Il cinema neorealista 8889891300, 9788889891308

A oltre sessant'anni dalla folgorante apparizione di 'Roma città aperta', il neorealismo continua a esser

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Il cinema neorealista
 8889891300, 9788889891308

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Paolo Noto svolge attività di ricerca presso l’Università di Bologna. Si occupa principalmente di cinema italiano, con particolare attenzione alla storia della produzione popolare e di genere. Autore di saggi apparsi su volumi collettanei, collabora con emittenti radiofoniche locali e nazionali.

i prismi Cinema

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Francesco Pitassio insegna Storia del cinema presso l’Università degli Studi di Udine. Tra le sue pubblicazioni principali Ombre silenziose. Teoria dell’attore cinematografico negli anni Venti (Udine, 2002), Maschere e marionette. Il cinema ceco e dintorni (Udine, 2002) e Attore/Divo (Milano, 2003).

Paolo Noto e Francesco Pitassio Il cinema neorealista

A oltre sessant’anni dalla folgorante apparizione di Roma città aperta, il neorealismo continua a essere il momento più conosciuto, studiato e amato nella storia del cinema italiano. L’importanza del fenomeno per il cinema e la cultura nazionali è tale da disorientare il lettore che vi si avvicina, per la ricchezza del dibattito e la profondità della storiografia a esso dedicati. Pensato per fornire delle coordinate precise a quanti studiano il cinema italiano del dopoguerra, ma anche a spettatori appassionati, il volume osserva il neorealismo da differenti angolazioni, senza perderne di vista la complessità. Sono chiamati in causa autori celeberrimi (De Sica, Rossellini e Visconti), insieme a oggetti di passioni cinefile (De Santis, Germi, Lattuada) e figure di considerevole importanza per il fenomeno, ma spesso trascurate (Castellani, Zampa). Alla stessa maniera, film emblematici vengono considerati a fianco di episodi meno apprezzati, nell’intento di valutare pienamente la varietà e molteplicità della produzione cinematografica dell’epoca. Il cinema neorealista viene descritto nelle relazioni con altre arti, negli aspetti politici ed economici, nel suo rapporto con le trasformazioni dell’identità nazionale, e valutato per il dialogo con i generi cinematografici o per le proprie relazioni intertestuali. L’ampia antologia ripercorre le evoluzioni dell’idea di neorealismo, attraverso contributi esemplari oggi difficilmente accessibili.

ISBN: 978-88-89891-30-8

€ 19,00

9 788889 891308 AB 4982

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Paolo Noto Francesco Pitassio Il cinema neorealista

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i prismi cinema direzione di Guglielmo Pescatore

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Paolo Noto Francesco Pitassio Il cinema neorealista

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© 2012 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna Prima edizione: ArchetipoLibri, marzo 2010 Seconda edizione: Clueb, novembre 2012 Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633.

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Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

ArchetipoLibri è a disposizione degli autori e degli editori che potrebbero avere diritti sui testi contenuti nell’antologia. Paolo Noto ha redatto i paragrafi 2.6-2.10, i capitoli 3 e 4 e le introduzioni ai documenti antologizzati in Film e dibattiti del neorealismo e Neorealismo e nuova storiografia cinematografica. Francesco Pitassio ha redatto il capitolo 1, i paragrafi 2.1-2.5 e le introduzioni ai documenti antologizzati in Progetti, modelli, proclami e Neorealismo: arte cinematografica e modernità. La struttura complessiva del testo, l’elaborazione dei singoli capitoli e paragrafi, l’individuazione della bibliografia e l’antologia dei testi sono state discusse e definite da entrambi gli autori.

copertina e progetto grafico: Avenida (Modena)

ISBN: 978-88-89891-30-8

ArchetipoLibri 40126 Bologna - Via Marsala 31 Tel. 051 220736 - Fax 051 237758 www.archetipolibri.it / www.clueb.com ArchetipoLibri è un marchio Clueb Finito di stampare nel mese di novembre 2012 da Studio Rabbi - Bologna

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Il linguaggio segreto dei rapporti. Realtà, rappresentazione e linguaggio I parenti terribili. Cinema, letteratura, fotografia La lingua scritta della realtà Amorose menzogne. Il neorealismo allo specchio Attori presi dalla strada, professionisti e divi Viaggio in Italia. Neorealismo e cinema moderno Niente più cinema? Dal genere al realismo, e viceversa Esemplari di intertestualità Dal testo al discorso Il discorso sulla realtà

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3. 3.1 3.2 3.3 3.4 3.5 3.6 3.7

Il sistema produttivo Il mito del basso costo Dalle macerie alla ripresa Anno zero? Il cinema di Andreotti Il modello produttivo L’industria del neorealismo I film non piovono dal cielo

52 52 55 56 58 59 60 62 65

4. 4.1 4.2 4.3 4.4 4.5 4.6 4.7 4.8

Neorealismo e storiografia del cinema italiano Asincronie, dissidi, interpretazioni Il neorealismo come vocazione Dialogo e differenza. Intellettuali e cinema neorealista Realismo: arte o riproduzione? Neorealismo, nuovo cinema (italiano)? Guido Aristarco Monumenti e documenti: Pesaro ’74 Torino ’89 e oltre. Le densità del neorealismo

Nazione, popolo, collettività. Neorealismo e identità nazionale Il neorealismo: la Costituzione del cinema italiano? Prima della rivoluzione. La battaglia per un cinema nazionale Così vicino, così lontano. Il cinema neorealista e l’America La cultura e l’influenza. Politica, cinema, nazione nel dopoguerra

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Progetti, modelli e proclami 1. Michelangelo Antonioni, Per un film sul fiume Po

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Neorealismo: arte cinematografica e modernità 8. Cesare Zavattini, Poesia, solo affare del cinema italiano 9. Cesare Zavattini, Morirà il cinema? 10. Félix A. Morlion, Le basi filosofiche del neorealismo cinematografico italiano 11. Italo Calvino, Il realismo italiano nel cinema e nella narrativa 12. André Bazin, Il realismo cinematografico e la scuola italiana della Liberazione 13. Giorgio De Vincenti, Bazin e il neorealismo

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Film e dibattiti del neorealismo 14. Guido Aristarco, In nome della legge 15. Massimo Alberini, Annotazioni su una diffidenza 16. Carlo Doglio, Personaggi equivoci e nuova decadenza 17. F. Ber., I lettori e il cinema italiano. La “legge” di Germi 18. Glauco Viazzi, I film non piovono dal cielo 19. Franco Fortini, Due soldi di speranza 20. Guido Aristarco, Cielo sulla palude

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Neorealismo e nuova storiografia cinematografica 21. Gian Piero Brunetta, Umberto Barbaro e l’idea di neorealismo 22. Lino Miccichè, Per una verifica del neorealismo 23. Cinegramma (Francesco Casetti, Alberto Farassino, Aldo Grasso, Tatti Sanguineti), Neorealismo e cinema italiano degli anni ’30 24. Leonardo Quaresima, Neorealismo senza 25. Alberto Farassino, Neorealismo, storia e geografia

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Indice bibliografico

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Indice delle schede

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Indice dei film

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Indice dei nomi

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Giuseppe De Santis, Per un paesaggio italiano Luchino Visconti, Cadaveri Giuseppe De Santis e Mario Alicata, Verità e poesia:Verga e il cinema italiano Antonio Pietrangeli, Analisi spettrale del film realista Carlo Lizzani, Infanzia del cinema italiano Luchino Visconti, Cinema antropomorfico

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Prefazione

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“Al cinematografo” il Foppa disse “vedi i cinesi come in Cina.” “Davvero?” disse Scipione.“È più nutritivo del pane anche il cinematografo?” “Certo che lo è” il Foppa disse. “Tra pane e cinematografo io sceglierei sempre il cinematografo”. Elio Vittorini, Uomini e no, 1945

Una domanda immediata può sorgere alla mente di chi maneggia questo volume: perché il neorealismo? Per quali ragioni oggi si ritiene necessario far ritorno su una scena, se le vicende avvenute paiono aver già svelato tutti i propri lati oscuri e ignoti? Il cinema neorealista è un territorio perlustrato nei propri angoli più inaccessibili e reconditi, per differenti motivi. Questa produzione parve costituire a tutti gli effetti l’emblema più efficace e sintetico della volontà di rinascita e riscatto nazionali, per una serie di caratteristiche più o meno mitiche: dimostrazione della resistenza della cultura italiana dinanzi alla barbarie bellica e totalitaria, persistenza di una prospettiva umanistica, primato della comprensione precedente gli steccati ideologici; e ancora: produzione artigianale, spontanea e veritiera, rispetto alla macchina dei sogni hollywoodiana; novità stilistica e immediatezza nella rappresentazione della Realtà; esaltazione della italica inventiva, tanto più vivace nei momenti di maggior difficoltà materiale. Lo scenario di comunanza nella tragedia e nell’indigenza avrebbe dunque prodotto una metamorfosi sociale e culturale, come scriveva nel 1950 Carlo Levi in L’orologio [Levi 1989, 66]: C’era stato un momento in cui gli uomini s’erano sentiti tutti uniti fra di loro e col mondo, e avevano visto la morte e vissuto in un’aria comune. Questo momento non era finito del tutto; continuava nella gente che imparava a vivere negli errori e nei dolori, che frugava tra le macerie, che sapeva di esistere e rinunciava alle cose perdute.

Il cinema rivestì in quel momento una funzione cardinale nei processi di simbolizzazione e diffusione dell’esperienza comune. Per questo ruolo così significativo nel passaggio dal regime dittatoriale all’Italia postbellica, quella fioritura cinematografica fu trasformata rapidamente in istituzione culturale, fondamento del nuovo edificio della cultura italiana: un palazzo di rappresentanza da consolidare, abbellire, restaurare, commentare. Piuttosto, furono i metodi di salvaguardia e valorizzazione del monumento a essere oggetto di discordia. Già prima della conclusione degli anni Quaranta, il cinema del neoreali-

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Prefazione

smo venne sventolato quale vessillo nella battaglia delle idee, bandiera di appartenenza ideologica, modello estetico e soprattutto politico cui uniformarsi e da uniformare. In questo sforzo di adeguamento del cinema a un obiettivo politico, ampiamente si discusse e definì il neorealismo. Al punto di irrigidire uno scenario vivace in un tableau vivant; vi figuravano per il balenio di una sola opera, o magari di una sequenza, pochi artisti conclamati. Fino a privilegiare la prospettiva ideologica sulla eccezione estetica, in attesa di una generalizzata svolta verso il realismo, determinante per abbandonare la cronaca contingente del neorealismo e figurare l’azione delle forze di classe nella storia. Lo sguardo disincantato e divertito di Luciano Bianciardi ben descrive la transizione e la sua artificiosa e inane pianificazione; al protagonista di La vita agra (1962), desideroso di raccontare una tragedia mineraria, il direttore di un quindicinale di spettacolo consiglia amichevolmente [Bianciardi 2009, 45]: “Vedi, è un buon tema, e sono sicuro che tu sapresti svilupparlo bene, ma stai attento, perché c’è il pericolo di cadere nel solito neorealismo. [...]. Sì, tutte quelle gallerie, le case pericolanti, i minatori in attesa fuori del pozzo. C’è il pericolo di cadere nella cronaca di un certo tipo. E ora invece noi ci stiamo battendo per il passaggio dal neorealismo al realismo. Dalla cronaca alla storia.”

Ovviamente, il direttore finiva per consigliare al malcapitato interlocutore una attenta visione di Senso (L. Visconti, 1954) e poi scappava, per non perdere un immancabile dibattito sul realismo... L’ultimo quarto del Novecento ha visto un’attenzione rinnovata al fenomeno neorealista. Una nuova messe di studi ha guardato a quel periodo cruciale della cinematografia nazionale attraverso lenti differenti. Lo studio dei modi di produzione, la ricostruzione della cultura cinematografica precedente e coeva, la ricognizione dei rapporti del cinema neorealista con l’industria e il mercato nazionali o con altre forme espressive, il ricupero cinefilo di registi e film lungamente trascurati, l’analisi formale delle opere e la descrizione delle loro complesse relazioni intertestuali sono solo i più rilevanti tra gli approcci al fenomeno maturati negli ultimi quattro decenni. Imponenti opere storiografiche, vivaci dibattiti, esaustive rassegne cinematografiche e ricche antologie di documenti originali sanano una lacuna e per molti versi chiudono varie questioni. Una delle acquisizioni poco contestabili degli ultimi decenni è il carattere minoritario del neorealismo nella produzione nazionale: un fenomeno limitato per quantità; forse anche per impatto sulle tipologie produttive dominanti. Non solo. La produzione del neorealismo viene indagata nelle sue ragioni poetiche, linguistiche, estetiche; prima e a prescindere dalle valenze politiche e dalla implicazione con la realtà. La consueta lucidità di Italo Calvino aveva già individuato il nodo negli anni Sessanta, come emerge chiara-

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mente dalle parole della Presentazione che apre nel 1964 Il sentiero dei nidi di ragno [Calvino 2002,VIII]:

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[C]hi oggi ricorda il “neorealismo” soprattutto come una contaminazione o coartazione subita dalla letteratura da parte di ragioni extraletterarie, sposta i termini della questione: in realtà gli elementi extraletterari stavano lì tanto massicci e indiscutibili che parevano un dato di natura; tutto il problema ci sembrava fosse di poetica, come trasformare in opera letteraria quel mondo che era per noi il mondo.

La durevolezza e l’importanza degli studi italiani ed esteri dedicati al neorealismo è di per sé un monito ad affrontare l’oggetto. A questa ragionevole cautela, si aggiunga un conseguente distacco dal tema: quando molte parti della storia della cinematografia italiana permangono nell’ombra, occuparsi di nuovo di un fenomeno contenuto nel tempo e forse nell’influenza esercitata sul cinema nazionale pare inappropriato. Tornare a immagini così note da essere consunte, al punto da mutare la propria energia in stanchi stereotipi o esfoliarsi nelle Histoire(s) du cinéma (1988-1998, J.-L. Godard), sembra un esercizio inutile. L’accelerazione impressionante dello scenario culturale nella seconda metà degli anni Quaranta conserva porzioni di terreno da dissodare.Additiamo qualche esempio. I punti di tangenza tra produzione neorealista e industria culturale – dalle riviste satiriche alla radiofonia, passando per lo spettacolo dal vivo – vanno ancora indagati nella loro complessità; la diffusione di un’iconografia neorealista in settori produttivi meno esplorati (cortometraggi, cinegiornali) aspetta una sistemazione; l’esemplarità della produzione media e di alcuni cineasti (Bianchi, Borghesio, Castellani, Ferroni, Franciolini, Monicelli e Steno, Zampa...) nella acquisizione di temi e soluzioni rappresentative cristallizzate nei grandi capolavori del neorealismo sollecita maggiore attenzione, e forse qualche riflessione comparativa; la circolazione di motivi e topoi tra stampa, rotocalchi e cinema richiede un censimento approfondito, da compiere su grande scala; la trasformazione dei modelli divistici nel secondo dopoguerra, in concomitanza con l’affermazione di nuove tipologie di genere e una riorganizzazione dell’industria dello spettacolo attende un’ampia ricostruzione. Queste possibili linee di ricerca sono state contemplate, forse riflesse nel saggio introduttivo. Ciascuna di esse abbisognerebbe di spazio ed estensione maggiore; le ragioni editoriali hanno debitamente imposto una struttura più sintetica. L’obbiettivo ideale del volume è collocato vari metri indietro, non foss’altro per la consistenza del bersaglio. Si è trattato di rendere conto di un dibattito nazionale di imponenti dimensioni, nel tentativo di fornire una mappatura dei termini principali; nella speranza forse vana di considerare pienamente i protagonisti principali di una riflessione durata più decenni. In essa si sono spesso specchiate preoccupazioni e inquietudini

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proprie al cinema; ma queste recano molte volte traccia di altri crucci. Ci è parso determinante il ruolo svolto dal cinema neorealista nella costruzione di una genealogia cinematografica illustre per l’Italia, e nella cultura nazionale tout court; perciò, si è deciso di aprire il saggio introduttivo con un’ipotesi sulle ragioni della centralità di quella stagione cinematografica nella storia italiana del secondo Novecento. Si è poi tentato di descrivere sinteticamente gli aspetti qualificanti il fenomeno sul piano testuale e intertestuale: i tratti in comune o distintivi rispetto ad altre forme espressive; le strutture rappresentative e narrative più salienti; le dinamiche semiotiche interne al neorealismo, nella relazione dei suoi testi con altri film, o con macrotesti come i generi di finzione o documentari. Successivamente, il volume si concentra sull’industria e il mercato del neorealismo, nella speranza di descrivere con maggiore accuratezza lo scenario economico e istituzionale in cui la stagione maturò. Infine, il saggio si propone di surrogare le vicende dell’idea nella seconda metà del Novecento: come è stato concepito e definito il neorealismo, attraverso quali strumenti teorici venne descritto, e con quali ricadute nella trasmissione della sua eredità. Le finalità di questo volume sono forse banali; speriamo non inutili. Si desiderava rendere nuovamente accessibili i contributi prodotti in quel fertile torno di anni, o le riflessioni antecedenti, da un lato; dall’altro, raccogliere e rendere conto di alcune riflessioni successive, del periodo di maggior attenzione storiografica e innovazione metodologica negli studi sul neorealismo – gli anni Settanta e Ottanta. Gli studiosi più attenti al fenomeno difficilmente rinveniranno scritti ignoti.Tuttavia, la scelta è stata motivata dalla odierna irreperibilità sul mercato editoriale di proposte, dibattiti e riflessioni a nostro avviso discriminanti per comprendere il neorealismo. La scelta dei documenti è stata piuttosto dolorosa: molto è stato sacrificato, per ragioni di spazio. Per la medesima ragione, ciascuno avrà modo di scovare lacune. Ci scusiamo sin d’ora con i lettori più esigenti, senza rinunciare alla speranza di una maggiore utilità della bibliografia finale; e a immaginare una lapidazione augurale per le manchevolezze degli autori, simile a quella affettuosa che la comunità solidale riserva ad Alberto nel finale di Caccia tragica... I suggerimenti amichevoli e il sostegno continuo di Francesco Casetti, Guglielmo Pescatore e Leonardo Quaresima ci hanno indotto a precisare molti passaggi, e ne hanno ispirato ulteriori.A tutti va la nostra più sincera gratitudine. Vogliamo qui ringraziare per la vicinanza attenta, le preziose indicazioni e l’amicizia Giorgio Bertellini, Claudio Bisoni, Francesco Di Chiara, Mariagrazia Fanchi, Barbara Grespi, Giacomo Manzoli, Emiliano Morreale, Àngel Quintana. Alcune delle riflessioni qui presenti sono state elaborate nel quadro di ricerche e comunicazioni in sedi istituzionali, su sollecitazione e invito di

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Prefazione

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più persone. Siamo particolarmente grati ad Alberto Boschi, Thomas Elsaesser, Matteo Galli, Gloria Lauri-Lucente, Gigi Livio e Ansgar Nünning. Grazie alla generosità di molti siamo riusciti a ricuperare materiali bibliografici e cinematografici non sempre immediatamente accessibili. Sicuramente stiamo dimenticando qualcuno, ma almeno non Giulio Bursi, Luisa Cigognetti, Marco Comar, Grazia Cupini, Alessandro Faccioli, Anna Fiaccarini,Andrea Lena, Luna Vago, Federico Zecca. In mancanza di una revisione attenta del testo, esso non avrebbe oggi l’aspetto attuale: dei suoi pregi siamo debitori a Giovanna Altucci, Mariagrazia Fanchi, Eleonora Landini. Dei difetti siamo i soli responsabili. La sensibilità, la disponibilità e la pazienza di Elisabetta Menetti e Claudio Tubertini ci hanno permesso di lavorare con la calma dovuta. Le eventuali approssimazioni frettolose sono da imputarsi unicamente agli autori. Molte istituzioni accademiche, archivistiche e bibliotecarie hanno permesso al nostro lavoro di essere più ricco. Vorremmo qui menzionare Cinemantica-Università degli Studi di Udine, Cineteca del Comune di Bologna, Dottorato di ricerca in Studi Teatrali e Cinematografici dell’Università di Bologna, Dottorato di ricerca in Studi Umanistici e Sociali dell’Università di Ferrara, Dottorato di ricerca internazionale in Studi Audiovisivi dell’Università degli Studi di Udine, ESSCS-European Summer School in Cultural Studies, Istituto Storico Ferruccio Parri Emilia-Romagna/Sez.Audiovisivi “Giampaolo Bernagozzi”, Laboratorio multimediale e Biblioteca del Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna.

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Profilo critico

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1. Nazione, popolo, collettività. Neorealismo e identità nazionale 1.1 Il neorealismo: la Costituzione del cinema italiano? A più di sessant’anni dalla sua affermazione, la stagione del neorealismo cinematografico ancora funge da passaporto per l’estero, rappresenta per lo spettatore comune una delle emergenze più significative nella storia del cinema, ha per lungo tempo svolto la funzione di fondamenta dell’edificio del cinema italiano. Il neorealismo è comunque un riferimento obbligato [...] per quasi tutto il cinema italiano odierno, nelle sue glorie più alte e nei suoi più riprovevoli abomini, poiché, per analogia, per contrasto o per distacco è sul neorealismo che si fonda la realtà attuale della nostra cinematografia. [Miccichè 1975b, 10] Il neorealismo è l’italiano, o almeno l’italiano del cinema, la lingua nazionale che forse non sappiamo più parlare, perché ormai la koinè europea o planetaria è più utile e obbligata, ma l’unica che si possa ancora studiare a scuola, l’unica che ci consenta di fare bella figura in società e che ci dia un’identità all’estero. [Farassino 1989b, 21]

Un simile rilievo di uno specifico e breve fenomeno nella cultura nazionale probabilmente è frutto di più fattori: il momento storico di emersione del neorealismo e l’attenzione per la contemporaneità da esso dimostrata; il progetto culturale di un cinema nazionale, dibattuto e messo a punto negli ultimi anni del fascismo; l’interesse per le esperienze di altre cinematografie e la capacità assimilativa e negoziale tra modelli esteri e motivi locali; il considerevole investimento politico nel cinema da parte di partiti e organizzazioni di massa nel dopoguerra, tale da sollecitare una discussione accesa sulle possibilità e modalità di esistenza di un cinema italiano; la ricerca di forme di coordinamento e scambio tra produzione culturale e ceti popolari, al fine di aggregare una comunità nazionale. Il complesso di pratiche estetiche rubricate sotto la denominazione di neorealismo si afferma in una fase molto peculiare della storia nazionale, a tutt’oggi di cruciale importanza per la definizione dello Stato, del legame tra istituzioni e cittadinanza, dei criteri di rappresentanza e, in ultima

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Profilo critico

istanza, dell’identità italiana: il periodo successivo alla fine della seconda guerra mondiale, il passaggio da un regime totalitario a uno democratico, e da una monarchia a una repubblica parlamentare. Per quanto attiene al cinema, si ritiene per convenzione più appropriato delimitare la fase neorealista tra il termine delle belligeranze e il varo della legge quadro sul cinema approvata il 29 dicembre 1949, firmata dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Giulio Andreotti, suggello a un assetto politico significativamente mutato dopo le elezioni del 18 aprile 1948 e a un benessere sociale in progressiva diffusione [Farassino 1989b]. La fase precedente la conclusione del secondo conflitto mondiale sul territorio italiano, contenuta tra la firma dell’armistizio con la compagine alleata e la liberazione del suolo nazionale dalla conseguente occupazione tedesca, comporta una profonda frattura del paese sul piano militare, politico, culturale, funzionale; questa divisione è sintetizzabile nell’opposizione tra uno schieramento fascista, alleato dell’esercito tedesco e posto sotto l’egida della Repubblica Sociale Italiana, e uno sostenuto dalle forze angloamericane e organizzato in formazioni partigiane o regolari. Una lacerazione virulenta per un’identità nazionale condivisa. In più occasioni registi, sceneggiatori e intellettuali hanno indicato nella Resistenza il momento determinante per la nascita del neorealismo cinematografico; a distanza di quasi quarant’anni dal conflitto partigiano, uno dei cineasti militanti nelle fila della sinistra, Giuseppe De Santis, così rievocava quella metamorfosi: «Dico sempre, e lo ripeto continuamente, che il cinema neorealista nasce dopo la Resistenza e nasce dalla Resistenza. [...] Per me la ricerca realista era un impegno civile, una militanza politica» [Martini 1981, 11]. In verità, l’ipotesi di una filiazione diretta di un’attività estetica da un fenomeno politico, bellico e sociale presuppone una trasformazione sin troppo immediata dell’esperienza individuale e collettiva in una forma testuale, e tende perciò ad appiattire la seconda sulla prima, smarrendone le peculiarità. Piuttosto, il richiamo alle vicende dell’antifascismo e della Resistenza svolge un ruolo fondativo per una parte determinante della società italiana, perlomeno fino agli anni Sessanta e alla rilettura critica della transizione storica; questa funzione costitutiva dell’identità nazionale, forgiata da una scelta morale di una parte della sua popolazione [Pavone 1991], è di recente entrata in una fase critica, nella più generale difficoltà politica della sinistra europea conseguente al crollo del socialismo reale [Luzzatto 2004]. Alcune prospettive storiografiche hanno messo in discussione la capacità mitopoietica della Resistenza per la definizione dell’identità nazionale, in virtù di una impossibilità strutturale e funzionale di una minoranza internamente frammentata di rappresentare una palingenesi morale e civica dell’intero corpo della nazione [Galli della Loggia 1996]. Non è questa la sede, né nostre le competenze per partecipare a un dibattito storiografico complesso e intenso. Quanto qui si intende sottolineare è l’immediata produttività simbolica della fase resistenziale, difficilmente attribuibile in esclusiva a un disegno egemonico di una

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fazione politica. Un’identità nazionale non è infatti valutabile unicamente attraverso l’articolazione relativamente stabile dei rapporti tra forze politiche, forma dello Stato e popolazione; come sostiene lo studioso britannico di processi culturali Stuart Hall [1992, 292]: National identities are not things we are born with, but are formed and transformed within and in relation to representation. [...] It follows that a nation is not only a political entity but something that produces meanings – a system of cultural representation.

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[Le identità nazionali non sono cose con le quali nasciamo, ma sono formate e trasformate nel quadro della rappresentazione e in relazione a essa. [...] Ne consegue che una nazione non è solo un’entità politica, ma qualcosa che produce significato – un sistema di rappresentazione culturale.]

La guerra partigiana diviene tema centrale di più film [Ivaldi 1970], molto diversi tra loro. Alcuni di questi hanno origine da iniziative di autofinanziamento delle associazioni partigiane: sono opere di finzione come Il sole sorge ancora (A.Vergano, 1946), Pian delle stelle (G. Ferroni, 1947), Caccia tragica (G. De Santis, 1948), o Achtung! Banditi! (C. Lizzani, 1951), o documentari quali Giorni di gloria (G. De Santis, M. Pagliero, M. Serandrei, L.Visconti, 1945), tutti con scopi celebrativi piuttosto espliciti [Servetti e Asquini 2004]. Nondimeno, le vicende della Resistenza irrompono in opere firmate dai cineasti prima centrali nel Ventennio: Due lettere anonime (M. Camerini, 1945) e Un giorno nella vita (A. Blasetti, 1946); consentono a uomini allineati al regime fascista, o persino partecipi della Repubblica di Salò, di realizzare documentari, come nel caso di L’Italia s’è desta (D. Paolella, 1946) o Aldo dice 26x1 (F. Cerchio, 1945); colorano strutture narrative mutuate dall’opera lirica, nel curioso Avanti a lui tremava tutta Roma (C. Gallone, 1946); forniscono l’ossatura a due dei massimi capolavori del neorealismo, Roma città aperta (R. Rossellini, 1945) [Bruni 2006; Roncoroni 2006] e Paisà (R. Rossellini, 1946) [Parigi 2005], il secondo dei quali finanziato dallo Psychological Warfare Branch statunitense [Gallagher 1998; Muscio 1977, 1989]. La Resistenza permea profondamente l’attività narrativa postbellica, in ambito letterario [Corti 1978; Falaschi 1976; Falcetto 1992; Siti 1980] e cinematografico. Tuttavia, nel primo caso il rapporto di derivazione del testo dalla partecipazione degli autori al movimento partigiano è sovente diretto, ancorché problematico [Bertoni 2007, 294], come rivelano la memorialistica, i resoconti, i diari, scaturigine di un’attività narrativa sul vivo e di frequente anonima. Il racconto partigiano nasce da una tradizione orale [...] e ha avuto come trascrittori un numero stragrande di giovani sparsi in tutta Italia, che talvolta non avevano nessuna velleità né astuzia letteraria, e talvolta ne avevano fin troppa, ma sia gli uni che gli altri sono riusciti a far poesia solo quando son riusciti a far la parte del poeta anonimo. [Calvino 1949, 94, corsivi nostri]

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Nel caso del cinema, viceversa, il momento delle riprese e finanche la genesi del racconto hanno una natura postuma, la maggior parte delle volte non sono implicati in un’esperienza diretta e si collocano dichiaratamente nel campo della finzione. Eppure, la rappresentazione cinematografica di una complessa transizione nelle vicende patrie – la Resistenza e il confuso dopoguerra –, la sensibilità dimostrata in più occasioni per essa, l’impegno esplicito dei cineasti a partecipare alla società italiana, condiviso con altri ceti intellettuali [Ferroni 1991], si inscrivono in un più generale clima di partecipazione civile caratteristico della metamorfosi attraversata dalla nazione, e allo stesso tempo contribuiscono a edificarne un’immagine per la posterità. Il contributo è a tal punto significativo da rendere difficile dissociare l’immagine della sofferenza della popolazione civile dalla rappresentazione della tragica morte della Magnani, falciata da una raffica di mitra tedesco in Roma città aperta, o quella della Resistenza dalla brutale esecuzione di partigiani e militari angloamericani nell’ultimo episodio di Paisà. Il cinema del neorealismo ha adottato e ampiamente impiegato strutture narrative peculiari ai racconti della nazione: successioni di eventi fittizi, funzionali a far apparire dato naturale e ovvio una comunità di individui altrimenti suddivisibili sulla base di molti altri criteri [Smith 2000]. Molti film neorealisti mettono in scena momenti pertinenti per la fondazione della comunità nazionale: il sacrificio dei protagonisti, nel primo e nell’ultimo episodio di Paisà, in Un giorno nella vita, in cui partigiani e monache rinunciano alla propria esistenza terrena per un futuro migliore, in Il sole sorge ancora, dove le vittime dell’olocausto sono partigiani comunisti e sacerdoti, come in Roma città aperta; oppure, la scelta morale, capace di trasfigurare insiemi sociali altrimenti amorfi, in In nome della legge (P. Germi, 1949), Campane a martello (L. Zampa, 1948), La terra trema (L. Visconti, 1948), per nominare film molto diversi tra loro. In tal senso, il neorealismo cinematografico è parte attiva della costituzione di una comunità nazionale nell’ambito della rappresentazione: una comunità immaginata talvolta quale esito di una palingenesi violenta, talaltra come complessa e imperfetta trasformazione della società [Anderson 2005]. 1.2 Prima della rivoluzione. La battaglia per un cinema nazionale Il progetto di edificazione di un cinema adeguato a dar conto della nazione e allo stesso tempo elevarla affonda le proprie radici nel Ventennio fascista: la questione del rapporto tra cinema e nazione emerse a più riprese nel dibattito cinematografico sin dagli anni Venti, per costituire un filo rosso successivamente all’avvento del sonoro, in maniera analoga ad altre culture cinematografiche europee. La discussione riprese con intensità successivamente all’uscita delle major americane dal mercato italiano nel 1938, conseguenza della decisione del governo di stabilire un monopolio distributivo sul prodotto estero: dinanzi al vuoto creato da quella rinuncia, si apriva uno spazio inusuale per il prodotto nazionale, e si sollecitava così una di-

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scussione sulle sue caratteristiche più congruenti con la cultura italiana e le sue necessità impellenti.Allo stesso tempo, la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta assistono all’avvento di una nuova generazione intellettuale [Ben-Ghiat 2000],cresciuta nelle istituzioni formative e culturali sostenute dal regime, ma in rapporto critico o francamente oppositivo a quello. Nel novero della cultura cinematografica, uno dei palcoscenici più affollati di questa nuova generazione fu la rivista «Cinema», fondata nel 1936 e poi diretta per un lungo periodo da Vittorio Mussolini, figlio del Duce. Nel quadro delle attività informative e critiche della rivista, al principio degli anni Quaranta si andò formando un progetto di cinema nazionale [Quaresima 1984], varato e sostenuto da alcuni critici e intellettuali destinati a divenire nel dopoguerra figure di spicco nella intelligencija di sinistra: Giuseppe De Santis, Michelangelo Antonioni, Carlo Lizzani, Massimo Mida, Antonio Pietrangeli, Gianni Puccini, Luchino Visconti, Mario Alicata... Le tracce di questo progetto sono rinvenibili in molteplici sedi; ma sono al meglio enucleate in una serie di contributi siglati dal futuro regista di Caccia tragica, talvolta con la collaborazione di Alicata.Alcuni termini e punti cardinali sono ricorrenti in quel dibattito, e destinati a una realizzazione in alcune opere cinematografiche successive, a partire da Ossessione (L. Visconti, 1943), vero e proprio film-manifesto di una generazione [Miccichè 1990; Pravadelli 2000], e perciò spesso eletto a termine a quo del neorealismo. Paesaggio, realismo, letteratura, mestiere, cinema francese sono le parole d’ordine che echeggiano da un contributo all’altro. Nell’opinione del gio-

Luchino Visconti Discendente di una nobile famiglia milanese, assistente di Jean Renoir dal 1936, Visconti si avvicina al cinema relativamente tardi, associando però alla prassi realizzativa una forte tensione programmatica e una decisa militanza comunista. Il suo esordio, Ossessione (1943), è il laboratorio che mette alla prova le idee e le speranze della generazione di «Cinema», rivista alla quale egli stesso collabora. Dopo la partecipazione al documentario antifascista Giorni di gloria (1945), realizza il progetto, a lungo accarezzato, di una trasposizione da Verga con La terra trema (1948) ed esaurisce, oggettivandolo, l’immaginario neorealista in Bellissima (1951). Senso (1954) farà dichiarare ad Aristarco il passaggio definitivo dal neorealismo al realismo, dalla cronaca alla Storia. Nel dopoguerra Visconti è attivo anche in campo teatrale, con regie liriche e di prosa che condividono con la sua opera cinematografica la volontà di confronto con la grande tradizione culturale europea e l’eccellenza della messa in scena, anche in virtù di un atteggiamento critico: le regie cinematografiche e teatrali sono sempre operazioni riflessive e antimimetiche sugli strumenti impiegati, le narrazioni istituite, le condizioni materiali di esistenza dei personaggi e delle loro parabole.

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vane De Santis, il cinema italiano sconta una grave arretratezza rispetto ad altre cinematografie europee [De Santis 1941a, 10, corsivo nostro]:

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L’importanza di un “paesaggio” e la scelta di esso come elemento fondamentale dentro cui i personaggi dovrebbero vivere recando, quasi i segni dei suoi riflessi [...] sono aspetti di un problema quasi sempre risolti nel cinema degli altri paesi, ma non nel nostro.

Il paesaggio in questa prospettiva riveste una triplice funzione: collocare la vicenda in uno spazio riconoscibile come specificatamente nazionale attraverso i suoi tratti visivi; fornire al regista un materiale già organizzato semioticamente, ad alta densità comunicativa e ulteriormente trattabile: «Il cinema ha un bisogno sempre maggiore di servirsi di un simile elemento che certamente risulta come il più immediato e il più comunicativo agli occhi dello spettatore, il quale, anzitutto, vuole “vedere”» [De Santis 1941a, 10]. Non a caso, uno dei luoghi più rappresentati dal cinema neorealista e a lungo produttivo successivamente sarà uno spazio interamente lavorato dall’uomo, la Pianura Padana, culla del movimento resistenziale e ritratta da Caccia tragica, Paisà, Gente del Po (M. Antonioni, 1942-47), Riso amaro (G. De Santis, 1949), Il mulino del Po (A. Lattuada, 1948), Il cammino della speranza (P. Germi, 1950), o nei successivi documentari di Michele Gandin, Renzo Renzi o Florestano Vancini [Quaresima 1981; Pitassio 2007a]. Infine, il paesaggio svolge un terzo, importante ruolo nella discussione avviata sulle pagine di «Cinema»: offrire un luogo di interazione tra uomo e ambiente, o meglio, tra personaggi e spazio, tale da accrescere l’efficacia della rappresentazione, anche attraverso soluzioni di articolazione visiva corale, poi particolarmente perseguite nel cinema di Giuseppe De Santis. Il legame tra uomo e luogo può essere inteso dal giovane Antonioni come inerente alla realtà rappresentata; una sorta di atmosfera, una Stimmung ineffabile, matrice di una successiva supremazia dello spazio sul racconto nell’opera del cineasta ferrarese: «La gente padana sente il Po. In che cosa si concreti questo sentire non sappiamo; sappiamo che sta diffuso nell’aria e che vien subito come sottile malia» [Antonioni 1939, 77; Bernardi 2004]. Altrimenti, la relazione personaggio/ambiente è finalizzata alla maggiore efficacia possibile della rappresentazione [De Santis 1941a, 11, corsivo nostro]: Dovrebbe essere propria del cinema, poiché più di ogni altra quest’arte parla nello stesso momento a tutti i nostri sensi, la preoccupazione di un’autenticità, sia pure fantastica, dei gesti, del clima, in una parola dei fattori che debbono servire ad esprimere tutto il mondo nel quale gli uomini vivono.

La relazione tra uomo e ambiente è in questa sede risolta soprattutto in termini visivi.Tuttavia, essa verrà rafforzata nel secondo dopoguerra dalla frequente adozione di una cadenza dialettale, o del vero e proprio dialetto in opere dalle ambizioni e asperità differenti: dal siciliano incomprensibile

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dei pescatori di Aci Trezza in La terra trema al romanesco addolcito di Anna Magnani o Aldo Fabrizi, le specificità linguistiche della nazione tracimarono sullo schermo, ancorando la rappresentazione a uno spazio locale identificato anche attraverso i dialoghi [Raffaelli 1996; F. Rossi 1999]. Il futuro cinema nazionale pianificato dai giovani critici non dev’essere precipuamente documentario, e nemmeno interamente d’invenzione: dev’essere un cinema di finzione, a vocazione realistica:

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Il cinema, da documentario divenuto racconto, comprese che alla letteratura era legato il suo destino. [...] Proprio per la sua natura rigorosamente narrativa fu nella tradizione realistica che il cinema trovò la strada migliore: visto che il realismo, non come passivo ossequio ad una statica verità obbiettiva, ma come forza creatrice, nella fantasia, di una storia di eventi e di persone, è la vera ed eterna misura d’ogni accezione narrativa. [De Santis e Alicata 1941a, 16]

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Realismo La nozione di realismo fa riferimento a un complesso di problematiche epistemologiche, strategie rappresentative, modelli narrativi, opzioni ideologiche di enorme ampiezza. Per semplificazione, si può intendere con il termine una modalità rappresentativa intenzionata a dimostrare un rapporto privilegiato con il referente tramite più soluzioni: un distacco dichiarato dalle forme preesistenti, reputate distanti dal reale; la marginalizzazione della narrazione, a favore dell’accumulo di dettagli in apparenza insignificanti, ma costitutivi di uno spessore di realtà; il racconto delle classi subalterne, altrimenti prive di voce; l’inscrizione della rappresentazione in una tradizione realistica, il cui apice narrativo è nel romanzo ottocentesco. Nel cinema italiano, l’idea di realismo ha una tradizione consolidata nella cultura nazionale precedente il neorealismo: l’esperienza della rivista «Cinematografo», scaturita in Sole (A. Blasetti, 1929), il magistero teorico di Umberto Barbaro, alcuni isolati episodi letterari degli anni Trenta (Moravia, Bernari), il ricupero del verismo si coniugano con l’attenzione alle avanguardie storiche europee, alle cinematografie sovietica, francese e hollywoodiana, alla nuova narrativa statunitense. Realismo diviene un termine da opporre a un contesto artistico percepito come sterile e inadeguato, e capace di aggregare e sintetizzare forze e istanze differenti. Questa molteplicità di accezioni del termine prelude alla pluralità di modelli stilistici dopo la fine del secondo conflitto mondiale: nell’alveo del neorealismo coesistono opere debitrici di esempi realistici preesistenti, cinematografici e letterari (De Santis, Germi, Lattuada), sperimentazioni nella coniugazione di istanze estetiche e riproduzione del reale (Visconti), proposte di un realismo riproduttivo, a partire dalle caratteristiche mediologiche del cinema (Rossellini), e tentativi di un realismo del racconto (De Sica/Zavattini).

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Ma quando, quando si capirà che è soltanto questo tanto deprecato realismo (anche se talvolta possa far pensare a quello francese nei suoi caratteri esteriori, benché solo in questi, se sarà veramente italiano) che può portare alla verità? [Mida Puccini 1943b, 28]

Per portare a compimento questa ipotesi realistica, due sono i riferimenti possibili: una tradizione nazionale precedente e un modello straniero coevo. Nel primo caso, la genealogia viene istituita da un lato con uno dei pochi esempi di narrazione sovrana nel panorama prevalentemente lirico della letteratura italiana: Giovanni Verga [De Santis e Alicata 1941a, 1941b; Mida Puccini 1943a].Altrimenti, sono alcuni film del cinema muto eccentrici rispetto alla produzione maggioritaria – Sperduti nel buio (N. Martoglio, 1914), Assunta Spina (G. Serena e F. Bertini, 1915) [Pietrangeli 1942] – e alcuni tentativi di Alessandro Blasetti a essere eletti a esempio. Nel secondo caso, il modello viene individuato nel cinema francese degli anni Trenta, per la sintesi di istanze stilistiche e ambientazioni realistiche; e in parte nella produzione cinematografica e più significativamente nella letteratura realistica americana, scoperta e fonte di ispirazione di letterati come Elio Vittorini e Cesare Pavese [1945, 43-44]: Più che libri conoscemmo uomini, conoscemmo la carne e il sangue da cui nascono i libri. Nei nostri sforzi per comprendere e per vivere ci sorressero voci straniere [...]. Laggiù noi cercammo e trovammo noi stessi. Dalle pagine dure e bizzarre di quei romanzi, dalle immagini di quei film, venne a noi prima la certezza che il disordine, lo stato violento, l’inquietudine della nostra adolescenza e di tutta la società che ci avvolgeva, potevano risolversi e placarsi in uno stile.

La costruzione di un cinema nazionale passa dunque attraverso un confronto, problematico e fertile, con la produzione culturale di altre nazioni, e in particolare con un inevitabile termine di paragone per l’intero cinema europeo, Hollywood. Dichiarava Lizzani [Ungari 1981, 14]: I miei primi amori cinematografici, e credo che il discorso valga per gli altri cineasti neorealisti, anche quelli passati come me attraverso l’esperienza di «Cinema», furono precedenti a quel cinema d’arte che avremmo conosciuto solo in seguito, teorizzato e diffuso. I nostri primi amori erano il cinema americano e poi ancora il cinema americano.

Anche per questo, sulle pagine di «Cinema», il cui direttore è un appassionato spettatore del cinema americano, si procede a un chiaro elogio del professionismo, la cui latitanza è ampiamente stigmatizzata nel cinema italiano coevo [Lizzani 1942, 1943a, 1943b]. Una competenza propria al funzionamento della macchina del cinema opposta alla disinvoltura di molti cineasti della vecchia guardia, poi approssimativamente rubricati sotto la denominazione di “cinema dei telefoni bianchi”.

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Telefoni bianchi La definizione di “cinema dei telefoni bianchi”, spesso alternativa a “commedia all’ungherese”, identifica un insieme di film dai contorni poco definiti, un modo di produzione e una presunta relazione tra cinema di finzione e ideologia fascista. Si tratta di un’etichetta applicata alle commedie sentimentali italiane realizzate nel corso degli anni Trenta, con intento spregiativo; questo tipo di rappresentazione fu giudicato reo di occultare agli occhi dello spettatore la realtà miserevole del Paese durante il regime fascista. Questa vocazione a nascondere la realtà sarebbe stata rafforzata dal modo di produzione dei film: quasi unicamente in studio, in scenari spesso favolistici. Tuttavia, a ben vedere, il cinema comicosentimentale italiano degli anni Trenta compendia più modelli: la commedia mitteleuropea tra muto e sonoro; la screwball comedy hollywoodiana; la tradizione del teatro leggero italiano, da cui provengono tanti sceneggiatori e attori. Inoltre, la propensione sovranazionale di questo gruppo di film spesso li elevò a interlocutori della modernità europea per l’attenzione alle esperienze architettoniche e stilistiche più avanzate. Lo stesso modello produttivo alla base di molti di questi film, integrato nella industria culturale in quegli anni ai propri albori in Italia, rivela un progetto modernizzatore del cinema nazionale, per quanto forse poco assimilabile al successivo neorealismo.

Il cinema degli anni Trenta

In verità, questa opposizione adombra un duplice processo: da un lato, il rifiuto di un modello rappresentativo identificato con la sudditanza del cinema a una tipologia di spettacolo teatrale leggera e transnazionale, al quale sono ascrivibili buona parte dei film comico-sentimentali tra gli anni Trenta e Quaranta; dall’altro, la costruzione del regista come autore cinematografico: una figura consapevole del funzionamento complessivo del cinema, demiurgo della rappresentazione e intellettuale nel senso pieno del termine, rispetto all’operatore dello spettacolo sottomesso a una logica a lui superiore e indifferente al riconoscimento del proprio ruolo culturale. Si tratta, a tutti gli effetti, di un’ipotesi di rinnovamento dell’istituzione cinematografica nazionale. Per più aspetti, il progetto maturato sulle pagine di «Cinema» e in altre sedi risponde alle necessità di fondazione di un cinema nazionale. Il dichiarato interesse per la scoperta e il trattamento di un paesaggio autoctono assegna a questo anche un ruolo identitario, trasformandolo in “etnopaesaggio”, e territorializzando la memoria [Smith 1996, 2000]. La vocazione realistica risponde a una tradizione europea incline a qualificare il rapporto della rappresentazione con il Reale in termini estetici: una totalità organica sintetica della pluralità del referente [Elsaesser 2005; Comand e Menarini 2006]. La promozione di un cinema d’autore contrapposto a una produzione nazionale ripartita per generi e solitamente anonima è parte di

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Autore Il cinema emerso dalla seconda guerra mondiale e classificato come neorealista vide progressivamente affermarsi la figura dell’autore cinematografico, in base a più modelli e necessità. Già negli anni del conflitto si propone un modello di regista consapevole dei processi produttivi, responsabile ultimo della realizzazione e con una solida cultura: una tipologia professionale alternativa al regista esecutore del comico-sentimentale, e formatasi presso il Centro Sperimentale di Cinematografia. A questo prototipo si affianca quello del regista demiurgo derivato dalla tradizione del cinema d’arte europeo, affermata da Visconti già dai primi interventi sulle pagine di «Cinema». Il dopoguerra precipita queste ipotesi nel paradosso di una figura artistica disponibile a cancellarsi dinanzi alla Realtà, e allo stesso tempo a redimere questa stessa con un afflato di generico umanesimo. I registi italiani di spicco nella pubblicistica divengono i cantori discreti del reale, individualità culturali da sfoggiare all’estero e di cui compiacersi in patria, latori di un modo di produzione antindustriale e nazionale, opposto a quello hollywoodiano. Negli anni Cinquanta, mentre emergono poetiche di autore esplicite (Fellini, Antonioni), l’autore identificherà una modalità di operatività culturale propria al cinema, nella «politique des auteurs» dei «Cahiers du cinéma», di cui Roberto Rossellini fu cineasta prediletto; e la coerenza delle poetiche individuali, in alcuni contributi storiografici italiani (Ferrara), collimerà di per sé con il fenomeno neorealista: tale prospettiva tuttavia schiaccia la complessità del neorealismo su alcune personalità, precludendo la piena comprensione delle dinamiche di scambio intertestuali o tra testo e generi cinematografici.

una strategia di ricambio generazionale, ma anche un criterio di riconoscibilità del cinema nazionale: «The term “national cinema” may disguise another binarism: an auteur cinema [...] can be more virulently opposed to its own national cinema commercial film industry than it is to Hollywood films» [Elsaesser 2005, 37] (tr. nostra: «L’espressione “cinema nazionale” può occultare un’altra opposizione binaria: un cinema d’autore può essere opposto con ben maggiore forza alla produzione commerciale nazionale rispetto ai film hollywoodiani»). Infine, il confronto con il cinema francese, tedesco, sovietico e hollywoodiano sottende l’intenzione di dar vita a un cinema nazionale, costruito da un lato per prestiti e calchi dalle altre cinematografie, dall’altro trovando una modalità organizzativa e produttiva capace di non essere schiacciata da un ingombrante Altro Significante: Hollywood [Elsaesser 2005]. Un confronto poi assai produttivo sul piano intertestuale, e capace di informare nella maniera più sorprendente intere sequenze del cinema neorealista. Basta una sequenza di

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Il bandito (A. Lattuada, 1946) per rinvenire il gusto per scelte luministiche, ambientali e di rappresentazione dei ceti popolari cristallizzate nel cinema francese di Marcel Carné o Julien Duvivier; o una visione occasionale di In nome della legge per riconoscere il magistero del cinema western statunitense, come notarono i recensori dell’epoca, avviando un feroce dibattito sulle pagine di «Cinema» [Aristarco 1949; Alberini 1949; Doglio 1949, 1950; La “legge” di Germi 1949;Viazzi 1949]. A fianco della proposta nata sulle pagine della rivista diretta da Vittorio Mussolini, teoricamente forte e culturalmente connotata, un’altra si avanzò, più implicata con il lato rimosso della nazione: un paesaggio meridionale, aspro e con un rapporto intransitivo con i personaggi convocati ad abitarlo; delle sopravvivenze arcaiche in un paese promosso alla modernità dalla propaganda; delle formazioni comunitarie precedenti il contratto sociale, o nelle quali questo aveva caratteri di fragilità.Alla Pianura Padana del “vento del nord” si oppose dunque la Sicilia riarsa di In nome della legge e Il cammino della speranza, la Roma ostile ed esclusiva di Ladri di biciclette o Umberto D. [Sorlin 1979, 2001], le marine primitive di La terra trema, Il miracolo (episodio di L’amore, R. Rossellini, 1947-48), Stromboli, terra di Dio (R. Rossellini, 1949). Ma si trattava dell’altro lato della medaglia, non di una contrapposizione. Basta guardare alla periferia di Milano, come in Bambini in città (L. Comencini, 1946), per scovare le similitudini con la Napoli di Proibito rubare (L. Comencini, 1948). 1.3 Così vicino, così lontano. Il cinema neorealista e l’America La percezione delle cinematografie estere attraversò fasi alterne: da termini di confronto fondamentali per la costituzione di una cultura cinematografica autoctona a forze di invasione. In questo, un ruolo determinante venne svolto al termine del secondo conflitto mondiale dalla trasformazione della normativa di regolamentazione del mercato cinematografico, e conseguentemente della ricezione italiana delle proposte provenienti da oltre confine, in particolare dagli Stati Uniti [Ellwood e Brunetta 1991; Quaglietti 1974, 1980]. La nozione stessa di cinema nazionale non può prescindere dalle condizioni contingenti di realizzazione, circolazione e ricezione dei prodotti, stabilite da specifici strumenti di legge e politiche economiche, da cui dipendono tanto la cultura cinematografica di un periodo, quanto i margini di manovra dei soggetti. Più che un dato essenziale, il cinema nazionale è un insieme di pratiche discorsive istitutive dei testi e dei contesti cui appartengono e che li rendono possibili. Scrive Sorlin [1996, 10]: In my view, a national cinema is not a set of films which help to distinguish a nation from other nations, it is the chain of relations and exchanges which develop in connection with films, in a territory delineated by its economic and juridical policy.

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[A mio vedere, un cinema nazionale non è tanto un gruppo di film, utili a distinguere una nazione dall’altra; è la catena di relazioni e scambi connessi ai film e sviluppatisi in un territorio delineato dalla propria politica economica e normativa.]

In particolar modo, il confronto con il cinema hollywoodiano e, più complessivamente, la cultura americana caratterizzò in maniera profonda il lustro successivo al 1945. Già oggetto di reazioni contraddittorie nel corso degli anni Trenta, quando occupava l’ampia maggioranza delle quote di mercato, nel secondo dopoguerra il cinema hollywoodiano e la cultura da cui derivava sollecitarono atteggiamenti controversi. Il cinema neorealista volle costituirsi in modello nazionale soprattutto a detrimento della produzione popolare italiana del decennio precedente, e in parte coeva. Nondimeno, l’improvvisa e totale apertura del mercato cinematografico italiano alla produzione statunitense, su diretta pressione del Dipartimento di Stato americano, produsse una vera e propria alluvione, minacciosa per la sopravvivenza delle gracili coltivazioni nazionali [Ellwood e Brunetta 1991; Brunetta 1993; De Grazia 1985; Quaglietti 1980]: nel solo 1946, i film di provenienza statunitense importati in Italia superavano le sei centinaia, a fronte dei sessantacinque film nazionali. La medesima tendenza, motivata dalla condizione di debolezza della diplomazia italiana, dalla vastità del mercato locale e della situazione contingente del mercato anglosassone [Wagstaff 1998], si mantenne per l’intero lustro, ulteriormente aggravata dalla ripartizione degli incassi: quasi tre quarti dei ricavati dell’esercizio erano realizzati da film americani, a fronte di un guadagno dei film italiani spesso inferiore al 15%. Il cinema hollywoodiano da un lato suscitò interesse e vera e propria ammirazione, espressi anche attraverso pubblicazioni periodiche, più o meno affiliate ai distributori nazionali delle major: «Hollywood», «Star», «Bis»... [Brunetta 1993; Muscio 1991]. Dall’altro lato, fece emergere una diffidenza o un vero e proprio timore culturale già diffusi nella società [Cavallo 2002], inizialmente taciti in ragione del ruolo statunitense nel secondo conflitto mondiale, ma figurati in singole strutture narrative; successivamente, e in coincidenza con l’evoluzione delle vicende politiche internazionali, più chiaramente espressi. Il cinema hollywoodiano divenne un’importante fonte di guadagno per i segmenti della distribuzione e dell’esercizio, primi beneficiari nell’industria cinematografica italiana del successo dei film americani.Tuttavia, configurò un potenziale ostacolo per la ripresa della produzione, riducendone le possibilità di diffusione. Forse anche per questo alcune imprese più solide finanziariamente tentarono la via di una produzione riconoscibile per i production value, con un evidente marchio di fabbrica, sull’esempio dei grandi studio californiani: è il caso della Lux Film di Riccardo Gualino [Farassino e Sanguineti 1984; Farassino 2000], all’interno della quale fecero il proprio apprendistato i futuri interlocutori nazionali di Hollywood: Carlo Ponti e Dino De Laurentiis [Brunetta 1991].

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Il rapporto con il cinema hollywoodiano si esplicita anche nella convocazione di una serie di tratti semantici traslati nel neorealismo cinematografico. Se il riferimento alla sessualità, tabù del cinema italiano autarchico, deriva dal cinema francese del realismo poetico, come ben dimostrano film quali Ossessione, Il bandito, Caccia tragica, ma anche Fuga in Francia (M. Soldati, 1948), la rappresentazione del crimine, altrettanto preclusa durante il fascismo, è tratta dal gangster movie hollywoodiano – ben lo evidenziano opere assai dissimili, quali La vita ricomincia (M. Mattoli, 1945), Senza pietà (A. Lattuada, 1947), Gioventù perduta (P. Germi, 1947) o il personaggio interpretato da Vittorio Gassman in Riso amaro, così come i più tardivi Persiane chiuse (L. Comencini, 1951) e La città si difende (P. Germi, 1951). Fino a un esito paradossale, riscontrabile in un film di genere quale La fumeria d’oppio (Ritorna Za La Mort) (R. Matarazzo, 1947), ripresa di un personaggio celebre del cinema seriale dell’epoca del muto: qui la parte legata alle attività di una banda criminale pare tratta da un film di genere statunitense, mentre il gruppo di benevoli malviventi capeggiati dal protagonista riassume nei volti dei caratteristi e nell’aspetto dei personaggi l’iconografia neorealista. Le cinematografie straniere mettono a disposizione del cinema italiano del dopoguerra i complessi visivi più appropriati a esprimere sinteticamente una condizione, un’atmosfera, un carattere.Allo stesso tempo, il cinema del neorealismo prende a prestito e riassembla con soluzioni spesso originali articolazioni sintattiche e strutture narrative messe a punto altrove. Si è fatto riferimento a Pietro Germi, precedentemente; ma un esempio analogo, e un nodo aggrovigliato per la coeva critica cinematografica, furono anche Giuseppe De Santis e il suo fertile dialogo con i generi cinematografici hollywoodiani, ibridati con componenti tratte dalla cultura popolare nazionale [Farassino 1978]. In questi due casi, sono i movimenti di macchina, le soluzioni di montaggio, le scelte plastiche, le opposizioni manichee del racconto a essere desunte dal cinema hollywoodiano. Peraltro, nel caso di De Santis, questi elementi vengono inseriti in un quadro diegetico destinato a stigmatizzare proprio la cultura americana, la cui invadenza è percepita con preoccupazione da larghi strati della società. La costruzione di un’identità nazionale in relazione all’altro da sé prende corpo anche attraverso la rappresentazione di questo rapporto offerta in una serie di film, meno scontata di quanto ci si potrebbe attendere. Infatti, la presenza tedesca è in molte occasioni ridotta quantitativamente e qualitativamente: i personaggi sono appena delineati, con alcune rare eccezioni – Roma città aperta, in particolar modo. Più spesso, i protagonisti italiani sono messi a confronto con se stessi, con quella porzione della nazione responsabile di essersi messa a disposizione dello straniero: è il caso dell’episodio fiorentino di Paisà o di Caccia tragica. Ancor più di frequente, la definizione nazionale avviene per opposizione alla presenza americana: sono i liberatori ad apparire, in più occasioni, un fattore di disturbo, sovvertimento delle consuetudini, rischio letale per gli italiani: in Vivere in pace (L. Zampa, 1946) il soldato di colore, interpretato da

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John Kitzmiller, con la propria ubriachezza provoca la catastrofe nella piccola comunità rurale, fino a quel momento relativamente armoniosa. In maniera particolare, il rischio maggiore è corso dall’elemento femminile della nazione. Nell’episodio romano di Paisà, un soldato americano ritrova una ragazza amata al momento dell’ingresso delle truppe alleate nella capitale, e poi abbandonata; la donna è divenuta una prostituta, ma il militare – causa inconsapevole della sua rovina – nemmeno la riconosce.Allo stesso modo, in Un americano in vacanza (L. Zampa, 1945) il corteggiamento da parte di un milite americano di una donna italiana è soffocante e l’uomo incapace di comprendere le ragioni sociali del decoro. Ma, in maniera particolare, la rappresentazione delle forze statunitensi suggerisce un timore ben più angoscioso: la commistione razziale, le cui conseguenze disastrose sono messe in scena in più occasioni. In Senza pietà, Carla Del Poggio diviene l’oggetto di passione di un poliziotto militare di colore, interpretato sempre da Kitzmiller, con esiti esiziali per entrambi; in Tombolo, paradiso nero (G. Ferroni, 1947), la pineta nei pressi di Livorno diviene luogo di lussuria, e di enorme rischio per la malcapitata finita lì, possibile preda della libidine di un soldato afroamericano. Nel tardivo film di un cineasta determinante per la fase precedente il neorealismo, Il mulatto (F. De Robertis, 1950), un uomo esce dal carcere dopo una condanna per furto scontata durante il conflitto, ansioso di incontrare il figlio datogli dalla moglie: con raccapriccio scoprirà che il bimbo è biondo come la consorte deceduta, ma di carnagione nera, frutto dello stupro di un americano ai danni della donna. Indubbiamente, i racconti della nazione fanno ricorso alle divisioni di genere per costruire delle opposizioni significanti, e immediatamente efficaci, tra comunità [Hayward 2000, 98]: It is unconceivable [...] within nationalist discourses that the woman might choose to sleep with the enemy.So it is not difficult to see that and why nationalist discourses do militate for a gendered proscription of agency and power (so that,implicitly,agency becomes naturalized as male),and that they use the very real concept of rape in an abstract (but also extremely concrete) way to keep that proscription in place. Rape, then, becomes one way of eroticising the nation’s plight in male-driven narratives that have appropriated the female body. But that isn’t all. In these male-driven narratives, the female body becomes the site of life and death of a nation, the rise and fall of a nation. [Il discorso nazionalista non può concepire che la donna possa scegliere di dormire con il nemico. Non è pertanto difficile rilevare le ragioni che inducono i discorsi nazionalisti a negare in base al genere la capacità di azione e il potere – così che, implicitamente, la capacità di azione viene naturalizzata come virile – e il fatto che essi facciano ricorso al vero e proprio concetto di stupro in una maniera astratta (ma anche assai concreta) per rinsaldare quel divieto. Pertanto, lo stupro diviene una soluzione per erotizzare le difficoltà della nazione in quei racconti virili impossessatisi del corpo femminile. Ma non è tutto. In questi racconti virili, il corpo femminile diviene luogo di vita o morte per la nazione, della sua ascesa e caduta.]

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Probabilmente, la struttura patriarcale italiana poteva mal tollerare la trasformazione dei ruoli sociali, delle competenze di genere e delle forme di potere indotta dall’ingresso trionfante della cultura americana in Italia. D’altra parte, questa trasformazione era irrevocabilmente in atto: ben lo dimostra l’emersione di un divismo femminile del tutto inedito nello scenario cinematografico nazionale a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta. 1.4 La cultura e l’influenza. Politica, cinema, nazione nel dopoguerra La discussione e la definizione di un cinema nazionale riguardarono anche, in maniera significativa, le forze politiche emerse dalla conclusione della guerra, e in particolar modo i due partiti di massa destinati a segnare le vicende italiane fino al principio degli anni Novanta: Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano. La centralità acquisita dal cinema nel sistema dei media e la crescita progressiva del suo consumo nel secondo dopoguerra [Pasetti 2002] posero il problema di una politica adeguata a rispondere a questioni divenute di scala nazionale [Sorlin 1989]. Lo scenario normativo italiano del primo dopoguerra si caratterizzava per la considerevole incertezza: il Decreto Legislativo del 1945 aboliva la censura, ogni vincolo istituito dal regime fascista all’importazione di film e si poneva in maniera molto limitata il problema della sopravvivenza del cinema nazionale, su diretta pressione degli Alleati [Grignaffini 1989]. In questo scenario precario, il cinema neorealista diviene in più occasioni un biglietto da visita internazionale, premiato con l’Oscar per il miglior film straniero – Sciuscià (V. De Sica, 1946) [Bruni 2007] e Ladri di biciclette (V. De Sica, 1948) [Alonge 1997] –, celebrato a Cannes – Roma città aperta –, distribuito nei circuiti d’essai statunitensi [Fink 1977], oggetto di esegesi raffinate da parte di autorevoli critici francesi, supposta fonte di ispirazione per una reviviscenza della tradizione realista nel cinema hollywoodiano, in una complicata serie di andirivieni tra le due sponde dell’Atlantico [Prosperi 1949]. In qualche maniera, un bene prezioso da salvaguardare, per consentire una identificazione della “buona” cultura nazionale al di là dei confini: una parte della nazione non implicata con i crimini del fascismo, capace pertanto di riscattarla simbolicamente agli occhi dell’Europa e dell’America.Anche i politici poi considerati detrattori del fenomeno ne riconoscevano l’importanza per la nazione [Andreotti 1948]: Non si può ignorare [...] il sorgere di una scuola che si chiama del “neorealismo cinematografico” che [...] ha portato il nostro Paese in questo campo ad affermarsi con una formula e con una caratteristica che sono veramente oggi, nel campo della cinematografia internazionale, valutate.

Intorno ai criteri di sostegno alla ripresa dell’industria cinematografica, perciò anche alla tipologia di prodotto da essa originato, si confrontano opinioni assai diverse tra il 1945 e la fine del 1949. Un’iniziativa di legge,

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denominata per convenzione degli “80 giorni” e approvata nel maggio 1947, prevedeva un numero di giorni di programmazione obbligatoria per la produzione nazionale, consentendo così un potenziale spazio di esibizione per differenti tipologie di film, compresi i film neorealisti. Però, il mancato controllo sull’applicazione della normativa, alcune direttive contraddittorie provenienti dalla Sottosegreteria alla Presidenza del Consiglio, da cui dipendeva l’Ufficio Centrale per la Cinematografia, un sistema di tassazione sui film importati favorevole alle imprese estere di fatto vanificarono lo stesso dispositivo di legge. Fu in questa situazione, arroventata dall’acuirsi del conflitto politico prima e dopo le fatidiche elezioni del 1948 [Cavallo 2004], che una parte consistente dei cineasti e dei lavoratori del cinema si pose sotto l’egida delle sinistre, in un organismo denominato Alleanza per la difesa della cultura, fondato nel febbraio del 1948. In Piazza del Popolo, a Roma, un anno dopo i cineasti manifestarono la necessità di una maggiore tutela delle proposte culturalmente più avanzate del cinema nazionale. [In difesa del cinema italiano 1949; De Santis 1949; De Agostini e Mida 1949a, 1949b; Lizzani 1949]. L’ambizione dichiarata era la tutela sovvenzionata di un cinema, la cui principale vocazione era l’autorappresentazione di una nazione e la libera espressione del cineasta. Sostenevano rispettivamente gli sceneggiatori Cesare Zavattini [1950a, 686-687] e Sergio Amidei [In difesa del cinema italiano 1949, 67]: Per essere sicuro della propria salvezza, il cinema deve avvicinarsi alla sua vera ragione espressiva, che è la contemporaneità, l’immediatezza. Il film deve diventare il raccontatore di noi stessi [...] Il cinema afferma la validità dello specchio, della cosa avvenuta e subito rifatta e vista: esso fa della velocità un fatto morale. La realtà è quello che ci preoccupa – e basta. Un film in Italia non è ancora, per fortuna, un prodotto industriale, ma risulta davvero da una necessità di esprimersi, di dire certe cose da parte del regista.

La posizione espressa in quella sede, e fatta propria dalla rappresentanza parlamentare del Pci, era dunque orientata all’identificazione del cinema nazionale con il neorealismo, e alla prosecuzione dell’esperienza spontanea sorta nell’immediato dopoguerra attraverso l’elaborazione e l’applicazione di strumenti normativi destinati a sostenere finanziariamente quel modello cinematografico. Il Partito Comunista Italiano adottò una politica industriale conservatrice, fondata su una duplice ipotesi: l’utilità del raccordo con il settore produttivo, a fronte dell’opposizione con la distribuzione e l’esercizio, poco interessati al sostegno al cinema italiano; la ricerca di un’estetica e una cultura nazional-popolari, espressione più propria delle masse italiane oppresse, identificata con alcuni film neorealisti, e nel complesso ancora di là da venire. Nei fatti, ciò comportò il sostegno a un modello cinematografico realista, d’autore e sovvenzionato dallo Stato, con una funzione pedagogica nei confronti della popolazione. Una visione poco congruente con la posizione italiana nello scenario internaziona-

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le del dopoguerra, e con il funzionamento proprio dell’industria culturale. Nell’appassionato discorso al Senato dell’On. Emilio Sereni [1949], responsabile culturale del Pci: «Qui si tratta della natura culturale ed artistica della produzione cinematografica, del suo carattere nazionale, della difesa della cultura nazionale» (corsivi nostri). La posizione del maggior partito di sinistra nell’arco costituzionale rispecchiava l’accentuazione della componente nazionale nell’estetica del realismo socialista. Non a caso, l’anno precedente lo stesso Sereni [1948, 312, corsivi nostri] asseriva sulle pagine di «Rinascita»: Contro ogni tentativo di negare il fatto che una cultura mondiale ed una civiltà umana possano nascere solo dal libero sviluppo e dalla mutua fecondazione delle culture nazionali, e non da una loro amputazione o soppressione; contro ogni tentativo di acquiescenza e di asservimento degli intellettuali a una velenosa e incolore cultura cosmopolita [...] è apparso perfettamente chiaro il contenuto nuovo che la lotta per la cultura e l’indipendenza nazionale è venuta assumendo nel corso della guerra di liberazione contro il fascismo e contro il nazismo.

La discussione su una cultura nazionale e popolare fu anche l’esito della pubblicazione delle riflessioni di Antonio Gramsci, in parte precedenti l’incarcerazione del teorico marxista, in parte elaborate durante la prigionia, ma raramente assunte nella loro piena valenza e complessità [Abruzzese 1975; Chemotti 1975; Gundle 1995a]. Ne conseguì una peculiare visione della cultura nazional-popolare: incapace di comprendere la produzione culturale degli strati subalterni già esistente e in dialogo con il cinema, di cogliere la novità del tentativo di alcuni cineasti cresciuti nel neorealismo, spesso coronato dal successo di pubblico – è il caso delle polemiche intorno a Riso amaro [Lizzani 1978] o Non c’è pace tra gli ulivi (G. De Santis, 1950) [Zagarrio 2002]–, di articolare il problema della produzione culturale al livello dei testi, ma anche dei mezzi stessi della produzione – su tutte, quella televisiva di lì a qualche anno [Pinto 1979]. Questa concezione era invece propensa a svolgere una funzione normativa, a spiegare cosa deve essere neorealista, progressista, nazionale, popolare [Forgacs 1990, 101]: A populist and in many ways paternalist conception of popular culture.The people were conceived as dispossessed of “real” culture [...]. On the one hand, the “progressive” or “authentic” forms of popular culture were constantly invoked as positive alternatives to the debased forms of an incipient mass culture, but, at the same time, they were constantly delegitimised by a cultural policy which fought to give the people access to “real” culture. [Una concezione populista e sotto molti aspetti paternalista della cultura popolare. Si riteneva che il popolo fosse spossessato della cultura “vera” [...]. Da un lato, le forme “progressiste” o “autentiche” di cultura popolare venivano costantemente invocate come alternative positive alle forme depaupera-

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te di una minacciosa cultura di massa; ma, allo stesso tempo, queste venivano continuamente delegittimate da una politica culturale che si batteva per consentire al popolo l’accesso alla “vera” cultura.]

Un caso emblematico della regolamentazione della rappresentazione realistica a partire da dettami politici fu Anni difficili (L. Zampa, 1947), tratto da un racconto di Vitaliano Brancati e cosceneggiato dallo scrittore siciliano. La pellicola metteva in scena un uomo comune di un paese siciliano, costretto dal contesto sociale e familiare a iscriversi suo malgrado al Partito Nazionale Fascista, e successivamente alla fine del fascismo unica vittima dell’epurazione. Dinanzi a un simile ritratto della banalità quotidiana e nazionale del male fascista, fu inaspettatamente «Vie nuove», un settimanale culturale legato al Pci, a insorgere attaccando il film e i suoi responsabili, rei di aver infangato l’onore italiano [Cosulich 2003c]. Il neorealismo divenne l’ideale prosecuzione estetica dell’esperienza della Resistenza [Lizzani 1950b]: una rigenerazione del paese. Nello stesso momento, si indicavano alla creazione cinematografica le direttive più opportune da seguire per assolvere a una funzione soprattutto politica e si andava costruendo un’ideologia del neorealismo: un cinema di poche opere eccezionali e molti film imperfetti, oppresso dall’azione politica delle forze conservatrici e del capitale internazionale. Un cinema nazionale opposto a quello americano, con un’estetica antimodernista, riemersione di una vocazione realista e popolare della parte migliore della nazione [Forgacs 1989, 55-56]: The anti-Americanism becomes more intense as an effect of the Cold War, as a response to the government’s promotion of a free market in film distribution which makes Neorealist films uncompetitive on the home market and deters producers from financing them, and as part of a promotion and defence of an Italian national tradition.The neorealist tradition becomes the national tradition, or at least the best of the national tradition. [...] Neorealism in this discourse of the left is the national-popular movement, the antiFascist cultural movement par excellence. [L’anti-americanismo divenne più intenso per effetto della Guerra Fredda, in risposta alla promozione governativa del libero mercato nella distribuzione cinematografica, che rese i film neorealisti poco competitivi sul mercato nazionale e dissuase i produttori dal finanziarli, e come parte di un sostegno e una difesa della tradizione nazionale italiana. La tradizione neorealista diviene la tradizione nazionale, o perlomeno la parte migliore della tradizione nazionale. [...] In questa concezione della sinistra, il neorealismo è il movimento nazional-popolare, il movimento culturale antifascista per antonomasia.]

Anche per queste ragioni, buona parte dell’intelligencija di sinistra non fu in grado per lungo tempo di comprendere la propositività di alcuni esiti del neorealismo: l’adozione di marche stilistiche distintive del fenomeno – attori non professionisti, coralità, impiego di esterni, ambientazione popo-

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Avanguardia Esiste nel cinema neorealista un aspetto di avanguardia? Vi si può rintracciare una qualche eredità delle avanguardie storiche? Avanguardia è una parola che incrocia spesso il dibattito sul neorealismo, in termini talvolta di opposizione, talaltra di assimilazione. La concezione dominante all’interno della cultura marxista italiana, in linea con l’inclinazione dei dirigenti del Pci, è quella di avanguardia come arte decadente, formalista, reazionaria [Brunetta 1993, 378-379]. Da questo punto di vista, realismo appare come l’esatto contrario di avanguardia. Guido Aristarco rintraccia così in L’edera di Genina (1950) «sequenze che tanto di moda erano ai tempi del così detto movimento di avanguardia». Per Domenico Meccoli, anche se apparentemente realista, «l’avanguardia [...] portava [...] alla ricerca di una realtà esteriore, oggettiva, evidentemente irrealizzabile». Accanto a questa, resta tuttavia attiva un’idea di avanguardia che informa certi giudizi critici e una visione del neorealismo all’interno della battaglia delle idee. In questa visione, che recupera il senso (e il lessico) militare dell’espressione, il neorealismo rappresenta l’avanguardia del cinema italiano, la sua punta più coraggiosa e avanzata, in un territorio solo parzialmente esplorato e di cui si progetta l’occupazione. Questa prospettiva coniuga il senso estetico della nozione di avanguardia con quello sociale: il neorealismo diviene la punta di diamante di un processo di trasformazione e rifondazione della nazione.

Intersezione

lare – nella costruzione di testi dalle ottime prestazioni di mercato, capaci di intercettare la domanda di un pubblico assai ampio e identificati fuori dai confini patrii quali tipicamente nazionali. Fu il caso di Due soldi di speranza (R. Castellani, 1952) e del dibattito che gli fece seguito [Spinazzola 1974] e precedentemente di altri film di Castellani – Sotto il sole di Roma (1948) ed È primavera (1950) – e di Domenica d’agosto (L. Emmer, 1949) etichettati quale neorealismo rosa [Miccichè 1979]. Né, d’altra parte, quello stesso ceto intellettuale si rivelò pronto a rilevare l’eccezionale forza commerciale e di identificazione nazionale propria al rinnovato divismo italiano [De Giusti 2003a; Eugeni 2003; Gundle 1995b; Masi 2003], direttamente scaturito dai ceti popolari del paese, attraverso la rinascita dei concorsi di bellezza [Gundle 2007]: Silvana Pampanini, Lucia Bosè, Anna Maria Ferrero, Gina Lollobrigida, Sophia Loren o Silvana Mangano attraversarono quel meccanismo selettivo, per poi essere proiettate nel cinema, ancorando la propria credibilità e nazionalità nei loro stessi corpi. Anche in questo caso, i cineasti avevano avuto ben maggiore lungimiranza degli ideologi.Viceversa, alcuni esperimenti di comunicazione politica vicini al Pci e diretti da registi neorealisti rivelano spesso un’uniformazione molto accentuata alle direttive ideologiche e scarsa vivacità formale. È

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il caso di documentari quali 14 luglio (G. Pellegrini, 1948) o Togliatti è ritornato (B. Franchina, C. Lizzani, 1949), realizzati entrambi in conseguenza dell’attentato a Palmiro Togliatti [Sanguineti 2005], sintomatici della scarsa sensibilità alle ragioni del cinema nella direzione del partito. Dinanzi a questa avocazione politica dell’esperienza neorealista da parte della sinistra, la Dc manifestò ben altro pragmatismo. Stretto tra la pressione delle gerarchie vaticane, assai sospettose dinanzi alla cultura di massa e all’erosione delle consuete élites di potere, e l’inevitabile sudditanza dell’Italia agli Stati Uniti, ma intenzionato a non deludere i centri economici nazionali, il partito di Alcide De Gasperi trovò una mediazione complessa. Da un lato, attraverso la “legge degli 80 giorni” prima, e la legge Andreotti poi, consentì il predominio della produzione hollywoodiana sul mercato italiano, ingraziandosi i settori distributivo ed esibitivo nazionali, meno afflitti dalle conseguenze della guerra [Wagstaff 1989]; dall’altro, nondimeno, grazie al saldo mantenimento dell’istituto censorio, l’erogazione di premi alla produzione, e forme di persuasione nei confronti dei soggetti produttori consentite dallo stesso meccanismo di cofinanziamento statale, permise una riorganizzazione dell’industria cinematografica, evitando la realizzazione di progetti politicamente importuni. La politica governativa rifuggì da un intervento diretto, politico e produttivo, nella gestione della industria cinematografica; tuttavia, grazie a strumenti meno palesi e a sistemi di finanziamento discrezionali, ottenne di emarginare e successivamente escludere dal nocciolo duro della produzione nazionale i film valutati meno appropriati a rendere conto dello stato della nazione. Il disegno politico e industriale appare chiaro già nel discorso del Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio prima ricordato [Andreotti 1948, 62-63, corsivo nostro]: Noi dobbiamo incoraggiare una produzione sana, moralissima, e nello stesso tempo attraente, che può degnamente inscriversi nella corrente che ho prima ricordato, della nuova scuola italiana, che fa onore alla nostra cinematografia e che all’estero ci viene invidiata.

Come coniugare la riconoscibilità internazionale del neorealismo con la minore problematicità politica e sociale di una produzione popolare di maggior successo? Era un’equazione di non immediata soluzione, da molti studiosi riconosciuta nel successivo neorealismo rosa. Si trattò di un’operazione non ovvia, sicuramente lesiva degli esiti più alti consentiti dal fenomeno neorealista, al fine di proporre un’immagine nazionale nel mondo spesso assai discosta dalla realtà; ne è testimonianza la celeberrima polemica tra Andreotti e De Sica, in occasione dell’uscita di uno dei maggiori capolavori del neorealismo, Umberto D. (V. De Sica, 1952): Se è vero che il male si può combattere anche mettendone duramente a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che nel mondo si sarà indotti – erroneamente

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Il linguaggio segreto dei rapporti

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Vittorio De Sica

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Una fulgida carriera d’attore nella commedia degli anni Trenta e un esordio da regista nel medesimo genere (Rose scarlatte, 1940; Maddalena zero in condotta, 1941; Teresa Venerdì, 1941; Un garibaldino al convento, 1942) poco lasciano immaginare la svolta drammatica di De Sica, affiancato dallo sceneggiatore Cesare Zavattini. I bambini ci guardano (1943) e La porta del cielo (1944) prima; poi gli straordinari risultati nel dopoguerra, ritratti dolenti dell’Italia coeva: Sciuscià (1946), Ladri di biciclette (1948) e Umberto D. (1952), cui si affianca l’eccentrico Miracolo a Milano (1951). L’umanesimo dei racconti, l’impiego di attori non professionisti, l’utilizzo di esterni reali, la peculiare struttura narrativa, insieme a una qualità melodrammatica della rappresentazione, resero queste opere del dopoguerra tra le più emblematiche del neorealismo.

1901-1974

– a ritenere che quella di Umberto D. è l’Italia della metà del secolo ventesimo.De Sica avrà reso un pessimo servigio alla sua patria.[Andreotti 1952,220]

Nondimeno, risultato di quell’articolata iniziativa governativa fu anche la proiezione del cinema italiano sugli scenari internazionali negli anni successivi, e l’arrivo di investimenti ingenti in patria. Un esito capace di diffondere con minore intensità, ma ben maggior ricaduta finanziaria, l’identità nazionale nel mondo.

2. Il linguaggio segreto dei rapporti. Realtà, rappresentazione e linguaggio 2.1 I parenti terribili. Cinema, letteratura, fotografia Il neorealismo cinematografico non prese forma in una condizione di isolamento.Anzi, convisse con fenomeni paragonabili in ulteriori ambiti estetici, in special modo con la letteratura e la fotografia [Taramelli 1995]. In diverse occasioni si è cercato di leggere queste relazioni tra forme espressive in termini genealogici. A nostro parere, questo tipo di indagine ha una limitata efficacia esplicativa. In taluni casi, il percorso è abbastanza patente:Alberto Lattuada iniziò la propria attività artistica nella fotografia, pubblicando un volume di dichiarata ascendenza realistica [Lattuada 1941]; l’antologia di narrativa statunitense curata dallo scrittore Elio Vittorini, Americana (1941), si avvalse di fotografie della Farm Security Administration [Lucas e Agliani 2004], e segnatamente di Walker Evans, probabilmente all’origine della iconografia di Ossessione (L. Visconti, 1943) [Grespi 2008-09]; Sciuscià fu preceduto da un reportage fotografico di Piero Portalupi, accompagnato da un testo del regista intitolato “Sciuscià, giò?” [Bolzoni 1992]. Ma queste primogeniture non assegnano alla fotografia né

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la paternità esclusiva, e nemmeno il ruolo più significativo nell’età del neorealismo, complici l’organizzazione dell’editoria fotografica e il ridotto dialogo con le ricerche fotografiche internazionali [Mutti 2004]. Più complessi i rapporti con la letteratura: essi sono intessuti di collaborazioni dirette di letterati con il cinema, da Ennio Flajano a Cesare Zavattini, da Cesare Pavese a Vasco Pratolini; e in taluni casi vedono l’adattamento immediato o tardivo di testi letterari, come in Ladri di biciclette, tratto dal testo di Luigi Bartolini, o in Cronache di poveri amanti (C. Lizzani, 1954), da Pratolini. La produzione letteraria della generazione esordiente nel corso degli anni Trenta, e di quella giunta alla pubblicazione nel decennio seguente, fu segnata in profondità dalla fase neorealista, cui alcuni dei nomi più significativi della storia del Novecento italiano diedero il proprio contributo.Tuttavia, da più parti si svalutò l’importanza della stagione, a fronte dei risultati conseguiti dal cinema. Così sosteneva Vittorini nel 1951 [Bo 1951, 27]: Sì, possiamo parlare di neorealismo anche per la nostra letteratura ma non nello stesso senso in cui possiamo parlarne, ad esempio, per il nostro cinematografo. In questo campo l’espressione ha un valore critico decisivo che definisce qualità e difetti, aspirazioni e atteggiamenti comuni a tutti i nostri registi. Usata invece in letteratura non definisce niente d’intrinseco che sia comune a tutti i nostri scrittori e anche solo a una parte di essi.

Alcuni tratti nondimeno accomunano le prassi letteraria e cinematografica: per l’una e l’altra, si può parlare di una temperie culturale e di un periodo storico determinati, anziché di un movimento o di una scuola, fondati su orientamenti poetici forti e riconosciuti. Una cultura e un periodo marcati da alcune parole d’ordine. Una fase dominata dall’ideologia della ricostruzione [Luperini e Melfi 1980], al cui cuore è una «ambigua quanto catartica nozione di impegno» tradotta in «volontarismo etico e coinvolgimento esistenziale» [Verbaro 1995, 51]. Per paradosso, l’aspirazione a una ricaduta sociale per l’attività estetica era precedente alla fase postbellica [Asor Rosa 1982a, 567]: La continuità, dunque, è nella nozione stessa di impegno, nella perdurante ricerca di un rapporto fra letteratura e politica; la discontinuità, invece, è nei diversi contenuti politici e ideologici di tale impegno.

Le mutate condizioni sociali e politiche resero una serie di temi accessibili alla narrazione, a partire dall’esperienza resistenziale tradotta nella memorialistica. Questa prossimità di esperienza individuale e socializzazione del racconto, e la duplice valenza documentaria ed etica di quella narrativa determinarono un’intonazione propria alla produzione neorealistica [Zancan 1986]. Le parole “documento”, “realtà”, “cronaca”, “uomo” risuonarono dalle riviste letterarie a quelle cinematografiche; anzi, proprio in questi spazi privilegiati dell’editoria del dopoguerra, scrittura letteraria

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ed extraletteraria si affiancavano, fornendo il miglior esempio di quella eterogeneità stilistica così distintiva della letteratura e del cinema postbellici.Appunto la condivisione di parole d’ordine e di motivi ricorrenti – la Resistenza, le rovine, i bambini, il crimine, le periferie urbane, le classi subalterne, le aree rurali – identifica inequivocabilmente una cultura e un periodo, in assenza di una comunanza stilistica, e in qualche modo li grava di «un’ipoteca contenutistica» [Verbaro 1995, 52]. Le realizzazioni letterarie e cinematografiche manifestarono un ulteriore tratto comune e innovativo del panorama culturale nazionale: la vocazione narrativa [Asor Rosa 1986; Falcetto 1992], grazie alla quale le opere si distanziarono dalla produzione del periodo precedente, segnato dalla prosa d’arte in letteratura e da modelli di ascendenza teatrale nel vituperato cinema dei “telefoni bianchi”. Questo stesso ritorno del narrativo segnò la fotografia, fino alla sua organizzazione in reportage e nelle tardive fotoinchieste pubblicate sulla rivista «Cinema nuovo» a metà degli anni Cinquanta.

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Narrazione Il fenomeno neorealista è stato identificato con la manifestazione della narrazione nella cultura nazionale. Più fattori concorrono a questa categorizzazione: alcuni inerenti al periodo precedente la seconda guerra mondiale, altri ai processi trasformativi successivi. Tra i primi, è utile rammentare la natura sporadica della letteratura a vocazione narrativa nel periodo tra le due guerre, soverchiata dalla prosa d’arte e dal racconto d’appendice. Questo dato ha più conseguenze: la necessità di un riferimento antecedente nella storia letteraria italiana (Verga); l’ammirazione per la narrativa contemporanea americana (Dos Passos, Faulkner); l’identificazione del racconto con il resoconto del reale. In ambito cinematografico gli anni Trenta furono assimilati a una dipendenza dalle forme rappresentative, drammaturgiche e performative teatrali. Questo quadro comportava un’equivalenza progettuale tra narrazione e trasformazione sistemica. La fase postbellica assistette a un’esplosione del racconto, messa da più osservatori in relazione con due elementi: la narrazione orale propria alla nuova comunità resistenziale (Calvino), e la natura collettiva di questa modalità di racconto. Nel caso del cinema, la dimensione collettiva del racconto è stata spesso individuata nell’uso della voce over, manifestazione di una coscienza impersonale e sovraindividuale. In senso più ampio, il cinema palesa l’intenzione di narrare accadimenti recenti o contemporanei e di interesse comune, attraverso una molteplicità di strutture narrative: alcune alternative e distanti dal modello del cinema classico hollywoodiano (Rossellini, Visconti, De Sica/Zavattini), altre capaci di accelerare quel modello verso esiti imprevisti (De Santis, Lattuada), altre infine più prossime a esso (Germi).

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2.2 La lingua scritta della realtà Il cinema italiano successivo al secondo conflitto mondiale vide un’imponente quantità di film di intonazione realistica: esiti di ricerche e sperimentazioni d’autore, ma anche di inclusioni di motivi desunti dall’attualità e dal passato più recente in strutture narrative tradizionali. Cosa indusse critici e studiosi a presumere un rapporto più stretto di questo cinema con la realtà? La produzione estetica si fonda sempre su un effetto di corpus e su una rispondenza dei testi all’immagine della realtà circolante in una specifica cultura a un dato momento. Il testo realistico è valutato tale in base alla sua adeguatezza a un canone realistico, da un lato, e alla sua capacità di rinnovare le convenzioni estetiche pregresse, dall’altro, così da renderne palese la innaturalezza e inaugurare nuove soluzioni formali [Jakobson 1921]. La rappresentazione neorealistica va dunque considerata per le opzioni discorsive messe in opera, per le strategie retoriche e stilistiche adottate per produrre degli effetti di realtà [Casetti 2005], e «“far sembrare effettivo” e insieme “far sembrare vero” quanto viene mostrato sullo schermo» [Casetti e Malavasi 2003, 176]. Il neorealismo cinematografico introdusse elementi di novità nelle modalità di riproduzione del referente, nelle strutture narrative, nelle strategie enunciative.Allo stesso tempo, riassemblò in una sintesi inedita strutture linguistiche già presenti nella precedente storia del cinema, nazionale e non. La debita e utile distinzione tra un (neo)realismo ontologico, attento prioritariamente alla dimensione riproduttiva del cinema, e uno estetico, volto a costruire un testo attraverso strategie discorsive e narrative già identificate con il realismo [Quintana 1997, 2003], ha qui una limitata efficacia: i procedimenti migrano infatti da un testo all’altro, ed è piuttosto la loro concentrazione maggiore o minore a determinare l’esemplarità dell’una o dell’altra pellicola. Detto altrimenti, l’uso di una ripresa Luigi Zampa

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Autore di sette pellicole tra il 1945 e il 1950, Zampa è protagonista di una particolare parabola critica. A partire da Vivere in pace (1946), i suoi film godono di ottima considerazione, soprattutto all’estero, nell’immediato dopoguerra, per poi venire etichettati, soprattutto in Italia, con le categorie negative di bozzettismo e qualunquismo. Attivo soprattutto nel campo della commedia, Zampa tocca nei suoi film temi altrove inconsueti, come la continuità di funzionari e politici italiani nel passaggio tra fascismo e repubblica (Anni difficili, 1947), l’attivismo politico femminile (L’onorevole Angelina, 1947) o la questione del confine italo-jugoslavo (Cuori senza frontiere, 1949). La sua attività del dopoguerra si distingue anche per la prolifica e significativa collaborazione con lo scrittore Vitaliano Brancati, con il quale forma una vera e propria squadra creativa.

