Lineamenti di diritto dello sport 9788892103023

Il volume è dedicato allo studio di quell'area giuridica che ha ormai assunto una propria autonoma dignità: il diri

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Indice
Prefazione Malagò
Prefazione Petrucci
Prefazione Frattini
CAPITOLO PRIMO L’ordinamento sportivo, i soggetti e le sue fonti
CAPITOLO SECONDO Doping e diritti audiovisivi
CAPITOLO TERZO L’organizzazione della giustizia sportiva
CAPITOLO QUARTO La responsabilità sportiva
Appendice anastatica
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Lineamenti di diritto dello sport
 9788892103023

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Lineamenti di diritto dello sport

Angelo Maietta

Lineamenti di diritto dello sport

G. Giappichelli Editore – Torino

© Copyright 2016 - G. GIAPPICHELLI EDITORE - TORINO VIA PO, 21 - TEL. 011-81.53.111 - FAX 011-81.25.100

http://www.giappichelli.it

ISBN/EAN 978-88-921-0302-3

Stampa: Stampatre s.r.l. - Torino

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/ fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le fotocopie effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org.

A tutti i bambini del mondo perché lo sport insegni loro i valori della vita

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Lineamenti di diritto dello sport

Lo sport va a cercare la paura per dominarla, la fatica per trionfarne, la difficoltà per vincerla. PIERRE DE COUBERTIN

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Lineamenti di diritto dello sport

Indice pag. Prefazione di Giovanni Malagò

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Prefazione di Giovanni Petrucci

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Prefazione di Franco Frattini

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CAPITOLO PRIMO L’ordinamento sportivo, i soggetti e le sue fonti SEZIONE I. L’evoluzione dell’ordinamento sportivo

1

1. Le origini dell’ordinamento sportivo e le sue caratteristiche 1.1. L’autonomia e la legge 17 ottobre 2003, n. 280 1.2. L’ordinamento sportivo nazionale e l’ordinamento comunitario ed internazionale 1.2.1. Il Libro Bianco sullo sport

1 7 19 26

SEZIONE II. I soggetti dell’ordinamento sportivo

28

2. I soggetti dell’ordinamento sportivo 2.1. Il CIO-Comitato Olimpico Internazionale e la Carta olimpica 2.2. Il CONI-normativa e rilievo nell’ordinamento sportivo 2.3. Gli organi del CONI e il suo statuto 2.4. Le Federazioni sportive, disciplina generale 2.5. Le Discipline sportive associate, enti sportivi, società e associazioni dilettantistiche 2.6. Le Leghe 2.7. Gli atleti 2.8. Ausiliari sportivi, giudici e ufficiali di gara 2.9. Istruttori e maestri sportivi 2.10. Il procuratore sportivo di calcio

28 30 36 41 52 57 63 64 66 68 68

X

Lineamenti di diritto dello sport

pag.

SEZIONE III. Lo sportivo nel rapporto di lavoro

70

3. Rapporto di lavoro sportivo prima e dopo la legge n. 91/1981 3.1. Lavoro sportivo: autonomo o subordinato? 3.1.1. Il contratto di lavoro dello sportivo

70 76 78

CAPITOLO SECONDO Doping e diritti audiovisivi SEZIONE I. Il doping

89

1. Il doping, fenomeni e regolamentazione 1.1. I casi affrontati dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria

89 97

SEZIONE II. I diritti di trasmissione audiovisivi

104

2. Lo sport come spettacolo 2.1. I diritti audiovisivi sportivi 2.2. Il diritto all’immagine nello sport

104 108 113

CAPITOLO TERZO L’organizzazione della giustizia sportiva SEZIONE I. Linee generali

119

1. La giustizia sportiva e il contributo del diritto comunitario 2. Il vincolo di giustizia e l’esigenza di una tutela effettiva 2.1. Verso la riforma della giustizia sportiva 3. Il Codice di Giustizia Sportiva 3.1. Il processo sportivo e la sua disciplina 3.2. Le funzioni del Giudice sportivo 3.3. I Giudici federali 3.4. Il Procuratore federale 3.5. I tempi del processo sportivo

119 124 131 133 150 154 158 164 168

SEZIONE II. I nuovi organi di Giustizia

170

4. Gli organi di Giustizia presso il CONI 4.1. La Procura generale dello sport e le sue funzioni 4.1.1. Il Procuratore generale 5. Il Collegio di garanzia 5.1. Il procedimento dinanzi al Collegio di garanzia

170 174 178 180 182

Indice

XI pag.

CAPITOLO QUARTO La responsabilità sportiva 1. La responsabilità sportiva: inquadramento 2. La responsabilità dell’atleta e le cause di giustificazione della condotta sportiva lesiva, la c.d. “scriminante sportiva” 2.1. Gli sport a violenza necessaria, a violenza eventuale e gli sport estremi 2.2. La liceità dell’attività sportiva 2.2.1. Il pugilato e le arti marziali. Il caso Lupino 2.2.2. Il calcio, il basket e la pallavolo 2.2.3. Gli sport su strada e sulla neve 3. La responsabilità per la gestione delle aree sciabili attrezzate 4. La responsabilità del gestore di altri impianti sportivi 4.1. Il caso Giampà e la responsabilità delle società sportive 4.1.1. (Segue). La responsabilità dell’arbitro 4.1.2. (Segue). Il danno risarcibile 4.2. Il caso Juventus 4.2.1. (Segue). Il concorso di colpa della vittima 4.2.2. (Segue). Il ruolo delle Forze di Polizia 5. La responsabilità dell’organizzatore di eventi sportivi 5.1. La responsabilità del CONI e delle Federazioni sportive 6. La responsabilità del medico sportivo 6.1. La responsabilità del medico per l’erronea valutazione dell’idoneità dell’atleta all’attività sportiva agonistica. Il caso Curi 6.1.1. (Segue). La responsabilità concorrente della struttura sanitaria presso la quale il medico opera 7. La responsabilità degli insegnanti ed istruttori sportivi

Codice della Giustizia Sportiva

191 197 207 209 210 215 220 227 231 234 240 242 245 250 252 257 260 262 264 265 266

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Un particolare ringraziamento alla Dottoressa Carmen Guerriero per la ricerca dei materiali e la paziente revisione delle bozze.

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Lineamenti di diritto dello sport

Prefazione Il diritto sportivo è una partita infinita. Da giocare a campo aperto, perché oggetto di approfondimenti costanti. Si caratterizza come materia di confronto che sa appassionare e dividere, suscitando riflessioni e valutazioni legate ai riflessi della giustizia ordinaria, forte di quella sua accentuata specificità che è un patrimonio da difendere ma senza rinunciare a costanti aggiornamenti finalizzati a rendere sempre più chiari i contenuti di una fattispecie fondamentale per regolare i rapporti e le attività del nostro mondo. Questa pregevole pubblicazione è una guida completa ed esaustiva, che sa soddisfare molteplici profili, partendo dal rapporto tra ordinamento sportivo e statale, con un focus sulla struttura delle Federazioni, passando per l’analisi delle responsabilità civili e penali applicate al movimento agonistico, fino alla valutazione, nel dettaglio, dei contorni della giustizia sportiva. È doveroso sottolineare che la nostra organizzazione ha sempre risposto alle sollecitazioni esterne con estremo rigore, conservando la propria unicità con orgoglio e capacità, circostanza che fa capire l’importanza che riveste la salvaguardia dell’autonomia dello sport, uno dei capisaldi del fenomeno sotto il profilo giuridico. Questo vuoi dire però anche essere pronti a modificare le interpretazioni, rivisitandole, considerando anche come il nostro mondo sia fortemente caratterizzato dai veloci mutamenti che si registrano a livello economico e sociale. Il qualificato contributo di questo volume fa luce sulla complessità del fenomeno e ci aiuta a comprendere come il diritto sportivo sia oggetto di studio e, contestualmente, un fondamentale strumento di lettura delle dinamiche con cui il movimento si relaziona rispetto all’organizzazione e all’ordinamento statale. Il professor Maietta ci regala una mirabile sintesi tra ricerca accademica e una certificata attività maturata attraverso l’esercizio professionale e didattico, permeata anche di quella grande passione nei confronti dello sport che è la genesi di questa opera, concepita per fornire un punto di riferimento essenziale agli operatori del diritto e agli studenti. Perché chiunque abbia a cuore le vicende del movimento non può prescindere dalla conoscenza dei principi fondamentali e delle regole dell’ordinamento sportivo.

Presidente del CONI

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Lineamenti di diritto dello sport

Prefazione Questo Manuale di Diritto dello Sport è un importante contributo ad una materia in continuo divenire, ormai dotata di una propria dignità scientifica, con aggiornamenti non riscontrabili in altre pubblicazioni. Il Diritto allo Sport ha assunto una rilevanza sempre maggiore non solamente nella vita delle istituzioni sportive, dal CONI alle Federazioni sportive nazionali, ma anche nella quotidianità di chi opera nel mondo dello sport ai più diversi livelli, dagli atleti ai dirigenti, fino ad arrivare al pubblico degli appassionati che discute di leggi e di norme sull’onda di quanto trova ampio spazio nei media. Nella mia lunga carriera di dirigente sportivo ho visto la crescita e lo sviluppo del diritto sportivo come disciplina trasversale tra i diversi rami del diritto pubblico e del diritto privato: è una materia sicuramente complessa. Sotto questo aspetto, il Manuale si rivela uno strumento indispensabile per comprendere le regole che governano lo sport, aumentando così le conoscenze sia dello studioso, sia dell’addetto ai lavori. Credo fortemente che l’evoluzione delle norme sia un preciso impulso di modernizzazione per l’intero settore. Il recente Codice di Giustizia voluto dal Presidente del CONI Giovanni Malagò, adottato dallo stesso Ente e da tutte le Federazioni, che in questo volume viene raccontato con dovizia di particolari, ne è una fedele testimonianza. Angelo Maietta, avvocato, docente universitario, non solo possiede le conoscenze doverose per scrivere questo testo, ampio e ben documentato, ma anche le giuste esperienze professionali maturate nella Federcalcio, poi presso l’Associazione Italiana Calciatori e negli Organi Giudicanti del CONI e della Federbasket per confezionare un lavoro che non si ferma a mere citazioni teoriche, ma offre, invece, preziose fattispecie corroborate della pratica quotidiana.

Presidente della Federazione italiana Pallacanestro

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Lineamenti di diritto dello sport

Prefazione Il Diritto Sportivo, come oggetto di studio e di ricerca, è recentissimo; per molti anni, infatti, in ambito statale, l’ordinamento sportivo non è stato considerato alla stregua di un vero e proprio sistema giuridico. Si tratta, quindi, di una disciplina relativamente giovane – che risente, più di altre, dei veloci mutamenti registrabili nel tessuto sociale ed economico – e dinamica, proprio perché del tutto speculare all’oggetto della sua regolamentazione, ossia l’attività sportiva. Pur tuttavia, la rilevanza sempre crescente dello sport come fenomeno economicamente considerevole ha determinato negli ultimi tempi una inevitabile inversione di tendenza. E se, per tutti coloro i quali non operano nel mondo dello sport, l’idea di ordinamento giuridico sportivo e, soprattutto, l’importanza della sua autonomia risultano essere di difficile collocazione concettuale, prima ancora che sistematica, bisogna prendere definitivamente atto che tale concetto ha oggi trovato la sua positiva affermazione con la legge n. 280/2003 e che, peraltro, una delle manifestazioni più importanti attraverso le quali tale autonomia si realizza è rappresentato proprio dal profilo della autonormazione e della autodichia. Dal punto di vista legislativo, l’autonomia dell’ordinamento sportivo italiano ha avuto – unico caso al mondo – un esplicito riconoscimento con una legge (n. 280/2003) nella quale si afferma che «la Repubblica riconosce e favorisce l’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, quale articolazione dell’ordinamento sportivo internazionale facente capo al Comitato Olimpico Internazionale» e che «i rapporti tra l’ordinamento sportivo e l’ordinamento della Repubblica sono regolati in base al principio di autonomia, salvi i casi di rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazione giuridica soggettiva connessa con l’ordinamento sportivo». Ciò comporta che tutte le controversie sportive dovrebbero essere risolte nell’ambito di tale sistema di giustizia endo-ordinamentale e solo eccezionalmente – laddove siano coinvolti diritti soggettivi fondamentali o riguardanti questioni patrimoniali – sia possibile rivolgersi alla giustizia statale, sempre dopo che comunque siano stati percorsi tutti i gradi della giustizia sportiva. Un sistema, quello della giustizia sportiva, caratterizzato da propri organi, principi ed istituti, estremamente affascinante, ma nel contempo molto complicato e

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Lineamenti di diritto dello sport

variegato, nonostante l’operazione di semplificazione condotta dal CONI con la recente riforma, all’apice del quale è oggi collocato il Collegio di Garanzia dello Sport, di cui l’Autore, il prof. Angelo Maietta, costituisce un autorevole componente. Un vivo ringraziamento, allora, all’Autore della pubblicazione, per aver predisposto, alla luce della sua competenza e conoscenza del mondo sportivo, frutto di tanti anni di qualificata esperienza maturata sul campo, uno strumento di conoscenza ed analisi che, per completezza di materia e facilità di consultazione, sono sicuro costituirà un valido supporto ed un prezioso ausilio nel lavoro quotidiano non solo degli utenti specializzati, ma anche di chiunque intenda avvicinarsi per la prima volta a questo mondo. FRANCO FRATTINI Presidente Collegio di Garanzia

CAPITOLO PRIMO

L’ordinamento sportivo, i soggetti e le sue fonti SOMMARIO: SEZIONE I. L’evoluzione dell’ordinamento sportivo. – 1. Le origini dell’ordinamento sportivo e le sue caratteristiche. – 1.1. L’autonomia e la legge 17 ottobre 2003, n. 280. – 1.2. L’ordinamento sportivo nazionale e l’ordinamento comunitario ed internazionale. – 1.2.1. Il Libro Bianco sullo sport. – SEZIONE II. I soggetti dell’ordinamento sportivo. – 2. I soggetti dell’ordinamento sportivo. – 2.1. Il CIO-Comitato Olimpico Internazionale e la Carta olimpica. – 2.2. Il CONI-normativa e rilievo nell’ordinamento sportivo. – 2.3. Gli organi del CONI e il suo statuto. – 2.4. Le Federazioni sportive, disciplina generale. – 2.5. Le Discipline sportive associate, enti sportivi, società e associazioni dilettantistiche. – 2.6. Le Leghe. – 2.7. Gli atleti. – 2.8. Ausiliari sportivi, giudici e ufficiali di gara. – 2.9. Istruttori e maestri sportivi. – 2.10. Il procuratore sportivo di calcio – SEZIONE III. Lo sportivo nel rapporto di lavoro. – 3. Rapporto di lavoro sportivo prima e dopo la legge n. 91/1981. – 3.1. Lavoro sportivo: autonomo o subordinato? – 3.1.1. Il contratto di lavoro dello sportivo.

SEZIONE I

L’evoluzione dell’ordinamento sportivo 1. Le origini dell’ordinamento sportivo e le sue caratteristiche Quella dell’ordinamento sportivo è una realtà solo apparentemente recente e moderna sulla quale hanno inciso numerosi fattori come la celebrazione delle Olimpiadi 1, la costituzione del Comitato Olimpico Internazionale (CIO) e soprat1

Il rito delle Olimpiadi ha origini remote, tant’è che la storia fissa al 776 a.C. la data iniziale delle manifestazioni che, secondo la tradizione, si ricollegherebbero ad un rito religioso compiuto da Eracle, desideroso di placare gli dei per l’uccisione del re Elide Augia. Per i Greci il momento sportivo non era un momento semplicemente ludico, ma si connetteva strettamente al tema della formazione del carattere dei giovani, cittadini del domani cui sarebbe spettato il compito di condurre gli affari delle città e di difenderle da ogni pericolo. Il momento sportivo diveniva, quindi, parte essenziale del percorso educativo, un percorso che però, come visto, non poteva assolutamente prescindere dalla presenza di una percentuale di sano agonismo (il termine deriva proprio dal greco

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Lineamenti di diritto dello sport

tutto il rilievo economico-sociale che l’attività sportiva ha conquistato nel corso del tempo nel mondo intero. Lo stesso concetto di “sport” è passato dalla semplice indicazione di gare ed esercizi eseguiti da singoli o da gruppi, ad attività svolte da veri e propri professionisti, soggetti che si propongono di conseguire un reddito esibendo esclusivamente la propria abilità o le proprie capacità atletiche. Ancor oggi, a distanza di quasi tre millenni dalle sue prime manifestazioni, appare praticamente impossibile rintracciare una definizione completa ed univoca del termine “sport” che, dal punto di vista etimologico, si ritiene provenga dall’inglese “disport” o dal corrispettivo francese “desport” 2, con il significato di “portar fuori dal lavoro, dalle tensioni”. Ciascuna di queste definizioni costituisce, invero, un tentativo apprezzabile ma, al tempo stesso, non del tutto soddisfacente dal momento che si limita a mettere in risalto soltanto alcuni degli aspetti rilevanti del fenomeno considerato (siano essi il gioco, l’agonismo, l’esercizio fisico, il profilo giuridico, ecc.). Sembra quindi mancare, tuttora, un’idea centrale, una sorta di “fil rouge” in grado di collegare tutte le conoscenze all’interno di un sistema unitario e coerente che risulti idoneo a garantire una visione generale della realtà dello sport. Dal punto di vista del giurista, lo sport può essere definito come «ogni attività ludica organizzata le cui regole sono universalmente accettate e ritenute vincolanti da coloro che la praticano» 3. Ma, pur rimanendo nell’ambito del diritto, altrettanto autorevole e valida appare la definizione fornita da Luiso che, po“agon” con il significato di gara, disputa, concorso). Scopo della partecipazione degli atleti alla competizione, che aveva un carattere strettamente individuale, non era quindi quello di partecipare (o almeno non esclusivamente), bensì quello di vincere; vincere ad Olimpia era l’obiettivo primario della carriera di ogni singolo “sportivo” e non, come si potrebbe credere, per conseguire un vantaggio di carattere economico (il premio, del tutto simbolico, consisteva, difatti, in una semplice corona di olivo realizzata con i rami del santuario di Zeus), quanto, piuttosto, per essere guardato da tutti come il “migliore”. La vittoria, in altre parole, consentiva di ottenere la massima riconoscenza pubblica e il vincitore veniva consacrato primo cittadino di tutta la Grecia. Sulle Olimpiadi antiche è possibile consultare un notevole contributo di studi storici: B. HENRY, History of the Olympic Games, New York, 1974; E.A. BLAND, Olympic Story, London, 1948; A. FUGARDI, Storia delle Olimpiadi, Bologna, 1958; C. MARCUCCI-C. SCARINGI, Olimpiadi: storia delle Olimpiadi antiche e moderne, Milano, 1959. 2 M. DARDANO, Nuovissimo dizionario della lingua italiana, Roma, 1982, p. 2042. Conducendo tuttavia un’analisi più approfondita, è possibile sorprendentemente rinvenire una storia della parola ben più lunga di quella appena descritta; il termine, infatti, come sostenuto da Paul Adam, scrittore francese di fine ’800 fortemente appassionato alle tematiche sportive, sembrerebbe addirittura trarre origine dal latino “deportare” che, tra i tanti suoi significati, aveva anche quello di “uscire fuori porta”, cioè uscire al di fuori delle mura cittadine per dedicarsi, appunto, ad attività sportive. 3 P.M. PIACENTINI, Sport, in G. GUARINO (a cura di), Dizionario amministrativo, Milano, 1983, p. 1425.

L’ordinamento sportivo, i soggetti e le sue fonti

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nendo l’accento sulla rilevanza della normazione all’interno del settore sportivo, afferma che: «senza regole non può esistere alcuno sport poiché esso è una attività convenzionale, dato che si fonda quasi esclusivamente su regole accettate dai gareggianti» 4. Ed è proprio prendendo le mosse dalla definizione di stampo normativo, appena riportata, che sembra possibile aprire la strada all’ulteriore e più problematica definizione di ordinamento giuridico sportivo. Alla luce dell’orientamento ormai generalmente condiviso 5, che vuole che il concetto di ordinamento giuridico si sovrapponga fino a coincidere e fondersi con quello di ordinamento sociale – “ubi societas, ibi ius” – quello sportivo può essere generalmente considerato come un “ordinamento giuridico settoriale”, dotato cioè di una propria autonomia, seppur operante nel rispetto dell’ordinamento statale. Si tratta di quelle che Santi Romano definisce “formazioni sociali intermedie” e che, in ultima analisi, costituiscono dei veri e propri ordinamenti giuridici dal momento che prettamente giuridico è il sistema di norme e di sanzioni che è pos4 F.P. LUISO, La giustizia sportiva, Milano, 1975, p. 3. Il quadro, già di per sé piuttosto complesso, diviene ancora più problematico allorché si decida di uscire al di fuori dei confini prettamente giuridici; si pensi, a tal proposito, alla filosofia che, incline a un tentativo continuo di armonizzare corpo ed anima, non ha esitato nel corso del tempo, attraverso alcuni dei suoi esponenti più importanti, a definire lo sport «uno strumento che prelude e permette l’esercizio del dominio di sé». Alla luce di un’interpretazione prettamente storica, ancora, lo sport assume dei connotati alquanto generici, perdendo quasi del tutto i suoi profili di peculiarità; gli storici, infatti, chiamano “sport” qualsiasi gioco o esercizio che abbia un contenuto minimo di movimento fisico. Per i sociologi, infine, lo sport diviene un’attività del tempo libero fortemente caratterizzata dalla presenza di uno sforzo fisico e svolta in maniera competitiva; in quest’ottica esso è suscettibile, senza alcun dubbio, di trasformarsi in un’attività professionale. 5 Si tratta del pensiero di Santi Romano, secondo il quale l’elemento della normazione non risulta affatto sufficiente ad esprimere il concetto di ordinamento giuridico, in quanto esso risulta essere il prodotto della coscienza sociale, posto in essere dai rappresentanti del popolo. Viene, pertanto, riconosciuto che gli elementi della “plurisoggettività” e quindi il tessuto sociale e della “organizzazione” e quindi l’insieme delle Istituzioni politiche preesistono e producono insieme l’elemento della “normazione”, con la conseguenza che il concetto di ordinamento giuridico si sovrappone e coincide con quello di società. Per un approfondimento sulla teoria istituzionalista si veda L. ARATA, L’ordinamento giuridico di Santi Romano, in Riv. Corte conti, 1998, I, p. 253; V. FROSINI, Santi Romano e l’interpretazione giuridica della realtà sociale, in Riv. internaz. fil. dir., 1989, p. 706; M. FUCHSAS, La genossenchafttheorie di Otto von Gierke come fonte primaria della teoria generale del diritto di Santi Romano, in Materiali storia cultura giur., 1979, p. 65. Si vedano, inoltre: W. CESARINI SFORZA, Il diritto dei privati. Il corporativismo come esperienza giuridica, Milano, 1963; M.S. GIANNINI, Gli elementi degli ordinamenti giuridici. Sulla pluralità degli ordinamenti giuridici, in Atti del XIV Congresso internazionale di sociologia, 1950, p. 455 ss.; G. AMBROSINI, La pluralità degli ordinamenti giuridici nella Costituzione italiana, in AA.VV., Studi in onore di Giuseppe Chiarelli, vol. I, Milano, 1973, p. 3 ss.; G. CICALA, Pluralità e unitarietà degli ordinamenti giuridici, in AA.VV., Scritti giuridici per il notaio Baratta, Milano, 1967, p. 62 ss.; F. CARNELUTTI, Appunti sull’ordinamento giuridico, in Riv. dir. proc. 1964, p. 361 ss.; F. MODUGNO, Ordinamento giuridico, in Enc. dir., vol. XX, Milano, p. 678.

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Lineamenti di diritto dello sport

sibile rinvenire in esse. Secondo il principio della pluralità degli ordinamenti giuridici, infatti, ogni associazione che possieda i caratteri della plurisoggettività, dell’organizzazione e della normazione è definibile come “istituzione” o “ordinamento giuridico” 6. Ed è proprio in quest’ottica che, a ben vedere, va inquadrato l’ordinamento sportivo, il quale altro non è se non uno degli esempi più avanzati di ordinamento giuridico intermedio, la cui sussistenza può configurarsi ogni qual volta si sia al cospetto di un insieme di soggetti organizzati in strutture predefinite e retti da regole certe 7. Quindi, perché si possa dire di essere in presenza di un ordinamento giuridico è necessario che sussista contemporaneamente e cumulativamente una serie di requisiti: in primis la società intesa come l’insieme dei soggetti, la normazione e quindi il complesso delle regole organizzative ed in ultimo l’ordine sociale, ossia il sistema delle strutture entro cui i soggetti membri della società si muovono. Se è abbastanza pacifico riconoscere non configurabile un ordinamento senza alterità, cioè senza dualità o molteplicità di soggetti – inteso come primo ed assoluto presupposto indispensabile di ogni ordinamento – maggiormente controversa è la definizione del requisito della normazione. Questa – che incarnerebbe il secondo carattere essenziale perché si possa parlare di ordinamento giuridico – è rappresentata dall’insieme di regole che disciplinano la posizione, le situazioni e i rapporti dei soggetti che lo compongono. Nessun rapporto, attività o comportamento giuridicamente rilevante potrebbe esistere se non in ragione delle norme che li prevedono, qualificandoli e disciplinandoli. Ultimo, ma altrettanto necessario elemento, è quello della organizzazione senza la quale in definitiva nessuna collettività potrebbe “normativamente” esistere. Corollario di tale impostazione, in base alla quale deve individuarsi un ordinamento giuridico in ogni espressione associazionistica che abbia i caratteri della plurisoggettività, organizzazione e normazione, risulta essere il riconoscimento dell’esistenza di una «pluralità degli ordinamenti giuridici» 8. Anche dal 6

M. SANINO-F. VERDE, Il diritto sportivo, Vicenza, 2015.

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La stessa definizione dà conto dell’orientamento della dottrina classica (Kelsen, Santi Romano) tendente ad identificare l’ordinamento giuridico con il diritto in senso oggettivo. Sull’argomento v. L. PALADIN, Diritto costituzionale, Padova, 1991, pp. 4-11. 8

Sulla teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici, si vedano tra gli altri in particolare: E. ALLORIO, La pluralità degli ordinamenti giuridici e l’accertamento giudiziale, in Riv. dir. civ., 1955, p. 247; G. BOSCO, La pluralità degli ordinamenti giuridici nell’ambito del diritto delle genti, in AA.VV., Studi in memoria di Guido Zanobini, vol. IV, Milano, 1965, p. 93; G.P. CAMMAROTA, Il concetto di diritto e la pluralità degli ordinamenti giuridici, Catania, 1926, ora in Formalismo e sapere giuridico, Milano, 1963; G. CAPOGRASSI, Note sulla molteplicità degli ordinamenti giuridici, in ID., Opere, vol. IV, Milano, 1959, p. 181 ss.; M.S. GIANNINI, Sulla pluralità degli ordinamenti giuridici, in Atti del Congresso internazionale di sociologia, Roma, 1950; V. GUELI, La pluralità degli ordinamenti giuridici e condizioni della loro consistenza, Milano, 1949; A. LAMBERTI, Gli ordinamenti giuridici: unità e pluralità, Salerno, 1980, p. 148 ss.; S. PANUNZIO, La pluralità degli ordinamenti giuridici e l’unità dello Stato, in Studi filosofici-giuridici dedicati a G. Del Vecchio nel XXV

L’ordinamento sportivo, i soggetti e le sue fonti

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punto di vista della teoria generale del diritto, è opportuno prendere atto del fatto che, nell’ambito ed all’interno dell’ordinamento statale, vi sono tutta una serie di “sotto-sistemi”, qualificabili come “ordinamenti settoriali”, i quali perseguono ciascuno la realizzazione di interessi di un determinato settore 9. Perfino all’apice della gerarchia delle fonti, dunque a livello costituzionale, è possibile rinvenire l’esistenza di un riconoscimento di un pluralismo giuridicosociale che si manifesta con l’espressa tutela del valore positivo delle “formazioni sociali” come momento di espressione della personalità dell’individuo (art. 2), dei principi di “autonomia” e “decentramento” (art. 5), del diritto di associazione in generale (art. 18) ed, in particolare, nell’ambito della famiglia (art. 29), dei sindacati (art. 39) e dei partiti politici (art. 49): in sostanza, già nell’immediato secondo dopoguerra, il modello (storicamente e politicamente superato) di Stato come apparato accentratore viene sostituito da un modello di Stato policentrico, le cui funzioni vengono decentrate sia a livello territoriale, pensiamo agli enti locali, sia a livello istituzionale, e quindi ad organizzazioni, anche di natura ed origine privatistica, che realizzano il perseguimento di interessi collettivi e talvolta anche pubblici. Secondo tale modello, in sostanza, accanto allo Stato, unica Istituzione che persegue interessi generali di tutta la collettività, vengono riconosciute tutta una serie di Istituzioni costituite, spesso in forma spontanea, in espressione dell’associazionismo privatistico, per il perseguimento di interessi collettivi di vari settori. Tali “formazioni sociali” vengono riconosciute come “ordinamenti settoriali”, i quali – nell’ambito del decentramento delle funzioni amministrative – vengono a svolgere la propria attività con una certa autonomia che si concreta nella facoltà di stabilire un’organizzazione propria, auto-organizzazione, e di porre in essere una normazione propria, auto-normazione. Ogni volta che la soggettività è diversa da quella stabilita dall’ordinamento statale, ogni volta che la normazione non è di provenienza statale, ma prodotta da un’altra collettività o comunità, e quindi ogni volta che l’organizzazione è distinta da quella propriamente statale, sarà possibile una pluralità di ordinamenti 10. anno di insegnamento, vol. 11, Modena, 1931; L. PICCARDI, La pluralità degli ordinamenti giuridici e il concetto di rinvio, in AA.VV., Scritti giuridici in onore di Santi Romano, Padova, 1985, p. 249 ss.; F. SATTA, Introduzione ad un corso di diritto amministrativo, Padova, 1980. 9 Nell’ambito del macrocosmo giuridico costituito dall’ordinamento statale (o generale), si rinvengono una molteplicità di piccole Istituzioni che vengono comunemente definite come “ordinamenti settoriali” (o “particolari”), costituenti ciascuna un microcosmo a sé; questi enti istituzionali hanno fini non generali ma particolari, e sono composti da persone che, per la loro appartenenza ad una classe o professione o attività, hanno interessi comuni. Tra gli ordinamenti settoriali si deve poi distinguere tra quelli posti in essere dallo Stato (con la predeterminazione, da parte di questo, della loro plurisoggettività, dell’organizzazione autoritativa e dei loro modi di normazione) e quelli a formazione spontanea, i quali invece determinano, almeno in parte, i propri elementi costitutivi. 10

Secondo la ben nota teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici di Santi Romano esi-

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Nell’ambito della teoria generale del diritto, due sono sostanzialmente gli orientamenti dottrinali che si contrappongono tra loro: la concezione ordinamentale monistica e quella pluralista. Il monismo tende ad assimilare ogni sub-ordinamento all’ordinamento generale dello Stato non ritenendo possibile configurare un ordinamento giuridico ulteriore rispetto a quello statale, in quanto solo lo Stato avrebbe la funzione di organizzare la collettività. Diversamente, la concezione pluralistica sostiene che il diritto risieda nelle singole istituzioni sociali e, conseguentemente, ammette l’operatività di norme giuridiche all’interno di ogni gruppo organizzato. In vero, la questione teorica del diritto sportivo non è mai stata risolta in maniera soddisfacente dalla dottrina, anche perché entrambe le scuole di pensiero sopra indicate non offrono una soluzione del tutto esauriente. I sostenitori del monismo contestano alla concezione pluralista del diritto che la regola sportiva non può in alcun caso essere applicata in assenza di un intervento del diritto statale, adducendo a sostegno di simile impostazione la circostanza per la quale lo sportivo può sempre adire l’Autorità giurisdizionale dello Stato per far valere le proprie ragioni. D’altra parte, i sostenitori del pluralismo evidenziano che non si può negare l’esistenza di un diritto sportivo e di un’organizzazione sportiva che, al pari di quella statale, è dotata di poteri normativi e giudiziari finalizzati alla regolamentazione dell’attività sportiva. Pur non volendo addentrarsi nella più articolata questione della teoria generale dell’ordinamento giuridico, può ritenersi sufficiente evidenziare come oggi sia comune la divisione degli ordinamenti giuridici in due categorie, la prima, riferita agli ordinamenti giuridici esprimenti interessi collettivi, e l’altra, relativa agli ordinamenti giuridici esprimenti interessi settoriali (es associazioni), collegati da un rapporto asimmetrico in quanto i secondi hanno giuridica ragion d’essere soltanto ove riconosciuti dai primi 11. stono nell’ambito di ciascun ordinamento statale – in concreta applicazione dei principi di autonomia e decentramento sanciti dall’art. 5 Cost. – oltre al sistema-Stato, anche una vasta e variegata gamma di “sistemi” minori, i quali sono comunemente riconosciuti come ordinamenti giuridici settoriali, che si pongono all’interno dell’ordinamento statale: accanto allo Stato (composto da tutte le persone fisiche e giuridiche ad esso “affiliate”, unica istituzione che persegue interessi generali di tutta la collettività) ed all’interno di questo, si collocano una miriade di sistemi associazionistici, composti da persone fisiche e giuridiche ad essi “affiliati” o “tesserati”, ovvero una serie di istituzioni che perseguono interessi (non generali, ovvero di tutta la collettività nazionale, ma) collettivi (ovvero propri soltanto della collettività di soggetti che ne fanno parte). Alcuni di tali “sistemi” o “ordinamenti settoriali”, spesso a formazione spontanea, fondati sull’associazionismo, nella loro evoluzione, hanno assunto una notevole complessità sia sotto il profilo quantitativo (ovvero con riferimento al numero di associati), sia sotto il profilo qualitativo (ovvero con riferimento alla struttura organizzativa, istituzionale ed anche normativa degli stessi) e conseguentemente una notevole importanza nel sistema economico-sociale complessivo: dall’ordinamento militare, all’ordinamento ecclesiastico, da tutti gli ordinamenti delle varie categorie professionali (avvocati, commercialisti, medici, ingegneri, architetti, ecc.) all’ordinamento giudiziario fino all’ordinamento sportivo. 11 L. DI NELLA, La teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici: analisi critica dei profili teorici e delle applicazioni al fenomeno sportivo, in Riv. dir. Sportivo, 1998, p. 5 ss.

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Tali ordinamenti settoriali, dunque, vivono ed esistono all’interno dell’ordinamento statale, del quale fanno parte come “ordinamenti derivati”: tale legame di derivazione risulta determinato da due fattori essenziali ed oggettivi, ovvero: a) dal fatto che, nella maggior parte dei casi, in ragione della riconosciuta meritevolezza dei fini collettivi o pubblici dagli stessi perseguiti, lo Stato finanzia tali ordinamenti; b) dal fatto che i soggetti dei vari ordinamenti settoriali (militari, professionisti, ecclesiastici, universitari, sportivi, ecc.) sono anche soggetti dell’ordinamento statale, che svolgono la propria attività professionale proprio all’interno dell’ordinamento settoriale.

1.1. L’autonomia e la legge 17 ottobre 2003, n. 280 Alla luce di quanto fin ora esposto, appare evidente la possibilità di considerare l’ordinamento sportivo come un vero e proprio ordinamento giuridico autonomo essendo presenti in esso: una pluralità di soggetti, e quindi, le persone fisiche e gli enti associativi che, a vario titolo, concorrono all’esercizio della pratica sportiva; una normazione sportiva, intesa come il complesso delle norme gerarchicamente ordinato in sistema e volto a regolamentare ogni fatto ritenuto rilevante all’interno dell’ordinamento, emanata da organismi appartenenti al gruppo stesso, il cui compito è quello di disciplinare l’attività sportiva dei soggetti che ne fanno parte; ed in ultimo, un’organizzazione, un complesso degli apparati, nazionali ed internazionali, addetti al governo ed alla cura dello sport e dotati di funzioni normative, di poteri autorganizzativi, oltre che di potestà punitive e di risoluzione dei conflitti interni, facente capo oggi al CONI (Comitato Olimpico Nazionale Italiano) e alle Federazioni sportive nazionali 12. È, quindi, come un complesso di norme di natura giuridica che si presenta l’ordianmento sportivo, come un organismo settoriale i cui elementi costitutivi sono la normazione, la pluralità di soggetti e l’organizzazione dei medesimi 13. In effetti, proprio per le sue innegabili peculiarità, il sistema sportivo ha sempre 12

La legge 16 febbraio 1942, n. 426, istitutiva del CONI, configurava le Federazioni sportive nazionali come organi dell’Ente, che partecipavano della natura pubblica di questo. Con la successiva legge 23 marzo 1981, n. 91 (contenente norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti), con l’art. 14, ribadì questo inquadramento, riconoscendo alle Federazioni funzione di natura pubblicistica, riconducibile all’esercizio in senso lato delle funzioni proprie del CONI e funzione di natura privatistica per le specifiche attività da esse svolte. Questa funzione, in quanto autonoma, era separata da quella di natura pubblica e faceva capo soltanto alle Federazioni. 13

M. SANINO-F. VERDE, Il diritto sportivo, cit., p. 16. È bene chiarire come tali caratteri siano propri dell’ordinamento sportivo mondiale, ordinamento che è originario ma non sovrano. Originario in quanto esclusivamente competente ad individuare le regole per lo svolgimento delle competizioni sportive, ma mancante di sovranità, per l’assenza di piena effettività nell’ambito delle diverse compagini territoriali.

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evidenziato la propria specificità e, di conseguenza, rivendicato la propria “autonomia” dai vari ordinamenti giuridici statali 14. Una spinta autonomistica sentita, non solo nel momento normativo, nel quale l’ordinamento pone norme proprie autonome, ma anche nel successivo momento c.d. giustiziale, quello cioè, volto alla attuazione coattiva o a sanzionare la mancata attuazione delle proprie norme, con la predisposizione di un sistema di giustizia interna, comunemente nota come Giustizia sportiva, costituita dal complesso di organi giudicanti previsti dagli statuti e dai regolamenti federali per dirimere le controversie che insorgono tra gli atleti, le loro associazioni di appartenenza e le Federazioni. È stata, infatti, solo la progressiva emersione di un apparato giustiziale interno all’organizzazione dello sport che ha storicamente costituito il logico precipitato del riconoscimento dell’autonomia, e ancor prima della giuridicità, dell’ordinamento sportivo stesso 15. Bisogna sicuramente anche dire che il carattere dell’autonomia dell’ordinamento sportivo si è costruito nel tempo, attraversando un’evoluzione che, a partire dalla seconda metà dell’800, ha convissuto al cospetto di una comunità sportiva organizzata con proprie strutture e con una, seppur embrionale, organizzazione normativa; una comunità rispetto alla quale l’ordinamento statale, pur riconoscendo la positività dell’attività sportiva sia sotto il profilo ludico che sociale, ha manifestato una sostanziale indifferenza. Prima dell’emanazione della legge 17 ottobre 2003, n. 280, infatti, i rapporti tra ordinamento sportivo ed ordinamento statale sono stati caratterizzati da una totale indefinizione 16, con 14

Non è mancato chi, come il Furno per contro, ha sostenuto l’assoluta agiuridicità dell’ordine sportivo sottolineando come il fenomeno sportivo, pur rivestendo un interesse rilevante nella società, dovesse esser composto all’interno dei concetti dell’autonomia negoziale, dell’autoregolamento di interessi, senza riferimento alla nozione di ordinamento giuridico: «il mondo del gioco è per eccellenza un mondo di azioni, comportamenti, situazioni, relazioni umane sciolte 18 da ogni vincolo e da ogni impegno d’ordine economico-giuridico». E ancora «l’organizzazione sociale che il diritto si adopera a comporre, si arresta e diviene inerte alle soglie del gioco, che è pure a suo modo la tecnica specifica di una diversa, antitetica organizzazione sociale» cfr. C. FURNO, Note critiche in tema di giuochi, scommesse e arbitraggi sportivi, in Riv. it. dir. proc. civ., 1952, p. 638. 15 A. MANZELLA, La giustizia sportiva nel pluralismo delle autonomie, in Riv. dir. Sportivo, 1993, p. 6. Sulla Giustizia sportiva, si vedano inoltre i lavori di A. DE SILVESTRI, La giustizia sportiva nell’ordinamento federale, in Riv. dir. Sportivo, 1981, p. 3; R. FRASCAROLI, Le soluzioni possibili a garanzia dell’autonomia dell’ordinamento sportivo e della sua giurisdizione nell’attuale assetto normativo, in Atti del Convegno di Roma su Giustizia e sport, del 13 dicembre 1993; A. GATTI, La giustizia sportiva, in Riv. dir. Sportivo, 1987, p. 48; A. IANNUZZI, Per la legittimità della giurisdizione sportiva, in Riv. dir. Sportivo, 1955, p. 241; F.P. LUISO, La giustizia sportiva, cit.; S. LANDOLFI, Autorità e consenso nella giustizia federale calcistica, in Riv. dir. Sportivo, 1979, p. 336; B. MANNA, La giustizia sportiva: indirizzi giurisprudenziali e proposte parlamentari, in Atti del Convegno del 13 dicembre 1993, cit.; M. RAMAT, Alcuni aspetti fondamentali della giurisdizione sportiva, in Riv. dir. Sportivo, 1954, p. 128; M. RAMAT, Ordinamento sportivo e processo, in Riv. dir. Sportivo, 1957, p. 147; A. VIGORITA, Validità della giustizia sportiva, in Riv. dir. Sportivo, 1970, p. 3. 16

Sui rapporti tra ordinamento sportivo e statale si veda: M. ANTONIOLI, Sui rapporti tra giu-

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una conseguente incertezza del diritto, tanto che la proposizione di azioni in sede statale da parte di tesserati dell’ordinamento sportivo era del tutto priva di ogni regolamentazione da parte dello Stato, con la conseguente conflittualità tra i due ordinamenti 17. Secondo parte della dottrina 18, i rapporti tra ordinamento sportivo ed ordinamento statale potrebbero circoscriversi a tre zone, una retta esclusivamente da norme di diritto statale, l’altra esclusivamente da norme di diritto sportivo ed un’ultima zona retta sia da norme di diritto statale che di diritto sportivo. È chiaro che proprio quest’ultima finirebbe per essere la zona interessata da possibili conflitti, allorché uno stesso fatto sia qualificato diversamente dai due ordinamenti o qualora ad uno stesso fatto vengano ricollegati effetti diversi. Tali casi di conflitto potrebbero risolversi unicamente facendo prevalere la norma statale, cosi che il riconoscimento dell’autonomia finirebbe per tradursi in una politica legislativa finalizzata ad evitare proprio le zone di possibile contrasto 19. Nel secolo successivo, la presa di coscienza dell’importanza risdizione amministrativa e ordinamento sportivo, in Dir. proc. amm., 2005, p. 1026 ss.; C. BOTL’ordinamento sportivo alla prova del TAR: la difficile “autonomia” dell’ordinamento sportivo, in Riv. dir. Sportivo, n. 3, 2007, p. 397 ss.; R. COLAGRANDE, Disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva, in Nuove leggi civ. comm., n. 4, 2004, p. 705 ss.; S. DE PAOLIS, Cartellino rosso per il giudice amministrativo; il sistema di giustizia sportiva alla luce della legge n. 280/2003, in Foro amm.-TAR, n. 9, 2005, p. 2874 ss.; P. D’ONOFRIO, Giustizia sportiva, tra vincolo di giustizia e competenza del TAR, in Riv. dir. Sportivo, n. 1, 2007, p. 69 ss.; L. FERRARA, Federazione italiana pallavolo e palleggi di giurisdizione: l’autonomia dell’ordinamento sportivo fa da spettatore?, in Foro amm.-Cons. Stato, n. 1, 2004, p. 93 ss. e L. FERRARA, L’ordinamento sportivo: meno e più della libertà privata, in Dir. pubbl., 2007, 7, pp. 1-31; F. LUBRANO, Diritto dello Sport e “giustizia” sportiva, in Riv. dir. Sportivo, n. 1, 2007, p. 11 ss.; D. NAZZARO, I rapporti tra ordinamento sportivo e diritto statuale nella giurisprudenza e nella legge n. 280/2003, in Il nuovo diritto 2004, p. 597 ss.; A. OLIVERIO, I limiti all’autonomia dell’ordinamento sportivo: lo svincolo dell’atleta, in Riv. dir. ed econ. dello Sport, 2007, III, fasc. 2, p. 45 ss.; A. ROMANO TASSONE, La giurisdizione sulle controversie con le federazioni sportive, in Giur. civ./sport, 2005, parte prima, p. 280 ss.; P. SANDULLI, La giurisdizione esclusiva in materia di diritto sportivo, in Analisi Giuridica dell’Economia, n. 2, 2005; G. MEO-U. MORERA-A. NUZZO (a cura di), Il calcio professionistico, evoluzione e crisi tra football club e impresa lucrativa, Analisi Giuridica dell’Economia, n. 2, 2005, p. 395 ss. TAR,

17 Una conflittualità che si originava proprio dal contrasto nascente tra il vincolo di giustizia da una parte e il diritto alla tutela giurisdizionale dall’altra, tra ordinamento sportivo e ordinamento statale. Tale contrasto ed indefinibilità rendeva ulteriormente indefinito il problema della impugnabilità dei provvedimenti federali innanzi agli organi giurisdizionali statali da parte dei tesserati sportivi, un problema che è stato “fluttuante”, con conseguente grave incertezza del diritto, fino alla emanazione della legge 17 ottobre 2003, n. 280 che ha definitivamente regolamentato tali aspetti, codificando, in sostanza i principi fondamentali espressi nel corso degli anni dalla giurisprudenza civile ed amministrativa. 18

Cfr. M.S. GIANNINI, Prime osservazioni sugli ordinamenti giuridici sportivi, in Riv. dir. Sportivo, n. 1-2, 1949, p. 10. 19 Nel corso degli anni passati, ciascuno dei due ordinamenti ha cercato di garantire la riduzione in concreto dei conflitti: gli organi di normazione dell’ordinamento sportivo imponendo ai con-

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del fenomeno sportivo, sia in termini quantitativi che di obiettivi e finalità, ha portato implicitamente, ma non tanto silenziosamente, ad un progressivo avvicinamento tra i due ordinamenti. È in questo contesto, nel momento del contatto tra gli ordinamenti statale e sportivo, che vedono la luce la legge del 1942 20 e la istituzione del CONI; è poi a partire dalla legislazione del 1975 che l’associazione sportiva si trasforma da organismo associativo libero in una vera e propria impresa sostanzialmente commerciale. In questo contesto si arriva a prendere coscienza del professionismo sportivo, delle sue problematiche e di conseguenza della opportuna tutela giuridica ed economica necessaria. Si inizia ad imporre una maggiore presenza statale nel settore, cui si ricollega inevitabilmente un restringimento dell’area della sfera di libertà e di autonomia dell’ordinamento sportivo a vantaggio di quello statale 21. Lo stesso concetto di autonomia dell’ordinamento sportivo, al pari di tutti gli ordinamenti cc.dd. settoriali, incarna il riconoscimento di una libera sfera di azione contenendo in nuce una limitazione intrinseca di tale libertà, determinata dal fatto di doversi esplicare nell’ambito della supremazia dell’ordinamento statale e nel rispetto delle normative da questo poste in essere; infatti, laddove la normativa di un ordinamento settoriale si ponga in contrasto con la superiore normativa dello Stato, essa potrebbe essere riconosciuta come illegittima ed annullata dagli organi giurisdizionali statali. Nell’ambito dei rapporti tra tali ordinamenti, e in particolare tra l’ordinamento dello Stato e i vari ordinamenti settoriali, la chiave di volta per la corretta lettura, sotto il profilo giuridico, del giusto inquadramento di essi sembra, quindi, essere costituita dalla necessaria applicazione del principio di gerarchia delle fonti e, conseguentemente, della gerarchia delle Istituzioni o degli ordinamenti; in sostanza, deve, in primis, prendersi atto del fatto che – nell’ambito della gerarchia delle fonti del diritto soltanto l’ordinamento statale, per il fatto di perseguire interessi generali, ha la c.d. potestà normativa primaria, ovvero quella di emanare norme di rango costituzionale e di rango normativo primario, leggi ed atti con forza di legge, mentre invece tutti gli ordinamenti settoriali, per il fatto di perseguire interessi collettivi, della collettività dei loro tesserati, hanno una “potestà normativa secondaria”, ovvero hanno il potere di emanare norme di grado soltanto regolamentare, ovviamente subordinate come tali alle norme superiori, di rango costituzionale o legislativo, poste in essere dallo Stato 22. Già la sociati la sottoscrizione di clausole compromissorie comportanti l’impegno alla non adizione di autorità giurisdizionali sotto pena dell’inflizione di sanzioni; il legislatore, arrivando all’emanazione della legge 17 ottobre 2003, n. 280 introduttiva di riserve di competenza a favore degli organi giurisdizionali sportivi in determinate materie. 20

Legge 16 febbraio 1942, legge istitutiva del CONI.

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F.P. LUISO, La giustizia sportiva, cit., p. 123.

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Ne consegue che – poiché, proprio in base al principio di “gerarchia delle fonti”, una norma

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giurisprudenza della fine degli anni ’70 aveva riconosciuto come la potestà attribuita all’ordinamento giuridico sportivo, con efficacia nell’ambito dell’ordinamento giuridico statale, fosse limitata alla potestà regolamentare nel settore sportivo e che, pertanto, la normativa contenuta nei regolamenti delle Federazioni sportive, disciplinante rapporti intersoggettivi privati e negoziali, non avrebbe efficacia anche nell’ambito dell’ordinamento giuridico statale. In base a tale orientamento, quindi, «nel caso in cui una norma dell’ordinamento federale sportivo vieti determinate contrattazioni tra società sportive e tesserati, il contratto di diritto privato concluso in violazione del divieto non può essere dichiarato nullo nell’ordinamento giuridico statale per contrarietà a norma imperativa, atteso che la norma imperativa che pone il divieto è efficace solo nell’ordinamento giuridico sportivo, nell’ambito del quale potranno essere emanati i provvedimenti sanzionatori da esso previsti» 23. Si deve sempre alla giurisprudenza lo sforzo di fornire una risposta di giustizia che potesse garantire delle certezze nei rapporti tra gli ordinamenti, almeno in astratto. Per quanto riguarda il profilo relativo all’individuazione delle situazioni in cui fosse configurabile una giurisdizione statale in materia sportiva, la giurisprudenza, riprendendo la linea di pensiero fatta propria dalla Corte di Giustizia di livello inferiore non può assolutamente violare una norma di livello superiore – le normative regolamentari poste in essere dai vari ordinamenti settoriali devono necessariamente conformarsi alle norme costituzionali e legislative dell’ordinamento statale, ovvero non violare i principi stabiliti da tali norme superiori (art. 4 delle disposizioni sulla legge in generale «i regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni di legge»): in caso contrario, nel caso in cui una norma regolamentare violi i principi stabiliti da una superiore norma statale (o anche dell’Unione Europea), essa può essere “incriminata” di illegittimità da un tesserato dell’ordinamento settoriale, “colpito” da un provvedimento emanato in applicazione di tale norma; tale tesserato (persona fisica o giuridica che sia) – in quanto soggetto facente parte non solo dell’ordinamento settoriale, ma anche dell’ordinamento statale – potrebbe impugnare di fronte agli organi di giustizia statale non solo il provvedimento emanato nei suoi confronti in applicazione della normativa regolamentare settoriale, ma anche la stessa normativa settoriale (come atto presupposto del provvedimento impugnato), chiedendo al Giudice statale di annullare non solo il provvedimento impugnato, ma anche la norma-presupposto, in quanto emanata in violazione di norme superiori dell’ordinamento statale. 23 Cass., 11 febbraio 1978, n. 626; cfr. Cass., 16 gennaio 1985, n. 97: «La disciplina normativa dell’attività del CONI non comporta l’esclusiva attribuzione al CONI, ed alle federazioni sportive che ne sono organi, del compito di organizzare le manifestazioni sportive con la predisposizione del luogo in cui una gara sportiva viene svolta, restando demandato al CONI soltanto di fissare le regole delle singole discipline sportive, alle quali tutti sono obbligati ad attenersi, e di controllare che le stesse vengano rispettate (...) Il comitato olimpico nazionale italiano è l’organo che sovrintende l’attività sportiva comunque e da chiunque esercitata, mentre le federazioni sportive nazionali sono organi dello stesso in senso tecnico; infatti, la L. 16 febbraio 1942, n. 426, stabilisce che i compiti istituzionali del CONI sono il controllo e la disciplina di ogni attività sportiva; pertanto in nessun caso potrebbe ritenersi attribuita anche la qualifica di organizzatore delle manifestazioni sportive».

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dell’Unione Europea sin dagli anni ’70 24, aveva elaborato un criterio di c.d. “rilevanza”, in base al quale, laddove gli interessi lesi venissero ad acquisire una rilevanza, oltre che sportiva, anche economico-giuridica, con conseguente capacità di incidere negativamente sulla sfera del destinatario del provvedimento, inteso oltre che come sportivo anche come cittadino dello Stato, si sarebbe dovuta riconoscere la giurisdizione del Giudice statale. In buona sostanza, la questione che si è sempre posta, anche prima dell’avvento della legge n. 280/2003, è stata costituita proprio dalla difficoltà di individuare quali provvedimenti emanati dai vari ordinamenti sportivi potessero avere una rilevanza esterna all’ordinamento sportivo stesso e come potesse essere ravvisata tale rilevanza. La risposta fornita da giurisprudenza e dottrina è sempre stata nel senso di riconoscere una rilevanza giuridica degli interessi lesi laddove fosse ravvisabile una rilevanza anche economica di tali interessi. In pratica, in applicazione di un principio generale sancito dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea sin dagli anni ’70, si è sviluppato come un parallelismo tra rilevanza giuridica e rilevanza economica, che ha poi trovato applicazione in relazione a tutte le questioni che potevano insorgere nell’ambito dell’ordinamento sportivo, ovvero le questioni tecniche, disciplinari, amministrative e patrimoniali 25. 24 Ci si riferisce alla decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea relativa ai casi Walrave, sentenza 12 dicembre 1974, Walrave/UCI, in Racc. delle sentenze della Corte di Giustizia, 1974, p. 1450. In quell’occasione la Corte ha confermato che la giurisprudenza dell’Unione Europea non ha competenza sui regolamenti che riguardano questioni d’interesse “prettamente sportivo” sulla base del fatto che tali regole non hanno nulla a che vedere con le attività economiche regolamentate dai Trattati della CE. In altre parole la legislazione europea copre soltanto le attività economiche che rientrano nel campo d’applicazione dell’art. 2 del Trattato. Nel caso Walrave la Corte ha sostenuto che la legislazione dell’Unione Europea non può applicarsi alle regole che governano la composizione delle squadre sportive nazionali. 25

Da sempre le questioni del diritto dello sport sono state divise in quattro aree: a) le questioni tecniche, ossia quelle relative all’applicazione da parte del sistema sportivo per mezzo dei propri Giudici di gara, dei profili tecnici del gioco (ad esempio, concessione o meno di calcio di rigore, ecc.); b) le questioni c.d. disciplinari, quelle attinenti all’applicazione, da parte del sistema sportivo, delle sanzioni disciplinari nei confronti dei soggetti che abbiano violato le regole (ad esempio, squalifica del tesserato, penalizzazione della Società, ecc.). Esse possono essere di carattere pecuniario (multa), temporaneamente interdittivo (squalifica), penalizzativo (sottrazione di punti in classifica o retrocessione al campionato inferiore) e definitivamente interdittivo (radiazione o revoca dell’affiliazione); c) le questioni c.d. amministrative, inerenti all’esplicazione del potere istituzionale organizzativo da parte delle Federazioni ed attinenti al mantenimento del c.d. “rapporto associativo” di tesserati ed affiliati e del livello di tale status di associato (questioni relative al tesseramento di atleti, tecnici, direttori sportivi, arbitri, ecc., all’affiliazione delle associazioni e società, nonché alla ammissione ai campionati di società); d) le questioni patrimoniali tra pariordinati, richiamanti controversie di carattere meramente patrimoniale tra soggetti inseriti allo stesso livello all’interno del sistema sportivo (ad esempio, azione del calciatore contro la propria società per il risarcimento dei danni o per il mancato pagamento degli stipendi, azione di una società contro un’altra società per il pagamento del “prezzo” per il trasferimento di un calciatore, ecc.).

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È bene chiarire, dato che può evincersi già dall’esame della giurisprudenza accumulatasi prima della riforma del 2003, come la questione dell’autonomia dell’ordinamento sportivo si sia sempre ed inevitabilmente tradotta in quella della corrispondente limitazione della giurisdizione dello Stato e, più propriamente, in quella dei rapporti 26 tra la c.d. Giustizia sportiva 27 e quella statale. Per quanto attiene alla corretta individuazione della giurisdizione, e quindi sia essa ordinaria o amministrativa, sempre la giurisprudenza, aveva ritenuto sussistente la giurisdizione del Giudice ordinario ogni qualvolta si avesse riguardo alla tutela di diritti soggettivi, ovvero fondamentalmente nei casi di controversie relative a rapporti patrimoniali tra pari ordinati e la giurisdizione del Giudice amministrativo ogni qualvolta si avesse riguardo alla tutela di interessi legittimi, ovvero fondamentalmente nei casi di impugnazione di provvedimenti emanati da Federazioni nei confronti di tesserati o affiliati 28. Questa complessa situazione e in definitiva l’inadeguatezza del criterio fondamentale assunto per la classificazione delle controversie, ha spesso portato ad aspri conflitti tra gli organi della Giustizia sportiva e quelli della giustizia ordinaria 29. Per quanto la giurisprudenza avesse cercato di elaborare criteri univoci e di attribuzione 30 del26 Inutile negare che i rapporti tra ordinamento sportivo e statale siano stati storicamente difficili, atteso che, da una parte, l’ordinamento sportivo nazionale ha sempre rivendicato la propria autonomia rispetto all’ordinamento giuridico statale; dall’altra, l’ordinamento statale ha sempre ribadito la propria supremazia sull’ordinamento sportivo, come su ciascun ordinamento settoriale, e di conseguenza, frequenti sono stati gli interventi di organi giurisdizionali aditi da soggetti tesserati sportivi, in materia sportiva, interventi che il sistema sportivo non ha mai gradito, tanto da arrivare in più occasioni a disconoscere le decisioni assunte dai Giudici statali. 27 Con il termine Giustizia sportiva si intende far riferimento a tutti quegli istituti previsti dagli statuti e dai regolamenti di ogni Federazione, finalizzati a dirimere le controversie nascenti tra le Federazioni, associazioni di appartenenza e singoli atleti. Quello della Giustizia sportiva, è stato un sistema caratterizzato, da sempre, dal c.d. vincolo sportivo, ovvero da una serie di norme dirette ad evitare, per la soluzione delle controversie indicate, il ricorso alla giurisdizione ordinaria, a difesa del proprio ambito di autonomia, comportando la violazione del vincolo la revoca dell’affiliazione per le società e la radiazione per le persone fisiche. Il vincolo sportivo è quello che finora ha maggiormente tenuto impegnata la giurisprudenza non soltanto nella definizione del fenomeno, ma nella individuazione vera e propria della sua “opponibilità” alla giurisdizione statale. Sul punto si veda: M. SANINO-F. VERDE, Il diritto sportivo, cit., p. 41. 28

Anche per quanto riguarda l’individuazione del Giudice (ordinario o amministrativo a seconda dei casi) territorialmente competente, la giurisprudenza aveva applicato i normali criteri processuali civilistici (nel caso di giurisdizione del Giudice ordinario) o amministrativistici (in caso di giurisdizione del Giudice amministrativo) di riparto della competenza. 29 Emblematico è il caso della squadra di calcio del Catania, allorché nel 1993 FIGC, T.A.R. della Sicilia e FIFA hanno dato vita ad una serie di provvedimenti contrastanti. 30

In particolare, i normali criteri processual-amministrativistici (previsti dall’art. 3 della legge n. 1034/1971) avrebbero teoricamente dovuto condurre ad individuare, nel caso di impugnazione di provvedimenti del CONI o di Federazioni sportive, quasi sempre la competenza del T.A.R. Lazio. In realtà, tali criteri venivano, in pratica, sistematicamente “aggirati” dai tesserati sportivi, i quali –

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la giurisdizione ad organi ordinari o amministrativi di soluzione dei vari profili relativi alle controversie sportive, la situazione generale restava caratterizzata da uno stato di incertezza significativa, sciolta solamente dall’intervento normativo del 2003. È stato, infatti, proprio nel tentativo di regolamentare definitivamente il rapporto tra ordinamento sportivo ed ordinamento statale che il Governo ha provveduto all’emanazione del d.l. 9 agosto 2003, n. 220 “Disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva” (convertito in legge 17 ottobre 2003, n. 280). Il richiamato intervento normativo, chiara espressione della presa di coscienza, da parte del legislatore, della complessità di organizzazione e di struttura dell’ordinamento sportivo, contiene una vera e propria celebrazione del principio di autonomia dell’ordinamento sportivo, stabilendo che i rapporti tra questo e l’ordinamento statale siano regolati alla luce del principio di autonomia «salvi i casi di rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo» 31. Ecco che il legislatore, se per un verso, tenta di affrancare definitivamente la Giustizia sportiva da quella statale, dall’altro ritorna al concetto della “rilevanza” che porta, poi lo stesso legislatore, nei primi due articoli del dettato normativo, ad indicare espressamente le materie riservate alla rivendicata autonomia dell’ordinamento sportivo. Con il d.l. 19 agosto 2003, n. 220 prima, e con la sua conversione in legge poi, l’intento del legislatore è stato quello di garantire due esigenze costituzionalmente rilevanti: da un lato, quella dell’autonomia dell’ordinamento sportivo e dall’altro, quella della garanzia della pienezza della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive che, poste in un rapporto di connessione con quell’ordinamento, rilevino per l’ordinamento giuridico in generale. Pertanto, attraverso una lettura costituzionalmente orientata degli artt. 1, 2 e 3 del d.l. n. 220/2003, si può arrivare a riconoscere come i provvedimenti in generale adottati dalle Federazioni sportive o dal CONI avranno incidenza anche su situazioni giuridiche soggettive rilevanti per l’ordinamento giuridico statale e la domanda, volta ad ottenere non la caducazione dell’atto, ma il conseguente risarcimento del danno, sfruttando il fatto che la competenza territoriale nel processo amministrativo è derogabile, ai sensi degli artt. 30 e 31 della legge n. 1034/1971 – si rivolgevano innanzi al T.A.R. “di casa”. I normali criteri processual-civilistici, ai sensi dell’art. 19 c.p.c., avrebbero teoricamente dovuto condurre ad individuare, nel caso di impugnazione di provvedimenti del CONI o di Federazioni sportive, la competenza del Tribunale di Roma, avendo ivi sede sia il CONI che le Federazioni. In molti casi di rilievo (casi Ekong, Sheppard, Hernandez Paz), si è visto come i ricorrenti abbiano adito il Tribunale “di casa”, in base all’art. 44 del d.lgs. n. 286/1998 (decreto Turco-Napolitano), ai sensi del quale «quando il comportamento di un privato o della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, il giudice può, su istanza di parte, ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione; la domanda si propone con ricorso depositato, anche personalmente dalla parte, nella cancelleria del pretore del luogo di domicilio dell’istante». 31

Art. 1, legge 17 ottobre 2003, n. 280.

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dovrà essere proposta al Giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva, non operando una riserva a favore della Giustizia sportiva, innanzi alla quale la pretesa risarcitoria non potrà essere fatta valere 32. In buona sostanza la legge n. 280/2003, apportando, poche ma sostanziali, modifiche al testo del decreto legge, ha drasticamente ridotto l’area di autonomia dell’ordinamento sportivo ed ampliato l’area di supremazia dell’ordinamento statale: in particolare, tale legge, pur confermando il riconoscimento dell’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, ha determinato la nascita di due modifiche fondamentali che hanno ricondotto l’autonomia dell’ordinamento sportivo nei limiti dei superiori principi costituzionali, ovvero: ha ampliato l’area di intervento del Giudice statale a tutti i casi di “rilevanza” (sopprimendo il termine “effettiva” previsto dall’art. 1, comma 2 del decreto legge, che limitava fortemente l’intervento del Giudice statale soltanto ai casi estremi di notevole rilevanza giuridico-economica degli interessi lesi) e ha previsto la giurisdizione del Giudice statale con riferimento a tutte le questioni c.d. “amministrative” (sopprimendo le lett. c) e d) del comma 2 dell’art. 2), ovvero alle questioni relative rispettivamente all’affiliazione ed al tesseramento (lett. c) ed all’ammissione ai campionati delle società e degli atleti (lett. d) 33.

32 Deve, tuttavia, evidenziarsi come per le controversie risarcitorie sia operante il c.d. vincolo della giustizia sportiva, in forza del quale «le controversie risarcitorie potranno essere instaurate solo dopo che siano esauriti i gradi della giustizia sportiva»; così, Cons. St., sez. VI, 31 maggio 2013, n. 3302; Cons. St., sez. VI, 20 novembre 2013, n. 5514 secondo cui «il decreto legge 19 agosto 2003, n. 220 prevede tre forme di tutela giustiziale: i) una prima forma limitata ai rapporti di carattere patrimoniale tra le società sportive, le associazioni sportive, gli atleti e i tesserati, demandata alla cognizione del Giudice Ordinario; ii) una seconda, relativa alle questioni aventi ad oggetto le materie di cui all’art. 2, non apprestata da organi dello Stato, ma da organismi interni all’ordinamento sportivo, in quanto non idonee a far sorgere posizioni soggettive rilevanti per l’ordinamento generale, ma solo per quello settoriale; iii) una terza, tendenzialmente residuale e devoluta alla giurisdizione del Giudice Amministrativo esauriti i gradi della giustizia sportiva». Cons. St., sez. VI, 27 novembre 2012, n. 5998: «È riservata all’ordinamento sportivo la disciplina delle questioni aventi ad oggetto: i) l’osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative, statutarie dell’ordinamento sportivo nazionale e elle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive; ii) i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive. Esauriti i gradi della giustizia sportiva e ferma restando la giurisdizione del Giudice ordinario sui rapporti patrimoniali tra società, associazione, atleti, ogni altra controversia avente ad oggetto atti del Comitato Olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive non riservata agli organi di giustizia dell’ordinamento sportivo è disciplinato dal Codice dl processo amministrativo/D.Lgs. 104/2010 – CPA)». 33

In sostanza, la legge n. 280/2003 ha riconosciuto l’irrilevanza delle questioni tecniche (art. 2, lett. a) e delle questioni disciplinari (art. 2, lett. b), ma ha sancito la rilevanza delle questioni amministrative (con la soppressione delle lett. c) e d) dell’art. 2); solo successivamente la giurisprudenza amministrativa ha riconosciuto, con una serie di decisioni (tramite un’interpretazione sistematica dell’art. 2, lett. b) richiamata), la potenziale rilevanza anche delle questioni disciplinari

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A questo punto sembra possibile affermare che la legge n. 280/2003 abbia risolto, almeno ovviamente in termini generali ed astratti (lasciando poi ai Giudici, in sede di interpretazione, il compito di risolvere i casi specifici e concreti), la ovvero di tutti gli atti comportanti l’irrogazione di sanzioni per aver assunto comportamenti in violazione della normativa sportiva (sanzioni pecuniarie, penalizzative, temporaneamente interdittive, definitivamente espulsive dal sistema sportivo). In particolare, sono state riconosciute come rilevanti tutte le varie tipologie di sanzioni disciplinari idonee ad incidere negativamente, oltre che sullo status del tesserato come sportivo, sullo status del tesserato come lavoratore, o laddove società sportiva, come impresa determinando una lesione rispettivamente del diritto al lavoro o del diritto di iniziativa economica; in tal senso si veda la pacifica giurisprudenza in materia, secondo la quale «la clausola compromissoria, che affida al giudizio esclusivo della giustizia sportiva la risoluzione di controversie concernenti l’applicazione di norme rilevanti nella sfera sportiva, non preclude la proponibilità del ricorso al giudice amministrativo tutte le volte che si faccia questione di provvedimenti disciplinari di carattere espulsivo dall’organizzazione sportiva, che costituiscono atti autoritativi lesivi della sfera giuridica del destinatario, giacché la valutazione dell’interesse pubblico cui si ricollega la posizione sostanziale di interesse legittimo incisa da detti provvedimenti, non può eseguirsi da organo diverso da quello precostituito istituzionalmente» (T.A.R. Emilia Romagna, sez. I, 4 maggio 1998, n. 178; T.A.R. Valle d’Aosta, 27 maggio 1997, n. 70; Cons. St., sez. VI, 7 luglio 1996, n. 654; id., 30 settembre 1995, n. 1050; id., 20 dicembre 1993, n. 997; id., 20 dicembre 1996, n. 996; T.A.R. Lazio, sez. III, 16 luglio 1991, n. 986; id., 25 maggio 1989, n. 1079; id., 8 febbraio 1988, n. 135; id., 18 gennaio 1986, n. 103; id., 23 agosto 1985, n. 1286; id., 4 aprile 1985, n. 364; App. Bari, 8 febbraio 1984; Trib. Trani, 17 aprile 1981; T.A.R. Lazio, sez. III, 13 ottobre 1980, n. 882); con riferimento alle sanzioni disciplinari temporaneamente interdittive (squalifica) si veda T.A.R. Lazio, sez. III, 26 aprile 1986, n. 1641, per il quale «le norme regolamentari delle Federazioni sportive che disciplinano la partecipazione dei privati agli organi rappresentativi delle Federazioni stesse, poiché incidono sui diritti che l’ordinamento giuridico riconosce e garantisce all’individuo come espressione della sua personalità, rilevano sul piano giuridico generale: pertanto, rientra nella giurisdizione amministrativa la controversia incentrata su provvedimenti con cui le Federazioni sportive, nell’esercizio di poteri che tali norme loro concedono, menomano la detta partecipazione infliggendo l’interdizione temporanea dalla carica di consigliere federale». Nello stesso senso si veda anche l’ordinanza del Cons. St., sez. VI, 12 gennaio 1996, n. 1, la quale ha sospeso l’efficacia di una sanzione disciplinare interdittiva (due anni di squalifica) al pugile Gianfranco Rosi, riducendola a 10 mesi (sull’argomento si veda G. AIELLO-A. CAMILLI, Il caso Rosi: il riparto di giurisdizione nel provvedimento disciplinare sportivo, in Riv. dir. Sportivo, 1996, p. 2741). In genere, sotto tale profilo, i provvedimento disciplinari di “squalifica” o inibizione a svolgere attività in ambito federale, vengono ritenuti sindacabili dalla giurisdizione amministrativa quando siano “idonei ad incidere in misura sostanziale” sulla posizione giuridica soggettiva del tesserato (cfr., da ultimo, T.A.R. Lazio, sez. III, 16 aprile 1999, nn. 962 e 963; id., 29 marzo 1999, n. 781); pertanto, in astratto, tutti i provvedimenti di squalifica, a prescindere dalla durata della sanzione irrogata, possono essere impugnati innanzi alla giustizia amministrativa, la quale, caso per caso, dovrà preliminarmente analizzare se il singolo provvedimento disciplinare incide o meno “in misura sostanziale” sulla posizione giuridica soggettiva del tesserato, sulla base della durata e della rilevanza della sanzione e degli effetti della stessa sull’attività agonistica del destinatario nello stesso senso si è inoltre pronunciata anche la giurisprudenza tedesca (caso Krabbe), secondo la quale «la competenza dell’autorità giurisdizionale ordinaria non è esclusa per il fatto che sulla materia oggetto di controversia si sia già pronunciato un organo interno alla Federazione, in quanto il vincolo di giustizia va inteso, a pena di nullità, solo come divieto a rivol-

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dannosa diatriba tra autonomia dell’ordinamento sportivo e supremazia dell’ordinamento statale, riconoscendo l’esistenza, ma anche e soprattutto i limiti ed i confini della prima. Oggi, l’ordinamento statale ammette l’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale, autonomia che si esplica liberamente nell’ambito della gestione degli interessi prettamente sportivi, ma trova un limite laddove, nell’espletamento dell’attività sportiva, rilevino interessi giuridicamente significativi anche per l’ordinamento statale. In sostanza, i provvedimenti emanati dagli ordinamenti sportivi non sono sindacabili dai Giudici dell’ordinamento statale soltanto nel caso in cui essi coinvolgano interessi meramente sportivi dei tesserati, ma – nel momento in cui essi coinvolgano interessi dei tesserati che assumono un rilievo anche per l’ordinamento statale, come posizioni giuridico-soggettive rilevanti in quanto costituenti diritti soggettivi o interessi legittimi – tali provvedimenti diventano impugnabili innanzi al Giudice statale, in quanto non ledono solo gli interessi sportivi del tesserato come membro dell’ordinamento sportivo, ma anche gli interessi giuridicamente rilevanti del tesserato come componente dell’ordinamento statale. La soluzione finale posta dalla legge n. 280/2003 è stata dunque quella di riconoscere l’autonomia, salvo i casi di rilevanza giuridica, una rilevanza giuridica gersi all’autorità giurisdizionale ordinaria prima di avere eseguito tutte le istanze giurisdizionali interne alla Federazione: pertanto, i provvedimenti disciplinari interni di associazioni private possono essere oggetto di sindacato in sede giurisdizionale sia per violazione della disposizioni procedimentali statutarie, sia sotto il rispetto dei principi procedurali fondamentali propri di uno Stato di diritto, sia sotto il profilo di eventuali errori nell’istruzione probatoria, sia sotto il profilo della loro equità» (Trib. Monaco, sez. comm. VII, 17 maggio 1995); sulla base di tali principi generali, il Tribunale ha inoltre stabilito, analizzando il merito della singola fattispecie, che, essendo stati nel caso di specie violati, in sede di giudizio in ambito federale i generali principi di diritto alla difesa secondo le regole del giusto processo, la sanzione irrogata alla ricorrente al termine del giudizio federale, svoltosi illegittimamente senza garantire all’atleta la possibilità di contraddittorio, fosse illegittima («la decisione assunta all’esito di un procedimento disciplinare svoltosi in assenza di contraddittorio con l’atleta, è illegittima in quanto viola le norme costituzionali sul rispetto del diritto di difesa»); infine, intervenendo anche nei profili più squisitamente di merito della decisione, con la sentenza in questione il Tribunale di Monaco ha sancito che comunque tale sanzione non poteva essere superiore ai due anni («la sanzione massima che, nel rispetto dei principi propri di uno Stato di diritto, può essere irrogata in caso di infrazione alla normativa antidoping, non aggravata dalla recidiva, non deve superare i due anni di squalifica»): tale sentenza è pubblicata in Riv. dir. Sportivo, 1996, p. 833, con nota di M. DE CRISTOFARO, Al crepuscolo la pretesa di “immunità” giurisdizionale delle Federazioni sportive; nello stesso senso, infine, anche la giurisprudenza statunitense ha riconosciuto la sindacabilità ad opera del Giudice statale dei provvedimenti federali di carattere disciplinare aventi ad oggetto l’interdizione temporanea del tesserato (caso Reynolds), precisando che «negli U.S.A., posta l’esistenza di un principio generale dell’ordinamento per il quale tutti gli atti compiuti da un organismo amministrativo indipendente sono sempre assoggettabili a controllo giurisdizionale a meno che vi osti una esplicita previsione legislativa del Congresso degli U.S.A., la Corte Distrettuale Statale è competente a conoscere di una controversia conseguente ad una decisione della Federazione nazionale U.S.A. di atletica leggera» (Corte Distrettuale degli USA, Distretto meridionale dell’Ohio, 3 dicembre 1992).

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che nel concreto ha finito col vestire i panni di una rilevanza economica degli interessi lesi; pertanto, nel momento in cui un provvedimento emanato da una Federazione sportiva nei confronti di un proprio tesserato (persona fisica) o affiliato (società) vada ad incidere non soltanto sugli interessi sportivi del destinatario, ma anche sugli interessi economici e giuridici dello stesso – comportando il verificarsi di conseguenze sulla capacità di esercitare la propria attività professionale o commerciale e quindi sulla propria capacità di produzione economica – tale provvedimento assumerà indiscutibilmente una rilevanza giuridica anche per l’ordinamento statale, e, pertanto, potrà essere impugnato innanzi ai Giudici dello Stato. In conclusione, la legge n. 280/2003, pur se tra apprezzamenti e critiche, ha sicuramente avuto il grande merito di garantire una, seppur relativa, certezza quantomeno degli aspetti fondamentali del rapporto tra ordinamento sportivo ed ordinamento statale: in particolare, da una parte sposando la tesi dei fautori della supremazia dell’ordinamento statale, ha inquadrato il sistema sportivo come ordinamento settoriale posto all’interno dell’ordinamento statale, riconoscendone l’autonomia e soprattutto i limiti di essa, dall’altra parte, sostenendo i fautori della tesi dei sostenitori del diritto pubblico, ha riconosciuto la natura pubblicistica dell’attività posta in essere da tutte le istituzioni sportive (CONI e Federazioni), e, in tal modo, ha risolto, una volta per tutte, le questioni relative alla riconoscibilità di una giurisdizione statale in materia sportiva – nient’altro che espressione del potere di controllo della supremazia dell’ordinamento statale – e del riparto della giurisdizione tra Giustizia sportiva, ordinaria e amministrativa e dell’individuazione del Giudice territorialmente competente. Una soluzione di giusta mediazione, compatibile con i principi costituzionali in gioco, tra le esigenze di autonomia del sistema sportivo e le contrapposte esigenze di garantire comunque la supremazia dell’ordinamento statale nonché la tutela delle posizioni giuridico-soggettive di coloro che, nell’ordinamento dello sport, espletano la propria attività, soprattutto se a livello imprenditoriale o professionale. In sostanza, la legge n. 280/2003, seppure nata in una situazione particolare – come conversione di un decreto legge tutto in favore di una eccessiva e sproporzionata autonomia dell’ordinamento sportivo sancita solo per risolvere circostanze transitorie – ha costituito quella codificazione di certezze attesa da tempo dagli operatori del settore, quale giusta espressione di uno Stato di diritto che, pur riconoscendo il pluralismo e le esigenze di autonomia dello Sport, garantisce oggi la piena tutela degli interessi di tutti gli operatori del settore sportivo. A tal proposito può essere interessante ricordare la pronuncia del T.A.R. del Lazio del 2007 che recita: «I rapporti tra l’ordinamento sportivo e quello statale sono regolati in base al principio di autonomia, con conseguente sottrazione al controllo giurisdizionale degli atti a contenuto tecnico sportivo. Tale criterio trova una deroga nei soli casi di rilevanza per l’ordinamento sportivo; in tali ipotesi, le relative controversie sono attribuite alla giurisdizione del giudice ordinario ove abbiano per oggetto i rapporti patrimoniali tra società, associazioni ed atleti,

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mentre ogni altra controversia avente per oggetto atti del CONI o delle Federazioni sportive nazionali è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo». In altri termini, la Giustizia sportiva costituisce lo strumento di tutela allorché si discuta dell’applicazione delle regole sportive, mentre quella statale è chiamata a risolvere le controversie che presentano una rilevanza per l’ordinamento generale, determinando la violazione di diritti soggettivi, ovvero di interessi legittimi 34.

1.2. L’ordinamento sportivo nazionale e l’ordinamento comunitario ed internazionale In un sistema giurico com’è quello italiano, retto dal principio dell’armonizzazione della normativa interna a quella comunitaria ed internazionale, non poteva non avvertirsi, anche nell’ordianmento sportivo, l’opportunità di confronto della disciplina nazionale con il sistema di norme comunitarie ed internazionali. Già il d.lgs. 23 luglio 1999, n. 242, al comma 2 dell’art. 2 recitava: «Il CONI è la Confederazione delle federazioni sportive nazionali e delle discipline sportive associate e si conforma ai principi dell’ordinamento sportivo internazionale, in armonia con le deliberazioni e gli indirizzi emanati dal Comitato Olimpico Internazionale, di seguito denominato CIO» per poi chiarire, al comma 1 dell’art. 5 che «Il Consiglio Nazionale del Coni, nel rispetto delle deliberazioni e degli indirizzi emanati dal CIO, opera per la diffusione dell’idea olimpica e disciplina e coordina l’attività sportiva nazionale, armonizzando a tal fine l’azione delle federazioni sportive nazionali e delle discipline sportive nazionali». Riferimenti alla normativa comunitaria ed internazionale nonché all’esigenza di un coordinamento ed armonizzazione con la normativa interna si rinvengono anche nel corpo dello stesso Statuto del CONI che, all’art. 4, dopo aver chiarito nuovamente l’autonomia dell’ordinamento sportivo, specifica: «Il CONI svolge le proprie funzioni e i propri compiti con autonomia e indipendenza di giudizio e di valutazione, in armonia con le deliberazioni e gli indirizzi del Comitato Olimpico Internazionale “CIO”. 2. Il CONI, salvaguardando la sua autonomia da ingerenze di natura politica, religiosa ed economica, in conformità ai principi sanciti dalla Carta Olimpica, intrattiene rapporti di collaborazione con le organizzazioni internazionali, l’Unione Europea, le Regioni, le province autonome di Trento e Bolzano e gli Enti locali, e coopera con le Autorità pubbliche ai programmi di promozione e sostegno dello sport. 3. Il CONI può presentare all’Autorità vigilante e, per il suo tramite, al Governo e al Parlamento, proposte e osservazioni in ordine alla disciplina legisla34

Così, Cons. St., sez. VI, 9 luglio 2004, n. 5025, in www.giustamm.it.

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tiva in materia sportiva, tenendo anche conto dell’evoluzione dell’ordinamento europeo e di quello internazionale». In vero, la significativa influenza dell’ordinamento sportivo internazionale su quello interno è dovuta prima di tutto ad elementi di natura organizzativa e quindi alla stessa struttura piramidale del sistema sportivo che risulta essenzialmente organizzato su base internazionale, trovando il CIO (Comitato Internazionale Olimpico), al vertice dell’ordinamento sportivo internazionale prima e di quello statale poi. Al Comitato Internazionale Olimpico 35, che ha il compito di organizzare e promuovere lo sport in generale a livello mondiale, sono affiliati tutti i Comitati olimpici nazionali dei vari Paesi, che perseguono a loro volta il fine di organizzare e promuovere lo sport sul relativo territorio nazionale. L’ordinamento sportivo si manifesta dunque, innanzi tutto, come organizzazione a livello mondiale, come un ordinamento sovranazionale, del quale i vari Stati costituiscono soltanto sedi di riferimento e al quale bisogna, pertanto, riconoscere il carattere della originarietà, in quanto la propria efficacia si fonda esclusivamente sulla forza propria e non su quella di altri ordinamenti, mancando, tuttavia, del carattere della sovranità non avendo la piena effettività della forza su un determinato territorio. Si parla, infatti, correttamente in dottrina, di «pluralità degli ordinamenti sportivi» 36 in quanto, in realtà, seppure i vari ordinamenti federali, uno per ogni sport, si riferiscano tutti all’unico ordinamento sportivo mondiale facente capo al CIO, ogni ordinamento sportivo di ogni singolo sport costituisce sicuramente una struttura autonoma, qualificabile come “Istituzione” o “Ordinamento” in quanto dotata dei requisiti individuati dalla dottrina (pluri35

La fondazione del Comité International Olimpique (CIO) è l’atto conclusivo del Congresso Internazionale degli sport atletici svoltosi presso l’Università della Sorbona il 23 giugno 1894, ove si decise che i primi Giochi olimpici dell’età moderna si sarebbero tenuti nel 1896 ad Atene. Il Congresso internazionale altro non fu che la conseguenza dell’iniziativa assunta dal barone Pierre de Coubertin, nel 1892, in occasione del raduno, a Parigi, dell’Union des Sociétés Francaises des Sports Athlétiques, ove per la prima volta propose di istituire i Giochi olimpici moderni. La Carta olimpica definisce il CIO come associazione di diritto internazionale, avente personalità giuridica. Tale iniziale definizione subì nel tempo delle modifiche fino a che, nel 1991, si introdusse il riconoscimento del CIO come «una organizzazione internazionale non governativa senza fini di lucro di durata illimitata, costituita in forma di associazione con personalità giuridica, riconosciuta con Decreto del Consiglio Federale Svizzero» del 17 settembre 1981 (art. 2 della Carta olimpica). Il CIO, pertanto, è un soggetto di diritto internazionale non governativo, che non trova il proprio fondamento costitutivo in un accordo internazionale tra Stati. La natura internazionale dell’organizzazione risulta dalla partecipazione alla sua costituzione di persone fisiche e giuridiche di diverse nazionalità: come emerge dall’art. 3 della Carta olimpica, ove si legge che il movimento olimpico è formato, oltre che dal CIO, dalle Federazioni internazionali, dai comitati olimpici, dai comitati organizzativi dei Giochi olimpici, nonché dalle varie associazioni nazionali e dalle società sportive. Il CIO esercita tutti i poteri legislativi, esecutivi e giurisdizionali, con efficacia obbligatoria per tutti gli enti e le persone che fanno parte del movimento olimpico. 36

I. e A. MARANI MORO, Gli ordinamenti sportivi, Milano, 1977.

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soggettività, organizzazione e normazione) per essere riconosciuto come tale 37. Sul piano internazionale il CIO e le Federazioni sportive internazionali sono inserite in quelle più vaste organizzazioni non governative sorte per creare vincoli stabili tra tutti coloro che praticano lo stesso sport nei diversi Paesi, nel rispetto dei dettati della Carta olimpica 38. Membri di tali organizzazioni non sono Stati ma individui o gruppi di individui ed il loro carattere internazionale risulta dalla circostanza che essi esplicano attività nel territorio di Stati diversi 39. Secondo l’impostazione sostenuta dalla dottrina maggioritaria, le organizzazioni non governative non interesserebbero il diritto internazionale, trattandosi di enti dotati di uno statuto che ne determina la struttura ed il funzionamento, statuto redatto in base a criteri propri del diritto privato e secondo il diritto interno dello Stato

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Ogni singola Federazione Sportiva Internazionale costituisce, pertanto, un “ordinamento giuridico sportivo internazionale” per ogni singolo sport: la funzione dell’esistenza di un tale organismo internazionale (al quale fanno obbligatoriamente riferimento le singole Federazioni sportive nazionali) sta soprattutto nella necessità di garantire che ogni singolo sport (mediante la relativa Federazione internazionale) abbia delle regole tecniche uniformi in tutto il mondo, in modo da potere organizzare delle competizioni internazionali (ad es. Mondiali di calcio o Olimpiadi di Atletica Leggera o Invernali, ecc.). Per tale ragione la Federazione internazionale di una singola disciplina sportiva detta le regole tecniche di tale disciplina sportiva ed a tali regole le singole Federazioni nazionali di tale singola disciplina sportiva devono necessariamente uniformarsi. 38 La Carta olimpica è la codificazione dei principi fondamentali dell’olimpismo, delle regole e degli statuti adottati dal Comitato Olimpico Internazionale (CIO). Essa regola l’organizzazione, le azioni e il funzionamento del Movimento olimpico e fissa le condizioni per la celebrazione dei Giochi Olimpici. In sintesi, la Carta olimpica ha tre obiettivi principali: in quanto documento di base di natura costituzionale, stabilisce e ricorda i principi fondamentali e i valori essenziali dell’Olimpismo; serve da statuto per il Comitato Olimpico Internazionale; definisce i diritti e gli obblighi reciproci delle tre parti costitutive del Movimento olimpico: le Federazioni Internazionali, i Comitati Nazionali Olimpici, i comitati organizzativi dei Giochi Olimpici, che devono conformarsi tutti alla Carta olimpica. Dopo questo preambolo e dopo la definizione dei 7 principi fondamentali dell’olimpismo, la Carta olimpica si struttura in 6 capitoli e 61 articoli che definiscono ruoli, scopi e reciproche relazioni delle tre entità costitutive indicate nel preambolo (capp. 1-4), le norme per l’organizzazione e la partecipazione ai Giochi (cap. 5), le sanzioni e le procedure disciplinari (cap. 6). La Carta è stata pubblicata per la prima volta nel 1908, con il titolo di Annuario del Comitato Internazionale Olimpico; alcune delle regole contenute in questa prima Carta erano già state scritte da Pierre de Coubertin intorno al 1898. Sebbene il titolo Carta olimpica sia generalmente utilizzato per indicare tutte le edizioni della carta, esso è stato assunto solo dalla pubblicazione del testo del 1978. 39

F.X. PONS RAFOLS, Il Comitato Internazionale Olimpico e i giochi olimpici: aspetti di diritto internazionale, in Riv. dir. Sportivo, 1995, p. 255, ha rilevato che gli elementi che caratterizzano un’organizzazione internazionale non governativa sono sostanzialmente: non essere stata costituita da un accordo tra Stati; la struttura dell’organizzazione deve avere carattere transnazionale; deve essere composta da individui anziché da organi di Stati, o almeno questi ultimi non devono essere in numero tale da condizionare la sua attività; deve essere strutturata in forma democratica; non deve avere uno scopo di lucro; deve perseguire un interesse internazionale; deve essere stata costituita in conformità con il diritto interno di uno Stato.

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nel cui ambito territoriale vengono costituiti. Ciò esplica inevitabilmente degli effetti sulle norme di diritto sportivo che il CIO e le Federazioni internazionali dettano, la cui vincolatività risiede negli impegni assunti in tal senso dagli Stati aderenti al momento dell’ammissione al CIO, per quanto attiene ai principi della Carta olimpica, e alle Federazioni internazionali in qualità di membri, per quanto attiene ai regolamenti, statuti e codici sportivi. Si tratta di norme di diritto convenzionale e quindi di natura contrattuale, vincolanti solo in conseguenza dell’adesione degli stati e delle Federazioni internazionali attraverso un esplicito atto di volontà 40. Proprio per questa ragione, tali norme non possono dirsi appartenenti né al diritto internazionale, né al diritto interno, ma piuttosto, almeno per quanto riguarda quelle emanate dalle Federazioni internazionali, al c.d. diritto trans nazionale, un diritto basato sull’autonomia della volontà delle parti contraenti e diretto a regolare attività e rapporti giuridici la cui efficacia non si esaurisce nell’ambito di un singolo Stato. Quello che preme evidenziare, è anche e soprattutto lo stato dei rapporti tra le Federazioni internazionali e quelle nazionali e le relative formazioni. È ormai pacifico riconoscere come, sempre più spesso, gli statuti delle Federazioni nazionali contengano rinvii a regole dettate dalle rispettive Federazioni internazionali d’affiliazione, regole che finiscono così per entrare direttamente, e senza necessità di atti di recepimento, a far parte del corpo di regole da cui è disciplinata a livello nazionale la pratica del singolo sport. Altra conseguenza di tale collegamento è che tali regole saranno soggette, per quanto concerne la loro interpretazione, ai principi generali che presiedono l’interpretazione del diritto di origine pattizia 41. Il fatto che il legislatore italiano abbia dettato specifiche norme riguardo ai rapporti tra CONI e Federazioni nazionali da una parte e CIO e Federazioni internazionali dall’altra, lascia, tuttavia, intuire che non è al momento presente un processo di interazione tra norme emanate dall’organizzazione sportiva internazionale e diritto statale, dal momento che esse operano nell’ambito di diversi ordinamenti del tutto autonomi. Non a caso, in dottrina si è affermato

40 In tal senso numerosi sono i riferimenti giurisprudenziali, in particolare il Giudice I Istanza (Spagna) Barcellona, 18 novembre 1991 afferma che «sebbene esista, e sia persino auspicabile, una stretta relazione tra le federazioni sportive internazionali e quelle nazionali, e le norme delle prime possano bensì costituire un modello per le seconde, le norme degli organismi sportivi internazionali non costituiscono una fonte di diritto, potendo gli organismi sportivi nazionali adeguarsi a tali norme solo nei limiti in cui sono compatibili con l’ordinamento giuridico nazionale». 41 Non trovando accoglimento da parte della dottrina e della giurisprudenza costituzionali, la tesi di R. QUADRI, Corso di diritto internazionale pubblico, Napoli, 1966, p. 87 ss. che fondava sull’art. 10, comma 1, Cost. e sul principio del diritto internazionale generale pacta sunt servanda l’adattamento automatico dell’ordinamento nazionale anche alle norme internazionali pattizie. È bene precisare che non tutte le norme emanate dal CIO hanno come destinatari gli Stati, molte sono, invece, rivolte alle Federazioni, ai Comitati Olimpici Nazionali o agli atleti, regole per le quali prevale il carattere privatistico della normativa.

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che il riconoscimento da parte del diritto positivo dell’ordinamento internazionale sportivo ha determinato una riserva, seppur non assoluta, di regolamentazione a favore di quest’ultimo. Riserva che incontra il limite dei principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, soprattutto per quanto concerne i diritti inviolabili della persona 42. Il legislatore parla, espressamente, di armonia tra la normativa interna e internazionale 43, non escludendo che i rapporti privatistici, instaurati dagli organismi sportivi internazionali o l’attività svolta da soggetti dell’ordinamento sportivo nell’ambito trasnazionale, e che ricadono sotto l’influenza dei singoli ordinamenti giuridici nazionali, siano sottoposti alle regole proprie di ciascuno di essi, secondo le rispettive norme di diritto internazionale privato applicabili alle diverse fattispecie. Un esempio pratico, lo si ritrova guardando alle ipotesi di contratti di cessione dei diritti di trasmissione televisiva di manifestazioni sportive internazionali, alla responsabilità degli atleti nell’esercizio di attività sportive o degli organizzatori di manifestazioni internazionali. In tutti questi casi, saranno chiaramente applicabili le norme ordinarie di diritto internazionale privato di ciascuno ordinamento interessato o, laddove esistano, apposite convenzioni internazionali. Il quadro d’analisi fin qui presentato risulterebbe essere sostanzialmente incompleto qualora non venissero presi in considerazione i principi e le norme di diritto comunitario. Sul piano delle fonti del diritto, l’orientamento costituzionalistico consolidato è nel senso della cosiddetta supremazia gerarchica del diritto comunitario (trattati comunitari, direttive, regolamenti) sul diritto interno, compreso anche quello di rango costituzionale, con l’unico limite rappresentato dai cosiddetti principi supremi dell’ordinamento e dai diritti inalienabili della persona umana. La stessa Corte costituzionale ha riconosciuto il principio di supremazia del diritto comunitario sul diritto interno 44, anche a livello giurisprudenziale, ossia includendovi le statuizioni di diritto contenute nelle pronunce rese anche in via pregiudiziale 45. 42

G. MORBIDELLI, Gli enti dell’ordinamento sportivo, in Dir. amm., 1993, p. 316.

43

Già con il d.P.R. n. 530/1974, il legislatore ha stabilito che il CONI persegue le finalità previste dalla legge 16 febbraio 1942, n. 426 e successive modificazioni, in armonia con le deliberazioni e gli indirizzi del Comitato Internazionale Olimpico (art. 1), prevedendosi altresì che alle adunanze del Consiglio nazionale e della Giunta esecutiva intervengano, con diritto di voto, i membri italiani del Comitato Internazionale Olimpico (artt. 4 e 7 modificati rispettivamente dai d.P.R. 24 febbraio 1978, n. 97 e 13 giugno 1977, n. 685). 44

Il processo attraverso cui viene affermato il principio della supremazia del diritto comunitario sul diritto interno ha inizio con la sentenza della Corte di Giustizia Costa/Enel del 1964. Sul punto, M. CARTABIA-J.H.H. WEILER, L’Italia in Europa. Profili istituzionali e costituzionali, Bologna, 2001, p. 80. 45 Nella sent. n. 113/1985 la Corte costituzionale ha stabilito che l’effetto diretto riguarda anche le sentenze della Corte di Giustizia delle Comunità Europee rese in via pregiudiziale per l’interpretazione del diritto comunitario «la normativa comunitaria entra e permane in vigore, nel

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Interessante potrebbe essere, a questo punto, analizzare la sentenza Bosman 46 in materia di disciplina sportiva e relativa alla legittimità dei cc.dd. “limiti allo svincolo”. Nella sentenza richiamata la Corte di Giustizia ha esplicitato il principio in virtù del quale l’attività sportiva (nel caso di specie l’attività di calciatori professionisti) rientra nelle competenze sovranazionali, in quanto attività economica rilevante ai sensi dell’art. 2 TCE. Pertanto, le norme che disciplinano i rapporti di natura economica fra datori di lavoro vanno direttamente a ricadere nella sfera di operatività delle disposizioni europee relativamente alla libertà di circolazione dei lavoratori, soprattutto quando incidono sulle condizioni di assunzione degli stessi. Nella fattispecie concreta, le disposizioni concernenti il trasferimento di calciatori da un sodalizio sportivo ad un altro, sebbene prevedano regole sui rapporti economici fra società e non sul rapporto giuridico di lavoro fra sodalizio e calciatore, producono effetti diretti sulle opportunità degli interessati di trovare un ingaggio e soprattutto sulle condizioni alle quali l’ingaggio viene proposto. Tale diretta influenza è determinata da quelle disposizioni, le quali contemplano l’obbligo gravante sulle società datrici di lavoro di corrispondere l’indennità al momento dell’acquisizione di professionisti, provenienti da altre società calcistiche. Da un punto di vista prettamente giuridicocostituzionale eventuali discipline interne tendenti a porre restrizioni alla sfera di applicazione delle norme comunitarie in materia di libertà di circolazione dei servizi e delle persone non possono essere invocate per escludere un’intera attività sportiva dalla sfera di applicazione del Trattato 47. Ancor più precisamente, il principio costituzionale europeo, di cui all’art. 39 (ex art. 48) del Trattato CE 48 in materia di libertà di circolazione dei lavoratori, non può essere ristretto nostro territorio, senza che i suoi effetti siano intaccati dalla legge dello Stato; e ciò tutte le volte che essa soddisfa il requisito dell’immediata applicabilità. Questo principio non vale soltanto per la disciplina prodotta dagli organi della CEE mediante regolamento, ma anche per le statuizioni risultanti, come nella specie, dalle sentenza interpretative della Corte di Giustizia». Successivamente tale principio viene esteso a tutte le sentenze pronunciate dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee nella sentenza n. 389/1989 della Corte costituzionale. 46

Causa C-415/93, 15 dicembre 1995, in Racc. della giurisprudenza della Corte, 1995, p.

4921. 47 48

Corte Giust., 15 dicembre 1995, sentenza Bosman, in Riv. dir. lav., 1996, II, p. 232.

Titolo IV – Libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali – Capo I, I lavoratori, art. 45 (ex art. 39 del TCE): «1. La libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione è assicurata. 2. Essa implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro. 3. Fatte salve le limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica, essa importa il diritto: a) di rispondere a offerte di lavoro effettive; b) di spostarsi liberamente a tal fine nel territorio degli Stati membri; c) di prendere dimora in uno degli Stati membri al fine di svolgervi

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dall’obbligo dell’ordinamento comunitario di osservare la diversità delle culture degli Stati membri, di cui le discipline statutarie sarebbero espressione. In altre parole, la libertà di circolazione dei lavoratori costituisce una libertà comunitaria fondamentale, un principio costituzionale immodificabile che, se violato, comporterebbe lo sgretolamento delle basi e delle finalità stesse dell’ordinamento europeo. Nella richiamata sentenza, la Corte comunitaria ha esplicitato il principio di diritto in base al quale «l’abolizione fra gli Stati membri degli ostacoli alla libera circolazione delle persone sarebbe compromessa se l’eliminazione delle limitazioni stabilite da norme statali potesse essere neutralizzata da ostacoli derivanti dall’esercizio dell’autonomia giuridica di associazioni ed enti di natura non pubblicistica» 49. Il Giudice comunitario ha quindi ritenuto contrastanti con l’art. 39 TCE le disposizioni emanate dalle singole Federazioni nazionali, in forza delle quali un calciatore professionista cittadino di uno Stato membro, allo spirare del termine del contratto che lo lega ad un sodalizio, possa essere ingaggiato da una società di un altro Stato membro solo ed esclusivamente nell’ipotesi nella quale quest’ultima abbia versato all’associazione sportiva di provenienza una indennità denominata di trasferimento, di formazione o di promozione. L’inderogabilità e l’inviolabilità del principio costituzionale europeo della libera circolazione dei lavoratori non può subire compressione per fare prevalere il valore dell’autonomia degli ordinamenti sportivi, altrimenti vi sarebbe un bilanciamento tra valori irragionevole e incostituzionale. Di rilevante interesse risultano essere, quindi, i modi con cui la Corte del Lussemburgo riscontra la palese illegittimità delle norme dell’autonomia ordinamentale sportiva perché, anche se indirettamente, richiamanti la ratio dell’attuale normativa del vincolo sportivo. Si contesta, infatti, lo stesso fondamento delle discipline sportive, negando che quest’ultime possano costituire mezzi funzionali a garantire la conservazione dell’equilibrio finanziario e sportivo fra le società nonché l’aiuto alla ricerca di atleti di talento e alla formazione degli sportivi giovani. In primo luogo, le disposizioni sportive non impediscono alle società economicamente più ricche di assicurarsi i calciatori più talentuosi 50; in secondo luogo, le indennità contemplate dalle norme degli statuti sportivi sono caratterizzate da incertezza, elasticità e aleatorietà e oltre a ciò, l’importo delle indennità non risulta avere alcuna relazione con le spese compiute dalle società per formare i giovani calciatori; in un’attività di lavoro, conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che disciplinano l’occupazione dei lavoratori nazionali; d) di rimanere, a condizioni che costituiranno l’oggetto di regolamenti stabiliti dalla Commissione, sul territorio di uno Stato membro, dopo aver occupato un impiego. 4. Le disposizioni del presente articolo non sono applicabili agli impieghi nella pubblica amministrazione». 49

Sentenza Bosman, cit., p. 233.

50

Sentenza Bosman, cit., p. 233.

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terzo ed ultimo luogo, la normativa statutaria sportiva risulta in più anche sproporzionata, in quanto le stesse finalità possono essere perseguite attraverso differenti mezzi meno gravosi e soprattutto non suscettibili di comprimere la libera circolazione dei lavoratori 51. Seguendo questo ragionamento, le suddette norme sportive, risultano per di più caratterizzate da irragionevolezza, in quanto inidonee a perseguire la finalità per le quali sono previste e operanti. Al riguardo, quindi, non sarebbe peregrino prospettare un contrasto fra l’interpretazione giurisprudenziale del principio della libertà di circolazione dei lavoratori e le disposizioni limitative del diritto allo svincolo da parte delle singole Federazioni sportive anche se riferite agli atleti dilettanti. Infatti, sebbene la sentenza Bosman si riferisca sul piano soggettivo esclusivamente ad atleti professionisti, ed abbia come specifico oggetto l’istituto del pagamento dell’ingaggio, le argomentazioni della suddetta paiono integralmente estendibili al fenomeno nazionale delle preclusioni allo svincolo, data l’analogia della ratio, del contenuto disciplinare e dei meccanismi di funzionamento (indennità di formazione, ecc.). L’equiparare il trattamento giuridico di situazioni analoghe ovvero differenziarlo dinanzi a situazioni distinte ed eterogenee costituisce espressione del principio di coerenza e di uguaglianza nella sua declinazione della ragionevolezza 52. 1.2.1. Il Libro Bianco sullo sport Il principio di armonizzazione tra la disciplina interna e quella europea nel campo del diritto dello sport, viene ad essere continuamente garantito dai numerosi interventi del legislatore comunitario, che trovano diretta applicazione nel sistema giuridico nazionale, tra i quali vale la pena ricordare il Libro Bianco sullo sport, presentato ufficialmente l’11 luglio 2007, al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato delle regioni e al Comitato economico e sociale europeo. Nel panorama delle iniziative europee il Libro Bianco della Commissione rappresenta il “punto di non ritorno”, costituendo il più corposo e completo documento attraverso il quale la Commissione ha cercato di dare «un orientamento strategico sul ruolo dello sport in Europa, incoraggiare il dibattito su alcuni problemi specifici, migliorare la visibilità dello sport nel processo decisionale europeo e sensibilizzare il pubblico in merito alle esigenze e alle specificità del settore» 53. Prima importante iniziativa in materia su scala europea, il Libro Bianco fornisce orientamenti strategici sul ruolo dello sport in seno all’Unione Europea (UE), in particolare a livello socio-economico 54, rappresentando il principale contributo della

51

Sentenza Bosman, cit., p. 234.

52

G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna, 1988, p. 151; A. CERRI, Il principio di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale, in Diritto e società, 1975, p. 563. 53

B. NASIMBENE-S. BASTIANON, Diritto europeo dello sport, Torino, 2011, p. 66.

54

In generale si osserva che la funzione economica e sociale dello sport, nel contesto del dirit-

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Commissione al tema dello sport e al suo ruolo nella quotidianità dei cittadini europei. Il testo normativo, si concentra ad analizzare in primis l’impatto che lo sport può avere sull’insieme delle politiche europee, identificando le esigenze e le specificità proprie del mondo dello sport, aprendo prospettive future su scala europea nel rispetto del principio di sussidiarietà, dell’autonomia delle organizzazioni sportive e del diritto comunitario. Nel dettaglio, l’intento perseguito dal legislatore europeo è stato quello di fornire orientamenti strategici, incoraggiare la discussione su problemi specifici, accrescere la visibilità dello sport nel processo decisionale dell’Unione, mettere in evidenza le esigenze e le peculiarità del settore riuscendo allo stesso tempo a programmare adeguatamente il livello di potere necessario per le azioni future. Più concretamente, attraverso questo Libro Bianco, la Commissione ha inteso far sì che la dimensione dello sport venisse presa pienamente in considerazione in tutte le politiche europee, accrescendo la chiarezza giuridica riguardo all’applicazione dell’acquis comunitario in materia di sport e contribuendo al miglioramento della governance dello sport in Europa. In particolare, l’intervento normativo si sviluppa cercando di toccare tre aspetti fondamentali, partendo dall’esame del ruolo sociale dello sport, ossia cosa effettivamente rappresenta lo sport in quanto fenomeno sociale, passando per la disamina della dimensione economica dello stesso, ossia il contributo che questo fornisce in ordine alla creazione di occupazione in Europa, fino ad arrivare alla valutazione della opportuna organizzazione delle attività sportive, prestando particolare attenzione al ruolo di ciascuno dei protagonisti (pubblici o privati, economici o sportivi) nella governance del movimento sportivo. La Commissione propone un vero e proprio piano d’azione 55, stabilendo tutta una serie di opeto dell’Unione Europea, è stata riconosciuta sin dal 1991 nell’ambito della comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo, cfr. La comunità europea e lo sport (SEC 1991, 1438, consultabile sul sito http://ec.europa.eu/sport/library/doc/a/doc268_en.pdf). 55

Un piano d’azione, teso, in particolar modo a garantire l’elaborazione di linee direttrici sull’attività fisica nonché la realizzazione di una rete europea di promozione dello sport come fattore benefico alla salute; un maggior coordinamento della lotta contro il doping su scala europea; l’attribuzione di un’etichetta europea alle scuole incoraggiando la pratica di attività fisiche; l’avvio di uno studio sul volontariato nello sport; il miglioramento dell’inserimento sociale e dell’integrazione tramite lo sport attraverso i programmi e i fondi europei; la promozione dello scambio di informazioni, di esperienze e di buone pratiche in materia di prevenzione degli incidenti razzisti e violenti fra i servizi repressivi e le organizzazioni sportive; il rafforzamento del ricorso allo sport come strumento della politica europea di sviluppo; la creazione di statistiche che consentano di quantificare l’incidenza economica dello sport; la realizzazione di uno studio sul finanziamento pubblico e privato dello sport; un’analisi d’impatto sulle attività degli agenti di giocatori nonché una valutazione del valore aggiunto di un eventuale intervento comunitario nel settore; una migliore strutturazione del dialogo sullo sport a livello comunitario, soprattutto mediante l’organizzazione di un forum annuale sullo sport; un’intensificazione della cooperazione intergovernativa in materia di sport; la promozione della creazione di comitati di dialogo sociale nel settore dello sport e dell’appoggio ai datori di lavoro e ai lavoratori dipendenti.

