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Italian Pages [249] Year 2017
lustrum Internationale Forschungsberichte aus dem Bereich des klassischen Altertums Herausgegeben von Marcus Deufert und Michael Weißenberger
band 58 2016
LUSTRUM INTERNATIONALE FORSCHUNGSBERICHTE AUS DEM BEREICH DES KLASSISCHEN ALTERTUMS
herausgegeben von MARCUS DEUFERT und MICHAEL WEISSENBERGER
Band 58 · 2016
Vandenhoeck & Ruprecht
Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über http://dnb.d-nb.de abrufbar. ISSN 2197-3849 ISBN 978-3-666-80234-8 Weitere Ausgaben und Online-Angebote sind erhältlich unter: www.v-r.de © 2017, Vandenhoeck & Ruprecht GmbH & Co. KG, Theaterstraße 13, D-37073 Göttingen / Vandenhoeck & Ruprecht LLC, Bristol, CT, U. S. A. www.v-r.de Alle Rechte vorbehalten. Das Werk und seine Teile sind urheberrechtlich geschützt. Jede Verwertung in anderen als den gesetzlich zugelassenen Fällen bedarf der vorherigen schriftlichen Einwilligung des Verlages. Satz: textformart, Göttingen | www.text-form-art.de
Inhalt La Scuola di Gaza, I. Coricio, Timoteo, Zaccaria: ca. 1930–2010 . . . . . . . . 7 (di Aldo Corcella / Potenza-Matera)
La Scuola di Gaza, I. Coricio, Timoteo, Zaccaria: ca. 1930–2010
di Aldo Corcella / Potenza-Matera A parte sporadiche schede all’interno di rassegne su argomenti generali (ad es. in quelle sulla prosa greca tarda e la letteratura bizantina curate da Alfred E b e r h a r d in JAW 2, 1873 [1876], 1323 e 5, 1876 [1878], 229, in riferimento a Coricio e T imoteo; in quella di Max S c h m i d t sulle scienze naturali in JAW 73, 1892 [1893], 67, ancora su Timoteo), la letteratura sui retori ascritti alla «scuola di Gaza», Procopio e Coricio in primis, venne più sistematicamente registrata e discussa, in JAW, dapprima, per gli anni 1882–1893, all’interno dei rendiconti su Griechische Rhetoren und spätere Sophisten di Caspar H a m m e r (JAW 46, 1886 [1888], 106–108; 83, 1895 [1896], 158–161), quindi in quelli sulla seconda sofistica curati per gli anni 1894–1904 da Wilhelm S c h m i d (JAW 108, 1901 [1902], 265–268; 129, 1906 [1907], 284–286) e per gli anni 1905–1915 da Karl M ü n s c h e r (JAW 149, 1910 [1911], 178–179; 170, 1915 [1917], 189–191); subentrò poi, per gli anni 1915–1930, Eberhard R i c h t s t e i g (JAW 216, 1928, 57–60; 234, 1932, 21–22; 238, 1933, 101–103) e Karl G e r t h rese infine conto (ma in maniera assai sommaria) della letteratura su Coricio per gli anni 1931–1938 in JAW 272, 1941, 133. Data però l’incompletezza di quest’ultimo repertorio, e poiché tra la fine degli anni ’20 e i primi anni ’30 del secolo scorso vennero pubblicate, per vari autori gazei, opere di sintesi che riassumevano i risultati del lavoro precedente e ponevano le basi di quello successivo, si è deciso di far partire la presente rassegna da una data che si colloca, in generale, attorno al 1930, scegliendo però – per alcuni autori – una data d’inizio corrispondente all’anno di uscita di opere specialmente significative, in modo da articolare la rassegna in maniera criticamente ragionata. Di conseguenza, la rassegna su Coricio partirà dal 1929, quella su Timoteo dal 1927, quella su Zaccaria dal 1932. Per alcuni autori per i quali manca totalmente una bibliografia critica (soprattutto Timoteo) renderemo comunque sommariamente conto anche della storia degli studi precedenti al termine iniziale prescelto; e ci spingeremo d’altra parte anche oltre il 2010, ma ovviamente senza pretesa di completezza, quando ci risultino contributi particolarmente rilevanti per le argomentazioni svolte. Si tenga comunque conto che il presente lavoro è stato completato nell’aprile 2014 e menziona contributi usciti in seguito solo se, a quell’epoca, essi già ci risultavano essere in corso di stampa; soprattutto per Coricio, la produzione scientifica si va continuamente accrescendo, ma potrà essere sistematicamente recensita solo in una futura rassegna che abbia il 2011 come anno di partenza. L’uso della formula convenzionale «scuola di Gaza» non intende implicare un’idea forzatamente unitaria delle attività svolte da alcuni intellettuali nati e in parte vissuti a Gaza tra la metà del V secolo e l’età di Giustiniano. Fermo restando che Procopio e
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Coricio, maestro e allievo, furono in successione a capo della scuola di retorica cittadina, più difficile è dire quali siano stati i rapporti di Enea con la stessa scuola; Giovanni, grammatico, rivela per parte sua nelle anacreontiche e nella Tabula mundi di essere stato effettivamente insegnante, mentre è più difficile dire se Timoteo, grammatico anch’egli, abbia avuto un reale ruolo di docente; quanto a Zaccaria, il suo ruolo, e il suo stesso rapporto con Gaza, risultano senz’altro marginali. Le sensibilità, le opzioni culturali, le stesse movenze stilistiche di questi autori non si lasciano del resto ricondurre a totale unità; anche se è per converso vero che le loro opere, e in particolare gli epistolari di Enea e Procopio, fanno intravedere una realtà intellettualmente vivace in cui retori, grammatici e poeti svolgono un ruolo sociale non indifferente e intrattengono fitte relazioni tra loro e con i maggiorenti cittadini, sì da giustificarne uno studio integrato, e quindi anche una trattazione bibliografica che li riunisca assieme. Non si è tuttavia ritenuto di dedicare una specifica sezione della presente rassegna agli studi complessivi sulla «scuola di Gaza» – che non sono peraltro molti: dopo il classico K. S e i t z , Die Schule von Gaza, Diss. Heidelberg 1892, a parte alcune trattazioni in manuali di letteratura e in opere generali sulla storia della città palestinese, si possono rammentare G . D o w n e y , The Christian Schools of Palestine: a Chapter in L iterary History, HLB 12, 1958, 297–325 e, più di recente, i quadri complessivi che si ricavano dagli atti di alcuni convegni (B . B i t t o n - A s h k e l o n y – A . K o f s k y (eds.), Christian Gaza in Late Antiquity, Leiden 2004; C . S a l i o u (éd.), Gaza dans l’Antiquité Tardive. Archéologie, rhétorique et histoire. Actes du colloque international de Poitiers, 6–7 mai 2004, Salerno 2005; erano in stampa mentre scrivevo, e sono usciti quando questo contributo era in bozze, gli atti del convegno «L’École de Gaza: Espace littéraire et identité culturelle dans l’Antiquité Tardive», Paris 23–25.V.2013). Una discussione puntuale di questi contributi si troverà sotto i singoli autori, soprattutto nella sezione su Coricio in questa prima parte e, nella seconda, in quella su Procopio, laddove si affronteranno anche alcune questioni di carattere generale.
Inhalt I. Coricio: 1929–2010 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 A. Il testo e la lingua . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13 1. L’edizione Foerster-Richtsteig . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13 2. Nuove edizioni, traduzioni, commenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16 3. Storia del testo e tradizione diretta e indiretta . . . . . . . . . . . . . 27 4. La lingua e lo stile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 38 5. Il ritmo della prosa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 41 6. Nuovi contributi al testo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 45 B. L’autore e la sua opera: per una storia delle interpretazioni . . . . . . . . 68 1. Vita e opere: trattazioni generali e cronologia . . . . . . . . . . . . . . 68 2. Lo studio delle opere di Coricio: i principali filoni . . . . . . . . . . 77 2.a. Coricio come fonte per la storia di Gaza e della Palestina nel VI secolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 77 2.b. Coricio come fonte sulle opere d’arte contemporanee . . . . . . 96 (i) Le menzioni di edifici e le descrizioni architettoniche . . . 101 (ii) Le descrizioni iconografiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 104 2.c. Coricio, il mimo, il teatro contemporaneo . . . . . . . . . . . . 108 3. La cultura e il mestiere di Coricio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 118 3.a. La cultura letteraria: citazioni, allusioni, reimpieghi, uso delle fonti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 119 (i) Citazioni, allusioni, reimpieghi . . . . . . . . . . . . . . . . . 127 (i.α) I poeti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 129 (i.α.1) L’epica arcaica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 129 (i.α.2) I poeti lirici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 130 (i.α.3) I poeti scenici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 133 (i.α.4) I poeti ellenistici . . . . . . . . . . . . . . . . . . 146 (i.β) I prosatori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 147 (i.β.1) Oratori e retori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 148 (i.β.2) Gli storici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 149 (i.β.3) Platone . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 151 (ii) Le fonti per l’argomentazione e per i temi delle declamazioni 152 3.b. Coricio e la tradizione retorica: i generi e le pratiche . . . . . . 155 (i) I generi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 158 (i.α) I logoi: discorsi funebri, nuziali, encomiastici, ekphraseis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 160 (i.β) Le dialexeis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 164 (i.γ) Le meletai . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 166 (ii) Le pratiche, gli atteggiamenti, il rapporto con il pubblico . . 169 4. Coricio e la società del suo tempo, tra antico e moderno: religione e ideologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 171 C. Bilancio e prospettive . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 177
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II. Timoteo: 1927–2010 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 180 A. Vita e opera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 185 1. Premessa: cenni sulla storia degli studi fino al 1927 . . . . . . . . . . 185 2. Gli studi generali sulla figura e l’opera di Timoteo dal 1927 ad oggi 190 B. Timoteo grammatico: l’‹Ortografia ad Arcesilao› . . . . . . . . . . . . 193 1. Premessa: cenni sulla storia degli studi fino al 1927 . . . . . . . . . . 193 2. Gli studi su Timoteo grammatico dal 1927 ad oggi . . . . . . . . . . 194 C. La «tragedia» per Anastasio sul crisargiro . . . . . . . . . . . . . . . . . 196 1. Premessa: cenni sulla storia degli studi fino al 1927 . . . . . . . . . . 196 2. Gli studi sulla «tragedia» dal 1927 ad oggi . . . . . . . . . . . . . . . 197 D. L’opera sugli animali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 200 1. Premessa: cenni sulla storia degli studi fino al 1927 . . . . . . . . . . 200 2. Gli studi sull’opera zoologica dal 1927 ad oggi . . . . . . . . . . . . . 208 III. Zaccaria: 1932–2010 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 221 A. La vita e la figura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 231 B. Le opere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 234 1. L’‹Ammonius› (CPG 6996) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 234 2. La ‹Vita Severi Antiocheni› (CPG 6999) . . . . . . . . . . . . . . . . 239 3. La ‹Vita Isaiae› (CPG 7000), la ‹Vita Petri Iberi› (CPG 7001), la ‹Vita Theodori Antinoes› . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 243 4. I ‹Capita VII contra Manichaeos› (CPG 6997) e l’‹Adversus Manichaeos› o ‹Antirrhesis› (CPG 6998) . . . . . . . . . . . . . . . 245 5. L’‹Historia Ecclesiastica› (CPG 6995) . . . . . . . . . . . . . . . . . . 246
I. Coricio: 1929–2010 Si è scelto come esatto punto d’inizio del rendiconto su Coricio il 1929, anno che vide uscire per i tipi della Teubner l’edizione lasciata manoscritta da Richard F o e r s t e r e curata per la stampa dal suo allievo Eberhard R i c h t s t e i g . Lo stesso R i c h t s t e i g rese in verità conto dell’edizione e delle sue principali recensioni, nonché di ulteriori contributi per il periodo 1926–1930, all’interno della rassegna sulla seconda sofi stica in JAW 238, 1933, 102–103; e ancora Karl G e r t h , nella rassegna per gli anni 1931–1938, dedicò una pagina a Coricio (JAW 272, 1941, 133), nella quale si limitò però a riassumere un solo articolo (quello di A b e l che riporteremo più sotto al nr.18; le indicazioni bibliografiche di queste ultime due rassegne sono di peso riprese dallo stesso G e r t h in RE Supplb. VIII [1956] 743). Cionondimeno, la natura di vero spartiacque dell’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g , sintesi e coronamento di una grande stagione di riscoperta e studio (di cui i Prolegomena rendono ampiamente conto, con ricchezza di informazione bibliografica) e nel contempo premessa per tutte le nuove ricerche su Coricio, induce chi intenda tracciare una bibliografia critica e ragionata a prendere comunque le mosse da essa. Come punto terminale, mi spingerò, senza pretese di completezza, anche oltre il 2010 qualora al momento della scrittura mi fossero risultati contributi significativi, anche eventualmente in corso di stampa (renderò in particolare conto dei saggi che mi erano già noti, mentre scrivevo, come in via di pubblicazione negli atti del convegno «L’École de Gaza: Espace littéraire et identité culturelle dans l’Antiquité Tardive» tenutosi a Parigi dal 23 al 25 maggio 2013, e sono usciti quando il presente contributo era in bozze); si rammenti in ogni caso che la stesura è stata completata nell’aprile 2014. Mi sono proposto non solo di esaminare gli studi più specificamente dedicati a Coricio ma anche di fornire un quadro critico, organizzato per temi e problemi, dei vari modi in cui la sua opera è stata usata negli ultimi ottant’anni da storici, storici dell’arte e studiosi di letteratura. In una tale prospettiva, era naturalmente impensabile registrare in modo completo ogni singola trattazione, ancorché cursoria, di Coricio o di passi della sua opera e mi sono limitato a quelle a mio giudizio più significative, talora offrendo solo alcuni esempi di linee di tendenza. Non sono certo di essere sfuggito al rischio di aver trascurato qualche contributo rilevante (del che preventivamente mi scuso con gli autori e i lettori) e soprattutto della produzione in lingua ebraica ho purtroppo una conoscenza parziale (segnalo en passant che – conformemente a un uso invalso presso gli stessi studiosi israeliani – citerò i titoli nella versione inglese quando questa sia disponibile nei frontespizi, nei sommari o negli indici, altrimenti userò trascrizioni semplificate); ma le omissioni sarebbero sicuramente state ben più gravi senza l’aiuto di amici e colleghi che mi hanno consentito di accedere a titoli non facilmente reperibili.1 Se talora mi soffermerò a segnalare quelli che mi appaiono errori non è per 1 Oltre Eugenio Amato, cui si deve il progetto dell’intera rassegna e con il quale è inesauri bile il debito di amicizia, ringrazio in particolare Michele Bandini (Potenza), Franco Basso (Cam bridge), Edoardo Bona (Torino), Benedetto Bravo (Varsavia), Raffaella Cantore (Potenza), Vincenzo
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pedante velleità censoria, ma per evitare, nei limiti del possibile, che essi vengano ripetuti e perpetuati: esigenza tanto più necessaria quando essi compaiano, come sempre è possibile, in opere importanti e di sicuro valore, la cui autorità rischierebbe di causarne, in assenza di opportune segnalazioni, la diffusione a macchia d’olio. Segnalo inoltre che, distaccandomi dalla prassi solitamente seguita nelle rassegne di Lustrum, nel caso di Coricio ho scelto di registrare le recensioni con numero proprio, data la notevole importanza che non poche tra esse (a partire da quelle di M a a s e S y k u t r i s all’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g ) hanno avuto nella storia degli studi e la conseguente necessità di citarle e discuterle spesso. Comprenderò nella lista numerata e esaminerò nel dettaglio anche quelle dissertazioni che, pur non essendo state sviluppate in forma di libro pubblicato, abbiano avuto una più ampia circolazione o comunque siano state citate e discusse dagli studiosi (ved. i nrr. 34 e 122), mentre mi limiterò a riportare in nota e a menzionare tutt’al più talora cursoriamente le altre cui ho avuto accesso o di cui ho comunque notizia (ved. infra, nn.5 e 6): mi pare di rispettare, in questo modo, la volontà degli autori che hanno scelto di non pubblicare in forma compiuta e di non diffondere i loro risultati. Data la notevole estensione temporale della presente rassegna, mi sono talvolta trovato a dover rendere conto di opere che gli autori avevano nel tempo variamente rivisto e corretto, producendone edizioni talora assai diverse tra loro, nelle quali veniva anche a mutare il modo in cui Coricio era usato e recepito; in tali casi è parso opportuno registrare le successive riedizioni sotto lo stesso numero, distinguendole però con l’aggiunta di lettere dell’alfabeto in ordine progressivo; laddove invece si abbiano solo ristampe, o eventualmente traduzioni, o anche nuove edizioni in cui le correzioni o aggiunte d’autore non risultino quanto a Coricio specialmente rilevanti, mi sono limitato a segnalarne parenteticamente l’esistenza, indicando comunque in genere nella discussione, nel caso di diversa impaginazione, la corrispondenza delle pagine di volta in volta citate. Le opere coriciane saranno citate secondo la numerazione romana progressiva dell’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g , aggiungendo ai paragrafi anche le pagine e i righi quando appaia necessario far riferimento a singole parole o a pericopi molto brevi (ad es. [op.] XL 75, p.497,18). In taluni casi, per indicare alcune opere nel loro complesso, risulterà opportuno aggiungere, al numero d’ordine (romano) dell’opera anche la corrispondente numerazione (araba) relativa ai singoli generi (ad es. op.VII or.6; op.IX dial.5; op.X decl.1). Per le opere I–III, dato che nell’edizione di riferimento i logoi e le dialexeis che li precedono vengono accorpati ma hanno numerazione dei paragrafi indipendente (ved. infra, A.6), per rendere le citazioni inequivoche non si indicherà solo il numero romano dell’opera ma lo si farà di norma seguire dall’ulteriore specificazione dial(exis) o or(atio) con il numero arabo corrispondente, scrivendo quindi, ad es., (op.)I dial.1, 1 o (op.)I or.1, 1. Per un elenco completo delle Capozzoli (Parigi), Matteo Deroma (Nantes), Joseph Geiger (Gerusalemme), Gábor Korchmáros (Potenza), Ariel S. Lewin (Potenza), Gianfranco Nuzzo (Palermo), Inmaculada Pérez Martín (Madrid), Maria Chiara Monaco (Potenza/Atene), Tomasz Polański (Cracovia), Antonio Stramaglia (Cassino), Elżbieta Szabat (Varsavia), Chiara Telesca (Potenza/Innsbruck), Pietro Vannicelli (Roma), Zeev Weiss (Gerusalemme).
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opere coriciane nella sequenza in cui sono pubblicate nell’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g si veda la sezione A.6; per una definizione dei generi di appartenenza la sezione B.3.b.i. A. Il testo e la lingua 1. L’edizione Foerster-Richtsteig 1. Choricii Gazaei Opera, recensuit R . F o e r s t e r , editionem confecit E . R i c h t s t e i g , Lipsiae 1929 (rist. an. Stutgardiae 1972). 2. Rec. anonima di Choricii Gazaei Opera [1], JHS 49, 1929, 307. 3. P . M a a s , rec. di Choricii Gazaei Opera [1], ByzZ 29, 1929/30, 39–40. 4. E . A b e l , rec. di Choricii Gazaei Opera [1], Byzantion 5, 1929/30, 671–673. 5. Rec. anonima di Choricii Gazaei Opera [1], BAGB(SC) 1930, 172–179. 6. G . M i d d l e t o n , rec. di Choricii Gazaei Opera [1], CR 44, 1930, 43. 7. G . S e u r e , rec. di Choricii Gazaei Opera [1], RPh s.III 4, 1930, 283. 8. J . S y k u t r i s , rec. di Choricii Gazaei Opera [1], DLZ 1930, 1839–1843. 9. E . W ü s t , rec. di Choricii Gazaei Opera [1], BBG 66, 1930, 279. 10. G . L e h n e r t , rec. di Choricii Gazaei Opera [1], PhW 51, 1931, 411. 11. P . S h o r e y , rec. di Choricii Gazaei Opera [1], CPh 26, 1931, 452. 12. P . M a a s , Φρυνή, ZVS 58, 1931, 125–127 (rist. in: I d . , Kleine Schriften, hrsg. v. W. B u c h w a l d , München 1973, 230–233). 13. E . R i c h t s t e i g , Zu Libanios und Chorikios, PhW 64, 1944, 47. 14. W. U n t e , Richard Foerster (1843–1922). Sein wissenschafliches Werk in der klassischen Altertumswissenschaft, Kunstgeschichte und Kulturgeschichte Schlesiens, Jahrbuch der Schlesischen Friedrich-Wilhelms-Universität zu Breslau 25, 1984, 249–272. 15. E . A m a t o , Aperçus sur la tradition manuscrite des Discours de Chorikios de Gaza et état de la recherche, in: C . S a l i o u (éd.), Gaza dans l’Antiquité Tardive. Archéologie, rhétorique et histoire. Actes du colloque international de Poitiers, 6–7 mai 2004, Salerno 2005, 93–116. 16. C . Te l e s c a , Contributi al testo di Coricio di Gaza nell’epistolario di R ichard Foerster, Eikasmos 25, 2014, 241–255. Richard F o e r s t e r (Görlitz 2.III.1843 – Breslau/Wrocław 7.VIII.1922)2 era arrivato allo studio di Coricio nel corso dei lavori preparatori alla grande edizione libaniana e fra il 1882 e il 1901 aveva pubblicato vari testi inediti del retore gazeo, 2 Su F o e r s t e r , dopo P . M a a s , Byzantinisch-Neugriechische Jahrbücher 3, 1922, 447 e E . R i c h t s t e i g , Biographisches Jahrbuch für die Altertumswissenschaft 43, 1923, 34–47, si veda soprattutto il saggio biografico di U n t e (14); ulteriori dati in T e l e s c a (16).
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accompagnati da studi fondamentali (sintesi in U n t e [14, 255–256]). Grazie anche a una fitta corrispondenza con altri filologi e affidando a suoi allievi una serie di dissertazioni aveva man mano migliorato le prime edizioni parziali e approfondito le conoscenze su Coricio, in vista di una edizione complessiva che, annunciata fin dagli anni ’90 dell’800 (ad es. tra i «künftig erscheinende Bücher» in Mitteilungen der Verlags buchhandlung B. G. Teubner in Leipzig 1894, 2/3, 42), alla sua morte nel 1922 rimaneva però allo stato di manoscritto, concresciuto nel tempo, a tratti incompleto e non perfettamente rifinito, ancorché già inviato all’editore, probabilmente nella prospettiva di un perfezionamento e di una revisione generale in fase di bozze. Toccò quindi al suo allievo Eberhard R i c h t s t e i g (Polkwitz/Polkowice 8.X.1892 – Stadtlohn 24.V.1962), docente ginnasiale, dal 1927 a Brieg/Brzeg,3 completare il manoscritto, curando in particolare la prima fascia di apparato contenente i luoghi imitati da Coricio e vari altri ausili esegetici, fino a pubblicare l’edizione nel 1929 (si veda quanto lo stesso R i c h t s t e i g dice nella Praefatio [1, III–IV]). R i c h t s t e i g non riuscì, in realtà, ad eliminare varie incongruenze: oscillante restava l’ortografia (ved. infra, A.4); e alcune indicazioni fornite nei Prolegomena (soprattutto 1, XXXII) nonché la stessa lista di abbreviazioni (1, XXXVI) non rendevano totalmente conto di quanto F o e r s t e r aveva talora ellitticamente indicato nell’apparato. Su alcuni di questi aspetti si sofferma, ora, Te l e s c a (16), che ha peraltro individuato, nella Biblioteca Universitaria di Wrocław, le lettere con le quali vari filologi comunicarono a Foerster congetture, mai altrimenti pubblicate, che vennero riportate in apparato col solo nome dell’autore (e ha chiarito come lo scritto di B e r n a r d a k i s citato da F o e r s t e r che R i c h t s t e i g non era riuscito a vedere [1, 574] sia l’articolo Χορικίου σοφιστοῦ λόγοι ἀνέκδοτοι, pubblicato nella rivista triestina Νέα Ἡμέρα, nei numeri 1047, 4/23.I.1895, 1–2 e 1048, 11/30.I.1895, 1–2, nonché come estratto a parte; l’identificazione era già stata fornita, sulla base di un’indicazione del figlio di B e r n a r d a k i s , da S y k u t r i s [8, 1840]). Alcuni difetti almeno in parte spiegabili con l’assenza di revisione da parte di F o e r s t e r , che il lavoro di R i c h t s t e i g non valse ad emendare o addirittura aggravò, furono invero individuati già dai primi recensori. S y k u t r i s (8, 1841–1842), in particolare, notò come R i c h t s t e i g avrebbe potuto alleggerire l’apparato, eliminando banalità ortografiche e semplificando le indicazioni (ma – si può obiettare – avrebbe così tradito lo stile del maestro: si veda come questi reagì ad alcune analoghe critiche di M a a s nella prefazione al VII volume dell’edizione libaniana, Lipsiae 1913, VII–VIII), in modo da rendere l’edizione più facile da consultare e anche meno costosa (un accenno al prezzo eccessivo del volume, ben comprensibile in anni di crisi economica, fu fatto anche da S e u r e [7]), e come F o e r s t e r , se avesse potuto ri 3 Per i dati biografici su Johannes Arthur Eberhard R i c h t s t e i g , addottoratosi sotto la guida di F o e r s t e r nel 1918 con la dissertazione Libanius qua ratione Platonis operibus usus sit, si vedano la Personalkarte e il Personalbogen riprodotti sul sito e inoltre Deutsches Geschlechterbuch 153, 1970, 190 (non ho potuto direttamente vedere il volume Brieg. Stadt und Landkreis, Goslar 1964 [un estratto è reperibile alla pagina ], né W . I r r g a n g , Neue Geschichte der Stadt Brieg, 1740–1980, Goslar [1980]).
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vedere le bozze, avrebbe verosimilmente rinunciato «bei der Korrektur» ad alcune emendazioni inutili. D’altra parte S h o r e y (11) osservò come non tutti i loci indicati nella prima fascia di apparato fossero realmente pertinenti (ne riparleremo); non rari sono del resto, nell’apparato, gli errori, solo in parte emendati negli Addenda et corrigenda. Per quanto riguarda la costituzione del testo, alla base dell’edizione era un inventario amplissimo della tradizione manoscritta; ma a fronte della grande attenzione riservata al fondamentale Matritense 4641, olim N-101 (M), codex unicus per varie opere, i recensori notarono, per le opere a tradizione multipla, una attenzione minore per gli altri manoscritti, non tutti collazionati integralmente e talora sottovalutati (5, 176–178), e il fatto che gli stemmi disegnati nei Prolegomena non venissero motivati con l’indicazione di errori congiuntivi e separativi (3, 39; 9, 1841; 10); del resto, per alcune opere (specialmente dialexeis) nessuno stemma veniva delineato e il comportamento ecdotico di F o e r s t e r restava quindi sostanzialmente eclettico. I recensori, in ogni caso, salutarono con favore la comparsa di un’edizione che, dopo una serie di pubblicazioni disperse e parziali, consentiva di leggere insieme l’intero corpus coriciano, definito e organizzato in forma criticamente fondata, e finalmente sostituiva l’edizione curata da Jean François B o i s s o n a d e nel 1846 (Chori cii Gazaei Orationes declamationes fragmenta, Parisiis), al contempo incompleta e però sovrabbondante di pezzi non coriciani: in particolare, l’edizione teubneriana definitivamente escludeva dal novero delle opere di Coricio quegli scritti di Procopio che in precedenza, sulla scia di M a i , gli erano stati attribuiti ma che lo stesso F o e r s t e r e il suo allievo Kurt K i r s t e n (Quaestiones Choricianae, Breslauer philologische Ab handlungen 7.2, 1894, 51–59) avevano restituito al loro legittimo autore, nonché di una monodia che proprio F o e r s t e r aveva rivelato essere di Niceforo Basilace (Phil. 54, 1895, 93–94; ved. anche infra, A.3); e per converso attribuiva definitivamente a Coricio tre declamazioni (Patroclus, Infanticida e Rhetor) e alcune dialexeis tramandate anche o esclusivamente nel corpus libaniano e sulla cui paternità lo stesso F o e r s t e r aveva a lungo esitato. Già solo per questo, di conseguenza, tutti i recensori sostanzialmente lodarono l’opera di F o e r s t e r e le cure di R i c h t s t e i g , sia che compilassero brevi schede informative (2, 6, 7, 9, 11) sia che entrassero con maggior competenza nei problemi, sollevando magari qualche riserva anche su aspetti non meramente formali (3, 4, 5, 8, 10). In questo secondo gruppo brillano specialmente la già citata recensione di Ioannis S y k u t r i s (8) e quella di Paul M a a s (3; qui si legge già l’annuncio delle ulteriori osservazioni sulla accentazione Φρυνή e il ritmo della prosa coriciana pubblicate, a complemento, subito dopo [12]); non si può, in effetti, non restare ammirati per come i due grandi filologi furono in grado, a prima lettura, di affrontare tutti i problemi dell’arte coriciana e di proporre immediatamente vere messi di efficaci congetture e illuminanti osservazioni.4 Vari importanti spunti pre 4 Sull’importante figura di Ioannis S y k u t r i s si veda L . L e h n u s , Incontri con la filolo gia del passato, Bari 2012, 670–677. Sarebbe prezioso poter disporre dell’esemplare dell’edizione F o e r s t e r - R i c h t s t e i g su cui M a a s verosimilmente annotò, come era suo costume, le proprie osservazioni; tra i libri e le carte maasiane superstiti esso però non si trova ed è possibile che sia
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senti nelle recensioni, che mettevano in luce alcuni punti più deboli nell’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g ma spesso sono rimasti purtroppo ignorati negli studi successivi, saranno ripresi nelle sezioni seguenti. Pregi e limiti dell’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g sono ora discussi in dettaglio da A m a t o (15): ne tratteremo più ampiamente nelle sezioni successive. Nel 1944 R i c h t s t e i g (13) rese noto di aver donato il manoscritto di F o e r s t e r , assieme a un index verborum da lui stesso compilato tra il 1927 e il 1928, alla biblioteca cittadina di Breslau. A quanto risulta dai cataloghi, materiali dell’edizione foersteriana e l’Index vocum phrasiumque in Choricio notabilium sono oggi conservati presso la Biblioteca Universitaria di Wrocław (segnatura Akc 1968/0250). 2. Nuove edizioni, traduzioni, commenti 17. R . H a m i l t o n , Two Churches of Gaza, as described by Choricius of Gaza, PalEF 1930, 178–191. 18. F . - M . A b e l , Gaza au VIe siècle d’après le rhéteur Chorikios, RBi 40, 1931, 5–31. 19. H . L e c l e r c q , art. Panégyrique, in: Dictionnaire d’Archéologie Chrétienne et de Liturgie XIII 1, Paris 1937, 1016–1046 20. F . - M . A b e l , L’île de Jotabé, RBi 47, 1938, 510–538. 21. E . J . E d e l s t e i n – L . E d e l s t e i n , Asclepius. A Collection and Interpretation of the Testimonies, Baltimore 1945 (rist. Baltimore – London 1998). 22. G . D o w n e y , Appendix. Description of the Church of St. Stephen at Gaza by Choricius, Sections 37–46, in: E . B a l d w i n - S m i t h , The Dome: a study in the history of Ideas, Princeton 1950 (= 294), 155–157. 23a. S . T i m p a n a r o , La filologia di Giacomo Leopardi, Firenze 1955; b. La filologia di Giacomo Leopardi, seconda edizione riveduta e ampliata, Roma-Bari 1977 (terza edizione riveduta con Addenda, Bari-Roma 1997). 24. A . P e r o s a – S . T i m p a n a r o j r . , Libanio (o Coricio?), Poliziano e Leopardi, SIFC 37–38, 1956, 411–425 (rist. in: A . P e r o s a , Studi di filologia umanistica. I. Angelo Poliziano, a cura di P . V i t i , Roma 2000, 125–139). 25. G . D o w n e y , Gaza in the Early Sixth Century, Norman 1963. 26a. S . T i m p a n a r o , La genesi del metodo del Lachmann, Firenze 1963; b. Die Entstehung der Lachmannschen Methode, 2. erweiterte und überarbeitete Auflage, Hamburg 1971; c. La genesi del metodo del Lachmann, seconda edizione riveduta e ampliata, Padova 1981 (prima ristampa corretta con aggiunte 1985; seconda ristampa 1990); d. La genesi del metodo del Lachmann. Con una presentazione e una postilla di
andato perduto quando M a a s fu costretto all’esilio (ved. le liste pubblicate da L e h n u s in QS 71, 2010, 221–272, ora in Incontri con la filologia del passato cit., 735–792; né in seguito è emerso nulla di nuovo, come Luigi Lehnus cortesemente mi comunica).
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E . M o n t a n a r i , Torino 2003 (rist. 2010); e. The Genesis of Lachmann’s Method. Edited and translated by G. W. M o s t , Chicago – London 2005. 27. L. A. F r e j b e r g , Chorikij, in Pamjatniki vizantijskoj literatury IV–IX vekov, otv. red. L . A . F r e j b e r g , Moskva 1968, 151–156, 333–334 28. Giacomo Leopardi. Scritti filologici (1817–1832), a cura di G . P a c e l l a – S . T i m p a n a r o , Firenze 1969. 29. C . M a n g o , The Art of the Byzantine Empire 312–1453. Sources and documents, Englewood Cliffs, N. J. 1972. 30. Testimonianze per la teoria artistica di Lisippo. A cura di P. M o r e n o , Treviso 1973. 31. P . M o r e n o , Lisippo, I, Bari 1974. 32. H . M a g u i r e , The «Half-Cone» Vault of St. Stephen at Gaza, DOP 32, 1978, 319–325 (rist. in: I d . , Rhetoric, nature and magic in Byzantine art, Aldershot 1998, nr.III). 33. G . B . A l b e r t i , Problemi di critica testuale, Firenze 1979. 34. F . K . L i t s a s , Choricius of Gaza. An approach to his work, introduction, translation, commentary, Diss. University of Chicago 1980. 35. M . G u a r d i a , Choricius, Laudatio Marciani, in: J . Y a r z a , M . G u a r d i a , T . V i c e n s (a cargo de), Arte Medieval I. Alta Edad Media y Bizancio, Barcelona 1982, 129–140. 36. D . A . R u s s e l l , Greek Declamation, Cambridge 1983. 37. P h . M a y e r s o n , Choricius of Gaza on the Water Supply System of Caesarea, IEJ 3, 1986, 269–272. 38. Χορικίου σοφιστοῦ Γάζης Συνηγορία μίμων. Εἰσαγωγή, κείμενο, μετάφραση, σχόλια από Ι . Ε . Σ τ ε φ α ν ή , Θεσσαλονίκη 1986. 39. A . S i d e r a s , rec. di Stefanis, Συνηγορία μίμων (38), Hellenica 38, 1987, 185–190. 40. A . M . R a b e l l o , Giustiniano, Ebrei e Samaritani alla luce delle fonti storico-letterarie, ecclesiastiche e giuridiche I, Milano 1987. 41. B . F l u s i n , rec. di Stefanis, Συνηγορία μίμων (38), REB 46, 1988, 246. 42. A . M a r t i n , rec. di Stefanis, Συνηγορία μίμων (38), AC 58, 1989, 302. 43. S . L o n g o s z , Teoria dramatu w pismach autorów wczesnochrześcijańskich. Wybór tekstów, opracowanie, noty i wstęp, in: E . U d a l s k i a (red.), O dramacie. Wybór źródeł do dziejów teorii dramatycznych. [T. 1:] Od Arystotelesa do Goethego. Poetyki, manifesty, komentarze, Warszawa 1989, 113–152 (*Katowice 20012 , 123–151). 44. A . C o r s o , Prassitele: Fonti epigrafiche e letterarie. Vita e opere. Tomo III. Fonti letterarie bizantine (circa 470 – XIII sec.), Roma 1991. 45. A . S t e w a r t , Faces of Power. Alexander’s Image and Hellenistic Politics, Oxford 1993.
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46. J . S c h n e i d e r , rec. di Stefanis, Συνηγορία μίμων (38), REG 107, 1994, 314–315. 47. H . G . T h ü m m e l , Die Schilderung der Sergioskirche in Gaza und ihrer Dekoration bei Chorikios von Gaza, in: U . L a n g e – R . S ö r r i e s (Hrsg.), Vom Orient bis an den Rhein: Begegnungen mit der Christlichen Archäologie: Peter Poscharsky zum 65. Geburtstag, Dettelbach 1997, 49–64. 48. R . P u m m e r , Early Christian Authors on Samaritans and Samaritanism: Texts, Translations and Commentary, Tübingen 2002. 49. Y . A s h k e n a z i , Sophists and priests in late antique Gaza, as reflected in the writings of the Rhetor Chorikius, in: B . B i t t o n - A s h k e l o n y – A . K o f s k y (eds.), Christian Gaza in Late Antiquity, Leiden 2004, 195–208. 50. P . Š í p o v á , Chorikios z Gazy. Obhajoba herců aneb Obrana mimu ve jménu Dionýsa, Divadelní revue 18/2, 2007, 117–130. 51. A . C o r c e l l a , L’Epitafio per Procopio di Coricio: qualche commento, in: P . E s p o s i t o – P . V o l p e C a c c i a t o r e (a cura di), Strategie del commento ai testi greci e latini. Atti del Convegno [Fisciano, 16–18 novembre 2006], Soveria Mannelli 2008, 153–178. 52. A . W. W h i t e , Glocality, Byzantine Style: A Study in Pre-Electronic Culture, Journal of Dramatic Theory and Criticism 23, 2009, 67–76. 53. R . J . P e n e l l a (ed.), Rhetorical exercises from late antiquity. A translation of Choricius of Gaza’s «Preliminary talks» and «Declamations», Cambridge 2009. 54. J . A . F e r n á n d e z D e l g a d o , rec. di Penella, Rhetorical exercises from late antiquity (53), Plekos 12, 2010, 47–53. 55. C . G r e c o , rec. di Penella, Rhetorical exercises from late antiquity (53), Prometheus 36, 2010, 187–190. 56. H . W a d d e l l G r u b e r , rec. di Penella, Rhetorical exercises from late antiquity (53), BMCRev 2010.10.02. 57. D . W e s t b e r g , rec. di Penella, Rhetorical exercises from late antiquity (53), Rhetorical Review 8.2, 2010, 7–11. 58. Coricio di Gaza, Discorso funebre per Procopio: introduzione, traduzione e note di A . C o r c e l l a , in: E . A m a t o (a cura di), Rose di Gaza. Le Epistole e gli scritti retorico-filosofici di Procopio di Gaza, Alessandria 2010 (= 268), 507–527. 59. R . M a z z a , Choricius of Gaza, Oration XIII: Religion and State in the Age of Justinian, in: R. M. F r a k e s , E . D e P a l m a D i g e s e r , J . S t e p h e n s (eds.), The Rhetoric of Power in Late Antiquity: Religion and Politics in Byzantium, Europe and the early Islamic World, London-New York 2010, 172–193. 60. J . S t e n g e r , Chorikios und die Ekphrasis der Stephanoskirche von Gaza: Bildung und Christentum im städtischen Kontext, JbAC 53, 2010, 81–103. 61. Coricio di Gaza, Due orazioni funebri (orr. VII–VIII Foerster, Richtsteig), introduzione, testo critico, traduzione e commento a cura di C . G r e c o , Alessandria 2010.
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62. S . L u p i , Coricio di Gaza, XVII (= decl. 4) F.-R.: Milziade. Introduzione, traduzione e commento, Freiburg i. Br. - Wien, 2010. 63. C . G r e c o , Late Antique Portraits: Reading Choricius of Gaza’s Encomiastic Orations (I – VIII F.-R.), WS 124, 2011, 95–116. 64. S . L u p i , rec. di G r e c o , Due orazioni funebri (61), BMCRev 2011.12.41. 65. A . C o r c e l l a , rec. di G r e c o , Due orazioni funebri (61), Eikasmos 23, 2012, 512–520. 66. C . G r e c o , rec. di L u p i , Coricio di Gaza, XVII (62), Eikasmos 24, 2013, 434–440. 67. A . W h i t e , Mime and the Secular Sphere: Notes on Choricius’ Apologia Mimorum, in: M . V i n z e n t – K . S c h l a p b a c h (eds.), Papers presented at the Sixteenth International Conference on Patristic Studies held in Oxford 2011. 8. New Perspectives on Late Antique spectacula (Studia Patristica LX), Oxford 2013, 47–59. 68. Procope de Gaza. Discours et fragments. Texte établi, introduit et commenté par E . A m a t o , avec la collaboration de A . C o r c e l l a et G . V e n t r e l l a , Paris 2014. Cfr. 15. Per convenienza espositiva e argomentativa, è opportuno passare preliminarmente in rassegna le edizioni di opere coriciane successive alla grande edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g , assieme alle traduzioni e ai commenti; accennerò anche a come e quanto queste edizioni abbiano da un lato recepito, dall’altro prodotto nuovi risultati sulla tradizione manoscritta e la storia del testo di Coricio, tali da modificare il quadro tracciato da F o e r s t e r , ma queste indicazioni saranno quindi ulteriormente sviluppate nelle sezioni seguenti. Nel 2005 Eugenio A m a t o (15, spec. 93–96) ben notò come l’apprezzamento in genere espresso per l’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g non avesse incoraggiato nuove iniziative ecdotiche, sebbene alcuni limiti di tale edizione le richiedessero, e come scarseggiassero anche commenti e traduzioni; dopo il 2005 vi sono state nuove edizioni, traduzioni e commenti, ma permangono serie lacune. Nel 1956 Alessandro P e r o s a e Sebastiano T i m p a n a r o pubblicarono un’edi zione critica della dialexis sulla rosa, op.XXXIX dial.24 (24). L’iniziativa non nasceva da uno specifico interesse per l’opera di Coricio (gli autori esprimevano del resto dubbi sull’attribuzione dell’operetta al retore di Gaza piuttosto che a Libanio; ma che tali dubbi siano eccessivi è mostrato sia dalle somiglianze stilistiche con le altre dialexeis coriciane sia dalla collocazione nel codice atonita, ved. infra, A.3); essa era invece maturata nell’ambito delle ricerche dai due studiosi condotte su Poliziano, che aveva variamente usato la composizione (ved. infra, A.3), e sull’attività filologica di Giacomo Leopardi, che nel 1823 l’aveva trascritta da alcuni fogli barberiniani (la trascrizione leopardiana, già pubblicata dal M o r o n c i n i , venne poi meglio edita nel 1969 da T i m p a n a r o e P a c e l l a tra gli scritti filologici di Leopardi [28, spec. 443 e 4 62–466]; cfr. anche 23a, 130–132 = 23b, 90–91). D’altra parte, si trattò in certo
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modo di un esercizio filologico: all’eclettismo di F o e r s t e r , giustamente stigmatizzato, P e r o s a e T i m p a n a r o contrapposero una rigorosa ricostruzione stemmatica, tale da rendere almeno in parte meccaniche le scelte ecdotiche (si veda infra, A.6); il testo coriciano così edito potè di conseguenza essere citato in saggi teorici come esempio di tradizione con stemma a più di due rami e «recensione chiusa» o «meccanica» (così lo stesso T i m p a n a r o già nel 1963 [26a, 124 = 26b, 129 (qui con la grafia «Coricius»!)] e quindi in forma più precisa, dopo le riflessioni svolte da A l b e r t i [33, 29], a partire dal 1981 [26c, 149 n.60 = 26d, 160 n.60 = 26e, 186 n.60, cfr. 229 (qui con la grafia «Corycius»!)]). Per una successiva edizione critica di un testo coriciano occorre attendere il 1986, quando Ioannis E. S t e f a n i s (38) dà alle stampe, con traduzione neogreca a fronte e ricche note di commento (pp.147–195), l’Apologia mimorum (op.XXXII or.8), cui in verità viene assegnato il titolo di συνηγορία μίμων, scelta che fu variamente commentata dai recensori (39; 41; 42; 46) e che discuteremo nella sezione A.6. L’autore, che aveva studiato con Grigoris M. S i f a k i s , ricevette l’impulso a occuparsi del testo coriciano da Rudolf K a s s e l , e il volume, alla cui revisione diede il suo contributo anche Agapitos G. T s o p a n a k i s , è presentato come frutto della volontà di far conoscere il testo coriciano al pubblico colto greco (pp.11–12): alla base, come ben mostra l’introduzione (pp.17–49, spec. 19–32), vi è quindi principalmente quell’interesse per il contenuto dell’Apologia mimorum e il suo valore come testimonianza sul teatro di cui ci occuperemo in seguito (B.2.c), ma anche dal punto di vista ecdotico e filologico si tratta di opera originale che migliora in non pochi punti il testo di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g . In quattro passi, in particolare, indicati nell’introduzione (p.46 n.52), vengono apportate correzioni alle letture che F o e r s t e r diede di M, codex unicus, e la collazione del manoscritto (non accessibile a S i d e r a s [39, 187 n.7]) compiuta su riproduzione fotografica da chi scrive mostra che S t e f a n i s ha in effetti ragione nell’indicare le lezioni di M in th. 1, p.344,4 (il corretto μὲν, non μὴ), in 3, p.345,19–20 (τοῦ τοὺς μὲν, non τοῦ μὲν τοὺς: ved. infra, A.6) e in 97, p.366,6 (ἐνϊαυτῶν piuttosto che ἔνι αὑτῶν), mentre in 115, p.370,23 il dubbio sul σύνους letto da Foerster non è giustificato; in genere, comunque, l’apparato giustamente rifugge dal riportare minuzie ortografiche (p.48 e n.60), anche se S i d e r a s (39, 188) nota che sarebbe potuto essere per quest’aspetto ancor più selettivo. Sul piano dell’emendatio, sempre S i d e r a s (39, 187) osserva come S t e f a n i s si mostri meno propenso ad accogliere correzioni rispetto a F o e r s t e r e R i c h t s t e i g , e però ne introduca di sue proprie, discutendo le principali cruces (ne tratteremo in dettaglio nella sezione A.6). Tra i pregi dell’edizione vi è l’arricchimento dei loci (qualche osservazione in proposito nella recensione di S c h n e i d e r [46], che si sofferma anche su problemi di lingua: ved. infra, A.4 e B.3.a) e le note di commento sono in genere informate ed equilibrate. La traduzione è nel complesso corretta, e mirante a rendere conto del senso più che dello stile: qualche riserva è espressa da S i d e r a s (39, 189–190) e S c h n e i d e r (46, 314). L’edizione dei due epitafi (opp.VII–VIII orr.6–7) curata nel 2010 da Claudia G r e c o (61) si fonda su un riesame dell’intera tradizione manoscritta: la studiosa, in particolare, in apparato a VII 1, p.99,14 segnala una lezione di M, sfuggita a F o e r s t e r , che a giudizio del recensore C o r c e l l a (65, 515) andrebbe accolta a testo (ved. infra,
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A.6); altre indicazioni sul testo di M divergenti dalla collazione di Foerster vengono al contrario giudicate erronee da L u p i (64). Pur rilevando che lo stemma tracciato da F o e r s t e r non è sufficientemente motivato, G r e c o non ha però ritenuto di tracciarne uno nuovo, in assenza di uno studio complessivo sul testo di tutte le opere a tradizione multipla (61, 36–37); di conseguenza il testo non si distacca troppo da quello teubneriano, se non per rari casi di emendatio: ne discuteremo nella sezione A.6, ma si può fin d’ora notare che la proposta di correzione formulata a VIII 7 non ha riscosso il consenso dei recensori (64; 65, 515–516). La traduzione italiana a fronte contiene alcune imprecisioni, rilevate da C o r c e l l a (65, 516–518); il ricco commento è specialmente attento agli aspetti ideologici. Sempre al 2010 risale l’edizione con traduzione italiana e commento del Miltiades (op.XVII decl.4) a cura di Simona L u p i (62). Non si tratta di un’edizione critica, ma il testo stampato, pur sostanzialmente riproducendo quello di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g , se ne discosta in alcuni punti, segnalati a p.91 e discussi nel commento: ne tratteremo nella sezione A.6. La traduzione è corretta, e caratterizzata anche – come nota G r e c o (66, 438) – da «una certa vivacità espressiva», l’introduzione e il commento riservano speciale attenzione all’uso, da parte di Coricio, della tradizione retorica. L’edizione di L u p i è rivelatrice di quel risveglio di interesse per la produzione declamatoria di Coricio di cui meglio diremo in seguito (B.3.b.i.γ). Già nel 1991, a dire il vero, una traduzione italiana dello Spartiates (op.XXIX decl.8) fu realizzata da A ntonio C o r s o (44, 27–110); ma come mostra la sede stessa in cui la traduzione, accompagnata da un ampio commento, fu pubblicata (una fondamentale raccolta di testimonianze su Prassitele) più che alla declamazione in sé C o r s o era interessato al suo uso come fonte per la storia dell’arte antica, sulla scia di una tradizione risalente già a F o e r s t e r . Di qui pregi e difetti del lavoro: la traduzione non ha ambizioni artistiche ma mira a rendere la lettera, talora però fraintendendo il testo, e il commento intende specialmente ricostruire le fonti cui Coricio si sarebbe ispirato; ne riparleremo più dettagliatamente nella sezione B.3.a.ii. Il rinnovato interesse per l’attività declamatoria di Coricio in quanto tale ha invece trovato efficace espressione soprattutto nella traduzione inglese annotata di tutte le declamazioni e dialexeis pubblicata nel 2009 a cura di Robert J. P e n e l l a (53): a Penella si deve l’introduzione e la traduzione delle dialexeis preliminari, mentre Donald A. R u s s e l l ha curato opp. X, XII, XX, XXIII (= decl. 1, 2, 5, 6), Simon S w a i n opp. XIV e XVII (= decl. 3 e 4), Malcolm H e a t h opp. XXVI e XXXV (= decl. 7 e 9), George A. K e n n e d y opp. XXIX e XLII (= decl. 8 e 12), William W. R e a d e r op. XXXVIII (= decl. 10), Terry L. P a p i l l o n op. XLII (= decl. 11); il volume è quindi chiuso da un’appendice di A m a t o sulla fortuna e la ricezione dell’opera coriciana (che per il suo carattere autonomo e il suo rilievo merita una registrazione a sé e una discussione separata nella sezione seguente). La presenza di diversi traduttori non pregiudica una sostanziale uniformità (rimarcata ad es. da G r e c o [55, 189]) e però determina qualche difformità nella resa lessicale, come è stato notato da W e s t b e r g (57, 9–10); lo stesso W e s t b e r g (57, 9) e W a d d e l l G r u b e r (56) hanno peraltro osservato che aver separato le dialexeis dalle opere cui erano premesse fa
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perdere qualcosa (questione su cui torneremo trattando della storia del testo). Alcuni sporadici errori nella traduzione sono inoltre indicati da F e r n á n d e z D e l g a d o (54, 52–53), e di altri diremo nella sezione A.6. Il volume di P e n e l l a resta in ogni caso un caposaldo negli studi coriciani: se la dialexis 12 (op.XXI) era già stata tradotta in inglese da R u s s e l l (35, 83–84) nel fondamentale studio del 1983 sulla declamazione greca (e le theoriai a opp. XX e XXIII addirittura da J. W a l d e n , The Uni versities in ancient Greece, New York 1909, 240–242), ora è finalmente possibile un accesso a tutte le dialexeis e a tutte le declamazioni mediato da competenti interpretazioni; e traduzioni in altre lingue sono in corso. Non si può invece dire lo stesso per le orazioni, per le quali il quadro delle traduzioni disponibili rimane più frastagliato. In verità, proprio due orazioni, l’epitafio per Procopio (op.VIII or.7) e l’encomio per Summo (op.IV or.4), furono i primi testi coriciani editi a stampa, già nel 1717, da F a b r i c i u s , con il corredo delle traduzioni latine di Johann Christian W o l f e Wilhelm d e H e r t o g e (Bibliotheca Graeca, VIII, Hamburgi 1717, 840–876); e dopo l’edizione di B o i s s o n a d e i due epitafi (opp.VII–VIII orr.6–7) attrassero l’interesse di Henri C a f f i a u x , che li analizzò e tradusse in francese nell’ambito dei suoi studi sull’orazione funebre antica (De l’oraison funèbre dans la Grèce païenne, Valenciennes 1861; Éloge funèbre de Procope traduit pour la première fois en français, Paris 1862; le traduzioni di C a f f i a u x sono ancora usate, con lievi modifiche, da H. L e c l e r c q nell’articolo Panégyrique per il Dictionnaire d’Arché ologie Chrétienne [19], quella, molto elegante, dell’epitafio per Procopio viene ora riproposta nella nuova edizione di Procopio per la Collection des Universités de France [68, LXXXVII–CIII]). Anche prima delle già citate traduzioni di G r e c o (61), gli epitafi coriciani, importanti per ricostruire la storia del genere, erano quindi disponibili in una lingua moderna; e in particolare l’epitafio per Procopio, utile anche ai fini della ricostruzione della vita di quest’ultimo, ha ricevuto una ulteriore traduzione italiana da parte di C o r c e l l a all’interno del volume dedicato da A m a t o alle opere procopiane (58). Anche gli epitalami (opp.V–VI = dial.4 e or.5), del resto, venivano a porsi tra i rari esempi del genere e quindi attrassero una certa attenzione da parte degli studiosi, come meglio vedremo nella sezione B.3.b.i.α; ma non ve ne sono state – a quanto mi risulta – traduzioni (se non in dissertazioni inedite: a parte L i t s a s [34], di cui subito diremo, nelle tesi dottorali di C u f f a r i e Te l e s c a ; quest’ultima studiosa ne prepara peraltro un’edizione commentata).5 Quanto alle altre orazioni, degli encomi (opp.I–IV orr.1–4) non sono state pubblicate traduzioni complete in lingue moderne, anche se alcune loro sezioni, che – come meglio vedremo in seguito – risultavano specialmente rilevanti agli occhi degli studiosi per il loro interesse storico o storico-artistico, sono state variamente tradotte all’interno di studi più ampi. In particolare, le ekphraseis delle chiese contenute nei due encomi per Marciano, già oggetto di interesse nell’800, vennero rese nel 1930 in inglese 5 G . C u f f a r i , La retorica tardogreca e le nozze: strutture tematiche e formali degli epi talami in prosa di Imerio e di Coricio, Tesi di dottorato Università di Catania, 2000; C . T e l e s c a , Riti nuziali e retorica. Note critiche al testo degli epitalami di Coricio di Gaza, Tesi di dottorato Università della Basilicata, 2010.
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da Robert W. H a m i l t o n (17: traduzione di I or.1, 17–40, 47–76 e II or.2, 28–54, giustamente ritenuta «not altogether dependable» da M a n g o [29, 60 n.26]) e nel 1931 in francese da Félix-Marie A b e l (18, 12–27: I or.1, 17–40, 42, 44, 48–77 e II or.2, 28–51; il resto dell’articolo contiene anche traduzioni di più brevi brani dalle orazioni riguardanti la vita di Gaza), quindi – date le loro difficoltà – più volte riproposte in traduzione, da D o w n e y (22: traduzione inglese con note di commento di II or.2, 37–46; 25, 126–139: traduzione alternata a parafrasi di entrambe le ekphraseis), M a n g o (29, 60–72: traduzione inglese, con occasionali brevi omissioni, di I or.1, 17–42, 47–76 e II or.2, 28–54), M a g u i r e (32: traduzione inglese dei brani cruciali di II 39–48), G u a r d i a (35: traduzione castigliana di I or.1, 17–76, in sostanza dipendente da M a n g o ), T h ü m m e l (47, 49–60: traduzione tedesca di I or.1, 17–78), S t e n g e r (60, 83: traduzione tedesca di II or.2, 41–45); ved. infra, B.2.a-b (dove si discuterà anche di altri saggi sulle descrizioni architettoniche e urbanistiche e sulle ekphraseis – in primis quelli di I h m , S a l i o u e P o l a ń s k i – che occasionalmente offrono traduzioni originali di più brevi brani). Nel 1938 A b e l (20, 529–532) offrì anche una traduzione francese di III or.3, 66–69 e 71–78, in quanto fonte sulla conquista dell’isola di Iotabe; e ulteriori brani di interesse storico sono stati in seguito proposti in traduzione in vari saggi: è il caso, ad es., di III or.3, 44–48, tradotto in inglese da M a y e r s o n in uno studio sull’acquedotto di Cesarea (37, 270–271), ma soprattutto di vari passi sulla rivolta samaritana, di cui diremo tra breve. Molto di recente, d’altra parte, anche la breve orazione per i Brumalia di Giustiniano (op.XIII dial.7) ha ricevuto una traduzione inglese a cura di Roberta M a z z a (59, 184–186) all’in terno di un saggio incentrato sul rapporto tra religione e stato sotto Giustiniano; mentre Claudia G r e c o , in uno studio del 2011 dedicato a illustrare alcuni personaggi descritti in opp.I–VIII (63), fornisce traduzioni inglesi di I or.1, 6–7; II or.2, 7–9; III dial.3, 6–7; III or.3, 82–83; IV 9; VII 19, 31; VIII 22–23, 36 (nonché di altri più brevi passi), migliorando a tratti, per gli epitafi, quelle italiane pubblicate l’anno precedente (61), e annuncia (p.112 n.56) un’edizione commentata degli encomi per Aratio e Stefano e per Summo (opp.III–IV orr.3–4). Di tutti questi contributi ridiscuteremo nel dettaglio più sotto, nelle sezioni B.2–4. Una traduzione inglese pressoché integrale di tutte le orazioni coriciane in realtà esiste; e per quanto sia rimasta allo stato di dissertazione inedita ha avuto – proprio per l’assenza di alternative – una certa circolazione, tale da giustificarne, diversamente da altri lavori di tesi che ci limitiamo a ricordare in nota, una valutazione dettagliata in questa sede. Mi riferisco alla dissertazione di Fotios K. L i t s a s (34), scritta sotto la guida di Walter Emil K a e g i (con il supporto, tra gli altri, di Glanville D o w n e y , Robert K a s t e r e Nicholas R u d a l l ) e discussa nel 1980 all’Università di Chicago. Al suo successo ha certo contribuito anche l’efficace e informata introduzione, che affrontava i principali problemi della vita e dell’opera di Coricio (cap.1: History of the School of Gaza: Choricius and His Teacher Procopius, pp.2–19; cap.2: Choricius and the Educational History of the School of Gaza, pp.20–49; cap.3: The Intellectual H istory of the School of Gaza: Choricius’ Works, pp.50–62; cap.4: Choricius’ Information on Political and Social History, pp.63–90; cap.5, Folklore in Choricius: Cultural History of Gaza, pp.91–108), ma soprattutto, per l’appunto, la traduzione
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i nglese, con rapide note di commento, di opp. I–VIII e XIII (per II 37–46 veniva però ripresa la citata traduzione di D o w n e y [22], e le ekphraseis negli encomi per Marciano restavano prive di commento). Le meritorie traduzioni di L i t s a s presentano, in realtà, varie imperfezioni, più volte denunciate (tra gli altri da G r e c o [55, 189]): si può ad es. segnalare l’erronea interpretazione di τὴν ἐνεγκοῦσαν in VIII 50, p.127,10, reso come «his own [boat, the school]» (p.228), con la conseguenza di ritenere che il vescovo Marciano fosse stato capo della scuola di retorica (pp.68 e 308 n.66); l’inter pretazione è stata ripresa ad es. da A s h k e n a z i (49, 200–201) e L u p i (62, 16 n.15), quindi in modo più sfumato da P e n e l l a (53, 6 e n.25), ma il passo dell’epitafio naturalmente vuol dire che Procopio lasciò nelle mani di Marciano non la scuola bensì la patria, come hanno notato C o r c e l l a (58, 525 n.57) e G r e c o (61, 195; 63, 107 n.35; 66, 435). Cionondimeno, le traduzioni di L i t s a s sono state spesso utilizzate dagli studiosi successivi, soprattutto nei casi in cui risultava conveniente fornire, in saggi storici, una traduzione «di servizio». Sintomatico l’uso che di esse hanno fatto gli studiosi delle rivolte samaritane: nelle loro raccolte di testi tanto R a b e l l o (40, itsas, 287–297) quanto P u m m e r (48, 245–252) hanno riprodotto le versioni di L ma R a b e l l o precisa di farne uso «per alcuni brani, mentre per altri, in cui è importante la comprensione letterale del testo, preferiamo fornire una nostra traduzione italiana precisa, anche se senza pretese letterarie (di L. Di Segni)» (40, 287) e si affida in effetti a Leah D i S e g n i per le traduzioni di II or.2, 23–24 e IV 11–13, e per parte sua P u m m e r è attento a segnalare la presenza di diverse interpretazioni (si veda in particolare 48, 251 n.27, a proposito del senso di κατάστασις πρώτη in IV 12, p.72,9: qui peraltro entrambi i traduttori non hanno notato che l’intera frase coriciana è una ripresa dalla Corona demostenica [XVIII 188], già utilizzata da Procopio, Paneg.Anast. 5, il cui riconoscimento rende comunque meno inadeguata la resa di L i t s a s [«the first resolution»: 34, 179] rispetto a quella di D i S e g n i , che immagina un riferimento al primo mandato di Summo come dux [40, 291]). L i t s a s viene insomma usato faute de mieux, ma con una certa diffidenza. Un discorso a parte richiede l’Apologia mimorum. Come meglio vedremo in seguito, quest’opera destò grande interesse fin dalla prima edizione che ne curò G r a u x nel 1877, venendo ampiamente utilizzata negli studi sul mimo e ricevendo una traduzione in tedesco nel 1922 ad opera di Walther J a n e l l (Lob des Schauspielers oder Mime und Mimus, Berlin 1922, 27–55); tuttavia la sua natura ambigua tra orazione e declamazione ha fatto sì che non venisse tradotta né nella dissertazione di L i t s a s (34) né nella raccolta di P e n e l l a (53), sicché dal 1929 ad oggi, oltre alla già citata versione neogreca di S t e f a n i s (38), l’unica altra traduzione integrale edita di cui ho notizia è quella ceca, accompagnata da brevi note, pubblicata nel 2007 da Pavlína Š í p o v á in una rivista di studi teatrali (50); i soli parr.1–5, 10–17, 23–32, 155–158 furono tradotti in russo da L. A. F r e j b e r g in un’antologia di testi tardoantichi e bizantini del 1968 (27; viene qui singolarmente seguita la vecchia divisione in capitoli di G r a u x ed è curioso che, a p.334 n.16, nel «figlio di Lyxes» non venga riconosciuto Erodoto), mentre brani dai parr.14, 26, 30, 81, 84, 88–89, 108–110, 118–119, 124–125, 140–142 hanno ricevuto una traduzione polacca a cura di S . L o n g o s z in un’antologia di scritti sulla teoria del teatro del 1989 (43, 147–150). Dell’Apolo
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gia non mancano, a dire il vero, traduzioni italiane e commenti in dissertazioni rimaste inedite e che non hanno avuto grande circolazione: mi riferisco ai lavori di S o l a r i n o , B a r b e r i s , M a i o r a n o , per cui si può rinviare ai giudizi formulati da A m a t o (15, 94–95).6 Una traduzione integrale inglese è da tempo promessa da Andrew W h i t e (e una versione ne circola tra gli studiosi: ved. P e n e l l a [53, 5 n.19]), ma non mi risulta ancora pubblicata; né a tutt’oggi sembrano essere uscite le anticipazioni annunciate, come in corso di stampa nel secondo volume della rivista della Queen’s University di Belfast Basilissa, già in un articolo del 2009 (52, 75 n.12), mentre qualche brano compare invece tradotto in un saggio del 2013 (67; le speculazioni sui possibili sensi e sottintesi dell’ἐν Διονύσου presente nella nota iniziale che si leggono in questi ultimi due scritti [52, 75 n.10; 67, 48 e n.7] non fanno peraltro pensare che W h i t e , grandemente esperto di teoria e pratica teatrale [ved. infra, B.2.c], lo sia altrettanto di lingua greca, e inesatta è certo la traduzione «in Dionysus’ [name]», cui fa riscontro il «ve jménu Dionýsa» di Š í p o v á [50, 117]; più corretto, sulla scia dell’analoga resa di J a n e l l , è il «в театре Диониса» di Frejberg [27, 153], anch’esso però perlomeno ridondante, giacché l’espressione, attinta all’attico antico e specialmente a Demostene [V 7] e in origine riferita al teatro ateniese «nel santuario di Dioniso», è per Coricio – che alla pari di altri autori quali ad es. Massimo di Tiro la 6 M . S o l a r i n o , Apologia mimorum, I, Opera Universitaria del Magistero di Catania 1980; F . B a r b e r i s , L’Apologia mimorum di Coricio di Gaza. Introduzione, traduzione e com mento, Tesi di dottorato Università di Genova, 1992; G . M a i o r a n o , Coricio di Gaza, In di fesa dei mimi. Traduzione e commento, Tesi di laurea Università degli Studi di Bari, 1995. Pavlína Š í p o v á , autrice della traduzione ceca citata nel testo, si è a sua volta addottorata alla Carolina di Praga nel 2009 con una dissertazione intitolata Apologia mimorum od Chorikia z Gazy a proble matika kontinuity řeckého divadla. Colgo qui l’occasione per riferire di altre dissertazioni di argomento coriciano di cui ho notizia per il periodo che stiamo trattando e che talora contengono traduzioni e commenti; ma, comprensibilmente, il quadro potrebbe essere facilmente ampliato, e in varie università, soprattutto a Nantes sotto la guida di Eugenio A m a t o , molti nuovi lavori sono in preparazione. Nell’anno accademico 1929/30 Émilie T h u m e l a i r e discusse a Liegi una tesi dottorale intitolata Traduction et Commentaire de quatre discours de Choricius de Gaza (ved. RBPh 9, 1930, 1128); nel 1946 Alfred R a b i n o w i t z presentò all’Università di Gerusalemme una tesi sul primo encomio per Marciano (ved. infra, B.2.a); nell’anno accademico 1962/63 Ed. v a n d e r L a e n e n si licenziò a Gent con la tesi Choricius’ lofredenen op Marcianus. Proeve van vertaling en commentaar (ved. RBPh 43, 1965, 210); nel 1983 Uwe V o l k e r completò a Monaco una Magister arbeit intitolata Rekonstruktion des Zyklus des Lebens Jesu in der Sergioskirche zu Gaza nach Cho rikios von Gaza (ved. Kunst-Chronik 36, 1983, 399). Più recentemente, ho conoscenza delle tesi di laurea di F . M o l i t e r n o (Coricio di Gaza. Ἀριστεὺς νέος. Introduzione e traduzione, Università di Salerno, 2003) e di A . G a g l i a s t r o (Studi su Coricio di Gaza, I Brumalia di Giustiniano, Università della Basilicata, 2010) e della Masterproef di F . D e c l e r c q (De Redenaar onthuld. Choricius Gazaeus’ Rhetor: een vertaling en onderzoek naar de fictionaliteit binnen zijn discours, Universiteit Gent, 2008), mentre Hélène P a r e n t y , nel libro Isaac Casaubon helléniste. Des stu dia humanitatis à la philologie, Genève 2009, 277 n.102, rinvia al suo mémoire de maîtrise, presentato a Paris IV-Sorbonne sotto la guida di Bernard F l u s i n , dedicato all’edizione, traduzione e commento dell’epitafio per Procopio. Alle ekphraseis delle chiese qualche spazio è dedicato nella tesi magistrale di Michał G i e r a , Gaza w okresie wczesnochrześcijańskim (IV–VII w.p.n.e.). Histo ria i archeologia, Warszawa 2004/05.
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usa, anche in XXI 1 e XL 29, in contesto non ateniese – ormai solo un modo dotto per dire «a teatro», «στο θέατρο», come ben rende Stefanis [38, 55]). Diversi brani coriciani sono stati inoltre tradotti all’interno dei più vari studi: si potrebbero ad es. citare gli escerpti dallo Spartiates (XXIX 49 e 53) nell’antologia di testimonianze su Asclepio di Emma e Louis E d e l s t e i n (21, I 181–182; a p.106 viene anche tradotta la breve frase di III 16 sugli Asclepiadi), o la traduzione di parti di opp.XXXIV (dial.8) e XXXVII (dial.10) nelle raccolte di fonti su Lisippo di M o r e n o (30, 53–54, nr.32: versione italiana di sezioni dal primo testo, con commento storico-artistico alle pp.196–199; 31, 243–245, nr.113: versioni italiane selettive) e di S t e w a r t (45, 396, T 123–124: versioni inglesi fortemente selettive); per non parlare, naturalmente, di quei contributi che discutono della corretta interpretazione di singoli passi o termini (sulla possibilità di intendere l’ἐπεπόλαζε di VIII 22 non come «era superficiale» ma come «affiorava» ragiona ad es. C o r c e l l a [51, 162–166]). Una lista completa sarebbe però impossibile, e di qualche caso discuterò nel seguito. A conclusione di questa rassegna delle traduzioni esistenti, che ha messo in luce anche qualche infortunio e una certa esitazione a cimentarsi in prima persona con il testo (a costo di utilizzare, magari con diffidenza, le versioni inedite e imperfette di L i t s a s ), mi sia semmai permesso di citare quanto osservavo nel discutere la traduzione offerta da G r e c o degli epitafi (65, 516): «Lo stile di Coricio, ancorché certo artificioso, non è particolarmente astruso. Occorre però farvi – per così dire – l’orecchio: se ci si abitua al linguaggio atticistico e, soprattutto, si impara a sentire la scansione dei cola e ad orientarsi in un ordo verborum spesso condizionato dall’esigenza di rispettare il ritmo ed evitare lo iato ma generalmente ben governato da un adeguato uso delle particelle, la frase scorre con relativa facilità. Altrimenti il rischio di incorrere in fraintendimenti è sempre presente». Anche i migliori traduttori, spesso costretti ad operare in assenza di una consolidata tradizione e a cimentarsi per primi con l’impresa di interpretare il testo coriciano, rischiano in effetti di commettere qualche errore (ne vedremo ulteriori casi nella sezione A.6) e ciò vale, a maggior ragione, per chi non può annoverarsi tra i migliori, sicché anche lo scrivente non si è sottratto a questa sorte: se un mero refuso nella traduzione dell’epitafio per Procopio (58, 520) è stato già segnalato in 65, 518, si coglie qui l’occasione per osservare che la corretta resa di δακρύων μισθούς in VIII 53, p.128,16 non è «un premio fatto di lacrime» (58, 527), bensì «il compenso per le lacrime» (come ben rende G r e c o [61, 81]). Segnalo, infine, come una traduzione tedesca integrale dei discorsi coriciani sia stata annunciata da Peter G r o s s a r d t , dell’Università di Lipsia (ved. Gnomon 82, 2010, 671); mentre una nuova edizione complessiva, coordinata da Eugenio A m a t o , è prevista nella Collection des Universités de France. Già questo quadro delle edizioni, traduzioni e commenti consente di individuare alcune linee della fortuna di Coricio dopo il 1929, cui in parte ho già accennato e che meglio illustrerò nella seconda parte di questa rassegna, dopo aver esaurito l’esame degli studi sul testo e la lingua. Se d’altra parte ho indugiato su alcuni errori e dubbi nell’interpretazione non è per gratuito e pedante spirito polemico ma per far più chiaramente emergere come, soprattutto per alcune opere, ancora si desiderino traduzioni e com-
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menti davvero affidabili, che nel rendere conto di tutte le sfumature e le implicazioni del testo coriciano ne consentano peraltro il corretto uso come fonte: su questo aspetto tornerò alla fine della rassegna. 3. Storia del testo e tradizione diretta e indiretta 69. G. M e r c a t i , Ist Urb. gr. 82 das Exemplar Palla Strozzi’s?, in: J . F i s c h e r (ed.), Claudii Ptolemaei Geographiae Codex Urbinas Graecus 82. Tomus prodromus. Pars prior, Lugduni Batavorum – Lipsiae 1932, 194–201. 70. Spätantiker Gemäldezyklus in Gaza. Des Prokopios von Gaza Ἔκφρασις εἰκόνος, hrsg. u. erkl. v. P. F r i e d l ä n d e r , Città del Vaticano 1939. 71. A. F r o l o w , Deux églises byzantines d’après les sermons peu connus de Léon VI le Sage, Études byzantines 3, 1945, 43–91 72. K . M r a s , Die προλαλιά bei den griechischen Schriftstellern, WS 64, 1949, 71–81. 73. H. H u n g e r , Zwei unbekannte Libanioshandschriften der Österreichischen Nationalbibliothek, Scriptorium 6, 1952, 26–32. 74. H. H u n g e r , Katalog der griechischen Handschriften der Österreichischen Nationalbibliothek. 1. Codices historici, codices philosophici et philologici, Wien 1961. 75. A. D i l l e r , Photius’ Bibliotheca in Byzantine Literature, DOP 16, 1962, 389–396. 76. J.-M. F e r n á n d e z P o m a r , La colección de Uceda y los manuscritos griegos de Constantino Láscaris, Emerita 34, 1966, 211–288. 77. Nicétas Magistros, Lettres d’un exilé (928–946). Introduction, édition, traduction et notes par L. G. W e s t e r i n k , Paris 1973. 78. H. M a g u i r e , Truth and Convention in Byzantine Descriptions of Works of Art, DOP 28, 1974, 111–140 (rist. in: I d . , Rhetoric, nature and magic in Byzantine art, Aldershot 1998, nr.I). 79. G. d e A n d r é s , Catálogo de los manuscritos de la Biblioteca del Duque de Uceda, Revista de archivos, bibliotecas y museos 78, 1975, 5–40. 80. J.-M. F e r n á n d e z P o m a r , La colección de Uceda en la Biblioteca Nacional. Nueva edición del catálogo de manuscritos, Helmantica 27, 1976, 475–518. 81. P. O d o r i c o , Uno gnomologio bizantino, Miscellanea 2 dell’Istituto di Studi Bizantini e Neogreci, Padova 1979, 93–113. 82. W. T. T r e a d g o l d , The Nature of the ‹Bibliotheca› of Photius, Washing ton, D. C. 1980. 83. J. J. B a t e m a n , The Critiques of Isocrates’ Style in Photius’ Bibliotheca, ICS 6, 1981, 182–196. 84. A. S i d e r a s , Zwei unbekannte Monodien von Chorikios?, JÖByz 33, 1983, 57–73.
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121. –, Una testimonianza sulle προλαλιαί di Procopio e Coricio di Gaza nel Περὶ λογογραφίας, Segno e testo 8, 2010, 247–264. 122. D . W e s t b e r g , Celebrating with Words. Studies in the Rhetorical Works of the Gaza School, Diss. Uppsala Universitet 2010. 123. N. B i a n c h i , Filagato da Cerami lettore del De domo ovvero Luciano in Italia meridionale, in: N . B i a n c h i (a cura di, con la collaborazione di C . S c h i a n o ), La tradizione dei testi greci in Italia meridionale. Filagato da Cerami philosophos e didaskalos. Copisti, lettori, eruditi in Puglia tra XII e XVI secolo, Bari 2011, 39–52. 124. Ch. M e s s i s , Littérature, voyage et politique au XIIe siècle: L’Ekphrasis des lieux saints de Jean ‹Phokas’, Byzantinoslavica 69, 2011, 146–166. 125. C . Te l e s c a , Sull’ordine e la composizione del corpus di Coricio di Gaza, RET 1, 2011–2012, 85–109. 126. W. H ö r a n d n e r , Pseudo-Gregorios Korinthios, Über die vier Teile der perfekten Rede, MEG 12, 2012, 87–131. 127. H. M a g u i r e , «Pangs of Labor without Pain»: Observations on the Iconography of the Nativity in Byzantium, in: D. F. S u l l i v a n (ed.), Byzantine religious culture: studies in honor of A.-M. Talbot, Leiden 2012, 205–216. 128. C . Te l e s c a , Missioni francesi in Spagna alla scoperta del codice di Madrid 4641, QS 79, 2014, 165–177. 129. P. D ’A l e s s i o , Aspetti della tradizione manoscritta di Coricio di Gaza (I), in: E . A m a t o – A . C o r c e l l a – D . L a u r i t z e n (éds.), L’École de Gaza: espace litteraire et identité culturelle dans l’antiquité tardive. Actes du Colloque International de Paris, Collège de France, 23–25 mai 2013, Leuven – Paris – Bristol, CT 2017, 473–520. 130. Á . N a r r o , La Vie et Miracles de Sainte Thècle et l’École de Gaza, in: E . A m a t o – A . C o r c e l l a – D . L a u r i t z e n (éds.), L’École de Gaza: espace litteraire et identité culturelle dans l’antiquité tardive. Actes du Colloque International de Paris, Collège de France, 23–25 mai 2013, Leuven – Paris – Bristol, CT 2017, 313–324. Cfr. 1, 3, 5, 10, 15, 23, 24, 27, 28, 38, 53, 55, 58, 61, 65. La storia del testo coriciano, con attenzione tanto alla tradizione indiretta quanto alla tradizione manoscritta, è stata oggetto di accurata indagine da parte di Eugenio A m a t o in due importanti contributi (15; 119), nei quali si troverà non solo la sintesi degli studi precedenti ma anche una prospettiva innovativa, di cui di seguito renderò conto. Le opere di Coricio erano evidentemente in primo luogo pensate per la recitazione orale in circostanze determinate (ved. infra, B.3.b); ma che versioni scritte fossero ben presto predisposte per una più ampia diffusione è testimoniato da passi quali I or.1,16 (come ha notato ad es. G r e c o [55, 188]; ved. anche C o r c e l l a [111, 86–87]
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e infra, A.6). Ogni singola opera, eventualmente con la dialexis che la precedeva (ved. infra, B.3.b.i.β), poteva così essere pubblicata dal retore stesso e fatta circolare (come il carteggio con Megezio testimonia per Procopio e sappiamo per altri retori: cfr. P e n e l l a [53, 14]). Questa edizione poteva forse già presentare elementi paratestuali poi arrivati alla tradizione medievale, in particolare le brevi note di commento iniziali, o scholia, sempre caratterizzate da uno stile retoricamente elevato e nelle quali talora il retore parla in prima persona (opp.VIII, XI, XXVII; il caso di op.VIII è notato da W e s tb e r g [122, 48 n.41] e Te l e s c a [125, 89], mentre M r a s [72, 80 n.28], a proposito dello scholium a op.XII, pensava a uno scolaro) e una volta si rivolge al pubblico con un «voi» che farebbe pensare a una cerchia determinata e ristretta (op.XXXIX); si potrebbe anzi addirittura ritenere che questi scholia venissero già enunciati all’inizio della recitazione (in tal senso andrebbe il suggerimento di W e s t b e r g [122, 48 n.41] di leggere nella ὑπόσχεσις di I or.1,5, p.3,23 e in quella di XXVII 1, p.310,7 dei riferimenti a quanto annunciato nei rispettivi scholia). Nel caso delle declamazioni, le edizioni dovevano d’altra parte comprendere anche le theoriai, anch’esse certamente d’autore e talora contenenti allocuzioni al pubblico, sicché anche per esse può porsi la questione di una eventuale recitazione, forse soprattutto rivolta agli allievi (ved. infra, B.3.b.1.γ). Diversamente dalle note di commento e dalle theoriai, i titoli, più piani e descrittivi, sembravano invece non d’autore a F o e r s t e r (1, V), come ora a G r e c o (61, 23); F o e r s t e r però pensava che essi potessero comunque risalire a uno scolaro di Coricio (e M a a s [3, 40] subito osservò che contengono informazioni non ricavabili dai testi e quindi risalenti all’ambiente dell’oratore; ved. anche infra, A.6): questo scolaro avrebbe curato un’edizione delle opere del maestro raccogliendole in un corpus nella sostanza simile a quello presente nel manoscritto Matritense 4641 (M). L’ipotesi è stata in seguito ridiscussa soprattutto da A m a t o (15) e torneremo sul problema alla fine della sezione. È difficile naturalmente dire quale sia stata la circolazione delle opere di Coricio prima dell’età di Fozio. La presenza di alcune citazioni nel lessico περὶ συντάξεως (A m a t o [119, 290]) potrebbe ben spiegarsi se ha ragione P e t r o v a (114, XXVII– XXVIII) nel ritenere che questo lessico fu compilato proprio a Gaza nel primo quarto del VII secolo. Come poi ha mostrato C o r c e l l a (111; cfr. A m a t o [119, 299–300]), vari brani dai due epitafi coriciani furono di peso riutilizzati dall’anonimo autore dell’encomio di Efrem tramandato tra le opere di Gregorio di Nissa (BHG 583 ; CPG 3193), testo agiografico di difficile datazione ma che potrebbe risalire al VII secolo. Con la testimonianza di Fozio, Bibl. 160 si è su un terreno relativamente più sicuro: se T r e a d g o l d (82, 58) vi aveva visto l’eco di una epitome dell’Onomatologos di Esichio, e B a t e m a n (83, 185–186) aveva mostrato come il giudizio sullo stile, costruito in antitesi con quello su Isocrate e articolato in parte positiva e parte negativa, sia probabilmente opera originale del patriarca, S c h a m p (90, 451–459) ha più attentamente analizzato i differenti strati della trattazione foziana mettendo in luce la possibilità che alcune notizie derivassero a Fozio dagli apparati presenti nel manoscritto coriciano a lui noto. Il minuto esame di A m a t o (119, 270–278) approda a ll’ipotesi che proprio a Fozio e alla sua cerchia si debba l’approntamento di un corpus coriciano complessivo, a partire da più limitate raccolte: lo studioso sonda peraltro la
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possibilità di considerare la lettera di Fozio a Giorgio metropolita di Nicomedia presente in M, che sostanzialmente riproduce il cod.160, non come una falsificazione (così ad es. D i l l e r [75, 394]) ma come una autentica missiva che accompagnava l’invio a Giorgio di un manoscritto coriciano antenato di M. In particolare, Fozio notava l’importanza di Coricio come autore di ekphraseis ed encomi, e se nell’opera dello stesso Fozio (in particolare nell’ekphrasis dell’omelia 10 Laourdas) non sono state notate – a quanto mi risulta – esatte riprese coriciane, un’eco sufficientemente precisa della scena dell’Annunciazione in I or.1,48 venne invece ravvisata da F r o l o w in una ekphra sis contenuta in un’omelia di Leone VI (70, 52 n.22bis; lo studio più dettagliato «des procédés et des emprunts littéraires» di Leone promesso a p.45 non mi risulta sia stato pubblicato); la più recente editrice delle omelie, Theodora A n t o n o p o u l o u , oltre a segnalare la ripresa coriciana in questo passo (hom. 37, ll.99–100 = 34, p.277 Akakios), ha inoltre indicato una più ampia messe di possibili echi, invero piuttosto vaghi (si veda l’indice dei loci in calce all’edizione: 118, 644–645), e in altra sede ha sinte ticamente sottolineato come Leone si riallacci, tanto per l’ekphrasis quanto per l’encomio funebre, alla tradizione coriciana (102, 243–244 e 249). La diffusione del corpus di Coricio tra il IX e il X secolo è però ben attestata soprattutto da un tipo di fonte che ha ricevuto speciali attenzioni negli ultimi anni, e cioè dagli gnomologi sacro-profani. F o e r s t e r non mancò in effetti di utilizzare la ricca messe di citazioni di Coricio nell’antologia di Georgide, ma già L e h n e r t (10) auspicò uno studio più approfondito della tradizione dei florilegi e ora gli studi di O d o r i c o (81; 88) hanno mostrato come a monte di Georgide si collochi il Florilegium Marcianum del monaco Giovanni, che probabilmente risale al IX secolo e potrebbe essere collegato proprio alla cerchia di Fozio; grazie anche a ricerche successive, specialmente da parte di M a l t e s e (100; 103), si è giunti a riconoscervi ben 111 riprese da Coricio, pari a un quinto del totale (si vedano i bilanci di O d o r i c o [110, 79] e A m a t o [119, 263–279]; sulle aggiunte di tipo «esegetico-spirituale» in Georgide importanti le osservazioni di M altese [103, 448; 107, 76]). La più ridotta presenza di Coricio nei Loci Communes dello pseudo-Massimo e nei filoni connessi è stata indagata nelle edizioni di S a r g o l o g o s (93; 108) e soprattutto da I h m (105, 127–128; 106, sulle fonti spec. XIX): sui Loci e sui vari altri gnomologi e florilegi, fino al XVI secolo, si vedano inoltre le rassegne di A m a t o (15, 101–102; 119, 279–281, nonché 281–284 sul Rosetum di Macario Crisocefalo). In seguito a questa ripresa di interesse per i contenuti, oltre che per la forma, dei suoi scritti Coricio venne letto e ripreso nel X secolo (ad es. da Niceta Magistro nelle lettere 3 e 4, almeno secondo la ricostruzione di non immediata evidenza ma al fondo persuasiva di W e s t e r i n k [77, 34, con le note a 60–63, cfr. 74]), e nell’XI secolo era ormai entrato nel novero degli autori studiati nella scuola, come mostra Giovanni Doxapatre (per cui ved. A m a t o [119, 290–292]); ma ciò è soprattutto vero tra il XII e il XIII secolo, quando il retore gazeo, assieme al suo maestro Procopio, è compreso nel canone dell’Anecdoton Hierosolymitanum e, soprattutto, figura più volte nel trattato περὶ λογογραφίας con la tradizione connessa, fino a Giovanni il filosofo (analisi in C o r c e l l a [121], che ha mostrato come l’autore del trattato abbia presente un corpus coriciano in cui le dialexeis precedevano i discorsi cui si riferivano, come in M; cfr. an-
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che W i l s o n [85, 184–187], A m a t o [119, 284–290] e da ultimo H ö r a n d n e r [126, spec. 118–124]). Il ruolo di modello per i retori trova conferma ad es. nella ripresa di IV 21, p.75.11–12 da parte di Niceforo Basilace (B3, pp.65,13 e 67,3 Garzya), notata da Maria Jagoda L u z z a t t o (87, 181–182). Ancor più significativo è però l’uso che di brani della descrizione della chiesa di s. Sergio (I or.1, 15–76) fa, nella De scriptio Terrae Sanctae, l’autore tradizionalmente noto come Giovanni Phokas, ma che va piuttosto chiamato Giovanni Doukas, per descrivere le raffigurazioni nei luoghi sacri di Nazaret e Betlemme: le riprese di peso dai parr.48–50 e 51–54, già note a F o e r s t e r , sono state variamente commentate (si vedano tra l’altro le osservazioni di M a g u i r e [78, 116; cfr. 127, 210–211], che sottolinea come Phokas/Doukas non abbia interesse per la veridicità della descrizione; S t i c h e l [94, 67–69]; K ü l z e r [95, 94–95], che contro M a g u i r e afferma come il plagio da Coricio non neghi di per sé stesso la visione diretta e la correttezza della descrizione; F o l d a [99, 371–372]; A m a t o [119, 300–302], che rettamente nota come il testo coriciano sia opportunamente adattato); ma fondamentale è ora lo studio preparatorio a una nuova edizione della Descriptio di M e s s i s (124), dove oltre a stabilire che l’autore è un Giovanni Doukas sebastos si nota di passaggio come anche la dichiarazione proemiale al par.16 del testo coriciano venga da Giovanni imitata (con modifiche che discuteremo nella sezione A.6) e si osserva che l’imitazione non esclude comunque l’autopsia. Non v’è, al contrario, motivo per ritenere che la descrizione della Cappella Palatina di Palermo di Filagato Cerameo debba qualcosa a Coricio, come sostenuto da F o b e l l i (109, 270): contra si vedano A m a t o (119, 302 n.166), C o r c e l l a (120, 30–31) e soprattutto B i a n c h i (123, spec. 44), che mostra come il vero modello di Filagato sia piuttosto Luciano. La presenza di generiche consonanze nell’uso di alcuni topoi, in assenza di ampie e precise concordanze letterali, non è in effetti condizione sufficiente per postulare imitazione; e ciò vale anche per la declamatio XLII e la descriptio 29 del corpus libaniano, di incerta paternità e datazione, nelle quali F o e r s t e r ravvisò riprese rispettivamente dal Tyrannicida e dagli encomi per Marciano (Libanii Opera VII 434, VIII 443 n.1, cfr. RE XII [1925], 2517 e 2522; il giudizio è ora ripetuto da G i b s o n [117, XXV, 429, 499 n.112]), ma per cui è di fatto difficile stabilire se davvero abbiamo a che fare con un retore successivo a Coricio che lo imita o non piuttosto con un autore, eventualmente più antico, che per via indipendente riproduce luoghi comuni di scuola cui anche Coricio potè attingere (e soprattutto per la descriptio, schematico e paganeggiante esercizio di scuola, la seconda ipotesi mi pare nel complesso più verosimile: ved. in generale infra, B.3.b; una autonoma ripresa di temi di repertorio mi pare anche spieghi le consonanze tra un passo dell’epitalamio per Procopio, Giovanni ed Elia [VI 7] e la Vita di s. Tecla – a Coricio comunque cronologicamente anteriore – ora indagate da N a r r o [130]). Non sarà inopportuno infine rammentare che la notizia secondo cui Eustazio Macrembolita imiterebbe largamente nello stile Coricio, riportata da K r u m b a c h e r (Geschichte der byzantinischen Litteratur, München 18972 , 765) e talvolta ancora ripetuta in tempi più recenti (ad es., con ulteriori strane confusioni, da F r e j b e r g [27, 152; ved. anche infra, B.1]), si fonda sull’erronea attribuzione al gazeo, risalente a M a i e B o i s s o n a d e , di una monodia che – come già aveva rivelato F o e r s t e r nel 1895 (ved. supra, A.1) – è invece opera di Niceforo
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Basilace (l’equivoco, su cui già si era soffermato K i r s t e n , Breslauer philologische Abhandlungen 7.2, 1894, 50–51, è più recentemente chiarito ad es. da H i e r s e m a n n [91, 13 n.32]).7 La domanda da parte dei dotti di manoscritti coriciani in età comnena è specialmente attestata da Tzetze, ep. 24 Leone (su cui specialmente si soffermano K a r p o z e l o s [86, 32] e A m a t o [119, 296–297]); e le vicende successive della fortuna di Coricio a Bisanzio (ricostruite soprattutto da A m a t o [119, 290 e 292–296]) si fondono ormai con la storia dei suoi manoscritti, che spesso attestano selezioni per la scuola, fino all’arrivo in Occidente, dove una pagina precoce della sua fortuna è legata alla figura di Poliziano, che conobbe e variamente usò, come già si è accennato, la dialexis sulla rosa (si vedano gli studi e le edizioni di P e r o s a e T i m p a n a r o [24; 97, XLVII e 126], D e l c o r n o B r a n c a [92, 192], M a r t e l l i [101, 48]; inoltre A m a t o [119, 297–298]). Sulla successiva fortuna nella filologia europea di Coricio, che destò l’interesse, tra gli altri, di C a s a u b o n , A l l a c c i , H o l s t e , M a y , Gottfried O l e a r i u s , W y t t e n b a c h , B l e s s i g e L e o p a r d i e prima che da F o e r s t e r fu parzialmente edito da F a b r i c i u s e V i l l o i s o n , quindi (ormai con il contributo del Matritense, reso noto da I r i a r t e nel 1769) da B o i s s o n a d e e G r a u x , varie notizie sono fornite nei contributi, già in parte variamente menzionati, di T i m p a n a r o con P e r o s a e P a c e l l a (23a, 130–132 = 23b, 90–91; 24; 28, 443 e 462–466), A m a t o (15, 99 n.37), C o r c e l l a (58, 511; 65, 513–515), G r e c o (61, 32–36), Te l e s c a (125, 86–87; 128); uno studio complessivo non sarebbe privo d’interesse e fornirò qualche ulteriore spunto nel seguito di questa stessa rassegna. È tempo, quindi, di passare in rassegna gli studi sui manoscritti contenenti opere di Coricio. Si è già accennato a come F o e r s t e r avesse avuto accesso alla quasi totalità dei manoscritti coriciani ma non a tutti avesse riservato pari attenzioni, privilegiando il ruolo di M e limitandosi in alcuni casi a ispezioni e collazioni parziali. L’anonimo autore della recensione per BAGB (5, 176–178) mise così subito in luce, a titolo d ’esempio, il frutto che si sarebbe potuto ricavare da una più attenta collazione dei manoscritti Par. gr. 2577A e 2988; nel caso del Par. gr. 2577A, in particolare, scelse come esempio il testo della dialexis sulla rosa (op.XXXIX dial.24), i cui manoscritti vennero in seguito indagati in maniera completa da P e r o s a e T i m p a n a r o (24) con i risultati innovativi di cui si è riferito. Nel 1952 Herbert H u n g e r (73; cfr. anche 74, 7 Analogamente, capita ancora, talvolta, di leggere rinvii (di seconda o terza mano) a «Coricio» quando in realtà si vuole alludere ad opere di Procopio che nell’800 erano attribuite non al maestro ma all’allievo (cfr. supra, A.1). Abbiamo naturalmente omesso di renderne conto; un esempio per tutti nella voce Apelle di D . M u s t i l l i in Enciclopedia dell’Arte Antica I (1958), 456–460, dove l’accenno al dibattito sulla possibilità di un riferimento all’Afrodite di Apelle nell’εἰς ῥόδον di «Coricio» (p.458) riguarda di fatto la terza dialexis di Procopio (op.3 Amato) e deriva dal repertorio di fonti sulla pittura antica di A . R e i n a c h (Recueil Milliet, Paris 1921, 338 e n.3; le più recenti ristampe di quest’opera [Paris 1985, 1995], pur segnalando negli aggiornamenti l’esistenza dell’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g , non mi pare correggano specificamente l’errore, che rischia così di perpetuarsi ulteriormente).