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neutrale e oggettiva si riscontra tanto in Paisà (R. Rossellini, 1946) quanto in Cuori senza frontiere (L. Zampa, 1950), ma sicuramente l’originalità dell’uno non è eguagliata dall’altro; una peculiarità palese nel celebre disinteresse di Rossellini per una scrittura composta, eclatante in alcuni momenti di Germania anno zero (R. Rossellini, 1947) o L’amore (R. Rossellini, 1947-48). Molti film ascritti al neorealismo presentano una strategia retorica fondata sulla interpellazione diretta dello spettatore, nella prima sequenza del testo. Questa convocazione di un interlocutore ha la funzione di attestare la conformità di quanto si sta per vedere con una realtà specifica o universale; si tratta di un segmento denegativo, con il quale si occulta la natura della rappresentazione [Bertoni 2007], come se si affermasse:“Quanto state per vedere non è una finzione...”.Tale soluzione può essere limitata a una traccia grafica in apertura del racconto, come in La terra trema o Senza pietà; o, assai più spesso, essere organizzata intorno all’impiego di una voce esterna alla diegesi, che si rivolge a un pubblico; una soluzione discorsiva perdurante fino agli anni Cinquanta, sebbene con alcune significative modifiche nella specificazione di tale voce, eventualmente identificabile [Villa 1995, 1999, 2002]. Essa scandisce i passaggi da un episodio all’altro di Paisà, le vicende del protagonista di Sotto il sole di Roma e quelle collettive di La terra trema che àncora a una lettura politica, apre il racconto di Anni difficili, pare anonima ed eterea, per poi incorporarsi negli speaker radiofonici o cinematografici figurati nella diegesi di Riso amaro o Città dolente (M. Bonnard, 1948).Tuttavia, le voci over di alcuni film giocano direttamente contro le immagini mostrate, in funzione più direttamente ironica o comica, da Molti sogni per le strade (M. Camerini, 1948) a Totò cerca casa (M. Monicelli/Steno, 1949). Allo stesso modo, film inassimilabili per molti altri aspetti inglobano al proprio interno materiali documentari utilizzati in funzione veridittiva: questi contribuiscono a rendere credibile la rappresentazione. Perciò, da Paisà a Un uomo ritorna (M. Neufeld, 1946) un segmento documentario, Roberto Rossellini Rossellini è attivo già dalla fine degli anni Trenta; realizza tre lungometraggi durante il secondo conflitto mondiale (La nave bianca, 1941; Un pilota ritorna, 1942; L’uomo della croce, 1943), lascia un progetto a metà (Desiderio, 1943-46), dirige l’opera inaugurale del neorealismo: Roma città aperta (1945). Il disinteresse per una drammaturgia composta, la propensione a fare del cinema uno strumento comunicativo, la disinvoltura produttiva si accentuarono con i film successivi (Paisà, 1946; Germania anno zero, 1947): ciò lo rese un campione del neorealismo in Francia, ma male accetto alla critica italiana; divario che si acuì ancor più con opere come Stromboli, terra di Dio (1949), Europa ’51 (1952) e Viaggio in Italia (1953).

1906-1977

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spesso dedicato agli accadimenti bellici, accresce il valore di verità del film.Anche qui, l’impiego ironico della soluzione ne denuncia la sclerosi. Il trailer di Natale al Campo 119 (P. Francisci, 1947) fa sfilare una serie di riprese di distruzione bellica, sovrimprimendole delle domande: “Ancora guerra? Distruzioni? Lacrime? No, ma... Un film di Natale!”. Sul piano delle strutture narrative, taluni episodi del neorealismo spiccano per la novità della proposta. L’organizzazione della temporalità dei film rubricati nel fenomeno predilige un’evoluzione dell’azione in termini lineari: la distribuzione delle informazioni narrative esclude la successione di tempi diegeticamente non consecutivi; non a caso le eccezioni sono tangenziali al neorealismo, come il curioso Il grido della terra (D. Coletti, 1947). Inoltre, con le altrettanto sporadiche anomalie di Mio figlio professore (R. Castellani, 1945) e Anni difficili, i film rappresentano il più recente passato, o l’attualità. L’organizzazione del tempo del significante tuttavia può variare sensibilmente tra le opere più innovative del neorealismo. Per grande semplificazione, possiamo individuare tre modelli principali: il tempo dell’attesa, il tempo dell’evento e il tempo dialettico. Il primo esempio si individua nella singolarità eccezionale di Roberto Rossellini, segnatamente da Paisà in poi. La successione delle azioni non pare capace di produrre modificazioni sostanziali nell’ambiente narrativo: i partigiani padani di Paisà o Edmund in Germania anno zero girano a vuoto in un ambiente ostile, e questa inanità rende le loro azioni cronologicamente equivalenti, quasi sospese. A un dato punto della successione narrativa, un’epifania repentina trasforma la condizione dei personaggi: il poliziotto militare dell’episodio napoletano di Paisà prende coscienza della situazione dello sciuscià, del proprio ruolo ambiguo e delle condizioni della popolazione; la giovane americana dell’episodio fiorentino tra le parole smozzicate del partigiano ferito realizza quel che fino a quel punto le era sfuggito; Edmund comprende il suo gesto e la prostrazione del proprio spazio esistenziale; Katrin in Stromboli, terra di Dio intende il miracolo della creazione... Il tempo antecedente a questa trasformazione pare non pertinente se non per l’attesa della palingenesi, e tale da essere distribuito dal testo secondo parametri indifferenti a una sua funzionalità narrativa. Il secondo esempio è più spesso individuato nei film di De Sica e Zavattini, e in maniera particolare in Ladri di biciclette e Umberto D. Queste opere organizzano una linea dell’azione ritmata da scadenze ultimative – ritrovare la bicicletta entro lunedì mattina, ricuperare i soldi dell’affitto... Tuttavia, la narrazione si attarda su eventi secondari sul piano diegetico, cui dedica porzioni di tempo inversamente proporzionali alla loro importanza narrativa [Moneti 1992b, 1999;Thompson 1988;Vigni 1992]. La celebre formulazione zavattiniana del cinema del pedinamento, l’interesse per la banalità quotidiana e per una propensione analitica del cinema «che porta al riconoscimento dell’esistenza e della pena degli uomini nella loro reale durata», l’intenzione di «fare irrompere nello spettacolo, come supre-

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Teoria del pedinamento La “teoria del pedinamento” desunta dalle posizioni poetiche di Cesare Zavattini ha costituito una semplificazione della complessità del neorealismo. L’artista promosse il neorealismo quale «mezzo di conoscenza dell’uomo e della società contemporanea» e il valore della «analisi che porta al riconoscimento della esistenza e della pena degli uomini nella loro reale durata», opposta alla rappresentazione sintetica del cinema classico. Il cinema deve pedinare l’uomo di tutti i giorni e «far irrompere nello spettacolo [...] novanta minuti consecutivi della vita di un uomo». Si tratta di dichiarazioni di poetica con più implicazioni. Sul piano del modo di produzione, si propugna un’alternativa a basso costo al cinema hollywoodiano. A livello stilistico, si postula un cinema antinarrativo eppure spettacolare, in cui la dimensione durativa compia la vocazione riproduttiva del cinema – «La nostra lotta e la nostra novità consiste in questo sforzo [...] di far coincidere lo spettacolo con la realtà [...] e che questo linguaggio non abbia niente di comune con la narrativa [...] mi pare pacifico», scrive nel 1949. In senso comunicativo, si presuppone un valore gnoseologico della rappresentazione cinematografica, attraverso la quale la società e i suoi membri prendano coscienza gli uni degli altri. Sul piano della politica culturale, la nozione rilancia la discussione sul neorealismo stesso. Questi aspetti trovarono applicazione concreta in alcune sequenze celeberrime dei film realizzati con De Sica, in special modo Ladri di biciclette (1948) e Umberto D. (1952).

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mo atto di fiducia, novanta minuti consecutivi della vita di un uomo» [Zavattini 1949, 681-682] rispondono a una specifica concezione del tempo cinematografico, incollato a quello del proprio referente con una funzione insieme spettacolare e gnoseologica [Parigi 2006, 208-209]: Particolare e continuo (anziché generale ed ellittico), fisico e concreto (invece che metafisico e astratto), il tempo neorealista vuole privilegiare [...] la dimensione del presente, dell’attuale, dell’immediato. [...] Il neorealismo [...] riscopre, secondo Zavattini, la più autentica natura mediologica del cinema, che gli permette una cattura sensoriale e analitica – cioè immediata e riflessiva insieme – del tempo.

La terra trema di Luchino Visconti bene esemplifica la commistione di tempo storico e tempo mitico [Bernardi 2000]. Da un lato, infatti, i materiali della rappresentazione sono con evidenza e dichiaratamente tratti da una prosaica realtà quotidiana: pescatori come interpreti, ambienti reali, spazi naturali, dialoghi in dialetto. Inoltre, la stessa vicenda traccia la parabola di uno scontro di classe, ovvero del conflitto dialettico tra segmenti sociali in una successione storica data. Ma questi elementi sono oggetto di una rifigurazione plastica che ne neutralizza il valore epico [Bazin 1948].

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L’agire di ogni giorno a terra e in mezzo al mare, viene irrigidito nelle forme assolute di un cerimoniale. L’insieme delle operazioni di messa in scena apre nel mondo fisico una dimensione immaginaria all’interno di una visione ormai del tutto denaturalizzata. [Moneti 2003]

Nel cinema neorealistico l’efficacia realistica della narrazione poggia sulle spalle di personaggi capaci di fare avanzare il racconto, interagendo con un ambiente composito e variegato, ma di fatto rimanendo al centro della struttura narrativa. Antonio e Bruno Ricci in Ladri di biciclette, Umberto D. nel film omonimo, Totò in Miracolo a Milano (V. De Sica, 1950), Edmund in Germania anno zero,‘Ntoni in La terra trema sono il perno del racconto, fino a irradiare essi stessi il film, come Bazin suggeriva a proposito di Umberto D. [Bazin 1953]. In maniera analoga alla letteratura neorealistica, i personaggi sono casi individuali partecipi di una «generale condizione umana, nella sua fenomenologia differenziata [...] ma fondamentalmente condivisa. [...] I personaggi minori non hanno soltanto il ruolo di un sussidio o di un riempitivo, ma una funzione centrale: contribuiscono alla messa in scena di una collettività» [Falcetto 1992, 153]. Questa soluzione condusse in alcuni casi ad esiti peculiari della stagione neorealistica, e segnatamente a costruzioni corali e a focalizzazione multipla, di cui Domenica d’agosto (L. Emmer, 1950) è forse l’esempio migliore [Moneti 1992a]. Buona parte dei film del neorealismo comporta una struttura narrativa tradizionale, fondata su una duplice linea narrativa (sentimentale/pragmatica): è il caso del cinema di Pietro Germi, di dichiarata ispirazione hollywoodiana, da In nome della legge a Il cammino della speranza; o di Giuseppe De Santis, in Caccia tragica o in Non c’è pace tra gli ulivi, eventualmente accentuando la dimensione conflittuale della linea pragmatica, oppure quella di un’indagine, in cui il protagonista deve percorrere a ritroso le cause di un disagio, come in Persiane chiuse, Ai margini della città (C. Lizzani, 1953) o Ti ritroverò/Il tenente Craig (G. Gentilomo, 1948).Tuttavia, il valore di originalità maggiore nella organizzazione dell’informazione narrativa può essere individuato nel magistero rosselliniano, e nel suo interesse prioritario per la comunicazione dell’informazione, a dispetto di ogni fluidità del racconto [Aprà 1975]; nella struttura invertita offerta da alcuni contributi di De Sica e Zavattini, in cui la rappresentazione del reale ha il privilegio sull’economia del racconto; o, ancora, nella peculiare e complessa dialettica tra narrazione e messa in scena, nella proposta viscontiana. 2.3 Amorose menzogne. Il neorealismo allo specchio Una delle questioni più problematiche nell’esame del neorealismo è la sua propensione riflessiva; o, quanto meno, la consapevolezza delle scelte linguistiche e rappresentative adottate. Il cinema italiano di impianto realistico in più occasioni ha rivelato una relazione con la realtà filtrata da una

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memoria estetica. Non solo. Molto presto esso ha assunto se stesso a oggetto della rappresentazione: il proprio funzionamento produttivo, i retroscena, l’influenza sulle classi subalterne, il rapporto con il pubblico popolare, assai meno idilliaco di quanto l’ideologia neorealista avrebbe preteso. La formazione cinefila di una parte dei registi neorealisti, unitamente all’impegno a riformare un cinema nazionale accusato di scarsa professionalità, implicò l’adozione di modelli assurti nel pantheon dell’arte cinematografica mondiale.Tale strategia estetica segnò in profondità alcuni cineasti, inoculando nelle loro opere soluzioni stilistiche o iconografiche eterogenee; una soluzione a tutt’oggi inaccettabile per un modello esplicativo dei testi fondato sulla loro organicità o novità. Secondo Cosulich [2003b, 15]: Si potrebbe concludere che il nuovo cinema italiano sia stato un fenomeno prevalentemente “sudista”, mentre il cinema coevo ambientato nel Nord Italia, o diretto da registi cresciuti all’ombra delle cineteche e del Centro Sperimentale [...] dette luogo a un fenomeno “nordista”, che adottò riferimenti specificamente cinematografici, o genericamente culturali, preesistenti.

Sebbene quest’ipotesi, più originata da considerazioni estetiche che geografiche, non sia destituita di fondamento, si hanno molte perplessità nell’istituire gerarchie basate sulla maggiore o minore purezza nella prossimità al reale. Il cinema di Giuseppe De Santis, o quello di Alberto Lattuada si nutrono di esempi prelevati dal cinema hollywoodiano, dal realismo poetico francese, o ancora dal cinema di Weimar o dal cinema sovietico degli anni Venti, pur mantenendo una palese strategia realistica. La magniloquenza dei movimenti di macchina sugli acquitrini di Riso amaro o la sfida all’ultimo sangue tra due avversari irriducibili, nel paesaggio riarso di Non c’è pace tra gli ulivi, i crimini di Il bandito o di Il testimone (P. Germi, 1945) non possono non rimandare a momenti specifici di altri film e luoghi, facendo brillare il singolo frammento indipendentemente dallo sviluppo narrativo [De Vincenti 2003b], attivando una memoria interteAlberto Lattuada Milanese, architetto, Lattuada esordisce nel 1942 con Giacomo l’idealista. Per descrivere il suo cinema, prima e dopo la guerra, si è spesso usato l’aggettivo calligrafico. Proprio l’eleganza della regia e la capacità di declinare generi diversi hanno rappresentato il pregio riconosciuto della sua opera, ma anche la causa di un’accoglienza sospettosa, da parte di molta critica, nel novero degli autori neorealisti. Nel dopoguerra, Lattuada si muove nell’ambito del «neorealismo industriale», realizzando Il bandito (1946), Il delitto di Giovanni Episcopo (1947), Senza pietà (1948) e Il mulino del Po (1949).

1914-2005

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stuale, e rendendo opaco lo schermo. Questa pluralità di riferimenti non è attiva unicamente nei testi firmati da cineasti colti, ma emerge anche in registi spesso negletti [Grmek Germani 2003]: è il caso di O sole mio (G. Gentilomo, 1945), in cui il plot resistenziale si innerva su un’ambientazione radiofonica da film degli anni Trenta, e convoca per le scene di maggior tensione emotiva stilemi propri al tardo cinema muto. Questo assemblaggio di componenti di derivazione plurima sposta spesso l’attenzione dalla realtà rappresentata ai procedimenti adottati per costruirla, e manifesta la loro origine cinematografica. Il cinema realizzato da alcuni dei principali protagonisti del neorealismo rivolse la propria attenzione a se stesso, a partire dalla fine degli anni Quaranta. Lo fece secondo differenti direttrici, spesso animato da un’intenzione critica, da un desiderio di decostruire le forme di dipendenza degli strati popolari da una industria culturale considerata illusoria e fuorviante [Lagny 1997]. In questo senso, la messa in scena dell’industria delle seduzioni editoriali del fotoromanzo o delle modelle in L’amorosa menzogna (M. Antonioni, 1949), in Fidanzate di carta (R. Renzi, 1951) o nel celeberrimo Lo sceicco bianco (F. Fellini, 1952) descrive una trappola della rappresentazione analoga a quella del cinema. Antonio in Ladri di biciclette sta affiggendo un manifesto di Gilda (Ch.Vidor, 1946), allorché viene derubato del proprio mezzo di trasporto. E Maddalena Cecconi per l’intera durata di Bellissima (L.Visconti, 1951) tenta disperatamente di entrare nel mondo del cinema, sebbene già la prima inquadratura dedicatale la veda dirigersi in senso opposto all’ingresso di Cinecittà; solo al termine del racconto e al culmine del dolore prenderà coscienza della fatuità del sogno cinematografico e della reale normalità della propria bambina [Miccichè 1990; Zagarrio 2002; Jandelli 2005]. Questa riflessione, dall’esame dei meccanismi dell’industria cinematografica, si tramuta in un lavoro «a livello di autocoscienza su ciò che è alla base della raffigurazione del reale e della credenza in questa raffigurazione» [Casetti 1989-90, 199], che dal neorealismo si protende nelle ricerche autoriali successive, dal progetto zavattiniano di Siamo donne (G. Franciolini, A. Guarini, R. Rossellini, L. Visconti, L. Zampa, 1953) [De Vincenti 1999, 6; Caldiron e Parigi 2002] a La signora senza camelie (M.Antonioni, 1953) [Casetti 1989-90; Dagrada 1985; Pistagnesi 1979]. L’immagine di uno sguardo puro sul reale, inconsapevole della propria artificiosità, è smentita dagli stessi testi.Anche perciò il trailer di Miracolo a Milano vede svolazzare in uno scenario urbano i manifesti di I bambini ci guardano (V. De Sica, 1943), di Sciuscià e infine, incollato a una parete dallo stesso Lamberto Maggiorani, Ladri di biciclette, prima di giungere dinanzi a una sala cinematografica, dove sotto la scritta “Imminente” campeggia il poster dell’ultimo film della coppia De Sica/Zavattini: il mondo del neorealismo è frutto di una costruzione, eventualmente di una coerente poetica d’autore. Gli stessi protagonisti del neorealismo prendevano cum grano salis la propria relazione con la realtà.

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2.4 Attori presi dalla strada, professionisti e divi Il cinema ascritto al fenomeno neorealista contempla in molte occasioni un elemento apparso da subito determinante agli occhi dei commentatori: l’impiego di attori non professionisti.Alcune opere maggiori hanno sintetizzato una casistica molto più ampia e problematica: Paisà, Ladri di biciclette, Umberto D. o La terra trema furono esempi dell’utilizzo di figure tratte da contesti reali e convocate a dare polpa a personaggi fittizi, ma con accentuati elementi di similitudine con i propri interpreti. In verità, l’utilizzo di non professionisti procede da una tradizione cinematografica consolidata e risponde a più necessità nel contesto italiano del dopoguerra. Infatti, ai registi e ai critici erano presenti modelli rimarchevoli per il ricorso a interpreti non professionisti nella storia del cinema, internazionale e non: il cinema sovietico degli anni Venti e il magistero di Vsevolod Pudovkin da un lato [Brunetta 1969], ma anche alcuni tra i massimi contributi di Blasetti, da Sole (1929) a 1860 (1933), passando per il prototipo di Tabù (F.W. Murnau/R. Flaherty, 1931), o per il lavoro di Francesco De Robertis negli anni Quaranta. Questa opzione produttiva ed estetica costituiva all’epoca l’ultimo episodio di una tradizione di cinema d’arte europeo, in cui la concezione e l’organizzazione del film erano per intero nelle mani del regista, e l’attore equiparato agli altri materiali costruttivi [Nacache 2003, 131]: Le problème est toujours le même: face au créateur de formes, l’acteur est un obstacle, une pulsion de jeu qu’il faut sans cesse maîtriser. Le non-acteur serait donc l’acteur idéal du cinéma, où sont censées s’effacer les marques théâtrales du jeu. Il présente aussi l’avantage de n’être que de passage, un pied dans le cinéma et l’autre dans la réalité, généralement mal informé du processus économique et artistique du film. [Il problema è sempre lo stesso: l’attore è un ostacolo per il creatore di forme, un muro che pretende un’immagine, una pulsione alla recitazione che bisogna incessantemente dominare. Il non-attore sarebbe dunque l’attore cinematografico ideale, nel quale è forse possibile cancellare gli indizi teatrali della recitazione. Presenta inoltre il vantaggio d’esser solo di passaggio, un piede nel cinema, l’altro nella realtà, e solitamente mal informato del processo economico ed artistico del film.]

L’affermazione del non professionista andava dunque di pari passo con l’accrescimento del ruolo del regista, come si rilevò già all’epoca [Bosco 1949; Pistorio 1949].Allo stesso tempo, il ricorso ad attori non professionisti sanciva in apparenza il netto distacco dalla produzione cinematografica precedente la fine della guerra, e segnatamente dal cinema comicosentimentale dei telefoni bianchi, fondato in maggioranza su testi, sceneggiatori e interpreti di origine teatrale [Pitassio 2007a]. Il mito dell’uomo “preso dalla strada”, ricorrente ad esempio nella riflessione di Zavattini [Grande 1992], suggerisce un’attenzione all’umano diffusa nella cultura

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postbellica, punto di partenza della modernità cinematografica stessa [Aumont 1991]. Il non professionista manifestava ulteriori istanze culturali e politiche nel contesto italiano postbellico: una maggiore prossimità con il popolo, cui le narrazioni erano ipoteticamente destinate, e di cui i non professionisti erano emblematici; o addirittura una rivendicazione di classe, poiché la rappresentazione degli strati subalterni della società veniva delegata a persone provenienti da quei segmenti [Renzi 1948]. In entrambi i casi, la necessità di una tipizzazione dell’interprete traeva vantaggio e forza dalla scelta di questo tipo ideale nella realtà. L’attore non professionista fu adottato in film dalle caratteristiche estetiche spesso diametralmente opposte: da opere a vocazione sperimentale, come nei casi citati di Rossellini, De Sica/Zavattini e Visconti, a contributi dalla dichiarata volontà di dialogo con il mercato,come è il caso di Castellani per È primavera o Due soldi di speranza. Più spesso, l’attore non professionista fu ingrediente di quanto Bazin definisce “amalgama” [Bazin 1986b]: un insieme di attori e non, capace di accrescere il valore di verità dei primi e l’adeguatezza dei secondi. È questo il potenziale prototipico di Roma città aperta, in cui consumati professionisti del teatro di rivista quali Aldo Fabrizi e Anna Magnani vengono affiancati da uomini di spettacolo come Marcello Pagliero e attorniati da non professionisti. Il cinema dell’epoca neorealista assistette all’approdo allo schermo di una folta schiera di attori provenienti dal teatro popolare italiano: spettacolo di rivista, avanspettacolo e varietà apportarono un contributo determinante alle prime e seconde fila dei film italiani [De Matteis, Lombardi e Somaré 1980]. La migrazione era presente anche prima del 1945; ma successivamente il valore popolare degli interpreti, specificato dall’impiego di una parlata dialettale e dal successo conseguito sulle tavole del palcoscenico, venne quasi certificato dal cinema. Il caso di Anna Magnani è probabilmente il più noto ed evidente, per la sua presenza in alcune delle opere maggiori di quella fase – Anna Magnani

1908-1973

Formatasi nel teatro commerciale, la Magnani lavora nel cinema già dagli anni Trenta. Negli anni Quaranta definisce il proprio personaggio di popolana romana, poi distintivo: prima negli ultimi anni di guerra (Campo de’ fiori, 1943); poi, con padronanza di toni drammatici e comici, in più produzioni del dopoguerra di ambito neorealista (Abbasso la miseria, 1946; Abbasso la ricchezza, 1946; Avanti a lui tremava tutta Roma, 1946; Il bandito, 1946: L’Onorevole Angelina, 1947; Molti sogni per le strade, 1947), a partire dal ruolo di Pina in Roma città aperta (1945), vera icona del fenomeno. Anche per questo, Luchino Visconti la impiegò in una lettura critica del neorealismo, con Bellissima (1951), mentre venne utilizzata nello stereotipo della italiana popolare dal cinema hollywoodiano, guadagnandosi un Oscar per La rosa tatuata (1955).

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Roma città aperta, Il bandito, L’onorevole Angelina (L. Zampa, 1947), L’amore, Bellissima –, così come in film sintomatici dell’incontro tra produzione di genere e neorealismo – Abbasso la miseria! (G. Righelli, 1946), Abbasso la ricchezza! (G. Righelli, 1946), Molti sogni per le strade (M. Camerini, 1947), Lo sconosciuto di San Marino (M.Waszyn´ski, 1949).Tuttavia, il contributo di professionisti provenienti dallo spettacolo popolare dal vivo coinvolge un considerevole numero di figure, determinanti per dare spessore ai film dell’epoca:Virgilio Riento, Nando Bruno, Dante Maggio,Tino Scotti,Ave Ninchi sono solo alcuni dei nomi ricorrenti. Il dopoguerra italiano vide anche l’emersione di un nuovo modello di femminilità cinematografica, riassunto nella definizione di “maggiorata” [Eugeni 2003; Gundle 2007; Lancia e Masi 1994; Masi 2003]: una figura femminile caratterizzata dall’accentuazione di caratteri fisici muliebri, dalla collocazione narrativa in un’ambientazione popolare, dalla frequente coniugazione con uno spazio urbano o rurale caratteristico, dal percorso di carriera estraneo alla formazione teatrale o cinematografica, e piuttosto interno ai concorsi di bellezza o all’editoria popolare. Silvana Mangano immersa negli acquitrini di Riso amaro, Gina Lollobrigida prostituta redenta sull’isola di Ischia in Campane a martello o contadina in una cittadina contesa del confine orientale in Cuori senza frontiere, Eleonora Rossi Drago nella Torino malavitosa di Persiane chiuse, fino a Sophia Loren, pizzaiola fedifraga di L’oro di Napoli (V. De Sica, 1954) mettono in scena una relazione diretta tra il non professionismo e il popolare maggiormente efficace sul piano spettacolare di un modello più austero ed elitario. Parzialmente identificate con lo stesso neorealismo, vennero allora stigmatizzate perché partecipi di una produzione industriale [Gandin 1953]: Le miss, in genere, sono soltanto, quando lo sono, dei bei corpi. Non hanno temperamento, non hanno una vera e propria “faccia”, non conoscono affatto la recitazione. [...]. Le scoperte dei registi neorealistici vanno divise in due categorie: quelle che hanno un effettivo temperamento, e quelle che non ne hanno [...]. Le une e le altre, appena diventate “dive”, perdono la testa.Abbandonate a se stesse in breve tempo si rovinano come donne e come attrici.

Il divismo femminile partecipò nondimeno del rinnovamento del cinema nazionale del dopoguerra, e ne accrebbe la diffusione e la notorietà oltre confine. 2.5 Viaggio in Italia. Neorealismo e cinema moderno Il neorealismo italiano è considerato pietra angolare della modernità cinematografica, prodromo delle nuove ondate degli anni Sessanta, punto di partenza del cinema di autore europeo [Bálint Kovács 2007]. Il cinema a partire da Roma città aperta non sarebbe più lo stesso, in ragione di una relazione tra mezzo cinematografico, realtà e immagine radicalmente diversa da quanto l’aveva preceduta. Il contributo fondamentale a tale

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interpretazione del fenomeno venne dalla Francia, a partire dal magistero del critico e teorico André Bazin, fondatore dell’autorevole rivista «Cahiers du cinéma». Il teorico francese, con una sensibilità critica ineguagliata, dedicò considerevole attenzione a molta produzione nazionale di intonazione realistica, fino a intrecciare un’amicizia intellettuale con Cesare Zavattini [Parigi 2002]. Sulla scorta della filosofia fenomenologica di Maurice MerleauPonty, Bazin postulava una vocazione realistica del cinema, a partire dalla relazione privilegiata stabilita dalla rappresentazione con il reale, in virtù di una riproduzione meccanica implicata con il referente, a differenza di ogni forma artistica precedente. Il cinema italiano della Liberazione rispondeva a questa vocazione, rispettando l’opacità della realtà e le caratteristiche del mezzo cinematografico [Bazin 1986b, 280]: In un mondo ancora e già ossessionato dal terrore e dall’odio, in cui la realtà non è quasi mai amata per se stessa ma solo rifiutata o difesa come segno politico, il cinema italiano è il solo a salvare, nel seno stesso dell’epoca che dipinge, un umanesimo rivoluzionario.

Rispetto all’estetica del cinema classico hollywoodiano, il cinema italiano non sottomette il reale a una sua frammentazione funzionale alla narrazione, ma ne conserva l’aleatorietà e l’orizzonte di possibilità: «La necessità del racconto è più biologica che drammatica. Esso germoglia e cresce con la verosimiglianza e la libertà della vita» [Bazin 1986b, 292]. Si tratta di una scelta estetica: il realismo proposto dal cinema italiano è il risultato di una serie di opzioni, capaci di rappresentare il reale attraverso un’economia testuale: «Bisognerà sempre sacrificare qualcosa della realtà alla realtà» [Bazin 1986b, 290]. Come successivamente sottolineato dal filosofo statunitense Fredric Jameson, questa posizione teorica marginalizza la narrazione a favore dell’evento, a differenza dei modelli di realismo diffusi tra Otto e Novecento: «È comunque chiaro che nessuna di queste concezioni di “realismo” coinvolge la narrazione in quanto tale in modo essenziale; [...] la temporalità narrativa è ridotta alla situazione e al pretesto in cui la verità appare non come conoscenza ma come Evento» [Jameson 2003a, 194]. Bazin vede in Roberto Rossellini e Vittorio De Sica i più avanzati esponenti italiani di un rinnovamento realista del cinema mondiale; tuttavia, l’acume interpretativo e la passione cinefila si esercitarono anche su oggetti meno prevedibili, e spesso stigmatizzati in patria: Cielo sulla palude (A. Genina, 1948) [Bazin 1986c], Il cammino della speranza [Bazin 1952a] o Due soldi di speranza [Bazin 1952b]. Eppure, nei «Cahiers du cinéma», nel corso degli anni Cinquanta matura una rottura tra la generazione del teorico e quella dei “Giovani turchi”; tra le molte ragioni, la percezione del cinema italiano [De Baecque 1993, 152]: Tutta una parte dei «Cahiers» si impegna a sostenere Zavattini e la sua volontà di prolungare il neorealismo verso un “cinema sociale” di pura osserva-

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zione della realtà quotidiana. [...].A questo atteggiamento risponde uno scetticismo sempre più marcato nei critici della futura Nouvelle Vague. Questi ultimi hanno scelto il loro autore: Rossellini. La sua opera [...] osservata secondo la “metafisica dell’Incarnazione e della Grazia” [...] viene allora contrapposta a quella di De Sica, valutato negativamente, e a quella di Fellini, giudicato “esibizionista”. Così intransigenti su questo punto, i “Giovani turchi” rifiutano l’idea di dover sostenere in blocco il neorealismo italiano.

La “politica degli autori”inaugurata dai futuri cineasti della Nouvelle Vague produce una lettura tendenziosa dell’opera rosselliniana, del realismo e della modernità cinematografica [Dagrada 2005], fondati sulla manifestazione della spiritualità attraverso lo strumento della messa in scena, ovvero il rapporto tra uno sguardo e dei corpi disposti in uno spazio, a prescindere dalla psicologia e dalla narrazione. Secondo Rohmer [1991b, 207208], in Stromboli, terra di Dio ogni essere, ogni avvenimento gode solo del prestigio della sua pura esistenza; è ciò che deve essere, in un mondo da cui è deliberatamente eliminata qualsiasi gerarchia dei valori religiosi e morali. [...] Poiché Rossellini riesce a far recitare le cose, anche nei suoi personaggi vuole vedere solo cose. La sua arte è una delle meno adatte a esprimere la vita interiore.

La proposta di Rossellini esemplifica una nuova condizione estetica, dopo la fine della seconda guerra mondiale [White 2006b]: «All’uomo dell’umanesimo (Ford, Walsh) succedeva l’enigma dell’animale umano in tempi nei quali, per la prima volta, è la specie che ha pensato ad autodistruggersi» [Daney 1997, 211]. Una maturità del mezzo, interessato ora a mostrare l’esistenza irriducibile dell’Altro, dopo l’abominio dello sterminio tecnologico, attraverso un dispositivo capace di rappresentare prescindendo dalle grandi narrazioni a lui preesistenti e di generare una verità propria [Bergala 1984]; un dispositivo renitente a incardinare le singole immagini su un piano drammaturgico capace di assegnare loro una funzione preordinata, e viceversa disponibile a farle valere come situazioni ottiche e sonore pure, inaugurazione della modernità [Deleuze 1989]. Un cinema della crudeltà, per il ruolo testimoniale assegnato allo spettatore dinanzi all’intollerabile, a partire dalla scena di Roma città aperta in cui il sacerdote interpretato da Aldo Fabrizi è chiamato ad assistere alla tortura del partigiano comunista, e il pubblico insieme a lui. Non più: «cosa c’è da vedere dietro [l’immagine]? Ma piuttosto: posso sostenere con lo sguardo quello che, a ogni modo, vedo? E che si svolge in un solo piano?» [Deleuze 1996, 10]

La riproduzione del reale e l’interrogazione sulle possibilità di realizzarla attraverso i mezzi propri del cinema, la domanda sulla sua natura e funzione divengono le questioni della modernità cinematografica [De Vin-

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centi 1993, 19]. Una interrogazione sulle possibilità e modalità di apprensione del reale, e una domanda sulla sua costituzione in una rappresentazione cinematografica le cui ragioni non siano sottomesse alla dittatura della realtà; una questione epistemologica e una estetica concomitanti, così da rivelare la falsità del mondo rappresentato dal realismo moderno, e allo stesso tempo mantenerne il potenziale demiurgico [Jameson 2003a]: in queste peculiarità risiede la modernità del neorealismo, forse una sua attualità. Questi quesiti partono dall’Italia, ma si lasciano alle spalle molti aspetti del cinema italiano del dopoguerra. 2.6 Niente più cinema? Nel corso degli anni si è parlato e si è scritto non solo di neorealismo, ma anche di neorealismo rosa, neorealismo d’appendice, commedia neorealista. Inteso come oggetto o come qualità, il neorealismo ha costituito la base per delineare ipotesi critiche e per denominare pratiche produttive di grande fortuna. Potremmo dire, rilevando un paradosso, che un cinema che è stato letto come «per definizione ispirato alla realtà e non a modelli e formule di genere» [Farassino 2003, 171] ha rappresentato forse uno dei pochi momenti nella storia del cinema italiano in cui i prodotti cinematografici paiono aver funzionato in base a meccanismi di genere secondo la teorizzazione di Rick Altman: con un termine che funge da punto di riferimento, da sostantivo, e l’altro da aggettivo [Altman 2004]. Così come esisterebbe nel cinema hollywoodiano una commedia + musicale o un western + psicologico,così esisterebbe un neorealismo + rosa (o una commedia + neorealista). Il cinema italiano del dopoguerra appare come un oggetto bifronte anche se lo si osserva da un’angolazione contigua: quella che investe la dicotomia tra realismo e intertestualità, tra cinema plasmato sulla realtà, che su di essa interviene, e cinema discendente da precisi modelli culturali.Troviamo, già dalla fine degli anni Quaranta, interpretazioni secondo cui le opere migliori del nuovo cinema italiano, quelle che «hanno la possibilità di cogliere e rappresentare l’essenza della verità», sfuggono «a un giudizio propriamente estetico e morale per situarsi su un piano più alto di valori. Il valore di questi film è, direi, un fatto ontologico» [Fabbri 1948, 17]. Ma troviamo anche interpretazioni che vedono nei film di Rossellini e De Santis la manifestazione di un «“culturismo cinematografico” [...] che rappresenta la componente formalistica di questa tendenza così legata d’altra parte alla realtà» [L.L. 1948, 7]. Le questioni del genere e dell’intertestualità sono poi intrecciate anche in sede di ricostruzione storica. L’allargamento dello sguardo critico a quegli oggetti maggiormente compromessi con pratiche di genere [Farassino 1978; Grmek Germani 1979;Toffetti 2003] ha infatti permesso di indagare in una prospettiva differente il fitto reticolo di relazioni esistente tra i film. Il cinema neorealista entra in contatto con film di John Ford o pellicole dei telefoni bianchi, documentari o rubriche del fotoromanzo «Grand Hôtel», opere del “realismo poetico” francese o prototipi suoi propri.

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Alle relazioni intertestuali si sovrappongono poi quelle intermediali: il film neorealista non conosce solo modelli e referenti cinematografici, ma anche letterari, fotografici e radiofonici, ponendosi come luogo di elaborazione e di passaggio di discorsi sociali che, sotto forma di racconto, attraversano ambiti mediali differenti. 2.7 Dal genere al realismo, e viceversa Il transito di materiali tematici e iconografici tra neorealismo “puro” e film di genere non è univoco: per quanto li si consideri ambiti separati, «il cinema dei generi non si muove mai su sentieri privi di comunicazione con il livello del neorealismo» [Brunetta 1993, 543]. Restando ai prototipi del nuovo cinema, Ossessione e Roma città aperta sono disseminati di elementi di genere, in particolare melodrammatici e comici. Inoltre, in continuo movimento tra il livello “alto” delle opere linguisticamente innovative e quello “basso” della produzione popolare, lavorano registi come De Santis, Germi, Lattuada, che combinano aspirazioni espressive neorealiste con un uso spregiudicato delle convenzioni di genere. «Si potrebbe, per sottilizzare, distinguere tra generizzazione attiva e passiva, e cioè fra film di genere che accettano elementi neorealisti e film di ambizioni neorealiste che si adeguano a formule di genere [...]. In ogni caso, tutti i generi classici si possono combinare con “materiali” neorealisti» [Farassino 2003, 171]. Nel quadro culturale dell’epoca, il ricorso al genere assume una doppia funzione: fàtica ed espressiva, analoga a quella svolta, secondo Compagnon [1979], dalla citazione. Da un lato, infatti, repertori narrativi e figurativi riconoscibili dal grande pubblico permettono di aprire con esso un proficuo canale di comunicazione [Aprà e Carabba 1976]. Dall’altro, la forza evocativa di quei materiali è utilizzata con lo scopo di veicolare precisi messaggi politici e sociali. L’effetto più visibile è quello di avere un cinema in cui convivono autonomamente caratteri distintivi della commedia e del melodramma, del gangster movie, del western o del musical: i film del neorealismo non sono di genere perché non fanno «riferimento a un unico genere cinematografico ma a molti contemporaneamente» [Farassino 1978, 69]. Non sembra casuale, allora, che tra i generi più frequentati vi sia il melodramma, «contenitore adeguato ad accogliere istanze e progettualità differenziate, connotandole con una forte marca di italianità e popolarità» [Grignaffini 1996, 366]. Così come non sorprende che molti film si confrontino direttamente con le figure del racconto popolare per eccellenza nel dopoguerra, quello hollywoodiano [Campari 1980]. In alcuni casi, tuttavia, i tratti di stile [Quaresima 2007] propri dei generi sono ricombinati al di fuori di una stretta logica narrativa, investendoli di una funzione differente, che potremmo definire poetica [Jakobson 2002b]. Dalla memoria di genere si estraggono allora moduli (visivi, narrativi, performativi) liberamente ricombinabili. La sottotrama amorosa di Sotto il sole di Roma, ad esempio, all’interno di un plot da romanzo di for-

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mazione vede il protagonista Oscar assumere, nei dialoghi in esterno con Iris, gli atteggiamenti e il registro linguistico del personaggio di un gangster movie o di un noir. La regia di Castellani in quelle sequenze sospende il pedinamento per congelare i personaggi in grandi quadri, in cui le rovine neorealiste della città perdono momentaneamente la loro consistenza storica per fare da sfondo al romance. In Il sole sorge ancora alcuni caratteri sono definiti in modo estremamente marcato dalla loro virtuale appartenenza a un genere. È il caso della dissoluta donna Matilde (Elli Parvo), la cui contrapposizione con l’ingenua Laura rimanda a molti film del Ventennio [Pitassio e Mosconi 2003] ma è soprattutto il caso dell’ufficiale nazista (Massimo Serato), che mette in scena un’esecuzione dei partigiani degna di una pellicola ambientata nell’antica Roma, con tanto di patrioti legati ai pali come i cristiani e «istrionismi sub-wagneriani» (subWagnerian histrionics) [Armes 1971, 96] a bordo di un carro che ha tutto l’aspetto di una biga. In questi casi, il materiale di genere ha un utilizzo diverso rispetto a quanto avviene in Roma città aperta, per fare un esempio. Nel film di Rossellini il sadico ufficiale nazista potrebbe essere il personaggio di un feuilleton. Qua la convocazione di caratteri e azioni eccentriche rispetto alla linea narrativa principale serve per produrre un effetto di senso che ha nel modello di partenza il suo perno: i partigiani come nuovi cristiani, i nazisti come nuovi Nerone – similitudine suggerita, rovesciando i termini, anche da Fabiola (Blasetti, 1948), nella sequenza del martirio di Sebastiano, costruita in modo analogo a quanto avviene nel film di Vergano. 2.8 Esemplari di intertestualità Una succinta ricognizione sulle fonti della produzione neorealista parte dai legami storici con il cinema italiano degli anni Trenta [Casetti, Farassino, Grasso e Sanguineti 1975]. Nel caso di registi “cinefili” come De Santis e Lattuada sono stati messi in luce i debiti con la produzione hollywoodiana e francese, ma anche sovietica e tedesca, specie del periodo della repubblica di Weimar [Farassino 1978; De Vincenti 2003a, 2003b]. Peculiare è anche il caso di Pietro Germi, di cui si è indagata l’opera di trascrizione e adattamento, all’interno di repertori tematici nazionali, di meccanismi di genere tipicamente americani, dal western al gangster movie [Aristarco 1949; Sesti 1997]. Il cinema francese degli anni Trenta, quello del cosiddetto “realismo poetico”, è stato inoltre visto come il modello privilegiato, in un’operazione culturale di ampio respiro per la creazione di un cinema nazionale dotato, al pari di quello transalpino, di prestigio internazionale e di spazio per l’espressione artistica individuale [Quaresima 1996]. Un buon punto di partenza per delineare le forme e le funzioni dell’intertestualità neorealista può essere fornito dai molteplici usi del film prototipo del periodo: Roma città aperta. L’opera di Rossellini è oggetto di citazione fin dal titolo in Roma città libera (1946), curioso esempio di rielaborazione in chiave di commedia degli

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Giuseppe De Santis

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De Santis fu allievo del Centro Sperimentale di Cinematografia, critico di punta della rivista «Cinema», assistente alla regia per Ossessione (L. Visconti, 1943), regista di alcuni dei più celebri film della fase neorealista (Caccia tragica, 1947; Riso amaro, 1949; Non c’è pace tra gli ulivi, 1950; Roma ore 11, 1952). La curiosità cinefila unita alla convinzione politica caratterizzano i suoi film: il dialogo con i generi hollywoodiani e i capolavori del cinema d’autore europeo, accostati a una rappresentazione conturbante della femminilità, non va mai disgiunto da un discorso sulle condizioni di classe.

1917-1997

equivoci, a metà strada tra il re-casting e la parodia, diretto da Marcello Pagliero, già interprete del personaggio dell’ingegner Manfredi nel capolavoro rosselliniano [Farassino 2003; De Vincenti 2003b]. Ma allusioni evidenti a Roma città aperta si trovano anche in due film di Zampa: nel finale di Vivere in pace, con il sacrificio di Aldo Fabrizi/zio Tigna ucciso a mitragliate dai nazisti; e nel sottofinale di L’onorevole Angelina, con la protagonista Anna Magnani che va incontro alle armi spianate della Celere. Anche in una delle ultime sequenze del già menzionato Il sole sorge ancora, film particolarmente denso da questo punto di vista, donna Matilde cade morta a terra, finalmente ravveduta, lasciando scoperta la giarrettiera come la Pina interpretata da Anna Magnani. Può essere utile mettere in rilievo due elementi. Un primo motivo di riflessione è dato dall’elevato grado di memorabilità di Roma città aperta, che in pochi mesi diventa un modello autorevole e replicabile. In secondo luogo, è interessante notare come la pratica allusiva si innesti in questi casi in una struttura narrativa tradizionale: il segmento notevole confluisce di preferenza in un momento strutturale notevole, l’inizio o il finale del film senza minimamente interferire con il continuum mimetico [Iampolski 1998].

Pietro Germi Entrato nel cinema come allievo attore al Centro Sperimentale, Germi è, insieme a Lattuada e De Santis, il regista più vicino a forme e stili del cinema di consumo, soprattutto americano, di cui riprende con estrema efficacia la robusta struttura narrativa, sovente fondata su opposizioni manichee, e i moduli figurativi, adattandoli al paesaggio e al racconto nazionale. Autore nel 1946 del curioso Il testimone, realizza poi Gioventù perduta (1947), In nome della legge (1948) e Il cammino della speranza (1950) nei quali mette in scena temi di attualità (delinquenza giovanile, mafia, emigrazione) attraverso il filtro di generi come il noir, il gangster movie, il western.

1914-1974

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In un volume dedicato alla pratica dell’allusione nella poesia classica, Gian Biagio Conte distingue l’intenzione allusiva da quella imitativa [Conte 1974, 11-12]: nel primo caso l’obiettivo del testo è quello di creare una sintonia tra la memoria dell’autore e quella del fruitore; nel secondo si riconosce un valore particolare al modello cui si allude e si tenta di inscriversi all’interno della stessa tradizione o linea espressiva. A questa seconda specie di relazione testuale possono essere ricondotti i continui riferimenti al cinema francese presenti, ad esempio, nelle pellicole di De Santis e Lattuada. Le relazioni, anche in questo caso, possono essere paratestuali: Caccia tragica come Alba tragica. Oppure possiamo avere a che fare con personaggi o brani specifici costruiti sulla traccia di film francesi: è il caso di Il bandito, la cui sequenza iniziale «è degna di un cinefilo di vaglia: come accadrà due anni dopo con Senza pietà, siamo su un treno in marcia, che fa pensare a La Bête humaine (L’angelo del male, 1938) a La Grande illusion (La grande illusione, 1937) e ad altri film di Renoir» [De Vincenti 2003a, 213]. Lo stesso si può dire per il finale di Caccia tragica, che «ricorda troppo esplicitamente i finali di Le Crime di Monsieur Lange (Il delitto del signor Lange, 1936) di Renoir e di Stagecoach (Ombre rosse, 1939) di John Ford per non essere loro debitore» [De Vincenti 2003b, 230]. 2.9 Dal testo al discorso I procedimenti riflessivi in atto nel cinema neorealista, come abbiamo visto, pur prendendo spunto da un numero complessivamente limitato di modelli, si concretizzano in esiti molto diversi tra loro. Le citazioni e le allusioni possono assumere una funzione consacrante, ma anche più decisamente parodistica (mentre osserva il manifesto di Ladri di biciclette, Macario viene derubato del suo mezzo, in Come scopersi l’America). I frammenti di testo, una volta riportati, possono brillare autonomamente, spostando l’attenzione dall’oggetto al processo, ma possono anche essere integrati fino a divenire perfettamente funzionali al racconto che li accoglie. Il ricorso alla tradizione può avere una funzione allusiva (stabilendo legami tramite una memoria “colta”), ma anche emulativa, nel momento in cui lo sforzo espressivo è orientato alla ricreazione di moduli stilistici riconoscibili e accreditati.Tutti questi casi, tuttavia, hanno in comune una relazione di tipo “diretto” con il testo o il corpus di riferimento, in termini di derivazione o di precedenza cronologica. In altri casi, semplificando, potremmo dire invece che la relazione non investe primariamente luoghi testuali, ma discorsi sociali, temi che trascorrono tra testi e media differenti [Segre 1982; Comand 2001]. In molte pellicole del dopoguerra, uno dei fenomeni più macroscopici a livello tematico riguarda il ruolo centrale delle protagoniste femminili, e la relativa marginalizzazione degli eroi maschili. Melodrammi come La vita ricomincia o Il canto della vita (C. Gallone, 1945), entrambi interpretati da Alida Valli, mettono in scena una relazione tra i sessi in cui il polo femminile è connotato da volontà e spirito di difesa degli affetti (sia pure sotto

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Il linguaggio segreto dei rapporti

la specie della colpa), mentre i personaggi maschili oscillano tra la rassegnazione e l’impotenza. Due lettere anonime presenta un doppio processo di formazione, sentimentale e politico, in cui il ritorno all’antico amore si sovrappone per i due protagonisti con un (non scontato) abbraccio della causa antifascista. Ma tra Gina e Bruno, interpretati da Clara Calamai e Andrea Checchi, è lei a rivestire un ruolo veramente attivo: spara all’amante collaborazionista dopo aver ricevuto la pistola da una partigiana, in una catena di trasmissione degli strumenti e delle competenze tutta femminile. Altre pellicole di argomento resistenziale (Giorni di gloria) o antifascista (Caccia tragica) mostrano donne armate nel ruolo di combattenti e non in quello, che di lì a qualche anno sarebbe diventato usuale, di staffette. Molte delle donne interpretate da Anna Magnani (fino al film cerniera, da questo punto di vista: Bellissima) sono rappresentate come figure carismatiche – spesso circondate da una sorta di coro composto da amiche e sodali – e hanno partner la cui autorità risulta indebolita dall’esperienza bellica e dall’intraprendenza femminile. Un tema come quello del protagonismo femminile, tuttavia, non nasce nel terreno del cinema neorealista: lo troviamo nella letteratura popolare, nel romanzo rosa già dagli anni del fascismo [Roccella 1998] o nel fotoromanzo [Bravo 2003; Cardone 2004]. Il collasso del patriarcato si situa quindi all’incrocio di istanze differenti: le conseguenze della guerra sul tessuto familiare e sociale, la pervasività di moduli narrativi melodrammatici (tradizionalmente più attenti alla rappresentazione dell’esperienza delle donne), il consolidamento di fenomeni divistici femminili. Le connessioni tra cultura del neorealismo e stampa rosa, d’altra parte, non sono del tutto occasionali.Tra le molte attività, lo stesso Zavattini ha quella di redattore di periodici femminili [M. Carpi 2002] e anche «Grand Hôtel», come il neorealistico «Film d’Oggi» [Brunetta 1993, 6], lancia fin dai primi numeri «accorati appelli alle lettrici, affinché inviino le loro storie, senza preoccuparsi del “trattamento letterario”» [Cardone 2004, 82], esplicitando quella necessità di «testimonianze ritenute “oggettive”» [Bertozzi 2002, 11] che informa le tendenze realistico-documentarie del dopoguerra. Qui come altrove, in sintesi, abbiamo a che fare con formazioni discorsive per cui pare più utile ragionare in termini di circolazione che non di derivazione, rilevando, ancora una volta, la vitalità del cinema italiano del dopoguerra, capace di fare propri discorsi sociali diffusi, rimodellando il proprio patrimonio narrativo e i propri stilemi rappresentativi in funzione di essi. 2.10 Il discorso sulla realtà L’approccio interdiscorsivo può essere utile anche per illuminare almeno un versante di una relazione sfaccettata come quella tra neorealismo e documentario. Il cinema documentario è stato visto di volta in volta come predecessore delle principali istanze neorealiste [Pasinetti 1948;Verdone e Rossellini 1952], come esercizio di retroguardia, anacronisticamente legato «agli orpelli e ai formalismi» spazzati via dal nuovo movimento [Lizzani

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1950a, 166], come cinema strutturalmente in sintonia morale col neorealismo, tanto da prolungarne gli esiti espressivi [Miccichè 1995a; Perniola 2004], come “vittima” della fame di realtà del neorealismo [Nepoti 1995]. Uno sguardo alla produzione, sterminata e preservata solo in parte, del documentario postbellico riserva in effetti qualche sorpresa: proprio nei momenti in cui sembra documentario, quando mostra le macerie fisiche e morali in Germania anno zero, Ladri di biciclette o Il bandito, ma anche in Le mura di Malapaga (R. Clement, 1949) o Amanti senza amore (G. Franciolini, 1948) – per citare due film decisamente estranei al canone realista – il cinema di finzione neorealista pare avere effettivamente poco in comune col documentario vero e proprio. Il tema può essere lo stesso (la guerra, le sue conseguenze più evidenti), ma in documentari di estremo interesse come La valle di Cassino (G. Paolucci, 1945) o L’Italia s’è desta (D. Paolella, 1946), ad esempio, la forza visiva degli eventi e degli esistenti risulta spinta in secondo piano, rispettivamente da preoccupazioni luministico-compositive e da una retorica del commento difficili da trovare nel cinema di fiction [Bertozzi 2008, 103-104]. Considerazioni analoghe potrebbero essere fatte anche per esemplari d’autore, quali La nostra guerra (A. Lattuada, 1945) o Giorni di gloria. La vulgata del neorealismo documentario trova corrispondenza in una parte limitata della produzione e «la più volte evocata, in sede storiografica, continuità con il Neorealismo riguarda precisi generi del documentario (l’ondata “antropologica”, soprattutto al Sud, degli anni a venire) e pochi, determinati autori» [Bertozzi 2002, 13]. Ciò non significa tuttavia che non esistano aree di tangenza e coincidenze anche curiose: il primo numero della Settimana Incom, nel febbraio 1946, accanto ai bambini assistiti da un’agenzia delle Nazioni Unite e alle sorelle Petacci, racconta delle tecniche usate dai ladri di biciclette. Ma queste intersezioni sono interpretabili, più che in chiave genetica o derivativa, in chiave interdiscorsiva. L’attenzione verso la marginalità, umana, geografica e sociale [Miccichè 1995a; Sainati 2003], sembra accomunare documentari e pellicole a soggetto, con sovrapposizioni talvolta imprevedibili. È sabato sera (G. Pellegrini, 1950), cortometraggio prodotto da Legacoop e ambientato nelle campagne emiliano-romagnole, è evidentemente debitore del cinema di De Santis: vediamo le mondine con le gambe nude di Riso amaro e le eroiche cooperative agricole di Caccia tragica (ma anche un’estetica rurale che ricorda il Blasetti degli anni Trenta o il Genina di Cielo sulla palude). Fuori le mura (R. Marcellini, 1948), su soggetto di Ermanno Contini, mette in scena un’umanità eccentrica composta da ambulanti, giostrai, cantastorie, e potrebbe essere ispirato a Miracolo a Milano, se non fosse stato girato un anno prima. Di certo uno degli «angeli girovaghi fuori le mura», il mangiafuoco Savitri («non siamo degli accattoni, siamo degli artisti fuori compagnia, siamo la disoccupazione»), parteciperà nel 1954 in veste di consulente a La strada di Federico Fellini [Kezich 2002, 148].

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Pare anticipare Il bidone, ma anche fare seguito a L’onorevole Angelina, il cortometraggio di Vittorio Carpignano Bimbi che aspettano (1950), ambientato in una baraccopoli romana in cui i piccoli protagonisti scappano alla vista di un vigile («La Celere! La Celere!»), si partorisce nelle capanne e le famiglie sono martoriate da lutti e infermità. Il tema della marginalità attraversa anche la messa in scena antiumanistica di Michelangelo Antonioni, specie in N.U. (1948) e L’amorosa menzogna (1949), in cui i protagonisti – rispettivamente netturbini romani e attori di fotoromanzi – sono inquadrati come silhouettes o illusioni, appiattiti nel loro ambiente di riferimento. Un sintomo ancora più deciso dell’esaurimento della spinta neorealista lo troviamo, qualche anno dopo, in un documentario di montaggio. Dieci anni della nostra vita (R. Marcellini, 1953) utilizza in modo consapevole la memoria cinematografica del dopoguerra in chiave testimoniale, ai fini di un discorso esplicitamente propagandistico. Il film compone il suo quadro storico riportando vari estratti da film e documentari del periodo e si chiude con un messaggio consolatorio sul presente e sull’avvenire, affidato all’ultima sequenza del film divenuto, in particolare per la critica marxista, simbolo del disimpegno e della diversione: Due soldi di speranza. La ricchezza e la confusione dell’intertestualità neorealiste si schiacciano qui sull’asse metonimico-metaforico: quel cinema ha assunto davvero la realtà, ma in un modo paradossale, simboleggiandola e riassumendola, più che diventandone parte. Ciò che testimonia la fine del fenomeno è anche ciò che ne ha permesso la trasmissione e la citabilità: il neorealismo è diventato non solo il cinema, ma anche il sinonimo del dopoguerra.

3. Il sistema produttivo 3.1 Il mito del basso costo Cinema nato dalle macerie, realizzato in quasi totale povertà di mezzi, girato con stock di pellicola dalle provenienze più disparate: anche in quanto prodotto industriale, il neorealismo sembra recare con sé un certo marchio di italianità, intesa, qui in senso debole, come repertorio di vizi e virtù nazionali. Dal caso per molti versi isolato [Lizzani 1961] di Roma città aperta si è sviluppata un’aneddotica che, mescolando arte di arrangiarsi e volontà di rinascita, ha coinvolto l’intero fenomeno, corroborata dai dati oggettivi sull’insuccesso della maggior parte di queste pellicole [Spinazzola 1974]. Da questo punto di vista, il mito del basso costo ha costituito una parte non secondaria del monumento neorealista. Si è trattato di una parte organica al tutto, capace di sancire la connotazione di cinema “resistente” e “oppositivo” promossa dalla critica marxista, in un dibattito, che abbiamo visto riprendere forza proprio dopo la promulgazione della legge Andreotti (1949), nel quale il neorealismo è sempre meno un’ipotesi praticabile e sempre più l’oggetto di una contesa ideale,

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sempre meno presente sugli schermi e sempre più discusso nei cineclub [Cosulich 1975;Tosi 1999]. Qual è la consistenza effettiva di questo mito, messo in questione già dagli anni Sessanta? La storiografia recente ha sentito con più urgenza la necessità di «uscire da una certa visione edulcorata e agiografica del neorealismo, da una certa vulgata che rischia di renderlo stereotipo» [Zagarrio 2003, 368].Tuttavia, interrogare il mito ci permette ancora oggi di considerare il ruolo delle istituzioni (formali e informali) attive in quegli anni, provare a capire quali furono i modelli produttivi in vigore, gettare uno sguardo sul panorama legislativo ed economico da cui prese vita il neorealismo. 3.2 Dalle macerie alla ripresa Il primo provvedimento legislativo del dopoguerra in campo cinematografico porta ancora la firma di un Savoia, Umberto II. È il decreto luogotenenziale n. 678 del 5 ottobre 1945, esito dei lavori di una Commissione temporanea per la cinematografia, insediatasi nel marzo precedente, la cui composizione presenta un evidente squilibrio a favore dei rappresentanti alleati: diplomatici e militari dello Psychological Warfare Branch [Muscio 1989; Quaglietti 1980, 40]. Il decreto prende forma da spinte contrastanti. I produttori, non potendo più contare sul protezionismo delle leggi fasciste, hanno bisogno almeno di una piattaforma normativa dalla quale ripartire. I lavoratori del cinema, quadri artistici in testa, sperano di tradurre in una legislazione più aperta lo spirito dei mesi successivi alla caduta definitiva del fascismo. Gli esercenti contano sugli incassi delle pellicole americane, di nuovo sugli schermi dopo anni di assenza – o di presenza molto sporadica – a causa del monopolio sulle importazioni stabilito nel 1939. Il governo italiano intende tutelare, per quanto possibile, un settore importante, sia dal punto di vista simbolico sia dal punto di vista finanziario, dell’economia nazionale. Ma l’indirizzo prevalente è quello dei vincitori, i quali chiedono e ottengono la completa apertura del mercato italiano alla produzione hollywoodiana. In quali provvedimenti effettivi si concretizzano queste diverse istanze? Il decreto assicura un contributo del 10% sugli incassi ai lungometraggi di produzione italiana, cui viene aggiunto un ulteriore 4% per i film con particolari valori artistici. Autorizza la programmazione (senza contingentamento, vale a dire senza limiti di importazione) di film stranieri doppiati all’estero e abolisce la tassa sul doppiaggio. Il primo articolo ha poi un valore soprattutto simbolico, dichiarando che: «L’esercizio dell’attività di produzione è libero». Il decreto 678 non gode di una buona letteratura. «Esso non dava fastidio a nessuno», sintetizza Lorenzo Quaglietti [1980, 43], mentre Barbara Corsi lo definisce «il frutto di un compromesso impossibile tra vincitori e vinti e dell’incertezza di un momento in cui premono ben altri problemi» [Corsi 2001, 43]. Il suo risultato più macroscopico è il riversamento nel

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nostro circuito distributivo di enormi quantità di film statunitensi, ben oltre il fabbisogno ipotetico di mercato e con modalità ai limiti della concorrenza sleale [Bafile 1986]. In questa fase, le major non puntano tanto a capitalizzare nel breve periodo la fame del pubblico italiano per il cinema d’oltreoceano, quanto ad acquisire una posizione dominante nel medio e nel lungo termine. Si tratta di una strategia messa in atto in Italia così come negli altri paesi europei, anche vincitori – è il caso della Francia o dell’Inghilterra –, con tattiche e strumenti misurati di volta in volta sulle singole realtà [Wagstaff 1996], che porta il cinema americano a quote di incasso superiori all’85% nel 1946. Resta tuttavia sospesa una domanda: come è stato possibile che il cinema italiano abbia dato vita a opere come Roma città aperta, Sciuscià, Ladri di biciclette in un mercato pressoché monopolizzato, con una legge dai limiti evidenti e con i mezzi sopravvissuti alla catastrofe bellica? 3.3 Anno zero? Gli elementi fin qui esposti ci permettono di circoscrivere meglio la situazione dell’economia cinematografica nazionale all’indomani della guerra. Sono dati di fatto l’inadeguatezza dell’apparato legislativo, la difficoltà di penetrazione nel mercato nazionale (per non dire di quelli esteri), la scarsità di mezzi e risorse.Tuttavia sono dati che possono essere precisati. Come abbiamo visto, i problemi che affliggono il cinema italiano sono gli stessi riscontrabili in altre cinematografie europee: è ad esse che si deve guardare per avere una misura e un riferimento utili per l’analisi del caso italiano, sostiene Barbara Corsi [2001, 9]. Il decreto luogotenenziale n. 678, nonostante le sue carenze, consente una piccola ma sensibile ripresa della produzione, che passa dalle 25 unità del 1945 ai 65 film circa dell’anno successivo (è difficile produrre stime esatte, perché in quegli anni sono rieditati o distribuiti per la prima volta film girati durante la guerra). Cinecittà, parzialmente distrutta, è adibita a campo profughi, ma i film si girano altrove, negli studi Titanus alla Farnesina, negli stabilimenti Fert a Torino, nei teatri di posa usati dall’Icet a Milano e nei tanti luoghi in cui si decentra, come da tradizione, la produzione italiana [Brunetta 1993, 1831]. La pellicola è disponibile, dal momento che la Ferrania di Savona intende rilanciarsi nel dopoguerra proprio con la produzione di negativi e positivi per il cinema [Masi 1989]. Sebbene un Piano Marshall non sia previsto per il cinema, come invece avviene per ogni altro settore della produzione, l’immagine che emerge è collimante con quella dell’economia postbellica descritta da Silvio Lanaro, secondo cui vi sarebbe uno scarto «fra la perdita di beni materiali, che è nel complesso contenuta, e la perdita di beni immateriali o comunque di ricchezze simboliche, affettive, spirituali, che è invece assai elevata»[Lanaro 2001, 11]. Il neorealismo non sarebbe soltanto il frutto miracoloso dell’anno zero del cinema italiano [Cosulich 2003b, 19-22], ma l’esito non scontato delle indi-

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cazioni implicite ed esplicite risultanti dalla situazione economico-legislativa del tempo. La liberalizzazione dell’attività produttiva rende possibili, visibili, «le iniziative le più eccezionali»; l’invasione hollywoodiana dichiara «contestualmente chiusa, o comunque di difficile percorribilità, la strada del cinema “medio”» [Grignaffini 1989, 40-42]. L’area di mercato lasciata libera è dunque limitata; in essa possono trovare posto lavori che non si mettono in concorrenza con il lussuoso cinema americano:

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Forse allora non è un caso che la ripresa produttiva del cinema italiano dell’immediato dopoguerra si sia incanalata lungo due direzioni principali: una produzione di respiro locale e regionale, programmaticamente rivolta a settori specifici di pubblico popolare; una produzione di carattere “sperimentale”, legata a problematiche di interesse nazionale ma lontana dai canoni standard dello spettacolo popolare.

Infine, proprio per la sua indefinitezza, il decreto 678, azzerando il controllo politico previsto dalle leggi fasciste, apre una fase che potremmo definire di “iniziativa privata”, destinata a chiudersi presto. 3.4 Il cinema di Andreotti La successiva “legge degli 80 giorni” (legge n. 379 del 16 maggio 1947) prevede la programmazione obbligatoria – presto sistematicamente disattesa – di film italiani per 20 giorni a trimestre, ma istituisce anche un potente Ufficio centrale per la cinematografia, tra l’altro competente in materia di rilascio delle provvidenze e di esercizio della vigilanza governativa. La tutela dell’esecutivo è ulteriormente articolata dalle due leggi che portano il nome dell’allora sottosegretario allo spettacolo Giulio Andreotti, la cosiddetta “leggina” n. 448 del 26 luglio 1949 e la n. 958 del 29 dicembre 1949. I due provvedimenti, elaborati anche per rispondere alle pressioni delle categorie professionali del cinema (Anica e lavoratori, per l’ultima volta Anica

Continuità e nuove strategie

L’Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche e Affini viene fondata a Roma il 10 luglio 1944, un mese dopo la liberazione della città. Rappresentante degli interessi dei produttori cinematografici, erede della Federazione Nazionale Fascista degli Industriali dello Spettacolo, è diretta da Eitel Monaco, già a capo della Direzione Generale della Cinematografia e della stessa Fnfis prima della caduta del fascismo. La politica dell’Anica si dimostra negli anni seguenti molto efficace per quanto riguarda le relazioni con le controparti: stato italiano, industria hollywoodiana, associazioni dei lavoratori e dei distributori. Meno incisiva risulta l’azione dell’Anica al suo stesso interno, dove non riesce a disciplinare l’attivismo degli associati, con esiti di inflazione produttiva.

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sullo stesso fronte), che chiedevano interventi a protezione del cinema nazionale, sintetizzano in modo complesso una serie apparentemente inconciliabile di istanze. Non ripristinano il limite alle importazioni, quindi non scontentano gli esercenti e i distributori che hanno tutto da guadagnare dalla presenza massiccia di pellicole americane. Istituiscono però un prestito forzoso, a scadenza decennale, a fronte del rilascio del nullaosta per il doppiaggio, dunque per la distribuzione delle pellicole straniere. Le somme così raccolte vanno a costituire un fondo speciale gestito dalla Banca Nazionale del Lavoro, che con esso è tenuta a promuovere la produzione nazionale. I produttori inoltre guadagnano per ogni film realizzato e riconosciuto di nazionalità italiana un “buono di esonero”, vale a dire la possibilità di distribuire un film straniero senza dover versare le quote del prestito forzoso.Tali buoni possono essere utilizzati da quanti li hanno conseguiti, ma anche essere scambiati o venduti. Infine, con la legge 958, si richiede la presentazione del soggetto del film di cui si intende avviare la lavorazione, ai fini dell’accertamento della nazionalità italiana; si mantiene il rimborso erariale al 10%, come previsto dal decreto luogotenenziale, ma si innalza il contributo speciale per le pellicole di elevato valore artistico all’8%. Tale contributo speciale sarà, nei fatti, accordato alla quasi totalità della produzione. Un bilancio delle leggi Andreotti, allo stato odierno della storiografia sull’argomento, non può che essere ambivalente [Corsi 2001, 49-50; Forgacs e Gundle 2007, 185-188]. Se non si può addebitare loro in via esclusiva la responsabilità di aver addormentato il cinema italiano, e in particolare affossato il neorealismo, è senz’altro vero che esse hanno reso gradualmente possibile (e redditizia) quella produzione media difficilmente praticabile in precedenza. La normalizzazione non si è estrinsecata soltanto nel controllo della produzione, ma anche nell’esercizio della censura [Argentieri 1974, 2003; Bonazza 1989] e nella rimozione di quadri politicamente sgraditi dai vertici delle istituzioni cinematografiche (Centro Sperimentale di Cinematografia, Mostra del cinema di Venezia). Si chiude quindi con le leggi Andreotti la «fase della ricostruzione», il cui motore era l’aggregazione di singoli (autori, produttori, intellettuali) attorno a progetti specifici e si inaugura una fase caratterizzata dalla «convergenza di forze tra produttori, esercenti e governo» [Brunetta 1993, 17]. 3.5 Il modello produttivo Nel 1945 sono prodotti circa 25 film. La cifra sale a 65 circa nel 1946, resta pressoché invariata nel 1947, cala a poco più di 50 unità nel 1948, per quasi raddoppiare nel 1949. La linea spezzata riflette la progressiva ricostruzione dell’economia nazionale, ma anche le incertezze e le difficoltà delle imprese cinematografiche. I produttori italiani sono stati spesso oggetto di critica, se non di disprezzo, da parte degli intellettuali cinematografici, per lo più militanti su posizioni marxiste o liberalsocialiste [Bizzarri e Solaroli 1958; E. Rossi 1960].A

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questo proposito sono paradigmatiche le indicazioni di Libero Bizzarri e Libero Solaroli, nel loro pionieristico lavoro sull’industria cinematografica italiana. Secondo i due studiosi, la debolezza del sistema è dovuta, oltre che all’agguerrita presenza statunitense, a una serie di fattori endogeni: le limitate risorse finanziarie dei gruppi che si sono dedicati alla produzione, l’eccessiva fiducia verso il mercato interno per la copertura dei costi, la mancanza di investimenti in mezzi di produzione (teatri di posa, stabilimenti di sviluppo), la «peculiare attività finanziaria (e non economicoindustriale) dei grossi nomi intenti a ripararsi dall’inflazione con investimenti a medio termine» [Bizzarri e Solaroli 1958, 43]. La tendenziale acquiescenza al potere, prima fascista poi democristiano, nonché una oggettiva continuità dei quadri al vertice degli organismi di categoria (esemplare il caso di Eitel Monaco, negli ultimi anni del fascismo Direttore Generale della Cinematografia, dal luglio 1944 segretario generale dell’Anica) non contribuivano certo a migliorare l’opinione sugli imprenditori del cinema. All’indomani della Liberazione tornano in attività le principali società italiane, le stesse che erano sorte o si erano rafforzate negli anni del monopolio [Corsi 2003, 388]. Un’eccezione è costituita dalla Scalera Film, la più compromessa con il passato regime, che riprenderà più tardi e che comunque affitta ad altri i propri studi romani. Per il resto, nel 1945 la Lux produce 6 pellicole, la Excelsa 4, la Titanus 2. Attorno a questi marchi emerge, con sempre maggiore evidenza nelle stagioni successive, una miriade di società, molte delle quali attive per la realizzazione di un solo film. Si tratta di soggetti nuovi o in qualche caso attivi già durante il ventennio, mossi da motivazioni e indirizzi assai differenti: case di ispirazione cattolica (Orbis, Universalia, Bassoli) [Grmek Germani 1989; Laura 2003], associazioni partigiane (Anpi, Corpo Volontari della Libertà, Fronte della Gioventù), imprese indipendenti che puntano allo sfruttamento di strutture e mercati locali, soprattutto meridionali (Icet, Mambretti, S.A.P., Organizzazione Filmistica Siciliana, Sud Film, Romana Film). Un fenomeno effettivamente peculiare del dopoguerra riguarda quei registi che diventano producer, operando come indipendenti o agganciandosi a strutture più affermate: è il caso di Rossellini (Tevere Film, poi Aniene Film e Berit), Matarazzo (Labor Film), De Sica (Produzioni De Sica), Gallone (Produzioni Gallone), Gentilomo [Aprà 1988]. Del tutto marginale è l’operato delle cooperative, nonostante se ne costituiscano alcune già nelle poche settimane che separano la caduta di Mussolini dall’armistizio dell’8 settembre 1943 [Argentieri 1998, 307-308]. 3.6 L’industria del neorealismo Il mito del basso costo, da cui si era partiti, è anche il punto di arrivo. Per quanto la sua natura mitica sia ampiamente appurata [Aprà 1988; Conforti e Massironi 1975; Corsi 2001; Farassino 1988; Lizzani 1961; Spinazzola 1974], può destare ancora una certa sorpresa rilevare che «l’influenza del

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neorealismo sui costi di produzione è molto meno importante di quanto generalmente si possa credere. La produzione dei film neorealisti è abitualmente costosa quanto quella dei film realizzati interamente negli studios» [Conforti e Massironi 1975, 81n]. Inoltre, più si restringe il campo e la definizione di neorealismo a quelle opere ad alta densità che si pongono consapevolmente obiettivi di ordine estetico, linguistico, sociale, più ci si trova di fronte a un’evidenza: il cinema neorealista non viene solo prodotto con i mezzi tipici dell’economia di mercato dell’epoca, ma tra tutta la produzione coeva rappresenta quella più strettamente legata alle strutture consolidate dell’industria italiana. Il film che inaugura il nuovo cinema italiano, Roma città aperta, è prodotto dalla Excelsa Film, una delle case più attive del periodo (tredici pellicole tra il 1945 e il 1947, prima del rovinoso incendio del deposito film), specializzata in film comici e melodrammi di costo medio-basso. Nel listino Excelsa troviamo ad esempio, nel 1945, La vita ricomincia di Mario Mattoli e, un anno dopo l’uscita del film di Rossellini, Avanti a lui tremava tutta Roma di Carmine Gallone, uno dei primi esempi di «appropriazione dei motivi resistenziali in chiave popolaresco-canora» [Spinazzola 1974,10]. La produzione associazionistico-cooperativa, come detto, si limita a pochissimi titoli: quattro prodotti dall’Anpi, uno dal Corpo Volontari della Libertà di Padova, uno, La nostra ora, dal Centro Sperimentale di Cinematografia del Fronte della Gioventù di Torino (gruppo antifascista da non confondere con l’organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano, che assume tale denominazione solo nei primi anni ’70).Tra i film prodotti dall’Anpi, due sono distribuiti dalla Titanus (Giorni di gloria e Caccia tragica, il primo anche coprodotto), che qualche anno dopo realizzerà, con la partecipazione indiretta della Rko [Bernardini e Martinelli 1986, 101], Roma ore 11 (G. De Santis, 1951). L’Enic, a sua volta, distribuisce un altro titolo Anpi (Il sole sorge ancora), nonché Pian delle stelle, realizzato dal Corpo Volontari della Libertà. Per il resto del decennio, non è segnalata alcuna casa produttrice che abbia nella sua ragione sociale la dizione di cooperativa, con l’eccezione, secondo alcuni repertori [Chiti e Poppi 1991], della veneziana Cooperativa Italiana Realizzazioni Cinematografiche, che produce nel 1949 Lasciamoli vivere (A. Rossi, 1949-1952). Solo negli anni successivi avremo qualche esempio in questo senso, con Achtung! Banditi! (1951) e Cronache di poveri amanti (1953), entrambi diretti da Carlo Lizzani e prodotti dalla Cooperativa spettatori produttori cinematografici. La difficoltà dell’intervento della sinistra in ambito produttivo è però esemplificata dal fallimentare tentativo di La terra trema, iniziato dalla Ar.Te.As. di Alfredo Guarini (sostenuta economicamente dal Partito Comunista Italiano) e presto preso in carico dalla cattolica Universalia, erede di quella Orbis che aveva prodotto La porta del cielo (V. De Sica, 1944) e Un giorno nella vita (A. Blasetti, 1946) [Mancino 2008]. Non sembra quindi paradossale che il catalogo più fornito, ma anche il

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meno connotato, di opere neorealiste sia poi quello della Lux Film di Riccardo Gualino, la casa italiana che meglio di ogni altra ha adattato la lezione hollywoodiana al contesto italiano. La Lux produce melodrammi resistenziali (Due lettere anonime), commedie popolari di ambiente urbano (Abbasso la miseria, Abbasso la ricchezza, L’onorevole Angelina, Molti sogni per le strade, tutti con Anna Magnani) o paesano (Vivere in pace, Campane a martello, entrambi di Zampa), noir di ambientazione postbellica (Il bandito, Senza pietà, Gioventù perduta), spettacolari affreschi di massa (Il mulino del Po, Riso amaro), farse reducistiche con Erminio Macario (Come persi la guerra, L’eroe della strada). Il suo è un «neorealismo industriale» [Farassino 2000], rappresentato da film legati a precise modalità di genere, in cui le istanze ambientali e tematiche del nuovo cinema si mescolano a un’accorta politica di casting e di scrittura. Sono pochi i film riferibili all’universo neorealista e realizzati attraverso le pratiche produttive che, col senno di poi, potremmo definire più innovative o peculiari del dopoguerra: autoproduzione e produzione locale. Pochissimi lavori sono concepiti e finanziati fuori Roma: Il cielo è rosso (C. Gora, 1950) è prodotto dalla Acta Film di Bari, Anni difficili (L. Zampa, 1948) dalla Briguglio Film di Messina. Il caso di registi che diventano produttori, abbiamo visto, riguarda principalmente professionisti organici al sistema produttivo nazionale come Gallone, Gentilomo e Matarazzo, con le notevoli eccezioni dei film di Rossellini e De Sica. Le autoproduzioni di Rossellini testimoniano la grande capacità del cineasta di catalizzare figure disparate (fondazioni americane, produttori occasionali, case statunitensi come la Rko, indipendenti come Giuseppe Amato) attorno a progetti dalle dubbie prospettive di guadagno [Aprà 1988]. Altrettanto avventurose le vie che portano De Sica a girare Sciuscià, prodotto dalla Alfa Film dei fratelli Tamburella con il finanziamento del funzionario pontificio Edoardo Prettner Cippico [Cosulich 2003a], prima di produrre, da solo o in partecipazione, Ladri di biciclette e Miracolo a Milano (1951). Lux Film

Un modo di produzione peculiare

Fondata nel 1934 dall’industriale Riccardo Gualino, la Lux Film è la casa più attiva negli anni del neorealismo. Si distingue, oltre che per la particolare cura realizzativa, per una prassi produttiva particolare. Nel dopoguerra, infatti, è l’unica società italiana di grandi dimensioni a non possedere teatri di posa, preferendo noleggiarli volta per volta. Inoltre essa affida i propri film a produttori indipendenti (tra gli altri: Ponti, De Laurentiis, Rovere), ideatori del progetto e responsabili della sua riuscita. Ad essi la Lux accorda percentuali prefissate sul preventivo iniziale. Severamente provata dalla crisi degli anni 195556 e da alcuni investimenti sfortunati (tra cui, emblematicamente, Senso) la Lux conclude la propria attività nel 1964.

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A questo punto non appare più così curioso che due «imprese economicamente suicide» [Brunetta 1993, 26], Umberto D. e Francesco giullare di Dio, siano realizzate dall’incolto e indipendente Giuseppe Amato. Ma si tratta, appunto, di eccezioni, in tutti i sensi, e di film liminari, esteticamente e cronologicamente, rispetto a un fenomeno storico in larga misura già concluso. 3.7 I film non piovono dal cielo Il neorealismo, in conclusione, apre e lascia irrisolta una contraddizione: al progetto di un cinema nuovo, tenacemente discusso e portato avanti, non pare corrispondere un’ipotesi di modo di produzione realmente alternativo a quelli esistenti. Per quale motivo gli intellettuali e i cineasti capaci di dare forma a opzioni teoriche, linguistiche, estetiche che da più parti sono individuate come fondanti della modernità cinematografica, sono rimasti così legati a modelli industriali di tipo tradizionale? Questa contraddizione può essere interpretata in varie maniere, che non si escludono necessariamente a vicenda. L’incoerenza si può interpretare in termini di inadeguatezza culturale, come espressione di una mancata consapevolezza mediologica da parte di intellettuali non ancora in grado di calarsi nei panni di organizzatori del consenso popolare [Abruzzese 1975]. In sintesi, il comunista De Santis è il regista che può girare il successo planetario Riso amaro, ma ha bisogno del capitalista Gualino per finanziarlo e distribuirlo. Corrisponde senz’altro al vero, poi, quanto sostiene Barbara Corsi circa «la rimozione totale della natura materiale del cinema» e la «mancata analisi dei problemi della struttura economica a vantaggio di una riflessione tutta impostata sulla discriminante qualitativa» [Corsi 2001, 55-56].Tuttavia, da queste e da altre letture, pare emergere ancora una volta un’interpretazione del fenomeno impostata sulle premesse irrealizzate, sul cosa sarebbe dovuto essere. Forse questo limite può essere collegato a una scelta precisa, quella, operata dalla cultura che ha partorito il neorealismo, in favore di un cinema popolare e nazionale perché «maggioritario» [Quaresima 1984]. Il neorealismo, in questo senso, non può che essere un prodotto industriale: risconoscibile per strutture narrative, spesso di genere, appetibile per la politica attoriale, che non disdegna il divismo, vendibile su tutto il territorio nazionale, anche quando prende spunto da realtà regionali. Una scelta che non esclude, ma tende a rendere eccezionale lo sperimentalismo (rosselliniano, zavattiniano), così come rende marginale il localismo. «I film non piovono dal cielo», sosteneva Glauco Viazzi [1949] su «Cinema», in un articolo in cui chiudeva bruscamente la polemica (da sinistra) su In nome della legge e apriva invece alla Lux («l’unica casa che produca, di tanto in tanto, e coscientemente, dei film d’avanguardia»). Quel modello di aggregazione di soggetti differenti (intellettuali marxisti, intellettuali cattolici, registi fascisti, registi calligrafici, ex attori giovani, finanziatori liberali e clericali, associazioni di partigiani, speculatori puri...)

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attorno a specifici progetti cinematografici, contrattati e negoziati di volta in volta, si sta esaurendo. Nemmeno dopo, in effetti, i film pioveranno dal cielo, ma quella è davvero un’altra storia.

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4. Neorealismo e storiografia del cinema italiano 4.1 Asincronie, dissidi, interpretazioni Si sfogliano gli articoli dei pionieri su «Cinema», si leggono le polemiche dense di Aristarco e Chiarini, Viazzi e Doglio, le proposte di Zavattini, gli interventi di Barbaro e Pietrangeli, le ricostruzioni storiche, talvolta quasi contemporanee, di Carlo Lizzani, Mario Gromo, Brunello Rondi, Giuseppe Ferrara, Giulio Cesare Castello, e più si va avanti, più si ha l’impressione che il capitolo neorealismo diventi complesso. Il tempo trascorso, anziché chiarirli, rende spesso inafferrabili i termini delle discussioni; le conclusioni si cristallizzano in formule (il “passaggio del neorealismo al realismo”, i “novanta minuti consecutivi della vita di un uomo”) e per orientarsi è indispensabile la bussola offerta dalle sistematizzazioni successive, più vicine a noi in termini culturali se non cronologici [Brunetta 1993; Farassino 1989a; Miccichè 1975a]. L’unico punto sul quale tutti sembrano d’accordo è che sia esistito, per un certo periodo, in un certo luogo, con certi film, grazie a certi registi, un fenomeno con certe caratteristiche definibile come neorealismo. Se dall’esistenza si passa alle qualificazioni, le cose si complicano immediatamente: che cos’è il neorealismo, nelle definizioni dei suoi primi storici ed esegeti? Una scuola, un movimento, una tendenza, un’ispirazione? È un oggetto solo italiano, fermo restando che è principalmente italiano? Quali sono i suoi confini temporali, posta la centralità del momento e dell’esperienza della seconda guerra mondiale? È un fenomeno strettamente cinematografico o è il capitolo cinematografico di una più ampia storia dell’arte? Riguarda un numero ristretto di capolavori o la massa della produzione di alcuni anni? Racconta storie o registra documenti? E il nome stesso, neorealismo, passato attraverso vicende e accezioni disparate [Brunetta 1969; Parigi 2003], è davvero appropriato a definire l’oggetto? La prospettiva è turbata da una sorta di asincronismo del dibattito rispetto al fenomeno [Gundle 1991, 121]. Possiamo provare a definire, con estrema sintesi, tre fasi successive.Tra la fine degli anni Trenta e gli ultimi anni del secondo conflitto mondiale si assiste, sulle pagine di riviste come «Cinema», «Bianco e Nero», «Film», a un vivace dibattito sul cinema italiano e sulle strade da seguire per favorirne la rinascita [Costa 1984]. Questa prima fase si accompagna, nella pratica artistica, alla realizzazione di film che sono assunti, ancora in fieri, come pietre angolari del nuovo cinema nazionale – è il caso di Ossessione – o che sono accolti come segnali di un imminente cambiamento, quali ad esempio I bambini ci guardano e Quattro passi tra le nuvole (A. Blasetti, 1942) [Termine 2003, 78-80]. In

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un secondo momento, dal 1945 alla fine del decennio, vengono realizzati quei film che, quasi da subito e fino a oggi, compongono una sorta di canone del cinema neorealista: Roma città aperta, Sciuscià, Ladri di biciclette, La terra trema, caratterizzati dall’uso di attori non professionisti, di ambientazioni prevalentemente prese dal vero e di tematiche legate al presente del Paese.Tuttavia, alla fioritura di opere di rilevanza storica non si affianca un’altrettanto fitta produzione critica e teorica; al contrario si ha come «un piccolo ritardo da parte degli studiosi italiani nell’accorgersi di un cinema che sta nascendo: segno evidente di come la teoria guardi alla produzione del momento, ma anche alla propria storia e alle proprie esigenze» [Casetti 1993, 26]. Il dibattito su realismo e neorealismo riprende fervore proprio quando il fenomeno si esaurisce e si disperde da un punto di vista produttivo: in questa terza fase, dall’inizio degli anni Cinquanta e almeno fino alla fine del decennio, il nuovo cinema italiano diventa più chiaramente terreno di scontro politico e si pongono le basi per quella concezione che identifica la tradizione neorealista con la tradizione nazionale [Forgacs 1989, 55-56]. Segno e traccia di questa corrispondenza tra rilancio del dibattito ed esaurimento del fenomeno sono i due celebri convegni dedicati al neorealismo, a Perugia nel 1949 [Barbaro 1950] e a Parma nel 1953 [«Rivista del cinema italiano» 1954, III, 8]. Oltre a essere prefigurato, realizzato e teorizzato in tempi diversi, il neorealismo è anche oggetto di accese dispute intellettuali. La pluralità di interpretazioni e concezioni possibili è evidente fin dalle parole dei due operatori che ne hanno preparato il terreno, promuovendo con costanza la cul-

Umberto Barbaro Attivo nella vita culturale già dalla fine degli anni Venti, Umberto Barbaro è studioso di teatro, letteratura, arti visive, docente dal 1936 del Centro Sperimentale di Cinematografia (sotto la direzione di Luigi Chiarini), traduttore italiano di Arnheim, Balázs, Pudovkin, scrittore e sceneggiatore. A lui si deve la promozione del realismo a questione chiave per la rinascita del cinema italiano. Questa apertura di interessi, l’attenzione all’analisi dei film e la sua estraneità al fascismo lo accreditano come guida presso molti futuri cineasti allievi del Csc. Commissario straordinario della scuola romana per un breve periodo, è allontanato nel 1947 per motivi politici. La sua attività prosegue nel dopoguerra come docente presso la scuola di cinema di ¸ódz´, nella Polonia comunista, e come collaboratore, tra l’altro, di «l’Unità», «Vie Nuove», «Filmcritica». Il carattere asistematico della sua elaborazione teorica si riflette nella produzione editoriale: i volumi a suo nome sono spesso testi a scopo didattico (Film: soggetto e sceneggiatura), atti di convegno (Il cinema e l’uomo moderno), raccolte di articoli curate da Barbaro stesso (Poesia del film) o, postume, da altri (Servitù e grandezza del cinema, Neorealismo e realismo).