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Lineamenti di diritto dello sport

razioni concrete, volte a mettere in luce gli aspetti sociali ed economici dello sport, quali la salute, l’inserimento sociale, il volontariato, l’istruzione 56. Allo stesso tempo la Commissione assume il compito di garantire il controllo delle iniziative presentate nel Libro Bianco attraverso un dialogo strutturato che raccoglie l’insieme dei protagonisti del mondo dello sport, e quindi, le Federazioni sportive europee, gli organismi di regolamentazione europei dello sport come i Comitati Olimpici Europei (EOC), il Comitato Paraolimpico Europeo (EPC) nonché le organizzazioni sportive europee non governative, gli organismi di regolamentazione nazionali dello sport, come i comitati olimpici e paraolimpici nazionali, gli altri protagonisti degli ambienti sportivi rappresentati a livello europeo, comprese le parti sociali, nonché altre organizzazioni europee e internazionali (organi del Consiglio d’Europa e delle Nazioni unite, UNESCO, OMS, ecc.). Un’intensa attività, dunque, finalizzata alla divulgazione dello sport come fenomeno socioeconomico che contribuisce alla realizzazione degli obiettivi strategici di solidarietà e di prosperità dell’Unione Europea, capace di diffondere le nozioni di pace, di tolleranza, di comprensione reciproca e d’istruzione, conformi all’ideale europeo 57.

SEZIONE II

I soggetti dell’ordinamento sportivo

2. I soggetti dell’ordinamento sportivo Come ampiamente detto in precedenza, l’ordinamento sportivo si presenta, dunque, come un organismo settoriale i cui elementi costitutivi sono la normazione, la pluralità di soggetti e l’organizzazione dei medesimi. Proprio sui soggetti dell’ordinamento giuridico sportivo, si è per lungo tempo concentrata l’attenzione della dottrina che ha dovuto saper tenere il passo con le continue inno56

Per alcuni rilievi in proposito, cfr. S. WEATHERILL, The White Paper on Sport an Exercise in Better Regulation, in The International Sports Law Journal, n. 1-2, 2008. 57 In linea di continuità al Libro Bianco si pone la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni: Sviluppare la dimensione europea dello sport. Tale comunicazione non sostituisce il Libro Bianco sullo sport, ma si basa sui suoi risultati. Essa si fonda su tre ampi capitoli tematici (il ruolo sociale dello sport, la dimensione economica dello sport e l’organizzazione dello sport), ognuno dei quali comprende un elenco di azioni possibili attuabili dalla Commissione e dagli Stati membri.

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vazioni ed evoluzioni che hanno interessato l’ordinamento sportivo che, oggi, risulta strutturato su base internazionale trovando il CIO (Comitato Internazionale Olimpico) al vertice della propria struttura piramidale, con la finalità di organizzare e promuovere lo sport in generale a livello mondiale. L’ordinamento sportivo, infatti, si palesa, innanzi tutto, come un’organizzazione a livello mondiale, cioè come un ordinamento dal carattere sovranazionale, del quale i vari Stati costituiscono solo poli di riferimento. Conferma del riconosciuto carattere sovranazionale, è l’affiliazione al CIO di tutti i Comitati Olimpici nazionali dei vari Paesi – in Italia il CONI – con il compito di organizzare e promuovere lo sport sul relativo territorio nazionale. In linea generale, è bene poi precisare che il sistema sportivo complessivo si articola in Federazioni, viste come una serie di sottosistemi, sia a livello internazionale che a livello nazionale, che si occupano della organizzazione delle singole discipline sportive. È, poi, ad un livello intermedio del sistema sportivo complessivo che si ritrovano i Comitati olimpici continentali (in Europa il COE, Comitato Olimpico Europeo), con il compito di organizzare le competizioni sportive a livello continentale. A conferma del carattere settoriale dell’ordinamento giuridico esaminato, nei singoli sistemi delle varie discipline sportive 58, si ritrovano, ad un livello intermedio tra Federazione internazionale e Federazioni nazionali, le Confederazioni continentali che hanno il compito di organizzare le competizioni delle varie discipline a livello continentale. L’organizzazione dello sport in Italia ha adottato uno schema del tutto particolare, affidando in sostanza ad enti ed organismi non-statali il compito di coordinamento. Il potere centrale infatti, al di là della esistenza, in tempi e con modalità diversi, di ministeri formalmente oppure sostanzialmente coinvolti nella materia, ha sempre concesso, nella storia della Repubblica, ampia autonomia alle struttu58 Pioniere del riconoscimento del fenomeno sportivo, dal punto di vista giuridico, come ordinamento settoriale fu Massimo Severo Giannini, nell’immediato dopoguerra, cfr., M.S. GIANNINI, Prime osservazioni sugli ordinamenti sportivi, in Riv. dir. Sportivo, n. 1, 1949, p. 10; poi “ripresa” dallo stesso Autore a distanza di quasi cinquanta anni: M.S. GIANNINI, Ancora sugli ordinamenti giuridici sportivi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1996, p. 671. Sull’ordinamento sportivo come ordinamento settoriale si vedano, inoltre: A. ALBANESI, Natura e finalità del diritto sportivo, in Nuova giur. civ. comm., 1986, II, p. 321; A. DE SILVESTRI, Il diritto sportivo oggi, in Riv. dir. Sportivo, 1988, p. 189 ss.; R. FRASCAROLI, Sport, in Enc. dir., vol. XLIII, Milano, p. 513; S. GRASSELLI, Profili di diritto sportivo, Roma, 1990; S. LANDOLFI, L’emersione dell’ordinamento sportivo, in Riv. dir. Sportivo, 1982, p. 36; P. MIRTO, Autonomia e specialità del diritto sportivo, in Riv. dir. Sportivo, 1959, I, p. 8; R. NUOVO, L’ordinamento giuridico sportivo in rapporto al suo assetto economico-sociale, in Riv. dir. Sportivo, 1958, p. 3; V. RENIS, Diritto e sport, in Riv. dir. Sportivo, 1962, p. 119; R. SIMONETTA, Etica e diritto nello sport, in Riv. dir. Sportivo, 1956, p. 25; B. ZAULI, Essenza del diritto sportivo, in Riv. dir. Sportivo, 1962, p. 239. Sulla configurabilità di un ordinamento sportivo soggettivamente costituito dal CONI e dalle Federazioni e perciò unitariamente operante si veda Cass., Sez. Un., 12 maggio 1979, n. 2725, in Giust. civ., 1979, I, p. 1380.

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re istituzionali sportive. Certamente ad incidere in maniera determinante su questo indirizzo, assunto negli oltre sessanta anni di gestione governativa, è stata la volontà da parte delle forze politiche, uscite vincitrici dalle consultazioni postbelliche, di dare un netto e deciso taglio su tutto ciò che il regime fascista aveva prodotto sul piano organizzativo prima che normativo. Lo sport, nel ventennio fascista e non solo, aveva rappresentato un elemento di grande importanza per i governanti dell’epoca, desiderosi di affermare, attraverso i successi sportivi e la conseguente risonanza, un’immagine vincente dell’Italia, protesa ad affermarsi come potenza mondiale in campo militare ed economico. Aveva, però, anche rappresentato un importante punto di riferimento sul piano sociale, con tutta una serie di enti sportivi e di associazioni ricreative che si impegnavano a consentire alla popolazione di trovare un punto di aggregazione prima e di miglioramento e cura della salute poi. Chiaramente l’evoluzione storica, sociale nonché giuridica ha influenzato notevolmente le soggettività a vario titolo coinvolte nella realtà sportiva che oggi risulta strutturata su scala internazionale e caratterizzata dalla fitta rete di relazioni tra i soggetti dell’ordinamento giuridico sportivo nazionale ed internazionale.

2.1. Il CIO-Comitato Olimpico Internazionale e la Carta olimpica Guardando al panorama sportivo internazionale, non può non prestarsi attenzione al CIO, Comitato Olimpico Internazionale, frutto e risultato del lavoro svolto nel corso del Congresso Internazionale degli sport atletici tenutosi presso l’Università della Sorbona il 23 giugno 1894, ove si decise che i primi Giochi olimpici dell’età moderna si sarebbero celebrati due anni più tardi ad Atene. Il Congresso internazionale fu conseguenza dell’iniziativa assunta dal barone Pierre de Coubertin 59, nel 1892, in occasione del raduno, a Parigi, dell’Union des 59 Appassionato umanista, studioso di scienze politiche, viaggiatore, pedagogista dell’Accademia di Francia, De Coubertin mostra un particolare atteggiamento propositivo per la risoluzione di problemi sociali del suo tempo. Si dedica all’educazione, e nell’educazione sportiva in particolare, intravede un nuovo strumento al servizio della crescita complessiva dell’individuo. Immagina un mondo nuovo, in cui si possa realizzare l’utopia di una dimensione perfetta, in cui tutti si comportino lealmente, si rispettino, collaborino, si aiutino a vicenda. Un mondo che metta al bando le distinzioni di sesso, razza e religione, e i contrasti dovuti alle differenti idee politiche. Un universo di eque opportunità, democrazia e pace. Quest’uomo vede nello sport delle potenzialità che altri non erano riusciti ad intuire. Così, da uomo del suo tempo, inebriato da discorsi che rivalutano l’idea del corpo come luogo della formazione etica dell’individuo e come strumento per l’educazione delle masse, immagina di poter proporre al mondo un nuovo modello educativo universale, dotato di significative implicazioni morali. L’aver assemblato delle qualità di pedagogista, di umanista e di sportivo costituisce l’impianto teorico del suo progetto, che è saldamente ancorato al mito di Olimpia che con la sua pregnanza simbolica dà sostegno all’ideale, dà forza morale alla sua impresa, e si configura come veicolatore di buoni valori, universalmente condivisi, stimolando la vocazione

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Sociétés Françaises des Sports Athlétiques, ove per la prima volta si propose di istituire i Giochi olimpici moderni, il cui scopo sarebbe stato quello di promuovere tramite lo sport una società pacifica ed in grado di preservare la dignità umana, capace di garantire un’unità di etica e sport. Dunque, il CIO, rappresentativo dell’autorità suprema del movimento olimpico, si è fatto portatore, sin da subito, della funzione di promuovere lo sport al più alto livello, nonché di assicurare la celebrazione dei Giochi olimpici, stabilendo i principi a cui doveva ispirarsi il movimento e l’ordinamento olimpico stesso. Il neo Comitato non rappresentava le singole realtà nazionali, ma si poneva in qualche modo al di sopra di queste, proponendo un modello intellettuale e filosofico unificante, e sovranazionale, nel quale lo sport veniva chiamato ad assolvere una funzione socialmente riconosciuta ed universale. In un primo momento, il CIO ebbe la propria sede presso il domicilio privato parigino di Pierre de Coubertin fino al 1915, allorché venne trasferito a Losanna, dove è tutt’oggi. La nascita del Comitato Olimpico ha rappresentato, dunque, prima di tutto, un tentativo di affermazione di una nuova filosofia, di uno stato dello spirito, capace di associare allo sport valori universali. Ed è proprio a questi ideali, ribaditi tra i principi fondamentali, che va attribuita la vitalità del Movimento Olimpico negli anni, e soprattutto la sua capacità di catalizzare l’interesse delle masse, vincere le loro diffidenze e avviarsi a diventare, progressivamente, un fenomeno sociale di dimensioni mondiali. Tutto questo era, ovviamente, possibile solo attraverso una regolamentazione dettagliata, avviata già nel 1908 con l’elaborazione delle regole olimpiche e culminata con l’emanazione della Carta olimpica nel 1978. Tale documento, inizialmente redatto nel 1894 e oggetto di molteplici successive modifiche, costituisce, senza dubbio, la fonte primaria regolatrice dell’organizzazione e dell’attività del movimento olimpico, riconoscendo il CIO come associazione di diritto internazionale, avente personalità giuridica. Tale iniziale definizione ha, tuttavia, sin da subito, prestato il fianco a numerose critiche dovute ad incertezze a livello giuridico, tanto ché nel 1991 furono operati degli emendamenti al testo della Carta olimpica che hanno modificato la formula relativa allo status giuridico dell’organismo e portato all’istituzione della regola, che riconosce il CIO come «una organizzazione internazionale non governativa senza fini di lucro, di durata illimitata, costituita in forma di associazione con personalità giuridica» 60. a migliorarsi e a competere lealmente, la ricerca del superamento dei propri limiti. Cfr. R. FRASCA, L’Olimpismo e il paradigma di Pierre de Coubertin in Pedagogia Olimpica, in Quaderni dell’AONI, n. 10, 2007, p. 17. 60

Carta olimpica, Regola 19 – Stato giuridico – 1. Il CIO è un’organizzazione internazionale non governativa, senza scopo di lucro, costituito come associazione dotata di personalità giuridica, riconosciuta dal Consiglio Federale svizzero e la cui durata è illimitata. 2. Il CIO ha sede a Losanna, in Svizzera. 3. La missione del CIO è quella di dirigere il Movimento Olimpico in confor-

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Pertanto, il CIO, soggetto di diritto internazionale non governativo, non trova il proprio fondamento costitutivo in un accordo internazionale tra Stati – infatti, la natura internazionale dell’organizzazione risulta dalla partecipazione alla sua costituzione di persone fisiche e giuridiche di diverse nazionalità – come emerge dalla regola. 3 della Carta olimpica, ove si legge che «il movimento olimpico è formato, oltre che dal CIO, dalle federazioni internazionali, dai comitati olimpici, dai comitati organizzativi dei giochi olimpici, nonché dalle varie associazioni nazionali e dalle società sportive» 61. Lo stesso rapporto tra il Comitato Internazionale Olimpico e i singoli Comitati Olimpici Nazionali non è di tipo associativo ma si fonda sull’unilaterale riconoscimento del CIO che legittima i singoli comitati olimpici nazionali come propri fiduciari, ossia promotori e custodi a livello nazionale dei principi fondamentali dell’Olimpismo, ed attribuisce a quest’ultimi l’esclusiva competenza a rappresentare il proprio Paese ai Giochi Olimpici nonché a selezionare e ad iscrivere gli atleti che vi parteciperanno 62. Per quanto riguarda le funzioni e i compiti attribuiti al Comitato Olimpico Internazionale, questo esercita tutti i poteri legislativi, esecutivi e giurisdizionali, con efficacia obbligatoria per tutti gli enti e le persone che fanno parte del movimento olimpico, come espressamente chiarito, in maniera sicuramente più analitica, alla regola 2 della Carta olimpica che, rubricata Ruolo del CIO, recita: «Il ruolo del CIO è quello di gestire la diffusione dell’Olimpismo. A tale scopo il CIO: 1. favorisce il coordinamento, l’organizzazione e lo sviluppo dello mità della Carta olimpica. 4. Le decisioni del CIO, prese sulla base delle disposizioni della Carta olimpica, sono definitive. Le controversie provenienti dalla loro applicazione o interpretazione potranno essere risolte unicamente dalla Commissione Esecutiva del CIO e, in alcuni casi, a mezzo di Arbitrato, davanti il Tribunale Arbitrale dello Sport (TAS). 61 Carta olimpica, Regola 3 – Appartenenza al Movimento Olimpico – 1. Oltre al CIO, il Movimento Olimpico comprende le Federazioni Internazionali (FI), i Comitati Nazionali Olimpici (CNO), i Comitati Organizzatori dei Giochi Olimpici (COGO), le associazioni nazionali, le società e le persone che ne fanno parte, ed in particolare gli atleti, i cui interessi costituiscono un obiettivo fondamentale della sua opera, nonché i Giudici/arbitri, gli allenatori e gli altri tecnici dello sport. Comprende inoltre altre organizzazioni ed istituzioni riconosciute dal CIO. 2. Ogni forma di discriminazione verso un Paese o una persona, sia essa di natura razziale, religiosa, politica, di sesso o altro è incompatibile con l’appartenenza al Movimento Olimpico. 62

Il riconoscimento da parte del CIO è subordinato alla ricorrenza di una struttura organizzativa comprensiva dei membri nazionali del CIO nonché di rappresentanti delle Federazioni Nazionali ammesse al programma olimpico ed affiliate alla Federazione internazionale riconosciuta dal CIO per quella disciplina ed è altresì subordinato al controllo di conformità degli statuti e dei regolamenti degli enti sportivi nazionali ai dettami della Carta olimpica. Quindi, per tutto quello che concerne l’approntamento degli atleti e dei mezzi destinati ai Giochi Olimpici viene ad instaurarsi tra CIO e Comitato Nazionale una struttura monopolistica e gerarchica con poteri accentrati al vertice. Sull’argomento si veda R. MORZENTI PELLEGRINI, L’evoluzione dei rapporti tra fenomeno sportivo e ordinamento statale, Milano, 2007.

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sport e delle competizioni sportive e, in collegamento con le organizzazioni sportive internazionali e nazionali, assicura la promozione e l’applicazione di provvedimenti tendenti a rinforzare l’unità del Movimento Olimpico; 2. collabora con le organizzazioni e autorità pubbliche o private competenti al fine di mettere lo sport al servizio dell’umanità; 3. garantisce la celebrazione periodica dei Giochi Olimpici; 4. partecipa alle azioni in favore della pace, opera in vista della protezione dei diritti dei membri del Movimento Olimpico e agisce contro ogni forma di discriminazione che affetti il Movimento Olimpico; 5. favorisce, con tutti i mezzi appropriati, la promozione delle donne nello sport ad ogni livello e in tutte le strutture, e in particolare modo negli organi esecutivi delle organizzazioni sportive nazionali e internazionali, per una rigorosa applicazione del principio di uguaglianza tra i sessi; 6. sostiene ed incoraggia la promozione dell’etica sportiva; 7. dedica i propri sforzi per fare sì che lo spirito di fair-play regni nello sport e che la violenza ne sia bandita; 8. dirige la lotta contro il doping nello sport e partecipa alla lotta internazionale contro le droghe; 9. adotta i provvedimenti atti ad evitare che venga messa a repentaglio la salute degli atleti; 10. si oppone ad ogni utilizzazione abusiva politica o commerciale dello sport e degli atleti; 11. incita le organizzazioni sportive e le autorità pubbliche a fare tutto il possibile per assicurare il futuro sociale e professionale degli atleti; 12. incoraggia lo sviluppo dello sport per tutti che rappresenta una delle basi dello sport di alto livello, il quale a sua volta contribuisce allo sviluppo dello sport per tutti; 13. sorveglia che i Giochi Olimpici si svolgano in condizioni che tengano conto in modo responsabile dei problemi dell’ambiente ed incoraggia il Movimento Olimpico a preoccuparsi di tali problemi, a recepire tali preoccupazioni in tutte le proprie attività ed a sensibilizzare tutte le persone ad esso collegate sull’importanza di uno sviluppo sostenibile; 14. sostiene l’Accademia Internazionale Olimpica (AIO); 15. sostiene altre istituzioni che si dedicano all’educazione olimpica». Tali obiettivi e risultati possono, in effetti, essere pienamente conseguiti solo grazie ad una struttura organizzativa adeguatamente funzionante. A tal proposito, se nei primi anni il CIO si presentava come un organismo dotato di una ridotta struttura organizzativa, in cui la gran parte delle decisioni venivano ratificate da un gruppo ristretto di persone, in seguito ha, invece, conosciuto un sensibile sviluppo ed oggi risulta dotato di un importante apparato organico. In primis, ruolo di spicco è rivestito dalla Sessione, costituente l’assemblea generale dei membri del CIO, e dunque l’organo supremo del comitato, oggi composto da 126

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membri che si riuniscono una volta all’anno. I membri della Sessione vengono nominati per cooptazione e al loro interno eleggono un presidente, che rimane in carica otto anni; una Sessione straordinaria potrebbe essere indetta su richiesta del presidente o di almeno un terzo dei componenti. La Sessione, in particolare, ha potere deliberativo in ordine: a) all’adozione e modifica della Carta olimpica; b) all’elezione dei membri del CIO, del presidente onorario e dei membri onorari; c) all’elezione del presidente, dei vice-presidenti e di tutti gli altri membri del comitato esecutivo; d) all’individuazione e designazione della città che deve ospitare i Giochi olimpici; e) di redazione del protocollo dei Giochi olimpici, stabilendone il programma; f) di decisione circa il “dilettantismo” degli atleti ammessi alle gare. Di supporto alla Sessione, vi è il Comitato esecutivo del CIO, costituito fin dal 1921, investito della responsabilità amministrativa e gestionale e composto dal Presidente, da quattro vice-presidenti e altri dieci membri che vengono eletti dalla Sessione, con voto segreto, a maggioranza, con un mandato quadriennale, rinnovabile una sola volta. Al vertice del Comitato Olimpico Internazionale vi è il Presidente, che rappresenta l’organizzazione e ne presiede tutte le attività e i comitati, eletto dalla Sessione, a scrutinio segreto, e dura in carica otto anni, rinnovabili per ulteriori quattro. Al fine del perseguimento degli scopi indicati nella Carta olimpica, il Presidente nomina, poi, commissioni specialistiche, tra le quali si ricordano: la commissione programma olimpico che si occupa della analisi e della revisione del programma sportivo e del numero degli atleti in ogni sport per i Giochi olimpici estivi e invernali; la commissione di studio sui Giochi Olimpici con il mandato di studiare i Giochi olimpici passati e futuri, nonché di esaminare l’organizzazione anche infrastrutturale dei luoghi dove si disputeranno i Giochi olimpici, al fine di assistere le città organizzatrici, anche con lo scopo di controllare e ridurre quanto possibile le spese per l’organizzazione dei Giochi; la commissione marketing che ha responsabilità di studiare possibili fonti di finanziamento per il CIO e per il movimento olimpico; la commissione medica, creata per affrontare il fenomeno del doping e preposta alla protezione della salute degli atleti, del rispetto dell’etica sportiva e medica, nonché dell’uguaglianza degli atleti in gara; la commissione etica, costituita nel 1999, con il compito di controllare che i principi etici sanciti dalla Carta olimpica e nel Codice Etico, vengano rispettati dal CIO e dai suoi membri; la commissione atleti che funge da collegamento tra gli atleti in attività e il CIO. Alla luce di quanto detto, appare evidente la distinzione, relativamente ai compiti svolti, tra il CIO, che sovrintende allo svolgimento delle Olimpiadi, e le Federazioni sportive internazionali che si limitano a raggruppare i corrispondenti organismi dei vari stati, mediante una struttura di tipo federativo. Le Federazioni sportive internazionali si qualificano come associazioni private senza scopo di lucro, di tipo composito in quanto associazioni di associazioni, dotate di struttura federativa e per lo più ammesse al riconoscimento della personalità giuridica di diritto privato secondo la legislazione dello Stato ove è stabilita la

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loro sede sociale. Il loro schema giuridico ed organizzativo è sostanzialmente unitario e comprensivo di un organo legislativo, di un organo di governo, di un responsabile esecutivo, di vari consultivi permanenti, di organismi decentrati ed autonomi con compiti di amministrazione della particolare disciplina sportiva di competenza della Federazione nella loro area territoriale. Sono, inoltre, munite di uno o più organi di giustizia che operano come Giudici di appello rispetto alle sanzioni disciplinari irrogate dagli organi di giustizia regionali o da quelli previsti per le competizioni internazionali ufficiali. Pertanto se alle Federazioni sportive internazionali spetta il compito di regolamentazione tecnica, il CIO ha chiaramente la missione di promozione di valori e di organizzazione delle gare olimpiche 63. Tuttavia, preme precisare che le Federazioni sportive Internazionali sono legate al CIO non da un rapporto associativo, ma da un unilaterale riconoscimento che è anche condizione per la loro partecipazione ai Giochi olimpici quali autorità funzionali cui è commessa la direzione tecnica della disciplina sportiva di competenza. A questo punto, sembra chiaro come la portata e la rilevanza del Comitato Internazionale, sullo scenario giuridico e sportivo mondiale, possano effettivamente comprendersi solo se guardate alla luce dei dettati e dei principi fondamentali espressi dalla Carta olimpica 64, gli unici in grado di ar63

Le Federazioni sportive internazionali dirigono uno sport a livello mondiale, assumendo la responsabilità della sua organizzazione e gestione, associando, a tal fine, le Federazioni nazionali attive nel medesimo settore sportivo, riconoscendo una sola Federazione per nazione, imponendo a queste ultime di inserire nei loro statuti una clausola di giurisdizione esclusiva a favore degli organi federali internazionali nonché una clausola di accettazione incondizionata di regolamenti e delle delibere della Federazione internazionale. 64

Carta olimpica – Principi fondamentali – 1. L’ Olimpismo moderno fu concepito da Pierre de Coubertin, su iniziativa del quale si riunì nel giugno del 1894 il Congresso Atletico Internazionale di Parigi. Il 23 giugno 1894 fu costituto il Comitato Internazionale Olimpico (CIO). Nell’agosto del 1994 fu celebrato a Parigi il E Congresso Olimpico, Congresso Olimpico del Centenario, denominato Congresso dell’Unità. 2. L’Olimpismo è una filosofia di vita, che esalta in un insieme armonico le qualità del corpo, la volontà e lo spirito. Nell’associare lo sport alla cultura ed all’educazione, l’Olimpismo si propone di creare uno stile di vita basato sulla gioia dello sforzo, sul valore educativo del buon esempio e sul rispetto dei principi etici fondamentali universali. 3. Lo scopo dell’Olimpismo è di mettere ovunque lo sport al servizio dello sviluppo armonico dell’uomo, per favorire l’avvento di una società pacifica, impegnata a difendere la dignità umana. Con tale proposito, il Movimento Olimpico svolge, solo e in collaborazione con altri organismi e nell’ambito delle proprie possibilità, azioni volte a favorire la pace. 4. Dall’Olimpismo moderno è nato il Movimento Olimpico, gestito del CIO. 5. Il Movimento Olimpico raggruppa sotto l’autorità suprema del CIO le organizzazioni, gli atleti e tutti coloro che accettino di essere guidate dalla Carta olimpica. Il criterio di appartenenza al Movimento Olimpico consiste nel riconoscimento da parte del CIO. L’organizzazione e la gestione dello sport devono essere controllate da organismi sportivi indipendenti, riconosciuti come tali. 6. Il Movimento Olimpico ha come scopo di contribuire alla costruzione di un mondo migliore e più pacifico educando la gioventù per mezzo dello sport, praticato senza discriminazioni di alcun genere e nello spirito olimpico, che esige mutua comprensione, spirito di amicizia, solidarietà e fair-play. 7. L’attività del Movimento Olimpico, simbolizzata dai cinque anelli intrecciati, è universale e permanente. Essa abbraccia i cinque continenti e raggiun-

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monizzare e guidare l’intera macchina sportiva garantendo al tempo stesso, talvolta, i fragili equilibri tra i singoli ordinamenti nazionali e quello internazionale.

2.2. Il CONI-normativa e rilievo nell’ordinamento sportivo Sul fronte interno, il centro dell’attenzione si sposta necessariamente sui singoli Comitati Olimpici Nazionali, in Italia il CONI, che si colloca nel sistema complessivo seguendo un criterio di specializzazione per area geografica, promuovendo lo spirito olimpico, presidiando lo sviluppo di tutti gli sport, ed operando come rappresentante territoriale del Movimento Olimpico. In Italia, per la classe governativa della neonata Repubblica, il CONI rappresentò certamente una presenza ingombrante ereditata dal decaduto regime fascista, tant’è che l’atteggiamento di diffidenza iniziale fu una sorta di rivalsa verso un settore, quello dello sport, che era stato oggetto nel recente passato di particolare cura a fini propagandistici 65. L’istituzione a cui oggi è demandata la quasi totalità della gestione dell’attività sportiva venne indirizzata ben presto alla liquidazione ma trovò, grazie alla lungimiranza del commissario Giulio Onesti, la forza per poter proseguire la sua attività e diventare l’imprescindibile punto di riferimento per lo sport nazionale 66. ge il suo punto culminante in occasione del raduno di atleti di tutto il mondo per il grande festival dello sport che sono i Giochi Olimpici. 8. La pratica dello sport è un diritto dell’uomo. Ogni individuo deve avere la possibilità di praticare lo sport secondo le proprie esigenze. 9. La Carta olimpica è il codice che riassume i Principi Fondamentali, le Regole e le Norme di Applicazione adottati dal CIO. Essa sovrintende alla organizzazione ed al funzionamento del Movimento Olimpico; essa fissa inoltre le condizioni per la celebrazione dei Giochi Olimpici. 65

Mussolini fu il primo politico a dare di sé l’immagine di un uomo sportivo. Se la cura del corpo era vista come strumento per incrementare la natalità e quindi per aumentare la potenza della nazione al crescere della sua popolazione, specialmente nel clima di disorientamento e di confusione del periodo compreso tra le due guerre, lo sport acquistò un grande valore sociale. In Italia, dove i diritti democratici erano stati sospesi, il campione sportivo diventò un modello degno di imitazione e l’attenzione per lo sport rappresentava un ottimo strumento di distrazione rispetto alla partecipazione alla vita politica (inesistente) nel Paese, costruendo miti da emulare. Dal punto di vista sociale, lo sport rappresenta una “libertà” concessa dal regime che, anzi, lo incentiva insieme al tempo libero, attraverso una speciale legislazione (disponibilità delle ferie, colonie per i figli, sabati pomeriggi festivi, attività dopolavoristiche) che crea nuovi bisogni e contrassegna fortemente nuovi costumi. Anche da queste cose matura il consenso al fascismo. Lo sport come “valore” viene esaltato perché si presta agevolmente alla propaganda, perché crea un forte senso di nazionalismo e quindi va nella direzione del militarismo, perché consente di essere usato in chiave anti-borghese (ma solo moralmente contro la sua inerzia e la sua pavidità) e perché propone miti quali la gioventù, la prestanza fisica e persino la razza. Attraverso lo sport può passare la costruzione dell’“uomo nuovo” verso cui tende il regime. Cfr. D. MARCHESINI, L’Italia del Giro d’Italia, Bologna, 1996. 66 Giulio Onesti venne nominato commissario del CONI dal Comitato di Liberazione Nazionale nel 1946 ed anziché liquidare l’ente si presentò ad Alcide De Gasperi, divenuto nel frattempo

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Il CONI, Comitato Olimpico Nazionale Italiano, è, quindi, inizialmente nato come risposta alla esigenza di regolamentare il fenomeno sportivo nazionale, con una conformazione vera e propria dell’ente che può ritenersi avviata nel 1896 in occasione dello svolgimento della prima Olimpiade moderna di Atene 67. Di fondamentale importanza per la sua esistenza è stato, però, il primo vero intervento legislativo, concretizzatosi con la legge istitutiva 16 febbraio 1942, n. 426, prima della quale il CONI – all’epoca denominato Comitato Italiano per le Olimpiadi internazionali – esisteva unicamente come “associazione di fatto”, costituita dai rappresentanti dei vari sport praticati con l’inquadramento in esso di tutte le Federazioni sportive allora esistenti 68. Fu, infatti, solo con la legge del 1942 – così come modificata dopo la caduta del regime fascista dal d.lgs. CPS, 2 maggio 1947, n. 362 “Modificazioni della L. 16 febbraio 1942, n. 426, contenente la costituzione e l’ordinamento del Coni” – che l’ambito di operatività del Comitato venne regolamentato in maniera organica, con il conseguente riconoscimento della qualifica di ente pubblico e con l’attribuzione della funzione di organizzare e potenziare lo sport nazionale 69. Per quanto riguarda la capo del Governo, con un progetto di rilancio basato soprattutto sull’autonomia finanziaria e sul proseguimento dei programmi di sviluppo e potenziamento dello sport nazionale. Di lì a pochi anni (1954), grazie alla intuizione del giornalista Massimo Della Pergola, il CONI poté giovarsi del concorso pronostici calcistico costituito dalla “schedina Totocalcio”. Per decenni, fino alle soglie del Duemila, questa forma di autofinanziamento costituì per il CONI il presupposto della propria indipendenza dal potere politico e per lo sport nazionale una forma di consistente finanziamento delle attività. 67 In quell’occasione un gruppo di privati organizzò una rappresentanza di atleti facendoli partecipare, a proprie spese, ai primi Giochi olimpici. Questo fenomeno ha dato conferma, in maniera evidente, della opportuna necessità di intervenire con una regolamentazione ad hoc che, attraverso l’istituzione di un ente, fosse in grado di gestire ed organizzare il fenomeno sportivo. 68

Sull’evoluzione giuridica del CONI ad inizio del secolo scorso si veda, L. RIGO, Storia della normativa del Coni dalle sue origini alla legge istitutiva del 1942, in Riv. dir. Sportivo, 1986, p. 565 ss. In tema si veda, inoltre, F. BONINI, Le istituzioni sportive italiane: storia e politica, Torino, 2006; D. MASTRANGELO, L’organizzazione dello sport e l’ordinamento statale, in ID. (a cura di), Aspetti giuspubblicistici dello sport, Bari, 1994, p. 23 ss.; M.V. DE GIORGI, Libertà e organizzazione nell’attività sportiva, in Giur. it., 1975, IV, p. 123 ss. 69

A tal proposito, precisa la giurisprudenza del tempo: «Il CONI, in quanto ente strumentale per il raggiungimento dei fini che rientrano negli interessi generali propri dell’ordinamento giuridico statale, non può agire ponendosi in contrasto con lo stesso ma solo entro la sfera di potestà riconosciutegli, con la conseguenza che gli atti che tale ente o le varie federazioni, che ne costituiscono gli organi, emanino nell’esercizio della potestà amministrativa, avendo natura di regolamenti interni ed una sfera di efficacia limitata alle materie che rientrano nell’ordinamento sportivo, non possono regolamentare i rapporti intersoggettivi eccedenti quelle materie, né vincolare soggetti estranei all’ordinamento sportivo ed avente ad oggetto la prestazione di un corrispettivo per l’opera prestata nella preparazione atletica di un giocatore di calcio poi ceduto ad altra società, non può ritenersi nullo per illiceità della causa, ancorché vietato dal regolamento della federazione calcio, trattandosi di contratto avente ad oggetto un’attività lecita e tutelata dalle leggi dello Stato, né incidendo sul dovuto corrispettivo l’assenza di scopo di lucro delle so-

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natura giuridica dell’ente, l’art. 1 della legge n. 426/1942 si limitava a qualificare il CONI come ente dotato di personalità giuridica con sede a Roma e costituito sotto la vigilanza del Ministero del Turismo e dello spettacolo 70, ma tale ultima qualità è stata rivista con la legge 20 marzo 1975, n. 70 (“Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente”) che ha, invece, qualificato il Comitato Olimpico nazionale come ente pubblico parastatale. A conferma della impossibilità di incertezze in ordine alla qualificazione dell’ente, può essere interessante guardare alla giurisprudenza del tempo ed in particolare alla Cassazione che così si pronunciava: «Al comitato olimpico nazionale italiano (Coni) va riconosciuta la natura di ente pubblico non economico, in considerazione degli interessi generali che esso persegue nel settore sportivo, con attività di organizzazione di tipo non imprenditoriale, nonché dell’espressa attribuzione di qualifica contenuta nella l. 20 marzo 1975, n. 70 sul riordinamento degli enti pubblici; pertanto spetta alla cognizione esclusiva del giudice amministrativo la controversia inerente al rapporto di lavoro dei dipendenti di detto comitato o delle federazioni sportive nazionali, che ne costituiscono organi, vertendosi in tema di rapporto di pubblico impiego, peraltro assoggettato anche a disciplina di tipo pubblicistico, in forza del d.P.R. 26 cietà sportive». Continua, poi, la Corte nella motivazione: «La potestà riconosciuta all’ordinamento sportivo ha natura amministrativa perché al CONI è stata attribuita la potestà di emanare, attraverso i suoi organi, e cioè, attraverso le varie federazioni sportive, atti aventi natura regolamentare caratterizzati dai requisiti dell’astrattezza e della generalità che sono riconducibili alle categorie dei regolamenti dell’organizzazione perché possono avere per contenuto l’ordinamento ed il funzionamento degli uffici, ovvero, alla categoria dei regolamenti indipendenti perché il loro contenuto può avere per oggetto la disciplina dello svolgimento dell’attività sportiva. I rapporti tra l’ordinamento giuridico statale e l’ordinamento sportivo, non sono, quindi, di reciproca autonomia e totale indipendenza, così che qualunque soggetto che venga in rapporto con organi dell’ordinamento amministrativo sportivo, resti soggetto esclusivamente ad esso e perda la tutela dei diritti soggettivi a lui riconosciuti dall’ordinamento statale. Al contrario, l’ordinamento sportivo opera nell’ambito delle leggi dello Stato e può agire solo entro la sfera delle potestà che da queste ultime gli sono riconosciute, sfera che è limitata all’esercizio della predetta potestà regolamentare amministrativa del settore sportivo il quale rientra tra gli interessi generali dello Stato e che è stato delegato ad un ente pubblico appositamente creato e sottoposto alla vigilanza del competente organo amministrativo statale. Perciò l’ordinamento giuridico sportivo assume sotto la denominazione di Comitato Olimpico nazionale italiano la qualificazione di ente pubblico nell’ordinamento giuridico statale e, quale ente pubblico distinto dalla persona giuridica dello Stato e dai suoi organi, viene utilizzato dall’ordinamento giuridico statale per l’esercizio della funzione amministrativa nel settore sportivo, sì che l’efficacia degli atti amministrativi e della normativa regolamentare, anziché essere limitata all’interno dell’ordinamento sportivo, si estende nell’ambito dell’ordinamento statale» (Cass., sez., I, 3 aprile 1987, n. 3218, in Giust. civ., 1987, I, p. 1678; in Riv. dir. Sportivo, 1988, p. 85). 70 Tuttavia, se ne riconosceva generalmente la natura pubblica in applicazione dei c.d. indici di riconoscibilità degli enti pubblici ed in particolare quello contabile, l’autonomia normativa e l’autarchia, il procedimento pubblico per la nomina del Presidente, ecc. Per una più completa ricostruzione sulla materia, v. F.P. LUISO, La giustizia sportiva, cit., p. 83.

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maggio 1976, n. 411» 71. Tuttavia, lo scarno e semplicistico riconoscimento giurisprudenziale del CONI come ente pubblico non economico mal si conciliava con le peculiarità proprie dell’ordinamento sportivo 72, pertanto, sulla spinta del legislatore, con la legge 31 gennaio 1992, n. 138 (“Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità del comitato olimpico nazionale italiano-CONI”) si arrivò a riconoscere al CONI, seppur nell’ambito degli enti pubblici parastatali, una autonomia particolare, pur non incidendo sull’assetto organizzativo e sulle competenze funzionali degli organi collegiali del CONI, rimasti sempre sotto la copertura legislativa della legge 16 febbraio 1942, n. 426 e dalle relative norme di attuazione (d.P.R. 28 marzo 1986, n. 157 73. Un significativo passo avanti, nell’evoluzione normativa della disciplina sportiva, è stato segnato dal d.lgs. 23 luglio 1999, n. 242 “Riordino del Comitato Olimpico Nazionale Italiano – CONI, a norma dell’art. 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59” 74 – che ha comportato l’abrogazione della legge istitutiva del CONI e la relativa disciplina attuativa, ridisegnandone le finalità, i contenuti nonché la stessa organizzazione e collocazione. In particolare, all’art. 1, si riconosce, per la prima volta, la natura di soggetto di diritto pubblico del CONI, viene esplicitamente attribuita la vigilanza da parte del Ministero per i beni e le attività culturali – in precedenza esercitata dal Ministero del turismo e, in una prospettiva di stabilità, viene elaborato uno Statuto 75 e stabilite le finalità a cui deve ispirarsi. Dal punto di vista organizzativo, il legislatore stabilisce che le Federazioni non sono più organi del CONI e non hanno più personalità pubblica, come, invece, riconosciuto in precedenza dall’art. 5 della legge n. 426/1942 e dall’art. 71

Cass., Sez. Un., 16 dicembre 1981, n. 6637, in Riv. dir. Sportivo, 1982, p. 560.

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V. CALZONE, Il CONI ente pubblico nella legislazione vigente, in Riv. dir. Sportivo, 1997, p. 438 ss. 73

In particolare, è opportuno ricordare come la legge del 1992 non ha modificato l’organizzazione dell’ente, né la competenza dei suoi organi, rimasti soggetti alla legge istitutiva del 1942 e alle relative norme di attuazione. Nello specifico, l’art. 1, comma 1 della legge del 1992 recita: «fino all’entrata in vigore della legge quadro sullo sport, spetta al Consiglio Nazionale del Comitato olimpico nazionale italiano (Coni) deliberare le norme di funzionamento e di organizzazione e di contabilità, anche in deroga alle disposizioni delle L. 20 marzo 1975, n. 70 e successive modificazioni, del regolamento approvato con decreto del Presidente della Repubblica e successive modificazioni, e degli articoli 2 e 3, L. 29 marzo 1983, n. 93». 74 Il suddetto decreto legislativo, meglio noto come “decreto Melandri” è stato emanato in base alle disposizioni contenute nell’art. 11, comma 1, lett. b) della legge 15 marzo 1997, n. 59 il quale prevedeva che «il Governo è delegato ad emanare, entro il 31 gennaio 1999, uno o più decreti legislativi diretti a) ... (omissis) b) riordinare gli enti pubblici nazionali operanti in settori diversi dalla assistenza e previdenza, le istituzioni di diritto privato e le società per azioni, controllate direttamente o indirettamente dallo Stato, che operano, anche all’estero, nella promozione e nel sostegno pubblico al sistema produttivo nazionale». 75 Lo statuto del CONI è adottato dal Consiglio su proposta della Giunta ed approvato dal Ministro per i beni culturali di concerto con il Ministro del tesoro.

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14, legge n. 91/1981. La ratio del decreto legislativo in commento, può, tuttavia, effettivamente comprendersi solo se inserito e contestualizzato all’interno del più ampio progetto di riforma e semplificazione della Pubblica Amministrazione, avviato con l’emanazione della legge 15 marzo 1997, n. 59 “Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa” e con la successiva legge 15 maggio 1997, n. 127 recante “Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo” (c.d. Bassanini-bis). La legge n. 127/1997 rappresenta, inequivocabilmente, il completamento del processo di riforma dell’organizzazione amministrativa centrale e del riassetto delle competenze tra Stato, regioni ed enti locali iniziato già con la legge n. 59/1997; si devono, inoltre, alla legge Bassanini-bis, non solo la semplificazione dei rapporti tra cittadini e Pubblica Amministrazione e degli stessi procedimenti amministrativi, ma anche una nuova definizione dei rapporti tra Stato ed autonomie locali ridisegnando il sistema dei controlli e rafforzando l’autonomia degli stessi enti locali proprio attraverso la modifica del precedente quadro normativo 76. Il legislatore non si è, quindi, limitato a realizzare un mero riordino della disciplina sportiva italiana, ma ha gettato le basi per la costruzione di una vera e propria disciplina del tutto innovativa e soprattutto finalizzata a mutare le regole fondamentali e la configurazione stessa dell’ordinamento sportivo nazionale. Per la realizzazione di una tale opera di risistemazione il legislatore ha seguito i principi guida contenuti nella relazione governativa sullo schema di decreto, principi sicuramente dalla portata innovativa e rivoluzionaria, tant’è che la stessa relazione governativa definisce il decreto come «primo, anche se importante tassello di una più complessiva riforma dello sport» 77. Il riassetto organizzativo dell’ordinamento sportivo si è venuto a realizzare, quindi, non attraverso l’approvazione di una legge ordinaria, come poteva essere auspicabile in considerazione della delicatezza e dell’importanza della materia, ma di un decreto legislativo adottato dal Governo nell’esercizio di una delega.

76 Legge 8 giugno 1990, n. 142, Ordinamento delle autonomie locali; per un’analisi della richiamata legge, si vedano: AA.VV., Commento alla legge n. 127 del 1997, c.d. Bassanini 2, Rimini, 1998; B.A. TIMINIERI, Prime riflessioni sulla L. 15 maggio 1997, n. 127 recante norme per lo snellimento dell’attività amministrativa, in TAR, 1997, II, p. 335; O. FORLENZA, Un intervento complesso arrivato “in volta” ma si profila un’applicazione lenta, in Guida dir., n. 5 maggio 1997, p. 88; A. BUONCRISTIANO, La legge Bassanini bis, in Nuova Rass., n. 12, 1997, p. 1218. 77 La richiamata relazione, fra gli elementi fondamentali della riforma, prevede sia la «garanzia che tutte le componenti del mondo sportivo possano dare il loro apporto all’attività di regolazione e vigilanza del CONI nello svolgimento dell’attività professionistica e dilettantistica», sia «l’adeguamento ai principi di democrazia interna nella composizione degli organi dell’ente, relativamente ai quali è garantito l’accesso anche agli atleti ed ai tecnici sportivi», nonché la «distinzione tra Ente e Federazioni sportive, realizzata attraverso il mutamento della natura giuridica di quest’ultime, che divengono associazioni riconosciute».

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Il cosiddetto decreto Melandri, nato per un mero riordino amministrativo dell’ente CONI, non si è limitato a questo, ma ha dettato una disciplina che ha mutato regole fondamentali e la stessa configurazione dell’ordinamento sportivo nazionale. Senza dubbio altra pietra miliare del percorso storico – giuridico nei rapporti tra l’ordinamento statale e quello sportivo è la legge 23 marzo 1981, n. 91 recante “Norme in materia di rapporti tra le società e gli sportivi professionisti”, occasione per un intervento abbastanza penetrante nel settore sportivo, che stava acquistando una grandissima rilevanza sia dal punto di vista sociale che economico. La legge 23 marzo 1981, n. 91 (pubblicata sulla G.U. il 27 marzo 1981, n. 86), fu emanata in un momento di emergenza (il 7 luglio 1978 il pretore di Milano interruppe le trattative al tradizionale “calciomercato” ipotizzando la violazione delle norme sul collocamento dei lavoratori nelle pratiche di trasferimento e di assunzione dei calciatori) e dopo aver prodotto una serie di passaggi interpretativi della norma. Essa ebbe, nel suo punto focale (cioè la natura del contratto di lavoro per il professionista sportivo) un iter parlamentare particolarmente tormentato e con orientamenti molto contrastanti: il disegno di legge ipotizzava in origine una qualifica “autonoma” per il lavoratore sportivo ma gli emendamenti in aula ne stravolsero il contenuto portando al licenziamento della legge con previsione di vincolo di “subordinazione”. Le due richiamate previsioni di legge, sia pur arrivate in epoche storiche diverse e molto lontane tra loro, rappresentano una sorta di emersione sul piano legislativo del fenomeno sportivo. Esse costituiscono l’ineludibile punto di partenza attraverso cui individuare i rapporti esistenti tra i due ordinamenti e attraverso cui risolvere, per quanto possibile, i conflitti legati all’interpretazione delle norme e all’individuazione delle competenze. È stato, in ultimo, solo con la legge 17 ottobre 2003, n. 280 che si è completata l’opera legislativa da parte dell’istituzione statale (legge di conversione del d.l. 19 agosto 2003, n. 220 recante “Disposizioni urgenti in materia di giustizia sportiva”), anch’essa emanata in un momento di grande caos normativo.

2.3. Gli organi del CONI e il suo statuto Per l’analisi di quelli che sono gli organi in cui si articola il Comitato Olimpico Nazionale Italiano ed esaminare più nel dettaglio la struttura e lo Statuto dello stesso, è significativo il riferimento al dettato dell’art. 2 del d.lgs. n. 242/1999, così come modificato dalla legge 15 luglio 2003, n. 189 e dal d.lgs. 8 gennaio 2004, n. 15 che recita: «1. Il CONI è la Confederazione delle Federazioni sportive nazionali e delle Discipline Sportive Associate e si conforma ai principi dell’ordinamento sportivo internazionale, in armonia con le deliberazioni e gli indirizzi emanati dal Comitato olimpico internazionale, di seguito denominato CIO. L’ente cura l’organizzazione ed il potenziamento dello sport nazionale, ed in particolare la

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preparazione degli atleti e l’approntamento dei mezzi idonei per le Olimpiadi e per tutte le altre manifestazioni sportive nazionali o internazionali. Cura inoltre, nell’ambito dell’ordinamento sportivo, anche d’intesa con la Commissione per la vigilanza ed il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive, istituita ai sensi dell’articolo 3, della legge 14 dicembre 2000, n. 376, l’adozione di misure di prevenzione e repressione dell’uso di sostanze che alterano le naturali prestazioni fisiche degli atleti nelle attività sportive, nonché la promozione della massima diffusione della pratica sportiva, sia per i normodotati che, di concerto con il Comitato italiano paraolimpico, per i disabili, nei limiti di quanto stabilito dal decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616. Il CONI, inoltre, assume e promuove le opportune iniziative contro ogni forma di discriminazione e di violenza nello sport. 2. Lo statuto è adottato a maggioranza dei componenti del consiglio nazionale, su proposta della giunta nazionale, ed è approvato, entro sessanta giorni dalla sua ricezione, dal Ministro per i beni e le attività culturali, di concerto con il Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica. 3. L’organizzazione periferica del CONI è disciplinata dallo statuto dell’ente. 4. Restano ferme le competenze riconosciute alle regioni a statuto speciale e quelle attribuite alle province autonome di Trento e Bolzano, in base al decreto del Presidente della Repubblica 28 marzo 1975, n. 475. 4-bis. Lo statuto disciplina le procedure per l’elezione del Presidente e della Giunta nazionale». Già dalla sola lettura della richiamata disposizione, si comprendono le caratteristiche fondamentali del Comitato nonché le attività a questo riservate e gli organi di cui si avvale. In vero, il d.lgs. n. 242/1999, abrogando la storica legge n. 426/1942, ha inciso in profondità sulla struttura giuridica dello sport italiano, fissando il raggiungimento di una serie di obiettivi: in primis la garanzia che tutte le componenti del mondo sportivo potessero dare il loro apporto all’attività di regolazione e vigilanza del CONI nello svolgimento di attività sportiva professionistica e dilettantistica; l’adeguamento ai principi di democrazia interna nella composizione degli organi dell’ente, relativamente ai quali è garantito l’accesso anche agli atleti ed ai tecnici sportivi e, al tempo stesso, la previsione di un regime di condizioni di ineleggibilità e di incompatibilità per l’accesso agli organi dell’ente, volto a garantire l’autonomia di ciascun organo senza escludere i necessari collegamenti funzionali reciproci; ed in ultimo, il completamento dell’acquisizione dei principi generali del d.lgs. n. 29/1993 per quanto attiene alle funzioni degli organi, con una marcata separazione delle funzioni di indirizzo e di controllo – ripartite tra il Consiglio nazionale e Giunta nazionale – e quelle di gestione amministrativa – affidate al Segretario generale 78. 78

2008.

L. CANTAMESSA-G.M. RICCIO-G. SCIANCALEPORE, Lineamenti di diritto sportivo, Milano,

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A seguito del decreto legislativo del 1999, dunque, è chiaramente possibile riconoscere il CONI come ente pubblico e, più precisamente, come persona giuridica di diritto pubblico, in quanto portatore di interessi della stessa natura di quelli dell’ordinamento statale in cui è inserito, pur rimanendo indipendente dallo Stato, cioè distinto dall’ordinamento dei cui interessi è portatore. Non a caso si parla del CONI come soggetto che occupa una posizione atipica nell’ambito della Pubblica Amministrazione, ente pubblico, in quanto preposto alla cura di interessi che lo Stato riconosce di rilievo pubblicistico, ma, allo stesso tempo, persona giuridica pubblica e non organo dello Stato, in quanto indipendente e non strumentalizzato da altro organo statale per l’attuazione delle finalità pubbliche riconosciute ex lege. La stessa ampiezza delle funzioni che al CONI sono state attribuite, tra il 1999 e il 2004, è confermata della possibilità di considerare il Comitato Olimpico Nazionale come un vero e proprio ente di governo dell’ordinamento sportivo italiano, strutturato come ente federale essendo composto dalle Federazioni sportive nazionali 79 e dalle Discipline sportive associate 80. In particolar modo, la legge 16 febbraio 1942, n. 426, istitutiva del CONI, configurava le Federazioni sportive nazionali come organi dell’Ente, che partecipavano della natura pubblica di questo. La successiva legge 23 marzo, n. 91 (contenente norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti), con l’art. 14, ribadì questo inquadramento riconoscendo alle Federazioni funzione e natura pubblicistica, riconducibile all’esercizio in senso lato delle funzioni proprie del CONI, e funzione e natura privatistica per le specifiche attività 79 L’art. 15, d.lgs. 23 luglio 1999, n. 242, recependo l’inquadramento attribuito dalla giurisprudenza alle Federazioni sportive nazionali, dopo aver disposto che queste svolgono l’attività sportiva in armonia con le deliberazioni e gli indirizzi del CIO e del CONI, così consentendo l’esercizio di attività a valenza pubblicistica sulla base di poteri pubblicistici e mediante l’adozione di atti amministrativi, attribuisce loro natura di associazione con personalità giuridica di diritto privato e dichiara che non perseguono fini di lucro e sono disciplinate, per quanto previsto dal decreto, dal codice civile e dalle disposizioni di attuazione del medesimo. 80 Le Discipline associate sono state regolamentate come organizzazioni sportive nel 1986, con deliberazione del Consiglio nazionale del CONI, la quale ha fissato procedure e criteri per il loro riconoscimento, fornendo anche le motivazioni della scelta, effettuata per consentire ad alcune discipline emergenti dal carattere ludico e ricreativo, e non ancora considerate sport nazionale, di «possedere una specifica identità giuridica sia sotto l’aspetto sportivo che ordinamentale». Solo con il d.lgs. n. 242/1999 sono state disciplinate a livello legislativo, attraverso il riconoscimento dello status di associazioni con personalità giuridica di diritto privato. Le Discipline associate sono strutturate come Federazioni, preposte, con funzione esclusiva, al governo e all’organizzazione di una determinata disciplina sportiva non olimpica, e qualora lo sport da loro organizzato dovesse essere in futuro ricompreso tra quelli presenti nel programma olimpico, esse acquisiscono il diritto ad essere riconosciute come Federazioni sportive nazionali, purché in possesso dei requisiti previsti dall’art. 24 dello Statuto CONI. Il Consiglio nazionale riconosce, in ogni caso, una sola Disciplina sportiva associata per ciascuno sport che non sia già oggetto di una Federazione sportiva nazionale.

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da esse svolte 81. A fare da guida nell’immenso mare delle attività di cui si fa esecutore il Comitato Olimpico Nazionale è sicuramente lo Statuto dell’ente, così come coordinato con la legge di conversione 8 agosto 2002, n. 178 (artt. 4 e 8) e adottato dal Consiglio nazionale dell’11 giugno 2014 recependo le indicazioni formulate dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. A tal fine, può essere di particolare interesse operare una lettura analitica e sistematica degli artt. 2 e 3 della fonte statutaria, che così recitano: «Art. 2 – Funzioni di disciplina e regolazione 1. Il CONI presiede, cura e coordina l’organizzazione delle attività sportive sul territorio nazionale. 2. Il CONI detta i principi fondamentali per la disciplina delle attività sportive e per la tutela della salute degli atleti, anche al fine di garantire il regolare e corretto svolgimento delle gare, delle competizioni e dei campionati. 3. Il CONI detta principi per promuovere la massima diffusione della pratica sportiva in ogni fascia di età e di popolazione, con particolare riferimento allo sport giovanile sia per i normodotati che, di concerto con il Comitato Italiano Paralimpico, per i disabili ferme le competenze delle Regioni e delle Province autonome di Trento e Bolzano in materia. 4. Il CONI, nell’ambito dell’ordinamento sportivo, detta principi contro l’esclusione, le diseguaglianze, il razzismo e la xenofobia e assume e promuove le opportune iniziative contro ogni forma di violenza e discriminazione nello sport. 4-bis. Il CONI detta principi ed emana regolamenti in tema di tesseramento e utilizzazione degli atleti di provenienza estera al fine di promuovere la competitività delle squadre nazionali, di salvaguardare il patrimonio sportivo nazionale e di tutelare i vivai giovanili. 5. Il CONI, nell’ambito dell’ordinamento sportivo, detta principi per conciliare la dimensione economica dello sport con la sua inalienabile dimensione popolare, sociale, educativa e culturale. 6. Il CONI, nell’ambito dell’ordinamento sportivo, detta principi per assicurare che ogni giovane atleta formato da Federazioni sportive nazionali, Discipline sportive associate, società o associazioni sportive ai fini di alta competizione riceva una formazione educativa o professionale complementare alla sua formazione sportiva. 7. Il CONI detta principi per prevenire e reprimere l’uso di sostanze o di metodi che alterano le naturali prestazioni fisiche degli atleti nelle attività agonistico-sportive. 8. Il CONI garantisce giusti procedimenti per la soluzione delle controversie nell’ordinamento sportivo».

81 Questa funzione, in quanto autonoma, era separata da quella di natura pubblica e faceva capo soltanto alle Federazioni; così Sez. Un., 11 ottobre 2002, n. 14530.

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«Art. 3 – Funzioni di gestione 1. Il CONI promuove la massima diffusione della pratica sportiva, anche al fine di garantire l’integrazione sociale e culturale degli individui e delle comunità residenti sul territorio, tenendo conto delle competenze delle Regioni, delle province autonome di Trento e Bolzano e degli Enti locali. 2. Il CONI promuove e tutela lo sport giovanile fin dall’età pre-scolare. 3. Il CONI previene e reprime l’uso di sostanze o metodi che alterano le naturali prestazioni fisiche degli atleti nelle attività agonistico-sportive, anche in collaborazione con le autorità preposte alla vigilanza e al controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive. 4. Il CONI cura la preparazione degli atleti, lo svolgimento delle manifestazioni e l’approntamento dei mezzi necessari alla partecipazione della delegazione italiana ai giochi olimpici e ad altre manifestazioni sportive. 4-bis. Il CONI, anche in collaborazione con le Federazioni sportive nazionali e le Discipline sportive associate, cura le attività di formazione e aggiornamento dei quadri tecnici e dirigenziali, nonché le attività di ricerca applicata allo sport. 5. Il CONI gestisce attività connesse e strumentali all’organizzazione e al finanziamento dello sport, ai sensi dell’articolo 8 del decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 2002, n. 178». Non v’è chi non veda, dunque, l’importanza e l’essenzialità dell’attività svolta dal CONI nell’ambito dello scenario dello sport nazionale prima ed internazionale poi; un’attività che è resa possibile grazie alla storica rete di organi in cui il CONI si articola. In vero, la legge n. 426/1942, dopo aver attribuito al Comitato Olimpico Italiano la personalità giuridica di diritto pubblico, qualificava come “organi” del CONI le ventiquattro Federazioni sportive nazionali allora esistenti, attribuendo al Comitato nazionale il potere di istituire altre Federazioni per attività sportive non ancora inquadrate 82. L’attuale organizzazione interna del CONI, come ridefinita in ultimo dal d.lgs. n. 15/2004, prevede soltanto cinque organi amministrativi: il Consiglio nazionale, la Giunta nazionale, il Presidente, il Segretario generale e il Collegio dei revisori dei conti. Il Consiglio nazionale è l’organo supremo ed è composto dal Presidente del CONI, che lo presiede, da tutti i presidenti delle Federazioni sportive, dai membri italiani del CIO, da una rappresentanza di atleti e tecnici il cui numero deve

82 Con l’intervento di “riassetto” del CONI, però, le Federazioni sportive nazionali hanno assunto la fisionomia di associazioni senza fini di lucro con personalità giuridica di diritto privato. Tuttavia, al riguardo deve osservarsi che la definitiva privatizzazione delle Federazioni nazionali ad opera della legge di riordino del CONI non consente, comunque, di riportare tutta l’attività delle stesse sul terreno dell’autonomia privata, tanto è vero che lo stesso legislatore riconosce espressamente la valenza pubblicistica di specifici aspetti dell’attività federale nell’art. 15, comma 1 del d.lgs. n. 242/1999.

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essere pari almeno al trenta per cento di quello dei presidenti delle Federazioni, da sei rappresentanti delle strutture territoriali del CONI, da cinque rappresentanti degli enti di promozione sportiva, da tre rappresentanti delle discipline associate e da un rappresentante delle associazioni benemerite. Esso svolge fondamentali compiti di indirizzo e di controllo, tra i quali: l’adozione dello statuto del CONI, su proposta della Giunta nazionale, e degli altri atti normativi di competenza, nonché l’approvazione degli indirizzi generali sull’attività dell’ente e del bilancio consuntivo e, ora, anche del bilancio preventivo, come proposti dalla Giunta nazionale. Si preoccupa di curare, inoltre, la determinazione dei principi fondamentali ai quali devono uniformarsi i vari statuti di tutti gli enti associativi dell’ordinamento sportivo per potere ottenere il riconoscimento ai fini sportivi e le conseguenti deliberazioni di riconoscimento degli enti associativi più importanti, consentendo perciò loro l’affiliazione al CONI. Rientra ancora tra i compiti del Consiglio nazionale la determinazione dei criteri per distinguere l’attività professionistica da quella dilettantistica con riferimento a ciascuno sport nonché dei criteri e delle modalità di controllo da parte della Giunta sulle discipline associate, enti di promozione e Federazioni sportive e da parte di quest’ultime sulle società sportive con atleti professionisti. Il Consiglio nazionale, inoltre, su proposta della Giunta, delibera in ordine al commissariamento delle Federazioni sportive o delle discipline associate in caso di gravi irregolarità nella gestione o di gravi violazioni dell’ordinamento sportivo 83. Ai sensi dell’art. 34 dello Statuto, le funzioni di disciplina e coordinamento, che caratterizzano il ruolo del Consiglio nazionale, tendono all’armonizzazione dell’attività delle Federazioni e proprio in quest’ottica vanno collocati il potere di stabilire i principi fondamentali cui gli Statuti delle Federazioni devono uniformarsi (lett. b), di fissare i criteri per la distinzione dell’attività sportiva dilettantistica da quella professionistica (lett. d), di determinare i parametri e le modalità per l’esercizio dei controlli sulle Federazioni e sulle società sportive (lett. e) e di emanare i provvedimenti di riconoscimento degli enti sportivi (lett. h). Inoltre, il Consiglio nazionale delibera in merito al riconoscimento delle società ed associazioni sportive anche con facoltà di delega; detta i principi generali concernenti l’individuazione del “vincolo sportivo” per gli atleti non professionisti ed il tesseramento 83 Art. 5, d.lgs. n. 242/1999, come modificato dal d.lgs. n. 15/2004, in particolare per quanto riguarda la possibilità di commissariamento delle FSN o delle DSA, nonché le forme di vigilanza sul regolare svolgimento dei campionati sportivi, che prevede ora anche il potere del CONI di sostituirsi alle Federazioni sportive nazionali in caso di inadeguatezza dei controlli da parte di queste sulle società sportive con atleti professionisti. È evidente come il c.d. decreto Pescante di modifica abbia tenuto conto delle recenti vicende che hanno coinvolto il mondo del calcio professionistico in Italia. Sul rafforzamento dei poteri di controllo del CONI, inteso quale «presidio fondamentale di interessi pubblici e collettivi» e sul rischio tuttavia di una carenza di predisposizione di regole chiare e precise in ordine ai parametri e alle procedure di controllo, G. NAPOLITANO, L’adeguamento del regime giuridico del CONI e delle federazioni sportive, in Giornale dir. amm., n. 4, 2004, p. 355 ss.

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degli atleti stranieri; forma su proposta della Giunta nazionale, un elenco di esperti in materia giuridico-sportiva oltre a nominare i conciliatori e gli arbitri costituenti la Camera di conciliazione ed arbitrato per lo sport; adotta il Regolamento dell’organizzazione periferica, da sottoporre all’approvazione del Ministro vigilante, in conformità alle proposte della Conferenza Nazionale ed, infine, delibera la costituzione di società di capitali controllate dal CONI 84. Rientra, poi, tra gli organi investiti della funzione di indirizzo e di controllo, la Giunta nazionale, composta dal Presidente del CONI, che la presiede, dai membri italiani del CIO, da dieci rappresentanti delle Federazioni sportive e delle discipline associate dei quali almeno tre scelti tra atleti e tecnici sportivi, da un rappresentante degli enti di promozione e da due rappresentanti delle strutture territoriali del CONI. La Giunta nazionale rappresenta l’organo esecutivo del CONI, cui in generale spetta, oltre ai compiti specifici anzidetti, l’esame delle competenze del Consiglio, la definizione dei programmi e degli obiettivi da raggiungere, curando l’attuazione del bilancio di previsione e verificando altresì i risultati rispetto agli indirizzi impartiti 85. L’aspetto che merita, a questo punto, particolare attenzione è individuabile nel principio di democraticità che permea di sé l’intero Statuto, sia in riferimento agli organi direttivi del CONI, sia a livello delle Federazioni. L’esigenza di assicurare la presenza del mondo sportivo all’interno degli organi di vertice e di valorizzare l’originaria natura del CONI quale ente federativo a base associativa, ha determinato il legislatore delegato a garantire la piena partecipazione sia al Consiglio che alla Giunta di atleti e tecnici sportivi componenti degli organi di gestione delle Federazioni sportive nazionali, e quindi in rappresentanza delle stesse. Sono, invece, classificati come organi monocratici il Segretario generale e il Presidente del CONI; quest’ultimo viene eletto dal Consiglio, ha la rappresentanza legale dell’ente nell’ambito dell’ordinamento sportivo sia nazionale che internazionale e svolge i compiti affidatigli dal d.lgs. n. 242/1999 e dallo Statuto 86. Gli artt. 34, 34-bis, 34-sexies e 35 dello Statuto disciplinano i procedimenti

84 La previsione di costituire società di capitali, dettata evidentemente dalla giusta necessità di dotarsi di strutture flessibili per la gestione dei fenomeni economici che ruotano attorno al mondo sportivo, solleva numerosi interrogativi sulla natura di tali soggetti, nonché sul loro funzionamento in relazione allo scopo lucrativo tipico delle società di capitali. 85 L’art. 7 dello Statuto attribuisce alla Giunta nazionale la veste di organo deputato a svolgere sia le funzioni primarie di indirizzo e di controllo dell’attività amministrativa e gestionale dell’Ente, sia quelle di controllo sulle Federazioni sportive nazionali e sulle articolazioni interne delle stesse Federazioni. Una funzione di indirizzo che si concreta nella definizione degli obiettivi e programmi e nella verifica della rispondenza dei risultati agli indirizzi fissati. 86

La nomina avviene poi tramite l’emanazione di un apposito decreto del Presidente della Repubblica, secondo le previsioni dell’art. 8, comma 3, d.lgs. n. 242/1999, come modificato dall’art. 15, d.lgs. n. 15/2004, in precedenza il Presidente del CONI venendo invece nominato con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali.

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elettorali per la formazione degli organi centrali, innanzi tutto del Presidente, per il quale, a seguito della riforma Pescante 87 è stata prevista l’incompatibilità con le più alte cariche federali, mentre, con riguardo ai requisiti di eleggibilità è stato stabilito, oltre al necessario tesseramento a una Federazione sportiva per almeno quattro anni (e non più due), anche la presenza di un qualche elemento curriculare che garantisca la provenienza dei candidati dall’interno dell’ordinamento sportivo come l’aver ricoperto cariche elevate all’interno delle strutture del CONI o nelle istituzioni sportive di vertice, avere partecipato come atleta a rappresentative nazionali oppure essere stato insignito come dirigente sportivo delle onorificenze del Collare o della Stella d’Oro al merito sportivo. Lo Statuto, in particolare, riconosce al Presidente del CONI sia funzioni di garanzia – si pensi al compito di assicurare l’attuazione delle deliberazioni del Consiglio e della Giunta, organi che convoca e presiede – sia funzioni propulsive in ordine all’adozione di provvedimenti della Giunta, nonché poteri sostitutivi esercitabili nei casi di necessità ed urgenza relativamente alle deliberazioni di competenza di quest’ultima. Inoltre, il Presidente ha anche il compito di trasmettere le revisioni e le modifiche dello Statuto al Ministro competente affinché, dopo l’adozione da parte del Consiglio nazionale, proceda all’approvazione. In ultimo, il Segretario generale, figura espressamente contemplata all’art. 9 dello Statuto, viene nominato dalla Giunta del CONI e provvede alla gestione amministrativa dell’ente secondo gli indirizzi della stessa Giunta. Lo Statuto, anche per quest’organo, ha ampliato le funzioni esecutive previste dal decreto riconoscendo al Segretario generale il compito di attuare le deliberazioni del Consiglio nazionale e della Giunta nazionale e, più in generale, di svolgere tutti quei compiti attribuitigli dall’ordinamento sportivo a livello nazionale ed internazionale; al medesimo organo è conferita, altresì, la funzione di proposizione alla Giunta nazionale della convenzione quadro diretta a determinare, nel rispetto dei vigenti contratti collettivi di lavoro, l’utilizzazione del personale del CONI presso le

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D.lgs. 8 gennaio 2004, n. 15, modifiche ed integrazioni al d.lgs. 23 luglio 1999, n. 242, recante “Riordino del Comitato olimpico nazionale italiano” – CONI, ai sensi dell’art. 1 della legge 6 luglio 2002, n. 137 (pubbl. in G.U., Serie Generale, 27 gennaio 2004, n. 21). Dopo un periodo di rodaggio dell’applicazione delle norme di riforma dell’ordinamento sportivo italiano contenute nel c.d. decreto Melandri, il Governo, con il d.lgs. n. 15/2004, alla luce dell’esperienza acquisita, ha ridisegnato la struttura, i compiti e le funzioni degli organi di vertice dello sport italiano. Nel corso del 2004 lo sport professionistico e dilettantistico hanno assistito perciò al “restyling” dello statuto del CONI e ad una conseguente modificazione degli statuti di tutte le Federazioni sportive nazionali e delle Discipline sportive associate che hanno dovuto adeguarsi alle nuove disposizioni introdotte. La riforma, presentata dal sottosegretario di Stato per i beni e le attività culturali On. Pescante, si poneva l’obiettivo (come si legge nella stessa relazione illustrativa del provvedimento) di «eliminare tutte le disfunzioni che si sono create con il riordino del 1999, ma anche di coordinare il nuovo testo statutario con le norme sopravvenute, soprattutto in materia di doping, riconoscimento della personalità giuridica, nonché in relazione al nuovo assetto gestionale determinatosi con la costituzione del Cono servizi Spa, ai sensi dell’art. 8 del decreto n. 138 del 2002».

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Federazioni sportive nazionali, nei limiti dell’art. 17 del d.lgs. n. 242/1999 (cfr. art. 7, lett. t), dello Statuto). Il Segretario generale, inoltre, è a capo dei servizi e degli uffici del Comitato nazionale, dei quali coordina l’organizzazione al fine di attuare anche quanto previsto dalle convenzioni stipulate con la CONI Servizi s.p.a. 88, la società per azioni costituita con il d.l. 8 luglio 2002, n. 138 89 e destinataria delle attività stru88 La CONI Servizi s.p.a. è stata istituita dal d.l. 8 luglio 2002, n. 138, convertito poi, con modificazioni, nella legge 8 agosto 2002, n. 178. Sulla natura invero pubblicistica di tale società, interamente partecipata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, C. FRANCHINI, Il riordino del CONI, in Giornale dir. amm., n. 11, 2003, p. 1210. 89

Può essere interessante guardare ai comma da 1 a 14 dell’art. 8 del richiamato decreto legge del 2002, rubricato “Riassetto del CONI” «1. L’ente pubblico Comitato olimpico nazionale italiano (CONI) si articola negli organi, anche periferici, previsti dal decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242. Per l’espletamento dei suoi compiti si avvale della società prevista dal comma 2. 2. È costituita una società per azioni con la denominazione “CONI Servizi spa”. 3. Il capitale sociale è stabilito in 1 milione di euro. Successivi apporti al capitale sociale sono stabiliti, tenuto conto del piano industriale della società, dal Ministro dell’economia e delle finanze, di intesa con il Ministro per i beni e le attività culturali. 4. Le azioni sono attribuite al Ministero dell’economia e delle finanze. Il presidente della società e gli altri componenti del consiglio di amministrazione sono designati dal CONI. Il presidente del collegio sindacale è designato dal Ministro dell’economia e delle finanze e gli altri componenti del medesimo collegio dal Ministro per i beni e le attività culturali. 5. L’approvazione dello statuto e la nomina dei componenti degli organi sociali previsti dallo statuto stesso sono effettuati dalla prima assemblea, che il Ministro dell’economia e delle finanze, di intesa con il Ministro per i beni e le attività culturali, convoca entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto. 6. Entro tre mesi dalla prima assemblea, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, adottato di concerto con il Ministro per i beni e le attività culturali, sono designati uno o più soggetti di adeguata esperienza e qualificazione professionale per effettuare la stima del patrimonio sociale. Entro tre mesi dal ricevimento della relazione giurata, il consiglio di amministrazione o l’amministratore unico della società, sentito il collegio sindacale, determina il valore definitivo del capitale sociale nei limiti del valore di stima contenuto nella relazione stessa e in misura comunque non superiore a quelli risultanti dall’applicazione dei criteri di cui all’articolo 11, comma 2 della legge 21 novembre 2000, n. 342. Qualora il risultato della stima si rivelasse insufficiente, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze potranno essere individuati beni immobili patrimoniali dello Stato da conferire alla Coni Servizi spa. A tale fine potranno essere effettuati ulteriori apporti al capitale sociale con successivi provvedimenti legislativi. 7. La pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del presente decreto tiene luogo degli adempimenti in materia di costituzione di società per azioni previsti dalle vigenti disposizioni. 8. I rapporti, anche finanziari, tra il CONI e la CONI Servizi spa sono disciplinati da un contratto di servizio annuale. 9. La CONI Servizi spa può stipulare convenzioni anche con le regioni, le province autonome e gli enti locali. 10. Il controllo della Corte dei conti sulla CONI Servizi spa si svolge con le modalità previste dall’articolo 12 della legge 21 marzo 1958, n. 259. La CONI Servizi spa può avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, ai sensi dell’articolo 43 del testo unico delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull’ordinamento dell’Avvo-

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mentali di natura economica del CONI. In particolare, in considerazione della notevole importanza e del rilievo che, sin da subito, si è riconosciuto alla società CONI Servizi, la giurisprudenza, al fine di far chiarezza, ha avvertito il bisogno di specificare come «l’ente pubblico CONI non sia stato soppresso dal d.l. n. 138/2002, ma continui ad esistere avvalendosi della società CONI Servizi s.p.a. come ente strumentale per il perseguimento dei propri fini istituzionali, stipulando con esso annuali contratti di servizio e provvedendo alla nomina dei membri del consiglio di amministrazione» 90. In realtà, la nascita della CONI Servizi s.p.a., può essere effettivamente compresa se calata nel contesto di “privatizzazione” che stava interessando l’intero scenario nazionale, un fenomeno che, tuttavia, mal si conciliava con le attribuzioni e caratteristiche riconosciute all’ente. Infatti, parte della dottrina 91, proprio in considerazione degli aspetti che le venivano riconosciuti – ad esempio: sottoposizione dell’ente al controllo della Corte dei conti o la possibilità di avvalersi del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato – aveva operato una qualificazione della CONI Servizi s.p.a. in termini di ente di natura pubblica; qualificazione successivamente rivisitata per pervenire a riconoscere alla società in questione una natura esclusivamente privata, anche alla luce dello statuto della società che all’art. 4 recita: «In conformità con le deliberazioni e gli indirizzi del Comitato Olimpico Internazionale, la Società espleta l’attività strumentale per l’attuazione dei compiti dell’ente pubblico Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI), ai sensi delcatura dello Stato, approvato con regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, e successive modificazioni. 11. Il personale alle dipendenze dell’ente pubblico CONI resta alle dipendenze della CONI Servizi spa, la quale succede in tutti i rapporti attivi e passivi, compresi i rapporti di finanziamento con le banche, e nella titolarità dei beni facenti capo all’ente pubblico. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottato entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sentite le organizzazioni sindacali, sono stabilite le modalità attuative del trasferimento del personale del CONI alla CONI Servizi spa, anche ai fini della salvaguardia, dopo il trasferimento, delle procedure di cui agli articoli 31 e 33 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165. Per i dipendenti in servizio presso l’ente pubblico CONI alla data di entrata in vigore del presente decreto rimangono fermi i regimi contributivi e pensionistici per le anzianità maturate fino alla predetta data. 12. Tutti gli atti connessi alle operazioni di costituzione della società e di conferimento alla stessa sono esclusi da ogni tributo e diritto e vengono, pertanto, effettuati in regime di neutralità fiscale. 13. Sino alla prima assemblea restano in vigore, in via provvisoria, tutte le disposizioni legislative e statutarie che disciplinano il CONI. Dalla predetta data tali disposizioni restano in vigore in quanto compatibili. 14. Restano ferme le vigenti disposizioni in materia di vigilanza del Ministero per i beni e le attività culturali sul CONI». 90 91

Decisione inedita del Trib. Roma, 13 settembre 2004.

Tra cui cfr. M. SANINO-F. VERDE, Il diritto sportivo, cit., edizione precedente a quella del 2015 (IV ed.).

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l’articolo 8, comma 1, della legge 8 agosto 2002, n. 178. A tal fine, in base al contratto di servizio di cui all’articolo 8, comma 8, della legge medesima, la Società Approvato nell’Assemblea del 1 luglio 2014 effettua prestazioni di beni e servizi finalizzati al perseguimento dei compiti istituzionali del CONI ed in particolare l’approntamento di mezzi e strutture necessari per lo svolgimento di manifestazioni ed attività sportive ed eventi collegati, nonché la gestione di impianti sportivi. Per l’attuazione dei suoi compiti la società può stipulare convenzioni anche con le regioni, le province autonome e gli enti locali. Fermo il rispetto delle inderogabili norme di legge che riservano determinate attività a particolari categorie di operatori, la Società potrà compiere tutte le operazioni ritenute necessarie od utili per il conseguimento dell’oggetto sociale e a tal fine potrà quindi, a titolo esemplificativo: compiere operazioni immobiliari, mobiliari, commerciali, industriali, finanziarie e di vendita di servizi comunque collegate all’oggetto sociale, rilasciare garanzie anche nell’interesse di terzi, gestire nell’ambito del patrimonio immobiliare amministrato attività di ristoro, foresterie e di vendita di spazi pubblicitari, svolgere attività di marketing, di formazione e di consulenza in materia sportiva. La Società potrà anche operare quale società di ingegneria ai sensi dell’art. 90 d.lgs. 12 aprile 2006 n. 163 e della normativa vigente e pertanto potrà, tra l’altro, eseguire studi di fattibilità, ricerche, consulenze, progettazioni o direzioni lavori, valutazioni di congruità tecnico-economica o studi di impatto ambientale comunque collegate all’oggetto sociale La Società potrà altresì partecipare ad altre società, consorzi, associazioni ed altri organismi dei quali potrà promuovere la costituzione. La Società può inoltre curare il coordinamento organizzativo, tecnico e finanziario delle società partecipate e svolgere ogni altra attività che sia collegata con un vincolo di strumentalità, accessorietà o complementarietà con le attività previste ai commi precedenti e non incompatibile con le stesse». Sembra fuori contestazione, dunque, l’opportunità di riconoscere la CONI Servizi s.p.a. come soggetto strumentale dell’ente pubblico CONI. A chiudere la schiera degli organi in cui si snoda il Comitato Olimpico Nazionale Italiano, vi è il Collegio dei Revisori dei Conti, a cui lo Statuto dedica l’art. 11, composto da cinque membri nominati con decreto del Ministro per i beni e le attività culturali 92 con compiti di vigilanza, controllo e verifica della gestione contabile ed amministrativa del CONI. In particolare, il Collegio oltre a verificare la regolare tenuta dei libri e delle scritture contabili, esamina la gestione del CONI e delle attività di gioco, vigila sull’osservanza delle leggi e dei regolamenti in materia amministrativa e contabile, esamina i bilanci consuntivi e pre92

Ai sensi dell’art. 11 del d.lgs. n. 242/1999, i revisori sono nominati dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri quanto al Presidente e ad un supplente, dal Ministro dei Beni culturali, quanto ad un membro effettivo e ad un supplente, e dal Ministro del tesoro, quanto ad un membro effettivo ed un supplente.

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ventivi che correda con apposite relazioni, opera le verifiche di cassa nonché dei valori e dei titoli, ed infine, redige un resoconto sulla gestione contabile del CONI che sottopone al Ministero per i beni e le attività culturali a conclusione di ciascun esercizio finanziario. Per completezza, è bene precisare come già l’abrogata legge del 1942 e poi il d.lgs. n. 242/1999, vedesse il potere di vigilanza concentrato principalmente sul corretto funzionamento del Comitato olimpico nonché, seppur parzialmente, sull’organizzazione del medesimo. In particolare, il Ministro vigilante deve, in concerto con il Ministro del Tesoro, approvare lo statuto (art. 2, comma 2), nominare il collegio dei revisori dei conti (art. 11, comma 1), dare il proprio assenso alla costituzione di società di capitali ai fini di snellimento burocratico (art. 14, comma 1) approvare la convenzione quadro per l’impiego di personale presso le Federazioni sportive nazionali (art. 17), nominare uno o più commissari nel caso di mancata approvazione dello Statuto dei termini (art. 18, comma 2 e 5). Alla luce di quanto esposto, sembra evidente che l’innovazione più significativa introdotta è individuabile nel principio democratico che permea di sé l’intero Statuto, sia in riferimento agli organi direttivi del CONI, sia a livello delle Federazioni. Non passa inosservata, infatti, la circostanza in forza della quale l’esigenza di assicurare la presenza del mondo sportivo all’interno degli organi di vertice e di valorizzare l’originaria natura del CONI quale “ente federativo a base associativa”, ha determinato il legislatore delegato a garantire la piena partecipazione sia al Consiglio che alla Giunta di atleti e tecnici sportivi componenti degli organi di gestione delle Federazioni sportive nazionali, e quindi rappresentate dalle stesse. Gli unici soggetti non rappresentati sono i sostenitori sportivi, cioè quei soggetti che finanziano, direttamente ed indirettamente, l’intero sport italiano e che, finora, sono stati solo destinatari, per legge ed in base a norme dell’ordinamento sportivo, di tutta una serie di doveri, obblighi, restrizioni, divieti 93.

2.4. Le Federazioni sportive, disciplina generale Quello della corretta determinazione della natura, funzioni nonché esatta collocazione delle Federazioni nazionali sportive nell’ambito dell’organigramma dell’intero ordinamento giuridico, è sicuramente un tema delicato che, nel corso degli anni, è stato variamente ricostruito da dottrina e giurisprudenza, trovatesi per lungo tempo nell’oblio dell’insicurezza. Infatti, con l’affermarsi dei fenomeni delle privatizzazioni e del concreto svolgimento di attività di interesse pubblico da parte di soggetti privati, ciò che può essere riconosciuto come determinante ai fini di una corretta qualificazione prima e della individuazione dei principi processuali e sostanziali da applicare poi, è la natura dell’attività svolta 93 Si tratta, come è evidente, di una macroscopica lacuna nell’attuazione di quel principio di democraticità interna che la legge ha, invece, sancito come principio informatore del CONI.

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e non la natura del soggetto agente 94. Le Federazioni sportive nazionali nacquero, addirittura, prima della istituzione del Comitato Olimpico Nazionale assumendo la veste di associazioni private di secondo grado, con la finalità di riunire le preesistenti e più elementari strutture associative operanti nell’ambito delle diverse discipline sportive, sia su iniziativa dei cultori dei vari sport, sia, talvolta, per intervento dei pubblici poteri 95. Sul carattere delle allora esistenti Federazioni ha, sicuramente, inciso il fenomeno di “pubblicizzazione” del CONI che ha comportato, di riflesso, la progressiva compressione dell’autonomia di diritto privato delle stesse Federazioni dando vita ad una querelle mai sopita circa la natura, privata o pubblica, delle Federazioni. Pertanto e come ampiamente detto in precedenza, nel corso del tempo, si sono fornite diverse letture della natura delle Federazioni sportive: in primis, la legge 16 febbraio 1942, n. 426, istitutiva del CONI, configurava le Federazioni sportive nazionali come organi dell’Ente che partecipavano della natura pubblica di questo. La successiva legge 23 marzo 1981, n. 91– contenente norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti – all’art. 14, ribadiva il richiamato inquadramento, riconoscendo, però, alle Federazioni funzione di natura pubblicistica, riconducibile all’esercizio in senso lato delle funzioni proprie del CONI e funzione di natura privatistica per le specifiche attività da esse svolte 96. Chiaramente, l’individuazione della natura delle Federazioni in relazione alle attività da queste esercitate era sicuramente ardua, non a caso, l’art. 15 del d.lgs. n. 242/1999, come modificato dal c.d. decreto Pescante, demandava allo Statuto del CONI l’individuazione delle specifiche tipologie di attività svolte dalle Federazioni sportive nazionali e dalle Discipline sportive che potessero rivestire una valenza pubblicistica. L’art. 23 del nuovo Statuto del CONI 97, adottato dal Consiglio nazionale dell’11 giugno 94 La scelta di campo del legislatore in favore dell’attribuzione di tutta la materia sportiva alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo, anziché del Giudice ordinario, deve essere apprezzata per il fatto di essere tecnicamente corretta dal punto di vista giuridico, in quanto, effettivamente, tutta l’attività posta in essere dalle Federazioni sportive ha natura pubblicistica. 95 Sul punto, cfr. R. CAPRIOLI, L’autonomia normativa delle Federazioni Sportive Nazionali nel diritto privato, Napoli, 1997. 96 In particolare, l’art. 6 della legge n. 91/1981, come novellato dall’art. 1 del d.l. 20 settembre 1996, n. 485, convertito nella legge 18 novembre 1996, n. 586, riconoscendo alle Federazioni sportive il potere di stabilire un premio di addestramento e formazione tecnica in favore delle società sportive presso le quali l’atleta si sia formato, ha confermato la natura privatistica dell’attività svolta dalle medesime Federazioni in questo settore. Questa funzione, in quanto autonoma, era separata da quella di natura pubblica e faceva capo soltanto alle Federazioni: così, Sez. Un., 11 ottobre 2001, n. 14530. 97

Art. 23 – Indirizzi e controlli sulle Federazioni Sportive Nazionali: «1. Ai sensi del decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242, e successive modificazioni e integrazioni, oltre quelle il cui carattere pubblico è espressamente previsto dalla legge, hanno valenza pubblicistica esclusivamente le attività delle Federazioni sportive nazionali relative all’ammissione e all’affiliazione di società, di associazioni sportive e di singoli tesserati; alla revoca a

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2014, ha assolto tale compito, individuando come attività a valenza pubblicistica quelle attinenti all’ammissione e affiliazione di società, associazioni e singoli tesserati, compresa l’eventuale revoca, allo svolgimento dei campionati professionistici, alla prevenzione del doping, alla preparazione olimpica, alla formazione ad alto livello dei tecnici, alla gestione degli impianti sportivi pubblici e, infine, all’utilizzazione dei contributi pubblici 98. La scelta del legislatore si fonda sul fatto che l’intera organizzazione sportiva nazionale facente capo al CONI, ente pubblico, nell’ottica dell’autonomia e del decentramento dell’azione amministrativa, ha il compito di carattere pubblicistico di organizzare e promuovere l’attività sportiva in generale e, quindi, l’insieme delle varie discipline sportive, nonché tutte quelle attività istituzionali volte a garantire la migliore organizzazione dell’attività sportiva stessa. In vero, tutta una serie di elementi di fatto e di diritto consentono di individuare il settore dello sport come settore di interesse pubblico e, di conseguenza, lo svolgimento della funzione di organizzazione dello sport e delle competizioni sportive come svolgimento di funzioni pubblicistiche, delegate di fatto qualsiasi titolo e alla modificazione dei provvedimenti di ammissione o di affiliazione; al controllo in ordine al regolare svolgimento delle competizioni e dei campionati sportivi professionistici; all’utilizzazione dei contributi pubblici; alla prevenzione e repressione del doping, nonché le attività relative alla preparazione olimpica e all’alto livello, alla formazione dei tecnici, all’utilizzazione e alla gestione degli impianti sportivi pubblici. 1-bis. Nell’esercizio delle attività a valenza pubblicistica, di cui al comma 1, le Federazioni sportive nazionali si conformano agli indirizzi e ai controlli del CONI ed operano secondo principi di imparzialità e trasparenza. La valenza pubblicistica dell’attività non modifica l’ordinario regime di diritto privato dei singoli atti e delle situazioni giuridiche soggettive connesse. 1-ter. La Giunta Nazionale stabilisce i criteri e le procedure attraverso cui garantire la rispondenza delle determinazioni federali ai programmi del CONI relativamente alla competitività delle squadre nazionali, alla salvaguardia del patrimonio sportivo nazionale e della sua specifica identità, e all’esigenza di assicurare l’efficiente gestione interna. 2. La Giunta Nazionale, sulla base dei criteri e delle modalità stabilite dal Consiglio Nazionale, approva i bilanci delle Federazioni sportive nazionali e stabilisce i contributi finanziari in favore delle stesse, eventualmente determinando specifici vincoli di destinazione, con particolare riguardo alla promozione dello sport giovanile, alla preparazione olimpica e all’attività di alto livello. 3. La Giunta Nazionale vigila sul corretto funzionamento delle Federazioni sportive nazionali. In caso di accertate gravi irregolarità nella gestione o di gravi violazioni dell’ordinamento sportivo da parte degli organi federali, o nel caso che non sia garantito il regolare avvio e svolgimento delle competizioni sportive, ovvero in caso di constatata impossibilità di funzionamento dei medesimi, propone al Consiglio Nazionale la nomina di un commissario». 98

Nel sistema giuridico previgente in merito alla natura giuridica, pubblica ovvero privata, delle Federazioni sportive prevaleva, invece, la teoria, affermatasi al termine di un lungo dibattito, secondo la quale esse presentavano un duplice aspetto, di enti pubblici e privati allo stesso tempo, in ragione proprio delle specifiche attività svolte; potendo queste qualificarsi come funzioni pubbliche delegate dal CONI ovvero attenere solo alla vita interna della Federazione e ai rapporti tra società sportive e tra le società stesse e gli sportivi, senza esplicazione di poteri pubblici e con caratteristiche pertanto unicamente privatistiche. In questo senso, ad esempio, Cass., Sez. Un., 11 ottobre 2002, n. 14530 e Cass., sez. VI., 10 ottobre 2002, n. 5442.

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dallo Stato alle istituzioni sportive. Tali funzioni vengono soddisfatte mediante esercizio di poteri autoritativi, anche in considerazione dell’elemento normativo 99 e di quello patrimoniale 100. È opportuno, inoltre, precisare che le attività di interesse pubblico sono esercitate dalle Federazioni “in esclusiva”, in virtù di un monopolio di fatto – il CONI riconosce solo una Federazione per ogni disciplina sportiva – costituito all’interno di una più ampia organizzazione nazionale (CONI) ed internazionale (Federazioni internazionali). Ciò dimostra come il settore dello sport organizzato, quello che ha rilevanza pubblicistica, sia stato integralmente delegato dallo Stato all’ordinamento sportivo 101con la conseguenza che le Federazioni costituiscono una sorta di articolazione, di dipartimenti del CONI, alle quali è devoluta la frazione di interesse pubblico all’organizzazione dello sport con riferimento alla singola disciplina sportiva alla quale sono istituzionalmente preposte 102. In buona sostanza, le Federazioni si palesano come associazioni senza fini di lucro con personalità di diritto privato, costituite dalle società e associazioni sportive, la cui attività principale è quella di disciplinare e regolamentare le singole discipline sportive per garantire l’attuazione dell’agonismo programmatico e conseguire il continuo miglioramento dei risultati 103. A tal fine, ciascuna Federazione ha un proprio Statuto e gode, nell’ambito dell’ordinamento sportivo, di autonomia tecnica, organizzativa e di gestione, consistente nella predisposizione della regolamentazione dei singoli sport, attuata attraverso una formazione complessa e spesso dettagliata che va dalla formulazione dei calendari, all’omologazione dei risultati, il tutto sempre sotto la vigilanza del CONI. Per tale ragione, gli atti emanati dalle Federazioni sportive che abbiano una c.d. rilevanza esterna all’ordinamento sportivo, in quanto capaci di ledere interessi non solo sportivi, ma anche economicamente e quindi giuridicamente rile-

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Il fatto che la legge n. 280/2003 sia nata proprio come conversione del d.l. n. 220/2003, emanato al fine di garantire il regolare avvio dei campionati 2003-2004, dimostra oggettivamente come il regolare svolgimento dei campionati in Italia sia un interesse pubblico, la cui soddisfazione è di tale importanza che, laddove sia a rischio, viene a costituire un caso straordinario di necessità ed urgenza, tale da consentire l’intervento di urgenza del Governo e l’emanazione di un apposito decreto legge ai sensi degli artt. 76 e 77 Cost. 100

Il fatto che il CONI riceva una sovvenzione pubblica di circa 500 milioni di euro l’anno, che distribuisce poi alle Federazioni al fine di gestire un settore di particolare rilievo economico sociale, dimostra oggettivamente come organizzare le attività sportive e garantire il loro regolare svolgimento sia un’attività di natura pubblicistica. 101

Questo significa che un soggetto che voglia svolgere attività professionale o imprenditoriale nello sport debba svolgerla necessariamente nell’ambito della relativa Federazione e secondo i limiti dalla stessa impostigli. 102

Cfr. L. CANTAMESSA-G.M. RICCIO-G. SCIANCALEPORE, Lineamenti di diritto sportivo, cit., p. 53. 103

I. MARANI TORO-A. MARANI TORO, Gli ordinamenti sportivi, Milano, 1977, p. 178.

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vanti, assumono portata e natura di provvedimenti amministrativi 104, in quanto volti ad espletare il compito pubblicistico dell’organizzazione della relativa attività sportiva, compito delegato dallo Stato al CONI per lo sport in generale e dal CONI alle singole Federazioni per le varie discipline sportive. La stessa questione legata alla corretta qualificazione della natura giuridica delle Federazioni, non è fine a se stessa ma chiaramente indirizzata alla esatta determinazione della autorità giudiziaria competente. In base alle considerazioni innanzi svolte, il legislatore ha deciso che la materia dello sport dovesse rientrare tra quelle devolute alla giurisdizione amministrativa, una giurisdizione qualificata dal legislatore come esclusiva, applicabile a questioni nelle quali possa rinvenirsi la lesione di situazioni giuridiche soggettive aventi il carattere non solo di interesse legittimo ma anche di diritto soggettivo, determinando, così, l’attribuzione onnicomprensiva della materia al Giudice amministrativo. Una scelta, quella operata dal legislatore, che chiaramente garantisce la certezza del sistema in ordine alla individuazione della giurisdizione competente, laddove, invece, il criterio ordinario di riparto della giurisdizione nei confronti degli atti amministrativi (Giudice ordinario se lesivi di diritti soggettivi e Giudice amministrativo se lesivi di interessi legittimi) non sembra più capace di dare certezze. Nella complessa realtà pratica moderna, infatti, l’operazione di classificazione delle situazioni giuridico-soggettive come diritti soggettivi o interessi legittimi risulta sempre più difficile, essendo ormai sfumata tale distinzione 105. La riconosciuta giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo si estende, inoltre, alle controversie relative agli atti emanati da tutte le istituzioni sportive complessivamente costituenti l’ordinamento sportivo, ovvero non solo al CONI ed alle Federazioni, ma anche a tutte le articolazioni federali, quindi Leghe, Associazioni, e le Discipline sportive associate. Non soltanto alle Federazioni, infatti, vengono attribuiti compiti di natura pubblicistica ma anche alle loro articolazioni interne che, nel caso del104

Non a caso, tali atti vengono assunti in posizione pubblicistico-autoritativa sovraordinata da parte della Federazione nell’interesse pubblicistico-collettivo del miglior perseguimento della propria attività istituzionale nei confronti di soggetti tesserati sottordinati, facendo assumere alla posizione di questi ultimi carattere di interesse legittimo. 105

Cfr. L. CANTAMESSA-G.M. RICCIO-G. SCIANCALEPORE, Lineamenti di diritto sportivo, cit., p. 54, secondo il quale la scelta operata dal legislatore va salutata con grande apprezzamento, in quanto capace di annientare definitivamente le incertezze del sistema in ordine alla individuazione della giurisdizione competente. La stessa Corte costituzionale, con la sent. n. 204/2004, ha riconosciuto la legittimità della giurisdizione esclusiva in relazione a provvedimenti espressione di poteri autoritativo-pubblicistici, in quanto non vi sono dubbi che, nell’esercizio di tutte le proprie funzioni, le Federazioni esercitano dei poteri autoritativo-pubblicistici in posizione sovraordinata rispetto a quella sottordinata dei propri tesserati ed affiliati. Tuttavia, nonostante la legge abbia attribuito il controllo giurisdizionale sull’ordinamento sportivo “in esclusiva” alla Giustizia Amministrativa, è innegabile come, ancora oggi, continui a sussistere una forte commistione tra Sport e giustizia amministrativa, dovuta al rilevante numero di magistrati amministrativi presenti nell’ambito dei più importanti organi di Giustizia sportiva.

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le Leghe e delle Associazioni, svolgono funzioni volte a garantire il regolare svolgimento delle competizioni 106.

2.5. Le Discipline sportive associate, enti sportivi, società e associazioni dilettantistiche In linea di continuità con l’esposizione della disciplina relativa agli organi federali sportivi, una particolare attenzione meritano le Discipline sportive associate, entità che trovano il loro referente normativo agli artt. 24 107 e 25 108 106

Tale profilo è specificamente chiarito, con riferimento all’AIA (Associazione Italiana Arbitri) dal Cons. St., sez. VI, 14 novembre 2006, n. 6673: «La sentenza che si impugna ha posto in rilievo, anche nel quadro delle linee di riforma del predetto ente di cui al d.lgs. 23.07.1999, n. 242, lo stretto rapporto di correlazione che intercorre tra il CONI, le Federazioni Sportive Nazionali e le associazioni di settore ad esse affiliate, nel cui ambito rientra l’Associazione Italiana Arbitri (AIA) affiliata alla FIGC». È opportuno chiarire come l’AIA, in particolare, assolva compiti in materia di selezione e reclutamento dei soggetti abilitati a svolgere le funzioni arbitrali nelle competizioni agonistiche del settore del calcio, oltreché di garanzia del regolare svolgimento di gare e campionati. Si tratta di funzioni essenziali per il perseguimento di interessi primari inerenti all’organizzazione e al potenziamento dello sport nazionale che l’art. 2 del d.lgs. n. 242/1999 demanda al CONI e ciò giustifica, indipendentemente dalla veste di autorità resistente, la presenza in giudizio dell’ente predetto. 107 Titolo V – Discipline sportive associate – Art. 24 – Requisiti per il riconoscimento delle Discipline sportive associate: «1. Il Consiglio Nazionale del CONI riconosce, in conformità all’apposito regolamento, le Discipline sportive associate che rispondano ai requisiti di: a) svolgimento sul territorio nazionale di attività sportiva, anche di rilevanza internazionale, ivi inclusa la partecipazione a competizioni e l’attuazione di programmi di formazione degli atleti e dei tecnici; b) tradizione sportiva e consistenza quantitativa del movimento sportivo e della struttura organizzativa; c) ordinamento statutario e regolamentare ispirato al principio di democrazia interna e di partecipazione all’attività sportiva da parte di donne e uomini in condizioni di uguaglianza e di pari opportunità nonché conforme alle deliberazioni e agli indirizzi del CONI; d) assenza di fini di lucro. 2. Il Consiglio Nazionale riconosce una sola Disciplina sportiva associata per ciascuno sport che non sia già oggetto di una Federazione sportiva nazionale. Nel caso di concorso tra domande provenienti da più soggetti, il Consiglio Nazionale del CONI invita le parti interessate a costituire un soggetto federativo comune. Ove non si addivenga ad un accordo, il Consiglio Nazionale del CONI promuove un’intesa volta alla costituzione di un unico soggetto federativo. Ove non si addivenga all’intesa, il Consiglio Nazionale del CONI può riconoscere la Disciplina sportiva associata composta dai soli soggetti che vi hanno aderito. 3. Il riconoscimento della personalità giuridica di diritto privato alle nuove Discipline sportive associate è concesso a norma del D.P.R. 10 febbraio 2000, n. 361, previo riconoscimento, ai fini sportivi, da parte del Consiglio Nazionale». 108

Art. 25 – Ordinamento delle Discipline sportive associate: «1. La Giunta Nazionale stabilisce l’erogazione di contributi in favore delle Discipline sportive associate, eventualmente determinando specifici vincoli di destinazione. 2. Gli statuti definiscono i poteri di vigilanza e controllo esercitabili dalla Disciplina associata nei confronti delle articolazioni associative interne alla propria organizzazione.

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dello Statuto del CONI, e viste come una sorta di “sottofederazioni” o di “Federazioni minori”, ovvero organizzazioni collegate al CONI o in via diretta o per il tramite di una Federazione sportiva alla quale sono affiliate, con il compito di svolgere le stesse attività di regola esercitate dalle Federazioni con riferimento, però, a sport minori (es. il Kendo, il Turismo equestre, ecc.). L’art. 24 dello Statuto stabilisce, in primis, i requisiti specifici che le Discipline associate devono possedere affinché il CONI, per il tramite del Consiglio nazionale, possa conferire loro il riconoscimento, concesso quando le Discipline associate pratichino effettivamente a livello nazionale l’attività sportiva, di rilievo anche internazionale; partecipino alle competizioni e all’attuazione di programmi di formazione degli atleti e dei tecnici; rispettino la tradizione sportiva e rispondano a specifici canoni quantitativi e di struttura, nonché predispongano una regolamentazione statutaria e regolamentare ispirata ai principi di democraticità interna. Il successivo art. 25, poi, oltre a prevedere per le Discipline associate lo stesso regime di controlli predisposto per le Federazioni sportive nazionali, riconosce la Giunta nazionale come organo deputato a stabilire l’erogazione e gli eventuali vincoli di destinazione dei contributi da corrispondere alle stesse, erogazione che viene a monte deliberata da parte della Giunta. È sempre dalla lettura dell’art. 25 che si comprende come tre dei rappresentanti di ciascuna disciplina sportiva siano ammessi alle sedute del Consiglio nazionale in ordine alla regolazione e coordinamento dell’attività sportiva nazionale. Lo Statuto, all’art. 26 109 introduce, altresì, i cc.dd. “enti di promozione sporti3. La Giunta Nazionale può istituire e regolamentare un organismo di coordinamento delle Discipline sportive associate. 4. Alle Discipline sportive associate e ai loro affiliati e tesserati, per quanto non previsto dal presente Titolo V e salvo espresse deroghe, si applicano tutte le norme del presente statuto, dettate in riferimento all’ordinamento delle Federazioni sportive nazionali». 109

Titolo VI – Enti di promozione sportiva – Art. 26 – Ordinamento degli Enti di promozione sportiva: «1. Sono Enti di promozione sportiva le associazioni riconosciute dal CONI, a livello nazionale o regionale, che hanno per fine istituzionale la promozione e la organizzazione di attività fisico-sportive con finalità ricreative e formative, e che svolgono le loro funzioni nel rispetto dei principi, delle regole e delle competenze del CONI, delle Federazioni sportive nazionali e delle Discipline sportive associate. 2. Possono essere stipulate apposite convenzioni tra Federazioni sportive nazionali o Discipline sportive associate ed Enti di promozione sportiva per il miglior raggiungimento delle rispettive finalità. 3. Lo statuto, in armonia coni principi fondamentali del CONI, stabilisce l’assenza di fini di lucro e garantisce l’osservanza del principio di democrazia interna e di pari opportunità. 3-bis. Gli Enti di promozione sportiva, sono costituiti ai fini sportivi, da società e associazioni sportive e, ove previsto dai rispettivi statuti, anche da singoli tesserati. 3-ter. La Giunta Nazionale, nell’approvare, ai fini sportivi, entro il termine di 90 giorni, lo Statuto degli Enti di promozione sportiva, ne valuta la conformità alla legge, allo Statuto del CONI ed ai Principi fondamentali del Consiglio Nazionale. In caso di difformità la Giunta Na-

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va” qualificati come associazioni nazionali il cui fine istituzionale è rappresentato dalla promozione ed organizzazione di attività fisico-sportive. Come è agevole evincere dalla lettura della richiamata disposizione, gli enti di promozione sportiva ottengono il riconoscimento sportivo dal Consiglio nazionale all’esito di uno specifico procedimento finalizzato a verificare il rispetto dei parametri previsti dall’art. 27 dello Statuto, ossia: a) essere associazione non riconosciuta o riconosciuta, ai sensi degli artt. 12 e ss., c.c.; b) essere dotati di uno statuto conforme a quanto indicato all’articolo precedente; c) avere una presenza organizzata in almeno quindici Regioni e settanta Province; d) avere un numero di società o associazioni sportive dilettantistiche di cui all’art. 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, e successive modifiche e integrazioni, affiliate non inferiore a mille, con un numero di iscritti non inferiore a centomila; e) aver svolto attività nel campo della promozione sportiva da almeno quattro anni. Gli Enti di promozione sportiva su base regionale, inoltre, sono riconosciuti ai fini sportivi dal Consiglio nazionale qualora posseggano i seguenti requisiti: a) essere associazione non riconosciuta o riconosciuta, ai sensi degli artt. 12 e ss., c.c.; b) essere dotati di uno statuto conforme a quanto indicato all’articolo precedente; c) avere una presenza organizzata in ognuna delle province e nella stessa regione di riferimento; d) avere un numero di società o associazioni sportive dilettantistiche, di cui all’art. 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, e successive modifiche e integrazioni, affiliate come disciplinato nel regolamento approvato dal Consiglio nazionale del CONI. In vero, la particolare rigidità dei requisiti indicati si giustifica alla luce del peculiare regime economico a cui sono assoggettati gli enti di promozione riconosciuti, a favore dei quali, come previsto dal successivo art. 28, vengono disposti cospicui finanziamenti da parte del CONI, entrate proprie e annuali che vengono erogate in base al tipo di organizzazione che caratterizza gli enti ed al tipo di attività che i medesimi svolgozionale rinvia agli Enti, entro 90 giorni, dal deposito in Segreteria Generale, lo Statuto per opportune modifiche, indicandone i criteri. Trascorso il termine di 90 giorni senza tale rinvio, lo Statuto si intende approvato. Qualora gli Enti di promozione non modifichino lo Statuto nel senso indicato, la Giunta Nazionale può proporre al Consiglio Nazionale la sospensione dei contributi e, nei casi più gravi, la revoca del riconoscimento. 3-quater. Gli Enti di promozione sportiva sono sottoposti al controllo del CONI secondo i criteri e le modalità stabilite dal Consiglio Nazionale, in conformità a quanto previsto dal decreto legislativo 23 luglio 1999, n. 242 e successive modifiche e integrazioni e dal presente Statuto. 3quinquies. La Giunta Nazionale, su proposta degli Enti di promozione sportiva, può istituire e regolamentare un organismo di coordinamento degli Enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI a livello nazionale».