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262–263) rese noto un ulteriore testimone del Patroclus, il Vind. phil.gr. 159, che contiene la declamazione tra le opere di Libanio; A m a t o (15, 98–100) ne offre una collazione parziale che rivela come lo stemma tracciato da F o e r s t e r (1, XXIV) debba essere ridisegnato per tenerne adeguatamente conto, e inoltre mostra (15, 97–98) come anche una più accurata collazione dei manoscritti di Parigi possa fornire risultati interessanti. Oltre al Vindobonense, nell’inventario dei manoscritti coriciani tracciato nel medesimo studio (per le liste si veda in particolare 15, 112–116) A m a t o segnala inoltre tre recentissimi non considerati da F o e r s t e r e certamente descripti (Chicago, Univ. of Chicago Library 55 [gr.11]; Oxford, Bodl. Libr. Auct. T.5.16; Leiden, BU Voss. Misc. 11); nel descrivere i testimoni dei due epitafi, G r e c o (61, 26–32) ha anche tenuto conto del manoscritto oxoniense, notando come i testi coriciani vi siano stati copiati, nel 1780, dal Par. gr. 2967 ma non riuscendo a individuarne il copista, congetturalmente identificato con Jean-Laurent/Johann Lorenz B l e s s i g da C o r c e l l a (65, 513–515). Insomma, gli studi successivi all’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g hanno mostrato l’utilità di una più accurata recensio, alla quale ora attende Paola D ’A l e s s i o (una anticipazione in 129). Sullo stesso M, del resto, pur molto ben studiato e collazionato da F o e r s t e r (nonché da R i c h t s t e i g : ved. gli Addenda et corrigenda in 1, 573), ulteriori studi hanno apportato nuovi elementi. Si è già detto, nella sezione precedente, di alcuni miglioramenti apportati alla collazione nelle edizioni di S t e f a n i s (38) e G r e c o (61). Una più accurata descrizione del manoscritto, acquistato a Rodi da Costantino Laskaris, poi donato alla città di Messina e quindi giunto nella biblioteca del duca di Uceda, si ha ora nel catalogo di d e A n d r é s (89, 179–181), mentre alcuni dettagli della sua storia sono stati illustrati da M e r c a t i (69, 200 nn.1–2, con l’individuazione della nota di lettura di Bartolomeo Bardella) e negli studi su Laskaris e i suoi manoscritti, nonché sulla biblioteca del duca di Uceda, di F e r n á n d e z P o m a r (76; 78), d e A n d r é s (79), M a r t í n e z M a n z a n o (96, spec. 3, 285, 292; 104, spec. 38 e 67–68), quindi, con più specifica attenzione alla tradizione coriciana, da A m a t o (119, 293–294) e G r e c o (61, 26–27); sulle copie di alcune opere che, a partire da M, lo stesso Laskaris approntò e fece confluire nel miscellaneo Matritense 4636 (N), oltre il catalogo di d e A n d r é s (89, 169–174) si vedano, tra gli studi che più tengono conto della parte coriciana, soprattutto A m a t o (119, 293–294) e G r e c o (61, 27–28 e 37, dove peraltro si sottolinea l’utilità di questo apografo laddove M è poco leggibile). Fondamentale per una valutazione di M ai fini della costituzione del testo coriciano è però specialmente il già più volte citato studio del 2005 di A m a t o (15), che invita a considerare l’origine del corpus in esso rappresentato in un modo diverso da quello ricostruito da F o e r s t e r (1, V): dopo aver notato in particolare la cesura tra logoi e meletai segnalata al fol.126v dalla rinnovata presenza del genitivo d’autore, l’indicazione τέλος τῆς βίβλου al fol.173v e il diverso ordinamento sia pur esilmente attestato dall’importante manoscritto Athos, Meg. Lavra Ω 123 (Ath), lo studioso conclude che il corpus di M è l’esito di un raggruppamento di diversi corpuscoli realizzato in età bizantina (forse nella cerchia di Fozio, secondo l’ulteriore ipotesi espressa dallo stesso A m a t o nel 2009 [119, 277–278]). Che M riproduca integralmente un corpus creato nella scuola stessa di Coricio appare in effetti oggi meno
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credibile: il manoscritto indubbiamente eredita edizioni d’autore o di scuola, con le dialexeis accorpate ai discorsi di riferimento (si veda in proposito Te l e s c a [125]) e con titoli e note di commento che a volte danno indicazioni non ricostruibili dai testi (come già si è visto, lo notò M a a s [3, 40]), ma alcune divergenze nella presentazione dei testi (ad es. la diversa posizione del titolo in opp.I–II, dove è prima delle dia lexeis, rispetto a op.III, dove invece segue, notata da C o r c e l l a [121, 256–257]) e forse anche l’assenza di nota di commento davanti a op.VII or.6 (se pure non è esito di perdita accidentale) potrebbero sorreggere l’ipotesi di differenti edizioni e di vari corpuscoli risalenti sì all’autore o alla sua scuola e però messi insieme solo in età successiva. In ogni caso è evidente che almeno nell’ultima parte del manoscritto l’ordine presentato da M non costituisce l’unica forma della tradizione giunta all’età bizantina. Ciò era in parte chiaro già a F o e r s t e r , che aveva ben notato l’indicazione al fol.173v e designava il Patroclus e il Vir Fortis, con le dialexeis pertinenti, come «mantissa» aggiunta al corpus originario (1, VII–VIII). Va peraltro notato, con A m a t o (15, 105–106) e Te l e s c a (125, 98–99), che F o e r s t e r inserì la dialexis sulla rosa, assente in M, come op.XXXIX dial.24, e cioè come discorso preliminare al Vir fortis (mutilo in M della parte iniziale per una lacuna materiale che ha fatto perdere anche il finale del Patroclus), ma che tale scelta non è motivata dalla posizione che essa occupa nel manoscritto atonita (Ath), dove invece compare prima del Rhetor, assieme a op.XLI dial.25; e poiché quest’ultimo testo, tutto incentrato sul concetto che non bisogna lasciare il discorso a metà, è chiaramente una seconda dialexis premessa alla recitazione di una parte restante del Rhetor (τῆς μελέτης τὸ λεῖπον, come è detto nella nota di commento iniziale), più verosimile appare l’ipotesi che la dialexis sulla rosa in realtà costituisse la prima dialexis del Rhetor e che la dialexis o le dialexeis presumibilmente premesse al Vir fortis siano andate invece definitivamente perdute (salvo fortuiti ritrovamenti futuri). Non solo per l’appendice, però, si può pensare che l’ordine di M non rappresenti l’unica tradizione giunta dall’antichità: Macario Crisocefalo certo conosce un manoscritto costruito in maniera simile a M (dopo F o e r s t e r [1, XXX–XXXI] si vedano le osservazioni di A m a t o [119, 281–284]) ma sembrerebbe aver letto l’Apologia mimorum (indicata peraltro, stando almeno all’edizione di V i l l o i s o n , come λόγος α’, quindi con numerazione autonoma rispetto ai logoi della prima parte) alla fine di esso. Te l e s c a (125, 96–98) ha infine preso in considerazione la possibilità che op.XV dial.8 non si trovi, in M, al posto in cui dovrebbe essere: vi appare infatti come prima dialexis del Miltiades, declamazione che sembra però troppo breve per ammettere due dialexeis, mentre forse in origine poteva essere legata ai Lydi, prima dei quali sarebbe invece finita l’orazione sui Brumalia, che può certo considerarsi una dialexis perché breve e improvvisata ma ben difficilmente avrà avuto il ruolo di dialexis preliminare o prolalia (sul ruolo delle dialexeis e sulle definizioni dei diversi generi torneremo infra, B.3.b). Nonostante tutto questo, però, non sarebbe a mio avviso consigliabile, in una futura edizione, rinunciare a seguire un ordine vicino a quello di M, sia pure con alcune opportune modifiche e avvertenze, né soprattutto gioverebbe separare le dialexeis dai discorsi e dalle declamazioni (come proposto a suo tempo dal recensore per BAGB [5, 174–175]; cfr. A m a t o [15, 105]): si perderebbe in tal modo un importante, anzi
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unico, dato tradizionale, già valorizzato dall’autore del περὶ λογογραφίας (ved. supra). Si può poi sospettare che almeno la posizione liminare degli encomi per Marciano riproduca comunque una possibile scelta d’autore o di scuola, con la programmatica prima dialexis all’inizio (in tal senso C o r c e l l a [116, 447]). La visione più complessa e composita della tradizione coriciana fin qui delineata non rende totamente impossibile che in futuro si scoprano nuovi testi coriciani direttamente tramandati, recuperando magari la parte perduta del Vir fortis oppure la dialexis (o eventualmente le due dialexeis) che doveva (o dovevano) introdurre l’orazione o addirittura altri testi non compresi nelle selezioni finora note (così A m a t o [15, 102–103]). Sulla base del ritmo e della tendenza a evitare lo iato, F o e r s t e r ravvisò a suo tempo nella descriptio 30 del corpus libaniano un prodotto «e schola Gazaea» (Libanii Opera VIII 445 n.1, cfr. RE XII [1925], 2522), e il suo giudizio è ora ricordato da G i b s o n (117, XXV e 429), ma nulla autorizzerebbe comunque ad attribuirla a Coricio (o a Procopio), e la presenza di echi da Achille Tazio ed Eliodoro nonché la lingua e il tono generale fanno semmai pensare a un ben più tardo esercizio bizantino; ipotetica anche l’attribuzione alla scuola di Gaza della descriptio 3 proposta da F r i e d l ä n d e r (70, 86 n.1). Quanto al tentativo compiuto da S i d e r a s (84; 98, 393–397) di attribuire a Coricio le due monodie contenute nel manoscritto Laurenziano 60,6, esso si è rivelato errato dopo che C o r c e l l a ha mostrato come si tratti invece di opere di Procopio (si veda il capitolo su Procopio nella seconda parte della presente bibliografia); i saggi di S i d e r a s hanno comunque avuto il merito di mettere in luce una serie di elementi stilistici e contenutistici delle orazioni funebri coriciane, su cui torneremo nelle sezioni A.4 e B.3.b.i.α. Meno remota è forse la possibilità che nuovi frammenti delle opere coriciane perdute emergano dalla tradizione indiretta, soprattutto dai florilegi. Il carattere ondivago delle attribuzioni di paternità nei florilegi obbliga comunque alla prudenza: A m a t o (15, 101–102) aveva individuato, nel florilegio del Barocciano 143, una sequenza che, facendo immediatamente seguito a un brano coriciano (XL 3), ben si prestava ad essere intesa come ulteriore frammento dal medesimo retore; un approfondimento sulla tradizione del Florilegium Patmense ha però in seguito portato lo stesso A m a t o (119, 281 n.92) a riconoscere che si tratta, invece, di citazioni isocratee. Degli stessi due frammenti che, tratti da florilegi, si leggono alla fine dell’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g (1, 544) il primo va del resto senz’altro eliminato, il secondo è perlomeno dubbio (ved. infra, A.6). Si può infine segnalare che all’interno della raccolta ippiatrica cantabrigiense una ricetta riportata nel Cantabrigiense Emm. 3,19 (C) con l’intestazione ἄλλο τὸ τοῦ Χωρικοῦ viene invece aperta, nel Londinense Sloan 745, dalla formula ἄλλο τὸ τοῦ Χορικίου σοφιστοῦ (LVII 2, Corpus Hippiatricorum Graecorum II 188,7: O d e r stampa ἄλλο τὸ τοῦ Χορικου). Come ha notato D o y e n - H i g u e t (113, 86), questo «Coricio sofista» è senz’altro Coricio di Gaza, ma per quanto l’errore Χωρικός per Χορίκιος sembri anche altrimenti attestato (così ad es. in alcuni manoscritti di florilegi, come annota in apparato S a r g o l o g o s [108, 643], forse per erroneo scioglimento di compendio) la probabilità che questa tecnicissima prescrizione davvero
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risalga al retore è minima; M c C a b e (115, 14, 43, spec. 283) ha fatto rilevare come nella recensione L (il cui terminus ante quem è il XIII secolo, data del manoscritto londinese) si abbia, nei capitoli in discussione, la tendenza ad attribuire le ricette a illustri sapienti, tra i quali Erodoto o Apollonio di Tiana, sicché anche l’altrimenti ignoto Χωρικός di C (vero nome, soprannome, pseudonimo o forma corrotta?)8 sarà stato trasformato nel celebre «Coricio sofista». Difficilmente quindi la ricetta ippiatrica potrà essere un nuovo frammento di Coricio, ma si tratta comunque di una ulteriore testimonianza della fama di cui egli godeva nel mondo bizantino e specialmente in età comnena (ved. supra). 4. La lingua e lo stile 131. M. L e j e u n e , Les adverbes grecs en -θεν, Paris 1939. 132. S. F e r a b o l i , Nota a Coricio, Orazione XVII, RhM 119, 1976, 329–335. 133. G. To m a s s i , La pratica declamatoria nella scuola di Gaza: il caso del Tirannicida di Coricio, in: E . A m a t o – A . C o r c e l l a – D . L a u r i t z e n (éds.), L’École de Gaza: espace litteraire et identité culturelle dans l’antiquité tardive. Actes du Colloque International de Paris, Collège de France, 23–25 mai 2013, Leuven – Paris – Bristol, CT 2017, 339–366. Cfr. 1, 3, 5, 12, 34, 38, 46, 61, 62, 65, 84, 111, 116. Un profondo conoscitore di prosa greca tarda quale Giacomo L e o p a r d i , in una memorabile pagina dello Zibaldone (2793), osservava che «gli scrittori greci de’ secoli medii e bassi, cioè dal terzo inclusive in poi, sono pieni d’improprietà di lingua» e offriva un esempio tratto proprio da Coricio, e cioè l’uso di δικαστῇ per κριτῇ o μάρτυρι nell’encomio per Summo (IV 18, p.74,11). L’imitazione atticistica in Coricio è in effetti molto attenta e precisa, al punto che la retorica stessa è per eccellenza arte «attica» (sul punto ved. C o r c e l l a [111, 79–80]), ma – come del resto sapeva già Fozio – non raggiunge la perfezione e la possibilità che tendenze moderne si insinuino nella sua lingua è stata occasionalmente sondata (sui problemi generali di metodo in ciò implicati si può vedere la sintesi di A. R o l l o , «Greco medievale» e «greco bizan tino», AION. Sez. linguistica 30, 2008, 429–473, con ricca bibliografia). L’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g potè avvalersi dei risultati dell’accurato studio di Willem v a n D i s (De Choricii Gazaei genere dicendi, Diss. Traiecti ad Rhenum 1897), ricordato nei Prolegomena (1, XXXIII) e spesso citato nella prima fascia di apparato. I recensori però subito notarono un’eccessiva tendenza alla normalizzazione, specialmente nella sintassi. M a a s (3, 39) in particolare si oppose alla tendenza 8 A Nessana, tra VI e VII secolo, all’interno di una lista di acquirenti indicati col nome proprio al genitivo compare anche χορικοῦ, generalmente ritenuto errore grafico per χωρικοῦ e inteso come nome comune per un «farm hand» ignoto o il cui nome non era rilevante (PNess III 91 fr.A–B I.6; cfr. μωναχοῦ [sic] in fr. E 61). Sul nome di Coricio ved. infra, B.1.
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ad eliminare anomalie sintattiche che si ripetano nel testo e siano giustificabili con il ritmo o con la volontà di evitare lo iato, citando in particolare alcuni casi di presenti (o anche aoristi nel caso di infiniti) in luogo di futuri, di costruzioni irreali con il perfetto o senza ἄν, di ottativi con ἄν in espressioni iterative (indicherò i singoli passi nella sezione A.6). Lo spunto fu ripreso dall’anonimo recensore per BAGB (5, 175–176), che osservò come nel VI secolo siano ormai ben attestate la confusione di indicativo, congiuntivo ed ottativo e l’incertezza nell’uso di ἄν, dell’infinito presente o futuro, delle forme riflessive o non riflessive alla terza persona e come Coricio, pur nel suo atticismo, non restasse immune da qualche influsso della lingua contemporanea, sicché – concludeva – «(v)ouloir faire écrire Choricius comme un auteur du XIIIe ou du XIVe siècle est une erreur aussi grave que de vouloir, pour la langue, faire de lui un contemporain de Platon». Sulla base di questo condivisibile presupposto, il recensore indicava una serie di casi in cui la correzione non sarebbe necessaria (anche questi saranno discussi in seguito) e additava, in particolare, la possibilità di salvare certi usi del congiuntivo per l’ottativo e viceversa o alcuni pronomi di luogo impropri presenti nei manoscritti, nonché l’uso di αὐτόν per αὑτόν a fronte della normalizzazione operata da F o e r s t e r . Al recensore in realtà non sfuggiva come in molti di questi casi (ad es. τύχῃ per τύχοι o viceversa) si possa facilmente sospettare errore itacistico dei copisti, il che complica non poco il compito dell’editore: nel caso di omofonia tra forma tradita non regolare ma possibile nella lingua tarda e forma regolare secondo la sintassi dell’attico classico, normalizzare potrebbe essere arbitrario, ma non farlo espone al rischio di un rispetto servile per i più triviali errori della tradizione e di un oltraggio alla cultura linguistica dell’autore (ancora degne di essere meditate, da questo punto di vista, alcune caute note di G r a u x nelle sue editiones principes; istruttiva anche l’ironia con cui S c h u b a r t , in Jahrbücher der Literatur 63, 1833, 62–63, commentò alcune congetture di B o i s s o n a d e , tra cui un φέροι per φέρει in Coricio XXVI 34). Un esame sistematico del testo coriciano potrebbe fornire elementi più saldi, ma a quanto mi risulta, sia pur nel fiorire di studi sul greco bizantino (nei quali vari fenomeni indicati da M a a s e dall’anonimo recensore – ad es. la confusione di aoristo e perfetto o la perdita di controllo sull’uso dell’ottativo – sono stati illustrati sulla base dell’uso di vari autori), la sintassi di Coricio non ha ricevuto particolari attenzioni. Ancora S c h n e i d e r (46, 315), nel recensire l’edizione dell’Apologia mimo rum di S t e f a n i s (38), nota così en passant una costruzione senza ἄν e un εἰ + ottativo a indicare eventualità (nonché un caso di βλέπω col participio), ma l’uso coriciano dei tempi e modi verbali – come pure, ad esempio, quello delle negazioni – meriterebbe ulteriori approfondimenti. Qualche dubbio si può anche nutrire sulle forme ἐντεῦθε e οἴκοθε che F o e r s t e r , come già B o i s s o n a d e e G r a u x , lesse nel Matritense: L e j e u n e (131, 132 n.1) le riteneva echi dell’uso attestato in testi letterari a partire da Pindaro (e più ampiamente diffuso: ved. ora L . T h r e a t t e , The Grammar of Attic Inscriptions. II. Mor phology, Berlin 1996, 402–404), ma c’è da chiedersi se non siano invece frutto di un equivoco dovuto a un tipico errore di M (su cui ved. G r e c o [61, 37]); l’ἐνθένδεν a evitare lo iato che M ha in XXVIII 2, p.312,10, e che sulla base della prima edizione di F o e r s t e r del 1894 lo stesso L e j e u n e (131, 382) registrava come possibile
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«réfection», era stato in realtà da F o e r s t e r normalizzato nella teubneriana per suggerimento di H e r w e r d e n , e però si ritrova variamente in autori bizantini. Sulle forme senza aumento dei preteriti di verbi comincianti con dittongo si sofferma rapidamente S i d e r a s (84, 68). Il campo privilegiato per l’atticismo di Coricio, appreso alla scuola di Procopio, è naturalmente quello del lessico, come rivela il noto passo di VIII 8 (su cui ved. infra, A.5 e B.3.b). Pure, anche in questo campo – come appunto sapeva L e o p a r d i – non mancano casi in cui le tendenze della lingua moderna sembrano emergere. L i t s a s (34, 297) notò che in VII 24, p.106,11 παίδων sta per υἱῶν, e l’osservazione è ripresa da G r e c o (61, 120–121); quanto la stessa G r e c o (61, 191) osserva su un uso di παρά = «nonostante» come in greco moderno è contraddetto da C o r c e l l a (65, 518), che vi ravvisa invece un più classico uso demostenico. La possibilità che il φιλαλήθης che si legge in I 77, p.22,2 sia termine con risonanze moderne è adombrata da C o r c e l l a (116, 456), mentre particolarmente attento a rilevare le possibili connotazioni cristiane di alcuni termini è il commento di G r e c o (61). Sull’uso di linguaggio tecnico nelle ekphraseis ved. infra, B.2.b e B.3.b.i.α. Una ricerca più approfondita richiederebbe comunque la stesura di un Lexicon Choricianum (per quello approntato da R i c h t s t e i g e rimasto manoscritto ved. su pra, A.1; il non averlo pubblicato, né aver apposto all’edizione un Index grammaticus, apparve un limite già all’anonimo recensore per BAGB [5, 174]). Un tale lavoro aiuterebbe tra l’altro a conseguire quella uniformità ortografica che F o e r s t e r , per le vicende dell’edizione, non potè garantire: nella teubneriana si legge ad es. ora ἀνδρία ora ἀνδρεία, e su καταβραχύ o κατὰ βραχύ si interroga L u p i (62, 147). Quando la variante grafica implichi differente accento, il problema diviene più rilevante perché può interferire sul ritmo in clausola (sulla scia di M a a s [12, 127 = 233], ne vedremo esempi nella sezione seguente); F o e r s t e r scrive peraltro solitamente εὖ φρονεῖν ma εὐφρονῶν in XXXII 74, p.361,3, dove S t e f a n i s (38, 94) sceglie ora la forma divisa, e tuttavia la forma unita rende evidente, in clausola, la presenza di un unico accento. Nel più sostanziale caso di εὐπραξίᾳ di VII 34, p.108,20 contro εὐπραγίαι di VII 2, p.100,8 (ma εὐπραξίαι Flor. Marc. 337 Odorico!) già R i c h t s t e i g si chiese se non convenisse uniformare e G r e c o (61, 133) invoca appunto l’ausilio di un lessico: le due forme sembrano alternarsi variamente nel corpus (come già, stando almeno alla tradizione, in autori classici come Tucidide) e il passo gnomico del par.2 potrebbe e ssere letteralmente ripreso da una fonte. La diretta imitazione degli auctores va in e ffetti sempre tenuta presente nel valutare la lingua di Coricio: vi dedicheremo una sezione apposita nella seconda parte (B.3.a). Allo stile di Coricio e al suo uso delle figure retoriche, già ben indagato da Willem v a n D i s , negli ultimi decenni è stata rivolta maggiore attenzione, in conseguenza di quel rinnovato interesse per gli aspetti formali della composizione antica su cui avremo modo di tornare in seguito. Alcune figure retoriche del Miltiades vennero passate in rassegna da F e r a b o l i (132, spec. 332), mentre sulla perifrasi come strumento precipuo per evitare termini moderni o tecnici e restare quindi fedeli alla scelta classicistica svolge qualche osservazione C o r c e l l a (111, 89–90). Grande attenzione viene riser-
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vata alle figure retoriche nel commento di G r e c o (61), che dedica peraltro un apposito indice agli «elementi stilistici e retorici» (p.201), come pure in quello di L u p i (62), nonché, da ultimo, nello studio del Tyrannicida di To m a s s i (133). L u p i , in particolare, nota la frequenza, in Coricio, dell’iperbato (si veda specialmente 62, 130, nonché ad indicem), che però è spesso dovuto all’esigenza di rispettare il ritmo, aspetto di cui ci occuperemo nella sezione seguente. 5. Il ritmo della prosa 134. S. S k i m i n a , État actuel des études sur le rythme de la prose grecque II (Eus Suppl. 11), Lwów 1930. 135. W. H ö r a n d n e r , Der Prosarhythmus in der rhetorischen Literatur der Byzantiner, Wien 1981. 136. A. C o r c e l l a , Choricius 6,44; 12,80; 17,23, Eikasmos 16, 2005, 325–326. 137. M. S t e i n r ü c k , Éthos et rythme chez Sévère d’Alexandrie, in: E . A m a t o – J . S c h a m p (éds.), Ἠθοποιία. La représentation de caractères entre fiction scolaire et réalité vivante à l’époque impériale et tardive, Salerno 2005, 156–162. 138. A. C o r c e l l a , La nuova διάλεξις di Procopio di Gaza: un commento, Eikasmos 25, 2014, 199–239. Cfr. 1, 3, 8, 12, 61. Dopo la ricca e controversa stagione di studi seguita alle scoperte di Wilhelm M e y e r , su cui, oltre la bibliografia citata da R i c h t s t e i g nei Prolegomena dell’edizione (1, XXXIII–XXXIV), si può vedere la messa a punto di S k i m i n a (134, su Coricio spec. 14, 24, 39–40, 58), le ricerche sul ritmo accentuativo nella prosa d’arte tardoantica e bizantina hanno trovato una sintesi soprattutto nell’opera di H ö r a n d n e r (135). Vari restano, come è noto, i problemi teorici e pratici che rendono complessa l’analisi (per un orientamento, con bibliografia, si può rinviare a studi esemplari come H. C i c h o c k a , La posizione dell’accento nella clausola degli storici protobizantini, Koinonia 6, 1982, 129–145 e E. A m a t o – G. V e n t r e l l a , I Progimnasmi di Se vero di Alessandria (Severo di Antiochia?), Berlin – New York 2009, 40–49); ma rispetto ai dubbi che si possono invece nutrire per altri autori greci tardoantichi, e anche al diverso comportamento di un altro gazeo come Enea, l’observatio non lascia dubbi sul fatto che Coricio, come il suo maestro Procopio, abbia coscientemente e con scrupolo evitato intervalli eguali a zero o dispari tra le sillabe accentate in clausola; è quindi altamente verosimile che proprio a questa regola Coricio faccia riferimento quando, nel rievocare l’insegnamento del maestro, ricorda l’attenzione con cui questi riprendeva ogni «sillaba che attentasse al ritmo» (VIII 8, su cui da ultimo H ö r a n d n e r [135, 21] e G r e c o [61, 150–151]; cfr. anche infra, B.3.b). L’analisi di H ö r a n d n e r (135, 76–78 e tabella a p.163), fondata sugli specimina di opp. I or.1 e VIII, ha in effetti confermato l’assoluta prevalenza, tanto in clausole primarie quanto in clausole secondarie, degli intervalli di due o quattro sillabe: si va
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ben oltre il 95 %, sicché non può trattarsi di un caso, e nei pochi casi restanti è lecito dubitare che vi sia davvero pausa, anche solo debole, o si può sospettare della sanità della tradizione; si ravvisa peraltro una certa predilezione per gli intervalli di quattro sillabe e le chiuse con parola parossitona. Per alcune situazioni che sembrano a prima vista sottrarsi alla norma occorrerà tener conto dei più recenti studi sull’accentazione bizantina (da G i a n n e l l i a N o r e t ), ma è ancora utile prendere in considerazione le regole particolari formalizzate da Paul M a a s (12, 127 = 232–233) a partire da un’analisi dello Spartiates (op.XXIX decl.8) e riprendendo i suoi vari studi precedenti sul Prosarhythmus bizantino (le osservazioni tra parentesi sono di chi scrive): 1) l’enclitica dopo properispomena non riceve accento (il che è coerente con la nuova natura intensiva dell’accento e la perdita del senso della quantità); 2) l’articolo, generalmente atono, può ricevere accento davanti a parola parossitona quadrisillaba in clausola, come in θυμοῦ τῆς Ἀφροδίτης, XXIX 4 (il tipo, già messo in luce da H. B. D e w i n g , The Accentual Cursus in Byzantine Greek Prose, Transactions of the Connecticut Academy of Arts and Sciences 14, 1910, 415–466: 432, trova in Coricio vari riscontri, e oltre a numerosi casi dopo parole proparossitone, quindi in lunghi intervalli potenzialmente atoni, se ne hanno in effetti non pochi dopo ossitone o perispomene, ad es. in III 11, XXXII 151, XXXVIII 19, etc., sicché si potrebbe formulare una spiegazione che, riconoscendo il carattere proclitico dell’articolo, presupponga il generarsi di un Nebenaccent in «parole ritmiche» più lunghe: dell’ipotesi non si deve certo abusare, pena la petitio principii, ma essa ben spiegherebbe anche casi come ἀνατείνεσθαι γεγυμνασμένου [I 39], ἀρέσκεται πλεονεκτήμασιν [II 10], ἐπανῆκεν ἐστεφανωμένη [XXXIX 6], o come σίτου τῇ περιουσίᾳ [III 43], per i quali la possibilità alternativa di postulare un’indifferenza a sequenze atone superiori alle quattro sillabe sembra parimenti negata da esempi quali φωνῶν ἀπειροκάλων [I 85, per cui ved. però infra], ἐπαφρόδιτος εἶ δημοτελεῖς [IV 32, dove tuttavia εἶ potrebbe essere atono: ved. il punto 4, nel cui commento si accennerà anche ai consimili XXXV 89 e XXXVIII 32] o θαμὰ ἐπιδεικνύοιτο [XXVII 5, in cui meno motivato sarebbe postulare, invece che pausa, legatura con quanto segue], che forniscono peraltro un buon sostegno, nella clausola di XXXVIII 14, al ταὐτὰ βεβουλευμένον di B o i s s o n a d e e F o e r s t e r [ταῦτα i mss.] e trovano riscontri anche nell’usus di Procopio [ad es. in dial. II 4 e in descr.imag. 10]); 3) μέν, δέ, γάρ, οὖν possono ricevere accento dopo una proparossitona, come in γράμματα μὲν Ἀφροδίτη, XXIX 63 (in realtà queste particelle parrebbero poter essere pronunciate in maniera marcata quando sono usate con particolare valore enfatico, soprattutto in contrapposizioni [ved. ad es. R. M a i s a n o , La clausola ritmica nella prosa di Niceforo Basilace, JÖByz 25, 1976, 87–104: 90], e come per gli articoli il loro accento può essere in clausola ritmicamente valorizzato davanti a parole aperte da due sillabe atone sia dopo proparossitone sia dopo parole accentate sull’ultima sillaba, cfr. ad es. πολεμικοῦ μὲν ἡμερώτερον, ἐρωτικοῦ δὲ φοβερώτερον [XXXV 24]; a proposito di μέν va inoltre notato che quando membri marcati da μέν e δέ siano in stretto legame sintattico e il primo sia, per così dire, incompleto tra essi non va postulata pausa ma legatura, come ad es. in XXXII 3, τοὺς μὲν τοῦ κακῶς ἀκούειν, τοὺς δὲ τοῦ κακῶς δοξάζειν ἐλευθερῶσαι: sul fenomeno si veda il commento alla nuova dialexis di Procopio in C o r c e l l a [138]); 4) ἐστι, quale che sia il suo valore, può essere sempre trat-
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tato come parossitono, e parossitono può essere anche l’ἡμῖν altrimenti atono (così, se non erro, solo in XXIX 76 e XXXV 70, laddove in XXXV 89 [ἡμῖν συνεβουλεύεσθε] e in XXXVIII 32 [ἡμῖν συναλλαγῆναι] seguono – nel secondo caso per buona congettura – parole lunghe aperte da tre sillabe atone, sicché si potrebbe piuttosto ricadere nel caso, discusso al punto 2, di accento secondario); εἶ = es può d’altra parte essere enclitico (l’unico esempio indiscutibile mi pare aversi in XXVI 45, mentre il passo di IV 32 citato da M a a s ammette la diversa spiegazione accennata al punto 2); 5) in certi casi è opportuno adottare accentazioni diverse da quelle di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g , ma comunque attestate o almeno possibili, per alcune parole, scrivendo ἄχρειος, βοίδιον, γέλοιος, θεοισεχθρά, κυοῦσα, τίτθη/τίτθος, τριηρῶν, τροπαῖα, ὑγιεία, ὠφελία, nonché Φρυνή (i luoghi rispettivi sono passati in rassegna nella lista di nuove proposte testuali infra; si potrà anche accentare ἀναιδείαν in XL 75, p.497,18, e forse addirittura φατριάς in III 52, p.62,23). Sempre M a a s (12, 126 = 231) accennava inoltre alla possibilità che l’assenza di clausola ritmica denunci una citazione non adattata ma messa per così dire tra virgolette (tale ad es. τὸ καλὰ λέγειν in II 15, che è da Platone, Gorg. 498e–499a, o τῶν τοιούτων ἔχεται in V 17, da Resp. 329a, e su altri esempi torneremo infra; viene da pensare a citazione di frasi fatte o presenti in auctores anche per il μεῖζον ἢ κατ᾽ἐμὲ φορτίον di II 25 [se pure non debba scriversi κατά με, ma cfr. Origene, fr. in Lam. (cat.) 70, nonché (Dem.) XI 14] o per l’οὐδαμοῦ θήσομεν di XXIII 65 [così M, e cfr. infatti Aristide III 311, p.397,6–7 e XI 39, p.693,11 Lenz-Behr]). Al di là di questi casi, intervalli dispari o pari a zero, soprattutto in pausa più forte, risultano in principio sospetti. La considerazione del ritmo resta così fondamentale per la costituzione del testo coriciano ed è su questa base che M a a s (3; 12), S y k u t r i s (8) e, più recentemente, C o r c e l l a (136) hanno messo in discussione alcune correzioni contra rhythmum di F o e r s t e r e formulato nuove proposte. Alle osservazioni già edite che passeremo in rassegna all’interno della sezione seguente si possono aggiungere casi come III 33, pp.57,25–58,1 (πρὸς τὴν ὕβριν θεμένη M recte, πρὸς τὴν ὕβριν τιθεμένη F o e r s t e r ), IV 81, p.68,26 (ὑπερεβάλλεσθε M recte, ὑπερβάλλεσθε C o b e t , F o e r s t e r ), VI 19, p.92,4 (l’articolo introdotto da F o e r s t e r non è necessario e guasta il ritmo), XX 57, p.242,28 (ὑμῖν προεξένεσα M recte, ὑμῖν προὐξένεσα F o e r s t e r ; cfr. IV 36, p.80,6 e XV 7, p.195,16, nonché πάντων προέταξα in XXXV 128, pp.425,23–426,1), XXXVIII 45, p.461,3 (ἑστιᾶται codd. recte, ἑστιάσεται F o e r s t e r ); anche in XVII 1, p.199,2 il tradito e ritmico περιέρχεσθαι può forse essere difeso (παρέρχεσθαι F o e r s t e r ), come il γίνεται di XXXV 133, p.427,14 (γενήσεται F o e r s t e r ), e in XXXVIII 62, p.469,18 sembra preferibile la variante, garantita dalla paradosi, πταίει (scil. Agamennone). Per converso, in X 76, p.147,24 sarebbe facile correggere in ἡδίονα τοῦ πολέμου e in XXXV 114, p.422,10 in ῥαδίως αἰσθανομένην; in XIII 11, p.178,5 ci si aspetterebbe piuttosto ἀρύσασθαι νάματα (forse non impossibile anche lasciando intatto il precedente τῶν αὐτῶν) e in X XXVIII 35, p.456,7 dubbio mi pare, anche per il senso, μῖσος ἀπόδοσιν οὐκ ἔχον (forse οὐ δεχόμενον?); mentre in V 10, p.84,2, dove il breve e sarcastico discorso di Hermes alle Muse ha l’aritmica chiusa τοῖς παιδαρίοις ᾄδετε; (specialmente sgradevole sulla bocca del patrono dei retori), forte è la tentazione di introdurre un epicheggiante ἀείδετε, che sarebbe quanto mai adeguato alla situazione.
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Non bisogna tuttavia dimenticare che le regole sulle clausole ritmiche, e specialmente quelle in apparenza più artificiose, sono solo dei tentativi di descrivere, sulla base della observatio, i diversi modi in cui il retore, recitando, predisponeva le pause: la piana e gradevole cadenza di ritmo pari è la normalità, ma ad essa si poteva talora arrivare operando sottolineature enfatiche (dando ad es. risalto con l’accento a un δέ); in alcuni casi, invece, una potenziale pausa poteva essere evitata con un ritmo dispari cui corrispondeva una legatura (e quindi si creavano kola più lunghi, pronunciati d’un fiato, soprattutto quando si aveva connessione attraverso μέν/δέ o καί); mentre in altri ancora non si può escludere la cosciente volontà di chiudere effettivamente in ritmo d ispari per dare il senso di una rottura o sospensione (così ad es. nella citazione del solo esordio della legge soloniana in XXXII 150, e qualcosa del genere si potrebbe ad es. postulare, con un effetto malizioso, per il σοι φαίνεται καλλίων di V 21, se pure non si tratti invece di citazione). Così, anche per casi che sfuggano a ogni apparente norma, prima di invocare l’errore della tradizione manoscritta (o eventualmente la sbadataggine dell’autore), resta talora, se il contenuto del testo ne offre l’ansa, la possibilità di postulare speciali funzioni espressive nella performance (ved. quanto si osserverà nella sezione seguente a proposito di op. XXIX, con esempi anche da altre opere). Ciò è tanto più vero se dall’esame del solo cursus in fine di frase o di kolon ben marcato, dove un ritmo dispari dev’essere comunque considerato del tutto eccezionale, si passa a un’analisi che consideri anche le incisioni più deboli e il ritmo complessivo delle frasi. Nei più recenti studi sul Prosarhythmus, in effetti, la tendenza ad andare al di là delle clausole, analizzando la struttura accentuativa dell’intera frase e di tutti i suoi membri, va riemergendo (interessante l’uso che, a tal scopo, è stato fatto delle traduzioni in antico slavo: V. V a l i a v i t c h a r s k a , Rhetoric and Rhythm in Byzantium. The Sound of Persuasion, Cambridge 2013); tale prospettiva non era in realtà del tutto estranea alla sensibilità di Paul M a a s , come mostrano gli esempi di analisi su brani dello Spartiates (12, 126–127 = 231–232), ma rispetto alle più schematiche analisi maasiane si tende ora a indagare il modo in cui gli autori bizantini ritmicamente strutturano, in funzione del contenuto, i kola e kommata successivi, con sequenze omogenee o, viceversa, con alternanze e fratture, eventualmente segnate da ritmi dispari, miranti a speciali effetti (utili spunti in questo senso nel già citato R . M a i s a n o , La clausola ritmica nella prosa di Niceforo Basilace, JÖByz 25, 1976, 87–104). Su tale linea, all’interno di uno studio del ritmo come espressione dell’ethos, Martin S t e i n r ü c k (137, 162) conclude un abbozzo di analisi di Coricio I or.1,12 notando la presenza di «brefs couples accentuels comme chez Prokopios, avec beaucoup de pauses sans rythme», in contrapposizione al più sistematico uso delle serie ritmiche e delle loro interruzioni, in stretta relazione con il contenuto della narrazione, nelle etopee di Severo. Il confronto tra lo stile delle etopee e quello di una composta orazione pubblica è in realtà impari (M a a s [12, 126 = 231] opportunamente notava, all’interno dello stesso corpus coriciano, la maggiore scioltezza ritmica delle dialexeis rispetto alle altre opere, anche in riferimento allo iato), ma ulteriori indagini, che si incentrino sul rapporto tra ritmi e contenuti, potranno certo offrire interessanti risultati.
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6. Nuovi contributi al testo 139. A. S a l a č , Quelques epigrammes de l’Anthologie Palatine et l’iconographie byzantine, Byzantinoslavica 12, 1959, 1–28. 140. Anthologie grecque. Tome VIII: Anthologie Palatine, Livre IX, 359–827. Texte établi et traduit par P. W a l t z et G. S o u r y avec le concours de J. I r i g o i n et P. L a u r e n s , Paris 1974. 141. A. M. V. P i z z o n e , Choriciana, Eikasmos 16, 2005, 327–335. 142. C. S a l i o u , L’orateur et la ville: réflexions sur l’apport de Chorikios à la c onnaissance de l’histoire de l’espace urbain de Gaza, in: C . S a l i o u (éd.), Gaza dans l’Antiquité Tardive. Archéologie, rhétorique et histoire, Actes du colloque international de Poitiers (6–7 mai 2004), Salerno 2005, 171–195. Cfr. 3, 5, 8, 10, 12, 15, 16, 17, 18, 20, 24, 29, 34, 35, 37, 38, 39, 41, 42, 44, 47, 53, 55, 58, 61, 62, 64, 65, 66, 67, 88, 93, 105, 106, 108, 111, 112, 116, 124, 125, 135, 136, 138. A conclusione di questa prima parte del rendiconto dedicata agli studi sul testo e la lingua di Coricio ritengo di fare cosa utile riportando, opera per opera, le proposte a me note avanzate, a partire dal 1929, a modifica del testo di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g . Segnalo peraltro come F o e r s t e r , pur in genere molto largo nel riportare in apparato le più varie congetture, anche se trasmesse per litteras e talora francamente superflue, al punto da dare l’impressione di aver reso conto, senza filtri, di tutto il precedente lavorio testuale, si mostri invece idiosincratico (per vera scelta o forse solo per l’assenza di una revisione finale?) nell’ignorare o riportare solo in modo selettivo gli interventi suggeriti da alcuni recensori delle sue prime edizioni parziali (è il caso, in particolare, delle proposte avanzate da K . P r a e c h t e r , ByzZ 1, 1892, 609–612 e da W. H e a d l a m , JPhil 23, 1895, 295–296; sul punto ved. anche T e l e s c a [16]): non indicherò tali interventi sistematicamente in questa sezione, ma poiché essi non sono sempre spregevoli sarà bene che il futuro editore li prenda comunque in considerazione. Op.I dial.1, pp.1,1–2,15 F.-R. –– inscriptio, p.1,2: per i primi tre testi F o e r s t e r accorpò dialexeis e discorsi, con numerazione unica e stampando i titoli prima delle dialexeis: una presentazione che corrisponde a quella di M per op.III, mentre per opp.I e II il manoscritto presenta i titoli dei discorsi solo dopo le dialexeis (come in genere per gli altri discorsi, sicché l’editore farebbe forse meglio a seguire questo secondo uso, cui mi atterrò nella presentazione che segue). Tale divergenza potrebbe indicare una fusione di edizioni parziali leggermente differenti nei criteri, ma comunque dovute all’oratore stesso o a un suo scolaro (ved. supra, A.3). In effetti, nel commentare la scelta di F o e r s t e r di stampare, per il primo discorso, un titolo abbreviato rispetto a quanto realmente tradito, M a a s (3, 40) utilmente notò che sarebbe stato invece opportuno riportarlo nella forma completa attestata dal manoscritto (Ἐγκώμιον εἰς Μαρκιανὸν ἐπίσκοπον Γάζης, ἐν ᾧ καὶ ἔκφρασις ναοῦ τοῦ ἁγίου μάρτυρος Σεργίου),
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senza cioè tralasciare quella identificazione del dedicatario della chiesa con s. Sergio che, non ricavabile dal testo, doveva autenticamente risalire all’autore o alla sua scuola. L’invito a riportare i titoli in forma completa può essere esteso anche a opp. II, V, VI, VIII, dove tuttavia i dati presenti nei titoli omessi da Foerster erano a rigore ricavabili dai testi (in II, in particolare, che la chiesa descritta fosse dedicata a s. Stefano era chiaro dal riferimento al protomartire al par.27, anche se il dato è sfuggito a S a l i o u [142, 180 n.65]; mentre per gli altri tre testi le indicazioni omesse da F o e r s t e r appaiono piattamente descrittive, cfr. in proposito le osservazioni di G r e c o [61, 23]). –– § 2, p.1,12: bella ma forse non necessaria la congettura ὡς ποικίλην di S y k u t r i s (8, 1842). –– § 4, p.2,7–12: già M a a s (3, 30) osservò come il testo emendato da F o e r s t e r non fosse soddisfacente, proponendo di tornare alla lezione di M e della sua mano correttrice, e sulla sua scia S y k u t r i s (8, 1842) suggerì di eliminare la parentesi introdotta da F o e r s t e r . Sulla stessa linea si pone ora C o r c e l l a (116), che propone di interpungere ἐνταῦθα δέ, ὦ φιλότης, ἔστι μὲν τὰ τῆς Σπάρτης ἡδέα, ἔστι δὲ καὶ τῆς ᾽Αττικῆς τὰ σεμνότερα· ἀτὰρ ἐκεῖνό γε οὐ μιμούμεθα τοὺς ᾽Αθήνησι ῥήτορας· οὐ θέμις ἡμῖν κεχαρισμένα καὶ ἀπατηλὰ πρὸς τὰ θέατρα λέγειν, ἀλλ’ ᾗ ἂν ἡμᾶς τὰ πράγματα ἄγῃ, ταύτῃ ἑπόμεθα καὶ γραφὴν ἄν τις φύγοι παρ’ ἡμῖν κολακείας e intende «qui a Gaza noi abbiamo le piacevolezze spartane, e abbiamo anche gli elementi più austeri della tradizione attica [e cioè l’oratoria]; in una cosa però non imitiamo gli oratori di Atene: per noi non è lecito dire al pubblico cose gradite e ingannevoli, ma seguiamo da vicino la realtà dei fatti e così qui da noi non è possibile incorrere nell’accusa di adulazione». Così costituito, il passo può essere inteso come una presa di posizione programmatica sulla polemica platonica contro la retorica (per cui ved. in fra, B.3.a.i.β.3; B.3.b.ii; B.4). Op.I or.1, pp.2,16–26,9 F.-R. (Ἐγκώμιον εἰς Μαρκιανὸν ἐπίσκοπον Γάζης, ἐν ᾧ καὶ ἔκφρασις ναοῦ τοῦ ἁγίου μάρτυρος Σεργίου = Laudatio Marciani I) –– § 16, pp.7,2–11: che anche questo paragrafo, alla pari dei parr.48–54, sia stato ripreso con minimi aggiustamenti da Giovanni Phokas/Doukas (par.1, pp.1–2 Troickij) sfuggì a F o e r s t e r e R i c h s t e i g , ma – come si è accennato supra (A.3) – è ora notato da M e s s i s (124, 152). Per una adeguata valutazione del contributo che Phokas/Doukas può offrire al testo di Coricio occorrerà attenderne una vera edizione critica; nel par.16, delle lezioni che gli editori hanno fin qui tratto dal solo ms. Vall. 158, φαίνεται sembra in ogni caso errore di copia rispetto al poziore φέρεται di M (cfr. più sotto l’analogo errore al par.53), mentre le altre varianti appaiono frutto del riadattamento (così in particolare i futuri εὐφρανῶ ed εἰσάξω in luogo dei presenti e τοῖς θεασαμένοις per τοῖς ὁρῶσιν ὑμῖν, che eliminano la fondamentale di stinzione coriciana tra il pubblico presente alla performance tenuta a Gaza, in grado di vedere contestualmente l’opera descritta, e quanti in seguito leggeranno il testo scritto dell’orazione lontano da Gaza: sul punto ved. anche infra, B.3.b.i.α). –– § 38, p.12,14–15: la fine del paragrafo, τὸ διὰ πάντων ἤδη τοῦτο κάλλος, appariva irrimediabilmente corrotta, per senso e ritmo, a M a a s (3, 40), e anche se i vari tra-
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duttori tendono ad occultare il problema, esso è però reale: H ö r a n d n e r (135, 77) pensa a una lacuna prima di κάλλος, in alternativa a un’interpolazione; ma come meglio si mostrerà in altra sede, è citazione da Aristide, Pan. 16, p. 14, 4–5 Lenz-Behr. § 40, p.12,21: H ö r a n d n e r (135, 77) accoglie, rhythmi gratia, la lettura di M ü n s c h e r τιμιώτερα invece di τιμιωτέρα (che non sarebbe comunque davvero aritmico, ved. nella sezione precedente la discussione sul possibile accento secondario in parole lunghe). § 53, p.16,10: l’anonimo recensore per BAGB (5, 176) proponeva di accogliere il non classico παρά di M, contro il più regolare περί che Foerster ricavava da Giovanni Phokas/Doukas. § 53, p.16,14–15: αἱ καλαύροπες ἀχρεῖοι φέρονται (M) appariva a M a a s (3, 40) e all’anonimo recensore per BAGB (5, 176) migliore di αἱ καλαύροπες ἀχρεῖοι φαίνονται, lezione che F o e r s t e r ricavava dalla ripresa in Giovanni Phokas/ Doukas (cfr. in effetti καλαύροπα … φέρων in Procopio, descr. imag. 30); con l’accentazione ἄχρειοι, in seguito proposta dallo stesso M a a s (12, 127 = 233), si otterrebbe anche clausola ritmica (forse comunque non necessaria in membro con μέν, ved. supra). § 72, p.20,24–25: S a l a č (139, 26) riteneva la frase οἶδεν ἡ τέχνη θεὸν ἐν ἀνθρώπου προσχήματι γράψασα priva di senso nel contesto e più adatta come commento finale per la scena della Trasfigurazione, una cui descrizione immaginava essere stata ighiottita da una lacuna. La proposta sembra però poggiare su un fraintendimento, forse agevolato dall’erronea resa di A b e l ([18, 22]: «L’art sait représenter Dieu sous les dehors de l’homme»; non dissimilmente M a n g o [29, 67] traduce «Art knows how to represent God in human disguise», G u a r d i a [35, 139] «El arte sabe cómo representar a Dios en forma humana» e T h ü m m e l [47, 59] «Es versteht die Kunst, Gott in Gestalt des Menschen zu malen»); più corretta era la resa di H a m i l t o n (17, 186), che però invertiva l’enfasi («The artist is aware that, though in mortal shape, it is God that he has depicted»), mentre L i t s a s , pur incorrendo in uno svarione, fondamentalmente la coglieva («The art which represents God sees [!] him in the outward shape of a man»: 34, 128): di fatto, l’espressione coriciana («l’arte è consapevole di aver dipinto un dio pur sempre in forma umana») è una adeguata transizione narrativa di impronta retorica che mira a rendere più fluido il passaggio dai divini miracoli alla tutta umana situazione della cena («e per questo non l’ha fatto esaltare per i suoi trionfi, ma lo mise a desinare con gli stessi commensali»: αὐτῶν dovrebbe voler dire «gli stessi» di prima dei miracoli, come intende A b e l [18, 22 n.1], ma già B o i s s o n a d e sollevava dubbi, proponendo un αὐτοῦ che T h ü m m e l col suo «zwischen seinen Tischgenossen» parrebbe tacitamente riprendere [47, 59], e mi chiedo se non si possa addirittura pensare a un omerico ἀνδρῶν). § 76, p.21,18–19: seguendo una congettura di B o i s s o n a d e , F o e r s t e r stampava ταῖς ἀμφὶ τὴν τεκοῦσαν φανεὶς πρὸς τὴν οἰκείαν ἀνάγεται λῆξιν, laddove il Matritense ha τοῖς ἀμφὶ τὴν τεκοῦσαν. Come meglio vedremo nella sezione B.2.b.ii, il testo corretto implicherebbe un riferimento all’apparizione di Cristo risorto alle
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donne, tra cui, secondo una variante ben attestata in oriente, ci sarebbe stata anche la Madonna, ma T h ü m m e l (47, 60 e n.5) torna al tradito τοῖς, ritenendo la congettura ταῖς «weder nötig noch sachlich sinnvoll», e in effetti è ben possibile che Coricio stia facendo riferimento non al chairete bensì alla scena dell’Ascensione cui assistono la Madonna e gli apostoli. –– § 92, p.25,22–23: C o r c e l l a (116, 450 n.8) propone προσούσης ἐπιχωρίου σεμνότητος τῆς ἐκ νόμων οὐ δεήσει διδασκαλίας. Op.II dial.2, pp.26,10–28,3 F.-R. –– inscriptio, p.26,10–11: anche per quest’opera si potrebbe riportare il titolo completo Ἐγκώμιον εἰς Μαρκιανὸν ἐπίσκοπον Γάζης, ἐν ᾧ καὶ ἔκφρασις ναοῦ τοῦ ἁγίου μάρτυρος Στεφάνου, si veda quanto si è osservato a proposito di op.I dial.1, inscrip tio, p.1,2. Op.II or.2, pp.28,4–47,24 F.-R. (Ἐγκώμιον εἰς Μαρκιανὸν ἐπίσκοπον Γάζης, ἐν ᾧ καὶ ἔκφρασις ναοῦ τοῦ ἁγίου μάρτυρος Στεφάνου = Laudatio Marciani II) –– §§ 22–24, p.34,1–20: M a a s (3, 40) sospettava che questi paragrafi fossero i resti di una «Doppelfassung» dei parr.52 ss.; ma è tipico di Coricio un apparente di sordine nell’esposizione, che vuol riprodurre la forma orale (cfr. quel che su op.VIII osserva C o r c e l l a [58, 510]). –– § 33, p.36,17–18: καθ᾽ Ὅμηρον appariva sospetto a M a a s (3, 40), come già a B o i s s o n a d e : la posizione tra un sostantivo e il relativo che lo riprende e il ricorrere dell’identica espressione subito dopo rendono il dubbio legittimo. –– § 37, p.37,20: la soluzione di F o e r s t e r al guasto testuale, aritmica, non convinceva M a a s (3, 40); migliore forse il δικαιοῦν ἐφθακέναι di B o i s s o n a d e , ma un rimedio davvero efficace va ancora trovato. –– § 45, p.39,24: M a a s (3, 40) proponeva di espungere l’aritmico τοῦτο, che S y k u t r i s (8, 1842) acutamente correggeva in τουτί. –– § 75, p.46,24–25: M a a s (3, 40) trovava corrotto e aritmico il passo; si può forse proporre οἱ μείναντες οἴκοι· πῶς τί τὰ τῶν Γαζαίων ὑμῖν; Op.III dial.3, pp.48,1–49,16 F.-R. –– § 4, p.48,21: si può forse correggere in ἆρ’ οὖν παρόμοιόν τι o in ἆρ’ οὐ παρόμοιόν τι (così C o r c e l l a nel commento alla nuova dialexis di Procopio [138, 213]). Op.III or.3, pp.49,17–69,11 F.-R. (Εἰς Ἀράτιον δοῦκα καὶ Στέφανον ἄρχοντα = Laudatio Aratii et Stephani) –– § 4, p.50,17–18: l’anonimo recensore per BAGB (5, 176) difese il tradito ἔρχονται … συρράψαντες, ma il poco limpido richiamo al fatto che si tratterebbe di un fe nomeno «fréquent en grec médiéval et au VIe siècle, notamment chez Procope de Césarée» non basta a screditare l’efficace congettura συρράψοντες. –– § 11–12, p.52,5: P u m m e r (48, 248 n.12) accoglie il suggerimento prudentemente espresso da F o e r s t e r in apparato di sanare l’evidente lacuna integrando solo αἰτίαις, ma come la stessa poco limpida traduzione di L i t s a s (34, 158, cfr. 258
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n.18) da lui riportata mostra il rimedio non basta, e pare essersi persa una più ampia sezione di testo (dopo il προξενοῦν τοῖς ἀλαζόσι che subito precede, peraltro, il ritmo non consiglia di porre punto, sicché τοιαύταις, se sano, apparterrà ancora a questa frase, da ritenersi monca). –– § 17, p.53,12: la sintetica formulazione di dubbio da parte di M a a s (3, 40) sembrerebbe rivolgersi soprattutto allo iato in τί οὖν ἐκεῖνοι ἄνθρωποι e alla sintassi della frase che così si apre, ma a non dare buon senso è anche tutta la sequenza del precedente § 16. Con πολλάκι (questa la forma di M) pare aprirsi una citazione, che potrebbe essere Apollonio Rodio III 188–190, con parafrasi mutilata da lacune che richiede comunque integrazioni (dopo ῥώμη sembrerebbe peraltro esservi in M spazio vuoto): ved. infra, B.3.a.i.α.4. –– § 40, p.59,19: non aveva forse torto l’anonimo recensore per BAGB (5, 173) nel difendere, contro la congettura ἐξάπτει, il tradito ἐξάπτῃ e la possibilità dell’uso di modi diversi nella stessa frase; ma – come si accennava supra, A.4 – casi del genere sono giocoforza destinati a restare dubbi. –– § 70, p.66,17: difese l’aoristo θεάσασθαι di M l’anonimo recensore per BAGB (5, 173); subito dopo, A b e l (20, 530 e n.3) propose di tornare a leggere τοῖς βιβλίοις, con la prima mano di M e G r a u x (ταῖς βίβλοις corr. Laskaris, F o e r s t e r ), intendendo «superieur à ceux dont la Bible célèbre l’excellence», ma a parte ogni altra considerazione un tale riferimento alla Bibbia non conviene a Coricio. Op.IV or.4, pp.69,12–81,11 F.-R. (Ἐγκώμιον ἐκ τοῦ προχείρου εἰς Σοῦμμον τὸν ἐνδοξότατον στρατηλάτην = Encomium Summi) –– § 6, p.71,9: difese il tradito ἰάσονται l’anonimo recensore per BAGB (5, 173). –– § 19, p.74,23: la variante βραχὺν ἀνθήσαντα χρόνον, senza iati, appariva a M a a s (3, 40) preferibile rispetto al testo di M e di F o e r s t e r . Op.V dial.4, pp.81,12–87,15 F.-R. (Ἐπιθαλάμιος εἰς Ζαχαρίαν ἕνα τῶν αὐτοῦ φοιτητῶν ὄντα = Oratio nuptialis in Zachariam) –– inscriptio, p.81,12: sul titolo si veda quel che si è osservato a proposito di op.I dial.1, inscriptio, p.1,2. –– § 17, p.86,7: già M a a s (3, 40) preferiva la congettura di R o h d e (ἔννομος) al testo stampato da F o e r s t e r ; la congettura è ora ripresa da P i z z o n e (141, 327–329), che propone di leggere Ἔννομος Ἀϕροδίτη, con Ἔννομος versione cristianizzata di Οὐρανία. –– § 20, p.87,4: P i z z o n e (141, 329–332) torna alla congettura proposta da F o e r s t e r nel 1891 αὐτοῦ ποιητοῦ, con il conforto di I 37, p.12,6 e XXXII 60, p.358,7 e delle analoghe correzioni in I 91, p.5,7 e XXXII 64, p.359,1 (ved. anche infra su XXXII 65, p.359,6). Op.VI or.5, pp.87,16–99,7 F.-R. (Ἐπιθαλάμιος εἰς Προκόπιον καὶ Ἰωάννην καὶ Ἠλίαν φοιτητὰς ὄντας αὐτοῦ = Oratio nuptialis in Procopium, Ioannem et Eliam) –– inscriptio, p.87,16–17: sul titolo si veda quel che si è osservato a proposito di op.I dial.1, inscriptio, p.1,2.
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–– § 8, p.89,14: P i z z o n e (141, 332–333) propone la correzione εἶτα σκεψαμένη ταύτην, ἴασιν ἑτέραν ἐσκόπει προφέρειν δυναμένην τὸν Γάμον. –– § 23, p.93,5: la clausola aritmica e il senso zoppicante insospettivano M a a s (3, 40), e già Wilhelm M e y e r aveva suggerito di espungere κάλλους; ma senz’altro migliore è l’εἴδους ἡττᾶται καλοῦ proposto da S y k u t r i s (8, 1842). –– § 44, p.97,8: in luogo dell’impossibile μητέρα di M, già corretto in φόρμιγγα da F o e r s t e r , C o r c e l l a (136, 325) propone di leggere, con maggiore probabilità paleografica, λύραν; ma la congettura era già stata avanzata da A . B r i n k m a n n (RhM 70, 1915, 335). Op.VII or.6, pp.99,8–109,8 F.-R. (Ἐπιτάφιος ἐπὶ Μαρίᾳ μητρὶ Μαρκιανοῦ Γάζης ἐπισκόπου καὶ Ἀναστασίου Ἐλευθεροπόλεως ἐπισκόπου = Oratio funebris in Mariam) Nuova edizione critica in G r e c o (61, 41–55), da leggere con le recensioni di L u p i (64) e C o r c e l l a (65). Per valutare esattamente la tradizione indiretta nell’encomio di Efrem falsamente attribuito a Gregorio di Nissa (C o r c e l l a [112]) occorrerebbe un’edizione critica dello scritto, ma a quanto si può per ora giudicare essa non sembra apportare particolari contributi. –– § 1, p.99,14: G r e c o (61, 42) giustamente segnala, in apparato, che M non ha κρότος ἐστὶ δάκρυα, bensì κρότος ἐστὶ τὰ δάκρυα; C o r c e l l a (65, 515) osserva che la lezione, ritmicamente migliore, andrebbe accolta nel testo. –– § 25, p.106,18: P i z z o n e (141, 334–335), seguita da G r e c o (61, 52) opportunamente propone οὐκέτ᾽ ὂν παιδίον, con buoni paralleli. –– § 32, p.108,14: M a a s (12, 127 = 233) proponeva di scrivere ὠφελίαν, che diversa mente da ὠφέλειαν garantirebbe clausola ritmica; la forma in -ία era in effetti raccomandata da alcuni grammatici tardoantichi, tra cui probabilmente anche Timoteo di Gaza (ved. J. S c h n e i d e r , Les Traités orthographiques grecs antiques et byzan tins, Turnholti 1999, p.51). La proposta è ignorata da G r e c o (61, 54). Op.VIII or.7, pp.109,9–128,25 F.-R. (Ἐπιτάφιος ἐπὶ Προκοπίῳ σοφιστῇ = Oratio funebris in Procopium) Nuova edizione critica in G r e c o (61, 57–81), da leggere con le recensioni di L u p i (64) e C o r c e l l a (65). Per valutare esattamente la tradizione indiretta nell’encomio di Efrem falsamente attribuito a Gregorio di Nissa (C o r c e l l a [112]) occorrerebbe un’edizione critica dello scritto, ma a quanto si può per ora giudicare essa non sembra apportare particolari contributi, se non forse al par.35. –– inscriptio, p.109,9: sul titolo si veda quel che si è osservato a proposito di op.I dial.1, inscriptio, p.1,2. –– § 7, p.111,23: di fronte alla lunga frase, lievemente anacolutica, G r e c o (61, 60 e 147) inserisce punto in alto dopo ὀργίοις e corregge quindi ἐκεῖνοι γάρ in ἐκεῖνοι μέν: soluzione che sacrifica il vivace sviluppo ricco di incidentali senza grande vantaggio, come hanno notato L u p i (64) e C o r c e l l a (65, 515–516). –– § 12, p.113,19: M a a s (3, 40) si chiedeva se πόλις ἡ Λιβανίου μήτηρ, aritmico, non fosse da espungere; una tale esplicita menzione di Libanio in effetti stupisce; G r e c o (61, 62) conserva il testo di M e F o e r s t e r .
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–– § 31, p.121,12: C o r c e l l a (65, 516) propone καθήμενον οἴκοι ( καθήμενον οἴκοι Tosi ibidem). –– § 35, p.123,2: nella ripresa del brano nell’encomio di Efrem dello pseudo-Gregorio (PG XLVI 841C), dopo τῷ πλοίῳ si legge l’ulteriore membro (καὶ) τὸν σοφὸν ἰατρὸν πρὸς τὰ δυσίατα πάθη, che potrebbe in teoria essere parte dell’originario testo coriciano persasi nella tradizione diretta ma più probabilmente è da considerarsi aggiunta dell’anonimo autore, tendente in genere ad amplificare la fonte (così C o r c e l l a [112, 250] e G r e c o [55, 189–190]). –– § 36, p.123,13: M a a s (12, 127 = 233) proponeva di scrivere ὠφελίαν, che diversamente da ὠφέλειαν garantirebbe clausola ritmica (ved. supra su VII 32, p.108,14); la proposta non è presa in considerazione da G r e c o (61, 74). –– § 52, p.128,3: οὐ πανταχοῦ, conservato da G r e c o (61, 80), pone qualche problema di interpretazione, come hanno osservato S a l i o u (142, 176) e C o r c e l l a (58, 526 n.61; 65, 516); si può forse pensare a οὕ πανταχοῦ? Op.IX dial.5, pp.129,1–130,15 F.-R. Non mi risultano interventi sul testo di quest’opera. Op.X decl.1, pp.131,1–150,24 F.-R. ( = Polydamas) –– th. § 4, p.132,4: la possibile correzione alternativa ἀκουόντων τε Τρώων è suggerita da C o r c e l l a (65, 516). –– § 4, p.133,15: difendeva il congiuntivo μέλλῃ l’anonimo recensore per BAGB (5, 173). –– § 5, p.133,19–20: R u s s e l l (53, 63 n.5), accoglie la lineare congettura ὃ πάντες di P o l a k , da F o e r s t e r relegata in apparato. –– § 10, p.134,22: S y k u t r i s (8, 1842) giustamente difendeva il tradito πᾶσι. –– § 15, p.135,27: S y k u t r i s (8, 1842) proponeva τοι per σοι. –– § 35, p.139,11–12: «ἄνθρωπος ὢν ἀγνοῶν. Perhaps delete ὢν» R u s s e l l (53, 66 n.20); ma forse ἄν̅ ο̅ ς ὢν è solo dittografia per ἀγνοῶν. –– § 39, p.140,11: il senso zoppicante e il carattere aritmico della clausola κατενεγκὼν τὸν Πρίαμον era denunciato da M a a s (3, 40); forse κατενεγκὼν τὸν Πρίαμον (cfr. XII 87)? –– § 43, p.141,3: S y k u t r i s (8, 1842) giustamente difendeva il tradito αὑτῷ. –– § 45, p.141,13: S y k u t r i s (8, 1842) difendeva il testo tradito, interpungendo εἰς ὅσον ὑπῆρχε σβέσαι τὸν πόθον, ἐχρήσατο (scil. τῇ Πολυξένῃ, se ben intendo). –– § 51, p.142,17: contro la correzione προστεθῇ di F o e r s t e r , M a a s (3, 39) giu stamente difese προστεθείη (ottativo con ἄν in frase indicante ripetizione, che garantisce buon ritmo), confrontando XXIX 42, 325,20; il fenomeno è ampiamente diffuso in prosa tarda (ad es. in Aristeneto). –– § 58, p.144,5: S y k u t r i s (8, 1842) espungeva l’aritmico ἴσα. –– § 58, p.144,6: S y k u t r i s (8, 1842) giustamente difendeva il tradito ἀνοίας, parafrasando «es ist die größte Dummheit, wenn man der mißhandelten Verliebten nicht zu Hilfe kommt». –– § 63, p.145,5: S y k u t r i s (8, 1842) eliminava il punto interrogativo.
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–– § 71, p.146,22–24: S y k u t r i s (8, 1842) poneva punto interrogativo dopo ὀργιζόμενον (è stampato in realtà ἐργαζόμενον, che mi pare però mera svista o refuso) e lo eliminava dopo ἀγανακτήσεις. –– § 80, p.148,15: R u s s e l l (53, 72 n.57) accoglie ἐλπίδα, da F o e r s t e r dubitativamente proposto in apparato per il tradito e poco comprensibile μερίδα. Op.XI dial.6, pp.151,1–152,14 F.-R. –– scholium, p.151,2–3: S y k u t r i s (8, 1842) efficacemente proponeva τῷ θεσπεσίῳ μου διδασκάλῳ … παραβάλλοντι. –– § 3, p.151,17: P e n e l l a (53, 39 n.13) corregge γλυκίων ῥέων αὐδήν in γλυκίω ῥέων αὐδήν; un simile adattamento del modello omerico (Il. I 249) ricorre del resto in II or.2, 33 e venne postulato da F o e r s t e r in XV 6 (come suggerito, oltre che da H e r w e r d e n menzionato in apparato, anche da P r a e c h t e r , ByzZ 1, 1892, 610). Op.XII decl.2, pp.152,15–174,23 F.-R. ( = Priamus) –– scholium + hypothesis, p.152,17–21: nonostante i corretti chiarimenti in apparato, la presentazione testuale di F o e r s t e r rischia di essere equivoca: ved. l’analisi di Te l e s c a (125, 102). –– th., § 4, p.153,16–17: bella la congettura di S y k u t r i s (8, 1842) τὴν εἶτ᾽ ἀνοσίαν Ἑκτορος ὕβριν. –– th. § 6, p.154,4–6: S y k u t r i s (8, 1842) giustamente difendeva il testo tradito, con εἰ e μία. –– th. § 8, p.154,7: S y k u t r i s (8, 1842) espungeva l’impossibile ἄξιον, da F o e r s t e r corretto in ἁμαξιτόν. –– § 2, p.155,9: R u s s e l l (53, 75 n.6) trova corrotto il testo di M stampato da F o e r s t e r e propone, se ben comprendo, [περὶ] κτῆμα παιδὸς ορᾶν ἕτερον ἔχοντα o, in alternativa, περὶ κτῆμα παιδὸς ὁρᾶν ἕτερον ἔχοντα (aritmico); non sfigura l’antica proposta di P o l a k , περιττὸν κτῆμα, e la semplice espunzione di περὶ era già stata proposta da S y k u t r i s (8, 1842). –– § 16, p.158,3: S y k u t r i s (8, 1842) giustamente difendeva il presente ἀξιοῦμεν (con il commento «es geschieht noch jetzt»). –– § 33, p.161,11–13: aveva probabilmente ragione S y k u t r i s (8, 1842) nel ritenere che le parole ὁ δὲ … λύραν; siano pronunciate in prima persona da Priamo e non vadano stampate spazieggiate. –– § 35, p.161,20: S y k u t r i s (8, 1842) proponeva ἐγχειρεῖ. –– § 40, p.162,8: S y k u t r i s (8, 1842) difendeva il tradito ἔβαλον, adeguato ad Apollo. –– § 44, p.163,7: S y k u t r i s (8, 1842) difendeva il tradito αὐτῇ (scil. τῇ γυναικί). –– § 50, p.164,22: contro l’arbitraria correzione di F o e r s t e r μειρακίου καὶ πατρός M a a s (3, 40) difese il tradito μειρακίου παιδός, che dà buon ritmo. –– § 68, p.169,4: S y k u t r i s (8, 1842) tornava a ἐστι (ἔστι M), già stampato da F o e r s t e r nell’edizione del 1882. –– § 69, p.169,6: S y k u t r i s (8, 1842) difendeva il tradito τῷ ῥήματι.
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–– § 80, p.172,2: M a a s (3, 40) dubitava della congettura di F o e r s t e r (οὐ γάνυται) per l’οὐ δύναται di M; propone ora ὀδυνᾶται, paleograficamente verosimile e ritmicamente adeguato, C o r c e l l a (136, 325), seguito da R u s s e l l (53, p.85 n.36). –– § 85, p.173,7: S y k u t r i s (8, 1842) preferiva il tradito παῦσαι, senza punto interrogativo al r.11. –– § 91, p.174,22: M a a s (12, 127 = 233) accenta τίτθον, che è in effetti l’unica forma corretta (qui e negli altri passi segnalati infra): è uno di quei casi di accentazione stravagante nell’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g cui accennava L e h n e r t (10, 412). Op.XIII dial.7, pp.175,1–179,5 F.-R. (Εἰς τὰ τοῦ βασιλέως Ἰουστινιανοῦ Βρουμάλια ἐκ τοῦ προχείρου = Oratio in Iustiniani Brumalia) –– § 13, p.178,11: scrive correttamente οὔκουν L i t s a s (34, 314 n.26). Op.XIV decl.3, pp.179,6–193,21 F.-R. ( = Lydi) –– § 6, p.182,16: S y k u t r i s (8, 1842) proponeva συνεκδύεται καὶ τὸν θυμὸν ἀνήρ, per la clausola, e però invitava a confrontare il modello (συνεκδύεται καὶ τὴν αἰδῶ γυνή, Erodoto I 8,3), di cui evidentemente Coricio imita qui anche il ritmo, sicché il testo non va toccato (sull’assenza di ritmo nelle citazioni riprese letteralmente ved. supra, A.5). –– § 10, p.183,6: S y k u t r i s (8, 1842) giustamente difendeva il tradito ἀρκεῖ. –– § 14, p.183,24 = § 32, p.187,25 (e passim): M a a s (3, 40) notava l’ovvia inopportunità di correggere nella seconda persona φῄς i traditi φησίν – una delle incongruenze che F o e r s t e r avrebbe probabilmente eliminato se avesse potuto rivedere l’opera (ved. infatti l’apparato critico a p.467,21). –– § 19, p.185,2–3: la correzione τοῖς εἰς τοὺς χοροὺς τεταγμένοις proposta da S y k u t r i s (8, 1842) normalizza il testo, ma credo avesse ragione R i c h t s t e i g ad in dicare nella prima fascia di apparato, come modello del tradito εἰς τοῦτο χοροῦ, il platonico ποῦ χοροῦ τάξομεν; (Euthyd. 279c; forse con ulteriore influsso di espressioni come ἐς τοῦτο ξυμφορᾶς?); cfr. anche XXXII 7, p.346,19–20. –– § 23, p.185,22: S y k u t r i s (8, 1842) proponeva ἔφη δήπου per l’ἔφην που di M. –– § 30, p.187,14–15: legge οὔκουν invece di οὐκοῦν S w a i n (53, 91 n.16); S y k u t r i s (8, 1842) non poneva punto interrogativo. –– § 48, p.191,1–3: S w a i n (53, 93–94 nn.18–19) segue l’acuto suggerimento di R u s s e l l di espungere, come glossa, οὗτος τῆς δουλείας τρόπος e quindi accoglie la lineare congettura di R o t h s t e i n βλαβην ἡ γνώμη. σοὶ δὲ. –– § 53, p.192,4: M a a s (3, 40) notò il carattere aritmico della clausola εἰς λήθην ἔρχεται, che S y k u t r i s (8, 1842) correggeva in εἰς λήθην ἔρχεται ; o forse ἀνέρχεται? –– § 57, p.192,24: S y k u t r i s (8, 1842) difendeva il tradito μετρίαν («angemessen, befriedigend»), con il confronto di XV 3, p.194,17. –– § 58, p.193,9: S y k u t r i s (8, 1842) giustamente difendeva il tradito σοι μελετήσωμεν, confrontando i §§ 17, 26, 41.
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Op.XV dial.8, pp.194,1–195,19 F.-R. Per la possibilità di legare questa dialexis ai Lydi piuttosto che al Miltiades ved. lo studio di Te l e s c a già discusso supra (125, 96–98). –– § 2, p.194,10: οὐχ ὡς σφόδρα S y k u t r i s (8, 1842). –– § 6, p.195,11: τίτθας, già suggerito da Wilhelm M e y e r , fu quindi riproposto da M a a s (12, 127 = 233), recte. Op.XVI dial.9, pp.196,1–197,4 F.-R. –– § 3, 196,14: ὢν ὡραῖος, e quindi virgola dopo ἐπαφρόδιτος, S y k u t r i s (8, 1842). Op.XVII decl.4, pp.198,1–221,11 F.-R. ( = Miltiades) L u p i (62) non offre una nuova edizione critica, limitandosi a ristampare il testo di F o e r s t e r , ma se ne distacca in alcuni punti (elencati a p.91 e ripresi con approvazione – tranne che per 22, p.204,20 – anche da G r e c o [66, 438]) e li discute nelle note di commento, che affrontano varie questioni esegetiche; non pare aver messo a frutto i suggerimenti nella recensione di M a a s (3), presente in bibliografia, e in quella di S y k u t r i s (8), assente. –– § 5, p.201,4: S w a i n (53, 97 n.5) accoglie la correzione ὑμῶν per ἡμῶν che F o e r s t e r propose nell’edizione del 1892/93 ma poi relegò nell’apparato della teubneriana; non è seguito da L u p i (62, 141 n.37), ma mi sembra aver ragione. –– § 6, p.201,14: senz’altro opportuno il ritorno al testo tradito (εἰς τὸν περὶ αὐτῆς ἐδαπάνα σωφρονισμόν: τὰ περὶ αὐτῆς F o e r s t e r ) operato da S w a i n (53, p.98 n.6) e da L u p i (62, 91 e 142 n.44); andrebbe però ricordata la proposta di S y k u t r i s (8, 1842), che espungeva περὶ come variante di εἰς. –– § 9, p.202,1: S w a i n (53, 98 n.7) torna al tradito παρῄνεσα («I got my way over this»), non seguito da L u p i (62, 96 e 144 n.49). –– § 22, p.204,20: L u p i (62, 91 e 154 n.80) accoglie per il ῥέπων di M la correzione ῥέων di v a n D i s ; proprio la similitudine col ῥεῦμα invocata a sostegno della correzione potrebbe però sconsigliare la ripetizione ravvicinata di una parola omoradicale; dubbi sono espressi da G r e c o (66, 438). –– § 23, p.204,20–21: l’οὐκοῦν di M è ripristinato da S w a i n (53, 99 n.10) e L u p i (62, 154 n.81), ma l’οὐκ οὖν di F o e r s t e r ha una sua efficacia, come nota C o r c e l l a (136, 326). Subito dopo, che rispetto al corrotto μᾶλλον ἐχθρὸν ὠργιζόμην di M la correzione di F o e r s t e r (ᾠόμην) producesse clausola aritmica fu denunciato da M a a s (3, 40), e S y k u t r i s (8, 1842) aveva dubitativamente pensato a ἐχθρὸν μᾶλλον ἐλογιζόμην; C o r c e l l a (136, 325–326) propone ora μᾶλλον ἐχθρὸν ὠριζόμην, con il conforto di Procopio, mon. 2,3, e la proposta è accolta da L u p i (62, 91 e 154 n.81). –– § 25, p.205,1: S w a i n (53, 100 n.11) pone punto interrogativo dopo ἐθαύμαζον (L u p i [62, 101] ricorre all’esclamativo). –– § 27, p.205,20: S w a i n (53, 100 n.12) pone punto interrogativo dopo ἠράσθην (L u p i [62, 101] usa l’esclamativo).
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–– § 28, p.205,27: S y k u t r i s (8, 1842) giustamente difendeva il tradito ὑπολαβὼν; L u p i (62, 100) si attiene all’ἀπολαβὼν di F o e r s t e r . –– § 34, p.207,9: S w a i n (53, 101 n.17) preferisce il tradito ὑμῖν allo ἡμῖν di F o e r s t e r (e di L u p i [62, 102 e 160 n.102]). –– § 35, p.207,14: verosimile (ma non accolta da L u p i [62, 102]) la proposta di M a a s (3, 40) di tornare al tradito ὅτῳ περιέτυχε contro la superflua correzione ὁποτέρῳ ἔτυχε di F o e r s t e r . –– § 42, p.208,21: M a a s (3, 40) proponeva κωλύοντας παράταξιν, per il ritmo; non vi accenna L u p i (61, 104). –– § 50, p.210,14: S y k u t r i s (8, 1842) difendeva il testo tradito, con asindeto; L u p i (62, 108) segue F o e r s t e r . –– § 56, p.212,16: la verosimile congettura τοὺς κεκτημένους, da F o e r s t e r relegata in apparato, è ora accolta da S w a i n (53, 104 n.24) e L u p i (62, 91 e 170 n.148); ancor meglio, S y k u t r i s (8, 1842) aveva proposto τὸν κεκτημένον. –– § 64, p.214,14: S w a i n (53, 105 n.27) pone punto interrogativo dopo ἐκπέμπω (ricorre all’esclamativo L u p i [62, 113]). –– § 68, p.215,15: la congettura ἐκ δὲ τῆς per τῆς δὲ, formulata da F o e r s t e r nell’edizione del 1892/93 ma poi abbandonata nella teubneriana, è ora accolta da S w a i n (53, 106 n.28) e L u p i (62, 91 e 174 n.161); ma per αἰωρεῖσθαι con il genitivo semplice ved. Evagrio, Hist. eccl. V 21, p.216,33 Bidez-Parmentier. –– § 68, p.215,17: M a a s (12, 127 = 233) proponeva di accentare ἄχρειον, per il ritmo; si attiene ad ἀχρεῖον L u p i (62, 114). –– § 69, p.215,20: condivisibile il parere di M a a s (3, 40), che trovava non risolutiva la congettura di F o e r s t e r (ripresa da L u p i [62, 114]); basterebbe forse περιουσίαν άγειν? –– § 93, p.220,25: notevole (ma ignorata da L u p i [62, 122]) la congettura di M a a s (3, 40) εἴπω καὶ πρὸς ὑμᾶς, ὦ ἄνδρες Ἀθηναῖοι, βραχέα. δέδοικα κτλ. (forse ispirata dall’analoga proposta di F o e r s t e r in apparato al par.89, p.219,26). –– § 93, p.221,5: M a a s (3, 40) proponeva οὐχ ἁρπάσει τὰ ὅπλα;, dove l’attivo invece del medio garantisce il ritmo (e, si può aggiungere, risponde a modelli senofontei, come An. VI 1,8, e demostenici, come III 20, oltre a ricorrere in XLII 39, p.522,3, cfr. XIV th.1, p.180,5); la congettura non è menzionata da L u p i (62, 122). Op.XVIII dial.10, pp.221,12–223,11 F.-R. –– § 5, p.222,19: bella la congettura di S y k u t r i s (8, 1842), χελώνην, εἰς μέσον ἐνέγκω, πῶς ἄμφω μὲν κτλ. Op.XIX dial.11, pp.223,12–224,4 F.-R. Non mi risultano interventi sul testo di quest’opera. Op.XX decl.5, pp.224,5–248,5 F.-R. ( = Iuvenis fortis) –– § 7, p.228,16: dubitativamente propone εἰ μὴ R u s s e l l (53, 112 n.4). –– § 25, p.233,15: si può sottoscrivere il giudizio di M a a s (3, 40), che riteneva non pienamente convincenti le correzioni tentate da F o e r s t e r .
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–– § 31, p.235,8: R u s s e l l (53, 116 n.6) accoglie l’opportuna correzione ὧν ἐστι di F o e r s t e r , formulata nell’edizione del 1894 ma poi relegata nell’apparato della teubneriana. –– § 31, p.235,11: ταύτης M a a s (3, 40), per evitare lo iato. –– § 33, p.235,18: S y k u t r i s (8, 1842) difendeva il testo tradito con il confronto del § 62, p.244,5. –– § 37, p.236,21: propone τί δεῖ per τί μοι R u s s e l l (53, 117 n.9); la correzione non appare necessaria, ché τί μοι + infinito, ben attestato in tutta la grecità (è frequente ad es. in Gregorio di Nazianzo), compare anche in Procopio, ep.58 (ved. anche in fra, su XLII 12, p.515,8, per ἐμοὶ τί col genitivo). –– § 41, p.238,12: più adeguata la diversa interpunzione συλλέγομεν. ἐνταῦθα proposta da M a a s (3, 40). –– § 46, p.239,17: la presenza di iato mostra, a giudizio di M a a s (3, 40), che il passo attende ancora una sistemazione convincente; S y k u t r i s (8, 1842–1843) tentava οὔτε, τοὺς οἰκέτας ὑφορώμενος διὰ σέ, αὐτὸς ἐκείνῃ που. –– § 46, p.239,18: in luogo di καὶ R u s s e l l (53, 119 n.10) accoglie la correzione οἳ di F o e r s t e r , formulata nel 1894 ma poi relegata nell’apparato della teubneriana; l’uso della paratassi enfatica non è però estranea ai gazei, cfr. ad es. Procopio, Pan.An. 18. –– § 52, p.241,15: S y k u t r i s (8, 1842) difendeva il tradito ὁ παρὰ τὸν ἔρωτα νήφων, con l’acuto confronto dell’espressione παρὰ πότον. –– § 58, p.243,1: S y k u t r i s (8, 1842) riteneva che il tradito ἀμῦναι dovesse essere sano, giacché ricorre anche in XXIII 30, p.263,4 (ved. infra). –– § 64, p.244,19: R u s s e l l (53, 122 n.12) accoglie la congettura di H e r w e r d e n ἠπατήθης. –– § 67, p.245.23–25: S y k u t r i s (8, 1842) giustamente difendeva il testo tradito. –– § 73, p.247,19: la sintassi appariva troppo ardita a M a a s (3, 40), che sospettava un guasto. Op.XXI dial.12, pp.248,6–249,26 F.-R. –– § 2, p.248,17: difese l’ottativo ἐθέλοι l’anonimo recensore per BAGB (5, 173). –– § 5, p.249,23: P e n e l l a (53, 46 n.36) accoglie la correzione τοιαῦτα di F o e r s t e r , formulata nell’edizione del 1894 ma poi relegata nell’apparato della teubneriana, che non appare necessaria. –– § 5, p.249,26: S y k u t r i s (8, 1842) giustamente difendeva il tradito φαίης. Op.XXII dial.13, pp.250,1–251,9 F.-R. –– § 2, p.250,12: S y k u t r i s (8, 1842) opportunamente difendeva il tradito τοῦ δήμου τοῦ Ἀθηναίων. Op.XXIII decl.6, pp.251,10–280,10 F.-R. ( = Avarus) –– § 8, pp.255,28–256,1: «Herwerden was probably right to regard this awkward addition as a marginal gloss»: R u s s e l l (53, 127 n.2).
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–– § 16, p.258,21: con qualche condivisibile esitazione, R u s s e l l (53, 129 n.7) accoglie la correzione σε καὶ μισθὸν di F o e r s t e r , formulata nell’edizione del 1894 ma poi relegata nell’apparato della teubneriana. –– § 20, p.259,21: R u s s e l l (53, 130 n.9) accoglie la correzione ἐπιχείρημα di F o e r s t e r , formulata nel 1894 ma poi relegata nell’apparato della teubneriana. –– § 22, p.260,11–12: lo iato destava i sospetti di M a a s (3, 40); come già H e r w e r d e n , S y k u t r i s (8, 1842) difendeva il tradito ἀνακτήσεται πρὸς φιλίαν. –– § 26, p.261,14–15: la sistemazione di F o e r s t e r non soddisfaceva, per ritmo e senso, M a a s (3, 40); si può forse tentare qualcosa come … οὕτως ἰδέας, ὡς ἔχειν σοι φαίνεται· [ἐκεῖνο] σὺ δ᾽ ἔτι πείθειν … ? –– § 28, p.262,8: S y k u t r i s (8, 1842) difendeva τὸ δὲ μὴ θέλγειν τὴν ἀπιστίαν (scil. ποιεῖ); l’interpretazione sintattica è giusta, ma M ha in realtà θέλειν, già conget turato da R o t h s t e i n e da accogliere nel testo. –– § 30, p.263,4: S y k u t r i s (8, 1842) riteneva che il tradito ἀμύνει dovesse essere sano, giacché anche in 58, p.243,1 il verbo ricorre con lo stesso senso di «vermindern» (una estensione del valore di «respingere»?); ma una duplice indipendente corruzione di ἀμβλύνω non ha nulla di impossibile. –– § 40, p.265,18: R u s s e l l (53, 133 n.14) non pone punto interrogativo dopo εἰσάγει. –– § 46, p.267,13: S y k u t r i s (8, 1842) difendeva il tradito ἄλλοις τισὶ («als wären sie für mich eine Art Verliebte»). –– § 47, p.267,21: R u s s e l l (53, 134 n.15) pone punto interrogativo dopo καρτερήσας. –– § 48, p.268,13: R u s s e l l (53, 135 n.16) accoglie l’ἀπανθήσοντα di K u r t z . –– § 48, p.268,14: M a a s (12, 127 = 233) proponeva di scrivere ὠφελίαν, che diversamente da ὠφέλειαν garantirebbe clausola ritmica (ved. supra su VII 32, p.108,14). –– § 50, p.269,2: R u s s e l l (53, 135 n.17) pone punto interrogativo dopo προκρῖναι. –– § 50, p.269,9: S y k u t r i s (8, 1842) difendeva il tradito ὅτι μήπω καὶ φόνου [scil. τραῦμα], ἀνεύθυνος ἔτι;, «bin ich n o c h unschuldig?». –– § 52, p.269,18: R u s s e l l (53, 135 n.18) accoglie la correzione μείζονα di F o e r s t e r , formulata nel 1894 ma poi relegata nell’apparato della teubneriana. –– § 54, p.270,9–10: R u s s e l l (53, 136 n.19) pone punto interrogativo dopo ἐγκρατής e come alternativa (a dire il vero meno probabile) suggerisce βούλει. –– § 64, p.273,13: S y k u t r i s (8, 1842) difendeva il futuro μνημονεύσει accanto al presente, confrontando il par.70, p.275,12 (ved. infra). –– § 64, p.273,14–15: S y k u t r i s (8, 1842) poneva punto interrogativo dopo τί οὖν e non dopo ἀδοξίαν. –– § 70, p.275,12: S y k u t r i s (8, 1842) difendeva il tradito αἰτῶ σοι, con il presente dopo il futuro come al § 64. –– § 79, p.277,25: R u s s e l l (53, 140 n.21) accoglie la congettura ὑμῖν di H e r w e r d e n , confrontando il par.80, p.278,3. –– § 81, p.278,9: l’incertezza del testo, già denunciata da M a a s (3, 40), è riaffermata da R u s s e l l (53, p.140 n.22), che si aspetterebbe qualcosa come ὥστε καὶ εὐδοκιμήσεις. –– § 81, p.278,11: difese il tradito κτήσομαι, per il ritmo, M a a s (3, 40). –– § 84, p.279,19: πεποιημένον S y k u t r i s (8, 1842), recte.
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Op.XXIV dial.14, pp.280,11–281,23 F.-R. –– § 3, p.281,6–10: S y k u t r i s (8, 1843) proponeva ἠμέλει, αὐτὸν δὲ, quindi parentesi solo da μικρὰν a θεοῦ. Op.XXV dial.15, pp.282,1–283,4 F.-R. Non mi risultano interventi sul testo di quest’opera. Op.XXVI decl.7, pp.283,5–309,22 F.-R. ( = Tyrannicida) –– § 3, p.286,5: S y k u t r i s (8, 1843) propose ἐξουσίαν per ἀξίαν. –– § 8, p.287,9ss.: M a a s (3, 40) esprimeva dubbi sul passo, che mi pare però sano. –– § 19, p.290,1: l’infinito presente μάχεσθαι (μαχεῖσθαι corr. F o e r s t e r ) fu opportunamente difeso da M a a s (3, 39), col conforto di XXVI 67, p.303,18. –– § 19, p.290,2: M a a s (3, 40) preferiva la variante λάβοιεν οὗτοι, che dà ritmo corretto. –– § 30, p.293,4: l’accentazione γέλοιον, proposta da M a a s (12, 127 = 233), resti tuirebbe clausola ritmica. –– § 31, p.293,6–7: M a a s (3, 40) proponeva di scrivere ἕτερον τρόπον per il ritmo, ma è meglio eliminare il punto fermo e non porre quindi in clausola forte τρόπον ἕτερον (per cui cfr. ad es. Platone, Leg. 635d2). –– § 34, p.293,21: invece dell’aritmico φέρων M a a s (3, 40) proponeva χερσίν, ma non direi che qui vi sia clausola forte. –– § 58, p.300,23: il perfetto in protasi irreale πεποίηκε fu difeso da M a a s (3, 39). –– § 67, p.303,15: M a a s (3, 40) preferiva il πρὸς τελευτήν senza articolo di M, per il ritmo. –– § 79, p.306,25: H e a t h (53, 155 n.13) accoglie il τυραννήσειν di M ü n s c h e r , che già R i c h t s t e i g in apparato commentava con un «recte, ut videtur». –– § 81, p.307,7: M a a s (12, 127 = 233) propose di accentare τριηρῶν, per il ritmo. Op.XXVII dial.16, pp.310,1–311,24 F.-R. Non mi risultano interventi sul testo di quest’opera. Op.XXVIII dial.17, pp.312,1–313,15 F.-R. –– § 1, p.312,4: M a a s (12, 127 = 233) propose l’accentazione γέλοιον, ritmicamente migliore. Op.XXIX decl.8, pp.313,16–341,18 F.-R. ( = Spartiates) La circostanza per cui il nome Φρύνη risulta comparire, in tutto lo Spartiates, sempre in clausola aritmica (con la possibile parziale eccezione del par.99, ved. infra) indusse M a a s (12) a postulare una accentazione Φρυνή, giustificabile con la ben attestata tendenza ad accentare diversamente i nomi propri corrispondenti a nomi comuni (più dubbia la possibilità di usare in tal senso il passo corrotto di pseudo-Arcadio, p.112 Barker = 129,6 Schmidt). L’ipotesi resta degna di massima considerazione, ma ci si può chiedere se non si abbia invece una costante menzione del nome di Frine in posizione cacofonica per rendere efficacemente, anche a livello sonoro, quel disprezzo per la cor-
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tigiana cui tutto il discorso è improntato (un analogo effetto mimetico della clausola aritmica potrebbe forse essere postulato per il φωνῶν ἀπειροκάλων di I 85, p.23,25, se invece non si debba qui supporre accento secondario [ved. supra, A.5], e più probabilmente per la sgarbata espressione ἀπόδοτε τὰ φώρια in XL 18, p.483,10). Qualora questa interpretazione fosse ammissibile, ci si potrebbe ulteriormente domandare se il finale aritmico della declamazione (Λάκαιναν ἀγαγέσθαι κοσμίαν ὁμοῦ τε καὶ καλήν, che F o e r s t e r emendava espungendo τε) non possa addirittura essere un ammiccamento ironico di Coricio: dopo aver più e più volte ironizzato su Frine nominandola in modo aritmico, il suo Spartiate cadrebbe, nel finale, in errore pronunciando le lodi della donna spartana in una maniera che suona anch’essa sgradevole. –– § 7, p.317,18: κυοῦσα M a a s (12, 127 = 233), per la clausola. –– § 24, p.321,17: αὐτῇ per αὐτῷ M a a s (3, 40; 12, 126 = 231), senz’altro da accogliere. –– § 31, p.323,3: τίτθη M a a s (12, 127 = 233), recte. –– § 31, p.323,4: λίαν καὶ M a a s (3, 40), per il ritmo. –– § 35, p.324,6–8: la frase τί γὰρ εἰκὸς τὴν Φρύνην εὔχεσθαι τοῖς θεοῖς ἢ σωφρονῆσαι μηδένα τῆς ἀσελγείας αὐτῇ συναυξούσης τὴν πρόσοδον; viene resa da K e n n e d y (53, 165 e n.14) come «What likelihood, in fact, is there that Phryne prays to the gods or has shown any modesty, her licentiousness being no enhancement to a solemn procession?», con la proposta di correggere μηδένα in μηδὲν; ma, come mostra anche il seguito, il testo vuol dire «Che cosa infatti è verosimile che Frine chieda con preghiere agli dèi se non che nessuno sia continente considerando che la scostumatezza le aumenta il guadagno?» (così C o r s o [44, 37]). –– § 36, p.324,14–15: per ragioni di ritmo, M a a s (12, 127 = 233) proponeva di scrivere θεοισεχθράν come parola unica. –– § 36, p.324,15: come già F o e r s t e r nell’edizione del 1894, K e n n e d y (53, 165 n.15) pone punto interrogativo dopo θεραπείαις. –– § 39, p.324,28: difese il διατυπώσῃς di M M a a s (3, 40). –– § 45, p.326,17: νόμῳ M a a s (3, 40). –– § 46, p.326,25–26: opportunamente K e n n e d y (53, 167 n.28) suggerisce di non considerare questi due righi continuazione dell’affermazione precedente, come la spazieggiatura dell’edizione teubneriana fa invece intendere. –– § 53, p.328,23: difese il tradito θεραπευταῖς, come già B r i n k m a n n , anche M a a s (3, 40), per il ritmo. –– § 61, p.331,7: S y k u t r i s (8, 1842) giustamente difendeva il tradito ἐκκαίουσαι. –– § 62, p.331,11: Φρυνὴν M a a s (12, 126 = 232). –– § 75, p.334,23: M a a s (3, 40) espunse il primo τι, che crea iato e guasta il ritmo. –– § 85, p.337,16: K e n n e d y (53, 173 n.44) accetta l’integrazione τὸν δῆμον o τὸν λάον (H e r w e r d e n e K u r t z ) dagli editori teubneriani posta in apparato. –– § 90, p.338,19: Ἀφροδίτης ὕμνος, dubitativamente, M a a s (12, 127 = 232). –– § 94, p.339,11: τίτθη M a a s (12, 127 = 233), recte. –– § 95, p.339,18–19: εὐθυμεῖν [μηκέτι], per il ritmo, M a a s (3, 40). –– § 99, p.340,18–19: τῶν παιδίων αἶσχος ἡ Φρυνὴ μεταβάλλειν, con ritmo normalizzato dopo l’adozione dell’accentazione Φρυνή (ved. supra), M a a s (3, 40; 12, 127 = 232).