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tura cinematografica negli anni del regime: Umberto Barbaro e Luigi Chiarini, rispettivamente docente di punta e direttore del Centro Sperimentale di Cinematografia, la scuola di eccellenza voluta dal fascismo nel 1935. Organico al fascismo durante gli anni Trenta, passato nel dopoguerra «dopo un breve periodo di quarantena ideologica [...] sotto le file del partito socialista» [Brunetta 1993, 383], Chiarini [1951, 6] sostiene nel 1951 la difficoltà di definire il neorealismo, dal momento che il neorealismo di Zavattini non è quello di De Santis e questo non ha niente a che vedere con quello di Germi, che d’altronde non ha punti di contatto con Rossellini, come questi si differenzia nettamente da Visconti e tutti questi insieme non rispondono al concetto che del neorealismo hanno Barbaro o il Padre Morlion. Documento acquistato da () il 2023/05/03.

Barbaro, mai esplicitamente allineato alle posizioni politiche e culturali del fascismo, in un articolo del 1954 esprime concetti non molto lontani da quelli del suo vecchio collega [Barbaro 1962c, 186-187]: [Il disaccordo] comincia dalla stessa denominazione neo-realismo, che per alcuni non è appropriata; quelli poi, che la considerano appropriata, sono in

Luigi Chiarini e il Centro Sperimentale di Cinematografia

1900-1975

Nato nel 1935, il Centro Sperimentale di Cinematografia è da subito una zona franca di elaborazione critica e teorica, grazie alla direzione di Luigi Chiarini, vivace intellettuale di matrice idealistica e di considerevoli capacità organizzative. Fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, il Csc avvia un articolato programma didattico, pubblica la rivista «Bianco e Nero», diventa un punto di riferimento per molti giovani intellettuali attivi in campo non solo cinematografico. Come altre istituzioni (Cinecittà, Istituto Luce, Mostra di Venezia) attorno al 1948 il Csc prosegue le sue attività sotto la tutela politica della Democrazia Cristiana. In questo quadro, Chiarini mantiene un ruolo centrale nel dibattito cinematografico, raccogliendo attorno alle sue iniziative (ancora «Bianco e Nero», poi la «Rivista del cinema italiano») intellettuali di provenienza ideologica differente. Fedele al principio idealistico di autonomia dell’arte rispetto a ogni altro fenomeno sociale e politico, Chiarini separa il film (arte) dal cinema (industria), senza peraltro svalutare del tutto la seconda problematica. Partecipa a una delle più dense polemiche del periodo: quella sul realismo di Senso, che lo contrappone a Guido Aristarco. Primo docente universitario di Storia e critica del cinema, presso l’Università di Roma, Chiarini raccoglie in modo organico le sue riflessioni in volumi come Il film nei problemi dell’arte (1949), Il film nella battaglia delle idee (1954), Cinema quinto potere (1954). Dirige inoltre cinque film di finzione dal 1941 al 1949.

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disaccordo tra loro sull’interpretazione dell’elemento nuovo che dovrebbe giustificarla. Ancor più si acuisce il dissidio sull’origine di questa fioritura improvvisa del film italiano [...]. Infine disaccordo e dissidio culminano sul concetto generale di realismo e sulla sua estensione.

Partire dai disaccordi e dai dissidi può essere utile per rendere conto di un fatto che riteniamo peculiare del fenomeno in esame: l’intima fusione nei discorsi sul neorealismo di intenti storici e descrittivi, poetici e teorici, normativi e politici. Lo scivolamento da un piano all’altro è spesso impercettibile: il cos’è si intreccia al cosa deve essere e non di rado al cosa sarà. E con più forza nel corso degli anni Sessanta, nel momento in cui il dibattito diventa più consapevolmente retrospettivo, si privilegiano le potenzialità inespresse del fenomeno: cosa sarebbe potuto essere il neorealismo con una coscienza ideologica più acuta o con una diversa consapevolezza linguistica [Wagstaff 1989, 67]. Dicendo ciò non vogliamo tacciare di confusione la riflessione e l’estetica neorealista, processo già ampiamente celebrato [Fortini 1957;Asor Rosa 1964; Ferrero 1975], ma ribadire e precisare quanto poc’anzi asserito. Il neorealismo è anche, se non soprattutto, la storia delle sue definizioni e delle battaglie che attorno al suo nome sono state fatte. Ciò è vero in molti altri casi, si può obiettare. Ma qui più che altrove, l’aspetto programmatico e il tentativo di definire la forma di un cinema da venire risultano decisivi [Quaresima 1984]: le interpretazioni non seguono, ma spesso accompagnano (o credono di accompagnare) lo svolgersi del fenomeno. Proviamo allora a ripercorrere queste interpretazioni, seguendo per quanto possibile un criterio cronologico, ma tenendo al centro i grandi nodi della questione neorealista. 4.2 Il neorealismo come vocazione Nel 1950, in occasione di una retrospettiva tenutasi a Livorno, Antonio Pietrangeli pubblica la versione italiana di un saggio uscito due anni prima in francese per il numero 4 della «Revue du cinéma». Cinema italiano sonoro è un’ottima summa delle posizioni espresse sulla rivista «Cinema» già negli anni del conflitto dai giovani critici vicini a Umberto Barbaro e un buon punto di partenza per noi. Per Pietrangeli il neorealismo non è una scuola, dal momento che i suoi rappresentanti sfuggono a «formule programmatiche» [Pietrangeli 1950, 18], ma piuttosto un «clima comune, imposto alle coscienze da problemi umani oggettivi e reali».Tale clima, cui evidentemente concorre la fine della guerra, sarebbe tuttavia improduttivo se non esistesse una precedente «tradizione italiana del “realismo”», che attraversa le arti figurative da Giotto a Caravaggio e la letteratura da Dante a Verga.Vera e propria via italiana all’arte, il realismo di Pietrangeli (e Barbaro) non si confonde con il culto dell’oggettività documentaria, nemmeno nella declinazione che ne dà in quegli anni Cesare Zavattini: è semmai la capacità dell’artista di raffigurare la realtà esprimendo al contempo un significato morale ad essa legato.Trasposto nella storia del cinema, il reali-

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smo è la parola chiave indispensabile per dare una continuità e una prospettiva al cinema italiano, altrimenti riducibile a pochi esempi, situati nell’antica fase del muto, più vicini alla storia del costume che non a quella dell’arte. Individuare la vocazione realistica, allora, vuol dire individuare anche una genealogia, una serie di precedenti. Tale serie di precursori assume negli anni a seguire la valenza di una sorta di canone: Sperduti nel buio, Assunta Spina, Rotaie (M. Camerini, 1929), 1860 e Quattro passi tra le nuvole sono le tracce di una cinematografia che potenzialmente si pone sullo stesso piano di quelle più prestigiose, e spesso le anticipa per invenzioni linguistiche (movimenti di macchina), procedimenti sintattici (montaggio a contrasto), spregiudicatezza tematica. Fino ad arrivare alla rottura di fatto con il cinema del passato e alla “nascita di uno stile”, rappresentate dal film d’esordio di Luchino Visconti, Ossessione. 4.3 Dialogo e differenza. Intellettuali e cinema neorealista Pietrangeli appartiene a una generazione, la stessa di De Santis,Alicata o i fratelli Puccini, che, partendo talvolta da posizioni di fronda o di adesione più o meno problematica alle direttive culturali del regime, sotto la tutela di Umberto Barbaro compie un doppio percorso formativo: cinematografico e ideologico; verso il realismo e verso il marxismo. Dopo le elezioni politiche del 18 aprile 1948, con la vittoria schiacciante della Democrazia Cristiana, che segue di un anno l’estromissione dal governo di comunisti e socialisti, il termine neorealismo si carica ulteriormente di un’accezione politica in senso progressista. La “battaglia delle idee” si estende al cinema e molti film diventano bersaglio degli attacchi della stampa conservatrice e cattolica [Bonazza 1989, 83-87]. Tuttavia, a parte il caso noto di intellettuali francesi di formazione cattolica come padre Morlion, Ayfre o lo stesso Bazin, anche in Italia il fronte cattolico, pur allineato su posizioni conservatrici, non è monolitico rispetto al neorealismo. Ad esempio, un critico come Gian Luigi Rondi, già collaboratore negli anni della Resistenza del periodico cristiano di sinistra «Voce Operaia» e vicino quindi al Movimento dei Cattolici Comunisti, schierato poi all’inizio degli anni Cinquanta sul fronte opposto a quello di Pietrangeli, sembra accogliere le principali conclusioni dell’allievo di Barbaro. Nel 1951, in uno dei quaderni di documentazione della Mostra del Cinema di Venezia, egli scrive [G.L. Rondi 1951, 11]: Da una forma di accorato rispetto per l’animo dello spettatore,nasce un modo di poesia; esteticamente legata a correnti [che] già resero glorioso il cinema vecchio italiano, nasce quella poesia cinematografica del nostro dopoguerra, che è la scoperta più significativa e più alta della cultura contemporanea.

Le considerazioni di Rondi sono indicative dell’ambiguità con cui alcuni settori della cultura cattolica guardano al neorealismo. Da una parte si converge con i critici di orientamento marxista sulla valutazione positiva data

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al «cinema nuovo» [G.L. Rondi 1951, 9]. D’altra parte si tenta di annettere quanto di fecondo viene riconosciuto in quell’esperienza assimilandolo alla sensibilità e all’etica cristiana. La capacità di rappresentare e favorire l’incontro tra uomini e di far sorgere la poesia dal dolore, ad esempio nei film di Rossellini e De Sica, porta a parlare di un realismo «naturaliter cristiano» [G.L. Rondi 1954, 96].Al contempo, la costruzione della tradizione realista operata da Barbaro e seguaci viene ritentata con analoghi capisaldi (Dante, Manzoni) in chiave ovviamente cristiana [Vigorelli 1954, 106]. Oltre a ciò, gli intellettuali cattolici individuano con maggiore decisione gli esiti localistici della prassi neorealista [G.L. Rondi 1951, 16]:

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Risultata troppo debole e vaga una cultura genericamente italiana, la cultura regionale si rivelò come quella che poeticamente, sapeva interpretare, nel modo più genuino ed intenso, l’anima dell’uomo moderno.

Dietro alle considerazioni sul ritrovato spirito regionale e tradizionale di pellicole come Cielo sulla palude e Sotto il sole di Roma, ma anche In nome della legge e La terra trema, si legge in filigrana una presa di posizione polemica su un altro dei cardini della cultura marxista del dopoguerra: la nozione, derivata da Antonio Gramsci, di intellettuale come attivo promotore di una cultura nazional-popolare, vale a dire di una cultura condivisa, diffusa e progressista. Così come la categoria stessa di realismo cristiano fa da evidente contraltare a quel realismo socialista cui, altrettanto naturaliter, si dirige secondo alcuni tutta la produzione culturale degna di attenzione [Barbaro 1950, 11]: Ogni fatto moralmente, culturalmente e artisticamente valido viene a prendere un carattere spiccatamente di sinistra. Se in Italia si producono buoni film, essi, anche indipendentemente da una precisa volontà degli autori, vengono a prendere un carattere spiccatamente di sinistra.

Il ruolo degli intellettuali nel nuovo cinema è un tema che sta particolarmente a cuore a Carlo Lizzani, autore nel 1953 di un volume intitolato Il cinema italiano. Lizzani riprende con qualche correzione le ipotesi sulla lunga vocazione realistica: individua anche lui in Ossessione il film chiave del nostro cinema, in quanto punto in cui confluiscono [Lizzani 1954, 133] «il vecchio verismo di Sperduti nel buio, i paesaggi solari di 1860, le timide ma pur nuove osservazioni di un De Robertis e dello stesso De Sica», ma ritiene di non poter usare la qualifica di realista se non per pochi film del dopoguerra. Secondo Lizzani, quello che è mancato in passato e che invece è possibile a partire dalla stagione del dopoguerra è l’incontro organico tra intellettuali e cinema. Il neorealismo rappresenta esattamente il punto in cui questo incontro avviene. La cultura marxista lancia così una sfida congiunta al cinema italiano e al mondo intellettuale. Il decadentismo di derivazione dannunziana e l’idealismo crociano possono essere superati a patto che il nostro cinema si liberi del suo

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senso di inferiorità (operazione peraltro già avviata grazie al contributo dei lavori di intellettuali stranieri come Balázs e Pudovkin) e che intraprenda con convinzione la strada del realismo, inteso come «visione chiara della realtà nel suo sviluppo, nella pienezza delle sue contraddizioni» [Lizzani 1954, 163-164]. 4.4 Realismo: arte o riproduzione? Le considerazioni di Lizzani aiutano a condurre a termini più precisi la vulgata secondo cui il neorealismo sarebbe un cinema in cui “le cose parlano da sole”, in cui si registra la vita dal vero e l’aspetto espressivo-formale è ridotto al minimo. Tale vulgata non nasce dal niente; semmai semplifica, senza tradirli eccessivamente, certi articoli polemici di De Santis [1951] o quegli impasti di poetica e teoria che sono gli interventi di Cesare Zavattini. Lo sceneggiatore di Ladri di biciclette è il più convinto assertore delle qualità riproduttive del cinema, di uno spettacolo definitivamente ingoiato dalla vita. Con uno scarto rispetto alle tendenze realistiche manifestate nella storia dell’arte, nel cinema: lo sforzo di vedere le cose come sono viene sentito dagli italiani con una decisione che punta alla crudeltà e questo importa al di fuori e più ancora dell’arte. [...] L’uomo è lì davanti a noi e noi lo possiamo guardare al rallentatore (con un mezzo proprio del cinema), per accertare la concretezza del suo minuto che ci indicherà perciò come altrettanto concreto il nostro minuto di assenza. [Zavattini 1950a, 107]

Già dalla prima metà degli anni Cinquanta si avverte, quindi, la tensione tra un realismo deteriore o improduttivo, fondato «su elementi meccanici ed esterni», e un realismo autentico, imperniato «sul grado di partecipazione dell’artista alla vita e ai problemi della società italiana» [Lizzani 1954, 164]; vale a dire, tra realismo come riproduzione e realismo come arte. Il tema è più sentito dalla critica militante, ma non è esclusivo di quel campo. Ad esempio Mario Gromo, recensore di lungo corso di «La Stampa» e autore di un Cinema italiano (1903-1953), riferendosi a Sciuscià e a Roma città aperta scrive: «In quei due film non si sentiva l’atmosfera dello studio, non vi erano celebri attori, non una raffinatezza tecnica. Sembravano documenti; ed erano, talvolta, poesia» [Gromo 1954, 98]. La conciliazione, fuggevole e per certi versi irreplicabile, tra documento e poesia avviene al di fuori di un intento programmatico o di scuola: «Definire quei film con la formula del neo-realismo sarebbe un po’ sbrigativo. Appartengono, semplicemente, a un comune periodo» [Gromo 1954, 99].Torna, nel critico torinese, un altro argomento assai frequente all’epoca: l’improprietà della definizione di neorealismo, improprietà per difetto (l’etichetta non riesce a rappresentare adeguatamente le opere: Gromo, G.L. Rondi, Di Giammatteo) o per eccesso (le opere hanno raramente le qualità per rispondere alla definizione: Lizzani, Fortini,Aristarco).

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Neorealismo e storiografia del cinema italiano

4.5 Neorealismo, nuovo cinema (italiano)? Possiamo già rilevare che l’importanza storica del neorealismo è un punto su cui convergono, seppure con motivazioni differenti, voci altrimenti discordanti. Il discrimine, in molti casi piuttosto sfumato [Venturini 1950], sta tra chi vede nel neorealismo il coronamento necessario di un lungo processo storico e chi invece mette l’accento sull’annuncio di un nuovo cinema e di una nuova cultura.Tra chi, insomma, crede che il cinema italiano si compia con Ossessione o Roma città aperta, e chi invece ritiene che il cinema italiano nasca con quei film. Sul versante della discontinuità tendono a porsi studiosi come Brunello Rondi e Giuseppe Ferrara, che cercano di storicizzare il neorealismo ispirandosi al pensiero fenomenologico, cioè a quella corrente filosofica che risale a Husserl e che nella sua elaborazione italiana con Banfi, Capitini e soprattutto Paci, si concentra sulla nozione di esistenza come evento; caratterizzata quindi non in termini sostanziali, ma come catena di relazioni posta in un tempo concreto. Giuseppe Ferrara, successivamente autore di film di stampo civile, nel suo Il nuovo cinema italiano parla di inconseguenza in riferimento alla produzione italiana precedente a Ossessione e al lavoro dei registi [Ferrara 1957, 5-6]. «Tracciare una storia dell’arte cinematografica italiana» prima dell’esordio di Visconti non è possibile non solo perché i pochi film degni di attenzione sono isolati, ma anche perché i registi, sia pure i migliori come Blasetti e Camerini, non sono legati allo svolgimento di un linguaggio autonomo, o di una qualsiasi tematica, ma a poche opere fortunate. Quali legami esistono, per Blasetti, tra Sole e Nerone (1930); tra 1860 e Vecchia Guardia (1935); o, peggio, tra i sovraccarichi Corona di ferro (1941), Cena delle beffe (1941) e il sentimentale e quasi lirico Quattro passi tra le nuvole (1942)?

Per Ferrara il neorealismo, come il cinema tout court, è questione di film, ma anche di autori conseguenti, creatori dotati di una cifra linguistica e tematica. Nella ricostruzione di Ferrara, come in quelle del già citato Lizzani o di Fabio Carpi [1958], il neorealismo è un centro attorno al quale si organizza cronologicamente ed espressivamente tutto il cinema italiano precedente, ma ancora di più una prospettiva assieme poetica e interpretativa. Riprendendo un sintetico giudizio di Lino Miccichè [1975a, 8], in questi casi più che «una “storia” del cinema italiano neorealistico (o semplicemente postbellico)» abbiamo «in realtà una “storia del cinema italiano” dal punto di vista neorealistico». Del 1956 è il volume di Brunello Rondi Il neorealismo italiano, pubblicato da Guanda di Parma, casa editrice che in quegli anni si distingue per un catalogo cinematografico assai ricercato, come qualche anno prima le milanesi Poligono e Domus [Pellizzari 1989, 100-102]. Brunello Rondi, fratello del già citato Gian Luigi, tenta qui una difficile opera di mediazione

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tra le conclusioni più interessanti della critica cattolica (la scoperta della persona) e di quella marxista (lo «zavorramento realistico» [B. Rondi 1956, 112]), attraverso il filtro del relazionismo di Paci. Il tentativo riscuote l’attenzione, e in qualche punto il plauso, di colleghi come Umberto Barbaro [1962c, 199-202] e Guido Oldrini [1965]. Rondi, pur mettendole criticamente in discussione, accoglie in pieno l’agenda e le parole chiave del dibattito sviluppate dalla critica marxista, soprattutto da «Cinema Nuovo» e da Guido Aristarco: il passaggio al realismo, il riferimento alla nozione di tipico e al filosofo ungherese, teorico di punta nel dibattito su realismo e letteratura, György Lukács, la degenerazione del realismo in bozzettismo. Però ciò che rende originale il volume, oltre alle singole valutazioni critiche, è la correlazione stretta che l’autore pone tra la tendenza realistica e la temporalità del racconto cinematografico [B. Rondi 1956, 78]: È dunque in una duplice direzione che si svolge il racconto italiano: rallentamento estremo del «tempo esistente» da una parte, (il personaggio col suo stillicidio, anche angoscioso, di minuti) e «tempo di incontri» dall’altra parte; scoperta cioè dei raccordi infiniti con gli «altri». Durata dunque come concisione con le implicazioni del tempo umano e del tempo delle relazioni. Due direzioni che a noi sembrano concomitanti e costituiscono, infatti, due modi della costruzione d’una nuova coscienza; coscienza esistenziale e storica; coscienza d’una vicenda che dev’essere tutta creduta e pagata di persona e che è preziosa e concreta attimo per attimo, e coscienza di una durata che affluisce da altre durate, che è legata e dipendente da altre durate: Tempo e Storia, Storia come Tempo e Tempo come Storia.

Quella che emerge, in sintesi, è l’enorme pervasività del discorso sul neorealismo, capace di mobilitare, almeno per un quindicennio, scuole, intelligenze, correnti di pensiero e strumenti analitici ben oltre il ristretto confine della disciplina cinematografica. 4.6 Guido Aristarco Più volte evocato, il redattore capo di «Cinema» nuova serie, e poi direttore di «Cinema Nuovo», Guido Aristarco è uno dei responsabili, se non il principale responsabile, di questa collocazione stabile del cinema tra i fatti della cultura nel secondo dopoguerra [Brunetta 1993, 380]. Recensore attento e acuto di molti dei film cardine del nuovo cinema italiano, divulgatore del pensiero di Lukács, animatore od osservatore partecipe di buona parte delle polemiche che danno l’indirizzo alla critica del periodo, curatore delle prime antologie teoriche pubblicate nel nostro paese, Aristarco più di ogni altro è la figura il cui pensiero, anche a causa di un progressivo irrigidimento teorico nel corso degli anni Cinquanta [Bisoni 2006, 47; Pellizzari 2003, 516-519], risente della cristallizzazione in formule avvenuta nei decenni successivi. Al teorico mantovano dobbiamo senza dubbio la formalizzazione di quel passaggio, avvenuto con Senso (L.Visconti, 1954), dal neorealismo al rea-

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«Cinema Nuovo» La rivista su cui trova spazio buona parte delle polemiche riguardanti il tema del realismo viene fondata da Guido Aristarco, dopo lo strappo con «Cinema», nel 1952. Inizialmente quindicinale, nel 1958 diventa bimestrale, accentuando così il suo orientamento saggistico. Caratterizzata da una ferrea linea editoriale (via via sempre più autoreferenziale), ma anche aperta, soprattutto negli anni che qui ci interessano, a contributi teorici e critici eccentrici, «Cinema Nuovo» è fedele alla parola d’ordine del realismo fino alla sua chiusura, nel 1996. Tra i collaboratori di quegli anni troviamo i nomi di André Bazin, Libero Bizzarri, Luigi Chiarini, Callisto Cosulich, Renzo Renzi, Libero Solaroli, Glauco Viazzi. Molte le inchieste promosse, su temi come l’economia cinematografica, il rapporto tra cinema e letteratura negli anni del neorealismo, la revisione dei paradigmi critici dopo la fine dello stalinismo. Merita un cenno la veste grafica del quindicinale, che, come notava Giorgio De Vincenti è «quasi rotocalchistica», con «abbondante uso di immagini fotografiche, molte delle quali – in particolare le copertine – andrebbero studiate come esplicito contributo a una storia dell’“erotismo cinematografico”» [De Vincenti 1979, 271n].

La fucina della critica realista

lismo: da un cinema legato all’immediatezza e alla superficie della realtà, a un cinema capace di restituire e interpretare la Storia e la società. Nel fare questo,Aristarco fa propria e sviluppa un’ipotesi diffusa nella critica italiana marxista e non: quella del carattere transitorio del neorealismo. In questa prospettiva, il pensiero teorico di Aristarco segue due direzioni, che in linea di massima si susseguono cronologicamente e che hanno come punti di riferimento gli scritti di Gramsci e di Lukács. La prima, teoricamente alternativa alle proposte di Zavattini, è quella del realismo come “cinema critico”, un cinema che non si ferma al dato cronachistico e di denuncia e che non rifiuta lo spettacolo e la narrazione, se questi possono essere funzionali a un disvelamento delle leggi che regolano il processo di definizione del reale. Realismo, allora, è soprattutto la ricerca del tipico: l’elemento paradigmatico, il personaggio o la situazione in grado di condensare una realtà nel suo corso di trasformazione storica, ciò che «segna una svolta nell’insieme dell’intreccio, il necessario rapporto dialettico dei personaggi con le cose e gli avvenimenti, attraverso i quali essi agiscono e patiscono» [Aristarco 1955, 275 ]. La seconda strada intrapresa da Aristarco, partendo proprio dal corpus neorealistico, è quella di una storia cinematografica in quanto «parte e aspetto di una più vasta e generale storia della cultura» [Aristarco 1965, 28]. Diminuiscono, qui, lo spazio e l’interesse per una presunta specificità espressiva del mezzo cinematografico [Cuccu 2003, 493-495], mentre il cinema assume un ruolo sociale e una consistenza estetica paragonabili a quelli della letteratura del XIX secolo,

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in particolare del romanzo. Il campo di indagine viene allargato a tutto ciò che nel cinema non è strettamente “artistico”, ma che può funzionare da sintomo dell’ideologia dominante. Il risultato di un simile cambio di prospettiva è duplice: da un lato si presta attenzione a fenomeni generalmente poco considerati (e l’attività all’interno di «Cinema Nuovo», ad esempio, di Vittorio Spinazzola o Libero Bizzarri e Libero Solaroli è indicativa di questa apertura), dall’altro la ricerca critica diventa sempre di più analisi ideale e ideologica, militanza estetica in quanto militanza marxista,tesa a promuovere la liberazione «dall’egemonia di un linguaggio patrimonio di una cultura non nostra, che vorremmo non fosse nostra, ma ancora così affascinante e “bella”» [Aristarco 1969, 266]. Un’altra importante eredità lasciata dal direttore di «Cinema Nuovo» è di ordine più strettamente storiografico.Tramite la valutazione di alcuni film e alcuni autori in termini canonici (su tutti Visconti), l’operato di Aristarco risulta decisivo nel definire la storia del realismo – e, retroattivamente, del neorealismo – come una storia che si concretizza in episodi ad alta densità e bassa diffusione: pochi film (capolavori) veramente realisti, la maggior parte della produzione manieristica, bozzettistica o diversiva. Una proposizione storiografica forte, il cui corollario è l’insorgenza episodica ma perenne di pellicole dotate del crisma del realismo, destinata infatti ad avere fortuna, anche in intellettuali lontani o semplicemente estranei al pensiero del fondatore di «Cinema Nuovo». La difformità della prassi critica di Aristarco rispetto agli sviluppi degli anni a seguire, quindi, non sta tanto nel ritenere il realismo un criterio valutativo ed estetico discriminante, ma nel continuare a proporlo per lungo tempo come perno di una battaglia culturale di più ampio respiro in una realtà molto diversa da quella del dopoguerra. 4.7 Monumenti e documenti: Pesaro ’74 La storia delle interpretazioni del neorealismo non è certo limitata al dibattito italiano [Bisoni 2003] e non si chiude con la metà degli anni Sessanta: possiamo piuttosto ritenere che in larga parte in quel momento si esauriscano o si cristallizzino i paradigmi che dall’anteguerra hanno formato, promosso e definito il fenomeno. Il neorealismo continua a essere oggetto privilegiato degli studi cinematografici e per certi versi il decisivo banco di prova delle principali svolte teoriche e metodologiche che si succedono.Al di fuori dei confini nazionali, soprattutto nella tradizione di studi anglosassone, il neorealismo rimane il punto di partenza di ricognizioni storiografiche e la pietra di paragone per interpretare il cinema italiano tout court [Marcus 1986; Bondanella 1999; Bisoni 2003]. Nel nostro paese, a partire dagli anni Settanta, settori disciplinari (storia del cinema, storia dell’arte, italianistica, comparatistica, storiografia), metodologie analitiche (soprattutto di derivazione strutturalista) o nuovi indirizzi di ricerca (attenti al dato paratestuale, tecnico o ricettivo) si sono confrontati con il cinema neorealista, in convegni, volumi collettanei, monografie.

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Il punto di partenza obbligato di questa breve ricognizione è il convegno svoltosi a Pesaro nel 1974, in occasione della X Mostra Internazionale del Nuovo Cinema. Il curatore Lino Miccichè, fin dalle prime parole del saggio che introduce gli atti, si pone il problema di «fare i conti con il neorealismo» [Miccichè 1975a, 7]. La strada per arrivare all’obiettivo è stretta tra le due posizioni antitetiche, ma nei fatti convergenti, della vecchia critica realista da un lato, appostata ad oltranza in difesa della propria tradizione e dei propri strumenti teorici, e della cinefilia iconoclasta dall’altro, impegnata in quegli anni a recuperare quelli che a Miccichè paiono episodi minori o minimi, i melodrammi di Matarazzo e i film comici di Mattoli, spesso contrapponendoli agli autori formatisi con o attraverso il neorealismo. Miccichè non propone semplicemente una via di mezzo tra gli estremi, ma una verifica totale e impietosa di buona parte degli assiomi che hanno fondato la vulgata neorealistica: la rottura con il cinema del Ventennio, l’idea di “rivoluzione mancata”, l’ipotesi di parentesi felice tra dittatura e restaurazione, l’unitarietà poetica del fenomeno. Parafrasando Elio Vittorini [Miccichè 1975a, 27]: Tanto vale dirlo, insomma. Quanti furono i neorealisti, tanti furono i neorealismi. Il che equivale, pressappoco, ad affermare che il neorealismo, essendo un’aggregazione di fenomeni, non fu un fenomeno, e che anzi, come fenomeno ben definito e bene individuabile, non fu affatto, poiché a livello dei risultati espressivi (cioè dei film) esso apparve – e soprattutto appare ora – scomponibile e ricomponibile quasi a piacimento.

Il «caso Matarazzo» Con questa espressione si indica un’operazione di revisione e rivalutazione dell’opera del regista Raffaello Matarazzo, autore conosciuto principalmente per una serie di melodrammi realizzati a cavallo tra anni Quaranta e Cinquanta, condotta da giovani critici cinefili (Adriano Aprà, Alberto Farassino, Enrico Ghezzi, Sergio Grmek Germani, Patrizia Pistagnesi, Tatti Sanguineti, Roberto Turigliatto, tra gli altri) che nei fatti rappresenta il momento di ingresso della cultura cinefila nel dibattito storiografico sul cinema italiano. La proiezione dei film superstiti – o ritenuti tali – di Matarazzo all’inizio del 1976 in una rassegna a Savona (cui seguì la pubblicazione di quaderni di documentazione e di monografie dedicate) fu l’occasione per compiere una serie di operazioni critiche innovative: tentare un approccio “filologico” a un oggetto di analisi negletto, risolvere l’ipoteca contenutista tipica della critica di sinistra, introdurre un discorso sulla messa in scena “puro” (perché legato a pratiche di genere finalmente recuperate), mettere in discussione il monumento neorealista e i suoi presupposti di politica culturale.

La revisione cinefila del neorealismo

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Una simile verifica necessita chiaramente di strumenti assai diversificati, come testimonia l’eterogeneità dei trenta saggi raccolti nel volume: dalla teoria allo studio di caso, dalle ricostruzioni del quadro produttivo alle analisi del contesto intellettuale, dalla polemica ideologica all’analisi intertestuale delle relazioni con il cinema degli anni Trenta. Non è questa la sede per entrare nel dettaglio delle posizioni e degli esiti dei singoli interventi di Pesaro ’74. È però necessario tentare di capire quali sono state le ricadute più importanti dell’iniziativa pesarese. L’avvio dello studio critico del fenomeno ha permesso innanzitutto di collocarne storicamente gli esiti per molti versi meno sistematici. Nel suo studio sulle teorie del cinema, Francesco Casetti riprende l’assunto circa la scarsa consistenza teorica della produzione legata al neorealismo, ponendo proprio il dibattito di quel periodo quale fondamento delle teorie che individuano il «cinema come riconquista del reale» [Casetti 1993, 25-32]. In questo senso la polarità Zavattini/Aristarco funge da agente modernizzatore della discussione nazionale e da sostanziale allineamento con le tendenze che Casetti identifica come peculiari delle teorie del cinema del dopoguerra: «accettazione del cinema in quanto fatto di cultura, specializzazione degli interventi e internazionalizzazione del dibattito» [Casetti 1993, 11]. Un altro grande merito del lavoro coordinato da Miccichè sta nell’aver rimesso in circolazione il tema del neorealismo non come monumento nazionale, ma come termine problematico posto all’intersezione di questioni di forte importanza per la cultura italiana. La “verifica” richiesta e avviata a Pesaro è così proseguita in ambiti in parte indipendenti e fin lì trascurati: si pensi alla questione dei complessi intrecci tra cinema e altri ambiti espressivi, nel dopoguerra, sotto il segno del neorealismo [Corti 1978; Falcetto 1992; Milanini 1980; Siti 1980;Tinazzi e Zancan 1983]. In questi campi e in quello cinematografico la critica del monumento neorealista ha portato a una perdita di centralità delle letture ideologiche del fenomeno, in favore di una rinnovata attenzione ai testi. I critici, gli storici e i teorici che si formano in questi anni non considerano più il neorealismo come un vessillo da difendere nella “battaglia delle idee”. Ciò non significa che cessi di colpo qualunque investimento ideologico in quel cinema: come notava Miccichè, la sua messa in questione non è priva di un risvolto “edipico” [Miccichè 1975b, 10-11]; e la “verifica” è anche occasione di presa di parola per una generazione i cui interessi e la cui prassi si collocano su posizioni alternative rispetto all’ortodossia del marxismo italiano.Tuttavia, dopo Pesaro sfumano le distinzioni tra un cinema (neo)realista da difendere e sostenere e altri modelli cinematografici, precedentemente considerati da condannare e rimuovere; soprattutto, risulta più difficile l’equivalenza tra il neorealismo e un’evoluzione socio-politica progressista. Infine, Pesaro ’74 ha senza dubbio funzionato da raccordo tra approcci sincronici e descrizione diacronica, tra gli esiti più fecondi della riflessione teorica e critica portata avanti negli anni Sessanta e Settanta e la «ten-

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Neorealismo e storiografia del cinema italiano

denza generale della ricerca italiana» [Farassino 1989b, 22] verso l’assemblaggio dei risultati ottenuti in una vera e propria storia del cinema (neorealistico, ma anche italiano tout court, come più volte rimarcato dallo stesso Miccichè). A tal proposito, è impossibile non menzionare le ricerche di Gian Piero Brunetta, dedicate in misura cospicua alle questioni del realismo e neorealismo nella storia del cinema italiano [Barbaro 1976; Brunetta 1969, 1996]. Brunetta proprio al cinema del dopoguerra ha riservato tanta parte della propria Storia del cinema italiano. Avviata significativamente proprio nel 1974 [Brunetta 1993, XIII], conclusa nel 1982 [Brunetta 1982], rivista e arricchita per quella che può essere considerata l’editio maior nel 1993, la Storia rappresenta il luogo in cui precipitano felicemente le istanze palesatesi nel corso degli anni Settanta. Nella ricostruzione di Brunetta, il neorealismo rimane un momento centrale della nostra storia cinematografica, ma anche un banco di prova privilegiato per metodologie e ipotesi operative. Il rigore della descrizione storiografica condotta su un’eccezionale pluralità di fonti filmiche e non-filmiche, l’assunzione sistematica di prospettive innovative (intertestualità, analisi della ricezione, storia del linguaggio cinematografico, storia economica, storia istituzionale), l’attenzione ai diversi strati produttivi in cui si articola il cinema italiano, l’equilibrio tra debito verso i “padri” e ricerca di nuovi terreni di indagine concorrono a costruire un’opera che ancora oggi è un riferimento imprescindibile per chiunque si avvicini alle vicende della cinematografia italiana, nonché uno spartiacque per gli studi cinematografici [O’Leary 2008]. 4.8 Torino ’89 e oltre. Le densità del neorealismo La riscoperta dei testi, la verifica dei canoni, la ricognizione dei legami intertestuali con il cinema del fascismo conducono una generazione di studiosi e appassionati cinefili a un atteggiamento nuovo verso il nostro cinema del dopoguerra. Attraverso una serie di tappe decisive [Aprà e Carabba 1976; «Cult Movie» 1981, II, 3; Farassino 1978; Redi 1979; Ungari 1978] il neorealismo perde l’aura monolitica e sacralizzata per divenire invece oggetto di amore spettatoriale, secondo i modi propri della cinefilia: ricerca degli episodi ritenuti secondari o deteriori, valorizzazione dell’apporto registico con criteri da politique des auteurs, attenzione per gli elementi marginali del testo, in una chiave che oggi definiremmo cultuale. La misura di tale cambio di prospettiva si ha quindici anni dopo Pesaro ’74, in un nuovo volume collettaneo. Il titolo, Neorealismo. Cinema italiano 1945-1949, costituisce la prima presa di posizione storiografica del curatore, Alberto Farassino, nonché il filo su cui si allineano molti degli interventi. In sintesi, per Farassino il neorealismo è una sorta di codice condiviso, una lingua cinematografica che si identifica per una breve stagione con la lingua nazionale. Attraverso il termine “neorealismo” si individua, sia pure con misure e densità differenti, tutto il cinema italiano 1945-1949 [Farassino 1989a, 29]:

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un universo diffuso che può concentrarsi in alcune opere e costellazioni a alta densità ma può anche presentarsi come fenomeno vagante, trasversale, ramificato in molto cinema dell’epoca. [...]. Si può dire che se sono pochi i film e gli autori che aderiscono con convinzione al progetto neorealista sono pochissimi quelli che non ne restano almeno occasionalmente, per lo spazio di un anno, di un film, di una sequenza, conquistati e influenzati.

Vale la pena concentrarsi sui film neorealisti a bassa densità, cosa che d’altra parte l’autore ha già fatto nei suoi lavori su De Santis e la Lux [Farassino 1978, 2000; Farassino e Sanguineti 1984]: non per il semplice gusto della spigolatura, ma per meglio comprendere come avviene l’incontro tra testi e contesto. Il risultato è duplice. Da un lato si supera quella «concezione purista e “operista” del neorealismo, e in genere del testo cinematografico» [Farassino 1989a, 27]; viene meno quindi la «vecchia identificazione tra neorealismo e cinema “alto”, d’arte e d’autore» e di conseguenza la tentazione a porre alla base di ogni discorso storico un giudizio estetico. D’altro lato, si recupera una serie di oggetti, di pratiche e di problemi propri al contesto e al paratesto. Saltano agli occhi l’attenzione per le figure di secondo piano – caratteristi e coprotagonisti –, per i generi, per i repertori non filmici (la ricognizione sulla pubblicistica cinematografica del dopoguerra), per le questioni produttive, oltre che l’uso di materiali fotografici in funzione comparativo-analitica. In questo senso il neorealismo può essere collocato quale prototipo, per quanto incerto, dei vari “nuovi cinema” nazionali, Nouvelle Vague in testa. Se il tempo trascorso ci permette di valutare l’importanza storica di Pesaro ’74 e Torino ’89, è assai più difficile circoscrivere i caratteri e l’impatto delle più recenti iniziative editoriali dedicate al tema: il settimo e, in buona parte, l’ottavo volume della monumentale Storia del cinema italiano promossa dalla Scuola Nazionale di Cinema, curati rispettivamente da Callisto Cosulich [2003a] e Luciano De Giusti [2003a]. E non solo per motivi di distanza cronologica. Nei lavori promossi e curati da Miccichè e Farassino, la volontà di “fare i conti con il neorealismo” era articolata in maniera volutamente polemica rispetto agli approcci interpretativi precedenti o concorrenti. In questi ultimi contributi, al contrario, coesistono molti paradigmi, applicati da studiosi di generazioni e indirizzi diversi. Alle analisi degli autori e delle opere canoniche, si affiancano quelle dedicate alle pratiche di genere e ai registi di secondo piano; i discorsi sull’istituzione critica o sui materiali paratestuali rientrano a pieno titolo nella ricostruzione dell’oggetto. Paiono, insomma, assimilate dialogicamente le lezioni di Pesaro e di Torino, e virate alla luce delle tendenze emerse negli studi cinematografici dell’ultimo decennio.

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Progetti, modelli e proclami La cultura cinematografica italiana nel corso degli anni Trenta dimostra considerevoli vivacità e attenzione al dibattito internazionale: non si tratta unicamente di uno scenario congelato nell’immobilità dalla progressiva trasformazione totalitaria dello stato autoritario instaurato dalla marcia su Roma del 1922, a differenza di quanto la visione del periodo neorealista ci ha tramandato. Il decennio concluso con lo scoppio della seconda guerra mondiale registra la diffusione nella discussione nazionale degli scritti di alcuni dei principali teorici cinematografici europei, la presenza di altri sul territorio italiano – per esempio, Rudolf Arnheim –, un’attività di coproduzione non limitata alle relazioni con la Germania del Terzo Reich, la costituzione di importanti istituzioni di formazione e diffusione della cultura cinematografica: su tutte, il Centro Sperimentale di Cinematografia, a tutt’oggi esistente. Lo scenario politico e culturale italiano tra la fine degli anni Trenta e il principio del decennio successivo assisteva a un complesso avvicendamento dei quadri della produzione culturale e all’emersione di un’opposizione interna al fascismo. Una nuova generazione di intellettuali, formatasi per intero durante il Ventennio e nelle strutture fasciste [Renzi 1954; Zagarrio 1975], era stata cresciuta all’insegna di un’ideologia improntata al mito della giovinezza e della rivoluzione fascista; nondimeno, questa stessa generazione si trovava a fare i conti con una prassi politica e sociale ben diversa dalla palingenesi sociopolitica, dall’armonioso organico e dal ruolo assegnato ai giovani: tutti fattori altrimenti esaltati sulla carta. In questa situazione si formò una fronda al regime sempre più esplicita, che condusse molti intellettuali dal fascismo di sinistra alla militanza nelle fila del Pci, prima clandestina e nel dopoguerra ufficiale [Serri 2005; Zangrandi 1962].Alcuni di questi intellettuali si formarono in un centro di eccellenza creato per volontà governativa e con funzione di modernizzazione culturale: il Centro Sperimentale. Non a caso, accanto a futuri cineasti come Michelangelo Antonioni, Giuseppe De Santis, Carlo Lizzani, Gianni Puccini, lì studiò anche un dirigente di spicco del Pci quale Pietro Ingrao,

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che prese parte all’elaborazione della sceneggiatura di Ossessione insieme a Mario Alicata [Miccichè 1990], nel dopoguerra responsabile culturale del partito. Buona parte di questi giovani partecipò alla redazione della rivista «Cinema», una delle punte più avanzate del dibattito cinematografico italiano, con ruoli spesso di spicco [Brunetta 1993; Napolitano 1962; Scotto D’ardino 1999]. Il mercato cinematografico italiano tra la fine degli anni Trenta e il principio dei Quaranta subì significative trasformazioni, per effetto di alcune scelte politiche di merito, e del conflitto mondiale in atto.Tra le prime, è necessario segnalare due importanti iniziative di legge tra il 1938 e il 1939: la cosiddetta legge Alfieri, capace di garantire un sistema di premi cospicui in base agli incassi lordi dei film nazionali prodotti, e l’istituzione del monopolio statale sulla distribuzione dei film esteri, dinanzi al quale le principali imprese hollywoodiane si ritirarono dal mercato italiano. Entrambi i provvedimenti stimolarono consistentemente la produzione cinematografica nazionale, sottraendola nei fatti a una competizione di mercato; per effetto di questo incremento, e dell’interruzione dei rapporti commerciali con i paesi belligeranti successivamente all’entrata in guerra dell’Italia, si originarono spazi inediti per una nuova generazione di registi. La questione a lungo dibattuta delle origini del neorealismo a nostro avviso non va tanto posta in termini ideali e teleologici – i film in opposizione sul piano linguistico, tematico e ideologico alla produzione maggioritaria, da I bambini ci guardano a Quattro passi tra le nuvole, capaci di anticipare argomenti e soluzioni stilistiche poi dominanti nel dopoguerra; la loro collocazione effettiva è infatti problematica, come argomentato nel quarto capitolo. Pare più utile riflettere sulle possibilità operative nella situazione contingente del mercato nazionale [Quaglietti 1975] e sugli spazi conseguenti per tipologie produttive e imprese estetiche innovative. In questo quadro complessivo, una delle caratteristiche peculiari e comuni ai testi qui antologizzati è l’attitudine polemica e l’espressione di un’insoddisfazione nei confronti della produzione nazionale: il cinema italiano all’alba della seconda guerra mondiale non è in grado di riflettere le ambizioni della nuova generazione intellettuale. Per questa ragione, molti di questi scritti hanno una duplice preoccupazione: da un lato, tracciare le linee di una genealogia capace di indicare gli antenati italiani e stranieri nella storia del cinema mondiale; dall’altro, auspicare un cinema futuro, disegnato in buona parte sui propri progetti. Massimo comune denominatore del cruccio di questi scritti è il realismo: strumento per rispondere più propriamente alle necessità di aggiornamento di una cultura cinematografica e vessillo ideologico da agitare dinanzi ai censori politici. Quanto si pretende e propone è sicuramente un cinema capace di rispondere ai bisogni e alle qualità di una società nazionale, come ipotizzato nel primo capitolo; nondimeno, esso deve fondarsi su una solida base industriale, come sottolineato da Carlo Lizzani.

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Progetti, modelli e proclami

Un contributo fondamentale alla definizione di parentele e ascendenze su questo cinema futuro venne fornito da Umberto Barbaro, nel suo magistero al Centro Sperimentale di Cinematografia [Brunetta 1969; Barbaro 1976]: i rimandi al cinema sovietico, alla produzione della Germania di Weimar, al cinema sociale di King Vidor tra anni Venti e Trenta contenuti nei testi di Pietrangeli o Alicata-De Santis, così come la rivelazione di un realismo originario e mitico nel cinema napoletano di Martoglio [Barbaro 1939] discendono dall’insegnamento di Barbaro e acclamano un pantheon qualificato di cinema d’arte e realistico, in cui includere anche la figura prossima e protettrice di un fascista di sinistra come Alessandro Blasetti [Mida Puccini 1941; Mida Puccini e Montesanti 1941]. Allo stesso tempo, l’elezione del cinema francese di Jean Renoir e Marcel Carné a ideale termine di confronto ha una funzione esplicitamente polemica nei confronti dei modelli rappresentativi diffusi e delle interdizioni del regime, e designa un ideale alfiere di quella alternativa nel contesto nazionale: Luchino Visconti, già aiuto-regista del cineasta francese. Non a caso, Pietrangeli ribadisce il legame diretto tra Renoir e il regista di Ossessione: relazione non solo professionale, ma anche elettiva. Ossessione ebbe la funzione di film-manifesto generazionale non solo perché alla sua elaborazione partecipò buona parte della fronda intellettuale maturata sulle pagine di «Cinema» (Alicata, De Santis, Pietrangeli, Puccini...), e nemmeno per la dichiarata relazione con delle tipologie di messa in scena e racconto alternative a quelle vigenti in Italia (la letteratura e la fotografia sociale americane, il cinema francese); piuttosto, è la dimensione ostensiva, dichiarata e apertamente conflittuale di queste opzioni a essere palese e dare tale valenza all’intera operazione. Cadaveri di Luchino Visconti, uno scritto che pare quasi uscito dalla penna di Alberto Savinio per il gusto grottesco e surreale, esprime sdegno per le condizioni della produzione cinematografica italiana: con essa è impossibile riconciliarsi. Il cinema progettato e auspicato sulle pagine di «Cinema» e nelle iniziative editoriali e culturali affini doveva differire dalla situazione vigente per la maggiore qualità della proposta. Per questa stessa ragione, il disegno culturale in più occasioni delineava una parentela tra le realizzazioni e altre forme espressive: l’arte figurativa e, in maniera particolare, la letteratura. Si intendeva svincolare la produzione italiana dalla sudditanza alla letteratura di consumo e alla drammaturgia di cassetta, da una parte; dall’altra, si desiderava accentuare una propensione narrativa del cinema, individuando nel modello di Giovanni Verga una figura di romanziere a pieno titolo, la cui narrativa presentava una completezza nella rappresentazione diegetica ineguagliata in Italia – come scrivevano Alicata e De Santis, «Verga non ha solamente creato una grande opera di poesia, ma ha creato un paese, un tempo, una società». Il ruolo di Mario Alicata, allievo dello studioso Natalino Sapegno come l’italianista Carlo Muscetta, fu importante nella definizione del ruolo della letteratura per il cinema: termine alto di paragone per la capacità di costru-

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zione di ritratti psicologici e universi narrativi verosimili. Un confronto di respiro europeo, con il richiamo alla stagione del realismo ottocentesco, e di altrettanto certa intenzione polemica con la prosa d’arte maggiormente diffusa nel contesto italiano dell’epoca. In quest’ottica, la letteratura ha un ruolo modellizzante e di rinnovamento del cinema italiano, e allo stesso tempo una funzione normativa già preludio all’uso politico dell’estetica negli anni Cinquanta. In questo dibattito, particolare rilievo assume la nozione di paesaggio, come suggerito nel primo capitolo. Il concetto elaborato e impiegato da De Santis e Antonioni è spendibile in più maniere: il paesaggio consente il rimando a una tradizione nazionale nelle arti figurative altamente formalizzata, e in grado di assicurare al cinema più di una patente di nobiltà; esso inoltre permette il raccordo con una serie di alti esempi nella storia del cinema mondiale, da Murnau a Ejzensˇtejn; dà l’agio di porsi varie domande sulla funzione comunicativa del cinema, grazie a una significazione diretta e non mediata dal linguaggio verbale. Soprattutto, il paesaggio si colloca a due crocevia decisivi per la discussione e gli esiti successivi nel cinema italiano. In primo luogo, lo spazio dell’azione costituisce un ambiente diegetico significante preesistente all’affermazione della finzione; pertanto riveste uno statuto ambiguo, tra narrazione e documentario – un’opzione volutamente irrisolta nella riflessione di De Santis e soprattutto in Antonioni, i cui esordi in epoca neorealistica notoriamente furono caratterizzati da una relazione peculiare e innovativa con il documentario, da Gente del Po (1943-1947) a Sette canne un vestito (1949) [Bernardi 2002; Bertozzi 2008; Cuccu 1973]. In secondo luogo, il paesaggio consente di valutare e pianificare una relazione transitiva tra spazio e personaggio, tra azione principale e sfondo, con due conseguenze principali: innanzitutto, come asserito da De Santis, questo rapporto deve essere coerente, ovvero la collocazione di una data figura umana in un luogo rispondere a necessità di verosimiglianza [De Santis 1941b]; inoltre, questa correlazione di personaggio e ambiente, azione e luogo mette in atto una progettazione spettacolare e plastica dello spazio drammatico di grande interesse estetico, e in dialogo con la storia del cinema precedente e coeva, come dimostreranno molte realizzazioni, da Ossessione a Riso amaro. Il paesaggio fu la misura di un progetto realistico, disponibile a rivelare il volto altrimenti trascurato di un paese, in cui collocare figure umane parimenti veridiche. Intorno a questo accento umanistico ruota la dichiarazione di intenti di Visconti, Cinema antropomorfico, come i testi di De Santis e di Pietrangeli. Un proposito non privo di accenti esplicitamente sociali e velatamente sovversivi nei confronti dello stato delle cose. I richiami all’equivalenza tra le attività degli uomini in Visconti, alla dura esistenza quotidiana in Pietrangeli, l’auspicio di «un’arte rivoluzionaria ispirata ad una umanità che soffre e spera» nel contributo di Alicata e De Santis, o a «portare la nostra macchina da presa nelle strade, nei porti, nelle

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Michelangelo Antonioni

fabbriche del nostro paese [...] seguendo il passo lento e stanco dell’operaio che torna alla sua casa, narrando l’essenziale poesia d’una vita nuova e pura» [De Santis e Alicata 1941b, 22], propongono la saldatura tra umanesimo, realismo e propositi di trasformazione sociale presto attualizzata in conseguenza degli eventi bellici, e dello sforzo di una minoranza attiva.

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Michelangelo Antonioni Per un film sul fiume Po Non è affermazione patetica dire che le genti padane sono innamorate del Po. Effettivamente un alone di simpatia, potremmo dire d’amore, circonda questo fiume che, in un certo senso, è come il despota della sua vallata. La gente padana sente il Po. In che cosa si concreti questo sentire non sappiamo; sappiamo che sta diffuso nell’aria e che vien subito come sottile malia. È, del resto, fenomeno comune a molti luoghi solcati da grandi corsi d’acqua. Pare che il destino di quelle terre si raccolga nel fiume. La vita vi acquista particolari modi e particolari orientamenti; sorge una nuova economia circoscritta, ché dal fiume tutti traggono ogni possibile profitto; i ragazzi lo eleggono a giuoco preferito e proibito. Si stabilisce, in altre parole, una intimità tutta speciale alimentata da diversi fattori, tra i quali la comunanza dei problemi e la stessa lotta delle popolazioni contro le acque che quasi ogni anno, sul cominciare dell’estate, o dell’autunno, si accaniscono in alluvioni talvolta violentissime e sempre tragicamente superbe. Ecco dunque un motivo fondamentale del nostro ipotetico film: la piena. Fondamentale per due ragioni: per lo spettacolo in sé e perché ci rivela la sostanza di cui è fatto quell’amore cui accennavamo poc’anzi. È singolare questo attaccamento, questa fedeltà che resiste ai collaudi delle piene. Perché se queste, oggi, lasciano gli abitanti discretamente tranquilli, per la saldezza degli argini nuovi e dei ripari facilmente apprestabili, non è a dire che un tempo passassero senza lasciar traccia profonda. Non di rado portavan seco vittime umane, provocando in ogni caso visioni penose di campagne e borghi impaludati, di cumuli di masserizie sulle strade, di acque al livello delle finestre, di ciuffi e canne e alberi divelti affioranti dai gorghi orlati di bava. Ma i figli del Po, malgrado tutto, dal Po non hanno saputo staccarsi. Hanno lottato, sofferto, ancora lottano e soffrono, ma possono evidentemente far rientrare la sofferenza nell’ordine naturale delle cose, rubandole anzi un incentivo alla lotta. Altro punto interessante e significativo è dato da un particolare riflesso della civiltà sulle stesse genti del fiume. Il quale, aveva, in altri tempi, aspetto ben più romantico e pacato.Vegetazione arruffata, capanne di pescatori, molini natanti (ancor oggi ne è rimasto qualche esemplare), traghetti rudimentali, ponti di barche: il tutto sommerso in un’aura smemorata ed estatica, in un senso di forza irresistibile che sembrava evaporare dalla

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gran massa d’acqua e avvilire ogni cosa. La popolazione – gente solida, dai gesti lenti e pesanti – conosceva i lunghi riposi sulle rive e i vagabondaggi per i boschi che le rivestono, gli specchi pescosi e i piccoli seni nascosti sotto i salici chini a lambire le acque, e lasciava che in questa lentezza scorresse la propria esistenza, tuttavia occupata nei trasporti di merci e di persone, nei molini e, sopra tutto, nella pesca. Ma nemmeno per le cose gli anni passano invano. Venne anche per il Po il tempo del risveglio. E allora furono ponti in ferro su cui lunghi treni sferragliano giorno e notte, furono edifici a sei piani chiazzati da enormi finestre vomitanti polvere e rumore, furono battelli a vapore, darsene, stabilimenti, ciminiere fumose, perfino altri canali dagli argini in cemento; fu insomma tutto un mondo moderno, meccanico, industrializzato che venne a mettere a soqquadro l’armonia di quello antico. Eppure, in mezzo a questo sciuparsi del loro mondo, le popolazioni non hanno sentito rimpianti. Lo avrebbero voluto, forse, ché la loro natura scontrosa e contemplativa non si adattava ancora al nuovo stato di cose, ma non ci son riuscite. La evoluzione, a un certo punto, non soltanto non le disturbava, ma in certo modo le accontentava. Cominciavano a considerare il fiume nel suo valore funzionale; sentivano che si era valorizzato e ne erano orgogliose; capivano che era diventato prezioso e la loro ambizione era soddisfatta. Tutto ciò può sembrare ma non è letteratura. È, o vuol essere, cinematografo; resta a vedere come può tradursi in atto. Prima di tutto s’impone una domanda: documentario o film a soggetto? La prima forma è senza dubbio allettante. Materiale ricco, suggestivo, che va dai larghissimi tratti di fiume, vasti come laghi e talvolta interrotto da isolotti, alle stretture dove il Po, scortato com’è da selvagge piante, assume aspetti di paesaggio africano; dalle casupole male andate addossate agli argini, con l’eterna pozzanghera nel cortiletto davanti all’uscio, alle villette novecento con lo chalet a fior d’acqua, che si anima certe sere di lievi musiche sincopate; dagli argini a picco alle graziose spiagge pretenziosamente mondane; dai molini natanti alle imponenti fabbriche; dalle barche ai motoscafi, agl’idroscivolanti della Pavia-Venezia; e via dicendo. Materiale abbondante ma pericoloso, perché si presta a facili inclinazioni retoriche. Per cui, se ci alletta il ricordo di un magnifico documentario americano sul Mississippi: The River, ci lascia perplessi la trita formula del com’era e com’è, del prima e dopo la cura. Né ci tranquillizzerebbe l’intrusione di un esile filo narrativo. Diffidiamo degli ibridismi in genere, e di quelli dello schermo in particolare, dove non sarà mai troppo celebrata la forma che detta indirizzi precisi e non consente incertezze. O da una parte o dall’altra: l’essenziale è sapere esattamente quello che si vuole. Abbastanza recente è l’esempio offertoci da Flaherty, che pure è autore degno della massima stima. Nella sua Danza degli elefanti, infatti, a causa del dissidio fra documento e racconto, il motivo lirico del lavoro, quella specie di religione panica della giungla, trova la sua più genuina espressione nelle

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Giuseppe De Santis

sequenze documentarie, dov’è solo il tormento della scoperta poetica, altrove disturbata dalla narrazione. Dovremo dunque accogliere l’idea di un film a soggetto? Detto tra noi, abbiamo molta simpatia per questo documento senza etichetta, ma non bisogna precipitare. Anche qui, naturalmente, non mancano gli ostacoli, primo fra tutti quello d’ideare una trama che risponda appieno ai motivi più sopra ventilati. Già gli americani, ai quali nessun tema sfugge, ci si son provati. Due loro pellicole – vecchissima l’una: Il fiume, di qualche anno fa l’altra: La canzone del fiume – ebbero buon successo, specie la prima, dal punto di vista contenutistico la migliore. Però ambedue erano molto lontane dal nostro pensiero e dalla nostra sensibilità. Ma non vogliamo, qui, dar consigli a chicchessia e tanto meno suggerire trame. Ci basti dire che vorremmo una pellicola avente a protagonista il Po e nella quale non il folclore, cioè un’accozzaglia d’elementi esteriori e decorativi, destasse l’interesse, ma lo spirito, cioè un insieme di elementi morali e psicologici; nella quale non le esigenze commerciali prevalessero, bensì l’intelligenza. Michelangelo Antonioni, Per un film sul fiume Po, «Cinema», IV, 68, 25 aprile 1939, 254-257

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Giuseppe De Santis Per un paesaggio italiano L’importanza di un “paesaggio” e la scelta di esso come elemento fondamentale dentro cui i personaggi dovrebbero vivere recando, quasi, i segni dei suoi riflessi, così come intesero i nostri grandi pittori quando vollero sottolineare maggiormente ora il sentimento di un ritratto, ora la drammaticità di una composizione, sono aspetti di un problema quasi sempre risolti nel cinema degli altri paesi, mai nel nostro. Se si pensa che tutto un gruppo di opere cinematografiche, fra le più apprezzate, appartiene ad un genere dove il paesaggio sostiene la parte più importante – Ombre bianche, Tabù, Lampi sul Messico, Tempeste sull’Asia – vien fatto di sostenere che il cinema ha un bisogno sempre maggiore di servirsi di un simile elemento che certamente risulta come il più immediato e il più comunicativo agli occhi dello spettatore, il quale, anzitutto, vuole “vedere”. Esulando dal carattere speciale che i film sopracitati rispecchiano, è indubbio che il fascino maggiore da essi derivante, risiede soprattutto in quelle atmosfere, impossibili a crearsi artificialmente, alle quali tutto il nostro intimo partecipa proprio in virtù della straordinaria e meravigliosa natura che, insieme all’azione dei personaggi, va svolgendosi sotto i nostri occhi. Ma come altrimenti sarebbe possibile intendere e interpretare l’uomo, se lo si isola dagli elementi nei quali ogni giorno egli vive, con i quali ogni giorno egli comunica, siano essi ora le mura della sua casa – che dovran-

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no recare i segni delle sue mani, del suo gusto, della sua natura in maniera inequivocabile –; ora le strade della città dove egli si incontra con gli altri uomini – e tale incontrarsi non dovrà essere occasionale ma sottolineato dai caratteri speciali che un simile atto porta con sé (indimenticabili sono, a questo proposito, nel nostro ricordo La strada di Grüne [sic!], La folla di Vidor); ora il suo inoltrarsi timoroso, il suo confondersi nella natura che lo circonda e che ha tanta forza su di lui da foggiarlo a sua immagine e somiglianza. Non diciamo, certo, cose nuove, se affermiamo che il paesaggio nel quale ognuno di noi è nato e vissuto ha contribuito a renderci diversi l’uno dall’altro. E in questo è il segno della Divinità che purtroppo siamo abituati a veder profanata a tal punto che un contadino della Sicilia può divenire simile a quello delle Alpi Giulie. Dovrebbe essere propria del cinema, poiché più di ogni altra quest’arte parla nello stesso momento a tutti i nostri sensi, la preoccupazione di una autenticità, sia pure fantastica, dei gesti, del clima, in una parola dei fattori che debbono servire ad esprimere tutto il mondo nel quale gli uomini vivono. Questa tendenza, che potremmo far risalire al primo cinema americano dei “western”, sebbene sorta in maniera inconsapevole o troppo rispondente a ragioni di ordine spettacolare, fu, più tardi, portata dai russi ad un gusto spesso eccessivamente estetizzante. L’equilibrio maggiore fra l’una e l’altra strada, ci sembra sia stato raggiunto dai francesi in questi ultimi anni. Jean Renoir, figlio di quell’Auguste Renoir pittore, ha fissato in alcuni suoi film – Grande illusion, Bête humaine – delle sequenze che resteranno esempi classici, in questo senso, nella storia del cinema. Difficilmente potrà trovarsi una ambientazione dove ogni cosa, come qui, concorra a determinare il dramma dei protagonisti: ad esso partecipano imparzialmente gli elementi figurativi e quelli dettati dai moti interiori espressi dagli attori. [...] Si è voluto dianzi, a proposito di Renoir, citare suo padre, senza peraltro affermare che l’esser figlio di un grande pittore significhi ereditare da lui lo stesso genio. Tuttavia una educazione pittorica ha indubbiamente giovato al regista per aprirgli gli occhi su di un mondo essenziale, a tanti altri sconosciuto. Si sono, invece, mai accorti i nostri registi quanto importante sia per il loro mestiere un attento e accurato studio della pittura? O forse mancarono da noi pittori più grandi di Renoir? Oppure manca l’Italia di un “paesaggio”? Non è questa la terra che tutti ci invidiano per le sue bellezze? Ma che fanno i nostri registi, o chi per essi, per rivelarla ancora meglio? Non basta compiacersi di possedere una cosa bella, se non si dimostra di meritarla e di saperla amare. Le poche volte che si è potuto parlare di cinema veramente nostro è stato a proposito di Acciaio, 1860, Vecchia guardia, che, sebbene film non perfetti, avrebbero dovuto costituire il primo nucleo di un autentico nostro spirito. Ma poi perché non si è continuato? Di chi la colpa?

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Luchino Visconti

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A ridarci la speranza giunge, ora, per ultimo, questo Piccolo mondo antico di Mario Soldati, che a tali considerazioni ci ha indotti. Per la prima volta nel nostro cinema abbiamo visto un paesaggio, non più rarefatto, pacchiano-pittoresco, ma finalmente rispondente alla umanità dei personaggi sia come elemento emotivo che come indicatore dei loro sentimenti. [...] Vorremmo infine, che da noi cadesse l’abitudine di considerare il “documentario” come una cosa staccata dal cinema. È solo dalla fusione di questi due elementi, che in un paese come il nostro, si potrà trovare la formula di un autentico cinema italiano. Un’ottima prova è stata Uomini sul fondo. Il paesaggio non avrà alcuna importanza se non ci sarà l’uomo, e viceversa. Da Giuseppe De Santis, Per un paesaggio italiano, «Cinema»,VI, 116, 25 aprile 1941, 292-293

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Luchino Visconti Cadaveri Andando per certe Società cinematografiche capita che s’intoppi troppo sovente in cadaveri che si ostinano a credersi vivi. Sarà toccato ad altri, come a me, di incontrarne, e non li avrà identificati lì per lì: perché, quando sono in circolazione, vanno vestiti come me e come voi. Ma quel processo di decomposizione, che è in loro nascostamente in atto, diffonde tuttavia un lezzo di guasto che non sfuggirà più a un naso che si sia appena un po’ sperimentato. Nei casamenti modernissimi dove si insediano ora certe Società, gli uffici guardan tutti su corridoi lunghi, con tanti usci laterali, e sul battente d’ognuno tante targhette uguali, col nome dell’occupante: un colombario in camposanto. M’è accaduto di trovarmi, aprendo uno di questi usci a caso, in presenza di scenette memorabili: un vecchietto saltabeccante per la stanza, smania in preda a una furia ispiratrice sotto lo sguardo di un coetaneo, con bargigli d’antico tacchino, che, immoto dietro l’ampio scrittoio di legno chiaro, ne segue le mosse sgranocchiando pasticche di Urotropina, vigilante come il serpente che poi si papperà il coniglio. Personaggi così si danno appuntamenti nelle tarde ore pomeridiane, al termine di una digestione penosa, a inventare libretti di melodramma che già esistono a loro insaputa. Se vi si è mai presentata l’occasione di dover conferire con qualcuno di codesti signori e di dover esporre, con un filo di ripugnanza, i vostri sogni, le vostre illusioni, la vostra fede, vi avranno contemplato con l’occhio assente del sonnambulo, e in fondo alla loro orbita opaca vi sarà parso affiorasse il freddo della morte.Avviene di loro, di fronte ai vostri argomenti, come di certo personaggio di Poe, che, già morto da un pezzo, ma conservato intatto nel corpo

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da una possente volontà magnetica, questa venendogli d’improvviso a mancare, si corrompe e discioglie in men che non si dica. Vivono, già morti, ignari del progredire del tempo, del riflesso di cose tutte estinte, di quel loro mondo trascolorato, dove si circolava impuniti sui pavimenti di carta e gesso, dove i fondalini vacillavano al respirare d’un uscio improvvisamente aperto, dove in perpetuo fiorivano rosai in cartavelina, dove stile ed epoche si fondevano e confondevano magnanimi, dove, per intenderci, Cleopatre liberty in toupé [sic!] vampireggiavano (mettendoli alla frusta) ombrosi pezzi di Marcantonii in busto di balene. Rimpiangono teatrini di posa a tettoia di vetro come le serre dei fiori, gabinetti fotografici alla periferia.Talvolta li sorprenderete di notte, tra la mezzanotte e l’una, quando, furtivi, e con l’innocenza del convittore che ha tagliato la corda dopo il silenzio, corrono a ritrovare l’amichetta, giovane, che li lasci un po’ piangere nel suo gilè. S’infilano allora su per certe scalette che san di fenolo. Nel sonno, poi, patiscono terribili incubi: sul far del giorno, svegliati di soprassalto dal fegato, che reclama il suo Schoum, nella incerta luce della stanza non san più se son vivi ora, o se han vissuto. Non vanno mai al cinematografo. Che i giovani d’oggi, che son tanti e che vengon su nutrendosi, per ora, solo di santa speranza, tuttavia impazienti per tante cose che hanno da dire, si debbano trovare come bastoni tra le ruote, codesti troppo numerosi cadaveri, ostili e diffidenti, è cosa ben triste. Il loro tempo è finito e loro son rimasti: e non si sa perché. Consentano dunque d’essere messi in vetrina, e c’inchineremo tutti quanti siamo. Ma come non deplorare che ancora oggi a troppi di costoro sia consentito di tenere in mano i cordoni della borsa e di fare la pioggia e il bel tempo? Verrà mai quel giorno sospirato, in cui alle giovani forze del nostro cinema sarà concesso di dire chiaro e tondo: I cadaveri al cimitero? Vedrete come tutti accorreremo, quel giorno, a sollecitare qualche imprudente ritardatario, e ad aiutarlo, con tutti i riguardi (che non s’abbia a far male) a introdurre anche l’altro piede nella fossa. Luchino Visconti, Cadaveri, «Cinema»,VI, 119, 10 giugno 1941, 386

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Giuseppe De Santis e Mario Alicata Verità e poesia: Verga e il cinema italiano Quando ebbe risolti alcuni dei suoi problemi tecnici, il cinema, da documentario divenuto racconto, comprese che alla letteratura era legato il suo destino. Nonostante le sciocche pretese dei cineasti puri, da quel giorno strettissimi rapporti continuarono a correre tra cinema e letteratura: fino a collocare spontaneamente la storia del cinema come un insostituibile capitolo nella storia del gusto letterario e artistico del Novecento. Troppo noti sono gli episodi più alti di questa coesistenza per insistervi qui diffusamente: ma, come in America le carrellate dietro le furiose cavalcate

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Giuseppe De Santis e Mario Alicata

di William Hart, Hoot Gibson,Tom Mix, dipendono dalla tipica e popolare tradizione dei racconti western di O. Henry e di Bret Harte, in Europa Wiene (l’ossessionato poeta del Das Gabinet des Dr. Caligari [sic!]) è il contemporaneo degli scrittori espressionisti tedeschi e di Kokotscha [sic!] e di Grosz, René Clair crea Entr’acte nello stesso anno in cui Andrè [sic!] Breton pubblica il Manifesto dei Surrealisti, e la fitta schiera dei simbolisti del cinema da Man Ray (L’étoile de mer) a Machaty [sic!], sconta la persistente esperienza simbolista nella quale ancora si dibatte tanta poesia contemporanea. Ai cineasti puri a questo punto è forse opportuno ricordare che proprio Wiene, Clair, Man Ray e altri letterati del cinema, hanno impostato e risolto molti problemi di quella tecnica, che comincia oramai ad assumere per essi il fantomatico aspetto di una ermetica torre d’avorio.Tuttavia è bene chiarire subito che proprio per la sua natura rigorosamente narrativa fu nella tradizione realistica che il cinema trovò la strada migliore: visto che il realismo, non come passivo ossequio ad una statica verità obbiettiva, ma come forza creatrice, nella fantasia, d’una storia di eventi e di persone, è la vera ed eterna misura d’ogni accezione narrativa. Resta dunque evidente che quando il cinema comincia a costruire i suoi primi personaggi e a veder risolversi l’anima degli uomini nei suoi concreti rapporti con un ambiente,esso subisce necessariamente il fascino del realismo europeo dell’Ottocento che da Flaubert a Cecov [sic!], da Maupassant a Verga, da Dickens a Ibsen, sembrava consegnare una perfetta sintassi psicologica e sentimentale e insieme una poetica immagine della società ad essi contemporanea. Nascono così i grandi drammi realistici del cinema; nasce, accanto alla farsa metafisica di Buster Keaton, l’idillio realistico di René Clair; nasce in Germania, con la collaborazione di una schiera di attori dalla maschera violenta e cruda, Variété di Dupont, che conclude il travaglio appassionato e implacabile dei clown, fissando definitivamente nel blocco compatto della sua poesia i termini di uno schietto linguaggio narrativo. [...] Fu il cinema americano a continuare la esperienza realistica del cinema europeo: fu l’America di Sh.Anderson e di Faulkner, che intanto riprendevano a sviluppare le grandi tradizioni del realismo narrativo e arrivavano a realizzare un modello di racconto che di lì a pochi anni doveva esercitare il suo fascino perfino sulla classica e scaltrita Europa. Il realismo del cinema americano assunse le tinte nette e crude che nella società agitata, sconvolta e ancora in crisi di crescenza suggeriva: inoltre erano gli anni solenni e tragici della crisi mondiale, e accanto alle violenze dei negri ubriachi di Sanctuary cominciava ad udirsi per le vie il sordo picchiettio delle mitragliatrici dei gangsters e cominciavano a sfilare i muti e malinconici cortei dei disoccupati. Vidor componeva in un ritmo affrettato La folla, Alleluja!, Nostro pane quotidiano. [...] Nella poesia Vidor ritrovava la propria fiducia nella vita: ma accanto alla speranza che si innalza sempre come un inno dall’opera sua, il realismo

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americano scrive pagine più sorde e tristi, ma sempre dense e violente, nei migliori degli innumerevoli film ispirati all’esistenza senza speranza dei gangsters; qui tocca a Mamoulian con le Vie della città di offrirci il capolavoro. Tuttavia, se in questa sommaria storia del realismo cinematografico, ogni paese è rappresentato in un particolare momento con una particolare e spesso isolata corrente della sua produzione, è la Francia che in questi ultimi anni ci ha offerto la tipica esistenza di una scuola, di una maniera comune d’intendere e risolvere il racconto cinematografico. Non c’è davvero da meravigliarsi che proprio in Francia il cinema abbia ad un certo momento cercato nel verismo la salvezza: dopo anni di una produzione sbiadita e anonima, fu rileggendo Maupassant e Zola che Duvivier, Carné e Renoir, ridettero al cinema francese un clima, una retorica ed uno stile. È chiaro che non sempre a questa poetica verista corrispose un’autentica poesia: cosicché, a parte la discesa di Pepé ad Algeri nel finale del Bandito della Casbah e la maupassantiana scampagnata domenicale della Bella brigata, siamo disposti a sacrificare senza rimpianto Duvivier e i suoi satelliti. Ma è altresì chiaro che deve giudicarsi un facile luogo comune quello di attribuire alla morbosa violenza di Carné e specialmente di Renoir il valore deterministico di un segno indicatore dello sfacelo e della corruzione della società francese negli anni precedenti la più grande sconfitta militare della sua storia. [...] Fiducia nella verità e nella poesia della verità, fiducia nell’uomo e nella poesia dell’uomo, è dunque ciò che chiediamo al cinema italiano. È una affermazione semplice, un programma modesto: ma a questa semplice modestia sempre più ci sentiamo attaccati, ogni volta che dando uno sguardo alla storia del nostro cinema, vediamo racchiusa la sua parabola fra il dannunzianismo retorico e archeologico di Cabiria e le evasioni negli insistenti paradisi piccolo-borghesi dei tabarins di Via Nazionale, dove si sfogano le casalinghe audacie delle nostre commedie sentimentali. Ad essa sempre più ci sentiamo attaccati quando vediamo smarrita e dimenticata, l’unica, autentica e nobile tradizione del nostro cinema, quella legata alla maschera tormentata e ardente di Emilio Ghione, alla passione sincera di Sperduti nel buio di Martoglio; quando vediamo l’intelligenza di Camerini lasciare il triste e semplice vigore di Rotaie per lo stile correttissimo ma certo più facile e banale di Una romantica avventura; quando vediamo Mario Soldati, che pure ha scritto alcuni fra i più fantasiosi liberi e forti racconti italiani d’oggi, abbandonare le sue osterie e i suoi porti, i suoi interni oppressi e senza luce, i suoi paesaggi coloriti e puri, per i risotti con i tartufi di Antonio Fogazzaro. Infatti, anche nella scelta di una tradizione letteraria il cinema italiano rivela curiose predilezioni: Antonio Fogazzaro e Girolamo Rovetta, Lucio D’Ambra e Flavia Steno, Nino Oxilia e Luciana Peverelli... Questa scelta sembra quasi confermare tacitamente la sciocca leggenda che la letteratura italiana manchi per divino decreto di una tradizione narrativa. Sarebbe un buon lavoro comincia-

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Antonio Pietrangeli

re ad indicare al nostro cinematografo gli ingressi principali della nostra narrativa, al posto dei soliti portoncini di servizio. (Che sarebbe anche il modo di evitare d’imboccare troppo in fretta quelle porte sante che s’hanno da aprire solamente ad ogni Giubileo: visto che dai Promessi sposi alla Divina Commedia ci corre troppo poco). I lettori più intelligenti avranno a questo punto capito, che il nostro discorso, sbocca necessariamente, come primo suggerimento, ad un nome: quello di Giovanni Verga. Giovanni Verga non ha solamente creato una grande opera di poesia, ma ha creato un paese, un tempo, una società: a noi che crediamo nell’arte specialmente in quanto creatrice di verità, la Sicilia omerica e leggendaria dei Malavoglia, di Mastro don Gesualdo, dell’Amante di Gramigna, di Jeli il pastore, ci sembra nello stesso tempo offrire l’ambiente più solido e umano, più miracolosamente vergine e vero, che possa ispirare la fantasia di un cinema il quale cerchi cose e fatti in un tempo e in uno spazio di realtà, per riscattarsi dai facili suggerimenti di un mortificato gusto borghese. A chi va a caccia di falsità, di retorica, di medaglie di pessimo conio, dietro gli esempi di altre produzioni cinematografiche cui la perfezione tecnica non salva dalla miseria umana e dalla povertà di ragioni alle quali esse fanno appello, i racconti di Giovanni Verga ci sembrano indicare le uniche esigenze storicamente valide: quelle di un’arte rivoluzionaria ispirata ad una umanità che soffre e spera. Da Giuseppe De Santis e Mario Alicata, Verità e poesia:Verga e il cinema italiano, «Cinema»,VI, 127, 10 ottobre 1941, 216-217

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Antonio Pietrangeli Analisi spettrale del film realista In arte non c’è rinnovamento se non c’è realismo, si potrebbe dire, parodiando e capovolgendo un detto celebre. E realistica appare, a chiunque la consideri dappresso, la più ricca vena di ogni narrativa italiana. Sembra che questa tendenza, i cui quarti di nobiltà risalgono al grande genio bonario di Alessandro Manzoni, nasca naturalmente da particolari spiccate attitudini nostre: la sagacia dell’osservazione e l’amore per la concretezza; due qualità che ponendo il freno dell’arte alla fantasia ne portano i prodotti sul piano dell’arte. Nella narrativa contemporanea che è il cinematografo – e non occorre avvalorare la tesi col ricordo di Edoardo dei Faux monnayeurs che diceva che il cinema ha liberato la letteratura dall’obbligo di descrivere – la legge che un po’ troppo perentoriamente forse abbiamo affermato e che naturalmente meriterebbe una più ampia dimostrazione, impossibile in questa sede, trova la più piena conferma e celebrazione. Il fatto stesso che alla base della creazione del film sia un processo fotografico, lega strettamente la nuova arte alla realtà: non da oggi sappiamo che il film fantastico da Georges Méliès a La corona di ferro sul

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piano dell’arte non può allignare; l’unico che nella storia del cinema si ricordi come un grande successo e come un’autentica opera d’arte è Il ladro di Bagdad, ma dubitiamo che una seconda visione del film confermerebbe questa vecchia impressione e sospettiamo piuttosto che quel film del ’24 sia tanto piaciuto proprio per quelle famose truccherie che sono rimaste nella memoria di tutti. Ma, assieme al ricordo della celebratissima scena del tappeto volante, c’è ancora forse più vivo e pungente quello del corpo di Anna May Wong giovinetta, ondeggiante come un giunco sotto la minaccia del pugnale di Douglas: pezzo di realtà formidabile. E come dimenticare la scena degli otri che prendeva quel sapore di fantasia, coerente allo stile del film proprio accentuando dati della realtà? Ma, a proposito di questa scena s’è già detto che essa deriva da certa cantina di Cabiria, dove i mazzi degli agli e gli stoccafissi appesi si ricordano con più piacere che non le didascalie di D’Annunzio. E, ai tempi di Cabiria, già Nino Martoglio dava con Sperduti nel buio la descrizione degli ambientini sordidi dei bassi napoletani, con un amore per le scrostature, pei segni sui muri, per gli acciottolati, per i capelli neri, grassi e untuosi, per le cotonine dei vestiti che anticipava il realismo, più evoluto di mezzi, dei film russi o francesi. Del resto, quello che tutti dobbiamo al cinema americano è il ricordo delle fattorie di Ridolini, di certe autorimesse della banda gloriosa di Mack Sennet [sic!] e quella viva conoscenza delle rocce, delle praterie, delle vegetazioni, dei cavalli dei western, fino ai documenti umani di Alleluja!, di Nostro pane quotidiano o de La folla. Nel film francese, fuori di quella produzione provinciale e anticinematografica a base di letteratura deteriore, che può essere rappresentata dalla cricca Pagnol-Raimu-Fernandel, spasso domenicale della provincia più borghese del mondo qual è la provincia francese, e al di fuori dei residuati dell’avanguardismo, per lo più finiti in un’attività sfiduciatamente commercialistica, non ci sono che i grandi nomi di Clair, di Carné e, soprattutto, di Renoir: tre grandi veristi. Né deve stupire la considerazione di René Clair come di un realista, perché le sue migliori realizzazioni sono su questo piano, di un realismo di particolari che costituisce la parte migliore della sua opera. Quelli che più e meglio hanno creato dei mondi sono Carné e Renoir, uno con un impeto un po’ scomposto e l’altro con il raggiungimento di una forma classicamente perfetta. Costituisce dunque un motivo di piena e convinta soddisfazione il fatto che un nuovo elemento della nostra cinematografia, Luchino Visconti, che è stato aiuto e collaboratore di Jean Renoir, si accinga a darci col suo primo film, Ossessione, un’opera le cui radici sotterranee e i cui motivi più profondi originano e traggono linfa da quest’humus fecondo. Ossessione sarà un film in cui non si vedranno educande, non principi consorti, non milionari affetti dal taedium vitae: ma tutta un’umanità spoglia, scarna, avida, sensuale e accanita fatta così dalla quotidiana lotta per l’esistenza e per la soddisfazione di istinti irrefrenabili; un’umanità che scatta a molla nell’azione, senza il mediato correttivo

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Carlo Lizzani

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del pensiero, ma con quella spinta irruenta per cui desiderare e prendere costituiscono un unico atto spontaneo al di qua del bene e del male. Per questa loro istintiva animalità; per il nascere dei loro atti in questi remoti e incontrollati recessi della coscienza, i protagonisti del film, cui danno volto Massimo Girotti, Clara Calamai e Juan De Landa, appaiono dei puri di cuore, degli incolpevoli, delle vittime anche nello spiegarsi della passione, del tradimento, del delitto. Una moralità più alta li avvolge, nel film, di umana simpatia e di pietosa comprensione, mostrando come neppure la torbidità degli eventi appanni il cristallo immacolato di quelle coscienze elementari. Là dove è in opera un microscopio psichico capace di cogliere il minuto riflesso dei movimenti dell’animo più reconditi, non può aver luogo l’espressione stereotipata e voluta, ma la smorfia fuggevole, il tic, il riflesso incontrollato, e ogni tratto di un viso diventa segno rivelatore di segreti e di misteri come le linee della mano. Creature umane, i cui tratti palpitano con così dolorosa verità, non saprebbero muoversi nelle impalcature dipinte dei teatri di posa, ma tra alberi veri, nell’erba, nella campagna, nei prati, tra gli elementi naturali, o nelle zone accidentate e spezzate della periferia cittadina dove ogni sasso, ogni angolo sbrecciato, ogni viottolo, ogni cortile narra, nell’usura della sua fisionomia originaria, tutta la lunga storia del quotidiano rovello degli uomini. Intendimenti simili non si scelgono come una cravatta nell’armadio, ma testimoniano di una piena maturità di coscienza e sono, in sostanza, più che una promessa, già un punto di arrivo. Ed è per questo che il film va senz’altro considerato con un metro diverso dalla produzione corrente e commerciale: come un film d’arte. Antonio Pietrangeli, Analisi spettrale del film realista, «Cinema»,VII, 146, 25 luglio 1942, 393-394

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Carlo Lizzani Infanzia del cinema italiano Spesso, di fronte ai film italiani ci domandiamo perché ad essi dobbiamo ancora preferire, ad esempio, i film americani di una volta, o perché nel miglior dei casi, anche quando cioè riusciamo a divertirci e ad appassionarci alle vicende di nostri film classificabili «ben riusciti», dobbiamo trovare, in fondo al nostro consenso, quella punta di diffidenza che sempre finisce per riportare la luce di un risultato giudicato in un primo momento ottimo, al grigio monotono delle cose inutili e trascurabili. Oggi i confronti sono meno frequenti e quindi non facili a stabilirsi.Anche per questo, quindi, è necessario mantenere in vita una polemica che sostituisca il termine di confronto e valga a sollecitare le responsabilità – non esaurite per la mancanza di concorrenza – della nostra produzione. Non gioveranno certo al cinema italiano gli ottimismi di certa stampa cinematografica.

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Eppure c’è chi continua a gettare un velo dorato di parole sulle irregolarità delle funzioni, e allora naturalmente anche le pecche e le deficienze finiscono per rilucere. [...] Eppure, si potrà obiettare, ed è l’obiezione che si fa più spesso a quanti si dimostrano scettici circa i progressi del cinema italiano, i nostri film sono, da un punto di vista tecnico, nettamente migliorati: oggi il racconto procede più spedito, la scenografia è solo di rado pacchiana, la fotografia spesso è buona, gli attori sono abbastanza bravi, ecc. Ma è chiaro che per ragionare in tal modo è necessario piegarsi a considerare come punti d’arrivo quelli che possono essere, nella migliore delle ipotesi, dei punti di partenza. I migliori film di oggi non sono dei film da vantarsi come documenti di un «vero» cinema italiano; sono piuttosto le prime esercitazioni tecniche minimamente decenti e presentabili, da cui semmai si può iniziare il cammino verso un cinema veramente maturo e più che tecnicamente a posto. [...] Il cinema insomma è un industria. Nessuno ha fatto mai delle polemiche perché dai calzaturifici uscissero scarpe calzabili invece che scarpe senza suole o senza tomaie e nessuno ha mai scritto degli articoli in lode dei fabbricanti di biciclette per il fatto che questi riuscissero a mettere in commercio delle biciclette complete e non, magari, con un freno di meno o senza ruote. Nessuno si è mai proposto di fabbricare dieci biciclette senza pedali e poi dieci biciclette ben fatte. Fuor d’ogni polemica resta quindi la maggior parte della produzione italiana degli anni scorsi, che non ha fatto altro che gettare sul mercato film costruiti come biciclette senza telai e senza freni. E là dove un meccanismo comincia a funzionare, non è proprio il caso di gridare al miracolo, là si verifica la condizione prima di vita di ogni industria. Ora però, lo dovranno ammettere gli increduli, il film, è anche, o può essere, qualcosa di più importante che non una scarpa o una bicicletta. Ecco perché anche di fronte al film italiano ben riuscito noi ci accorgiamo che qualcosa non va. Ci accorgiamo insomma che la buona confezione e solo che «confezione», non è sufficiente. E il film italiano infatti pur avendo raggiunto in ritardo il livello di confezione, è tutt’altro che sollecito nel riguadagnare il tempo perduto e si indugia impigrito nel suo grigio clima di cosa fatta in serie. [...] Il fatto stesso che il pubblico accetti dall’industria cinematografica, sia pure con qualche insofferenza, prodotti che da un’altra industria non sognerebbe nemmeno di poter accettare, dimostra chiaramente che esso cerca, al di là d’una meccanicità di costruzione, qualcosa di più umano e di più profondo.

