Lorenzo Valla: umanesimo, riforma e controriforma 9788884980267, 8884980267


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Lorenzo Valla: umanesimo, riforma e controriforma
 9788884980267, 8884980267

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ISTITUTO NAZIONALE DI STUDI SUL RINASCIMENTO

SALVATORE I. CAMPOREALE

LORENZO VALLA UMANESIMO, RIFORMA E CONTRORIFORMA STUDI E TESTI

ROMA 2002 EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA

Tuiti i diritti riservati

EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA 00186 Roma - Via Lancellotti, 18 Tel. 06.68.80.65.56 - Fax 06.68.80.66.40 e-mail: [email protected] www.weeb.it/edistorialett

a Berta Dini Sie war in sich, wie Fine hoher Hoffnung, .. Sie war in sich. Und ihr Gestorbensein erfiillte sic wie Filile. Rilke

SOMMARIO

Introduzione ....................................................................

I.

p.

1

Lo statuto umanistico dellateologia.......................

»

19

Premessa bibliografica............................................... Retorica e teologia................................................... Critica filologica ed esegesibiblica ......................... Conclusione............................................................... Appendice.................................................................

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21 40 80 108 114

Da Lorenzo Valla

a

Tommaso Moro

II. Lorenzo Valla tra Medioevo e Rinascimento Encomion s. Thomae - 1457 .................................... Alle origini del neo-tomismo nel ’400 ................... Encomion s. Thomae................................................. Le aporie della Scolastica A. philosophia/theologia................................... B. dialectica/'rhetorica........................................ La rhetorica come modus theologandi..................... Appendice.................................................................

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121 123 141

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177 205 225 266

III. Giovanmaria dei Tolosani O. R: 1530-1546 Umanesimo, Riforma e teologia controversista ...

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L’opera inedita: cronologia e redazione ................ Teologia controriformista e antiumanesimo ......... L’antiluteranesimo e 1’Opusculum 5: eresia e Apo­ calisse ......................................................................... Appendice..................................................................

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331 335 351

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399 429

IV. Lorenzo Valla e il De Falso Credita Donatione Retorica, libertà ed ecclesiologia nel ’400 .............

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463

Indice dei nomi................................................................

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591

INTRODUZIONE

I saggi qui raccolti sono apparsi per la prima volta tra il 1973 e il 1988 sulla rivista «Memorie Domenicane»: pubblicazione an­ nuale a carattere storiografico (nuova serie con gli anni Settanta). Essi sono: Da Lorenzo Valla a Tommaso Moro. Lo Statuto Umanistico della Teologia, «Memorie Domenicane», n.s., IV, 1973, pp. 9-102. Loren­ zo Valla tra Medioevo e Rinascimento: Encomion s.Thomae - 1457, «Memorie Domenicane», n.s., VII, 1976, pp. 11-194. Giovanmaria dei Tolosani, O.P.: 1530-1546. Umanesimo, Riforma e Teologia Controversista, «Memorie Domenicane», n.s., XVII, 1986, pp. 145-252. Lorenzo Valla e il De Falso Credita Donatione. Retorica, Libertà ed Ecclesiologia nel ’400, «Memorie Domenicane», n.s., XIX, 1988, pp. 191-293. II titolo dato al volume penso indichi chiaramente il tema cen­ trale e l’ambito di ricerca dei quattro saggi. Questi erano stati pro­ grammati sin dagl’inizi della mia ricerca come studi per un mede­ simo volume sull’umanesimo filologico di Lorenzo Valla (1407-1457) e l’incidenza dell’opera sua sia in Italia che Oltralpe dai primi del Quattrocento all’avvento della Riforma e Controriforma. Percorso di ricerca, questo, circa temi e testi già occorsi, ma non svolti in modo adeguato, in molte pagine del mio primo Lorenzo Valla. Umanesimo e teologia del 1972. Pubblicazione del medesimo Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, cui debbo la presente raccolta. I quattro saggi ripetono l’ordine cronologico della loro prima pubblicazione, mantenendone la sequenza, poiché essi erano allo­ ra, e tali permangono, strettamente datati dal duplice contesto del­ la ricerca personale e della situazione storico-bibliografica, sia dei temi trattati che dei testi (editi o inediti) presi in esame. Ciò ha de­ terminato il tipo di revisione possibile per questi saggi: revisione puramente formale, nella quale si è lasciato intatto, volutamente, il loro contenuto e discorso storiografico. Con un’unica eccezione: sono state segnalate, quando ritenuto opportuno, le edizioni criti­ che dei testi in esame, senza tuttavia mutarne l’originaria versione (inedita o a stampa) da me sottoposta a lettura ed analisi.

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SALVATORE 1. CAMPOREALE

1. Unità tematica e prospettive storiografiche. L’unità tematica dei saggi è data dalla ricerca sulle origini del­ l’umanesimo filologico nell’opera del Valla, sugl’influssi e sviluppi ulteriori di quell’umanesimo, ed infine sulla recezione critica, di ri­ getto o di dissenso, del medesimo. L’opera del Valla è da specificare come umanesimo filologi­ co in quanto l’indagine messa in atto si dispiega tutta ed in mo­ do costante sulle litterae, sia humanae (letteratura classica greca e latina, filosofica e poetica) che divinae (letteratura biblica gre­ ca e latina: scritturistica, liturgica e teologica). Il metodo d’in­ dagine è l’analisi storico-linguistica della letteratura classica e della letteratura biblica. Analisi quindi propriamente filologica, che viene messa in atto dal Valla come grammatica (morfologica e semantica) della parola e della lingua di quelle litterae-, delle humanae prima, e poi, per estensione pertinente, delle divinae. La trasposizione di quel medesimo metodo d’indagine dalle lit­ terae humanae a quelle divinae era fondata sul presupposto se­ guente: la Rivelazione ebraico-cristiana in quanto linguaggio e scrittura aveva assunto storicamente forma letteraria; per conse­ guenza, come ogni altra letteratura anche quella biblica (in tut­ te le sue lingue e scritture) cadeva di natura sua sotto le mede­ sime leggi diacroniche e sincroniche di ogni altro linguaggio e scrittura. Le Scritture Sacre erano quindi da sottoporre ad un unico e medesimo metodo d’analisi storico-linguistica - pur assumendo, al­ l’interno stesso del medesimo metodo d’indagine, la diversità og­ gettiva e specifica dell’opera letteraria, da quella classica a quella biblica. Sì che per Valla - il quale in tal modo si collocava nella tra­ dizione ellenistico-ebraica prima e poi cristiana - le humanae litte­ rae venivano quasi ad inverarsi nelle divinae litterae e queste, a lo­ ro volta, derivavano il proprio statuto scientifico e metodo d’inda­ gine dal seno stesso della cultura umanistica. La critica del Valla al sistema aristotelico-scolastico è tutta fon­ data sull’analisi grammaticale delle parole costituenti il linguaggiobase dell’“enorme sovrastruttura” logica, etica, fisica e metafisica della Scolastica. L’analisi linguistica dei trascendentali, dei predicamenti e dei predicabili (l’intero libro I della Repastinatio dialec­ ticae et philosophiae) è indagine della loro grammatica: etimologia e morfologia, semantica ed uso di quelle parole nella «consuetudo loquendi» del «sermo communis». Ed è indagine grammaticale che porta a dimostrare la falsità d’uso di quelle parole e di quella lin­

INTRODUZIONE

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gua, la non-verità di quel linguaggio filosofico, la privazione di sen­ so sia verbale che concettuale del pensiero aristotelico-scolastico, dalla logica alla metafìsica. In breve. L’indagine del sistema linguistico della speculazione scolastica attraverso la falsificazione del suo linguaggio categoriale conduce sia a rivelarne la privazione di senso e le contraddizioni insite nell’«uso perverso» (come scrive il Valla) di quel linguaggio sia a provocarne l’implosione della sovrastruttura teorica. Una citazione emblematica della critica antimetafisica dal libro I della Repastinatio - da privilegiarsi senz’altro quale istanza per antonomasia dell’argomentazione valliana - è la seguente: l’assun­ zione non grammaticale di ens, participio dal verbo esse, come so­ stantivo e quindi come entitas, prima, e poi come substantia delle singole realtà e dell’universale fenomenico, inficia le fondamenta stesse del linguaggio e della speculazione dell’ontologia metafisica. La critica grammaticale della parola ens nel discorso filosofico del­ la Scolastica approda necessariamente alla negazione stessa del­ l’ontologia metafìsica: quella critica infatti dimostra come l’ontolo­ gia metafisica è linguaggio senza senso e speculazione priva di fon­ damento (cfr. Lorenzo Valla, cit., pp. 153-162). Si è voluto citare l’analisi grammaticale del trascendentale ens non solo come emblematica, ma anche e soprattuttuo come punto di partenza della critica antimetafisica del Valla. Con essa infatti l’Umanista è poi condotto alla radicale negazione dell’ontologia aristotelico-scolastica. Dalla Patristica in poi, e però in modo specifico per la Scola­ stica classica, il linguaggio categoriale teologico, che è il linguaggiobase della scientia fidei (Ia theologia propriamente detta), è dato dalle divinae litterae: queste sono le Scritture Sacre, secondo il ca­ none biblico vetero e neotestamentario della Vulgata. E quindi su questo linguaggio-base che viene ad ergersi come suo proprio fon­ damento la sovrastruttura della speculazione teologica. Per la Sco­ lastica classica, ed in particolare per quella di Tommaso, le pre­ messe (maggiore e minore sillogistiche) dell’argomentazione teolo­ gica, i suoi princìpi primi e postulati indimostrabili, erano pur sempre, né poteva essere altrimenti, gli enunziati (lingua/parola) del testo Vulgata. Alla teologia di Tommaso il Valla prestò sempre ed in modo costante massima attenzione, sì che possiamo senz’al­ tro affermare: come il Valla ogni volta che si richiama alla «philo­ sophia» intende di fatto la filosofia classica antica e quella scola­ stica, così quando si riferisce alla «theologia» intende sempre quel­ la della Scolastica in genere e tomasiana in particolare.

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SALVATORE I. CAMPOREALE

In realtà, il Valla trasferisce la stessa metodologia d’analisi lin­ guistica della filosofia aristotelico-scolastica al linguaggio-base del­ la teologia scolastica e tomasiana: qui, la critica grammaticale (mor­ fologica e semantica) è dislocata al linguaggio biblico, lingua e parola del testo scritturistico e fondamento della speculazione teo­ logica. Ma per tale dislocazione si richiedeva un preliminare: col­ lazionare il linguaggio traslato della Vulgata con quello originale del testo scritturistico - da Girolamo felicemente denominato «ve­ ritas hebraica» e «veritas graeca». Il Valla, che non conosce l’ebrai­ co e se ne rammarica, deve limitarsi alla «collatio novi testamenti». La collazione neotestamentaria comporterà la riduzione della lingua/parola traslata della Vulgata alla «veritas graeca»: soltano quest’ultima infatti è la «scrittura sacra», primaria e valida in assolu­ to, della «verità rivelata». La grammatica della lingua/parola sacra - compiuta l’indagine previa del processo di traduzione - è messa in atto con lo studio analitico del rapporto storico-semantico tra testo traslato e «veri­ tas graeca». Verificare quindi il testo traslato della Vulgata (il fon­ damento scritturistico della teologia scolastica) sul testimone scrit­ turistico originario della «veritas graeca», equivaleva per il Valla a sottoporre ad analisi critica grammaticale il linguaggio-base della speculazione teologica latina e occidentale. Ad esempio. Qualora «poenitentia» della Vulgata sia intesa nel senso di pentimento (e penitenza), e su questa specifica semantica venga elaborata una teologia sacramentaria della Confessione qua­ si fosse “processo giuridico” - com’è appunto quella della Scola­ stica da Pietro Lombardo in poi -, si compie una speculazione teo­ logica senza fondamento scritturistico. La versione «poenitentia» della Vulgata neotestamentaria è da ricondurre alla «metànoia» della «veritas graeca» che ha il senso di conversione. Nella lingua greca infatti, ed in particolare nella Koiné biblica, «metànoia» vuol dire «mentis emendatio» - mentre «poenitentia» significa propria­ mente «tristitia commissi». Risolvere quindi l’enunziato neotesta­ mentario circa la «poenitentia» in una prassi sacramentaria della Confessione che comporti la contritio (interiore e morale), la con­ fessio (auricolare e comunitaria) e la satisfactio (privata e pubblica) quasi fossero tre momenti costitutivi di un processo giuridico, è fondare la speculazione teologica sul fraintendimento linguisticosemantico della Scrittura. In tal modo la teologia sacramentaria scolastica della Confessione è messa in crisi dal Valla alle sue radi­ ci: i principi primi della riflessione teologica infatti, come si è det­ to, sono e possono essere soltanto gli enunziati scritturistici del­

INTRODUZIONE

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l’Evangelo, intesi nel loro sensus litteralis. Così scrive il Valla nell’e­ segesi di Paolo 2 Cor.7.10, ove l’Umanista critica l’interpretazione, testualmente citata, di Tommaso nel proprio commento della pericope paolina (cfr. Lorenzo Valla, cit., p. 442). Ma la divergenza «poenitentia/metànoia» (e conseguente critica della teologia sacra­ mentaria della Confessione) non saranno oggetto della prima del­ le 95 Tesi che nell’ottobre 1517 dettero l’abbrivio all’azione rifor­ matrice di Lutero? Questi avrebbe potuto leggere il brano valliano nella stampa edita da Erasmo, nel 1505, delle Adnotationes in Novum Testamentum dell’umanista romano. La critica valliana alla tradizione filosofica e teologica sembra quasi falsificazione sistematica del linguaggio-base sia del pensiero logico-metafisico sia della riflessione scritturistico-teologica della Scolastica. Lo strumento della critica valliana non è analitico-concettuale, come poteva essere ad esempio quello occamista, ma uni­ camente e propriamente linguistico-semantico. Tale strumento critico, però, occorreva strutturarlo di una con­ cezione del linguaggio nella quale fosse radicalmente riconsidera­ to il rapporto di lingua, parola e realtà. Una concezione del lin­ guaggio, che il Valla rielabora rifacendosi alla tradizione sofistica della retorica e, in modo diretto, alla Institutio oratoria di Quinti­ liano. E questo il momento positivo della riflessione valliana, con­ seguente al momento negativo della sua critica nei confronti della «philosophia» e della «theologia» della Scolastica. Riconsiderare dai fondamenti il rapporto di lingua, parola e realtà, comportava dunque una riflessione sulla natura stessa del linguaggio. Nella nuova cultura umanistica (da Petrarca in poi), senz’altro differenziata quale riproposta specifica del linguaggio in sé e per sé come problema centrale in assoluto (sia in teoria che nella prassi di critica letteraria), il Valla venne indubbiamente ad assumere posizione preminente. Egli raggiunse questa posizione in base alla sua costante ricerca, e conseguenti risultati, circa la natu­ ra del linguaggio nella duplice dimensione di diacronia e sincronia. Valla infatti, una volta assurto a coscienza critica di quella ri­ proposta teorica sul linguaggio, mise in atto un’analisi morfologi­ ca e semantica il cui approdo doveva essere di necessità una radi­ cale de-ontologizzazione del linguaggio. Nell’wjwj di lingua, paro­ la e referente, conclude il Valla, verha et res non rimandano in alcun modo ad ulteriore (presunta come sottesa) dimensione ontica del linguaggio. Di conseguenza, verba et res non possono esse­ re accettate in alcun modo in senso metafisico senza pervertire il «sermo communis» - come di fatto è stato perpetrato dalla «de-

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SALVATORE I. CAMPOREALE

pravatrix nativarum significationum peripatetica natio». Questo è l’approdo ultimo della messa in atto di quell’analisi valliana che at­ traversa l’intera opera sua sulla natura del linguaggio. In tal modo egli potrà definire il linguaggio semplicemente come «sermo com­ munis», fondato su quel «hominum usus qui verborum est auctor». La soluzione valliana circa la natura e i fondamenti del lin­ guaggio prende l’abbrivio da una pagina della Institutio oratoria 6.1-3; pagina che, come ho ipotizzato sin dai miei primi scritti, cre­ do si debba collocare alle origini di quello che ho chiamato il quintilianesimo radicale del Valla. Il brano di Quintiliano inizia con l’affermazione seguente: «Sermo constat ratione vel vetustate, auctoritate, consuetudine». E dopo aver dato il significato di «ratio», di «vetustas» e di «aucto­ ritas», conclude: «Consuetudo vero certissima loquendi magistra, utendumque piane sermone ut nummo, cui publica forma est». Per Quintiliano le basi costitutive del linguaggio sono quattro: la ratio, la vetustas, 1’auctoritas, la consuetudo. L’enumerazione delle basi costitutive del linguaggio è data in successione ascendente: secon­ do il valore d’importanza che esse assumono quali fondamenta del linguaggio. Nelle brevissime definizioni (descrittive) che vengono date di ciascuna qui e immediatamente, soltanto la «consuetudo» è detta «certissima loquendi magistra». La «consuetudo», in altri termini, è il fondamento ultimo del linguaggio sia dal punto di vi­ sta storico («historice») che dal punto di vista formale («methodi­ ce», cfr. ivi I, 9). Essa è la fonte primaria della consistenza e vali­ dità degli altri (tre) criteri normativi del linguaggio: «ratio», «ve­ tustas» e «auctoritas». Con questa concezione del linguaggio in generale, direttamen­ te desunta dalla pagina indicata della Institutio e poi via via profondamente rielaborata, il Valla mette in atto nelle Elegantiae la sua analisi linguistico-semantica della lingua latina, colta in tutta l’ampiezza diacronica e sincronica di quel sermo romanus che per l’Umanista assurge a magnum sacramentum. Le Elegantiae linguae latinae sono di conseguenza opera preminente e costitutiva dell’u­ manesimo filologico del Valla; ogni altra ricerca e scrittura dell’Umanista dev’essere ricondotta a quest’opera. Nel proemium pri­ mum, posto come premessa d’intenti formali e materiali dell’intera opera, il Valla ha dato in modo quanto mai incisivo le coordinate ed il senso globale delle Elegantiae-, questo risulta ormai con evi­ denza meridiana dalla lettura critica ed interpretativa, senz’altro definitiva, di M. Regoliosi, Nel cantiere del Valla: elaborazione e montaggio delle Elegantiae, Roma 1993.

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Il Valla mette in atto le sue analisi filologiche concentrandosi sulla lingua latina, appunto perché - come egli stesso afferma più volte - il sermo romanus è da ritenersi linguaggio storico (non di­ sgiunto dalla lingua greca) alle origini e fondamento della cultura occidentale. Ma ciò non porta il Valla - ed anche questo viene af­ fermato più volte, pur in contesti diversi - a ritenere la lingua la­ tina come egemonica in assoluto, né tanto meno come «imperium romanum» su altre lingue e culture. Al contrario, egli considera la molteplicità storica di lingue e culture come contesto privilegiato della lingua latina. Di qui la sua costante problematica del rap­ porto lingua greca/lingua latina, la sua prassi e teorizzazione del­ la traduzione in generale, e quella dalla lingua greca alla latina in particolare. Il problema del rapporto lingua greca/lingua latina - topos lin­ guistico e culturale nella tradizione romana ed ellenistica da Ca­ tone Censore in poi - il Valla lo desume direttamente dalla Insti­ tutio di Quintiliano (cfr. Lorenzo Valla, cit., cap. II: «Lingua gre­ ca e lingua latina», pp. 173ss). La messa in atto della sua analisi linguistica e semantica si svolge lungo le correlazioni tra le due lin­ gue e i testi letterari corrispondenti. Di qui le motivazioni origi­ narie (prima ancora di quelle filosofiche e/o teologiche) sia delle molte traduzioni (come di Omero, Demostene, Tucidide, ed altri) sia delle «collationes» neotestamentarie tra Vulgata e «veritas grae­ ca», sia infine del confronto tra teologia trinitaria latina e greca, patristica e bizantina. La ricerca Iinguistico-semantica sul testo neotestamentario è per il Valla luogo particolare di raffronto tra le due lingue dal pun­ to di vista storico: si trattava, infatti, da un lato del latino ecclesia­ stico della Vetus Itala prima, e della Vulgata poi, e dall’altro del greco della Koiné. Il testo neotestamentario inoltre assurge a luo­ go privilegiato di quella medesima ricerca dal punto di vista cri­ stiano, in quanto si trattava di Scrittura della Rivelazione e il testo bilingue era sempre stato, sia per l’Occidente latino che per 1’0riente greco, alla base del linguaggio liturgico, dogmatico e teolo­ gico, oltre che ecclesiale e pastorale. Di qui la Collatio e le Adnotationes alla Scrittura neotesta­ mentaria di cui più sopra si è detto. Ma di qui anche la trattazio­ ne della questione trinitaria (in concomitanza del Concilio Fioren­ tino, 1438/39) nelle varie redazioni (in specie la prima) della Re­ pastinatio. La controversia sul Filioque tra Chiesa Latina e Chiesa Greca offriva al Valla un luogo eccezionale ove mettere a confronto una duplice riflessione, teologica prima e poi dogmatica, sul Mistero

SALVATORE I. CAMPOREALE

centrale della fede cristiana. Una duplice riflessione, la cui diver­ sità era stata teorizzata e sempre dibattuta (sin da Agostino e Gi­ rolamo in Occidente) proprio in forza delle differenze linguisticosemantiche tra lingua latina e lingua greca. Il Valla va oltre la tra­ dizione patristica di Agostino e Girolamo in quanto si porta decisamente al livello metalinguistico. Egli affronta il problema, antico quanto la cristianità stessa, di come poter parlare del Mi­ stero trinitario, di come poter dire e formulare in termini dogma­ tici quel Mistero. Una problematica, del resto, che riguardava ogni altra verità della Rivelazione nella transizione da una lingua (la gre­ ca, quella originaria nella fattispecie) ad un’altra come quella lati­ na (contemponarea alla Koiné). Il Valla sostiene che, nella transi­ zione da una lingua all’altra, sono propriamente le strutture linguistico-semantiche quelle che determinano le variazioni e le specificità della speculazione teologica e formulazione dogmatica: così come aveva ritenuto per le strutture linguistiche all’origine della diversità e molteplicità dei sistemi di pensiero, nell’ambito sia filosofico che culturale in genere. È in forza di tale assunto che il Valla percepisce il senso au­ tentico del dibattito al Concilio di Firenze, così che egli con intui­ to di fondo approda alle ragioni ultime della Laetentur coeli - il de­ creto conclusivo emanato dal Concilio - ove si affermava quanto segue. Le due formulazioni dogmatiche (greca e latina) delle pro­ cessioni trinitarie, pur differenziate per lingua e concezione, erano al medesimo tempo reciprocamente compossibili, anzi comple­ mentari, in rapporto ad una stessa verità di fede. Nessuno scisma di fede quindi tra Chiesa Greca e Chiesa Latina sul mistero trini­ tario, ma complementarietà di convergenza nella fede pur nella di­ versità di formulazione dogmatica. Ciò che veniva ad essere - la Laetentur coeli del Concilio fiorentino - un caso assolutamente unico nella storia della cristianità: diversità (diacronica) di formu­ lazione dogmatica e identità (sincronica) di senso del mistero, com­ plementarietà e apporto d’approfondimennto circa una stessa ve­ rità di fede nella transizione da una lingua ad un’altra. Si veda, ora, su questo aspetto della trattazione valliana, il saggio di Ch. Trinkaus, Lorenzo Valla on thè Problem of Speaking about thè Trinity, «Journal of thè History of Ideas», LVII, 1996, pp. 27-53. In questo medesimo ambito di riflessioni metalinguistiche occore collocare la concezione valliana della translatio. La concezione della traduzione alla quale il Valla perviene de­ riva dalla similitudine sermo/nummus, proposta da Quintiliano nel­ la sua definizione della «consuetudo loquendi». Il passaggio vai-

INTRODUZIONE

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liano dalla similitudine quintilianea alla propria concezione della traduzione avviene mediante un procedimento d’analogia, o meglio (in termini retorici) mediante un processo di «comparatio». Vale a dire: come il «sermo communis» è paragonabile al «nummus, cui publica forma est», così la traduzione o «translatio sermonum» è assimilabile allo scambio di merci: «mercatura rerum». La transi­ zione, in altri termini, da una lingua ad un’altra (orale o scritta), la comunicazione tra lingue e culture diverse, l’interscambio di pro­ dotti letterari attraverso la «translatio» da una versione linguistica ad un’altra: sono, queste, operazioni tutte assimilabili agli «scambi mercantili». Essi infatti hanno sempre informato di sé, ed anzi creato in prima istanza, i rapporti multiformi tra città, nazioni e popoli diversi per lingua e cultura. Questa concezione della tradu­ zione viene proposta dal Valla particolarmente nelle pagine intro­ duttive alla traduzione latina delle Historiae di Tucidide. Ma già al­ trove era stata accennata. Rimando al mio più recente scritto sul­ l’argomento: Institutio oratoria, lib. I, cap. 6, 3 e le variazioni su tema di Lorenzo Valla: «sermo» e «interpretatio», «Rhetorica. A Journal of thè History of Rhetoric», XIII, 1995, pp. 285-300. Con le Elegantiae ed il resto della sua opera il Valla pervase la cultura umanistica dell’Europa. Questa risonanza della sua rifles­ sione linguistica e metalinguistica, purtroppo sfuggita alla storio­ grafia moderna sul Valla sino alle prime decadi dell’ultimo dopo­ guerra, si riscontra in molti scrittori del ’400 e del ’500. Qui mi li­ mito a riportare un brano dalla Dedicatoria del Cortegiano (1528). Scrive Castiglione a proposito della “lingua”: «[,,,] perché la forza e vera regula del parlar bene consiste più nell’uso che in altro e sempre è vizio usar parole che non siano in consuetudine. [...] Non ho ancor voluto obligarmi alla consuetudine del parlar toscano d’oggidì; perché il commerzio tra diverse nazioni ha sempre avuto forza di trasportare dall’una all’altra, quasi come mercanzie, così ancor nuovi vocabuli, i quali poi durano o mancano, secondo che sono dalla consuetudine ammessi o reprobati: [...] dei vocabuli che [...] parlando s’usano, estimo aver potuto ragionevolmente usar scrivendo quelli che hanno in sé grazia ed eleganzia nella pronun­ zia e son tenuti comunemente per boni e significativi [...]». 2. Dal Valla a Quintiliano: riscoperta e rilettura della Institutio.

