fagocitati e annullati dai primi), il corpo molle di una società senza spina dorsale annullano qualsiasi formazione, sostituendola semmai con il processo inverso: la regressione. 189
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Un processo che viene ad occupare il blocco di film che vedono il parziale superamento della maschera, il suo arrivare allo stato di personaggio: Bianca, La messa è finita, Palombella rossa. Qui il giovane si fa o dovrebbe farsi adulto, occupando ruoli e spazi istituzionali: professore, prete, politico, scuola, parrocchia, tribuna politica. Ma l’assunzione di un ruolo sociale non comporta necessariamente l’avvenuta maturità, cioè l’acquisizione delle capacità per corrispondere al posto che si occupa1. Saltando qualsiasi percorso formativo i giovani si sono fatti adulti senza crescere, grandi senza maturare. E quindi il professore, il prete, il politico saranno animati da istanze infantili-adolescenziali, il cui tratto distintivo lo ritroviamo (soprattutto nei primi due) nella rigidità, nella poca duttilità delle prese di posizione nei confronti del mondo e della realtà: l’incapacità di comprendere e di vivere le trasformazioni e i cambiamenti della vita si trasforma in un’aggressività che arriva fino all’omicidio (di coloro che con le loro esistenze ci mettono in questione: Bianca). Il passaggio da una fase presociale (studente di Ecce bombo) ad una sociale (professore, prete, politico) non è coinciso con un passaggio dalla gioventù alla maturità. La rigidità, il radicalismo, la duttilità, i paradigmi morali troppo forti – bene/ male – determinano comportamenti inadeguati non
Con la conseguente mancanza di coincidenza fra quelli che Maurizio Grande ha chiamato il «principio di prestazione» e il «principio di rappresentanza»; cfr. La commedia all’italiana, a cura di O. Caldiron, Bulzoni, Roma 2003, pp. 29-88.
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solo alle forme di socializzazione del mondo adulto, ma anche, e in primo luogo, rispetto al ruolo pubblico che si occupa. Ne La messa è finita e in Palombella rossa è la regressione, la nostalgia della mamma a sostituire la mancata maturazione, il processo di formazione incompiuto, fallito. L’incapacità di capire, comprendere, perdonare da parte del prete, quella di trovare il senso dell’azione e del discorso politico da parte del parlamentare comunista portano – in forma esplicita nel finale dei film – alla nostalgia per l’infanzia, per la felicità dell’infanzia («Sono un uomo felice perché sono stato amato», dice don Giulio), per l’amore della mamma, per le «merendine», le «nugatine» che non tornano più. I processi di socializzazione perdono di senso, le parole diventano vuote, l’intransigenza morale un fragile schermo che copre le voragini di una soggettività inabile, debole, e proprio per questo intollerante e rigida (don Giulio), il linguaggio diviene spazio di un equilibrismo (il «siamo uguali agli altri, ma siamo diversi» ossessivamente ripetuto dal politico) che serve a nascondere la mancanza di senso: alla fine di questo viaggio surplace l’approdo è l’infanzia, l’arretramento nostalgico del soggetto ad una fase presociale, al circuito affettivo con la madre, al di là dei compiti e dei doveri. Arretramento ad un mondo dominato dal diritto e dalla felicità di essere amati incondizionatamente. Il fallimento del soggetto nei suoi rapporti con la società e con il mondo è determinato da varie ragioni ma, in primo luogo, da un eccesso di spirito critico e di sospettosità, che interdice la fiducia come condizione necessaria al vivere insieme. Come nel caso 191
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del protagonista di Bianca che, fermo nella rigidità delle sue convinzioni, si rapporta allo spazio sociale in forma fortemente sospettosa e critica. Si estranea dal corpus sociale (amici e conoscenti) che osserva dall’esterno, che viene fatto oggetto di critica, di spietata, moralistica e distruttiva aggressione. Si interdice ogni esperienza, in primo luogo quelle amorose, quelle formative. Blocca la realtà, la obbliga dentro i ferrei codici e principi che regolano tutta la sua esistenza; e quella che non riesce ad entrare la cancella, l’annulla. Qui l’esperienza non forma, è un succedersi di traumi, di tradimenti, di non corrispondenze ai principi. Ci troviamo di fronte all’ostinata e ostentata aggressione del soggetto nei confronti della società e del mondo, che è in primo luogo aggressione nei confronti di se stesso. Da dove l’arresto, quello a cui si condanna il protagonista, un arresto che lo vede escluso da una società di cui non ha fatto mai parte, relegato in uno spazio asociale. Con dei dolci in mano, ammanettato, dirà: «È triste morire senza figli». Dove il morire senza figli non è soltanto la paura di una scomparsa totale, senza eredi, ma anche e forse in primo luogo la tristezza per una vita mai toccata dalla felicità, con la consapevolezza che quest’ultima non si trova dalla parte di una indefinita libertà (coincidente con la gioventù), quanto da quella dell’unione, dell’unione sociale (la maturità), e del primo nucleo che la costituisce: la coppia e il matrimonio. Il matrimonio, l’unione, la fedeltà teorizzati da don Giulio fanno di nuovo pensare all’unione sociale come momento (utopico) di felicità e di maturità, e del loro indisgiungibile rapporto. Completamento di uno scambio dare/avere per cui ciò a cui si rinuncia 192
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viene compensato da ciò che si ottiene: riconoscimento, tutela, protezione sociale e simbolica. Ma niente di tutto questo sembra appartenere alle forme della vita sociale, pervase dall’indefinitezza e totalità del desiderio, dall’emergere di un inalienabile narcisismo, dal patetismo e dall’autocommiserazione (l’amico che vuol tagliare i legami con il mondo per essere stato lasciato da una ragazza da ben tre anni), dall’ingenuo infantilismo di chi cambia o pensa di cambiare modi di vita in forma tanto repentina da scambiare un flirt narcisistico con se stessi per un modo di esistenza (l’amico Cesare che “scopre” la religione cattolica e vuol farsi prete, scambiando una infatuazione per una vocazione), dalla vanità di chi segue un capriccio senile e vuole essere compreso e giustificato (il padre). Davanti a tutto questo, di fronte a questa dissoluzione, a questa tragicomica erranza, don Giulio frana, è incapace di arginarla, abdica e partirà per un Paese dove, probabilmente, avranno «bisogno di lui». Davanti ad una società dissolta dietro ai capricci, alle inanità del desiderio, alle vanità del narcisismo, don Giulio va allo scontro, entra in conflitto, aggredisce, vorrebbe tenere tutto sotto controllo, ma tutto gli sfugge. Sa, e lo dice alla sorella – come ce lo ricorda anche la canzone del finale – che la libertà è solitudine, e che entrambe condannano al dolore, alla tristezza. La felicità passa per la socializzazione che è comunione, amore, vita in due. Ma è utopico e fallimentare pensare di imporre questo legame, pensare di renderlo eterno: è solo un modo per condannarsi al fallimento. La società si instaura su una fiduciosa credenza nel legame, nel vincolo, nel rapporto, nella comunione. Quando questa viene a mancare diventa solo patetico pensare di imporla 193
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dall’esterno attraverso l’astrattezza di principi. Il fatto è che nella vanità e nel profluvio narcisistico della società contemporanea sembra essersi smarrito ogni collante; non è più percepibile alcun modello adulto e maturo di vita sociale. Smarrita la saggezza della maturità, le passioni della gioventù sono arretrate ai capricci dell’infanzia. E in questo don Giulio non fa eccezione, anzi diviene la vera cartina di tornasole per comprendere chi non è capace di accompagnare la corrente, né di contrastarla, bensì solo di osservarla e criticarla. Sorella, padre, amici diventano le figure sociali di una dissoluzione che don Giulio non sa e non può arginare. È la società che si sottrae a qualsiasi formazione e istanza pedagogica: don Giulio fa esperienze “tutte uguali”, che non fanno che accentuare la sua estraneità e il suo isolamento sociale. In don Giulio di fatto l’incapacità di vivere e l’istanza critica dominano sulla capacità di ascoltare: e questo lo porta a non comprendere come stanno realmente le cose. Né don Giulio né gli altri personaggi sanno apprendere né insegnare, e allora tutto salta; salta il circuito di esperienze (sostituite da manie e da flirt), salta il rapporto generazionale, come nel caso del padre che si innamora dell’amica della figlia; salta l’azione efficace come formatrice dell’identità. E allora non resta che l’utopia finale, la visione allucinatoria (realizzazione di un desiderio irrealizzabile) degli amici che finalmente uniti ballano, accompagnata dallo sguardo nostalgico alla felicità dell’infanzia e all’amore incondizionato della madre. In Palombella rossa il percorso di formazione è letteralmente invertito. Non si tratta di rappresentare 194
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un processo di crescita, ma di destrutturarlo. L’incidente non determina un salto iniziatico, ma un urto che sfalda i frammenti (del presente e del passato) di una identità. Ci troviamo di fronte ad una vera e propria anti-formazione, in una sorta di ammollo e liquefazione di una identità. Ma in Palombella rossa la destrutturazione dell’identità lascia emergere un tema ben più importante: la circolazione del luogo comune come addensante, amalgama dei linguaggi istituzionali (politica, giornalismo), e come sintomo di un progressivo processo di desoggettivizzazione nella società contemporanea. Il luogo comune ha la capacità di ridurre l’ignoto al noto, l’opacità dell’esperienza alla comprensibilità immediata dello slogan, l’individualità dell’atto di parola all’impersonalità del detto. Il luogo comune crea uno spazio di indiscernibilità fra io e mondo, annullando i processi che sorreggono le determinazione di un’esperienza, il passaggio dall’estraneo al proprio, dall’oggettività alla soggettività. L’impersonalità e la diffusione pervasiva del luogo comune, del cliché, compone e nello stesso tempo riduce l’oggettività delle forme di sapere, e in primo luogo dei saperi istituzionali: da dove la destrutturazione della soggettività a partire dal sapere come compendio di luoghi comuni e di cliché linguistici. In questo senso Palombella rossa racconta la destrutturazione sociale del soggetto: all’esperienza si sostituisce il trauma2, e il trauma Cfr. F. Moretti, Il romanzo di formazione, Einaudi, Torino 1999, p. 262.
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fa fuggire i frammenti dell’identità, che perdono il loro carattere proprio per permanere in una sorta di neutralità a-soggettiva, nella trasparente estraneità del luogo comune. È un’evaporazione dell’identità al termine della quale rimane l’acqua uterina, la madre: il tempo non della maturità ma dell’infanzia, non della crescita ma della regressione3. È come se una società senza altri collanti che non siano i cliché, i luoghi comuni, gli stereotipi, sia una società senza sviluppo, ma calata in un ammollo prolungato, in una progressiva liquefazione, che appaia oggettività e soggettività, esterno ed interno. In questo il grottesco sembra essere l’unica forma per dare profilo ad un mondo indistinto, ad una società senza articolazione, senza sviluppo, senza respiro, dove l’individualità lotta strenuamente per trovare uno spazio di affermazione, di differenziazione, che di fatto coincide con una diversa configurazione degli stereotipi. Una lotta vana perché quella individualizzazione è una forma di fallimentare narcisismo, di sconfitta individuale, forse peggiore di quel galleggiamento, di quella beota sopravvivenza di chi sta fin dall’inizio “dentro”, di chi fa circolare i cliché, li mette in movimento.