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Carlo Lizzani

Questo pubblico quindi sarebbe pure disposto a lasciar passare delle difettosità tecniche, se fosse però almeno sicuro di poter ricavare dal cinema una esperienza nuova di gusti e di sentimenti. Esso cerca insomma quanto il cinema italiano si ostina a non offrirgli: un’immagine sincera di vita. Eppure, così molti potranno osservare, questo pubblico di fronte a questi film, segue, divertendosi e soffrendo, sempre sinceramente, le avventure e le disavventure di quei personaggi che voi definite fantocci e che invece trova umanissimi e reali. È necessario chiarire anche questo punto [...]. Il cinema, per la complessità della sua tecnica, è atto a suscitare intorno a sé, anche su di un materiale umano psicologicamente sano, un interesse già di per se stesso caratterizzato da certa morbosità. Le vicende più logore, le frasi più comuni si caricano insomma, per esser «dette» da un mezzo tecnico nuovo, ancora assai «misterioso», di quella straordinaria suggestione cui talvolta anche un gusto scaltrito più rischiare di cedere. Il cinema deve la sua popolarità proprio al suo ancora non toccato ermetismo tecnico. Ma lasciate che il pubblico assimili la meccanica di queste fredde costruzioni, ed esso non tarderà a scoprire oltre lo schermo di una superficiale suggestione, un giuoco anonimo e scostante di gelidi ingranaggi, oggi specchio fedele di una classe di individui delusi e malinconici, totalmente dediti ai loro egoismi o, se intellettuali, ai loro ermetismi. Allora il pubblico sentirà il bisogno di un nuovo calore che lo riavvicini per un contatto più umano, meno mitologico, si potrebbe dire, più sociale, al cinema, e incontrando chi potrà permettergli questo contatto, saprà allora distinguere tra ciò che realmente è vita, sentimento e umanità, e ciò che da vita da sentimento e da umanità si maschera. E infine a fugare ogni ombra di pessimismo che dall’attrito degli accenti polemici si sia venuta a formare sulla fronte dei nostri lettori, sia sufficiente una constatazione. Le vicende e gli atti delle migliaia di marionette impaludate o meno che si muovono sui nostri schermi non farebbero sicuramente, anche se sommate, il peso di una sola di quelle gioie o di quei dolori che possono esser bruciati in un solo attimo dell’esistenza di un solo uomo. E allora se oggi in Italia, articolate negli attimi diversi di innumerevoli gioie e di innumerevoli dolori, vivono quarantacinque milioni di tali esistenze, si può esser davvero sicuri che, in Italia, verranno risolti non uno, ma cento problemi cinematografici. Ed anche non cinematografici. Da Carlo Lizzani, Infanzia del cinema italiano, «Si gira», 3-4, aprile-maggio 1942; ora in Claudio Milanini (cur.), Neorealismo. Poetiche e polemiche, Milano: Il Saggiatore, 1980, 28-31

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Luchino Visconti Cinema antropomorfico Che cosa mi ha portato ad una attività creativa nel cinema? (Attività creativa: opera di un uomo vivente in mezzo agli uomini. Con questo termine sia chiaro che mi guardo bene dall’intendere qualcosa che si riferisca soltanto al dominio dell’artista. Ogni lavoratore, vivendo, crea: sempre che egli possa vivere. Cioè: sempre che le condizioni della sua giornata siano libere e aperte; per l’artista come per l’artigiano e l’operaio). Non il richiamo prepotente di una pretesa vocazione, concetto romantico lontano dalla nostra realtà attuale, termine astratto, coniato a comodo degli artisti, per contrapporre il privilegio della loro attività a quella degli altri uomini. Poiché la vocazione non esiste, ma esiste la coscienza della propria esperienza, lo sviluppo dialettico della vita di un uomo al contatto con gli altri uomini, penso che solo attraverso una sofferta esperienza, quotidianamente stimolata da un affettuoso e obbiettivo esame dei casi umani, si possa giungere alla specializzazione. Ma giungere non vuol dire rinchiudervisi, rompendo ogni concreto legame sociale, come a molti artisti accade, al punto che la specializzazione finisce sovente col prestarsi a colpevoli evasioni dalla realtà, e in parole più crude: al trasformarsi in una vile astensione. Non voglio dire che ogni lavoro non sia lavoro particolare e in un certo senso mestiere. Ma sarà valido solo se sarà il prodotto di molteplici testimonianze di vita, se sarà una manifestazione di vita. Il cinema mi ha attirato perché in esso confluiscono e si coordinano slanci e esigenze di molti, tesi per un lavoro complessivo migliore. È chiaro come la responsabilità umana del regista ne risulti straordinariamente intensa, ma, purché egli non sia corrotto da una decadentistica visione del mondo, proprio da essa verrà indirizzato sulla strada giusta. Al cinema mi ha portato soprattutto l’impegno di raccontare storie di uomini vivi: di uomini vivi nelle cose, non le cose vive per se stesse. Il cinema che mi interessa è un cinema antropomorfico. Di tutti i compiti che mi spettano come regista, quello che più mi appassiona è dunque il lavoro con gli attori; materiale umano con il quale si costruiscono questi uomini nuovi, che, chiamati a viverla, generano una nuova realtà, la realtà dell’arte. Perché l’attore è prima di tutto un uomo. Possiede qualità umane-chiave. Su di esse cerco di basarmi, graduandole nella costruzione del personaggio: al punto che l’uomo-attore e l’uomopersonaggio vengano ad un certo punto ad essere uno solo. Fino ad oggi, il cinema italiano ha piuttosto subito gli attori, lasciandoli liberi di ingigantire i loro vizi e le loro vanità: mentre il problema vero è quello di servirsi di ciò che di concreto e di originario essi serbano nella loro natura. Perciò importa fino a un certo grado che attori cosiddetti professionali si presentino al regista deformati da una più o meno lunga esperienza per-

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Luchino Visconti

sonale che li definisce in formule schematiche, risultanti di solito più da sovrapposizioni artificiose che dalla loro intima umanità. Anche se molto spesso è una dura fatica, quella di ritrovare il nocciolo di una personalità contraffatta è una fatica che tuttavia vale la pena di spendere: proprio perché al fondo una creatura umana c’è sempre, liberabile e rieducabile. Astraendolo con violenza dagli schemi precedenti, da ogni ricordo di metodo e di scuola, si cerchi di portare l’attore a parlare finalmente una sua lingua istintiva. Si intende che la fatica non sarà sterile, solo se questa lingua esiste sia pure involuta e nascosta sotto cento veli: se esiste cioè un vero temperamento. Non escludo, naturalmente, che un grande attore nel senso della tecnica e dell’esperienza possegga tali qualità primitive. Ma voglio dire che, spesso, attori meno illustri sul mercato, ma non per questo meno degni di attirare la nostra attenzione, ne posseggono altrettante. Per non parlare dei non attori, che, oltre a recare il contributo affascinante della semplicità, spesso ne hanno di più autentiche e di più sane, proprio perché, come prodotti di ambienti non compromessi, sono spesso uomini migliori. L’importante è scoprirle e metterle a fuoco. Ecco dove è necessario intervenga quella capacità rabdomantica del regista, tanto all’uno come nell’altro caso. L’esperienza fatta mi ha soprattutto insegnato che il peso dell’essere umano, la sua presenza, è la sola cosa che veramente colmi il fotogramma, che l’ambiente è da lui creato, dalla sua vivente presenza, e che dalle passioni che lo agitano questo acquista verità e rilievo; mentre anche la sua momentanea assenza dal rettangolo luminoso ricondurrà ogni cosa a un aspetto di non animata natura. Il più umile gesto dell’uomo, il suo passo, le sue esitazioni e i suoi impulsi da soli danno poesia e vibrazioni alle cose che li circondano e nelle quali si inquadrano. Ogni diversa soluzione del problema mi sembrerà sempre un attentato alla realtà così come essa si svolge davanti ai nostri occhi: fatta dagli uomini e da essi modificata continuamente. Il discorso è appena accennato, ma accentrando il mio netto atteggiamento, vorrei concludere dicendo (come spesso amo ripetermi): potrei fare un film davanti a un muro, se sapessi ritrovare i dati della vera umanità degli uomini posti davanti al nudo elemento scenografico: ritrovarli e raccontarli. Luchino Visconti, Cinema antropomorfico,«Cinema»,VIII, 173/174, 25 settembre-25 ottobre 1943, 108-109

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Neorealismo: arte cinematografica e modernità Una parte significativa della produzione cinematografica italiana del secondo dopoguerra si propose e venne promossa quale alternativa alle realizzazioni correnti della cinematografia nazionale, così come ai film hollywoodiani. Una delle maniere di costituire un insieme di testi identificabili nella nozione di neorealismo origina in un ordine del discorso, ovvero una modalità di organizzare in una serie di produzioni discorsive dei soggetti e delle funzioni per tracciare una determinata interpretazione della realtà, nel quale alcune proposte cinematografiche del dopoguerra si distinguono rispetto a quanto le ha precedute e a quanto le circonda.Tale discorso fonda la distinzione sulla capacità dei film di “mostrare il reale” senza mediazioni, configurando un paradosso: tanto più essi sono capaci di compiere questa operazione, tanto maggiore il loro valore artistico. Abbiamo visto nel primo capitolo quale importanza rivesta il dibattito culturale e politico sul cinema nel dopoguerra. Una delle posizioni più interessanti per il connubio di istanze poetiche e proposte culturali è quella di Cesare Zavattini. Nei termini apodittici a lui propri, l’intellettuale e soggettista sin dal 1945 denuncia un rischio capitale per il cinema italiano: la scomparsa, dinanzi all’innovazione tecnologica e alla concorrenza economica di avversari ben più avanzati e preparati e alla mediocrità delle politiche produttive degli industriali cinematografici italiani. Zavattini postula un’opposizione significante tra due modalità di esistenza del cinema: impresa economico-industriale o espressione di una civiltà e cultura nazionali. L’antitesi è ovvia e ampiamente diffusa nel dibattito critico italiano sin dall’epoca del cinema muto; allo stesso modo, la soluzione prospettata dal coautore di Ladri di biciclette è piuttosto consueta nel modo di produzione del cinema italiano: l’intervento dello Stato a sostegno delle iniziative culturalmente meritevoli e a garanzia e difesa delle proposte più qualificate. Gli aspetti maggiormente rimarchevoli del discorso dell’intellettuale emiliano sono altri. Il primo di essi consiste nell’identificazione di una collusione e saldatura tra apparati produttivi e istituzioni statali nel corso del ventennio fascista, effettivamente realizzata in virtù di una serie di iniziative di legge nel corso degli anni Trenta [Corsi 2001; Quaglietti 1975, 1980]: questo rapporto consente a Zavattini di squalificare la produzione di anteguerra e i suoi artefici nel loro insieme, e di accentuare la necessità di un rinnovamento radicale – pur tacendo della sua pluriennale attività proprio in quella produzione e tra quegli artefici. Il secondo elemento di interesse risiede nell’individuazione di una possibile palingenesi della cinematografia italiana in due fattori concomitanti: da un lato nell’affermazione di un differente modello produttivo, fondato sull’assunzione della responsabilità imprenditoriale da parte di cineasti-produttori, figure capaci di valorizzare al meglio le poetiche circolanti nel cinema italiano a

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Neorealismo: arte cinematografica e modernità

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discapito di imprenditori provenienti dalla finanza; dall’altro nello spazio garantito a nuovi soggetti cinematografici, basati su un rapporto inedito e più intimo con la realtà, al di là degli schemi consunti e costrittivi imposti dal modello produttivo industriale. Il nuovo cinema italiano, capace di qualificarsi in patria e all’estero, nella poetica di Zavattini passa per il rifiuto economico e linguistico della produzione tradizionale, in nome di una differente forma di produzione e di testo [Zavattini 1947, 676]: In Italia la situazione del cinema potrebbe essere riassunta così: da una parte, forti industriali che pensano e operano da vincitori e persistono a tradire col motto: commuovere e ricostruire; dall’altra, coloro che si considerano veramente vinti anche se innocenti. Secondo questi ultimi, i nostri film non saranno né lieti né tristi, ma piuttosto privi di finale o quanto meno di quei finali edificanti in cui l’uomo rischia la pelle a patto di farsi distrarre dai colloqui con se stesso.

Si tratta di una posizione maggioritaria sul piano del dibattito culturale, e dichiaratamente minoritaria su quello delle politiche industriali: la sua ambizione è modificare in profondità lo stato delle cose: come descritto nel terzo capitolo, si tratta di un’ambizione rimasta la più parte delle volte tale. Pure l’eccezionale intuizione zavattiniana della vocazione mediologica del cinema – la contemporaneità – adombra un’altrettanto straordinaria disattenzione per il potenziale della televisione stessa, cui compara inizialmente l’invenzione dei Lumière: la proposta di un cinema poetico, specchio dell’individuo e dell’attualità, addita con originalità una possibilità inutilizzata del cinema; eppure pare trascurare tanto le possibilità di mercato quanto gli sviluppi del nuovo medium, prossimo agli esordi italiani. In questo, gli fece buona compagnia grande parte della intelligencija di sinistra [Pinto 1979]. Il nuovo rapporto stabilito tra cinema e realtà rivela per molti uomini di cinema italiani, e in maniera particolare per Zavattini una funzione conoscitiva propria al medium: questo assurge a strumento di svelamento del reale e di conoscenza delle condizioni comuni a un popolo e ai suoi individui [Zavattini 1950b, 691-692]: [I]l cinema fino a questo momento ha raccontato le cose che sono accadute; vale a dire le cose sempre un po’ artefatte. Il dramma di un uomo sta appunto in questo, nella sua scarsa capacità di vedere la realtà così come essa è. Per questa mancanza di conoscenza della realtà, il cinema è il mezzo miracoloso, provvidenziale addirittura per poter narrare meglio di qualsiasi altra cosa gli altri e noi stessi.

Questa valenza conoscitiva allo stesso tempo dell’individuo e della società è una delle caratteristiche precipue dell’umanesimo del fenomeno e dell’ideologia neorealista, a più riprese sottolineata da differenti commentatori, in diversi quadri di riferimento etici e politici. Infatti, questo pre-

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supposto valore sociale dell’arte cinematografica era facilmente trasformabile in una subordinazione della prassi estetica alla politica tout court, nella prospettiva del realismo socialista dominante nel dibattito interno al Pci del dopoguerra. Ma, allo stesso modo, il generico umanesimo poteva essere reso funzionale a un discorso di matrice cattolica di ampio respiro, capace di permeare la riflessione di intellettuali di origine e con obbiettivi differenti, da Brunello Rondi al discusso padre domenicano Félix Morlion, che nell’articolo qui antologizzato salda in un’unità dalla precisa valenza culturale e politica l’identità italiana, l’attenzione per la rappresentazione dell’individuo nella realtà e la presenza millenaria del cattolicesimo sul territorio nazionale. L’equivalenza tra cinema d’arte e neorealismo e l’importanza culturale di questo segmento della produzione sollecitarono un intenso dibattito sul fenomeno stesso, a partire dalla fine degli anni Cinquanta. Questa riflessione in alcune occasioni si ampliò a considerazioni sulle capacità di una produzione limitata per quantità e riscontro di mercato di intercettare la domanda popolare, così come a valutazioni sulle metamorfosi dell’istituzione cinematografica accelerate dal fenomeno neorealista. Il ragionamento di Italo Calvino, di grande spregiudicatezza nel 1953, ruota proprio intorno a questo nuovo e originale rapporto tra il film e il suo spettatore, e al paradosso centrale nell’utopia del neorealismo. L’attenzione per la realtà di una parte del cinema italiano del dopoguerra intende rappresentare spazi, individui, condizioni inedite e di interesse comune; eppure, proprio questa strategia smarrisce per strada i suoi interlocutori, «gente che sbuffa, ansima, sghignazza, succhia caramelle, ti disturba, entra, esce, magari legge le didascalie forte come al tempo del muto; il cinema è questa gente, più una storia che succede sullo schermo», scrive Calvino. La dimensione di spettacolo popolare del cinema si trova sostituita da un rapporto solitario con lo schermo: culturalmente apprezzabile, linguisticamente ricco, comparabile alla letteratura stessa, eppure tristemente inappropriato a intersecare i propri destini con la massa della nazione. Per questa ragione il celebrato autore di Il sentiero dei nidi di ragno suggerisce l’importanza del meraviglioso nel racconto cinematografico per la costruzione di un rapporto vicendevole con il pubblico, e richiama l’attenzione sui tentativi solitamente trascurati di registi come Luigi Zampa, Mario Monicelli o Steno di coniugare la tipizzazione della realtà con forme di racconto e spettacolo popolari. Purtroppo, la sollecitazione dello scrittore era destinata a rimanere per lungo tempo lettera morta, in nome di una concezione “purista” del neorealismo basata su poche opere e autori, come ricostruito nel quarto capitolo e affermato nel contributo di Alberto Farassino (vedi Documenti, n. 25). Si faceva cenno a un’aporia al cuore del dibattito sul neorealismo: come è possibile produrre un cinema artisticamente significativo a partire da una cancellazione di ogni intenzione estetica, in favore di una rappresentazione la più trasparente possibile del reale? Questa contraddizione trova

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Neorealismo: arte cinematografica e modernità

indubbiamente la disamina più acuta e la sintesi maggiormente influente nella riflessione del critico e teorico francese André Bazin, ma echeggia con accenti originali anche nella voce di Zavattini. Il prolifico uomo di cinema italiano avanza infatti alcune ipotesi di grande forza a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta. Zavattini chiarisce l’importanza della contemporaneità per il cinema: essa compie un destino inscritto nelle caratteristiche del medium stesso, «la sua forza morale e la sua forza artistica». Di qui una qualificazione dell’intero cinema neorealista. Non solo. Il rapporto tra cinema e realtà si realizza proprio a partire dalla rapidità tra registrazione e rappresentazione: la velocità rappresentativa è la misura della qualità precipua del cinema rispetto ad altre forme espressive, in una sorta di utopica diretta. Questa specificità è anche quanto rende superflue tutte le istanze stilistiche: è la realtà stessa a dettare lo stile delle cose rappresentate, la loro conformazione. Infatti, Zavattini sin dal principio degli anni Quaranta ritorna insistentemente sulla natura spettacolare della realtà, a partire dalle capacità analitiche del cinema e giunge al termine del decennio alla celeberrima formulazione [Zavattini 1949, 682]: [I]l nostro cinema vorrebbe fare irrompere nello spettacolo, come supremo atto di fiducia, novanta minuti consecutivi nella vita di un uomo. Ciascuno di questi fotogrammi sarà ugualmente intenso e rivelatore, non sarà più il ponte per il fotogramma seguente, ma vibrerà in sé come un microcosmo.

Contemporaneamente, la riflessione francese di matrice cattolica sottolinea la “nuova bellezza” peculiare al cinema, come scrive Morlion: una qualità scaturita dalla percezione dello spirituale nella materialità delle cose. Aggiungiamo, a prescindere dalla mediazione umana. Infatti, se «tutte le arti sono fondate sulla presenza dell’uomo; solo nella fotografia ne godiamo l’assenza. Essa agisce su di noi in quanto fenomeno “naturale”, come un fiore o un cristallo di neve la cui bellezza è inseparabile dalle origini vegetali o telluriche» [Bazin 1986d, 7]. Per paradosso il cinema può dare il senso del miracolo ultraterreno – il “canto segreto del mondo”, lo chiamerà successivamente Eric Rohmer – attraverso la rappresentazione più diretta del reale: è il mondo in sé ad avere determinate qualità, e l’abolizione di una mediazione umana ci consente di coglierne appieno l’esistenza. La riflessione sul sacro e il realismo condotta da Bazin tra gli anni Quaranta e Cinquanta, a partire da Cielo sulla palude o dal cinema di Federico Fellini, muove proprio da questi assunti [Bazin 1986c, 1986e]. Le formulazioni teoriche di Bazin sul neorealismo sono assai più complesse e argomentate delle loro declinazioni coeve o successive da parte di altri osservatori del fenomeno. Innanzitutto, il teorico francese postula una natura inevitabilmente estetica di ogni realismo: questo presuppone sempre e comunque un’operazione di selezione dei dati del reale in vista di un effetto testuale. Per questa ragione, la sua discussione sul cinema della Liberazione in Italia affianca queste realizzazioni al cinema apparen-

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temente assai distante di Orson Welles: attraverso procedimenti ben diversi, i cineasti italiani e l’enfant prodige del cinema hollywoodiano producono una rappresentazione realistica; nel primo caso, attraverso tecniche narrative; nel secondo, in virtù della profondità di campo; in entrambi gli esempi, ai fini di una resa mimetica risulta sempre necessario scegliere quali aspetti della realtà inscrivere nel film, quali tralasciare e attraverso quali opzioni tecniche. In secondo luogo, Bazin individua nel rispetto del materiale la resa realistica: il rifiuto di voler piegare a un principio linguistico, narrativo o ideologico quanto rappresentato gli restituisce la sua densità e unicità. Per questa ragione, l’impiego della profondità di campo nel cinema di Orson Welles equivale alla peculiare struttura narrativa del cinema di Roberto Rossellini: nel primo, all’interno di una continuità spaziale si consente allo spettatore la possibilità di scelta del fattore drammatico più pertinente; nel secondo, ogni sequenza e ogni inquadratura equivalgono alle altre, senza principi gerarchici, così che lo spettatore sia libero di decidere in quali rapporti i fatti sono gli uni con gli altri, e pertanto di trarne una propria morale, anziché vedersene inculcare una. Per Bazin, la realtà rappresentata dal nuovo cinema italiano non è sottomessa a una predeterminazione del proprio senso, e in questo rintraccia una delle maggiori specificità del fenomeno [Bazin 1986b, 280]: I film italiani recenti sono perlomeno pre-rivoluzionari: tutti rifiutano, implicitamente o esplicitamente, con l’umorismo, la satira o la poesia, la realtà sociale di cui si servono, ma sanno, anche nelle prese di posizione più chiare, non trattare mai questa realtà come un mezzo. Condannarla non obbliga alla cattiva fede. Essi non dimenticano che, prima di essere condannabile, il mondo, semplicemente, è.

Ciò comporta il mantenimento dell’aleatorietà del senso inerente al reale. Per la medesima ragione, Bazin plaude all’amalgama di interpreti professionisti e non professionisti nel cinema neorealista: gli uni e gli altri sottraggono l’immagine dei personaggi a un’aspettativa, restituendone una singolarità irriducibile. Alla stessa maniera, l’intellettuale francese si compiace dell’affermazione di un nuovo tipo di successione delle inquadrature e narrativa (découpage) nel cinema italiano postbellico, rispetto al cinema classico hollywoodiano: esso svincola le immagini dall’asservimento alla logica di una narrazione preesistente, restituendo a ognuna di esse il proprio peso, e assegnando allo spettatore la possibilità di istituire delle relazioni di senso. La vocazione riproduttiva del mezzo cinematografico mantiene la traccia della realtà nella propria immagine: voler costringere l’unicità di ciascuna traccia in una relazione di senso univoca contraddice l’ontologia del cinema e ne riduce la forza rappresentativa. L’acuta analisi compiuta da Giorgio De Vincenti del rapporto di Bazin con il neorealismo sottolinea la congruenza della posizione del fondatore dei «Cahiers du cinéma» con l’insieme della propria riflessione. Lo studioso

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italiano individua nella semplificazione un elemento cardinale nelle formulazioni di Bazin: essa esalta la natura riproduttiva del mezzo cinematografico e il materiale riprodotto, ne consente la piena apprensione; in questo senso, la realtà sociale o individuale è un materiale tra gli altri messi a disposizione della rappresentazione cinematografica. Il neorealismo riveste un ruolo cruciale nella riflessione del critico francese perché attesta la possibilità di una simile semplificazione: rispetto al découpage del cinema classico e alle forme drammaturgiche affermate, il neorealismo propone una drammaturgia sollevata dalla necessità di organizzare una successione di momenti forti nel racconto, verso i quali lo spettatore sia inevitabilmente condotto da un montaggio asservito alla fabula: qui le immagini sono sottratte dalla successione narrativa e valgono di per se stesse. L’operazione di riduzione proposta da Bazin contempla i due termini dell’aporia: la semplificazione espressiva accentua il peso della realtà allo stesso modo della capacità riproduttiva del cinema. E la riflessione su tale vocazione del mezzo e sul suo valore dirompente nella gerarchia e nella prassi artistica sono un fattore di innovazione, preludio alla fase incipiente della modernità cinematografica, di cui il neorealismo è la prima manifestazione massiva e Rossellini l’alfiere [Aumont 2008].

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Cesare Zavattini Poesia, solo affare del cinema italiano Vorrei che quanto dico fosse un grido d’allarme. Ciò che si sta facendo oggi nel cinema italiano conduce diritto al cimitero. Io non vedo niente all’orizzonte che faccia sperare in una produzione veramente “nuova”. Si continua a dimenticare che il cinematografo deve essere il documento più suggestivo e lampante dell’immediata civiltà di un popolo. Si continua a produrre con uno spirito affaristico che riguarda lo schermo solo in funzione del portafoglio. Prevedo il disastro. Non dimentichiamo che siamo alla vigilia del colore, della stereoscopia, e che gli americani arricchiscono continuamente le schiere dei loro attori di lancio internazionale, mentre noi siamo rimasti, in questo campo, né più né meno dove eravamo arrivati.Abbiamo dietro di noi venti anni di crisi politica e la più grande guerra di tutti i tempi.Allora è chiaro che film come quelli che si stanno producendo oggi in Italia non possono essere che il segno mortuario di quello che ho detto prima. La colpa è dei produttori: principalmente dei produttori. Sostengo che in vent’anni di cinematografia protetta come nessun’altra, libera molto più di quanto non si creda, se questi uomini non hanno dato un solo film, dico uno e cioè tremila metri di pellicola su trenta milioni di pellicola girati, ciò significa che hanno fallito dal punto di vista morale e dal punto di vista artistico. Ebbene, questi produttori sono gli stessi che hanno in mano la produzio-

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ne del 1946. Hanno in mano i quattrini e pertanto i film possono farli soltanto loro. E continuano a farli con la loro testa. Io ho sempre pregato Dio che a uno di questi produttori venisse il sospetto di aver sbagliato. Ma è impossibile, perché se dici loro che producono dei soggetti cretini, delle sceneggiature cretine e dei film ancora più cretini, ti rispondono soltanto con un sorriso compassionevole e facendoti osservare che il prodotto ha incassato un mare di quattrini. Per questo è chiaro che bisogna sostituire radicalmente questi uomini, sebbene mi renda conto di quanto sia utopistica questa mia affermazione. A meno che non intervengano dei fatti soprannaturali, o dei fatti socialmente nuovi. Lo Stato, per vent’anni, fu il peggior produttore tra i produttori. Ma nell’attuale situazione io spero ancora nello Stato, proprio perché esso può fare esattamente l’opposto di quello che ha fatto lo Stato precedente. Affaristi quali sono, i produttori si mostrano non solo privi di intelligenza, ma anche di amor patrio. Sono convinti di essere dei grandi industriali, e questo a loro basta. Non capiscono che per il giorno in cui moriranno aver lasciato dietro le loro spalle trenta milioni anziché dieci è troppo poco. Io ammiro allora i commercianti di vacche del mio paese, che hanno ambizione di fare il miglior formaggio parmigiano della regione. Quando moriranno, costoro continueranno a pensare a una grande forma di formaggio parmigiano, a qualche cosa di perfetto insomma; e dico che questo li riscatta. Ma i nostri industriali del cinema, prima di morire, a che cosa penseranno? Individuata, dunque, con precisione la piaga, non si tratta di far piazza pulita di tutto il cinema italiano, ma degli elementi che lo guidano e lo determinano. Perché il talento c’è, i quadri ci sono; mancano i produttori che sappiano adoperare questi quadri secondo esigenze internazionali: che vuol dire originali. In tutto quello che ho detto, se risulta palese una profonda definitiva catastrofica sfiducia nei riguardi dei produttori, è chiara una ferma fiducia nell’intelligenza del mio paese. Si tratta di saper organizzare cinematograficamente il complesso delle intelligenze che possono tutte dare infinitamente di più di quello che attualmente danno, dai tecnici ai creatori. Nell’intelligenza del nostro paese, per esempio, vi sono delle risorse per una soggettistica originale, che potrebbe meravigliare gli stranieri e imporsi con successo. Bisogna dunque rivolgersi all’intelligenza italiana; anche a quella che esiste fuori del cinema. Questa ricerca dell’intelligenza costituirebbe già un fatto rivoluzionario che annegherebbe i cattivi anni precedenti. Mi spiego: non intendo un cieco reclutamento delle intelligenze come tali, ma parlo delle intelligenze cinematograficamente sfruttabili. Perciò colui che farà la rivoluzione sarà il produttore ideale, ossia colui che, conoscendo le esigenze del cinema e il linguaggio che il cinema deve parlare, chiederà ai suoi collaboratori ciò che è proprio del cinema. Ché se si trattasse di un semplice reclutamento delle intelligenze, al di fuori di una loro specifica attitudine al cinema, faremmo ciò che nei venti anni precedenti è

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stato fatto abbondantissimamente, e con risultati disastrosi. Il fascismo faceva, sì, reclutare letterati per il cinematografo, ma esclusivamente per corromperli. E il produttore, dando una ennesima prova della sua incompetenza, distribuiva denari a queste intelligenze, ma non sapeva far secernere a loro quel succo che era propriamente cinematografico. Spero che i futuri produttori non provengano più dalla finanza, e cioè che si operi una disgiunzione tra il capitalista e il produttore. Mi auguro di vedere tanti miei colleghi, o registi o sceneggiatori, diventar produttori. Da loro nascerebbe qualche cosa di diverso. Bisogna che il capitale affluisca nelle mani di quelli che possono capire il problema del cinematografo italiano e risolverlo, non per il bilancio dell’anno in corso, ma a più lunga scadenza. È chiaro che uomini migliori daranno prodotti migliori. Veniamo al pratico. Che cosa possiamo fare oggi? È un problema di contenuto. Di testi. Bisogna spalancare le porte alla fantasia. In questo campo non c’è bisogno di carbone ma basta un tavolino e una penna stilografica. Abbiamo la sfrontatezza di dire che nel campo della fantasia noi possiamo gareggiare vittoriosamente con gli americani, i quali a mio modesto avviso sono in crisi proprio per i contenuti. Si salvano solo con la loro formidabile eccelsa capacità stilistica, ma proprio questa eccellenza ha già in sé il germe del corrompimento in quanto non attinge direttamente dalla vita. Il regno della “gag” è il regno della vita. Ci sono nel mondo infinite zone da esplorare e infiniti popoli hanno la possibilità di farlo. Noi siamo tra quelli più favoriti, perché abbiamo una esperienza vergine dal punto di vista dei contenuti. Se l’essere dei vinti non ci dà questa facoltà di contatto con la realtà al di fuori di qualsiasi stilistica industrialmente vagliata, significa che tutto ciò che è accaduto è accaduto invano.Tutto è possibile per noi e possiamo essere più liberi di quelli che la libertà hanno sempre avuto. Bisogna dunque che i giovani non si sentano corrotti o istradati secondo le esigenze della antica e della nuova produzione, ma secondo questo bisogno di raccontare originalmente. Raccontare come siamo, vuol dire raccontare in modo nuovo, ossia proprio come i produttori non hanno mai visto, determinando tutta la produzione secondo una maniera. Cesare Zavattini, Poesia, solo affare del cinema italiano, «Film d’oggi», 10, 25 agosto 1945; ora in Sul neorealismo. Testi e documenti (1939-1955), Pesaro: Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, 1974, 38-40

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Cesare Zavattini Morirà il cinema? Si dice in giro che la televisione ucciderà il cinema, che la crisi di morte è già iniziata per il cinema. Io non ci credo. Certo, per essere sicuro della propria salvezza, il cinema deve avvicinarsi alla sua vera ragione espressiva, che è la contemporaneità, l’immediatezza. Il film deve diventare il rac-

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contatore di noi stessi, e in questa sua fusione non lo potrà sostituire nessuno! In questa sua capacità di cogliere il contemporaneo c’è la sua forza morale e la sua forza artistica. Mi spiego. Se noi potessimo girare il film della nostra giornata e poi rivedercelo la sera, noi forse domani faremmo meglio, i nostri atti sarebbero migliori, più morali, più umani. Che cos’è quella furia che ci prende quando, letta una notizia di cronaca in un giornale, la trasformiamo subito in soggetto e vorremmo rivederla filmata? Quella furia, quella fretta è l’indice che il cinema nel suo ingranaggio espressivo non è ancora libero: dall’idea iniziale alla confezione finale passa troppo tempo. Dal fatto di cronaca alla sua traduzione in film chi ci scapita è sempre la necessità morale, e, quindi, quella artistica. La velocità come fatto morale: ecco il punto. Il libro ci ha sempre fatto scoprire cose già affermate, già divenute patrimonio comune: perché allo scrittore è rimasto l’impaccio di quel mondo antico, le memorie, che è per lui tutto il mondo morale: «raccontare i fatti passati è un buon insegnamento – dicevano nell’800 – l’antico ha una sua capacità didascalica». Ora, invece, il cinema afferma la validità dello specchio, della cosa avvenuta e subito rifatta e vista: esso fa della velocità un fatto morale. La realtà è quello che ci preoccupa – e basta. Le novità stilistiche sono le novità della realtà: non occorrono più canoni e regole di stile – tutto è vivo e bello nella sua immediatezza; la forma sarà quella consigliata dal fatto, dalla cosa avvenuta ed espressa subito. Guardate come sono fatti i film d’attualità: inaugurazione di un padiglione di una mostra, presentazione dei modelli primaverili, un incendio a Los Angeles, ecc. E il testo? E la realtà di tutti i giorni? Perché l’attualità del reale sta nella scoperta poetica delle cose normali e particolari: quel signore che attraversa il ponte, quella donna che corre alla spesa con i suoi pensieri di casa; una famiglia a Londra che sta per andare a letto, una a Parigi che fa la sua passeggiata domenicale. Invece lo spirito dei giornali documentari è lo stesso che c’era nei film storici: non è presa di contatto con la realtà, non è il poeta che passa nella strada e guarda, osserva, vede. Il cinema è ancora prigioniero, è ancora in cattività: lo si vede nei documentari che dovrebbero essere all’avanguardia nella scoperta delle cose e dei fatti. Vorrei dire molte cose sulla prigionia in cui si trova il cinema. Superare il concetto del cinema come spettacolo – quella esagerata preoccupazione del pubblico che, poi, davanti alla novità, alla scoperta nuova, fa dire a certi produttori: «ma ti pare veramente interessante?». «Ma ti pare veramente interessante?» – in questa frase sta la morte del cinema. Interessante è ciò che ci commuove. Il cinema – è vero – sta ancora indietro rispetto alle altre arti, come forza d’arte, tutta funzionale. Ma in esso si nota già un amore sempre più forte per la realtà, una curiosità sempre più viva per il fatto nuovo. Uomo cercato sempre più in profondo – come con in microscopio: uomo essenziale e sempre meraviglioso. Cesare Zavattini, Morirà il cinema?, «Vie Nuove»,V, 19, 7 maggio 1950, 4

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Félix A. Morlion Le basi filosofiche del neorealismo cinematografico italiano Si può dire fin d’ora che nella storia dei cinema il periodo del dopoguerra (1945-48) è segnato da un fatto decisivo: a fianco delle scuole americane, inglesi, francesi che si prolungano nel presente senza rinnovamenti sostanziali, e delle scuole russe e tedesche che da quindici anni oramai appartengono al passato, è sorta una nuova scuola il cui messaggio ha profondamente toccato le masse dei due continenti del mondo atlantico: la scuola italiana. [...] Ora accade che nella critica internazionale sono forse proprio i cattolici, quei cattolici che sì sovente fanno delle riserve ideologiche, a prendere una decisa difesa di quella che essi chiamano: la scuola neorealista italiana. Io non conosco nessun critico cattolico, sia in Europa che in America, che non abbia reagito con istintiva simpatia dinanzi a Roma città aperta, Paisà, di Rossellini, davanti a Un giorno nella vita e Quattro passi fra le nuvole (presentato in Francia, Belgio e Inghilterra nel ’47) di Blasetti, Sciuscià e La porta del cielo di De Sica, Vivere in pace e L’Onorevole Angelina di Zampa e le sequenze finali de Il sole sorge ancora di Aldo Vergano. Al Festival Internazionale di Bruxelles (giugno 1947) non ci fu la minima esitazione fra i membri della giuria dell’OCIC (Office Catholique Internazionale du Cinéma [sic!]) incaricato di designare l’opera d’arte più atta a favorire il progresso morale e spirituale dell’umanità: il premio fu assegnato a Vivere in pace, film nel quale non soltanto esula qualsiasi forma di misticismo, ma al contrario alcune scene ritraggono con evidente realismo le superstizioni della moglie del contadino. Il valore del giudizio della giuria cattolica ebbe una notevole conferma quando, per la seconda volta dopo Roma, città aperta, il primo premio per il miglior film straniero fu assegnato dai critici americani (i quali in genere sono lontani dall’ideologia cattolica) allo stesso Vivere in pace. Ora il pubblico non perdona al critico che non sappia spiegargli perché un film è bello o non lo è affatto. Il pubblico ha ragione: è necessario che il critico possa definire o almeno distinguere dagli altri valori il bello cinematografico in nome del quale noi giudichiamo e discutiamo. E poiché abbiamo noi inventato il termine «scuola cinematografica neorealista», dovrà essere nostro compito indicare ciò che troviamo di sostanziale nella tendenza artistica che difendiamo. La filosofia del bello cinematografico. – L’essenza, la natura del bello si scopre per induzione partendo dal fatto interiore, psicologico: la visione estetica. Ora la visione estetica si differenzia dalle altre forme di conoscenza per il seguente complesso: 1) Essa è una conoscenza sensitiva (della vista o dell’udito o di ambedue insieme), che è simultaneamente;

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2) una conoscenza intellettuale che sorpassa, nella percezione d’un valore universale o anche spirituale, la semplice percezione dell’individuale data dai sensi esterni e interni (immaginazione e memoria), che è simultaneamente; 3) un godimento che mette in moto le facoltà emotive sia sensitive che intime spirituali dell’uomo. La congiunzione intima dei modi di conoscenza sensitiva e intellettiva differenziano la visione estetica come una conoscenza intuitiva (che ci presenta l’idea nella sua materia), distinta dalla conoscenza astrattiva che ci purifica ma impoverisce una idea fuori della materia. La congiunzione intima del godimento con la conoscenza fa della visione estetica un piacere disinteressato, cioè un godimento inerente alle facoltà conoscitive distinto dal godimento che si manifesta nella volontà quando il soggetto conoscente è divenuto cosciente dell’oggetto conosciuto come d’un’altra cosa che gli appartiene, gli conviene o risponde in qualsiasi modo alla tendenza naturale delle facoltà volitive. Tutta la filosofia del bello deriva dunque dalla risposta a questa semplice domanda: quale dev’essere la natura d’una cosa conosciuta (il bello) perché possa generare un godimento nelle facoltà della conoscenza sensibile e intellettuale unite nell’intuizione dell’uomo? La sola risposta possibile è la seguente: bisogna che la natura della cosa vista (cioè il bello) sia sostanzialmente simile (co-naturale) alla natura dell’uomo che vede. Ora la natura dell’uomo è d’essere una unità sostanziale di spirito e di materia, cioè un composto materiale che riceve la sua forma sostanziale, la sua unità profonda da un principio spirituale superiore alla materia, che chiamiamo anima. Dunque il bello è un composto materiale che riceve la sua forma sostanziale, la sua unità profonda da un principio spirituale superiore alla materia. [...] Si dice spesso che l’arte cinematografica è una sintesi di tutte le arti. Si deve dire di più: l’arte cinematografica è quella in cui tutte le arti esistenti sacrificano la loro propria natura per costituire una bellezza specificamente nuova. Ci sono tre generi di bellezza, che rispondono a tre tecniche artistiche: 1) la bellezza materiale è la bellezza propria all’armonia delle linee e dei colori a due dimensioni (fotografia, disegno, bellezza pittorica) e a tre dimensioni (scultura, architettura), e la bellezza delle modulazioni sonore sviluppate nella cosiddetta quarta dimensione-tempo (musica). Queste specie di bellezze sono indipendenti dalla rappresentazione dell’oggetto esteriore [...]. 2) La bellezza spirituale è la bellezza d’un complesso di idee in movimento, cioè di quantità che oltrepassano l’apprensione dei sensi, ma che acquistano una certa materialità nelle loro relazioni con il mondo materiale. È cosi che un’opera letteraria differisce da un’opera scientifica: la

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Félix A. Morlion

scienza tende a disincarnare l’idea, la letteratura tende ad incarnarla. Una bella poesia: delle idee si muovono cariche d’emozione e talora anche di musica verbale. Un bel romanzo, un bel dramma o commedia: dei caratteri, dei gruppi, delle masse si urtano, s’armonizzano nel corso di certi avvenimenti esteriori. [...] 3) La bellezza espressiva è la bellezza che nasce quando delle forme naturali diventano strumento per superarsi esprimendo una forma spirituale che vive nella materia: il «San Domenico» del Beato Angelico: una bella figura, creazione di linee e di colori, che hanno la loro propria bellezza materiale, ma che nel medesimo tempo sorpassano il piano materiale esprimendo attraverso l’impulso geniale del gesto verso la croce il dono di tutto l’essere per dare agli altri tutto ciò ch’egli riceve: contemplata aliis tradere. [...]. L’arte cinematografica fa appello all’arte plastica e all’arte musicale, ed anche all’arte letteraria, ma per la sua natura li utilizza come strumenti nell’espressione d’una realtà umana. Infatti i due principi che fanno dell’arte cinematografica una cosa nuova sono i seguenti: a) l’inquadratura, che sceglie nello spazio il totale o la parte d’un corpo, d’un gruppo, d’una stanza, d’una città, d’una via, d’un paesaggio che risponde alla finalità dell’artista-realizzatore; b) il montaggio ed il ritmo scelgono nel tempo la successione di quei volti, quei gesti, quelle parole o quei silenzi, quegli accessori visuali o sonori, secondo la dialettica del movimento d’anime che bisogna far vivere sullo schermo. Il film differisce da una serie, o da una successione d’immagini, di parole, di modulazioni musicali, precisamente per il fatto che ognuno degli elementi costitutivi è scelto unicamente per la sua espressività in funzione d’un tema interiore da comunicare al pubblico. Il film non fa che accentuare con l’inquadratura dal primissimo piano al panoramico, col monologo o il dialogo, con il commento musicale o l’interruzione sonora, ciò che un artista ha trovato di importante nella narrazione divenuta scenario. [...] [L]a bellezza cinematografica è questa bellezza nuova, composta della materia più complessa di tutte le arti, dove nella loro inquadratura precisa, nel loro ritmo vitale tutti i molteplici oggetti utilizzati: dall’oggetto inanimato fino all’uomo che si muove nella trama prescelta divengono espressivi di una realtà umana, un tema centrale principio dell’unità artistica. La filosofia del neorealismo. – Ciò che i creatori della nuova scuola, non hanno sentito che più o meno inconsciamente, può essere espresso in una frase, semplice corollario della tesi fondamentale del vero cinema: il mezzo d’espressione si sacrifica in ciò che è espresso. Il cineasta ha scoperto una realtà profonda, dinamica, veramente umana in un episodio della guerra (Un giorno nella vita, Roma, città aperta, Paisà, Vivere in pace, Il sole sorge ancora), in fatto diverso del dopoguerra (Sciuscià, Ger-

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mania anno zero), in tre o quattro gruppi eguali alle migliaia d’altri nel treno che corre verso Loreto (La porta del cielo), in un aneddoto banale d’un commesso viaggiatore nient’affatto eroico e nemmeno infedele in un incontro fortuito con una ragazza in un treno (Quattro passi fra le nuvole). Egli ha visto, egli vuol far vedere ciò che v’è di ricchezza spirituale nel fondo degli avvenimenti più dozzinali. Egli rinunzia con tutta disinvoltura ai giuochi di luci e d’ombre d’una fotografia che tende a divenire essa stessa un fine come nella scuola messicana di Emilio Fernandez e Gabriel Figueroa. Egli non si preoccupa degli artifici come in molte pellicole francesi e argentine. Egli non è avido di ottenere effetti con un montaggio sensazionale come Eisenstein [sic!] e Orson Welles. Egli tende verso lo scopo: umile è la sua fotografia, il suo montaggio sembra privo di originalità, semplice è la scelta delle inquadrature e del materiale plastico che devono concretare la sua visione interiore. Di più: non solamente egli disprezza la bellezza materiale, ma trascura persino la bellezza intellettuale e spirituale, nel senso stretto che abbiamo definito qui sopra. Un brillante critico francese ha potuto dire: «Quando se ne legge il riassunto, gli scenari di molti film italiani non resistono al ridicolo. Ridotti all’intreccio, i film spesso non sono che dei melodrammi moralizzanti». Si deve dire che Rossellini e alcuni altri sono forse andati un po’ oltre nella loro confidenza tipicamente italiana nell’ispirazione del momento: il contatto fresco e vigoroso con il reale, che è il soggetto del film. Ma anche questo si spiega: la sceneggiatura accuratamente preparata non è che un mezzo, e sovente una sceneggiatura troppo «finita» impedisce al realizzatore di cominciare a creare con i suoi propri mezzi i gesti e i volti, che formano l’anima dei gruppi d’uomini semplici e scenografie autentiche che sono gli strumenti del dramma. La scuola neorealista italiana non ha che una tesi, opposta alle tesi formalistiche che fanno del cinema un giuoco d’ombre, di parole, di situazioni e complicazioni inventate. La tesi è questa: lo schermo è una finestra magica che s’apre sul reale, l’arte cinematografica è l’arte di ricreare per mezzo della scelta la più libera nella immensa creazione materiale, la visione più intensa di questa realtà invisibile: i movimenti dell’anima invisibile. Il fondo di ogni grande arte non è quello che uno pensa sulla realtà ma quello che è la realtà. Nell’ultima visione di ciò che è, l’artista e il pubblico dimenticano con gioia le invenzioni artistiche che sono servite di mezzo per questa cosa nuova messa al mondo (e noi pensiamo al profondo parallelismo con le parole del Vangelo che descrivono la gioia della madre che ha messo al mondo un uomo, nuovo essere vivente). La scuola neorealista italiana ha compiuto un passo coraggioso, ha rinunziato a molte vanità per correre verso il vero scopo della cinematografia: esprimere il reale. [...] In Italia l’intelligenza, l’immaginazione, la sensibilità sono veramente grandi e creatrici perché profondamente legate ad una semplice e ricca tradizione umana, frutto di venti secoli di sacrifici e di eroismi: la tradizione cristiana.

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Italo Calvino

Non v’è che un pericolo per la scuola neorealista italiana: essa potrebbe perdere il contatto con le sorgenti profonde della realtà umana che in Italia o è cristiana o non è. Ora, come l’ha indicato nel suo articolo introduttivo alla nuova serie di «Bianco e Nero» il direttore Luigi Chiarini, io non esito a ripetere in pubblico che nell’arte italiana come nell’anima italiana non c’è ancora divisione fra sinistra e destra, o meglio (per evitare espressioni divenute nocive a forza di cattiva interpretazione) fra tendenze materialistiche e spiritualistiche. La realtà umana anche per l’italiano non praticante o non disciplinabile è una realtà spirituale, ed è così che il cinema italiano non avrà le sue «Bêtes humaines», i suoi «Quai des brumes» (troppe nebbie, negli uomini), i suoi «jours qui se lèvent» su anime morte. «Il sole sorge ancora» in Italia perché al di sopra della triste realtà della perversità umana, della tirannia e dell’ingiustizia sociale, si leverà sempre questa anima del popolo italiano che sa e crede che la realtà è eterna, della medesima famiglia di questo Padre che è nei cieli e che sempre è presente per aiutare l’uomo a liberarsi dal suo male. Da A. Félix Morlion, Le basi filosofiche del neorealismo cinematografico italiano, «Bianco e Nero», IX, 4, giugno 1948; ora in Sul neorealismo. Testi e documenti (1939-1955), Pesaro: Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, 1974, 49-55

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Italo Calvino Il realismo italiano nel cinema e nella narrativa A me il cinema quando somiglia alla letteratura dà fastidio; e la letteratura quando somiglia al cinema anche. Mi interessano i film da cui posso imparare o verificare determinate cose della vita (tipizzazioni, modi di rapporti umani, rapporti tra persona e ambiente, ecc.) che se non c’era il cinema a dirmele, non sarei riuscito a capire in altro modo. Il mio cinema ideale resta – forse perché mi ha nutrito quotidianamente per tutti gli anni della mia adolescenza – quello americano dell’anteguerra, col suo catalogo di divi-personaggi, di convenzioni-situazioni, che corrispondono ad altrettante realtà o ad altrettante ipocrisie, anch’esse storicamente reali e importanti; quei film mi divertivo a vederli, e mi divertivo ancora di più a rifletterci sopra, a smontarli, a demolirli, a sceverare il vero dal falso, cosicché anche quelli brutti erano interessanti e istruttivi. Quello era un cinema che non aveva niente a che fare con la letteratura sua contemporanea: aveva creato un suo linguaggio – e una sua retorica – autonomi; ma in comune con la letteratura americana aveva il terreno in cui affondavano le radici entrambi: un particolare senso della società, un particolare inserimento nella propria tradizione. Il nuovo cinema italiano con la letteratura contemporanea ha qualcosa di più che un terreno in comune; i nuovi cineasti e i nuovi letterati sono per lo più giovani delle stesse covate, con gusti, educazione, letture in comune.

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Che questa sia una buonissima cosa lo sappiamo ed è inutile stare a ripetercelo;ma io trovo che vedere i film ha perso molto del suo carattere meraviglioso, adesso che quelli che li fanno sono dei nostri amici: il film non è più quello strano fiore di una pianta spuria e contaminata, con radici che vengono su dal circo equestre, dal castello dei misteri, dalle cartoline al bromo,dai tabelloni dei cantastorie.Ed è un fatto che io mi diverto di meno. Forse sto invecchiando: vedo i film con lo stesso atteggiamento con cui leggo i manoscritti del mio ufficio in casa editrice.A pensarci bene è terribile: come uno che se ne sta da solo e legge. Ma questa è la fine del cinema. (Ahi tu Guido Aristarco, che scrivi leggere un film invece di vedere un film, non ti rendi conto di che delitto compi?). Cinema vuol dire sedersi in mezzo a una platea di gente che sbuffa, ansima, sghignazza, succhia caramelle, ti disturba, entra, esce, magari legge le didascalie forte come al tempo del muto; il cinema è questa gente, più una storia che succede sullo schermo. Il fatto caratteristico del cinema nella nostra società è il dover tener conto di questo pubblico incommensurabilmente più vasto ed eterogeneo di quello della letteratura: un pubblico di milioni in cui le benemerite migliaia di lettori di libri esistenti in Italia annegano come gocce d’acqua in mare. E questo pubblico ha con la creazione cinematografica un rapporto dialettico: si lascia imbottire il cranio dal cinema, ma s’impone a sua volta al cinema. Tutto dipende da come questa dialettica funziona: male, quasi sempre, ma comunque gli splendori e le miserie del film nascono da lì. Il film d’arte è una bellissima cosa ma resterà sempre un’opera di eccezione, è un film che ci facciamo noialtri e poi andiamo a vedercelo strizzando l’occhio e schioccando la lingua. Ma il problema interessante del nuovo cinema italiano era vedere se il linguaggio dei Visconti, De Sica, Rossellini, Castellani riusciva a proliferare, se da stile poetico riusciva a diventare lingua corrente, e a dar vita a una buona serie di drammi popolari e di farse popolari di produzione media.Allora si avrebbe avuto la prova che non era solo un movimento culturale ma era dialetticamente legato a un movimento di esigenze e di gusti nel pubblico. Perciò per me il regista più interessante era Luigi Zampa. Erano forse Steno e Monicelli.Anche Germi, sebbene Germi sappia sempre troppo bene cosa vuole. Ma i film come L’onorevole Angelina, come Guardie e ladri – che sarebbero stati davvero utili al politico e allo scrittore come a tutto il movimento che vuol prendere coscienza di se stesso, perché riflettevano movimenti non intellettuali, ma, in una certa misura, di massa, esprimevano aspetti spiccioli di anarchismo o di qualunquismo, fermenti ribelli o conformismi tradizionali, – sono stati pochi, e adesso questa idiota atmosfera di censura che s’è formata soffoca tutto. A ogni modo, su alcuni punti determinati credo che ciò che vale per il cinema valga anche per la letteratura. Per esempio, ci sono alcune battaglie che vorrei combattere. Ne enuncio solo i temi, riservandomi di svilupparli, se mai, in seguito. La prima è contro il dialetto: contro il dialogo a urli incomprensibili di certi film anche buoni, e contro la rivalutazione

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André Bazin

della poesia dialettale in certi ambienti letterari. Poi una battaglia contro Roma e Napoli. Siamo stufi di vedere Roma e Napoli condite in tutte le salse. Sono due città pochissimo interessanti; ci sono città molto più belle moderne ed emozionanti: che so io Voghera, Savona, Grosseto, Rovigo, ecc. Infine vorrei propugnare la creazione di una buona narrativa d’avventure e di un buon cinema d’avventure. L’Italia, non ha mai avuto né l’una né l’altro. E la narrativa d’avventure è l’unica narrativa popolare possibile; e il cinema d’avventure è l’unico cinema popolare possibile.Tornerò a parlarne, forse, ma sono cose che sarebbe bello farle, e invece il bisogno di teorizzarle nasce proprio quando non le sappiamo fare.

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Italo Calvino, Il realismo italiano nel cinema e nella narrativa, «Cinema Nuovo», II, 10, 1 maggio 1953, 262

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André Bazin Il realismo cinematografico e la scuola italiana della Liberazione Giustamente l’importanza storica del film di Rossellini Paisà è stata paragonata a quella di vari capolavori classici del cinema. Georges Sadoul non ha esitato a ricordare Nosferatu, I Nibelunghi o Greed. Sottoscrivo interamente per quanto mi riguarda questo elogio, anche se il riferimento all’espressionismo tedesco corrisponde naturalmente solo a un ordine di grandezza e non alla natura profonda delle estetiche in causa. Sarebbe da ricordare molto più giustamente l’apparizione della Corazzata Potëmkin nel 1925. Si è spesso opposto del resto il realismo dei film italiani attuali all’estetismo della produzione americana e parzialmente di quella francese. Non è innanzitutto per la loro volontà di realismo che i film russi di Ejzensˇtejn, di Pudovkin o di Dovzˇenko furono rivoluzionari in arte come in politica, opponendosi nello stesso tempo all’estetismo espressionista tedesco e alla insulsa idolatria della vedette hollywoodiana? Come il Potëmkin, così Paisà, Sciuscià, Roma città aperta realizzano una fase nuova dell’opposizione già tradizionale del realismo e dell’estetismo sullo schermo. Ma la storia non si ripete; quel che importa far emergere è la forma particolare presa oggi da questo conflitto estetico, le soluzioni nuove alle quali il realismo italiano deve, nel 1947, la sua vittoria. [...] La Liberazione, rottura e rinascita Diversi elementi della giovane scuola italiana preesistevano [...] al momento della Liberazione: uomini, tecnici e tendenze estetiche. Ma la congiuntura storica, sociale ed economica ha fatto bruscamente precipitare una sintesi in cui peraltro s’introducono degli elementi originali. La Resistenza e la Liberazione hanno fornito i principali temi di questi due ultimi anni. Ma, a differenza dei film francesi, per non dire europei, i film

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italiani non si limitano a mostrare delle azioni di resistenza propriamente detta. Da noi la Resistenza è entrata subito nella leggenda; per quanto vicina nel tempo, essa non era più, all’indomani della Liberazione, che storia. Con la partenza dei tedeschi la vita ricominciava. In Italia, al contrario, la Liberazione non significava ritorno a una libertà anteriore vicina, ma rivoluzione politica, occupazione alleata, sconvolgimento economico e sociale. In definitiva la Liberazione si è fatta lentamente, lungo mesi interminabili. Essa ha influenzato profondamente la vita economica, sociale e morale del paese. Sicché in Italia Resistenza e Liberazione non sono affatto, come la rivolta di Parigi, semplici frasi storiche. Rossellini ha girato Paisà in un periodo in cui il suo racconto era ancora attuale. Il bandito mostra come la prostituzione e il mercato nero si siano sviluppati nelle retrovie dell’esercito, come la delusione e la disoccupazione portino un prigioniero liberato al gangsterismo. A parte alcuni film che sono incontestabilmente dei film di «Resistenza» come Vivere in pace e Il sole sorge ancora, il cinema italiano si caratterizza soprattutto per la sua adesione all’attualità. La critica francese non ha mancato di sottolineare, per felicitarlo o biasimarlo, ma sempre con una solenne meraviglia, le poche allusioni precise al dopoguerra di cui Carné ha voluto marcare il suo ultimo film.1 Se il regista e lo sceneggiatore si sono dati tanta pena per farcelo capire è perché su venti film francesi diciannove sono databili con un’approssimazione di dieci anni.Al contrario, anche quando il nucleo essenziale della storia è indipendente dall’attualità, i film italiani sono prima di tutto dei reportage ricostruiti. L’azione non potrebbe svolgersi in un qualsiasi contesto sociale storicamente neutro, quasi astratto, come uno sfondo di tragedia, quali sono spesso, a vari livelli, quelli del cinema americano, francese o inglese. Ne deriva che i film italiani hanno un valore documentario eccezionale, che è impossibile tirarne via la storia senza trascinare con essa tutto il terreno sociale nel quale affonda le sue radici. Questa aderenza perfetta e naturale all’attualità si spiega e si giustifica interiormente tramite un’adesione spirituale all’epoca. È indubbio che la storia italiana recente è irreversibile. In essa la guerra non è sentita come una parentesi ma come una conclusione: la fine di un’epoca. In un certo senso l’Italia non ha che tre anni. Ma la stessa causa poteva produrre altri effetti. Ciò che continua ad essere ammirevole e ad assicurare al cinema italiano un credito morale amplissimo nelle nazioni occidentali è il senso che acquista in esso la pittura dell’attualità. In un mondo ancora e già ossessionato dal terrore e dall’odio, in cui la realtà non è più quasi mai amata per se stessa ma solo rifiutata o difesa come segno politico, il cinema italiano è il solo a salvare, nel seno stesso dell’epoca che dipinge, un umanesimo rivoluzionario. Amore e rifiuto del reale I film italiani recenti sono perlomeno pre-rivoluzionari: tutti rifiutano, implicitamente o esplicitamente, con l’umorismo, la satira o la poesia, la

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realtà sociale di cui si servono, ma sanno, anche nelle prese di posizione più chiare, non trattare mai questa realtà come un mezzo. Condannarla non obbliga alla cattiva fede. Essi non dimenticano che, prima di essere condannabile, il mondo, semplicemente, è. [...] Per questo quando se ne legge il riassunto, la storia di molti film italiani non resiste al ridicolo. Ridotti all’intrigo, molto spesso, non sono che melodrammi moraleggianti. Ma nel film tutti i personaggi esistono con una moralità sconvolgente. Nessuno è ridotto allo stato di cosa o di simbolo, il che permetterebbe di odiarli senza dover superare preliminarmente l’equivoco della loro umanità. Mi piace vedere nell’umanesimo dei film italiani attuali il loro principale merito quanto al fondo.2 Essi ci permettono di assaporare quando forse non ne è già più il tempo un certo tono rivoluzionario da cui il terrore sembra essere stato escluso. L’amalgama degli interpreti Ciò che ha naturalmente colpito per prima cosa il pubblico è l’eccellenza degli interpreti. Con Roma città aperta il cinema mondiale si è arricchito di un’attrice di primo piano. Anna Magnani, l’indimenticabile donna incinta, Fabrizi, il prete, Pagliero, il resistente, e altri non hanno difficoltà a eguagliare nella nostra memoria le più commoventi creazioni del cinema. I reportage e le informazioni della grande stampa si sono naturalmente affrettati a informarci che Sciuscià era stato realizzato con degli autentici ragazzi di strada, che Rossellini girava con comparse occasionali prese nei luoghi stessi dell’azione, che la protagonista del primo episodio di Paisà era una ragazza analfabeta trovata sulla banchina. Quanto ad Anna Magnani, era senza dubbio una professionista, ma che proveniva dall’avanspettacolo; quanto a Maria Michi, non era che una «maschera» di cinema. Se questo reclutamento degli interpreti si oppone alle abitudini del cinema, non costituisce tuttavia un metodo nuovo in assoluto.Al contrario, la sua costanza attraverso tutte le forme «realiste» del cinema a cominciare, si può dire, da Louis Lumière, permette di vedervi una legge propriamente cinematografica che la scuola italiana si limita a confermare e permette di formulare con sicurezza. Già ai tempi del cinema russo si ammirava il partito preso di ricorrere ad attori non professionisti ai quali si faceva tenere il ruolo della loro vita quotidiana. In realta si è creata attorno ai film russi una leggenda. L’influenza del teatro è stata molto grande su alcune scuole sovietiche, e se i primi film di Ejzensˇtejn non comportano attori, un’opera realistica come Il cammino verso la vita era recitata da professionisti del teatro e, da allora, l’interpretazione dei film sovietici è ridiventata professionale come ovunque. Nessuna grande scuola cinematografica fra il 1925 e il cinema italiano attuale si rifarà all’assenza di attori, ma di tanto in tanto un film fuori serie ne ricorderà l’interesse. [...]

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Non è l’assenza di attori professionisti che può caratterizzare storicamente il realismo sociale al cinema e neppure la scuola italiana attuale, ma proprio la negazione del principio della vedette e l’utilizzazione indifferente di attori di mestiere e di attori occasionali. Quel che importa è di non porre il professionista in un ruolo abituale: il rapporto che stabilisce col suo personaggio non deve essere appesantito per il pubblico da nessuna idea a priori. È significativo che il contadino di Espoir fosse un comico di teatro, Anna Magnani una cantante realista e Fabrizi un comico d’avanspettacolo. Il mestiere non è controindicativo, al contrario; ma si riduce ad una elasticità utile che aiuta l’attore a obbedire alle esigenze della messa in scena e a penetrare meglio nel suo personaggio. I non professionisti sono naturalmente scelti per il loro adeguamento al ruolo che devono tenere: conformità fisica o biografica. Quando l’amalgama è riuscito – ma l’esperienza prova che può esserlo solo se certe condizioni della sceneggiatura, in qualche modo «morali», sono riunite – si ottiene appunto quella straordinaria impressione di verità dei film italiani attuali. Sembra che la loro adesione comune a una sceneggiatura, che sentono tutti profondamente, e che esige da loro il minimo di menzogna drammatica, sia l’origine di una sorta di osmosi fra gli interpreti. L’ingenuità tecnica degli uni beneficia dell’esperienza degli altri, mentre questi profittano dell’autenticità generale. Ma se un metodo così profittevole per l’arte cinematografica è stato impiegato solo episodicamente è perché esso contiene sfortunatamente in se stesso il proprio principio di distruzione. L’equilibrio chimico dell’amalgama è necessariamente instabile, evolve fatalmente fino a ricostituire il dilemma estetico che aveva provvisoriamente risolto: servitù della vedette e documentario senza attori. Questa disintegrazione si coglie con tanta più chiarezza e rapidità nei film di bambini o di indigeni: la piccola Reri di Tabu sembra che sia finita prostituta in Polonia, ed è noto ciò che succede dei bambini che un primo film consacra poi vedette. Nel migliore dei casi diventano dei giovani attori prodigio, ma allora è tutt’altra cosa. Nella misura in cui l’inesperienza e l’ingenuità sono fattori indispensabili, è evidente che non resistono all’uso. [...] Quanto agli attori professionisti, ma non vedette, il processo di distruzione è un po’ diverso. È il pubblico ad essere in causa. Se la vedette consacrata porta con sé il suo personaggio, il successo di un film rischia anche di confermare l’attore nel ruolo che riveste. I produttori sono fin troppo felici di rieditare un primo successo anticipando il gusto ben noto che ha il pubblico di ritrovare i suoi attori preferiti nei ruoli abituali. E anche se l’attore è abbastanza saggio da evitare di lasciarsi imprigionare in un ruolo, resta il fatto che il suo volto, alcune costanti della sua recitazione, divenendo familiari, impediranno definitivamente la presa dell’amalgama con attori non professionisti. [...]

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«Paisà» Come situare il cinema italiano sullo spettro del realismo? Dopo aver cercato di delimitare la geografia di questo clima così penetrante nella descrizione sociale, così minuzioso e così perspicace nella scelta del dettaglio vero e significativo, ci resta ancora da comprenderne la geologia estetica. Sarebbe evidentemente illusorio pretendere di ridurre tutta la produzione italiana recente a qualche tratto comune molto caratteristico e indifferentemente applicabile a tutti i registi. Cercheremo solo di coglierne le caratteristiche più generalmente applicabili ma riservandoci, all’occorrenza, di limitare la nostra ambizione alle opere più significative. Dato che dovremo anche fare una scelta, diciamo subito che disporremo implicitamente i principali film italiani in cerchio concentrico d’interesse decrescente attorno a Paisà, dato che è questo film di Rossellini a nascondere più segreti estetici. La tecnica del racconto Come nel romanzo, è soprattutto partendo dalla tecnica del racconto che si può rivelare l’estetica implicita dell’opera cinematografica. Il film si presenta sempre come una successione di frammenti di realtà nell’immagine, su un piano rettangolare di proporzioni date, dove l’ordine e la durata di visione determinano il «senso». L’oggettivismo del romanzo moderno, riducendo al minimo l’aspetto propriamente grammaticale della stilistica,3 ha rivelato l’essenza più segreta dello stile. Certe qualità della lingua di Faulkner, di Hemingway o di Malraux non potranno certamente essere rese in una traduzione, ma l’essenziale del loro stile non ne soffre affatto perché «lo stile» si identifica quasi totalmente in loro con la tecnica del racconto. Non è la disposizione nel tempo dei frammenti di realtà. Lo stile diventa la dinamica interna del racconto, è un po’ come l’energia rispetto alla materia, o se si vuole come la fisica specifica dell’opera; è esso a disporre una realtà spezzettata sullo spettro estetico del racconto, a polarizzare la limatura dei fatti senza modificarne la composizione chimica. L’universo personale di Faulkner, Malraux, Dos Passos è definito evidentemente dalla natura dei fatti riportati, ma anche dalla legge di gravitazione che li tiene sospesi fuori dal caos. Sarà dunque utile definire lo stile italiano sulla base del racconto, la genesi e le forme di esposizione che lo determinano. La visione di qualche film italiano basterebbe, se non avessimo per di più la testimonianza dei loro autori, a convincerci della parte che vi ha l’improvvisazione. Dopo il parlato soprattutto, un film esige un lavoro troppo complesso, impegna troppo denaro per ammettere la minima titubanza, per strada. Si può dire che il primo giorno di riprese il film è già virtualmente realizzato sul découpage che prevede tutto. Le condizioni materiali della realizzazione in Italia, immediatamente dopo la Liberazione, la natura dei soggetti trattati e senza dubbio anche un qualche genio etnico hanno liberato i registi da queste servitù. Rossellini è partito con la sua macchina da presa, della pellicola e dei canovacci di storie che ha modifi-

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cato a seconda dell’ispirazione, dei mezzi materiali o umani, della natura, dei paesaggi... [...] La sceneggiatura di Sciuscià non sembra affatto sottomessa a una necessità drammatica rigorosa e il film termina su una situazione che avrebbe potuto benissimo non essere l’ultima. Il delizioso filmetto di Pagliero La notte porta consiglio si diverte a legare e slegare malintesi che potevano essere senza dubbio mescolati del tutto diversamente. Sfortunatamente, il demone del melodramma, al quale non sanno mai del tutto resistere i cineasti italiani, vince qua e là la partita, introducendo allora una necessità drammatica dagli effetti rigorosamente prevedibili. Ma questa è un’altra storia. Ciò che conta è il movimento creativo, la genesi particolarissima delle situazioni. La necessità del racconto è più biologica che drammatica. Esso germoglia e cresce con la verosimiglianza e la libertà della vita.4 Non bisogna però dedurne che un metodo del genere è a priori meno estetico della previsione lenta e meticolosa. Ma il pregiudizio per cui il tempo, il denaro e i mezzi varrebbero per se stessi è così tenace che si dimentica di rapportarli all’opera e all’artista... Van Gogh rifaceva dieci volte lo stesso quadro, molto presto, mentre Cézanne ci tornava sopra per degli anni. Certi generi esigono che si lavori velocemente, che si operi a caldo. Ma il chirurgo deve avere ancor più sicurezza e precisione. È solo a questo prezzo che il cinema italiano possiede quell’andamento da reportage, quella naturalezza più vicina al racconto orale che alla scrittura, più allo schizzo che al dipinto. Ci voleva la spigliatezza e l’occhio sicuro di Rossellini, di Lattuada, di Vergano e di De Santis. La loro macchina da presa possiede un tatto cinematografico molto delicato, delle antenne meravigliosamente sensibili, che gli permettono di cogliere d’un tratto quel che si deve, come si deve. Nel Bandito, il prigioniero di ritorno dalla Germania scopre che la sua casa è distrutta. Non resta più degli edifici che un ammasso di pietre circondato da muri in rovina. La macchina da presa ci mostra la faccia dell’uomo, poi, seguendo il movimento dei suoi occhi, fa una lunga panoramica di 360 gradi che ci rivela lo spettacolo. L’originalità di questa panoramica è doppia: 1) all’inizio siamo esteriori all’attore dato che lo guardiamo tramite la macchina da presa, ma durante la panoramica ci identifichiamo naturalmente a lui, al punto di essere sorpresi quando, coperti i 360 gradi, scopriamo un volto in preda all’orrore; 2) la velocità di questa panoramica soggettiva è variabile. Comincia di filato, poi quasi si ferma, contempla lentamente i muri in rovina e bruciati al ritmo stesso dello sguardo dell’uomo come mossa direttamente dalla sua attenzione. [...] Carrelli e panoramiche non hanno il carattere quasi divino che dà loro a Hollywood la gru americana. Quasi tutto viene fatto ad altezza d’occhio o a partire da punti di vista concreti come potrebbero essere un tetto o una finestra. Tutta l’indimenticabile poesia della passeggiata dei bambini sul

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cavallo bianco in Sciuscià si riduce a un’angolazione dal basso che dà ai cavalieri e alla cavalcatura la prospettiva di una statua equestre. [...] La macchina da presa italiana conserva qualcosa dell’umanità della BellHowell da reportage inseparabile dalla mano e dall’occhio, quasi identificata con l’uomo, prontamente accordata alla sua attenzione. Quanto alla fotografia, va da sé che l’illuminazione non assumerà che un debole ruolo espressivo. Prima di tutto perché essa esige il teatro di posa mentre la maggior parte delle riprese vengono fatte in esterni o in ambienti naturali, e poi perché lo stile reportage s’identifica per noi col grigiore dei cinegiornali. Sarebbe un controsenso curare o migliorare eccessivamente la qualità plastica dello stile. Così come abbiamo cercato di descriverlo finora, lo stile dei film italiani sembrerebbe avvicinarsi, con più o meno abilità, padronanza e sensibilità, a un giornalismo semi-letterario, a un’arte abile, viva, simpatica, commovente anche, ma, nel suo principio, minore.A volte capita, anche se si può porre il genere abbastanza in alto nella gerarchia estetica. Sarebbe ingiusto e falso vedere in esso il punto d’arrivo ultimo di una tale tecnica. Come in letteratura il reportage e la sua etica dell’oggettività (ma forse sarebbe meglio dire dell’esteriorità) hanno solamente posto le basi di una nuova estetica del romanzo,5 così la tecnica dei cineasti italiani perviene nei migliori film, e in particolare in Paisà, a un’estetica del racconto ugualmente complessa e originale. Paisà è innanzitutto senza dubbio il primo film ad essere l’equivalente rigoroso di una raccolta di novelle. Non conosciamo d’altro che il film a episodi, genere bastardo e falso come pochi. Rossellini ci racconta una dopo l’altra sei storie della Liberazione italiana. Esse non hanno in comune che questo elemento storico.Tre di esse, la prima, la quarta e l’ultima si riallacciano alla Resistenza, le altre sono degli episodi buffi, patetici o tragici ai margini dell’avanzata alleata. La prostituzione, il mercato nero, la vita di un convento francescano ci forniscono indifferentemente la materia. Nessuna progressione se non un certo ordinamento delle storie secondo l’ordine cronologico a partire dallo sbarco delle truppe alleate in Sicilia. Ma lo sfondo sociale, storico e umano delle sei storie conferisce loro un’unità del tutto sufficiente per farne un’opera perfettamente omogenea nella sua diversità. Ma soprattutto la lunghezza di ogni storia, la struttura, la sua materia, la sua durata estetica ci danno per la prima volta l’esatta impressione di una novella. L’episodio di Napoli in cui vediamo un ragazzino specialista del mercato nero vendere i vestiti di un negro ubriaco, è una splendida novella «di» Saroyan. Un’altra fa pensare a Steinbeck, un’altra a Hemingway, un’altra (la prima) a Faulkner. Non voglio dire solo per il tono o per il soggetto, ma più profondamente: nello stile. Non si può sfortunatamente citare fra virgolette una sequenza cinematografica come un paragrafo, e la descrizione letteraria che se ne può fare è per forza incompleta. Ecco tuttavia un episodio dell’ultima novella (che mi fa pensare ora

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a Hemingway, ora a Faulkner): 1) un gruppo di partigiani italiani e di soldati alleati è stato rifornito di viveri da una famiglia di pescatori che vive in una sorta di fattoria isolata in mezzo alle paludi del delta padano. Gli danno una cesta di anguille, loro se ne vanno; una pattuglia tedesca successivamente se ne accorge e giustizia tutti gli abitanti della fattoria; 2) al crepuscolo, l’ufficiale americano e un partigiano camminano fra le paludi. In lontananza una fucilata. Un dialogo molto ellittico fa capire che i tedeschi hanno fucilato i pescatori; 3) degli uomini e delle donne stesi morti davanti alla capanna, un bimbo mezzo nudo piange senza posa nel crepuscolo.Anche così succintamente descritto, questo frammento di racconto lascia vedere a sufficienza delle enormi ellissi, o meglio delle lacune. Un’azione abbastanza complessa è ridotta a tre o quattro brevi frammenti, in se stessi già ellittici in rapporto alla realtà che rivelano. Passi il primo, puramente descrittivo. Nel secondo l’avvenimento ci viene significato solo attraverso ciò che potevano saperne i partigiani: dei colpi di fucile in lontananza. Il terzo viene presentato indipendentemente dalla presenza dei partigiani. Non è neppure sicuro che questa scena abbia un testimone. Un bambino piange in mezzo ai genitori morti: ecco, è un fatto. Come hanno fatto i tedeschi a sapere della colpevolezza dei contadini? Perché il bambino è ancora vivo? La cosa non riguarda il film. Eppure tutta una serie di avvenimenti si sono concatenati fino a giungere a questo risultato. Di solito, non c’è dubbio, il cineasta non mostra tutto – del resto è impossibile –, ma la sua scelta e le sue omissioni tendono tuttavia a ricostruire un processo logico in cui lo spirito passa senza fatica dalle cause agli effetti. La tecnica di Rossellini conserva senza dubbio una certa intelligibilità nella successione dei fatti, ma questi non si ingranano l’uno sull’altro come una catena su un pignone. Lo spirito deve saltare da un fatto all’altro, come si salta di pietra in pietra per attraversare un fiume. Capita che il piede esiti a scegliere fra due rocce, o che manchi la pietra o che scivoli su una di esse. Così fa il nostro spirito. Il fatto è che l’essenza delle pietre non è quella di permettere ai viaggiatori di traversare i fiumi senza bagnarsi i piedi, non più di quanto quella delle costole del melone sia di facilitare l’equa divisione da parte del pater familias. I fatti sono i fatti, la nostra immaginazione li utilizza, ma essi non hanno come funzione a priori di servirla. Nel découpage cinematografico abituale (secondo un processo simile a quello del racconto romanzesco classico) il fatto viene aggredito dalla macchina da presa, spezzettato, analizzato, ricostituito; senza dubbio non perde tutto della sua natura di fatto, ma questa viene rivestita di astrazione come l’argilla di un mattone dal muro ancora assente che ne moltiplicherà il parallelepipedo. I fatti, in Rossellini, acquistano un senso, ma non alla maniera di un utensile la cui funzione ne ha, in anticipo, determinato la forma. I fatti si susseguono e lo spirito è costretto ad accorgersi che si raccolgono e che, raccogliendosi, finiscono per significare qualcosa che era in ciascuno di essi e che è, se si vuole, la morale della storia. Una morale alla quale lo spirito appunto non può sfuggire perché

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essa gli viene dalla realtà stessa. Nell’episodio «di Firenze», una donna traversa la città ancora occupata da alcuni tedeschi e da gruppi fascisti per cercare di raggiungere un capo partigiano, suo fidanzato. L’accompagna un uomo che cerca anche lui sua moglie e suo figlio. La macchina da presa li segue passo passo, ci fa partecipare a tutte le difficoltà che essi incontrano, a tutti i pericoli, ma con una perfetta imparzialità nell’attenzione che essa presta ai protagonisti dell’avventura e alle situazioni che devono traversare. In effetti, tutto quel che avviene nella Firenze agitata dalla Liberazione è ugualmente importante, l’avventura personale dei due personaggi si insinua bene o male in un brulichio di altre avventure, come quando ci si fa largo coi gomiti attraverso una folla per ritrovare la persona che abbiamo perduto. Di passaggio, si intravedono negli occhi di quelli che vi fanno largo altre preoccupazioni, altre passioni, altri pericoli, di fronte ai quali i vostri non sono forse che irrisori.Alla fine e per caso, la donna viene a sapere dalla bocca di un partigiano ferito che colui che cercava è morto. Ma la frase che glielo rivela non era destinata a lei, la colpisce come una pallottola vagante. La purezza di linea di questo racconto non deve niente ai procedimenti di composizione classici per una narrazione di questo genere. L’interesse non è mai artificialmente portato sulla protagonista. La macchina da presa non vuol essere psicologicamente soggettiva. Il che ci fa partecipare ancor meglio ai sentimenti dei protagonisti, perché è facile dedurli e perché il patetico non proviene in questo caso dal fatto che una donna ha perduto l’uomo che ama, ma dalla situazione di questo dramma particolare fra mille altri drammi, dalla sua solitudine solidale al dramma della liberazione di Firenze. La macchina da presa si è limitata a seguire come per un reportage imparziale una donna alla ricerca di un uomo, lasciando al nostro spirito la responsabilità di essere con questa donna, di comprenderla e di soffrirne. Nello splendido episodio finale dei partigiani accerchiati nella palude, l’acqua limacciosa del delta del Po, le canne a perdita d’occhio alte abbastanza da nascondere gli uomini accovacciati nelle piccole barche piatte, lo sciacquio delle onde contro il legno hanno un posto in qualche modo equivalente a quello degli uomini. A questo proposito, va segnalato che questa partecipazione drammatica della palude è dovuta in gran parte ad alcune qualità molto intenzionali della ripresa. È così che la linea dell’orizzonte è sempre alla stessa altezza. Questa permanenza delle proporzioni dell’acqua e del cielo attraverso tutte le inquadrature del film fa emergere uno dei caratteri essenziali di questo paesaggio. È l’esatto equivalente, nelle condizioni poste dallo schermo, dell’impressione soggettiva che possono provare degli uomini che vivono fra cielo e acqua e la cui vita dipende costantemente da un infimo spostamento angolare in rapporto all’orizzonte. Si vede da questo esempio quanto la macchina da presa in esterni disponga ancora di sottigliezze espressive quando viene maneggiata da un operatore come quello di Paisà. L’unità del racconto cinematografico in Paisà non è l’«inquadratura»,

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punto di vista astratto sulla realtà che si analizza, ma il «fatto». Frammento di realtà bruta, in se stesso multiplo ed equivoco, il cui «senso» viene fuori solo a posteriori grazie ad altri «fatti» tra i quali lo spirito stabilisce dei rapporti. Senza dubbio il regista ha ben scelto questi «fatti», ma rispettando la loro integrità di «fatto». Il primo piano del pomo della porta al quale facevo allusione poco fa era meno un fatto che un segno isolato a priori e dalla macchina da presa, e che non aveva più indipendenza semantica di una proposizione all’interno della frase. È il contrario della palude o della morte dei contadini. Ma la natura dell’«immagine-fatto» non è solo quella di stabilire con altre «immagini-fatto» i rapporti inventati dallo spirito. Sono queste in qualche modo le proprietà centrifughe dell’immagine, quelle che permettono di costituire il racconto. Considerata in se stessa, non essendo ogni immagine che un frammento di realtà anteriore al senso, tutta la superficie dello schermo deve presentare una uguale densità concreta. È ancora il contrario della messa in scena tipo «pomo di porta» in cui il colore dello smalto, lo spessore dell’incrostazione sul legno all’altezza della mano, la brillantezza del metallo, l’usura del catenaccio sono altrettanti fatti perfettamente inutili, dei parassiti concreti dell’astrazione che dovrà eliminare. In Paisà (e ricordo che con questo alludo, a vari livelli, alla maggior parte dei film italiani), il primo piano del pomo di porta sarebbe sostituito dall’«immagine-fatto» di una porta di cui tutte le caratteristiche concrete sarebbero ugualmente visibili. Per questa stessa ragione la direzione degli attori starà attenta a non dissociare mai la loro recitazione dall’ambiente o da quella degli altri personaggi. Lo stesso uomo non è che un fatto fra gli altri al quale nessuna importanza privilegiata può essere data a priori. Per questo i cineasti italiani sono i soli che riescano a fare delle scene di autobus, di camion o di carrozza ferroviaria, proprio perché esse riuniscono una particolare densità di ambienti e di uomini, e perché in esse sanno descrivere un’azione senza dissociarla dal suo contesto materiale e senza smorzare la singolarità umana nella quale essa è embricata; la sottigliezza e la morbidezza dei movimenti della loro macchina da presa in questi spazi stretti e ingombri, la naturalezza del comportamento dei personaggi che entrano in campo fanno di queste scene il pezzo di bravura per eccellenza del cinema italiano. Il realismo del cinema italiano e la tecnica del romanzo americano [M]i sono permesso di paragonare all’occasione il racconto di Paisà a quello di certi romanzieri e novellisti moderni. [...] L’estetica del cinema italiano, almeno nei suoi aspetti più elaborati e nei registi coscienti dei loro mezzi come un Rossellini, è l’equivalente cinematografico del romanzo americano. Beninteso, si tratta in questo caso di tutt’altra cosa che di un banale adattamento. Hollywood continua appunto ad «adattare» i romanzieri ameri-

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cani sullo schermo. È noto ciò che Sam Wood ha fatto di Per chi suona la campana. Il fatto è che in fondo cerca solo di restituire un intrigo.Anche a essere fedeli frase per frase, questo non vorrebbe dire aver trascritto ancora niente dal libro allo schermo. [...] Ora dunque, mentre Hollywood moltiplica gli adattamenti di best-seller allontanandosi sempre di più dal senso di questa letteratura, è in Italia che si realizza, con tutta naturalezza, e con una disinvoltura che esclude ogni idea di copia cosciente e volontaria, su soggetti del tutto originali, il cinema della letteratura americana. È indubbio che conti qualcosa in questa congiuntura la popolarità dei romanzieri americani in Italia dove le loro opere sono state tradotte e assimilate ben prima di esserlo in Francia, dove l’influenza di un Saroyan su un Vittorini per esempio è ben nota. Ma più che questi rapporti dubbi di causa ed effetto, preferisco rifarmi all’eccezionale affinità delle due civiltà quale è stata rivelata dall’occupazione alleata. Il GI si è subito sentito a casa propria in Italia e il paisà ha riconosciuto col GI, bianco o nero, un’immediata familiarità. La proliferazione del mercato nero e della prostituzione sull’esercito americano non è l’esempio meno probante di simbiosi delle due civiltà. E non è neppure un caso che i soldati americani siano dei personaggi importanti nella maggior parte dei film italiani recenti e che vi tengano il loro ruolo con una naturalezza che la dice lunga. Comunque, anche se certe vie d’influenza sono state aperte dalla letteratura o dall’occupazione, si tratta di un fenomeno inesplicabile a questo solo livello. Il cinema americano si fa oggi in Italia, ma mai il cinema della penisola è stato più tipicamente italiano. Il sistema di riferimento che ho adottato mi ha allontanato da altri accostamenti ancor meno contestabili, per esempio con la tradizione della novella italiana, della commedia dell’arte e della tecnica dell’affresco. Piuttosto che di un’«influenza», si tratta di un accordo del cinema e della letteratura su degli stessi dati estetici profondi, su una comune concezione dei rapporti dell’arte e della realtà. È un bel po’ di tempo che il romanzo moderno ha compiuto la sua rivoluzione «realista», che ha integrato il behaviorismo, la tecnica del reportage e l’etica della violenza. Il cinema è lungi dall’aver esercitato la minima influenza su questa evoluzione, così come si crede ancora spesso, e un film come Paisà prova al contrario che esso restava di un vent’anni indietro sul romanzo contemporaneo. Non è il merito minore del cinema italiano recente quello di aver saputo trovare per lo schermo gli equivalenti propriamente cinematografici della più importante rivoluzione letteraria moderna.

Note originali del testo 1 Les portes de la nuit (n.d.t.). 2 Non mi nascondo la parte di abilità politica più o meno cosciente che si

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cela senza dubbio sotto questa generosità comunicativa. Può darsi che domani il prete di Roma città aperta non si intenda più così bene con l’ex resistente comunista. Può darsi che il cinema italiano diventi presto, anch’esso, politico e partigiano. Può darsi che ci sia in tutto questo qualche mezza menzogna. Molto abilmente pro-americano, Paisà è stato realizzato da dei democristiani e dei comunisti. Ma non vuol dire essere raggirati, vuol dire solo essere saggi prendere in un’opera ciò che vi si trova. Per il momento, il cinema italiano è molto meno politico che sociologico. Voglio dire che delle realtà sociali così concrete come la miseria, il mercato nero, l’amministrazione, la prostituzione, la disoccupazione non sembrano ancora aver ceduto il posto nella coscienza del pubblico ai valori a priori della politica. I film italiani non ci informano quasi per niente sul partito a cui appartiene il regista, e neppure su quello che accarezza. Questo stato di fatto deriva senza dubbio dal temperamento etnico, ma anche dalla situazione politica italiana e dallo stile del partito comunista della penisola. Indipendentemente dalla congiuntura politica, questo umanesimo rivoluzionario trova ugualmente le sue fonti in una certa presa in considerazione dell’individuo, e la massa solo raramente viene considerata come una forza sociale positiva. Quando viene evocata, lo è di solito per mostrare il suo carattere distruttivo e negativo in rapporto al protagonista: il tema dell’uomo nella folla. Da questo punto di vista, l’ultimo grande film italiano, Caccia tragica, e Il sole sorge ancora sono due eccezioni significative che segnano forse una tendenza nuova. Il regista Giuseppe De Santis (che ha fatto molto come assistente di Vergano in Il sole sorge ancora) è il solo a fare di un gruppo di uomini, di una collettività, uno dei protagonisti del dramma. 3 Nel caso dello Straniero di Camus, per esempio, Sartre ha ben mostrato i rapporti della metafisica dell’autore con l’impiego ripetuto del passato prossimo, tempo di una eminente povertà modale. 4 Quasi tutti i titoli di testa dei film italiani portano alla voce «sceneggiatura» una buona decina di nomi. Non bisogna prendere troppo sul serio questa imponente collaborazione. Essa ha prima di tutto per scopo di dare al produttore delle cauzioni molto ingenuamente politiche: vi si trovano regolarmente i nomi di un democristiano e di un comunista (come nei film un marxista e un prete). Il terzo co-sceneggiatore ha la fama di saper costruire una storia, il quarto di trovare le gag, il quinto di fare dei buoni dialoghi, il sesto «di avere il senso della vita» ecc. ecc. Il risultato non è né migliore né peggiore che se non ci fosse che un solo sceneggiatore. Ma la concezione della sceneggiatura italiana si adatta bene a questa paternità collettiva in cui ciascuno apporta un’idea senza che il regista sia in definitiva tenuto a seguirla. Piuttosto che al lavoro a catena degli sceneggiatori americani, bisognerebbe accostare questa interdipendenza all’improvvisazione della commedia dell’arte o anche dell’hot jazz. 5 Non m’imbarcherò qui in una disquisizione storica sulle fonti o le prefigurazioni del romanzo di reportage nel XIX secolo. In Stendhal o nei natu-

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ralisti, si trattava ancora, piuttosto che di oggettività propriamente detta, di franchezza, di audacia, di perspicacia nell’osservazione. I fatti in se stessi non avevano ancora quella specie di autonomia ontologica che ne fa una successione di monadi chiuse, strettamente limitate dalle loro apparenze. Da André Bazin, Il realismo cinematografico e la scuola italiana della liberazione (1948), in Che cosa è il cinema?, Milano: Garzanti, 1986, 275, 278-284, 290-303

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Giorgio De Vincenti Bazin e il neorealismo [S]ia nel discorso su Bresson sia in quello sul Mystère Picasso, Bazin indica una strada possibile per un cinema rinnovato, capace di suscitare nuovamente emozioni e di «aprire una finestra sul mondo». Questa strada appare essere quella della depurazione della forma; della sottrazione e del rifiuto dei modi facili, per la conquista di una semplicità che è densità espressiva e significativa. [...] Ellissi e litote: procedimenti di sottrazione e di attenuazione usati allo scopo di produrre un di più di senso, allo scopo di esprimere maggiormente. La via di un cinema espressivo ed emozionale passa per la negazione delle spettacolarità consuete. [...] Il risultato è una depurazione della forma che si manifesta secondo modalità diverse, non esclusa quell’operazione progressiva di critica e di distruzione delle drammaturgie tradizionali che trova il suo esempio storicamente più produttivo per la modernità cinematografica nel neorealismo italiano, cui non a caso Bazin dedica un ampio numero di saggi.1 Il discorso sul neorealismo cinematografico italiano, che è stato normalmente estrapolato dal complesso dell’elaborazione baziniana e presentato un po’ come a sé stante o ricollegato all’ontologia del cinema, trova invece a nostro avviso la sua più autentica lettura nel complesso dei discorsi critici e teorici del suo autore, in particolare nel collegamento con i saggi che abbiamo ripercorso fin qui. È solo dopo aver compreso l’importanza, per Bazin, di un concetto di realtà come materiale che si può affrontare il suo discorso sulla realtà fenomenica, che del primo concetto è soltanto una delle possibili specificazioni. La realtà come materiale su cui il cinema lavora può essere infatti un romanzo, la letteratura, la pittura, il teatro, e anche la realtà sociale, la strada e la piazza dei neorealisti, i «fatti» di Rossellini, la storia politica e sociologica di un determinato paese. Si tratta sempre di materiali che il cinema lavora in un confronto che è spostamento creativo di questi materiali e interrogazione portata sul cinema.