Si è detto sin qui circa la tematica centrale dei quattro saggi monografici, vale a dire gli obiettivi, i problemi e gli argomenti di questi “studi e testi”. Occorre ora aggiungere in che modo, lungo

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SALVATORE 1. CAMPOREALE

l’intera ricerca e le singole trattazioni monografiche, sia stato ri­ considerato il metodo assunto dal Valla a fondamento della sua analisi storico-linguistica. Intendo riferirmi a quanto altrove ho chiamato il quintilianesimo radicale del Valla: la ripresa cioè della Institutio oratoria di Quintiliano in funzione della ricerca filologi­ ca e della critica teorica; di quella «historical revolution» che D.R. Kelley dava come specifico della critica filologica del Valla nel suo Foundations of Modem Historical Scholarship del 1970. (Per una ri­ valutazione dell’affermazione di Kelley, si veda il mio Lorenzo Val­ la. Repastinatio, liber primus: retorica e linguaggio, in Aa.Vv., Lo­ renzo Valla e l’FJmanesimo Italiano, Padova 1986, pp. 217-239). Nelle pagine introduttive al mio primo Lorenzo Valla del ’72, già più volte citato, avevo scritto quanto segue: «La Institutio ora­ toria, dunque, deve ritenersi lo strumento scientifico di base della filologia valliana, sia nelle sue fasi di sviluppo che nei criteri e pre­ supposti fondamentali. I capitoli primo e secondo del presente la­ voro intendono rendere evidente questo assunto, in funzione di una adeguata valutazione del rapporto tra cultura umanistica e teo­ logia nel Valla» (ivi, p. 9). Il brano concludeva sui due riferimenti che sarebbero stati alla base del mio lavoro: la controversia tra Bracciolini e Valla sulla questione della «comparatio Ciceronis Quintilianique»; il recupero del codice della Institutio (ms. Lat. 7.723 della Nazionale di Parigi) che il Valla aveva acquistato dall’Aurispa e utilizzato nel suo ultimo insegnamento romano come cattedratico di Retorica, corredato di glosse autografe marginali, soprattutto, ed interlineari. Alle suindicate pagine introduttive, dalle quali ho or ora ri­ portato la citazione, seguivano i capitoli primo (Lo studio della In­ stitutio Oratoria) e secondo {L’analisi linguistica) che costituivano la prima sezione del volume {Lorenzo Valla, cit., pp. 31-206). In es­ sa trattavo della genesi e della formazione dello statuto gnoseolo­ gico ed epistemologico che il Valla aveva attinto e densamente rie­ laborato partendo dall’opera di Quintiliano e la tradizione retori­ ca di cui quell’opera era portatrice. Era stato in forza della riscoperta e rilettura della Institutio che il Valla aveva scritto la sua opera prima De Comparatione Ciceronis Quintilianique-. l’«opusculum» (così chiamato dal Valla) a tutt’oggi introvabile, e da chi scri­ ve ricostruito nei suoi tratti essenziali mediante altri testi del Valla sull’argomento e riferimenti all’opuscolo di contemporanei suoi primi lettori. Con il De Comparatione il Valla dettava il suo “di­ scorso del metodo”, in dissenso con il ciceronianesimo del primo umanesimo da Petrarca a Poggio Bracciolini. Esso resterà a fonda­

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mento della sua ricerca di critica filologica, come aveva intuito il Mancini suo primo biografo, e posto a base interpretativa dell’o­ pera valliana nel mio volume del ’72. Tale base interpretativa dell’opera valliana, ampiamente tratta­ ta nella prima sezione del suddetto volume, è stata altrettanto am­ piamente ripresa e rielaborata nei quattro saggi. Ciò era ineludibi­ le, da parte mia, nel passaggio sia all’analisi di altri scritti valliani (come ad esempio VOratio sulla pseudo-Donazione), sia alla ricer­ ca di eventùali influssi del quintilianesimo valliano, particolarmen­ te sui contemporanei dell’Umanista, su Poliziano e la seconda metà del ’400, sino ad Erasmo e all’erasmismo (come la controversia Moro-Erasmo-Dorp, trattata nel primo dei quattro saggi). La rilettura della Institutio (con le glosse autografe del parigi­ no Lat. 7.723), che avevo già dimostrato essere alla base della cri­ tica storico-filologica del Valla, è stata la costante di fondo di que­ sti saggi monografici. L’approfondimento del quintilianesimo val­ liano sulla base del Lat. 7.723 insieme all’ulteriore analisi della controversia Valla/Bracciolini sulla «comparatio Ciceronis Quintilianique», è stato ancora una volta il contesto immediato e la te­ matica dominante della ricerca da me svolta in questi saggi. Le glosse autografe del Valla nel parigino Lat.7.723 sono sta­ te pubblicate di recente con apparato critico magistrale ed ampia introduzione storico-critica: Lorenzo Valla, Le Postille «/Z’Institutio Oratoria di Quintiliano. Edizione critica a cura di Lucia Cesarini Martinelli e Alessandro Perosa, Padova 1996. Il lettore della pre­ sente raccolta dovrà ovviamente riferirsi a questa edizione dell’i­ nedito valliano ogni qualvolta le postille del Valla siano prese in considerazione, riportate testualmente o negli espliciti riferimenti alla lettura valliana del testo di Quintiliano. Ritorno alla prima sezione del mio Lorenzo Valla, cit., pp. 31206. In quella sezione si è cercato di individuare il quintilianesimo del Valla come assunzione della Institutio quale «novum organon» di critica anti-metafisica in opposizione all’Organon aristotelico-scolastico e di critica storico-filologica nel senso anti-ciceroniano del primo umanesimo. E tengo a sottolineare a questo punto, anche per meglio comprendere quanto si dirà fra breve, che la tesi interpre­ tativa suddetta (quintilianea) dell’opera valliana non aveva alcun precedente nella storiografia valliana moderna, anche in quella più prossima alla mia pubblicazione del ’72. Come scrisse con fine iro­ nia uno dei miei maestri nei confronti di chi aveva invertito i tem­ pi della storiografia deH’“l’umanesimo civile”: ignorare o addirittu­ ra violare la ferrea legge della cronologia non sarà mai possibile, se non a scapito di serietà intellettuale nella ricerca storica. Ma si ve­

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da la più recente ed altrettanto magistrale edizione critica delle glosse autografe del Valla alla Institutio Oratoria-. J. Fernàndez Lo­ pez, Retòrica, Humanismo y Filologia: Quintiliano y Lorenzo Valla, Logrono 1999. Per trovare un precedente, o meglio, il precedente per anto­ nomasia in quanto origine e fonte dell’interpretazione “quintilianea” dell’opera valliana, occorre riportarsi a Poggio Bracciolini e alla sua critica nei confronti dell’umanista romano. (Per una sinte­ si della controversia per tratti essenziali, rimando a Poggio Brac­ ciolini contro Lorenzo Valla. Le Orationes in L. Vallam, in Aa.Vv., Poggio Bracciolini: 1380-1980, Firenze 1982, pp. 137-161). Poggio Bracciolini poteva senz’altro considerarsi, nei confron­ ti del giovanissimo Valla, il rappresentante seniore della prima ge­ nerazione di umanisti. Con le Orationes anti-Valla - questi le chia­ merà «invectivae» e con tale titolo saranno poi vulgate a stampa il Bracciolini assurgerà a primo interprete autentico dell’opera val­ liana. Ne individuerà sul nascere il quintilianesimo radicale in sen­ so anti-ciceroniano e, mettendone a fuoco la portata eversiva, ar­ gomenterà la sua critica totale in termini altrettanto radicali. Nelle Orationes e in molte lettere dell’Epistolario, il Poggio esplicherà un’analisi critica puntuale ed illuminante sulla natura e le implicazioni dell’umanesimo valliano. Il progetto del Valla per lo studio delle litterae classiche e biblico-cristiane si poneva come for­ temente differenziato da quello della tradizione umanistica di pri­ ma generazione. Da ricerca di recupero ed assimilazione della clas­ sicità, come intesa per lo più dai primi umanisti, il progetto vallia­ no passava ad essere essenzialmente euristica filologica. L’analitica grammaticale del Valla infatti si dispiegava lungo dimensioni linguistico-semantiche in funzione di critica storico-filologica. Bracciolini intuiva con estrema chiarezza la specificità dell’u­ manesimo storico-filologico del Valla, in contrasto con quello clas­ sicista, suo e di altri suoi contemporanei. E la migliore contropro­ va della propria analisi il Poggio la trovava nelle scritture valliane di filologia classica (le Adnotationes alle Decadi di Livio) e di quel­ la biblica (le Adnotationes al Nuovo Testamento), e soprattutto nel­ la critica valliana anti philosophia e theologia classica e scolastica. Di qui l’imputazione poggiana della “grande trasgressione” opera­ ta dal Valla e dai suoi seguaci nei confronti della prima generazio­ ne di umanisti. La svolta euristica attuata dal Valla, giudicata come «schola» alternativa, è posta sotto accusa da Poggio in quanto negazione della «schola antiqua» per lo studio delle litterae - come egli seri-

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ve nella corrispondenza con Guarino Veronese. Proprio in base al­ la scelta valliana del quintilianesimo della Institutio, Poggio è in­ dotto a parlare di due «scholae»; la prima («illa prior», «illa nostra antiqua») di cui Guarino rimaneva appunto l’ultimo rappresentan­ te, e la seconda, la «schola» alternativa del Valla e dei «vallenses». Costoro stavano tramando (quasi “cospiratori”) per la distruzione di quella cultura umanistica che aveva avuto origine in Petrarca ed era stata perseguita dai suoi primi seguaci (Lorenzo Valla, cit., p. 9). Le Orationes di Bracciolini (opera fortemente significativa per stile e contenuto) insieme alla contro critica degli Antidota in Pogium (autentica quanto brillante «apologia prò vita sua», Lorenzo Valla, cit., p. 402) sono state la fonte immediata, fondamento ed origine della mia analisi dell’opera valliana e della conseguente in­ terpretazione “quintilianea”. La controversia tra i due Umanisti, prolungatasi negli anni ed estesasi ai circoli umanistici più rappre­ sentativi da Roma a Firenze, da Napoli a Venezia, è stata lo spet­ tro contestuale ed intertestuale per determinare i tempi e le moti­ vazioni degli scritti valliani, le tematiche e le questioni ivi trattate, l’iter intellettuale del loro Autore. La moderna storiografia aveva come obliterata quella controversia ignorandone di conseguenza la specificità: essere cioè il dibattito tra Bracciolini e Valla alle origi­ ni d’una divaricazione all’interno di una stessa ricerca delle litterae classiche e cristiane. La divaricazione teorica e metodica tra uma­ nesimo storico-filologico ed umanesimo formale-classicista acqui­ sterà profondità e consistenza con la seconda metà del ’400 e di­ mensioni europee nel secolo seguente. (Vedi qui il saggio Da L. Valla a T. Moro). La storiografia moderna, eliminando lo studio analitico di quella controversia tutta centrata sul quintilianesimo intuito dal Bracciolini nella proposta valliana e trascurando gli annessi storici e culturali di quel dibattito (come il Concilio di Firenze 1438/39, l’esercizio “costantiniano” del potere papale, la logica formale e l’esegesi biblica della Scolastica contemporanea), era venuta a per­ dere tratti essenziali del pensiero valliano, se non il senso globale dell’opera sua. L’umanista romano, invece, era stato ben compre­ so dai suoi coetanei: spesso rifiutato per il suo radicalismo e sot­ toposto a critica puntuale, ma anche talvolta recepito, anzi ripre­ so, da alcuni suoi contemporanei o personalità immediatamente posteriori. Tra i primi, come si è visto, occupa un posto premi­ nente il Bracciolini; tra i secondi ha posto di rilievo, in base a ri­ cerche più recenti, Juan Louis Vives (1492-1540). Intendo riferir­ mi alla ricerca condotta da Valerio Del Nero, Linguaggio e filoso-

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fia in Vives. Liorganizzazione del sapere nel De disciplinis (1531), Bologna 1991. (Ma vedi anche, sul linguaggio in Vives, gli studi an­ tecedenti di R. Waswo, Language and Meaning in thè Renaissance, Princeton 1987). Del Nero non tratta della critica di Vives all’etica valliana del De voluptate, ben nota agli studiosi dell’umanista spagnolo. Il suo studio è tutto centrato sulla ripresa diretta e testuale di Vives del quintilianesimo valliano e delle corrispondenti teorie linguistiche. Dal Valla, considerato «diligens lector Quintiliani» e suo mag­ giore interprete, il Vives riprende la concezione specificamente quintilianea del linguaggio come «consuetudo», e la radicalizza in «consuetudo vulgi»: questa è, in realtà, la «consuetudo domina et magistra sermonis», «cum linguae arbitrium sit penes populum, dominum sermonis sui» {Linguaggio e filosofia, cit., pp. 60 e 71). Di qui proviene che «Vives - scrive Del Nero - ribadisca a piu ri­ prese la centralità del “sermo” quale primario vincolo sociale, nel quale “phrases” e “modi loquendi” vedono fondata la loro garan­ zia di comunicabilità su un consenso pubblico [...] “velut commu­ nis monetae signum” [...] [e] la lingua latina quale “aerarium” dal quale attingere» (ivi, pp. 60-61). Si noti l’accostamento tra Vives che ritiene le lingue classiche «sacrarium eruditionis» e Valla che scrive del «latini sermonis sacramentum» nel «proemium primum» delle Elegantiae, cui sopra si è accennato. Infine, il confronto complessivo tra Valla e Vives. Per Valla, l’a­ nalisi linguistica come indagine semantica è «analisi deontoligizzante le strutture del linguaggio [...] in un energico processo di storicizzazione critica [...] cardine di una riforma epistemologica fondata sull’egemonia della retorica su una logica apodittica» {Lin­ guaggio e filosofia, cit., p. 62). Per Vives, quel medesimo tipo di analisi linguistica si colloca «in una visione dinamica della cultura dove il linguaggio è colto anche nella sua dimensione diacronica, dove la retorica e la filologia svolgono il preciso compito di mette­ re in moto una realtà culturale immobilmente astratta» (ivi, p. 57). Si aggiunga poi quanto Del Nero scrive sulla «storicità delle lingue» e la complessa concezione della «traduzione» nell’opera di Vives, sempre in un confronto diretto con l’opera valliana (ivi, pp. 77-93). Al Vives dunque occorre attribuire la ripresa posteriore del quintilianesimo, magistralmente rielaborato sulla Institutio oratoria con la mediazione del Valla; al Bracciolini va riconosciuta la prima ed autentica interpretazione quintilianea del Valla, in contempora­ nea alla stessa scrittura e all’insegnamento dell’umanista romano sulla medesima Institutio.

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3. Epilogo. Quintiliano dedica l’intero libro I della institutio alla gramma­ tica. Questa infatti è costitutiva della formazione («institutio») del retore («oratoria»). Egli suddivide la grammatica in «metodica» e «istorica»; la prima («metodica») si fonda sulla seconda («istorica») in quanto la grammatica «metodica» è disciplina normativa i cui dettami provengono per via induttiva da quella «istorica». L’una e l’altra determinano la grammatica quale dottrina, sincronica e diacronica ad un tempo, dei fondamenti del linguaggio. La gram­ matica dunque, prima ancora di essere dottrina prescrittiva del processo discorsivo, cioè una precettistica del parlare e dello scri­ vere rettamente, consiste anzitutto nell’indagine analitica della prassi linguistica in genere e nello studio filologico delle fonti e dello sviluppo storico del linguaggio. L’«ars grammatica», che è ri­ cerca grammaticale (morfologica e semantica) lungo le coordinate «metodica» ed «istorica», assurge così a scienza filologica e critica: disciplina storico-teorica del sapere linguistico. Alla messa in opera dell’«ars grammatica» come indagine filo­ logica è dedicato il libro II della Institutio, dove Quintiliano deter­ mina il rapporto specifico che intercorre tra grammatica e retorica. La grammatica, «quam in latinum transferentes litteraturam voca­ verunt» - scrive il Retore latino (II, 1.4) -, è fundamentum dell’«ars rhetorica». Il ruolo infatti che compete alla grammatica e l’oggetto che le è proprio sono essenzialmente in funzione diretta ed imme­ diata della retorica. Quest’ultima è la scienza onnicomprensiva di tutte le branche del sapere, poiché, essendo ogni sapere espresso in linguaggio e scrittura, ogni sapere cade nell’ambito della litteratu­ ra. Al termine di un’ampia indagine circa la natura e le dimensioni dell’oggetto proprio della retorica, Quintiliano conclude: «Ego, ne­ que id sine auctoribus, materiam esse rhetorices iudico omnes res quaecunque ei ad dicendum subiectae erunt» (ivi, II, 21.4). II Valla riprende la Institutio di Quintiliano con tutte le sue implicazioni gnoseologiche ed epistemologiche, provenienti dalla tradizione della retorica classica cui aveva dato origine la prima Sofistica. (Cfr. F. Edward Cranz, Quintilian as Ancient Ehinker, «Rhetorica. A Journal of thè History of Rhetoric», XIII, 1995, pp. 219-230). L’Umanista poi, rielaborando i fondamenti della Institu­ tio, porta la «rhetorica» ad autentico superamento (.Aufhebung} della «philosophia» aristotelico-scolastica (cfr. Lorenzo Valla: la re­ torica come critica filologica e superamento della filosofia, in Ulisse. Enciclopedia della ricerca e della scoperta, III, pp. 70-76, 78-80, 194-196, a cura di L. Lombardo Radice, Roma 1977).

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Il Valla quindi, con la messa in atto della Institutio ai fini del­ l’indagine umanistica, amplia la disciplina retorica ben oltre i limi­ ti di tecnica della persuasione entro cui l’aveva confinata un certo ciceronianesimo contemporaneo. Tale operazione estensiva arriva a tal punto da costituire la retorica «sciema-epistéme del linguag­ gio», così che la retorica, prima di risolversi in tecnica d’argomen­ tazione, è nei suoi fondamenti una grammatologia delle scritture classiche e bibliche. (Sulla teologia come grammatologia della Scrittura rimando al mio contributo Renaissance Humanism and thè Origins of Humanist Theology, in Aa.Vv., Humanity and Divinity in Renaissance and Reformation. Essays in Honor of Charles Trinkaus, Leiden 1993, pp. 101-124) In nuce. Con la Institutio oratoria l’umanesimo filologico del Valla venne a concretizzarsi come ricerca grammatologica integra­ le della letteratura classica e della letteratura biblica. Nel primo ca­ so, quello delle humanae litterae, l’analitica grammatologica voleva essere riflessione etica e politica per una conoscenza storica fon­ data sulla letteratura classica latina e greca. Nel secondo caso, quello delle sacrae litterae, la medesima analitica voleva essere in funzione di quella «nuova teologia da grammatici» - come con di­ sprezzo sarà qualificata dai Maestri in Teologia di Lovanio antiErasmo - una «nuova teologia», di fatto, che consistesse, tutta ed essenzialmente, nella rigorosa esegesi critico-filologica delle scrit­ ture bibliche, ebraiche e cristiane. La svolta storico-filologica del primo umanesimo italiano fu dunque opera di Lorenzo Valla. Credo di aver tracciato le coordinate per una lettura ravvici­ nata della presente raccolta. Non potrei tuttavia chiudere questa in­ troduzione senza esprimere la mia gratitudine nei confronti di stu­ diosi ed amici che hanno reso possibile, per vie e modi diversi, le mie ricerche ed i miei scritti. Impossibile nominarli tutti. Sono or­ mai moltitudine di ogni lingua popolo e nazione, per usare un’e­ spressione scritturistica. La mia presenza pluriennale a Villa I Tat­ ti mi ha messo a contatto con il mondo accademico della ricerca storica sul Rinascimento nei suoi aspetti molteplici e più diversi. Di qui quello scambio continuo di idee e prospettive, progetti e pro­ blemi con quella moltitudine di studiosi ed amici. Da tutti ho rice­ vuto immensamente. Mi limito a nominare singolarmente i proff. Charles Trinkaus e Melissa Bullard. Con Charles Trinkaus, studio­ so eminente e tra i primi del Valla e dell’umanesimo italiano, vi è stata una comunicazione costante che ha fatto da contrappunto al­ la nostra ricerca per linee parallele. Se i miei saggi monografici han­

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no dato un qualche contributo allo studio dell’umanesimo valliano, ciò è dovuto particolarmente ai miei rapporti di ricerca e di amici­ zia con Trinkaus. A Melissa Bullard debbo la mia riflessione sul­ l’umanesimo rinascimentale come crisi globale - sullo sfondo della storiografia che va da Burckhardt a Garin. L’ininterrotta conversa­ zione ed amicizia, dai primi anni ’80, con Melissa Bullard ha con­ tribuito in modo determinante sui miei studi, scritti ed insegna­ mento. Il mio ringraziamento al prof. Michele Ciliberto, Presiden­ te dell’istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento, che mi ha indotto con insistente cortesia a raccogliere i quattro saggi nel pre­ sente volume. Un ringraziamento particolare ai dott. Laura Fedi e Fabrizio Meroi del medesimo istituto e a Fiorella Superbi di Villa I Tatti per la loro attenta collaborazione redazionale. La mia espres­ sione d’intensa gratitudine al prof. Eugenio Garin, il cui magistero è stato all’origine dei miei studi sulla «cultura rinascimentale».

Aprile 1999

Salvatore I. Camporeale Villa I Tatti The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies Firenze

DA LORENZO VALLA A TOMMASO MORO LO STATUTO UMANISTICO DELLA TEOLOGIA

(1973)

Premessa

bibliografica

A dieci anni dall’apparizione del primo numero di Moreana nel 1963, è uscita The Confutation of Tyndale’s Answer di T. Moro. L’opera - giustamente considerata come lo scritto teologico fonda­ mentale del Cancelliere inglese - costituisce il voi. 8 in «The Yale Edition of thè Complete Works of St. Thomas More» [= CW]. Le pubblicazioni, con testo critico e commento, si sono succedute con l’edizione di The History ofKing Richard III come voi. 2 delle CW a cura di R. S. Sylvester (1963); della Utopìa come voi. 4 ad opera di due studiosi, tra i più competenti del capolavoro di Moro, E. Surtz S.J. e J. LI. Hexter (1965); 1 e, infine, della Responsio ad Lutherum come voi. 5 in due tomi a cura di J. M. Headley (1969). 1. L'edizione Yale della Confutation of Tyndale’s Answer. L’edizione della Confutation, curata in collaborazione da Louis A. Schuster, Richard C. Marius, James P. Lusardi e Richard J. Schoeck, comprende tre tomi con paginazione continua: i primi due

1 Del primo vanno ricordati E. SURTZ, The Fraise of Pleasure, Cambridge, Mass. 1957 e The Praise ofWisdom, Chicago 1957, oltre la trad. ingl. AeWUtopia con note e intr. nelle «Selected Works of St. Thomas More», New Haven and London, 1964, collana aggiunta a quella delle Complete Works. Del secondo è fondamentale J.LI. HEXTER, More's Utopia: The Biography of an Idea, Princeton 1952. Le ricerche dei due Autori, che hanno raggiunto risultati notevoli e origi­ nali, sono confluite nel lavoro veramente magistrale di commento e di introdu­ zione dell’ed. dell’Utopia indicata nel testo. Elexter ha trattato ampiamente The Composition of Utopia, pp. XV-CXXIV; Surtz di Utopia as a Work of Literary Art, pp. CXXV-CLXXXI, e delle varie edizioni dell’opera di Moro, pp. CLXXXIII-CXCIV. Per una valutazione dei contributi di Surtz e di Hexter, si veda Twentieth Century Interpretations of Utopia. A Collectiori of Criticai Essays, a cura di W. NelSON, Englewood Cliffs, N.J. 1968; ma soprattutto P. MESNARD, L’Essor de la philosophie politique au seizième siècle, Paris 1969 (con le importanti precisazioni dell’Autore nel suo ultimo libro Erasmo. La vita, il pensiero, i testi esemplari, trad. 1971 di P. Perugini, Bologna 1971) e S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, Bari 1966, II, 2, pp. 329-358.