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no. Tali enti, pertanto, sotto il profilo finanziario e contabile sono sottoposti ad un controllo da parte della Giunta nazionale che annovera tra i suoi poteri, nell’ipotesi di irregolarità in ordine alla gestione dei finanziamenti, quello di adottare i provvedimenti necessari in base alla gravità dei fatti e, se del caso, di proporre al Consiglio nazionale la revoca del riconoscimento sportivo 110. Per una corretta ed esaustiva visuale sugli organi sportivi, è d’ausilio, infine l’art. 29 dello Statuto che inaugura il Titolo VII dedicato alle società ed associazioni sportive che, al pari degli organi sportivi sin ora illustrati, oltre ad essere caratterizzati da regolamenti e statuti interni ispirati ai principi di democraticità e di pari opportunità, esercitano, al di fuori dei casi previsti dall’ordinamento e quelli di deroga autorizzati dal Consiglio nazionale, la propria attività senza il perseguimento di fini di lucro. Per quanto riguarda il procedimento relativo al riconoscimento ai fini sportivi delle società ed associazioni che abbiano la loro sede sportiva in Italia 111, si riconosce pacificamente come il Consiglio nazionale, le Federazioni sportive, le Discipline associate e gli enti di promozione sportiva vestano i panni di soggetti preposti al conferimento dello stesso, a differenza di quanto previsto per il riconoscimento delle società polisportive, attribuito sulla base delle singole discipline sportive praticate. Per quanto riguarda i compiti e le funzioni attribuite alle citate società, queste accanto al rispetto del principio di lealtà, delle norme, delle consuetudini sportive sono tenute a salvaguardare le funzioni dello sport a livello culturale, popolare, educativo e sociale, oltre al principio di solidarietà economica tra lo sport di alto livello e quello base, il dovere di curare l’educazione dei giovani accanto al dovere di formazione sportiva degli stessi. Le associazioni e società sportive, poi, si pongono in posizione “servente” rispetto alle Federazioni sportive nazionali, consentendo alle stesse di disporre degli atleti selezionati per far parte delle rappresentative nazionali italiane 112. Proprio gli atleti, disciplinati dall’art. 31 113 dello Statuto, 110 È proprio in ordine a tale finalità che il Consiglio nazionale ha il compito di visionare il bilancio di previsione, il conto consuntivo e una relazione inerente ai contributi ricevuti dal CONI, documenti che gli enti di promozione sportiva annualmente sono tenuti a presentare. 111 In realtà, il riferimento alla sede nel territorio nazionale vale solo ai fini del riconoscimento sportivo perché se ai fini del riconoscimento sportivo la sede sportiva delle società e delle associazioni deve trovarsi in Italia, altrettanto non può dirsi ai fini dell’ordinamento statale in quanto la sede, purché quella sportiva sia in Italia, può essere stabilita in ognuno degli Stati membri. 112 Tale onere per le società sportive viene vissuto, soprattutto dalle società calcistiche, come un’imposizione ingiustamente gravosa che dovrebbe addirittura legittimare, secondo alcune società, la richiesta di un risarcimento in favore delle stesse. 113

Titolo VIII – Atleti, tecnici sportivi ed ufficiali di gara – Art. 31 – Atleti: «1. Gli atleti sono inquadrati presso le società e associazioni sportive riconosciute, tranne i casi particolari in cui sia consentito il tesseramento individuale alle Federazioni sportive nazionali, alle Discipline sportive associate e agli Enti di promozione sportiva. 2. Gli atleti sono soggetti dell’ordinamento sportivo e devono esercitare con lealtà sportiva le loro attività, osservando i principi, le norme e le consuetudini sportive.

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rappresentano la componente essenziale dell’ordinamento sportivo e, oltre ad essere in generale sottoposti all’ordinamento sportivo, sono tenuti ad esercitare la loro attività sia nel rispetto dei principi di lealtà sportiva che delle norme e dei principi della competente Federazione internazionale. Quindi, gli atleti sono sottoposti, nell’esercizio delle loro attività sportive, prima di tutto alle disposizioni del CIO e del CONI, alle norme delle rispettive Federazioni di appartenenza, nazionali ed internazionali, nonché alle norme consuetudinarie sportive. Infine, per chiudere il quadro illustrativo in merito all’organigramma in cui si articola il sistema sportivo, un’attenzione particolare può essere rivolta alla organizzazione periferica del CONI, realtà variamente composta e disciplinata dall’art. 14 dello Statuto che regolamenta quegli importanti settori rappresentati dalle risorse finanziarie ed umane di cui il Comitato Olimpico Nazionale si avvale 114. La capillare articolazione periferica prevista dallo Statuto sembra essere chiara espressione e concreta realizzazione di quel decentramento amministrativo, strumento per la realizzazione di una delle principali finalità dell’Ente rappresentata dalla

3. Gli atleti devono praticare lo sport in conformità alle norme e agli indirizzi del CIO, del CONI e della Federazione nazionale di appartenenza; essi devono altresì rispettare le norme e gli indirizzi della competente Federazione internazionale, purché non in contrasto con le norme e gli indirizzi del CIO e del CONI. 4. Gli atleti selezionati per le rappresentative nazionali sono tenuti a rispondere alle convocazioni e a mettersi a disposizione della competente Federazione sportiva nazionale o Disciplina sportiva associata, nonché ad onorare il ruolo rappresentativo ad essi conferito. 5. Ai sensi dei quanto disposto dalla Carta Olimpica, è costituita presso il Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI) la Commissione Nazionale Atleti. La sua composizione ed il relativo funzionamento vengono disciplinati dal Consiglio Nazionale del CONI». 114

Titolo III – Organizzazione territoriale del CONI – Art. 14 – Funzioni delle strutture territoriali: «1. L’organizzazione territoriale del CONI è costituita da: a) Comitati regionali; b) Delegati provinciali; c) Fiduciari locali. 2. Soppresso. 3. In armonia con i principi e gli indirizzi fissati dagli organi centrali del CONI, i Comitati regionali, direttamente e tramite i Delegati provinciali rappresentano il CONI nel territorio di competenza; cooperano con gli organi centrali per le azioni svolte da questi ultimi sul territorio; promuovono e curano, nell’ambito delle loro competenze, i rapporti con le strutture territoriali delle Federazioni Sportive Nazionali e delle Discipline sportive associate, degli Enti di promozione sportiva, con le Amministrazioni pubbliche, statali e territoriali e con ogni altro organismo competente in materia sportiva e propongono forme di partecipazione dei rappresentanti degli Enti territoriali alla programmazione sportiva; curano, nel rispetto delle competenze, l’organizzazione ed il potenziamento dello sport, nonché la promozione della diffusione della pratica sportiva. 4. La Giunta Nazionale può istituire, a livello regionale o interregionale, Scuole dello sport, definendone i compiti nel rispetto delle competenze delle Federazioni sportive nazionali e delle Discipline sportive associate in materia. 5. In caso di gravi irregolarità nella gestione o di gravi o ripetute violazioni dell’ordinamento da parte delle strutture territoriali, ovvero in caso di constata impossibilità di funzionamento dei medesimi, la Giunta Nazionale ne delibera il commissariamento».

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massima diffusione della pratica sportiva. In particolare, l’art. 14 riconosce come organi costituenti l’organizzazione periferica del CONI i Comitati regionali (art. 15), i Comitati provinciali (art. 16) e i fiduciari locali (art. 17) che, in armonia con i principi fissati dagli organi centrali del CONI, svolgono la funzione di rappresentanza dello stesso nel territorio di competenza, cooperano con gli organi centrali per le azioni svolte da questi ultimi sul territorio, promuovono e curano, nell’ambito delle loro competenze, i rapporti con le strutture territoriali delle Federazioni sportive nazionali e delle Discipline sportive associate, degli Enti di promozione sportiva, con le Amministrazioni pubbliche, statali e territoriali e con ogni altro organismo competente in materia sportiva proponendo forme di partecipazione dei rappresentanti degli Enti territoriali alla programmazione sportiva. Curano, inoltre, nel rispetto delle competenze, l’organizzazione ed il potenziamento dello sport, nonché la promozione della diffusione della pratica sportiva. Sempre l’art. 14 dello Statuto istituisce la Conferenza Nazionale dell’organizzazione territoriale chiamata a svolgere funzioni di rappresentanza e coordinamento dell’organizzazione periferica, prevede specifiche funzioni attribuite alla Giunta nazionale che, a sua volta, può istituire Scuole regionali dello Sport, previa definizione dei compiti nel rispetto delle competenze e delle Federazioni in materia, e deliberare il commissariamento degli organi periferici in tutti i casi di gravi irregolarità o violazioni dell’ordinamento. A differenza di quanto previsto in passato, l’organizzazione periferica del CONI è rimessa completamente all’autonomia statutaria dell’Ente che, quale organo di vertice dell’ordinamento sportivo nazionale, è il soggetto più idoneo a conoscere e valutare le diverse istanze e le nuove esigenze provenienti dal mondo sportivo e presenti sul territorio. L’art. 18 dello Statuto 115 riconosce, poi, un’autonomia gestionale e contabile agli organi territoriali del CONI che reperiscono finanziamenti non solo per mezzo dei contributi generali o specifici attribuiti dalla Giunta nazionale per sostenere, rispettivamente, le spese di funzionamento e le attività programmate, ma anche attraverso i proventi derivanti da contratti di sponsorizzazione, donazioni e lasciti nonché dalla gestione di beni rientranti nella propria disponibilità. Accanto all’autonomia gestionale, lo Statuto, a conferma del ruolo istituzionalizzato dei Co115

Art. 18 – Risorse finanziarie: «1. Alle strutture territoriali del CONI è attribuita autonomia gestionale per il perseguimento dei propri compiti. 2. I mezzi finanziari per l’espletamento delle attività dei Comitati Regionali del CONI sono costituiti da: a) il contributo generale per spese di funzionamento assegnato dalla Giunta Nazionale; b) i contributi per la realizzazione dei programmi di attività assegnati dalla Giunta Nazionale; c) i proventi derivanti da contratti di sponsorizzazione, donazioni, lasciti o altri contributi; d) i proventi derivanti dalla gestione di beni siti nel territorio di competenza e rientranti nella loro disponibilità nonché dalla erogazione o gestione di servizi. 3. Presso ogni Comitato regionale è nominato, dalla Giunta Nazionale, un Revisore contabile scelto tra gli iscritti all’albo Dottori commercialisti o Registro Revisori Contabili».

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mitati regionali e provinciali, quali veri e propri livelli di articolazione dell’organizzazione periferica del CONI, attribuisce loro anche un’autonomia finanziaria che, pur se parziale, rappresenta indubbiamente un aspetto di importanza notevole, atteso che tali soggetti oltre a percepire i finanziamenti statali determinati dalla Giunta nazionale, possono contare su proprie entrate derivanti da contratti di sponsorizzazione, donazione o lasciti.

2.6. Le Leghe Completa l’esposizione dedicata ai soggetti dell’ordinamento sportivo, il riferimento alle Leghe, il cui scopo principale si manifesta nella organizzazione dell’attività agonistica delle società sportive, proprie associate, predisponendo manifestazioni – e quindi date e orari delle partite di campionato e delle eventuali competizioni – nonché fissando i criteri e le linee guida da rispettare per l’iscrizione ai propri campionati. A queste funzioni di natura organizzativa, si affiancano quelle di natura prettamente economica consistenti nella raccolta di fondi e conseguente distribuzione degli stessi alle associate 116. Dal punto di vista strutturale le Leghe si compongono di propri organi ai quali, i rispettivi Regolamenti, attribuiscono il compito di garantire lo svolgimento di determinate attività rilevanti ai fini di una corretta e lineare organizzazione, come la predisposizione dell’attività agonistica delle associate attraverso la fissazione di calendari delle competizioni ufficiali, la rappresentanza delle società nei rapporti con la FIGC e con le altre Leghe o nella stipula degli accordi di lavoro e nella predisposizione dei contratti tipo. La natura e la tipologia delle richiamate funzioni permette anche una esatta qualificazione della natura giuridica delle Leghe che possono, pacificamente, essere definite associazioni privatistiche di società ad esse affiliate con funzioni rappresentative delle stesse e con autonomia organizzativa e amministrativa nei limiti previsti dallo Statuto, per il raggiungimento delle proprie finalità 117. Sono, infatti, le stesse associate che possono, pur sempre nel rispetto della normativa vigente, delegare alle Leghe la gestione di fattispecie per le quali le società ritengono che la unitarietà nella trattazione sia necessaria. Non appare, pertanto, inappropriata la qualificazione delle Leghe in termini di veri e

116 È bene sottolineare come il potere economico delle Leghe si manifesti particolarmente nella commercializzazione dei diritti televisivi delle gare e, a tal proposito, non pochi sono stati i casi di attenzione da parte della disciplina antitrust che ha visto l’Autorità preposta alla tutela della concorrenza in Germania ritenere illecita l’applicazione delle norme statutarie della Lega calcio tedesca che riconoscevano il diritto di condurre le trattative e di concludere contratti aventi per oggetto la trasmissione televisiva degli incontri disputati sul territorio nazionale, da squadre tedesche, in occasione dei tornei di coppa (v. dec. Bunderskartellamt, del 2 settembre 1994, in Riv. dir. Sportivo, 1996, p. 143). 117

Così, M. SANINO-F. VERDE, Il Diritto sportivo, cit., p. 177.

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proprii rappresentanti delle associate che, pur rivestendo la qualifica di rappresentate, conservano intatta la propria autonomia 118. Sicuramente un’attenzione particolare, anche in considerazione della popolarità e del clamore di cui questo sport gode, merita la Lega Nazionale Professionisti della FIGC, Federazione Italiana Gioco Calcio, che, oltre ad essere considerata la più importante tra quelle annoverate dal CONI, sia per numero di atleti che per l’interesse generale che la medesima solleva nella pubblica opinione, ha, da sempre, realizzato esperienze guida nell’ambito sportivo.

2.7. Gli atleti Inutile sembrerebbe la precisazione in forza della quale si riconosce l’atleta come “il” soggetto sportivo per eccellenza, quella figura che, all’interno del sistema agonistico ha come finalità predominante quella di volersi confrontare, in una particolare disciplina, con altri sportivi del medesimo livello. A muovere l’animo dell’atleta vi è sicuramente il sentimento e la voglia di vittoria, un sano e leale spirito di competizione possibile solo all’interno di un assetto organizzativo che fissi le regole delle gare disciplinandone lo svolgimento e accertandone i risultati. Quello di atleta è uno status che si acquisisce in forza di un particolare atto formale, ossia attraverso il tesseramento, consistente nell’iscrizione ad una associazione sportiva che, a sua volta, procede ad iscrivere l’atleta alla Federazione di appartenenza. Attraverso tale atto di adesione, l’atleta viene inserito nell’ordinamento sportivo e diventa così possibile l’imputazione soggettiva dei suoi risultati e il conseguente inserimento nelle graduatorie sportive. A seguito del tesseramento, sorgono in capo all’atleta una serie di diritti e doveri nei confronti degli altri soggetti dell’ordinamento sportivo; si pensi all’art. 31 dello Statuto del CONI che definisce il tesseramento 119 come “fonte di acquisizione dello status di atleta” specificando che: 1. Gli atleti sono inquadrati presso le società e associazioni sportive riconosciute, tranne i casi particolari in cui sia consentito il tesseramento individuale alle Federazioni sportive nazionali, alle Discipline sportive associate e agli Enti di promozione sportiva. 118

Basti pensare alle recenti vicissitudini relative alla cessione dei diritti televisivi della Lega Nazionale Professionisti, in occasione della quale le società di serie A e B, mutando il precedente indirizzo, hanno provveduto direttamente a perfezionare accordi con le emittenti per quanto riguarda i diritti televisivi c.d. “criptati”, confermando il conferimento della gestione della cessione di quelli c.d. “in chiaro” alla Lega Nazionale Professionisti. 119 Il procedimento di tesseramento viene variamente disciplinato nei Regolamenti delle diverse Federazioni, sia in ordine ai presupposti sostanziali per il suo conseguimento che relativamente al suo iter di svolgimento. La giurisprudenza non è rimasta estranea al fenomeno del tesseramento (si vedano ex multis, Cass., Sez. Un., 9 maggio 1986, n. 3091, in Riv. dir. Sportivo, 1986, p. 192; T.A.R. Lazio, sez. III, 11 agosto 1986, n. 2746, in Riv. dir. Sportivo, 1987, p. 689).

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2. Gli atleti sono soggetti dell’ordinamento sportivo e devono esercitare con lealtà sportiva le loro attività, osservando i principi, le norme e le consuetudini sportive. 3. Gli atleti devono praticare lo sport in conformità alle norme e agli indirizzi del CIO, del CONI e della Federazione nazionale di appartenenza; essi devono, altresì, rispettare le norme e gli indirizzi della competente Federazione internazionale, purché non in contrasto con le norme e gli indirizzi del CIO e del CONI. 4. Gli atleti selezionati per le rappresentative nazionali sono tenuti a rispondere alle convocazioni e a mettersi a disposizione della competente Federazione sportiva nazionale o Disciplina sportiva associata, nonché ad onorare il ruolo rappresentativo ad essi conferito. 5. Ai sensi di quanto disposto dalla Carta olimpica, è costituita presso il Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI) la Commissione Nazionale Atleti. La sua composizione ed il relativo funzionamento vengono disciplinati dal Consiglio nazionale del CONI 120. Spetta, poi, agli statuti e ai regolamenti federali differenziare le varie categorie di atleti sulla base della disciplina sportiva praticata che si pone come il principale criterio di partizione, accanto a quello territoriale o dei requisiti fisici 121. Prescinde dalla capacità sportiva e si concentra più su aspetti di natura economica, il criterio che porta a distinguere tra atleti dilettanti ossia economicamente autosufficienti, semi-professionisti intesi come quegli sportivi parzialmente mantenuti dall’ordinamento e, infine, atleti professionisti integralmente mantenuti dall’ordinamento 122. Più precisamene, l’art. 2 della legge 23 marzo 1981, n. 91 definisce l’atleta professionista come «colui che esercita l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità e che consegue tale qualifica dalle Federazioni sportive nazionali»; anche se, in verità, è proprio l’operato rinvio alle Federazioni che determina una sorta di stallo nella regolamentazione degli atleti professionisti, considerato che soltanto alcune Federazioni se ne sono attualmente date carico.

120

Art. 31 dello Statuto del Comitato Olimpico Nazionale Italiano, adottato dal Consiglio nazionale l’11 giugno 2014, rinvenibile sul sito www.coni.it. 121

Si pensi che i regolamenti sportivi possono individuare, anche sulla base del sesso, differenti categorie di atleti arrivando anche a riservare, in alcuni casi, l’attività sportiva alle sole persone di sesso maschile, prendendo in considerazione elementi come il peso, l’altezza, l’età, ecc. 122

Una prima differenziazione era già prevista dal d.P.R. n. 157/1986 che, all’art. 35, distingueva tra atleta professionista e non professionista, disponendo che l’atleta non professionista pratichi lo sport in conformità alle regole del CIO e della competente Federazione internazionale e che l’attività dell’atleta professionista è disciplinata dalle norme emanate dalla Federazione nazionale competente in base ai principi dettati dalle Federazioni internazionali.

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2.8. Ausiliari sportivi, giudici e ufficiali di gara In ragione della complessità e molteplicità delle operazioni in cui si articola il fenomeno sportivo, oltre agli atleti, all’organizzazione dell’attività sportiva partecipano una molteplicità di altri soggetti chiamati a svolgere le operazioni variamente connesse all’evento agonistico. Si vuole, in questo caso, far riferimento ai cosiddetti ausiliari sportivi, categoria di collaboratori ai quali è affidato l’espletamento di una serie complessa di operazioni come l’organizzazione della gara, il controllo delle regole dell’esercizio sportivo – attività proprie del momento apicale della gara – o ancora l’organizzazione del programma agonistico, il tesseramento e la preparazione degli atleti – attività proprie di momenti preliminari e successivi alla gara stessa. Gli ausiliari sportivi possono svolgere la loro attività sia a titolo gratuito che in forma professionistica, spiccando rispetto agli altri collaboratori sportivi in ragione del particolare rapporto di strumentalità rispetto al miglioramento dei risultati agonistici, da intendere come primario fine sportivo. Diversa da quella degli ausiliari è, poi, la figura dei dirigenti sportivi ai quali vengono attribuiti compiti e funzioni di natura tecnica 123. I dirigenti possono appartenere sia alle Federazioni che alle associazioni e società sportive; in entrambi i casi, affinché possa essere riconosciuta la qualifica di dirigente, è necessaria la sussitenza di specifici requisiti espressamente richiesti e stabiliti dalle normative federali 124. In ultimo, per quanto riguarda il rapporto che si instaura tra dirigente e società sportiva, questo è chiaramente riconducibile al regime del rapporto di lavoro subordinato disciplinato generalmente dalla legge n. 91/1981, atteso che l’art. 4 della richiamata legge fa riferimento non solo agli atleti ma ad ogni altro professionista sportivo. Altra figura di spicco nel contesto dell’organizzazione sportiva, è quella degli ufficiali di gara ai quali, in passato, veniva attribuito il compito di garantire la regolarità dello svolgimento delle manifestazioni sportive 125. Attualmente gli ufficiali di gara, soggetti che rientrano pacificamente nel più ampio genus degli ausiliari sportivi, ritrovano la loro disciplina all’art. 33 dello Statuto del CONI che, in conformità col passato, rinviene nella garanzia della regolarità delle ma123

La giurisprudenza ha fornito una nozione, seppur esemplificativa, dei compiti attribuiti al direttore sportivo. Si veda in tal senso Cass., sez. lav., 8 giugno 1995, n. 6439, in Lav. giur., 1996, p. 250 secondo cui il direttore sportivo di una società calcistica appartiene al novero dei dirigenti amministrativi e tecnici. 124 Alcuni dei requisiti richiesti sono comuni a tutti gli ordinamenti sportivi; si pensi ai requisiti di onorabilità e cittadinanza, altri, invece, sono richiesti con particolare riguardo al singolo ordinamento sportivo. 125 L’art. 36 del d.P.R. n. 157/1986 stabiliva che «gli ufficiali di gara partecipano, nella qualifica loro attribuita, allo svolgimento delle manifestazioni sportive per assicurarne la regolarità». L’attuale disciplina è, attualmente, contenuta all’art. 33 dello Statuto del CONI.

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nifestazioni sportive il principale compito da assolvere. Il comma 1 dell’art. 33 dello Statuto del CONI, infatti, recita: «Gli Ufficiali di gara partecipano, nella qualifica loro attribuita dalla competente Federazione sportiva nazionale o Disciplina sportiva associata o Ente di promozione sportiva e senza vincolo di subordinazione, allo svolgimento delle manifestazioni sportive per assicurarne la regolarità». È chiaro, quindi, come la principale finalità degli ufficiali di gara sia quella di garantire che le manifestazioni sportive si svolgano nel rispetto dei principi di lealtà sportiva, secondo un giudizio illuminato dalle regole di terzietà, imparzialità ed indipendenza. È bene precisare come, a seconda della disciplina sportiva in questione, agli ufficiali di gara possono essere attribuite funzioni accertative (pensiamo alle discipline come il nuoto, atletica leggera) o anche compiti e poteri decisori che, a volte, possono rivestire un peso determinante ai fini dell’esito della gara stessa (pensiamo al calcio o pallanuoto). Una attenzione particolare merita la figura dell’arbitro di gara, qualifica attribuibile solo in presenza di presupposti ben definiti che permettono l’acquisizione di uno specifico status giuridico dal quale derivano diritti e doveri dell’arbitro nei confronti dei terzi e dei terzi verso l’arbitro. L’attività dell’arbitro è a titolo gratuito, pertanto non può essere ricondotta allo schema dei rapporto di lavoro subordinato. Ha, infatti, chiarito la giurisprudenza 126: «l’arbitro presta la sua attività gratuitamente, essendo previsti solo rimborsi spese ed eventualmente indennità, che non rappresentano altro che una remunerazione per ogni gara diretta e per la partecipazione ai convegni o seminari di formazione, con evidente precarietà ed aleatorietà sia della prestazione che della remunerazione, che ne escludono la natura retributiva». Sembrano contrapposte le opinioni rinvenibili in dottrina e giurisprudenza in merito alla possibilità di riconoscere all’arbitro la natura di pubblico ufficiale. Parte della dottrina 127 attribuisce all’arbitro la veste di pubblico ufficiale in virtù del fatto che questo svolge la sua attività nell’interesse e per conto della Federazione, partecipando così della medesima natura pubblica. Diversamente, parte della giurisprudenza 128 guarda all’arbitro come ad un soggetto incaricato di un pubblico servizio solo quando l’attività svolta presenti una connessione con gare legate a scommesse o giochi riconosciuti dallo Stato. Ad ogni modo sembra preferibile optare per la tesi maggiormente diffusa in dottrina e giurisprudenza secondo cui gli arbitri svolgereb-

126

Cfr. Trib. Roma, 3 aprile 2003, in Mass. Giur. lav., n. 6, 2004, p. 9.

127

F.S. CHIAROTTI, L’arbitro di una partita di calcio è pubblico ufficiale?, in Riv. dir. Sportivo, 1963, p. 104; A. ALBANESI, Arbitro sportivo, in Noviss. Dig., 1975, I, p. 930. 128

App. L’Aquila, 29 marzo 1963, in Foro it., 1963, II, p. 240, secondo cui essendo il CONI ente di diritto pubblico, gli arbitri che svolgono la loro attività indetta dalle Federazioni che altro non sono se organi del CONI, vanno considerati pubblici ufficiali. In senso contrario, cfr. Pret. Genova, 10 giugno 1961, in Giur. it., 1962, II, p. 162.

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bero un’attività non finalizzata alla immediata attuazione di un interesse pubblico, ma limitata ad una valutazione e direzione tecnica dell’evento sportivo.

2.9. Istruttori e maestri sportivi Quello sportivo è un fenomeno che impone inevitabilmente di riconoscere un’importanza significativa alla figura dei maestri e allenatori sportivi; questo perché è grazie all’insegnamento che l’atleta matura, non solo la cognizione delle regole tecniche della disciplina sportiva di riferimento, ma quel più elevato spirito agonistico e di competizione che regge la totalità delle gare. Alla categoria degli allenatori, istruttori e maestri sportivi è dedicato l’art. 32 dello Statuto del CONI che, dopo averli riconosciuti come soggetti dell’ordinamento sportivo, gli attribuisce il compito di esercitare con lealtà sportiva le loro attività, osservando i principi, le norme e le consuetudini sportive, tenendo conto in particolare della funzione sociale, educativa e culturale della loro attività. Perché si possa assumere la qualifica di tecnico sportivo è necessario che sussistano determinati requisiti professionali 129 da manifestare attraverso un comportamento diligente e rispettoso delle regole tecniche di volta in volta stabilite. Alcune tipologie di tecnici sportivi presentano maggiori particolarità rispetto ad altre: si pensi al procuratore del pugile o al maestro di sci, entrambe figure peculiari in considerazione, nel primo caso, della molteplicità di funzioni esercitate (ad esempio, l’organizzazione degli incontri, l’assistenza tecnica, la tutela della salute e dell’integrità fisica dell’atleta) e nel secondo caso, della difficoltà e pericolosità dello sci.

2.10. Il procuratore sportivo di calcio Un cenno autonomo richiede la categoria dei procuratori sportivi di calcio, figura che, grazie alla marcata evoluzione che il calcio ha avuto in senso professionistico negli ultimi decenni, ha acquistato sempre più risonanza nel contesto sportivo. Basti pensare che per gli agenti di calcio la FIFA ha emanato un Regolamento 130 autonomo sancendo l’obbligo per le singole Federazioni nazionali di adottare un proprio Regolamento che si conformasse con le direttive e i principi in esso contenuti. Il merito principale di tale intervento regolatore è stato quello di superare la doppia direzione, non sempre congruente, prospettata dalla disciplina interna e da quella internazionale. Il richiamato Regolamento ha prima di 129

Si veda, sul punto, M. COCCIA, La libera circolazione degli allenatori nell’UE, in Riv. dir. Sportivo, 1995, p. 3. 130

FIFA.

Il Regolamento FIFA è stato approvato il 10 dicembre 2000 dal Comitato Esecutivo della

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tutto definito l’agente dei calciatori come «persona fisica che, dietro compenso e sulla base di regole fisse, presenta un calciatore ad una Società in vista di un impiego oppure presenta due Società l’una all’altra in vista di concludere un contratto di trasferimento» 131. Vale, tuttavia, la pena riportare il successivo intervento della FIGC che, nel novembre del 2001 ha deliberato il nuovo “Regolamento per l’esercizio dell’attività di agente di calciatore” visto ancora come «la persona fisica che avendo ricevuto a titolo oneroso l’incarico in conformità al presente regolamento, cura e promuove i rapporti tra un calciatore ed una società in vista della stipula di un contratto di prestazione sportiva, ovvero tra due società per la conclusione del trasferimento o la cessione di contratto di un calciatore» 132. Bisogna, però, precisare che l’agente di calciatori non è legato da alcun rapporto associativo alla FIGC, ma può essere più correttamente inquadrato come libero professionista che svolge una prestazione d’opera professionale ex art. 2229 c.c. che ha ad oggetto un’obbligazione di mezzi e come presupposto l’avvenuto rilascio di un mandato senza rappresentanza e, pertanto, egli non è considerato un soggetto dell’ordinamento sportivo. In tal senso milita anche il parere del Collegio di Garanzia del 23 febbraio 2015 133 che, chiamato a determinare l’organo giudicante in ipotesi di controversie sportive relative al mandato tra società e agente di calciatori, chiarisce che gli agenti non sono soggetti tesserati e, pertanto, non qualificabili come soggetti dell’ordinamento sportivo. Per quanto riguarda la corretta individuazione dell’organo giudicante in caso di controversie tra agente dei calciatori e società, il Collegio di Garanzia ha poi specificato come, a differenza del previgente sistema di giustizia sportiva che, ai sensi del regolamento FIGC, devolveva le controversie patrimoniali alla cognizione del TNAS, l’attuale Codice di Giustizia Sportiva, pur avendo operato la soppressione del TNAS, nulla dispone in ordine alla cognizione delle controversie di carattere patrimoniale che coinvolgono gli agenti di calciatori rendendo auspicabile un intervento a livello endoassociativo capace di disciplinare in maniera armonica non solo la problematica dei contenziosi in cui è parte un agente sportivo, ma anche e più in generale la posizione di tale professionista all’interno del sistema sportivo. Grazie alla esposta definizione di agente di calciatore, la nuova disciplina riesce ad eliminare qualsiasi spazio interpretativo esplicitando la facoltà dell’agente di prestare la propria attività anche nei confronti delle Società sportive,

131

Art. 1, Regolamento FIFA degli Agenti di Calciatori, approvato dal Comitato Esecutivo della FIFA, nella riunione del 10 dicembre 2000, conformemente all’art. 17, par. 2 del Regolamento d’Applicazione dello Statuto FIFA, rinvenibile al sito www.coni.it. 132

Art. 3, par. 2 del Regolamento per l’Esercizio dell’Attività di Agente di Calciatori, pubblicato sul C.U. FIGC del 22 novembre 2001, n. 81 e sul sito www.figc.it. 133 Collegio di Garanzia, sez. consultiva, parere 23 febbraio 2015, n. 3, rinvenibile sul sito www.coni.it.

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prerogativa negata in passato. Tuttavia, i compiti dell’agente cambiano a seconda che l’incarico venga conferito da parte di un atleta o di una società: nel primo caso l’agente avrà il compito di svolgere un’attività di assistenza in favore dello sportivo durante la fase delle trattative finalizzate alla stipula di un contratto di lavoro sportivo con una società sportiva professionistica, offrendo la propria assistenza nella definizione del compenso e della durata del contratto nonché di ogni altra previsione contrattuale; nell’ipotesi in cui l’incarico gli venga conferito da parte di una società sportiva, l’agente sarà chiamato a svolgere una attività di assistenza al fine di incentivare il tesseramento o la cessione di contratti di atleti professionisti. Ovviamente il rapporto che si instaura tra agente e calciatore e agente e società è un rapporto basato sulla fiducia, anche se ciò non priva l’agente della possibilità di esercitare le proprie mansioni in maniera imprenditoriale, avvalendosi di collaboratori nonché di un vero e proprio team. Perché ad un soggetto possa essere attribuita la qualifica di agente di calciatori è necessaria una specifica licenza rilasciata dalla FIGC o da altra Federazione estera grazie alla quale l’agente può essere inserito in un apposito albo tenuto presso la FIGC.

SEZIONE III

Lo sportivo nel rapporto di lavoro 3. Rapporto di lavoro sportivo prima e dopo la legge n. 91/1981 Con riferimento al rapporto di lavoro sportivo, è bene innanzi tutto precisare come prima dell’entrata in vigore della legge n. 91/1981, la dottrina operasse una netta distinzione tra sportivi dilettanti e sportivi professionisti, qualificando i primi come coloro che venivano indotti all’attività agonistica non da intenti e finalità lucrative, ma solo da motivi ricreativi e i secondi come coloro che a quell’attività erano, invece, indotti dall’intento di trasformare le proprie energie fisiche in fonte di reddito 134. Sicuramente, quella della natura giuridica del rapporto contrattuale tra professionisti e società sportive è un argomento su cui a lungo, e sin dagli anni ’60, si è vivacemente dibattuto in dottrina. A tal proposito non sono mancate le ricostruzioni più svariate, per cui alcuni autori hanno collocato tale rapporto nell’area del lavoro autonomo 135; altri, invece, ritenuto 134

Cfr. G. MAZZONI, Dilettanti e professionisti, in Riv. dir. Sportivo, 1968, p. 368.

135

F. BIANCHI D’URSO, Lavoro sportivo e ordinamento giuridico dello Stato: calciatori pro-

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di poter richiamare la disciplina dei rapporti di natura associativa, con il fine comune costituito dallo svolgimento di un’attività ludica 136. In un tale contesto altalenante, la maggior parte degli studiosi era, però, incline a ricondurre l’attività degli atleti professionisti nell’area del rapporto di lavoro subordinato, ritenendo applicabile la disciplina codicistica dettata dall’art. 2094 c.c. 137, in linea anche con quanto disposto dalla giurisprudenza del tempo 138. Sicuramente le problematiche giuridiche che caratterizzavano il mondo dello sport non sono decifrabili facilmente senza avere presente, almeno per sommi capi, il processo di trasformazione che ha interessato il settore, e che si è articolato essenzialmente attraverso interventi normativi manifestatisi a distanza di almeno trent’anni l’uno dall’altro. Tale processo ha indubbiamente inciso su alcune discipline sportive più di altre, infatti, tanto il dibattito dottrinale, quanto la casistica giurisprudenziale vertevano per lo più su vicende legate al mondo del calcio e, in esso, al rapporto tra calciatori e società di appartenenza, ma sempre nel tentativo di rendere meno stridente il contrasto che caratterizzava i rapporti tra ordinamento statale e ordinamento sportivo, cercando soprattutto di operare su quei punti in cui tale contrasto rischiava di divenire incontrollabile. Ovviamente non sono mancate pronunce giurisprudenziali in merito anche ad altri sport, per i quali, l’orientamento dei Giudici, a differenza di quanto accadeva per il calcio, era quello di inquadrare il rapporto tra professionista e società al di fuori del rapporto di lavoro subordinato 139. Non deve, perciò, sorprendere che il più forte fessionisti e società sportive, in Dir. lav., 1972, p. 396; cfr. anche C. SCOGNAMIGLIO, In tema di responsabilità delle società sportive ex art. 2049 c.c. per l’illecito del calciatore, in Dir. giur., 1963, p. 81, che fonda la propria tesi qualificando il rapporto tra calciatore e società come un “contratto di ingaggio”, assimilabile, questo, solo al lavoro autonomo. 136

G. VOLPE POTZOLU, Sui rapporti tra giocatori di calcio e associazioni sportive e sulla natura giuridica della c.d. cessione del giocatore, in Riv. dir. comm., 1964, II, p. 15. 137 In tal senso, A. MARTONE, Osservazioni in tema di lavoro sportivo, in Riv. dir. Sportivo, 1964, p. 117; C. GIROTTI, Il rapporto giuridico del calciatore professionista, in Riv. dir. Sportivo, 1977, p. 183; R. BORRUSO, Lineamenti del contratto di lavoro sportivo, in Riv. dir. Sportivo, 1963, p. 72. 138 Già nel 1961 la Suprema Corte si era pronunciata in merito ad una controversia tra la società Milan ed un suo calciatore, Raccis, affermando che gli atleti professionisti, le cui prestazioni hanno il carattere della continuità, esclusività e professionalità sono inseriti nel quadro di una complessa organizzazione economica e tecnica di lavoro e sono assoggettati al potere direttivo e gerarchico dell’ente da cui dipendono, cfr. Cass., 21 ottobre 1961, n. 2324, in Foro it., 1961, I, p. 1608; Cass., 29 marzo 1978, in Giust. civ., 1978, I, p. 1280. 139 Così, App. Torino, 3 aprile 1957, in Giur. it., Rep., 1957, voce Sport, n. 17 che ritenne di natura autonoma il rapporto fondato sul contratto di ingaggio del ciclista tenuto a partecipare alle gare, ma non a garantire la vittoria; Trib. Roma, 20 febbraio 1957, in Foro it., 1958, I, p. 271, affermò che il contratto tra un pugile ed il suo procuratore, creando un vincolo di reciproca collaborazione, aveva natura associativa; ancora, secondo Cass., 5 novembre 1966, n. 2728, in Riv. giur. lav., 1967, II, p. 41, il contratto di ingaggio tra casa costruttrice o proprietario del veicolo e pilota aveva natura di contratto di prestazione d’opera autonoma, in ragione dell’obbligazione di risulta-

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incentivo all’emanazione della legge n. 91/1981 sia stato rappresentato da una vicenda legata all’area calcistica che vide il Pretore di Milano emanare, in data 7 luglio 1978, un provvedimento con il quale si inibiva ai rappresentanti delle società di calcio lo svolgimento di trattative e la stipulazione di contratti, ossia il cosiddetto calcio-mercato, perché contrari alle norme sul collocamento di cui alla legge n. 264/1949. Nello specifico, il provvedimento del Pretore di Milano si fondava sul presupposto che i calciatori, da ritenersi lavoratori subordinati, dovessero sottostare a tutte le norme che disciplinavano quella materia e quindi anche a quelle sul collocamento che, tra l’altro, vietavano espressamente l’intermediazione privata. Il pretore, perciò, ritenne di individuare nelle società di calcio veri e propri mediatori e non i reali interessati alla destinazione dei giocatori, disattendendo anche il dictum della Cassazione che aveva espressamente escluso che al trasferimento dei calciatori trovasse applicazione la disciplina del collocamento 140. Immediatamente, in risposta alla segnalata pronuncia, il Governo, spinto sia dai ristretti tempi per lo svolgimento del calcio-mercato sia dal rischio che il successivo campionato non potesse svolgersi, emanò il d.l. 14 luglio 1978, n. 367 (convertito in legge n. 430/1978), con il quale escluse l’applicabilità delle norme sul collocamento al trasferimento dei calciatori e, solo quattro giorni più tardi, un nuovo Giudice della Pretura milanese emanò sentenza di proscioglimento per tutti gli inquisiti perché il fatto non costituiva “più” reato. Il neo nato d.l. n. 367/1978 non conteneva, però, una definizione del rapporto tra società e sportivi professionisti, lasciando di fatto irrisolto il problema e impregiudicato il sentimento della necessità di dare una regolamentazione alla materia 141 che si sarebbe avuta solo con la legge 23 marzo 1981, n. 91 sul professionismo sportivo. In verità, il cammino che portò all’emanazione della legge 91 non fu semplice, atteso che in un primo momento il Senato approvò un disegno di legge in cui i professionisti venivano qualificati come lavoratori autonomi sul rilievo che non essendo loro applicabile la normativa sul collocamento, non si poteva ritenerli lavoratori subordinati. In questo modo, si finiva per dare di fatto ampio potere a Federazioni e società sportive nella predisposizione delle condizioni generali di contratto, ridimensionando, d’altro canto, il ruolo degli organismi sindacali preposti alla contrattazione collettiva. Una volta giunto all’esame della Camera, tuttavia, il disegno di legge così come approvato dal Senato risentì delle forti pressioni della sinistra che insisteva per la modifica della qualifica degli

to che il pilota si impegnava a garantire. Per una panoramica delle attività sportive più diffuse prima dell’emanazione della legge n. 91/1981, cfr. F. BIANCHI D’URSO, Il contratto di lavoro sportivo, in D. NAPOLETANO, Il diritto del lavoro nell’elaborazione giurisprudenziale, Roma, 1974, p. 439. 140

Cfr. Cass., 2 aprile 1963, n. 811, in Giust. civ., 1963, I, p. 1892 che, proprio sulla base di tale natura sui generis, nega l’assoggettabilità dei giocatori di calcio alla disciplina pubblicistica del collocamento dei lavoratori subordinati. 141

Cfr. A. LENER, Una legge per lo sport?, in Foro it., 1981, V, p. 302.

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sportivi professionisti da lavoratori autonomi a lavoratori subordinati, riattribuendo così un ruolo centrale ai sindacati ed alla contrattazione collettiva 142. Volendo osservare le coordinate giuridiche in cui si muoveva lo sport professionistico fino agli anni ’80, non si può non riconoscere come, seppur al di là dell’evidente carattere di incongruenza di alcune prassi, gli strumenti tecnico giuridici adottati provenissero per lo più dal diritto privato, messo in ombra con la legge n. 91/1981 che segnava definitivamente l’ingresso degli strumenti tecnici del diritto amministrativo nella disciplina dello sport professionistico, trovando applicazione specialmente con riferimento agli aspetti giuslavoristici e al diverso assetto delle società sportive, sul quale si è poi intervenuti solo nel 2000, sulla scia della spinta dell’Unione Europea. Per ben comprendere lo scenario di fondo su cui ramifica la riforma del diritto dello sport, occorre richiamare la storica sentenza della Cassazione del 2 aprile 1963, capace di fornire un quadro significativo del regime giuridico vigente nell’ambito sportivo prima della legge n. 91/1981, preparando il terreno per una più moderna collocazione delle problematiche concernenti lo sport e consentendo un’analisi degli istituti giuridici sportivi operativi prima dell’irruzione nell’ordinamento sportivo di nuovi strumenti, alcuni normativamente disciplinati, altri determinati dalla prassi, frutto del mutato clima sociale e culturale. La richiamata sentenza 143, si ricorda sostanzialmente, non solo perché ha avuto il merito di dare un fondamento giuridico a tutti gli istituti caratteristici del settore sportivo, ma per aver chiarito che 142

Per una più esaustiva ricostruzione storico-politica si veda M. DELLA COSTA, La disciplina giuridica del lavoro sportivo, Vicenza, 1993, p. 44. 143

Cass., 2 aprile 1963, n. 811, in Foro it., 1963, I, p. 894. La decisione della Suprema Corte chiarì, prima di tutto, come dovesse rifiutarsi l’assoggettabilità dell’attività sportiva vera e propria e dei rapporti giuridici ad essa facenti capo, alla disciplina pubblicistica del collegamento, per i principi cui questa è ispirata e per le funzioni sociali cui adempie. Quello che spinge al Corte ad una tale decisione è il riconoscimento alla base della stessa attività sportiva dell’homo ludens, soggetto per eccellenza dell’intero ordinamento sportivo; in particolare motiva la Corte: «sia il lavoro sia lo sport sono manifestazione di attività sociale e rispondono entrambi ad imprescindibili esigenze della vita di relazione. Però, mentre il lavoro umano è l’impiego cosciente e volontario di energie psico-fisiche per la produzione di beni, di utilità che hanno un valore economico e dalla cui stessa valutazione è commisurato il suo valore, in un sinallagma che ne svela il fine esclusivamente utilitario, lo sport parte dalla necessità che l’uomo conservi e accresca le sue energie fisiche, tenendo però al continuo superamento dell’efficienza stessa, proiettandosi nel mondo esterno come mezzo di prova e confronto di altri e facendo sorgere così il sentimento dell’agonismo. Anche lo sport professionistico è permeato da tale sentimento che si manifesta nella gara, nel contributo dell’apporto fisico e morale, nello sforzo di superamento e di vittoria, concetti di norma ignoti alle caratteristiche del comune rapporto di lavoro. Inoltre, mentre il lavoro nasce sempre come rapporto bilaterale, in qualsiasi sua forma, sia subordinata, associata o autonoma, lo sport sorge come attività nettamente individuale, cioè come iniziativa personale, cui l’inquadramento successivo e i rapporti onerosi che lo accompagneranno, nulla aggiungono alla sua prima natura di sforzo fisico e mentale che si produce e si pratica in sé e per sé, per la bellezza ideale di affermazione di superiorità di un atleta o di un gruppo di atleti su altri, quale manifestazione soggettiva di personalità».

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ciò che assume un’importanza basilare è la connotazione dell’atleta quale «soggetto per eccellenza di tutto l’ordinamento sportivo». Cioè, il dettato giurisprudenziale riesce a far passare il fondamentale messaggio del tempo secondo cui è lo sport, e non il lavoro, che può dare un senso all’ordinamento e al professionismo sportivo, considerato come espressione tesa al continuo superamento dell’efficienza, apporto fisico e morale volto alla vittoria nella gara e quindi totalmente estraneo al mero meccanismo sinallagmatico che caratterizza il normale rapporto di lavoro sia esso subordinato o autonomo. Si comprende, allora, come nessuna distinzione venisse, all’epoca, avvertita tra lo sport propriamente professionistico e il resto dell’attività sportiva, atteso che dilettantismo e professionismo comportavano, per l’impostazione del tempo, solo mere differenze di status giuridico dell’atleta, mentre identica era la sostanza dell’attività espletata. Lo sport professionistico, se pur presentava numerosi punti di contatto con una forma di lavoro, secondo l’impostazione del tempo, si mostrava sempre in una veste atipica 144, tale da impedire il collocamento dell’attività sportiva nella categoria del rapporto di lavoro. Sicuramente, la legge 23 marzo 1981, n. 91 ha rappresentato una tappa fondamentale nella storia del diritto dello sport, segnando il definitivo abbandono da parte dello Stato dell’atteggiamento ostile nei confronti della materia sportiva 145, operando all’art. 1 una vera e propria celebrazione dello sport visto come «attività libera che può essere svolta in forma collettiva o individuale, professionistica o dilettantistica» 146. Per comprendere, a questo punto, la pienezza della portata della disposizione è opportuno individuarne l’ambito di applicazione soggettiva, ossia i soggetti destinatari. A tal proposito, l’art. 2 recita: «Ai fini dell’applicazione della presente legge, sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle federazioni

144

Basti pensare che la subordinazione del lavoratore non può giungere mai ad annullarne la libertà di iniziativa e di decisione; lo sportivo, invece, non potrebbe, anche se volesse, sciogliersi per sempre dal rapporto perché la stessa regolamentazione dello sport da esso accettata autorizza particolari limitazioni ai fini della preparazione e della conservazione dell’efficienza atletica. 145 146

Così, A. DE SILVESTRI, Il diritto sportivo oggi, cit., p. 189.

D. DURANTI, L’attività sportiva come prestazione di lavoro, in Riv. dir. lav., 1983, p. 704. In particolare, l’autore ritiene che il dettato contenuto all’art. 1 della legge sia esplicativo ed integrativo della Costituzione, dal momento che riconosce nella libertà di svolgimento dell’attività sportiva un diritto della personalità. Solo alcuni giuristi si accorsero che tale disposizione avrebbe dato luogo a problemi gravi e delicati perché, in un certo senso, essa dovrebbe costituire il ponte tra l’ordinamento sportivo, quello olimpico e l’ordinamento della produzione e del lavoro, salvaguardando tradizionali e notevoli interessi dell’ordinamento sportivo, in particolare del CONI Sennonché, incautamente, il legislatore con questa disposizione ha scoperto lo scheletro del dilettantismo che tutti avrebbero avuto interesse a tenere accuratamente nascosto.

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sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle federazioni stesse, con l’osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella professionistica». In merito alla natura dell’elenco della norma si sono sviluppate diverse impostazioni alternate tra chi vi ha riconosciuto una natura tassativa 147 e chi, come la maggior parte degli studiosi, ha ritenuto che il legislatore abbia inteso elencare solo in maniera esemplificativa le figure più frequenti e conosciute, senza escludere l’estensione della tutela propria del professionista ad altre categorie previste od eventualmente prevedibili dagli ordinamenti federali 148. L’orientamento da seguire, tuttavia, sembra quello di natura restrittiva secondo cui le regole speciali del rapporto di lavoro subordinato sportivo si applicherebbero solo agli atleti e ai professionisti elencati nell’art. 2 della legge. Dovrà, pertanto ritenersi che l’art. 2 operi una distinzione tra le figure tassativamente indicate di sportivi professionisti (atleti, allenatori, direttori tecnico-sportivi e preparatori atletici), che esercitano attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI, cui va applicata la legge 23 marzo 1981, n. 91, e gli altri sportivi professionisti non indicati in detta disposizione, il cui rapporto di lavoro, qualora ne ricorrano gli estremi, è assoggettato invece alle generali norme regolanti il rapporto di lavoro subordinato. Per tali figure di lavoratori, inoltre, diverse da quelle contemplate nel predetto art. 2 della legge n. 91/1981, la sussistenza o meno del vincolo di subordinazione dovrà essere accertata di volta in volta nel caso concreto, in applicazione dei criteri forniti dal diritto comune del lavoro 149. La norma in esame, in vero, non si limita a stabilire l’applicazione della disciplina ai professionisti, ma ne fornisce anche una definizione prevedendo che, per poter essere qualificati come tali occorre la continuità dell’attività sportiva, l’onerosità della stessa e la qualificazione attribuita dalla Federazione competente, in base alle direttive del CONI. Il legislatore, quindi, non ha riconosciuto come sufficienti l’onerosità e la continuità dell’attività svolta, richiedendo anche un particolare intervento qualificatorio da parte della competente Federazione sportiva di appartenenza, condizione prevista come presup-

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E. PICCARDO, Norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti – Commento all’art. 2, in Nuove leggi civ. comm., 1982, p. 563. 148

G. VIDIRI, La disciplina del lavoro autonomo e subordinato, in Giust. civ., 1993, p. 210, che, in particolare, osserva come il general manager debba escludersi da tutte le categorie di cui all’art. 2, in particolare da quella dei direttori tecnico sportivi, in quanto questi ultimi, a differenza dei general managers «partecipano unitamente agli allenatori alla conduzione tecnica delle squadre ed alla preparazione degli atleti»; M. DE CRISTOFARO, Norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti – Commento all’art. 4, in Nuove leggi civ. comm., 1982, p. 576; A. BARBATO MARANI TORO, Problematiche della legge n. 91/1981, in Riv. dir. Sportivo, 1983, p. 30. 149

Cfr. M. SANINO-F. VERDE, Il diritto sportivo, cit., p. 229.

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posto legale del contratto tra società ed atleta 150, in assenza della quale, quindi, si è determinata l’inapplicabilità della legge n. 91/1981 a tutte quelle discipline sportive le cui Federazioni non si erano ancora date una regolamentazione del settore professionistico 151. Il legislatore si preoccupa, poi, di qualificare come “controparte” contrattuale dei professionisti, le società sportive che, all’art. 10, vengono definite come «le sole che possono stipulare contratti con atleti professionisti», nel rispetto di determinate condizioni come: la costituzione in forma di società per azioni o a responsabilità limitata, l’esercizio esclusivo di attività sportive o attività ad esse connesse o strumentali ed in ultimo la destinazione di una parte degli utili (non inferiore al 10%) a scuole giovanili di addestramento e formazione tecnico-sportiva 152.

3.1. Lavoro sportivo: autonomo o subordinato? La legge n. 91/1981, dopo aver reso saldo il concetto in forza del quale devono considerarsi sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnicosportivi ed i preparatori atletici che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità, nell’ambito delle discipline regolamentate dal CONI, puntualizza che la prestazione a titolo oneroso dell’atleta costituisce oggetto di un contratto di lavoro subordinato 153. Il referente normativo in questione è l’art. 150 Si ritiene che il legislatore abbia previsto tale requisito all’art. 2 proprio per consentire alle Federazioni di delineare in modo chiaro i confini tra professionismo e dilettantismo ed evitare a quest’ultimo di avere una diffusione incontrollata. Così, G. VIDIRI, La disciplina del lavoro autonomo e subordinato, cit., p. 210; M. COLUCCI, Lo sport e il diritto, Napoli, 2004, p. 22 in particolare osserva che la presenza del requisito qualificatorio «è dovuta alla non esaustività dei concetti di onerosità e continuità, ben potendo essere, anche quella dilettantistica, un’attività economica esercitata in maniera continuativa». 151 Cfr. G. VIDIRI, La disciplina del lavoro autonomo e subordinato, cit., p. 210; M. COLUCCI, Lo sport e il diritto, cit., p. 21. In giurisprudenza, Trib. Marsala, 6 settembre 1989, in Il Fallimento, 1990, p. 727, secondo cui la mancata qualificazione professionistica rende applicabile l’art. 2126 c.c.; diversamente il Trib. Roma, ord., 7 febbraio 1995, in Foro it., Rep., 1995, p. 633, secondo cui il rapporto non qualificato come professionistico può essere considerato parasubordinato in base all’art. 409, n. 3 c.p.c. 152 Prima della riforma introdotta dal d.l. 20 settembre 1996, n. 485, emanato in seguito all’avvento della sentenza Bosman, l’art. 10 della legge n. 91/1981 vietava espressamente alle società sportive di perseguire qualsiasi scopo di lucro, divieto venuto meno con l’introduzione dei comma 2 e 3 dell’art. 10. Modifica già auspicata in dottrina sin dagli anni ’80 in quanto totalmente contrastante con la realtà delle società sportive nelle quali l’aspetto economico è preponderante. Così, R. MILLOZZA, Ancora sulle società sportive, in Dir. fall., 1983, I, p. 384. Nello stesso senso, G. MARASÀ, Società sportive e società di diritto speciale, in Riv. soc., 1982, p. 507. 153

L. MATTACE RASO, Il rapporto di lavoro tra una società sportiva ed un c.d. consulente tecnico-sportivo, nota a Cass., sez. lav., 23 aprile 1998, n. 4207, in Lav. giur., 1998, p. 946; C. PETRUCCI, Rapporto di lavoro con federazioni sportive: natura pubblica o privata?, in Dir. e pratica lav., 1997, p. 812.

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3 della legge n. 91/1981 che recita: «La prestazione a titolo oneroso dell’atleta costituisce oggetto di contratto di lavoro subordinato regolato dalle norme contenute nella presente legge. Essa costituisce, tuttavia, oggetto di contratto di lavoro autonomo quando ricorra almeno uno dei seguenti requisiti: a) l’attività sia svolta nell’ambito di una singola manifestazione sportiva o di più manifestazioni tra loro collegate in un breve periodo di tempo; b) l’atleta non sia contrattualmente vincolato per ciò che riguarda la frequenza a sedute di preparazione od allenamento; c) la prestazione che è oggetto del contratto, pur avendo carattere continuativo, non superi otto ore settimanali oppure cinque giorni ogni mese ovvero trenta giorni ogni anno». Il richiamato articolo stabilisce, limitatamente alla figura dell’atleta professionista, una vera e propria presunzione assoluta (iuris et de iure) di rapporto di lavoro subordinato con la società di appartenenza, prevedendo una incompatibilità tra il contratto di lavoro subordinato e la gratuità della prestazione, arrivando ad escludere l’applicazione della legge alle ipotesi di contratto di lavoro sportivo gratuito 154. Il fatto che i soggetti menzionati all’art. 2 non siano stati, poi, riproposti al successivo art. 3 ha fatto nascere in dottrina il senso comune secondo cui il legislatore non abbia voluto per essi prevedere la stessa presunzione assoluta scelta per l’atleta. Quindi, per i soggetti di cui all’art. 2 della legge, la qualificazione del rapporto di lavoro come lavoro subordinato va considerata come l’ipotesi più tipicamente ricorrente, da verificare, tuttavia, caso per caso alla luce dei criteri previsti dal diritto comune; pertanto, dall’esito della concreta verifica dipenderà l’applicazione della legge n. 91/1981, in ipotesi di rapporto di lavoro subordinato oneroso, o quella della normativa comune, in ipotesi di rapporto di lavoro autonomo 155. Utili indicazioni sul tema si traggono anche dagli interventi della giurisprudenza del tempo secondo cui al fine di accertare se un rapporto di lavoro possa ricondursi al genus della subordinazione ovvero a quello del lavoro autonomo deve compiersi una indagine relativa sia alla volontà negoziale manifestata dalle parti, sia alle modalità concretamente assunte nel corso del suo svolgimento 156. Per garantire una maggiore certezza nell’applica154

L’orientamento della dottrina è unanime nel ritenere che la presunzione assoluta di rapporto di lavoro subordinato riguardi solo l’atleta. Si veda G. VIDIRI, La disciplina del lavoro autonomo e subordinato, cit., p. 210. 155

In dottrina cfr. M. PERSIANI, Norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti – Commento all’art. 2, in Nuove leggi civ. comm., 1982, p. 568. In giurisprudenza cfr. Cass., 28 dicembre 1996, n. 11540, in Riv. dir. Sportivo, 1997, p. 233: «Il riferimento soltanto agli atleti, non vale però ad escludere che anche l’attività svolta continuativamente dai tecnici a titolo oneroso possa costituire oggetto di un rapporto da lavoro subordinato ex art. 2094 c.c.». 156

Pret. Napoli, 14 febbraio 1995, in Riv. crit. dir. lav., 1995, p. 627. Nella specie, il pretore aveva ritenuto sussistente il vincolo della subordinazione in ordine alle prestazioni rese, per circa venti mesi, dal preparatore di una squadra di calcio giovanile, il quale, pur non essendo mai stato retribuito, aveva assiduamente svolto la sua attività sotto la direzione dell’allenatore, era stato inserito nell’organizzazione sanitario del settore, aveva osservato un orario di lavoro prefissato in

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zione della norma, il legislatore al comma 2 dell’art. 3 specifica tre ipotesi tassative di lavoro autonomo in presenza delle quali è automaticamente negata l’applicazione della legge n. 91/1981, fattispecie delle quali la dottrina ha criticato l’eterogeneità e lo scarso coordinamento 157. In particolare, quelle che suscitano non poche perplessità sono le ipotesi sub a) ovvero che l’attività sia svolta nell’ambito di una singola manifestazione sportiva o di più manifestazioni tra loro collegate in un breve periodo di tempo, e sub c) ossia che la prestazione oggetto del contratto, pur avendo carattere continuativo, non superi otto ore settimanali oppure cinque giorni mensili o trenta giorni per ciascun anno. Quello che si è contestato in dottrina è stata l’opportunità dell’inquadramento di tali ipotesi nell’ambito del lavoro autonomo, considerato che la stessa legge del 1981 per un verso consente la libera apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato (art. 5) e per altro verso sancisce il principio della recedibilità ad nutum nel caso di assunzione a tempo indeterminato (art. 4, comma 8). Inoltre, sempre dal dibattito dottrinale, è emerso come il criterio previsto dalla lett. c) del comma 2 comporti un vero e proprio processo di “detipizzazione” della subordinazione così come prevista dal codice civile ai sensi dell’art. 2094 c.c., in quanto deviandosi dall’ottica tradizionale secondo cui l’occasionalità e la transitorietà della prestazione non implicano l’esclusione della natura subordinata della medesima, il legislatore ha attribuito alla limitata durata temporale della prestazione valore decisivo per escludere il carattere subordinato del rapporto di lavoro sportivo 158. Il controsenso era questo: nel momento in cui il legislatore arriva a predisporre una disciplina del rapporto di lavoro sportivo più elastica e duttile rispetto a quella comune, viene meno la ragione giustificatrice dell’esclusione dall’area della subordinazione di simili fattispecie. 3.1.1. Il contratto di lavoro dello sportivo Norma centrale dell’intervento legislativo è l’art. 4 della legge n. 91/1981, dal momento che racchiude, nei nove commi in cui si articola, la disciplina della forma e del contenuto del contratto di lavoro sportivo subordinato, stabilendo che: «Il rapporto di prestazione sportiva a titolo oneroso si costituisce mediante assunzione diretta e con la stipulazione di un contratto in forma scritta, a pena relazione alla disponibilità del terreno di gioco e, nel periodo in questione, non aveva lavorato in favore di soggetti diversi dalla società convenuta. 157

F. ROTUNDI, La legge 23 marzo 1981, n. 91 ed il professionismo sportivo: genesi, effettività e prospettive future, in Riv. dir. Sportivo, 1991, II, p. 387. In particolare, alcuni autori hanno cercato di individuare nell’assenza di continuità del rapporto tra singolo e società l’elemento comune a tutte e tre le ipotesi, ma in contrario si è obiettato che, mentre i casi di cui alle lett. a) e b) sono in effetti caratterizzati da tale assenza, quello di cui alla lett. c) disciplina ipotesi ove una continuità, pur imperfetta è riscontrabile. 158

In questi termini, G. VIDIRI, La disciplina del lavoro autonomo e subordinato, cit., p. 213.

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di nullità, tra lo sportivo e la società destinataria delle prestazioni sportive, secondo il contratto tipo predisposto, conformemente all’accordo stipulato, ogni tre anni dalla federazione sportiva nazionale e dai rappresentanti delle categorie interessate. La società ha l’obbligo di depositare il contratto presso la federazione sportiva nazionale per l’approvazione. Le eventuali clausole contenenti deroghe peggiorative sono sostituite di diritto da quelle del contratto tipo. Nel contratto individuale dovrà essere prevista la clausola contenente l’obbligo dello sportivo al rispetto delle istruzioni tecniche e delle prescrizioni impartite per il conseguimento degli scopi agonistici. Nello stesso contratto potrà essere prevista una clausola compromissoria con la quale le controversie concernenti l’attuazione del contratto e insorte fra la società sportiva e lo sportivo sono deferite ad un collegio arbitrale. La stessa clausola dovrà contenere la nomina degli arbitri oppure stabilire il numero degli arbitri e il modo di nominarli. Il contratto non può contenere clausole di non concorrenza o, comunque, limitative della libertà professionale dello sportivo per il periodo successivo alla risoluzione del contratto stesso né può essere integrato, durante lo svolgimento del rapporto, con tali pattuizioni. Le federazioni sportive nazionali possono prevedere la costituzione di un fondo gestito da rappresentanti delle società e degli sportivi per la corresponsione della indennità di anzianità al termine dell’attività sportiva a norma dell’articolo 2123 del codice civile. Ai contratti di cui al presente articolo non si applicano le norme contenute negli articoli 4, 5, 13, 18, 33, 34 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e negli articoli 1, 2, 3, 5, 6, 7, 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604. Ai contratti di lavoro a termine non si applicano le norme della legge 18 aprile 1962, n. 230. L’articolo 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, non si applica alle sanzioni disciplinari irrogate dalle federazioni sportive nazionali». Dalla lettura dell’art. 4 è, prima di tutto, possibile comprendere quali sono le parti contraenti: da un lato, gli atleti professionisti e, dall’altro, le società sportive di cui all’art. 10, legge n. 91/1981, in base al quale, solo le società per azioni e a responsabilità limitata possono stipulare contratti di lavoro con gli atleti professionisti. La costituzione del rapporto avviene con la stipulazione di un contratto redatto in forma scritta 159, a pena di nullità, tra lo sportivo e la società, secondo il

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Nell’imporre alle parti il ricorso alla forma scritta ad substantiam, l’art. 4, comma 1, prefigura un onere che non si riscontra per l’ordinario contratto di lavoro, rispetto al quale opera il generale principio di libertà delle forme. La ragione di tale scelta sembra doversi individuare, oltre che nella tutela del lavoratore, anche nell’esigenza di agevolare il controllo delle Federazioni sull’ope-

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contratto tipo predisposto, conformemente all’accordo stipulato, ogni tre anni dalla Federazione sportiva nazionale di riferimento e dai rappresentanti delle categorie interessate. Quindi, ai sensi del comma 1 dell’art. 4, il rapporto inter partes si costituisce a titolo oneroso e mediante assunzione diretta, ribadendo da un lato, il principio, già espresso all’art. 3, dell’incompatibilità tra rapporto di lavoro subordinato e gratuità del rapporto stesso e, dall’altro lato, quello dell’inapplicabilità della normativa sul collocamento obbligatorio disciplinato dalla legge n. 294/1949 160. Nei suoi primi due commi, l’art. 4 specifica i requisiti di forma del contratto che, quindi, deve essere stipulato per iscritto, a pena di nullità; essere secondo il contratto “tipo”; essere conforme all’accordo stipulato ogni tre anni dalla Federazione e dai rappresentanti delle categorie interessate e, depositato presso la Federazione competente per riceverne l’approvazione, vista come una vera e propria condicio iuris che incide sulla produzione degli effetti voluti dalle parti. La prima differenza tra il regime del rapporto di lavoro sportivo e quello comune sta proprio nel richiamato requisito della forma scritta, in contrasto col generico principio di libertà delle forme, requisito tra l’altro richiesto ad substantiam ossia ai fini della stessa validità del contratto di lavoro dello sportivo 161. In realtà, la nullità del contratto per mancanza della forma scritta ha portato la dottrina a valutare se la prescrizione riguardi soltanto i contratti con gli atleti o anche quelli con le altre figure di lavoratori sportivi contemplate nell’art. 2, anche in virtù del collegamento tra il contratto di prestazione sportiva a titolo oneroso di cui al comma 1 dell’art. 4 e l’articolo immediatamente precedente. La soluzione a cui sembra approdare la dottrina si radica sul fatto che l’art. 4, se è vero che fa riferimento al rapporto di prestazione sportiva a titolo oneroso, specifica anche che lo stesso sia stipulato tra lo sportivo e la società destinataria rato delle singole società e per garantire maggiore certezza e celerità nella risoluzione di possibili controversie tra atleti e sodalizi sportivi con effetti sicuramente positivi sull’andamento dell’attività agonistica, cadenzata nella maggior parte dei casi su impegni ripetuti e ravvicinati nel tempo. Così, M. SANINO-F. VERDE, Il diritto sportivo, cit., p. 233. 160 Il professionista può, quindi, negoziare direttamente, o a mezzo di cosiddetto procuratore, la stipulazione del contratto con la società sportiva. Il ricorso alle figure degli agenti e dei procuratori nella negoziazione dei contratti sportivi è prassi ormai diffusa e dettagliatamente regolata a livello federale. Si vedano i Regolamenti degli agenti-procuratori della FIGC e della FIP, rinvenibili rispettivamente, alle pagine web www.figc.it e www.fip.it. In particolare, G. VIDIRI, La disciplina del lavoro autonomo e subordinato, cit., p. 214, osserva che «nel settore calcistico si assiste ad una progressiva crescita del potere dei procuratori che, in alcuni casi, può arrivare a condizionare la politica gestionale e, finanche la sorte, dello stesso sodalizio sportivo». 161

La teoria secondo cui la forma scritta sarebbe richiesta ai fini della stessa validità del contratto è sostenuta in dottrina da E. CARINGELLA, Brevi considerazioni in tema di forma del contratto di lavoro sportivo, in Riv. dir. Sportivo, 1994, p. 686. In giurisprudenza, cfr. Trib. Perugia, 21 maggio 1993, in Giust. civ., 1993, I, p. 2837, secondo cui la difformità del contratto di lavoro sportivo dal contratto tipo comporta effetti sanzionatori solo all’interno dell’ordinamento sportivo.

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delle prestazioni sportive, non autorizzando alcuna distinzione tra l’atleta e le altre figure di sportivi professionisti contemplati all’art. 1; né può essere considerato illuminante il riferimento specifico solo all’atleta del successivo comma 4 dello stesso articolo, secondo cui il contratto individuale deve prevedere l’obbligo dello sportivo al rispetto delle istruzioni tecniche e delle prescrizioni impartite per il conseguimento degli scopi agonistici. Pertanto, si arriva pacificamente a riconoscere come la disposizione in esame non solo attiene unicamente al lavoro subordinato, non solo riguarda tutti gli sportivi professionisti, ma si applica soltanto per i contratti tra questi e le società sportive, e non anche per i rapporti tra gli sportivi e le Federazioni sportive, sottoposti ad una diversa regolamentazione 162. Inoltre, con due sentenze ravvicinate la Suprema Corte ha avuto modo di chiarire che la nullità del contratto deve essere comminata non solo per la carenza di forma scritta, ma anche qualora si sia in presenza delle altre violazioni delle prescrizioni dettate dall’art. 4 163. Non a caso, infatti, anche nell’ipotesi di difetto di conformità del contratto individuale rispetto all’accordo collettivo, sono stati sollevati dubbi di legittimità costituzionale, con riguardo al comma 4 dell’art. 39 Cost., sostenendo che il sistema di contrattazione collettiva creato dalla legge n. 91/1981 introduce una forma di contrattazione sindacale con efficacia erga omnes, in difformità da quanto previsto dalla norma costituzionale. Ciò significa che lo sportivo, attesa l’assenza di un pluralismo sindacale di categoria, si ritrova nella situazione di dover aderire a politiche e scelte sindacali che non sempre condivide, o, in alternativa di rinunciare all’attività sportiva professionistica. Proseguendo nell’esame delle formalità richieste dall’art. 4, il contratto deve essere, poi, depositato presso la competente Federazione ai fini 162

Sul punto cfr. Cass., sez. lav., 13 aprile 1995, n. 4219, in Riv. dir. Sportivo, 1996, p. 332 in cui la Suprema Corte specifica: «esatta deve ritenersi la decisione del giudice di merito in ordine all’eccezione di nullità del rapporto per mancanza della forma scritta, prevista a pena di nullità dall’art. 4 legge 23 marzo 1981, n. 91. A parte il rilievo che nella specie trattasi di un rapporto sorto anteriormente alla legge suddetta, vi è da osservare che, secondo la dottrina, la specifica disciplina dettata dalla legge sul lavoro sportivo (compresa la sanzione della nullità dei contratti non stipulati per iscritto) si applica ai rapporti tra sportivi professionisti e società e non si può estendere ai distinti rapporti con le federazioni sportive». 163

Entrambe le sentenze si riferiscono ad ipotesi dei cosiddetti patti aggiunti, ossia a quegli accordi cui normalmente si fa ricorso negli sport professionistici e che vengono stipulati tra atleti e società contemporaneamente o successivamente al contratto di lavoro, i quali, pur rispettosi della forma scritta, non sono sottoscritti sugli appositi moduli, ovvero non sono depositati in Federazione. Cfr. Cass., 4 marzo 1999, n. 1855, in Giust. civ., 1999, I, p. 1611, che ha affermato che l’iter di formazione del contratto (dalla stipula all’approvazione federale) costituisce una «fattispecie formale complessa a formazione progressiva»; e Cass., 12 ottobre 1999, n. 11462, in Riv. dir. Sportivo, 1999, p. 530, che, in modo parzialmente difforme dalla precedente decisione, ha invece statuito che l’approvazione della Federazione rappresenta una condicio iuris del contratto e che, pertanto, il contratto privo di approvazione non è nullo, ma solo incapace di produrre effetti. Ciò che, a parere della Corte, consentirebbe anche un’approvazione successiva e con effetti ripristinatori.

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dell’approvazione con finalità di controllo sia della legittimità che del merito del contratto 164. Nell’ottica di tutela del requisito di conformità del contratto individuale al contratto tipo, inoltre, il comma 3 dell’art. 4 prevede una sostituzione automatica delle clausole peggiorative del contratto individuale con quelle del contratto tipo, richiamando, seppur indirettamente la disciplina codicistica dettata dall’art. 2077, comma 2, c.c. con la funzione di proteggere la parte contrattualmente più debole, ossia il lavoratore sportivo, che potrebbe essere indotta, in ragione di tale debolezza a sottoscrivere clausole peggiorative 165. Quindi, non può non ritenersi che, alla luce della disciplina di settore posta dagli artt. 4 e 12 della legge n. 91/1981 per la regolamentazione dei rapporti nell’ordinamento sportivo, sono affetti da nullità i contratti aventi ad oggetto non solo l’assunzione di un giocatore, ma anche eventuali patti aggiunti, qualora stipulati in modo non conforme al contratto tipo. Tale nullità, che chiaramente persegue la finalità di assicurare un immediato ed effettivo controllo del contratto da parte delle Federazioni, può anche essere rilevata d’ufficio dal Giudice 166. Proprio in considerazione della finalità di tutela predisposta, si riconosce come la non conformità ai modelli ed alle prescrizioni della Federazione sportiva di appartenenza, dei contratti stipulati tra società sportive per lo svolgimento delle proprie attività istituzionali, generi la nullità del contratto non per violazione delle norme imperative, ma per inidoneità del negozio a realizzare uno scopo meritevole di tutela. Non può, infatti, ritenersi idoneo, sotto il profilo di meritevolezza della tutela dell’interesse perseguito dai contraenti, un contratto posto in essere in frode alle regole dell’ordinamento sportivo e senza l’osservanza delle prescrizioni formali all’uopo richieste, e, come tale, idoneo ad attuare la sua funzione proprio in quell’ordinamento sportivo nel quale detta funzione deve esplicarsi. Il successivo comma 4, prevede ancora l’inserimento obbligatorio nel contratto individuale di una clausola che vincoli il professionista al rispetto delle istruzioni tecniche e delle prescrizioni impartite dalla società 167 che, dal canto suo, ha l’obbligo di 164

La norma va letta in combinato disposto con l’art. 12 della legge n. 91/1981 che recita: «Al solo scopo di garantire il regolare svolgimento dei campionati sportivi, le società di cui all’articolo 10 sono sottoposte, al fine di verificarne l’equilibrio finanziario, ai controlli ed ai conseguenti provvedimenti stabiliti dalle federazioni sportive, per delega del CONI, secondo modalità e princìpi da questo approvati». 165 Nel silenzio della legge, si ritiene che sia consentita l’introduzione nel contratto individuale di previsioni migliorative, rispetto a quelle del contratto tipo, a favore del lavoratore sportivo. L’Accordo Collettivo tra FIP, Lega e GIBA accoglie espressamente questa previsione all’art. 8.3: «sono, altresì nulle ed improduttive di effetto le pattuizioni peggiorative rispetto alle disposizioni del presente accordo». 166 167

Cfr. Cass., sez. lav., 4 marzo 1999, n. 1855, in Giust. civ., 1999, fasc. 6.

Il professionista è, altresì, vincolato al rispetto dei regolamenti sportivi richiamati negli accordi collettivi e nei contratti tipo, dalla Federazione cui il tesserato è vincolato da un rapporto associativo di affiliazione, per il conseguimento degli scopi agonistici.

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consentire all’atleta di partecipare agli allenamenti e alla preparazione atletica, diritto riconosciuto sia dalla giurisprudenza che dagli accordi collettivi e dai contratti tipo e limitato ai soli allenamenti 168. Nel contratto individuale di lavoro dello sportivo, il comma 5 dell’art. 4, legge n. 91/1981, prevede la possibilità di inserire una clausola compromissoria, diretta a deferire ad un collegio arbitrale le controversie insorte tra atleti e società concernenti l’attuazione del contratto. Tale clausola, che se apposta deve contenere il numero e le modalità di nomina degli arbitri, è facoltativa, carattere che viene in concreto disatteso attraverso l’introduzione di essa nei contratti collettivi, ovvero con la previsione dell’obbligo delle parti di rispettare le norme regolamentari della Federazione competente, nelle quali è sempre contenuta una generale clausola compromissoria che gli associati si impegnano a rispettare, pena l’esclusione dalla Federazione medesima 169. Ispirata poi alla volontà di non limitare la “mobilità” dei professionisti in un’attività come quella sportiva in cui l’elemento concorrenziale è una delle caratteristiche principali, è la previsione contenuta al comma 6 dell’art. 4 che prevede un generale divieto di stipulazione o di successiva introduzione nel contratto individuale, di clausole di non concorrenza per il periodo successivo alla risoluzione del contratto 170. In vero, già nel corso del rapporto, lo sportivo è tenuto, in ragione dell’obbligo di fedeltà di cui all’art. 2105 c.c., a svolgere la propria attività unicamente a favore della società dalla quale dipende, ad esclusione degli impegni con la squadra nazionale. Una tale previsione si comprende ancora meglio alla luce del dettato dell’art. 16 della legge n. 91/1981 con il quale il legislatore ha proceduto alla definitiva abolizione, per i professionisti, del cosiddetto “vincolo sportivo” 171, nonché alla luce dell’art. 1 della stessa legge che, in 168 Per il riconoscimento del suo diritto ad allenarsi, l’atleta può ricorrere, e di fatto sovente è ricorso, alla tutela cautelare ordinaria. Per tutte cfr. Trib. Roma, ord., 3 agosto 1994, in Riv. dir. Sportivo, 1995, p. 638 che ha affermato che «l’immotivata esclusione dalla preparazione e dagli allenamenti reca pregiudizio al rendimento professionale del giocatore, alla sua quotazione, all’immagine di atleta, al futuro professionale ...». L’Accordo collettivo tra FIGC, LNP e AIC sancisce il diritto del calciatore di partecipare agli allenamenti all’art. 7.1, prevedendo, al successivo art. 11, la possibilità che egli ne venga escluso solo a seguito di sanzione disciplinare inflitta secondo le procedure di cui pure all’art. 11, in caso di inadempimenti contrattuali da parte dell’atleta. L’art. 10, poi, disciplina, in modo più dettagliato le istruzioni tecniche, gli obblighi e le regole di comportamento in capo al calciatore nel rapporto con la società. 169 Si è molto discusso in dottrina in merito alla natura rituale o irrituale da attribuire all’arbitrato. Quanto al calcio, la questione è stata risolta definitivamente dall’art. 21.1 dell’Accordo collettivo tra FIGC, LNP e AIC ove si legge che il Collegio Arbitrale «si pronuncerà in modo irrituale». 170 In vero, l’art. 2.2 dell’Accordo collettivo tra FIGC, LNP e AIC, dopo aver recepito il divieto, ammette comunque l’introduzione nei contratti individuali di patti di opzione (ma non di prelazione) sia a favore del calciatore, sia della società, a condizione però che sia previsto un corrispettivo per l’opzione e che la durata complessiva del contratto non superi i termini massimi imposti dalla legge. 171 Successivamente abrogato nello sport “professionistico” attraverso la novella legislativa n. 586/1996.

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maniera ancora più generica, sancisce il principio del libero esercizio dell’attività sportiva anche professionistica. In realtà, quella del vincolo sportivo, esperienza ormai comune a tutti i campionati dilettantistici delle varie Federazioni, solleva ancora dubbi da parte della dottrina sportiva in merito alla natura giuridica e al rapporto con i principi costituzionalmente garantiti dall’ordinamento, atteso che, se da un lato il tesseramento che l’atleta sottoscrive a mezzo di apposito modulo federale è atto prodromico ed essenziale alla stessa pratica agonistica, dall’altro tale atto, paradossalmente, compromette il diritto fondamentale a svolgere una pratica libera, attesa la sostanziale indeterminatezza del vincolo. Anche se, ad onor del vero, è il caso di segnalare come, di recente, le Federazioni sportive abbiano adottato dei contemperamenti all’indeterminatezza dell’istituto 172. Originariamente, l’intento del legislatore era quello di voler conciliare la ratio dell’istituto dello svincolo con un’iniziale concezione collettivistica e statalista dello sport che rinveniva la ragion d’essere del vincolo nel principio intangibile dell’autonomia regolamentare, anche se la dottrina più attenta ne ha inteso esaltare la natura più prettamente contrattualistica 173 anche alla luce degli espressi poteri di diritto privato conferiti alle Federazioni dalla c.d. legge Melandri del 1999. Confortati dalle pronunce giurisprudenziali, si arriva a riconoscere i regolamenti federali disciplinanti i rapporti tra società affiliate e tesserati come veri e propri atti di autonomia privata che rinvengono la loro genesi proprio nell’iniziale manifestazione di volontà di ciascuno degli atleti di aderire, e per l’effetto di sottostare, alle disposizioni federali 174. In questa prospettiva il tesseramento diventa estremamente importante, perché costituisce il negozio in base al quale l’atleta entra a far parte dell’organizzazione federale, e con il quale il corpus normativo interno dell’associazione acquista efficacia nei confronti dell’affiliato 175. Quello del vincolo è un elemento capace di atteggiarsi come “equilibratore” del rappor-

172 Si pensi, ad esempio, alla FIGC che ha previsto, nel settore dilettanti, lo svincolo dietro istanza al compimento del 25° anno di età; così come dall’1 luglio 2006 e con regime transitorio fino al 2010 è in vigore un complesso meccanismo di svincolo in ambito FIP, al compimento del 21° anno di età dell’atleta. 173 S.N. CALZONE, Osservazioni sul CONI, le federazioni sportive nazionali e le società sportive alla luce del d.lgs. n. 242 del 1999, in Riv. dir. Sportivo, 2000, II, p. 583; G. NAPOLITANO, La nuova disciplina dell’organizzazione sportiva italiana: prime considerazioni sul d.lgs. 23 luglio 1999 n. 242, di “riordino” del CONI, in Riv. dir. Sportivo, 1999, III, p. 617; G. NAPOLETANO, La riforma del CONI e delle Federazioni sportive (d.lgs. 23 luglio 1999 n. 242), in Giornale dir. amm., 2000, I, p. 113. 174 È in tale solco che si muove la dottrina più sensibile che ritiene il vincolo sportivo un effetto negoziale del tesseramento, a sua volta qualificato come contratto associativo aperto. 175

Cfr. G. VOLPE PUTZOLU, Sui rapporti fra giocatori di calcio e associazioni sportive e sulla natura della c.d. “cessione del giocatore”, in Riv. dir. comm., n. 15, 1966, secondo la quale i rapporti che si instaurano tra i soggetti del mondo sportivo in forza dei quali gli atleti entrano a far parte dell’organizzazione, ne accettano le norme regolamentari e disciplinari, sono di natura negoziale.

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to tra la società e l’atleta, rapporto molte volte di natura conflittuale e caratterizzato da interessi contrapposti, perché, se da un lato il vincolo si atteggia come vero e proprio serbatoio per l’intero movimento sportivo, dall’altro diventa ostacolo insormontabile per le aspirazioni di crescita di un giovane atleta. Parte della dottrina 176 ha sollevato non poche perplessità in ordine alla liceità dell’istituto, anche e soprattutto sotto il profilo della limitazione dei diritti costituzionalmente garantiti dell’atleta. In particolare, il vincolo sportivo indeterminato e quindi irragionevole, potrebbe comportare la violazione del diritto di praticare, senza difficoltà, la propria attività agonistica, come sancito dai principi generali dell’ordinamento e rinvenibile positivamente nelle diverse libertà individuali e sociali stabilite dalla Carta costituzionale, nonché dallo stesso art. 1 della legge n. 91/1981 secondo cui «l’esercizio dell’attività sportiva, sia essa svolta in forma individuale o collettiva, sia in forma professionistica o dilettantistica, è libero». Un vincolo, così concepito, sarebbe lesivo, inoltre, della stessa libertà di associazione tutelato dall’art. 18 Cost., nonché dall’art. 11 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (legge 4 agosto 1955, n. 848) e dall’art. 22 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (legge 25 ottobre 1977, n. 881). Ma, ancora più grave sarebbe la compressione del diritto, espressione di un elementare principio dell’ordinamento liberale e democratico, di recedere dall’associazione qualora l’associato non abbia assunto l’obbligo di farne parte per un tempo determinato, secondo quanto previsto dall’art. 24 c.c. D’altra parte, però, l’eliminazione completa ed integrale dell’istituto del vincolo creerebbe scompiglio all’interno dello stesso sistema sportivo. Pertanto, delicato è stato l’intervento di modifica apportata alla legge n. 91/1981 dal d.l. 20 settembre 1996, n. 485 – convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 18 novembre 1996, n. 586 – con il quale sono state apportate significative modifiche alla legge del 1981 ed, in particolare, al regime del vincolo sportivo professionistico che, all’art. 16 della legge n. 91/1981 oggi viene così trattato: «Le limitazioni alla libertà contrattuale dell’atleta professionista, individuate come vincolo sportivo nel vigente ordinamento sportivo, saranno gradualmente eliminate entro cinque anni dalla data di entrata in vigore della presente legge, secondo modalità e parametri stabiliti dalle Federazioni sportive nazionali e approvati dal CONI, in relazione all’età degli atleti, alla durata e al contenuto patrimoniale del rapporto con le società». Il modificato art. 16 ha realizzato un vero e proprio “svincolo” dello sportivo professionista che, liberato dalle catene della passata e superata disciplina, non subisce più limitazioni della

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Ex multis cfr. E. BERNARDI CROCETTI, Quando il dilettante è a tempo pieno, in Il Sole 24 Ore sport, 2-15 febbraio 2012, p. 28. Ad esempio, laddove provato che il rapporto che avvince l’atleta alla società sportiva sia di natura subordinata, si avrebbe una palese illegittimità dell’attuale disciplina sportiva, in particolare in relazione alle guarentigie dell’art. 2118 c.c., che prevede il diritto di recesso unilaterale del lavoratore impiegato in un rapporto di subordinazione.

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propria libertà contrattuale. La ratio di una tale presa di posizione da parte del legislatore si ritrova all’interno della stessa legge n. 91/1981 ed in particolare nella stessa definizione di atleta professionista contenuta all’art. 2 della stessa legge. Il vincolo del passato che, seppur incredibilmente, ha visto convivere la prestazione sportiva oggetto di un contratto di lavoro subordinato (o autonomo) e l’impossibilità di stipulare il detto contratto se non con il consenso della società sportiva di appartenenza, è stato eliminato per gli atleti professionisti e rimasto, anche se limitato al 25° anno di età dell’atleta, per tutti i dilettanti 177. La scelta operata dal legislatore ha sollevato comunque non poche perplessità soprattutto con riferimento alle norme costituzionali e alla ingiustificata disparità tra società ed atleta tesserato che, soggetto debole del rapporto, si trova a non poter intraprendere l’attività professionistica se non contrattandola con la società ed ovviamente alle condizioni imposte da quest’ultima. Un accenno merita il fenomeno della cessione del contratto e del trasferimento del professionista, tema che ha suscitato per lungo tempo l’interesse della dottrina sportiva la quale ha espressamente riconosciuto la possibilità di cessione di contratti a termine, prima della scadenza, tra due società, con il consenso dello sportivo interessato, dietro il versamento di congrui compensi. Qualora, diversamente, il trasferimento venga disposto alla scadenza del contratto, da questo scaturisce il diritto all’incasso di una indennità di preparazione e promozione, per la società sportiva titolare del precedente contratto, determinata in base a precisi parametri e a carico della società firmataria del nuovo contratto. Referente normativo dell’istituto del trasferimento è l’art. 5, comma 2, che, nel riconoscere che il contratto, prima della scadenza, può essere ceduto, con il consenso dello sportivo, da una società ad altra, con le modalità stabilite dalle Federazioni, sposa la tesi della ces-

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Si veda, al riguardo, la relativa disposizione della NOIF della FIGC: «Art. 32-bis – Durata del vincolo di tesseramento e svincolo per decadenza: 1. I calciatori che, entro il termine della stagione sportiva in corso, abbiano anagraficamente compiuto ovvero compiranno il 25° anno di età, possono chiedere ai Comitati ed alle Divisione di appartenenza, con le modalità specificate al punto successivo, lo svincolo per decadenza del tesseramento, fatta salva la previsione di cui al punto 7 del successivo articolo 94 ter. 2. Le istanze, da inviare, a pena di decadenza, nel periodo ricompreso tra il 15 Giugno ed il 15 Luglio di ciascun anno, a mezzo lettera raccomandata o telegramma, dovranno contestualmente essere rimesse in copia alle società di appartenenza con lo stesso mezzo. In ogni caso, le istanze inviate a mezzo lettera raccomandata o telegramma dovranno pervenire al Comitato o alla Divisione di appartenenza entro e non oltre il 30 luglio di ciascun anno. Avverso i provvedimenti di concessione o di diniego dello svincolo, le parti direttamente interessate potranno proporre reclamo innanzi alla Commissione Tesseramenti, entro il termine di decadenza di 7 giorni dalla pubblicazione del relativo provvedimento sul Comunicato Ufficiale, con le modalità previste dall’art. 44 del Codice di Giustizia Sportiva. 3. Relativamente ai calciatori tesserati per società partecipanti al “Campionato Carnico”, le istanze di cui al precedente punto 2 dovranno essere presentate entro e non oltre il termine di decadenza di trenta giorni dalla conclusione del medesimo Campionato».

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sione del contratto ex art. 1406 c.c. 178. In particolare, è escluso che al contratto di cessione di uno sportivo possa applicarsi l’art. 4 della legge n. 91/1981, riconoscendo che la fattispecie è, invece, espressamente contemplata al successivo art. 5 che al comma 2 recita: «È ammessa la cessione del contratto, prima della scadenza, da una società sportiva ad un’altra, purché vi consenta l’altra parte e siano osservate le modalità fissate dalle federazioni sportive nazionali».

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In vero, sul tema numerosi e differenziati sono stati gli interventi della dottrina e della giurisprudenza che, anteriormente alla risistemazione della materia da parte della legge n. 91/1981, con la sentenza del 28 ottobre 1960 del Trib. Firenze, in Foro it. Rep., 1961, voce Sport, n. 17, aveva attribuito natura “contrattuale” alla cessione di un calciatore ritenendola valida ed efficace tra le parti, senza necessità del consenso del giocatore interessato. Secondo la Corte d’appello di Lecce, invece, 31 gennaio 1959, ivi, 1959, voce cit., n. 7, si trattava di un negozio atipico, ritenendo che potesse configurarsi un negozio complesso, costituito dalla rinuncia al vincolo, dietro corrispettivo – pagato dalla cessionaria – da parte della società cedente, accompagnata dalla adesione del giocatore che sarebbe stato compensato, per l’accettazione, da un premio di passaggio.

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CAPITOLO SECONDO

Doping e diritti audiovisivi SOMMARIO: SEZIONE I. Il doping. – 1. Il doping, fenomeni e regolamentazione. – 1.1. I casi affrontati dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria. – SEZIONE II. I diritti di trasmissione audiovisivi. – 2. Lo sport come spettacolo. – 2.1. I diritti audiovisivi sportivi. – 2.2. Il diritto all’immagine nello sport.

SEZIONE I

Il doping

1. Il doping, fenomeni e regolamentazione Il doping, dall’inglese to dope drogare, rappresenta purtroppo una delle piaghe sociali più largamente diffuse nel mondo dello sport, un fenomeno planetario che l’ordinamento giuridico internazionale condanna e sanziona. Numerose sono state, pertanto, le strategie di lotta all’uso di sostanze dopanti prescelte dal legislatore tra cui, in ultimo, la legge n. 376/2000 che rappresenta uno spartiacque tra la disciplina precedente e una nuova visione d’intervento. La pratica del doping ha cominciato a trovare diffusione già intorno agli anni ’90 1 quando, pur nell’incertezza della definizione del fenomeno, dovuta anche alle notevoli differenze tra le diverse sostanze dopanti utilizzate, si è arrivati a riconoscere pacificamente come il ricorso a comportamenti che provocano in modo artificioso un miglioramento delle prestazioni dell’atleta, compromettendone in maniera significativa la salute, costituisca un attentato alla stessa natura dell’attività sportiva. L’atleta che fa uso di sostanze dopanti acquisisce momentaneamente una potenza energetica finalizzata a garantire performances sportive 1 Risalgono a quell’epoca i casi dell’olimpionico Ben Johnson (1988), dei calciatori italiani Peruzzi e Carnevale (1990), di Maradona (1991), del pugile Gianfranco Rosi, della campionessa di salto in alto Antonella Bevilacqua (1996).

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migliori rispetto a quelle ottenibili in base alle potenzialità naturali, tenendo, così, un comportamento sleale e fraudolento, nonché lesivo di tutti gli ideali di cui lo sport si fa portatore e promotore. Quindi, prima ancora di essere inquadrato come abuso farmacologico, il doping, può esser visto come il più grande nemico dello sportivo, quel flagello che altera, inutilmente, il vero volto dello sport 2. L’ordinamento giuridico italiano già a partire dagli anni ’50, con la legge n. 1055/1950, aveva affidato la tutela sanitaria delle attività sportive alla Federazione medico-sportiva italiana, affiliata al CONI 3, competente anche a rilasciare certificazioni e diplomi in ambito sportivo sanitario. Successivamente, negli anni ’70, l’ordinamento sportivo assisteva all’avvento della legge 26 ottobre 1971, n. 1099 che pur nascendo con l’espresso intento di contrastare il fenomeno del doping, si rivelava del tutto inadeguata, focalizzando l’attenzione più sull’aspetto sanzionatorio che di prevenzione 4, individuando specifiche responsabilità per 2 Il fenomeno del doping non sembra, purtroppo, incontrare battute d’arresto, tant’è che un sondaggio della rivista americana Sport Illustrated ha svelato che quasi tutti gli atleti sarebbero disposti ad assumere sostanze proibite se avessero la garanzia di non essere scoperti e che, pur di vincere una medaglia olimpica, più della metà di loro ricorrerebbe a farmaci, addirittura anche se la conseguenza fosse la morte dopo qualche anno. 3

Legge 28 dicembre 1950, n. 1055 (in Gazz. Uff., 9 gennaio 1950, n. 6). Tutela sanitaria delle attività sportive. Art. 1: «La tutela sanitaria delle attività sportive è affidata alla Federazione medico-sportiva italiana affiliata al CONI, ed è sottoposta alle direttive ad alla vigilanza dell’Alto commissariato per l’igiene e la sanità pubblica». Nello specifico, l’art. 3 della richiamata disposizione stabiliva per gli aspiranti atleti un controllo sanitario obbligatorio e limiti relativi all’età e al sesso, fissando pene pecuniarie in caso di inosservanza. Art. 3: «Chiunque intenda esercitare professionalmente o comunque, seppure da “dilettante”, con retribuzione abituale, una attività sportiva, deve essere munito di un certificato attestante l’idoneità fisica specifica allo sport che si propone di praticare, da rilasciarsi da una Commissione composta da medici effettivi designati dalla Federazione medico-sportiva italiana. Tale certificato, valido per un anno, costituisce requisito per l’ammissione alle prove relative, ancorché non rivestenti carattere agonistico. Tale certificato è necessario anche per coloro che intendono esercitare da dilettante e senza alcuna remunerazione pecuniaria le seguenti attività sportive: pugilato, atletica pesante, gare ciclistiche particolarmente gravose, sport motoristici, sports subacquei. In caso di inosservanza della disposizione di cui al comma precedente si applica a carico dell’organizzatore della manifestazione sportiva l’ammenda da lire 10.000 a lire 50.000, ed a carico dello sportivo l’esclusione da qualsiasi prova per un periodo da un mese ad un anno. In caso di recidiva l’ammenda è raddoppiata». 4

Legge 26 ottobre 1971, n. 1099 (in Gazz. Uff., 23 dicembre 1971, n. 324) Art. 1. «La tutela sanitaria delle attività sportive spetta alle regioni che la esercitano secondo un programma le cui finalità e contenuti corrisponderanno ai criteri di massima fissati dal Ministero della sanità con il concorso delle regioni stesse. In attesa che le regioni esercitino le competenze previste dagli articoli 117 e 118 della Costituzione in materia sanitaria, la tutela sanitaria di coloro che praticano attività sportive spetta al Ministero della sanità, che si avvale della collaborazione del Comitato olimpico nazionale italiano». Art. 2: «La tutela sanitaria si esplica mediante l’accertamento obbligatorio, con visite mediche di selezione e di controllo periodico, dell’idoneità generica e della attitudine di chi intende

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gli atleti partecipanti a competizioni sportive, che impiegavano, al fine di modificare artificialmente le loro energie naturali, le sostanze dopanti, o anche, per coloro che somministravano agli atleti le suddette sostanze ed, in ultimo, alle società od associazioni di appartenenza, per le quali la sanzione stabilita risultava particolarmente gravosa 5. Nonostante l’impostazione proibizionista e sanzionatoria prescelta dal legislatore, sul finire degli anni ’80, il mondo dello sport ha assistito ad una significativa diffusione del fenomeno del doping a cui l’ordinamento ha risposto con uno degli interventi normativi maggiormente ricordati nella storia del doping: la Convenzione di Strasburgo del Consiglio d’Europa, del 16 novembre 1989, resa esecutiva in Italia solo nel 1995 con la legge n. 522 6, cui è finalmente conseguita l’introduzione nel nostro ordinamento di una disciplina organica in una materia, quale quella in questione, che era stata sino ad allora solo frammentariamente trattata. Il merito della richiamata Convenzione, è stato, prima di tutto, quello di fornire una chiara definizione del doping nell’ambito sportivo, individuando le classi farmacologiche e i metodi di doping, svolgere o svolge attività agonistico sportive. Le visite mediche sono gratuite, tranne per coloro che svolgono professionalmente attività agonistica. Con decreto del Ministro per la sanità, sentito il Comitato olimpico nazionale italiano, vengono emanate, entro sei mesi dalla data di pubblicazione della presente legge, le norme regolamentari volte a disciplinare le modalità di esercizio della tutela per le singole attività sportive, con particolare riferimento all’età’, al sesso ed alla qualifica dilettantistica o professionistica di coloro che praticano le rispettive attività, nonché a prevedere i casi in cui sono obbligatorie le visite prima e dopo le gare in relazione al rischio ed al carico al quale viene sottoposto l’atleta. I contravventori alle disposizioni contenute nel decreto di cui al precedente comma sono puniti, indipendentemente dalle sanzioni di carattere sportivo, con l’ammenda da lire 50.000 a lire 500.000. Gli organi sanitari designati dalla Regione e, sino al termine stabilito nel secondo comma dell’articolo 1, i medici provinciali, possono affidare il compito di effettuare le visite agli ufficiali sanitari, ai medici condotti, ai medici scolastici ed ai medici della Federazione medico-sportiva italiana proposti dal Comitato olimpico nazionale italiano, incaricando in linea prioritaria e preferenziale i sanitari che hanno una qualificazione in campo medico-sportivo. Con decreto del Ministro per la sanità, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, sarà stabilito il compenso per le visite di cui al presente articolo e per i prelievi di cui al successivo articolo 5». 5 Legge 26 ottobre 1971, cit. Art. 3. «Gli atleti partecipanti a competizioni sportive, che impiegano, al fine di modificare artificialmente le loro energie naturali, sostanze che possono risultare nocive per la loro salute e che saranno determinate col decreto di cui al successivo articolo 7, sono puniti con l’ammenda da lire 50.000 a lire 500.000. Chiunque somministra agli atleti che partecipano a competizioni sportive le sostanze di cui al precedente comma, al fine di modificare artificialmente le loro energie naturali, è punito con l’ammenda da lire 100.000 a lire 1 milione. Se il fatto è commesso dai dirigenti delle società o associazioni sportive cui appartengono gli atleti, dagli allenatori degli atleti partecipanti alle gare o dai commissari tecnici, l’ammenda è triplicata. L’ammenda è altresì triplicata per coloro che commettono il reato nei confronti dei minori di anni 18». 6 Legge 29 novembre 1995, n. 522 (in Gazz. Uff., Suppl. ordinario, 9 dicembre 1995, n. 287) “Ratifica ed esecuzione della convenzione contro il doping, con appendice fatta a Strasburgo il 16 novembre 1989”.

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«incoraggiando le organizzazioni sportive internazionali e nazionali ad una lotta senza quartiere» 7. Non a caso, infatti, in allegato alla Convenzione vengono elencate le classi farmacologiche di sostanze e di metodi di doping, recependosi, per la verità, la lista già messa a punto dal Comitato Internazionale Olimpico nell’aprile del 1989 8. Più o meno contemporaneamente, sul fronte nazionale si assisteva all’avvento della legge n. 481/1989, tra i cui meriti si sottolinea l’introduzione del “reato di frode in competizioni sportive”, reato commesso da chi, al fine di raggiungere un risultato diverso da quello che deriverebbe dal corretto e leale svolgimento della competizione, compie atti fraudolenti volti a tale scopo 9. L’intervento del legislatore, anche sulla scia di una sempre più stringente collaborazione ed interazione a livello europeo nonché internazionale, è culminato con la emanazione della legge 14 dicembre 2000, n. 376 10 che sembra essere riuscita a garantire un adeguato coniugio tra i beni-obiettivi tutelati, la salute dell’atleta e il dibattito sul fenomeno del doping sportivo. L’auspicato intervento normativo, ha assunto rilevanza soprattutto perché è riuscito a coinvolgere ed armonizzare nella sua attuazione concreta, sia organismi statali che sportivi, annientando il limite dell’autonomia ordinamentale di quest’ultimi per rendere il più efficace possibile la lotta ad un fenomeno devastante e, apparentemente, incontrollabile. La portata innovativa della disposizione si comprende già dalla nozione di doping che viene fornita, una nozione che non resta vincolata alla sua pericolosità, ma estesa ad ogni somministrazione o assunzione di farmaci o sostanze biologicamente o 7

Così, G. ARIOLLI-V. BELLINI, Disposizioni penali in materia di doping. Teoria e pratica del diritto, Milano, 2005. 8

Il CIO ha adottato il metodo del divieto dell’uso di classi di sostanze farmaceutiche con l’indicazione per ciascuna di esse, ma a titolo meramente esemplificativo, delle principali sostanze che vi sono ricomprese. Tale soluzione, in luogo della elencazione tassativa delle singole sostanze è stata adottata per poter ricondurre nell’ambito del divieto anche eventuali nuove sostanze, rientranti in una delle dette classi, prodotte, in ipotesi, proprio al fine di consentire il doping. L’inserimento di una determinata sostanza negli elenchi ha come effetto l’automaticità del meccanismo sanzionatorio, per cui, una volta riscontrata attraverso analisi, la presenza di sostanze vietate, accertata la ritualità delle procedure, come previste dal Regolamento Tecnico Internazionale e delle “Normative procedurali per il controllo antidoping”, automaticamente si applica la sanzione stabilita in relazione al tipo di violazione perpetrata. 9 Parte della dottrina, ritiene che in tale fattispecie criminosa possa essere annoverato anche l’uso di sostanze dopanti, purché diretto all’alterazione del risultato della competizione sportiva. In tal senso cfr. G. VIDIRI, La frode sportiva: soggetti e condotte del reato (art. 1 legge 13 dicembre 1989, n. 401), in Riv. dir. Sportivo, 1992, p. 126 s. 10

Il Parlamento italiano, indotto dalla rilevanza che la questione del doping stava ormai assumendo nell’ambito dello scenario giuridico e sociale del tempo, accresciuta forse anche dal clamore di alcune inchieste disposte dalla magistratura ordinaria, ha preso finalmente in esame un disegno di legge presentato anni prima dal senatore Cortina, approvando dopo un lungo e tormentato iter, la legge n. 376/2000.

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farmacologicamente attive, ogni adozione o sottoposizione a pratiche mediche che non siano giustificate da condizioni patologiche, ma che risultino idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti 11. Occorre specificare, poi, come a differenza del passato, la legge n. 376/2000 non abbia privilegiato l’elemento sanzionatorio e repressivo, quanto quello preventivo, in conformità con la finalità primaria della salute degli atleti 12. Uno dei principali meriti da riconoscere alla legge n. 376, è stato quello di aver istituito presso il Ministero della Sanità la Commissione per la vigilanza e il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive 13, e quello di aver reintrodotto nell’ordinamento italiano disposizioni penali in materia di doping. In particolare, l’art. 9, rubricato “Disposizioni penali”, recita: «1. Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni e con la multa da lire 5 milioni a lire 100 milioni chiunque procura ad altri, somministra, assume o favorisce comunque l’utilizzo di farmaci o di sostanze biologicamente o farmacologicamente attive, ricompresi nelle classi previste all’articolo 2, comma 1, che non siano giustificati da condizioni patologiche e siano idonei a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti, ovvero siano diretti a modificare i risultati dei controlli sull’uso di tali farmaci o sostanze. 11 L’intervento normativo del 2000 è espressione della presa di coscienza, da parte del legislatore, delle pratiche di manipolazione farmacologica, chimica e fisica, che, attraverso l’uso di sostanze o di tecniche mirano anche ad alterare l’integrità e l’attendibilità dei campioni di liquido fisiologico utilizzati nei controlli antidoping, occultando l’assunzione di steroidi anabolizzanti e di altre sostanze equivalenti. Cfr. sul tema, D. RODRIGUEZ-P. FRATI-M. CINGOLANI-R. FROLDI, Aspetti medico legali e tossicologici della legge 14.12.2000, n. 376, in tema di doping, in Riv. it. med. leg., 2001, p. 229 ss. 12 In particolare, la legge del 2000 consentiva espressamente specifici trattamenti dettati dalla presenza di condizioni patologiche documentate e certificate, nel rispetto di una duplice condizione: in primis, che la sottoposizione ai trattamenti in questione sia attuata secondo le modalità e i dosaggi indicati nel relativo decreto di registrazione e previsti dalle esigenze terapeutiche, e in secondo luogo, che la partecipazione dell’atleta sottoposto ad uno specifico trattamento ad una competizione sportiva non metta in pericolo la sua integrità psicofisica. 13

La Commissione per la vigilanza e il controllo sul doping e per la tutela della salute nelle attività sportive è composta da due rappresentanti del Ministero della Sanità, uno dei quali con funzioni di presidente; due rappresentanti del Ministero per i Beni e le Attività Culturali; due rappresentanti della Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome; un rappresentante dell’Istituto superiore di sanità; due rappresentanti del CONI; un rappresentante dei preparatori tecnici e degli allenatori; un rappresentante degli atleti; n tossicologo forense; due medici specialisti di medicina dello sport; un pediatra; un patologo clinico; un biochimico clinico; un farmacologo clinico; un rappresentante degli enti di promozione sportiva; un esperto di legislazione farmaceutica.