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Nell’elaborazione baziniana sul neorealismo vengono toccate una serie di questioni di un certo peso per il nostro discorso: il concetto di realismo, che ancora una volta va al di là degli ontologismi in cui si è voluta confinare l’elaborazione baziniana; la contrapposizione, più o meno marcata, al découpage classico hollywoodiano; il modo particolare di essere della regia e della recitazione, che tendono a mettersi da parte nel momento stesso in cui violano con forza la norma imperante, fino a una ristrutturazione (tendenziale) dell’intero campo cinematografico. Secondo la pertinenza che ci siamo proposti, si può così schematizzare la posizione baziniana: 1) Il realismo proposto dal cinema italiano dell’immediato dopoguerra è, come tutti i realismi in arte, «estetico» [...]. 2) Il procedimento stilistico del neorealismo punta a rompere gli automatismi produttivi e intellettivi del découpage classico, e per far questo tende a isolare i «fatti» dal continuum narrativo [...]. 3) Corollario di quanto appena detto è che il «neorealismo» è tanto più efficace nelle sue denunce sociali in quanto si oppone all’astrazione della pièce a tesi: Ladri di biciclette è certamente da dieci anni ad oggi il solo film comunista valido, appunto perché conserva un senso anche se si astrae dal suo significato sociale. Il suo messaggio sociale non viene esposto, resta immanente all’avvenimento, ma è chiaro che nessuno può ignorarlo e ancor meno ricusarlo poiché non è mai esplicito come messaggio. La tesi implicata è di una meravigliosa e atroce semplicità: nel mondo in cui vive questo operaio, i poveri, per sussistere, devono derubarsi fra di loro. Ma questa tesi non è mai posta come tale, il concatenamento degli avvenimenti è sempre di una verosimiglianza insieme rigorosa e aneddotica.2

4) Per il neorealismo anche l’uomo è un fatto [...]. 5) Di conseguenza, questo tipo di cinema punta alla scomparsa dell’attore, anzi della stessa recitazione: Sarebbe poco dire che questi attori improvvisati sono buoni o anche perfetti: essi cancellano addirittura l’idea stessa di attori, di recitazione, di personaggio. Cinema senza attori? Senza dubbio! Ma il senso primo della formula è superato, è di un cinema senza interpretazione che bisognerebbe parlare, di un cinema in cui non è più neppure questione che una comparsa reciti più o meno bene, tanto l’uomo si identifica col suo personaggio.3

6) E punta alla scomparsa della messinscena: Alla scomparsa della nozione di attore nella trasparenza di una perfezione apparentemente naturale come la vita stessa, risponde la scomparsa della messa in scena [...] [La scelta delle inquadrature] non tende che ad una valorizzazione più limpida dell’avvenimento col minimo indice di rifrangenza da parte dello stile [...] Come la scomparsa dell’attore è il risultato di un supe-

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ramento dello stile dell’interpretazione, la scomparsa della messa in scena è ugualmente il frutto di un progresso dialettico nello stile del racconto.4

7) E alla scomparsa della storia e delle drammaturgie tradizionali: Scomparsa dell’attore, scomparsa della messa in scena? Certo, ma perché alla base di Ladri di biciclette vi è prima di tutto la scomparsa della storia [...] È il merito di De Sica e di Zavattini. Il loro Ladri di biciclette è costruito come una tragedia, secondo le regole. Non un’immagine che non sia carica di una forza drammatica estrema, ma neppure una alla quale non ci si possa interessare indipendentemente dalla sua successione drammatica. Il film si svolge sul piano dell’accidentale puro.5

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8) Fino alla scomparsa del cinema stesso: È infatti al di là e parallelamente che si costituisce l’azione, meno come una tensione che per una «somma» di avvenimenti. Spettacolo se si vuole, e che spettacolo!, Ladri di biciclette però non dipende più in nulla dalla matematica elementare del dramma, l’azione non gli preesiste come un’essenza, essa sgorga dall’esistenza preliminare del racconto, è l’«integrale» della realtà. La riuscita suprema di De Sica, a cui altri non hanno fatto sinora che avvicinarsi più o meno, è di aver saputo trovare la dialettica cinematografica capace di superare la contraddizione dell’azione spettacolare e dell’avvenimento. In ciò, Ladri di biciclette è uno dei primi esempi di cinema puro. Niente più attori, niente più storia, niente più messa in scena, cioè finalmente nell’illusione estetica perfetta della realtà: niente più cinema.6

Anche in questi scritti in cui è più forte la tentazione verso la «trasparenza dello schermo»,7 c’è – se li leggiamo correttamente (in particolare, Bazin parla sempre ed esplicitamente di: «realismo estetico», «verosimiglianza», scelta degli interpreti «in funzione di caratteri precisi», «artistica concezione dell’attore», scomparsa dell’attore e della messa in scena come «progresso nello stile dell’interpretazione e nello stile del racconto», «illusione estetica perfetta della realtà») – la riconferma di quel procedimento, contro gli automatismi e per il senso, che fa della sottrazione (qui depurazione dagli espressionismi e dagli psicologismi) e della distruzione (delle drammaturgie tradizionali, ritenute ormai inefficaci) i suoi elementi essenziali. Procedimento, non ingenua «trasparenza», operazioni costruttive, stilistiche, realismo estetico, dello stile, non dei contenuti. Il neorealismo cinematografico italiano, secondo Bazin, ha indicato la strada di questo procedimento, che il cinema moderno farà suo in forme più compiute, fino a tematizzarlo in un’esplicita riflessione metalinguistica. Quest’ultimo punto, come si è detto, Bazin non arriverà mai a renderlo davvero evidente, ma l’articolazione del suo discorso ci porta molto vicini a tale conclusione. Il cinema che produce testi di secondo grado, che opera il confronto tra se stesso e altri linguaggi nel momento in cui fa di essi il proprio oggetto e il proprio materiale, riproducendoli (con uno spo-

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stamento semantico, certo, ma che è il frutto di un lavoro che insieme sposta ed esalta la ri-produzione), questo cinema ci sembra anticipare senza equivoci il punto nodale che a nostro avviso definisce la modernità cinematografica: il nesso inscindibile che il cinema che diciamo moderno stabilisce tra la riflessione metalinguistica e l’esaltazione della qualità riproduttiva del dispositivo. A nostro parere, autoriflessione e riproduzione sono insomma già coniugate in modo inscindibile nell’elaborazione baziniana, anche se il loro legame non vi raggiunge ancora i livelli di esplicitazione che possono definire in senso teoricamente forte le pratiche della modernità. André Bazin arriva a un passo da questa conclusione, ce ne mostra la strada, a patto di saperlo leggere senza i paraocchi che i punti più ambigui della sua elaborazione (la trasparenza e l’ontologia) hanno steso sulla critica tradizionale. In questa estensione del suo sguardo, Bazin appare a pieno titolo, ci sembra, come il padre della Nouvelle Vague e della modernità cinematografica.

Note originali del testo 1 Raccolti nel vol. IV di A. Bazin, Qu’est-ce que le cinéma?, che porta il titolo generale Une esthétique de la réalité: le néo-réalisme, Les Editions du Cerf, Paris 1962. I saggi sono stati in parte tradotti in italiano in Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1986, pp. 275 sgg. Le citazioni sono tratte da questa traduzione. 2 «Ladri di biciclette», in Ibidem, p. 307. Pubblicato per la prima volta nel numero di novembre del 1949 di «Esprit». 3 «Ladri di biciclette» cit., pp. 312-313. 4 Ibidem, pp. 314-315. 5 Ibidem, pp. 316-317. 6 Ibidem, pp. 317-318. 7 Tentazione cui non devono essere estranee né la collocazione su una rivista come «Esprit», né la data, precedente alle formulazioni sul rapporto tra il cinema e le altre arti. Da Giorgio De Vincenti, Bazin e il neorealismo, in L’idea di modernità nel cinema, Parma: Pratiche, 1994, 42, 44-50

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Film e dibattiti del neorealismo

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Film e dibattiti del neorealismo Gli articoli raccolti in questa sezione sembrano costituire un versante minore della storia critica del neorealismo. Non vi sono infatti rappresentati né i grandi capolavori di De Sica, Rossellini e Visconti, né i più celebri e più citati dibattiti su Riso amaro [Grossi e Palazzo 2003], su Senso [Sul neorealismo 1974] o su Matarazzo e il cinema popolare [Aprà e Carabba 1976; Caldiron e Della Casa 1999].Tuttavia riteniamo che, proprio perché meno famosi e meno frequentati, questi scritti possano risultare utili per comprendere in che modo si formino e si articolino nel dopoguerra parole d’ordine e strumenti polemici. Il dibattito che investe In nome della legge si svolge interamente sulle pagine di «Cinema» nel corso del 1949. Viene avviato dalla recensione al film di Germi scritta da Guido Aristarco. L’articolo, assai rappresentativo dello stile e del metodo del critico mantovano, elogia il film come buon esempio di cinema neorealista – spingendo il senso del termine oltre quegli esempi già allora costituiti come canonici – e risponde a una serie di questioni implicite, relative agli ipotetici limiti del film: spettacolarità, convenzionalità, influenze palesi del cinema americano. Alle affermazioni di Aristarco risponde, tangenzialmente, Massimo Alberini, prendendo in esame un problema che ritiene endemico del cinema nazionale: la scarsa tenuta narrativa di film costituiti in genere da «scene», «situazioni», il cui concatenamento complessivo risulta spesso assai debole. In nome della legge, secondo Alberini, condividerebbe questo limite con la parte migliore del neorealismo, che «da Uomini sul fondo a Ladri di biciclette, è una affermazione del frammento». Più circostanziata e radicale la critica di Carlo Doglio, che parla di «nuova decadenza» per un film nel quale, ritiene, Germi offre (per ignoranza, non per scelta) un’immagine oleografica della realtà siciliana e dei suoi mali: sfruttamento, arretratezza, mafia. Il segno inequivocabile della decadenza sarebbe l’uso di «materiale “diverso” da quello necessario», prelevato direttamente dal cinema spettacolare americano, in particolare dal gangster movie, «mentre suolo, clima, occasioni e ragioni di omicidio sono, in Sicilia, tutt’altre». La polemica prosegue con le opinioni dei lettori di «Cinema», accomunate, nei brani riportati dalla rivista, dal rimprovero verso Doglio per la mancata distinzione tra film e realtà. In nome della legge, scrivono tra gli altri Morando Morandini e Giorgio Arlorio, non è la realtà: è una storia raccontata da Germi selezionando pezzi di realtà, e come tale va giudicata, commisurando gli esiti agli intenti espressivi; non è possibile pertanto fare «il processo alle intenzioni mancate». Infine, la polemica viene conclusa d’ufficio dall’intervento di uno dei più prestigiosi collaboratori di «Cinema», Glauco Viazzi, il quale accusa Doglio di fare, con la sua stroncatura, il gioco dei nemici reazionari del nuovo cinema italiano e spiega che In nome della legge non è e non può essere il film perfetto sulla mafia e sulla Sicilia del dopoguerra,

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ma è, nonostante i suoi difetti, uno dei migliori risultati possibili in una situazione produttivamente e politicamente difficile per il realismo. È interessante notare che entrambi i principali contendenti del dibattito, Carlo Doglio e Glauco Viazzi, lasciano negli anni Cinquanta la critica cinematografica. Il primo si dedica all’urbanistica e alla pianificazione territoriale, divenendo docente universitario di queste discipline. Per Viazzi è decisiva la frattura tra militanza ideologica ed esercizio intellettuale [Brunetta 1993, 648] che emerge da un altro importante dibattito: quello sull’adeguamento della critica cinematografica di sinistra alle posizioni staliniane [Aristarco 1981]. L’autore dell’articolo su Due soldi di speranza, Franco Fortini, è una delle voci più acute e autonome della cultura marxista del dopoguerra. Giornalista, scrittore, poeta, saggista, critico da posizioni eterodosse dello stalinismo e della rigida politica culturale del Pci, Fortini si occupa occasionalmente anche di cinema, mettendo alla prova di una rigorosa verifica, come negli altri settori della cultura che attraversa, luoghi comuni e posizioni condivise. In questo caso, Fortini analizza il fortunato film di Renato Castellani, storia a lieto fine di due giovani che si amano contro le imposizioni della famiglia e della società, individuando in esso non l’inizio della fine del neorealismo, la sua perversione in quadretto consolatorio, ma il punto di emergenza del limite politico e ideale dell’intero movimento, fin da Ladri di biciclette. Il populismo, scrive Fortini, è l’ideologia che sottostà al neorealismo, non diversamente da quanto accade in letteratura col “metellismo” [Fortini 1957;Asor Rosa 1986, 86-87]: la rappresentazione paternalista di quello che viene artatamente costruito come popolo, senza indagare la complessità delle relazioni di classe, non potrà portare mai a un’arte organicamente legata al progresso sociale (e al socialismo), nonostante gli sforzi generosi tanto di Castellani, quanto di Zavattini e De Sica. Parte da argomentazioni simili a quelle di Fortini ancora Guido Aristarco, nella sua recensione di Cielo sulla palude, guardando al film di Augusto Genina come ad un contraltare, estetico e assieme ideale, della pellicolachiave del nuovo cinema italiano: La terra trema. L’agiografia di Maria Goretti, scrive Aristarco, mostra un’umanità che confida unicamente in Dio per la propria salvezza e perciò non è toccata dai processi storici e collettivi di cambiamento; ma entrambe queste umanità, quella di Cielo sulla palude e quella di La terra trema, esistono effettivamente: il neorealismo di Genina non presenta un’inadeguatezza di ordine contenutistico. Genina, come Visconti, si appoggia poi su una cultura pittorica e figurativa dalla quale trae ispirazione: nemmeno questo «formalismo» per Aristarco è pregiudizialmente incompatibile con il realismo. Semmai il limite del film risiede nella mancata saldatura tra piano estetico-linguistico e piano ideologico: il formalismo di Genina, a differenza di quello di Visconti, non è riscattato dall’attenzione sollecita al divenire dei personaggi; perciò scade in calligrafia, gratuita e leziosa contemplazione delle belle immagini.

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Film e dibattiti del neorealismo

Pur nei differenti oggetti polemici e nella diversa ampiezza delle argomentazioni, questi articoli mostrano alcuni tratti comuni di estremo interesse, che li rendono appunto rappresentativi del clima intellettuale del dopoguerra. In primo luogo troviamo in ognuno di essi quella profonda fusione di giudizi critici, pronunciamenti normativi, tesi di stampo teorico cui abbiamo fatto riferimento nel quarto capitolo. In queste pagine, non è assente il lato analitico-descrittivo, ma esso non è discriminante per la definizione del valore del film, che poggia invece su criteri di aderenza e opportunità teorico-ideologica. Sarebbe riduttivo, insomma, sostenere che quella del dopoguerra è una critica esclusivamente ideologica o contenutistica. Il caso di Aristarco è particolare, ma anche esemplare: il fondatore di «Cinema nuovo» declina nei suoi articoli una pluralità di riferimenti davvero considerevole (letteratura, arti figurative, cinematografie straniere), individuando differenti livelli di analisi all’interno del film (fotografia, recitazione, sceneggiatura, regia).Tuttavia, la valutazione è subordinata alla capacità o meno dei film di adeguarsi a un indirizzo definito a priori: quello del realismo in quanto nuovo cinema del progresso sociale. Da questo punto di vista, l’oggetto del contendere, come sarà più avanti per la celebre polemica Aristarco/Chiarini su Senso, pare di carattere nominalistico: capire se un film è neorealista o no, definirlo con questo termine, non vuol dire solo collocarlo in una fase storica del cinema italiano, ma adottarlo, promuoverlo, indirizzarlo. Per questo motivo, al di là delle posizioni assunte, ad esempio nella polemica su In nome della legge, gli strumenti della difesa sono omologhi a quelli dell’accusa. Scrive Giorgio Arlorio: «È quanto meno grottesco che si faccia il processo alle intenzioni mancate», ma in entrambi i casi sono proprio le intenzioni (e le possibilità) a costituire elemento di discussione.Tanto che la chiusura di Viazzi non prende in considerazione gli elementi di merito esposti da Doglio, ma accusa sostanzialmente quest’ultimo di intelligenza col nemico e di voler boicottare il fronte unitario per il neorealismo. A questo proposito, si può rilevare che in questi dibattiti si trovano già svolti alcuni nodi teorici destinati a riemergere nel corso degli anni Sessanta e Settanta. Fortini, ad esempio, indica in modo molto preciso un tema che sarà approfondito dopo la pubblicazione di Scrittori e popolo di Alberto Asor Rosa [1965]: la sovrapposizione tra neorealismo e populismo, causa primaria del carattere ideologicamente vago del neorealismo cinematografico. L’autore di Verifica dei poteri va oltre: ritiene che questa sovrapposizione non sia occasionale e vede nel populismo il correlato ideologico dell’idillio, dell’illusione di naturalità propria di un cinema e una cultura in cui «i personaggi sono, non diventano». Lo stesso Massimo Alberini, a proposito di In nome della legge, formula accuse non dissimili, attenendosi all’irrisolta continuità narrativa del cinema neorealista. In sintesi, in queste posizioni è già delineata tutta la questione del bozzettismo [Grande 1979], nei suoi risvolti narrativi e ideologici.

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A questo punto si rende necessaria una precisazione. In tutti questi articoli lo sforzo dei critici va verso un allargamento dell’accezione e dell’uso del termine di neorealismo. La necessità di assegnare in modo appropriato una patente neorealista si scontra con la volontà di dare vita a uno sguardo critico unificante, che comprenda occorrenze differenti. In una certa misura ci si stupisce dell’assimilazione nel discorso critico di Cielo sulla palude a La terra trema (Aristarco), Due soldi di speranza a Ladri di biciclette (Fortini), In nome della legge a Uomini sul fondo (Alberini), produzioni della Lux Film e avanguardia. Evitare di confondere «il cosiddetto “neorealismo” con la formula» (Aristarco) è in questi casi altrettanto importante che capire cosa è neorealismo. In che orizzonte possiamo inquadrare questa dialettica tra strategia dell’inclusione ed esigenze di definizione? Si può rintracciare nella prassi critica che segue la seconda guerra mondiale un’idea di militanza come esercizio relativamente aperto del dialogo. In una strategia di conquista dell’egemonia culturale, la critica militante (di cui «Cinema» e poi «Cinema nuovo» rappresentano esempi considerevoli) è impegnata insomma nello sforzo di allargare il proprio fronte di influenza, includendovi il maggior numero possibile di forze artistiche attive. I registi, gli sceneggiatori, gli attori, in un certo senso anche i produttori costituiscono così gli interlocutori verso i quali la «critica programmante» [De Vincenti 1979, 258] può svolgere in pieno il proprio ruolo, nella prospettiva del definitivo rinnovamento realista del cinema italiano. In secondo luogo, questa strategia, condotta a costo di qualche rinuncia sul piano del rigore espressivo e ideologico, è praticabile solo per poche stagioni. L’acuirsi della contrapposizione ideologica e l’irrigidimento della politica culturale con la fine degli anni Quaranta rendono più cogenti le esigenze (pure, lo abbiamo visto, già presenti negli anni precedenti) di definire cosa è realismo e di compattare il fronte interno. In questa nuova fase le deviazioni rispetto alla linea realista, come ad esempio per De Santis Non c’è pace tra gli ulivi o per Germi nei film successivi a Il cammino della speranza, non sono più ammissibili; e i “capolavori” del dopoguerra, da punti di riferimento dialettici, diventano canone del nuovo cinema.

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Guido Aristarco In nome della legge Si è più volte parlato degli equivoci di diversa natura in cui spesso cadono i molti detrattori di certo nostro cinema, i quali confondono, come del resto molti registi, il cosiddetto “neorealismo” con la formula.Tali detrattori di solito partono dal concetto (errato per qualsiasi forma di espressione) che i «panni sporchi si lavano in casa» per arrivare alla conclusione che, in ogni modo, il “mito” di questo cinema poggia sempre sui soliti film: Roma, città aperta, Paisà e Sciuscià. A parte il fatto che i migliori film

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esteri, o almeno la maggior parte di essi, rispecchiano condizioni e aspetti di vita non certo, ragionando come ragionano i detrattori di cui sopra, «edificanti» per i paesi che li hanno prodotti; a parte il fatto che tali aspetti e condizione di vita non si fermano al crudo «reportage» ma indagano e carpiscono significati intimi ed umani per una «missione» poetica; a parte tutto questo, diventa davvero un «mito», e falso, il fermare la nuova « scuola » italiana ai tre film citati. De Sica ha creato, ad esempio, Ladri di biciclette, e accanto ai De Sica e ai Rossellini ci sono i Visconti, i De Santis, i Germi. Il quale, con In nome della legge, si inserisce definitivamente tra i nostri maggiori registi. Si è anche parlato, d’altra parte, di una certa influenza che il nostro cinema avrebbe esercitato sul cosiddetto neorealismo americano: influenza che comunque non si ferma al fatto che un Hathaway, ad esempio, lascia gli studi di Hollywood per girare nei luoghi dove si svolgono le sue storie. Una influenza, chiusa in tali limiti, sarebbe del tutto arida e cronologicamente discutibile. Si potrebbe parlare, piuttosto, di influenze reciproche, derivanti da condizioni varie, da una specie di “collaborazione nel tempo”, dove talvolta è assai difficile cercare e rivendicare a questa o quella cinematografia “fonti” di partenza e quindi porre limiti assoluti, e geografici. Cosi è soltanto in parte esatto parlare di “western”americano per In nome della legge. È indubbio che alcuni nostri giovani registi si sentano attratti, più o meno inconsciamente, da certi film di Vidor o di Ford: da quei film che, prima di iniziare l’attività pratica, costituivano per loro fonti emotive e genuine; da quei film che più li entusiasmavano su un piano artistico e umano. Come si vede, non si tratta del “western” di cui parla Chiattone nel suo interessantissimo ma discutibile libro, cioè del “western” inteso come “genere” dalle limitazioni troppo rigorose e quindi arbitrarie; si tratta piuttosto del “western” che più si allontana dal “genere” per rientrare nell’arte. È d’altra parte indubbio che Germi, come De Santis, ha rielaborato e ricreato, secondo una sua visione e un suo temperamento, i probabili modelli di ispirazione, se di influenze vogliamo parlare. De Santis ha così applicato al racconto di Caccia tragica (1947) il concetto eisensteiniano [sic!] del conflitto in una idea e l’affermazione finale di questa idea. Comunque, nel film In nome della legge, più che imitazioni del “western” americano, troviamo con esso punti di contatto che derivano da analoghe situazioni e da analoghi elementi umani e materiali. Nella “mafia” si identificano i fuori legge del West, nel pretore lo sceriffo, nel signorotto feudale certi avventurieri del Texas, nella Sicilia le praterie. Cambiano i nomi, certe caratteristiche, ma la sostanza è sempre la medesima; e simili i problemi umani e sociali. È anche per questo che In nome della legge non andrebbe giudicato, a rigore, in proporzione diretta alla ambientazione siciliana più o meno fedele alla realtà, bensì alla verità artistica di una ambientazione universale e personale; non alla Sicilia chiusa nei suoi limiti geografici, ma ad una Sicilia di Germi, la quale simbolizzi qualsiasi altra regione o paese dove si verifichino gli stessi fenomeni e problemi da risolvere. È

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appunto in questo senso universale e personale che il film di Germi assume, secondo noi, un più ampio valore e che, al di fuori di certe riserve che vedremo, la sua Sicilia è più vera della Sicilia stessa. L’attualità drammatica di Gioventù perduta (1947) non è soltanto l’attualità drammatica dell’Italia del dopoguerra. La degenerazione di una classe ben definita, quella borghese, si riscontra, più o meno, in molti altri paesi; tanto è vero che anche per questo film si potrebbe parlare (nel senso accennato) di influenza del film “gangster” americano. Universale è il fenomeno della delinquenza giovanile. Il testimone (1945) narra di un giovane assassino il quale confessa alla donna che ama il delitto commesso e si costituisce; Gioventù perduta indaga un altro aspetto dell’assassino, più amaro e dolorante: perso ogni rispetto per la legge, il protagonista; al sentimento contrappone il cinismo; con In nome della legge Germi torna, in un certo senso, al tema del suo primo film: il rientro alla legalità. Sono insomma gli aspetti di una visione del mondo che gravita intorno allo stesso “moto vivo”. È semmai nella forma in cui esso si attua che più sarebbe giustificabile un’analisi volta al rinvenimento di particolari influenze americane; influenze non di “generi” ma di stili.A rigore, la panoramica che scopre, dopo la perizia nella miniera, i componenti la “mafia” alla sommità della strada, ricorda molto da vicino analoghi movimenti di macchina in Ford; e può darsi che Ford sia un riferimento preciso (non quello di Fort Apache, comunque, che è del 1948), anche perché Germi impiega poche panoramiche e carrellate.Tale limitazione va ricercata nel fatto che il regista adotta un considerevole modo di narrare per stacchi, con lo scopo di raggiungere un particolare ritmo: che può essere del “western”, ma nello stesso tempo è anche dei russi, di Eisenstein [sic!] o di Pudovkin. Inoltre le poche dissolvenze sono “rapidissime”, e sostituiscono quasi gli stacchi, talvolta determinanti nella caratterizzazione dei tipi nel suggerire certi particolari stati psicologici [...]. In quanto alle dissolvenze “rapidissime”, le “dissolvenze-stacco”, un esempio è costituito dalla lepre che il Passalacqua getta sulla tavola apparecchiata in bianco dalla quale si passa al bandito riverso sulla roccia «calcinata di sole»: illustre esempio di montaggio per analogia, da tenere presente per una auspicabile storia dei mezzi tecnici in funzione espressiva, cioè dell’arte. Forse l’equivoco della accentuata influenza americana che si vuol vedere nel film In nome della legge, deriva dal fatto di considerare il film proprio nei suoi aspetti ritmici esteriori, senza considerare il valore emotivo del montaggio per analogia accennato, oppure la carrellata in avanti nella sequenza finale, la quale “cattura” Ciccio Messana, oppure i moti interni di alcune situazioni: il pretore e il maresciallo, ad esempio, che arrestano Gallinella.Tale equivoco rientra in quello più vasto e generale che vede nel cinema soltanto una narrazione di fatti, un movimento “rapido” e “serrato” e in quanto tale “divertente”, un “cinema autentico”, lo chiamano, «cinema, cinema senz’altro»; mentre in realtà questo cinema è

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Guido Aristarco

un sottoprodotto, proprio quello cui si fermano gli intellettuali quando condannano la nuova forma espressiva. È più cinema l’Hamlet di Olivier che non il “western” che tanto piace a Chiattone e a molti altri. Se ad un tipico “western”si avvicina In nome della legge, non è tanto – come abbiamo accennato – quello di un Curtiz quanto quello di un Ford. È vero, alcuni personaggi sono troppo schematici, in particolare la baronessa; ma altri hanno caratteri psicologici ed umani: il maresciallo, ad esempio, oppure Vastianedda. Così come nel linguaggio “rozzo” di Germi, che a prima vista sembrerebbe del tutto privo di ricerche formali e pittoriche, di composizioni architetturali e scenografiche, si avvertono talvolta proprio tali ricerche: si vedano certe angolazioni (il carrettiere visto attraverso le gambe del bandito con la doppietta puntata), certe inquadrature della piazza paesana, con la chiesa che domina e le donne sedute contro i muri, oppure l’introduzione del barone, all’inizio, visto di riflesso, sullo specchio. La conoscenza del mezzo tecnico, l’impiego del materiale plastico e del sonoro, testimoniano in Germi una matura coscienza artigiana (inteso questo aggettivo nel suo significato più ampio e nobile) la quale conduce, almeno nelle sequenze accennate di In nome della legge, al linguaggio. [...] Tale carattere psicologico presenta i suoi lati deboli soprattutto nella parte che riguarda le relazioni tra la baronessa, il marito e il pretore. Forse l’elemento “amoroso” è più inserito per compromesso commerciale che per esigenza narrativa. [...] Questo non toglie che le denunce rimangano: le relazioni del barone con certe persone di Roma, il fenomeno feudale, il sindaco, il cancelliere, il procuratore generale. Né peraltro appare del tutto arbitraria la conversione di Passalacqua, il suo passaggio dalla legge locale alla legge dello Stato: egli viene presentato, nella eccezione detta, sin dall’inizio, e dagli accenni a quel figlio che studia e sarà «il suo onore ». In ogni modo non si può parlare, per il film di Germi di “immoralità” del lieto fine (del resto relativo: Paolino muore), il quale va inteso come una specie di augurio del regista, un invito alla legalità. [T]ra i difetti del film si avverte inoltre lo squilibrio esistente tra interni ed esterni: i primi non hanno il vigore e la forza espressiva dei secondi, eccezion fatta per la sequenza in cui la «mafia» decreta l’uccisione del pretore: alle domande di Passalacqua rispondono con gesti particolari ed eloquenti i componenti la banda, interpretati da «tipi» e non da attori professionisti. Ma questi e quelli (Girotti, Vanel), si fondono in una concertazione interpretativa inconsueta. Camillo Mastrocinque potrebbe, dopo questo film, lasciare definitivamente la regia per la recitazione: e a tutto suo vantaggio. Ma l’autentica rivelazione è Saro Urzì, nella parte del maresciallo: ecco un nome che la giuria dei nastri d’argento non dovrebbe dimenticare, e così pure quelli dell’operatore Leonida Barboni, del musicista Carlo Rustichelli (lo stesso di Gioventù perduta), e di Massimo Girotti, che dopo In nome della legge è da considerarsi il migliore attore italiano. Da Guido Aristarco, In nome della legge, «Cinema», II, 13, 30 aprile 1949, 412-413

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Massimo Alberini Annotazioni su una diffidenza

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Queste «annotazioni su una diffidenza» di Massimo Alberini, che fu nel passato uno dei più assidui collaboratori di Cinema, sono spesso in contrasto con la posizione assunta dalla nostra rivista specialmente nei confronti di Ladri di biciclette [...]. L’interessante articolo ha però, tra gli altri meriti, quello di portare un disinteressato contributo nella polemica sul cinema italiano. (N. d. R.) «In Italia non abbiamo avuto Balzac, né Dickens, né Walter Scott: le grandi ondate della narrativa romantica, del verismo sociale alla Zola, passarono lontane da noi, senza suscitare echi notevoli: lo stesso Manzoni rientra più nel saggio moralistico che nella grande narrazione popolare, le Memorie del Nievo, dopo una prima parte ammirevole, cadono nella cronaca sciatta. Concludendo, non abbiamo in Italia una tradizione romantica, né il gusto del raccontare. E poiché il cinema è, soprattutto, racconto, sia pure visivo, noi italiani non sapremo mai fare del vero cinematografo». Questo discorso, ripetuto con tanta insistenza da rientrare fra i luoghi comuni, veniva fatto fra gli appassionati di cinematografo una quindicina d’anni addietro [...]. Strano come questa vecchia accusa non sia riapparsa ora, perché il trionfo, sia pure su base intellettuale, del «neo-realismo», potrebbe offrire un buon pretesto a chi volesse rispolverare le idee di un tempo, anche per dimostrare come l’indifferenza del pubblico per i nostri film dipenda dalla mancanza di una tradizione narrativa intimamente sentita. [...] Oggi il discorso è ancora valido per le opere migliori. Tutto il «neo-realismo», da Uomini sul fondo a Ladri di biciclette, è una affermazione del frammento, della scena pregevole, del clima parziale inteso come descrizione di un ambiente, ma senza che, da scena a scena, si formi quella continuità, quel sentimento unico che fanno superare allo spettatore l’ideale parete divisoria fra lui e i personaggi, per condurlo a sentirsi «dentro» al film. Lasciamo da parte i documentari sulla Marina, da cui prese le mosse il neo-realismo, lasciamo da parte Paisà in cui lo spezzettamento è voluto, si può sostenere, dai vari episodi: ma lo stesso Ladri di biciclette è una splendida antologia di situazioni che dovrebbero fondersi, e restano invece estranee le une alle altre: Ricci al lavoro, Ricci a Piazza Vittorio, Ricci in trattoria, Ricci nella casa di tolleranza, Ricci davanti allo stadio, ogni volta si ha la sensazione che scatti un dente dell’ingranaggio, si apra una nuova pagina e si chiudano definitivamente le altre, fra personaggi e scene nuove, che non legano, non hanno una convincente ragion d’essere (pur essendo, prese a sé, riuscite) rispetto a tutte quelle che le hanno precedute e le seguiranno, ma si allineano solo per dar modo al film di procedere (unica, lieve eccezione, quella della «santona»). [...] Ma passiamo avanti, si veda l’ultima affermazione della nostra cinematografia, In nome

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Carlo Doglio

della legge. Quest’opera di Germi è una delle più convincenti, delle più raccontate, fra quante si sono da noi prodotte: interpretazione, clima, vicenda, «stanno insieme» come raramente accade in pellicole italiane (e il pubblico lo ha sentito subito, di qui il successo anche di cassetta). Le inquadrature «belle» (l’incontro con la mafia, gli agguati ecc., strano, a proposito, come non si sia messa in rilievo l’influenza di Que Viva Mexico! su certe riprese, come quella dell’arrivo dei mafiosi a cavallo in piazza) s’inseriscono al momento giusto, hanno una ragione logica: e così pure le annotazioni d’ambiente, certi interni, la solennità enfatica, spagnolesca, di alcuni personaggi minori. Ma anche qui è il racconto che cede, sia durante il film, con la vicenda falsa e inutile degli «amori» fra baronessa e funzionario, sia nel crollo finale, quando lo stupendo personaggio di massaro Passalacqua si svuota in un ambiente divenuto d’improvviso retorico e convenzionale (e tanto si è parlato di questo, da dispensarmi da un discorso più lungo). [...] Da Massimo Alberini, Annotazioni su una diffidenza, «Cinema», II, 17, 30 giugno 1949, 522-523

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Carlo Doglio Personaggi equivoci e nuova decadenza Questo articolo di Carlo Doglio si inserisce nella polemica iniziata da Massimo Alberini con Annotazioni su una diffidenza, apparse nel n. 17. Cinema, che del resto ha già espresso il suo giudizio sul film di Germi non condivide la posizione estremista assunta dal Doglio nei confronti di In nome della legge: opera per la quale non si può certo parlare di “nuova decadenza”, ma che piuttosto costituisce un illustre esempio di quell’artigianato necessario ad ogni cinematografia, e in particolar modo a quella italiana, che ancora manca di una produzione cosiddetta media. (N. d. R.) [Tramite] codesta opera sono molti i veleni artistici e sociali che possono invadere della gente bennata. Un elenco, pari a magica evocazione, li metterà prima in luce poi in fuga. La scelta del soggetto, per incominciare; soprattutto quando ci si rivolge a un romanzo devesi poter rispondere al perché di codesta lettura. Che sia un’opera di nessun valore letterario non ha importanza: ma è un fatto che un cattivo romanzo può servire da canovaccio solo in quanto abbia abbondanza, anzi sovrabbondanza di sensualità e di ammazzamenti: dei due modi primitivi ed eterni, cioè, con cui la libertà umana si mostra nella sua nuda realtà di lotta (una libertà immobile è inutile, quindi inconcepibile e inesistente). Ebbene, nel romanzo di Lo Schiavo poco o niente c’è: un vellicamento, una «pruderie» piccolo-borghese semmai (tutta la figura del

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pretore, d’altronde «detta» e non «creata»). Immaginarsi nel film! peggio che peggio quella relazione tra pretore e baronessa, o anche tra mafioso «cattivo» e madre di Bastianedda e Bastianedda medesima. Gli è che a Germi nulla interessa; tutto gli è indifferente. Come avrebbe potuto, in caso diverso, accettare l’orribile musica della sua colonna sonora? quel «leit-motiv» da presentazione della R.K.O., che inizia il film e riecheggia ogni qualvolta si fa avanti la «mafia»; i mandolini al primo incontro con la baronessa. [...] Ma che cosa accompagnerebbero, poi, quei canti disperati o assalienti? È difficile indicare un film nel quale le inquadrature siano maggiormente prive di qualsiasi personalità, oppure bellamente copiate. Il segno della decadenza (o commercialità, o insufficienza) è nell’uso di materiale oramai standardizzato, di commodo. [...] Peggio, il segno di decadenza risalta dall’uso di materiale «diverso» da quello necessario: si faccia attenzione ai cadaveri, soprattutto al secondo, ripresi con l’oggettiva meticolosità degli ultimi film «gangster» (a loro volta derivazione dei documentari bellici) prodotti in Usa: mentre suolo, clima, occasioni e ragioni di omicidio sono, in Sicilia, tutt’altre. Ma non direi che Germi si sia nemmeno sognato di indagare queste cose. C’è da sospettare che tutto il suo «senso» della Sicilia risiedesse in quella fotografia che proprio Cinema ha pubblicato, con il regista a cavallo in una specie di sombrero: colore di seconda mano, ecco tutto. Che cosa ci starebbero a fare altrimenti le scene dei minatori in agitazione e in rivolta, inquadrate a caso o copiando qua e là «scene notturne di folle in tumulto»? Se esistesse una specie di «rimario» per cinematografari, gran parte della sua merce potremmo giurare di trovarla in questo film. Come, del resto, nella ricetta di qualsiasi rispettabile romanzo popolare troveremmo un barone truffaldino e seviziatore della moglie, scialacquatore e mezzo assassino. Fortunata Sicilia se i suoi guai fossero tutti qui, e se la mafia rappresentasse nient’altro che «la legge non scritta»! Mentre in Sicilia ci sono una terra ingrata e dura (mai che si veda la «fatica» della gente che lavora; ma già, questo non interessa né la pretura, né i carabinieri, né Germi); una proprietà spezzettata talvolta (particellare addirittura, quindi economicamente nullificata), tal’altra estesa sproporzionatamente ai beni liquidi dell’unico padrone che non può quindi acconciamente sfruttarla; una stratificazione di feudalesimo e di servitù che procrea lo sfruttamento della miseria e il perpetuarsi dello «statu-quo»: che questo è la mafia, difesa dall’intervento statale non in senso libertario, ma compiaciuta difesa dell’osso (il povero lavoratore) che si vuole succhiare da soli. In questo senso l’accordo finale è davvero simbolico, superando il contentino del malvagio punito: da quel momento in poi le due leggi egualmente sfruttatrici si daranno la mano, e buonanotte signori. Pensare che certuni hanno parlato di «film coraggioso»! Solamente la confusione delle lingue cui oggi assistiamo in Italia può giustificare gli attacchi dei reazionari e la difesa dei rivoluzionari; evidentemente «presunti» gli uni e gli altri giacché l’opera è di un conformismo e di un gret-

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Carlo Doglio

to autoritarismo veramente malvagio. [...] Tutta la parte economico-sociale è dimenticata. Mica volutamente, direi, ma perché gli autori del film ne ignorano l’esistenza. Tradito è il paesaggio. Valido come documentario a cui non si domanda che di «riprendere i luoghi quali sono», ma privo di qualsiasi trasfigurazione artistica: unico pezzo valido, esteticamente, l’enorme disperata piazza che «sente» di spagnolo e di secolare servitù. Tutto il resto potrebbe essere all’interno dell’Usa; e, quasi, il pubblico si compiace di trovare accenni da film presi nei romanzi di Steinbeck o simili tizi. Equivoci i personaggi. Tranne la stupenda naturalità di Bastianedda, il taglio della sua bocca evocatore di saraceni, di terra grezza. [...] Equivoci, tutti quanti o quasi. E traditi dal ribobolo del dialettismo. Si badi: il film è dialettale (per questo piace al pubblico); il film è estetizzante (per questo piace ai letterati). Nei movimenti di macchina (affatto gratuiti; o semmai adoperati per nascondere le zeppe – le crepe – del racconto), nelle inquadrature una per una, c’è un continuo rapporto tra elementi dialettali e elementi estetizzanti: a) le donne «nere», alla Dreyer, che fanno coro (ed è una cosa che sappiamo dai primi passi-ridotti della nostra vita); b) gli uomini che si muovon dai campi ai primi rintocchi della campana (altro esempio di «rimario cinematografico»); c) la corsa della madre di Bastianedda con il vento tra i capelli. È proprio così che gli estetizzanti (i dilettanti) credono sia il popolo; così che il popolo si immagina d’essere (il dialettismo) finché una mano dura di vero artista o di autentico rivoluzionario non gli scuote la polvere di dosso e ne denuda le interiora. Germi ha fama d’uomo che s’attacca a soggetti scabrosi: si vedano Gioventù perduta e Il testimone. Vorrei si potesse conversarne un poco a lungo con i film alla mano. Certo, nessuno chiede a Germi di approvare il male che dipinge; ma di evitare l’oleografia (truccata da audacia), questo sì: tanto nello stile che nel contenuto, esattamente interdipendenti. Sennò si merita di passare da agente provocatore, e senza dubbio da corruttore. Questo film non ha infine nulla da spartire con il neorealismo, e il successo gli deriva dall’essere alla «page» con il pubblico.Volendo tracciare una storia psicologica del cinema italiano (e della società italiana) come potremmo non ricordare i primi film parlati (addirittura Figaro e la sua gran giornata e Vivere?) che documentavano uno stato d’animo, una speciale situazione del paese. Ebbene, veramente mi pare che In nome della legge abbia lo stesso significato. Che la sua apparizione debba farci tremare, non compiacere. E, comunque, anche di ciò senza merito volontario: è un puro esecutore di codesta incombente nuova decadenza. Da Carlo Doglio, Personaggi equivoci e nuova decadenza, «Cinema», II, 21, 30 agosto 1949, 96-97

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F. Ber. I lettori e il cinema italiano. La “legge” di Germi L’articolo di Carlo Doglio Personaggi equivoci e nuova decadenza, era stato pubblicato sul n. 21 di Cinema con una breve nota della redazione: «Questo articolo si inserisce nella polemica iniziata da Massimo Alberini con Annotazioni su una diffidenza, apparse nel n. 17. Cinema, che del resto ha già espresso il suo giudizio sul film di Germi, non condivide la posizione estremista assunta dal Doglio nei confronti di In nome della legge». E la nota continuava con alcune altre precisazioni di natura estetica, quindi sufficienti a far capire al lettore che il brano del collaboratore era stato riportato come «una voce della critica» e non la «voce di Cinema» (si veda, del resto, la nostra recensione apparsa nel n. 13 del 30 aprile). Le reazioni polemiche, come si prevedeva, non sono mancate. Alla redazione e particolarmente al «Postiglione», i lettori – alcuni dei quali non estranei all’attività giornalista [sic!] – hanno scritto lettere veramente indignate, e poiché i loro argomenti per controbattere le affermazioni di Doglio sono spesso intelligenti anche se a volte discutibili, riteniamo giusto riportare di queste lettere alcuni passi. Tra i mittenti figurano Carlo Giolito di Bologna, Morando Morandini di Como, Giorgio Arlorio di Torino, Federico Mancini di Bologna e Virgilio Leonardi di Chieti. Da osservare che nessuna lettera è arrivata dalla Sicilia. Dopo un preambolo comune quasi a tutte le lettere, in cui si sospetta un rancore personale, diretto, di Doglio verso Germi, i lettori entrano nel vivo. «Carlo Doglio ha afferrato una penna o una macchina per scrivere (una macchina per scrivere. N.d.R.) e con un piglio da Scannabue ha fatto una violenta acida e spesso apodittica stroncatura. La sua offensiva comincia dalla scelta del soggetto affermando che “un cattivo romanzo può servire da canovaccio solo in quanto abbia abbondanza, anzi sovrabbondanza di sensualità e di ammazzamenti”. Postulazione che, se è inutile controbattere con argomenti artistici tanto appare gratuita, potrebbe essere annullata da una serie di esempi più o meno illustri. E li potremo fornire al Doglio, se lo desidera. Per Doglio la rappresentazione dei problemi sociali in In nome della legge sarebbe un “bluff”. Il fatto è che Germi non ha voluto fare della polemica diretta sul secolare problema siciliano, come non ne aveva fatta con Gioventù perduta; chiedergli un “engagement” sociale di questo tipo è arbitrario, e a questo punto potremmo iniziare un discorso sull’equivoco fondamentale, che vizia tutta l’attività artistica di questi ultimi anni: la contaminazione di arte con politica, filosofia, l’impegno di volere narrare una favola in funzione di una dimostrazione (filosofica o politica o polemica semplicemente o vagamente anticonformista), di fare poesia nella sua accezione più lata, etimologica, esclusivamente in rapporto ad una precisa ideologia. Germi narra, rappresenta, descrive; non ha né la violenza polemica di un De Santis, né l’impegno mitico di un Visconti; Germi ha il

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gusto del racconto, crede nella propria invenzione e di questa felicità narrativa è frutto In nome della legge». (Morandini). Giorgio Arlorio considera lo stesso punto con maggior nervosismo: «Ecco il nostro articolista (Doglio) abbandonarsi ad una violenta analisi politicosociale di ciò che il film di Germi dovrebbe dire e non dice (naturalmente per l’ignoranza e la nullaggine del regista). Orbene, è quanto meno grottesco che si faccia il processo alle intenzioni mancate, che non sarebbero dovute mancare. Evidentemente Carlo Doglio ha, politicamente, una propria ben determinata opinione su quanto accade in Sicilia, e si duole di non averla vista illustrata nel film. Ma come convincerlo che questo ha una sua vicenda e che questa bisogna giudicare e non un’altra, ipotetica? Evidentemente – vedasi il giudizio sull’unione sfruttatrice delle due leggi – egli giudica il film reazionario rispetto alla realtà. Ma come fargli capire che non la realtà (sia essa come egli la vede oppure no) conta, cinematograficamente, ma soltanto contano i fatti presentati dal regista? Perché, chi dice che Germi abbia voluto dipingere, fotografare anzi la realtà? O non, piuttosto, non tenerne conto? Oppure ancora – poiché nulla è escludibile “a priori” – immaginarla come egli vorrebbe, forse (ipotesi della realtàidealizzata o del film-messaggio)? È accusa valida ed opponibile il dire, dall’alto del seggio critico, che “tutta la parte economico-sociale è dimenticata”? Mi pare francamente di no. Più oltre si afferma tradito il paesaggio siciliano, reso banalmente simile a molti altri. Ma non si pensa che l’apparente indeterminatezza di questo, come quella del materiale e dei personaggi – ripetutamente indicate nell’articolo come segni evidenti dell’inconsistenza e della falsità del film – portano insita un’unità di intenzioni che dà toni e tendenze di una universalità all’intera opera, che perciò si rafforza vieppiù come documento umano». Alla foga di Arlorio fa riscontro la pacatezza di Virgilio Leonardi che scrive: «Avremmo potuto, sebbene attoniti, seguire la diatriba del Doglio se questi non ci avesse suggerito quanto avrebbe voluto vedere e sentire nei film: il folclore siciliano, la “fatica” della gente che lavora, critica sviscerata alla mafia in ogni suo atteggiamento, aspetti economico-sociali e così via. Ma ci vien fatto di osservare che In nome della legge non si prefiggeva tale meta. Se Germi avesse voluto attaccare i sistemi di sfruttamento cui i lavoratori siciliani sono sottoposti, se avesse voluto gridare le sofferenze di questi, altro film avrebbe fatto e la “legge”, in tale lavoro, non sarebbe stata rappresentata né da pretori né da divise gallonate, ma piuttosto da quella umanità che è nei più e da quella giustizia ch’è nella forza del lavoro e che non ha bisogno d’essere codificata»; Federico Mancini ha suppergiù le stesse ragioni da opporre al Doglio, ricorrendo inoltre ad un esempio: «Quando Eisenstein [sic!] diresse Ivan il terribile non si occupò affatto dei rapporti tra la classe dominante e la classe oppressa ma solo dei rapporti interni alla classe dominante (autocrazia zarista e aristocrazia bojarda). E perché avrebbe dovuto farlo? Ad Eisenstein [sic!] premeva di narrare la storia di Ivan, mostrare il grande Zar come uomo e come fondatore dello stato

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russo, e per descriverlo secondo il suo gusto lo ha atteggiato solo in quel modo e in quella relazione che interessavano lui, Eisensten [sic!], e gli sembravano poter attingere alla più alta significazione artistica. Ora, Germi ha narrato una storia siciliana e s’è servito di quei particolari mezzi che la sua ispirazione gli suggeriva per raggiungere quel risultato e non altro». Quanto alle critiche mosse dal Doglio non solo alla struttura del film, ma alle risoluzioni formali e tipicamente cinematografiche, il Morandini osserva : «Fra i rilievi negativi fatti dal Doglio ve ne sono alcuni mossi alle risoluzioni formali. [...] Tutte cose che sappiamo a memoria, che abbiamo visto mille volte, dice Doglio. E Clair allora? e Chaplin? e Ford? e gli stessi russi? Quante volte copiano se stessi, ripetono se stessi? Anzitutto resta ancora da dimostrare che Germi faccia uso di materiale standardizzato, ma anche se così fosse il suo film è così unitario, così rigoroso che, nonostante i cedimenti e i difetti che tutti conosciamo, nessuno se ne accorge. [...]». [...] Doglio ha scritto che «il carabiniere è troppo carabiniere». Questa affermazione ha irritato Arlorio, Leonardi, ma soprattutto Morandini che dice: «Urzi, l’attore che dà vita al personaggio, avrebbe dovuto essere un po’ meno carabiniere per essere un vero carabiniere, o un carabiniere artistico? Oppure essere diversamente carabiniere?». E conclude lepidamente: «Essere o non essere carabiniere? Questo è il problema». Carlo Giolito aggiunge: «Non vorrà per caso dire il signor Doglio che il carabiniere è soltanto fotografato e quindi freddo, privo di ogni valore umano ed artistico?». [...] La polemica non è chiusa. Cinema tornerà quanto prima sull’argomento. Intanto pubblichiamo questa lettera di Carlo Doglio: «Io dicevo chiaramente che il film di Germi sul piano dell’artigianato era senz’altro dignitoso; forse il più dignitoso della annata italiana. E in questo sapevo, per lettura diretta dell’articolo critico, d’avere l’appoggio di Aristarco che non diversamente si espresse su questo stesso Cinema. Ma le cose cambiavano, e cambiano tuttora, quando si voleva o volesse fare di quell’opera una specie di paradigma del neorealismo; peggio, quando il suo successo di cassetta veniva sbandierato come la “prova provata” che il pubblico italiano “capiva” quel particolare tipo di cinematografia; o infine, per scendere nell’abisso, quando lo si proponeva quale capolavoro o pressappoco. In realtà il film di Germi fruiva invece, come cercai di dimostrare, e come ritengo di avere dimostrato nonostante le sapute critiche, d’un incontro felice d’equivoche risoluzioni estetiche e di costume con il sottosuolo dilettantesco, banale, asociale della vita italiana di questi anni. Il suo vero valore è proprio qui: nel poter valere da specchio d’una certa parte di popolo che non sa nulla dire di sé ma che tutto di se dice in realtà... quando si entusiasma, per esempio, per In nome della legge». Da F. Ber. (cur.), I lettori e il cinema italiano. La “legge di Germi”, «Cinema», II, 26, 1949, 264-265

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Glauco Viazzi I film non piovono dal cielo

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Con questo articolo di Glauco Viazzi, chiudiamo la polemica su In nome della legge: polemica cui diede l’avvio una nota critica di Carlo Doglio (fascicolo n. 21) e alla quale parteciparono con vivo interesse i nostri lettori (fascicolo n. 26). Cinema ha espresso più volte la sua opinione sul film di Pietro Germi. Il cinema realistico italiano ha costituito e costituisce un grande contributo allo sviluppo dell’arte cinematografica. Nato dalla Liberazione, come conseguenza specifica di una situazione storica (ma nel contempo, riallacciandosi in modo profondo e organico alle più autorevoli tradizioni realistiche del cinema italiano muto), era inevitabile che suscitasse l’avversione di quanti negavano sia la specificità della situazione storica che il valore delle tradizioni. Mai cinema fu osteggiato e ostacolato, quanto il cinema realistico italiano del dopoguerra. Il boicottaggio dei noleggiatori, dei distributori e dei proprietari di sale si manifestò in forme di estrema brutalità. Si diceva: il film italiano non piace al pubblico. Il pubblico al cinema si vuol divertire. Quindi non si faceva nessuna pubblicità, si proiettavano i film alla chetichella, dopo due giorni si toglievano dalla programmazione, e trionfalmente si proclamava: «Vedete? il film italiano al pubblico non piace, il pubblico al cinema si vuol divertire. Ci occorrono film del genere Bob Hope-Bing Crosby-Dorothy Lamour». L’unica eccezione sembra essere costituita dalla più seria casa di produzione italiana d’oggi, la Lux. È l’unica casa che produca, di tanto in tanto, e coscientemente, alcuni film d’avanguardia. Ma non senza difficoltà.Vorremmo sottoporre all’opinione pubblica il seguente quesito: perché Lattuada non ha realizzato Miss Italia? (Per non parlare del suo progetto di film sulla ricostruzione ferroviaria, per realizzare il quale non chiedeva altro che di essere spesato durante il periodo di lavorazione). Se gli industriali italiani del cinema hanno fatto e fanno del loro meglio per soffocare il cinema realistico italiano (un giorno questa storia sarà scritta; e un capitolo interessante sarà quello che tratterà della realizzazione di film falsamente realistici, concretati per neutralizzare quelli davvero realistici), gran parte della stampa ha fatto del suo meglio per assecondarli.A un certo punto, una campagna senza precedenti si scatenò per denigrare e distruggere il cinema italiano realistico. Diedero man forte anche alcuni giornalisti extra-cinematografici. Lo slogan principale di questa campagna era il seguente: «il film realistico è fatto per sciorinare dinanzi agli stranieri le nostre miserie, ben sapendo che gli stranieri si dilettano assai dell’immagine di un’Italia misera e lacera. Il film realistico ci diffama all’estero». Evidentemente, questo gruppo dimostrava una spiccata predilezione per gli struzzi. Nascondendo la testa sotto la sabbia, voleva che anche gli artisti facessero altrettanto, venissero meno al loro compito fon-

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damentale, che è quello di dire la verità, e d’aiutare, con le loro opere, la verità. Analoga posizione presero alcuni parlamentari. Ma la realtà stessa s’incaricò di smentirli. Un deputato alla Camera sostenne che In nome della legge di Germi diffamava la Sicilia, che in Sicilia il banditismo era un’invenzione di giornalisti grand-guignoleschi.Tornato a casa, quel deputato ebbe la non gradita sorpresa di vedersi prelevato dai banditi. Il fallimento degli attacchi condotti contro il cinema realista italiano in questo senso, e da questa direzione, non poteva certo soddisfare il fronte dei nemici di questa nuova cinematografia. Ed ecco che la tattica muta, cambiano le armi e i metodi di attacco. L’articolo di Carlo Doglio (Cinema, n. 21, 30 agosto 1949) è un esempio che ha fatto rumore, ed è stato anche dibattuto su queste colonne. Il metodo che Doglio impiega, è il classico metodo dell’«aggiramento a sinistra», lo stesso (per intenderci) dell’avventura del P.O.U.M. a Barcellona. È diverso dal metodo retrogrado e conservatore di cui sopra, solo nella fraseologia.All’atto pratico, identici sono gli scopi, identici i risultati prefissi. Identiche sono le conclusioni concrete, identici vorrebbero essere gli effetti sul pubblico. La polemica estremista e anarchica, sostanzialmente estetizzante, cerca di liquidare il cinema realistico italiano, là dove la manovra non è riuscita ai conservatori. E per far questo, tenta il punto debole dello schieramento del cinema italiano d’avanguardia, aggredisce In nome della legge. La tattica usata è estremamente semplice. Una stroncatura violenta, totale, irrimediabile, astratta. Doglio non tien conto dell’anno in cui il film è stato realizzato, delle condizioni in cui versa il cinema italiano; non tien conto di quel che si può fare e di quello che non si può fare; non tien conto di come il film è nato, e di ciò ch’esso rappresenta nell’opera complessiva di Germi. Non tiene conto di nessun fattore reale. Doglio si accomoda in un cinema di montagna, si isola da tutto, e poi grida: «no!». [...]. Doglio critica le insufficienze sociali e polemiche del film di Germi, ma non per aiutare Germi a far meglio per la prossima volta, non per completare quel che il film non dice, non per spiegare perché certe cose il film non le dice e non le poteva dire. [...] Chiedendo – e con quale perentorietà! – al povero Germi ciò che Germi non poteva dare, Doglio è riuscito apparentemente a liquidare ciò che Germi aveva effettivamente dato; è riuscito a far dire ad alcuni lettori che invece no, Germi non doveva dare nulla. È assurdo criticare, in un film italiano d’oggi, la mancanza di una profonda critica sociale, di una reale e sostanziale polemica sulle condizioni di vita del popolo italiano. Se Germi avesse voluto fare sulla Sicilia un film che dicesse la verità, che magari si limitasse a far vedere come vivono effettivamente i braccianti e i contadini poveri siciliani, non avrebbe fatto film alcuno. Nessun produttore gli avrebbe dato i quattrini necessari. Se per caso o miracolo fosse riuscito a girare il film, nessuna sala normale l’avrebbe accettato. E allora? Allora bisogna convincersi che i film non piovono dal cielo; che essi non sono la libera materializzazione di un fantasma artistico il quale nasce, non si sa come e perché, nello spirito dell’artista; che i film nascono sulla terra, e che sulla

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Franco Fortini

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terra vi sono situazioni precise di interessi di cui bisogna tener conto: che, insomma, In nome della legge, non è e non poteva essere «il film sulla Sicilia», ma assai più semplicemente «il film che a Germi era possibile fare sulla Sicilia». Il cinema è uno straordinario mezzo di conoscenza. Dieci minuti di film sono enormemente più efficaci di un articolo di giornale, di un brano di discorso. Onde sui giornali si può scrivere quel che si vuole, ma con i film certe cose non si possono dire. Per poterle dire, bisognerebbe che la produzione fosse indipendente, e che le sale fossero indipendenti. Fino a che non si farà questo, certe critiche saranno puramente e semplicemente assurde, non serviranno che a intorbidire le acque. Saranno irreali, pur avendo scopi pratici estremamente chiari e definiti. Quanto corrisponde a verità la notizia che a suo tempo circolò insistentemente, che cioè Germi, prima di cominciare il film, dovette sottoporne il soggetto ad alcuni autorevoli esponenti della mafia? In un libero contraddittorio concesso da Germi a Milano alla stampa e agli spettatori, un giovane siciliano, assai esperto e versato in materia, discutendo con Germi sui caratteri della mafia, fece notare al regista che in Sicilia decine e decine di sindacalisti erano stati assassinati dai mafiosi. Ironicamente Germi rispose: «Voleva che facessi quella fine anch’io?». A noi pare evidente che Germi, col suo film, ha fatto quel che ha potuto, ha fatto quel che gli consentiva il livello della sua esperienza, quel che gli consentiva l’attuale situazione produttiva del cinema italiano. Il problema del suo film a noi pare questo: è riuscito Germi, malgrado queste condizionature, nonostante queste limitazioni, a fare un film realistico, vero e utile? Dobbiamo rispondere che sì, che nonostante difetti e debolezze, In nome della legge affronta coscientemente un problema reale, ambientato in un paese reale; che in esso, come in tutti i film del nostro tempo, vi sono elementi vecchi ed elementi nuovi, elementi profondi ed elementi superficiali, elementi realistici ed elementi non realistici, ma che gli elementi nuovi, profondi e realistici sono superiori, per qualità e intensità, a quelli vecchi, superficiali e non realistici. Che un film oggi dica: in Sicilia c’è la miseria, c’è la mafia, ci sono i baroni, è già molto. Esso si pone automaticamente nella tendenza realistica, spontaneamente si colloca tra i film d’avanguardia, rappresenta un contributo allo sviluppo dell’arte cinematografica italiana. Da Glauco Viazzi, I film non piovono dal cielo «Cinema», II, 29, 30 dicembre 1949, 349-350

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Franco Fortini Due soldi di speranza I guai del nostro cinema son cominciati proprio da questo film. Leggo che per Emanuelli (sulla «Stampa») la «verità» italiana non è quella di Ladri di biciclette o di Riso amaro (ma come si possono avvicinare tra loro questi

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due film?) bensì quella, ad esempio, di Due soldi di speranza. Ambigui, manipolati dalla letteratura, quelli; questo e altri simili, invece veri. I film che non piacciono a Emanuelli sono dei film a tesi, decisi ad orientare lo spettatore in un certo senso; i due ultimi film di Castellani vogliono essere invece (ma perché invece?) l’esaltazione della fresca vita, di un amore e di una gioventù che prendono il loro miele dove lo trovano e fanno il nido in qualsiasi luogo, archi del Colosseo, cella campanaria, sezione comunista. Ora questa presunta verità è, quando è, artistica non documentaria; è un diagramma di vita possibile. Chi esalta Due soldi lo fa per sostenere che la verità non è quella del rancore sociale ma dell’accettazione, del vitalismo popolaresco. O fortunatos nimium. Si potrebbe fare una piacevole storia dell’ideologia che presiede ad un film come questo. La cui mancanza maggiore è la sua conclusione, la sua chiusura: i personaggi sono, non diventano. Non si sente mai che dalla parte di qua dello schermo sta la banda variopinta dei cinematografari, con i loro megafoni, il loro gergo, le percentuali, la pubblicità, le donne, le auto, l’enorme industria curva su Boscotrecase. È la creazione dell’oggetto, l’illusione reazionaria per eccellenza. Quando un regista di coraggio ci darà un film tragicomico delle visite degli intellettuali, degli artisti e dei registi ai poveri delle borgate, delle alluvioni, del delta?... Bellissima è quasi il solo film che ha capito; nella scena sul Tevere – Chiari e la Magnani – dove si affrontano, si toccano e si separano i due mondi. Chiari è la realtà culturale sottintesa nel «giovane-nel-mondo-del-cinema», e la Magnani che egli tenta di sedurre è proprio la Magnani che lui, figlio unico di madre vedova, beneducato e moderno, ha sognata, la popolana di Roma città aperta, del Bandito, di Assunta Spina e che ora esita davanti a lui, appoggiata al suo mondo di cognate trasteverine, di «fojette» e spaghetti al sugo... Lo stesso Visconti, in La terra trema, girava l’ostacolo; e peccava di estetismo. Ora certi amici si entusiasmano alla letteratura di Castellani,Teocrito e Longo Sofista, il Sannazaro e Mignon; e parlano di realtà! Poetica, forse; ma la cui forza e ricchezza e insomma decisività si misura anche sulla capacità o sulla incapacità ad affrontare il nodo della verità nostra, e cioè il conflitto delle culture. (Per questo sono più importanti, pur nelle loro rozze mancanze, certi film comici – De Filippo,Totò e Fabrizi – non per la loro «fantasia», cara a Calvino, ma perché, in genere, nascono dall’incontro di una cultura popolaresca con una piccolo-borghese). Accettiamo dunque di contrapporre allo sprezzo e all’ironia sui progressismi umanitari e socialistoidi e alla simpatia per l’incomparabile contraddittoria umanità ecc. ecc. del «nostro popolo», l’utopia rivoluzionaria e la speranza umanitaria e progressista; anche se questa è transfert di cedimenti privati al disordine, all’angoscia, eccetera. E poi quei film rappresentano una realtà ad un’altra realtà; una realtà di piedi nudi a platee di gente calzata. Parlano del sud al nord. Proprio questo è l’errore teorico e programmatico del neorealismo. Le ragazze come quella di Due soldi vengono contrapposte alle sophisticated ladies di

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Guido Aristarco

«Harper’s Bazaar» per motivi che nulla hanno a che fare col cinema. S’encanailler è sempre stato un piacere di corte. Ma altro è rappresentare la dialettica del ricco e del povero, del padrone e del servo, del cavaliere e dell’oste, del principe e del contadino. Il torto dei film neorealisti italiani non è quello di esser troppo tendenziosi, ma di esserlo troppo poco. A questo punto non so dar torto ad Emanuelli se è urtato dal moralismo e dal vittimismo di Zavattini, di De Sica; da questa specie di articolo 7 del cinema,* che – come l’altro – non servirà e non salverà nulla. È il populismo, la via a un tempo generosa ed equivoca che dovrebbe portarci al socialismo; nessuno stupore che si corrompa così facilmente nel vecchio gioco umanistico del sole, delle ninfe agresti, della «vita»... (1952).

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* Si allude all’art. 7 della Costituzione, votato anche dai comunisti, che inseriva nella carta costituzionale il Concordato col Vaticano (1972). N.d.A. Da Franco Fortini, Due soldi di speranza (1952), in Dieci inverni, Bari: De Donato, 1973, 156-158

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Guido Aristarco Cielo sulla palude [L]a critica cinematografica, abituata com’è sulla scia delle altre e per comodità o per pigrizia a schematizzare, a classificare, a incasellare in appositi compartimenti questa o quell’opera, ha inserito Cielo sulla palude nel cosiddetto neorealismo italiano, cadendo in nuove confusioni e in nuovi equivoci: ha infatti parlato di “neorealismo” perché Genina si è ispirato a fatti autentici (la vita di Maria Goretti, beatificata nell’aprile del 1947), perché ha girato il film nei posti ove si svolse l’azione (le paludi Pontine) e perché infine si è valso in linea di massima di attori non professionisti: di “tipi”, di autentici contadini. Confusioni grossolane e assurde quanto quelle in cui sono incorsi altri recensori, che invece identificano il cosiddetto neorealismo nella cronaca pura e semplice ed escludono che Cielo sulla palude possa rientrare in questo neorealismo soltanto perché il titolo del film è simbolico, e altri simbolismi l’opera conterrebbe. Alla stessa stregua non sarebbe “neorealista” neppure Sciuscià o Ladri di biciclette, in quanto il cavallo bianco e la bicicletta sono due simboli. Il problema, si sa, è ben diverso, si tratta di verità artistica o di non verità: sono i risultati che contano, e non certi schemi di comodo o di partenza: ogni polemica si annulla nello stile e nella unità spirituale raggiunti. E del resto nel caso di Cielo sulla palude, il punto di partenza non è tanto il “tipo” o il luogo autentico dove si svolse l’azione o la vicenda veramente accaduta, quanto la posizione polemica, voluta o meno, che il film assume nei confronti di quello che per noi è, con Ladri di biciclette, l’opera più significativa del nuovo cinema italiano, opera precorritrice che annulla appunto, nella sua unità stilistico-spirituale, la polemica sul “neorealismo”.

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Intendiamo parlare di La terra trema. Cielo sulla palude è infatti, a nostro avviso, il contraltare del film di Luchino Visconti, e non soltanto da un punto di vista ideologico: democristiano o non, cattolico o non cattolico, agiografico o non agiografico, anche Cielo sulla palude ha il suo assunto propagandistico, e non poteva essere altrimenti. La Sicilia della miseria e analfabeta di Visconti lascia il posto alle non meno incivili e misere paludi Pontine di Genina, i pescatori del primo ai contadini del secondo. Ma la famiglia Goretti, a differenza di ’Ntoni, accetta con umile rassegnazione il suo stato umano, non lotta contro il destino ma lo subisce, è gente che confida soltanto in Dio e a Dio domanda consigli, aiuti e il premio ultraterreno: la coscienza sociale è esclusa, escluso ogni anelito verso un progresso umano. Due mondi, quello di Visconti e quello di Genina, diametralmente opposti, dunque, e che esistono: siamo pertanto, da un punto di vista contenutistico, nella realtà, e con questo, sia bene inteso, non vogliamo stabilire valori più o meno artistici. Le cose invece cambiano nello sviluppo dei due temi. Nella sua posizione di contraltare, Cielo sulla palude ha, per altri motivi ed entro certi limiti, un precedente sicuro in La terra trema (e, se vogliamo, anche in Ossessione). Non a caso per la prima volta nella sua lunga e interessante carriera di regista, Genina si ispira a composizioni inequivocabilmente pittoriche; non a caso l’operatore di Genina è quello stesso di La terra trema: G.R. Aldo, un operatore rivelato da Visconti e che supera i Figueroa per porsi accanto ai Toland dei momenti migliori. Alle composizioni pittorico-epiche di Visconti, Genina oppone quelle elegiache o quelle che gli suggeriscono un Teofilo Patini o Giulio Aristide Sartorio: molte immagini di Cielo sulla palude si rifanno direttamente, ad esempio, a L’erede: si vedano nel quadro del pittore aquilano la composizione del disegno, la disposizione delle luci, i contrasti che derivano dalla massa scura a sinistra e da quella chiara a destra del bambino nudo, con accanto la donna piangente e sui bambini Genina insiste con compiaciuto divertimento. Da un punto di vista pittorico egli raggiunge spesso significativi quanto singolari risultati. Ma di che natura essi sono?, o meglio, hanno essi una funzione nell’economia del film? Non diremo, come qualcuno ha detto riferendosi a La terra trema, che la bellezza di certe inquadrature nasce, in Cielo sulla palude, dall’abilità del tecnico «e dal contributo di nostro Signore, fornitore del paesaggio»: la sequenza in cui Maria bagna i piedi nel mare che da tempo sognava e che per la prima volta vede, ha origine da quella immaginazione poetica che Baudelaire chiamava «regina del vero», «imparentata con l’infinito»: essa è, nella sequenza in esame, analisi e sintesi: analisi di sentimenti particolari (quello ingenuo e mistico della ragazza, e l’altro quasi apatico del giovane); sintesi (di questi due stati d’animo) dal quale nasce in Alessandro il desiderio della carne e in Maria l’attonito disagio di una casta ingenuità ormai spezzata. [...] Visconti, in La terra trema, sviluppa storicisticamente la propria visione e il mondo dei pescatori: va alla ricerca dei complessi fenomeni che danno corpo al fatto umano, che spingono ’Ntoni all’eva-

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Guido Aristarco

sione non dalla vita ma da una vita; l’esame di Visconti diventa costante indagine psicologica, spirituale, sociale: dramma. Il mare, le rocce e i tuguri di Acitrezza sono umanizzati, e la composizione pittorico-epica oltrepassa il decorativo e la calligrafia pur nel formalismo riscontrabile negli elementi compositivi delle singole inquadrature. Un processo inverso si verifica invece in Cielo sulla palude, proprio per la unilateralità all’inizio accennata, per l’impostazione gratuita o falsa di diverse figure: all’indagine introspettiva Genina preferisce una descrizione non tanto in funzione del racconto e dei rapporti interiori quanto volta ad esercitazioni formalistiche: egli si lascia sedurre dalla calligrafia. E, se pur ispirandosi al Patini non cade nel “lacrimogeno”, si avvicina al patetico deamicisiano, tramuta la grazia di certe situazioni insistite (quelle dei bambini) in leziosità: in quanto esprime questa grazia, per mezzo di atteggiamenti graziosi. Quando vengono a mancare anche gli elementi calligrafici, il film cade generalmente in una retorica che ricorda certe scene di L’assedio dell’Alcazar o di Bengasi: si vedano le ultime inquadrature, quelle riguardanti l’ospedale di Nettuno e Maria che perdona, prima di morire, al seduttore. E nel film, la santità della Goretti è data, se vogliamo, più da queste scene che da tutte le altre, le quali non vanno alla ricerca delle ragioni mistiche che condussero Maria alla beatificazione, ma talvolta puntano piuttosto sull’erotismo di certe situazioni. Se dunque il contraltare si può dire fallito, non per questo Cielo sulla palude è opera mediocre. Fra i film più o meno ambiziosi da Genina diretti in Italia, questo è senza dubbio il migliore. [...] Da Guido Aristarco, Film di questi giorni – Cielo sulla palude «Cinema», II, 28, 15 dicembre 1949, 336-337

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Neorealismo e nuova storiografia cinematografica Che cos’è il neorealismo? Di quali tratti si compone? Quali film, poetiche, autori vi rientrano? Quali sono i suoi limiti cronologici? Quali sono i suoi caratteri ideologici? Lo abbiamo visto nel quarto capitolo: parlare di neorealismo vuol dire, fino a un certo momento, parlare soprattutto dei discorsi che si fanno a proposito del fenomeno e all’interno di esso. La «critica storica» (Farassino), intesa come critica che rientra nella storia del neorealismo, ha risposto in maniera complessa e articolata a quelle domande. Ma su quelle risposte, si è detto, non ha costruito una storia del cinema italiano postbellico. Ha espresso «un punto di vista neorealistico» (Miccichè), piuttosto che un punto di vista sul neorealismo. I contributi che raccogliamo in questa sezione sono stati scritti nell’arco di un ventennio (1969-1989) in cui, invece, la necessità di storicizzare il neorealismo è stata preponderante nell’ambito degli studi cinematografici italiani. Storicizzare il fenomeno neorealista può voler dire molte cose: archiviarlo, comprenderne il donde e il dove «non mitici ma effettivi» (Miccichè), connetterlo a una rete di esperienze, valorizzarne il dato fenomenico. In ognuno di questi casi, tuttavia, si parte dalla consapevolezza di una distanza da esso, che fonda e garantisce la ricostruzione diacronica. In questi saggi, allora, l’obiettivo non è solo quello di trovare nuove risposte a quelle domande consuete, partendo dalla prima e definitiva: che cos’è... Il problema è principalmente quello di formulare e rendere pertinenti nuove domande; quindi di capire quali sono gli strumenti più adatti per rispondervi. Il loro carattere prevalente, implicito o esplicito, è dunque programmatico-metodologico. In Umberto Barbaro e l’idea di realismo, Gian Piero Brunetta ricostruisce la figura dell’intellettuale siciliano, approfondendo il ruolo che questi ricopre nei processi di formazione della cultura cinematografica italiana e di promozione del realismo a elemento-chiave di questa cultura. Già nel titolo del volume è contenuta un’intuizione decisiva per lo sviluppo delle successive interrogazioni sul neorealismo. Brunetta analizza le proiezioni e le attualizzazioni dell’idea di realismo, pervenendo a una ricostruzione del panorama dei primi anni Quaranta in cui le occorrenze concrete, i film, restano sullo sfondo e in cui il primo piano è guadagnato dalle elaborazioni teoriche. Non si discute l’esistenza di pellicole dotate di un certo carattere realistico, ma si ritiene che «il lavoro di reale “formazione” venga condotto piuttosto a contatto con i testi teorici e sulla base di una certa metodologia e impostazione ideologica». Questa, che appare come una constatazione, è invece la proposta che consente di mettere da parte l’annosa questione dei precursori. I documentari di Mario Serandrei e dello stesso Barbaro, o i lungometraggi di Alessandro Blasetti girati negli

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Neorealismo e nuova storiografia cinematografica

anni Trenta, spiega Brunetta, non presuppongono la stagione neorealistica, così come gli eventi bellici che la fanno precipitare non ne spiegano da soli l’esistenza. La questione dell’identità di determinate pratiche discorsive viene svincolata dalla problematica del dopo. Film, riflessioni teoriche e polemiche critiche dell’anteguerra svolgono un ruolo all’interno di un particolare quadro storico e hanno un’importanza estetica, politica e programmatica in quella contingenza e indipendentemente da quanto ha fatto loro seguito. L’azione e l’influenza di queste manifestazioni discorsive sulla fase postbellica può dunque essere oggetto d’esame prescindendo dalla proiezione di categorie elaborate nel periodo neorealistico e successivo, e rispondenti a urgenze espressive e politiche peculiari del dopoguerra. Tali conclusioni sono senza dubbio frutto di un esame e di un confronto minuzioso dei materiali disponibili: film, articoli, monografie. Ma sono anche l’esito di un metodo storiografico che non rinuncia a parlare di cinema senza riferirsi necessariamente ed esclusivamente ai film, in consonanza con paradigmi che si diffondono in Italia nel corso degli anni Sessanta, quali quelli provenienti dalla scuola francese delle «Annales», che ampliano il concetto di fonte, di materiale dotato di valore testimoniale tale da avviare e fondare la ricostruzione storica. Tra i molti, e importantissimi, saggi pubblicati in Il neorealismo cinematografico italiano sono qui proposti Per una verifica del neorealismo, del curatore Lino Miccichè, e Neorealismo e cinema italiano degli anni ’30, a firma del Gruppo Cinegramma (Francesco Casetti, Alberto Farassino,Aldo Grasso,Tatti Sanguineti). Il saggio di Miccichè che apre il volume è una esplicita dichiarazione di intenti. Per il critico dell’«Avanti!» l’operazione di verifica è necessaria per capire il neorealismo, ma è altresì fondamentale per dotare la storia del cinema italiano di uno sguardo prospettico fondato in modo rigoroso. La critica del dopoguerra ha affrontato la questione delle relazioni del neorealismo col cinema italiano del passato, postulando l’esistenza di un “filo rosso” che collega le presunte insorgenze realistiche dell’anteguerra alle mature realizzazioni successive. Però tale nesso, argomenta Miccichè, non è stato mai verificato con l’attenzione dovuta e attraverso un’indagine diacronica dalla critica neorealista. Questa, dopo aver espresso una “condanna globale del cinema italiano 1929/1943”, quando ha affrontato i film si è nei fatti limitata a perpetrarne un’immagine mitica. I preannunci realistici, da Sperduti nel buio a 1860, sono stati funzionali a definire e progettare il dopo, anziché descrivere appropriatamente il prima. Tuttavia un legame tra prima e dopo esiste, sostiene Miccichè. Il neorealismo discende storicamente, in modo complesso e dialettico, dalla cultura precedente, di cui realizza gli slanci più fertili, e conserva al contempo nel proprio corpo difetti di struttura e di crescita. Tra questi, il più evidente pare la difficoltà degli intellettuali a passare dal piano delle enunciazioni di principio ideologiche ed espressive a una vera e propria estetica, fon-

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damento di un’efficace produzione culturale. Quindi il neorealismo, per la sua natura culturalmente elitaria, non riuscì a incidere sui consumi cinematografici degli italiani; e per la sua proposta politicamente vaga non giunse a costituire un saldo riferimento ideologico. Costituì piuttosto un’instabile e transitoria “etica dell’estetica”. In questa prospettiva, uno strumento utile in sede di ricostruzione diacronica è rappresentato dall’opera dei registi. Gli autori, secondo Miccichè, sono le entità che si formano negli anni che precedono la guerra, che sopravvivono alle tempeste della storia e che permettono di sconfessare la retorica del tradimento del neorealismo, tipica di molta critica durante gli anni Cinquanta e Sessanta. Ciò può avvenire, a patto che si ragioni sulla base di analisi puntuali, confrontando ad esempio i film di Rossellini e De Sica dei primi anni Cinquanta con quelli realizzati dagli stessi registi un decennio prima. Gli esiti della proposta di Miccichè sono molteplici e in parte qui già discussi: proprio per la sua impostazione fondata sulla comparazione tra autori e sistema complessivo, egli fa in parte sua una concezione del neorealismo fondata su un numero ristretto di opere ad altissima densità espressiva. Inoltre, nella sua visione, resta valida un’idea del fenomeno quale parentesi della storia cinematografica nazionale, stretta tra due momenti sostanzialmente involutivi. Ma, in ogni caso, Miccichè, come molti degli storici che lo seguono, costruisce queste ipotesi su elementi interni alla storia effettiva del cinema, limitando il ricorso a criteri esplicativi estranei: la crisi e l’esaurimento del neorealismo nel corso degli anni Cinquanta, ad esempio, sono già inscritti nella lunga e faticosa genesi del fenomeno, anziché essere addebitati esclusivamente all’azione censoria e al boicottaggio dei governi democristiani. Miccichè occupa un posto senza dubbio particolare nella storiografia cinematografica italiana, rispetto alla questione del neorealismo e non solo. Egli stesso coglie questo aspetto, nel momento in cui descrive lo scontro tra critica neorealista e critica cinefila come uno scontro anche generazionale, dichiarando di situarsi nella scomoda posizione intermedia tra i due schieramenti. La cifra di questa ambivalenza è data non solo dalle conclusioni di Miccichè, tanto icastiche nello stile, quanto equilibrate nei giudizi: in esse egli trattiene molti punti saldi della tradizione precedente. Il carattere bifronte dello studioso emerge dalla sua stessa prassi critica e storiografica. Miccichè, infatti, è per certi versi uno dei primi studiosi ad avvertire organicamente il bisogno di scrivere la storia del cinema italiano; di certo il più sollecito nell’organizzare la predisposizione di apparati critici e filologici. Ma, d’altro canto, appare come un esponente della tradizionale critica militante: quella che manifesta «forte diffidenza verso le forme basse della produzione commerciale» [Bisoni 2006, 176], scrive sui quotidiani di partito, non è aliena dalla pratica cinematografica (All’armi siam fascisti!, L. Del Fra, C. Mangini, L. Miccichè, 1962) e si muove di preferenza all’interno delle istituzioni culturali riconosciute. Nella figura di

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Neorealismo e nuova storiografia cinematografica

Lino Miccichè si condensano, in un modo che dagli anni Settanta in poi sarà meno usuale, il militante di partito, l’ideatore di straordinari festival di ricerca [Pescatore 2002], lo storico del cinema, il docente universitario. Anche nel saggio del Gruppo Cinegramma centrale è la questione della continuità/frattura tra neorealismo e cinema italiano degli anni Trenta. Come Brunetta e Miccichè, anche questi studiosi considerano il neorealismo qualcosa di diverso da un insieme di film e di registi. L’approccio privilegiato però non è più storico, ma prevalentemente testuale, o meglio intertestuale. Il limite dello storicismo, ritengono gli autori, è quello di costruire congiuntamente il passato e il presente in termini di presupposizione reciproca. Nel caso specifico, il cinema degli anni Trenta rischia di essere analizzato in chiave teleologica, cercandovi solo quegli elementi che conducono al fine storico identificato come tale: il neorealismo. Simmetricamente, nel cinema del dopoguerra si presta attenzione a quanto si riconosce essere determinato in via causale da esperienze precedenti.Teleologia e determinismo, sostengono gli autori, sono due facce dello stesso metodo. La questione continuità/frattura, allora, va risolta ricollocandola in un nuovo campo teorico, percorso da relazioni testuali e intertestuali, anziché causali. Quando i quattro studiosi parlano di intertestualità non esprimono la necessità di compilare un repertorio di influenze e citazioni presenti nel cinema neorealista e provenienti da quello degli anni Trenta. Propongono invece un approccio analitico che parta dal riconoscimento, all’interno di testi differenti e/o provenienti da momenti storici diversi, di gruppi di elementi comuni – le figure dell’intertestualità – dotati di un alto grado di pertinenza rispetto ai temi – i discorsi – di cui sono manifestazione. Le figure dell’intertestualità non sono citazioni nell’accezione abitualmente data a questo termine: non sono in via primaria segni portatori di un’intenzione di autore, che esplicita il proprio omaggio e la propria parentela con un testo precedente. Sono invece figure strutturali complesse, a cavallo tra livello tematico e formale, che possono essere al contempo topoi narrativi e principi di costruzione dei testi. Dal punto di vista diacronico essi sono segni, sintomi della circolazione di discorsi che avviene anche attraverso la storia: quindi sono anche segni della storia. In questo senso, il rapporto tra testo e storia è di tipo sintomatico e citazionale. Il testo non cita solo un altro testo: cita necessariamente anche la storia, rimanda a circostanze e congiunture e alle produzioni discorsive in altri momenti realizzate. L’approccio intertestuale non è allora esclusivamente sincronico, così come non è propriamente diacronico: è il tentativo di radicare la storia nel testo come elemento semioticamente produttivo. Nel caso specifico, non sono i film e gli autori in quanto tali a garantire la continuità o a operare la frattura tra neorealismo e cinema del fascismo. Sono invece le figure del-

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l’intertestualità a farlo, in quanto enucleazione di discorsi: temi quali realismo, italianità, professionismo, ricostruzione, intermediologia. Attorno a tali discorsi, come abbiamo visto nel primo capitolo, si polarizza la prassi cinematografica lungo più di due decenni. Il percorso seguito da Leonardo Quaresima in Neorealismo senza è apparentemente inverso, ma nei risultati analogo: esso parte dal neorealismo per giungere alle teorizzazioni dei primi anni Quaranta. Il saggio rientra in un volume, Il neorealismo nel fascismo, che raccoglie gli atti di un convegno dedicato a Giuseppe De Santis. Svoltasi a Bologna nel 1982, l’iniziativa costituì, nelle parole dello stesso curatore Renzo Renzi [1984], un curioso incrocio tra «storici» e «testimoni», quindi tra quei flussi generazionali cui abbiamo più volte accennato. L’ipotesi di Quaresima è che il neorealismo sia stato in genere descritto come una fusione, nel senso chimico del termine: un processo al cui termine è impossibile separare i componenti originari. Tali componenti sono principalmente l’ideologia e la poetica, vale a dire la questione politica del progresso sociale e la questione espressiva delle poetiche d’autore. Il risvolto simbolico di questa operazione è l’idea di emblema: ogni elemento che ha contribuito alla fusione è in qualche misura rappresentativo, emblematico del risultato finale. La proposta, allora, è quella di definire un neorealismo senza, senza ideologia e senza poetica, attraverso un procedimento di astrazione e separazione. Il risultato sembra a prima vista paradossale: spogliando il neorealismo di quelle connotazioni (meglio: articolandole come elementi scomponibili dal resto) può essere recuperata la nozione di uniformità, vale a dire di continuità con la cultura cinematografica dei due decenni precedenti e «il modello di neorealismo che ci si presenta rimanda senza grosse contraddizioni a quel cinema auspicato e teorizzato sulle pagine di “Cinema” nei primi anni ’40». In questo caso, tuttavia, la continuità agisce senza che sul “prima” e sul “dopo” si proietti un giudizio storico o di valore. Non si tratta quindi, come in Miccichè, di riconoscere «tutte le tare di una gioventù malvissuta» nel corpo adulto della maturità neorealista, né di mettere in luce i presagi realistici nel cinema e nella teoria dell’anteguerra. Quelle che Quaresima rintraccia negli articoli di De Santis, Mida, Pietrangeli, Visconti, Lizzani sono indicazioni progettuali, raccolte e attualizzate nel nuovo panorama del dopoguerra. Come abbiamo visto nel terzo capitolo, tali indicazioni vanno verso la costruzione di un cinema maggioritario, popolare perché in transito tra alto e basso, stilisticamente ricco perché non limitato né alla poetica d’autore né alle formule di genere. A questo cinema manca negli anni Cinquanta sostegno politico, produttivo, ma anche critico; di esso fu rappresentante di punta proprio Giuseppe De Santis, del quale Quaresima mette in discussione la discontinuità tra l’attività di critico e quella registica, vero luogo comune. Chiude l’antologia Neorealismo, storia e geografia di Alberto Farassino. Anche di questo saggio e delle sue acquisizioni più illuminanti abbiamo

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parlato direttamente nel quarto capitolo. Dobbiamo a Farassino il superamento della visione “operistica” del neorealismo, la definizione dei differenti gradi di intensità e diffusione in cui si manifesta il fenomeno, la conseguente inclusione nel discorso storiografico dei paratesti o degli stessi testi, considerati in precedenza collaterali, e puramente derivativi: stanche ripetizioni, marginali rispetto al fulcro del fenomeno. Possiamo adesso rilevare come queste acquisizioni non siano frutto esclusivamente dello straordinario acume interpretativo dello storico, ma facciano perno su una coraggiosa intuizione di metodo: la rinuncia alla definizione in termini sostanziali del neorealismo. Farassino mette esplicitamente al centro del proprio discorso la constatazione della realtà del fenomeno: «Il neorealismo c’è e non è solo una generosa illusione dell’epoca o una sbrigativa categoria critico-storiografica che sarebbe “moderno” e sofisticato negare o superare». Anche in questo caso, la constatazione comporta un risultato a prima vista paradossale: il recupero di quelli che già per la «critica storica» erano elementi esteriori, meccanici, frusti «dalle riprese in esterni, o comunque fuori dagli studi, all’uso di attori non professionisti, dalla contemporaneità del soggetto all’attenzione per i problemi sociali e collettivi». Per Farassino queste sono invece «istanze neorealiste», al pari delle «esigenze morali calate nel racconto o nel lavoro cinematografico» o di quelle «autoriali di espressione e interpretazione del mondo»: modi di manifestazione di quello che tutti noi chiamiamo neorealismo. Ma il recupero di quelle istanze è operato all’interno non di una ipotesi prescrittiva ed esclusiva, ma di una fenomenologia del neorealismo basata sul bisogno di moltiplicare e dislocare i punti di vista e di osservazione. Ecco perché si includono episodi negletti o si allarga il discorso ai paratesti e ai modi di produzione. Come ogni fenomenologia, poi, quella di Farassino si preoccupa di descrivere i criteri di esistenza e non di trovare le tracce dell’essenza. Ecco perché, infine, può ridimensionare decisamente l’efficacia euristica e descrittiva della domanda dalla quale abitualmente si parte: che cos’è il neorealismo?

