Nicolas Philibert. Il cinema dell'empatia 887894081X, 9788878940819


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Nicolas Philibert. Il cinema dell'empatia
 887894081X, 9788878940819

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Diego Scarponi

Nicolas Philibert Il cinema dell’empatia

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© Diego Scarponi, 2008 © Yoni srl, 2008 via Carpaccio, 5 20133 Milano tel. 02 26681738 fax 02 59611112 [email protected] www.edizioniselene.it

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Indice Introduzione

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Limiti e confini Nicolas Philibert vu par Nicolas Philibert

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Lo stile e la scrittura nel cinema di Nicolas Philibert

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Seconda parte

Per un percorso tra le pellicole Christophe

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La Ville Louvre

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Le Pays des Sourds

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Un animal, des animaux

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La Moindres des choes

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Etre et avoir

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Retour en Normandie

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Filmografia

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Bibliografia

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Introduzione

Bisogna sempre lasciare una porta aperta sul set… Perché è attraverso quella che l’inatteso arriverà Jean Renoir

Nicolas Philibert è un autore assolutamente originale nel panorama del cinema europeo e di quello mondiale. La sua produzione filmica, anche se inserita nel campo istituzionale del cinema documentario, ha mostrato una serie di testi di radicale particolarità e rilevanza dal punto di vista delle scelte di campo operate dall’autore, nonché dal metodo e dall’approccio alla materia da filmare. Nel cinema di Philibert, infatti, non è mai così chiaro il limite fra finzione e realtà, perché gli elementi narrativi restano sempre sospesi in un limbo, in una dimensione che lascia spazio e libertà allo spettatore, perché, all’origine, la creazione è frutto della libertà del cineasta. Il testo che qui si presenta è una prima, parziale monografia sull’autore francese, che si somma alla interessante pubblicazione – della quale il seguente testo è ripetutamente debitore – di Carlo Chatrian e Luciano Barisone1 realizzata in occasione della retrospettiva su Nicolas Philibert all’Infinity Festival di Alba nell’anno 2003. Questo testo prende in considerazione una selezione particolare della produzione di Nicolas Philibert, perché attraverso determinati titoli meglio si comprende – a parere di chi scrive – la potenza sottile del cinema di Philibert, la schiettezza dello sguardo e il piacere dell’inaspettato, del non preparato in precedenza. I film scelti per questo percorso, quindi, rispecchiano in vario modo L. Barisone, C. Chatrian (a cura di), Nicolas Philibert – I film, il cinema, Cantalupa (TO), Effatà Editrice, 2003

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un approccio di Philibert alla scrittura cinematografica che sarebbe impossibile non accostarli: prevalente osservazione dell’azione che si sceglie di avere davanti alla macchina da presa, interventi del regista in campo ridotti al minimo, tempi di permanenza sul set molto lunghi, attenzione al lato relazionale, scelta dell’ambiente narrativo nel quale si svolge l’azione sempre ben definito, tanto che la location risulta predominante in alcuni film; anzi, in due casi (La Ville Louvre, Un Animal des Animaux) il lieu delle riprese diventa il soggetto del film, ed è perciò in qualche modo protagonista della pellicola. All’insieme dei film che saranno trattati (La Ville Louvre, Le Pays des Sourdes, Un Animal des Animaux, La Moindre des Choses, Etre et Avoir), vero e proprio corpus dell’opera matura di Philibert, uniti – come si vedrà – da numerose ripetizioni e similitudini per approccio e metodologia espressiva, ho però scelto di inserire altri due titoli, che a mio modo di vedere circoscrivono questa serie e aiutano a localizzare meglio questa porzione di pellicole all’interno della produzione totale di Philibert e della sua stessa biografia. I titoli in questione sono: Christophe e Retour en Normandie. Il primo è classificabile – pur che le dovute singolarità – come un film su commissione, realizzato nell’ambito del cinema di montagna. Il secondo titolo è un complesso documentario autobiografico, ultimo titolo finora della sua filmografia, che parla – tra le altre cose – dell’inizio della carriera cinematografica di Nicolas Philibert. Questi due titoli, come si vedrà, sono tutt’altro che accessori nella nostra ricognizione, anche perché pure questi sono film che rispecchiano numerose forme testuali del cineasta francese, come per esempio lo spazio lasciato all’improvvisazione in Retour en Normandie, o l’assenza di una riconoscibile guida narrativa nella voce off, in Christophe. Come vedremo più in dettaglio in seguito, il cinema di Philibert incontra la propria forma e la propria specificità nelle scelte di regia totalmente capaci di adeguare la forma del film al contenuto dei soggetti ripresi, dimostrando una capacità di calarsi senza strappi in un determinato contesto e generando una vera e propria scrittura con le immagini.

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I film di Philibert – almeno quelli che sono trattati in questo testo – affrontano generalmente una situazione nel corso del tempo, attendendo lo svilupparsi – naturale verrebbe da dire – delle cose, senza forzare mai, almeno apparentemente, lo scaturire degli eventi. Questa capacità di attendere, di porsi davanti ai soggetti filmati con infinito rispetto e dolcezza fa sì che forma linguistica scelta e contenuto trattato trovino un miracoloso punto di incontro nelle epifanie del reale che si succedono senza soluzione di continuità in film come Essere e Avere e La Ville Louvre. Il cinema di Philibert è un susseguirsi appunto di momenti eccezionali nella loro semplicità, di incontri che dal ristretto campo particolare dove vengono raccolte, grazie anche alla combinazione delle stesse situazioni registrate (e quindi alla capacità del montaggio di concatenarle), diventano aspetti umani e universali. L’aspetto concretamente più entusiasmante dei film di Philibert non è tanto e non solo il risultato finale delle sue opere, la grazia implicita e la sensibilità stupefacente dell’occhio del regista, capace di coinvolgerci in accadimenti apparentemente marginali a essere così affascinante; la peculiarità che maggiormente genera attrazione è piuttosto – conoscendo e studiando la genesi dei suoi film – questa idea semplice ma al tempo stesso rivoluzionaria di scrivere il proprio testo filmico attraverso le immagini, direttamente, senza lasciare alle parole, a un progetto scritto, la possibilità di una mediazione tra l’idea e la sua realizzazione pratica. Philibert rivendica apertamente – almeno a partire da La Ville Louvre – questo metodo che solo ad una analisi affrettata appare superficiale: la preparazione precedente al girato è minima, ci si cala nella realtà da riprendere con un bagaglio, delle intenzioni rispetto al materiale a disposizione, assolutamente ridotte, attendendo, con attenzione ed empatia unici, che siano gli incontri stessi a dettare i tempi, i modi e le soluzioni narrative che saranno poi l’architettura dei suoi film. Una pratica che deve molto all’esperienza di Frederick Wiseman, Johan Van der Keuken e Robert Kramer, ma che come logico, richiede una riflessione anche rispetto all’esperienza del cinema diretto, non

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tanto per i tratti comuni, ma soprattutto per le caratteristiche che separano l’esperienza di Philibert dal filone storico del diretto come utopia della verità, a partire dai presupposti teorici fino a raggiungere gli obiettivi di queste due ben differenti idee di cinema. La struttura della pubblicazione è così organizzata in due parti: nella prima, due capitoli; uno contiene una sorta di monologo biografico di Nicolas Philibert, nel quale si iniziano a chiarire anche alcuni punti nodali del suo cinema; il secondo affronta la vera e propria ipotesi di questa pubblicazione: il cinema di Philibert (quello sviluppato a partire da un progetto personale), contiene alcune ricorrenze, determinate caratteristiche che, nonostante lo schernirsi del cineasta, possono in qualche modo suggerire un metodo, un approccio al reale che determinano uno stile, una particolare scrittura ed espressione che appunto, sono elementi cardine di quello che si definisce un Autore. La seconda parte, invece, contiene il percorso attraverso i film, ogni capitolo un titolo, partendo, come annunciato, da Christophe, e arrivando a Retour en Normandie. Chiude la pubblicazione un’appendice con la filmografia completa di Nicolas Philibert, realizzata dallo stesso cineasta e che in questa sede ci siamo limitati a tradurre, e una bibliografia dei testi utilizzati per la presente pubblicazione. Desidero ringraziare Carlo Chatrian, Luciano Barisone per avermi permesso di “saccheggiare” il loro prezioso lavoro; Fabrizio Grosoli, presidente del Bellaria Film Festival Anteprimadoc, per aver concesso il permesso di utilizzare il materiale registrato in occasione del workshop di Nicolas Philibert nel giugno 2008. Nicolas Philibert stesso, per la disponibilità e per la concessione del materiale iconografico e dei testi contenuti sul suo sito. settembre 2008

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Prima parte

Limiti e confini

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Nicolas Philibert vu par Nicolas Philibert per una specie di introduzione autobiografica

La famiglia «Sono nato a Nancy nel 1951. Qualche mese dopo la mia nascita, mio padre, che era insegnante di filosofia, fu nominato al Liceo di Grenoble ed io ho vissuto lì fino all’età di vent’anni. All’inizio degli anni Cinquanta, Grenoble era una piccola città di provincia addormentata, un deserto culturale. Sin da quando vi si sono trasferiti, i miei genitori si sono impegnati nella vita associativa della città. Nel mio ricordo, erano occupati due sere su tre da attività di tutti i tipi. Mia madre militava in diversi gruppi – genitori degli alunni, gruppi di donne – di cui uno darà vita al planning familiare. Suonava meravigliosamente il piano e faceva parte della corale in cui si esibiva spesso come solista. Avrebbe voluto fare del canto il suo mestiere, ma i suoi genitori l’avevano scoraggiata: all’epoca, per una donna, non era serio. Dopo aver studiato inglese e teologia e aver conseguito un diploma di infermiera, fece carriera nell’amministrazione universitaria, come responsabile dell’accoglienza di studenti stranieri. Mio padre faceva parte di quella generazione di uomini per i quali la “decentralizzazione teatrale” è stata, negli anni del dopoguerra, una lotta importante. Da studente, si era esibito sul palcoscenico. Successivamente, ogni tanto avrebbe organizzato dei recital sin cui leggeva testi di Michaux, Apollinaire, Hugo, Lorca, Desnos, Bossuet, dei capitoli interi dei Saggi di Montaigne oppure l’integrale dei Discorsi sul Metodo di Cartesio. Presso i suoi colleghi insegnanti, era considerato un originale. Appassionato di cinema, avrebbe poi preso in gestione il cineclub della città e, in un secondo tempo, diventato professore universitario, avrebbe tenuto, da precursore, un “corso pubblico d’arte cinematografica”, in cui analizzava i film di Bergman, Dreyer, Rossellini, Antonioni e molti altri. Inoltre si batté anche, insieme ad alte persone, per la creazione della Casa della cultura…».2 2

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[…] «Ero un bambino un po’ inquieto, complessato, non troppo sicuro di me stesso. Ero sempre il più piccolo della classe, ed era molto difficile per me pensare al futuro. La sera, facevo molta fatica ad addormentarmi. Non mi piaceva andare a scuola. Alle elementari, i miei genitori mi hanno fatto cambiare istituto tutti gli anni. In famiglia, andava meglio. Eravamo quattro bambini, e mi trovavo bene nell’ambiente piuttosto gioioso ed esuberante che regnava in casa. A tavola, i giochi di parole e le prese in giro non si contavano».3 […] «All’età di otto o nove anni, sognavo di diventare un corridore ciclista. Nel momento più intenso della guerra di Algeria, volevo essere un diplomatico, pensando che fosse un modo per contribuire alla pace. In seguito, ho pensato, in maniera molto vaga, di diventare archeologo e anche alpinista».4

Gli studi […] «Nel 1970, mi sono iscritto all’Università, alla facoltà di filosofia. Ma questa voglia di cinema non mi lasciava: sognavo di assistere alla realizzazione di un film, per cui ho saputo che René Allio, il regista di La Vielle Dame Indigene (La vecchia signora indigena, ndr), preparava un nuovo film dalle parti di Cévennes, Les Camisards (I camisardi, ndr), la cui realizzazione avrebbe avuto luogo durante l’estate. All’inizio di luglio, sono partito in autostop con un amico per arrivare a Florac, dove era di stanza la troupe. Ci siamo presentati all’ufficio della produzione per tentare di farci assumere come stagisti. La produzione non navigava nell’oro. Ci hanno spiegato che per questo tipo di incarichi assumevano soltanto delle persone del luogo, per evitare di pagare i costi di trasferimento e soggiorno. Senza battere ciglio, abbiamo fatto credere loro che eravamo del posto e, come per miracolo, ha funzionato! Mi hanno destinato al gruppo che si occupava della scenografia. […] Dopo le riprese, sono tornato ai miei studi. Nel 1972 mi 3 4

Ibidem. Ibidem.

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sono laureato e poi mi sono trasferito a Parigi. Allio preparava un nuovo film, Rude journée pour la Reine (Giornata faticosa per la regina, ndr) per il quale sono stato assunto come aiuto scenografo. In questo periodo, ho scoperto Parigi e i cinema del Quartiere Latino. Avevo mantenuto delle relazioni con molti attori del film Les Camisards e grazie a loro andavo molto a teatro, soprattutto per vedere e rivedere gli spettacoli della Compagnia Vincent-Jourdheuil, che riuniva molti di loro. Allo stesso tempo, mi sentivo molto provinciale».5

Per un’idea di cinema «I miei film si basano su degli incontri, e questi incontri non si può mai sapere come andranno, e quindi di conseguenza non c’è ricetta, non c’è metodo, ogni volta bisogna adattare i propri pensieri, il proprio obiettivo in funzione della gente che si incontra e in funzione di un nuovo film, ogni volta è una avventura singolare, differente».6 «Le immagini sono molto standardizzate in televisione, dappertutto, bisogna prendersi il rischio di dire “gioco”, si essere soggettivi, di essere singolari, di essere personali, senza prendersi troppo sul serio […] secondo me tra i documentaristi che mi hanno profondamente segnato c’è questo regista americano, Fred Wiseman, che mi ha molto influenzato ai miei esordi, e tuttora, come quando ho incominciato, così come Johan Van der Keuken, e Robert Kramer sono persone il cui lavoro mi ha sempre appassionato molto […] non so mai cosa cerco: ogni volta bisogna fare un film per capire perché lo si è voluto fare, e ogni tanto quando il film è finito, c’è un’altra domanda che arriva, che si presenta, e alla fine non sai veramente perché l’hai fatto, ecco».7 «In un film non bisogna dire tutto. Molti film hanno questo problema, dicono troppo. Il documentario soffre per non avere rotto queIbidem. Intervista del cineasta a Bellaria nel giugno 2008 (d’ora in poi, intervista BFF) 7 Intervista BFF 5 6

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sto legame con il giornalismo, se un film risponde anticipatamente a tutte le domande dello spettatore, allora lo spettatore non ha più spazio, non ha più margine, per pensare da solo, se lo si riempie di informazioni ciò che gli permette di pensare sono le ellissi, i fuoricampo, è la dialettica tra ciò che viene mostrato e non, fra ciò che viene detto e ciò che non viene detto, tra ciò che viene illuminato e ciò che rimane al buio. È questo che ci lascia il margine per far andare avanti la nostra fantasia, il nostro immaginario all’interno del film. […] Preferisco donare allo spettatore del materiale perché possa riflettere da solo, piuttosto che mettermi a pensare al posto dello spettatore, oppure piuttosto che dire allo spettatore in modo imperativo cosa deve pensare. Ho appena detto che non amo prepararmi molto e ora lo spiego: penso che quando si fa un documentario a partire da tutta una serie di conoscenze, si corre il rischio di fare un film che non sta dalla parte del cinema, perché ritengo che il cinema, così come lo intendo io, non fa veramente parte dell’universo dell’informazione, è qualcosa di diverso, perché sono immagini, suoni […] perché se consideriamo un film solo dai dialoghi (e dai sottotitoli) e dalle immagini, non funziona. Il cinema è una questione di sensazioni, di ritmo; anche se si apprendono delle cose durante il film, se noi lo consideriamo una tesi, abbiamo già perso, non è più cinema. Ritengo che il documentario sia ancora troppo in questo modo, soprattutto quelli che passano in televisione. Infatti ci sono coloro i quali si ostinano a pensare che il documentario non sia cinema, proprio per il fatto che ci sono persone vere, fatti reali, e quindi che non si tratti di cinema. Personalmente penso che ci siano mille aspetti e modalità, io non sono a favore di un filmare utile, non mi piace quando le cose sono troppo organizzate, se tutto è già stato scritto prima, allora la cosa non mi interessa più. La cosa che mi piace è quando ci si trova in una certa fragilità, nella quale non si sa dove si va.» […]8

8 Seminario tenuto da N. Philibert al Bellaria Film Fest – Anteprimadoc nel giugno 2008 (d’ora in poi Workshop BFF)

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«Nel momento in cui inizio il film, non conosco l’argomento. Quando si deve far fronte a un finanziatore, a un produttore, bisogna parlare del soggetto, confrontarsi. La TV obbliga continuamente a parlare e confrontarsi con il soggetto: bisogna descrivere l’argomento, se si tratta di un film su… un film su… su qualcosa. Io faccio film con. In realtà non conosco il soggetto del film La Moindre des Choses. Tratta di persone con problemi psichici che progettano insieme uno spettacolo teatrale; ma non è un film sul teatro. Non è un film sulla sofferenza psichica… è un pò sia sull’uno sia sull’altro. È anche qualche cosa d’altro. È un film nel quale mi confronto con i miei pregiudizi sul mondo della follia, in cui racconto le mie paure. Dunque penso che sia qualcosa di complicato. Sfortunatamente il documentario è troppo spesso vittima della questione del soggetto… Ponendo la questione in altro modo: come si fa a capire a partire da quale momento si può identificare che un documentario diventa cinema? È una questione di formato? Di supporto? Che venga trasmesso al cinema o davanti al piccolo schermo? Certo che no. […] Non è legato a questioni tecniche il poter dire se un documentario è cinema. È piuttosto legato al soggetto; ma non è vero che ci sono soggetti degni di film per il cinema e altri che non sono degni, ma più probabilmente un documentario diventa cinema se il film in questione è più grande del soggetto. Forse c’è una dimensione metaforica e poetica che fa sì che a partire da questa storia particolare e singolare ci sia qualcosa di più grande, che parla a ciascuno di noi, che ci osserva, che ci guarda».9 «Non so che cosa ne pensate voi, ma nel momento in cui si parla di un documentario, non si fa altro che ridurlo al suo semplice argomento. Ciò porta a frasi del tipo: “È un film sui papuani, sugli anfratti di un museo, sull’universo psichiatrico…”. Insomma, si dice sempre “un film su” e, così facendo, inconsapevolmente, si fa come se non ci fosse storia, si esclude di colpo ogni dimensione narrativa. Probabilmente ciò è legato al fatto che i documentari, perché in maggioranza destinati alla televisione, spesso cercano d’illustrare con 9

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le immagini un argomento stabilito in anticipo: volontà didattica e dimostrativa, che condanna allo stesso tempo la loro importanza cinematografica. A un giornalista che gli domandava, a proposito di Amsterdam Global Village: “In conclusione, su che cos’è il suo film?” Van der Keuken rispose: “È un film su Amsterdam… e sul resto del mondo”. Farei volentieri mia questa frase. Per ognuno dei miei film sono alla ricerca di una storia, di una metafora che mi permetterà di trascendere la realtà immediata. Si tratta di far nascere l’immaginario dai luoghi che impiego, dai personaggi, dalle situazioni che filmo. Insomma, non cerco tanto di realizzare film su, ma film con, ed è probabilmente una delle ragioni per le quali non sono così lontani dalla finzione. In altre parole, non cerco di istruire lo spettatore dall’alto di un sapere preesistente, da una posizione di esperto. Al contrario: prima di realizzare un film, meno ne so sulla questione, meglio è! Quest’atteggiamento ha un vantaggio: lascia campo libero alla mia soggettività, all’incontro e, insomma, al cinema. In fondo, cerco di fare in modo che possano sbocciare ed emergere delle cose, emergere all’interno di un quadro, di una data situazione. Tale quadro non è soltanto uno spazio. È tutto ciò che si mette in opera affinchè queste cose avvengano: un’atmosfera, un modo di relazionarsi con le persone riprese, un disponibilità, un desiderio, un’etica, anche una sorta di gioco… Lo psichiatra Jean Oury ha formulato una bella espressione: “Programmare il caso”. Per me, un film è un po’ questo. È poter accogliere l’imprevisto in un quadro determinato».10

A proposito dei suoi film «[L’etica, ndr] è una preoccupazione permanente. E questo si vede nei miei film. Nella classe di Essere e Avere la questione si pone continuamente. C’erano bambini molto spontanei, avevano tre o quattro anni, N. Philibert, Progettare il caso, in J. Breschand, Il documentario. L’altra faccia del cinema, Torino, Lindau, 2005

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ma ce n’erano anche di più grandi che si rendevano conto. E proprio in questi momenti non volevano essere ripresi. Quindi la parte più importante del mio lavoro è comprendere questi momenti… E aggiungo il fatto che in quei momenti nessuno dei bambini avrebbe detto “no non mi riprendere” e quindi deve essere proprio il cineasta a capire questi momenti, ad anticiparli in funzione delle reazioni. Quando mi sono trovato in La Borde [set del film La Moindre des Choses, ndr] la questione è permanente, costante. Ci sono delle persone che non parlano e degli altri che sono dei grandi psicotici, dei grandi malati, si esprimono in altri modi rispetto alla parola. Quindi non si può chiedere loro”volete essere ripresi oggi o domani?”… E quindi questa problematica è presente nel mio lavoro ancora prima del montaggio, ma già durante le riprese. Quando sono arrivato alla clinica ho iniziato a spiegare cosa volevo fare, che avrei realizzato delle riprese. Ho anche spiegato loro che chiunque di loro avrebbe potuto accettare o rifiutare la macchina da presa, avrebbero potuto rifiutare di essere ripresi, sia il personale medico sia i pazienti; non bisogna pensare comunque che ci fossero due categorie separate, non è andata così. Nella maggior parte dei casi le persone della clinica, la gente, voleva vedere cosa sarebbe successo. Su duecento persone che vivono e lavorano nella clinica solo tre hanno detto di non voler essere ripresi, e poi qualcuno che un giorno ha deciso di essere ripreso il giorno dopo aveva cambiato idea, come è normale e legittimo…».11 «[Nella troupe, ndr] siamo in quattro. Cerco di preparare il meno possibile. Per esempio per quanto riguarda Essere e Avere abbiamo girato sin dal primo giorno. Le prime due ore abbiamo mostrato ai bambini il materiale, era importante soddisfare la loro curiosità rispetto al materiale; qualcuno di loro è venuto a curiosare con la macchina da presa, si è messo le cuffie… Poi nel giro di due ore abbiamo iniziato tutti a lavorare. Credo che sarebbe stato insopportabile restare lì fermo due settimane senza fare altro che stare a guardare… Il fatto di essere lì a lavorare ha generato qualche forma di contatto, e non è sicuro che se fossi 11

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rimasto a osservarli tutto il tempo – come insetti – avrebbe giovato, avrebbe cambiato le cose. Visto che parlavamo di dati: abbiamo girato circa trentacinque minuti al giorno, con una sola camera, senza illuminazione artificiale. Quindi non si tratta di una macchina da presa che girasse dal mattino alla sera, non era telesorveglianza, sono contrario… La mia camera non è lì per sorvegliare, bensì per vegliare…».12 «Le riprese si svolgono sempre in un tempo piuttosto lungo e, mano a mano che vado avanti, inizio a sapere meglio quello che voglio, ad avere le idee più chiare. Di solito le ultime riprese sono più redditizie delle prime, perché vado definendo e capendo se un personaggio ha qualcosa in più da raccontare rispetto ad un altro, tanto che quando arrivo in sala di montaggio quanto ho girato non ha tutto lo stesso valore. È ogni volta una storia molto singolare, quindi: è a partire da ciò che ho raccolto che inizio a lavorare. Per alcuni film ho montato più velocemente, altri hanno richiesto più tempo. In Retour en Normandie ho scritto per la voce off e ho costruito sequenze proprio per la voce off. Bisogna ogni volta inventare una cosa diversa. Per non essere troppo astratti, non ho teorizzato la mia entrata nel film, si è praticamente imposta a me. All’inizio ero molto intimidito all’idea di mostrarmi, ma poi ho deciso che avevo voglia di farlo, seppur in modo abbastanza discreto. Volevo anche dimostrare a me stesso che avevo trent’anni di più, e penso che questa mia presenza non sia stata molto invadente, c’era molto materiale, c’erano numerosi personaggi… per quanto riguarda la voce off: avevo voglia di alcune voci differenti, di diversi testi di natura autobiografica. Allio con il suo diario, Pierre Riviere con il suo ed io con la mia narrazione».13 «Per filmare questa collezione [di Un Animal, des Animaux, ndr] dovevo prima di tutto familiarizzare con essi, come sono stati - e sono tuttora – conservati: un intero sistema di scatole, cartoni, barattoli, eti12 13

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chette, cassetti, ripiani, pile, armadi, vetrine, file, compartimenti… tante divisioni quanti i riferimenti ai concetti di regno, classe, ordine, genere, famiglia, specie e sottospecie che ordinano l’inventario secondo una gerarchia costantemente aggiornata, dal momento che gli esperti ritengono questa gigantesca impresa di classificazione, di cui Linneo ha gettato le basi moderne già duecentocinquanta anni fa, è lungi dall’essere completa. Ogni anno si contano circa settemila specie o sottospecie nuove nel mondo, in particolare tra gli insetti. […] Così ho iniziato a filmare questi strani corpi silenziosi, immobili, inerti, questi animali defunti, diventati oggetti, bloccati per sempre in posture progettate per dare un’apparenza di vita».14 «[In La Ville Louvre, ndr] non abbiamo mai utilizzato illuminazione artificiale, per conservare il massimo di duttilità, è per questo che i nostri personaggi hanno mantenuto tutta la loro spontaneità davanti alla camera. La maggior parte delle scene sono state girate dal vivo, ma vi sono anche delle sequenze, delle situazioni che ho organizzato, messe in scena per le esigenze del film, come la scena in cui i vigili del fuoco soccorrono una persona ferita, o questo lungo viaggio nei sotterranei di un’archeologa per portare un minuscolo vaso di ceramica. Per fare in modo che la scena avesse un impatto comico, era necessario che la grandezza dell’oggetto trasportato fosse inversamente proporzionale alla lunghezza del tragitto. Le ho anche chiesto di portare ai piedi scarpe con i tacchi, in modo che il suono dei suoi passi materializzasse il suolo dei diversi spazi che attraversava: lastre di marmo, pavimenti di parquet, tappeti, cemento grezzo e, infine, nei sotterranei, terra battuta».15 «[Le Pays des Sourds, ndr] ha una storia complicata! Nel 1983, sono stato contattato da un gruppo di psichiatri a partecipare allo sviluppo di un film pedagogico sulla lingua dei segni. Siccome non sapevo nulla del mondo dei sordi, mi sono iscritto a un corso di lingua dei segni, 14 N. Philibert, A propos de Un Animal, des Animaux, pubblicato sul sito del regista (http://www.nicolasphilibert.fr) 15 L. Barisone, C. Chatrian (a cura di), op. cit.

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tenuto da un giovane insegnante, egli stesso sordo totale. È stato un vero shock! Fino ad allora avevo visto i sordi come persone con disabilità, punto e basta. E poi mi sono trovato di fronte a un uomo di una ricchezza di espressione del tutto eccezionale, un attore nato, in grado con i soli movimenti delle sue mani e le espressioni del suo viso di comunicare tutte le sfumature del pensiero. Per motivi che ho un po’ dimenticato, il progetto di questi psichiatri rimane tale, ma da parte mia ho iniziato a incontrare sempre più sordi e ad appassionarmi sempre di più al loro modo di comunicare. Scoprendo la bellezza della lingua dei segni, la portata incredibile delle sue possibilità, scoprendo anche l’importanza visiva nei sordi, l’acutezza del loro sguardo, la straordinaria memoria visiva di cui sono capaci, ho cominciato a dirmi che un film sui sordi si sarebbe trovato “a lavorare” sulla medesima materia del cinema, dal momento che è un linguaggio in cui ogni parola, ogni idea si traduce in immagini tracciate nello spazio... Poi ho scritto uno scenario di fiction, ma dopo varie vicissitudini, non sono riuscito a trovare finanziamenti e sono passato, alla fine, ad altre cose. Ma, nel 1991, l’idea è tornata in superficie, non più sotto la forma di fiction ma di documentario, o diciamo, di un film che racconti delle vere storie, con dei veri personaggi».16 «È probabile che tutto quello che facciamo ci cambi. [Con Retour en Normandie, ndr] volevo realizzare un film differente dai precedenti, almeno dal punto di vista formale. Probabilmente mi ha cambiato, mi ha portato a pensare altre cose. Forse ci ho preso gusto a lavorare in modo più complesso, questa modalità di intessere più storie una nell’altra è stato per me fonte di grande piacere, soprattutto al montaggio ma anche durante le riprese, seguendo i vari tipi di piste. Devo dire però che a volte la complessità può ritorcersi contro gli incassi, il pubblico. La distributrice del film è stata molto chiara con me, dicendomi che non sapeva come vendere questo film, perché ci vogliono almeno sei o sette frasi per descriverlo, perché lo spettatore deve subito identificare ciò che va a vedere. 16

Ibidem.

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Quindi è un film complesso dal suo inizio, perché quando si comincia a dire che un cineasta è ritornato a vedere il film di un altro cineasta lo spettatore dice: “ah, non ho visto il film precedente non capirò nulla”. Se poi si cita il fatto di cronaca, Michel Foucault si inizia a dire: “ma allora è filosofia”… Ho approfittato del successo di Etre et Avoir per fare questo film, mentre i distributori speravano di avere un seguito. Ad esempio la società BIM ha apprezzato il film ma non lo ha distribuito».17

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Lo stile e la scrittura nel cinema di Nicolas Philibert

Programmare il caso Philibert ha fatto sua l’espressione “programmare il caso”18. Lungi dall’essere un piano programmatico che sottenda ad un metodo strutturato, una ricetta da ripetere in ogni situazione e film, una strategia di trattamento di un soggetto che possa divenire strumento seriale equivalente in per ogni pellicola di Philibert, questa espressione riesce ad essere la definizione migliore – posto che sia utile avvalersi di definizioni – per descrivere la complessità del cinema del cineasta francese. La questione dell’improvvisazione, associata alla capacità performativa di chi concretizza l’azione in immagini su pellicola, non è sicuramente nuova, ma applicata al cinema documentario, soprattutto a quello messo in atto da Philibert riveste una forma di rinnovamento che richiama alle esperienze di radicalità estrema non solo in campo cinematografico (si pensi alle varie esperienze del diretto o alla nouvelle vague per quanto riguarda la fiction), ma arriva ad abbracciare numerosi campi dell’arte e della socialità in genere. Quest’idea del lavoro e questo approccio alla materia da trattare richiamano in qualche modo gran parte dell’esperienza delle avanguardie del XX secolo, che hanno fatto della demistificazione del ruolo dell’artista e delle infinite possibilità combinatorie del caso uno degli elementi più dirompenti del fare e del comunicare del secolo appena concluso. Al di là di esperienze datate e confinate nello spirito di un’epoca, circoscritte e definite nel tempo e nello spazio, il confronto con il caso e l’improvvisazione – come si vedrà – riveste ancora oggi, almeno in casi come in quello del cinema di Philibert, una pratica artistica di assoluta valenza e interesse.