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2. La pena di cui al comma 1 si applica, salvo che il fatto costituisca più grave reato, a chi adotta o si sottopone alle pratiche mediche ricomprese nelle classi previste all’articolo 2, comma 1, non giustificate da condizioni patologiche ed idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo, al fine di alterare le prestazioni agonistiche degli atleti ovvero dirette a modificare i risultati dei controlli sul ricorso a tali pratiche. 3. La pena di cui ai commi 1 e 2 è aumentata: a) se dal fatto deriva un danno per la salute; b) se il fatto è commesso nei confronti di un minorenne; c) se il fatto è commesso da un componente o da un dipendente del CONI ovvero di una federazione sportiva nazionale, di una società, di un’associazione o di un ente riconosciuti dal CONI. 4. Se il fatto è commesso da chi esercita una professione sanitaria, alla condanna consegue l’interdizione temporanea dall’esercizio della professione. 5. Nel caso previsto dal comma 3, lettera c), alla condanna consegue l’interdizione permanente dagli uffici direttivi del CONI, delle federazioni sportive nazionali, società, associazioni ed enti di promozione riconosciuti dal CONI. 6. Con la sentenza di condanna è sempre ordinata la confisca dei farmaci, delle sostanze farmaceutiche e delle altre cose servite o destinate a commettere il reato. 7. Chiunque commercia i farmaci e le sostanze farmacologicamente o biologicamente attive ricompresi nelle classi di cui all’articolo 2, comma 1, attraverso canali diversi dalle farmacie aperte al pubblico, dalle farmacie ospedaliere, dai dispensari aperti al pubblico e dalle altre strutture che detengono farmaci direttamente, destinati alla utilizzazione sul paziente, è punito con la reclusione da due a sei anni e con la multa da lire 10 milioni a lire 150 milioni». Le menzionate condotte, ovviamente, assumono rilevanza penale se non risultano giustificate da condizioni patologiche e sempre che esse siano idonee a modificare le condizioni psicofisiche o biologiche dell’organismo 14. È, pertanto, di tutta evidenza il forte impatto che la legge n. 376/2000, con la riqualificazione del doping in termini di reato e con la previsione di pene detentive nei confronti dei responsabili, ha avuto nell’ambito della lotta all’illecito e della tutela di principi fondamentali nel nostro ordinamento. Inoltre, al fine di garantire una efficiente armonizzazione tra le nuove norme e i regolamenti degli enti sportivi, il legislatore ha imposto al CONI insieme alle Federazioni sportive nazionali 15 e 14

Il legislatore non sembra fare alcun riferimento ad una eventuale assunzione in buona fede, principio in ogni caso implicito nell’interpretazione anche di tale norma, in quanto clausola generale dell’intero ordinamento. Sul tema, ex multis, cfr. C.M. BIANCA, Diritto civile, vol. I, Milano, 1978. 15

Le Federazioni sportive nazionali sono autorizzate a stabilire sanzioni disciplinari nei confronti dei propri tesserati in casi di doping, in conformità a quanto stabilito dall’ordinamento internazionale di riferimento, anche se non coincidente con la classificazione operata, su proposta della Commissione, con decreto ministeriale. Gli atleti tesserati, dal canto loro, dovranno dichia-

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alle società a queste affiliate, alle associazioni sportive e agli enti di promozione sportiva, l’obbligo di adeguare i propri regolamenti alle disposizioni dettate dalla legge, prevedendo procedure e sanzioni disciplinari nei confronti dei tesserati in caso di doping o di rifiuto a sottoporsi a controlli, nonché di curare l’aggiornamento e l’informazione dei dirigenti, dei tecnici e degli atleti sulle problematiche concernenti il doping. Sul piano internazionale, occorre richiamare due importanti interventi: Il Codice Mondiale Antidoping, adottato dall’Agenzia mondiale antidoping il 5 marzo 2003 a Copenaghen e la Convenzione internazionale generale UNESCO il 19 ottobre 2005. Il Codice Mondiale Antidoping, anche conosciuto come “Codice WADA” costituisce una vera e propria pietra miliare nella lotta al doping a livello mondiale e la sua adozione rappresenta nient’altro che il culmine di un processo di riforma durato circa diciotto mesi, prodotto di tre fasi di consultazione aperta, gestite da una Commissione nominata dall’Agenzia mondiale antidoping 16. Mossa dallo stesso intento di promozione dello sport e prevenzione del doping, è la Convenzione internazionale contro il doping nello sport, ratificata con la legge 26 novembre 2007, n. 230 e composta da 43 articoli, 2 allegati e 3 appendici, che si apre con una vera e propria dichiarazione di lotta al fenomeno del doping, «prefiggendosi lo scopo, nel quadro della strategia e del programma di attività dell’UNESCO nel settore dell’educazione fisica e dello sport, di promuovere la prevenzione del doping nello sport e la lotta a tale fenomeno allo scopo di eliminarlo» (art. 1). La Convenzione realizza, inoltre, un’opera di armonizzazione dell’applicazione della normativa antidoping nei vari Stati membri, arrivando ad attribuire carattere e rilevanza penale alla condotta di detenzione di sostanze o metodi vietati, facendo ricadere sui singoli Stati membri l’impegno di dettare norme limitative della disponibilità e dell’uso di dette sostanze, salvo l’esenzione ai fini terapeutici. Si deve, poi, sempre alla Convenzione internazionale contro il doping, l’introduzione di misure di natura finanziaria sia mediante il sostegno delle attività di controllo antidoping sia mediante il «ritiro di ogni forma di sostegno finanziario agli sportivi o al personale di supporto degli sportivi che siano stati squalificati a seguito di una violazione delle norme antidoping» o «a qualunque organizzazione sportiva o organizzazione antidoping che non rispetti il Codice o le norme antidoping applicabili» (art. 11). Una corretta applicazione della normativa è, tuttavia, possibile solo grazie ad una cosciente formazione degli addetti ed è per questo che si è inteso potenziare la cooperazione internazionale nella lotta contro il doping (art. 16) curando il consolidamento di una cultura antidoping attraverso l’elaborazione di programmi di educazione e formaziorare esplicitamente la propria conoscenza dei regolamenti in materia di doping ed esprimere il consenso alle implicazioni che ne derivano, soprattutto in materia di controlli antidoping. 16 Sulle competenze della Commissione si veda O. NIGGLI, Code Mondial Anti-Dopage: Processus de Révision et principales Modifications, 2013, pp. 20 e 21.

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ne differenziati per la comunità sportiva e per gli sportivi e il personale di supporto degli stessi (art. 20). Proprio nell’ottica di coordinamento della normativa, si inserisce il Regolamento antidoping del CONI, approvato il 30 giugno 2005 e oggi costituito essenzialmente dal Documento tecnico Attuativo del Codice Mondiale Antidoping e dei relativi standard internazionali, approvato dalla Giunta Nazionale del CONI il 29 novembre 2012, modificato ed integrato il 17 dicembre 2015, in vigore dal 10 marzo 2016, contenente sia disposizioni di carattere sostanziale, volte all’individuazione degli organi competenti nella materia in esame ed alle sanzioni eventualmente applicabili, sia disposizioni di carattere procedurale che sono finalizzate alla determinazione del procedimento per l’effettuazione dei controlli e per l’eventuale applicazione delle sanzioni. Il richiamato Regolamento trova applicazione in tutte le Federazioni sportive nazionali che, a loro volta, sono autorizzate a stabilire sanzioni disciplinari nei confronti dei propri tesserati, in casi di doping, in conformità a quanto stabilito dall’ordinamento internazionale di riferimento 17. L’adozione del Regolamento ha comportato la nascita dell’Ufficio della Procura antidoping, vero e proprio organo di Giustizia sportiva al quale è attribuita tutta l’attività ispettiva finalizzata all’accertamento delle responsabilità che sono alla base delle infrazioni della normativa antidoping non solo dell’atleta, ma anche di quei personaggi che lo circondano 18. Nello specifico, l’Ufficio procura antidoping è competente in via esclusiva per la realizzazione degli atti necessari all’accertamento della responsabilità dei tesserati delle Federazioni sportive nazionali che si siano resi responsabili di somministrazione, assunzione e uso di sostanze appartenenti alle classi proibite di agenti farmacologici; è altresì competente ad indagare sulla vendita, la cessione dell’atleta o comunque il procacciamento di sostanze dopanti, nonché sulla istigazione, anche non accolta, al doping 19. In 17 Con riferimento alle competizioni che si svolgono sotto l’egida di una Federazione internazionale, nel caso di conflitto tra le disposizioni del regolamento antidoping e quelle adottate dalla predetta Federazione, è espressamente previsto che quest’ultime debbano prevalere. 18 Accanto all’Ufficio di Procura antidoping, un ruolo fondamentale è riconosciuto alla Commissione Antidoping con funzione sia propositiva e consultiva, che operativa essendole demandata l’organizzazione e la gestione dei controlli antidoping a sorpresa. La Commissione scientifica antidoping, invece, studia ed approfondisce le tematiche scientifiche anche eventualmente commissionando a terzi l’effettuazione di ricerche su peculiari tematiche. 19

In tal senso la Commissione Federale sportiva di Atletica leggera, 19 gennaio 1994, in Riv. dir. Sportivo, 1994, p. 495, la quale ha affermato che «l’istigazione dell’allenatore ad assumere farmaci vietati, anche se non accolta dall’atleta, integra l’ipotesi di violazione alle norme in materia di doping»; G. FONTANA, La Commissione d’indagine sul doping e la necessità di trovare e punire tutti i corresponsabili del doping, in Riv. dir. Sportivo, 1994, p. 503, premesso che come regola generale il codice penale prevede la non punibilità dell’istigazione non accolta, continua sottolineando come l’ordinamento sportivo al contrario la punisca, questo perché diversi sono i fini e i principi regolatori rispetto al diritto penale. Non è che i procedimenti disciplinari sportivi siano

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particolare, alcuni autori 20 hanno fatto rientrare nelle ipotesi dell’istigazione, anche quella indiretta dell’apologia che consiste nella manifestazione di un pensiero esaltante il fatto illecito. Lo scopo di una tale previsione è quella di combattere il pericolo di “infezione psicologica” che può derivare da tale forma di incitamento, sottolineando che la punibilità dell’istigazione presuppone, oltre all’elemento psicologico del dolo, un’analisi della idoneità del comportamento concreto posto in essere ad indurre effettivamente l’istigato alla violazione del precetto e ciò in relazione anche alle qualità personali del soggetto attivo e di quello passivo.

1.1. I casi affrontati dalla giurisprudenza nazionale e comunitaria All’interno del delineato contesto storico-normativo, non passarono di certo inosservate le prime decisioni della Commissione federale che, integrando i codici della Giustizia sportiva, finirono col dare vita ad una sorta di vero e proprio diritto giurisprudenziale.  Il caso Perruzzi e Carnevale Tra le numerose pronunce, vale la pena ricordare la decisione della Commissione d’appello federale del 30 novembre 1990 che, allontanando per un anno dalle competizioni i calciatori Peruzzi e Carnevale e condannando al pagamento di una consistente ammenda la A.S. Roma, sodalizio sportivo di appartenenza, così si pronunciava: «I calciatori professionisti che, con una condotta cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa, facciano uso di sostanze dopanti sono puniti con la sanzione della squalifica, giusto il combinato disposto degli artt. 32 e 34 del codice di giustizia sportiva della FIGC, che vieta il ricorso a dette sostanze a tutela della salute dell’atleta e a difesa della lealtà e della rettitudine sportiva» 21. Si ribadì, in quell’occasione, che il Giudice non è tenuto ad accertare la ragione ed occasione dell’assunzione delle sostanze dopanti, dal momento che non occorre, ai fini della sussistenza del dolo, la prova della conoscenza dell’antigiuridicità e dell’immoralità dell’azione da parte del colpevole, ma «è sufficiente che l’evento sia la conseguenza della sua condotta cosciente». La privi di garanzie per chi vi è sottoposto, ma, constatato che il bene su cui incide la sentenza del Giudice sportivo, non è un bene quale la libertà personale (ex art. 13 Cost.) su cui, al contrario, può agire il Giudice penale, nell’ordinamento sportivo si è preferito privilegiare una maggiore funzionalità e capacità di approdare, in tempi brevi alle decisioni. 20 21

G. AIELLO, Il nuovo regolamento antidoping del C.O.N.I., in Riv. dir. Sportivo, 2000, p. 296.

Cfr. CAF, 30 novembre 1990, in Foro it., 1991, III, p. 225, nello specifico venivano puniti con la squalifica per un anno due calciatori che, in prossimità di una gara di campionato di calcio della massima divisione, alla quale avevano partecipato, avevano assunto “fentermina”, sostanza vietata dal regolamento dei controlli antidoping dell’UEFA e compresa negli elenchi compilati a cura della Federazione medico sportiva italiana.

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Corte chiarì come il divieto dell’uso di sostanze dopanti fosse categorico, confermando la gravità dell’illecito e ricordando le ragioni del divieto del ricorso al doping: «Il divieto di sostanze dopanti è stato disposto, oltre che a tutela della salute dell’atleta, soprattutto dalla determinazione di una concreta difesa contro la slealtà e la rettitudine sportiva. L’atleta che ad essa ricorre danneggia l’immagine dello sport e l’uso è l’espressione di una condotta moralmente scorretta verso tutti gli altri protagonisti dello sport, perché i tesserati, i curatori delle discipline sportive, i tifosi, gli spettatori, insomma tutti attendono che gli atleti gareggino con quella lealtà attinente non solo alla dimensione materiale, ma soprattutto a quella morale» 22.  Il caso Maradona Una lealtà che, seppur non direttamente rientrante nelle classiche ipotesi di doping, è stata violata anche nel famoso caso Maradona, calciatore dell’A.S. Napoli che, alcuni giorni prima della partita aveva assunto cocaina, per fatto proprio e non con l’intento specifico di migliorare le proprie prestazioni atletiche. Proprio quest’ultima circostanza era stata posta dal calciatore alla base della sua difesa, attraverso la quale contestava l’interpretazione data dal Giudice sportivo di primo grado all’art. 32 del Codice di Giustizia sportiva della FIGC, ritenendo punibile l’assunzione di sostanze proibite in sé e per sé, senza che queste avessero l’effetto di modificare la prestazione sportiva 23. In vero, la precedente versione dell’art. 32 riconosceva come “vietata”, l’assunzione della sostanza dopante prima o durante la gara, attribuendone così una connotazione negativa in relazione al tempo dell’assunzione. Nel caso Maradona, tuttavia, la Commissione fa presente come l’assenza di una tale specificazione temporale nel nuovo dettato dell’art. 32 non sia dovuta ad una mera dimenticanza del legislatore sportivo, ma alla riconosciuta necessità di ampliare il campo d’azione della normativa antidoping, in considerazione dell’allarmante diffusione della pratica. I Giudici sportivi hanno, quindi, contestato la difesa del calciatore 24 ricono-

22

La CAF respinse il ricorso promosso dall’A.S. Roma relativo all’eccessività della sanzione pecuniaria, osservando che si colloca fuori dall’indagine del Giudice disciplinare anche «la ricerca delle caratteristiche delle sostanze vietate, poiché nel regolamento dell’UEFA e nell’elenco compilato a cura della FMSI non vi è alcuna distinzione tra sostanze più stimolanti o meno stimolanti. Pertanto, sul piano del trattamento sanzionatorio non ha alcuna influenza l’accertamento della maggiore o minore efficacia della “fentermina” sulle capacità agonistiche dell’atleta». 23 24

Cfr. CAF, 13 maggio 1991, in Foro it., 1991, III, p. 337.

Specifica la Commissione federale: «Il riferimento alla gara non è elemento essenziale per la sussistenza dell’infrazione disciplinare, giacché l’art. 32 richiede che l’uso sia avvenuto allo scopo di migliorare la prestazione atletica, e per tale si deve intendere ogni attività svolta dall’atleta nell’ambito della disciplina che egli pratica, quindi anche quella preparatoria».

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scendo come il bene tutelato dalla norma non sia solo la regolarità delle competizioni sportive, ma la salute dell’atleta, bene che ogni organizzazione sportiva deve perseguire e tutelare. In base a tali argomentazioni, la CAF arriva a riconoscere che «Il calciatore professionista che fa uso, con condotta cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa, di sostanze dopanti, pur non in prossimità di gara, viola l’art. 32 del Codice di giustizia sportiva della FIGC sulla disciplina antidoping. La disposizione si configura come una norma speciale rispetto all’art. 1 dello stesso codice, che fa obbligo ai tesserati di mantenere una condotta conforme ai principi sportivi della lealtà, probità e rettitudine, perché punisce la slealtà consistita nell’uso di sostanze che mirano a modificare la condizione e quindi le possibilità agonistiche dell’atleta, ma anche perché consacra e ribadisce l’inconciliabilità dell’immorale uso delle droghe con lo sport» 25.  Il caso del pugile Gianfranco Rosi Altro caso eclatante di doping è quello che ha visto coinvolto il pugile Gianfranco Rosi che, nel 1995, al termine di un incontro vittorioso, era risultato positivo al controllo antidoping; per questi, il Giudice federale stabiliva due anni di sospensione, con revoca del titolo mondiale, e così si pronunciava: «Ai fini del regolamento antidoping, a configurare l’illecito è sufficiente il ritrovamento nell’urina dell’atleta di sostanze vietate, a nulla rilevando l’elemento psicologico dell’atleta e il verificarsi o meno di un effetto dopante; le liste di sostanze vietate hanno solo uno scopo esemplificativo, essendo comunque vietate tutte le sostanze appartenenti a quella classe» 26. In particolare, il caso Rosi viene ricordato perché, accanto alla responsabilità personale dell’atleta, fu riscontrata una responsabilità di terzi che lo avevano indotto all’uso della sostanza dopante. In ultimo, la Commissione CONI, anche in considerazione della collaborazione fornita dal pugile, decise di ridurre la sanzione alla metà. Lo sportivo, procedeva ugualmente ad adire il T.A.R. del Lazio per ottenere l’annullamento della squalifica, ma il Tribunale amministrativo, non ritenendosi munito di giurisdizione, rigettava il ricorso, mentre il Consiglio di Stato, in seconda istanza, accoglieva parzialmente la domanda del Rosi e sospendeva l’efficacia del provvedimento impugnato riducendo la sanzione disciplinare interdittiva da due anni a dieci mesi 27.  Il caso Bevilacqua Ha, per certi versi, rappresentato un’eccezione nella raccolta giurisprudenziale sportiva il caso Bevilacqua del 1996 per il quale la Procura federale della Federazione Italiana di Atletica leggera, avendo accertato che l’atleta – risultata 25

Cfr. CAF, 13 maggio 1991, cit.

26

Cfr. Giudice sport. Naz., FPI, 13 luglio 1995, in Riv. dir. Sportivo, 1996, p. 347.

27

Cfr. Cons. St., sez. VI, 12 gennaio 1996, n. 1.

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positiva a due controlli antidoping – aveva assunto in perfetta buona fede dei prodotti terapeutici, non ritenne di poterla incolpare né sanzionare in alcun modo, stabilendo che andasse disposta l’archiviazione del procedimento aperto a carico dell’atleta, risultata positiva al controllo antidoping, qualora, in relazione al comportamento tenuto, anche successivamente all’effettuazione del controllo, nessuna negligenza potesse essergli ascritta 28. Di orientamento contrapposto è stata, invece, la Federazione Internazionale di Atletica leggera (IAAF) che, in forza dell’autonomia riconosciuta alle Federazioni internazionali, riconobbe l’atleta colpevole, infliggendole la sanzione definitiva della squalifica di tre mesi, a decorrere dal secondo episodio di doping.  Il caso Pantani Ha, infine, lasciato sicuramente un’impronta indelebile nel cuore e nella memoria degli sportivi, e non solo, il caso che ha visto tragicamente coinvolto il campione del ciclismo italiano Marco Pantani che, il 18 ottobre 1995, nel corso della gara ciclistica Milano-Torino, veniva coinvolto in un incidente stradale e ricoverato presso il centro Traumatologico Ortopedico di Torino dove veniva sottoposto ad un prelievo di sangue dal cui referto si riscontrò una anomalia dei valori ematici che si ritenne fosse dovuta all’assunzione di sostanze dopanti, in vista della gara Milano-Torino e delle altre competizioni ciclistiche della medesima stagione agonistica 29. In particolare, il p.m. presso la Pretura Circondariale di Torino, acquisita la cartella clinica di Pantani, ritenne che l’utilizzo di stimoli farmacologici diretti ad incrementare i globuli rossi e ad apportare più ossigeno ai muscoli, con aumento della erogazione del processo aerobico e della prestazione di fondo, rientrasse nella nozione di “atti fraudolenti” volti a raggiungere un risultato sportivo alterato e non veritiero. Il procedimento a carico di Marco Pantani veniva trasmesso al Procuratore della Repubblica di Forlì che arrivò a chiedere l’emissione di un decreto di archiviazione, ritenendo inapplicabile alla fattispecie l’art. 1 della legge n. 401/89. Non fu della stessa idea il Giudice delle indagini preliminari che procedeva alla formulazione dell’imputazione dinanzi al Tribunale monocratico di Forlì che condannò Pantani alla pena di tre mesi di reclusione ed € 1.200.000 di multa, nonché alle sanzioni accessorie ex art. 5 della legge n. 401/1998, per il reato di “frode in competizioni sportive”. Avverso tale decisione, fu presentato appello da parte della difesa dell’imputato sostenendo la tesi della non punibilità dell’atleta assuntore di sostanze dopanti, appello rigettato dal Tribunale di Forlì sulla base di un filone giurisprudenziale mi28 29

Cfr. Proc. Fed. FIDAL, 22 giugno 1996, in Riv. dir. Sportivo, 1997, p. 155.

Nello specifico, dal referto del ciclista emersero dei valori ematologici abnormi: 20,8 grammi per 100 millilitri di emoglobina, 6.690.000 di globuli rossi e 60,1% di ematocrito, termine indicante il rapporto di un dato volume di sangue, tra la parte liquida e quella corpuscolare, costituita dagli eritrociti o globuli rossi.

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noritario 30 che avrebbe ricondotto il delitto di frode sportiva ad un fatto di doping autogeno, in forza del quale la punibilità del partecipante alla gara viene ricondotta all’esistenza di un meccanismo sinallagmatico, determinante una correlazione di corrispettività tra il soggetto autore della proposta corruttiva e il suo destinatario 31. Il caso Pantani viene, in realtà, tutt’oggi ricordato non solo per la portata emotiva suscitata negli sportivi, ma anche per il riflesso che questo ebbe nel contesto normativo del tempo. La problematica della punibilità dell’atleta, oggetto di aspro e serrato dibattito nel corso dell’iter parlamentare di formazione della legge n. 376/2000, fu risolta con l’approvazione, da parte dei due rami del Parlamento, di una disposizione penale (l’art. 9, comma 1, legge n. 376/2000) che ha recepito integralmente il testo proposto dalla Commissione Giustizia della Camera, ponendo così rimedio, secondo le esplicite intenzioni del legislatore, ad una situazione di vuoto normativo. Pertanto, «dall’analisi congiunta del testo dell’art. 1 della l. 401/89 in relazione al senso reso palese dal significato delle parole e dalla loro connessione, e dell’intenzione del legislatore, quale emerge dal contesto storico in cui fu approvata la norma, induce a ritenere che il fatto attribuito a Marco Pantani, risalente all’anno 1995, non fosse previsto come reato dalle leggi dell’epoca, con i conseguenti effetti di non punibilità previsti dall’art. 2, comma 1 del codice penale» 32. Guardando alle pronunce della giurisprudenza sportiva, più volte la Suprema Corte ha evidenziato la contraddittorietà dei criteri e delle procedure adottati dalle varie Federazioni internazionali in materia di doping, sottolineando l’assenza di una valida azione di controllo da parte del CIO nonché la grave dicotomia esistente tra la ratio delle leggi e dei codici dello Stato e la visione degli organi di giustizia federali 33. 30

Si fa riferimento ad una sentenza emessa nel gennaio del 1993, a seguito di un giudizio abbreviato, dal Giudice delle indagini preliminari presso la Pretura circondariale di Roma: pronuncia che, in realtà, è stata annullata dalla Corte di cassazione per erronea applicazione della legge penale, per cui l’unico precedente a favore dell’applicabilità del delitto di frode sportiva ad un fatto di doping autogeno è meramente “endoprocessuale”. 31 Anche se la Suprema Corte non lo specifica, si deve ritenere che l’art. 1 della legge n. 401/1989 descriva una fattispecie plurisoggettiva anomala, analoga a quella rinvenibile in altre figure di reato, al cui interno almeno uno dei protagonisti è un partecipante alla gara e non è sempre punibile. Il successivo comma 2 dell’esaminato art. 1 della legge n. 401/1989, nello stabilire che le stesse pene si applicano «al partecipante alla competizione che accetta il denaro o altra utilità e vantaggio, o ne accoglie la richiesta», ha voluto indicare, in primo luogo, che il partecipante alla gara non è escluso dal novero dei soggetti attivi del reato di cui all’art. 1, comma 1, della legge n. 401/1989, altrimenti la disposizione penale sulla frode in competizioni sportive peccherebbe di manifesta irragionevolezza nel sanzionare soltanto l’accettazione e non l’effettuazione della proposta corruttiva. 32

Cfr. App. Bologna, sez. I pen., 23 ottobre 2001 e Cass. pen., sez. II, 20 dicembre 2004, n. 49949, in Cass. pen., n. 9, 2005, p. 2572. 33 Cfr. Cass. pen., sez. VI, 25 gennaio 1996, n. 3011, in Cass. pen., 1977, p. 529 e in Giust. pen., 1997, II, p. 172.

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Proprio per questo è, più che mai, opportuno volgere lo sguardo e l’attenzione all’approccio al fenomeno del doping nella giurisprudenza comunitaria, dove l’osservanza delle norme antidoping viene qualificata come un dovere caratteristico del protagonista di ogni attività sportiva. In particolare, in sede di giustizia comunitaria, si è riconosciuto il principio in forza del quale il regolamento sportivo nazionale che disciplina il doping e le sanzioni, in caso di violazione, deve ritenersi non influente sull’attività economica dello sportivo e, quindi, non richiamante i precetti di cui agli artt. 39 e 49 del Reg. CE. In tal senso si è pronunciato il Tribunale di I grado CEE dinanzi al quale i ricorrenti avevano messo in discussione la compatibilità di alcune disposizioni regolamentari adottate dal CIO ed applicate alla Federazione Internazionale Nuoto-FINA, oltre che di alcune prassi relative al controllo antidoping, con la normativa comunitaria sulla concorrenza e sulla libera prestazione dei servizi. In primo luogo, si è lamentato che la fissazione della soglia di tolleranza della specifica sostanza costituirebbe una pratica concordata tra il CIO ed i laboratori da esso accreditati, e che la detta soglia avrebbe scarse basi scientifiche e potrebbe condurre all’esclusione di atleti innocenti o semplicemente negligenti. Inoltre, l’adozione da parte del CIO di un meccanismo di responsabilità oggettiva oltre che l’instaurazione di organi competenti per la soluzione arbitrale delle controversie in materia di sport, insufficientemente indipendenti rispetto al CIO, rafforzerebbero il carattere anticoncorrenziale della soglia in causa. In definitiva, l’applicazione della normativa impugnata avrebbe condotto alla violazione delle libertà economiche degli atleti, garantite in particolare dall’art. 49 CE, e, dal punto di vista del diritto alla concorrenza, alla violazione dei diritti che gli atleti possono invocare a norma degli artt. 81 e 82 CE 34. In buona sostanza, i Giudici comunitari hanno cercato di stabilire se una regolamentazione antidoping potesse essere contestata alla luce dell’art. 49 CE, relativo alla libera prestazione dei servizi e quali conseguenze potessero essere eventualmente dedotte da tale accertamento in relazione al diritto comunitario della concorrenza. A tal proposito, secondo la costante giurisprudenza della Corte e alla luce degli obiettivi della Comunità, l’attività sportiva sarebbe disciplinata dal diritto comunitario solo in quanto configurabile come attività economica ai sensi dell’art. 2 CE, dovendosi, al tempo stesso riconoscere la notevole importanza sociale nella comunità. Orientamento giurisprudenziale, questo, confortato dalla dichiarazione n. 29 sullo sport, figurante in allegato all’atto finale della conferenza che ha portato all’adozione del testo del Trattato di Amsterdam, la quale ha sottolineato la rilevanza sociale dello sport quando l’esercizio ne rappresenta espressione di un’attività economica. Ciò comporta il rilievo, ai fini della disciplina comunitaria, di tutte le caratteristiche dell’attività sportiva che riguardano l’aspetto economico della stessa (come nel caso in cui 34 Si tratta della sentenza del Trib. I grado CEE, 30 settembre 2004, n. 313, in Foro amm.CDS, 2004, p. 2397.

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l’attività sportiva rivesta il carattere di una prestazione di lavoro subordinato o di una prestazione di servizi retribuita, ipotesi in cui ricade nell’ambito di applicazione degli artt. 39 CE e ss. o degli artt. 49 CE e ss.). Le medesime considerazioni valgono con riferimento alla disciplina della concorrenza, per cui un regolamento puramente sportivo ed estraneo all’attività economica, sarà estraneo ai rapporti economici che interessano la concorrenza, con la conseguenza che esso non ricadrà nemmeno nell’ambito di applicazione degli artt. 81 e 82 CE. Diversamente, una normativa che, seppur adottata nell’ambito dello sport, non sia puramente sportiva, ma riguardi l’aspetto economico che l’attività sportiva può rivestire, ricadrà nell’ambito di applicazione sia degli artt. 39 che 49, 81 ed 82 CE 35. Per quello che riguarda, però, l’atteggiamento della giurisprudenza comunitaria nei confronti della normativa antidoping si può sicuramente affermare che questa ne abbia chiarito la prevalente ed assorbente finalità di garanzia dello spirito sportivo, senza il quale lo sport, sia che praticato a livello dilettantistico che professionale, verrebbe privato della sua vera essenza, nonché la sua estraneità a qualsiasi considerazione economica. Un rilievo economico potrebbe essere ricollegato alla normativa antidoping, con riferimento ai pregiudizi patrimoniali che la sanzione antidoping è in grado di cagionare tanto all’atleta quanto alla società sportiva di appartenenza, ma, in buona sostanza, le norme antidoping, lungi dal possedere finalità di regolamentare attività economiche o di restringere la concorrenza, costituiscono strumenti destinati esclusivamente a combattere il doping, con l’unico scopo di assicurare l’identificazione e la punizione degli atleti che, con le loro condotte, contravvengono agli obblighi cui sono soggetti con riferimento all’uso di sostanze proibite ed all’utilizzo di metodi vietati 36. Se è vero che la normativa antidoping si traduce comunque in una limitazione della libertà di azione dell’atleta, non si tratta necessariamente di una restrizione della concorrenza ai sensi dell’art. 81 Ce. In definitiva, la natura di regolamentazione puramente sportiva della normativa antidoping, comporta che la loro contestazione da parte dell’atleta abbia attinenza diretta ed esclusiva con l’ordinamento sportivo e rientri nella competenza degli organi di composizione delle controversie sportive 37. 35

In un tale contesto si è giudicato che costituiscono regole puramente sportive, e quindi estranee per loro natura all’ambito di applicazione degli artt. 39 CE e 49 CE, quelle relative alla composizione delle squadre nazionali (sentenze Walrave, punto 8, e Donà, punto 14), o ancora le regole relative alla selezione da parte delle Federazioni sportive di quelli tra i loro affiliati che possono partecipare a competizioni internazionali di alto livello (sentenza Deliège, punto 64). 36 È chiaro che la normativa antidoping riguarda un comportamento che, a meno di snaturare lo sport, non può essere assimilato ad un comportamento di mercato e si applica ad una attività, la pratica sportiva, che, considerata nella sua essenza stessa, è estranea a qualsiasi considerazione economica. 37

Così, M. SANINO-F. VERDE, Il diritto sportivo, Vicenza, 2015, p. 440.

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SEZIONE II

I diritti di trasmissione audiovisivi

2. Lo sport come spettacolo Sin dai tempi delle Olimpiadi, lo sport ha rappresentato una delle principali attrazioni ludiche e, più in generale, di intrattenimento per la collettività che, a seconda delle epoche, è stata variamente oggetto dei mezzi di trasmissione e comunicazione predominanti. In un primo momento lo sport, inteso come divertimento e spettacolo, e quindi come rito sociale, ha catturato l’attenzione del giornalismo che ha “usato” i fenomeni sportivi come spunto per numerose iniziative editoriali, basti pensare alla famosa Gazzetta dello Sport, stampata dal 1896 con la caratteristica carta rosa o alla pubblicazione, avvenuta nel corso del ’900, di altri quotidiani sportivi come le testate Tuttosport, Corriere dello Sport e di vari periodici particolarmente seguiti 38. È in questo periodo che si assiste alla comparsa di pagine sportive, sempre più accurate, all’interno dei quotidiani di informazione, quasi a conferma della portata e del ruolo ormai guadagnati dal fenomeno sportivo nel contesto della quotidianità. Con il passare degli anni e con la moltiplicazione dei mezzi di comunicazione, nel corso del ’900, lo sport è diventato argomento privilegiato non solo del giornalismo ma anche dei nuovi canali d’informazione e di intrattenimento, basti pensare che sin dagli esordi delle trasmissioni televisive, il binomio “sporttelevisione” si è rivelato un abbinamento di grande attrazione per vastissime fasce di pubblico e questo perché lo sport da un lato, è sempre alla ricerca di una maggiore popolarità e, dal canto suo, la televisione alla ricerca di spettacoli da offrire 39. Quanto detto, tuttavia, non è vero in assoluto posto che il principio riportato non sembra trovare applicazione se lo sport non rientra in determinati schemi produttivi, non ha una sufficiente popolarità per attirare un numero significativo di appassionati, sponsor 40 e pubblicità. Ecco che lo sport viene inve38 Il rapporto di alcuni giornali con il mondo sportivo, via via nel tempo, è stato ed è tuttora duplice: per esempio la “Gazzetta dello Sport”, così come “l’Equipe” in Francia, non si è infatti limitata raccontare nelle sue pagine il fenomeno sportivo ma è divenuto presto anche un fattore di propulsione (per esempio, in quanto organizzatore del Giro d’Italia di ciclismo). 39

F. LAURETANI, La regia televisiva. Dai format alla realizzazione dei programmi, Milano, 2003, p. 253. 40 La Cassazione ha definito la sponsorizzazione come «una figura non specificamente disciplinata dalla legge, comprendente una serie di ipotesi nelle quali un soggetto, detto sponsorizzato, ovvero secondo la terminologia anglosassone, sponsee, si obbliga a consentire ad altri l’uso

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stito di quell’ombra che è il profitto, il guadagno che dalla trasmissione dello stesso ne può derivare a favore delle aziende televisive 41. Questa, una delle ragioni che ha portato alla distinzione tra i vari sport, ad una classificazione dipendente da variabili esterne come la spettacolarità, il fascino, l’attrazione, nonché una segmentazione in termini di diffusione e popolarità. Sicuramente, un dato positivo per il pubblico è quello di poter assistere ad un evento anche quando esso si svolge a grande distanza, mentre per coloro che gestiscono e praticano le discipline sportive il vantaggio è quello di poter contare su ingenti introiti economici provenienti dai diritti di trasmissione pagati dalle reti televisive, decisamente superiori a quelli assicurabili dal pubblico. D’altra parte la moltiplicazione degli eventi sportivi trasmessi dalla televisione determina una pressione economica che sta trasformando lentamente lo sport in un ramo dell’industria dello spettacolo governato da considerazioni aventi a che fare piuttosto con il profitto economico che con i reali interessi dello sport stesso ed è proprio per questa ragione che si avverte sensibilmente l’opportunità di stilare una regolamentazione che sia al passo coi tempi e capace di garantire il giusto bilanciamento degli interessi coinvolti. In particolare, la tutela delle manifestazioni sportive, nei confronti di una diffusione radiotelevisiva indiscriminata, è questione sulla quale la dottrina, in concomitanza col proliferare delle emittenti private, ha della propria immagine pubblica ed il proprio nome per promuovere un marchio o un prodotto specificamente marcato, dietro corrispettivo». Cfr. Cass., 11 ottobre 1997, n. 9880, in Foro it., 1998, I, p. 499. Tra le non numerosissime decisioni in tema, si veda anche, più di recente, Cass., 28 marzo 2006, n. 7083, in Giust. civ. Mass., n. 3, 2006. Inoltre, il legislatore, all’art. 2, lett. t), d.lgs. 31 luglio 2005, n. 177, Testo Unico della radiotelevisione definisce la sponsorizzazione come «ogni contributo di un’impresa pubblica o privata, non impegnata in attività televisive o radiofoniche o di produzione di opere audiovisive o radiofoniche, al finanziamento di programmi, allo scopo di promuovere il suo nome, il suo marchio, la sua immagine, la sua attività o i suoi prodotti, purché non facciano riferimenti specifici di carattere promozionale a tali attività o prodotti». La dottrina ha lungamente discusso sull’appartenenza del contratto di sponsorizzazione all’uno o all’altro tipo della disciplina codicistica; si sono avanzate ricostruzioni in termini di locazione o di contratti di vendita, di appalto di servizi o di contratto d’opera, con ogni relativo sforzo di applicazione al negozio di sponsorizzazione delle norme dettate per questi contratti. La soluzione, in definitiva, prescelta dalla dottrina maggioritaria è quella che colloca il contratto di sponsorizzazione nel novero dei contratti atipici ma meritevoli di tutela ex art. 1322 c.c., contratto atipico, rimesso quasi esclusivamente alla disciplina convenzionale. Il contratto di sponsorizzazione non è assimilabile ai contratti di pubblicità perché, mentre questi ultimi hanno carattere sostanzialmente statico e costituiscono rappresentazioni a tavolino di eventi costruiti, le sponsorizzazioni dipendono il larga parte dai risultati sportivi e dalle condotte degli sponsee, nonché, quando oggetto della sponsorizzazione è un evento, dall’effettivo svolgimento di quest’ultimo. 41

Ogni azienda televisiva, sia di concezione pubblica che di impostazione commerciale, accoglie con favore quelle discipline che innescano continue deflagrazioni pubblicitarie; circostanza che avviene se lo sport è molto popolare e richiama, quindi, grandi assembramenti di pubblico. In Italia il calcio, il ciclismo, la Formula 1 occupano sicuramente i primi posti, seguiti dal basket, sci e tennis.

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assunto toni particolarmente vivaci e contraddittori, finendo con l’attestarsi su posizioni compromissorie, ma non per questo pacificamente accettate. Quello che la dottrina, in sinergia con la giurisprudenza, ha cercato di realizzare nel corso del tempo è un efficace bilanciamento tra i diritti di sfruttamento economico delle manifestazioni sportive, per le cui organizzazioni le diverse società impegnano ingenti quantità di mezzi, e la salvaguardia del diritto all’informazione su eventi di interesse collettivo come le manifestazioni 42. Il focus dell’attività è stato proprio quello di garantire la salvaguardia delle due contrapposte esigenze, ricercando il giusto limite entro cui l’informazione sullo spettacolo sportivo non sfociasse in indebita appropriazione del risultato dell’altrui attività lavorativa 43. In vero, già la giurisprudenza di legittimità 44 aveva apprezzato l’opportunità e la necessità di tutelare il diritto allo sfruttamento del risultato dell’attività economica, riconoscendo il potere da parte del CONI di inibire o condizionare al suo assenso le riprese televisive e foto-cinematografiche da parte degli spettatori all’interno «dei recinti cui si accede mediante biglietto d’ingresso» e quindi stadi, campi sportivi, piscine, ecc., a prescindere se gli atleti fossero semplici dilettanti o professionisti. Allo stesso tempo, però, precisava la Corte che non si potevano vietare a terzi le riprese fatte dall’esterno “dei recinti”, anche se eseguite a scopo di lucro e da imprese giornalistiche che ne informino il pubblico, attesa l’assenza nel nostro ordinamento di un diritto esclusivo dell’ente preposto all’organizzazione delle gare sportive alla riproduzione fotografica o cinematografica delle gare stesse che sia tutelabile erga omnes e che sia suscettibile, con efficacia assoluta, di trasmissione ad un terzo 45. La Corte giustificava il potere di inibire o condizionare le riprese sulla base del rapporto obbligatorio che veniva ad instaurarsi con l’acquisto del biglietto da parte degli spettatori e non in virtù di un diritto assoluto sulla manifestazione in capo alla organizzazione stessa 46. Da ciò ne deriva che qualora la manifestazione si svolga all’aperto, anzi42

F. MORESE, Manifestazioni sportive: diritti dell’organizzazione e diritto di cronaca, in Dir. inf., 1988, p. 135. 43 Per un più completo esame della problematica relativa alla dialettica tra diritto di informazione ed altre posizioni soggettive tutelate dello stesso rango, si veda A. MASTRORILLI, Sport in “diretta”, tra interessi pubblici e privati, in Riv. dir. Sportivo, 1993, I, p. 1631. 44

Cass., sez. I, 29 luglio 1963, n. 2118, in Foro it., 1963, I, p. 1631.

45

R. BORRUSO, La tutela dello spettacolo sportivo, in Riv. dir. Sportivo, 1966, p. 16, evidenzia che sussistono atti che, benché conformi alle disposizioni di legge, sono tuttavia tali da potersi considerare non onesti e non corretti, perché improntati a frode od astuzia. Tali caratteri sono specialmente evidenti quando l’organizzazione di spettacoli sportivi abbia preso ogni accorgimento possibile per impedirne la ripresa cinematografica o televisiva da parte di terzi e questa, tuttavia, avvenga lo stesso dall’esterno dei recinti entro cui la gara si svolge sfruttando eventuali lacune dell’organizzazione nell’apprestare gli opportuni impedimenti alla libera visuale, ovvero i mezzi sempre nuovi che il progresso tecnico odierno offre. 46

In senso conforme, D. PETITTI, In tema di riproduzione cinematografica della gara sportiva,

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ché in luogo chiuso, l’organizzatore non ha alcun potere di inibire la ripresa cinetelevisiva della gara, poiché rinunciando, di fatto, a precludere a terzi la visione diretta dell’avvenimento, rinuncia anche ad una visione “mediata” del medesimo attraverso lo schermo televisivo. Si delinea, quindi, una vera e propria visione contrattualistica in forza della quale, nell’ipotesi di avvenimento sportivo in luogo aperto, la liceità della ripresa e trasmissione di questo non farebbe leva sull’esercizio del diritto all’informazione ex art. 21 Cost., ma sulla inesistenza di un diritto dell’organizzatore a precludere l’esercizio di quelle attività. Tuttavia, a questa tesi di origine e matrice contrattualistica, si oppone parte della dottrina 47 che ritiene che il diritto dispositivo dell’organizzatore non necessiti di uno specifico riconoscimento legislativo, discendendo direttamente da un principio generale ed immanente nel nostro ordinamento secondo cui i risultati dell’attività produttiva appartengono a colui che ha posto in essere tale attività 48, con la conseguenza che il diritto di informazione dovrà trovare tutela fino a che in Riv. dir. comm., 1963, II, p. 481; L. PIETRANTONI, Di nuovo sul diritto alla riproduzione cinematografica di una manifestazione sportiva, in Riv. dir. ind., 1964, II, p. 9. 47 48

R. BORRUSO, La tutela dello spettacolo sportivo, cit.

In particolare, E. SANTORO, Manifestazioni sportive e cronaca televisiva, in Riv. dir. Sportivo, 1979, p. 46 ss. sostiene che la manifestazione sportiva può essere ascritta ad una specifica attività organizzativa e considerata come un prodotto di questa attività e specifica «riesce difficile riservarle un trattamento differenziato rispetto agli altri prodotti, o agli altri beni, che sono il risultato di un’attività imprenditoriale, per i quali viene postulato l’originario insorgere, in capo all’imprenditore, di un diritto di proprietà». All’estremo si colloca la tesi di chi nega in via assoluta un diritto, in capo all’imprenditore, che possa consentirgli di impedire l’accesso agli enti di informazione. In particolare, vi è chi esclude a priori un rapporto di competizione tra lo spettacolo sportivo e la sua riproduzione televisiva, perché il primo «soddisfa fondamentalmente un bisogno di partecipazione collettiva ad un determinato evento», mentre il secondo va incontro sostanzialmente ad un bisogno di conoscenza: V. MENESINI, Avvenimento sportivo e funzione scenica nel diritto d’autore, in Dir. autore, 1982, p. 20 ss. Da ultimo, non è mancato chi sostiene la libera riproducibilità per ragioni di reportage di tutta la durata delle manifestazioni ludico-sportive. Il culto dello sport, come attualmente praticato, attribuisce allo stesso un particolare rilievo di carattere sociale, per questo l’attività dei giornalisti di cronaca sportiva assolve ad una ineludibile funzione di massa: quella di diffondere le rappresentazioni, soddisfacendo le aspettative sempre crescenti del pubblico. In tale contesto, è evidente, la documentazione meccanica dell’evento rientra ampiamente nel generale ed assoluto principio di libertà di informazione. In tal senso, A. GIANNINI, Sulla tutela delle manifestazioni sportive, in Riv. dir. ind., 1958, I, p. 258; M. ARE, L’oggetto del diritto d’autore, Milano, 1962, p. 47. Una posizione singolare è stata assunta da L. PIETRANTONI, Sul diritto della riproduzione cinematografica e televisiva di un avvenimento sportivo, in Riv. dir. ind., 1960, p. 388, il quale ha affermato che «le riprese cinematografiche e televisive a scopo di informazione sono libere; esse trovano un limite solo nel dovere di corrispondere all’organizzazione una giusta indennità ove egli, per essere il servizio di informazione fungibile con quello offerto dalla sua organizzazione, subisca un danno economico». È, tuttavia, facile accorgersi, come sottolineato da E. SANTORO, Manifestazioni sportive e cronaca televisiva, cit., della labilità e della fragilità di questa tesi, per la quale, tra l’altro, viene posto a carico dell’organizzatore l’onere di provare il danno da lui subito per effetto delle riprese e della loro circolazione liberamente effettuabile.

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non si traduca in un’indebita appropriazione del diritto altrui. Ecco l’esigenza del bilanciamento degli interessi meritevoli di tutela coinvolti di cui si diceva all’inizio.

2.1. I diritti audiovisivi sportivi È innegabile che tra l’impresa che organizza lo spettacolo e l’impresa che in maniera “illegittima” lo riprende per offrirlo ad un pubblico più vasto, attraverso la riproduzione in televisione o al cinema, ci sia un rapporto di concorrenza atteso che identico è il tipo di bene o servizio prodotto dalle due imprese e, quindi, offerto al pubblico degli spettatori 49. Perché si configuri un atto di concorrenza sleale, non è necessario che si verifichi un danno effettivo, ma è sufficiente un pericolo di danno e quindi una idoneità meramente potenziale a produrre un effetto pregiudizievole per l’altrui azienda. Il pregiudizio di cui si discorre, causato dalla libera ripresa cinetelevisiva di gare sportive, si avverte sia sotto il profilo del danno emergente, consistente in una diminuzione dell’afflusso di spettatori agli stadi o in generale nei luoghi destinati allo svolgimento della rappresentazione sportiva, dovuta alla possibilità di vedere lo spettacolo altrove, sia sotto il profilo del lucro cessante, consistente nella ridotta possibilità di godere dei vantaggi economici derivanti dalla ripresa cinematografica o televisiva dello spettacolo effettuata o consentita dallo stesso organizzatore della gara sportiva 50. Quello che è possibile affermare con certezza, grazie all’appoggio in tal senso fornito dalla dottrina maggioritaria e da consolidata giurisprudenza, è che l’organizzatore di un incontro sportivo ha la totale ed incondizionata disponibilità di qualsiasi diritto relativo allo sfruttamento economico dello spettacolo stesso, disponibilità che si sostanzia nella possibilità di stabilire qualsiasi limi49 In vero, identica è anche la sfera dei destinatari del bene prodotto, in quanto lo stesso organizzatore della gara sportiva potrebbe avere interesse a riprenderla o a farla riprendere dietro suo consenso, per offrirla come spettacolo nei cinema o in televisione ad un pubblico più vasto. 50 Si può, a tal proposito, ricordare la pronuncia della Pret. Roma, 26 novembre 1977, in Giur. merito, 1978, p. 530, con nota di S.A. ROMANO, Diritto di cronaca e ripresa di spettacoli sportivi, dove si è osservato che, mentre è illegittimo il divieto di riprendere alcune parti dello spettacolo sportivo «entro limiti in cui la loro conoscenza da parte del pubblico realizza l’esercizio del diritto all’informazione», lo stesso non può dirsi per la diffusione dell’intero avvenimento, in quanto ciò «andrebbe al di là dello scopo di cronaca per tradursi nella realizzazione di uno spettacolo televisivo che si porrebbe necessariamente in concorrenza non legittima con lo spettacolo attuato attraverso lo svolgimento effettivo della partita». Dello stesso avviso è stato il Trib. Roma, 30 giugno 1978, in Riv. dir. Sportivo, 1979, p. 69, che con nota di A. MARANI TORO, Gare di calcio e diritto di cronaca televisiva, ha statuito che i criteri per stabilire fin dove possa estendersi l’informazione televisiva sullo spettacolo sportivo vanno desunti dalla funzione stessa dell’informazione, che è notizia e non pedissequa riproduzione dell’evento, concludendo che la cronaca deve essere contenuta in un “sintetico resoconto”, non potendo consistere nella diffusione dell’intero spettacolo o di una lunga parte di esso, senza snaturarsi ed identificarsi con lo spettacolo stesso, trasferito sul teleschermo.

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tazione o regolamentazione all’accesso e allo sfruttamento dello spettacolo, compresa la fissazione di precisi limiti di tempo, sia in relazione alla durata dell’eventuale ripresa, sia al momento della teleradiodiffusione della stessa 51. Nel nostro Paese si sono sviluppate, nel corso degli anni, controversie in materia di diritti radiofonici e televisivi relativi alle modalità e possibilità della ripresa di manifestazioni sportive, concentrate in particolar modo sui problemi collegati al funzionamento dei meccanismi contrattuali utilizzati nella fase di transizione dal monopolio della RAI sulla diffusione delle rappresentazioni sportive, all’apertura verso altri possibili interlocutori. A tal proposito si può ricordare la vicenda che nell’autunno del 1995, ha visto coinvolta la Lega Nazionale Professionisti e la possibilità di troncare il rapporto privilegiato e monopolistico tra questa e l’emittente pubblica RAI e di bandire una vera e propria gara per l’assegnazione al miglior offerente dei diritti di trasmissione televisiva delle partite di calcio disputate dalle squadre aderenti all’organizzazione per il triennio 19961999. Alla base di questa decisione, formalizzata nel dicembre dello stesso anno, vi era il convincimento, maturato a seguito dell’analisi dei positivi risultati sul piano economico e promozionale ottenuti in Inghilterra e negli altri Paesi europei, nonché delle prime esperienze con la pay-tv sul mercato interno, che il prodotto calcio dovesse essere gestito in modo da sfruttarne appieno le enormi potenzialità lucrative. Il tempo di dare il via alla pubblicazione di un apposito bando sui principali quotidiani nazionali che si innescò una reazione dai contenuti imprevedibili per l’epoca che vide la RAI uscire sconfitta per una manciata di miliardi 52. Sicuramente sugli eventi sportivi si creano dei diritti esclusivi attinenti all’economia del sistema televisivo, diritti compatibili con il sistema giuridico comunitario, purché sia garantita la loro conformità agli artt. 85 e 86 TCE. Preme puntualizzare come il superamento del monopolio statale in campo radiotelevisivo, l’avvento della tecnica di trasmissione digitale ed un travaso dei programmi sportivi verso le emittenti ad accesso condizionato (le cosiddette pay tv) abbiano contribuito a fornire una dimensione transnazionale nuova alla pratica di compravendita dei diritti sulle manifestazioni sportive che ha portato la Commissione Europea ad avviare una pubblica riflessione sulla applicazione allo sport 51 Cfr. Pret. Roma, 10 dicembre 1992, in Dir. inf., 1993, p. 697; Pret. Roma, 25 giugno 1981, in Giur. it., n. 2, 1982, I, p. 527. 52

In realtà, l’impresa assegnataria non depositò, nel termine prestabilito di venti giorni dalla data di aggiudicazione, la fideiussione bancaria richiesta a garanzia dell’operazione, il che indusse la Lega nazionale professionisti a revocare l’assegnazione dei diritti. A questo punto, il Gruppo Cecchi Gori, aggiudicatario delle trasmissioni in chiaro e dei diritti radiofonici, iniziò una battaglia giudiziaria, durata circa un anno e conclusasi con un accordo tra RAI, Cecchi Gori e Mediaset con il quale si è proceduto ad una vera e propria spartizione dei diritti TV sul calcio in chiaro, per il triennio 1996-1999, archiviando, in tal modo, un contenzioso giudiziario, il cui esito sarebbe stato del tutto imprevedibile e rischioso.

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delle norme comunitarie in materia di concorrenza 53, mostrandosi consapevole delle difficoltà che l’analisi antitrust può incontrare in un settore così peculiare sul quale l’impatto delle attività economiche generate dallo sport è ormai tale da non poter sottrarre il settore sportivo all’applicazione delle norme poste a tutela della concorrenza e del mercato 54. Un intervento da parte del legislatore italiano sulla materia si era già riscontrato con la legge 29 marzo 1999, n. 78, di conversione del d.l. 30 gennaio 1999, n. 15 55 con il quale, se da un lato si chiariva la titolarità in capo a ciascuna società di calcio di serie A e di serie B dei diritti di trasmissione televisiva in forma codificata, dall’altro si formulava il divieto assoluto di acquisire, sotto qualsiasi forma o titolo, direttamente o indirettamente, anche attraverso soggetti controllati e collegati, più del sessanta per cento dei diritti di trasmissione in esclusiva in forma codificata di eventi sportivi del campionato di calcio di serie A o, comunque, del torneo o campionato di maggior valore che si svolge o viene organizzato in Italia. Tuttavia, tale intervento normativo sollevò, ben presto, dubbi e scetticismi da parte della dottrina che eccepiva la difficoltà interpretativa nell’individuare la quota del sessanta per cento indicato dalla legge 56. A tal proposito la stessa legge n. 78/1999 consentiva che quando le condizioni dei relativi mercati determinassero la presenza di un solo acquirente, il limite indicato potesse essere superato a condizione che i contratti di acquisizione dei diritti in esclusiva non avessero una durata superiore a tre anni. Inoltre, il limite del sessanta per cento potrebbe essere derogato dall’Autorità garante della concorrenza 53 Nel Comunicato del 24 febbraio 1999, n. 19/99/133, la Commissione Europea ha affermato «Lo sport comporta due livelli di attività, cioè da un lato l’attività sportiva propriamente detta che svolge una funzione sociale, culturale e di integrazione che occorre preservare e che sfugge in genere alle norme di concorrenza del Trattato e, dall’altro, una serie di attività economiche generate dall’attività sportiva alle quali si applicano le norme di concorrenza del Trattato in considerazione della specificità del settore. L’interdipendenza e le sovrapposizioni tra questi due livelli rendono più complessa l’applicazione delle norme di concorrenza. Lo sport vanta delle peculiarità, in particolare, l’interdipendenza tra concorrenti e la necessità di garantire l’incertezza dei risultati delle competizioni sportive, che potrebbero giustificare l’attuazione da parte delle associazioni sportive di un quadro regolamentare specifico, in particolare in relazione ai mercati della produzione e della vendita degli spettacoli sportivi. Tuttavia, queste specificità non giustificano alcuna esenzione d’ufficio delle attività economiche generate dallo sport dalle norme di concorrenza del Trattato, in particolare a motivo del crescente peso economico di queste attività». 54 Sul punto si veda M. COCCIA, Lo sport in TV e il diritto antitrust, in Riv. dir. Sportivo, 2000, p. 297. 55 56

In Riv. dir. Sportivo, 1999, p. 601.

In particolare, S. GORELLI-M. MARÈ-C. SALLEO, Profili economici della regolamentazione del calcio in Tv, in Riv. dir. Sportivo, 1999, p. 283 ha sottolineato come tale spartizione, imposta per legge, delle partite di calcio di serie A tra le uniche due emittenti in criptato allora esistenti in Italia (Telepiù e Stream) forse sarà benefica per il consumatore negli anni a venire, ma, nell’immediato, lascia perplessi in quanto ha imposto a molti appassionati l’abbonamento ad entrambe le emittenti al fine di poter seguire tutte le partite del campionato della squadra preferita.

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e del mercato, sentita l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, tenuto conto delle condizioni generali del mercato, della complessiva titolarità degli altri diritti sportivi, della durata dei relativi contratti, della necessità di assicurare l’effettiva concorrenzialità dello stesso mercato, evitando distorsioni con effetti pregiudizievoli per la contrattazione dei predetti diritti di trasmissione relativi ad eventi considerati di minor valore commerciale. Tuttavia, i primi due commi dell’art. 2 della legge n. 15/1999, relativi a quanto detto in precedenza, sono stati abrogati dall’art. 30 del d.lgs. 9 gennaio 2008, n. 9 (Disciplina della titolarità e della commercializzazione dei diritti audiovisivi sportivi e relativa ripartizione delle risorse) che, ridisegnando completamente la disciplina dei diritti televisivi, ha fornito una nuova normativa adeguata ai principi ed ai criteri fissati nell’articolo unico della legge 19 luglio 2007, n. 106 57, stabilendo, in primis, che «le disposizioni in esso contenute sono volte a garantire la trasparenza e l’efficienza del mercato dei diritti audiovisivi degli eventi sportivi dei campionati, coppe e tornei professionistici a squadre e delle correlate manifestazioni sportive, organizzati a livello nazionale, ed a disciplinare la ripartizione delle risorse economiche e finanziarie assicurate dalla commercializzazione in forma centralizzata di tali diritti, in modo da garantire l’equilibrio competitivo tra i soggetti partecipanti alle competizioni e da destinare una quota di tali risorse a fini di mutualità». Il testo normativo prosegue riconoscendo la contitolarità sui diritti televisivi da parte dell’organizzatore della competizione e dell’organizzatore dei singoli eventi di quella competizione (art. 3, d.lgs. n. 9/2008), nonché disciplinando l’esercizio dei diritti audiovisivi e del diritto di cronaca (artt. 4 e 5) e dettando le regole per la commercializzazione degli stessi sul mercato nazionale e su quello internazionale (artt. 6-10). Più recentemente il Parlamento Europeo, insistendo affinché misure legali venissero adottate per garantire ai telespettatori la trasmissione in chiaro di quegli eventi sportivi maggiormente sentiti, la cui visione risponde ad un interesse pubblico da soddisfare, ha votato la risoluzione PE 22 maggio 1996, n. b4-0326/96 sulla radiodiffusione di grandi eventi sportivi nonché la relazione e la risoluzione sul ruolo del servizio pubblico televisivo in una società multimediale, adottate il 19 settembre 1996, parr. 21 e 22 del documento PE n. A4-0243/96 58, precedendo la direttiva n. 97/36/CE con la quale si è consentito agli Stati membri di fissare normativamente una sorta di lista di eventi nazionali e non «di particolare rilevanza per la società» e che, pertanto, devono essere trasmessi in chiaro 59. In Italia, la richiamata direttiva è stata at57

Delega al Governo per la revisione della disciplina relativa alla titolarità ed al mercato dei diritti di trasmissione, comunicazione e messa a disposizione al pubblico, in sede radiotelevisiva e su altre reti di comunicazione elettronica, degli eventi sportivi dei campionati e dei tornei professionistici a squadre e delle correlate manifestazioni sportive organizzate a livello nazionale. 58 59

Il testo delle citate risoluzioni è rinvenibile in Riv. dir. Sportivo, 1997, p. 470 ss.

In G.U.C.E., L. 202, 30 luglio 1997, n. 61, riprodotta in Riv. dir. Sportivo, 1998, p. 303. Nel preambolo della direttiva, a titolo esemplificativo, si menzionano «i giochi olimpici, il campionato

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tuata dall’autorità per la garanzia nelle comunicazioni con la delibera 9 marzo 1999, n. 8 60, secondo la quale “evento di particolare rilevanza” deve intendersi un evento che: goda di risonanza speciale e generalizzata in Italia, interessando persone diverse oltre quelle che normalmente seguono in televisione il tipo di evento; goda di un riconoscimento generalizzato da parte della popolazione; coinvolga la squadra nazionale di una determinata disciplina sportiva in un torneo internazionale di grande rilievo; sia stato tradizionalmente trasmesso sulla televisione non a pagamento ed abbia raccolto un ampio pubblico di spettatori in Italia 61. In ultimo, per quanto riguarda gli eventi sportivi di respiro internazionale, la loro visione è garantita dalla partecipazione di organismi radiotelevisivi nazionali all’UER, associazione di organismi radiotelevisivi nata con la finalità di promuovere la cooperazione tra i suoi membri e a favorire lo scambio di trasmissioni. Ovviamente per accedere all’UER, l’organismo di tele/radiodiffusione deve garantire un servizio di carattere nazionale e coprire una parte sostanziale del territorio interessato 62. mondiale di calcio e il campionato europeo di calcio». Sulla scia della direttiva comunitaria, numerosi Stati membri hanno redatto un elenco di eventi sportivi non criptabili: in Spagna, ad esempio, oltre ad istituire il Consiglio per le emissioni e le trasmissioni sportive, quale organismo competente a redigere il detto elenco, la legge n. 231/1997, in Riv. dir. Sportivo, 1997, p. 712, è intervenuta pesantemente sui contratti esistenti, rendendo espressamente inefficaci quei contratti che prevedevano la trasmissione in criptato di eventi poi riservati alla trasmissione in chiaro, statuendo addirittura, in una disposizione transitoria, che in relazione a tali contratti le parti devono mettersi d’accordo «senza che lo Stato debba in alcun caso assumere, in modo diretto o indiretto, l’onere del pagamento dei danni economici». 60

In Riv. dir. Sportivo, 1996, p. 605.

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L’art. 2 della delibera arriva a stilare una vera e propria lista degli eventi che devono essere trasmessi in chiaro comprendente: le Olimpiadi estive e invernali; la finale e tutte le partite della nazionale italiana nel campionato del mondo del calcio; la finale e tutte le partite della nazionale italiana di calcio, in casa e fuori casa, in competizioni ufficiali; la finale e le semifinali della Coppa dei Campioni e della Coppa UEFA qualora vi siano squadre italiane; il Giro d’Italia; il Gran premio d’Italia automobilistico di Formula 1; Il Festival della Musica di San Remo. L’Autorità si riserva la possibilità di includere, volta per volta, altri eventi, previsione che se da un lato mira a tutelare il consumatore, dall’altro altera sensibilmente il quadro concorrenziale, limitando la possibilità dei titolari dei diritti televisivi, relativi agli eventi sportivi elencati, di ottimizzare il profitto ricavabile dal loro prodotto. Così, M. COCCIA, Lo sport in TV e il diritto antitrust, cit. 62 Le emittenti non ammesse possono, al più, ottenere sublicenze per trasmissioni differite e di carattere informativo, a condizione di garantire la priorità di irradiazione a favore del broadcaster membro dell’Eurovisione. Tutti i membri attivi dell’UER possono partecipare ad un sistema istituzionalizzato di scambio di programmi televisivi e, in particolare, di programmi sportivi tramite una rete europea di eurovisione ed avvalersi di un sistema di acquisizione in comune dei diritti televisivi sulle manifestazioni sportive internazionali, denominati diritti di eurovisione. Per molti anni il prezzo dei diritti televisivi per le manifestazioni sportive è rimasto relativamente basso, poiché gli organizzatori sportivi erano principalmente preoccupati di assicurare il servizio televisivo al fine di attrarre gli sponsor e promuovere il più possibile le loro manifestazioni. Tuttavia, negli ultimi tempi, con l’aumento della concorrenza per l’acquisizione dei diritti, gli organizzatori sono divenuti sempre

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2.2. Il diritto all’immagine nello sport Quanto finora esposto è utile per comprendere efficacemente la portata e l’ampiezza del fenomeno sportivo e della sua diffusione grazie ai principali mezzi di trasmissione radio/televisiva, diffusione che, inevitabilmente, solleva questioni legate alla tutela del diritto all’immagine degli sportivi e non solo. Il diritto all’immagine appartiene all’area dei diritti personalissimi e trova il suo generale referente normativo all’art. 10 c.c. che afferma il principio in forza del quale ogni persona fisica, nota o meno, ha il diritto di vietare la divulgazione del proprio ritratto o della propria immagine in assenza del suo consenso, anche a prescindere dalla circostanza che da tale diffusione possa derivare pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione. Il medesimo divieto viene ribadito dall’art. 96 l.d.a. che richiama in maniera espressa, e non tacita come l’art. 10 c.c., il consenso dell’interessato aggiungendo alle categorie dell’onore e della reputazione quella del decoro. Un passo verso una maggiore apertura viene compiuto dal successivo art. 97 l.d.a. che sembra stemperare l’espresso divieto generale consentendo la pubblicazione e riproduzione delle immagini a prescindere dal consenso, quando ci siano delle cause di giustificazione rappresentate dalla notorietà della persona o dall’ufficio pubblico dalla stessa ricoperto, ovvero quando la diffusione dell’immagine stessa sia collegata ad eventi di interesse pubblico o comunque svoltisi in pubblico 63. Un breve accenno merita anche l’art. 5 c.c. sotto l’egida del quale potrebbero essere ricondotti, in virtù di un’interpretazione estensiva, operata da parte della dottrina, anche gli atti dispositivi del diritto all’immagine. Una tale ricostruzione, in vero, non merita accoglimento essendo stata ormai superata dalla giurisprudenza, non proprio recente, secondo cui: «salve le ipotesi di pubblicazione del ritratto in circostanze tali per cui possa profilarsi una lesione al decoro o alla reputazione, non è più in discussione la compatibilità di negozi aventi per oggetto l’utilizzazione altrui di un proprio ritratto con i principi del buon costume» e ciò perché avvalorati dal consenso validamente prestato dal soggetto titolare del diritto, consenso che deve essere specifico, ossia riferito a prestazioni o attività bene identificate, ed avere ad oggetto contesti e condizioni di utilizzazione «preventivamente conoscibili, in modo che il soggetto sia in grado di valutare ex ante le esatte implicazioni del proprio atto dispositivo e quindi assumere una decisione consapevole» 64. Il diritto all’immagipiù consapevoli del valore dei loro diritti e i prezzi sono aumentati notevolmente. Basti pensare che i compensi pagati dall’UER alla IAAF per i diritti dell’eurovisione riguardanti i campionati mondiali di atletica sono passati da 6 milioni di USD per quelli tenutisi a Tokio nel 1991, ai 91 milioni di USD per quelli tenutisi a Stoccarda nel 1993 e di Gonteborg nel 1995. 63

Le “cause di giustificazione” rinvenute all’art. 97 l.d.a. dimostrano che si tratta di una norma eccezionale e come tale soggetta ad interpretazione restrittiva. 64 Così, G. SANTINI, I diritti della personalità nel diritto industriale, Padova, 1959, p. 162. In giurisprudenza, Cass., 27 settembre 1955, n. 2649, in Foro it., 1955, I, p. 1648 e, nella giurispruden-

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ne in generale ha acquistato una valenza patrimoniale, accanto a quella personale grazie all’opera della giurisprudenza che, nel tempo, ha valorizzato tale profilo attraverso un’interpretazione estensiva delle norme positive, facendovi rientrare quelle forme di utilizzo delle immagini a fini di lucro, già contemplate dagli artt. 96 e 97 l.d.a. discutendo espressamente di “messa in commercio del ritratto”. Dopo un primo momento storico in cui si riteneva che fosse disdicevole l’impiego a fini di lucro della propria immagine – sostenendo che la divulgazione a scopo pubblicitario dell’immagine di una persona senza la sua autorizzazione fosse illecita non tanto per la mancanza del consenso (ex art. 96 l.d.a.) o delle esimenti (ex art. 97 l.d.a.) quanto piuttosto perché avrebbe arrecato pregiudizio all’onore o al decoro del ritratto – sempre più imprenditori riconobbero l’utilità di avvalersi dell’immagine di personaggi famosi per promuovere i loro prodotti, consapevoli del profitto economico che ne sarebbe derivato 65. Un’importante linea interpretativa, a distanza di un decennio dall’inversione di tendenza, fu fornita dalla Suprema Corte che affermò: «deve ritenersi esistente nel nostro ordinamento il generale diritto della persona alla riservatezza, inteso come tutela di quelle situazioni e vicende strettamente personali e familiari le quali, anche se verificatesi fuori del domicilio domestico, non hanno per i terzi un interesse socialmente apprezzabile, contro le ingerenze che, sia pure compiute con mezzi leciti, per scopi non esclusivamente speculativi e senza offesa per l’onore, la reputazione o il decoro, non siano giustificate da interessi pubblici preminenti» 66. In questo modo la Corte riusciva a mettere a fuoco le basi per la interpretazione moderna delle norme sul diritto all’immagine e quindi a fornire le chiavi di lettura degli artt. 10 c.c. e 96, 97 legge sul diritto d’autore 67 affermanza di merito, App. Milano, 30 novembre 1954, in Foro it., 1955, I, p. 559 e App. Roma, 22 giugno 1957, in Dir. autore, 1958, p. 420. 65 In realtà l’abbandono della tesi tradizionale non è stata cosa semplice, considerando che si sono prodotti vuoti di protezione dell’immagine di personaggi celebri nonostante essi non ne avessero autorizzato l’uso, tanto meno per finalità di commercio. Così, il Supremo Collegio, a conclusione di una lunga controversia, ritenne che la riproduzione su cartoline e la loro diffusione a scopo di lucro del ritratto di una nota cantante (Nilla Pizzi), dovesse ritenersi lecita pur senza il suo consenso, solo perché giustificata dalla sua notorietà e ciò in forza di una interpretazione eccessivamente estensiva dell’art. 97, comma 1 della legge sul diritto d’autore. Si veda a tal proposito Cass., 14 dicembre 1963, n. 3150, in Giust. civ., 1964, I, p. 272. Sempre in quegli anni, vi erano tuttavia anche voci contrarie, consapevoli dell’inadeguatezza di una tutela così imposta e dei mutamenti che si stavano verificando nella coscienza sociale: così P. VERCELLONE, Il diritto sul proprio ritratto, Torino, 1959, p. 118: «nessuno pensa ormai che ricevere un compenso per consentire che il proprio ritratto appaia su manifesti pubblicitari … sia cosa immorale e disdicevole». 66 Cass., 27 maggio 1975, n. 2129, in Foro it., 1976, I, p. 2896. Nel caso di specie, un fotografo si era arrampicato su un albero per scattare fotografie all’ex imperatrice Soraya che si trovava in compagnia di un uomo all’interno della sua villa. 67 In tal modo la Corte stabilì che anche le persone celebri hanno diritto alla riservatezza quando si muovono in un ambito privato e che, quindi, è illecita la produzione e la diffusione della loro im-

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do l’ulteriore principio secondo cui, non esistendo un diritto di sfruttamento commerciale dell’altrui immagine, anche se di persone notorie, «non può ravvisarsi nemmeno un diritto di altri soggetti come cronisti e giornalisti di controllare e riferire illimitatamente ogni aspetto della vita delle persone divenute famose» e che, per conseguenza, anche la loro sfera privata «deve essere tutelata da intrusioni non giustificate da alcuna rilevanza sociale» 68. Sembra essere abbastanza chiaro, dunque, che l’orientamento della giurisprudenza sia quello di riconoscere, unanimemente, autonoma tutela all’aspetto patrimoniale dell’immagine, fino ad affermare l’illiceità dello sfruttamento commerciale di essa in assenza del consenso del titolare 69, principio generale che trova applicazione anche e in maniera specifica nel contesto sportivo dove, sempre più spesso, viene attribuita all’immagine degli sportivi un chiaro effetto promozionale dagli innegabili risvolti economici. Ovviamente, l’uso (abuso) dell’altrui immagine solleva aspetti rimagine indipendentemente dallo scopo, commerciale o meno, che l’abbia determinata. Determinò, inoltre, che l’interesse pubblico all’informazione debba corrispondere ad un giustificato interesse della collettività alla sempre maggiore conoscenza della persona nota, e non possa quindi identificarsi nella morbosa curiosità che parte del pubblico ha per le vicende svoltesi nell’intimità della casa della persona nota. Chiarì, inoltre, che le esimenti di cui all’art 97 l.d.a. dovessero essere interpretate restrittivamente. Questi principi sono stati, negli anni a seguire, ricalcati dalla giurisprudenza di merito e dal Supremo Collegio (cfr. Trib. Roma, 11 giugno 1991, in Dir. inf., 1992, p. 88 ed in Foro it., 1992, I, p. 1957; Trib. Roma, 25 marzo 1992, in Giur. it., n. 2, 1992, I, p. 644; Pret. Milano, 19 dicembre 1989, in Foro it., 1991, I, p. 2836; Cass., 10 novembre 1979, n. 5790, in Foro it., 1980, I, p. 82) che hanno nel tempo posto l’attenzione su aspetti e diritti ulteriori. Si vuole far riferimento al diritto all’oblio, all’applicazione del criterio di ragionevolezza nella valutazione del concetto di pubblico interesse e il principio della essenzialità dell’informazione quale requisito per la sua legittimità. 68

Riprendendo la decisione del Trib. Milano, 17 novembre 1994, in Dir. inf., 1995, p. 373, caso Lilli Gruber, secondo cui non è giustificata l’utilizzazione di «immagini attinenti alla vita privata indebitamente carpite in luogo privato». 69

È stato chiarito che il consenso dato, anche in via implicita, dal titolare del diritto all’immagine al fine di consentirne l’utilizzo da parte di terzi, rende legittimo quell’uso purché esso resti all’interno dei rigorosi limiti soggettivi e oggettivi entro cui il consenso è stato prestato. In tal senso, Trib. Roma, 7 ottobre 1988, in Giust. civ., 1989, p. 1243, secondo cui «il consenso idoneo a far venir meno l’illiceità della divulgazione del ritratto di una persona, può anche essere implicito. Poiché si tratta di un diritto della personalità, si deve sottolineare che l’efficacia del consenso deve essere contenuta entro il rigoroso ambito della prestazione, nei limiti in cui il consenso stesso fu dato (limite oggettivo della diffusione) e con riguardo esclusivo al soggetto o ai soggetti nei cui confronti fu prestato (limite soggettivo)». Nello stesso senso si vedano anche Trib. Roma, 2 novembre 1994, in Corr. giur. 1995, p. 975, con nota di A. BARENGHI, In tema di tutela inibitoria del diritto all’immagine; Trib. Torino, 14 marzo 1992, in Impresa, 1992, p. 1770; Trib. Monza, 26 marzo 1990 e Pret. Milano, 19 dicembre 1989, entrambe in Foro it., 1991, I, p. 2861, con nota di O. TROIANO. In senso contrario, Pret. Roma, 16 giugno 1990, in Foro it., 1992, I, p. 1958, secondo cui «se il limite del consenso non risulta esplicitamente, l’autorizzazione prestata dall’interessato alla divulgazione della propria immagine, ove non sia in concreto limitata nel tempo o comunque sottoposta a vincoli, deve intendersi prestata illimitatamente e subordinata solo al criterio del c.d. uso prevedibile».

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sarcitori, in genere di difficile quantificazione e, a tal proposito, in dottrina è stato suggerito che nell’ipotesi di uso abusivo dell’immagine altrui, il risarcimento possa venir calcolato aggiungendo al danno emergente, la maggior somma tra quest’ultimo e il guadagno ottenuto dall’imprenditore, a prescindere dall’impoverimento del danneggiato 70. I suggerimenti forniti da dottrina e giurisprudenza sono stati recepiti dal legislatore e trasformati nella modifica dell’art. 158 della legge 22 aprile 1941, n. 633 che oggi recita: «Chi venga leso nell’esercizio di un diritto di utilizzazione economica a lui spettante può agire in giudizio per ottenere, oltre al risarcimento del danno che, a spese dell’autore della violazione, sia distrutto o rimosso lo stato di fatto da cui risulta la violazione. Il risarcimento dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227 del codice civile. Il lucro cessante è valutato dal giudice ai sensi dell’art. 2056, secondo comma, del codice civile, anche tenuto conto degli utili realizzati in violazione del diritto. Il giudice può altresì liquidare il danno in via forfettaria sulla base quanto meno dell’importo dei diritti che avrebbero dovuto essere riconosciuti, qualora l’autore della violazione avesse chiesto al titolare l’autorizzazione per l’utilizzazione del diritto. Sono altresì dovuti i danni non patrimoniali ai sensi dell’art. 2059 del codice civile». Sulla scia della regolamentazione e dei contorni normativi tracciati dal legislatore, sempre più diffusi, poi, sono stati, anche nel campo sportivo, i contratti aventi ad oggetto il conferimento a terzi, generalmente imprenditori, del diritto di far uso dell’immagine di un personaggio. Si tratta dei cosiddetti contratti di personality merchandising, contratti atipici dall’oggetto vario, rimesso alla volontà delle parti, che trovano il loro referente normativo nel disposto degli artt. 1174 e 1322 c.c., e che venendo disciplinati dalle sole norme sul contratto in generale, richiedono un’attenta e minuziosa regolamentazione dei rapporti tra le parti coinvolte. Una trattazione separata meritano, poi, i cosiddetti testimonial, figure che per la loro natura rientrano nella categoria dei contratti di personality merchandising con cui si pongono in un rapporto di genus a species. Il testimonial assume la rappresentanza mediatica dell’impresa a cui ha concesso l’uso della sua immagine legandosi strettamente ad essa e facendo nascere un’esclusiva as70

R. SACCO, L’arricchimento ottenuto mediante fatto ingiusto, Torino, 1959, pp. 11, 45, 59; C. SCOGNAMIGLIO, Il diritto all’utilizzazione economica del nome e dell’immagine delle persone celebri, in Dir. inf., 1988, p. 36; P. DE PALMA, Valore dell’immagine di persona celebre e pubblico interesse alla conoscenza, in Dir. autore, 1993, p. 641. Ha seguito questo criterio, inoltre, il Tribunale di Milano, che ha liquidato il danno patrimoniale subìto utilizzando come criterio il prezzo del mancato consenso, che viene fatto coincidere con il corrispettivo generalmente ricavato dal personaggio noto per prestazioni analoghe, ovvero, in difetto di tale prova, con il corrispettivo normalmente praticato nel settore di mercato interessato, per prestazioni di contenuto simile, talvolta dando ad esso concretezza attraverso la sua equiparazione al prezzo effettivamente pagato dall’editore del giornale all’agenzia fotografica dalla quale era stata comprata la fotografia. Così, Trib. Milano, 30 luglio 1986, in Dir. inf., 1987, p. 1000, il caso riguardava un’illecita pubblicazione su una rivista scandalistica, dell’immagine di una donna protagonista di una famosa vicenda giudiziaria.

Doping e diritti audiovisivi

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soluta e non limitata a specifiche classi merceologiche o a singoli produttori o servizi. Questi contratti che, nella pratica comprendono un range molto ampio di prestazioni 71, fanno nascere una serie di obbligazioni di facere (es. le attività di interpretazione pubblicitaria) pur richiedendo sempre una corretta e sufficiente determinazione dell’oggetto, pena la nullità degli stessi ex art. 1346 c.c. I principi e le regole fin qui esposte non sono state estranee al mondo dello sport, in considerazione della popolarità e notorietà di cui gli atleti godono, una popolarità che ha connotazioni economiche come è possibile evincere da numerosi casi che hanno catturato l’attenzione della giurisprudenza. Pensiamo al caso che ha visto coinvolto il calciatore Marco Van Basten 72 le cui immagini (che rappresentavano i migliori goal del calciatore) commercializzate da una società specializzata nel settore degli audiovisivi in materia sportiva, sono state private del valore storico enciclopedico dal Tribunale di Tortona, sul rilievo che tale commercializzazione fosse retta da un chiaro e conclamato scopo di lucro. Nel caso di specie era evidente come ci si trovasse in assenza della cause di giustificazione di cui all’art. 97 l.d.a., atteso che una cosa è utilizzare le immagini raffiguranti una persona nota ripresa in occasione delle sue apparizioni pubbliche per realizzare un servizio giornalistico a fini informativi, altra è raggruppare le immagini più interessanti per venderle sul mercato. Sempre un calciatore è stato interessato nel caso Falcao 73, per il quale il Pretore di Roma ha riconosciuto illecita la vendita di un poster raffigurante l’immagine del calciatore, perché privo di carattere informativo. Nello specifico si riconosceva la società di appartenenza del calciatore titolare del diritto di utilizzare economicamente ogni aspetto della vita societaria, ivi compreso quello formante oggetti di riproduzioni fotografiche. La sentenza, tuttavia, proseguiva analizzando l’abuso nei confronti di Falcao, la cui immagine era stata utilizzata non sic et simpliciter, ma insieme alle parole “con simpatia” e alla firma del calciatore e, secondo il pretore, «la pubblicazione del ritratto del giocatore corredato dalla frase non è in alcun modo riconducibile nell’ambito della previsione dell’art. 96 l.d.a. perché non avvenuta nell’ambito di una fattispecie che, per la notorietà della persona ritratta o per il collegamento ad avvenimenti di interesse pubblico, poteva prescindere dal consenso dell’avente diritto». In ultimo, merita l’attenzione anche l’ipotesi, non rara nel mondo dello sport, dell’uso dell’immagine del minore divenuto celebre, al cui proposito è stato ritenuto che «deve ritenersi valido ogni negozio di disposizione della propria immagine compiuto dal minore, qualora l’utilizzazione dell’immagine costituisca naturale od essenziale implicazione di un precedente rapporto validamente stipulato dal minore stesso, come avviene, di regola, nell’ipotesi del

71 Appartiene, ad esempio, alla categoria dei contratti “normali” di personalità merchandising il cosiddetto contratto di endorsement, che si distingue da quelli ancora più normali perché il titolare. 72

Trib. Tortona, 24 novembre 2003, in Danno e resp., 2004, p. 533.

73

Pret. Roma, 24 dicembre 1981, in Riv. dir. Sportivo, 1983, p. 578.

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contratto con prestazioni artistiche» 74. La giurisprudenza ha tenuto a chiarire che in un contratto di lavoro sportivo non potrà legittimamente ritenersi compresa una licenza di immagine, con la conseguenza che l’atto di disposizione del diritto all’immagine del minore, eccedendo l’ordinaria amministrazione, richiederà l’autorizzazione del Giudice Tutelare ex art. 320, comma 3, c.c., in quanto suscettibile di valutazione patrimoniale 75. Ovviamente una tale soluzione trova applicazione solo nel caso in cui l’atto di disposizione dell’immagine sia effetto di un negozio o di un’autorizzazione concessa dal minore, restando, invece, escluse tutte quelle attività che, seppur coinvolgenti l’immagine del minore, siano effetto della sua appartenenza ad una società sportiva.

74

G. BAVETTA, Immagine (diritto alla), in Enc. dir., vol. XX, Milano, 1970, p. 144; App. Roma, 8 settembre 1986, in Dir. autore, 1987, p. 505 ha deciso che «il consenso prestato all’uso di foto di scena da parte del soggetto ritratto deve ritenersi limitato alle utilizzazioni aventi finalità promozionali e di pubblicazione dell’opera cinematografica; pertanto non può farsi risalire a tale consenso e non può ritenersi lecita la pubblicazione da parte di una rivista di alcune di dette foto allorquando tale operazione sia stata contraddistinta da un’autonoma rilevanza economica priva di ogni nesso di strumentalità con lo sfruttamento dell’opera cinematografica». 75

In questo senso, P. VERCELLONE, Il diritto sul proprio ritratto, cit., p. 192. In senso contrario, Trib. Catania, 16 dicembre 1982, in Giur. merito, 1984, p. 855 che ha ritenuto non necessaria l’autorizzazione del Giudice Tutelare per la pubblicazione dell’immagine di una minore partecipante ad un concorso di bellezza.

CAPITOLO TERZO

L’organizzazione della giustizia sportiva SOMMARIO: SEZIONE I. Linee generali. – 1. La giustizia sportiva e il contributo del diritto comunitario. – 2. Il vincolo di giustizia e l’esigenza di una tutela effettiva. – 2.1. Verso la riforma della giustizia sportiva. – 3. Il Codice di Giustizia Sportiva. – 3.1. Il processo sportivo e la sua disciplina. – 3.2. Le funzioni del Giudice sportivo. – 3.3. I Giudici federali. – 3.4. Il Procuratore federale. – 3.5. I tempi del processo sportivo. – SEZIONE II. I nuovi organi di Giustizia. – 4. Gli organi di Giustizia presso il CONI. – 4.1. La Procura generale dello sport e le sue funzioni. – 4.1.1. Il Procuratore generale. – 5. Il Collegio di garanzia. – 5.1. Il procedimento dinanzi al Collegio di garanzia.

SEZIONE I

Linee generali

1. La giustizia sportiva e il contributo del diritto comunitario Con l’espressione “Giustizia sportiva” si vuole far riferimento a tutti quegli istituti contemplati negli Statuti e nei Regolamenti federali ideati con la finalità di dirimere le controversie che insorgono tra i soggetti del mondo dello sport e quindi gli atleti, le associazioni di appartenenza e le Federazioni. Le vicende della Giustizia sportiva, che solo di recente ha avuto consacrazione di argomento rilevante in sede di teoria generale del diritto, sono intimamente correlate con la evoluzione della materia del diritto sportivo, evoluzione che può scandirsi in cinque periodi, i primi due cronologicamente ampi e gli altri, proporzionalmente all’affermazione del diritto sportivo, sempre più contenuti 1. 1

Il primo periodo può collocarsi tra il 1948 e la legge n. 91/1981: sino agli anni cinquanta lo Sport non godeva di un particolare riconoscimento da parte del legislatore e, di conseguenza, da parte degli studiosi delle culture giuridiche. Nel 1948, con l’articolo di M.S. Giannini in apertura della Riv. dir. Sportivo sull’autonomia dell’ordinamento sportivo, si indirizzò un’attenzione particolare sull’ordinamento sportivo. In tale contesto si inserì anche la legge 6 febbraio 1942, n. 426 “Costi-

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Grazie al dettato rinvenibile nei Regolamenti federali è possibile distinguere quattro tipi di procedimenti che vengono conosciuti dagli organi di Giustizia sportiva: un procedimento tecnico che mira a garantire il corretto svolgimento delle competizioni ed il rispetto delle norme poste dalla Federazione internazionale di riferimento disciplinare; un procedimento economico, tendente a risolvere le controversie di tipo patrimoniale tra pari ordinati, ovvero tra due società o tra una società ed un atleta, controversie nelle quali la Federazione nazionale assume la posizione di terzo, non essendo portatrice di interessi personali al pari delle parti in causa; un procedimento disciplinare preordinato ad accertare e punire eventuali violazioni di norme federali relative a controversie implicanti l’applicazione di sanzioni a carico di chi le viola ed, in ultimo, un procedimento amministrativo, che incarna una categoria residuale nell’ambito della quale generalmente si ricomprendono i provvedimenti relativi al tesseramento, all’affiliazione e alla partecipazione ai campionati di competenza 2. tuzione e ordinamento del Comitato Olimpico Nazionale Italiano CONI” con la quale si fornì una regolamentazione organica dell’operatività del CONI, riconoscendogli la qualifica di ente pubblico con l’attribuzione della funzione di organizzare e potenziare lo sport nazionale. Sempre in questo periodo, i contributi dottrinari e giurisprudenziali concorsero a porre in evidenza la rilevanza che l’esercizio dello sport acquistava sotto il profilo giuridico. La situazione sembrava sostanzialmente consolidata quando, nel 1980 il mondo sportivo italiano, fu sconvolto dalla vicenda del calcio scommesse. Con la legge 23 marzo 1981, n. 91 “Norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti” si ravvisò la necessità di dettare norme in materia di rapporti tra società e sportivi professionisti. Il secondo periodo è, invece, da collocare tra il 1981 e il 1996, periodo durante il quale la giurisprudenza ha offerto consistenti contributi in ordine alla problematica del diritto sportivo, suscitando anche l’interesse della Comunità europea, ponendo in evidenza la necessità di una rivisitazione della disciplina della materia. Il terzo periodo abbraccia gli anni tra il 1996 e il 2001, è in questo contesto che si sono ulteriormente affermati, nell’ambito dello sport, i principi del pluralismo e il principio della sussidiarietà anche attraverso la promulgazione di numerosi leggi delega. Rientra nel terzo periodo il d.lgs. 23 luglio 1999, n. 242 “legge Melandri” con la quale fu data una definitiva configurazione al CONI come ente pubblico, e alle Federazioni fu attribuita la qualificazione giuridica privatistica. Ad incrementare l’innovazione normativa è stato il nuovo Statuto del CONI che ha garantito la previsione di una Camera di Conciliazione e Arbitrato per lo sport. Il quarto periodo è collocabile tra il 2001 e il 2003, anno di promulgazione della legge 17 ottobre 2003, n. 280, grazie alla quale la Giustizia sportiva ha ricevuto una definitiva consacrazione come argomento di teoria generale del diritto. Ai giorni nostri, si può ormai, pacificamente affermare che la Giustizia sportiva ha guadagnato una collocazione temporale autonoma, basti pensare che il Convegno di Capri del 2008 della società degli Studiosi di Diritto Sportivo ha consacrato definitivamente lo Sport come argomento caratterizzante una scienza giuridica. 2 È bene, sin da subito, precisare come l’attività che compiono gli organi di giustizia sportiva non sembra possa qualificarsi come attività procedimentale, tant’è che il termine “procedimento” viene, in vero, utilizzato impropriamente o comunque non con la stessa rilevanza attribuitagli nel diritto amministrativo, considerando che l’attività svolta dagli organi di Giustizia Sportiva non si conclude con l’emanazione di un provvedimento Così, M. SANINO-F. VERDE, Il diritto sportivo, Vicenza, 2015, p. 494. L’attività compiuta dagli organi di Giustizia Sportiva non è qualificabile come attività procedimentale, inoltre, non essendo consentita in virtù di prescrizioni normative e, quin-

L’organizzazione della giustizia sportiva

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La suesposta distinzione operata nell’ambito della Giustizia sportiva, appare rilevante ai fini della corretta conoscenza delle questioni da parte degli organi della giustizia sportiva o di quella statale. In vero sull’argomento della ripartizione della giurisdizione, ci si è soffermati già nel Capitolo I, offrendo quanto meno una illustrazione delle questioni variamente riconducibili nelle diverse categorie di procedimenti, anche e soprattutto alla luce delle modifiche apportate dalla legge 17 ottobre 2003, n. 280, normativa i cui punti salienti sono costituiti dal riconoscimento dell’ordinamento sportivo nazionale come un’articolazione dell’ordinamento sportivo internazionale che fa capo al Comitato Olimpico Internazionale e dal riconoscimento dell’autonomia dell’ordinamento sportivo rispetto a quello statale, realtà tra di loro collegate dal fatto che ai soggetti “sportivi” non può essere precluso, a priori, il diritto costituzionalmente garantito di ottenere la tutela delle proprie posizioni giuridiche innanzi alle autorità giurisdizionali dello Stato 3. La questione preminente è, quindi, quella di individuare quali sono gli aspetti che attengono esclusivamente all’attività sportiva, e come tali integralmente regolamentati nell’ambito dell’organizzazione dello sport, e quali sono, invece, gli aspetti che possono assumere un rilievo esterno tale da acquistare rilevanza agli occhi dell’ordinamento giuridico della Repubblica. Soluzione a tale questione viene fornita dall’art. 2 della legge del 2003, il quale, pur senza limitare la tutela degli sportivi dinanzi al Giudice ordinario, riconosce all’ordinamento sportivo una riserva esclusiva di giurisdizione per quelle questioni che abbiano ad oggetto: 1. «l’osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’Ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive ed agonistiche»; 2. «i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari sportive».

di, non può ritenersi conforme ai principi di tipicità e articolazione propri del provvedimento amministrativo, né appare soggetta alla legge n. 241/1990. Dello stesso avviso è F.P. LUISO, La giustizia sportiva, Milano, 1975; S. LANDOLFI, Autorità e consesso sulla giustizia federale calcistica, in Riv. dir. Sportivo, 1979, p. 336; R. FRASCAROLI, Sport, in Enc. dir., vol. XLIII, Milano, 1990, p. 513; P.M. PIACENTINI, Sport, in G. GUARINO (a cura di), Dizionario amministrativo, vol. II, Padova, 1983, p. 1425; F.P. LUISO, Giustizia sportiva, in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. IX, Torino, 1993, p. 222; V. FRATTAROLO, L’ordinamento sportivo nella giurisprudenza, Milano, 1995; L. DI NELLA, Il rapporto tra fenomeno sportivo civile, comunitario e comparato, in Riv. dir. Sportivo, 1998, p. 243. 3

Così, ad esempio, il provvedimento di sospensione della carica di “Presidente” di una società della Lega calcio è una sanzione disciplinare che esaurisce la sua efficacia nell’ordinamento sportivo; tuttavia, per l’ordinamento statale il Presidente sospeso non perde la rappresentanza legale della stessa società sportiva ed è, perciò, suscettibile di autonoma sanzione amministrativa da parte dell’ispettorato del lavoro, per violazione della normativa in punto di assunzione di personale.

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Lineamenti di diritto dello sport

Alla luce del dettato normativo, dunque, si arriva pacificamente a riconoscere che le questioni di carattere tecnico e disciplinare 4 sono sicuramente oggetto di riserva in favore dell’ordinamento sportivo, per cui, vengono devolute alla giurisdizione esclusiva del Giudice amministrativo le controversie che hanno per oggetto l’impugnativa di atti del CONI o delle Federazioni sportive nazionali, mentre sono devolute alla giurisdizione del Giudice ordinario le controversie concernenti i rapporti patrimoniali tra società, associazioni ed atleti aderenti alle singole Federazioni. È chiaro, poi, che le questioni di carattere amministrativo, in virtù della loro rilevanza anche esterna all’ordinamento sportivo, vengono conosciute dal Giudice ordinario, proprio perché l’emanazione di tali provvedimenti tocca inevitabilmente posizioni giuridiche soggettive rilevanti anche per l’ordinamento statale 5. Ovviamente, il quadro appena descritto rappresenta un parametro meramente esemplificativo, soprattutto con riferimento alle questioni di natura tecnica e disciplinare e se posto in relazione alle valutazioni, talvolta contrastanti, espresse dalla giurisprudenza 6. Spunti di riflessione in tema di giustizia sportiva provengono anche dal versante del diritto comunitario, il cui rapporto con l’ordinamento statale si pone in termini non sempre chiari. Infatti, mentre la legge n. 280/2003 esordisce specificando, almeno in linea di principio, che «i rapporti tra l’ordinamento sportivo e l’ordinamento della Repubbli4 Preme, tuttavia, specificare che le questioni di carattere disciplinare non devono riconoscersi come riservate all’ordinamento sportivo quando le decisioni emanate dagli organi di giustizia sportiva in tale ambito vengano ad assumere un rilievo effettivo anche nell’ordinamento statale, ovvero vengano a ledere posizioni giuridiche soggettive dei destinatari di tali provvedimenti riconoscibili come diritti soggettivi o interessi legittimi, nel qual caso sicuramente non può escludersi la configurabilità del diritto di tali soggetti ad adire gli organi giurisdizionali statali per la tutela dei propri interessi. 5 È, ormai, pacifico come per l’effetto del combinato disposto dell’art. 2, comma 1 e dell’art. 3 della legge n. 280/2003 si riconosce la giurisdizione del Giudice amministrativo su tutte le vicende che non sono devolute all’Autorità giurisdizionale ordinaria e che non appartengono all’ambito esclusivo della giustizia sportiva (cfr. Cass., Sez. Un., 23 marzo 2004, n. 5775, in Giust. civ., 2005, I, p. 1625; Cons. St., sez. VI, 9 luglio 2004, n. 5025, in Cons. Stato, 2004, I, p. 1504; T.A.R. Lazio, sez. III-ter, 22 settembre 2004, n. 9668, in www.giustizia-amministrativa.it; T.A.R. Lazio, sez. III-ter, 7 marzo 2005, n. 1724, in Foro amm.-TAR, 2005, p. 735. 6 In particolare, prima dell’entrata in vigore del d.l. 19 agosto 2003, n. 220, che ha dettato specifiche disposizioni in materia di giurisdizione, era intervenuto sull’argomento il T.A.R. Lazio, sez. III, 24 settembre 1998, n. 2394, in Foro amm., 1999, p. 1599, secondo cui «per le controversie relative alla violazione di norme statutarie e regolamentari delle federazioni sportive, il criterio di riparto della giurisdizione, essendo il riflesso della duplice natura di tali organismi, va individuato sulla base dell’accertamento se le norme che si assumono violate attengano alla vita interna della federazione ed ai rapporti tra società sportive e tra le società stesse e gli sportivi professionisti ovvero alla realizzazione di interessi fondamentali ed istituzionali dell’attività sportiva, in quanto solo gli atti di quest’ultimo tipo, posti in essere dalle dette federazioni in qualità di organi del CONI, sono esplicazione di poteri pubblici, partecipano della natura pubblicistica e sono soggetti alla giurisdizione del g.a. oltreché incidono su posizioni di interesse legittimo».

L’organizzazione della giustizia sportiva

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ca sono regolati in base al principio dell’autonomia, salvi i casi di rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l’Ordinamento sportivo», l’art. 6 TFUE, tracciando confini ancora più labili, stabilisce che «l’Unione ha competenza per svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare l’azione degli Stati membri. I settori di tali azioni, nella loro finalità europea, sono i seguenti … e) istruzione, formazione professionale, gioventù e sport» in un’ottica di sostegno e coordinamento con l’attività dei singoli Stati membri. In particolare, la funzione di sostegno e supporto alla normativa interna da parte del diritto comunitario si evince dalla lettura dell’art. 2, comma 5 del medesimo Trattato dove si pone l’accento sulla competenza dell’Unione a sostenere, coordinare e completare l’azione degli Stati membri, senza sostituirsi alla loro competenza in altri settori 7. Si comprende, tuttavia, che l’azione e la operatività dell’Unione sono limitate all’incentivazione e promozione dello sport, soprattutto della sua funzione sociale ed educativa, anche se ciò non toglie che il diritto comunitario eserciti una sensibile influenza anche sulla regolamentazione di alcuni settori dello sport, ed in particolare sulla Giustizia sportiva tanto che le competenze normative degli 7

Sul rapporto tra l’ordinamento interno e l’ordinamento comunitario, si veda E. BASTIANON, L’Europa e lo Sport. Profili giuridici economici e sociali, Milano, 2013. Le richiamate disposizioni sono a loro volta riprese dall’art. 165 del Trattato sul funzionamento che prevede che «1. L’Unione contribuisce allo sviluppo di un’istruzione di qualità incentivando la cooperazione tra Stati membri e, se necessario, sostenendo ed integrando la loro azione nel pieno rispetto della responsabilità degli Stati membri per quanto riguarda il contenuto dell’insegnamento e l’organizzazione del sistema di istruzione, nonché delle loro diversità culturali e linguistiche. L’Unione contribuisce alla promozione dei profili europei dello sport, tenendo conto delle sue specificità, delle sue strutture fondate sul volontariato e della sua funzione sociale ed educativa. 2. L’azione dell’Unione è intesa: a sviluppare la dimensione europea dell’istruzione, segnatamente con l’apprendimento e la diffusione delle lingue degli Stati membri; a favorire la mobilità degli studenti e degli insegnanti, promuovendo tra l’altro il riconoscimento accademico dei diplomi e dei periodi di studio; a promuovere la cooperazione tra gli istituti di insegnamento; a sviluppare lo scambio di informazioni e di esperienze sui problemi comuni dei sistemi di istruzione degli Stati membri; a favorire lo sviluppo degli scambi di giovani e di animatori di attività socio educative e a incoraggiare la partecipazione dei giovani alla vita democratica dell’Europa; a incoraggiare lo sviluppo dell’istruzione a distanza; a sviluppare la dimensione europea dello sport, promuovendo l’equità e l’apertura nelle competizioni sportive e la cooperazione tra gli organismi responsabili dello sport e proteggendo l’integrità fisica e morale degli sportivi, in particolare dei più giovani tra di essi. 3. L’Unione e gli Stati membri favoriscono la cooperazione con i paesi terzi e le organizzazioni internazionali competenti in materia di istruzione e di sport, in particolare con il Consiglio d’Europa. 4. Per contribuire alla realizzazione degli obiettivi previsti dal presente articolo: il Parlamento europeo e il Consiglio, deliberando in conformità della procedura legislativa ordinaria e previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni, adottano azioni di incentivazione, ad esclusione di qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri», in http://eur-lex-europa.eu.

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Stati membri e le attività poste in essere dalle organizzazioni nazionali trovano una limitazione nell’obbligo del rispetto dei principi del diritto comunitario. A tal proposito, basta pensare che tanto la giurisprudenza della Corte di Giustizia quanto la prassi della Commissione Europea hanno portato chiaramente all’affermazione che, considerati gli obiettivi della Comunità, l’attività sportiva è disciplinata dal diritto comunitario in quanto sia configurabile come attività economica ai sensi dell’art. 2 CE e hanno chiarito che norme – quali quelle che stabiliscono il divieto di discriminazione, il diritto alla libera circolazione dei lavoratori, la libertà di stabilimento e di prestazione dei servizi – hanno sicuramente notevoli effetti sulla disciplina dello sport in generale e su quello praticato a livello professionistico in particolare 8. Si può, per tutte, ricordare la storica e già citata sentenza Bosman che ha avuto un effetto dirompente nei confronti di tutte le regolamentazioni poste in essere dalle diverse organizzazioni sportive, pur non rappresentando un punto di arrivo nella ricerca di una mediazione tra le esigenze dell’integrazione economica e politica, da un lato, e le peculiarità che caratterizzano il mondo dello sport, dall’altro, bensì un punto di partenza 9.

2. Il vincolo di giustizia e l’esigenza di una tutela effettiva Come ampiamente chiarito in precedenza, lo sport può riconoscersi come fenomeno sottoposto ad una doppia giustizia: quella sportiva che opera alla luce delle regole proprie dell’ordinamento sportivo, atteggiandosi in maniera funzionale alle esigenze di competenza specifica e rapidità decisionale proprie del sistema, e quella dello Stato chiamata ad intervenire in quelle ipotesi in cui le questioni sportive acquistino una rilevanza esterna tale da toccare aspetti e situazioni giuridicamente rilevanti all’interno dell’assetto statale. Proprio quest’ultima giustizia tende a ricoprire spazi sempre maggiori, vista la crescente ingerenza della partecipazione degli organi giurisdizionali dello stato nelle controversie sportive, cioè «in quelle controversie che vanno risolute alla luce delle norme poste nell’ambito dell’ordinamento sportivo» 10. Proprio per porre un freno a 8 In tal senso si vedano la sentenza 12 dicembre 1974, C-36/74, Walrave e Koch, in Racc., p. 1405, punto 4, in http://eur-lex-europa.eu; la sentenza 14 luglio 1976, C-13/76, Donà, in Racc., p. 1333, punto 12, in http://eur-lex.europa.eu; la sentenza 15 dicembre 1995, C-415/93, Bosman, in Racc., pp. I-4921, punto 73, in Cons. Stato, 1996, II, p. 520; la sentenza 11 aprile 2000, cause riunite C-51/96 e C-191/97, Deliège, in Racc., pp. I-2549, punto 41, in Cons. Stato, 2000, II, p. 725 e la sentenza 13 aprile 2000, C-176/96, Lehtonen e Castors Braine, in Racc., pp. I-2681, punto 32, in Cons. Stato, 2000, II, p. 729. 9

Quello che si vuole specificare è che la problematica del rapporto che sussiste tra Ordinamento sportivo e ordinamento comunitario si riversa in maniera decisiva sulla identificazione dei limiti alla applicazione dei principi comunitari alle regole dello sport. 10

F. MODUGNO, Giustizia e sport: problemi generali, in Riv. dir. Sportivo, 1993, p. 327.

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tale fenomeno, si parla di “vincolo di giustizia sportivo”, termine con il quale si vuole fare riferimento alla presenza, nel sistema di giustizia sportiva, di un duplice obbligo: l’accettazione e il rispetto delle norme e dei provvedimenti stabiliti dalle Federazioni sportive, nonché l’impegno di adire, per la soluzione delle controversie insorte tra gli affiliati, esclusivamente gli organi federali. Se la prima imposizione non presenta particolari complicanze atteso che chi entra volontariamente a far parte di un’organizzazione sportiva, deve, di conseguenza, accettarne i provvedimenti adottati dagli organi delle Federazioni, più complicata e meno pacifica è la seconda previsione che impone agli affiliati delle organizzazioni sportive l’obbligo di adire esclusivamente gli organi federali per la soluzione delle controversie insorte tra gli affiliati stessi. Tale obbligo comporta l’impossibilità per gli affiliati/tesserati di adire le Autorità giurisdizionali statali che vengono letteralmente private del potere di conoscere e di decidere. Ecco l’essenza del “vincolo” che prevede addirittura l’espulsione dai quadri organizzativi dell’affiliato che si rende inottemperante. Tuttavia, quello del vincolo sportivo è un fenomeno che non opera in assoluto e per il quale si è resa necessaria una specificazione delle questioni e dei procedimenti di volta in volta interessati. In generale, la pratica del vincolo sportivo si sostanzia nel rispetto della clausola compromissoria da parte dei singoli tesserati che vengono a trovarsi in una posizione, nei confronti delle Federazioni, tale per cui gli viene impedito di rivolgersi al Giudice statale per vicende che attengono a questioni di natura diversa rispetto a quella economica 11. A fare luce sul tema è intervenuta anche la giurisprudenza che ha chiarito come la disciplina del vincolo sportivo se si presenta identica per tutte le Federazioni, si atteggia diversamente a seconda della natura della controversia 12. In particolare il Consiglio di Stato ha riconosciuto che «l’ordinamento sportivo nazionale, pur essendo dotato di ampi poteri di autonomia, autarchia e autodi11

Con riferimento alla problematica del vincolo sportivo, acquista particolare rilievo la distinzione tra i vari procedimenti conosciuti dalla Giustizia sportiva, atteso che i tesserati sono vincolati dalla clausola compromissoria solo per le controversie di ordine e natura economica che, addirittura, secondo alcuni Statuti dovrebbero essere obbligatoriamente risolte da Collegi arbitrali. A tal proposito, può essere rilevante, richiamare la giurisprudenza per la quale, con riguardo al contratto di cessione di un calciatore, l’inosservanza di prescrizioni tassative dettate dal Regolamento della Federazione Italiana Gioco Calcio, se non costituisce ragione di nullità per violazione di legge, a norma dell’art. 1418 c.c., tenuto conto della potestà regolamentare conferita all’ordinamento sportivo, ai sensi dell’art. 5, legge 16 febbraio 1942, n. 426, si riferisce all’ambito amministrativo interno e non a quello di rapporti intersoggettivi privati, determina l’invalidità e l’inoperatività del contratto medesimo, in relazione al disposto dell’art. 1322, comma 2, c.c., atteso che esso, ancorché astrattamente lecito per l’ordinamento statuale come negozio atipico (prima dell’entrata in vigore della legge 23 marzo 1981, n. 91) resta in concreto inidoneo a realizzare un interesse meritevole di tutela, non potendo attuare, per la violazione delle suddette regole, alcuna funzione nel campo dell’attività sportiva, riconosciuta dall’ordinamento dello Stato. 12

Sul punto si veda F.P. LUISO, Giustizia Sportiva, cit., pp. 45-46.