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Gian Piero Brunetta Umbero Barbaro e l’idea di neorealismo [A]bbiamo affermato che il fenomeno del neorealismo, apparso in un primo momento come il prodotto spontaneo di una mutata condizione storica va intimamente legato allo studio ed alla formazione di una matura coscienza tecnica e professionale, ed alla acquisizione teorica di tutti i problemi. È stato sostenuto d’altra parte da Libero Solaroli, in un profilo storico del cinema italiano dal 1929 al ’42 già ricordato, che il fenomeno del neorealismo è favorito anche dalla presenza di quadri tecnici altamente qualifi-

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cati sul piano professionale che hanno saputo rispondere alle nuove esigenze artistiche e linguistiche del neorealismo grazie all’alto grado di preparazione a cui erano pervenuti.1 Per Solaroli, ad esempio, l’autenticità delle riprese in esterni dei film neorealisti si lega alle antiche tradizioni del cinema muto, passando attraverso un preciso filone di opere che manifestano un amore per la realtà: «Gli esterni di Rotaie sono qualcosa di più del “decorativismo” modernista: soprattutto la scena del finale in terza classe con personaggi popolari autentici. In genere tutti gli esterni dei film italiani successivi continuarono a rilevare un particolare spirito di adesione alla realtà di carattere nazional-popolare: tali esterni abbondano anche nei film anteriori al 1935».2 [...] A questo filone si collegano i documentari girati alla Cines la cui funzione formativa non va dimenticata: da Presepi di F. M. Poggioli a Campane d’Italia di M. Serandrei a Il ventre della città di Francesco di Cocco a Cantieri dell’Adriatico di Umberto Barbaro e soprattutto al più tardo Il pianto delle zitelle di Giacomo Pozzi Bellini che con grande forza realistica sviluppa il tema di un pellegrinaggio. I film più notevoli che vengono girati nel periodo fascista rivelando volti reali del nostro paese e testimoniando la presenza di una effettiva capacità di uscire dai teatri di posa sono in ordine di tempo La tavola dei poveri di A. Blasetti (1932), Montevergine di C. Campogalliani (1937), Ricchezza senza domani di F. M. Poggioli (1939) e Sissignora dello stesso Poggioli che nel 1941 giungeva a dare un’immagine dell’Italia inedita e abbastanza legata alla vita del popolo. Eppure Barbaro recensendo il film si dimostrò molto severo con Poggioli, rimproverandogli in sostanza di aver perso un’occasione per realizzare un’opera effettivamente realistica, avendo utilizzato nel film troppi topoi e troppi meccanismi romanzeschi.3 Come abbiamo visto, il significato che Barbaro attribuiva al realismo era preciso e non mascherato né deformato. E nei primi anni di guerra da tutti gli scritti degli allievi di Barbaro dei giovani che gravitavano nell’orbita delle riviste «Cinema» e «Bianco e Nero» si sente che il discorso sul realismo è ormai giunto a maturità e che la fase di formazione professionale sta per cedere il posto alle opere, alla verifica diretta delle cose imparate. Per questo noi crediamo che sebbene il filone di film e documentari «realistici» di cui si è appena detto abbia di certo la capacità di creare una serie di tecnici ad alto livello, il lavoro di reale «formazione» venga condotto piuttosto a contatto con i testi teorici e sulla base di una certa metodologia e impostazione ideologica.4 Al di là dell’ovvio riconoscimento della influenza di Barbaro sulla formazione tecnica e professionale dei suoi allievi e prima di affrontare più a fondo la questione non possiamo trascurare di affiancare delle considerazioni sul contributo di Chiarini nella convinzione e con la volontà di dimostrare non solo la funzione di mediazione della loro opera rispetto a quel-

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la dei teorici stranieri, ma soprattutto i modi in cui si realizza l’incidenza del loro pensiero sui giovani che studiavano al Centro Sperimentale di Cinematografia. Si tratta quindi di dimostrare e di approfondire l’affermazione di Aristarco secondo cui, per merito loro «si forma in Italia una matura coscienza cinematografica»,5 stabilendo dapprima le caratteristiche generali della loro opera e le reciproche relazioni e poi individuando la prosecuzione dei loro discorsi negli scritti dei loro allievi e dei giovani che si accostavano in quegli anni al cinema.A Barbaro, come si è detto, va riconosciuta una priorità in senso cronologico di accostamento al cinema, unita al desiderio di trovare in quest’arte più rispondente alle sue esigenze sociali, la possibilità di contrapporre alle accademiche posizioni della cultura italiana in cui era da ravvisare una estrema rarefazione della tensione ideale, un ripiegamento verso il rifiuto totale della realtà (basti pensare alla «Ronda» e agli «Ermetici»), una cultura che, alla formula astratta di «arte per arte» sostituisse quella di «arte per la vita». Il rigore del pensiero e metodo di Barbaro, il suo infaticabile lavoro di traduzione, di divulgazione, e di battaglia per iniziare ad imporre certe idee è unito ad un processo di autochiarificazione del proprio pensiero insoddisfatto di tutte le esperienze attraverso cui era passato. Il concetto di «realismo» che poco per volta diventa l’aspetto centrale della sua azione culturale non è una forma di «riproduzione», ma di «espressione», come già aveva detto il Luciani parlando in generale del cinema: diventa sinonimo di concezione del mondo, di mondo morale, si arricchisce di un valore ideologico. La discriminazione reale che abbiamo effettuato tra il pensiero di Barbaro e quello di Chiarini, almeno fino a che il pensiero di quest’ultimo non si è impadronito a fondo dei problemi del cinema, è che, a parità di esigenze sociali, egualmente rinvenibili in entrambi, nell’uno la concezione del cinema veniva ad essere uno strumento rivoluzionario di emancipazione popolare, per mezzo del quale il popolo, al quale il cinema era naturalmente indirizzato, poteva essere condotto a prendere coscienza delle proprie condizioni ed essere sollecitato ad agire per trasformare il «mondo» (ossia l’assetto sociale), mentre in Chiarini il condizionamento ideologico e la sua adesione al fascismo oltre a fargli concepire il film come uno strumento efficace nelle mani del regime, di consolidamento del proprio potere, veniva unito ad una posizione aristocratica che fissava il popolo entro formule stereotipate come se si trattasse di una entità mitica ed omogenea (ricordiamo ad esempio il paternalismo linguistico «Il nostro popolo sano»). [...] Per Chiarini l’esigenza estetica ha un carattere strutturale, è quasi una condicio sine qua non: la sua prima preoccupazione è quella di collocare agevolmente in un canone estetico accettato a priori (quello della filosofia gentiliana) il cinema e tutti i suoi aspetti specifici.6 Prefigurate queste posizioni iniziali non è difficile rilevare la reciprocità della loro azione: come si è detto non si spiega il bisogno di sistemazione del suo pensiero in Barbaro senza l’antecedente di Cinematografo, o

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meglio del modo in cui è strutturato, pur nella sua dichiarata natura di libro propedeutico ai veri problemi del cinema, e la reale sensibilizzazione sociale avvenuta nel pensiero di Chiarini grazie alla sua maggiore coscienza dei problemi del cinema. Inoltre per valutare in pieno la portata storica della loro azione bisogna osservare la loro opera non in termini di opposizione, ma di complementarità. In questo senso, pur muovendosi in un medesimo ambito di ricerche i meriti di entrambi risultano ben distinti in quanto gli interessi dell’uno ben di rado coincidono del tutto con quelli dell’altro. In Chiarini c’è la costante preoccupazione di operare delle ampie sintesi logiche di ogni problema tecnico e linguistico e in lui la ricerca è volta a mettere in luce la specificità del problema, la sua essenza. Inoltre l’approfondimento originale della natura industriale del cinema contrapposto all’artisticità del film («Il film è un’arte e il cinema è un’industria» sostiene sin dai tempi di Cinematografo)7 in Chiarini nucleo centrale della ricerca, in Barbaro rimane sempre legato ad un discorso di politica culturale: egli infatti preferisce sostituire alle analisi delle strutture industriali la risoluzione di questi aspetti su un piano ideologico. Al contrario di Chiarini che, almeno negli anni da noi esaminati non esercita con risultati di rilievo l’analisi critica ai film e pare anzi disinteressarsi a questa attività, Barbaro si pone continuamente il problema di dare un’esemplificazione concreta ai suoi discorsi mediante analisi puntuali dei film. [...] Questa dialettica di posizioni o complementarità si risolve tuttavia nella ricerca di comuni obiettivi intermedi. Ossia come abbiamo visto il più importante piano di convergenza ideale tra il pensiero di questi due autori è da individuarsi nell’ambito di una politica culturale che vuole contrapporre alla industrializzazione del cinema, e quindi alla produzione italiana delle commedie «ungheresi» o dei «telefoni bianchi», una produzione sorretta da un contenuto ideale. Di qui la necessità di opere cinematografiche a tesi, oltre alla differente caratterizzazione nel pensiero di entrambi, è vista in funzione di una rinascita del cinema italiano. Se a Barbaro spetta il merito di aver suggerito, come si è visto, con alcune note ed articoli l’ipotesi della importanza e validità della cinematografia italiana antecedente al 1921, è a Chiarini che va riconosciuto il merito di aver tentato una proposta di studio sul cinema italiano delle origini attraverso la sua raccolta di brani di vecchi film confrontati con posteriori ed acclamati capolavori russi ed americani. Lo spettacolo organizzato da Chiarini offre la possibilità a Barbaro di scrivere quegli articoli che ancora, come si è detto possono essere considerati esemplari modelli di critica cinematografica. [...] Le antologie citate sull’Attore e Problemi del film sono una testimonianza non solo del rigore culturale ormai raggiunto dal Centro Sperimentale di Cinematografia e dell’efficacia di un metodo didattico, ma della capacità di lavoro collettiva di iniziative portate avanti con un impegno unitario e con obiettivi metodologici scientifici.

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La volontà di lavorare per la rinascita del cinema italiano, anche se ha all’inizio degli obiettivi differenti, dati come abbiamo visto da una concezione che parte da premesse politiche e ideologiche diverse, (per cui il senso di realismo di Barbaro è differente dal senso di realismo di Chiarini), ha almeno un altro punto di totale convergenza: quello del rifiuto dei film di evasione o di confezione. Il recupero della moralità dell’arte, possibile grazie al pensiero attualistico, fa sì che lo sdegno di entrambi esploda sempre violento nei confronti dei film che offrono un quadro falsato della vita e della realtà. [...] La loro è una tipica forma di critica che nasce per reazione nei confronti di ciò che appariva sugli schermi in base a una richiesta di qualcosa d’altro, di diverso, che in maniera più onesta sfruttasse le possibilità del cinema. Di qui la violenza delle polemiche e dei rifiuti: di qui il ricorso agli esempi della cinematografia russa da considerare come modelli per la futura produzione nazionale. La creazione del Centro Sperimentale di Cinematografia e la conseguente pubblicazione di «Bianco e Nero» consente di dare un carattere più sistematico all’opera di divulgazione del pensiero cinematografico e d’altra parte crea, grazie al favore con cui il regime sollecitava le iniziative in campo cinematografico, le condizioni favorevoli per opporsi al fascismo operando all’interno di organi ufficiali, per far nascere mediante una esemplificazione di un certo tipo una esigenza di cultura cinematografica di tipo nuovo e una cultura cinematografica di opposizione chiaramente legata ad una ideologia politica. [...] Inoltre non è da trascurare del tutto il fatto che una notevole spinta ad osservare la realtà nazionale venne dal regime, in un momento in cui la produzione italiana appariva del tutto tagliata fuori dal fermento ideale che contraddistingueva la contemporanea cultura cinematografica europea, ed in particolare quella francese. In un rapporto di Corrado Pavolini sul cinema italiano nel 1941, in cui egli riportava una serie di dati molto significativi dello stato di crisi della produzione italiana e del tentativo di uscirne aumentando la produzione, egli così sollecitava la ricerca tematica dei giovani: «...è esatto che non possiamo che tendere le nostre ambizioni più care verso un cinema che sia lo specchio della nostra società attuale, dell’attuale vita italiana. Un cinema realistico? Certo, ma senza l’equivoco che il realismo debba per forza riflettere gli aspetti “deteriori” di una società. La società che il cinema italiano è chiamato a esprimere non rassomiglia, evidentemente, a quella che fu espressa dal cinema francese di ieri e che noverava una delinquenza in aumento, un imperversare dell’alcoolismo, una denatalità dilagante... Chiediamo allora un cinema in cui sia tutto roseo, in cui tutti abbiano dieci in condotta? No, no di certo... Resta però la nostra esigenza fondamentale che la vita italiana sia rispecchiata, sì anche nel suo male parziale, ma soprattutto nel suo bene collettivo e di tanto prevalente».8 In modo ufficiale queste parole costituivano il nulla-osta per i nostri registi che da tempo ormai avevano maturato la loro esperienza tecnica e si

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erano impadroniti di un’idea di cinema molto diversa nello spirito da quella auspicata da Luigi Freddi, a porsi in contatto con la realtà nazionale. Come questa presa di contatto con la realtà non fu un fatto significativo solo sul piano culturale, nel senso che aprì la strada ad un nuovo modo di porsi nei confronti del mondo, ma tese ad annodare l’azione culturale a quella politica, osserveremo poi a chiusura di questo studio. Cerchiamo ora di esaminare in concreto come la poetica della realtà, fondamento ideale del nostro cinema del dopoguerra, sia in diretto rapporto con il senso del «realismo» definito da Barbaro e come questo nuovo senso di cinema realista proposto dai giovani nei primi anni di guerra ricalchi idealmente il discorso della nostra tradizione pittorica, narrativa e cinematografica e ponga nelle sue esigenze e proposte, le medesime esigenze che emergono da anni ormai dagli articoli e dai saggi di Barbaro.9 Riconosciamo a Barbaro un legame più diretto con i giovani registi del neorealismo proprio perché, nel momento delle scelte politiche, il pensiero di Chiarini e il suo esempio cinematografico segnavano non tanto la presa di contatto con un nuovo tipo di realtà, quanto un aristocratico distacco nato dal bisogno di deformare la realtà, di rappresentarla attraverso mediazioni culturali e pittoriche trasferendo nell’opera un gusto scopertamente formalistico. [...] Barbaro invece, quasi per vocazione, riusciva a trasferire nella sua attività didattica, anche un significativo esempio di superamento della figura dell’intellettuale chiuso nella turris eburnea della sua intelligenza: per questo la sua opera e i suoi interrogativi o coincisero o rivelarono delle strade ai suoi allievi. «Egli mostrò loro come, attraverso un accostamento critico ai problemi del mondo che li circondava, essi avevano la possibilità di agire su di esso, di trasformarlo».10 È certo che il tipo di orientamenti culturali e politici che negli anni tra il 1937 e il 1942 portò ad un moltiplicarsi di fermenti e atteggiamenti antifascisti va inserito nel quadro più ampio di tutta un’attività politica di opposizione che si veniva organizzando e di cui ha dato già una esauriente informazione Ruggero Zangrandi nel Lungo viaggio attraverso il fascismo.11 [...] Su questo terreno, naturalmente aperto verso ogni forma di opposizione politica, l’opera di Barbaro trova la sua più perfetta realizzazione: il suo pensiero, accettato e riproposto nei medesimi termini, acquista una oggettiva carica rivoluzionaria grazie al diverso contesto storico in cui si innesta, e le definizioni di «realismo», le programmatiche affermazioni e proposte di modelli cinematografici denotano la chiara ascendenza e paternità di Barbaro nonostante rivelino di essere state comprese e assimilate del tutto. Il torto di Barbaro è quello di aver aperto anche la strada a quel contenutismo e a quella concezione meccanica del realismo che ha per anni nel dopoguerra isterilito le discussioni della nostra critica, mentre il merito di Chiarini è stato quello di aver sempre distinto i problemi estetici da tutti gli altri problemi di politica culturale senza crearsi delle scelte prioritarie. Oggi ci si rende facilmente conto che il discorso di Chiarini poteva servi-

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re a capire meglio il cinema, mentre quello di Barbaro sollevava problemi d’ordine extracinematografico, però non è da trascurare che in Barbaro il discorso formale non è mai secondario. È certo che la strada presa dalla critica del dopoguerra è causata però da motivi che trascendono la sua figura. Ci limitiamo qui a riportare alcuni esempi tra i più evidenti: è chiaro che la serie di prove raccolte a conferma della nostra dimostrazione potrebbe essere molto più ricca. In due articoli di Giuseppe De Santis e Mario Alicata sulle caratteristiche nuove da conferire al cinema italiano e sulla necessità di ricollegarlo alla nostra tradizione ottocentesca facente capo a Verga troviamo la prima sintesi organica delle proposte già da tempo effettuate da Barbaro. «È bene chiarire subito che proprio per la sua natura rigorosamente narrativa fu nella tradizione realistica che il cinema trovò la sua strada migliore: visto che il realismo, non come passivo ossequio a una verità storica obbiettiva, ma come forza creatrice della fantasia (!) d’una storia di eventi e di persone, è la vera ed eterna misura d’ogni accezione narrativa».12 Da questa breve citazione ci sembrano emergere dei dati estremamente significativi che rinviano al pensiero di Barbaro come necessario antecedente: la forza del realismo come fenomeno capace di interpretare e di anticipare la storia e la identificazione del realismo con l’artisticità. La distinzione tra realismo come rispecchiamento della realtà e un realismo inteso come ricostruzione fantastica (il termine «fantasia» è usato nello stesso senso di Barbaro). Nello stesso articolo, a breve distanza, ci imbattiamo in altre affermazioni sulla storia del cinema italiano che ripropongono le ben note concezioni di Barbaro sulla nostra tradizione realistica delle origini: «Fiducia nella verità e nella poesia della verità... a questa semplice modestia sempre più ci sentiamo attaccati ogni volta che dando lo sguardo alla storia del nostro cinema, vediamo racchiusa la sua parabola fra il dannunzianesimo retorico ed archeologico di Cabiria, e le evasioni negli inesistenti paradisi piccolo borghesi dei tabarins di via Nazionale dove si sfogano le casalinghe audacie delle nostre commedie sentimentali. Ad essa sempre più ci sentiamo attaccati quando vediamo smarrita e dimenticata l’unica, autentica e nobile tradizione del nostro cinema, quella legata alla maschera tormentata e ardente di Emilio Ghione, alla passione sincera di Sperduti nel buio di Martoglio...» e richiamandosi alla tradizione letteraria del Verga, esempio di «arte creatrice di verità» essi concludevano: «A chi vada a caccia di falsità, di retorica, di medaglie di pessimo conio, dietro gli esempi di altre produzioni cinematografiche, cui la perfezione tecnica non salva dalla miseria umana e dalla povertà delle ragioni alle quali esse fanno appello, i racconti del Verga ci sembrano indicare le uniche esigenze storicamente valide: quelle di un’arte rivoluzionaria ispirata ad un’umanità che soffre e spera».13 A questo punto non è difficile concludere rilevando l’identità di posizioni tra questo scritto e le tesi più volte sostenute da Barbaro: dall’accettazio-

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ne di Sperduti nel buio, alla esaltazione del verismo verghiano, rappresentativo della autentica tradizione realistica italiana (fatta risalire da Barbaro, sulla scorta delle lezioni di Longhi, fino al Caravaggio), alla denuncia della irrealtà e della falsità delle commedie sofisticate, e all’appello finale in nome di un’arte rivoluzionaria capace di intendere i bisogni dell’umanità, di sollecitarne l’emancipazione vengono ripercorsi e riproposti tutti i motivi centrali della battaglia culturale sostenuta da Barbaro da più di un decennio. A questo manifesto del neo-realismo si collega, nello spirito, uno scritto di Antonio Pietrangeli che già rileva un processo di trasformazione in atto del cinema italiano nella direzione accennata: «Giovani registi, dei quali particolarmente faremo cenno, cominciano ad avere un orientamento che si rivela subito a colpo d’occhio, in mezzo all’inerzia imperante. Essi hanno capito che la salvezza istintiva e l’origine naturale del cinematografo non può che essere la realtà, in tutti i suoi gradi, fino al più acuto e sensibile che è quello della verità. Non sarà nemmeno necessario ribadire questa asserzione con il consueto appello alla tradizione e con l’appoggio di nomi come quelli di Giotto, Masaccio, Caravaggio, oppure come quelli di Manzoni e Verga».14 A questo punto i discorsi di Barbaro sembrano diventati un passaggio obbligato di ogni discorso sul realismo tanto che il richiamo alla tradizione è indicato come consueto. Il discorso isolato di Barbaro, apparso per anni come una vox clamantis in deserto ora è divenuto metodo critico accettato e innestato nel vivo di una mutata condizione storica. L’entrata in guerra dell’Italia non può non arricchire di implicazioni nuove la lotta di questi giovani a favore di «un’arte rivoluzionaria ispirata ad una umanità che soffre e spera»: la scelta che essi hanno effettuato è anzitutto ideologica, il rifiuto dell’arte tradizionale del regime è rifiuto del sistema politico. [...] Da questo momento sul motivo realistico iniziano a levarsi più voci che pur manifestando qualche posizione originale si muovono di preferenza lungo linee già note. C’è uno scritto di Antonio Pietrangeli che sembra collocarsi, rispetto ai precedenti, in un rapporto di prosecuzione ideale e di tentativo di definizione più esatta del termine realismo. Lo scritto si apre con questa dichiarazione programmatica: «In arte non c’è rinnovamento se non c’è realismo, si potrebbe dire capovolgendo e parodiando un detto celebre. E realistica appare a chiunque la consideri dappresso, la più ricca vena di ogni narrativa italiana».15 Pur nella apparente indeterminatezza delle affermazioni, possiamo cogliere, soprattutto dal secondo periodo, la volontà di determinare il senso del realismo riferendosi ad un contesto storico e culturale. Il successivo innesto di una esemplificazione di tradizione neorealistica già presente nel cinema italiano ci riporta a Sperduti nel buio confermandoci la conformità di direzioni tra il pensiero di Barbaro e quello del suo allievo: «E ai tempi di Cabiria, con Sperduti nel buio, già Nino Martoglio dava la descrizione di ambientini sordidi dei bassi napoletani con un amore per le scro-

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stature, pei segni sui muri, per gli acciottolati, per i capelli neri grassi e unti, per le cotonine dei vestiti che anticipavano il realismo più evoluto dei film russi e francesi».16 La coincidenza qui non si verifica solo a livello di discorso globale, ma si particolarizza nella riproposizione degli stessi particolari significanti individuati da Barbaro: «gli abitucci di cotonina, i gradini smozzicati della stanza del cieco, le dure e atroci breccole del vicolo malfamato».17 La realizzazione di Ossessione di Luchino Visconti segna una svolta decisiva in questa attività critica propedeutica in quanto il film è il primo esempio di lavoro collettivo. [...] Una volta impadronitisi del concetto di realismo gli allievi di Barbaro non si accontentano più di verificarlo o di indicarlo in continuazione negativamente attraverso la denuncia delle opere falsamente realistiche: attraverso due momenti fondamentali, il lavoro collettivo attorno ad alcune opere di Verga e la realizzazione di Ossessione, i giovani di cui abbiamo parlato, saggiano in concreto le possibilità espressive di questa nuova strada più volte ipotizzata. Una testimonianza di Gianni Puccini su quegli anni ci aiuta ad individuare con esattezza il momento di trapasso che è dato dall’incontro tra Giuseppe De Santis e Luchino Visconti: «Fu un incontro senza il quale non è pensabile la nascita di Ossessione...». Prima di abbordare la sceneggiatura del romanzo di Cain cominciarono le prime discussioni su Verga: «Verga rappresenta un passo avanti, una presa di coscienza, un punto di riferimento nel nostro lavoro appena iniziato... Verga significava in quegli anni una guida al realismo per noi, alla comprensione, sia pure confusa, del mondo popolare italiano».18 La prima sceneggiatura a cui il gruppetto composto da Visconti, Puccini, De Santis lavora, con la supervisione del padre di Puccini è L’amante di Gramigna. Il lavoro non verrà mai realizzato per l’opposizione di Alessandro Pavolini, ma il gruppetto tende ad allargarsi accogliendo dopo poco anche Pietro Ingrao e Mario Alicata che avevano elaborato una sceneggiatura di Jeli il pastore che «parve bellissima» e fu messa da parte «per dopo».19 Già nella composizione di questi gruppi, in cui entrano quasi tutti i nomi incontrati in precedenza, si deve rilevare l’urgenza a tagliare il cordone ombelicale che ancora li legava al periodo di formazione teorica per concretizzare in un’opera personale il proprio bagaglio ideale. Il primo ad arrivarci, come si è detto, è Visconti: dalle colonne di «Cinema» Antonio Pietrangeli, Aldo Scagnetti, Massimo Mida Puccini, Carlo Lizzani, sostengono con coraggio e violenza il suo film contro il boicottaggio ufficiale del regime e di gran parte della critica. La sceneggiatura di Ossessione fu opera di Visconti, De Santis,Alicata, Puccini (e con la supervisione dei dialoghi ad opera di Alberto Moravia il cui nome per ragioni razziali non comparve): come si vede, a parte Visconti, formatosi professionalmente in Francia come aiuto regista di Jean Renoir,

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si trattava o di allievi o di ex-allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia. Visconti si era presentato sulle colonne di «Cinema» con uno scritto che sin dal titolo Cadaveri20 chiariva intenzioni simbolicamente polemiche: la sua figura si può dire che polarizzi il lavoro degli altri giovani e contribuisca al superamento definitivo della fase di ricerca e di formazione. In uno scritto successivo, intitolato Cinema antropomorfico, Visconti stabilisce con esattezza i limiti che ha fissato per la sua poetica: «Al cinema mi ha portato soprattutto l’impegno di raccontare storie di uomini vivi: di uomini vivi nelle cose non le cose per se stesse. Il cinema che mi interessa è il cinema antropomorfico... il più umile gesto dell’uomo, il suo passo, le sue esitazioni e i suoi impulsi, da soli danno poesia e vibrazione alle cose che li circondano e nelle quali si inquadrano. Ogni diversa soluzione del problema mi sembrerà un attentato alla realtà così come essa si svolge sotto i nostri occhi: fatta da uomini e da essi modificata continuamente».21 È da queste parole,oltre che da tutto quello che si è appena detto,che risulta pienamente comprensibile l’affermazione di Guido Aristarco per cui la nascita della scuola neorealista «è legata a fattori di diversa natura e a una esperienza di libertà, a un terreno preparato clandestinamente, prima, durante, dopo l’ultimo conflitto da tutto un movimento critico e culturale... e a film come Ossessione».22 Tuttavia è bene precisare che, come giustamente notava Solaroli «più che un bel film Ossessione fu soprattutto un simbolo, una bandiera e lo è tuttora. Ossessione non è un film realistico e nemmeno pre-realistico. Gli attori presi dalla strada sono pochi e secondari, gli interni girati dal vero sono pochissimi e di scarso rilievo».23 Non è in Ossessione che si realizza quella visione realistica desiderata da Barbaro, ma bisogna dire che non si realizzerà neppure nelle grandi opere successive di Roberto Rossellini e Vittorio De Sica, in quanto è proprio delle opere geniali la caratteristica di superare i limiti di un programma o di una scuola.Tuttavia senza la sua opera, e senza la presenza di un clima culturale capace di favorire la ricerca in una certa direzione non si può, a questo punto, intendere l’approdo del nostro cinema al neorealismo. E se Chiarini ribadirà, alcuni anni più tardi, l’assoluta neutralità ideologica di «Bianco e Nero», in particolare la rivista «essendo sorta col preciso scopo di innestare i problemi del film in quelli della cultura»24 la nostra intenzione di dimostrare come il pensiero di Barbaro si batta per una poetica e che questa sia la linea prevalente ci pare dimostrato proprio dai successivi sviluppi del cinema italiano.25 Infine non è da dimenticare il fatto che tutta l’attività critica del dopoguerra dal ’45 ad oggi ha rivelato una incapacità totale di produrre un clima culturale capace di far scaturire dal suo interno opere significative. Persa in interminabili discussioni, o pronta ad appoggiare in nome di un fin troppo facile ricatto di contenuti nomi di registi mediocri, incapaci di

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affrontare nel loro insieme i reali problemi del cinema italiano, la critica italiana del dopoguerra (dal ’50 in poi) ha avuto il cinema che si meritava ed è responsabile di alcune clamorose stroncature (il «secondo» Rossellini) delle quali il tempo ha fatto giustizia. È certo che di tutto il panorama della nostra cultura cinematografica il momento preso in esame è l’unico in cui da un certo lavoro collettivo di «tendenza», nasca un fenomeno artistico dell’importanza del neorealismo. [...] Barbaro è stato un «maestro» per il cinema italiano nel senso più completo del termine. Le deficienze che si possono ritrovare nel suo pensiero, come abbiamo cercato di dimostrare non sono imputabili ad una limitazione culturale ma ad una volontaria autolimitazione in un momento in cui dei discorsi culturali «disinteressati» riflettevano fin troppo comodamente la politica dello struzzo. Quello che stupisce nella lettura delle opere di Barbaro è il suo tentativo di creare delle risposte a qualsiasi problema, di non trascurare la complessità dell’esistenza nel suo lavoro di critico e di teorico. Per questo la sua è una figura di intellettuale veramente rivoluzionaria in quanto sa accoppiare il rigore del metodo, all’apertura ed alla presenza nel vivo dei grandi problemi della società. Il nostro lavoro, volutamente parziale e incompleto si ferma all’esame di una parte del pensiero di Umberto Barbaro, quella ritenuta appunto più rivoluzionaria: il fatto che la sua figura nel dopoguerra sia stata completamente messa da parte e quasi dimenticata, riducendolo quasi alla fame, apre interessanti interrogativi, ma coinvolge tutta una serie di fatti e problemi di ordine storico, culturale e politico e diventa un invito a riaprire quanto prima un dibattito sulla cultura cinematografica italiana del dopoguerra.

Note originali del testo 1 «Tecnici e operai rappresentano il vanto della cinematografia italiana tra il 1928 e il 1944, anni di formazione tecnica che ha consentito al cinema italiano le grandi affermazioni mondiali del dopoguerra. Basti un esempio: Ubaldo Arata, operatore di Rotaie è anche l’operatore di Roma città aperta», Libero Solaroli, Da Rotaie a Ossessione, «Cinema Nuovo», a. II, 2, gennaio 1953, p. 14. 2 L. Solaroli, Da Rotaie a Ossessione, «Cinema Nuovo», a. II, 10 (1953), p. 278. 3 «La sceneggiatura del film sembra dominata dalla personalità di Emilio Cecchi: il presupposto è forse che un’arte come quella del cinematografo necessita, per disgrazia, di congegni da romanzo domenicale e che ereditando quindi lo schema esteriore di un romanzo popolare, si può far passare di contrabbando un autentico valore artistico... Così il romanzo Sissignora al quale ci si è rivolti con un po’ di indulgenza, e magari con un po’ di superiore compatimento, ha offerto... solo un materiale grezzo da por-

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tare alla forma perfetta... questo che per l’argomento e per l’ambiente poteva essere il primo film di un rinnovato indirizzo del cinema italiano ha preferito rimanere nella zona neutra della produzione inconsistente...». U. Barbaro, Sissignora, «Si gira», 1, febbraio 1942 (citato nella Storia del cinema italiano di C. Lizzani, p. 91). 4 Anche Rudolf Arnheim in un suo scritto riconosce l’importanza di questo tipo di formazione: «Nell’anteguerra gli studenti italiani che ora sono sceneggiatori e registi ammirati di molti film realistici, furono fiaccati e frenati dal fascismo. Si salvarono, analizzando i classici dell’arte del cinema e i testi di teoria cinematografica con la fanatica devozione dei monaci medioevali nei loro chiostri. La loro immaginazione e la loro acutezza d’osservazione difficilmente avrebbe potuto produrre frutti così notevoli senza una cultura e il senso della qualità acquistato in quegli anni». R. Arnheim, Nota personale, (1957), in Film come arte, Il saggiatore, Milano 1960, p. 43. 5 Guido Aristarco, Storia delle teoriche del film, Einaudi, Torino 19612, p. 280. 6 Queste affermazioni sono il risultato, come già abbiamo ricordato all’inizio, di una ricerca analitica anche del pensiero di Chiarini. In questo lavoro preferiamo limitarci a questi accenni riservandoci poi di riprendere il discorso su tutta l’attività critica di Chiarini. 7 In una nota della citata Storia delle teoriche del film, G.Aristarco postilla in questo modo l’affermazione del Chiarini, chiarendo che già altri avevano compiuto simili osservazioni: «Già qualcosa del genere avevano comunque detto Leon Moussinac, (Naissance du cinema [sic!]) e N. Lebedev (Sulla funzione specifica del cinema, Moskva, 1935). E abbiamo visto l’affermazione del Gerbi («Non è il cinema che è arte, arte sono le opere cinematografiche, il film») che risale al ’26, e del Debenedetti di poco posteriore», p. 294. 8 C. Pavolini, Rapporto sul cinema italiano, «Film», 23, 7 giugno 1941. 9 Nel saggio che abbiamo più volte citato di Libero Solaroli, che fu un grande amico di Barbaro, si sostiene in termini espliciti: «Durante tutto il periodo da noi studiato continuò a vivere un filone di resistenza al fascismo. Esso parte dai lontanissimi Seconda B (sceneggiato da Barbaro) e Cantieri dell’Adriatico di Umberto Barbaro che, senza essere dei capolavori, testimoniavano della sopravvivenza nel nostro cinema di una concezione di vita non fascista... D’altra parte qualche crepa ci doveva pur essere se, proprio in quegli anni, studiavano al Centro Sperimentale Giuseppe De Santis, Pietro Germi, Michelangelo Antonioni, e i migliori sceneggiatori del moderno cinema italiano. L’insegnamento del centro sperimentale era improntato soprattutto dalla personalità di un docente antifascista: Umberto Barbaro. Pochi allora e poi capirono che cosa fosse esattamente il Centro Sperimentale di Cinematografia: l’indirizzo antiformalistico degli insegnamenti combatteva efficacemente ogni infiltrazione di cultura reazionaria. «Fu dato un impulso – dice il Barbaro – a ricerche che, anche se allora si limitavano alla teoria e alla critica, hanno aperto gli occhi ai giovani esperti di

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cinematografia italiana ed hanno preparato il terreno per lo sviluppo futuro». L. Solaroli, op. cit., «Cinema Nuovo», 10, 1 maggio 1953, p. 278. 10 Questa breve citazione di Gianni Puccini chiarisce il senso della preferenza accordata a Barbaro rispetto a Chiarini, anche alla luce del rimprovero contenuto nella recensione appena citata al film di Chiarini: «Non è possibile, oggi come oggi, considerare il cinema come un fatto a sé stante, come un regno chiuso, come una città in una nuvola, al modo, più o meno della Laputa swiftiana. Grave errore sarebbe, a nostro parere; grave errore del resto ci pare commettano tutti coloro che tuttora di cinema, di pittura e di letteratura fanno un discorso separato, aristocratico, o peggio “disinteressato”». «Si gira», 2, marzo 1942, citato in C. Lizzani, Il cinema italiano, Parenti, Firenze 1953, p. 92. 11 R. Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Feltrinelli, Milano 1962. Si veda in particolare il capitolo «Fermenti, movimenti e gruppi giovanili antifascisti tra il ’39 e il ’43». 12 M. Alicata e G. De Santis, Verità e poesia: Verga e il cinema italiano, «Cinema», a.VI, fasc. 127, 10 ottobre 1941, p. 216. 13 Ibidem, p. 217. 14 A. Pietrangeli, Verso un cinema italiano, «Bianco e Nero», a.VI (agosto 1942). 15 A. Pietrangeli, Analisi spettrale del film realista, «Cinema», a.V, fasc. 146 (25 luglio 1942), p. 393. 16 Ibidem. 17 U. Barbaro, Sperduti nel buio, «Cinema», a. IV, 68, 25 aprile 1939. 18 G. Puccini, Il 25 luglio del cinema italiano, «Cinema Nuovo», 24, 1 dicembre 1953. Si veda anche in O. Caldiron (a cura di), Il lungo viaggio del cinema italiano, Marsilio, Padova 1965, p. LXXXIII. 19 Ibidem, p. LXXXVII. 20 L.Visconti, Cadaveri, «Cinema», a. IV, fasc. 119, 10 giugno 1941. 21 L.Visconti, Il cinema antropomorfico, «Cinema», a.VI, fasc. 173-174, settembre-ottobre 1943. 22 G.Aristarco, Storia delle teoriche, cit., p. 388. 23 L. Solaroli, op. cit., «Cinema Nuovo», fasc. 10, p. 279. 24 L. Chiarini, A proposito di una discussione cinematografica, «Bianco e Nero», a. XII, 4, aprile 1951. 25 Oltre alle [...] storie del cinema italiano di Carlo Lizzani e Giuseppe Ferrara ideale punto di riferimento di questo lavoro per quanto riguarda le opere ricordiamo un interessante lavoro di recente pubblicazione (Armando Borrelli, Neorealismo e marxismo, Quaderni di «Cinemasud»,Avellino 1967) nel quale si discute il fenomeno neorealistico e si dà un’esauriente analisi delle varie tendenze e dei registi. L’autore accumuna però il lavoro di Barbaro a quello dei suoi allievi senza riconoscervi una funzione guida. Da Gian Piero Brunetta, Umberto Barbaro e l’idea di neorealismo, Padova: Liviana, 1969, 127-152

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Lino Miccichè Per una verifica del neorealismo 1. Fare i conti con il neorealismo è, credo, un’esigenza sentita da molti. Non da tutti, ovviamente, poiché non mancano coloro che reputano di averli già fatti e ritengono che quanto a proposito di neorealismo si disse e si scrisse nei tardi anni ’50 sia sufficiente e valga ancora oggi a collocare storicamente quell’esperienza. Non fosse che per questo l’esigenza va ribadita e il problema affrontato.Anche perché, in assenza d’una corretta valutazione di quel fenomeno, vanno inevitabilmente prendendo piede le provvisorie iconoclastie di «quanti oggi tendono a liquidare quegli anni con petulanza, credendo che le cose avrebbero potuto andare molto diversamente da come andarono»:1 all’equivoco del mito, con i suoi numi aureolati e collocati in un immoto Olimpo, succede l’equivoco inverso, con statue magari immeritoriamente scheggiate e nuovi idoli dai piedi d’argilla eretti al loro posto. Ciò accade anche (e, s’intende, non soltanto) per un problema che è metodologico e generazionale insieme. Lungo gli anni ’50 e in parte gli anni ’60, ha avuto netta prevalenza e maggiore udienza una generazione di critici cinematografici formatasi parallelamente all’insorgere del fenomeno neorealistico: circondata da schiere ostili che spesso passavano dalle scaramucce di trincea ai veri e propri assalti (usando il potere economico dei meccanismi finanziari, il potere amministrativo degli strumenti censori, il potere persuasivo di una pubblicistica in buona parte asservita), essa è stata troppo sovente costretta ad una «cultura di assedio» perché ciò non avesse conseguenze, anche in commistione con la «politica culturale» dei partiti di sinistra di cui essa era al contempo protagonista e vittima. Non raramente, e talora anche nei suoi esempi migliori, questa critica si specializzò nel «parlar d’altro» a proposito delle opere, che venivano ridotte a mero pretesto di discorsi più generali sulla storia e sul mondo. Né il fenomeno fu solo italiano. Si pensi ai due film «neorealistici» di Germi, In nome della legge e Il cammino della speranza e a come l’equivoco su di essi – considerati di progressismo neorealistico – sia nato, sì, in Italia (dove pochi, come Carlo Doglio, osarono muovere obiezioni di fondo) ma abbia avuto larga eco all’estero, perfino in un critico assai poco conformista nei giudizi sul neorealismo come il Bazin.2 Oppure si pensi a un film volonteroso e mediocre, come Vivere in pace di Luigi Zampa, apprezzato da molti come una «summa» neorealistica e come tale superpremiato in Italia e all’estero. Oppure ancora si pensi a quanto la pubblicistica neorealistica caricò di responsabilità il Castellani di Due soldi di speranza nel farlo progenitore dello sfaldamento bozzettistico dell’ispirazione neorealistica, quando invece tale linea – di cui un Castellani, in realtà da sempre assai poco «neorealistico», fu al massimo uno dei molti portabandiera – aveva radici assai più profonde e antiche, visibili (a saper vedere) anche in taluni capolavori neorealistici apparentemente «puri» come Roma città aper-

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ta o Ladri di biciclette. Forse non a caso questa generazione di critici cinematografici – cui spettarono responsabilità e doveri che, se non giustificano, certamente spiegano gli «errori» e le distorsioni – non ha saputo poi produrre, ad esperienza neorealistica conclusa, una «storia» del cinema italiano neorealistico (o semplicemente postbellico) al di là di quella del Lizzani,3 che è in realtà una «storia del cinema italiano» dal punto di vista neorealistico e quindi più un documento del fenomeno che un documentato punto di vista critico sul fenomeno. Lungo la seconda metà degli anni ’60, invece, è andata prendendo piede una nuova generazione di critici cinematografici formatasi successivamente alla «verifica dei poteri» di metà decennio, alla crisi delle avanguardie e delle sperimentazioni dei primi anni ’60 e parallelamente all’immissione di nuove metodologie analitiche, come quelle strutturalistiche: avendo davanti a sé l’eredità non più credibile della generazione neorealistica (che sovente continuava ad applicare a una realtà diversa – e certo non meno guerreggiata, ma assai più sottilmente e tortuosamente – le vecchie metodologie della «cultura d’assedio» e della «politica culturale» che ne era stata al contempo sintomo e prodotto), essa si è troppo meccanicamente immersa in un’operazione di azzeramento metodologico per non incorrere nel vizio opposto a quello dell’antico vezzo di «parlar d’altro» a proposito delle opere. Non raramente, e talora anche nei suoi esempi migliori, questa critica si è specializzata nel creare una sorta di tunnel, senza sfiatatoi e senza uscita, dentro l’opera: nell’ipotesi, davvero infondata, che le leggi formali e strutturali che la costituiscono siano autonome o irrelate dal mondo e dalla storia e stabilendo, al massimo, collegamenti diacronici non già con la Storia, quella degli uomini, ma con la «storia», quella del cinema, e finendo per confondere il «profilmico» con la realtà e, quel che è peggio, la realtà con il «profilmico». E, certo non a caso, neppure da questa generazione di critici – cui spettano meriti di «mise en question» che, anche in questo, se non giustificano, certamente spiegano gli «errori» e le deformazioni – è finora venuta una «storia» del neorealismo e tanto meno del cinema italiano postbellico in generale,4 essendo evidente che non basta scavare cunicoli dentro le opere per giungere a una sistemazione storica del più largo discorso di cui esse sono parte. Il fatto è che né appiattirsi sull’«opera» e ignorare tutto quell’«altro» da essa che pure è condizione della sua esistenza, né parlare dell’«altro» e ridurre l’opera a una sorta di occasionale incidente, può portare a un’operazione di rigorosa critica e di fondata storiografia. [...] [I]l neorealismo è comunque un riferimento obbligato come lo è, in generale, per quasi tutto il cinema italiano odierno, nelle sue glorie più alte e nei suoi più riprovevoli abomini, poiché, per analogia, per contrasto o per distacco è sul neorealismo che si fonda la realtà attuale della nostra cinematografia. D’altronde tutto il nostro presente, non solo quello cinematografico, è fon-

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dato su quel recente passato: «Sono persuaso – scrive Fortini in pieni anni ’60 – che non è possibile decifrare il senso del presente se non si criticano i termini ideologici e politici entro i quali si svolge la discussione del periodo 1945-1953». Soltanto, aggiunge sempre Fortini, «quando si chiarirà fino a qual punto la debolezza intellettuale degli usciti dal fascismo [...] abbia cospirato obbiettivamente con talune debolezze morali e con la politica culturale stalinista, polemizzando contro quest’ultima da destra e cioè da posizioni radical-liberali invece che da posizioni marxiste, allora sarà possibile farsi un’idea meno mitica di certi tentativi, come quelli del neorealismo cinematografico, del “Politecnico”, ecc. Ma già fin d’ora si «può affermare che l’orizzonte del dopoguerra – dapprima spontaneamente e poi artificialmente – fu come bloccato dall’immediato passato, cioè dal fascismo e dall’estensione accecante di rovine e massacri».5 Riaprire dunque il discorso sul neorealismo cinematografico italiano senza mitiche riverenze e senza irruenze iconoclaste – rifiutando cioè al contempo la petulanza dissacrante e la sacralità codificata – significa disvelare e definire tutta una serie di realtà dietro il cui occultamento stanno molti degli equivoci attuali e delle odierne «impasses» del nostro cinema e del discorso attorno ad esso. Non certo a caso tale esigenza è andata sempre più affermandosi a partire dalla seconda metà degli anni ’60; quando ad esempio, due autori di punta come Paolo e Vittorio Taviani parlavano dei loro Sovversivi come di un’opera il cui «leitmotiv» è «avere le mani libere per ricominciare a cercare» e dove il «funerale di Togliatti... è il funerale del padre (il padre come mito, come padre naturale, come momento storico, come neorealismo)»;6 quando, cioè, nel cinema italiano si ebbe, dopo la crisi di metà decennio, un tentativo di fondare un «nuovo cinema», che corrispondeva d’altro canto a quello, più generale, di fondare una «nuova politica», e che si contrapponeva alla fiorescenza cinematografica d’inizio decennio (di abbondante derivazione «neorealistica»: si pensi, a tacer d’altri, agli esordi di Olmi e di De Seta), più o meno come la «nuova sinistra» intendeva contrapporsi alle pratiche riformistiche cullate dalla sinistra tradizionale nello stesso periodo. [...] 2. In verità, proprio l’esperienza di Pesaro ’74 è valsa a chiarire un equivoco di non poca rilevanza che, se non superato, rischierà ancora a lungo di pesare su qualsiasi ripensamento e qualsivoglia «sistemazione» dell’esperienza neorealistica. Ed è che accettare meccanicamente in sede storiografica il «terminus a quo» ricorrente nelle esegesi neorealistiche anche più accorte significa in realtà basare ogni «revisione» su una visione obsoleta del fenomeno, i cui termini storiografici furono definiti in epoca neorealistica non soltanto all’insegna di quell’autodifensiva «cultura d’assedio» che, come si è detto, la caratterizzò, ma anche, ovviamente, senza la necessaria distanziazione dagli eventi. Quella linea storiografica, come è noto, puntava a stabilire una sorta di «filo rosso» attraverso la storia del cinema

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italiano e le esperienze realistiche (o supposte tali) che l’avevano caratterizzata fino agli anni ’40: da Assunta Spina e Sperduti nel buio fino al documentarismo del De Robertis di Uomini sul fondo, attraverso le esperienze blasettiane di Sole e 1860. La stagione della svolta – preannunciata dal «lungo viaggio» compiuto dal gruppo di «Cinema», vecchia serie, e contrappuntata dalla “fronda” teorica di Barbaro e degli ambienti del Centro Sperimentale di Cinematografia – sarebbe stata il ’42/43 con la trilogia Quattro passi fra le nuvole (Blasetti), Ossessione (Visconti), I bambini ci guardano (De Sica). Su tale protostoria, a partire da Roma città aperta, si sarebbe avviata la breve storia felice del neorealismo cinematografico italiano,7 la quale dunque avrebbe sviluppato e ampliato, trasformandoli in «movimento», sintomi e tendenze preesistenti; non diversamente da quanto il Bernari di «Tre operai», il Bilenchi de «Il capofabbrica», il Vittorini di «Conversazione in Sicilia» e il Pavese di «Paesi tuoi» avrebbero preceduto e preannunciato il neorealismo letterario; e l’«espressionismo romano» degli anni ’30, i «sei pittori» di Torino, i giovani di «Corrente» avrebbero preceduto e preannunciato il neorealismo artistico. Orbene, tali indicazioni di protostoria neorealistica possono essere considerate nel complesso (nel dettaglio non tutte) esatte, soltanto a condizione di non essere considerate esclusive e soprattutto a patto che si respinga la tesi aprioristica (in esse implicita) della quasi assoluta estraneità tra il cinema italiano sonoro del periodo fascista e il cinema neorealistico; del quale si privilegia unicamente l’aspetto di rottura con la tradizione, ignorando totalmente quello – certamente segreto e indubbiamente minore, ma purtuttavia esistente e tutt’altro che privo di implicazioni e conseguenze – di continuità con essa. Questa tesi – portata avanti all’insegna di una condanna globale del cinema italiano 1929/1943 e dell’affermazione (in taluni approcci storiografici esplicita e in tutti gli altri implicita) che non un fotogramma si salva dei circa 750 film italiani sonori del periodo, ad eccezione dei «preannunci realistici» e di due personalità come Camerini e Blasetti – ha condotto a talune vistose distorsioni, indubbiamente sintomatiche di come i presupposti e i dati su cui essa si fonda debbano essere riverificati (ammesso che siano mai stati verificati), il più scientificamente possibile. Basti pensare quanto a lungo si è taciuto, o insufficientemente parlato, del fatto che la legge cinematografica del ’49 – generalmente considerata una conquista sia pure soltanto parziale del movimento neorealistico e del fronte per la difesa del cinema italiano che aveva prodotto nel comizio di Piazza del Popolo la propria massima manifestazione di unità e di forza – aveva tutte le proprie premesse nei meccanismi legislativi ed economici della legislazione fascista sul cinema, meccanismi che essa riprendeva con appena qualche aggiornamento.8 [...] Non si tratta insomma di modificare il «terminus a quo» del neorealismo, che resta indiscutibilmente coincidente con la nuova stagione storica del-

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l’Italia liberata dal fascismo. Si tratta però di non definire mediante tale termine il campo di ricerca, applicando invece alla ricerca stessa il principio marxengelsiano che «nella società borghese... il passato domina sul presente» e cercando di individuare e definire quale fu e quanto pesò, nell’ambito del cinema, il «passato» preneorealistico sul «presente» neorealistico dell’Italia del dopoguerra. Questa attenzione agli aspetti diacronici del neorealismo cinematografico, ovvero al suo donde e al suo dove non mitici ma effettivi, è condizione per il chiarimento dei molti equivoci, generali e particolari, esistenti attorno ad esso. Risulterà in altri termini chiaro, ad esempio, che l’immagine del neo-realismo come di una rivoluzione cinematografica mancata, a causa della repressione operata dal moderatismo centrista fin dall’immediato dopoguerra e soprattutto fra il ’48 ed il ’52, è un’immagine ampiamente infondata, non perché la repressione non ci sia stata, ma perché è in questo caso applicabile – con analogia certamente non casuale – quanto Guido Guazza [Quazza] osserva a proposito della Resistenza: «Non può essere rivoluzione mancata ciò che non è mai stato rivoluzione».9 Risulteranno altresì chiari, per fare un altro esempio, certi «tradimenti» del neorealismo come quello rosselliniano a partire da Germania anno zero, il quale altro non fu che la prosecuzione di un discorso caratterizzato dal pessimismo storico e dall’ansia verso il metafisico che già avevano contraddistinto la produzione rosselliniana preneorealistica, da La nave bianca (dove questo dato è assai «in nuce») a L’uomo dalla croce e a Desiderio / Scalo Merci / Rinuncia (dove il dato è assai più evidente). Avere ignorato, o sottovalutato, l’emergenza di questo discorso nel Rossellini preneorealistico ha portato a sottovalutarne la sopravvivenza – assai netta, a saper leggere – nel tipo di adesione che Rossellini dava alla lotta resistenziale e alla tragedia dell’occupazione e della guerra in Roma città aperta e in Paisà. [...] Ma al di là del caso Rossellini – che è per altro certamente uno degli esempi più probanti della necessità di un esame diacronico del cinema postbellico italiano nelle sue inevitabili connessioni con il «prima» preneorealistico e il «dopo» postneorealistico – molti altri aspetti del neorealismo sono destinati a restare oscuri, o peggio ad essere distorti o male intesi, in assenza di un percorso critico che prenda avvio dal cinema degli anni ’30 e in presenza, invece, della immagine mitica consegnataci su quel periodo dalla storiografia neorealistica. Difficile, ad esempio, intendere la svolta desichiana successiva a Umberto D senza rifarsi alla produzione del primo De Sica, da Rose scarlatte a I bambini ci guardano, e alle sue connessioni con il camerinismo; arduo capire l’origine e la funzione di un film come Miracolo a Milano in piena fiorescenza neorealistica senza tenere conto della produzione zavattiniana, letteraria e cinematografica, nei secondi anni ’30; impossibile com-

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prendere il dapprima lento e poi precipitoso sfaldarsi bozzettistico dell’ispirazione neorealistica ad avviati anni ’50 senza stabilire le sue connessioni con la commedia piccolo borghese degli anni ’30. E non si tratta che di alcuni esempi: i primi che vengono in mente fra i tanti possibili. La realtà è che attorno alla questione del neorealismo cinematografico italiano ha giocato un altro fattore. Ed è che, mentre al cinema neorealistico spetta una sorta di primato culturale fra le varie pratiche artistiche dell’immediato dopoguerra,10 il cinema italiano preneorealistico era indubbiamente un fenomeno di retroguardia nella cultura italiana del periodo almeno rispetto ai fermenti, sporadici se si vuole ma salienti, che si avevano, poniamo, nella produzione pittorica o nella produzione letteraria: risultato questo non soltanto dell’evidente maggiore controllo che il regime esercitava su un mezzo di comunicazione di massa come il cinema, e dell’ovviamente maggiore dipendenza che il cinema ha sia dalla struttura sociale che dalla propria specifica struttura produttiva, ma anche del fatto che, dopo la grande crisi cinematografica degli anni ’20, il cinema italiano visse proprio sotto il fascismo la propria adolescenza, portandosi poi dietro, nell’età adulta – vale a dire dal neorealismo ad oggi – tutte le tare di una gioventù malvissuta. Il fatto è che, quando nel ’45 si ebbe la fiorescenza neorealistica che pose il cinema in prima linea nella cultura postbellica, fu fin troppo naturale andare a ricercare le origini di quel fiorire in semine avvenute altrove che non nella sottocultura cinematografica del periodo fascista. L’operazione era certamente in parte giusta – se non altro perché, rispetto al cinema del periodo fascista, il neorealismo ebbe anche un aspetto niente affatto secondario di «disconoscimento della paternità» e di ricerca di paternità putative, cinematografiche (ma non italiane) e non (letterarie soprattutto). Ma venne assolutizzata con un paradosso solo apparentemente storicistico (in realtà assai poco dialettico), il cui risultato fu di fare apparire poco meno che angelica la nascita del neorealismo e certamente diabolica la sua fine, laddove e l’una e l’altra avevano – e non potevano non avere – spiegazioni anche (e s’intende, non soltanto) nella diacronia del cinema italiano e all’interno dello stesso fenomeno neorealistico che nacque già con le stimmate della propria morte. Orbene ripercorrere, in vista del neorealismo – cioè della prima età adulta del nostro cinema e anche della sua finora più vigorosa stagione – la realtà del cinema del periodo fascista – non significa unicamente andare scoprendo, o verificando, o definendo altri «preannunci» neorealistici: come la scoperta del paesaggio italiano (poniamo ne La peccatrice di Palermi), le eco del melodramma veristico (poniamo in Fossa degli angeli di Carlo Ludovico Bragaglia), l’uso del dialetto (poniamo in Via delle Cinque Lune di Chiarini), i primi accenti di «realismo» popolare (poniamo in Treno popolare di Matarazzo), la proposta di una rilettura attuale di plot classici e popolari (poniamo in Cavalleria rusticana di Palermi), le riprese in ambienti reali (poniamo in La tavola dei poveri di Blasetti); prean-

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nunci (questi e altri: se ne è esemplificato solo alcuni) che allargano alquanto la serie dei presentimenti neorealistici. Significa anche immergersi in una disamina attenta e puntigliosa di quella che fu la «corporazione» cinematografica del cinema fascista per documentare che – con alcuni defunti in meno e alcune nuove leve in più – essa rimase abbondantemente immutata e che, anche tralasciando i più noti casi di Blasetti e Camerini, taluni fra i registi più attivi del periodo preneorealistico continuarono ad essere attivissimi nel periodo neorealistco e successivamente: come Mario Bonnard (22 film fino al ’43; 10 fino al ’53; 9 successivamente), Carlo Ludovico Bragaglia (29 film fino al ’43; 17 fino al ’53; 17 successivamente), Guido Brignone (35 film dal ’30 al ’44; 13 dal ’46 al ’53; 6 successivamente), Carlo Campogalliani (14 film dal ’30 al ’43; 6 dal ’45 al ’53; 14 successivamente), Carmine Gallone (18 film dal ’35 al ’43; 14 fino al ’53; 10 successivamente), Augusto Genina (6 film dal ’36 al ’42; 4 dal ’49 al ’53), Camillo Mastrocinque (17 film fino al ’43; 12 dal ’46 al ’53; 35 successivamente), Raffaello Matarazzo (15 film dal ’33 al ’43; 9 dal ’46 al ’53; 12 successivamente), Francesco De Robertis (5 film tra il ’41 e il ’45; 7 dal ’45 al ’53; 4 successivamente), Pietro Francisci (numerosi documentari e un lungometraggio a soggetto dal ’34 al ’43; 6 lungometraggi a soggetto dal ’46 al ’53; 8 successivamente), Gennaro Righelli (35 film dal ’30 al ’43 e solo 3 dal ’45 al ’48, essendo sopravvenuta la morte nel ’49), Giorgio Simonelli (13 film dal ’33 al ’43; 14 dal ’46 al ’53; una quarantina successivamente), Mario Soldati (9 film dal ’38 al ’43; 14 dal ’46 al ’53; 6 successivamente), fino a quel Mario Mattoli che, durante gli anni finali del fascismo, aveva simboleggiato a giudizio della critica più attenta una sorta di malattia nazionale del cinema italiano (il «mattolismo», appunto) e che, avendo realizzato 32 film tra il ’34 e il ’43, ne realizzerà poi una sessantina nel dopoguerra fra cui 26 (e tra essi, significativamente un buon «remake» di Assunta Spina) nel periodo «neorealistico» 1945/1953; e finora quell’Aldo De Benedetti (per non citare che uno fra i tanti sceneggiatori attivi «prima» e «dopo») che, essendo stato il soggettista e sceneggiatore principe della commedia borghese e piccolo borghese degli anni ’30 (coinvolto, direttamente o indirettamente, in una quarantina di film, fra il ’32, anno in cui sceneggia Gli uomini che mascalzoni di Mario Camerini, e il ’42/43, quando scrive i copioni di Quattro passi fra le nuvole di Blasetti, di Un garibaldino al convento di Vittorio De Sica e di altri dodici film), continuerà, senza soluzione di continuità, nel dopoguerra, essendo coinvolto, direttamente o indirettamente, in 24 film tra il ’45 ed il ’53. Dati, questi, assai significativi poiché a un così cospicuo proseguimento di attività delle vecchie leve che avevano operato sotto il fascismo non corrispose che un numero proporzionalmente esiguo di nuove leve, di cineasti cioè che iniziassero un’attività cinematografica nell’Italia liberata o che l’avessero iniziata nella stagione ’42/43 in cui si colloca il «terminus ad quem» del cinema del fascismo, prima della «no man’s land» del ’43/45. Parliamo di cineasti come Antonioni (esordio 1950), Comencini (esordio

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1948), Germi (esordio 1946), Gora (esordio 1950), Lizzani (esordio 1951), De Santis (esordio 1948), Emmer (esordio 1950), Fellini (esordio 1950), Risi (esordio 1952), Pietrangeli (esordio 1953) che si aggiunsero a quelli che avevano esordito nelle ultime bieche stagioni del fascismo, come – a parte i già citati De Sica e Rossellini – Renato Castellani,Alberto Lattuada, Gianni Franciolini, Marcello Pagliero, Aldo Vergano, Luchino Visconti, Luigi Zampa. Ripercorrere la realtà del cinema sotto il fascismo significa, comunque, soprattutto verificare, tenendo presente la sintomaticità di dati come quelli accennati, ma basandosi essenzialmente su una rilettura non ideologistica e non aprioristica dei film, quale fu in realtà l’«immaginario cinematografico» del film italiano sotto il fascismo e quale fu l’«immaginario cinematografico» del film italiano postbellico; e fino a che punto il primo riflesse (e dove invece trasgredì) l’ideologia del fascismo, e fino a che punto il secondo riflesse (e dove invece trasgredì, andando oltre o restando indietro) l’ideologia dell’antifascismo. È d’altronde in questo senso che il ruolo della trilogia Quattro passi tra le nuvole / Ossessione / I bambini ci guardano è essenziale, anche se lievemente diverso da quello solitamente attribuitole. Pur nella diversità dei risultati e delle ispirazioni, i tre film hanno in comune non già (anzi niente affatto) elementi di preludio al neorealismo, bensì elementi di rottura con il cinema italiano sonoro dell’epoca, rispetto al quale interrompono la linea di continuità che lo aveva caratterizzato dal ’29/30 in poi. Essi costituiscono in altri termini il confine, la linea di spartizione, il punto di separazione tra quelli che più sopra definivamo l’«immaginario cinematografico» preneorealistico e l’«immaginario cinematografico» neorealistico. Ma più con gli occhi volti al passato da negare che al futuro da fondare. In Quattro passi tra le nuvole Blasetti sottolineava il contrasto fra la dura e grigia realtà dello status piccolo borghese (la sequenza iniziale e la sequenza finale del film; gli smorti interni, i rumori-stridenti, i gesti ripetuti, l’irritazione dei due coniugi) e la sua «réverie» idillico agreste connotata, per altro, all’insegna dell’atto mancato e dell’impotenza (l’irrealizzato rapporto tra il commesso viaggiatore Gino Cervi e la ragazza madre Adriana Benetti) e racchiusa, come una sognante parentesi, fra le due sequenze «realistiche» d’apertura e di chiusura. Ne I bambini ci guardano De Sica faceva irrompere il dramma nell’ambiente caro al sorridente bozzetto piccolo borghese di derivazione cameriniana (del quale De Sica stesso si era mostrato l’erede nei suoi primi film) e, descrivendo il mondo degli adulti come prigioniero della propria irresponsabilità e del proprio conformismo e incrinato nella propria maggiore «grundform», la famiglia, delineava nel personaggio di Pricò la solitudine delle nuove generazioni (che poi sarà il «leitmotiv» di Sciuscià). In Ossessione Visconti dava spazio all’occultato, orchestrando con duttile articolazione moderna una finzione in cui tutti i topoi dell’immaginario cinematografico degli anni ’30 venivano assunti e rovesciati: il sesso, da

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eterea sublimazione spirituale, in densa carnalità fisiologica; la famiglia, da cellula della «socialità», in disumana prigionia; il popolo, da interprete della coralità beatificante, in aggregato di aspre solitudini individuali; il mondo contadino, da centro dell’unità, in centro della frantumazione; il paesaggio, da fondale idilliaco, in scenario torbido; il delitto, da infrazione negata, in negazione portata in primo piano; la vita, da luogo dell’appagamento, in luogo del desiderio: un film insomma sul «tutto in discussione», che procede a una sorta di azzeramento totale, con una funzione prevalentemente distruttiva nei confronti di tutti gli stereotipi precedenti e in questo senso assai più radicale che non quelle rappresentate dai film di Blasetti e di De Sica.11 Più sottile, ma anch’essa certamente nuova e «azzerante», la polemica di Gente del Po di Michelangelo Antonioni, che a buon diritto (e non solo per una questione di date) può essere inserito, accanto alla trilogia I bambini ci guardano / Quattro passi tra le nuvole / Ossessione, fra i film che, nella stagione ’42/4312 contrassegnano una sorta di 25 luglio del cinema italiano. Qui l’opera di azzeramento e di distruzione dei preesistenti stereotipi era condotta esclusivamente a livello del paesaggio, come preannunciava d’altronde uno scritto significativo che il giovane regista aveva pubblicato nel ’39.13 In Gente del Po Antonioni rovesciava, infatti, l’uso «scenografico» del paesaggio reintegrando l’uomo nell’ambiente, nella natura, nel mistero del suo essere tra le cose: il paesaggio, insomma, non come «un’accozzaglia d’elementi esteriori e decorativi» ma come «un insieme di elementi morali e psicologici»; qualcosa di simile, ma più per complementare antitesi che per analogia, all’uso del paesaggio nel viscontiano Ossessione. [...] 3. Ma vi fu, un vero e proprio «immaginario cinematografico» del neorealismo? La domanda che può apparire a prima vista del tutto peregrina, risulterà forse meno oziosa (e più chiara) di fronte a un’ipotesi che qui si enuncia come proposta di una analisi e di una rilevazione tutta ancora da compiere: l’ipotesi, cioè, che il cinema neorealistico non abbia avuto in realtà un proprio «immaginario» identificabile e netto ma che, con soltanto apparente paradosso, su di esso si fondino tutte le basi dell’«immaginario cinematografico» postneorealistico, vale a dire di quel periodo complessivo del cinema italiano che – con vari assestamenti, spostamenti e ripensamenti – va dalla morte del neorealismo ad oggi. In altri termini, il neorealismo non riuscì (non fece in tempo) a fondare se stesso, trasformandosi da «atteggiamento morale» in «atteggiamento estetico», ma riuscì a fondare quella negazione (e quel prolungamento) di sé che è il cinema italiano postneorealistico, dove la norma (cioè una «regola» con «eccezioni») è stata l’abbandono di quell’«atteggiamento morale» e l’assunzione a «modello estetico» di alcune figure (stilistiche, tecniche, ambientali, ecc.) della produzione propriamente neorealistica. Questa ipotesi di lavoro non

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è puramente teorica, ma viene suggerita da alcuni dati estremamente significativi. Generalmente si opera una certa confusione fra «neorealismo» e «cinema italiano del dopoguerra», implicando fra il primo e il secondo una identificazione che da tutti i punti di vista appare impropria, soprattutto se si conserva al termine «neorealismo» il significato che esso ebbe (e ha) nell’accezione più classica. La realtà è che, nel periodo che va dal 1945 al 1953, vennero realizzati in Italia 822 lungometraggi e che il «neorealismo» classico ebbe tra essi una posizione del tutto minoritaria. Basti pensare che in quei nove anni i registi della «vecchia guardia» più sopra citati (Blasetti, Bonnard, Bragaglia, Brignone, Camerini, Campogalliani, Gallone, Genina, Mastrocinque, Matarazzo, De Robertis, Francisci, Righelli, Simonelli, Soldati, Mattoli: vale a dire soltanto alcuni tra i più attivi cineasti del cinema sotto il fascismo) realizzarono 169 lungometraggi; mentre nello stesso periodo i registi della «nouvelle vague» neorealistica (non solo De Sica, Rossellini, Visconti, Castellani, Lattuada, Franciolini, Pagliero, Vergano, Zampa – già attivi nelle ultime stagioni del cinema sotto il fascismo – ma anche gli esordienti del dopoguerra come Antonioni, Comencini Germi, Gora, Lizzani, De Santis, Emmer, Fellini, Risi, Pietrangeli: vale a dire quasi tutti gli autori solitamente identificati in qualche modo come «neorealisti») non ne realizzarono che 90. E, se è vero che fra i 169 film di quella vecchia ondata non mancarono taluni tentativi di approccio in qualche modo neorealistico, (basti pensare a Un giorno nella vita di Blasetti, a Molti sogni per le strade di Camerini, a Cielo sulla palude di Genina), è però altrettanto vero che, fra i 90 film della nuova ondata, non pochi si discostarono notevolmente dal nucleo centrale dell’ispirazione neorealistica, anche nella sua accezione più larga (basti pensare a Il delitto di Giovanni Episcopo di Lattuada, a Processo alla città di Zampa, oltreché al Rossellini successivo a Germania anno zero e agli esordi di Antonioni e di Fellini). Né limitandosi ai 224 film prodotti nel periodo 1945/48 – vale a dire alle stagioni di maggiore fioritura neorealistica – la proporzione appare diversa.Tanto che l’identificazione del «cinema italiano del dopoguerra» con il «neorealismo»14 appare del tutto arbitraria o comporta un’accezione del tutto diversa del termine di «neorealismo». Un altro ordine di dati riguarda le statistiche degli incassi e le graduatorie commerciali.A parte il caso di Roma città aperta, che con 162 milioni di incasso ebbe il primo posto nella classifica della stagione cinematografica 1945/1946 (e un ampio successo di critica: il che smentisce dunque, doppiamente, quell’aura da «Nemo propheta in patria» con cui Rossellini e i rosselliniani hanno sempre voluto circondarsi), pochi tra i film neorealistici entrano fra i maggiori successi stagionali del periodo 1945/1953: anzi, se si esclude Paisà (nono classificato nella stagione ’46/47 con oltre 100 milioni), In nome della legge (terzo classificato nella stagione ’48/49, con oltre 400 milioni), Ladri di biciclette (undicesimo nella stagione ’48/49 con oltre 250 milioni) e Riso amaro (quinto nella stagione ’49/50

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con quasi 450 milioni), praticamente nessuno. Mentre veri e propri disastri furono capolavori come La terra trema, Sciuscià, Germania anno zero che assieme a Miracolo a Milano, L’amore, Caccia tragica, Il cielo è rosso, Roma ore 11, Achtung Banditi! [sic!], Umberto D, Bellissima, e altri (ora famosi) titoli neorealistici, occuparono gli ultimi posti nelle classifiche di «gradimento» dell’epoca. Questa realtà appare tanto più significativa se contrapposta ai nomi e ai titoli che in quelle stagioni occuparono la vetta delle classifiche degli incassi, attestando dunque il maggiore «gradimento» del pubblico. Nel 1946 Aquila nera di Riccardo Freda, Genoveffa di Brabante di Primo Zeglio, Avanti a lui tremava tutta Roma di Carmine Gallone, Furia di Goffredo Alessandrini. Nel 1947 Come persi la guerra di Carlo Borghesio (con Erminio Macario), O.K. John di Ugo Fasano e Gianni d’Erasmo, La figlia del capitano di Mario Camerini. Nel 1948 Fifa e Arena di Mario Mattoli (con Totò e Isa Barzizza), Natale al campo 119 di Pietro Francisci, L’eroe della strada di Carlo Borghesio, Il diavolo bianco di Nunzio Malasomma. Nel 1949 La sepolta viva di Guido Brignone, Fabiola di Alessandro Blasetti, prima del già citato terzo posto di In nome della legge e del quarto de I pompieri di Viggiù di Mario Mattoli. Nel 1950, accanto a due invasioni di campo dalla Francia (le coproduzioni Gli ultimi giorni di Pompei, supervisione, cioè regia mascherata, di Marcel L’Herbier e Domani è troppo tardi di Leonide Moguy), Catene di Raffaello Matarazzo e Il Brigante Musolino di Mario Camerini. Nel 1951 I figli di nessuno e Tormento di Raffaello Matarazzo, seguiti da Trieste mia di Mario Costa e da Enrico Caruso di Giacomo Gentilomo. Nel 1952 (a parte il Don Camillo di J. Duvivier, Anna di Alberto Lattuada, Totò a colori di Steno, Canzoni di mezzo secolo di Domenico Paolella, Core ’ngrato di J. Duvivier [in realtà di G. Brignone]) il «boom» di Pane amore e fantasia di Luigi Comencini che, nella stagione ’53/54, supera di oltre 450 milioni Giuseppe Verdi di Raffaello Matarazzo seguito a sua volta da Puccini di Carmine Gallone, Perdonami di Mario Costa e Aida di Clemente Fracassi.15 Questi dati non solo «danno la misura esatta del fallimento dell’operazione neorealistica nel suo punto programmatico più ambizioso e delicato: la volontà di indurre un mutamento radicale nei rapporti fra cinema e pubblico, quali si esplicano negli spettacoli strutturati industrialmente»;16 confermano altresì come la «chiave di volta» del nostro cinema postbellico non possa essere ricercata in quei film neorealistici che ne costituirono l’aristocrazia culturale.17 Ciò che comunque tali dati attestano con inequivoca evidenza è che una corretta storia, non si dice del cinema italiano del dopoguerra, ma anche soltanto del neorealismo non può essere fatta che tenendo conto del contesto cinematografico in cui la produzione neorealistica si inserì, cioè quello di un cinema dove, «mutatis mutandis», tutte o quasi le malattie della cinematografia italiana sotto il fascismo continuarono a esistere e dove il grosso dell’«offerta» cinematografica (pur con diversi – e spesso appariscenti – assestamenti di tono, di linguaggio e di repertorio

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tematico) proseguì secondo una logica che era, indiscutibilmente, quella della continuità. Ciò muta radicalmente la prospettiva storiografica in cui molta esegetica neorealistica si è finora mossa: il neorealismo cinematografico italiano non fu la realtà brevemente felice del cinema italiano postbellico, combattuta e “distrutta dalla restaurazione moderata” del centrismo; il neorealismo cinematografico italiano fu invece, fin dall’inizio, un episodio ricco di trasgressività18 rispetto alle tendenze generali dell’offerta e della domanda cinematografica dell’epoca, ma produttivamente assai circoscritto e merceologicamente del tutto marginale, anche se culturalmente vistoso. La restaurazione moderata non fece che accelerare il processo di emarginazione, giocando non tanto, o non soltanto, sui meccanismi direttamente repressivi di cui disponeva, quanto sulla stessa reazione di rigetto di un «mercato», cioè di una «società» trasformata in «mercato», dove al di là dei paramenti esterni, poco era cambiato e che continuava, quindi, ad amare gli stessi cantastorie – e le stesse storie – che l’avevano deliziata negli anni del fascismo prima del ciclone della guerra. Di qui, come si accennava, l’ipotesi che il neorealismo abbia vinto proprio quando ha perso (nelle iniziali stagioni degli anni ’50) e, viceversa, che abbia perso quando ha vinto quella che indubbiamente fu una vittoria di Pirro. Singolarmente, infatti, il primo grande successo di pubblico della «vague» neorealistica, dopo Roma città aperta, è quel Pane amore e fantasia di Luigi Comencini che riducendo a bozzetto l’ispirazione popolare neorealistica (e dunque negandone il presupposto estetico fondamentale), depurandola di ogni afflato ideologico (e dunque negandone il presupposto etico fondamentale) ed eliminandone ogni aspirazione al mutamento (e dunque negandone il presupposto politico fondamentale) porta per la prima volta l’immaginario neorealistico – così riciclato, sintetizzato e unificato – a livello di immaginario di massa. La sconfitta della vecchia guardia del cinema sotto il fascismo, e il tramonto definitivo dell’«immaginario cinematografico» che l’aveva caratterizzato, cominciano proprio qui e vengono completati nel corso degli anni ’50 ad opera del filone che va dalla serie dei Pane amore e... a quella dei Poveri ma belli e derivati. Dove cioè il neorealismo fallisce, vince invece quella sua forma bastarda che pure è il sintomo principale e più appariscente del suo fallimento. Naturalmente, la sconfitta del vecchio cinema, più che una sostituzione (culturale) è una successione (industriale), in questo del tutto omologa a quanto andava verificandosi nella società civile. Come poteva d’altronde non corrispondere alla pratica politica dell’ottundimento una pratica cinematografica che non fosse anch’essa grigiamente, e magari financo allegramente, ottusa? Trionfò così, filiato direttamente dal neorealismo sia pure come un figlio degenere, una sorta di gigante disossato, un cinema piccolo-borghese, che si cullava sulla contraddizione addolcendola di acquiescente sorriso. «In una società progredita – scrive Marx nella lettera ad Annenkov – il piccolo borghese è necessariamente, per la sua stessa posizione, socialista da un

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lato ed economista dall’altro; cioè egli è abbagliato dalla magnificenza della grande borghesia e simpatizza con le miserie del popolo. Interiormente si lusinga di essere imparziale e di avere trovato il giusto equilibrio che – egli pretende – è qualcosa di diverso dalla mediocrità. Un piccolo borghese di questo tipo divinizza la contraddizione perché la contraddizione è la base stessa della sua esistenza. Egli stesso non è altro che una contraddizione in atto». Ebbene il cinema degli anni ’50, con i suoi legami, distorti ma precisi, con il neorealismo e al contempo con la sua negazione/surrogazione del vecchio «immaginario cinematografico» formatosi negli anni ’30, fu il portatore – anch’esso «imparziale», «equilibrato» (e «mediocre») – di quella ideologia: finito il rimescolamento di carte, ai vecchi film della vecchia piccola borghesia succedevano i nuovi film della nuova piccola borghesia. Il cinema dell’illusione, cioè il neorealismo, aveva (de)generato il cinema della restaurazione. 4. Questa ipotesi comporta automaticamente altre ipotesi. Prima fra tutte quella che il neorealismo fosse in realtà nato con questa vocazione a (de)generare, sempreché per neorealismo si intenda, come è giusto in tale caso intendere, non tanto e non soltanto i film che così furono etichettati, ma il dibattito che si ebbe sul movimento, la sua appartenenza ideologica all’antifascismo ciellenistico, la gestione che se ne attuò in sede di «politica culturale», le battaglie cinematografiche che si fecero in suo nome, il modo con cui esso si iscrisse nella pratica politica dei partiti democratici, l’atteggiamento che la critica cinematografica (anche quella «neorealistica») adottò nei suoi confronti, la coscienza di sé che esso ebbe; e così via. Ma, per fermarci un attimo soltanto sui film, certo è che, viste oggi, con il comodo vantaggio del «senno di poi» (e quindi senza neppure un barlume di quel tono iconoclasta con cui taluni giovani turchi della cinefilia nostrana danno soltanto prova di scarso storicismo), talune etichettature di allora appaiono davvero imperscrutabili. «Scrutando» ad esempio tra quei 90 film realizzati dalla «vague» neorealistica, e di cui più sopra si è detto, è agevole accorgersi che all’interno dell’etichetta «Neorealismo», disinvoltamente applicata, convivevano mille anime e posizioni radicalmente opposte, che poi, ulteriormente perseguite nel corso degli anni ’50 e oltre, hanno rivelato (destando talora immotivati stupori) la loro antitetica inconciliabilità. Se è neorealistico Umberto D – dove, per dirla con le parole dello sceneggiatore, «il fatto analitico è assai più evidente» e dove, più che altrove, si ha la sparizione dell’evento, la rarefazione del plot, la riproduzione della durata reale, l’eliminazione totale dell’eccezionale e dell’eroico, l’esaltazione del «banale» come «infinitamente ricco» – perché mai sarebbe neorealistico In nome della legge, dove, nel ritmo narrativo, nel taglio di montaggio, nella definizione dei personaggi, nell’enunciazione del conflitto, nella scelta ambientale, si recupera a tutto spiano i modelli della fiction cinematografica sul West fino a farne, appunto, un «western siculo», che soltanto in questa chiave (non certo come film di denuncia

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della mafia poiché, paradossalmente, e certo involontariamente, si tratta di un film «mafioso») può essere (assai relativamente) apprezzato? E, se è neorealistico Paisà – che è un film sulla dialettica morte/vita, sulla eternità dell’attimo, sull’anonimo morire nella Storia, fondato tutto sull’abolizione dello iato fra realtà e rappresentazione in una continua, immediata, drammatica adesione alle cose – perché mai sarebbe neorealistico Vivere in pace, che infioretta idilli agresti e bozzetti strapaesani in una atmosfera da favoletta pacifista condita di perbenismo vagamente qualunquistico? E se è neorealistico Amore in città – dove l’unico vero teorico del neorealismo, Cesare Zavattini, realizza, sia pure per delega, le proprie teorie sul pedinamento del personaggio, sulla cinepresa nel «luogo del delitto», contro l’invenzione soggettistica, contro lo spettacolo, per la ricostruzione del fatto di cronaca, per l’abolizione della «grammatica filmica» – in che senso sarebbe neorealista un film (un capolavoro, per altro) come La terra trema, dove tutto è «vero» non già perché tutto è «reale» ma, paradossalmente, perché tutto è «falso», essendo il «vero» viscontiano raggiunto mediante un’altissima finzione di realtà che esclude ogni meccanico rispecchiamento, ogni appiattimento sull’accaduto, ogni identificazione sul «così come è»?19 Altri esempi certamente potrebbero essere fatti. E c’è davvero da dubitare che reggano a un’analisi anche solo minimamente approfondita le pretese etichettature neorealistiche del Castellani di Mio figlio professore, di Sotto il sole di Roma e di È primavera, film che sono tutti l’inequivoco preludio di quel Due soldi di speranza, che era tanto (cioè tanto poco) neorealistico quanto gli altri precedenti film dell’autore; oppure la cittadinanza neorealistica di un melodramma itinerante come Il cammino della speranza di Germi per non dire de La città si difende de La presidentessa e de Il brigante di Tacca del lupo che oscillano fra il drammone, la commedia e il western; oppure ancora le supposte «enclave» neorealistiche della filmografia di Lattuada, come Il bandito, o Senza pietà, che sono del sapiente «grand guignol» cori misurate oscillazioni verso il fumetto. D’altronde, senza andare troppo in là, basterebbe soffermarsi su quelli che a parere dei più sono i maggiori esponenti della fiorescenza neorealistica: Roberto Rossellini, Vittorio De Sica, Luchino Visconti, i maestri di quegli anni, cui va aggiunto Giuseppe De Santis, non un maestro ma un cineasta coerente nella propria ricerca. Non sembra ci voglia molto per accorgersi che si tratta di quattro vere e proprie «divergenze parallele». Nel discorso neorealistico Roberto Rossellini prende la parola due volte, con Roma città aperta e Paisà e già con Germania anno zero viene considerato fuori della linea. Il che è tutto sommato giusto, a patto che si tenga presente che i due discorsi «in linea» – come già si è rilevato – avevano, anche se meno evidenti, gli stessi interessi «spiritualistici» e lo stesso «pessimismo storico» di quelli successivi. Due volte entrerà nel discorso anche Luchino Visconti. Ma se con il primo film, La terra trema, come fu detto con felice formula, «il neorealismo

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diventa stile», cioè si estremizza – e si realizza – in una nuova (altissima) retorica, con il secondo, Bellissima, il regista si pone già in posizione critica verso il neorealismo e una serie di suoi stereotipi. Se Rossellini e Visconti appaiono come due entità incomunicabili, non meno appartata, rispetto alle loro due linee, appare quella di Giuseppe De Santis che è l’unico a tentare un’operazione che non è solo «estetica» ma anche «politica» in quanto volta a fondare un’epica nazionalpopolare (sia in Caccia tragica che in Riso amaro; ma più che mai in Non c’è pace tra gli ulivi), tesa al recupero di passioni, sentimenti, e conflittualità primordiali, cioè più ad un «rappresentare» per il popolo che ad un «rappresentare» il popolo. Forse appare così accettabile l’ipotesi che il cinema di De Sica (cioè di De Sica/Zavattini) rappresenti «l’espressione più pura» del discorso neorealistico e che anzi, Ladri di biciclette sia «il luogo geometrico, il punto zero di riferimento, il centro ideale intorno al quale gravitano entro la loro orbita particolare le opere degli altri grandi registi»;20 anche perché De Sica è colui che con maggiore continuità cerca di mantenersi, fino alle estreme stagioni, nell’alveo neorealistico. Ma come conciliare il carattere completamente aprogettuale del solidarismo desichiano e il suo illuminato umanesimo «borghese» con l’ansia di palingenesi spirituale di un Rossellini, con l’aristocratico marxismo di un Visconti, con la ricerca populistica di un De Santis? Tanto vale dirlo, insomma. Quanti furono i neorealisti, tanti furono i neorealismi che equivale, pressapoco, ad affermare che il neorealismo, essendo un’aggregazione di fenomeni, non fu un fenomeno, e che anzi, come fenomeno definito e bene individuabile, non fu affatto, poiché a livello dei risultati espressivi – (cioè dei film) esso apparve – e soprattutto appare ora – scomponibile e ricomponibile quasi a piacimento. Sicché in questo senso ha ragione (e ha torto al contempo) e chi lo riduce ai pochi grandi «maestri», e chi lo allarga a dismisura, dal Visconti de La terra trema al Matarazzo della trilogia «larmoyante». Questo però vale soltanto e fino a quando si pensa che il neorealismo fu un’«estetica» e che dunque sia nella pratica formale dei singoli cineasti, nei loro film, che lo si debba ritrovare e lo si possa ricostruire; e che le varie «poetiche» da quella «estetica» derivate siano come i rami di uno stesso albero, estesi, sì, in direzione diverse fino ad abbracciare un intero orizzonte, ma poggiati tutti su uno stesso tronco. Ma il neorealismo, appunto, non fu un’«estetica» e una delle ragioni della sua sconfitta (una delle tante) fu proprio nel credere di esserlo, peggio nel volerlo essere. Il neorealismo fu invece un’«etica dell’estetica»: la risposta implicita di una nuova generazione di cineasti alla domanda vittoriniana «Potremo mai avere una cultura che sappia proteggere l’uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo?».21 In questo, solo in questo, i Visconti e i De Sica, i Rossellini e i De Santis, per quanto «esteticamente» lontani, furono «eticamente» vicini.

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«Neorealismo» fu, soprattutto, il nome di una battaglia, di un fronte, di uno scontro: quello che i fautori di quell’«etica dell’estetica» condussero contro i fautori di un’«estetica (apparentemente) senza etica», cioè di una pratica artistica che, fingendosi autonoma dalle cose del mondo, è funzionale alla loro conservazione poiché è lo «spettacolo» che «distrae» dalla pena che esse generano. Da qui, ad esempio, la a volte feroce antispettacolarità che caratterizzò alcuni dei più alti risultati neorealistici, da La terra trema a Umberto D. Tuttavia, un’«etica dell’estetica» che non sa pervenire ad un’«estetica», o peggio che crede di esservi pervenuta, non può che soccombere. L’unità etica dei neorealisti si incrinò in primo luogo con il crollo della «grande speranza» delle prime stagioni postbelliche di cui essa era, a suo modo, parte; si ruppe poi nei continui scossoni che essa subì tra la volontà restauratrice del moderatismo centrista e le contraddizioni di una sinistra marxista italiana dove «s’era riprodotta, in scala minima se vogliamo, tutta la teratologia stalinista»;22 si dissolse quindi definitivamente di fronte alla pressione esercitata da quell’«estetica» che non era mai tramontata, neppure con il crollo del fascismo cui era così ben servita; che sembrava, appunto, non avere un’«etica»; che però, invece, di fatto l’aveva, nell’accettazione dell’esistente e nelle funzioni consolatorie che assolveva perché continuasse ad esistere, ed era dunque una «etica dell’estetica» anch’essa, ma fornita di una pratica estetica precisa e questa volta unitaria, anche se variegata e non conclamata, anche se rinnovata e lungimirante, anche se apparentemente preterintenzionale e occasionale. La beffa fu, come già si è detto, che l’ormai indisturbato cinema della consolazione si permise il lusso di indossare paramenti neorealistici e di condurre con essi una lotta per il proprio rinnovamento che fu poco meno d’una lite in famiglia tra il vecchio e il nuovo cinema della borghesia. Per questo, ripensare il neorealismo, ricostruirne l’itinerario, riesaminarne la realtà, fuori da ogni mitologia e da ogni iconoclastia, vuol dire anche impadronirsi degli strumenti atti a capire i camuffamenti e il volto autentico di un dopo-neorealismo che dura tuttora.Vuoi dire conoscere quello che fummo per capire ciò che siamo.