Una nostalgia per l’infanzia che accompagna tanta letteratura di questo secolo, che ribalta il modello del romanzo di formazione: «È la nostalgia che Malte [I quaderni di Malte Laurids Brigge di Rilke] prova per sua madre, e il grido finale di Jakob [Jakob von Gunten di Walser] (“Ah, essere un bambino piccolo, quello solo, e per sempre!)”», ivi, p. 260. È evidente l’analogia che è possibile rintracciare con l’invocazione della mamma e della felicità infantile che chiude La messa è finita e Palombella rossa.
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Con Caro diario le cose cambiano, non ci troviamo di fronte ad un’anti-formazione; il soggetto non è più relegato nell’istituzione (scuola, chiesa, politica) e negli spazi chiusi, socialmente codificati, ma acquista una libertà e un movimento che prima non aveva. Una libertà che accompagna la diradazione dello spazio sociale (le strade deserte di Roma, le isole Eolie), ma soprattutto la disponibilità all’ascolto che sostituisce il sospetto. La ricettività, lo sguardo recettore sostituiscono lo sguardo critico, sospettoso. Il personaggio si mette in movimento, si rende disponibile all’esperienza di ciò che incontra, di ciò che gli viene incontro. Il romanzesco qui si coniuga con il biografico, con il diaristico, e l’esperienza ha qualcosa di formativo, come lo stesso Moretti nell’episodio I medici confessa, dicendo che se c’è qualcosa che ha imparato, questo concerne il fatto che i medici non sanno ascoltare. E proprio nell’ascolto c’è la modalità prima di costituzione dell’esperienza, di trasformazione dell’io in rapporto all’altro. E per fare questo bisogna disfarsi della maschera, sottrarsi alla fissazione e alla monotonia che la definiscono. Aprirsi al mondo con fiducia, con inventiva, con immaginazione: immaginare la ristrutturazione di un appartamento sul Lungotevere, o un musical su un pasticciere trotzkista. Disfatta la maschera, Moretti interpreta se stesso, e si mette in un ascolto più intenso e più libero (in quanto artista) nei confronti delle cose: come non ritrovare – in Isole – uno dei grandi miti moderni (perlomeno a partire da Goethe) sul rapporto fra viaggio e scrittura, viaggio e creazione? Certo, ed è qui uno dei punti originali del film, questo viaggio “esistenziale” 197
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si compone di personaggi e figure che sono sintomi (e bozzetti) di una certa società: la megalomania del sindaco, la vanità mondana, la misantropia di chi si è ritirato dal mondo, tutto il ridicolo di chi passa da dieci anni sull’Ulisse di Joyce a Beautiful. In Caro diario si intrecciano due forme, due archetipi, che stanno a fondamento del nostro cinema dal secondo dopoguerra in poi, e che definiscono il tratto particolare con cui romanzesco e comico vengono a sovrapporsi: da un lato l’erranza, il viaggio, l’esperienza, la formazione, l’ascolto, la veggenza; dall’altro il bozzetto grottesco, l’esagerazione comica, la maschera, la caricatura. Ma sono due lati che sembrano interdire l’essere adulto del soggetto, radicandolo al suo infantilismo: lo sguardo stupefatto, curioso, sorpreso, passivo del bambino, e i suoi capricci, il suo narcisismo, il suo egocentrismo. Una sorta di infantilizzazione sociale, di regressione del mondo adulto ai comportamenti infantili, che in Isole ritroviamo nella tirannia dei figli unici. È rintracciabile un’analogia con anti-Bildungsroman come Il grande Meaulnes, quando l’eroe chiede: «Ma che succede, comandano i bambini, qui?»4. Ma un bambino può crescere, maturare progressivamente, essere consapevole della tradizione a cui appartiene, rendersi cosciente, trasformare il suo sguardo da stupefatto in testimoniale: è lo sguardo al monumento di Pasolini, percezione e riconoscimento di una tradizione nella quale ci si inscrive. Citato in ibidem.
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Ma un bambino può crescere anche per uno choc, per una crisi, per una malattia, che fa balenare lo spettro della morte, e che ci porta a cogliere tutto il piacere del più quotidiano e semplice dei gesti: bere un bicchiere d’acqua. E se Caro diario sembra appartenere al «romanzo biografico» e alla sua «forma confessoria (la biografia-confessione)»5, e in questa appartenenza ritrovare lo stretto legame fra forma e vita, scrittura e vissuto (e le modalità di comprensione del secondo attraverso la prima), non si risolve tutto in questa dimensione. La società non diventa solo lo spazio delle esperienze – formative o meno – di Moretti, ma rimane ancora nella sua autonomia, fondamentalmente, e nuovamente, un condensato di cliché. Ciò non toglie che il film alleggerisca la conflittualità fra individuo e società (alleggerendo anche il peso di quest’ultima), ritrovando una leggerezza come effetto di uno sguardo meno critico e più comprensivo nei confronti del mondo. In Aprile il romanzesco biografico che concerne la nascita di un figlio, e quindi quello che dovrebbe essere il pieno divenire adulto e maturo dell’uomo, segna lo sfociare di un’esperienza, formativa e decisiva, come quella del diventare padre, in un precipitato di cliché sui nomi da assegnare, la montata lattea, i vestitini, le scarpette, e via dicendo. Quella che dovrebbe essere un’assunzione di responsabilità legata al nuovo ruolo si trasforma in una serie di maschere M. Bachtin, L’autore e l’eroe, tr. it., Einaudi, Torino 1988, p. 203.
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grottesche per contenere l’ansia (l’«abbraccio ansioso del padre») che accompagna il divenire padre, il generare qualcuno che solo per il fatto di esserci ci rende all’improvviso vecchi. Il dovere, il diventare grandi («Ma perché diventare grandi?»), il senso di responsabilità che accompagnano anche il lato pubblico dell’azione in Aprile, cioè filmare il grande cambiamento politico avvenuto in Italia, alla fine si arrendono di fronte all’incapacità di assolvere in forma compiutamente soddisfacente il compito di padre, di testimone e di artista. Di fronte al dovere, ad un imperativo assillante, ma che ci lascia insoddisfatti, e creativamente sterili, rimane il desiderio, il sogno di fare un musical sul pasticciere trotzkista che chiude il film. Non è un caso che l’essere divenuto compiutamente grande, da un punto di vista professionale ed affettivo sia accompagnato dalla morte (La stanza del figlio), dalla morte della gioventù: oltre la morte reale del figlio c’è la morte simbolica sia del figlio “sacrificato” sia del padre attraverso il figlio, della gioventù nell’uomo adulto. Quando in La stanza del figlio, per la prima volta, il personaggio non è fin dall’inizio animato da un’inquietudine che definisce il suo non stare bene da nessuna parte, quando sembra stare serenamente e compiutamente nel suo doppio ruolo di psicoanalista (con i risvolti sociali che questo comporta) e di padre, quando finalmente sembra essere divenuto adulto, aver accettato i vincoli e i doveri che definiscono questo stato, quando nulla sembra essere rimasto delle idiosincrasie, nevrosi, isterismi che definivano i personaggi dei film precedenti, ecco che in questo 200
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stato maturo, sereno, ai limiti dell’anodino, in una famiglia equilibrata e felice, irrompe dall’esterno il dramma, la morte, la frattura di un equilibrio. Per la prima volta, in Moretti, la situazione di partenza è statica, non sembra contenere alcuna potenzialità drammatica, l’eterno ragazzo sembra essersi fatto compiutamente e serenamente uomo. Ha una famiglia, una moglie che ama, dei figli con cui ha un buon rapporto, così come con il suo lavoro. Ma la verità è un’altra, dietro quella maturità, quell’equilibrio raggiunto, si nasconde una minaccia: la morte, sotto forma di fine di un periodo della vita, la gioventù, con l’apertura dello straordinario orizzonte di possibilità che comportava, e l’iscrizione in un tragitto che non prevede modifiche se non quelle di un naturale invecchiamento. In breve, raggiunta la maturità, si scopre che nella maturità c’è la morte, la morte simbolica che restringe l’inesauribile orizzonte del possibile all’attualità e determinatezza di una linea irreversibile di vita, ad un destino. Un destino non duplicabile, quando anche il figlio non ci assomiglia, quando non vi ritroviamo nulla di noi stessi, quando sentiamo di non essere necessari per lui, né particolarmente amati né ammirati. Ed ecco l’evento tragico che spezza quell’equilibrio, la morte del figlio, che crea disgregazione e separazione nel nucleo familiare, fino a quando il sopraggiungere di una ragazza (conosciuta in vacanza dal figlio e sconosciuta ai familiari) non determina una situazione apertamente romanzesca: la messa in movimento del nucleo familiare alla ricerca di un nuovo punto di equilibrio, di un nuovo inizio, 201
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che, dall’azzeramento di una situazione stabilizzata, risospinge in mare aperto. Dalla parte dell’instabilità, dell’inquietudine, del non sentirsi mai completamente a casa propria in nessun posto, dalla parte della giovinezza affermata in quanto tale, c’è la sofferenza ma anche la vita. Dalla parte della maturità, dell’equilibrio, della serenità, dell’età adulta in quanto assunzione piena di responsabilità, c’è sì la serenità di un’acquisita e simbolicamente gratificante posizione sociale, ma c’è anche la morte che ne costituisce l’altra faccia. È un’immagine di spaesamento e confusione quella che attraversa Il caimano. La maturità, ipoteticamente raggiunta, si è dissolta, il matrimonio è a pezzi, Bonomo si rende pari ai suoi figli. Non c’è più l’aggressività del grottesco, ma una lievità semmai più dolorosa, ad accompagnare questo ritorno ad una infanzia quieta, arrendevole, un po’ stralunata. Ed ecco allora che l’arco della formazione dalla giovinezza all’età adulta, con tutti i passaggi che lo scandiscono è un arco incompiuto: dai tempi morti e dall’erranza giovanile al mondo adulto e maturo, non c’è solo il tempo e lo spazio dell’esperienza, ma anche il trauma di un ritorno indietro, come effetto di una formazione incompiuta, perché, in fondo, paventata.
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Parte IV
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IL CAIMANO: UN MONDO SENZA FUORI
Come rappresentare il presente? Quando esso diviene anche presente pubblico? Interrogativo non nuovo nel cinema di Moretti (Caro diario, Aprile), ma che riemerge prepotentemente con Il caimano. Interrogativo che va precisato: come rappresentare il presente senza scivolare nel cronachistico? La risposta, come ci hanno detto tra gli altri Bachtin e Dürrenmatt1, è nel comico, o meglio in quella particolare declinazione del comico che è il grottesco. Perché solo il grottesco è capace, attraverso l’utilizzo di un filtro deformante, di mettere a distanza il presente attuale. Il grottesco mette al riparo dal cronachistico (dall’ovvio e dal senso comune che lo caratterizzano) e si colloca in un registro immaginativo che ha come segni distintivi l’alterazione e l’ispessimento delle linee del reale. Il registro espressivo di Moretti è stato sempre segnato e attraversato dal grottesco, e ne Il caimano il grottesco sospende il pericolo, più presente che in altri casi, della cronaca, cioè del
Cfr. M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, tr. it., Einaudi, Torino 2001; F. Dürrenmatt, Lo scrittore nel tempo. Scritti su letteratura, teatro e cinema, tr. it., Einaudi, Torino 1982.