N. Philibert, Progettare il caso, in J. Breschand, Il documentario. L’altra faccia del cinema, Torino, Lindau, 2005

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La riflessione situazionista, incentrata dapprima sulla possibilità di costruire eventi attraverso cui realizzare concretamente il superamento dell’arte nella vita, affronta poi in termini sempre più complessi la critica del quotidiano, […]. Ed ecco che i situazionisti e in genere le controculture rimettono in gioco la sorpresa, che tanto piaceva a Guillaume Apollinaire, l’improvvisazione su cui si basava il teatro futurista sintetico, elementi che tra l’altro rivivono negli spettacoli del Living Theatre (ogni rappresentazione di Paradise Now è diversa). Il caso è pure la cifra essenziale della ricerca musicale di John Cage, che fa dell’eliminazione dell’io un vero sistema, utilizzando liberamente suoni concreti e fattori accidentali. “Tutto ciò che esiste nell’universo è frutto del caso e della necessità”, diceva Democrito, un principio a cui il premio Nobel per la fisiologia, Jacques Monod, si è ispirato per il titolo di un suo studio, in cui dimostra l’incidenza del caso nella biologia. Il caso ha avuto un grande peso non solo nell’attività scientifica, dall’invenzione della radio alla scoperta della penicillina, della fotografia e dei raggi X, ma anche nel campo letterario, basti pensare all’uso dell’assoluta spontaneità in poesia realizzato con le “parole in libertà” futuriste, ai collage verbali dadaisti, alla scrittura automatica surrealista, tecniche riprese poi da Burroghs e Brion Gysin nel montaggio casuale, o cut-up. In arte, il principio di indeterminazione è applicato dagli artisti cibernetici a tra gli altri da Jean Tinguely, che teorizza “l’uso funzionale del caso”. Caso e necessità sono elementi che condizionano pure la grafica underground.19

Anche se il richiamo ai situazionisti non è diretto, andrebbe però verificato in profondità il rapporto di Philibert con le avanguardie storiche. Sicuro è invece che Philibert sia stato influenzato in gioventù dalle pratiche militanti di Foucault e che oggi guardi con simpatia a determinate forme di critica al presente. Qui di seguito sono chiarite da Philibert in modo piuttosto preciso.

P. Echaurren, C. Salaris, Controcultura in Italia. 1967-1977, Torino, Bollati Boringhieri, 1999

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Ho preso parte alle occupazioni nel mio liceo – qualche notte, non di più – ma ho sempre mantenuto una certa distanza rispetto alla militanza dura e pura di coloro che ti spiegano il mondo attraverso una griglia di lettura globalizzante. Mi ribellavo a un sacco di cose; e lo faccio ancora. Ma non ho mai potuto riconoscermi in un partito, mentre molta gente intorno a me si impegnava nei movimenti di estrema sinistra. Quando ero studente, il solo gruppo in cui mi sono impegnato concretamente era la cellula del GIP (Gruppo di Informazione sulle Prigioni) di Grenoble, un movimento creato da Foucault, Claude Mauriac e altri per attirare l’attenzione sulle condizioni di vita nelle carceri. Oggi, è la stessa cosa: mi sento più vicino ai movimenti associativi, protestatari, che ad un determinato partito.20

C’è in qualche modo una sorta di radice ideologica, di profondo convincimento in Philibert che lo allontana dalla costruzione, dal progetto, dal prendere troppo sul serio il compito del cineasta (o forse proprio per questo), che richiama la logica delle avanguardie appunto, dello spirito dadaista dello sberleffo e delle combinazioni casuali. Questa modalità di scrittura artistica, per altro, diviene il grimaldello per affrontare nel modo più corretto, libero e onesto un racconto sulla realtà, nel quale il regista non si pone al di sopra degli oggetti filmati, ma a fianco di essi, costruendo insieme a loro la sintassi del film, i suoi momenti e punti nodali senza alcuna precedente preparazione, ma dal vivo, lasciando fluire le cose, in alcuni casi inseguendole, in altri provocandole, ma sempre ricordando di aggiungere passo dopo passo il materiale del proprio amalgama per comporre l’insieme dei propri testi, ogni volta l’unico film possibile. L’idea di girare una sceneggiatura dettagliata, in cui tutto è scritto in anticipo – la storia, i personaggi, i dialoghi – non mi attira. Ho preso gusto a una certa forma di improvvisazione, di libertà. Mi piace costruire un film facendolo, giorno dopo giorno, senza conoscerne il seguito, o la fine. È anche più fragile, ma è il procedimento che si adatta di più a me. Questa fragilità mi stimola, mi spinge ad andare al di là dei miei limiti. In realtà, 20

L. Barisone, C. Chatrian (a cura di), op. cit.

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non metto in discussione la fiction in quanto tale, ma la pesantezza che presuppone. Non mi vedo in mezzo ad una troupe di trenta persone, con un piano di lavoro.21

Ecco che le parole di Philibert appaiono se non esemplari, quanto meno paradigmatiche nello spiegare la capacità del proprio cinema di divenire opera nel mentre stesso che viene impressionata la pellicola, nel medesimo momento che la macchina da presa [d’ora in poi, mdp] si approssima ai propri soggetti; gli esempi, infatti, abbondano in tale quantità e qualità da divenire la vera e propria cifra stilistica del Philibert autore, del Philibert cineasta. Per addentrarci in esempi che più chiaramente illustrano questa capacità, si guardi a La Ville Louvre: il film, nato da una serie di concatenazioni e volontà più o meno casuali, è caratterizzato da una “comicità e impertinenza” che conquistano l’occhio, forse proprio perché rappresentano un approccio radicalmente differente da quello che ci si potrebbe aspettare al cospetto del complesso museale più famoso e imponente al mondo. Al tempo stesso, e qui sta una delle radici culturali della pellicola, è un canto d’amore e riconoscenza appassionato al valore del museo nato contemporaneamente alla Rivoluzione Francese che, al di là dal rappresentare il ladrocinio napoleonico delle opere di tutto il mondo, è un insieme unico di opere concentrate e disponibili alla visione, oltre che un’opera titanica di memoria e conservazione. Se Alain Resnais, nel 1956, in Toute la Mémoire du Monde attraversa la Biblioteca Nazionale di Parigi esplorando sì i rituali della classificazione e della conservazione – come in parte fa Philibert con il Louvre e la Galleria Zoologica – d’altra parte, però, inscrive questa istituzione oltre i confini umani, consegnandola nella zona d’ombra dell’oblio e della dimenticanza, diventando questa mole di materiali, sovraumana appunto, impossibile da controllare, fruire, godere. In Philibert, al contrario, il museo è un’esperienza sensuale, dove il compiacersi di tanta bellezza si confonde con l’ipnosi della vita vissuta, dove la magia della visione non si trasforma in spettacolo, ma in esercizio sensoriale completo: quanto di più umano si possa immaginare. 21

Ibidem.

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Un Animal, des Animaux, in altro modo, può essere visto attraverso il contrasto che ci procura il raffronto con Historia Naturae (1967) di Jan ˇ Svankmajer, o La Jetée (1962) di Chris Marker. Historia Naturae22 è un film di animazione che fa del gioco della classificazione il controcampo necessario alla visione antropocentrica che tutto contiene e fagocita, letteralmente, proponendo via via le varie classi e famiglie animali all’interno di uno schema sempre riconducibile al controllo umano, alla distopia della gestione e manutenzione dell’esistente da parte di una intelligenza superiore, di una razza eletˇ ta. La visione proposta da Svankmajer è, come per Philibert, colma d’ironia, cosciente dall’impossibilità di controllare l’universo. In netto contrasto però, bisogna evidenziare il ruolo dei veri e propri curatori, che per Philibert gestiscono sì l’insieme dei corpi, ma ne restano quasi soggiogati, per la loro quantità e varietà, per la complessità dell’approccio che un compito del genere necessita. In La Jetée23 troviamo un parallelo a questa modalità: vista da un futuro in cui la vita (umana e animale) risulta impossibile, l’avventura spazio-temporale all’interno della Galleria Zoologica (proprio quella di Parigi, pochi anni prima che venisse chiusa al pubblico) diventa possibilità esclusiva e privilegiata per assaporare l’intera cosmogonia della vita, liberata dall’esposizione meramente spettacolare, per farsi vera e propria memoria della terra, delle specie viventi. È la stessa soggezione che troviamo negli specialisti in tassidermia, insieme alla confidenza necessaria in un professionista, che ci permette di vivere con complessità questa visita: di nuovo, a muovere il cinema di Philibert sono gli incontri, i rapporti tra i soggetti (animati e C’è un cortometraggio realizzato da Philibert durante le riprese di Un Animal, des ˇ Animaux che richiama ancor più da vicino il lavoro di Jan Svankmajer, ed è Portraits de famille, anch’esso realizzato con la stessa materia prima di Historia Naturae, ossia esseri viventi, e con una simile strategia di accostamento e giustapposizione. Anche il trattamento del suono in qualche modo mette in profonda relazione i due film. Per Philibert, di nuovo, uomo, mondo vegetale e mondo animale fanno parte di una unica, sinergica, grande famiglia. Non c’è contrasto, insomma, ma contiguità. 23 Si noti come La Métamorphose d’un bâtiment sia un cortometraggio dello stesso Philibert nel quale si ritrovino immagini d’epoca molto simili per qualità della fotografia alle immagini della Galleria Zoologica contenute in La Jetée 22

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non), e proprio queste relazioni riescono a rendere pulsante il ritmo delle sue opere.

La “svolta del cinema diretto” e la prassi linguistica di un “precedente illustre” come il cinema di Frederick Wiseman La pratica del diretto è un aspetto che si collega inevitabilmente all’opera di Philibert, per questa – sostanziale e connaturata – caratteristica del cinema realizzato al volo di titoli come La Ville Louvre e La Moindre des Choses. Leggere i film di Philibert come esempi di diretto, però, rischia di essere esercizio rischioso e fine a se stesso. Molto più produttivo e conveniente, appare piuttosto, ragionare su come la pratica del diretto si affianchi e stimoli la produzione del cineasta francese, attraverso le proprie introversioni e inevitabili (anche se implicite) riflessioni sul medium che questa prassi porta a fare. Il punto di partenza per un ragionamento epistemologico di questa portata non può che fare riferimento all’articolo “Le retour par le direct” di Jean-Luis Comolli pubblicato nel 1969 sui Cahiers du Cinema. […] La menzogna fondamentale del cinema diretto è in effetti che si pretende di trascrivere effettivamente la verità della vita, che si dà al diretto come testimonianza e il cinema come registrazione meccanica dei fatti e delle cose. Mentre sicuramente, il fatto stesso di filmare costituisce già un intervento produttore che altera e trasforma la materia registrata. Fin dall’intervento della macchina da presa comincia una manipolazione; e ogni operazione – anche limitata alla sua ragione più tecnica: mettere in moto la macchina da presa, fermarla, cambiare l’angolazione o l’obiettivo, poi scegliere i giornalieri, poi montarli – costituisce, volente o nolente, una manipolazione del documento. Si ha un bel voler rispettare questo documento, non si può evitare di fabbricarlo. Esso non preesiste al reportage, ma ne è il prodotto.24 J.L. Comolli, La svolta del cinema diretto, in A. Barbera, R. Turigliatto (a cura di) Leggere il cinema, Milano, Mondadori, 1978

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Comolli allude, chiaramente, alla impossibile trasparenza della macchina da presa; l’occhio del regista prima (durante le riprese), e la sua mano, poi (nel corso del montaggio) sono elementi che trasformano la realtà bruta in elementi discorsivi, che mutano radicalmente la natura degli elementi in gioco, i quali – divenuti immagini – sottostanno a regole differenti da quelle del fluire del reale, perché sono diventati elementi (i fotogrammi) parcellizzati e scomposti di quella realtà, che sono ricomposti e ricombinati per rinascere come discorsi. Attenzione però a non confondere il cinema di Philibert con una ricostruzione fine a se stessa della realtà: il nostro autore non cerca altro che la possibilità di fornire una propria visione, la propria soggettività applicata a un determinato contesto o situazione; il cinema di Philibert appartiene a quell’esigua parte di discorsi filmici che cercano di persuadere lo spettatore che la proiezione, il testo altro non è che una libera – e particolare – interpretazione di una data realtà attraverso la lettura del cineasta. L’aspetto casuale, di reportage saremmo portati a dire, del suo cinema, è in altre parole un aspetto formale, estetico del suo fare film, il frame necessario per questa modalità di espressione. Intendiamoci: se la messa in scena nel cinema di Philibert è al grado zero, almeno nella maggior parte dei suoi film, questo significa soprattutto che diventa tale a posteriori, senza progettualità o intenzionalità dell’autore rispetto ad una presunta superiorità o a un maggiore grado di valore che questo assume rispetto al resto delle parti sintagmatiche del proprio fare cinema. Ciò significa che l’approccio con la realtà non mediato da intenzionalità fictionalizzanti della stessa non pretende di diventare dogma, valore aggiunto del proprio cinema, ma ne fa parte allo stesso modo e con la medesima dignità di altre situazioni ricostruite o dove l’intervento del cineasta si fa evidente e tangibile (o per meglio dire, audibile). Nel cinema di Philibert, infatti, troviamo scene in cui si assiste a una realtà nel suo farsi e nel suo compiersi. Troviamo però altrettanti momenti dove esiste mise en scene (si pensi ad alcuni momenti essenziali di La Ville Louvre) e ad altri dove si crea un dialogo tra il cineasta e i soggetti dei suoi film (come nelle interviste di o nei dialoghi spontanei tra Philibert e gli ospiti di La Borde). In alcuni casi si arriva per-

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fino agli sguardi in macchina (Michel in La Moindre des Choses) e all’intromissione tra gli strumenti tecnici (di Florent, uno dei bambini protagonisti di Le Pays des Sourds). Il cinema di Philibert, in altre parole, è una vera e propria espressione di soggettività che, liberata da vincoli e scuole, scrive i propri testi filmici scegliendo volta a volta quale tipo di intervento sia preferibile e migliore, relativamente a quelli a disposizione: silenzio o parola, lontananza o prossimità ai soggetti filmati, costruzione o improvvisazione. L’obiettivo è tutt’altro che la materializzazione di un’ideologia, quanto l’approssimarsi il più possibile a una realtà da parte della macchina da presa, coscienti del proprio potere, anzi stimolati da essa; come se la definizione “non è né un documentario né una fiction, ma un film di cinema” di Un Animal, des Animaux25 valesse per l’intera cinematografia del cineasta francese e non per solo una porzione di esso. Ecco che il rapporto con il cinema di Wiseman assume in questa dimensione caratteristiche rinnovate e capaci di stimolare ulteriori riflessioni sul cinema di Philibert. Analizzare – seppur brevemente – la produzione di Philibert in contrasto (o in filigrana) rispetto a quella di Wiseman aiuta a meglio delineare lo stile del cineasta francese, che ha sempre riconosciuto nel maestro statunitense grande rilevanza, considerazione e ispirazione. Perché, almeno apparentemente, queste due modalità di scrittura cinematografica hanno numerosi e profondi legami: entrambe le produzioni (di Wiseman e di Philibert) hanno un comune senso della visione, un approccio assimilabile, almeno in parte le medesime strategie sul set, nel rapporto con chi viene ripreso, in alcuni casi persino gli argomenti trattati, i soggetti dei loro film in qualche modo coincidono; in conclusione numerosi per quantità e qualità sono gli interventi sulla materia filmata che coincidono o necessitano maggiore approfondimento e focalizzazione. Wiseman, come Philibert applica forme del diretto alla realtà presa in esame. Troupe ridotta all’osso, pochissima o nessuna preparazione antecedente al film, disponibilità a seguire l’imprevisto, anzi costruzione in fieri di tutto un approccio che favorisca e agevoli tale proposito di dis25

G. Lefort, Philibert ou comment peigner la girafe, Libération, 5 giugno 1996

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ponibilità a tale possibilità, nessuna voice over o commento fuori campo che illustri, introduca, spieghi al posto di – in vece delle immagini e dei suoni in diretta – ciò che si mostra sullo schermo. È lo stesso Philibert, d’altra parte, a citare l’autore americano come fautore di una prassi filmica alla quale il nostro ha sempre guardato con attenzione e rispetto, certo non soggezione, ma coscienza dei debiti formali e in qualche maniera di spostamento della frontiera, di azione pionieristica che Wiseman ha intrapreso da Titicut Follies (anno 1967) in poi. La definizione cinema a misura d’uomo vale sia per Wiseman sia per Philibert, insomma, anche se a ben guardare l’occhio di Wiseman tradisce una lucidità differente, un cinismo – forse sarebbe meglio dire una freddezza dello sguardo – che Philibert non ricerca, che spesso anzi, tenta di escludere dal cammino della propria osservazione, mettendo in evidenza aspetti umani più conviviali e leggeri, creando una sorta di magnetismo dello sguardo attraverso la gioia, l’empatia e il piacere piuttosto che non l’orrore, l’indifferenza o l’angoscia delle pellicole di Wiseman. Frederick Wiseman, infatti, nell’arco di tutta la sua produzione (più di trenta film nell’arco di quaranta anni) ha composto un mosaico inquietante della società americana, costruendo, di film in film – tessera dopo tessera – ritratti di varie e particolari istituzioni, mostrandone il funzionamento, le contraddizioni e, in alcuni casi, le aberrazioni e la perdita di umanità e senso rispetto alle vite umane che dovrebbero sostenere e sorreggere. I film di Wiseman, d’altra parte, sono certamente notevoli presi singolarmente, ma acquistano un sovrappiù di valore quando vengono considerati nel loro complesso, nella loro capacità di formare un orizzonte – quello dello Stato e della società americana, delle proprie ambizioni e involuzioni non percepite. Se fosse possibile, Wiseman insegue proprio l’inconscio delle istituzioni che riprende, ciò che inavvertitamente umanizza ma al tempo stesso rende disumano il procedere degli ingranaggi istituzionali, quell’incapacità di accompagnare l’umanità che troppe volte è caratteristica propria degli organismi istituzionali che si prefiggono – in astratto – l’esatto contrario. La presunta neutralità dell’istituzione spesso maschera una bestia-

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lità e un esercizio di dominio che Wiseman riprende senza pudore ma al tempo stesso senza evidente indignazione: seppur nella loro freddezza, i film di Wiseman non vanno considerati trattati di sociologia, perché il cineasta americano tende verso l’espressione piuttosto che all’analisi scientifica. Sempre, io inizio a filmare con lo spirito libero da ogni pensiero sulla struttura o su singoli temi, cerco piuttosto di tenere gli occhi aperti a tutte le cose che avvengono sulla scena o ai lati del soggetto scelto. E anche il criterio di rivisitare luoghi conosciuti non è certo stato preso alla lettera. […] Credo che il fatto di essere fonico e non dover guardare nell’oculare della camera mi offra una scelta maggiore nello sviluppo delle sequenze e negli avvenimenti da riprendere. […] Lo sforzo consiste nel trovare un atteggiamento il più delicato possibile: non voglio imporre il mio punto d vista o la mia ideologia, perchè so che se arrivo in un luogo con un’idea preconcetta è certo che perderò molte cose, o che le semplificherò in maniera pericolosa. […] Io filmo persone che mi concedono la loro fiducia e mi lasciano entrare nella loro vita. Devo cercare di essere giusto e onesto nei loro confronti e questo significa semplicemente mettere il massimo impegno nell’osservare l’avvenimento per poterlo catturare nel modo giusto. Il lavoro consiste nel portare a casa le migliori riprese possibili. Anche se in quel momento io non ho la minima idea se e in che modo impiegherò le riprese (in un film utilizzo il 3% del girato, e quindi c’è una possibilità su trentatré che l’avvenimento compaia nel film concluso), questo non vuol dire che la mia attenzione i miei doveri nei confronti di quelle persone diminuiscano. […] Se si eccettua La Comédie-Française, i miei lavori compongono un unico lungo film sull’America. Ogni soggetto è pensato come capitolo di un lavoro di ricerca sulle istituzioni americane. Trattare le istituzioni ha come conseguenza diretta il presentare differenti meccanismi di funzionamento della società.26 26 intervista di C. Chatrian in G. Brianzoli, C. Chatrian, L. Mosso (a cura di) Paesaggi umani. Il cinema di Frederick Wiseman - Catalogo Filmmaker, Milano, 2005

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Philibert, come si evince dal brano appena riportato, ha moltissimi punti di contatto con Wiseman e con il suo cinema. Una delle differenze più marcate si trova però – al di là della ricerca sul potere di parola e le sue articolazioni che anima il cinema di Wiseman – nel totale disinteresse di Philibert verso la creazione di quel corpus organico che nasce dalla somma dei soggetti, dall’accostamento dei film a cui Wiseman arriva, attraverso la molteplicità dei propri testi filmici. Essi sottendono infatti nella maggioranza dei casi a un identico e patènte rapporto dell’uomo con l’istituzione: in Wiseman ciò che affascina non è solo la singola pellicola, ma anche l’interazione tra di esse, e il percorso descrittivo che si crea nel corso di più di tre decenni, una vera e propria fotografia etnografica della società americana, una galleria di situazioni paragonabile solo alla – altrettanto pionieristica – ricerca di Edward S. Curtis sugli indiani d’America dei primi anni del 1900, attraverso il lavoro enciclopedico di The North American Indian.

Alcune ricorrenze nella sintassi: il vuoto in Ozu e Philibert Provando ad entrare nella struttura della scrittura di Philibert si nota come, soprattutto in alcuni titoli come La Moindre des Choses e Un Animal, des Animaux, il cineasta utilizzi determinate forme linguistiche, i piani fissi, spesso privi di esseri umani, come sorta di punteggiatura tra le sue sequenze. Si pensa in questa sede alle inquadrature delle fronde degli alberi e al campo totale del castello di La Borde in La Moindre des Choses e le inquadrature della galleria zoologica, soprattutto quelle in esterni, di Un Animal, des Animaux, che andrebbero interpretati in vario modo: intermezzi, code o pause nella narrazione. Ci pare interessante sviluppare meglio questo concetto, anche alla luce delle riletture critiche che Richie, Schrader e Deleuze fanno appunto di questi frammenti, composte principalmente da inquadrature fisse, immobili di panorami o composizioni di nature morte, che in Ozu, appartengono al senso del mu, il vuoto, inteso nell’accezione – positiva – della cultura Zen.

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[…] Lo Zen costituisce la quintessenza dell’arte tradizionale giapponese, quell’arte che Ozu ha cercato di trasporre nel cinema. […] Forse il principio fondamentale dell’arte Zen è il primo koan dello Zen, il mu, il concetto di negazione, svuotamento e privazione. Il vuoto, il silenzio e l’immobilità sono elementi positivi nell’arte Zen e rappresentano la presenza piuttosto che l’assenza di qualcosa. […] Mu è il termine utilizzato per riferirsi agli spazi tra i rami di una composizione floreale: il vuoto è una parte integrante della forma. Ma Yüan, pittore della dinastia Sung e creatore dello “stile one-corner”, dipingeva solo una piccola parte della tela, lasciando il resto bianco. Il vuoto costituiva comunque una parte dell’opera, e non solo lo sfondo del dipinto. Il semplice peschereccio posto in un angolo dà significato all’intero spazio della tela come i ciottoli di un giardino Zen danno significato alla parte sgombra e i versi di un haiku rivelano le frasi sottintese. Ozu dispone silenzi e vuoti, secondo l’insegnamento della tradizione Zen, usandoli nei suoi film come elementi attivi. I personaggi reagiscono ad essi come se avessero a che fare con suoni udibili e con oggetti tangibili. […] Tuttavia il mu è espresso soprattutto nelle “code”, ossia negli inframmezzi che ritmano i film di Ozu. I suoi film sono strutturati secondo un’alternanza di azione e vuoto, interni ed esterni, scene e code. I conflitti si esplicano sempre in interni, di solito attraverso lunghe e spassionate discussioni. L’ambientazione può cambiare (casa, ufficio, bar, ristorante), ma la storia raramente è fatta progredire da qualcosa che non siano queste conversazioni in interni (e le pochissime eccezioni si rivelano ogni volta decisive per l’intreccio). Queste discussioni in interni vengono controbilanciate dalle code, scene immobili di esterni di vita giapponese: strade e stradine vuote, il passaggio di un treno o di una barca, una montagna o un lago distanti. Richie ha descritto i film di Ozu come una combinazione di (1) riprese a campo lungo, (2) riprese a campo medio, (3) primi piani, in sequenze regolari di 1-2-3-2-1. Le scene immobili di coda sono inserite tra le riprese a campo lungo, così da legare la conversa-

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zione in interni con la staticità esterna. Ogni coda segna un nuovo “paragrafo” in Ozu, sempre per citare Richie. Non ci sono capitoli, solo paragrafi e code. Le code nei film di Ozu svolgono la stessa funzione del mu tra i ciottoli del famoso giardino Ryôan-ji: “Il vuoto è quello dell’abbandono. L’uomo è coinvolto, ma non è presente, e ciò che ne deriva è una sensazione di desiderio e solitudine”. Secondo una prospettiva artistica occidentale si potrebbe sostenere che le code vengono logicamente inserite per dare peso ai paragrafi, ma per Ozu, così come per lo Zen, avviene esattamente l’opposto: il parlato dà significato al silenzio, l’azione alle scene di paesaggio. Ozu è permeato dal mu, che è anche l’unico carattere inciso sulla sua tomba a Engaku-ji.27

Deleuze critica a Schrader di non aver bene suddiviso questi vari sintagmi, costruendo grazie ad essi un unico insieme, e quindi conseguentemente travisando la vera e propria funzione sintattica degli stessi dentro alla struttura dei suoi film. Ciò che contesta Deleuze a Schrader è il fatto di non aver ben marcato la differenza tra vuoti e pieni in queste inquadrature fisse: mentre certe inquadrature si rifanno allo “stile one-corner”, quindi ci comunicano il senso del mu, del vuoto, altre sono a loro complementari, perché le nature morte non possono essere intese nient’altro che come composizioni, e quindi, di fatto, rappresentazioni del pieno, dell’organizzato, del composto. Quanto agli spazi vuoti, senza personaggi e senza movimento, sono interni svuotati dei loro occupanti, esterni deserti o paesaggi della Natura. In Ozu acquistano un’autonomia che immediatamente non possiedono, neppure nel neorealismo che mantiene loro un valore apparente relativo (in rapporto a un racconto) o risultante (una volta spenta l’azione). Essi raggiungono l’assoluto, come contemplazioni pure, e assicurano immediatamente l’identità fra mentale e fisico, reale e immaginario, soggetto e oggetto, mondo e io. Corrispondono in parte a quanto Paul Schrader chiama “stasi”, Noël Burch “pillow-shots”, 27 P. Schrader, Il trascendente nel cinema. Ozu, Bresson, Dreyer, Roma, Donzelli Editore, 2002

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Donald Richie “nature morte”. Il problema consiste nel sapere se non sia tuttavia necessario stabilire una distinzione all’interno di questa stessa categoria. Tra uno spazio o paesaggio vuoti e una natura morta, volendo essere precisi, vi sono sicuramente molte somiglianze, funzioni comuni e paesaggi insensibili. Ma non sono la stessa cosa, una natura morta non si confonde con un paesaggio. Uno spazio vuoto ha valore innanzitutto per l’assenza di un contenuto possibile, mentre la natura morta si definisce per la presenza e la composizione di oggetti che si avvolgono in se stessi o diventano il proprio contenente: così il campo lungo del vaso quasi alla fine di Tarda Primavera. […] La distinzione non è soltanto quella fra vuoto e pieno che, in quanto duplice aspetto della contemplazione, è alla base di tutte le sfumature o di tutti i rapporti nel pensiero cinese e giapponese. Se gli spazi vuoti, interni o esterni, costituiscono situazioni puramente ottiche (e sonore), le nature morte ne sono il rovescio, il correlato. […] Il vaso di Tarda Primavera si inserisce fra il sorriso a fior di labbra della figlia e le sue lacrime nascenti. Vi è divenire, cambiamento, passaggio. Ma la forma di ciò che cambia, non cambia, non passa. È il tempo, il tempo in persona, “un frammento di tempo allo stato puro”: un’immagine-tempo diretta, che dà a ciò che cambia la forma immutabile nella quale si produce il cambiamento. […] La natura morta è il tempo, perché tutto ciò che cambia è nel tempo, ma il tempo stesso non cambia, non potrebbe cambiare che in un altro tempo, all’infinito. Nel momento in cui l’immagine cinematografica si confronta nel modo più ravvicinato con la fotografia, se ne distingue anche nel modo più radicale. Le nature morte di Ozu durano, hanno una durata, i dieci secondi del vaso: questa durata del vaso è precisamente la rappresentazione di ciò che permane, attraverso la successione di stati mutevoli.28

Quale che sia effettivamente la reale funzione di queste inquadrature in Ozu non è questa la sede per imbastire una discussione critica. Resta il fatto, importante, che anche Philibert, in alcuni suoi film, con 28