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Op.XXX dial.18, pp.341,19–342,23 F.-R. Non mi risultano interventi sul testo di quest’opera. Op.XXXI dial.19, p.343,1–20 F.-R. Non mi risultano interventi sul testo di quest’opera. Op.XXXII or.8, pp.344,1–380,21 F.-R. ( = Apologia mimorum) Come già si è accennato, nella sua edizione del 1986 S t e f a n i s (38) si mostra meno propenso ad accogliere correzioni rispetto a F o e r s t e r e R i c h t s t e i g , ma non manca di avanzare alcune proposte originali. –– inscriptio, p.344,1–2: per quanto, sulla scia di G r a u x e di F o e r s t e r , solitamente si affermi che ὁ λόγος ὑπὲρ τῶν ἐν Διονύσου τὸν βίον εἰκονιζόντων è il titolo presente in M (così ad es. da parte di S i d e r a s [39, 186]), Te l e s c a (125, 103) ha notato come questa frase, riportata prima e dopo della theoria, tenga il posto della hypothesis ma abbia una forma vicina a quella degli scholia (cfr. anche, per il suo carattere dottamente perifrastico, le osservazioni di C o r c e l l a [111, 89–90], cui va aggiunto quanto abbiamo indicato supra [A.2] sul carattere di flosculo demostenico di ἐν Διονύσου): la natura ambigua dell’apologia (su cui ved. infra, B.2.c) fa sì che invece della hypothesis tipica delle declamazioni si abbia qualcosa di simile allo scholium che in genere precede logoi e dialexeis, ma d’altra parte, come è normale per le declamazioni, M non presenta suo loco un titolo sintetico, che si potrebbe semmai integrare dal pinax nella forma ὑπὲρ τῶν μίμων (cfr. anche il modo in cui il testo è citato da Macario Crisocefalo). Si veda in proposito anche la scheda di F l u s i n (41) sull’edizione di S t e f a n i s , dove si considera imprudente la scelta di quest’ultimo (37, 34), invece enfatizzata da M a r t i n (42), di adottare il titolo συνηγορία μίμων sulla base del par.54 e di th.4 (di cui si dirà subito). –– th. § 4, p.344,16–17: all’infelice congettura di R o h d e συνηγορία ἠθῶν (ἡμῶν M), accolta da F o e r s t e r , S t e f a n i s (38, 34, 54, 147) sostituisce il molto più ve rosimile συνηγορία μίμων (cfr. il par.54, p.356,14–15), soluzione approvata da S i d e r a s (39, 186) e giudicata «séduisante» da F l u s i n (41). –– § 3, p.345,19–20: movendo da una più esatta lettura del testo di M (τοῦ τοὺς μὲν, non τοῦ μὲν τοὺς: ved. supra), S t e f a n i s (38, 58) propone la correzione in τούτους μὲν (contro τοὺς μὲν τοῦ di G r a u x e F o e r s t e r ). –– § 4, pp.345,23–346,1: S t e f a n i s (38, 58 e 148) stampa e sia pur dubitativamente difende il tradito πλείστων ἡγουμένων ἱδρώτων (ἡγημένων F o e r s t e r ); che Coricio descriva il ruolo svolto dalle fatiche come in qualche modo contemporaneo allo svago di cui subito dopo si parla sarebbe certo possibile, e più che il passo dello pseudo-Aristide (or. LIII 21, p.629,10 Dindorf, in realtà Tommaso Magistro, Adv. Demosthenem 85, p.19,2 Lenz [Fünf Reden Thomas Magisters, Leiden 1963]) citato in nota da S t e f a n i s , dove il verbo è all’aoristo, si potrebbe confrontare Teodoreto, de prov., PG LXXXIII 680C, dove si ha πόνων ἡγουμένων οἰκιῶν ἀπολαύομεν; ma in questi e altri passi simili le fatiche ovviamente «conducono» a ottenere risultati, non al riposo (che in Coricio è peraltro propiziato da un altro soggetto, il καιρός), sicché è il verbo ἡγοῦμαι in quanto tale che sembra inadeguato: si potrebbe
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pensare, ad es., a qualcosa come (ἐκ)κεχυμένων, ma l’ἡττώμενον di To u r n i e r conserva perlomeno un ottimo valore diagnostico, in quanto un participio riferito al precedente με sarebbe particolarmente adeguato, e si potrebbe forse suggerire qualcosa come ἠργμένον («all’inizio delle mie tante fatiche») o ἡμμένον («quando mi ero accostato a tante fatiche», cfr. Giovanni Crisostomo, in Matth. hom. VIII 5, PG LVII 90), oppure, con diverso pensiero (per cui cfr. Libanio, or. LV 16), εἰργόμενον o εἰργμένον («quando mi trovavo impedito alle tante fatiche»). § 10, p.347,1: S y k u t r i s (8, 1842) giustamente difendeva il tradito καὶ τέχνην, poi riproposto da S t e f a n i s (38, 60 e 151), che indica «i mimi» come soggetto sottinteso di ἔχουσιν. § 14, p.347,23: l’integrazione proposta da F o e r s t e r per la lacuna postulata da G r a u x appariva inadeguata a M a a s (3, 40); S t e f a n i s (37, 62 e 152–153) indica lacuna nel testo, ma nel commento mostra che il supplemento di F o e r s t e r è inadeguato e propone exempli gratia συγγραμμάτων , ὡς…. § 16, p.348,9: S t e f a n i s (38, 62) non accetta l’integrazione di F o e r s t e r , e un asindeto enfatico sembra in effetti possibile. § 17, p.348,13: S t e f a n i s (38, 64 e 153) accoglie l’espunzione di τὸ che F o e r s t e r riprendeva da G r a u x (il quale però, come S t e f a n i s osserva, espungeva anche θέατρον) ma ritiene che il passo non possa dirsi definitivamente sanato. § 19, p.348,22–24: M a a s (3, 40) sembra sottoscrivere il giudizio di G r a u x , che giudicò la sequenza interpolata; S t e f a n i s (38, 64), come F o e r s t e r , si limita a riportare la proposta di G r a u x in apparato. § 23, p.349,22–24: S t e f a n i s (38, 66 e 154–155) torna, credo a ragione, al testo tradito, con εἴρηται ed εἴργασται. § 25, p.350,5: S t e f a n i s (38, 68) ripristina la corretta accentazione μισόλογος; sulle accentazioni non sempre corrette nell’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g insisteva già L e h n e r t (10, 412). § 27, p.350,21: S t e f a n i s (38, 68) torna al tradito μὴ, in effetti ammissibile. § 28, p.350,24: in apparato S t e f a n i s (38, 70) segnala la congettura λοιπὸς per λοιπὸν propostagli da T s o p a n a k i s , non necessaria. § 28, p.351,1–2: τοῦτο ἀσκήσας, senza elisione, S t e f a n i s (38, 70, cfr. 47 e 156). § 35, p.352,15: l’integrazione di οὔπω crea uno iato giudicato intollerabile da M a a s (3, 40); S t e f a n i s (38, 74 e 157) difende il testo tradito, intendendo ἑαλωκότα non nel senso di «condannato» ma di «sorpreso in flagrante». § 35, p.352,18: S t e f a n i s (38, 74 e 157–158) corregge in ἢ, suscitando le riserve di S i d e r a s (39, 187 n.9): in effetti, a parte il fatto che l’integrazione non sarebbe comunque necessaria (per il positivus pro comparativo ved. a XXXIII 5, p.382,6), non pare scontato intendere ἤ come quam invece che come vel. § 35, p.352,19: S t e f a n i s (38, 74) prudentemente torna al διαστρέφειν di G r a u x (διααστρέφειν M, διαφθέρειν F o e r s t e r ). § 36, p.353,1–2: S y k u t r i s (8, 1843) espungeva ἣν ἐμοίχευσε ταῦρος; S t e f a n i s relega la proposta in apparato (38, 74). § 37, p.353,5: difese il tradito ὁ Οἰδίπους M a a s (3, 40); S t e f a n i s (38, 74) segue F o e r s t e r nell’espungere l’articolo.
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–– § 39, p.353,10: S t e f a n i s (38, 76) non accoglie l’integrazione di ἐν proposta da G r a u x e ripresa da F o e r s t e r , che mi appare però palmare. –– § 40, p.353,14: S t e f a n i s (38, 76 e 158–159) appone cruces al passo e nel commento tenta dapprima κατὰ τῶν ποδῶν, quindi κατὰ τὸν Ποσειδῶ … πληγαῖς nel senso di «percosse alla maniera di Poseidone» (in quanto scuotitore, con l’ulteriore ipotesi di un fraintendimento a partire da Libanio, or. LXIV 41); il passo attende ancora una sistemazione convincente, e sospetterei che il nome di Posidone sia erroneamente finito qui dal paragrafo precedente, ma meriterà comunque di comparire in apparato la congettura κατὰ τῶν ὀπισθιδίων pubblicata da Alfred Dillwyn K n o x nell’anno della morte di F o e r s t e r (in Herodas, The Mimes and Fragments. With Notes by W. H e a d l a m , Cambridge 1922, 464) e ignorata da R ichtsteig. –– § 42, p.353,21: S t e f a n i s (38, 76 e 159–160) adotta la divisio τι σμικρὸν, suggerita da T s o p a n a k i s , che non mi pare però raccomandabile. –– § 52, p.355,22: S t e f a n i s (38, 80) torna al tradito καταστήσεις (-σαις F o e r s t e r ). –– § 53, p.356,10: S t e f a n i s (38, 82) ripristina il tradito καὶ, espunto da F o e r s t e r ma garantito dal modello di Demostene XVIII 215 che lo stesso S t e f a n i s ha il merito di aver individuato (ved. infra, B.3.a.i.β.1). –– § 64, p.359,6: ἀσήμως S y k u t r i s (8, 1843), proposta che S t e f a n i s (38, 88) relega in apparato. –– § 65, p.359,6: P i z z o n e (141, 330) corregge in ἐξ αὐτοῦ τοίνυν Φιλίππου, con il conforto di II 45, p.39,18; X 19, p.136,15; II 78, p.47,16 (e ved. supra su V 17, p.86,7). –– § 65, p.359,10: S t e f a n i s (38, 90) non accoglie l’integrazione di καὶ (K a i b e l , F o e r s t e r ). –– § 66, p.359,16–17: S t e f a n i s (38, 90, cfr. 47 n.58) respinge la correzione πρεσβύτατον, che G r a u x fondò su Eschine II 42 e F o e r s t e r accolse. –– § 67, p.359,19: S t e f a n i s (38, 90 e 165) difende il tradito φιλοπονίας sulla base del par.65, p.359,8, ma è soluzione che lascia dei dubbi. –– § 67, p.359,22: S t e f a n i s (38, 90 e 165) postula con G r a u x lacuna, suggerendo δόξαν, μίμων καὶ εὐφροσύνην. –– § 74, p.361,5: S t e f a n i s (38, 94 e 168) stampa οὔκουν con G r a u x , credo a ragione. –– § 77, p.361,17: che τῆς Ἀττικῆς, lezione di M, non sia da correggere né in τῆς ἀγωνιστικῆς con F o e r s t e r nè in τῆς ἀστικῆς con W e i l (congettura che W h i t e [67, 55 e n.37] scambia per paradosi!), ma vada preservato e inteso come «arte retorica» fu affermato già da S y k u t r i s (8, 1842); S t e f a n i s (38, 94 e 168) ha quindi rimesso τῆς Ἀττικῆς a testo e richiamato la παιδεία … Ἀττική di XXXVI 4, p.431,3 (nonché, per la forma, Sofocle, Phil. 233); più ampia messe di riscontri in C o r c e l l a (111, 79–80; qui si accenna anche alla possibilità, invero remota, di correggere στρατιώτου in Σπαρτιάτου al r.18). –– § 81, p.362,9: S t e f a n i s (38, 96 e 170) solleva in apparato un dubbio sulla correttezza di ὁ δὲ τοιοῦτος in apodosi (e segnala la proposta di correggere δὲ in δὴ avanzata da T s o p a n a k i s ), ma in nota prudentemente osserva che, se la particella manca
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nel’analogo passo di XIV 53, è però presente in II or.2, 11; cfr. ora anche, nel carteggio tra Procopio e Megezio, il finale dell’ep. V Amato. § 82, p.362,14: S t e f a n i s (38, 96 e 170) difende il tradito ἔτι e in subordine preferirebbe l’ἐπὶ di K a i b e l all’ἐν di G r a u x e F o e r s t e r . § 86, p.363,14–15: nella sequenza τοὺς πεπορνευμένους, οὓς ὀνομάζομεν ἐκ τοῦ τὰ σώματα διαλελύσθαι τῷ πάθει S t e f a n i s (38, 98 e 172) postula lacuna dopo οὓς e suppone che sia caduto qualcosa come ἐκλύτους; dissente S i d e r a s (39, 187 n.9), e in effetti per le abitudini di Coricio è più ovvio pensare che il termine esatto (se non ἔκλυτοι, forse παθικοί; oppure anche μαλακοί, cfr. Plutarco, mor. 136B) non sia menzionato ma vada compreso a partire dalla trasparente perifrasi (ved. in proposito C o r c e l l a [111, 89–90]). § 88, p.364,7: S y k u t r i s (8, 1842) intendeva δικαστῶν παραδίδοται ψήφῳ, senza la negazione aggiunta da K a i b e l , come riferimento al tribunale in scena più volte evocato nell’apologia; si può allora anche restare al tradito singolare δικαστοῦ, come fa S t e f a n i s (38, 100 e 173). § 89, p.364,14: S t e f a n i s (38, 102 e 174) pone virgola dopo οὔ, con G r a u x . § 89, p.364,15: M a a s (12, 127 = 233) suggeriva di accentare ὑγιείαν, per il ritmo; la proposta, non menzionata da S t e f a n i s (38, 102), non è comunque necessaria, ché segue λυσιτελεῖ con probabile accento secondario (ved. supra sul ritmo). § 90, p.364,16: S t e f a n i s (38, 102 e 174) torna all’ἑκάτερα di G r a u x . § 100, p.367,2: con G r a u x , S t e f a n i s (38, 108) pone punto interrogativo dopo Ἀθηναῖοι. § 100, p.367,8: S t e f a n i s (38, 108 e 176) suggerisce in apparato di leggere κἀκεῖνα ἅ (scil. γάμος e πανηγύρεις). § 101, p.367,15: S t e f a n i s (38, 110 e 176) rinuncia all’integrazione di ἐξ (G r a u x , F o e r s t e r ), confrontando opportunamente XX 61 e XXIX 4. § 102, p.368,1: accoglie le correzioni di G r a u x , esprimendo però i suoi dubbi in sede di commento, S t e f a n i s (38, 110 e 176). § 108, p.369,10: S t e f a n i s (38, 114 e 180) torna al tradito δόξαις, col conforto di passi come XXI 2. § 113, p.370,16: torna ad αὐτῷ (αὑτῷ F o e r s t e r ) S t e f a n i s (38, 116). § 124, p.372,24: S t e f a n i s (38, 122 e 186) elimina giustamente la virgola dopo δέῃ. § 134, p.375, 4 e 7: S t e f a n i s (38, 128) ripristina i punti interrogativi di G r a u x . § 135, p.375,10: torna al tradito τὴν φύσιν εἶναι, ancorché aritmico, S t e f a n i s (38, 128 e 188); forse meglio espungere εἶναι? § 135, p.375,12–13: S t e f a n i s (38, 128 e 188) lascia tra cruces il testo di M, μακρᾶς … εὐθείας; nel testo del frammento euripideo da Coricio qui citato i più recenti editori (K a n n i c h t , J o u a n – v a n L o o y , C o l l a r d – C r o p p ) fanno proprie le congetture di G r a u x e To u r n i e r , stampando ἀλλ᾽ ἄκρας εὐηθίας (K a n n i c h t in particolare confronta ἄκρας μανίας τεκμήριον al par.99, p.366,19), quindi scrivono θέλει: ved. infra, B.3.a.i.α.3. § 141, p.377,2: S t e f a n i s (38, 189) difende con buoni argomenti (soprattutto il parallelo di XXIX 30) il semplice εἰσέρχεται, già stampato da F o e r s t e r ma con dubbi in apparato.
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–– § 150, p.378,24: S t e f a n i s (38, 136) torna al tradito ῥαπίσματι, che sembra in effetti difendibile. –– § 152, p.379,10–11: S t e f a n i s (38, 138) scrive καταβάλῃ con G r a u x e ripri stina il tradito ὑποσκελίσει, entrambe soluzioni accettabili. –– § 153, p.379,21: S t e f a n i s (38, 138) torna all’αὐτοῦ di M e G r a u x (αὑτοῦ F o e r s t e r ). –– § 155, p.380,6–7: S t e f a n i s (38, 140) ripristina l’ἵππειον di M, che mi pare poco probabile, mentre più accettabile è il ritorno all’interpunzione di G r a u x , con virgola dopo Λητοῦς. Op.XXXIII dial.20, pp.381,1–382,13 FR –– § 5, p.382,6: P e n e l l a (53, 53 n.57) accetta la proposta di integrare χρηστὸν ἢ ἕτερον, che F o e r s t e r saggiamente relegò in apparato: per ἤ = μᾶλλον ἤ cfr. XII 1 (dove la tradizione ha εὔκολον … ἤ, emendato da Foerster in εὐκολώτερον … ἤ senza vera necessità); sul positivus pro comparativo, in latino ma non solo, S. T i m p a n a r o , Contributi di filologia e di storia della lingua latina, Roma 1978, 39–81. Op.XXXIV dial.21, pp.382,15–384,5 F.-R. –– § 4, p.383,17: l’accentazione βοίδιον, proposta da M a a s (12, 127 = 233), resti tuirebbe clausola ritmica. Op.XXXV decl.9, pp.384,6–429,14 F.-R. ( = Infanticida) –– th. § 5, p.387,8: preferiva la variante ἐποίησε τύραννος, per il ritmo, M a a s (3, 40). –– § 13, p.391,13: δῆλον γὰρ ὅτι S y k u t r i s (8, 1843). –– § 26, p.396,9: τίτθῳ M a a s (12, 127 = 233), recte. –– § 28, p.396,22: M a a s (3, 40) accoglieva la proposta di R i c h t s t e i g ἄγχων, confrontando XXVI 84, p.308,3. –– § 29, p.397,6: M a a s (3, 40) preferiva la lezione di M, senza καὶ. –– § 40, p.400,17: M a a s (3, 40) dubitativamente proponeva la trasposizione εἰς ἀνάγκην ἐγὼ, per evitare lo iato. –– § 46, p.402,6: μοι τελεῖ, per il ritmo, M a a s (3, 40). –– § 59, p.405,15: H e a t h (53, 187 n.12) torna al testo degli editori precedenti a F o e r s t e r (ὡς παῖδας θανατῶσαι ὑπὲρ πατρίδος), che è nella sostanza frutto di una correzione nel Par. gr. 3017 e garantisce un senso lineare («chi non ha l’animo generoso per sacrificare dei figli in nome della patria»); il testo di F o e r s t e r (ὡς παίδων θανατῶσαι πατρίδα) sembra meglio rappresentare la paradosi ma il suo presumibile senso («chi non ha animo generoso, sicché condanna a morte la patria dei suoi figli») non si accorda bene col seguente τοῦτο. –– § 62, p.406,23: congetturò κερδαίνεις M a a s (3, 39), per il ritmo. –– § 63, p.407,1: il perfetto in protasi irreale ἀκήκοας, che dà buon ritmo, fu difeso da M a a s (3, 39) contro la correzione in piuccheperfetto di F o e r s t e r . –– § 64, p.407,14: il perfetto συμβέβηκεν con ἄν in apodosi, che rispetto al piuccheperfetto introdotto da F o e r s t e r garantisce il ritmo ed evita lo iato, fu difeso da M a a s (3, 39).
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–– § 64, p.407,17: M a a s (3, 40) difese il tradito εἰ, confrontando XXXVIII 47, p.462,13ss.; S y k u t r i s (8, 1843) propose invece μὴ, come in X 62, p.144,25. –– § 70, p.409,23: M a a s (12, 127 = 233) proponeva di accentare τροπαῖα, per il ritmo. –– § 73, p.410,10: M a a s (3, 40) notò come l’emendazione di F o e r s t e r νίκης ἀκεραίου τύχη creasse un testo aritmico; S y k u t r i s (8, 1843) propose l’ottimo νίκης ἀκέραιος τύχη. –– § 85, p.414,2: il perfetto in protasi irreale γέγονε, che evita iato, fu difeso da M a a s (3, 39). –– § 85, p.414,8: congetturò κερδαίνεις M a a s (3, 39), per il ritmo. –– § 86, p.414, 16–17: M a a s (3, 40) non trovava convincente la correzione proposta da F o e r s t e r sulla scia di B o i s s o n a d e , che sa in effetti di rabberciamento; S y k u t r i s (8, 1843) propose διεφθάρη. εἰ δὲ κἀκεῖνος ἡμῖν τοιούτους πρὸς τὴν θέαν ἀντέπεμψε λόγους. –– § 95, p.417,10–11: M a a s (3, 40) giudicava non ancora sanato il testo; S y k u t r i s (8, 1843) riteneva ἄρα mera variante di οὖν e lo espungeva. –– § 98, p.417,24: οἱ χρηστοὶ S y k u t r i s (8, 1843). –– § 117, p.423,8: M a a s (3, 40) preferiva la variante ἐκεῖνον οἴει, senza iato. –– § 122, p.424,21: M a a s (3, 40) proponeva ἀσιτίας per αἰτίας, notando come la medesima corruzione si sia prodotta nella tradizione di Libanio, or. LIII 24. –– § 123, pp.424,21–425,3: interpolazione secondo M a a s (3, 40). –– § 130, p.426,10: M a a s (3, 40) accoglieva la congettura di R i c h t s t e i g πλοῦτον ἐνδείᾳ, che rimedia a uno iato. Op.XXXVI dial.22, pp.430,1–431,12 F.-R. –– § 4, p.431,9: la proposta di P e n e l l a (53, 55 n.65) di integrare λήθῃ poggia su un fraintendimento: la frase non vuol dire «the passage of time, with the plays put out of sight, would not cause them to forget what they were accostumed to», ma «il tempo non svolgesse la sua opera consueta (τὸ εἰωθὸς ποιήσῃ) celando nell’oblio (λήθῃ καλύψας) i drammi». Op.XXXVII dial.23, pp.431,13–433,8 F.-R. –– § 7, p.433,6–7: ottima la congettura di S y k u t r i s (8, 1842), τὴν τοῦ λέγοντος δύναμιν, che trova confronto nella formula della nota di commento iniziale. Op.XXXVIII decl.10, pp.433,9–476,8 F.-R. ( = Patroclus) –– th. § 1, p.434,17: M a a s (3, 40) accoglieva il τοῦτον di M, che non crea iato. –– § 10, p.442,17: M a a s (3, 40) poneva virgola prima e non dopo κοινῇ, per la clausola. –– § 11, p.443,12: M a a s (3, 40) preferiva la variante ἀφῃρεῖτο, per il ritmo. –– § 23, p.450,7: R e a d e r (53, 208 n.35) sceglie la variante ἐφελκομένων. –– § 27, p.452,10: M a a s (3, 40) poneva punto dopo ἐδωρήσατο, per la clausola. –– § 37, p.457,3: congetturò ἄγειν, per il ritmo, M a a s (3, 40) –– § 39, p.458,11: M a a s (3, 40) notava come sia da accogliere l’ἔπεμψε cui riconduce la recensio, perché dà buon ritmo.
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–– § 46, p.461,16: M a a s (3, 40) preferiva la variante μείζω che dà ritmo corretto. –– § 53, p.465,19: M a a s (3, 40) dubitava della clausola aritmica τὴν ἀρχὴν τὴν φήμην e S y k u t r i s (8, 1843) rimediava con ἕξει τὴν φήμην. –– § 62, p.469,14ss.: M a a s (3, 40) giustamente si dichiarava insoddisfatto di come F o e r s t e r stampò il passo, che ancora attende una sistemazione definitiva. –– § 65, p.471,1: M a a s (3, 40) riteneva interpolato l’εἴπῃς in iato presente in alcuni manoscritti. –– § 67, p.472,6: l’emendazione μοι di F o e r s t e r , che crea iato, non persuadeva M a a s (3, 40). Op.XXXIX dial.24, pp.476,9–478,17 F.-R. L’edizione di P e r o s a e T i m p a n a r o (24) offre un testo rigorosamente fondato sullo stemma (ved. supra). Per la possibilità che questa dialexis vada legata, assieme alla XLI, al Rhetor e non al Vir fortis ved. supra, A.3, con la discussione di A m a t o (15, 105–106) e Te l e s c a (125, 98–99). –– scholium, 476,11: καινότερόν τι, con la paradosi, P e r o s a e T i m p a n a r o (24, 423, cfr. 414 n.5). –– § 1, p.477,1: αὐτοῦ P e r o s a e T i m p a n a r o («αὑτοῦ corr. Förster nescimus cur») (24, 423). –– § 3, p.477,8: ὁ Ἀφροδίτης, come da stemma, P e r o s a e T i m p a n a r o (24, 423). –– § 4, p.477,14: αὐτὴ, con la paradosi, P e r o s a e T i m p a n a r o (24, 423). –– § 5, p.477,18–19: κατένευσαν μὲν αἱ θεαί, ἡ δὲ παρὰ P e r o s a e T i m p a n a r o , con il ramo X (24, 423; discussione a 418–419). –– § 6, p.478,10: τε, con la paradosi, P e r o s a e T i m p a n a r o (24, 423; discussione a 415 n.3). –– § 7, p.478,13: οὐδὲ, come da stemma, P e r o s a e T i m p a n a r o (24, 424). Op.XL decl.11, pp.479,1 (lac.)–506,20 F.-R. ( = Vir fortis) –– § 14, p.482,11: la clausola aritmica destava i dubbi di M a a s (3, 40); forse τοῖς τεθεικόσι νόμοι? –– § 29, p.485,18–19: l’aritmico περιτέθεικας [F o e r s t e r : -κὼς M] ἐσθῆτα insospettiva M a a s (3, 40); si potrebbe forse integrare l’articolo? –– § 50, p.491,3: il perfetto in protasi irreale γέγονε, che evita iato, fu difeso da M a a s (3, 39). –– § 60, p.493,20–22: P a p i l l o n (53, 231 n.21) pone punti interrogativi dopo ὀφλήματα e δωρεαῖς. –– § 63, p.494,10: l’accentazione γέλοια, proposta da M a a s (12, 127 = 233), resti tuirebbe clausola ritmica. –– § 65, p.494,18–19: P a p i l l o n (53, 232 n.22) accetta εἶτα τί φήσεις;, proposto da R i c h t s t e i g in apparato. –– § 85, p.501,9: a fronte dell’ἀπειλήφει di M e F o e r s t e r , M a a s (3, 39) congetturò ἀπείληφε, ammissibile in apodosi irreale e consigliato dal ritmo. –– § 103, p.505,13: non tollerabile, come osservava M a a s (3, 40), l’aritmico ἐν τῷ λόγῳ ἔσπειρα in iato; έσπειρα?
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Op.XLI dial.25, pp.507,1–508,10 F.-R. Non mi risultano interventi sul testo di quest’opera. Op.XLII decl.12, pp.508,11–544,9 F.-R. ( = Rhetor) –– th. § 9, p.511,10ss.: «var. lect. besser» M a a s (3, 40), vale a dire l’omissione dell’aritmico τυγχάνειν e quindi i nominativi τρόπος ἥμερός τε καὶ προσηνής. –– § 12, p.515,8: M a a s (3, 40) difendeva la paradosi (ἐμοὶ τί senza δεῖ). –– § 13, p.515,16: M a a s (3, 40) preferiva la variante ἐννοεῖν μοι, senza iato e con miglior ritmo. –– § 24, p.518,9–10: K e n n e d y (53, 246 n.8) acutamente osserva che le parole ὡς γὰρ – ἀναγνώσομαι non vanno stampate come se appartenessero alla legge personificata (così F o e r s t e r e R i c h t s t e i g ) ma sono da attribuisi all’oratore. –– § 28, p.519,4–9: K e n n e d y (53, 247 n.9) nota come l’intero paragrafo non vada stampato spazieggiato, in quanto non è continuazione del precedente intervento. –– § 84, p.533,23: M a a s (3, 40) preferiva l’ἀκροᾶσθαι del Matr. 4679, che dà ritmo corretto. –– § 90, p.535,21: M a a s (3, 40) congetturò χεῖρας, che eviterebbe uno iato (comunque tollerabile, cfr. XII 51, p.164,26). –– § 100, p.539,1–2: M a a s (3, 40) preferiva la variante διεκώλυσε προδοσία, migliore ritmicamente. –– § 121, p.544,1: M a a s (3, 40) faceva propria la congettura μάχης di R e i s k e , che eviterebbe un brutto iato. Fragmenta, p.544,10–13 F.-R. In generale sui frammenti (e sulle insidie causate dalle incerte attribuzioni nei florilegi), nonché sulla possibile individuazione di frammenti ulteriori rispetto ai due registrati da F o e r s t e r e R i c h t s t e i g , ved. supra, A.3. Che anche i due frammenti accolti da F o e r s t e r e R i c h t s t e i g nell’edizione fossero dubbi era in realtà agli stessi ben chiaro, come mostrano i Prolegomena (1, V); i nuovi studi sui florilegi consentono qualche ulteriore osservazione. –– fr.1: la gnome compare adespota nel Florilegium Marcianum (321 Odorico) e nella recensione Δ del florilegio di Georgide (11 Odorico), quindi attribuita a Coricio nei vari rami dei Loci communes dello pseudo-Massimo (55.17 Sargologos = 48.19/55.21 Ihm) e a Solone nel Florilegium Patmense (19,35 Sargologos); che la paternità coriciana sia quindi una erronea innovazione e si tratti, in realtà, di un brano della or.37 (In dictum evangelii: Cum consummasset Jesus hos sermones) di Gregorio di Nazianzo (PG XXXVI 301A) è stato notato o comunque registrato da O d o r i c o (88, 99 e 261), S a r g o l o g o s (93, 462–463; 108, 599), I h m (106, 808; cfr. 105, 127 n.47) e il frammento andrà cassato dalle edizioni coriciane. –– fr.2: anche questo frammento compare nel Florilegium Marcianum in forma ade spota (383 Odorico) e il fatto che l’attribuzione a Coricio compaia già in Georgide (1123 Odorico) non basta a rendere comunque del tutto sicura l’attribuzione del brano, da tempo riconosciuto come parafrasi di un epigramma di Pallada (AP IX 394, ma l’esordio ha riscontro in pseudo-Focilide 44). Coricio ricorre, in realtà,
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talora a parafrasi di testi poetici (ved. infra, B.3.a.i); nel nostro caso la clausola sarebbe peraltro aritmica, a meno di introdurre anche nel frammento, in luogo del λύπη che si legge pure, con dubbia prosodia, nella Palatina, l’ὀδύνη della Planudea (su come affrontare il problema nell’epigramma di Pallada buona discussione, con menzione di Coricio, nell’edizione dell’antologia di W a l t z e S o u r y [140, 23 n.2]). In fin dei conti, però, anche il fr.2 va probabilmente cassato dalle edizioni coriciane, o perlomeno indicato come dubium. B. L’autore e la sua opera: per una storia delle interpretazioni 1. Vita e opere: trattazioni generali e cronologia 143. Encyclopaedia Britannica. Fourteenth Edition, V, London – New York 1930 (Revised Edition, Chicago – London – Toronto 1936 e varie altre edizioni). 144. Γ . Γ α ρ δ ί κ α ς , art. Χορίκιος, in: Ἐλευθερουδάκη Ἐγκυκλοπαιδικὸν Λεξικόν, XII, ἐν Ἀθηναῖς 1931, 930. 145. S . G . M e r c a t i , art. Coricio, in: Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti, XI, Roma 1931, 401. 146. O. B a r d e n h e w e r , Geschichte der altkirchlichen Literatur. V. Die letzte Periode der altkirchlichen Literatur mit Einschluss des ältesten armenischen Schrifttums, Freiburg i.B. 1932. 147. Γ. Μ. Β α λ έ τ α ς , art. Χορίκιος, in: Μεγάλη Ἑλληνικὴ Ἐγκυκλοπαίδεια 24, Ἀθῆναι 1934 (19652), 671. 148. G . D o w n e y , John of Gaza and the Mosaic of Ge and Karpoi, in: Antioch on the Orontes II. The Excavations 1933–6, Princeton 1938, 205–212. 149. Winkler Prins Encyclopaedie. 6de, geheel nieuwe druk, VI, Amsterdam etc. 1949. 150. A. L e s k y , Geschichte der griechischen Literatur, Bern 1957. 151. Grand Larousse Encyclopédique en dix volumes, III, Paris 1961. 152a. Tusculum-Lexikon griechischer und lateinischer Autoren des Altertums und des Mittelalters, völlig neu bearb. v. W. B u c h w a l d , A . H o h l w e g , O . P r i n z , München 1963; b. Tusculum-Lexikon griechischer und lateinischer Autoren des Altertums und des Mittelalters. Dritte, neu bearbeitete und erweiterte Auflage von W. B u c h w a l d , A . H o h l w e g , O . P r i n z , München 1982; c. W. B u c h w a l d , A . H o h l w e g , O . P r i n z , Dictionnaire des auteurs grecs et latins de l’antiquité et du moyen age. Traduit et mis à jour par J. D. B e r g e r et J. B i l l e n , Turnhout 1991. 153. H . G ä r t n e r , Art. Chorikios, in: Der Kleine Pauly, I, Stuttgart 1964, 1159–1160. 154a. S . I m p e l l i z z e r i , La letteratura bizantina da Costantino agli icono clasti, Bari 1965; b. La letteratura bizantina da Costantino a Fozio, Firenze 1975 (rist. Milano 1993).
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184. M . A . G u z i k , Kul’tura Vizantii. Istoki pravoslavija, Moskva 2012. 185. F . K . H a a r e r , art. Choricius, in: R. S. B a g n a l l , K . B r o d e r s e n , C . B . C h a m p i o n , A . E r s k i n e , S . H u e b n e r (eds.), The Encyclopedia of Ancient History. First Edition, Oxford 2013, 1472–1473. Cfr. 27, 25, 34, 38, 48, 53, 58, 61, 62, 90, 122. Le più dettagliate trattazioni generali della produzione di Coricio e di quel poco che da essa si ricava sulla sua vita e la sua figura tutto sommato restano, nonostante alcune imprecisioni derivanti dall’indisponibilità di una edizione complessiva del cor pus, quelle di Wilhelm S c h m i d in RE (III [1899], 2424–2431) e nella riedizione della Geschichte der griechischen Litteratur di Christ (II, München 1924 6, 1031–1032), alle quali le successive esposizioni, pur potendosi ormai fondare sull’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g , non sono state in grado di aggiungere molto. Sulle fonti e il valore delle informazioni trasmesse da Fozio importante è la già discussa analisi di S c h a m p (90, 451–459). Tra le voci nelle enciclopedie specializzate uscite dopo il 1929 si distingue per la densa ricchezza di informazioni quella curata nel 1964 da Hans Armin G ä r t n e r per Der Kleine Pauly (153). Se Coricio mancava nella prima edizione del 1948 del Tusculum-Lexikon (come già in E . S t e m p l i n g e r , Griechisch-latenischer Litera turführer, München 1934), nella seconda edizione del 1963 (152a, 99–100) fu introdotto un articolo molto breve, che si fa lievemente più ampio nella terza edizione tedesca del 1982 e in quella francese del 1991 [152b, 155–156; 152c, 183–184]). Si ravvisa qui un’enfasi selettiva su alcuni aspetti giudicati più significativi (l’interesse socioculturale delle opere e in particolare il valore di testimonianza delle ekphraseis e della Apologia mimorum) che è stata in generale caratteristica degli studi coriciani, come vedremo nelle sezioni successive, e che ritorna, in forme diverse, anche nella breve voce di G r u b e r per il Lexikon des Mittelalters (160) e in quella consimile del Lexikon der Byzantinistik (171), nonché nei più discorsivi articoli di B a l d w i n e C u t l e r per l’Oxford Dictionary of Byzantium (166), di K a r a m a n o l i s per l’Encyclopedia of Greece and the Hellenic Tradition (172), e ora di H a a r e r per l’Encyclopedia of An cient History (185). Tale aspetto non manca neppure nelle voci del Lexikon der an tiken Autoren di K r o h (156, 130) e di M a k r i s per Der Neue Pauly (169), che però risultano più pianamente informative e attente al dettaglio, alla pari del pur breve articolo di Jerzy Ł a n o w s k i nel polacco Słownik pisarzy antycznych (159, 135), mentre specialmente sull’ekphrasis si concentra ora G u z i k (184, 298). Se esilissima è la voce nel dizionario di S z y m u s i a k e S t a r o w i e y s k i (155, 104, dove si legge la forma «Choirokios», per cui ved. infra), un po’ più ampie risultano quella di S t i e r n o n nel Dizionario Patristico, sostanzialmente fondata su Fozio (161; «il dubbio elogio del vescovo Marciano» di cui in entrambe le edizioni si parla è naturalmente un errore di traduzione per «il duplice elogio»), e quindi quella di L o u t h per la Patro logia a cura di Di Berardino (173): per questa presenza di Coricio in repertori di letteratura cristiana antica ved. anche più sotto in questa stessa sezione, nonché la sezione B.4. Sintetiche schede si leggono d’altra parte nei repertori prosopografici, da PLRE III (168, 302) al catalogo di insegnanti nell’impero d’oriente di S z a b a t (175, 229,
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nr.45), mentre più completa e provvista di ampia ma non esaustiva bibliografia è la voce della stessa S z a b a t nel dizionario dei sofisti e retori di età imperiale pubblicato in polacco nel 2011 e in versione inglese nel 2015 (182a, 116–117; 182b, 79–80), e ancor più quella di G e i g e r nella sezione prosopografica del volume, in ebraico, intitolato alle tende di Jafet (183a, 199–203, ma ved. anche 59–61 e passim; più sintetica la ripresa in 183b, 18). Sarebbe naturalmente possibile prolungare la lista prendendo in considerazione vari repertori minori, ma accanto ai lessici specialistici, e anzi ancor più di questi, un utile strumento per verificare la fortuna – e meglio si potrebbe dire la sfortuna – di Coricio viene offerto dalle enciclopedie generali e dai dizionari biografici universali. Una ricognizione complessiva sarebbe qui fuori luogo, ma sulla base di alcuni sondaggi si può osservare come la presenza del retore gazeo in tali opere sia nel complesso rara, tanto prima quanto dopo il 1929. Nel XIX secolo il maggior interesse, non sempre però accompagnato da apprezzamento, si ravvisa in Francia (ved. anche infra, C): Coricio, assente nelle varie edizioni e riproposizioni del Dictionnaire historique di F e l l e r come nei dizionari biografici d i P e i g n o t (1815) e B a r r é (18483), ricevette una trattazione poco lusinghiera da parte di Étienne C l a v i e r nella Bio graphie Universelle di M i c h a u d (VIII, Paris 1813, 446 = 18542 , 200), cui fece eco la breve voce nella riedizione del Dictionnaire historique, critique et bibliographique di C h a u d o n e D e l a n d i n e (VII, Paris 1821, 30), mentre leggermente più equilibrato, dopo l’edizione di B o i s s o n a d e , risulta l’articolo di Léo J o u b e r t nella Nouvelle biographie générale di H o e f e r (X, Paris 1854, 380–381) e una voce dedicata al retore si trova tanto nel Grand Dictionnaire universel du XIXe siècle di L a r o u s s e , ma sotto l’erroneo lemma «Choricus» (IV, Paris 1869, 191), quanto nella Grande Encyclopédie di B e r t h e l o t e D r e y f u s , a firma di Ph. P o u z e t (XI, Paris 1890, 233); nel periodo di nostro interesse, quindi, sommamente laconico e non sorretto da bibliografia è ad es. l’articolo che si legge nel Grand Larousse Encyclopé dique [151, 85], né Coricio è poi registrato nella selettiva Encyclopaedia Universa lis. Minore l’attenzione in ambito tedesco, dove un articolo su Coricio curiosamente mancava nella grande e minuziosa enciclopedia di E r s c h e G r u b e r , mentre nei Konversations-Lexika di M e y e r e B r o c k h a u s fa la sua comparsa, se ho ben visto, soltanto con le edizioni dei primi del ’900 (ad es. in Meyers Großes Konversation slexikon, IV, 1906, 97, con annuncio dell’edizione complessiva di F o e r s t e r ). Anche nell’Encyclopaedia Britannica una breve voce adespota dedicata a Coricio appare, se ho ben visto, solo con l’undicesima edizione (VI, 1910, 269–270), dove se ne pone singolarmente il floruit nell’età di Anastasio; la quattordicesima edizione con le varie versioni riviste (143, 623) introduce lievi modifiche non sostanziali (senza peralto segnalare, almeno nelle versioni da me consultate, l’esistenza dell’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g ), dopo di che l’articolo non è stato più ripreso nella Micropaedia (ma ha avuto fortuna postuma, almeno fino ai primi mesi del 2014, nell’edizione inglese di Wikipedia). Bibliograficamente attardata, e ignara degli studi di F o e r s t e r , si rivela anche la voce nella spagnola Enciclopedia universal ilustrada europeo-americana (XVII [1913], 646), che ancora menziona come coriciane le descrizioni di Procopio ma mostra buona attenzione alla fortuna bizantina e correttamente colloca il retore,
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giudicato poco originale, sotto Giustiniano. La datazione all’età di Anastasio si ritrova, invece, in ambito greco, nella voce curata per il lessico enciclopedico Eleftheroudakis da Georgios G a r d i k a s (144), che pur ignorando ancora l’edizione complessiva di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g offre una buona sintesi delle opere (con speciale attenzione all’Apologia mimorum e agli epitalami) e le giudica nel complesso di scarso valore intrinseco ma arricchite dalle citazioni dei classici; articolata sebbene non sempre limpida anche la rassegna delle opere coriciane che si legge nella voce a cura di Georgios M. V a l e t a s per la Μεγάλη Ἑλληνικὴ Ἐγκυκλοπαίδεια (147), mentre generico è il breve articolo di Stylianos L a m p a k i s nella più recente Ὑδρία (163), dove si segnala l’importanza storica delle informazioni contenute negli scritti e si vede in Coricio un ultimo rappresentante dell’antico spirito ellenico, nonostante l’adesione al cristianesimo. Sul contrasto fra cristianesimo e idee «nog gehhel heidens» si soffermava anche, in Olanda, la Winkler Prins Encyclopaedie (almeno nella sesta edizione, del 1949 da me consultata [149, 19]). Nella cultura sovietica, a fronte dell’assenza di Coricio nelle varie edizioni della Bol’šaja Sovetskaja Ėnciklopedija si può ricordare la voce di F r e j b e r g per la Kratkaja literaturnaja ėnciklopedija (157; si ritrova qui l’erroneo e confuso riferimento a Eustazio per cui ved. supra, A.3), in ambito polacco quella di B o b e r per l’Encyklopedia Katolicka (164). In questo quadro di non sempre grande esattezza l’ottimamente informato articolo di Silvio Giuseppe M e r c a t i pubblicato nel 1931 nell’Enciclopedia Italiana (145) brilla nonostante la sua estrema brevità. Non avrebbe naturalmente senso indicare nel dettaglio le menzioni, per lo più rapidissime, di Coricio o di sue opere in tutti i manuali di storia della letteratura greca e bizantina (ma anche cristiana: ved. infra, B.4) pubblicati nelle più varie lingue dal 1929 ad oggi. Se all’inizio del periodo di cui ci stiamo occupando si hanno ancora trattazioni che, per quanto brevi, rivelano, sulla scia di S c h m i d , un positivistico interesse a descrivere l’opera coriciana in tutta la sua varietà, come quella nella Geschichte der altkirchlichen Literatur di Otto B a r d e n h e w e r (146, 91), in seguito anche nelle storie letterarie, conformemente alle nuove tendenze della scienza dell’antichità, si afferma una tendenza più selettiva, ad esempio attestata, nel 1957, da Albin L e s k y (150, 975), che dichiarava Coricio importante soprattutto per l’Apologia mimorum e per le descrizioni di opere d’arte. Quando invece, ormai nel 1989, Albrecht D i h l e (165, 472), sia pur in pochissimi righi, offre una più compiuta descrizione dall’opera coriciana, dedicando un cenno anche alle declamazioni e alle theoriai, rivela quel mutamento nella ricezione e nell’apprezzamento del retore e quella apertura agli aspetti più propriamente retorici il cui sviluppo andremo nel seguito ad esaminare; e ottimamente informata si rivela anche, nel 1998, la parte su Coricio nel capitolo sulla prosa retorica greca tardoantica curato da Antonio G a r z y a per la storia letteraria diretta da Italo L a n a e Enrico Valdo M a l t e s e (170, 443). In ambito bizantinistico, a fronte delle menzioni del tutto cursorie nella Geschichte der byzantinischen Litteratur di K r u m b a c h e r merita ad es. di essere segnalato lo spazio dedicato a Coricio nella storia letteraria di I m p e l l i z z e r i (154a, 174–175 = 154b, 166), ma la rinnovata considerazione per tutto il corpus coriciano trova espressione soprattutto nella trattazione sulla retorica della Hochsprachliche profane Literatur der Byzantiner di Herbert
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H u n g e r (158, I 94, 121, 134, 150, 180), dove i vari scritti, in ossequio all’impostazione dell’opera, vengono discussi in modo separato come momenti importanti nell’evoluzione di ciascun genere letterario: vi torneremo nella sezione B.3.b. Più che nelle enciclopedie e nelle storie letterarie, le migliori e più informate sintesi sulla vita e l’opera di Coricio sono tuttavia state offerte, negli ultimi decenni, soprattutto in alcune introduzioni alle nuove edizioni, traduzioni e commenti: se molto stringate sono le informazioni fornite da F r e j b e r g (27, 151–152), S t e f a n i s (38, 32–33) e P u m m e r (48, 245), più ampie trattazioni si ritrovano ad es. in L i t s a s (34, spec. 2–62), P e n e l l a (53, 1–32), L u p i (62, 13–17). Vanno qui aggiunti anche i ritratti più o meno brevi di Coricio contenuti all’interno di opere complessive su Gaza e la sua scuola (ad es. nei libri di D o w n e y [25, 109–111] e di G l u c k e r [162, 53]); e tra le presentazioni generali di Coricio e delle problematiche presenti nella sua opera si possono annoverare anche la rapida trattazione, concentrata quasi esclusivamente sulle ekphraseis, nella sintesi sulle «scuole» di Gaza, Alessandria e Atene di C a v a r r a (167, 141–142) nonché le recenti brevi rassegne compilative pubblicate nell’ambito della scuola di Belgorod da N. N. B o l g o v , A. M. B o l g o v a e O. A. C h a r č e n k o (177; 178; 179; 180; 181), testimonianze di un rinnovato interesse per Coricio nella bizantinistica russa che per i dati biografici riproducono alla lettera, attraverso la traduzione russa, la già citata voce di Ł a n o w s k i (159, 135). Su alcune di queste trattazioni torneremo nelle sezioni seguenti. Generalmente, come si diceva all’inizio, tutti questi contributi variamente ripetono i risultati che, sulla biografia e l’attività di Coricio, furono raggiunti già alla fine dell’800: a parte qualche occasionale confusione (in particolare sulla definizione dei generi delle opere, come vedremo infra, B.3.b), l’interpretazione dei dati risulta certo più raffinata e moderna, alla luce delle nuove acquisizioni sulla società tardoantica di cui variamente nel seguito si dirà, ma ben poche sono le novità positive. Per quel che riguarda la vita di Coricio, si può segnalare come alla possibilità di dedurre, da alcune allusioni nelle opere, un suo soggiorno ad Alessandria accennino L i t s a s (34, 13), R e n a u t (174, 170), P e n e l l a (53, 3), L u p i (62, 13) e S z a b a t (182a, 116–117; 182b, 79–80). Quanto alle opere, l’attribuzione a Coricio e non più a Libanio di Patroclus, Infanticida e Rhetor, sancita dall’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g (ved. supra, A.1), non mi risulta essere più stata messa in discussione (mentre per alcuni dubbi residui su op.XXXIX dial.24 ved. supra, A.2), e anche sulla loro cronologia si sono in genere ripresi e tutt’al più precisati i risultati già raggiunti da Kurt K i r s t e n (Quaestiones Choricianae, Diss. Vratislaviae 1894 = Breslauer philolo gische Abhandlungen 7.2, 1894, 3–24), che, nonostante qualche riserva subito sollevata dai critici (ad es. da K . P r a e c h t e r , ByzZ 4, 1895, 623–627), furono fatti propri da F o e r s t e r e R i c h t s t e i g , come mostrano le indicazioni apposte sotto i titoli delle varie opere nell’edizione. Una sostanziale adesione alla cronologia proposta da K i r s t e n è così particolarmente evidente, ad esempio, nella dissertazione di L i t s a s (34) come pure, da ultimo, in quella di W e s t b e r g (122); mentre qualche più ampia considerazione sulla possibile datazione degli epitafi (opp.VII–VIII orr.6–7) è stata svolta da G r e c o (61, 23–25), che comunque riprende l’argomen-
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tazione tradizionale (G r a u x , K i r s t e n ) per cui la menzione di un «altro bagno per l’inverno» (ἕτερον χειμῶνος ὥρᾳ λουτρόν) nell’encomio per Aratio e Stefano (III or.3, 55) mostrerebbe la posteriorità di questo discorso rispetto all’orazione funebre per Procopio, dove si parlerebbe della costruzione del bagno cittadino da parte del vescovo (VIII 52). Su questi passi, in realtà, il dibattito è stato più ampio, soprattutto in relazione all’uso che se ne poteva fare per datare la Tabula di Giovanni (ved. anche la sezione relativa a quest’ultimo nella seconda parte della presente rassegna): l’interpretazione di G r a u x e K i r s t e n , sostanzialmente fatta propria anche da Paul F r i e d l ä n d e r (Johannes von Gaza und Paulus Silentiarius: Kunstbeschreibungen justinianischer Zeit, Leipzig – Berlin 1912, 110–112), è stata in seguito contestata da D o w n e y (che propose di vedere nel bagno citato nell’epitafio non l’unico bagno esistente, ma un bagno specifico fra gli altri che potevano pur esservi, e di intendere ἕτερον χειμῶνος ὥρᾳ λουτρὸν non come «un secondo bagno, per l’inverno», ma come «un ulteriore bagno invernale» che si aggiungeva a uno o più altri bagni invernali: 148, 211), e più recentemente da S a l i o u (che nel passo dell’epitafio legge non la notizia dell’edificazione ex novo di un edificio termale ma quella di un restauro e, tenendo conto anche dell’incertezza dell’identificazione del vescovo dell’epitafio per Procopio con Marciano, già efficacemente notata da P r a e c h t e r , ritiene che nell’interpretare VIII 52 si debba «renoncer à vouloir en faire une exploitation chronologique»: 139, 176 e n.38); da ultimo B a r g e l l i n i (176, spec. 67–72) ritiene di poter rafforzare gli argomenti di D o w n e y (ma certamente erra nell’interpretare μαντεύομαί γε πλείονά τε καὶ μείζω γενήσεσθαι τῶν γεγονότων, in VIII 52, come «credo che sarà (un bagno) più grande e importante dei precedenti»: l’espressione, dove i comparativi sono al neutro plurale, vuole ovviamente dire «prevedo che vi saranno opere anche più numerose e maggiori di quelle compiute» come rende G r e c o [61, 81]; similmente C o r c e l l a [58, 526]). La questione rimane ai miei occhi dubbia (e vi torneremo trattando del vescovo Marciano nella sezione B.2.a). Ragionevoli per converso appaiono (come sottolinea anche S i d e r a s [39, 186]) le riserve sollevate da S t e f a n i s (38, 4 0–43) contro la datazione – anch’essa tradizionale (G r a u x , K i r s t e n ) e variamente ribadita, talora non senza qualche errore, nella letteratura successiva (ad es. dall’anonimo recensore dell’edizione teubneriana per BAGB [5, 176] o nel Tusculum-Lexikon [152b, 156 = 152c, 184]) – dell’Apologia mimorum all’età giovanile di Coricio, prima dei provvedimenti contro gli spettacoli (peraltro piuttosto incerti) del 526 (ved. in fra, B.2.c). Una sostanziale conferma della datazione già proposta da K i r s t e n per l’encomio di Summo (op.IV or.4) e il discorso per i Brumalia di Giustiniano (op.XIII dial.7) viene invece dallo studio di M a z z a (59), che sulla base delle carriere dei personaggi citati li colloca tra il 535/6 e il 538/9 (ved. anche infra, B.3.b.i.α). In sintesi, si può quindi ribadire che, per quanto una più esatta definizione della cronologia delle opere di Coricio, e quindi anche della sua evoluzione biografica e artistica, sarebbe sommamente utile (ved. infra, B.4), nel periodo successivo al 1929, rispetto al quadro definito da K i r s t e n e ripreso da F o e r s t e r e R i c h t s t e i g , sono emersi ulteriori dubbi e si sono offerte alcune precisazioni ma non sono stati individuati elementi davvero nuovi e decisivi (si veda comunque, per le più recenti acquisizioni sui personaggi celebrati o menzionati negli scritti, a partire da Marciano, la sezione B.2.a).
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È curioso, infine, come sia mancata una riflessione sul nome stesso del retore, Χορίκιος (con la spiacevole conseguenza di trovarne talora, anche nella letteratura scientifica, grafie aberranti, che ho in qualche caso segnalato: un erroneo «Charicius» si infiltrò addirittura nella Année Philologique [3, 1928, 19], mentre la forma sui(lli) generis «Choirikios», usata nientemeno che da Jacob Wackernagel [IF 1, 1892, 345] e Pierre Chantraine [Histoire du parfait grec, Paris 1927, 123], ricompare variamente altrove, e con l’ulteriore deformazione «Choirokios» nello Słownik di S z y m u s i a k e S t a r o w i e y s k i [155, 104]; ma è soprattutto «Choricus» che si legge con inquietante frequenza, forse – come già in età bizantina, ved. supra, A.3 – per erroneo scioglimento di compendio). Χορίκιος è, in effetti, nome raro se non unico (né i volumi editi del Lexicon of Greek Personal Names né la banca di dati sul sito relativo ne offrono esempi, alla pari di H . S o l i n , Die griechischen Personennamen in Rom, Berlin – New York 20032; nulla a che vedere ha il prenestino Coricia di CIL XIV 3108, ved. W. S c h u l z e , Zur Geschichte Lateinischer Eigennamen, Berlin – Zürich – Dublin 19662 , 156); e se, come sembra, deriva, con caratteristica formazione tardoantica, da χορός/χορικός (per il tipo e il senso cfr. Μουσίκιος, o anche Ἑορτίκιος), si rivela tra l’altro interessante perché potrebbe testimoniare una qualche sensibilità alla sfera artistica nella famiglia d’origine del retore (aiuterebbe eventualmente questo dato a spiegare la speciale simpatia per i mimi attestata nell’Apologia mimorum? ved. infra, B.2.c). Non mi risultano casi certi di altri personaggi antichi così chiamati, benché la questione sia resa più complessa dalle ambiguità ortografiche: un più rustico Χωρίκιος, con omega, è infatti attestato ad es. nel 300 d.C. in PPanop II 8,190 (e si allinea a nomi consimili come Ἀγροίκιος), mentre la menzione di un nome proprio Χορίκιος, esplicitamente con omicron, nella versione delle Partitiones pseudoerodianee edita da B o i s s o n a d e (p.152,2–3) sembra anch’essa solo un richiamo al nostro retore in età bizantina (per la datazione degli epimerismi al XII secolo ved. J. S c h n e i d e r , Les Traités orthographiques grecs antiques et byzantins, Turnholti 1999, 506; su Χορίκιος/Χωρίκιος scherza Tzetze, ep.24 Leone, su cui ved. supra, A.3, mentre il presunto Χορίκιος copista della fine del XIII secolo registrato in PLP 30893 è frutto di erronea lettura, ved. P . G é h i n , REB 60, 2002, 240, nonché S. L a m p r o s , Νέος Ἑλληνομνήμων 5, 1908, 277 n.4; 7, 1910, 488; 10, 1913, 343). La possibilità di ravvisare il nome Χορίκιος in due iscrizioni del III/IV secolo da Mišān nel Libano fu in verità suggerita da René M o u t e r d e (MUSJ 26, 1944/46, 53–59), che in ogni caso non faceva riferimento al retore gazeo e anzi dubitava se non dovesse scriversi Χωρίκιος (attestato come nome di cavallo, o forse di auriga, nella forma Χωρίκις in una tabella defixionis di Berytus: MUSJ 15, 1930, 111; SEG VII 213; Jordan SGD 167; 5 Gager), ma alla luce degli studi successivi le letture di M o u t e r d e risultano una infondata e l’altra incerta (dopo BullÉp 1948, nr.245 si veda SEG XVII 758, con bibliografia); e dubbio è anche se lo ΖΟΡΙΚΙΩΙ letto in un epitafio da Rhizon/Risinium in Dalmazia (Rosano) da R . v o n S c h n e i d e r (AEMÖ 9, 1885, 81–82) davvero possa essere emendato, come lo stesso editore dubitativamente proponeva, in Χορικίῳ. Occorrerebbe tuttavia una nuova ricognizione del materiale epigrafico, soprattutto in area siropalestinese.
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2. Lo studio delle opere di Coricio: i principali filoni Le recensioni all’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g consentono di apprezzare quali fossero gli aspetti dell’opera di Coricio che, ormai all’inizio degli anni ’30, risultavano più interessanti presso la comunità scientifica, e in qualche modo già tracciano le linee su cui gli studi si incentrarono nei decenni successivi. Come meglio diremo tra breve, da un lato Abel (4) insistè sul valore che i testi di Coricio avevano come documenti per ricostruire la storia di Gaza e e i suoi monumenti e dall’altro Wüst (9) sottolineò il rilievo dell’Apologia mimorum come fonte per il teatro tardoantico. Per parte sua S y k u t r i s (8, 1839), sia pur sottolineando – come vedremo nella sezione B.3 – l’importanza di un altro e differente approccio, rilevò come al gusto contemporaneo, orientato «sachlich-historisch», non potessero non risultare soprattutto congeniali «die kunstgeschichlich interessante erste Lobrede auf den Bischof Markianos mit der Ekphrasis der von ihm gebauten Sergioskirche [curioso, en passant, che non sia citato anche il secondo encomio] und die kulturhistorisch wichtige «apologia mimorum»». Nel 1933, del resto, lo stesso R i c h t s t e i g , nella rassegna bibliografica su Coricio per gli anni 1926–1930 (JAW 238, 1933, 102), osservò come vari passi delle orazioni richiedessero il commento di uno storico, e di analoghi interventi abbisognassero le e kphraseis delle chiese di Gaza negli encomi per Marciano; e quando nel 1941 G e r t h compilò la rassegna per gli anni 1931–1938 (JAW 272, 1941, 133) non a caso fu in grado di riportare e discutere solo l’articolo in cui A b e l prendeva in esame le testimonianze coriciane sulla Gaza del VI secolo (18). Nel clima culturale degli anni ’30 del secolo scorso non si davano, di fatto, le condizioni per un apprezzamento più propriamente letterario e culturale dell’opera coriciana. Se schiettamente S e u r e , riprendendo antichi giudizi ottocenteschi (ved. infra, C), potè parlare di una «oeuvre scholastique et sans interêt» (7), anche in Germania si andavano ormai affermando nuove tendenze umanistiche nell’ambito delle quali era difficile appassionarsi a Coricio, e in genere ai retori; ne restava semmai possibile l’uso come fonte, soprattutto per la storia generale, la storia dell’arte, il teatro dei mimi. La rassegna dei repertori compiuta nella sezione precedente ha del resto mostrato come la medesima focalizzazione sia perdurata nei decenni successivi e in fondo resista, almeno a tratti, fino a oggi (esemplare in tal senso l’articolo di B a l d w i n e C u t l e r per l’Oxford Dictionary of Byzantium [166]), anche se – come vedremo – proprio lo stesso uso dei testi coriciani come fonti ha finito col mostrare la necessità di un approccio più avvertito. 2.a. Coricio come fonte per la storia di Gaza e della Palestina nel VI secolo 186. F.-M. A b e l , Inscription grecque de Gaza, RBi 40, 1931, 94–96. 187. –, Géographie de la Palestine I–II, Paris 1933–1938. 188a. M . A v i -Y o n a h , Map of Roman Palestine, QDAP 5, 1936, 139–193; b. Map of Roman Palestine, London 1940. 189. B a l á s z J . , A Gazai iskola Thukydides-tanulmányai / G . B a l á z s , Gli studi tucididei della scuola di Gaza, Budapest 1940.
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(162, 6–7). L’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g consentiva finalmente di disporre di un corpus esattamente stabilito; e nel recensirla Félix-Marie A b e l , OP, dell’École Biblique di Gerusalemme, dopo aver notato il valore dell’opera di Coricio per gli storici dell’arte bizantina opportunamente aggiungeva: «Au point de vue palestinien ses informations ne sont pas non plus dénuées de valeur et l’on aime à retrouver sous une élégance toute attique le tableau d’une ville hellénisée fière de ses monuments, de son école littéraire, de ses fêtes, de l’affabilité de son commerce et de la distinction de ses notabilités civiles, militaires ou ecclésiastiques» (4, 672–673). Come già abbiamo avuto modo di accennare, lo stesso Abel dedicò, subito dopo, un articolo alle testimonianze coriciane sulla Gaza del VI secolo (18; se ne veda il dettagliato rendiconto di G e r t h in JAW 272, 1941, 133) e quindi utilizzò variamente i testi di Coricio nei suoi successivi studi sulla geografia e la storia della Palestina (ad es. nella Géo graphie de la Palestine [187] e nell’articolo sull’isola di Iotabe [20, spec. 529–532], da lui identificata con Tīrān), fino alla complessiva Histoire de la Palestine (193, spec. II 355–359 e 362–365). Anche gli studiosi che operavano nell’ambito delle missioni britanniche misero a frutto la possibilità di leggere finalmente Coricio in edizione affidabile: Robert William H a m i l t o n , all’epoca studente della British School of Archaeology di Gerusalemme e attivo nelle campagne di scavo del Dipartimento di Antichità del Mandato Britannico (di cui sarebbe divenuto in seguito ispettore capo e direttore), si concentrò specialmente sulle descrizioni delle chiese (17; ved. supra, A.2 e in fra, B.2.b).9 Se l’importanza di Coricio non poteva sfuggire a questa scienza per certi versi ancora «coloniale», con lo sviluppo dell’Università Ebraica di Gerusalemme e quindi soprattutto con la fondazione dello stato di Israele la possibilità di usarlo come fonte venne subito valorizzata nell’antichistica israeliana. È sintomatico che già nel 1946 A lfred R a b i n o w i t z , emigrato da Vienna, si laureasse a Gerusalemme con una tesi specificamente dedicata al commento del primo encomio per Marciano diretta da Moshe (Max) S c h w a b e (che a suo tempo si era addottorato, con W i l a m o w i t z , su Libanio). La morte precoce nella guerra arabo-israeliana del 1948 impedì al giovane studioso di proseguire i suoi studi, ma i risultati della ricognizione sulle testimonianze coriciane riguardanti la Palestina tardoantica furono postumamente esposti in un denso contributo per la Festschrift in memoria di Yoḥanan (Johannes) L e v y (191), che dopo una premessa sulla vita e l’opera di Coricio si articola in voci dettagliate su ἀλλόφυλοι, Ἀραβία, Ἀσκάλων, Γάζα, Ἐλευθερόπολις, Ἱεροσόλυμα, Ἰοτάβη, Καισάρεια, Παλαιστίνη, Σαρακηνοί; e il dossier così individuato resterà fondamentale negli studi seguenti.10 9 Su Félix-Marie A b e l si può vedere la voce di J. M u r p h y O ’ C o n n o r in The Oxford Encyclopedia of Archaeology in the Near East, I, Oxford 1996, 5; su Robert William H a m i l t o n la rievocazione di P. R. S. M o r e y in PBA 94, 1996, 491–509. 10 Per la biografia di R a b i n o w i t z si veda F. S. B o d e n h e i m e r , In memoriam: Alfred Rabinowitz (1918–1948), Archives Internationales d’histoire des sciences 2, 1948, 470; per il suo lavoro sull’opera zoologica di Timoteo di Gaza ved. la sezione dedicata a quest’ultimo. Su S c h w a b e , L e v y , e le origini degli studi antichistici all’Università Ebraica di Gerusalemme ottimamente orienta D . A s h e r i , Israele, in: La filologia greca e latina nel secolo XX. Atti del Congresso Internazionale, Roma, CNR, 17–21 settembre 1984, Pisa 1989, I, 129–162.
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Nei decenni successivi, la scienza antichistica israeliana ha quindi ampiamente utilizzato Coricio, in sempre più serrato confronto con i risultati delle nuove scoperte archeologiche ed epigrafiche, negli studi dedicati alla Palestina tardoantica; né l’interesse per gli scritti coriciani è mancato nelle ricerche condotte dal Servizio delle Antichità palestinese (su quelle più strettamente pertinenti Gaza informano il volume del 2000 Gaza méditerranéenne, in particolare il saggio di S a l i o u ivi contenuto [244], e la rassegna di H u m b e r t e H a s s o u n e negli atti del convegno di Poitiers del 2004 [255]). Anche al di fuori di Israele e della Palestina, del resto, il prezioso corpus del retore gazeo, ricco di informazioni fattuali e di testimonianze sulla storia istituzionale, economica e sociale, ha ricevuto la debita attenzione innanzitutto negli studi su Gaza e sulle antiche province palestinesi, ma più in generale nelle ricerche sulla pars Orientis e su tutto il tardo Impero. Si può anzi a buon diritto sostenere che Coricio rientra, oggi, nel novero degli autori cui si può riservare una occasionale citazione, anche se magari solo di seconda o terza mano, negli studi sui più vari aspetti del mondo tardoantico; e la fioritura di ricerche, negli ultimi decenni, su questo periodo fa sì che anche le menzioni di Coricio si moltiplichino. Sarebbe però naturalmente impossibile, e anche fuori luogo, rendere conto di tutti i contributi in cui passi coriciani siano addotti, nelle note, tra altre fonti: discuterò in primo luogo quegli studi in cui luoghi coriciani sono oggetto di interpretazione specifica, o svolgono un ruolo fondamentale come fonte, ma offrirò anche qualche esempio di come Coricio sia stato utilizzato in ricostruzioni di carattere più generale. Merita anche di essere ricordato che al tema «Choricius’ Information on Political and Social History» è dedicato un denso capitolo della dissertazione di L i t s a s (34, 63–90), variamente usato e discusso – come si vedrà – dagli studiosi successivi. Coricio è, innanzitutto, fonte importante per alcune vicende, in particolare per la rivolta samaritana del 529, cui vari passi degli encomi paiono far riferimento; ma il modo allusivo in cui i testi si esprimono – sia per le convenzioni classicheggianti (cfr. in proposito S h a h î d [231, 186] e C o r c e l l a [111, 89–90]) sia perché il retore evocava episodi noti al pubblico immediato – ha creato non poche incertezze interpretative. Sulla scia del già citato studio di R a b i n o w i t z (191), vari passi coriciani sono stati addotti e usati nelle ricostruzioni della rivolta, ad es. da A v i -Y o n a h (195) e W i n k l e r (201). Chiarimenti importanti sono però venuti soprattutto dagli studi di R a b e l l o (40, spec. 253–257, 287–297, 418, 431–432) e D i S e g n i (in particolare 236, spec. 53; 248, spec. 460, 473, 475–476; 260, spec. 252–256; in quest’ultimo contributo vengono peraltro corrette alcune imprecisioni contenute nella sezione dedicata a Coricio dell’antologia di P u m m e r [48, 245–252], troppo dipendente dalle traduzioni e da alcune interpretazioni di L i t s a s [34]: ved. anche supra, A.2): alla luce di questi studi, risulta sicuro un riferimento alla rivolta e all’azione repressiva svolta da Summo tra 531 e 532 nei parr.11–13 dell’encomio per quest’ultimo (op.IV or.4), e anche le allusioni alle attività contro degli «empi» da parte del dux Aratio e al modo in cui il governatore Stefano liberò dai briganti le strade attorno a Cesarea ai parr.10–19 e 35–37 dell’encomio per i due personaggi (op.III or.3) possono verosimilmente essere ricondotte a tardivi strascichi della rivolta nel 534/5; ingiustificato appare i nvece
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connettere alle attività dei Samaritani – come aveva fatto R a b i n o w i t z (191, 181 n.71) – la repressione di una rivolta nei pressi di Gaza menzionata nel secondo encomio per Marciano (II or.2, 23–24). Più probabile, in quest’ultimo passo, un riferimento ad «attacchi di Saraceni nomadi» (così R a b e l l o [40, 254]). Alle testimonianze coriciane a proposito degli Arabi negli encomi per Aratio e Stefano e per Summo ha peraltro dedicato un’ampia trattazione S h a h î d (231, 182–194; 266, 78): anche in q uesto caso i riferimenti allusivi di Coricio non consentono eccessive certezze, ma tra le soluzioni suggerite si può rammentare la collocazione della fortezza citata in III or.3, 20–26 nel Ḥijāz, data la menzione di miniere d’oro, l’identificazione dei due capi federati di IV 16–19 con Arethas e Qays e dello studente arabo di IV 25 con un figlio di Arethas, forse Munḏir. Ulteriori punti sono stati illustrati da L e w i n (262, 252–253), che nel discutere delle azioni svolte da Aratio e Stefano nei confronti degli Arabi nota la differenza tra briganti saraceni all’interno della provincia (III or.3, 27–32) e tribù arabe al di fuori (III or.3, 20–26 e 33–34) e discute della ricostruzione delle mura di Gaza ad opera di Stefano e Marciano (I or.1, 7; II or.2, 16; III or.3, 54 e 56). La presenza, in questi contributi, di varie divergenze sull’esatta interpretazione del dettato coriciano (nonché di alcuni veri e propri equivoci: ved. anche supra, A.2) mostra peraltro la necessità di una buona edizione commentata soprattutto degli encomi per Aratio e Stefano e per Summo, retoricamente complessi e linguisticamente sempre molto allusivi (su alcuni dubbi relativamente all’individuazione di ciò che va attribuito ad Aratio e ciò che spetta a Stefano in op.III or.3 bene interviene W e s t b e r g [122, 67]). Come già questi primi esempi mostrano, nell’uso di Coricio come fonte per la storia della Palestina ci si è spesso concentrati sull’identificazione di personaggi e luoghi. I testi coriciani offrono in effetti buoni contributi alla prosopografia della Palestina tardoantica, che sono stati ampiamente utilizzati; ma è bene ricordare che le esplicite menzioni dei nomi sono eccezionali, e sono spesso i titoli a darci le indicazioni decisive (sul problema dell’origine dei titoli ved. supra, A.3 e A.6). A parte gli imperatori (su Giustiniano e i suoi Brumalia ved. infra), i testi coriciani offrono innanzitutto ampie informazioni sui duces Aratio e Summo e sul governatore Stefano. Le testimonianze di Coricio su Aratio sono ben valorizzate in PLRE III (168, 103–104), e variamente discusse negli studi sulla rivolta samaritana e i rapporti con gli Arabi di cui si è appena detto. Questi stessi studi dedicano ampio spazio a Summo, la cui biografia è ricostruita in buona parte sulla base di Coricio in PLRE II (207, 1038–1039; si veda, per confronto, come Coricio fosse totalmente ignorato nella voce di N a g l in RE IVA [1931], 901); una sintesi sulla sua figura in Coricio e nelle altre fonti è ora offerta da M a z z a (59). Particolarmente indagata è stata la figura di Flavio Stefano, già consularis e poi proconsul Palaestinae Primae. Oltre che negli studi sulla rivolta samaritana e sugli Arabi già discussi supra, cui si possono aggiungere alcuni contributi di M a y e r s o n (spec. 200; 214; 216), i dati ricavati dai testi coriciani sono stati confrontati con le altre testimonianze, soprattutto epigrafiche (cfr. ora il Corpus Inscriptionum Iudaeae/Palaestinae II [273, 611–613, nrr.1730–1731]), da H o l u m (213), che offre un ricco ritratto complessivo del personaggio; su Cori-
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cio essenzialmente si fonda l’esposizione in PLRE III (168, 1184–1185: STEPHANUS 7). Specialmente importante per intendere l’opera di Coricio è il contributo di G a s c o u (237), che osserva come l’encomio congiunto per il capo militare Aratio e il governatore civile Stefano si inserisca in una tradizione, attestata anche da Ciro di Anteopoli e Giovanni di Gaza, e come la maggiore enfasi su Stefano mostri coscienza della maggiore fortuna, rispetto al dux, di quest’ultimo, quale sarà confermata, il 1° luglio 536, dalla Novella 103 di Giustiniano. Su un certo deprezzamento di Aratio, nel testo coriciano, a fronte dell’enfant du pays Stefano insisteva già, tra gli altri, R a b e l l o (40, 255–257); sul rapporto privilegiato di Stefano con Gaza, testimoniato da quell’attività edilizia su cui torneremo, decisive osservazioni in D i S e g n i (232, spec. 585–586). L’identificazione del proconsole con altri personaggi coevi di nome Stefano, in particolare con lo «Stefano B» dell’epistolario di Procopio, già variamente sondata in precedenza, è ora ampiamente discussa da G r e a t r e x (233); per la possibilità che Stefano sia il padre del Procopio allievo di Coricio, nonché per le opere da lui curate, ved. infra. Oltre alle imprese delle autorità militari e civili, dai testi coriciani emerge con chiarezza l’attività del vescovo di Gaza. La figura per cui Coricio è fonte fondamentale è Marciano (F e d a l t o , HEO II 99.13.2, p.1022), destinatario dei primi due encomi (opp.I–II orr.1–2). Se i testi coriciani non erano neppure menzionati nella voce di E n ß l i n per RE (XIV [1930], 1534), come con un certo scandalo notò R i c h t s t e i g (JAW 238, 1933, 103), essi sono invece ben messi a frutto in PLRE III (168, 819–820: Marcianus 1); ma il dossier su di lui si è accresciuto nel 2000 con la pubblicazione ad opera di S a l i o u (245, 397–400, nrr.6 e 9; cfr. SEG L 1485 e 1487) di due iscrizioni musive dalla chiesa di Jabālyā, che lo menzionano come vescovo già nel 530 (l’indicazione dell’anno non è di lettura totalmente certa ma appare più che probabile) e quindi nel 549. Sulla sua ampia attività per la città torneremo tra breve. H e v e l o n e - H a r p e r (254, spec. 106–118) ha cercato di leggere le testimonianze di Coricio in parallelo con quelle dell’epistolario di Barsanufio, mostrando in conclusione come «(f)igures like Bishop Marcian, who emerged from the urban aristocracy and sought association both with rhetors and anchorites, held in tension the competing world views of the urban elite and the ascetic prophets»; la conclusione è certo valida in generale, ma che il vescovo entrato in carica, alla morte di un imperatore, dopo varie vicissitudini di cui si parla nelle lettere 793–803 sia Marciano è tutt’altro che certo, e l’autrice, la quale immagina che Marciano sia asceso all’episcopato alla morte di Anastasio nel 518, sembra ignorare che gli atti conciliari attestano come vescovo, il 6 agosto 518, Ambrillio (nome difficilior rettamente accolto da S c h w a r t z , contro il Cirillo che si legge in M a n s i e in molti studi, anche recenti, che ne dipendono). Di fatto, non è facile ricondurre a un preciso vescovo di Gaza – o eventualmente di Maiuma? – le testimonianze delle lettere 793–803 di Barsanufio (la difficoltà è messa in luce nell’introduzione al III volume dell’edizione dell’epistolario a cura di F . N e y t e P . D e A n g e l i s N o a h , Paris 2002, 31–32, come già nella lista dei vescovi gazei tracciati dagli S t i e r n o n [210, 173]); vero è però che ben potrebbe invece essere Marciano il vescovo che compare nelle lettere 831–834, poiché i qui citati maltrattamenti ad opera di soldati al comando di un dux identificabile con Aratio ricordano da vicino quelli
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rammentati da Coricio in II or.2, 23–24 (prima di H e v e l o n e - H a r p e r [254, 114–115] in tal senso si è espressa D i S e g n i [252, 77 n.101]), e di conseguenza, se questo vescovo fosse lo stesso di quello delle lettere 793–803, allora potremmo datare l’inizio dell’episcopato di Marciano alla morte di Giustino nel 527, e concluderne che è effettivamente lui – e non Ambrillio, o un successore di quest’ultimo non altrimenti noto – il vescovo menzionato nell’epitafio per Procopio, superando così i dubbi espressi, tra l’altro, da C o r c e l l a (58, 525 n.59; ved. anche supra, B.1). Vari elementi restano in realtà dubbi, e si desidera un approfondimento; ma in ogni caso l’epitafio per Maria (op.VII or.6) offre importanti informazioni sulla famiglia di Marciano, ben valorizzate in PLRE III: la madre Maria (168, 827: Maria 1) ebbe anche quattro figlie femmine e, oltre Marciano, altri tre figli maschi, e cioè Anastasio vescovo di Eleuteropoli (168, 61–62: Anastasius 2; cfr. F e d a l t o , HEO II 99.11.2, p.1021), un anonimo che fu avvocato (168, 1438: Anonymus 63) e un altro, anch’egli anonimo, che esercitò una carica pubblica la cui esatta natura, a causa del linguaggio allusivo di Coricio, è discussa (che l’espressione ἐν ἐξουσίᾳ πλεονεξίας δικαιοσύνην ἀσκεῖ in VII 8 alluda a un ruolo di giudice, come si legge in PLRE III [168, 1436: ANONYMUS 49], sembra in parte fondato su una frettolosa interpretazione del κριτῇ riferito nello stesso passo in realtà a Platone, ma sarebbe comunque compatibile con il ruolo di governatore provinciale apparentemente suggerito dalla definizione τῷ τὴν ἡμετέραν λαχόντι πρυτανεύειν ἀρχήν di VII 21, tanto più se si tiene presente che un termine come ἐξουσία ben si presterebbe a indicare il ruolo di governatore, così come avviene in CIIP II 1335, almeno secondo l’interpretazione suggerita, col sostegno proprio del medesimo passo coriciano, da H o l u m [228, 340 e n.21; cfr. 274, 290–291]; tuttavia la possibilità che la ἀρχή in questione sia invece una carica cittadina fu sostenuta da L i t s a s [34, 296 n.24], e a un ruolo di defensor civitatis ha pensato D i S e g n i [232, 584 n.51], seguita da L a n i a d o [249, 211 e 249] che però considera anche l’ipotesi della allusione a una funzione episcopale, invero improbabile ma ripresa, con qualche confusione, da G r e c o [62, 116], e ved. già R a b i n o w i t z [191, 181 n.74]; che poi possa trattarsi dell’imperatore, e specificamente di Giustino, come intende H a t l i e [266, 49], è francamente insostenibile). Pur in assenza di un epistolario quale quello procopiano, Coricio offre inoltre informazioni sui membri della scuola e sul loro ruolo nella società. I testi coriciani sono, naturalmente, fonte essenziale per il maestro Procopio e la sua famiglia, a partire dall’epitafio: varie osservazioni si leggono nei contributi di A l y (196), C o r c e l l a (51; 58) e G r e c o (61, passim), ma non si può che rinviare alla sezione su Procopio nella seconda parte di questa stessa rassegna e all’edizione dello stesso per la Collection des Universités de France (68). Su alcuni allievi di Coricio, e le loro famiglie, informano più in particolare gli epitalami. Lo Zaccaria celebrato in op.V dial.4 è opportunamente registrato in PLRE III (168, 1411: Zacharias 1), così come lo sono i tre giovani sposi di op.VI or.5, Elia, Giovanni e Procopio (168, 437: Elias 1; 624: Ioannes 4; 1059–1060: Procopius 1; le voci rendono peraltro ben conto di quel che Coricio dice sulle famiglie di provenienza e su quelle delle rispettive spose). Fra questi tre, Procopio è stato però oggetto di più speciale attenzione, almeno da quando Jakob H a u r y lanciò l’idea che in lui si possa riconoscere il futuro storico Procopio di Cesarea, non-
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ché – sulla base di quel che in VI 34 si dice del padre, nominato ἀστυνόμος e artefice di opere idrauliche – un figlio del governatore Stefano, che – come vedremo tra breve – si distinse per le cure dedicate all’acquedotto di Cesarea (Zur Beurteilung des Geschichts schreibers Procopius von Cäsarea, Progr. München 1896, 3–20). La tesi di H a u r y , ancorché criticata già da C . L i t z i c a (Das Meyersche Satzschlußgesetz in der byzantini schen Prosa, Diss. München 1898, 39–51), venne riproposta da B a l á z s (189, 35–41) con ulteriori argomenti, specialmente incentrati sulle conoscenze tucididee comuni allo storico e ai gazei (ved. infra, B.3.a.i.β.2), ed era ancora rammentata con prudente rispetto nel 1957 da R u b i n nell’articolo su Procopio da Cesarea per RE (197, 296), anche se nella stessa sede, a poche colonne di distanza, A l y proponeva invece di vedere in questo Procopio un nipote di Procopio di Gaza (196, 272–273; l’idea, insostenibile, si fondava sull’errato presupposto che quest’ultimo avesse famiglia). In seguito, non si può dire che l’identificazione del Procopio dell’epitalamio con lo storico, ancorché talora ricorrente in letteratura (ad es. in D o w n e y [198, 314–315; 202, 1130]), si sia davvero affermata, e però anche studiosi che si mostrano meno propensi ad accogliere questa tesi ritengono comunque fondata la possibilità di individuare nel padre del celebrato il governatore Stefano: così, in particolare, H o l u m (213, spec. 235) e, al termine di una dotta e serrata analisi, G r e a t r e x (233); dubbioso rimane però B a r n i s h (223, 173) e prudente D i S e g n i (227, 326; 247, 62), che sulla scia di F e i s s e l (217, 505, nr.1000) si limita a riconoscere nell’ἀστυνόμος un πατὴρ πόλεως (cfr. anche L a n i a d o [256, 232]; la connessione ipotizzata da S i d e r a s [84, 71–73; 98, 395] con l’ἀστυνόμος menzionato nella seconda monodia di Procopio è ancor più improbabile dopo l’attribuzione di questo testo al maestro di Coricio), nettamente contraria S a l i o u (142, 185 n.86). Dello studente arabo di IV 25 si è già detto supra. Ho dedicato più ampio spazio alla questione, ancorché minima, dell’identificazione del padre di Procopio, come già a quella analoga relativa al figlio di Maria citato in VII 8 e – sempre che si tratti della stessa persona – in VII 21, perché esse sono significative delle difficoltà che gli studiosi hanno incontrato in quei casi in cui Coricio allude ad alcuni personaggi senza identificarli, né i titoli offrono indicazioni, e la ricostruzione deve procedere per congetture. Che il fratello di Summo oggetto di allocuzione in IV 33 e XIII 15 sia il ben noto Giuliano è certo al di là di ogni ragionevole dubbio (ved. PLRE III [168, 731–732: Iulianus 8]), mentre l’identificazione del poeta citato nell’encomio per Summo (IV 2 e 21) con Giovanni di Gaza, suggerita da K a s t e r (215, 300) e ricordata da es. da S z a b a t (268, 144 n.5), resta al contrario indimostrabile (cfr. più in generale L a u r i t z e n [275, 75–76]). Sui personaggi menzionati nell’Apologia mimorum ved. infra, B.2.c. Si è già accennato, infine, alle possibili identificazioni di alcuni anonimi personaggi arabi operate da S h a h î d ; lo stesso studioso, nel discutere del σύμβουλος di Summo menzionato in IV 32 (un asses sor? così PLRE II [207, 1039]), osserva come l’adattamento di una formula omerica relativa a Nestore (λιγὺν Ἀράβων ἀγορητήν; per il meccanismo cfr. Procopio, mon. 2,6) possa far pensare che questo consigliere arabo dovette intervenire, come Nestore tra Achille e Agamennone, a sedare il contrasto tra i due capi arabi menzionato ai parr.16–19 (231, 189–190; 267, 78): la conclusione si rivela forse troppo sottile, ma mostra come una esatta comprensione della cultura letteraria di Coricio possa offrire
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spunti per c omprendere meglio i suoi riferimenti allusivi – un punto su cui variamente torneremo nel seguito. Il recente lavoro di G r e c o (63), più che agli aspetti prosopografici, si mostra interessato ai modi in cui Coricio tratteggia i ritratti dei vari personaggi, evidenziandone le virtù morali, e lo stesso vale per quello di H a t l i e (266): se ne riparlerà in fra, B.3.b.i.α e B.4. Per quanto riguarda le località menzionate da Coricio, l’archeologia ha offerto vari riscontri, messi a frutto negli studi. A livello di sintesi, se Coricio era nel complesso trascurato nelle edizioni della Map of Roman Palestine di A v i Y o n a h , fino al postumo Gazetteer (188ab; 204), ma non – come si è detto – nel fondamentale studio del 1949 di R a b i n o w i t z (191), sono significative le ricorrenze di passi coriciani nelle varie voci del volume sulla Palestina della Tabula Imperii Romani (225, spec. 68–70 su Ascalona, 94–96 su Cesarea, 118–119 su Eleuteropoli, 129–131 su Gaza, 154 su Iotabe); anche nel recente repertorio di F i g u e r a s (243) si hanno varie menzioni di Coricio (ad es. alle pp.75, 82, 144–147, 188), ma è singolare che nessun brano dalle sue opere sia stato inserito tra i «selected texts». Soprattutto i risultati delle indagini archeologiche a Cesarea hanno offerto rilevanti elementi di confronto con i testi coriciani. In particolare, le affermazioni in III or.3,44–49 sui lavori di ripristino dell’approvvigionamento idraulico curati da Stefano poterono precocemente essere confrontate con la realtà degli acquedotti di Cesarea quale andava emergendo dalle ricognizioni e dagli scavi (si vedano in particolare, tra gli studi che citano il passo coriciano, A b e l [187, I 449]; R a b i n o w i t z [191, 182]; R e i f e n b e r g [192, 27]; L e v i n e [203, 30–31]; da questa letteratura fondamentalmente dipende S p e r b e r [238, 133 e 136]); una importante messa a punto è stata compiuta da M a y e r s o n (37), che ha mostrato come Coricio abbia in mente l’acquedotto sopraelevato, un cui ramo era alimentato dalle fonti di Shuni, e come Stefano abbia compiuto opera di manutenzione, non di ricostruzione (cfr. in proposito anche D i S e g n i [247, 61–62], che riconduce la precedente incuria per l’acquedotto ai disordini seguiti alla rivolta samaritana). Le fonti di Shuni erano peraltro ben note a Coricio: come ha notato S h e n h a v (241), riecheggiato da W h i t e (272, 390 e n.93), il luogo indicato in XXXII 95–96 quale sede «poco lontana dalla città» di una festa periodica animata da spettacoli di mimo cui prendevano parte, alla presenza del governatore, anche oratori va identificato proprio con la località di Maiumas-Shuni, 5 km a NE di Cesarea, il cui teatro ospitò esibizioni oratorie e artistiche all’interno di una festa acquatica (maiuma) su cui è da ultimo intervenuta, con vari riferimenti a Coricio, D v o r j e t s k i (276). A proposito dei bagni di Cesarea menzionati in VIII 13 un provvisorio rinvio a recenti scoperte archeologiche nella città è fatto da C o r c e l l a (58, 516 n.20), ma la questione merita approfondimento. In generale, infine, Coricio è tenuto ampiamente presente da D i S e g n i nel fondamentale articolo su Cesarea e il suo ruolo rispetto alla provincia (232). A confronto di questi risultati, minori sono stati, in assenza di scavi sistematici, i riscontri apportati ai testi coriciani dall’archeologia e dall’epigrafia per la stessa Gaza, come rivelano tra l’altro gli articoli di O v a d i a h per le due edizioni della Encyclope
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dia of Archaeological Excavations in the Holy Land (205; 221; sugli scavi più antichi si veda anche G l u c k e r [162, 5–6], sulle ultime indagini H u m b e r t e H a s s o u n e [255]). Dopo i già citati studi di S t a r k e M e y e r e l’articolo di A b e l (18), le testimonianze di Coricio sono state opportunamente messe a confronto con le a ltre fonti nel volume divulgativo e nell’articolo sulla città per il Reallexikon für Antike und Christentum di D o w n e y (25; 202) e nel ricco studio di G l u c k e r (162, spec. 51–57); in particolare, tanto D o w n e y (202, 1124) quanto G l u c k e r (162, 18–25) dedicano una speciale attenzione al paragone tra i dati coriciani e l’immagine di Gaza sulla mappa di Madaba, ricca di particolari anche se purtroppo mutila (meno dettagliata si rivela invece quella di Umm al Rasās). L’analisi più precisa tanto della mappa quanto dei testi coriciani si deve però ora a S a l i o u (142). Oltre alle chiese, di cui si tratterà nella sottosezione seguente, la studiosa, attraverso un’attenta lettura che tiene opportunamente conto anche degli aspetti retorici e ideologici, prende in considerazione tutti gli elementi urbanistici e architettonici descritti da Coricio: innanzitutto le mura, restaurate a cura di Stefano e Marciano (la possibilità di riconnettere a questa attività l’iscrizione nr.33 G l u c k e r , già scartata dall’editore principe A b e l [186] ma rivalutata da G l u c k e r [162, 140–141] viene da S a l i o u esclusa, come già era stato fatto da D i S e g n i [239, 154–155]); quindi l’agora con i caratteristici portici, le terme (ved. anche supra, B.1), e la non chiara σκηνή stagionale menzionata assieme a un «luogo che ha il nome del sovrano» in III or.3,55, in cui dopo ampia discussione viene congetturalmente riconosciuta una sala, destinabile a banchetti e spettacoli, all’interno di una basilica (un possibile parallelo con Sepphoris è indicato da W e i s s [271, 173]; si vedano comunque le precisazioni di A m a t o [269, 23 n.65, con la ripresa in 68, 121 n.8]). La possibilità di individuare sulla mappa di Madaba un teatro, cui ricollegare i passi coriciani sugli spettacoli (per cui ved. infra), è ritenuta dubbia da G l u c k e r (162, 19), ma ribadita con ottimi argomenti da W e i s s (253, 24–29); un rapido ma efficace quadro della vita di Gaza attraverso le testimonianze coriciane è ora tracciato da L u p i (62, 23–25). Coricio contribuisce quindi a illustrare una serie di elementi tipici delle città tardoantiche, che illuminano e a loro volta sono illuminati da riscontri in altre città: per le vie con i portici sedi di attività commerciali, e sullo sgombero dei portici che a volte si rendeva necessario, si veda ad es. la menzione della testimonianza di VIII 52 in S a l i o u (258, 220 n.68) e in J a c o b s (277, 136 n.85; per il recentissimo studio complessivo della stessa autrice [280] ved. la fine di questa trattazione, dove si discuterà anche dell’importante libro del 2006 di S a r a d i [261], in cui tutti i passi di Coricio sull’urbanistica gazea sono stati ampiamente utilizzati). Puramente negativo è infine il riscontro archeologico per l’isola di Iotabe, la cui riconquista da parte del dux Aratio è celebrata in III or.3, 66–78 (passo esaminato in dettaglio da R a b e l l o [40, 171–178 e 287–291], da S o l z b a c h e r [218, spec. 195] e da S h a h î d [231, 184–185; 267, 30], che tra l’altro identifica gli «uomini fidati» del par.75 come i Ghassānidi di Abū Karib). Come si è già detto, A b e l – soprattutto sulla base di Procopio, Bell. I 19,1–6 – identificava Iotabe con Tīrān [20, spec. 529–532]; ma i dubbi già all’epoca esistenti furono rafforzati dalle ricognizioni archeologiche, che mostrarono come su quest’isola, priva peraltro di fonti d’acqua, non vi fossero tracce di insediamento: si vedano le sintesi nel volume di R o t h e n -
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b e r g e A h a r o n i (199, 162–164) e, con l’indicazione di ulteriore bibliografia specialistica, nella Tabula Imperii Romani (225, 154), dove si propone l’identificazione con Ğazīrat Fir’aun presso Taba (già suggerita ad es. nel 1936 da A v i Y o n a h [188a, 177] e condivisa da S o l z b a c h e r [218, spec. 179–182]), nonché nel repertorio di S c h m i t t (230, 192–194), dove anche questa seconda possibilità viene scartata e si propone di cercare semmai l’isola sulla costa araba. Una collocazione fuori del golfo di ’Aqabah è stata proposta anche da M a y e r s o n (219; 229), che proprio sul testo coriciano si è basato, sia pure con un argumentum e silentio, per mostrare come l’isola dovesse trovarsi vicino alla costa, con possibilità di guado; da ultimo conclude con un non liquet W a r d (263, 163–164). In alcuni dei già citati lavori, soprattutto tra i più recenti, emerge – come si è accennato – un interesse non solo per la mera biografia dei personaggi, ma anche per il loro ruolo nella società, né solo, a proposito dei luoghi, per l’identificazione di edifici e manufatti, ma per i modi e i meccanismi in cui essi furono prodotti da parte degli stessi personaggi, e per le loro funzioni nella vita cittadina. Come in tanti altri campi della storiografia tardoantica, insomma, si ravvisa una specifica attenzione alla storia economica e sociale, già in fondo presente nell’articolo del 1931 di A b e l (18) ma in seguito sempre più sviluppatasi. In particolare, Coricio offre varie informazioni sulle attività edilizie del governatore (Stefano) e dei vescovi (Marciano e – se non si tratta sempre di Marciano – quello elogiato nell’epitafio per Procopio), che assieme alle sempre più ricche testimonianze epigrafiche sono state attentamente studiate da Leah D i S e g n i (227, spec. 326 e 332; 239, spec. 154–155, 157; cfr. anche, per gli acquedotti, 247, spec. 61–62 e 65): i testi coriciani illustrano il ben noto coinvolgimento del vescovo anche in opere civili come le fortificazioni o i portici, e d’altra parte il ruolo di illustri personaggi della città o dell’amministrazione come patroni, per lo più a titolo privato, di opere ecclesiastiche (su quest’ultimo punto si soffermano anche, tra gli altri, C u t l e r [208, spec. 761], che insiste sulla presenza di aspetti cooperativi nelle piccole città, e Y a s i n [273, spec. 47–48]; ma sulle chiese si veda la sottosezione seguente). Un’ottima messa a punto sulle varie attività e la ripartizione delle competenze, con speciale attenzione alle opere di Stefano e di Marciano, è ora compiuta da S a l i o u (142, spec. 185–191), che mette tra l’altro in evidenza come il linguaggio retorico di Coricio porti a enfatizzare, di volta in volta, l’aspetto ideologicamente più conveniente, talora abbellendo e quindi in fondo occultando la realtà (è il caso della φιλοτιμία dei cittadini, sotto cui potrebbero celarsi delle corvées). Sui meccanismi concreti della «manutenzione estetica dello spazio civico» si dispone ora anche dell’ampio studio di J a c o b s (280, spec. cap.7, 479–587). Tra i molti lavori di D i S e g n i in cui Coricio riceve speciale attenzione va poi in particolare nuovamente ricordato lo studio dedicato al rapporto fra la capitale Cesarea, sede del governatore e probabilmente del dux, e le città della provincia, il cui ruolo – soprattutto nel caso di Gaza, patria del governatore Stefano che ad essa dedicò molte cure – proprio attraverso le testimonianze coriciane appare tutt’altro che periferico (232). Il medesimo studio contiene anche importanti osservazioni sulle feste, a Gaza e a Cesarea, per cui Coricio è fonte importante e ampiamente studiata. Dopo A b e l (18,
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28–31) e D o w n e y (25, spec. 50–52), il tema è stato oggetto di uno specifico saggio di L i t s a s (209), che innanzitutto individua nei testi coriciani descrizioni dei Bruma lia, della festa di s. Sergio (da collocare a suo giudizio in primavera; ma sul punto si vedano le precisazioni di F o w d e n [240, 97 n.173] e di W e s t b e r g [123, 33], che con argomenti persuasivi indicano invece la più nota ricorrenza del 7 ottobre) e della festa di s. Stefano (da porre al 2 agosto); nelle occasioni in cui Coricio parlò, peraltro, le feste dei due santi prevedevano anche la solenne inaugurazione delle rispettive chiese (sul punto cfr. anche K o u k o u l e s [190, II 1, 45], D i S e g n i [232, 586], S a l i o u [142, 171–175], H a h n [264, 628–629]; e ved. infra, B.3.b.i.α). Lo svolgimento di queste due ultime feste è quindi da Litsas attentamente commentato, a partire dal radunarsi dei visitatori e passando attraverso il servizio al mattino, la processione, i banchetti pubblici, le visite ai mercati, le luminarie notturne. Quanto ai Brumalia, la testimonianza di Coricio in opp.XIII e XXXII 58–59 è stata anch’essa valorizzata negli studi su questa festa: dopo lo studio di J. R. C r a w f o r d (De Bruma et Brumalibus festis, BZ 23, 1914/19, 365–393), in particolare da K o u k o u l e s (190, II 1, 36–38), P a x (194), P e r p i l l o u -T h o m a s (222), B o l o g n e s i R e c c h i F r a n c e s c h i n i (226, 127–131), C i c c o l e l l a (242, 252–254) e da ultimo da M a z z a (257) e B e r n a r d i (259). Con i Brumalia, peraltro, come notato tra gli altri da B e l a y c h e (251) e da ultimo da H a a r e r (282), viene a porsi il problema del rapporto fra religione cristiana e tradizione pagana; se ne discuterà in termini più generali nella sezione B.4, ma è opportuno qui ricordare che L i m (234, spec. 175–177) ha offerto una buona spiegazione del supporto che Giustiniano diede alla festa sottolineandone la connotazione ideologica «romana» (che proprio Coricio specialmente testimonia) e la funzione cerimoniale. Il problema è per altro verso riproposto anche dai probabili riferimenti, specialmente in op.XVI dial.9 e op.XXXIX dial.24, a una «festa delle rose» a Gaza, occasione tra l’altro – come altresì mostrano vari passi di Procopio e dei poeti anacreontici – per le esibizioni di retori e poeti, e di cui si è ampiamente discusso il rapporto con i maiuma (ved. anche supra su Cesarea e Shuni): oltre B e l a y c h e (251) e C i c c o l e l l a (242, 143–145) si vedano soprattutto le messe a punto di A m a t o (269, 56–70; 270; cfr. ora anche 68, passim), che fa intravedere la possibilità di un «un riadattamento dei Rosalia ovverosia un’occasione festivo-sacrale per celebrare i martiri cristiani attraverso agapi comunitarie ed agoni letterari di tipo scolastico-epidittico» (270, 36), e da ultimo le considerazioni di D v o r j e t s k i (276), L u p i (279), L o u k a k i (281). Ma se Coricio tende, pour cause, ad accentuare l’aspetto composto delle feste e la presenza in esse di attività letterarie, senza dubbio un certo spazio doveva essere riservato, al loro interno, ad altre forme meno nobili di spettacolo: innanzitutto il mimo, che Coricio difende, e la pantomima, per cui ostenta minore stima ma per la quale rappresenta comunque un’utile fonte, come sottolineato ad es. da W e i s s (253, 28–32) e D v o r j e t s k i (276, spec. 93–96); ulteriore discussione infra, B.2.c. Mimo e pantomima, d’altra parte, erano anche intermezzi in altri generi di spettacoli, e l’Apolo gia mimorum è fonte di informazione, ben valorizzata sempre da W e i s s (253, spec. 33–35) sulla pratica a Gaza di gare di pugilato, corse di carri e venationes. Un tratto caratteristico nelle descrizioni che Coricio fa delle feste è peraltro l’attenzione alle fiere e ai mercati che le accompagnavano. I già discussi studi sulle feste non
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hanno mancato di notarlo, né difettano studi speciali sui mercati della Palestina antica che assieme alle altre fonti, tra cui quelle talmudiche, abbiano tenuto conto anche di Coricio (ad es. S a f r a i [212]; cfr. L a p i n [246, 132 n.54]), ma vale la pena di sottolineare che alcuni passi coriciani sono divenuti veri e propri loci classici nelle discussioni sui mercati tardoantichi, non solo palestinesi: specialmente la descrizione in op.I or.1, 83–85, riportata e commentata da d e L i g t (220, 73 e 80), viene ora menzionata da K i n g s l e y (250, 121) come esempio di quei tipi di dati che le fonti letterarie sporadicamente offrono ma l’archeologia ha trascurato di indagare. Questa popolarità indiretta ha anche i suoi inconvenienti: da ultimo L a v a n (278, 340 e 364) usa Coricio, tra altre fonti, per ricostruire un’immagine dei mercati tardoantichi con le loro bancarelle e le loro attività, confessando però di non averne direttamente visto i testi (cui in effetti rinvia in modo impreciso), e l’osservazione per cui «merchants at Gaza did not need to shout to advertise, at a festival market in his city, because their wares were of such high quality» si basa su una interpretazione troppo letterale di I or.1,85, dove si ha prima di tutto una letteraria allusione a Senofonte, Cyr. I 2,3 mirante a celebrare la compostezza gazea (più sfumata era la valutazione di L i t s a s [209, 433–434]; e ved. infra, B.4). Questa rassegna di contributi su eventi, personaggi, luoghi, momenti e occasioni della vita sociale gazea e palestinese per cui passi di Coricio sono stati usati come fonti è necessariamente selettiva, e solo un rendiconto bibliografico completo sulla storia sociale ed economica della Palestina tardoantica potrebbe esattamente rendere conto dei temi qui parzialmente adombrati (su alcuni punti tornerò tuttavia nelle sezioni seguenti). Non si può in ogni caso fare a meno di segnalare, infine, alcune opere generali sulla storia della Palestina in cui le testimonianze di Coricio sono più o meno largamente adoperate. Passi coriciani furono così ampiamente utilizzati nell’importante studio di Yaron D a n sulla città nella Palestina tardoantica, soprattutto nei capitoli sulle cariche istituzionali, le classi dirigenti e la vita quotidiana (211; alle pp.155–183 un quadro sulla cultura, che riprende quello già pubblicato nel 1978 sulla rivista Cathedra [206], comprendente anche una trattazione della scuola di Gaza, a p.229 una breve scheda su Coricio nel glossario); se meno precisi appaiono i riferimenti a Coricio in The Eco nomy of Roman Palestine di Ze’ev S a f r a i (224), il retore è ben presente in La Pales tine Byzantine di Claudine D a u p h i n (235: una sintesi sull’opera coriciana, soprattutto sugli encomi, in I 147–148, e passim vari riferimenti al retore, ad es. a I 205 sul «giorno delle rose», a I 209–210 per le testimonianze e le prese di posizione sugli spettacoli, a II 476 per la manutenzione dell’acquedotto di Cesarea a cura di Stefano; ved. pure infra, B.2.b e 2.c), mentre per parte sua Hagith S i v a n , nel cap.8 di Palestine in Late Antiquity, dedicato alle «Urban Stories», descrive la prospera vita di Gaza, fra cristianesimo e tradizione antica, con ampio ricorso a passi coriciani e cercando di intenderne il ruolo ideologico e sociale (265, 328–347). Anche al di là della storia palestinese, Coricio e la sua opera ricevono d’altronde spesso menzione in più ampie ricostruzioni di storia tardoantica. Ne abbiamo già visto esempi per la storia economica, ma, come si diceva all’inizio, non è possibile rendere conto di tutti i libri e gli articoli in cui compaiano sporadiche menzioni di testi coriciani, talora di seconda o terza
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mano.11 Merita invece speciale menzione il recente libro sulla città bizantina nel VI secolo di Helene S a r a d i (261), una ricca sintesi complessiva in cui l’opera coriciana è non solo ampiamente adoperata come fonte ma anche inquadrata nei suoi presupposti ideologici e culturali; a partire dal convincimento che la ricostruzione richieda «to exploit archaeological evidence and at the same time the literary sources» (p.44), tutti i temi trattati nella presente sottosezione, e anche quelli che saranno trattati in B.2.b e 2.c, ricevono una ricca illustrazione che consente di apprezzare le affermazioni coriciane nel loro più ampio contesto storico, sociale e culturale (in particolare, dopo l’analisi dei suoi topoi encomiastici alle pp.61–68, Coricio è ben presente nei capitoli sulla trasformazione dello spazio pubblico urbano, l’amministrazione e le élites pubbliche [pp.148–185], sulla privatizzazione degli spazi [pp.186–192, spec. 187–192 sulle σκηναί di op.II or.61], sui centri amministrativi [pp.211–258, spec. 214 con importanti osservazioni sull’agora come luogo di apparizione pubblica], su vie e portici [pp.259–293], sui luoghi di spettacolo [pp.295–324], sulle chiese nello spazio urbano e nella vita cittadina [pp.385–439]). La città tardoantica, e il problema della sua trasformazione, è del resto negli ultimi tempi oggetto di molti studi (basti rinviare alla collana di volumi Late Antique Archaeology), e anche Coricio ne ha beneficiato; molti temi per cui i testi coriciani sono utile fonte, anche in una prospettiva ideologica e culturale, sono così ad es. ripresi anche nel recentissimo libro di J a c o b s (280). Si nota, insomma, una accentuazione dell’interesse per gli aspetti di storia economica, sociale e culturale, emersa anche dalla precedente analisi delle indagini su questioni particolari e conforme a una più generale tendenza degli studi tardoantichi negli ultimi decenni. Talora, Coricio è trattato come mera fonte, e in alcuni casi usato solo indirettamente; ma gli equivoci cui tale approccio non di rado ha portato mostrano la necessità di intendere fino in fondo la personalità e il ruolo del retore prima di usare passi delle sue opere per la ricostruzione storica; in questa prospettiva, peraltro, quale si va affermando in alcuni studi più recenti, Coricio smette di essere un portatore di informazioni isolate ma diviene testimone e protagonista della storia e della società del suo tempo, e quindi egli stesso oggetto della comprensione storica – un punto, questo, su cui torneremo nelle sezioni B.3 e B.4. 11 Questo diffuso impiego di Coricio come fonte attraverso citazioni tralaticie, di cui già abbiamo visto qualche esempio, produce peraltro talora degli inconvenienti: capita così, anche in opere per altri versi di assoluta eccellenza che menzionano il nostro autore in modo puramente cursorio, di vederne ancora citati i testi dall’edizione di Boissonade, magari con titoli fantastici come «A Marc de Gaza» (E. Patlagean, Pauvreté économique et pauvreté sociale à Byzance, 4 e–7e siècles, Paris 1977, 32 n.132 e 34 n.151), oppure di leggere dei «poèmes de Chorikios» (J. Durliat, De la ville antique à la ville byzantine. Le problème des subsistances, Rome 1990, 16 n.15). Curioso anche che l’edizione di B o i s s o n a d e venga definita una «Gesamtausgabe», quella di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g una «Teilausgabe» (O . M a z a l , Justinian I. und seine Zeit. Geschichte und Kul tur des Byzantinischen Reiches im 6. Jahrhundert, Köln 2001, 716). Leggerezze analoghe non mancano del resto tra gli storici dell’arte, come vedremo nella sezione seguente. Non se ne farà una grave colpa a valenti studiosi obbligati a tener conto di una mole sterminata di fonti dei tipi più vari, ma è ulteriore dimostrazione della necessità di riportare i testi di Coricio al centro dell’attenzione attraverso edizioni commentate.