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possibile inanellamento di luoghi comuni giornalistici sul caimano/Berlusconi. E quindi Il caimano non è un film su Berlusconi in quanto personaggio pubblico colto nella sua individualità, ma su quanto di condiviso e generalizzabile c’è nel personaggio, e quindi nel suo essere maschera. La prima mossa che compie Moretti, quindi, per sottrarre Berlusconi alla cronaca è farne una maschera capace di sintetizzare trent’anni di storia italiana. La seconda mossa, più originale, è quella di dare facce diverse a questa maschera, sottraendola alla sua potenziale univocità: la faccia ridente e spregiudicata di De Capitani, quella “umana” e ammiccante di Placido, quella nera e inquietante dello stesso Moretti (che si alternano con la maschera ufficiale affidata alle immagini televisive). Queste tre facce non solo si avvicendano diacronicamente ma coesistono, per comporre una sorta di trittico di maschere del potere, costruite in forma caricaturale, ironica, nera. Una maschera univoca, data dall’esagerazione di un tratto, avrebbe ascritto Berlusconi a uno dei modelli della tradizione commedica, il moltiplicarsi delle facce ne ha fatto qualcosa come la sintesi di un mondo, di cui Berlusconi è allo stesso tempo causa e sintomo. Un mondo ridotto a una serie di maschere è di fatto un mondo non abitabile, dove l’intreccio, che è sempre subordinato alla necessità di raccontare un’azione, si dissolve a vantaggio dei frammenti di reale riconsegnati in forma caricaturale. La serie di maschere restituisce l’immagine in rilievo di un mondo senza “fuori”, un mondo non abitabile né trasformabile. Queste maschere sono naturalmente inscindibili dal potere mediatico (e quindi sono oggetto di specifica sacralizzazione), 206
Il caimano: Un mondo senza fuori
che sembra aver assorbito completamente la sfera pubblica. Le maschere pubbliche e politiche ne Il caimano si sviluppano e prendono corpo in rapporto alle maschere disorientate del corpo sociale, da quella del produttore a quella della regista. Disorientate secondo una duplice direzione: il produttore si trova in una situazione che non gli appartiene (fare un film politico), la giovane regista in una più grande di lei (girare un lungometraggio, peraltro impegnativo). Il primo, che attraversa una crisi matrimoniale e professionale, si aggrappa alla sceneggiatura che gli viene sottoposta come a una scialuppa; la seconda, con la sua dolce insistenza, è segnata da un dover fare (un film su una situazione politica) al quale non riesce a corrispondere (qui le analogie con Aprile sono evidenti): una non-coincidenza con il proprio destino, caratterizzata in termini comico-grotteschi per Silvio Orlando (a partire dai titoli dei film che ha prodotto), in termini ironici per Jasmine Trinca. In entrambi i casi (ma più in generale in tutte le figure del film, eccetto il caimano), ci troviamo di fronte all’emergere di un senso di spaesamento e di fallimento che sembra irriscattabile (e che sarà dominante in Habemus Papam e Mia madre). Queste maschere del disorientamento non si dissolvono neanche nell’ultima sequenza del film, perché sia la scelta del produttore di girare l’ultima scena, sia il “si gira” della regista non presentano segni marcati né di convinzione da parte del primo né di acquisita sicurezza da parte della seconda, e costituiscono l’altra faccia di quelle del caimano, il quale invece mostra sempre la capacità di riorientare la situazione secondo i propri interessi, attraverso comportamenti seduttivi e spudorati. 207
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Emerge quindi un punto importante: la coalescenza e il rilancio reciproco fra maschere sociali e maschere politiche, fra disorientamento e spudoratezza. È il disorientamento ad animare e alimentare la maschera pubblica, spudorata e sempre ridente; la quale a sua volta ha bisogno di un contesto sfiduciato e depresso per poter assurgere ad essere maschera di “salvatore della patria”. È proprio la restituzione attraverso maschere di sentimenti che circolano nell’attualità della vita sociale a comportare una loro messa a distanza critica: nessun consenso, ma l’emergere critico di una coalescenza tra maschere, che elude ogni adesione alla situazione. La deriva malinconica e l’intraprendenza sfacciata e spudorata non solo si sostengono a vicenda, ma sono accomunate entrambe da una elusione dell’azione, dell’azione efficace, mirata, che integra competenze acquisite (passato), obiettivi (futuro) e capacità di iniziativa (presente). Squilibrio e corrispondenza, frattura e coalescenza fra depressione ed ebbrezza, sono indici di una “azione deviata”: l’inazione, il dubbio, l’incertezza nella deriva malinconica, l’atto eccessivo, tracotante, segnato da hybris, nell’ottimismo esaltato. Questa elusione dell’azione implica un misconoscimento della situazione, che non è solo condizione di un fallimento (privato e sociale, come nel caso di Silvio Orlando), ma anche di un movimento di trasfigurazione allucinatoria e delirante (il caimano). Incapacità o impossibilità d’azione, o azione eccessiva e spregiudicata, senza limiti né pudore, costituiscono le oscillazioni di un medesimo movimento, che elude l’azione efficace, e che trova nella costruzione di maschere (più o meno 208
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caratterizzate) il suo segno corrispettivo. Ma è nel finale che il film lascia emergere in forma inquietante un possibile destino del disorientamento e della spudoratezza, quando il caimano assume un lato nero, una maschera giudicante e vendicativa, in seguito a una condanna penale. Questa faccia è prestata dallo stesso Moretti, in quella che è una vera e propria pratica di intercessione, che lo vede dare corpo, parola e voce a Berlusconi. Qui il passaggio è estremamente significativo: modalità enunciative, tono, sguardo, intransigenza, sentimenti vendicativi appartengono a Moretti e alle sue maschere, i contenuti (sentirsi al di sopra della legge per l’investitura popolare) sono berlusconiani. Allora, si viene a creare una potente zona di indiscernibilità: il caimano/ Berlusconi passa attraverso la maschera Moretti e il grottesco nero, per poter accedere all’inquietante e pericoloso discorso di chi spinge il popolo contro i giudici, e Moretti “usa” Berlusconi per “stilizzare” la sua maschera, quella ereditata dai film precedenti. Allora, il film, che si era mosso, perlomeno in alcune sue parti, nell’alveo di un grottesco felliniano, si chiude nel segno del grottesco nero di Petri: lo spazio fra i giudici e chi pretende l’impunità è occupato dai fuochi minacciosi sulla scalinata del Palazzo di Giustizia. Se in 8 ½ di Fellini l’impossibilità di realizzare un film si chiudeva con un girotondo gioioso, introdotto dalla considerazione di Guido: «La vita è una festa, viviamola insieme», nel Caimano tutto finisce con falò distruttivi, e con chi sentendosi al di sopra della legge (come l’ispettore di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Petri) di questa legge ne fa sfregio. 209
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Nel finale del Caimano tutto si inscrive inesorabilmente nella forma del giudizio: dei giudici nei confronti dell’imputato, dell’imputato nei confronti dei giudici, e del film nei confronti del caimano. In quest’ultimo caso, il giudizio si fa morale, e conferma il grottesco come «arte dei moralisti» (Dürrenmatt). Ma qui viene a svilupparsi un interrogativo: quell’istanza giudicante e moralistica, che guida lo sguardo di Moretti nel finale, e che passa attraverso il Moretti attore che presta la faccia a Berlusconi, quell’istanza che fa del caimano una “figura del male” senza concessioni al riso, non è essa stessa una maschera, una maschera che ha segnato la storia italiana degli ultimi trent’anni? La maschera del moralismo radicale non è esattamente l’altra faccia del caimanismo spudorato, ed entrambe non hanno coperto, rimuovendolo, quel sentimento di disorientamento che, quando è emerso direttamente, ha dato corpo invece alle maschere stralunate del nostro cinema? Sono domande retoriche, perché la risposta è chiara: l’elusione dell’azione efficace, di una prassi orientata al compimento di un progetto condiviso (agire in nome di una comunità), fondata su una forma di sopravvivenza malinconica, trova una conversione nell’azione impotente del giudizio morale. Il giudizio morale, la radicalità morale del giudizio, trascende il disorientamento della società civile, e in questo si contrappone al caimanismo euforico che sotto la maschera dell’iperazione trasfigura le situazioni orientandole verso il perseguimento di un interesse che contrasta con quello comune. 210
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Allora, il grottesco de Il caimano (l’eterogeneità e la reciproca corrispondenza delle singole maschere del disorientamento, della spudoratezza e del moralismo) ci riconsegna un mondo senza fuori, senza orizzonte, e che ci viene restituito in forme esagerate e cariche. Un mondo senza fuori è un mondo dove non è immaginabile alcun cambiamento, dove tutto si tiene insieme, non nella verosimiglianza di sentimenti e valori (presenti in buona parte del nostro cinema italiano contemporaneo), ma nella verità critica di un gioco di maschere che cancella ogni finzione e ogni personaggio. Sono le maschere e il grottesco quindi che, operando una fissazione e generalizzazione di tratti del presente, lo sottraggono alla sua attualità, riconsegnandone una immagine “transtorica”, quella che colloca il caimano/Berlusconi tra le grandi maschere del nostro cinema politico. Un cinema che ci ha sempre raccontato l’assenza del “fuori” nella società italiana (basti pensare a Todo modo di Petri); un’assenza che ha trasformato il movimento verso un altrove (per esempio l’Ovest nel cinema americano) in un movimento surplace: che ha trovato nei rigonfiamenti e nelle deformazioni del grottesco le forme di una verità che ha sfidato ogni verosimiglianza.
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HABEMUS PAPAM, LO SMARRIMENTO DEL PRESENTE
Un annuncio, “Habemus Papam”, un urlo, il buco nero tra due lembi di tenda rossa svolazzante: in questa discordanza tra l’ordine del dicibile e quello del visibile, che è discordanza profonda tra la maschera e il soggetto, principio di rappresentanza e principio di prestazione, si gioca il senso profondo del film. Habemus Papam è l’immagine ultima e più radicale dei destini della soggettività moderna, rappresentata nella sua inconciliabilità con le forme del potere. La fuga di un papa di fronte alla propria investitura non è solo l’immagine di una umanità fragile e inadeguata, sarebbe troppo poco, è la destrutturazione disincantata della soggettività moderna nella sua incapacità/impossibilità di adesione al ruolo, di iscrizione nell’ordine simbolico. L’indossare la maschera, l’aderire al ruolo, non dipendono da attitudini o capacità psicologiche e individuali, ma dal potere costruttivo e formativo dei dispositivi o, meglio ancora, dai dispositivi e dai rituali del potere – fondativi della soggettività – che fanno sì che un soggetto sia adeguato al suo ruolo per una pratica di formazione compiuta. E quando in gioco è la chiesa in quanto istituzione millenaria, rappresentata al suo massimo livello, il papa, la questione non è l’inadeguatezza e la rinuncia 213
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di un cardinale che si scopre fragile ad occupare il soglio di Pietro, semmai l’incapacità dei meccanismi del potere, di un potere la cui sovranità è fondata su basi teologiche e trascendenti, a formare soggetti che non debbano decidere, ma che siano capaci di risolversi, inquieti o meno essi siano, nella maschera loro assegnata. Il potere si esercita, in primo luogo, non in termini di interdizione ma di prescrizione e di formazione1: è la positività del potere, che opera nelle forme dell’assoggettamento ai suoi dispositivi e alle sue pratiche, ad essere decisiva per la costruzione di un soggetto e la sua adesione a un ruolo. Da questo punto di vista Habemus Papam restituisce, con una forza senza pari, lo scacco di un potere sovrano e disciplinare2 che, incapace di guidare le coscienze, e dunque di formarle, le lascia nella loro dispersione ed erranza, in una inalienabile solitudine e nell’angoscia di chi si trova riconsegnato ad una necessità di scelta. Habemus Papam è l’altra faccia del Caimano. Se in quest’ultimo caso, il potere veniva colto nelle derive di una “biopoliticità” che coniugava denaro, sessualità, attacco ai limiti della legge, secondo una presa sul reale e sul presente contrassegnata da una
Cfr. M. Foucault, La volontà di sapere, tr. it., Feltrinelli, Milano 2003.