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chia, è derivato da quello dello Stato, nel senso più rispondente alla necessità di una legittimazione democratica che ritrae dalla connessione organizzativa con le istituzioni statali la propria giuridicità». In tal senso il vincolo di giustizia potrebbe operare o nell’ambito strettamente tecnico sportivo, e come tale irrilevante per l’ordinamento dello Stato, ovvero nell’ambito in cui ciò sia consentito dalla natura disponibile degli interessi coinvolti. Non potrebbe operare invece, nell’ambito degli interessi legittimi, i quali, a causa del loro intrinseco collegamento con un interesse pubblico, e in forza dei principi sanciti dall’art. 113 Cost., «sono insuscettibili di formare oggetto di rinunzia preventiva generale o temporale illimitata alla tutela giurisdizionale» 13. Sempre il Consiglio di Stato, guardando alla clausola compromissoria 14 contenuta negli Statuti delle Federazioni sportive nazionali, che impone alle società sportive di accettare la piena e definitiva efficacia di tutti i provvedimenti e le decisioni adottate nei loro confronti dagli organismi sportivi a ciò delegati, stabilisce nuovamente che questa può liberamente operare solo nell’ambito strettamente tecnico-giuridico o in quello dei diritti disponibili, e non invece in quello degli interessi legittimi, insuscettibili di formare oggetto di una rinunzia preventiva, generale e temporalmente illimitata alla tutela giurisdizionale 15; anche perché è ormai pacificamente riconosciuto che «la clausola compromissoria prevista dallo Statuto di una Federazione sportiva sia diretta a risolvere controversie attinenti allo svolgimento dell’attività sportiva, secondo canoni tecnici e di lealtà, non valutabili da un giudice ordinario» 16 e incapace di coinvolgere, 13

Cons. St., sez. VI, 16 settembre 1998, n. 1257, in Cons. Stato, 1998, I, p. 1343; si veda anche Cass., Sez. Un., 29 settembre 1997, n. 9550, in Mass., 1997, secondo cui «la deduzione dell’improponibilità assoluta della domanda per insussistenza, nell’ordinamento, di una norma astratta idonea al riconoscimento e alla tutelabilità della posizione soggettiva fatta valere introduce una questione che attiene al merito e non già alla giurisdizione»; pertanto, in caso di provvedimenti delle Federazioni sportive nazionali, diretti alla realizzazione di interessi istituzionali dell’attività sportiva e posti in essere dalle suddette Federazioni in qualità di organi del CONI, costituisce questione di merito la censura diretta ad escludere ogni forma di tutela giurisdizionale nei confronti del provvedimento della FIGC, che, avendo riscontrato irregolarità nella gestione di una società sportiva, abbia rifiutato l’iscrizione della squadra di detta società al campionato nazionale e quindi non attiene alla giurisdizione, sicché è inammissibile il ricorso avverso la sentenza del Consiglio di Stato, emessa a seguito dell’impugnativa del provvedimento suddetto. 14

La dottrina si è a lungo interrogata in ordine alla natura e all’ambito di applicazione delle clausole compromissorie: un’interpretazione restrittiva, consentirebbe di considerare clausole compromissorie solo quelle in senso proprio, ossia solo quelle con le quali i tesserati si impegnano ad adire gli organismi interni per le questioni che scaturiscano dallo svolgimento dell’attività agonistica, con esclusione, dunque, del vincolo di giustizia sportiva. Al contrario, una lettura ampia del riferimento alle clausole compromissorie, permetterebbe di ricomprendervi anche il suddetto vincolo di giustizia, ossia anche il divieto per i tesserati e gli affiliati di adire gli organi della giustizia statale, pena l’applicazione di specifiche sanzioni disciplinari. 15

Cons. St., sez. VI, 30 settembre 1995, n. 1050, in Giust. civ., 1996, I, p. 577.

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Cons. St., sez. II, 20 ottobre 1993, n. 612, in Cons. Stato, 1995, I, p. 576.

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invece, diritti ed interessi legittimi, che trovano origine nelle leggi dello Stato, i cui organi soltanto sono legittimati a garantirne tutela giurisdizionale. Dunque, il vincolo di giustizia, fatta eccezione per alcune categorie di controversie che per la particolare natura e delicatezza non possono essere sottratte alla giurisdizione statale, sembrerebbe operare come una vera e propria barriera tra l’ordinamento sportivo e quello ordinario 17, tracciando una linea di demarcazione tra i due ordinamenti, seppur non rispettata in assoluto. È, infatti, sempre più diffuso un comportamento di ingerenza da parte degli organi giurisdizionali statali nelle controversie di natura sportiva al fine di riaffermare il proprio diritto di controllo sullo svolgimento dell’attività agonistica, a garanzia degli associati. Non è inusuale, infatti, la prassi che vede il Giudice statale rimuovere il provvedimento adottato dagli organi di giustizia sportiva, sovrapponendosi alle decisioni dei competenti organi federali, prassi alla quale non sono rimasti indifferenti gli organi di Giustizia sportiva che, richiamando il principio di autonomia degli ordinamenti giuridici, hanno addirittura sostenuto che le decisioni adottate dalle massime Autorità giurisdizionali dello Stato, non possano spiegare alcuna efficacia automatica nei confronti degli organi di Giustizia sportiva, che restano liberi di conformarsi a tali decisioni 18. Ipotesi in cui non sembra esserci contrasto tra ordinamento sportivo e ordinamento statale, e quindi l’operatività del cd vincolo sportivo sembra essere ridimensionata, è quella in cui gli Statuti delle Federazioni prevedono espressamente che la risoluzione di una determinata controversia debba essere deferita ad un Collegio arbitrale. In questi casi non è possibile rilevare alcun contrasto con la giustizia sportiva, dal momento che è proprio l’ordinamento statale a prevedere la possibilità di recepire le statuizioni adottate dagli arbitri, subordinando pur sempre il riconoscimento del lodo all’accertamento di presupposti ben precisi ritenuti indispensabili perché sia riconosciuta efficacia esecutiva alle determinazioni arbitrali. In linea generale, infatti, l’art. 806 c.p.c. recita «Le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte». Il giudizio della Camera di conciliazione ed arbitrato per lo sport del CONI è l’esempio maggiore di arbitrato nel nostro sistema, mentre nell’ordinamento sportivo internazionale esistono due fondamentali organi di giurisdizione 17 18

Così, M. SANINO-F. VERDE, Il diritto sportivo, cit., p. 503.

Così, Tribunale nazionale di appello CSAI, 12 luglio 1996, n. 62, in Riv. dir. Sportivo, 1998, p. 233, con nota di L. DI NELLA. Con la richiamata decisione, oltre ad attribuire agli ordinamenti giuridici il carattere di autonomia, si prospetta la possibilità di ravvedere nel sistema di giustizia sportiva il carattere della sovranità costantemente negato dalla dottrina e dalla giurisprudenza interessatesi delle controversie sportive. In particolare, nella decisione il Consesso ricorda che l’ordinamento giuridico sportivo deve considerarsi come ordinamento autonomo in quanto la validità delle sue norme nel complesso si fonda sull’effettività della loro vigenza e del loro operare complessivo, e non su una delega o un riconoscimento da parte di una norma appartenente all’ordinamento giuridico statale. Conclude affermando che le decisioni della Corte di cassazione o della Corte costituzionale, ovvero le norme dell’ordinamento statale, sia pure quelle di rango costituzionale, non possono di per sé, avere tutte automaticamente e direttamente effetto nell’ordinamento sportivo.

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volontaria ed alternativa: il Tribunale arbitrale dello sport di Losanna e la Camera arbitrale per la risoluzione delle controversie insorte in occasione dei Giochi olimpici ed è possibile affermare che, sempre più frequentemente, gli sportivi decidono di ricorrere al giudizio arbitrale piuttosto che alla giurisdizione ordinaria, proprio per una maggiore speditezza e semplificazione del procedimento. Al procedimento arbitrale si accede grazie alla sottoscrizione, al momento dell’ingresso in Federazione, di una clausola compromissoria e quindi in virtù di quell’impegno dei soggetti dell’ordinamento sportivo a rimettere ad un giudizio arbitrale le controversie non devolute agli organi federali. La giurisprudenza e la dottrina si sono, per tempo, interrogate in ordine alla natura dell’arbitrato in questione propendendo per la natura di arbitrato irrituale 19, come potrebbe ricavarsi dagli stessi principi di giustizia sportiva deliberati dal Consiglio nazionale del CONI il 22 ottobre 2003 20. Si aggiunga, poi, che «l’arbitrato irrituale è l’unica tipologia prevista dalla disciplina giuslavoristica che consente di derogare alla competenza esclusiva del giudice del lavoro», così come riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità che, nello specifico, ha rilevato come «la previsione statutaria che impegna tutti i soggetti dell’ordinamento federale ad accettare la piena e definitiva efficacia sia dei provvedimenti generali, che delle decisioni particolari adottati dalla FIGC, dai suoi organi e soggetti delegati, 19

Di questo orientamento, M. SANINO, L’arbitrato sportivo in Italia, in Riv. dir. Sportivo, 1993, p. 352; L. DI NELLA, Il fenomeno sportivo nell’ordinamento giuridico, Napoli, 1999, p. 238; F.P. LUISO, La giustizia sportiva, cit., p. 316, osserva che non potrebbe ritenersi diversamente, considerato che il vincolo di giustizia preclude l’accesso al Giudice statale. Sostiene, invece, l’orientamento contrario, A. D’HARMANT FRANCOIS, Note sulla disciplina giuridica del rapporto di lavoro sportivo, in Mass. Giur. lav., 1981, p. 858. In giurisprudenza, Cass., sez. lav., 1 agosto 2003, n. 11751, in Dir. e Giust., fasc. 34, 2003, p. 103, secondo cui la tesi che attribuisce all’arbitrato in materia sportiva natura libera appare preferibile perché «più funzionale alle esigenze dell’ordinamento sportivo in ragione della maggiore stabilità del lodo irrituale (stante la più estesa impugnabilità del lodo rituale) e del fatto che un sistema di risoluzione delle controversie, improntato a libertà di forme, svincolato dalla stretta osservanza di norme processuali e suscettibile di definitività in tempi relativamente brevi si presenta maggiormente adeguato all’attività agonistica cadenzata su eventi susseguitisi in ristretti spazi temporali». 20 Come è noto, la differenza sostanziale è data dal fatto che la decisione della controversia compromessa in arbitrato rituale è suscettibile di ricevere il c.d. exequatur dal Giudice ordinario e di acquistare, quindi, la forza di una vera e propria sentenza, alla luce del disposto di cui all’art. 825 c.p.c. secondo cui il Tribunale, accertata la regolarità del lodo, lo dichiara esecutivo con decreto. L’arbitro rituale o libero, invece, pone in essere una vera e propria attività di natura negoziale, anche se, è bene ricordare, che la riforma dell’istituto dell’arbitrato, di cui alla legge 9 febbraio 1983, n. 28, abbia considerevolmente ridotto le distinzioni tra arbitrato rituale ed arbitrato irrituale. La differenza centrale consiste nell’efficacia esecutiva del lodo rituale. Da segnalare, inoltre, che l’indagine circa la natura rituale o irrituale dell’arbitrato deve essere effettuata attraverso la ricostruzione e l’interpretazione della volontà delle parti, tenendo presente che, nell’incertezza, deve presumersi che le stesse abbiano inteso prevedere un arbitrato irrituale; in tal senso, si veda, Cass., sez. lav., 20 marzo 1990, n. 2315, in Riv. arb., 1991, p. 518, con nota di F. FAZZOLARI, In dubio pro arbitrato rituale, in Foro it., 1983, V, p. 163.

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nelle materie comunque attinenti all’attività sportiva e nelle relative vertenze di carattere tecnico, disciplinare ed economico – impegno dal quale è desumibile un divieto, salva specifica approvazione, di devolvere le relative controversie all’autorità giudiziaria statale – integra una clausola compromissoria per arbitrato irrituale, fondata, come tale, sul consenso delle parti, le quali, aderendo in piena autonomia agli statuti federali, accettano anche la soggezione agli organi interni di giustizia» 21. In realtà, il riconoscimento della natura irrituale dell’arbitrato, meglio si giustifica anche dal punto di vista federale, perché meglio garantisce l’indipendenza dell’ordinamento, nonché una maggiore funzionalità dello stesso. Sempre la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto l’arbitrato nell’ordinamento giuridico sportivo «più funzionale alle esigenze dell’ordinamento sportivo stesso in ragione della maggiore stabilità del lodo irrituale del fatto che un sistema di risoluzione di controversie, improntato a libertà di forme, svincolato dalla stretta osservanza di norme processuali e suscettibile di definitività in tempi relativamente brevi si presenta maggiormente adeguata all’attività agonistica cadenzata su eventi susseguitisi in ristretti spazi temporali» 22. Bisogna riconoscere come, sempre più diffusa sia la tendenza, favorita anche dalla possibilità che le parti o gli arbitri hanno di stabilire le norme del procedimento, a ricorrere al giudizio arbitrale invece che alla giurisdizione ordinaria, proprio per una maggiore speditezza dell’istituto. Anche se la Corte costituzionale ha negato che l’arbitrato pregiudichi il principio dell’unicità della giurisdizione, è da sottolineare come la funzione di supplenza che tende ad assumere l’arbitrato non sia conforme al principio della statualità della giurisdizione tutte le volte in cui non sussistono ragioni che valgano a giustificare il ricorso ad un Collegio arbitrale, anziché ai Giudici dello Stato. In definitiva, si può arrivare pacificamente ad affermare che la clausola compromissoria non costituisce una deroga alla giurisdizione statale, quanto una forma di giustizia privata in tema di diritti disponibili e che il vincolo di giustizia sportiva rappresenta «un momento fondamentale dell’ordinamento sportivo, essendo ontologicamente finalizzato a garantirne l’autonomia, quanto alla gestione degli interessi settoriali, da quello statuale, autonomia ritenuta generalmente necessaria per assicurare sia la competenza tecnica dei giudici sportivi, sia, in correlazione con lo svolgimento dei campionati sportivi, la rapidità della soluzione delle controversie agli stessi sottoposte» 23. .

21 Così, Cass., sez. lav., 6 aprile 1990, n. 2889, in Riv. arb., 1991, p. 267, nonché in Arch. civ., 1990, p. 911. Per la giurisprudenza di merito, si veda Trib. Bergamo, 25 giugno 1987, in Riv. dir. Sportivo, 1987, p. 697. 22 23

Cass., sez. lav., 1 agosto 2003, n. 11751, cit.

Cass., 28 settembre 2005, n. 18919, cit. Per completezza espositiva è opportuno riportare l’orientamento di parte della dottrina che, in senso contrario, ritiene che il vincolo di giustizia non possa più trovare cittadinanza nel nostro ordinamento: «il vincolo di giustizia (così come le eventuali sanzioni irrogate per la violazione dello stesso) resta comunque un istituto illegittimo per lo

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In un simile scenario, quello che si avverte con fermezza è l’esigenza di realizzare una più effettiva tutela, una garanzia per lo stesso ordinamento sportivo che ponendosi come ordinamento autonomo, impone di considerare i rapporti con l’ordinamento giuridico statale anche al fine di verificare la conformità delle regole sportive ai principi generali del diritto dello Stato 24. In alcuni casi è l’ordinamento giuridico statale che rende più elastici i suoi concetti giuridici per aprirsi alle norme specifiche e agli istituti propri dell’ordinamento sportivo, mentre in Stato, in quanto esso concreta una macroscopica violazione degli artt. 24, 103 e 113 della Costituzione, oltre che adesso anche della stessa legge n. 280/2003, che, in certi limiti, ammette e disciplina il ricorso al giudice statale da parte dei soggetti dell’ordinamento sportivo; tale conclusione è confermata non solo dalla semplice lettura della norma in questione (che parla testualmente solo di clausole compromissorie e non di vincolo di giustizia) ma anche dall’interpretazione logica e teleologica della stessa. Sarebbe veramente un controsenso pensare che il legislatore statale abbia previsto e dettagliatamente disciplinato la facoltà per i tesserati in ambito sportivo di adire il giudice amministrativo e poi abbia, nell’ambito della stessa legge, riconosciuto espressamente la necessità di un istituto, il vincolo sportivo, che prevede il divieto di adire il giudice statale e gravi sanzioni per la violazione di tale divieto». Così, E. LUBRANO, La giurisdizione amministrativa in materia sportiva dopo la legge 17 ottobre 2003, n. 280, in P. MORO (a cura di), La giustizia sportiva, Forlì, 2004, p. 175; P. MORO, Critica del vincolo di Giustizia Sportiva, in www. giustiziasportiva.it, n. 1, 2005, p. 5 rimarca, più radicalmente, che «nell’ordinamento sportivo, il vincolo della giurisdizione domestica, pur limitato dalla legge nei termini sopra considerati, impedisce di fatto di attivare un processo estraneo alla giustizia endoassociativa con la contestuale minaccia di sanzioni disciplinari molto gravi, come la radiazione che, per gli atleti, comporta l’illegittima menomazione del diritto fondamentale all’attività agonistica e la conseguente impossibilità di proseguirla a tempo indeterminato». In tale prospettiva non si è mancato di evidenziare che la previsione di un apposito Collegio arbitrale da parte di una clausola statutaria non può ritenersi compatibile con il nostro ordinamento che consente soltanto, come alternativa alla giurisdizione ordinaria, l’arbitrato volontario e le giurisdizioni speciali (in tal senso Cass., Sez. Un., 12 maggio 1979, n. 2725, cit., p. 1117). In tale ottica, la giustizia sportiva non rappresenterebbe ipotesi di giurisdizione speciale e, pertanto, non vi sarebbe alcun difetto di giurisdizione speciale nell’ipotesi in cui l’autorità giudiziaria sia adita direttamente senza il preventivo esperimento dei rimedi interni all’ordinamento sportivo (in tali termini si è espressa Cass., sez. lav., 6 aprile 1990, n. 2889, cit., p. 267). Così come è stato anche affermato che quale che sia la natura del vincolo di giustizia sportivo, «rimane la possibilità delle parti di adire il giudice ordinario per accertare il funzionamento di una clausola statutaria» (così Trib. Roma, sez. III, ord. 10 luglio 2003, in Dir. e Giust., n. 31, 2003). Tuttavia, deve ritenersi preferibile l’interpretazione estensiva della formula utilizzata dal legislatore statale ed in tal senso è possibile valorizzare il fatto che il vincolo di giustizia si risolve in un impegno di chiara natura contrattuale e riveste sostanziale struttura compromissoria. Essa si fonda, infatti, sul consenso delle parti che, aderendo in piene autonomia, spontaneità e consapevolezza allo Statuto della Federazione cui accedono, ne accettano anche la prevista soggezione agli organi interni della giustizia sportiva. 24 Sul tema sembrano meritevoli di attenzione i contributi di F. GALGANO, Introduzione alla tavola rotonda: Istituzioni ed eventi sportivi; G. VERDE, Sul difficile rapporto tra ordinamento statale ed ordinamento sportivo; P.A. CAPOTOSTI, Rapporti tra ordinamento giuridico generale e impresa sportiva; A. MANZELLA, Ordinamento giuridico generale ed istituzioni sportive; tutti rinvenibili nella raccolta degli atti del Convegno della Società Italiana egli Studiosi del diritto civile in Fenomeno sportivo e ordinamento giuridico, Napoli, 2009.

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altre occasioni accade il contrario. Quello che i due ordinamenti tentano di realizzare è una vera e propria coesistenza reciproca che trova il punto focale della sua esplicazione nell’ambito giurisdizionale, cercando di individuare limiti ben precisi all’ammissibilità di un intervento dell’Autorità giurisdizionale dello Stato in ambito sportivo e di stabilire, nell’ambito delle determinazioni degli organi federali connesse con le gare agonistiche, quali decisioni abbiano efficacia meramente interna all’Ordinamento sportivo e a quali poter riconoscere, invece, un’influenza anche nell’ordinamento giuridico dello Stato.

2.1. Verso la riforma della giustizia sportiva Come è stato possibile spiegare nelle pagine precedenti, quello della Giustizia sportiva è apparso come un cammino lento e non sempre lineare che ha dovuto, sin dall’inizio, fare i conti con le influenze variamente esercitate sullo sport, e quindi con la concezione dello stesso come strumento di aggregazione e sviluppo professionale, nonché esplicazione della personalità ex art. 2 Cost. Inoltre, il legislatore ha dovuto ben saper coniugare gli aspetti di un ordinamento “speciale” quale quello sportivo e quelli propri dell’ordinamento giuridico statale e comunitario. Nonostante siano state diverse le forme di intervento poste in essere nel corso degli anni, passando dalla legge 23 marzo 1991, n. 81 a quella del 17 ottobre 2003, n. 280, ancora forte si avverte l’esigenza di riforma del sistema della Giustizia che, grazie soprattutto all’avvento del Codice di Giustizia Sportiva, si avvia verso una compiuta definizione. Il nuovo Codice della Giustizia Sportiva, adottato dapprima con deliberazione del Consiglio nazionale del CONI dell’11 giugno 2014, n. 1512 e poi con deliberazione 15 luglio 2015, n. 1518 e di recente modificato con deliberazione del Consiglio nazionale del CONI 9 novembre 2015, n. 1538 e approvato con Decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri del 16 dicembre 2015 25 si inserisce nel più ampio progetto di riforma del nuovo sistema di giustizia sportiva istituito presso il CONI, con la finalità di predisporre un assetto di regole procedurali univoche per tutte le Federazioni sportive nazionali e le Discipline sportive associate, garantendo l’omogeneità del processo sportivo in tutti i vari ordinamenti federali 26 che, fino ad 25 Le disposizioni del Codice vanno lette in connessione ai Principi Fondamentali degli Statuti delle Federazioni sportive nazionali e delle Discipline sportive associate, approvati con deliberazione del Consiglio nazionale del CONI dell’11 giugno 2014, n. 1510-1511, ed ai Principi di Giustizia Sportiva, approvati con deliberazione del Consiglio nazionale del 15 luglio 2014, n. 1519. 26

Grazie al progetto di riforma, ogni Federazione continuerà a mantenere un proprio Codice di Giustizia e a stabilire specifiche previsioni in materia di diritto sostanziale, in funzione della peculiarità della disciplina sportiva di riferimento e delle relative disposizioni previste dalla Federazione internazionale; tuttavia, sul piano procedurale, univoca sarà la disciplina prevista dal nuovo Codice di Giustizia Sportiva.

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oggi, vantavano un proprio Codice di Giustizia Sportiva che, in totale autonomia e nel rispetto delle sole norme previste dalla rispettiva Federazione internazionale di riferimento, predisponeva la disciplina rilevante sia sul piano sostanziale che processuale determinando, così, un assetto disorganico e per niente sistematico. Questo accadeva anche perché il Comitato Olimpico Nazionale Italiano non aveva mai prospettato l’applicazione, da parte delle diverse Federazioni, di una disciplina omogenea, limitandosi a dettare solo norme di principio, meglio conosciute come “Principi di Giustizia Sportiva”, stabilendo poche e scarne regole di ordine generale relative allo svolgimento del processo in ambito federale. Quello che, invece, l’ordinamento sportivo ha voluto realizzare recentemente è una sorta di civilizzazione della giustizia sportiva attraverso cui edificare un reticolato di garanzie idonee a sostenere un procedimento, sì autonomo ed indipendente dalla giustizia statuale, ma ad essa accomunato dall’adozione delle massime garanzie costituzionali. Prima di addentrarsi nell’analisi più dettagliata delle proposte di riforma della Giustizia sportiva, si possono almeno tracciare le linee di fondo che il legislatore ha inteso seguire, ispirate alla volontà di uniformare il più possibile gli ordinamenti di giustizia di tutte le Federazioni e di assicurare, allo stesso tempo, una definizione dei procedimenti il più possibile rapida, basti pensare che la pronuncia per la decisione dovrà intervenire perentoriamente entro novanta giorni in primo grado e sessanta giorni in secondo grado. Ogni Federazione conoscerà non più di due gradi di giudizio, pur salvaguardando la giustizia e l’equità del processo. Al fine, poi, di garantire una maggiore celerità nei procedimenti e la certezza dei tempi preordinati alla definizione del giudizio, il progetto di riforma ha stabilito limiti chiari in ordine ai rinvii delle udienze, nonché alla possibilità di ricorrere alla pratica del “patteggiamento” 27. Ispi-

27 Il Processo sportivo vive la fisiologica difficoltà di avere organi inquirenti “deboli”, ossia con meno strumenti a disposizione rispetto agli organi inquirenti della giustizia ordinaria. Per questa ragione, tutti gli istituti previsti dal Codice di Giustizia Sportiva, sono ispirati ed appoggiati al principio della collaborazione degli individui che sono parte del sistema sportivo e alla distribuzione delle colpe e delle responsabilità che viene effettuata anche in un modo che non tutti gli osservatori potrebbero definire propriamente “equo”. L’istituto del patteggiamento quindi, nel caso del diritto sportivo, è uno stimolo per gli individui coinvolti a vario titolo in un’inchiesta, a fornire supporto reale alla ricostruzione dei fatti in cambio di un beneficio tangibile. Il patteggiamento, prima di essere proposto all’organo giudicante, viene concordato con il Procuratore federale (organo inquirente), in base alle risultanze dell’inchiesta ottenute fino a quel momento; è contemplato dall’art. 23 del Codice di Giustizia Sportiva della FIGC e non è un’ammissione di colpevolezza. Art. 23. – Applicazione di sanzioni su richiesta delle parti: «1. I soggetti di cui all’art. 1 comma 1 possono accordarsi con la Procura federale, prima che termini la fase dibattimentale di primo grado, per chiedere all’organo giudicante l’applicazione di una sanzione ridotta, indicandone le specie e la misura. 2. L’organo giudicante, se ritiene corretta la qualificazione dei fatti come formulata dalle parti e congrua la sanzione indicata, ne dispone l’applicazione con ordinanza non impugnabile, che chiude il procedimento nei confronti del richiedente.

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rati alla medesima finalità, sono l’apertura e l’incentivo ad un uso sempre più accentuato della tecnologia, riconoscendo la possibilità di celebrare le udienze in conferenza telematica, o l’acquisizione dei mezzi di prova anche per video conferenza. Lo spirito di riforma ha interessato, in ultimo, anche gli organi giudicanti, stabilendo criteri di nomina uguali sia per i Giudici che per i Procuratori, selezionati da una commissione di alto profilo in ciascuna Federazione.

3. Il Codice di Giustizia Sportiva Come chiarito, dunque, il principale strumento di riforma della Giustizia sportiva è stata l’emanazione di un corpus di regole tecnico procedurali, nonché sostanziali, uniforme per tutte le Federazioni sportive, con l’intento di neutralizzare quella disparità processuale presente nelle singole Federazioni. Il Codice di Giustizia Sportiva del Comitato Olimpico Nazionale Italiano, modificato il 16 dicembre 2015, introduce rilevanti elementi di novità nel sistema della giustizia sportiva ponendosi in un più ampio processo di riforma, segnato dalla riformulazione dello Statuto del CONI e dei principi di giustizia sportiva, volto a rafforzarne il carattere pubblicistico e le garanzie procedimentali. Le previsioni contenute nel nuovo codex della Giustizia Sportiva, in vero, vanno ad affiancarsi a quelle già previste a livello generale dall’ormai modificato art. 15 dei Principi Fondamentali del CONI che imponeva alle Federazioni sportive nazionali e alle varie discipline sportive associate di adeguare i propri Statuti e Regolamenti ai nuovi principi di giustizia del CONI 28. Ai “Principi del processo sportivo” è dedicato il Capo I del Titolo I del Codice di Giustizia Sportiva, capo che si compone di due disposizioni che permettono di definire, in maniera non tassativa, i 3. L’applicazione di sanzioni su richiesta delle parti è esclusa nei casi di recidiva e nei casi di cui all’art. 7, comma 6». Nei casi in cui, invece, un soggetto coinvolto in un’inchiesta, decide di confessare agli organi inquirenti le proprie colpe, e magari decide anche di collaborare, si applica l’articolo successivo del codice, articolo 24, che è l’ammissione vera e propria di colpa con la relativa collaborazione. Art. 24. – Collaborazione degli incolpati: «1. In caso di ammissione di responsabilità e di collaborazione fattiva da parte dei soggetti sottoposti a procedimento disciplinare per la scoperta o l’accertamento di violazioni regolamentari, gli organi giudicanti possono ridurre, su proposta della Procura federale, le sanzioni previste dalla normativa federale ovvero commutarle in prescrizioni alternative o determinarle in via equitativa. 2. In tal caso, la riduzione può essere estesa anche alle società che rispondono a titolo di responsabilità diretta od oggettiva». 28 Principi di Giustizia Sportiva emanati dal Consiglio nazionale del CONI con deliberazione del Consiglio nazionale del 28 ottobre 2014, n. 1523, sostitutivi di quelli precedenti approvati con deliberazione del 15 luglio 2014, n. 1519.

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principi intorno ai quali sono organizzati i procedimenti di giustizia sportiva. La natura non esaustiva dell’inventario di tali principi si desume dall’art. 2, comma 6, che fa, genericamente, riferimento ai “Principi e alle norme generali del processo civile”, principi ai quali gli organi di giustizia sportiva dovranno conformare la propria attività 29. Volendo volgere prima di tutto lo sguardo ai principi fondamentali, approvati con deliberazione prima di luglio ed in ultimo di ottobre 2014, si può riconoscere come già il primo principio, denominato “Scopi della giustizia sportiva” preveda che gli Statuti e i Regolamenti federali assicurino il rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico sportivo, cui lo Stato riconosce autonomia, quale articolazione dell’ordinamento sportivo Internazionale, nonché la corretta organizzazione e gestione delle attività sportive e la decisa opposizione ad ogni forma di illecito sportivo, obiettivi, questi, perseguibili solo grazie all’istituzione di specifici organi e alla regolamentazione di appositi procedimenti di giustizia sportiva. Proseguendo nella lettura dei principi della Giustizia sportiva, lumini dello stesso Codice, ci si addentra negli aspetti più propriamente processuali, laddove si dispone che tutti i procedimenti devono assicurare l’effettiva osservanza delle norme dell’ordinamento sportivo e la piena tutela dei diritti e degli interessi dei tesserati, degli affiliati e degli altri soggetti riconosciuti dal Codice, sottolineando la necessità che, nell’ambito di ciascun processo sportivo, trovino applicazione i principi della parità delle parti, del contraddittorio nonché gli altri principi volti a garantire la realizzazione di un giusto processo ex art. 111 Cost 30. Questo perché, certamente, anche il procedimento 29 In virtù della loro importanza vanno sicuramente ricordati: il diritto di agire in giudizio innanzi agli organi di giustizia (art. 4), dietro il quale si intravede il principio di atipicità dell’azione in giudizio (art. 24, 1 Cost.) per la tutela dei diritti e degli interessi protetti, come pure la garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza degli organi di giustizia che estende all’ordinamento sportivo valori radicatisi da secoli nell’ordinamento statale con l’affermazione della separazione dei poteri (sancite oggi agli artt. 101, comma 2, e 104, comma 1, 107 Cost.). Non meno rilevanti appaiono i principi sui quali è implicitamente edificato il sistema delle impugnazioni (artt. 16, comma 5, 17, comma 6, 23, comma 1, 25, comma 2, 37, 54). 30 I principi enunciati dall’art. 111 Cost. in materia di giusto processo sono senza dubbio validi per ogni forma di procedimento giurisdizionale. Il giusto processo, quindi, si pone come un principio generale ed originario dell’attività giurisdizionale di composizione di qualsiasi controversia, ancorché sportiva, al di là di qualunque considerazione relativa all’autonomia dell’ordinamento sportivo. I principi enunciati dall’art. 111 Cost. in materia di Giusto Processo sono senza dubbio validi per ogni forma di procedimento giurisdizionale. Il giusto processo, quindi, si pone come un principio generale ed originario dell’attività giurisdizionale di composizione di qualsiasi controversia, ancorché sportiva, al di là di qualunque considerazione relativa all’autonomia dell’ordinamento sportivo. Anche il CONI ha accolto il richiamo al giusto processo, nell’ambito di due documenti normativi: in primo luogo, l’art. 2, comma 8 del nuovo Statuto del CONI riconosce al Comitato Olimpico Nazionale il ruolo di garanzia volto ad assicurare procedimenti giusti nella risoluzione delle controversie sportive; la disposizione conferma come ogni atto della giustizia sportiva possa essere considerato valido solo se giunto al termine di un giusto processo. Inoltre il Consiglio nazionale del CONI, dimostrando di concordare con la necessità di adeguare la giustizia sporti-

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di stampo sportivo deve riposare sulle garanzie costituzionali sottese al dogma del giusto processo che costituisce la disciplina più importante in materia di giustizia sportiva, non solo perché destinata ad un confronto con i principi costituzionali in materia di processo, ma altresì perché capace di edificare intorno ad una giustizia di stampo domestico alcuni carismi solitamente legati all’esercizio della giurisdizione ad opera dello Stato. Sembrano, infatti, ispirate al rispetto del giusto processo le previsioni secondo le quali i Giudici e le parti sono chiamati a cooperare per la realizzazione della ragionevole durata del processo, nell’interesse del regolare svolgimento delle competizioni sportive e dell’ordinato andamento dell’attività federale, nonché il disposto che prevede che tutte le decisioni siano sempre motivate e pubbliche. Per quanto attiene allo svolgimento del processo, limitatamente agli aspetti non espressamente contemplati, gli organi di giustizia sportiva si conformano a quanto dettato in linea generale per il processo civile, sempre nel rispetto dei caratteri di informalità e semplificazione dei procedimenti 31. Il terzo principio pone l’accento su quelli che sono i soggetti protagonisti, insieme alle parti, del processo civile e quindi «gli organi di giustizia e gli altri soggetti dei procedimenti» elencando, prima di tutto, gli organi che devono obbligatoriamente essere previsti nell’ambito dei singoli ordinamenti federali e quindi: il Giudice sportivo nazionale, i Giudici sportivi territoriali, la Corte sportiva di appello, il Tribunale federale, la Corte federale di appello, specificando, per ciascuno, requisiti soggettivi e termini di durata dell’incarico. Per quanto attiene, invece, ai compiti e alle mansioni attribuite ai singoli organi della giustizia sportiva, preme sottolineare come questi agiscano nel rispetto dei principi di piena indipendenza, autonomia e riservatezza, nonché di alcune preclusioni ed incompatibilità 32. Tra i richiamati organi di giustizia sportiva, un ruolo sicuramente di va ai canoni del giusto processo, ha emanato i c.d. “Principi di giustizia sportiva”, realizzando una sorta di Statuto dei diritti processuali nell’ordinamento sportivo, e imponendo il recepimento nei differenti Regolamenti delle singole Federazioni, in particolare in virtù dell’art. 4, il quale accoglie espressamente il giusto processo come principio cardine dell’ordinamento giuridico sportivo. 31 Per la verità, fino all’avvento del Codice di Giustizia Sportiva, la disciplina processuale sportiva prevedeva un richiamo esplicito ai principi del diritto processuale penale. 32 Ciascun componente degli organi di giustizia presso la Federazione, all’atto dell’accettazione dell’incarico, sottoscrive una dichiarazione con cui attesta di non avere rapporti di lavoro subordinato o continuativi di consulenza o di prestazione d’opera retributiva, ovvero altri rapporti di natura patrimoniale o associativa che ne compromettano l’indipendenza con la Federazione o con i tesserati, gli affiliati e gli altri soggetti sottoposti alla sua giurisdizione, né di avere rapporti di coniugio, di parentela o affinità fino al terzo grado con alcun componente del Consiglio Federale, impegnandosi a rendere note eventuali sopravvenienze. Informazioni reticenti o non veritiere vengono immediatamente segnalate alla Commissione federale di garanzia per l’adozione delle misure di competenza. Inoltre, ciascun componente degli organi di giustizia è tenuto a rispettare determinate incompatibilità di qualifiche: in particolare, la carica di organo di giustizia presso una Federazione è incompatibile con la carica di organo di giustizia presso il CONI o di componente della Procura

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rilievo viene riconosciuto dal Codice alla Procura federale, entità alla quale viene attribuito il compito di garante, essendo chiamata ad agire innanzi agli organi di Giustizia al fine di assicurare la piena osservanza delle norme dell’ordinamento sportivo, nonché del fondamentale principio di collaborazione tra le Procure Federali e la neo costituita Procura generale dello sport del CONI. Il quarto principio di Giustizia è dedicato alla Commissione federale di garanzia, organo deputato alla nomina di Giudici e Procuratori, nonché alla formulazione di pareri e proposte al Consiglio federale relativamente alla organizzazione e al funzionamento della giustizia sportiva, non solo nell’interesse delle Federazioni sportive professionistiche, ma per tutte le Federazioni e le discipline sportive associate. Al quinto principio di giustizia sportiva si tocca e si rafforza il diritto di accesso alla giustizia, stabilendo che i tesserati, affiliati ed altri soggetti legittimati da ciascuna Federazione hanno diritto di agire innanzi agli organi di giustizia al fine di preservare i diritti e gli interessi loro riconosciuti dall’ordinamento sportivo. Un accesso che non deve rappresentare un peso insostenibile per gli interessati, non a caso, infatti, ogni Federazione è tenuta a determinare, a parziale copertura dei costi di gestione, la misura del contributo per l’accesso ai servizi di giustizia 33. Nessuna innovazione si ritrova al sesto principio che ha confermato che i provvedimenti di clemenza, come la grazia, restano di competenza del Presidente Federale che può concederla solo se è stata scontata metà della pena. L’amnistia e l’indulto, invece, di competenza del Consiglio Federale, vengono concesse alle condizioni stabilite dagli Statuti federali. È, invece, dedicato alle sanzioni disciplinari il settimo principio di giustizia, in base al quale le decisioni definitive assunte dagli organi di giustizia devono essere obbligatoriamente iscritte nel registro delle sanzioni disciplinari dell’ordinamento sportivo, secondo le modalità individuate nel Regolamento attuativo. Della tanto richiamata clausola compromissoria si occupa l’ottavo principio di giustizia il quale rimarca, nuovamente, la necessità che gli affiliati/tesserati seguano la giustizia sportiva, una giustizia per cosi dire “interna” per le materie espressamente generale dello sport, nonché con la carica di organo di giustizia o di Procuratore presso altre Federazioni. 33

Con delibera della Giunta nazionale del CONI sarà fissata la misura massima del contributo, eventualmente differenziato per la Federazione e tipologia di controversia. Addirittura, al fine di garantire l’accesso alla giustizia federale a quanti non possono sostenere i costi di assistenza legale, la Federazione può istituire l’Ufficio del Gratuito patrocinio o avvalersi dell’apposito Ufficio istituito presso il CONI che si compone di difensori iscritti nell’albo del gratuito patrocinio del CONI. L’iscrizione nel suddetto albo è disposta, a seguito di domanda dell’avvocato interessato, dal Presidente del Collegio di garanzia. Possono essere dichiarati idonei all’iscrizione gli avvocati che, iscritti negli albi dei relativi consigli dell’ordine, siano in possesso di specifica competenza nell’ambito dell’ordinamento sportivo. Può essere ammesso al patrocinio ogni soggetto dell’ordinamento sportivo le cui pretese non risultino manifestamente infondate e che sia titolare, ai fini dell’imposta personale sul reddito e dell’imposta sul reddito delle società, ove applicabile, di un reddito imponibile, non superiore ad un determinato limite.

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sottratte alla cognizione del Giudice statale. Con il nono e ultimo principio, l’ordinamento sportivo regala una norma di chiusura attribuendo al CONI l’obbligo di vigilare in generale e garantire l’adeguatezza degli Statuti e dei Regolamenti federali ai principi ora esposti, facendosi portavoce, ove necessario, degli accorgimenti e delle modifiche possibili. Attraverso il richiamo a questi principi, le regole di giustizia sportiva permettono di incardinare presso il CONI un sistema la cui operatività non è più, unicamente, successiva come organo di terzo ed ultimo grado della giustizia sportiva – ruolo che viene oggi rivestito dal Collegio di garanzia – ma preventiva, attraverso la Procura generale dello sport o l’istituzione presso le procure federali del potere dell’avocazione di attività d’indagine federale non ancora conclusa qualora emerga un’omissione tale da pregiudicare l’esercizio dell’azione disciplinare 34. Per chiarezza espositiva si riportano “Principi Fondamentali degli Statuti delle Federazioni Sportive Nazionali, delle Discipline sportive associate” approvati con deliberazione del Consiglio nazionale del 28 ottobre 2014, n. 1523 35: 1. Principio comunitario 1. Gli Statuti delle Federazioni sportive nazionali e delle Discipline sportive associate devono prevedere espressamente il rapporto federativo esistente con il Comitato Olimpico Nazionale Italiano (d’ora in poi CONI), quale organo rappresentativo della comunità sportiva nazionale. 2. I principi enunciati negli articoli successivi trovano applicazione negli Statuti delle Federazioni sportive nazionali e delle Discipline sportive associate. 3. I principi enunciati negli articoli successivi trovano applicazione, in quanto compatibili, agli Statuti delle Associazioni Benemerite. 4. Gli Statuti delle Federazioni sportive nazionali aventi natura di Ente Pubblico continuano ad essere disciplinati dai rispettivi ordinamenti di settore. 2. Principio di legalità 1. Gli Statuti delle Federazioni sportive nazionali e delle Discipline sportive associate: a) devono recepire i principi enunciati negli artt. 5, comma 2, lett. b), 15 e 16 del d.lgs. 8 gennaio 2004, n. 15, senza prevedere alcuna limitazione al principio di democrazia interna, in armonia con l’ordinamento sportivo nazionale ed internazionale, in particolare per quanto riguarda le procedure e le regole di voto delle assemblee elettive; b) devono essere redatti conformemente alle norme contenute nello Statuto del CONI, con particolare riguardo agli articoli 20, 21, 22, 34

È evidente che il CONI, come necessario contrappeso rispetto alla istituzione di un organo del tutto nuovo e con competenze particolarmente incisive nei riguardi dell’autonomia federale, quale la Procura generale, abbia ideato un organo giustiziale di ultimo grado, dotato di funzioni analoghe, pur con le dovute eccezioni, alla Corte di cassazione, e quindi, un organo di legittimità e non di merito, un organo privo della possibilità di conoscere nuovamente e con effetto devolutivo il processo definito in ambito federale. 35

Rinvenibili al sito internet www.coni.it.

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23, 24, 25 e 36-bis; c) devono indicare l’organismo internazionale (CIO, Federazione internazionale) al quale aderiscono; d) devono espressamente prevedere l’adesione incondizionata alle Norme Sportive Antidoping del CONI. 2. Gli Statuti delle Associazioni Benemerite riconosciute dal CONI ai sensi dell’art. 5, comma 2, lett. b) e lett. c), del d.lgs. 8 gennaio 2004, n. 15, devono uniformare i propri contenuti a quelli dello Statuto del CONI, con particolare riguardo all’art. 30 ed ai Principi Fondamentali emanati dal CONI stesso. 3. Principio di separazione dei poteri 1. Sono organi primari delle Federazioni e delle Discipline sportive associate: a) l’Assemblea; b) il Consiglio federale; c) il Presidente federale; d) il Collegio dei revisori dei conti. 2. Le Federazioni e le Discipline sportive associate, in relazione alla complessità della propria organizzazione, possono prevedere organi ulteriori. 3. Gli Statuti devono prevedere: a) Almeno 4 riunioni all’anno del Consiglio federale. Il numero dei componenti del Consiglio federale è fissato in dieci (in dodici per le Federazioni che hanno più di tremila società ed associazioni sportive affiliate) più il Presidente e gli eventuali membri di diritto in ragione degli incarichi ricoperti nell’ambito delle rispettive Federazioni sportive internazionali. Con deliberazione dell’Assemblea le Federazioni possono stabilire un numero inferiore. È consentito un numero superiore, fino a un massimo di venti componenti, per le Federazioni sportive nazionali con più di 7.000 società ed associazioni sportive affiliate. b) Le funzioni ed i poteri che competono al Presidente ed al Consiglio federale (ed agli altri eventuali organi) in conformità ai principi ed ai criteri di seguito indicati. Il Presidente ha la responsabilità generale dell’area tecnico-sportiva della Federazione. Ad esso spettano le funzioni apicali di programmazione, indirizzo e controllo relative al perseguimento dei risultati agonistici a livello nazionale ed internazionale e la nomina dei direttori tecnici delle squadre nazionali, previa consultazione con il CONI e sentito il Consiglio federale. Il Presidente presenta all’inizio del mandato il suo programma tecnico-sportivo ed al termine un consuntivo relativo all’attività svolta ed ai risultati sportivi conseguiti. Il Presidente ha la responsabilità generale del buon andamento della Federazione, nomina il Segretario Generale della Federazione, previa consultazione con il CONI e sentito il Consiglio federale. Il Segretario Generale è responsabile della gestione amministrativa della Federazione. Il Consiglio federale verifica la corretta esecuzione del programma tecnico-sportivo, valuta i risultati sportivi conseguiti, vigila sul buon andamento della gestione federale. c) Le funzioni esclusive dei suddetti organi previste dagli Statuti non sono delegabili. Gli eventuali provvedimenti adottati in casi di urgenza dal Presidente federale e/o dai Consigli di presidenza in luogo del Consiglio federale dovranno essere sottoposti a ratifica del Consiglio federale nella prima riunione utile. 4. Gli Statuti delle Federazioni e delle Discipline sportive associate pluridisciplinari possono prevedere la nomina o l’elezione di Consigli di settore, aventi funzioni consultive e tecnico-organizzative rispetto al Consiglio federale. 5. Le Federazioni sportive nazionali e le Discipline sportive associate possono prevedere la costituzione di Consulte con la partecipazione dei Consiglieri fe-

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derali e dei rappresentanti dell’organizzazione territoriale, presiedute dal Presidente federale. 6. Gli Statuti devono prevedere la distinzione ed elencazione degli organi federali ed indicare la separazione tra i poteri di gestione sportiva e di gestione della giustizia federale. 7. La decadenza per qualsiasi causa del Consiglio federale non deve estendersi agli organi non connessi allo stesso sotto il profilo funzionale (in particolare organi di giustizia e Collegio dei revisori dei conti). 4. Principio di democrazia interna a base collettiva 4.1. Voto di base 1. Hanno diritto ad un voto le associazioni e le società che abbiano maturato un’anzianità di affiliazione di 12 mesi precedenti la data di celebrazione dell’Assemblea, a condizione che, in ciascuna delle stagioni sportive concluse, comprese nel suddetto periodo di anzianità di affiliazione, abbiano svolto, con carattere continuativo, effettiva attività sportiva stabilita dai programmi federali ed a condizione che alla data di convocazione dell’Assemblea partecipino all’attività sportiva ufficiale della Federazione. 2. Le Federazioni sportive nazionali e le Discipline sportive associate, ai fini della definizione del carattere di continuità dell’attività svolta, dovranno stabilire i requisiti minimi di partecipazione per il riconoscimento del diritto di voto. A tal fine è da considerarsi attività sportiva quella a carattere agonistico, amatoriale e promozionale svolta nell’ambito di programmi federali. 4.2. Voti plurimi 1. In aggiunta al voto di base, alle associazioni e società possono essere attribuiti voti plurimi, diretti a differenziare le società che abbiano svolto l’attività agonistica stabilita nei calendari federali che, per importanza e risultati, sia qualitativamente superiore e sia determinata in base a classifiche e graduatorie di rilevanza nazionale. 2. Sono esclusi voti plurimi legati al numero dei tesserati, anche se agonisti, alla sola partecipazione a gare e/o campionati, al solo numero delle gare organizzate, al possesso di attrezzature, di licenze, di patenti, ecc. 3. Il calcolo dei voti, da effettuarsi nel rispetto di quanto previsto nel comma 1 del presente articolo, dovrà risultare ben definito e non dovrà dare luogo a maggioranze precostituite. 4. Le Federazioni sportive nazionali e le Discipline sportive associate dovranno prevedere dei correttivi all’assegnazione dei voti plurimi al fine di eliminare la possibilità di precostituire maggioranze assembleari. 5. I voti plurimi verranno attribuiti a condizione che le gare e i campionati ai quali essi sono riferiti abbiano avuto regolare svolgimento; l’eventuale annullamento delle competizioni, o rinuncia alle medesime, sia pure a causa di forza maggiore, non darà diritto al conseguimento dei relativi voti.

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4.3. Voti plurimi per l’organizzazione delle gare 1. Qualora l’organizzazione di gare nazionali ed internazionali rivesta particolare importanza nell’ambito di una Federazione o di una Disciplina Sportiva Associata, alle società ed alle associazioni che della detta organizzazione si occupano, purché le stesse svolgano anche attività agonistica, possono essere riconosciuti voti plurimi in numero complessivamente non superiore al 20% del totale dei voti di base spettanti a tutte le società aventi diritto a voto per la partecipazione all’attività sportiva stabilita dai programmi federali. 2. Eventuali casi particolari in ordine all’applicazione del principio enunciato al presente punto saranno esaminati dal Consiglio Nazionale del CONI. 5. Principio di democrazia interna a base personale 5.1. Attribuzione del diritto di voto ad atleti, tecnici e ufficiali di gara per l’elezione dei propri rappresentanti negli organi direttivi nazionali 1. Gli Statuti delle Federazioni sportive nazionali e delle Discipline sportive associate devono garantire la presenza di atleti e tecnici nei Consigli federali, misura non inferiore al 30% del totale dei Consiglieri componenti il Consiglio stesso. La ripartizione della percentuale suddetta deve essere in misura proporzionale alla rappresentanza di entrambe le categorie nell’ambito del Consiglio Nazionale del CONI. 2. In assenza della figura del tecnico, la percentuale del 30% è riservata integralmente agli atleti. 3. Devono essere, altresì, assicurate forme di equa rappresentanza di atlete e di atleti. 4. Gli atleti ed i tecnici maggiorenni, regolarmente tesserati ed in attività hanno diritto a voto nelle assemblee di categoria. In tale occasione e nell’ambito di ciascuna categoria possono essere rilasciate deleghe in misura non superiore a tre. 5. Gli Statuti possono prevedere la presenza dei rappresentanti degli ufficiali di gara nei Consigli federali. 6. La quota percentuale agli stessi riservata esula dal 30% assegnato ad atleti e tecnici. 5.2. Elezione dei rappresentanti degli atleti nei consigli federali I rappresentanti eletti da tutti gli atleti maggiorenni in attività, sia dilettanti sia professionisti, tesserati tramite le società e le associazioni affiliate alle Federazioni sportive nazionali e alle Discipline sportive associate, eleggeranno i rispettivi rappresentanti nel Consiglio federale secondo le modalità fissate nello Statuto. 5.3. Elezione dei rappresentanti dei tecnici nei consigli federali I rappresentanti eletti da tutti i tecnici maggiorenni in attività, sia dilettanti che professionisti, tesserati per le Federazioni sportive nazionali e le Discipline sportive associate, eleggeranno i rispettivi rappresentanti nel Consiglio federale secondo le modalità fissate nello Statuto.

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5.4. Elezione facoltativa dei rappresentanti degli ufficiali di gara nei consigli federali Gli ufficiali di gara maggiorenni eleggeranno i rispettivi rappresentanti nel Consiglio federale, ove previsto negli Statuti federali, secondo le modalità stabilite negli Statuti stessi. 5.5. Attribuzione del diritto di voto ad atleti, tecnici ed ufficiali di gara per l’elezione di organi direttivi diversi dal consiglio federale Gli Statuti stabiliscono criteri e modalità della partecipazione dei rappresentanti di tutti gli atleti e tecnici maggiorenni in attività, sia dilettanti che professionisti, tesserati per le Federazioni sportive nazionali e le Discipline sportive associate ed, eventualmente, degli ufficiali di gara, alle assemblee per l’elezione del Presidente federale e degli altri organi federali. 5.6. Espressione del voto 1. Ai rappresentanti delle società ed associazioni sportive affiliate, degli atleti, dei tecnici (e, ove previsti, degli ufficiali di gara) è riconosciuto esclusivamente il diritto di voto spettante ad una delle categorie per le quali risultino tesserati. 2. I rappresentanti degli atleti e dei tecnici e, ove previsti, degli ufficiali di gara, eletti nelle rispettive assemblee di categoria, devono partecipare direttamente alle assemblee nazionali e non possono ricevere né rilasciare deleghe. 6. Principio assembleare 6.1. Assemblea ordinaria elettiva 1. Entro il 15 marzo dell’anno successivo alla celebrazione dei Giochi olimpici estivi devono essere svolte le Assemblee ordinarie elettive delle Federazioni sportive nazionali e delle Discipline sportive associate; le Federazioni che partecipano ai Giochi olimpici invernali provvedono alla convocazione ed allo svolgimento dell’Assemblea elettiva entro tre mesi dalla chiusura dei Giochi. Ove, a causa dello scioglimento anticipato degli organi, per impedimento definitivo del Presidente, o della scadenza dell’eventuale gestione commissariale, l’Assemblea elettiva si sia regolarmente svolta nei sei mesi precedenti la celebrazione dei Giochi olimpici, gli eletti conservano il mandato fino allo svolgimento dell’Assemblea ordinaria elettiva convocata al termine del successivo quadriennio olimpico. 2. Qualora l’Assemblea di primo grado comporti un’elevata partecipazione di affiliati e tesserati con conseguenti gravosi oneri finanziari e/o palesi difficoltà organizzative, gli Statuti delle Federazioni sportive nazionali e delle Discipline sportive associate, ai sensi dell’art. 22, comma 4 dello Statuto del CONI, possono prevedere assemblee di secondo grado formate da delegati eletti a livello territoriale, ovvero, ove esistenti, da assemblee di settore o di Lega. 3. In tale ipotesi si deve provvedere all’elezione sia dei delegati all’Assemblea nazionale, sia degli eventuali supplenti. Il computo dell’anzianità di affiliazione deve fare riferimento alle assemblee ove vengono eletti i delegati medesimi. 4. Nelle sole Assemblee elettive, qualunque sia il sistema di voto prescelto

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(singolo o plurimo), gli Statuti devono prevedere un quorum costitutivo in seconda convocazione tale, comunque, da garantire l’ampia partecipazione degli aventi diritto a voto. 6.2. Assemblee straordinarie 1. L’Assemblea straordinaria deve essere convocata e celebrata entro 90 giorni se richiesta: a) dalla metà più uno delle associazioni e società aventi diritto a voto che detengano almeno 1/3 del totale dei voti sul territorio nazionale, se il sistema è quello del voto plurimo; b) dalla metà più uno delle associazioni e società aventi diritto a voto, se il sistema è quello del voto singolo; c) dalla metà più uno dei componenti il Consiglio federale; d) dalla metà più uno degli atleti o dei tecnici maggiorenni societari aventi diritto a voto nelle assemblee di categoria. 2. Le Federazioni e le Discipline sportive associate strutturate in settori o leghe, oltre alle ipotesi di cui alle lett. a), b), c), e d) del precedente punto 1, possono inoltre prevedere che, per la validità della richiesta, sia necessaria, una specifica istanza in tal senso – da parte di un numero minimo di società appartenenti ad ognuno di detti settori o leghe. 6.3. Cause di esclusione dalla partecipazione assembleare 1. La morosità derivante dal mancato pagamento delle quote di affiliazione, di riaffiliazione e di tesseramento preclude il diritto di partecipare alle Assemblee. 2. Gli Statuti delle Federazioni sportive nazionali e delle Discipline sportive associate devono espressamente indicare le sanzioni di squalifica o inibizione che escludono la partecipazione alle Assemblee. 6.4. Deleghe tra società ed associazioni 1. In attuazione del principio della massima rappresentatività, al fine di garantire la più ampia partecipazione diretta ai lavori delle Assemblee nazionali di 1° grado, le deleghe possono essere rilasciate ai Presidenti di associazioni e società aventi diritto a voto ed appartenenti alla stessa Regione o alla medesima Lega o Settore o, in caso di impedimento dei Presidenti medesimi, ai Dirigenti in carica che li sostituiscono, in numero di:  1 delega, se all’Assemblea hanno diritto di partecipare fino a 100 associazioni e società votanti;  2, fino a 200 associazioni e società votanti;  3, fino a 500 associazioni e società votanti;  4, fino a 1000 associazioni e società votanti;  5, fino a 1500 associazioni e società votanti;  6, fino a 2000 associazioni e società votanti;  7, fino a 3000 associazioni e società votanti;  8, fino a 4000 associazioni e società votanti;  10, fino a 5000 associazioni e società votanti;  20, fino a 10.000 associazioni e società votanti;  40, oltre 10.000 associazioni e società votanti.

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2. I membri del Consiglio federale ed i candidati alle cariche elettive in occasione delle Assemblee nazionali non possono rappresentare associazioni e società né direttamente, né per delega. 3. Nelle Assemblee regionali sono ammesse le deleghe nelle seguenti proporzioni:  1, oltre le 20 associazioni e società votanti;  2, oltre le 50 associazioni e società votanti;  3, oltre le 100 associazioni e società votanti;  4, oltre le 200 associazioni e società votanti;  5, oltre le 400 associazioni e società votanti;  6, oltre le 800 associazioni e società votanti. 4. I Presidenti ed i Consiglieri regionali ed i candidati alle cariche elettive in occasione delle Assemblee regionali non possono rappresentare associazioni e società né direttamente, né per delega. 5. Nelle Assemblee provinciali, in presenza di almeno 10 affiliati con diritto di voto, è consentito il rilascio di una sola delega. 6. I Presidenti dei Comitati provinciali ed i candidati alle cariche elettive in occasione delle Assemblee provinciali non possono rappresentare associazioni e società né direttamente, né per delega. 6.5. Commissione verifica poteri e Commissione scrutinio nelle assemblee Nelle Assemblee elettive i componenti della Commissione verifica poteri ed i componenti della Commissione scrutinio non possono essere scelti tra i candidati alle cariche federali. 6.6. Ulteriori riunioni assembleari Gli Statuti delle Federazioni sportive nazionali e delle Discipline sportive associate non possono prevedere l’obbligatorietà periodica della convocazione o dello svolgimento di assemblee in casi ulteriori rispetto a quelli espressamente stabiliti dai presenti Principi Fondamentali, ferma restando la facoltà di convocare il proprio organo assembleare ogni qual volta i legittimati all’uopo si determinino a procedere in tal senso. 7. Principio dell’eleggibilità alle cariche federali 7.1. Elettività delle cariche 1. Il Presidente, il Consiglio federale, il Presidente del Collegio dei revisori dei conti ed i Consigli regionali e provinciali, ove costituiti, devono essere sempre elettivi. 2. I requisiti relativi all’elettorato passivo dei componenti degli organi elettivi e di nomina devono corrispondere a quanto contemplato nel successivo art. 7.4. 3. Gli Statuti federali non possono stabilire limiti o riserve di voti volte a limitare l’eleggibilità alla carica federale del candidato in possesso dei requisiti previsti secondo le indicazioni di cui all’art. 7.4. 4. Per l’eleggibilità alle cariche federali devono essere presentate candidature

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individuali. Per ciascuna Assemblea non potrà essere presentata più di una candidatura a cariche diverse. 5. Ad eccezione di quanto previsto con riferimento all’elezione del Presidente federale, risulteranno eletti i candidati che conseguiranno il maggior numero dei voti come stabilito nei singoli Statuti. 6. Le Federazioni e le Discipline sportive associate possono prevedere nello Statuto la sottoscrizione delle candidature da parte di un numero minimo di associazioni e società affiliate con diritto di voto. 7.2. Elezione del Presidente federale 1. Il Presidente federale, anche in caso di ballottaggio, è eletto con la maggioranza assoluta dei voti dei presenti. 2. Nell’ipotesi prevista dall’art. 16, comma 4, del d.lgs. n. 15/2004, qualora il Presidente uscente non raggiunga alla prima votazione il quorum del cinquantacinque per cento dei voti validamente espressi, ed in presenza di almeno altri due candidati, verrà effettuata contestualmente una nuova votazione, alla quale il Presidente uscente non potrà concorrere, salvo il caso in cui abbia conseguito la maggioranza assoluta dei voti dei presenti. 3. In caso diverso, si dovrà celebrare una nuova Assemblea a cui il Presidente uscente non potrà candidarsi. 7.3. Necessità della conoscenza anticipata delle candidature rispetto alla data stabilita per l’Assemblea Gli Statuti devono prevedere che, per concorrere a cariche elettive, dovrà essere posta formale candidatura nei termini stabiliti dalla Federazione e dalla Disciplina Sportiva Associata, con congruo anticipo rispetto alla data di effettuazione dell’Assemblea. 7.4. Requisiti per rivestire cariche 1. I componenti degli organi federali elettivi e di nomina devono possedere i requisiti generali di cui all’art. 5, commi 3 e 4, dello Statuto del CONI, e devono essere in regola con il tesseramento alla data di presentazione della candidatura. 2. Gli Statuti stabiliscono i requisiti specifici per l’eleggibilità degli atleti, dei tecnici ed eventualmente degli ufficiali di gara nel rispetto di quanto previsto dalla vigente legislazione in materia. 3. Negli organi direttivi nazionali possono essere eletti gli atleti che abbiano preso parte, nell’arco di due anni nell’ultimo decennio, secondo quanto indicato dall’art. 16 del D.Lgs. 8 gennaio 2004, n. 15, a competizioni di livello nazionale o almeno regionale, da individuarsi specificatamente nei singoli Statuti a cura delle rispettive Federazioni e Discipline sportive associate. 4. I componenti degli organi di giustizia sportiva devono essere in possesso della laurea in materie giuridiche o comunque di adeguata professionalità e possono essere scelti anche tra soggetti non tesserati alla Federazione e alla Disciplina Sportiva Associata. 5. I componenti del Collegio dei revisori dei conti, elettivi e di nomina, devono

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essere iscritti all’Albo dei Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili o al Registro dei Revisori Contabili e possono essere scelti anche tra soggetti non tesserati alla Federazione e alla Disciplina Sportiva Associata. 6. Sono ineleggibili tutti coloro che abbiano come fonte primaria o prevalente di reddito un’attività commerciale direttamente collegata alla gestione della Federazione o della Disciplina Sportiva Associata nell’ambito della quale viene presentata la candidatura. 7. Sono, altresì, ineleggibili quanti abbiano in essere controversie giudiziarie contro il CONI, le Federazioni, le Discipline sportive associate o contro altri organismi riconosciuti dal CONI stesso. 7.5. Gratuità delle cariche 1. Tutte le cariche federali sono svolte a titolo gratuito. 2. Gli Statuti federali possono prevedere indennità in favore del Presidente federale e di altri componenti di organi direttivi nazionali investiti di particolari cariche. L’entità delle indennità sarà determinata dal Consiglio federale, in conformità a criteri e parametri stabiliti dalla Giunta Nazionale del CONI. 7.6. Incompatibilità tra le cariche 1. La carica di componente degli organi centrali è incompatibile con qualsiasi altra carica federale elettiva centrale e territoriale della stessa Federazione e Disciplina Sportiva Associata. 2. Le cariche di Presidente federale, di componente del Collegio dei revisori dei conti, di membro degli organi di giustizia sono incompatibili con qualsiasi altra carica federale e sociale, sempre nell’ambito della stessa Federazione e Disciplina Sportiva Associata. 3. Le cariche di Presidente e di Consigliere a livello nazionale sono, altresì, incompatibili con qualsiasi altra carica elettiva sportiva nazionale in organismi riconosciuti dal CONI. 4. Le Federazioni e le Discipline sportive associate possono prevedere nei propri Statuti ulteriori incompatibilità e, in particolare, quella fra arbitro e tecnico. 5. Nel caso di incompatibilità tra cariche gli Statuti devono prevedere un limitato termine per l’opzione o la conseguente decadenza dall’ultima carica assunta. 8. Principio di decadenza degli organi federali 1. Gli Statuti devono contemplare tutti i casi di decadenza degli organi e le modalità per procedere al rinnovo delle cariche. 2. Sono, altresì, considerati incompatibili con la carica che rivestono e devono essere dichiarati decaduti coloro che vengono a trovarsi in situazione di permanente conflitto di interessi, per ragioni economiche, con l’organo nel quale sono stati eletti o nominati. 3. Qualora il conflitto d’interessi sia limitato a singole deliberazioni o atti, il soggetto interessato non deve prendere parte alle une o agli altri. 4. Le dimissioni che originano la decadenza degli organi sono da considerarsi irrevocabili.

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5. La prorogatio va limitata nel tempo. In ogni caso, entro il termine massimo di 90 giorni dall’evento che ha determinato la decadenza, dovrà essere celebrata un’Assemblea straordinaria. Nel termine anzidetto, da considerarsi perentorio, devono essere ricostituiti gli organi decaduti. Il principio generale della prorogatio è volto a garantire un sia pur minimo funzionamento degli organi nel periodo intercorrente tra la decadenza degli stessi e l’immissione dei nuovi, ragione per la quale in regime di prorogatio la competenza è limitata agli atti conservativi o indifferibili o di ordinaria amministrazione. 6. Le seguenti fattispecie devono essere disciplinate come per ciascuna specificato: a) impedimento temporaneo o definitivo del Presidente: – impedimento temporaneo: esercizio della funzione da parte del Vice Presidente, così come individuato dai singoli Statuti; – impedimento definitivo: decadenza immediata del Consiglio federale ed il Vice Presidente provvede alla convocazione dell’Assemblea straordinaria; b) dimissioni del Presidente: decadenza immediata del Presidente e del Consiglio federale. Quest’ultimo resterà in prorogatio per l’ordinaria amministrazione, da espletarsi unitamente al Presidente o, in caso di dichiarata impossibilità da parte di quest’ultimo, unitamente al Vice Presidente; c) dimissioni contemporanee, in quanto presentate in un arco temporale inferiore a sette giorni, della metà più uno dei Consiglieri: decadenza immediata del Consiglio e del Presidente cui spetterà l’ordinaria amministrazione sino alla celebrazione dell’Assemblea straordinaria. In caso di dimissioni o di decadenza di membri di organi elettivi in numero tale da non dar luogo a decadenza dell’intero organo, gli Statuti possono prevedere l’integrazione dell’organo stesso chiamando a farne parte i primi dei non eletti, purché questi ultimi abbiano riportato almeno la metà dei voti conseguiti dall’ultimo eletto. Nel caso in cui quest’ultima ipotesi non possa realizzarsi, deve essere prevista la copertura dei posti rimasti vacanti con nuove elezioni che, ove non sia compromessa la funzionalità dell’organo, potranno effettuarsi in occasione della prima Assemblea utile che verrà tenuta dalla Federazione dopo l’evento che ha causato la vacanza medesima. Nell’ipotesi in cui sia, invece, compromessa la regolare funzionalità dell’organo, dovrà essere obbligatoriamente celebrata un’Assemblea straordinaria entro 90 giorni dall’evento che ha compromesso detta funzionalità. 9. Principio di territorialità 1. In ogni Regione vengono istituiti i Comitati regionali in presenza di almeno dieci associazioni e società affiliate con diritto di voto presenti nella Regione stessa; tale numero è individuato nei singoli Statuti in base alle realtà territoriali di ciascuna Federazione e Disciplina Sportiva Associata. 2. Qualora in una Regione, per insufficienza di affiliati con diritto di voto, non sia possibile addivenire alla costituzione del Comitato, il Consiglio federale provvede alla nomina del Delegato. 3. I Comitati provinciali possono essere istituiti ove tali strutture siano ritenute necessarie ai fini di una migliore ripartizione di competenze sul territorio.

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4. In alternativa ai Comitati provinciali possono essere istituiti, se previsti negli Statuti, i Delegati provinciali nominati dal Consiglio federale o dal Consiglio regionale. 5. Nelle province autonome di Trento e di Bolzano e nella Valle d’Aosta vengono istituiti organi o strutture provinciali con funzioni analoghe a quelle attribuite, nelle altre Regioni, agli organi o strutture periferiche a livello regionale. 6. I Consigli direttivi dei Comitati territoriali devono essere costituiti da almeno cinque componenti. 7. I Comitati possono avere autonomia amministrativa e contabile, nei limiti e con le modalità stabilite dagli Statuti. In ogni caso sono sottoposti alla vigilanza delle Federazioni e delle Discipline sportive associate, che ne approvano gli eventuali bilanci e possono intervenire anche con controlli sostitutivi in caso di gravi inadempienze o di mancato funzionamento. Gli Statuti possono prevedere la nomina di un Revisore contabile territoriale. 10. Principio di tutela degli interessi collettivi delle società e delle associazioni sportive 1. Le Federazioni sportive nazionali e le Discipline sportive associate possono riconoscere, ai fini sportivi, nel rispetto del principio della centralità della Federazione, associazioni costituite fra le società e le associazioni sportive affiliate denominate “Leghe” ed aventi lo scopo di tutelare gli interessi collettivi delle società o associazioni sportive che vi aderiscono. 2. Le Leghe devono avere Statuti e Regolamenti, approvati dal Consiglio federale, nel rispetto delle norme del CONI e della Federazione Sportiva che provvede al riconoscimento. 3. Le società professionistiche e le società dilettantistiche devono costituire associazioni separate; possono essere costituite Leghe diverse per ogni categoria di campionato. 4. Gli Statuti delle Leghe devono garantire il principio della democrazia interna per l’elezione di tutti gli organi da parte dell’Assemblea. 5. La carica di Presidente, di Consigliere, di Revisore di una Lega è incompatibile con qualsiasi carica federale eletta dalle Assemblee nazionali e territoriali, fatti salvi gli eventuali componenti di diritto; tali cariche sono incompatibili con qualsiasi carica elettiva centrale e territoriale del CONI. 6. Le Leghe, in quanto enti riconosciuti ed affiliati alla Federazione che procede al riconoscimento, sono soggetti alla giustizia sportiva federale. 7. La definizione degli ambiti operativi della Lega, rilevanti per l’ordinamento federale, e dei rapporti con la Federazione può essere rimessa ad apposita convenzione, stipulata tra la Lega e la Federazione, in conformità ai Regolamenti ed alle direttive federali. 8. La determinazione delle regole relative all’organizzazione dei campionati, ivi compresi i meccanismi di promozione e retrocessione, è di competenza del Consiglio federale. 9. Le Federazioni possono affidare alle Leghe l’organizzazione di singoli campionati nazionali, sulla base delle direttive della Federazione stessa, ferma re-

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stando la competenza federale per le affiliazioni delle società, per il tesseramento degli/delle atleti/e, per la determinazione delle società aventi diritto al campionato, per le regole di promozione e retrocessione, per l’approvazione della classifica finale, per l’assegnazione del Titolo di Campione d’Italia, per le formule di campionato. 11. Principio di trasparenza 1. Gli Statuti devono prevedere che il bilancio di previsione (budget) ed il bilancio d’esercizio, da sottoporre all’approvazione della Giunta Nazionale del CONI, siano redatti nel rispetto dei principi contabili economico-patrimoniali. 2. Il bilancio di previsione (budget) e il bilancio d’esercizio (schemi e relazioni illustrative) devono essere pubblicati dalle Federazioni e dalle Discipline sportive associate, entro 15 giorni dall’approvazione del CONI, sul proprio sito internet in apposita sezione del sito prontamente rintracciabile. In tale sezione vanno pubblicati il bilancio di previsione dell’esercizio corrente e i bilanci d’esercizio dell’ultimo triennio. 3. Ove le Federazioni e le Discipline sportive associate costituiscano società strumentali allo svolgimento dei propri compiti, anche il loro bilancio d’esercizio deve essere pubblicato sul sito internet federale, con le stesse modalità previste al punto 2. Il bilancio d’esercizio delle società deve essere trasmesso al CONI in allegato al bilancio della Federazione o della Disciplina Sportiva Associata anche ai fini dell’approvazione del bilancio federale da parte della Giunta Nazionale. 4. Il Collegio dei revisori dei conti è composto dal Presidente, eletto dall’Assemblea, e da due componenti e due supplenti, nominati dal CONI, comunque in conformità alla normativa vigente. Il Presidente del Collegio, nel caso di cessazione dalla carica, sarà sostituito dal primo dei non eletti, analogamente a quanto previsto per tutti i membri del Consiglio federale. 5. I membri del Collegio devono obbligatoriamente essere invitati a tutte le assemblee e riunioni degli organi federali. 6. Il Collegio dei revisori dei conti esercita il controllo contabile. A partire dall’esercizio 2016, è introdotta l’obbligatorietà per le Federazioni della revisione dei propri bilanci e di quelli delle società da queste partecipate, da effettuarsi a cura di una primaria società di revisione. 12. Principio di libera prestazione delle attività sportive 1. Gli Statuti devono riconoscere il diritto alla libera prestazione delle attività sportive. 2. Il vincolo sportivo è a tempo determinato. Gli Statuti dovranno prevederne la congrua e ragionevole durata. Le condizioni e le modalità di svincolo sono disciplinate nei Regolamenti organici, in relazione alle peculiarità delle singole discipline sportive. 3. È sancito il divieto di far parte dell’ordinamento sportivo per un periodo di 10 (dieci) anni per quanti si siano sottratti volontariamente con dimissioni o mancato rinnovo del tesseramento alle sanzioni irrogate nei loro confronti. A tal fine da parte della Segreteria federale sarà emessa apposita attestazione a far data dalla quale decorre il periodo su indicato. Il tesseramento dei soggetti di cui al comma precedente è comunque subordinato alla esecuzione della sanzione irrogata.

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13. Principio di distinzione tra attività professionistiche e attività non professionistiche 1. Le Federazioni sportive nazionali e le Discipline Associate devono elencare nei rispettivi Statuti le discipline sportive praticate. L’introduzione di nuove attività sportive che non siano in alcun modo riconducibili a quelle già praticate, previste dalle Federazioni internazionali, comporta una modifica dello Statuto, da sottoporre all’esame della Giunta Nazionale del CONI ai fini del riconoscimento previsto dall’art. 5, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 15/2004. 2. In considerazione delle specifiche esigenze delle singole discipline afferenti alle Federazioni e alle Discipline sportive associate, anche connesse alle normative delle Federazioni internazionali, i criteri per la distinzione tra attività professionistica e non professionistica sono rimessi alla autonomia statutaria nel rispetto dei principi posti dalla legge 23 marzo 1981, n. 91 e successive modificazioni. 3. L’istituzione del settore professionistico da parte di una Federazione Sportiva Nazionale è possibile, mediante specifica previsione statutaria, in presenza di una notevole rilevanza economica del fenomeno e a condizione che l’attività in questione sia ammessa dalla rispettiva Federazione internazionale. 4. Per rendere possibili i controlli ed i conseguenti provvedimenti, successivamente all’adozione da parte del Consiglio Nazionale del CONI di deliberazioni relative ai criteri ed alle modalità dei controlli sulle società professionistiche di cui all’art. 5, lett. e)-bis, del d.lgs. n. 15/2004 ed all’art. 6 dello Statuto del CONI, le Federazioni sportive nazionali e le Discipline Associate sono tenute ad inviare, oltre agli atti alla cui trasmissione sono obbligate per legge, tutti i documenti e le informazioni di cui il CONI e gli organi dallo stesso preposti al controllo facciano richiesta, sempre che non esista uno specifico divieto di legge. 14. Principio di tutela sportiva delle atlete in maternità 1. Gli Statuti delle Federazioni sportive nazionali e delle Discipline sportive associate devono garantire la tutela della posizione sportiva delle atlete madri in attività per tutto il periodo della maternità fino al loro rientro all’attività agonistica. 2. Le atlete in maternità che esercitano, anche in modo non esclusivo, attività sportiva dilettantistica anche a fronte di rimborsi o indennità corrisposti ai sensi della vigente normativa, hanno diritto al mantenimento del tesseramento, nonché alla salvaguardia del merito sportivo acquisito, con la conservazione del punteggio maturato nelle classifiche federali, compatibilmente con le relative disposizioni di carattere internazionale e con la specificità della disciplina sportiva praticata. 15. Principio di giustizia sportiva Le Federazioni sportive nazionali e le Discipline sportive associate devono adeguare i propri Statuti e Regolamenti ai Principi di Giustizia sportiva emanati dal Consiglio Nazionale del CONI. 16. Principio di etica sportiva 1. Gli Statuti delle Federazioni sportive nazionali e delle Discipline sportive

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associate dovranno prevedere un rinvio automatico al Codice di comportamento etico-sportivo emanato dal CONI. 2. È fatto divieto ai tesserati del settore professionistico ovvero dei più elevati livelli dei settori dilettantistici di effettuare o accettare scommesse, direttamente o indirettamente, aventi ad oggetto risultati relativi ad incontri organizzati nell’ambito delle rispettive Federazioni sportive nazionali o Discipline sportive associate. I Regolamenti organici ed i Regolamenti di giustizia ne dovranno indicare le modalità e gli ambiti di attuazione, nonché le relative sanzioni per i casi di violazione.

3.1. Il processo sportivo e la sua disciplina In linea di continuità ed in esecuzione del dettato dei Principi di Giustizia Sportivi, l’art. 2 del Codice, attraverso una norma di carattere generale stabilisce la necessità che tutti i procedimenti di giustizia, dinanzi a qualsiasi organo giudicante, assicurino l’effettiva osservanza delle norme dell’ordinamento sportivo e la piena tutela dei diritti e degli interessi dei tesserati, degli affiliati e di tutti i soggetti riconosciuti dall’ordinamento stesso, garantendo il rispetto dei principi della parità delle parti, del contraddittorio e, più in generale, assicurando la realizzazione del giusto processo 36. L’intero svolgimento del processo sportivo sembra essere retto dalla cooperazione tra le parti finalizzata alla ragionevole durata del processo, nell’interesse del regolare svolgimento delle competizioni sportive nonché della stessa attività federale. È proprio per tale ragione che sia il Giudice che le parti provvedono a redigere i provvedimenti in maniera chiara e sintetica, riconoscendo l’invalidità degli atti solo per quei vizi che comportino la violazione dei suddetti principi 37. 36 Art. 2. – Principi del processo sportivo: «1. Tutti i procedimenti di giustizia regolati dal Codice assicurano l’effettiva osservanza delle norme dell’ordinamento sportivo e la piena tutela dei diritti e degli interessi dei tesserati, degli affiliati e degli altri soggetti dal medesimo riconosciuti. 2. Il processo sportivo attua i principi della parità delle parti, del contraddittorio e gli altri principi del giusto processo. 3. I giudici e le parti cooperano per la realizzazione della ragionevole durata del processo nell’interesse del regolare svolgimento delle competizioni sportive e dell’ordinato andamento dell’attività federale. 4. La decisione del giudice è motivata e pubblica. 5. Il giudice e le parti redigono i provvedimenti e gli atti in maniera chiara e sintetica. I vizi formali che non comportino la violazione dei principi di cui al presente articolo non costituiscono causa di invalidità dell’atto. 6. Per quanto non disciplinato, gli organi di giustizia conformano la propria attività ai principi e alle norme generali del processo civile, nei limiti di compatibilità con il carattere di informalità dei procedimenti di giustizia sportiva». 37

Dal punto di vista procedurale, per tutto quanto non espressamente stabilito, gli organi di giu-

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Al Capo II del Codice vengono presentati gli organi di giustizia che, in forza di quel sentimento di uniformità e omogeneizzazione a cui si ispira l’intero nuovo Codice, devono essere inderogabilmente previsti ed operativi in tutte le Federazioni. In tal modo ogni Federazione sarà caratterizzata dagli stessi organi di giustizia investiti di un’identità non meramente formale e nominale, ma funzionale, pur rispettando l’autonomia che ciascuna Federazione ha nel definire le fattispecie dei comportamenti rilevanti sul piano disciplinare, anche conformemente a quanto stabilito dalle Federazioni internazionali di appartenenza. Presso ogni Federazione, quindi, si trovano ad operare inderogabilmente come organi di giustizia: il Giudice sportivo Nazionale, i Giudici sportivi territoriali e la Corte sportiva di appello, da un lato, il Tribunale federale e la Corte federale di appello, dall’altro. Solo nei casi e nei limiti previsti dallo Statuto del CONI, il Collegio di garanzia dello sport, istituito presso il CONI, opera come organo di giustizia di ultimo grado. L’attività di tali soggetti è chiaramente ispirata alla garanzia e al rispetto dei principi di piena indipendenza, autonomia e riservatezza, tant’è che ciascun componente degli organi di giustizia, all’atto dell’accettazione dell’incarico, è chiamato a sottoscrivere una dichiarazione attraverso la quale si attesta la sua assoluta imparzialità e terzietà 38. La disposizione appena richiamata, di cui all’art. 3, comma 3 del Codice di Giustizia Sportivo, fa riecheggiare nella prima parte il tenore dell’art. 815 c.p.c., n. 5 e, nel richiamare ogni altro rapporto di natura patrimoniale o associativa che possa compromettere l’indipendenza del Giudice sportivo o federale, introduce una fattispecie sostanzialmente aperta, tesa a dilatare in maniera sensibile lo spettro delle ipotesi di potenziale astensione e/o incompatibilità 39.

stizia sportiva conformano la propria attività ai principi e alle norme generali del processo civile, sempre nei limiti di compatibilità con il carattere di informalità dei procedimenti di giustizia sportiva. 38

Attraverso la sottoscrizione della dichiarazione, ciascun componente degli organi di giustizia, riconosce di non avere rapporti di lavoro subordinato o continuativi di consulenza o di prestazione d’opera retribuita, ovvero altri rapporti di natura patrimoniale o associativa che ne compromettano l’indipendenza con la Federazione o con i tesserati, gli affiliati e gli altri soggetti sottoposti alla sua giurisdizione, né di avere rapporti di coniugio, di parentela o di affinità fino al terzo grado con alcun componente del Consiglio federale, impegnandosi a rendere note eventuali sopravvenienze. Nella medesima dichiarazione, ciascun componente attesta altresì l’assenza dell’incompatibilità di cui al successivo comma 5. Informazioni reticenti o non veritiere sono segnalate alla Commissione federale di garanzia per l’adozione delle misure di competenza. 39 Si veda C. CONSOLO, Imparzialità degli arbitri. Ricusazione, in E. FAZZALARI (a cura di), La riforma della disciplina dell’arbitrato, Milano, 2006, pp. 728-730; F.P. LUISO-B. SASSANI, La riforma del processo civile, Milano, 2006, p. 280, i quali ritengono possa essere sussunta in una tale previsione anche la sussistenza di pericolosi rapporti “ideologici” tra gli arbitri e le parti; A. PANZAROLA, Su alcuni profili della ricusazione degli arbitri, in Riv. arb., 2008, pp. 265-274; L. BERGAMINI, Ricusazione giudiziale e ricusazione «amministrata» dell’arbitrato, in Riv. arb., 2010, p. 251 ss., e spec. p. 265 ss.

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Dopo aver chiarito l’identità degli organi giudicanti, il Codice, all’art. 4, ne specifica le funzioni e le relative attribuzioni delimitando l’oggetto delle controversie da questi conosciute a quelle relative all’osservanza e all’applicazione delle norme regolamentari, organizzative e statutarie dell’ordinamento sportivo, al fine di garantire il corretto svolgimento delle attività sportive, nonché quelle attinenti ai comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e all’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni. Rientrano, poi, tra le materie di competenza degli organi federali tutte quelle questioni loro devolute dagli Statuti e dai Regolamenti federali che possono anche prevedere che le controversie relative a rapporti meramente patrimoniali siano deferite a commissioni e a collegi arbitrali. Quello che permea l’intera riforma della giustizia sportiva è la volontà di creare un sistema di organi giudicanti non solo unico ed assoggettato a regole e procedure uniformi per tutte le Federazioni sportive, ma anche la necessità di garantire la trasparenza e l’indipendenza di tali organi di giustizia. Proprio a tal fine, ai sensi dell’art. 5, viene riconosciuta ad ogni Federazione la possibilità di costituire una Commissione federale di Garanzia 40, con il compito di nominare i soggetti idonei ad essere investiti della carica di componenti del Tribunale federale e della Corte federale di appello, di Procuratore, Procuratore aggiunto e sostituto, Procuratore federale sempre nel rispetto delle disposizioni federali e del Codice della Giustizia Sportiva. Spetta sempre alla Commissione, l’adozione dei provvedimenti stabiliti dalle disposizioni federali, come le sanzioni del richiamo e della rimozione dall’incarico nell’ipotesi di violazione dei doveri di indipendenza e riservatezza, nel caso di grave negligenza nell’espletamento delle funzioni, ovvero nel caso in cui altre gravi ragioni lo rendano comunque indispensabile. A dettare, poi, i principi e le disposizioni all’accesso vero e proprio alla giustizia sportiva è il Capo III del Codice che, all’art. 6, riconosce il preliminare diritto di agire dinanzi agli organi di giustizia, diritto proprio di tutti i tesserati, affiliati e dei soggetti legittimati da ciascuna Federazione per la tutela dei diritti e degli interessi loro riconosciuti dall’ordinamento sportivo. È solo grazie al riconoscimento di tale preliminare e fondamentale diritto di accesso alla giustizia sportiva che si possono gettare le basi, al successivo Capo IV del Codice, per la definizione delle norme generali sul procedimento sportivo. Un procedimento che riconosce ampio potere agli organi giudicanti, basti pensare che, ai sensi dell’art. 9, è lo stesso Giudice a stabilire le modalità di svolgimento dell’udienza con provvedimento non autonomamente impugnabile 41. In ossequio al richia40

È sempre l’art. 5 del Codice a chiarire la composizione della Commissione che si avvale di tre soggetti o cinque soggetti, uno dei quali con funzione di Presidente, nominati dal Consiglio federale con maggioranza qualificata, pari ai due terzi degli aventi diritto al voto nei primi due scrutini e alla maggioranza assoluta a partire dal terzo scrutinio. I componenti, scelti tra i magistrati, anche a riposo, della giurisdizione ordinaria, amministrativa, contabile o militare, professori universitari di ruolo, avvocati dello Stato, durano in carica sei anni e il loro mandato può essere rinnovato una sola volta. 41

Art. 9. – Poteri degli organi di giustizia:

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mato principio del giusto processo, il Giudice non può rinviare la pronuncia né l’udienza, a meno che non ritenga la questione non ancora matura per la decisione, e può sempre rimettere in termini la parte che dimostri di essere incorsa in decadenza per causa alla stessa non imputabile. È ancora espressione della giustizia del processo sportivo, la circostanza in forza della quale si riconosce al Giudice la possibilità di indicare alle parti ulteriori mezzi di prova, qualora quelli acquisiti non appaiano sufficienti per l’emanazione di una decisione “giusta”. Per quanto riguarda lo svolgimento dell’udienza, è ammessa la partecipazione delle parti e degli altri soggetti interessati anche a distanza, tramite video conferenza, attraverso l’ausilio dei più comuni mezzi informatici, utilizzati anche per la pubblicazione e conservazione delle decisioni degli organi di giustizia 42. «1. Gli organi di giustizia esercitano tutti i poteri intesi al rispetto dei principi di cui all’art. 2. 2. Il giudice stabilisce, con provvedimento non autonomamente impugnabile, le modalità di svolgimento dell’udienza, anche disponendo l’eventuale integrazione del contraddittorio. 3. Il giudice non può rinviare la pronuncia né l’udienza se non quando ritenga la questione o la controversia non ancora matura per la decisione, contestualmente disponendo le misure all’uopo necessarie. Può sempre ammettere la parte che dimostri di essere incorsa in decadenza per causa alla stessa non imputabile a compiere attività che le sarebbero precluse. 4. Il giudice può indicare alle parti ulteriori elementi di prova utili, laddove i mezzi istruttori acquisiti non appaiano sufficienti per la giusta decisione. Sentite le parti, può assumere ogni altra informazione che ritiene indispensabile. 5. Gli organi di giustizia tengono udienza con la partecipazione delle parti e degli altri soggetti interessati anche a distanza, tramite videoconferenza ovvero altro equivalente tecnologico che sia idoneo e disponibile». 42 Art. 11. – Comunicazioni: «1. Tutti gli atti del procedimento e dei quali non sia stabilita la partecipazione in forme diverse sono comunicati a mezzo di posta elettronica certificata. Le Federazioni prevedono che, all’atto dell’affiliazione o del rinnovo della stessa, l’istante comunichi l’indirizzo di posta elettronica certificata eletto per le comunicazioni. Il Giudice può invitare le parti a concordare forme semplificate di comunicazione tra le stesse, anche mediante rinuncia ad avvalersi in ogni modo dei difetti di trasmissione, riproduzione o scambio. 2. Gli atti di avvio dei procedimenti disciplinari sono comunicati presso la sede della Società, Associazione o Ente di appartenenza dei soggetti che vi sono sottoposti; in caso di mancata consegna della comunicazione al tesserato, la Società, Associazione o Ente è sanzionabile fino alla revoca dell’affiliazione. In ogni caso, la prima comunicazione può essere fatta in qualunque forma idonea al raggiungimento dello scopo. 3. È onere delle parti di indicare, nel primo atto anche anteriore al deferimento, l’indirizzo di posta elettronica certificata presso il quale esse intendono ricevere le comunicazioni; in difetto, le comunicazioni successive alla prima sono depositate presso la segreteria dell’organo procedente e si hanno per conosciute con tale deposito. 4. Le decisioni degli organi di giustizia sono pubblicate e conservate per un tempo adeguato nel sito internet istituzionale della Federazione in apposita collocazione di agevole accesso e, in ogni caso, con link alla relativa pagina accessibile dalla home page. Il termine per l’impugnazione decorre dal giorno seguente alla pubblicazione della decisione o delle motivazioni se non contestuali alla decisione. La pubblicazione è in ogni caso successiva alla comunicazione, quando prevista. Le decisioni del Collegio di garanzia dello sport istituito presso il CONI sono sempre pubblicate nel sito internet del CONI».

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A chiusura del Capo IV l’art. 12 introduce la Segreteria degli organi di Giustizia presso la Federazione, organo individuato dalla Federazione stessa con il compito di documentare, a tutti gli effetti, nei casi e nei modi previsti dai Regolamenti federali, le attività proprie e quelle degli organi di giustizia e delle parti; di assistere gli organi di giustizia in tutti gli atti dei quali deve essere redatto verbale; di provvedere al rilascio di copie ed estratti dei documenti prodotti, all’iscrizione delle controversie nei ruoli, alla formazione del fascicolo d’ufficio e alla conservazione di quelli delle parti, alle comunicazioni prescritte anche dal Giudice, nonché alle altre incombenze che il Codice e i Regolamenti federali gli attribuiscono. Ovviamente, intanto si può parlare di procedimento sportivo in quanto ci sia la disponibilità di risorse finanziarie necessarie per contribuire alla parziale copertura dei costi di gestione per l’accesso ai servizi di giustizia, un accesso che può essere consentito anche a coloro i quali non dispongono dei mezzi economici sufficienti a versare il contributo richiesto 43, attraverso il ricorso all’Ufficio del Gratuito patrocinio, le cui condizioni per l’ammissione sono stabilite dall’art. 8, comma 2 del Codice.

3.2. Le funzioni del Giudice sportivo È al secondo Titolo del Codice in commento che vengono definite le funzioni e le competenze dei Giudici sportivi che, a differenza dei Giudici federali, si distinguono, anche in relazione alle rispettive attribuzioni, in Giudice sportivo nazionale, Giudici sportivi territoriali e Corte sportiva di appello. Il Giudice sportivo nazionale e i Giudici sportivi territoriali sono nominati, con un incarico della durata di quattro anni e non rinnovabile per più di due volte, dal Consiglio federale, su proposta del Presidente, tra i soggetti in possesso dei requisiti previsti dalla Federazione. Sempre il Consiglio federale determina il numero dei Giudici sportivi in ragione delle specifiche esigenze della singola disciplina sportiva e, in caso di nomina di più soggetti con la qualifica di Giudice sportivo nazionale, con il medesimo atto il Consiglio federale determina i criteri di assegnazione delle questioni e delle controversie 44. Anche per la nomina dei componenti della 43

Modalità e termini di versamento, condizioni di ripetibilità del contributo nonché di eventuali depositi cauzionali previsti, sono determinati da ogni Federazione con i rispettivi Regolamenti di giustizia, nel rispetto delle norme contenute dal Codice della Giustizia Sportiva. 44

Preso atto del ruolo determinante rivestito dal Consiglio federale in seno al descritto meccanismo di nomina dei Giudici, ne deriva che il medesimo saprà tanto meglio garantirne la terzietà e l’indipendenza, quanto più bilanciata e inclusiva ne appaia la composizione, capace di rispecchiare e dare espressione a tutte le componenti e gli attori delle diverse discipline sportive. In tale prospettiva, volgendo lo sguardo agli Statuti federali ed alla composizione dei Consigli, si coglie una costante presenza di consiglieri in rappresentanza degli atleti e dei tecnici, ma in un numero che difficilmente appare in adeguato bilanciamento con la componente espressione delle società. A titolo esemplificativo si guardi l’art. 26 dello Statuto FIGC, che prevede: «Il Consiglio federale si com-

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Corte sportiva di appello – che giudica in composizione collegiale, col numero invariabile di tre componenti – la competenza è attribuita al Consiglio Federale che, su proposta del Presidente, sceglie tra i soggetti in possesso dei requisiti previsti dalla Federazione determinandone il numero, comunque non inferiore a sei, in ragione delle specifiche esigenze della rispettiva disciplina sportiva. Del Collegio della Corte sportiva di appello non può far parte nessun componente che abbia l’obbligo di astensione, ovvero si trovi in altra situazione di incompatibilità comunque determinata. Dinanzi ai Giudici sportivi, il processo può instaurarsi o su istanza del soggetto interessato, titolare di una situazione meritevole di tutela nell’ordinamento federale ovvero d’ufficio, a seguito di acquisizione dei documenti ufficiali relativi alla gara o su eventuale segnalazione del Procuratore federale. Nella prima ipotesi, l’istanza che deve contenere l’indicazione dell’oggetto, delle ragioni su cui si fonda e degli eventuali mezzi di prova di cui ci si intende avvalere, deve essere presentata al Giudice sportivo entro il termine stabilito da ciascuna Federazione o, in mancanza, entro tre giorni dal compimento dell’evento. L’istanza può essere anche formulata con “riserva dei motivi” 45 e, in questo caso, entro il termine stabilito da ciascuna Federazione e, comunque, non superiore a sette giorni dalla sua formulazione, la riserva dei motivi è sciolta mediante indicazione delle ragioni su cui l’istanza stessa è fondata, nonché degli eventuali mezzi di prova; in caso di mancata determinazione nel termine stabilito, il Giudice sportivo non è tenuto a pronunciare. Sempre nell’ottica di celerità e speditezza processuale, il Giudice sportivo è tenuto a fissare, entro il termine stabilito da ogni Federazione ed in ogni caso senza ritardo, la data in cui assumerà la pronuncia con provvedimento comunicato tempestivamente agli interessati. Fino a quel momento, su espressa richiesta dell’istante, il Giudice può adottare ogni provvedimento idoneo a garantirne, seppone, senza possibilità di delegare ad altri la partecipazione, oltre al Presidente federale, di diciannove componenti eletti in numero di: a) sei dalla Lega Nazionale Dilettanti, ivi compreso il Presidente della Lega; b) sette dalle Leghe professionistiche, ivi compresi i rispettivi Presidenti, ripartiti in numero di tre per la Lega Nazionale Professionisti Serie A, uno per la Lega Nazionale Professionisti Serie B, tre per la Lega Italiana Calcio Professionistico; c) quattro atleti e due tecnici. Fra gli atleti Consiglieri federali devono essere compresi almeno un dilettante e un professionista e deve essere assicurata un’equa rappresentanza di atlete; fra i tecnici devono essere rappresentati sia la categoria dilettantistica sia quella professionistica». Pertanto, si potrebbe immaginare e auspicare che per procedere alle nomine dei Giudici sportivi il Consiglio federale assuma una diversa e, se del caso, più ampia composizione, tesa a garantire una maggior presenza e, conseguentemente, un maggior peso alla componente degli atleti e dei tecnici. Se è, infatti, indubbio come molto spesso tali soggetti incarnino la parte debole del rapporto in contenzioso, la scelta suggerita parrebbe in ideale continuità con l’obiettivo, enunciato dal codice e sostenuto dalla riforma, di garantire tutte le parti attraverso l’autonomia e indipendenza degli organi di giustizia e l’operato terzo ed imparziale dei propri componenti. 45

Così, M. SANINO-F. VERDE, Il diritto sportivo, cit., p. 536.

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pur provvisoriamente, gli interessi. La finalità sottesa alla comunicazione agli interessati del provvedimento di fissazione dell’udienza, è quella di garantire agli stessi la possibilità di far pervenire memorie e documenti entro due giorni prima di quello fissato per la pronuncia. Dalla articolazione strutturale appena esposta, si comprende, dunque, come il procedimento sportivo sia totalmente ed intrinsecamente ispirato alla massima celerità possibile, pur nel rispetto del principio del contraddittorio e dei principi del giusto processo nonché alla massima trasparenza, tenuto conto anche degli obblighi previsti in capo al Giudice che, a sua volta, è chiamato a pronunciare la propria decisione in tempi brevi e perentoriamente stabiliti e, soprattutto, senza tenere udienza. Il Giudice, seppur obbligatoriamente tenuto a comunicare alle parti e pubblicare senza indugio la decisione assunta, assume ogni informazione che ritiene utile ai fini della emanazione di una pronuncia che si ispiri ai canoni di giustizia ed equità. Evidente, nell’impianto codicistico, lo spazio riservato alle garanzie ed ai principi, di rango costituzionale, del giusto processo, nonché “per quanto non disciplinato” ai principi e alle norme generali del processo civile, cui gli organi di giustizia sono chiamati a conformare la propria attività. Pur ponderata dalla necessaria verifica della compatibilità con il carattere di informalità dei procedimenti di giustizia sportiva, la clausola generale di rinvio, contenuta nell’art. 2, comma 6, Codice della Giustizia Sportiva, rappresenta il primo, ma non certo l’unico, richiamo al rispetto dei principi di terzietà ed indipendenza, cui sono chiamati, nello svolgimento del proprio ufficio, tanto i Giudici sportivi quanto quelli federali 46. Senz’altro innovativo, inoltre, è il dettato dell’art. 3, comma 7, che consente a due o più Federazioni di costituire organi di giustizia e procure comuni, ovvero avvalersi della Corte federale di appello, anche per l’esercizio delle funzioni del Giudice sportivo di secondo grado. La ratio della norma è chiaramente ispirata dall’intento di consentire risparmi di gestione per quelle Federazioni sportive con un numero di tesserati ed un contenzioso ragionevolmente contenuti, anche se sembra destinata a scontrarsi con l’interesse di ogni Federazione a preservare la propria autodichia 47.

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Anche nella deliberazione del Consiglio nazionale CONI del 19 maggio 2010, n. 1412, denominata “Principi di Giustizia sportiva”, l’art. 3 rubricato “Gli Organi della giustizia sportiva” si apre con un richiamo alla loro imparzialità e terzietà. Si veda G. PAPA, Il procedimento innanzi agli organi di giustizia sportiva, Napoli, 2012, pp. 45-51. Se nel passato, la valutazione sulla terzietà ed indipendenza dei Giudici, componenti i diversi organi di giustizia sportivi e federali, è stata operata secondo maglie piuttosto larghe – adattate alla realtà di una giustizia chiamata a dirimere rapporti tra le parti, che non sempre possono presumersi equilibrati – il nuovo complesso normativo sembra deciso a segnare una linea di maggiore rigore. 47

Più probabile che queste stesse Federazioni possano preferire, laddove non sia già presente, l’unificazione delle Corti d’appello sportiva e federale, preservando l’autonomia nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali. Nella stessa ottica di contenimento dei costi di gestione si pone anche la possibilità per la Federazione di avvalersi della Commissione di garanzia di cui all’art. 13-ter Statuto del CONI, rinunciando ad istituirne una propria.

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Quella dei Giudici sportivi è una competenza per materia legata alla conoscenza delle controversie di natura tecnico-sportiva strettamente connesse allo svolgimento della gara 48 e finalizzate a garantirne una agevole e corretta esecuzione. In applicazione dei principi di celerità e speditezza del processo sportivo, ispirato a regole di snellezza e semplificazione delle procedure, sia il Giudice sportivo nazionale che i Giudici sportivi territoriali pronunciano in prima istanza, senza udienza e con immediatezza, in composizione monocratica. È la Corte sportiva di appello che, solo successivamente, giudica in seconda istanza sui ricorsi eventualmente proposti avverso le decisioni degli organi di primo grado, quindi Giudice sportivo nazionale e Giudici sportivi territoriali, purché i ricorsi siano proposti entro il termine stabilito da ciascuna Federazione e, in difetto, non superiore a sette giorni dalla pubblicazione della decisione. La determinazione delle questioni devolute alla conoscenza dei singoli Giudici sportivi territoriali rientra tra i poteri del Consiglio Federale, anche in ragione delle specifiche esigenze della singola disciplina sportiva; così come resta facoltà del Consiglio federale articolare la Corte sportiva di appello in più sezioni, anche su base territoriale, determinando sempre i criteri di attribuzione dei procedimenti. Dinanzi al Collegio di garanzia dello sport operante presso il CONI, entro trenta giorni dalla pubblicazione della decisione della Corte sportiva di appello, ne è consentito il ricorso per i casi e nei limiti stabiliti. Avverso le decisioni del Giudice sportivo nazionale e dei Giudici sportivi territoriali può essere proposto reclamo innanzi alla Corte sportiva di appello da parte dei soggetti interessati o della Procura federale. Tale forma di impugnazione – che non sospende l’esecuzione della decisione impugnata, salvo l’adozione da parte del Giudice di ogni provvedimento idoneo a preservarne provvisoriamente gli interessi, su espressa richiesta del reclamante – deve essere depositato presso la Corte sportiva di appello entro il termine perentorio stabilito dalla Federazione o, in difetto, entro sette giorni dalla data in cui è pubblicata la pronuncia impugnata. Le stesse caratteristiche di celerità e snellezza proprie del giudizio sportivo di primo grado, si ritrovano anche nei procedimenti di appello dinanzi alla Corte sportiva, dove è concesso agli interessati di ottenere una nuova valutazione del caso già conosciuto dal Giudice sportivo di primo grado, nel rispetto dei generali principi della difesa e del giusto processo ex art. 111 Cost. Il ricorrente, che a proprie spese ha diritto di ottenere copia dei documenti su cui si fonda la pronuncia, formula la relativa richiesta di reclamo che può essere de48 Ossia, questioni relative alla regolarità delle gare ed alla omologazione dei relativi risultati; alla regolarità dei campi o degli impianti e delle relative attrezzature; alla conformità dello status e della posizione di atleti, tecnici o altri partecipanti alla gara; ai comportamenti di atleti, tecnici o altri tesserati in occasione o nel corso della gara, infine, ad ogni altro fatto rilevante per l’ordinamento sportivo avvenuto in occasione o nel corso della gara. Per quanto concerne il giudizio di primo grado, il Giudice sportivo nazionale è competente per i campionati e le competizioni di ambito nazionale, mentre quelli territoriali per le competizioni ed i campionati di ambito territoriale.

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positato anche con riserva dei motivi, che devono essere integrati, a pena d’inammissibilità, entro il terzo giorno successivo a quello in cui il soggetto interessato ad esperire il reclamo ha ricevuto copia dei documenti richiesti. Immediatamente si mette, dunque, in moto la macchina della giustizia sportiva che vede il Presidente della Corte sportiva di appello procedere alla fissazione dell’udienza in camera di consiglio e alla contestuale comunicazione agli interessati che, ad eccezione del reclamante, devono costituirsi in giudizio almeno due giorni prima della data fissata per l’udienza, depositando presso la Corte sportiva di appello apposita memoria difensiva. Per la verità, dinanzi alla Corte possono essere prodotti anche nuovi documenti purché analiticamente indicati nell’atto di reclamo e immediatamente resi accessibili agli altri interessati che possono intervenire in giudizio entro due giorni dalla data fissata per l’udienza. Sulla domanda di reclamo, la Corte sportiva di appello decide in camera di consiglio, con la possibilità di sentire le parti che ne abbiano fatto esplicita richiesta. Il provvedimento oggetto d’esame da parte della Corte può essere riformato in tutto o in parte e può essere annullato se vengono rilevati motivi di improponibilità o di improcedibilità dell’istanza proposta in primo grado. In ogni altro caso in cui non si trovi nelle condizioni di dover dichiarare l’inammissibilità del reclamo, decide nel merito la questione. La decisione della Corte sportiva di appello deve essere adottata entro il termine stabilito da ogni Federazione ed, in ogni caso, senza ritardo e senza indugio comunicata alle parti interessate e resa pubblica. La Corte sportiva di appello è, inoltre, competente a decidere sulle istanze di ricusazione dei Giudici sportivi di primo grado (nazionali o territoriali) ritenendo applicabili le norme in materia di astensione e di ricusazione previste dal codice di procedura civile, visto il generale rinvio operato dall’art. 2, comma 6 del Codice di Giustizia Sportiva 49. Diversamente, quando il motivo di ricusazione non sia circoscritto e riferibile al solo contenzioso pendente, ma evidenzi la presenza d’incompatibilità, taciute o sopravvenute alla dichiarazione ex art. 3, comma 3, del Codice tale circostanza andrà denunciata alla Commissione federale di garanzia, affinché eserciti le competenze ad essa attribuite: ed appare ragionevole ritenere che sarà la stessa Corte sportiva di appello a trasmetterne, direttamente o attraverso la Procura, notizia alla Commissione.

3.3. I Giudici federali Accanto ai Giudici sportivi, il nuovo Codice della Giustizia prevede che, nell’ambito di ciascuna Federazione, siano presenti ed operativi i Giudici federali, 49

La previsione esplicita di un procedimento che si erge a garanzia dell’imparzialità del Giudice, è corollario di quel fascio di principi posti a fondamento del processo e sottolinea una volta di più l’esigenza di tenere distinte ed estranee le posizioni di chi è chiamato a decidere e di chi quella decisione attende in virtù del proprio ruolo di parte.