G. Deleuze, Cinema 2. L’immagine tempo, Milano, 1989, Ubulibri

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sicuramente minor costanza di Ozu, ricorre a simili funzioni grammaticali applicate alle immagini, e ciò risulta molto importante in questo contesto. Perchè la sintassi dei film di Philibert, a livello di composizione del quadro è di difficile sistematizzazione, perché realizzata nel campo del cinema del reale e della vita colta sul fatto; risulta infatti impossibile pre-organizzare un decoupage delle varie scene attraverso un piano dei quadri prestabiliti, e quindi confacenti a un’idea di cinema che si esplica nelle varie unità paradigmatiche. Certo si può scegliere se restare lontani dal soggetto filmato o cercare un prossimità, una vicinanza che determina di conseguenza una forma ben determinata. Questo succede, come logico, quando Philibert si trova in compagnia di altri esseri umani, quando i suoi film prevedono un contatto e una relazione. Resta il fatto, però, che determinate inquadrature, certe interruzioni dell’azione, siano scelte deliberate, giustapposte alle scene dove la narrazione del reale porta avanti le istanze che Philibert condivide con coloro che partecipano alla creazione del film, che ne sono in qualche modo, i co-autori, coloro i quali “realizzano con” il cineasta francese i suoi film. Queste inquadrature degli ambienti, in pratica, risultano il vero e proprio sguardo di Philibert, libero dall’impegno non scritto dell’attenzione verso i soggetti ripresi, e finiscono per essere uno spazio espressivo sotto la totale responsabilità del regista. Come leggere queste inquadrature? Applicando la lettura dello stile di Ozu a queste unità lessicali si potrebbe veder in essi sì una pausa, ma non nel senso di interruzione della diegesi del film, ma piuttosto come coda ai vari paragrafi, alle sequenze del film, durante le quali lo spettatore ricolloca i vari significati sottesi nelle scene precedenti con l’unità generale del film, a partire, ad esempio, della localizzazione geografica e meramente fisica nella quale si svolge la narrazione. Sempre strettamente collegate all’idea di Ozu della sintassi filmica queste inquadrature richiamano l’idea del passare del tempo, del fluire temporale inteso come vero e proprio protagonista di questi frammenti, capaci in qualche modo di regolare l’orologio e il metro temporale del flusso della pellicola, perché applicato a qualcosa di più gran-

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de, indipendente dall’azione umana, e quindi sottoposto ad altre regole, ad altre necessità. Attraverso questa chiave di lettura ecco che risulta chiarificatrice ai nostri fini anche l’interpretazione di Schrader applicata ai film di Philibert: le inquadrature lunghe, con il loro succedersi aperiodico, creano uno scarto nella visione, obbligano lo spettatore a rileggere in queste immagini ricorrenti i mutamenti che si verificano nel film, diventano il momento in cui più evidente si fa lo scontro tra natura e cultura, tra vita e linguaggio, tra ciò che è sottoposto al nostro potere di controllo e manipolazione e ciò che continuamente si sottrae, evita la necessità di un controcampo, di una azione conseguente. La Moindre des Choses è uno dei titoli dove questa scelta sintattica si trova con maggiore sistematicità e frequenza. Philibert la giustifica così, collegandola da vicino con il sentimento proprio del fluire temporale, la malinconia. Questo sentimento viene sicuramente dal tempo che passa, ma fors’anche dalla natura… Una delle prime cose che si notano in La Borde è la forte presenza degli alberi. Se i degenti sono sfuggiti alla società, non di meno hanno comunque un rapporto con il mondo, con la presenza, con lo spazio… Io volevo che il film traducesse questo spazio-tempo differente. Da qui questi lunghi piani sugli alberi agitati dal vento. Da qui allo stesso modo la scena del temporale. È bello, un temporale, ma questo smuove più in profondità. E il tuono che si allontana, è un istante di pura malinconia, come una cosa che non cessa di morire. È forse la stessa malinconia propria del teatro, con l’euforia legata alla preparazione di uno spettacolo, e il suo placarsi dopo la rappresentazione».29

L’istanza presupposta in queste inquadrature accompagna strettamente anche l’idea del tempo, che Bergson ha rilevato come fatto centrale dell’esistenza. È lo stesso filosofo francese che evidenzia lo scorrere, il fluire del mondo, come un fattore determinato molto più dalla percezione individuale e dal filtro della memoria che da scansioni temporali fisse, immutabili e valide universalmente; la metafora che uti29

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lizza per distinguere il tempo scientificamente misurato da quello realmente percepito risulta nel nostro contesto in qualche modo paradossale, perché contrappone la spirale del tempo – associata alla percezione individuale – per quel che concerne la visione scientifica del tempo, al celebre paragone con la pellicola cinematografica dove il tempo, appunto, scorre, ma come insieme di infinitesimali porzioni di tempo, scanditi e ridotti a innumerevoli istanti di immobilità. Philibert stesso – alludendo a Etre et Avoir – comunica il proprio interesse non marginale per queste code così strettamente legate all’immagine-tempo. Le stagioni, il tempo che passa… era per me essenziale. Sovente, dopo la classe, si partiva per i sentieri, si andava a filmare il paesaggio. Volevo filmare la natura dentro la sua bellezza e anche per quello che può avere di inquietante. D’altra parte, se il film ha qualcosa di una fiaba, è dovuto a queste inquadrature: a certi alberi un po’ fantomatici che si agitano al vento, al silenzio che pesa sui grandi spazi, a una certa solitudine, questi campi d’orzo dove si cerca Alizè…30

I film di Philibert possono, di conseguenza, essere anche intesi come sinfonie, opere musicali di ampio respiro. Sempre tenendo a mente la logica linguistica dei film di Ozu, appare necessario comprendere come, nei film di Philibert, non si renda mai necessario suddividerli nelle unità narrative classiche: la narrazione del cineasta francese è spesso orizzontale, il climax che si insegue non si rivela mai per quello ci si aspetta, c’è sempre la necessità di vedere oltre, di creare onde sinusoidali diegetiche che ribaltano l’idea tipica di narrazione occidentale, tesa vettorialmente verso una catarsi, una risoluzione della tensione. Nel lessico musicale brano, episodio e frase danno la cifra di un progetto composto da vari momenti, da una sorta di composizione che crea un tutto, una unità complessiva che necessita di ogni parte, ugualmente importante, per avere la propria struttura stabile e leggibile. 30

L. Barisone, C. Chatrian (a cura di), op. cit.

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I film di Philibert sono pieni di esempi che ci collegano alla logica musicale, a un progetto narrativo che risulta composto da varie tessere, dove il ritmo cambia attraverso un mutato registro della regia, dove in pratica l’occhio conduce e cambia tono, con leggerezza ma sensibilmente, per dare risalto ai vari aspetti che costituiscono le proprie opere. La presenza di questo scarto, di questa mutevolezza nell’approccio in ogni film (e all’interno di ciascun film nelle varie sequenze che li costituiscono), fa sì che lo stile del cineasta divenga spesso quello del compositore, perché in maniera formidabile la forma riesce ad adattarsi al contenuto, avvolgendo la materia filmata, con un linguaggio multiforme e una flessibilità nello sguardo che permettono al cinema di rivelarsi, alleggerendo la visione le proprie creazioni dal compito didattico – o peggio ancora didascalico – per cui gli elementi che caratterizzano le storie dei suoi film non risulterebbero altrettanto importanti, altrettanto visibili: ecco che si comprende meglio perché Philibert afferma che il cinema è tale solo quando un film supera i limiti imposti dal soggetto.

Il primo film di Philibert: le voci dei padroni La prima opera filmica di Philibert è La Voix de Son Maître, realizzato in co-regia con Gerard Mordillat nel 1978. Entrambi provengono dall’esperienza di assistenti alla regia con Rene Allio sul set di Moi, Pierre Rivière, ed entrambi si cimentano per la prima volta nella regia di un lungometraggio. La scelta cade sul documentario – non a caso verrebbe da dire, col senno di poi – per raccogliere le voci di una dozzina di manager di grandi imprese francesi (e non solo francesi, almeno in fase progettuale) per cercare di costruire un film politico, ben diverso dalla prassi del periodo, che utilizzava il linguaggio cinematico per realizzare pamphlet di carattere prettamente militante. La causa scatenante è eterodiretta, determinata – manco a dirlo – da un incontro avvenuto proprio sul set di quel film ambientato in

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Normandia che così grande importanza avrà nella carriera del cineasta francese. L’occasione è perciò fornita da una serie di testi – raccolti da un ricercatore, Jean-Bernard Caux – di una azienda tessile dell’Alta Normandia (dipartimento di Seine Maritime) riguardanti i discorsi dei vari padroni di questa impresa, dal 1848 al 1914: discorsi di commemorazione, consegne di medaglie, orazioni in occasione di pensionamenti e altro. Da questa idea nasce appunto il soggetto di un film che tratti del linguaggio padronale contemporaneo, facendo attenzione a non confondere i padroni di un tempo – quelli della tradizione ottocentesca – con gli attuali, che non si trovavano in quella posizione per eredità, in qualche modo per diritto divino, ma che sono dei professionisti, stipendiati dalle aziende, altamente professionalizzati, selezionati tra molti, preparati a tutta una serie di compiti, tra i quali i rapporti con i media e la gestione della comunicazione, in senso ampio e completo: la dizione, la mimica, la gestualità, lo sguardo, le pause dei discorsi etc. La scelta dei due registi non cade però nello schema discorsivo della opposizione ideologica a questi ruoli, a questi personaggi; si sceglie, invece, di lasciar parlare i soggetti, di permettere loro di scegliere per esempio la location delle riprese, di poter rivedere il girato e ripetere le interviste, di non intervenire nel filo dei discorsi, ma di far si che, all’opposto, dal fluire delle concatenazioni di ciascun manager (e della concatenazione fra i loro vari discorsi), si possa evidenziare un inconscio collettivo, una visione del mondo di una precisa classe sociale. È altresì fondamentale ricordare che la scelta dei manager ricade su figure incaricate di guidare grandissime aziende, per sottolineare ancora di più le implicazioni economiche che tali discorsi possono generare. Non volevamo demonizzare i padroni o rinchiuderli in una caricatura con lo scopo di dimostrare qualcosa. Volevamo fare un film politico, nel senso forte del termine: non dire agli spettatori quello che dovevano pensare, ma dare loro qualcosa a cui pensare… Del resto, il cinema militante mostra sempre le vittime, quelli lasciati da parte, mentre noi volevamo filmare chi incarnava il potere… […]

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Il nostro procedimento si fondava su una dimensione “critica”, nel senso che si trattava di sottomettere il loro discorso, la loro visione del mondo a un esame più attento. Volevamo far vedere e sentire come questi grandi padroni si rappresentavano il mondo, affinché ciascuno potesse prendere le misure al potere economico. In un’epoca in cui si diceva che “tutto è politico” volevamo mostrare l’importanza del potere economico.31

Il film quindi viene realizzato seguendo uno schema identico in tutte le interviste: piani fissi, valori di campo equivalenti, massima profondità di campo; l’immagine, in bianco e nero, viene poi stampata su pellicola a colori, il che conferisce all’insieme un effetto monocromo leggermente bluastro. L’uscita nei cinema è salutata da un discreto successo e una buona distribuzione – oltre che nelle sale d’essai – anche in circuiti alternativi come quelli di sindacati e associazioni. L’INA, l’ente che finanzia in gran parte il progetto, prevede un’uscita del film anche in televisione, in un formato leggermente diverso: invece dei cento minuti della versione per il grande schermo, tre puntate settimanali da un’ora ciascuna per l’emittente Antenne 2. Il film verrà però trasmesso solo nel 1991, da La Sept-ARTE in una nuova versione, di settantacinque minuti, e con un nuovo titolo: Patrons 78 / 91. Tredici anni di silenzio per un caso di censura molto particolare: assenso per l’uscita nei cinema, censura per il piccolo schermo. Un caso in qualche modo simile – sempre in Francia – era accaduto poco tempo prima per il film su Giscard d’Estaing di Raymond Depardon; anche in questo caso sono stati necessari anni prima che il diretto interessato desse l’assenso per proiettare la pellicola. Una volta terminato il montaggio della versione televisiva, abbiamo organizzato una proiezione per i “nostri” padroni, come avevamo fatto per La Voix de Son Maître qualche mese prima. Eravamo fiduciosi, dal momento che l’uscita del film non aveva causato problemi. Invece, uno di loro, François Dalle, presidente e direttore generale dell’Oréal, è uscito dalla sala furioso, accusandoci di aver manipolato le sue affermazioni. Ciò era 31

L. Barisone, C. Chatrian (a cura di), op. cit.

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ancora più strano, considerato il fatto che i suoi interventi, molto lunghi e montati senza tagli – come del resto quelli dei suoi colleghi – erano rigorosamente gli stessi della versione cinematografica. Poi è sparito; e, la mattina del giorno dopo, ci hanno comunicato che le trasmissioni, che dovevano andare in onda su Antenne 2 qualche giorno dopo, erano state cancellate dalla programmazione, senza la minima spiegazione. Successivamente, abbiamo saputo che François Dalle aveva coinvolto gli uffici di Raymond Barre, allora Primo Ministro, il quale aveva poi fatto pressione sul presidente del canale televisivo. […] Nel 1981, dopo l’arrivo della sinistra al potere, sperammo che Antenne 2 potesse rivedere la sua decisione, anche perché il nuovo direttore della programmazione ci assicurava di volerlo fare; ma non successe niente, nonostante le nostre numerose insistenze. Per chiudere il cerchio, abbiamo saputo che François Dalle e François Mitterand erano amici d’infanzia… Bisognerà attendere il 1991 perché La Sept-ARTE ci proponga di mettere in onda una versione più corta di La Voix de Son Maître, che non superasse un’ora e quindici minuti. Ci siamo dunque ritrovati, tutti e due, in una sala di montaggio e in una giornata, freddamente, abbiamo tagliato venticinque minuti di film. […] Inutile dirvi che in questa versione ridotta, abbiamo mantenuto tutti gli interventi di François Dalle.32

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L. Barisone, C. Chatrian (a cura di), op. cit.

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Seconda parte

Per un percorso tra le pellicole

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Christophe La semplicità dell’impossibile

Christophe Profit33 sta preparando lo zaino, mentre squilla il telefono: ma l’alpinista non risponde, e scatta la segreteria telefonica. Se i titoli di testa, gustosamente organizzati attraverso il succedersi di cartoline turistiche di Chamonix e degli aspetti naturali della zona del Monte Bianco (flora e fauna), non ce lo avessero annunciato, niente potrebbe farci capire che stiamo osservando Christophe Profit, virtuoso ineguagliabile di alpinismo free, senza corde, chiodi o qualsivoglia accessorio di sicurezza. Il protagonista infatti si muove sullo schermo con assoluta indifferenza, e nonchalance, uscendo di casa lascia le chiavi sotto a un sasso, poi si mescola alla folla dei vacanzieri, neanche fosse un Travis qualunque che si reca alla più quotidiana e ordinaria delle occupazioni. In realtà sta per compiere uno degli exploit più clamorosi nella storia dell’alpinismo moderno, una scalata libera, priva di ogni tecnica di sicurezza lungo una gigantesca parete di granito, di mille e cento metri di altezza: il lato ovest del Drus, nel cuore del massiccio del Monte Bianco. L’aspetto clamoroso è dettato dal fatto che Profit, età ventiChristophe è il primo di una serie di cinque film sulla montagna realizzati da Philibert; come per il primo, anche gli altri titoli (Y’a pas d’Malaise, Trilogie pour un Homme Seul, La Mesure de l’Exploit, Le Come-Back de Baquet) hanno sempre al centro la figura di Christophe Profit, declinata in vari contesti e aspetti della spettacolarizzazione dell’alpinismo estremo (e non). Mentre Y’a pas d’Malaise riflette sulla pressione mediatica durante le riprese di Christophe, Trilogie pour un Homme Seul rappresenta una delle grandi imprese di Profit, un record alpinistico – sorta di contraddizione in termini: era assolutamente una novità vedere il cronometro in montagna – mentre La Mesure de l’Exploit è un film su commissione. Le Come-Back de Baquet è invece il più personale tra i film di montagna di Philibert, che vede in cordata su l’Aiguille du Midi lo stesso Profit insieme a Maurice Baquet, violoncellista che trentadue anni prima aveva affrontato la medesima parete insieme all’alpinista Gaston Rebuffat. Si è scelto di trattare però Christophe perché, tra le altre cose, è la prima opera di questa serie e perché segna il ritorno dietro la mdp di Philibert sette anni dopo La Voix de son Maître.

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quattro anni, ha compiuto questa salita impossibile tre anni prima, in sole tre ore e dieci minuti. Ci si avvicina all’agghiacciante parete attraverso un placido viaggio sul trenino a cremagliera che, da Chamonix, porta alle pendici del Drus. Poi, dopo una breve (apparentemente) passeggiata ci troviamo proprio sotto al massiccio. Nascosti gli scarponi in un anfratto, indossate le scarpette da roccia, si inizia a salire. La musica che accompagna la salita, fino a questo punto, è allegra, leggera, non carica di ulteriore tensione quello che già sembra un percorso pericoloso. Si arriva in quota, Christophe trova il modo di fare una piccola pausa e, sorpresa, ascolta quei messaggi nella segreteria telefonica che prima non avevamo auto modo di sentire. Ci sono un paio di voci, una più scherzosa (“ricordati che il miglior amico dell’uomo è la corda!” dice la prima), l’altra più accorata, che rassicura Christophe sulle condizioni meteo, almeno per gran parte della giornata. E si riparte, attraverso un complesso travelling all’indietro (dall’elicottero), scopriamo con inquietudine quanta strada deve ancora fare Christophe per raggiungere la cima. Il commento sonoro è cambiato: gli archi di André Giroud generano maggiore suspense e attenzione alle operazioni di Profit, mentre lo vediamo apparire al termine di inquadrature che percorrono lateralmente il massiccio del Drus, fino a al ”diedro di novanta metri”. Questo è il momento di maggiore difficoltà per Profit, che si trova in crisi per la prima volta in questa scalata; fin’ora sembrava tutto sommato semplice, anche se angosciante nella sua verticalità. Semplice non lo è per nulla, e tutto il merito va alla perizia di uno scalatore che, seppur così giovane, sembra possedere tutti i segreti della tecnica della scalata, e una preparazione psicofisica unica. Assistiamo perciò ad un balletto, verticale e sospeso, inevitabilmente preciso e improvvisato che affascina e gela il sangue, inebria e contemporaneamente inorridisce fino in cima al massiccio. La tempesta, imprevista, si avvicina, occorre scendere rapidamente, in mezzo alla neve e alle rocce. Avvolto da musica jazz, illuminato dalle luci dei fari delle auto e dai fanali dei lampioni, Christophe torna a casa. Non è la baita dell’inizio del film, ma un condominio nel quale si sta svolgendo una festa:

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nessuno lo sente suonare il citofono, e quindi il protagonista è costretto a bissare – pur con le dovute differenze – lo sforzo della giornata, e raggiungere la casa del party passando per la finestra: una scalata molto meno clamorosa e solenne, che mette a fuoco l’ironia come vero e proprio baricentro della pellicola. Le riprese nella parete esigevano una organizzazione rigorosa, che non poteva soffrire della minima fluttuazione. I tempi e i costi dei viaggi in elicottero, la pericolosità degli spostamenti, la pesantezza (con le guide – una per ciascun tecnico – eravamo dodici), la complessità e la lentezza dei nostri posizionamenti, delle manovre delle corde, della manipolazione del materiale cinematografico, nel quale ogni piccolo elemento doveva essere assicurato con il rischio di precipitare nel vuoto al primo falso movimento, senza parlare dei rischi inerenti a tutte la scalate in alta montagna – caduta di pietre, arrivo improvviso di maltempo, sganciamento o incidente … – tutto ciò donava a questa impresa una dimensione epica.34

Il film è costituito da dieci sequenze: la prima, quella dei titoli di testa, dura un minuto esatto, ed è una successione di cartoline di montagna (Chamonix, flora e fauna di montagna) riprese direttamente sull’espositore, che resta comunque inavvertibile. Già a partire da questa sequenza si nota l’estro di Philibert, il senso estetico venato di sottile ironia che inizia a marcare la pellicola. Poi, con la sequenza iniziale, si comincia a descrivere il personaggio Christophe, con pochi ed essenziali tratti: la casa, la chiave sotto il sasso in primo piano, la passeggiata fino al trenino in mezzo alla folla sconosciuta ed estranea. Le due lunghe inquadrature, con Profit che entra ed esce dal quadro mentre intraprende l’ascensione al massiccio segnano l’inizio della seguente sequenza, che si conclude con il massaggio ai piedi e il particolare della sistemazione degli scarponi dall’interno di un anfratto della montagna. Buio. 34 N. Philibert, Dans la face ouest des Drus, pubblicato sul sito del regista (http://www.nicolasphilibert.fr)

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La quarta e la sesta sequenza descrivono i principale momenti della scalata free, con riprese zenitali (incredibile il plongée sulla parete verticale) che illustrano il rischio che corre Profit nella sua impresa, perché abbiamo la compresenza di tutti gli elementi necessari a rendere efficace la scena: il protagonista, la parete, l’abisso in fondo all’inquadratura; un esempio di montaggio impossibile che tanto avrebbe apprezzato Bazin. Tra le due sequenze verticali – nelle quali si alternano riprese laterali dalla parete a inquadrature in movimento dall’elicottero – la sequenza della pausa in quota, dove tutte le inquadrature sono regolate dalla vicinanza al soggetto, dalla prossimità a Profit. Qui Philibert si toglie pure lo sfizio di creare un lieve spaesamento inserendo sulla banda audio le registrazioni della segreterie telefonica di Profit. Queste voci si ripeteranno, distorte, nel momento di maggiore difficoltà del virtuoso alpinista, generando una suspense elevatissima. I primi giorni, superava i passaggi più ardui con una tale disinvoltura che era sconcertante. Di sicuro, vederlo solo, senza corda, perduto nell’immensità di quella parete alta come tre Tour Eiffel, dove il minimo errore si poteva tradurre in una caduta mortale, aveva di che impressionare… Tuttavia, se scalava così velocemente, significa che non doveva essere così complicato! Come potevano gli spettatori misurare la difficoltà di questa impresa?35

Ecco che però nel bel mezzo del diedro da novanta metri Profit incontra, per la prima volta, una seria difficoltà: non riesce a procedere, trova un’impasse alla sua apparentemente inarrestabile scalata, e dopo aver ingiuriato la montagna, al colmo dello sforzo, quando quasi sta per cadere, riceve una corda, e viene recuperato. Quest’avvenimento verrà poi inserito parzialmente nel montaggio finale, perché secondo Philibert una situazione di tale pericolosità e rischio poteva meglio descrivere la difficoltà alle quali si è sottoposti in a scalata del genere, per giunta senza alcun accessorio di sicurezza. Profit, almeno 35 N. Philibert, Dans la face ouest des Drus, pubblicato sul sito del regista (http://www.nicolasphilibert.fr)

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inizialmente, non era troppo favorevole ad esporre un momento di propria difficoltà. Più tardi, al montaggio, ho dovuto insistere molto perché questa sequenza figurasse dentro al film. Christophe non era d’accordo. Egli credeva che quella sequenza avrebbe incrinato la sua “immagine”. Egli ha finito tuttavia per acconsentire alla mia opinione: più di tutte le altre, questa scena avrebbe permesso allo spettatore di misurare l’ampiezza del suo exploit, e donare al suo autore, improvvisamente vulnerabile, un aspetto “umano”, che non avrebbe avuto senza di essa.36

Le ultime tre sequenze (a parte l’ultima con i titoli di coda, di durata speculare alla prima) mostrano Christophe terminare la propria ascensione, tra la neve fino al ginocchio e le rocce, fino alla vetta. Le inquadrature circolari sulla cima sono altamente spettacolari, una catarsi calma e trionfale rispetto alle angosciose e oppressive scene precedenti. Philibert però esige che il suo personaggio mostri anche un aspetto più quotidiano, e quindi ne segue le azioni anche durante la discesa a valle; il preludio a questa sequenza è dettato da varie inquadrature del cielo che si rannuvola, che toglie dal campo l’azzurro del cielo per lasciare posto ai presagi di tempesta. Tornati all’abitato, alla civiltà, mentre ascoltiamo un elegante pezzo jazz, scorgiamo Profit in un parallelo alla sequenza iniziale: in questo caso, però, è solo, illuminato dalle luci della città e delle automobili. Christophe Profit è un fuoriclasse della montagna, ma il film lo descrive con un understatement e una leggerezza che tolgono alla pellicola qualunque pomposità ed istinto celebrativo. Anche l’assenza di voce off accentua questa impressione di semplicità, di operazione filmica realizzata senza troppe pretese e senza grande preparazione, quasi l’impresa di Profit fosse parte della sua quotidianità, non più clamorosa di una gita fuori porta per un qualunque turista. In realtà, questa pellicola è una costruzione che ha previsto un grande lavoro di preparazione, numerose riunioni: in altre parole una orga36

Ibidem.

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nizzazione meticolosa, precisa in tutti i dettagli. Come si comprende dalle parole del cineasta francese anche le operazioni di ripresa di Profit si sono rivelate una performance non meno impegnativa e complessa di quella dell’alpinista transalpino. A causa della verticalità della parete, l’elicottero non poteva posarsi. Doveva restare in volo ma in posizione di stallo, per dare il tempo a ciascuno di noi di farsi calare, legato ad una corda, trenta metri più in basso, fino ad arrivare ad un punto di ancoraggio nella roccia, preparato in anticipo dalle guide. Per certi passaggi, l’elicottero doveva avvicinarsi talmente che le sue pale giravano ad un metro dalla roccia. […] Per portarci alla parete l’elicottero doveva fare quattro giri, partendo da Chamonix. Una volta portate le persone, doveva ancora tornare a valle per cercare il materiale, che veniva sospeso alla corda da cui poi scendeva fino a noi. A questo punto potevamo sistemare l’inquadratura. Ciascuno di noi era seduto nel vuoto, su un sostegno attaccato alla roccia con dei chiodi e degli anelli di corde, le gambe ben tese, perpendicolari alla parete. Una volta che tutto era pronto, chiamavamo Christophe con il walkie-talkie, lui prendeva l’elicottero a sua volta e ci raggiungeva. Questo significava sei giri in tutto. Con questo ritmo, certi giorni, non si riusciva a girare più di un’inquadratura. Da qui l’importanza di girarla con due macchine da presa.37

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L. Barisone, C. Chatrian (a cura di), op. cit.

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La Ville Louvre La magia dell’essere spettatori privilegiati

Buio. La musica di Philippe Hersant accompagna due luci fioche che illuminano gli scalini in marmo, e dopo la porta che segna l’entrata al museo, danno luce (e vita) alle sculture della sala delle Cariatidi e ad alcuni quadri, tra cui lo spregiudicato Gabrielle d’Estrées. Il gioco finisce: sono le pile dei custodi del museo, in effetti. Buio. Siamo all’esterno del complesso museale. Un’autogru sta issando un collo, carico di preziosi dipinti, ai primi piani del museo: la scena, scomposta in più di venti inquadrature, illustra i vari elementi di un’attività così impegnativa; i dettagli sono la base strutturale della sequenza, anche se protagonista ultima resta la luce, ovvero il sole sorgente, il principio, che ballando con il dipinto sospeso illumina un bassorilievo, e che, da ad ogni successione di immagini, regala una tonalità diversa, una luminosità in progressivo mutamento. Immediatamente ci caliamo nei sotterranei, in soggettiva con l’autista del carrello elettrico, nei labirintici corridoi sotto alle sale espositive. Incontriamo un pattinatore, il pony espress della posta interna. Restiamo là, al centralino, gli ombrelli asciugano, fuori tempo grigio, in flou rispetto a quel che accade qua, dentro al Louvre. Il disegno astratto che si compone sotto i nostri occhi non è altro che una fila di fori, predisposti da un operaio per qualche futura esposizione. Se qui si vede un solo operaio, subito dopo iniziamo a vederne parecchi, perché è necessario spostare dipinti enormi, settanta metri quadri di tele arrotolate lungo cilindri di legno, che è necessario movimentare con estrema cautela: infatti l’allocuzione “doucement” (dolcemente) è la più utilizzata in questi momenti. Inizia la pratica di srotolamento, una delle scene più spettacolari del film. Capita pure che, durante l’operazione di srotolatura dei giganteschi dipinti, alcuni pezzi delle tele saltino via. È un guaio, tocca tagliare via di netto la parte, la restauratrice un po’ si dispera. Altrove, sulle scale di servizio, assistiamo a quello che si direbbe un

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trasloco, vengono spostati molti scatoloni; sono le nuove divise delle guide, Yves Saint Laurent, tutte elegantemente in blu. E si scatenano le chiacchiere, le battute. Da qualche altra parte una addetta a non si sa bene cosa, cammina per le sale del museo. Il suo incedere è scandito dal suono dei tacchi delle sue scarpe, ci trascina in una dimensione quasi onirica, perché ella attraversa un’infinità di sale, corridoi, luoghi del museo. Parallelamente vediamo un altro tecnico scendere nei sotterranei con un montacarichi mimetizzato in qualche salone aperto al pubblico: una discesa lenta, che noi scorgiamo da dietro gli zoccoli di una scultura equestre, finché non sparisce dalla nostra vista. Siamo tornati alla donna di prima, siamo nei sotterranei e questa camminata sembra non dover finire mai: all’arrivo, sorpresa, ad essere trasportato era un minuscolo vasetto di coccio… Torniamo al montacarichi: ora siamo sull’ascensore, insieme al tecnico, e continuiamo a scendere fino al piano inferiore, un magazzino enorme dove una quantità di celebri opere d’arte giacciono, impolverate ma precisamente archiviate. L’esplorazione del museo continua, vediamo un incredibile schedario di opere d’arte, di dipinti sempre visibili, in quest’archivio semovente. Le persone entrano ed escono dalle porte, i dipendenti spesso vagano nei sotterranei con un capolavoro sotto il braccio. L’esercitazione con l’estintore pare un altro modo per avere cura di opere d’arte tanto fragili. In mezzo al traffico cittadino, fuori dal museo, una scultura cupa ci fissa con vacua umanità. E le occasioni di incontro si moltiplicano, dalle mani sulla stele egizia e le pulizie sul lucernario, alla fotografia dell’arazzo e le pulizie agli ultrasuoni sulle statue di marmo. Fatti e accadimenti si susseguono come in un gioco che il montaggio sviluppa spesso ironicamente e sempre attirando la curiosità dello spettatore. Nascondere le informazioni, coinvolgere lo sguardo e diventare l’occhio privilegiato dentro il Museo del Louvre: questo sembra essere l’obiettivo di Philbert. Il rapporto tra operai e architetti è concretizzato da una lastra di vetro, il suono non passa, mentre la pausa pranzo la passiamo sia in mensa, tra cucina e refettorio, all’aperto a giocare a bocce, a la petanque.