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Tra le recensioni e le letture critiche che sulla stampa hanno accompagnato l’uscita del film, quella che si focalizza sulla questione del potere è la nota di Ida Dominijanni, Il collasso del potere. Non è un papa che ci salverà, in “il manifesto”, 15 aprile 2011.
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Habemus Papam, lo smarrimento del presente
spudoratezza che alimentava un godimento senza intervallo, in Habemus Papam è il potere pastorale di formazione e guida delle coscienze a deflagrare. Questo potere pastorale aveva come compito quello di entrare nei recessi dell’anima per portarli alla luce tramite la confessione, una parola che nel segreto permetteva, da un lato di liberare le coscienze, ma dall’altro di controllarle meglio. Ebbene, l’erede moderno del pastore, del conduttore di anime, è lo psicoanalista3. Lo studio dell’analista sostituisce il confessionale, il soggetto, fragile e inadeguato, cerca con la guida del terapeuta la possibilità di fuoriuscire dal suo stato di malessere e di dolore, di disadattamento. Il compito dell’analista è portare alla luce, per meglio controllarlo, il non detto, l’implicito, del paziente. Il potere della chiesa e quello della psicoanalisi, il potere sulla conduzione delle coscienze, è un potere continuativo e non contrappositivo (lo psicoanalista è il confessore laico). Il papa e lo psicoanalista, seduti l’uno di fronte all’altro, sono figure speculari e non contrapposte, con una differenza di fondo, che nel primo caso è in gioco una istituzione (un intreccio di sapere e potere) che deve costituire una persona sotto il segno dell’assoggettamento4, cioè del saper far corrispondere senza resti un soggetto alla maschera che deve indossare, nel secondo quel resto che eccede la maschera va liberato per emendare dal dolore.
Cfr. M. Foucault, Il governo di sé e degli altri. Corso al Collège de France (1982-1983), tr. it., Feltrinelli, Milano 2009.
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Cfr. su questo anche R. Esposito, Terza persona. Politica della vita e filosofia dell’impersonale, Einaudi, Torino 2007. 4
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Ma a fallire e a franare nel film sono entrambi i poteri: il primo, quello della chiesa, che non riesce a far coincidere uomo e papa, come afferma il cardinale («l’uomo e il papa sono la stessa persona»), accompagnato dallo scetticismo dello psicoanalista; il secondo, quello della psicoanalisi, perché gli interdetti della chiesa e il controllo dei cardinali non consentono allo psicoanalista Brezzi di operare, e il papa viene rimandato ad un esterno da affrontare in incognito. Ma Melville, per sottrarsi ad un ruolo che non sente suo e allo sconcerto del suo non sapere chi è, si smarrisce, si dà alla fuga, al vagabondaggio, come qualsiasi altro vecchio che, errando per le strade di Roma, parla tra sé e sé. Quella maschera non gli si confà, e il dispositivo di costituzione della persona (la cui etimologia è comune a quella di maschera) fallisce: non sentirsi in grado di fare il papa rivela a Melville una completa mancanza di conoscenza della propria identità. Per scoprirla deve sfuggire ad ogni controllo, a quello degli altri cardinali, così come a quello del portavoce vaticano: passa un camion e Melville si sottrae allo sguardo e all’attenzione dei suoi custodi, dando avvio ad un percorso di erranza. Il potere della chiesa, la sua funzione pastorale, deve esercitarsi attraverso il controllo e la guida, controllo dello sguardo e dell’anima (Panopticon totale, del corpo e dello spirito). Tutte le sequenze ambientate in Vaticano manifestano questo controllo, dei cardinali sullo psicoanalista, dello psicoanalista sul torneo di pallavolo, e di tutti sulla presenza fantasmatica – un’ombra che passa dietro le tende – del papa nei suoi appartamenti. Il Vaticano diventa uno 216
Habemus Papam, lo smarrimento del presente
spazio di reclusione da cui nessuno può uscire se non in incognito e si contrappone all’apertura del fuori, all’erranza libera di Melville per le strade di Roma. È un fantasma, o meglio un fantoccio (una guardia svizzera grassoccia e dai toni grotteschi), ciò che resta di un potere oramai incapace di costruire alcunché, di formare soggetti, di condurre anime. È attorno a quel fantoccio che la comunità si raccoglie nell’attesa che finalmente la sutura tra un enunciato e un corpo, tra un annuncio e una presenza venga a compiersi. Ma questa sutura, che avrebbe ripristinato il potere come luogo del senza scarto, che avrebbe riempito il trono rimasto vuoto5, non avviene. E lo sconcerto, la disperazione del finale, testimoniano di qualcosa di molto profondo, della voragine del più sacro dei poteri, quello teologico, incapace di formare e di preparare soggetti capaci di corrispondere ai loro compiti, per quanto alti, e di indossare la maschera che è loro assegnata. È il potere, allo stesso tempo sovrano e disciplinare, a dissolversi nello smarrimento di Melville, o nella partita di pallavolo dei cardinali. È la completa dissoluzione dell’ordine simbolico, del principio di rappresentanza: ciò che resta è solo lo smarrimento di un presente senza più alcuna tenuta, e senza la copertura di alcuna maschera, se non quella segnata dalla presunzione dello psicoanalista Brezzi («il più bravo di tutti»), anche lui “incastrato” dalla
Un “trono vuoto” che in questo caso non è il simbolo più forte del potere e la «figura sovrana della gloria» (cfr. su questo G. Agamben, Il regno e la gloria, Neri Pozza, Verona 2007, p. 268), ma un trono solo in attesa di essere riempito.
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sua eccellenza (che, come confessa, sarà la causa del divorzio). Non è la scelta del no come resistenza al potere, ma è il no per incapacità, per paura, perché nessuno sembra ormai capace di corrispondere alle richieste altrui e di disporsi al riconoscimento. Se noi siamo ciò che gli altri vogliono, se noi siamo ciò che i dispositivi, sociali e culturali, fanno di noi, quando ne usciamo, quando ci sottraiamo, cosa resta? La sottrazione è sempre spaesante, perché sottrarsi ad un dispositivo, e quello della maschera (e cioè della persona) è il più potente, senza ancora saper o poter vincolarsi ad altro, vagando in uno smarrimento senza fine, senza le suture che il simbolico è capace di operare, significa sottrarsi a ciò che c’è di più proprio per un soggetto. La fluttuazione e la confusione dello smarrimento sono l’occasione per una possibile sperimentazione di sé, che può occorrere in qualsiasi fase della vita. Ma la sede e la pratica in cui questa sperimentazione diventa creativa e inventiva non può che essere l’arte, e in questo caso l’arte dell’attore. Il film incrocia, da un lato, la rappresentazione del potere e il suo fallimento, dall’altro un potere della rappresentazione e della messa in scena, non meno fallimentare, ma al fondo più capace di aprire zone inedite di sperimentazione. Possono essere quelle dell’organizzazione del set del torneo di pallavolo dei cardinali, peraltro incompiuto, perché, come dice un cardinale, «non c’è più tempo», o può essere lo spazio illusorio dell’ombra del papa intravista dietro la tenda, o il delirio notturno dell’attore cechoviano nell’albergo, fino alla sequenza decisiva che vede i cardinali entrare in teatro per recuperare Melville, 218
Habemus Papam, lo smarrimento del presente
durante la rappresentazione de Il gabbiano di Čechov. La rappresentazione del potere e il potere della rappresentazione si incrociano e si sovrappongono nel loro sostanziale fallimento, e l’acclamazione gloriosa che avrebbe investito il papa dal balcone di San Pietro si trasforma nell’applauso congiunto di pubblico e cardinali nel teatro, rivolti al palchetto dove, solitario, Melville assisteva allo spettacolo. Le maschere si sovrappongono, quelle del potere e quelle del teatro, la folla dei fedeli e quella degli spettatori, in una confusione che smaschera la sostanziale destituzione di ogni ordine simbolico. Ma una differenza intercorre tra le maschere del teatro e quelle del potere. Quando Melville risponde alla psicoanalista che di mestiere fa l’attore non è tanto e solo per il recupero di una dimensione temporale, la giovinezza, e di una linea di vita abortita per mancanza di talento, la recitazione, ma perché l’attore è colui che esercita in forma più libera e sperimentale il rapporto tra il sé e l’io, il soggetto e la maschera. La sua capacità e possibilità di indossare più maschere, e dunque di vivere più ruoli, gli consente uno spazio elastico di aderenza al mondo, uno spazio-tra definito da una doppia negazione, non essere più “io” ma neanche del tutto “non-io”. È questo spazio-tra che l’attore può abitare (come emergerà chiaramente nel precetto di stare accanto al personaggio che Margherita dirà agli attori in Mia madre), che la messa in scena può costruire, e che invece il potere deve suturare in forma vertiginosa, inesorabile, senza attese troppo lunghe. Non essere più Melville, ma essere il papa, scegliere un simbolo, un nome, risolversi totalmente e compiutamente 219
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nell’altro da sé, è questo che fa paura. Melville non vuole “sbarazzarsi di sé” divenendo papa, ma non sa bene neanche chi sia quel sé. E quindi è sottratto ad ogni tipo di disperazione tragica per ritrovarsi in una sorta di smarrimento e spaesamento totale. Non vuole sbarazzarsi di sé, ma non vuole essere neanche disperatamente se stesso, che sono le due formule che Kierkegaard individua per la disperazione tragica: «Se per esempio un uomo avido di dominare, la cui divisa è “o Cesare o niente”, non diventa Cesare, egli si dispera per questo. […] Ciò che gli è insopportabile è non poter sbarazzarsi di se stesso»6. Ma, continua Kierkegaard, c’è una seconda forma di disperazione, «disperatamente voler essere se stesso», che può essere ridotta ad una variante della prima. Ora, Habemus Papam e il non-destino di Melville eccedono questa alternativa ed espungono qualsiasi dimensione tragica dall’azione e dalla maschera. E l’espunzione del tragico significa l’espunzione dall’esistenza di qualsiasi dimensione di possibile sensatezza, sia pur accompagnata dal sacrificio della vita. Invece di un passo in avanti, protetto dalla maschera del potere e dalla responsabilità del ruolo, Melville, in linea di continuità con tante altre figure morettiane7, compie un passo indietro, retrocede, torna all’infanzia («Mamma aiuto!»), trasforma la formazione possibile in una de-formazione, e quando S. Kierkeegaard, La malattia mortale, tr. it., Sansoni, Firenze 1965, pp. 223-224.
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Pensiamo, in primis, al politico comunista di Palombella rossa.