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contengono il testo critico dell’opera (con appendici), il terzo racco­ glie un ampio commento in cui confluiscono ricerche condotte a va­ ri livelli. Il volume di commento infatti comprende: uno studio par­ ticolareggiato circa la collocazione storico-documentaria della con­ troversia tra Moro e William Tyndale (Lusardi, pp. 1135-1268), un saggio di sintesi teologico-ecclesiologica dell’apologetica moreana con particolare riferimento alla Confutation (Marius, pp. 1269-1364), uno studio su Robert Barnes (Lusardi, pp. 1365-1416), un’ampia illustra­ zione del testo mediante annotazioni di carattere filologico critico e storico (pp. 1417-1711), un glossario esplicativo delle peculiarità or­ tografiche e semantiche della lingua di Tommaso (pp. 1713-1766).2 La pubblicazione del testo critico e relativo commento della Confutation nell’ed. CW di Yale (dopo la prima rarissima stampa del 1532-33 e le riedizioni del 1557, 1565, 1689) oltre a renderne più accessibile e meno difficoltosa la lettura, offre uno strumento utile e validissimo per introdurci nel complesso discorso apologe­ tico di Moro e prospettarci il vasto orizzonte teologico dell’Umanista.3 Essa contribuisce, infine, alla possibilità immediata di veri­ fica di alcuni tra i recenti contributi sulla teologia moreana.

2. L’apologetica di Tommaso Moro e il primo Umanesimo in Italia. È dall’analisi, e più precisamente dalle conclusioni raggiunte da due studiosi della teologia moreana, che vogliamo iniziare la se­ rie di annotazioni sul rapporto tra Lorenzo Valla e l’Umanista in­ glese. Intendiamo riferirci ai due contributi più significativi sul­ l’argomento, apparsi nel 1969. Essi sono: A. Prévost, Thomas Mo­ re (1477-1535) et la crise de la pensée européenne, Lille, ed. Maison Marne, 409 pp.; C. Marc’Hadour, Thomas More et la Libie. La pla­ ce des Livres Saints dans son apologétique et sa spiritualité, Paris, ed. Vrin, 586 pp., nella coll. «De Pétrarque à Descartes» diretta come è noto da Pierre Mesnard, di cui l’Autore nell’aggiunta alla Premessa ricorda la morte avvenuta il 12 marzo ’69.

2 Vanno particolarmente segnalati per apporto documentario e importanza interpretativa i saggi rispettivamente di: SCHUSTER, Thomas More’s Polemical Ca­ reer, 1523-1533, pp. 1135-1268 (t, 3°); A. I1UME, Englisb Protestata Books Printed Abroad 1525-1535, pp. 1063-1092 (app. B in t. 2°); MARIUS, Thomas More’s Vieto of thè Church, pp. 1269-1364 (t. 3°).

3 Sulla prima stampa e successive edizioni della Confutation, vedi LUSARDI, Press Varianis in thè Early Editions of thè Confutation, in Confutation, cit., pp. 11211125; e MARC’HADOUR, op. cit. più avanti, cap. IV: «Survie littéraire», pp. 91-105.

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Sia l’attenzione prestata nell’una e nell’altra monografia al me­ todo e ai contenuti teologici dell’opera moreana in genere sia l’a­ nalisi privilegiata della controversia scritturistico-dogmatica con Tyndale ripropongono l’intera e complessa problematica del rap­ porto tra le dispute teologiche ed ecclesiologiche del primo '500 e l’Umanesimo italiano. La problematica viene a ripresentarsi per il fatto che le dispu­ te teologiche nei primi decenni del secolo XVI, e le relative posi­ zioni assunte, non sono in realtà comprensibili se non in quanto manifestazioni o espressioni di una crisi globale, la cui piena ma­ turazione segna l’estremo di una curva ascendente che ha il suo punto di partenza nel primo ’400. La crisi infatti, ormai operante in piena evidenza a livello strutturale e a dimensione europea (qua­ le rivolgimento dell’intera cristianità) e consistente nella frattura tra cultura e prassi cristiana, sembra emergere col primo Umane­ simo italiano, ad un tempo presa di coscienza e tentativo di solu­ zione di quella frattura. Lo scopo di queste pagine è appunto di sottoporre a verifica l’asserzione or ora enunziata - in modo affermativo ma in verità in­ tesa come assunto e prospettiva di ricerca - studiando il rapporto tra Lorenzo Valla e Tommaso Moro entro il contesto più comples­ so delle relazioni tra l’Umanesimo italiano e la cultura teologica del primo ’500: verifica che intendiamo condurre non tanto mediante la ricerca di precedenti più o meno assimilabili per confronti, quanto piuttosto in base all’analisi di determinati momenti dell’a­ pologià moreana e dei testi significativi, così che l’indagine com­ porti, per ragioni ermeneutiche, una retrospezione verso l’Umane­ simo del secolo XV e l’opera filologica e teologica del Valla.4

4 Nel corso di questo saggio dobbiamo spesso rimandare al nostro Lorenzo Valla. Umanesimo e teologia, Firenze 1972 [da ora in poi L. Valla], sia per la te­ matica e i contenuti stessi di cui si tratta sia perché si presuppone come suffi­ cientemente ivi illustrato il tentativo valliano di superamento della «crisi teologi­ ca» contemporanea mediante l’inserimento della ricerca umanistica nella saera doctrina. In particolare, ci sia permesso di sottolineare come il presente lavoro non intende che sviluppare quanto era stato detto, nell’op. cit., circa il confronto tra la controversia dei due umanisti Valla e Bracciolini nel primo Quattrocento e le discussioni teologiche dei primi decenni del secolo XVI. «Le dispute filosofiche e teologiche sostenute da Erasmo e Tommaso Moro su metodi di ricerca, su testi pagani e cristiani, su argomenti cruciali all’inizio del secolo della Riforma, rientrano tutte, o quasi, in una problematica che era stata tipica e propria del Val­ la. E ciò soprattutto in riferimento alla ecclesiologia, alla prassi cristiana e prede­ stinazione salvifica, all’esegesi biblica e, in particolare, al rapporto Scrittura/Tra-

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Dell’apologetica di Moro si studiano le controversie scritturistiche con Martin Dorp (1515), con John Batmanson (1519-20) e con William Tyndale (1529-33) e i testi relativi più importanti: Apologia prò Moria Erasmi o Lettera a Dorp del 21 ottobre 1515, la Epistola cl. viri Th. Mori qua refellit rabiosam maledicentiam Mo­ nachi cuiusdam ... (1519-20), e il Libro II della Confutation ofTyndale’s Answer (1532). L’attenzione retrospettiva all’opera umanistica e teologica del Valla dovrebbe non soltanto illuminare l’orizzonte linguistico e teorico della polemica moreana ma anche, e soprattutto, mettere in evidenza lo spessore e l’ampiezza della situazione conflittuale e contraddittoria - tra cultura, fede evangelica e strutture civili ed ecclesiastiche della cristianità intera - in piena maturazione all’ini­ zio del secolo XVI ma germinata, quanto agli elementi più fecon­ di e radicali, nel primo ’400 in Italia. 3. Le monografie di Prévost e Marc’Hadour sulla teologia di Moro. Recensendo alcuni importanti contributi di ricerca storico-cul­ turale sul Cinquecento, J. Leder osservava come negli ultimi dieci anni l’interesse degli studiosi dell’opera erasmiana si sia spostato dall’umanesimo alla teologia dell’olandese.5 In diversa misura, ma con uguale considerazione, crediamo si debba valutare la recente bibliografia moreana, soprattutto se vendizione. Da parte nostra saremmo propensi a credere che lo studioso degli scrit­ ti erasmiani e delle opere del Cancelliere inglese al termine della lettura delle pa­ gine dedicate [...] alla ‘crisi della teologia’ nel primo ’400, debba chiedersi se la polemica Valla-Bracciolini non sia stata in realtà emblematica [...] in rapporto al­ le dispute tra Erasmo e i teologi di Lovanio e a quelle tra Tommaso Moro e Tyn­ dale»: così in L. Valla, p. 435. Riprendevamo il medesimo discorso in Lo studio di McNair su Pietro Martire Vermigli. Giustificazione per fede o teologia umanisti­ ca?, «Memorie Domenicane», n.s., Ili, 1972 (dal titolo Motivi di riforma tra ’400 e ’500), pp. 180-197, ma specialmente pp. 196s., e in Erasmo e la Cristianità, ivi, pp. 309-314. Si veda, inoltre, E. Marino, Umanesimo e teologia. A proposito del­ la recente storiografia su Lorenzo Valla, ivi, pp. 198-218, in part. pp. 216-217. In­ fine, preme qui aggiungere che non ci è stato possibile consultare J.K. SOWARD, Thomas More and thè Friendship of Erasmus, 1499-1517. A Study in Northern Humanism, Ann Arbor 1952.

5 J. Lec.LER in «Recherches de Science Religieuse», LXI, 1973, pp. 188-194, recensendo l’importante studio di G. CHANTRAINE, «Mystère» et «philosophie dii Christ» selon Erasme. Elude de la lettre à P. Volz et de la Ratio verae theologiae (1518), Namur-Gembloux 1971; ma si veda anche J. COPPENS, Erasme exégète et théologien, «Ephemerides Theologicae Lovanienses», XLIV, 1968, pp. 191-204.

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gono collocati in primo piano, accanto ai volumi editi nelle CW di Yale, i lavori di Prévost e Marc’Hadour. La teologia, infatti, se non addirittura il sistema teologico di T. Moro è, appunto, l’oggetto proprio e l’ambito problematico della ricerca dei due Autori. Mentre Marc’Hadour concentra l’analisi sulla funzione del­ l’ermeneutica neo-testamentaria nella riflessione ed elaborazione dell’opera teologica di Moro, Prévost tenta una ricostruzione qua­ si sistematica del pensiero umanistico-teologico del medesimo. Ma nell’uno e nell’altro Autore, lo studio analitico e sintetico degli scritti moreani e della posizione assunta da Tommaso è collocato contestualmente nelle dimensioni della crisi culturale e religiosa dell’Europa contemporanea e, in particolare, della cristianità del­ l’Inghilterra di Enrico Vili.

4. Risultati della ricerca di Prévost ed osservazioni sulle conclusioni.

Esaminiamo dapprima l’opera di Prévost. Tralasciando la pri­ ma parte del lavoro (del resto introduttiva alle seguenti) conside­ riamo in particolare la seconda e la terza, articolate sulla succes­ sione cronologica degli scritti di Moro. La seconda parte, infatti, è dedicata ai princìpi del pensiero moreano intesi nel duplice signi­ ficato di fondamento e momento iniziale dell’umanesimo e della teologia del Cancelliere inglese. Oggetto specifico di analisi sono, da un lato {'Utopìa considerata come il «manifesto dell’umanesimo cristiano» (p. 105), e dall’altro la posizione dottrinaria teologica di Moro in generale (pp. 107-144). Con la terza parte (pp. 145-229) si passa allo studio storico-critico delle opere propriamente teolo­ giche e apologetiche: Responsio ad Lutherum (1523), Dialogue concerning Heresies (1529), Confutation of Tyndale’s Answer (152333). Un quadro sistematico del pensiero teologico di Moro (pp. 230-318) tracciato secondo linee sintetiche, ma al di là di preoc­ cupazioni per una consequenzialità formale e scolastica, conclude il volume. Secondo Prévost, particolarmente nel decennio 1510-1520 Moro ed Erasmo si pongono in uno sforzo congiunto alla ricerca di una sintesi tra umanesimo e teologia: Erasmo, con la critica delVElogio della Follia e con lo studio filologico e letterario della Scrittura e della Patristica, che porta al Novum Testamentum e al­ le edizioni di Girolamo Atanasio e Basilio; Moro, con la revisione dello statuto scientifico e dell’insegnamento della teologia e mate­ rie ausiliarie. La proposta moreana di revisione è formulata nella

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Lettera all’Università di Oxford (1518) e, prima ancora, nell’Epistola apologetica dell’opera erasmiana diretta a Van Dorp (1515), neo-cattedratico di teologia all’Università di Lovanio. Erasmo e Moro, quindi, si collocano decisamente in posizione critica del­ l’insegnamento accademico della teologia scolastica e, al medesimo tempo, alla ricerca quasi sistematica di una sintesi tra cultura uma­ nistica e cristianesimo. La sintesi non si prospetta per Erasmo e per Moro, nonostan­ te il forte dissenso accademico, come rapporto di estremi contrap­ posti - umane lettere e messaggio evangelico - e quindi come sfor­ zo di mediazione tra momenti in tensione reciproca. Secondo Prévost - ma la pregiudiziale non è dimostrata sufficientemente né sottoposta a vaglio critico - il connubio tra la nuova cultura e la teo­ logia della tradizione cristiana nasceva dallo stesso fondamento con­ testuale e teorico dello studio delle humanae litterae. Esso consiste­ va, e in modo esplicito sia in Erasmo che in Moro, nell’«umanesimo della Incarnazione». La dottrina del Logos incarnato sarebbe stato il fondamento dell’umanesimo inteso in tutta la sua pienezza; detto altrimenti, lo sviluppo più completo e perfettivo delle qualità umane diveniva presupposto necessario e luogo specifico ove im­ piantare e realizzare la storia della Salvezza operata da Cristo. Questa, sempre secondo Prévost, è l’idea-base e la tematica umanistico-teologica elaborata in vario modo e per aspetti molte­ plici da Erasmo e da Moro negli scritti, or ora citati, tra il 1510 e il 1520. Sia per l’uno che per l’altro la Riforma della cristianità, au­ tentica e storicamente esigita, doveva per conseguenza, in forza cioè delle premesse enunciate quale fondamento dottrinale dell’u­ manesimo, essere operata in due tempi: ritrovamento e riscoperta del valore dell’uomo, riconciliazione e unione dell’uomo a Cristo, ideale dell’uomo integrale (p. 118 e nota 1). Dove Moro si differenzia, e felicemente, dall’Umanista olan­ dese è nel fatto che il primo supera decisamente i limiti propri e specifici della teologia erasmiana. Secondo Prévost, infatti, il pen­ siero di Erasmo manifesta gravi limitazioni quando, dopo aver va­ lidamente criticato lo Scolasticismo e introdotto nuovi strumenti di analisi, primo fra tutti la filologia biblica, passa al momento posi­ tivo di riformulazione teologica del Cristianesimo. Qui Erasmo opera una inammissibile e grave riduzione delle dimensioni proprie del messaggio evangelico. Il Cristianesimo, infatti, è concepito da Erasmo come dottrina morale, un’etica che è evangelica unica­ mente per il fatto che Cristo è assunto quale modello di virtù mo­

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rali. Dove è evidente che la Salvezza operata dal Cristo è vista al di qua della dimensione paolina della giustificazione divina (elimi­ nazione del soprannaturale), e che la Chiesa è prospettata non tan­ to come Comunità prolungamento di quella apostolica quanto piuttosto come comunione di spiriti convergenti nella sequela ed imitazione di Gesù (pp. 119-121). Va fatto rilevare a questo punto che tale interpretazione forte­ mente riduttiva dell’evangelismo erasmiano - interpretazione, com’è noto, proposta e riproposta dai molteplici contributi di Renaudet (1916, 1939, 1954) - è stata, crediamo, ormai superata. Gli studi più recenti, infatti, hanno dimostrato quanto più complesse e articolate siano state la teologia e l’ecclesiologia di Erasmo tutt’altro che un «évangélisme presque sans dogmes» secondo la formula modernistica di Renaudet in Erasme et l’italie. Per conva­ lidare l’appunto critico alle affermazioni di Prévost, basterebbe ri­ ferirsi, ovviamente esemplificando, agli studi di de Lubac (1964), Kohls (1969), Rabil (1972) e soprattutto di Chantraine (1971). Quest’ultimo in particolare ha provato ampiamente, con acribia te­ stuale e in modo definitivo, come il nucleo della philosophia Chri­ sti erasmiana sia la stessa nozione paolina di mysterinm-sacramentum - esattamente all’opposto di un evangelismo eticizzato. 6 Il tentativo di uno statuto teologico in alternativa alla Scolasti­ ca, intrapreso da Moro e da Erasmo, doveva necessariamente par­ tire da nuovi criteri di riorganizzazione del programma didattico universitario e da strumenti analitici sostitutivi. Su questo duplice presupposto per una rinnovata ricerca teologica, Moro ed Erasmo furono espliciti. E giustamente Prévost osserva a questo riguardo che Moro, dall’Utopia alle Lettere indirizzate a Dorp, all’Università di Oxford, a E. Lee, a J. Batmanson, elabora un «discorso del me­ todo» sufficientemente ampio e particolareggiato (p. 126). Anzi, è nella rielaborazione dello statuto teologico che il rapporto MoroErasmo si rivela in profondità di presa di coscienza e in dimensio­ ni che investono la cultura europea contemporanea. Moro, infatti, nel porre le basi e nell’indicare i criteri dello statuto umanistico della teologia - anche se immediatamente motivato (come si limita

6 Agli autori citati, si aggiunga A. GODIN, De Vitrier à Origene: recherches sul­ la patristique érasmienne in Colloquium erastnianum, Mons 1968, ma soprattutto, sempre del GODIN, Spiritualité franciscaine en Fiandre au XVI siede. IlHomeliaire de Jean Vitrier. Texte, étude thématique et sémantique, Genève 1971. Vedi so­ pra, Erasmo e la Cristianità, cit., pp. 310-313, e Coppens, art. cit., pp. 199-200.

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ad osservare Prévost) dalla difesa dell’opera erasmiana dagli attac­ chi provenienti dai teologi delle Università - teorizza in realtà, su­ perando decisamente le ragioni apologetiche, i fondamenti e gli strumenti della ricerca teologica dell’Umanista olandese. Non basta, quindi, concludere che il nuovo criterio di indagi­ ne teologica proposto da Moro consiste nel ritorno alla Scrittura. Tale criterio, inteso da Tommaso come alternativo, non è colto nel­ la sua specificità qualora esso non venga determinato quale assun­ zione degli strumenti filologici di esegesi biblica e di critica te­ stuale della Patristica come erano stati rielaborati da Erasmo. Co­ me, del resto, generici e astratti rimangono, ai fini di un’adeguata comprensione della metodologia teologica moreana, i riferimenti ai precursori quali Petrarca per la critica alla dialettica della tarda Scolastica, Valla per il recupero della «veritas graeca» neo-testa­ mentaria, Marsilio Ficino per l’unità e globalità della «sapienza» teologica, J. Colet per la teoria della «illuminazione» nella retta in­ telligenza dei testi scritturistici (pp. 126-128). Anche la lettura della Lettera a Dorp offerta da Prévost (pp. 131-140) risulta in definitiva piuttosto riduttiva, soprattutto qua­ lora si consideri che proprio da quel testo del 1515 emerge con specifiche indicazioni la crisi del pensiero europeo, all’interno del­ la quale l’Autore ha voluto collocare l’opera e la testimonianza di Tommaso Moro. Mentre si fa opportunamente notare come gli umanisti, con Erasmo loro maestro, venivano relegati dai cultori accademici della Scolastica ai margini della scienza teologica per­ ché in quanto grammatici e retori erano considerati come al di fuo­ ri e incapaci della speculazione metafisica (pp. 131-132), la rispo­ sta critico-apologetica di Moro viene estremamente semplificata in relazione ai suoi ben più ampi e più complessi contenuti conte­ stuali. La critica di Moro nei confronti dei teologi anti-erasmiani si ridurrebbe essenzialmente ai seguenti obiettivi: l’abuso della dia­ lettica (pp. 132-133); l’uso improprio della Scrittura, rimossa ormai ad auctoritas comprobante la tesi scolastica e Ietta in conformità al­ le Sentenze di Pietro Lombardo, stravolgendo in tal modo la fun­ zione della Scrittura quale fonte primaria dell’argomentazione teo­ logica (pp. 133-134). Infine, contro Dorp che difende i repertori scritturistici, Moro manifesterebbe netta opposizione a ogni tipo di manualistica, sia in campo esegetico-biblico che per altre branche di insegnamento e studi universitari (pp. 134-135). C’è tuttavia un aspetto della Lettera a Dorp che Prévost sotto­ linea in modo adeguato. Si tratta della proposta di una ricerca sosti­ tutiva della speculazione teorica circa i contenuti propri della fede

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cristiana: alla metodologia della Scolastica contemporanea Moro contrappone la «teologia positiva» (pp. 139-141 e 363-370). In tal modo, «meno radicale di Erasmo - scrive Prévost - il metodo pre­ conizzato da Moro consacra, in definitiva, la rottura con la Scola­ stica» (p. 139). La «teologia positiva» - il termine compare per la prima volta nella storia appunto nella Lettera a Dorp - è da Moro delineata nei seguenti termini: «essa è la teologia dei Padri della Chiesa, i più santi e i più antichi interpreti della Scrittura; è la teo­ logia che studia la Sacra Scrittura e raccoglie tutto ciò che vi è di meglio, di più pio, di più cristiano, di più degno nei vari teologi». Nelle pagine 147-227, Prévost passa in rassegna l’opera teologico-apologetica di Moro dal 1523 al 1533, studiandola nell’evolu­ zione storica e in relazione alla crisi del pensiero religioso in In­ ghilterra. L’opera del Cancelliere viene esaminata in rapporto a En­ rico Vili, a Lutero e a Tyndale: personaggi verso i quali Moro dovette assumere posizione frontale ed elaborare il proprio di­ scorso apologetico, politico e teologico ad un tempo. Attenzione particolare è prestata alla controversia con Tyndale mediante l’a­ nalisi del Dialogue e del libro I della Confutation. La controversia Moro-Tyndale è collocata da Prévost nella congiuntura della crisi del cattolicesimo in Inghilterra e del pas­ saggio del Regno di Enrico Vili allo Scisma della Riforma, dal 1520 al 1535. In tale congiuntura politico-religiosa la Scrittura non poteva che costituire, nel dibattito circa l’ortodossìa, momento es­ senziale e sotto certi aspetti luogo privilegiato, in quanto fonda­ mento della riflessione teologica e funzione specifica della prassi cristiana. Lo dimostrano con evidenza la pratica politica e le mi­ sure legislative civili ed ecclesiastiche, insieme alle dispute teologi­ che, provocate dalla traduzione e divulgazione clandestina nell’i­ sola del New Testament da parte di Tyndale e dei fautori della Riforma, dal 1526 in poi. Misure legislative e dispute teologiche che appariranno in continuo crescendo sino al 1537, quando si giungerà alla versione ufficiale della Scrittura nel Regno dei Tudor, ormai scismatico dalla Chiesa Romana. La crisi, con le relative conseguenze politiche e religiose, si manifestò con tanta maggior penetrazione e ampiezza quanto più radicale era la rottura provocata dalla volgarizzazione scritturistica di Tyndale nella cristianità anglosassone. Quella del 1526, infatti, era la prima traduzione integrale in lingua inglese del Nuovo Te­ stamento - con un ritardo estremamente significativo e quasi in­ spiegabile su altri paesi europei (ad es. la Germania e l’Italia), do­ ve la Bibbia in volgare era ormai parte integrante della tradizione pastorale delle relative comunità nazionali.

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Tale fatto, opportunamente ricordato da Prévost (pp. 180s), aiuta a comprendere le conseguenze provocate dalla traduzione in lingua volgare della Scrittura, in quanto induceva ad una ristruttu­ razione del linguaggio cristiano anglosassone; questa poi, a sua vol­ ta, comportava controversie e dispute esegetico-teologiche circa la validità, fedeltà e autenticità del New Testament di Tyndale. Ma la traduzione in volgare della Scrittura dava (prima ancora di susci­ tare conseguenze linguistico-semantiche) la possibilità immediata di una lettura diretta dell’Evangelo da parte dei credenti di ogni li­ vello sociale e culturale. Ora, l’esperienza del passato ammoniva che il contatto diretto con il testo evangelico fermentava spesso in entusiasmi carismatici insieme, talvolta, a deviazioni e scissioni al­ l’interno della Comunità cristiana: veniva posta in gioco la evan­ gelizzazione e la struttura ministeriale della compagine ecclesiale, la liturgia della Parola e quella più propriamente sacramentale, e infine la stessa tradizione apostolico-romana. Si comprende allora come la controversia tra Moro, che assunse la funzione di teologo ufficiale del magistero episcopale, e Tyndale, insieme ai promotori della Riforma, cioè tipografi, librai, divulgatori clandestini, venne a focalizzarsi sul nuovo linguaggio introdotto dal volgarizzamento del Nuovo Testamento. Così, ed in modo pienamente cosciente da parte dei due protagonisti, la disputa teologica si concentrò su ter­ mini scritturistici fondamentali nel momento in cui l’Evangelo as­ sumeva forma linguistica anglosassone e, di conseguenza, dimen­ sioni culturali e storiche di cui ogni lingua è ad un tempo porta­ trice ed espressione.7 Quale valutazione vien data da Prévost dell’ampio e comples­ so dibattito intercorso tra Tommaso Moro e William Tyndale? Secondo Prévost, Tyndale si collocava nella continuità della critica testuale umanistica di Valla ed Erasmo, che avevano fon­ dato la nuova esegesi biblica e la radicale revisione della Vulgata (come di qualsiasi ritraduzione nelle lingue volgari) sulla veritas graeca del testo originale neo-testamentario, mentre Moro, par­

7 Sulla divulgazione clandestina del Nów Testament vedi ScnuSTER, Thomas More’s Polemical Career, cit., pp. 1155-1173. Ad un’analisi delle conseguenze lin­ guistico semantiche provocate dalle traduzioni in volgare della Scrittura, contri­ buisce senza dubbio l’ermeneutica strutturalistica odierna. Cfr. P. RICOEUR, Con­ tributio» d’ttne réflexion sur le langage à ime tbéologie de la parole, in Aa.Vv., Exégèse et herméneutique, Paris 1971, pp. 301-319; Aa.Vv., Analyse structurale et exégèse biblique, Neuchatel 1971; ed anche G. SCHIWY, Strutturalismo e Cristia­ nesimo. Una sfida al sistema, trad. di G. Re, Roma-Brescia 1970, in part. p. 65.