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Ciò che affascina più di ogni altra cosa sono le frequenti carrellate nei corridoi, mirando opere, finestre, pavimenti dai disegni ipnotici che si succedono incantando l’occhio: stiamo osservando una declinazione di ciò che si definisce bellezza, non v’è dubbio. Il curatore della mostra riunisce le guide, sembra una lezione di storia dell’arte, poi gli spari a salve per le prove fonometriche scuotono l’ambiente. Di nuovo, spazi del museo si mostrano in condizioni particolari, inusuali, irripetibili, come denota pure la soggettiva dalla barella, una ennesima “vittima” delle esercitazioni, che ci permette di planare sotto ai soffitti barocchi in legno delle sale del museo. Vedere i saloni della pinacoteca deserti, con come unica presenza una lucidatrice abbandonata a se stessa, fa uno strano effetto, e mentre il canto di una guida di classe ci mostra i ritratti di alcuni dipendenti, iniziamo a sentire le voci dei visitatori, e il film si chiude. Non mi ero prefissato di filmare le opere per loro stesse, al di fuori di un rapporto “di lavoro”che intrattengono con quelle persone che fanno vivere il museo: conservatori, installatori, marmisti, doratori di cornici, personale di pulizia, guardiani, ecc… Inoltre, ho voluto a tutti i costi evitare di filmare il pubblico. Un museo vuoto, c’è maniera migliore di donare allo spettatore la sensazione di essere un testimone privilegiato di tutto quello che vedrà, come se noi avessimo aperto le porte del museo per lui solo! È stato dunque necessario giocare con gli orari di apertura e i differenti luoghi per evitare la folla di visitatori.38

Le immagini iniziali del film sono visioni fantasmatiche dell’immensa collezione del Museo del Louvre. Philibert ci trasporta, letteralmente, dentro al cuore del museo (per antonomasia) e lo fa con profonda ironia e calore, vestendo le opere dell’umanità di chi, quotidianamente, si prende cura di loro: una legione, un piccolo mondo com-

N. Philibert, A propos de La Ville Louvre, pubblicato sul sito del regista (http://www.nicolasphilibert.fr)

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posto da più di mille persone che, accondiscendenti e complici, aiutano Philibert a scoprire e mostrare un luogo così denso di oggetti, di spazi, di situazioni. Il gioco della visione che si sviluppa, perché di gioco si tratta, procede orizzontalmente, alternando grandi spazi e dettagli minuti, lasciandosi inebriare da cotanta bellezza e varietà. La struttura narrativa non insegue nulla, è limitata, per così dire, a giustapporre incontri e ritrovamenti, meravigliandoci e incuriosendoci, perché fare un passo in più, entrare maggiormente in scena non avrebbe permesso al regista tanta leggerezza e libertà. Di fondamentale, in questa pellicola c’è anche molto altro. È la prima opera di Philibert in cui si sperimenta pienamente la costruzione del film mano a mano che procedono i giorni di riprese, improvvisando e organizzando il tutto attraverso la pratica del filmare, non affidandosi ad alcun progetto preliminare, a nessuna sceneggiatura. È un insieme di coincidenze che determina il risultato, e non poteva esserci genesi migliore per un metodo che si prefigge di non averne alcuno: farsi guidare dal caso, dalle circostanze, mettendo in campo un surplus di attenzione, di disponibilità, di savoir faire. Philibert stesso spiega perfettamente lo sviluppo del film. Conoscere la storia del film è importante. Vi racconto un po’ la genesi del film. Non sono stato io ad avere l’idea di girare il film. Se avessi avuto io l’idea non avrei mai potuto girarla. Vi immaginate andare a bussare alla porta del direttore del Louvre e chiedere il permesso di mostrare i retroscena del Museo del Louvre? Mai alcun museo aveva permesso ad alcun cineasta di mostrare il dietro le quinte del museo. Cosa è successo? Era il 1989, stavano facendo delle trasformazioni, una ristrutturazione del museo, si apprestava a diventare Le Grand Louvre; trasferimenti delle collezioni da una sala all’altra, la circolazione che in quel periodo i conservatori del dipartimento di pittura dovevano realizzare per spostare dei dipinti immensi, dei quadri di settanta metri quadri. Bisognava collocarli. Si trattava di tele che volevano esporre perché messe da arte da decenni, dalla seconda guerra mondiale. E vista la dimensione di queste tele lo spo-

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stamento delle stesse sarebbe stato di per sé spettacolare. E così si sono chiesti se riprendere questo evento sarebbe stato bello. E così siamo stati contattati per fare una giornata di riprese. Abbiamo fatto delle riprese per un giorno e alla sera, avevamo terminato. Ma siccome avevo scoperto un mondo che non immaginavo, decido di tornare il giorno dopo e quello dopo ancora, e quello dopo ancora e così via… senza autorizzazione. Sono tutti molto occupati, e pensano che abbiamo diritto di stare lì, visto che ci siamo. E noi, continuiamo a girare… una signora dell’amministrazione ci ha identificati, giochiamo a nascondino con lei, continuiamo a fare riprese. Dopo tre settimane inizia a diventare costoso. Non abbiamo ancora trovato produttori al momento. Quindi smetto di fare riprese, scelgo alcuni giornalieri e seleziono un’ora, e vado a cercare i soldi, i finanziamenti. Poi andiamo a cercare il direttore del Louvre… “Signor Direttore siamo qui da tre settimane ecco quel che abbiamo fatto. Che facciamo?” E lui dice: “ Continuate, andate tranquillamente, è geniale!”. Se avessi seguito l’iter tradizionale questo film non sarebbe mai stato girato. […] Oltre a quelle tre settimane di riprese abbiamo continuato per due giorni alla settimana per cinque mesi, per accumulare alla fine circa quaranta ore di girato.39

Quale che sia stata la molla creativa che ha portato Philibert a girare in questo modo non è dato saperlo: se la struttura museale, se la disorganizzazione del girato, in ogni caso pare sia uno degli approcci più seducenti e sensuali che si potessero immaginare. La sensualità sta tutta nelle percezioni audiovisive, il nostro occhio s’immerge completamente, si perde nel labirinto museale senza altro aiuto che la visione. O forse, proprio questo coagularsi di condizioni particolari ha messo in condizione Philibert di sperimentare empiricamente, senza prove precedenti al trovarsi sul set, e impressionare pellicola, dal vivo. Questa porta aperta verso all’imprevisto e questa assoluta inesistenza di una qualsivoglia gerarchia in ciò che vediamo, determinano una levità della visione da far apparire fiabesca e incantata la vita all’interno del Louvre. 39

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Lasciandosi trasportare dagli incontri che si fanno, Philibert costruisce le proprie narrazioni, e La Ville Louvre – intesa come città dentro la città, come labirinto – e nient’altro che il caso sono protagonisti della pellicola. Si crea una sorta di triangolo tra: il deposito monumentale, Philibert (ovvero il caso incarnato) e l’occhio dello spettatore; e se l’atmosfera è pervasa dal gioco, dalla sensazione permanente e ludica è perché allo stesso tempo si sovrappongono 1) quel che ci aspetta, noi spettatori nei confronti del non previsto, 2) le interazioni del cineasta con la materia filmica, e quindi inevitabilmente con il museo, 3) gli abitanti de la ville, complici del cineasta, tutti coinvolti contemporaneamente nel gioco del film. Informazioni mancanti. Le sequenze sono spesso costruite attraverso una sorta di attesa, dove veniamo abbandonati in qualche situazione e durante la quale andiamo in cerca delle tessere che mancano al nostro collage, elementi nascosti da Philibert per ricostruire le scene, e poterle così leggere: nell’attesa che esse vengano soddisfatte. La sequenza della camminata, del trasporto del minuscolo vaso attraverso lo scandire dei passi, è da manuale. Non si conosce la ragione di questa infinita perlustrazione del museo, ma si è costretti a guardarla, estasiati. Il fatto poi che sia una burla, uno scherzo del cineasta, è in realtà la soluzione, lo spirito del film, il passaggio attraverso il quale coinvolgere lo spettatore nel gioco, rendendolo complice, alleggerendo lo sguardo dalla gravità del rapporto con l’oggetto artistico. È una scorribanda un po’ naif ma piena di rispetto e attenzione, sempre pronta soffermarsi su qualcosa, insieme a qualcuno. Evidentemente, Philibert ha piena coscienza e controllo di quel che avviene sul set, anzi, questo senso di indeterminatezza è di continuo cercato dal cineasta francese, che lo illustra così. Quando inizio un film, il mio approccio è tutto fuorché teorico. Succede tutto in modo molto intuitivo, soprattutto all’inizio. I primi tempi, spesso non so cosa cerco, e neanche so esprimerlo a parole. È come se dovessi cominciare a girare per capire cosa voglio… Ma progressivamente, il film si costruisce nella mia testa, costruisco dei ponti, tiro dei fili, certi personaggi prendono forma… Allo stesso tempo, fino in fondo, i giochi restano

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aperti, mi sforzo di essere disponibile e di accogliere gli avvenimenti che possono prodursi. Non c’è piano di lavoro. Bisogna costruire sul momento, reagire a caldo. Non ho delle ricette, non ho discorsi da illustrare con le immagini. E poi c’è anche quello di cui non coscienza. Nel Louvre, mi ero comunque fissato un paio di principi, che mi servivano da punto di riferimento: non riprendere i visitatori per dare allo spettatore la sensazione di essere, a sua volta, il testimone privilegiato di ciò che avrebbe visto. […] Inoltre, volevo filmare le opere per quello che erano, in un rapporto contemplativo o erudito: non facevo un film “sull’arte”. Non ne sarei stato capace! Quello che m’interessava era il lavoro, i gesti, gli atteggiamenti. Ho ripreso le opere dal punto di vista di questo rapporto con il lavoro: le spostano, le restaurano, le inquadrano, le proteggono, le appendono, le sorvegliano… Un museo è questo: una comunità umana che ha per missione quella di mostrare le opere ai suoi contemporanei e di conservarle nelle condizioni migliori per le generazioni successive… Queste opere fanno parte del patrimonio di noi umani. Ho costatato spesso, parlando con alcuni di loro, quanto, nel personale del Louvre, sia presente quest’idea della trasmissione del sapere.40

Risulta chiaro come l’opera si sia sviluppata col passare del tempo nelle mani di Philibert. Se è evidente come determinati aspetti relazionali e discorsivi siano stati affrontati, resta ancora da approfondire lo stile, l’estetica del film, il punto di vista formale, il rapporto con il significante che Philibert instaura; il museo del Louvre è il regno della forma, delle forme, e la composizione quasi musicale è frutto dell’osservazione di questo organismo, del corpo di questo immenso “mostro” che, è dotato di suoi organi, arterie, terminazioni nervose e anche, logicamente, malattie. Se la causa scatenante del film è la necessità di registrare gli spostamenti delle gigantesche tele arrotolate su cilindri di legno di Charles Le Brun, settanta metri quadri ogni dipinto, è qui e adesso che va cercato uno dei punti di ancoraggio della sua ricerca. Nella malattia, perché il dipinto, appunto, è rovinato (mentre 40

L. Barisone, C. Chatrian (a cura di), op. cit.

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viene srotolato si sgretola in alcuni punti), si incontra il respiro del corpo-museo che è anche il rapporto che questo intrattiene con gli operai che lo trasportano, e con la curatrice che sommessamente si dispera: il film è perciò la narrazione anche dei corpi, umani, che attraversano questo luogo. Mi sono interessato molto presto più che allo spazio in quanto tale, ai corpi, ai loro movimenti in questi grandi saloni, al modo che avevano gli uni e gli altri di spostarsi, di camminare, di concentrarsi sul dettaglio di un’opera, di sollevare una tela, di far scivolare una scultura, un po’ come se filmassi un balletto. Possiamo leggere tutta la gerarchia sociale negli atteggiamenti dei corpi. E io mi sono divertito molto a giocare con questi contrasti. Il piccolo pittore, che ritocca i battiscopa, trascina i piedi, mentre un conservatore si muove a grandi falcate. Delicatezza verbale gli uni, forza muscolare gli altri. Opposizione tra la dimensione sublime delle opere e il lato prosaico di certe risposte. Opposizione – oppure corrispondenza – tra i corpi rappresentati e i corpi reali. Tra i costumi dei personaggi che vediamo sulla tela e le tute blu da lavoro dei traslocatori. Tra la nudità di un modello e il completo un po’ stretto di un conservatore. Tra lo spostamento di una scultura monumentale, che occupa venti persone, e il grattare minuziosamente un frammento di stele, con la punta di un coltellino, nel silenzio di un atelier.41

Come riconosce l’autore stesso, questo è il film dove si mescolano il balletto miracoloso e una liturgia del bello, dell’arte e della poesia, uno slittamento di senso e una continua sorpresa che creano una coreografia dei gesti quotidiani che diventa magicamente un inno all’immagine e alla visione. Ma attenzione: La Ville Louvre trova questa propria perfezione nel rapporto con il caso e l’Arte monumentalizzata anche perché nel lavoro di Philibert e della sua squadra c’è tutta una scienza della messa in scena, della messa in quadro e della messa in catena, una così particolare sensibilità agli oggetti, ai gesti, ai volti da determinare, di volta in volta, un equilibrio inebriante. 41

L. Barisone, C. Chatrian (a cura di), op. cit.

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Il ritmo, è quello che dona al film sa sua totale mancanza di gravità: non si rimane schiacciati né dal peso delle opere, dall’Arte in quanto tale, né dalla claustrofobia procurata dalla massa di visitatori presenti solitamente nel museo, ma appunto dalla possibilità di girovagare, senza redini né controlli, in ogni meandro di questa istituzione mastodontica. La possibilità di scoprire sovente luoghi disparati ed inattesi è una delle chiavi del film. La banda sonora non è da meno: l’assoluta mancanza di voce off, di commento sonoro lascia il campo aperto al suono diretto, bruto, non mediato dal rapporto con una scrittura aprioristica, ma che anzi diviene parte ed elemento vivo della sinfonia audiovisiva del museo. Ecco allora il suono dei tacchi sulle varie superfici, il rumore degli spari nelle sale, i pattini del postino, le voci degli operai che ripetono – fuori contesto – tutto quell’insieme di frasi fatte che permettono di collaborare e lavorare congiuntamente.

Decoupage di una sequenza La sequenza selezionata è la seconda del film, quella relativa all’arrivo – all’alba – delle enormi tele al Museo del Louvre (il principale motivo della presenza di Philibert e della sua equipe presso il Louvre), l’evento in pratica che ha determinato poi la genesi della pellicola. È una sequenza molto complessa, che vede nel giro di meno di tre minuti ben ventiquattro inquadrature, alcune molto brevi, altre più lunghe; solo in tre casi abbiamo inquadrature in movimento, per il resto la sequenza è la somma di ventuno inquadrature fisse. La prima inquadratura (fot. 1) è un campo totale (7’’), ancora prima del sorgere del sole, del Museo. La seconda inquadratura, la più lunga della sequenza (45’’), è quella dell’arrivo del tir all’interno del cortile del museo. È una delle inquadrature più articolate e movimentate, nella quale possiamo vedere un campo totale

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dell’entrata del Museo (fot. 2a) e l’avvicinarsi del camion alla mdp; la stessa inquadratura, senza stacchi, poi si trasforma in una panoramica da sinistra a destra e viceversa, per tenere in campo l’automezzo all’interno del cortile (fot. 2b).

Nella terza inquadratura (6’’), più ravvicinata delle precedenti, assistiamo al movimento del camion da destra a sinistra, ancora in precarie condizioni di visibilità, mentre si avvicina alla porzione di palazzo prescelta (fot. 3).

La quarta (4’’) e quinta (8’’) inquadratura illustrano la manovra dell’automezzo per posizionarsi stabilmente per eseguire il trasbordo dei preziosi dipinti: mentre una contiene una figura intera (fot. 4), la successiva (fot. 5) è un dettaglio del pistone idraulico dell’elevatore.

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Le tre inquadrature che seguono, molto brevi (ciascuna da 2’’) mettono in evidenza dettagli del camion in contrasto e abbinamento con il Museo: sono inquadrature fisse, dove non è presenta alcun movimento all’interno del campo. (fot. 6, fot 7, fot. 8)

Dalla nona inquadratura in poi si entra nel vivo dell’operazione: sono in campo ora le mani degli operai, attraverso una inquadratura zenitale (5’’) del dipinto, dell’imbragatura e degli operai (fot. 9); poi al loro stesso livello, la decima (8’’) e undicesima inquadratura (5’’) che

rappresentano una il campo speculare dell’altra: il gioco di specchi è portato al limite anche dall’effetto visivo – il gioco di riflessi – che il quadro opera sui manovali (fot. 10, fot. 11). Che le mani siano protagoniste assolute della sequenza è confer-

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mato dalla dodicesima (4’’) e tredicesima inquadratura (2’’), che mettono in quadro i dettagli delle mani degli operai prima (fot. 12), e delle mani di uno dei personaggi del dipinto dopo (fot. 13); le prime al lavoro, le seconde nell’atto della preghiera: che sia una richiesta di cura e attenzione agli operai? Con la quattordicesima inquadratura (6’’) torniamo a vedere il lavoro degli operai in primo piano, questa volta però siamo nuovamente in una inquadratura dall’alto, e vediamo un enorme gancio di ferro che sta per sollevare il gigantesco dipinto (fot. 14). È uno dei passaggi decisivi della sequenza, questa inquadratura (7’’): siamo ornati a terra, e assitiamo alle manovre in cabina, con l’operaio che sta ruotando insieme all’oggetto trasportato. Sullo sfondo si nota la caratteristica facciata del Louvre (fot. 15). La sedicesima inquadratura (13’’) è la seconda in movimento dell’intera sequenza, un travelling aereo che accompagna, sulla scia della precedente inquadratura, l’ascensione del dipinto dall’esterno all’interno del museo, un movimento quasi magico, perchè non vediamo – nonostante sia un campo medio – l’origine del movimento (fot. 16). Il particolare mostrato dalla diciassettesima inquadratura (6’’) è altrettanto magico e significativo: il dipinto, ruotando per entrare nel museo crea un gioco di luci

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e ombre che permette al putto in bassorilievo sulla parete esterna del Museo di ricevere la luce del sole. È un’inquadratura che – come la precedente e ancora di più – abbina il significato patente anche uno più metaforico, perchè segna in qualche modo un inizio, una partenza: arriva finalmente la luce, possiamo allora entrare nel gioco della visione (fot. 17). Ma il lavoro non è ancora finito: due inquadrature quasi identiche per taglio e durata (5’’, 6’’) mostrano – nuovamente dall’alto, l’approdo della tela alla finestra desiderata. E le voci degli operai riportano in qualche modo a terra la visione eterea a cui assistiamo (fot, 18, fot. 19). Sempre dall’alto, si susseguono due inquadrature raccordate sull’asse: la prima (3’’) posiziona a figura intera un operaio che gesticola, agganciando alle voci che sentivamo nelle inquadrature precedenti, anche l’immagine in sincrono; la seconda (4’’) apre completamente lo zoom per mostrarci l’intera scena (fot. 20, fot. 21). Siamo così giunti alle ultime tre inquadrature della sequenza, oramai stiamo entrando, insieme alla tela, nel Museo: nella prima (6’’) siamo ancora all’esterno del museo (fot. 22); la successiva (6’’) è articolata in un travelling che mostra da principio lo scorrimento del dipinto su una rotaia in legno (fot. 23a), e poi i volti, finalmente in primo piano, di

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due operai che stanno trascinando l’opera d’arte oltre alla parete mobile del Museo. Il lavoro è ormai compiuto: non resta che chiudere la parete semovente con un piano americano (13’’) che chiude anche la sequenza (fot. 24).

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Le Pays des Sourds Alla ricerca di un linguaggio cinematico

Il paese dei sordi inizia con un concerto: una specie di quartetto, leggendo uno spartito, mette in scena un’aria… i suoni intellegibili sono pochi, il rumore degli indumenti, delle braccia che si muovono, i passi dei quattro interpreti, il rumore delle suole sul pavimento. Sono perfettamente coordinati, musicali senza dubbio: seguono un ritmo che si percepisce solo dal loro movimento, è un approccio sinestesico perfettamente coordinato e melodico. Immediatamente dopo assistiamo alla prima di numerose interviste, quella di un attore mancato: da bambino vedeva gli attori al cinema e avrebbe voluto diventare tale, ma il suo handicap è stato un impedimento troppo grande, almeno per chi gli stava vicino… egli stesso non percepiva questa difficoltà, anzi; vedere un film silenziosamente non è mai stato un limite. Entriamo poi nella classe dei sordi, e assistiamo agli esercizi fonetici dei bambini, coadiuvati dall’insegnante e da alcuni computer con software dedicati all’apprendimento fonetico attraverso il gioco: “ba ba - ba - ba ba ba ba…” e aumentando il volume della voce il palloncino sullo schermo si gonfia di conseguenza… le mani della bambina seguono tale movimento. È una delle linee guida del film: il movimento, l’interpretazione del suono attraverso il gesto è una delle caratteristiche fondamentali del linguaggio dei sordomuti. E Philibert inserisce subito questa sequenza per ricordarcelo, per indicarci che uno degli aspetti fondamentali della struttura del film è proprio il rapporto intimo tra suoni, significati e segni: una vera e propria sfida cinematica. Giungiamo all’incontro con Jean-Claude, il maestro, colui che ci condurrà, più di chiunque altro, alla conoscenza di questo mondo dei sordi; sta tenendo una lezione ad alcuni adulti, spiegando loro come figurare i passi (di un uomo, di un cane, di un elefante, di un rinoceronte…), è in pratica, una lezione di mimo, ma anche una lezione di linguaggio: ma effettuata con una tale grazia, con una tale partecipazione, da lasciare a bocca aperta. La figura del maestro è, come già

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detto, il personaggio centrale del film, e la sua presentazione scaturisce talmente forte e potente da chiarirlo senza bisogno di ulteriori spiegazioni: è una presenza scenica ineguagliabile, a cui bisogna sommare il fine didattico, pedagogico che giustifica e dà valore all’aspetto puramente ludico e di intrattenimento; ci troviamo di fronte a un personaggio nel quale insomma l’equilibrio tra le varie parti è perfetto. È la guida ideale per scortarci nella nazione dei sordi. Perché di questo, in sintesi si tratta: stiamo per intraprendere una ricognizione nel paese dei sordi, nel quale l’oralità sembra apparentemente esclusa; è un mondo che sembra autosufficiente, almeno in alcuni determinati contesti: in realtà, non è così, ma Philibert si diverte ad immergerci dentro a questo insieme, compatto e fondamentalmente soddisfatto di sé. Poi si torna insieme alla classe degli scolari: la foto annuale è l’occasione per Philibert di realizzare alcuni ritratti, ritratti di bambini come tutti gli altri, non c’è differenza nella menomazione; pure a mensa, insieme ai bambini normodotati, la differenza si coglie difficilmente, i gesti a tavola scorrono veloci e fluidi, senza fatica. La sordità è il regno del silenzio, della pace, ed è quello che l’intervista successiva ci spiega eloquentemente: un ragazzo costretto da bambino a portare l’apparecchio acustico, che gli rivela suoni e rumori insopportabili, come le porte che sbattono, le sedie che stridono sul pavimento… che pace tornare a casa e ritornare nell’ovattato silenzio della condizione di sordo… Il maestro, poi, ci racconta dello shock provato – similmente – al suo approccio con la scuola, lui che non conosceva il linguaggio dei segni, e il senso di abbandono provato; sarà il cinema, come per l’uomo della prima intervista, a fornirgli un appiglio e un canale di comunicazione con i suoi compagni del collegio per sordi, dove numerosi sono gli orfani e i bambini abbandonati perché sordomuti, i quali non si possono neppure permettere gli spiccioli per il biglietto del cinema. Di conseguenza i consigli ai genitori, che assistono allo show del del maestro sono di non iper-proteggere i figli sordi, ma di considerarli abili a tutti gli effetti: ad esempio, metterli in guardia sui pericoli della strada, sicuramente, ma permettere loro di esplorare e vivere pienamente il proprio mondo, il circostante.

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In treno, seguendo i mimi che si recano a uno spettacolo di teatro, nel silenzio dello scompartimento, non riusciamo a cogliere la differenza tra udenti e non: siamo finalmente immersi nel paese dei sordi, la confusione è completa, avvolgente, e finalmente si comprende il senso del titolo del film; l’obiettivo di Philibert, che ci introduce in questo microcosmo, è raggiunto. Le tre operaie sorde, che non soffrono per il rumore dell’ambiente di lavoro, nelle interviste raccontano di come, in famiglia e a scuola, al contrario, abbiano subito disagi e discriminazioni: c’è quella che veniva considerata timida, un’altra che da bambina ha patito il rapporto con sua la famiglia, composta interamente da udenti, perché si dimenticavano della sua condizione. Gli anziani che giocano a carte al circolo, invece, sembrano spassarsela, si complimentano, si sgridano e si sfottono amabilmente, con leggerezza. Un’altra testimonianza del piacere di essere sordi ce la dà il ragazzo che, in una breve intervista al bancone di un bar, ci regala una gustosa performance elencando i componenti della sua famiglia, tutti immancabilmente sordi; guai a mescolarsi con gli udenti, che idea… A scuola i bambini assistono all’arrivo del maestro in versione babbo natale, che di seguito ci spiega come sia recente la possibilità per un sordo di frequentare la scuola. Fino a poco tempo fa, infatti, i sordi ne erano esclusi, handicappati da tenere ghettizzati e isolati rispetto alla norma. Ora le cose stanno migliorando ma, ci ricorda il maestro, il potere nelle scuole è ancora in mano agli udenti, La strada da percorrere è ancora lunga. Nel mentre, le operaie ricevono e accompagnano amici giunti dagli Stati Uniti, probabilmente: come spiega poco dopo il maestro, anche se il linguaggio dei segni non è internazionale, per capirsi perfettamente bastano un paio di giorni; provate ad andare in Cina, voi udenti, ci ammonisce il maestro, e vediamo che siete in grado di fare in due giorni! Infatti le operaie stringono un rapporto molto forte con i ragazzi stranieri, anche se Philibert dissemina la sequenza di indizi che ci fanno capire che è una conoscenza ancora superficiale, da approfondire. Le immagini dei ragazzi in giro per Parigi per turismo – Torre Eiffel, Museo del Louvre, le foto con il gendarme – si confondono con quelle

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della miriade di turisti sparsi per la megalopoli, come ovunque nel mondo: immagini in fondo banali, ma proprio per questo motivo in questo contesto assolutamente sorprendenti, nella loro normalità, semplicità e naturalezza. La scena della partenza degli amici, a Orly aeroporto, è commovente: il legame si è trasformato in qualcosa di profondo e forte. Si ritorna nuovamente tra i bambini della scuola di sordi, che con lo scuolabus tornano a casa per pranzo: è l’occasione per Philibert di entrare nelle case dei non udenti, tra famiglie variegate, in cui udenti e non, sono fratelli e sorelle, a tavola. Florent, uno dei bambini scelti da Philibert tra quelli della classe, è a casa con la madre, essi giocano con i suoni in giardino: situazione idilliaca, piccola epifania di rapport maternel, tra coccole reciproche e gesti istrionici del bambino che commuove e mantiene sospeso il filo del racconto, che si dipana tra un evento e un altro, narrato, amalgamato e messo in forma da Philibert. Florent, bambino timido ed esile in classe, davanti alla mdp non prova alcuna soggezione: è spassosissimo con la maschera da cantante glam e la chitarra giocattolo in camera sua, come lo è altrettanto quando impugna il gigantesco microfono a giraffa nel giardino; la sua passione è la musica, sorprendente… Cambio di quadro: viene intervistata una donna di mezza età, che più avanti vedremo essere la nuova compagna di Jean-Claude, il maestro, la quale ci racconta che per ignoranza dei propri parenti era stata rinchiusa, internata in un ospedale per ritardati e handicappati mentali. I suoi racconti sembrano uscire da Asyloum di Goffman o da Titicut Folies di Wiseman, ma per fortuna tutto è bene quel che finisce bene: lei si sentiva abile a lavorare e compiere una vita normale, e l’incontro e la vita con il maestro è una parziale compensazione a quell’ingiustizia. Sono questioni, in verità, che non c’è neppure il bisogno di spiegare, sono evidenti. La serenità, non c’è bisogno di spiegarla. Inizia con i preparativi del matrimonio una lunga sequenza che, attraverso il montaggio alternato, ci mostra le buffe operazioni di matrimonio per due sordi: la cerimonia in comune, quella in chiesa, la festa nuziale, la ricerca della casa, gli esercizi in piscina della sposa che è rimasta incinta.