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«(L)es historiens de l’architecture et de la peinture byzantines accordent aux descriptions détaillées de Choricius une attention de plus en plus favorable», ricordava A b e l (4, 672) per enfatizzare l’importanza della nuova edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g . In effetti, fin dall’uscita dell’edizione di B o i s s o n a d e nel 1846 le testimonianze sull’urbanistica, l’architettura e la pittura presenti nelle opere fino ad allora note, e soprattutto le descrizioni delle chiese di s. Sergio e s. Stefano negli encomi per Marciano (I or.1, 15–78; II or.2, 25–58), erano state oggetto di interesse da parte degli storici dell’arte (ad es. di Friedrich Wilhelm U n g e r , nella voce sull’arte bizantina della Allgemeine Encyklopädie di Ersch e Gruber, LXXXIV [1866], 409–410, 455, 462, sulla scia di quanto già esposto da K. B. S t a r k , Gaza und die philistäische Küste, Jena 1852, 625–631). In particolare, con il maturare di nuove tendenze nello studio dell’arte tardoantica, le due ekphraseis erano state usate non solo come testimonianze su opere specifiche ma anche in quanto utili per tracciare la storia dell’evoluzione delle forme tra eredità antica e civiltà bizantina (importante in tal senso l’uso che di Coricio fece Dmitrij Vlas’evič A j n a l o v in Ėllinističeskija osnovy Vizantijskago iskusstva, S. Peterburg 1900 [non ne ho veduto la traduzione inglese, New Brunswick 1961]) e per individuare gli influssi orientali sull’arte cristiana (così soprattutto nelle ricerche di Josef S t r z y g o w s k i ); nella grande stagione di studi che pose le basi del metodo iconografico (si pensi alle fondamentali ricerche di Nikodim Pavlovič K o n d a k o v ), un particolare valore avevano del resto assunto le testimonianze coriciane sulle raffigurazioni pittoriche e musive. Ben si spiega quindi perché, all’uscita dell’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g , tanto lo stesso A b e l (18) quanto H a m i l t o n (17) si affrettarono a mettere a disposizione degli studiosi una traduzione rispettivamente francese e inglese proprio delle descrizioni contenute negli encomi per Marciano, finalmente disponibili in edizione criticamente affidabile; e se H a m i l t o n si limitò a offrire la nuda traduzione, A b e l la accompagnò con note di commento che mettevano tra l’altro ben a frutto le sue conoscenze sulle nuove scoperte archeologiche in Palestina, ed estese la sua attenzione anche ad altre testimonianze coriciane sull’architettura e l’urbanistica di Gaza. Anche in seguito le due ekphraseis sono rimaste al centro dell’attenzione degli studiosi, come mostrano le varie traduzioni, spesso accompagnate da illuminanti note di commento, nelle opere che abbiamo già passato in rassegna nella sezione A.2 (innanzitutto D o w n e y [22], quindi M a n g o [29, 60–72], M a g u i r e [32], G u a r d i a [35], T h ü m m e l [47], S t e n g e r [60]). Sempre D o w n e y dedicò del resto – come si è detto – ampio spazio alle descrizioni delle chiese nel libro generale su Gaza (25, 126–139), ed esse continuano a svolgere un ruolo importante in trattazioni di sintesi sulla città come le voci curate da O v a d i a h per le due edizioni della Encyclopedia of Archaeological Excavations in the Holy Land [205, 416; 221, 465], le sezioni pertinenti del repertorio di F i g u e r a s (243, spec. 144–147 e 182–190) o il capitolo gazeo del recente libro su Giudea e Palestina di L e w i n (329, 164–165; più limitato lo spazio nel libro di G l u c k e r [162, 55 e 96]). Tra i più recenti saggi specifici sulle ekphraseis delle due chiese vanno quindi specialmente segnalati gli studi di Tomasz P o l a ń s k i (337; 338; 339; 340), che offrono analisi precise e dettagliate, soprattutto per l’aspetto iconografico; a un attento studio delle testimonianze coriciane
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sulle chiese di Gaza attende d’altronde da tempo Catherine S a l i o u , che ha offerto in proposito sintesi competenti (142, spec. 180–185; 342). Coricio continua d’altra parte ad essere citato in opere di sintesi sull’arte paleocristiana e protobizantina, ad es. nel capitolo di S p i e s e r per Le monde byzantin (331); ed è centrale, come già si è accennato, nel libro di S a r a d i (261, 385–439 sulle chiese) e in quello di J a c o b s (280, 272–394 sull’architettura religiosa). La bibliografia è quindi relativamente ricca. Pure, le regole dell’ekphrasis (su cui torneremo nella sezione B.3.b.i.α) e in particolare l’uso di un linguaggio classicheggiante, di perifrasi e di terminologia geometrica (su cui, dopo gli importanti contributi di D o w n e y [22; 292], insiste ora tra gli altri S t e n g e r [60], e da ultimo S a l i o u [342]) non consentono sempre al lettore moderno di farsi facilmente un’idea esatta delle realtà che Coricio descrive; né in ogni caso i riscontri offerti dall’archeologia e dalla storia dell’arte, pur ampiamente usati dagli studiosi, sono univoci e decisivi. Di qui varie divergenze interpretative, non solo sui dettagli ma anche sulle strutture principali, di cui si renderà rapidamente conto nel seguito. (i) Le menzioni di edifici e le descrizioni architettoniche Si è già visto, nella sottosezione precedente, che Coricio offre varie informazioni su diverse strutture, edifici ed elementi urbanistici (dalle mura agli acquedotti, dalle vie porticate a opere identificabili come basiliche o teatri), e che studi su questo aspetto dell’opera coriciana non sono mancati. Ma, come già nel periodo precedente al 1929, anche in seguito al centro dell’attenzione degli studiosi sono state soprattutto le due chiese gazee descritte negli encomi per Marciano (I or.1, 15–78; II or.2, 25–58). Quando R i c h t s t e i g pubblicò l’edizione di F o e r s t e r , le indicazioni fornite da Coricio sull’architettura dei due templi erano in effetti già state ampiamente studiate, sicché la prima fascia d’apparato potè riportare rinvii a varie opere (tra cui gli studi di Gabriel M i l l e t e i due importanti manuali di H . H o l t z i n g e r , Die alt christliche Architektur in systematischer Darstellung, Stuttgart 1889 e di O . W u l f f , Die altchristliche und byzantinische Kunst, I, Berlin 1914–1918 [ma i primi fascicoli uscirono con la data 1913, che è quella indicata da R i c h t s t e i g : ved. ad es. ByzZ 23. 1914/19, 325–326 e 416–418]). In seguito, l’interesse degli studiosi di architettura paleocristiana non è venuto meno e i testi coriciani continuano ad essere presenti in opere generali (ad es. nel saggio sull’architettura bizantina di H a m i l t o n [285a, 79; 285b, 147–148], nel fondamentale libro di O r l a n d o s sulla basilica paleocristiana [298, passim] e nel manuale di K r a u t h e i m e r [303, passim]) o in trattazioni più specificamente dedicate all’area palestinese, comunque intesa, in età tardoantica (da W a t z i n g e r [286, II 140–142] e C r o w f o o t [289] a O v a d i a h [319]). Di tutto ciò non è naturalmente possibile rendere dettagliatamente conto, ma una menzione particolare merita il libro di Earl B a l d w i n S m i t h sulla cupola (295), che oltre a dedicare due paragrafi alle chiese di s. Stefano e s. Sergio (pp.38–40) contiene in appendice la già menzionata traduzione commentata, ad opera di Glanville D o w n e y , di II or.2, 37–46 (22; cfr. anche 25, 129–138). Ancor meno praticabile e sensato sarebbe poi passare minutamente in rassegna gli innumerevoli studi in cui le a rchitetture
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descritte da Coricio vengono portate a riscontro di altri edifici contemporanei o successivi: per citare soltanto, a titolo di esempio, due casi che si collocano agli estremi del periodo qui preso in considerazione, la presenza di torri nella chiesa di s. Stefano era citata nel 1930 da H e r z f e l d a confronto della struttura della basilica di s. Tecla a Meriamlik (284, 52), così come viene nel 2003 addotta da R u s s o , sulla scia di una lunga tradizione, tra i riscontri per s. Apollinare in Classe (328, 73–74). Per i nostri fini mette conto semmai sottolineare che l’accrescimento delle conoscenze sull’archi tettura ecclesiale nell’oriente tardoantico da un lato ha confermato alcuni elementi descritti da Coricio, dall’altro ha consentito di chiarire certi dettagli che il poco limpido testo coriciano non rendeva immediatamente evidenti, come vedremo esaminando gli studi specificamente dedicati alle due ekphraseis. La struttura architettonica della chiesa di s. Sergio è stata discussa, in particolare, da A b e l (18, 12–17), B a l d w i n S m i t h (295, 39–40), M a n g o (29, 60–68), T h ü m m e l (47), P o l a ń s k i (340, 1–2), S a l i o u (142, 180–185; 342, passim). Tutti questi studi, decifrando il complesso linguaggio coriciano, hanno variamente contribuito ad illustrare la struttura di questa chiesa cittadina, non lontana dall’agorà e che forse fu cattedrale. Dopo i propilei c’era un atrium porticato caratterizzato, oltre che dalla presenza di uno spazio dedicato all’ospitalità, da un salutatorium (il parallelo di s. Sergio è ora invocato da B a v a n t [343] per interpretare la funzione di un locale nell’atrio della basilica di Caričin Grad; sulle descrizioni di Coricio come chiave interpretativa per Iustiniana prima ved. già N i k o l a j e v i ć [313, 483]) e da un battistero, o forse un locale per la catechesi comprendente anche un fonte battesimale (un parallelo per il battistero interno si ha ad es. nella basilica di Dor, come ha mostrato D a u p h i n [235, I 61; 314, 16–17; 322, 158; 326, 402]). La struttura della chiesa vera e propria non è del tutto chiara, ma accanto ad elementi basilicali (su cui da ultimo insiste soprattutto S a l i o u [342, 186]) è chiara la presenza di una cupola affiancata da altre quattro cupole o volte semicircolari disposte a croce, con il braccio rivolto a est chiuso da un’abside. Proprio su queste volte o cupole erano le scene della vita di C risto di cui si discuterà infra, ii (T h ü m m e l [47, 55 n.5] vorrebbe intendere che fossero effigiate sulle pareti, come sarebbe più verosimile, ma il παραδραμών del par.47, p.14,16 non si presta a questa interpretazione). Tra i marmi usati per i rivestimenti e le colonne, quello «che prende il nome dal fiume» del par.41 è solitamente identificato col Sangario, C o r c e l l a (111, 87–90) ha suggerito di riconoscervi il Potamogalleno. La descrizione coriciana della chiesa di s. Sergio è stata d’altra parte al centro di un dibattito relativo al suo rapporto con la chiesa Eudoxiana di cui si parla nella Vita di Porfirio attribuita a Marco Diacono (BHG 1570). Nel 1930 G r é g o i r e e K u g e n e r notarono la presenza, in entrambe le chiese, di colonne di marmo caristio e timidamente suggerirono la possibilità di identificarle, ipotizzando uno «changement de vocable» (283, XL e n.1); l’idea torna ad es. in L e c l e r c q (288, 1496) e ancora in B a l d w i n S m i t h (295, 15–16 e 39–40). La dubbia natura della Vita di Porfi rio poneva però dei problemi, e quando P e e t e r s ne scoprì e pubblicò, nel 1941, la versione georgiana, che presentava varie differenze rispetto al testo greco, notò soprattutto come questa collegasse all’Eudoxiana anche una struttura di ospitalità, quale è
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da Coricio ricordata per s. Sergio; la sua conclusione era che la Vita di Porfirio risalisse al VI secolo, e che l’Eudoxiana altro non fosse se non una proiezione retrospettiva della chiesa costruita da Marciano (290, spec. 78–79, 94–97 e 205–206). La tesi dell’identità fra Eudoxiana e s. Sergio non ha in realtà avuto generale fortuna (se il problema è ricordato dagli S t i e r n o n [210, 164], ad esso invece neppure accennano ad es. D o w n e y [202, 1131–1132], G l u c k e r [162, 19–21], O v a d i a h [318, 307]); e in particolare la tesi di P e e t e r s venne contestata da T r o m b l e y (320, 246–282) e da R u b i n (325). La questione è stata però ripresa da S a l i o u (142, 183–185), che non esclude la possibilità di un restauro dell’Eudoxiana da parte di Marciano; da ultimo si mostra più scettica L a m p a d a r i d i (341), che, pur non pronunciandosi a favore o contro la reale esistenza dell’Eudoxiana, giudica non realmente decisive le somiglianze tra la descrizione della Vita di Porfirio e quella di Coricio. L’architettura della chiesa di s. Stefano è stata discussa, in particolare, da A b e l (18, 23–27), B a l d w i n S m i t h (295, 38–39), M a n g o (29, 68–72), M a g u i r e (32), S t e n g e r (60), P o l a ń s k i (337, 170–172; 340, 29–30), S a l i o u (142, 180–185; 342, passim). Tutti questi studi hanno variamente contribuito a chiarire la struttura di questa chiesa collocata fuori delle mura ma non lontano da esse, in posizione elevata, forse residenza estiva del vescovo (quest’ultimo punto è specialmente trattato da S a l i o u [142, 182–183]). L’ingresso della chiesa era caratterizzato da due torri, tipiche delle basiliche siriane (ved. supra; di qualche incertezza sulla loro esatta collocazione discute P o l a ń s k i [337, 170; 340, 29]) e anche in questo caso vi era quindi un atrium porticato da cui si accedeva a un salutatorium e a un locale identificabile come un diakonikon (così S a l i o u [142, 181 e n.71]), nonché ad un auditorium nel descrivere il quale Coricio parla di un giardino (par.33: se si debba intendere un vero giardino, come pensa ad es. P o l a ń s k i [337, 170–171; 340, 30], o si tratti di mera metafora, come vuole ad es. S a l i o u [142, 182], resta dubbio, e mi chiedo se non si debba piuttosto pensare a raffigurazioni naturalistiche, ved. infra, ii). Che la struttura della chiesa fosse basilicale, con tre o forse cinque navate e matronei sopraelevati, emerge dal testo coriciano con relativa chiarezza; ha dato invece luogo a controversie la sequenza contenuta nei parr.43–45, particolarmente oscura per il ricorso che Coricio fa da un lato a linguaggio geometrico dall’altro a riferimenti mitologici, sicché si ha la descrizione di una struttura in termini di «semiconi» o «mezze pigne» (su quest’uso di mito e geometria si vedano soprattutto S t e n g e r [60] e S a l i o u [342]). A b e l (18, 25 n.1) aveva in effetti riferito il passo alla semicupola sull’abside orientale, ma D o w n e y (22), naturalmente seguito da B a l d w i n S m i t h (295, 38–39), volle invece leggere nella articolata ekphrasis coriciana la descrizione di una cupola centrale affiancata da semicupole. Il contributo di D o w n e y resta importante per alcune interpretazioni parziali, soprattutto di lessico (in parte già presenti in un rilevante articolo del 1946 [292]), ma la sua tesi non convinse M a n g o , il quale, pur tornando all’interpretazione di A b e l , confessava però di non comprendere tutti i dettagli del testo coriciano (29, 71 n.87). Una brillante soluzione al problema è stata infine offerta nel 1978 da M a g u i r e (32), che ha compreso come Coricio stia effettivamente descrivendo la copertura dell’abside centrale, costituita da una mezza volta
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l ignea ad o mbrello («pumpkin-» o «melon-vault») formata da nove spicchi semicircolari e, addossati all’arco trionfale che la chiude, due ulteriori mezzi spicchi, aventi ciascuno come base un quarto di cerchio; e sono appunto gli spicchi ad essere chiamati «semiconi». La soluzione di M a g u i r e , sorretta anche dai paralleli offerti da altre chiese dell’epoca, rende conto di tutti i dettagli della descrizione e appare definitiva; il dubbio espresso da S t e n g e r (60, 89 n.48) sulla possibilità «daß sich der Terminus «Halbzapfen» nicht auf die Form des gesamten Gewölbes, sondern nur auf die neun Kreissegmente beziehe» non ha motivo di esistere, ché anzi solo così si spiega perché, al par.46, p.39,27–28, Coricio dica «coni» al plurale (τῆς ἐκ τῶν κώνων εἰρημένης μοι ποικιλίας; anche al par.41, p.38,22, M ü n s c h e r non aveva del resto tutti i torti nel suggerire dubitativamente κώνων ἡμίσεα in luogo del tradito κῶνον ἡμίσεα). Insomma, l’affermazione per cui sarebbe dubbio se Coricio parli «of a dome over the nave or a semi-dome over the apse» ancora nel 2008 formulata, purtroppo in una sede manualistica autorevole, da B a r d i l l (336, 342–343), con il solo sostegno di M a n g o e senza neppure menzionare M a g u i r e , appare piuttosto attardata, mentre S a l i o u (342, 186) da ultimo ben riconosce come M a g u i r e abbia ragione nell’individuare, in Coricio, «un décor de lambris nervuré» a decorazione dell’abside centrale. (ii) Le descrizioni iconografiche Una ottima sintesi complessiva sulle raffigurazioni delle chiese di s. Sergio e s. Stefano descritte da Coricio, con rinvii alla principale letteratura storico-artistica, è stata recentissimamente offerta da Tomasz P o l a ń s k i (340, 29–43; qui sono ripresi alcuni studi precedenti: 337; 338; 339). Vari punti rimangono però incerti, e una discussione delle diverse interpretazioni offerte negli ultimi decenni deve necessariamente affrontare anche questioni di dettaglio. Tra le descrizioni delle immagini effigiate nella chiesa di s. Sergio, soprattutto la sezione sulle scene dai Vangeli (I or.1, 46–77) era stata ampiamente studiata, già al momento dell’uscita dell’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g , come importante testimonianza sulla storia delle raffigurazioni della vita di Gesù (basti ricordare lavori come Ch. B a y e t , Recherches pour servir à l’ histoire de la peinture et de la sculp ture chrétiennes en Orient avant la querelle des iconoclastes, Paris 1879; J . R e i l , Die altchristlichen Bildzyklen des Lebens Jesu, Leipzig 1910; G . M i l l e t , Recher ches sur l’ iconographie de l’Évangèle aux XIVe, XVe et XVIe siècles, Paris 1916; G . d e J e r p h a n i o n , Le rôle de la Syrie et de l’Asie Mineure dans la formation de l’ icono graphie chrétienne, Beyrouth 1922); in particolare, il testo di Coricio aveva contribuito ad alimentare le tesi sulle origini siropalestinesi di alcune tradizioni iconografiche già tardoantiche e poi medievali in cui un’impronta fortemente storico-narrativa si unisce a un valore simbolico e dogmatico (riprendendo i suoi molti studi precedenti, S t r z y g o w s k i rinvia ad es. a Coricio in 287, 25 e 72–73). Nel periodo successivo, queste linee di ricerca hanno continuato a rivelarsi produttive e la descrizione coriciana è stata spesso evocata nell’ambito degli studi sui cicli iconografici della vita di
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Cristo: menzioni di Coricio non mancano così nelle voci pertinenti del Reallexikon zur Byzantinischen Kunst (specialmente ma non solo nell’articolo Bildprogramm di K. W e s s e l [307]) o in repertori generali come quello di S c h i l l e r (305, 95 e 101), mentre G r a b a r ne adoperò la testimonianza nelle sue fondamentali ricerche sull’arte paleocristiana (291, II, 62, 252, 269 e passim) e K i t z i n g e r , che già nel 1949 trovava nel par.76 una conferma alle tesi dello stesso G r a b a r sull’origine siropalestinese delle raffigurazioni che legano le vicende evangeliche alle antiche profezie (294, 446), ancora vari decenni dopo cita il testo coriciano come cruciale riprova dell’origine dei cicli evangelici festivi in età preiconoclastica (315, 68 = 535); Coricio trova d’altra parte naturalmente menzione nelle ricerche sulle eulogiai e gli oggetti legati al pellegrinaggio in Terra Santa di V i k a n (si veda in particolare 316, 76 n.8 e 77 n.12). Innumerevoli sono del resto le indagini particolari: per non fare che qualche esempio quasi casuale, sulla raffigurazione di Maria ed Elisabetta è intervenuta L a f o n t a i n e - D o s o g n e (318, 84), sulla nascita di Cristo S t i c h e l (94, 67–69), sulla presentazione al tempio M a g u i r e (313, spec. 262), sulla figura di Giuda P e r r a y m o n d (316, spec. 81), sulla crocefissione P e e r s (330, spec. 16–17); per la cena in casa di Simone (par.64) mancano apparentemente paralleli iconografici, ma K e n a a n - K e d a r (322, 89–90) nota come la dettagliata descrizione dei beni cui la peccatrice rinuncia anticipi temi delle successive raffigurazioni. Le affermazioni di Coricio sono così spesso state addotte come riscontri per l’interpretazione di singole opere d’arte, dall’evangeliario di Rabbūlā (si vedano in particolare C e c c h e l l i [300, spec. 34, 54, 66, 70] e L e r o y [302, 139–197, spec. 161–162 e 180–181], i quali fanno peraltro entrambi ancora riferimento all’edizione di B o i s s o n a d e ) agli affreschi di Castelseprio (così già D e C a p i t a n i D ’A r z a g o [293, 671–672] e W e i t z m a n n [297, 53]) a oggetti anche minori o minimi (un esempio per tutti nella noterella di H ü b n e r [324] sulla raffigurazione delle nozze di Cana in una bolla plumbea), nonché come termini di confronto per altre testimonianze letterarie su cicli iconografici (così ad es. S a l a č a proposito degli epigrammi cristologici nel I libro dell’Antologia Palatina [139, 25–27] o F r o l o w per una ekphrasis di Leone VI [71]; ved. supra, A.3, anche per Giovanni Phokas/Doukas). Un interesse speciale ha destato la frase ταῖς ἀμφὶ τὴν τεκοῦσαν φανεὶς πρὸς τὴν οἰκείαν ἀνάγεται λῆξιν al par.76, che testimonierebbe come nella raffigurazione gazea del chairete tra le donne cui Cristo risorto appare ci sarebbe stata anche la Madonna, secondo una versione attestata letterariamente in Giovanni Crisostomo e in Severo di Antiochia e che sembra essere raffigurata anche nell’evangeliario di Rabbūlā (così tra gli altri V i l l e t t e [299, 133 n.152], C e c c h e l l i [300, 70], L e r o y [302, 180–181], M a n g o [29, 68 n.67], K o n i s [332, spec. 36]); si badi però che, in questo passo, ταῖς è correzione di B o i s s o n a d e per il τοῖς del Matritense e – come si è visto supra, A.6 – non sarebbe impossibile serbare τοῖς ἀμφὶ τὴν τεκοῦσαν, intendendo la Madonna e gli apostoli come elemento della descrizione dell’Ascensione: così – se ben comprendo la sua rapida annotazione – T h ü m m e l (47, 60 e n.5), che giustamente peraltro insiste (p.63) sul carattere compresso di quest’ultima parte dell’ekphrasis, tale da non lasciare apprezzare tutti i dettagli. Passando in rassegna alcune consonanze con opere di origine siropalestinese M a g u i r e (78, 118–119) ha quindi potuto mostrare come
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esse rivelino la natura non meramente letteraria e convenzionale della descrizione coriciana – un punto su cui torneremo nella sezione B.3.b.i.α. Dopo la già citata ricostruzione di T h ü m m e l (47, spec. 63–64), una lettura complessiva delle scene descritte da Coricio, con amplissima messe di riscontri, è ora offerta da P o l a ń s k i (338; 340, 6–28): a partire da un’analisi minuta e in genere precisa, che tra l’altro mostra come si tratti di pitture e non di mosaici, si rivela l’importanza del testo coriciano per il problema delle origini palestinesi dei cicli iconografici ispirati ai Vangeli (segnalo solo il dissenso su un dettaglio: non vedo perché il πρώην del par.71, p.20,18 debba voler dire «il giorno prima» e implicare un contrasto col racconto evangelico [338, 751; 340, 15], e non valga invece «qualche tempo prima»). Anche la descrizione del mosaico dell’abside centrale di s. Sergio (I or.1, 29–31) è stata spesso confrontata con scene raffigurate in altre chiese tardoantiche e bizantine, da Ravenna a Parenzo (così ad es. A b e l [18, 14 n.5], I h m [301, 193–194, con traduzione tedesca di I op.1, 29–31, e passim], W e s s e l nell’articolo Apsisbilder per il Reallexikon zur Byzantinischen Kunst [306], M a n g o [29, 62 n.37], M a g u i r e [78, 118–119], T h ü m m e l [47, 64], P o l a ń s k i [340, 2–4]), e l’indicazione del governatore Stefano e di san Sergio all’interno di una «pia schiera» che rimane invece anonima è ora spiegata da M a g u i r e [334, 156] con riferimento a una più generale prassi che rendeva identificabili, eventualmente con l’indicazione del nome, i soli personaggi più autorevoli (sulla raffigurazione di Stefano si è soffermato anche H o l u m [214, 234–235]); si è inoltre suggerito che l’immagine mariana di s. Sergio possa essere riprodotta in uno stampo per eulogiai ritrovato nei pressi di Gaza ( R a h m a n i [309]). Vari anche i riscontri per i giardini con uccelli raffigurati nelle absidi laterali (parr.32–33) e per le scene naturalistiche descritte ai parr.35–37: si vedano le osservazioni di A b e l (18, 15 n.1) e K i t z i n g e r (296, 96 e n.54 = 201 e n.54), nonché, più in generale, l’indagine di G r e c o (333), che mette bene a frutto i vari studi di Henry M a g u i r e sulla rappresentazione della natura nel mondo bizantino (ved. anche infra, B.3.b.i.α). Molti elementi erano in verità noti già ai tempi di A j n a l o v , ma le continue scoperte in Palestina di mosaici del VI secolo (tra cui in particolare quello della sinagoga di Maiuma) hanno sempre più chiaramente mostrato la diffusione nella regione di temi naturalistici assai simili a quelli descritti da Coricio, al punto da aver fatto parlare di una scuola gazea di mosaicisti (così A v i -Y o n a h [309] e O v a d i a h [311], da cui dipendono tra gli altri G l u c k e r [162, 96] e gli S t i e r n o n nella voce su Gaza del Dictionnaire d’Histoire et de Géographie Ecclésiastiques [210, 164]); e questa idea, ancorché non generalmente accolta dagli specialisti (ved. da ultimo R . H a c h l i l i , Ancient mosaic pavements: themes, issues, and trends, Leiden 2009, passim, che non considera Coricio), è stata da ultimo ripresa da P o l a ń s k i (340, 4–6), che nella descrizione coriciana ravvisa in particolare un’enfasi sulla simmetria giudicata tipica di questa «scuola gazea». La testimonianza coriciana è stata d’altra parte usata anche in discussioni sugli influssi dei temi naturalistici palestinesi sull’arte omayyade (così ad es. M o n n e r e t d e V i l l a r d [304, 295] o più recentemente T a r a g a n [326, 100–101]); sulla possibilità di allusioni al paradiso ved. anche M c K e n z i e (335, 365).
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Quanto alla chiesa di s. Stefano, che l’effigie di colui «che tiene il tempio» cui si fa riferimento in II or.2, 38 sia quella del santo eponimo, così chiamato perché titolare della chiesa (con ὁ … τὸ τέμενος ἔχων classicheggiante, cfr. IG I3 1021 con i simili TrGF II2 F 164 e V F 752h 10, nonché Babrio 63,2), fu sostenuto, dopo B o i s s o n a d e e S t a r k , da A b e l (18, 24 n.7) e ben argomentato da M a n g o , che notava come la sua assenza sarebbe singolare (29, 70 n.84), e tale identificazione sembra assolutamente naturale dato che il personaggio è associato con il Battista (τὸν Πρόδρομον) e al pari di questo rappresentato «con i consueti simboli»; l’ipotesi che si tratti invece del governatore Stefano raffigurato con il modello della chiesa tra le mani, già avanzata da U n g e r e riproposta da D o w n e y (25, 136), non ha in genere convinto (ved. M a g u i r e [32, 320] e S t e n g e r [60, 92 n.70]; ad essa aderisce però O v a d i a h [205, 416; 221, 465]) e forzata mi pare l’interpretazione di P o l a ń s k i (339, 190–199; 340, 33–36), che vorrebbe vedere in colui «che tiene la chiesa» il governatore e nel «precursore» non san Giovanni ma santo Stefano, con uso metonimico di πρόδρομος per πρωτομάρτυρ (dove è certo apprezzabile, come meglio vedremo in seguito, la volontà di tenere in conto lo stile retorico di Coricio, ma inverosimile il risultato: si badi peraltro che le due effigi sono quelle di ὅσιοι ἄνδρες, e l’equiparazione di un santo e del governatore sotto questa categoria rischierebbe di suonare addirittura blasfema). L’affermazione di V i t t o per cui «(o)n the triumphal arch were two figures – apparently St. Stephen and the founder, Bishop Marcian, – standing on either side of Christ» (321, 287–288) discende da un banale fraintendimento della nota di M a n g o (29, 70 n.84) La raffigurazione del Nilo descritta al par.50, probabilmente un mosaico, è stata ora ampiamente studiata da P o l a ń s k i (337; 339, 199–204; 340, 36–43), che opera ricchi confronti con i paesaggi nilotici ben attestati nell’oriente tardoantico (e specialmente indagati da B a l t y e H a c h l i l i ); vi torneremo discutendo del genere retorico dell’ekphrasis nella sezione B.3.b.i.α. Al par.34, A b e l [18, 24 n.4] si chiedeva se l’accenno a tutti i prodotti del mare e della terra offerti dal muro orientale facesse riferimento a una decorazione o non piuttosto all’uso di vari materiali, tra cui alcuni importati per mare; D o w n e y (25, 134) aveva pensato a un mosaico pavimentale raffigurante in dettaglio i frutti del mare e della terra, mentre P o l a ń s k i (337, 171; 339, 185–190; 340, 30–32) sottoscrive l’idea di un mosaico pavimentale, presso o lungo il muro del nartece, ma ritiene che in esso vi fossero scene di caccia, pastorizia, giardinaggio e caccia, secondo una tipologia ben nota da vari edifici siriani, palestinesi e africani (personalmente non mi sentirei di escludere la possibilità di una raffigurazione in cui le acque, con i loro abitanti, circondavano la terra popolata di frutti e animali, una tipologia per cui si veda ad es. H . M a g u i r e , The Mantle of Earth, ICS 12, 1987, 221–8: 222 [rist. in I d . , Rhe toric, nature and magic in Byzantine art, Aldershot 1998, nr.VII], dove non si ha però menzione di Coricio). Oltre a passare in rassegna gli studi espressamente dedicati a ricostruire le opere d’arte descritte da Coricio, ho dedicato qualche doveroso accenno all’impiego che dei testi coriciani è stato fatto nelle ricerche sulla storia dell’arte tardoantica e bizantina; ma
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non è naturalmente proponibile in questa sede un esame sistematico, che potrebbe essere condotto solo all’interno di un rendiconto sulla civiltà artistica tardoantica in Palestina e i suoi influssi sulle età successive, sicché mi sono limitato ad alcuni esempi (talora volutamente disparati e quasi casuali, a dimostrazione della ricca e varia fortuna delle testimonianze coriciane tra gli storici dell’arte). Per i nostri scopi è piuttosto rilevante notare che nel 1968 G r a b a r (308, 101) osservava come l’uso delle descrizioni di Coricio in vista della ricostruzione delle opere d’arte che ne sono oggetto trovi un limite nella possibilità che il retore abbia messo in atto una «interpretation in the direction of drama and narrative». Negli studi più recenti, a partire almeno dal fondamentale saggio di M a g u i r e del 1974 (78), emerge in effetti una maggiore attenzione allo studio della dimensione retorica dell’ekphrasis, considerata nei suoi aspetti formali e nei valori ideologici che assumeva all’interno del suo contesto performativo. Questo approccio è anzi divenuto, negli ultimi anni, talmente prevalente da indurre S a l i o u a osservare, a introduzione del suo recentissimo studio sul linguaggio architettonico di Coricio (342, 185): «(a)lors que plusieurs travaux fort convaincants et stimulants ont été consacrés à la signification spirituelle, voire politique, de ces descriptions, leurs aspects proprement architecturaux n’ont pas fait l’objet de la même attention». Alla luce di quanto abbiamo finora detto, l’affermazione appare in realtà e sagerata, e comunque l’efficacissima sintesi offerta dalla studiosa sull’architettura delle due chiese trae tutto il frutto possibile dall’analisi dei meccanismi descrittivi di Coricio, a dimostrazione che solo tenendo conto dei molteplici presupposti linguistici, retorici, culturali e ideologici è in realtà possibile un corretto uso delle descrizioni coriciane come fonti d’informazione. Ma tornerò più diffusamente su questo punto nella sezione B.3.b.i.α, dove discuterò anche di ulteriori contributi centrati sulle strategie retoriche di Coricio piuttosto che sul suo uso come fonte per la ricostruzione delle opere descritte. 2.c. Coricio, il mimo, il teatro contemporaneo 344. V . C o t t a s , Le théâtre à Byzance, Paris 1931. 345. A . V o g t , Le théâtre à Byzance et dans l’empire du IVe au XIIIe siècle. I. Le théâtre prophane, Revue des Questions Historiques 59, 1931, 257–296. 346. E . W ü s t , Art. Mimos, RE XV (1932), 1727–1764. 347. G . J . T h e o c h a r i d i s , Beiträge zur Geschichte des byzantinischen Profantheaters im IV. und V. Jahrhundert, hauptsächlich auf Grund der Predigten des Johannes Chrysostomos, Patriarchen von Konstantinopel (Diss. München), Thessaloniki 1940. 348. R . W. R e y n o l d s , The Adultery Mime, CQ 40, 1946, 77–84. 349. J . J . T i e r n e y , Ancient Dramatic Theory and its Survival in the Apologia mimorum of Choricius of Gaza, in: Πεπραγμένα τοῦ Θ´ Διεθνοῦς Βυζαντινολογικοῦ Συνεδρίου 3, Ἀθήνα 1958, 259–274. 350. H . W i e m k e n , Der griechische Mimus. Dokumente zur Geschichte des antiken Volkstheaters, Bremen 1972.
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cultura generale (e anglosassone), mentre tra le opere di Coricio essa è certo «la seule pièce qui ait joui d’un certain succès», come ha scritto A m a t o (15, 94), che in altra sede l’ha anche non a torto indicata come «la véritable perle» della produzione coriciana (375, 122). Nel 1931, l’Apologia venne così rapidamente presa in considerazione nei saggi sul teatro profano bizantino di Vénétia C o t t a s (344, spec. 44–48) e A lbert V o g t (345, spec. 278–281), e l’anno dopo nell’articolo sul mimo curato proprio da W ü s t per la Pauly-Wissowa (346, spec. 1760–1761). Quindi le informazioni in essa contenute sul mimo e in generale sulle pratiche teatrali tardoantiche sono state ampiamente messe a frutto. Se fugaci ne sono le menzioni nell’opera di K o u k o u l e s (190, III 77–78 e 268), più significativo appare il comportamento di Georgios J. T h e o c h a r i d i s , che nell’importante dissertazione del 1940 sul teatro profano bizantino del IV e V secolo (347) scelse di adoperare, accanto a Giovanni Crisostomo, Libanio e Luciano, anche il testo coriciano, che pur essendo più tardo poteva valere «als Kontrolle für die Zustände des IV. u. V. Jhrh.», soprattutto perché unica fonte disponibile per alcuni aspetti (p.2); e Coricio risulta in effetti ampiamente utilizzato, specialmente nella sezione su tragedi, citarodi e comedi (pp.49–66) e, naturalmente, in quella sul mimo (pp.67–119). Analogo impiego di Coricio si riscontra, negli anni ’70, nel libro di P a s q u a t o su Giovanni Crisostomo e gli spettacoli nel IV secolo (353, spec. 1 21–128). Ma ricco soprattutto è l’uso dell’Apologia nel fondamentale volume sul mimo di W i e m k e n (350; notevole come, alle pp.184–186, i capp.80–81, tradotti in tedesco, vengano addotti per illustrare la natura della tecnica drammatica dei mimi, evidentemente lontana dal metodo Stanislavskij e priva di «Transfiguration»). Più di recente, il ruolo di Coricio come testimone dell’ultima fase di fioritura della cultura teatrale antica in un’età di transizione è stato ben ribadito nei vari studi sulle origini e lo sviluppo del teatro bizantino di Walter P u c h n e r (soprattutto in 354ab, spec. 354b, 36: si vedano i sintetici bilanci in 361, 13 e in 372, 314; e si confronti anche la rassegna di N a l p a n t i s [357, spec. 47]) come pure a conclusione della sintesi sullo spettacolo ellenistico e tardoantico di Te d e s c h i (373, 147). Il testo dell’Apologia è stato quindi usato per interpretare figure comiche rappresentate in più tarde miniature bizantine (così specialmente da B e r n a b ò : 376; 377; 379); mentre una possibile continuità con il teatro delle ombre è ulteriormente indagata da M o r f a k i d i s (384). Su tutti gli elementi che l’Apologia può offrire per la ricostruzione delle pratiche teatrali nel VI secolo, oltre l’introduzione e il commento di S t e f a n i s (38) e i lavori di W e i s s (soprattutto 253, 24–32: ved. supra, B.2.a), una completa rassegna è ora fornita da M a l i n e a u (378), che si sofferma in maniera efficace e precisa sull’organizzazione degli spettacoli, i repertori, la tecnica drammatica, i luoghi di rappresentazione, lo statuto e il modo di vita degli attori, il pubblico e la ricezione dei mimi (immotivata mi pare solo l’affermazione, a p.159, per cui il par.84 «semble opposer le théâtre où se déroulent des spectacles convenables, à d’autres lieux où se dérouleraient des spectacles obscènes»: S t e f a n i s [38, 99], richiamato in nota a sostegno, semplicemente traduce μίμους … ἐν δέοντι θεωρεῖν con «να βλέπουν στο πλαίσιο του μέτρου μίμους στο θέατρο», dove «nel teatro» è una mera precisazione mirante a rendere meglio θεωρεῖν e l’enfasi è giustamente posta, conformemente all’originale, sulla «giu-
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sta misura»). Una piana sintesi sulle testimonianze e i problemi offerti dall’Apologia si legge anche nel capitolo dedicato agli spettacoli nel volume di S a r a d i sulla città tardoantica (261, 310–324). Nell’ambito dei vari altri studi particolari che hanno adoperato Coricio come fonte per la ricostruzione del mimo, merita di essere segnalato, in primo luogo, l’uso dei capp. 29–30, 33–34, 55–56 dell’Apologia negli studi dedicati alle presumibili trame dei mimi basati sull’adulterio: dopo le non sempre limpide analisi di R e i c h , il tema è stato affrontato in particolare da T h e o c h a r i d i s (347, 83–87), R e y n o l d s (348), W i e m k e n (350, 146–148 e 166); una rapida messa a punto si legge in S t e f a n i s (38, 156), ma una più attenta e precisa revisione della questione è stata quindi offerta da K e h o e (356), che mostra come Coricio contribuisca con altre fonti a rendere certa la presenza di alcuni elementi tipici, in particolare una scena di processo, e sebbene per amor di tesi insista sulla inevitabile punizione faccia però anche intravedere l’esistenza di un lieto fine. Che l’insistenza, in Coricio, sulla punizione d ell’adultero possa quindi ritenersi tendenziosa e non vada presa troppo sul serio è ora sostenuto, contro R e y n o l d s (348, 83), da K o n s t a n t a k o s (380, 530 e n.18; sulla questione generale di quanto i dettagli menzionati da Coricio siano davvero credibili torneremo tra breve). Le testimonianze dell’Apologia (soprattutto ai parr.110–111) sui personaggi tipici del mimo sono state quindi variamente discusse nelle succitate opere generali (ad es. da P u c h n e r [372, 314] e Te d e s c h i [373, 144]); più specificamente, l’aiuto che Coricio può dare a interpretare nuovi documenti sul mimo è ad es. mostrato dai rinvii all’Apologia nelle note di commento di V o u t i r a s (362) all’iscrizione funeraria del mimus calvus Eucharistos (SEG XLIII 982; R . M e r k e l b a c h – J . S t a u b e r , Steinepigramme IV 17/09/01). Sull’uso che si può fare del par.78 come testimonianza di mimi ad argomento omerico insiste altresì in particolare H i l l g r u b e r (369, 69). Ma non solo per il mimo Coricio vale come fonte: alcuni passi dell’Apologia (come pure di altre opere, spec. XXXIX 30–32) sono stati talora usati come prova del fatto che nell’età di Coricio si rappresentassero ancora tragedie e commedie classiche; più probabilmente bisogna però pensare a recite di «arie» e scene dalle opere più famose (così S t e f a n i s [38, 182–183 e 189], in riferimento agli attori menzionati in Apol. 118 e 141; opportunamente, sia pur con qualche confusione, L e y e r l e parla di «declamations from the classics» [370, 30 n.89]). Del problema si occupano anche, tra gli altri, T h e o c h a r i d i s (347, 49–66), P a s q u a t o (353, 162), S c h o u l e r (359, spec. 273–275 sulla conoscenza libresca di tragedia e commedia), M a l i n e a u (378, 150); meritano comunque di essere meditate le osservazioni di E a s t e r l i n g e M i l e s (368, spec. 97 e 102–103) sulla tragedia, in Coricio e nella sua epoca, certamente nota soprattutto per via libresca e però modello di prestigio per ogni genere di rappresentazione. Sulle cognizioni che Coricio ha della tragedia e della commedia classiche ved. anche infra, B.3.a.i.α.3. Per quel che Coricio testimonia dei luoghi e delle circostanze delle rappresentazioni (su cui una sintesi è offerta da M a l i n e a u [378, 159–161]), si veda supra, B.2.a.
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L’Apologia rimane quindi una fondamentale fonte sul teatro tardoantico e bizantino, già ampiamente valorizzata negli studi, anche se alcuni aspetti, evidentemente chiari al pubblico contemporaneo, rimangono per noi ancora da esplorare e comprendere fino in fondo (misteriose restano, ad es., nonostante gli sforzi esegetici ben riassunti da S t e f a n i s [38, 163 e 191–192], le identità del personaggio «secondo per nome, primo per posizione» del par.145, probabilmente un Secundus/Σεκοῦνδος, e dei due fratelli mimi, verosimilmente gazei, emigrati a Costantinopoli dei parr.57–58: lo stesso S t e f a n i s ha rinunciato a tenerne conto, se ho ben visto, nel repertorio Διονυσιακοὶ τεχνῖται, Ἡράκλειο 1988, che ha in ogni caso come termine cronologico basso il 500 d.C., e si può solo sperare che scoperte epigrafiche portino nuova luce). Ben presto, comunque, nella storia degli studi divenne chiaro che per un corretto uso dell’Apologia come fonte non si poteva prescindere da una valutazione della natura e dei fini dell’opera, e del suo Sitz im Leben. Purtroppo, il momento e l’occasione specifica continuano a sfuggirci, come già sfuggivano a S a t h a s (Ἱστορικὸν δοκίμιον cit., 341–342); e nella sezione B.1 si è già accennato che la stessa datazione a prima del 526, ancorché spesso ripetuta in letteratura (ad es. da C r e s c i [364, 49]), non è al di sopra di ogni sospetto, come ha mostrato S t e f a n i s (38, 40–43). Vari studi hanno comunque cercato di offrire una lettura dell’opera più attenta ai suoi aspetti retorico-letterari e ideologici, con esiti tuttavia non totalmente univoci: in tale novero rientrano, a vario titolo, a parte altre opere cui più rapidamente si accennerà, l’indagine sulle fonti di T i e r n e y (349), la rassegna di problemi di F r e j b e r g (351), le intelligenti analisi di S c h o u l e r (359; 371; cfr. anche 365), l’acuto esame di C resci (364), il dotto e brioso excursus di A l b i n i (366), le riflessioni di M o r f a k i d i s (367; cfr. anche 358, 217), infine i recenti saggi di W e b b (374; 381), W h i t e (52; 67), P e r n e t (386). In particolare, T i e r n e y (349) è intervenuto sulle teorie estetiche alla base delle tesi esposte nell’Apologia, che si incentrano sul concetto della μίμησις: sviluppando spunti già presenti negli studi precedenti (soprattutto in R e i c h ) , l’autore ne vede le origini nella tradizione peripatetica, e più specificamente dal περὶ ποιητῶν aristotelico, da cui Coricio attingerebbe vari argomenti ed esempi (sulla presenza di echi della teoria della catarsi nell’Apologia si veda anche la messa a punto di J a n k o [355, 148]). Ma a parte l’individuazione di queste più remote origini nella poetica peripatetica, la ricerca si è soprattutto concentrata sulla posizione che l’Apologia occupa all’interno di quella tradizione retorica di dibattito sul valore degli spettacoli, in particolare della pantomima, che trova i suoi più importanti precedenti in Aristide, Luciano e Libanio; nonché sul significato dell’atteggiamento di difesa assunto da Coricio rispetto alle dure critiche mosse invece al teatro in ambito cristiano. Tali aspetti furono invero variamente affrontati già nei contributi precedenti al 1929. Nel periodo di nostro interesse, il problema del rapporto con il Pro saltatoribus di Libanio, già ampiamente studiato da F o e r s t e r e da Karl Heinrich R o t h e r (De Choricii studiis Libanianis, Diss. Vratislaviae 1912, spec. 53–65), è stato più specificamente affrontato da C r e s c i (364), che ha mostrato come Coricio, nello spostare l’attenzione dalla pantomima mitologica al mimo «borghese», riprenda i temi libaniani con continua variatio, trasferendo l’accento dai comportamenti degli attori ai soggetti rappresentati e insistendo,
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sotto l’urgenza delle pratiche e delle polemiche contemporanee, sul carattere di lu sus del mimo. Sul tema è quindi da ultimo tornato P e r n e t (386), che pur opportunamente notando alcune ambiguità del testo coriciano, su cui torneremo, ritiene che esso possa essere considerato un esercizio retorico su un tema paradossale composto proprio per adempiere a quanto annunciato ma non realizzato nel Pro saltatoribus di Libanio (parr.10–11), da cui prenderebbe l’ispirazione e del quale ripercorrerebbe alcune linee. P e r n e t precisa che una tale interpretazione in termini di esercitazione su un turpe genus nulla toglierebbe al valore documentario dell’Apologia; pure, non si può non ricordare come C a m e r o n (352, 161–162 e n.7) movesse proprio da una considerazione del testo come «a highly artificial and specious defence of the mime» per porre in dubbio la credibilità dell’affermazione coriciana ( parr.119–122) sulla libertà satirica dei mimi (cui invece attribuiscono valore, ad es., C r e s c i [364, 56] e S p a d a r o [360, 548–549]), e ad un analogo problema relativamente alla notizia sulla inevitabile punizione dell’adultero nel mimo si è già pocanzi accennato. In ogni caso, se la possibile riduzione dell’Apologia a mero esercizio retorico, in cui Coricio esporrebbe opinioni paradossali che non necessariamente gli appartengono, non pregiudicherebbe ipso facto la credibilità delle informazioni fornite, essa certo sdrammatizzerebbe il manifesto contrasto rispetto alla visione negativa del teatro, e specialmente del mimo, imperante in certi ambienti ecclesiastici (di «an internal sophistic debate with Aristides rather than John Chrysostom» con toni di paradosso ha così ad es. parlato W e s t b e r g [122, 141–142]). Il problema è stato ampiamente considerato, ma per lo più si è ritenuto che, al contrario, Coricio sia personalmente convinto delle idee sostenute nell’Apologia; proprio anzi per evitare di scontrarsi esplicitamente con gli ambienti ecclesiastici nel momento in cui esponeva tesi in cui davvero credeva egli avrebbe scelto la forma della polemica con un avversario fittizio (evocato anonimamente come ὁ κατήγορος, e le cui parole e posizioni vengono riportate con verbi alla seconda o terza persona: su questo aspetto si sofferma tra gli altri F r e j b e r g [351, 325], mentre T h e o c h a r i d i s [347, 60] incongruamente vi vedeva una allusione ad Aristide). Che l’avversario non nominato rappresenti la visione del mondo cristiana era in effetti una certezza per R e i c h (Der Mimus cit., 206), e quest’idea ha addirittura portato talora a ipotizzare che Coricio non fosse cristiano: così ad es. B a r n e s (363a) e L u g a r e s i (383, 217–218), mentre M a l i n e a u (378, 168–169) pensa a una posizione al fondo neutrale rispetto alla religione. Sul problema del cristianesimo di Coricio torneremo nella sezione B.4; fin d’ora si può però notare come l’ipotesi di un suo paganesimo, dichiarato o nascosto, sia altamente improbabile, e sia anzi addirittura legittimo sostenere che proprio in uno spirito di sostanziale adesione ai valori cristiani, ancorché conciliati con la cultura classica, Coricio cerchi di difendere il mimo e i suoi attori dalle accuse dei rigoristi (W h i t e [52, 70; 67, 53] ha a tal proposito opportunamente insistito sulle possibili risonanze cristiane dell’ἀναμαρτήτους del par.21). Più adeguata a comprendere l’ispirazione dell’Apologia appare quindi semmai l’idea, espressa da W e b b , di un mimo accettabile, per ampi strati della società e anche a livelli ufficiali, come forma d’arte meno pericolosa della pantomima di argomento mitologico (374, 287–300) e quindi di una rivendicazione, da parte di Coricio, di «an art form that is potentially compatible with C hristianity,
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not Christian, but not ‹anti-› or ‹non-› Christian either», vale a dire di uno spazio «secolare» (381, 118–123); visione con la quale al fondo può conciliarsi la lettura dell’Apologia offerta da S c h o u l e r (371), che mostra come Coricio non si rivolga direttamente contro la Chiesa ma voglia piuttosto fare un elogio del riso quale espressione di educata philanthropia. Del fondamentale problema della religiosità e delle posizioni ideologiche di Coricio più ampiamente ci occuperemo, come già si è accennato, nella sezione B.4. In ogni caso, si può ben sottoscrivere l’idea che l’attribuzione a Coricio stesso delle opinioni espresse nell’Apologia non implichi una sua opposizione al cristianesimo, ma semmai solo una risposta a istanze estreme e rigoristiche che, per quanto ampiamente diffuse, anche a livello istituzionale non trovavano pieno seguito, se non in momenti in cui attorno agli spettacoli venivano a crearsi problemi di ordine pubblico. Rispetto all’opinione pubblica e al potere imperiale, egli potrebbe quindi svolgere il ruolo di moderato consigliere: suggestiva in tal senso l’idea, avanzata da A l b i n i (366, 117–118 = 189 = 4–5), per cui la menzione di Filippo ai parr.60–67 (sulle cui radici retoriche ved. infra, B.3.a.i.β.1) sarebbe un monito a non usare una controllata frequentazione dei mimi come argomento contro gli uomini di potere – tema che, sotto Giustiniano e Teodora, era naturalmente molto attuale (come ben notano, tra gli altri, B a l d w i n e C u t l e r nell’Oxford Dictionary of Byzantium [166]), anche se l’assenza di una precisa datazione dell’opera, cui si è accennato, non consente conclusioni più salde. Restava, comunque, un’operazione non priva di rischi, e ciò può aiutare a spiegare la scelta della forma letteraria. In effetti, la menzione in forma anonima dell’avversario, prima ancora che una reticenza ideologicamente significativa, innanzitutto rappresenta, come S t e f a n i s (38, 34–37) e S c h o u l e r (371, 251) hanno ben riconosciuto, un tipico meccanismo delle declamazioni; e però questa adesione al modello declamatorio si rivela solo un elemento, parziale e non esaustivo, all’interno di una più complessa strategia. L’Apologia mimorum è, in effetti, un’opera peculiare, per certi versi sperimentale (come opportunamente la definisce K a l d e l l i s [382, 175]). Essa prende la forma esteriore di una declamazione, con tanto di theoria; ma gli interpreti più acuti hanno rilevato come proprio la stessa theoria ne dichiari enfaticamente il carattere ambiguo tra declamazione e orazione (buone discussioni del problema sono specialmente offerte da S t e f a n i s [38, 34–37, cfr. anche l’osservazione sull’eco gorgiana a p.147] e da P e r n e t [386], anche se entrambi gli studiosi finiscono poi col privilegiare un aspetto – quello dell’esercizio declamatorio – sull’altro; sulla coesistenza di serietà e gioco fini notazioni ora in H a d j i t t o f i [385]): per la parte di pubblico più urbana e provvista di grazia si avrà un λόγος valido come vera e propria difesa dei mimi, mentre chi vuole apparire più austero del dovuto ed è sempre pronto ad accusare gli altri potrà considerare l’opera un γυμνάσιον (e cioè un esercizio non legato alla verità, insomma una fittizia μελέτη: si ricordi la celebre affermazione attribuita a Cicerone in Plutarco, Cic. 25,2). Vi è, insomma, un gioco sottile e prudente. I potenziali critici troppo severi potranno trattare l’opera come una mera esercitazione, nella quale l’immaginario parlante esprime idee, appropriate al suo ethos, di cui l’autore non è responsabile; e alla declamazione in effetti rimandano tratti formali come la replica a un innominato accusatore (talora fraintesa, come si è visto, dagli interpreti) o l’invocazione agli
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dei e in particolare a Dioniso, nonché, su un piano di contenuto, l’uso di argomenti che si nutrono di una lunga tradizione retorica e letteraria (dalla scelta stessa della forma dell’apologia sulla scia di Libanio all’esaltazione della mimesi come eco aristotelica). Sono aspetti che in una normale declamazione avrebbero poco di strano, rientrando nel consueto armamentario dell’innocua finzione classicistica. Ma diversamente dalle altre declamazioni l’Apologia mimorum non è ambientata a Sofistopoli: il parlante fa esplicito riferimento alla realtà dell’impero, menzionando Costantinopoli (spec. ai parr.56–59), e all’orizzonte della Gaza e della Palestina contemporanee, alludendo a personaggi e situazioni specifiche note all’immediato pubblico gazeo (come la recitazione di mimi a Cesarea anche da parte di retori, alla presenza del governatore, dei parr.95–96, per cui ved. supra, B.2.a) e talora unicamente per esso comprensibili (come i già ricordati fratelli mimi dei parr.57–58 o il personaggio del par.145) e citando anche tratti autobiografici che ben si attagliano allo stesso Coricio (la personale visione di mimi prima di diventare retore del par.4). Le tesi sostenute assumono così un valore attuale, e al di là del velo della finzione è effettivamente possibile riconoscere Coricio stesso come persona loquens (si noti tra l’altro come la perorazione finale [par.158] ricordi quella della theoria dello Spartiates [XXIX th.5]): emerge in tal modo, inconfondibile, la fisionomia non più di una fittizia declamazione o γυμνάσιον bensì di una vera orazione o λόγος, affermata del resto anche dallo scholium (che – come già si è visto supra, A.6 – si legge all’inizio in luogo di una hypothesis). E come spiega la theo ria, questa natura di λόγος non costituirà un problema per il pubblico meno severo, pronto ad accogliere l’opera come difesa dei mimi condotta in prima persona dall’autore, senza timori, in nome della verità e contro i pregiudizi: questo tema della verità, da Coricio illustrato con echi platonici, è in effetti nella theoria centrale, come ha mostrato A m a t o (375), sicché non pare legittimo dubitare della simpatia personale di Coricio per i mimi, in qualche modo dovuta anche a una certa affinità col mestiere del retore, quale è stata giustamente sottolineata da S c h o u l e r (359; 371) e ora da W e s t b e r g (122, 125–142) e W h i t e (52; 67; quest’ultimo studioso, che è anche attore e sperimenta la riproposizione scenica del mimo antico, mostra peraltro a sua volta uno speciale apprezzamento per l’atteggiamento di Coricio, con spunti attualizzanti che erano già in parte in R e i c h );12 per la possibilità di legami anche familiari si veda quel che si è osservato supra, B.1 a proposito del nome del retore. La forma declamatoria si rivela così, alfine, una cautela nei confronti degli ambienti rigoristi, un modo prudente per trasmettere un messaggio che si può confidentemente ritenere Coricio al fondo condividesse. Di conseguenza, insomma, le varie chiavi di lettura messe in luce dagli interpreti sono tutte in qualche misura vere, e però parziali; anzi, la possibilità di offrire diverse interpretazioni è insita nello stesso progetto coriciano, sicché si potrebbe anche sostenere che gli studiosi moderni, nel momento in cui sposano l’una o l’altra visione, 12 A titolo di curiosità si può rammentare che alla fine degli anni ’80 del secolo scorso una compagnia teatrale greca specializzata in repertorio comico e farsesco, diretta da Giorgos Galantis, fu intitolata Χορίκιος: testimonianza di una qualche popolarità dell’Apologia anche al di fuori dell’antichistica.
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si c andidano a schierarsi o con il pubblico più mondano o, viceversa, con quello più austero descritti nella theoria. Ma l’Apologia mimorum mal si presta a superficiali valutazioni troppo nette: il problema di capire quanto in essa sia tradizionale e quanto contemporaneo, quanto antico e quanto moderno, quanto retorico e quanto attuale – fondamentale, come già abbiamo visto e ancora vedremo, per la comprensione di tutti i testi coriciani e il loro uso come fonti – si fa, in essa, particolarmente complicato e stimolante. Interpretazioni troppo univoche, come a volte si sono avute, rischiano al contrario di far perdere il senso della delicata operazione che Coricio stava compiendo, e che nella theoria è dichiarato: mai come nel caso dell’Apologia mimorum l’uso delle affermazioni di Coricio deve passare attraverso una comprensione dei presupposti retorici e letterari (si veda in proposito la sezione B.3), ma non abbiamo a che fare solo con mera retorica e letteratura. Coricio vuole, in effetti, difendere i mimi, con i quali ha una qualche consuetudine, compiendo quella che S c h o u l e r ha felicemente chiamato «une réhabilitation courageuse inspirée par la reconnaissance et l’amitié» (371, 250); ma è anche evidente che, di fronte a un’opinione pubblica soggetta all’influsso di posizioni più rigoristiche, occorreva cautela, sicché il risultato è un discorso di Coricio in favore dei mimi che gioca sulla possibilità di venire invece considerato una declamazione su un retore difensore dei mimi immaginario e anonimo ma, al fondo, non diverso da Coricio stesso: μελετῶμεν ἡμᾶς αὐτούς, potremmo dire. Di conseguenza il testo – anche in alcune sue incongruenze – si rivela preziosa testimonianza di un equilibrio non totalmente facile e stabile, di un tentativo di conciliare severità morale e laico divertimento che, tra le pressioni degli ambienti ecclesiastici più rigidi e provvedimenti imperiali oscillanti fra tolleranza e repressione, non sempre era egualmente praticabile: riprenderò il problema, che si ripresenta anche in altre opere coriciane, nella sezione B.4. 3. La cultura e il mestiere di Coricio Nella sua recensione all’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g , di fatto un saggio interpretativo in miniatura su Coricio, Ioannis S y k u t r i s , in qualche modo in controtendenza rispetto agli altri recensori, dopo aver osservato che le orazioni e l’Apo logia mimorum risultano, per il loro contenuto di realtà, più congeniali «(d)em modernen, mehr sachlich-historisch interessierten […] Geschmack», dichiarò che però il vero intenditore apprezzerà l’arte di Coricio soprattutto nelle declamazioni, a patto di saper penetrare nel laboratorio del retore: «einige Kenntnisse von rhetorischer Theorie und von der Arbeitsweise eines Attizisten bilden doch die Voraussetzung zum Verständnis dieser sonst inhaltsleeren Produkte» (8, 1839–1840). Lo studio delle declamazioni fu in realtà, dopo l’uscita dell’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g e per vari decenni a seguire, piuttosto trascurato, per quelle ragioni culturali che – come già S y k u t r i s sapeva e gli altri recensori resero esplicito – portavano piuttosto a incentrare l’interesse sul contenuto storico e storico-artistico delle orazioni (nonché di quella Apologia mimorum che, come si è visto, per certi versi alle orazioni si avvicina): ne riparleremo tra breve. D’altra parte, però, la rassegna condotta nella sezione B.2 ha mostrato come l’esigenza di una adeguata comprensione della cultura letteraria e
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retorica di Coricio sia presto emersa come condizione necessaria anche per utilizzare in modo corretto e non ingenuo le informazioni fattuali presenti nelle orazioni (e nell’Apologia). A questo compito gli studiosi, soprattutto negli ultimi tempi, non si sono sottratti; molto però, come vedremo, resta ancora da fare. 3.a. La cultura letteraria: citazioni, allusioni, reimpieghi, uso delle fonti 387. Frammenti della commedia greca e del mimo nella Sicilia e nella Magna Grecia. Testo e commento di A. O l i v i e r i , Napoli 1930. 388. G . J a c h m a n n , Plautinisches und Attisches, Berlin 1931 (Problemata 3). 389. M . P i n t o C o l o m b o , Il mimo di Sofrone e Senarco, Firenze 1934. 390. Menandri quae supersunt. Ed. A . K o e r t e . Pars prior: Reliquiae in papyris et membranis vetustissimis servatae, Lipsiae 19383. Editio stereotypa correctior tertiae editionis. Addenda adiecit A . T h i e r f e l d e r , Lipsiae 1957; Pars altera: Reliquiae apud veteres scriptores servatae. Opus postumum retractavit, addenda ad utramque partem adiecit A . T h i e r f e l d e r . Editio altera aucta et correcta, Lipsiae 1959. 391. A . K ö r t e , Art. Philemon (7), RE XIX (1938), 2137–2145. 392. E . W ü s t , Art. Philistion (3), RE XIX (1938), 2401–2405. 393. E . P e r n i c e , Die literarischen Zeugnisse [= A . R e h m – E . P e r n i c e , Der griechisch-italische Kreis, Zweiter Abschnitt], in: W. O t t o (Hrsg.), Handbuch der Archäologie I (= Handbuch der Altertumswissenschaft VI 1), München 1939, 239–378. 394. W. E. J. K u i p e r , The Greek Aulularia, Leiden 1940. 395. Th. N i s s e n , Die byzantinischen Anacreonteen, SBAW 1940, Heft 3. 396. A . K ö r t e , Habrotonon und das Freundespaar in den Epitrepontes, Hermes 79, 1944, 207–214. 397a. B . S n e l l , Pindars Hymnos auf Zeus, Antike und Abendland 2, 1946, 180–192; b. Pindars Hymnos auf Zeus, in: I d . , Die Entdeckung des Geistes: Studien zur Entstehung des europäischen Denkens bei den Griechen. 2. erw. Aufl., Hamburg 1948, 87–104; c. Pindars Hymnos auf Zeus, in: I d . , Die Entdeckung des Geistes: Studien zur Entstehung des europäischen Denkens bei den Griechen. 3. Aufl., neu durchges. und abermals erw., Hamburg 1955, 118–137; d. Pindars Hymnos auf Zeus, in: I d . , Die Entdeckung des Geistes: Studien zur Entstehung des europäischen Denkens bei den Griechen. 4., neubearb. Aufl., Göttingen 1975, 82–94. 398. T. B. L. W e b s t e r , Studies in Menander, Manchester 1950 (19602). 399a. H. F r ä n k e l , Dichtung und Philosophie des frühen Griechentums, New York 1951; b. Dichtung und Philosophie des frühen Griechentums, München 1962, 1969³, 1993. 400. J. I r i g o i n , Histoire du texte de Pindare, Paris 1952 (Études et Commentaires XIII).
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Gli studi successivi hanno quindi variamente corretto e arricchito il quadro sintetizzato da F o e r s t e r e R i c h t s t e i g . Uno studio più approfondito dei testi coriciani, agevolato negli ultimi anni da strumenti come il Thesaurus Linguae Graecae, ha consentito, innanzitutto, di individuare ulteriori citazioni e riprese o di correggere quelle già note, e alcuni risultati di questo lavoro si trovano nelle nuove edizioni e commenti nonché in studi dedicati a singole opere del retore (si vedano soprattutto F e r a b o l i [132], S t e f a n i s [38], G r e c o [61], L u p i [62]; da ultimo P e n e l l a [522]). D’altra parte, non sono mancati nuovi saggi specificamente dedicati all’uso di alcuni autori da parte di Coricio. Passerò in rassegna i principali contributi procedendo per generi ed autori, ma preliminarmente segnalo come alcuni studi abbiano anche affrontato in maniera più organica dei problemi di portata generale. La questione dei tramiti e dei modi delle citazioni e dei reimpieghi, e quindi della conoscenza diretta o indiretta dei testi antichi da parte di Coricio (che non sfuggì, come si è accennato, all’acume di M a a s [3, 40] e viene quindi ad es. giustamente sollevata da S c h n e i d e r [46, 315] nel recensire l’edizione dell’Apologia mimorum di S t e f a n i s [38], non sempre attenta a questo aspetto), viene così trattata da P u p p i n i ( 473), in riferimento soprattutto ma non solo a Menandro, e ora da P e n e l l a (522); mentre a proposito delle tecniche con cui i passi degli autori classici vengono riscritti, adattati, talora fusi insieme meritano speciale menzione le riflessioni di To s i ( 441) sulle differenti riprese tucididee, le osservazioni di P i z z o n e ( 141) su una certa ammiccante condivisione dei riferimenti culturali con il pubblico e sulla contaminazione dei modelli (aspetto, quest’ultimo, cui dedica osservazioni anche L u p i [62, 150–152] e su cui torneremo), lo studio di Te l e s c a (523) sulle parafrasi poetiche (particolarmente attenta alle modalità delle citazioni, sulla scia della scuola di D ’ I p p o l i t o , è poi la tesi di dottorato di C u f f a r i citata supra, n.5). Per il dibattito sulle modalità con cui questa ricca cultura classica viene resa compatibile con la religione cristiana si veda più avanti la sezione B.4. Non bisogna poi naturalmente dimenticare che citazioni e reimpieghi in Coricio sono stati variamente presi in considerazione nelle edizioni, nei commenti, negli studi sulla storia del testo degli autori oggetto delle riprese coriciane. Sarebbe impossibile, e anche in fondo poco utile, rendere conto di tutto, né avrebbe senso riportare nell’elenco bibliografico numerato ogni singola edizione o commento di autore antico in cui una testimonianza coriciana per questo o quel passo sia occasionalmente citata senza specifica discussione. Ho quindi inserito nella lista che precede, oltre ai contributi espressamente dedicati alla cultura letteraria di Coricio, alcune edizioni e studi in cui passi coriciani risultino essenziali per la costituzione del testo o l’argomentazione e vengano quindi più minutamente riportati e discussi (è il caso ad es. di TrGF e PCG, o di varie edizioni menandree); in quel che segue mi riservo però più liberamente di citare, quando occorra, anche altri testi (specialmente edizioni e commenti) in cui si abbia una menzione di Coricio in qualche modo utile a formarsi un’idea di come i risultati degli studi sulla cultura letteraria di Coricio culminati nell’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g siano stati recepiti (o, eventualmente ignorati) e ulteriormente sviluppati, nonché a porre alcuni problemi di metodo che mi paiono importanti per la ricerca futura.
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(i.α) I poeti «Ganz in der alten Weise gehört zu der Rhetorik die Poesie»: è il memorabile giudizio che, a proposito di Gaza, espresse W i l a m o w i t z (Die griechische Literatur des Altertums, in: Die griechische und lateinische Literatur und Sprache = Die Kultur der Gegenwart I.VIII, Berlin – Leipzig 19072 , 3–238: 217). Accanto ai prosatori, anche i poeti erano in effetti oggetto di studio nella scuola gazea, soprattutto presso i grammatici (si vedano le precisazioni di P e n e l l a [493, 144–145] e Te l e s c a [518, 259–261]), e d’altra parte la poesia aveva un ruolo anche nelle feste e nelle pubbliche esibizioni, come mostrano Giovanni e la produzione anacreontica (si vedano tra l’altro N i s s e n [395, 13–18] e C i c c o l e l l a [242, 120–126]); di conseguenza poesia e prosa, a Gaza, hanno elementi in comune e si influenzano a vicenda (in tal senso da ultimo gli studi di L a u r i t z e n [520] e H a d j i t t o f f i [385]). Alcuni poeti erano, in particolare, sottoposti nella scuola a commento e parafrasi (si veda ora lo studio di Te l e s c a [523]), ma non sempre, e non per tutti, si deve necessariamente postulare, da parte di Coricio, lettura diretta e approfondita (rispetto al prudente quadro di R i c h t s t e i g [1, XXXIII] troppo generica ed ottimistica, ad esempio, è la lista di B a l á s z [189, 33]). (i.α.1) L’epica arcaica Pervasivo è, in Coricio, il ricorso ad Omero, variamente citato, parafrasato, commentato, ed anche usato, come mostrano le theoriai, quale modello per l’elaborazione retorica (si vedano tra l’altro C i c c o l e l l a [242, 124] e H a d j i t t o f i [385]). Nelle opere coriciane emerge in effetti spesso una propensione al commento dei passi omerici citati che evidentemente risente della prassi scolastica e rivela una conoscenza approfondita, specialmente di alcuni libri dell’Iliade. In particolare, una tendenza alla parafrasi che può risentire del magistero di Procopio è stata indagata da Te l e s c a (523); per alcuni adattamenti di Il. I 249 ved. supra, A.6 (a proposito di XI 3, p.151,17). Le riprese più letterali dall’Iliade sono state debitamente segnalate nel preapparato dell’edizione teubneriana di Martin L. W e s t (I, Stutgardiae et Lipsiae 1998; II, Monachii et Lipsiae 2000). Su Omero come fonte degli argomenti di alcune declamazioni ved. infra, B.3.a.ii. Senz’altro più ridotta la presenza di Esiodo. Dei loci indicati da F o e r s t e r e R i c h t s t e i g , solo le precise citazioni testuali sono naturalmente recepite nelle più recenti edizioni, in particolare in quelle, molto attente alla tradizione indiretta, di Martin L. W e s t (Theogony, Oxford 1966; Works and days, Oxford 1978), che registrano le riprese coriciane (XI 4 e XIII 10) di Th. 3 e 85; questi due passi erano peraltro già citati, rispettivamente, da Libanio ed Elio Aristide. Anche la riflessione sull’apparentemente contraddittoria compresenza in Esiodo di immediata iniziazione divina ed esaltazione dello studio faticoso, svolta in op.XVIII al fine di esortare gli allievi all’impegno, rientra in una tradizione scolastica, come notato da B a r i g a z z i (447, 4, su segnalazione di Augusto G u i d a ) e C o r c e l l a (494, 26).
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(i.α.2) I poeti lirici Che «a parte Pindaro […] i lirici siano pressoché assenti dal corpus coriciano» è stato recentemente affermato da P i z z o n e (141, 332). Vi sono, tuttavia, alcuni casi particolarmente significativi, che meritano una più attenta rassegna. La menzione di Archiloco in XXXII 38 (p.353,6–9 = test. 48 L a s s e r r e , 33 T a r d i t i ) è certo solo un «richiamo stereotipato all’αἰσχρολογία archilochea», come vuole P i z z o n e ( 141, 332). Pure, è notevole che, assieme a miti attestati in Omero e nella tragedia, la poesia di Archiloco compaia in un elenco di testi che i giovani imparano a recitare: S t e f a n i s (38, 158) vi vede un riferimento alle letture nella scuola, credo rettamente (anche se il suo recensore S c h n e i d e r [45, 315] invita a considerare la possibilità di una mera reminiscenza letteraria, confrontando Plutarco, Per. 2). L’unica accertata citazione coriciana da Saffo, esplicita, si trova, non a caso, nell’epitalamio per l’allievo Zaccaria (V 19, pp.86,22–87,3): ἐγὼ οὖν τὴν νύμφην … Σαπφικῇ μελῳδίᾳ κοσμήσω· σοὶ χάριεν μὲν εἶδος καὶ ὄμματα μελιχρά, ἔρως δὲ καλῷ περικέχυται προσώπῳ καὶ σὲ τετίμηκεν ἐξόχως ἡ Ἀφροδίτη. Coricio offre una parafrasi da cui – come primo riconobbe Henri W e i l – si possono ricostruire tre versi, per due dei quali egli è unico testimone mentre l’altro è tramandato anche da Efestione, che preserva, nello stesso passo ma separatamente, anche altri due versi che i più recenti editori attribuiscono al medesimo frammento (112 L o b e l - P a g e , V o i g t , C a m p b e l l = 128 D i e h l , 108 R e i n a c h - P u e c h , 92 G a l l a v o t t i ): il testo di V o i g t , con Coricio testimone per i vv.3–5 ed Efestione per i vv.1–2 e 4, è Ὄλβιε γάμβρε, σοὶ μὲν δὴ γάμος ὠς ἄραο / ἐκτετέλεστ᾽, ἔχῃς δὲ πάρθενον, ἂν ἄραο. / σοὶ χάριεν μὲν εἶδος, ὄππατα / μέλλιχ᾽, ἔρος δ᾽ ἐπ᾽ ἰμέρτῳ κέχυται προσώπῳ / τετίμακ᾽ ἔξοχά σ᾽ Ἀφροδίτα. Rispetto a questa ricostruzione dei vv.3–5, fondamentalmente basata sui risultati di W e i l , si segnala come sia stata inoltre sondata la possibilità di trarre dal testo coriciano anche ulteriori o differenti elementi, vale a dire κὤππατα invece che ὄππατα al v.3 (D i B e n e d e t t o [442, 12 n.2; 451, 7 e 205]) e καί σε all’inizio della lacuna al v.5, con ἔξοχον subito dopo (L o b e l , seguito tra gli altri dallo stesso D i B e n e d e t t o [451, 7 e 205]). Più in generale, da quando si è affermata l’idea che i cinque versi siano non solo appartenenti al medesimo componimento ma anche contigui, si è posta la questione dei destinatari degli elogi: dato che i vv.1–2 sono espressamente dedicati allo sposo, C. M. B o w r a pensava che ancora σοὶ χάριεν μὲν εἶδος facesse riferimento allo sposo e solo con ὄππατα cominciassero le lodi della sposa, la cui menzione poteva essere integrata ponendo nella lacuna alla fine del verso qualcosa come ἐστὶ νύμφας (Mnemosyne S.III 1, 1933/34, 75–176). B o w r a non prendeva espressamente in considerazione il testo coriciano, ma Hermann F r ä n k e l [399a, 234 = 399b, 195] fece notare come questo induca invece a vedere in tutti i vv.3–5 un unico elogio della sposa e, riprendendo un’idea di W i l a m o w i t z (Textgeschichte der griechischen Lyriker, Berlin 1900, p.73 n.2, dove però non si suppone contiguità dei cinque versi), ipotizzò una distribuzione di battute nell’esecuzione da parte del coro, con i vv.1–2 rivolti allo sposo e i vv.3–5 alla sposa. L’idea ha avuto fortuna, proprio perché salvaguarda la presentazione di Coricio (si veda ad es. N o b i l i [497, 62], con l’articolata discussione di To g n a z z i [513,
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73–75]), ma in alternativa si potrebbe naturalmente pensare che il retore abbia riadattato o mal compreso il testo originario: così M a g n e l l i (468, spec. 43), che, dopo aver individuato un’eco del componimento di Saffo in Catalepton 12 e aver indicato come almeno possibile la tesi di B o w r a , suggerisce che Coricio abbia volontariamente adattato alla sola sposa elogi rivolti anche allo sposo, giudicando invece meno probabile l’idea di un fraintendimento. Nondimeno, Coricio dipendeva da una tradizione che consigliava adeguate citazioni da Saffo in contesti nuziali (così P i z z o n e [141, 330–332], ma ved. infra), sicché anche l’ipotesi di una sua conoscenza solo indiretta e parziale del testo dell’epitalamio sarebbe possibile. È bene però rammentare che, anche ammettendo l’appartenenza dei vv.1–2 e 3–5 allo stesso testo, la loro contiguità rimane una mera ipotesi, cui alcuni recenti editori hanno rinunciato (ad es. C a m p b e l l ; ved. in proposito la discussione di F i o r i n i [431] e cfr. D. E. G e r b e r , Lustrum 35, 1993, 138, nonché, in generale, S. N i c o s i a , Tradizione testuale diretta e indiretta dei poeti di Lesbo, Roma 1976, 267 e n.14): sarebbe quindi arrischiato, sulla base di essa, trarre conclusioni troppo nette sui modi della conoscenza di Saffo da parte di Coricio. D’altra parte, quanto si legge nell’epitalamio per Zaccaria al successivo par.20 (ἀλλ᾽ ἐπεὶ οὔπω τῆς Σαπφοῦς ἠκροάσω κιθάρας, κτλ.) potrebbe alludere a una consolidata presenza della poetessa nel curriculum scolastico gazeo (a un livello più avanzato di quello cui è giunto l’allievo, fermo a Omero: così ora Te l e s c a [518, 259–261; 523], a modifica del giudizio di P i z z o n e [141, 332] che vede invece nella stessa affermazione l’assenza di una vera conoscenza di Saffo nel «pubblico cristiano di Gaza»; credo abbia fatto bene F o e r s t e r a non ricordare nemmeno in apparato l’emendazione in οὕτω, che farebbe perdere un elemento importante, pro posta da R . R e i t z e n s t e i n , Hermes 35, 1900, 95 n.1). Non appare di conseguenza del tutto infondata la tendenza a menzionare la testimonianza coriciana, già valorizzata da W i l a m o w i t z e ricordata da M. T r e u (RE IA [1920], col.2368), come attestazione della sopravvivenza di Saffo in età tardoantica (del resto avvalorata anche dalla pergamena berlinese 9722, del VI o VII secolo): si vedano M o r a v c s i k (413, 474 = 408), C a n f o r a (462, 134–137), L i b e r m a n (501, 60); di Coricio non si occupa F. P o n t a n i , Le cadavre adoré: Sappho à Byzance?, Byz 71, 2001, 233–250. Anche per Solone nel corpus si è individuata un’unica citazione, esplicita, per la quale Coricio è il solo testimone: il passo di II or.2, 6 (p.29,12–13) corrisponde ora al fr.43 W e s t e al fr.37 G e n t i l i - P r a t o . La citazione, consistente nella definizione della terra come λιπαρὴ κουροτρόφος, si colloca nell’ambito della canonica lode della città e anche se ne mancano altre attestazioni deriverà da repertori di scuola ad uso degli autori di encomi (cfr. Menandro I 344,15–346,25 Spengel, dove compaiono anche i precetti per lodare la terra λιπαρά). Più ampia, come si è accennato, la presenza di Pindaro, varie volte da Coricio espressamente citato. «Von Pindar kennt Chorikios nur die Olympischen Epinikien», notò M a a s [3, 40], partendo dalle indicazioni raccolte nell’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g . Queste indicazioni sono, in verità, talora troppo larghe e talora imprecise, ed è opportuno confrontarle con l’indice dei testimonia dell’edizione di S n e l l e M a e h l e r (Lipsiae, 19898, 209), ma che Coricio conosca pressoché solo gli epinici è vero, come ribadito ad es. da C a n f o r a (462, 132), ed autentiche citazioni si hanno in
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effetti solo dalle Olimpiche ( I r i g o i n [400, 95–96 e 100] mi pare dar troppo peso a un mero calcolo quantitativo). Per quanto riguarda i possibili riferimenti ad opere di Pindaro diverse dagli epinici, se davvero la γλυκεῖα ἐλπίς di VII 3 (p.100,12–13) allude al fr.214 S n e l l - M a e h l e r (256 Tu r y n ) fonte diretta per Coricio sarà comunque, come già R i c h t s t e i g sapeva, Platone, Resp. 331a. Più rilevante e complesso il caso di XIII 1–2 (p.175,6ss.), dove si ha un ampio ed esplicito riferimento a un testo pindarico che sulla base di quanto si leggeva nel catalogo di I r i a r t e già S c h n e i d e r e H e y n e identificarono con quello parafrasato anche da Elio Aristide II 420 Lenz-Behr e B o e c k h riconobbe quindi corrispondere a una sezione del primo inno (fr.31 S n e l l - M a e h l e r [20 Tu r y n ] ). Il testo di Coricio contiene dettagli in più rispetto ad Aristide, ma W i l a m o w i t z osservò: «Chorikios […] paraphrasiert geschickt, wohl mit Benutzung guter Scholien, ohne daß er mehr über Pindar gibt, als man bei genauer Überlegung erschließt» (Die Ilias und Homer, Berlin 1916, 468 n.2; l’idea è ripresa in Pindaros, Berlin 1922, 189 n.3). Di conseguenza Bruno S n e l l , nel celebre articolo sull’inno pubblicato nel 1946 e poi ristampato nella seconda e terza edizione di Die Entdeckung des Geistes (397a, 185 = 397b, 93 = 397c, 125), si limitava a un cursorio rinvio a Coricio in appendice alla menzione di Aristide; che Coricio autonomamente riprenda Pindaro, fornendo autentici dettagli dell’originale, fu però argomentato da P i c h t (410, 623 n.2 = 151 n.5), il che portò S n e l l a un finale ripensamento nell’edizione del 1975 di Die Entdeckung des Geistes (397d, 87 e 303 n.10), e se davvero τεθηπότες τὴν ἀγλαΐαν fosse ripresa testuale dell’inno, come suggerì W. H e a d l a m in un contributo generalmente ignorato (JPhil 23, 1895, 295), l’indipendenza da Aristide sarebbe certa. In ogni caso, in Coricio è indubbiamente accentuata l’immagine di Zeus come creatore, su cui si sono ben soffermati H a r d i e (475, spec. 23–26 e 32–35) e D ’A l e s s i o (491, spec. 120–121), e per quanto non si possa totalmente scartare la possibilità che sia stato Coricio stesso, o qualche fonte intermedia, ad operare una amplificazione platonizzante o cristiana di un testo di Pindaro conosciuto solo indirettamente (sintomatica in tal senso la presenza di un’espressione quale δημιουργήματα), come e quanto l’originale di per sé si prestasse a una tale rilettura è mostrato da Filone, de plant. Noe 127–129 (ulteriore testimone, fondamentale ancorché non esplicito, messo in luce da H a r d i e e pienamente valorizzato da D ’A l e s s i o ) e le consonanze del brano, in particolare nella versione coriciana, con l’esordio della Genesi sono ora sottolineate da M ü l l e r (469; le differenze tra la visione biblica e quella di Pindaro sono però opportunamente notate, sulla scia di Walter Friedrich O t t o , da P. P u c c i , The Song of the Sirens. Essays on Homer, Lanham 1998, 31–34). Come che sia, è probabilmente anche sulla base di questa possibile conoscenza del primo inno da parte di Coricio che S n e l l , in una aggiunta al saggio sull’inno introdotta nella terza edizione [1955] di Die Entdeckung des Geistes (397c, 120 n.1 = 397d, 303 n.3) e, seguito da M a e h l e r , nel già citato indice pindarico, individuava un altro frammento attribuito al medesimo componimento (30 S n e l l - M a e h l e r ; 19 Tu r y n ) come testo di riferimento per il πείθομαι νῦν τὰς Μούσας τὸν ὑμέναιον ᾄδειν di Coricio VI 46 (p.97,21), cui segue un richiamo ad Armonia: pur senza entrare nel complesso problema ricostruttivo (su cui rimando al citato studio di D ’A l e s s i o [491], con la discussione di A. N e u m a n n - H a r t m a n n
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in Lustrum 52, 2010, 367–368), una allusione al celebre inno, forse posto all’inizio delle edizioni pindariche, sarebbe almeno altrettanto se non più verosimile del rinvio che F o e r s t e r fa invece a Pyth. III 89ss. (cfr. sempre D ’A l e s s i o [491, 122–123] per l’analogo problema posto da Antipatro di Sidone, AP VII 34); ma dato che un esplicito richiamo a Pindaro qui manca e che il canto delle Muse per le nozze di Cadmo e Armonia era variamente attestato almeno a partire da Teognide resta il dubbio che si tratti piuttosto di un riferimento del tutto generico al mito. All’Inno a Pan (frr.95–100 S n e l l - M a e h l e r = 110–115 Tu r y n ) allude invece certamente Coricio in XXIX 48 (p.327,9–12) = T XIII L e h n u s : l’analisi di L e h n u s (436, spec. 58, 64–66, 179) conferma peraltro come Coricio riecheggi una tradizione «di scuola» che passa per Aristide e Libanio, sicché una diretta conoscenza dell’originario testo pindarico rimane in questo caso assai incerta. Di chiara ascendenza scolastica sono del resto gli aneddoti sulla biografia di Pindaro qua e là citati: che quello riportato in I or.1,77 (p.22,2–6) si legga anche in Plutarco, mor. 536BC, come già sapeva B o e c k h ma F o e r s t e r e R i c h t s t e i g mancarono di annotare, è stato ram mentato da C o r c e l l a (116, 456 n.22). La menzione di Simonide in XXV 2 (p.282,7–13) deriva, come già era chiaro a B o i s s o n a d e , da Platone, Resp. 331d-e; A m a t o (375) ha ora osservato come anche il βιάζεσθαι τὴν ἀλήθειαν di XXXII th.1 (p.344,7) sia una ripresa da Simonide (PMG 598), anche in questo caso «par l’intermédiaire de Platon» nello stesso passo della Repubblica, da Coricio specialmente amato (ved. infra su Platone). Si può infine ricordare come D i M a r c o (467) abbia attratto l’attenzione sull’aneddoto relativo a Terpandro che selezionava il suo pubblico in IX 2–3, p.129,11ss. e sull’ulteriore riferimento alla sensibilità ritmica del citarodo in VIII 8, p.112,16–17, testimonianze della cultura di un «profondo conoscitore della letteratura del passato» che «ama impreziosire i suoi discorsi di citazioni letterarie e di al lusioni dotte». Il parallelismo tra musicisti e retori aveva comunque una lunga storia: si veda ad es. H. V ö l k e r , Himerios. Reden und Fragmente: Einführung, Übersetzung, und Kommentar, Wiesbaden 2003, 54–61. (i.α.3) I poeti scenici Nella prima fascia di apparato dell’edizione F o e r s t e r - R i c h s t e i g i poeti tragici e comici sono ampiamente presenti; a parte casi in cui si rinvia a meri paralleli lingui stici, anche laddove più chiara è, da parte di Coricio, una intenzionale ripresa la citazione è talora introdotta da formule che fanno pensare a una circolazione dei passi in questione come frasi fatte e sentenze di repertorio; si hanno anche chiari esempi di citazioni mediate da altri autori (ad es. in XXXII 49 e 63 e in altri passi discussi infra), e non di rado i brani che Coricio cita o cui allude sono anche ben attestati nella tradizione gnomologica (Stobeo in primis). D’altra parte, però, in alcuni passi sembrano emergere tracce di una conoscenza più precisa di testi teatrali (e addirittura di una consuetudine con rappresentazioni tragiche e comiche: si veda quel che si è detto supra [B.2.c] a proposito della Apologia mimorum).