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tendo dal presupposto che ogni traduzione implica necessaria­ mente una reinterpretazione, concludeva ad un giudizio teologico negativo sulla ortodossia del New Testament. Esso, secondo Tom­ maso, costituiva in realtà una rottura nella tradizione patristico-latina ed ecclesiale-liturgica e, per conseguenza, una frattura della Cattolicità. A distanza meno ravvicinata, le divergenze apparivano ancor più profonde e radicali. Mentre Tyndale assumeva il criterio della Scriptura sola ai fini di una reviviscenza dello spirito della Comu­ nità apostolica e cristiana delle origini nell’ambito del movimento della Riforma, Moro al contrario poneva quale criterio della lettu­ ra scritturistica la Traditio e la Chiesa universale, la cui durata de­ termina l’esplicarsi e il costituirsi della Traditio. Ma una volta este­ sa a tali dimensioni, la controversia Moro-Tyndale veniva a collo­ carsi, per le istanze di fondo che comportava, nel più ampio dibattito dogmatico-teologico contemporaneo tra Riforma e Cat­ tolicesimo. La costante di quel dibattito, infatti, sarà data dall’as­ sunzione, posta come alternativa, di Tradizione o Scrittura; sino a quando, con il Vaticano II, non verrà recuperata la possibilità di connubio tra l’una e l’altra: della Scriptura come Parola scritta ope­ rante e vivente nella Traditio della Comunità ecclesiale (pp. 184185 e 223-245). In riferimento alla controversia con Tyndale, nella quale il Cancelliere inglese sembra in qualche modo retrocedere su posi­ zioni conservatrici, Prévost a conclusione del suo lavoro si pone la seguente domanda. Come mai Moro, che si trovava al punto di in­ contro tra movimento umanistico e movimento di riforma, non è riuscito in realtà ad operare una sintesi completa e autentica tra le due dimensioni che attraversavano l’Europa contemporanea? Per­ ché mai la mediazione tra i due movimenti non è stata raggiunta dalla personalità senza dubbio maggiormente in grado di portare a termine quella sintesi, pur così complessa, avendo Moro a propria disposizione strumenti culturali e politici adeguati e trovandosi nella situazione in cui non mancavano, anzi gli venivano offerte, le migliori possibilità (p. 319)? Ed ecco la risposta di Prévost - almeno sotto certi aspetti plausibile. Il grande Umanista e Cancelliere di Enrico Vili si trovava, contro ogni apparenza, come isolato dal contesto sociale politico e culturale. Alla nuova cultura umanistica si opponevano istituzioni accademiche ed ecclesiastiche: le medesime istituzioni operavano, anzi, come anticorpo di rigetto nei confronti di una riforma mora­

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le e statutaria, ecclesiale ed ecclesiastica.8 Questo laico è lasciato solo, impegnato ad assolvere un compito puramente apologetico, e in conseguenza di ciò il suo genio viene come coartato. «Ainsi donc, si More n’a pas vu le triomphe de la cause qu’il défendait, c’est moins à cause des déficiences de sa propre pensée qu’en raison de l’isolement dans lequel il s’est trouvé. Sa faiblesse c’est d’avoir été seul» (p. 360). Assicurare non soltanto la riforma delle istituzioni ma anche il rinnovamento morale della Chiesa anglosassone; sottoporre a revi­ sione critica categorie concettuali tradizionali e attendere alla for­ mazione di schemi argomentativi e di un vocabolario atti a conte­ nere il flusso delle nuove idee; conservare strutture indispensabili ad ogni civilizzazione e creare organismi funzionali alla società contemporanea; infine, rendere più flessibile il diritto privato e quello pubblico della Chiesa e adattare princìpi giuridici e azione politica all’età nuova: tale complessa realizzazione di compiti, in­ scindibili tra loro, non poteva essere assolta da un uomo solo, pur preminente giurista, politico, umanista e teologo. Secondo Prévost (che sembra in verità aderire ad una conce­ zione piuttosto aristocratica della storia!) nell’Inghilterra dei primi decenni del secolo XVI mancava un’équipe di politici e intellettuali in grado di affrontare ed assolvere i compiti richiesti. Lo studio delle opere di Tommaso Moro mette in evidenza, conclude l’Autore, quale dramma attraversino la vita e la storia di un popolo per mancanza di unità e di élite religiosa. 9

8 Si ricordino i tre memorabili sermoni di Colet del febbraio 1512, del ve­ nerdì santo del 1513 e del novembre 1515. J.H. LUPTON, A Life of John Colet, London 1909, pp. 178-198 e 293-304 (testo del primo sermone); E Seeboiim, The Oxford Reformers: J. Colet, Erasmus, and Th. More. Being a History of their fellow-work, London 1913, pp. 222-249; E.M. HUNT, Dean Colet and bis Theology, London 1956, pp. 18-72; E.E. REYNOLDS, Thomas More and Erasmus, New York 1965, pp. 81-86. 9 Senza entrare in merito a questioni storiografiche e permettendoci di pre­ levare la seguente citazione da un contesto che solo apparentemente può sem­ brare lontano dal problema qui discusso, obietteremo all’Autore che: «ce ne sont pas les individus qui font l’histoire des Sciences, bien que sa dialectique soit réalisée en eux, et dans leur pratique. Les individus empiriques connus pour avoir fait telle ou telle découverte réalisent, dans leur pratique, des rapports et une conjonction qui les dépassent», L. ALTHUSSER, Lèttine et la pbilosophie, Paris 1972, p. 55.

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5. Marc’Lladour sulla controversia Scrittura-N\Agi\ta e presa di posi­ zione moreana. La tematica cui Marc’Hadour dedica il suo studio - la funzio­ ne della Bibbia nella spiritualità e negli scritti di T. Moro - inte­ ressa in modo più immediato l’indagine da noi intrapresa. Omessi i primi quattro capitoli del lavoro di Marc’Hadour, nei quali è tracciato Viter biografico e letterario di Moro, consideria­ mo brevemente i risultati raggiunti dallo Studioso circa la funzio­ ne dell’esegesi scritturistica moreana in rapporto all’elaborazione teologica messa in atto dall’umanista. Dei testi moreani, sui quali Marc’Hadour si sofferma (cap. 5, pp, 117-144) in relazione al tema in questione, il più significativo è la Lettera a Dorp di cui riporta, tradotti, lunghi brani. Egli non manca, inoltre, di istituire opportuni accostamenti con altri testi quali la Lettera ad un Monaco (di cui l’Autore accetta sia la data­ zione 1519-20, stabilita dalla Rogers, sia l’identificazione in John Batmanson del personaggio innominato, raggiunta da D. Knowles), la Lettera all’Università di Oxford e la corrispondenza con E. Lee (pp. 138, 140, 141ss). La molteplice considerazione della Lettera a Dorp è ritenuta fondamentale sia perché in essa per la prima volta Moro si espri­ me sul ruolo che la Scrittura deve svolgere quale fonte primaria del discorso teologico sia perché l’Umanista enuncia in termini quan­ to mai espliciti il principio ermeneutico (identificato da Marc’Ha­ dour come «regula fidei» a p. 131, e «analogia fidei» a pp. 513s) dei testi canonici della Rivelazione cristiana. Nei capp. 13 e 14, l’Autore studia in particolare due aspetti dell’ermeneutica scritturistica moreana: la critica al «litteralismo biblico» di Lutero e la posizione assunta circa la questione del va­ lore dogmatico teologico della Vulgata. Lunghi brani dalla Responsio ad Lutherum (2a edizione 1523) sono citati a pp. 463ss, nei quali Moro chiarisce dimostrativamen­ te i criteri di esegesi biblica e discute sulla funzione del «sensus lit­ teralis» in teologia. L’Umanista appare evidentemente preoccupa­ to di non separare l’analisi filologica dalla lettura «spiritualis» del­ la Scriptura. Marc’Hadour valuta la posizione assunta da Moro (intermedia tra Erasmo e Lutero) in continuità con la prevalente tradizione ese­ getica, articolata sul plesso ermeneutico litteralis-spiritualis nella ri­ cerca analitica del «senso» dei testi scritturistici. L’Autore cita l’Aquinate come testimonianza della tradizione «cattolica», nella qua­ le Moro verrebbe a collocarsi senza soluzione di continuità: «nulla

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confusio sequitur in Sacra Scriptura - si legge nella Sum. Theol. I, 1, ad lm - cum omnes sensus fundentur super unum, scilicet lit­ teralem, ex quo solo potest trahi argumentum». Dove, tuttavia, va osservato che se l’accostamento tra il testo moreano e la formula­ zione tomista è denso di implicanze per l’interpretazione dell’apo­ logetica di Moro, questo medesimo accostamento nasconde, quan­ do addirittura non elimina, una discriminante fondamentale, e cioè la diversa collocazione della funzione differenziata che il «sensus litteralis» dei testi biblici aveva assunto con la critica filologica umanistica, particolarmente dopo il quintilianesimo del Valla e il ricorso alla «veritas graeca» neo-testamentaria del medesimo nella Collatio Novi 'Testamenti del 1443. 10 L’osservazione ci porta così, e direttamente, alla questione del valore dogmatico-teologico della Vulgata, trattata ampiamente da Marc’Hadour (pp. 497-532). Giustamente vien messo in risalto che per Moro, come per al­ tri teologi contemporanei pur fedelissimi alla tradizione «cattoli­ ca» (il Gaetano ad esempio, p. 500), non si dà né può darsi uni­ cità esclusiva di possibili traduzioni della Scrittura, fosse anche la Vulgata. Al contrario, la varietà di traduzioni e la continua rivedibilità delle versioni, siano esse in lingua latina o in lingua volgare, è un dato integrante della tradizione ecclesiale. Moro, anzi, inter­ preta l’esistenza della molteplicità di traduzioni bibliche come ma­ nifestazione storica del costante tentativo della Comunità cristiana verso un’approssimazione sempre maggiore ai contenuti di fede dei testi canonici: è quanto viene ripetutamente affermato, oltre-

1(1 Sul sensus litteralis in Tommaso d’Aquino, vedi: B. SMALLEY, Lo studio della Bibbia nel Medioevo (1952, trad. di V. Benassi e intr. di C. LEONARDI) Bo­ logna 1972, pp. 405-426 e bibl. a p. 416, nota 94; C. Spicq, Esquisse d’une hisloire de l’exégèse au Moyen Age, Paris 1944, pp. 276-279 e del med. Autore Saint Tho­ mas d’Aquin exégète, in DTC 15.1, coll. 694-738; H. De Lubac, Exégèse medie­ vale. Les quatre sens de l’Ecriture, Paris 1964, IV, pp. 263-302; G.M. PERRELLA, Il pensiero di S. Agostino e S. Tommaso circa il numero del senso letterario nella S. Scrittura, «Biblica», XXVI, 1945, pp. 277-302. SuH’argomento rinviamo al saggio in «Memorie Domenicane», n.s., VI, 1975, pp. 11-106: E. PANELLA, La “Lex No­ va" tra storia ed ermeneutica. Le occasioni dell’esegesi di s. Tommaso d’Aquino. Per la questione della Vulgata nel Quattrocento, cfr.: L. Valla, pp. 105ss, 277-403; L. Mohler, Kardinal Bessarion ais Theologe, Ilumanist and Staatsmann, I, Padeborn 1923, pp. 399-404 e III, 1943, pp. 70-87; V. Peri, Nicola Maniacalia: un testimo­ ne della filologia romana del XII secolo, «Aevum», XLI, 1967, pp. 67-90; S. GA­ ROFALO, Gli umanisti italiani del secolo XV e la Bibbia, in Aa.Vv., La Bibbia e il Concilio di Trento, Roma 1947, pp. 38-75.

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che in opere sistematiche, come ad esempio la Confutation, ancor prima nella Lettera a Dorp (1515) e nella Lettera ad un Monaco (1519-20) in riferimento all’edizione erasmiana bilingue del Nuo­ vo Testamento. A questo riguardo va fatto rilevare, per puntualizzare ed am­ pliare la stessa indagine di Marc’EIadour, che la questione della Vulgata si è riproposta a Moro in strettissima connessione con l’apologia della ricerca dell’Umanista di Rotterdam: e cioè, nella Let­ tera a Dorp (1515) scritta anteriormente alla pubblicazione del No­ vum Instrumentum (1516), e nelle Lettere inviate rispettivamente all’Università di Oxford (1518), al Monaco Batmanson, e ad Edward Lee (1519-20) - redatte, quest’ultime, dopo la prima edi­ zione della medesima opera erasmiana. E nella Lettera a J. Batmanson che la difesa moreana del Novum Instrumentum si articola nell’esame particolareggiato delle va­ riazioni in rapporto alla Vulgata-, logos-sermo (prologo giovanneo), pater noster (Mt. 6,12), sagena/verriculum (Mt. 13,47), discumben­ tium/'discumbentibus (Mt. 22,10), ecc. Queste varianti erasmiane sono da Moro puntualmente, e talvolta ampiamente (cfr. ad esem­ pio la questione logos-sermo'), comprovate con argomenti filologici e autorità patristiche. La trattazione di Marc’Hadour, notevole nell’aver segnalato ancora una volta l’importanza del testo moreano, è tuttavia insuf­ ficiente per non aver configurato in modo preciso la collocazione dogmatico-teologica delle variazioni erasmiane e delle argomenta­ zioni apologetiche di Moro. La questione, infatti, del valore dog­ matico e liturgico della Vulgata rientra nel più ampio problema del rapporto tra filologia umanistica e ricerca teologica; per conse­ guenza non si può tralasciare, a nostro avviso, di considerare in retrospezione il riemergere della questione Vulgata nei termini nuo­ vi e specifici delle humanae litterae durante il primo ’400 - quan­ do il problema divenne tematica centrale nella polemica Valla-Bracciolini e tra «laurentiani» e «poggiani».

6. Testi moreani sul rapporto tra primo Umanesimo e Riforma, e la Lettera a Dorp. La monografia di M. Fleisher sulla Lettera a Dorp e Z’Utopia. La nostra disamina introduttiva, sia pur parziale e puntualiz­ zata su alcuni aspetti dei contributi di Prévost e Marc’Hadour, in­ duce alle seguenti determinazioni.

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Le problematiche che si imposero a Tommaso Moro furono suscitate dall’esigenza di difendere l’indagine filologica di Erasmo e dalla controversia emersa con la pubblicazione del New Testament di Tyndale. Le relative soluzioni furono da Moro ricercate, e specificamente, in due direzioni: nella possibilità di uno statuto teologico alternativo a quello della Scolastica contemporanea; e nella funzione specifica della filologia umanistica quale strumento di esegesi biblica mediante determinate categorie ermeneutiche della Scrittura, in continuità o superamento della Tradizione. E di qui che occorre derivare, a nostro giudizio, l’importanza sia della serie degli scritti moreani a favore dell’esegesi scritturisti­ ca erasmiana sia della controversia Moro-Tyndale sul volgarizza­ mento dei testi neo-testamentari. La nostra indagine verterà quin­ di principalmente, e in tre momenti distinti di analisi, sul rappor­ to umanesimo-teologia come elaborato da Tommaso Moro nelle seguenti opere: 1. Lettera a Martin Dorp, 1515. 2. Lettera ad un Monaco, 1519-20. 3. Confutation, lib. II, 1532 11 Per ovvie ragioni di spazio e, prima ancora, per esigenze di ul­ teriori indagini, ci si è limitati ad offrire, per ora, i risultati dell’a­ nalisi della Lettera a Dorp. A questa avvertenza dobbiamo aggiungere un’annotazione bi­ bliografica che non potevamo di certo omettere al termine di que­ sta introduzione.

11 Per il lib. II della Confutation ci serviremo dell’ed. cit. CW, cit., part. I, books I-IV, pp. 143-222. Per le Lettere a Dorp e ad un Monaco, vedi The Correspondence of Sir Thomas More, ed. crit. dell’Epistolario latino e inglese a cura di E.F. ROGERS, Princeton N. J. 1947: Lettera a Dorp n. 15, pp. 27-74; Lettera ad un Monaco n. 83, pp. 165-206. Un’ottima trad. ingl. integrale della prima Lettera e parziale della seconda, si ha in St. Thomas More: Selected Letters, a cura di E.F. ROGERS, New Flaven-London 1961, rist. 1967, rispettivamente a pp. 6-64 e 114144. D’ora in poi, l’ed. crit. sarà citata semplicemente ROGERS, Correspondence, num. della Lettera con la num. delle righe, mentre la trad. ingl. ROGERS, Selected Letters. Per la corrispondenza di Moro con Erasmo e di questi con Dorp e con altri citeremo: Opus Epistolarum Des. Erasmi Roterodami, a cura di P.S. Allen, H.M. Allen e FI.W. Garrod, 12 voli., Oxford 1906-58. Si veda ora nell’ed. cit. CW, St. Thomas More, voi. 15, In defense of Hunianisnr. Letter to Martin Dorp, Letter to thè University of Oxford, Letter to Edward Lee, Letter to a Monk, a cu­ ra di DANIEL Kinney, New Flaven e London, 1996. Kinney si è valso del presente saggio, con espliciti riferimenti al nostro studio, nell’ampia introduzione e nel­ l’accurato commento alle Lettere edite.

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La composizione e la stesura del presente lavoro erano già sta­ te portate a termine quando ci è giunto l’ottimo e importante con­ tributo di M. Fleisher, Radicai Reform and Politicai Persuasion in thè Life and Writings of Thomas More, Genève, luglio 1973, 183 pp. L’intitolazione è accuratamente descrittiva dell’indagine compiuta dall’Autore, circoscritta ma concentrata, ed in profondità, su VUtopia e la Lettera a Dorp. L’originalità dell’analisi svolta crediamo si debba individuare nell’accostamento immediato e continuo, quasi di lettura comparativa, tra VUtopia (capp. 1-2 e 4-5) e la Lettera a Dorp (cap. 3, pp. 71-123). L’ampiezza e l’attenzione con le quali viene condotto l’intero commento della Lettera al fine di cogliere i contenuti e gli scopi dell’«umanesimo cristiano» di Moro (secondo l’ambigua formulazione, privilegiata da molti studiosi anglosassoni, dell’umanesimo di Moro e di Erasmo), crediamo si riscontrino qui per la prima volta, in modo così esplicito e originale, nell’ambito della più recente bibliografia sul Cancelliere inglese. Determinati dalla lettura di un medesimo testo, per di più assunto come parti­ colarmente significativo in ambedue le prospettive d’indagine, lo studio della Lettera a Dorp condotto da Fleisher e il nostro lavoro sono confluiti in una coincidenza di risultati, pur divergenti su aspetti non secondari. Ora, non essendo più possibile, e per varie ragioni, introdurre eventuali osservazioni in note aggiuntive, ci è parso opportuno limitarci alle seguenti considerazioni, costretti, purtroppo, ad esprimerci in modo sintetico e per accenni. All’esegesi della Lettera a Dorp (come all’analisi dell’Uzopfa) svolta da Fleisher è sottesa una concezione e definizione di retori­ ca che riteniamo riduttiva in rapporto allo statuto umanistico della teologia proposto da Moro. Una volta identificata la retorica (no­ nostante le varie precisazioni addotte, ad es. a p. 100) formalmen­ te come arte della persuasione («it is thè art of arts because it is thè art of human persuasion», p. 102 e passim}, l’Autore ha reso in realtà piuttosto complessa, soprattutto per l’aspetto metodologico e tecnico-analitico, la comprensione delle differenziazioni specifiche tra la teologia dorpiana (e dei lovanisti, particolarmente di G. Masson, pp. 104ss) e la «nuova teologia» di Moro e di Erasmo. A noi sembra, invece, che la retorica sia assunta da Moro, e precisamen­ te nella Lettera a Dorp, in una concezione più ampia e più com­ prensiva. La retorica moreana, infatti, vien colta nella sua specifica dimensione, qualora sia intesa come «arte delle arti e scienza delle scienze» in sostituzione della logica; trasferendo, cioè, all’zzry rheto­ rica la definizione e la funzione attribuite da Pietro Ispano alla dia­ lectica nelle Summulae logicales (cfr. p. 89). Più precisamente. La re­ torica è concepita da Moro come scienza del linguaggio, sia dal

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punto di vista linguistico e semantico che categoriale e argomenta­ tivo (dal procedimento strettamente apodittico a quello largamente epidittico), ed ha, per conseguenza tutti i requisiti perché venga proposta a rifondazione alternativa della teologia. Codesta prospet­ tiva retorica è stata senza dubbio avvertita da Fleisher, e particolar­ mente quando vien fatto rilevare, in diverse occasioni, come l’Umanista inglese «is closer to thè rhetorical tradition of Isocrates, Ci­ cero and Quintilian» che a quella di derivazione aristotelica (n. 98). L’Autore, anzi, giunge al punto di istituire un raffronto tra la Let­ tera di Moro e VAntidosis di Isocrate; e qui senz’altro egli coglie nel segno. Ma, purtroppo, quel raffronto non costituisce, come avreb­ be dovuto essere, un momento base per l’interpretazione dell’inte­ ro discorso moreano della Lettera. E la ragione ultima della man­ canza di tale impostazione deriva dal fatto che la lettura della Let­ tera a Dorp è quasi completamente avulsa dalla tradizione dell’“umanesimo filologico” che va da Lorenzo Valla ad Erasmo. In conseguenza di ciò, si ha che il confronto tra la Lettera a Dorp e VAntidosis di Isocrate non viene mediato dalla Institutio oratoria di Quintiliano e dall’opera del Valla, il quale per primo aveva assunto la retorica quintilianea come novum organon dello statuto umani­ stico della teologia. I riferimenti alla Institutio, annotati da Fleisher, rimangono di corredo e il quintilianesimo del Valla è ignorato (co­ sì come per l’epicureismo dell'Utopia non si tien conto della pro­ blematica umanistica circa la questione voluptas/summum bonum, trattata ampiamente dal Bruni, da Cosma Raimondi, dal Valla nel De voluptate e da altri, ma viene rapportato direttamente, e quasi in modo esclusivo, al De finibus di Cicerone; vedi pp. 51-60). In L. Valla, p. 83, avevamo scritto che «era affermazione tutta isocratea» la tesi valliana «oratorem esse virum sapientem, quantum in hominem cadit: hoc est, plus esse quam philosophum et sophòn» desunta dalle Dialecticae disputationes {Opera, ed. Basilea 1540, voi. I in rist. anast. Torino 1962, p. 799; cfr. G. ZlPPEL, ldAutodifesa di Lorenzo Valla per il processo dell’inquisizione napoletana (1444), «Italia medievale e umanistica» XIII, 1970, pp. 59-94). Qui voglia­ mo aggiungere che quella tesi valliana non è altro che un calco del­ la conclusione formulata da Quintiliano nel proemium al lib. I del­ la Institutio, dove l’intera tematica della Antidosis di Isocrate è fat­ ta propria dal Retore latino. Scrive infatti Quintiliano: «vir ille vere civilis et publicarum privatarumque rerum administrationi accom­ modatus, qui regere consiliis urbes, fondare legibus, emendare iudiciis possit, non alius sit profecto quam orator» (ivi, lOss); per que­ sto, conclude il Retore latino: «si fuisset aliquando perfectus orator, non a philosophorum scholis virtutis praecepta peterentur [...]. Sit

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igitur orator vir talis, qualis vere sapiens appellari possit» (ivi, 17-18). Lorenzo Valla, commentando queste affermazioni del Retore antico, in una glossa autografa del prezioso ms. 7.723 della Nazionale di Parigi (si tratta del cod. Vallensis dell’Institutio) al margine del te­ sto quintilianeo, scrive: «plus esse oratorem quam philosophum. Ve­ re civilis i.e. vere sapiens; hoc est politicus: nam “civilis scientia idem quod sapientia”» (f. Ir). L’Umanista romano, partendo poi dal­ la concezione quintilianea della retorica come enciclopedia delle scienze, sviluppa e sistematizza la metodica analitica e argomentati­ va: la grammatica e la dialettica diventano parti integranti del mo­ dus rhetoricus (cui accenna Fleisher a p. 105, n. 86 e 87 rifacendosi ai lavori di J. Etienne, Spiritualisme érasmien et théologiens louvanistes. Un changement de problématique au début du XVIe siècle, Lou­ vain 1956, e R. Guelluy, LEvolution des méthodes théologiques à Louvain d’Erasme à jansénius, «Revue d’Histoire Ecclesiastique», XXXVII, 1947, pp. 31-144); il modus rhetoricus vien posto, a sua volta, come fondamento dello statuto scientifico della sacra doctri­ na, ciò che comportava la riduzione della ricerca teologica all’inda­ gine delle fonti mediante la filologia scientifica e storica. La trasposizione dello statuto teologico alla retorica specificamente quintilianea è stata dunque alla base della ricerca teologica valliana. Ora è precisamente tale trasposizione - messa già in atto da Erasmo - che è fatta propria, anzi, quasi sistematicamente teorizzata da Moro nella Lettera a Dorp. Pur non riscontrando alcuna convalida circa il quintilianesimo del Valla in lavori, per altro notevoli e fonda­ mentali, sulla tematica umanesimo-retorica (come N.S. Struever, The Language of History in thè Renaissance. Rhetoric and historical Consciousness in Fiorentine Humanism, Princeton, N.J. 1970, e J.E. Seigel, Rhetoric and Philosophy in Renaissance Fiumanism. The Union of Eloquence and Wisdom, Petrarch to Valla, Princeton, N.J. 1968), sia­ mo nondimeno convinti che nell’ottica del quintilianesimo valliano siano meglio comprese le diverse modalità di sviluppo dell’umanesi­ mo filologico della seconda metà del Quattrocento italiano, che con­ torni più precisi siano attinti per la messa a fuoco della controversia Erasmo-Dorp-Moro, e che, infine, un testo prezioso come la Lettera di Erasmo a Henry Bullock dell’agosto 1516 (da noi non considerata, ma da Fleisher molto opportunamente più volte citata, pp. 76 e 107) acquisti rilevanza specifica e propria. Ovviamente le precedenti os­ servazioni nulla tolgono alla validità della pubblicazione che qui si è voluto prendere particolarmente in esame. Per parte nostra vorrem­ mo che le considerazioni di vario genere ed annotazioni esegetiche sulla Lettera a Dorp che seguiranno in queste pagine fossero accolte come complementari ai risultati raggiunti dall’indagine di Fleisher.