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Nel frattempo i bimbi portano una lettera alla buca della posta: una loro compagna è malata, ed è il pretesto migliore per provare a scrivere insieme una missiva. Florent, unico della classe, non raggiunge in tempo i compagni per imbucare la lettera, è tutta una disperazione e un pianto… Alla consegna delle pagelle, però Florent dimostra di essere uno scolaro modello; Frederic, Ant Huan Abou e Tomo non possono dire la stessa cosa. La preparazione scolastica è importante per tutti, ma per un bambino sordo è fondamentale: la scena in cui Florent passeggia nella galleria degli specchi, un labirinto vero e proprio, è la metafora ideale per descrivere il rischio di spaesamento che i sordi devono affrontare continuamente, quotidianamente. Gli sposi continuano il loro percorso: è nato il figlio, e il film si conclude con il maestro che ci spiega, ancora, con leggerezza e determinazione, l’uso comune nel mondo dei sordi, di darsi dei soprannomi da piccoli, in base alle proprie caratteristiche: lui era esile, il suo soprannome forse era secco… Ed è la fine. Del film. Buio. È un mio viaggio nel mondo dei sordi, e soprattutto nella lingua dei segni. Quando ho scritto il mio progetto non avevo personaggi, se non la descrizione di uno o due, così ho deciso di creare dei personaggi immaginari, inventati.. che non c’erano, proprio per scrivere questo testo. E mi sono reso conto che erano proprio questi i personaggi che volevo incontrare, e così mi sono messo a cercare dei personaggi che fossero quelli che avevo inventato, che avevo descritto.42

Philibert ci accompagna nella sua personale ricognizione nel paese dei sordi con eleganza e discrezione. I sordi che conosciamo in questo film appaiono ben diversi che nell’immaginario comune, di persone handicappate e piene di limiti, che necessitano cure, attenzioni come fossero menomati, inabili alla vita comune. I sordi sono, invece, una categoria di persone sicuramente particolari, ma certo non limitate, e semmai il limite risiede nella condizione, certo non nelle personalità. 42

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Anche se nell’immaginario comune, dettato da ignoranza e superficialità soffrono di un disturbo grave, in realtà un sordo può permettersi di andare a scuola, lavorare, visitare il mondo come chiunque altro. Ha delle difficoltà, per affrontare ad esempio l’apprendimento dei vocaboli, l’uso della fonetica e l’articolazione delle parole. Ma tutto ciò è compensato da un’acutezza dello sguardo e da una memoria visiva senza paragoni, come ci ricorda Jean-Claude, il maestro. Quindi, da subito, e come altri film di Philibert, questa pellicola si muove su due cardini principali, uno legato alla forma e un altro al contenuto: quello dell’esplorazione antropologica e sociologia dell’universo dei non udenti, e quella semantica e cinematica dell’uso visivo dei segni linguistici, immediati come l’oralità, ma convenzionali come la scrittura. Philibert stesso illustra come sia giunto a questo risultato, attraverso quali forme retoriche, quali accorgimenti narrativi e linguistici: La mia idea consisteva nel voler trasportare brutalmente lo spettatore nell’universo dei sordi, un film dove la lingua madre fosse quella dei segni. Volevo dare la parola, se così si può dire, a queste persone di cui ignoriamo tutto e che hanno un sistema di comunicazione totalmente differente dal nostro, dovendo tenere ricordo del mondo attraverso i loro occhi. Ben al di là della questione dell’handicap, quello che il film mette in primo piano è l’esistenza di un vera cultura dei sordi, che si identifica in radici, codici, modelli e usi propri. È con questa cultura che ho voluto mettere a confronto lo spettatore, non in forma astratta o teorica, bensì attraverso vari personaggi, raccontando le loro storie. I personaggi sono dunque, senza eccezioni, sordi completi, nati sordi o che lo sono diventati nel corso dei primi mesi del loro esistenza, vale a dire prima l’acquisizione del linguaggio. Ho scelto di mettere da parte i “poco udenti”, che sono i più numerosi, ma questo è un film, non uno studio statistico! La sfida, la scommessa è stata di andare dall’altra parte, alla scoperta di questo paese dove lo sguardo ha un’importanza considerevole.43 G.-H. Mauchant Intervista a Nicolas Philibert, documento preparato dalla Associazione Nazionale di cinema di ricerca, 1991, pubblicato sul sito del regista (http://www.nicolasphilibert.fr)

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La narrazione è in qualche modo orizzontale, non stiamo inseguendo alcun climax, osserviamo, piuttosto, il susseguirsi degli eventi, ci lasciamo trasportare dall’andamento della pellicola, che contrappunta con grande fluidità le interviste ai fatti scolastici, gli interventi di Jean-Claude, alla macro sequenza del matrimonio della coppia di sordi. È la prima pellicola di quelle prese qui in esame, che utilizzi deliberatamente le interviste come elemento diegetico a sé stante. È interessante altresì notare come, proprio in un contesto come questo, se l’intervista a un sordo possa essere una scelta eccentrica e in qualche modo paradossale, sia forse l’unico modo per inserire in un film prevalentemente di osservazione lo sguardo in macchina e il dialogo diretto con lo spettatore, senza veli o sbarramenti formali di sorta. Insomma, si fa parlare chi letteralmente non ha voce perché non è solo un modo per conoscere meglio queste persone, questa realtà, ma perché è direttamente un approccio, una modalità vera e propria per avere un primo contatto con questa realtà, necessario – prima ancora che per l’oggetto dei loro racconti – per la forma con la quale essi si pongono al dialogo. L’intervista diviene in se stessa direttamente una forma di conoscenza, e una possibilità per lo spettatore di porsi all’ascolto. Philibert è stato, in un certo qual senso, costretto a questa forma discorsiva nel film, anche perché impossibilitato a gestire alcune forme comunicative dei sordi. […] Mettiamo che voi vogliate filmare un sordo che sta raccontando una storia. Non è per forza complicato. Però bisogna capire che lo spazio di chi segna si impone al regista. Non sarà possibile fare dei primi piani né sul suo viso, né sulle mani, perché bisogna obbligatoriamente rappresentare l’insieme: nella lingua dei segni, le espressioni del viso, insieme ai movimenti delle mani e alla posizione del busto, hanno una funzione grammaticale essenziale. Fino a qui è abbastanza semplice. Per essere sicuri di non perdere alcun segno, basta decidere di inquadrare in piano americano. Immaginate adesso di voler filmare tre sordi che discutono nel de hors di un caffè. All’inquadratura

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si aggiunge anche la questione del decoupage. Se si trattasse di tre udenti, si potrebbe passare da uno all’altro, fare dei campi e controcampi, inquadrare indifferentemente chi parla o chi ascolta, fare degli inserti sul barman o sulla tavola vicino… dal momento che il suono è presente a 360 gradi! Nel caso dei tre sordi tutto questo è impossibile. Si è obbligati ad inquadrare continuamente colui che segna, altrimenti si perde il senso. Inoltre, come ognuno sa, in una conversazione vivace e spontanea, i diversi interlocutori si interrompono continuamente. Si tolgono la parola, si parlano addosso senza che voi possiate anticiparlo. Non sarete mai abbastanza rapidi per passare da uno all’altro! Potrete sempre filmare questa discussione con tre cineprese, o semplicemente allargare il quadro in modo da contenere nella stessa inquadratura tutti i protagonisti. Nel primo caso, il vostro budget sarà velocemente azzerato ed in più ci sono molte possibilità che la conversazione non abbia più niente di naturale. E nella seconda ipotesi, come fareste per sottotitolare? Uno scambio spontaneo tra due sordi è talmente veloce che il tempo di lettura è quasi impossibile da rispettare… Ho dovuto rinunciare a filmare certe situazioni, soprattutto le conversazioni a più persone. Ce ne sono alcune nel film, ma non durano molto. Ho privilegiato gli interventi e i racconti davanti alla macchina da presa, che erano meno problematici.44

Come è facile intuire, Le Pays des Sourds è un film in cui la sorpresa, l’invenzione e la narrazione si arricchiscono vicendevolmente e regalano allo spettatore informazioni inaspettate e conoscenze nuove. Il vero fascino del film risiede, nuovamente, nella perfetta combinazione tra forma e contenuto, e, pensando a Wittgenstein, troviamo la lente attraverso la quale leggere il film: “i limiti del mio mondo sono i limiti del mio linguaggio”. Tale affermazione è il centro focale della pellicola, condizione ineludibile per intraprendere questa peregrinazione nel paese dei sordi. Quello che avviene, infatti, è un’immersione completa nel mondo dei sordi, nella quale la praticamente totale assenza di parlato (né voce off, né commento, né interviste parlate) diventa molto più che uno 44

L. Barisone, C. Chatrian (a cura di), op. cit.

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stratagemma discorsivo, è la natura stessa della pellicola. La mimica del linguaggio dei segni impone determinate scelte di cadrage, il taglio delle immagini è sovra determinato dalla condizione necessaria per leggere i discorsi che vengono fatti; inoltre, il linguaggio dei segni nasce, soprattutto, dall’uso della vista, senso che diventa necessario e inevitabilmente predominante in questa modalità di comunicazione. Ecco perché Philibert ha compreso – ed è rimasto affascinato – dalle potenzialità cinematiche del linguaggio dei segni, vera e propria modalità linguistica che si muove all’interno della visione. Per chiudere il cerchio: Jean-Claude, il maestro dei segni, per illustrare i concetti che si tradurranno in parole segnate, realizza tanti disegni alla lavagna quante saranno le parole da imparare, e questi ricordano – anzi sono – gli elementi utilizzati per realizzare gli storyboard, ultima mediazione nel linguaggio cinematografico, tra la scrittura e le immagini impressionate sulla pellicola, linea di frontiera nella creazione del découpage, necessario a scomporre il film in unità semantiche determinate. Non è perciò sbagliato notare che Le Pays des Sourds ricorre spesso a una “grammatica primitiva del cinema muto”, sia per quel che riguarda il film stesso, sia per quel che riguarda ciò che avviene all’interno del quadro, in ciascuna delle minime e singolari parti dei discorsi che nascono e si sviluppano nelle scene vissute e nelle interviste mute. Non è certo un caso se Florent, uno dei bambini protagonisti del film affermi: “per ascoltare, guardo”.

Decoupage di una sequenza È la sequenza iniziale del film. In qualche modo è uno shock, un modo per entrare subito, direttamente nel mondo dei segni e della comunicazione visiva e silenziosa che appartiene ai sordi. Sono cinque inquadrature lunghe, che portano la durata finale della sequenza a un minuto e mezzo. Più che descrivere l’ambiente, la camera si occupa di illustrare i gesti del quartetto, le loro interazioni, gli sguardi complici e la loro complessa gestualità e sincronia.

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La prima inquadratura è la più lunga del segmento narrativo (52”). Un lentissimo zoom all’indietro ci mostra il quartetto nella sua interezza, a partire dalle due persone all’estrema sinistra fino a mostrarli tutti e quattro in piano americano (fot 1a, fot. 1b). La seconda è al contrario la più breve della sequenza (6”) e raffigura un primissimo piano di profilo di colui che sembra essere il direttore d’orchestra dell’ensamble, il leader della formazione (fot. 2). La terza (13”) è una panoramica verticale sulla donna che all’inizio della sequenza era inquadrata in primo piano assieme all’uomo con la camicia bianca. Sembrano essere loro i personaggi privilegiati di questa tranche del film; attraverso questa inquadratura scorgiamo lo spartito, al di là delle mani impegnate nei gesti, poi il volto della donna sempre impegnata nella sua performance (fot. 3a, fot. 3b). La seguente inquadratura (7”) ritrova i protagonisti della sequenza isolati dal resto della scena: un primo piano ancora più chiuso li mostra uno di fronte all’altro, nell’atto di interagire, di accordarsi con lo sguardo durante la prova (fot. 4). Chiude la sequenza un nuovo tototale del gruppo (12”), che si raccorda sull’asse alla precedente inquadratura (fot. 5). Da un approccio frontale al gruppo (fot. 1a, fot 1b) si passa ad affiancare i vari attori, da principio attraverso due perso-

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naggi che creano una mediazione (fot. 2, fot. 3a, fot. 3b, fot. 4), fino a tornare ad abbracciare il gruppo nel suo complesso (fot. 5). Ciò che è cambiato nei piani è proprio il punto di vista: prima più distante, poi ravvicinato e addirittura sullo stesso asse degli esecutori sul palco. In qualche modo, la prima sequenza chiarisce un tema ricorrente del film e del cinema di Philibert in generale: fare film con, non fare film su.

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Un animal, des animaux Il massimo della finzione per il massimo del realismo, ovvero del complesso della mummia

Esterno giorno. Un camion nella campagna porta un carico molto particolare, sono gli esotici animali della Galleria Zoologica del Museo di Scienze Naturali di Parigi. Immagini in bianco e nero ci mostrano il museo abbandonato, preda di macerie e calcinacci... sembrano testimonianze dal passato. Ci troviamo in un luogo dove nulla è quello che sembra… ma non c’è tempo per pensare: siamo al presente, e vediamo alcuni operai che stanno demolendo la parte in legno della galleria; in montaggio alternato tra loro e altri volti di numerose scimmie passiamo al piano sottostante, dove altri operai stanno rivoluzionando con ruspe e altri macchinari la struttura del museo. Un dialogo viene origliato da alcuni animali, all’erta: sono due curatori del museo che stanno cercando – in uno schedario da biblioteca o centro di documentazione – alcuni pezzi per l’esposizione. Il nostro errare per il laboratorio continua attraverso le cure ad un elefante ed alcune discussioni organizzative, ai lavori su piccoli scheletri, fino all’assemblaggio della spina dorsale di un animale gigantesco, forse un dinosauro. Per telefono vengono fatte richieste, sorta di ordinazioni: un cranio di montone e chissà che altro. Un tasso viene assemblato: la struttura dell’animale prende forma, come un fantasma che animi un involucro vuoto, ma è un’illusione, è tutto un gioco di filo di ferro e paglia. Una scimmia sotto trattamento di agopuntura osserva la scena, da dietro un mobile, incredula e sbigottita. Un divertito e particolarissimo orango ci osserva, guardando in macchina. Sta ricevendo come trattamento il posizionamento di alcuni peli e pare che gradisca. Vediamo poi alcune farfalle, apparentemente meccaniche, che vengono sistemate con le ali aperte, è un lavoro di precisione: bisogna stare attenti a non portare via il pigmento dalle ali con le dita.

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Un’altra sezione del laboratorio si mostra ai nostri occhi ed è quella degli animali in formalina, congelati dentro a barattoli di vetro: crostacei, piccoli di scimpanzé e di cinghiale che galleggiano incoscienti in questo liquido trasparente… pare già forte così, ma non basta: una pelle di un animale che sembra una foca è appena stata liberata da quello che sembrano i suoi residui organici, i polmoni e altri organi interni, e il laboratorio scientifico di colpo sembra un macello, tavoli di acciaio, sangue, guanti di lattice. Il tasso che prima prendeva forma sta ora ricevendo gli ultimi ritocchi al muso: un naso di stucco, da sistemare con piccoli tocchi di un bastoncino di legno, di sicuro lo strumento e il massaggio adeguati alla questione. Usciamo all’aperto, e incontriamo la statua in bronzo, nel Jardin des Plants, del conte di Buffon, grande naturalista, che forse non sa del fermento che regna dentro al museo. In effetti, l’inquadratura della facciata – molto simile all’inquadratura iniziale, quella in bianco e nero, per così dire “d’epoca” – non suggerisce particolare attività. Invece all’interno del museo attività ce n’è eccome: stanno venendo pazientemente lucidati a piombo i pavimenti in legno. Ma il problema ora è un altro: le teche riescono a tenere la polvere all’esterno, oppure no? Il problema non sembra di semplice soluzione, ma a pensarci è logico: la polvere è il nemico peggiore di centinaia, migliaia di animali impagliati, doveroso pensarci. Iniziano le operazioni di trasporto degli animali, c’è anche un cane rimasto sotto un’automobile. Ora pare stia meglio. La domanda è legittima: quando è finito sotto alla macchina era vivo o era già impagliato? I preparativi continuano, costanti; i roditori vengono incartati nella carta da pacchi, le orecchie dell’elefante vengono protette in quanto elemento più delicato dell’animale. Entrando dalla porta principale del museo – finalmente – l’elefante sfiora i bordi, ma poi è passato. Arriva anche la giraffa, che per ovvie ragioni entra in orizzontale. Poi la zebra, che arriva sospesa dalla gru. È uno spettacolo davvero particolare, vedere entrare in una giornata di sole tante bestie dalla porta principale di un museo, seppur di

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zoologia. Le bestie vengono portate, issate, accompagnate in braccio, ballano un giro di valzer. Ecco così che, nella hall del museo, uno spazio ampio alto tre piani, prende corpo il corteo degli animali incappucciati in sacchi trasparenti, sorta di fantasmi di immagini provenienti da ambienti selvaggi, un sogno ad occhi aperti. René, uno dei responsabili, uomo di sicura esperienza, consiglia i tecnici più giovani riguardo alla disposizione degli animali nel “corteo”. Meglio lasciare più aria tra di loro, e farli zigzagare. Un fenicottero rosa si propone, sospeso sulla galleria al primo livello, arrivano anche i felini, il re della savana non manca, e come potrebbe? Un orango ingaggia una lotta statica con alcuni addetti, e sembra avere la meglio. Vengono tolte le coperture in plastica, si procede con gli ultimi ritocchi. Il museo è pronto, gli animali aspettano i visitatori, curiosi e immobili. Ma non illudiamoci: la mia ambizione non è stata di visualizzare un catalogo di un qualche sapere scientifico. Nessuna spiegazione, né interviste: il film propone una distanza, lo sguardo divertito e curioso di un regista che si è introdotto in questi luoghi con un’effrazione. Egli suggerisce il punto di vista di un amante di sogni rapito dalla stranezza, dall’emozione che emettono queste centinaia, migliaia animali, immobili, ammucchiati dagli scienziati del passato e così preziosamente conservati dagli scienziati di oggi.45

Quello che Philibert ci offre con Un Animal, des Animaux altro non è che un viaggio nel sogno: come e meglio dei più accorti creatori di effetti speciali del cinema, ma con un qualcosa in più per il rigore scientifico, i curatori e tecnici della galleria zoologica stanno per prolungare il limbo di questi campioni della specie, questo insieme di vite/morti che compone il Museo di Scienze Naturali. Nato da un sogno ben più distorto, quello di impadronirsi di ogni 45 N. Philibert, A propos de Un Animal, des Animaux, pubblicato sul sito del regista (http://www.nicolasphilibert.fr)

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ricchezza e farla diventare sfoggio di potenza, nell’epoca colonialista, il Museo oggi ha forse un compito più articolato e complesso, quello di conservare la memoria di specie in estinzione e di testimoniare la varietà della famiglia animale, la sua vastità bellezza e perfezione. Per inseguire questa perfezione è necessario, però, adoperare altrettanta cura, precisione e volontà. Il gruppo di lavoro che Philibert ci mostra è di una competenza, coesione e partecipazione che sono rari a trovarsi. Certo l’occasione appare unica: la riapertura di un museo zoologico come quello di Parigi è un avvenimento quasi unico, la possibilità di prendere parte a un lavoro di valenza storica. I curatori del riallestimento, dalla chiusura del 1965, sono Paul Chemetov e Borja Huidobro collaboratori alla scenografia di René Allio. È un particolare non così ininfluente, se teniamo conto che è il medesimo cineasta a suggerire a Philibert di occuparsi della regia di questo avvenimento. È lo stesso Philibert a ricordarlo così: Un giorno, René Allio mi ha portato a visitare il cantiere della Galleria di Zoologia del Museo Nazionale di Storia Naturale e dopo dieci minuti, ero conquistato. Comunque, mi ricordo che dopo La Ville Louvre molti musei mi avevano contattato e io avevo rifiutato: perché rifare quello che avevo già fatto? In questo caso, stranamente, ho rigirato il ragionamento. Ho pensato che tornare in un museo, anch’esso in ristrutturazione, mi avrebbe spinto ad inventare qualcos’altro.46

Philibert descrive Le Pays des Sourds come la rappresentazione, tra le altre cose, di un linguaggio puramente cinematico, quello dei segni. Il film successivo, Un Animal, des Animaux, anche se girato in contemporanea con Le Pays des Sourds (le riprese alla Galleria Zoologica si protraggono per più di tre anni) ne offre un altro, ineludibile e inevitabile. Qui le migliaia di cadaveri congelati, bloccati per (quasi) l’eternità rappresenta l’occasione per un nuovo rimando al cinema, alla pellicola, alla morte ventiquattro volte al secondo, una condizione immanente al cinema (e alla tassidermia). 46

L. Barisone, C. Chatrian (a cura di), op. cit.

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Le arti che consentono la vita illusoria dell’eterno. La possibilità di innescare e continuamente leggere in filigrana, decifrare in qualche modo il linguaggio cinematografico, confrontandolo con un contesto del genere, non è quindi certo sfuggita ad Allio, e nemmeno a Philibert. André Bazin è una delle chiavi per leggere anche questo film, oltre alla perlustrazione ineccepibile in cui ci coinvolge Philibert. Perché Bazin per primo ha universalmente chiarito quale sia la capacità del cinema di congelare e conservare per il futuro, un’immagine, un’immagine che appartiene al reale; il così detto complesso della mummia operato dalla pellicola cinematografica. Sono specchi e riproduzioni perfette – gli animali impagliati e il nastro di pellicola – e non è difficile trovare perciò in questa determinata situazione un reciproco doppio e una mise en abîme che ci travolge. Questo concetto, filosofico oltre che epistemologico, di teoria della conoscenza stessa, è stato sviluppato da Bazin nel fondamentale saggio l’Ontologia dell’immagine fotografica. L’idea si fonda sulla caratteristica insita nelle immagini in movimento di rendere l’illusione della realtà attraverso alcuni parametri come le grandezze scalari, la prospettiva, i rapporti interni allo spazio visivo; per Arnheim e anche per Jean-Jacques Rinieri, inoltre, la bidimensionalità, la riduzione dei sensi alla sola vista e ulteriori fattori differenzianti generano processi di identificazione compensativi, che acuiscono l’impressione di realtà e i fenomeni di croyance. È, in un certo qual modo, il cinema che si cristallizza in forme perfette, naturali, eterne. Una psicanalisi delle arti plastiche potrebbe considerare la pratica dell’imbalsamazione come un fatto fondamentale della loro genesi. All’origine della pittura e della scultura, troverebbe il “complesso” della mummia. La religione egizia diretta interamente contro la morte faceva dipendere la sopravvivenza dalla perennità materiale del corpo. Essa soddisfa con ciò un bisogno fondamentale della psicologia umana: la difesa contro il tempo. La morte non è che la vittoria del tempo. Fissare artificialmente le apparenze carnali dell’essere vuol dire strapparlo al flusso della durata: ricondurlo alla vita. […]

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È chiaro che l’evoluzione parallela dell’arte e della civiltà ha liberato le arti plastiche da queste funzioni magiche (Luigi XIV non si fa imbalsamare: si accontenta di un ritratto di Lebrun). Ma essa non poteva che sublimare a uso di un pensiero logico questo bisogno incoercibile di esorcizzare il tempo. Non si crede più all’identità ontologica del modello e del ritratto, ma si ammette che questo ci aiuta a ricordare quello, e dunque a salvarlo da una seconda morte spirituale. Non si tratta più della sopravvivenza dell’uomo, ma più in generale della creazione di un universo ideale a immagine del reale e dotato di un destino temporale autonomo. […] La fotografia e il cinema situati in queste prospettive sociologiche spiegherebbero in modo del tutto naturale la grande crisi spirituale e tecnica della pittura moderna che ha inizio verso la metà del secolo scorso.47

Interessante notare, non marginalmente, che il Museo vede la luce in piena epoca vittoriana, facendo parte di tutto un insieme di azioni e visioni atte a mettere in risalto la potenza e la cultura della civiltà occidentale, colonialista e predatoria. Il cinema, come logico, non fa eccezione: anzi se possibile consolida questa prospettiva, struttura e dà forma a questo immaginario, a questa visione del mondo in cui la centralità delle potenze coloniali ha come corollario il controllo, la conservazione e la catalogazione e la perenne disponibilità del tutto, del mondo nelle sue varie declinazioni e forme. Il problema, la sfida che si pone quindi a Philibert è di natura non solo linguistica, ma senza dubbio anche di natura tecnica, di approccio, e l’attenzione del cineasta va mirata in gran parte all’insieme di rapporti che si sviluppano tra i curatori del Museo e gli oggetti che sotto le loro mani assumono sembianze vitali. La continuità rispetto all’approccio tenuto ne La Ville Louvre è sicuramente evidente; il cineasta Philibert non può non essere interessato alla vita, al fluire delle relazioni. Le opere d’arte e la famiglia animale (anche se impagliata) sono centrali nella visione, ma l’universo animato delle persone che ci lavorano lo è anche di più. Di nuovo, come sempre, è un continuo rim47

A. Bazin, Che cosa è il cinema?, Milano, Garzanti, 1999

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balzo tra l’occhio del regista, quello dello spettatore e quello dei protagonisti della pellicola. Là dipinti e sculture, qui animali impagliati, occhi di vetro. Una sorta di museo delle cere, del mondo animale però. E se agli animali impagliati sono privi dell’essenza del cinema, il movimento, è Philibert stesso, con la mdp a mano, a conferire loro quella parvenza di vita che già la terza dimensione aiuta a vedere. La difficoltà di questi ritratti era legata al fatto che si tratta di animali, se così si può dire, che non sono più tali. Sono conservati, immobilizzati in posture che simulano la vita, ma alla fine sono soltanto degli oggetti. Dell’animale rimane solo l’involucro esterno, la pelle. Tutto il resto è artificiale, a cominciare dagli occhi che sono in vetro o cristallo. Quindi, per dare a questi ritratti una sembianza di vita, bisognava creare l’illusione di uno sguardo, cosa non facile. All’inizio filmavo sul cavalletto, ma era troppo statico. Mi sono accorto che quando giravo a spalla, cercando di muovermi il meno possibile, funzionava meglio, perché la respirazione del cameraman conferiva, comunque, un leggero movimento, che dava vita all’inquadratura. Bisognava anche creare un pallido bagliore nello sguardo, per cui avevo sempre con me una lampada tascabile e puntavo il fascio di luce in uno degli occhi dell’esemplare. Anche in questo caso, il fatto di tenere questa lampada in mano dava un leggero tremolio a questo bagliore e produceva l’effetto cercato. Il lavoro al suono, al montaggio ha fatto il resto! Non tutte le specie di animali si prestavano a questo gioco di illusionismo. Per avere la sensazione di uno sguardo, bisognava vedere i due occhi dell’esemplare. Però la maggior parte degli animali, diversamente dall’uomo, non hanno i due occhi sullo stesso asse, ma da una parte e dall’altra del cranio. Inoltre, tutto dipendeva anche dalla postura nella quale l’animale era stato immortalato. Certe posture sono più espressive di altre. D’altro canto, percorrendo i magazzini del museo, si capisce che la tassidermia è molto evoluta nel corso dei secoli, non solamente per quanto riguarda le pose, le posture on cui vengono presentati gli animali. Ci sono delle correnti, degli stili che si traducono nella percezione del mondo animale nelle varie epoche. Nel XIX° secolo,

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per esempio, si rappresentavano spesso delle scene di predazione, perché il mondo selvaggio era percepito come profondamente crudele. Oggi, si cerca di dar loro delle espressioni più neutre. È l’uomo a essere considerato il predatore principale».48

La sequenza della creazione del tasso è a suo modo emblematica: un accadimento soprannaturale, una rinascita, porta il fantasma dell’animale a prendere forma, anche se non è altro che una serie di fili di ferro intrecciati e un po’ di paglia ben sprimacciata a dare sostanza al corpo, alla pelle del tasso. Gli occhi, il vettore necessario a vedere altro che un oggetto sono apposti in un secondo momento, e vengono scelti da un cassetto dove sono presenti altre coppie di globi, altre anime per altri fantasmi. La figura dell’imbalsamatore, del professionista in tassidermia, quindi, assurge a demiurgo, a vero e proprio deus ex machina che, cucendo il ventre e dando forma con la plastilina al muso della bestia, conferisce un corpo ad un fantasma. Un’operazione degna dell’attenzione di un cineasta come Philibert.

Decoupage di una sequenza Analizzando la sequenza dell’imbalsamazione si nota che essa è costruita attraverso una scomposizione della scena in due microsequenze, in montaggio alternato con altre scene: l’operazione del tassidermista è mostrata quindi in due momenti, che sono separati da altre sequenze del film. In totale la somma delle due porzioni supera di pochi secondi il minuto e mezzo. Nella prima parte, l’imbalsamatore mette in forma il corpo dell’animale (un tasso) ponendo paglia al suo interno e cucendo poi la pelle. Quattro inquadrature sono fisse, e riguardano alternativamente il dettaglio delle mani all’opera, un piano americano dell’uomo in piedi (10”) e un primo piano dello stesso (13”) seduto al suo banco di lavoro. 48

L. Barisone, C. Chatrian (a cura di), op. cit.

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Mentre se per quanto riguarda le riprese frontali dell’operatore il punto di osservazione è lo stesso (fot. 2, fot. 5), per i dettagli delle mani le inquadrature sono sullo stesso asse, ma dai lati opposti (fot. 1, fot. 3); abbiamo quindi un raccordo sull’asse ribaltato di 180°. Importante notare come la durata della prima inquadratura delle mani (10”) sia più lunga della seconda (5”), forse anche perchè la prima da il via alla sequenza dell’imbalsamazione del tasso (fot.1). In mezzo a questa prima porzione di sequenza troviamo un primo piano di un primate, forse un surili, (4”) che osserva incuriosito la scena (fot. 4). È una situazione bizzarra, vedere un animale imbalsamato – apparentemente vivo – che osserva le operazioni per donare nuova vita ad un altro animale, morto in effetti anch’esso. Altrettanto curiosamente, si nota sul muso dell’animale una serie di aghi conficcati nella pelle, quasi fosse durante una seduta di agopuntura... Successivamente, tornati nell’atelier, assistiamo al termine del lavoro attraverso nove inquadrature. La prima di queste (4”) per mezzo di un piano americano del tecnico in piedi dietro al tavolo da lavoro, ci riporta in continuità con quanto accaduto precedentemente (fot. 6); poi, le seguenti quattro inquadrature brevi (comprese tra i 5” e gli 8”) illustrano la messa in forma del corpo e il posizionamento della plastilina sul

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muso. Sono tutte e quattro inquadrature riprese dallo stesso punto di osservazione, ma mentre la prima tra esse è leggermente più larga, le seguenti tre sono identiche come angolo e taglio dell’inquadratura (fot, 7, fot. 8, fot. 9, fot. 10).

Il primissimo piano del tassidermista (4”), come per la precedente parte della sequenza, è raccordato con un ribaltamento dell’asse di 180° rispetto alle quattro precedenti inquadrature (fot. 11). Si torna poi – con un nuovo salto di 180° – sul muso del tasso (7”), per una nuova inquadratura delle mani al lavoro (fot. 12).

La penultima ripresa mette in scena la scelta degli occhi (13”), che vengono prelevati da un piccolo cassetto pieno di altri sguardi potenziali (fot. 13).

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Finalmente il tasso riprende vita, con un ultima inquadratura (7”), quella del posizionamento dell’occhio sul muso ormai definito (fot. 14). Questa inquadratura, tagliata come quattro delle precedenti, permette di ricostruire sommariamente uno schema della seconda microsequenza in questo modo: A-B-C-D-C-E-C-F-C.