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organi collegiali che si distinguono in Tribunale federale in primo grado e Corte federale di appello in secondo grado. In vero, la distinzione tra organi sportivi ed organi federali è sempre stata nota alle Federazioni 50, distinzione che però è stata accentuata dalla novella della giustizia sportiva che ne ha esplicitato i criteri di ripartizione della competenza, conferendo loro validità generale, con il chiaro fine di agevolare, grazie ad una maggiore certezza, l’accesso agli organi di giustizia sportiva. In precedenza si è chiarito come la competenza dei Giudici sportivi sia limitata alle controversie di natura tecnica strettamente connesse con lo svolgimento della gara; quella degli organi giudicanti federali è, invece, una competenza residuale che, in forza dell’art. 25 vede conferite al Tribunale federale, quale organo di primo grado, tutte le controversie – instaurate a seguito di atto di deferimento del Procuratore federale o con ricorso della parte interessata e titolare di una situazione giuridicamente protetta nell’ordinamento federale – aventi ad oggetto “fatti rilevanti per l’ordinamento sportivo” ed in relazione ai quali non sia stato instaurato, né risulti pendente, un procedimento dinanzi ai Giudici sportivi nazionali o territoriali 51. Si ritorna, dunque, nuovamente al ricorso al criterio della rilevanza della controversia per l’ordinamento sportivo, elemento a cui aveva fatto già riferimento il legislatore attraverso il d.l. 19 agosto 2003, n. 220 52. Inoltre, l’ulteriore circostanza a cui fa riferimento l’art. 25, ossia il fatto che la controversia non sia stata sollevata o risulti pendente dinanzi a Giudici sportivi, sta a significare che la stessa deve originare da fatti, rilevanti per l’ordinamento sportivo, che non siano avvenuti in occasione di una gara ovvero risultino direttamente collegati ad essa. Il procedimento dinanzi agli organi federali, che venga generato in virtù di atto di deferimento da parte del Procuratore federale, trova il suo referente normativo all’art. 28 del Codice che è stato interamente modificato attraverso l’ultima deliberazione del Consiglio nazionale del CONI. 50

G. PAPA, Il procedimento innanzi agli organi di giustizia sportiva, cit., pp. 69-86.

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Art. 25. – Competenza dei Giudici federali: «1. Il Tribunale Federale giudica in primo grado su tutti i fatti rilevanti per l’ordinamento sportivo in relazione ai quali non sia stato instaurato né risulti pendente un procedimento dinanzi ai Giudici sportivi nazionali o territoriali. 2. La Corte federale di appello giudica in secondo grado sui ricorsi proposti contro le decisioni del Tribunale federale. È competente a decidere, altresì, sulle istanze dei componenti del medesimo Tribunale». 52

Già SANTI ROMANO, L’ordinamento giuridico, Firenze, 1946, p. 56, parlava di irrilevanza per descrivere i rapporti tra i diversi ordinamenti. Tale concetto è abitualmente riferito alle controversie che originano da questioni tecniche, e che concernono l’aspetto regolamentare delle varie competizioni sportive e la disciplina del loro esercizio programmatico, la cui irrilevanza è intesa come riflesso del disinteresse dell’ordinamento giuridico statale per esse. Tali riflessioni furono riprese ed espressamente riferite al rapporto tra ordinamento statale e ordinamento sportivo da M.S. GIANNINI, Prime osservazioni sugli ordinamenti giuridici sportivi, in Riv. dir. Sportivo, 1949, p. 13 ss. e p. 33; A. MERONE, La giustizia sportiva nell’aspetto giurisdizionale, in Giur. merito, 2006, fasc. 6/S, p. 24 ss. e p. 34.

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Rispetto alla disciplina passata, la quale riconosceva la possibilità di ricorrere all’istituto del patteggiamento anticipato fino al momento in cui il relativo procedimento dinanzi al Tribunale federale non risultasse concluso, oggi l’art. 28 stabilisce che gli incolpati possono avanzare al Procuratore federale un’istanza dell’applicazione di una sanzione, specificata per genere e misura fino al momento precedente allo svolgimento della prima udienza dinanzi al Tribunale federale. Tale sorta di accordo, una volta concluso, viene sottoposto al Collegio incaricato della decisione, il quale, qualora riconosca corretta la qualificazione dei fatti contestati in giudizio e congrua la sanzione, ne dichiara l’efficacia con apposita decisione che comporterà, ad ogni effetto, la definizione del procedimento. È restato, invece, inalterato il comma 3 dell’art. 28 nell’escludere l’applicazione della forma del patteggiamento alle ipotesi di recidiva 53. Nei casi in cui, diversamente, non sia sollevata richiesta di patteggiamento, di norma, entro dieci giorni dalla ricezione dell’atto di deferimento, il Presidente del Collegio fissa l’udienza di discussione, dando comunicazione della data all’incolpato, alla Procura federale e agli altri soggetti eventualmente indicati dal Regolamento della Federazione. In particolare, fino a tre giorni prima, gli atti relativi al procedimento restano depositati presso la segreteria dell’organo di giustizia e l’incolpato, la Procura federale e gli altri interessati possono prenderne visione ed estrarne copia; entro il medesimo termine, possono, inoltre, depositare o far pervenire memorie, indicare i mezzi di prova di cui intendono avvalersi e produrre documenti. Tra la comunicazione e la data fissata per l’udienza deve intercorrere un termine non inferiore venti e non superiore a trenta giorni. Il Presidente del Collegio, qualora ne ravvisi giusti motivi, anche in considerazione del tempo di prescrizione degli illeciti contestati, può disporre l’abbreviazione del termine. È opportuno precisare che il procedimento dinanzi ai Giudici federali può essere instaurato non solo attraverso un atto di deferimento del Procuratore, ma anche in virtù di un ricorso che deve essere presentato dalla parte interessata che sia titolare di una situazione giuridica protetta nell’ordinamento federale, quando, per le stesse questioni non sia già stato instaurato, o tanto meno risulti pendente, un procedimento dinanzi agli organi di giustizia sportiva quali il Giudice sportivo nazionale o i Giudici territoriali nazionali e la Corte sportiva di appello. Il ricorso deve essere depositato presso il Tribunale federale entro trenta giorni

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Ovviamente, la procedura del patteggiamento anticipato, che consiste sostanzialmente nell’applicazione di sanzioni su richiesta, a seguito di atto di deferimento e prima della conclusione del procedimento dinanzi all’organo federale di primo grado, non trova applicazione per i casi di recidiva e per i fatti diretti ad alterare lo svolgimento o il risultato di una gara o di una competizione sportiva, o ad assicurare a chiunque il vantaggio in classifica, qualificati come illecito sportivo o frode sportiva dell’ordinamento federale. Cioè non è destinato a trovare applicazione per quei fatti riconducibili alla cosiddetta fattispecie della “frode sportiva”, come definita dalla legge 13 dicembre 1989, n. 401, recante “Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela nello svolgimento di competizioni agonistiche”.

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dalla data in cui il ricorrente abbia avuto piena conoscenza dell’atto o del fatto e, comunque, non oltre un anno dall’accadimento. Infatti, una volta decorsi tali termini, i medesimi fatti o atti non possono più costituire causa di azione innanzi al Tribunale federale, se non in forza di un atto di deferimento del Procuratore federale. Il nuovo Codice di Giustizia Sportiva, scandisce nel dettaglio che il ricorso deve necessariamente contenere, ai fini della sua validità: gli elementi identificativi del ricorrente, del suo difensore e degli eventuali soggetti nei cui confronti il ricorso è proposto o comunque contro interessati; l’esposizione dei fatti; l’indicazione dell’oggetto della domanda e dei provvedimenti richiesti; l’indicazione dei motivi specifici su cui si fonda; l’indicazione dei mezzi di prova cui il ricorrente intende avvalersi; la sottoscrizione del difensore, con indicazione della procura. Subito parte, così, il procedimento sportivo atteso che entro il breve termine di dieci giorni dal deposito del ricorso, il Presidente del Tribunale dovrà fissare l’udienza di discussione e trasmettere il ricorso ai soggetti nei cui confronti lo stesso è proposto o comunque interessati nonché agli altri eventualmente indicati dal Regolamento di ciascuna Federazione. Inoltre, fino a cinque giorni prima della data fissata per l’udienza, gli atti relativi al procedimento restano depositati presso la segreteria del Tribunale federale ed il ricorrente, i soggetti nei cui confronti il ricorso è proposto o comunque i soggetti interessati, nonché gli altri eventualmente indicati possono prenderne visione ed estrarne copia. È proprio dall’esame dei termini processuali fissati dalla novella del diritto sportivo che è possibile desumere, nuovamente, la natura celere e semplificata del procedimento in questione per il quale è previsto che tra la comunicazione e la data fissata per l’udienza deve intercorrere un termine non inferiore a venti e non superiore a trenta giorni. Tale termine può essere abbreviato dal Presidente del Collegio, qualora ne ravvisi giusti motivi e purché sia assicurato alle parti l’esercizio effettivo del diritto di difesa. Per quanto attiene alle modalità concrete di svolgimento del processo sportivo dinanzi agli organi federali, il Codice stabilisce che l’udienza si svolga in camera di consiglio con la facoltà delle parti di essere sentite, prevedendo una trattazione orale concentrata e tale da assicurare alle parti ragionevoli possibilità di difesa 54. Come per quanto stabilito in merito ai procedimenti dinanzi ai Giudici sportivi, si riconosce anche al Tribunale federale il potere di emanare misure cautelari che appaiano, secondo le circostanze, più idonee ad assicurare gli effetti della decisione sul merito, nell’eventualità in cui pervenga istanza da parte del ricorrente che abbia fondato motivo 54 La nuova disciplina codicistica, nei procedimenti in materia di illecito sportivo, nonché per le questioni di particolare interesse pubblico, consente ai rappresentanti dei mezzi di informazione e alle altre categorie specificamente determinate, di poter essere ammessi a seguire l’udienza in separati locali, mediante un apparato televisivo a circuito chiuso. Tuttavia, l’organo procedente, con atto motivato, può arrivare ad escludere, in tutto o in parte, l’applicazione delle disposizioni in materia di pubblicità, nei casi in cui ricorrano ulteriori esigenze di tutela dei risultati delle indagini relative ai procedimenti penali.

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di temere che, durante il tempo necessario per la decisione, i propri interessi possano essere minacciati da un pregiudizio imminente e irreparabile 55. Avverso le decisioni finali del Tribunale federale – decisioni che vengono comunicate alle parti e pubblicate senza indugio – l’unico mezzo a disposizione dei soggetti legittimati è il reclamo dinanzi alla Corte federale di appello, organo di secondo grado. Tale mezzo di impugnazione deve essere depositato presso la Corte federale di appello non oltre il termine di quindici giorni dalla pubblicazione della decisione, tant’è che una volta decorso tale termine, la decisione del Tribunale federale non è più impugnabile nemmeno attraverso il ricorso al Collegio di garanzia dello sport operante presso il CONI, in quanto ricorso per saltum e come tale non ammesso. Il reclamo e il provvedimento di fissazione dell’udienza vengono comunicati, a cura della segreteria, ai rappresentanti della parte intimata e alle altre parti eventualmente presenti nel precedente grado di giudizio, ovvero alle stesse parti personalmente. Più correttamente, il comma 6 dell’art. 35, così come modificato e inserito nel nuovo codice di dicembre 2015, prevede che quando il Presidente del Collegio dà lettura del dispositivo, definendo il giudizio, fissa un termine non superiore a dieci giorni per il deposito della sola motivazione quando ci siano particolari ragioni che non consentano il deposito contestuale; in quest’ultimo caso, il reclamo alla Corte federale di appello ri55 La domanda cautelare può essere proposta con ricorso o con un atto successivo; in tal caso, ne è data comunicazione agli interessati, che possono presentare memorie e documenti in un termine a tal fine stabilito. Novità prevista nel Nuovo Codice è quella che riguarda il Procuratore federale che, in presenza di gravi e concordanti indizi di colpevolezza, qualora sussiste il concreto ed attuale pericolo che l’incolpando commetta illeciti della stessa specie di quello per cui si procede, può, per fatti di particolare gravità, domandare, con richiesta specificamente motivata, al Tribunale l’applicazione della misura cautelare della sua sospensione da ogni attività sportiva o federale ovvero del divieto di esercitare determinate attività nei medesimi ambiti. Quando disposta prima del deferimento, la misura non può comunque eccedere il termie per il compimento delle indagini preliminari, prorogabile una sola volta fino al limite di durata del giudizio disciplinare a norma dell’art. 38, 1, i cui termini in tal caso sono ridotti di un terzo. L’istanza di proroga può essere presentata soltanto con l’atto di deferimento. In mancanza di deferimento anteriore al termine di durata della misura cautelare, questa perde efficacia automaticamente alla scadenza anche quando la Procura generale dello sport abbia autorizzato la proroga del termine per il compimento delle indagini preliminari. Il Tribunale provvede immediatamente sulla domanda cautelare in ogni caso con ordinanza motivata. L’ordinanza che applica la misura cautelare anteriormente al giudizio dispone l’audizione della persona della cui sospensione o interdizione trattasi, la quale ha diritto a farsi assistere da un difensore, non oltre tre giorni, al termine della quale decide se confermare o revocare l’ordinanza. Contro l’ordinanza di conferma della misura cautelare è ammesso reclamo davanti alla Corte d’appello federale entro sette giorni. Al reclamo si applica il dettato di cui all’art. 37 in quanto compatibile. L’ordinanza cautelare rimane revocabile in ogni momento, anche d’ufficio. Essa è comunque revocata se il Tribunale ritiene che, all’esito del giudizio, la sanzione irrogabile non sarà superiore al termine di sospensione subita dall’incolpato o comunque più grave dell’interdizione già sofferta per il medesimo fatto. Quando la misura è in atto, con il dispositivo della decisione che definisce il giudizio o con la dichiarazione della relativa estinzione, la stessa perde sempre efficacia.

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mane improponibile fino alla pubblicazione della motivazione che avvenga entro il predetto termine. È bene chiarire che, di regola, la proposizione del reclamo non è tale da sospendere l’efficacia e l’esecuzione della decisione impugnata; tuttavia, quando ricorrano gravi motivi, il Presidente del Collegio, può decidere in tal senso o, comunque, procedere all’emanazione di un provvedimento che appaia secondo le circostanze, il più idoneo ad evitare alla parte che ha proposto reclamo un pregiudizio altrimenti irreversibile. Attraverso la proposizione del reclamo, la controversia è devoluta al Collegio che pronuncerà nei limiti delle domande e delle eccezioni non rinunciate o altrimenti precluse. Anche nel giudizio di secondo grado la trattazione è orale e concentrata assicurando a ciascuna delle parti il deposito di almeno un atto scritto o di una memoria. Il Collegio dovrà in ogni caso definire il giudizio, o confermando o riformando, in tutto o in parte, la decisione impugnata 56. Inoltre, ai sensi dell’art. 31 del Codice, il Tribunale federale è competente a decidere sui ricorsi di annullamento delle deliberazioni degli organi federali, dal momento che sono ricorribili e annullabili le deliberazioni dell’Assemblea e del Consiglio federale contrarie alla legge, allo Statuto e ai principi fondamentali del CONI, nonché ai Regolamenti della Federazione. Legittimati a proporre ricorso, in queste ipotesi, sono gli organi della Federazione, il Procuratore federale, i componenti, assenti o dissenzienti, del Consiglio federale, o del Collegio dei revisori dei conti, nonché tesserati o affiliati titolari di una situazione giuridicamente protetta nell’ordinamento federale, che abbiano subito un pregiudizio diretto e immediato dalla deliberazione. Segna il momento di chiusura del procedimento, la lettura del dispositivo da parte del Presidente del Collegio che provvederà a fissare nel dispositivo un termine non superiore a dieci giorni per il deposito della motivazione, qualora l’esigenza dell’esposizione differita delle ragioni dell’esposizione, non consenta il deposito contestuale della motivazione per la particolare complessità della controversia 57. Senza soluzione di continuità, la decisione della Corte federale di appello viene comunicata alle parti e immediatamente pubblicata 58. 56

Non sembra essere contemplata la possibilità di rimessione della causa al primo Giudice.

57

In quest’ultimo caso, salvo che sia altrimenti disposto con nuovo provvedimento, l’esecuzione della decisione non è impedita e, ove ammesso, il ricorso al Collegio di garanzia dello sport rimane improponibile fino alla pubblicazione della motivazione. Se il reclamo è dichiarato inammissibile ovvero è rigettato l’eventuale cauzione per le spese diviene irripetibile. Ciascuna Federazione può anche prevedere che il Collegio condanni il tesserato che abbia proposto reclamo al pagamento di una pena pecuniaria non superiore al doppio della cauzione per le spese, se il reclamo è manifestamente infondato. 58 Disponendo che «la decisione è motivata e pubblica» (art. 2, comma 4) vengono soddisfatti due principi fondamentali: quello di pubblicità della pronunzia del Giudice e quello relativo all’obbligo di pubblicazione.

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3.4. Il Procuratore federale A conclusione dell’analisi relativa all’ordinamento ed allo svolgimento del processo sportivo dinanzi agli organi di giustizia federale, si pone l’attenzione sulla fondamentale figura del Procuratore federale, soggetto estremamente rilevante per le dinamiche del procedimento stesso, atteso che nella stragrande maggioranza dei casi, è proprio dall’impulso del Procuratore che prende l’avvio l’intero procedimento federale 59. Quella del Procuratore federale è una figura che trova la sua disciplina normativa al Titolo IV, Capo I del Codice di Giustizia Sportiva che dall’art. 40 al 48 ne regolamenta la composizione, la nomina nonché le funzioni ad esso attribuite, da solo o in collaborazione con gli altri organi di giustizia sportiva. La figura del Procuratore federale è istituita presso ogni Federazione al fine di promuovere la repressione degli illeciti sanzionati dallo Statuto e dalle norme federali, esercitando funzioni inquirenti e requirenti con la possibilità, al termine della sua attività d’indagine, di deferire il soggetto interessato oppure di procedere con l’archiviazione. In via esclusiva, esercita l’azione disciplinare nei confronti dei tesserati, affiliati e degli altri soggetti legittimati, sempre nel rispetto delle norme di ciascuna Federazione, nelle forme e nei tempi da queste previsti, a meno che non ricorrano i presupposti per l’archiviazione. L’ufficio del Procuratore si compone del Procuratore federale ed eventualmente di uno o più Procuratori aggiunti nonché di uno o più sostituti Procuratori, nominati dal Consiglio Federale su proposta del Procuratore federale e scelti tra i soggetti dichiarati idonei dalla Commissione federale di garanzia, in numero determinato dallo Statuto di ogni Federazione. I Procuratori aggiunti ed i sostituti Procuratori vengono nominati al fine di coadiuvare il Procuratore federale e di sostituirlo in caso d’impedimento e possono essere preposti alla cura di specifici settori, secondo le modalità stabilite da ciascuna Federazione nei rispettivi Regolamenti di giustizia. La nomina del Procuratore federale avviene ad opera del Consiglio federale, su proposta del Presidente, ed è scelto tra i soggetti dichiarati idonei dalla Commissione federale di garanzia. Come chiarito dall’art. 44 del Codice, il Procuratore federale ha un ruolo fondamentale ai fini dell’instaurazione del procedimento, esercitando in via esclusiva l’azione disciplinare nelle forme e nei termini previsti dalla Federazione, purché non sussistano i presupposti per l’archiviazione che è, invece, disposta qualora il Procuratore reputi infondata la notizia di illecito sportiva ovvero se entro il termine per il compimento delle indagini preliminari gli elementi acquisiti non appaiano idonei a sostenere l’accusa in giudizio. In buona sostanza, il Procuratore federale prende notizia degli 59

Come già precisato, il procedimento dinanzi ai Giudici federali può essere attivato non solo per effetto dell’atto di deferimento del Procuratore, ma anche in virtù di un ricorso presentato dalla parte interessata, presso il Tribunale federale entro trenta giorni da quando il ricorrente ha avuto piena conoscenza dell’atto o del fatto e, comunque, non oltre un anno dall’accadimento.

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illeciti di propria iniziativa, riceve le notizie presentate o comunque pervenute, purché non anonime, e procede ad esercitare l’azione disciplinare, senza che il suo esercizio possa essere sospeso o interrotto, a meno che non sia diversamente stabilito 60. Quando non sussistano i presupposti perché sia dichiarata l’archiviazione, il Procuratore federale procede, entro venti giorni dalla conclusione delle indagini, ad informare l’interessato della intenzione di procedere all’esercizio dell’azione disciplinare, concedendogli comunque un termine perché venga sentito o presenti una memoria. Nell’eventualità in cui, a seguito delle difese dell’incolpato, il Procuratore federale ritenga di dover confermare comunque la propria intenzione, procede ad esercitare l’azione disciplinare formulando l’incolpazione mediante un formale atto di deferimento a giudizio che viene comunicato all’incolpato, al Giudice e agli altri soggetti eventualmente indicati nel Regolamento di ciascuna Federazione 61. Nell’eventualità in cui, invece, il Procuratore federale si sia determinato per l’assunzione di un provvedimento di archiviazione, l’eventuale apertura delle indagini può esser disposta d’ufficio, qualora emergano fatti nuovi o circostanze rilevanti di cui il Procuratore non era a conoscenza 62. Ovviamente anche il procedimento disciplinare in questione dovrà seguire le tempistiche celeri ed ispirate al rispetto del giusto processo e dell’economia processuale a cui ormai si indirizza il nuovo processo sportivo, tant’è che il potere, da parte del Procuratore federale, di sanzionare i fatti disciplinarmente rilevanti si estingue nel momento in cui il Procuratore non lo eserciti entro i termini previsti dal nuovo Codice della Giustizia Sportiva 63. Al fine di svolgere tutte le indagini necessarie all’accertamento di violazioni statutarie e regolamentari di cui ha notizia, il Procuratore federale è tenuto ad iscrivere nell’apposito registro le notizie dei fatti o atti rilevanti, registro che deve

60

Il Procuratore ha facoltà di astenersi quando esistono gravi ragioni di convenienza e l’autorizzazione in tal senso è data dal Procuratore generale dello sport operante presso il CONI. 61 Il formale atto di deferimento del Procuratore federale contiene la descrizione dei fatti che si assumono accaduti, l’enunciazione delle norme che si assumono violate e l’indicazione delle fonti di prova acquisite, nonché la formulazione della richiesta di fissazione del procedimento disciplinare. 62 Se tali fatti o circostanze si desumono da un provvedimento che dispone il giudizio penale, il diritto di sanzionare si prescrive comunque entro il termine dell’ottava stagione sportiva successiva a quella in cui è stato commesso l’ultimo atto diretto a realizzare la violazione. 63

Sembra, a tal punto, opportuno sottolineare che la durata delle indagini non può superare il termine previsto da ciascuna Federazione e, in ogni caso, non può essere superiore a sessanta giorni dall’iscrizione nell’apposito registro dell’atto o del fatto rilevante. Tale termine può, in vero, essere prorogato su istanza congruamente motivata del Procurato Federale per la durata di quaranta giorni, eventualmente prescrivendo gli atti indispensabili da compiere. In casi eccezionali, può autorizzare una ulteriore proroga per una durata non superiore a venti giorni e il termine decorrerà dalla comunicazione della autorizzazione. Basti pensare che gli atti di indagine compiuti dopo la scadenza del termine non possono essere utilizzati, a differenza di quegli atti e documenti acquisiti in ogni tempo dalla Procura della Repubblica e dalle altre autorità giudiziarie dello Stato.

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essere tenuto in conformità alle modalità prescritte per la Procura generale dello sport del CONI, in quanto compatibili 64. Una volta concluse le indagini, il Procuratore federale, qualora non ritenga di poter provvedere al deferimento, procede a comunicare alla Procura generale dello sport la propria determinazione di procedere all’archiviazione, con determinazione succintamente motivata. In questi casi, il Procuratore federale è comunque tenuto a comunicare la determinazione conclusiva delle indagini ai soggetti alle stesse sottoposti. Inserendosi nel più ampio progetto di riforma della giustizia sportiva, anche per l’esercizio dell’azione disciplinare da parte del Procuratore federale sono stati previsti termini ristretti, trascorsi i quali l’azione stessa cade in prescrizione, che comincia a decorrere dal giorno in cui si verifica il fatto rilevante ai fini dell’azione disciplinare. Stando al dettato della norma il diritto di sanzionare, ferma restando la possibilità di riaprire d’ufficio le indagini, nel caso in cui emergano nuovi fatti o circostanze rilevanti dei quali il Procuratore non era a conoscenza, si prescrive entro: a) il termine della stagione sportiva successiva a quella in cui è stato commesso l’ultimo atto diretto a realizzare la violazione, qualora si tratti di violazioni relative allo svolgimento della gara; b) il termine della sesta stagione sportiva successiva a quella in cui è stato commesso l’ultimo atto diretto a realizzare la violazione, qualora si tratti di violazioni in materia gestionale ed economica; c) il termine della ottava stagione sportiva successiva a quella in cui è stato commesso l’ultimo atto diretto a realizzare la violazione, qualora si tratti di violazioni relative alla alterazione dei risultati di gare, competizioni o campionati; d) il termine della quarta stagione sportiva successiva a quella in cui è stato commesso l’ultimo atto diretto a realizzare la violazione, in tutti gli altri casi. Sui generis sembra essere la previsione dell’art. 48 del Codice di Giustizia Sportiva dal momento che prevede l’applicazione di sanzioni su richiesta e senza incolpazione, nonché la possibilità di usufruire di una sorta di patteggiamento anticipato rispetto alla formulazione dell’atto di deferimento del Procuratore oppure l’adozione di impegni volti a porre rimedio agli effetti degli illeciti ipotizzati 65.

64

La Procura generale dello sport esercita funzioni di coordinamento e vigilanza delle attività inquirenti e requirenti svolte dalle procure federali, nonché una generica funzione di cooperazione potendo invitare i Procuratori federali ad aprire un fascicolo su uno o più fatti specifici, atteso che la Procura generale può venire a conoscenza di notizie di illecito che più difficilmente giungono al Procuratore federale competente ad esercitare l’azione disciplinare. 65

A differenza del patteggiamento anticipato di cui all’art. 28 – in cui una volta intervenuto il deferimento e, prima della definizione del giudizio dinanzi all’organo federale di primo grado, si rende possibile il perfezionamento di un accordo tra gli incolpati e il Procuratore federale – nell’ipotesi di cui all’art. 48, tale accordo si inserisce in una fase precedente del procedimento, ossia nel momento delle indagini, da cui può scaturire o meno il deferimento e, una volta perfezionato e

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Nell’ottica di uniformità del procedimento sportivo, la passata formulazione del Codice definiva anche i rapporti di collaborazione che il Procuratore federale doveva avere con la Procura della Repubblica e la Procura Antidoping del CONI alla quale, nel caso in cui durante le indagini si rilevasse che l’illecito potesse appartenere alla sua competenza, dovevano essere trasmessi senza indugio gli atti all’ufficio competente 66. Il nuovo articolo 48 del Codice di Giustizia Sportiva, differentemente, oggi recita al suo comma 2: «l’accordo è trasmesso, a cura del Procuratore federale, al Presidente della Federazione, il quale, entro i quindici giorni successivi, sentito il Consiglio Federale, può formulare osservazioni con riguardo alla correttezza della qualificazione dei fatti operata dalle parti e alla congruità della sanzione o degli impegni indicati, anche sulla base degli eventuali rilievi del Procuratore generale dello Sport. Decorso tale termine, in assenza di osservazioni da parte del Presidente della Federazione, l’accordo acquista efficacia e comporta, in relazione a fatti relativamente ai quali è stato convenuto, l’improponibilità assoluta della corrispondente azione disciplinare». È rimessa al dettato dell’art. 49 del Codice di Giustizia Sportiva la disciplina relativa ai rapporti del Procuratore federale con la Procura della Repubblica, stabilendo che, se il Procuratore federale prende notizia, nel corso delle indagini, di fatti rilevanti anche per l’Ufficio del Pubblico Ministero, procede a trasmettere senza indugio copia degli atti al Presidente federale affiche questi ne dia notizia all’Autorità giudiziaria competente 67. Le risultanze del procedimento penale vengono trasmesse dalla Procura della Repubblica al Procuratore federale che tiene gli atti e documenti a lui trasmessi nel debito riserbo. Inoltre, qualora ritenga definitivo, impedisce la proponibilità stessa dell’azione disciplinare. In buona sostanza i soggetti sottoposti a indagini possono convenire con il Procuratore federale l’applicazione di una sanzione, indicandone il tipo e la misura; tale accordo viene trasmesso, a cura del Procuratore federale, al Presidente della Federazione, il quale entro i quindici giorni successivi, sentito il Consiglio Federale, può formulare osservazioni in merito alla corretta della qualificazione dei fatti operata dalle parti e alla congruità della sanzione indicata. Decorso tale termine, in assenza di osservazioni, l’accordo acquista efficacia e comporta, in relazione ai fatti relativamente ai quali è stato convenuto, l’improponibilità assoluta della corrispondente azione disciplinare. 66 Quella del doping è, infatti, una materia totalmente sottratta alla cognizione del Procuratore federale e rimessa alla competenza della Procura Antidoping del CONI, in ossequio alla vigente normativa in materia, costituita dalle “Norme sportive antidoping del CONI” – Documento tecnico attuativo del Codice Mondiale Antidoping WADA e dei relativi standard internazionali. Nell’eventualità in cui sorga conflitto, su segnalazione del Procuratore che manifesta l’intenzione di declinare ulteriormente la competenza, decide senza ritardo la Procura generale dello sport, dandone comunicazione agli uffici interessati. 67

Nello specifico la materia dei rapporti tra organi di giustizia e Giudice penale è disciplinata dall’art. 2, comma 3 della legge 13 dicembre 1989, n. 401, in base al quale gli organi della disciplina sportiva, ai fini esclusivi della propria competenza funzionale, possono chiedere copia degli atti del procedimento penale, ai sensi dell’art. 111 c.p.p., fermo restando il divieto di pubblicazione stabilito dall’art. 114 dello stesso Codice.

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che presso l’Ufficio del Pubblico ministero ovvero presso altre autorità giudiziarie dello Stato, siano stati formati atti o raccolti documenti rilevanti per lo svolgimento delle proprie attribuzioni, ne richiede l’acquisizione direttamente o per il tramite della Procura generale dello sport operante presso il CONI. È, poi la stessa Procura generale dello sport che può richiedere l’acquisizione di tali atti o documenti per l’esercizio delle specifiche attribuzioni; in caso di accoglimento della richiesta, il Procuratore generale dello sport trasmette copia degli atti e dei documenti ricevuti al Procuratore federale.

3.5. I tempi del processo sportivo Sula base di quanto innanzi descritto, si può pacificamente riconoscere come gli interventi del legislatore in tema di processo sportivo siano stati mirati prettamente ad incidere sugli aspetti di ordine procedurale, lasciando in buona sostanza inalterati quelli di natura sostanziale che, tutt’oggi, continuano ad essere rimessi all’autonomia e alla discrezionalità di ogni Federazione. Sicuramente uno dei temi sui quali il riformato ordinamento sportivo ha concentrato la sua attenzione è stato quello della tempistica dei procedimenti e della necessità della loro snellezza e celerità, al fine di garantire il dinamico svolgersi dell’attività sportiva federale e, al tempo stesso, le garanzie fondamentali connesse alla salvaguardia del diritto di difesa e allo svolgimento di un processo equo ed equilibrato. Proprio a tal fine, l’art. 38 del Codice di Giustizia Sportiva, ad esempio, ha fissato in novanta giorni dalla data di esercizio dell’azione disciplinare il termine per la pronuncia di primo grado e sessanta dalla data di proposizione del reclamo per la decisione di secondo grado 68. In tal modo, la durata complessiva massima di ciascun procedimento non 68

Art. 38. – Termini di estinzione del giudizio disciplinare e termini di durata degli altri giudizi: «1. Il termine per la pronuncia della decisione di primo grado è di novanta giorni dalla data di esercizio dell’azione disciplinare, fatto salvo quanto previsto dall’art. 33, comma 2. 2. Il termine per la pronuncia della decisione di secondo grado è di sessanta giorni dalla data di proposizione del reclamo. 3. Se la decisione di merito è annullata in tutto o in parte a seguito del ricorso al Collegio di garanzia dello sport, il termine per la pronuncia nell’eventuale giudizio di rinvio è di sessanta giorni e decorre dalla data in cui vengono restituiti gli atti del procedimento dal Collegio di garanzia dello sport. 4. Se i termini non sono osservati per ciascuno dei gradi di merito, il procedimento disciplinare è dichiarato estinto, anche d’ufficio, se l’incolpato non si oppone. 5. Il corso dei termini è sospeso: a) se per lo stesso fatto è stata esercitata l’azione penale, ovvero l’incolpato è stato arrestato o fermato o si trova in stato di custodia cautelare, riprendendo a decorrere dalla data in cui non è più soggetta ad impugnazione la sentenza di non luogo a procedere ovvero sono divenuti irrevocabili la sentenza o il decreto penale di condanna, fermo che l’azione disciplinare è promossa e proseguita indipendentemente dall’azione penale relativa al medesimo fatto; b) se si procede ad accertamenti che richiedono indispensabilmente la collaborazione dell’incolpato, e per tutto il tempo necessario; c) se si procede ad accertamenti di particolare complessità, ove ne facciano congiuntamente richiesta tutte le parti costituite, e per tutto

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può essere superiore a centocinquanta giorni, previsione che viene fatta rispettare attraverso una sanzione rigida quale quella dell’estinzione 69 del procedimento disciplinare, anche d’ufficio, se l’incolpato non si oppone. Lo stesso termine di novanta giorni perché si concluda il primo grado e quello di sessanta per il secondo grado, sono stabiliti anche per i procedimenti che si svolgono dinanzi ai Giudici sportivi nazionali e territoriali e alla Corte sportiva di appello, a meno che la Federazione non abbia appositamente stabilito diversamente. Nell’ipotesi in cui, invece, la decisione di merito venga annullata a seguito del ricorso al Collegio di garanzia dello sport istituito presso il CONI, viene fissato un termine non superiore ai sessanta giorni per la pronuncia nell’eventuale giudizio di rinvio, termine che decorre dalla data in cui vengono restituiti gli atti del procedimento dallo stesso Collegio di garanzia dello sport. Nonostante l’esigenza di garantire una trattazione celere e snella, anche nel procedimento sportivo è contemplata la possibilità che il corso dei termini venga sospeso se per lo stesso fatto è stata esercitata l’azione penale, ovvero l’incolpato è stato arrestato o fermato o si trova in stato di custodia cautelare. Il termine comincerà a decorrere dalla data in cui la sentenza di non luogo a procedere non è più soggetta ad impugnazione, ovvero sono divenuti irrevocabili la sentenza o il decreto penale di condanna, ferma restando la possibilità di promuovere e proseguire l’azione disciplinare indipendentemente dall’azione penale relativa al medesimo fatto.

il tempo necessario; d) in caso di gravi impedimenti soggettivi dei componenti del Collegio giudicante, per il tempo strettamente necessario alla sostituzione. 6. L’estinzione del giudizio disciplinare estingue l’azione e tutti gli atti del procedimento, inclusa ogni eventuale decisione di merito, diventano inefficaci. L’azione estinta non può essere riproposta. 7. La dichiarazione di estinzione è impugnabile dalla parte interessata. Se interviene nel giudizio di secondo grado o di rinvio, anche il Procuratore generale dello sport, qualora il ricorso non sia altrimenti escluso, può impugnarla davanti al Collegio di garanzia dello sport. 8. Le controversie diverse da quelle di natura disciplinare sono decise dagli organi di giustizia presso la Federazione entro novanta giorni dalla proposizione del ricorso introduttivo di primo grado ed entro sessanta giorni dalla proposizione dell’eventuale reclamo. 9. La disposizione di cui al comma 8 si applica, in quanto compatibile, presso gli organi di giustizia sportiva di ciascuna Federazione, la quale non abbia appositamente stabilito termini inferiori». 69

L’estinzione del giudizio disciplinare estingue l’azione e tutti gli atti del procedimento, inclusa ogni eventuale decisione di merito, diventano inefficaci; l’azione estinta non può più essere riproposta. La dichiarazione di estinzione è impugnabile dalla parte interessata, nonché dal Procuratore generale dello sport del CONI se interviene nel giudizio di secondo grado o di rinvio e, qualora il ricorso non sia altrimenti escluso, può impugnarla dinanzi al Collegio di garanzia dello sport.

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SEZIONE II

I nuovi organi di Giustizia

4. Gli organi di Giustizia presso il CONI Come esposto in precedenza, l’indicazione degli Organi di giustizia apre il Capo II del Codice di Giustizia Sportiva, individuando, all’art. 3, l’esigenza d’istituire presso ogni Federazione un Giudice sportivo nazionale, i Giudici sportivi territoriali, la Corte sportiva di appello, il Tribunale federale e la Corte federale di appello. Tale scelta di semplificazione semantica appare quanto mai opportuna, sostituendo alla molteplicità di denominazioni presenti nelle diverse Federazioni un richiamo univoco, capace di descrivere con maggiore immediatezza la struttura organizzativa della giustizia sportiva adottata e presente presso ciascuna di esse. Con l’approvazione del Codice, infatti, il CONI ha elaborato per la prima volta una disciplina organica del processo sportivo, regolamentando in un unico testo normativo sia i procedimenti di propria competenza che quelli di competenza endofederale, ponendosi in una posizione di rottura con il passato 70 e proiettando il CONI in uno spazio tradizionalmente riservato all’autonomia delle Federazioni 71. Senz’altro innovativo, infatti, è il dettato dell’art. 3, comma 7, che consente, come detto, a due o più Federazioni di costituire organi di giustizia e procure comuni, ovvero avvalersi della Corte federale di appello, anche per l’esercizio delle funzioni del Giudice sportivo di secondo grado. La ratio della norma è chiaramente ispirata all’intento di consentire risparmi di gestione per quelle Federazioni sportive con un numero di tesserati ed un contenzioso ragionevolmente contenuti, anche se, tale previsione, sembra destinata a 70

Il percorso di riforma della giustizia sportiva è iniziato nel dicembre 2013, con l’approvazione da parte della Giunta e del Consiglio nazionale del CONI di alcune modifiche statutarie. Con l’introduzione dei nuovi artt. 12, 12-bis e 12-ter dello Statuto sono state individuate le linee essenziali della riforma, cui si sarebbe dovuta attenere la commissione consultiva incaricata della redazione di un “Testo Unico di Giustizia Sportiva”. La riforma ha proseguito il suo cammino anche oltre l’approvazione della prima versione del Codice: con le successive deliberazioni del 15 luglio 2014, nn. 1518 e 1518, la Giunta e il Consiglio nazionale del CONI hanno modificato in varie parti il testo originario e contestualmente approvato i Regolamenti di organizzazione e funzionamento del Collegio di garanzia della Procura generale dello sport. Per il definitivo completamento della riforma si è dovuto, però, attendere il recepimento del Codice negli Statuti e nei Regolamenti di giustizia delle singole Federazioni. 71

Mai, prima d’ora, era stata imposta dall’esterno una codificazione dei procedimenti federali, da sempre disciplinati con “Regolamenti di giustizia” ad efficacia meramente interna; sull’autonomia delle Federazioni sportive, si veda in particolare, M. BASILE, L’autonomia delle federazioni sportive, in L. BRUSCUGLIA (a cura di), Sport e ordinamenti giuridici, Pisa, 2009, p. 13 ss.

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scontrarsi con l’interesse di ogni Federazione a preservare la propria autonomia decisionale. Nella stessa ottica di contenimento dei costi di gestione si pone anche la possibilità per la Federazione di avvalersi della Commissione di garanzia di cui all’art. 13-ter dello Statuto del CONI, rinunciando ad istituirne una propria. È evidente che l’obiettivo originario, e poi definitivamente perseguito dall’ordinamento sportivo, è stato quello di predisporre un Codice di Giustizia unico, cioè capace di sostituirsi del tutto ai Regolamenti delle singole Federazioni senza alcuna necessità di adeguamento da parte degli ordinamenti federali e in grado di prevedere criteri e modalità per l’esercizio dei controlli sulle Federazioni, nonché di adeguare i procedimenti sportivi ai canoni del giusto processo 72, senza sottovalutare il significativo incremento delle garanzie riconosciute ai tesserati dal momento che ogni procedimento di giustizia sportiva si svolge attraverso un doppio grado di giudizio, assicurando il diritto di difesa e rispettando tempi certi. È in un tale contesto di omogeneizzazione della giustizia sportiva che si pone la modifica degli organi di giustizia del CONI, ed in particolare degli artt. 12, 12-bis e 12-ter, attraverso i quali si realizza l’abolizione dell’Alta Corte di Giustizia sportiva e del Tribunale Nazionale di Arbitrato dello Sport con la contestuale istituzione del Collegio di garanzia dello sport e della Procura generale dello sport, operanti in piena autonomia ed indipendenza nell’ambito dell’ordinamento sportivo. Vale la pena riportare gli articoli, la cui riforma, ha segnato il cambiamento della identità delle autorità di giustizia presso il CONI: Art. 12. – Sistema di giustizia sportiva: «1. Sono istituiti presso il CONI, in piena autonomia e indipendenza, il Collegio di garanzia dello sport e la Procura generale dello sport. 2. La disciplina prevista nel presente articolo e nei seguenti articoli 12 bis e 12 ter in riferimento alle Federazioni sportive nazionali si applica integralmente anche alle Discipline sportive associate e, ove previsto dai rispettivi Statuti, agli Enti di promozione sportiva». Art. 12-bis. – Collegio di Garanzia dello Sport: «1. È istituito presso il CONI, in posizione di autonomia e indipendenza, il Collegio di Garanzia dello Sport, organo di ultimo grado della giustizia sportiva, cui è demandata la cognizione delle controversie decise in via definitiva in ambito federale, ad esclusione di quelle in materia di doping e di quelle che hanno

72 Si veda l’art. 5, comma 2, lett. e), d.lgs. 23 luglio 1999, n. 242, come modificato dal d.lgs. n. 15/2004, che attribuisce alla Giunta nazionale del CONI il compito di individuare «i criteri generali dei procedimenti di giustizia sportiva» – affinché rispettino i principi del giudicato, della ragionevole durata, della motivazione e della impugnabilità delle decisioni – e di «razionalizzare i rapporti tra i procedimenti di giustizia sportiva di competenza del CONI con quelli delle singole Federazioni Sportive Nazionale e delle Discipline Sportive Associate».

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comportato l’irrogazione di sanzioni tecnico-sportive di durata inferiore a novanta giorni o pecuniarie fino a 10.000 euro. 2. È ammesso ricorso al Collegio di Garanzia dello Sport avverso tutte le decisioni non altrimenti impugnabili nell’ambito dell’ordinamento sportivo emesse dagli organi di giustizia federale esclusivamente per violazione di norme di diritto, nonché per omessa o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia che abbia formato oggetto di disputa tra le parti. 3. Quando il Collegio di Garanzia dello Sport riforma la decisione impugnata decide, in tutto o in parte, la controversia, oppure la rinvia all’organo di giustizia federale competente che, in diversa composizione, dovrà pronunciarsi definitivamente entro sessanta giorni applicando il principio di diritto dichiarato dalla Corte. In tal caso non è ammesso nuovo ricorso salvo che per la violazione del principio di diritto. 4. Il Collegio di Garanzia dello Sport è costituito in sezioni e composto da un Presidente, da Presidenti di sezione e da consiglieri. Le sezioni sono investite di competenza diversificata per materia, sulla base di quanto stabilito dal Regolamento di cui al comma 8 del presente articolo. 5. Il Collegio di Garanzia dello Sport svolge anche funzioni consultive per il CONI e, su richiesta presentata per il tramite del CONI, per le singole Federazioni sportive. Per lo svolgimento delle funzioni consultive, il Regolamento di cui al comma 8 assicura adeguate forme di distinzione e separazione dagli organi cui sono attribuite le funzioni giudiziali. 6. Il Presidente e i componenti del Collegio di Garanzia dello Sport sono scelti tra soggetti esperti di diritto sportivo tra i professori ordinari in materie giuridiche, gli avvocati abilitati all’esercizio della professione dinanzi alle magistrature superiori, gli avvocati dello Stato, i magistrati in servizio o a riposo. 7. Il Presidente e i componenti del Collegio di Garanzia dello Sport sono eletti dal Consiglio Nazionale del CONI, su proposta della Giunta del CONI, con la maggioranza dei due terzi degli aventi diritto al voto. Il curriculum vitae e i titoli sono pubblicati sul sito internet del CONI. Il Presidente e i componenti del Collegio di Garanzia dello Sport durano in carica quattro anni e sono rinnovabili per due soli mandati consecutivi. All’atto della nomina, il Presidente e i componenti del Collegio di Garanzia dello Sport sottoscrivono una dichiarazione con la quale si impegnano ad esercitare il mandato con obiettività e indipendenza, senza conflitti di interesse e con l’obbligo della riservatezza. 8. Le regole di organizzazione e di funzionamento del Collegio di Garanzia del CONI sono stabilite da un apposito Regolamento di organizzazione e funzionamento del Collegio di Garanzia dello Sport approvato dal Consiglio Nazionale del CONI a maggioranza assoluta dei suoi componenti. 9. Per lo svolgimento delle sue funzioni, il Collegio della Garanzia dello Sport si avvale di uffici e di personale messi a disposizione dalla CONI Servizi SpA, secondo le modalità stabilite nell’ambito del contratto di servizio di cui all’art. 8, comma 8 del decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, convertito con la legge 8 agosto 2002, n. 178».

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Art. 12-ter. – Procura generale dello sport: «1. Allo scopo di tutelare la legalità dell’ordinamento sportivo, è istituita, presso il CONI, in posizione di autonomia e indipendenza, la Procura generale dello sport con il compito di coordinare e vigilare le attività inquirenti e requirenti svolte dalle procure federali. 2. Il capo della Procura federale deve inviare alla Procura generale dello sport una relazione periodica, nei termini e con le modalità previste dal Regolamento di cui al comma 8, sull’attività della Procura federale e su tutti i procedimenti pendenti, sia in fase di indagine, sia in fase dibattimentale. 3. Il capo della Procura federale deve avvisare la Procura generale dello sport di ogni notizia di illecito sportivo ricevuta, dell’avvio dell’azione disciplinare, della conclusione delle indagini, della richiesta di proroga, del deferimento di tesserati e affiliati e dell’intenzione di procedere all’archiviazione. La Procura generale dello sport, anche su segnalazione di singoli tesserati e affiliati, può invitare il capo della Procura federale ad aprire un fascicolo di indagine su uno o più fatti specifici. 4. Nei casi di avvenuto superamento dei termini per la conclusione delle indagini, oppure di richiesta di proroga degli stessi, la Procura generale dello sport può avocare, con provvedimento motivato, l’attività inquirente non ancora conclusa. Il potere di avocazione può essere altresì esercitato nei casi in cui emerga un’omissione di attività di indagine tale da pregiudicare l’azione disciplinare e nei casi in cui l’intenzione di procedere all’archiviazione sia ritenuta irragionevole. 5. In tutti i casi in cui la Procura generale dello sport abbia disposto l’avocazione dell’attività di indagine, il Procuratore generale dello sport applica alla Procura federale uno dei Procuratori nazionali dello sport di cui al comma 7 ai fini dell’esercizio della relativa attività inquirente e requirente, anche in sede dibattimentale. L’applicazione dura fino alla conclusione dei gradi di giustizia sportiva relativi al caso oggetto dell’azione inquirente avocata. 6. Il Procuratore generale dello Sport è scelto tra i professori ordinari in materie giuridiche, gli avvocati abilitati all’esercizio della professione dinanzi alle magistrature superiori, gli avvocati dello Stato, i magistrati ordinari e amministrativi in servizio o a riposo, gli alti ufficiali delle forze di polizia, in servizio o a riposo. Il Procuratore generale dello sport è eletto dal Consiglio Nazionale del CONI, su proposta della Giunta del CONI, con la maggioranza dei due terzi degli aventi diritto al voto. Il curriculum vitae e i titoli sono pubblicati sul sito internet del CONI. Il Procuratore generale dello sport dura in carica quattro anni ed è rinnovabile per due soli mandati consecutivi. 7. La Procura generale dello sport è composta, oltre che dal Procuratore generale dello sport, dai Procuratori nazionali dello sport nominati dal Presidente del CONI, su proposta del Procuratore generale dello sport, in numero non superiore a trenta, tra i professori e i ricercatori in materie giuridiche, gli avvocati e i dottori commercialisti con almeno cinque anni di iscrizione all’ordine o tre anni di servizio nell’ambito degli organi di giustizia sportiva, gli avvocati dello Stato, i magistrati in servizio o a riposo, i funzionari delle forze di polizia, in servizio o a riposo. Adottato dal Consiglio Nazionale l’11 giugno 2014. 8. Le regole di organizzazione e di funzionamento della Procura generale dello

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sport sono stabilite da un apposito Regolamento approvato dal Consiglio Nazionale del CONI a maggioranza assoluta dei suoi componenti. 9. Per lo svolgimento delle sue funzioni, la Procura generale dello sport si avvale di uffici e di personale messi a disposizione dalla CONI Servizi SpA, secondo le modalità stabilite nell’ambito del contratto di servizio di cui all’art. 8, comma 8 del decreto legge 8 luglio 2002, n. 138, convertito con la legge 8 agosto 2002, n. 178».

Alla luce delle richiamate disposizioni è, dunque, possibile prendere coscienza di come la riforma, comportando la modifica dell’assetto previgente degli organi di giustizia del CONI, abbia portato all’abbandono della tecnica arbitrale per l’amministrazione delle controversie ed alla contestuale istituzione del Collegio di garanzia dello sport e della Procura generale dello sport 73. Rimane, tuttavia, ancora oggi, la possibilità per le Federazioni di deferire a commissioni e collegi arbitrali le controversie su rapporti meramente patrimoniali (ai sensi dell’art. 4, comma 3 del Codice di Giustizia Sportiva). Nonostante tale previsione, l’intento originario della riforma era quello di destinare anche questa materia alla giustizia sportiva ordinaria, tanto da essere stata istituita una sezione del Collegio di garanzia specificamente competente ad occuparsene, come espressamente chiarito all’art. 56, comma 2, lett. d) del Codice di Giustizia Sportiva. Le controversie patrimoniali, pur potendo essere eccezionalmente assegnate a commissioni o collegi arbitrali dalle singole Federazioni, avrebbero dovuto, quindi, essere di regola conosciute da tali organi di giustizia endofederale e, in ultimo grado, dal Collegio di garanzia. Il tentativo non sembra però aver sortito l’effetto sperato 74.

4.1. La Procura generale dello sport e le sue funzioni Il nuovo assetto degli organi di Giustizia sportiva, accanto al Collegio di garanzia, vede, al vertice del nuovo sistema, la Procura generale dello sport, organo che ha fatto ingresso all’interno dell’ordinamento sportivo attraverso la modifica degli artt. 12, 12-bis e 12-ter dello Statuto del CONI. Dal dettato dell’art. 12-ter, discendono, poi, gli articoli che vanno dal 40 al 50 del Codice di Giustizia Sportiva, dedicati al Procuratore federale, e le norme dall’art. 51 al 53 più propriamente relative alla Procura generale dello sport, nonché le disposizioni del Regolamento di organizzazione e funzionamento della Procura generale dello sport da interpretarsi alla luce dei principi e delle norme dello Statuto del CONI 75 che, 73

Per una ricostruzione dell’organizzazione e delle funzioni dei previgenti organi di giustizia presso il CONI, si veda, tra gli altri, M. SANINO-F. VERDE, Il diritto sportivo, cit., p. 559 ss. 74 Sull’interpretazione dell’art. 4, comma 3 del Codice di Giustizia Sportiva e sulla possibilità di cimentarsi nella rinnovata costruzione in chiave arbitrale delle decisioni su questioni patrimoniali, pur quando rese dal Collegio di garanzia dello sport, si veda F. AULETTA, Il tramonto dell’arbitrato nel nuovo orizzonte della giustizia sportiva, in www.judicium.it, p. 10 ss. 75

Accanto alle suddette disposizioni, è da annoverare, altresì, il Manuale Operativo per la Ge-

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con l’introduzione di questo nuovo organo acquisisce un ruolo attivo nella repressione degli illeciti sportivi. Infatti, la Procura, oltre a svolgere una generica funzione di cooperazione, può invitare i Procuratori federali ad aprire un fascicolo su uno o più fatti specifici 76, può adottare linee guida per prevenire impedimenti e difficoltà nell’attività d’indagine, nonché riunire i Procuratori federali interessati al perseguimento del medesimo illecito 77 e, infine, disporre l’avocazione delle indagini. Tale ultimo potere è riconosciuto dal comma 6 dell’art. 51, in forza del quale il Procuratore generale, quando dispone con provvedimento motivato l’avocazione di un’indagine, applica fino ad un massimo di tre Procuratori nazionali alla Procura federale per la trattazione del procedimento, applicazione che è effettuata mediante l’elaborazione di un progetto organizzativo che garantisca la turnazione dei Procuratori nazionali. È chiaro, dunque, come la Procura generale dello sport – effettivamente operativa dal 29 agosto 2014 78 – istituita in piena autonomia ed indipendenza, sia investita del generale compito di coordinare e vigilare le attività inquirenti e requirenti svolte dalle procure federali. Pertanto, il ruolo fondamentale che la Procura generale dello sport ha assunto all’interno dell’ordinamento sportivo, può cogliersi effettivamente solo se viene analizzato in connessione a quello rivestito dalla Procura federale, trattandosi di un rapporto caratterizzato da complementarietà e innegabile subordinazione della seconda nei confronti della prima, per quanto il legislatore sportivo abbia sancito che i rapporti tra le due entità debbano essere ispirati ad una piena forma di cooperazione, imposta secondo uno spirito di leale collaborazione. Degno di attenzione è, a questo punto, il rapporto di stretta e intima collaborazione

stione delle Comunicazioni con la Procura generale dello sport che individua le modalità di scambio delle informazioni della nuova istituzione con le procure federali. Pensiamo anche che, al fine di garantire il funzionamento della Procura generale, nel rispetto delle disposizioni di cui al Codice della Giustizia Sportiva, il Segretario generale del CONI ha facoltà di emanare circolari e note esplicative, anche su richiesta del Procuratore generale dello sport. 76

La Procura generale può, infatti, venire a conoscenza di notizie di illecito che più difficilmente giungono al Procuratore federale competente a esercitare l’azione disciplinare. Per esempio, il Collegio di garanzia può indicare al Procuratore generale «fatti o circostanze nuovi che, risultanti dagli atti del procedimento o dalla discussione, appaiono connessi con gli ulteriori accertamenti necessari per il giudizio o comunque rilevanti» (v. gli artt. 51, comma 4, e 62, comma 4, Codice Giustizia Sportiva). 77 La previsione di questo potere da parte dell’art. 51, comma 5 del Codice di Giustizia Sportiva, permette di comprendere il ruolo di ‘supervisore’ della legalità sportiva attribuito alla Procura generale: laddove infatti un’indagine, per la sua particolare complessità, interessi più Federazioni, il Procuratore generale può riunire le indagini «al fine di rendere effettivo il rispettivo potere di promuovere la repressione degli illeciti». 78

Con circolare del 29 agosto 2014 il Segretario generale del CONI ha disposto l’attivazione della Procura generale e, pertanto, si può dire che essa abbia iniziato concretamente ad operare da quella data, coincidente, tra l’altro, con quella della entrata in vigore dello stesso Regolamento di organizzazione e funzionamento della Procura generale.

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tra gli organi, basti pensare che il capo della Procura federale provvede ad inviare alla Procura generale dello sport una relazione periodica relativa all’attività della Procura federale e illustrativa di tutti i procedimenti pendenti sia in fase di indagine che dibattimentale, nei termini e con le modalità previste dal Regolamento. Inoltre sul Procuratore federale grava il compito di avvisare la Procura generale dello sport di ogni notizia di illecito sportivo ricevuta, dell’avvio dell’azione disciplinare, della conclusione delle indagini, della richiesta di proroga, del deferimento di tesserati e affiliati e dell’eventuale intenzione di procedere ad archiviazione; viceversa, la Procura generale, anche su segnalazione di singoli tesserati e affiliati, può invitare il Procuratore federale ad aprire un fascicolo di indagine su uno o più fatti specifici. È bene, in ogni modo, precisare come l’introduzione del nuovo organo di vertice, che pur ha guadagnato presto un ruolo di spicco nella generale funzione di repressione degli illeciti sportivi, non abbia modificato, almeno in linea di principio, la funzione delle procure federali che, ancora oggi sono chiamate, per prime, a promuovere la repressione degli illeciti sanzionati dallo Statuto e dalle norme federali 79. L’autonomia federale nella repressione degli illeciti non sembra venir esclusa nemmeno dal riconoscimento in capo alla Procura generale del comprensivo potere di cooperazione, direzione e avocazione nella repressione degli illeciti stessi, atteso che l’adozione di linee guida e la riunione dei Procuratori sono poteri improntati esclusivamente alla leale collaborazione tra il CONI e le Federazioni, ai sensi dell’art 51, comma 4 del Codice di Giustizia Sportiva, e l’invito ad aprire un fascicolo e l’avocazione di un’indagine sono poteri esperibili unicamente in caso di inefficienza degli uffici federali. La Procura generale, infatti, può esercitare il potere di avocazione esclusivamente in ipotesi sintomatiche di cattiva amministrazione della giustizia, facendo sempre precedere il provvedimento di avocazione dalla formulazione di un invito formale ad adottare, entro un termine ragionevole, specifiche iniziative idonee al perseguimento dell’illecito per il quale si procede 80. L’intensità del controllo esercitato dalla Procura generale sulla Procura federale è dimostrata dal dettato dell’art. 28 del Codice che, regolamentando l’applicazione di sanzioni su richiesta a seguito di atto di deferimento, statuisce che l’accordo intercorso tra 79 La funzione della Procura federale quale organo preposto alla promozione della repressione degli illeciti sanzionati dagli Statuti e dalle norme federali è confermata, espressamente, dall’art. 40, comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva. 80

Il comma 4 dell’art. 12-ter chiarisce espressamente, infatti, che la Procura generale dello sport può avocare l’attività inquirente non ancora conclusa soltanto qualora sia stato superato il termine per la conclusione delle indagini, ne sia stata chiesta la proroga, sia emersa un’omissione tale da pregiudicare l’azione disciplinare, ovvero sia ritenuta irragionevole l’intenzione di procedere all’archiviazione. A queste quattro ipotesi ne va aggiunta una quinta, ove l’avocazione può essere disposta, su richiesta del Procuratore federale, a fronte di vacanze di organico ovvero di specifiche esigenze investigative o processuali; in questo caso, però, l’applicazione del Procuratore nazionale comporta una “coassegnazione al procedimento” ai sensi dell’art. 52, comma 2 del Codice di Giustizia Sportiva.

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incolpato e Procuratore federale viene trasmesso, a cura del Procuratore federale, alla Procura generale dello sport, che, entro i dieci giorni successivi, può formulare osservazioni con riguardo alla correttezza della qualificazione dei fatti operata dalle parti e alla congruità della sanzione indicata. L’art. 48 prevede addirittura un controllo ex ante da parte della Procura generale, nelle ipotesi di applicazione di sanzioni su richiesta e senza incolpazione, atteso che in tali ipotesi il Procuratore generale deve essere informato dal Procuratore federale prima di addivenire all’accordo con il soggetto sottoposto all’indagine. Visti i rapporti di collaborazione tra gli organi, in sede di presentazione del Codice è stata auspicata l’inoperosità della Procura generale in considerazione del fatto che maggiore sarà la qualità del lavoro svolto dalle procure federali e minori saranno gli spazi di intervento del nuovo organo di vertice 81. Accanto alle funzioni anzidette, la Procura generale dello sport esercita delle attività requirenti esclusive in relazione al giudizio avanti al Collegio di garanzia dello sport, dinanzi al quale ha facoltà di proporre ricorso «avverso tutte le decisioni non altrimenti impugnabili nell’ambito dell’ordinamento federale ed emesse dai relativi organi di giustizia, ad esclusione di quelle in materia di doping e di quelle che hanno comportato l’irrogazione di sanzioni tecnico-sportive di durata inferiore a novanta giorni o pecuniarie fino a 10.000 euro». Può, inoltre, intervenire in ogni udienza fissata per la discussione delle controversie delle quali è investito il Collegio di garanzia dello sport, unitamente alla Federazione interessata che potrà stare in giudizio, con il ministero di un proprio difensore, a difesa della legittimità delle decisioni federali. Competente in via esclusiva è sempre la Procura generale a curare l’istituzione e la custodia, in modalità informatiche, del registro generale dei procedimenti in corso presso ciascun ufficio del Procuratore federale, del registro generale delle altre notizie di illecito comunque pervenute 82. 81

Si veda in tal senso il documento allegato al Comunicato del CONI del 30 maggio 2013, ove è stato espresso il desiderio che «la Procura del CONI sia il più possibile inoperosa», a condizione che «la giustizia federale funzion[i] bene». 82

Art. 53. – Registri dei procedimenti: «1. Presso la Procura generale dello sport è istituito e custodito, anche con modalità informatiche, un registro generale dei procedimenti in corso presso ciascun ufficio del Procuratore federale. Il registro si articola in una o più sezioni ovvero uno o più registri particolari per l’apposita iscrizione e annotazione dei dati raccolti a norma dell’art. 12 ter dello Statuto del CONI, relativamente a: a) relazioni periodiche inviate dal Procuratore federale; b) notizie di illecito sportivo ricevute non in forma anonima dal Procuratore federale; c) comunicazioni di avvio dell’azione disciplinare del Procuratore federale; d) determinazioni di conclusione delle indagini del Procuratore federale; e) istanze di proroga del termine per la conclusione delle indagini del Procuratore federale. 2. Presso la Procura generale dello sport è altresì istituito e custodito, anche con modalità informatiche, un registro generale delle altre notizie di illecito comunque acquisite. 3. Il Regolamento di cui al comma 8 dell’art. 12 ter dello Statuto del CONI può istituire presso la Procura generale dello sport altri registri.

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Dal punto di vista della sua organizzazione interna, la Procura generale dello sport risulta composta dal Procuratore generale che viene eletto, su proposta della Giunta, dal Consiglio nazionale del CONI, con la maggioranza dei due terzi degli aventi diritto al voto; dai Procuratori nazionali dello sport, nominati dal Presidente del CONI, su proposta del Procuratore generale, in numero non superiore a trenta e posti sotto la sorveglianza dello stesso Procuratore generale che viene investito del compito di dirigere la Procura generale dello sport e provvedere affinché i Procuratori nazionali che la compongono operino per la migliore realizzazione delle iniziative di competenza e il più efficiente impiego dei mezzi disponibili, al fine di assicurare un’organica attività dell’Ufficio 83. 4.1.1. Il Procuratore generale Come visto, a capo della Procura generale dello sport si ritrova il Procuratore generale, personalità scelta tra professori ordinari in materie giuridiche, avvocati abilitati all’esercizio della professione dinanzi alle magistrature superiori, avvocati dello Stato, magistrati ordinari e amministrativi in servizio o a riposo, alti ufficiali delle forze di polizia, in servizio o a riposo. Il mandato del Procuratore generale, eletto dal Consiglio nazionale del CONI, su proposta della Giunta del CONI, con la maggioranza dei due terzi degli aventi diritto al voto, dura quattro anni ed è rinnovabile per sole due volte consecutive. I compiti che investono il Procuratore generale si evincono dalla lettura in combinato disposto degli artt. 12-ter dello Statuto del CONI e dell’art. 51 del Codice di Giustizia, in forza del quale al Procuratore generale è richiesto di cooperare con ciascuno dei Procuratori federali, al fine di assicurare la completezza e tempestività delle rispettive indagini; adottare linee guida per prevenire impedimenti o difficoltà nell’attività di indagine dei Procuratori federali; riunire i 4. Ogni registro deve essere formato in modo da dare costantemente piena prova dell’autore e della data dell’iscrizione o dell’annotazione nonché degli altri elementi essenziali al raggiungimento dello scopo per il quale il registro è tenuto. Il Procuratore generale dello sport cura che il registro risulti integro e le registrazioni intangibili. Egli deve procurarne il costante aggiornamento, assicurando specificamente che il compimento degli atti e delle attività relative a ciascun procedimento risulti immediatamente accessibile. 5. Il Regolamento di cui al comma 8 dell’art. 12 ter dello Statuto del CONI determina le modalità di esercizio dei diritti degli interessati nonché delle comunicazioni consentite; in ogni caso, i dati raccolti nei registri sono trattati in conformità della disciplina del trattamento di dati personali da parte di soggetti pubblici per lo svolgimento delle funzioni istituzionali. 6. Il CONI predispone la piattaforma informatica unica per la gestione dei fascicoli dei procedimenti disciplinari. Le modalità di utilizzo della piattaforma sono indicate nel Regolamento di cui all’art. 12-ter dello Statuto del CONI». 83 In forza dell’art. 3, comma 1 del Regolamento do organizzazione e funzionamento della Procura, il Presidente del CONI può designare fino a due Procuratori nazionali con funzioni di Vice Procuratore generale. Essi sostituiscono il Procuratore generale in caso di impedimento e possono essere preposti alla cura di specifici settori, secondo le modalità stabilite dal Procuratore generale.

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Procuratori federali interessati, al fine di rendere effettivo il rispettivo potere di promuovere la repressione degli illeciti; disporre, con provvedimento motivato sottoscritto, l’avocazione dell’attività inquirente federale, non ancora conclusa nei casi di avvenuto superamento dei termini per la conclusione delle indagini, di richiesta di proroga degli stessi, nei casi in cui emerga un’omissione di attività di indagine tale da pregiudicare l’azione disciplinare e nei casi in cui l’intenzione di procedere all’archiviazione sia ritenuta irragionevole 84. In effetti, l’avocazione non può essere disposta se non dopo che la Procura generale dello sport abbia invitato il Procuratore federale ad adottare, entro un termine ragionevole, specifiche iniziative o concrete misure. Nel caso in cui venga superata la durata stabilita per le indagini preliminari, la Procura generale dello sport, con tale invito può rimettere in termini il Procuratore federale per un tempo ragionevole, ma comunque non superiore a venti giorni qualora ritenga utilmente praticabili nuovi atti 85. Nelle ipotesi di avocazione, il Procuratore generale applica uno dei Procuratori nazionali alla Procura federale, fino alla conclusione dei gradi di giustizia sportiva relativi al caso oggetto dell’azione inquirente avocata, perché eserciti la relativa attività inquirente e requirente, anche in sede dibattimentale 86. 84 Ovviamente, in questi casi deve essere fornita una motivazione che deve tener conto delle ragioni specifiche per le quali la proroga del termine per le indagini del Procuratore federale non appare misura adeguata ovvero della concreta omissione che espone a pregiudizio la concludenza dell’azione disciplinare o, infine, delle circostanze la cui gravità e concordanza fanno escludere la ragionevolezza dell’intendimento di procedere all’archiviazione. 85

Degli atti compiuti presso la Procura generale dello sport e delle attività comunque compiute è assicurata idonea documentazione, anche soltanto informatica, a cura degli ausiliari che assistono il Procuratore generale, ovvero i Procuratori nazionali dello sport. È, poi, il Procuratore generale che risponde direttamente della conservazione degli atti e della documentazione. Il Regolamento di organizzazione e funzionamento della Procura stabilisce i casi in cui la documentazione deve essere analitica e non sintetica; negli stessi casi la formazione del processo verbale può essere sostituita da altre forme di registrazione dell’atto o dell’attività. 86 La norma di riferimento è l’art. 52 del Codice di Giustizia Sportiva secondo cui: «1. In tutti i casi in cui è disposta l’avocazione il Procuratore generale dello sport applica un Procuratore nazionale dello sport alla Procura federale per la trattazione del procedimento della cui avocazione si tratta. L’applicazione, limitatamente al procedimento al quale si riferisce, determina il decorso di un nuovo termine per il compimento delle indagini preliminari pari alla metà di quello ordinariamente previsto per le medesime indagini e, in ogni caso, legittima l’esercizio di poteri corrispondenti a quelli del Procuratore federale sostituito. Il Procuratore nazionale dello sport in applicazione rimane soggetto nei confronti della Procura generale dello sport, in quanto compatibili, ai doveri del Procuratore federale sostituito. L’applicazione, nei casi in cui è disposta l’avocazione di cui al presente comma, si intende cessata quando il procedimento o il processo viene definito in sede federale. 2. L’applicazione può essere altresì disposta, su richiesta del Procuratore federale interessato, quando sussistono protratte vacanze di organico ovvero specifiche e contingenti esigenze investigative o processuali che, anche per la particolare complessità di determinati affari o per l’esigenza di assicurare che il loro trattamento sia eseguito a cura di persona dotata di specifiche esperienze e competenze professionali, possano compromettere l’utile esercizio dell’azione disci-

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In ultimo, il Procuratore generale, ai sensi dell’art. 46, comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva, autorizza l’astensione del Procuratore federale, entro tre giorni dal ricevimento della relativa istanza. In caso di autorizzazione, qualora le ragioni di convenienza a fondamento dell’istanza riguardino tutti componenti della Procura federale, applica un Procuratore nazionale, ai sensi dell’art. 52 del Codice di Giustizia Sportiva. Nel caso in cui, invece, l’istanza di astensione sia rigettata, procederà ad emettere tempestivamente provvedimento motivato, disponendone la comunicazione al Procuratore federale.

5. Il Collegio di garanzia Nel disegno riformatore, attuato con l’approvazione e l’entrata in vigore del Codice di Giustizia Sportiva, si intravedeva la ferma volontà di rinnovare il ruolo e l’assetto degli organi giurisdizionali prevedendo, in particolare, l’abolizione dell’Alta Corte di Giustizia sportiva e del Tribunale Nazionale di Arbitrato dello Sport 87 con la contestuale istituzione della Procura generale dello sport e del Collegio di garanzia.

plinare. In tali casi, l’applicazione comporta una coassegnazione del procedimento tra il Procuratore federale e il Procuratore nazionale dello sport in applicazione. 3. Le funzioni del Procuratore nazionale dello sport applicato alla Procura federale sono compatibili con l’esercizio delle funzioni proprie dell’appartenenza alla Procura generale dello sport, in relazione alle quali l’applicato rimane soggetto ai soli doveri dell’ufficio di appartenenza. Il Procuratore nazionale dello sport applicato non può essere supplito né sostituito che da altro per la cui applicazione valgono le forme e i termini della relativa disciplina». 87 A loro volta, il TNAS e l’Alta Corte di Giustizia Sportiva, entrati concretamente in vigore a far data dal 1 gennaio 2009, avevano sostituito la vecchia Camera di Conciliazione e di Arbitrato per lo Sport del CONI, istituita nel 2001 con l’intento di predisporre meccanismi di soluzione delle controversie che fossero estranei ai singoli ordinamenti federali, ma che risultassero nel contempo conformi ai principi del giusto processo e saldamente ancorati al mondo dello sport ed alle sue specificità e, soprattutto, che potessero essere in grado di ridurre il ricorso alla giustizia dello Stato. Pertanto, nell’idea originaria del legislatore, fu delineato un sistema di arbitrato amministrato – ispirato a quello creato già a livello internazionale dal CIO, con l’istituzione del Tribunale arbitrale per lo sport di Losanna (TAS), La Camera di Conciliazione e Arbitrato per lo Sport del CONI – nel quale l’istituzione arbitrale esercitava una sorta di controllo del procedimento in corso e della sua qualità, garantendo l’adozione di una procedura in linea con quanto concordato tra le parti, un giudizio rapido nonché la presenza di arbitri competenti, professionali, indipendenti e imparziali. Al funzionamento dell’Arbitrato sportivo era preposta la suddetta Camera, composta da cinque membri fissi e da quattro membri estratti a rotazione dall’elenco dei conciliatori e degli arbitri. L’esperienza della Camera si è conclusa nel 2009 e, al di là delle problematiche e degli elementi di criticità emersi in sede di concreto funzionamento dell’organo in questione, il bilancio relativo all’attività della Camera è stato sicuramente positivo tanto da confermare l’intuizione alla base del disegno istituzionale tracciato nello Statuto del CONI.

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Per comprendere a pieno la portata innovativa della riforma, è bene chiarirne i punti di partenza e specificare come, prima dell’avvento della Procura generale e del Collegio di garanzia, il ruolo di organo giurisdizionale di ultimo grado venisse riconosciuto all’Alta Corte, quanto meno, per le controversie “di notevole importanza” per l’ordinamento sportivo, insieme ad una funzione di chiusura del sistema della giustizia 88. Al Tribunale Nazionale di Arbitrato per lo Sport, invece, si riconosceva competenza arbitrale sulle controversie intercorrenti tra una Federazione sportiva nazionale e soggetti affiliati, purché fossero stati esauriti i ricorsi interni alla Federazione. In tal modo, il legislatore sportivo del 2008 garantiva un vero e proprio doppio binario attraverso, in primis, il ricorso all’Alta Corte che, nei casi di rilevanza per l’ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l’ordinamento sportivo, si concludeva con una decisione che assumeva la natura di provvedimento amministrativo e, come tale, sempre impugnabile innanzi al Giudice amministrativo; in alternativa, attraverso il ricorso alla giustizia arbitrale che si concludeva con la decisione avverso la quale, ove la controversia fosse stata rilevante per l’ordinamento dello Stato, era sempre ammesso il ricorso per nullità ex art. 828 c.p.c., anche eventualmente in deroga alle clausole di giustizia contenute negli Statuti federali. In buona sostanza, l’Alta Corte – composta da cinque giuristi di chiara fama, nominati con una maggioranza qualificata non inferiore ai tre quarti dei componenti del Consiglio nazionale del CONI, tra i magistrati anche a riposo delle giurisdizioni superiori ordinaria e amministrativa, i professori universitari di prima fascia, anche a riposo, e gli avvocati dello Stato con almeno quindici anni di anzianità – ha operato, fino al settembre 2014, in posizione di autonomia ed indipendenza, rappresentando pacificamente l’organo di ultimo grado della giustizia sportiva per le controversie in materia di sport aventi ad oggetto diritti indisponibili o per le quali non fosse prevista la competenza del Tribunale nazionale di Arbitrato per lo Sport. Infatti, condizioni di procedibilità per adire l’Alta Corte erano: l’aver esaurito tutti i possibili ricorsi interni alla Federazione insieme alla notevole rilevanza della questione per l’ordinamento sportivo 89 che ben poteva ravvisarsi anche nel caso di questioni nuove, suscettibili, come tali di dar vita ad un preciso indirizzo giurisprudenziale. Accanto all’Alta Corte, come detto, è rimasto operativo, fino all’avvento della riforma, il Tribunale Nazionale di Arbitrato per lo Sport con il compito di provvedere alla soluzione delle controversie sportive attraverso lodi arbitrali emessi da un arbitro unico o da un Colle88

Questo, anche al fine di evitare i problemi affrontati già in passato con riferimento alla natura delle decisioni della Camera ed alla concreta tutela utilizzabile avverso tali decisioni. 89

Sostanzialmente, perché una controversia potesse essere sottoposta alla cognizione dell’Alta Corte era condizione necessaria, ma non sufficiente, che la questione avesse ad oggetto diritti indisponibili o per la quale non fosse prevista la competenza del TNAS; era, ancora, necessario, che la questione rivestisse contemporaneamente una notevole rilevanza per l’ordinamento sportivo, in virtù delle questioni di fatto e di diritto che la connotavano.

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gio arbitrale di tre membri scelti da un’apposita lista di esperti, composta da un numero compreso tra trenta e cinquanta membri, individuati dall’Alta Corte di Giustizia sportiva anche tenendo in considerazione candidature proposte dagli interessati, e nominati con un mandato rinnovabile di quattro anni 90. Lo stesso Tribunale aveva il compito di amministrare gli arbitrati disciplinati dal proprio Codice di riferimento nonché di garantire il corretto e spedito svolgimento delle procedure arbitrali, nel rispetto delle competenze riconosciute all’Alta Corte di Giustizia. Da ciò si evince la possibilità di riconoscere il TNAS come un’istituzione che, seppur costituita presso il CONI, manteneva la propria autonomia ed indipendenza ed alla quale era possibile presentare ricorso solo qualora fossero stati esauriti tutti i possibili ricorsi interni alla Federazione. Il vero punto cruciale, quello che poi ha rappresentato la spinta per la riforma, è stato rappresentato dalla controversa competenza attribuita al TNAS, competenza che doveva essere letta in chiave sistematica operando una distinzione tra le controversie arbitrali e quelle aventi ad oggetto diritti indisponibili. In realtà, proprio la difficoltà riscontrata nell’effettuare una netta e precisa distinzione tra diritti disponibili ed indisponibili 91 nell’ambito dell’ordinamento sportivo, capace di generare una precisa ripartizione tra gli organi di Giustizia sportiva, ha indotto il CONI a varare l’ultima riforma della Giustizia sportiva nel 2013, capace di superare l’ormai arcaico sistema articolato in due organi, entrambi collocati nel contesto della giustizia sportiva operante presso il CONI, ma alternativi nel loro ruolo di vertice 92.

5.1. Il procedimento dinanzi al Collegio di garanzia Se più pacifica è stata l’introduzione dell’organo volto alla repressione e prevenzione degli illeciti sportivi, meno agevole si è mostrato il cammino che ha portato alla nascita dell’organo di ultimo grado della Giustizia sportiva, ossia il Collegio di garanzia dello sport, organo al quale l’art. 12-bis dello Statuto del 90 All’atto della nomina, i componenti del Tribunale sottoscrivevano una dichiarazione con cui si impegnavano ad esercitare il mandato con obiettività ed indipendenza, senza conflitti di interesse e con l’obbligo della riservatezza. 91 Nonostante gli sforzi dei Giudici e degli interpreti e l’affermazione di alcuni principi guida stabiliti tanto dalle pronunce dell’Alta Corte quanto dai lodi del TNAS, non si è mai addivenuti a quella esemplificazione dei tipi di controversie che avrebbero potuto essere devolute alla cognizione arbitrale e che avrebbe generato sicuramente una maggiore chiarezza. Questa incertezza ha finito col determinare una notevole confusione da parte di coloro che si trovavano a voler presentare ricorso ai suddetti organi, dal momento che spesso non era agevole riuscire ad individuare ex ante e con certezza l’organo competente, sulla base della corretta interpretazione normativa, della specifica situazione soggettiva di riferimento e della pretesa invocata. 92 Le parti, allora, potevano scegliere, nei limiti della competenza arbitrale, di avvalersi dell’arbitrato amministrato dal TNAS o della cognizione dell’Alta Corte.

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CONI e l’art. 54 del Codice di Giustizia Sportiva demandano la cognizione delle controversie decise in via definitiva in ambito federale, ad esclusione di quelle in materia di doping e di quelle che hanno comportato l’irrogazione di sanzioni tecnico-sportive di durata inferiore a novanta giorni o pecuniarie fino a diecimila euro 93. Analogamente a quanto stabilito in passato con riferimento alla vecchia Camera di conciliazione e Arbitrato e alla stessa Alta Corte, anche per il Collegio viene prevista una condizione di procedibilità di carattere generale in forza della quale l’istante, prima di adire l’organo in questione, deve avere esaurito tutti i possibili ricorsi interni alla Federazione o alla Disciplina sportiva associata o Ente di promozione sportiva, atteggiandosi, così, ad organo di giustizia di ultimo grado. Il Collegio conosce, poi, in primo ed in unico grado, le controversie, non altrimenti impugnabili, ad esso devolute dalle altre disposizioni del Codice di Giustizia Sportiva nonché dagli Statuti e dai Regolamenti federali sulla base di speciali regole procedurali definite d’intesa con il CONI 94. La questione viene presentata al Collegio di garanzia dello sport attraverso un ricorso, esperibile avverso tutte le decisioni emesse dagli organi di giustizia federale, esclusivamente per far valere la violazione di norme di diritto, nonché per omessa o insufficiente motivazione relativamente ad un aspetto decisivo della controversia che abbia formato oggetto di disputa tra le parti. Per quanto riguarda la legittimazione attiva, il ricorso può essere presentato dalle parti nei confronti delle quali è stata pronunciata la decisione nonché dalla Procura generale dello sport. In via eccezionale, il riformato comma 3 dell’art. 54 dispone che il Collegio di garanzia conosce anche le controversie ad esso devolute dalle altre disposizioni del Codice di Giustizia Sportiva, da delibere della Giunta nazionale del CONI, nonché dagli Statuti e dai Regolamenti federali, sulla base di speciali regole procedurali, anche di tipo arbitrale, definite d’intesa con il CONI. Giudi-

93 Questa disposizione è dovuta alla diffusa convinzione che la rilevanza giuridica delle questioni sportive sia direttamente proporzionale alla loro consistenza economica o alla loro incidenza sullo status di tesserato. Sul punto si veda L. FERRARA, Il contenzioso sportivo tra situazioni giuridiche soggettive e principi del diritto processuale, in Foro amm., 2009, p. 1598. La nuova formulazione dell’art. 12 dello Statuto del CONI, così come modificata nel 2013 ed approvata definitivamente dall’Autorità vigilante nel giugno del 2014, ha ridotto il limite temporale delle sospensioni di minore entità espressamente sottratte alla competenza dell’organo di giustizia sportiva operante presso il CONI. Nel previgente sistema di giustizia sportiva incardinato presso il CONI erano sottratte alla cognizione dell’Alta Corte e del TNAS le sospensioni di durata inferiore a centoventi giorni continuativi; oggi, invece, sono escluse quelle la cui durata temporale è inferiore a novanta giorni. Nulla è cambiato per le sanzioni pecuniarie di minore entità dal momento che tutte quelle il cui importo risulta essere inferiore a diecimila euro continuano ad essere sottratte alla cognizione degli organi di giustizia incardinati presso il CONI. 94

La disciplina afferente al Collegio di garanzia dello sport è integrata dalle norme del Codice della Giustizia Sportiva, in particolare dagli artt. 54 a 67 e dalle disposizioni del Regolamento di Organizzazione e funzionamento del Collegio di garanzia, approvato con deliberazione del Consiglio nazionale del CONI dell’11 giugno 2014, n. 1514.

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ca, inoltre, le controversie relative all’esercizio delle funzioni dei componenti della Giunta nazionale del CONI, ritenendo applicabile l’art. 33 del Codice, in quanto compatibile. Infatti, nel caso in cui gli Statuti ed i Regolamenti lo consentano, il Collegio di garanzia potrebbe decidere anche nel merito, al fine di evitare il giudizio di rinvio, previsto dall’art. 63, comma 2 del Codice di Giustizia Sportiva ed in base al quale il Collegio, con l’eventuale decisione di accoglimento, enuncia specificamente il principio di diritto al quale il Giudice di rinvio, e quindi il Giudice federale, deve uniformarsi. Tale previsione, legata e rimessa ad una scelta discrezionale dell’autonomia federale, determinerebbe sicuramente una significativa riduzione dei tempi impiegati per la definizione del giudizio 95. In definitiva, il Collegio può riformare la pronuncia impugnata decidendo, in tutto o in parte, la controversia oppure può rinviare all’organo di giustizia federale competente che, in diversa composizione, si pronuncerà definitivamente sulla questione entro i successivi sessanta giorni, applicando il principio di diritto richiamato dal Collegio 96. Non può non rilevarsi, a questo punto, un parallelismo tra il modus operandi del Collegio di garanzia e quello proprio della Corte di cassazione, atteso che l’organo sportivo si fa promotore delle stesse funzioni di legittimità e di guida interpretativa per gli altri organi di giustizia 97. In effetti, la disciplina prospettata non fa altro che fotografare lo “sforzo culturale” 98 realizzato dal CONI nell’ambito della recente riforma, atteso 95 Per quanto riguarda, invece, l’attribuzione al Collegio di garanzia di specifiche controversie in base a speciali regole procedurali, definite d’intesa col CONI, è preferibile ritenere che a tale previsione normativa debba essere ricondotta la disciplina che costituiva oggetto dell’art. 21 del Codice dell’Alta Corte di Giustizia Sportiva (che stabiliva norme ad hoc con riferimento alla risoluzione delle controversie in materia di Licenza UEFA, di iscrizione ai campionati nazionali di calcio professionistico e di iscrizione delle società professionistiche ai campionati nazionali di calcio professionistico e di iscrizione delle società professionistiche ai campionati nazionali di pallacanestro). 96 Nella sua principale funzione di organo di giustizia sportiva di ultimo grado cui è demandata la cognizione e la decisione – limitata ad un sindacato di legittimità – delle controversie decise in via definitiva in ambito federale, il Collegio di garanzia può essere validamente adito nel rispetto dei limiti previsti dall’art. 54, comma 1, Codice Giustizia Sportiva. Il primo limite attiene all’oggetto delle controversie decise in via definitiva in ambito federale: allorché esse, infatti, consistano nella «irrogazione di sanzioni-tecnico sportive di durata inferiore a novanta giorni o pecuniarie fino ad Euro 10.000,00» il ricorso al Collegio di garanzia è escluso. Qualora, invece, la decisione assunta in ambito federale all’esito dei gradi di giustizia interna ivi previsti e regolati superi tali limiti, ovvero coinvolga questioni diverse da quelle meramente tecnicosportive e/o disciplinari, l’ammissibilità del ricorso è, oggi, condizionata alla proposizione di veri e propri motivi di impugnazione tassativamente previsti dal secondo periodo del comma 1 dell’art. 54. 97 Il Codice, infatti, attribuisce al Collegio la competenza a conoscere, soltanto per motivi di legittimità, i ricorsi «avverso tutte le decisioni non altrimenti impugnabili nell’ambito dell’ordinamento federale», ai sensi dell’art. 54, comma 1, e gli riserva la decisione delle controversie, senza rinvio, «solo quando non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto», ex art. 62, comma 1. 98 Come detto dal Presidente del CONI Malagò, in sede di presentazione del Codice di Giustizia Sportiva.

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che, per un verso, nel tentativo di garantire più ampia autonomia alle Federazioni, il Codice esclude il giudizio nel merito da parte di un organo collocato presso il CONI e in posizione di indipendenza rispetto all’ordinamento federale; per altro verso, l’autonomia delle Federazioni è tutelata fino a giustificare una dilatazione dei tempi del processo, considerato che qualora il Collegio ritenga necessari ulteriori accertamenti in fatto, dovrà restituire gli atti al Giudice federale competente, tenuto a pronunciarsi entro sessanta giorni 99. Il Collegio di garanzia, dal punto di vista della sua composizione e articolazione interna risulta suddiviso in più sezioni diversificate per materia 100 a ciascuna delle quali è preposto un Presidente di sezione. Alla diversità di sezione corrisponde una differente attribuzione di competenza, infatti alle sezioni giudicanti viene devoluta la cognizione delle controversie attinenti a questioni di natura tecnico sportiva, disciplinare, amministrativa e questioni meramente patrimoniali 101, mentre alla sezione consultiva 102 viene riconosciuto il compito di adottare pareri, nonché di pronunciarsi su eventuali istanze di ricusazione dei componenti il Collegio di garanzia. Più precisamente alla sezione consultiva generale è attribuita la funzione di esprimere i pareri relativi agli schemi di atti normativi richiesti dal CONI e, per il suo tramite, dalle Federazioni; la sezione consultiva speciale, invece, ha il compito di esprimere i pareri richiesti dai comitati regionali del CONI, per il tramite del Segretario Generale del CONI che ne abbia riconosciuto la rilevanza per l’ordinamento sportivo. È ormai pacifica la difficoltà incontrata dall’operatore del diritto sportivo nel definire ex ante l’esatta ripartizione di competenza tra le varie sezioni, vista la sottile e non sempre ben definita linea di confine tra i rispettivi ambiti cognitivi. Il dubbio sorge, nello specifico, con riferimento alle prime due sezioni, dal momento che spesso non è di agevole identificazione il discrimen tra le questioni di natura tecnico-sportiva e questioni strictu sensu disciplinari 103. 99 Se infatti il Collegio di garanzia annulla in tutto o in parte la decisione impugnata, enunciando «specificamente il principio al quale il giudice del rinvio deve uniformarsi» (v. l’art. 62, comma 2, Codice Giustizia Sportiva), «il termine per la pronuncia [del giudice federale competente nel merito] è di sessanta giorni» (v. l’art. 38, comma 3, Codice della Giustizia Sportiva). 100

Precisamente quattro sezioni giudicanti più una consultiva a ciascuna delle quali è preposto un Presidente; v. art. 56, comma 1 del Codice di Giustizia Sportiva. 101

Si veda art. 2, comma 2 del Regolamento di organizzazione e funzionamento del Collegio, secondo cui la competenza delle sezioni giudicanti del Collegio stesso è determinata in base alla materia, ai sensi del comma 4 dell’art. 12-bis dello Statuto CONI e dell’art. 56 del Codice della Giustizia Sportiva. 102 In base all’art. 3 del Regolamento di organizzazione e funzionamento del Collegio di garanzia, la sezione consultiva si compone del Presidente di sezione e di 20 componenti, di cui 10 afferenti alla sezione consultiva speciale. I pareri vengono formulati da Collegi composti da un minimo di 5 ad un massimo di 7 componenti. Il Presidente di sezione, ricevuto il provvedimento di assegnazione, designa il Collegio per la formulazione del parere, nel rispetto delle competenze attribuitegli. 103

Peraltro, si ritiene che la prima sezione potrebbe rivestire una funzione residuale, tale da ri-

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Pertanto, il Collegio di Garanzia risulta composto da un Presidente, attualmente il cons. Franco Frattini, Presidenti di sezione e consiglieri scelti tra soggetti esperti di diritto sportivo individuati tra professori ordinari in materie giuridiche, avvocati abilitati all’esercizio della professione dinanzi alle magistrature superiori, avvocati dello Stato e magistrati in servizio o a riposo 104 nominati dal Consiglio nazionale del CONI su proposta della Giunta del CONI, con la maggioranza dei due terzi degli aventi diritto al voto. Per quanto riguarda le competenze attribuite alle singole sezioni, il riformato comma 2 dell’art. 57 attribuisce al Presidente del Collegio il compito di stabilire, all'inizio di ciascuna stagione sportiva, il numero dei collegi per ogni Sezione giudicante, nonché la composizione di ciascuna sezione che, in caso di sovraccarico, potrà vedere attribuita una controversia ad altra sezione, anche se non di competenza, o alle Sezioni Unite. In ossequio ai principi di terzietà ed imparzialità degli organi giudicanti sportivi, principi informatori dell’intero Codice di Giustizia Sportiva, è previsto che, all’atto della nomina, sia il Presidente che i componenti del Collegio siano chiamati a sottoscrivere una dichiarazione con la quale si impegnano ad esercitare il mandato con obiettività, autonomia ed indipendenza, senza conflitti di interesse e con l’obbligo di riservatezza; è, altresì, previsto che sottoscrivano una dichiarazione con la quale attestino di non avere rapporti di coniugio, né di parentela o affinità fino al terzo grado con alcun componente della Giunta o del Consiglio, né di avere rapporti di lavoro subordinato o continuativi di consulenza o di prestazione d’opera retribuita, ovvero altri rapporti di natura patrimoniale o associativa che ne compromettano l’indipendenza con le Federazioni. Il Collegio di garanzia è, inoltre, coadiuvato da una Segreteria che, ai sensi degli artt. 5 e 6 del Regolamento di organizzazione e funzionamento del Collegio, è istituita presso la sede del Collegio su designazione del CONI. La composizione e l’organizzazione del personale della segreteria sono determinati con provvedimento del Segretario Generale del CONI, sentito il Presidente del Collegio di garanzia 105 con la finalità di provvedere all’organizzazione tecnica del lavoro

comprendere tutte le controversie di non semplice identificazione e che, come tali non siano qualificabili come disciplinari, amministrative o meramente patrimoniali. Così, M. SANINO-F. VERDI, Il diritto sportivo, cit., p. 609. 104 Tali componenti sono stati individuati, in data 9 giugno 2014, dopo apposita attività istruttoria, dalla Commissione di Garanzia degli organi di giustizia, di controllo e di tutela dell’etica sportiva, di cui all’art. 13-ter dello Statuto del CONI. Il relativo elenco costituisce parte integrante della deliberazione del Consiglio nazionale del CONI dell’11 giugno 2014, n. 1516. 105

In conformità con quanto stabilito per il Collegio di garanzia, anche i componenti della Segreteria devono mantenere e garantire la riservatezza degli atti dei quali siano venuti comunque a conoscenza a causa del loro ufficio, a meno che non sia diversamente previsto; i componenti della Segreteria che violano i propri doveri sono soggetti a procedimento disciplinare, regolato dalle disposizioni vigenti in materia, anche eventualmente su richiesta del Presidente del Collegio di garanzia.

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del Collegio e di favorire l’efficienza e il perseguimento delle finalità dell’organo, nel rispetto dei principi del processo sportivo e, in particolare, dei principi di piena indipendenza, autonomia e riservatezza. Nell’ambito del Collegio di garanzia è, inoltre, presente l’organo denominato Sezioni Unite del Collegio di garanzia dello sport, composto dai Presidenti delle sezioni giudicanti e presieduto dal Presidente del Collegio stesso che, anche su proposta del Presidente di una delle sezioni, può decidere che una determinata controversia venga conosciuta e decisa dalle Sezioni Unite 106. In caso di astensione o ricusazione o altra causa di indisponibilità di uno dei componenti della Sezione giudicante, ne subentra un altro appartenente alla stessa sezione di cui è membro il soggetto astenuto o ricusato, secondo l’ordine stabilito nel regolamento di cui al comma 8 dell’art. 12-bis dello Statuto del CONI. Dopo aver tracciato un quadro, per quanto più possibile chiaro, dei tratti caratterizzanti la fisionomia, la struttura nonché le funzioni proprie dell’organo di ultimo grado della giustizia sportiva, appare opportuno specificare, mettendone in risalto la portata e i limiti esistenti, i tempi e le dinamiche del procedimento dinanzi al Collegio di garanzia che trova la sua disciplina nel combinato disposto degli artt. da 58 a 62 del Codice di Giustizia Sportiva 107. Con riferimento all’instaurazione del giudizio, l’art. 59 prevede che l’impugnazione innanzi al Collegio di garanzia debba proporsi con ricorso da depositarsi entro trenta giorni dalla pubblicazione della decisione impugnata 108 e, a norma del precedente art. 58, si specifica che il procedimento debba essere definito entro sessanta giorni dal deposito del ricorso stesso, mediante la pubblicazione del dispositivo della decisione che avviene nei cinque giorni successivi all’udienza. Se il Collegio di 106 In questi casi, il Presidente di una delle sezioni giudicanti, qualora ritenga che per i profili di rilevanza e di principio che una questione riveste, debba essere decisa dalle Sezioni Unite, propone al Presidente del Collegio di garanzia, entro tre giorni dalla trasmissione del relativo ricorso, la rassegnazione in favore delle Sezioni Unite. Il Presidente del Collegio di garanzia decide senza indugio e assume i provvedimenti conseguenti ai sensi dell’art. 2, comma 3 del Regolamento di organizzazione e funzionamento del Collegio. 107

Si tenga presente che tali disposizioni devono, a loro volta, essere integrate dalle “norme generali sul procedimento” dettate dagli artt. 9 a 11 del Codice di Giustizia Sportiva. 108

Ai sensi dell’art. 11, comma 4 del Codice di Giustizia Sportiva per “pubblicazione della decisione” da cui comincia a decorrere il termine per l’impugnazione deve intendersi la pubblicazione sul sito internet istituzionale della Federazione in apposita collocazione di agevole accesso e, in ogni caso, con link alla relativa pagina accessibile dalla home page. Non rileverà, dunque, la data della comunicazione della decisione, ma, diversamente, la data in cui la decisione, pur previamente comunicata in forma integrale alle parti d’ufficio, sia successivamente pubblicata sul sito internet. In vero, una tale previsione ha sollevato non poche critiche in dottrina potendosi dubitare della congruità di tale disposizione che renderà talvolta disagevole il giudizio intorno alla tempestività dell’impugnazione soprattutto alla luce delle difficoltà di provare, in caso di contestazione, l’avvenuta pubblicazione sul sito internet della decisione in una data piuttosto che in un’altra.

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garanzia non ritiene di dover dichiarare l’inammissibilità del ricorso, provvede al relativo accoglimento, in conformità all’art. 12-bis, comma 3 dello Statuto del CONI, decidendo la controversia senza rinviare al Giudice federale solo quando non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto oppure le parti non ne abbiano fatto richiesta comune entro il termine fissato per la chiusura della discussione orale. Nell’ipotesi in cui, invece, il Collegio ritenga opportuno rimettere nuovamente la controversia al Giudice federale, con la decisione di accoglimento enuncia specificamente il principio al quale il Giudice di rinvio deve uniformarsi. Sempre l’art 59 del Codice prevede che il ricorso, contestualmente al suo deposito, dovrà essere inviato alla parte intimata e alle altre parti eventualmente presenti nel precedente grado di giudizio 109. Quanto ai requisiti di forma – contenuto del ricorso, si richiama l’art. 53, comma 3 del Codice di Giustizia Sportiva che, oltre agli elementi che concorrono alla necessaria individuazione delle parti e dell’oggetto del giudizio, richiede che il ricorso contenga l’illustrazione dei motivi di impugnazione e la necessaria esposizione dei fatti essenziali per una rinnovata decisione nel merito della controversia. Una volta depositato il relativo ricorso introduttivo, si assiste ad un vero e proprio contraddittorio tra le parti atteso che la decisione sul ricorso sarà adottata dal Collegio solo all’esito di un’udienza appositamente fissata per la discussione, udienza alla quale si arriverà una volta che il Presidente della sezione a cui sia stato assegnato il ricorso abbia provveduto a nominare il relatore e fissato l’udienza di discussione. Entro dieci giorni prima di tale udienza, le parti possono presentare memorie contenenti in ogni caso le conclusioni o istanze di cui domandano l’accoglimento, ai sensi dell’art. 60, comma 4 del Codice Giustizia Sportiva. È, infine, solo con la decisione che il Collegio di garanzia definisce il giudizio, ferma restando la possibilità di indicare al Procuratore generale dello sport operante presso il CONI fatti o circostanze nuovi, emersi dagli atti del procedimento o dalla discussione, che possano sembrare connessi con gli ulteriori accertamenti necessari per il giudizio di rinvio o in ogni modo rilevanti ai fini dell’art. 51, comma 4 che espressamente richiama il principio della cooperazione, in spirito di leale collaborazione, tra la Procura generale dello sport e ciascuno dei Procuratori federali. Anche dinanzi al Collegio di garanzia, il Codice della Giustizia Sportiva, all’art. 57, insieme all’art. 4 del Regolamento di organizzazione e funzionamento del Collegio, riconosce la possibilità di usufruire dell’istituto del gratuito patrocinio. In questi casi, l’istanza, che deve essere presentata dall’interessato in possesso dei requisiti all’uopo prescritti alla Segreteria del Collegio di garanzia, 109 Il senso di questa attività “partecipativa” del ricorso che si predica contestuale al suo ricorso, tuttavia, non è molto chiaro, soprattutto al lume delle lacune e, almeno in parte, delle vere e proprie contraddizioni che caratterizzano la disciplina relativa alla instaurazione del contraddittorio nei confronti delle parti intimate e, comunque, delle altre che pur hanno preso parte al pregresso grado di giudizio. Così, M. FARINA, Il Collegio di Garanzia dello Sport: competenze e procedimenti. Note a prima lettura, in Riv. dir. Sportivo, 2015.

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deve contenere a pena di inammissibilità la richiesta di ammissione al gratuito patrocinio, l’indicazione del giudizio cui si riferisce, se già pendente, o della decisione che si intende impugnare, con l’indicazione anche sommaria delle pretese che si intendono azionare. Sulla presentata istanza di ammissione decide il Presidente del Collegio di garanzia con determinazione non sindacabile, riconoscendo, al soggetto ammesso, la possibilità di nominare un difensore scelto tra quelli iscritti nell’albo del gratuito patrocinio del CONI 110. Solo ora, che può dirsi terminata l’esposizione della disciplina dei procedimenti dinanzi ai due nuovi organi di vertice della giustizia sportiva, è possibile evidenziare come con l’istituzione del Collegio di garanzia e della Procura generale dello sport, sia stata realizzata una vera e propria sintesi tra la domanda di autonomia da parte delle Federazioni, da un lato, e la garanzia di legalità sportiva dall’altro. Da un certo punto di vista, infatti, l’omogeneizzazione del sistema di giustizia sportiva realizzata con la riforma ha, di fatto, sottratto ampi spazi di autonomia normativa alle Federazioni, facilitando la previsione di meccanismi di controllo della legalità, sia preventivi che successivi, da parte del CONI. Allo stesso tempo, il Codice negando la possibilità del giudizio nel merito da parte del Collegio di garanzia e ponendo vincoli rigidi all’esercizio dei poteri della Procura generale, ha tentato comunque di conservare uno spazio di autonomia federale nell’amministrazione della giustizia 111. Si arriva ad essere al cospetto di un sistema che, totalmente riformato, non è chiamato ad intervenire più unicamente ex post nella qualità di organo di terzo ed ultimo grado della giustizia (compito attribuito al Collegio di garanzia) ma ad operare anche ex ante, attraverso la Procura generale dello sport, nei confronti delle Procure federali 112. 110

L’iscrizione nel suddetto albo è disposta, a seguito di domanda dell’avvocato interessato, dal Presidente del Collegio di garanzia; possono essere dichiarati idonei all’iscrizione gli avvocati che, iscritti negli albi dei relativi consigli dell’ordine, siano in possesso di specifica competenza nell’ambito dell’ordinamento sportivo. 111 A questo punto sembra innegabile riconoscere come l’autonomia delle Federazioni risulti, oggi, seppur in maniera contraddittoria, per un verso incrementata e per l’altro diminuita e questo perché i Giudici e i Procuratori federali sono pienamente autonomi nelle loro determinazioni di merito fino a quando la loro attività rimane relegata all’interno del quadro normativo disciplinato dal Codice, ma appena ne escono ricadono sotto il controllo di legalità esterno del CONI. In vero il tema dell’autonomia delle Federazioni è stato per molto tempo oggetto di analisi da parte della dottrina che ha, prevalentemente, ritenuto come problematica la convivenza tra la natura di associazione con personalità giuridica di diritto privato attribuita alle Federazioni e la valenza pubblicistica assegnata a specifiche tipologie di attività federali. Così, G. NAPOLITANO, voce Sport, in Dizionario di diritto pubblico, VI, Milano, 2006, p. 5678. 112 Appare evidente, quindi, che come necessario contrappeso all’istituzione di un organo del tutto nuovo e con competenze particolarmente invasive nei riguardi dell’autonomia federale, quale la Procura generale, il CONI abbia ideato un organo giustiziale di ultimo grado dotato di funzioni analoghe a quelle della Corte di cassazione, ossia un organo di legittimità e non di merito, un organo privato della possibilità di celebrare nuovamente il processo già definito in ambito federale, come era stabilito, invece, per il TNAS e l’Alta Corte.

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Le fondamenta, le basi su cui il CONI ha costruito questo nuovo sistema affondano indubbiamente le loro radici in un’esperienza radicata che parte dalla Camera di Conciliazione fino ad arrivare all’Alta Corte e al TNAS e che oggi si presenta sotto forma di un restauro imponente di cui solo l’esperienza e la concreta applicazione potranno dimostrarne la reale portata.

CAPITOLO QUARTO

La responsabilità sportiva SOMMARIO: 1. La responsabilità sportiva: inquadramento. – 2. La responsabilità dell’atleta e le cause di giustificazione della condotta sportiva lesiva, la c.d. “scriminante sportiva”. – 2.1. Gli sport a violenza necessaria, a violenza eventuale e gli sport estremi. – 2.2. La liceità dell’attività sportiva. – 2.2.1. Il pugilato e le arti marziali. Il caso Lupino. – 2.2.2. Il calcio, il basket e la pallavolo. – 2.2.3. Gli sport su strada e sulla neve. – 3. La responsabilità per la gestione delle aree sciabili attrezzate. – 4. La responsabilità del gestore di altri impianti sportivi. – 4.1. Il caso Giampà e la responsabilità delle società sportive. – 4.1.1. (Segue). La responsabilità dell’arbitro. – 4.1.2. (Segue). Il danno risarcibile. – 4.2. Il caso Juventus. – 4.2.1. (Segue). Il concorso di colpa della vittima. – 4.2.2. (Segue). Il ruolo delle Forze di Polizia. – 5. La responsabilità dell’organizzatore di eventi sportivi. – 5.1. La responsabilità del CONI e delle Federazioni sportive. – 6. La responsabilità del medico sportivo. – 6.1. La responsabilità del medico per l’erronea valutazione dell’idoneità dell’atleta all’attività sportiva agonistica. Il caso Curi. – 6.1.1. (Segue). La responsabilità concorrente della struttura sanitaria presso la quale il medico opera. – 7. La responsabilità degli insegnanti ed istruttori sportivi.

1. La responsabilità sportiva: inquadramento Il tema della responsabilità sportiva 1 è stato per lungo tempo oggetto di un vivace dibattito che ha visto dottrina e giurisprudenza confrontarsi più volte, pervenendo in taluni casi a risultati coincidenti, in altri, facendo emergere contrasti di difficile composizione, purtuttavia favorendo sempre stimolanti riflessioni attuali ancora oggi. Ciò che preme realizzare, pur nell’economia del presente lavoro, è prima di tutto stabilire quale sia il rapporto esistente tra ordinamento statale ed ordinamen1 Per un’ampia rassegna sulla responsabilità in materia sportiva, fondamentale è la lettura di R. FRAU, La r.c. sportiva, in La responsabilità civile, vol. X, Torino, 1998, p. 307 ss.; A. SCIALOJA, Responsabilità sportiva, in Dig. disc. priv., sez. civ., Torino, 1998, p. 410 ss.; nonché più recentemente B. BERTINI, La responsabilità sportiva, in P. CENDON (a cura di), Il diritto privato oggi, Milano, 2002, passim. Nel senso che la questione solleva interrogativi dal rilievo puramente teorico, cfr. M. BONA-A. CASTELNUOVO-P.G. MONATERI, La responsabilità civile nello sport, in P.G. MONATERI (diretto da), Le nuove frontiere della responsabilità civile, Milano, 2002, p. 3 ss.