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compare sul balcone papale è per dire che rinuncia, nello sconcerto di tutti. Quella rinuncia è accompagnata da un enunciato chiaro: «Sento di essere tra coloro che non possono condurre ma devono essere condotti». Questo riconoscimento di fragilità, davanti al quale scatta un naturale moto di vicinanza, perché ne percepiamo un contrassegno di umanità, lascia aperti dei quesiti: che cosa resta quando la più secolare delle istituzioni forma soggetti incapaci di condurre, di assumersi responsabilità? E quella inadeguatezza percepita senza mettersi alla prova (si è sempre inadeguati rispetto ai nuovi passi che compiamo: l’adeguatezza non è uno stato, è un processo) non è forse il mero contrassegno di una paura paralizzante? E che cosa resta se la chiesa non riesce più a formare pastori? E, per compiere un passo indietro, cosa accade se il partito comunista non riesce più a formare politici, a costruire guide? E se i matrimoni non riescono più a formare uomini e donne, ma ad essere preludio di divorzi? E se la paternità si manifesta solo come riflesso narcisistico? In definitiva, se il simbolico si è dissolto, e i ruoli e le istituzioni – a partire dalla scuola – non hanno più alcun potere formativo, cosa resta? Resta solo il caimanismo, l’accesso senza freni e limiti ad un reale sotto il segno di un puro godimento, sotto il segno di un presente senza spessore, incapace di costituirsi come luogo di una qualche esperienza. Lo smarrimento che accompagnava Bonomo nel Caimano adesso si proietta sulla scena più alta, sulla Cappella Sistina. Non c’è più alibi o rifugio, 221
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il percorso è giunto al suo culmine, alla sua vetta più alta: lo smarrimento del papa è lo smarrimento esemplare, ultimo, di una soggettività incapace di ritrovarsi, destinata al fallimento nella deflagrazione del simbolico, e nel rapporto con le istituzioni che dovrebbero preservarlo. Maschere difensive e dunque aggressive, caimanismo trionfante, e per finire solo un inesorabile smarrimento come traccia tenue di una possibile riconfigurazione del mondo. Ma questa possibilità Moretti non la fa balenare, non può farla apparire, perché non può trovarsi dalle parti della commedia sociale, grottesca o esistenziale, che lo caratterizza, incentrata sui rapporti fra l’individuo e la società, la maschera e le istituzioni. La possibilità può emergere solo dove i dispositivi di costituzione dell’individuo e della società vengono pensati altrimenti, messi in questione dalle loro fondamenta, e tutto può essere immaginato e rappresentato a partire dai processi impersonali e singolari che attraversano e segnano le nostre vite, andando oltre ogni dimensione identitaria o istituzionale.
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Mia madre o dell’essere-accanto
MIA MADRE O DELL’ESSERE-ACCANTO
«Madame Bovary c’est moi», con queste parole Flaubert sintetizzava il rapporto con la sua eroina più famosa, individuando nel divenire altro, e nella pratica di intercessione che lo sostiene (parlare attraverso un altro, in questo caso il romanziere per il tramite del personaggio), il tratto specifico della forma romanzesca. «Io sono Margherita», così Nanni Moretti ha presentato con enunciato altrettanto chiaro l’ultimo suo grande intercessore, la Margherita Buy di Mia madre. Regista inquieta, fragile, un po’ «stronza» ed egoista (come le dicono), che mentre sta girando il suo film sul passaggio di una fabbrica italiana in crisi ad una nuova proprietà americana (con tanto di scioperi e trattative sindacali), rappresentata da Barry Huggins (John Turturro), è alle prese con la malattia progressivamente più grave della madre. Il film radicalizza il carattere romanzesco del cinema di Moretti1, quello che lo porta a tematizzare la domanda di senso di un soggetto, alle prese con la fragilità della condizione umana, la morte, l’incompiutezza dell’esperienza e la conseguente incapacità di Già presente in film come Caro diario, Aprile e Habemus Papam. 1
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Nanni Moretti
corrispondervi, metabolizzando in questa operazione diversi contenuti e generi, registri e toni, tra i quali attivare una continua pratica di scambio e intercessione. In questo caso l’eterogeneità di fondo concerne, come spesso nel cinema di Moretti, un doppio binario narrativo, da una lato il film da farsi e dall’altro la vita, da un lato il set di un film sulla lotta per una fabbrica in crisi e dall’altro il sentimento “privato” della morte della madre. Il loro intercedersi riguarda il senso di «inadeguatezza» di Margherita, che transita dalla sfera pubblica a quella privata, dalla mancanza di coraggio («Rompi almeno uno schema, uno su duecento»), che le viene rimproverata come regista, alla paura e disperazione davanti alla malattia della madre. La felice formula che sintetizza, come un vero e proprio enunciato di poetica, questa intercessione romanzesca, distinguendola dal comico-grottesco e dal pathos melodrammatico, la pronuncia Margherita quando ripete insistentemente agli attori di non risolversi del tutto nei personaggi, di mantenere uno scarto, un intervallo, di essere-con il personaggio: «Non devi crederci troppo, devi stare un po’ di lato. Voglio vedere l’attrice». E poi ancora: «L’attore deve essere accanto al personaggio». Questo essereaccanto, né totalmente personaggio né radicalmente altro da lui, è l’incarnazione di quella che Pasolini ha individuato come la forma propria del cinema moderno, cioè la «soggettiva libera indiretta»2. Mia
P.P. Pasolini, Empirismo eretico, in Id., Saggi sulla letteratura e sull’arte, tomo I, a cura di W. Siti e S. De Laude, Mondadori, Milano 1999, pp. 1461-1488. 2
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madre presenta con una chiarezza senza pari, segnata dalla scelta decisiva del film (trovare nel personaggio di Margherita l’intercessore dell’autore), lo stile “libero indiretto” romanzesco; che permette di dire ciò che altrimenti non potrebbe essere detto, o magari solo detto in forme stereotipate e banali (come accade per le lotte operaie nel film che Margherita sta girando), e cioè: può essere raccontato il dolore intimo e profondo per la morte naturale di una madre? Quale esperienza emerge davanti alla rivelazione di qualcosa che da sempre sappiamo, e cioè la nostra condizione mortale? Anche solo per poter mettere in gioco domande del genere, il film deve scartare dai generi più codificati (commedia e melodramma) e scommettere senza esitazione su una forma aperta come quella romanzesca, che permette per esempio di confondere, senza smarrire la plausibilità, la distinzione tra gli ordini di temporalità (passato/presente), quelli di realtà (sogno/percezione, reale/immaginario), gli stati di soggettività (soggettivo/oggettivo). La resa indiscernibile di questi elementi è la condizione per cogliere il fondo insondabile dell’esperienza umana: è cioè la sua mai totale esperibilità, la sua impossibilità di essere tradotto del tutto in linguaggio e parola. Ma questo non per una fantomatica e originaria ineffabilità, per una sorta di origine mistica (totalmente assente in Moretti), quanto per quello scarto, per quell’essere-accanto, per una distanza costitutiva che abita ogni nostra prossimità al mondo, che per ciò stesso rende possibile ogni esperienza, ma allo stesso tempo ne impedisce la totalizzazione e il controllo. Margherita sta accanto alla madre ma sta 225
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anche altrove, nel suo passato, nei suoi sogni, nella sua immaginazione, nel suo lavoro. Ed ancora, sta sul set ma sta anche accanto alla madre. E quando questa distanza da sé non si determina si rischia di non vedere quanto di importante ci riguarda e ci attraversa. Margherita vive un presente senza riconoscerlo: non vede la crisi della figlia, ignora i sentimenti di chi gli sta vicino (come le viene rinfacciato), e pretende di controllare in forma “totalizzante” il destino della madre (ribaltando il suo ruolo filiale), facendo finta di proteggerla nascondendole la verità, ma proteggendo di fatto se stessa attraverso la costruzione di un’ennesima illusione. Abbandonata la distanza della maschera comica (di Michele Apicella) e la vicinanza simbiotica della figura melodrammatica (La stanza del figlio), incapaci di restituire l’esperienza fondativa del rapporto con la morte di chi ci è prossimo e dunque anche nostra, solo la distanza nella prossimità che la forma romanzesca (l’unica che in definitiva permette di raccontare l’Io) consente di esercitare è in grado di esprimere quello spaesamento che segna le nostre esistenze e che nei momenti di perdita e di crisi emerge prepotentemente. E dunque l’essere-con, l’essere-accanto riguarda una più generale posizione del soggetto rispetto alla propria esperienza, al proprio essere nel mondo. Lo scarto evita la saturazione della finzione e lascia emergere la potenza di un divenire che può permettere al soggetto di scoprire dimensioni inedite di sé. La saldatura troppo mimetica dell’attore con il personaggio, il suo stare troppo a ridosso, fa della finzione una dimensione pervasiva e totalizzan226
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te3, e nel caso di un tema drammatico come quello di Mia madre avrebbe avuto necessariamente aspetti ricattatori sullo spettatore e sui suoi sentimenti. Il distacco troppo marcato dell’attore dal personaggio fa di quest’ultimo una maschera e avrebbe spinto il film in una direzione commedica (qui rappresentata dal personaggio di Turturro). Operare invece sullo scarto, sul va e vieni tra attore e personaggio significa costruire un divenire tra personaggi e situazioni4. Questo divenire non significa altro che la creazione di una zona di sovrapposizione, o meglio di indiscernibilità tra i personaggi, distinti ma anche coalescenti, singolari ma sulla base di uno “spazio comune”, che tra una figlia e una madre è più forte che per altri casi. Il divenire-Margherita di Moretti-regista non è l’unico del film, ad esso fanno seguito il divenire-Ada di Margherita, che non solo partecipa dolorosamente alla malattia della madre, negandone fino a quando può il suo carattere mortale, ma va ad abitare nella sua casa insieme alla figlia, ne prende possesso, lì spinta dalle “acque” che allagano il suo appartamento5; il divenire-giovane di Ada, il suo pensare al
È lo stare troppo vicino della macchina da presa ad infastidire Margherita, quando nella sequenza iniziale del film da farsi, quella degli scontri fra operai e polizia, se la prende con l’operatore.
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Sulla questione del divenire contrapposta all’imitazione, cfr. G. Deleuze e F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, tr. it., Castelvecchi, Roma 2014, cap. X.
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Una “rottura delle acque” che in Moretti sempre segna traumi
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«domani», come ci dice nell’ultima battuta del film, che arriva dopo che vediamo la sua lezione di latino alla nipote Lidia e gli ex-studenti che la ricordano; e ancora la “crescita” di Lidia, che passa attraverso la nonna (di cui indossa, identificandosi, anche l’accappatoio, suscitando il disappunto di Margherita), l’unica ad aver intuito la crisi d’amore della nipote (non percepita dalla madre), e che l’aiuta con i compiti. Queste zone di indiscernibilità tra le tre donne, nonna-madre-nipote, definiscono allo stesso tempo una identificazione e uno scarto, tra le tre età della vita, le tre “estasi” del tempo (passato, presente, futuro), le tre dimensioni dell’esperienza: l’esperienza da fare di Lidia, l’avere esperienza di Ada, l’esperienza impossibile di Margherita. Ma quel qualcosa che hanno in comune le tre donne nella loro singolarità e nella loro differenza (in primo luogo generazionale) è innanzitutto l’unità data da Margherita, figlia e madre lei stessa, anello centrale della catena, la protagonista, quella che pronuncia “mia madre”, e che non fa che scindersi, moltiplicarsi, proiettarsi nelle “tre”. Ma di che cosa fa esperienza Margherita? Abbiamo detto che fa esperienza essenzialmente della condizione limitata e finita dell’esistenza, a cui la rimanda la malattia della madre. Non è tutto, attraverso questo Margherita fa esperienza dell’invecchiamento naturale del corpo (malato non per qualche virus o per impazzimento cellulare), che lo porta ad una regressione anche delle abilità primarie. Il momento più toccante del film, da questo punto di vista, è quele morte, da Palombella rossa a La stanza del figlio.