Retorica

e teologia

I testi precipui che formulano e sviluppano lo statuto scienti­ fico e programmatico della teologia fondato da Tommaso Moro so­ no le Lettere a Martin Dorp del 1515, all’Università di Oxford del 1518, a John Batmanson e a Edward Lee del 1519-20. II gruppo di lettere moreane segna (insieme, ovviamente, all’Utopìa del 1515-16) il massimo di convergenza tra Moro ed Erasmo in­ torno allo specifico problema del rapporto cultura umanistica e ri­ cerca teologica. Infatti, nel quinquennio 1515-20 - preludio gravido di conseguenze alla vasta e complessa disputa con la Riforma - la problematica della sintesi tra umanesimo e teologia raggiunge, in Mo­ ro come in Erasmo, la prima formulazione e proposta di soluzione. 1. La prima Lettera di Martin van Dorp ad Erasmo (settembre 1514); /'Epistola apologetica di Erasmo (maggio 1515) in risposta alla Let­ tera di Dorp; la seconda Lettera anti-erasmiana di Dorp (agosto 1515). Nell’agosto 1514 Erasmo giungeva a Basilea per dare alle stampe, nella tipografia Froben, il Novum Instrumenum, prima edi­ zione greco-latina del Nuovo Testamento, cui l’Umanista aveva la­ boriosamente atteso tra il 1510 e il 1514 durante la sua perma­ nenza a Cambridge. Il progetto della editio princeps greco-latina del Nuovo Testa­ mento era conosciuto e discusso, incoraggiato o denunciato già pri­ ma che Erasmo ne iniziasse la stampa, condotta a termine ai primi di marzo del 1516. Nel settembre del T4 infatti, a un mese dall’arrivo di Erasmo a Basilea, Martin van Dorp, già noto professore di retorica a Lovanio ed ora in procinto di essere assunto nel Collegio dei teologi della medesima famosissima Facoltà, scrive criticando pubblica­ mente l’Umanista, e assolvendo senza dubbio in modo brillante le mansioni di portavoce dei teologi lovanisti. 12 12 Su Martin Dorp e le vicende della controversia epistolare con Erasmo e

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La lettera di Dorp, diretta allo stesso Erasmo (Alien 2. 304), era anzitutto una risposta in difesa della Scolastica contemporanea del­ le Facoltà teologiche, contro l’ipercritica erasmiana dell’Elogio del­ la Follìa. In essa il Maestro di Lovanio ricordava all’ormai influen­ te Umanista che la sua attitudine anti-accademica, particolarmente in campo teologico, non era dissimile da quella condannata al Con­ cilio di Costanza nella proposizione di Wycliff: «Universitates, stu­ dia, collegia, graduationes, et magisteria in eisdem, sunt vana gen­ tilitate introducta, et tantum prosunt ecclesiae sicut diabolus».13 L’altro punto della Lettera riguardava il progetto erasmiano di revisione testuale della Vulgata e di ritraduzione latina del Nuovo Testamento, da pubblicarsi in colonna parallela nella editto prin­ ceps del testo greco criticamente restituito. Dorp faceva presente ad Erasmo che l’autenticità della Vulgata non poteva esser posta in dubbio per il valore dogmatico-teologico che il textus receptus im­ plicava, appunto perché parte integrante del magistero della Chie­ sa Latina e della Tradizione. Inoltre, il docente di Lovanio ricono­ sceva ad Erasmo obiettive capacità di superare i contributi dati in questo campo da Lorenzo Valla e di recente da Lefèvre d’Etaples, ma, soggiungeva immediatamente, i presupposti della revisione cri­ tica sia del Valla che di Lefèvre, come quelli ora dell’opera era­ smiana, erano privi di fondamento e non validamente dimostrati. Anzi, ribadiva drasticamente Dorp, «cuiusmodi istud sit litteras sa­ cras castigare, idque ex graecis latinos codices, dispiciendum est» (ivi, lin. 91s). Erasmo potrà leggere l’epistola di Dorp solo più tardi, in una copia pervenutagli fra le mani ad Anversa nel marzo 1515 mentre si trovava nei Paesi Bassi sulla via di ritorno in Inghilterra.

con Moro, vedi H. De Vocili’, Monumenta Liumanistica Lovaniensia. Texts and studies about Louvain Humanists in thè first half of thè XVI century: Erasmus, Vi­ ves, Dorpius, Clenardus, Goes, Moringus, Louvain-London 1934, in 2 voli, con pag. continua [= t. 4 dei Monumenta Lovaniensia], pp. 139-159. Dorp era dal 1504 Magister artium e insegnava letteratura latina e filosofia (dialettica, metafi­ sica e fisica), ivi, pp. 130-139. Si vedano inoltre: II. De JONGH, Lancienne Faculté de théologie de Louvain au premier siècle de son existence (1432-1540), ses débuts, son organisation, son enseignement, sa tutte contre Erasme et Luther, Louvain 1911; P. Mesnard, Humanisme et théologie dans la controverse elitre Erasme et Dorpius, «Filosofia», XIV, 1963, pp. 885-900. 13 Conciliorum Oecumenicorum Decreta, ed. Istituto per le Scienze Religiose Bologna 1973, pp. 412-413, Sessione Vili 4 maggio 1415, articulus 29. Il riferi­ mento manca di annotazione in Al.LEN 2.304, lin. 34.

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Lo scritto dorpiano era già largamente in circolazione ad insa­ puta dello stesso Erasmo. Dopo circa due mesi, precisamente a fi­ ne maggio dello stesso anno, sempre ad Anversa, questa volta di ri­ torno dall’Inghilterra, Erasmo risponde a quella che aveva ormai assunto l’aspetto di pubblica denunzia con una «Epistola apologe­ tica a Dorp», coinè sarà presto denominata da Moro - e come ta­ le inclusa, in seguito, regolarmente nelle primissime pagine del vo­ lume dedicato agli scritti apologetici dagli editori dell’opera Om­ nia erasmiana (LB. IX. 1 e Alien 2. 337). Due mesi dopo, il 21 agosto 1515, segue la contro-risposta di Dorp, che ha letto l’EpistoIa apologetica erasmiana nella stesura originale, più breve di quella in seguito resa pubblica e data alle stampe. Pochi giorni dopo la data della sua seconda Lettera ad Erasmo, il 30 agosto, Martin Dorp è aggregato al Collegio della Fa­ coltà teologica di Lovanio. Dell’Epistola apologetica di Erasmo parleremo più avanti. Per quanto concerne invece la seconda Lettera di Dorp (Alien 2. 347) sarà utile dire subito che essa è più ampia della prima (scritta nel settembre ’14) con cui era stato aperto il dibattito. Alla risposta di Erasmo, Dorp contrappone ora un discorso più articolato che mette in evidenza il proprio dissenso con moti­ vazioni più sostanziali di quanto non apparissero nella sua prima critica anti-erasmiana. E doveroso anzi riconoscere, e farne credi­ to alla serietà del dibattito, che Dorp, cultore di letteratura latina e conoscitore di Aristotele, riesce a riproporre in sintesi, nella sua seconda Lettera, la serie di argomentazioni che si era venuta for­ mando da Petrarca in poi attraverso tutto il ’400 circa il rapporto tra cultura umanistica, religiosità cristiana e scienza teologica. 14 Rapporto complesso, che comportava vari aspetti e molteplici ri­ svolti: la problematica circa le antinomie fra l’«amore delle lette­ re» e il «desiderio di Dio», il culto delle humanae litterae e la ri­ gorosità della Scolastica; la questione della trasposizione erme­ neutica della filologia classica all’esegesi dei testi scritturistici; la discussione sul ruolo della dialettica nell’argomentazione teologi­ ca in opposizione al modus rhetoricus introdotto dagli umanisti; la

14 Cfr. la Oratio in laudem Aristotelis, pronunziata il 13.XII.1510 dinanzi al corpo accademico. L’ortodossia aristotelica era d’obbligo in base allo Statuto del­ la Facoltà delle Arti: Vocht, Monumenta Humanistica, cit., p. 131. Testo delI’Oratio in H. De VOCHT, Inventale des Arcbives de l’Université de Louvain 74261797, Louvain 1927, pp. 228-248. Già in questo discorso accademico si manife­ sta l’antivallianesimo di Dorp.

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polemica sullo studio della letteratura pagana con riferimenti e motivazioni patristiche, rintracciabili in Agostino e in Girolamo. Dorp procede nella sua Lettera a Erasmo non tralasciando alcuno dei temi accennati. Egli avrebbe, anzi, potuto attingere direttamente le argomentazioni ivi addotte, circa l’insolubile antinomia tra le humanae litterae e l’esegesi biblica o il procedimento dimo­ strativo teologico, proprio in quel Poggio Bracciolini che egli chia­ ma «scelestissimum spurcissimumque scriptorem». E precisamen­ te nelle famose Invectivae antivalliane. Per Dorp infatti, come per il Bracciolini, la filologia umanistica e il culto delle lettere dove­ vano rimanere al di fuori, all’esterno del santuario della «sacra doctrina» della grande Scolastica, il cui strumento argomentativo formale era da riscontrarsi come sufficientemente adeguato sol­ tanto nella «dialectica» aristotelica dei «parisienses» e dei «lovanienses». I teologi, scrive Dorp, possono fare a meno della «ele­ gantia dicendi» e del gusto letterario valliani, il «palatus» sofisti­ cato dei «laurentiani»! Prima Lettera di Dorp (circa settembre 1514); Epistola apolo­ getica di Erasmo (fine maggio 1515); seconda Lettera di Dorp (27 agosto 1515): ecco i precedenti storico-culturali che provocano l’inserirsi di Tommaso Moro nel dibattito, mediante la lunga Let­ tera che questi invia a Dorp da Bruges (dove si trovava per un’am­ basceria politico-commerciale) in data 21 ottobre 1515 - periodo che coincide con la composizione dell’Utopia, o meglio del secon­ do libro dell’opera. Moro conosce sia le due Lettere di Dorp che l’Epistola apolo­ getica di Erasmo (quest’ultima nella stesura inedita più breve). An­ zi, a tale conoscenza diretta dei testi egli vi accenna spesso ripor­ tando anche lunghi brani che sono per noi filologicamente profi­ cui perché permettono di risalire alle varie stesure originali. L’Umanista inglese, peraltro, si preoccupa di giustificare sin dall’inizio il proprio intervento. Egli è stato indotto a inserirsi nel dibattito e per la gravità del problema in discussione e per libera­ re Erasmo dalla ingiustificata accusa di rifiuto della teologia e di attacco indiscriminato alle Facoltà d’insegnamento superiore, ac­ cusa mossa, appunto, dal Lettore lovaniense. Quanto si è venuto dicendo sin qui è abbastanza noto. Era però necessario richiamare la cronologia e i vari momenti della cor­ rispondenza tra Dorp ed Erasmo 1514-15 per inquadrare l’analisi della Lettera moreana. Precisiamo, tuttavia, che qui non si vuole entrare in merito alla ritrattazione di Dorp nella prolusione acca­ demica del 1516 (ma pubblicata più tardi nel 1519) dal titolo Ora-

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tio in praelectionem epistularum divi Paulr, 15 né tantomeno si in­ tende esaminare in tutta la sua ampiezza la ripresa della critica anti-erasmiana dopo l’effettiva pubblicazione e circolazione del No­ vum Instrumentum che, com’è noto, provocherà sulla questione della Vulgata un intenso dibattito a largo raggio nella cultura uni­ versitaria ed extra accademica europea; né, infine, indagare l’apo­ logetica che Erasmo dovrà sostenere nel medesimo tempo in cui la sua opera neo-testamentaria conoscerà un successo fortunatissimo, e varie riedizioni e rielaborazioni. Tuttavia, anche con tali esclu­ sioni e fermandoci all’interno dell’analisi delle Lettere di Moro a Dorp e a Batmanson, la nostra indagine porrà in evidenza, credia-

15 Cfr. Allen 2.438. La Oratio venne pubblicata per la prima volta ad An­ versa, presso M. Hillen, il 27.IX.1519 con prefazione datata 22.IX.1519. Fu ri­ pubblicata a Basilea da Froben nel gennaio 1520 e riedita dal medesimo nel mar­ zo dello stesso anno. Tommaso Moro prese atto del cambiamento di attitudine da parte di Dorp nei confronti di Erasmo, cfr. Rogf.RS, Correspondence n. 82 e RoGERS, Selected letters, pp. 11 lss. La Oratio fu dettata come prolusione nelle pri­ me settimane del luglio 1516 per il corso extra-ordinarium (che iniziava regolar­ mente appunto ai primi di luglio, mentre 1’ordinarium cominciava col 1° ottobre). «The Oratio vvas a recantation of what Dorp had advanced in his two letters to Erasmus: it was a public confession of humanistic faith from thè mouth of thè brilliant professor of theology»: VOGHI', Monumenta Fiumanistica, cit., p. 160. La prolusione dorpiana terminava con un elogio dell’opera del Valla, di Lefèvre d’Etaples e soprattutto di Erasmo, e con l’aperto riconoscimento del mutamento di opinione dovuto alla Lettera di Moro dell’ottobre 1515. La sospensione dal pro­ seguimento del corso teologico, provocata dalla reazione dei membri della Fa­ coltà, e la lettura delle annotazioni erasmiane alle Epistole paoline nel Novum In­ strumentum provocheranno in Dorp un improvviso voltafaccia che sorprenderà e irriterà Erasmo (Allen 2.474: lettera a Moro del 2.X.1516, dove il Lovaniense è chiamato «stolidissimus ille»). Vedi ancora VOCHT, ivi, pp. 165ss. L’effettiva pub­ blicazione a stampa dell’Oratio segna un ulteriore mutamento di posizione da par­ te di Dorp. La pubblicazione dell’OraZ/o, infatti, fu intesa e voluta in difesa del­ la Ratio ... verae theologiae erasmiana, della 2a edizione del Novum Testamentum apparsa nel marzo 1519. Due anni dopo, nel 1521, con {'Apologià dedicata all’a­ bate benedettino Meynard Mann del monastero di Egmond, Dorp confermerà de­ finitivamente la propria adesione al programma teologico ed esegetico-scritturistico del grande Umanista. Il testo dell’/lpo/ogrà si trova in VOCHT, ivi, pp. 75-93 (intr. pp. 61-75 e note pp. 94-112). Il Maestro di Lovanio morirà il 31 maggio 1525: cfr. Dorpii Vita, scritta dal contemporaneo G. MORINK a Lovanio nel 1526 (testo in VOCHT, ivi, pp. 258-281 con annotazioni molto importanti a pp. 281-348 e intr. a pp. 121-257). Il 10 febbraio 1525 - quindi pochi mesi prima della scom­ parsa del Lovaniense - Erasmo, rispondendo a Cranevelt, esprimeva il proprio rammarico sul comportamento dell’amico-oppositore: «Dorpius utinam haberet tantum constantiae quantum ingenii» (FI. De VOCHT, Litterae Virorum eruditorum ad F. Craneveldium 1522-1528, Louvain 1928, p. 140.35).

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mo, la completa vicenda del dibattito culturale-teologico nella spe­ cificità dei suoi contenuti come nelle dimensioni della sua impor­ tanza storica. In tal modo i due scritti di Moro risulteranno docu­ menti sufficientemente indicativi dell’ampiezza e del contenuto della controversia circa i nuovi criteri dell’ermeneutica biblica nel primo ventennio del secolo XVI.16

2. Dati cronologici e l'originalità di contenuti della Lettera a Dorp. Una considerazione preliminare sulla Lettera a Dorp, e proprio in merito ad una sua collocazione contestuale, concerne la temati­ ca e l’articolazione del discorso moreano. Questo, pur ricalcando i tratti già assunti dall’argomentazione erasmiana nell’Epistola apo­ logetica, se ne distingue in quanto non solo va ben oltre le moti­ vazioni addotte dall’Umanista olandese, ma perviene addirittura al­ la fondazione storico-teorica dello statuto teologico erasmiano. L’osservazione va sottolineata per il fatto che Moro redige la Lettera a Dorp ancor prima - e i dati cronologici hanno qui rile­ vanza significativa - che si abbiano le pubblicazioni, in campo esegetico-biblico e in quello patristico, che segneranno l’inizio del va­ sto contributo erasmiano alla filologia propriamente umanisticoteologica: vale a dire, il Novum Instrumentum e le Epistolae di Girolamo. Infatti, l’edizione del Novum Instrumentum come delle Hieronymi Opera avverrà a Basilea presso Froben nella prima metà del 1516 (Allen. 2.373, 326 e 396). Inoltre, e preme notarlo subi­ to, la rilevanza dei dati cronologici assurge a chiave interpretativa dell’originalità della Lettera a Dorp, perché la colloca come mo­ mento discriminante nello sviluppo della concezione umanistica della ricerca teologica. È, infatti, nella Lettera a Dorp che lo statu­ to di fondazione del metodo umanistico-teologico erasmiano viene elaborato e difeso. Il che dimostra che esso è redatto da Moro pri­ ma ancora che questi possa avvalersi sia della documentazione di-

16 Inesatta, e gravida di conseguenze interpretative dell’opera moreana, ap­ pare la periodizzazione proposta da SCHUSTER, Th. More’s Polemical Career, cit., p. 1144, quando afferma che la produzione letteraria di Tommaso «falls roughly into two sections: thè humanistic period (1500-20) and thè theological period (1520-35)». Al contrario va riaffermato: gli studi propriamente umanistici e la ri­ cerca teologica sono in Moro parti integranti di un’unica problematica (come in Erasmo). Su questa linea interpretativa, incisive e dense risultano le pagine LXTVLXXXI di HEXTER, The Composition o/Utopia, cit. in nota 1.

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mostrativa concernente la pratica di quel metodo (Novum Instru­ mentum e Hieronymi Opera) sia dell’esposizione dei relativi criteri di ricerca data da Erasmo nelle varie praefationes ed epistolae, pre­ messe ai singoli volumi delle due edizioni basileesi. Certamente il rapporto fra i due Umanisti fu in realtà di reci­ proco influsso. Tuttavia, l’analisi della Lettera a Dorp di Moro con­ tribuisce, almeno dal punto di vista letterario, a mettere in evi­ denza alcuni aspetti del passaggio operato da Erasmo (tra la fine del 1515 e l’inizio del 1516) dalla fase difensiva, nei confronti del­ la critica dorpiana, a quella metodologica delle praefationes alle due pubblicazioni basileesi. In conseguenza di quanto si è detto, non vanno tralasciati anzi, devono essere passati ad attento esame - gli aspetti dell’ar­ gomentazione erasmiana nell'Epistola apologetica che saranno poi ripresi e approfonditi da Moro nella Lettera a Dorp.

3. I presupposti del rinnovamento teologico zzeZ/’Epistola apologetica di Erasmo.

Erasmo, dopo aver dedicato la parte più rilevante dell’Epistola alla difesa delI’E/og/o della Follìa, passa a denunziare l’attitudi­ ne negativa dei teologi contro la cultura letteraria umanistica: Isti graecas, hebraicas, imo et latinas rident litteras; et cum sint quo­ vis sue stupidiores ac ne sensu quidem communi praediti, putant se to­ tius arcem tenere sapientiae. Censent omnes, damnant, pronunciant, nihil addubitant, nusquam haerent, nihil nesciunt [...]. Quid enim est inscitia vel impudentius vel pertinacius? Hii magno studio conspirant in bonas litteras. Ambiunt in senatu theologorum aliquid esse, et verentur ne, si re­ nascantur bonae litterae et si resipiscat mundus, videantur nihil scisse, qui antehac vulgo nihil nescire videbantur (Allen 2.337, lin. 320-329).

La critica anti-umanistica dei lovanisti tradiva manifestamente, secondo Erasmo, la consapevolezza della propria impotenza di fronte alla crisi in cui veniva ormai a trovarsi la teologia accade­ mica con il propagarsi dello studio delle humanae litterae. Il rifiu­ to della cultura umanistica, portatrice dell’analisi filologica delle fonti scritturistiche e patristiche, quale strumento scientifico per la fondazione del discorso teologico, è così immediatamente rappor­ tato all’aristotelismo decadente della Scolastica contemporanea, dove il logicismo sosteneva in realtà l’asse portante dell’argomen­ tazione teologica.

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Erasmo ironizza, anzi, sul fatto che molti teologi «disprezzano Girolamo accusandolo di grammaticismo perché non lo capisco­ no»; ammonisce lo stesso Dorp che, se intende coltivare la «cono­ scenza della realtà teologica» senza lo studio delle lingue bibliche, verrà immancabilmente a trovarsi «del tutto fuori strada»; e, con maggior forza ed insistenza, denunzia la crisi della teologia quale conseguenza necessaria degli stessi presupposti statutari della Sco­ lastica. Hoc recentius theologiae genus - così Erasmo si riferisce alla Scola­ stica - [...] ut omittam omnium bonarum litterarum inscitiam, ut imperi­ tiam linguarum, sic Aristotele, sic humanis inventiunculis, sic prophanis etiam legibus est contaminatum, ut haud sciam an purum illum ac since­ rum Christum sapiat. Fit enim ut, dum ad humanas traditiones nimium avertit oculos, minus assequatur archetypum (ivi, lin. 400-408).

E alcune righe più oltre, continua: Quaeso, quid commercii Christo et Aristoteli? Quid sophisticis cap­ tiunculis cum aeternae sapientiae mysteriis? Quorsum tot quaestionum labyrinthi? Inter quas quam multae sunt ociosae, quam multae pestilen­ tes, vel hoc ipso quod contentiones et dissidia pariunt! At sunt vestigan­ da quaedam, sunt et decernenda quaedam. Non abnuo. Sed e diverso permulta sunt quae rectius sit omittere quam inquirere, et scientiae pars est quaedam nescire; permulta de quibus salubrius est ambigere quam statuere. Postremo si quid statuendum est, id velim reverenter, non arro­ ganter, et ex divinis litteris, non e commenticiis hominum ratiunculis sta­ tui [...]. Breviter eo redacta res est, ut negocii summa non tam ex Christi praescripto quam ex scholasticorum definitionibus et episcoporum qua­ liumcunque potestate dependeat: quibus rebus sic involuta sunt omnia ut ne spes quidem sit mundum ad verum illum christianismum revocandi (ivi, lin. 413-429).

Secondo Erasmo, quindi, la crisi della teologia accademica è in diretta relazione con l’affermarsi delle bonae litterae. Questo vuol dire che, se da un lato i teologi «reagiscono» appunto perché coscienti che l’umanesimo letterario «mette in pericolo l’egemo­ nia» della Scolastica, dall’altro resta il fatto, per nulla smentito da quella reazione, che il superamento della teologia decadente con­ temporanea risulterà dal ritorno alle fonti patristiche e, prima fra tutte, all’opera di Girolamo, da cui dovranno mutuarsi metodo e contenuti. Critica anti-Scolastica, studio delle lettere classiche, ritorno al­ le fonti patristiche: ecco i presupposti capaci di rinnovare la teolo­ gia, qualora essi confluiscano, e tutti insieme, nell’esegesi biblica.