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to sportivo 2 e, per tale via, tra responsabilità civile e responsabilità sportiva 3. Più chiaramente, pur nella prospettiva settoriale del tema dell’illecito nello sport, è necessario richiamare il dibattito – già ampiamente trattato nel Capitolo I – finalizzato a stabilire se l’ordinamento sportivo abbia una propria autonomia oppure se esso “dipenda” da quello statale. Le opinioni dottrinali in materia, come visto, si sono sempre orientate nel senso di definire l’ordinamento sportivo come un ordine “agiuridico” 4, connotato cioè da fenomeni sociali distinti e diversi; per contro la giurisprudenza partendo dalla legge 16 febbraio 1942, n. 426 (legge istitutiva del CONI) 5 ha considerato l’ordinamento sportivo come un ordinamento giuridico sezionale a base plurisoggettiva che attinge la propria fonte dall’ordinamento giuridico sportivo internazionale 6. Pertanto, la relazione è stata spesso ricostruita in chiave di “riconoscimento”, che si manifesta in tutta evidenza nel potere attribuito al CONI di auto-normazione 7 e di articolazione settoriale mediante le Federazioni spor2 L’argomento è stato trattato sin dalla nascita del CONI in chiave problematica; sul punto, rimangono sempre attuali le osservazioni di M.S. GIANNINI, Prime osservazioni sugli ordinamenti sportivi, in Riv. dir. Sportivo, 1949, p. 10 ss. nonché per un tentativo di inquadramento sistematico del fenomeno sportivo A. MARANI TORO, Gli ordinamenti sportivi, Milano, p. 411 ss.; ed ancora più specificamente sul rapporto ordinamento giuridico-ordinamento sportivo W. CESARINI SFORZA, La teoria degli ordinamenti giuridici e l’ordinamento sportivo, in Foro it., I, 1933, pp. 1381-1400 e, recentemente, G. DE MARZO, Ordinamento statale e ordinamento sportivo tra spinte autonomistiche e valori costituzionali, in Corr. giur., 2003, pp. 1265-1268. 3 Cfr. in chiave critica G. ALPA, La responsabilità civile in generale e nell’attività sportiva, in Riv. dir. Sportivo, 1984, p. 471 ss. 4 In tal senso, C. FURNO, Note critiche in tema di giochi, scommesse ed arbitraggi sportivi, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1952, p. 619 ss. secondo il quale, l’evento sportivo, la manifestazione, non sono altro che momenti nei quali si esprime il fenomeno sociale dello sport fatto di regole tecniche e peculiari che escludono totalmente il diritto. 5 La legge citata è stata abrogata dall’art. 19 del d.lgs. 23 luglio 1999, n. 242 (meglio conosciuto come decreto Melandri) ed è rinvenibile in Riv. dir. Sportivo, 1999, p. 221 con circolare del 4 agosto 1999 a cura dell’Ufficio Studi e Legislazione del CONI. 6

Cfr. Cass., 11 febbraio 1978, n. 625, in Foro it., 1978, I, p. 862 secondo cui «... per effetto della citata legge, il rapporto tra ordinamento giuridico statale e l’ordinamento giuridico sportivo è di riconoscimento: riconoscimento, da parte dell’ordinamento giuridico statale, dell’ordinamento giuridico sportivo già autonomamente esistente e perciò originario: non già creazione, perché, come ha rilevato questa Suprema Corte (sent. 2 aprile 1963, n. 811, in Foro it., 1963, I, 894), l’ordinamento giuridico sportivo, che è costituito e agisce nel territorio nazionale italiano, è collegato all’ordinamento giuridico internazionale, donde attinge la sua fonte». In tal senso si è espressa la giurisprudenza di legittimità per la quale «i regolamenti delle federazioni sportive nazionali, nel disciplinare i rapporti negoziali tra le società sportive e tra le stesse società e gli sportivi professionisti, si configurano come atti di autonomia privata perché sia le società che gli sportivi, con l’aderire alle federazioni, manifestano la volontà di sottostare per il futuro alle disposizioni federali che disciplinano i contratti posti in essere nell’ambito dell’organizzazione sociale». Cfr. Cass., sez. III, 5 aprile 1993, n. 4063, in Foro it. 1994, I, p. 136 nota G. VIDIRI nonché in Riv. dir. Sportivo, 1993, p. 493. 7

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tive 8. Tali presupposti concettuali fanno sentire il proprio peso in maniera specifica sul profilo della responsabilità civile, che entra quasi da subito in potenziale “concorrenza” con la responsabilità sportiva. In particolare, sulla scorta dell’affermata autonomia dell’ordinamento giuridico, vi è stato chi ha proposto una autonomia concettuale della responsabilità sportiva 9 che, però, ha presto trovato ampia resistenza da parte di autorevole dottrina per la quale «in materia di attività sportiva, salve le regole relative alle Tuttavia, pur riconoscendo la potestà di autonormazione, la giurisprudenza ne ha circoscritto la portata alla sola regolamentazione del settore sportivo restando devoluti ad una riserva di legge i rapporti intersoggettivi e le situazioni giuridiche attive dei privati; infatti, per Cass., 11 febbraio 1978, n. 625, in Foro it., 1978, I, p. 862 «l’attribuzione di potestà proprie dell’ordinamento giuridico statale all’ordinamento giuridico sportivo è limitata alla funzione amministrativa nel settore sportivo: è attribuita la potestà amministrativa, cioè il potere di emanare atti concreti, indirizzati a soggetti determinati, per il conseguimento di fini specifici rientranti nell’interesse generale sportivo; ed è attribuita la potestà regolamentare, cioè il potere di emanare norme attinenti all’ordinamento ed al funzionamento delle strutture (uffici) cui è attribuito l’esercizio delle potestà amministrative (regolamenti di organizzazione) ed attinenti alla regolamentazione dell’esercizio e dell’incidenza della potestà amministrativa nonché alla regolamentazione dello svolgimento delle attività sportive (regole indipendenti). Non è attribuita, invece, all’ordinamento giuridico sportivo la potestà normativa che è al di fuori della potestà regolamentare: la potestà che, nell’ordinamento giuridico statale, è attribuita agli organi del potere legislativo e solo per delega od eccezionalmente ad organi del potere esecutivo. In particolare, non è attribuita all’ordinamento giuridico sportivo la potestà normativa attinente alla disciplina dei rapporti intersoggettivi privati, specificamente ... la potestà normativa attinente ai rapporti negoziali». 8 Sulla natura giuridica delle Federazioni sportive e sul loro “funzionamento”, si veda diffusamente, A. QUARANTA, Sulla natura giuridica delle Federazioni sportive nazionali, in Riv. dir. Sportivo, 1986, pp. 173-184; nonché R. CAPRIOLI, Le Federazioni sportive tra diritto pubblico e privato, in Dir. giur., 1989, p. 1 ss. e L. TRIVELLATO, Considerazioni sulla natura giuridica delle federazioni sportive, in Riv. dir. Sportivo, 1991, p. 141 ss. Sul dibattito esistente in ordine alla natura pubblicistica o privatistica delle Federazioni sportive si veda esaustivamente L. DI NELLA, Il fenomeno sportivo nell’ordinamento giuridico, Napoli, 1999, p. 207 ss. con l’ampia nota giurisprudenziale ivi riportata ed alla quale, pertanto, si fa espresso rinvio. 9 Sostiene tale tesi A. SCIALOJA, voce Responsabilità sportiva, cit., secondo cui «l’opportunità di un’autonoma considerazione, nel campo del diritto, del concetto di responsabilità sportiva va forse ricercata ponendo l’accento non tanto sul termine “responsabilità”, le cui specifiche qualificazioni, per forza di cose, non possono divergere da quelle codificate se non nell’ambito importante, ma sostanzialmente circoscritto, di un’attività di interpretazione, ma piuttosto sul concetto di “attività sportiva” e sui diversi significati che può assumere questa espressione». L’Autore ritiene che i fattori che connoterebbero la responsabilità sportiva siano «in primo luogo i principi informatori dell’ordinamento sportivo, ai quali vanno ricondotte tutte le attività legate al mondo dello sport e nei quali queste ultime trovano la loro ragion d’essere: l’agonismo come estrinsecazione dell’attività, la lealtà competitiva, la probità, la rettitudine, il disinteresse degli atleti, l’assenza di stimoli concorrenziali nello svolgimento dell’attività – la cosiddetta “manifestazione disinteressata” – il principio della responsabilità oggettiva. Questi fondamenti, ai quali si conforma la responsabilità sportiva in senso stretto, acquistano una precisa valenza anche in tema di responsabilità sportiva in senso lato».

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manifestazioni agonistiche, non si applicano norme specifiche o principi diversi da quelli codicistici e consolidati nella tradizione (...). Mantenere in vita la c.d. responsabilità sportiva significa alimentare equivoci e dubbi» 10. La querelle è stata lunga ed annosa atteso che l’esistenza delle regole tecniche emanate dalle Federazioni sportive, sembrava legittimare proprio il tipo di condotte che, in una prospettiva civilistica o penalistica, sarebbero state sanzionate con il rimedio del risarcimento del danno o della punizione penale, ma che, nel “contesto sportivo” non assumono rilevanza perché tenute in ossequio alle “regole del gioco”. In particolare, l’orientamento seguito nel passato era quello di escludere qualsiasi responsabilità per fatto illecito «ogni qual volta l’evento dannoso risultasse diretta conseguenza di un’attività di gioco conforme a Regolamento» 11 argomentando, più nello specifico, che se lo sport rientra tra le attività tutelate e sviluppare dallo Stato, sembra difficile ipotizzare la sussistenza di un fatto illecito nel corso dello svolgimento di un’attività, quella sportiva, che non solo è consentita, ma che è addirittura promossa e tutelata 12. Si può a tal proposito segnalare la sentenza del Tribunale di Milano 13 che ha prosciolto in istruttoria, con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, un pugile per la morte del suo antagonista, motivando, per l’appunto, tale decisione con il fatto che il pugile aveva osservato le regole del gioco. In particolare, nella richiamata sentenza si rimarcava come esistessero attività sportive, consistenti in fatti che, se commessi al di fuori dell’esercizio dell’attività stessa, certamente costituirebbero di per sé reato. Trattasi degli sport cosiddetti a violenza necessaria, in cui la competizione, in sé e per sé, per il modo stesso di svolgersi, determina o può determinare fatti lesivi della persona. Anche per tali discipline sportive è indubbio che, allorquando l’esito dannoso (lesioni o evento letale) si verifica a causa della violazione delle regole del gioco, come ad esempio per un colpo basso nel pugilato, la responsabilità penale sussiste per dolo, preterintenzione o colpa, secondo i casi. La soluzione è diversa se l’esito dannoso si verifica senza che siano state 10

È l’opinione di G. ALPA, La responsabilità civile in generale, cit., p. 472.

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In tal senso, E.F. CARRABBA, Illecito sportivo e illecito penale, in Riv. dir. Sportivo, 1981, p. 195; G.V. DE FRANCESCO, Sulla misura soggettiva della colpa, in Studi Urbinati, 1977-1978, p. 276 ss.; V. GRECO, La responsabilità “sportiva”, in Riv. dir. ed econ. dello Sport, fasc. 1, 2013, p. 103; F. MANTOVANI, Esercizio del diritto (dir. pen.), in Enc. dir., vol. XV, Milano, 1966, pp. 647-648. 12

Come a dire che l’ordinamento consente e vieta, al tempo stesso, un medesimo comportamento, il che non è apparso possibile. In tal senso E. FORTUNA, Illecito penale e illecito sportivo, in Cass. pen., 1981, p. 934; V. FEDELI, Brevi note sulla violenza nello sport e negli impianti sportivi, in Riv. dir. Sportivo, 1975, p. 404; A. PANNAIN, Violazione delle regole di gioco e delitto sportivo, in Arch. pen., 1962, II, p. 670; L. GRANATA, Presupposti giuridici della colpa punibile nei giochi sportivi, in Riv. dir. Sportivo, 1950, pp. 1-3; C. CAIANIELLO, L’attività sportiva nel diritto penale, in Riv. dir. Sportivo, 1975, p. 273; P. NUVOLONE, I limiti taciti della norma penale, Padova, 1972, p. 281. 13

Trib. Milano, 14 gennaio 1985, in Foro it., 1985, II, p. 218.

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violate le regole del gioco. Ogni sport ha un suo Regolamento: esso è un precetto che disciplina l’agire dell’atleta e costituisce la norma fondamentale del suo comportamento; è la sintesi di quelle regole di condotta dettate dall’esperienza che, da un lato, tutelano lo sport imponendo all’atleta di impegnare tutte le sue energie, la sua intelligenza e la sua prudenza, dall’altro tendono a limitare i possibili danni della violenza. Si tratta, dunque, di norme di condotta che rientrano nel concetto di disciplina di cui all’art. 43 c.p.; pertanto le lesioni o la morte cagionate durante lo svolgimento di una gara, saranno punibili solo se causate da inosservanza dei Regolamenti. Ciò, naturalmente, sempre che l’azione sia rimasta nello stretto esercizio e nei limiti dell’attività sportiva. Una soluzione diversa porrebbe l’atleta sotto l’incubo dell’eventualità del verificarsi di ogni possibile incidente, anche fortuito, paralizzandone, di conseguenza, lo spirito agonistico. Tale è stata la chiave di lettura della magmatica giurisprudenza di merito e di legittimità che, passando ora per la scriminante dell’art. 50 c.p. relativa al “consenso dell’avente diritto” 14, ora per il paradigma dell’art. 51 c.p. disciplinante “l’esercizio di un diritto” 15, era giunta al “riconoscimento” di una scriminante non codi14 Su tale specifico punto si veda T. DELOGU, La teoria del delitto sportivo, in Ann. dir. e proc. pen., 1932, p. 1297 nonché, F. CHIAROTTI, La responsabilità penale nell’esercizio dello sport, in Riv. dir. Sportivo, 1959, p. 237 e G. MARINI, Violenza sportiva, in Noviss. Dig. it., vol. XX, Torino, 1975, p. 982 nonché R. RAMPIONI, Sul c.d. “delitto sportivo”: limiti di applicazione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1975, p. 660. In giurisprudenza, seppur con alcune sfumature, ex multiis Cass. pen., sez. V., 30 aprile 1992, in Giust. pen., 1993, II, p. 279 secondo cui «in ipotesi di comportamento produttivo di lesioni tenuto da un partecipante ad una gara sportiva nel corso di un’azione di gioco, opera, quale causa di giustificazione atta ad elidere l’antigiuridicità della condotta, il consenso della parte lesa. Tale consenso crea un’area di “rischio consentito”, in stretta connessione con l’esercizio della attività sportiva, non delimitata dall’assoluto rispetto del regolamento sportivo, ma operante in un più ampio ambito del rischio connesso ad azioni di gioco che, pur contrarie alle regole, possano ritenersi normale comportamento dei contendenti; deve quindi trattarsi di una ipotesi nella quale sia esclusa la specifica finalità di ledere, e non sia coscientemente posta a repentaglio l’incolumità fisica dell’avversario». 15 La prospettiva di valutazione indicata è stata sostenuta, tra gli altri da V. CAVALLO, L’esercizio del diritto nella teoria generale del reato, Napoli, 1939, passim; R. PANNAIN, Violazione delle regole del giuoco e delitto sportivo, cit., p. 670; I. DE SANCTIS, Il problema della liceità penale della violenza sportiva, in Arch. pen., 1967, I, p. 90 nonché C. CAIANIELLO, L’attività sportiva nel diritto penale, cit., p. 273 e P. NUVOLONE, I limiti taciti della norma penale, cit., p. 181. Per completezza espositiva, interessante appare l’argomentazione sostenuta da R. BETTIOL, Diritto penale, Padova, 1976, p. 349 per il quale «quando si abbia a soddisfare un dato interesse che si ritiene proprio della collettività si può anche assumere il rischio della lesione di un interesse individuale all’integrità fisica. È la legge stessa ad assumere il rischio attraverso la disciplina dell’attività sportiva». In giurisprudenza si rinviene una isolata pronuncia favorevole a tale tesi del Trib. Bari, 22 maggio 1963, in Arch. pen., 1965, II, p. 71. La teoria dell’esercizio del diritto è stata criticata da V. FRATTAROLO, La responsabilità civile per le attività sportive, Milano, 1984, p. 34 perché, secondo l’Autore, la scriminante opererebbe solo per l’attività sportiva svolta in competizioni ufficiali organizzate dal CONI o, per esso, dalle Federazioni sportive, mentre ne resterebbero escluse le competizioni libere.

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ficata 16 a mente della quale ciò che è illecito ed antigiuridico nel diritto civile è da considerarsi “tollerabile e non punibile” nel diritto sportivo, se verificatosi in ossequio al rispetto delle regole tecniche del gioco, ritualmente stabilite e disciplinate dai diversi Statuti delle Federazioni sportive che trovano nel CONI, la legittimazione formante dei propri precetti, i quali assumono, pertanto, rango normativo. Non poche sono state le critiche ad una siffatta impostazione, che pur con il tramite di altra significativa dottrina, era giunta al punto di consentire come lecito e possibile una sorta di accordo preventivo degli atleti, i quali, nel momento in cui accettano di svolgere una determinata attività sportiva, con la “consapevolezza cosciente” che si potrebbero verificare eventi generatori di responsabilità, rinunzierebbero alla consequenziale azione per il risarcimento dei danni; l’ipotesi teorizzata, invero, appare suggestiva ma non condivisibile. In effetti, come è stato giustamente osservato 17, convince poco la ricostruzione logica in sé dell’intera fattispecie: soggetti che non hanno tra loro alcun rapporto – magari si incontrano per la prima volta in occasione di un evento agonistico – darebbero luogo ad una convenzione “tacita” circa una eventualità che ancora non si è verificata e che potrebbe non verificarsi affatto; il che è vieppiù criticabile perché renderebbe oggetto di negoziazione, alcuni diritti che sia il codice civile (art. 5), quanto all’integrità, sia il codice penale (art. 579), in ordine al diritto alla vita, proteggono in maniera assoluta, sanzionando con il rimedio della nullità insanabile qualsiasi accordo tendente a disporne per atto di volontà 18. La giu16 La tesi ha trovato ampi consensi nella dottrina dominante che ravvisa nella stessa attività sportiva, svolta nel rispetto delle regole del gioco, una causa di giustificazione non codificata, applicabile mediante un procedimento analogico in bonam partem. Seguono tale impostazione R. BORRUSO, Combattimento sportivo e diritto penale. L’incidenza della responsabilità penale nell’esercizio dello sport, in Riv. dir. Sportivo, 1956, p. 431 nonché G. VASSALLI, Agonismo sportivo e norme penali, in Riv. dir. Sportivo, 1958, p. 183 e A. BERNASCHI, Limiti della illiceità penale nella violenza sportiva, in Riv. dir. Sportivo, 1976, p. 3. A tal proposito giova evidenziare il pensiero di F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 1985, p. 271 per il quale «l’esercizio di un’attività organizzata dallo Stato perché rispondente all’interesse della comunità sociale importa l’impunibilità dei fatti lesivi o pericolosi che eventualmente ne derivino, quando tutte le regole che disciplinano l’attività medesima siano state osservate». In giurisprudenza si è affermato che la scriminante sportiva opera soltanto se sono state rispettate le regole della specifica disciplina. In particolare Pret. Donnaz, 21 gennaio 1974, in Foro it., 1974, II, p. 282 ha stabilito che «è evidente che l’esclusione dell’antigiuridicità del fatto oggettivamente delittuoso può essere affermata solo quando esso si sia verificato nel corso di una competizione sportiva e sempre che le regole della competizione sportiva siano state rispettate. Solo in questo caso, infatti si giustifica il venire meno dell’interesse punitivo dello Stato in ragione della rilevanza sociale che l’attività sportiva riveste». 17 18

Cfr., in tal senso, C. MAIORCA, voce Colpa civile, in Enc. dir., Milano, 1960, p. 564.

F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, cit., p. 271 ha affermato che «il diritto all’integrità fisica e alla vita sono prerogative indisponibili: pertanto un consenso dell’atleta in tal senso deve ritenersi inefficace».

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risprudenza era giunta, pertanto, ad un punto di sostanziale equilibrio: le lesioni personali provocate durante un incontro, nel rispetto delle regole del gioco erano da inquadrarsi nello schema dell’illecito sportivo e, dunque, non punibili penalmente né risarcibili civilmente 19. In buona sostanza, le cause di giustificazione di volta in volta proposte da dottrina e giurisprudenza, ritroverebbero tutte un comune fondamento che andrebbe ricercato sia nell’interesse dello Stato a favorire l’attività sportiva dei cittadini in quanto socialmente utile, poiché finalizzata al miglioramento della loro salute psichica, fisica e morale, sia nella opportunità di giustificare quei fatti che, in base alla valutazione media, potevano essere tollerati nell’esercizio dell’attività sportiva, previo, sempre, il rispetto delle regole della competizione, considerato come la fondamentale linea di demarcazione del lecito dall’illecito 20.

2. La responsabilità dell’atleta e le cause di giustificazione della condotta sportiva lesiva, la c.d. “scriminante sportiva” Alla luce delle variegate ricostruzioni, dato pacifico sembra essere quello per cui l’attività sportiva, per le sue intrinseche caratteristiche, chiaramente differenti in relazione ai vari tipi di sport, espone ad un rischio di lesioni alla propria incolumità personale ed alla stessa vita chi vi partecipa o vi assiste. Tale rischio è più o meno elevato in considerazione della diversa natura delle discipline spor-

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Sembra corollario di tale impostazione Cass., sez. V., 2 dicembre 1999, in Foro it., 2000, II, p. 320 con nota di C. RUSSO, Lesioni sportive tra illecito sportivo e responsabilità penale, secondo cui «quella in esame costituisca una causa di giustificazione atipica o meglio non codificata che trova la sua ragion d’essere nel fatto che la competizione sportiva è non solo ammessa, ed anzi incoraggiata per gli effetti positivi che svolge sulle condizioni fisiche della popolazione, dalla legge e dallo Stato, ma anzi è ritenuta dalla coscienza sociale come una attività assai positiva per l’armonico sviluppo della intera comunità. Ciò significa che viene a mancare nel comportamento dello sportivo, che, pur rispettoso delle regole del gioco, cagioni un evento lesivo ad un avversario, quella antigiuridicità che legittima la pretesa punitiva dello Stato e la inflazione di una sanzione. Insomma l’azione che cagiona l’evento non contrasta affatto con gli interessi della comunità, ma anzi, come si è già detto, contribuisce a raggiungerli. Questo è il fondamento della non punibilità dei comportamenti considerati, che è esattamente identico, a ben riflettere, a quello delle cause di giustificazione codificate – assenza della antigiuridicità per mancanza del danno sociale. Ecco allora che in virtù di un procedimento di interpretazione analogica, resa possibile dal fatto che essa è in bonam partem, è possibile individuare delle cause di giustificazione non codificate, tra le quali di certo rientra, per tutte le ragioni già esposte, l’esercizio di un’attività sportiva». Expressis verbis, le Corti hanno affermato una presunzione di liceità nella condotta conforme alle regole del gioco anche in presenza di un evento lesivo che però può rientrare nell’alea normale della specifica disciplina e per tale motivo risulti conforme all’interesse dell’ordinamento. 20

Così, M. SANINO-F. VERDI, Il diritto sportivo, Vicenza, IV ed., 2015, p. 471.

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tive che, tradizionalmente, si distinguono in sport “a violenza necessaria” (es. boxe e lotta), sport “a violenza eventuale” (es. calcio o pallavolo) e sport “a bassa o nulla incidenza di violenza” (es. tennis) 21. Un cenno a sé meritano, poi, gli sport come l’automobilismo o lo sci, per i quali la potenzialità lesiva è ulteriormente accentuata dall’ambiente in cui l’attività sportiva stessa si svolge e/o dal particolare mezzo di spostamento utilizzato dallo sportivo. Non v’è chi non veda, dunque, gli inconvenienti incontrati dall’interprete nel tentativo di conferire organicità al tema della responsabilità sportiva, dovuti prima di tutto alla difficoltà di individuare principi e regole comuni ed omogeneamente applicabili alle differenti attività sportive. Minimo comun denominatore è l’assunto che fa leva sulla violenza per così dire “tollerabile” e quindi sul c.d. “rischio sportivo consentito” relativamente ad ogni singolo sport, conducendo la dottrina alla elaborazione della figura della scriminante sportiva intesa come quella particolare esimente capace di rivestire di liceità quei pregiudizi che normalmente sarebbero considerati come illeciti 22. Preliminare ad ogni ricostruzione o elaborazione della nozione di scriminante sportiva è, dunque, la corretta distinzione tra illecito comune ed illecito sportivo, laddove il primo si avrebbe ogniqualvolta la lesione sia arrecata al di fuori del gioco o solo in occasione di esso 23 e comunque ponendo in essere una condotta di gravità tale da configurare la lesione stessa oltre il rischio del verificarsi di infortuni che può accettarsi in ogni singola disciplina; si guarda, invece, all’illecito sportivo come illecito consistente nella lesione all’integrità fisica inferta durante il gioco in violazione delle regole del medesimo o ancora del più generale principio del neminem laedere, ma pur sempre nell’ambito del rischio consentito. È, altresì, preliminarmente opportuno ricordare le numerose ricostruzioni fornite, nel corso del tempo, da dottrina e giurisprudenza che hanno ritenuto, funzionale operare una distinzione tra regole tecniche di organizzazione e regole tecniche di gioco e di gara 24, configurando solo con riferimento a 21

In merito a tali classificazioni, si veda, fra gli altri, M. BONA-A. CASTELNUOVO-P.G. MOLa responsabilità civile nello sport, cit., p. 5; G. CAPILLI, La violenza sportiva: orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, in M. BESSONE, Casi e questioni di diritto privato, vol. XX, La responsabilità nello sport, Milano, 2002, p. 98 ss., nel quale si menzionano gli sport in cui si ha la commistione tra violenza sulla persona e violenza sulle cose, come il rugby ed il football americano. NATERI,

22 M. BONA-A. CASTELNUOVO-P.G. MONATERI, La responsabilità civile nello sport, cit., si discute della applicabilità della scriminante alle attività sportive svolte a livello amatoriale ovvero alle lesioni provocate durante gli allenamenti. 23 24

G. CAPILLI, La violenza sportiva, cit., p. 100.

Le regole tecniche di organizzazione consistono nella disciplina del funzionamento degli enti e degli organi preposti alle singole specialità sportive, nonché del rapporto associativo fra gli enti ed i soggetti che fanno capo ad istituzioni operanti nell’ordinamento sportivo. Normalmente, si ritiene che l’inosservanza delle regole di organizzazione non costituisca fonte di responsabilità civile, salvo

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quest’ultime – preposte alla prevenzione del verificarsi di eventi dannosi a carico dei gareggianti e degli altri soggetti interessati alla competizione sportiva – la rilevanza di una loro violazione ai fini della configurabilità di una responsabilità penale e/o civile per eventuali pregiudizi arrecati. Infatti, solo quest’ultima tipologia di regole, essendo volta a fissare i limiti comportamentali che l’atleta deve rispettare nel singolo sport per non porre in essere una condotta illecita, indicherebbe i parametri minimi di sicurezza della singola disciplina sportiva. Tuttavia l’osservanza di tali disposizioni, non elimina in ogni caso, in capo all’atleta, il dovere di rispettare il generale principio del neminem laedere ai sensi dell’art. 2043 c.c. né può riconoscersi automaticamente causa di responsabilità dell’atleta, per lo meno ai sensi dell’art. 43 c.p., qualora la lesione arrecata all’incolumità fisica sia coperta dal c.d. rischio “consentito” e previsto dalla singola attività sportiva quale rischio accettabile dal partecipante medio 25. In un quadro così delineato – dove l’espressione “responsabilità sportiva” viene utilizzata in relazione a vicende che vedono come protagonisti soggetti impegnati in un’attività sportiva, che arrecano danni ad altri partecipanti alla competizione ovvero a spettatori o a terzi estranei – si è aperto un primo significativo squarcio con la sentenza della Suprema Corte 21 febbraio 2000, n. 1951 26, per la quale non può ricondursi al paradigma dell’esercizio dell’attività sportiva qualsiasi condotta che cagioni danno al proprio avversario; apertis verbis, secondo la richiamata pronuncia sono da considerarsi illeciti sportivi, ergo non punibili, solo quei comportamenti che siano posti in essere involontariamente, mentre, ove la condotta lesiva avvenga volontariamente, la responsabilità sarà configurabile secondo i parametri di cui all’art. 2043 c.c., della colpa o del dolo, distinguendo, a tal fine, la violazione delle regole del gioco che sia connessa in modo diretto ed immeche le norme stesse si riferiscano alla predisposizione dei mezzi tecnici per lo svolgimento dell’attività sportiva e quindi influiscano, a monte, sulle modalità di organizzazione delle singole discipline sportive e delle gare. Diversamente, le regole tecniche di gioco e di gara disciplinano lo svolgimento della gara nelle singole discipline sportive, dettando norme d condotta per l’atleta e per tutti coloro che sono coinvolti nell’esercizio dell’attività sportiva. 25 26

Sul punto, si veda R. BEGHINI, L’illecito civile e penale sportivo, Padova, 1999.

La richiamata pronuncia ha stabilito che «durante una competizione sportiva, la condotta lesiva tenuta da un giocatore ai danni dell’avversario in violazione delle specifiche regole del gioco, disattendendo quei doveri di lealtà verso gli altri competitori che dovrebbero essere la caratteristica di qualsiasi sportivo, non rientra nell’ambito applicativo della causa di giustificazione atipica o non codificata dell’esercizio della cd. violenza sportiva, ed è penalmente perseguibile a titolo di colpa grave o dolo a seconda che il fatto si verifichi nel corso dei una azione di gioco per finalità attinenti alla competizione e la violazione delle regole sia dovuta all’ansia di risultato ovvero che la gara sia soltanto l’occasione dell’azione lesiva o quest’ultima sia immediatamente diretta ad intimorire l’avversario ed a dissuaderlo dall’opporre qualsiasi contrasto oppure a punirlo per un fallo involontario subito». Per un primo commento alla significativa pronuncia, sia consentito il rinvio a S. SICA, Lesioni cagionate in attività sportive e sistema delle responsabilità, in Corr. giur., 2000, pp. 742-744.

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diato (es. fallo commesso durante lo svolgimento del gioco per impedire all’avversario un risultato favorevole) da quella che derivi ex post (ad esempio a gioco fermo): nel primo caso il soggetto agente sarà responsabile a titolo di colpa, nel secondo a titolo di dolo 27. L’orientamento giurisprudenziale, pertanto, si spinge fino al punto di “codificare” una nuova regola: non è illecito sportivo il fallo commesso durante la gara, allorché quest’ultima diventi la semplice occasione per ledere volontariamente l’avversario o, nel caso ad esempio degli sports, la cui specifica disciplina è imperniata su di una attività violenta, quest’ultima superi la soglia del rischio consentito, o, rectius, della c.d. violenza di base 28. Tale ricostruzione si spiega a fronte dell’immediato collegamento che è possibile stabilire fra le regole di condotta imposte dall’ordinamento sportivo e gli artt. 43 c.p. e 2043 c.c., ai fini della valutazione della responsabilità 29. Sotto il profilo penale, pertanto, ove il comportamento sia classificabile sia come violazione 27 Le argomentazioni riportate sono ben evidenziate da B. BERTINI, La responsabilità sportiva, cit., p. 31. Contra G. AMATO, Per i danni causati nell’azione di gioco la responsabilità è solo per colpa, in Guida dir., n. 10, 2000, p. 75. L’autore sostiene che «se da un lato le conclusioni della Cassazione sono coerenti con l’accennata ricostruzione della scriminante “atipica” dell’esercizio dell’attività sportiva, è altrettanto vero che, da un punto di vista squisitamente pratico, possono estendere l’ambito di intervento del giudice penale, accentuando il ricorso alla sanzione criminale anche in presenza di condotte che, pur volontariamente trasgressive delle regole del gioco sportivo, meriterebbero di trovare risposta, magari severa, solo davanti al giudice sportivo». Per altra dottrina, invece, «il giudizio sulla responsabilità civile deve dunque tenere conto delle specifiche caratteristiche e dei regolamenti concernenti la disciplina concretamente praticata, la cui violazione potrà costituire significativo indizio di un comportamento imprudente». Cfr. R. FRAU, La r.c. sportiva, cit., p. 315. 28

Tale sembra essere l’iter argomentativo della giurisprudenza successiva di legittimità; infatti per Cass., sez. III, 8 agosto 2002, n. 12012, in Danno e resp., 2003, p. 529 con nota di M. DELLA CASA, Attività sportiva e criteri di selezione della condotta illecita tra colpevolezza ed antigiuridicità, «in materia di risarcimento danni per responsabilità civile conseguente ad u infortunio sportivo, qualora siano derivate lesioni personali ad un partecipante all’attività a seguito di un fatto posto in essere da un altro partecipante, il criterio per individuare in quali ipotesi il comportamento che ha provocato il danno sia esente da responsabilità civile sta nello stretto collegamento funzionale tra gioco ed evento lesivo, collegamento che va escluso se l’atto sia stato compiuto allo scopo di ledere, ovvero con una violenza incompatibile con le caratteristiche concrete del gioco, con la conseguenza che sussiste in ogni caso la responsabilità dell’agente in ipotesi di atti compiuti allo specifico scopo di ledere, anche se gli stessi non integrino una violazione delle regole dell’attività svolta; la responsabilità non sussiste invece se le lesioni siano la conseguenza di un atto posto in essere senza la volontà di ledere e senza la violazione delle regole dell’attività, e non sussiste neppure se, pur in presenza di violazione delle regole proprie dell’attività sportiva specificamente svolta, l’atto sia a questa funzionalmente connesso. In entrambi i casi tuttavia, il nesso funzionale con l’attività sportiva non è idoneo ad escludere la responsabilità tutte le volte che venga impiegato un grado di violenza o irruenza incompatibile con le caratteristiche dello sport praticato, ovvero col contesto ambientale nel quale l’attività sportiva si svolge in concreto, o con la qualità delle persone che vi partecipano». 29

V. FRATTAROLO, La responsabilità civile per le attività sportive, cit., pp. 25-26.

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di norma sportiva, sia come ipotetico reato, il Giudice penale tende a valutare la condotta ipoteticamente criminosa innanzitutto alla luce delle regole tecniche proprie dello sport che viene in considerazione nella fattispecie concreta; pertanto, in difetto di violazione di tali regole, non si addiverrà ad una pronuncia di condanna, mentre in presenza di una violazione volontaria delle stesse precisamente finalizzata alla lesione dell’altrui incolumità, si affermerà la sussistenza di un illecito penale doloso. Diversamente, nell’ipotesi di volontaria violazione di tali regole, cui però consegua l’involontaria lesione dell’integrità fisica dell’avversario, si passerà alla valutazione dell’esistenza o meno di un nesso funzionale tra il gioco e l’evento lesivo, in assenza del quale la condotta verrà considerata rilevante come illecito penale colposo, in presenza del quale, invece, la condotta verrà considerata rilevante solo come illecito sportivo rimesso alla esclusiva valutazione ed eventuale censura dell’ordinamento sportivo 30. Ovviamente, l’accoglimento, da parte dei Giudici, delle regole e dei principi provenienti dall’ordinamento sportivo, si ritrova anche sul piano civilistico proprio al fine di condannare o meno al risarcimento del danno l’atleta che abbia leso l’incolumità personale di un avversario 31. Ad onor del vero, bisogna specificare come il cammino che ha portato ad elaborare il concetto di scriminante sportiva sia nato prima di tutto in sede penale, operando una preliminare distinzione tra condotta dolosa e colposa, regolare e fallosa e, nell’ambito di quest’ultime, tra lecite ed illecite 32.

30 Si veda sul punto la schematizzazione operata da Cass. pen., 23 maggio 2005, n. 19473, in Foro it., 2005, II, c. 588, secondo la quale: «a) la violazione involontaria delle regole del gioco integra illecito sportivo non penale; b) la violazione volontaria che si traduca in condotta violenta compatibile con il tipo di disciplina sportiva ed il contesto agonistico di riferimento, dà luogo ad illecito penale colposo; c) la violazione volontaria con condotta violenta del tutto avulsa dalla dinamica agonistica integra illecito penale doloso». 31 Nello specifico, si afferma che, ove l’atto sia stato posto in essere allo scopo di provocare lesioni, dovrà parlarsi di illecito doloso anche se quella condotta non integri violazione di alcuna regola sportiva, in quanto comunque contrastante con il generale principio del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c.; ove, invece, si riscontri una condotta posta in violazione di una regola sportiva, volontaria ma non finalizzata a ledere l’integrità dell’avversario, si dovrà passare a valutare se la violenza o la irruenza usata fosse compatibile con le caratteristiche proprie dello specifico sport e del contesto nel quale esso è stato praticato; in difetto di tale compatibilità, si afferma la sussistenza di un illecito colposo, mentre ove tale compatibilità vi sia si nega il risarcimento, riconoscendo a detta condotta esclusivo rilievo nell’ambito del solo ordinamento sportivo. Sul punto, si veda la classificazione operata da Cass., 8 agosto 2002, in Danno e resp., 2003, p. 529, con nota di M. DELLA CASA. 32 La dottrina penalistica originariamente si attestava su posizioni di assoluta severità, negando la liceità penale di fatti violenti commessi nel corso di competizioni sportive.

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 Art. 51 c.p. Ed è proprio sulla base di una disposizione di natura penale, l’art. 51 c.p., che si è sviluppata una delle prime teorie volte a riconoscere come lecite le lesioni inferte nell’ambito della pratica di un’attività sportiva, in quanto le condotte violente, poiché previste dalle varie discipline sportive e riconosciute e permesse dallo Stato, sarebbero espressione dell’esercizio di un diritto e, proprio in quanto tali, autorizzate e legittimate dall’ordinamento giuridico stesso. La richiamata ricostruzione non ha mancato, tuttavia, di sollevare le relative obiezioni 33 dovute al fatto che il predetto orientamento fonda la propria validità sul rispetto da parte del soggetto agente delle regole dello sport praticato, essendo palese che nessun diritto potrebbe trovare la propria giustificazione sulla violazione di precetti normativi, anche se di natura sportiva. Una tale lettura comporterebbe una eccessiva limitazione dell’ambito applicativo di questa causa di giustificazione, non riuscendo a coprire anche le fattispecie lesive degli sport a violenza eventuale, dove non si ritrova il problema della lesione dell’integrità fisica in termini puramente normativi perché il rispetto del Regolamento porterebbe sempre a non colpire l’avversario 34. Alla teoria che vuole ricostruire una scriminate sulle basi dell’art. 51 c.p. si è mossa un’ulteriore critica secondo la quale dovrebbero essere giustificate le sole lesioni arrecate nell’ambito di competizioni ufficiali svolte sotto l’egida del CONI e delle Federazioni sportive nazionali e non anche quelle provocate in competizioni libere organizzate al di fuori di questo ambito 35. Dunque, quid juris ove l’evento lesivo generatore di responsabilità si verifichi durante competizioni amatoriali od organizzate da altri enti? Il quesito non ha trovato soluzioni unanimi: vi è stato chi ha sostenuto l’inapplicabilità della “scriminante” non codificata dell’esercizio dell’attività sportiva, ritenendo doversi circoscrivere l’indagine sulla responsabilità soltanto sul fondamento dell’art. 2043 c.c. 36 e chi, per contro, anche nelle gare organizzate 33

Parte della dottrina, tra cui A. LEPORE, Responsabilità civile e tutela della “persona-atleta”, Napoli, 2009, ha ritenuto che, poiché in ambito sportivo l’interesse leso è rappresentato dal diritto, facente capo all’avversario, alla salvaguardia della propria integrità psico-fisica, diritto che ha rilievo costituzionale ed è penalmente protetto, l’eventuale esercizio del contrapposto diritto alla pratica sportiva non potrebbe non costituire illecito civile, se esercitato per perseguire una finalità che ecceda dolosamente o colposamente quella sportiva, senza apprezzabile vantaggio per l’atleta che dia luogo all’evento lesivo. Sul punto si veda anche C.M. BIANCA, Diritto civile, vol. V, La responsabilità, Milano, 1994, p. 682. 34

Così, P. D’ONOFRIO, Manuale operativo di diritto sportivo, Rimini, 2007.

35

Sostenitori di tale teoria sono V. FRATTAROLO, La responsabilità civile per le attività sportive, cit., p. 34; G. FACCI, La responsabilità civile nello sport, in Resp. civ., 2005, p. 647. 36 Tale è l’opinione di G. STIPO, La responsabilità civile nell’esercizio dello sport, in Riv. dir. Sportivo, 1961, p. 32 per il quale «quando non siamo in presenza di regolamenti, cioè nel caso che l’esercizio dello sport si svolga in condizioni di libertà, allora per giudicare se un comportamento

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od espletate, per così dire, extra ordinem, ha osservato che il rifarsi ad uno schema di condotta tipico dello sport praticato, legittimerebbe l’invocabilità dell’esercizio dell’attività sportiva come scriminante in caso di danni prodotti ai propri avversari 37. Questa seconda ricostruzione appare, invero, più convincente, atteso che, di norma, anche le gare amatoriali si svolgono osservando tacitamente e convenzionalmente i “modelli” regolamentari della relativa disciplina ufficiale, con ciò conformandosi ad uno schema tipico di condotta; pertanto, non vi è motivo di ritenere non applicabile, pur nel senso indicato dalla significativa segnalata pronuncia n. 1951/2000, il modello di “responsabilità sportiva” 38.  Art. 50 c.p. Ulteriore filone dottrinale è stato quello che ha concentrato l’attenzione sull’art. 50 c.p., eletto a norma giustificativa dell’illecito sportivo, considerato che il fondamento della non punibilità delle lesioni inferte nel corso della pratica sportiva, avrebbe dovuto rinvenirsi nell’efficacia scriminante del consenso dell’avente diritto, a condizione che lo svolgimento dell’azione avvenisse pur sempre nel rispetto dei dettami fissati dalle regole del gioco 39. Pertanto, secondo i sostenitori della teoria su richiamata, coloro che coscientemente si determinano a partecipare ad una attività sportiva, esponendosi volontariamente ai rischi ad essa connaturati, acconsentirebbero implicitamente a subire eventuali offese che potrebsia colposo, bisognerà riferirsi ai criteri di prudenza, diligenza e perizia. Se quindi alcuni amici per svago impegnano tra di loro una gara sportiva (p. es. una partita di calcio o di boxe) e alcuno di essi riceve un danno nell’esercizio della gara, occorrerà indagare se il comportamento del contendente che ha provocato il danno abbia rispettato i canoni della prudenza, diligenza e perizia, ai fini di accertare se il comportamento stesso possa qualificarsi colposo». 37

È quanto sostenuto da V. FRATTAROLO, La responsabilità civile per le attività sportive, cit., p. 61, il quale acutamente osserva che «i gareggianti, anche nel caso di competizione improvvisata, potrebbero aver deciso di attenersi alle regole di comportamento stabilite “ufficialmente” per lo sport prescelto. In questi casi, il giudizio di responsabilità aquiliana non potrà non tenere conto dell’osservanza o meno di dette regole, ai fini di verificare la prudenza e la diligenza della condotta. Lo stesso vale per le attività rispetto alle quali sussistano regole eteronome prefissate cui riferirsi per la valutazione della condotta». 38 La giurisprudenza ha accolto favorevolmente tale impostazione; a tal fine si segnala una risalente pronuncia, mai controvertita, del Trib. Militare Roma, 25 giugno 1962, in Riv. dir. Sportivo, 1962, p. 199 che ha affermato: «competizioni sportive, d’altronde, non potrebbero essere ritenute soltanto quelle ufficialmente approvate, tenuto conto che la loro regolamentazione è assai spesso di fonte extrastatuale ed efficace limitatamente agli aderenti ad una determinata federazione sportiva, bensì sono da ritenere tutte quelle svolte da soggetti aventi capacità di agire e quindi di prestare un valido consenso con l’osservanza delle regole fondamentali di un determinato tipo di sport». 39

Tra i principali sostenitori di tale teoria si ricordano, fra gli altri, T. DELOGU, La teoria del delitto sportivo, cit., p. 1297 ss.; R. RAMPIONI, Sul c.d. “delitto sportivo”, cit., p. 237; e, in ambito civile C.M. BIANCA, Diritto civile, cit., p. 681, il quale ha affermato che «il consenso dell’avente diritto implica l’accettazione dei rischi connessi, ad esempio, alla pratica della boxe, giustificando la non risarcibilità delle lesioni subite dai pugili nel rispetto delle relative norme tecniche».

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bero derivare dalla pratica di tale attività alla loro integrità fisica, sempre purché scaturite da condotte rispettose delle regole sportive 40. In sostanza, il partecipante ad una competizione sportiva presterebbe il consenso a subire offese alla propria integrità fisica nel momento in cui accetta il rischio connaturato alla specifica attività sportiva praticata. Anche a questa ricostruzione, tuttavia, non sono mancate le critiche e le obiezioni, scaturite, in primo luogo dal difficile rapporto che l’esimente del consenso dell’avente diritto instaurerebbe con l’art. 5 c.c. Infatti, una disposizione in forza della quale sono vietati gli atti di diposizione del proprio corpo che siano idonei a cagionare una diminuzione permanente dell’integrità fisica, mal si concilierebbe con il dettato normativo di cui all’art. 50 c.p. 41. In senso contrario, parte della dottrina ha sostenuto che l’art. 5 c.c. potrebbe essere derogato dalla consuetudine, che, plasmando il diritto alla propria integrità fisica, lo rende disponibile entro il limite segnato dal “rispetto delle regole del gioco” 42. Ma anche il prospettato temperamento sembra trovare un ostacolo insormontabile in specifiche disposizioni di legge – si pensi all’art. 579 c.p. che prevede in ogni caso la punibilità del consenziente o all’indisponibilità del diritto alla salute tutelato anche a livello costituzionale – tutte finalizzate a sancire l’indisponibilità del diritto alla vita ed a vietare condotte lesive dell’integrità fisica, seppur attuate sulla base del consenso manifestato dal titolare. Ciò perché «un vero e proprio consenso dell’avente diritto non potrebbe mai riguardare fatti di lesione o di morte, perché il consenso andrebbe a ricadere sul bene della vita o della integrità psicofisica che sono oggetto di diritti indisponibili» 43. Inoltre, il consenso – che riguarderebbe unicamente la competizione sportiva e non anche la possibilità che, nell’apprestarsi alla gara, si accetti come possibile conseguenza la lesione personale o la morte – perché possa dirsi validamente prestato, richiede la possibilità di una chiara prospettazione degli eventi che si intendono accettare e delle cause produttive di tali eventi; in assenza delle richiamate condizioni, il consenso può dirsi prestato in maniera assolutamente generica e quindi non riconducibile agli schemi dell’art. 50 c.p.  I limiti della “violenza base” e le cc.dd. cause di giustificazione non codificate Legato alla efficacia scriminate del consenso dell’avente diritto, è, poi, un ul40

Secondo altra dottrina, sarebbero legittime anche quelle lesioni occorse in violazione delle regole del gioco, purché non esorbitanti rispetto alla condotta media attuata nello specifico sport esercitato, comprensive anche dei “falli”, rientranti nel rischio presumibilmente consentito del singolo sport. In tal senso, R. RIZ, Il consenso dell’avente diritto, Padova, 1979, p. 245. 41 Sul punto si veda V. FRATTAROLO, La responsabilità civile per le attività sportive, cit., pp. 34-35; P. D’ONOFRIO, Manuale operativo di diritto sportivo, cit., p. 364. 42 43

In tal senso, R. BEGHINI, L’illecito civile e penale sportivo, cit., p. 7.

Così, M. FRANZONI, L’Illecito, in Trattato della responsabilità civile, diretto da M. Franzoni, vol. I, 2a ed., Milano, 2010, p. 1208.

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teriore indirizzo dottrinario – anch’esso caduto sotto la scure delle critiche mosse alla teoria del consenso – che giustificherebbe l’impunità delle lesioni scaturenti dalla violazione delle regole del gioco, purché rientrino nei limiti della “violenza base” ossia quella consentita da ogni specifica disciplina sportiva 44 (ritenendo, ad esempio, effetti connaturati all’agonismo richiesto dal calcio le percosse o le lesioni lievi come graffi, escoriazioni e non anche le lesioni di maggiore entità come una frattura o commozione cerebrale) 45. Sicuramente più elastico è sembrato il tentativo di altra parte della dottrina di spiegare la non punibilità di determinate condotte lesive, in forza dell’esistenza di cause di giustificazione non codificate 46. In particolare, si è sostenuto che «l’attività sportiva come causa di esclusione del reato, in quanto esclude l’antigiuridicità di un fatto tipico lesivo dell’integrità fisica, si traduce in una vera e propria esimente che, anche se non inquadrabile in sé e per sé sub specie in una della cause di esclusione del reato espressamente previste dal legislatore ed anche se, non espressamente sancita dalla legge scritta, nel nostro come nella maggioranza degli ordinamenti giuridici, ha tuttavia pieno diritto di cittadinanza, in quanto derivata da un corretto procedimento interpretativo» 47. Infatti, secondo tale dottrina, le cause di giustificazione non codificate potrebbero ben ricavarsi grazie ad un’interpretazione analogica delle specifiche norme che disciplinano le singole scriminanti (artt. 50, 51, 52, 53, 54 c.p.) possibile in virtù della natura di autonome norme extrapenali, desumibili dall’intero ordinamento giuridico e, pertanto, non coperte dal principio di riserva di legge 48. Ovviamente, anche secondo questa ri44

Si veda, in tal senso, G. DE MARZO, Violazione delle regole del gioco e responsabilità dell’atleta, in Riv. dir. Sportivo, 1997, p. 282. 45 Nel pugilato, invece, il cui scopo è proprio quelle di mettere l’avversario nella impossibilità di proseguire la competizione, si è affermato che sono funzionali al combattimento anche le offese di maggiore gravità, comportanti una momentanea perdita di coscienza o l’impossibilità, per il pugile, di risollevarsi da terra dopo un knock out, mentre risultano non funzionali al gioco, ed esulano quindi dalla violenza base, le lesioni irreversibili o tali da determinare, per un periodo di tempo superiore a quello normale, la impossibilità per l’atleta di partecipare a nuovi incontri. Cass., sez. I, 14 giugno 1957, n. 1646, in Riv. pen., 1958, II, p. 163, ha avuto modo di chiarire che «nelle competizioni sportive, nelle quali la violenza costituisce elemento essenziale e che implicano perciò, necessariamente, la possibilità d cagionare un danno più o meno grave all’integrità fisica dell’avversario, sono lecite le lesioni prodotte nello stretto esercizio e nei limiti dell’attività sportiva, mentre risponde a titolo di colpa per quelle cagionate dalla colposa violazione di tali limiti». 46

In tal senso, F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, vol. I, Milano, 1989, p. 246; A. BERNALimiti della illiceità penale nella violenza sportiva, cit., p. 3; G. VASSALLI, Agonismo sportivo e norme penali, cit.; F. CORDERO, Appunti in tema di violenza sportiva, in Giur. it., 1950, II, p. 313.

SCHI,

47 Così, G. COVASSI, L’attività sportiva come causa di esclusione del reato, Padova, 1984, p. 131 ss. 48 Secondo E. FORTUNA, Illecito penale e illecito sportivo, cit., p. 933 e G. MARINI, voce Nullum crimen, nulla poena sine lege, in Enc. dir., vol. XXVIII, Milano, p. 958. Il ricorso a tale procedimento di interpretazione analogica, per quanto suggestivo, si traduce però in un inutile attentato

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costruzione, i comportamenti lesivi o di pericolo dei beni giuridici primari potrebbero considerarsi non punibili a condizione che l’agente, nel causare l’evento, abbia rispettato le regole proprie della disciplina sportiva in questione 49. Una tale ricostruzione troverebbe il suo fondamento nell’interesse dello Stato a favorire l’attività sportiva vista come strumento socialmente utile nonché finalizzata al miglioramento della salute psichica, fisica e morale dei cittadini. Sarebbero, pertanto, da riconoscere come illecite tutte quelle lesioni collegate all’attività sportiva solo in virtù di un collegamento occasionale e sorrette dalla volontà di aggredire l’incolumità fisica dell’avversario; diversamente sarebbero coperte da liceità tutte quelle lesioni che nascono proprio dallo svolgimento del gioco e che siano naturale conseguenza di una condotta conforme alle regole 50, il tutto con un conseguente ridimensionamento dell’area dei comportamenti civilmente sanzionabili, che verrebbe a circoscriversi alle sole lesioni intenzionali e all’uso della violenza. È stata, poi, recente giurisprudenza 51 a chiarire i presupposti di configurabilità ed operatività della scriminante sportiva ripercorrendo e facendo propri i principi, già affermati dalla Suprema Corte 52 che, in relazione al fondamento della scriminante sportiva, dando atto delle varie tesi succedutesi nel tempo, ha distinto il caso in cui il fatto lesivo sia stato dolosamente provocato, seppur in occasione di una gara sportiva, dalle ipotesi in cui la lesione sia stata determinata senza intenzionalità, ipotesi per le quali il rispetto delle regole del gioco vale a garantirne la liceità della condotta. Vale, ad ogni modo, la pena precisare che se il rispetto delle regole del gioco porta ad escludere la responsabilità dell’atleta, viceversa, la semplice violazione di dette regole, che abbia comportato il sorgere di eventi lesivi, non integri di per sé gli estremi di una condotta illecita essendo a tal fine necessario che «il fallo posto in essere, pur se finalizzato all’attuazione del gioco, sia di tale durezza da comportare la prevedibilità di un pericolo serio dell’evento lesivo, da non essere compatibile con le caratteristiche proprie del gioco» 53. alla certezza del diritto e risulta permesso solo per quelle scriminanti che non siano riconosciute dalla legge nella loro massima estensione logica (quali l’esercizio del diritto, l’adempimento di un dovere, il consenso dell’avente diritto) o che, comunque, non siano formulate in termini tali da escludere la riconducibilità ad esse di altre ipotesi extra legali. 49

F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, cit., 2008.

50

Trib. Marsala, 29 ottobre 1981, in Riv. dir. Sportivo, 1982, p. 197, ha pronunziato la condanna ex art. 582 c.p. del calciatore che, a gioco fermo, aveva colpito un avversario procurandogli lesioni personali. 51

Trib. Piacenza, 1° giugno 2010, in Foro it., 2010, I, c. 2219.

52

Fra le altre, Cass. pen., 20 gennaio 2005, n. 19473, Resp. civ. e prev., 2005, p. 1034.

53

Cass. pen., 20 gennaio 2005, n. 19473, cit., p. 1035. In particolare, la Corte di merito sottolinea più volte che «il criterio per individuare in quali ipotesi il comportamento che ha provocato il danno sia esente da responsabilità civile sta nello stretto collegamento funzionale tra gioco ed evento lesivo, collegamento che va escluso se l’atto sia stato compiuto allo scopo di ledere, ovve-

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2.1. Gli sport a violenza necessaria, a violenza eventuale e gli sport estremi Come specificato precedentemente, la dottrina ha, tradizionalmente, operato una distinzione tra le varie discipline sportive in base al maggior o minor grado di probabilità che si verifichino eventi volti a ledere l’incolumità personale dei soggetti coinvolti, prestando particolare attenzione alla rilevanza che può avere la violenza più o meno intrinseca a ciascuno sport. Proprio la diversa incidenza che la condotta violenta può ricoprire nelle singole discipline sportive, ha portato alla elaborazione della distinzione tra diverse categorie di sport. In primis, gli sport cc.dd. “a violenza necessaria” ossia quelli ai quali è connaturato l’uso della violenza ed in relazione ai quali si riscontra il più elevato rischio di lesioni, da riconoscere pur sempre come lecite qualora arrecate nel rispetto delle regole del gioco 54. Nelle discipline sportive catalogate come “a violenza necessaria” gesti e comportamenti violenti vanno interpretati, dunque, nell’ottica dell’essenza dell’attività sportiva stessa e non come atti compiuti in violazione di norme, così che l’atleta può trovarsi a causare o subire lesioni tali da inficiare l’integrità fisica o da causare la morte dell’avversario senza per questo violare le regole di gioco. Dinanzi a tali presupposti, qualsiasi ricostruzione offerta dalla dottrina in tema di cause di giustificazione, sembrerebbe inefficiente e soprattutto in contrasto con l’art. 2 Cost., baluardo dei diritti inviolabili ed indisponibili dell’uomo. Proprio per tale ragione, si è più volte reso necessario l’intervento della giurisprudenza di legittimità che ha ripetutamente affermato come «nelle competizioni sportive nelle quali la violenza fisica costituisce elemento essenziale e che implicano necessariamente la possibilità di causare un danno fisico all’avversario (come il pugilato), sono lecite le lesioni prodotte nello stretto esercizio e nei limiti dell’attività sportiva e si risponde a titolo di colpa solo per quelle cagionate dalla violazione colposa di tali limiti» 55. Attraverso questa e altre pronunce del genere, la Suprema Corte non ha fatto altro che confermare il principio della non punibilità dei fatti lesivi che derivino dall’esercizio di una attività autorizzata dallo Stato, purché rispondente all’interesse della comunità sociale e posta in essere rispettando tutte le regole che disciplinano l’attività mero con una violenza incompatibile con le caratteristiche concrete del gioco o con il contesto ambientale nel quale l’attività sportiva si svolge in concreto, o con la qualità delle persone che vi partecipano». 54

Cosi, Trib. Milano, 14 gennaio 1985, in Riv. it. med. leg., 1986, p. 859, secondo il quale non riconoscere la liceità delle lesioni arrecate nel rispetto delle regole del gioco, comporterebbe una paralisi dello spirito agonistico dell’atleta in tutti quegli sport in cui sia connaturato l’uso della violenza e quindi il c.d. “rischio sportivo”, che diviene così “rischio professionale” volontariamente assunto. 55

Cass., sez. I, 20 novembre 1973, in Riv. dir. proc. pen., 1975, p. 660, con nota di R. RAMSul c.d. “delitto sportivo”, cit., p. 273, con nota di R. CAIANELLO, L’attività sportiva nel diritto penale. Adde, Cass. pen., 20 gennaio 2005, n. 19473, cit. PIONI,

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desima 56, al fine di garantire il bilanciamento degli interessi in conflitto. È come se l’ordinamento giuridico accettasse il rischio connesso con l’espletamento dell’attività sportiva in considerazione della finalità che lo sport soddisfa dal punto di vista sociale e quindi della incidenza che questo ha sul benessere fisico e psichico dei consociati. In via degradata, accanto agli sport “a violenza necessaria” l’ordinamento riconosce gli sport cc.dd. “a violenza eventuale”, attività che vedono la violenza o il mero contatto fisico come del tutto estranei alle regole del gioco, con la conseguenza che, le eventuali lesioni derivate dall’uso della violenza configureranno un illecito di natura penale o civile, atteso che il rischio di lesioni consentito dovrà ritenersi nullo 57. Gli sport a violenza eventuale, pur non essendo caratterizzati dall’uso legittimo della violenza, prevedono inevitabilmente il contatto fisico tra gli atleti, mettendo in preventivo un più o meno elevato rischio di comportamenti lesivi dell’integrità fisica e consequenziale accettazione di detto rischio da parte dei gareggianti stessi. Rientrano, invece, tra gli sport cc.dd. estremi quelli per i quali il rischio di lesioni si collega all’intrinseca pericolosità della disciplina sportiva per la sua stessa natura o per la tipologia dei mezzi adoperati, raggruppando discipline molto eterogenee tra loro, per le quali sono sorte anche Federazioni di riferimento. Si pensi agli sport d’acqua come il rafting, l’hydrospeed o il diving o agli sport di aria come il deltaplano, il parapendio, il bungee jumping o ancora agli sport di terra come il buildering o lo speed down 58. Si tratta di discipline sportive la cui diffusione si è avuta inizialmente negli Stati Uniti dove, nel 1995 si è realizzata la prima manifestazione degli Extreme Games, pratiche sportive per le quali la pericolosità non si ricollega a comportamenti lesivi posti in essere da un altro atleta, ma piuttosto al rischio insito nella stessa attività ed accettato dal partecipante. Per queste discipline sportive estreme è lo stesso atleta che decide di partecipare perché, non solo accetta il rischio, ma lo ricerca mosso dal desiderio di forti emozioni, consapevole di poter mettere a repentaglio la propria incolumità se non addirittura la propria vita 59. Il postulato menzionato viene meglio recepi56 Il richiamato principio che si riassume nella mancanza di danno sociale per l’esistenza di due interessi in conflitto, uno dei quali può essere soddisfatto solo a costo del sacrificio dell’altro, è lo stesso che informa le cause di giustificazione previste in precedenza. In tal senso, si veda F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, cit., 2008, p. 270. 57

G. CAPILLI, La violenza sportiva, cit., p. 100; G. MANZI, Profili di responsabilità penale nelle attività sportive, in M. COLUCCI (a cura di), Lo sport e il diritto, Napoli, 2004, p. 29; U. IZZO, Le responsabilità nello sport, in U. IZZO-G. PASCUZZI (a cura di), La responsabilità sciistica. Analisi giurisprudenziale e prospettive nella comparazione, Torino, 2006, p. 135. 58 Per una prima trattazione sul punto, si veda B. TASSONE, Sport estremi e responsabilità civile, in Danno e resp., 2002, p. 1179 ss.; L. SANTORO, Riconducibilità degli sport estremi alla categoria giuridica di attività sportiva, in Riv. Facoltà di scienze motorie dell’Università degli studi di Palermo, 2008, p. 25 ss. 59

Trib. Terni, 4 luglio 2001, in Riv. pen., 2002, p. 800 con nota di ROCCA.

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to se solo si pensa che per gli sport estremi è assente qualsiasi forma di competizione in senso stretto, considerato che la finalità non è quella di prevalere su altri atleti, ma di provare emozioni tali da superare i propri limiti. Il fenomeno degli sport estremi è stato oggetto di valutazione ed analisi anche da parte della giurisprudenza che ormai unanimemente ha riconosciuto come il termine “estremo” sia un eufemismo per voler invece far riferimento ad un termine molto più chiaro e preciso: “rischio mortale”, considerato che in tutti questi sport estremi ciò che spinge i partecipanti non è la sana competizione agonistica che tradizionalmente caratterizza lo sport, bensì il puro gusto del rischio.

2.2. La liceità dell’attività sportiva Come si è potuto vedere, lo stesso esercizio dell’attività sportiva, in considerazione delle modalità attraverso cui si manifesta, comporta implicitamente una compressione più o meno stringente delle regole normali di responsabilità in presenza di quelle condotte lesive che, fuori dal contesto agonistico/sportivo, darebbero legittimamente vita ad una forma di responsabilità di natura civile o penale. La ratio della deroga alle comuni regole in tema di responsabilità non vuol dire che lo sport possa, in ogni caso, essere considerato causa di piena giustificazione delle lesioni causate, ma si ritrova nell’esistenza di una causa di giustificazione che, in talune circostanze e determinate condizioni, permea di se l’attività sportiva. In particolare, copiosa dottrina si è interrogata in ordine alla possibilità delle contemporanea coesistenza di interessi contrastanti tra l’ordinamento sportivo e quello statale e, più precisamente, alla possibilità di bilanciare il libero svolgimento di attività sportive pericolose con i principi di tutela della salute e dell’integrità fisica di rango costituzionale. Sul tema, due sono state le correnti di pensiero maggiormente diffuse: l’una, volta sostanzialmente a rimarcare semplicemente che gli sport, anche quelli violenti, dal punto di vista giuridico pongono problemi analoghi a quelli propri di tutte le altre attività pericolose, pertanto inquadrabili nello schema di cui all’art. 2050 c.c. a prescindere che si tratti di ipotesi di pregiudizi alla incolumità fisica arrecati nel corso di attività sportive 60; l’altra, disposta a ritenere lecite le attività sportive violente e pericolose, purché la violenza o il grado di pericolo non ecceda il livello funzionale e necessario all’esercizio delle stesse 61. L’orientamento che è emerso come predominante dal dibattito dottrinario riportato è quello che riconosce una intrinse-

60 In tal senso, A. BERNASCHI, Limiti della illiceità penale nella violenza sportiva, cit., p. 4 ss.; L. CRUGNOLA, La violenza sportiva, in Riv. dir. Sportivo, 1953, p. 252 ss.; A. TOMMASELLI, La violenza sportiva e il diritto penale, in Riv. dir. Sportivo, 1970, p. 319 ss. 61 Cfr. G. DEL VECCHIO, La criminalità negli sport, Torino, 1927, p. 251 ss.; B. PETROCELLI, La illiceità penale della violenza sportiva, in ID., Saggi di diritto penale, Padova, 1952, p. 193 ss.

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ca liceità all’attività sportiva, anche se violenta o pericolosa, sempre che venga rispettata la condizione di garanzia che vuole che «la condotta produttiva dell’evento sia connessa all’esercizio di una attività sportiva in svolgimento, essendo azione finalisticamente inserita nello svolgimento della gara» 62 arrivando a giustificare le condotte ritenute necessarie in relazione allo sport praticato perché proprie della particolare disciplina, anche se da esse possano derivare danni all’altrui incolumità. 2.2.1. Il pugilato e le arti marziali. Il caso Lupino Sono esempi di sport cc.dd. “a violenza necessaria” più comunemente diffusi, il pugilato e le arti marziali. In entrambe le discipline sportive, infatti, la condotta violenta è il presupposto stesso dello sport, o più precisamente è proprio la disciplina sportiva che, per la natura in cui si presenta, richiede l’esplicarsi di condotte di per sé violente. Non a caso, infatti, il pugilato viene definito come lo sport in cui la lesione dell’integrità fisica è connaturata all’attività stessa, riconosciuta socialmente utile in quanto funzionalmente orientata allo sviluppo dello spirito agonistico e, pertanto, giustificata dall’ordinamento statale 63. Una forma di giustificazione alla violenza che si manifesta nel corso dell’esecuzione di tali discipline sportive si è rinvenuta anche in numerose pronunce giurisprudenziali che hanno sicuramente contribuito a riconoscere una valenza positiva degli sport a violenza necessaria in virtù della loro capacità a contribuire al perfezionamento fisico della popolazione; inoltre, sempre la giurisprudenza, ha voluto evidenziare come una regolamentazione scrupolosa dei combattimenti permetterebbe di disciplinare la istintiva aggressività esistente negli individui, canalizzandola in schemi di correttezza 64. Nel pugilato l’atleta è ben consapevole del rischio fisico che affronta, proprio perché consapevole del fatto che si può prevalere agonisticamente solo con mezzi violenti e ponendo a rischio l’integrità propria e quella dell’avversario. Quindi, le lesioni che i pugili potranno riportare rientrano nell’area del rischio professionale che lo sportivo si assume volontariamente. In verità, preme chiarire, come fatto già da giurisprudenza di merito, che lo sportivo che partecipa ad un incontro di pugilato acconsente a patire una lesione della propria integrità fisica, 62

Cass., 20 novembre 1973, in Riv. dir. proc. pen., 1975, p. 660, con nota di R. RAMPIONI, Sul c.d. “delitto sportivo”, cit. 63 Così, M. PITTALIS, La responsabilità sportiva. Principi generali e regole tecniche a confronto, Milano, 2013, p. 53. 64 Si pensi, fra molte, alla pronuncia del Trib. Milano, 14 gennaio 1985, cit., attraverso la quale si è voluto dar luce ai «continui insegnamenti di lealtà contenuti nel regolamento pugilistico; si pensi alle gravi punizioni sportive come la sconfitta e la squalifica, per i colpi portati fuori dalle norme».

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pur affrontando il combattimento cercando la vittoria 65. Ciò non significa che, trattandosi di sport a violenza necessaria, sia consentita ogni forma di violenza, considerato che, anche per tali discipline sportive, è indubbio che, allorché l’esito dannoso si verifichi a causa della violazione delle regole del gioco, la responsabilità penale sussisterà per dolo preterintenzionale o colpa a seconda dei casi 66. Diverso è se l’esito dannoso si sia verificato senza che siano state violate le regole del gioco, ossia quei precetti che disciplinano l’agire dell’atleta e che costituiscono la norma fondamentale del suo comportamento. Non sarebbero da considerare, pertanto, come illecite, le condotte lesive verificatesi nel rispetto delle regole generali dettate dall’esperienza che, da un lato tutelano lo sport, imponendo all’atleta di impegnare tutte le sue energie, la sua intelligenza e prudenza, dall’altro tendono a limitare i possibili danni della violenza 67. Saranno, pertanto, lecite tutte le condotte lesive verificatesi nel rispetto assoluto del Regolamento sportivo, dirette all’esclusivo raggiungimento, da parte del pugile e dell’atleta in genere, delle finalità agonistiche, permanendo sempre nello stretto esercizio e nei limiti dell’attività sportiva. Si tratta di limiti, operanti per tutte le discipline sportive a violenza necessaria, capaci di coprire di liceità le condotte lesive verificatesi, purché manifestatesi nello stretto esercizio e nei limiti dell’attività sportiva. Precetti di comportamento che, oltre a sottolineare l’operatività in ogni caso delle regole del singolo sport, rimarcano il doveroso rispetto del principio generale del neminem laedere, in forza del quale la giurisprudenza è arrivata a stabilire che «spetterà agli stessi atleti, agli arbitri (con tempestivi interventi) colmare con la loro esperienza, prudenza e diligenza eventuali lacune che i regolamenti possono sempre in concreto presentare» 68, al fine di evitare che le esigenze sportive possano prevalere, in linea di principio, sulle norme giuridiche. Pertanto, la soluzione ormai avallata da giurisprudenza unanime è quella secondo cui «rientrano nella categoria dell’illecito sportivo, (e non configurano per65 Trib. Milano, 14 gennaio 1985, cit., «non è esatto affermare che il pugile che sale sul ring consente all’aggressione della propria integrità fisica; è vero piuttosto che egli, accettando il combattimento, pone in essere una volontà nettamente opposta, in quanto cerca di raggiungere la vittoria colpendo l’avversario e cercando soprattutto di prendere meno colpi possibile». Sul punto si veda anche A.G. PARISI, Sport ad alto rischio e lesione di diritti personalissimi. Responsabilità civile e penale, in L. CANTAMESSA-G.M. RICCIO-G. SCIANCALEPORE (a cura di), Lineamenti di diritto sportivo, Milano, 2008, p. 337. 66

Si veda Cass., sez. I, 12 giugno 1975, in Riv. pen., 1958, II, p. 163.

67

Si tratta di quelle norme di condotta che rientrano nel concetto di disciplina di cui all’art. 43 c.p. e che impongono di ritenere che le lesioni o la morte cagionate durante lo svolgimento di una gara saranno punibili solo se causate da inosservanza dei Regolamenti. Ciò, naturalmente, sempre che l’azione sia rimasta nello stretto esercizio e nei limiti dell’attività sportiva. Una soluzione diversa porrebbe l’atleta sotto l’incubo per colpa di ogni possibile incidente, anche fortuito, paralizzandone lo spirito agonistico. 68

Trib. Milano, 14 gennaio 1985, cit.

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tanto condotte penalmente perseguibili, in virtù di una causa di giustificazione atipica o non codificata che trova fondamento nel fatto che le competizioni sportive sono dal legislatore incoraggiate per gli effetti positivi svolti sulle condizioni fisiche della popolazione), quelle azioni che, seppur contrastanti con le specifiche regole del gioco, non superano la soglia del c.d. “rischio consentito”, con riferimento, in particolare, agli artt. 50, 51 e 582 c.p.» 69. Ma, allora, quale è il limite del rischio consentito e come identificarlo? Sicuramente, come per molte discipline sportive, così anche per il pugilato, non è semplice determinare con sicurezza il limite del rischio consentito che sembrerebbe operare ogni qual volta il pugile abbia cagionato un evento dannoso (lesione, morte) nel rispetto del Regolamento di gioco e, in particolare, senza l’utilizzo di colpi proibiti o comunque diretti a cagionare lesioni 70. Diversamente si configurerebbe una responsabilità di natura penale, a seconda dei casi colposa o dolosa, in presenza di lesioni cagionate in violazione delle regole del gioco o delle generali norme di prudenza, diligenza, perizia. Nella casistica affrontata, e precisamente nel caso Lupino richiamato in precedenza e deciso dal Tribunale di Milano il 14 gennaio 1985, il pugile veniva prosciolto dal reato ascrittogli perché “il fatto non costituisce reato”: veniva esclusa la sua responsabilità per omicidio doloso, non essendo stati riscontrati colpi diretti a produrre lesioni, ma anche la responsabilità a titolo preterintenzionale, dal momento che «il pugile, nello sferrare i pugni nel combattimento, non intende cagionare lesioni all’avversario, ma soltanto vincere la competizione sportiva». Veniva, inoltre, esclusa la responsabilità per omicidio colposo, dal momento che l’incontro si era svolto nel rispetto delle regole del gioco, nonché in osservanza di «tutte quelle altre norme tacite di prudenza e di diligenza imposte dalla stessa gamma di situazioni particolari in cui si articola un incontro pugilistico». In buona sostanza, il Tribunale di Milano ha ritenuto non colpevole il boxeur che aveva provocato la morte dell’avversario durante il match sostenendo che atteso che «lo Stato riconosce con proprie leggi le Federazioni e le norme da esse poste come aventi valore giuridico, non potrà mai essere illecito un evento dannoso avvenuto nel corso di una attività sportiva e che si sia estrinsecato nel rispetto dei regolamenti. Tale è il fondamento della non punibilità dei fatti lesivi che possono verificarsi in tutti gli sports anche in quelli a violenza necessaria come il pugilato». Il passaggio illuminante fatto dal Giudice si è avuto quando questi ha chiarito che «il pugile sa a priori di andare in contro ad un rischio fisico perché è consapevole che la supremazia agonistica si afferma solo con l’uso dei mezzi violenti e quindi con la messa in pericolo dell’integrità personale propria e dell’avversario». Diverso è il caso in cui il pugile provoca gravi lesioni o addirittura la morte dell’avversario accanen69

Cfr., Cass. pen., sez. V, 21 febbraio 2000, in Riv. dir. Sportivo, fasc. 1-2, 2000.

70

In tal senso, G. CAPILLI, La violenza sportiva, cit., p. 156.

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dosi contro di lui anche se già a terra e palesemente sconfitto. È chiaro che in questi casi non potrà non riscontrarsi una responsabilità penale nei confronti del pugile che, cosciente della posizione di debolezza dell’avversario, non adotta un comportamento prudente 71. Parte della dottrina 72 si è poi interrogata in ordine alla opportunità di distinguere tra configurabilità della responsabilità per condotta illecita durante gli incontri tra professionisti e incontri tra dilettanti. Va senza dire che, nelle ipotesi di incontri tra sportivi non professionisti si richiederà un maggior grado di prudenza ed un conseguente minor rischio insito nella gara 73. In particolare la giurisprudenza, prendendo in considerazione la fase di allenamento, si è così pronunciata: «La mancanza della competizione e delle finalità agonistiche così come, in genere, di norme sportive di comportamento, vincolano l’atleta all’osservanza delle norme di comune prudenza, diligenza e perizia e delle particolari disposizioni o istruzioni che fossero impartite da allenatori, organizzatori, medici ecc.» 74. Quanto detto impone di valutare con maggiore attenzione e rigore la responsabilità dell’atleta durante l’allenamento, prescindendo dal parametro del rispetto delle regole del gioco 75. Oltre al pugilato, altro sport comunemente riconducibile a quelli per i quali la violenza risulta essere una componente intrinseca e strutturale, è la disciplina delle arti marziali, comunemente conosciuta e praticata come sport per il quale l’uso della violenza è ritenuto accettabile, e come tale giustificato, soltanto qualora contenuta nel rischio “consentito” 76. Nelle arti marziali i singoli colpi possono addirittura essere letali ed è proprio per questo che i relativi Regolamenti oltre a prevedere l’obbligo dei partecipanti di controllare ogni colpo, arrivano anche a proibire quei colpi che comportano un contatto con parti sensibili dell’av71 E. BONASI BENUCCI, Il rischio sportivo, in Riv. dir. Sportivo, 1955, p. 422; G. STIPO, La responsabilità civile nell’esercizio dello sport, cit., p. 56 ss.; A. TOMASELLI, La violenza sportiva e il diritto penale, in Riv. dir. Sportivo, 1970, p. 56. 72

A. GUARDAMAGNA-F. CRIMI, Diritto dello sport: profili penali, Torino, 2009.

73

In tal senso si è espressa più volte la giurisprudenza che ha affermato la responsabilità per omicidio colposo del pugile «il quale, nell’allenare altro pugile meno esperto, incaricato di limitarsi a schivare i colpi senza mai colpirlo, gli abbia invece inferto colpi produttivi di lesioni mortali, nulla rilevando che i colpi fossero di incontro, riconducibili cioè nello schema della tattica difensiva, e non colpi di allungo». Così, Cass. pen., sez. IV, 22 novembre 1961, in Riv. giur. circ. tras., 1962, p. 507; più recentemente è stato sottolineato che «l’attività sportiva nel caso di esibizione – allenamento richiede, nel comportamento dei contendenti, una maggiore prudenza e cautela per evitare non necessari pregiudizi fisici all’avversario e, quindi, un maggiore controllo dell’ardore agonistico, e della forza e velocità dei colpi, soprattutto quando si tratti di combattenti di diversa esperienza e privi dei consueti mezzi di protezione». Così, Cass. pen., sez. IV, 12 novembre 1999, n. 2286, in Riv. pen., 2000, p. 79. 74

Trib. Monza, 21 ottobre 1947, in Riv. dir. Sportivo, 1957, p. 443.

75

Si veda V. FRATTAROLO, La responsabilità civile per le attività sportive, cit.

76

M. BONA-A. CASTELNUOVO-P.G. MONATERI, La responsabilità civile nello sport, cit.

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versario come la gola o l’inguine e che comportano un elevato rischio nel prodursi di lesioni. In questo modo la prassi sportiva è arrivata ad elaborare un vero e proprio elenco di cc.dd. “colpi proibiti” in presenza dei quali potranno dirsi pacificamente configurati gli estremi di un reato colposo 77. Rara giurisprudenza si è, invece, interessata di definire la responsabilità derivante dai colpi consentiti ma assoggettati ad un obbligo di controllo con particolare attenzione al karatè chiarendo che le regole sportive hanno rilievo solo durante la gara e non anche durante l’allenamento e che il rispetto delle regole non appare comunque sufficiente a garantire la liceità della condotta in presenza di un forte divario tra i contendenti, considerato che il diverso livello di esperienza, riflessi, velocità, impongono una prudenza maggiore 78. Anche con riferimento a quest’ultima disciplina sportiva, si è cercato di delineare una categoria comprendente i comportamenti che integrerebbero gli estremi del “rischio consentito”, precisando che «vi è certamente una zona di rischio, naturale, per così dire, che l’allievo con la sua scelta sportiva, accetta» e che ricomprenderebbe «anche le piccole lesioni – come lividi, ematomi, escoriazioni, storte e simili – che sono necessariamente insite in una disciplina che prevede contatti di lotta, scambio di colpi e sgambetti, con mosse più o meno violente, anche nel rispetto delle regole» 79. Un, seppur breve, cenno meritano nel contesto degli sport a violenza necessaria quelli, meno diffusi rispetto al pugilato e alle arti marziali, del rugby, hokey e football americano che per la loro particolare modalità di esecuzione nonché per la strumentazione utilizzata nel corso della gara, integrano gli estremi di condotte sportive “violente” per le quali si sono rese necessarie precisazioni da parte dei Regolamenti sportivi. Basti pensare che, con particolare riguardo al rugby, il relativo Regolamento dettato dalla Federazione italiana prevede che la pratica del “placcaggio” possa avvenire soltanto durante e all’interno del campo di gioco e che l’ostacolazione dell’avversario sia consentita soltanto quando questo sia vicino al pallone 80. Chiaramente, in una disciplina sportiva in cui è legittima un’azio77

Trib. Firenze, 17 dicembre 1984, in Riv. it. med. leg., 1987, p. 217.

78

Cfr. Cass. pen., 12 novembre 1999, n. 2765, cit.

79

Trib. Genova, 4 maggio 2000, in Riv. dir. Sportivo, 2000, p. 690 con nota di LAGHEZZA. Può essere interessante riportare una pronuncia del Trib. Reggio Emilia, 8 novembre 2012, in De Jure, attraverso la quale, nel qualificare il taekwondo come attività pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c., ha assolto da responsabilità l’associazione sportiva dilettantistica e l’istruttore, argomentando che la lesione era da ascriversi al caso fortuito, essendo stata provocata da un colpo perfettamente regolare, ed affermando che, in tema di sport a violenza necessaria «non è in discussione la legittimità della pratica di tali sport, posto che il fondamento politico sostanziale dell’attività sportiva, anche se violenta, è quello dell’utilità umana dello sport per il miglioramento della salute psicofisica dei cittadini, e quindi dell’interesse primario che l’ordinamento statuale riconnette alla pratica dello sport, intesa come altamente educativa». 80

Viene, infatti, definita “antigioco” qualsiasi azione che si ponga in contrasto con lo spirito

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ne di per sé violenta, come appunto il placcaggio, l’area del rischio consentito è molto ampia, tale per cui potrà sorgere in capo ai giocatori una responsabilità civile e/o penale soltanto nei casi di gravi violazioni del Regolamento e di inosservanza delle norme di diligenza, prudenza e perizia. Anche con riferimento al football americano si è ribadita tale necessità e, in più occasioni, la stessa giurisprudenza è arrivata a riconoscere la responsabilità del giocatore che coscientemente aveva superato il rischio consentito causando lesioni all’avversario 81. Riflessioni solo parzialmente differenti impone la disciplina sportiva dell’hokey per la quale la violenza si manifesterebbe non tanto nel modus in cui tale sport si pratica, quanto in forza degli strumenti utilizzati nella materiale esecuzione. Identica è, tuttavia, la soluzione a cui arriva la giurisprudenza che, chiamata a pronunciarsi in diverse occasioni, ha riconosciuto la responsabilità penale dello sportivo ogni qual volta le lesioni provocate non possano essere giustificate dall’agonismo insito nella competizione, ma siano «frutto di violazione delle regole del gioco, che non prevedono fatti di violenza di tal genere, e dei doveri di lealtà» 82. 2.2.2. Il calcio, il basket e la pallavolo Come già chiarito in precedenza, in via degradata, accanto agli sport a violenza necessaria, si pongono gli sport cc.dd. “a violenza eventuale”, ossia quelli per i quali la violenza non rappresenta un elemento essenziale, a loro connaturato, ma una variabile solo possibile in considerazione del contatto fisico che può esserci tra gli atleti, ammettendo un più o meno elevato rischio di comportamenti lesivi dell’integrità fisica che viene accettato dai gareggianti stessi. Sono delle regole del gioco e viene espressamente punito il gioco “sleale” ossia il fallo intenzionale come i pugni, le percosse, i calci, ecc. 81 Si può ricordare la pronuncia del Tribunale penale di Udine, con la quale si è affermata la responsabilità per lesioni dolose di un giocatore che a gioco fermo aveva inferto all’avversario un pugno allo stomaco, provocandogli gravissimi danni permanenti; in tal caso si era trattato di un gesto volontario, del tutto avulso dall’azione, dagli schemi e dalle finalità del gioco, che non avrebbe mai potuto essere giustificato in forza della scriminante sportiva, arrivando ad affermare che «è responsabile penalmente il giocatore di football americano che, nel corso di una gara ed in occasione di un impatto con l’avversario per contrastarlo anche senza il possesso della palla, l’abbia colpito volontariamente con un pugno al corpo provocandogli gravissime lesioni personali: non si tratta infatti, nella fattispecie, di un colpo rientrante nelle regole di quella pur maschia e violenta disciplina sportiva». Così, Trib. pen. Udine, 6 giugno 1990, in Riv. dir. Sportivo, 1991, p. 85. 82 Così, Cass. pen., 2 giugno 2000, n. 9810, in Riv. dir. Sportivo, 2000; nel caso di specie la Corte è stata chiamata a pronunciarsi in merito a lesioni di certo non legittimate dall’agonismo insito nella competizione, essendo stato accertato che un giocatore aveva sferrato un pugno alla mandibola di un avversario, in una zona del campo lontana dall’azione di gioco; di qui la condanna dell’atleta in primo grado e in grado di appello per il reato di lesioni volontarie gravi. La Suprema Corte, rigettando il ricorso proposto da quest’ultimo, che si fondava sulla mancata applicazione della causa di giustificazione dell’esercizio dell’attività sportiva, ha confermato la condanna.

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sicuramente classificabili come sport a violenza eventuale il gioco del calcio e del basket, per i quali è stato escluso il carattere di attività pericolose, ai sensi dell’art. 2050 c.c., trattandosi di discipline che ne privilegiano il carattere ludico 83. In relazione a quest’ultimo aspetto, appare opportuno riportare, in primiis, la distinzione operata da recente giurisprudenza tra l’attività calcistica in sé considerata e l’organizzazione di una manifestazione calcistica, ritenendo applicabile la disciplina di cui all’art. 2050 c.c. solo alla seconda ipotesi con conseguente responsabilità della società sportiva organizzatrice 84. È stata la giurisprudenza di merito a chiarire che «il concetto normativo di attività pericolosa, previsto all’art. 2050 c.c., non vale ad individuare immutabilmente e definitivamente una categoria ben precisa di attività, ma comprende o quelle espressamente previste come tali (e che dunque ricevono una patente di pericolosità generale) dal legislatore, ad esempio nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza o in altre leggi speciali, o quelle che, in concreto e caso per caso, siano riconosciute tali dal giudice in quanto comportanti la rilevante possibilità del verificarsi di danni in relazione alla loro stessa natura o per la caratteristica dei mezzi operati» 85, come è l’organizzazione di una manifestazione sportiva di livello professionistico. Con particolare riferimento alla disciplina calcistica, i Regolamenti hanno stabilito previsioni volte a chiarire i comportamenti potenzialmente lesivi e, al tempo stesso, a prevenire gli eventi dannosi, segnando il limite del “rischio consentito” che, in un gioco improntato ad un certo rigore come il calcio, si ritiene copra le condotte lesive che siano funzionali al gioco e si verifichino in azioni in cui il contatto fisico sia prevedibile. Pertanto, si è riconosciuta la liceità di quelle condotte lesive che non siano state poste in essere al solo fine di arrecare un danno all’avversario e, quindi, prive di ogni nesso funzionale con il gioco 86, ma 83

Così, Cass., 19 gennaio 2007, n. 1197, in Riv. dir. Sportivo, 2007, p. 663; in Resp. civ. prev., 2007, p. 2089, con nota di SESTI; in Corr. giur., 2007, p. 491, con nota di G. VIDIRI; in Riv. dir. ed econ. dello Sport, 2008, p. 206, con nota di LEPORE nel conoscere di una fattispecie in cui un minore, durante l’ora di educazione fisica a scuola, nel giocare a calcio era scivolato sul pallone provocandosi la frattura dell’avanbraccio sinistro; nel caso di specie la Corte ha ritenuto opportuno escludere la responsabilità, ex art. 2048 c.c., dell’insegnante e dell’amministrazione dalla quale questo dipendeva, essendo stato accertato che l’infortunio occorso al minore era dovuto a disaccortezza del minore stesso. La stessa linea di principio è stata seguita nella più recente Cass., 27 novembre 2012, n. 20982, in Dir. e Giust., 2012. 84

Si sono registrate decisioni – Trib. pen. Ascoli Piceno, 13 maggio 1989, n. 26, in Riv. dir. Sportivo, 1989, p. 489; Trib. Milano, 21 settembre 1998, in Danno e resp., 1999, p. 234 – che hanno riconosciuto la pericolosità dell’attività calcistica e della gestione di uno stadio, con conseguente obbligo della Società sportiva «di impedire che terzi introducano nello stadio materiale pericoloso ... e, una volta introdotto, di intervenire per rimuoverlo al pari del funzionario preposto alla tutela dell’ordine pubblico». 85 86

Trib. Milano, 21 settembre 1998, cit.

R. FRAU, La responsabilità civile nel gioco del calcio davanti al giudice di merito, in Resp. civ. prev., 2007, p. 886.

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rette pure sempre dallo spirito agonistico. Si deve alla giurisprudenza, la cristallizzazione delle caratteristiche delle condotte scorrette che, superando volontariamente il rischio consentito, comporterebbero la prevedibilità di un pericolo serio dell’evento lesivo a carico dell’avversario che si trova ad essere esposto ad un rischio superiore a quello accettabile. Vale la pena riportare una recente pronuncia della Cassazione, secondo la quale «in tema di lesioni personali cagionate durante lo svolgimento di una manifestazione sportiva, non ogni violazione delle regole del gioco, né la commissione di un fatto per semplice ansia di risultato può dar luogo ad una responsabilità penale dell’atleta, bensì quelle sole scorrettezze che si pongano al di là del rischio consentito o siano commesse per finalità personali, giacché in quest’ultima ipotesi il soggetto risponderebbe di lesioni personali dolose o di percosse. In particolare, il limite del c.d. rischio consentito, oltre il quale si riespande la responsabilità per colpa ovvero a titolo di dolo eventuale dell’agente, è superato quando il fatto sia di tale durezza da comportare la prevedibilità di pericolo serio dell’evento lesivo a carico dell’avversario, che in tal caso viene esposto ad un rischio superiore a quello accettabile dal partecipante medio» 87. Si ricadrà, pertanto, nella responsabilità penale e/o civile ogni qual volta sia realizzata una condotta volontariamente violenta e non finalisticamente inserita nello svolgimento della gara 88, mentre si configurerà un illecito meramente “sportivo” laddove la condotta non fuoriesca dall’area del rischio consentito dall’attività agonistica. In particolare, per il gioco del calcio che, proprio per le sue caratteristiche strutturali, rientra tra gli sport per i quali la violenza si presenta come componente meramente eventuale, non rientrando nel contenuto regolamentare della disciplina in questione, l’illecito sportivo sarà configurabile nell’ipotesi di lesioni di un partecipante solo quando la condotta produttiva dell’evento sia connessa all’esercizio di un’attività sportiva in svolgimento, e non anche quando lo svolgimento di una gara sia solo la sede occasionale di tempo e di luogo dell’azione produttiva di lesioni personali 89. Se è vero che le ipotesi del calciatore che controlla la palla, compie un dribbling o si introduce in un’azione di gioco integrano gli estremi di una condotta violenta, è altrettanto vero che tale violenza non viene posta in essere volontariamente e 87

Cass. pen., 27 marzo 2001, n. 24942, in Riv. pen., 2001, p. 727. Nel caso di specie, vi era stata una partita di calcio tra dilettanti, nella quale un difensore, non riuscendo a raggiungere l’avversario e a sottrargli il pallone nel rispetto del Regolamento, lo aveva atterrato colpendolo con un forte calcio alla gamba, quindi, volontariamente. La Corte di cassazione, nel decidere il caso, ha comunque riconosciuto la partita di calcio come occasione per realizzare un’aggressione personale, quindi, ha escluso la dolosità del fatto, qualificando lo stesso in termini di lesioni colpose. 88 89

Cass. pen., 6 marzo 1992 (caso Nasuti), in Riv. dir. Sportivo, 1992, p. 321.

Cass. pen., 6 marzo 1992, cit. Nel caso in cui il comportamento contrario al Regolamento sia posto in essere al di fuori ed indipendentemente dallo svolgimento dell’azione, il calciatore sarà responsabile ex artt. 582 e 583 c.p.

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soprattutto rientra nell’ambito del rischio consentito 90, portando alla configurazione di un illecito sportivo e non di un illecito penale e/o civile. La tematica legata alla responsabilità, e in particolar modo a quella di natura civile, impone un riferimento al diritto al risarcimento del danno derivante da un infortunio in merito al quale la Suprema Corte ha statuito che «qualora siano derivate lesioni personali ad un partecipante all’attività a seguito di un fatto posto in essere da un altro partecipante, il criterio per individuare in quali ipotesi il comportamento che ha provocato il danno sia esente da responsabilità, sta nello stretto collegamento funzionale tra gioco ed evento lesivo, collegamento che va escluso se l’atto sia stato compiuto allo scopo di ledere, anche se gli atti non integrino una violazione delle regole dell’attività svolta» 91. Secondo l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, dunque, non sussisterebbe responsabilità se le lesioni possono essere riconosciute come conseguenza di un atto posto in essere senza la volontà di ledere e senza la materiale violazione delle regole dell’attività. In ogni caso, specifica sempre la Corte, la responsabilità non potrà venir meno ogni qual volta la condotta si sia manifestata con un grado di violenza e/o irruenza incompatibile con le caratteristiche dello sport in questione 92. Appare evidente, quindi, come il carattere amichevole della competizione, porti ad abbassare la soglia del rischio sportivo consentito, che invece sarà tanto più alta quanto più agonistica sarà la natura della gara o della competizione 93. 90 Trib. Venezia, 27 settembre 1999, in Giur. merito, 2000, p. 641 ha ribadito che: «Nel caso di sport a violenza eventuale come il calcio, i regolamenti determinano il quantum di violenza tollerabile, ossia il limite in cui le conseguenze della violenza, anche in termini di eventuali lesioni personali, sono scriminate dal consenso; ove se ne esorbiti la scriminante non è ravvisabile e va affermata la responsabilità penale». 91

Cfr. Cass., 8 agosto 2002, n. 12012, in Danno e resp., 2003, p. 529, in cui si afferma che: «a) il giudice, accertate le caratteristiche del fatto produttivo di lesioni personali, ad un partecipante ad attività sportiva, poste in essere da altro partecipante, affermerà la responsabilità dell’agente nel caso di atti compiuti allo specifico scopo di ledere anche se gli stessi non integrino una violazione della regola dell’attività svolta; b) escluderà la responsabilità se le lesioni siano la conseguenza di un atto posto in essere senza violazione delle regole dell’attività e se, pur in presenza di violazione della regola propria dell’attività sportiva specificamente svolta, l’atto sia a questo funzionalmente connesso, considerando che, in entrambi i casi, il nesso funzionale è escluso dall’impiego di un grado di violenza o di irruenza incompatibile con le caratteristiche dello sport praticato, ovvero col contesto ambientale nel quale l’attività si svolge in concreto, o con la qualità delle persone che vi partecipano». 92 È stato più volte specificato, infatti, che il criterio per applicare la scriminante del rischio consentito, è strettamente connesso al tipo di violenza esercitata in relazione al suo contesto, per cui: «lo sgambetto in un incontro tra giocatori professionisti sarà senz’altro discriminato agli effetti civili, mentre l’intervento a gamba tesa sul ginocchio del quattordicenne in una partita tra amici, porterà certamente l’affermazione della responsabilità civile». Così, ancora Cass., 8 agosto 2002, n. 12012, cit. 93 In tal senso, Cass. pen., 27 novembre 2008, n. 44306, in Riv. dir. ed econ. dello Sport, 2008, p. 169.

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Al pari del gioco del calcio, anche il basket si annovera tra le discipline sportive cc.dd. a violenza eventuale, per le quali, si ricorda, il contatto fisico tra gli avversari rientra nella normalità del gioco e sicuramente consentito nel rispetto dei limiti e delle finalità dello stesso, rimanendo, invece, assolutamente vietate le aggressioni. Nello specifico la giurisprudenza di merito ha chiarito che «anche nel gioco della pallacanestro il contatto fisico con l’avversario, anche energico, è talora ineludibile, traducendosi in azione pregiudizievole per l’altrui incolumità. Il contatto, anche energico, deve essere insomma funzionale all’obiettivo agonistico e non diretto all’avversario, per vincerne la resistenza o ridurlo all’impotenza» 94. In verità, guardando alla presente giurisprudenza in tema di lesioni durante lo svolgimento dell’attività sportiva in commento non si ritrovano numerosi casi in cui si siano verificati gravi incidenti, potendo così riconoscere il basket come uno sport caratterizzato dal rischio minimo. Emblematico, ai fini della corretta determinazione della responsabilità sportiva nel gioco del basket, può essere richiamare il caso Rolla, attraverso la cui decisione, la Corte di cassazione 95 ha riconosciuto la responsabilità per il reato di lesioni colpose, in capo ad un giocatore di basket che, slealmente e nel corso della gara, colpiva l’avversario con un forte pugno alla mandibola, come reazione ad una gomitata. La responsabilità riconosciuta dalla Suprema Corte, si spiega in virtù del fatto che l’aggressione fisica non è assolutamente contemplata nelle regole del gioco della pallacanestro, essendo a questa disciplina del tutto estranea la violenza fisica. Alcuna giustificazione poteva essere attribuita, secondo la Corte, al comportamento sleale e violento del giocatore che, violando le regole del gioco, si rendeva palesemente responsabile di un reato colposo, non legittimato dalla scriminante sportiva, essendo del tutto inesistente qualsiasi collegamento causale tra il gioco e l’evento dannoso. La linea di principio seguita dalla richiamata giurisprudenza sposa la ormai consolidata tesi per la quale non può non riconoscersi una responsabilità dell’atleta in ipotesi di condotte lesive tenutesi per scopi estranei al gioco; per cui il discrimen tra responsabilità civile e/o penale e illecito sportivo si ritrova nella volontarietà della violazione e nell’assenza di un qualsiasi collegamento causale tra la condotta lesiva e gli schemi del gioco. La pronuncia della Cassazione ha, sicuramente, contribuito a delineare ancora meglio gli estremi dell’illecito sportivo distinguendolo da quello penalmente perseguibile ossia ascrivibile allo sportivo che volontariamente abbia violato gli schemi di condotta stabiliti e disatteso i doveri di lealtà contro l’avversario. Sostiene la Corte: «se il fatto si verifichi nel corso di un’azione di gioco al fine di impossessarsi della palla o di impedire che l’avversario ne assuma il controllo ed il mancato rispetto delle regole del 94

Cfr. Cass. pen., 13 febbraio 2009, n. 17923, in Cass. pen., 2010, p. 933 con nota di G. MARRA, La Cassazione precisa i limiti scriminanti dell’attività sportiva. 95 Cfr. Cass. pen., 21 febbraio 2000, n. 1951, in La colpa nella responsabilità civile, 2005, II, p. 406.

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gioco sia dovuto all’ansia di risultato, certamente il fatto avrà natura colposa. Una responsabilità per dolo sarà, invece, ravvisabile, o quando la gara sia soltanto l’occasione dell’azione volta a cagionare l’evento oppure quando il comportamento posto in essere dal giocatore autore del fatto lesivo non sia immediatamente rivolto all’azione di gioco, ma piuttosto ad intimorire l’antagonista e a dissuaderlo dall’opporre un qualsiasi contrasto. In entrambi i casi indicati ... la condotta dell’agente fuoriesce dagli schemi tipici del gioco e la violazione delle regole non è diretta in via immediata al compimento di un’azione di gioco, ma al perseguimento di altri fini del tutto estranei alla competizione o, se connessi alla stessa, non perseguibili perché illeciti» 96. Un ultimissimo riferimento può essere fatto, negli sport a violenza eventuale, alla pallavolo sport per il quale, escludendo il gioco sotto rete, le ipotesi di contatto tra giocatori e della stessa squadra e di squadre opposte, sono davvero minime o comunque prive di rilevanza penale e/o civile. Le condotte potenzialmente lesive sotto il profilo dell’illecito sportivo, infatti, sono disciplinate dalle regole di gara della Federazione italiana che oltre ad imporre ai giocatori una condotta corretta, prevedono sanzioni per una condotta violenta ed aggressiva 97. 2.2.3. Gli sport su strada e sulla neve Le gare automobilistiche, motociclistiche, il ciclismo, gli sport sulla neve e sull’acqua, nonché la caccia e la scherma rientrano sicuramente tra quelle discipline sportive per le quali la “pericolosità” è sempre presente e dovuta, a seconda dei casi, alla velocità o ai particolari attrezzi o mezzi adoperati per la singola disciplina. Gli sport su strada, in primis, sono caratterizzati da un livello di pericolosità che è da intendersi in re ipsa e che ha suscitato un significativo dibattito in dottrina volto a stabilire se per tali fattispecie trovi applicazione la disciplina normativa predisposta dal codice della strada o se, invece, si ricada nella previsione 96 Cfr. Cass. pen., 21 febbraio 2000, n. 1951, cit.; dello stesso avviso, Cass. pen., 13 febbraio 2009, n. 179323, cit. con la quale i supremi Giudici, dopo aver operato un’ampia ricostruzione sul c.d. rischio consentito, sono passati ad interrogarsi sui precisi limiti di operatività di tale causa di giustificazione riconoscendo che il discrimen tra lecito ed illecito non può che essere segnato dal rispetto delle regole tecniche che presiedono allo svolgimento di ciascuna disciplina sportiva, segnando i contorni dell’impunità nel senso che «il rispetto delle regole anzidette segna ... i contorni dell’area di impunità, nel senso che qualsiasi pregiudizio alla persona, sia alla sua integrità fisica che persino alla sua esistenza in vita, ove avvenga in costanza di condotta agonistica pienamente rispettosa delle relative misure cautelari, si sottrae alla responsabilità penale. Tale area di esenzione coincide con quella comunemente detta del rischio consentito». 97

Le decisioni rinvenibili sul tema non sono numerose, riguardando prevalentemente il comportamento dell’atleta in campo nei confronti dell’arbitro e la responsabilità degli istruttori per i danni provocati dagli allievi. Si veda CAF, 27 settembre 1991, in Riv. dir. Sportivo, 1992, p. 389, con nota di FABRIANI.

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normativa generalmente fornita dal diritto sportivo. La normativa dettata dal codice della strada, all’art. 141, comma 5, vieta espressamente le gare di velocità, a meno che non si tratti di competizioni sportive organizzate e di conseguenza autorizzate, pur nel corso delle quali è necessario il rispetto delle regole tecniche e di gara al fine di garantire l’incolumità propria e degli altri gareggianti. In particolare, oltre all’indispensabile rispetto delle regole “del gioco”, il pilota delle gare automobilistiche e motociclistiche, è tenuto ad osservare la massima prudenza e perizia commisurate alle particolari esigenze richieste dalla tipologia stessa delle gare, pur garantendo quell’abilità e tenacia necessarie per conseguire una posizione più vantaggiosa 98. Infatti, non ha mancato di precisare la Suprema Corte che in tali competizioni sportive i corridori sono tenuti a rispettare non solo il Regolamento di corsa e le norme di prudenza e di perizia richieste generalmente per garantire la sicurezza e l’integrità fisica di quanti sono presenti al momento della gara, ma anche che tale comportamento sia valutalo alla luce ed in considerazione delle caratteristiche tipiche delle specifiche esigenze derivanti dalla competizione 99. È ormai, infatti, principio ampiamente accolto dalla giurisprudenza quello per cui «la partecipazione a competizioni sportive, pur comportando un rischio accettato da tutti i concorrenti non esclude l’applicabilità ai medesimi del principio generale del neminem laedere, né li esime dall’osservanza delle regole di comune prudenza, perizia e diligenza. Ne consegue che se, nel corso di una gara automobilistica su pista a circuito chiuso, si sia verificata una collisione fra un’autovettura in avaria, parcheggiata sul margine destro della pista in modo visibile e conforme alle prescrizioni dell’ufficiale di gara ed altra autovettura il cui conducente, abbordando una curva in modo errato, abbia dato causa allo sbandamento del veicolo ed alla conseguente collisione, la responsabilità dell’incidente è imputabile soltanto a detto conducente, sotto il profilo dell’imperizia» 100. Appare, pertanto, evidente come la responsabilità del pilota non dovrà essere valutata tenendo come parametro di riferimento quello della diligenza media, ma secondo i criteri di colpevolezza adattati alla particolare fattispecie; così che non troverà applicazione il dettato dell’art. 2054 c.c. – non applicabile ad incidenti verificatesi in occasione di gare di velocità effettuate in circuiti chiusi – bensì il principio generale di cui all’art. 2043 c.c., in forza del quale l’accertamento della responsabilità dei guidatori andrà rilevato tenen98 Se l’audacia rileva, per comune accezione della giurisprudenza di merito, quale «dato indefettibile dello sport automobilistico», l’imprudenza non può essere valutata in base ai comuni criteri che sorreggono i comportamenti umani, ma va letta in combinato alle stesse caratteristiche delle competizioni sportive, nelle quali predomina l’agonismo e giocano, in ampia misura, il rischio e l’audacia. Così, Trib. Monza, 30 marzo 1956, in Arch. pen., 1965, II, p. 507. 99

Cfr. Cass., 29 gennaio 1988, n. 1017, in Riv. dir. Sportivo, 1989, p. 61. Cass., 14 giugno 1950, in Riv. dir. Sportivo, n. 4, 1952, p. 31. 100 App. Trento, 31 luglio 1982, in Riv. giur. circol. trasp., 1983, p. 298 e in Riv. dir. Sportivo, 1983, p. 413.

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do presenti parametri di imprudenza e imperizia correlati al tipo di sport praticato e ben diversi da quelli medi del buon padre di famiglia 101. Fermando maggiormente l’attenzione sui fenomeni sportivi delle gare automobilistiche e motociclistiche, preme precisare che la responsabilità del pilota imprudente troverà una diversa qualificazione a seconda che si verifichi in occasione di competizioni “in circuito aperto” e quindi su strada aperta al traffico, o “in circuito chiuso” ossia su pista chiusa al traffico ordinario nelle quali rileverà unicamente la finalità sportiva escludendo le norme inerenti la circolazione ordinaria 102. Si trattava di gara su circuito chiuso, quella che ha visto coinvolti la Ferrari n. 4, condotta da Wolfang Von Trips e la Lotus n. 36, guidata da James Clark, dal cui scontro avvenuto durante il XXXII Gran Premio Automobilistico d’Italia derivò la morte del pilota della Ferrari e di 15 spettatori. Tale evento ha, inevitabilmente, rappresentato un precedente, nonché caso di riferimento, per la giurisprudenza successiva che, coerentemente con quanto all’epoca stabilito dai Giudici di merito 103, ha continuato a ribadire l’inapplicabilità delle norme del codice 101

Così, Trib. Perugia, 1° dicembre 1987, in Nuova giur. civ. comm., 1988, I, p. 242.

102

L’art. 9 del codice della strada disciplina le competizioni sportive su strada, disponendone un divieto generale, salva l’autorizzazione da parte del comune in cui devono avere luogo le gare atletiche e ciclistiche e quelle con animali o veicoli a trazione animale; per le gare con i veicoli a motore, invece, l’autorizzazione è rilasciata, sentite le Federazioni nazionali sportive competenti e dandone tempestiva informazione all’autorità di pubblica sicurezza, dalle Regioni per le strade che costituiscono la rete d’interesse nazionale e per le strade regionali; dalle province per le strade provinciali, dai comuni per le strade comunali. Per tutte le competizioni sportive su strada, l’art. 3 della legge 24 dicembre 1969, n. 990 e successive modifiche ed integrazioni, poi abrogata dall’art. 354, comma 1 del d.lgs. 7 settembre 2005, n. 209 (codice delle assicurazioni private) con i limiti e la decorrenza indicati nel comma 4 del medesimo articolo, ha subordinato l’autorizzazione di cui sopra alla stipula, da parte dei promotori, di un contratto di assicurazione per la responsabilità civile. L’art. 5 del Regolamento di esecuzione, d.P.R. 24 novembre 1970, n. 973, di tale normativa stabilisce che l’assicurazione stipulata per le competizioni sportive non comprende la responsabilità per eventuali danni cagionati in gare che si svolgono a circuito chiuso: per questo tipo di responsabilità sussiste una specifica assicurazione. 103 Trib. Monza, 30 marzo 1965, cit. La citata Corte di merito ha eseguito i necessari accertamenti circa la condotta tenuta in gara da James Clark, ed in particolare ha sottoposto a rigoroso esame l’osservanza da parte di Clark delle disposizioni sia del Regolamento nazionale sportivo, applicabile di fatto, ex artt. 3, 4, 5, a tutte le competizioni sportive svolte in Italia, sia del Regolamento speciale del XXXII Gran Premio Automobilistico d’Italia ed ha quindi escluso il ricorrere di qualsiasi violazione delle suddette norme da parte dell’imputato. È anche vero, però, che il Giudice ha rilevato che l’obbligo del pilota non può limitarsi esclusivamente all’osservanza delle disposizioni regolamentari ma sarà responsabile di ogni evento lesivo cagionato per non aver osservato i doveri di diligenza, prudenza e perizia ex art. 43 c.p. Pertanto, «non può rivolgersi al Clark alcun rimprovero per la condotta tenuta: condotta che, alla luce dei fatti, può ritenersi audace, forse eccessivamente audace, ma l’audacia è un dato indefettibile dello sport automobilistico». In base a tali considerazioni e per tali motivi il Clark fu assolto dai reati di omicidio colposo e di disastro colposo a lui ascritti, non con la formula del «non aver commesso il fatto», ma semplicemente perché «nella condotta di Clark non può essere ravvisata colpa alcuna».