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lo in cui Margherita urla disperata alla madre quando si rende conto che questa non può percorrere neanche tre metri, impossibilitata ad esercitare la pur minima capacità di deambulazione. Quei tre metri li percorre Margherita per lei, e poi si volta, scoppia a piangere e l’abbraccia. E così sarà anche per le capacità di scrittura, che torneranno precarie e incerte come nell’infanzia. Il tempo torna su se stesso, l’arco della vita si compie e niente sembra poterlo riscattare, se non l’affermazione di un conatus, di una forza della vita che passa sempre attraverso la malattia, e dunque per la vecchia madre e il suo guardare al «domani» (percepito, ricordato o immaginato dalla figlia? Non importa, di certo attribuito alla madre). Se Mia madre è il film più dolente di Moretti è perché, destituita ogni maschera (prerogativa del maschile), davanti al dolore della vita, della malattia, all’inesorabile passare del tempo, il soggetto non ha più difese (e questo potrebbe essere un bene); e si trova spaesato davanti all’immagine della morte, all’instabilità delle relazioni affettive, ai problemi di lavoro. Questo smarrimento del presente non sembra poter essere redento: «Tutti pensano che sia capace di dire qualcosa, di interpretare la realtà, ma non capisco più niente». E in ogni caso se qualche apertura c’è non apparterrà agli adulti, sarà invece dei vecchi, dei morenti. Ma è certo che la novità di un intercessore femminile porta il cinema di Moretti a compiere un passo ulteriore. Qui, rispetto ad Habemus Papam (ma anche a Il caimano e a tutti i film precedenti), la perdita di centralità del maschile e dell’istanza simbolica porta ad una esposizione radicale del sen229
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timento femminile, che non ha difese e si apre ad un incontro allo stesso tempo dolorosissimo e confuso con la vita e con l’altro. Doloroso nella morte che emerge, confuso perché attraverso la malattia e la morte della madre si sovrappongono falde di tempo, sogni, incubi, che attraversano Margherita senza che lei riesca a comporli in alcun modo. È il profondo tratto felliniano del film, ma da questa confusione non emerge alcun elemento festoso o carnevalesco che riesca a liberare il tempo (come nel finale di 8 ½). La vita non si scioglie, il sì al mondo non si libera, catturato da una paura che tende a negare la realtà, che immobilizza e affligge. Se sotto il potere del simbolico e del ruolo, l’identità franava perché non si sentiva all’altezza di fronte a compiti troppo elevati (amare, Bianca; comprendere il dolore e gli errori degli altri, La messa è finita; corrispondere ai cambiamenti, Palombella rossa; guidare la comunità dei fedeli, Habemus Papam), in Mia madre lo spazio di relazione, segnato dal femminile e sottratto al ruolo, si colloca oltre ogni dinamica (maschile) di potere, da sempre centrale in Moretti (dal parlamentare al capo di governo al cardinale). Qui abbiamo una figlia davanti a sua madre (il possessivo del titolo ad indicare l’intimità e visceralità del rapporto), una nipote davanti a sua nonna e viceversa. Rapporti che definiscono l’assolutezza del sentimento, il suo essere senza schermi, ma non annullano di fatto l’idea di integrazione generazionale attraverso la trasmissione del sapere, in questo caso rappresentato dal latino che Ada insegna a Lidia. Trasmettere il sapere significa in primo luogo riconsegnare la tessitura del tempo, la sua connessione, 230
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la sua integrazione, attenuarne e suturarne le ferite, pensare l’avvicendamento generazionale come risposta al carattere transitorio della vita umana. Se la vecchiaia in Habemus Papam era ancora animata dal compito ingombrante, dalla prestazione che generava angoscia, qui la vecchiaia e la malattia, nel dolore e nello sconcerto, non fanno smarrire del tutto il senso del futuro, del tramandare e del domani. Certo, questo tramandamento, questa connessione intergenerazionale non arriva in fondo a toccare gli stessi livelli emotivi della frattura. È piuttosto qualcosa che sembra emergere nel film come una sorta di volontà di avere fiducia nel futuro, che non è naturalmente la stessa cosa che averne. Detto altrimenti, sembra che la sfida alla morte passi in fondo solo attraverso l’illusione di un “domani” desiderato e auspicato, ma di fatto incerto e precario, piuttosto che attraverso una fiducia vera nel consegnare una eredità, un lascito, nel comporre una tradizione. Lo sconcerto di Margherita è al fondo effetto del suo scetticismo, e quest’ultimo consegue all’illusione infranta. Quando l’illusione dell’“eternità” della madre si spegne, ciò che resta è forse solo un “domani” desiderato, un’ulteriore illusione proiettata sulla madre, sulla sua volontà di vita («Lei vuole vivere»), che è e non è quella di Margherita. Margherita non si limita alla cura della madre, ma “occupa” il suo punto di vista, percorre i suoi tre passi, abita la sua casa, cerca di rendere “proprio” il desiderio di Ada di un domani. Ma nel finale è solo un occhio umido di lacrime quello che corrisponde all’annuncio di un “domani” pensato e desiderato da Ada. Margherita resta ancora fuori da un tempo che non sarà il suo, 231
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da un futuro che sembra escluderla, da un passaggio di testimone (e di desiderio) che non la riguarda (concerne semmai la nipote Lidia): a lei restano solo le lacrime, il pathos del tempo. La dominanza di figure femminili porta in Mia madre ad un arretramento di quelle maschili. Giovanni, il fratello di Margherita, interpretato dallo stesso Moretti, è un personaggio per molti versi “trasparente”, del buon senso, aderente ad un principio di realtà, che prende la scelta radicale di licenziarsi dal lavoro, senza che questa scelta ci venga in fondo spiegata, se non da un disagio complessivo. Liberandosi di sé in Margherita, Moretti si restituisce come molto distante dalle precedenti maschere. Accompagna la sorella, riportandola ad un principio di realtà, in fondo proteggendola (ma in modo diverso dall’angelo de Il cielo sopra Berlino, che vediamo in un manifesto affisso davanti al cinema Capranichetta, con lunghe file di spettatori in attesa). Espungendo da sé l’ansia nevrotica e la paura dei sentimenti, Moretti, tramite Giovanni, accede per la prima volta ad un personaggio che è in contatto con il mondo, che sa guardarlo e riconoscerlo (è lui questa volta, rispetto ai film precedenti, a non essere ascoltato, come nel caso della sorella), e proprio per questo è un personaggio un po’ anodino (tant’è che rimane poco definito), sulla cui opacità emerge per contrasto l’inquietudine di Margherita. Non solo, con un altro movimento straordinario, Moretti espunge anche il lato narcisistico ed isterico della sua maschera, ancora presente nello psicoanalista di Habemus Papam. Questo lato qui viene del tutto caricato e proiettato sul personaggio di Barry 232
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Huggins, attore americano che giunge in Italia per interpretare nel film che si sta girando il ruolo del nuovo proprietario della fabbrica in dismissione, e che con il suo protagonismo narcisista entra in conflitto con il mondo e con la regista. E il suo «riportatemi alla realtà» che urla sul set, dopo una furente litigata con Margherita, è una sorta di appello disperato a se stesso e a chi gli sta intorno, affinché quella maschera che indossa, che lo separa da tutto e da tutti, gli sia tolta 6. È la maschera che eredita da quella di Michele Apicella, che adesso Moretti, nelle vesti di Giovanni, non può più indossare e di cui forse si è definitivamente disfatto7. Che cosa resta di questo movimento di “estroflessione dell’io”? Di queste figure che non sono maschere che ruotano intorno ad un centro, come nei film precedenti, ma presenze che definiscono zone di vicinanza e di coalescenza con ciò che resta dei personaggi e delle maschere precedenti? È come se il processo di maturazione compiuto da Moretti (in una riaffermata indiscernibilità tra persona-personaggio-maschera) l’avesse condotto ad una sorta di guscio vuoto, o di sfondo trasparente, affermatore di un principio di realtà, che diviene il
Si racconta, in uno stato di esaltazione immaginaria, come attore preferito da Stanley Kubrick.
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Qui viene forse ad esaurimento uno dei tratti distintivi del cinema di Moretti, quello «strizzare l’occhio allo spettatore», che Goffredo Parise individuava già con riferimento ad Ecce bombo; cfr. Quando la fantasia ballava il “boogie”, Adelphi, Milano 2005, pp. 109-110.
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suolo su cui la “teatralizzazione” del mondo (Margherita e Barry) ma anche l’intensa inquietudine del sentimento femminile (Ada, Margherita, Livia) possono prendere corpo. Si compie dunque un passo ulteriore nel percorso artistico di Moretti, dove il romanzesco metabolizza con grande potenza, da un lato il registro drammatico, declinato più in senso tragico-ironico (la morte come destino naturale della vita) che melodrammatico (il suo irrompere in forma di disgrazia, come ne La stanza del figlio), dall’altro il registro comico, la maschera come schermo e difesa dalla vita stessa (recitare “eccessivamente” nella vita fina a renderla completamente finta, come fa Barry), aprendosi con grande forza al racconto del formarsi doloroso di una esperienza e del sentimento che l’accompagna. L’esperienza è quella della perdita dell’altro e di se stessi, il sentimento è quello di profonda inadeguatezza rispetto a tale esperire. Le difese passano per la rimozione (come fa Margherita) o per l’accettazione rassegnata, o ancora per l’invocazione ad un “domani”, che permette al tempo nonostante tutto di aprirsi (anche se illusione e scetticismo sembrano accompagnare questa apertura). Il cinema di Moretti con Mia madre giunge ad una complessità fino ad oggi non toccata, perché i vari personaggi e le situazioni che attraversano il film definiscono ognuno un punto di vista sul mondo e sulla vita, e se l’ossessione sul «compito del cinema» (che ritorna durante la conferenza stampa del film sugli operai) richiama l’imporsi di un dover-essere, e dunque la prescrittività di una morale ereditata dai film precedenti, qui niente di tutto questo sembra 234
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emergere. Il personaggio qui non è più la via di liberazione dalla maschera (come in Caro diario e in Aprile), ma è la via d’accesso per interrogare l’io, il mondo e la condizione umana, senza difese e nella forma più radicale. E proprio in questa interrogazione che l’io si riversa nel mondo, lo popola di ricordi, immaginazioni, paure. E qui Fellini sembra essere l’autore italiano che più di altri è presente nel film 8, anche se il suo mondo ha un carattere più fluido e il passaggio, per esempio in 8 ½, dal film da farsi alla vita è contrassegnato da una più marcata reversibilità: il caos e lo stallo del film richiamano quello della vita, e la soluzione riguarda entrambi i piani. In Mia madre no. Il film che si sta girando è un concentrato di cliché sull’attualità sociale, questa volta sottratti alla caricatura e al grottesco. In breve, è più creativa l’immaginazione “privata” di Margherita che il suo cinema. Lo choc della morte della madre costringe Margherita a fare i conti con se stessa, all’esporsi senza difese al dolore e allo spaesamento. La prevedibilità senza sussulti del film che sta girando porta invece, per poter essere animata, alla necessità di una presenza istrionica e grottesca come quella di Turturro. In questo scarto si misura la meccanica del film
Esplicitamente citato, per Le tentazioni del dottor Antonio (ma anche per Via Veneto e “la dolce vita”) da un Turturro brillo, che fischietta e accenna ai versi della canzone «Bevete più latte, il latte fa bene», in una sequenza che porta a compimento, parodiandolo, il mito del grande cinema italiano visto dall’America, con una girandola di nomi, da Rossellini ad Antonioni. 8
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tra il cliché e l’anima, la commedia e il romanzo, l’istrionismo sociale e l’inquietudine esistenziale, la difesa e l’abbandono, le risposte e le domande. Ebbene, in Mia madre l’accento cade sul secondo elemento di queste coppie, quello che sta portando Nanni Moretti, ora più che mai, ad essere il grande narratore inquieto di un presente smarrito.