Note originali del testo 1 I. Calvino, Ma ne sapevamo tutti poco, «Corriere della Sera», 13 ottobre 1974. 2 Cfr.A. Bazin, Qu’est-ce que le cinéma? Vol. IV. Une esthétique de la réalité: le néorealisme, Editions du Cerf, Paris 1959, pp. 65 e ss. Il giudizio di Bazin su Il cammino della speranza è in realtà temperato da una corposa serie di riserve, ma è purtuttavia sempre positivo. Il capitolo in questione è omesso nell’edizione italiana, Che cos’è il cinema?, a cura di A. Aprà, Garzanti, Milano 1973. 3 C. Lizzani, Il cinema italiano, Parenti, Firenze 1953. Poi in edizione

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aggiornata, come Storia del cinema italiano 1895-1961, Parenti, Firenze 1961. 4 Va comunque aggiunto che questa generazione di critici ha indubbiamente la giustificazione aggiuntiva, rispetto all’altra generazione, di operare da assai meno tempo. Con l’occasione: credo di dover precisare, a scanso di equivoci, che (se non altro per ragioni di età) non appartengo né alla prima né alla seconda delle due generazioni, ma mi trovo nella (s)comoda posizione intermedia. 5 Franco Fortini, «Nuovi argomenti», 44/45, 1960. E successivamente in Verifica dei poteri, Il saggiatore, Milano 1965, p. 110. 6 Il corsivo è mio. Cfr. Entretien avec Paolo e Vittorio Taviani, «Cahiers du cinéma», 228, marzo/aprile 1971; ora in Cinema e utopia: i fratelli Taviani, ovvero il significato dell’esagerazione, a cura della Cooperativa Nuovi Quaderni, Parma 1974. 7 Su tale posizione sono in sostanza attestate le uniche due storie del cinema italiano: quella, già citata del Lizzani, e il compendio del Gromo (M. Gromo, Cinema italiano (1903-1953), Mondadori, Milano 1954), nonché le monografie di Castello (G.C. Castello, Il cinema neorealista, Edizione Radio Italiana,Torino 1956) e di Ferrara (G. Ferrara, Il nuovo cinema italiano, Lemonnier, Firenze 1957). 8 Come ha dimostrato Quaglietti. Cfr. L. Quaglietti, Il cinema italiano del dopoguerra.Leggi produzione esercizio, Quaderno informativo n. 58 della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Pesaro, 2-19 settembre 1974. 9 In G. Guazza [Quazza], La politica della Resistenza italiana, in Italia 1943-1945/La ricostruzione, a cura di S. J.Wolff [sic!], Laterza, Roma-Bari 1974, p. 33. 10 Tanto da portare Pavese al suo celebre giudizio su De Sica «maggiore narratore italiano del dopoguerra». 11 Cfr. L. Miccichè, Per una rilettura di «Ossessione», in Visconti: il cinema, Ufficio Cinema del Comune di Modena, Modena 1977. 12 Anche se, come è noto, il documentario di Antonioni, pur girato nel ’43, non vide la luce che nel ’47. 13 Cfr. M.Antonioni, Per un film sul fiume Po, «Cinema», 68, 25 aprile 1939. Le citazioni seguenti sono tratte da questo articolo. 14 Tale identificazione non fu soltanto opera dei «neorealisti». Si veda, ad esempio, Il neorealismo italiano, Quaderni della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, Venezia 1951. Qui, dopo un saggio di G.L. Rondi, che si apre affermando che «la storia del cinema italiano del dopoguerra – la storia cioè del miglior cinema italiano – è la storia di quel movimento estetico ed umano che, impropriamente, taluni teorizzatori hanno chiamato neorealismo», si ha un’appendice filmografica, a cura di G. Carancini,che raccoglie tutti i film italiano tra il 1945 e il 1951,sia pure con l’avvertenza che essa comprende «non soltanto quelli detti neorealisti». 15 Nelle indicazioni dei film di successo talune differenze rispetto ad altre «classifiche» esistenti, derivano dal fatto che qui (salvo diversa indicazio-

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ne) si è preso in considerazione, per maggiore comodità, l’anno solare, laddove è prevalente l’uso di considerare la «stagione cinematografica» che va dal settembre di un anno all’agosto dell’anno successivo. 16 In V. Spinazzola, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 1945-1965, Bompiani, Milano 1974, pp. 11-12. Il libro di Spinazzola è un’eccellente analisi socioeconomica del cinema italiano, e in tale ambito, anche uno dei pochi seri tentativi di ripensamento del neorealismo. 17 Cfr. C. Cosulich, La battaglia delle idee [La battaglia delle cifre], «Cinema Nuovo», 98, 15 gennaio 1957. In questo articolo, Cosulich, dopo aver riportato ed esaminato gli incassi delle prime dieci stagioni cinematografiche del dopoguerra, ne fa «discendere due conseguenze: 1) Ogni film ha una propria storia, è un prototipo, anche se all’apparenza sembra un prodotto in serie. Di conseguenza bisogna andare assai cauti nelle generalizzazioni. 2) La chiave di volta del nostro cinema, mi sembra la si possa trovare in un esame accurato non tanto dei dieci o quindici film di Visconti, De Sica e Rossellini, quanto nei film popolari, dai napoletani ai veneziani, da quelli di Matarazzo a quelli di Brignone e Mario Costa». 18 Almeno nelle sue espressioni migliori, poiché nel complesso – tenendo cioè conto dei minori e dei minimi, la cui trasgressione era spesso soltanto esterna e corrispondeva piuttosto ad una semplice sostituzione di «contenuti» – e fu invece ambiguo. Ed ebbe in questa sua ambiguità una delle ragioni della sconfitta. 19 Tanto che l’irrisolta aporia del capolavoro viscontiano è soprattutto nel fatto che esso è una rappresentazione dell’ingiustizia secolare, ma anche il documento della sua contemplazione. Come se l’«aristocratico» Visconti denunciasse ad un tempo e il crudele ordine esistente e la propria incapacità a fare altro che contemplarlo esteticamente: se l’ordine sociale delle cose è determinato dalla logica borghese, l’ordine formale della loro rappresentazione è determinato dall’estetica borghese. 20 In A. Bazin, Vittorio De Sica, Guanda, Parma 1953, p. 15. 21 E.Vittorini, Una nuova cultura, «Politecnico», 1, 29 settembre 1945. 22 F. Fortini, Dieci inverni, Feltrinelli, Milano 1957, p. 15. Da Lino Miccichè, Per una verifica del neorealismo, in Il neorealismo cinematografico italiano,Venezia: Marsilio, 19993, 7-28

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Cinegramma (Francesco Casetti, Alberto Farassino, Aldo Grasso, Tatti Sanguineti) Neorealismo e cinema italiano degli anni ’30 Frattura, continuità, citazione Un discorso sui rapporti fra cinema neorealista e cinema italiano degli anni ’30 incontra subito un tradizionale problema critico e storiografico che non per il fatto di essere mal posto può essere accantonato o differi-

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to. Il problema, che può essere letto o intravisto in tutta la letteratura sul neorealismo, si può schematizzare in questi termini: fra questi due momenti, cronologicamente successivi, della storia del cinema italiano vi è una netta frattura oppure esistono, più o meno mascherate e segrete delle forme di prosecuzione e di continuità? E cioè: il neorealismo è qualcosa di radicalmente altro rispetto al cinema del decennio precedente, è l’apparizione improvvisa e fragorosa di una serie di caratteri originali e inediti, è nato contrapponendosi violentemente, grazie allo sconvolgimento prodotto dalla guerra, al cinema del periodo fascista, oppure esso è la logica risultante di ciò che in quel periodo era stato seminato, e sotto alcuni caratteri dichiarati frettolosamente rivoluzionari cela invece, e conserva tutto l’apparato di convenzioni, di formule, di codici del cinema degli anni ’30? Problema, si è detto, che emerge dai testi, concretamente esistenti sul neorealismo, anche se spesso non è possibile, e comunque non è interessante farlo, elencare in due liste contrapposte i partigiani della frattura e i fautori della continuità, far scontrare Lizzani con Ferrara, Gromo con Chiarini ecc. Piuttosto si potrebbero individuare periodi di maggiore o minore fortuna dell’una o dell’altra ipotesi: dall’immediato dopoguerra in cui interessava soprattutto sottolineare gli elementi di rottura e distacco fino – per fasi alterne – agli anni più recenti in cui risultava facile ai dotati di qualche malizia semiologica leggere le molte componenti, assai poco neo e assai poco realistiche, di Roma città aperta o Ladri di biciclette. Naturalmente ognuna delle due ipotesi ha prodotto i suoi miti: da quello di un cinema «girato nelle strade» con il metteur en scène trasformato quasi in un giovanotto che fa del cinema militante con una vecchia Paillard a quello dei fili sottili ma saldissimi che legherebbero i due periodi, fili costituiti da film segretamente anticipatori, e che risalgono ad anni sempre più lontani fino a sperdersi nel buio dei ricordi o degli equivoci. Miti che trovano anche una sintesi esemplare, perché frattura e continuità spesso vengono fatte coesistere, nel racconto che narra di un mediocre regista di pellicole di propaganda fascista che doveva girare un film dal titolo Rinuncia, ambientato allo scalo merci S. Lorenzo di Roma. Il bombardamento del quartiere, il 19-7-1943,1 interrompendone le riprese, instaura una rottura materiale nel film e nella carriera di quel cineasta, che, di lì a poco, sarebbe divenuto il regista della Resistenza, della lotta antifascista e anche del cinema d’autore. Ma non saranno i miti a salvare un’impostazione riduttiva ed errata del problema.Alla questione che ha diviso la critica e la storiografia neorealista non intendiamo aggiungere una nuova, anche se più motivata e più consapevole, risposta, che sigilli in uno slogan – continuità o frattura – i risultati di un lavoro di ricerca. O meglio, non intendiamo rispondere al problema che ci troviamo di fronte se non dopo averlo ricollocato in un nuovo campo teorico. Già i pochi accenni che si son fatti consentono di individuare qual è il campo teorico in cui si situava lo pseudoproblema

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dei rapporti fra neorealismo e cinema italiano degli anni ’30: esso è quello che vede la storia delle pratiche simboliche come un universo di determinazioni e/o di affrancamento da esse: ed ecco le problematiche delle fonti, delle cause, delle anticipazioni e, altra faccia della stessa moneta, delle eccezioni, dei capolavori, delle irruzioni ecc. Di fronte a questo modello e a questa batteria di nozioni si vuole affermare risolutamente, prima di iniziare qualsiasi analisi, l’esigenza di costruire un campo teorico in cui il rapporto fra i testi e la storia passi non per vie deterministiche ma per percorsi citazionali: l’universo dei rapporti fra cinema neorealista e cinema degli anni ’30 costituisce per noi un campo di citazioni, e cioè di relazioni semiotiche. Il riferimento teorico più diretto è qui il concetto, proposto da Julia Kristeva di intertestualità, o, secondo una formulazione più recente, di trasposizione. Con esso si intende definire quell’interscambio fra sistemi di segni diversi che, formalizzato con strumenti retorici e semiotici, consente di definire, esso solo in maniera corretta, i fenomeni di relazione fra due diversi testi o sistemi testuali quali sono nel caso nostro il cinema degli anni ’30 e il cinema neorealista. Ma il rifiuto di un’ottica storicistica, che riduce a rapporti deterministici anche le relazioni intertestuali, non significherà un nuovo tipo di riduzionismo, l’affermazione cioè che tutto è testo e che esistono solo rapporti semiotici: significherà invece non accettare comode e scontate gerarchie che funzionino come uscite di sicurezza sempre aperte per evacuare un testo non appena si senta puzza di bruciato. Retroterra Il quadro teorico che si vuole abbandonare dovrà però ancora per un istante essere tenuto presente per poter ricordare nel suo naturale contesto l’atteggiamento concreto della cultura cinematografica italiana del primo dopoguerra nei confronti del cinema degli anni precedenti. Il cinema italiano degli anni ’30 (conserviamo questa formula anche se propriamente il decennio deve essere spostato un po’ più avanti: il cinema dell’epoca fascista – come si dirà meglio più avanti – costituisce una unità storiografica solo dal 1934 al 1943, ed è di fatto questo il periodo che analizzeremo più sistematicamente) è vissuto dai critici e dai cineasti attivi nell’epoca del neorealismo attraverso una fondamentale ambivalenza: da una parte esso è il cinema in cui tutti si sono formati (come critici, come tecnici, come lettori, come organizzatori culturali, o già come registi. Bisogna ricordare, infatti, che il neorealismo non è affatto un cinema di debuttanti e tanto meno di naïfs). Dall’altra parte, esso è il cinema di un periodo con cui, attraverso la lotta di liberazione e la militanza nei partiti antifascisti, si sono definitivamente tagliati i ponti. Potremmo dire che gli anni ’30 sono vissuti nell’immediato dopoguerra proprio come un retroterra: un territorio che si è percorso, chi a fronte alta e chi a carponi, ma che ora è stato lasciato alle spalle e verso cui non ci si vuol più nemmeno voltare

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indietro. Quest’ultimo atteggiamento – come è ovvio del resto – è la prima evidente costante: l’antifascismo è immediatamente anche distacco dal cinema del fascismo e una metafora programmatica incontra subito fortuna: tagliare i fili dei telefoni bianchi. La guerra e la Resistenza, nel loro statuto di concreti fenomeni di sconvolgimento e di rottura, sono la garanzia che l’allontanamento è avvenuto e che una differenza profonda ormai esiste, e tangibilmente. Ma ecco che i modelli deterministici e storicistici impongono ben presto le proprie distorsioni: e la guerra e la Resistenza, da garanzie di una rottura che istituisce in un campo discorsivo due diverse unità, diventano tout-court la causa della seconda di queste; guerra e Resistenza diventano cioè matrici del neorealismo. Sono pochi i critici e gli studiosi che nei consueti elenchi di «fonti» o di matrici, a compilare i quali la storiografia cinematografica disperde così tante energie, si limitano a citare testi o comunque antecedenti discorsivi. Quasi tutti fra le origini del neorealismo collocano invece la reazione al fascismo e la lotta di liberazione. Con ciò non vogliamo dire che questi fenomeni non abbiano alcun ruolo nel processo di generazione del neorealismo; vogliamo però sottolineare che il modello che fa di ogni circostanza una causa lascia sopravvivere tra due testi un solo tipo di rapporto, quello della determinazione, appunto; una volta imboccata questa via non si potrà far altro che accrescere a dismisura il numero delle matrici, trovandone di sempre più inedite, improbabili e lontane, dato che questo rimane l’unico modo per dire qualcosa di nuovo. Nell’operazione di rincorsa alle fonti, si esaurisce dunque gran parte dell’interesse che il cinema degli anni ’30 riveste per la cultura neorealista e in genere per gli storici del cinema italiano che scrissero anche in tempi più vicini a noi. Il terreno retrostante il neorealismo è visto come un campo non dissodato ma in cui, fra la molta sterpaglia, emergono germogli buoni, polloni di piante da frutto che con qualche opportuno innesto daranno ottimi raccolti. Per la storia del cinema italiano il neorealismo, età aurea, diviene dunque la misura delle cose e il cinema degli anni ’30 non potrà essere significativo se non nella misura in cui contiene in germe, o anticipa, o prepara gli esiti neorealistici. Così l’altra faccia del precorrimento è, in epoca post-fascista, l’ideologia dell’adempimento. Quanti film sono fatti per completare lacune che il fascismo non aveva consentito di colmare, per adempiere gli obblighi politicomorali dell’anti-fascismo. E ciò anche nel dopo-neorealismo, dai Fratelli Cervi al Delitto Matteotti o a Bronte, il «completamento» di 1860 di Blasetti. Modello teleologico e modello deterministico vengono così, com’è giusto, a sovrapporsi e coincidere. Questa convergenza si manifesta chiaramente in una problematica viva e costante in tutti coloro che hanno scritto sul neorealismo e che riassume nella sua limitatività tutto l’interesse del neorealismo per il cinema degli anni che lo hanno preceduto, e degli anni ’30 in particolare: il problema cioè dei «padri» del neorealismo. Individuare dei «padri» per il cinema neorealista è qualcosa di più che cercare delle fonti o delle matrici testuali. Parlare di padri vuol dire, infatti,

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individuare una linea generativa, scoprire le pietre miliari di un cammino provvidenziale: i padri sono concretamente certi film che hanno anticipato e prefigurato l’età d’oro del cinema italiano, sono quelli che, nel retroterra di cui si diceva, hanno aperto un cammino che tocca ai figli di completare.Tra questi uno è particolarmente mitico e non vi è studioso di neorealismo che, in un senso o nell’altro, dimentichi di citarlo: è quello Sperduti nel buio di Martoglio, sperdutosi a sua volta nelle vicende che accompagnarono l’evacuazione da parte dei tedeschi e fascisti di Cinecittà e del Csc e il trasferimento di attrezzature e materiali, e che non si sa bene quanti abbiano visto e quanti fingano semplicemente di avere visto. È noto che fu Umberto Barbaro ad additare in questo film e nel film cugino Assunta Spina gli esempi di un cinema realistico regionale che avrebbe poi avuto col neorealismo la sua fioritura e la sua affermazione a livello nazionale. Meno noto e più interessante è ricordare l’occasione in cui Barbaro fece questa «scoperta», e cioè una retrospettiva del primo cinema italiano organizzata da Freddi e Chiarini nel 1933 nel corso di una manifestazione celebrativa del 40° anniversario della nascita del cinema. La finalità della manifestazione era chiaramente di affermazione nazionalistica: non potendosi trovare un Meucci del cinema, che accanto a questi e a Marconi stabilisse la supremazia del genio italico nel campo dei nuovi media ed essendo comunque ormai impossibile negare il ruolo dei due troppo celebri fratelli francesi, si cercò di sanzionare in quell’occasione una serie di priorità tecniche che sarebbero spettate al cinema italiano: la prima panoramica con Ma l’amor mio non muore, il primo carrello con Cabiria, ecc. Quanto a Cabiria, che certamente non sarebbe poi stato riconosciuto dal neorealismo fra i suoi padri, tutt’altro, ad esso si attribuisce tuttavia una peculiare parentela col cinema italiano «di qualità». Esso viene presentato come il film che avrebbe fornito ispirazione e suggerimenti tecnici a Griffith, padre riconosciuto del cinema-linguaggio. Cabiria insomma, se non è un padre, è qualcosa come uno zio d’America, lo zio poco serio spaccone ma coraggioso emigrato in America e che lì ha fatto fortuna. La scoperta di Sperduti nel buio si collocava dunque in un’operazione di fondazione di una precisa ideologia che accompagnerà tutta la stagione neorealistica, le problematiche delle «origini» e dei «padri», e cioè quella che potremo chiamare l’ideologia della prima volta: la storia del cinema viene percorsa per individuare tutte le «prime volte che», la storia dei padri è insomma la storia di tanti Adami, di padri che a loro volta non sono figli di nessuno, o meglio sono figli solo di un Progetto Provvidenziale. [...] Con ciò vengono riconosciuti fra i più immediati antecedenti del neorealismo un gruppo di film degli anni tra il ’40 e il ’43 come – oltre a quelli già citati – Quattro passi tra le nuvole, Uomini sul fondo, Fari nella nebbia, Giacomo l’idealista, La Peccatrice, Piccolo Mondo Antico, Un colpo di pistola, La nave bianca, Quelli della montagna; film tuttavia troppo

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immediatamente vicini, e forse troppo numerosi, per vedersi riservare un vero e proprio ruolo di paternità. I «veri» padri sono invece un po’ più attempati e si addensano per la maggior parte appunto negli anni ’30 propriamente detti: Sole, Terra Madre e soprattutto 1860 di Blasetti, per alcuni aspetti Gli uomini che mascalzoni!, e anche Il Cappello a tre punte di Camerini (quest’ultimo a detta di Mida, perché si ispirava a Masaniello) e qualche altro film «disperso» e atipico (Ragazzo di Perilli, Acciaio di Ruttmann, Ho visto brillare le stelle di Guazzoni). Di alcuni di questi film daremo in seguito qualche ulteriore notizia e qualche accenno di lettura; qui importa osservare che essi o appartengono agli unici due registi degli anni ’30 cui si riconosce dignità di autore, o rappresentano episodi di ricerca di un film di qualità e di alta dignità letteraria, o fanno parte di un filone social-lavorativo assai poco rappresentato in quegli anni. Il tratto comune a tutti questi film è dunque il loro essere eccezioni rispetto alla produzione corrente dell’epoca, o meglio all’immagine che ci si faceva di essa. Si può dire, senza tema di esagerare, che praticamente ogni buon film del periodo fascista, ogni film che per qualità artistiche o per originalità tematiche si staccasse dalla produzione standard ha le carte in regola per essere proclamato fra i padri del neorealismo. Ecco dunque delinearsi il quadro di un’altra ideologia ben viva nell’epoca neorealistica e perfettamente solidale con quelle già descritte: l’ideologia dell’eccezione e del capolavoro. L’interesse del cinema degli anni ’30 sta nelle sue eccezioni, in ciò che in qualche modo emerge dal grigiore diffuso e con ciò si riscatta e può aspirare a una discendenza libera. Il cinema neorealistico non cerca origini nobili, anzi le rifiuta: si accontenta di essere figlio di liberti. L’ideologia dell’eccezione è così forte da agire anche nei confronti degli avversari: è assai diffusa l’opinione che non esista negli anni ’30 un cinema propriamente fascista se non in pochissime eccezioni: per alcuni solo tre: Vecchia Guardia, Camicia nera, Redenzione e, al più, pochissimi altri; opinione che si può smentire con molta facilità. Essa, tuttavia, ha dovuto essere conservata, anche a costo di gravi equivoci critici, per sostenere e difendere un carattere peculiare del cinema realista: quello di essere appunto un cinema di eccezioni e di capolavori. Non è solo una questione di entusiasmi critici, per cui si gridò al capolavoro più spesso nei quattro o cinque anni di neorealismo «stretto» che non forse in tutta la storia della critica cinematografica. Bisogna anche ricordare che è col neorealismo che si evidenzia in Italia la figura dell’autore (Rossellini è forse il primo regista che diviene anche personaggio da rotocalco) e che si innesca quel cammino critico che condurrà in Francia alla politique des auteurs. Ma la prova più esemplare di quanto realismo e ideologia del capolavoro siano connaturati sta nel fatto che si è potuto affermare da molti, a neorealismo concluso, che in realtà il neorealismo non è che il buon cinema italiano, anche degli anni ’50 e ’60, anche oggi [...]. Così che il neorealismo, di cui tutti negano infatti lo statuto di «scuola», è, fra tutti i grandi episodi della storia del cinema mondiale (espressionismo, avan-

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guardia sovietica, nouvelle vague ecc.) l’unico ad avere confini elastici a piacere, perché viene fatto coincidere con il cinema d’arte italiano, tout court. Se dunque il cinema italiano degli anni ’30, antecedente immediato del neorealismo, è un cinema di eccezioni e di sprazzi isolati, può accontentarsi il modello storicistico di ridurre a quei pochi e sperduti padri l’apparato di cause e di origini che starebbe alla base di un cinema così artisticamente e umanamente ricco come quello neorealista? Evidentemente no, ed ecco allora i due corollari opposti ma convergenti dell’ideologia dell’eccezione: del primo si è detto: i capolavori nascono solo dai capolavori, o per lo meno dai film non di genere e non di evasione. Il secondo corollario è che, alla ricerca di origini più ampie e più differenziate, non si può fare a meno che cercarle non nel cinema direttamente precedente, ma altrove, nel tempo e nello spazio. Quali sono, infatti, le fonti unanimemente riconosciute del neorealismo italiano? Ma appunto il verismo letterario di settant’anni prima, il naturalismo dialettale nel cinema degli anni ’10, il «realismo francese» dei Renoir e dei Carné, quel fantasmatico «realismo sovietico» che starebbe tra Eizenstein [sic!], Pudovkin e Vertov, la letteratura nordamericana tra Hemingway, Caldwell e Faulkner ecc. Insomma origini lontane, a distanza di sicurezza dal fascismo. [...] La via per uscire da questi equivoci e da questi ondeggiamenti è, come si è detto, di trasformare radicalmente il campo teorico in cui le nozioni di origine, fonte, paternità, capolavoro, eccezione ecc. trovano alimento. È di parlare non più di retroterra ma di retrotesto. Retrotesto [...] Molteplicità e simbolicità sono due aspetti che il retroterra non considera particolarmente importanti; il retrotesto ne fa invece due postulati di base, in accordo con la propria natura di «tessuto di segni», o di «programma di scrittura» in accordo insomma con la propria natura di oggetto semiotico, frutto di una serie di rapporti e di equilibri, dentro di sé (tra il dire e il non dire, tra enunciati diversi ecc.) e fuori di sé (tra ciò che si dice e ciò che si sarebbe potuto dire, tra ciò che si dice e ciò che altri diranno ecc.). (Ma qui dentro e fuori sono due nozioni di comodo). Il mutamento di parola, insomma, rivela un mutamento di oggetto di analisi, parallelo al mutamento di campo teorico. [...] Dunque le pagine che seguono cercheranno di descrivere da questo punto di vista il cinema degli anni ’30: vi individueranno, in quanto retrotesto, tre diversi ambiti materiali di enunciazione, i film, gli apparati tecnico-ideologici, i discorsi «verbali», e in quanto retro-testo, una serie di «figure» (risolte come «figure tematiche»), che stabiliscono dei ponti non univoci con il periodo successivo. [...]

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I discorsi [...] In pratica, cercheremo di sondare la presenza nella pubblicistica – e di riflesso nel cinema degli anni Trenta – di temi quali il realismo, l’impegno, il popolo ecc. Questo, lo si ripete, non per fissare poi delle facili analogie con i discorsi che il neorealismo produsse e coltivò; non per scoprire «alla fine» ciò che ci guida «dall’inizio»; ma per vedere alla lunga a quali trasformazioni e riprese si sono prestati o sono stati sottoposti certi temi quasi canonici. Quanto al problema del realismo, tre ci paiono i contesti in cui la parola, nel corso degli anni Trenta, svolge un suo ruolo. Il primo è quello dei discorsi sulla natura estetica del film: lì il realismo designa il fondamento fotografico del cinema, la funzione meramente riproduttiva della «camera», quel momento di base che poi deve essere riscattato da una sorta di trascendenza o trasfigurazione della realtà nell’immagine. Si noti, ciò che viene discusso non è il meccanismo di «impressione di realtà», cioè quel complesso di condizioni che fanno sì che allo spettatore che vede un film sembra vedere una scena reale, ma il fatto che il cinema sia costretto per propria natura a copiare la vita. Per propria natura: meglio, a causa della tecnica di cui si serve. Il dibattito, riprendendo puntualmente alcuni dei temi tipici dell’estetica idealista, riconosce in questo realismo di base, in questa «tara realistica o fotografica» (sono parole dell’epoca), un momento negativo, l’attimo in cui la tecnica avanza le proprie ragioni e le impone.Ad esso si deve opporre l’azione dello «specifico» cioè del montaggio (trasformato, per evitare paradossi, da tecnica in assenza): è il montaggio che riscatta il cinema dalla schiavitù della riproduzione pura e semplice creando uno spazio-tempo ideale e soggettivo; è il montaggio che permette al cinema di essere qualcosa di diverso da «una macchina per stampare la vita», secondo la definizione di Thomas Mann negli anni Trenta, sovente ripresa e discussa; è il montaggio che in altre parole garantisce, al di là del realismo riproduttivo, la purezza e l’autonomia dell’espressione artistica. I termini del dibattito, come si può vedere, saranno in gran parte ripresi anche nell’ambito del neorealismo: essi ritorneranno in piena evidenza quando, ad esempio, si opporranno grazie a motivazioni estetiche il neorealismo al naturalismo, o il realismo critico alla poetica del pedinamento, o il realismo vero e proprio al neorealismo come esperienza imperfetta.Anche nel dopoguerra, insomma, si riconoscerà un «realismo» di base estraneo al «realismo» come arte: il silenzio sulla tecnica e l’ossequio all’estetica idealista rimarranno due momenti fissi ancora per lungo tempo. Il secondo contesto in cui la parola realismo agisce negli anni Trenta è quello dei discorsi sullo stile cinematografico.Viene infatti designata come realistica, anzi specificamente realistica, una serie di esperienze che vanno dal cinema americano, quello soprattutto di un King Vidor, al cinema sovietico nel suo complesso, dal cinema tedesco, rappresentato qui soprattutto da Pabst, al cinema francese, dapprima quello di René Clair, poi quello di

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Carné, di Feyder, di Duvivier e di Renoir. Certo non può che stupire l’ampiezza dei riferimenti: vengono fatti alloggiare sotto gli stessi tetti realistici (meglio poi se sono quelli di Parigi) la commedia borghese e il musical sociale, il film di mobilitazione e quello di finzione, il Potemkin e Alleluja. Ma, per rendersi conto di come l’ampiezza dei riferimenti sia motivata da un’ampiezza di significati della parola «stile realistico», basta ricordare ad esempio ciò che Vinicio Paladini, esploratore italiano del cinema sovietico, scrive da Mosca a proposito della Madre di Pudovkin:

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Il realismo di questa pellicola riesce ad esprimere sensazioni delle più metafisiche, che solo il nostro subcosciente, se vogliamo adottare il linguaggio freudiano, era fin d’ora in grado di farci provare.

O ancora, basta ricordare uno dei tanti interventi, ad esempio quello di Nicola Chiaromonte, a proposito del cinema americano: Il famoso realismo e naturalismo che distinguerebbe lo stile cinematografico americano non è in sostanza che un linguaggio molto semplice per esprimere cose molto semplici, spesso elementari e povere, un tener d’occhio soprattutto gli elementi esteriori della narrazione.

Ma qui non vogliamo tanto sottolineare l’ampiezza di riferimenti e di significati – da quello massimamente inclusivo, Freud compreso, a quello massimamente riduttivo, solo semplicità – della nozione di stile realistico; vogliamo piuttosto accennare come questa nozione, nonostante tutto, abbia prodotto delle divisioni e dei contrasti. Da una parte, infatti, possiamo riconoscere una difesa di principio, centrata sull’opposizione artifizio/verità (ad esempio: «che il realismo sia la tendenza più vitale del cinema europeo ci sembra un fatto assodato: tutte le volte che il cinema, sdegnando la cartapesta, le corazze, gli elmi e le durlindane, ha preso contatto con la vita difficilmente ha fallito il suo scopo». E. M. Margadonna, Il realismo nel cinema europeo, 1932); dall’altra possiamo riconoscere invece una diffidenza motivata da ragioni di prudenza e di opportunità (ad esempio: «Un cinema realistico? Certo, ma senza l’equivoco che il realismo debba per forza riflettere gli aspetti deteriori di una società... Resta la nostra esigenza fondamentale che la vita italiana sia rispecchiata sì, anche nel suo male parziale, ma soprattutto nel suo bene collettivo e di tanto prevalente». Pavolini, Rapporto sul cinema italiano, 1941). È inutile farlo notare: certo è che questa polarità di interventi – difesa legata al disprezzo del finto, accusa legata alla paura di una parzialità del vero – si ripeterà puntualmente anche in ambito neorealistico, spostando però il proprio registro, ancora più decisamente, su toni politici. C’è da aggiungere piuttosto che il riconoscimento e la designazione di uno stile realistico comporterà anche per il cinema del dopoguerra – così come per il cinema degli anni Trenta – la possibilità di servirsi di «prestiti» evidenti, la possibilità di rifarsi esplicitamente ad esperienze altrui.

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Come per Blasetti di Vecchia guardia (precedente riconosciuto del neorealismo) fu decisivo un film sovietico come Verso la vita – lo dichiarò lo stesso regista –, così per il Lattuada de Il bandito il fatto di riprendere certi luoghi canonici del realismo diventa chiave di costruzione del film: ricordiamo la macchietta del burocrate che può rinviare ad una analogia in La linea generale, le sequenze dei bassifondi che riprendono il «neorealismo nero» francese, la figura di Nazzari capobandito che ricorda il cinema d’azione americano; perfino Anna Magnani rifà il verso a Jean Harlow, in ogni caso con una buona dose di ambiguità in più. Il terzo contesto in cui la parola «realismo» svolge il suo ruolo, durante gli anni ’30, è in rapporto ad una sorta di progetto globale: non si tratta più di difendere uno stile piuttosto che un altro, ma di lavorare per un cinema da farsi, o di esaltare come esemplari certi film o certi aspetti di un film proprio in rapporto a questo cinema del futuro.Tra i vari progetti, quello realistico non è degli ultimi: le sue emergenze sono abbastanza frequenti e abbastanza significative. Se toccherà poi al neorealismo privilegiarle e quasi mitizzarle (piegandole ai propri scopi, beninteso, facendone cioè i primi sussulti di una coscienza che alla fine si imporrà), ciò non sarà senza fondamento. L’aspirazione al realismo è un punto tematizzato con sistematicità negli anni Trenta: i rinvii possibili sono numerosi; si può leggere, ad esempio, un articolo di Leo Longanesi apparso nel 1933 sull’«Italiano», in seguito più volte citato e riprodotto, che comincia così: Non credo che in Italia occorra servirsi di scenografi per costruire un film. Noi dovremmo mettere assieme pellicole quanto mai semplici e povere nella messinscena, pellicole senza artifizi, girare quanto si può dal vero. È appunto la verità che fa difetto ai nostri film. Bisogna gettarsi alla strada, portare la macchina da presa nelle vie, nei cortili, nelle caserme, nelle stazioni...

Non sarà difficile vedere in questo testo, in seguito, una «prima volta» del pedinamento zavattiniano, né sarà difficile cogliere nelle parole di Longanesi l’emergere non casuale di un’esigenza condivisa da molti. Quello che allora si deve dire è che questa esigenza è fatta agire da ciascuno per fini propri, chi in senso semplicemente antiretorico, chi con scopi di rinnovamento estetico, chi in chiave popolaresco-folclorica ecc. Ciò che si deve dire, meglio, è che l’esigenza di realismo non si manifesta in un terreno franco, o isolato dal resto, o in una astratta purezza; anzi essa si presenta come un raggrupparsi o un ordinarsi di temi diversi. Ci spieghiamo subito. I luoghi in cui si riconosce l’emergere del progetto realistico sono, tradizionalmente, il gruppo di «Cinematografo» e il gruppo di «Cinema».Tuttavia, fra le due riviste esistono alcune differenze: non solo di ordine cronologico – l’inizio e la fine del decennio – né solo in rapporto ad una diversità di esiti – il cinema di Blasetti e Ossessione – esse rilevano piuttosto di una diversa accentuazione, «Cinematografo» in un senso che potremmo dire nazionale-popolare o comunque strapaesano, «Cinema»

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nel senso di una problematica sostanzialmente «altra» rispetto alla cultura fascista ufficiale.Accanto a «Cinematografo» e a «Cinema» si fa poi intervenire un’altra rivista, e cioè «Bianco e Nero»: ciò che di essa si privilegia è la dimensione di «laboratorio», di «studio»; la si recupera in quanto luogo in cui il progetto realistico incontra da una parte delle esigenze teoriche, dall’altra delle esperienze straniere «esemplari» (la lezione, teorica e pratica, del cinema sovietico). La schematizzazione qui è un po’ grossolana, ma in ogni caso serve a mostrare come il progetto realistico sia un’area di collegamento di tematiche diverse, come esso provochi e viva su accostamenti sintomatici. [...] Quello che ne verrebbe fuori sarebbe il quadro complessivo in cui nasce un risoluto impegno alla revisione del fascismo come si era andato consolidando: impegno in cui agiscono da costanti l’appropriazione di esperienze anche non ortodosse e il ricordo delle origini perdute del movimento fascista, e i cui sbocchi preannunciati, che solo la guerra renderà inevitabili, sono l’opposizione esplicita e il rinvenimento di una sorta di punto zero da cui poter ricominciare. Altro nodo tematico, diffuso questo a livello di tutta la pubblicistica, è quello della ripresa o del rilancio o comunque della rinascita del cinema italiano. Si tratta di un problema ricorrente, s’è detto; ma le sue punte più esplicite sono all’inizio del decennio: il cinema italiano deve ritrovare quel primato che negli anni Dieci fu già suo, deve rinnovare la propria qualità artistica e la propria capacità produttiva, deve adeguarsi alla presente grandezza politica dell’Italia fascista. Si vedano, ad esempio, i motivi che portano la critica ad emettere un giudizio complessivamente positivo su Sole e su Acciaio. Del primo film si disse che dimostrava come anche in Italia ci fossero i motivi folkloristici che, se sfruttati, potevano trasformare la produzione corrente e portarla ai risultati cui erano giunti Moana e i film simili (Alberti, ex critico del gobettiano «Baretti») o ancora che indicava come il cinema italiano passasse dall’imparare dagli altri all’elaborare posizioni proprie (Ferrata su «Solaria»); del secondo si disse che ritrovava un fondo di genuina popolarità e lo saldava su di una vena di poesia, in modo tale da porsi come capofila di un «nuovo» cinema italiano (ancora Alberti). Non si tratta che di due esempi, ma, come si vede, i temi del progetto realistico ci sono già tutti: ci sono quelli che abbiamo suggerito essere gli assi portanti, il tema della popolarità e quello dell’apertura all’«altro»; ci sono quelli che ci paiono i motivi ricorrenti, la necessità di una ripresa e il bisogno di guardare al reale con occhio insieme impegnato e poetico; ci sono, sullo sfondo, pronte ad essere chiarite e a provocare indicative opposizioni, le ambiguità di base, il non sapere se la propria azione serva a una purificazione e a una radicalizzazione del regime o se invece porti ad un’opposizione più decisiva della fronda. Il tema della ripresa, insomma, si rivela come uno dei «corto circuiti» più significativi. Sia chiaro, la geografia dei discorsi andrebbe colta meglio. Ma a questo

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punto forse risulta più utile dipanare la matassa in un altro modo, isolando e definendo quelle figure tematiche di base che possono riproporre, ad un alto livello e con una maggior specificità il problema dei rapporti tra cinema degli anni Trenta e cinema neorealista proprio nei termini dell’intertestualità.

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Figure dell’intertestualità [...] L’elenco di tali figure intertestuali è forse più esemplificativo che esaustivo: ma è comunque a migliorare e arricchire questo, e non ad accrescere il numero delle fonti o delle determinazioni che a nostro parere si dovrà, in futuro, lavorare. [...] L’italianità [...] La battaglia critica sul cinema degli anni Trenta ruoterà perennemente attorno alla nozione di italianità: i generi italiani [...] contro i generi antitaliani, e cioè le commedie: per queste ultime la specificazione delle nazionalità (tedesca, ungherese, americana) è indifferente. Di qui il riconoscimento che quasi tutti i cineasti dell’epoca della rinascita tributano al soggettista, riconoscendogli un ruolo primario quale nessuna teorizzazione sul cinema aveva mai decretato: si sentiva che, paradossalmente, il soggetto di un film era già tutto, che una buona idea di partenza con uno spunto «italiano» costituiva l’esigenza primaria. L’italianità si configurerebbe quasi come una sfera metaideologica: il fascista Blasetti accetta con entusiasmo il soggetto italiano che l’antifascista dichiarato Vergano gli propone per Sole. Blasetti dichiarerà appunto nel 1933: Il primo requisito di un soggetto per film italiano è d’essere italiano; italiano nel contenuto, nello spirito, nelle conclusioni; oltre e più che nei luoghi e nelle persone della vicenda.

Tant’è vero che su ciò che non è «italiano», sul tempo delle edizioni plurilingui e dei remake dei successi stranieri congiura un unanime silenzio storico. Pochi sanno che, nella filmografia di Blasetti, 1860 è preceduto e seguito da due rifacimenti di successi stranieri, Il caso Haller e La fidanzata di papà. La perdita conseguente delle copie di questi due film nasce da una sorta di stato di rimozione collettiva: quasi che lo straniero, sconfitto a Calatafimi dal contadino Carmelo e da Garibaldi si serva di una finestra degli stabilimenti della Cines per poggiare il tallone sul suolo patrio. Gli apparati, scomparsa la vecchia e polverizzata struttura regionale, si edificano secondo un progetto nazionale. La mappa di Cinecittà è disegnata con l’occhio a quella di Hollywood, il Centro sperimentale porterà a Roma quello che i sovietici hanno fatto a Mosca, la censura sorveglierà affinché

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i film stranieri non infanghino il decoro della storia patria, come ad esempio un certo filmaccio americano di Marco Polo che viene censurato e le scuole di recitazione dovranno privilegiare «i tipi italiani». Anche lo sconcio dei registi italiani all’estero deve ormai cessare: anzi, come nel caso de Lo squadrone bianco di Genina, dirigeranno pellicole particolarmente significative. Con frequenza regolare gli intellettuali e i critici reclamano la scoperta del paesaggio italiano che permette di sposare la realtà alla Storia.Tra le venti, le cento, le mille d’Italia, c’è sempre una regione, una città, una piazza che chiede di essere filmata una «prima volta». [...] Il neorealismo cercherà ovviamente altri intermediari, altri garanti per il suo libero commercio con la realtà italiana. Il problema collettivo dell’identità nazionale è filtrato attraverso un riconoscimento effettuato da stranieri: soldati americani, critici francesi, spettatori cinematografici di tutto il mondo. Sorge il problema di una definizione del neorealismo. Bazin, e non per aggirare l’ostacolo teorico, individua il tratto caratterizzante nell’italianità: «L’école italienne de la Libération». L’italianità affermata da Bazin è vissuta dal neorealismo innanzitutto come una pluriregionalità: il cinema italiano ritrova se stesso e la propria matrice originaria, quella dei mitici anni Dieci delle case regionali, negando la staticità e l’immobilità del cinema dell’era fascista. Non a caso, per rappresentare emblematicamente il cinema fascista, viene scelta l’immagine di Scipione l’Africano. Un colosso è appunto qualcosa che si muove male e a fatica, che ha un’autonomia e un raggio d’azione limitati. Se il cinema post-bellico è rinato a Roma, cercherà di crescere nel decentramento e agli antipodi della capitale: la Sicilia di Visconti, di Zampa, di Castellani, di Germi e di Vergano è la sua latitudine ideale. La totalitarietà fenomenologica del neorealismo è intesa letteralmente come ubiquità geografica. La sua italianità è una panitalianità: la somma di infinite ricognizioni condotte su base regionale. Il neorealismo è un programma di perlustrazione e pattugliamento continui della penisola: Renzi, dalle colonne di «Cinema nuovo», denuncia, per «gli impegni del realismo», il pericolo della fossilizzazione e della sedentarietà, accusando i registi italiani di viaggiare poco. Tuttavia, proprio come a scuola, il controllo dell’italianità non può esaurirsi nel voto di geografia. Quindi anche la Resistenza è recuperata come un fenomeno di neo-Risorgimento dopo la neobarbarie fascista. Il metodo dell’inchiesta, di cui Zavattini propone un uso generalizzato, oltrepassa l’importanza del riconoscimento dell’insufficienza segnaletica della cronaca per riandare all’Inchiesta Parlamentare di Sonnino e Franchetti, cioè alle origini del verismo, della letteratura italiana tout court. Ed è quindi proprio sull’italianità, sulla gara a chi è più «italiano» dell’altro, che il cinema combatterà il suo duello impari con la censura. Infatti l’in-

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staurazione sempre più generalizzata delle coproduzioni e la negazione dei visti per l’esportazione ai film neorealisti costituiranno le due facce della definitiva messa a morte del cinema neorealista, attraverso la sottrazione violenta di uno dei suoi cardini strutturali: quell’ideologia non meglio specificata dell’italianità, ingrediente da cui era impossibile prescindere, e che poteva giungere ormai solo come un riverbero estero. Meridionalismo La prima immagine con cui si può introdurre il tema del meridionalismo è quella di un’appropriazione quasi paradossale. [...] La discontinuità tra il cinema di Cecchi e quello di Freddi significa anche progressiva eliminazione del Meridione dal film: 1860 potrà allora apparire come un’esperienza limite sia per il suo contenuto che per la sua collocazione cronologica. Non solo il cinema meridionale, ma ogni cinema regionale sarà poi ostacolato, così come l’accentrazione a Roma degli apparati produttivi aveva cancellato del tutto la possibilità di produzioni periferiche. Il cinema regionale potrà allora riapparire solo come elemento del tutto integrato nell’ordine del genere: non potrà che essere un cinema di maschere (e si ricordano Totò e Angelo Musco) o un cinema di canzoni. Ma la vera riappropriazione del Sud si appoggia piuttosto al grande modello della «Conversazione in Sicilia», dove si accordano in un’unica nota il ritorno alla terra madre, il senso della mediterraneità come sovra-cultura, la percezione di astratti furori e di nuovi doveri. In questa luce si può forse collocare – è un nesso puramente sintomatico – il recupero di Verga del gruppo di «Cinema»: avvisaglia più che di un vero e proprio filone che il neorealismo, con la logica dell’«adempimento», privilegerà, di un’esperienza come quella de La terra trema. Ma proprio il film di Visconti ci mostra come la contraddizione sia solo spostata: il neorealismo, nel suo tentativo più radicale, nel suo viaggio più profondo, deve anche registrare la sua delusione più cocente. La terra trema è un insuccesso: il film si ferma al primo episodio, viene accusato di snobismo da una parte della sinistra, è difficile da vedersi a causa di una difficile circolazione. Meglio allora il compromesso: il film viene doppiato e riportato a una durata commerciale; meglio allora il compromesso esemplato dal patteggiamento di Germi dentro e fuori In nome della legge, ma attivo ben prima di Germi. Dopo O sole mio, dopo cioè che si son fatti convivere la forma del film musicale folklorico e il racconto resistenziale, dopo che si sono fatte le quattro canzoni di Napoli, il filone meriodionalistico si spezza in due: da una parte chi insiste sul modello neorealista (Germi, De Santis ecc.) dall’altra chi sfrutta le tematiche nella loro valenza di genere (Benvenuto Reverendo, Terra senza tempo, Il lupo della Sila fino a coproduzioni italo americane quali Vulcano). Ma è proprio in margine a questo meridionalismo diventato genere che si possono rilevare almeno due fatti interessanti: la rinascita se non di

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una produzione, di una distribuzione regionale (certi film sono così sfruttati in rapporto a un pubblico geografico che può essere illimitato come delimitato il cinema italiano a tutto il mondo, al meridione il suo cinema) e l’applicazione «altrove» di modelli ritenuti specifici (sforzando un po’, ad esempio la questione agraria «trasferita al nord»: Caccia tragica o Riso amaro). Socialità e populismo Il tema della socialità costituisce un’altra figura intertestuale, ma una figura simile a quelle che si ottengono con il caleidoscopio: la sfaccettatura e la giustapposizione vi celebrano uno dei loro trionfi. Socialità come? Innanzitutto come storia di una comunità che il fascismo trasforma o cui il fascismo insegna qualcosa (Camicia nera, Vecchia guardia). Si tratta di un aggiornamento del tradizionale schema del Deus ex machina, che a ben guardare anche il cinema neorealista utilizzerà, con una direzione però rivolta «all’interno» (le soluzioni non vengono dal fuori, ma dal riconoscersi proprio come gruppo). Le comunità tipo, nel cinema fascista, sono quelle militari e quelle rurali: il riconoscimento è equamente distribuito tra «l’Italia che combatte» e «l’Italia che lavora». Ma questo secondo caso ci porta anche ad un’ulteriore specificazione del concetto di socialità; ci porta a definirne una delle latitudini, la campagna in cui agiscono i butteri di Sole o l’officina in cui lavorano gli operai di Acciaio. Ci porta ancora a fissarne delle varianti: da una parte il riscatto degli umili e degli sfortunati (gli emigranti di Passaporto rosso o quella che avrebbe dovuto essere secondo Barbaro – se ne confronti la recensione – la servetta di Sissignora); dall’altra il riconoscimento di un proprio dovere e il recupero di una tradizione (Terra madre, Squadrone bianco). La dimensione che allora confluisce in questa socialità è quella del populismo: le sue suggestioni si ripropongono continuamente secondo figure fisse (dalla valorizzazione generica del lavoro all’interclassismo, dal sogno di una terra di nessuno da conquistare e bonificare all’idea di una piccola proprietà come rifugio e nido). [...] Dato che si è parlato di antiborghesismo, si dirà anche che esso costituisce una sorta di prova del nove della socialità del cinema fascista. I suoi topoi sono le conversioni (L’assedio dell’Alcazar, Giarabub) e le delusioni (Il signor Max, Cavalleria): entrambe, staccando dal mondo borghese, fanno trovare dei legami più autentici. Percorsi simili, è appena il caso di dirlo, saranno consueti anche al cinema neorealista, ma lì la solidarietà trovata si specificherà essenzialmente come una solidarietà antiburocratica. Quanto ancora all’antiborghesismo, bisogna anche dire che lo si ritrova negli anni Trenta in affermazioni di principio («Esiste una lotta antiborghese nella quale il cinema è il grande assente» - Zavattini) o in certe letture critiche («...in conclusione René Clair, che ha profondamente intuito il valore collettivista del cinema, spiega il suo sentimento in una

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critica antiborghese» - Alberto Consiglio): di nuovo dei modelli che nel neorealismo diventeranno standard. Ultima faccia della socialità, il cinema come arte del proprio tempo. Il motivo è tematizzato soprattutto da Barbaro (e il personaggio è sufficiente a suggerire la figura di passaggio al neorealismo): ed è svolto sia come esaltazione del film come lavoro di gruppo, di contro una nozione d’autore isolato e autonomo, sia come ritrovamento di una marca quasi ontologica («Il cinema [...] questa grande arte fatta per il popolo [...] sarà dunque l’arte della civiltà collettivistica»). Ma la socialità, appoggiandosi all’idea di gruppo, può anche diluirsi e stemperarsi: si vedano i film scolastici e collegiali, con il loro cameratismo adolescenziale e rosa, scolorimento della figura forte della socialità fascista, il corporativismo; e pronti di nuovo ad essere ripresi come genere del neorealismo. La ricostruzione Il cinema neorealista si presenta, in Italia ma soprattutto all’estero, come il cinema della ricostruzione morale e materiale del paese. Il riacquisto di una dignità democratica va di pari passo con l’edificazione dell’Italia nuova dopo la distruzione della guerra. La tematica della ricostruzione è una delle componenti fondamentali anche e in particolare dell’ideologia della sinistra. L’editoriale n. 3 di «Rinascita» (1944) fa appello alle forze sane della nazione perché la distruzione del fascismo sia una stessa cosa della «ricostruzione dell’Italia in uno spirito di solidarietà nazionale e negli interessi della totalità del popolo» e Togliatti intitola Ricostruire innanzitutto il suo discorso al Convegno economico del Pci del 21-23 agosto 1945 in cui chiama gli italiani a una ripresa della produzione ed esclude risolutamente una politica che conduca a soluzioni «catastrofiche». Nella pubblicistica cinematografica la battaglia è condotta contro le due metafore che più minano il progetto ricostruttivo: l’allagamento dei film americani e più tardi lo smantellamento democristiano del circuito pubblico. Ma questo tema della ricostruzione, come si è già accennato, è per lo meno altrettanto presente in tutto il corso degli anni Trenta. Esso si inizia col ritorno dei registi italiani in patria, dopo che negli anni Venti molti erano stati costretti a lavorare all’estero: Genina, Camerini e Righelli che viene chiamato per girare il primo film sonoro italiano, incominciano a edificare una cinematografia con l’animo dei pionieri della sperimentazione. Sole è considerato, come si è detto, il film della rinascita del cinema italiano, nel 1929. L’anno dopo si avrà La canzone dell’amore, e nel 1931 la fondazione, da parte di Bragaglia e di Blasetti, della prima scuola nazionale di cinematografia, oltre a un film emblematico già dal titolo, Resurrectio, in cui la sperimentazione tecnica è particolarmente importante e in cui si annuncia, a livello dei contenuti, un peculiare aspetto dell’ideologia della ricostruzione: la ricostruzione morale dell’uomo e del carattere, la rinascita spirituale dell’uomo nuovo. Questo tema ritornerà in Lo squadrone bianco, Cavalleria, Luciano Serra Pilota, e marginalmente,

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in altri film di guerra (L’assedio dell’Alcazar e Giarabub) accompagnando quello della ricostruzione dell’industria e del territorio: Acciaio, Camicia Nera o dell’indipendenza economica nazionale (Passaporto rosso). Soprattutto Cavalleria è esemplare per far coesistere le due facce, morale e materiale, dell’opera di ricostruzione: la «guarigione» di Nazzari da un amore impossibile accompagna e aiuta l’edificazione dell’aereonautica, arma nuova dell’esercito italiano. Quanto all’operazione di ricostruzione, condotta attraverso la Direzione Generale della Cinematografia, già se ne sono descritte le finalità e gli strumenti: resterebbe da completarne l’ideologia [...]. Dal periodo freddiano in poi ogni affermazione sull’industria e sulla cinematografia in genere si ammanta di quell’ideologia della magniloquenza che, guardando sempre a un passato di grandezza (Cabiria) da reintegrare, ha il suo esito (filmico) nel kolossal (da Scipione l’africano alla Corona di ferro a Noi vivi). Se la ricostruzione fascista è autocompiaciuta e narcisistica, più tormentata è invece la psicologia della ricostruzione neorealistica. Da una parte essa (e in ciò qualche analogia con il cinema di Cecchi effettivamente permane) chiama a raccolta le forze fresche, i nuovi letterati, gli uomini veri non bacati dal tarlo divistico (la fine del divismo è anche un atto politico: la fucilazione degli attori fascisti Osvaldo Valenti e Luisa Ferida); dall’altra il cinema pare compiacersi di frugare nelle piaghe della nazione, come se la redenzione non potesse avvenire che dopo aver sceso fino in fondo la scala della distruzione e del putridume. («Siamo stracciati? Mostriamo a tutti i nostri stracci. Siamo sconfitti? Guardiamo in faccia i nostri disastri [...] Paghiamo a tutti i nostri debiti con un feroce cuore di onestà» scrive Lattuada nel ’45). La sintesi di queste due vie della ricostruzione non tarda però a verificarsi, il coraggio d’aver mostrato il proprio vero volto viene ricompensato dall’afflusso di nuove forze fresche: il capitale americano, gli attori stranieri (la Bergman, all’apice della carriera, che scrive a Rossellini chiedendo di fare un film con lui). Il cinema ricostruito, e non solo con la cartapesta, ha ora un mercato, avrà presto una legislazione e un’industria efficiente: potrà così, anche se sarà la fine del neorealismo, compiacersi di se stesso con i film sul cinema (Bellissima, La signora senza camelie) privilegio delle cinematografie solide e fiorenti. Professionismo e non professionismo L’immagine corrente di un cinema neorealista fatto di improvvisazione, scarsità di mezzi, furti alla realtà e fede incrollabile ha come corollario un’immagine del cinema degli anni Trenta connotata con segno opposto. Ma l’indiscutibile alta professionalità del cinema del Regime è un risultato ottenuto soltanto al termine del suo cammino. Gli inizi degli anni Trenta, infatti, conoscono una fase di imprenditoria ora effimera ora abborracciata ora truffaldina, caratterizzata anche da debutti incontrollati: insomma c’è più pionierismo che mestiere. [...]

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Il sistema instaurato da Freddi (che per ironico gioco delle parti arriva quasi casualmente al cinema, lui aviatore frustrato e inviato speciale ai raids intercontinentali) professionalizza i cineasti a due livelli: a. con il Centro [...] b. con la pianificazione del lavoro che permette una continuità operativa, conditio sine qua non della specializzazione. Contemporaneamente e a lato dell’organismo freddiano sorgono luoghi capaci di assorbire approcci non propriamente professionali col mondo del cinema (l’amatorismo dei Cineguf o la cinefilia del gruppo milanese che giunge a costituire una cineteca) ma che tuttavia testimoniano dell’ampiezza e della partecipazione specifica che il fenomeno ha ormai raggiunto. Alla fine degli anni Trenta il cinema italiano raggiunge indubbiamente un alto livello di specializzazione, tanto che dalle pagine di «Cinema» si tuona con disprezzo contro i «mestieranti». Il neorealismo riceve dunque una preziosa eredità fatta di quadri tecnici e artistici qualificati. Ma a questo punto scatta una delle sue componenti ideologiche che è quella di mascherare la professionalità per non negare alla realtà la capacità autonoma e provocatoria di parlare. Naturalmente la situazione è molto più complessa e contraddittoria di quanto si tenti di tratteggiare.Ad esempio è vero che durante il neorealismo si mettono in piedi produzioni non professionistiche ma sono casi che costituiscono più l’eccezione che la regola. Al termine di questa breve scheda vorremmo proporre due esempi che sono abbastanza paradigmatici ai fini del nostro problema: gli «attori presi dalla strada» e il caso Zavattini. Una delle prove del nove esibite con più frequenza dal cinema neorealista per documentare la marca realistica del prodotto è appunto quella degli attori presi dalla strada.A parte il fatto che si tratta di casi molto reclamizzati ma poi non così numerosi come comunemente si crede, essi non sono affatto discriminanti tanto è vero che negli anni Trenta si contano parecchi film con attori non professionisti. Si pensi a Sole, Acciaio, 1860, Stadio, I trecento della settima, Camicia Nera e i film di De Robertis e di Rossellini. Forse sarebbe più interessante impostare il discorso sull’uso di un diverso tipo di professionalità attorica. Negli anni Trenta il teatro è il naturale serbatoio per il cinema, mentre nel neorealismo si cominciano ad usare attori nati nel cinema. Ma l’excursus devierebbe di troppo il senso di questa nota. Quanto a Zavattini, è interessante notare la dissociazione che caratterizza la sua personalità e che può veramente simbolizzare, nella sua dialetticità, il rapporto che stiamo affrontando. Zavattini è senz’altro uno dei pochi sceneggiatori italiani fornito di legittima patente professionale: ha lavorato con moltissimi registi, ha scritto per tutti i generi, sia negli anni Trenta

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che nel dopoguerra. Eppure dal ’45 in poi Zavattini teorizza continuamente il proprio suicidio professionale: rogo dei soggetti, morte dei generi, teoria del pedinamento, la realtà che parla da sola ecc. [...] È questo un altro aspetto di quelle tendenze masochiste che percorrono il cinema neorealista, gesti autopunitivi per la verità più esibiti che sofferti, come un cilicio indossato sopra la camicia. [...] Ordine e disordine Dire che il neorealismo nasca in una situazione di disordine non è certo una novità, è anzi quasi un luogo comune. Il disordine cui si fa di solito riferimento è non solo quello sociale e morale prodotto dalla guerra e dalla lotta di liberazione intesa come guerra civile (e l’ideologia ciellenistica è un ulteriore elemento di confusione) ma è spesso un disordine cinematografico: Cinecittà inagibile, mancanza di mezzi e attrezzature dopo le razzie dei tedeschi, legislazioni contraddittorie (l’unico atto legislativo del dopoguerra immediato, il decreto luogotenenziale del 5 ottobre ’45, Governo Parri, è un atto di totale abrogazione della legislazione fascista sul cinema, ma che fa così coesistere la legge del ’23 con le ancora valide norme fasciste di PS e in pratica produce una situazione di anarchia, aprendo le porte all’eterogenea invasione dei film americani) ma lo stereotipo critico vuole che da questo disordine diffuso nasca l’ordine del singolo film, il capolavoro per definizione classico e armonioso, magico equilibrio fra realtà e immagini, luogo di ricomposizione – nella superiore armonia dell’arte – dei conflitti e delle contraddizioni. Un’ideologia miracolistica che costella tutto il neorealismo, il quale ben potrebbe essere considerato, al contrario del cinema freddiano, un cinema di miracoli (basti pensare a Rossellini, alla sua «conversione» prodotta da un evento venuto dal cielo, ai miracoli di cui sono pieni i suoi film alla «guarigione» dei rivistaioli Magnani e Fabrizi in Roma Città Aperta ecc.). Pensiamo invece che il cinema neorealista non si limiti a nascere dal disordine ma che sia esso stesso il cinema del disordine, il livello a cui più ci interessa verificare questa ipotesi è quello linguistico che si accentra attorno alla nozione di genere. Si è detto che il carattere d’ordine, dal punto di vista semiotico, del cinema degli anni Trenta, è la sua strutturazione in genere. In che cosa dunque il cinema neorealista non è un cinema di generi? Bisogna dire innanzitutto che la critica e la storiografia mostrano di essere almeno confusamente consapevoli di questo carattere in almeno due occasioni. Primo, quando si tratta di giudicare quali siano i film neorealisti rispetto alla totalità della produzione del dopoguerra; ecco allora che l’altro del cinema neorealista è considerato appunto il cinema di genere, cioè la continuazione lineare e senza scarti dei generi dell’anteguerra: i film operisti di Gallone, il varietàburlesque di Totò, i film musicali, le commedie, i film in costume ecc.

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Secondo, quando si tratta di indicare l’esaurirsi del neorealismo; e si osserva allora che il neorealismo diventa un’altra cosa appunto quando degenera in «filoni», quello «rosa», quello «pauperistico», quello provinciale ecc; ma è l’analisi dei singoli film neorealisti che può dimostrare (e qui ci limiteremo a qualche accenno sulla base dei ricordi, in attesa di una rilettura di tutti i film) la costante inter-genericità del neorealismo. Ricordiamo per ora Roma città aperta, che per quasi tutta la sua prima parte è una commedia e addirittura un film comico prima di diventare un film drammatico, una tragedia classica e un film resistenziale. Pensiamo a quel pastiche di film bellico, di pittura sociale, e d’avventura con un perfetto finale western che è Il sole sorge ancora. E, quanto a Paisà, l’eterogeneità di alcuni episodi rispetto ai moduli del film di guerra (primo fra tutti l’episodio dei frati, giudicato spesso un’avvisaglia della commedia all’italiana) è senz’altro riferibile a una compresenza di più generi del già spezzettato mosaico del film. (Bazin parla di episodi buffi – patetici o tragici che non hanno in comune che il fatto di riallacciarsi alla Resistenza). Di solito, quando la critica ha osservato – ma i casi sono stati rari – questo carattere del neorealismo, di non essere cioè un cinema di generi o di costituire qualche cosa come un supergenere, ha motivato il suo giudizio nella maniera più ovvia: il cinema neorealista si fonderebbe direttamente sulla realtà e non su un repertorio di convenzioni qual è quello dei generi. Bazin afferma che «l’estetica stessa del neorealismo gli impedisce per essenza di ripetersi, come accade per i generi tradizionali».Alla considerazione di un neorealismo non di genere perché ogni volta originale e irripetibile noi contrapponiamo invece quella di un neorealismo che utilizza ampiamente i materiali e le formule dei generi tradizionali, ma in aggregazioni inedite e con fondamentali decontestualizzazioni. Non diversamente avveniva, in quegli anni, anche in altre «serie» diverse di quella artistica, per esempio in politica: il CLN è appunto un’aggregazione provvisoria di generi (partiti) quasi tutti preesistenti, il togliattismo è l’aggregazione e la solidarietà provvisoria (ma questa è stata una provvisorietà di più lunga durata e non se ne vede ancora la fine) delle classi sociali tutte chiamate a collaborare alla ricostruzione del paese. [...] Il disordine del cinema neorealista consiste insomma, ci pare, in una sostanziale eterogeneità ideologica (su cui ci sarebbe da dire molto di più), semiologica (la questione dei generi), produttiva (il coesistere di professionismo e non professionismo, il ritorno delle produzioni cooperativistiche e miste), politica (tra gli sceneggiatori di un film «si trovano regolarmente i nomi di un comunista e di un democristiano», Bazin), tecnica (la crisi della sceneggiatura, dell’illuminazione classica, del «sistema» panoramica-carrello, della figurazione ecc.), estetica («crisi delle poetiche e delle grammatiche»), critica (in «Bianco e Nero», «Cinema», «Sequenze» si ha un totale pluralismo critico. La critica di tendenza si avrà solo dopo il ’50 con «Cinema Nuovo», «Filmcritica», ecc.).

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Ancora una volta l’immagine più adeguata è di origine baziniana: l’hot jazz pare essere effettivamente un riferimento pertinente per il cinema neorealista. [...] Totalità e intermediologia Il neorealismo come «non cinema» o «non solo cinema», il neorealismo come «cinema totale»: due tesi che, ancora una volta, sono unite da una solidarietà più forte di quanto indichino le apparenze. [...] La tesi è poi particolarmente presente a livello culturologico: il cinema neorealista non è più sentito come un campo di cui hanno responsabilità i soli cineasti, ma come un patrimonio di tutti gli uomini di cultura, in cui tutti devono impegnarsi (e lo faranno: il vero fenomeno dei letterati al cinema ci pare più neorealista che entre deux guerres) perché il cinema è divenuto ormai una totalità culturale, assorbendo succhi dalla filosofia, dalla letteratura e dalle altre arti. Si trovano così a coesistere nella critica e nella riflessione teorica dell’epoca neorealista due coppie concettuali: quella di cinema totale dal punto di vista ontologico – teoriche dello specifico – e quella di cinema totale dal punto di vista culturologico – teoriche della sintesi. La vecchia idea di Canudo del cinema come «sintesi delle arti» conosce infatti in questo periodo un certo rilancio. All’ipotesi di una totalità ontologica e a quella di una totalità culturologica noi vogliamo invece opporre un’ipotesi di totalità che non contraddice alla nozione di disordine sopra descritta e che anzi, nel portare a termine la definizione di neorealismo, trova, di quel disordine che ci pare così costitutivo di essa, nuovi aspetti e specificazioni. Parleremo allora di una totalità mediologica descrivendo e definendo il cinema neorealista come una totalità eterogenea di più media, come il provvisorio aggregarsi di vari media tecnologici che erano nati e si erano perfezionati nel loro impiego sociale nel decennio precedente e che, dopo il neorealismo, si istituiranno in specifici apparati ideologici, di nuovo relativamente isolati gli uni dagli altri. L’affermazione che il cinema neorealista non è solo cinema, o non è più cinema, perché esso è insieme cinema, radio, rotocalco, e anche televisione, è forse paradossale ma non scandalosa, se non altro perché vogliamo proporla solo come ipotesi, fornita di certe pezze di appoggio, ma non ancora compiutamente suffragata da una rilettura completa dei film fatta in questa prospettiva. [...] La differenza più evidente fra l’ipotesi intermediologica e la nozione di «sintesi delle arti» sta nel fatto che i media che il neorealismo fa coesistere non sono quelli tradizionali: pittura, scrittura (letteratura), musica, teatro, ecc. ma sono appunto, come si è accennato, i nuovi media tecnologici, i media della registrazione. [...] Saremmo costretti ora, per le esigenze accademiche della «dimostrazione»

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a spezzare l’unità mediologica del cinema neorealista e a estrarne, artificialmente, le componenti. Potremmo cominciare dal medium più trascurato dagli storici e dai critici, almeno italiani, e cioè la radio. L’importanza della componente radiofonica nel cinema del neorealismo deriva da un fatto banale, ma che non è mai stato osservato: è la radio e non il cinema, il vero medium della Resistenza. Un cinema della Resistenza, che ne accompagnasse le fasi e la crescita e che in seguito la documentasse per chi non c’era, in Italia non si è avuto che in scarsa misura. [...] Non si formò insomma un valido repertorio filmato sulla lotta di liberazione e i documentari della resistenza, da Giorni di gloria che dovrebbe esserne la summa a L’Italia s’è desta di Paolella sono per buona parte film di finzione, anche se tutti sembrano dimenticarlo. La Resistenza, dal punto di vista mediologico, fu invece soprattutto radiofonica. Ascoltare radio Londra era già un atto di «radio militante» e fu la radio, non le ricetrasmittenti militari, ma proprio la normale radio, a consentire l’organizzazione della guerra partigiana, fino a quell’ultimo messaggio, Aldo dice 26 x 1, che fece scattare l’ultimo atto della liberazione. Il cinema del neorealismo non mancò di rievocare questi episodi (Aldo dice 26 x 1 di Fernando Cerchio, O sole mio di Gentilomo, e anche Il sole sorge ancora) ma soprattutto fece suo quello che può essere considerato il più specifico codice radiofonico, cioè la voce off. I film degli anni Trenta che abbiamo visto non hanno mai fatto ricorso all’uso sistematico della voce fuori campo, che diviene invece assai frequente nel cinema neorealista (da Paisà a Giorni di gloria fino a Sotto il sole di Roma, Germania anno zero e Non c’è pace tra gli ulivi la voce del racconto orale, quella che ci presenta ancora oggi le immagini più vive e autentiche delle storie dei tedeschi e dei partigiani è ciò che sostituisce nel cinema neorealista le inquadrature di raccordo, i passaggi narrativi, la sceneggiatura di ferro, le didascalie, insomma gran parte del «linguaggio» cinematografico degli anni precedenti). Quanto alla fotografia, il suo rapporto col cinema neorealista pare addirittura risalire a una mitica matrice comune: Roma città aperta, film in cui le fotografie hanno del resto un certo peso nel determinare lo sviluppo narrativo (i tedeschi riconoscono l’ingegnere sulla base di foto segnaletiche), fu girato con pellicola acquistata presso i fotografi e usata per le Leica. Ma i rapporti più interessanti e concreti si istituiscono, pur con qualche ambivalenza, con i due media che utilizzano sistematicamente la fotografia e che proprio nel dopoguerra acquistano una loro identità: il rotocalco e il fotoromanzo. [...] Dopo il ’45 il rotocalco conobbe una grande fortuna e un periodo di notevole qualità giornalistica non disgiunta da un certo impegno democratico e di denuncia (cfr. «L’Europeo» di Arrigo Benedetti). Prima che il rotocalco divenisse sinonimo di evasione e di pettegolezzo divistico-monarchico, esso fornì al cinema un esempio di tecnica narrativa per immagini non

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ancora sufficientemente studiato ma che ci pare, intuitivamente, non trascurabile. Oltre a presentare un’indubbia analogia di «impaginazione»: basti pensare alla nascita, nel neorealismo, del film a episodi e a firma collettiva. Cinema neorealista e rotocalco hanno anche in comune, assai spesso, il principio di una cronaca differita (non immediata cioè come quella della radio e del quotidiano) su cui già si innestano osservazioni di ordine morale, sociale ecc. e che «fanno della notizia romanzo» (l’osservazione è fatta a proposito del rotocalco da un critico cinematografico: Pietro Bianchi). Più ambiguo il rapporto neorealismo-fotoromanzo. Quest’ultimo, com’è noto, è un fenomeno tipicamente italiano e postbellico. [...] Il cinema neorealista, beninteso, si autodefinisce proprio in opposizione al cinema-feuilleton (che infatti risorgerà con la crisi del neorealismo alla fine degli anni ’40: Matarazzo, Brignone, Freda, ecc. e offrirà i primi temi ai due principali registi post-neorealisti:Antonioni e Fellini); ed è anche vero che è più il fotoromanzo a «prendere» dal cinema che viceversa. Eppure, oltre al fatto che esso rappresenta l’unico tipo di fotografia di finzione prodotta solo parzialmente in studio (a differenza delle foto pubblicitarie e di moda che allora non conoscevano gli esterni), bisogna considerare attentamente il rapporto tra immagine e parola che c’è nel fotoromanzo e nel cinema neorealista. Quest’ultimo, a differenza del cinema degli anni Trenta, fa un uso sistematico della voce off, come si è detto, ed è totalmente un cinema doppiato (negli anni Trenta, in maniera totale agli inizi e nel cinema di Cecchi ma in grande misura anche più avanti, vi è un uso corrente della presa diretta del suono); Roma città aperta fu addirittura girato muto, in fondo proprio come il fotoromanzo che, oltre ad usare sistematicamente la parola off e la parola in, è appunto l’unico altro medium audiovisivo che venga girato muto e sonorizzato in seguito. Insomma, una certa presenza del fotoromanzo in un certo cinema neorealista è tutt’altro che da escludere a priori. Vorremmo concludere indicando un’altra, apparentemente assurda ma in realtà fondamentale, componente dell’eterogeneità mediologica del neorealismo: la televisione. Che la televisione non esistesse nell’immediato dopoguerra come apparato ideologico di stato non è un’obiezione ma semmai una prova a favore della nostra tesi. Essa in Italia diviene un’istituzione attiva esattamente un mese dopo il Congresso di Parma sul neorealismo, una delle possibili date per segnare la fine del periodo neorealista. Essa di fatto esisteva come possibilità tecnica e tutti gli anni Trenta ne avevano accompagnato il perfezionamento («Cinema» aveva pubblicato articoli sulla televisione e nel 1939 era stato fatto un film totalmente ambientato in un Ente Televisivo sia pure ungherese e che mostrava le possibilità e i «pericoli» della nuova invenzione: Mille lire al mese di Neufeld). Ora, se un discorso cronologicamente deterministico ci porterebbe al massimo a dire che il neorealismo è fra i padri della televisione italiana,

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un’ottica attenta ai fenomeni dell’intertestualità ci permette legittimamente di considerare la televisione come un elemento del testo neorealistico.Vi è soprattutto un film (e non a caso esso è, assieme a Roma città aperta, il film che detiene ogni record per quanto riguarda i suoi passaggi televisivi) che ci consente di vedere il rapporto tra i due media, ed è Paisà. Esso ci si presenta oggi come un grande viaggio-inchiesta per l’Italia, un servizio in sei puntate sulle condizioni del paese durante l’avanzata alleata. Servizio realizzato con grande impegno e grande dispendio di mezzi, come una grossa produzione televisiva di oggi: non lasciamoci ingannare dagli stereotipi e dalle leggende: Paisà fu il film più costoso fra quelli prodotti nel 1946, e aveva precise ambizioni di discorso rivolto alla nazione. La sovraregionalità del cinema neorealistico è appunto anche una sovraregionalità televisiva, e come questa venata di neo-romanesimo linguistico, ideologico e produttivo. Ma Paisà è soprattutto televisione nelle condizioni di ripresa; racconta Rossellini: Ho cominciato con l’installare il mio operatore nel mezzo del paese nel quale contavo di realizzare un episodio della mia storia. I curiosi si sono raggruppati intorno a me e ho scelto i miei attori tra la folla.

[...] Un ultimo elemento che vorremmo indicare è l’uso del repertorio. Esso può venire inteso come intrusione documentaristica, cioè indistinzione e indistinguibilità fra documento reale e fiction. (Non a caso il boom del documentario come genere a sé si avrà con la stessa legge, quella andreottiana del 1949, che uccide il neorealismo; e comunque non è certo una novità parlare della natura documentaristica del neorealismo). Ma, se si pensa all’uso che del materiale documentario fa il cinema neorealista in relazione alla funzione che esso aveva nel cinema prebellico, già l’analogia con l’impiego televisivo dei materiali di repertorio si accentua. Le riprese documentaristiche erano praticamente assenti nel cinema italiano degli anni Trenta, oppure avevano un ruolo di materiale bruto da elaborare artisticamente e ideologicamente nel cinema sovietico, o servivano a integrare e arricchire economicamente il racconto nel cinema americano. Nel film neorealista esse sono invece più che altro veri e propri marchi di garanzia realistica: si pensi a Paisà in cui ogni episodio si presenta con un’introduzione documentaristica, immediata e squillante dichiarazione di realismo, o al caso di Ladri di biciclette che nell’edizione sovietica fu distribuito con l’aggiunta di uno sciopero di disoccupati tratta da un cinegiornale, come una garanzia a posteriori, un’autentica fatta dalla critica per un quadro che l’autore aveva dimenticato di firmare. Nell’elenco dei media che compongono il quadro eterogeneo della cinematografia neorealista ne manca forse uno solo, e l’assenza è particolarmente significativa perché racchiude in sé il giudizio che il neorealismo dà su se stesso e sul cinema del decennio precedente e individua l’avver-

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sione mediologica del neorealismo, la sua falsa coscienza di sé e del proprio corpo diviso, le sue proiezioni schizo-paranoidee. Questo medium è il telefono, il bianco capro espiatorio del sacrilegio intermediologico neorealista.

Nota originale del testo 1 Cfr. E. Morante, La Storia, Einaudi,Torino 1974, pp. 168-172.

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Da Francesco Casetti, Alberto Farassino,Aldo Grasso,Tatti Sanguineti, Neorealismo e cinema italiano degli anni ’30, in Lino Miccichè (cur.), Il neorealismo cinematografico italiano, Venezia: Marsilio, 1975, 332-341, 356-359, 360-362, 366-375, 377-385

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Leonardo Quaresima Neorealismo senza La situazione è quella, classica, dei vecchi racconti d’avventura. Come in una storia di Cino e Franco, un film di Tarzan, una puntata di Jim della Giungla, ci si trova prigionieri delle sabbie mobili. Man mano che si avanza il terreno cede, si sprofonda; ci si agita, si fa un gran chiasso; tutto quello che se ne ricava è di affondare ancora di più; si è inghiottiti; per un attimo si agita ancora una mano... poi di nuovo il silenzio, tutto come prima. Le sabbie mobili da superare sono quelle depositate dall’accumulo di interventi, celebrazioni, rivisitazioni, rifondazioni dell’esperienza del neorealismo. La palude da attraversare è la palude critica cui ha dato origine una nozione di neorealismo a tutt’oggi – malgrado le correzioni e i ridimensionamenti – dominante: un neorealismo inteso come insieme coeso, omogeneo, coerente, risultato di una sorta di processo di fusione (ecco la parola chiave: non di sintesi, ma proprio di fusione) di una serie di componenti diverse. Interne all’ambito cinematografico: realismi diversi, ideologie, personalità, attività diverse. Esterne all’ambito cinematografico: esperienze letterarie, politiche, filosofiche. È da questo processo che nascerebbe la purezza neorealista, la virtualità del movimento di esprimere in trasparenza le cose, gli ambienti, i personaggi, le verità. La capacità del neorealismo non di proporre, di rappresentare, ma proprio di realizzare, di dar compimento alla realtà. Il neorealismo, proprio in base al processo di fusione che realizza e alle caratteristiche del nuovo stato (come si dice nel linguaggio chimico) raggiunto, sarebbe in grado di esprimere l’essenza delle cose e l’essenza dell’uomo. Così la critica degli anni ’50 (e oltre) e il discorso critico degli autori di quel cinema: Zavattini, De Sica, Rossellini, ecc. Uno dei critici più acuti del fenomeno (Bazin) era andato in realtà molto più in là: ciò che lo colpiva non era tanto (soltanto) la rivelazione delle cose e del Soggetto, era la rivelazione del cinema. Laddove la vocazione del cinema era indivi-

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duata nell’espressione del massimo di realtà, il neorealismo era visto come la tappa più avanzata di realizzazione dell’essenza del cinema. Il neorealismo arrivava ad essere cinema puro. «Niente più attori, storia, messa in scena, cioè finalmente un’illusione estetica perfetta della realtà: niente più cinema» era la celebre conclusione dell’analisi di Ladri di biciclette. Anche in quest’ottica il neorealismo portava a compimento un processo che arrivava al cuore di un fenomeno: qui al cuore del cinema (naturalmente al compimento della propria vocazione quest’ultimo scompariva). [...] Proviamo allora ad analizzare il fenomeno evitando di ricorrere a modelli di aggregazione, fusione, amalgama. Proviamo a isolare la nozione sottraendola alle incrostazioni del discorso critico purista e essenzialista. Proviamo a vedere che cos’è il neorealismo senza l’ideologia del neorealismo, l’ideologia che ne fa espressione ufficiale della rinascita da un punto zero, l’ideologia che stabilisce questo collegamento sulla base della purezza di cuore del movimento, per riprendere i termini appena utilizzati. Proviamo a vedere il neorealismo senza l’ideologia. (O meglio a vedere questa ideologia come sua componente, disarticolabile, raccordabile, e non come un qualcosa di «non più isolabile», «non separabile», dissolto ormai irreversibilmente nel nuovo stato). Proviamo a vedere che cos’è il neorealismo senza le poetiche del realismo. Cioè prescindendo dai singoli, personali, originali, ma autonomi, anche, discorsi d’autore. Prescindendo dal mondo poetico (si dice così), di Rossellini,Visconti, Zavattini. De Sica, ecc. (O meglio proviamo a esaminare le poetiche del realismo come componenti, anche in questo caso, e non come entità emblematiche, in cui si specchia l’intero movimento). Proviamo a vedere cos’è il neorealismo senza il sistema dell’autore-artigiano, senza l’immagine del lavoro isolato, controcorrente, minoritario, ai margini degli apparati produttivi, distributivi, ecc. (O meglio cerchiamo di vedere questa figura, questa prospettiva, come una figura accanto ad altre, come una prospettiva accanto ad altre, industriali, interne agli apparati, maggioritarie). Se riusciamo a compiere queste operazioni di astrazione e di separazione, il modello di neorealismo che ci si presenta rimanda senza grosse contraddizioni a quel cinema auspicato e teorizzato sulle pagine di «Cinema» nei primi anni ’40. È questa la prima valutazione che vorrei proporre. A questa conclusione si arriva confrontando le posizioni della rivista e i caratteri del cinema del dopoguerra, in relazione ad alcuni punti qualificanti: il rapporto uomo/ambiente; il rapporto protagonista/coro; il legame con il cinema francese; il legame con la letteratura. Sulle pagine di «Cinema» si teorizza la necessità dell’interrelazione tra personaggio e paesaggio, tra gli uomini e le cose. È quanto fanno gli interventi, notissimi, di Giuseppe De Santis (Per un paesaggio italiano; Il linguaggio dei rapporti),1 Mario Alicata (Ambiente e società nel racconto cinematografico),2 Carlo Lizzani (Cinema, arte e magia?),3 Luchino

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Visconti (Cinema antropomorfico).4 La circostanza è nota. Non è il caso di insistere su questo punto. Nel dopoguerra il rapporto è praticato e realizzato, proprio come struttura, come possibilità positiva. Quel personaggio determinato è calato in quel paesaggio determinato. Si tratta, ripeto, di una integrazione positiva, di un legame compiuto.Tra il soggetto e il mondo esterno c’è, pienamente, coincidenza. La relazione si farà problematica (la fissità dell’ambiente contro le smanie di trasformazione; ovvero: le aperture del paesaggio contro l’indeterminatezza, l’astrattezza dei furori e degli slanci) nelle poetiche d’autore; in Ossessione, Il grido; nel cinema di Visconti, Antonioni. Ma questo è un altro discorso. Sulle pagine di «Cinema» tale collegamento viene suggerito, sempre, e auspicato, prendendo a modello soprattutto il cinema francese degli anni ’305 (e registi come Renoir, Clair, Carné, in particolare). Su questo punto il giudizio è unanime e tale da accomunare voci anche molto diverse tra loro. D’altra parte l’insistenza con cui si torna su tale riferimento testimonia del ruolo chiave ad esso attribuito. Ricordiamo gli interventi di De Santis (Per un paesaggio italiano),Alicata-De Santis (Verità e poesia:Verga e il cinema italiano),6 Alicata (Ambiente e società nel racconto cinematografico), Antonio Pietrangeli (Analisi spettrale del film realista,7 Aldo Scagnetti (Svolta del cinema verista),8 e le recensioni di De Santis (L’angelo del male),9 Gianni Puccini (La grande illusione),10 ecc. Ma il rimando è meno scontato di quanto possa sembrare. Il cinema in questione non è un cinema naturalistico, il legame uomo-ambiente vi si trova realizzato proprio perché la realtà, il paesaggio viene lavorato, ricostruito e comunque teatralizzato. Non si tratta di una situazione in cui le cose parlano da sole, in cui la realtà si esprime immediatamente e di per se stessa. La realtà è messa in scena fino ad esprimere gli stessi significati, passioni, spinte, ecc. del Soggetto, del Personaggio. Nel dopoguerra, in uniformità a quelle indicazioni e a quegli esempi, la relazione personaggio-ambiente è ottenuta proprio mediante un lavoro sulla realtà. Non sono le cose che parlano da sole ad emergere; si afferma la messa in scena, la regia della realtà. Risaie come palcoscenici da musical; paesi come grandi spazi teatrali; fiumi e argini come gigantesche scenografie da opera lirica. (Il collegamento con il cinema francese degli anni ’30 diverrà infine diretto in Roma ore 11, attraverso la mediazione di Leon Barsacq lo scenografo de La Marseillaise, Lumière d’Eté, Les Visiteurs du soir, Les Enfants du Paradis). Le cose che parlano autonomamente, l’ambiente che si esprime con la propria voce troveranno spazio, invece, nelle poetiche neorealiste. È il caso di Ossessione, di Ladri di biciclette, Paisà. E non a caso in questi film il paesaggio (naturalmente può trattarsi anche del paesaggio urbano) diviene componente centrale, elemento che dà il tono al discorso; il paesaggio diviene geografia d’autore e autore a sua volta, a tutti gli effetti. Sulle pagine di «Cinema» la progettazione di una nuova cinematografia si

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lega sempre a rimandi letterari. La letteratura è punto di partenza, termine di confronto e di ispirazione; e addirittura punto d’arrivo (il famoso Verga dei famosi articoli di Alicata e De Santis). La «letterarietà» dell’argomentazione critica costituisce un dato tra i più appariscenti. [...] In un articolo di Alicata si citano contemporaneamente Defoe, Stendhal, Flaubert, Faulkner, Gogol, Kafka, Dickens,Thackeray, Maupassant, Zola...11 Poi c’è il fatidico incontro con Verga (Verità e poesia: Verga e il cinema italiano, Ancora di Verga e del cinema italiano,12 di Alicata e De Santis; I «Malavoglia» sullo schermo,13 di Massimo Mida).Anche su questo punto non occorrerà insistere. Su un altro aspetto invece vorrei richiamare l’attenzione. La letterarietà di cui si diceva non è fatta solo di nomi utilizzati incidentalmente come riferimento, o di testi proposti come esemplari e proposti al cinema come esemplari. Le accuse di formalismo, calligrafismo, ecc., rivolte a Castellani, Soldati, sono fondate su nozioni e su un metodo critico derivati dalla letteratura (si veda l’intervento di Lizzani, Il formalismo).14 E dalla letteratura proviene ancora la nozione di crepuscolarismo predicata per Poggioli (recensione a Sissignora di De Santis).15 A De Sica, di cui si colgono le grandi novità, e le grandi novità cinematografiche (si veda la recensione di De Santis a Un garibaldino al convento)16 si suggerisce di applicarsi su testi letterari. E si potrebbe continuare a lungo. Ebbene, anche a questo riguardo, tra le posizioni d’anteguerra e il cinema di poi non c’è contraddizione. La letterarietà è un dato costitutivo del cinema neorealista, anche se non si tratta tanto di citazioni, o di riduzioni dalla letteratura. Quest’ultima diventa o vorrebbe essere una letteratura lavorata. L’obbiettivo è il lavoro degli scrittori (viene ripresa, ma con l’intento di trasformarla, una tradizione che faceva già parte del cinema italiano, e di quello degli anni ’30 in particolare). Si scorrono i titoli di testa dei film di quegli anni e alla voce soggetto e sceneggiatura si incontrano un gran numero di “letterati” coinvolti nell’attività neorealista:Alvaro, Brancati, Bassani, Fabbri, Marotta, Flaiano, ecc., ecc. Per Riso amaro De Santis aveva cercato (accanto a quella di Corrado Alvaro) anche la collaborazione di Pavese... Che poi il lavoro degli scrittori non si integri quasi mai a quello del cinema, e resti un contributo esterno che non trasforma e riplasma i propri caratteri, tutto questo deve essere addebitato ai limiti del rapporto cinema-letteratura, ai limiti della letterarietà che ispirava il progetto elaborato già dai critici di «Cinema». Ancora un altro punto: la questione della coralità. Una delle figure, delle presenze più caratteristiche del cinema di De Santis (poi legata, naturalmente, alla trasmissione di una precisa istanza ideologica) è quella della collettività, del gruppo, del coro, in cui si muove e a cui si lega, strettamente, il personaggio (i contadini in Caccia tragica, le mondine in Riso amaro, i pastori in Non c’è pace tra gli ulivi; fino al massimo di coralità: Roma ore 11). E sempre, anche se sono i protagonisti in primo piano, lo

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sfondo si popola di altre storie, altri personaggi, in sintonia o in contrappunto con i primi. [...] Ebbene, questo modello di relazione tra primo piano e sfondo, tra protagonisti e coro è già teorizzato (senza che esso si leghi alla trasmissione di una determinata istanza ideologica) sulle pagine di «Cinema». [...] Quale la conclusione di questo lungo discorso? Gli interventi critici apparsi su «Cinema» nei primi anni ’40 corrispondevano e volevano essere progetto di un processo di ristrutturazione della cinematografia italiana, progetto di un processo di riorganizzazione del cinema italiano (come sistema, come apparato, come istituzione complessiva), proposta di un livello più alto, di un nuovo standard. Si trattava di esigenze e di processi non velleitari, ma concretamente motivati. Mentre per il periodo ’31-’37 la produzione era rimasta ferma attorno ai 25 film all’anno, dal ’38 in poi si registra un balzo in avanti notevolissimo: 60 film nel ’38, 90 nel 1940 e un centinaio in ciascuno degli anni successivi. Il cinema discusso, prefigurato, proposto sulle pagine della rivista voleva essere un cinema all’altezza di queste nuove necessità, un cinema in grado di compiere questo salto di qualità. Estremamente significativi sono, da questo punto di vista, i richiami e le valorizzazioni del mestiere compiute da alcune voci. Penso in particolare agli interventi di Lizzani, Vita e morte del mestiere,17 Apologia del mestiere.18 La critica al cinema contemporaneo, non all’altezza dei mutamenti che era chiamato a compiere, passa attraverso questa nozione (non attraverso il richiamo all’arte, l’ispirazione, ecc.). È in nome del mestiere (inteso nell’accezione più precisa e positiva) che vengono attaccati duramente i sedicenti «uomini di mestiere» del cinema italiano di quegli anni: Mattoli, Guazzoni, Bragaglia, Gallone, Righelli, Simonelli, ecc. Nel dopoguerra il neorealismo si riallaccia a questo stesso disegno, si costituisce (nella situazione di riazzeramento prodotta dalla guerra e dalla liberazione) come ipotesi concreta di costruzione di una nuova cinematografia, come struttura di base per una nuova «macchina» cinematografica. Il neorealismo (prima che inizino le poetiche, prima che si sviluppi una teoria dell’essenza e della purezza) intende essere impresa di rifondazione dell’apparato cinematografico italiano. In tutte le sue articolazioni: produzione, pubblico, critica, ecc. Il senso non è quello dell’addizione di una serie di iniziative artigianali, minoritarie. L’obbiettivo è la realizzazione di un cinema maggioritario. Si sa tutto del carattere singolare, avventuroso, eccezionale di Roma città aperta. Assai poco, invece, di quella grossa operazione che è stata alla base di Paisà. Grossa operazione in termini produttivi; in termini di articolazione e ambizione complessiva del discorso (che doveva estendersi su tutta la penisola, coprire tutta la geografia dell’Italia, parlare i vari dialetti; organizzarsi secondo i vari codici: il melodramma, la tragedia, il dramma corale, la commedia; incontrarsi con i vari pubblici). E una grossa operazione fu alla base di Riso amaro. Anche qui, da un

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punto di vista produttivo; e dal punto di vista della organizzazione del discorso (i modelli formali, i codici narrativi diversi); dal punto di vista della costruzione del pubblico (la riformulazione degli schemi divistici, ecc.). D’altra parte questa prospettiva, questa ambizione maggioritaria può essere rintracciata in molti film neorealisti dell’immediato dopoguerra (anche se un’analisi in questo senso è, mi pare, ancora tutta da fare). In tale progetto si inseriscono certamente i primi due film di De Santis, Caccia tragica e, appunto, Riso amaro. Ed è proprio attraverso di essi e attraverso l’attività del loro regista che è possibile cogliere con la più grande chiarezza le linee di tale disegno. Si tratta di film che si pongono come prodotti e soprattutto come produttori di un cinema maggioritario. Si tratta di film che si pongono innanzitutto il problema della popolarità. Si affidano a generi di discorso popolari (il melodramma, il racconto d’azione); rimandano a significati, mozioni comuni e profonde, popolari (il sentimento della terra, il senso della comunità contadina, l’eros); e infine a quello che nella stagione che va dal ’43 al ’48 era un altro forte sentimento popolare: il senso della solidarietà di classe, dell’esperienza collettiva, il senso della coralità. Il dato concreto, «reale», con tutto quello che tale dato ha di unico, irripetibile, incontrollabile (il discorso si tiene qui, in questo paesaggio determinato, ora, in questa situazione storica determinata, così, con quel gesto imprevedibile e irripetibile) viene innestato su moduli narrativi standardizzati, astratti (la storia si svolge con questa distribuzione serializzata delle funzioni narrative, in questo intreccio serializzato, con queste forme serializzate di coinvolgimento delle emozioni, delle passioni, delle ragioni dello spettatore). Si tratta di film che riprendono il qui e ora del tipo, del volto, del gesto; ma la situazione proposta è una situazione lavorata. Niente rivelazione dell’uomo, niente immediatezza. L’attore anche se preso dalla strada (o dal giornale – è il caso di dire per Raf Vallone – o dal concorso di bellezza) è sottoposto al controllo della regia, e viene reimpostato secondo le esigenze di un preciso modello. Un modello che deve fondere concretezza e «naturalezza» popolare, e astrattezza, capacità di diffusione: il canone divistico italiano degli anni ’50 (Gina Lollobrigida, Silvana Pampanini, Sofia Loren) nasce con questa operazione. Si tratta di film che si pongono anche, certo, il problema della trasmissione di una determinata istanza ideologica; ma proprio per assolvere a questa funzione, si danno strutture in grado di circolare all’interno dell’apparato cinematografico. De Santis dunque deve essere considerato l’esponente di punta, il momento emblematico del progetto neorealista. Si trattava di un cinema eclettico, certo [...], si trattava di un cinema spurio, ibrido. Un cinema tuttavia che proprio per la sua natura spezzava la gerarchizzazione tra cinema colto, personale, e prodotto triviale, inteso come oggetto di resa e adeguamento alle caratteristiche passive del consumo e della comunicazione popolare. Un’ipotesi diversa da quella del naturalismo melodrammatico, bozzettistico o farsesco; e diversa dalla ricerca isolata, d’autore (le due direzioni infine prevalenti nel cinema post-neorealista).