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In che misura quindi Coricio possa essere usato come testimone per la storia del testo di tragici e comici è, come sempre in casi del genere, questione da valutare con prudenza ma che non pare essere stata affrontata in modo davvero preciso e approfondito. L’eccezione più significativa è costituita dal caso di Menandro, per il quale invece la questione dei modi concreti della ripresa, diretta o indiretta, da parte di Coricio è stata più ampiamente dibattuta, negli studi degli ultimi decenni, a partire da alcuni casi in cui le testimonianze coriciane ponevano dei problemi particolari di ricostruzione a confronto con le altre evidenze. Una analisi completa sarebbe al suo posto in una rassegna menandrea (e almeno per il periodo fino al 1984 non si può che rinviare ai rendiconti di Hans-Joachim M e t t e in questa stessa rivista), ma è opportuno almeno accennare ai problemi principali, integrando e discutendo quanto osservato, tra gli altri, da K ö r t e (390, I, XXIV; 396, spec. 207), C a n t a r e l l a (402, spec. 23 = 399), D a i n (408), D e l C o r n o (411; 446), G a l l a v o t t i (414), più recentemente da P u p p i n i (473). In particolare, il problema posto dalla menzione del Trasonide del Misoumenos come tipico miles gloriosus in XLII th.1, p.509,1–14 (= Mis. F 1 K o e r t e -T h i e r f e l d e r , F 1 S a n d b a c h , T 1 S i s t i , T1 A r n o t t ) venne ottimamente descritto (con rinvio alla analoga posizione di M a s a r a c c h i a [440, 236]) da Giacomo B o n a (444, 376): «Man mano che s’amplia la nostra conoscenza della figura di Trasonide – e i versi iniziali della commedia vi contribuiscono in misura notevole – diventa sempre più difficile mettere d’accordo questa sua immagine con quanto ci dice di lui Coricio»; donde il prudente invito a «riconsiderare meglio, alla luce dei nuovi testi, la validità e i limiti della testimonianza tardo-antica sulla commedia di Menandro». In effetti, fin da quando Eric Tu r n e r pubblicò per la prima volta POxy 2656 (417) divenne chiaro che il Trasonide menandreo era personaggio più sensibile e delicato di quanto Coricio non facesse presumere. Lo stesso Tu r n e r (417, 4) non accentuò, inizialmente, il contrasto, notando anzi che lo σπαθᾶν del fr.14 K o e r t e -T h i e r f e l d e r (10 S a n d b a c h , 9 S i s t i , 10 A r n o t t ) «seems to support» Coricio; né M e t t e notava speciali problemi (Lustrum 10, 1965, 152). B i n g e n , però, subito suggerì che l’affermazione di Coricio potesse fondarsi sull’eco di un modello convenzionale o su un equivoco, e comunque non rendesse ben conto del testo menandreo (419, 396). Di qui il giudizio prudente di G o m m e e S a n d b a c h (429, 438): «Chorikios (frag. 1) suggests that the reason for her [= Krateia’s] hate was his conceit and boastfulness, but these characteristics do not appear in the remain of the play. He could also be understood to mean that Krateia had at one time been favourably disposed towards Thrasonides, but this is not a necessary interpretation of his words» (cfr. però anche il rinvio a Plut., mor. 1095c-d alle pp.443–444). I nuovi papiri (POxy 3368–3371) aggravarono la situazione, e lo stesso Tu r n e r , sulla base dell’οὐδὲ γὰρ σφόδρ᾽ εἶ ἄκρως ἀήδης dei vv.90–91, in netto contrasto con la στρατιωτικὴ … ἀηδία coriciana, concluse: «One wonders whether Choricius has ever read Menander’s words» (438, 19). Che Coricio abbia una conoscenza superficiale del Misoumenos è quindi divenuta idea diffusa, condivisa ad es. da Z a g a g i (461, 31–32), da T r a i l l (506, 26 n.30; inesatta è però l’affermazione che il φησιν di Coricio «suggests an intermediary source»: il verbo non vale qui «they say» ma ha ovviamente per soggetto Menandro), da ul-
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timo da P a p a i o a n n o u (512, 163–165); d’altronde, però, che in parti del Misou menos Trasonide possa aver agito con arroganza era ritenuto possibile ad es. da K r a u s (426, spec. 2–4), B a r i g a z z i (448, 109), A r n o t t (437, II 359 e 361), ora da L a p e (488, 188–191, spec. 189 n.95). Per un bilancio, ved. F e r r a r i (500, XXV–XXX) e B r o w n (485, 11–12): resta in ogni caso vero che, rispetto allo «smantellamento del ‹tipo›» operato da Menandro (così S i s t i [432, 487; 449, 9–10]), la valutazione di Coricio è perlomeno banalizzante; ma ad una certa prudenza, in assenza di una conoscenza completa della commedia, invita P u p p i n i (473, 122–123) e giustamente I r e l a n d (458, 126) conclude: «How accurate the observation [scil. di Coricio] is we cannot say, except that the extant text provides little evidence for it». Un altro passo relativo a Menandro molto indagato dagli studiosi (a partire da G r a u x , che ampiamente lo commentò in un articolo del 1877 poi riprodotto in Oeuvres de Charles Graux, II, Paris 1886, 91–95) è XXXII 73, pp.360,20–361,2: ἢ καὶ τῶν Μενάνδρῳ πεποιημένων προσώπων Μοσχίων μὲν ἡμᾶς παρεσκεύασε παρθένους βιάζεσθαι, Χαιρέστρατος δὲ ψαλτρίας ἐρᾶν, Κνήμων δὲ δυσκόλους ἐποίησεν εἶναι, Σμικρίνης δὲ φιλαργύρους ὁ δεδιώς, μή τι τῶν ἔνδον ὁ καπνὸς οἴχοιτο φέρων;. Anche in questo caso posso solo selettivamente rendere conto del problema, che in sostanza consiste nella domanda se Coricio stia facendo riferimento a commedie precise, da lui ben conosciute, e a quali. D a i n (408, 298–299) osservò che nel passo sembra si parli di trame di commedie, anzi addirittura di vere e proprie rappresentazioni, e l’idea che esso contenga allusioni a commedie precise è ampiamente accettata. In particolare sembra essersi affermata l’idea che Cherestrato sia il personaggio degli Epitrepontes e Cnemone quello del Dyskolos, e che in Moschione si possa con buona probabilità vedere il personaggio della Samia e in Smicrine quello dell’Aspis: così ad es. W i l s o n (85, 31) e K a s s e l e A u s t i n (PCG [445] VI 2, p.38, T 141). In realtà, Menandro usa spesso gli stessi nomi in diverse opere, e ciò ha dato adito a divergenze (che Smicrine sia il personaggio dell’Aspis fu così già accennato da K o c k , contro R i b b e c k che aveva pensato agli Epitrepontes, ma ancora in dubbio si mostra ad es. I r m s c h e r [415, 209]; un quadro di come Coricio venne usato per ricostruire il Dyskolos, tra R ibbeck, G e f f c k e n e P r e s s l e r , si legge in Ł a n o w s k i [406]). Come criterio per più precise identificazioni è stata in genere posta la precisa rispondenza del personaggio, nella misura in cui dai frammenti è noto, alla tipizzazione presentata da Coricio e l’importanza rivestita nella trama della commedia (così, per il Cherestrato degli Epi trepontes, S i s t i [459, 730; 455, 11 e test.4] e ora B l a n c h a r d [514, 52 e n.1], ma per i problemi implicati si vedano, tra l’altro, K ö r t e [396]; G o m m e – S a n d b a c h [429, 295–296]; A r n o t t [483, 41–42; 484, 274–275]); soprattutto, però, in casi più dubbi, dirimente diviene quel che sulla base dei ritrovamenti papiracei e di altre testimonianze letterarie sappiamo sulla circolazione di una selezione di commedie menandree all’epoca di Coricio, come ben misero in luce, tra gli altri, K ö r t e (396, 207) e D e l C o r n o (411, 134 e n.11 = 202–203 e n.11; cfr. 446) e quindi hanno variamente osservato alcuni recenti editori (si vedano in particolare J a c q u e s [470, XLIX–L] e B l a n c h a r d [507, LXXXII n.2 e XC n.2]) e da ultimo, sinteticamente, N e r v e g n a (517, 221): «Choricius is drawing his examples from the comedies that his audiences and readers were more likely to know: Samia, Epitrepontes, Dyskolos
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and Aspis». Un problema particolare è peraltro posto dalla menzione dell’avaro Smicrine «che ha paura che il fumo scappi portandosi via qualcosa da casa», frase in cui già U s s i n g (Plauti Comoediae, II, Hauniae 1878, 587–588) vide un parallelo con Plauto, Aul. 300–301, fornendo così un elemento concreto a favore dell’idea di un originale menandreo per l’Aulularia, dal quale Coricio riprenderebbe esattamente dei versi. La questione, complicata dalle evidenti somiglianze tra Aulularia e Dyskolos, non può essere affrontata in questa sede nel dettaglio, e mi limito a rinviare, per gli studi più antichi, a M e t t e , Lustrum 10, 1965, pp.16–17 e a G o m m e - S a n d b a c h (429, 4 n.1), nonché a segnalare come oltre ai già menzionati Epitrepontes e Aspis per il modello greco dell’Aulularia siano state formulate le più varie proposte: a un ignoto Philargyros menandreo, proprio sulla base del passo coriciano, pensava L u d w i g (407), ma sono stati chiamati in causa anche il Thesauros e la Hydria, e W e b s t e r (398, 120–127; 433, 119–122) e G a i s e r (420) hanno pensato all’Apistos (ved. anche PCG [445] VI 2, 74 e J a c q u e s [470], XLIX n.128). Molti studiosi hanno però d’altra parte insistito sulle differenze, di cui già lo stesso U s s i n g era del resto ben consapevole, tra il passo menandreo citato da Coricio e il passo plautino (ad es. K u i p e r [394, 8–10] e G a i s e r [424, 11]), fino a rinunciare ad usare il testo coriciano come prova di un modello menandreo dell’Aulularia, e A r n o t t (452, spec. 181–182) pensa ora piuttosto al Lebes di Alessi. Nonostante le obiezioni di B a i n (457), la differenza fra la testimonianza coriciana e il passo plautino è in effetti rilevante e viene sottolineata, ad esempio, da L e f è v r e (479, 11–12, spec. 11 n.6, e passim, con la grafia «Choirikios»!), cui si deve un’informatissima sintesi del dibattito, con una giusta insistenza sulla difficoltà di individuare un originale a causa della rielaborazione plautina (ancora valide in tal senso le cautele metodologiche espresse da H u n t e r [439, spec. 44–45 = 622–623 sul passo coriciano]). Tra i saggi che, nel trattare del modello dell’Aulularia, riservano la debita attenzione a Coricio meritano speciale ricordo quelli di J a c h m a n n [388, 128–141] e K u i p e r [394], ma rinuncio a fornire un completo quadro bibliografico sulla questione, che può trovar posto solo in rendiconti su Menandro (e su Plauto); se ho indugiato sull’incertezza delle identificazioni è perché tale circostanza ha contribuito a favorire l’idea alternativa che – come forse per il Trasonide del Misoumenos – Coricio abbia presenti non specifiche commedie bensì situazioni convenzionali e personaggi fissi ricorrenti in più opere: la presenza in Menandro di «maschere» con nomi tipici (per cui si veda già C. R o b e r t , Die Masken der neueren attischen Komoedie, Halle 1911, spec. 65 n.5) è stata particolarmente studiata, con speciale riferimento al passo coriciano, da W. T. M a c C a r y (soprattutto 422; ved. M e t t e , Lustrum 16, 1971–72, 55–58, ma anche, sui nomi, 25–26 e 10, 1965, 22–23); una posizione più sfumata in B r o w n (450), e discussione in W i l e s (456, spec. 92–94). Proprio la menzione della frase sul fumo, che al di là del parallelo plautino ha tutta l’aria di essere una specifica battuta di Smicrine, non sembra in realtà favorire una tale prospettiva e farebbe piuttosto propendere, come nota tra gli altri S t e f a n i s (38, 166–168), per l’idea che Coricio conosca più esattamente alcune singole commedie, e anche alcune scene e versi; non si può però del tutto escludere la possibilità che il retore abbia invece nozione di alcuni ruoli fissi nella commedia menandrea e ne rimpolpi la menzione sfoggiando la reminiscenza scolastica di una celebre battuta sull’avaro e il fumo.
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Buoni bilanci della questione in P u p p i n i (473, spec. 120–122) e soprattutto in F e r r a r i (500, XVII–XLIV, spec. XXI e n.3). Per certi versi simile il caso di XXIX 28–32, pp.322,14–323,13, dove Coricio cita una pantomima in cui Fedra è accompagnata dalla nutrice e da Ippolito (su cui si veda C i c c o l e l l a [499, 193–194]), una tragedia con Elettra affiancata da Oreste e da Pilade (presumibilmente il popolare Oreste euripideo: così Te d e s c h i [373, 112 e n.94]), quindi una commedia in cui un attore interpreta Plangone accanto a Mirrine e a Davo. Anche questi ultimi sono nomi tipici della commedia nuova e l’argomentazione cui Coricio fa ricorso ha ascendenza retorica, come mostrano alcuni paralleli in Libanio già ben individuati da F o e r s t e r ; lo stesso F o e r s t e r , nell’editio princeps (JDAI 9, 1894, 180), indicava del resto vari possibili modelli comici, tra cui la Plangon di Eubulo. Che proprio a quest’ultima commedia Coricio stia alludendo è stato ancora sostenuto da S c h o u l e r (359, 282 e 291 n.61), ma come tutti e tre i nomi esattamente ricorressero nello Heros di Menandro fu osservato già da W a r n e c k e (Vizantijskoe Obozrenie 3, 1917, 53–56) e poi da C o r s o (44, 75–80, spec. 78); il dato è invece sfuggito a K e n n e d y , per cui «Daos (Davus) is the name of a slave in several plays by Menander; he and Myrrhine appear together in Georgos, and probably Plangon, Myrrhine, and Daos all three appeared in one or more plays now lost» (53, 164 n.21), e con punto interrogativo indica il riferimento allo Heros Te d e s c h i (373, 112 n.94): va in effetti detto che Plangone non è nell’Heros personaggio in scena, sicché il passo di Coricio non è ora ricordato nella recente edizione di B l a n c h a r d (516). La diffusione tardoantica dello Heros è peraltro ben attestata dal celebre Cairense 43227; si noti, tuttavia, che Coricio usa l’indefinito (Μυρρίνην τινὰ καὶ Δᾶον), sicché non può del tutto escludersi che stia genericamente alludendo a scene tipiche della commedia attraverso l’evocazione di nomi caratteristici. Per il richiamo a messe in scena di tragedia e commedia a fianco di rappresentazioni pantomimiche ved. anche quel che si è detto supra (B.2.c) a proposito della Apologia mimorum. Più complesso, e discusso, il caso di XXXII 112, p.370,9–10, dove l’affermazione sull’origine delle malattie dal dolore κατὰ τὴν τραγῳδίαν, nonostante il riferimento alla tragedia, sembrerebbe riprodurre ad Aspis 336–338, come nota tra gli altri S t e f a n i s (38, 180), che ragionevolmente pensa a una confusione da parte di Coricio ma accenna anche alla possibilità di una parodia tragica in Menandro (cfr. anche ad es. J a c q u e s [470, 24]). S i d e r a s (39, 189–190; 474, 418–422) ha però cercato di difendere l’idea che si abbia qui invece davvero un frammento tragico, confrontando una citazione euripidea in un’anonima invettiva bizantina contro gli autori di discorsi funebri (11, ll.82–84 nell’edizione successivamente prodotta dallo stesso S i d e r a s : 481, 97); il fatto che questa citazione euripidea corrisponde a Filemone F 106 K a s s e l – A u s t i n è spiegato supponendo una ripresa di Euripide da parte di Filemone. In realtà, a fronte di un contenuto gnomico più ampiamente diffuso (ved. ora la nota di P. I n g r o s s o a Menandro, Lo Scudo, Lecce 2010, pp.326–327) non vi è esatta corrispondenza formale fra il testo di Coricio e quello dell’anonimo, che potrebbe peraltro aver erroneamente attribuito a Euripide un testo di Filemone: così K a n n i c h t (TrGF [427] V 2, 1029, annotazione a F 1128d), che trattando del passo di Coricio (TrGF [427] V 2, 1007) preferisce ricondurlo o al già citato passo menandreo
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oppure eventualmente, sulla scia di N a u c k e F o e r s t e r , al frammento euripideo in Stobeo IV 35,10 (= F 1071); cfr. anche l’edizione di C o l l a r d e C r o p p (504, II 622–623). In favore di una citazione del passo menandreo si schiera P u p p i n i (473, 123–127), che oltre a ricordare l’attestazione dell’Aspis in un papiro del VI secolo (POxy 4094) fa notare come nel brano si abbia l’annuncio della messinscena tragica (τραγῳδῆσαι, v.329) che sarà realizzata nel seguito, e ciò potrebbe forse giustificare l’espressione κατὰ τὴν τραγῳδίαν. Difficilmente, però, a mio avviso, Coricio avrebbe usato questa formula se avesse avuto contezza di star citando dall’Aspis, sicché occorrerebbe comunque postulare una conoscenza solo parziale o confusa del testo menandreo; tutt’al più si potrebbe pensare che già al v.336 Davo cominci a citare versi di tragedia, come poi farà quando realizzerà la messinscena (vv.399ss.), e che quindi si abbia una fonte tragica (simile ma non identica al fr.1071 di Euripide) letteralmente ripresa tanto da Menandro quanto da Coricio. In fin dei conti, l’idea che Coricio conosca i versi attraverso antologie che mettevano insieme testi comici e tragici di simile contenuto resta la più verosimile. Una mediazione di passi menandrei attraverso la tradizione scolastica e gnomologica pare emergere anche nei casi di VIII 50 (p.127,12–14) e XII 41 (p.162,13–14), nonché forse di XXXV 71 (p.410,4), che discuterò più sotto (molto più vago il riscon tro menandreo individuato in VII 2, p.100,7–9 da G r e c o [61, 89–90], che comunque pensa a filtro retorico). In favore di una conoscenza di Menandro e della commedia nuova almeno in parte mediata da repertori di scuola e gnomologi va del resto anche XXXII 145, p.378,1–8, dove sembra inevitabile ravvisare l’attestazione più chiara (come scrisse E . R o h d e , Kleine Schriften, Tübingen – Leipzig 1901, 372 n.1) della confusione tra il comico Filemone e il mimografo Filistione realizzatasi in quella Comparatio Menandri et Philistionis cui l’espressione γνώμας ἐμμέτρους ἀλλήλοις ἀντιτιθέναι evidentemente allude (si vedano in particolare K ö r t e [391, 2144–2145]; W ü s t [392, 2403–2404]; I r m s c h e r [416, spec. 21: che l’assenza di un’esplicita menzione del nome sia un segno dell’incertezza di Coricio sull’esatta identità del personaggio mi pare però improbabile e si tratterà piuttosto del consueto uso della perifrasi]; S t e f a n i s [38, 190–191]; PCG [445] VI2, 38 [T 142]; ipercritico C r i s c u o l o [423, 464–465], il quale considera la possibilità che Coricio alluda non alla comparatio a noi nota ma ad «altre composizioni del genere»). Si noti, però, per converso, la sostanziale assenza di precise coincidenze con le raccolte di monostichi, ché tale non è certo il generico riscontro tra VIII 31, p.121,13 e Mon. 599 J a e k e l e P e r n i g o t t i (= F 354,1 K o e r t e , F 317,1 K a s s e l - A u s t i n ) menzionato da R i c h t s t e i g ma ignorato dagli editori menandrei (su cui cfr. anche G r e c o [61, 182]) né significativo appare il riferimento di F o e r s t e r nella prima fascia di apparato a XXIII 85, p.280,2 (dove l’erroneo «Monost. 199» credo faccia riferimento a Mon. 182 J a e k e l e P e r n i g o t t i = F 19 K o e r t e , F 23 K a s s e l - A u s t i n , già sent. 119 nella numerazione di M e i n e k e , comunque lontano dal testo coriciano). Nel valutare la conoscenza di Menandro da parte di Coricio occorre dunque, in conclusione, prudenza, ché non tutte le menzioni e i riferimenti appaiono univoci e davvero decisivi. Se nel 1965 G a l l a v o t t i chiudeva la sua rassegna con l’afferma-
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zione «da accenni di questo genere non si arguisce la lettura degli originali: bastava allo scopo una raccolta di periochae, o di argumenta» (414, 145–146), negli stessi anni gli studi di D a i n (408) e D e l C o r n o (411), riprendendo la tradizione di W i l a m o w i t z e K ö r t e (396), meritoriamente collegavano la testimonianza di Coricio a quanto per altra via sappiamo sulla sopravvivenza tardoantica di alcune opere menandree; e in effetti una certa fiducia nella possibilità che il retore abbia letto o addirittura visto rappresentare testi menandrei, o che comunque nella cultura sua e del suo pubblico essi fossero almeno genericamente noti, può essere ispirata – come conclusivamente ora nota P u p p i n i (473) – dalla buona diffusione di testi del poeta in età tardoantica, attestata dai papiri: «di nessun altro autore greco abbiamo codici tardoantichi così ampiamente conservati», osserva, con esplicita menzione di Coricio, C a n f o r a (462, 156–158). Si può quindi, in sintesi, sottoscrivere l’equilibrato giudizio complessivo di S i s t i (490, 153): «Ancora Coricio di Gaza e, nel secolo seguente, Teofilatto Simocatta sembrano alludere ad alcune commedie, ma prevale o rmai la tradizione gnomologica, responsabile in parte della scomparsa delle opere intere del poeta» (ma su Teofilatto ved. ora A. B a r b i e r i , La circolazione dei testi menandrei nei «secoli ferrei» di Bisanzio: la testimonianza dell’epistolario di Teofilatto Simocatta, MEG 3, 2003, 43–51). Per gli altri autori scenici non si può dire che il problema dei modi diretti o indiretti delle riprese coriciane sia stato posto con pari precisione. La possibilità che Coricio attesti una più consistente lettura in ambito scolastico delle commedie di Aristofane è stata presa in considerazione, ad esempio, da A l b i n i (366, 121–122 = 193–194 = 9–10), S c h o u l e r (371, 275) e P u p p i n i (473, 113–114); in ogni caso, i testi coriciani sembrano esibire solo citazioni dalle commedie selezionate e trasmesse all’età bizantina (nel suo repertorio della tradizione indiretta aristofanea, peraltro, K a s s e l [430, 84–88 = 244–247] riporta solo i casi di Ran. 1–3 in XXXII 33 p.352,1; Ran. 494ss. in XXXII 77 p.361,15; Ran. 892 e Nub. 792 in XXXIV 5, p.384,3). Più significativo il caso di Euripide, giacché una certa abbondanza di rinvii alle sue tragedie ha fatto talora pensare che, nell’ambiente di Coricio, circolasse ancora un cor pus nel quale, oltre alla scelta canonica, fossero presenti anche altre tragedie: così ad es. T u i l l i e r (428, 115 e 120), che sulla scia di M a l c h i n però riconosce come di vere e proprie citazioni si possa parlare solo per le tragedie della selezione (dato già pienamente valorizzato da W i l a m o w i t z , Einleitung in die attische Tragödie, Berlin 1889, 201 n.164). C a r r a r a (508, 495–575) ha peraltro mostrato come i codici euripidei tra V e VII secolo fondamentalmente attestino la selezione e le Baccanti (e spesso già la triade bizantina), sicché è legittimo il dubbio che, per le altre opere, Coricio esibisca una conoscenza meramente indiretta, come osserva, ad es., P u p p i n i (473, 114–115). Per la Medea, in particolare, si veda C a r r a r a (508, 200 n.2); le riprese dalle Fenicie sono con accuratezza registrate nello studio sulla tradizione del dramma di M a s t r o n a r d e e B r e m e r (443; a p.414 si corregge peraltro un errore di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g nella prima fascia di apparato a XIII 10, p.177,22: il verso euripideo in questione è il 469), quelle dall’Ecuba da M a t t h i e s s e n (510; oltre alla ripresa dei vv.306–307 in XX 40, p.237,19–20, già rilevata da F o e r s t e r e
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R i c h t s t e i g , si segnala οἱ νόμοι διώρισαν di XLII 96, p.537,10 come eco di Hec. 847). Della Fedra e dei suoi temi negli autori gazei ma anche nell’iconografia tratta C i c c o l e l l a (499). In realtà, tanto nel caso di Euripide quanto degli altri scenici, anche per citazioni tratte dai drammi compresi nelle selezioni poi trasmesse all’età bizantina, soprattutto quando esse abbiano carattere gnomico, è perfettamente lecito supporre che Coricio dipenda da repertori e antologie (per non fare che un esempio, i vv.198–201 delle Fenicie, cui si fa riferimento in II or.2,13, p.31,16–17, si leggono anche in Stobeo IV 22,198), ma non sarebbe sensato negare che egli avesse direttamente e se non integralmente almeno per ampie parti letto tali opere a scuola, traendone peraltro elementi per la sua dizione. Più interessante, per ricostruire tanto la cultura del retore quanto la storia del testo degli scenici, è però ripercorrere i casi in cui Coricio è testimone di frammenti di tragedie e commedie non entrate nelle selezioni canoniche e quindi perdute. Le citazioni coriciane di passi da opere non pervenute sono state generalmente tenute in conto e discusse, specialmente in TrGF (427) e in PCG (445) – nonché, per Euripide, nel rendiconto di H. J. M e t t e in Lustrum 23–24, 1981–82 e nelle edizioni di J o u a n – v a n L o o y (471) e C o l l a r d – C r o p p (504). Tuttavia, rispetto a quanto individuato da F o e r s t e r e R i c h t s t e i g non poche sono le divergenze, soprattutto nella valutazione di «citazioni mascherate» (ved. in proposito le osservazioni di P u p p i n i [473, 123]). Fornisco di seguito una lista delle corrispondenze con le più recenti edizioni di frammenti, con qualche occasionale integrazione bibliografica e discutendo partitamente alcuni casi più complessi o comunque rilevanti per ricostruire la cultura letteraria di Coricio e i modi, diretti o indiretti, del suo accesso a tali testi. –– I or.1, 4 (p.3,16–17): sulla base del testo di Coricio (οὐδὲ κατὰ τὸν Εὔπολιν ἐξ ὁδοῦ τινας ἀγείρας εἰς θέατρον, ἀλλὰ τῶν ἀστῶν τὰ πρῶτα συλλέξας) si tende a ritenere che Eupoli avesse scritto qualcosa come ἐξ ὁδοῦ τινας ἀγείρας εἰς θέατρον: questa sequenza è infatti stampata spazieggiata come F 403 in PCG (445) V, 519 (e come frammento è considerata da I. C. S t o r e y , Eupolis. Poet of Old Comedy, Oxford 2003, 31 e Fragments of Old Comedy. II. Diopeithes to Pherecrates, Cambridge MA – London 2011, 260–261); K a s s e l e A u s t i n peraltro osservano che ἐξ ὁδοῦ, talora sospettato, è garantito dal parallelo di F 408, ἄνθρωπος ἐξ ὁδοῦ (PCG [445] V, 519). L’individuazione della sequenza da attribuire ad Eupoli è stata probabilmente condizionata dalla presenza di θέατρον, che è però espressione schiettamente coriciana (e dei gazei tutti) per il luogo e il pubblico delle recitazioni (e ἀγείρειν εἰς θέατρον + accusativo si legge infatti anche in XLI 2 e XLII 4), sicché è verosimile che la citazione da Eupoli si limiti invece al solo ἐξ ὁδοῦ (τινας), con riferimento proprio al frammento 408, che Coricio, alla pari dei moderni, poteva conoscere dalla lessicografia atticistica (Frinico, Praep. soph., epit. p.6,4 = fr.191 de Borries, donde Fozio, Lex. α 1978 Th.); se ciò è vero, F 403 è un «frammento fantasma» e la conoscenza di Eupoli è probabilmente mediata dai lessici (per una compiuta trattazione ved. ora C o r c e l l a [519]). –– II or.2, 63 (p.43,24ss.): è il frammento comico adespoto 47 K a s s e l - A u s t i n (PCG [445] VIII, 17); il passo rivela la conoscenza di tipiche situazioni comiche:
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si vedano le osservazioni di W e b s t e r (401, 127 e 140) sul possibile riferimento alla Nyx di Filemone e sulle personificazioni nei prologhi. III or.3, 1 (p.49,23): che ἀκονήσω τὴν γλῶτταν possa riprendere l’analogo uso meta forico nel frammento tragico adespoto 423, come vuole R i c h t s t e i g , è possibile, anche se il passo coriciano non viene riportato da S n e l l e K a n n i c h t (TrGF [427] II2 , 124). III or.3, 34 (p.58,2–3): in ὁ … θυμὸς … προπηδήσας τοῦ λογισμοῦ C o b e t aveva visto la ripresa di πηδῶν ὁ θυμὸς τῶν φρενῶν ἀνωτέρω, sequenza di tono tragico riportata in Plutarco, mor. 550F (= fr. adesp. 390 N. 2 , con menzione del passo coriciano). S n e l l preferì considerare tale sequenza la mera fusione di F 195 e F 196 e rinunciò a citare Coricio (TrGF [427] II2 , 64–65). Non mi pare invero impossibile che Plutarco citi un autonomo frammento, il cui dettato resta comunque lontano dall’espressione coriciana; questa trova però un buon riscontro in Isidoro di Pelusio, ep. 1473 e non escluderei la ripresa, da parte di entrambi, di dizione tragica. V 17 (p.85,21ss.): la possibilità, suggerita da F o e r s t e r , di identificare il Demofonte, giovane ateniese di buona famiglia dedito al vizio che mette la testa a posto col matrimonio, con il ῥαχιστής della Pamphile di Teopompo comico è ora regi strata non senza scetticismo in PCG [445] VII, 729. Si veda però l’analisi di P i z z o n e (141, 327 n.1), che opportunamente richiama anche il Demofonte amasio di Sofocle sul cui amore per l’etera Niko detta «la capra» si soffermava Macone nelle chreiai (fr.18,422–432 Gow, da Ateneo XIII 582ef) e pur non escludendo una fonte comica osserva che Coricio «poteva conoscerne solo la forma aneddotica ormai ‹sclerotizzata›»: l’uso di una raccolta di aneddoti ad uso dei retori sarebbe in effetti più verosimile della diretta lettura di una commedia (cfr. l’analogo aneddoto su Polemone in VIII 19, dove G r e c o [61, 165] mette in luce il precedente in Luciano). VIII 11 (p.113,7): per τὰς ὀφρῦς ἐπαιρούσης R i c h t s t e i g rinviava al fr.1040,3 N.2 di Euripide (1113a K a n n i c h t = 1 3 0 6 , 3 Mette); il passo di Coricio non è ora menzionato da K a n n i c h t (TrGF [427] V 2, 1023–1024) né da J o u a n – v a n L o o y (471, t.4, 117–118), credo giustamente (l’espressione «alzare le sopracciglia» è corrente). Analogamente al par.12 (p.113,16) il rinvio di R i c h t s t e i g , per il κέντρον erotico, a Eupoli non trova eco in PCG (445) V, 353–355 (testimonia per F 102), né nell’edizione di Te l ò (Eupolidis Demi, Firenze 2007, fr.1); ma l’ampio uso del frammento tra i retori e la continua presenza del modello di Pericle nell’epitafio coriciano rendono probabile l’allusione, mediata dalla cultura scolastica (cfr. anche la nota alla traduzione di C o r c e l l a [58, 515 n.19]). VIII 35 (p.122,20–21): rispetto a un’ampia tradizione gnomica affine, Coricio sta chiaramente citando, con esplicito riferimento alla tragedia e adattamento al ritmo prosastico, Sofocle F 319 R a d t , dallo Ione (TrGF [427] IV2 , 308–309), frammento noto dal florilegio di Orione; cfr. la nota ad loc. di G r e c o (61, 186). VIII 44 (p.125,17–21): accanto alla sicura fonte primaria dell’aneddoto, il celebre passo di Erodoto V 4 sui Trausi (per cui ved. infra), R i c h t s t e i g aggiungeva l’indicazione di una ripresa dal Cresfonte di Euripide (dal fr. 449 N.2 , erroneamente indicato come 452, ampiamente attestato in florilegi e testi retorici); ma nelle recenti
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edizioni euripidee, pur ricche di rinvii ai più vari testimoni, il passo coriciano manca: così in M u s s o (Euripide, Cresfonte, Milano 1974, 15–16 e 38–39 [fr.5]); in TrGF (427) V 1, 486–488 e in M e t t e (Lustrum 23–24, 1981–82, 160–161 [F 615]); in J o u a n – v a n L o o y (445, t.2, 282–283); in C o l l a r d – C r o p p (504, I 506–507). Per quanto la vicinanza fra il testo di Erodoto e quello di Euripide e la possibile dipendenza del secondo dal primo (si veda per tutti V. D i B e n e d e t t o , Euripide: teatro e società, Torino 1971, 131 n.3) rendano difficile una netta decisione, che Coricio abbia parafrasato il brano erodoteo avendo in mente i versi euripidei pare verosimile per la stretta somiglianza del coriciano εἰς ὅσα ἦλθε κακά con l’euripideo εἰς ὅσ᾽ ἔρχεται κακά (Erodoto ha invece ὅσα μιν δεῖ … ἀναπλῆσαι κακά), tanto più se si considera che proprio questa stessa espressione era citata da Procopio, ep.47, l.18 Garzya-Loenertz (cfr. anche la nota ad loc. di G r e c o [61, 192]). Si ha quindi un caso interessante di contaminazione di autori, forse a partire da repertori tematici nell’ambito della prassi scolastica. VIII 50 (p.127,12–14): nel παλαιὸς λόγος per cui οὐδὲν ἄκρατόν ἐστι τῶν κακῶν, ἀεὶ δέ τι τούτῳ παραπέφυκεν ἀγαθόν R i c h t s t e i g individuava un rinvio a Platone, Phlb. 63d–64a. Non v’è però somiglianza verbale e già N a u c k (in M e i n e k e , FCG V 1, p.CCLXIII), seguito da K o c k (CAF III p.119), aveva invece notato che potrebbe trattarsi della ripresa di un testo menandreo, F 337 K o e r t e -T h i e r f e l d e r = F *300 K a s s e l - A u s t i n (PCG [445] VI 2, 198), e in particolare dei vv.3–4 del frammento citato da Stobeo (… ἐγγὺς ἀγαθοῦ παραπέφυκε καὶ κακόν, ἐκ τοῦ κακοῦ τ᾽ ἤνεγκεν ἀγαθὸν ἡ φύσις): cfr. M a a s (3, 40) e ora la nota ad loc. di G r e c o (61, 195). Sintomatico soprattutto il ricorrere di παραπέφυκε, che Coricio in verità riferisce, con adattamento o per vizio di memoria («variavit sententiam» osservavano già K o e r t e e T h i e r f e l d e r [390, ad loc.]), alla presenza di bene accanto al male da Menandro evocata al v.4, mentre nel testo originario compariva invece, nel verso precedente, per descrivere la presenza di male accanto al bene (concetto, questo, più spesso ripreso dagli altri autori che alludono al testo menandreo, in primis Temistio 22, 267c, cfr. anche Apuleio, Flor. 18; per l’idea malum quidem nullum esse sine aliquo bono si veda però anche Plinio, nat.hist. XXVII 3,9, citato come locus classicus in R. To s i , Dictionnaire des sentences latines et grecques, Paris 2010, 877–878, nr.1185, alla cui prima edizione italiana rinvia la nota al passo coriciano nella traduzione di C o r c e l l a [58, 525 n.58]). XII 41 (p.162,13–14): l’evidente allusione allo gnomico fr.2 K o e r t e = 3 S a n d b a c h del Georgos di Menandro, attestato in Orione e Stobeo, che fu notata da F o e r s t e r ma venne poi in genere ignorata dagli studiosi menandrei, è stata richiamata da K a s s e l (430, 3 = 293). XII 59 (p.166,19–20): Anfide, F 4 K a s s e l - A u s t i n (PCG [445] II, 215), passo gnomico noto da Stobeo. XIII 3 (p.176,5): il riferimento che, evidentemente sulla scorta dei lessici, R i c h t s t e i g fa a Stratone (e a Cicerone, ad Att. I 15) per Ὁμηρικῶς è ora ripreso da K a s s e l e A u s t i n (PCG [445] VII, 622); l’avverbio è però più ampiamente atte stato in grammatici, retori e commentatori e viene ad es. usato da Proclo, in Plat. rem publ. II p.4,6–8 Kroll per parafrasare l’ὥσπερ Ὅμηρος che accompagna l’in-
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vocazione alle Muse in Resp. 545de, forse vero modello di Coricio (Platone ha del resto Ὁμηρικῶς in Phaed. 95b). XVII 36 (p.207,18): in τῆς ἀπάτης λυσιτελούσης H e a d l a m (JPhil 23, 1895, 296) e F o e r s t e r (ora seguiti da L u p i [62, 161]) vedevano un riferimento al fr.301 N.2 di Eschilo; il parallelo, piuttosto generico, non è ripreso né da H.-J. M e t t e (Die Fragmente der Tragödien des Aischylos, Berlin 1959, 217–218, F 601) né da R a d t (TrGF [427] III, 394). XVIII 6 (p.223,4ss.): la gnome risale – come vide F o e r s t e r – ad Epicarmo (ora F 271 K a s s e l - A u s t i n : PCG [445] I, 155), ma era ben diffusa tra i retori, da Ermogene a Siriano, e per tale via certo giunge a Coricio, in una dialexis tutta scolastica (ved. supra su Esiodo). XX 16 (p.230,27–28): per τὴν διάνοιαν μεταστήσαντες τῆς ἀμφοτέρων διαφορᾶς R i c h t s t e i g confrontava il fr.822 N.2 di Euripide (1160 M e t t e ) e allo stesso frammento riconduceva peraltro anche il πραΰνοντα τὴν ὀργήν di op.XXXII or.8,110 (p.369,23); non si tratta però di espressioni particolarmente rare, e i passi coriciani sono ora ignorati da K a n n i c h t (TrGF [427] V 2, 866–868) e dagli a ltri recenti editori dei frammenti euripidei. XX 25 (p.233,20–21): per ἰάσασθε καλῷ, φασί, τὸ κακόν R i c h s t e i g citava i frr.349 N.2 di Eschilo e 74 N.2 di Sofocle, dove si parla di «non guarire un male con un male»; il passo coriciano, non considerato da M e t t e (F 695), è citato da R a d t nell’edizione di Eschilo (TrGF [427] III, 416), cui quella di Sofocle rinvia (TrGF [427] IV2 , 141, app. a F 77), ma evidente è comunque la riduzione a frase fatta, con una conversione in positivo del concetto che in Eschilo compare in forma negativa per cui cfr. Aristide, or. III 534 Lenz-Behr e Libanio, ep. 1140,3. XXIII 60 (p.272,3): la possibile ma generica allusione al frammento 1024 N. 2 di Euripide (= 1440 Mette) non è ora registrata da K a n n i c h t (TrGF [427] V 2, 990) né da J o u a n - v a n L o o y (471, t.4, 83) e C o l l a r d – C r o p p (504, II 578–579). XXIII 85 (p.280,4–6): la proposta di M a a s (3, 40) di ravvisare in questo passo la ripresa di versi tragici, probabilmente euripidei, è registrata in TrGF (427) II2 , 45 (adesp. F 103a) ma con prudente segnalazione di dubbio da parte di K a s s e l . XXVI 22 (p.291,2–3): la possibile allusione al tragico Aristarco, qui e in XXXV 4 (p.388,16), non è registrata da S n e l l (TrGF [427] I, 91: 14 F 3); non escluderei neppure la possibilità di un riferimento a Euripide, Bacch. 1002–1004, su cui cfr. la discussione di D o d d s , che tiene conto di Aristarco e Coricio (405, 203–204); per la popolarità delle Baccanti nell’età di Coricio ved. ora C a r r a r a (508, 496–499). XXXII 14–17 (p.347,19ss.): per i riferimenti a Sofrone ved. ora T 7 e F 102 K a s s e l - A u s t i n (PCG [445] I, 188 e 233), nonché le note ad loc. di S t e f a n i s (38, 152–153) e la discussione del brano coriciano nell’antologia di testimo nianze su Platone di S w i f t R i g i n o s (434, 174–6, spec. 175: la versione coriciana «is exaggerated for rhetorical effect»). Il richiamo a Sofrone e Platone è tra gli elementi che indussero T i e r n e y (349, spec. 271–272) a ipotizzare una dipendenza di Coricio dal perduto περὶ ποιητῶν aristotelico; H o r d e r n (487, 32) ora giustamente dubita che Coricio conoscesse molto più di una «dubious tradition»
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sul mimografo e che si possa parlare di diretta lettura dei testi (come già in precedenza K ö r t e [RE IIIA (1927), 1102], troppo mi sembra invece concedere W i l s o n [85, 31]). A suo tempo, peraltro, G r a u x osservò che la menzione da parte di Coricio, tra i protagonisti del mimo di Sofrone, anche di un infante rivelerebbe un dettaglio di quell’imitazione sofronea in Teocrito, Id. XV che gli scolii solo genericamente attestano. L’idea sembra essere caduta in discredito (non è menzionata ad es. da Ł a w i ń s k a , che ricorda solo [412, 77] il parallelismo formale stabilito da O l i v i e r i [387, 215] con Teocrito II 108–109; cfr. però A m a t o [375, 122]); contro di essa, più che insistere sull’originalità teocritea (così ad es. P i n t o C o l o m b o [389, 68–69]), va semmai notato che mentre in Teocrito è apparentemente la madre a ricorrere con Zopirione al «baby talk», il testo di Coricio – ancorché grammaticalmente non del tutto limpido, come già notò G r a u x (bisogna forse correggere in μήπω γινῶσκον ὀρθῶς, οὐ μητέρα καλοῦν, οὐ πατέρα προσαγορεύον, oppure in μήπω γινῶσκον ὀρθῶς, οὐ μητέρα καλεῖν, οὐ πατέρα προσαγορεύειν?) – sembra dire che Sofrone non si limitava a far comparire un infante (situazione per cui H o r d e r n [487, 185] opportunamente richiama l’allocuzione τέκνον di F 100 K a s s e l - A u s t i n ) ma lo faceva addirittura parlare (φθέγγεται), e se non è iperbole si dovrà pensare a mimesi della lallazione o del gergo espressivo (che il misterioso βυβά di F 111 K a s s e l - A u s t i n abbia qualcosa a che fare?) – elemento che ben si presterebbe ad essere stato ricordato, in una discussione sull’arte come imitazione, da fonte aristotelica o comunque filosofica, come voleva T i e r n e y (349, 271–272). XXXII 36–41 (pp.352,19–353,19): i riferimenti in questi capitoli alla recitazione da parte dei giovani di miti tragici (alla pari di quelli alla conoscenza di temi comici nel par.84 e forse nel par.73, per cui ved. supra) chiaramente riconducono a letture di testi drammatici nella scuola, come osserva S t e f a n i s (38, 158), che pensa in particolare ad allusioni ai Cretesi di Euripide e al Tereo di Sofocle; il tema era comunque libaniano e tradizionale, cfr. TrGF (427) V 2, 504 (senza menzione di Coricio). XXXII 49 (p.355,3ss.): come lo stesso Coricio esplicita, il riferimento all’Ἑλένης γάμος sofocleo giunge attraverso Aristide, ved. ora TrGF (427) IV2 , 181; cfr. la nota ad loc. di S t e f a n i s (38, 160) e le osservazioni di S c h o u l e r (371, 270). XXXII 52 (p.355,22ss.): per il frammento 1063 di Euripide (1304 M e t t e ), atte stato in Stobeo in forma anonima e con qualche confusione, ved. ora le edizioni di K a n n i c h t (TrGF [427] V 2, 1003–1004), J o u a n – v a n L o o y (471, t.4, 96–97) e C o l l a r d – C r o p p (504, II 598–599). XXXII 63 (p.358,25–26): come già notò F o e r s t e r , l’allusione al frammento 812 di Euripide (1134 M e t t e ) è tratta da Eschine e Demostene; per l’ampia presenza di questi versi nella tradizione retorica ved. ora specialmente K a n n i c h t in TrGF (427) V 2, 851–853. XXXII 133 (p.375,2): per la ripresa, evidentemente indiretta, di una celebre espressione dalla Stenebea di Euripide (F 663 = 882 M e t t e ), già imitata da Menandro (fr.229 K o e r t e – T h i e r f e l d e r = Carth. fr. inc. 7 S a n d b a c h ), ved. ora TrGF (427) V 2, 652–653 e J o u a n – v a n L o o y (471, t.3, 24).
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–– XXXII 135 (p.375,11–13): la frase gnomica, esplicitamente attribuita a Euripide, è il frammento 904 (= 1226 M e t t e ; per il testo di K a n n i c h t [TrGF (427) V 2, 913], di J o u a n – v a n L o o y [471, t.4, 26] e di C o l l a r d – C r o p p [504, II 502] ved. supra, A.6); per la testimonianza sull’oracolo che dichiarò Euripide superiore a Sofocle ved. TrGF (427) IV2 , 73 (Test. T I 106). –– XXXII 153 (p.379,14–15): in ἄκουε δή, φασί, πρὸς τοῦτο μάλα καλοῦ λόγου R i c h t s t e i g , seguito da S t e f a n i s (38, 194), suggeriva di vedere un trimetro giambico, ma si tratta, in realtà, di una citazione esatta da Gorg. 523a. Dal testo del Gorgia viene anche il φασί che, secondo una spiegazione già offerta da Olimpiodoro, marcherebbe da parte di Platone non una citazione ma l’uso di un tipico esordio narrativo (ved. in proposito G. A n d e r s o n , Fairytale in the Ancient World, London 2000, 4, che in un rapido e impreciso rinvio ritiene però la formula coriciana); non si può a rigore escludere che, al contrario, Platone stesse citando un verso, ma è in ogni caso evidente che Coricio riprende il testo platonico, come fanno anche Enea (Theophr. p.44,2 M i n n i t i C o l o n n a ) e Zaccaria (Amm. 2, l.1244 C o l o n n a ). La frase non può quindi essere usata a sostegno dell’ipotesi, avanzata da M a a s (3, 40), per cui il racconto che segue potrebbe essere una «alte Fabel» tratta da un florilegio perduto. –– XXXV 71 (p.410,4): che τὸ δίκαιον κρατεῖν πανταχοῦ riprenda il frammento 343 di Euripide (427 M e t t e ), tratto dal Diktys e noto da Stobeo, è idea di R i c h t s t e i g sottoscritta da Tu i l l i e r (428, 115) e solo dubitativamente da K a n n i c h t (TrGF [427] V 1, 387), neppure riportata da J o u a n – v a n L o o y (471, t.2, 88) e C o l l a r d – C r o p p (504, I 356); si veda però ora K a r a m a n o u (496, 209), che nota come il concetto sia ampiamente diffuso e una formulazione più vicina si abbia in Menandro, Epitr. 232–233. –– XXXV 73 (p.410,11): il rinvio di R i c h t s t e i g al frammento 918 di Euripide (956 M e t t e ) è solo dubitativamente accolto da K a n n i c h t (TrGF [427] V 2, 924) e non ricordato da J o u a n – v a n L o o y (471, t.3, 122) e C o l l a r d – C r o p p (504, II 514–515). –– XL 2 (p.479,11): la molto generica somiglianza con il frammento 1047 (1341 M e t t e ) di Euripide è ora giustamente ignorata da K a n n i c h t (TrGF [427] V 2, 998), J o u a n – v a n L o o y (471, t.4, 90) e C o l l a r d – C r o p p (504, II 588–589). –– XLII 40 (p.522,14–15): l’uso coriciano, qui e in vari altri passi, di chiamare Achille ὁ Φθιώτης viene tradizionalmente ricondotto al modello dei Mirmidoni di Eschilo, ved. ora R a d t in TrGF (427) III, 242. Si può infine aggiungere che la rievocazione della vicenda di Cinegiro in XL 94–95 (p.503,5ss.) è riportata da R a d t fra i testimonia sul fratello di Eschilo (Fb 42, TrGF [427] III, 45). L’insieme delle testimonianze raccolte da R a d t consente peraltro di apprezzare l’appartenenza del passo coriciano a una lunga tradizione di amplificazione retorica, e ciò rende ovvio che l’iscrizione da Coricio riportata «a peu de chance de s’être trouvée telle quelle sur la peinture» cui il testo per mera eco letteraria allude (così P r o s t [472, 248]): si tratta infatti dell’epigramma che l’antologia di Planude
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attribuisce a un Cornelio, forse Cornelio Longo (Anth. Gr. XVI 117; curioso che il testo coriciano non sia considerato né da H. B e c k b y in Anthologia Graeca IV, Mün chen 19662 , 366 né da R . A u b r e t o n e F . B u f f i è r e in Anthologie Grecque XIII, Paris 1980, 124–125 né da D. L. P a g e in Further Greek Epigrams, Cambridge 1981, 70). Emergono, insomma, tracce di una certa consuetudine con la tradizione del teatro classico (e si veda anche quel che si è detto, nelle sezioni B.2.a e B.2.c, su Coricio come testimone della vita teatrale del suo tempo, in riferimento a pantomima e mimo). Non tutte le citazioni da tragedie e commedie perdute indicate da F o e r s t e r e R i c h t s t e i g sono però davvero affidabili, e in alcuni casi si tratta di mere consonanze in temi gnomici; assieme al fatto che talora la citazione appare chiaramente indiretta, ciò conferma l’idea che, almeno in parte, le conoscenze esibite da Coricio siano mediate da repertori scolastici e antologie o comunque dalla tradizione dell’insegnamento retorico. (i.α.4) I poeti ellenistici Non mancano del tutto, nel corpus coriciano, i poeti ellenistici, della cui circolazione nella Palestina tardoantica è preziosa fonte la notizia di Suida (σ 194 Adler) sulle metafrasi di Mariano di Eleuteropoli (valorizzata ad es. da D o w n e y [198, 314] e da ultimo da Joseph G e i g e r [SCI 28, 2009, 113–116; 183a, 235–237; 183b, 27 e 130–133]); non sempre però i rinvii coriciani sono tali da far pensare a lettura diretta. Di Callimaco Coricio cita, in XXXII 24, p.350,2–3, i vv.3–4 dell’epigramma 25 Pfeiffer = 11 Gow-Page. La menzione coriciana è debitamente ricordata dagli editori callimachei, ma l’epigramma si legge anche in Stobeo III 28,9 e l’ipotesi di una dipendenza da gnomologi di circolazione scolastica è facile, tanto più perché i due versi vengono citati, assieme a un esametro attribuito a «un altro poeta» per noi ignoto, come esempio di concetti immorali in cui ci si può imbattere nell’educazione letteraria; per la fortuna gnomologica dell’ἀφροδίσιος ὅρκος callimacheo fino a età moderna si veda del resto L. L e h n u s , Nuova bibliografia callimachea (1489–1998), Alessandria 2000, 306–307 (cfr. anche R. To s i , Dictionnaire des sentences latines et grecques, Paris 2010, 276–277, nr.332). Sui modi in cui Coricio riprende altri epigrammi raccolti nell’Antologia Palatina (specialmente quelli sulla vacca di Mirone in XXXIV 4, p.383,16ss. e quello su Erodoto in XXXII 148, p.378,21–22) osservazioni in T e l e s c a (523); per la ripresa dell’epigramma di Cornelio su Cinegiro ved. i.α.3. Per Apollonio Rodio era già nota la citazione testuale di Arg. III 457 nell’epitalamio per Zaccaria (V 21, p.87,8–9), cui si affianca un più generico riferimento a Medea colpita dai dardi d’amore, come in Arg. III 286, nell’Apologia mimorum (XXXII 93, p.365,11–2; ancor meno decisivo il riscontro linguistico, al par.81 della stessa opera, p.362,4, con Arg. III 396). Te l e s c a (523) ha ora individuato una nuova evidente citazione, in parte letterale e in parte parafrastica, sempre dal terzo libro delle Argonau tiche (vv.188–190), in III or.3,16 (p.53,10–12), laddove W e i l e G r a u x pensavano a versi di poeta ignoto e F o e r s t e r a Euripide, Phoen. 516; per quanto il contenuto sia gnomico, e specificamente verta su quel ruolo della parola tanto caro ai retori, la studiosa prudentemente valuta la possibilità di una più ampia familiarità con Apollonio
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nella scuola di Gaza (anche alla luce della notizia sulla coeva metafrasi giambica di Mariano di Eleuteropoli). Coricio cita e attribuisce espressamente a Teocrito l’incipit dell’idillio I (I or.1,32, p.11,3ss., su cui ved. le osservazioni di G r e c o [333, 107]); d’altra parte la formulazione della gnome in XXXII 127, p.373,21–22 chiaramente riproduce il primo verso dell’idillio XXI, ritenuto generalmente spurio (meno letterali i confronti che si possono stabilire con testi paralleli, come il Pluto di Aristofane evocato da S c h n e i d e r [46, 315]; cfr. R. To s i , Dictionnaire des sentences latines et grecques, Paris 2010, 1331, nr.1822). Se ho ben visto, il dato non sembra essere stato valorizzato negli studi sulla storia del testo di Teocrito, ma la circolazione delle poesie teocritee tra il V e il VI secolo è ben attestata, in primo luogo dal codice di Antinoe, sicché una conoscenza diretta del celebre e programmatico incipit del primo idillio, caratterizzato peraltro da una memorabile ekphrasis, non stupirebbe; quanto all’idillio XXI, niente autorizza a pensare che Coricio lo attribuisse a Teocrito, egli sembra anzi conoscerne l’esordio come motto proverbiale. In ogni caso poco convincente la proposta di S p a n o u d a k i s [502, 92 n.116], che dopo aver notato la già citata ripresa dal primo idillio propone di vedere negli ὄρνις τῶν ποιητῶν di I or.1,33 (p.11,8) un riferimento non a Platone, Phaedr. 262d (R i c h t s t e i g ) bensì ai Μοισᾶν ὄρνιχες di Teocrito VII 47; ma per cicale e usignoli come uccelli dei poeti si veda piuttosto Aristide XVII 12, p.4,22 Keil. Anche nel caso dei Phaenomena di Arato Coricio cita, nell’epitalamio per Zaccaria (V 16, p.85,16–18), un’espressione tratta dall’esordio; si tratta però di frase divenuta proverbiale, variamente utilizzata dai retori (Luciano, Aristide) e antologizzata, e la testimonianza coriciana, ignorata dagli editori, non è stata, a mia notizia, utilizzata negli studi sulla storia del testo arateo. (i.β) I prosatori A Gaza come altrove, lo studio della prosa era, com’è ovvio, attività quotidiana nella scuola di retorica, a partire, a livello di progymnasmata, dalle favole; e proprio a una favola come esercizio scolastico elementare Coricio allude in XVIII 5 (è la favola del cavallo e la tartaruga, specialmente popolare nella tradizione scolastica, da Libanio a Giovanni Sardiano, perché moralisticamente esaltava l’importanza del lavoro; se ho ben visto, il passo coriciano non sembra aver ricevuto speciale attenzione negli studi sulla favola, manca ad es. in F. R o d r í g u e z A d r a d o s , History of the Graeco- Latin Fable. III. Inventory and Documentation of the Graeco-Latin Fable, Leiden 2003, 3 18–319 né è menzionato nella traduzione dei progimnasmi libaniani di G i b s o n [116, 2–5]). Nei gradini superiori dell’educazione retorica, lo studio si incentrava quindi, naturalmente, sulla lettura e il commento dei principali auctores, nei modi che Coricio descrive rievocando il magistero di Procopio in VIII 7–10 (passo per cui si veda quel che si dirà nella sezione B.3.b): oggetto di analisi ed imitazione erano soprattutto oratori e storici, nonché Platone, e le opere di Coricio ben riflettono questi studi (dopo R i c h t s t e i g [1, XXXIII], osservazioni generali in proposito ad es. in B a l á s z [189, 33], C i c c o l e l l a [242, 124], L u p i [62, 21]).
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(i.β.1) Oratori e retori Gli oratori dell’età classica, innanzitutto Demostene, sono naturalmente onnipresenti nell’opera di Coricio, fornendogli materiale per l’imitazione linguistica ed esempi per lo sviluppo argomentativo. Rispetto a quanto già raccolto da F o e r s t e r e R i c h t s t e i g ulteriori esempi di riprese e imitazioni sono stati indicati in studi successivi (in particolare da F e r a b o l i [132], che mette in luce nel Milziade vari flosculi, stilemi e argomenti attinti dagli oratori, specialmente Lisia, e da C o r c e l l a [111, 81–82]), nonché, naturalmente, nelle nuove edizioni e commenti: si vedano S t e f a n i s (38, passim; per il caso particolarmente importante di Demostene XVIII 215 in XXXII 53, rilevato a p.82, ved. supra, A.6), G r e c o (61, passim), L u p i (62, pas sim, con sintesi su Demostene a p.136). Le precise riprese da Lisia I 7 in VII 4 e XX 33, già registrate da F o e r s t e r e R i c h t s t e i g , sono state d’altronde invocate da A l b i n i [404] per difendere la lezione φειδωλὸς ἀγαθή della tradizione manoscritta lisiana (ἀγαθή del. D o b r e e ); questa difesa del testo tradito ha avuto nel complesso limitata accoglienza tra i più recenti editori di Lisia, e contro di essa esplicitamente si è espresso S t e p h a n o p o u l o s (454, 20), che considera Coricio solo terminus ante quem per la corruzione (ved. da ultimo la messa a punto di To d d [503, 95]; un cenno sugli echi lisiani in Coricio anche in W o l i c k i [510, 188]). Il problematico passo (II or.2,3, p.27,11 ss.) relativo all’Ateniese autore di un λόγος su Delo (un oratore attico di età classica o un più recente retore?) è stato infine preso in considerazione da G r a z i o s i (480, 224–225), che dà per scontata l’appartenenza a un’orazione del IV secolo e nota il rapporto con il racconto di Tucidide III 104. Dagli oratori Coricio riprendeva naturalmente anche conoscenze storiche sulle vicende del V e, soprattutto, del IV secolo, retoricamente rielaborate: al caso dell’excur sus su Filippo in XXXII 60–67 ha dedicato uno studio M i l a z z o (489; cfr. anche l’anticipazione in 476, 177): si tratta di una confutazione retorica di Demostene II 19–20 che adopera anche elementi tratti da Eschine (e forse da Teopompo?) ma probabilmente tiene conto anche dell’opera libaniana (ved. anche supra, B.2.c; infra, B.3.b). Nel confrontarsi con gli oratori classici, Coricio non può in effetti prescindere dalle rielaborazioni e interpretazioni cui essi erano stati per secoli soggetti nella scuola; e R i c h t s t e i g (1, XXXIII) ben notò come Coricio non rifugga dall’imitare anche retori «moderni», in primo luogo Elio Aristide, la cui presenza nella prima fascia d’apparato dell’edizione è consistente. Una ulteriore ripresa letterale dal Pana tenaico (I 335, p.120,14–15 Lenz-Behr) in XXXII 69, molto significativa anche dal punto di vista ideologico perché verte sulla successione dei cinque imperi, è stata messa in luce da S t e f a n i s (38, 92 e 165; si badi però che nell’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g il passo, ancorché assente dal preapparato, era registrato nell’Index auc torum: 1, 547); P e r n o t (498, 129–175, spec. 140–141 e 151–152; a 265–266 i testi coriciani tradotti) ha mostrato come da Aristide discenda la definizione di Demostene quale «impronta di Hermes Logios», e qualche considerazione sui modi delle riprese aristidee negli epitafi si legge in C o r c e l l a (111, 84–86; ved. infra su Tucidide) e nel commento di G r e c o (61, passim), mentre L u p i (62, passim: ved. ad in dicem) indica possibili reminiscenze nel Milziade; ved. anche supra, A.5 e 6. Coricio si allinea al gusto della sua epoca: Aristide era equiparato a Demostene e Tucidide in
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un epigramma di Tommaso scolastico che si può datare al VI secolo (Anth.Gr. XVI [= App.Plan.] 315), e le testimonianze dei papiri confermano una relativa diffusione del retore in quest’epoca (ved. G . M . B r o w n e – A . H e n r i c h s , A Papyrus of Aristides, Panathenaikos (PMich 6651), ZPE 2, 1968, 171–175 e ora la messa a punto di M. S t r o p p a in Commentaria et Lexica Graeca in Papyris reperta I 1.3, Berlin – Boston 2011, 189–196; F. R o b e r t , Enquête sur la présence d’Ælius Aristide et de son œuvre dans la littérature grecque du IIe au XVe siècle de notre ère, Anabases 10, 2009, 141–160 non menziona Coricio). Libanio è esplicitamente citato da Coricio, sia pure in un passo sospettato da M a a s (3, 40: ved. supra, A.6); e il debito con il Pro saltatoribus libaniano nella Apo logia mimorum è stato più volte studiato (da ultimo da C r e s c i [364] e P e r n e t [386]: ved. supra, B.2.c). Sulla scia della dissertazione di C. H. R o t h e r (De Chori cii studiis Libanianis, Diss. Vratislaviae 1912) e del contemporaneo lavorio sull’edizione libaniana, F o e r s t e r e R i c h t s t e i g indicavano, nella prima fascia di apparato, 493 riferimenti a Libanio (il computo è di D o w n e y [198, 312]); e ulteriori casi sono stati individuati (ved. ad es. A b e l [4, 673; 18, 13 n.6] e M i l a z z o [489]). Nondimeno, questo elevato numero rischia di offrire una impressione fallace: come notò tra gli altri S h o r e y (11) e ora P e n e l l a (53, 1 n.1; cfr. L u p i [62, 21 n.29]), i casi registrati da F o e r s t e r e R i c h t s t e i g sono molto diversi tra loro, e non di rado si tratta di meri riscontri di luoghi comuni ed espressioni più ampiamente diffusi, sicché più che a imitazioni specifiche si deve pensare a continuità di temi tradizionali, che noi soprattutto conosciamo dal corpus libaniano ma che dovevano far parte del condiviso patrimonio scolastico (un trattamento prudente del problema è offerto da R u s s e l l , per cui Coricio «sometimes uses Libanian themes, and he clearly knew Libanius’ work» [465, 8, cfr. 158 e 178]). Qualcosa del genere vale probabilmente per alcuni riscontri con passi dell’Heroicus di Filostrato ora individuati da G r o s s a r d t (495, I 1 46–148), e soprattutto per la frase sull’ira come temporanea follia attribuita, in XXXII 112, p.370,8–9, a un τις: sulla scia di B o i s s o n a d e e G r a u x , F o e r s t e r e R i c h t s t e i g segnalano due passi di Temistio (ripresi anche da S t e f a n i s [38, 116]), che però possono valere solo come riscontri per la diffusione in ambito retorico di una sentenza il cui auctor era molto più antico, dato che essa va restituita in Filodemo, de ira fr.17 col.16,37 Indelli ed era già proverbiale – come B o i s s o n a d e ben sapeva – per Orazio (epist. I 2,62) e Seneca (de ira I 1,2); cfr. R. To s i , Dictionnaire des sentences latines et grecques, Paris 2010, 1109–1110, nr.1513. Sul modo in cui Coricio si colloca all’interno della tradizione retorica ved. la sezione B.3.b. (i.β.2) Gli storici L’importanza, nelle scuole di retorica, dello studio degli storici, imprescindibili fonti di informazioni e modelli stilistici da imitare (si veda in generale R. N i c o l a i , La sto riografia nell’educazione antica, Pisa 1992), spiega la notevole presenza di citazioni e riprese storiografiche in Coricio. Ciò è specialmente vero per Tucidide, che Coricio ritiene «fonte della retorica» e modello già di Demostene (XXXII th.2) e che, nel già citato epigramma di Tommaso
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scolastico, era equiparato allo stesso Demostene e ad Aristide. Tucidide era certo ampiamente studiato nelle scuole orientali, e l’affermazione per cui lo studio di Tucidide seguiva quello di Demostene all’inizio della Vita di Marcellino, nonché la possibilità di ricollegare almeno parti di quest’ultima alla Vita demostenica di Zosimo di Ascalona, sono state utilizzate anche per sostenere che nella storia del testo di Tucidide in età tardoantica e nella formazione degli scolii un ruolo decisivo sia stato svolto della scuola di Gaza (cui Zosimo potrebbe a sua volta essere connesso, ma ved. H. G ä r t n e r , RE XA [1972], 790–795): così, in particolare, sulla base dei precedenti studi di O o m e n , B a l á s z (189). A sostegno di questa tesi, B a l á s z ha anche valorizzato da un lato il confronto con le riprese tucididee nell’opera di Procopio di Cesarea, che potrebbe aver studiato a Gaza (su questa possibilità, già messa in luce da H a u r y , ved. quanto si è detto supra, B.2.a, e soprattutto lo studio di G r e a t r e x [233, spec. 128–132]), dall’altro la presenza, in Coricio, non solo di numerose riprese dal testo di Tucidide ma anche di coincidenze con gli scolii (189, spec. 34–35). All’origine gazea di alcuni scolii crede anche L u s c h n a t (403, spec. 19 ma anche 43 sui «misteri» della retorica, come in Coricio VIII 7, su cui ved. però ora K i r c h n e r [492, spec. 179 n.54] e la nota di G r e c o [61, 144]); spunti in questo senso sono stati sviluppati anche da C o r c e l l a (111, 83–86), che peraltro sottolinea come le citazioni tucididee in Coricio siano talora filtrate attraverso Aristide e la tradizione esegetica e riflettano quindi la pratica scolastica (così specialmente in VIII 6 e 18, dove il ritratto pericleo in Tucidide II 60–65 mediato dalla pro IV viris viene peraltro ancor più impreziosito per mezzo di un ulteriore flosculo da Tucidide II 77,2, con una tecnica di «contaminazione», già praticata da Procopio, per cui ved. anche supra e cfr. le note di G r e c o [61, 144–145 e 164] e le osservazioni di L u p i su XVII 12 [62, 147–148]; si badi peraltro che sono proprio queste mediazioni attraverso gli ambienti di scuola, più che condizionamenti cristiani, a creare quell’effetto di «Karikatur der Geschichte» individuato da d e V r i e s – v a n d e r V e l d e n [478, 427–428]). Bisogna in realtà tener conto della sostanziale continuità delle tradizioni esegetiche nelle scuole di retorica, sicché la ricerca di connessioni tra la produzione di Coricio, e dei gazei in generale, e gli scolii tucididei (la cui origine, peraltro, è questione notoriamente complessa) andrebbe approfondita per risultare davvero convincente; allo stato attuale della ricerca si può comunque sottoscrivere il giudizio di D o w n e y [198, 314 n.74], che pur ritenendo esagerata l’affermazione per cui «Gaza was the center of Thucydidean studies at this period» giudica sufficiente la dimostrazione che «special attention was given to the work of Thucydides at Gaza». Proprio le ampie e fitte citazioni e riprese coriciane lo dimostrano. Quelle già indicate nella prima fascia di apparato di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g sono state ad es. recepite da A. To d i s c o all’interno della rassegna Tradizione indiretta, con Indici delle fonti e dei testimoni, in Tucidide, La guerra del Peloponneso. Edizione a cura di L. Canfora, Torino 1996, pp.1407–1629 (che consente tra l’altro di apprezzare i casi in cui Coricio riprende passi già ampiamente sfruttati nella tradizione retorica: ad alcuni esempi già prima citati si può aggiungere Tucidide II 45,1 in IV 80, p.68,17–18, per cui V i l j a m a a [421, 76 e n.12] parla di «a specimen of paraphrase favoured by teachers of rhetoric»); ma come i riferimenti di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g comprendano diverse tipologie è stato ben
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illustrato da To s i (441), che aggiunge peraltro al dossier l’evidente imitazione di Tucidide II 35,1 – già notata dai commentatori tucididei dell’800 a partire da B l o o m f i e l d ma non registrata nell’edizione teubneriana – all’inizio dell’epitafio per Maria (op.VII; anche qui peraltro con contaminazione da Aristide, nonché dal Menesseno platonico, cfr. anche le note di G r e c o [61, 84–85]) e mostra come le imitazioni coriciane, ancorché fondate su una approfondita conoscenza del testo dello storico, lo riducano «ad un elegante dipanarsi di vuote e barocche volute». Qualche ulteriore ripresa tucididea sfuggita a F o e r s t e r e R i c h t s t e i g viene inoltre individuata da F e r a b o l i (132, 335) e nel già citato studio di C o r c e l l a (111, 81 e 83–87; si noti però, a correzione di quanto ivi esposto, che l’evidente imitazione di Tucidide VII 61,2–3 in Coricio XL 31, ancorché non registrata da F o e r s t e r e R i c h t s t e i g , era già stata messa in luce da W. v a n D i s , De Choricii Gazaei genere dicendi, Diss. Traiecti ad Rhenum 1897, 39–40). Rispetto a Tucidide, Erodoto era meno adatto all’immediata imitazione atticistica, ma pur sempre studiato nelle scuole, e ben presente in Coricio. Ai dati raccolti nell’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g aggiunge qualche ulteriore elemento C o r c e l l a (111, 82); soprattutto, uno studio complessivo su Erodoto in Coricio è ora compiuto da L u p i (521; della stessa autrice si veda anche il commento al Miltia des [62, 128–129 e passim] e il saggio del 2009 [509]). Per Erodoto come fonte per gli argomenti dei Lydi e del Miltiades ved. infra, ii. Come osserva R i c h t s t e i g (1, XXXIII), di Senofonte Coricio fondamental mente conosce l’opera più popolare nell’antichità, la Ciropedia: sul suo impiego nell’epitafio per Procopio, con parziale adattamento alla sensibilità cristiana, svolge qualche considerazione C o r c e l l a (51, 158–159); per un trascurato riferimento a I 2,3 in op.I or.1,85 ved. supra, B.2.a. Non convince del tutto l’idea, avanzata da G r e c o (61, 168), per cui VIII 22, p.118,3–4 avrebbe come modello formale Ages. 5,1. Fa parte inoltre della cultura in senso lato storiografica di Coricio tutta una serie di racconti e aneddoti sui più vari personaggi, con ogni probabilità attinti ad antologie e repertori che raccoglievano tradizioni biografiche ad uso dei retori. La possibilità, ad esempio, che il ritratto di Alcibiade in VIII 16 (cui forse si allude anche in 26) discenda da un filone che partiva da Teopompo e Teofrasto e giungeva a Cornelio Nepote è suggerita da C o r c e l l a (58, 516 n.22 e 520 n.33). I temi dalla storia (e dalla «leggenda») spartana in Coricio sono specialmente indagati da T i g e r s t e d t (418, II 287–290). Ved. anche infra (ii) sulle fonti per gli argomenti delle declamazioni. (i.β.3) Platone La ripresa di passi platonici in Coricio è pervasiva. I luoghi elencati da F o e r s t e r e R i c h t s t e i g sono stati presi in considerazione negli studi sulla storia del testo platonico e nelle edizioni (i passi dai due Alcibiadi vengono ad es. registrati da A. C a r l i n i in Platone, Alcibiade, Alcibiade Secondo, Ipparco, Rivali, Torino 1964, mentre le riprese dalla Repubblica sono elencate nell’indice di B o t e r [453, 290–365], che giu stamente peraltro nota come l’indice di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g sia tra quelli che «give too much» [p.XXVII]); i nuovi studi hanno d’altra parte individuato ulteriori passi e indagato i modi delle citazioni (abbiamo già visto qualche esempio in questa
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stessa sezione e trattando del ritmo; la predilezione coriciana per Resp. 330d–331a è notata da L u p i [62, 149–150]). In particolare, alle «riscritture» da Platone negli epitafi dedica molta attenzione G r e c o (61, passim); e l’uso di luoghi platonici nelle de scrizioni, che pur senza profondità filosofica denuncia la partecipazione a una cultura genericamente neoplatonica, è stato trattato dalla stessa studiosa (333). L’interesse che Coricio porta a Platone resta comunque fondamentalmente retorico: i dialoghi offrono modelli stilistici e tematici, mentre i contenuti più strettamente filosofici sembrano invece assunti in maniera mediata (per l’identificazione della definizione attribuita a Platone in VIII 45, forse una canonizzazione scolastica di Alc. I 132b–134b, si veda C o r c e l l a [58, 524 n.52]). Nella dialexis 1 si può comunque leggere, secondo C o r c e l l a (116), una programmatica presa di posizione sulle critiche platoniche alla retorica, su cui torneremo infra, B.4; e si veda anche il saggio di A m a t o (375) già di scusso a proposito di Simonide (supra, B.3.a.i.α.2). Per la possibilità di una ripresa di temi aristotelici e peripatetici nella Apologia mi morum, sostenuta da T i e r n e y (349), ved. supra, B.2.c e B.3.a.i.α.3. (ii) Le fonti per l’argomentazione e per i temi delle declamazioni Occorre infine ricordare che la tradizione letteraria e retorica non offriva a Coricio solo flosculi da citare o riprendere. Ancor più, essa forniva materiali e spunti per l’in ventio, soprattutto nel caso delle declamazioni, con processi che le theoriai illustrano nel dettaglio: sulla questione è ormai in generale imprescindibile il volume curato da P e n e l l a (53). Ciò è specialmente evidente per le declamazioni mitologiche e storiche: Omero è fonte primaria per opp.X e XII (una indagine sui modi delle riprese sarebbe auspicabile, ved. comunque supra, 3.a.i.α.1), Erodoto per opp.XIV e XVII (si vedano gli studi di F e r a b o l i [132] e soprattutto di L u p i [62, 53–57; 509; 521]); ma proprio le theoriai mostrano come Omero stesso, e principalmente Demostene, offrano assai spesso spunti per l’elaborazione degli argomenti dovunque tratti, e in ogni caso gli elementi attinti dai classici sono continuamente filtrati dalla tradizione della scuola, con immediati riscontri nella precettistica o – come si è già visto – nei corpora di Aristide e Libanio (si vedano in particolare le osservazioni di F e r a b o l i [132], M i l a z z o [489], L u p i [spec. 62, 53–67]). Per le declamazioni su temi di fantasia, il confronto con la tradizione declamatoria greco-latina, in particolare con il corpus libaniano, ulteriormente rivela come Coricio riprenda temi di scuola (cfr. il già citato R u s s e l l [465, 8, 158, 178]); la possibilità che anche spunti erotici come quelli presenti nello Iuvenis fortis (op.XX decl.5) o quelli la cui legittimità è discussa in op.XXIV dial.14 si inseriscano in una tradizione scolastica e vadano posti in rapporto con filoni romanzeschi è adombrata da R u i z - M o n t e r o (464, 66–67, con curiosa datazione di Coricio al IV secolo che sarà mero refuso) e discussa da S t r a m a g l i a (466, 129; 482, 213). Di tutto ciò tratterò più nel dettaglio nella sezione seguente. Più complesso è il problema delle fonti dello Spartiates (op.XXIX decl.8). Un certo interesse di Coricio per la storia dell’arte antica fu ben messo in luce già da F oerster (Der Praxiteles des Choricius, JDAI 9, 1894, 167–190); nella sua opera si ritrovano quindi varie informazioni su antichi artisti, generalmente messe a frutto dai moderni
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(dopo F o e r s t e r , e dopo A . R e i n a c h , Recueil Milliet, Paris 1921 [che però accanto al vero Coricio ancora cita sotto il suo nome brani appartenenti a Procopio: ved. supra, n.7], si vedano soprattutto P e r n i c e [393] e, per le menzioni di Lisippo, M o r e n o [30, 53–54, 196–199; 31, 243–245] e S t e w a r t [45, 26, 41, 396]). Anche lo Spartiates si incentra sulla vicenda di una statua di Afrodite commissionata a Prassitele, che l’avrebbe rappresentata con le fattezze di Frine, dando luogo all’attacco di un cittadino spartano. La vicenda è curiosa, e sulla scia di F o e r s t e r (Der Praxite les cit., spec. 170) P e r n i c e (393, 281) vi ravvisò «eine Fiktion», mentre T i g e r s t e d t (418, II 289–290) ha sottolineato «(t)he absurdity of this apocryphal story» e il carattere bizzarro e barocco della declamazione. Un tentativo di utilizzare invece lo Spartiates come fonte affidabile per la vita e l’arte di Prassitele è stato però compiuto da C o r s o (44; i risultati sono stati poi ripresi in altri vari contributi dell’autore, di cui si rende in parte conto nel seguito). Lo studioso ritiene che Coricio si sia fondato su un preciso fatto storico, l’arrivo a Sparta verso il 340 di una statua di Afrodite opera di Prassitele, da dedicare alla dea, in ossequio a un oracolo, per far fronte a una difficoltà di ordine demografico; tale dato potrebbe essere connesso con la attestazione, in Pausania III 18,1, di una Afrodite Ambologera dedicata a Sparta in seguito a un oracolo, supponendo comunque che il periegeta abbia visto un’altra statua, commissionata per sostituire quella prassitelica rifiutata dagli Spartani dopo l’intervento in assemblea di uno Spartiate (intervento che Coricio appunto riprenderebbe); la statua non accolta a Sparta, dall’artista «riciclata», potrebbe a questo punto essere identificata con la Pselioumene. Questo insieme di ipotesi si regge su una lunga analisi del testo coriciano (pp.42–110), che non manca di intelligenti osservazioni sulla coerenza del quadro tracciato da Coricio col mondo artistico di Prassitele e col suo sistema estetico, e sulla possibilità che a Coricio giungano esatte informazioni grazie all’uso di una buona fonte (identificata in Polemone di Ilio). In taluni casi, purtroppo, sono la traduzione imperfetta e una comprensione non del tutto sicura dello sviluppo argomentativo a generare equivoci su cui si innestano complesse speculazioni (errata è ad es. l’interpretazione di πρὸς τῶν θεῶν al par.23, che è «da parte degli dei» e non «riguardo agli dèi», come si legge alle pp.70–71; alle pp.94–95 il par.63 è sostanzialmente frainteso nel suo dettato). Anche al di là di questi fraintendimenti, però, eccessivamente ardite appaiono le varie combinazioni attraverso cui l’autore arriva a riconoscere nel testo coriciano, una volta eliminate alcune innovazioni influenzate dalla temperie cristiana tardoantica, gli echi di un vero discorso tenuto da uno Spartiate verso il 340. In particolare, per quanto C o r s o non erri nel ravvisare, all’interno della declamazione, alcuni passaggi troppo rapidi o stridenti, non sempre probabili sono le conclusioni che ne trae (si stenta, ad esempio, a credere che la menzione delle due statue di Licurgo al par.24 non sia solo un exemplum fictum un po’ peregrino ma l’eco di un riferimento alle statue dei tirannicidi a Prassitele attribuite: 44, 66–73, cfr. anche 477, 6 = 225; 486, 131); come pure si può certo ritenere che Coricio recuperi talora informazioni non banali (e in questo senso vari spunti individuati da C o r s o sono molto utili per caratterizzare i filoni di tradizione cui il retore si ispirò e le sue conoscenze sull’arte antica), ma non mi pare che ciò autorizzi a trasformare lunghi tratti della declamazione in una sorta di verbale, ancorché mediato e in qualche punto rimaneggiato,
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di un’assemblea spartana e a considerarli testimonianze fedelissime, anche in minuti dettagli, del dibattito estetico e culturale nella Sparta del IV secolo. Non è stato pe raltro rettamente inteso l’unico testo esplicito sulle fonti e la strategia compositiva della declamazione, e cioè la theoria, dove Coricio chiaramente parla di «argomento finto» (ὁ λόγος … ἐν Σπάρτῃ τὴν ὑπόθεσιν ἔπλασε, th. 1) e della «via per Sparta» presa dal discorso allo scopo di ottenere uno speciale effetto (th. 3), frasi che sono purtroppo mal rese nella traduzione («il discorso formò la premessa (?!)»; «(s)e quest’unico motivo consiste nell’argomento del modo di comportarsi proprio di Sparta (?!)», p.34); e anche il riferimento alla Parapresbeia demostenica, che secondo il tipico modulo delle theoriai viene indicata come spunto e modello ispiratore per il plasma, con un πάλαι che ovviamente serve a definire come la presente invenzione di Coricio trovi in Demostene un esempio già antico (th. 2), viene invece singolarmente inteso come l’indicazione di un fatto storico avvenuto «precedentemente» al dibattito a Sparta e quindi utile per la sua collocazione cronologica (pp.34 e 44–45). Nonostante questi difetti, in parte dipendenti da una non sicura familiarità con le convenzioni e le regole delle declamazioni coriciane, la discussione di C o r s o è di grande interesse per la straordinaria ricchezza dei materiali addotti a commento del testo e dovrà essere tenuta in conto da chiunque intenda studiare lo Spartiates. Più esatto ed equilibrato appare però il giudizio di K a p i t á n f f y (460, in tedesco; 463, versione ungherese con lievi varianti), che come già aveva fatto T i g e r s t e d t (418, II 289–290 e 563 n.1477) valorizza pienamente la dichiarazione ὁ λόγος … ἐν Σπάρτῃ τὴν ὑπόθεσιν ἔπλασε mostrando come essa utilizzi lessico tipico delle declamazioni e implichi quindi un tema inventato, un πλάσμα (ved. infra, 3.b.i.γ), ancorché costruito su una ben attestata tradizione riguardante Prassitele e Frine; d’altra parte, in alcune teorie estetiche cui nella declamazione si allude (soprattutto ai parr.37–40) anche K a p i t á n f f y , come già in parte aveva fatto C o r s o , ravvisa l’eco di quel coevo dibattito sulle rappresentazioni della divinità che porterà alle crisi iconoclastiche, ma saggiamente riconosce che non si ha da parte di Coricio una intenzionale presa di posizione sul problema bensì semplicemente un condizionamento quasi inconscio a fronte di temi che nel suo ambiente culturale erano discussi. Alcune possibili consonanze (invero un po’ generiche) con le prescrizioni estetiche derivanti dalle posizioni calcedonesi vengono da ultimo più ampiamente lumeggiate da F a v a (505), che d’altra parte si mostra però cosciente dello stretto rapporto che lo Spartiates intrattiene con la più antica riflessione filosofica e retorica sulle opere d’arte quale si esprime, con somiglianze e differenze, nell’or.XII di Dione di Prusa. Cionondimeno anche F a v a non sembra aver rettamente inteso il senso della theoria (la frase cruciale del par.1 è singolarmente resa come «la questione determinò a Sparta l’argomento di discussione» [505, 164]), sicché pare concedere pur sempre troppo, sulla scia di C o r s o , alla tesi per cui la declamazione avrebbe un consistente fondo storico. Come lo Spartiates piuttosto si inserisca in una lunga tradizione, già ben nota a F o e r s t e r , di temi declamatori tratti dalla storia dell’arte è da ultimo mostrato dalla rassegna di F a l a s c h i (514, spec. 215–217; a 216 menzione dello Spartiates e rinvio a F o e r s t e r ); e una buona conoscenza della complessiva pratica retorica di Coricio, nel solco della tradizione declamatoria, resta l’indispensabile viatico per la retta comprensione dei suoi di-
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scorsi e per un loro prudente uso come fonte (ved. la sezione seguente). La possibilità di un influsso da Stesicoro è da ultimo contemplata da G r o s s a r d t (515, 22–23). 3.b. Coricio e la tradizione retorica: i generi e le pratiche 524. O. W u l f f , Das Raumerlebnis des Naos im Spiegel der Ekphrasis, ByzZ 30, 1929/30, 531–539. 525. A. L. W h e e l e r , Tradition in the epithalamium, AJPh 51, 1930, 205–222. 526. W. M o r e l – W. K r o l l , Art. Melete (declamatio), RE XV (1931), 496–500. 527. G . D o w n e y , Art. Ekphrasis, RAC IV (1959), 921–944. 528. R . K e y d e l l , Art. Epithalamium, RAC V (1962), 927–943. 529. J . I r m s c h e r , Die poetische Ekphrasis als Zeugnis justinianischer Kulturpolitik, WZJena 14, 1965, 79–87. 530. A . H o h l w e g , Art. Ekphrasis, in: K . W e s s e l – M . R e s t l e (Hrsg.), Reallexikon zur byzantinischen Kunst, II, Stuttgart 1971, 33–75. 531. G. L. K u s t a s , Studies in Byzantine Rhetoric (ABla 17), Thessaloniki 1973. 532. P . B r o w n , The View from the Precipice, New York Review of Books 21, 1974, 3–5; rist. in: I d . , Society and the Holy in Late Antiquity, Berkeley – Los A ngeles 1982, 196–206. 533. J . S o f f e l , Die Regeln Menanders für die Leichenrede in ihrer Tradition dargestellt (Beiträge zur klassischen Philologie 57), Meisenheim am Glan 1974. 534. D. A. R u s s e l l , Rhetors at the Wedding, PCPS 205, 1979, 104–117. 535. Menander Rhetor. A Commentary. Edited with translation and commentary by D. A. R u s s e l l – N. G. W i l s o n , Oxford 1981. 536. G. A. K e n n e d y , Greek Rhetoric under Christian Emperors, Princeton 1983. 537. M . W i n t e r b o t t o m , Declamation, Greek and Latin, in: A . C e r e s a - G a s t a l d o (a cura di), Ars rhetorica antica e nuova: XI Giornate filologiche genovesi 22–23 gennaio 1983, Genova 1983, 57–76. 538. The Minor Declamations ascribed to Quintilian, edited with Commentary by M . W i n t e r b o t t o m (Texte und Kommentare 13), Berlin – New York 1984. 539. M . W h i t b y , Eutychius, Patriarch of Constantinople: an Epic Holy Man, in: M . W h i t b y , P h . H a r d i e , M . W h i t b y (eds.), Homo Viator. Classical essays for John Bramble, Bristol – Oak Park 1987, 297–308. 540. D . I n n e s – M, W i n t e r b o t t o m , Sopatros the Rhetor. Studies in the text of the Διαίρεσις Ζητημάτων (BICS Suppl. 48), London 1988. 541. R . M a c r i d e s – P . M a g d a l i n o , The architecture of ekphrasis: construction and context of Paul the Silentiary’s poem on Hagia Sophia, BMGS 12, 1988, 47–82.
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totalmente ovvia, si vedano C o r c e l l a [58, 514 n.13] e ora Te l e s c a [518, 259]); la τῶν νέων ἀκρόασις, che ai λεχθέντα si contrappone come altra e diversa parte dell’attività svolta in aula a beneficio degli allievi, va quindi intesa come l’«ascolto (degli elaborati) dei giovani» (stravagante l’interpretazione di B r o w n i n g , che rende invece «his lectures to the young» [549, 860]; discussione da parte di A m a t o nella nuova edizione di Procopio [68, XXII n.37]): nell’ascoltare e correggere i compiti degli allievi, il maestro prestava speciale attenzione al rispetto del purismo atticistico e delle regole ritmico-eufoniche (ved. supra le sezioni A.4 e A.5). Lo studio degli autori antichi, e l’esercizio svolto a scuola, preparava in effetti al comporre; e il medesimo passo dell’epitafio per Procopio rivela come l’altro aspetto sostanziale dell’attività del retore consistesse nel tenere egli stesso discorsi, cui i giovani allievi erano chiamati ad assistere ma che erano pensati per il pubblico cittadino (il θέατρον; per l’interpretazione di τὰς οἰκείας γονάς come «le proprie opere», già sostenuta ad es. da L i t s a s [34, 7–9 e 301 n.14] e non come «i propri figli/allievi», come vorrebbe A s h k e n a z i [49, 206 e n.71], si vedano le ulteriori dimostrazioni di C o r c e l l a [58, 514 n.15] e G r e c o [61, 151]). Anche Coricio, nel succedere al maestro come capo della scuola, oltre a insegnare dovette tenere davanti ai cittadini di Gaza vari tipi di discorsi, alcuni dei quali sono conservati appunto nel corpus; e le dialexeis spesso ci informano sulle circostanze concrete della rappresentazione e sul rapporto tra il retore e il suo pubblico. Dopo un periodo di minore attenzione a questi aspetti, la più recente fioritura di studi sulla retorica antica ha interessato anche Coricio (sintomatica la sua diffusa presenza nel commento a Menandro Retore di R u s s e l l e W i l s o n [535] o in opere generali come La rhétorique de l’ éloge di Laurent P e r n o t [544]), portando a cercare di ricostruire il Sitz im Leben degli scritti conservati in rapporto alle pratiche concrete e all’orizzonte d’attesa del pubblico così come era determinato dalla tradizione dei diversi generi in cui Coricio si cimentò. (i) I generi Già nell’800 i due epitafi erano stati studiati da Henri C a f f i a u x nell’ambito di una ricostruzione della storia degli elogi funebri nell’antichità (ved. supra, A.2); e potremmo ancora ricordare come la dissertazione sulla forma delle orazioni funebri greche di scussa nel 1908 a Jena da Elsa G o s s m a n n , sotto la direzione di Rudolf H i r z e l , si chiudesse proprio con una trattazione, rapida ma non priva di qualche intelligente spunto, dei testi coriciani (Quaestiones ad Graecorum orationum funebrium formam pertinentes, Diss. Jena 1908, 82–83). Dopo l’uscita dell’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g , però, il clima culturale ormai mutato e improntato al terzo umanesimo non si rivelava particolarmente propizio a una considerazione degli aspetti retorici e dei problemi di genere, né un interesse in tal senso fiorì nell’immediato dopoguerra (se non, come vedremo, per le ekphraseis e molto parzialmente per le dialexeis). Solo a partire dalla fine degli anni ’60 e negli anni ’70 del secolo scorso, in conco mitanza con il nuovo interesse per l’analisi formale e la «generic composition» che si andava manifestando negli studi di letteratura, comincia a riapparire una tendenza ad apprezzare le opere coriciane tenendo conto dei generi letterari di appartenenza e
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delle loro tradizioni. Se pionieristico era, in tal senso, il saggio del 1968 di Toivo V i l j a m a a sui topoi della poesia encomiastica (421), che riservava importanti pagine al confronto con i testi di Coricio (soprattutto le dialexeis e le theoriai, ma anche gli epitalami), dieci anni dopo la storia letteraria di Herbert H u n g e r (158) veniva ormai a sancire in modo autorevole l’importanza dell’approccio per generi: in una prospettiva per cui l’intera letteratura bizantina era considerata continua variatio dei modelli antichi le opere coriciane venivano separatamente registrate come momenti nella storia della tradizione dei diversi generi (dopo un’indicazione complessiva a p.94, a p.121 erano trattati gli encomi, a p.134 gli epitafi, a p.150 gli epitalami, a p.180 le ekphraseis); quanto del resto la retorica bizantina dovesse a Coricio, e alla scuola di Gaza tutta, che le trasmettevano modelli risalenti alla Seconda Sofistica, era stato opportunamente sottolineato nel 1973 da K u s t a s (531, 61). Di conseguenza, dopo questa stagione in cui lo studio dei generi e dei relativi topoi conobbe un forte impulso, anche i testi coriciani sempre più sono stati interpretati alla luce del confronto con la tradizione, quale è nota dai retori precedenti e dalla trattatistica (Menandro Retore in primis, per cui dal 1981 si poteva disporre del prezioso commento di R u s s e l l e W i l s o n [535]), in una prospettiva mirante a mettere in luce il rispetto delle regole e il significato di eventuali scarti. Da un lato, questa tendenza ha contribuito a una migliore interpretazione delle orazioni (i logoi), anche se, a dire il vero, si è per lo più continuato a insi stere specialmente sugli epitafi e sugli epitalami, mentre i discorsi encomiastici hanno ricevuto nel complesso minore attenzione (se non per le ekphraseis in due di essi contenute); una lodevole eccezione è costituita dalla dissertazione di David W e s t b e r g (122), che ha studiato tutti i logoi degli autori gazei in un’intelligente ottica di evoluzione dei generi. Dall’altro lato, questa considerazione dei problemi di genere e della tradizione retorica ha favorito un ritorno di interesse per le dialexeis (già in precedenza cursoriamente indagate) e, soprattutto, un più approfondito studio delle declamazioni (le meletai), finalmente inverando l’auspicio formulato da S y k u t r i s , che – come già si è accennato – proprio in esse aveva individuato i prodotti più alti dell’arte coriciana (8, 1839–1840). Nel seguito, passerò quindi in rassegna gli studi che hanno affrontato i testi coriciani incentrandosi, appunto, sui tratti distintivi dei diversi generi. Adotterò per questi generi i nomi complessivi (logoi, dialexeis, meletai) ricorrenti nel corpus stesso, pur nella coscienza che il modo in cui essi sono usati nei testi, negli scholia, nelle hypothe seis e nei titoli presenta qualche differenza e ambiguità terminologica e concettuale, che meglio esamineremo nel seguito (una messa a punto sulla questione è stata compiuta da Te l e s c a [125], si vedano anche le considerazioni di P e n e l l a [53, spec. 8–9 e 26–28]). Può però essere utile una definizione preliminare. I logoi sono, in principio, discorsi epidittici, tenuti per specifiche occasioni della vita pubblica (e ripartibili quindi in ulteriori categorie – encomi, epitalami, epitafi – secondo la natura di queste occasioni), ma, come vedremo, in due casi discorsi apparentemente attribuibili a questa tipologia ricevono la definizione non di λόγος ma di διάλεξις, perché più brevi e informali, mentre viceversa l’Apologia mimorum è definita λόγος, però con una ambiguità che la theoria esplicitamente rivela (ved. supra, B.2.c); in due logoi sono peraltro contenute delle ekphraseis, che i titoli espressamente segnalano. Le dialexeis
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sono, in principio, προλαλιαί (o anche πρόλογοι, come i testi stessi le definiscono: ved. infra), cioè brevi «conferenze-aperitivo» tenute prima di recitare discorsi o declamazioni (quando una declamazione era molto lunga, e recitata in due riprese, si avevano quindi due dialexeis), e compaiono in effetti, nel corpus, anteposte ai discorsi o declamazioni cui si riferivano; però – come già si è accennato – due orazioni indipendenti (opp.V e XIII) hanno negli scholia la definizione di διάλεξις: in tali casi διάλεξις non equivale a προλαλιά ma a λαλιά, cioè discorso breve e informale tenuto autonomamente e non come introduzione ad altri discorsi. Le meletai sono declamazioni su temi mitologici, storici o di fantasia (sinteticamente esposti in brevi hypotheseis), cioè discorsi fittizi (πλάσματα, termine ricorrente nei testi: ved. infra) di tipo deliberativo o giudiziario, regolarmente preceduti da theoriai nelle quali Coricio illustra le strategie perseguite e i modelli presi a riferimento (della natura ambigua dell’Apologia mi morum già si è detto). (i.α) I logoi: discorsi funebri, nuziali, encomiastici, ekphraseis R i c h t s t e i g (1, XXXIV–XXXV) individuava nel corpus coriciano 10 logoi (ora tiones), e precisamente 4 encomi (opp.I–IV), 2 epitalami (opp.V–VI) e 2 epitafi (opp. VII–VIII), cui aggiungeva, come «aliae (orationes)», il discorso per i Brumalia di Giustiniano (op.XIII) e l’Apologia mimorum (op.XXXII); subito però riconosceva che opp.V e XIII erano anche classificabili come dialexeis, il che lo portava, infine, a calcolare 8 logoi, comprendendovi anche l’Apologia, che pure – a suo non inesatto giudizio – «transitum ab orationibus ad declamationes facit». Come già si è accennato, i due epitafi furono precocemente studiati come espressioni di un genere letterario. Dopo i citati precedenti di C a f f i a u x (con la già segnalata ripresa di L e c l e r c q [19]) e G o s s m a n n , il modo in cui i due testi coriciani riprendono e variano le regole e i topoi illustrati dalla trattatistica sui discorsi funebri, specialmente da Menandro Retore, è stato variamente indagato, in particolare da S o f f e l (533, 80–82), che forse esagera nel marcare le differenze rispetto alle norme tradizionali ma ben coglie le innovazioni dovute al mutato clima culturale, da H u n g e r (158, 134), da R u s s e l l e W i l s o n (535, 326 e 332); quindi essi hanno ricevuto la debita considerazione negli studi sul genere funerario di S i d e r a s (soprattutto 98, 92–96, ma cfr. anche le osservazioni in 84 e quanto già notato supra, A.3). Da ultimo, un inquadramento dei due epitafi nella storia del genere e una loro analisi strutturale sono stati offerti da W e s t b e r g (122, 93–115) e G r e c o (61, 17–23 e passim nel commento): entrambi gli studiosi mostrano la maggiore semplicità dell’epitafio per Maria, conforme al carattere della defunta (ma l’affermazione di W e s t b e r g per cui il discorso per Maria sarebbe più vicino alla monodia che all’epitafio non mi pare giustificata), e l’importanza dell’elemento consolatorio, legato alla sensibilità cristiana; a come, per questo aspetto, Coricio si mostri buon allievo di Procopio, che aveva prodotto monodie innovative, accenna ora C o r c e l l a (569). Analogamente, anche gli epitalami coriciani sono stati tenuti ben presenti nelle trattazioni sul discorso nuziale in prosa fin dalla loro editio princeps nel 1891, anche perché erano tra i pochi esempi superstiti del genere (prima della scoperta del nuovo
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importantissimo epitalamio di Procopio, oltre ad essi si disponeva, per la grecità antica, pressoché solo dell’or.9 di Imerio, con in più la frammentaria or.37). Riferimenti al modo in cui gli antichissimi topoi del genere sono ripresi da Coricio non mancavano così nel fondamentale saggio Die Hochzeit des Peleus und der Thetis di Richard R e i t z e n s t e i n (Hermes 35, 1900, 73–105), che ne mostrava le origini nella poesia. All’inizio del periodo di nostra competenza, l’uso dei temi tradizionali fu ulteriormente studiato da W h e e l e r (525), dopo di che i due epitalami occuparono un posto rilevante nella sintetica ricostruzione del genere nuziale offerta nel 1962 da K e y d e l l (528), come pure, in serrato confronto con gli esempi di poesia epitalamica tardoantica, nello studio di V i l j a m a a (421, 125–131) e nella sintesi di H u n g e r (158, 150). Specialmente attento alle circostanze della recitazione era lo studio del 1979 di R u s s e l l (534), che citava Coricio a integrazione di quanto sui discorsi nuziali si ricava dalla trattatistica e opportunamente notava come in occasione del secondo epitalamio (op.VI) le spose fossero assenti (p.112); quindi lo stesso R u s s e l l , con W i l s o n , riportò vari esempi coriciani nel commentare i capitoli di Menandro Retore sui discorsi nuziali (535, spec. 312–314 e 321), e i due epitalami vennero ancora ben impiegati come fonti nel saggio dedicato nel 1991 da Maria Gilda L y g h o u n i s alla poesia nuziale greca (542; sull’uso di Saffo ved. supra, B.3.a.i.α.2). Negli ultimi anni si sono infine avuti contributi particolarmente rilevanti. Se attentissima ai problemi di genere era la dissertazione di C u f f a r i che abbiamo citato supra, n.5, e buone analisi formali, con discussione anche di aspetti ideologici (tra cui alcune innovazioni che rivelano sensibilità modernamente cristiana), sono state offerte da W e s t b e r g (122, 77–92), l’esauriente contributo di P e n e l l a (493) ha permesso di individuare il discorso per il matrimonio di un allievo come un vero e proprio sottogenere con topoi propri (in primo luogo il contrasto fra Eros e le Muse). Chiarimenti importanti sul genere e le occasioni dei due epitalami sono però soprattutto giunti da Chiara Te l e s c a , già nella tesi dottorale citata supra, n.5 e quindi in un articolo del 2013 (518), che mostra tra l’altro come il più rapido e informale epitalamio per Zaccaria (op.V), definito nello scholium una διάλεξις (ved. i.β), abbia qualcosa in comune con il κατευναστικὸς λόγος menandreo e paia essere stato tenuto durante il festeggiamento nuziale, in presenza della sposa, mentre alla recitazione di quello per Procopio, Giovanni ed Elia (op. VI) le spose sembrino invece essere state assenti, sì da far pensare a un vero ἐπιθαλάμιος λόγος recitato al di fuori della festa nuziale e forse proprio nella sede della scuola, anch’esso comunque sperimentale perché, con un tour de force che la finta modestia del proemio amplifica, concentra tre celebrazioni in una (cfr. in proposito anche P e r n o t [544, 271]). Nell’articolo Te l e s c a può del resto tener conto anche dell’ampio epitalamio di Procopio per Melete e Antonina recentemente scoperto; e tanto nell’edi tio princeps quanto nella nuova edizione procopiana per la Collection Budé (565; 68) Eugenio A m a t o fornisce a sua volta anche vari chiarimenti sugli epitalami coriciani, i cui aspetti performativi e di genere vengono dal confronto con il più canonico e compiuto testo procopiano ulteriormente illustrati. Alcune consonanze tra gli epitalami di Coricio e Procopio e la Vita di s. Tecla, messe ora in luce da N a r r o (130), ulteriormente mostrano, del resto, la ricchezza della tradizione retorica sul discorso nuziale cui gli autori gazei si ispirano (cfr. supra, A.3).