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La Moindres des choes Il labile confine della normalità

Una donna sta cantando il canto di Orfeo a Euridice. Un canto tristissimo, senza speranze, pieno di malinconia. È in un bosco, all’ombra di magnificenti fronde. Stacco. Claude, uno degli ospiti della clinica psichiatrica di La Borde, passeggia, o per meglio dire deambula faticosamente, trascinando i piedi lungo i prati intorno al bellissimo castello che ospita la clinica. Claude attraversa il campo, da destra a sinistra, lentamente, in una lunga inquadratura. Stacco. Claude, di nuovo, è ripreso mentre cammina, in una nuova, lunga inquadratura. Ma non è il solo: con un uso ironico del montaggio vediamo in successione altri pazienti della clinica, come Hervè, che girovaga nel giardino, incespicando. E poi altre due, tre persone, persino il giardiniere, vengono mostrate, con inquadrature più brevi. La sequenza iniziale, di approccio a questo sistema particolare, a sé stante, si conclude con l’inquadratura in campo totale del castello di La Borde, che diviene anche la prima tessera, o inquadratura, della successiva sequenza, nella quale si entra materialmente dentro alla clinica. Nella sala da pranzo inondata di luce, una donna sta apparecchiando le tavole. Intorno a lei, persone con lo sguardo fisso, immobile, attonito. Hervè, lui solo, interrompe la stasi con un suo canticchiare sommesso. Dalla cucina arrivano dei suoni indistinti; è il cuoco, che nell’inquadratura successiva suona la campana per annunciare il pasto: il suo movimento è scomposto, goffo anche se pieno di simpatia e allegria, e la presenza della camera induce in lui qualche istante di esitazione, subito scacciata dall’impegno alla campana… Stacco. Ci troviamo ora nel giardino, durante le prove dello spettacolo; sarebbe meglio dire che, più che prove vere e proprie, sembrano esercizi preparatori per la voce e la dizione. “Le tambureaux de Lord Blotton, le tambureaux de Lord Blotton, le tambureaux de Lord Blotton…” è lo scioglilingua che il gruppo teatrale ripete all’infinito,

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dai toni più bassi e lenti, a quelli più alti e veloci, senza soluzione di continuità. Scopriremo in seguito che questa è veramente una porzione dello spettacolo teatrale che porteranno in scena a ferragosto: Operette, di Witold Gombrowicz. Risulta parecchio divertente, soprattutto per gli stessi partecipanti, un modo per prendere confidenza con la propria voce e il gruppo di lavoro stesso, il proprio spazio in relazione con quello circostante. Si studia poi l’entrata in scena di un biascicante Patrick, che deve recitare una filastrocca, o un’aria lirica o una qualunque canzone popolare a propria scelta; il problema è piuttosto quello di ricordarsi le parole, anche se il risultato, con la tuba in testa e il bastone tra le mani, non è per niente male: una presenza scenica di tutto rispetto. Ma a La Borde non c’è solo teatro, questo luogo è soprattutto un luogo di contenimento del disagio, è una clinica per sofferenti di malattie psichiche. Le lenzuola che, con movimento ipnotico, vengono piegate (da una addetta? da una paziente?) riportano su un fianco la stampata con il nome di la Borde, come un ospedale, come una qualunque istituzione, in qualche modo anch’essa istituzione totale, anche se con numerose eccezioni come nel caso di La Borde. Per ricordarci ancora meglio dove siamo, Philibert insiste con la lunga scena delle pasticche, che vengono tolte dai loro blister e, per praticità, inserite in scodelle contenenti medicinali dello stesso tipo: pastiglie rosa, pastiglie azzurre, pastiglie bianche. Gli addetti (qui non ci sono dubbi, per fortuna) con il loro atteggiamento distaccato denotano la banalità di tali occupazioni, quasi noncuranti o indifferenti degli effetti che abbiamo appena notato sui pazienti, gli ospiti della struttura. È la psichiatria, senza alternative. Si torna alle prove, troviamo Andrè Giroud, autore delle musiche del film (e dello spettacolo), con Marie Leydier, la regista dello spettacolo, che discutono dell’ambientazione sonora dello spettacolo: ci vorranno musica e molti suoni, per l’intera durata della rappresentazione. Le prove continuano con la ripetizione delle parti, da seduti, con il copione tra le mani. Hervè cammina, deambula disordinatamente: il ragazzo, con uno sguardo tra l’assente e il concentrato su dimensioni inconoscibili, è uno dei veri protagonisti del film, scelto insieme a

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Claude e a Michel, tra gli altri, quali soggetti privilegiati della narrazione. Dentro una sala ricreativa adesso Hervè è in silenzio, poi inizia a emettere borborigmi strani, mentre un altro ospite della clinica scherza con Philibert – lo chiama Cocolas al posto di Nicolas – guardando in macchina e definendolo completamente pazzo: ma qualche istante dopo, pentito, osserva che sono i pazienti ad aver bisogno di cure e attenzioni… Fuori, Andrè alla fisarmonica intrattiene un canuto paziente prima con l’inno nazionale, poi una ballata popolare: e lo sguardo profondo che rivolge anch’egli alla mdp, con un grande sospiro finale, è un tentativo di comunicare l’impossibile, di trasferirci una sofferenza che non è esprimibile a parole, e che sicuramente non basta guardare in faccia. D’altra parte, la solitudine non può permettersi un controcampo, un referente, è uno sguardo nel vuoto, è un’anima che si espone, che si offre a noi, silenziosa. L’azione si riscatta immediatamente, sale sul palco assieme a due ballerini, che danno vita a un ballo al suono della fisarmonica. I tempi, nel giardino sono lenti, dilatati. Invece, con Michel al centralino telefonico, la frenesia si impadronisce dello schermo, nonostante la sua gentilezza e savoir faire… Si torna alle prove, sempre con Michel, sempre la medesima scena dell’arrivo di: “Agenore, il bell’Agenore”, e qui si assapora il passare del tempo, della ripetizione, del mutamento, di una situazione che solo apparentemente è identica a se stessa. Sempre Michel, ora è frontale alla mdp, sguardo in macchina mentre colloquia con Philibert, ci parla della rappresentazione teatrale, spiegandoci che preferisce il terzo atto perché è il più caotico, il più “scombussolato”, ed è quindi, per qualche motivo, maggiormente consono all’ambiente della clinica, e al proprio. Forse tutte quelle pastiglie che l’infermiera sta riponendo nelle confezioni individuali contribuiscono a questo stato confusionale? O pone un margine a tutto ciò, in qualche modo? Philibert non ci fornisce risposte, piuttosto preferisce mostrarci Claude, nei suoi faticosi movimenti e nelle sue dolorose stasi che, si chiede/ci chiede come

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sia possibile sopportare tanto dolore. La risposta si continua a non ottenerla, forse perché non si ha. Lo straccio per lavare le stanze, i letti tipici di un ospedale le inferriate mancanti alle finestre non sono una risposta, perché di nuovo, non la si può trovare. Senza tristezza, in ogni caso, si torna alle prove: Philippe sta provando uno strumento a percussione che Andrè gli ha dato, non è facile trovare il ritmo giusto, sembra si trovi più a suo agio con i trampoli, facendo da istruttore a Hervè, non così goffo come si sarebbe potuto pensare vedendolo camminare. In cucina Marie, il cuoco, Michel e altri stanno preparando la cena, in un ambiente tranquillo, scherzoso e famigliare; è una scena che fa coppia con la seguente dove il direttore della clinica, Jean Oury, legge, insieme a pazienti e assistenti, la lettera d’invito alla pièce teatrale: in una settimana dall’invio sono arrivate persino alcune donazioni, non c’è di che lamentarsi. Claude vive nel suo isolamento, che la regista cerca di rompere invitandolo a seguire le prove e a partecipare allo spettacolo: ma pare fatica sprecata; nelle prove di canto, invece, Jacques tenta di interpretare una parte piuttosto difficile, con successo. Per Marie Leydier, in ogni caso, gli aspetti da tenere a bada sono innumerevoli, da Hervè che non riesce a cantare perché impegnato a mangiare una madeleine, a Patrick che deve cercare si seguire più regolarmente le prove, con maggiore assiduità, impegno e concentrazione: manca poco alla rappresentazione! Più avanti nel film facciamo la conoscenza di Sophie, la disegnatrice, intenta ad eseguire il ritratto di Ginette: cerca di costringerla a tenere la fissità in una posa non semplice. È una scena tesa ma in qualche modo buffa; Sophie sembra divertirsi molto e Ginette un po’ meno, e se la fatica di entrambe non produce nulla di significativo, perché il disegno non è riuscito, una certa frustrazione prende corpo in Sophie. Hervè domanda alla camera se la pellicola è in bianco e nero o colore. Conoscere certe modalità di scrittura del cinema non sembrano in realtà così importanti. Tagliare la barba a Claude risulta essere una esperienza impegnati-

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va, non c’è niente che vada bene; ma siamo in un ospedale psichiatrico, che deve succedere? Dopo vari accadimenti all’interno dell’istituto, si esce all’aperto. Il pretesto sono le prove degli strumenti, la sperimentazione acustica della piastra di metallo. In realtà il piacere vero è rappresentato dall’incontro con le fronde, lasciandosi trasportare dal movimento ondivago delle foglie e delle loro ombre provocato dalla luce del sole e dal vento. È un aspetto ricorrente del film, sorta di orologio biologico che ci rammenta il passare del tempo, almeno a livello diegetico. Claude alza la testa al cielo: si sente tuonare, presto pioverà; ma la domanda di Claude è più incalzante: “dove vivranno i ciechi?”. Inizia a piovere, infatti, e le immagini di La Borde mostrano angoli inondati, grondaie piscianti acqua piovana, dettagli insomma, aspetti marginali che diventano centrali, essenziali al racconto. Nel frattempo Hervè disegna, tranquillo, nella sala ricreativa. Fuori piove. Le seggiole sono finalmente ad asciugare, la perturbazione è passata. Michel ricomincia le prove, e sulla panchina va in scena la commedia del corteggiamento, Hervè se la ride. Incontriamo Philippe dopo le prove di canto; è preoccupato per la rappresentazione. Ma il tempo stringe, siamo già alla prova costumi, Hervè, sempre lui, ci mostra il suo abito da barone con le ciabatte ai piedi, un gran bel contrasto. Sophie mostra a Philibert il suo disegno per la locandina, che è già pronta, ed è bella, si merita i complimenti che riceve. Il disegno rappresenta un suonatore di jazz, e alla domanda di come abbia scelto di lavorare, per realizzare il disegno, Sophie risponde in maniera esemplare: “con la mente e con la coscienza”. La regista introduce al pubblico la pièce teatrale, che inizia: nel pubblico attento follia e presunta normalità si confondono, si perdono i contorni, e lo spettacolo va avanti, prosegue… Ma il tempo riservato da Philibert allo spettacolo è esiguo, non si inseguiva nulla, e già risultano più importanti i lavori di pulizia e smontaggio del palco: Michel fa alcune considerazioni fondamentali nell’economia del film: “la società mi ha ridotto così, e la stessa mi ha migliorato”. E poi: “non parlate mai della vostra salute al vostro medico, vi renderà schiavi!” eccetera. E si ricomincia. Si cammina, all’aperto.

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[…] L’idea di confrontarmi con l’universo psichiatrico mi faceva paura; e non sapevo come evitare di essere intrusivo. La gente che a La Borde soffre. Si pensa dunque che siano lì per essere lasciati in pace. Insomma, non vedevo come si potesse legittimare la presenza di una macchina da presa in un posto del genere. Ma, a poco a poco, mentre facevo la lista dei miei scrupoli, il personale e i malati hanno cominciato a incoraggiarmi. Non dovevo credere che solo perché pazzi, si sarebbero lasciati strumentalizzare dalla cinepresa. Sarebbero stati lì per guidarmi… Così, mi hanno aiutato a superare i miei dubbi e, cautamente, i timori che avevo si sono trasformati nel desiderio di affrontarli. Ma il vero scatto, l’ho avuto quando ho saputo che avrebbero preparato uno spettacolo teatrale, come ogni estate. Dal momento che alcuni di loro erano pronti ad esporsi allo sguardo altrui, una macchina da presa poteva infilarsi…49

La Moindre des Choses è un titolo nodale nella produzione di Philibert. Giunge temporalmente dopo le esplorazioni museali e l’incursione nel mondo dei sordi, e si presenta come e vera propria esperienza filmica in sé, liberata dal peso di una esposizione e da quello del confronto con i propri soggetti in un approccio meramente frontale (le interviste ne Le Pays des Sourds). In questo film, per la prima volta nella cinematografia di Philibert, c’è un andare incontro all’altro, a corpi in qualche modo estranei, indifesi, senza alcuna mediazione, soluzione sintattica che non sia l’esperire l’incontro, l’esserci, lo stare insieme, vicini. La responsabilità in qualche modo s’ingigantisce, quindi, esplode nella volontà di costruire una narrazione attraverso la guida di persone afflitte da disagio, che non percorrono insieme al regista (e quindi allo spettatore) un itinerario prefissato, e che sono coinvolte molto poco e moltissimo a seconda di quale che sia il punto di osservazione nel quale ci poniamo. Jean Luis Comolli spiega perfettamente come sia strutturata questa condizione, questo momento.

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L. Barisone, C. Chatrian (a cura di), op. cit.

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Questo film pone la questione del corpo filmato in tutta la sua estraneità: noi, spettatori di questo film veniamo confrontati con la questione del corpo dell’altro – che è anche la questione dell’alterità di ogni corpo. Secondo me, questo film rientra interamente nell’affermazione che la questione fondamentale del cinema è proprio la relazione tra corpo filmato e macchina filmante. Come analizzare ciò che accade tra il o i corpo(i) filmato(i), il o i corpo(i) filmante(i), il corpo dello spettatore, e il dispositivo meccanico che li collega gli uni agli altri, che li connette attraverso di sé – e soltanto attraverso di sé? Che ne è delle relazioni tra chi sta da una parte (corpi filmanti) e dall’altra parte della macchina (corpi filmati) – trovandosi il corpo dello spettatore in qualche modo da tutte e due le parti insieme, successivamente o nello stesso momento, secondo la legge oscura di un desiderio di ubiquità… di un desiderio di dividersi o di spezzarsi – chiamiamo questo: proiezione – che, per impossibile o irrazionale possa sembrare, è la condizione stessa di partecipazione alla scena, alla rappresentazione? Che ne è, insomma, di questa posizione impossibile dello spettatore quando, sulla scena, ogni corpo rappresentato non è assolutamente al posto che la società (o l’ideologia, il sistema di credenze, le norme mediatiche ecc.) gli assegna?50

Altro elemento sul quale occorre focalizzare l’attenzione è come questo rapporto con i corpi sia privo di qualunque intenzionalità descrittiva, morbosa, e quanto poco Philibert tenga a discriminare attraverso le riprese i vari elementi che compongono questo suo mondo filmico: la prima scena del film chiarisce inequivocabilmente, da manuale, questa intenzione. Assistiamo infatti ad un canto, estremamente dolente, di una donna, all’interno del parco de La Borde. È il canto – dell’opera settecentesca di Christoph W. Gluck – nel quale Euridice narra il proprio incolmabile dolore per la perdita di Euridice. Il canto espone una tristezza profonda, una pena che, per contiguità, si potrebbe associare a quella di La Borde, sorta di limbo nel quale restano sospesi i corpi di chi soffre il disagio psichico. È, in fondo, un avver50 J.L. Comolli, “Tra noi”. La Moindre des Choses, Nicolas Philibert, in J.L. Comolli, Vedere e potere. Il cinema, il documentario e l’innocenza perduta, Roma, Donzelli, 2004

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timento nei riguardi dello spettatore, un metterlo in guardia rispetto al tema e all’ambientazione del film, sorta di filtro attraverso il quale cogliere l’intera tonalità della narrazione. La cosa è anche circolarmente ri-definita attraverso le parole conclusive di Michel, il quale afferma: “Siamo tra di noi, ma anche voi qui siete tra di noi”. Non basta. Per spingere ancora oltre le indicazioni di Philibert occorre tenere presente che la protagonista della scena, la cantante incrociata nel bosco, non è una paziente del castello, ma piuttosto un’appartenente allo staff. Con questa inestricabile ambiguità nasce la pellicola, ammonendoci rispetto alla nostra regola di visione, il nostro pregiudizio insomma, e ricordandoci quanto sia labile il confine tra normalità e il suo opposto, tra malattia e sanità. I primi giorni, non era pensabile girare. Abbiamo dedicato il nostro tempo a incontrare persone, ad essere lì, semplicemente. Ma questo non è poi così facile. La sofferenza di alcuni salta agli occhi. Inoltre bisogna essere all’altezza, perché i pazzi sono molto esigenti! Certo abbiamo anche cominciato a parlare di un progetto quando non si sa che strada prenderà.51

Gli avvertimenti di Philibert non si concludono con la prima sequenza. Il film, infatti, regge la propria struttura sulla ripetizione, fa della serialità delle prove teatrali per l’ormai tradizionale spettacolo teatrale di ferragosto l’architrave narrativo del film. Philibert ha bisogno di una mediazione del genere perché, letteralmente, non vuole intromettersi nell’intimità della vita quotidiana dei pazienti. Il fatto di offrirsi allo sguardo altrui attraverso lo spettacolo teatrale permette perciò la possibilità al cineasta di mettersi in relazione con un movente, con chi vive a La Borde, avendo come punto di riferimento una direzione, un obiettivo temporale; il giardino è la sede delle prove, e anche dello spettacolo, e offre, magicamente, un punto di incontro. Uno spazio necessario. La ripetizione, si diceva, e i suggerimenti offerti da Philibert: è necessario distinguere attentamente di che materia essi sono impastati, per51

L. Barisone, C. Chatrian (a cura di), op. cit.

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ché riguardano in maniera ambivalente la forma e il contenuto del film. Il contenuto è la narrazione – la trama non si potrebbe dire – ma la forma è l’occhio, è il montaggio. Le informazioni che a volte riceviamo sono quindi spesso duplici, dense di senso oltre la superficie che vediamo. La camminata di Claude, il suo faticoso e lento attraversare il campo, è seguita da quelle di altri pazienti, dal lavoro del giardiniere. Philibert ci invita a fare attenzione ai dettagli, perché è anche da questi che si emana personalità e umanità. E la sua pellicola illustra piccole “cose”, che vibrando una insieme all’altra, creano una cassa di risonanza, un armonica potente e continua, l’aria del film. Le camminate ripetute anticipano le ripetizioni delle prove dello spettacolo, la sostanza del film, e se c’è la sofferenza, appare in campo lungo, quasi privata, celata allo spettatore. Non assistiamo ad alcuna intrusione nella sfera del privato dei pazienti, nemmeno – peraltro – in quella dello staff. Soprattutto un’alternanza tra lo spazio teatrale e quello quotidiano, tra l’interno della clinica e il giardino del castello; la confusione tra la norma e la deviazione, si fa completa, il flou è totale su alcuni aspetti, ma si azzera in certi incontri, in alcune espressioni o frasi dei degenti. L’incontro tra un paziente e la fisarmonica di Andrè Giraud è speculare a quello con la mdp, ma la differenza è che lo strumento del filmare capta l’anima sotto la superficie del reale, l’attira ipnotizzandola, e ce la rende, come un sospiro. E si resta senza fiato. Per me, le situazioni quotidiane contavano quanto le prove [in francese répétitions, ndr] teatrali. Dopo tutto, non poteva essere altro che un pretesto. Mi è servito da filo conduttore, mi ha regalato la possibilità di essere rapidamente prossimo alle persone senza dover mettere in atto un’intrusione dentro la loro intimità. […] Teatro o no, si trattava soprattutto di mostrare come si cercano le persone, come si sperimenta di ricevere i desideri di ciascuno, di creare un legame, di offrire agli ospiti [della clinica, ndr] l’occasione di mantenere un contatto con la realtà.52 T. Jousse, J.M. Lalanne Sur La Moindre des Choses, Intervista a Nicolas Philibert, Les Cahiers du Cinéma n° 511, marzo 1997, pubblicato sul sito del regista (http://www.nicolasphilibert.fr) 52

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Proprio l’attenzione alle minime situazioni, la costante capacità di generare epifanie tra chi è in campo e chi ne è fuori, Philibert e noi, prevede un avvicinamento che pretende la fiducia tra soggetto filmante e soggetto filmato, una familiarizzazione necessaria che Philibert trova avvicinando lentamente le persone attraverso le inquadrature e la creazione di un’intimità confidenziale piuttosto che aggredendo i pazienti, cercando gli aspetti gioiosi della situazione clinica, ed evitando quelli traumatici. Il gioco del teatro si materializza nel film, e pervade l’intera pellicola della propria transitorietà e magia, sublimando il quotidiano della sofferenza psichica, della solitudine e del disagio (dell’incapacità di poterlo comunicare) in qualcosa di diverso; in effetti il film accompagna piuttosto che spiare e osservare dall’alto di un’impossibile superiorità il percorso verso ferragosto di una comunità particolare. Philibert ha l’ardire di spostare verso la fiaba piuttosto che verso la scrittura clinica (e in qualche modo dedita alla sorveglianza) la sua narrazione, cercando di alleggerire e rendere familiare dell’istituzione manicomiale di La Borde; questo avviene soprattutto per quel che concerne i suoi abitanti, perché coerentemente – per esempio – Philibert ci mostra l’aspetto farmacologico delle cure psichiatriche, sempre, però, sospendendo il giudizio. Se c’è una volontà precisa che anima il film, è sicuramente quella di non voler rendere un altro esempio di folklore della follia, mostrando gli aspetti più pregiudizialmente tipici della condizione del “matto”: l’incoerenza, la confusione cronica, la violenza, l’alienazione. La mancanza di attrazione all’idea di ripetere esplorazioni nell’alterità per rendere visibile quella supposta differenza che divide gli anormali dal resto del mondo va spiegata, forse, nel fatto che Philibert applica coerentemente fino al limite la funzione istituzionale del cinema documentario. Se, infatti, il documentario è l’arte di avvicinare il distante, l’esotico, lo sconosciuto, non è detto che debba farlo solamente esaltando l’abisso che ci separa, quanto piuttosto presentando l’infinitesima vicinanza che ci accomuna, che ci confonde. Se, insomma, il documentario è profondamente riformista nel suo continuo mediare tra noi e la proiezione, nel metterci in contatto e compresenza, La Moindre des Choses è un film che incarna questa idea

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completamente, scrivendo attraverso un linguaggio cinematografico che fa della ricerca dell’essenziale (nei fatti minimi, marginali) la propria forza, la propria unicità. C’è sicuramente qualcosa che rende il film spiazzante. Certi pazienti non hanno l’aria di malati. Non urlano le proprie angosce. In più, non voglio dire alla gente cosa pensare di questo posto, o della psichiatria. Io non ho denunciato nulla. Io volevo fare un film con delle persone, sperando che lo spessore singolare degli esseri umani prendesse il sopravvento rispetto all’a priori che si possa avere su di loro. Ho tentato anche di far ridere. Si ride parecchio, con i pazzi. Da quando queste persone non hanno umorismo, compreso su loro stessi? […].53

Quest’abilità nell’ottenere un risultato così sorprendente e toccante, quest’apparente semplicità nel descrivere l’umanità che così distante potrebbe apparire affidandoci al pregiudizio sociale non passa però attraverso una serie di tappe forzate, predeterminate, sorta di mappa dettagliata per raggiungere una qualche verità delle effimere coincidenze della realtà di La Borde, tutt’altro. Philibert aveva ben presente cosa era fondamentale fare durante le riprese, quale fosse l’atteggiamento da tenere o quale fosse la propria personale, singolare, individualistica giusta distanza dai soggetti, ma questo ancora non è racconto, non è film, non è forma cinematografica. I passaggi sono molto più faticosi. Avevo accumulato ore ed ore di riprese, ma era come se avessi inseguito qualcosa che mi fuggiva sistematicamente. Naturalmente non avevo modo di tornare indietro! Mi sono dunque messo al montaggio, ho visto due volte l’insieme del girato e ho cominciato a riprendere fiducia, e a ri-centrare le cose. Di getto ho scartato gran parte del materiale per conservare come base del lavoro, solo tre ore di riprese. Attraverso le prove teatrali avevo un filo conduttore, una cronologia. Ma ho voluto che il film oscillasse tra il teatro e le situazioni più quotidiane. Ho montato il film in una maniera molto intuitiva, senza fare piani generali della struttura. Ho riflettuto sulla prima scena, 53

Ibidem.

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l’ho montata, poi ho cercato quello che doveva venire successivamente, e così di seguito fino alla fine. Tutto il film è costruito per associazioni, da una scena all’altra, empiricamente. Oggi, mi rendo conto che il risultato finale è molto fedele alla dichiarazione d’intenti che avevo redatto prima del montaggio.54

Decoupage di una sequenza La sequenza che si va ad analizzare è piuttosto lunga ed articolata, e potrebbe essere letta come quella “del temporale estivo”. Presenta diciotto inquadrature, suddivise tra la descrizione dell’ambiente (quattordici inquadrature fisse) e dei personaggi (quattro inquadrature). Le quattro inquadrature che comprendono alcuni dei pensionati della clinica – rispetto alle inquadrature del parco di La Borde – sono molto più lunghe delle altre, e accompagnano osservando alcuni momenti della vita degli stessi. La prima inquadratura (37”), presenta Philippe e Andrè che sperimentano una lastra di metallo come strumento utile a produrre effetti sonori: in questo caso il risultato assomiglia molto da vicino al rumore del vento e dei tuoni, che dovrà caratterizzare la seconda parte della rappresentazione; una anticipazione del tema della sequenza (fot.1). Le due successive inquadrature mostrano in qualche modo il vento, che agita le fronde di alcuni alberi del parco. Sono due inquadrature praticamente speculari, eccezzion fatta per la durata: la prima (10”), durata esattamente la metà della seconda (20”); in questo caso, quindi, oltre a vedere il vento, osserviamo il trascorrere del tempo (fot. 2 e fot. 3). 54

Ibidem.

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La quarta inquadratura mostra Jean-Claude che scruta il cielo, mentre ascoltiamo il suono dei tuoni e del temporale che si avvicina (37”). All’improvviso, con uno sguardo in macchina, Jean-Claude si interroga e ci interroga rispetto ad un quesito impossibile da risolvere: dove vivranno mai i ciechi? (fot.4). Le successive sette inquadrature descrivono il temporale: sono tutte inquadrature di breve durata (dai 5” ai 10”), in campo fisso, che porzionano alcuni elementi ed illustrano gli effetti del temporale come gli alberi e gli animali (il gatto, l’oca), ma pure una tettoia, un tombino, una grondaia: ecco dove finisce tutta quest’acqua (fot. 5 - fot. 11).

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La dodicesima inquadratura (39”) presenta Hervé impegnato a disegnare in una sala della clinica. Sentiamo ancora infuriare il temporale, ma in modo soffuso, qui siamo protetti, al sicuro dalla pioggia. Questa inquadratura è più articolata delle precedenti (e delle successive) perchè è composta, all’inizio e alla fine, di due brevi zoom (in uscita il primo, a chiudere il secondo), che danno forma a questo momento (fot. 12a, fot. 12b, fot. 12c).

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Il temporale è passato, la sequenza si avvia verso la propria conclusione, attraverso cinque inquadrature a campo fisso che descrivono vari elementi: le fronde, le sedie bagnate, un copione perduto tra le foglie, il bosco, le sedie ad asciugare. Anche questa serie di inquadrature, come le precedenti che descrivevano il temporale, sono di breve e simile durata (dai 5” agli 8”); è tornato il silenzio, pare proprio di vedere la quiete dopo la tempesta (fot. 13 - fot. 17). Il riferimento che le inquadrature precedenti suggeriscono viene citato letteralmente nell’ultima inquadratura, la più lunga (90”). Nel piano sequenza, infatti, si vede Michel ripetere le prove, da solo, su una panchina del parco. Ed è proprio il testo che Michel sta cercando di ricordare che accenna a considerazioni climatiche. Ma è tornato il sole, e riprende la vita di tutti i giorni a La Borde (fot. 18).