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FILMOGRAFIA
La sconfitta Regia: Nanni Moretti. Soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti. Interpreti: Nanni Moretti, Guido Ambrosino, Luca Codignola, Guido Ambrosino, Franco Moretti, Maurizio Flores d’Arcais, Sergio Tiroli, Emanuele Gerratana, Luigi Moretti, Paola Sposini. Produzione: Nanni Moretti. Durata: 26’ (Super 8). Anno: 1973. Pâté de bourgeois Regia: Nanni Moretti. Soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti. Interpreti: Nanni Moretti, Mariella Gramaglia, Luca Codignola, Maurizio Flores d’Arcais, Fabio Traversa, Franco Moretti, Stefano Lariccia, Piero De Chiara, Mila Lentini, Alberto Flores d’Arcais. Produzione: Nanni Moretti. Durata: 26’ (Super 8). Anno: 1973. Come parli frate? Regia: Nanni Moretti. Soggetto e sceneggiatura: 237
Nanni Moretti
Nanni Moretti (liberamente ispirato a I promessi sposi di Alessandro Manzoni). Interpreti: Nanni Moretti, Lorenza Codignola, Giorgio Viterbo, Vincenzo Vitobello, Fulvia Fazio, Beniamino Placido, Corrado Sannucci, Stefano Lariccia, Fabio Traversa, Luciano Agati, Fabio Sposini, Igor Skofic, Pietro Veronese. Produzione: Nanni Moretti. Durata: 52’ (Super 8). Anno: 1974. Io sono un autarchico Regia: Nanni Moretti. Soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti. Fotografia: Fabio Sposini. Musica: Franco Piersanti. Montaggio: Nanni Moretti. Interpreti: Nanni Moretti, Simona Frosi, Andrea Pozzi, Fabio Traversa, Giorgio Viterbo, Paolo Zaccagnini, Luciano Agati, Guido Valesini, Beniamino Placido, Lori Valesini, Benedetta Bini, Alberto Flores d’Arcais, Luigi Moretti, Lucio Ravasini, Mauro Fabbretti, Roberto Pizza, Franco Moretti, Alberto Abruzzese, Paolo Flores d’Arcais, Stefano Bergesio, Stefano Brasini, Andrea Parlatore, Fabio Sposini, Piero Galletti, Enrico Proietti. Produzione: Nanni Moretti. Distribuzione: ARCI. Durata: 95’ (Super 8, successivamente gonfiato in 16 mm). Anno: 1976. Ecce bombo Regia: Nanni Moretti. Soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti. Fotografia: Giuseppe Pinori. Scenografia: Massimo Razii. Musica: Franco Piersanti. 238
Filmografia
Montaggio: Enzo Meniconi. Suono: Franco Borni. Interpreti: Nanni Moretti, Luisa Rossi, Glauco Mauri, Lorenza Ralli, Fabio Traversa, Paolo Zaccagnini, Piero Galletti, Lina Sastri, Susanna Javicoli, Carola Stagnaro, Maurizio Romoli, Cristina Manni, Simona Frosi, Giorgio Viterbo, Luigi Moretti, Age, Mauro Fabbretti, Maurizio De Taddeo, Cristiano Gentili, Vincenzo Vitobello, Giampiero Mughini, Andrea Pozzi, Alberto Abruzzese, Benedetta Bini, Augusto Minzolini, Filippo La Porta, Pier Farri, Luciano Agati, Nadia Fusini, Francesca Ghiotto, Roberto De Lellis, Guido Parlatore, Giampiero Lombardo, Carla Taviani, Maria Bufalini. Produzione: Filmalpa/Alphabeta. Distribuzione: CIDIF. Durata: 100’. Anno: 1978. Sogni d’oro Regia: Nanni Moretti. Soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti. Fotografia: Franco Di Giacomo. Scenografia: Giovanni Sbarra. Musica: Franco Piersanti. Montaggio: Roberto Perpignani. Suono: Franco Borni. Interpreti: Nanni Moretti, Piera Degli Esposti, Laura Morante, Alessandro Haber, Nicola Di Pinto, Claudio Spadaro, Remo Remotti, Miranda Campa, Sabina Vannucci, Gigio Morra, Giovanna De Luca, Giampiero Mughini, Chiara Moretti, Dario Cantarelli, Tatti Sanguineti, Sahra Di Nepi, Oreste Rotundo, Mario Cipriani, Adriana Pecorelli, Marco Colli, Alberto Abruzzese, Mario Monaci Toschi, Fabrizio Beggiato, Luca Silvestri, Massimo Garzia, Vincenzo Salemme, Cinzia Lais, Mario Garriba, 239
Nanni Moretti
Massimo Milazzo, Luigi Moretti, Cristina Manni, Memmo Giovannini, Giovanni Di Gregorio, Maria D’Incoronato, Alessio Gelsini. Produzione: Renzo Rossellini per Operafilm/Raiuno. Distribuzione: Gaumont. Durata: 105’. Anno: 1981. Bianca Regia: Nanni Moretti. Soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti, Sandro Petraglia. Fotografia: Luciano Tovoli. Scenografia: Giorgio Luppi, Marco Luppi. Musica: Franco Piersanti. Montaggio: Mirco Garrone. Suono: Franco Borni. Interpreti: Nanni Moretti, Laura Morante, Roberto Vezzosi, Dario Cantarelli, Remo Remotti, Vincenzo Salemme, Enrica Maria Modugno, Claudio Bigagli, Margherita Sestito, Giorgio Viterbo, Giovanni Buttafava, Luigi Moretti, Maria Monaci Toschi, Matteo Fago, Virginie Alexandre, Alberto Bracco, Marie Christine Vandeneede, Mauro Fabbretti, Nicola di Pinto, Gianfelice Imparato, Daniele Luchetti, Fabrizia Frezza, Angelo Barbagallo, Inigo Lezzi, Silvia Moretti, Maxime Alexandre, Frederique Alexandre, Henri Alexandre, Mario Garriba, Giovanna De Luca, Valerio Berruti. Produzione: Faso Fil/Reteitalia. Distribuzione: CIDIF. Durata: 95’. Anno: 1984. La messa è finita Regia: Nanni Moretti. Soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti, Sandro Petraglia. Fotografia: Franco 240
Filmografia
Di Giacomo. Scenografia: Amedeo Fago, Giorgio Bertolini. Musica: Nicola Piovani. Montaggio: Mirco Garrone. Suono: Franco Borni. Interpreti: Nanni Moretti, Margarita Lozano, Ferruccio De Ceresa, Enrica Maria Modugno, Marco Messeri, Dario Cantarelli, Roberto Vezzosi, Vincenzo Salemme, Eugenio Masciari, Luisa De Santis, Pieto De Vico, Giovanni Buttafava, Luigi Moretti, Mauro Fabretti, Francesco Di Giacomo, Antonella Fattori, Carlina Torta, Inigo Lezzi, Sandro De Santis, Bianca Pesce, Mario Monaci Toschi, Anna Cesareni, Oreste Rotundo, Conchita Airoldi, Silvia Moretti, Stefano Viali, Massimo Milazzo, Mariella Valentini. Produzione: Faso Film. Distribuzione: Titanus. Durata: 94’. Anno: 1985. Palombella rossa Regia: Nanni Moretti. Soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti. Fotografia: Giuseppe Lanci. Musica: Nicola Piovani. Montaggio: Mirco Garrone. Suono: in presa diretta, Franco Borni. Interpreti: Nanni Moretti, Silvio Orlando, Mariella Valentini, Alfonso Santagata e Claudio Morganti, Asia Argento, Eugenio Masciari, Mario Patanè, Luigi Moretti, Fabio Traversa, Antonio Petrocelli, Imre Budavari, Mauro Maugeri, Raoul Ruiz, Giovanni Buttafava, Remo Remotti, Carlo Testa, Mario Monaci Toschi, Gabriele Ceracchini, Luisanna Pandolfi, Marco Messeri, Mario Schiano, Franco Bernini, Luca Codignola, Daniele Luchetti, Telemaco Marcoccio, Carlo Mazzacurati, Paola Sposini. Produzione: Angelo Barbagallo e Nanni Moretti per la Sacher Film Roma e Banfilm 241
Nanni Moretti
Parigi, con la collaborazione di So.Fin.A. e Rai Uno. Distribuzione: Titanus. Durata: 89’. Anno: 1989. La cosa Regia: Nanni Moretti. Fotografia: Alessandro Pesci, Giuseppe Baresi, Roberto Cimatti, Riccardo Gambacciani, Gherardo Ghossi, Angelo Strano. Montaggio: Nanni Moretti. Suono: in presa diretta, Ugo Celani, Carlos Alberto Bonaudo, Ruggero Manzoni, Roberto Serra. Produzione: Angelo Barbagallo e Nanni Moretti. Durata: 59’. Anno: 1990. Caro diario Regia: Nanni Moretti. Soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti. Fotografia: Giuseppe Lanci. Scenografia: Marta Maffucci. Musica: Nicola Piovani. Montaggio: Mirco Garrone. Suono: in presa diretta, Franco Borni. Interpreti: Nanni Moretti, Renato Carpentieri, Antonio Neiwiller, Moni Ovadia, Carlo Mazzacurati, Mario Schiano, Valerio Magrelli, Sergio Lambiase, Conchita Airoldi, Raffaella Lebbroni e Marco Paolini, Claudia della Seta e Lorenzo Alessandri, Serena Nono, il gruppo Diapason, Jennifer Beals e Alexandre Rockwell, Italo Spinelli. Produzione: Nanni Moretti, Angello Barbagallo per La Sacher Film. Distribuzione: Lucky Red. Durata: 98’. Anno: 1993.