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Nella parte conclusiva dell’Epistola apologetica, Erasmo dà le motivazioni dell’edizione bilingue del Novum Instrumentum con annotazioni: poiché fonte primaria del discorso teologico è la Scrit­ tura, occorre mettere in atto la critica ricostruzione del testo ori­ ginale, la riduzione della Vulgata alla «veritas graeca», l’indagine fi­ lologica del Nuovo Testamento; in altre parole, per una nuova pro­ grammazione dell’insegnamento teologico bisogna far ricorso agli strumenti analitici della cultura umanistica messi a servizio della «theologicae rei cognitio». Dorp, nella sua Lettera, si era richiamato alle Adnotationes del Valla e al Commentario alle Epistole paoline di Lefèvre d’Etaples. Erasmo gli risponde nell’Epistola apologetica riprendendo ambe­ due gli argomenti. L’opera di Lefèvre, egli dice, gli era sovraggiunta quando or­ mai il suo lavoro era in pieno svolgimento e, tuttavia, ne aveva te­ nuto conto nei casi in cui credeva di dover dissentire. Riguardo poi alle Adnotationes del Valla - delle quali egli stes­ so aveva curato la prima edizione a stampa nel 1505 - Erasmo af­ ferma che intendeva portare a compimento, assumendone il meto­ do, il contributo all’esegesi neo-testamentaria dell’Umanista roma­ no, e annota: «Vallam plurima laude dignum arbitror, hominem rhetoricum magis quam theologum, qui hac diligentia sit usus in sacris litteris ut graeca cum latinis contulerit [...] quanquam ab hoc aliquot locis dissentio, praesertim in his quae ad rem theologicam pertinent» (ivi, lin. 839-844). Il giudizio sul Valla, espresso da Erasmo già per l’edizione del­ le Adnotationes (1505) e ribadito nell’introduzione al secondo vo­ lume degli scritti di Girolamo (1516), come pure la valutazione sul­ la continuità e discontinuità fra la propria opera e quella dell’u­ manista italiano, ci riportano all’assunto specifico della presente indagine. La critica umanistica alla teologia Scolastica, il richiamo alla speculazione cristiana della Patristica greca e latina con particola­ re riferimento a Girolamo, e l’assunzione della filologia scientifica: vale a dire, i presupposti fondamentali da cui Erasmo deriva i cri­ teri della sua ricerca teologica (enunziati nella Epistola apologeti­ ca per la prima volta in modo programmatico) erano stati esatta­ mente le premesse e il punto di partenza della ricerca teologica val­ liana. L’Umanista romano li aveva assunti, messi in atto e difesi sistematicamente nelle Dialecticae disputationes e negli Antidota in Pogium, nell’ambito della crisi della teologia nel primo ’400. Era­ smo li riprende ora, li fa propri e non solo come presupposti pu­

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ramente formali ma, e soprattutto, in quanto princìpi largamente suscettibili di verifica nel quadro della fondazione specifica data loro dal Valla mediante l’assunzione della Institutio oratoria quale novum organon della ricerca teologica.17 Tali accenni alla ripresa programmatica da parte di Erasmo della ricerca umanistica e teologica già messa in atto da Lorenzo Valla crediamo siano sufficienti, con la mediazione del confronto Erasmo-Moro, a dare i presupposti di una valutazione ravvicinata del rapporto Valla-Moro. L’Umanista inglese, infatti, dispiegherà in risvolti molteplici e in modo sistematico le motivazioni teoriche dell’indagine valliana, e nel suo triplice aspetto di critica anti-Sco­ lastica, riappropriazione della Patristica (metodi e contenuti) e fi­ lologia scientifica della Scrittura. Moro, d’altra parte, articolerà il suo discorso assumendo i medesimi criteri di indagine enunziati da Erasmo nella Epistola apologetica e operanti nell’Encomion Mo­ rtile, nelle Hieronymi Opera e nel Novum Instrumentum. Ne con­ segue che, dall’individuazione di tale duplice presenza nello scrit­ to moreano, l’analisi della Lettera a Dorp porterà necessariamente ad una comprensione adeguata dell’operazione ampia e complessa iniziata dal Valla e ripresa poi da Erasmo, quale tentativo di con­ nubio tra cultura umanistica e ricerca teologica. 4. Impostazione moreana della questione sul rapporto fra grammati­ ca, retorica e teologia. Una parte rilevante della Lettera a Dorp, particolarmente nel­ la sezione conclusiva, è dedicata alla difesa dell’Elogio della Follìa. L’opera infatti era stata all’origine della polemica di Dorp nei con­ fronti di Erasmo. La risposta di Moro al Lovaniense non poteva, quindi, non costituire una «apologia prò Moria Erasmi»: ed in realtà sarà questo il titolo redazionale che verrà dato alla lettera quando sarà pubblicata per la prima volta a stampa nella raccolta (postuma) moreana Lucubrationes di Basilea, 1563.

17 Riteniamo opportuno ricordare, a proposito dell'opera di Quintiliano, che proprio nel 1515 (agosto) Josse Bade scriveva ad Erasmo da Parigi sull’imminen­ te edizione della Institutio oratoria'. «Nos Quintilianum, ut possumus, reponimus, freti codice satis fideli a Laurentio Vallensi, dum vivebat, possesso». La pubbli­ cazione uscì per il 13 gennaio 1516 (f. Bade e J. Petit), con note dello stesso Ba­ de e di altri autori: ALLEN 2.346. Si è già avuta occasione di parlare in queste no­ te del cod. Vallensis, l’attuale ms. lat. 7.723 della Naz. di Parigi, detto anche Parisinus.

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Occorre, tuttavia, ben ponderare l’apologià che l’Umanista in­ glese intraprende a favore di Erasmo. Moro riequilibra sapientemente la posizione dell’olandese, ponendo dei limiti alla critica anti-scolastica dell’Amico e, ciò nonostante, assumendo l’opposi­ zione erasmiana all’aristotelismo accademico come parte integran­ te dello statuto umanistico della ricerca teologica. L’argomentazio­ ne, quindi, che attraversa l’intero scritto moreano, viene ad artico­ larsi intorno ad un’unica questione essenziale, anche se svolta in momenti e problemi distinti: - la filologia scientifica quale strumento di fondazione del di­ scorso teologico; - la ricostruzione critica del testo greco e latino neo-testa­ mentario quale fonte primaria del linguaggio teologico. Dalla formulazione stessa della questione appare chiaro che la fondazione teorico-pratica dello statuto teologico operata da Mo­ ro è in stretta connessione con la metodica erasmiana che aveva avuto quale esito la completa reductio della teologia alla retorica quale scienza normativa e storica del linguaggio. L’operazione, di segno inverso al logicismo della Scolastica, comportava infatti l’assunzione della «grammatica» quale criterio base del linguaggio teologico e la dislocazione della «dialettica» al­ l’interno dell’argomentazione retorica. La riduzione della teologia alla retorica voleva dire che la teologia veniva ad appropriarsi di un procedimento rigoroso nella misura in cui era articolata secondo la scienza retorica. Di qui il fatto che le varie argomentazioni avan­ zate da Moro convergono in realtà a determinare in che modo nel­ la ricerca erasmiana si sviluppano e si specificano le funzioni della «grammatica» e della «dialettica», ma come parte integrante della retorica, in rapporto alla teologia. Grammatica, dialettica e retorica in funzione positiva o nega­ tiva della «scienza» o «dottrina» teologica: è il problema che Era­ smo e Moro sono costretti ad affrontare e risolvere, non solamen­ te in pratica ma anche teoricamente, appunto perché formalmente riproposto da Martin Dorp. Problema, sappiamo, non affatto nuo­ vo. Conosciamo anzi le molteplici formulazioni della questione e in campo teorico e in quello didattico, dalla Patristica (ad esempio Agostino) a Boezio, dalle scuole medievali (Alano di Lilla) alla grande Scolastica (Alberto Magno). Alla cultura umanistica, sin dal suo sorgere, si ripropone il medesimo problema che, a sua volta, fa riemergere antiche dispute pur se in termini specifici compietamente nuovi. È cosi infatti che la problematica viene impostata di­ versamente che in passato, insieme a tentativi di nuove soluzioni,

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dal Valla ad Erasmo. Moro deve quindi pervenire alla formulazio­ ne di personali soluzioni al problema che Dorp aveva riproposto a chi, come Erasmo, denunziava la crisi della Scolastica in vista di una teologia alternativa.18

5. Grammatica e teologia in Erasmo: la critica dorp tana e la risposta di Moro. E nella sua seconda Lettera ad Erasmo che Dorp ironizza sui grammatici per le loro aspirazioni teologiche. Essi pretendono or­ mai un trono, scrive Dorp, da cui poter giudicare su tutto, dottri­ ne teologiche comprese: «Sedeant [...] grammatici in solio, censo­ res omnium disciplinarum, et novam nobis theologiam parturiant». Simile pretesa si fonda, continua il Lovaniense, sul fatto che essi in 18 Per gli accenni alla storia del rapporto reciproco tra le arti del trivium (grammatica-dialettica-retorica) e per gli ulteriori riferimenti che seguiranno, si hanno qui presenti tra gli altri (anche per più specifici rimandi di fonti e di bi­ bliografia): R.R. BOLGAR, The Classica} Heritage and its Beneficiane!, Cambridge 1973 (= rist. del 1953); H.T. Marrou, Histoire de l’Education dans l’Antiquité, Pa­ ris 1960, e Saint Angustili et la fin de la culture antique, Paris 1958; E.R. Curtius, European Literature and thè Latin Middle Ages, (trad. dal ted. 1948) London 1958; J. Cousin, Etudes sur Quintilien, Parigi 1936; J. Isaac, Le Peri Hermeneias en Occident de Bocce à saint Thomas. Histoire littéraire d’un traité d’Aristote, Pa­ ris 1953; M.-D. CHENU, La Théologie au XII siede, Paris 1957, pp. 10-107 (Granimaire et Théologie) e Grammaire et Théologie aux XII et XIII siècles, «Archives d’Histoire Littéraire et Doctrinale du Moyen Age», X, 1936, pp. 5-28; C. Vasoli, La dialettica e la retorica dell’umanesimo. «Invenzione» e «Metodo» nella cul­ tura del XV secolo, Milano 1968; E. GARIN, L’Educazione in Europa: 1400-1600, Bari 1957, e Lieta nuova. Ricerche storiche della cultura dal XII al XVI secolo, Na­ poli 1969, pp. 43-79 (Dialettica e Retorica dal XII al XVI secolo)', G. MOLLER, Bildung und Erziehung ini Humanismus der italienischen Renaissance. Grundlagen, Motive, Quellen, Wiesbaden 1969; inoltre, le raccolte antologiche di testi umani­ stici sull’argomento: Il pensiero pedagogico dell’umanesimo, a cura di E. Garin, Firenze 1958, e K. MClLLNER, Reden und Briefe italienischer Humanisten, rist. anast. a cura di B. Gerl dell’ed. 1899, Monaco 1970. Si sono già citati gli studi del­ la Struever e di Seigel. Attinenti alle questioni che stiamo trattando, sono l’excursus di R. BARTHES, La retorica antica, trad. dal frane. 1970 di P. Fabbri, Mila­ no 1972, e i saggi di M. CORTI, Il genere «disputatio» e la transcodificazione indolore di Bonvisin da la Riva, «Strumenti Critici», VII, 1973, pp. 157-185, e C. DelCORNO, L’exempluni nella predicazione volgare di Girolamo da Pisa, «Istituto veneto di scienze, lettere ed arti», Venezia 1972. Per l’articolazione istituzionale delle discipline accademiche, nel periodo di cui qui si tratta, rimandiamo a A. VERDE, Lo Studio Fiorentino 1473-1503. Ricerche e documenti, 2 voli., Firenze 1973. Il voi. I contiene un’ampia bibliografia ragionata e aggiornata, con partico­ lari riferimenti all’argomento specifico del nostro lavoro.

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quanto «grammatici» credono di conoscere tutte le varie discipli­ ne del sapere; e appunto perché sanno tutto «di una lingua e del­ la struttura del discorso» presumono di possederne anche i conte­ nuti. In tal caso, conclude Dorp, per una completa formazione an­ che filosofica e teologica dovrebbero bastare le scuole di grammatica di Zwolle e di Deventer, e si rendono perfettamente inutili le Facoltà di insegnamento superiore. Ed è a questo punto che il Lovaniense ricorda la «proposizione» di Wycliff contro le Università, ripresa poi da Hus e da Girolamo di Praga, e condan­ nata al Concilio di Costanza (Allen 2.347, lin. 156-168). Ma l’obiezione di Dorp - fa osservare Moro - nel momento stesso in cui contesta ad Erasmo, e non senza ironia, di attribuirsi come «grammatico» una posizione di privilegio all’interno della scienza teologica, in modo altrettanto esplicito la medesima obie­ zione porta avanti una concezione estremamente riduttiva della di­ sciplina grammaticale. Per Dorp, infatti, la grammatica non è che arte precettistica e normativa, ristretta cioè ad enunciare regole morfologiche e sintattiche del discorso in genere. Riportata la grammatica a siffatto canone interpretativo, il Lettore di Lovanio può ben dispiegare la propria ironia contro il «grammaticus» che siede come dettatore delle norme corrette del parlare e crede per ciò stesso di saper tutto. Anzi, se così fosse, anche i ragazzi del tri­ vium potrebbero chiamarsi «grammatici».19

19 In riferimento a quanto scrive Dorp sui «grammatici», nel passo sopra ci­ tato e alla risposta di Moro, di cui parleremo immediatamente, vale la pena ri­ portare per intero il brano del Lamia di Poliziano, in cui l’Umanista fiorentino tratta del medesimo argomento. Nella pagina del Poliziano sono facilmente indi­ viduabili parallelismi testuali e tematici con le affermazioni di Dorp e di Moro: «An non Philoponus ille Ammonii discipulus, Simplicii condiscipulus, idoneus Aristotelis est interpres? At eum nemo philosophum vocat, omnes grammaticum. [...] Grammaticorum enim sunt hae partes, ut omne scriptorum genus poetas, hi­ storicos, oratores, philosophos, medicos, iureconsultos excutiant atque enarrent. Nostra aetas parum perita rerum veterum, nimis brevi gyro grammaticum sepsit: at apud antiquos olim tantum autoritatis hi ordo habuit, ut censores essent, et iudices scriptorum omnium soli grammatici quos ob id etiam criticos vocabant: sic ut non versus modo (ita enim Quintilianus ait) censoria quadam virgula notare, sed libros etiam qui falso viderentur inscripti, tanquam subdititios submovere fa­ milia permiserint sibi. Quin autores etiam, quos vellent, aut in ordinem redige­ rent, aut omnino eximerent numero. Nec enim aliud grammaticus graece, quam latine literatus. Nos autem nomen hoc in ludum trivialem detrusimus, tanquam in pistrinum. Itaque iure conqueri nunc literati possent et animo angi, quo nomine Antigenides ille tibicen angebatur. Ferebat Antigenides parum aequo animo, quod monumentarii ceraulae, tibicines dicerentur: indignari literati possunt, quod

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Per l’Umanista inglese le cose stanno diversamente. La «gram­ matica», intesa come «litteratura» e quindi quale «fundamentum» della retorica secondo la concezione quintilianea del lib. I dell’J/zstitutio oratoria è, invece, la struttura-base dell’enciclopedia delle scienze. Scit [Erasmus] grammaticum idem omnino significare quod littera­ tum, cuius officium per omnes litterarum species, hoc est, per omnes sese disciplinas, effundit [...]. Litteratus mea certe sententia, nisi qui omnes omnino scientias excusserit, appellari nemo debet (Rogers 15.153-59).

Così concepita, la grammatica in virtù della sua particolare funzione può estendersi a tutte le scienze, non esclusa la teologia, che comporta, anch’essa, come «sacra doctrina», un linguaggio specifico e proprio. Erasmo quindi mette, giustamente, la gram­ matica in funzione della ricerca teologica; ed egli intende con ciò re-instaurare la teologia dal suo stesso fondamento linguistico-categoriale, mediante, appunto, una «grammatica teologica». L’Uma­ nista di Rotterdam è dunque il «grammatico-teologo» per eccel­ lenza, che rigetta ad un tempo e il grammaticismo precettistico e il logicismo teologico; non appartiene, cioè, né ai grammatici che sanno moltissimo di «parolette» né ai teologi che nulla sanno «al di fuori del complicatissimo labirinto delle inutili questioni». Era­ smo, conclude Moro, fa parte del genere di teologi i quali, distri­ candosi dal dedalo delle disquisizioni concettose e delle contro­ versie marginali di scuola, hanno finalmente acquisito nuovi stru­ menti di analisi: «longe utiliorem bonarum litterarum, id est sacrarum maxime, tum caeterarum quoque, peritiam adiunxit» (ivi, 15.170-77).

grammatici nunc appellentur etiam, qui prima doceant elementa. Caeterum apud graecos hoc genus, non grammatici, sed grammatistae: non literati apud latinos sed literatores vocabantur», A. PoLIUANI, Opera Omnia, a cura di I. Maier, To­ rino 1971, voi. I (rist. anast. ed. Basilea 15S3), p. 460 (ed. erit, a cura di A. WESSELING: Angelo Poliziano, Lamia: praelectio in Priora Aristotelis analytica, con intr. e note, Leiden 1986). Per i termini grammaticus, grammatista, literatus, literator ecc., oltre Quint. Inst. orat., IL 1. 4ss, ove rimanda lo stesso Poliziano, ve­ di anche SVETONIO, De Grammaticis et de rhetoribus, c. 4, cfr. LewiS-SI-IORT, La­ tin Dictionary, sub voce «grammaticus»; VASOLI, cit., pp. 122-125; A. SCAGLIONE, The humanist scholar and Politian’s conception of thè «grammaticus», «Studies in thè Renaissance», Vili, 1961, pp. 49-70; H. Barbari, Castigationes Plinianae et in Pomponium Melam, ed. G. Pozzi, Padova 1973, intr., pp. CLVII-CLIX.

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6. Interferenza tra humanae litterae e theologicae litterae in Era­ smo: la concezione quintilianea di grammatica, sostenuta da Valla e ripresa da Moro. Nel testo or ora citato della Lettera a Dorp ritroviamo una af­ fermazione che risulta centrale nella Epistola apologetica di Era­ smo. Questi, infatti, aveva formulato il punto di partenza e deli­ neato l’ambito contestuale della ricerca teologica nei seguenti ter­ mini: «Ego tantum tribuo theologicis litteris ut eas solas soleam appellare litteras» (Allen 2.337, lin. 350-1). E ciò comportava, qua­ le immediata conseguenza, che l’oggetto della teologia venisse sot­ toposto ad indagine con gli strumenti analitici propri delle litterae, e cioè con la grammatica e la retorica. Per la teologia assunta entro l’ambito della «litterarum scien­ tia» - per usare un’espressione classica ciceroniana -, la filologia diventava, in tutta la sua ampiezza, strumento di indagine della ri­ cerca teologica, così che le humanae litterae si inveravano nelle theologicae litterae e queste a loro volta derivavano il proprio sta­ tuto scientifico dal seno della cultura umanistica. Secondo i grandi scolastici del secolo XIII, e si pensi in parti­ colare all’Aquinate, la teologia, una volta immessa mediante una trasposizione analogica (nel senso forte e specifico che il principio dell’analogia aveva per Tommaso e contemporanei) entro la strut­ tura dell’episteme aristotelica, necessariamente doveva appropriar­ si degli strumenti operativi di ricerca e di argomentazione elaborati negli Analitici (sia Priori che Posteriori). Anche per Erasmo e Moro - e, prima di loro, per Lorenzo Valla - il rinnovamento della teologia doveva effettuarsi seguendo lo stesso procedimento, anche se in senso inverso. La teologia cioè - come del resto era accaduto in altri campi, ad esempio la storio­ grafia e la pittura -, una volta accettato quale modello scientifico la «litterarum scientia», doveva assumere, sempre mediante una trasposizione analogica, i propri strumenti operativi di ricerca dal­ la «grammatica» o «litteratura» (Inst. orat. IL 14.3) e configurarsi alla retorica nella propria struttura scientifica di argomentazione dimostrativa.20

20 Sul tema storiografia-retorica nel Valla, si veda L. Valla, pp. 67-68, ma so­ prattutto G. COTRONEO, I trattatisti dell'«Ars historica», Napoli 1971, pp. 48-74 e passim. Su pittura-retorica: P.O. KRISTELLER, The Modem System of thè Arts, (art. del 1951-52) ora in Renaissance Thought II. Papers on Humanism and thè Arts, 1965, pp. 178-189; A. CHASTEL, Arte e Umanesimo a Firenze al tempo di Lo-

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È sulla base di siffatto novum organon della scienza teologica - che ormai ci sembra di poter definire quasi communicatio idiomatum tra humanae litterae e theologicae litterae - che Moro arti­ cola l’ampio discorso della Lettera a Dorp. Egli infatti illustra quel­ la communicatio nei suoi momenti essenziali: grammatica e retori­ ca in funzione operativa della ricerca teologica, ripresa della teologia patristica che di quei medesimi strumenti analitici si era servita, filologia scientifica quale metodo critico di esegesi e rico­ struzione dei testi scritturistici. Ma vediamo con ordine il progressivo sviluppo del discorso moreano. Per l’Umanista inglese, Erasmo «grammatico» assume in pro­ prio l’eredità del latino Varrone e del greco Aristarco dell’antica Scuola alessandrina,21 E, infatti, secondo la concezione del De lin­ gua latina di Varrone e delle «edizioni» di Aristarco che Erasmo mette la grammatica in funzione dell’analisi teologica. Per Moro, però, ed è bene sottolinearlo ancora una volta, v’è distinzione fra «grammaticus» e «grammaticulus». Tale distinzione, com’è evidente da tutto il contesto, non implica tanto una discri­ minazione tra pedanteria e serietà di indagine quanto piuttosto la precisa concezione della «grammatica» quale scienza filologica, co­ me Erasmo l’aveva appresa dall’umanesimo italiano: dal Valla, dal Poliziano e da Ermolao Barbaro, i nomi che più spesso si incon­ trano nella corrispondenza di questi anni e nella stessa Epistola apologetica.22 Il riferimento a Lorenzo Valla - come all’umanista cui si deve nella prima metà del secolo XV il recupero della grammatica, nel-

renzo il Magnifico. Studi sul Rinascimento e Sull’Umanesimo platonico, Torino 1964, pp. 103-112; N. Maraschio, Aspetti del bilinguismo albergano nel De pietura, «Rinascimento», XII, 1972, ma pubbl. 1974, pp. 187-199; ma specialmente M. Baxandall, Giotto and thè Orators: 1350-1450, Oxford 1971, (sul Valla, le pp. 111-120). 21 Per il riferimento a Varrone, vedi il proemio al lib. II delle Elegantiae del Valla dove si parla a lungo dei cultori della grammatica latina, in Opera, I, pp. 4142; testo lat. e trad. it. in Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. GARIN, Milano-Napoli 1952, pp. 602-607. Su le edizioni (ekdoseis'} di Aristarco, cfr. G. PA­ SQUALI, Storia della tradizione e critica del testo, Firenze 1962, pp. 201-247. 22 Sulla ripresa della filologia scientifica valliana in Poliziano e nell’ambien­ te fiorentino della seconda metà del Quattrocento, vedi R. CARDINI, La critica del Landino, Firenze 1972, pp. 1-65 (in part. le pp. 39ss e la nota 64). Inoltre, in FI. Barbari, Castigationes, ed. cit., le pp. CXI1-CLXVIII della Introduzione di G. Poz­ zi, estremamente importanti per il contesto dell’argomento che stiamo trattando.