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Etre et avoir Del piacere dell’apprendere

Campagna francese innevata. Vacche al pascolo. In classe, protette, due tartarughe attraversano lentamente il campo. Lo scuolabus, un vecchio Renault Trafic bianco, attraversa strade gelate per recuperare i bambini. Oltre al buongiorno e allo sbattere della portiera, solo silenzio e il rumore del furgone sulla strada. Gli scolari sono taciturni, assonnati. Marie, bellissima bimba dai tratti orientali, guarda la bufera fuori dal finestrino. Si arriva a scuola non solo con lo scuolabus, ma anche a piedi: due bambini discutono, bisogna darsi bene la mano, per strada, anche se in piena campagna. In classe, inizia il lavoro quotidiano, i più piccoli stanno copiando la parola mamma, alcuni vanno bene, altri sono un po’ sghimbesci, ad un altro manca una gambetta. Jojo, uno dei bambini che maggiormente ritroveremo nel corso del film, si chiede se sia mattino o pomeriggio… ma il pomeriggio viene dopo il pranzo, e ancora non si è mangiato, spiega il maestro, monsieur Lopez. Questa e altre situazioni vediamo, come il racconto di Axel sui suoi incubi: vede i fantasmi di notte in camera, ma sono divertenti, sempre vestiti di bianco. Ci soffermiamo a guardare dalla finestra, fa freddo fuori, gli alberi sono gonfi di neve, scossi dal vento. Le attività sono numerose, in una classe unica, bisogna scrivere il dettato, si fa la conta degli amici, e iniziamo a conoscere meglio i volti degli studenti, una dozzina in tutto. La notte, il maestro Lopez ancora lavora e prende appunti, al piano superiore dove abita, mentre la classe è silenziosa e calma, vuota. In classe succede quello che ci si può aspettare: i bambini disegnano, si chiacchiera con il maestro sui numeri appresi, ma s’impara anche a cucinare le crêpes, e c’è pure il tempo di fare ricreazione nei prati innevati, urlando sui bob. Al rientro, i guanti fanno bella mostra sopra la stufa, ad asciugare. La classe è il vero ricovero dai rigori dell’inverno, offre protezione

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e calore, anche se si continua ad imparare: Nathalie cerca di capire la differenza tra raggio e diametro, mentre i ragazzi più grandi aiutano i più piccini nei loro compiti. Vediamo il bimbo andare a casa con la sua bicicletta, placido e sereno, ma osserviamo anche la tensione che si crea in seguito ad un litigio tra Olivier e Julien, ci pensa la voce del maestro, a noi basta solo quella, a chiarire le cose. A casa di Julien tutti – padre, madre, zio e fratelli osservano ed aiutano lo scolaro con le moltiplicazioni, ed è uno spasso; la sua famiglia fa dell’allevamento la propria attività economica, e anche Julien fa la sua parte, in stalla come sul trattore, persino ai fornelli, in cucina. Tornati in classe, assistiamo alle ipotesi sul futuro lavorativo dei bimbi, c’è chi vuol fare il motociclista, chi il veterinario, la maggioranza vuole fare il maestro, come il signor Lopez… La famiglia di Julien non è l’unica a lavorare in campagna: anche quella di Nathalie alleva bestiame, e le operazioni, in cucina, avvengono nel silenzio; Nathalie è una bambina silenziosa, troppo. La madre, al colloquio con il maestro, lo fa presente, e il signor Lopez le spiega che forse sua figlia vive un po’ troppo nel suo mondo, bisogna darle del tempo per aprirsi, non è utile forzarla. Correggendo il dettato, il maestro riflette ad alta voce, sono oramai trentacinque anni che insegna, il prossimo anno sarà in pensione: che farà del proprio futuro, chiedono i suoi studenti, andrà forse a Tahiti? Forse che Tahiti sia meglio di qua? Risponde il maestro. La neve è sparita, ha lasciato il posto alla pioggia che, durante una ricreazione, è testimone di un litigio tra Johan e Jojo. Una cosa da nulla, l’intervento del maestro è risolutore, basta chiedere scusa e la cosa è passata. Andiamo ancora in visita alla casa di Olivier, che silenziosamente svolge i propri compiti insieme alla madre, ed assistiamo ai primi segnali dell’arrivo della primavera: un albero in fiore, i campi coltivati, il verde intenso della campagna dell’Auvergne, nel cuore della Francia. Il maestro cura anche il giardino, e si interrompe per raccontarsi: il padre, di origine andalusa, si trasferì qui per fare il bracciante, poi riuscì ad acquistare un piccolo appezzamento di terra, riuscì a farlo

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studiare, anche attraverso sacrifici economici; questo è un fatto che riempie di fierezza il figlio così come i propri genitori. Insegnare è sempre stata una necessità, per Georges Lopez, il maestro. Perlustriamo l’ambiente esterno, assaporando la bellezza di un tramonto dietro le colline, come dell’andatura la silhouette di una solitaria vacca al pascolo, in controluce. Si torna a scuola; Jojo e Marie cercano di fotocopiare la pagina di un testo, che disastri. In classe, Johann componendo frasi con i cartoncini fa infuriare bonariamente il maestro: vede parole che non ci sono, e poco dopo arriva il tecnico delle fotocopiatrici… Si va anche in visita alla scuola media, il collège. Qui verranno Julien e Olivier, l’anno prossimo. L’incontro riservato tra il maestro e lo stesso Olivier, nel giardino della scuola, è pieno di angoscia, suo padre è stato operato alla laringe, il ragazzo sembra soffrire moltissimo la situazione. Ritroviamo la calma osservando i campi, i panorami, il vento e gli alberi. Si respira aria di fine anno scolastico, Nathalie spegne le candeline sulla torta, e un acquazzone sorprende i bambini. Ma è arrivata senza dubbio la buona stagione, si fa lezione in giardino, persino i banchi sono sul prato sotto le fronde. Giunge il momento anche per la gita, si va in treno a fare un pic-nic, Alizè si è persa nei campi, tra l’erba alta, la si cerca con alte grida, ma eccola, ella è già tornata… C’è ancora il tempo per fare la conoscenza di nuovi bambini che l’anno prossimo frequenteranno la scuola, e poi è già l’ultimo giorno, un saluto e un bacio al maestro, un augurio di buone vacanze e Georges Lopez si ritrova solo, un po’ commosso sulla porta della classe. Un altro anno è passato, la scuola ora è chiusa, si sentono le rondini garrire, si vedono i campi con il fieno già tagliato. Fine. Volevo mostrare una micro società che funziona sull’eterogeneo, sulla mescolanza delle età, in un mondo che io trovo sempre più diviso ed individualista. Oggi, le generazioni comunicano poco tra di loro: i giovani fanno gruppo a sé e i vecchi sono messi da parte… Allora sì, è vero! Sono sensibile a questa mescolanza di esperienze e di saperi. Al fatto che in queste classi, gli uni e gli altri imparino a diventare autonomi,

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a essere responsabili di se stessi e solidali con l’insieme. Questo non vuol assolutamente dire che altrove ciò non esiste, ma che in quelle classi non c’è alternativa: il maestro o la maestra non possono occuparsi di tutti nello stesso tempo. So bene che non si tornerà indietro e che quello che è ancora all’opera in queste classi non sarà esportabile tale e quale in ambito urbano. Ma sono convinto che è possibile trovarvi degli elementi di riflessione per immaginare la scuola di domani. Non si tratta di esaltare il passato, ma neanche di condannarlo in quanto tale, come spesso si fa oggi, in nome del rendimento e della modernità.55

Per la prima volta in questa ricognizione tra le pellicole di Philibert trattiamo di un film di cui la location è stata completamente decisa a totale discrezione – e responsabilità – del regista. In tutti gli altri casi, da Christophe a La Ville Louvre, e da La Moindre Des Choses a Un Animal, Des Animaux Philibert in un certo senso, aveva davanti una scelta obbligata rispetto al set delle riprese. Anche nel caso particolare di Le Pays Des Sourds, che per certi versi si presenta come un film dove non si ha alcun luogo che eserciti una forza gravitazionale che monopolizzi in un fulcro l’azione per l’intera durata della pellicola, vi si può riconoscere nella scuola dei bambini non udenti uno dei centri di attrazione della pellicola. È pur vero che gli incontri con altri non udenti, determinano traiettorie e disegnano percorsi che allontanano di molto la narrazione dal luogo prescelto, come si era abituati a vedere in altri titoli. Ed è inutile sottolineare come in ogni caso Philibert scelga costantemente il set delle proprie riprese. Le Pays des Sourds era finora l’unico film di Philibert ad avere un centro diffuso, cioè il solo film nella produzione del cineasta transalpino in cui l’azione sia condotta, da forze centrifughe, a uscire dall’ambiente prescelto, ora anche con Etre et Avoir non ci limitiamo alla visione all’edificio scolastico, ma, usciamo, visitiamo diverse case di studenti, oltre ad accompagnare la classe in alcune gite collettive fuori dall’istituto; però riconosciamo subito la valenza straordinaria che Philibert affida direttamente all’edificio in sé, alle varie porzioni di 55

L. Barisone, C. Chatrian (a cura di), op. cit.

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spazio, arredamento, vita (le tartarughe, il cane) che corredano la piccola scuola rurale dell’Auvergne. In Etre et Avoir, molto similmente a Le Pays Des Sourds, la scuola è il luogo centrale della storia, dove troviamo una classe molto particolare, che Philibert, come si diceva, ha cercato a lungo e con pazienza. In qualche occasione è necessario aiutare il caso… Volevo situare questo film in una regione della mezza montagna, dove il clima fosse duro e l’inverno difficile. Prima di scegliere quella scuola, ne ho contattato più di trecento, e ne visitate più di un centinaio. Era importante trovare una classe con un numero ridotto di scolari (dieci o dodici allievi), in modo che ciascun bambino fosse identificabile e potesse diventare “personaggio”. Mi auguravo anche il ventaglio di età fosse il più largo possibile – dalla suola materna al CM2 [equivalente della prima media italiana, ndr] – per il fascino che emanano queste piccole comunità eterogenee, e per il lavoro particolare che essi esigono da parte dell’insegnante.56

Etre et Avoir è un film potente per la sua leggerezza. La forza del film risiede in uno sguardo complice e intimamente vicino agli studenti e al loro maestro, proprio perché interessato al processo che collettivamente mettono in atto, per mezzo sì di personaggi in carne e ossa, ma senza alcuna morbosità verso le singole vicende, stando attento piuttosto a fenomeni che per così dire richiamano agli archetipi, ossia che fanno parte dell’esperienza di un singolo individuo così come sono fenomeni universali. Il profondo fascino che esercita questa pellicola, questa immediatezza e onestà che lo fanno grande e semplice, risiede nella capacità di raccogliere una serie di eventi unici trasformandoli – nella loro composizione complessa e articolata – in fenomeni che superano la condizione e l’ambito ristretto della cronistoria di un anno scolastico per diventare narrazione collettiva di una regione (al limite) e di un insieme di personalità in evoluzione. Lo sguardo di Philibert non è però quello di entomologo, per citare Buñuel, il 56 N. Philibert, A propos de Etre et Avoir, pubblicato sul sito del regista (http://www.nicolasphilibert.fr)

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quale freddamente e forse cinicamente osserva e registra fatti, avvenimenti e comportamenti, ma piuttosto quello di un cineasta empaticamente coinvolto nello sviluppo delle azioni e degli avvenimenti che si succedono sul set. Legandomi ai “personaggi” di questa classe, ho voluto far condividere le loro prove, le loro gioie, i loro piccoli drammi. È un film molto aperto. Per quel che mi concerne, se io ho visto una certa gravità, perfino una certa violenza, allo stesso modo essa resta contenuta. Prima delle riprese, credo che avessi dimenticato quanto sia difficile imparare, più ancora quanto lo sia crescere. Questo tuffo nella scuola me lo ha ricordato con forza. Questo potrebbe essere il vero soggetto del film.57

In qualche modo lo stile documentario di Etre et Avoir diviene classico, puro nella propria forma, depurato ed esemplare. Sembra naturale che il seguente film segni uno scarto evidente rispetto alla produzione precedente: per un’ultima volta (fin’ora) ci si immerge in un ambito apparentemente estraneo a Philibert, si accompagna un microcosmo che non appartiene alla biografia del cineasta, e lo si compie con un rigore metodologico e un controllo degli elementi assolutamente ineccepibile. Per evitare di appesantire il meccanismo, forse è più interessante cambiare radicalmente prospettive ed orizzonti.

Decoupage di una sequenza La sequenza è una delle conclusive, quella della gita scolastica: venti inquadrature per circa due minuti e mezzo, distribuite con precisione algebrica tra la scena del pic-nic e quella della scomparsa di Alizé. Si potrà notare come i tempi e i tagli delle inquadrature siano giocati con un equilibrio perfetto, tra la presentazione della scena e dei personaggi – con la simmetria tra le inquadrature di apertutra e di chiusura, e la creazione della suspence poi, con i tempi di ripresa 57

Ibidem.

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dilatati, replicati, quel richiamo (“Alizé”) che come un mantra viene ripetuto, e il suono della campagna, delle spighe e delle cicale che inscrive tutta la sequenza nel quadro flou dei ricordi malinconici delle esperienze infantili, sfumate e confuse, felici e quasi mitiche, frutto di un sogno. La prima inquadratura (8’’) presenta una visione d’insieme: la classe si sta recando sui prati, per il più classico dei pic nicpotremmo dire quasi che già da questa immagine scorgiamo in questa sequenza il prototipo – il modello – di una situazione come questa. L’intero film, infatti, è costellato di avvenimenti tipici del genere (fot. 1). Le successive otto inquadrature sono ritratti, in primo piano, dei partecipanti al pranzo al sacco (tutte inquadrature della durata compresa tra i 3’’ e i 4’’), che denotano una simmetria perfetta tra le inquadrature che incorniciano il frammento (fot. 2, fot. 9), leggermente più lunghe, e le altre sei, più brevi (fot. 3, fot. 4, fot. 5, fot. 6, fot. 7, fot. 8).

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A loro volta, queste inquadrature sono incorniciate – reiterando la simmetria – da un altro campo totale, della durata simile al primo (6’’) e dalla composizione molto simile: in questo caso la composizione è ancor più statica, ma contiene il medesimo bilanciamento (fot.10).

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La seconda parte della sequenza, quella dello smarrimento di Alizé, presenta una struttura leggermente differente: A-B-B-A-C-B-A-B-B-D, nella quale Olivier appare tre volte (fot. 11, fot. 14, fot. 17), mentre il

maestro Lopez ben cinque (fot. 12, fot. 13, fot. 16, fot. 18, fot. 19). Risulta evidente la centralità del ruolo del maestro in questo brano del film, perchè assistiamo anche a una gerarchizzazione delle inquadrature dettata dalla durata dell’inquadrature. Se per Olivier e l’altro studente

(fot. 15), abbiamo una durata delle inquadrature mediamente inferiori ai dieci secondi, per quanto concerne le inquadrature del maestro troviamo iterazione delle inquadrature – in entrambi i casi con un raccordo sull’asse da un campo lungo a uno medio (fot. 12, fot. 13 e fot. 18, fot. 19) – e una durata media superiore, circa undici secondi.

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L’inquadratura finale, la più lunga della sequenza (fot. 19’’), è la prima senza la presenza umana, nella quale la catarsi si compie in un piano fisso della natura, con lungo primo piano delle spighe (fot. 20).

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Retour en Normandie Nel nome del padre

Il film inizia con un parto: in una fattoria imprecisata stanno nascendo dei minuscoli maialini, li vediamo uscire dalla vagina della madre, e iniziare a vivere. Non tutti, però, sembrano superare lo shock della uscita dal ventre materno, uno, più debole degli altri, sembra stia nascendo già morto; allora si rende necessario una sorta di massaggio cardiaco, che riesce, dopo alcuni istanti di incertezza, a tenere in vita il cucciolo. Superata questa fase, si passa a occupazioni più ordinarie: si tagliano i denti più prominenti ai piccoli, che possono così dedicarsi al nutrimento e la madre all’allattamento. Questo il prologo. Attraverso una serie di foto del periodo incontriamo il soggetto del film, storia di un altro film girato trenta anni prima: si tratta di Moi, Pierre Riviére, film del 1975 di René Allio. A questo film, come ci racconta Philibert, aveva partecipato, allora ventiquattrenne, lo stesso cineasta in qualità di assistente alla regia, insieme a Gerard Mordillat. Attraverso una successiva, lunghissima panoramica da destra a sinistra, ascoltiamo la storia di Pierre Riviére, assassino parricida che tolse la vita a madre sorella e fratello per punirli della condotta tenuta nei confronti del padre. Il film del 1975 è in qualche modo debitore del testo collettivo pubblicato sotto la supervisione di Michel Foucault, che narra, attraverso i documenti legali e medici, le pubblicazioni sui quotidiani e lo stesso testo – la Memoria – dell’imputato, la vicenda avvenuta quasi centoquaranta anni prima. Il testo redatto da Pierre Riviére è di una bellezza sorprendente, anche perché scritto da un giovane contadino che aveva imparato solo a leggere e scrivere. Entriamo in contatto con la vicenda narrata e il film di Allio attraverso la sequenza della mattanza, nella quale Claude Hebèrt, interprete di Pierre Rivière, armato di una roncola, uccide i suoi tre familiari. Una delle particolarità della pellicola di Allio è rappresentata dal fatto che tutti i personaggi della campagna – i contadini – siano stati

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interpretati, da attori non professionisti, recuperati sul luogo delle riprese. Ecco che allora l’impresa di Philibert è proprio quella di tornare in Normandia per incontrare alcuni di loro, a trenta anni di distanza, per intervistarli e scoprire insieme a loro il valore di quell’esperienza unica e in qualche modo irripetibile. Sfilano davanti a noi Joseph, che interpretava il padre di Pierre, Nicole, che incarnava una delle sorelle, Victoire, Gilbert, uno dei vicini di casa della famiglia Riviére, Annick, che impersonava Aimée, un’altra sorella di Pierre Riviére e Jacqueline, la madre, la famiglia dei Borel (il padre interpretava la parte dell’amante della madre di Pierre) e altri ancora. Per ciascuno di loro affiorano ricordi degli incontri e preziose testimonianze di quell’esperienza, veramente formativa sia per chi all’epoca era poco più che adolescente sia per chi – già adulto al tempo delle riprese – fu necessario avere un periodo di sospensione dal lavoro (quello “vero”) per cimentarsi in quel nuovo impegno, imprevisto e improvvisato. Per tutti loro quel film rappresentò una esperienza nel mondo del cinema destinata a restare peculiare nella loro vita, chi tornò al lavoro della campagna, chi – Annick per esempio – ha dedicato le proprie energie lavorative in altro campo rispetto all’agricoltura, ma restando ben distante dal mondo del cinema. Ma gli elementi narrativi che si sommano in questa pellicola (quella di Philibert) sono molteplici, perché oltre alle testimonianze (rigorosamente al tempo presente) e ad alcune scene del film di Allio, la stratificazione dei materiali è rappresentata da altro: i testi autobiografici di Allio stesso, il testo di Foucault, i panorami della campagna normanna di oggi, il lavoro agricolo dei protagonisti di allora, e altro ancora. Ecco che quindi diventa complicato rendere con precisione tutti i filoni narrativi, che sono tenuti insieme – per lo più – dalla voce off di Philibert stesso, che cercando in solitudine, o accompagnato dagli stessi abitanti della regione, intraprende una ricognizione tra testi, documenti, testimonianze, archivi. Non c’è spazio solo per l’allegria e i bei ricordi, perché la vita, si sa, non lascia purtroppo spazio solo agli aspetti positivi: gli incontri con

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Charles e Annie Lihou e con Nicole ci mettono a parte dei loro drammi; i coniugi Lihou narrano della malattia mentale della loro figlia Corinne, mentre Nicole deve affrontare la difficile sfida del recupero della parola, dopo un aneurisma al cervello e due settimane di coma: sono passati più di tre anni, ma resta ancora tanto da fare. Lo spazio dedicato al presente è notevole, con la visita all’abbazia di Ardenne, archivio incomparabile di testimonianze di artisti, cineasti e letterati, e con la cronaca – parziale, s’intende – della manifestazione antinucleare che si svolge proprio lì (infatti numerosi personaggi dei film del passato/del presente) sono impegnati nell’organizzazione della manifestazione. Anche attraverso le visite alle istituzioni statali dedicate al controllo, il carcere di Caen e il tribunale di Calvados entrano in gioco nella narrazione, sia per denotare i cambiamenti percepibili nelle mutazioni della giustizia (e delle pene) nel corso del tempo, sia per rivivere, in altra forma, la vicenda Riviére. La compagnia di Annick e di altri protagonisti del film di Allio si fa preziosa per indagare i destini di coloro che – oltre un secolo fa – furono gli interpreti dei reali avvenimenti: la visita all’archivio di Stato e quella al cimitero sono appunto due tappe ineludibili all’interno del film di Philibert, valore aggiunto al filo della memoria, che si riannoda con il presente ci fornisce nuovi spunti, nuova vita. Il film si avvicina alla conclusione attraverso una nuova visita, quella ai laboratori Eclàir: qui, dove materialmente le pellicole vengono stampate e confezionate Philibert ragiona sul mutamento dei supporti, sulle ferree leggi del mercato che stanno per spazzare via – inevitabilmente pare – tutta una storia, quella del cinema, che sta per continuare la propria esperienza attraverso nuove forme, inarrestabile. Il legame con la storia di Pierre Rivière si compie proprio dove la Storia e le storie (quella del 1835, quella del film di Allio, quella di Philibert e dei protagonisti dei due film, quella degli operai dei laboratori Eclàir) si compiono, si incrociano, si dissolvono. Dal passato, e dalle nebbie dell’oblio, affiora finalmente anche Claude Hèbert, il Pierre Rivière di Allio: sembrava impossibile ritrovarlo, dopo le sue esperienze nel mondo del cinema dei primi anni

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ottanta, e invece eccolo, di ritorno da Haiti dove procede nella sua vita come missionario. Dopo l’esperienza del film di Allio partecipò a diversi film (addirittura in concorso a Cannes) e ad alcune opere di teatro, per poi discostarsene e dedicarsi al suo destino religioso. Il suo ricordo di Allio e di quel periodo è però vivido, perché fondamentale fu il rapporto con il regista marsigliese, quasi una relazione di filiazione tra i due si era creata, con Allio che ospitava Claude a Parigi nel corso della sua esperienza nella capitale francese. E il film ritrova, nell’epilogo, il suo ruolo di testimonianza dei debiti tra padri e figli, con la sequenza – tagliata dal montaggio finale – del cameo del padre di Philibert nelle vesti di un Ministro del Re. Con queste immagini del film di Allio, silenziose e malinconiche, si chiude il film di Nicolas Philibert. […] Sono molto pudico, la mia presenza in Retour en Normandie è lì, ma molto discreta, io parlo, sono là, ma ecco era quasi scontato che prendessi la parola in un film come questo. Questa storia, questa avventura l’ho vissuta in primo piano, sulla mia pelle, non potevo immaginare questa storia senza dire “io”. Per fare un film ci si circonda spesso di persone con cui si nutre un sentimento di amicizia, di rispetto reciproco; nel mio caso c’era questa voglia continua di discutere ciò che avremmo fatto, è questo uno dei motivi per cui ho inventato il film mentre lo facevo, per questo duplice sentimento di libertà e di fragilità. Di libertà di non essere limitato da schemi rigidi. E di fragilità per non sapere quali sarebbero state le riprese del giorno dopo e come si sarebbe concluso il film stesso. La fragilità propria degli incontri, di non sapere come sarebbero andati, perché per definizione un incontro non si può sapere come andrà, altrimenti non ci sarebbe un vero e proprio incontro.58

Retour en Normandie è un film che rappresenta un punto di svolta nella produzione di Philibert. Gli aspetti che demarcano questo muta58

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mento sono molteplici, ma il primo fra tutti è quello del racconto in prima persona, soggettivo. Philibert accompagna la visione attraverso il filtro del proprio sguardo e della propria visione; certo non è l’unica personalità coinvolta, come si vedrà, però – rispetto alla sua precedente produzione – rappresenta una sterzata radicale, una rivoluzione copernicana nell’approccio alla materia filmata del cineasta francese. Infatti, in tutti i film precedenti, l’azione filmata e mostrata era per così dire nuda, lasciata libera dal commento sonoro, da una qualsivoglia voce off. Di più: l’unico film con interviste è Le Pays des Sourds, che, come si è visto, ha la caratteristica di registrare interviste mute, prive di suoni, nate da un linguaggio segnato, non da un discorso composto di parole. Non è poi difficile capirne il motivo, essendo quel film e quell’esperienza nodale nella formazione cinematografica del regista. Di più, Retour en Normandie è uno – certo non il primo, ma di sicuro quello più esplicito – dei film di Philibert che tratta del cinema, del suo farsi e della sua complessità e singolarità, del fatto che sia espressione di una sintesi miracolosa tra lavoro personale e quello collettivo. Certo, come film on film è un esempio particolarmente anomalo, un documento che va situato al limite, sulla frontiera tra quello che è un testo puramente metalinguistico e un documentario diaristico, pur con tutte le commistioni, testimonianze e contaminazioni di cui è infarcito Retour en Normandie. Perché, se da una base autobiografica si parte – doverosamente come ogni rapporto di filiazione pretende – il film è tutt’altro che un monologo, ma una polifonia di voci, di ricordi, di sensazioni, di contributi. Il rapporto di filiazione non è solo quello tra Philibert e Allio, è anche quello del cineasta con Michel Philibert, suo padre, ma è in qualche modo anche quello di Claude Hébert con lo stesso Allio, e, per completare il vortice semantico, quello tra Pierre Riviére e il proprio padre, al quale sacrifica la vita propria ed altrui, in una forma quasi archetipale – da tragedia greca, senza tempo né spazio – di questa relazione. Philibert mette il legame padre/figlio in ripetizione continua e con-

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tinuata, in loop quasi, sorta di mise en abîme del rapporto di discendenza, e forse proprio così facendo lo sottrae all’unicità di un rapporto, di una singola personalità. Uno degli obiettivi del regista era proprio quello di creare un insieme di testimonianze, un documento la cui frammentarietà fosse il più possibile scorrevole, tra vari registri, tra le differenti storie, le quali potessero – insieme, nella combinazione tra loro – ricostruire un filo del discorso, un unico fiume (“riviére”) delle memorie e della malinconia. Volevo fare un film in cui erano presenti una moltitudine di sequenze diverse, una molteplicità di registri diversi. Un film in cui si passasse da un periodo all’altro, da una storia a un’altra con la maggiore fluidità possibile. […] Il progetto voleva parlare del presente e del passato, ma non volevo fare un’opera nostalgica, non volevo parlare del passato in quanto tale, perché la rievocazione, il ricordo del film di Allio era un pretesto, meglio dire era una porta d’accesso che mi permetteva di parlare del cinema. Il film di Allio era la spina dorsale del mio film, qualche cosa che mi avrebbe dato la possibilità di parlare della memoria, del cinema dal punto di vista della memoria, non essendo la memoria una riserva inerte, ma piuttosto una materia viva, che ci permette di vivere, di costruire il presente, o il futuro. Era questa l’intenzione del film: ad esempio Annick ci racconta come l’esperienza, l’avventura del film di Allio le abbia permesso di crescere, ed è proprio ciò di cui si tratta, perché dove c’è un’esperienza condivisa e collettiva, dove c’è alterità si può crescere, perché ciò permette di crescere reciprocamente, di dare qualcosa all’altro, di capire le cose del mondo, di capire, forse, chi si è.59

Se la radicale novità nella pellicola – rispetto ai precedenti lavori di Philibert – è la presenza della voce off (del regista) che ci accompagna nell’articolato percorso proposto dal film, di certo un controcampo inevitabile a questo racconto soggettivo, come già si diceva, è rappresen59

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tato dal testo (la Memoria) di Pierre Riviére. Questo manoscritto di ottanta pagine circa è stato scaturigine dell’ormai classico testo collettivo a firma di Michel Foucault: una ricerca filologica, storica e psicologica di ineguagliabile valore e pregnanza, che ha fatto ulteriore luce sulla società francese della prima metà del XIX secolo, sulle logiche del controllo e della punizione, ma che, di nuovo, grazie al testo autobiografico di Pierre Riviére acquistano risvolti imprevisti, spessore inusuale. La questione della follia, strettamente correlata all’aspetto – burocratico si direbbe – delle circostanze attenuanti, novità assoluta nelle vicende giudiziarie francesi, è uno dei fattori più interessanti dell’analisi foucaultiana della vicenda Riviére. Va ricordato, infatti, che la pena del parricidio era la più grave in assoluto nella legislazione francese dell’epoca, allo stesso livello del regicidio. Questa evoluzione che aveva portato a una liberalizzazione delle circostanze attenuanti, avrebbe dovuto giovare a Pierre Rivière. Essa era in effetti il risultato di un triplice conflitto al centro del quale si poneva Pierre Rivière, conflitto tra potere e consenso generale, conflitto circa la detenzione del potere repressivo, conflitto tra il sapere scientifico e potere giudiziario. Il conflitto tra potere repressivo e il consenso popolare derivava dal carattere estremamente repressivo della legge. Quest’ultimo induceva in effetti simpatia per il delinquente e numerose assoluzioni ingiustificate, o in assenza di circostanze attenuanti o nella paura di vedere la Corte rifiutarle sotto la legge del 1824. Il problema era dunque di assicurare la repressione.60

L’operazione di Retour en Normandie è perciò quella di rendere, attraverso diversi piani discorsivi, un universo personale, mentale e individuale, come i percorsi di Philibert, di Allio e di Rivière stesso. D’altro canto il film cerca anche di essere molto attaccato alla realtà, alla vita quotidiana – in questo caso all’universo contadino – che era volontà precisa anche di Allio e di Rivière. C’è un’immagine molto 60 P. Moulin, Le circostanze attenuanti, in M. Foucault (a cura di), Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello… Einaudi, Torino, 2000

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importante, a parere di chi scrive, nel film di Philibert: è quella della raccolta delle mele di Joseph e sua moglie per produrre il sidro. La produzione dell’alcool derivato dalle mele, è infatti presente anche nella pellicola di Allio, e il rimando non appare casuale, tutt’altro. Se nel film in costume assistiamo alla durezza della cura dei campi nel lavoro all’aratro, oggi la medesima occupazione viene svolta dalla macchine, dai trattori. Anche il sidro è un rimando diretto al film di Allio, ieri con la mola, attualmente con processi automatizzati. Volevo mostrare il lavoro dei contadini nella sua durezza. Nel suo manoscritto Pierre Rivière parla a lungo della durezza del lavoro contadino; quotidianamente vedeva suo padre lavorare duramente, ed ecco il mondo contadino fa parte della realtà, e naturalmente ho inserito, ho ripreso questi due elementi [quelli della nascita dei porcellini e dell’uccisione del maiale, ndr] che sono molto duri, nascita e morte. Ho deciso di inserire la scena della nascita dei maialini proprio all’inizio, e quel piccolo porcellino che nasceva lo rivedevo come me, tra la vita e la morte, come il film che non sapevo se sarei riuscito a finire. Per quanto riguarda la sequenza della morte, niente di metaforico, è reale, fa parte in ogni modo della vita quotidiana di Roger.61

Insieme ai rimandi ai testi, che siano filmici, manoscritti o archiviati, tutta la complessità ed alla frammentarietà di Retour en Normandie si compie attraverso le interviste agli attori non protagonisti del film di Allio, come si è visto. Questo aspetto conferisce un che di documentaristico al lavoro del 1975, ma sopra ogni cosa, per Philibert, quella caratteristica ha avuto una valenza umana rara, difficilmente trovabile nel cinema francese di allora come in quello di oggi. Il coinvolgimento di attori non professionisti raccolti e incontrati per strada, conferisce all’esperienza personale del cineasta un valore aggiunto insopprimibile che rovescia e fa esplodere le potenzialità del cinema: non solo esaltando il testo per le sue intrinseche peculiarità e pregi, ma proprio per la possibilità offerta da una situazione del genere di fornire 61

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all’epoca – e ancora oggi – di condividere profondamente un’esperienza, un ricordo. Moi Pierre Rivière ha una particolarità, perché Allio voleva assegnare i ruoli a due categorie di attori; da una parte gli attori professionisti: avvocati, cancellieri, psichiatri, giustizia, medici. E dall’altra parte i non professionisti, la gente della campagna, proprio per mostrare questo divario tra la gente della città e le persone della campagna, nel 1835. Quel che racconto nel mio film è che ho dovuto quindi cercare di assegnare questi ruoli ad è stato un lavoro che è durato tre mesi. Si è trattato di un’esperienza molto forte, forse più forte che girare il film stesso. Nel mio film mi sono soffermato più su quello che andava fatto prima piuttosto che durante le riprese, perché in questi tre mesi ho dovuto far condividere una convinzione a delle persone le cui preoccupazioni erano distanti anni luce dalle nostre. Questi contadini della Normandia che hanno visto sbarcare una troupe del cinema – una troupe parigina – faceva sì che fossimo visti con diffidenza, i loro pregiudizi. Abbiamo anche cercato di far superare loro la loro timidezza, il timore di recitare davanti ai vicini di casa. Questo lavoro di contattare i contadini, di fattoria in fattoria, è stato un’avventura cinematografica, ma anche umana, e forse è per questo che un’esperienza del genere sul set è stata molto forte. Quindi Retour en Normandie tratta proprio di convinzione, di desiderio, di caparbietà. È una questione di memoria, collettività, cinema. Le persone con le quali abbiamo parlato e che ritornano su questa avventura dicono cose molto belle, che gli attori professionisti non dicono.62