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Filmografia
Aprile Regia: Nanni Moretti. Soggetto e sceneggiatura: Nanni Moretti. Fotografia: Giuseppe Lanci. Scenografia: Marta Maffucci. Musica: Ombre, Canzone popolare, Le onde (Ludovico Einaudi), Campanitas de cristal (Nono Morales e la sua orchestra), Jaad e Nabis Gulsham (Nusrat Fateh Ali Khan), Ragazzo fortunato (Jovanotti), Why wait, Mambo Jambo (Perez Prado), Cochita (René Grand), Hata (Hata), Bo Mambo, Gopher (Yma Sumac). Montaggio: Angelo Nicolini. Suono: in presa diretta, Alessandro Zanon. Interpreti: Nanni Moretti, Silvio Orlando, Silvia Nono, Pietro Moretti, Agata Apicella Moretti, Nuria Schoenberg, Angelo Barbagallo, Silvia Bonucci, Quentin de Fouchecour, Renato De Maria, Daniele Luchetti, Andrea Molaioli, Nicola Piepoli, Corrado Stajano. Produzione: Sacher Film, Bac Films, Rai, Canal Plus. Distribuzione: Tandem. Durata: 78’. Anno: 1998. La stanza del figlio Regia: Nanni Moretti. Soggetto: Nanni Moretti. Sceneggiatura: Linda Ferri, Nanni Moretti, Heidrun Schleef. Fotografia: Giuseppe Lanci. Scenografia: Giancarlo Basili. Musica: Nicola Piovani. Montaggio: Esmeralda Calabria. Suono: in presa diretta, Alessandro Zanon. Interpreti: Nanni Moretti, Laura Morante, Jasmine Trinca, Giuseppe Sanfelice, Silvio Orlando, Claudia Della Seta, Stefano Accorsi, Stefano Abbiati, Toni Bertorelli, Dario Cantarelli, 243
Nanni Moretti
Eleonora Danco, Luisa De Santis, Sofia Vigliar, Alessandro Infusini, Renato Scarpa, Roberto Nobile, Paolo De Vita, Roberto De Francesco, Claudio Santamaria, Antonio Petrocelli. Produzione: Sacher Film, Bac Films, Studio Canal, Rai Cinema, Tele +. Distribuzione: Sacher Distribuzione. Durata: 98’. Anno: 2001. Il caimano Regia: Nanni Moretti. Soggetto: Nanni Moretti, Heidrun Schleef. Sceneggiatura: Nanni Moretti, Francesco Piccolo, Federica Pontremoli. Fotografia: Arnaldo Catinari. Scenografia: Giancarlo Basili. Musica: Franco Piersanti. Montaggio: Esmeralda Calabria. Suono: Alessandro Zanon. Interpreti: Silvio Orlando, Margherita Buy, Jasmine Trinca, Cecilia Dazzi, Michele Placido, Luisa De Santis, Giuliano Montaldo, Jerzy Stuhr, Tatti Sanguineti, Antonio Catania, Elio De Capitani, Valerio Mastandrea, Nanni Moretti, Anna Bonaiuto. Produzione: Sacher Film, Bac Films, Stephan Films, France 3 Cinéma, Wild Bunch, Canal +, Cinecinema. Distribuzione: Sacher Distribuzione. Durata: 112’. Anno: 2006. Habemus Papam Regia: Nanni Moretti. Soggetto: Nanni Moretti, Francesco Piccolo, Federica Pontremoli. Sceneggiatura: Nanni Moretti, Francesco Piccolo, Federica Pontremoli. Fotografia: Alessandro Pesci. Sceno244
Filmografia
grafia: Paolo Bizzarri. Musica: Franco Piersanti. Montaggio: Esmeralda Calabria. Suono: Alessandro Zanon. Effetti: Tiberio Angeloni, Franco Galiano, M.A.G. Special Effects. Interpreti: Michel Piccoli, Nanni Moretti, Roberto Nobile, Jerzy Stuhr, Renato Scarpa, Margherita Buy. Produzione: Sacher Film, Fandango, Le Pacte, France 3 Cinéma, in collaborazione con Rai Cinema. Distribuzione: 01 Distribution. Durata: 104’. Anno: 2011. Mia madre Regia: Nanni Moretti. Soggetto: Gaia Manzini, Nanni Moretti, Valia Santella, Chiara Valerio. Sceneggiatura: Nanni Moretti, Francesco Piccolo, Valia Santella. Fotografia: Arnaldo Catinari. Scenografia: Paola Bizzarri. Costumi: Valentina Taviani. Montaggio: Clelio Benevento. Suono: Alessandro Zanon. Interpreti: Margherita Buy, John Turturro, Giulia Lazzarini, Nanni Moretti, Beatrice Mancini, Stefano Abbati, Enrico Ianniello, Tony Laudadio, Renato Scarpa. Produzione: Sacher Film, Fandango, Le Pacte, Rai Cinema, Arte France Cinéma. Distribuzione: 01 Distribution. Durata: 106’. Anno: 2015.
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Indice dei nomi e dei film
Indice dei nomi e dei film
Agamben, Giorgio, 217n Anna (A. Lattuada, 1952), 136 Antonioni, Michelangelo, 127, 129, 235n Bachtin, Michail Michailovič, 122n, 144, 152, 175n, 199n, 205 e n Barthes, Roland, 67 Battiato, Franco, 62 Bazin, André, 116n, 121 Beals, Jennifer, 92, 128 Berlusconi, Silvio, 12, 82, 84, 110, 148, 206, 209-211 Bernanos, Georges, 51 Bernardi, Sandro, 149n Bertolucci, Bernardo, 127 Besson, Luc, 23n Bossi, Umberto, 82 Bouquet, Stéphane, 22n, 181 en Bresson, Robert, 51 Buy, Margherita, 223 Caldiron, Orio, 109n, 135n, 143n, 190n Canadè, Alessandro, 128n Canova, Gianni, 135n Caos calmo (A. Grimaldi, 2008), 99, 126
Čechov, Anton Pavlovič, 219 Cielo sopra Berlino, Il (Der Himmel über Berlin, W. Wenders, 1987), 232 Ciprì, Daniele, 132 Cohen, Leonard, 127 D’Alema, Massimo, 63, 82 Daney, Serge, 23n De Bernardinis, Flavio, 151n, 177n De Capitani, Elio, 206 De Gaetano, Roberto, 41n De Laude, Silvia, 224n Deleuze, Gilles, 93, 118, 227n Della Casa, Stefano, 135n Divorzio all’italiana (P. Germi, 1961), 143, 158 Dominijanni, Ida, 214n Dottor Zivago, Il (Doctor Zhivago, D. Lean, 1965), 16, 63, 68, 136 Due soldi di speranza (R. Castellani, 1951), 143 Dürrenmatt, Friedrich, 122n, 124, 141 e n, 149n, 205 e n, 210 Ejzenštejn, Sergej M., 87 Esposito, Roberto, 215n
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Indice dei nomi e dei film
Fede, Emilio, 82 Fellini, Federico, 66, 93n, 95n, 132n, 133n, 139n, 143, 209, 235 Ferreri, Marco, 130, 143 Flaubert, Gustave, 223 Flashdance (Id., A. Lyne, 1983), 16, 92, 128 Foucault, Michel, 214n, 215n Freud, Sigmund, 180 Frye, Northrop, 19n, 34, 35n, 181n Goethe, Johann Wolfgang von, 197 Grand bleu, Le (Id., L. Besson, 1988), 23n Grande guerra, La (M. Monicelli, 1959), 121 Grande, Maurizio, 100n, 109n, 143n, 190n Guattari, Félix, 227n Hegel, Georg Wilhelm Friedrich, 136n Henry, pioggia di sangue (Henry: Portrait of a Serial Killer, J. McNaughton, 1986), 60, 127 Kubrick, Stanley, 233n Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (E. Petri, 1970), 209 Jarret, Keith, 127 Joyce, James, 198
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Kierkeegaard, Søren, 220n Ladri di biciclette (V. De Sica, 1948), 116 e n, 117 Lattuada, Alberto, 136 Lukács, György, 30n Mambo (R. Rossen, 1954), 93, 115 Mangano, Silvana, 93, 115 Maresco, Franco, 132 Martin, Dean, 155 Matarazzo, Raffaello, 135 e n Miccichè, Lino, 100n Monicelli, Mario, 114n Montaldo, Giuliano, 139n Moretti, Franco, 195n Mostri, I (D. Risi, 1963), 143 N’Dour, Youssou, 127 Orlando, Silvio, 11, 34, 39, 62, 207-208 8 ½ (F. Fellini, 1963), 93n, 209, 230, 235 Parise, Goffredo, 233n Pasolini, Pier Paolo, 66, 94, 126, 127n, 128-129, 198, 224 e n Petri, Elio, 95n, 130, 139n, 143, 209, 211 Placido, Michele, 206 Portaborse, Il (D. Luchetti, 1991), 99, 126 Ricoeur, Paul, 44n Rilke, Rainer Maria, 196n Risi, Dino, 143
Indice dei nomi e dei film
Rossellini, Roberto, 95, 131, 235n Seconda volta, La (M. Calopresti, 1995), 42n, 99, 126 Sesti, Mario, 88n Simmel, Georg, 67 Siti, Walter, 224n Sordi, Alberto, 101, 103, 114n Spinazzola, Vittorio, 135n Tentazioni del dottor Antonio, Le (episodio di Boccaccio ’70, V. De Sica, F. Fellini, M. Monicelli, L. Visconti, 1962), 235n Todo modo (E. Petri, 1976),
211 Totò [Antonio De Curtis], 101 Trinca, Jasmine, 57, 207 Tutti a casa (L. Comencini, 1960), 121 Turturro, John, 223, 227, 235 e n Verdone, Carlo, 15, 105 Villa, Federica, 72n Villaggio, Paolo, 105 Voce della luna, La (F. Fellini, 1990), 66 Walser, Robert, 196n Zoff, Dino, 155
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Indice dei nomi e dei film
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Frontiere. Oltre il cinema
AA. VV., Benjamin il cinema e i media
J. Rancière, Il destino delle immagini
R. De Gaetano, Tra-Due. L’immaginazione cinematografica dell’evento d’amore A. Canadè, a cura di, Corpus Pasolini
A. Badiou, Del Capello e del Fango. Riflessioni sul cinema, a cura di D. Dottorini
A. Cervini, A. Scarlato, L. Venzi, Splendore e miseria del cinema. Sulle Histoire(s) di Jean-Luc Godard A. Cappabianca, Trame del fantastico. Riflessi e sogni nel cinema
R. De Gaetano, a cura di, Politica delle immagini. Su Jacques Rancière A. Canadè, A. Cervini, a cura di, Clint Eastwood
A. Cappabianca, Carmelo Bene. Il cinema oltre se stesso
F. Villa, a cura di, Vite impersonali. Autoritrattistica e medialità J. Rancière, Scarti. Il cinema tra politica e letteratura A. CERVINI, L. VENZI, a cura di, Jean-Pierre e Luc Dardenne
S. TEDESCO, Forma e forza. Cinema, soggettività, antropologia
R. DE GAETANO, B. ROBERTI, a cura di, L’Arte di Eduardo. Le forme e i linguaggi
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A. BAdiou, Rapsodia per il teatro. Arte, politica, evento, a cura di F. Ceraolo
R. De Gaetano, Nanni Moretti. Lo smarrimento del presente (Seconda edizione aggiornata)
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Fata Morgana
Quadrimestrale di cinema e visioni N. 0 Bíos N. 1 Mondo N. 2 Archivio N. 3 Trasparenza N. 4 Esperienza N. 5 Limite N. 6 Natura N. 7 Desiderio N. 8 Visuale N. 9 Disaccordo N. 10 Sacro N. 11 Territorio N. 12 Emozione
N. 13 Potenza N. 14 Animalità N. 15 Autoritratto N. 16 Origine N. 17 Rito N. 18 Comune N. 19 Credito N. 20 Cinema N. 21 Reale N. 22 Maschera N. 23 Azione N. 24 Dispositivo
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Stampato in Italia nel mese di maggio 2015
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