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la concezione che qui viene contrapposta all’altra estremamente ri­ duttiva avanzata da Dorp - è importante per comprendere la pa­ gina della Lettera moreana. Nella risposta data da Moro, infatti, al Lettore di Lovanio vi è riflessa in sintesi la posizione sostenuta dal Valla circa la definizione e il ruolo della grammatica, desunti dalla institutio oratoria e, oltreché applicati, resi espliciti e sviluppati a livello teorico. E noto che Quintiliano dedica l’intero libro I della sua opera alla grammatica considerata come base e punto di partenza della formazione del retore, della «institutio oratoria» appunto. La grammatica, ad un tempo «metodica» e «istorica», è con­ cepita da Quintiliano come la dottrina dei «fondamenti» della «scienza del linguaggio». Essa, cioè, comporta non tanto una pre­ cettistica del parlare e dello scrivere rettamente, fissata come dot­ trina prescrittiva del processo discorsivo, quanto piuttosto un’in­ dagine diretta all’analisi descrittiva della prassi linguistica e allo studio delle fonti e dello sviluppo storico del linguaggio. Si hanno così i vari momenti dell’indagine filologica dei testi letterari (le auc­ toritates), e cioè: la emendata lectio e la enarratio, l’una e l’altra sor­ rette dalFflcre’ judicium di carattere storico e critico. Si giunge in tal modo ad una lettura filologica dei testi che si colloca entro l’ana­ lisi più ampia delle strutture linguistiche, dalla fonetica all’orto­ grafia, dalla morfologia alla sintassi e alla semantica. Pertanto, si­ mile indagine filologica diviene ricerca delle radici storico-sociali delle strutture linguistiche che vengono individuate da Quintiliano da un lato nella vetustas, nell’auctoritas e nella consuetudo, dall’al­ tro nella ratio fondata analogia e la etymologia. L’«ars gram­ matica» assurge così per l’Autore della Institutio a scienza filologi­ ca e linguistica ad un tempo e, inscindibilmente, a disciplina teo­ rica e storica. Referenze più precise sulla determinazione della scienza filo­ logica si hanno nel cap. 1 del lib. II della Institutio, ove Quintilia­ no stabilisce il rapporto grammatica-retorica. Ed è appunto nel li­ bro II che il Retore latino scrive che la grammatica («quam in latinum transferentes litteraturam vocaverunt», II.l.4) deve essere considerata, in tutta la sua ampiezza e importanza, in quanto «scienza delle lettere». Il ruolo che le compete e l’oggetto che le è proprio, sempre secondo Quintiliano, vengono messi a fuoco nel momento in cui si considerano in funzione diretta della retorica. Questa infatti è la scienza comprensiva di tutte le branche del sa­ pere, in quanto ogni sapere, implicando necessariamente un lin­ guaggio, rientra per ciò stesso nell’ambito della «litteratura». La

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retorica dunque è la scienza che include in sé, come parti inte­ granti e organiche di se stessa, tutte le altre scienze. E in questo senso (al termine di un’ampia indagine circa la na­ tura e le dimensioni dell’oggetto proprio della retorica) che Quin­ tiliano può concludere: «Ego, neque id sine auctoribus, materiam esse rhetorices iudico omnes res quaecunque ei ad dicendum subiectae erunt» (11.21.4). Si comprende allora tutta la portata della funzione di fundamentum, in rapporto alla retorica, attribuita alla grammatica e le implicanze che la ripresa della concezione quinti­ lianea ebbe per Poliziano come per Ermolao Barbaro, per Erasmo e per Moro, e prima ancora per chi come il Valla aveva, e origina­ riamente, operato quel recupero. L’appropriazione dell’un grammatica di Quintiliano aveva con­ dotto il Valla ad elaborare una specifica teorizzazione del linguag­ gio e ad indagare sulle modificazioni e diversificazioni storiche di un sistema linguistico. E ciò non soltanto in opposizione alla ma­ nualistica medievale, ritenuta immeritevole di seria considerazione, ma anche nei confronti del grande triumvirato: Prisciano, Donato e Servio, che tuttavia l’Umanista non reputa dover escludere dal­ l’acribia della sua critica. Si pensi alle Elegantiae e all’Apologus II, AYEpistola a Serra e al proemio della versione latina di Tucidide. Ma il quintilianesimo del Valla non si fermava qui. Infatti, nel libro I delle Dialecticae disputationes l’Umanista sottoponeva a re­ visione critica, appunto «grammaticale», la terminologia dei predicamenti e dei trascendentali su cui si reggeva il linguaggio catego­ riale e ontologico della Scolastica aristotelica; e in seguito, nelle Adnotationes, assumerà i criteri filologici, enunziati dalla Institutio, come base dell’esegesi neo-testamentaria. Di qui la critica valliana nei confronti dei giuristi e dei dialettici, dei filosofi come dei teolo­ gi, i quali tutti per aver disdegnato la «grammatica» sono caduti nel­ la più completa «litterarum imperitia», e fino al punto che non sol­ tanto ignorano lo stesso linguaggio della propria disciplina - «ver­ ba scientiae suae» -, ma addirittura lo corrompono. Di qui, ancora, il disprezzo dell’Umanista romano per i cultori delle scienze sacre «qui negant theologiam inservire praeceptis artis grammaticae».23

23 Elegantiae, lib. II, proemiar», in Opera I, pp. 4 ls; Dial. disp. lib. II, cap. 5, ivi, p. 701; e per la citazione Adnotationes in Novum Testamentum, ivi, p. 808a (Mt. 4,10). Cfr. L. Valla, pp. 101-108, 180-192, 218-228. Testo dell’Apologus II, ivi, in appendice, pp. 503-534 (= Opera I, pp. 375-359). ^Epistola a Serra e Proe­ miai» alla traduzione di Tucidide in Oraciones y prefacios por L. Valla, a cura di E Adorno, Santiago del Cile 1956, pp. 114-149 e 278-289.

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La posizione sostenuta dal Valla provocherà aspre polemiche all’interno della stessa cultura umanistica. Ad esempio, nei confronti di Bartolomeo Fazio e del gruppo di umanisti alla corte di Alfonso d’Aragona, Lorenzo difenderà, nelle Eecriminationes (1447), la «grammatica secondo Quintiliano» in opposizione alla «grammatica secondo Prisciano». La controversia si dispiegherà, poi, e in tutta ampiezza, con le Invectivae anti-valliane di Poggio Bracciolini negli anni ’50. 24 Que­ sti, il primo a cogliere le dimensioni specifiche del quintilianesimo laurenziano, darà un giudizio estremamente negativo dell’opera maggiore del Valla, le Elegantiae, dove appunto i criteri della grammatica metodica e storica della Institutio erano stati applicati alla letteratura classica latina. «Totus est sermo de vi verborum si legge nella Invectiva I, e citiamo un brano di ben più ampio di­ scorso sull’opera valliana - et disputantiunculae cuiusdam paedagoguli stulti, aut grammaticuli in triviis de quaestiunculis puerili­ bus atque inanibus disputantis, ut qui stultissimus fieri et linguae latinae omnino ignarus cupiat, libros eos memoriae commendet» {Opera, 1.194). Dove è evidente che l’Umanista fiorentino, addirit­ tura capovolgendone la concezione, accusa il Valla di grammaticismo. La critica infatti sarà ribadita - ed estesa ai «laurentiani» nel corso della polemica. Inoltre il Bracciolini, con ancor maggio­ re perspicacia, coglierà in tutta la sua portata il rapporto tra ars grammatica e teologia messo in opera dal Valla: quel rapporto tra filologia scientifica ed esegesi biblica, già presente nelle Elegantiae, che verrà via via reso sempre più esplicito sino a giungere a matu­ razione nelle Adnotationes. Il Bracciolini, in questo caso, non esi­ terà a denunciare il Valla, pubblicamente (nelle Invectivae) e pri­ vatamente (con le Epistolae), accusando l’Umanista romano di «eresia». Secondo Poggio, infatti, Valla «disprezza la Sacra Scrit­ tura e i suoi traduttori», particolarmente Girolamo, e ripropone una revisione completa della Vulgata, al di là di semplici variazio­ ni, «attaccandosi alle parolette come ad uno scoglio, come vuole il costume dei grammatici»; e ancora: «questo barbaro impazzito» si presenta a noi e ai posteri quale «novus doctor gentium et alter in Scriptura Sacra Origenes» {Opera, I. 191 e 210). Quando Martin Dorp nella sua critica anti-erasmiana rinfaccerà ai grammatici la pretesa di assurgere a «censores omnium di24 Le Invectivae in L. Valloni I II III V si hanno in POGGII, Opera Omnia, voi. I (Basilea 1538), ed. anast. Torino 1964 a cura di R. Tubini, pp. 188-251; la Invectiva IV, nel voi. II della med. ed., an. 1966, pp. 865-885.

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sciplinarum» e di dare alla luce per i contemporanei «novam theo­ logiam [...] nascituram tandem aliquando cum ridiculo mure», verrà a trovarsi nella stessa linea dei «poggiani» (di un tempo) in opposizione ai nuovi «laurentiani». Si comprende allora perché la difesa del Novum Instrumentum erasmiano da parte di Moro sarà fondata precisamente sulla funzione di filologia scientifica attri­ buita dal Valla all’^rj grammatica.25 7. L'apologia dorpiana della dialectica e critica moreana del «dialetticismo» tardo-scolastico.

La dialettica - e non lo schematismo filologico della gramma­ tica - è lo strumento scientifico che determina l’indagine teologica e lo sviluppo della teologia: questo, in sintesi, ribadiva Dorp nella seconda Lettera a Erasmo (il cui testo è stato da noi citato nel pa­ ragrafo precedente e che occorrerà continuare ad aver presente nella risposta di Moro). Dorp, contrapponendosi a Erasmo sul ruolo privilegiato e ne­ cessario della funzione argomentativa della dialettica in teologia, si serve delle stesse autorità patristiche cui la cultura umanistica vo­ leva richiamarsi. Egli cita dal De doctrina christiana (lib. 2, cc. 13 e 31) del «grande dialettico» Agostino e dal Commento ad Eze­ chiele di Girolamo - un brano che Dorp legge però secondo la Glossa Ordinaria - a conferma della tradizione scolastica. Il Let­ tore di Lovanio è così in grado di affermare con Girolamo che il teologo, per opporsi agli errori della filosofia precristiana o anti­ cristiana, deve necessariamente ricorrere all’tfH' dialectica-, ed ha la possibilità di riasserire con Agostino che l’argomentazione teologi­ ca non può fondarsi se non sulla disputationis disciplina: il Vesco­ vo di Ippona ritiene giustamente - ricorda Dorp - che l’antinomia «aedificari-inflari» della scientia cristiana si risolve in senso positi­ vo soltanto quando il sapere della fede si alimenta o, meglio, si rea­ lizza come scientia rerum, materia appunto della dimostrazione dia­ lettica, mentre l’antinomia ha esito negativo qualora quel sapere cada nella futile scientia signorum, oggetto della grammatica e del­ la retorica.

25 L. Valla, pp. 33-36, 89-100, 105-108, 350-403 (con particolari riferimenti alla corrispondenza epistolare di Poggio Bracciolini e all’ampliarsi della polemica con l’Umanista romano, nei vari centri culturali della Penisola); M. FuiANO, In­ segnamento e cultura a Napoli nel Rinascimento, Napoli 1971.

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Il Maestro di Lovanio può quindi rifiutare il tentativo di re­ staurazione teologica, proposta da Erasmo, richiamandosi alla stes­ sa tradizione patristica - in realtà fondandosi su testi avulsi dal lo­ ro contesto, ben più complesso e certamente non a favore del dialetticismo contemporaneo. Comunque, Dorp partendo da simili premesse accusa Erasmo di superficialità quando questi confonde la «sofistica» con la «dialettica». La confusione, sottolinea Dorp, dipende dal fatto che Erasmo non conosce né Luna né l’altra e, per conseguenza, non può valutare né stimare il contributo dato alla Scolastica, soprattutto nel campo della logica, dalle Facoltà teolo­ giche di Parigi e di Lovanio. Cave, mi Erasme, ne falsa opinione sophistas voces qui syncerissimi sunt omnium qui hodie vivunt dialecticorum. Neque enim potes recte diudicare inter dialecticum et sophistam quid intersit, si utramque artem ignores. Quod si Lovanienses omnes atque eo magis Parisienses theolo­ gos sophistas facis, fit ut dialectica toto exulet orbe exulaveritque multis saeculis (Allen 2. 347, lin. 298-304).

Le affermazioni di Dorp, soprattutto se considerate nell’insie­ me della rigorosa articolazione di questa seconda Lettera ad Era­ smo, sono tutt’altro che trascurabili. Esse verrebbero senza dubbio condivise e giudicate positivamente dagli storici odierni della logi­ ca medievale, mentre assurgerebbero per gli studiosi della cultura umanistica a documentazione della frattura tra i cultori delle lette­ re e quelli della dialettica: conseguentemente gli storici medievali­ sti e quelli dell’umanesimo darebbero valutazione opposta sui lo­ vanienses e i parisienses circa lo sviluppo o l’involuzione della lo­ gica. Di detta frattura e di siffatta opposta valutazione sui dialettici - lo ricordiamo di passaggio per sottolineare una certa continuità di problematica nello scontro tra le “due culture” dagli ultimi de­ cenni di fine secolo - si era avuta lucidissima manifestazione nel dibattito tra Pico e Ermolao Barbaro negli anni ’80.26 Tommaso Moro, che del brano della Lettera di Dorp percepi­ sce la posta in gioco, è costretto a riprendere la critica umanistica al dialetticismo della tarda Scolastica e a riproporre la retorica

26 prosatori latini del Quattrocento, cit., pp. 804-823: Lettera eli Pico a E. Barbaro, 3.VI. 1485; pp. 844-863: Lettera di E. Barbaro a Pico, dell’anno succes­ sivo. Cfr. E. Garin, Medioevo e Rinascimento. Studi e ricerche, Bari 19612, pp. 245-246; VASOLI, cit., pp. 129-131, ma si vedano anche le pp. 116ss per il riferi­ mento a Poliziano che seguirà tra breve. Per l’insegnamento di Poliziano, cfr. VERDE, cit., voi. II, pp. 26-29 (ivi rimandi bibl. e relative precisazioni).

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quintilianea quale scienza inclusiva, e però differenziale, della dia­ lettica. Di qui il ritorno all’immagine-Zopm di Zenone e della scuo­ la stoica per esprimere la diversità/inclusione di dialettica e retori­ ca: l’una differisce dall’altra come «il pugno dalla mano aperta» sì che, fuori metafora, «quae dialectice colligit astrictius, eadem om­ nia rhetorice copiosius explicat» (Rogers 15.195s). Moro può aver attinto quella immagine in varie fonti, anche se la formulazione verbale c’induce a pensare che abbia influito su di lui la lettura di­ retta del testo della Inst. orat. 11.20,7. Ciò che qui preme, però, è di mettere in evidenza l’ampiezza con cui l’Umanista inglese rende esplicita la concezione stoica della retorica, che era già stata di Iso­ crate e che Quintiliano aveva elaborato nella Institutio. Il primato, quasi di monopolio, della Dialettica attribuito da Dorp ai parisienses e ai lovanienses costituisce dal punto di vista di Moro la manifestazione privilegiata della crisi in cui si trova la lo­ gica aristotelica della tarda Scolastica. Anzi, indice di questa crisi era proprio la querelle tra Parigi e Lovanio dei nominalisti e reali­ sti, i quali, pur da posizioni antitetiche o quasi, si richiamavano gli uni e gli altri ad Aristotele e alla medesima tradizione scolastica. Ora, scrive Moro - e il dilemma era proposto al Lettore di Lova­ nio in modo piuttosto brutale - delle due l’una. O quella disputa verteva intorno all’esatta interpretazione delVOrganon aristotelico, e allora l’unico modo di risolvere la questio­ ne era quello indicato da Lefèvre d’Etaples e cioè la rilettura filo­ logica dei testi del Filosofo antico. A Lovanio e a Parigi nominalisti e realisti avrebbero dovuto adottare la metodologia (derivata dall’Umanesimo italiano e, più immediatamente, da Ermolao Barbaro) del Maestro del Collegio di Lémoine e leggere attentamente i suoi Commentari ai testi aristotelici. Dove (lo accenniamo per inciso) è evidente la ripresa da parte di Moro della tematica di Poliziano nel­ le prolusioni ai corsi sugli Analitici nello Studio fiorentino. Oppure la disputa fra nominalisti e realisti rimaneva, contro ogni apparenza, ai margini del campo della Dialettica - «nec attinet certe si ad Aristotelem non attinet, modo is dialecticam perfecte tra­ diderit» -, e allora la polemica prolungatasi «per tanti anni e a spa­ da tratta» non ha nulla a che vedere con l’insegnamento della logi­ ca aristotelica nelle due Facoltà di teologia (Rogers 15. 302-317). Posto così il dilemma, quasi argomentando ad hominem, Mo­ ro passa alla critica dell’insegnamento e della manualistica corren­ te della Dialettica. La didattica della dialettica, come della grammatica, aveva per­ so ormai, secondo Moro, attraverso le varie sistemazioni e la folta

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manualistica medievali, la essenzialità della logica aristotelica, di Porfirio e della tradizione greca e latina («veterum purissimas tra­ ditiones»), dando luogo invece ad un coacervo di quisquilie di pro­ blemi senza senso («absurda quaedam portenta ad certam bona­ rum artium nata perniciem», Rogers 15, 333.42). Tutto ciò rende­ va lo studio della grammatica e della dialettica estremamente difficoltoso sin dai primi anni di formazione, sì che non veniva af­ fatto raggiunto lo scopo precipuo dell’una e dell’altra: quello cioè di essere quasi tecniche (artes) in funzione del sapere e dello svi­ luppo della ricerca scientifica. Ora, la ragione di fondo di questo fallimento era da riscontrarsi nel duplice risultato, effetto però di un unico sviluppo, e cioè nel fatto che la grammatica era stata ri­ dotta alla dialettica e che questa aveva subito un processo di estre­ ma formalizzazione. La logica infatti si era enucleata soprattutto in­ torno alle «proprietates enunciationum» (conversio, oppositio, aequipollentia) insieme all’analisi dei vari modus e dei sensus compositus e sensus divisus, e particolarmente circa le «proprieta­ tes terminorum» (suppositio, ampliatio, restrictio, appellatio). 21 In grammatica, [...] Albertus quidam grammaticam se traditurum professus, logicam nobis quandam, aut metaphysicam, imo neutram, sed mera somnia, mera deliria grammaticae loco substituit. Et tamen hae nu­ gacissimae nugae in publicas achademias non tantum receptae sunt, sed etiam plerisque tam impense placuerunt, ut is propemodum solus aliquid in grammatica valere censeatur, quisquis fuerit albertistae nomen assequutus [...]. Caeterum liber ille Parvorum logicalium - quem ideo sic ap­ pellatum puto, quod parum habeat logices - operaeprecium est videre, in suppositionibus quas vocant, in ampliationibus, restrictionibus, appella­ tionibus, et ubi non quam ineptas, quam etiam falsas praeceptiunculas ha­ bet, ut ex quibus adiguntur inter [.„] enunciationes distinguere (Rogers 15. 341-350 e 366-371).

27 Anche per ciò che si dirà nel paragrafo seguente, cfr. W. e M. KNEALE, Sto­ ria della logica, a cura di A.G. Conte, Torino 1972, pp. 263-340; Ph. BOEHNER, Medieval Logic. An Otitiine of its Development front 1250 to c. 1400, Manchester 1959, part. pp. 77-94; J.M. BOCIIENSKI, Formale Logik, Monaco 1956, pp. 167293; R.G. VlLLOSLADA, La Universidad de Paris durante los estudios de Francisco de Vitoria O.P. (1507-1522), Roma 1938, pp. 29-127. Per la manualistica di Logi­ ca in uso in ambienti universitari, si veda anche VERDE, cit., voi. II, pp. 244-259. Sui riferimenti alla «logica modernorum» si consulti il recente e notevolissimo contributo di A. MAIERÙ, Terminologia logica della tarda Scolastica, Roma 1972.

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I dotti di Utopìa - dirà ironicamente Itlodeo - hanno vaste e approfondite conoscenze di grammatica e di dialettica, come di al­ tre branche del sapere, così che nulla hanno da invidiare alla cul­ tura dell'Antichità classica. E tuttavia non potrebbero certamente competere con le «scoperte dei nostri logici moderni» non cono­ scendo essi, i più colti dell’isola, nessuna di quelle «sottili regole» sulle proprietates terminorum, che i nostri ragazzi apprendono ovunque nei Parva logicalia.28 E in questi termini che Moro, nell’ottobre de] 1515, polemiz­ za contro il logicismo della Scolastica contemporanea nella Lettera a Dorp e nella Utopìa. Alcuni anni più tardi, nel 1519, scrivendo a Erasmo (Allen 4.268), egli approverà in pieno la pubblicazione del­ l’opuscolo di Vives In pseudodialecticos, ribadendo in tal modo la sua polemica anti-scolastica.29

8. Lo sviluppo formalistico e terministico della logica: conflitto tra litterati e dialectici. Si è visto come nella critica alla Dialettica - quale si era venu­ ta elaborando attraverso la Scolastica medievale e l’insegnamento accademico soprattutto nei secoli XIV e XV - Moro si richiamas­ se all’Organon di Aristotele, alla Isagoge di Porfirio e alla tradizio­ ne dei commentatori antichi, greci e latini, dei testi aristotelici, e cioè a quella tradizione degli antichi di cui Lefèvre d’Etaples rap­ presentava la ripresa contemporanea, e in modo esemplare, nella stessa Università di Parigi.30 II discorso moreano della Lettera a Dorp, considerato in una più ampia prospettiva storiografica, va ricondotto alla posizione di anti-formalismo logico assunta da Petrarca in poi. In realtà, la cri­ tica umanistica contro il dialetticismo della Scolastica veniva a co­ gliere e a individuare la svolta o, più precisamente, quel particola­ re e ulteriore sviluppo che la logica medievale aveva subito tra la fine del sec. XIII e tutto il XV sino alle soglie del secolo XVI. E noto infatti, come, pur sempre all’interno del sistema dell’Organon

28 Utopia, ed. CW, pp. 20-28, 158, e com. a pp. 436-437; a p. 585 (addenda) Surtz promette un art. su «More and Formai Logic», ma non siamo stati in gra­ do di accertarne l’eventuale pubblicazione.

29 Su G.L. Vives, particolarmente per la problematica qui in discussione, cfr. VASOLI, cit., pp. 214-246. 30 Cfr. VASOLI, ivi, pp. 183-213; Villoslada, cit., pp. 216-244.

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aristotelico-scolastico, riproposto dai tractatus e dalle summulae, particolare incremento fu dato alla logica terministica dai «moder­ ni» cultori dell’un’ nova, chiamati appunto «nominales terministae». Questi andarono tant’oltre nelle loro analisi da portare le sezioni concernenti le proprietates terminorum (generalmente de­ nominate parva logicatici} a tecniche quanto mai raffinate e perspi­ caci. Ovviamente, in questo sviluppo dell’Organon aristotelico sco­ lastico (e precisamente della seconda parte, cui rispondevano le suddivisioni delle summulae}, i terministae non omisero la logica proposizionale e sillogistica, e quindi tutto il sistema dell’un dia­ lectica medievale che si era venuto elaborando e ramificando da Boezio in poi. Non interessa qui né giustificare - il che sarebbe oltretutto fuori luogo - né precisare ulteriormente e tanto meno dimostrare i modi e le motivazioni che determinarono, nel periodo di tempo sopra indicato (secoli XIV-XV), lo sviluppo della Logica antica me­ dievale in senso terministico e la sua completa formalizzazione. A noi preme soltanto indicare come i cultori delle litterae comprese­ ro e avversarono l’accennato sviluppo della logica aristotelico-scolastica in senso terministico e formalistico. A questo riguardo sono significative le espressioni di insofferenza e di disprezzo che conti­ nuamente ritroviamo negli scritti degli umanisti verso i nomi dei «parigini» Buridano e Alberto di Sassonia, di Walter Burleigh e de­ gli inglesi del Merton College di Oxford come R. Swineshead, W. Heytesbury, R. Strode, di Paolo Veneto e Paolo della Pergola, e di altri ancora. In realtà, il contrasto tra i litterati e i dialectici era dato dal fat­ to che, mentre i primi, assumendo il linguaggio come sistema di si­ gnificazione, studiavano la struttura linguistico-semantica simulta­ neamente sotto l’aspetto sia metodico che storico, i secondi, nel­ l’intento di giungere al massimo di formalizzazione delle connessioni e interconnessioni discorsive, analizzavano le proprietà dei termini e delle proposizioni e le molteplici modalità della con­ sequentia. Ciò portava a condurre sino in fondo la distinzione tra procedimento logico e procedimento retorico già insito nell’Orgrtnon, e a far assurgere la Logica a completa autonomia in rapporto alla grammatica e, soprattutto, alla retorica. Ma questo implicava necessariamente la collocazione dell’analisi, terministica e proposi­ zionale come di quella sillogistica e dell’intero procedimento pro­ priamente ‘logico’, al di fuori del linguaggio storicamente dato, il parlare e il comunicare degli uomini. Il contrasto tra i cultori del­ le humanae litterae e gli analisti dell’zzry nova era, dunque, diver­ genza di cultura prima ancora che diversità di problematica.