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Minore attenzione, almeno fino a tempi recenti, è stata riservata agli aspetti più squisitamente retorici degli encomi, piuttosto oggetto – come si è visto – dell’interesse degli storici. V i l j a m a a (421, 100) notò, acutamente, che Coricio aderisce, in essi, alle regole prescritte da Menandro, in particolare indicando al pubblico con adeguate formule il passaggio da una sezione all’altra; e H u n g e r (158, 121) non mancò di inserire gli encomi coriciani nella rassegna sulla storia del genere. In seguito, però, si possono segnalare soprattutto interventi marginali: la presenza negli encomi dei to poi del logos basilikos menandreo fu ad es. segnalata nel 1987 da Mary W h i t b y (539, 291), mentre Ruth W e b b (553, 130–131) ha notato la cospicua presenza di linguaggio della prova nell’encomio per Summo. Da ultimo, però, anche gli encomi sono stati studiati dal punto di vista degli aspetti ideologici connessi ai vari topoi celebrativi (così ad es. da S a r a d i [261, 59–68] e da G r e c o [63]) e posti sotto la lente dell’analisi retorica. Una attenta analisi della loro struttura e del loro rapporto con i valori sociali è stata offerta nella dissertazione di W e s t b e r g (122, 30–51, 62–76, 116–124); già S a l i o u aveva offerto un preciso schema dei due encomi per Marciano (142, 193) e sul primo di essi è ora uscito uno studio di P e n e l l a (522) che dedica ampio spazio anche alla sua articolazione. Che rispetto ai più sviluppati encomi per Marciano opp.III–IV abbiano invece struttura più agile ben emerge dall’analisi di W e s t b e r g (122, 62–76); nel discutere del panegirico per Asiatico di Procopio ora A m a t o nota come l’encomio per Summo appartenga piuttosto al genere del prosphonetikos logos (68, 224). Ciò è senz’altro congruo con la natura improvvisata di questo breve discorso, dichiarata dal titolo: P e r n o t (544, 430 n.41) cita anzi proprio questa orazione tra gli esempi di elogi per cui la natura improvvisata è nota, assieme a quella per i Brumalia di Giustiniano (op.XIII). Stando allo scolio, quest’ultimo discorso è però un esempio di dialexis (nel senso di laliá); forse anche per questo non è preso in considerazione da W e s t b e r g (122) e uno studio della sua struttura retorica ancora si desidera (per il modo in cui è stato usato nelle ricostruzioni dei Brumalia ved. supra, B.2.a). I primi due encomi, per il vescovo Marciano, contengono però anche le descrizioni delle chiese su cui ci siamo più volte soffermati (supra, A.2 e B.2.b); i titoli le definiscono esplicitamente ἐκφράσεις (il punto è ora opportunamente notato da W e b b [564, 21 n.6]) e nel corso dell’esposizione Coricio si mostra ben conscio della loro specifica identità rispetto alle lodi del vescovo: P e r n o t citava quindi i due testi tra gli esempi di «elogi combinati» (544, 273–277, spec. 274 n.120) e sui diversi modi in cui nei due casi le ekphraseis si fondono nel contesto, per accumulazione o per integrazione, svolge fini osservazioni W e s t b e r g (122, 48–51, cfr. 143–176), mentre L a u r i t z e n osserva che esse assumono valore quasi autonomo (275, 74). Di conseguenza, anche se Coricio, diversamente da Procopio e Giovanni, non ci ha lasciato ekphraseis indipendenti, le due descrizioni sono state ampiamente considerate nelle trattazioni dedicate al genere letterario dell’ekphrasis. In realtà, l’ekphrasis come forma retorica non è soltanto la descrizione di opere d’arte, ma ogni vivida rappresentazione, come ha di recente ricordato Ruth W e b b in un importante volume (562: per la menzione di XXXIX 33 alle pp. 486–487 ved. infra, ii). Pure, proprio sull’ekphrasis di edifici e oggetti d’arte si è in genere concentrata l’attenzione degli studiosi, data l’importanza che la comprensione di tale sottogenere aveva per la ricostruzione storico-artistica,
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e Coricio, con tutta la scuola di Gaza, ha trovato generalmente menzione nelle relative trattazioni: basti selettivamente ricordare i quadri tracciati da D o w n e y (527, spec. 939), I r m s c h e r (529), H o h l w e g (530, spec. 50), M a c r i d e s e M a g d a l i n o (541, spec. 52–53), E l s n e r (561, spec. 40). Ma come già si è detto nella sezione B.2.b, l’esigenza di usare correttamente le descrizioni letterarie ai fini della ricostruzione ha ben presto portato a interrogarsi più attentamente sul ruolo che nell’ekphrasis avevano le tradizioni retoriche e i meccanismi estetici e ideologici, in modo da poter esattamente intendere il rapporto tra convenzione e rappresentazione veritiera tenendo conto degli orizzonti di attesa del pubblico e dei suoi atteggiamenti rispetto all’arte. Se una precoce riflessione in tal senso era stata svolta nel 1930 da Oskar W u l f f (524, con rapida menzione di Coricio a p.534), il tema fu affrontato in maniera approfondita nel 1974 da Henry M a g u i r e (78), il quale tra l’altro osservò come i riscontri con opere contemporanee dimostrino che Coricio, pur usando topoi, descriveva con una certa accuratezza oggetti che aveva realmente veduto. Ma ai fini di una retta comprensione delle ekphraseis coriciane i più importanti contributi sono venuti, a mio avviso, da una riflessione sui contesti performativi. Sempre nel 1974, Peter B r o w n (532, 4 = 199–201) fece un’osservazione fondamentale, che nella pur attualmente ampia bibliografia sull’ekphrasis non sempre viene ricordata ma merita un’ampia citazione: commentando la raccolta di descrizioni bizantine di M a n g o (29), egli notò che i monumenti descritti nelle ekphraseis erano di fatto «immerse in the bustle of an ancient town» e che i Bizantini «inherited a long tradition in describing public monuments which encouraged them to tell either too little or too much. It is the crowd beneath the mosaics that they address. This crowd does not want to be told what they can see in any case: they want to be told what it means to them at that particular moment»; e l’affermazione era illustrata proprio con l’esempio della descrizione delle raffigurazioni di s. Sergio, nella quale «Choricius articulates for his audience what it was possible for them to feel about the participants in the events depicted», con un’attenzione ai dettagli (definita «rococo») che permetteva al pubblico una partecipazione emotiva a qualcosa che diveniva una rappresentazione cerimoniale. Coricio ha, in realtà, in mente anche un pubblico assente, che leggerà il testo scritto, come mostra I or.1,16 (su cui W e b b [548, 62] e C o r c e l l a [111, 83–85]), ma se non si tiene conto dell’effetto della descrizione sul pubblico immediato non si comprendono le sue scelte (e abbiamo visto supra, A.6, come già l’ormai solo libresco Giovanni Phokas/Doukas avesse difficoltà ad apprezzare il punto). Gli studi più recenti sulle ekphraseis coriciane hanno in effetti dato importanza all’aspetto dell’interazione con il pubblico, mostrando come si tratti di descrizioni svolte in loco che si propongono, con varie strategie, di costruire un «monumento di parole» che compete con l’opera descritta commentandone aspetti ideologicamente significativi per gli astanti (fondamentale il saggio di W e b b [548]; in tal senso inoltre S a r a d i [552], R e n a u t [555], S t e n g e r [60, spec. 84–86], spunti anche in G r e c o [333] e L o u k a k i [281]); lo stesso uso e abuso di perifrasi e lessico metaforico, che crea problemi al moderno storico dell’arte, è parte integrante di questo atteggiamento (come ora nota P o l a ń s k i [340, 197], Giovanni o Coricio «wanted to sound unnatural, extremely literary, extraordinary and striking with their archaising, forgotten or newly coined semantics, vocabulary,
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syntax and phraseology»). La più matura comprensione dei presupposti e delle condizioni dell’ekphrasis, favorita da una ricca fioritura di studi sul tema negli ultimi anni (si vedano ad es. gli atti del convegno di Praga pubblicati in Byzantinoslavica 69, 2011, ma la bibliografia è in continuo progresso), ha avuto, naturalmente, un benefico influsso sul modo in cui ora si tende a valutare la veridicità delle descrizioni coriciane: se l’ekphrasis è sempre anche, per sua natura, abile commento, la presenza di un filtro retorico e letterario non è di per sé prova della mera convenzionalità e quindi dell’infedeltà della descrizione, occorre valutare la strategia dell’autore in rapporto alle aspettative del pubblico e alla cultura con esso condivisa. Ancor prima di M a g u i r e (78), in realtà, un caso esemplare era già stato individuato da K i t z i n g e r (296, 96 e n.54 = 201 e n.54): in I or.1, 35 compare la sequenza ὄχναι καὶ ῥοιαὶ καὶ μηλέαι ἀγλαόκαρποι, di chiara ascendenza omerica, e però la compresenza di melograni, meli e peri è ben attestata nell’arte palestinese dell’epoca, al punto da far sospettare un influsso omerico sugli artisti prima ancora che sul retore. In altri casi, invece, Coricio stesso denuncia la divergenza tra iconografia reale e convenzione letteraria (o tradizione artistica consolidata): così in I or.1, 33, dove si rivela l’assenza, nelle raffigurazioni di giardini delle absidi laterali di s. Sergio, dell’usignolo e della cicala cari ai poeti (sul punto si soffermano da ultimo G r e c o [333, 106–109], S p a n o u d a k i s [502, 92], L o u k a k i [281]), mentre in II or.2, 50 con approvazione si enfatizza che il Nilo non sia raffigurato «nel modo in cui i pittori dipingono i fiumi», non sia cioè – come già vide Stark nel 1852 – personificato (il dato è ora ben commentato da M a g u i r e [547; 566, 28–29 e 55] e P o l a ń s k i [337, 172; 339, 201; 340, 37], ved. anche S t e n g e r [60, 93 n.71]; non mi paiono giustificati i dubbi espressi da G r e c o [333, 114]). In passi come questi (discussi anche da W e s t b e r g [122, 164–168]), l’esplicita segnalazione dello scarto rispetto al modo più tradizionale di rappresentare e quindi di descrivere mostra come Coricio debba fare i conti con gli orientamenti ideologici del suo pubblico e nel far questo si riveli ben cosciente dei problemi insiti nel rapporto fra cultura classica e religione cristiana (o, volendo, antichità e modernità), tema che affronteremo nella sezione B.4. (i.β) Le dialexeis A proposito del ruolo e del significato delle dialexeis si dispone ora della trattazione limpida e ricca di P e n e l l a (53, 26–32). Già G r a u x aveva in realtà ottimamente visto che le dialexeis coriciane hanno in genere la funzione di preludi: «l’orateur devait, aussitôt monté à la tribune, prononcer ces courtes compositions, plus ou moins en rapport avec son sujet, pour se mettre, en quelque sorte, en haleine et fixer l’attention de son public. Puis, au bout de quelques instants de repos, il abordait son véritable discours. […] D’ordinaire, une ἐπίδειξις […] se composait d’une διάλεξις, puis du discours ou de la déclamation proprement dite, λόγος ou μελέτη» (ved. Oeuvres de Charles Graux, II, Paris 1886, 10 n.1). Le edizioni parziali e gli studi di F o e r s t e r ampliarono le conoscenze, ma quando nel 1899 S c h m i d sintetizzò il problema nell’articolo su Coricio per RE (III, 2424–2431) l’ancora imperfetta conoscenza del corpus lo portò da un lato a individuare una tipologia di «diatribenartig frei präludierende διάλεξις»
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posta davanti alla μελέτη ma dall’altro anche a insistere sulle dialexeis come testi indipendenti, parlando peraltro, per op.XXXIII dial.20, di un colorito cinicheggiante e di una derivazione dalla diatriba. Da una non troppo meditata ripresa di queste affermazioni credo derivino alcune confusioni attestate nella manualistica e in pur autorevoli voci enciclopediche. In particolare, mentre M e r c a t i , senza troppo compromettersi, definiva le dialexeis «25 brevi discussioni […] per esercizio scolastico» (145), G ä r t n e r esponeva l’idea, non del tutto corretta, per cui le 25 dialexeis, oltre ad essere anteposte a mo’ di proemio alle altre opere, possano essere «z. T. in selbständiger Diatribenform popularphilosoph(ischen) Gegenständen gewidmet» [153, 1159]; su questa linea K r o h arriva a parlare di «14 [?!] Dialexeis, also popularphilosophische Diatriben» (156; il numero 14 ritornerà in Ł a n o w s k i [159, 135]) e il Lexi kon der Byzantinistik addirittura di «populärphilosoph(ische) Traktate» (171, 112). In realtà, per quanto il termine διάλεξις, come il suo sinonimo λαλιά, possa indicare ogni sorta di discorso informale, tra cui anche le cosiddette «diatribe» filosofico-morali, è indubbio che, come G r a u x aveva ben visto, le dialexeis coriciane appartengono per la maggior parte (23 casi) al genere del breve discorso introduttivo recitato prima di un’orazione o di una declamazione, chiamato anche προλαλιά; il fatto che Coricio stesso le indichi talora come πρόλογοι ne rivela in effetti chiaramente la natura, e l’uso del termine διάλεξις in questo senso specifico (ben notato ad es. da R u s s e l l e W i l s o n nel discutere dell’uso proemiale della λαλιά [535, 295]) si ha già in Filostrato: fra gli studi sulla διάλεξις = προλαλιά più attenti anche a Coricio si segnalano, dopo la dissertazione di A . S t o c k , De prolaliarum usu rhetorico, Regimonti 1911, soprattutto le trattazioni di M r a s (72), R u s s e l l (36, 77–79) e P e r n o t (544, 546–568), e di particolare interesse restano le osservazioni di V i l j a m a a (421, 68–97) sui parallelismi tra le dialexeis coriciane e i prologhi giambici a componimenti poetici, in seguito sviluppate, con speciale riferimento al proemio di Agazia e alle metafore in esso usate, anche da K a p i t á n f f y (554); Coricio è presente anche nella discussione sul genere delle praefationes di Claudiano compiuta da F e l g e n t r e u (546, spec. 51–55). Rispetto alle 23 dialexeis preliminari, però, a parte si pongono l’epitalamio per Zaccaria (op.V) e il discorso per i Brumalia di Giustiniano (op.XIII), chiamati διαλέξεις negli scholia ma che ben difficilmente si possono intendere come dialexeis proemiali e dovettero essere pensati come brevi e informali discorsi autonomi, sicché per essi vale la definizione di διάλεξις come sinonimo di λαλιά (senza però, si badi, alcuna connotazione diatribica): sulla questione si vedano più esattamente P e n e l l a (53, 27; cfr. anche il suo recensore F e r n á n d e z D e l g a d o [ 54, 4 9 – 5 0 ]) e Te l e s c a (125, 95–98). Quando M a k r i s (169) menziona «25 Vorreden (διαλέξεις)» rivela l’ormai consolidata acquisizione del ruolo di «preliminary talks» (secondo l’ottima definizione di P e n e l l a [53]) che le dialexeis in genere hanno, ma non tiene conto del fatto che nel numero di 25, già indicato da R i c h t s t e i g (1, XXXV), sono appunto compresi anche opp.V e XIII. Sintomatico di analoghe confusioni è del resto anche il singolare computo di K e n n e d y (536, 175–177), che nel corpus coriciano ravvisa, oltre alle 12 meletai, solo 6 logoi epidittici (e precisamente 3 encomi, 1 epitalamio e 2 epitafi) e ben 28 dialexeis: lo studioso evidentemente registra tra le dialexeis non solo opp.V e XIII, che forse conta due volte, ma probabilmente anche il breve encomio improvvisato per
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Summo (op.IV or.4, chiamato λόγος dallo scholium), e ciononostante definisce le dia lexeis «proemia» (né è chiaro dove collochi l’Apologia mimorum). Al di là di queste confusioni, e tenendo da parte opp.V e XIII, gli studi degli ultimi anni hanno insomma confermato quel che già G r a u x ben sapeva, e cioè che 23 dia lexeis coriciane sono indubbiamente προλαλιαί, conservate dalla tradizione davanti ai discorsi e alle declamazioni cui si riferivano (talora una declamazione lunga, recitata in due giorni, presenta due dialexeis: per questo aspetto si vedano le osservazioni di P e r n o t [544, 458 e n.223], P e n e l l a [53, 29–30] e Te l e s c a [125]); la differenza rispetto alle dialexeis di Procopio è ora ampiamente discussa da A m a t o (68). Vero è che – come nota P e n e l l a (53, 29) – se la natura generalmente proemiale delle dia lexeis coriciane è un fatto certo, avvalorato dall’uso del termine πρόλογος, l’esatta relazione di ogni singola dialexis o coppia di dialexeis con il rispettivo logos o melete è per lo più garantito solo dal dato codicologico, e cioè dalla posizione nel Matritense 4641 (per qualche possibile perturbazione, e per alcune conclusioni che si possono trarre dall’Athos, Meg. Lavra Ω 123 ved. però supra, A.3). Ma che tale dato sia relativamente antico è indicato dal trattato περὶ λογογραφίας, che – come mostrato da C o r c e l l a (121; cfr. supra, A.3) – già notava questa peculiarità del corpus coriciano rispetto ad a ltre tradizioni in cui le dialexeis o prolaliai apparivano invece divise dai discorsi o declamazioni di riferimento. Su argomenti, strutture e movenze delle dialexeis di Coricio il più volte citato volume a cura di P e n e l l a (53), contenente anche le traduzioni inglesi annotate (ved. supra, A.2), è ormai punto di riferimento imprescindibile; sulla dialexis 1 ved. anche quel che si dirà infra, B.4. (i.γ) Le meletai Anche per le meletai coriciane, nel corpus definite non solo μελέται ma anche πλάσματα, si dispone ora della trattazione complessiva di P e n e l l a (53, soprattutto la presentazione generale alle pp.8–26; sull’uso tardoantico del termine μελέτη si veda anche C i v i l e t t i [551, 74 n.37]; su πλάσμα, anche K a p i t á n f f y [460, 160; 463, 116]). Come più volte abbiamo visto, l’auspicio di uno studio approfondito delle meletai era stato espresso nel 1930 da S y k u t r i s (8, 1839–1840), mentre l’anno dopo M o r e l aveva registrato, nella voce Melete per la RE (526, 498–499), il progresso segnato dall’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g , limitandosi però solo rapidamente a ricordare che alcune declamazioni coriciane attingevano i loro argomenti all’Iliade e a Erodoto. Perché uno studio più approfondito delle meletai cominciasse a svilupparsi si dovette attendere, come si diceva, il risveglio di interesse per la retorica negli anni ’70 del secolo scorso. Già nel 1976 Simonetta F e r a b o l i dedicava così un articolo (132) al Miltiades (op.XVII decl.4), nel quale ripercorreva lo sviluppo dell’argomentazione alla luce dei modelli classici usati come ispirazione. Valore epocale per una rivalutazione del genere assunse, nel 1983, la monografia sulla declamazione greca di Donald Andrew R u s s e l l (36), che rivelava una simpatetica attenzione per Coricio: vari testi venivano citati e commentati a illustrazione di aspetti dell’attività declamatoria (pp.26, 30–31, 78–79, 81–84) e una specifica analisi era dedicata allo Iuvenis
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fortis (op.XII decl.5: pp.102–105); soprattutto, l’arte di Coricio, giudicato il migliore autore di declamazioni in età tardoantica e «a great stylistic virtuoso, able to write elegant and classical Attic with full observance of the accentual clausulae of his own day» (pp.5–6), riceveva quell’apprezzamento che solo raramente le era stato riservato. Allo stesso anno risale anche lo studio sulle declamazioni greche e latine di Michael W i n t e r b o t t o m (537, spec. 60 e 74), nel quale, a parte alcune notazioni sul ritmo, soprattutto si osservava che Coricio non manca di rispettare, fondamentalmente, i precetti di Ermogene, come già notò lo scoliaste che appose alcune indicazioni retoriche in margine al Rhetor (op.XLII decl.12), ma che rispetto a un Sopatro rivela un ben differente talento per la caratterizzazione («ἦθος is all»); l’anno seguente lo stesso W i n t e r b o t t o m poteva quindi ampiamente utilizzare passi di meletai coriciane nel commentare il corpus delle Declamationes Minores attribuite a Quintiliano (538, spec. 309, 318, 323, 333, 335, 339, 352, 354, 355, 368, 394–395, 396, 426, 431, 453, 464, 499, 520) ed esprimere il memorabile giudizio per cui, rispetto al carattere sofisticato di Sopatro, «Choricius, though less technical, and interested rather in psychology and credibility, treats his readers as adults» (p.XII; il giudizio, pienamente condivisibile, corrobora l’idea che le declamazioni coriciane non fossero pensate solo per la scuola: ved. infra, ii). Le differenze rispetto alla precettistica ermogeniana e la presenza di elementi innovativi fu quindi ulteriormente segnalata nel 1995 da Malcolm H e a t h nel discutere del Tyrannicida di Coricio (op.XXVI decl.7) fra i materiali illustrativi del De statibus ermogeniano (545, 178–179); e l’anno dopo R u s s e l l tenne ben conto di Coricio nella traduzione annotata di alcune declamazioni libaniane (465, 8, 158, 178). Le premesse per un’indagine complessiva erano così poste, e tuttavia non aveva tutti i torti K a p i t á n f f y quando, tra il 1994 e il 1995, riecheggiava ciò che a suo tempo aveva già detto S y k u t r i s : le opere di Coricio suscitano scarso interesse e «werden höchstens als Quellen für die Zeitgeschichte geschätzt», mentre le declamazioni, prive di interesse storico, vengono trascurate (460, 159; cfr. 463, 115). In realtà, proprio questi studi di K a p i t á n f f y sullo Spartiates (op.XXIX decl.8) mostravano la possibilità di trovare elementi di interesse storico-culturale anche nelle declamazioni e anzi, rispetto all’uso meno avvertito che della stessa declamazione nel medesimo torno di tempo aveva svolto C o r s o (44), rivelavano l’importanza di una comprensione della dimensione retorica di tali testi anche ai fini di un loro uso come documenti: se ne è già parlato supra, B.3.a.ii. Ormai nel nuovo millennio, le declamazioni sono così pienamente tornate al centro dell’attenzione degli studiosi coriciani. Un passo importante per un loro migliore apprezzamento, contro un persistente pregiudizio che portava a ritenerle inferiori rispetto alla produzione libaniana, è stato compiuto nel 2005 da Bernard S c h o u l e r (556), che dopo una fine analisi dei temi e delle argomentazioni ha mostrato come Coricio si riveli nelle meletai specialmente interessato ad esaltare, contro ogni spirito guerriero, la comprensione e la riconciliazione, la dolcezza e la moderazione, e soprattutto la gioia, il rilassamento, la festa; l’anno seguente lo stesso S c h o u l e r dedicava quindi uno studio specifico (559) alla lettura in parallelo del Miltiades coriciano e del Cimon di Libanio (decl. XI), che confermava tra l’altro l’idea di una sostanziale adesione agli schemi ermogeniani. Sempre nel 2006 Ruth W e b b offriva per parte sua una acuta analisi delle declamazioni
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come «fiction», ricche di elementi psicologici e letterari (381, spec. 109–117): di qui anche l’importanza del tema del «disguise, and the identity or dissonance between a person’s outward appearance and their inner nature» (un tema su cui è di recente ulteriormente intervenuto P e n e l l a [567], che nota le consonanze dei temi di opp.XIV decl.3 e XL decl.11 con le tesi dell’Apologia mimorum). La via era così definitivamente aperta per l’indagine dettagliata delle singole declamazioni: nel 2009 usciva il già più volte citato volume di P e n e l l a (53), ricco di osservazioni sui rapporti fra i testi coriciani e la tradizione retorica precedente e destinato a restare un punto di riferimento fondamentale (per una più precisa descrizione ved. supra, 1.b), ma appariva anche un primo studio di Simona L u p i dedicato all’uso della storia nel Miltiades (509; ved. anche infra, B.4), che assieme a un ulteriore saggio dell’anno successivo sulla struttura retorica della melete, studiata in rapporto ai precetti ermogeniani sul caso congetturale (563), costituiva il preludio alla già discussa edizione commentata (62). Vario lavoro è quindi in corso sulle altre declamazioni: in particolare, Gianluigi To m a s s i ha appena pubblicato un contributo sul Tyrannicida che tiene adeguatamente in conto sia la tradizione retorica del tema sia le specificità, soprattutto nella caratterizzazione psicologica, di Coricio (133). Emerge così insomma, anche per le meletai, quella coesi stenza di adesione alle regole tradizionali e di spunti innovativi che è in genere caratteristica di Coricio, e di tutta la scuola di Gaza, e su cui torneremo. Non sarà infine fuori luogo riportare in questa sezione sulle meletai anche i già rammentati studi di Antonino M i l a z z o (476; 489) sulle fonti per l’immagine di Filippo nell’Apologia mimorum, se si tiene conto della natura almeno in parte di melete che quest’opera ha (ved. supra, B.2.c e B.3.a.i.β.1). Parallelamente a questo rinnovato interesse per le meletai vi è stata anche qualche limitata indagine sulle theoriai che le introducono. Esse erano state naturalmente prese in considerazione nelle non molte trattazioni che discutevano di questo particolare tipo di testi presenti anche, più sporadicamente e in forme non sempre identiche, nei corpora di Libanio, Temistio, Imerio: così, in particolare, nella rassegna di passi sulla (pro)theoria di E. O r t h , Photiana, Leipzig 1928, 123–126 e poi nello studio di V i l j a m a a , specialmente attento a discutere della differenza rispetto alle dia lexeis (421, 71–72 93–94; qualche riserva in proposito è espressa da F e l g e n t r e u [546, 54–55]), nonché in una breve ma densa nota nel volume su Sopatro di I n n e s e W i n t e rb o t t o m (540, 14 n.3). L’importanza delle theoriai in quanto strumenti che consentono di entrare nel laboratorio di un retore non è d’altra parte sfuggita a R u s s e l l , che usa la definizione generale di «a teacher’s preliminary exposition preceding declamation» e riguardo a Coricio osserva che «he delights and instructs not only by his actual speeches but by the elegant prefaces in which he lays bare the secrets of his art» (36, 6, 83, 141); né ovviamente a P e n e l l a (53, 15–16), che giustamente nota come nelle theoriai Coricio commenti soprattutto gli aspetti psicologici del personaggio, ma crei anche un rapporto con il pubblico, cui non di rado si rivolge; quest’ultimo punto sarà oggetto della sottosezione seguente.
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(ii) Le pratiche, gli atteggiamenti, il rapporto con il pubblico Il rinnovato interesse per la retorica ha portato a studiare più approfonditamente, negli ultimi anni, le occasioni per cui le varie opere coriciane furono composte e i modi in cui furono recitate di fronte a un pubblico appositamente radunato (il θέατρον, concetto su cui si soffermano ad es. H u n g e r [158, 210 n.12], G r e c o [61, 85–86] e ora C o r c e l l a [519], cfr. supra, B.3.a.i.α.3). Il corpus coriciano, nelle sua ricchezza, offre d’altra parte varie informazioni in proposito, spesso usate dagli studiosi anche per illuminare le pratiche degli altri autori gazei (ad es. da G i g l i P i c c a r d i [558] e da C i c c o l e l l a [557] per Giovanni: si veda il capitolo relativo nella seconda parte della presente bibliografia; sui concorsi d’eloquenza R e n a u t [555, spec. 210–211]). In particolare, alcuni passi offrono indicazioni sui luoghi fisici delle rappresentazioni, a cui si è già accennato supra, B.2.a: tra gli studiosi che se ne sono occupati rammento in particolare C a v a l l o (560). Quanto alle occasioni, per i discorsi nuziali abbiamo già avuto modo di discorrerne in precedenza (supra, i.α). I discorsi funebri per personaggi autorevoli presuppongono d’altronde un pubblico cittadino e si è discusso se siano stati tenuti in occasione del funerale o qualche tempo dopo: S i d e r a s (98, 93 e 95), seguito da W e s t b e r g (122, 94) e in parte da G r e c o (61, 19 e 21–22), propende per l’idea che quello per Maria sia stato tenuto in prossimità del funerale e quello per Procopio in occasione di una successiva celebrazione. I discorsi encomia stici furono certo recitati davanti a un ampio pubblico cittadino, con la partecipazione dei maggiorenti, per occasioni importanti della vita pubblica: le annotazioni in proposito nella dissertazione di L i t s a s (34) meritano in genere di essere meditate, e sui rapporti con le festività gazee ved. supra, B.2.a. Riguardo alle declamazioni, talora si ripete che erano destinate agli allievi della scuola (così ad es. K a p i t á n f f y [460, 159] o, in riferimento all’Apologia mimorum, W e s t b e r g [122, 142]), ma il già citato cap.9 dell’epitafio per Procopio (da confrontare con il cap.31, dove si distinguono l’insegnamento in scuola, alcune audizioni per un pubblico di élite e le ἐπιδείξεις «in piazza», e con l’ulteriore testimonianza del carteggio con Megezio: ep.VI Amato) e alcune dialexeis (ad es. op.XXVII dial.16, con separata allocuzione finale ai νέοι) non escludono affatto e anzi suggeriscono una recitazione di fronte a un più vasto pubblico cittadino, comprendente anche gli allievi (cui forse erano specialmente indirizzate le theoriai, se queste venivano recitate: alla loro possibile presentazione orale accennano I n n e s e W i n t e r b o t t o m [540, 14 n.3]) ma non a questi limitato: dopo le fondamentali osservazioni di R u s s e l l (36, 74–86) e K o r e n j a k (550, 24–27, con la giusta osservazione: «Die Grenze zwischen Unterricht in unserem Sinne und öffentlicher Schaurede ist also fließend»), una riflessione complessiva è svolta da P e n e l l a (53, 13–14), ma soprattutto W e b b ha sottolineato come le declamazioni fossero «occasional performance pieces» che consentivano al professore di mettersi in evidenza e provvedere quindi anche alla propria carriera (381, 116–117), mentre L u p i ha potuto nettamente affermare che «il genere della μελέτη non rimaneva entro le mura della scuola, né era esclusivamente un esercizio praticato dagli studenti» ma aveva una dimensione spettacolare pubblica, come già ai tempi della Seconda Sofistica (62, 27–29).
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L’indagine sulle occasioni e i modi della rappresentazione ha insomma già prodotto buoni frutti, e però la ricchezza e l’articolata struttura del corpus permettono ancora approfondimenti su vari aspetti performativi (passi coriciani sono qua e là citati da P e r n o t nella sezione su «préparation, prononciation, publication» del libro La rhétorique de l’éloge [544, spec. 430 n.41, 458 n.223, 463 e n.256], ma una sintesi complessiva sarebbe auspicabile). Una maggiore attenzione «on the aspect of declamation as ‹display›», tale da illuminare il modo in cui Coricio interpretava il proprio ruolo, è stata così richiesta, nel recensire il volume di P e n e l l a , da W e s t b e r g (57, 10–11). Sempre a proposito delle declamazioni si è detto che già W i n t e r b o t t o m (538, XII), quindi W e b b (381, spec. 110–116) e lo stesso W e s t b e r g (57, 10) hanno messo in luce, anche sulla base delle theoriai, l’importanza della ricostruzione psicologica, tale da coinvolgere un più ampio pubblico; a Ruth W e b b si deve in particolare la fine analisi di un passo del Vir fortis (XL 33) che rivela come la dettagliata ekphra sis dei sentimenti provati dal parlante «communicates the speaker’s state of mind, the sight he feared and acted to avoid» e quindi gioca un ruolo fondamentale «in making the audience share the speaker’s perspective» (562, 150–151; cfr. già 381, 112–113; sul rapporto con il pubblico nelle ekphraseis artistiche ved. supra, i.α). Il coinvolgimento del pubblico, e l’interazione con esso, è d’altra parte caratteristico di tutta la produzione coriciana. In un efficace confronto con alcuni passi di Apuleio, K o r e n j a k (550, 136–139) ha fatto vedere come Coricio registri le reazioni da parte dell’uditorio ad es. in una dialexis (XXVII 4) e nell’encomio per Summo (IV 10 e 33–34); la parasiopesi sul fratello del celebrato in quest’ultima opera viene ora confrontata con la sua menzione al termine del discorso sui Brumalia di Giustiniano (XIII 14) da C o r c e l l a (568), che mostra come allocuzioni parentetiche a illustri personaggi che as sistevano alla recitazione rientrassero tra le aspettative del pubblico e discute più in generale dei mutamenti di allocuzione, per rivolgersi a diversi segmenti del pubblico, non infrequenti anche in altre opere. Come forme di allocuzione al pubblico siano ampiamente presenti non solo nelle dialexeis ma anche nelle theoriai è d’altra parte opportunamente osservato da P e n e l l a (53, 15–16). Sarebbe però un errore mettere questi meccanismi di coinvolgimento emotivo in troppo netta contrapposizione con l’uso degli artifici retorici, di cui non solo gli studenti ma anche il pubblico non strettamente specialistico doveva avere consapevolezza. Alcuni studi hanno anzi mostrato come Coricio riveli una spiccata tendenza a rendere il pubblico partecipe degli strumenti retorici da lui di volta in volta impiegati, commentando talvolta in un modo che si potrebbe definire «metaretorico» i procedimenti messi in atto: tale atteggiamento, normale nelle theoriai e appropriato alle dialexeis (e gli stessi scholia, se d’autore, ne sono una testimonianza), compare spesso nei proemi ma anche nel corpo stesso delle opere. Se in taluni casi si può in realtà pensare che i destinatari di siffatte osservazioni siano gli scolari (significativo in tal senso il tono didattico nell’illustrare i passi classici addotti negli epitalami per gli allievi, messo in luce da Te l e s c a [518, 259–261; 523]), spesso è però l’intero pubblico che viene chiamato ad apprezzare le tecniche compositive: vari esempi sono illustrati, per gli epitafi, nel commento di G r e c o (61, spec. 95), mentre sulla scia di quanto già notato da W e b b sulla possibilità «to read Chorikios’ declamations them-
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selves as a form of commentary on the art of declamation» (381, spec. 116) H a d j i t t o f i ora mostra come Coricio, nell’evocare i poeti, descriva l’attività creativa del retore stesso, riflettendo su quella mimesi il cui statuto è anche al centro dell’Apologia mimorum (385; cfr. anche le riflessioni sul tema del travestimento nelle declamazioni e nell’Apologia nel già citato recente articolo di P e n e l l a [567]). Ciò presuppone, naturalmente, da parte di Coricio, la fiducia nel fatto che il suo pubblico fosse in principio abbastanza educato e avesse sufficiente consuetudine con le teorie e pratiche retoriche per comprendere e apprezzare il suo gioco. E in effetti, almeno a livello di rappresentazione ideologica, questa convinzione è in lui ben attestata: l’analisi svolta da C o r c e l l a (116) del primo encomio per Marciano con la programmatica dialexis mostra come egli si sentisse chiamato a svolgere il ruolo di oratore ufficiale per un «aristocratico» pubblico di colti e retti proteuontes (già a suo tempo probabilmente allievi della scuola, e genitori degli allievi attuali e futuri) rispetto ai quali, peraltro, in un mondo che aveva assorbito ma anche superato la civiltà classica, l’antica tensione tra retorica adulatoria e verità discussa da Platone non aveva più ragione di esistere. Si è d’altra parte più volte accennato alle analisi dedicate da W e s t b e r g (122) ai modi in cui i generi e i loro topoi vengono adattati per esprimere bisogni sociali moderni in forme antiche ma al contempo rinnovate: la maniera in cui ad esempio Coricio accortamente dosa l’uso del mito di tradizione pagana in contesto cristiano, talora rimarcando esplicitamente davanti al pubblico il senso dell’operazione che sta compiendo (ne abbiamo già visto degli esempi), fa parte di tali strategie. Con ciò però veniamo a discutere del ruolo ideologico e politico di Coricio nella Gaza del suo tempo, che sarà oggetto della sezione successiva. 4. Coricio e la società del suo tempo, tra antico e moderno: religione e ideologia 570. S. S a l a v i l l e , De l’hellénisme au byzantinisme. Essai de démarcation, Échos d’Orient 30, 1931, 28–64. 571. Clavis Patrum Graecorum, cura et studio M . G e e r a r d , I–VI, Turnhout 1974–2003. 572. A . G r i l l m e i e r , Jesus der Christus im Glauben der Kirche, I. Von der Apostolischen Zeit bis zum Konzil von Chalcedon (451), Freiburg i. Br. 1979, 19822 , 19903; II.1. Das Konzil von Chalcedon (451). Rezeption und Widerspruch, Freiburg i. Br. 1986, 19912; II.2. Die Kirche von Konstantinopel im 6. Jahrhundert (unter Mit arb. von Th. H a i n t h a l e r ), Freiburg i. Br. 1989; II.3. Die Kirchen von Jerusalem und Antiochien nach 451 bis 600 (hrsg. von Th. H a i n t h a l e r ), Freiburg i. Br. 2002; II.4. Die Kirche von Alexandrien mit Nubien und Äthiopien nach 451 (unter Mitarb. von Th. H a i n t h a l e r ), Freiburg i. Br. 1990. 573. R. V a n D a m , From Paganism to Christianity at Late Antique Gaza, Viator 16, 1985, 1–20. 574. G . M u s s i e s , Marnas, god of Gaza, ANRW II 18,4 (1990), 2413–2457. 575. Y . A s h k e n a z i , Paganism in Gaza in the fifth-sixth centuries, Cathedra / Qatedra 60, 1991, 106–115 (ebr.).
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576. J. H. W. G. L i e b e s c h u e t z , The Decline and Fall of the Roman City, Oxford 2001. 577. G. W. B o w e r s o c k , Mosaics as history: the Near East from late antiquity to Islam, Cambridge, Mass. – London 2006. 578. C. T i e r s c h , Zwischen Hellenismus und Christentum – Transformations prozesse der Stadt Gaza vom 4.–6. Jh. n. Chr., Millennium 5, 2008, 57–91. 579. V. D r b a l , L’Ekphrasis Eikonos de Procope de Gaza en tant que reflet de la société de l’Antiquité tardive, Byzantinoslavica 69, 2011, 106–122. 580. A . C o r c e l l a , Usi del mito a Gaza, in: G . C i p r i a n i – A . Te d e s c h i (a cura di), Le chiavi del mito e della storia (= Kleos 24, 2013), Bari 2013, 77–99. 581. J. R. S t e n g e r , Choricius’ Unease about Myths or How to Stand up for the Classics in Gaza, in: E . A m a t o – A . C o r c e l l a – D . L a u r i t z e n (éds.), L’École de Gaza: espace litteraire et identité culturelle dans l’antiquité tardive. Actes du Colloque International de Paris, Collège de France, 23–25 mai 2013, Leuven – Paris – Bristol, CT 2017, 1–17. Cfr. 44, 49, 51, 53, 60, 61, 63, 116, 122, 254, 266, 282, 333, 363, 371, 381, 382, 383, 385, 460, 463, 509, 533, 556, 569. In quanto capo della scuola in cui i rampolli della classe dirigente gazea si formavano, e oratore chiamato da un lato a intrattenere con ben scelte declamazioni, dall’altro a parlare a nome della città in occasioni ufficiali o a celebrare importanti momenti della vita intervenendo a matrimoni e funerali, Coricio svolgeva insomma una rilevante funzione sociale e ideologica, i cui contorni sono stati variamente indagati negli studi recenti. In particolare W e s t b e r g (122, spec. 116–124) ha messo in luce il ruolo di Coricio come elaboratore e trasmettitore di valori sociali, soprattutto negli encomi, dai quali traspare un gioco ideologico per cui l’oratore, il celebrato e la città tutta sono impegnati in un vicendevole rapporto costruito sui meriti e le ricompense. I valori specificamente messi in evidenza per i singoli personaggi sono stati indagati di recente da G r e c o (63), che conclude attribuendo al retore un indirizzo ispirato a «peace, harmony and order»; mentre H a t l i e (266, 48–49) ha indagato il caso di Maria, mostrando che il suo elogio è anche quello dei figli e che il valore preminente è la phi lanthropia. Abbiamo del resto già avuto modo di vedere in precedenza (B.2.c) che la philanthropia è uno dei valori-guida dell’Apologia mimorum nella lettura fattane da S c h o u l e r (371); e che lo stesso S c h o u l e r (556) ha individuato la comprensione, la moderazione, lo spirito di festa come valori chiave nelle declamazioni (ved. supra, B.3.b.i.γ). Anche nelle declamazioni, nonostante la loro dimensione di esercizio ludico, gli studiosi hanno in effetti cercato di ravvisare spunti legati ai problemi politici, intellettuali e morali contemporanei: si è già detto (supra, 3.a.ii) delle letture dello Spartiates che vi ravvisano allusioni alla questione delle immagini sacre (così C o r s o [44], K a p i t á n f f y [460; 463], F a v a [505]; credo comunque abbia ragione K a p i t á n f f y nel sottolineare che non si tratta di intenzionali prese di posizione ma di allusioni forse anche non pienamente consce a problemi dibattuti); che sia possibile
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leggere nel Miltiades allusioni alle guerre contro l’impero partico, come vuole L u p i (509; 62, 69–87), può apparire più forzato. In ogni caso, che Coricio, per la sua funzione, sia pienamente calato nella società del suo tempo è, alla luce delle ricerche degli ultimi decenni, un dato indubitabile, e l’immagine del retore intento a una innocua attività di mera rielaborazione di temi ritriti, presente soprattutto in alcuni giudizi ottocenteschi (ved. infra, C), può ormai dirsi definitivamente superata. Senza dubbio Coricio era, per il suo mestiere (ved. supra, B.3), un professionista della cultura classica, che veniva chiamato a trasmettere nell’insegnamento e ad applicare nei suoi discorsi, e di conseguenza era inevitabilmente legato a forme e contenuti tradizionali, dal suo pubblico peraltro in ampia misura apprezzati e condivisi; ma gli studi degli ultimi decenni hanno sempre meglio messo in luce come tali forme e contenuti, per essere socialmente efficaci, dovessero essere adattati alle esigenze di un mondo che presentava molti elementi di novità. Coricio viveva in una città dell’impero, e di un impero cristiano; e i temi della cultura classica filtrati da una lunga tradizione retorica dovevano essere resi compatibili con questa realtà. Di qui quella prospettiva che W e s t b e r g (122, spec. 197–205) ha chiamato di «genre development», lo sviluppo e l’adattamento dei generi e dei loro topoi per esprimere bisogni sociali moderni in forme antiche ma rinnovate. Ne abbiamo già visto, nella precedente rassegna, vari esempi, ma è opportuno tirare ora brevemente le somme di una tendenza che mi pare tra le più feconde negli ultimi studi coriciani. Nel già citato studio sulla prima dialexis (116), C o r c e l l a ha mostrato come Coricio proclami un modello di retorica che, trascegliendo solo il meglio della cultura antica, è in grado di porsi al servizio della verità, superando così le contraddizioni a suo tempo lumeggiate da Platone: con un’operazione intellettuale che risente delle interpretazioni neoplatoniche alessandrine, Coricio riesce in tal modo a salvare il ruolo dell’educazione tradizionale, purché purificata, facendone una componente essenziale dell’ordine costituito. Il problema era, esplicitamente, politico (con un governo in mano ai raffinati proteuontes le contraddizioni delle antiche democrazie potevano dirsi superate), ma anche religioso: in fondo, la vera grande novità del mondo contemporaneo rispetto all’antichità era il cristianesimo. Su Coricio e il cristianesimo il dibattito è antico: già Fozio, in fondo, notava la singolarità, in un retore cristiano, dell’insistito uso di miti pagani, anche in contesti sacri. Di qui la tendenza, che periodicamente ritorna negli studi, a dubitare dei suoi sentimenti religiosi. Che Coricio potesse essere «un païen mal converti» fu ad es. sostenuto dall’anonimo recensore dell’edizione di B o i s s o n a d e in Nouvelle Revue Encyclopédique 2, 1846, 358; e se S c h m i d , pur notando il suo orizzonte culturale a suo dire tutto pagano, riteneva che egli fosse stato «ohne Zweifel […] Christ» (RE III 2426–2427), ormai all’inizio del periodo di cui ci stiamo occupando S a l a v i l l e (570, 60) si spingeva ad affermare che Coricio, con tutta la scuola di Gaza, rappresenterebbe «un example insigne de l’alliance définitivement conclue entre le christianisme et l’hellénisme représenté alors, comme aux siècles précédents, par la sophistique». Il dibattito successivo ha, in fondo, spesso soltanto rimodulato queste differenti posizioni, incentrandosi soprattutto sull’uso del mito e sulla difesa dei mimi, ma non di rado enfatizzando, nell’opera coriciana,
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un aspetto a scapito di altri e semplificando in modo unilaterale una realtà complessa; donde giudizi divergenti. Nel 1985 V a n D a m (573) poteva così citare Coricio come riprova dell’ormai affermata cristianizzazione di Gaza nel VI secolo. Nel 1990, per converso, M u s s i e s (574) additava la menzione di Zeus nell’orazione per i Brumalia come indizio del possibile perdurare di paganesimo, e di un culto semiufficiale di Marnas. L’anno seguente A s h k e n a z i (575) tratteggiava i problemi della cristianizzazione a Gaza nel V e VI secolo notando, anche attraverso Coricio, la persistenza di elementi pagani tra i «semicristiani» delle classi colte (più ampio ed equilibrato il bilancio, su cui torneremo, tracciato dallo stesso studioso nel 2004 [49]). Tra gli studiosi che con maggior nettezza hanno avanzato il sospetto di un paganesimo di Coricio si colloca B a r n e s , il quale in un saggio del 1996 (363a, 178–180 = 363b, 329–331), a seguito di un’analisi dell’Apologia mimorum, concludeva affermando che «(w)hat Choricius reveals, perhaps inadvertently, of his deepest assumptions about life and death surely stamps him as a pagan». Tale tesi fu però contestata nel 2006 da B o w e r s o c k (577), che nel discutere della presenza del mito tanto in Coricio quanto nei mosaici coevi osservò come esso facesse parte di una cultura civica diffusa non in contrasto con il cristianesimo; e lo stesso B a r n e s , nell’Addendum alla ristampa del suo saggio del 2010 (363b, 331), ha dovuto riconoscere che le osservazioni di B o w e r s o c k inducono a un ripensamento. In effetti, se l’idea di un Coricio pagano ancora talvolta riaffiora (ad es. in L u g a r e s i [383, 217–218]), oggi però largamente prevale l’opinione per cui egli fu cristiano: abbiamo del resto già visto come la sua figura venga spesso compresa in trattazioni di letteratura cristiana (supra, B.1), sicché la sua presenza nella Clavis Patrum Graecorum (571, III 403, nr.7518) suona come una sorta di consacrazione (confermata ad es. dall’analoga presenza nella continuazione del Christus di G r i l l m e i e r [572, II.3, 13–16]). Non si vedono in effetti fondate ragioni per dubitare del cristianesimo di Coricio: in fondo, l’argomento già avanzato da K i r s t e n (Quaestiones Choricia nae, Diss. Vratislaviae 1894 = Breslauer philologische Abhandlungen 7.2, 1894, 6) per cui altrimenti non gli avrebbero certo consentito di celebrare il vescovo resta valido, come ha da ultimo ben notato P e n e l l a (53, 4 n.14). Di conseguenza, si tende oggi a vedere il ricco dispiego di cultura classica paganeggiante in Coricio e negli altri gazei come non in contrasto con il cristianesimo, e anzi a ritenere che a Gaza si sia realizzato un felice contemperamento fra tradizione antica e sensibilità cristiana: così ad es., con diverse sfumature, L i e b e s c h u e t z (576, 229–230), K a l d e l l i s (382, 175), T i e r s c h (578; pur riconoscendo una certa singolarità dell’Apologia mimorum, l’autrice vede in Coricio e in genere nei gazei l’espressione di un compromesso tra religione cristiana e cultura greca cui tanto il vescovo quanto i retori aderivano), D r b a l (579, 119–121); caratteristico soprattutto il giudizio formulato nel 2004, al termine di un esame dettagliato di vari passi coriciani, da A s h k e n a z i , per cui a Gaza «so phists and priests, Hellenistic heritage and Christian devotion, Christian worship and pagan festivals, and perhaps even Chalcedonians and anti-Chalcedonians, existed alongside each other in a harmony» (49, 207). Tale giudizio generale non è a mio avviso errato, ma elementi fecondi per una più esatta comprensione sono giunti da studi che hanno in maniera più precisa e appro-
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fondita analizzato gli specifici atteggiamenti di Coricio nelle diverse opere, non sempre peraltro riconducibili ad una schematica unitarietà. Che il cristianesimo non trovi una troppo netta e chiara espressione nell’opera coriciana è un dato evidente, in parte dovuto alle convenzioni atticistiche e classicistiche (sul punto ha insistito ad es. C o r c e l l a [51, 157–162]). Nondimeno, l’orizzonte cristiano della vita di Gaza è nei testi variamente presente, anche se non sempre in modo diretto ed esplicito (sguardo sintetico in A s h k e n a z i [49]). Gli epitafi, in particolare, contengono non pochi elementi cristiani. A parte la menzione degli interessi esegetici del maestro Procopio in VIII 21–22 (su cui si vedano in particolare A s h k e n a z i [49, 204–205] e C o r c e l l a [51]), alcuni elementi innovativi erano stati già additati da S o f f e l (533, 80–82) e soprattutto il commento di G r e c o ha opportunamente illustrato come le virtù dei defunti da Coricio celebrate si prestino a una lettura tanto nel solco della tradizione filosofica classica quanto della nuova sensibilità cristiana (61; della stessa autrice cfr. anche 63 e 333); da ultimo un contributo di C o r c e l l a (569) mostra come questa conciliazione sia resa possibile, già nelle monodie di Procopio ma anche negli epitafi del suo discepolo, attraverso una sapiente opera di selezione, nel patrimonio classico, dei temi culturali e mitologici più nobili, escludendo invece elementi meno adatti. W e s t b e r g (122, 87–92) ha del resto messo in evidenza come una simile moralizzazione del mito, condotta attraverso l’esclusione dei racconti più sciocchi ancorché tradizionali, emerga anche dagli epitalami; e abbiamo già visto (supra, 3.b.i.α.1) che analoghe prese di distanza da miti e immagini convenzionali sono state illustrate in studi dedicati all’ekphrasis. Tutte queste ricerche hanno insomma mostrato come la selezione di ciò che nella tradizione classica, specie mitologica, è più compatibile con la sensibilità cristiana sia una delle strategie seguite da Coricio; un’altra, illustrata da C o r c e l l a (116; 569; 580) è la Überbietung, il paragone con figure del mito o della storia antica accompagnato però dall’affermazione che il personaggio contemporaneo paragonato non ne ha gli aspetti negativi, ed è migliore. Accanto e assieme a queste strategie, esistono poi casi di vera e propria relativizzazione del mito, che – soprattutto ma non solo quando si tratta di celebrare il vescovo – viene menzionato con formule di cautela e con l’avvertenza che il suo valore è limitato. La questione è stata attentamente studiata da S t e n g e r (60; 581), che ha dato il giusto risalto alla presenza di tali elementi di distanziamento e praemunitio, prova di un certo «unease about myths» e di un atteggiamento difensivo rispetto a critici della cultura classica che non dovevano a Gaza mancare, soprattutto negli ambienti monastici (sul punto ved. anche C o r c e l l a [51, 160–161]; ma la cautela coriciana rispetto al mito era stata già ottimamente notata da A . S t o c k , De prolaliarum usu rhetorico, Regimonti 1911, 98). Abbiamo già del resto ampiamente visto (supra, 2.c) come l’Apologia mimorum, per il suo carattere complesso e sperimentale, sia testimonianza di contraddizioni non totalmente risolte e abbia portato gli studiosi a riflettere sul problema della rivendicazione di uno spazio secolare di paidiá e di fiction non espressamente cristiana ma con il cristianesimo compatibile, almeno per chi sia provvisto di spirito tollerante anche se non per tutti (così soprattutto S c h o u l e r [371] e W e b b [381], nonché H a d j i t t o f i [385]). Una prima conclusione che emerge dall’insieme di questi studi è che il mito, e in genere la tradizione classica, sono per Coricio, come per tutti i pepaideumenoi della Gaza
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contemporanea, un elemento fondamentale di identità culturale che però, secondo le circostanze e le occasioni, va adoperato e modulato con attenzione (C o r c e l l a [580] ha offerto una rassegna delle diverse possibilità, che può utilmente essere confrontata con l’analogo spettro di opzioni tracciato, per le raffigurazioni iconografiche, in alcuni studi di Rita T a l g a m : si veda in particolare Bollettino di archeologia on line 1, 2010, 54–63). Coricio mostra, certo, la possibilità di uno spazio secolare che si rivela degno di rispetto, soprattutto quando esso è parte integrante di celebrazioni e spettacoli (dai Brumalia alle altre feste in cui si avevano spettacoli di mimo) socialmente importanti e che gli stessi imperatori e governatori sostenevano, salvo poi venire incontro alle posizioni rigoristiche espresse da alcuni ambienti ecclesiastici quando si creavano problemi di ordine pubblico (in questo senso utili le riflessioni di H e v e l o n e H a r p e r [254] e soprattutto di H a a r e r [282]). Anzi, più volte Coricio esplicitamente rivendica, per Gaza, un equilibrio tra «serio» e «giocoso» in cui, eliminati gli elementi più pericolosi, la migliore tradizione classica si concilia con la moderna spiritualità, le feste sono equilibrate, gli stessi mercati sono decenti (il punto è ora parzialmente indagato da C o r c e l l a [116; 580, 91–93]); e sul significato politico di tale rivendicazione ci siamo già intrattenuti. Talora, però, questo equilibrio traspare come più problematico e tale da richiedere formule di cautela. Rispetto quindi agli studi che hanno enfatizzato la realizzazione, nella Gaza di Coricio, di una pacifica armonia fra tradizione classica e nuova sensibilità cristiana, credo colga nel segno S t e n g e r (60; 581) quando, a conclusione delle sue analisi, sottolinea come si tratti di un equilibrio instabile, animato da una tensione continua. Coricio cerca la conciliazione e, come si è visto, predica continuamente philanthropia e moderazione, e vuol far credere che ogni contrasto sia, nell’equilibrio della sua città, risolto; ma nel contempo rivela come di volta in volta fossero necessarie diverse mediazioni, con esiti differenti secondo i personaggi in gioco (il governatore o il vescovo, anzi i singoli governatori e vescovi con i loro peculiari orientamenti), le circostanze (il contesto festivo civile o religioso), il momento storico. Alla luce degli ultimi studi, quindi, si può dire che Coricio rappresenta il tentativo di rivendicare la possibilità, per la classe colta di una città di provincia, di mantenere in vita alcuni aspetti della cultura tradizionale (a partire dalla retorica e i suoi miti) in un mondo cristiano, ma che sotto il regno di Giustiniano tale tentativo deve aver attraversato momenti anche non facili, e aver suscitato anche dei conflitti. Il giudizio di Fozio si rivela in questa luce particolarmente acuto: il patriarca si rendeva perfettamente conto di come le soluzioni trovate da Coricio offrissero modelli formali e contenutistici adatti all’imitazione nel mondo cristiano bizantino (e ved. infatti su pra, A.3), era però anche consapevole della presenza, nella sua opera, di un fondo non totalmente riducibile al cristianesimo, di qualcosa di più inquieto e inquietante. Proprio da questa tensione derivano, nei testi, quegli aspetti innovativi rispetto alla tradizione e talora francamente problematici che gli studiosi hanno variamente messo in luce e che sono stati in precedenza descritti. Una datazione ad annum di ogni singola opera consentirebbe probabilmente di apprezzare le diverse strategie messe in campo da Coricio anche in riferimento all’evolversi delle polemiche culturali e religiose, delle situazioni politiche e militari (le rivolte e i disordini), delle deliberazioni delle auto-
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rità (dall’imperatore al governatore), ma – come si è più volte visto (soprattutto supra, B.1) – datare esattamente le opere coriciane è tutt’altro che facile. Non si esclude che gli studi futuri possano produrre ulteriori risultati, soprattutto se verranno sorretti da nuove acquisizioni archeologiche ed epigrafiche. Ma occorrerà anche la capacità, nutrita di competenza filologica e conoscenze letterarie e retoriche, di cogliere nei testi quegli scarti e quelle increspature che possono essere rivelatori di problemi e temi sensibili – mi sia consentito, per questo aspetto, di rinviare alle considerazioni di metodo esposte in 51, 177–178. C. Bilancio e prospettive Dopo alcuni precedenti fra il XVII e il XVIII secolo, fu nella Francia dell’800 che si sviluppò un più consistente interesse per Coricio, culminato nell’edizione di B o i s s o n a d e , negli studi di C a f f i a u x , nelle edizioni di G r a u x (ved. supra, A.2 e A.3, e in particolare lo studio sulle missioni francesi in Spagna di Te l e s c a [128]). Si ravvisa, in questa stagione di studi, una attenzione agli aspetti più schiettamente retorici delle opere coriciane che potrebbe apparire precoce ma in realtà è per certi versi attardata, quasi un’eco postrema della fumaroliana «età dell’eloquenza» (una menzione di Coricio, attraverso la mediazione di Fozio, non mancava in effetti nel Theatrum ve terum rhetorum di Louis de C r e s s o l l e s [Parisiis 1620, 424]). In ogni caso, questo interesse non bastò a riscattare l’arte di Coricio da un giudizio negativo che, sulla base dei pochi testi allora conosciuti, era francamente espresso nelle enciclopedie di primo ’800 («ce que nous connaissons ne donne pas le désir de voir publier le reste», scrisse Étienne C l a v i e r nella Biographie Universelle di M i c h a u d [VIII, Paris 1813, 446 = 18542 , 200], mentre di «pièces […] fort médiocres» parlava il Dictionnaire his torique, critique et bibliographique di C h a u d o n e D e l a n d i n e [VII, Paris 1821, 30]; ved. supra, B.1) ma arriva fino almeno a S e u r e , che ancora nel 1930, a commento dell’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g , parla di «oeuvre scolastique et sans interêt» (7; ved. supra, B.2). B o i s s o n a d e aveva, in realtà, cercato di reagire, opponendosi in particolare al giudizio di C l a v i e r : «Dum erudita studia vigebunt, antiqui scriptores omnium omnes aetatum legendi erunt, quum ne unus quidem fortasse reperiatur vel inter infimos ac futiles, unde artis grammaticae doctrina et rerum veterum non queat augeri» (Choricii Gazaei Orationes declamationes fragmenta, Parisiis 1846, IX n.3). L’affermazione era certo corretta e efficace (si veda la recensione all’edizione di B o i s s o n a d e in Nouvelle Revue Encyclopédique 2, 1846, 355–361, dove il «pauvre rhéteur» era comunque giudicato utile come fonte storica), ma in fondo finiva col sottolineare che Coricio poteva essere oggetto di interesse grammaticale e antiquario più che estetico o davvero storico. E, in effetti, furono queste le vie seguite dagli studi successivi. Buon esponente di uno studio di Coricio per mero esercizio filologico formale e grammaticale fu, com’era da aspettarsi, Karl Gabriel C o b e t , che peraltro, commentando il lavoro di G r a u x e i precedenti studi francesi, ostentava di non credere troppo all’utilità di occuparsene a scapito dei veri classici: «In scriptoribus huiuscemodi non est multum operae et studii collocandum, ut olim in Gallia complures ἠμὲν νέοι ἠδὲ γέροντες solebant περὶ οὐδενὸς ἀξίων (ξυγγραφέων) ἀναξίαν σπουδὴν
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ποιεῖσθαι, ut Platonis verbis utar in Euthydemo pag. 304. e. Multo melius unus omnium populorum elegantissimus felix ingenium exercebit in praeclaris illis scriptoribus, quos Choricius non admodum feliciter imitabatur» (Mnemosyne n.s. 5, 1877, 164 = Collectanea critica, Lugduni Batavorum 1878, 144; le punte più polemiche vennero naturalmente omesse nella ripresa del testo all’interno delle Oeuvres de Charles Graux, II, Paris 1886, 79–83). Come d’altra parte, fin dagli anni ’50 dell’800, le opere di Coricio furono usate quali fonti da storici e storici dell’arte (a partire da S t a r k e U n g e r ) è stato già accennato in precedenza (supra, B.2). Quando Richard F o e r s t e r intraprese i suoi studi su Coricio (ved. supra, A.1), era verosimile aspettarsi che la matura scienza dell’antichità approdasse a una più compiuta comprensione storico-culturale del retore gazeo. Un auspicio in tal senso venne in effetti formulato da Karl P r a e c h t e r : «Auch die Erscheinungen dieser späten Rhetorik sollte man geschichtlich zu begreifen und kulturhistorisch zu verwerten suchen, anstatt, wie üblich, an ihnen als Machwerken hohler Schönrednerei hochmütig vorüberzugehen», scriveva lo studioso nel 1895 (ByzZ 4, 626–627) e ripeteva ancora, in forma simile, sette anni dopo («Die Zeit ist hoffentlich nicht mehr allzu ferne, da man diesen uns im ganzen wenig anmutenden Produkten gegenüber mehr als bisher das ästhetische Interesse gegen das historische zurücktreten lassen wird»: ByzZ 11, 1902, 1). La lentezza con cui F o e r s t e r procedette nel suo lavoro fece in realtà sì che tale auspicio non si realizzasse subito: l’assenza di una compiuta edizione del cor pus contribuì così a rendere, paradossalmente, esilissima la sezione dedicata a Coricio nel fondamentale studio di Kilian S e i t z sulla scuola di Gaza (Die Schule von Gaza, Diss. Heidelberg 1892, 21–23) e le stesse sintesi di Wilhelm S c h m i d , pur nella loro ricchezza, risentirono di questo limite (ved. supra, B.1). Quando, infine, l’edizione di F o e r s t e r uscì per le cure di R i c h t s t e i g , essa era però – come si è varie volte osservato (specialmente nelle sezioni B.2 e B.3) – postuma in più di un senso. Da tempo tramontata l’età positivistica, dopo il 1929 il mutato clima culturale, ormai improntato a tendenze umanistiche o comunque miranti alla ricerca di «valori» in storia e in letteratura, non induceva a un migliore apprezzamento storico-culturale della produzione retorica; le opere di Coricio restavano utili per la ricostruzione storica e storico-artistica, ma spesso erano impiegate solo come fonti cui attingere convenienti informazioni. Nella precedente rassegna (soprattutto nella sezione B.2) ho tuttavia anche cercato di mostrare come all’interno degli stessi filoni di ricerca che usavano Coricio come fonte ben presto si ravvisi, almeno negli studiosi più sensibili, l’esigenza di interrogarsi sull’arte di Coricio, innanzitutto per interpretare esattamente il suo dettato, talora oscuro per chi non abbia presenti tutte le sfumature del suo eloquio, e ancor più per comprendere i suoi presupposti culturali, che lo portano ad accentuare alcuni elementi e a sottacerne altri (esemplari in questo senso gli studi sull’ekphrasis, in cui una certa attenzione agli aspetti retorici e ideologici è precocemente emersa: ved. supra, B.3.b.i.α). Lo sviluppo degli studi sul mondo tardoantico, sempre più attenti alla dimensione sociale e culturale (ved. supra, Β.2.a), e la rinascita di interesse per gli aspetti retorici della letteratura (supra, B.3.b) hanno quindi variamente contribuito a sviluppare un nuovo interesse per i testi coriciani.
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I tempi paiono insomma maturi per una piena comprensione storica della figura e dell’opera di Coricio. Occorre, però, evitare che, per effetto degli imperanti specialismi, torni ad affermarsi l’antica divisione fra eloquenza e antiquaria. Fra gli studiosi più interessati alla dimensione storica dei testi coriciani, è necessaria una maggiore attenzione agli aspetti linguistici e retorici: se non si colgono i dettagli della lingua e del ritmo, la presenza di imitazioni, l’uso delle figure, il ruolo del genere e dei suoi topoi, si rischia di non capire il senso esatto delle parole di Coricio o di attribuirvi significati ingiustificati e improbabili, giungendo a ricostruzioni non ben fondate (in tutte le sezioni precedenti abbiamo in effetti visto vari esempi di fraintendimenti). Ma contro il simmetrico rischio di una sopravvalutazione degli aspetti formali e di una riduzione dei discorsi coriciani a mero lusus da descrivere con raffinate analisi retoriche, o nella migliore delle ipotesi a prese di posizioni ideologiche lontane dalla realtà, occorre d’altra parte ribadire l’esigenza di conoscere in maniera approfondita il mondo in cui Coricio viveva e la società gazea con tutti i suoi Realien; solo così, d’altronde, le stesse strategie retoriche coriciane diventano davvero comprensibili nella loro delicata dialettica fra tradizione e innovazione, fra antichità e modernità (che si tratti di inventare una adeguata perifrasi o di accennare discretamente a questioni potenzialmente pericolose), mentre un’analisi meramente formale troppo schiacciata sui modelli di scuola appiattisce Coricio, rendendolo un esempio fra i tanti, e neppure tra i migliori, di una tradizione immaginata come immutabile, il che ovviamente non è. Se entrambe queste esigenze vengono contemperate si può fare vera scienza dell’antichità: Coricio smette allora di essere un retore fra gli altri, anzi meno interessante di altri, o una mera fonte di informazioni non sempre ben comprese, per divenire il testimone e il protagonista di un’epoca di trasformazioni meritevole di essere studiato nella sua complessa individualità e nei suoi rapporti con una società ricca di tensioni. Alcuni studi recenti vanno in effetti in questa direzione (si veda in particolare supra, B.4), ma vi è ancora del lavoro fondamentale da compiere. Dal punto di vista del testo, l’edizione di F o e r s t e r e R i c h t s t e i g (1) va migliorata ma rappresenta una buona base; sulla scia del lavoro già avviato (soprattutto ma non solo da S t e f a n i s [38], P e n e l l a [53], G r e c o [61], L u p i [62]) occorrono buone traduzioni interpretative per tutte le opere (anche il dettato elementare dei testi coriciani è, come si è visto, talora frainteso o rimane comunque dubbio), e soprattutto occorrono ulteriori commenti che consentano agli specialisti dei vari campi (storia sociale, storia dell’arte, storia del teatro, storia della fortuna della cultura classica, retorica antica e così via) di poter avere un approccio meno parziale e meno ingenuo all’opera coriciana. L’edizione di Procopio appena uscita per la Collection des Universités de France (68) mostra quale sia la fecondità di un approccio che sulla base dell’esatta intelligenza filologica e retorico-letteraria dei testi ne metta in luce, in ampia prospettiva storica, i più vari aspetti e problemi: una analoga edizione commentata, già prevista nella stessa collana, sarà base essenziale per i futuri studi coriciani.
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II. Timoteo: 1927–2010 Nel caso di Timoteo, mi è parso opportuno scegliere, come esatto punto di partenza per la bibliografia con lista numerata, il 1927, anno in cui compare il fondamentale articolo di Max W e l l m a n n che sintetizza buona parte dei risultati precedenti. Tuttavia, la tradizione frammentaria e incerta delle opere di Timoteo, l’assenza di precedenti rassegne bibliografiche e l’incompletezza delle trattazioni esistenti, non prive talora di imprecisioni, rendono a mio parere necessario, per far davvero comprendere la discussione sulla bibliografia del periodo successivo al 1927 e sgomberare il campo dal possibile riprodursi di antichi errori, compiere una sia pur rapida messa a punto dei problemi attraverso un esame della letteratura precedente. Tanto per la trattazione generale sulla vita e le opere di Timoteo quanto per le sezioni dedicate alle diverse opere, la discussione ragionata dei titoli elencati nella lista numerata (che sarà comunque unica, data la sua esiguità) verrà quindi introdotta da una premessa sulla storia degli studi fino al 1927. Anche per Timoteo mi spingerò occasionalmente oltre il 2010 quando – alla data dell’aprile 2014 – mi fossero risultate notizie di contributi rilevanti (renderò in particolare conto dei saggi che mi erano già noti, mentre scrivevo, come in corso di stampa negli atti del convegno «L’École de Gaza: Espace littéraire et identité culturelle dans l’Antiquité Tardive» tenutosi a Parigi dal 23 al 25 maggio 2013 e sono usciti quando il presente contributo era in bozze). 582. M. W e l l m a n n , Timotheos von Gaza, Hermes 62, 1927, 179–204. 583. –, Die Φυσικά des Bolos Demokritos und der Magier Anaxilaos aus Larissa (APAW 1928, 7), Berlin 1928. 584. –, Der Physiologos. Eine religionsgeschichtlich-naturwissenschaftliche Untersuchung (Philologus-Sb. 22,1), Leipzig 1930. 585. –, Marcellus von Side als Arzt und die Koiraniden des Hermes Trismegistos (Philologus-Sb. 27,2), Leipzig 1934. 586. Suidae Lexicon. Ed. A. A d l e r . Pars IV: π-ψ, Lipsiae 1936. 587. F . S b o r d o n e , Ricerche sulle fonti e sulla composizione del Physiologus greco, Napoli 1936. 588. Physiologus. Ed. F . S b o r d o n e , Romae 1936. 589. A . S t e i e r , Art. Timotheos (18), RE VI A (1937), 1339–1341. 590. B. E. P e r r y , Art. Physiologus, RE XX (1941), 1074–1129. 591. C. W e n d e l , Art. Orthographie [A. Griechisch], RE XVIII (1942), 1437–1456. 592. Timotheus of Gaza on animals. Περὶ ζῴων. Fragments of a Byzantine para phrasis of an animal-book of the 5th century A. D. Translation, commentary and introduction by F. S. B o d e n h e i m e r – A . R a b i n o w i t z , Paris – Leiden s.d. [1949]. Rec.: C r o m b i e , AIHS 3, 1950, 726–728; T é t r y , RHS 3, 1950, 293; R u d b e r g , Lychnos 1950/51, 395.
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Gaza nel manoscritto contenente l’Antologia Palatina (oggi Par. suppl. gr. 384) in cui Timoteo è menzionato, come autore di un’opera sugli animali dell’India (ὁ γράψας περὶ ζῴων Ἰνδικῶν), tra le celebrità letterarie di Gaza assieme a Giovanni, Procopio e agli autori di anacreontiche (Lucae Holstenii notae et castigationes in Stephanum Byzan tium de urbibus, Lugduni Batavorum 1684, rist. 1692, 78). Quindi, nel 1715, Bernard de M o n t f a u c o n pubblicò le liste di scrittori contenute nel manoscritto parigino Coislin 387 in cui Τιμόθεος Γαζαῖος compare tra i grammatici (Bibliotheca Coisliniana, olim Segueriana […], Parisiis 1715, 597; nessuna menzione era peraltro nella stessa sede fatta del frammento ortografico di Timoteo presente nel medesimo manoscritto, che sarà pubblicato da C r a m e r nel 1841: ved. infra, D.1); perché divenisse noto l’elenco di opere grammaticali contenuto nel Prologus in grammaticam del monaco Pacomio Rusano (XVI secolo) si dovette invece attendere il 1784 (J. A. M i n g a r e l l i , Graeci Codices manuscripti apud Nanios patricios Venetos asservati, Bononiae 1784, 511), ma la menzione di Timoteo lì presente rimase per oltre un secolo ignorata, anche perché particolarmente confusa (ved. infra). Nella grande sintesi di sapere antiquario costituita dalle varie edizioni della Bibliotheca Graeca di Johann Albert F a b r i c i u s , Timoteo poteva così innanzitutto essere incluso fra i poeti tragici in una breve notizia che, fondata su Suida, rinviava alla letteratura antiquaria sul crisargiro (vol.I [Hamburgi 17051], 660; [17082], 693; [17183], 693); più significativa la menzione nel Cata logus grammaticorum, impreziosita dal riferimento all’ἀποσπασμάτιον di Timoteo nel manoscritto Oxford, Barocci 50 (VII1 [1717], 72; VII2 [1727], 71), e cioè agli escerpti sugli animali che saranno editi da C r a m e r solo nel 1837 (ved. infra), ma la cui esistenza era stata segnalata da Edward B e r n a r d nei Catalogi librorum manuscripto rum Angliae et Hiberniae in unum collecti cum indice alphabetico, Oxoniae 1697, 5, con resa latina dell’inscriptio («Timothei Grammatici Gazaei de animalibus quadrupedibus, et naturalibus eorum actionibus miris, poetice ab ipso expositis»); quindi, nella prima edizione del vol.VIII ([1717], 841), a introduzione dei testi coriciani lì pubblicati, veniva riportato lo scolio palatino edito da H o l s t e , mentre nel vol.IX ([1719], 601) era riprodotta la lista del Coislin 387 edita da M o n t f a u c o n . Quando infine Gottlieb Christoph H a r l e s ripubblicò la Bibliotheca, a integrazione della Notitia tragicorum deperditorum (II [1791], 325) aggiunse, oltre al rinvio interno alla notizia su Timoteo grammatico, il riferimento alla lista edita da M o n t f a u c o n (che non veniva più però a suo luogo riprodotta); immutate rimasero la menzione nel Catalogus grammaticorum (VI [1798], 380) e la citazione dello scolio palatino (IX [1804], 760). Questo, all’incirca, il quadro delle informazioni che l’erudizione del ’600 e del ’700 consegnava al secolo successivo. Si può aggiungere che già nel XVIII secolo fu compiuto qualche tentativo di identificare Timoteo di Gaza con personaggi omonimi (a una identificazione col Timoteo cronografo usato da Malala pensò Alessio Simmaco M a z z o c c h i , Spicilegium Biblicum. I. In Genesim, Neapoli 1762, 3 n.4). Soprattutto però nell’800, quando da un lato emersero nuovi testi più o meno sicuramente attribuiti a Timoteo di Gaza (di cui meglio si dirà nel seguito a proposito delle singole opere) e dall’altro venivano alla luce nuove notizie su personaggi portanti lo stesso nome, si tentò di integrare i dati già noti riconducendo all’autore menzionato da Suida altri frammenti di informazione. Come vedremo, alcuni collegamenti non erano ben
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fondati, e presto vennero abbandonati, anche se sporadicamente riemergono in letteratura; va tra l’altro osservato che proprio nella Gaza tardoantica Timoteo fu nome piuttosto diffuso (in omaggio al locale martire di età dioclezianea), e che quindi anche nel caso in cui le fonti menzionino personaggi di nome Timoteo vissuti a Gaza nello stesso periodo non è possibile immediatamente identificarli col nostro autore – tentazione cui però non sempre gli studiosi hanno saputo resistere. Così, quando nel 1841 Angelo M a i pubblicò l’editio princeps della Descriptio imaginis di Procopio (da lui attribuita a Coricio), ove è menzione di un Timoteo committente dell’opera collocata a Gaza oggetto dell’ekphrasis, non esitò a identificarlo col Timoteo menzionato da Suida, dallo scolio palatino di cui rendeva conto F a b r i c i u s e da Tzetze (Spicilegium Romanum V, Romae 1841, 444 n.1). M a i non poteva ancora conoscere il frammento ortografico del Coislin 387 che in quello stesso anno John Anthony C r a m e r pubblicò negli Anecdota Parisiensia (IV, Oxonii 1841, 239–244) subito opportunamente riconducendolo all’autore citato da Suida, al quale ora attribuiva anche gli escerpti zoologici già da lui stesso editi, senza commento, quattro anni prima negli Anecdota Oxoniensia (IV, Oxonii 1837, 263–269; ved. infra, D.1). Il frammento ortografico (ma non gli escerpti zoologici) compare quindi aggiunto al dossier su Timoteo per il resto attinto da M a i in una nota dell’edizione coriciana del 1846 di Jean-François B o i s s o n a d e ; B o i s s o n a d e si mostrava però poco convinto dell’identificazione con il personaggio della Descriptio imaginis (con l’argomento, in seguito spesso ripetuto, che ben difficilmente i meriti letterari di Timoteo sarebbero stati nella Descrip tio sottaciuti), e avanzava piuttosto la diversa proposta di identificare il grammatico Timoteo con l’omonimo individuo menzionato in due lettere dell’epistolario di Procopio (Choricii Gazaei Orationes declamationes fragmenta, Parisiis 1846, 172 n.4). I dubbi di B o i s s o n a d e furono ripresi da Karl Bernhard S t a r k (Gaza und die philistäische Küste, Jena 1852, spec. 604 e 644) ma sembrano invece essere sfuggiti a Gottfried B e r n h a r d y , che nel 1853, a commento dell’articolo su Timoteo di Suida (Suidae Lexicon Graece et Latine II.2, Francofurti 1853, 1141–1142), integra ampiamente il rinvio a Tzetze, già fatto da K ü s t e r , e quello allo scolio palatino, già presente nelle note inedite di H e m s t e r h u y s , citando innanzitutto la lista del manoscritto Coislin 387 resa nota da M o n t f a u c o n (ma non il frammento ortografico del medesimo manoscritto) e quindi gli escerpti zoologici del Barocci 50, per chiudere la nota con il rinvio al Timoteo della Descriptio imaginis, non prima però di aver identificato con Timoteo di Gaza anche quel Timoteo il cui nome si leggeva come fonte di una notizia sulle maree dell’Euripo nell’edizione curata da M a i del commento ai carmi di Gregorio di Nazianzo di Cosma di Gerusalemme (Spicilegium Romanum II, Romae 1839, 333), nonché l’altro Timoteo citato da Stefano di Bisanzio s.v. Γάλλος (= γ 28 Billerbeck) a proposito della forma di etnico Ποταμογαλλῖται. Tutto questo non sempre coerente lavorio di accumulo di dati sulla figura di Timoteo trovò una sintesi pressoché completa per la sua epoca nel fondamentale articolo del 1868 di Moriz H a u p t (Excerpta ex Timothei Gazaei libris de animalibus, Hermes 3, 1869, 1–30): oltre a compiere la definitiva attribuzione a Timoteo della cosiddetta Epitome Augustana e a raccogliere gli altri testi allora noti riconducibili alla sua opera zoologica (ved. infra, D.1), H a u p t riprese infatti pressoché tutte le infor-
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mazioni disponibili, tenendo conto, accanto ai dati certi, anche di quanto suggerito da M a i , B o i s s o n a d e e B e r n h a r d y . H a u p t mostrava in realtà una certa cautela nell’identificare con l’autore dell’opera sugli animali i Timotei citati da Procopio e l’autore della notizia sui Potamogalliti in Stefano di Bisanzio, ma più verosimile gli pareva invece l’identificazione con l’autore menzionato in Cosma di Gerusalemme. Proprio su questo punto, però, egli ebbe presto a ricredersi, e già nei Corrigenda datati aprile 1868 (Hermes 3, 1868, 174) comunicò come Karl M ü l l e n h o f f gli avesse fatto notare che il nome Τιμόθεος nell’edizione del M a i altro non fosse che un errore, del manoscritto o dell’editore, per Τίμαιος, garantito dalla tradizione parallela di Plutarco, plac. phil. III 17 e Stobeo I 38,6 (e cioè Aezio, Doxographi Graeci p.383; ved. FgrHist 566 F 73). Nel ristampare l’articolo nei Mauricii Hauptii Opu scula (III 2, Lipsiae 1876, 274–302), W i l a m o w i t z rafforzò peraltro i dubbi sulla identificazione con il Timoteo delle epistole procopiane, «de quo narrantur quae et de scriptore et de Choricii Timotheis cogitari vetant» (p.278 n.*; con il «Timoteo di Coricio» si allude naturalmente al personaggio menzionato nella Descriptio ima ginis di Procopio, allora a Coricio attribuita). A questo punto, lo pseudo-Timoteo di Cosma di Gerusalemme usciva definitivamente dal dossier su Timoteo di Gaza, e screditata era anche l’identificazione con i Timotei menzionati da Procopio (che però è ancora attestata ad es. in N. S a t h a s , Ἱστορικὸν δοκίμιον περὶ τοῦ θεάτρου καὶ τῆς μουσικῆς τῶν Βυζαντινῶν, ἐν Βενετίᾳ 1878, 334–335, con ulteriori elementi congetturali poi amplificati da J. S. Tu n i s o n , Dramatic Tradition of the Dark Ages, Chicago- London 1907, 88, e riaffiorerà, come vedremo, nella letteratura successiva). Quanto al Timoteo autore della notizia sui Potamogalliti in Stefano, Carl M ü l l e r , in una rassegna sugli storici di nome Timoteo da cui il gazeo era escluso, si chiedeva se potesse essere identificato con l’autore di un’opera περὶ ποταμῶν citato nello pseudoplutarcheo de fluviis oppure col Timoteo teologo noto da Plutarco e Arnobio come autore di un’opera sulla Frigia, sempre che i due non fossero a loro volta la stessa persona (FHG IV [Parisiis 1851], 522–523); lo scetticismo espresso da H a u p t sull’esistenza del περὶ ποταμῶν, considerato mera Schwindelliteratur («mendacium est»: Hermes 3, 1869, 3), spiega perché – come accenneremo infra, A.2 – ci si orienterà in seguito per l’identificazione col teologo (cui peraltro, per ironia della sorte, P i t r a aveva nel 1855 attribuito i frammenti zoologici parigini che poi G r a f f , seguito da H a u p t , rivendicò al gazeo: ved. infra, D.1). Dopo questi chiarimenti, le poche notizie superstiti sulla vita e l’opera di Timoteo furono sostanzialmente accresciute, oltre che dalla scoperta degli escerpti zoologici raccolti nella Sylloge Constantini, edita da L a m b r o s nel 1885 (Excerptorum Con stantini de natura animalium libri duo. Aristophanis Historiae Animalium Epitome subiunctis Aeliani Timothei aliorumque eclogis, Berolini 1885 = Supplementum Ari stotelicum I; ved. infra, D.1), dagli studi di Richard R e i t z e n s t e i n , che nelle sue ricerche sulla tradizione degli etimologici greci esaminò a Roma, tra l’agosto e il settembre 1886, il manoscritto Vallicelliano E 11, contenente frammenti dell’opera ortografica confluiti in una raccolta di scolii al lessico di Cirillo; di qui egli potè tra l’altro apprendere che Timoteo fu allievo del grammatico alessandrino Orapollo, di cui pareva citare anche opere (specialmente i τεμενικά ad Orapollo attribuiti da Suida, dato
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che varie glosse su nomi di templi comparivano negli scolii), e ricavare elementi per una rinnovata caratterizzazione dell’autore, da lui ora organicamente inserito all’interno di una storia complessiva degli studi grammaticali e della cultura tardoantica, con una forte enfatizzazione degli aspetti cristiani tanto nell’opera ortografica quanto in quella zoologica. R e i t z e n s t e i n rese noti questi suoi risultati in forma più precisa e organica solo nella Geschichte der griechischen Etymologika uscita a Lipsia nel 1897, ma subito – oltre a pubblicare qualche anticipazione in vari articoli e programmi – soprattutto comunicò i dati fondamentali a Peter E g e n o l f f , che potè utilizzarli nel programma Die orthographischen Stücke der byzantinischen Litteratur, Leipzig 1888 (per i dettagli ved. infra, B.1). Per questa via le informazioni rilevanti giunsero a Kilian S e i t z , autore di una breve sintesi su Timoteo in Die Schule von Gaza, Diss. Heidelberg 1892, 30–32 sostanzialmente completa (se non per il curioso silenzio sulla Sylloge Constantini), dalla quale restavano ormai assenti i riferimenti ai Timotei di Procopio e all’autore della notizia sui Potamogalliti. Negli stessi anni veniva anche notata la menzione di Timoteo di Gaza, ancora nel XVI secolo, nella lista di opere grammaticali contenuta nel Prologus in grammaticam di Pacomio Rusano (già edito da M i n g a r e l l i nel 1784 [ved. supra] e ristampato nel 1865 nel vol.XCVIII della Patrologia Graeca): che fosse un’opera a lui ascritta a celarsi sotto l’erronea formulazione Τιμοθέου τοῦ Χάρακος κανόνες del manoscritto Marc. gr. app. XI 26 (coll. 1322) fu indipendentemente notato da E g e n o l f f (Die orthographischen Stücke cit., 10 n.7) e da Anton B a u m s t a r k (Lucubrationes Graeco-Syriacae, Lipsiae 1894 [= Jbb. cl. Phil. Supplb. XXI, 353–524], 370–372), anche se nessuna traccia di ciò si trova nell’edizione di Pacomio a cura di Ioannes B a s i l i k o s uscita a Trieste nel 1908, che continua a riprodurre il testo del Marciano (ΚΑΝΕΛΛΟΥ ΣΠΑΝΟΥ ΓΡΑΜΜΑΤΙΚΗ ΤΗΣ ΚΟΙΝΗΣ
ΤΩΝ ΕΛΛΗΝΩΝ ΓΛΩΣΣΗΣ. ΠΑΧΩΜΙΟΥ ΠΟΥΣΑΝΟΥ ΚΑΤΑ ΧΥΔΑΙΖΟΝΤΩΝ ΚΑΙ ΑΙΡΕΤΙΚΩΝ ΚΑΙ ΑΛΛΑ ΤΟΥ ΑΥΤΟΥ, ἐν Τεργέστῃ 1908, p.119). Nel 1897,
d’altronde, Otto K r ö h n e r t ripubblicava la lista di grammatici del Coislin 387 comprendente la menzione di Τιμόθεος Γαζαῖος (Canonesne poetarum scriptorum arti ficum per antiquitatem fuerunt?, Diss. Regimonti 1897, 7 e 46), che l’anno dopo sarà ulteriormente ristampata da Ernst M a a ß (Commentariorum in Aratum reliquiae, Berolini, 1898, XVII). Ormai alla fine del XIX secolo, la figura di Timoteo di Gaza aveva quindi trovato una sua più precisa definizione, eppure non aveva tutti i torti Caspar H a m m e r nel commentare, a bilancio della sintesi di S e i t z , che di Timoteo «nur unbedeutende Nachrichten erhalten (sind)» (JAW 83, 1895 [1896], 114). Nulla comunque giustifica il fatto che ancora nel 1891 Georges A. C o s t o m i r i s , nel rendere conto della menzione di un Timoteo autore di un’opera sugli animali dedicata all’imperatore Anastasio nel catalogo di manoscritti atoniti del Par. Suppl. gr. 799 (per cui ved. infra, C.2 e D.2), non solo non fosse in grado di riconoscere l’autore gazeo ma si chiedesse di quale Anastasio – il primo o il secondo – si trattasse (Études sur les écrits des anciens médecins grecs. Troisième série: Alexandre (sophiste et roi), Timothée, Léon le philosophe, Théophane Nomos, les Ephodes, REG 4, 1891, 97–110: 99); è però solo un caso limite, e nel 1906 Hermann D i e l s , nel riprendere la notizia all’interno della lista di manoscritti dei «medici» (o meglio degli autori di fisiologia e storia naturale), corretta-
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mente individuò l’ulteriore menzione di Timoteo di Gaza, rinviando a C r a m e r , a H a u p t e alla Sylloge Constantini (Die Handschriften der antiken Ärzte. II. Die übrigen griechischen Ärzte ausser Hippokrates und Galen, APAW 1906, 1–115: 107). Ormai alle soglie del periodo di cui si dovrà ora rendere conto, tutto questo lavorio erudito, e gli studi che andavano sviluppandosi su quel che restava delle singole opere, potevano così trovare una rapida sistemazione innanzitutto nelle varie edizioni della storia letteraria di Wilhelm von C h r i s t , fino all’ultima versione rivista da Wilhelm S c h m i d (Geschichte der griechischen Litteratur II, München 1924 6, 974–975, cfr. 958 n.4 e 1076–1078), quindi nell’articolo del 1927 di Max W e l l m a n n , con cui passiamo alla sezione seguente. 2. Gli studi generali sulla figura e l’opera di Timoteo dal 1927 ad oggi Coerentemente agli interessi dell’autore, come meglio vedremo nella sezione D, il saggio del 1927 di Max W e l l m a n n (582) era fondamentalmente incentrato sull’opera zoologica; nella prima pagina esso però passava in rassegna i dati noti su Timoteo, mettendo in particolare rilievo l’importante contributo offerto da R e i t z e n s t e i n e insistendo quindi sul discepolato presso Orapollo e la natura cristiana della sua formazione. Tanto il contributo di R e i t z e n s t e i n quanto quello di W e l l m a n n vennero però trascurati da August S t e i e r nell’articolo per la Pauly-Wissowa del 1937 (589), che nella sostanza finiva col riprendere S c h m i d (circostanza stigmatizzata già da W e n d e l [591, 1445] e quindi da A l p e r s [605, 84 n.4]); ancora nel 1975, di conseguenza, la voce di Thielko W o l b e r g s per Der kleine Pauly (603) mancava di menzionare Orapollo e gli studi di R e i t z e n s t e i n , alla pari della voce per il Tusculum-Lexikon del 1963, riproposta con lievi modifiche nelle edizioni successive (152a, 507; 152b, 805–806; 152c, 853). Nel complesso più ricca, nonostante qualche carenza bibliografica (di cui si dirà infra, D.2), è la sintesi sulla figura di Timoteo offerta nel 1949 da B o d e n h e i m e r e R a b i n o w i t z (592, 1–7). Piena ricchezza di informazione mostrò d’altra parte Felix J a c o b y quando, nel 1958, raccolse tra gli autori di Aigyptiaka interessati alla «Tierwelt», sotto FgrHist 652, la notizia di Suida (ma con la singolare omissione del brano sulla tragedia), lo scolio palatino e lo scolio del Vallicelliano edito da R e i t z e n s t e i n , con opportuno rinvio all’edizione della Sylloge Constantini a cura di L a m b r o s (595, 204–205); nello stesso volume, pe raltro, Timoteo di Gaza veniva nettamente distinto dall’autore della notizia sui Potamogalliti, identificato invece con il Timoteo teologo che scrisse sulla Frigia (FgrHist 800, Anhang F 8). I brani selezionati da J a c o b y sono ora rapidamente commentati, con l’aggiunta di una breve ma sensata ricostruzione biografica, da Stanley B u r s t e i n nel New Jacoby in linea (659). Nel 1977, cinquant’anni dopo l’articolo di W e l l m a n n ma singolarmente mostrando di non averne contezza, offrì un quadro sostanzialmente completo e aggiornato della figura e dell’opera di Timoteo Maria M i n n i t i C o l o n n a (604): il ricco articolo riprendeva l’intero dossier, ridiscutendo anche, con qualche scetticismo, la possibilità dell’identificazione con gli altri personaggi omonimi menzionati dagli autori gazei (nonché con il Timoteo presente nell’epistolario di Dionisio di Antio-
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chia), quindi passava in rassegna tutte le testimonianze sulle opere, rivelandosi al corrente delle più recenti acquisizioni (di cui si tratterà nelle sezioni successive). L’anno seguente, la trattazione di H u n g e r (158, II 13, 18–22, 265–270) in parte risente – come già quella di K r u m b a c h e r (Geschichte der byzantinischen Litteratur, Mün chen 18972 , 263–264, 581, 631–633) – della divisione per generi ma risulta anch’essa ben informata e ricca di equilibrio nei giudizi (ved. infra, B.2). Densa di informazioni sulle fonti si rivela, nel 1980, la voce in PLRE II (207, 1121, Timotheus 3); ma dopo alcune essenziali messe a punto di A l p e r s (605, 84 n.4 e 93 n.41, e a 144 riedizione della lista di grammatici del Coislin 387; ved. infra, B.2) la migliore trattazione sintetica di cui si disponga è quella di Robert A. K a s t e r (215, 368–370, nr.156; cfr. 125, 138 n.2, 202), ricca di spunti critici che saranno trattati nelle sezioni seguenti e cui si può solo rimproverare di ignorare il contributo di M i n n i t i C o l o n n a (604): in particolare, K a s t e r sottolinea con precisione la difficoltà di identificare esattamente l’Orapollo maestro di Timoteo, giacché, diversamente da quanto faceva R e i t z e n s t e i n , si tende oggi a distinguere due grammatici di tale nome, presumibilmente nonno e nipote (cfr. 215, 294–297, nrr.77–78), e per motivi cronologici sembra difficile che Timoteo sia stato allievo del primo, probabile autore dei τεμενικά, mentre il secondo, che potrebbe essere stato suo maestro, non è attestato come autore di scritti tecnici, sì da far pensare che o Timoteo facesse riferimento a insegnamenti ἀπὸ φωνῆς oppure la notizia del discepolato sia un autoschediasma dello scoliaste (un’ipotesi più complessa è ora formulata da C o r c e l l a [662]: Timoteo si dichiarava discepolo di Orapollo jr. e però lo scoliaste ha consultato, oltre il trattato di Timoteo, opere di Orapollo sr.: ved. infra, B.2). Ben informato sulle fonti si rivela anche il saggio del 1996 di Antonino Z u m b o (623). Tra le menzioni in enciclopedie, repertori e trattazioni generali, oltre quanto già in precedenza indicato si può segnalare l’articolo essenziale di M a t t h a i o s per Der Neue Pauly (634), nonché la breve ma completa voce di S z a b a t (175, 320 nr.303, cfr. 188) e quella in ebraico, ampia e aggiornata, di G e i g e r (183a, 288–289; sintetica ripresa in 183b, 38–39); tutto centrato sull’opera zoologica è l’articolo di John S c a r b o r o u g h per l’Oxford Dictionary of Byzantium (617), anche più di quello, maggiormente equilibrato e criticamente ben fondato, di Arnaut Z u c k e r per la En cyclopedia of Ancient Natural Scientists (649). Nei contributi più recenti, peraltro, la questione della possibile identificazione con personaggi omonimi, che tanto aveva occupato gli studiosi dell’800 (supra, A.1), è stata in generale fatta cadere: Paul F r i e d l ä nd e r (70, 83, 95, 101, 103) aveva riproposto i dubbi di B o i s s o n a d e (da ultimo ripetuti, ad es., anche da R e n a u t [555, 210 n.60] e B ä b l e r [654, 612]), e fondamentalmente scettica in proposito si era mostrata – come si è detto – M i n n i t i C o l o n n a (604, 94), come ora G e i g e r (183b, 39 e n.21), ma gli altri studiosi per lo più ne tacciono. Il dossier è stato però ora riconsiderato in modo innovativo da E ugenio A m a t o (661), che prendendo lo spunto dall’ulteriore menzione di un Timoteo nel nuovo epitalamio di Procopio (par.13) mostra come sia verosimile che si tratti dello stesso personaggio lodato nella Descriptio imaginis, e come la sua probabile funzione di console onorario, di sacerdote del culto imperiale e di pretore incaricato della cura ludorum si concilierebbe perfettamente con la figura del nostro Timoteo: se la carica
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di console onorario ben poteva essere assegnata a un poeta e grammatico, le incombenze connesse alla pretura spiegherebbero ottimamente lo scritto di protesta contro il crisargiro, e il ruolo svolto dai magistrati nel trasporto di animali esotici per le ve nationes offrirebbe una motivazione concreta all’interesse per la zoologia (soprattutto tenendo conto di quanto il nostro autore forse diceva sul passaggio di giraffe addirittura in casa propria, se si può prestare fede alla testimonianza di Marwazī: ved. i nfra, D.2). Per quanto tali conclusioni non possano dirsi certe, A m a t o ha il merito di aver riaperto una questione che pareva essere ormai dimenticata, e non è da escludere che nuove scoperte consentano di dirimerla in maniera più netta; interessante sarebbe anche poter sapere con certezza chi fosse l’Arcesilao cui Timoteo dedicò l’opera ortografica (ved. la sezione seguente), problema su cui si sofferma ora C o r c e l l a (662) discutendo la possibilità di un rapporto con la famiglia dell’Arcesilao di Cesarea attestato nel 526 (PLRE II, ARCESILAVS 2 [207, 132]). Il saggio di A m a t o contiene anche importanti messe a punto sulle opere di Timoteo, delle quali si tratterà nelle sezioni successive, dove si avrà modo di mostrare che le principali novità rispetto ai risultati già noti alla fine dell’800 soprattutto riguardano la discussione sulla possibile presenza di resti del trattato ortografico in ulteriori rami di tradizione e il riemergere di frammenti della sua opera zoologica dalla tradizione orientale, e che rispetto alla caratterizzazione di R e i t z e n s t e i n e W e l l m a n n la natura cristiana della sua produzione appare oggi molto più dubbia. Merita però subito di essere segnalato come la possibilità dell’attestazione nella letteratura araba di un’opera di Timoteo non nota alla tradizione occidentale sia stata adombrata da Bayard D o d g e (598, II 679 e n.51): nella lista di commentatori dei libri di Ippocrate anteriori a Galeno riportata da Nadīm nel Fihrist si legge, in effetti, accanto a nomi più familiari (Simplicio, Antillo, Dioscoride etc.), anche quello di un certo «Timeo (Ṭīm’ws) il palestinese» (VII 3, p.287 Flügel = 340 Cairo 1348) e D o d g e , dopo aver riportato altre fonti arabe parallele che confermano la forma «Timeo», aggiunge «but it is probably an error, meant to be Timotheus Gazaeus». Come si ricava dall’indice dei nomi (p.1112), D o d g e era indotto a pensare che Timoteo, oltre che grammatico, potesse essere stato commentatore di Ippocrate in quanto lo conosceva come «scienziato» in virtù della sua generosa inclusione tra i medici antichi nelle summenzionate liste di manoscritti di D i e l s (APAW 1906, 107); ma che Timoteo, per quel che sappiamo di lui, possa aver scritto un commento ippocratico in grado di entrare in un canone (per giunta degli autori anteriori a Galeno) sembra altamente improbabile, sicché per intendere il dato della tradizione araba converrà piuttosto sondare a ltre ipotesi (Ivan G a r o f a l o mi suggerisce, per litteras [1.XI.2011], che l’errore possa piuttosto celarsi in «palestinese», forse da correggere in «platonico», e l’allusione potrebbe allora essere alle sezioni medico-fisiologiche nel περὶ φύσιος ascritto a Timeo di Locri; né va dimenticata la menzione di un «Timeo di Tarso», ma tra i medici successivi a Galeno, da parte di Isḥāq ben Ḥunayn: ved. F . R o s e n t h a l , Isḥāq b. Ḥunayn’s Ta’rīḫ al-aṭibbā’, «Oriens» 7, 1954 [rist. in I d . , Science and Medicine in Islam. A col lection of Essays, Aldershot-Brookfield 1998, nr.II], 55–80: 70 l.2 e 79).