La memoria, come si è visto, è in qualche modo la protagonista sotterranea del film, deposito mentale che continua ad a essere alimentata e ad alimentare il presente di ciascuno dei partecipanti a quell’esperienza, primo fra tutti lo stesso Nicolas Philibert. Infatti, il film nasce e si sviluppa come omaggio a René Allio, con62

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scio nelle intenzioni di Philibert e molto più spontaneo nelle voci dei vari intervistati, e quindi ancora più prezioso, nonostante e forse proprio perché in qualche modo indiretto: il valore di quel film non risiede solo nel prodotto artistico, ma nella valenza dell’esperienza, da tutto un insieme di ricordi a nostalgia che arricchiscono il panorama di un senso di riconoscenza, profondo, implicito anche nel presente delle numerose persone coinvolte all’epoca. In altre parole, il film di Philibert parla del tempo, del suo fluire, del suo sedimentarsi, del suo essere registrato e fissato – nella memoria, sulla pellicola – e di come potentemente interagisce ancora oggi con noi, presenti ed estranei a quell’esperienza, in qualche modo insomma ci parla, ha argomenti. Per qualche misteriosa ragione, perciò e di nuovo, miracolosamente saremmo portati a dire, questo film parla del cinema, in nuove e robuste articolazioni che una riflessione sul mezzo possa avere. La sensazione costante che ci assale inevitabilmente guardando Retour en Normandie è malinconia; una sensazione che non ha nulla di patetico, beninteso, che non va quindi confusa con nostalgia. Il film è proprio una riflessione personale – per ciascuna delle persone che vediamo sfilare davanti all’obiettivo di Philibert – sul tempo passato, sul passare del tempo, su se stessi e sulla relazione intima che si crea, inconsciamente forse, tra la personalità di ognuno e il proprio trascorso, sugli incontri avuti, su una certa qualità di formazione – di educazione, potremmo dire – ricevuta e a nostra volta regalata al prossimo. In un certo qual modo Ecco perché le parole di Philibert sulla propria esperienza nella realizzazione del film sono così significative, e arricchiscono e in qualche modo rendono conto delle parole di tutti gli altri partecipanti all’evento che fu girare Moi Pierre Rivière e delle motivazioni che hanno spinto il cineasta francese a riprendere il filo del discorso con quel periodo e quella situazione con Retour en Normandie. Innanzi tutto io non avevo una grande esperienza d’assistente [alla regia, ndr], ed ecco che mi affidano una grande responsabilità: la sceneggiatura prevede un tournage complica-

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to, con molti personaggi, bambini, animali, numerose scenografie, costumi… e un budget veramente ristretto. E poi, la scelta di affidare i ruoli principali, per lo meno tutti i ruoli dei contadini – l’omicida, la sua famiglia, i vicini, i testimoni – a dei contadini della regione invece che ad attori professionisti dona a questa avventura una dimensione umana particolare. […] Esperienza appassionante, ma difficile e scomoda, quando non si sa ancora, a tre settimane dalle riprese, se si potrà girare il film tanto pochi erano i soldi. E poi le riprese, più volte rimandate, sono cominciate, e malgrado le difficoltà finanziarie che hanno pesato fino alla fine, questa esperienza condivisa tra persone di cinema, praticamente tutti parigini, e contadini normanni è stata molto forte. Le condizioni di riprese erano dure, il tempo meteorologico capriccioso, le giornate sfibranti, ma io credo che tutti coloro che hanno partecipato a questa avventura particolare hanno avuto la sensazione di vivere qualcosa di eccezionale. Il film tronca rispetto alla rappresentazione abituale del mondo rurale al cinema, troppo spesso caricaturale o sprezzante. È stato anche lontano da qualunque approccio condiscendente, Allio non è stato meno esigente verso i suoi attori contadini, ne meno fiducioso nelle loro possibilità, che verso i professionisti che completavano la produzione. Così che nel gruppo che formammo, non avemmo mai il sentimento di una divisione tra i tecnici di cinema e i contadini. Ciascuno nel suo ruolo, siamo stati rivestiti dal medesimo progetto. Più tardi, a distanza, ho misurato la possibilità che avevo avuto a partecipare a questa avventura singolare, inedita nel cinema francese, e con gli anni, questo film non mi ha mai completamente abbandonato. Esso ha senza dubbio irrigato il mio lavoro, come un fiume [rivière, nel testo originale, ndr] sotterraneo. Probabilmente per la ragione che fiction e documentario sono strettamente legati.63

Pur segnando il passo rispetto alla produzione abituale di Philibert, visto che Retour en Normandie è un film completamente nuovo in confronto a quelli precedenti, per obiettivi, stile, composizione e intreccio, 63

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rapporto con i soggetti filmati e coinvolgimento del regista nell’azione del film, eppure occorre notare come, per molti versi, il film mantenga una radice comune con il passato produttivo di Philibert, una continuità che va trovata nel mantenere costante, anche di fronte a una moltitudine di materiali e input differenti, la possibilità di non chiudere, attraverso un progetto preliminare, per mezzo di una scrittura precedente alla realizzazione e quindi alle riprese, la porta all’improvvisazione e all’imprevisto. […] Retour en Normandie è fedele a una caratteristica abituale. Le idee sono venute in corso d’opera, e a parte certi luoghi come la prigione, il tribunale o gli archivi del Calvados, dove non si poteva girare che in date prefissate, le riprese sono state in gran parte improvvisate, sul filo degli incontri e delle conversazioni. Da un aspetto generale, non mi ero troppo preparato. Se tutto è deciso in anticipo, si perde di vista l’essenziale. Ci deve essere una parte di inesplorato. Il fatto di dover inventare il film giorno dopo giorno, di cercarlo giusto alla fine, procura un doppio sentimento di libertà e fragilità che mi stimola, mi spinge oltre le mie barriere. Al montaggio, è la stessa cosa. Avevo sessanta ore di girato, dunque virtualmente delle dozzine, delle centinaia di combinazioni. E tuttavia, alla fine, non si ha che un film possibile: quello che si porta al fondo di sé.64

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Filmografia

LA VOIX DE SON MAÎTRE 1978 / 100’ / 16 mm BN / co-realizzato insieme a Gérard Mordillat. Dodici manager di grandi imprese, di fronte alla mdp, parlano del potere della gerarchia, dei sindacati, degli scioperi, dell’autogestione. Poco a poco si disegna l’immagine di un mondo futuro… Fotografia: François Catonné, Jean Monsigny, Jean-Paul Schwartz; Suono: Pierre Befve, Pierre Gamet; Montaggio: Charlotte Boisgeol; Produzione: I.N.A. e Laura Productions; con la partecipazione di SERDAV-CNRS e del Centre National de la Cinématographie. Con: Michel Barba (Richier), Jean-Claude Boussac (Boussac), Guy Brana (Thomson-Brandt), François Dalle (L’Oréal), Bernard Darty (Darty), Jacques de Fouchier (Paribas), Alain Gomez (Saint-Gobain Emballages), Francine Gomez (Waterman), Daniel Lebard (Comptoir Lyon Alemand Louyot), Jacques Lemonnier (IBM-France), Raymond Lévy (Elf Aquitaine), Gilbert Trigano (Club Méditerranée). Prima uscita nelle sale in Francia: febbraio 1979 Distribuzione: Laura Productions. Edizioni video: BlaqOut

PATRONS / TÉLÉVISIONS 1978 / 3 X 60’ / 16 mm BN / co-realizzato insieme a Gérard Mordillat. Tre trasmissioni realizzate a partire dal materiale raccolto per il film precedente: Confidences sur l’ouvrier, Un Pépin dans la boîte e La Bataille a commencé à Landernau. Censurati in televisione, uscirono nelle sale qualche settimana più tardi.

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Fotografia: François Catonné, Jean Monsigny, Jean-Paul Schwartz; Suono: Pierre Befve, Pierre Gamet; Montaggio: Charlotte Boisgeol; Produzione: I.N.A. e Laura Productions; con la partecipazione di DAV-CNRS e del Centre National de la Cinématographie

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Distribuzione: Laura Productions.

LA FACE NORD DU CAMEMBERT 1985 / 7’ / 35 mm colore / mono. Per una scena del film Billy ze Kick (di G. Mordillat), il giovane alpinista Christophe Profit è richiesto per sostituire un attore. Dovrà scalare la facciata completamente liscia di un palazzo di 60 metri d’altezza. Produzione: Les Films d’Ici. Distribuzione & vendite internazionali: Les Films du Losange.

CHRISTOPHE 1985 / 28’ /16 mm colore. L’ascensione di Christophe Profit, in «solo integrale» (senza corde né tecniche di sicurezza) della parte ovest del Drus, gigantesca piramide verticale di 1100 metri d’altezza, nel cuore del massiccio del Monte Bianco. Christophe Profit è considerato uno dei più grandi alpinisti della sua generazione. Da un’idea di Yves Ballu; Fotografia: Laurent Chevallier, Amar Arhab; Suono: Bernard Prud’homme; Montaggio: Marie Quinton; Musica originale: André Giroud; Produzione: Maison du Cinéma de Grenoble, con la partecipazione di Antenne2, Alpa e di Sandoz-France.

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Grand Prix du Festival international du Film d’Aventure Sportive, La Plagne (France) 1985 - Diable d’Or, Festival international du Film Alpin, Les Diablerets (Suisse), 1986 - Prix Cinégramm, Les Diablerets, 1986 - Grand Prix et Prix du Public au Festival de Teplice nad Metuji (Tchécoslovaquie), 1986 - 3e Prix du Festival International du film de montagne de Gräz (Autriche), 1986 - Prix du meilleur film d’alpinisme, Festival du film de montagne de Banff (Canada), 1987 - Prix du meilleur film d’alpinisme, Festival international du cinéma de montagne de Torello (Espagne), 1987. Distribuzione & vendite internazionali: Europe Images

Y’A PAS D’MALAISE 1986 / 13’ / 16 mm colore. Attaccati in piena parete come dei ragni, sono una dozzina, cineasti e guide di montagna, affacendati sospesi nel vuoto per filmare l’ascensione del Drus da parte di Chritophe Profit. Poco a poco, il regista si sorprende a sognare alle possibili vacanze che avrebbe potuto passare, come tante brave persone, sulla riva del mare… Fotografia: Laurent Chevallier, Amar Arhab; Suono: Bernard Prud’homme; Montaggio: Marie Quinton; Musica originale: André Giroud; Produzione: Maison du Cinéma de Grenoble, con la partecipazione di Antenne 2. Prix du « Meilleur reportage de Télévision », Festival de la vidéo sportive, Arcachon, 1986 - Prix de l’humour, Festival mondial de l’image de montagne, Antibes, 1986 - Prix de l’humour, Journées Internationales du Film d’Aventure Sportive, Annecy, 1986 - Prix spécial du jury, Festival du Film de montagne, Banff (Canada), 1987. Distribuzione & vendite internazionali: Europe Images

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TRILOGIE POUR UN HOMME SEUL 1987 / 53’ /16 mm colore. Il più favoloso “concatenazione” mai realizzata da un alpinista: il 12 e 13 marzo 1987, Christophe Profit, 26 anni, riesce in 40 ore a compiere l’ascensione invernale delle tre più grandi pareti nord delle Alpi: Grandes Jorasses, Eiger, Cervino. Ma al di là di questa “copertura” dell’avvenimento, sono i retroscena ad essere scoperti, la storia di questo progetto, gli alti e bassi dei suoi preparativi e la personalità del suo autore, danzatore delle verticali, che concentra agli estremi delle sue dita l’energia e i riflessi stessi della sua vita. Fotografia: Laurent Chevallier, Denis Ducroz, Olivier Guéneau e Richard Copans; Suono: Olivier Schwob, Bernard Prud’homme, Freddy Loth; Montaggio : Marie Quinton; Musica originale: André Giroud; Produzione: Les Films d’Ici, Antenne 2, con la partecipazione di Millet. Grand Prix des Journées Internationales du Film d’Aventure Sportive, Hakuba (Japon), 1987 - Diable d’Or, Festival International du Film Alpin, Les Diablerets (Suisse), 1987 - Grand Prix du Festival Mondial de l’Image de Montagne, Antibes, 1987 - Prix spécial du jury, Festival international du film d’aventure, La Plagne, 1987 - Grand Prix du Festival de Teplice Nad Metuji (Tchécoslovaquie), 1988 - Triglav d’argent, Festival international de Kranj (Yougoslavie), 1988. Distribuzione e vendite internazionali: les Films du Losange.

LA MESURE DE L’EXPLOIT 1987 / 23’ /16 mm colore. Un film derivato dal precedente sul trattamento medico e nutrizionale di Christophe Profit durante la sua “trilogia” e nel periodo di allenamento intensivo che lo ha preceduto.

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Fotografia: Laurent Chevallier, Denis Ducroz, Olivier Guéneau e Richard Copans; Suono: Olivier Schwob, Bernard Prud’homme, Freddy Loth; Montagggio: Marie Quinton; Musica originale: André Giroud; Produzione: Laboratoires Sandoz e Wander, Les Films d’Ici.

VAS-Y LAPÉBIE ! 1988 / 27’ / 16 mm colore. L’anno in cui questo film è stato girato, Roger Lapébie, 77, è il più anziano vincitore del Tour de France di ciclismo ancora in vita. Fin dalla sua leggendaria vittoria nel 1937, mezzo secolo è passato. Eppure egli corre ancora ogni settimana più di 300 km in bicicletta sulle strade delle Landes [Aquitania, ndr]... Il ritratto di un grande uomo di ciclismo, il quale afferma: “Amo la mia bici più di me stesso”. Fotografia: Olivier Guéneau, Frédéric Labourasse; Suono: Freddy Loth, Julien Cloquet; Montaggio: Nelly Quettier; Produzione: MC4, Pathé, Canal+, con la partecipazione del Centre National de la Cinématographie. Distribuzione & vendite internationali: Europe Images

LE COME-BACK DE BAQUET 1988 / 24’ / 16 mm colore. Nel luglio 1956, l’attore e violoncellista Maurice Baquet realizzò, con l’alpinista Gaston Rebuffat, la prima salita della parete sud dell’Aiguille du Midi (3842m), magnifica parete di granito rosso che si erge come un baluardo sopra la Vallée Blanche, nel Massiccio du Mont-Blanc... 32 anni più tardi, come per salutare la memoria del suo amico Gaston, Maurice Baquet sale nuovamente questo muro sospeso tra il cielo e la terra, dietro Christophe Profit.

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Fotografia: Laurent Chevallier, Denis Ducroz; Suono: Olivier Schwob, Bernard Prud’homme; Montaggio: Marie Quinton; Produzione: Les Films d’Ici e Antenne 2, con la partecipazione di Sandoz-France. Grand Prix du Festival Neige et Glace, Autrans, 1988 - Prix du Public, Festival Mondial de l’Image de Montagne, Antibes, 1988 - « Best Mountainfilm Spiri », Festival de Telluride (USA), 1989 - Prix Spécial du Jury, Festival du film de montagne, Banff (Canada), 1989. Distribuzione e vendite internazionali: les Films du Losange

MIGRAINE 1989 / 6’ / 16 mm colore. Un episodio della serie “Et vous, comment ça va?” proposte dai dottori Sylvie Quesemand-Zucca. Produzione: La Sept, Les Films d’Ici.

LA VILLE LOUVRE 1990 / 85’ / 35 mm colore / Formato 1.66 / mono A cosa assomiglia il Louvre, quando il pubblico non c’è? Per la prima volta un grande museo presenta i suoi retroscena a un’equipe cinematografica: si appendono dipinti, si riorganizza le sale, le opere sono in movimento. A poco a poco, i caratteri appaiono e tendono il filo di una storia... Dagli atelier ai magazzini, che racchiudono migliaia di dipinti, sculture e oggetti, la scoperta di una città all’interno di una città. Fotografia: Richard Copans, Frédéric Labourasse, Eric Pittard, Eric Millot, Daniel Barrau; Suono: Jean Umansky; Montaggio: Marie Quinton; Musica originale: Philippe Hersant;

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Produzione: Les Films d’Ici, La Sept, Antenne 2, le Musée du Louvre, avec la participation du Centre National de la Cinématographie et du Ministère des Affaires Etrangères. Prix Europa 1990 «Meilleur documentaire de l’année » - Prix Intermédia au Cinéma du Réel, Paris, 1990. Uscita nelle sale in Francia: novembre 1990. Distribuzione Francia e vendite internazionali: Les Films du Losange. Edizione video: Les Editions Montparnasse.

PATRONS 78 / 91 1991 / 75’ / video / co-realizzato insieme a Gérard Mordillat. Tredici anni dopo la de-programmazione di Patrons/Télévision, queste immagini passano finalmente sul piccolo schermo, in una versione condensata. Con: Michel Barba (Richier), Jean-Claude Boussac (Boussac), Guy Brana (Thomson-Brandt), François Dalle (L’Oréal), Bernard Darty (Darty), Jacques de Fouchier (Paribas), Alain Gomez (Saint-Gobain Emballages), Francine Gomez (Waterman), Daniel Lebard (Comptoir Lyon Alemand Louyot), Jacques Lemonnier (IBM-France), Raymond Lévy (Elf Aquitaine), Gilbert Trigano (Club Méditerranée). Fotografia: François Catonné, Jean Monsigny, Jean-Paul Schwartz. Suono: Pierre Befve, Pierre Gamet. Montaggio: Charlotte Boisgeol; Produzione: I.N.A. et Laura Productions, con la partecipazione di SERDAV-CNRS e del Centre National de la Cinématographie. Rimontato da La Sept.

LE PAYS DES SOURDS 1992 / 99’ / 35 mm colore / Formato 1.66 / mono

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A che assomiglia il mondo per le migliaia di persone che vivono nel silenzio? Jean-Claude, Abou, Claire, Florent e tutti gli altri, sordi profondi dalla nascita o dai primi mesi di vita, sognano, pensano e comunicano con i segni. Con loro, partiamo alla scoperta di questo paese lontano in cui gli occhi e il tatto sono così importanti. Questo film racconta la loro storia e ci fa vedere il mondo attraverso i loro occhi. Fotografia: Frédéric Labourasse; Suono: Henri Maïkoff; Montaggio: Guy Lecorne. Una coproduzione: Les Films d’Ici, La Sept Cinéma, le Centre Européen Cinématographique Rhône-Alpes; in associazione con Canal+, la Région Rhône- Alpes, le Centre National de la Cinématographie, le Ministère des Affaires Etrangères, RAITRE, BBC Television, Radio Télévision Suisse Romande. Sélection officielle au Festival de Locarno, 1992 - Sélection au Festival de Yamagata, Japon, 1993 - Prix de la Fondation GAN pour le Cinéma, 1992 Grand Prix du Festival de Belfort, 1992 – Grand Prix du Festival dei Popoli, Florence, 1992 - Grand Prix section documentaire du Festival de Vancouver, 1993 - Prix « Tiempo de Historia », Festival de Valladolid, 1993 - Prix Humanum, décerné par l’Association de la Presse Cinématographique de Belgique, 1993 - Grand Prix du Festival de Bombay, 1994 - Golden Gate Award, San Francisco International Film Festival, 1994 - Prix du meilleur documentaire, Festival de Potsdam (Allemagne) 1994 - Stephanie Beacham Award, 13th Annual Communication Awards, Washington D.C., 1994 Peabody award, USA, avril 98 - Prix du Public au Festival du film francophone de Bratislava, Slovaquie, mars 2004. Uscita nelle sale in Francia: marzo 1993. Distribuzione Francia e vendite internazionali: Les Films du Losange. Edizione video: Les Editions Montparnasse.

UN ANIMAL, DES ANIMAUX 1994 / 59’ / 35 mm colore / Formato 1.66 / mono.

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La Galleria di Zoologia del Museo Nazionale di Storia Naturale è stato chiuso al pubblico per un quarto di secolo, lasciando nelle tenebre e nell’oblio centinaia di animali: mammiferi, pesci, rettili, insetti, anfibi, uccelli, crostacei... Girato durante il restauro della Galleria (dal 1991 al 1994), il film racconta la risurrezione dei suoi strani ospiti. Fotografia: Frédéric Labourasse, Nicolas Philibert; Suono: Henri Maïkoff; Montaggio: Guy Lecorne; Musica originale: Philippe Hersant; Produzione: Les Films d’Ici, France2, Muséum National d’Histoire Naturelle, Mission Interministérielle des Grands Travaux; con la partecipazione del Centre National de la Cinématographie, del Ministère de l’Enseignement Supérieur et de la Recherche, du Ministère des Affaires Etrangères, Channel 4, RAITRE, VPRO, Télévision Suisse Romande. Prix du meilleur film de recherche, Festival dei Popoli, Florence, 1994 Golden Gate Award, San Francisco International Film Festival, 1995. Uscita nelle sale in Francia: giugno 1996. Distribuzione Francia e vendite internazionali: Les Films du Losange. Edizione video: Les Editions Montparnasse.

DANS LA PEAU D’UN BLAIREAU 1994 / 7’ / video. In un laboratorio del Museo Nazionale di Storia Naturale, un tassidermista procede all’imbalsamatura di un tasso. Film destinato alla Grand Galerie rinnovata del M. N. H. N. Fotografia: Frédéric Labourasse; Suono: Olivier Schwob; Montaggio: Guy Lecorne; Produzione: Les Films d’Ici, Muséum National d’Histoire Naturelle, Mission Interministérielle des Grands Travaux. Negli “extra” sull’edizione DVD di Un Animal, des Animaux (Editions Montparnasse).

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LA MÉTAMORPHOSE D’UN BÂTIMENT 1994 / 8’ / vidéo. Film destinato alla Grand Hall del Museo Nazionale di Storia Naturale, che ripercorre le principali fasi del suo recente restauro. Fotografia: Frédéric Labourasse, Nicolas Philibert; Suono: Henri Maïkoff; Montaggio: Guy Lecorne; Produzione: Les Films d’Ici, Muséum National d’Histoire Naturelle, Mission Interministérielle des Grands Travaux. Negli “extra” sull’edizione Montparnasse).

DVD

di Un Animal, des Animaux (Editions

PORTRAITS DE FAMILLE 1994 / 2’30’ / video. 400 ritratti di animali. Film destinato alla Grande Galerie restaurata del Museo Nazionale di Storia Naturale. Fotografia: Nicolas Philibert; Montaggio: Guy Lecorne; Musica: Pascal Gallois; Produzione: Les Films d’Ici, Muséum National d’Histoire Naturelle, Mission Interministérielle des Grands Travaux. Negli “extra” sull’edizione Montparnasse).

DVD

di Un Animal, des Animaux (Editions

POUR CATHERINE 1995 / 30’ / vidéo / Inedito. In occasione dei 50 anni di un’amica (Caterina), i suoi amici e la sua famiglia sfilano davanti alla camera per augurarle buon compleanno.

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LA MOINDRE DES CHOSES 1996 / 105’ / 35 mm colore / mono Durante l’estate del 1995, fedeli a ciò che è ormai diventata una tradizione, i residenti e coloro che si prendono cura della clinica psichiatrica di La Borde si uniscono per preparare la pièce che mettono in scena il 15 agosto. Sul filo delle prove, il film ripercorre gli alti e bassi di questa avventura. Ma al di là del teatro, il film racconta la vita a La Borde, quella di tutti i giorni, il tempo che passa, le piccole cose, la solitudine e la fatica, ma anche momenti di gioia, risate, l’umorismo che appartiene a certi residenti, e l’attenzione profonda che ciascuno ha per agli altri. Fotografia: Katell Djian, Nicolas Philibert; Suono: Julien Cloquet; Montaggio: Nicolas Philibert; Musica originale: André Giroud; Produttore delegato: Serge Lalou; Una co-produzione: Les Films d’Ici, La Sept-Cinéma; con la partecipazione di Canal+ e del Centre National de la Cinématographie; con il sestegno del Conseil Régional du Centre; in associazione con Channel4, WDR, VPRO, International Film Circuit, Filmcooperative Zürich. Sélection officielle au Festival International de Locarno, août 1996 - Grand Prix du Public des Rencontres Internationales de Cinéma à Paris, octobre 1996 - Grand Prix du Public au Festival International du Cinéma et des Nouveaux Médias de Montréal, juin 1997 - Prix du Meilleur Documentaire au Festival du Film de Potsdam (Allemagne), juin 1997 - Prix Spécial du Jury, 11e Festival International du Film anthropologique de Pârnu (Estonie), juillet 1997 - Grand Prix du Festival Amascultura (Lisbonne), novembre 1997 - Golden spire (Epée d’Or), Festival international de San Francisco, Avril 1998. Uscita nelle sale in Francia: marzo 1997. Distribuzione Francia e vendite internazionali: Les Films du Losange.

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NOUS, SANS PAPIERS DE FRANCE... 1997 / 3’ / 35 m colore. In sostegno ai sans-papiers, film colletivo cofirmato da 200 registi, produttori, distributori ed esercenti. Con Madjiguène Cissé. Uscita nelle sale in Francia: 26 marzo 1997.

QUI SAIT ? 1998 / 106’ / 35 mm colore / suono Dolby SR / fiction. Con gli studenti del 30° corso della Scuola di Teatro Nazionale di Strasburgo. Quella sera, nella quale hanno deciso di riunirsi nei locali della loro scuola per immaginare insieme un progetto per uno spettacolo il cui tema – o pretesto – è la stessa città di Strasburgo... Operatore: Katell Djian; Fotografia: Nicolas Philibert; Suono: Julien Cloquet; Montaggio: Nicolas Philibert, Guy Lecorne; Musica: Philippe Hersant; Produttore delegato: Gilles Sandoz; Una co-produzione: Agat Films & Cie, La Sept ARTE, Théâtre National de Strasbourg. Uscita nelle sale in Francia: settembre 1999. Distribuzione Francia: Les Films du Losange. Vendite internazionali: Films Distribution.

TRE ET AVOIR

2002 / 104’ / 35 mm colore / Formato 1.66 / suono Dolby SR La vita quotidiana di un a scuola “a classe unica” in un piccolo villaggio del Massif Central. Operatori: Katell Djian, Laurent Didier; Fotografia: Nicolas Philibert;

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Suono: Julien Cloquet; Musica originale: Philippe Hersant; Produttore dekegato: Gilles Sandoz; Produttore associato: Serge Lalou; Una co-produzione: Maïa Films, Arte France Cinéma, les Films d’Ici; con la partecipazione di Canal+, del Centre National de la Cinématographie, di Gimages 4, e il sostegno del Ministère de l’Éducation Nationale, del Conseil Régional d’Auvergne e de la Procirep. Sélection officielle, Cannes 2002 (hors compétition) - Prix Louis Delluc 2002 - Prix pour la distribution, Festival de Tübingen (Allemagne), 2002 - Prix Tiempo de Historia (« meilleur documentaire ») au Festival de Valladolid, 2002 - Grand Prix du Festival France Cinéma, Florence, 2002 - Best documentary (Prix ARTE), European Film Awards, Rome, 2002 - Prix « Humanum », décerné par la Presse Cinématographique de Belgique, 2002 Prix Méliès (« meilleur film français de l’année ») décerné par le Syndicat français de la Critique de Cinéma, janvier 2003 - Prix des auditeurs du Masque et la Plume, France inter, janvier 2003 - Nominations aux Cesar 2002 : « Meilleur réalisateur », « Meilleur film » et « Meilleur Montaggio». Cesar du Meilleur Montaggio2002. - Prix de l’Association Cubaine de la Presse Cinématographique (Fipresci), 11e Festival du Cinéma français à Cuba, 2003 - Etoile d’Or (« meilleur film français de l’année ») décerné par la presse - Prix du public au 4e Festival du film français à Athènes, 2003 Grand Prix et Prix du public au Festival du Film francophone de Bratislava (Slovaquie), 2003 - Grand Jury Prize for the Best Documentary, Full Frame Film Festival, USA, 2003 - « Best non fiction film Award » décerné par la National Society of Film Critics, USA - Nominé aux BBC World Cinema Awards, novembre 2003 - Nominé aux BAFTA (British Academy Film Awards) dans la catégorie « Best films not in the english language », Londres, février 2004. Uscita nelle sale in Francia: 28 agosto 2002 Distribuzione France e Vendite internazionali: Les Films du Losange Edizioni video: France Télévisions Distribution.

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L’INVISIBLE 2002 / 45’ / video. Intervista con Jean Oury, direttore della clinica psichiatrica di La Borde. Produzione: Les Editions Montparnasse. Presente come “extra” sull’edizione (autunno 2002).

DVD

di La Moindre des Choses

EMMANUELLE LABORIT, ÉCLATS DE SIGNES 2002 / 7’ / video. Intervista con Emmanuelle Laborit, attrice e regista dell’International Visual Theatre (IVT). Presente come “extra” sull’edizione DVD di Le Pays des sourds (Editions Montparnasse).

CE QUI ANIME LE TAXIDERMISTE 2002 / 18’ / video. Intervista con Jack Thiney, tassidermista al Muséum National d’Histoire Naturelle di Parigi. Nei contenuti extra dell’edizione (Editions Montparnasse).

DVD

di Un animal, des animaux

RETOUR EN NORMANDIE 2006 / 113’ / 35 mm colore / Formato 1.85 / SuonoDolby SRD Trent’anni sono passati da Moi, Pierre Rivière, ayant égorgé ma mère, ma

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soeur et mon frère... questo film che il regista René Allio gira nel 1975 con contadini normanni nei ruoli principali, che Nicolas Philibert, giovani assistente alla regia, aveva contribuito a reclutare. Oggi, in questa Retour en Normandie, egli è andato a incontrare questi uomini e queste donne per filmarli, nella loro vita di oggi, alle prese con il mondo. Operatore: Katell Djian; Fotografia: Nicolas Philibert, Katell Djian; Suono: Yolande Decarsin; Montaggio: Nicolas Philibert, assistito da Thaddée Bertrand; Missaggio: Julien Cloquet; Direttore di Produzione: David Berdah, Tatiana Bouchain, Katya Laraison; Coordinatore postproduzione: Sophie Vermersch; Produttori delegati: Serge Lalou, Gilles Sandoz; Una co-produzione: Les Films d’Ici, Maïa Films, Arte France Cinéma, con la partecipazione di Canal+, di TPS STAR, del Centre National de la Cinématographie e di France Télévisions Distribution, in associazione con la Région Basse-Normandie e la Maison de l’Image BasseNormandie. Uscita nelle sale France : 3 octobre 2007. Distribuzione Francia e Vendite internazionali: Les Films du Losange. Editeur vidéo : Francia Télévisions Distribution.

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Bibliografia

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finito di stampare nel mese di settembre del 2008 presso Digital Print Service srl, Segrate (MI)