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9. La critica di Valla alla manualistica medievale e alla didattica con­ temporanea della grammatica e della logica. E nel Valla che la critica umanistica al dialetticismo pare assu­ mere per la prima volta ampiezza e sistematicità; e precisamente nella Retractatio totius dialecticae, più nota col titolo non originale ma redazionale di Dialecticae disputationes. Opera che seguiva im­ mediatamente alle Elegantiae nelle quali Lorenzo aveva ampia­ mente e sistematicamente operato una ritrattazione della gramma­ tica con il ritorno alla classicità latina, la riflessione critica sulle opere di Prisciano, Donato e Servio e il rigetto della manualistica medievale - che era stata origine, prima, e derivazione, poi, del lo­ gicismo e metafisicismo linguistico dei teorici modistae. Parimenti era lo stesso Valla che sottolineava il rapporto di continuità fra le due opere nella Epistola a Serra, la prima apologia della critica e dei contenuti che sostanziavano le Elegantiae e le Disputationes. Nella Lettera citata, accanto ai grammatici medievali singolar­ mente ricordati ma che l’Umanista «si vergogna perfino di nomi­ nare», sono anche espressamente indicati i rappresentanti delle teorie logiche che Lorenzo ha inteso criticare: «dialecticos Albertum utrumque, Strodem, Occam, Paulum Venetum». E noto, pe­ raltro, come nelle Disputationes il Valla avesse coinvolto nella sua critica, in modo sistematico e in primo piano, Boezio e Porfirio, Eudemio e Teofrasto, e infine lo stesso Aristotele. Alla «progenie peripatetica amante di quisquilie» il Valla rim­ provera di aver tradito la «natura loquendi», la struttura cioè del linguaggio alla quale si conforma il parlare corrente dei colti e del­ le persone comuni, sia nella conversazione quotidiana che negli scritti. La tortuosità del discorso logico, che del resto si avverte im­ mediatamente (ad esempio, nei modi sillogistici indiretti della pri­ ma e della seconda figura, come in tutti quelli della terza), dimo­ stra come simili formulazioni siano ben lontane dalla «sfera natu­ rale della lingua parlata». E infatti le formulazioni sillogistiche, estranee al «vulgaris sermo» e avulse dall’integrità e coerenza in­ terna della lingua, hanno perso totalmente il senso e l’efficacia del discorso argomentativo. In base a simili osservazioni, l’Umanista può concludere che la conseguenza immediata della manipolazione - operata da Aristo­ tele e da Boezio come dai loro seguaci antichi e moderni - del lin­ guaggio quale è dato nel parlare corrente è di aver reso la logica di difficile apprensione e comprensione, creando gravi ostacoli allo stesso insegnamento di tale disciplina. Infatti, in forza di quella

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manipolazione si giunge perfino ad una formalizzazione simbolica delle diverse modalità proposizionali e sillogistiche che comporta la sostituzione di termini ed enunciati con lettere dell’alfabeto: «litterae potius quam rerum exempla, tanquam geometriam et arithmeticam traderent». L’insegnamento di una disciplina, già di per sé difficile come la logica, è reso con ciò ancora più arduo e senza dubbio incomprensibile agli alunni. Per questo motivo il Val­ la farà il seguente proponimento: sarà «unicamente l’utilità dei miei studenti» ciò che dovrà guidarmi nell’insegnamento di tale di­ sciplina («me accomodabo ut lucide ut breviter ut non aliter quam ego sentio praecepta dialecticae tradam»).31

10. L’antiformalismo logistico in Valla e in Moro: Tars grammatica e /’ars dialectica come discipline «metodiche» della prassi linguistica. Allorché Moro fa rilevare nella Lettera a Dorp le inestricabili sottigliezze nelle quali si erano impigliati l’insegnamento e l’ap­ prendimento della Logica ed invoca il ritorno alla «genuina tradi­ zione degli antichi» e alla linearità didattica dell’Organon e dell’Il’Umanista inglese ripropone sulle orme del Valla la revi­ sione integrale della Dialettica, anche se in termini e in dimensioni meno radicali di quella voluta dall’Autore delle Dialecticae dispu­ tationes. La lettura filologica, infatti, dell'Organon aristotelico, ini­ ziata del resto dallo stesso Valla e dall’amico e compartecipe dei suoi studi Giovanni Tortelli, e via via approfondita e ampliata da Poliziano, E. Barbaro, Lefèvre d’Etaples e altri, ormai ridimensio­ nava, almeno sotto certi aspetti, la critica anti-scolastica di Moro (e di Erasmo) e la collocava in un contesto umanistico storicamente differenziato e, di conseguenza, distanziato dal radicalismo valliano.32 Dove invece la critica umanistica della Lettera a Dorp viene a coincidere perfettamente con quella delle Disputationes valliane è nei confronti della formalizzazione della logica dei Tractatus e delle Summulae. Alla critica contro la «falsa» evoluzione della dia­ lettica, la quale in realtà altro non era che formalizzazione logisti­

31 L. Valla, pp. 52-56, 195, 218-228. 32 Su Giovanni Tortelli traduttore di testi aristotelici (Analitici posteriori) si veda la lettera del Valla in L. Barozzi-R. SABBADINI, Studi sul Panormita e sul Val­ la, Firenze 1891, pp. 113s, n. 62 (= L. VALLA, Opera II, pp. 419s). Sulla missiva valliana al Tortelli, cfr. M. REGOLIOSI, Nuove ricerche intorno a G. Tortelli, «Ita­ lia medievale e umanistica», IX, 1966, p. 167. Sulla vita e gli scritti del Tortelli, vedi la stessa REGOLIOSI, ivi, XII, 1969, pp. 129-196.

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ca del linguaggio in opposizione alla lingua reale (il «vulgaris ser­ mo» nei termini valliani), Moro non solo accenna ma si richiama espressamente, riprendendo in pieno la tematica del Valla. La coin­ cidenza diventa addirittura testuale. L’Umanista inglese ritiene che quando i dialettici danno agli “enunciati” significati (sensus) estranei all’intendere normale, essi fanno un’operazione linguistica arbitraria e illegittima. Con fine ironia, che sembra voler accennare alla notissima tematica dell’Utopia, Moro ricorda che le parole (vocabula) non sono degli stru­ menti o utensili appartenenti in modo esclusivo ad una professio­ ne o «arte» - nemmeno all’un dialectica -, sui quali si possa avan­ zare un qualche diritto di proprietà privata o di concessione ad uso personale. Al contrario, e in diretta opposizione al costume dei dialettici, è necessario affermare il carattere universale di comuni­ cazione civile e sociale della prassi linguistica: «communis nimirum sermo est», - espressione resa ottimamente nella versione della Rogers: «Speech is surely a common possession» (Rogers 15. 432). Dove è opportuno far rilevare che la frase moreana (come tutto il contesto) richiama l’affermazione quintilianea, ripresa insistente­ mente dal Valla che, insieme al Retore latino, la utilizzerà a indi­ care la specifica funzione del linguaggio: «utendum piane sermone ut nummo cui publica forma est». La lingua, infatti, è strumento di scambio in continua circolazione, «come la moneta»; una istitu­ zione sociale di comunicazione, strutturata in un sistema di valori correlativi. La formalizzazione logistica del linguaggio, articolata secondo la regula logices - la denominazione era specifica dei principi strut­ turali delle proprietates proposizionali e terministiche -, giunge in realtà a contrapporsi alla prassi linguistica, poiché tale formalizza­ zione «deteriora» la lingua comune e «pretende sovrapporsi» al primato del vulgaris sermo. La grammatica normativa al contrario, argomenta Moro, insegna a parlare correttamente non inventando «insuetas loquendi regulas» ma inducendo le norme generali se­ condo le quali si sviluppa la prassi linguistica di selezione e com­ binazione verbali. Essa infatti perviene a regole «quae plurimum in loquendo videt observari», e ammaestra a parlare e a scrivere «se­ cundum morem» (Rogers 15. 439-441). Ora, prosegue Moro, se l’ars grammatica deriva dalla prassi lin­ guistica, anche Vars dialectica dovrà formarsi mediante lo stesso procedimento. L’ars dialectica, infatti, deve riflettere in se stessa la struttura argomentativa del discorso secondo la coerenza e la strut­ tura intrinseche della lingua. In tal senso, esemplifica Moro, un sil­ logismo in barbara è procedimento dimostrativo non perché co-

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struito secondo la norma dialectices, ma in forza della propria ra­ zionalità della lingua in quanto costitutiva dell’articolazione apo­ dittica dell’argomentazione: «postremam orationem - la “conclu­ sione” - ad praemissa consequi docet ratio, quae regulam ob id ipsum talem fecit; alioquin aliter eam factura, quaqua versus ab ipsa rerum natura flecteretur» (Rogers 15. 445-447). Allo stesso modo, ad es., un’interpretazione ampliativa di una enunciazione perché sia corretta deve risultare per sé evidente, quasi emergere o dalla stessa realtà (ab ipsa re) oppure dalle proprietà della lingua (ex proprietate sermonis). In altri termini, l’analisi logica deve ne­ cessariamente fondarsi sulla «ratio», specifica e propria del sog­ getto reale e del significato linguistico normale che sottendono la proposizione, e non sulla «regula» fissata dai dialettici. Quanto si è detto, prosegue l’Umanista, vale per l’analitica sil­ logistica, per la logica terministica, come per la struttura quantita­ tiva e qualitativa delle proposizioni. Così, ad es., una trasposizione di termini all’interno della proposizione può senza dubbio inverti­ re e anche cambiare totalmente il significato di una enunciazione. Ciò era notissimo a coloro che hanno parlato e scritto in lingua la­ tina, ai quali di certo non mancava né ingegno né erudizione né sti­ le letterario. Ma, ancora una volta, la trasposizione dei termini di una proposizione ne muta in parte o totalmente il significato nella misura in cui il senso del discorso obbedisce e funziona secondo la struttura e le relazioni di contiguità, possibili, intrinseche e proprie di una lingua: Nemo negaverit transpositiones vocabulorum diversum saepe sen­ sum gignere [...]. Sed hoc affirmo, quando ita sensus variatur, omnes in idem mortales assentire, trahente videlicet ratione, non dialecticorum iubente potius quam persuadente regula, quorum officium est, ut more no­ stro loquentes quovis nos veris rationibus impellant (Rogers 15. 458-464).

L’Umanista inglese non poteva meglio sintentizzare, in queste pagine della Lettera a Dorp, quanto il Valla aveva scritto nel proe­ mio al libro III delle Disputationes e nell’Apologus II contro i grammatici dei De modis significandi e i dialettici scolastici delle Summulae, fondandosi sul duplice principio della linguistica quintilianea: la consuetudo e l’analogia. Ed invero il Valla non aveva fatto altro che rielaborare e svi­ luppare i presupposti enunzati nella Institutio (I.6.16ss), dove si af­ ferma che la grammatica teorizza direttamente sulla prassi storica del linguaggio: «non ratione nititur sed exemplo, nec lex est lo­ quendi sed observatio, ut ipsam analogiam nulla res alia fecerit

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quam consuetudo». Ove è evidente che per Quintiliano - e il Val­ la insisterà su questo punto, esplicitandone le conseguenze - come la consuetudo indica la realtà storico-evolutiva di una lingua (qua­ si sua dimensione diacronica), così la analogia articola l’assetto in­ terno e strutturale linguistico assunto dalla prassi (quasi dimensio­ ne sincronica della lingua stessa). Difatti, la ratio analogiae non è una razionalità (di linguaggio) aprioristica - quasi «discesa dal cie­ lo» scriverà Quintiliano e Valla ricorderà al Bracciolini nell’Apolo­ gus -, ma è riflesso della razionalità (di coerenza e struttura) pro­ pria ed insita nella pratica stessa di una lingua. Di qui deriva la ne­ cessaria conseguenza che la dialettica non venga posta né come autonoma né in opposizione alle strutture morfologiche e semanti­ che del linguaggio. La filosofia e la dialettica - scriverà l’Umanista, sempre nelle Disputationes - non possono venir meno né recedere dalla «usitatissima loquendi consuetudine». A tale proposito, il Valla prima ancora che a Quintiliano farà riferimento a Varrone per affermare che il «sermo popularis atque eruditorum» è, e de­ ve rimanere, anche per la Logica più scientificamente rigorosa, «magister loquendi».33 A questo punto diventa necessario, per lo studio comparativo che stiamo conducendo, l’accostamento testuale delle pagine della Lettera a Dorp, e precisamente 15.366-465, con il cap. 11 del lib.II delle Disputationes. La lettura diretta dei due testi, che solo per motivi redazionali riportiamo incolonnati in appendice (A), darà la migliore verifica del rapporto letterario e contestuale della posi­ zione moreana in relazione a quella valliana.34 33 L. Valla, pp. 173-208. Sulle teorie grammaticali dei «modistae», cfr. EP. DlNNEEN, Introduzione alla linguistica generale, trad. ital. dell’ed. ingl. 1967, a cu­ ra di L. Heilman, Bologna 1970, pp. 199-207 (ma si veda tutto il cap. V: «La grammatica tradizionale», pp. 177-244); J. Lyons, Introduzione alla linguistica teo­ rica, trad. dall’ed. ingl. 1968 di E. Mannucci e E Antinucci, Bari 1971, pp. 18-21; G.L. Bursill-Hall, Speculative Grammars of thè Middle Ages. The Dottrine ot «partes orationis» of thè Modistae, La Haye-Paris 1971 (su Tommaso di Erfurt e Siger di Courtrai); H.J. STIKER, Une Théorie linguistique au Moyen Age: l’Ecole Mo­ diste, «Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques», LVI, 1972, pp. 585616. Vedi anche R. AVESANI, Quattro miscellanee medioevali e umanistiche. Con­ tributo alla tradizione del Geta, degli Auctores octo, dei Libri minores e di altra letteratura scolastica medioevale, Roma 1967 (cfr. VERDE, cit., voi. I, pp. 39-41). 34 II cap. 11 del lib. II delle Disputationes, come l’intera opera, ha tre reda­ zioni: la prima si può leggere nei mss. cod. 53 della Bibl. della Badia di S. Pietro Perugia, ff. 42p-43f, oppure nell’Urb. lat. 1207 della Vaticana, ff. 105w- 107v (que­ sta redazione è riportata in L. Valla, pp. 177s); la seconda è quella a stampa, Ope­ ra I, p. 708s; la terza si può leggere nel ms. cod. 69 della Bibl. Capitolare di Va­ lenza. Cfr. G. ZlPPEL, Note sulle redazioni della Dialectica di L. Valla, «Archivio

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11. L'apologia moreana della interrelazione tra retorica e teologia se­ condo Erasmo e l’antifilologismo grammaticale di van Dorp. L’accusa di grammaticismo avanzata dalla critica anti-erasmiana di Dorp era stata risolta da Moro col dimostrare che in Erasmo la grammatica, concepita come «fondamento» della retorica, assu­ meva la funzione strumentale di filologia scientifica. La trasposi­ zione ancillare della «litteratura», poi, nell’ambito della ricerca teo­ logica significava per Erasmo, come già per il Valla, analisi filolo­ gica della Scrittura, fonte primaria del discorso teologico. In tal modo l’argomentazione apologetica di Moro approdava in realtà ad un rovesciamento dell’accusa dorpiana di grammatici­ smo. La difesa del progetto erasmiano sostenuta da Moro era refutazione puntuale della concezione dorpiana della grammatica - que­ sta sì non compossibile di strumentazione per la ricerca teologica. Nella prolusione del 1° ottobre 1513, 1’Oratio in laudem om­ nium artium, il Lettore di Lovanio aveva proposto in termini suf­ ficientemente chiari ai suoi studenti del corso ordinario nella Fa­ coltà delle Arti una netta distinzione tra la grammatica e le altre di­ scipline del trivium, dialettica e retorica; anzi, non aveva tralasciato di ironizzare contro il filologismo di «certi grammatici» antichi e recenti (come Lefèvre). Moro, quindi, coglieva nel segno quando scriveva che l’incompossibilità di una funzione ancillare della grammatica in rapporto alla teologia, derivante direttamente dalle premesse del Maestro di Lovanio, era decisamente superata dalla concezione quintilianea della «litteratura» e dalla messa in opera dell’esegesi scritturistica di Erasmo.35

storico per le provincie parmensi», IV s., voi. IX, 1957, pp. 301-315. Il parallelo tra la Lettera a Dorp e il testo valliano verrà fatto con la terza redazione di que­ st’ultimo e cioè con la stesura definitiva. Nelle tre redazioni, il cap. 11 porta sem­ pre la medesima titolazione: «De stultitia male ultentium negatione et de ipsius negationis probatissimo usu». 35 VOCHT, Monumenta Liumanistica, cit., pp. 136-139. La Oratio fu pubbli­ cata qualche settimana dopo da Maertens, e cioè il 14 ottobre 1513 (a Lovanio). E interessante, a questo proposito, rileggere la premessa, dal titolo «Dorpius stu­ diosis», che il Lovaniense scrisse per l’edizione, curata da lui stesso, della Dialec­ tica dell’Agricola per i tipi di Maertens e uscita, sempre a Lovanio, il 12 gennaio 1515. Tra l’altro Dorp avverte i lettori: «hic garrula sophistarum deliramenta ne expectetis: verum ea expectate quae a multis, scientiarum limites confundentibus, rhetoricae tributa, propria tamen sunt dialecticae» (s.n.). 11 testo integrale della bre­ ve premessa è inserito nella raccolta di scritti dorpiani del VOCHT, cit., p. 406. Su Agricola e la fortuna del De inventione dialectica nel nord Europa, cfr. VASOLI, cit., pp. 147-182: e, del med. Aut., La retorica e la dialettica umanistiche e le origini del­ le concezioni moderne del “metodo”, «Il Verri», 1969, nn. 35-36, pp. 250-306.

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Sulla stessa linea procedeva l’argomentazione moreana nei confronti del rapporto tra dialettica e teologia. La critica anti-erasmiana di Dorp veniva anche questa volta rovesciata da Moro in requisitoria contro il dialetticismo della teologia scolastica, ripro­ ponendo una diversa concezione della dialettica. All’uri dialectica, infatti, come formalizzazione logistica del lin­ guaggio che isteriliva la ricerca teologica, Moro opponeva la dia­ lettica quale argomentazione apodittica secondo leggi derivate dal­ la struttura e coerenza interna della prassi linguistica: ciò compor­ tava una concezione della dialettica come parte integrante della retorica, in coincidenza con la teorizzazione quintilianea della grammatica come «fondamento» dellUn rhetorica. In questo sen­ so la dialettica poteva essere assunta in funzione della teologia. Si portava a termine in tal modo, e coerentemente, l’operazione Valla-Erasmo di ricondurre Vorganon della teologia alla retorica, sen­ za però, con questo, rinunciare ad inglobare la dialettica nello sta­ tuto umanistico della ricerca teologica, quale dimostrazione apo­ dittica all’interno del più ampio procedimento dell’argomentazione retorica. Il presupposto fondamentale dell’intera apologia erasmiana as­ sunta da Moro risulta, in ultima analisi, dalla concezione della re­ torica, secondo la tradizione isocratea e stoica, della Institutio ora­ toria. A questo punto, la coincidenza tra Valla, Erasmo e Tomma­ so Moro circa il rapporto tra retorica e teologia, il costitutivo che sottende e regge l’intero programma umanistico della indagine teo­ logica, si manifesta nel suo fondamento e ultima ragion d’essere.

12. La concezione valliana della retorica nelle Dialecticae disputa­ tiones.

In realtà, Moro nell’indicare a Dorp il rapporto esistente tra dialettica e retorica con Limmagine-Zopor di Zenone e col criticare la formalizzazione della logica con la conseguente difficoltà della didattica di tale disciplina, non faceva altro che riprendere quanto programmaticamente Lorenzo Valla aveva dettato nel proemio al II libro delle Disputationes. La dialettica, aveva scritto l’Umanista romano, era disciplina «brevis prorsus et facilis». E immediamente ne dava ragione: «nani quid aliud est dialectica quam species confirmationis et confutatio­ nis"? hae ipsae sunt partes inventionis-, inventio una ex quinque rhe­ toricae partibus». Proseguendo, il Valla spiegava l’affermazione ini­

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ziale e indicava in sintesi la vasta schematica della Institutio ora­ toria, assunta come programma di formazione e di ricerca cultura­ le. 36 Entro tale prospettiva, poi, analizzava nel libro II e nel libro III delle Disputationes la struttura della proposizione e del proce­ dimento argomentativo. La revisione critica valliana della logica aristotelico-scolastica è condotta mediante una analitica delle varie forme proposiziona­ li e dell’intera sillogistica in base all’analogia c alla consuetudo-, i due principi, come si è visto, della linguistica quintilianea. La tesi di fondo per cui il Valla, all’interno stesso dell’analitica proposizionale e sillogistica, riduce il procedimento apodittico a parte integrante dell’argomentazione retorica viene così enunziata: Neque immerito Quintilianus et Cicero duas tantum partes fecerunt sive species probationum ut aliae sint necessariae, aliae non repugnantes sive credibiles: quarum prior ad logicos sola, utraque ad oratores pertinet.

L’asserzione circa i due tipi fondamentali delle dimostrazioni è una citazione dalla Institutio oratoria V. 8,6. Secondo Cicerone e Quintiliano - quest’ultimo sviluppa ampiamente le variazioni e le reciproche relazioni della distinzione - si danno argomentazioni che di una verità o di un fatto provano la necessità, e argomenta­ zioni che ne indicano la non-impossibilità o credibilità. Il rife­ rimento valliano, però, ai due grandi teorici latini della retorica antica è completato con la precisazione che sintetizza, e schemati­ camente, tutta la discussione di Quintiliano in proposito. Il di­ scorso propriamente logico non può darsi se non mediante il pri­ mo tipo dei due procedimenti dimostrativi, mentre il discorso re­ torico si compone e del primo e del secondo dei detti processi argomentativi. La citazione valliana dell’asserzione di Quintiliano e la preci­ sazione aggiunta costituiscono la conclusione cui l’Umanista ro­ mano giunge al termine delle pagine dedicate alla critica della lo­ gica modale tradizionale nel libro II delle Disputationes. E sono pa­ gine, aggiungiamo subito, che vanno considerate come l’asse intorno al quale gira sia la sezione finale del libro II dell’opera val­ liana che l’intero libro III, indagine sistematica delle strutture for­ mali della dimostrazione necessaria (sillogismo categorico e ipote­ tico) e di quella probabile (induzione ed epicherema).

36 L. Valla, Opera I, cit., pp. 693-694. Testo corretto e commentato in L. Valla, pp. 83ss.

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Il Valla, quindi, affermando che la dialettica si fonda unica­ mente sull’argomentazione apodittica concernente il necessario, mentre la retorica comprende in sé, quali parti complementari, sia l’argomentazione apodittica che ogni procedimento dimostrativo concernente il probabile, o epidittico in genere, intendeva istituire tra le due discipline un rapporto ben preciso: non di contrapposi­ zione e nemmeno di separazione tra le due tecniche argomentati­ ve, ma, al contrario, inclusione della dialettica nella ars rhetorica, disciplina tanto ampia da poter comprendere in sé tutte le possi­ bili modalità di procedimento dimostrativo, e quindi tecnica del discorso e metodo di ricerca pienamente adeguata alla realtà. In­ vece non si può dire altrettanto della dialettica, affermava ripetu­ tamente l’Umanista, perché questa disciplina, posta al di fuori del­ la retorica e costretta nei propri limiti (accentuati dalle preoccu­ pazioni formalistiche dei logici più o meno recenti), si trova in una collocazione innaturale, destinata per ciò stesso a isterilirsi.37 Nel libro II e nel libro III delle Disputationes, il Valla dispie­ gava in tutti i suoi aspetti teorici e tecnici la schematica quintilia­ nea del rapporto dialettica-retorica, esposta programmaticamente nel proemio (sopra citato) al libro II della medesima opera. I due libri suddetti venivano a completare il libro I delle Disputationes nel quale l’Umanista aveva sottoposto a ritrattazione {repastinatio) critica l’intero linguaggio ontologico della metafisica aristotelicoscolastica mediante la duplice reductio dei predicamenti a qualitas e dei trascendentali a res. E però, in questa riduzione, i due termini qualitas e res erano assunti, e lo si indicava con precisi riferimenti, nelle accezioni pregnanti della Institutio oratoria.38 In tal modo le Disputationes istituivano la retorica quale «scienza del linguaggio» nei suoi contenuti categoriali e nelle sue molteplici modalità tecni­ che e forme storiche. Ora, era appunto alla retorica secondo la isti­ tuzione scientifica data da Quintiliano che il Valla attribuiva fun­ zione di organon per un nuovo statuto teologico, così come era ser­ vita per la critica della filosofia e della teologia scolastica. Il Valla riconfermerà distintamente tale sistemazione metodologica in un’aggiunta all’importante proemio del libro I nella terza revisio­ ne inedita delle Dialecticae disputationes.

37 L. Valla, pp. 37-82.

38 Ivi, pp. 149-171, ma si veda anche G. Di Napoli, Lorenzo Valla. Filosofia e religione nell’umanesimo italiano, Roma 1971, pp. 57-99.

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In questa aggiunta, il Valla, incurante dei dissensi e dei con­ trasti provocati tra gli scolastici e gli stessi umanisti sin dalla pri­ ma divulgazione della sua opera, ammoniva che egli avrebbe sma­ scherato i teologi contemporanei - «imbevuti» di aristotelismo e «armati» delle scienze peripatetiche (come la metafisica, la logica, i modi significandi), ma del tutto ignari di litteratura - e avrebbe reso palesi i loro sofismi e l’inanità del mito di Aristotele. Egli scri­ veva certo non senza consapevolezza della sua opera scientifica: «riesaminerò i principi della dialectica e i fondamenti della philo­ sophia naturalis e della philosophia moralis per confutare, ad un tempo, Aristotele ed aristotelici, ut ab errore quoad possum [