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A tale progetto mancò un adeguato sostegno produttivo. Ma mancò anche un adeguato sostegno da parte della critica. La quale invece, di fronte ai prodotti che più si avvicinavano alle linee di quella proposta, si attestò (e l’operazione continuò poi per tutti gli anni ’50) su una nozione di neorealismo che rappresentava una involuzione rispetto alle stesse ipotesi di «Cinema» vecchia serie. È questo un punto che mi sembra fondamentale. Di fronte ai compiti nuovi richiesti dalla nuova situazione, la critica neorealista regredisce verso una concezione del realismo intesa come capacità delle cose di parlare da sole, capacità degli interpreti di esprimere naturalmente il proprio personaggio (occultando il lavoro sugli ambienti e il lavoro sugli attori). Regredisce verso un rapporto con la letteratura che assegna a quest’ultima un ruolo di mero confronto, rimando; arretra verso una funzione precettrice della letteratura [...]. Occultando il lavoro cinematografico sulla letteratura e il lavoro cinematografico come terreno di incontro di competenze diverse. Regredisce verso una nozione di neorealismo intesa come cinema d’autore (peraltro non sviluppando adeguatamente neanche questa nozione, soffocata da altre istanze: l’impegno, la scelta nazional-popolare),19 come cinema delle poetiche. Occultando le caratteristiche del cinema come apparato complessivo, e del cinema come mestiere. Regredisce verso una nozione di impegno che non è attitudine specifica, individuata nel modo di trattare i materiali, nel modo di organizzare il discorso; ma resta istanza esterna, qualità astratta. Frenato da ostacoli produttivi, ma anche frenato dall’opposizione della critica, il progetto neorealista si blocca. Nonostante questo, è proprio da quel primo progetto che trarrà alimento la cultura cinematografica di massa. Si tratta di un disegno bloccato, abortito, abbiamo detto: le sue componenti tuttavia sopravvivono e si proiettano nel mercato cinematografico degli anni ’50. Temi, forme, strutture sopravvivono; ma come elementi che hanno perduto ormai la propria funzionalità originaria, e galleggiano come grandi spezzoni inerti e inattivi. [...] Della divaricazione tra cinema triviale e cinema d’autore dopo il fallimento del progetto neorealista si è detto. Egualmente della incapacità della critica di essere all’altezza di quel progetto. E del travisamento compiuto di quella esperienza, riformulata in termini di purezza, autore, impegno. De Santis in quel progetto occupava un ruolo importante. Nel neorealismo inteso come disegno di ristrutturazione del cinema italiano. In questo neorealismo. Il resto è ideologia; o poetica.

Note originali del testo «Cinema», fasc. 116, 25 aprile 1941 e fasc. 132, 25 dicembre 1941. 2 «Cinema», fasc.135, 10 febbraio 1942. 3 «Cinema», fasc. 146, 25 luglio 1942. 1

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«Cinema», fasc. 173-174, 25 settembre-10 ottobre 1943. il cinema americano, certo; ma sottolineando il rischio della spettacolarità; anche il cinema sovietico, certo; ma sottolineando il rischio della estetizzazione. (Cfr. G. De Santis, Per un paesaggio italiano, cit.). 6 «Cinema», fasc. 127, 10 ottobre 1941. 7 «Cinema», fasc. 146, 10 ottobre 1941. 8 «Cinema», fasc. 148, 25 agosto 1942. 9 «Cinema», fasc. 159, 10 febbraio 1943. 10 «Cinema», fasc. 169, 10 luglio 1943. 11 M.Alicata, Ambiente e società nel racconto cinematografico, cit. 12 «Cinema», fasc. 130, 25 novembre 1941. 13 «Cinema», fasc. 166, 25 maggio 1943. 14 «Cinema», fasc. 153, 10 novembre 1942. 15 «Cinema», fasc. 138, 25 marzo 1942. 16 «Cinema», fasc. 139, 10 aprile 1942. 17 «Roma fascista», 14 dicembre 1942 (firmato con lo pseudonimo di Gianni Meschino). 18 «Cinema», fasc. 165, 10 maggio 1943. 19 Si veda l’introduzione di A. Ferrero a Il cinema italiano degli anni ’60, Guaraldi, Rimini-Firenze 1977.

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5 Anche

Da Leonardo Quaresima, Neorealismo senza, in Mariella Furno, Renzo Renzi (cur.), Il neorealismo nel fascismo. Giuseppe De Santis e la critica cinematografica, Bologna: Edizioni della Tipografia Compositori, 1984, 64, 66-72

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Alberto Farassino Neorealismo, storia e geografia Tutti a scuola Il titolo di questo testo [...] vorrebbe evocare, prima che una recente enciclopedica Storia e geografia della letteratura italiana, una più banale espressione scolastica, una serie di materie come vengono elencate su un orario o una pagella: neorealismo, storia, geografia... a cui si potrebbero infatti aggiungere scienza, arte, applicazioni tecniche... Poiché il neorealismo sembra ormai [...] una materia di scuola, un sapere istituzionale che solo una scuola attardata come la nostra può non contemplare nelle discipline di insegnamento. Neorealismo, storia, geografia: sintagma ginnasiale che sostituisce, si sovrappone e in parte si identifica con quello invece effettivamente esistente, anche nelle specializzazioni di insegnamento, che è: italiano, storia, geografia. Mostrando come Neorealismo e Italiano possano confondersi e occupare lo stesso posto, in un’identificazione certo non nuova (Pavese che considerava De Sica come il maggiore narratore italiano del dopoguerra) ma che il tempo fa uscire dal leggero paradosso e rende più generalizzabile. Il neorealismo è l’italiano, o almeno l’i-

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taliano del cinema, la lingua nazionale che forse non sappiamo più parlare, perché ormai la koinè europea o planetaria è più utile e obbligata, ma l’unica che si possa ancora studiare a scuola, l’unica che ci consenta di fare bella figura in società e che ci dia un’identità all’estero. L’esperimento è banale ma si conferma sempre: quando si è fuori Italia e soprattutto fuori Europa, se si chiede alla gente ma anche a quelli “del ramo” cosa conoscono del cinema italiano, la risposta va invariabilmente, nonostante Fellini, Zeffirelli e Bertolucci, a un film o un regista del neorealismo. Naturalmente per noi l’identificazione vale fra neorealismo e “italiano”, non fra neorealismo e “cinema italiano”: l’idea che il cinema italiano non possa che essere neorealista o che il neorealismo sia il miglior cinema italiano possibile, o che esso storicamente prima tenda al e poi discenda dal neorealismo è stata più volte proposta, magari sotterraneamente, ma è legata a modelli storiografici, teorici e interpretativi non più accettabili. Dire invece che il neorealismo è l’italiano del cinema italiano, oltre a sottolineare una tematica della nazionalità su cui dovremo ritornare, significa che esso è diventato, anche paradossalmente, una grammatica, un riferimento comune, una materia formativa uguale per tutti gli indirizzi anche i più lontani e i meno umanistici. È ciò di cui in Italia tutti hanno un po’ di “competenza passiva”; a cui, anche storiograficamente, continuamente si ritorna; su cui ciclicamente si discute e si scrive. [...] Italianità e regionalità Parliamo subito, anche per riallacciarci presto a un tema già accennato, di geografia del cinema nel senso più letterale possibile. Di collocazione del cinema neorealista in un territorio, fisico e culturale. È innanzitutto la tematica, molto coltivata all’epoca, della italianità del neorealismo.Anzi, prima che si adotti sistematicamente il termine “neorealismo” per definire il movimento, il gruppo di film e di cineasti che stanno facendo nascere in Italia un nuovo cinema, la definizione più frequente è “scuola italiana”. E anche Bazin, in uno dei testi più autorevoli dell’epoca, parlerà di “école italienne de la libération”. Ma quella che all’estero è forse solo una categoria di identificazione geografica in Italia si carica di connotazioni orgogliosamente nazionalistiche. Il cinema neorealista si fa accettare e esaltare, anche al di fuori degli ambienti più convinti e “militanti”, sulle pubblicazioni professionali o nei discorsi di politica commerciale, perché è un cinema italiano che si sta affermando all’estero.Tra il ’46 e il ’47, quando escono e hanno successo nei festival e nelle sale straniere Roma città aperta, Paisà, Sciuscià, gli articoli e i titoli della stampa specializzata italiana diventano fieri e enfatici:“L’Italia è di moda a Hollywood”,“L’ora del cinema italiano”, “I migliori del mondo”. Naturalmente si è consapevoli che non è solo l’italianità di questi film che ne fa il successo, anzi ci si augura che questo non venga guastato da altri film, essi pure italiani, quelli di ieri e di sempre, che sarebbe meglio non far vedere agli stranieri per

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non sporcare un’immagine appena rigenerata. Ma l’idea che sia in fondo il genio italiano che, nelle condizioni di sfacelo del paese che tutti conoscono, rivela la sua indistruttibile vitalità non è poi molto nascosta e emerge spesso fra le righe. E le frange più radicali avanzano un’altra idea, evidentemente parallela alle contemporanee utopie politiche: che si colga l’occasione per fare piazza pulita di un certo cinema, che certi registi cambino mestiere, ora che tutto sta cambiando, e che il cinema italiano si qualifichi d’ora in avanti solo come cinema di qualità che produce pochi film ma tutti belli e tutti di successo.Tutti italiani e tutti neorealisti insomma. L’identificazione fra neorealismo e cinema italiano trova qui il suo momento di maggiore (utopica) plausibilità. Ma c’è un altro modo del cinema neorealista di essere italiano e è l’operazione che esso compie di esplorazione su larga scala del paese, la nuova cartografia nata dal dopoguerra e dalla Liberazione che esso vuole disegnare. Non c’è solo il gran viaggio in Italia di Paisà, c’è tutto uno spostamento di sguardi e di iniziative che porta i cineasti italiani a percorrere per il lungo la penisola, attraversando nei due sensi la frontiera caduta della linea gotica, per giungere con occhi nuovi nei luoghi che da Roma restavano invisibili o dove finora non si era riusciti a vedere abbastanza. Se un cinema regionale fa parte della tradizione italiana, interrotta ma mai totalmente dal fascismo, il neorealismo più innovativo è spesso transregionale. Subito dopo la Liberazione i romani De Santis, Lizzani, Mida salgono a Milano, a fare una rivista ma anche a progettare un cinema (e ne usciranno Il sole sorge ancora, Caccia tragica e in qualche modo anche Riso amaro). Il genovese Germi e il produttore torinese Rovere faranno il cinema siciliano e meridionalista. I romani, di nascita e di cinema, Zampa e Bonnard vanno a girare sulla frontiera iugoslava (Cuori senza frontiere e La città dolente). I milanesi Visconti e Comencini vanno in Sicilia o a Napoli (Proibito rubare). Rossellini, che era stato il primo a muoversi, finirà per varcare le frontiere girando a Berlino o a Stromboli con un’attrice svedese-americana. Perché c’è anche un neorealismo italiano fatto da non italiani: René Clément viene a girare a Genova Le mura di Malapaga, l’ungherese Géza Radványi passa da Trieste alla Puglia per realizzare Donne senza nome e Dieterle va a pungolare Rossellini e Ingrid nella tana con il suo Vulcano. Mentre il cinema italiano anche se qualche volta si occupa di problemi decisamente altrui come la nascita di Israele (Il grido della terra di Coletti) o i traffici d’armi in Medio Oriente (Teheran di Freshman) o le sommosse coloniali (Vento d’Africa di Majano) preferisce guardare ancora all’estero attraverso le figure classiche dell’emigrante (Emigrantes di Fabrizi) o del prigioniero (Natale al campo 119 di Francisci). Film, quest’ultimo, che parte dall’estero per raccontare però la variegata regionalità del paese, con personaggi caratterizzati dal loro accento e dialetto: il genovese, il milanese, il romano, il veneto, il siciliano, il napoletano... Ma più che la regionalità delle culture e dei dialetti, come si è detto mai completamente abbandonata neppure con la romanizzazione-italianizza-

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zione del cinema del fascismo, è interessante in epoca neorealista l’ipotesi di regionalizzazione produttiva, il tentativo di far sorgere, come si dice con ovvia e ambiziosa antonomasia, nuove Cinecittà nelle principali città italiane. Il che fa parte dell’euforia della ricostruzione ma anche di un’effettiva volontà di decentramento, di vicinanza “realistica”fra chi filma e chi è filmato, e che solo in qualche caso si appoggia sul recupero della tradizione prefascista. Ma, ancora chiusi gli stabilimenti di Tirrenia, resta in attività anche l’unico, forzato decentramento del regime, gli studi Scalera del cinevillaggio repubblichino di Venezia (e su «Hollywood» del 29 luglio 1946 appare questo titolo:“A Venezia – purtroppo – si girano due film”), studi cui si appoggia fra l’altro De Robertis con film (Marinai senza stelle, La vita semplice) che, per nemesi o costrizione locale, appaiono meno “neorealisti” dei suoi precedenti. Ma bisognerà evitare anche altri equivoci. Quando in Sicilia (che è “pressappoco alla stessa latitudine della California”, come osserva un cronista locale) risorgono alcune iniziative produttive (la Ofs, Organizzazione Filmistica Siciliana, con Turi della Tonnara e la Cochlea Film con Richiamo alla vita, due film peraltro mai usciti almeno nazionalmente) e si prospetta la possibilità che il meraviglioso parco della Favorita Film e gli stabilimenti della Ofs accolgano addirittura “buona parte della produzione filmistica italiana”, ci si affretta anche a precisare che però “il cinema siciliano non è separatista”. A Napoli è lo stesso sindaco, Giuseppe Bonocore, che nel 1947 propone di collocare alla Triennale d’Oltremare una “città cinematografica”. Ma Napoli, anche se Lombardo si tiene estraneo alla vicenda neorealista, realizzerà la sua sintesi fra neorealismo e tradizione locale soprattutto offrendo matrici e scenari ai due emblematici rifacimenti di Assunta Spina e Sperduti nel buio, i due lontani capostipiti del neorealismo, secondo la critica del tempo, che forse proprio nel remake rivelano l’ambiguità di tale primogenitura. Ma è evidentemente nel nord industriale dove più si discute della possibilità di una produzione locale e non romana. A Genova, dove il documentarista Giovanni Paolucci costituisce la Albatros Film e passa alla finzione con l’interessante Preludio d’amore. A Torino, dove un’industria locale è rimasta in vita durante gli anni ’30 e il periodo di Salò (ricordo subito rimosso riallacciandosi alla gloriosa tradizione del muto) ma che ora cerca nuovi stimoli come la collaborazione con la vicina Francia. Qui la Oci produce la commedia resistenziale Uno tra la folla di Ennio Cerlesi (ma interpretata da due dei De Filippo e distribuita dalla Titanus) ma soprattutto, grazie al sostegno dell’ex torinese Lux Film, si sviluppa un neorealismo piemontese che si basa sull’asse produttivo registico FertRovere-Borghesio, con la saltuaria collaborazione di Dino De Laurentiis, e a cui si possono attribuire Il bandito e il Macario neorealistico di Come persi la guerra e L’eroe della strada. Da ricordare poi, a Torino, anche il tentativo di impiantare nel 1946 un nuovo Centro Sperimentale Cinema-

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tografico che sopravvisse almeno un paio d’anni senza mai riuscire, nonostante il nome un po’ truffaldino, a far concorrenza a quello vero. È però Milano la città dove più si spera possa nascere una nuova cinematografia vivificata dal “vento del nord” e dove più presto si verifica il fallimento sostanziale del progetto. Gli stabilimenti ci sono e lavorano (Ata, Icet), dei film si producono (Il sole sorge ancora, Ombre nella nebbia di Vernuccio, Vanità di Pastina...), ma le forze migliori ben presto prendono, se non hanno già preso, la strada di Roma (Ponti, Mambretti, Lattuada, Comencini, Risi) e già alla fine del 1946 e nel 1947 le riviste titolano amaramente “A Milano cinema difficile” o addirittura “Il cinema non si addice a Milano”. La riapertura di Cinecittà (novembre 1947) darà l’ultimo colpo ai sogni di decentramento produttivo neorealista. Geografia: città e campagna Lo stabilirsi dei tentativi produttivi in città dove esistono o si vogliono impiantare teatri di posa non ricorda solo, come ormai si sa o ci si è decisi a vedere, che anche il cinema neorealista fu girato assai meno nelle strade che negli studi. La circostanza sottolinea anche come il neorealismo sia un fenomeno prevalentemente urbano o addirittura metropolitano. È nelle città che la maggior parte dei film classicamente neorealisti ottengono i loro maggiori, o unici, riscontri di pubblico. E è nelle grandi città che si formano i gruppi di militanza neorealistica attorno a riviste o film più o meno collettivi mentre la provincia (la Parma di Pietro Bianchi,Attilio Bertolucci ecc.) resta francesista, americanista, più sensibile al bello che al nuovo. E nonostante la presenza di alcuni grandi film della terra e della campagna (ma difficilmente in essi manca una partenza o un ritorno o una scappata in città) la metropoli rimane uno scenario ben presente nel neorealismo cui offre possibilità iconografiche, miserabiliste e populiste più varie di quel “paesaggio italiano” che i giovani critici dei primi anni ’40 teorizzavano come nuovo e realistico orizzonte del nostro cinema. D’altra parte la ruralità, anche nelle strategie di comunicazione, era stata uno dei miti più cruciali del fascismo. Forse solo De Santis (da Caccia tragica a Non c’è pace tra gli ulivi) saprà leggere la rovina e la distruzione bellica anche nella campagna e nel paesaggio mentre per gli altri esso rimane luogo immutato, idilliaco o maledetto ma quasi mai segnato dalla storia. Altre geografie Ma c’è un altro senso, certamente più metaforico, di “geografia del cinema” che si vorrebbe ora individuare e provare a percorrere. È un guardare al cinema di una certa epoca in termini più “spaziali” che temporali, più sincronici che diacronici. Un recupero, dentro un taglio storico, delle topologie, aree, zone in cui un fenomeno si articola, per correggere con questa geografia una storia che non si assolutizzi in storicismo finendo per spiegare tutto in termini di prima e dopo e mai di “durante”. È il proble-

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ma, che tornerà a vari livelli, delle compresenze, contaminazioni, eterogeneità interne al neorealismo e fra neorealismo e altro. È il problema dell’occupazione, da parte del neorealismo, del territorio del cinema italiano, rimasto come ormai si sa ampiamente inalterato nel suo quadro istituzionale e professionale rispetto al quindicennio precedente. Subito fallite le ipotesi di epurazione resistenziale di autori, ma anche soggetti e stili compromessi col passato, il cinema neorealista deve farsi posto in una casa già sovraffollata, cui i bombardamenti hanno sottratto spazi e possibilità di espansione, senza però ridurre il numero di abitanti. E anzi lasciando lì anche le truppe di occupazione, le centinaia di film americani che cominciano a essere immessi sul mercato.Tipico problema della realtà “neorealista” (Totò cerca casa), quello della casa in cui stare è anche il problema primo del cinema italiano del dopoguerra. Gli elementi essenziali di tale problema sono tradizionalmente noti e condivisi nella loro forma più schematica: il cinema italiano non ha più casa (studi, produttori, generi...) e il neorealismo decide di andare ad abitare all’aperto, nelle strade, fuori dagli studi e dalle convenzioni. Ma, proprio per essere “realisti”, bisogna riconoscere che non sono molti quelli che si adattano a dormire sotto i ponti con una scelta di emarginazione e di strappo totale con i comfort del passato. La realtà del dopoguerra è invece la coabitazione, anche forzata, come avviene subito dopo la Liberazione quando le case dei fascisti vengono assegnate, e magari con gli antichi inquilini ancora dentro, ai giovani ex partigiani. Lo stesso avviene nel cinema e il neorealismo coabiterà più o meno serenamente col cinema del passato che continua. Anche questo fenomeno è ora riconosciuto e non più rimosso, ma ancora in forme abbastanza schematiche e, per continuare a usare la nostra terminologia, più storiche che geografiche. La compresenza negli anni “del neorealismo” di elementi certamente non neorealisti accanto a quelli che caratterizzerebbero il periodo è stata soprattutto considerata per discutere la questione, tipicamente storiografica, della “continuità” o “frattura” fra cinema del dopoguerra e cinema precedente. Ma ora pare anche necessario lo sguardo sincronico che prenda le misure del campo e che cominci a stabilire i termini quantitativi del problema. E non si tratta solo di riconoscere che accanto ai film neorealisti continuano a esistere, in numero maggiore, e a avere più successo i film di genere e di tradizione, ma che neorealismo e non neorealismo coabitano sotto lo stesso tetto, negli stessi film. [...] Opere e non Nel limitare il riconoscimento di coesistenza a quella che si verifica nel complesso della produzione fra i film neorealisti e quelli che non lo sono, e nel riconoscere con apparente “generosità” critica che i primi costituiscono una minoranza della produzione italiana del dopoguerra, si legge una concezione purista e “operista” del neorealismo, e in genere del testo

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cinematografico, molto in contrasto con la realtà del periodo, oltre che teoricamente assai discutibile. Una concezione per la quale sarebbe neorealista solo un film che lo è da cima a fondo, che afferma prepotentemente e massicciamente la propria “neorealisticità”, che, oltre e forse più che un testo, è sempre anche un manifesto, uno di quei programmi di poetica che, in pratica inesistenti nei discorsi scritti, dovrebbero essere almeno presenti in film esemplari, puri, privi di compromessi. Questa totalità e pienezza di ispirazione e realizzazione si trasforma subito in giudizio estetico, rinnovando o ribadendo la vecchia identificazione fra neorealismo e cinema “alto”, d’arte e d’autore. Se l’idea che il solo grande cinema italiano sia quello neorealista è ormai abbandonata rimane quella secondo cui il cinema neorealista è sempre grande cinema. I veri neorealisti sarebbero solo i grandi neorealisti (Rossellini,Visconti, De Sica e forse ora anche De Santis) mentre i registi della fascia appena inferiore (Castellani, Lattuada, Genina, Soldati, Germi, Zampa ecc.) vengono giudicati neorealisti molto occasionali, o equivoci, o opportunisti e l’accostamento al neorealismo di quelli della fascia ancora un po’ più bassa (Mattoli, Gentilomo, Righelli, Gallone, Bonnard, Ferroni, Bianchi, Borghesio, Francisci, Landi ecc.) non viene neppure osato. Come già si è detto questa concezione estremista del neorealismo risale già all’immediato dopoguerra e all’ipotesi anticontinuista di sbarazzare il cinema italiano appunto dai Mattoli e dai Campogalliani per qualificarlo come cinema soltanto d’arte. Se essa non poté ragionevolmente attuarsi ne è rimasta la traccia nel purismo storico-critico che, espungendo dal pantheon neorealista via via i film e gli autori più compromessi con altre istanze, finisce per lasciarvi solo un ristrettissimo numero di opere, anzi di capolavori, il che non spiegherebbe oltretutto perché il neorealismo sia stato un movimento che ha prodotto all’epoca e dopo così diffusi interessi e dibattiti. Naturalmente il purismo estremo sarebbe autodistruttivo e porterebbe alla fine a sostenere (come è stato fatto) che nessun film è pienamente, completamente, inequivocabilmente neorealista. Così si ammette che anche nei film classicamente neorealisti, poniamo Roma città aperta, vi sono elementi che neorealisti non sono, poniamo le scene girate in studio o le soluzioni di genere (commedia, melodramma) che il racconto conserva. Ma nel discorso storico-critico sul periodo non ha spazio se non occasionale la considerazione inversa: che ci sono dei film, anzi molti film, che forse neorealisti non sono per progetto e risultati complessivi ma che sono infiltrati, attraversati, abitati dal neorealismo. Da sequenze, soluzioni registiche, da contenuti anche, che appartengono all’universo neorealista e senza il quale quei film sarebbero stati certamente diversi. Si può parlare, quindi, di “opere neorealiste” e cioè film che si identificano in massima parte col progetto estetico, teorico e morale del neorealismo (per quanto inespresso esso fosse) e di “film del neorealismo” che, pur

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sostanzialmente estranei al suo mondo, ne sono stati toccati e variamente contaminati, dimostrando l’ampiezza e la forza della sua influenza sul cinema italiano del dopoguerra. L’Opera neorealista La nozione di opera neorealista vorrebbe rifarsi soprattutto a alcune definizioni di genere in uso nel linguaggio critico del cinema quali “horse opera” o “space opera”, senza dunque implicare considerazioni autoristiche né giudizi di eccellenza artistica. Non tutti i film neorealisti sono capolavori e il neorealismo non è da considerare solo come sfondo di discorsi sui singoli autori, una fase se non una parentesi di filmografie sempre più estese e che trovano altrove le loro spiegazioni. [...] Si vorrebbe insomma prendere le distanze da una formulazione critica che ha avuto a lungo fortuna secondo la quale non ci fu “un” neorealismo ma ci furono tanti neorealismi quanti ne furono gli autori o i film (o magari le sequenze, le inquadrature, i fotogrammi?). Una formulazione che ha avuto le sue buone ragioni e giustificazioni anche se forse rappresenta una via d’uscita un po’ facile dai problemi storico-critici che il neorealismo pone. Ma non si tratta di negare le grandi differenze di linguaggio e visione del mondo che esistono fra un film di Rossellini e uno di Visconti, o fra un De Santis e un De Sica, né di disconoscere che tali differenze ponevano appunto un problema difficile a chi cercava un ceppo comune, o magari un’essenza, del neorealismo. E la ben nota assenza di manifesti e programmi comuni, di teorie e estetiche esplicite, non aiutava certo a superare l’ostacolo. Ma ammesso tutto questo resta indubitabile che il neorealismo c’è, anche se è di difficile definizione e di sempre discutibile delimitazione. C’è nel senso che i film pur diversamente neorealisti costituiscono tuttavia un gruppo relativamente omogeneo e complessivamente diverso rispetto agli altri film o gruppi di film italiani dell’epoca definibili come non neorealisti (e anche questa forse è geografia del cinema). Il neorealismo c’è e non è solo una generosa illusione dell’epoca o una sbrigativa categoria criticostoriografica che sarebbe “moderno” e sofisticato negare o superare. C’è, anche se non è necessariamente quello che voleva essere, anche se non è detto che il neorealismo sia davvero “neorealista”. Non si pretenderà per questo una definizione che non sia differenziale o, al massimo, quantitativa. Considereremo quindi per ora come “opera neorealista” un tipo di film che comprende ampiamente le principali e ben note istanze neorealiste, dalle riprese in esterni, o comunque fuori dagli studi, all’uso di attori non professionisti, dalla contemporaneità del soggetto all’attenzione per i problemi sociali e collettivi, dalla volontà di rappresentazione diretta o poco mediata del reale alla disinvoltura nei confronti delle regole convenzionali di messinscena, recitazione e linguaggio, dalle esigenze morali calate nel racconto e nel lavoro cinematografico a quelle autoriali di espressione e

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interpretazione del mondo. La presenza non prevaricante di altre istanze, regole, categorie, modalità espressive – ricorso a schemi dei generi tradizionali, accettazione di tecniche convenzionali, confusioni fra realismo e altro (populismo, pauperismo ecc), concessioni alla spettacolarità, all’evasione, allo stereotipo – non verrà considerata valido motivo per espungere certi film dall’area neorealista ma semmai una conferma della sua eterogeneità e dunque del suo esistere come aggregazione quantitativa di tratti distintivi. Una sola rondine non fa primavera, e un esterno con rovine o una storia di americani e signorine non fanno neorealismo, così come una scena in studio o una sparatoria in stile western o film noir non escludono che neorealismo ci sia. Ma la presenza di più elementi caratterizzanti e l’assenza di molti elementi discriminanti possono essere considerate sufficienti giustificazioni per definire un film come un’opera neorealista. I film del neorealismo Ma la concezione secondo cui ci furono tanti neorealismi quanti furono i neorealisti vale nel senso di sottolineare che il neorealismo come fenomeno aggregativo e eterogeneo è in un certo senso esterno ai film stessi, è un universo diffuso che può concentrarsi in alcune opere e costellazioni a alta densità ma può anche presentarsi come fenomeno vagante, trasversale, ramificato in molto cinema italiano dell’epoca. Ecco dunque, diversi dal comunque ristretto numero di opere neorealiste, i numerosissimi film “del” neorealismo, film infiltrati, attraversati, nobilitati o magari sporcati dal neorealismo. È su questi film che oggi è interessante riflettere e semmai praticare il discorso critico più che sulle opere, sui “classici” già circondati da grandi aureole di stima e di studi. E non per “rivalutare” questo o quel titolo, in una chiave ancora autoristica o “operistica”, né solo per vedere quanto il neorealismo sia stato presente e diffuso, al punto che – anche per l’attuale invisibilità di molti film di cerniera, anomali e indipendenti – è praticamente impossibile trovare l’esatta linea di demarcazione fra questa area e quella dei film che certamente e in nessun modo e in nessun loro fotogramma neorealisti non sono. Ma soprattutto per verificare le mille, fantasiose possibilità di combinazione e intreccio che il cinema e i suoi testi sanno realizzare fra i sistemi e le regole in cui si muovono. Si può dire che se sono pochi i film e gli autori che aderiscono pienamente e con convinzione al progetto neorealista sono pochissimi quelli che non ne restano almeno occasionalmente, per lo spazio di un anno, di un film, di una sequenza, conquistati e influenzati. Così che si può affermare che – se certamente il neorealismo non è tutto e nemmeno la parte preponderante del cinema italiano del dopoguerra – senza di esso quasi tutto questo cinema sarebbe certamente stato molto diverso. E quasi ogni film e ogni autore trova il suo modo, personale e spesso appunto d’autore, di lasciarsi sedurre dallo spirito o a volte dalla moda neorealista, di accoglierne un po’ al suo interno, di accettarne alcuni principi o provare con curiosità a sperimentarne alcune soluzioni.

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Uno dei modi di contaminazione più ovvi è quello attuato per esempio da Gentilomo in O sole mio che non si limita a combinare un soggetto resistenziale e uno canoro, ma tratta in maniera inequivocabilmente neorealista tutti gli esterni e le situazioni “popolari” mentre gli interni e soprattutto gli ambienti “ufficiali” risentono addirittura di classici influssi espressionisti e langhiani.Analoga schizofrenia caratteristica del tempo (siamo in entrambi i casi nel momento aurorale del fenomeno, nel 1946) si avverte nel primo film di Germi Il testimone che a un inizio classicamente neorealista, con la voce off da documentario che situa il racconto nel suo spazio geografico-sociale, fa seguire una doppia vicenda, una storia d’amore e di purezza neorealisticamente fresca e luminosa e una torbida vicenda giudiziaria di colpe e rimorsi messa in scena non diversamente da come si sarebbe fatto già negli anni ’30. La compresenza in uno stesso film di moduli neorealistici e temi e forme del passato è uno dei modi in cui si può verificare, nei testi e nella loro creatività, la questione spesso posta in termini puramente teorici della continuità o frattura fra neorealismo e cinema del fascismo. In Ultimo amore di Chiarini il passaggio di consegne fra le due epoche è portato alla massima evidenza: la vicenda principale appartiene a un cinema di guerra e di esaltazione “fascista” dell’aeronautica e degli eroi dell’aria ma essa diventa un lungo flashback inserito in una cornice contemporanea, e dunque neorealista, in cui i sopravvissuti della storia e della guerra hanno cambiato aspetto e comportamenti: il cappellano militare è diventato un prete neorealista che gira in bicicletta e fa la borsa nera, e uno stesso attore,Andrea Checchi, interpreta la figura di un impeccabile ufficiale anni ’30 e di suo padre, ex professore costretto ora neorealisticamente a vendere cravatte con barba lunga e abiti consunti. Ma il neorealismo può infiltrare anche solo molto marginalmente un film, come avviene ad esempio in Il canto della vita di Gallone, melodramma contadino e in piccola parte resistenziale, sostanzialmente di vecchio stile rurale ma improvvisamente attraversato da una sequenza (l’arrivo degli alleati) realizzata con materiale cinegiornalistico che solo la disinvoltura neorealista ha potuto consentire. Poiché anche i registi più lontani dal movimento e più aborriti dai neorealisti, come Mattoli (peraltro autore di un altro dei film emblematici del trapasso, La vita ricomincia), possono prendersi il gusto di seguirne le tracce, magari parodisticamente, iniziando un film (Signorinella), à la manière neorealista, anche se poi questa commedia del piano Marshall si intreccia e si confonde con vecchie nostalgie di vecchie storie e canzoni. Il vecchio rimane accanto al nuovo e spesso anche in senso ideologico: esiste anche ad esempio un neorealismo di destra che permea abbondantemente un film di propaganda anticomunista come La città dolente di Bonnard (per non parlare del più compiuto, già risolto in “opera”, neorealismo cattolico di Cielo sulla palude). E non bisogna dimenticare le già più studiate contaminazioni di genere, e se è ormai accettato che esista una commedia neorealista (Abbasso

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la miseria!, Molti sogni per le strade e quasi tutto il cinema di Zampa) e un film noir neorealista (ma non solo i classici Germi, Lattuada e De Santis, anche il Ferroni di Tombolo, paradiso nero) forse la compenetrazione fra neorealismo e film comico o varietà può ancora lasciare perplessi: ma come non vedere il neorealismo di Totò al Giro d’Italia o di Totò cerca casa o quello più flebile (più desichiano che rosselliniano) di Macario in Come persi la guerra o L’eroe della strada? Mentre il diffusissimo rapporto fra neorealismo e melodramma avrà un suo punto d’arrivo e massima fusione, proprio in chiusura di epoca neorealista e aprendo al cinema italiano altre strade, in Catene che, ben prima del citatissimo Due soldi di speranza, usa la contaminazione come strumento di transito a un altro cinema e a un’altra epoca, così come avevano fatto certi film del 1945-46 sopra citati tra il cinema del quindicennio precedente e i tempi nuovi. Neorealismo corto Si introduce così un’altra questione, già oggetto di controversie durante la stessa età neorealista, quella dei suoi limiti cronologici, della sua nascita, della sua periodizzazione interna, della sua conclusione. Quanto dura il neorealismo? Per molti, come si sa, e analogamente a quanto si può dire del surrealismo o del barocco, esso è un fenomeno per così dire eterno, una costante ricorrente dell’espressività cinematografica soprattutto italiana. È la teoria del “fiume carsico”: la vocazione realistica del cinema italiano, già evidente negli anni del muto, scompare durante il periodo fascista ma non è estinta, continua a scorrere sottoterra per poi riemergere impetuosamente nel dopoguerra. Destinata dunque a riemergere ancora, come nei primi anni ’60 e forse nuovamente oggi, col “neorealismo” televisivo o magari con film come Mery per sempre e Scugnizzi. Meno ideologica e più storicistica la tesi che vede il neorealismo come un prodotto specifico del dopoguerra, dunque limitato negli anni ma fornito, come ogni storicista vuole, di anticipazioni e tardivi proseguimenti o completamenti. Dunque ogni discorso sul neorealismo dovrebbe partire almeno dai primi anni ’40, da Ossessione e I bambini ci guardano, e terminare nei primi anni ’50 per assistere masochisticamente alla “sconfitta” del neorealismo e ai suoi ultimi fuochi. [...] Anche perché fuori dal quinquennio 1945-1949 i film che si possono sinceramente giudicare neorealisti sono davvero assai pochi. Quello che esiste, prima e poi, è soprattutto una “teoria” (magari anche espressa con dei film, come nelle realizzazioni zavattiniane) o progetti, o riflessioni su un neorealismo variamente denominato. Cioè esattamente quello che non esiste durante gli anni cruciali e intensi in cui il cinema neorealista viene fatto. Dunque questo apparente neorealismo delle intenzioni, delle utopie, delle battaglie, delle testardaggini ormai anacronistiche, invece di essere un elemento di “continuità” appare piuttosto come un segno di discrimine. Il vero neorealismo esiste quando non c’è teoria del neorealismo, quan-

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do la teoria è nei fatti. E i fatti si sa bene quali sono: il dopoguerra, gli americani, la borsa nera, le rovine, i reduci, il banditismo, la disoccupazione. E anche l’inagibilità degli studi cinematografici, la penuria di mezzi tecnici, la volontà di fare comunque, che produce la necessità di fare in altro modo... Questo periodo di vita italiana e di cinema italiano è quello identificabile, e stando già “larghi”, fra il 1945 e il 1948-49. Un periodo di cinque anni, apparentemente breve per il dispiegarsi di una scuola o di un movimento (ma appunto nella misura in cui il neorealismo è anche scuola e movimento esso dura assai di più), ma che vede il cinema italiano ampiamente pervaso dall’istanza neorealista, in modi anche spuri e opportunistici come si è cercato di mostrare ma in una misura che successivamente non si sarebbe più verificata nonostante la persistenza di qualche isolata “opera”. Se insomma nei primissimi tempi del dopoguerra tutti o molti si sentono in dovere di essere un po’ neorealisti, e nessuno comunque osa contrastare il fenomeno, passato qualche anno ciò rimane prerogativa di alcuni isolati “militanti” che fanno scuola e tendenza ma non possono imporre il loro cinema molto al di là dei discorsi scritti sulle riviste amiche. Ci sono infatti molti buoni motivi nel collocare tra il 1948 e il ’49 (comprendendo nel periodo film datati ufficialmente 1950 per via dei tempi di lavorazione e uscita) la conclusione sostanziale dell’esperienza neorealista. Le elezioni del 1948 segnano certamente la fine di molte illusioni di rinnovamento. La legge sul cinema del 1949 rappresenta un inquadramento che il cinema neorealista non ama e un premio a quel cinema di consumo diffuso che esso non è riuscito a diventare. Il cambiamento delle condizioni di vita (che consente per esempio nel 1949 la realizzazione di quella che è già una commedia delle vacanze e del benessere, Domenica d’agosto di Emmer) sottrae al neorealismo molto materiale umano e narrativo. Ma fra i molti buoni motivi c’è per esempio il convegno di Perugia del 1949 in cui viene riaffermata la “validità del neorealismo”, e dunque quella coscienza del neorealismo come fenomeno, stile, programma che in realtà ne segna l’esaurimento. Sostanzialmente è dal 1948 che su giornali e riviste cominciano ad apparire discorsi non “del” neorealismo ma “sul” neorealismo, che diventa dunque qualcosa da definire e commentare, su cui discutere, per il quale lottare e schierarsi, ma proprio perché non è più qualcosa che, semplicemente, si fa. [...] Lasciando a questi tre anni di scoperte e entusiasmi una “coda”di due anni di parziali assestamenti, realizzazioni finalmente possibili, prime e pur interne al fenomeno derivazioni manieristiche, si copre sostanzialmente tutto ciò che del neorealismo costituisce la fase crescente e più creativa. Dopo, nel periodo 1949-1953, esisterà un neorealismo più di difesa, d’assedio. Chi continua a credere nel progetto neorealista lo fa contro le forze dominanti, con film anche coraggiosamente controcorrente, mai gratificati da qualche vero successo di pubblico (mentre fino al 1949 ci sono sem-

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pre almeno un paio di film neorealisti fra i primi incassi italiani della stagione). Achtung! Banditi!, Roma, ore 11, Miracolo a Milano, Umberto D. sono certamente opere neorealiste ma ormai isolate, fiori del deserto da ammirare ma che fanno parte di un’altra storia, quella del cinema marginale, d’opposizione, che continuerà per tutto il decennio e anche oltre e che spesso si (auto)definirà neorealista solo per un effetto di trascinamento o per fede a una gloriosa bandiera. Neorealismo spontaneo e neorealismo industriale Già nel primo quinquennio del dopoguerra, senza bisogno di addentrarsi più avanti negli anni della normalizzazione, si assiste infatti alla principale trasformazione, ma ancora interna al fenomeno e alla sua stagione vincente, che il neorealismo incontra nella sua evoluzione: il passaggio da una fase spontanea, disordinata e arrischiata a una fase già organizzata e industriale. Sul carattere improvvisato, assolutamente aleatorio, nei migliori dei casi sperimentale delle primissime realizzazioni del neorealismo, da Roma città aperta a Il bandito, da Malaspina a La terra trema già tutto è stato detto e molta aneddotica è stata fatta circolare. È il momento in cui il neorealismo maggiormente si manifesta come “messa in disordine” del sistema cinematografico precedente, confusa aggregazione di frammenti di genere, di tecniche, di autorialità, di residui divistici. Sono film che anche quando escono poi con qualche marchio di fabbrica non sono realizzazioni del sistema produttivo ma iniziative di avventurosi produttori isolati, di registi che si improvvisano organizzatori, frutti di confluenze impensabili di finanziamenti eterogenei e come piovuti dal cielo. Abbastanza presto tuttavia, e volendo proprio mettere una data, si può dire 1947, il sistema produttivo si riorganizza e prende vita un neorealismo industriale, un cinema che senza rinunciare alle più profonde istanze neorealiste è però produttivamente più assestato, non ha bisogno di rimediare pellicola o cinepresa in modi quasi furtivi, non necessita di miracoli per terminare le riprese o per trovare un acquirente straniero. L’industrializzazione del neorealismo è opera soprattutto di una società, la Lux Film, che dopo aver ripreso l’attività nel dopoguerra pensando che nulla fosse cambiato, con commedie e film in costume (ma alcune di queste, per i motivi sopra esposti, inevitabilmente infiltrate dal neorealismo), capisce che il film neorealista può anche essere prodotto commerciale e da esportazione e, garantita dal suo particolare modello produttivo, leggero e senza studi, realizza film come Gioventù perduta, Senza pietà, L’onorevole Angelina, Vivere in pace, In nome della legge, Riso amaro, Il mulino del Po, Campane a martello e altri ancora che nel periodo 194749 costituiscono il principale nucleo di opere neorealiste del cinema italiano, così come la Lux è in generale la casa di produzione italiana più attiva di quegli anni. Film in cui gli aspetti indubbiamente neorealisti sono inquadrati in una più solida e non frammentaria struttura di genere, o

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appoggiati a una base letteraria, o garantiti da professionalità anche attoriali che li rendono più compatti e confezionati. Non a caso l’unico importante regista italiano che non lavorerà mai per la Lux, e il più radicale nella sua volontà sperimentale e nel rifiuto del cinema “ben fatto”, è Rossellini, che continuerà a fare un cinema di rischio anche quando potrà contare su capitali americani e star internazionali. Ma ridurre il neorealismo al solo cinema delle sfide e dei miracoli senza vedere anche quello dell’accortezza e della professionalità sarebbe veramente privarlo di una sua parte troppo grande e essenziale. Non è il modo di produzione industriale che guasta il neorealismo, anche perché proprio il modo di produzione Lux è fra i meno dirigistici e fra i più elastici possibili. Sono semmai certe strategie industriali e commerciali che lo soffocano o lo superano come accadrà infatti dal 1949-50 quando il rientro produttivo della Titanus e di Rizzoli e la nuova società costituita dagli ex produttori neorealisti Ponti e De Laurentiis sono fra i fattori determinanti della svolta del cinema italiano. Neorealismo quotidiano Molti dei film che abbiamo attribuito al “neorealismo industriale” si sono visti rifiutare dalla critica storica la patente neorealistica proprio a causa della loro non-povertà e soprattutto della loro compromissione con i generi, il divismo e l’americanismo. In essi resterebbero solo dei “contenuti” neorealisti, una contemporaneità di situazioni, problemi, personaggi, vicende che non basterebbe tuttavia a garantire del loro vero realismo proprio perché troppo mediata da forme già date. Bisogna dire che per una critica spesso accusata in seguito di contenutismo questa posizione è singolarmente anomala e interessante. Tutto sommato non era facile, al tempo, rinunciare a qualche campione da inserire nella fragile squadra neorealista, magari anche un vero campione di incassi, in nome di scrupoli formali di questo tipo. Oggi siamo probabilmente meno severi, meno legati a estetiche normative, meno schierati in battaglie teoriche, e è forse anche questa una delle ragioni per cui il cinema neorealista vede allargare la sua area e annettervi titoli finora nemmeno presi in considerazione quando non apertamente osteggiati e disprezzati. Questa situazione è certamente un prodotto del passare del tempo. Man mano che ci si allontana dagli anni del neorealismo i suoi “contenuti” ci sembrano diventare altrettanto singolari, rari, circoscritti nel tempo, quanto l’eccezionalità delle sue forme, tecniche e linguaggi. Il neorealismo stesso tende a diventare un contenuto e “neorealista” è oggi l’aggettivo che si usa, sempre meno metaforicamente, sempre meno impropriamente, per definire una situazione sociale, un ambiente, un personaggio, un’epoca. È neorealista un soldato americano, una casa bombardata, un camioncino carico di farina della borsa nera, un prete in bicicletta, un boogie-woogie in una balera di Livorno, un ex partigiano che tiene nascosto il mitra, un appartamentino in cui abitano due famiglie con nonni e bambini. Siamo

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troppo banali e di facile contentatura? Si potrebbe precisare che come sempre quando si parla correttamente di contenuti si intendono le forme del contenuto, cioè si intende una problematica, un’iconografia, un’oggettistica in quanto divenute articolazioni di un’immagine filmica, elementi di un testo. Ma non ci dispiace una certa semplificazione della questione, e la riduzione del neorealismo a un prodotto “d’epoca”, qualcosa di analogo a uno stile di oggetti d’antiquariato (o in questo caso di “modernariato”). È un altro degli aspetti di una visione non aristocratica o radicale del neorealismo ma della sua quasi-identificazione con il cinema italiano dell’epoca. Per cui la definizione più adeguata sarebbe quella tautologica e paradossale che suonerebbe così:“Il cinema neorealista è il cinema italiano dell’epoca del neorealismo”. In altri termini, forse più accettabili: il neorealismo appare oggi non una tendenza limitata e elitaria collocata nel mondo del pensiero, del sapere, del fare estetico e del discutere ideologico ma un affare di vita quotidiana, qualcosa che (e che sia questo il realismo del neorealismo?) riguardava la vita di tutti e che dai film passava alla realtà e viceversa, senza subire sostanziali trasformazioni. Qualcosa che, come si è detto, veniva teorizzato e divulgato dalla stampa popolare, non da studiosi, artisti o specialisti ma da giornalisti, lettori e spettatori “di base”. [...] Da Alberto Farassino, Neorealismo, storia e geografia, in Alberto Farassino (cur.), Neorealismo. Cinema italiano 1945-1949,Torino: EDT, 1989, 21-24, 26-30, 32-34

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Indice bibliografico

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Indice bibliografico

– 2003, L’industria italiana tra crisi della produzione e boom dell’esercizio, in Cosulich C. 2003a (cfr.) • Zancan M. 1986, Tra vero e bello, documento e arte, in Tinazzi G. e Zancan M. 1986 (cfr.) • Zangrandi R. 1962, Il lungo viaggio attraverso il fascismo: contributo alla storia di una generazione, Milano: Feltrinelli • Zavattini C. 1947, Il cinema, in Dopo il diluvio, Milano: Garzanti; ora in Zavattini C. 2002 (cfr.) – 1949, Relazione al convegno internazionale di cinematografia – Perugia 24 - 27 settembre 1949; ora Il cinema e l’uomo moderno, in Zavattini C. 2002 (cfr.) – 1950a, Morirà il cinema?, «Vie nuove», 7 maggio; ora in Zavattini C. 2002 (cfr.) – 1950b, Basta con i soggetti, intervista concessa a Elio Petri per «Filmcritica» e non pubblicata; ora in Zavattini C. 2002 (cfr.) – 2002, Opere. Cinema (a cura di Argentieri M. e Fortichiari V.), Milano: Bompiani

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Indice delle schede

Approfondimenti 1.Telefoni bianchi, 9 2.Anica, 46 3. Lux Film, 50 4. «Cinema Nuovo», 61 5. Il «caso Matarazzo», 63 Biografie 1. Luchino Visconti, 5 2.Vittorio De Sica, 21 3. Luigi Zampa, 24 4. Roberto Rossellini, 25 5.Alberto Lattuada, 29 6.Anna Magnani, 32 7. Giuseppe De Santis, 39 8. Pietro Germi, 39 9. Umberto Barbaro, 53 10. Luigi Chiarini e il Centro Sperimentale di Cinematografia, 54 Intersezioni 1. Realismo, 7 2.Autore, 10 3.Avanguardia, 19 4. Narrazione, 23 5.Teoria del pedinamento, 27

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Indice dei film

1860 31, 56, 57, 59, 74, 139, 159, 176, 178, 184, 186, 190

Avanti a lui tremava tutta Roma 3, 32, 49, 166

Abbasso la miseria! 33 Abbasso la ricchezza! 33 Acciaio 74, 178, 183, 187, 189, 190 Achtung! Banditi! 3, 49, 166, 216 Ai margini della città 28 Aida 166 Alba tragica (Le jour se lève) 40 Aldo dice 26x1 3 Alleluja! (Hallelujah!) 77, 80, 181 Amanti perduti (Les enfants du Paradis) 199 Amanti senza amore 42 Americano in vacanza, Un 14 Amleto (Hamlet) 123 Amore in città 169 Amore, L’ 11, 25, 33, 166 Amore e il diavolo, Il (Les visiteurs du soir) 199 Amorosa menzogna, L’ 30, 43 Angelo del male, L’ (La bête humaine) 40, 74, 199 Anna 166 Anni difficili 18, 24-26, 50, 224 Aquila Nera 166 Assedio dell’Alcazar, L’ 137, 187, 189 Assunta Spina [1915] 8, 56, 159, 177, 207 Assunta Spina [1948] 134, 162

Bambini ci guardano, I 21, 30, 52, 68, 159, 160, 163, 164, 214 Bambini in città 11 Bandito della Casbah (Pépé le Moko) 78 Bandito, Il 11, 13, 29, 32, 33, 40, 42, 50, 102, 106, 134, 169, 182, 207, 216 Bella brigata (La Belle équipe) 78 Bellissima 5, 30, 32, 33, 41, 134, 166, 170, 189, 227, 228, 235 Bengasi 137 Benvenuto reverendo 186 Bidone, Il 43 Bimbi che aspettano 43 Brigante di Tacca del Lupo, Il 169 Brigante Musolino, Il 166 Bronte – Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato 176 Cabiria 78, 80, 149, 150, 177, 189, 221 Caccia tragica 3, 5, 6, 13, 28, 3942, 49, 112, 121, 166, 170, 187, 200, 202, 206, 208 Camicia nera 178, 187, 189, 190 Cammino della speranza, Il 6, 11, 28, 34, 39, 120, 156, 169, 171

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Cammino verso la vita, Il (Putëvka Ïizn’) 103 Campane a martello 4, 33, 50, 216 Campane d’Italia 144 Campo de’ fiori 32 Cantieri dell’Adriatico 144, 154 Canto della vita, Il 40, 213 Canzone del fiume, La (Banjo on My Knee) 73 Canzone dell’amore, La 188 Canzoni di mezzo secolo 166 Cappello a tre punte, Il 178 Caso Haller, Il 184 Catene 166, 214 Cavalleria 187-189 Cavalleria rusticana 161 Cena delle beffe, La 59 Cielo è rosso, Il 50, 166 Cielo sulla palude 34, 42, 57, 89, 118, 120, 135-137, 165, 213 Città dolente 25, 206, 213 Città si difende, La 13, 169 Colpo di pistola, Un 177 Come persi la guerra 50, 166, 207, 214 Come scopersi l’America 40 Corazzata Potëmkin, La (Bronenosec Potëmkin) 101, 181 Core ’ngrato 166 Corona di ferro, La 59, 79, 189 Cronache di poveri amanti 22, 49 Cuori senza frontiere 24, 25, 33, 206 Danza degli elefanti, La (Elephant Boy) 72 Delitto del signor Lange, Il (Le crime de Monsieur Lange) 40 Delitto di Giovanni Episcopo, Il 29, 165 Delitto Matteotti, Il 176 Desiderio (Scalo merci/Rinuncia) 25, 160, 174

Diavolo bianco, Il 166 Domani è troppo tardi 166 Domenica d’agosto 19, 28, 215 Don Camillo 166 Donne senza nome 206 Due lettere anonime 3, 41, 50 Due soldi di speranza 19, 32, 34, 43, 118, 120, 133-135, 156, 169, 214, 231 Edera, L’ 19 Emigrantes 206 Enrico Caruso – Leggenda di una voce 166 Entr’acte (id.) 77 Eroe della strada, L’ 50, 166, 207, 214 Espoir, L’ (id.) 104 Étoile de mer, L’ (id.) 77 Europa ’51 25 Fabiola 38, 166 Fari nella nebbia 177 Fidanzata di papà, La 184 Fidanzate di carta 30 Fifa e arena 166 Figaro e la sua gran giornata 127 Figli di nessuno, I 166 Figlia del capitano, La 166 Fiume, Il (The River) 72, 73 Folla, La (The Crowd) 74, 77, 80 Fossa degli angeli 161 Francesco giullare di Dio 51 Fuga in Francia 13 Fumeria d’oppio, La (Ritorna Za La Mort) 13 Furia 166 Gabinetto del Dr. Caligari, Il (Das Cabinet des Dr. Caligari) 77 Garibaldino al convento, Un 21, 162, 200 Genoveffa di Brabante 166 Gente del Po 6, 70, 164

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Germania anno zero 25, 26, 28, 42, 160, 165, 166, 169, 194 Giacomo l’idealista 29, 177 Giarabub 187, 189 Gilda (id.) 30 Giorni di gloria 3, 5, 41, 42, 49, 194, 233 Giorno nella vita, Un 3, 4, 49, 95, 97, 165 Gioventù perduta 13, 39, 50, 122, 123, 127, 128, 216 Giuseppe Verdi 166 Grande illusione, La (La Grande illusion) 40, 74, 199 Grido della terra, Il 26, 206 Grido, Il 199 Guardie e ladri 100 Ho visto brillare le stelle 178 In nome della legge 4, 11, 28, 39, 51, 57, 117, 119-123, 125, 127133, 156, 165, 166, 168, 186, 216, 220 Italia s’è desta, L’ 3, 42, 194 Ivan il Terribile (Ivan Grozny) 129 Ladri di biciclette 11, 15, 21, 22, 26-28, 30, 31, 40, 42, 45, 50, 53, 58, 86, 114-118, 120, 121, 124, 133, 135, 157, 165, 170, 174, 196, 198, 199, 219, 230 Ladro di Bagdad, Il (The Thief of Bagdad) 80 Lampi sul Messico (Thunder over Mexico) 73 Lasciamoli vivere 49 Linea generale, La 182 Luce d’estate (Lumière d’Eté) 199 Luciano Serra Pilota 188 Lupo della Sila, Il 186 Ma l’amor mio non muore 177 Maddalena zero in condotta 21

Madre, La (Mat’) 181 Malaspina 216 Marinai senza stelle 207 Marsigliese, La (La Marseillaise) 199 Massacro di Fort Apache, Il (Fort Apache) 122 Mery per sempre 214 Mille lire al mese 195 Mio figlio professore 26, 169 Miracolo a Milano 21, 28, 30, 42, 50, 160, 166, 216 Miracolo, Il 11 Mistero Picasso, Il (Le mystère Picasso) 113 Molti sogni per le strade 25, 32, 33, 50, 165, 214 Montevergine 144 Mulatto, Il 14 Mulino del Po, Il 6, 29, 50, 216 Mura di Malapaga, Le 42, 206 N.U. 43 Natale al Campo 119 26, 166, 206 Nave bianca, La 25, 160, 177 Nerone 59 Nibelunghi, I (Die Nibelungen) 101 Noi vivi 189 Non c’è pace tra gli ulivi 17, 28, 29, 39, 120, 170, 194, 200, 208, 235 Nosferatu (Nosferatu, Eine Symphonie des Grauens) 101 Nostra guerra, La 42 Nostra ora, La 49 Nostro pane quotidiano (Our Daily Bread) 77, 80 Notte porta consiglio, La (Roma città libera) 38, 106 O sole mio 30, 186, 194, 213 O.K. John 166 Ombre bianche (White Shadows of the South Sea) 73

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Ombre nella nebbia 208 Ombre rosse (Stagecoach) 40 Onorevole Angelina, L’ 24, 32, 33, 39, 43, 50, 95, 100, 216 Oro di Napoli, L’ 33 Ossessione 5, 13, 21, 37, 39, 52, 56, 57, 59, 68-70, 80, 136, 151-153, 159, 163, 164, 172, 182, 199, 214, 230, 232 Paisà 3, 4, 6, 13, 14, 25, 26, 31, 95, 97, 101-103, 105, 107, 109-112, 120, 124, 160, 165, 169, 192, 194, 196, 199, 201, 205, 206, 219, 231 Pane amore e fantasia 166, 167 Passaporto rosso 187, 189 Peccatrice, La 161, 177 Per chi suona la campana (For Whom the Bell Tolls) 111 Perdizione (Sanctuary) 77 Perdonami 166 Persiane chiuse 13, 28, 33 Pian delle stelle 3, 49 Pianto delle zitelle, Il 144 Piccolo mondo antico 75, 177 Pilota ritorna, Un 25 Pompieri di Viggiù 166 Porta del cielo, La 21, 49, 95, 98 Porto delle nebbie, Il (Quai des brumes) 99 Poveri ma belli 167 Preludio d’amore 207 Presepi 144 Presidentessa, La 169 Processo alla città 165 Proibito rubare 11, 206 Puccini 166 Quattro passi tra le nuvole 52, 56, 59, 68, 163, 164, 177 ¡Qué Viva Mexico! (id.) 125 Quelli della montagna 177 Ragazzo 178 Rapacità (Greed) 101

Redenzione 178 Resurrectio 188 Ricchezza senza domani 144 Richiamo alla vita 207 Riso amaro 6, 13, 17, 25, 29, 33, 39, 42, 50, 51, 70, 117, 133, 165, 170, 187, 200, 201, 206, 216, 227, 229 Roma città aperta 3, 4, 13, 15, 25, 32, 33, 35, 37-39, 43, 45, 49, 53, 58, 59, 95, 97, 101, 103, 112, 120, 134, 153, 159, 160, 165, 167, 169, 174, 191, 192, 194196, 201, 205, 210, 216, 222, 226, 233 Roma ore 11 39, 49, 166, 199, 200, 216 Romantica avventura, Una 78 Rosa tatuata, La (The Rose Tattoo) 32 Rose scarlatte 21, 160 Rotaie 56, 78, 144, 153 Sceicco bianco, Lo 30 Scipione l’Africano 185, 189 Sciuscià 15, 21, 30, 45, 50, 53, 58, 95, 97, 101, 103, 106, 107, 120, 135, 163, 166, 205, 222 Sconosciuto di San Marino, Lo 33 Scugnizzi 214 Seconda B 154 Senso 5, 50, 54, 60, 117, 119 Senza pietà 13, 14, 25, 29, 40, 50, 169, 216 Sepolta viva, La 166 Sette fratelli Cervi, I 176 Siamo donne 30, 225 Signor Max, Il 187 Signora senza camelie 30, 189, 224 Signorinella 213 Sissignora 144, 153, 154, 187, 200 Sole 7, 31, 59, 159, 178, 183, 184, 187, 188, 190

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Indice dei film

Sole sorge ancora, Il 3, 4, 38, 39, 49, 95, 97, 99, 102, 112, 192, 194, 206, 208 Sotto il sole di Roma 19, 25, 37, 57, 169, 194 Sovversivi 158 Sperduti nel buio 8, 56, 57, 78, 80, 139, 149, 150, 155, 159, 177, 207, 220 Squadrone bianco, Lo 185, 187, 188 Stadio 190 Strada, La [1954] 42 Strada, La (Die Strasse) [1923] 74 Stromboli, terra di Dio 11, 25, 26, 35, 232, 233 Tabù (Tabu) 31, 73, 104 Tavola dei poveri, La 144, 161 Teheran 206 Tempeste sull’Asia (Potomok âingis-Chana) 73 Teresa Venerdì 21 Terra madre 178, 187 Terra senza tempo 186 Terra trema, La 4, 5, 7, 11, 25, 27, 28, 31, 49, 53, 57, 118, 120, 134, 136, 166, 169, 170, 171, 186, 216, 221, 230 Testimone, Il 29, 39, 122, 127, 213 Ti ritroverò (Il tenente Craig) 28 Togliatti è ritornato 20 Tombolo, paradiso nero 14, 214 Tormento 166 Totò a colori 166 Totò al Giro d’Italia 214

Totò cerca casa 25, 209, 214 Trecento della Settima, I 190 Treno popolare 161 Trieste mia 166 Turi della tonnara 207 Ultimo amore 213 Ultimo Eden, L’ (Moana) 183 Umberto D. 11, 20, 21, 26-28, 31, 51, 160, 166, 168, 171, 216, 235 Uno tra la folla 207 Uomini che mascalzoni!, Gli 162, 178 Uomini sul fondo 75, 117, 120, 124, 159, 177 Uomo della croce, L’ 25 Uomo ritorna, Un 25 Valle di Cassino, La 42 Vanità 208 Variété (id.) 77 Vecchia guardia 59, 74, 178, 182, 187 Vento d’Africa 206 Ventre della città, Il 144 Verso la vita (Les Bas-fonds) 182 Via delle Cinque Lune 161 Viaggio in Italia 25 Vie della città (City Streets) 78 Vita ricomincia, La 13, 40, 49, 213 Vita semplice, La 207 Vivere 127 Vivere in pace 13, 24, 39, 50, 95, 97, 102, 156, 169, 216 Vulcano (Volcano) 186, 206

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Indice dei nomi

A Abruzzese Alberto 17, 51 Agliani Tatiana 21 Alberini Massimo 11, 117, 119, 120, 124, 125, 128 Alberti Guglielmo 183 Aldo G.R. (Aldo Graziati) 136 Alessandrini Goffredo 166 Alicata Mario 5, 7, 8, 56, 68-71, 76, 79, 149, 151, 155, 198-200, 204 Alonge Giaime 15 Altman Rick 36 Alvaro Corrado 200 Amato Giuseppe 50, 51 Amidei Sergio 16 Anderson Benedict 4 Anderson Sherwood 77 Andreotti Giulio 2, 15, 20, 21, 43, 46, 47 Annenkov Pavel 167 Antonioni Michelangelo 5, 6, 10, 30, 43, 67, 70, 71, 73, 154, 162, 164, 165, 172, 195, 199 Aprà Adriano 28, 37, 48, 50, 63, 65, 117, 171 Arata Ubaldo 153 Argentieri Mino 47, 48 Aristarco Guido 5, 11, 19, 38, 52, 54, 58, 60-62, 64, 100, 117-120, 123, 130, 135, 137, 145, 152, 154, 155 Arlorio Giorgio 117, 119, 128-130 Armes Roy 38 Arnheim Rudolf 53, 67, 154

Asor Rosa Alberto 22, 23, 55, 118, 119 Asquini Daniela 3 Aumont Jacques 32, 91 Ayfre Amédée 56 B Bafile Paolo 45 Balázs Béla 53, 58 Bálint Kovács András 33 Balzac Honoré de 124 Banfi Antonio 59 Barbaro Umberto 7, 52-57, 60, 65, 69, 138, 143-155, 159, 177, 187, 188 Barboni Leonida 123 Barsacq Léon 199 Bartolini Luigi 22 Barzizza Isa 166 Bassani Giorgio 200 Baudelaire Charles 136 Bazin André 27, 28, 32, 34, 56, 61, 89-91, 101, 113, 115, 116, 156, 171, 173, 185, 192, 197, 205 Beato Angelico 97 Ben-Ghiat Ruth 5 Benedetti Arrigo 194 Benetti Adriana 163 Ber. F. 128, 130 Bergala Alain 35 Bergman Ingrid 189 Bernardi Sandro 6, 27, 70 Bernardini Aldo 49 Bernari Carlo 7, 159

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Indice dei nomi

Bertini Francesca 8 Bertolucci Attilio 208 Bertolucci Bernardo 205 Bertoni Federico 3, 25 Bertozzi Marco 41, 42, 70 Bianchi Giorgio 210 Bianchi Pietro 195, 208 Bilenchi Romano 159 Bisoni Claudio 60, 62, 140 Bizzarri Libero 47, 48, 61, 62 Blasetti Alessandro 3, 7, 8, 31, 38, 42, 49, 52, 59, 69, 95, 138, 144, 159, 161-166, 176, 178, 182, 184, 188 Bo Carlo 22 Bolzoni Francesco 21 Bonazza Adriano 47, 56 Bondanella Peter 62 Bonnard Mario 25, 162, 165, 206, 210, 213 Bonocore Giuseppe 207 Borghesio Carlo 166, 207, 210 Borrelli Armando 155 Bosco Umberto 31 Bosè Lucia 19 Bragaglia Anton Giulio 188 Bragaglia Carlo Ludovico 161, 162, 165, 201 Brancati Vitaliano 18, 24, 200 Bravo Anna 41 Bresson Robert 113 Breton André 77 Brignone Guido 162, 165, 166, 173, 195 Brunetta Gian Piero 11, 12, 19, 31, 37, 41, 45, 47, 51, 52, 54, 60, 65, 68, 69, 118, 138, 139, 141, 143, 155 Bruni David 3, 15 Bruno Nando 33 C Cain James 151 Calamai Clara 41, 81 Caldiron Orio 30, 117, 155

Caldwell Erskine 179 Calvino Italo 3, 23, 88, 99, 101, 134, 171 Camerini Mario 3, 25, 33, 56, 59, 78, 159, 162, 165, 166, 178, 188 Campari Roberto 37 Campogalliani Carlo 144, 162, 165, 210 Camus Marcel 112 Canudo Ricciotto 193 Capitini Aldo 59 Carabba Claudio 37, 65, 117 Carancini Gaetano 172 Caravaggio (Michelangelo Merisi) 55, 150 Cardone Lucia 41 Carné Marcel 11, 69, 78, 80, 102, 179, 181, 199 Carpi Fabio 59 Carpi Michela 41 Carpignano Vittorio 43 Casetti Francesco 24, 30, 38, 53, 64, 139, 173, 197 Castellani Renato 19, 26, 32, 38, 100, 118, 134, 156, 163, 165, 169, 185, 200, 210 Castello Giulio Cesare 52, 172 Cavallo Pietro 12, 16 Cecchi Emilio 153, 186, 189, 195 âechov Anton 77 Cerchio Fernando 3, 194 Cerlesi Ennio 207 Cervi Gino 163 Cézanne Paul Chaplin Charles Spencer 130 Checchi Andrea 41, 213 Chemotti Saveria 17 Chiari Walter 134 Chiarini Luigi 52-54, 61, 99, 119, 144-148, 152, 154, 155, 161, 174, 177, 213 Chiaromonte Nicola 181 Chiattone Antonio 121, 123 Chiti Roberto 49 Clair René 77, 80, 130, 180, 187, 199

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Clement René 42, 206 Coletti Duilio26, 206 Comand Mariapia 9, 40 Comencini Luigi 11, 13, 162, 165167, 206, 208 Compagnon Antoine 37 Conforti Michele 48, 49 Consiglio Alberto 188 Conte Gian Biagio 40 Contini Ermanno 42 Corsi Barbara 44, 45, 47, 48, 51, 86 Corti Maria 3, 64 Costa Antonio 52 Costa Mario 166, 173 Cosulich Callisto 18, 29, 44, 45, 50, 61, 66, 173 Crosby Bing 131 Cuccu Lorenzo 61, 70 Curtiz Michael 123 D D’Ambra Lucio 78 D’Annunzio Gabriele 80 d’Erasmo Gianni 166 Dagrada Elena 30, 35 Daney Serge 35 De Agostini Fabio 16 De Baecque Antoine 34 De Benedetti Aldo 162 De Filippo Eduardo 134, 207 De Filippo Titina 207 De Gasperi Alcide 20 De Giusti Luciano 19, 66 De Grazia Victoria 12 De Landa Juan 81 De Laurentiis Dino 12, 50, 207, 217 De Matteis Stefano 32 De Robertis Francesco 14, 31, 57, 159, 162, 165, 190, 207 De Santis Giuseppe 2, 3, 5-8, 13, 16, 17, 23, 28, 29, 36-40, 42, 49, 51, 54, 56, 58, 66, 67, 69-71, 73, 75, 76, 79, 106, 112, 120, 121, 128, 142, 149, 151, 154, 155,

163, 165, 169, 170, 186, 198200, 202-204, 206, 208, 210, 211, 214 De Seta Vittorio 158 De Sica Vittorio 7, 15, 20, 21, 23, 26-28, 30, 32-35, 48-50, 57, 95, 100, 115, 117, 118, 121, 135, 140, 152, 159, 160, 162-165, 169, 170, 172, 173, 197, 198, 200, 204, 210, 211 De Vincenti Giorgio 29, 30, 38-40, 61, 90, 113, 116, 120 Debenedetti Giacomo 154 Defoe Daniel 200 Del Poggio Carla 14 Deleuze Gilles 35 Della Casa Stefano 117 di Cocco Francesco 144 Di Giammatteo Fernaldo 58 Dickens Charles 77, 124, 200 Dieterle William (Wilhelm) 206 Doglio Carlo 11, 52, 117-119, 125, 127-132, 156 Dos Passos John 23, 105 DovÏenko Aleksandr 101 Dreyer Carl Theodor 127 Dupont Ewald 77 Duvivier Julien 11, 78, 166, 181 E Ejzen‰tejn Sergej 70, 98, 101, 103, 122, 129, 179 Ellwood David 11, 12 Elsaesser Thomas 9, 10 Emanuelli Enrico 133-135 Emmer Luciano 19, 28, 163, 165, 215 Eugeni Ruggero 19, 33 Evans Walker 21 F Fabbri Diego 36, 200 Fabrizi Aldo 7, 32, 35, 39, 103, 104, 134, 191, 206 Fairbanks Douglas 80

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Falaschi Giovanni 3 Falcetto Bruno 3, 23, 28, 64 Farassino Alberto 1, 2, 12, 13, 3639, 48, 50, 52, 63, 65, 66, 88, 138, 139, 142, 143, 173, 197, 204, 218 Fasano Ugo 166 Faulkner William 23, 77, 105, 107, 108, 179, 200 Fellini Federico 10, 30, 35, 42, 89, 163, 165, 195, 205 Ferida Luisa 189 Fernandel (Fernand Contandin) 80 Fernandez Emilio 98 Ferrara Giuseppe 10, 52, 59, 155, 172, 174 Ferrata Giansiro 183 Ferrero Adelio 55, 204 Ferrero Anna Maria 19 Ferroni Giorgio 3, 14, 210, 214 Ferroni Giulio 4 Feyder Jacques 181 Figueroa Gabriel 98, 136 Fink Guido 15 Flaherty Robert 31, 72 Flajano Ennio 22 Flaubert Gustave 77, 200 Fogazzaro Antonio 78 Ford John 35, 36, 40, 121-123, 130 Forgacs David 17, 18, 47, 53 Fortini Franco 55, 58, 118-120, 133, 135, 158, 172, 173 Fracassi Clemente 166 Franchetti Leopoldo 185 Franchina Basilio 20 Franciolini Gianni 30, 42, 163, 165 Francisci Pietro 26, 162, 165, 166, 206, 210 Freda Riccardo 166, 195 Freddi Luigi 148, 177, 186, 190 Freshman William 206 Freud Sigmund 181 G Gallagher Tag 3

Galli della Loggia Ernesto 2 Gallone Carmine 3, 40, 48-50, 162, 165, 166, 191, 201, 210, 213 Gandin Michele 6, 33 Garibaldi Giuseppe 184 Gassman Vittorio 13 Genina Augusto 19, 34, 42, 118, 135-137, 162, 165, 185, 188, 210 Gentilomo Giacomo 28, 30, 48, 50, 166, 194, 210, 213 Gerbi Antonello 154 Germi Pietro 4, 6, 7, 11, 13, 23, 28, 29, 37-39, 54, 100, 117, 120-123, 125-133, 154, 156, 163, 165, 169, 185, 186, 206, 210, 213, 214 Ghezzi Enrico 63 Ghione Emilio 78, 149 Gibson Hoot 77 Giolito Carlo 128, 130 Giotto di Bondone 55, 150 Girotti Massimo 81, 123 Gogol’ Nikolaj 200 Gora Claudio 50, 163, 165 Goretti Maria 118, 135, 137 Gramsci Antonio 17, 57, 61 Grande Maurizio 31, 119 Grasso Aldo 38, 139, 173, 197 Grespi Barbara 21 Griffith David Wark 177 Grignaffini Giovanna 15, 37, 46 Grmek Germani Sergio 30, 36, 48, 63 Gromo Mario 52, 58, 172, 174 Grossi Marco 117 Grosz George 77 Grune Karl 74 Gualino Riccardo 12, 50, 51 Guarini Alfredo 30, 49 Guazzoni Enrico 178, 201 Gundle Steven 17, 19, 33, 47, 52 H Hall Stuart 3 Harlow Jean 182 Hart William 77

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Harte Bret 77 Hathaway Henry 121 Hayward Susan 14 Hemingway Ernest 105, 107, 108, 179 Henry O. (William Sydney Porter) 77 Hope Bob 131 Husserl Edmund 59 I Iampolski Mikhail 39 Ibsen Henrik 77 Ingrao Pietro 67, 151 Ivaldi Nedo 3 J Jakobson Roman 24, 37 Jameson Fredric 34, 36 Jandelli Cristina 30 K Kafka Franz 200 Keaton Buster 77 Kezich Tullio 42 Kitzmiller John 14 Kokoschka Oskar 77 Kristeva Julia 175 L L. L. 36 L’Herbier Marcel 166 Lagny Michèle 30 Lamour Dorothy 131 Lanaro Silvio 45 Lancia Enrico 33 Landi Mario 210 Lattuada Alberto 6, 7, 11, 13, 21, 23, 29, 37-40, 42, 106, 131, 163, 165, 166, 169, 182, 189, 208, 210, 214 Laura Ernesto G. 48 Lebedev Nikolaj 154 Leonardi Virgilio 128-130 Lizzani Carlo 3, 5, 8, 16-18, 20, 22,

28, 41, 43, 48, 49, 52, 57-59, 67, 68, 83, 142, 151, 154, 155, 157, 163, 165, 171, 172, 174, 198, 200, 201, 206 Lo Schiavo Giuseppe Guido 125 Lollobrigida Gina 19, 33, 202 Lombardi Martina 32 Lombardo Gustavo 207 Longanesi Leo 182 Longhi Roberto 150 Longo Sofista 134 Loren Sophia 19, 33, 202 Lucas Uliano 21 Luciani Sebastiano Arturo 145 Lukács György 60, 61 Lumière Louis 87, 103 Luperini Romano 22 Luzzatto Sergio 2 M Macario Erminio 40, 50, 166, 207, 214 Machat˘ Gustav 77 Maggio Dante 33 Maggiorani Lamberto 30 Magnani Anna 4, 7, 32, 39, 41, 50, 103, 104, 134, 182, 191 Majano Anton Giulio 206 Malasomma Nunzio 166 Malavasi Luca 24 Malraux André 105 Mamoulian Rouben 78 Mancini Federico 128, 129 Mancino Anton Giulio 49 Mangano Silvana 19, 33 Mann Thomas 180 Manzoni Alessandro 57, 79, 124, 150 Marcellini Romolo 42, 43 Marconi Guglielmo 177 Marcus Millicent 62 Margadonna Ettore Maria 181 Marotta Giuseppe 200 Martinelli Vittorio 49 Martini Andrea 2

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Martoglio Nino 8, 69, 78, 80, 149, 150, 177 Marx Karl 167 Masaccio (Tommaso Casser) 150 Masaniello (Tommaso Aniello) 178 Masi Stefano 19, 33, 45 Massironi Gianni 48, 49 Mastrocinque Camillo 123, 162, 165 Matarazzo Raffaello 13, 48, 50, 63, 117, 161, 162, 165, 166, 170, 173, 195 Mattoli Mario 13, 49, 63, 162, 165, 166, 201, 210, 213 Maupassant Guy de 77, 78, 200 Meccoli Domenico 19 Melfi Eduardo 22 Méliès Georges 79 Menarini Roy 9 Merleau-Ponty Maurice 34 Meschino Gianni (pseudonimo di Carlo Lizzani) 204 Meucci Antonio 177 Miccichè Lino 1, 5, 19, 30, 42, 52, 59, 63-66, 68, 138-142, 156, 172, 173, 197 Michi Maria 103 Mida (Puccini) Massimo 5, 8, 16, 69, 142, 151, 178, 200, 206 Milanini Claudio 64, 83 Mix Tom 77 Moguy Leonide 166 Monaco Eitel 46, 48 Moneti Guglielmo 26, 28 Monicelli Mario 25, 88, 100 Morandini Morando 117, 128-130 Morante Elsa 197 Moravia Alberto 7, 151 Morlion Félix A. 54, 56, 88, 89, 95, 99 Mosconi Elena 38 Moussinac Leon 154 Murnau Friedrich Wilhelm 31, 70 Muscio Giuliana 3, 12, 44 Musco Angelo 186

Mussolini Benito 48 Mussolini Vittorio 5, 11 Mutti Roberto 22 N Nacache Jacqueline 31 Nazzari Amedeo 182, 189 Nepoti Roberto 42 Nerone 38 Neufeld Max 25, 195 Nievo Ippolito 124 Ninchi Ave 33 O O’Leary Alan 65 Oldrini Guido 60 Olivier Laurence 123 P Pabst Georg Wilhelm 180 Paci Enzo 59, 60 Pagliero Marcello 3, 32, 39, 103, 106, 163, 165 Pagnol Marcel 80 Paladini Vinicio 181 Palazzo Virginio 117 Palermi Amleto 161 Pampanini Silvana 19, 202 Paolella Domenico 3, 42, 166, 194 Paolucci Giovanni 42, 207 Parigi Stefania 3, 27, 30, 34, 52 Parri Ferruccio 191 Parvo Elli 38 Pasetti Anna Maria 15 Pasinetti Francesco 41 Pastina Giorgio 208 Patini Teofilo 136, 137 Pavese Cesare 8, 22, 159, 172, 200, 204 Pavolini Alessandro 151 Pavolini Corrado 147, 154, 181 Pavone Claudio 2 Pellegrini Glauco 20, 42 Pellizzari Lorenzo 59, 60 Perilli Ivo 178

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Perniola Ivelise 42 Petacci Claretta e Myriam 42 Peverelli Luciana 78 Pietrangeli Antonio 5, 8, 52, 55, 56, 69, 70, 79, 81, 142, 150, 151, 155, 163, 165, 199 Pinto Francesco 17, 87 Pistagnesi Patrizia 30, 63 Pistorio Giuseppe 31 Pitassio Francesco 6, 31, 38 Poe Edgar Allan 75 Poggioli Ferdinando Maria 144, 200 Polo Marco 185 Ponti Carlo 12, 50, 208, 217 Poppi Roberto 49 Portalupi Piero 21 Pozzi Bellini Giacomo 144 Pratolini Vasco 22 Pravadelli Veronica 5 Prettner Cippico Edoardo 50 Prosperi Giorgio 15 Puccini Gianni 5, 67, 69, 151, 155, 199 Pudovkin Vsevolod 31, 53, 58, 101, 122, 179, 181 Q Quaglietti Lorenzo 11, 12, 44, 68, 86, 172 Quaresima Leonardo 5, 6, 37, 38, 51, 55, 142, 197, 204 Quazza Guido 160, 172 Quintana Miguel Ángel 24 R Radványi Géza 206 Raffaelli Sergio 7 Raimu (Jules Auguste César Muraire) 80 Ray Man 77 Redi Riccardo 65 Renoir Auguste 74 Renoir Jean 5, 40, 69, 74, 78, 80, 151, 179, 181, 199

Renzi Renzo 6, 30, 32, 61, 67, 142, 185, 204 Ridolini (Larry Semon) 80 Riento Virgilio 33 Righelli Gennaro 33, 162, 165, 188, 201, 210 Risi Dino 163, 165, 208 Roccella Eugenia 41 Rohmer Eric 35, 89 Roncoroni Stefano 3 Rondi Brunello 52, 59, 60, 88 Rondi Gian Luigi 56-58, 172 Rossellini Roberto 3, 7, 10, 11, 23, 25, 26, 30, 32, 34+36, 38, 41, 4850, 54, 57, 90, 91, 95, 98, 100103, 105-108, 110, 113, 117, 121, 140, 152, 153, 160, 163, 165, 169, 170, 173, 178, 189191, 196-198, 206, 210, 211, 217 Rossi Drago Eleonora 33 Rossi Aldo 49 Rossi Ernesto 47 Rossi Fabio 7 Rovere Luigi 50, 206, 207 Rovetta Girolamo 78 Rustichelli Carlo 123 Ruttmann Walter 178 S Sadoul Georges 101 Sainati Augusto 42 Sanguineti Tatti (Gaetano) 12, 20, 38, 63, 66, 139, 173, 197 Sannazaro Jacopo 134 Saroyan William 107, 111 Sartorio Giulio Aristide 136 Sartre Jean-Paul 112 Savitri 42 Scagnetti Aldo 151, 199 Scott Walter 124 Scotti Tino 33 Scotto d’Ardino Laurent 68 Segre Cesare 40 Sennett Mack 80 Serandrei Mario 3, 138, 144

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Serato Massimo 38 Serena Gustavo 8 Sereni Emilio 17 Servetti Lorenza 3 Sesti Mario 38 Simonelli Giorgio 162, 165, 201 Siti Walter 3, 64 Smith Anthony 4, 9 Solaroli Libero 47, 48, 61, 62, 143, 144, 152-155 Soldati Mario 13, 75, 78, 162, 165, 200, 210 Somarè Marilea 32 Sonnino Sidney 185 Sorlin Pierre 11, 15 Spinazzola Vittorio 19, 43, 48, 49, 62, 173 Steinbeck John 107, 127 Stendhal (Henri-Marie Beyle) 112, 200 Steno (Stefano Vanzina) 25, 88, 100, 166 Steno Flavia 78 T Tamburella Paolo William e Armando William 50 Taramelli Ennery 21 Taviani Paolo e Vittorio 158, 172 Teocrito 134 Termine Liborio 52 Thackeray William Makepeace 200 Thompson Kristin 26 Tinazzi Giorgio 64 Toffetti Sergio 36 Togliatti Palmiro 20, 158, 188 Toland Gregg 136 Tosi Virgilio 44 Totò (Antonio De Curtis) 25, 28, 134, 166, 186, 191, 209, 214 Turigliatto Roberto 63 U Umberto II di Savoia 44 Ungari Enzo 8, 65

Urzì Saro 123, 130 V Valenti Osvaldo 189 Valli Alida 40 Vallone Raf 202 Van Gogh Vincent 106 Vancini Florestano 6 Vanel Charles 123 Venturini Franco 59 Verbaro Caterina 22, 23 Verdone Mario 41 Verga Giovanni 5, 8, 23, 55, 69, 76, 77, 79, 149-151, 155, 186, 199, 200 Vergano Aldo 3, 38, 95, 106, 112, 163, 165, 184, 185 Vernuccio Gianni 208 Vertov Dziga 179 Viazzi Glauco 11, 51, 52, 61, 117119, 131, 133 Vidor Charles 30 Vidor King 69, 74, 77, 121, 180 Vigni Franco 26 Vigorelli Giancarlo 57 Villa Federica 25 Visconti Luchino 3-5, 7, 10, 21, 23, 27, 30, 32, 39, 54, 56, 59, 60, 62, 69, 70, 75, 76, 80, 84, 85, 100, 117, 118, 121, 128, 134, 136, 137, 142, 151, 152, 155, 159, 163, 165, 169, 170, 172, 173, 185, 186, 198, 199, 206, 210, 211 Vittorini Elio 8, 21, 22, 63, 111, 159, 173 W Wagstaff Christopher 12, 20, 45, 55 Walsh Raoul 35 Waszyƒski Micha∏ 33 Welles Orson 90, 98 White Hayden 35 Wiene Robert 77 Wong Anna May 80

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Wood Sam 111 Woolf Stuart Joseph 172

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Z Zagarrio Vito 17, 30, 44, 67 Zampa Luigi 4, 13, 14, 18, 24, 25, 30, 33, 39, 50, 88, 95, 100, 156, 163, 165, 185, 206, 210, 214 Zancan Marina 22, 64

Zangrandi Ruggero 67, 148, 155 Zavattini Cesare 7, 16, 21-23, 2628, 30-32, 34, 41, 52, 54, 55, 58, 61, 64, 86, 87, 89, 91, 93, 94, 115, 118, 135, 169, 170, 185, 187, 190, 191, 197, 198 Zeffirelli Franco 205 Zeglio Primo 166 Zola Émile 78, 124, 200

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volumi pubblicati direzione di Alberto De Bernardi i prismi cinema Michele Fadda Il cinema contemporaneo. Caratteri e fenomenologia Veronica Innocenti, Guglielmo Pescatore Nuove forme della serialità televisiva

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Giovanni Guagnelini, Valentina Re Visioni di altre visioni: intertestualità e cinema Claudio Bisoni La critica cinematografica. Metodo, storia e scrittura i prismi letteratura Fabrizio Frasnedi, Alberto Sebastiani Lingua e cultura italiana. Studio linguistico e immaginario culturale Lucia Rodler Leggere il corpo. Dalla fisiognomica alle neuroscienze Stefano Calabrese Retorica del linguaggio pubblicitario Paola Vecchi Galli Sussidiario di letteratura italiana i prismi filosofia Raffaella Campaner La causalità tra filosofia e scienza i prismi storia contemporanea Matteo Pasetti Storia dei fascismi in Europa Vittorio Caporrella La famiglia. Un’istituzione che cambia

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Elda Guerra Storia e cultura politica delle donne Giovanni Gozzini, Giambattista Scirè Il mondo globale come problema storico Mirco Dondi L’Italia repubblicana: dalle origini alla crisi degli anni Settanta Andrea Baravelli L’Italia liberale Marica Tolomelli Sfera pubblica e comunicazioni di massa

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Maria Pia Casalena Il Risorgimento

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