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B. Timoteo grammatico: l’‹Ortografia ad Arcesilao› 1. Premessa: cenni sulla storia degli studi fino al 1927 Se Timoteo viene regolarmente chiamato dalle fonti γραμματικός e d’altra parte tra i grammatici, e non tra gli scrittori di ortografia, viene riportato nelle liste del Coislin 387, ciò potrà dipendere dal fatto che svolgeva l’attività di grammatico presso la scuola, o dalla sua tutt’altro che unilaterale fisionomia di «letterato» (si vedano in proposito soprattutto K a s t e r [215, 368–371 e passim] e S z a b a t [175, 185–189]); la sua produzione grammaticale nota è però tutta di carattere ortografico. Come si è accennato nella sezione A.1, un primo frammento dell’opera ortografica di Timoteo, recante il titolo Τιμοθέου Γάζης κανόνες καθολικοὶ περὶ συντάξεως, venne edito nel 1841 da John Antony C r a m e r , che lo attinse dal manoscritto Coislin 387 (Anecdota Graeca e codd. manuscriptis Bibliothecae Regiae Parisiensis IV, Oxonii, 1841, 239–244). Era una trattazione della σύνταξις nel senso ortografico del termine, e cioè del modo (chiamato anche μερισμός) in cui le lettere «si compongono» tra loro (e «si dividono» in sillabe). Già L e n t z adoperò questo frammento per ricostruire l’opera ortografica di Erodiano (Herodiani Technici reliquiae I [= Grammatici Graeci III 1], Lipsiae 1867, XCVI–CV, 393–395, 407–408); lo fece però in maniera piuttosto incoerente, come gli fu rimproverato da E . H i l l e r (NJbb XLI = JbbclPh 103, 1871, 611–615). Un pieno inquadramento dell’opera ortografica di Timoteo fu quindi dovuto soprattutto a Peter E g e n o l f f , che dopo averne trattato già nella dissertazione dottorale discussa a Strasburgo (Prolegomena in anonymi grammaticae epitomam, Berolini 1876, 19) se ne occupò variamente negli studi che avrebbero dovuto portare al volume V dei Gram matici Graeci, progettato per contenere i trattati ortoepici ed ortografici ma mai pubblicato; in particolare, nel programma del ginnasio di Heidelberg Die orthographi schen Stücke der byzantinischen Litteratur, stampato a Lipsia nel 1888, E g e n o l f f potè chiarire (pp.6–8) che Timoteo doveva aver scritto una ortografia tripartita, articolata, oltre che nella σύνταξις, nella ποιότης (la «qualità» delle consonanti e i loro mutamenti) e nella ποσότης (la «quantità» delle vocali, e specialmente le grafie con vocale semplice o con dittongo). In una appendice a questo medesimo programma (p.34), E g e n o l f f fu peraltro in grado di utilizzare le nuove acquisizioni di Richard R e i t z e n s t e i n , che negli scolii al lessico di Cirillo nel manoscritto Vallicelliano E 11 (X sec.) e in forma diversa tra le glosse presenti nel Laur. 59,49 (XIV sec.) aveva scoperto la presenza di materiale risalente a Timoteo: in particolare, uno scolio iniziale offriva un titolo dell’opera (Τιμοθέου τοῦ Γαζέως πρὸς Ἀρκεσίλαον ὀρθογραφία) confermato anche da un secondo scolio nel quale Timoteo era definito allievo di Orapollo, mentre un terzo scolio, nel ripetere quest’ultima informazione, offriva l’ulteriore indicazione ἐν τοῖς κατὰ στοιχεῖον ὑπ’ αὐτοῦ συγγραφεῖσιν διφθόγγοις. Dopo alcune anticipazioni nel fondamentale articolo su Esichio del 1888 (Die Ueberarbeitung des Lexicons des Hesychios, RhM 43, 1888, pp.443–460: 458 n.1) e negli Indices lectio num dell’Università di Rostock per i semestri invernali 1890/91, 1891/92 e 1892/93, R e i t z e n s t e i n finalmente espose i risultati delle sue ricerche nella fondamentale Geschichte der griechischen Etymologika, Leipzig 1897, in particolare nella appendice dedicata a «Oros und seine Zeit» (pp.287–350), dove adoperando largamente gli
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scolii dei due manoscritti e ravvisando tracce della dottrina di Timoteo anche in altri filoni dell’ortografia bizantina (specialmente in Niceta di Eraclea) caratterizzò l’opera di Timoteo all’interno della evoluzione degli studi grammaticali da Erodiano a Cherobosco, mostrando che l’ortografia di Timoteo risentiva della perdita di controllo sulle norme della scrittura ormai diffusa alla sua epoca anche tra le classi colte e tracciando il profilo di un Timoteo cristiano. Non tutto nella ricostruzione di R e i t z e n s t e i n , condotta peraltro talora in modo fortemente sintetico se non allusivo, poteva dirsi certo; e lo stesso E g e n o l f f , che già lo aveva notato in Die orthographischen Stücke (p.34), non risparmiò in proposito qualche ulteriore critica (soprattutto in Phil 61, 1902, 106–110), auspicando studi più approfonditi che la morte gli impedì di compiere13. In ogni caso, le acquisizioni di R e i t z e n s t e i n e di E g e n o l f f si imposero subito tra gli specialisti, come mostra ad esempio G. A u t e n r i e t h , Griechische Lexikographie, in K . B r u g m a n n et alii, Griechische und Lateinische Sprachwissenschaft (= Handbuch der Altertums- Wissenschaft II), München 18902 , 593; e costituirono il punto di partenza per gli sviluppi successivi. 2. Gli studi su Timoteo grammatico dal 1927 ad oggi Abbiamo già avuto modo di vedere come i risultati di R e i t z e n s t e i n furono recepiti nella sintesi del 1927 di Max W e l l m a n n (582); su alcune conclusioni di R e i t z e n s t e i n , riprese e amplificate da W e l l m a n n , relative allo scritto zoologico torneremo nella sezione D. Se nella Pauly-Wissowa – come si è accennato supra, A.2 – l’articolo su Timoteo di S t e i e r (589) si rivelava insufficiente, le acquisizioni di R e i t z e n s t e i n e E g e n o l f f furono invece pienamente valorizzate nella voce Orthographie di Carl W e n d e l (591, 1445). Per molto tempo non vi furono però studi originali sull’ortografia di Timoteo; e quando finalmente vi fu una ripresa di interesse, erano ormai emersi nuovi dati. Nel 1961, il catalogo dei manoscritti greci 1684–1744 della Biblioteca Apostolica Vaticana a cura di Ciro G i a n n e l l i (596, 141–144) rivelava la presenza, nel ms. Vat. gr. 1740 (del XVI secolo), di testi ortografici esplicitamente attribuiti a un Timoteo. Il dato fu valorizzato da M i n n i t i C o l o n n a (604, 98–101), che peraltro mise in luce come la tradizione di analoghi testi ortografici attribuiti a Timoteo fosse molto più ampia – dato quindi ulteriormente enfatizzato da K a s t e r (215, 369). Accanto al Timoteo del Coislin 387 e al «Timotheus Vallicellianus», su cui ulteriori chiarimenti aveva nel frattempo offerto Klaus A l p e r s nel libro dedicato all’opera atticistica di Oro (605, 83–86, 93 n.41, 144), emergeva così un «Timotheus Vaticanus». Uno studio di tutti questi filoni fu finalmente condotto, nel 1999, da Jean S c h n e i d e r all’interno di una analisi complessiva dei trattati ortografici greci e bizantini (627, spec. 15–71 e 176–224). Alla σύνταξις del Coislin 387 S c h n e i d e r riservava in re 13 Su Peter E g e n o l f f e le vicende del quinto volume dei Grammatici Graeci si veda S. Di Brazzano, Primi prolegomeni per l’editio princeps dell’epitome erodianea Περὶ πνευμάτων (De spiritibus) di Teodoreto grammatico, Incontri triestini di filologia classica 8, 2008/09, 51–83
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altà uno spazio piuttosto limitato (ma ad alcuni suoi aspetti lo stesso autore ha dedicato in seguito dei rapidi sondaggi [629, spec. 28–31; 647, spec. 167–169]; e cfr. anche i cenni sulla dottrina delle sillabe di C o n d u c h é [651, spec. 307–309]), per dedicarsi soprattutto a quella ποσότης che nelle glosse del «Timotheus Vallicellianus» è prevalente se non esclusiva; in particolare, S c h n e i d e r ha cercato di ricondurre le glosse che, nel «Timotheus Vallicellianus», si limitano a riportare la corretta grafia di una parola ai canoni esposti in forma sistematica nel «Timotheus Vaticanus», giungendo però al risultato di rilevare, in più punti, una sostanziale incompatibilità tra i due filoni. Se i primi recensori del volume non hanno per lo più sollevato obiezioni, una critica radicale all’approccio di S c h n e i d e r è stata mossa da Klaus A l p e r s (637, spec. 8–19), che ha notato come il «Timotheus Vaticanus» fondamentalmente coincida con un filone di tradizione ortografica tripartita attestato, ma senza attribuzione a Timoteo, nel Vindob. phil.gr. 240 (del XVI secolo), la cui σύνταξις è peraltro differente da quella attribuita a Timoteo nel Coislin 387: la conclusione di A l p e r s è quindi che, rispetto al «Timotheus Vallicellianus» la cui paternità è assicurata dalla precisa indicazione del titolo dell’opera, e ai κανόνες καθολικοὶ περὶ συντάξεως del Coislin 387, testimone antico e autorevole, il «Timotheus Vaticanus» sia in realtà uno pseudo-Timoteo, cioè un ramo della tradizione di un trattato ortografico anonimo che, nel Vat. 1740 e in altri manoscritti recenti, è stato impropriamente attribuito a Timoteo ma che con il gazeo non ha molto a che fare. La critica di A l p e r s sembra pienamente ragionevole, e bisogna probabilmente rinunciare a cercare davvero Timoteo di Gaza in trattazioni bizantine a lui falsamente attribuite. La lacunosità della nostra documentazione – su cui saggiamente attirava l’attenzione H u n g e r (158, II 19) – lascia però vari problemi aperti. L’ampia tradizione del «Timotheus Vaticanus» richiede una ricognizione completa; ma lo stesso «Timotheus Vallicellianus» va trattato con prudenza, giacché – come anche R e i t z e n s t e i n ben sapeva – le glosse al lessico di Cirillo del Vall. E 11 e del Laur. 59,49 non possono essere tutte ipso facto ricondotte al trattato ortografico di Timoteo e la stessa duplice indicazione di titolo («Ortografia ad Arcesilao» e «Dittonghi in ordine alfabetico») è suscettibile di diverse interpretazioni (ai «Dittonghi» come parte dell’«Ortografia», sulla scia di R e i t z e n s t e i n ed E g e n o l f f , pensa A l p e r s [637, 9 e 36], contro S c h n e i d e r che ipotizza due differenti opere [627, 36–42]): sulla presenza di più strati di fonti e su varie difficoltà interpretative, tali peraltro da ridimensionare la visione di un Timoteo cristiano avanzata da R e i t z e n s t e i n , si sofferma ora C o r c e l l a (662), che offre anche una più accurata edizione delle glosse esplicitamente attribuite a Timoteo. Occorrono però studi ulteriori, che riesaminino tra l’altro la questione della sopravvivenza di tracce di Timoteo in trattazioni ortografiche più tarde, da R e i t z e n s t e i n ed E g e n o l f f a volte evocata senza vera dimostrazione (sulla presenza di Timoteo in Niceta di Eraclea sollevano ora ad es. dubbi S c h n e i d e r [627, 68–71; 56, 395 n.46] e A n t o n o p o u l o u [635, 185 n.51]).
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C. La «tragedia» per Anastasio sul crisargiro 1. Premessa: cenni sulla storia degli studi fino al 1927 Come già si è detto supra (A.1), tanto Suida quanto Cedreno attribuiscono a Timoteo la composizione di una τραγῳδία sulla tassa chiamata crisargiro indirizzata all’imperatore Anastasio, opera che – secondo l’indicazione di Cedreno, cronologica mente in ogni caso imprecisa – sarebbe addirittura stata decisiva nell’indurre il so vrano a decretarne l’abolizione. Abbiamo visto come F a b r i c i u s non dubitasse, su questa base, del fatto che Timoteo fosse stato un poeta tragico; e S a t h a s si spinse a parlare di una tragedia rappresentata alla presenza dell’imperatore (Ἱστορικὸν δοκίμιον περὶ τοῦ θεάτρου καὶ τῆς μουσικῆς τῶν Βυζαντινῶν, ἐν Βενετίᾳ 1878, 333). Con una miglior coscienza della natura per lo più di recitazione a solo degli ultimi esempi di tragedia noti, Rudolf N i c o l a i aveva parlato, nel 1867, di «dramatische Monodie» (Geschichte der gesammten griechischen Litteratur, Magdeburg 1867, 630), e ancor più cautamente, due anni dopo, di «dramatisirende Monodie» (così nella ripresa della storia letteraria all’interno della Allgemeine Encyclopädie der Wissenschaften und Künste a cura di J. S. E r s c h e J. G. G r u b e r , I 87, Leipzig 1869, 293). Da tempo, però, sulla forma «drammatica» o «paradrammatica» della tragedia di Timoteo e sulla sua natura di testo destinato alla rappresentazione erano sorti dei dubbi. Già nel 1829 Christian August L o b e c k , a proposito di tutta una serie di «tragedie» e «drammi» postclassici attestati dalle fonti, tra cui appunto l’opera di Timoteo, aveva osservato: «quorum poematum etsi formam et descriptionem ignoramus, tamen Sophocleis simillima fuisse non videntur» (Aglaophamus, Regimonti 1829, 977). Al passo di L o b e c k aveva espressamente rinviato H a u p t (Hermes 3, 1869, 3), mentre S t a r k aveva per parte sua parlato di «eine poetische Bittschrift» (Gaza und die philistäische Küste, Jena 1852, 644). È interessante peraltro notare come B e r n h a r d y parlasse di «eine Tragödie zum Lobe des Anastasios» nelle prime edizioni della sua storia letteraria (Grundriß der Griechischen Litteratur, Halle 18613, I 660), mentre nella quarta edizione l’indicazione del carattere laudativo per l’imperatore venne cancellata e comparve la spiegazione «ein prunkhaftes Gedicht» (Grund riß der Griechischen Litteratur, Halle 1876 4, 676). A sostegno dell’idea che la «tragedia» di Timoteo fosse una poesia elevata non drammatica si poteva d’altra parte invocare l’uso bizantino di τραγῳδία, e quindi quello neogreco di τραγούδι, a indicare genericamente un «canto»: idea che sembra ad es. avere in mente Johannes F l a c h quando a commento dell’articolo di Suida scrive «τραγῳδίαν claudicare patet; an Byzantinorum more dictum?» (Hesychii Milesii Onomatologi quae supersunt, Lipsiae 1882, 214). Più precisamente, R e i t z e n s t e i n fece notare come analoghi alla «tragedia» di Timoteo potessero considerarsi i δράματα attribuiti da Fozio (Bibl. cod. 279) al suo maestro Orapollo, sottolineando come si dessero non pochi casi di grammatici che fossero al contempo poeti (Geschichte der griechischen Etymologika, Leipzig 1897, 312). Alcuni studiosi avanzarono insomma l’idea che la «tragedia» fosse un componimento non propriamente drammatico ma comunque poetico; emerse però anche una
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linea che portava a vedere nella «tragedia» un’opera in prosa. Quando N i c o l a i , nel medesimo passo pocanzi menzionato, aveva anche scritto che la tragedia di Timoteo, e così pure l’epos di Eusebio e Ammonio, i giambi di Giorgio di Pisidia e vari altri componimenti bizantini «vorzugsweise zur Prosa (gehören)», intendeva solo sottolinearne il carattere «impoetico». Ma in seguito alcune osservazioni svolte da Erwin R o h d e , che nel discutere del termine δρᾶμα applicato al romanzo osservò come le «tragedie» e «commedie» di alcuni sofisti postclassici gli apparissero «eher als irgend eine, schwer genau zu bezeichnende Gattung prosaischer Erzählung, denn als eigentlich scenische Dramen» (Der griechische Roman und seine Vorläufer, Leipzig 1876, 351 n.1), furono applicate anche al caso di Timoteo: così, nel modo più chiaro, da Wilhelm S c h m i d , che col supporto di un passo di Dionisio di Alicarnasso (De Thuc. 18) avanzava l’ipotesi di «eine Rede» nella sesta edizione della letteratura di C h r i s t (Geschichte der griechischen Litteratur II, München 1924 6, 974 n.2; non vi era peraltro piena omogeneità con quanto osservato a 958 n.4). S e i t z , per parte sua, proprio a R o h d e e a C h r i s t aveva rinviato a commento della sua menzione della «tragedia» (Die Schule von Gaza, Diss. Heidelberg 1892, 30–31), aggiungendo che la sopravvivenza di una copia di questo testo sembrava testimoniata da una lista di libri dell’Athos pubblicata da S a t h a s (per l’equivoco ved. la sottosezione seguente); nell’accennare peraltro alla τραγῳδία scritta da Doroteo a difesa del concilio di Calcedonia, aveva annotato «Auch Timotheus von Gaza schrieb eine solche «τραγῳδία»» (p.13 n.5), altro punto su cui torneremo. Gli studi fino al 1927 lasciavano quindi in eredità all’età successiva tre ipotesi interpretative: la «tragedia» come vero e proprio testo drammatico rappresentato in teatro, la «tragedia» come testo non teatrale ma comunque poetico, la «tragedia» come testo in prosa. Tutte queste possibilità sono state variamente riprese e discusse dopo il 1927. 2. Gli studi sulla «tragedia» dal 1927 ad oggi Quando, nell’articolo sul teatro profano bizantino pubblicato nel 1931, Albert V o g t trasforma Timoteo in un autore di teatro che in una certa occasione, per rinnovare il genere, si dà alla satira politica e scrive la tragedia sul crisargiro (345, 280–281), opera una evidente e per certi versi dilettantistica modernizzazione. Più cautamente e autorevolmente, però, l’idea che la τραγῳδία di Timoteo potesse essere una vera e propria tragedia venne riaffermata, sia pur in maniera implicita, da Bruno S n e l l , che proprio Timoteo registra come ultimo tragico della lista cronologica (nr.200) nel primo volume dei Tragicorum Graecorum Fragmenta (427, I 318). La possibilità di una sopravvivenza di rappresentazioni tragiche ai tempi di Timoteo non può in effetti essere del tutto esclusa, soprattutto se le si intende come recitazioni monodiche (si veda ad es. quel che a partire dai dittici del console Anastasio osservano K . N e i i e n d a m , The Art of Acting in Antiquity, Copenhagen 1992, 94–127 e R . W e b b , Demons and Dancers. Performance in Late Antiquity, Cambridge, Mass. 2008, 26; nonché, in questa sede, la rassegna su Coricio, B.2.c). La tesi dominante rimane tuttavia quella, già consegnata all’autorevole letteratura di C h r i s t e S c h m i d , che la «tragedia»
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fosse di fatto una orazione: così, tra gli altri, S t e i e r (589, 1340), il Tusculum-Lexi kon (152a, 507; 152b, 805; 152c, 853) e M a r t i n d a l e in PLRE II (207, 1121). Contro M a r t i n d a l e , però, nel 1982 B a l d w i n ha ulteriormente riproposto l’idea che possa invece trattarsi di «a rare example of dramatic writing in early Byzantium», portando a riscontro il «dramma storico» di Tolemeo Chenno (607, 101): il parallelo è in realtà cronologicamente poco convincente (come ha notato A m a t o [661, 81 n.49]), e si potrebbero semmai citare i δράματα di Orapollo su cui, come si è detto, attirò l’attenzione R e i t z e n s t e i n , ma che a loro volta, alla pari degli altri δράματα in vari metri di differenti autori presenti nel manoscritto descritto nel cod. 279 di F ozio, potrebbero essere componimenti non drammatici (messa a punto in J . H a m m e r s t a e d t , Photius über einen verlorenen Codex mit Autoren des vierten Jahrhunderts n. Chr. aus Mittel- bzw. Oberägypten, ZPE 115, 1997, 105–116: 109–111; per la possibilità che l’Orapollo autore di δράματα sia non il maestro di Timoteo ma il più antico portatore del nome ved. da ultimo la sintesi di L . M i g u é l e z C a v e r o , Poems in Context: Greek Poetry in the Egyptian Thebaid, 200–600 AD, Berlin – New York 2008, 7–10, con bibliografia). A fronte delle varie alternative, alcuni studiosi si sono d’altra parte mostrati piuttosto prudenti: così ad es. B o d e n h e i m e r e R a b i n o w i t z (592, 5), che registravano le diverse possibilità senza compromettersi (salvo se gnalare l’uso neogreco di τραγούδι per ogni canto melico), mentre M i n n i t i C o l o n n a (604, 101–102) sospettava che l’uso del termine τραγῳδία nelle fonti potesse essere improprio e – come già il primo B e r n h a r d y – preferiva pensare a «(u)n componimento laudativo» per celebrare l’abolizione della tassa, ritenendo impossibile stabilire se fosse stato in versi o in prosa; K a s t e r per parte sua propende per «an oration lamenting the horrors of the tax», ma rende ben conto del dibattito (215, 368–369). In questi ultimi tre saggi viene peraltro ripreso il riferimento (che dopo S e i t z era stato fatto anche da S c h m i d in Geschichte der griechischen Litteratur II, München 1924 6, 1033 n.8) alla possibilità di ritrovare il testo della τραγῳδία in un manoscritto dell’Athos. Alla base di questa idea è una lista di testi conservati in codici della Me giste Lavra redatta dal patriarca di Gerusalemme Crisanto N o t a r a s e conservata nel manoscritto di Istanbul Μετ. Παν. Τάφ. 418, che nella trascrizione offerta da K. N. S a t h a s (Μεσαιωνικὴ βιβλιοθήκη, I, ἐν Βενετίᾳ 1872, 269–284) attesta l’esistenza di uno scritto intitolato Τιμοθέου γραμματικοῦ πρὸς τὸν αὐτοκράτορα Ἀναστάσιον e qualificato come incompleto (ἀτελές). Eugenio A m a t o (661, 81 n.48) ha però mostrato come la copia della medesima lista conservata nel Par. Suppl. gr. 799 e già p eraltro utilizzata da C o s t o m i r i s (ved. supra, A.1) reciti Τιμοθέου γραμματικοῦ πρὸς τὸν αὐτοκράτορα Ἀναστάσιον περὶ ζῴων: ἀτελές, sicché l’opera in questione sarà non la tragedia ma il περὶ ζῴων, la cui esplicita menzione è per errore caduta o nel manoscritto di Istanbul (che pare oggi disperso) o nella trascrizione di S a t h a s : ved. la sezione seguente (con i riferimenti agli studi di C o r c e l l a [662] e Z u c k e r [663]). Lo stesso A m a t o (661, 81 n.49) ha peraltro restituito il giusto valore al parallelo contem poraneo – già indicato, come si è visto, da S e i t z – con la τραγῳδία del monaco Doroteo. La notizia si legge in un frammento della storia ecclesiastica di Teodoro Lettore (4, 481 Hansen, cfr. Teofane Confessore, Chron. pp.152,30–153,7): Doroteo compose
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un lungo scritto in difesa del concilio di Calcedonia che, per vie traverse, giunse all’imperatore Anastasio, il quale non lo gradì affatto, e prendendo lo spunto dal fatto che era stato intitolato Τραγῳδία ἤγουν προφητεία τῆς νῦν καταστάσεως, ὥσπερ Βασιλείῳ τῷ θείῳ κατὰ Ἰουλιανοῦ ὡς λέγουσιν εἴρητο mandò Doroteo in esilio. A m a t o ne deduce che «(l)e poème de Timothée ne serait donc pas une tragédie en vers au sens classique du mot, mais plutôt, sur l’exemple de Basile, une invective en vers contre le chrysargyre», e si tratta di conclusione ragionevole. Va però detto che la testimonianza di Severo di Antiochia (Apol.Phil., CSCO 318, Scr. Syr. 136, pp.14–15 = 319, Scr. Syr. 137, pp.12–13 Hespel) fa pensare che il testo di Doroteo fosse non un’opera poetica ma un trattato teologico costruito come florilegio di citazioni da Cirillo e altri padri (discussione e bibliografia in G . G r e a t r e x , The Chronicle of Pseudo-Zacha riah Rhetor. Church and War in Late Antiquity, Liverpool 2010, 457), ancorché ovviamente ispirato a una visione negativa e a una demistificazione delle condizioni presenti – come mostra il titolo che, se ben intendo il non limpidissimo dettato, doveva riprendere quello di un’invettiva di Basilio contro Giuliano nota solo da tradizione orale (ὡς λέγουσιν): inevitabile comunque pensare alla definizione delle vicende di Giuliano come «tragedia» in Gregorio di Nazianzo, or.4, 20 e 79 e in Teodoreto, Graec. aff. cur. IX 25, né si può fare a meno di rammentare la «tragedia» di Ireneo di Tiro e l’opera forse anch’essa così intitolata di Nestorio (CPG 5750), sicché se davvero anche lo scritto di Timoteo si inseriva in una tale consolidata tradizione sarebbe più facile immaginare una trattazione in prosa di vicende e situazioni spiacevoli, e quindi un pamphlet che descrivesse a tinte fosche le nequizie della collatio lustralis. A favore della forma poetica andrebbe comunque il ποιεῖν di Cedreno e Suida, se non è abusivamente e secondariamente indotto da τραγῳδία inteso nel senso più ovvio. Dall’esame fin qui svolto è evidente che alle diverse ipotesi sulla forma della «tragedia» si legano anche diverse interpretazioni della sua funzione e degli intenti di Timoteo. Chi pensa a un testo celebrativo di Anastasio scritto dopo l’abolizione del crisargiro deve intendere che la τραγῳδία era una poesia in tono elevato priva di accenti luttuosi (o che il termine sia usato impropriamente, come suggeriva M i n n i t i C o l o n n a [604, 101–102]). Quando G l u c k e r (162, 52) afferma che la τραγῳδία, intesa come «long poem», doveva essere «both a panegyric and an appeal for the abolition of the δημόσιον χρυσάργυριον [sic]» sceglie una linea di compromesso che ha il merito di tener conto del tono rispettoso nei confronti dell’imperatore che Timoteo avrà in ogni caso certamente mantenuto. E però se – come appare molto più probabile – la τραγῳδία era la descrizione, in poesia o in prosa, di una situazione triste, Timoteo avrà svolto opera di protesta, alla pari di Doroteo, ancorché verosimilmente in modo più cauto e con esito meno infausto. Di «political lampoon» ha in effetti parlato, sia pur senza esprimersi sulla forma, Averil C a m e r o n (611, 60 n.75 e 253 n.78), e sulla scia di Cedreno (il cui racconto non è però affidabile dal punto di vista della cronologia, come tra gli altri nota K a s t e r [215, 369]) a un ruolo critico di Timoteo per lo più si accenna negli studi storici dedicati al regno di Anastasio: basterà ricordare le osservazioni di C a p i z z i (597, 145 n.211: si attribuisce qui a Cedreno l’affermazione che Anastasio avrebbe «letto o visto rappresentare una tragedia scritta ad hoc dal letterato Timoteo di Gaza»; ma si rammenti che Cedreno ha solo
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τραγῳδίαν ποιήσαντος) e, da ultimo, la rapida menzione di M e i e r , che pensa a una «Prunkrede» (653, 122). Quando H a a r e r parla di «a deputation of monks led by Timothy of Gaza, who later wrote a drama on the affair» (644, 196) non mi pare renda esattamente conto del testo di Cedreno: si veda quel che su analoghe tesi osserva A m a t o (661, 85 n.20), il quale peraltro ritiene che Timoteo, in quanto magistrato, avesse specifico titolo per esprimere lagnanze contro la gravosa tassa (ved. supra, A.2). D. L’opera sugli animali 1. Premessa: cenni sulla storia degli studi fino al 1927 Al termine dell’articolo su Timoteo, in Suida si leggeva ἔγραψε δὲ καὶ ἐπικῶς περὶ ζῴων τετραπόδων θηρίων τῶν παρ᾽ ᾽Ινδοῖς καὶ ῎Αραψι καὶ Αἰγυπτίοις καὶ ὅσα τρέφει Λιβύη· καὶ περὶ ὀρνέων ξένων τε καὶ ἀλλοκότων καὶ ὄφεων βιβλία δ’. Questo almeno il testo stampato da K ü s t e r , G a i s f o r d e B e r n h a r d y ; B e r n h a r d y suggeriva però l’espunzione di θηρίων (Suidae Lexicon Graece et Latine II.2, Halis et Brunsvigae 1853, 1141–1142), e non del tutto chiara restava, con il punto in alto dopo Λιβύη, la precisa articolazione della frase e l’esatto referente di βιβλία δ’: solo la trattazione su uccelli e serpenti o tutto quel che precede? e quindi una o due opere? Quando B e k k e r sostituì il punto in alto con una virgola, e pose virgola anche davanti a βιβλία δ’ (Suidae Lexicon, Berolini 1854, 1030), intendeva probabilmente esplicitare che i quattro libri contenevano tutto quel che precede, ma la questione del titolo e del contenuto dell’opera restava dubbia, né la generica menzione di περὶ ζῴων ἱστορίαι in Tzetze, l’indicazione περὶ ζῴων Ἰνδικῶν nello scolio palatino e gli ulteriori dati che man mano andarono emergendo con la pubblicazione dei vari escerpti la semplificarono, sicché – come vedremo in D.2 – essa resta in fondo ancora aperta. L’opera zoologica di Timoteo sembrava in effetti essere totalmente perduta, finché suoi estratti o riduzioni non cominciarono a divenire noti (a partire dalla menzione degli escerpti barocciani ad opera di B e r n a r d e F a b r i c i u s , ved. supra, A.1) e, soprattutto, la pubblicazione di testi esplicitamente ascritti a Timoteo consentì di attribuirgli con ragionevole certezza anche esposizioni zoologiche di analogo contenuto e dettato tramandate in forma anonima. Tra queste ultime, la prima ad essere pubblicata fu la trattazione acefala e quindi anche adespota, articolata in 53 capitoli numerati da 4 a 56 ciascuno dei quali dedicato a un diverso animale, che viene oggi in genere chiamata Epitome Augustana, in quanto contenuta di seguito alla Historia animalium di Eliano in un manoscritto di Augsburg poi passato a Monaco (Monacense gr. 564, ff.239r–247r). Già noto a Konrad G e s n e r , che ne citò l’ultimo capitolo (56, περὶ ἀρκτόμυος) nella seconda edizione, postuma, della Historia animalium, il testo fu quindi riscoperto e trascritto, ancora ad Augsburg, da Christian Friedrich M a t t h a e i negli anni in cui era professore a Wittenberg; dopo averne dato una alquanto reticente notizia nel 1800 (Nachricht von einer noch unedirten Griechischen ThierGeschichte, Allgemeiner Litterarischer Anzeiger 1800 [nr.108], 2055–2056), M a t t h a e i cominciò a prepararne un’edizione, che vide però la luce solo nell’anno stesso della sua morte, il 1811, a Mosca, dove egli era tornato ad insegnare dal 1804
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(Brevis historia animalium scriptoris anonymi qui seculo XI. Constantino Monoma cho imperatore Constantinopoli floruit […], Mosquae 1811, prima parte dei ΠΟΙΚΙΛΑ ΕΛΛΗΝΙΚΑ seu varia Graeca ex octo codicibus Graecis diversarum bibliothecarum nunc primum edita)14. Come mostra il titolo, e come era stato argomentato nella notizia del 1800 e veniva ripetuto nella Praefatio (p.IX), M a t t h a e i attribuiva il t esto a un anonimo scrittore bizantino vissuto ai tempi di Costantino X Monomaco, e ciò sulla base di quanto si legge alla fine del capitolo sulla giraffa (24), dove è detto che una giraffa e un elefante furono visti καὶ ἐφ’ἡμῶν, quando giunsero dall’India a Costantinopoli offerti all’imperatore Monomaco; la nota ad locum, dove M a t t h a e i dichiarava «Ejus [= Const. X] ergo aetate Constantinopoli vixit auctor, vel epitomator, hujus libelli» (p.25 n.21), rivela però come egli fosse cosciente della possibilità che il manoscritto contenesse l’epitome bizantina di un’opera più antica (idea che fu poi pienamente sviluppata da H a u p t ). Nella Praefatio (p.XI), M a t t h a e i rivelava peraltro di essersi avvalso dei preziosi suggerimenti del competentissimo amico Johann Gottlob S c h n e i d e r 15, cui aveva trasmesso la trascrizione; il che spiega perché S c h n e i d e r potè in effetti più volte nelle sue opere citare passi dell’«Anonymus Augustanus MS.» prima che fosse edito, ad es. nella seconda edizione del Kritisches Griechisch-Deutsches Wörterbuch (s.vv. ἱππότιγρις, λεόπαρδος, μονόλυκος, σκίγγος, σοῦβος, ὕλλος, φυσίγναθος: I, Jena-Leipzig 1805, 591 e II, Jena-Leipzig 1806, 13, 88, 385, 404, 413, 554, 627; i lemmi si ritrovano poi identici nella terza edizione del 1819) e nel commento all’Anabasi di Senofonte (ΞΕΝΟΦΩΝΤΟΣ ΑΝΑΒΑΣΙΣ ΚΥΡΟΥ. Xenophontis de Cyri expeditione commentarii, Lipsiae 1806, 39–40: «auctor Anonymus Augustanus MS. ab amicissimo Matthaei exscriptus et mecum communicatus»), quindi nelle note all’Historia animalium di Aristotele (Aristotelis de animalibus historiae libri X graece et latine, spec. III, Lipsiae 1811, 607, «Anonymus MStus Augustanus apud Cel. Matthaei», e 681, «Auctor anonymus Augustanus, quem manuscriptum humanitate Cel. Matthaei legi et ex cerpsi») e in quelle oppianee (ΟΠΠΙΑΝΟΥ ΚΥΝΗΓΕΤΙΚΑ ΚΑΙ ΑΛΙΕΥΤΙΚΑ . Op piani Cynegetica et Halieutica, Lipsiae 1813, in particolare 191, ad Cyn. II 382, dove S c h n e i d e r mostra peraltro di ritenere il passo dei Cynegetica sul σοῦβος fonte per l’Epitome Augustana). Nelle aggiunte al Wörterbuch del 1821, a integrazione di quanto illustrato nella voce λεόπαρδος, Karl Ludwig S t r u v e spiegava peraltro: «Die im Lexicon aus dem Anonymus Augustanus MS. angeführte Stelle befindet sich unter den schon 1808 in Moskau von Matthaei herausgegebenen Excerpten aus dieser Handschrift» (Nachträge zu dem griechisch-deutschen Wörterbuche […], Leipzig 1821, 14 Su M a t t h a e i si vedano O. v o n G e b h a r d t , Christian Friedrich Matthaei und seine Sammlung griechischer Handschriften, Centralblatt für Bibliothekswesen 15, 1898, 345–357, 393–420, 441–482, 537–566 e B. M a l i c h , Von Gröst bei Merseburg nach Moskau. Christian Friedrich Matthaei, in E. Donnert (Hrsg.), Europa in der Frühen Neuzeit. Festschrift für G. Mühl pfordt. 3. Aufbruch zur Moderne, Weimar – Köln – Wien 1997, 199–218. Il manoscritto contenente la trascrizione dell’Epitome Augustana dovrebbe ancora trovarsi a S. Pietroburgo tra le carte di M a t t h a e i ; non mi è riuscito di vedere A . R o d o s s k i j , Katalog knig pečatnych i rukopisnych biblioteki pokojnago professora Mattei, St. Petersburg 1885. 15 Su S c h n e i d e r si veda R. H o c h e in ADB 32 [1891], 125–127.
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123). Il riferimento è, ovviamente, all’edizione del 1811, di cui S t r u v e più di altri poteva avere qualche notizia perché prima di passare a Königsberg era stato docente al ginnasio e all’università di Dorpat/Tartu e quindi in contatto con il mondo culturale russo16; ma l’erronea indicazione della data (dovuta forse a confusione con gli XXI ve terum et clarorum medicorum Graecorum varia opuscula effettivamente editi da M a t t h a e i nel 1808) è significativa di quella che Moriz H a u p t con formula efficace chiamerà «obscura fama qua haec excerpta a Christiano Friderico Matthaei in vulgus edita esse perhibebantur» (Hermes 3, 1869, 5; H a u p t , che aveva ben presenti le citazioni di S c h n e i d e r , potrebbe riferirsi proprio al passo dei Nachträge). L’edizione di M a t t h a e i ebbe in effetti scarsissima diffusione, giacché buona parte della sua tiratura andò perduta nell’incendio di Mosca. Ciò spiega tra l’altro perché nel 1812 Ignaz H a r d t , nel rendere conto in maniera peraltro assai accurata del contenuto del manoscritto ormai monacense, non sia in grado di rinviare a M a t t h a e i (Catalogus codicum manuscriptorum Bibliothecae Regiae Bavaricae, V, Monachii 1812, 429); e perché ancora nel 1832 Friedrich J a c o b s , nel far riferimento all’Epitome Augus tana nella sua edizione di Eliano (Aeliani de natura animalium libri XVII. Vol.I, Jenae 1832, LXXVIII nn.32 e *), mostri di conoscere soltanto l’annuncio dato da M a t t h a e i nell’Allgemeiner Litterarischer Anzeiger, che era stato nel frattempo ristampato da Gottfried S e e b o d e tra le Miscellen (nr.23) dell’Archiv für Philologie und Pädagogik (Helmstedt) I 3, 1824, 591–59217. Dovette in effetti trascorrere più di mezzo secolo prima che l’Epitome Augustana tornasse davvero al centro dell’attenzione degli studiosi; nel frattempo, però, erano stati pubblicati altri testi, grazie ai quali l’attribuzione a Timoteo di Gaza potè farsi strada. Nel 1837, John Anthony C r a m e r fece uscire il quarto volume degli Anec dota Oxoniensia. Alle pp.256–258, sulla base di una trascrizione a suo tempo compiuta da Francis C h e r r y , pubblicava un escerpto Ἵππων φύσεις κατὰ ἔθνος, di cui riparleremo tra breve; subito dopo (pp.258–269) comparivano due serie di capitoli sui diversi animali tratti dal manoscritto miscellaneo Oxford, Bodleian Library, Barocci 50: la prima serie, col titolo Φυσιολογήματα περὶ ζῴων (Bar. foll.350r, r.20–353v, r.14 = An.Ox. pp.258–263), era una raccolta di escerpti risalenti – sia pur in una versione semplificata e secolarizzata – alla tradizione del Physiologus; la seconda (Bar. 354r, r.15–357v, r.17 = An.Ox. pp.263–269) portava invece il significativo titolo Τιμοθέου γραμματικοῦ Γάζης περὶ ζῴων τετραπόδων καὶ φυσικῶν αὐτῶν ἐνεργειῶν θαυμαζομένων, ποιητικῶς αὐτοῦ καλλιεποῦντος. Dopo le segnalazioni di B e r n a r d e di F a b r i c i u s (ved. supra, A.1), diveniva così finalmente accessibile un primo testo (che indicheremo 16 Su S t r u v e , e i suoi contatti con il mondo russo, ved. L . S t i e d a in ADB 36 [1893], 687–690. 17 Della rara rivista ho consultato la copia conservata nella Trinity College Library di Cambridge (segnatura Hare 37.240). Tra i dedicatari del primo volume dell’«Archiv» risulta anche Karl Ludwig S t r u v e , allora già direttore del ginnasio di Königsberg: fu forse lui mediatore presso S e e b o d e dell’interesse per l’annuncio di M a t t h a e i ? Alle pp.590–591 dello stesso fascicolo dell’«Archiv» viene comunque ristampato, dello stesso M a t t h a e i , il Nachricht von einem noch unedirten Briefe des Libanius an den Kaiser Julianus, già uscito in Allgemeiner Litterarischer Anzeiger 1801 (nr.41), 377–379.
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come Epitome Barocciana) esplicitamente attribuito a Timoteo di Gaza: esso rivelava puntuali coincidenze con l’Epitome Augustana, di cui riproduceva in forma pressoché identica alcuni capitoli. L’Epitome Augustana era però apparentemente ignota a C r a m e r , che in ogni caso non ritenne opportuno apporre alcun commento alla sua edizione, neanche per rendere esplicita l’ovvia identificazione del «Timoteo grammatico di Gaza» dell’inscriptio con l’autore noto da Suida. Questa identificazione venne però dal medesimo C r a m e r compiuta nel 1841, quando dello stesso Timoteo ebbe modo di pubblicare il frammento ortografico dal Coisl. 387 (Anecdota Graeca e codd. manuscriptis Bibliothecae Regiae Parisiensis IV, Oxonii 1841, 216; ved. supra, A.1 e B.1), e si ritrova poi in Jean François B o i s s o n a d e (Choricii Gazaei Orationes De clamationes Fragmenta, Parisiis 1846, 172 n.4) e in Gottfried B e r n h a r d y (Suidae Lexicon Graece et Latine rec. G. Bernhardy, II.2, Francofurti 1853, 1141–1142), che nel commentare le notizie sull’opera di Timoteo di Gaza menzionarono, appunto, gli escerpti editi da C r a m e r , ma non avendo nozione dell’Epitome Augustana non poterono operare l’ulteriore collegamento con quest’ultima. In quegli stessi anni, però, un passo in questa direzione venne compiuto da Ludwig D i n d o r f . Nel Thesaurus Graecae Linguae alcuni lemmi riguardanti animali sono illustrati anche attraverso la menzione di passi dell’«Anonymus Augustanus» esplicitamente ripresi dal dizionario di S c h n e i d e r (ved. le voci ἱππότιγρις, vol.IV 650; λεόπαρδος, V 190; μονόλυκος, V 1176; ὕλλος, VIII 85; φυσίγναθος, VIII 1148). Alla voce λεόπαρδος, la menzione di S t r u v e oltre quella di S c h n e i d e r mostra che gli estensori conoscevano anche i Nachträge del dizionario di S c h n e i d e r , dove – come si è visto – era un sia pur erroneo riferimento all’edizione dell’Epitome Augustana di M a t t h a e i , che restava però evidentemente ignota. Per alcuni capitoli, però, dal 1837 era invece ben accessibile l’edizione di C r a m e r dell’Epitome Barocciana, che viene in effetti utilizzata nel vol. VII del Thesaurus, datato 1848–1854. Sotto la voce σκίγγος (col.389), un’aggiunta firmata da L . D i n d o r f menziona la frase αἱ αὐτῶν φολίδες εἰς τὸ ἐναντίον φύουσιν in «Anon. August. c.48, ap. Schneider» e quindi aggiunge «describit Timotheus Cram. An. vol.4, p.268,19, ubi 23 scr. αἱ αὐτῶν pro ἑαυτῶν»: l’edizione di C r a m e r offriva più di quanto fosse ricavabile da S c h n e i d e r , ma D i n d o r f riteneva di poter correggere il primo testo sulla base del secondo. Ancor più chiaramente, nelle aggiunte (non firmate) alla voce σοῦβος (col.517) la citazione «Anon. Aug. Ms. c.33» contenuta nella summenzionata annotazione di S c h n e i d e r a Oppiano, Cyn. II 382 era accompagnata dalla equazione, tra parentesi, con «Timotheus editus in Crameri An. vol.4, p.267,10». Anche queste annotazioni saranno verosimilmente da attribuire a Ludwig D i n d o r f , che pur non potendo aver accesso all’Epitome Augustana completa comprese, dalle citazioni di S c h n e i d e r , che il suo testo coincideva almeno in parte con l’Epitome Barocciana e quindi con Timoteo di Gaza. A metà del secolo, insomma, l’edizione di M a t t h a e i restava ancora, a quanto pare, inutilizzata, ma dell’Epitome Augustana quale era nota dalle citazioni di S c h n e i d e r almeno quei passi che trovavano riscontro nell’Epitome Barocciana potevano ora, grazie all’inscriptio di quest’ultima, essere collegati a Timoteo di Gaza. Nonostante tutto questo, però, sulla figura di Timoteo di Gaza regnava ancora una certa confusione, e come abbiamo visto in precedenza si stentava a distinguerlo da altri personaggi omo-
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nimi: ciò aiuta a spiegare perché un ulteriore testo zoologico dalla tradizione manoscritta esplicitamente ascritto a un Timoteo non venne dapprincipio attribuito, come pur sembrerebbe ovvio, al gazeo. Nel ms. Par. gr. 2424 (XIV secolo), di seguito ad Astrampsico, compaiono tre escerpti, due di interesse astronomico e il terzo sulle pietre in grado di placare le tempeste; la menzione, in quest’ultimo, della pelle di foca ha indotto l’estensore ad aggiungere, in appendice, una prima trattazione sulla foca tratta da Damostrato e quindi una seconda introdotta dall’inscriptio Τιμοθέου, che peraltro si prolunga, dopo la parte sulla foca, trattando anche di altri animali marini. Le sezioni tratte da Damostrato e da Timoteo vennero per la prima volta edite nel 1855, sulla base del Par. 2424 e dei suoi due apografi 2421 e 242218, dal dotto benedettino e futuro cardinale Jean-Baptiste-François P i t r a in appendice al Physiologus nel terzo volume dello Spicilegium Solesmense (Parisiis 1855, 391–392); sia pur con qualche cautela, P i t r a identificava però questo Timoteo come il teologo Timoteo di Atene (ved. supra, A.1 e 2), e forse anche per questo la sua edizione fu ignorata dagli studiosi di scienza antica. Quando in seguito però i tre escerpti e le appendici vennero riscoperti nel Par. 2422 da Hermann G r a f f , che senza aver contezza dell’edizione di P i t r a ne fece oggetto di una comunicazione all’Accademia Imperiale di San Pietroburgo tenuta il 28.VIII/9.IX.1863 (Mittheilung aus einer Pariser Handschrift, stampata dapprima in Bulletin de l’Académie Imperiale des Sciences de St. Pétersbourg 7, 1864, 21–45, quindi in Mélanges gréco-romains tirés du Bulletin de l’Académie Imperiale des Sciences de St. Pétersbourg 2, 1859–1864 [St. Pétersbourg 1866], 549–584)19, lo studioso non ebbe difficoltà a riconoscere come questo Timoteo altri non potesse essere se non il Timoteo di Gaza citato da Suida, e nel pubblicarne e commentarne il testo esplicitamente richiamò il parallelismo con l’Epitome Barocciana edita da C r a m e r , ravvisabile in effetti almeno in parte (ma ved. infra) a livello di impostazione generale e di stile (anche se non di argomento, ché diversi sono gli animali trattati: un rapido riferimento alla pelle di foca si legge però nell’Epitome Barocciana, con incongruo riferimento al basilisco, nel capitolo 5 sulla volpe). Dopo queste acquisizioni, i tempi erano maturi perché si arrivasse a un organico confronto fra tutti i materiali noti e a una più precisa definizione dell’opera zoologica di Timoteo di Gaza. Un passo decisivo fu compiuto da Moriz H a u p t nel 1869. Lavorando direttamente sul Monacense, prima di poter aver accesso alla quasi introvabile edizione di M a t t h a e i , H a u p t si era reso conto, innanzitutto, delle puntuali consonanze tra Epitome Augustana ed Epitome Barocciana: esse rappresentavano due raccolte, diversamente ordinate e una più ampia e una più ristretta, di escerpti (quali 18 Ulteriore apografo del Par. 2424 sembra essere il ms. Berlin, Phillipps 1551 (147): ved. W. S t u d e m u n d – L . C o h n , Die Handschriften-Verzeichniss der K. Bibliothek zu Berlin. XI. Verzeichniss der griechischen Handschriften, Berlin 1890–1897, pp.62–63. 19 Il lettone Hermann G r a f f (Glauenhof/Radolka presso Koknese 5.IV.1829 – S. Pietroburgo 26.IV.1879) era all’epoca docente all’università di Dorpat/Tartu, diverrà nel 1868 direttore della scuola annessa alla Sankt-Petri-Kirche di San Pietroburgo: breve necrologio in Sit zungsberichte der gelehrten estnischen Gesellschaft zu Dorpat 1879 (Dorpat 1880), 215–216. La memoria fu presentata da August N a u c k , membro ordinario dell’Accademia: ved. Bulletin de l’Académie Imperiale des Sciences de St. Pétersbourg 6, 1863, 499.
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ficati come tali dall’ὅτι che introduce i vari paragrafi) da una stessa opera; tale opera andava identificata – giusta l’inscriptio del Barocciano – con lo scritto sugli animali di Timoteo noto dallo scolio a Stefano, da Suida e da Tzetze, e la menzione al cap.24 d ell’Epitome Augustana, subito prima del riferimento a Costantino, del passaggio di una giraffa a Gaza sotto l’imperatore Anastasio costituiva una preziosa conferma di tale attribuzione. Alla luce di queste nuove acquisizioni, anche dopo essere riuscito a procurarsi l’edizione di M a t t h a e i H a u p t non rinunciò a pubblicare una nuova edizione del testo fondata non solo sul Monacense ma anche sul Barocciano per i capitoli in quest’ultimo presenti, introdotta da una precisa ricostruzione della storia degli studi da G e s n e r a M a t t h a e i e da una interessante discussione sulla figura di Timoteo che riassumeva tutto il sapere antiquario disponibile (ved. supra, A.1); di seguito erano ripubblicati anche gli Excerpta Parisina ripresi dall’edizione di G r a f f (P i t r a era invece ignorato), «ne dispersae essent unius eiusdemque operis particulae» (Excerpta ex Timothei Gazaei libris de animalibus, Hermes 3, 1869, 1–30, con i Corrigenda a 174). Otto anni dopo l’articolo fu ristampato nei Mauricii Hauptii Opuscula (III 2, Lipsiae 1876, 274–302) a cura di U. v o n W i l a m o w i t z – M o e l l e n d o r f f , che emendò peraltro alcune sviste (ved. supra, A.1), ma non l’erronea segnatura del manoscritto Monacense (514 invece di 564); questo errore fu corretto già nel rendiconto sulla prosa greca tarda e la letteratura bizantina e neogreca curato per JAW (5, 1876 [1878], 229) da Alfred E b e r h a r d (che si basava peraltro sulla sua autonoma collazione del manoscritto e al cap.55, dove H a u p t riportava la presenza di una lacuna, sensatamente proponeva di leggere ἀ[γωνίζεται]), ma ricomparirà spesso in vari autori successivi che si fonderanno su H a u p t . L’opera sugli animali di Timoteo cominciava così a riemergere, sia pur per escerpti, dall’oblio. Ma un ulteriore fondamentale apporto si ebbe con la scoperta della Sylloge Constantini. Nel 1870 Valentin R o s e pubblicava dal Par. Suppl. gr. 495 quello che una serie di rinvii interni rivelava essere il primo libro, unico superstite nel manoscritto, di una compilazione intitolata Συλλογὴ τῆς περὶ ζῴων ἱστορίας, χερσαίων πτηνῶν τε καὶ θαλαττίων, Κωνσταντίνῳ τῷ μεγάλῳ βασιλεῖ καὶ αὐτοκράτορι φιλοπονηθεῖσα. Ἀριστοφάνους τῶν Ἀριστοτέλους περὶ ζῴων ἐπιτομή, ὑποτεθέντων ἑκάστῳ ζῴῳ καὶ τῶν Αἰλιανῷ καὶ Τιμοθέῳ καὶ ἑτέροις τισὶ περὶ αὐτῶν εἰρημένων. Si trattava, come R o s e subito vide, di una silloge riconducibile alla ben nota attività di produzione di collezioni di estratti voluta da Costantino Porfirogenito, e non era difficile riconoscere nel Timoteo dell’inscriptio l’autore i cui escerpti erano stati editi da C r a m e r e H a u p t . R o s e notava però come il primo libro non contenesse in realtà brani riconducibili a Timoteo o ad Eliano e ipotizzava che essi fossero contenuti nel secondo libro, dedicato, come la formula alla fine del primo annunciava, alle attività e alla vita degli animali; questa e altre formule analoghe lo inducevano peraltro a pensare che il principio ordinatore della Sylloge dipendesse, oltre che dall’impostazione di Aristofane di Bisanzio, anche dalla struttura dell’opera di Timoteo quale era ricostruibile dal titolo di Suida (V . R o s e , Anecdota Graeca et Graecolatina. Mitteilungen aus Handschriften zur Geschichte der griechischen Wissenschaft, II, Berlin 1870, 3–14 [Einleitung] e 1 7–40 [testo]; le osservazioni su Timoteo, in particolare, a 5–8). La presenza di Eliano e Timoteo nel secondo libro fu in effetti confermata quando questo venne scoperto nel mano-
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scritto Ath. Dion. 180 e pubblicato, nel 1885, da Spyridon P. L a m b r o s (Excerptorum Constantini de natura animalium libri duo. Aristophanis Historiae Animalium Epitome subiunctis Aeliani Timothei aliorumque eclogis, Berolini 1885 = Supplementum Aristo telicum I). Alcuni escerpti apparivano, nella raccolta, esplicitamente attribuiti a Timoteo; altri potevano essergli attribuiti, soprattutto quando si dava coincidenza verbale con l’Epitome Barocciana e l’Epitome Augustana. L a m b r o s accuratamente registrò le attribuzioni e nella prefazione discusse i problemi principali posti dalla nuova scoperta (pp.XII–XIII; ma si veda anche l’articolo pubblicato in Ἑστία 19 [489], 1885, 323–326): in particolare, notò come la forma originaria dell’opera di Timoteo risultasse sempre meno chiara, dato che Suida sembrava far riferimento a una forma esametrica (ἐπικῶς) e a un’opera dedicata ad animali esotici, mentre si aveva ora una serie ampia di estratti in prosa dedicati in buona parte anche ad animali non esotici; l’ipotesi che gli escerpti derivassero da una diversa opera di Timoteo, pur prudentemente avanzata, veniva però ritenuta poco probabile e si concludeva che Suida potrebbe aver indicato solo «maxime insignia». Quanto alla forma, in una nota aggiunta (p.XIII n.1) Hermann D i e l s osservava che il testo di Timoteo doveva essere stato scritto in prosa retorica, le cui tracce gli escerpti ancora mostrano: e ad una prosa retorica avrebbe appunto a suo giudizio fatto riferimento il ποιητικῶς […] καλλιεποῦντος dell’Epi tome Barocciana, da Suida frainteso. Queste osservazioni furono ulteriormente sviluppate da Hermann U s e n e r , che nel recensire il volume di L a m b r o s notò, nei passi di Timoteo presenti nella Sylloge, la presenza di cadenze ritmiche riconducibili alla prosa d’arte dell’autore e propose anche varie correzioni al testo (GGA 26, 1892, 1018–1020 = Kleine Schriften III, Leipzig 1914, 211–212). Negli anni successivi fino al 1927, ulteriori rivoli secondari della tradizione dell’opera zoologica di Timoteo vennero con maggiore o minore certezza portati alla luce. Una più sicura acquisizione venne nel 1913 da Eduardo Luigi D e S t e f a n i , che rese nota dal manoscritto Laur. gr. 86,8 una epitome della Sylloge Constantini (la cosiddetta Epitome Laurentiana) che consentiva di integrare alcune lacune del manoscritto dell’Athos (Un’epitome laurenziana della «Sylloge Constantini de natura ani malium», SIFC 20, 1913, 189–203). Altri risultati erano più congetturali. A fronte dell’indicazione ὅτι ἀπὸ διαφόρων ἐθνῶν διάφοροί εἰσι κύνες κατὰ τὴν ἀρετήν presente nell’Epitome Augustana (cap.26), L a m b r o s aveva ritenuto di poter ricondurre a Timoteo una lista di razze di cani presente nella Sylloge Constantini (B 192–197). Anche per i cavalli l’Epitome Augustana presentava la formula riassuntiva ὅτι ἀπὸ διαφόρων ἐθνῶν εἰσὶ διάφοροι ἵπποι κατ’ ἀρετήν (cap.27), e su questa base, analogamente, L a m b r o s aveva ascritto a Timoteo una lista di razze di cavalli presente nella Sylloge (B 588–609). Se già M a t t h a e i , nel pubblicare l’Epitome Augustana (Brevis historia animalium, Mosquae 1811, 30 n.45), aveva annotato che liste di razze di cavalli erano presenti nei trattati veterinari, nel 1896 Eugen O d e r (Anecdota Canta brigiensia. Pars prima, Progr. des Friedrichs-Werderschen Gymnasiums, Berlin 1896, 25–31) potè ora rendersi conto che la lista di cavalli già edita da C r a m e r (An. Ox. IV 256–268: ved. supra) e presente in due manoscritti ippiatrici, e cioè nel Cantabr. Coll. Emman. 3,19 e nel Lond. Sloane 745, era assai simile a quella della Sylloge e l’attribuì quindi, seguendo L a m b r o s , a Timoteo, per sancire poi tale ascrizione nell’edi
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zione teubneriana (Corpus Hippiatricorum Graecorum II 2, Lipsiae 1927, 121–124); una ottima edizione di tale testo, che per quanto basata sul solo Cantabrigiense è per vari aspetti migliore di quella di O d e r e non merita l’oblio in cui è caduta, era d’altra parte stata nel frattempo offerta da una allieva di D i S t e f a n i , Alfonsina C a p r i ol i P i r a n i (Un frammento di storia naturale di Timoteo di Gaza secondo un codice di Cambridge, Roma 1923). Come meglio vedremo nella sottosezione seguente, l’attribuzione di tali liste a Timoteo restava comunque tutt’altro che certa; e una qualche differenza di tono e impostazione nei vari filoni di escerpti, solo in parte riconducibile ai diversi interessi degli escerptori, continuava a suscitare dubbi: S e i t z , ad es., proprio per questa ragione non si mostrava pienamente convinto della reale pertinenza a ll’opera di Timoteo degli escerpti a suo tempo editi da G r a f f dal Par. 2422 (Die Schule von Gaza, Diss. Heidelberg 1892, 31–32). In ogni caso, anche se vari punti rimanevano problematici, sulla base delle nuove acquisizioni la fisionomia dell’opera di Timoteo si andava arricchendo, seppur non proprio chiarendo. Diveniva quindi possibile intraprendere in maniera più esatta uno studio che lumeggiasse la posizione di Timoteo nella tradizione zoologica greca, indagandone fonti e riprese. Già S c h n e i d e r aveva variamente collegato i testi di Timoteo a Oppiano (ved. supra), e H a u p t aveva annotato tutta una serie di paralleli; uno studio più preciso fu pubblicato nel 1889 da Erich B u s s l e r , che mostrò come Timoteo presenti spesso dettagli in più rispetto alle corrispondenti sezioni dei Cyne getica, sì da far pensare a una fonte comune indipendentemente ripresa (Das Quellen verhältnis des Timotheos von Gaza zu Oppianos Kynegetikos, NJbb IL = JbbclPh 139, 1889, 1 23–128). Riprendendo alcuni spunti già presenti in H a u p t , Wilhelm G e m o l l aveva nel frattempo messo in luce una serie di consonanze fra Timoteo e la letteratura sulle simpatie e antipatie, usando in particolare tale dato per datare dopo Timoteo il frammento di Nepualio/Neptunalio/Neptuniano (Nepualii fragmentum Περὶ τῶν κατὰ ἀντιπάθειαν καὶ συμπάθειαν et Democriti Περὶ συμπαθειῶν καὶ ἀντιπαθειῶν, Progr. Striegau 1884, spec. 21–22); ma Theodor W e i d l i c h gli aveva replicato notando come alcune consonanze con Taziano e Plutarco portassero piuttosto a datare Nepualio/Neptunalio/Neptuniano ben prima di Timoteo, sicché era semmai egli a dover essere considerato fonte di Timoteo e non viceversa (Die Sympathien in der an tiken Litteratur, Progr. Stuttgart 1894, spec. 41–43 e 61). Tutte queste questioni furono quindi riprese da Max W e l l m a n n in una serie di studi approfonditi, di cui parleremo nella sottosezione seguente. W e l l m a n n potè peraltro mettere a frutto anche una ardita combinazione compiuta da Richard R e i t z e n s t e i n , che ritrovando negli scolii del Vallicelliano la menzione, come fonte, di un Aristofane, e quindi tre glosse dedicate alla definizione dell’angelo, dell’uomo e dell’animale, ne aveva concluso che lo scoliaste doveva aver utilizzato anche «einen von einem Christen (Timotheos) gefertigten Auszug aus Aristophanes von Byzanz περὶ ζῴων» e che Timoteo doveva aver aperto il suo scritto zoologico proprio con la definizione della natura prima degli angeli, poi degli uomini, quindi degli altri animali (Geschichte der griechischen Etymolo gika, Leipzig 1897, 296 e 312). La conclusione, per quanto assai incerta, veniva peraltro a porre il problema del carattere cristiano della zoologia di Timoteo, su cui sempre W e l l m a n n ebbe modo – come subito vedremo – di apportare ulteriori elementi.
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2. Gli studi sull’opera zoologica dal 1927 ad oggi Max W e l l m a n n (Stettino 15.III.1863 – Potsdam 9.X.1933) fu sommo esperto di ogni aspetto della storia naturale degli antichi, dalla zoologia alla medicina, cui dedicò studi approfonditi, soprattutto ispirati a una prospettiva di Quellenforschung. Di qui il suo interesse per Timoteo, all’interno di una ricerca sulla tradizione delle opere di fisiologia fra età ellenistica e tardoantica che si dipanò dagli anni ’80 del XIX secolo fino alla morte dell’autore. Le conclusioni delle indagini su Timoteo trovarono speciale espressione nell’articolo del 1927 (582), ma erano state parzialmente anticipate in vari studi precedenti e furono poi sviluppate in interventi successivi; sicché per comprendere pienamente le posizioni di W e l l m a n n , talora enunciate senza espli cita o troppo diffusa argomentazione, occorre tener conto – come purtroppo non sempre si è fatto – di tutti questi studi20. In particolare, Timoteo era ampiamente da W e l l m a n n citato nello studio del 1916 su Panfilo e le fonti di Eliano (Hermes 51, 1916, 1–64, spec. 3–4 e 64); nel 1921 veniva quindi enunciata la tesi della dipendenza da Timoteo di Giorgio di Pisidia (Die Georgika des Demokritos [APAW 1921,4] Berlin 1921, 14), mentre nel 1924 si insisteva sull’importanza per Timoteo del modello aristotelico (Aristoteles de lapidibus [SPAW 11], Berlin 1924, 79–82). Dopo queste premesse, lo studio del 1927 (582) veniva a costituire una necessaria messa a punto, bibliograficamente informatissima (W e l l m a n n teneva in particolare ben conto dei risultati di R e i t z e n s t e i n e di O d e r ) e attenta tra l’altro anche alla trasmissione dell’opera nella tradizione orientale. Quanto alla forma, W e l l m a n n riprendeva da D i e l s e U s e n e r l’idea di un’opera scritta «in einer überaus kunstvollen, z. T. manirierten Prosa unter Beachtung des rhythmischen Gesetzes des Satzschlusses», suggerendo anzi – ma senza dimostrazione, e con il solo riportare la forma già corretta – di emendare l’ἐπικῶς di Suida in ἐπιεικῶς (582, 180 e n.4); per il titolo, in maniera altrettanto priva di argomentazione proponeva di integrare il dato di Suida nella forma περὶ ζῴων, τετραπόδων θηρίων τῶν παρ᾽ ᾽Ινδοῖς καὶ ῎Αραψι καὶ Αἰγυπτίοις καὶ ὅσα τρέφει Λιβύη καὶ περὶ ὀρνέων ξένων τε καὶ ἀλλοκότων καὶ ὄφεων . Ma soprattutto W e l l m a n n si soffermava sul posto dell’opera di Timoteo nella tradizione zoologica antica: da un lato ribadiva l’uso di Timoteo da parte di Giorgio di Pisidia, ma soprattutto argomentava, sulla base delle concordanze con Oppiano e della presenza di terminologia vicinoorientale, la dipendenza di Timoteo da una fonte di ambiente siriaco collocabile nel II secondo secolo d.C., che veniva identificata nel perduto περὶ ζῴων di Taziano; a corroborare quest’ultima conclusione venivano addotte innanzitutto proprio quelle definizioni di angelo, uomo e animale negli scolii vallicelliani già valorizzate da R e i t z e n s t e i n , che trovavano riscontro nell’unico frammento superstite dell’opera di Taziano, nonché, sulla scia di W e i d l i c h , la possibilità di rintracciare tanto in Taziano quanto in Timoteo tracce di dottrine sulle simpatie risalenti a Nepualio/Neptunalio/Neptuniano. L’articolo del 1927 non rappresentò però l’ultima parola di W e l l m a n n su Timoteo. Nel 1928, in particolare, lo studioso ul 20 Non ho potuto purtroppo avere accesso alla dissertazione di C. I. K l e i b e r , Bio-Biblio graphie Max Wellmann: 15.03.1863–09.10.1933, Univ. Mainz 1996.
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teriormente lumeggiava i rapporti di Timoteo con la tradizione di opere sulle simpatie e le antipatie dei vari animali (583), mentre nel 1930 indagava i possibili rapporti con le tradizioni che giungono a Origene e quindi si soffermava ancora, tra l’altro, sui paralleli fra Timoteo e il Physiologus per arrivare a concludere che nell’elaborazione di quest’ultima opera era stata messa a frutto una raccolta naturalistica ascritta al re Salomone ma sorta nel I secolo d.C., usata anche da Taziano nonché nei Cyrani des (584, 9, 13–14, 23–35 e passim); idea che tornava ancora nello studio postumo del 1934 a quest’ultimo testo dedicato (585, 16–17). Gli importanti risultati di W e l l m a n n sul momento si imposero, venendo utilizzati negli studi degli anni ’30 sul Physiologus, in particolare da S b o r d o n e (ved. specialmente 587, 23–24, 41–48, 93–106); lo stesso S b o r d o n e d’altra parte variamente lumeggiò la presenza di storie attinte a Timoteo nella recensione pseudo-basiliana del Physiologus (587, 196–200; cfr. 588, CVI–CXV). Specialmente limpida è poi la sintesi che venne nel 1941 offerta da P e r r y nell’articolo sul Physiologus per la Pauly-Wissowa (590, spec. 1105–1111). A partire dal secondo dopoguerra, però, la Quellenforschung di W e l l m a n n è apparsa superata e i suoi risultati sono stati in genere trascurati o comunque considerati con una certa prudenza, come è specialmente evidente negli studi che hanno cercato di fornire una sintesi complessiva sull’opera zoologica di Timoteo (a parte B o d e n h e i m e r e R a b i n o w i t z [592], in particolare M i n n i t i C o l o n n a [604], Z u m b o [623], e ora soprattutto Z u c k e r [663]); una vera dettagliata critica è però in genere mancata, ove si eccettuino il fondamentale studio sul Physiologus e i Cyranides di A l p e r s (609) e la recente messa a punto di C o r c e l l a (662). Ma per meglio apprezzare le novità emerse, e i punti su cui invece non sembra si sia andati molto oltre W e l l m a n n , sarà opportuno esaminare separatamente i vari problemi particolari. Il problema principale è, naturalmente, costituito dal testo stesso di Timoteo e dalla sua tradizione, che, dispersa com’è tra escerpti ed epitomi, rende particolarmente difficile l’esatta definizione dell’opera; né sempre gli studiosi hanno potuto o saputo tenerne conto in modo completo. Ancora nel 1949, B o d e n h e i m e r e R a b i n o w i t z pubblicavano una traduzione inglese dell’opera zoologica di Timoteo (592) che però prendeva in considerazione solo i testi pubblicati da H a u p t , e cioè l’Epitome Augustana con la Barocciana e gli Excerpta Parisina; i due studiosi erano consapevoli dell’esistenza della Sylloge Constantini ma non erano stati in grado di accedervi, come pure non avevano potuto consultare varia bibliografia precedente (degli stessi studi di W e l l m a n n mostrano di conoscere solo il saggio su Bolo Democrito del 1928 [583]), e le note riprendevano anch’esse sostanzialmente le annotazioni di H a u p t , con l’esplicito intento (p.16) di rendere opera utile allo scienziato più che al filologo21. I soli testi di H a u p t , e anzi più propriamente la traduzione inglese di B o d e n h e i m e r e R a b i n o w i t z , sono del resto alla base anche della traduzione russa pubblicata nel 2002 da Aleksandr Grigor’evič J u r č e n k o (632) con l’accompagnamento di 21 Su Alfred R a b i n o w i t z si veda, in questa stessa sede, la rassegna su Coricio. Non mi è riuscito di vedere il libro autobiografico di Friedrich Simon B o d e n h e i m e r , A biologist in Israel: a Book of reminiscences, Jerusalem 1959.
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annotazioni anch’esse basate sulle stesse fonti, almeno a quanto posso giudicare dalle riprese reperibili sul sito , che presentano un commento ampliato mirante a registrare i più vari paralleli nelle fonti antiche e medievali (lo stesso J u r č e n k o ha del resto dedicato vari articoli ai differenti animali registrati da Timoteo: l’autore gazeo è specialmente utilizzato in quello dedicato all’unicorno e al rinoceronte [633, 91–93]). Una più attenta considerazione della complessità della tradizione fu offerta da M i n n i t i C o l o n n a (604, 94–98), che si soffermava sul confronto fra Epitome Augustana e Sylloge Constantini, teneva conto anche dell’Epitome Laurentiana e giustamente invocava una più completa ricognizione della tradizione manoscritta. Importante anche il contributo di Z u m b o , che suggeriva la possibilità di individuare nell’Athos il luogo in cui «il περὶ ζῴων di Timoteo fu riproposto in excerpta» (623, 428). Ma a meglio lumeggiare la storia della tradizione di escerpti ed epitomi hanno da ultimo soprattutto contribuito alcuni studi codicologici. Mette conto innanzitutto rammentare che Valentina C u o m o ha accertato come il Par. Suppl. gr. 495, da cui R o s e pubblicò il primo libro della Sylloge Constantini, e l’Ath. Dion. 180, da cui L a m b r o s pubblicò il secondo, siano due parti del medesimo manoscritto, già appartenuto alla biblioteca di Teodosio IV Principe e quindi passato al monastero del Dionysiou (639). Per quanto invece riguarda la restante tradizione, mentre alcuni contributi recenti sulla storia del Mon. 564 non mi paiono aver addotto elementi specificamente utili per una migliore comprensione della genesi dell’Epitome Augustana (F. P o n t a n i , Achille, occhio degli Achei (Antehomerica Uffenbachiana), RHT 4, 2009, 1–29: 2–3 ha del resto giustamente osservato che il manoscritto «attende ancora uno studio approfondito che ne chiarisca l’articolazione, la genesi, la storia»), rilevanti sono invece, tanto per questa quanto per l’Epitome Barocciana, i risultati delle indagini di Filippo R o n c o n i sul Barocci 50 (642, spec. 306 e 344–345): lo studioso, che anche sulla base della presenza di Timoteo prudentemente sospetta per il codice una origine siro-palestinese o comunque medio-orientale, ha in particolare notato come la datazione dell’Epitome Augustana ai tempi di Costantino Monomaco (imperatore dal 1042 al 1055), garantita dalla sua menzione nel capitolo sulla giraffa di cui già prima si è detto (supra, D.1), non sia ovviamente compatibile con l’idea – pure a volte avanzata in letteratura – che la più breve Epitome Barocciana, in ogni caso evidentemente appartenente al medesimo filone di tradizione ma conservata in un manoscritto del X secolo, ne rappresenti una riduzione (642, 344 n.211). Una possibile conclusione, da R o n c o n i tuttavia non tratta, è che le due epitomi indipendentemente discendano da una precedente raccolta di escerpti risalente a prima dell’età di Costantino Monomaco, la cui menzione sarà stata aggiunta nell’Epitome Augustana ma non era ovviamente presente nella raccolta originaria; quest’ultima, che doveva essere ampia almeno come l’Epitome Augustana ma d’altra parte contenere la menzione del nome dell’autore conservatasi nell’Epitome Barocciana e persasi nell’Augustana, potrebbe allora avere qualcosa a che fare con l’incompleto Τιμοθέου γραμματικοῦ πρὸς τὸν αὐτοκράτορα Ἀναστάσιον περὶ ζῴων a suo tempo conservato, secondo il catalogo del Par. Suppl. gr. 799, nella Megiste Lavra (ved. supra, A.1 e C.1 e infra). Anche sulla base di questa migliore conoscenza della tradizione, è stato quindi possibile, negli ultimi anni, condurre studi più attenti sui modi in cui il testo originario
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fu sottoposto a epitome o ridotto ad escerpti. Importanti, in particolare, le ricerche dedicate alla Sylloge Constantini raccolte nel numero monografico di Rursus (7, 2012) dedicato a «L’encyclopédie zoologique de Constantin VII», in special modo gli articoli di B e r g e r e Z u c k e r (657; 660), che hanno mostrato come questa raccolta, in quanto vera e propria epitome, abbia buone probabilità di rendere conto dell’originario testo di Timoteo in maniera più accurata degli escerpti. L’intera materia è stata quindi ristudiata dallo stesso Z u c k e r , che in uno studio ormai fondamentale (663) nega tra l’altro l’attribuzione a Timoteo, sostenuta da L a m b r o s , dei paragrafi B 277–280, nonché del catalogo di cani che si legge in B 192–197; a maggior ragione, quindi, viene anche negata l’appartenenza a Timoteo dei paragrafi B 588–609 sui cavalli, che come si è visto supra (D.1) gli erano stati assegnati da L a m b r o s e O d e r , seguiti ancora dalle due principali esperte di mulomedicina bizantina, D o y e n - H i g u e t (630; 113, 86) e M c C a b e (115, 40, 97, 219–226; cfr. anche 652, con cenni sui possibili rapporti con Timoteo delle sezioni ippiatriche di Giulio Africano). Sulla scia di quanto stabilito da C o r c e l l a (662), come meglio vedremo trattando delle fonti, Z u c k e r decreta d’altronde anche l’esclusione dall’opera zoologica di Timoteo delle definizioni di animale, uomo e angelo ad essa attribuite da R e i t z e n s t e i n e W e l l m a n n (ved. supra): i tre capitoli che mancano all’inizio dell’Epi tome Augustana saranno stati piuttosto occupati dalle descrizioni del leone, dell’orso e del cervo. In tal modo, lo studio di Z u c k e r (663) viene anche ad offrire un eccellente quadro della probabile struttura dell’opera; né può fare a meno di affrontare la spinosa questione della sua forma. Z u c k e r fondamentalmente fa propria la tesi di D i e l s , U s e n e r e W e l l m a n n , e cioè che lo scrito zoologico di Timoteo fosse in prosa manierata e ritmica: e la Sylloge Constantini, ancorché non sempre fedele perché a tratti riassuntiva, serberebbe in effetti ampie tracce dello stile di Timoteo. Questa sembra, in effetti, la soluzione più probabile, già sottoscritta ad es. da M i n n i t i C o l o n n a (604, 94 n.8), e però non si possono troppo facilmente liquidare l’ἐπικῶς di Suida e il ποιητικῶς […] καλλιεποῦντος dell’Epitome Barocciana: Z u m b o ha giustamente osservato che la correzione ἐπιεικῶς appare «un banale adattamento» e l’avverbio di Suida «rimane problematico» (623, 422–423), né mi pare del tutto ovvio che ποιητικῶς […] καλλιεποῦντος possa far riferimento a prosa elevata e non a poesia (cfr. in effetti schol. in Hes. Op. 1, 169 Gaisford e schol. recc. in Pind. Olymp. 1, 48g Abel). Non c’è quindi da stupirsi se, dopo B o d e n h e i m e r e R a b i n o w i t z (592, 6), di un’opera poetica parlino ancora, tra gli altri, S c a r b o r o u g h (617), M a t t h a i o s (634), B u r s t e i n (659) e A m a t o (661, 80); e in effetti la possibilità che escerpti ed epitomi riprendano una parafrasi in prosa di uno o più poemi non dev’essere troppo rapidamente accantonata. Quanto al connesso problema del titolo e della divisione in libri, Ada A d l e r cercò di offrirne una più precisa definizione nel momento in cui stampò il testo di Suida τ 621 nella forma ἔγραψε δὲ καὶ ἐπικῶς Περὶ ζῴων τετραπόδων θηρίων τῶν παρ᾽ ᾽Ινδοῖς καὶ ῎Αραψι καὶ Αἰγυπτίοις, καὶ ὅσα τρέφει Λιβύη· καὶ Περὶ ὀρνέων ξένων τε καὶ ἀλλοκότων καὶ ὄφεων βιβλία δ’: attraverso l’uso delle maiuscole e l’interpunzione, la studiosa voleva evidentemente suggerire che nell’articolo si menzionassero due opere, di cui la seconda in quattro libri (586, 557). J a c o b y è però
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tornato a una versione più unitaria: il testo di FgrHist 652 T 1 (595, 204) è infatti ἔγραψε δὲ καὶ ἐπικῶς περὶ ζῴων τετραπόδων [θηρίων] τῶν παρ᾽ ᾽Ινδοῖς καὶ ῎Αραψι καὶ Αἰγυπτίοις καὶ ὅσα τρέφει Λιβύη, καὶ περὶ ὀρνέων ξένων τε καὶ ἀλλοκότων καὶ ὄφεων βιβλία δ’, e in apparato si segnala la diversa interpunzione di A d l e r (l’espunzione di θηρίων risale, come si è visto supra, D.1, a B e r n h a r d y ). Si noterà, però, che J a c o b y appone comunque virgola dopo Λιβύη; e su questa base B u r s t e i n può affermare «The references to works «about quadrupeds in India, Arabia, Egypt, and all the animals Libya supports», and «about strange and unusual birds and snakes» in T 1 and to a work On Indian Animals in T 2 [scil. lo scolio a Giovanni di Gaza] are probably alternative descriptions of the same work» (659). L’integrazione proposta da W e l l m a n n non ha per converso avuto fortuna: «arbitraria» la definisce Z u m b o (623, 422). Da ultimo, la questione è stata ridiscussa da Z u c k e r (663), che nega la possibilità di un’estensione del programma di Timoteo ai pesci e ritiene che le indicazioni di Suida rendano conto più dei contenuti principali dell’opera che del suo titolo; le specie esotiche dovevano peraltro avervi un ruolo importante, ma non esclusivo. Se davvero l’opera era una e una sola, forse il suo titolo complessivo era in effetti semplicemente περὶ ζῴων, magari con l’ulteriore indicazione della dedica ad Anastasio che si ricava dal già più volte ricordato catalogo dei manoscritti atoniti del Par. Suppl. gr. 799 (ved. supra, A.1 e C.2, con quanto osservato da A m a t o [661, 81 n.48] e quindi da C o r c e l l a [662] e Z u c k e r [663]), dopo di che potevano darsi ulteriori titoli per le varie sottosezioni. Pure, come questa rassegna eloquentemente mostra, anche riguardo al titolo e alla possibilità che Timoteo abbia scritto più opere bisogna infine confessare che la nostra documentazione lascia vari dubbi ancora aperti; e, in particolare, credo che il testo di Suida comunque richieda delle emendazioni (colpisce, in particolare, la consonanza tra il suo inizio e l’inizio del titolo dell’Epitome Barocciana, e quindi la stranezza di θηρίων, giustamente avvertita da B e r n h a r d y : che debba postularsi lacuna, in Suida, dopo τετραπόδων, da integrare con quel che si legge nell’Epitome Barocciana e quindi eventualmente con un altro titolo perduto, sì da avere quattro diversi libri?). Questo, quindi, nella sostanza, il quadro della tradizione greca sull’opera zoologica di Timoteo: fondamentali restano la Sylloge Constantini, da integrare con i contributi della Epitome Laurentiana, e gli escerpti contenuti nella Epitome Augustana (e nella Epitome Barocciana), nonché negli Excerpta Parisina (la cui ascendenza da Timoteo è da ultimo ribadita da Z u c k e r [663]). L’esatta presenza, in questi testimoni, degli ipsissima verba di Timoteo va di volta in volta con attenzione vagliata; e d’altra parte il testo da essi offerto richiede ancora qualche cura. Abbiamo già visto (supra, D.1) come E b e r h a r d si sentisse in grado di migliorare in un punto il testo di H a u p t , e come U s e n e r fornisse varie emendazioni all’edizione della Sylloge Constantini prodotta da L a m b r o s . Un ulteriore esempio di come vi sia ancora da lavorare in questa direzione è stato offerto da M o r g a n (613), che in Syll.Const. B 270, sulla base di un confronto con Aristotele, de incessu animalium 712a25–27, ha opportunamente mostrato come l’ἀστερον del manoscritto sia da correggere non in ὕστερον (L a m b r o s ) bensì in ἀριστερὸν. Dell’opera di Timoteo esistono, però, anche altri filoni di tradizione più indiretta, che ulteriormente complicano il quadro e inducono
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ad ancor maggiore cautela. Alcuni studi hanno, innanzitutto, indagato la presenza dell’opera di Timoteo all’interno della tradizione zoologica bizantina successiva: Timoteo è stato così debitamente tenuto in conto come possibile fonte non solo, sulla scia di W e l l m a n n , nell’edizione dell’Esamerone di Giorgio di Pisidia curata da G o n n e l l i (625, ad indicem), ma anche in quella del poema sugli animali di Manuele File pubblicata da C a r a m i c o (643, 33 e passim nel commento), nonché negli studi sulla tarda διήγησις παιδιόφραστος περὶ τῶν τετραπόδων ζῴων (così in particolare N i c h o l a s e B a l o g l o u [636, 19–51, spec. 20, 32, 44–45]). La popolarità dell’opera zoologica di Timoteo in età bizantina, testimoniata in primo luogo dagli stessi escerpti e dalla Sylloge Constantini, quindi da Tzetze, ben giustifica questi sondaggi, e però sembrano finora mancare casi di esplicita e letterale ripresa, sicché non si può dire che tali studi abbiano prodotto contributi davvero sostanziali alla ricostruzione dell’originario testo di Timoteo. Ben diversi risultati sono invece giunti dalla tradizione orientale. Che informazioni attestate in Timoteo trovassero riscontri in opere zoologiche siriache ed arabe era noto da tempo. Già addirittura M a t t h a e i (Brevis historia animalium, Mosquae 1811, 2 n.4) aveva notato come una notizia sulla iena in Epit.Aug. 4 potesse essere confrontata con un passo di ad-Damīrī, che gli era noto da B o c h a r t ; e una serie di riferimenti a trattazioni zoologiche arabe, tali da far pensare a una traduzione di Timoteo in siriaco o in arabo tra VII e IX secolo, non mancava nell’articolo del 1927 di W e l l m a n n (582, spec. 181–182). Ulteriori paralleli furono in seguito variamente individuati (ad es. da H . M a y r h o f e r , in una dissertazione monacense del 1925 rimasta inedita, nelle Nu‘ūt al-ḥayawān, o da K o p f [593] in al-Tawḥ īdī), ma mancava ancora una esplicita e chiara attestazione del nome di Timoteo nella letteratura zoologica araba, tale da dimostrare che si trattasse non di generici echi di dottrine variamente diffuse ma di vera citazione testuale. La prova venne però quando si cominciò a studiare più approfonditamente il testo del Kitāb ṭabā’i‘ al-ḥayawān, opera sulla natura degli animali che, scoperta nel 1937 in un manoscritto di Delhi e quindi ritrovata anche in un altro manoscritto della British Library, venne attribuita, dapprima solo congetturalmente, ad al-Marwazī. Nel 1956, S t e r n , oltre a ritrovarvi varie riprese da Galeno, si rese conto che l’opera conteneva esplicite citazioni da Timoteo, variamente indicato come Ṭ īmūtiyūs, Ṭ īmūsūs, Aṭmūniyūs, Aṭmīnūs, e ne annunciò una pubblicazione e uno studio che però non realizzò (594, 93). Della scoperta di S t e r n potè però rendere conto, nel volume dedicato alle scienze nell’Islam per lo Handbuch der Orientalistik uscito nel 1972, U l l m a n n , che individuò in Timoteo uno tra i principali mediatori agli Arabi delle dottrine su ibridi, simpatie e antipatie e mirabilia, chiedendosi peraltro se non andasse identificato con la sua opera quel «vecchio libro sugli animali» più volte citato da vari autori arabi, forse a sua volta identico con quelle Nu‘ūt al-ḥayawān in cui, come si è accennato, M a y r h o f e r aveva a suo tempo appunto individuato consonanze con Timoteo (599, 5, 15–16 e passim). Nel 1981, quindi, I s k a n d a r , oltre a rintracciare nella biblioteca dell’UCLA un terzo manoscritto del Kitāb ṭabā’i‘ al-ḥayawān che definitivamente confermava l’attribuzione a Marwazī e consentiva una più precisa datazione di questo autore (ancora vivo nel 1124/5, era in grado di citare episodi risalenti al 1056/7), definì con esattezza le fonti da lui citate,
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elencando in particolare i brani in cui compariva la menzione di Timoteo (606, spec. 274 e n.55, 284–285, 294). La presenza di Timoteo in Marwazī diveniva così un fatto pienamente acclarato, come mostrano, tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, varie trattazioni in sintesi e manuali (si vedano in particolare E i s e n s t e i n [614, 130; 616, 110 e 117–121] ed E n d r e s s [619, 140–141]); ma per averne una indagine più approfondita bisognerà attendere una serie di studi di Remke K r u k . Dopo un primo annuncio nel 1999 (626, 100 e 121), un ampio articolo su Timoteo in Marwazī fu pubblicato nel 2001 (631): in esso, l’autrice passava in rassegna e presentava in traduzione inglese i brani esplicitamente attribuiti a Timoteo (A) e quelli che, anche in assenza di menzione di fonte, trovano comunque riscontro nella tradizione greca di Timoteo (B), oltre a una serie di passi che Marwazī attribuisce a una fonte definita «il Greco» (C). In tal modo, un intero nuovo filone di tradizione di Timoteo è divenuto più ampiamente disponibile, e consente ulteriori controlli su quanto testimoniato dalla tradizione greca. Purtroppo, però, K r u k ha tenuto presenti, per i suoi confronti, solo gli escerpti di Timoteo tradotti da B o d e n h e i m e r e R a b i n o w i t z (592), e cioè quelli già noti a H a u p t (Epitome Augustana, Epitome Barocciana, Excerpta Pari sina), trascurando completamente la Sylloge Constantini, che spesso offre migliori riscontri al materiale presente in Marwazī; e solo molto parzialmente tale errore è stato corretto in un successivo intervento del 2008 (648), come meglio vedremo tra breve discutendo gli studi dedicati alla trattazione di Timoteo sulla giraffa e ai diversi modi in cui essa si presenta nei differenti testimoni. Molto lavoro è quindi ancora da fare: si può ad es. notare che il brano sull’ibrido fra topo e lepre e sul topo volante da Marwazī ascritto al «Greco» (C2 K r u k : 631, 377) riproduce da vicino quanto si legge, con esplicita attribuzione a Timoteo, in Syll.Const. B 363, mentre per converso il passo sui cavalli cappadoci che Marwazī riprende da Ṭ īmūsūs (A2 K r u k : 631, 363) non trova riscontro nelle liste di razze equine in Syll.Const. B 588–609 e nel testo parallelo di An. Ox. IV 256–268, sì da confermare i dubbi, di cui già si è detto, espressi da Z u c k e r (663) sulla loro tutta ipotetica attribuzione a Timoteo (a meno di ritenere che siano il frutto di una radicale selezione). Il fatto poi che, in Marwazī, materiale ascrivibile a Timoteo compaia a volte con esplicita attribuzione, a volte senza indicazione di fonte o con indicazione generica («il Greco») induce a richiedere più accurate analisi sui rivoli della tradizione di Timoteo in oriente. Si tratta, ovviamente, di questione assai complessa, che potrà essere correttamente affrontata solo attraverso una più compiuta ricognizione dell’amplissimo materiale arabo disponibile (per non fare che un esempio quasi casuale, alcune notizie sul parto dell’orsa attestate in Qazwīnī e Damīrī, la cui fonte risulta oscura a A . M i q u e l , Les Arabes et l’ours [AHAW 1994,1], Heidelberg 1994, 30–32 e 34–36, trovano esatto riscontro proprio nell’estratto da Timoteo in Syll.Const. B 340). A livello preliminare va comunque segnalato un ulteriore contributo della stessa K r u k uscito nel 2007 (646, spec. 56–58), nel quale la studiosa mostra come le citazioni da Timoteo di Marwazī si rivelino spesso più ampie e precise, in rapporto con l’originale greco, rispetto alle consonanze ravvisabili fra Timoteo e le Nu‘ūt al-ḥayawān, che diversamente da quanto ritenuto da M a y r h o f e r e U l l m a n n non possono quindi essere considerate il canale privilegiato per la penetrazione di Timoteo in oriente. Non si dovrà a tal proposito dimenticare che Marwazī
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sembra essere stato a Costantinopoli (ved. V . M i n o r s k y , Marvazi on the Byzan tines, Annuaire de l’Institut de Philologie et d’Histoire Orientales et Slaves 10, 1950 [= Παγκράτεια. Mélanges H. Grégoire], 455–469), e qui potrebbe aver avuto diretto accesso a una delle tante versioni più o meno epitomate di Timoteo all’epoca circolanti, da cui forse attinse nuovi materiali in aggiunta a quelli che già da tempo erano penetrati nella tradizione zoologica araba. In sintesi, insomma, la tradizione orientale andrà ulteriormente esplorata, e potrebbe riservare notevoli sorprese; allo stato attuale degli studi, essa arricchisce il quadro ma anche lo complica – come meglio tra breve vedremo nel trattare degli studi recentemente dedicati alle giraffe citate da Timoteo. Per una ipotizzata menzione di Timoteo nel Fihrist ved. supra, A.2. Per quanto riguarda le fonti dell’opera zoologica di Timoteo si è già accennato come una certa diffidenza verso la «critica fontaniera» di W e l l m a n n si sia ben presto diffusa. B o d e n h e i m e r e R a b i n o w i t z non avevano, come si è già detto, una esatta conoscenza degli studi di W e l l m a n n e comunque, nella sezione sulle fonti, registravano i paralleli con tutti gli esponenti dell’antica zoologia, a partire da Aristotele, per concludere che Timoteo avrebbe attinto un po’ da tutti per compilare un compendio di tipo generale destinato a «the educated philosopher» (592, 7–14). Qualche osservazione più minuta si deve a M o r g a n , che a proposito delle notizie sulla giraffa di Timoteo, simili a quelle di Eliodoro X 27,3, si chiedeva se non si dovesse postulare una fonte comune (613, 268–269): un problema su cui torneremo. L’atteggiamento più diffuso è però espresso ottimamente da Z u m b o , che pur riscoprendo alcuni paralleli fra Timoteo e il Physiologus già in effetti studiati nel 1930 da W e l l m a n n (584, 23–35) ritiene che si debba in generale parlare di «conflatio di modelli», giacché «Timoteo non segue una fonte precisa» e gli si può semmai attribuire la «lettura […] di corpora di singole historiai come quelle di Eliano» (623, spec. 425–426). La conclusione è ora fatta propria da Z u c k e r (663), che anche per i rapporti col Phy siologus pensa a meri paralleli più che a rapporti di dipendenza. Questo scetticismo nei confronti delle analisi di W e l l m a n n è pienamente giustificato, e però generale per non dire generico, in quanto non analizza nel dettaglio le debolezze delle sue ricostruzioni. Più nello specifico era sceso – anche se ciò è stato per lo più ignorato dagli studiosi di Timoteo – Klaus A l p e r s (609, spec. 31–33), che aveva mosso una critica serrata alla tesi di una indipendente discendenza dell’opera di Timoteo e dei Cynegetica di Oppiano dal περὶ ζῴων di Taziano, mostrando da un lato come di Taziano non sappiamo quasi nulla e dall’altro come, differentemente da quanto già credeva B u s s l e r , sia possibile ritenere che Timoteo abbia utilizzato non la fonte dei Cynegetica ma direttamente i poemi di entrambi gli Oppiani (per Oppiano di Anazarbo ciò può essere indicato dalla consonanza tra Epit.Aug. 5 ~ Syll.Const. B 401 e Hal. II 56 sgg., 86 sgg. e 115) e comunque abbia attinto al più vario materiale zoologico; venuta quindi meno l’ipotesi del «libro siriaco» identificabile con Taziano, si pone piuttosto il problema del rapporto tra il Physiologus e le diverse fonti di Timoteo (tra cui i poemi oppianei), senza del resto poter escludere la possibilità che Timoteo abbia attinto anche allo stesso Physiologus. Il contributo di A l p e r s è fondamentale ma, nel fare i conti con le tesi di W e l l m a n n , si concentra soprattutto sul saggio del 1930 (584) e cita quello del 1927 (582) solo cursoriamente (609, 71 n.194 e pochi altri rinvii nelle note suc-
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cessive), sicché non affronta quanto, sulla scia delle conclusioni che R e i t z e n s t e i n aveva tratto dallo studio degli scolii del Vallicelliano E 11, W e l l m a n n aveva ulteriormente osservato sulla consonanza fra Timoteo e Taziano nella definizione di animale, uomo ed angelo (ved. supra, B.1–2). Tale questione è ora discussa – come già si è accennato – da C o r c e l l a (662), che mostra come l’attribuzione del contenuto degli scolii in questione all’opera zoologica di Timoteo sia ipotesi ardita e, al fondo, difficilmente sostenibile, e come di conseguenza, alla pari di quanto avviene per l’ortografia, vengano meno anche i motivi per pensare a una connotazione chiaramente cristiana della zoologia di Timoteo – parere ora ulteriormente sottoscritto da Z u c k e r (663), che di un Timoteo cristiano aveva pure parlato nel 2007 (649, 814). Se la Quellenforschung di W e l l m a n n , con la sua pretesa di individuare fonti precise cui dare un nome, non regge quindi a una critica più attenta, i molti paralleli però mostrano che l’opera zoologica di Timoteo doveva rappresentare una rielaborazione compilatoria di notizie sugli animali che avevano una lunga storia. I suoi contenuti sono stati quindi ampiamente citati e utilizzati nelle ricerche dedicate alla tradizione zoologica antica, a partire almeno da Die Antike Tierwelt di Otto K e l l e r (che peraltro ancora prudentemente affiancava all’indicazione del nome di Timoteo la designazione «anonymus Matthaei»: ved. ad es. I, Leipzig 1909, 274 e 423 n.41). Negli ultimi decenni, contributi importanti sono però giunti soprattutto dagli studi dedicati alla diffusione di temi animalistici nell’iconografia. Se J. M. C. To y n b e e , Animals in Roman Life and Art, London 1973, ancora ignorava – se ho ben visto – Timoteo, in quegli stessi anni Chiara S e t t i s F r u g o n i e Salvatore S e t t i s lo ponevano invece al centro dell’attenzione degli storici dell’arte, notando come le raffigurazioni affiancate degli stratagemmi di caccia alla tigre e al grifone nei mosaici di Piazza Armerina trovino immediato riscontro nel testo di Timoteo, Epit.Aug. 9 e postulando una comune dipendenza da fonti cinegetiche (600; 601, 948; 602). Il riscontro è stato da allora più volte riproposto dagli studiosi (ad es. da C a r a n d i n i , R i c c i e d e V o s [608, 103 e passim], B a r a t t e [610, 58], B r o c k b e r n d [621], da ultimo da F r o s t [655]). Riflessioni più accurate sul tema sono giunte da Harald M i e l s c h , che riguardo alla caccia alla tigre ha suggerito la possibilità che Timoteo possa dipendere da raffigurazioni iconografiche (612, 756–758; così apparentemente anche F r o s t [655]) e ha riflettuto su una possibile ambientazione in Ircania e non in India (615, 463), mentre a proposito della caccia al grifone ha sottolineato le divergenze fra il testo di Timoteo e la rappresentazione di Piazza Armerina, attestata in forma analoga su una pisside londinese (615, 463–465; le differenze sono state rimarcate anche da R a e c k [620, 53 n.118]). Allo stesso M i e l s c h si deve del resto anche un’opera di sintesi sulle storie di animali nell’arte antica che dedica ampio spazio ai racconti di Timoteo (641, passim; scheda su Timoteo a p.139, ed efficace notazione sulla sua tendenza alla drammatizzazione a p.12). Si può infine ricordare che brani di Timoteo sono più volte stati invocati nel dibattito sul «papiro di Artemidoro»: da ultimo, A r p a g a u s (656) ha notato con qualche stupore che la raffigurazione del grifone sembra proprio illustrare il testo di Timoteo, pur precedendolo di mezzo millennio; chi più verosimilmente crede che il papiro sia un falso può naturalmente offrire una adeguata spiegazione del fenomeno (così ad es. M i c u n c o [645, 26–27]).
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Sarebbe comunque impossibile, e forse anche inutile, inseguire tutte le menzioni, anche le più cursorie, di Timoteo negli studi degli ultimi decenni su zoologia e iconografia (sulla presenza di temi attestati in Timoteo in pavimenti musivi si veda ad es. H a c h l i l i [650, 157, 168–169 e passim]; per i paralleli in miniature cinegetiche, F u r l a n [624, 18–19]). Basti aver segnalato come, anche attraverso la considerazione delle testimonianze iconografiche, la critica delle fonti di Timoteo si vada orientando non più tanto verso l’individuazione di esatte ascendenze e l’indicazione di precisi nomi recuperati attraverso ipotesi sulla presunta fisionomia di opere perdute la cui menzione casualmente ci è giunta, quanto piuttosto verso la definizione di filoni di tradizione la cui diffusione doveva essere ampia e diversificata; tale indirizzo, conforme a una tendenza generale nella moderna Quellenforschung, è certo apprezzabile, e però non può che lasciare aperti molti problemi. Un aspetto connesso, che spesso emerge nella discussione fin qui considerata (soprattutto nei saggi di M i e l s c h ), è quello dei luoghi in cui le storie di Timoteo sarebbero ambientate. Un chiarimento importante in proposito viene ora dal volume di Pierre S c h n e i d e r , che nel discutere dell’uso non sempre proprio dei termini «India» ed «Etiopia» nei testi greci e romani ha variamente analizzato i testi di Timoteo (638, passim), mostrando tra l’altro come la sua «India» possa a volte essere la Nubia (così nel caso delle giraffe di cui tra breve diremo: 638, 151–152) e la sua «Etiopia» sembri viceversa talora essere l’India (638, 171, 227, 432, 497); ciò aiuta peraltro a inquadrare il problema dei diversi titoli attribuiti a ll’opera dai vari testimoni (in particolare il περὶ ζῴων Ἰνδικῶν dello scolio palatino). La questione della localizzazione ha del resto una certa importanza anche nelle discussioni su uno dei brani di Timoteo più studiati negli ultimi tempi, quello sulla giraffa, che può costituire una adeguata conclusione di questa rassegna in quanto consente di riproporre, attraverso un esempio particolare, varie importanti questioni già trattate (la definizione delle fonti di Timoteo, il suo ruolo rispetto all’amministrazione imperiale, i paralleli con le raffigurazioni iconografiche), e soprattutto ha consentito di svolgere più precise riflessioni sui diversi modi in cui i differenti testimoni sembrano aver ripreso e adattato il testo originale. Nella sezione sulla giraffa, Timoteo doveva narrare, tra l’altro, del passaggio per Gaza di due esemplari di questo raro animale, inviati (assieme probabilmente a un elefante) all’imperatore Anastasio. Nell’Epitome Augustana, in effetti, al cap.24, dopo una definizione del carattere ibrido della καμηλοπάρδαλις e prima della già citata menzione, opera dell’escerptore bizantino, di un analogo invio a Costantino Monomaco, si legge ὅτι διὰ Γάζης παρῆλθέ τις ἀνὴρ ἀπὸ τῶν Ἰνδικῶν, Ἀελίσιος δὲ τὸ γένος, ἄγων δύο καμηλοπαρδάλεις καὶ ἐλέφαντα τῷ βασιλεῖ Ἀναστασίῳ. M a t t h a e i , che erroneamente leggeva Ἀρλίσιος, non fu in grado di spiegare questo etnonimo, ma ben vide come la notizia trovasse conferma nella cronaca di Marcellino, che per il 496 (p.94 Mommsen) annotava India Anasta sio principi elephantum […] duasque camelopardalas pro munere misit (Brevis historia animalium, Mosquae 1811, 24 n.20). Toccò a H a u p t leggere correttamente Ἀελίσιος e interpretarlo come una forma, ancorché stravagante, derivata dal nome della città di Aila, l’odierna Elat, porto del Mar Rosso la cui importanza in età protobizantina è ben attestata (Hermes 3, 1869, 15). Quanto a τις ἀνὴρ ἀπὸ τῶν Ἰνδικῶν, nel 1949 B o d e n h e i m e r e R a b i n o w i t z ne fornirono la curiosa traduzione «a man dealing
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in Indian products», salvo osservare in nota che si potrebbe anche rendere «a man (coming) from India» (592, 31 e n.4): i due studiosi erano probabilmente sconcertati dalla menzione di una giraffa indiana, ma la difficoltà non esiste ove si pensi al già segnalato uso di «India» per indicare le più varie regioni. Nel frattempo, però, la Sylloge Constantini veniva ad offrire una trattazione più ampia (B 270–273): all’inizio e alla fine si insisteva sul carattere ibrido della giraffa, e una descrizione del suo aspetto e del suo modo di camminare, presentata come risultato di una visione diretta (tipicamente segnalata dall’uso degli imperfetti ἦσαν ed εἶχον) era introdotta da una sezione presentata come citazione diretta da Timoteo: ἀνὴρ γὰρ Ἰνδὸς διὰ Γάζης, φησί, τῆς ἐμῆς διῆλθε, δύο θῆρας τοιούσδε κομίζων δῶρον τῷ βασιλεῖ· Ἀναστάσιος δὲ οὗτος ἦν. Il brano della Sylloge (dove, si badi, la menzione dell’elefante manca) fu ben studiato nel 1988 da M o r g a n (613), che oltre a proporre la già discussa emendazione del testo di L a m b r o s notò come la corretta descrizione dell’ambio trovasse riscontro solo in un passo di Eliodoro e si chiese se ciò fosse «the result of independent accurate observation from life» o non rivelasse la comune dipendenza da una fonte (l’Eliano perduto?). Nel 1992, quindi, B u r s t e i n offrì un fondamentale contributo all’interpretazione storica del brano (618): partendo dall’ipotesi, tutt’altro che certa, che il disegno di un elefante tracciato in P.Mich. Inv. 4290 potesse registrare proprio l’invio delle giraffe e dell’elefante ad Anastasio, notò come il più probabile contesto in cui inserire la vicenda fosse quello di una «diplomatic overture to Anastasius from the contemporary ruler of Axum», dato che proprio il sovrano di Axum aveva il monopolio degli elefanti ammaestrati. Nel 1995, in contrapposizione con questa tesi, S h a h î d sostenne che l’invio dell’elefante e delle giraffe, così come descritto nell’Epitome Augustana, in parte interpretata sulla scia di B o d e n h e i m e r e R a b i n o w i t z , si potesse meglio intendere come opera di un sovrano dell’Arabia meridionale, con la mediazione di un filarco ghassānide: questi, «uomo di Aila» commerciante in merci «indiane», avrebbe scortato gli animali da Aila a Gaza (231, 28–31). L’intero dossier degli invii di giraffe nell’antichità fu quindi studiato l’anno dopo da G a t i e r , che prese in considerazione anche le testimonianze iconografiche (622). Riguardo a Timoteo, lo studioso concluse che egli, pur avendo certo visto le giraffe, le descrisse però in termini sostanzialmente letterari, riprendendo in particolare i Cynegetica oppianei; la notazione sull’ambio, che l’accomuna a Eliodoro, potrebbe far pensare a una fonte comune risalente al III o al IV secolo, mentre «(i)l serait certes étonnant que Timothée ait, sur ce seul point, exercée son sens de l’observation». G a t i e r sottolineava quindi come il testo originario di Timoteo, parzialmente frainteso nell’Epitome Augustana, dovesse parlare del passaggio per Gaza di un convoglio che giungeva da Aila condotto da un africano (così andrebbe inteso «Indiano»); tale passaggio avrebbe del resto avuto una notevole risonanza, finendo con l’ispirare – forse a partire da una raffigurazione a Gaza – alcune rappresentazioni di area palestinese (in primo luogo un mosaico di Maiuma) in cui l’animale presenta tratti realistici e non è invece disegnato, come accade altrove, nella forma di una sorta di dromedario maculato e privo di corna. G a t i e r si oppone, in particolare, all’interpretazione offerta da S h a h î d dell’«uomo di Aila» e alla sua idea di un dono proveniente dall’Arabia (622, 920 n.100). Sull’esatta identità dell’«uomo di Aila» – se davvero è questo il senso di Ἀελίσιος – è lecito restare in dub-
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bio, e sarebbe comunque difficile mettere da parte la testimonianza dell’Epitome Augustana (l’ἀνὴρ […] Ἰνδὸς della Sylloge Constantini ha tutta l’aria di essere la semplificazione di una più complessa espressione); ma che l’«India» sia il regno di Axum è fortemente probabile, anche perché nel testo di Marwazī (A5) reso noto nel 2001 da K r u k («Aṭmûniyûs the wise says: There came to us a man from India, a messenger of the king of India, with two giraffes covered with cloths and harnessed with many bridles and nose straps, that he wanted to bring to the king of Constantinople. He came to our house and I was full of amazement for what I saw of their nature and shape … »: 631, 364) si parla esplicitamente di «un messaggero del re dell’India», ed è difficile non concordare con G a t i e r allorché, in un successivo intervento (640, 78), ha affermato che «le souverain axoumite paraît le seul candidat envisageable». Nella stessa sede G a t i e r ha anche valorizzato gli ulteriori elementi peculiari che emergono dal testo di Timoteo nella versione di Marwazī, in particolare la descrizione dei finimenti delle giraffe e degli «uomini neri» che le cavalcherebbero («Black men (sawâd) sat upon them» nella traduzione di K r u k ). Quest’ultimo punto è in realtà illusorio: la stessa K r u k , in un ulteriore intervento del 2008 dedicato alle fonti arabe sui doni di giraffe, ha avuto modo di accennare, su suggerimento di Philip R a n c e , che la frase araba può essere meglio intesa come un riferimento alle estremità nere delle code, conformemente al testo della Sylloge Constantini, nel 2001 dalla studiosa non tenuto presente (648, 574–577, spec. 575 n.25, dove si accenna a un prossimo articolo di R a n c e sul tema che – come lo stesso R a n c e mi ha comunicato con lettera del 19.IV.2014 – non era però stato a quella data pubblicato). Resta comunque il fatto che Marwazī (oltre a confermare, sia pure in una frase che sembrerebbe lacunosa, la congettura ἀριστερὸν proposta da M o r g a n [613] nella Sylloge Constantini, per cui ved. supra) contiene in più rispetto agli altri testimoni la descrizione dei finimenti, e in particolare delle corde legate alle narici; e anche su questa base G a t i e r ha ulteriormente sviluppato le conclusioni del suo precedente saggio, mostrandosi più generoso nel ricondurre all’influsso esercitato dal passaggio delle giraffe per Aila e Gaza nel 496 tutta una serie di rappresentazioni, e in particolare ritenendo che non solo le raffigurazioni realistiche di giraffe dall’area di Gaza (cui ora viene aggiunto un importante caso da Jabālyā) ne dipendano, ma che anche alcune immagini da altre aree, convenzionali e fantasiose e però caratterizzate dalla presenza di corde legate alle narici, come nel resoconto di Marwazī, possano rappresentare echi, ancorché più mediati, di raffigurazioni ispirate a quello stesso passaggio (640). Queste nuove conclusioni appaiono meno sicure delle precedenti, ma in ogni caso il dettagliato confronto fra i tre rap presentanti della tradizione di Timoteo (Epit.Aug. 24, Syll.Const. B 270–273, Marwazī A5 Kruk), ognuno dei quali offre dettagli in più e in meno rispetto agli altri, ha portato a riflettere sui modi in cui ciascuno ha evidentemente ripreso e però anche modificato il testo di partenza. Sul tema si è soffermato innanzitutto B u q u e t (658), che oltre a notare come la trattazione della giraffa di Timoteo, in cui l’osservazione diretta doveva aggiungersi al sapere tradizionale, sia stata variamente adattata nei testimoni, ha notato come lo stesso avvenga nel caso della tutta libresca sezione sulla pantera, nonché riguardo al delicato tema dell’ibridazione. Da ultimo Arnaut Z u c k e r (663) usa il capitolo sulle giraffe come un caso esemplare del modo in cui l’originario
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testo di Timoteo è stato soggetto, negli escerpti e nelle epitomi, ad adattamenti che hanno portato non solo, come è naturale, a selezioni ma anche ad interpolazioni, sicché l’opera di ricostruzione si presenta specialmente insidiosa. A parte la difficile questione dell’«uomo di Aila», che le divergenze fra i tre testimoni non consentono di dirimere in maniera netta, si noterà, peraltro, come solo Marwazī parli di un passaggio delle giraffe dalla casa stessa di Timoteo («He came to our house» nella traduzione di K r u k [631, 364]), elemento intelligentemente valorizzato, tra altri, da A m a t o per mostrare che Timoteo deve avere ricoperto una carica ufficiale (661, 83; ved. supra A.2); rimane però il dubbio che si tratti di innovazione, da parte del traduttore arabo (se non addirittura di K r u k ), di qualcosa come il διὰ Γάζης […] τῆς ἐμῆς che si legge nella Sylloge Constantini. L’esempio della giraffa mostra, in conclusione, che siamo ancora lontani dall’avere un’idea davvero precisa dell’opera zoologica di Timoteo. Occorrerà, innanzitutto, completare la ricognizione del materiale superstite, greco, siriaco ed arabo, e in ogni caso – a giudicare da quanto è già noto – sarà possibile solo un’edizione sinottica (come venne opportunamente sottolineato da Z u m b o [623, 424–425]). Ciò che abbiamo sono escerpti, e in particolare l’Epitome Augustana (con la Barocciana) sembra rappresentare una sintetica rielaborazione, mentre è più probabile che nella Sylloge Constan tini si abbiano echi dello stile originario; peraltro, se tutti i materiali vanno ricondotti alla medesima opera, le selezioni sono state diversamente ispirate e condotte (cosa che fu già vista, in riferimento agli Excerpta Parisina e però con un eccesso di scetticismo, da S e i t z , Die Schule von Gaza, Diss. Heidelberg 1892, 31–32). Salvo felici quanto imprevedibili nuove clamorose scoperte, quindi, non solo gli ipsissima verba di Timoteo (poetici o prosastici che fossero) ma anche gli esatti contenuti sono spesso destinati a sfuggirci. In una tale situazione, come di consueto accade in questo genere di tradizioni, la difficoltà consiste anche nel distinguere, a fronte di precise concordanze con altri autori, tra quanto confluì nella compilazione originaria di Timoteo perché da lui stesso ripreso a partire dalle fonti e quanto invece è frutto di più tarde recensioni del testo di Timoteo che lo accrebbero con l’aggiunta di trattazioni consimili. In attesa di rinnovati studi, è comunque auspicabile che gli studiosi tengano almeno presenti – come è però raramente avvenuto – tutte le testimonianze finora individuate. Su questa linea si pone ora felicemente Arnaut Z u c k e r ; e il suo lavoro ora stampato negli atti del convegno parigino del 2013 (663) viene ad offrire i necessari prolegomeni ad ogni futuro lavoro, ecdotico ed esegetico, sull’opera zoologica di Timoteo.
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III. Zaccaria: 1932–2010 In una rassegna fondamentalmente incentrata sull’attività retorica e letteraria degli autori riconducibili alla «scuola di Gaza», il ruolo di Zaccaria è giocoforza marginale. In ogni caso, anche se l’identificazione con l’omonimo fratello di Procopio è oggi screditata (ved. infra, A), la sua nascita a Maiuma, gli studi retorici ad Alessandria, gli interessi filosofici e teologici che riprendono quelli di Enea consigliano di trattarne almeno cursoriamente in questa sede; mi concentrerò sui principali contributi più specificamente ed espressamente dedicati alla sua vita e ai suoi scritti, ma non sarà naturalmente possibile rendere conto, se non molto selettivamente e limitandosi soprattutto ad alcune più rilevanti opere di riferimento, dei tanti studi in cui Zaccaria è ricordato, assieme ad altre figure, in quanto protagonista e testimone delle controversie dottrinali ed ecclesiali dell’epoca oppure singoli passi delle sue opere vengono usati come fonte storica e prosopografica. Un rapido riferimento a Zaccaria si legge nel rendiconto sulla patristica greca per il periodo 1916–1925 curato da F . D r e x l in JAW 230, 1931, 263, dove si segnala unicamente l’edizione della cronaca dello Pseudo-Zaccaria curata tra 1919 e 1924 da E. W. B r o o k s (CSCO 83–84 e 87–89, Scr. Syr. 38–39 e 41–42). Come preciso punto iniziale della rassegna ho comunque scelto il 1932, anno in cui esce il quinto volume della Geschichte der altkirchlichen Literatur di Otto B a r d e n h e w e r (già registrato, nella sezione su Coricio, sotto il numero 146) nel quale sono sintetizzati i risultati delle fondamentali ricerche condotte fra gli ultimi decenni dell’800 e i primi decenni del ’900 (cui si farà comunque, nel seguito, rapidamente cenno). Anche nel caso di Zaccaria mi spingerò occasionalmente oltre il 2010 quando – alla data dell’aprile 2014 – mi fossero risultate opere importanti. 664. P . C o u r c e l l e , Boèce et l’école d’Alexandrie, Mélanges d’archéologie et d’histoire 52, 1935, 185–223. 665. R. H e r z o g , Der Kampf um den Kult von Menuthis, in: Th. K l a u s e r – A . R ü c h n e r (Hrsg.), Pisciculi. Studien zur Religion und Kultur des Altertums F. J. Dölger zum sechzigsten Geburtstage dargeboten von Freunden, Verehrern und Schülern, Münster 1939, 117–124. 666. E . S c h w a r t z , Kyrillos von Scythopolis (TU 49.2), Leipzig 1939. 667. T h . N i s s e n , Eine christliche Polemik gegen Julians Rede auf den König Helios, ByzZ 40, 1940, 15–22. 668. P . C o u r c e l l e , Les lettres grecques en Occident, Paris 19482 . 669. G . B a r d y , art. Zacharie le Rhéteur, in: Dictionnaire de théologie catholique, XV 2, Paris 1950, 3676–3680. 670. D. M. L a n g , Peter the Iberian and his Biographers, JEcclHist 2, 1951, 158–168. 671. P . D e v o s , On D. M. Lang, «Peter the Iberian and his Biographers», AnBoll 70, 1952, 385–388.
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A. La vita e la figura L’esistenza, nella tradizione greca e siriaca (ma anche armena), di diverse opere attribuite ad autori portanti lo stesso nome di Zaccaria ma ulteriormente qualificati da differenti titoli, nonché di notizie su personaggi omonimi variamente compatibili, per cronologia e attività, con questi stessi autori, fece precocemente sorgere la tendenza all’identificazione. Già il F a b r i c i u s dubitativamente si chiedeva se non si potessero identificare lo Zaccaria Retore citato come autore di storia ecclesiastica da Evagrio e lo Zaccaria Scolastico, poi vescovo di Mitilene, autore dell’Ammonius e di uno scritto antimanicheo (Bibliotheca Graeca IX, Hamburgi 1719, 355–357; nell’edizione curata da H a r l e s , X, Hamburgi 1807, 633–635); uno Zaccaria vescovo di Mitilene era d’altra parte noto, per il 536, dagli atti del concilio di Costantinopoli. L’emergere, dalla tradizione siriaca, di parti della Historia Ecclesiastica di Zaccaria Retore (malīlā), incorporate in una più vasta opera talora erroneamente attribuita nella sua integralità allo stesso Zaccaria (ved. infra, B.5), arricchì e complicò il quadro, tanto più perché alcuni rivoli di tradizione qualificavano questo autore come «vescovo di Melitene». Angelo M a i ripropose di identificare Zaccaria Retore e Zaccaria Scolastico, suggerendo inoltre come possibile l’ulteriore identificazione con uno dei due Zaccaria elogiati da Giovanni di Gaza e con lo Zaccaria più volte citato nell’epistolario di Procopio di Gaza e indicato come suo fratello (Scriptorum veterum nova collectio X 1, Romae 1838, XI–XV). Il dibattito si riaprì su basi più ampie dopo che il testo siriaco dello Pseudo-Zaccaria venne integralmente edito, da un manoscritto del British Museum, da J. P. N. L a n d (Anecdota Syriaca III, Leiden 1870) e quindi tradotto in tedesco (K . A h r e n s – G . K r ü g e r , Die sogenannte Kirchengeschichte des Zacha rias Rhetor, Leipzig 1899) e in inglese (The Syriac Chronicle known as that of Zachariah of Mitylene, transl. into English by F. J. H a m i l t o n and E. W. B r o o k s , London 1899); lo stesso L a n d aveva del resto anche pubblicato, contestualmente, il testo siriaco della Vita Isaiae, che il traduttore attribuiva al medesimo «Zaccaria Scolastico che ha scritto anche la storia ecclesiastica» (ved. infra, B.3), mentre la Vita Severi, edita in siriaco da J. S p a n u t h (Göttingen 1893) e tradotta in francese da F. N a u (ROC 4, 1899, 343–353 e 544–571; 5, 1900, 74–98), offriva l’ulteriore testimonianza di un’opera di Zaccaria Scolastico, che nel testo si definiva nativo di Maiuma di Gaza. Su queste basi, tanto K r ü g e r quanto B r o o k s si allineavano a M a i nel postulare un unico Zaccaria, chiamato ora Retore ora Scolastico e poi divenuto, prima del 536, ve scovo di Mitilene (nome rispetto a cui il «Melitene» di una parte della tradizione siriaca poteva considerarsi banale errore), da identificare anche col fratello di Procopio di Gaza: si veda ad es. il chiaro quadro della questione offerto da J . G w y n n in Hermathena 11, 1901, 214–226. Contro questa identificazione, che costringeva peraltro a postulare un brusco passaggio di Zaccaria dal campo anticalcedonese all’ortodossia, si schierò però, in vari interventi (specialmente in ROC 5, 1900, 201–214), M.-A. K u g e n e r , che lavorava a una nuova edizione della Vita Severi per la Patrologia Orienta lis (II 1, Paris 1907). Lo studioso non fornì tuttavia una compiuta dimostrazione delle sue idee, e mostrò anzi in seguito esitazioni e ripensamenti, di cui potè rendere conto G . K r ü g e r nell’importante articolo su Zaccaria per la Realencyklopädie für protes
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tantische Theologie und Kirche (XXI, Leipzig 1908, 593–598). Ulteriori chiarimenti vennero quindi da S . S i k o r s k i (Jahresbericht der Schlesischen Gesellschaft für vaterländische Kultur 92, I 4 a, 1914, 1–17): egli sottoscrisse l’identità di Zaccaria Retore e Scolastico, ma negò la possibilità dell’ulteriore identificazione col fratello di Procopio, notando alcune discordanze nei dati biografici, e in particolare il fatto che mentre il padre di Zaccaria Scolastico, secondo la testimonianza di Vita Severi, p.95 Kugener, morì nel 491, il padre di Procopio e dei suoi fratelli sembrerebbe, stando a Coricio VIII 4 e a quel che sappiamo della cronologia di Procopio, essere morto molto tempo prima. Nel trarre le somme di questo dibattito, B a r d e n h e w e r (146, 112–116) poteva quindi dedicare un’unica trattazione a uno «Zacharias Rhetor» cui erano attribuite anche le opere ascritte dalla tradizione a Zaccaria Scolastico e che dopo una carriera amministrativa sarebbe divenuto, prima del 536, vescovo di Mitilene; più dubbia, e contrassegnata da un «vielleicht», restava invece la possibilità di identificarlo con il fratello di Procopio. La questione venne specificamente ridiscussa, nel 1953, da Ernest H o n i g m a n n (672, 194–204), che mise in luce la somiglianza degli esordi dell’An tirrhesis, dalla tradizione attribuita a uno Zaccaria costantinopolitano in seguito divenuto vescovo di Mitilene, e della Vita Severi, ascritta a uno Zaccaria Scolastico gazeo e monofisita, nonché il fatto che una lettera di Severo associ Zaccaria Scolastico a un Filippo e a un Vittore – nomi che corrispondono a quelli di altri due fratelli di Procopio attestati, talora assieme a Zaccaria, nell’epistolario del retore gazeo. H o n i g m a n n riteneva per tale via di poter confermare l’identificazione di Zaccaria Retore e Scolastico con il fratello di Procopio; in maniera dettagliata la tesi è stata ridiscussa nel 1973 da Maria M i n n i t i C o l o n n a (691, 15–26), che ha ripreso i dubbi già espressi da S i k o r s k i e ha fatto notare come sia curioso che, nell’epistolario di Procopio, non compaia mai un fratello di Zaccaria Scolastico anch’egli menzionato nella Vita Severi, Stefano, per concludere quindi che mentre l’identificazione di Zaccaria Retore e Scolastico può darsi per acquisita quella con il fratello di Procopio rimane altamente dubbia. Questa linea può dirsi, attualmente, essere quella prevalente. Non mancano, in realtà, alcune eccezioni: Eduard S c h w a r t z riteneva impossibile che il monofisita Zaccaria Retore e Scolastico potesse davvero essere poi divenuto vescovo di Mitilene (666, 367 n.1), e ancora W. H. C. F r e n d distingueva l’autore delle militanti biografie di Severo e Isaia da quello della più ecumenica storia ecclesiastica, notando come una così multiforme produzione andasse anche al di là di quanto attribuito al proverbiale vicario di Bray, e tendeva a distinguere entrambi dal vescovo di Mitilene (690, 202 n.5). In genere, però, l’identità di Zaccaria Retore, Zaccaria Scolastico e Zaccaria vescovo di Mitilene, per i primi due personaggi autorevolmente sancita dalla Clavis Patrum Graecorum (571, III 323–324, nrr.6995–7001), viene data per scontata nelle varie enciclopedie e nei repertori di letteratura antica e di patrologia (segnalo, senza pretesa di completezza e trascurando di tener conto di tutte le diverse riedizioni, le trattazioni di B a r d y [669], di B e c k [675, 385–386], di T a t a k i s [677, 34–37], di S p u l e r [678], di W e g e n a s t [682], di H ü t b r u n n e r [694], di A l t a n e r e S t u i b e r [697, 228], del Tusculum-Lexikon [152b, 857 = 152c, 891–892], di S t i e r n o n [704],
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di B a l d w i n e G r i f f i t h [710], di C h r e s t o s [712, 66–70], di F r a n k [718], di S c h m i d t [719], di R i s t [724], di L u s i n i [726], di U t h e m a n n [734], di K a l d e l l i s (738, 160–168, 218–220; più breve scheda nella prosopografia lesbia di K a l d e l l i s e E f t h y m i a d i s [791, 65 n.44]), di T r e a d g o l d (779, 166–167), di v a n G i n k e l e L ö s s l [792], di S z a b a t [182a, 591–592; 182b, 380–381], di G e i g e r [183a, 292–293; 183b, 40–41]); mentre l’identificazione col fratello di Procopio viene solo raramente accolta (ad es. da T a t a k i s [677, 37], W e g e n a s t [682], S t i e r n o n [704], F r a n k [718], L u s i n i [726], T r e a d g o l d [779, 166–167]) e più spesso invece, se non proprio taciuta, indicata come ipotetica o improbabile. Postulare l’identità di Zaccaria Retore/Scolastico con il fratello di Procopio sarebbe certo suggestivo e potrebbe tra l’altro contribuire, come suggerito da C o r c e l l a (51, 1 69–177; 116, 451–452), a confortare l’idea di una tendenza anticalcedonese di Procopio e a dare maggior sapore alla polemica tra retorica e filosofia nella lettera 38 di Procopio, al fratello appunto indirizzata; ma allo stato degli studi sembra opportuno, tutto sommato, rinunciare a una tale ipotesi. Nella Prosopography of the Later Roman Empire lo Zaccaria fratello di Procopio riceve così una trattazione separata rispetto al Retore e Scolastico (207, 1193–1194 [ZACHARIAS 1] e 1194–1195 [Zacharias (the Rhetor) 3]), e in favore di una netta distinzione si dichiara da ultimo anche A m a t o (68, XVII n.26). Le più recenti ricostruzioni dettagliate della vita di Zaccaria (in particolare quelle di R i s t [724; 741, 78–81], B l a u d e a u [760, 544–549], G r e a t r e x [793, 3–12], e soprattutto l’ampia e ricca voce di D e s t e p h e n [781, 960–973]) dipingono quindi il quadro di un uomo che, dopo gli esordi ad Alessandria e a Berito a fianco di Severo (su cui fonte principale è la stessa Vita Severi, come vedremo meglio infra, B.2), intraprese la carriera amministrativa a Costantinopoli e assunse posizioni più moderate, finché, attratto dalle negoziazioni avviate nel 532 da Giustiniano, che inizialmente esibì simpatie per il fronte anticalcedonese (punto su cui specialmente insiste G r e a t r e x [785, 39; 793, 12]), si convinse ad assumere il vescovato a Mitilene; quando vi fu la svolta del 536, si trovò probabilmente costretto a rinnegare l’antica amicizia con Severo: «(d)e telles palinodies ne sont jamais une preuve d’héroïsme», commentava B a r d y (669, 3677), ma che la sua assenza, al concilio di Costantinopoli, nelle sedute in cui furono decretate le condanne di Antimo e Severo possa spiegarsi «par le refus de Zacharie de cautionner ces condamnations» è ipotesi valutata con opportuna prudenza, e qualche dubbio, da D e s t e p h e n (781, 972–973). Non si può non segnalare, infine, che la vita, la figura e l’opera di Zaccaria sono variamente trattate nei lavori dedicati alle controversie cristologiche dopo Calcedonia, a partire naturalmente dal secondo volume dello Jesus der Christus im Glauben der Kirche di G r i l l m e i e r (572, II passim) e dalle opere di P e r r o n e (spec. 702, passim e 226 n.4 sulla questione delle identificazioni) fino al volume di S t e p p a su Giovanni Rufo (742), nonché negli studi dedicati al cristianesimo palestinese tra il V e il VI secolo (ad es. nel volume sulla «scuola monastica di Gaza» di B i t t o n A s hk e l o n y e K o f s k y [759, passim]); di altri titoli si dirà discutendo delle singole opere.
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B. Le opere Oltre che nelle varie enciclopedie e repertori, e dopo la trattazione di Minniti Colonna (691, 27–32), una aggiornata e informata rassegna sulle opere di Zaccaria si legge soprattutto nella ricca introduzione di Greatrex alla traduzione dello PseudoZaccaria (793, 12–31). Nel seguito, indicherò i contributi principali opera per opera; l’elogio funebre pronunciato per Menas ricordato in Vita Severi p.45 Kugener non è detto sia stato mai pubblicato, come notano Minniti Colonna (691, 27) e Greatrex (793, 12 n.35). 1. L’‹Ammonius› (CPG 6996) Il dialogo Ammonius, che in precedenza si leggeva in edizioni del tutto insufficienti, è stato oggetto, nel 1973, di una moderna edizione critica, con introduzione, traduzione italiana e note di commento, a cura di Maria M i n n i t i C o l o n n a (691). Si tratta, ormai, dell’edizione di riferimento, fondata su una ricognizione completa della tradizione manoscritta che porta a ricostruire uno stemma bipartito, con i manoscritti Marc. gr. 496 (V) e Par. gr. 458 (A) discendenti da un archetipo probabilmente in minuscola e gli altri manoscritti riconosciuti come descripti (a uno di questi, il Vat. Ott. gr. 191, in precedenza ignorato dagli studiosi, la stessa M i n n i t i C o l o n n a aveva dedicato un’indagine speciale nel 1959 [676]). L’introduzione comprende, fra l’altro, trattazioni sulla struttura, le fonti e la dottrina, nonché una sezione su lingua e stile che si concentra soprattutto sul ritmo; su un aspetto particolare, l’uso delle preposizioni, la stessa autrice si è soffermata nel 1974 (692), tenendo conto anche dell’unica altra opera tramandata in greco all’epoca nota, l’Antirrhesis, e concludendo, al termine di un’analisi minuta, che il fondamentale atticismo si unisce ad alcuni tratti che rivelano tendenze tipiche della lingua ellenistica. L’edizione di M i n n i t i C o l o n n a venne salutata con favore dai recensori, in particolare da D e l B a s s o e H u n g e r . La recensione di W i l s o n offriva, per parte sua, ulteriori contributi al testo: a parte qualche aggiunta al preapparato dei loci e alcune proposte esegetiche, e la correzione di due evidenti refusi (bisogna leggere πυθοίμην alla l.505 e διαλυθησόμενον alla l.1291), W i l s o n saggiamente proponeva μὴ per δὴ alla l.40, τούτους o αὐτούς per τούς alla l.389, l’espunzione di οὐ o la sua correzione in αὖ alla l.1021; alla l.826, inoltre, notava che γάρ non è conforme alla sintassi attica, ma che il testo tradito va probabilmente accettato perché lo stesso uso ricorre alla l.864 (in effetti quest’uso di ἀλλὰ γάρ in luogo del semplice ἀλλά dopo frase negativa torna anche in altri passi dell’Ammonius [ll.511, 878, 1414–5, 1516] e, ben attestato in greco almeno a partire da Eliano [ved. W. S c h m i d , Der Atticismus in seinen Hauptvertretern, III Stuttgart 1893, 329], non è ignoto neppure a Procopio di Gaza [ad es. in ep.54]). Giuste mi appaiono anche le riserve di W i l s o n sulla sanità del testo alle ll. 394–395 e 304, più dubbia la proposta di accogliere il testo di A alla l.486. Su questi due ultimi passi si dispone ora delle brillanti congetture di Donald R u s s e l l ( τὸν θεὸν alla l.304 e οἷπερ alla l.486) nelle annotazioni alla recente tra-
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duzione inglese di Sebastian G e r t z (799, 93–175). Questa traduzione, in effetti, pur fondandosi sul testo di M i n n i t i C o l o n n a se ne distacca a tratti (come è segnalato, ma con qualche imprecisione, a p.148 e quindi nelle note, che offrono in più punti rilevanti osservazioni esegetiche): sempre a R u s s e l l si devono, in particolare, anche altre condivisibili correzioni (ὑμέτερον l.209; [καὶ] l.243; [τῆς] l.367; ἐθέλοντος l.683; οὐχ ᾗ ὁ μὲν ποιεῖ, τὸ δὲ γίνεται l.972; ἢ per καὶ l.1041 [così andrà inteso l’erroneo «hê» alle pp.148 e 156 n.131, alla luce della resa «either» a p.133]; τὸν l.1083; ἀθανάτως l.1206; καταφαίνηται l.1343; διαλελυμένα l.1464), né mancano alcune proposte testuali dello stesso G e r t z (innanzitutto τελειοτάτῳ alla l.899, quindi la possibilità di considerare una glossa il Παῦλος δὲ οὗτος ἦν alle ll.345–346, l’interpunzione ἀϊδίου· μὴ δημιουργῶν αὐτόν, ἐποίει γὰρ τὸν νοητόν alle ll.651–652, νεμεσῶ alla l.1413; alla l.1494 l’inserzione di ποταμούς dopo Πυριφλεγέθοντας è inutile, e comunque non fu suggerita da M i n n i t i C o l o n n a , come invece G e r t z sostiene [799, 157 n.174]). La traduzione curata da G e r t z , accompagnata da utili glossari (compilati da Katherine O ’ R e i l l y ), si distingue anche per una rapida introduzione dello stesso G e r t z ma soprattutto per una prefazione di Richard S o r a b j i che, riprendendo un contributo pubblicato anche in altra sede (800), fa il punto su come l’Ammonius, con il Theophrastus di Enea e il commento sulla Genesi di Procopio, si collochi nell’ambito di quella reazione cristiana alle tesi di Proclo che culminerà infine nell’opera di Giovanni Filopono (799, vii-xxx). Sul contenuto filosofico dell’Ammonius si è in effetti scritto ampiamente, soprattutto negli ultimi anni; e ciò giustifica la presenza di Zaccaria nei manuali di filosofia tardoantica e patristica (dopo T a t a k i s [677, 34–37], ad es. nelle sintesi di M o r e s c h i n i [752, 684–685; 804, 1217–1218] o nel capitolo di B l a n k su Ammonio e la sua scuola per The Cambridge History of Philosophy in Late Antiquity [788]). La questione è notevolmente complicata dal fatto che, in una composizione sostanzialmente «mosaikartig» (così H u n g e r nella recensione all’edizione di M i n n i t i C o l o n n a [691]), Zaccaria, nell’esporre tanto le tesi cristiane quanto quelle degli interlocutori pagani, ha attinto a varie fonti. La critica si è quindi variamente posta il problema del rapporto con queste fonti (ivi compreso naturalmente il Theophrastus di Enea) e quello, connesso, della storicità dei colloqui descritti nel dialogo e quindi della affidabilità di Zaccaria come fonte nel momento in cui pretende di riportare le idee di Ammonio (e Gessio). La ricca presenza di diverse fonti nell’Ammonius, a partire naturalmente da Platone e dai neoplatonici, dopo alcune osservazioni di Franz C u m o n t , che mise in luce i rapporti con Filone di Alessandria (Philonis de aeternitate mundi, Berolini 1891, XII–XIV), fu messa in evidenza, in una piana rassegna, da M i n n i t i C o l o n n a (691, 45–55). In seguito, si può segnalare come B a l t e s (695, 192–207) abbia ricondotto l’argomentazione delle ll.102–143 a Porfirio; mentre l’evidente rapporto della metafora dell’ombra nell’Ammonius e nel Theophrastus di Enea con Plotino, Enn. IV 3,9,43–51 è stato di recente discusso da K l i t e n i c W e a r (803; 810). Specialmente importante è però l’articolo del 1940 di Theodor N i s s e n (667), che rivelava come tra le varie fonti cui Zaccaria aveva attinto vi fosse anche, per la polemica contro la divinizzazione del Sole, l’orazione IV di Giuliano. Di recente, il tema è stato svilup-
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pato da C é l é r i e r : da un lato lo studioso ritiene che Zaccaria abbia comunque presenti scritti di Ammonio in cui affiorava una eliolatria mascherata (802, 436–445), dall’altro ha mostrato come nell’Ammonius effettivamente si abbia un accorto uso retorico tendente a cristianizzare non solo stilemi platonici ma anche temi originariamente pagani (tra cui le lodi di Berito) sui quali Giuliano, Libanio ed Eunapio si erano espressi (806). L’uso di Platone nell’Ammonius è ora d’altra parte ulteriormente sondato da C r i b i o r e (808), che mostra come, sulla scia del Protagora, Zaccaria voglia presentare sé stesso come vero filosofo e Ammonio come sofista. L’articolo di N i s s e n rimane fondamentale anche per l’esatta definizione del rapporto fra l’Ammonius e il Theophrastus, in quanto rivelò la presenza di esatte citazioni da Enea in Zaccaria (667, 15). Cionondimeno, in uno studio del 1956 (674), M i n n i t i C o l o n n a sosteneva che le evidenti consonanze fra il Theophrastus di Enea e l’Ammonius di Zaccaria, anche in alcune locuzioni, non dovessero necessariamente spiegarsi con una dipendenza reciproca ma con la partecipazione a una medesima cultura, salvo che Zaccaria accentua, rispetto a Enea, gli elementi più propriamente cristiani; e in dubbio sulla priorità fra i due dialoghi si dichiarava pure, nel 1959, T a t a k i s (677, 34–37). Dopo però che W a c h t ebbe indipendentemente riproposto all’attenzione degli studiosi le citazioni del Theophrastus nell’Ammonius (685, 18 n.17), nell’edizione del 1973 M i n n i t i C o l o n n a si orientò, sia pur con qualche ambiguità, a favore dell’idea che Zaccaria avesse direttamente presente il Theophrastus (691, spec. 53–54). In seguito, G a l l i c e t (698; 699) mostrò, attraverso una attenta analisi, come, specialmente sulla resurrezione dei corpi e sulla Trinità, Zaccaria effettivamente paia accettare e riprendere le tesi di Enea ma ne precisi il senso eliminando alcune ambiguità concettuali suscettibili di indurre a conclusioni teologicamente dubbie; donde tra l’altro l’idea che Zaccaria, giudicato personalità filosofica più rilevante di Enea, abbia scritto il dialogo in età avanzata, quando aveva ormai abbandonato il monofisismo. Sulla dipendenza dell’Ammonius dal Theophrastus tornò quindi, con una precisa messa a punto, A u j o u l a t (705, 78–80), propendendo anch’egli per una datazione tarda del dialogo di Zaccaria. Del dibattito più recente diremo tra breve; si può però già qui segnalare che consensi e dissensi tra Enea e Zaccaria su punti particolari sono stati ulteriormente messi in luce: C o n g o u r d e a u , in particolare, ha mostrato come Zaccaria si accordi con Giovanni Filopono nel ritenere che l’anima venga infusa da Dio nell’embrione già sviluppato, e non all’atto del concepimento come invece, sulla scia di Gregorio di Nissa, sosteneva Enea (736; 770, 330–331). Data questa ricchezza di apporti da più fonti nell’Ammonius, il problema di stabilire quanto fedelmente Zaccaria rappresenti il pensiero di Ammonio diviene quindi particolarmente complicato, ed è stato variamente trattato, in connessione con un più ampio dibattito sulla posizione di Ammonio all’interno del neoplatonismo e rispetto al cristianesimo che, almeno a partire dagli studi di P r a e c h t e r , ha visto contrapporsi diverse opinioni e ha coinvolto peraltro anche gli studiosi di Boezio; sarebbe naturalmente impossibile seguirne qui tutti i dettagli, sicché mi limiterò a considerare gli studi che più direttamente affrontano il testo di Zaccaria, rinviando per il resto alle rassegne e alle bibliografie sul neoplatonismo alessandrino (una rapida sintesi della discussione si può leggere ad es. in F . R o m a n o , Il neoplatonismo,
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Roma 1998, 170–177) e su Boezio (specialmente J . G r u b e r in Lustrum 39, 1999, 307–383 e 40, 2001, 199–259). Fu Pierre C o u r c e l l e , in particolare, a usare la testimonianza dell’Ammonius per mostrare che Boezio, quando in De consolatione phi losophiae V 6 critica coloro che postulano un mondo coaeternus a Dio, deve aver avuto in mente il modo deformato in cui Zaccaria attribuisce ad Ammonio l’idea di un mondo συναΐδιος a Dio; donde la tesi che Boezio abbia studiato ad Alessandria (664; 668, 296–300; 681, 227–231). Come la soluzione che Boezio dà al problema dell’eternità si avvicinasse in tal modo a quella che verosimilmente era la reale posizione di Ammonio e del suo maestro Proclo, con il mondo esistente in perpetuo nel tempo ma non coeterno a Dio, è stato confermato da M e r l a n (684), che peraltro ha mostrato ulteriori consonanze tra Boezio e l’Ammonio descritto da Zaccaria nella definizione della Trinità e ne ha concluso la sostanziale storicità del dialogo, ipotizzando che, così come sotto l’influsso degli studi con Ammonio Boezio potè intiepidirsi nel suo cristianesimo, per converso Ammonio non sia rimasto insensibile agli argomenti cristiani. L’articolo di M e r l a n adombrava, in particolare, la possibilità che Ammonio, avvicinandosi in questo al cristianesimo, non postulasse un Dio differente dall’intelletto demiurgico. Altri studiosi, d’altra parte, opponendosi alle conclusioni di C o u r c e l l e e dello stesso M e r l a n , hanno sostenuto l’idea che Ammonio, diversamente da Proclo, davvero credesse, come vuole Zaccaria, a un mondo coeterno a Dio, senza distinzione tra esistenza perpetua ed eternità: così, tra gli altri, M i n n i t i C o l o n n a (691, 52) e Te m p e l i s (720, 134–148, spec. 144). Contro la possibilità di usare Zaccaria per attribuire queste due tesi ad Ammonio si è però schierato, in una serie di contributi (709; 735; 786), V e r r y c k e n : a suo giudizio, il fatto che Zaccaria non abbia interesse a discutere l’articolazione ad intra del principio creatore divino non consente di dedurre che Ammonio credesse in un Dio personale unico, e d’altra parte Zaccaria mostra di confondere la terminologia relativa all’eternità che Ammonio verosimilmente avrà usato, distinguendo sulla scia di Proclo tra esistenza perpetua del mondo ed eternità di Dio; né poi bisogna ritenere che davvero, come Zaccaria pretende, Ammonio abbia riconosciuto la fallacia delle proprie dottrine aprendosi alle tesi cristiane (punto ultimamente sottolineato anche da B l a n k [788, spec. 665–666]). Alquanto più propenso a riconoscere la presenza di un terreno comune tra Ammonio e Zaccaria si rivela invece O b e r t e l l o (745; 776), che sottolinea come nell’Ammonius l’eternità di Dio venga descritta come temporalmente condizionata tanto da Gessio quanto dallo stesso Zaccaria, che usa per Dio categorie temporali ereditate da dottrine tradizionali, mentre una corretta definizione della differenza fra eternità nel tempo ed eternità fuori del tempo si avrebbe solo con Boezio (O b e r t e l l o , che non menziona gli studi di C o u r c e l l e e V e r r y c k e n , non sembra quindi considerare che tale distinzione poteva essere in realtà accolta da Ammonio ma venir obliterata da Zaccaria). Rispetto a questa tradizione fortemente incentrata sull’aspetto teoretico, P o g g i (717, spec. 169–175), pur riprendendo e riassumendo in particolare il saggio di M e r l a n , indaga l’Ammonius, assieme ad altre testimonianze orientali, essenzialmente come fonte sulla vivace e feconda scuola di Ammonio, formulando tra l’altro l’ardita ipotesi per cui l’anonimo studente del filosofo che, all’inizio del dialogo, si reca da
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Alessandria a Berito altri non sarebbe se non il futuro patriarca Severo, a q uell’epoca ancora pagano e non più strettamente legato a Zaccaria, nel momento in cui questi scrive il dialogo, perché rimasto dalla parte anticalcedonese (ved. anche la sottosezione seguente). Soprattutto Edward W a t t s ha però cercato, in una serie di studi, di comprendere come il dialogo si collochi nel più ampio ambiente culturale di Alessandria e della sua scuola. In un articolo del 2005 (756) lo studioso mostrava come rispetto ad Enea, che sembra trattare i professori neoplatonici con un certo rispetto, Zaccaria, nell’ostentare disprezzo per Ammonio e insistere sulle tesi cristiane, ma soprattutto col propagandare l’idea che gli studenti di Alessandria si fossero rivelati convinti della superiorità filosofica di queste ultime assistendo alla sconfitta dialettica del maestro, abbia in mente un pubblico diverso, costituito da studenti cristiani; in particolare, emergerebbero connessioni con l’ambiente dei philoponoi, ben testimoniate anche dalla Vita Severi (ved. infra, B.2), sì da far pensare che una prima versione del dialogo sia stata scritta negli anni ’90 del V secolo, quando Zaccaria si sentiva ancora legato ai philoponoi alessandrini, mentre la sezione su Gessio, non menzionata nell’introduzione, sarebbe un’aggiunta risalente agli anni ’20 del secolo successivo. Queste tesi sono state in seguito variamente riproposte, innanzitutto nel libro del 2006 sulle scuole di Atene e Alessandria nella tarda antichità (767, spec. 227–229), quindi in un saggio sui rapporti fra ambienti ascetici e sofistici (768, spec. 161–163), dove in più si enfatizza il valore che gli argomenti dell’Ammonius potevano avere per studenti di orientamento anticalcedonese, specialmente propensi a una visione escatologica; quest’ultima idea ritorna nell’articolo del 2009 su Gessio (787, spec. 120–123), dove peraltro si precisa che la morte di Ammonio, avvenuta fra il 517 e il 526, potrebbe essere stata un movente per l’inserimento nel dialogo della figura di Gessio come più attuale alfiere del paganesimo, e ancora nel volume su Alessandria del 2010 (795, spec. 123–154). Su ulteriori studi di W a t t s che hanno contribuito a lumeggiare l’ambiente alessandrino in cui Zaccaria si formò e operò, e più in generale sulle testimonianze che l’Ammonius apporta per la conoscenza della scuola tardoantica di Alessandria (e di Berito), torneremo nella sezione seguente, discutendo della Vita Severi (si può però qui segnalare, di passata, che P a p a d o y a n n a k i s ha ulteriormente collegato il dialogo di Zaccaria al modello di istruzione per domande e risposte ampiamente messo in pratica nelle scuole antiche [764, 97–99]). Quanto alla data di composizione dell’Ammonius, l’idea di una revisione negli anni ’20 del VI secolo con l’aggiunta della sezione su Gessio, che era già di M i n n i t i C o l o n n a (691, 44–45), appare possibile ma non ben fondata a G r e a t r e x (793, 15 e n.46), che ricorda come l’acme di Gessio si collochi ai tempi di Zenone, per quanto non si possa escludere che sia stato attivo fino agli anni ’30 del VI secolo. Negli ultimissimi anni, quindi, il già citato S o r a b j i (799, vii-xxx; 800), dopo aver offerto una efficace sintesi degli argomenti teoretici usati da neoplatonici e cristiani nel dibattito sull’eternità del mondo, suggerisce che Zaccaria, più che dagli studi con Ammonio, probabilmente rimasti a un livello elementare, possa aver attinto la sua formazione filosofica, e in particolare gli argomenti in favore della creazione, in ambito cristiano, forse al monastero di Enaton se non addirittura da un manualetto di tesi antiplatoniche: di qui le deformazioni del pensiero di Ammonio e la caratteristica mesco-
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lanza di buoni ragionamenti e ingenuità. G e r t z , per parte sua, dopo aver tracciato una sintesi sui rapporti tra Enea e Zaccaria, conclude la sua rapida ma efficace introduzione (799, 95–99) notando che il carattere non neoplatonico della tesi sul mondo «coeterno» e soprattutto il modo goffo in cui Ammonio fa appello a una teologia solare poco pertinente mostra «that Zacharias is not recording a discussion that ever actually took place, but that he rather casts him [= Ammonius] as the spokesman of a tradition of paganism that is to be rejected on all fronts». L’enfasi sulla ripresa di seconda mano di argomenti e le deformazioni in senso cristiano caratterizza in effetti variamente i più recenti studi sull’Ammonius. B y d é n (798), nel riesaminare dettagliatamente i vari argomenti impiegati nel dialogo, ha in particolare osservato che probabile fonte per le tesi contro la coeternità del mondo potrebbe essere la prima omelia sull’Esamerone di Basilio. Per parte sua C h a m p i o n (807) mostra come siano le preoccupazioni tutte cristiane per i problemi della Trinità, dell’escatologia e della soteriologia a rendere Zaccaria poco sensibile alle distinzioni neoplatoniche fra le diverse dimensioni dell’eternità. In un recentissimo volume di sintesi (805; una parziale anticipazione era già in 790), lo stesso C h a m p i o n riprende tutti questi temi, cercando di ravvisare, nelle riflessioni sulla creazione di Zaccaria come di Enea e Procopio, i tratti di una specificità della cultura locale gazea, condizionata dal cristianesimo dei monasteri non meno che dalla filosofia alessandrina. Qualche connessione dei temi dell’Ammonius con la Tabula mundi di Giovanni di Gaza (oltre che con Nonno) è ora del resto individuata da G i g l i P i c c a r d i (809). 2. La ‹Vita Severi Antiocheni› (CPG 6999) Il testo della Vita Severi è tramandato solo nella traduzione siriaca attestata nel manoscritto Berlino, Sachau 321. Dopo l’editio princeps di S p a n u t h e la traduzione francese di N a u (ved. supra, A), l’edizione di riferimento rimane quella di M.-A. K u g e n e r (Patrologia Orientalis II 1, Paris 1907), accompagnata da una traduzione francese; il programmato ampio commento non venne purtroppo realizzato, e rimane a tutt’oggi un desideratum. Una traduzione inglese parziale fu offerta da D a r l i n g Y o u n g nel 1990 (708), e brani nella stessa lingua si leggono anche nell’antologia di C o a k l e y e S t e r k (750, 176–183), mentre una traduzione inglese integrale è stata pubblicata nel 2008 da Lena A m b j ö r n (780), col testo siriaco di K u g e n e r a fronte e rapide note di servizio (originale mi pare solo il suggerimento di M e t t i n g e r , riportato a p.68 n.45, di intendere l’oscuro pwrwy di p.68 Kugener come πῶροι e quindi «the tough ones»; ma un siffatto uso metaforico è dubbio, e resta forse più probabile il πόρνοι di K u g e n e r , o eventualmente un πυρροί). La Vita Severi fu scritta come difesa di Severo, ormai patriarca di Antiochia (e quindi dopo il novembre 512): uno scritto polemico lo aveva infatti accusato di essere stato a lungo pagano e avere adorato gli idoli. Zaccaria, già compagno di studi di Severo ad Alessandria e quindi a Berito, rievoca le vicende della loro vita studentesca, affermando tra l’altro che il futuro patriarca, anche se ricevette il battesimo solo negli anni degli studi a Berito (e precisamente a Tripoli), apparteneva a famiglia cristiana. La struttura della Vita Severi è in realtà complessa e caratterizzata da ampi excursus. In
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un saggio pubblicato nel 1967 Walter B a u e r (680) notò, in particolare, che il lungo racconto della lotta di Paralio contro i riti pagani (pp.16–44 Kugener) ha ben poco a che fare con Zaccaria e sembra rappresentare l’inserzione di un precedente scritto da Zaccaria dedicato, per l’appunto, a Paralio; qualcosa del genere potrebbe valere, a parere dello stesso B a u e r , anche per la narrazione della lotta contro il paganesimo a Berito (pp.57–75 Kugener). Che nella Vita Severi sia confluito il materiale di una precedente Vita Paralii è stato quindi nuovamente sostenuto, senza tener conto di B a u e r , da W a t t s (758; cfr. 795, spec. 142–152): questo primo scritto sarebbe stato in origine concepito negli anni ’90 del V secolo con una funzione protreptica per gli studenti cristiani, quando Severo era in contatto con i philoponoi, quindi rifuso n ell’opera apologetica per Severo. L’idea di una originaria Vita Paralii è oggi comunemente accettata: si vedano in particolare le sintesi di R i s t (755, 337–345) e di G r e a t r e x (793, 14 e 15–18). Sempre B a u e r (680) osservò anche che, nonostante gli sforzi di Zaccaria per sostenere il contrario, gli avversari che imputavano a Severo un passato pagano non dovevano avere tutti i torti. Nel 1966, peraltro, Gérard G a r i t t e pubblicò il testo copto di un’omelia per s. Leonzio dello stesso Severo (679): rispetto al reticente testo siriaco, la versione copta conservava l’esplicita attestazione diretta, da parte di Severo, di essere stato pagano fino al momento del battesimo; e G a r i t t e giustamente ne concludeva che, quindi, «(l)a défense présentée par Zacharie est de l’avocasserie toute pure», consistente nell’evocare vicende che con Severo avevano poco a che fare, se non per il fatto che da esse si poteva ricavare che Severo non disapprovava il fanatismo antipagano dei suoi condiscepoli (p.340). L’idea che Zaccaria, in mancanza di altri e più efficaci argomenti, abbia recuperato materiali non del tutto pertinenti per offrire una obliqua ma non molto efficace apologia di Severo si è quindi diffusa negli studi; R i s t (755, 340) ha comunque notato come, all’interno di tale strategia, l’episodio di Paralio non fosse del tutto peregrino, in quanto anche questi veniva descritto come soggetto a una conversione graduale, e attivo in azioni antipagane ancor prima di essere battezzato. In ogni caso, ben si comprende che, quando Severo, patriarca, era ormai campione dell’anticalcedonismo, il suo amico Zaccaria cercasse ad ogni costo di accreditarne un costante e coerente atteggiamento antiellenico: sui nessi tra avversione a Calcedonia e ostilità al paganesimo insiste, da ultimo, S t e p p a (766). Le tracce del passato pagano di Severo dovevano però ancora sussistere, e forse sussistono ancor oggi. Alcuni studi recenti hanno in effetti cercato di ritrovare le prove di una ricca conoscenza della cultura ellenica da parte di Severo (spesso facendo uso proprio di quanto attestato dalla Vita di Zaccaria): B e a t r i c e ha così suggerito di ricondurre a lui la Theosophia Tubingensis (714, spec. 416–418 per la testimonianza di Zaccaria; 728, xlv-l); mentre A m a t o e V e n t r e l l a hanno prudentemente proposto di attribuirgli le narrazioni ed etopee ascritte a Severo di Alessandria (784, spec. 6–10 sulla figura di Severo quale soprattutto emerge dall’opera di Zaccaria); osservazioni sulla cultura classica di Severo, che merita ulteriori sondaggi, si devono anche a P o g g i (733), che – come già si è detto – ha peraltro anche proposto di ravvisare in Severo lo studente di Ammonio tendente al paganesimo descritto all’inizio dell’Ammonius (717, spec. 169–170).
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Gli studi di cui abbiamo fin qui reso conto inducono, quindi, a una certa prudenza nell’uso della Vita Severi come fonte. Ma una volta messi in luce gli aspetti evidentemente apologetici e tendenziosi, il testo di Zaccaria resta comunque una miniera di informazioni, ampiamente utilizzate dagli studiosi. Innanzitutto, la Vita Severi è naturalmente fonte essenziale, sia pur da trattare con tutta la necessaria cautela, per la biografia di Severo negli anni di studio ad Alessandria e Berito, così come la Historia Ecclesiastica lo è per le vicende successive (ved. infra, B.5): senza alcuna pretesa di completezza, si può quindi ricordare come le testimonianze di Zaccaria siano state ampiamente adoperate, e discusse, nelle sintesi su Severo di H a y (743) e di A l l e n e H a y w a r d (749, con riflessioni specifiche sulla Vita Severi alle pp.4–7 e 12), quindi soprattutto nell’ampio e ricchissimo volume di A l p i (783, spec. I 39–58 e II 29–30). Irrinunciabile è anche l’apporto della Vita Severi per la ricostruzione dei contrasti fra pagani e cristiani ad Alessandria e Berito, pur se le cautele vanno, in questo caso, ulteriormente moltiplicate: esemplari, in tal senso, le pagine di C h u v i n (707, 108–117) e il denso capitolo di T r o m b l e y (713, 1–51), che offrono discussioni sui philoponoi nelle due città e sulle lotte alla magia pagana descritte da Zaccaria. Proprio su quest’ultimo punto, però, la possibilità di usare Zaccaria come fonte affidabile è stata contestata, e molto discussa è stata, in particolare, la narrazione delle avventure di Paralio a Menuthis, già studiata da H e r z o g (665) e riportata nella raccolta di fonti sul Delta di B e r n a n d (686, 207–213), quindi variamente ripresa nei principali studi su cristianesimo e paganesimo nell’Egitto tardoantico (ad es. da W i p s z y c k a [715, 80–84] e da F r a n k f u r t e r [723, spec. 40–41 e 164–165; 725, 189–192]): da un lato G a s c o u (773, spec. 265 e 276–280) e dall’altro C a m e r o n (769, spec. 23–28) hanno fatto notare che il trionfalistico racconto della Vita Severi è poco credibile e che la descrizione di Menuthis come una roccaforte pagana contrasta con l’instaurazione di culti cristiani nella località già ad opera dei patriarchi Teofilo e Cirillo. Edward W a t t s , che già aveva trattato della vicenda nel libro del 2006 (767, spec. 216–220), le ha dedicato una più ampia ricostruzione in un volume del 2010 (795) che, ampiamente fondato proprio sulla Vita Severi, si chiude con una specifica appendice intitolata «How Much Should We Trust Zacharias Scholasticus?» (pp.265–268), dove in replica alle conclusioni di C a m e r o n si osserva che la tendenziosità di Zaccaria non gli impedisce comunque di rendere esattamente conto di vari aspetti, specialmente in quella sezione su Paralio che – come si è detto – dovette essere in origine concepita in maniera autonoma, e che la cristianizzazione di Menuthis non implicò necessariamente la rapida scomparsa del culto di Iside (che si sia trattato di un processo lungo e lento è stato in effetti da ultimo, anche sulla base della Vita Severi, più volte ribadito, ad es. da S e z g i n [753, 195], G r o s s m a n n [737, 44 e 216–221; 762], Te j a [778], S f a m e n i G a s p a r r o [777]). Ad ogni modo, al di là della credibilità generale della sua narrazione, ciò che Zaccaria racconta sulla magia pagana è stato ampiamente usato dagli specialisti di tale campo di studi: dopo W i s c h m e y e r (721, 103–111), che collega il racconto di Zaccaria ad altri testi e mostra come esso sia pervaso da un «thrilling effect», una analisi complessiva, ricca di richiami a testimonianze parallele, è stata offerta da S f a m e n i G a s p a r r o (765), che indaga il significato dell’accusa di adorazione di demoni e idoli nella storia delle controversie tra
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pagani e cristiani e all’interno dello schieramento cristiano; ulteriori elementi di confronto con altri testi e di riflessione sull’uso che in ambito cristiano si faceva delle accuse di magia, in taluni casi per liquidare gli avversari, sono apportati da Te j a (782, 82–96) e da ultimo da M a r a s c o (796, 398–400). Su alcuni aspetti più specifici e concreti della vita sociale e culturale di Alessandria e Berito, dunque, le informazioni offerte da Zaccaria sono state usate con una relativamente maggiore tranquillità. Per quanto riguarda Alessandria, le testimonianze di Zaccaria sono ampiamente adoperate, ad es., nel volume da H a a s dedicato alla topografia e alla storia sociale della città in età tardoantica (716, spec. 89, 170, 187–188, 230, 238–239, 327–329). In particolare, si sono ben messi a frutto i dati che la Vita Severi (ma anche l’Ammonius) offre sull’organizzazione scolastica e la vita studentesca ad Alessandria: gli spunti principali sono pianamente passati in rassegna da B l á z q u e z (722), mentre al tema delle rivolte studentesche a sfondo religioso è riservato l’articolo del 2003 di S t e p p a (746), che non ho visto; ma soprattutto W a t t s ha dedicato vari studi al tema, usando largamente la Vita Severi, oltre che nei già citati volumi del 2006 e del 2010 (767, spec. 204–256; 795), in due contributi dedicati a indagare l’identità studentesca tardoantica (757) e la storia sociale degli ultimi neoplatonici (797). La scoperta del complesso di Kom el-Dikka ha quindi offerto la possibilità di offrire un riscontro archeologico alle indicazioni di Zaccaria sui luoghi dell’insegnamento: la Vita Severi e l’Ammonius sono così ampiamente citati nei contributi raccolti nel volume del 2007 su Kom el-Dikka, specialmente in quelli di C a v a l l o (560), C r i b i o r e (771), F o u r n e t (772), H a a s (774), M c K e n z i e (775), R e n a u t (174), S z a b a t (175). Quando K h a l i l S a m i r (730, 71–75), nel riportare passi della Vita Severi come fonti per l’ultima fase della scuola alessandrina, vuole correggere il nome del prefetto tradito come Entrechios (pp.25–27 Kugener) in Eutrechios sulla base dei fasti di C h a i n e (La chronologie des temps chrétiens de l’Egypte et de l’Ethiopie, Paris 1925, 238–240), non fa che riprodurre, senza rendersene conto, una congettura al testo di Zaccaria di L . C a n t a r e l l i (Mem.Acc. Lincei s.5, 14, 7a, 1913, 408–409) la cui fondatezza era già stata contestata da M a s p é r o (REG 28, 1915, 62) e che non gode oggi di molto credito (ved. infatti PLRE II, ENTRECHIVS 2 [207, 394]). Discorso analogo può farsi per le testimonianze di Zaccaria sulla scuola di diritto a Berito, già valorizzate nella classica Histoire de l’École de Beyrouth di P . C o l l i n e t (Paris 1925) e quindi nei contributi di W e n g e r (673, 619–631), di S c h e l t e m a (688), di P o g g i (706; 732), del già citato B l á z q u e z (722), di L i e b s (731, 615–619), di M a c A d a m (739): in particolare, merita di essere segnalato come P o g g i (706, 62–65; 732, 58) abbia rammentato che il passo a p.91 Kugener, rimasto oscuro all’editore e malamente inteso da S c h e l t e m a (688, 14 n.45) come allusione ad appunti compilati per i condiscepoli più giovani, avesse già nel 1913 ricevuto una più corretta interpretazione da parte di Eduard S c h w a r t z , che riconoscendovi una citazione dal Palamede di Euripide vi aveva invece colto il riferimento a un vero e proprio trattato giuridico scritto e pubblicato da Severo (ved. C . P e t e r s , Die oströmischen Digestenkommentare und die Entstehung der Digesten, Berichte über die Verhandlungen der Sächsischen Gesellschaft der Wissenschaften zu Leipzig, Phil.-
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hist. Kl. 65, Leipzig 1913, 108). Più in generale, le informazioni che nella Vita Severi (e in parte anche nell’Ammonius) Zaccaria dà sulla vita cittadina e inoltre sull’urbanistica e l’architettura di Berito sono state variamente utilizzate dagli storici: si vedano tra l’altro lo studio complessivo di J o n e s H a l l (751, spec. 65–68, 105–109, 159–163, 192–217) e da ultimo l’articolo sui martyria di J a b r e M o u a w a d (794: in particolare, oltre a discutere le menzioni delle chiese della Resurrezione e della Theotokos e del martyrion di s. Giuda, l’autore suggerisce che il «secondo martyrion» di p.71 Kugener possa essere quello dei martiri di Berito). Insomma, la Vita Severi è stata ampiamente studiata come fonte sulle scuole tardoantiche di Alessandria e di Berito, e più in generale sulla storia di queste città. Non c’è quindi da stupirsi se viene di conseguenza spesso citata anche in opere generali sull’edu cazione tardoantica: senza pretesa di completezza, si possono ad es. citare il volume su Bisanzio di M a n g o (701, 134–135) o la recentissima sintesi di W a t t s (801). Per l’uso della Vita Severi come fonte sul monachesimo a Gaza, specialmente su Pietro Ibero, si vedano gli studi di H o r n (744; 763, passim) e la sezione seguente. 3. La ‹Vita Isaiae› (CPG 7000), la ‹Vita Petri Iberi› (CPG 7001), la ‹Vita Theodori Antinoes› Nella Vita Severi (p.83 Kugener) Zaccaria ricorda di aver scritto riguardo a Pietro Ibero e a Isaia. Una Vita Isaiae è in effetti conservata, in versione siriaca, nei mano scritti Londra, Brit. Mus. Add. 12174 e Berlino, Sachau 321, e fu edita, dopo L a n d (ved. supra, A), da E. W. B r o o k s (Vitae virorum apud monophysitas celeberrimorum I, CSCO 7–8, Scr. Syr. 7–8, Parisiis 1907, 1–16 = versio 1–10). In una sezione iniziale, almeno in parte evidentemente dovuta al traduttore o compilatore, la figura di Isaia è collegata a quelle di Pietro Ibero e Teodoro di Antinoe e si legge che la vita di Isaia è stata scritta dallo Zaccaria Scolastico autore della storia ecclesiastica; nel finale dell’opera, peraltro, l’autore stesso dichiara di aver scritto tre vite di santi uomini contemporanei, dedicate al cubicularius Misael. Nel solo manoscritto di Berlino, i noltre, prima della Vita Isaiae effettivamente compare il brevissimo frammento finale di un testo individuato dalla subscriptio come Vita Petri Iberi, pubblicato anch’esso da B r o o k s (pp.11–12 = versio, pp.17–18). Sulla base di questi elementi, e sulla scia degli studiosi precedenti, B r o o k s attribuì a Zaccaria tanto la Vita Isaiae quanto il frammento della Vita Petri Iberi; e da allora in genere si ritiene che di tre biografie scritte da Zaccaria la tradizione siriaca ne abbia conservata integralmente solo una, quella di Isaia, mentre di quella di Pietro Ibero sia rimasto solo un minimo frammento e quella di Teodoro sia andata completamente perduta. La totale assenza, nella Vita Isaiae, di elementi storicamente rilevanti e la sua natura banalmente agiografica la rendono però radicalmente diversa dalla Vita Severi; di conseguenza, René D r a g u e t si sforzò, nel 1968, di mostrare che i fondamenti per l’attribuzione a Zaccaria del testo siriaco a noi noto non sono così saldi come sembra, e che si deve anzi ritenere che l’originario testo di Zaccaria sia andato perduto (683, 107*–115*). La tesi, solo parzialmente accolta da R e g n a u l t (687, 38), venne dettagliatamente contestata da C h i t t y (689), che nel dichiararne il carattere ipercritico
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mostrò tra l’altro come la glossa del traduttore, che indugia nel fornire un breve ritratto di Teodoro, naturalmente si interpreti nel senso che la biografia di quest’ultimo doveva già essere perduta ma che i due restanti pezzi della trilogia dedicata a M isael, e cioè le vite di Isaia e Pietro Ibero, erano invece accessibili e chiaramente attribuibili a Zaccaria. La dimostrazione di C h i t t y è in genere apparsa convincente agli studiosi successivi, ad es. a D e v o s (693, 159 n.2; alle pp.158–160 riflessioni sul possibile rapporto della storia del mantello diviso con l’analoga vicenda attestata per Martino), A l l e n (700, 471 n.5), B i t t o n - A s h k e l o n y e K o f s k y (759, 20 e n.75), G reatrex (793, 13); più in particolare, R i s t (755, 345–347), ritenendo poco persuasivi gli argomenti di D r a g u e t , spiega il carattere peculiare della Vita Isaiae con l’ipotesi che, a differenza di quanto avveniva per Severo, Zaccaria non avesse materiali di prima mano e dovesse basarsi su testimonianze già orientate in senso panegiristico, mentre per parte sua W a t t s (768, 159–161) vi legge un frutto dell’interazione tra ambienti monastici e mondo dei cristiani dotti, dando speciale importanza alla narrazione dei rapporti fra Isaia ed Enea (tema ulteriormente trattato dallo stesso W a t t s in altra sede [795, 138–140] e da A s h k e n a z i [49, spec. 198–201]). Poiché la Vita Severi fa riferimento a una composizione delle sole vite di Isaia e Pietro Ibero nel 491, la dedica della trilogia a Misael, attestato come cubicularius nel 518, ha fatto pensare che a Berito Zaccaria si sia limitato ad abbozzare dei materiali senza arrivare a una pubblicazione (così M.-A. K u g e n e r , Observations sur la Vie de l’ascète Isaïe et sur les Vies de Pierre l’Ibérien et de Théodore d’Antinoé par Zacharie le Scolastique, ByzZ 9, 1900, 464–470) oppure abbia prodotto una prima edizione poi sviluppata e ampliata a Costantinopoli (così ad es., con qualche imprecisione, W a t t s [758, 447–448 e 4 59–460; 768, 159]); la questione è specialmente discussa da G r e a t r e x (793, 9 e n.22 e 13 e n.36) e da D e s t e p h e n (781, 965 e 968–969), che non esclude una composizione e dedica a Misael della trilogia già prima che Zaccaria si recasse a Costantinopoli. Quanto alla Vita Petri Iberi, Zaccaria era certo informato su Pietro, come mostrano la Vita Severi e la Historia Ecclesiastica («Petrus (hat) einen ungewöhnlich tiefen Eindruck auf Zacharias gemacht», commentava già B a r d e n h e w e r [146, 114]; per i dettagli si vedano ora gli studi di H o r n [744; 763, passim]); che il breve frammento conservato nel manoscritto di Berlino, nonostante la subscriptio, potesse non appartenere realmente a una biografia di Pietro, come vuole H o r n (763, 45–46), appare ipotesi ipercritica, e comunque non sufficiente a concludere che l’esistenza stessa di una Vita Petri Iberi scritta da Zaccaria «still remains merely a matter of hypothesis». Nel 1951 L a n g (670) individuò del resto alcuni indizi a favore della tesi che l’opera di Zaccaria fosse alla base, sia pur attraverso evidenti rielaborazioni, della vita georgiana di Pietro Ibero edita nel 1896 da M a r r , tradotta – come dichiara una annotazione dell’interprete – da una vita siriaca scritta da uno Zaccaria «discepolo di Pietro Ibero». Contro questa idea (che era stata di fatto già accennata da K u g e n e r , Ob servations cit., 470 n.2) si schierò subito D e v o s (671) e quindi W e g e n a s t (682, 2214), e il suo carattere ipotetico è denunciato da H o r n (763, 47–49); verosimile la giudica però R i s t (755, 347–351), e G r e a t r e x , pur senza sbilanciarsi, nota come le coincidenze tra la vita georgiana da un lato e la Vita Isaiae e la Historia Ecclesiastica dall’altro indicate da L a n g siano impressionanti (793, 13–14 e n.40).
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Da quanto si è fin qui detto è infine evidente che, come osserva D e s t e p h e n (781, 969), «(l)a Vie de Théodôros d’Antinoé n’est plus aujourd’hui que le titre d’une oeuvre perdue citée dans la Vie d’Isaias», almeno per chi non rifiuti l’attribuzione a Zaccaria di quest’ultima. 4. I ‹Capita VII contra Manichaeos› (CPG 6997) e l’‹Adversus Manichaeos› o ‹Antirrhesis› (CPG 6998) Già nel 1604 era stata edita, in traduzione latina, la parte iniziale di un’opera di Zaccaria dedicata alla confutazione del manicheismo; il testo greco fu pubblicato solo nel 1866, da un manoscritto di Monaco (Bayer. Staatsb. gr. 66), a cura di A. K. D e m e t r a k o p o u l o s (Ἐκκλησιαστικὴ Βιβλιοθήκη, ἐν Λειψίᾳ 1866, 2–18), che in premessa (pp.γ-δ) riportava anche il prologo, molto più ampio rispetto alla succinta intestazione del Monacense, presente in un manoscritto di Mosca (oggi GIM, Sinod. gr. 394 [Vlad. 231]) e già a suo tempo reso noto dal M a t t h a e i (Codicum Graecorum mss. bibliothe carum Mosquensium Sanctissimae Synodi notitia et recensio, Lipsiae 1805, 294–295). Tale prologo, che si apriva con il titolo Ἀντίρρησις Ζαχαρίου ἐπισκόπου Μιτυλήνης τὸν παραλογισμὸν τοῦ Μανιχαίου διελέγχουσα κτλ., raccontava le circostanze in cui l’opera sarebbe stata composta: ai tempi in cui Giustiniano emise un editto contro i Manichei, un libraio di Costantinopoli che si era trovato fra le mani un testo manicheo chiese di scriverne una confutazione a Zaccaria, allora occupato a Costantinopoli nell’amministrazione imperiale e già noto come autore di sette κεφάλαια o ἀναθεματισμοί contro i Manichei. Fino agli anni ’70 del secolo scorso, i sette capitoli citati nel prologo dell’Antirrhe sis sembravano perduti (per tali li dava, ad es., M i n n i t i C o l o n n a [691, 31]). Nel 1977, però, Marcel R i c h a r d pubblicò, da un manoscritto dell’Athos (Vatopedi 236), un testo intitolato Κεφάλαια ἑπτὰ σὺν ἀναθεματισμοῖς προσφόροις κατὰ τῶν ἀθεωτάτων Μανιχαίων καὶ τῆς μιαρᾶς αὐτῶν καὶ θεοστυγοῦς αἱρέσεως, e propose di riconoscervi il testo di Zaccaria (696, XXX–XXXIX). L’identificazione è stata in genere accolta, in particolare da L i e u , che ha fornito una accurata edizione dei Capita, in parallelo con la cosiddetta «formula lunga», accompagnata da introduzione e ricco commentario (703a; versione rivista e accresciuta in 703b); si vedano anche le sintetiche esposizioni di A l p i (783, 23–24) e G r e a t r e x (793, 18). Come lo stesso L i e u ha riconosciuto (703a, 165–166 = 703b, 222–223), i Capita, incentrati sulla cosmogonia, rivelano un orientamento ben diverso rispetto all’Antirrhesis, in cui invece prevalgono gli aspetti metafisici e ontologici, ma ciò potrebbe ben spiegarsi col loro carattere compilativo, che comunque li rende una testimonianza fondamentale sulla ricezione del manicheismo in Grecia. Sulla scia di alcune indicazioni di L i e u (703a, 167 = 703b, 224), G r e a t r e x (793, 18) considera peraltro la possibilità che Zaccaria abbia voluto attaccare i manichei «to disassociate the anti-Chalcedonians from the Manichaeans». Più complessa la questione dell’Antirrhesis, che mostra vari punti di contatto con il testo antimanicheo attribuito a Paolo il Persiano. Ciò si spiega, secondo L i e u (703a, 164 = 703b, 220), con il fatto che Paolo il Persiano ha ripreso Zaccaria. Qualche
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dubbio in proposito è stato avanzato da K l e i n (711, 42–44), che a introduzione di un’utile rassegna sugli argomenti antimanichei in ambito greco nella quale tanto i Capita quanto l’Antirrhesis ricevono ampia considerazione mostra di non dubitare dell’attribuzione a Zaccaria dei primi, ancorché tramandati in forma anonima, mentre si chiede se davvero si possa prestare fede alla tradizione che attribuisce a Zaccaria la seconda, anche in considerazione del carattere di topos letterario della storia sull’ori gine dell’opera tramandata dal codice Mosquense. Come si è visto però in precedenza (supra, A), H o n i g m a n n (672, 199–200) aveva a suo tempo mostrato la somiglianza tra il prologo dell’Antirrhesis e quello della Vita Severi, sicché in almeno uno dei due casi si avrà mera finzione, ma una finzione che si può confidentemente attribuire allo stesso Zaccaria. Sarà semmai possibile pensare che l’Antirrhesis come l’abbiamo rappresenti la riduzione di un testo più ampio, e che il prologo del Mosquense riprenda un proemio d’autore in prima persona, come quello della Vita Severi: che il testo a noi noto sia un excerptum è stato in effetti sostenuto da M i n n i t i C o l o n n a (691, 32). La stessa autrice ha peraltro anche studiato l’uso delle particelle in q uest’opera e nell’Ammonius (692; ved. supra, B.1). Quanto alla data, si ritiene di solito che l’editto di Giustiniano cui il prologo fa riferimento si dati al 527, ma G r e a t r e x (793, 19 n.54) fa notare che Giustiniano continuò a legiferare contro i manichei almeno fino al 531. 5. L’‹Historia Ecclesiastica› (CPG 6995) Dopo le edizioni e traduzioni già citate in precedenza (supra, A), l’edizione di riferimento per la cronaca siriaca in dodici libri conservata integralmente nel codice Brit. Mus. Add. 17202 senza indicazione di autore, ma che altri rivoli di tradizione indicano come «storia ecclesiastica di Zaccaria Retore», è quella, già menzionata all’inizio di questa rassegna, curata da E. W. B r o o k s e uscita tra il 1919 e il 1924 per il Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium (Scr. Syr. 38–39, 41–42). Fin dai primi studi fu chiaro che l’attribuzione a Zaccaria dell’intera cronaca costituiva una erronea estensione: il testo stesso spiegava che solo i libri III–VI erano tratti da un’opera di storia ecclesiastica di Zaccaria, dedicata a Euprassio, che copriva il periodo dal 450 al 491, mentre i restanti libri derivavano da altre fonti. Di conseguenza, dei contributi dedicati alla cronaca siriaca (oggi solitamente indicata come Pseudo-Zaccaria) saranno qui esaminati solo quelli che espressamente trattino della Historia Ecclesiastica di Zaccaria, mentre gli altri saranno ignorati22. 22 Non terrò quindi conto, ad es., della nota di J . C a r c o p i n o in CRAI 1933, 306–308, che pure l’Année Philologique riportava sotto la rubrica «Zacharias Rhetor», né dei vari altri studi successivi sulla descrizione di Roma nello Pseudo-Zaccaria, che, contenuta nel X libro, risale non alla Historia Ecclesiastica di Zaccaria ma ad una non meglio definibile fonte di età giustinianea, come nota G r e a t r e x (793, 55–56 e 418–424). Proprio alla più volte citata traduzione inglese riccamente annotata a cura di G r e a t r e x e altri studiosi (793), con gli aggiornamenti pubblicati sul sito http://aix1.uottawa.ca/~greatrex/zach.html, in generale si rinvia per una bibliografia pressoché completa sullo Pseudo-Zaccaria.
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Pseudo-Zaccaria veniva comunque ad essere il testimone principale della Historia Ecclesiastica; ma non tuttavia l’unico: da tempo ne erano infatti note varie citazioni nella storia ecclesiastica di Evagrio. In particolare, queste furono dettagliatamente studiate nel 1980 da A l l e n (700), che mostrò come Evagrio riprendesse da Zaccaria molti materiali ma sistematicamente li convertisse, polemicamente, in un’ottica calcedonese; gli esempi mostrati da A l l e n sono stati in seguito variamente discussi (per un quadro d’insieme si vedano le annotazioni di W h i t b y [727] e le considerazioni complessive di R i s t [741, 94–97] e G r e a t r e x [793, 25–26]), mentre G i n t e r (729), contestando l’idea di una forte polarizzazione tra visione calcedonese e anticalcedonese in nome di una maggiore complessità, ha mostrato un uso molto largo e non sempre soltanto polemico di Zaccaria da parte di Evagrio, che parrebbe aver consultato anche la Vita Severi. Sugli aspetti ideologici e dottrinali che caratterizzano l’His toria Ecclesiastica di Zaccaria in rapporto agli altri esempi contemporanei del genere torneremo tra breve, discutendo alcuni fondamentali contributi recenti. Lo studio approfondito dei rapporti fra Evagrio e Pseudo-Zaccaria III–VI ha però innanzitutto mostrato che l’autore siriaco deve aver condensato e modificato l’originario testo di Zaccaria; d’altra parte, Michele Siro sembra conoscere brani della Historia Ecclesia stica non presenti nello Pseudo-Zaccaria, sicché avrà attinto direttamente a una più fedele traduzione siriaca dell’opera di Zaccaria oppure (o forse anche) a una versione dello Pseudo-Zaccaria più ampia di quella in nostro possesso: tutti questi problemi posti dalla tradizione della Historia Ecclesiastica sono largamente trattati negli studi complessivi di R i s t (741) e di G r e a t r e x (761; 785), e specialmente nell’ampia introduzione di quest’ultimo studioso alla fondamentale traduzione inglese dello Pseudo-Zaccaria da lui stesso, in collaborazione con altri studiosi, curata nel 2011 (793, 19–65, spec. 19–31, 39, 57–60); su Zaccaria e Michele Siro si sofferma più in particolare W e l t e c k e (747, spec. 42–46, 134 n.30, 138), in parte riprendendo i risultati di una dissertazione inedita di J. J. v a n G i n k e l (John of Ephesus. A Monophysite Historian in Sixth-Century Byzantium, Diss. Groningen 1995, spec. 63–64). L’opera di Zaccaria rispondeva, in sostanza, ai canoni della storia ecclesiastica, specialmente per il ricco uso di documenti. A parte la rapida trattazione di T r e a d g o l d (779, 166–167), il modo in cui essa si colloca nella tradizione del genere e il suo significato ideologico è stato in particolare studiato da W h i t b y (748, spec. 459–466), che ha tra l’altro mostrato come la scelta di partire dal 450, trascurando i precedenti, consentisse di evitare di affrontare la questione eutichiana, specialmente delicata per gli anticalcedonesi. Ma, soprattutto, l’Historia Ecclesiastica è stata capillarmente analizzata, in rapporto con la storia del genere e con le opere rivali di Teodoro Lettore ed Evagrio, in un ponderoso e fondamentale studio di B l a u d e a u (760, spec. 5 34–617): in un’ottica «geo-ecclesiologica», l’autore mostra che la prospettiva di Zaccaria si incentrava su Alessandria e rappresentava una linea monofisita sostanzialmente moderata, aperta all’accettazione dell’Henotikon. L’importanza che l’opera di Zaccaria conservò nelle controversie dottrinali successive è ulteriormente mostrata da B l e c k m a n n (789), che individua nella trattazione di Liberato per gli anni 451–490 una «erfundene Gegenversion» all’esposizione di Zaccaria, forse fondata sul cosiddetto Grae cum Alexandriae scriptum.
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Nei contributi appena citati, la definizione del carattere dell’Historia Ecclesiastica non può che fondarsi sullo studio minuzioso degli eventi del 450–491 così come sono trattati da Zaccaria e dalle altre fonti. Non pochi di questi eventi sono stati indagati, dagli stessi studiosi e da altri, anche in varie ulteriori sedi; e però, come si diceva già all’inizio, non è naturalmente possibile rendere conto, in questa sede, dei tanti contributi che variamente trattano episodi e documenti dell’età da Marciano a Zenone per cui l’Historia Ecclesiastica è, con altri testi, fonte. Le note alla traduzione inglese di G r e a t r e x e altri studiosi (793, 95–226), ricche peraltro di indicazioni bibliografiche, costituiscono ormai un punto di riferimento; per gli aspetti più strettamente legati alle controversie dottrinali, nuovamente si rinvia alle sintesi di P e r r o n e (702) e G r i l l m e i e r (572, II passim).