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stradale alle ipotesi di gare in circuiti chiusi, in quanto esse sarebbero applicabili e condizionate ad una circolazione libera a tutti che non si avrebbe certamente nei circuiti chiusi. Ovviamente, una tale esclusione non comporta l’impunità di quanti arrechino danni a terzi, competitori o spettatori, ma solo la diversa applicazione della regola generale di cui all’art. 2043 c.c. e all’art. 43 c.p. Inoltre, a prescindere da che la gara si sia svolta in circuiti chiusi o aperti, la responsabilità del pilota non andrà valutata alla luce dei comuni criteri di comportamento, ma tenendo in considerazione le particolarità della stessa competizione sportiva caratterizzata proprio dal fatto che l’ambito dell’imprudenza, dell’imperizia e quindi della stessa responsabilità è particolarmente compresso dal riferimento all’agonismo che, in sport come questi trattati, è mosso dal fine del raggiungimento della vittoria. Sicuramente, il pilota, nell’ambito della propria condotta di gara, deve agire con una prudenza commisurata alle esigenze richieste dalla particolare tipologia dell’evento agonistico; pertanto, la prudenza dovrà contemperarsi con la particolare spregiudicatezza e audacia necessarie per conseguire un buon risultato di gara. Negli sport motoristici, infatti, si è affermato che i concorrenti non hanno soltanto il diritto, ma anche il dovere di imprimere al veicolo la massima velocità possibile, pur nel rispetto delle regole di gara 104. L’imprudenza, quindi, va valutata in relazione alle caratteristiche delle competizioni motoristiche che presentano, proprio come componente necessaria, l’obiettivo di superare l’avversario. Dello stesso avviso è stato anche il Tribunale di Trento secondo il quale al pilota non è ascrivibile alcuna responsabilità nemmeno quando abbia eseguito le indicazioni impartite dai commissari di gara 105 e, come specificato dalla Suprema Corte con la decisone del 29 gennaio 1988, «i piloti che partecipano ad una gara automobilistica a circuito chiuso, se sono dispensati dall’osservanza delle norme sulla circolazione stradale, sono, tuttavia, tenuti ad osservare i fondamentali criteri di prudenza a tutela della incolumità individuale, per il generale principio del neminem laedere, criteri che, normalmente, coincidono con il rispetto delle norme che disciplinano lo svolgimento della gara; ne consegue che, in caso di inottemperanza di tali criteri, il partecipante che abbia provocato un incidente in danno all’incolumità individuale risponde penalmente, secondo gli eventi, di lesioni od omicidio colposo». La caratteristica delle competizioni in generale, e di quelle motoristiche nello specifico, è proprio l’audacia 104 Così, Trib. Firenze, 9 dicembre 1953, in Giur. Tosc., 1955, p. 643, richiamata anche da R. FRAU, La responsabilità civile sportiva nella giurisprudenza. Gare automobilistiche e motoristiche, in Resp. civ. prev., 2008, p. 1735, ove l’autore evidenzia che, sempre alla stregua della richiamata decisione, la menzionata condotta del pilota non sarebbe più giustificabile in caso di esposizione delle bandiere di pericolo da parte degli ausiliari di gara. 105

Cfr. Trib. Trento, 14 marzo 1980, in Riv. dir. Sportivo, 1981, p. 60, «Il pilota che, a seguito di un guasto, abbia parcheggiato la propria vettura secondo le indicazioni dei commissari di percorso non ha alcuna responsabilità nella collisione verificatasi con la vettura di un altro partecipante».

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e il desiderio di vittoria cui è connesso un elevato grado di rischio che sicuramente esclude quella prudenza e diligenza proprie dell’agire quotidiano. Ecco allora che la Corte, nel decidere il richiamato caso, affermò che al pilota non poteva essere mosso alcun rimprovero in relazione alla condotta tenuta, considerato che essa «alla luce dei fatti può ritenersi audace, forse eccessivamente audace, ma l’audacia è un dato indefettibile dello sport automobilistico» 106. Anche con particolare riguardo alle gare di rally automobilistico, per le quali la Commissione Sportiva Automobilistica Italiana non disciplina il comportamento dovuto dai piloti, sembra trovare applicazione il principio di cui all’art. 2043 c.c., come confermato da numerose pronunce che hanno riconosciuto l’esonero della responsabilità penale e civile dei piloti di rally che hanno agito con quel livello di perizia, prudenza e diligenza richiesta non al normale guidatore sulla strada, ma all’astratto pilota modello di un rally, tenuto conto ovviamente delle particolarità di ogni specifica gara e di ogni singolo mezzo utilizzato per correre 107. Almeno in linea di principio, soggiace alla stessa responsabilità il ciclista, per la quale figura è possibile ricordare il caso nel quale, nell’ambito di una gara ciclistica, in conseguenza di un forte diverbio, uno dei ciclisti aveva spinto volontariamente e violentemente l’altro per farlo cadere 108. In tale circostanza i Giudici di merito riconobbero «punibile a titolo di lesioni dolose lo sportivo che, durante una gara ciclistica, cambia traiettoria e si lancia verso l’avversario infliggendogli una forte spinta che destabilizza l’equilibrio e provoca una rovinosa caduta di quest’ultimo» 109 escludendo l’applicabilità della scriminante sportiva che opererebbe solo qualora la condotta del soggetto attivo si ponga pur sempre nel rispetto delle regole del gioco o comunque entro i limiti dell’illecito sportivo. Con specifico riferimento al ciclismo, inoltre, è opportuno ricordare l’occasione in cui, durante una gara su strada aperta al traffico, un ciclista in corsa aveva investito e travolto una minore che, nonostante fosse appena sopraggiunta una staffetta ed un’auto con una bandiera ad annunciare l’arrivo imminente dei corridori, attraversava la strada. Nel conoscere e trattare la questione, la Corte d’appello 110 stabiliva che, trattandosi di gara ciclistica che si svolgeva su strada

106

Trib. Monza, 30 marzo 1965, cit.

107

Il principio dell’applicabilità della regola generale di cui all’art. 2043 c.c. è stato confermato, sempre con riguardo al rally, anche dalla Suprema Corte con la decisione del 6 maggio 2008, n. 11040, per la quale infatti, essendo la competizione a circuito chiuso, il pilota non era tenuto a rispettare la normativa del codice della strada, pure restando tenuto al rispetto dei criteri generali di diligenza, prudenza e perizia. 108

Trib. Arezzo, 30 novembre 2007, in Redazione Giuffrè, 2008.

109

Trib. Arezzo, 30 novembre 2007, cit. Nel richiamato caso, non si poteva riconoscere operativa la scriminante sportiva, considerato che la condotta tenuta dal corridore non era stata sicuramente rispettosa delle regole del ciclismo. 110

App. L’Aquila, 14 febbraio 1992, in Riv. dir. Sportivo, 1992, p. 338.

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aperta al traffico, ed essendo state garantite tutte le precauzioni del caso, nessuna responsabilità poteva essere riconosciuta in capo agli organizzatori o direttori di gara, in quanto l’evento dannoso si verificava per esclusiva responsabilità delle perone coinvolte nell’incidente. Più precisamente, la Corte specificava che «nelle gare ciclistiche a circuito aperto, sono i corridori stessi a dover uniformare il loro comportamento all’osservanza di tutte le norme del codice stradale ed alle norme di comune prudenza, per evitare ostacoli e, quindi, danni alle persone ... e gli stessi principi, ovviamente valgono per i terzi, casualmente presenti quali spettatori o in altra veste, nel luogo dove si svolge la competizione. Consegue che, nella specie, non solo il ciclista che partecipava alla gara, ma anche la minore era tenuta all’osservanza delle norme sulla circolazione». Anche se, in maniera più temperata, in altra occasione, la Suprema Corte 111 ha voluto garantire un margine di tutela più ampio per coloro che si trovano a rivestire i panni di spettatori di una gara sportiva, contemperando il principio della incolumità dei terzi con le esigenze dettate dalle finalità agonistiche, stabilendo che i corridori possono eventualmente anche tenere «una condotta non conforme alle regole della circolazione» nel caso in cui sussista un adeguato servizio di vigilanza e di segnalazione della gara agli altri utenti, qualora le esigenze della competizione lo richiedano. Viene, altresì, classificato tra gli sport per i quali la pericolosità rappresenta un elemento intrinseco, lo sci o, più generalmente, tutti gli sport che si praticano sulla neve. In verità, recentemente, quello dello sport sulla neve è diventato un po’ un fenomeno di massa e proprio questa circostanza ha reso necessaria una particolare e dettagliata normativa da parte del legislatore che, con la legge 24 dicembre 2003, n. 363, ha cercato di regolamentare il fenomeno, disciplinando due importanti aspetti della disciplina sportiva sciistica, quali la gestione delle aree cc.dd. sciabili e le norme di comportamento che gli utenti delle stesse sono tenuti a rispettare 112. Quello che la legge del 2003 puntualizza rispetto al passato è, in primis, la natura della prudenza e della perizia richieste allo sciatore, da valutare con riferimento non a quanto pretendibile dall’uomo medio ma dallo sciatore medio, lasciando aperto l’interrogativo se l’attività sciistica, e quindi la pratica sciistica a livello non agonistico ma amatoriale, possa essere riconosciu111

Cass., 3 aprile 1981, n. 1896, in Arch. giur. circ., 1981, p. 313 e in Riv. dir. Sportivo, 1982,

p. 62. 112

Per un commento sulla legge n. 363/2003, si vedano R. VIGLIONE, La nuova disciplina in materia di sicurezza nella pratica degli sport invernali: la responsabilità per i danni derivanti da attività sciistica, in Studium juris, 2004, p. 858 ss.; M. FLICK, Sicurezza e responsabilità nella pratica degli sport invernali, alla luce della legge 24 dicembre 2003, n. 363, in Danno e resp., 2004, p. 475 ss.; R. CAMPIONE, Le nuove norme in materia di responsabilità e sicurezza nell’attività sciistica, in Contr. e impr., 2004, p. 1305 ss.; R. CHIEPPA-M. DELLANTONIO, La nuova legge sullo sci: regole di comportamento e responsabilità nelle aree sciabili. Lo scialpinismo, lo sci fuoripista e le competenze nell’attività di prevenzione delle valanghe, in Dir. e formazione, 2005, p. 177 ss.

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ta come attività “pericolosa” ai sensi dell’art. 2050 c.c. Proprio con riferimento allo sci dilettantistico è possibile rinvenire numerose pronunce da parte della giurisprudenza di legittimità che ha ritenuto preliminarmente opportuno distinguere tra attività intrinsecamente pericolosa, e come tale disciplinata dall’art. 2050 c.c., ed attività pericolosa solo in virtù del soggetto che la pratica, al quale si applicherebbe il dettato di cui all’art. 2043 c.c. 113. In quest’ultimo caso il livello di pericolosità dello sport sciistico si misurerebbe in relazione al livello di esperienza ed abilità dello sportivo, così che sarebbe da considerare pericolosa solo l’attività sciistica posta in essere da chi non ha esperienza. Sarebbe, invece, pericolosa ai sensi dell’art. 2050 c.c. quell’attività che, secondo una valutazione ex ante, permetta di considerare oggettivamente probabile e non solamente possibile, il verificarsi di un evento dannoso. La richiamata differenza ritrova spessore non solo sul piano meramente classificatorio, bensì sugli effetti e conseguenze che ne derivano: nell’ipotesi di responsabilità ex art. 2043 c.c., incomberà sullo sciatore non professionista che abbia subito un danno dalla pratica sciistica, provare tutti gli elementi di cui all’art. 2043 c.c. e questo perché, nel praticare lo sci, lo sportivo accetta tutti i rischi che da tale disciplina sportiva possano discendere, accettando il c.d. rischio consentito. È proprio grazie ad una tale preliminare precisazione che può affermarsi una responsabilità non generale e automatica del gestore degli impianti sciistici 114. Quest’ultima affermazione, in verità, non ha trovato conferma nel pensiero di altra parte della dottrina 115 che, proprio sulla base della frequenza con cui si verificano infortuni, nello sci amatoriale, anche di si-

113 In tal senso, Cass., 28 febbraio 2000, n. 2220, in Foro it., 2000, I, c. 1828, nonché in Danno e resp., 2000, p. 614; Cass., 30 agosto 1995, n. 9205, in Giur. it., n. 1, 1996, I, c. 466, nonché in Danno e resp., 1996, p. 225. In dottrina, nello stesso senso, C. MARTINO, Osservazioni sulla responsabilità civile nelle gare sciistiche, in Atti del Convegno di Cortina “Problemi giuridici di infortunistica sciatoria”, 2-5 luglio 1975, Milano, 1976, p. 201, per il quale, anche nell’attività sciistica, «occorre distinguere la pericolosità considerata oggettivamente dalla pericolosità nella condotta dell’uomo, la quale può far diventare pericolosa qualunque attività, anche la più innocua, per specifiche negligenze, imprudenze, violazioni di norme regolamentari, ecc.»; per la contraria impostazione secondo cui «l’attività sciatoria, caratterizzata da una connotazione ludica che ne rappresenta l’imprescindibile ragion d’essere, non configura attività pericolosa in sé, poiché la velocità ed il pericolo non sono immanenti all’attività svolta, ma dipendono esclusivamente dalle condotte dei praticanti» si veda, E. CASALE, La responsabilità civile in caso di scontro tra sciatori, in U. IZZO-G. PASCUZZI (a cura di), La responsabilità sciistica. Analisi giurisprudenziale e prospettive nella comparazione, Torino, 2006, p. 181 ss.; nonché, R. CAMPIONE, Attività sciistica e responsabilità civile, cit., p. 350. 114 Di particolare importanza è poter riuscire a comprendere effettivamente i confini del rischio consentito, entro il quale i danni provocati ricadono sugli sciatori stessi, ed oltre il quale invece sussiste la responsabilità del gestore. Sul punto si veda, A. TRAINI, Pericoli tipici e atipici, in Sciare, n. 547, dicembre 2001, p. 48, che opera una distinzione tra pericoli tipici ed atipici. 115 M. PITTALIS, Sci agonistico e profili di responsabilità, in M. SESTA-L. VALLE (a cura di), La responsabilità sciistica, Bolzano, 2012, p. 163 ss., spec. p. 187.

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gnificativa gravità, sembrerebbe più incline ad inquadrare lo sci tra le attività di natura pericolosa con conseguente onere a carico dello sciatore che abbia cagionato danno ad altro sciatore, di provare di aver rispettato tutte le misure idonee ad impedirlo, garantendo sia il rispetto di tutte le prescrizioni stabilite dalla legge n. 363/2003, che delle regole e principi generali in tema di diligenza e prudenza. Una linea di mezzo tra le due opposte interpretazioni è stata offerta da altra parte ancora della dottrina 116 che, se pure per l’ipotesi di sci amatoriale, propende in linea di principio per l’eliminazione del concetto di attività pericolosa, «perché l’organizzazione è tale da eliminare in via oggettiva e non solo attraverso speciali misure da provarsi caso per caso l’idea di pericolo», tuttavia non esclude che «in determinati casi concreti per la difficoltà dell’attività possa parlarsi di esercizio di attività pericolosa, sia per gli stessi sciatori che per i terzi, che ancor più devono essere salvaguardati, quando l’attività è svolta da dilettanti». Diverso è, però, l’orientamento che con riferimento allo sci agonistico è sembrato prevalente in dottrina e giurisprudenza, orientate nel senso di riconoscere la pericolosità dello sci agonistico qualificato, recentemente, come «attività per sua natura pericolosa» 117 che, in quanto tale, richiederebbe e giustificherebbe l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 2050 c.c. anche alle attività organizzative di una competizione sciistica.

3. La responsabilità per la gestione delle aree sciabili attrezzate Normativa di riferimento in tema di responsabilità dei gestori delle aree sciabili attrezzate è la già citata legge 24 dicembre 2003, n. 363 recante “Norme in materia di sicurezza nella pratica degli sport invernali da discesa e da fondo” che, oltre a predisporre una disciplina generale in materia, si preoccupa anche di fissare i principi fondamentali in tema di sicurezza delle aree sciabili che, dalla stessa norma, sono inquadrate «nelle superfici innevate, anche artificialmente, aperte al pubblico e comprendenti piste, impianti di risalita e di innevamento». Si tratta di spazi abitualmente riservati alla pratica degli sport sulla neve, quindi lo sci in tutte le sue possibili articolazioni (art. 2, comma 1) 118. L’analisi può

116 G. TAMBURRINO, Applicabilità della responsabilità per l’esercizio di attività pericolose in materia di sinistri sciatori, in Atti del Convegno di Cortina “Problemi giuridici di infortunistica sciatoria”, cit., p. 251. 117 Cass., 18 agosto 2011, n. 17343, in De Jure e massimata in Giust. civ. Mass., n. 7-8, 2011, p. 1172, nonché commentata da M. PITTALIS, Gara di sci e omologazione della pista: responsabilità del Coni?, in Riv. trim. dir. e proc. civ., n. 2, 2013, p. 749 ss. 118 La corretta individuazione delle aree sciabili è compito rimesso alle Regioni. È espressamente previsto che l’individuazione delle aree sciabili attrezzate equivale alla dichiarazione di pubblica

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partire proprio dai primi articoli (artt. 3, 4 e 5 comma 3, 6 e 7) della richiamata legge che individuano, preliminarmente, le regole da osservarsi per la gestione in sicurezza delle aree sciabili, facendo ricadere sui concessionari delle piste di sci, un’articolata e complessa serie di compiti tra cui: l’obbligo di assicurare agli utenti la pratica delle attività sportive in condizioni adeguate, garantendo la messa in sicurezza delle piste; l’obbligo di preservare gli utenti dai pericoli derivanti dai possibili ostacoli presenti lungo le piste attraverso adeguate protezioni e segnalazioni. In un’ottica rimediale, i gestori delle piste sono anche tenuti a garantire agli utenti infortunatisi il trasporto nei più vicini centri di assistenza sanitaria. Ovviamente, a monte, i gestori sono tenuti a predisporre e garantire la conoscibilità agli utenti dei documenti relativi alla classificazione delle piste, alla segnaletica e alle regole di condotta previste dalla stessa legge, garantendo sempre una manutenzione ordinaria e straordinaria delle aree sciabili attrezzate nel rispetto dei requisiti di sicurezza 119 (art. 7, comma 1, legge n. 363/2003). Quello che preme analizzare nella presente sede, più che le regole tecniche di organizzazione delle piste sciabili, è sicuramente l’aspetto nonché la natura della responsabilità dei gestori di tali aree che, ai sensi dell’art. 4, 1 comma della legge n. 363/2003, «risultano civilmente responsabili della regolarità e della sicurezza dell’esercizio delle piste e non possono consentirne l’apertura al pubblico senza avere previamente stipulato un apposito contratto di assicurazione ai fini della responsabilità civile per danni derivabili agli utenti e ai terzi per fatti dovuti a responsabilità del gestore in relazione all’uso di dette aree»; proseguendo, la stessa disposizione, al comma 2, prevede l’applicazione di una sanzione amministrativa in caso di mancata osservanza dell’obbligo ivi stabilito, nonché la possibilità di subordinare il rilascio delle autorizzazioni per la gestione di nuovi impianti alla stipula del predetto contratto di assicurazione. Appare evidente, dunque, come la legge del 2003 sia servita al legislatore come strumento per riconoscere espressamente la possibilità di agire nei confronti del gestore dell’area sciabile a tutela di coloro che abbiano subito un danno in conseguenza della cattiva gestione degli impianti. In verità, tale possibilità era stata già riconosciuutilità, indifferibilità ed urgenza e rappresenta il presupposto per la costituzione coattiva di servitù connesse alla gestione di tali aree, previo pagamento della relativa indennità, secondo quanto stabilito dalle Regioni (art. 2, comma 3). 119 In particolare, l’art. 16, legge, cit., prevede che i mezzi meccanici adibiti al servizio e alla manutenzione delle piste e degli impianti non possono accedervi se non fuori dall’orario di apertura, fatti salvi i casi di necessità ed urgenza e, comunque, con l’utilizzo di appositi congegni di segnalazione luminosa ed acustica. Nelle ipotesi in cui la pista presenti cattive condizioni di fondo, tale dato deve essere segnalato; così come i pericoli relativi alle condizioni dello stato del fondo, devono essere rimossi; le segnalazioni relative allo stato della pista o alla chiusura della stessa vanno poste, in modo ben visibile al pubblico, all’inizio della pista e presso le stazioni di valle degli impianti di trasporto a fune. Viene anche stabilito che, in caso di ripetuta violazione delle disposizioni indicate, l’ente competente o, in via sostitutiva la Regione, può disporre la revoca dell’autorizzazione ad amministrare l’area sciabile.

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ta, in via interpretativa, anche prima dell’avvento della legge del 2003 da parte della dottrina che operava una distinzione tra i momenti della risalita e quello della discesa, ricollegandovi responsabilità diverse. Non a caso, infatti, per i danni subiti a seguito dell’uso degli impianti di risalita, si è prospettata una responsabilità del gestore di natura contrattuale 120, riconducibile allo schema del contratto di trasporto di persone. La prestazione del gestore dell’impianto, infatti, consiste nel mettere a disposizione dell’utente, dietro corrispettivo, un mezzo che da valle gli consente di raggiungere la parte alta della montagna, da dove scendere sugli sci. Inevitabile, a questo punto, appare il richiamo all’art. 1681 c.c. che, nel riconoscere la responsabilità del vettore per i danni occorsi alle persone trasportate, sembra delineare una presunzione di responsabilità a carico del vettore 121 nella parte in cui precisa «il vettore risponde dei sinistri che colpiscano la persona del viaggiatore durante il viaggio, nonché della perdita o dell’avaria delle cose che porta con sé, se non prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno». Di conseguenza, il viaggiatore sarà gravato dall’onere di dimostrare l’avvenuta stipulazione di un contratto di trasporto insieme al necessario collegamento causale tra il sinistro e l’attività del vettore per dare esecuzione al trasporto stesso, e non anche la specifica prova della causa del sinistro 122; l’onere, invece, di provare di aver adottato ogni misura idonea ad evitare il danno verificatosi ricadrà sul vettore che potrà essere considerato assolto dimostrando di aver garantito dei mezzi idonei a salvaguardare l’incolumità dei passeggeri con la normale diligenza 123. Altrettanto riconducibile allo schema del contratto di trasporto di persone è il contratto di risalita a mezzo di seggiovia e la conseguente possibilità da parte dei passeggeri trasportati e rimasti coinvolti in sinistri causalmente collegati al viaggio, di invocare l’art. 1681 c.c. in tema di responsabilità del vettore che potrà liberarsi solo dando la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno 124. Tale ricostruzione è stata confer120 Sulla esistenza di un rapporto di natura contrattuale tra il gestore di impianti di risalita e delle piste da sci ed utente del servizio si veda, G. SILINGARDI-M. RIGUZZI-E. GRAGNOLI, Responsabilità degli operatori turistici, in Riv. giur. circ. trasp., 1988, pp. 78-79. 121 In questo senso, Cass., 23 febbraio 2009, n. 4343, in Arch. giur. circol., 2009, p. 1001; Cass., 19 maggio 2008, n. 12694, in Dir. trasporti, 2009, p. 553; Cass., 15 febbraio 2006, n. 3285, in Dir. trasporti, 2007, p. 507. 122

Cass., 23 febbraio 2009, n. 4343, cit.; Cass., 17 luglio 2003, n. 11194, in Dir. trasporti, 2004, p. 519; Cass., 5 novembre 2001, n. 13635, in Giust. civ. Mass., 2001; Cass., 13 luglio 1999, n. 7423, in Contratti, 2000, p. 243. 123

Nonostante la disposizione richiamata sembri riconoscere una responsabilità del vettore unicamente per i sinistri occorsi durante il viaggio, una lettura più attenta ed elastica impone un riferimento volto a ricomprendere non solo i sinistri intervenuti durante il movimento del mezzo di trasporto, ma anche quelli avvenuti durante le fermate. In questo senso, Cass., 17 luglio 2003, n. 11198, cit. che, a titolo esemplificativo, fa riferimento alla salita e alla discesa del mezzo o al carico dei bagagli. 124

Cass., 23 febbraio 1998, n. 1936, in Contratti, 1998, p. 484, con nota di MASALA, che ha

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mata anche da recente ed ormai consolidata giurisprudenza sia di legittimità che di merito, secondo la quale è pacificamente ritenuto applicabile al contratto di risalita mediante seggiovia la disciplina relativa al contratto di trasporto di persone, atteso che la particolare natura del mezzo meccanico esclude una qualsiasi collaborazione dell’utente, se non salendo e scendendo dal seggiolino, per effettuare il trasporto 125. Diversa è, invece, la soluzione a cui si arriva nel caso in cui il mezzo meccanico sia quello della sciovia 126 che, a differenza del contratto di trasporto di persone, richiede all’utente una significativa attività di cooperazione ai fini dello stesso trasporto che, materialmente, consiste nell’aggancio ad una fune di traino e trascinamento dello sciatore sulla pista, procedendo in salita in direzione della vetta. In merito alla natura del c.d. contratto di skilift solo la Cassazione ha prospettato un orientamento uniforme a fronte delle diverse ricostruzioni fornite dalla giurisprudenza di merito che, in un primo momento, pur riconoscendo il ruolo attribuito alla cooperazione dello sciatore, non ha ritenuto opportuno qualificare tale contratto come di trasporto ai sensi dell’art. 1681 c.c. 127. Solo qualche anno dopo, sempre la giurisprudenza di merito 128 ha invertito l’orientamento manifestato guardando al rapporto che intercorre tra l’utente e il proprietario della sciovia, come un contratto di trasporto oneroso riconducibile agli schemi di cui all’art. 1681 c.c. A fare luce nel contesto sicuramente non omogeneo di ricostruzioni, è stata la Suprema Corte di Cassazione che, rifacendosi proprio all’idea più comunemente diffusa, ha affermato la natura atipica del contratto di sciovia, in virtù del fatto che nello stesso mancherebbe il completo affidamento dell’utente al mezzo di trasporto e a chi lo manovra 129. Tale impostazione è stata presa da larga dottrina come punto di partenza per arrivare a qualificare il contratto di risalita a mezzo di sciovia come «un rapporto di scambio a prestazioni corrispettive (do ut facias) che trova collocazione nell’ampia categoria dei contratti cosiddetti innominati e che solo in certi limiti è ravvicinaespressamente escluso la responsabilità del gestore per l’infortunio occorso ad una signora che, all’atto della salita sulla seggiovia, era stata colpita ad una gamba dal seggiolino. Determinante, nel caso di specie, è stato il fatto che l’impianto fosse in perfetta regola ed il relativo Regolamento di esercizio non imponesse agli addetti di aiutare gli utenti a salire, ma semplicemente ad intervenire su loro richiesta per agevolarne la salita, cosa che la danneggiata non aveva fatto. 125

Così, Trib. Massa, 25 febbraio 1984, in Arch. giur. circ., 1984, p. 442.

126

Il d.m. 15 marzo 1982 recante “Norme Tecniche per la costruzione e l’esercizio delle sciovie in servizio pubblico”, all’art. 1.1.1, definisce la sciovia come «una funicolare terrestre per il traino di sciatori su apposita pista mediante attacchi collegati, in modo permanente o temporaneo, ad una fune traente, tesa tra le stazioni estreme a conveniente altezza dal suolo ed eventualmente sostenuta in punti intermedi». 127

Così, Trib. Como, 31 maggio 1972, in Dir. prat. assic., 1972, p. 776.

128

Trib. Sondrio, 11 dicembre 1978, in Resp. civ. prev., 1979, p. 577.

129

Cass., 10 maggio 2000, n. 5953, in Dir. econ. ass., 2000, p. 1233; Cass., 18 marzo 2003, n. 3980, in Dir. trasporti, 2005, p. 233.

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bile al contratto di trasporto la cui disciplina si presenta, per il regime delle presunzioni, assai più rigorosa ed onerosa per il vettore» 130. Sembra, a questo punto, potersi dire sopito anche quel dibattito tra coloro che riconoscevano una diversa natura – e conseguente diversa responsabilità ed onere della prova – al contratto di salita e di riscesa della pista sciabile grazie anche alla nuova figura dello skipass; più precisamente, quando lo sciatore acquista lo skipass, stipula con il gestore della stazione sciistica un contratto relativo a tutti i servizi di cui può usufruire durante la validità del pass 131, quindi, tutte le fasi che costituiscono il rapporto tra il gestore e l’utente degli impianti di risalita, dei tratti di raccordo tra impianti e piste delle aree di discesa, possono essere ricondotte sotto un unico contratto, c.d. di skipass con conseguente applicabilità dei principi generali di cui agli artt. 1218 c.c. e 1176 c.c.

4. La responsabilità del gestore di altri impianti sportivi La particolare e complessa disciplina prevista per le aree sciistiche attrezzate, ne ha imposto una preliminare trattazione rispetto al più ampio e, per la verità, prodromico tema legato alla natura della responsabilità dei gestori degli impianti sportivi che ha ottenuto, nel corso del tempo, una diversa ricostruzione da parte di dottrina e giurisprudenza. Il gestore degli impianti sportivi è, generalmente, quel soggetto che ha il compito di garantire la sicurezza e l’incolumità degli impianti stessi e sul quale ricade la responsabilità azionabile da parte dei terzi danneggiati, una responsabilità che può giustificarsi o alla luce del dettato dell’art. 2043 c.c. o dell’art. 2050 c.c. Non sono, tuttavia, mancati casi in cui i gestori sono stati riconosciuti responsabili ai sensi dell’art. 2051 c.c. relativo alla responsabilità per cose in custodia e tale per cui, in capo al gestore, graverebbero tutti gli obblighi di controllo e custodia della res gestita, con la conseguenza che l’accusa di responsabilità potrà superarsi solo attraverso la prova del caso fortuito 132. Si è, poi, molto discusso in ordine alla possibilità di guardare alla teoria del rischio d’impresa quale strumento per giustificare l’imputazione della respon130

In questo senso, U. GIUDICEANDREA, La responsabilità civile e penale del gestore degli impianti di risalita, in Riv. dir. Sportivo, 1982, p. 302. Diversamente, altra parte della dottrina ha ritenuto di ricondurre il contratto di sciovia nell’ambito del contratto di trasporto oneroso di persone, con conseguente possibilità, per l’utente trasportato che abbia subito un sinistro durante il viaggio, di invocare nei confronti del vettore/gestore la presunzione di responsabilità di cui all’art. 1681 c.c. 131 La risalita su un impianto, sia esso skilift o seggiovia, così come la discesa su pista, non sono altro che attività comprese nel negozio conclusosi con l’acquisto dello skipass; così, M. BONAAMBROSIO, Risalita su sciovia e responsabilità del gestore dello skilift: contratto di trasporto o contratto atipico?, in Danno e resp., 2000, p. 291. 132

Cass., 10 febbraio 2003, in Foro it., 2003, I, p. 1439.

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sabilità in capo al gestore di impianti 133. Secondo questa teoria, che vuole che il sistema della responsabilità civile sia espressione di una regolamentazione della vita dei consociati, i soggetti responsabili per i danni causati dalla loro attività dovrebbero individuarsi a priori garantendo, in tal modo, una effettiva protezione dei beni esposti al pericolo 134. In particolare è stato sostenuto che, di là dall’ipotizzare una autonoma collocazione sistematica della responsabilità sportiva 135, il profilo in questione deve essere valutato case by case 136, a seconda dello sport praticato e degli elementi di fatto emergenti dalle condotte poste in essere. Sia la dottrina che la giurisprudenza hanno distinto una responsabilità degli atleti per i danni cagionati ad altri atleti o a terzi durante una gara, da una responsabilità degli “altri soggetti” dello sport per i danni agli atleti o a terzi estranei alla competizione; in particolare, per il primo profilo, dopo un vivace dibattito in ordine alle possibili cause di esclusione della responsabilità rinvenibili ora nella scriminante dell’esercizio di un diritto 137, ora nel paradigma del rischio accettato o

133 In questo senso, App. Torino, 5 luglio 1997, in Riv. circ. e trasp., 1998, p. 500, e Trib. Torino, 8 luglio 1999, in Danno e resp., 2000, p. 291; Cass., 9 aprile 1999, in Giust. civ. Mass., 1999, p. 794. 134 In quest’ottica, la responsabilità dovrebbe essere imputata al soggetto più idoneo a scegliere tra il costo del danno ed i costi necessari a prevenirlo. Si tratta della c.d. cost-benefit analysis elaborata dalla dottrina nordamericana, per la quale il danneggiante non risulta in colpa se dimostra di aver investito in prevenzione risorse maggiori o uguali al valore del rischio di danno da evitare. Sul tema si veda, F. DI CIOMMO, Evoluzione tecnologica e regole di responsabilità civile, Napoli, 2003. 135 Sostiene tale tesi A. SCIALOJA, voce Responsabilità sportiva, cit. secondo cui «l’opportunità di un’autonoma considerazione, nel campo del diritto, del concetto di responsabilità sportiva va forse ricercata ponendo l’accento non tanto sul termine “responsabilità”, le cui specifiche qualificazioni, per forza di cose, non possono divergere da quelle codificate se non nell’ambito importante, ma sostanzialmente circoscritto, di un’attività di interpretazione, ma piuttosto sul concetto di “attività sportiva” e sui diversi significati che può assumere questa espressione». L’Autore ritiene che i fattori che connoterebbero la responsabilità sportiva siano «in primo luogo i principi informatori dell’ordinamento sportivo, ai quali vanno ricondotte tutte le attività legate al mondo dello sport e nei quali queste ultime trovano la loro ragion d’essere: l’agonismo come estrinsecazione dell’attività, la lealtà competitiva, la probità, la rettitudine, il disinteresse degli atleti, l’assenza di stimoli concorrenziali nello svolgimento dell’attività – la cosiddetta “manifestazione disinteressata” – il principio della responsabilità oggettiva. Questi fondamenti, ai quali si conforma la responsabilità sportiva in senso stretto, acquistano una precisa valenza anche in tema di responsabilità sportiva in senso lato». In chiave critica, nel senso di negare autonomia alla responsabilità sportiva, G. ALPA, La responsabilità civile in generale, cit., p. 471 ss. 136 L’esigenza di un approccio casistico nella valutazione della responsabilità sportiva è sostenuta da S. SICA, Lesioni cagionate in attività sportive, cit., p. 743. 137 La prospettiva di valutazione indicata è stata sostenuta, tra gli altri da V. CAVALLO, L’esercizio del diritto nella teoria generale del reato, cit., passim; R. PANNAIN, Violazione delle regole del giuoco e delitto sportivo, cit., p. 670; I. DE SANCTIS, Il problema della liceità penale della vio-

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del consenso dell’avente diritto 138, si era giunti a ritenere non punibili le condotte produttive di danno allorché le stesse fossero commesse nell’esercizio dell’attività sportiva; la giurisprudenza, con un vero e proprio revirement 139, conscia probabilmente che l’esercizio dell’attività sportiva poteva divenire una sorta di “licence to kill” 140, ha trovato un punto di equilibrio stabilendo che la scriminante non codificata del rischio sportivo non opera automaticamente quando venga praticata l’attività sportiva ma subisce una mitigazione nel momento in cui quest’ultima diventa la mera occasione per porre in essere un’attività illecita, generatrice di danno. Se questo è “lo stato dell’arte” in ordine ai profili di relenza sportiva, cit., p. 90; nonché, C. CAIANIELLO, L’attività sportiva nel diritto penale, cit., p. 273 e P. NUVOLONE, I limiti taciti della norma penale, cit., p. 181. Per completezza espositiva, interessante appare l’argomentazione sostenuta da R. BETTIOL, Diritto penale, cit., p. 349 per il quale «quando si abbia a soddisfare un dato interesse che si ritiene proprio della collettività si può anche assumere il rischio della lesione di un interesse individuale all’integrità fisica. È la legge stessa ad assumere il rischio attraverso la disciplina dell’attività sportiva». In giurisprudenza si rinviene una isolata pronuncia favorevole a tale tesi del Trib. Bari, 22 maggio 1963, in Arch. pen., 1965, II, p. 71. La teoria dell’esercizio del diritto è stata criticata da V. FRATTAROLO, La responsabilità civile per le attività sportive, cit., p. 34 perché, secondo l’Autore, la scriminante opererebbe solo per l’attività sportiva svolta in competizioni ufficiali organizzate dal CONI o, per esso, dalle Federazioni sportive, mentre ne resterebbero escluse le competizioni libere. 138 Su tale specifico punto si veda T. DELOGU, La teoria del delitto sportivo, cit., p. 1297 nonché F. CHIAROTTI, La responsabilità penale nell’esercizio dello sport, cit., p. 237 e G. MARINI, Violenza sportiva, cit., p. 982 nonché R. RAMPIONI, Sul c.d. “delitto sportivo”, cit., p. 660. In giurisprudenza, seppur con alcune sfumature, ex multiis Cass. pen., sez. V., 30 aprile 1992, in Giust. pen., 1993, II, p. 279 secondo cui «in ipotesi di comportamento produttivo di lesioni tenuto da un partecipante ad una gara sportiva nel corso di un’azione di gioco, opera, quale causa di giustificazione atta ad elidere l’antigiuridicità della condotta, il consenso della parte lesa. Tale consenso crea un’area di “rischio consentito”, in stretta connessione con l’esercizio della attività sportiva, non delimitata dall’assoluto rispetto del regolamento sportivo, ma operante in un più ampio ambito del rischio connesso ad azioni di gioco che, pur contrarie alle regole, possano ritenersi normale comportamento dei contendenti; deve quindi trattarsi di una ipotesi nella quale sia esclusa la specifica finalità di ledere, e non sia coscientemente posta a repentaglio l’incolumità fisica dell’avversario». 139

Cfr. Cass., 21 febbraio 2000, n. 1951, in Corr. giur., 2000, p. 740 secondo cui «durante una competizione sportiva, la condotta lesiva tenuta da un giocatore ai danni dell’avversario in violazione delle specifiche regole del gioco, disattendendo quei doveri di lealtà verso gli altri competitori che dovrebbero essere la caratteristica di qualsiasi sportivo, non rientra nell’ambito applicativo della causa di giustificazione atipica o non codificata dell’esercizio della cd. violenza sportiva, ed è penalmente perseguibile a titolo di colpa grave o dolo a seconda che il fatto si verifichi nel corso dei una azione di gioco per finalità attinenti alla competizione e la violazione delle regole sia dovuta all’ansia di risultato ovvero che la gara sia soltanto l’occasione dell’azione lesiva o quest’ultima sia immediatamente diretta ad intimorire l’avversario ed a dissuaderlo dall’opporre qualsiasi contrasto oppure a punirlo per un fallo involontario subito». 140 L’espressione è, sia consentito, di A. MAIETTA, Lesioni cagionate durante una gara di calcio: un “vulnus” all’autonomia dell’ordinamento sportivo, in Nuova giur. civ. comm., n. 5, 2004.

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sponsabilità in capo agli atleti, diversa appare la situazione che, nell’ambito delle considerazioni inerenti alla vicenda in esame, riguarda la responsabilità degli “altri soggetti” dello sport e, in particolare, i gestori degli impianti sportivi e delle società di calcio.

4.1. Il caso Giampà e la responsabilità delle società sportive Utile a tal fine, può essere il richiamo ad un caso concreto analizzato da dottrina e giurisprudenza abbastanza recenti. Si tratta della vicenda che ha visto coinvolto il calciatore del Messina, Domenico Giampà, il quale nel corso di una partita di calcio, Messina-Lecce, è andato a scontrarsi con un cartellone pubblicitario posizionato a bordo campo riportando lesioni personali alla coscia sinistra con la recisione del muscolo mediale 141. A seguito dell’incidente, il calciatore ha avuto 147 punti di sutura che lo hanno tenuto lontano dai campi di gioco per molto tempo. La vicenda ha, da subito, suscitato numerose polemiche in ordine alla responsabilità per l’accaduto ed in particolare in ordine alla sicurezza degli stadi di calcio, nonché alla sorveglianza che compete agli “addetti ai lavori”. Un tale evento si poneva nel contesto dell’ancora acceso dibattito relativo alla corretta qualificazione della responsabilità civile nello sport, imponendo una più profonda analisi sul problema della responsabilità civile delle società sportive da vedere sotto un duplice angolo visuale: un primo aspetto legato al principio generale del naeminem laedere di cui all’art. 2043 c.c., un secondo all’attenzione dell’interprete alle c.d. responsabilità speciali 142 ed in particolare alle previsioni di cui agli art. 2049 143 e 141 Sia consentito il rinvio ad A. MAIETTA, Cartelli pubblicitari nello stadio e responsabilità delle società sportive: il caso Giampà, in Danno e resp., n. 3, 2005. 142 In termini generali sulle c.d. responsabilità speciali si rinvia, per tutti, a S. SICA, La responsabilità per danno da circolazione, in AA.VV., Le responsabilità “speciali”: modelli italiani e stranieri, Napoli, 1994, p. 183 ss.; ID., La responsabilità civile tra struttura, funzione e “valori”, in Resp. civ. prev., 1994, p. 543 ss.; G. ALPA-M. BESSONE-V. ZENO ZENCOVICH, I regimi speciali di responsabilità, in P. RESCIGNO, Trattato di diritto privato, Torino, 1999, p. 336 ss. 143

In tal senso, Cass., 8 gennaio 2003, n. 85, in Resp. civ. prev., 2003, p. 765 per la quale «nell’esercizio di attività sportiva a livello professionistico, le società sportive (o la Federazione, con riferimento a sinistri avvenuti nello svolgimento di competizioni delle squadre nazionali) sono tenute a tutelare la salute degli atleti – nel caso di specie, calciatore – sia attraverso la prevenzione degli eventi pregiudizievoli della loro integrità psicofisica, sia attraverso la cura degli infortuni e delle malattie che possono trovare causa nei rilevanti sforzi caratterizzanti la pratica professionale di uno sport, potendo essere chiamate a rispondere in base al disposto degli art. 1218 e 2049 c.c. dell’operato dei propri medici sportivi e del personale comunque preposto a tutelare la salute degli atleti ed essendo comunque tenute, come datore di lavoro del calciatore, ad adottare tutte le cautele necessarie, secondo le norme tecniche e di esperienza, a tutelare l’integrità fisica del lavoratore, tenuto conto in particolare del fatto che le cautele a tutela della salute cui è tenuto il datore di lavoro devono parametrarsi alla specifica attività svolta dallo sportivo professionista ed alla sua particolare esposizione al rischio di infortuni».

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2050 c.c. 144. Le ragioni che hanno spinto la dottrina e la giurisprudenza a richiamare i canoni dell’“oggettività” riposano, da un lato, nella obiettiva difficoltà di individuazione del responsabile di un comportamento cagionevole di danno 145, in occasione di un evento sportivo (si pensi al lancio di oggetti in campo dagli spalti), dall’altro in un principio ispirato al favor victimae e tendente ad una più veloce ed efficace azione risarcitoria. Si è, altresì, osservato che la frequenza con la quale si verificano taluni eventi, non può non qualificare come pericolosa l’attività di organizzazione di una competizione sportiva, di guisa che pertinente è il richiamo alla norma dell’art. 2050 c.c. 146. In verità, le motivazioni del ricorso ad un inquadramento di tipo oggettivo in capo alle società di calcio andrebbero viste anche in una prospettiva di analisi economica del diritto 147 o, se si preferisce, avendo riguardo alla dinamica dei costi e benefici che derivano dal mondo dello sport ed in particolare da quello del calcio. Quest’ultima considerazione, invero, sembra fornire la chiave di accesso onde correttamente ascrivere la responsabilità per i danni patiti dal calciatore Domenico Giampà, in seguito alla collisione con il tabellone pubblicitario “rotativo” posto a bordo campo. Il calciatore Giampà, è finito in un cartellone pubblicitario della tipologia “rotativa” ovvero quel particolare cartellone che, mediante un sistema di rotazione delle alette, con una determinata scansione temporale, cambia il messaggio pubblicitario visualizzato. Il Regolamento della Federazione Italiana Gioco Calcio 148 144 Cfr. M. BUONCRISTIANO, La responsabilità oggettiva delle società sportive: problemi, limiti e prospettive, in Giur. it., 1994, IV, p. 159 ss.; G. DE MARZO, Responsabilità civile dell’organizzatore di competizioni sportive e art. 205 c.c., in Riv. dir. Sportivo, 1992, p. 268 ss.; ID., Organizzazione di partite di calcio e attività pericolosa, in questa Rivista, 1999, pp. 234-238; P. DINI, L’organizzatore e le competizioni: limiti della responsabilità, in Riv. dir. Sportivo, 1971, pp. 416-430; G. GIANNINI, La responsabilità civile degli organizzatori di manifestazioni sportive, in Riv. dir. Sportivo, 1986, p. 277 ss.; R. SCOGNAMIGLIO, In tema di responsabilità della società sportiva ex art. 2049 c.c. per illecito del calciatore, in Dir. e giur., 1963, pp. 81-89. 145

In tal senso, R. FRAU, La r.c. sportiva, cit., p. 359, il quale definisce “acrobatica” la possibilità di una prova liberatoria a carico delle società sportive. 146

Cfr. B. BERTINI, La responsabilità sportiva, cit., p. 120 ss.

147

L’analisi economica del diritto si scinde, essenzialmente, in due principali correnti di pensiero: da un lato G. CALABRESI, The Costs of Accident, New York-London, 1970, p. 68 ss. che incentra la propria analisi sui criteri di general e specific deterrente, dall’altro R. POSNER, A Theory of Neglicence, in 1 J. Leg. Stud., 1979, p. 29 ss., che, al contrario, ritiene che l’efficienza allocativa debba essere raggiunta seguendo le regole di mercato. Una critica a tale orientamento è fatta da G. ALPA, Colpa e responsabilità nella elaborazione di Richard Posner, in F. MACIOCE (a cura di), La responsabilità civile nei sistemi di common law, Padova, 1989, p. 377 ss. 148

Sulla natura giuridica delle Federazioni sportive e sul loro “funzionamento”, si veda diffusamente A. QUARANTA, Sulla natura giuridica delle Federazioni sportive nazionali, cit., pp. 173184; nonché R. CAPRIOLI, Le Federazioni sportive tra diritto pubblico e privato, cit., p. 1 ss. e L. TRIVELLATO, Considerazioni sulla natura giuridica delle federazioni sportive, cit., p. 141 ss.

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prevede che tali cartelli debbano essere collocati a bordo campo ad una distanza di due metri e cinquanta centimetri dalla linea di demarcazione del rettangolo di gioco; purtuttavia, l’adozione della richiamata prescrizione endoassociativa, non può derogare a principi generali di cautela e di salvaguardia per l’incolumità degli atleti 149, ovvero non basta rispettare le distanze stabilite per ritenere di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, tant’è che, ben si può sostenere che se le misure fossero state idonee, il danno non si sarebbe prodotto. Id est, non può non riconoscersi una responsabilità della società sportiva per il danno subito dal calciatore per omessa vigilanza sul corretto posizionamento del supporto pubblicitario nonché per omessa adozione delle misure di sicurezza necessarie a rendere l’insidia del ferro sporgente del cartello pubblicitario, visibile e prevedibile. Infatti, la vicenda che ci occupa non può essere ricondotta nella scriminante del rischio accettato atteso che, pur con le osservazioni evidenziate dalla giurisprudenza, il calciatore può essere consapevole e, quindi, accettare, la possibilità di uno scontro durante la gara, ma con altri atleti e non già con “eventi esterni”, ai quali non può riconoscersi il beneficio della prevedibilità, atteso che l’attività collaterale dello sfruttamento dell’evento sportivo come veicolo del messaggio pubblicitario, non può ricondursi all’esercizio dell’attività sportiva, deriSul dibattito esistente in ordine alla natura pubblicistica o privatistica delle Federazioni sportive si veda esaustivamente L. DI NELLA, Il fenomeno sportivo nell’ordinamento giuridico, cit., p. 207 ss. con l’ampia nota giurisprudenziale ivi riportata ed alla quale, pertanto, si fa espresso rinvio. 149

In tal senso si è espressa la giurisprudenza di legittimità per la quale «i regolamenti delle federazioni sportive nazionali, nel disciplinare i rapporti negoziali tra le società sportive e tra le stesse società e gli sportivi professionisti, si configurano come atti di autonomia privata perché sia le società che gli sportivi, con l’aderire alle federazioni, manifestano la volontà di sottostare per il futuro alle disposizioni federali che disciplinano i contratti posti in essere nell’ambito dell’organizzazione sociale». Cfr. Cass., 5 aprile 1993, n. 4063, in Foro it., 1994, I, p. 136 nota G.VIDIRI; nonché in Riv. dir. Sportivo, 1993, p. 493. Tuttavia, pur riconoscendo la potestà di autonormazione, la giurisprudenza ne ha circoscritto la portata alla sola regolamentazione del settore sportivo restando devoluti ad una riserva di legge i rapporti intersoggettivi e le situazioni giuridiche attive dei privati; infatti, per Cass., 11 febbraio 1978, n. 625, in Foro it., 1978, I, p. 862 «l’attribuzione di potestà proprie dell’ordinamento giuridico statale all’ordinamento giuridico sportivo è limitata alla funzione amministrativa nel settore sportivo: è attribuita la potestà amministrativa, cioè il potere di emanare atti concreti, indirizzati a soggetti determinati, per il conseguimento di fini specifici rientranti nell’interesse generale sportivo; ed è attribuita la potestà regolamentare, cioè il potere di emanare norme attinenti all’ordinamento ed al funzionamento delle strutture (uffici) cui è attribuito l’esercizio delle potestà amministrative (regolamenti di organizzazione) ed attinenti alla regolamentazione dell’esercizio e dell’incidenza della potestà amministrativa nonché alla regolamentazione dello svolgimento delle attività sportive (regole indipendenti). Non è attribuita, invece, all’ordinamento giuridico sportivo la potestà normativa che è al di fuori della potestà regolamentare: la potestà che, nell’ordinamento giuridico statale, è attribuita agli organi del potere legislativo e solo per delega od eccezionalmente ad organi del potere esecutivo. In particolare, non è attribuita all’ordinamento giuridico sportivo la potestà normativa attinente alla disciplina dei rapporti intersoggettivi privati, specificamente ... la potestà normativa attinente ai rapporti negoziali».

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vando da questa gli effetti scriminanti in punto di responsabilità, ma deve soggiacere alle regole generali dell’ordinamento giuridico. Apertis verbis, non va condivisa l’opinione, pur attenta, di chi 150 ha sostenuto che il rispetto delle norme regolamentari escluda la responsabilità dell’organizzatore della gara per i danni subiti dall’atleta e tanto per una duplice motivazione: in primo luogo, la stessa dottrina nonché la giurisprudenza dominante, hanno sottolineato l’ininfluenza del rispetto dei Regolamenti sportivi in punto di giudizio di responsabilità per i danni subiti da terzi estranei alla gara (spettatori, addetti al campo, fotografi, e così via) 151, ragion per cui, il distinguo “soggettivo” effettuato sulla base della qualificazione formale del danneggiato (atleta o non atleta) appare una palese violazione del principio di uguaglianza sancito dalla Carta Costituzionale; secondariamente, il pedissequo rispetto di un Regolamento Federale può essere considerato idonea scriminante allorché lo stesso circoscriva l’ambito di riferimento alla pratica dello sport, ovvero prenda in esame le probabilità di eventi il cui verificarsi abbia un legame genetico e funzionale con l’esercizio dello sport. Più chiaramente, il Regolamento sportivo è efficace e vincolante per l’attività sportiva, ma non può regolamentare profili connessi a tale attività se, come nella vicenda in esame, il danno è cagionato da circostanze che dallo sport traggono soltanto l’occasione per eseguire un contratto avente un oggetto ed una causa totalmente differenti. Va, pertanto, condivisa l’opinione di chi ha ravvisato in capo alla società sportiva una responsabilità di tipo oggettivo riconducibile al dettato dell’art. 2050 c.c., essendo l’attività esercitata, annoverabile tra quelle connotate da “intrinseca” pericolosità 152. Se, però, ragionassimo in un ambito molto più circoscritto, ovvero esattamente quello nel quale si inserisce il caso Giampà, potrebbero esservi ulteriori spunti di riflessione in punto di responsabilità; ad esempio, non appare peregrino poter invocare l’art. 2051 c.c. per responsabilità da cose in custodia atteso che, il cartello pubblicitario, rimanendo collocato all’interno dello stadio di calcio, è soggetto al continuo monitoraggio del soggetto-custode, sul quale, evidentemente, ricadono gli obblighi di vigilanza sulla sua integrità o comunque non alterazione o rimozione da parte di terzi. Nell’esaminare la casistica giurisprudenziale, si è avuto modo di verificare come le Corti abbiano stabilito che la fonte della responsabilità da cose in custodia è data dal rischio che grava sul custode per i danni prodotti dalla cosa che non dipendano da caso fortuito 153;

150

Cfr. G. STIPO, La responsabilità civile nell’esercizio dello sport, cit., p. 42.

151

Cass., 16 gennaio 1985, n. 97, in Giur. it., 1985, p. 1230; Trib. Rovereto, 5 febbraio 1989, in Riv. dir. Sportivo, 1990, p. 502. 152

In tal senso, Trib. Ascoli Piceno, 13 maggio 1989, in Riv. dir. Sportivo, 1989, p. 496 nonché, Trib. Milano, 21 settembre 1998, in questa Rivista, 1999, p. 234; contra App. Milano, 30 marzo 1990, in Riv. dir. Sportivo, 1990, p. 495. 153

Ex multis, Cass., 15 marzo 2004, n. 5236, in Giust. civ. Mass., fasc. 3, 2004, secondo cui «in

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orbene, nella fattispecie in esame, non esiste un fattore esterno od un fatto del terzo tali da interrompere il collegamento tra la cosa ed il custode, per cui sicuramente è ipotizzabile una ulteriore ipotesi di responsabilità a carico della società organizzatrice della gara (il Messina, nel caso in esame) ex art. 2051 c.c. 154. La vicenda oggetto d’indagine si segnala per un aspetto di novità, stante l’assenza di precedenti in materia. La stessa, però, condivide con altre fattispecie, il difficile inquadramento, nella sistematica ordinamentale, della responsabilità sportiva, intesa nella sua duplice accezione: verso gli atleti e i terzi e tra atleti. Il caso Giampà, fornisce all’interprete la possibilità di rimarcare il mutamento socio economico avuto dallo sport: da momento di promozione e sviluppo della persona a vero e proprio business; tale cambiamento, di là dai profili sociologici, pur rilevanti, impone al giurista di ripensare alle categorie giuridiche esistenti in chiave differente, di analisi economica del diritto, laddove il rapporto costs and benefits consente il recupero della responsabilità civile in chiave oggettiva, nel settore in esame, proprio per la posizione di favore assunta dalle società sportive che fanno da volano ad una serie infinita di collegamenti e rapporti negoziali. Come allora non plaudire alla soluzione giurisprudenziale della qualificazione dell’organizzazione di un’attività sportiva come attività pericolosa allorché derivino da questa danni agli atleti o a terzi? In una simile domanda, vi è più di una affermazione finale, in un settore nel quale, probabilmente, soluzioni “ultime” non saranno mai agevolmente rinvenute 155. Le osservazioni sin qui svolte, tendenti ad ascrivere la responsabilità dell’evento dannoso alla società sportiva organizzatrice della gara, secondo gli schemi suggeriti (artt. 2043, 2050, 2051 c.c.), potrebbero trovare una mitigazione o, rectius una graduazione, se si pone attenzione ad altre circostanze; in particolare, nel caso che ci occupa, esiste antema di responsabilità civile per i danni cagionati da cose in custodia, la fattispecie di cui all’art. 2051 c.c. individua un’ipotesi di responsabilità oggettiva e non una presunzione di colpa, essendo sufficiente per l’applicazione della stessa la sussistenza del rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha dato luogo all’evento lesivo. Pertanto non rileva in sé la violazione dell’obbligo di custodire la cosa da parte del custode, la cui responsabilità è esclusa solo dal caso fortuito, fattore che attiene non ad un comportamento del responsabile, ma al profilo causale dell’evento, riconducibile in tal caso non alla cosa che ne è fonte immediata ma ad un elemento esterno. Ne consegue che il vizio di costruzione della cosa in custodia, anche se ascrivibile al terzo costruttore, non esclude la responsabilità del custode nei confronti del terzo danneggiato, non costituendo caso fortuito, che interrompe il nesso eziologico, salva l’eventuale corresponsabilità del costruttore nei confronti del danneggiato e salva l’eventuale azione di rivalsa del danneggiante». 154 In senso contrario alla prospettata impostazione, ma con riguardo al danno riportato da uno spettatore, cfr. Trib. Roma, 5 febbraio 1992, in Riv. dir. Sportivo, 1992, p. 90. 155 L’espressione è mutuata, sia consentito, da A. MAIETTA-S. SICA, Profili di responsabilità civile nelle attività sportive, in AA.VV., Lo sport e il diritto, a cura di M. Colucci, Napoli, 2004, p. 158.

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che un altro soggetto sul quale eventualmente dirigere un giudizio di responsabilità, se non in via esclusiva, quanto meno concorrente: il produttore del cartello pubblicitario. Per quanto riguarda il produttore del cartello (od anche il fabbricante), giova precisare che la normativa vigente nel nostro ordinamento, sulla responsabilità del produttore nonché sulla sicurezza del prodotto, è tutt’altro che carente. In particolare, la normativa sulla sicurezza dei prodotti 156 stabilisce che un prodotto è sicuro allorché «in condizioni di uso normale o ragionevolmente prevedibile, compresa la durata, non presenta alcun rischio oppure presenta unicamente rischi minimi compatibili con l’impiego del prodotto o considerati accettabili nell’osservanza di un livello elevato di tutela della salute e della sicurezza delle persone, in funzione, in particolare, dei seguenti elementi: caratteristiche del prodotto, in particolare composizione, imballaggio, modalità di assemblaggio e di manutenzione; ... (omissis)», affermando, in tal modo, un principio generale di “elevata tutela” per la sicurezza delle persone con riferimento a vari aspetti, tra i quali la “manutenzione”. La norma, intrecciata con quella sulla responsabilità del produttore 157 che fornisce la nozione di prodotto difettoso ovvero quel prodotto che è tale «quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze, tra cui: a) il modo in cui il prodotto è stato messo in circolazione, la sua presentazione, le sue caratteristiche palesi, le istruzioni e le avvertenze fornite; b) l’uso al quale il prodotto può essere ragionevolmente destinato e i comportamenti che, in relazione ad esso, si possono ragionevolmente 156 Cfr. G. GHIDINI, Responsabilità per danno da prodotti: quando un prodotto può dirsi “difettoso”, in Giur. comm., 1992, I, p. 437; F. CAFAGGI, La nozione di difetto ed il ruolo dell’informazione. Per l’adozione di un modello dinamico-relazionale di difetto in una prospettiva di riforma, in Riv. crit. dir. priv., 1995, II, p. 447; A. CANTÙ, Il d.lg. 17 marzo 1995 n. 115 sulla sicurezza generale dei prodotti, in Resp. civ. e prev., 1996, I, p. 799; A. CARUSO, D.lg. n. 115 del 1995: i nuovi obblighi di sicurezza a carico del produttore, in Danno e resp., 1997, p. 428; M. CONDINANZI, L’attuazione della direttiva sulla sicurezza generale dei prodotti, in Contratto impr./Europa, 1996, p. 941. 157 Sul tema si vedano ALPA-BESSONE, La responsabilità del produttore, a cura di F. TORRIELLO, Milano, 1999, passim; G. PONZANELLI-M. OWEN, La responsabilità del produttore negli Stati Uniti d’America, in Danno e resp., 1999, p. 1065; U. CARNEVALI, Responsabilità del produttore, in Enc. dir., Milano, 1998, p. 936; M. FRANZONI, Dieci anni di responsabilità del produttore, in Danno e resp., 1998, p. 823; A. STOPPA, Responsabilità del produttore, in Dig. civ., vol. XVII, Torino, 1998, p. 119; F. CAFAGGI, La responsabilità dell’impresa per prodotti difettosi, in N. LIPARI (a cura di), Diritto Privato europeo, Padova, 1997, pp. 996-1031; G. PONZANELLI, Regole economiche e principi giuridici a confronto: il caso della responsabilità del produttore e la tutela dei consumatori, in Riv. crit. dir. priv., 1992, p. 564; ID., Responsabilità del produttore, in Riv. dir. civ., 1990, II, p. 529; ID., Responsabilità del produttore, in Riv. dir. civ., 1995, II, p. 215; ID., Responsabilità del produttore, sintesi di informazione, in Riv. dir. civ., 2000, II, p. 913 ss.; C. SCOGNAMIGLIO, Clausole generali e linguaggio del legislatore: lo standard della ragionevolezza nel d.p.r. 24 maggio 1998, n. 224, in Quadrimestre, 1992, p. 65.

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prevedere; ... (omissis); 3. Un prodotto è difettoso se non offre la sicurezza offerta normalmente dagli altri esemplari della medesima serie» ben può essere richiamata nella vicenda in esame atteso che, proprio in virtù del settore altamente specialistico dell’attività (cartellonistica pubblicitaria) posta in essere, è legittimo aspettarsi la conformità del prodotto agli standards di sicurezza maggiormente efficienti presenti sul mercato 158; apertis verbis, la circostanza che vi fosse un ferro sporgente dal cartellone pubblicitario, non è sicuramente un dato trascurabile ai fini dell’invocata normativa. Sul piano risarcitorio, non significa che la società sportiva vada esente da responsabilità, ma la stessa potrà agire in regresso, per le conseguenze pregiudizievoli che le deriveranno, nei confronti del produttore/fabbricante della cartellonistica pubblicitaria sul quale, è opportuno ricordarlo, grava una responsabilità di tipo oggettivo, dalla quale potrà sfuggire solo dimostrando di aver adottato tutti gli accorgimenti tecnico-operativi a disposizione del mercato, per correttamente commercializzare il prodotto. 4.1.1. (Segue). La responsabilità dell’arbitro Si è più volte fatto riferimento, nel corso di queste brevi considerazioni, ad una serie di obblighi che gravano in generale sulle società sportive organizzatrici di una gara, quali ad esempio la verifica dello stato dei luoghi nonché la manutenzione dell’impianto al fine di evitare insidie sia agli atleti che ai terzi non partecipanti 159; orbene, per diverse discipline tra cui il gioco del calcio, tali obblighi non gravano soltanto in capo alle società che detengono l’impianto ma, un ruolo particolarmente rilevante è attribuito all’arbitro della gara a cui è affidato il potere-dovere di imporre e garantire il corretto andamento della competizione; rientra in tale potere-dovere anche la verifica circa la conformità alle norme regolamentari delle attrezzature utilizzate nonché del terreno di gioco e di quanto ad esso pertinenziale 160. Si è molto discusso in dottrina ed in giurisprudenza circa la qualificazione dell’arbitro come un pubblico ufficiale 161; il dibattito non ha avuto unanimi soluzioni ed anzi ad una giurisprudenza di legittimità 162 che ha negato tale qualificazione se ne è sempre contrapposta una di 158 Considerazioni vieppiù confermate dal fatto che non esiste nel nostro ordinamento na materia avente ad oggetto la cartellonistica pubblicitaria (cfr. Cons. St., sez. IV, 11 febbraio 2003, n. 740, in Foro amm., 2003, p. 519). 159 Esprimono condivisione per tale impostazione P. DINI, L’organizzatore e le competizioni, cit., p. 426, nonché G. VIDIRI, La responsabilità civile nell’esercizio delle attività sportive, in Giust. civ., 1994, p. 202. 160

Cfr. R. FRAU, La r.c. sportiva, cit., p. 374.

161

In dottrina, P. DINI, Il diritto sportivo nel codice penale e nel codice civile, in Riv. dir. Sportivo, 1985, p. 18; L. RINELLA, Le responsabilità penali dei giudici di gara per la morte o le lesioni procurate ad atleti nel corso di manifestazioni sportive, in Riv. dir. Sportivo, 1988, p. 373. 162

Per Cass. pen., sez. I, 17 novembre 1971, in Rep. Giur. it., 1973, p. 3574 «allo stato della le-

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merito 163 che, per contro, ha riconosciuto all’arbitro le prerogative proprie del richiamato status. Senza voler entrare nel dibattito appena richiamato, non può negarsi alla figura in esame un ruolo di primo piano all’interno delle competizioni sportive, siano esse calcistiche o di altra natura; l’arbitro infatti è il “braccio” dell’ordinamento sportivo quanto alle regole tecniche da far osservare e rispettare all’interno di una gara ma è, altresì, un sorta di “funzionario” dello Stato allorché sanziona quei comportamenti oltraggiosi ed istigatori degli atleti o dei dirigenti di una società sportiva anche al fine di sedare le masse dei tifosi. Ad ogni modo, qualunque sia la natura giuridica del ruolo attribuito all’arbitro, merita di essere analizzato il dovere di vigilanza degli impianti sportivi di cui è investito l’arbitro. Ed allora, quid juris in ordine alla verifica della conformità degli impianti di gioco e alla conseguente responsabilità degli organizzatori di eventi sportivi e arbitri? Giova sul punto ricordare come l’ordinamento giuridico abbia emanato il d.m. 18 marzo 1996 164 recante “Norme di sicurezza per la costruzione e l’esercizio degli impianti sportivi”, ovvero un provvedimento normativo che tende a prevenire qualsiasi possibile danno ai “soggetti dello sport” nonché ai terzi che accedano ad un complesso sportivo; sicché, ove all’arbitro è demandata la funzione di verificare la conformità di uno stadio ai requisiti prescritti sia dalla norma statale che dai Regolamenti federali, evidentemente è riconosciuta allo stesso una funzione se non di pubblico ufficiale, sicuramente ad interesse pubblico 165. Volendo volgere l’attenzione alle pronunce giurisprudenziali che si sono susseguite nel corso del tempo, si può riconoscere come, pur nelle perplessità mostrate dalla dottrina, si sia arrivati ad estendere la responsabilità dell’arbitro nei casi di omessa o difettosa verifica della sicurezza del luogo di gara, nonché della conformità al Regolamento degli attrezzi, dell’abbigliamento e degli accessori utilizzati dagli atleti 166. In aderenza con le spiegate osservazioni, con riferimento al richiamato caso Giampà, potrebbe configurarsi in capo al direttore di gara una responsabilità concorrente in ordine alla mancata segnalazione e/o verifica del corretto posizionamento dei cartelloni pubblicitari proprio in forza del suo particolare status.

gislazione che disciplina la materia dello sport, degli spettacoli sportivi e dei preposti agli stessi, nonché in relazione alla nozione che del pubblico ufficiale, agli effetti penali, è data nell’art. 357 c.p., l’arbitro designato dalla Federcalcio a dirigere una partita di calcio non può essere considerato pubblico ufficiale». 163 In tal senso, Pret. Castelfranco Veneto, 29 novembre 1985, in Giur. merito, 1986, p. 636; nonché Pret. Tolentino, 11 ottobre 1989, inedita. 164

In Suppl. Ordinario n. 61 alla Gazz. Uff., 11 aprile 1996, n. 85.

165

Nega tale attitudine pubblicistica, Pret. Trento, 11 maggio 1996, in Riv. dir. Sportivo, 1996,

p. 280. 166 In relazione a quest’ultimo punto, si veda L. RINELLA, Le responsabilità penali dei giudici di gara, cit., p. 377.

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4.1.2. (Segue). Il danno risarcibile Dopo aver accertato la responsabilità in capo al soggetto che si è reso colpevole dell’evento recante pregiudizio, bisogna spostare l’indagine dal profilo dell’an debeatur a quello del quantum seguendo un mutamento di prospettiva che dovrà tener conto più che dell’autore del danno, delle condizioni della vittima. L’analisi va, pertanto, condotta, sulla figura dell’atleta, operando un primo distinguo sul se il medesimo sia dilettante o professionista 167, assumendo maggiore o minore rilevanza tale qualificazione in ordine alle voci di danno risarcibile e della quantificazione dello stesso 168. Nel caso appena esaminato, trattasi di calciatore professionista, tesserato con un club di serie A, ovvero la massima categoria prevista dall’ordinamento sportivo per il gioco del calcio. V’è preliminarmente da precisare che la giurisprudenza ha escluso la risarcibilità del danno sofferto dall’atleta, allorché questo si verifichi casualmente nell’esercizio dell’attività sportiva e, quindi, rientrante nell’alea normale dello svolgimento della stessa 169. Id est, risulta evidente che, per contro, ove il danno sia frutto della condotta omissiva o commissiva di un terzo nel senso innanzi spiegato, scatta l’obbligo risarcitorio in capo all’autore del danno; orbene, come innanzi si diceva, all’atleta professionista andrà sicuramente ed innanzitutto risarcito il danno patrimoniale atteso che proprio dallo svolgimento di quella attività, egli deriva il proprio reddito 170. L’entità del risarcimento dovrà avvenire secondo alcune variabili 171 dalle quali non può prescindersi ed in particolare: a) la durata della vita atletica, ovvero la maggiore o minore durata dell’attività agonistica come fonte di sostentamento; b) lo “stato” della carriera, ovvero verificare se l’atleta si trova all’inizio, all’apice od alla fine dell’arco temporale riservato, secondo i dati del-

167

In tal senso, R. FRAU, La r.c. sportiva, cit., p. 377 ed ancor prima V. FRATTAROLO, La responsabilità civile per le attività sportive, cit., p. 166. 168 Per lo sportivo non professionista, la voce più consistente del pregiudizio sarà costituito dal danno biologico, riecheggiando la configurazione più accreditata in dottrina che ha attribuito al danno biologico un ruolo “unificante” di tutte le tipologie del danno alla persona di incerta collocazione sistematica (cfr. F.D. BUSNELLI-G. PONZANELLI, Rischio sportivo e responsabilità civile, in Resp. civ. prev., 1984, pp. 283-291. In linea con tale impostazione è stata la giurisprudenza di legittimità secondo cui «in tema di risarcimento del danno alla persona, la compromissione della capacità fisio-psichica del soggetto, che incida negativamente sull’esplicazione di attività diversa da quella lavorativa normale, come le attività ricreative e sociali, in quanto prescinde dalla capacità di produrre reddito, rientra nel danno alla salute, e, pertanto, va liquidato a tale titolo autonomamente» (Cass., 10 ottobre 1992, n. 11096, in Foro it., 1992, I, p. 932). 169 In tal senso, Cass., 10 luglio 1968, n. 2414, in Foro it., 1968, I, p. 634 nonché più recentemente Cass., 20 febbraio 1997, n. 1564, in Resp. civ. prev., 1997, p. 699. 170 171

In tal senso, R. FRAU, La r.c. sportiva, cit., p. 379.

L’indicazione dei criteri di valutazione a cui parametrarsi ai fini risarcitori è suggerita da V. FRATTAROLO, La responsabilità civile per le attività sportive, cit., pp. 167-169.

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la comune esperienza 172, a quella determinata attività agonistica; c) la “notorietà sportiva”, ovvero la rilevanza che l’atleta può aver raggiunto nell’ambito dello sport 173 tale da potergli garantire contratti pubblicitari od anche licenze d’uso della propria immagine anche a fini di merchandising 174. È evidente che i parametri valutativi non possono prescindere dalle circostanze evidenziate in quanto, ciascuna di esse, è una fonte attuale (ad esempio, nel caso di contratti pubblicitari già in corso al momento dell’evento dannoso) o potenziale di reddito (in tal caso può discutersi di perdita di chances 175, per cui la non possibilità di esecuzione o di fruizione delle aspettative in essere, a causa del sinistro sportivo, vanno ad incidere sulla misura del risarcimento 176. Quanto alla possibilità del risarcimento dei danni non patrimoniali, la giurisprudenza 177 lo ha escluso in alcuni 172 V. FRATTAROLO, op. ult. cit., p. 167 sostiene che «nell’ambito della stessa disciplina, è prospettabile una diversa durata della “vita atletica” a seconda del ruolo ricoperto. È noto-ad esempio – che il portiere, nel gioco del calcio, ha spesso una carriera molto più “longeva” rispetto agli altri giocatori. La valutazione circa la durata presumibile della carriera andrà condotta sulla scorta dei dati di comune esperienza, rivelandosi non adeguate le tabelle che indicano (ai fini risarcitori) le età di accostamento alle attività sportive, quali l’allegato n. 1 al d.m. 5.7.1975 (disc. accesso attiv. sportive)». 173

Considerazioni di più compiuta intelligenza in ordine alla negoziazione degli attributi della personalità sono svolte da V. ZENO ZENCOVICH, Profili negoziali degli attributi della personalità, in Dir. inf., 1993, p. 545. 174

L’aspetto segnalato è approfondito in dottrina da M.V. DE GIORGI, Sponsorizzazione e mecenatismo, Padova, 1988, p. 137 nonché da M. RICOLFI, Il contratto di merchandising nel diritto dei segni distintivi, Milano, 1991, p. 425. Per i profili di ordine internazionale sul tema, si rinvia al contributo, puntuale di S. SICA, Sport in International Context, Italian National Report, in Quaderni del Dipartmiento dei Rapp. civ. ed ec., Salerno, 2002, (National report for the XIII AIDC Congress, Brisbane, July, 2002), passim. 175

Cfr. in argomento, recentemente, M. FEOLA-L. NOCCO, Il danno da perdita di chances, in Giust. dir. sport., 2005, p. 49 ss. 176 Interessante appare una pronuncia della Suprema Corte di Cassazione, in ordine alla possibilità da parte dell’atleta di poter invocare un pregiudizio per lucro cessante nonostante la conservazione del posto di lavoro e della retribuzione; si è affermato, infatti che «il principio per cui nulla compete a titolo di risarcimento del danno al lavoratore dipendente che durante il periodo d’invalidità continui a percepire l’intera retribuzione (salva la dimostrazione che, per effetto di tale invalidità, si sia verificata la perdita di emolumenti supplementari o siano intervenuti altri pregiudizi alla normale evoluzione della carriera e del rapporto di lavoro) vale per l’invalidità temporanea e non è applicabile “sic et sempliciter” per l’invalidità parziale permanente che, secondo l’“id quod plerumque accidit”, rende presumibile un’influenza negativa sulla percezione di speciali compensi per la prestazione del lavoro più intensa del normale, o sull’ulteriore sviluppo di carriera, o su una possibilità di lavoro alternativo, o può richiedere l’impiego di uno sforzo maggiormente usurante per mantenere il precedente “standard” lavorativo. Pertanto, il dipendente che, nonostante l’invalidità permanente parziale, abbia conservato il posto di lavoro e la retribuzione, ha comunque diritto a chiedere il risarcimento del danno per il mancato guadagno potenziale» (cfr. Cass., 5 settembre 1988, n. 5033, in Foro it., 1988, I, p. 749). 177

Ex plurimis, in varie fattispecie, cfr. Cass., 7 gennaio 1991, n. 57, in Arch. giur. circ. sin.,

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casi nei quali l’evento si fondi su presunzioni di colpa, ritenendo necessario, di contro, un concreto accertamento della colpa del danneggiante e sempre in presenza dei presupposti richiesti, ovvero l’integrazione di una fattispecie di reato (artt. 2059 c.c. e 185 c.p.) 178. L’orientamento giurisprudenziale citato va, però, disatteso e ripensato a seguito della sentenza della Corte costituzionale 11 luglio 2003, n. 233 179, secondo cui «Il danno non patrimoniale è risarcibile anche nel caso di colpa presunta atteso che l’art. 2059 cod. civ. deve essere interpretato nel senso che il danno non patrimoniale, in quanto riferito alla astratta fattispecie di reato, è risarcibile anche nell’ipotesi in cui, in sede civile, la colpa dell’autore del fatto risulti da una presunzione di legge», rendendo, pertanto, ipotizzabile sicuramente una richiesta risarcitoria dell’atleta anche del danno non patrimoniale 180. Per quanto attiene ai criteri di liquidazione, soccorrono le norme codicistiche di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c., in base alle circostanze del caso concreto tenendo presente la diversa incidenza del fatto sulla vita e sulla qualifica formale dell’atleta (professionista o meno). È dibattuta, infine, in dottrina la possibilità di risarcimento dei danni da illecito trattamento dei dati personali 181, specialmente quelli sensibili (relativi cioè allo stato di salute dell’atleta); la casistica, invero, sul tema specifico, allo stato, non sembra esistere ma, potrebbe essere oggetto di risarcimento anche tale voce di danno atteso che, ai sensi dell’art. 1 del d.lgs. n. 196/2003 (c.d. codice privacy) 182 «chiun1991, p. 305; Cass., 28 ottobre 1980, n. 5799, in Mass. Foro it., 1980, p. 1117; Cass., 17 dicembre 1970, n. 2705, in Foro it., 1971, I, c. 638. 178

Si vedano, altresì, in proposito, le osservazioni di R. FRAU, La r.c. sportiva, cit., p. 381.

179

La sentenza in menzione ha costituito una “svolta” all’interno dell’impianto risarcitorio per il carattere “evolutivo” della stessa. In proposito, si vedano, i commenti M. BONA, Il danno esistenziale bussa alla porta e la Corte costituzionale apre (verso il “nuovo” art. 2059 c.c.), in Giust. dir. sport., 2003, p. 941; P. CENDON-P. ZIVIZ, Vincitori e vinti (... dopo la sentenza n. 233 del 2003) della Corte costituzionale, in Giur. it., 2003, p. 1777; G. PONZANELLI, Danno non patrimoniale: responsabilità presunta e nuova posizione del giudice civile, in Giust. dir. sport., 2003, p. 715; ID., La Corte costituzionale si allinea con la Corte di cassazione, in Giust. dir. sport., 2003, p. 962. 180 Principio, tra l’altro, già affermato dalla giurisprudenza con la sentenza 31 maggio 2003, n. 8828 della Cassazione Civile, secondo cui «il danno non patrimoniale conseguente alla ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, costituzionalmente garantito, non è soggetto, ai fini della risarcibilità, al limite derivante dalla riserva di legge correlata all’art. 185 c.p., e non presuppone, pertanto, la qualificabilità del fatto illecito come reato, giacché il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, ove si consideri che il riconoscimento, nella Costituzione, dei diritti inviolabili inerenti alla persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di riparazione del danno non patrimoniale». Orientamento conforme a Cass., 12 maggio 2003, n. 7283, in questa Rivista, 2003, p. 713. 181

Allo stato, l’unico autore che ha ipotizzato, in subjecta materia, la risarcibilità di tale categoria di danno è R. FRAU, La r.c. sportiva, cit., p. 381. 182

Un puntuale commento, in prima applicazione, del nuovo codice privacy è rinvenibile in

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que ha diritto alla protezione dei dati personali che lo riguardano». La norma cristallizza un nuovo autonomo diritto 183, quello alla protezione dei dati personali, ovvero qualsiasi informazione che per via diretta o mediata sia tale da ricondurre ad un determinato soggetto; nel caso dell’atleta professionista, il medesimo è sicuramente un soggetto “trattato”, ovvero un soggetto i cui dati (nome, immagine, carriera, vita privata) vengono utilizzati da terzi (società di appartenenza, giornalisti, ecc.) anche oltre il limite della “liceità”, “correttezza”, “necessità”, ragion per cui l’“eccedenza” di trattamento può essere fonte di responsabilità con conseguente obbligo risarcitorio ex art. 15 del d.lgs. n. 196/2003. Nella vicenda in commento, il calciatore Domenico Giampà, ha subito lesioni personali che ne inficiano lo stato di salute e, l’incidente allo stesso occorso, ha fatto si ché venissero rivelate informazioni sulla patologia subita, la quale costituisce un dato sensibile ex art. 4, comma 1, lett. d), d.lgs. n. 196/2003; orbene, la narrazione della vicenda oltre il limite consentito della utilità della notizia, se protratta nel tempo per fini ulteriori e in dispregio del principio di pertinenza e liceità, obbliga senz’altro al risarcimento del danno da illecito trattamento dei dati personali ex art. 15, d.lgs. n. 196/2003 con il richiamo ivi contenuto all’art. 2050 c.c. 184.

4.2. Il caso Juventus Un cenno particolare merita anche il caso relativo al risarcimento dei danni chiesto ed ottenuto da un tifoso per le lesioni personali subite durante lo svolgimento della partita di calcio Juventus-Roma, disputatasi allo Stadio “delle Alpi” di Torino 185, allorché, assistendo alla gara, sugli spalti, era stato oggetto del lancio di un ordigno fumogeno proveniente dalla opposta tifoseria, che lo aveva dapprima colpito ad una gamba e poi, gli era esploso in mano, nel vano tentativo di allontanarlo, provocandogli l’amputazione del secondo dito dx e fratture multiple esposte alla mano destra 186. S. SICA-P. STANZIONE (a cura di), La nuova disciplina della privacy, Bologna, 2004, passim; nonché, F. CARDARELLI-S. SICA-V. ZENO ZENCOVICH, Il codice dei dati personali. Temi e problemi, Milano, 2004, passim. 183

Sostengono tale ricostruzione sistematica S. SICA, Commento all’art. 1 d.lgs. 196/03, in S. SICA-P. STANZIONE (a cura di), La nuova disciplina della privacy, cit., p. 5 nonché, sia consentito, A MAIETTA, Commento all’art. 15 d.lgs. 196/03, in S. SICA-P. STANZIONE (a cura di), La nuova disciplina della privacy, cit., p. 66. 184

CA-V. 185 186

In proposito si vedano le osservazioni di S. SICA, Le tutele civili, in F. CARDARELLI-S. SIZENO ZENCOVICH, Il codice dei dati personali, Milano, 2004, p. 552. Trib. Torino, 11 novembre 2004, in Danno e resp., n. 7, 2006.

Per un primo commento alla sentenza in esame si veda M. GRASSANI, La responsabilità risarcitoria dell’organizzatore dell’evento sportivo – il caso Juventus, in Riv. dir. ed econ. dello Sport, n. 2, 2005, p. 119 ss.

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Il danneggiato adduceva, altresì, l’inevitabilità dell’evento atteso che non era potuto scappare perché aveva la gamba ingessata per un precedente infortunio invocando la responsabilità della società ospitante (la Juventus) quale organizzatrice dell’incontro. La domanda del tifoso è stata accolta dal Tribunale adito mediante il ricorso alla responsabilità per esercizio di attività pericolosa ex art. 2050 c.c. La vicenda ha, da subito, suscitato numerose polemiche in ordine alla responsabilità per l’accaduto ed in particolare con riguardo alla sicurezza degli stadi di calcio. La pronuncia in esame, come detto, ha affermato la responsabilità della Juventus calcio, argomentando intorno all’art. 2050 c.c.; la norma, com’è noto dispone che «chiunque cagiona ad altri nello svolgimento di una attività pericolosa, per sua natura o per la natura dei mezzi adoperati, è tenuto al risarcimento se non prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno». Il ricorso alla richiamata disposizione induce ad alcune riflessioni che, di là dai profili riparatori di cui si dirà in seguito, lasciano l’interprete se non basito quanto meno perplesso. Invero, il richiamo all’art. 2050 c.c., fatto proprio dal magistrato torinese pone un primo punto nodale di partenza: l’attività organizzativa di una partita di calcio, ovvero di una manifestazione sportiva in senso lato è da qualificarsi come attività pericolosa 187. La questione non può non aprire uno squarcio nel quadro normativo che promuove lo sport in ogni sua forma ritenendolo meritevole di considerazione in quanto momento formativo della società civile né può tacersi che quello che appare, prima facie, un momento ludico e di festa, rischia di diventare, per contro, una sorta di “addestramento alla difesa personale” atteso che, se andare allo stadio per assistere ad un incontro di calcio postula assumere il rischio di ledere la propria incolumità personale, il paradosso si presenta inevitabile. Questo ragionamento vale se ci poniamo nella veste dello spettatore; se, invece, proviamo ad assumere il ruolo del soggetto che organizza l’evento, ci si rende subito conto di come il ricorso giurisprudenziale all’art. 2050 c.c. si risolve, di fatto, nella impossibilità pratica di fornire qualsiasi elemento di esclusione della responsabilità in capo alla società sportiva nel caso in cui si produca 187

In tal senso, Trib. Ascoli Piceno, 13 maggio 1989, in Riv. dir. Sportivo, 1989, p. 489 secondo cui «l’attività calcistica e la gestione di uno stadio costituiscono attività pericolose, ciò imponendo l’adozione di particolari misure idonee ad evitare il verificarsi di eventi dannosi nei confronti del pubblico»; contra Trib. Firenze, 15 dicembre 1989, in Arch. civ., 1990, p. 923, il quale ha ritenuto «inapplicabile al calcio in costume la disciplina della responsabilità di cui all’art. 2050 c.c. dato che non può ritenersi che tale attività sportiva sia di per sé pericolosa; pertanto, se alla partita si sovrappone una rissa, questa resta concettualmente e giuridicamente distinta dalla manifestazione ufficiale e non è pertanto ipotizzabile la responsabilità oggettiva per le conseguenze dannose dell’incidente, del comitato di gestione della manifestazione». Nello stesso filone interpretativo si pone App. Milano, 30 marzo 1990, in Riv. dir. Sportivo, 1990, p. 495, la quale ritiene che sussumere la fattispecie nel paradigma di cui all’art. 2050 c.c. sia un fuor d’opera atteso che l’attività prestata dalla società calcistica non è definibile “pericolosa” né per natura né per i mezzi adoperati.

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un danno atteso che, se “tutte le misure idonee ad evitare il danno” fossero state tali, il danno non si sarebbe prodotto; apertis verbis, se c’è danno in occasione di un incontro di calcio, c’è responsabilità in capo a chi lo ha organizzato, salvo a fornire la prova liberatoria 188. Le richiamate considerazioni vengono alla luce proprio leggendo la motivazione del Giudice torinese. Invero, nonostante il Tribunale abbia rilevato come «la società ha scrupolosamente rispettato l’ordine della Pubblica Autorità di riservare alla tifoseria ospite i tre anelli del settore Est 3 e del primo anello del Sotto Settore Est 3 ... che la Juventus ha venduto ai tifosi romanisti solamente il numero di biglietti espressamente indicato dalle Pubbliche Autorità ... che ha predisposto il consueto servizio di ordine interno a mezzo proprie “maschere” ... per coadiuvare i Poliziotti presenti nello stadio nella vigilanza sul rispetto delle prescrizioni di sicurezza» purtuttavia, la condanna della società non si è fatta attendere atteso che «l’art. 2050 c.c. pretende un qualcosa in più, dal momento che la prova a discarico ivi richiesta riguarda l’effettiva adozione di “tutte le misure idonee ad evitare il danno” secondo le conoscenze proprie della società ex ante». La contraddizione motivazionale è evidente: da un lato si plaude alla efficienza delle cautele poste in essere dalla Juventus in occasione di un incontro classificato “a rischio” (già tale affermazione indurrebbe a riflettere sul significato di sport), dall’altro, con uno slancio proteso al favor victimae si giunge ad interrogarsi su cosa «avrebbe potuto e dovuto, oltre a quanto ha dimostrato di aver fatto, la società», rinvenendo questo ulteriore dovere, nella decisione da parte della Juventus di «ricorrere ad una struttura diversa dallo Stadio delle Alpi» poiché la stessa, al tempo della gara, era «una struttura priva di oggettive caratteristiche di sicurezza, nella quale all’indubbio pregio architettonico non corrisponde adeguata preclusione di un fenomeno – il lancio di oggetti dei settori prossimi e da quelli sovrastanti – dal quale non si può prescindere, in quanto prevedibile, nella ripartizione delle tribune e nella stessa strutturazione dell’impianto». La probatio diabolica richiesta dal Giudice torinese non può essere condivisa. Invero, la norma dell’art. 2050 c.c. nell’ascrivere una responsabilità oggettiva in capo al soggetto che esercita una determinata attività, consi188 Cfr. Cass., 4 maggio 2004, n. 8457 secondo cui «in tema di illecito aquiliano, perché rilevi il nesso di causalità tra un antecedente e l’evento lesivo deve ricorrere la duplice condizione che si tratti di un antecedente necessario dell’evento, (nel senso che questo rientri tra le conseguenze normali ed ordinarie del fatto), e che l’antecedente medesimo non sia poi neutralizzato, sul piano eziologico, dalla sopravvenienza di un fatto di per sé idoneo a determinare l’evento. Ne consegue che, anche nell’ipotesi in cui l’esercente dell’attività pericolosa non abbia adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, realizzando quindi una situazione astrattamente idonea a fondare una sua responsabilità ex art. 2050 c.c., la causa efficiente sopravvenuta che abbia i requisiti del caso fortuito (eccezionalità ed oggettiva imprevedibilità) e sia idonea, da sola, a causare l’evento, recide il nesso eziologico tra quest’ultimo e l’attività pericolosa, producendo effetti liberatori anche quando sia attribuibile al fatto del danneggiato stesso o di un terzo».

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derata ex ante come pericolosa, consente, altresì, al medesimo soggetto di liberarsi da tale presunzione fornendo la prova liberatoria di aver adottato le misure idonee ad evitare il danno; pertanto, è evidente che il giudizio, in termini di responsabilità, si sposta sulla verifica degli strumenti di prevenzione posti a presidio dell’incolumità dei soggetti interessati, ma pur sempre, a giudizio di chi scrive, in una ottica di bilanciamento di interessi contrapposti ed in applicazione del canone ad impossibilia nemo tenetur 189. La giurisprudenza, tranne qualche isolato precedente 190, e la dottrina maggioritaria hanno escluso che l’organizzazione di una partita di calcio sia da annoverarsi tra i casi di esercizio di attività pericolosa 191, per la qual cosa, nella vicenda in esame non poteva formarsi un giudizio di pericolosità basato sul criterio della c.d. prognosi postuma 192 ovvero sull’esame delle circostanze di fatto che si presentavano note al titolare dell’attività in base alle sue conoscenze e competenze specifiche, anche perché proprio in virtù dei timori conosciuti, l’attività di precauzione è stata tutt’altro che superficiale. Ma, quand’anche volesse accedersi a tale ricostruzione sistematica, il giudizio sulla responsabilità non può 189

Sembra aderire a questa prospettiva ricostruttiva A. MANFREDI, Responsabilità del Presidente della società sportiva e dei dipendenti della società stessa per danni subiti da alcuni spettatori a causa della condotta illecita di altri tifosi, in Riv. dir. Sportivo, 1989, p. 498 il quale sostiene preliminarmente che «in punto di diritto, invero, attività pericolosa non è certo qualsivoglia manifestazione della vita da cui scaturisce una semplice “possibilità” di pericolo, ma quella attività che per la sua stessa natura ha una evidente potenzialità “intrinseca “ di danno, a prescindere da eventuali interventi esterni e devianti» e poi continua affermando che «laddove non è possibile ravvisare una diretta partecipazione al fatto degli organizzatori, attraverso specifiche condotte, gli illeciti commessi dagli spettatori in occasione di manifestazioni sportive sono imputabili solo agli esecutori materiali». 190

Trib. Ascoli Piceno, 13 maggio 1989, in Riv. dir. Sportivo, 1989, p. 489.

191

Trib. Milano, 21 marzo 1988, in Riv. dir. Sportivo, 1989, p. 68; Trib. Firenze, 15 dicembre 1989, in Arch. civ., 1990, p. 923; App. Milano, 30 marzo 1990, in Riv. dir. Sportivo, 1990, p. 495; in dottrina, P.G. MONATERI, Il danno alla persona, Torino, 2000, p. 550; A. MANFREDI, Responsabilità del Presidente della società sportiva, cit., p. 498; P. DINI, L’organizzatore e le competizioni, cit., p. 421; secondo quest’ultimo Autore «la pericolosità dello sport può essere valutata solo con un concetto negativo: le discipline sportive non sono pericolose in senso “assoluto” quando siano praticate con mezzi tecnici propri, in luogo adatto, da atleti esperti. Ed al contrario, ogni attività sportiva può considerarsi pericolosa in senso “relativo” se attuata con mezzi tecnici non propri, in luogo non adatto, da atleti inesperti. Di guisa che tale pericolosità è inversamente proporzionale ai mezzi tecnici usati, al luogo di esercizio, alla preparazione di un atleta impegnato in una competizione». Contra, G. DE MARZO, Responsabilità civile dell’organizzatore di competizioni sportive nei confronti degli spettatori: clausola generale di responsabilità ex art. 2050 c.c., in Riv. dir. Sportivo, 1992, p. 268 per il quale «le c.d. intemperanze dei tifosi negli stadi rappresentano un rischio creato (s’intende in maniera del tutto involontaria) dall’attività di organizzazione di incontri calcistici: rischio che in quelle sedi si connota per una potenzialità dannosa elevatissima, attesa la concentrazione negli stadi di migliaia di persone». 192

Cfr. Cass., 30 ottobre 2002, n. 15288; Cass., 12 maggio 2005, n. 10027.

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prescindere da valutazioni di oggettiva possibilità che mitighino la corsa alla “giustizia a tutti i costi” 193. Nella sentenza oggetto di commento si rinviene esattamente tale ultimo elemento volitivo da parte del giudicante, il quale, si ripete, dopo aver analiticamente elencato tutte le misure preventive adottate dalla società Juventus, si è spinto al di là di ogni ragionevole argomentazione ricorrendo ad una impostazione giureconomica della responsabilità. Infatti, il giudicante conclude l’iter motivazionale che sembrava assolvere la convenuta società, argomentando che «soltanto ovvii e presumibilmente rilevanti interessi economici (la Juventus è una s.p.a. con fini di lucro), nonché le prassi sportive hanno impedito alla società di utilizzare stadi diversi presenti sul territorio nazionale maggiormente dotati sul piano della sicurezza, in occasione delle partite più a rischio, come quella disputata tra la Juventus e la Roma ... Ma gli interessi economici debbono soccombere a fronte della esigenza primaria del diritto degli spettatori alla propria incolumità fisica ed alla tutela della salute che è un bene costituzionalmente garantito». Il discorso è sicuramente suggestivo se non andasse, però, a comprimere anche un altro valore costituzionale, quello della libertà di iniziativa economica ex art. 41 Cost. che, però, nella ratio decidendi del magistrato deve soccombere dinanzi alla incolumità fisica ed alla tutela della salute, quasi ad operare una sorta di classificazione della meritevolezza degli interessi costituzionalmente garantiti. Non solo; le conclusioni a cui giunge il Tribunale mostrano la corda sotto un ulteriore profilo che consiste nel non tenere nella dovuta considerazione l’elemento probabilistico della fattispecie; si riscontra superficialità nel giudicante allorché lo stesso ritiene quasi jus receptum il fatto che se la Juventus avesse disputato la gara in un altro stadio maggiormente sicuro, il danno si sarebbe potuto evitare: e quali sono i canoni statistici che conducono a tale conclusione? Siamo nell’alveo del probabile e non nel novero delle certezze. Analogamente, non può trascurarsi un’ulteriore circostanza rinvenibile nel fatto che, le società di calcio, assumono una responsabilità di tipo contrattuale 194 con i propri tifosi che sottoscrivono l’abbonamento per l’intero campionato di calcio, laddove il sinallagma si perfeziona allorché la società riconosce il “diritto al posto” e lo spettatore paga il prezzo, configurando l’ipotesi di un contratto innominato di spettacolo 195; ora, se la Juventus avesse deciso di disputare l’incontro in altro Stadio (sempre che tale scelta fosse stata possibile

193

Aderisce a tale impostazione M. SANINO-F. VERDI, Diritto Sportivo, Padova, 2015, p. 455.

194

G. GIANNINI, La responsabilità civile degli organizzatori di manifestazioni sportive, in Riv. dir. Sportivo, 1986, p. 277 ss. secondo cui «verso gli spettatori paganti l’organizzatore ha una responsabilità di natura contrattuale a seguito dell’obbligazione assunta di fornire loro attraverso il corrispettivo dell’acquisto del biglietto una prestazione (lo svolgimento della manifestazione)». 195 G. STIPO, La responsabilità civile nell’esercizio dello sport, cit., p. 44. Più specificamente, sul contratto innominato di spettacolo, si veda V. D’ANTONIO, Billionaire senza regalo: sul contratto di festa, in Danno e resp., 2005, p. 1134 ss.

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senza violare il Regolamento della Federazione Italiana Gioco Calcio 196 e sempre che ci fosse stata la possibilità di trovare uno stadio che avesse potuto ospitare una partita di tale importanza), la stessa non avrebbe sicuramente potuto rispettare i propri obblighi contrattuali assunti con la vendita degli abbonamenti e nessuna circostanza l’avrebbe esonerata da una serie di azioni per inadempimento contrattuale non potendosi invocare, nel caso di specie, le esimenti di cui alla forza maggiore, al caso fortuito od al fatto del terzo 197, proprio perché, come sostiene il Tribunale torinese, i rischi erano prevedibili. Ed allora quid juris ? L’interprete che approccia la pronuncia in esame e condivide l’impostazione giureconomica della stessa non può non offrire spunti alla riflessione sul tema. 4.2.1. (Segue). Il concorso di colpa della vittima Com’è noto, importante dottrina 198 ha osservato che «il tratto distintivo della colpa è l’esistenza di un livello di diligenza che esonera dalla responsabilità – cioè l’esistenza di un livello di prevenzione che esonera dal risarcimento del danno». Una tale impostazione risponde al quesito che in questo modo se taluno è stato diligente, la sua azione non può considerarsi biasimevole per cui va esonerato da responsabilità. Tale ragionamento, in termini economici, è diverso ma ugualmente persuasivo: la ragione dell’esistenza di un livello di diligenza che esonera il danneggiante è quella di indurre le vittime ad essere diligenti. Ciò avviene perché esiste una responsabilità complementare per il danno che viene traslata dal danneggiante alla vittima quando il primo è stato diligente. La vittima potenziale razionale risponderà a tale traslazione di costi attesi adottando delle prevenzioni onde minimizzare tale responsabilità complementare. In termini di responsabilità oggettiva, invece, di strict liability, la vittima non deve sopportare alcuna responsabilità complementare per cui la stessa non avrà il bisogno di adottare delle misure per diminuire l’occorrenza o la gravità degli incidenti, assumendo una posizione di favore rispetto alla prova dell’evento. In tale contesto argomentativo non può condividersi il ragionamento del Tribunale in

196

Cfr. Cons. St., sez. VI, 7 maggio 2001, n. 2546 secondo cui «il potere della Federazione Italiana Gioco di emanare norme organizzative dell’attività sportiva – in cui deve farsi rientrare anche l’ammissione ai campionati – si estende anche ai profili economici e gestionali oltre che a quelli meramente tecnici» per la qual cosa è sottratto all’arbitrio della società di calcio la gestione dell’incontro in uno stadio o in un altro. 197 Cfr. in tal senso, ex multis, Cass., 22 marzo 1996, n. 2487, in Arch. giur. circ., 1996, p. 815; in Foro it., 1997, I, p. 1601; in Dir. trasporti, 1997, p. 503, nota MASTANDREA; in Giust. civ. Mass., 1996, p. 409; in questa Rivista, 1996, p. 652; in Contratti, 1996, p. 577, nota TINCANI; in questa Rivista, 1997, p. 595 nota CHIAROLLA. 198 P.G. MONATERI, Costo e Prevenzione degli incidenti, in G. ALPA-P. CHIASSONI-A. PERICUF. PULITINI-S. RODOTÀ-F. ROMANI, Analisi Economica del Diritto Privato, Milano, 1998, p. 288.

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termini di responsabilità oggettiva in chiave giureconomica 199 atteso che il giudizio di prevedibilità o di probabilità dell’evento deve essere bilateralmente considerato proprio perché la classificazione della gara come “a rischio” assurgeva a rango di fatto notorio 200, la cui conoscenza non poteva essere ricondotta soltanto alla società ma anche ai tifosi tutti, di entrambi le squadre. La intrinseca pericolosità dell’evento, se da un lato avrebbe dovuto indurre, e di fatto così è accaduto, la Juventus ad adottare tutte le cautele necessarie a prevenire incidenti, dall’altro, anche le vittime potenziali (i tifosi), avrebbero dovuto adottare un principio di autoresponsabilità od anche di autoprotezione in relazione all’evento stesso. Più chiaramente, nella ricostruzione fattuale dell’accadimento dannoso, si è avuto modo di verificare che il tifoso romanista è rimasto ferito perché non era in condizioni di scappare atteso che aveva una gamba ingessata a causa di un precedente infortunio; ebbene, tale circostanza non avrebbe dovuto indurre la vittima ad avere una condotta più diligente, magari non recandosi allo stadio od anche scegliendo un settore differente? Il concorso della vittima nella produzione del danno 201, secondo il principio di regolarità causale sancito dall’art. 41, comma 2, c.p. 202, è da sempre 199

In precedenza ma in un contesto differente si è avuto modo di osservare come questa soluzione appariva convincente; in tal senso, sia consentito il rinvio ad A. MAIETTA, Cartelli pubblicitari nello stadio e responsabilità delle società sportive, cit., p. 337. Purtuttavia, nella vicenda in commento, la prospettiva deve necessariamente essere rivista alla luce delle argomentazioni svolte. 200 Cfr. Cass., 31maggio 2005, n. 11609 secondo cui «Il fatto notorio, derogando al principio dispositivo ed a quello del contraddittorio e dando luogo a prove non fornite dalle parti e relative a fatti da esse non vagliati e controllati, dev’essere inteso in senso rigoroso, cioè come fatto acquisito con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile, e non quale evento o situazione oggetto della mera conoscenza del singolo giudice. Conseguentemente, per aversi fatto notorio occorre, in primo luogo, che si tratti di un fatto che si imponga all’osservazione ed alla percezione della collettività, di modo che questa possa compiere per suo conto la valutazione critica necessaria per riscontrarlo, sicché al giudice non resti che constatarne gli effetti e valutarlo soltanto ai fini delle conseguenze giuridiche che ne derivano; in secondo luogo, occorre che si tratti di un fatto di comune conoscenza, anche se limitatamente al luogo ove esso è invocato, o perché appartiene alla cultura media della collettività, ivi stanziata, o perché le sue ripercussioni sono tanto ampie ed immediate che la collettività ne faccia esperienza comune anche in vista della sua incidenza sull’interesse pubblico che spinge ciascuno dei componenti della collettività stessa a conoscerlo. Anche il fatto tecnico, sia pure a livelli semplicizzati, può diventare notorio, allorquando la collettività sia periodicamente sensibilizzata sul punto dalla stampa e dagli altri mezzi di comunicazione di massa o da altre forme pubblicitarie». 201 202

Cfr. Cass., 28 marzo 1997, n. 2763.

Sul punto si veda Cass., 15 gennaio 2003, n. 484 secondo cui «in virtù del principio di regolarità causale, tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un determinato evento dannoso non si sarebbe verificato debbono ritenersi causa del medesimo, salvo che non si accerti, ai sensi dell’art. 41, secondo comma, cod. pen., applicabile anche nel giudizio civile, che la causa prossima sia stata da sola idonea a produrla; accertato il concorso delle cause nella produzione dell’evento, la graduazione delle responsabilità ai fini del risarcimento dei danni deve essere effettuata avendo esclusivamente riguardo al loro grado di incidenza eziologia ed alla gravità della colpa di ciascuno dei concorrenti».

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riconosciuto dalla giurisprudenza come causa se non di esclusione quanto meno di graduazione della responsabilità, per cui bene avrebbe fatto il Giudice di prime cure a valorizzare tale aspetto proprio in ragione della platealità dell’evento che tutti attendevano e che, come lo stesso magistrato afferma, «emerge in tutta evidenza senza bisogno di commenti ulteriori». 4.2.2. (Segue). Il ruolo delle Forze di Polizia Un ulteriore aspetto non considerato dalla lunga motivazione della pronuncia in esame, riguarda il ruolo delle forze di Polizia nel contesto degli incidenti allo stadio o fuori di esso. Giova precisarsi che l’aumento negli ultimi anni di episodi di violenza in occasione di manifestazioni sportive, ha indotto il legislatore ad emanare provvedimenti significativi tendenti a prevenire la violenza negli stadi. Il d.l. 17 agosto 2005, n. 162 recante norme in materia di «violenza negli stadi: ulteriori misure di contrasto» 203 rafforza l’impianto normativo in questione già disciplinato con la legge 24 aprile 2003, n. 88 204, nonché con il Decreto del Ministero dell’Interno del 6 giugno 2005 recante norme in materia di videosorveglianza 205, tagliandi nominativi 206 e sicurezza negli stadi 207, introducendo una 203

In Gazz. Uff., 18 agosto 2005, n. 91.

204

In Gazz. Uff., 24 aprile 2003, n. 88.

205

Il testo del decreto in materia di videosorveglianza prevede che debbano essere realizzati sistemi di videosorveglianza in tutti gli impianti con capienza superiore a 10.000 unità; è prevista, inoltre, la registrazione di tutto l’evento, compreso l’eventuale ingresso dei tifosi prima della gara per preparare le coreografie. La registrazione è disponibile per 7 giorni dopo l’incontro e le società organizzatrici dell’incontro sono responsabili della conservazione dei dati adottando le misure di sicurezza prescritte. Le medesime società sono tenute a porre i supporti ed i relativi dati a disposizione dell’Autorità Giudiziaria e di Pubblica Sicurezza o di loro delegati all’uopo espressamente designati. Dopo il settimo giorno di conservazione, i dati non utilizzati devono essere cancellati. 206

Il testo del decreto in materia di tagliandi di accesso prevede che le società organizzatrici di competizioni riguardanti il gioco del calcio sono responsabili della emissione, distribuzione, vendita e cessione dei titoli di accesso agli impianti sportivi ove tali competizioni si disputano. La maggiore novità del decreto consiste nel fatto che i titoli di accesso devono essere numerati e devono recare le generalità dell’utilizzatore, l’indicazione del posto assegnato, la società che organizza la gara, il nome e l’ubicazione ove la gara si disputa, nonché il periodo di validità, il numero progressivo di rilascio, l’indicazione precisa del varco di ingresso allo stadio, l’accettazione da parte dello spettatore delle norme del Regolamento di accesso tra cui anche la possibilità di essere sottoposti a controlli sulla persona e nelle borse o contenitori al seguito. Ciascun titolo di accesso dovrà riportare stampato, con tecniche anticontraffazione, un codice realizzato con caratteri riconoscibili otticamente ed un codice bi-dimensionale, o altro sistema leggibile tramite lettori di prossimità, ove siano registrati, oltre alle informazioni di cui sopra, anche, in maniera sicura e protetta, ovvero firmate digitalmente e cifrate, l’identità del titolare (nome, cognome, data e luogo di nascita, residenza), nonché gli estremi del ricevitore o cedente (denominazione, ragione sociale, sede legale); tali dati, relativi ai soli titoli di accesso effettivamente venduti o ceduti, dovranno essere trasferibili automaticamente ad una banca dati accessibile al sistema di controllo degli accessi. 207

Il provvedimento legislativo è stato ritenuto ammissibile dal Garante per la protezione dei

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disciplina di controlli e prevenzioni utili ad evitare episodi di violenza. Il precetto normativo, com’è noto, deve essere fatto osservare dai soggetti a ciò deputati, ergo le Forze di Polizia, cui compete il presidio dell’ordine pubblico, non essendo consentito alla vigilanza privata tale potere repressivo. Orbene, tornando alla vicenda che ci occupa, la Juventus ha mostrato la propria diligenza, anche extra ordinem se si considera che una partita di calcio non dovrebbe essere un incontro di guerriglia, comunicando per tempo alla Questura, alla Prefettura, ai Vigili del Fuoco quali potevano essere i rischi connessi alla organizzazione dell’evento sportivo, all’uopo chiedendo l’adozione delle misure precauzionali necessarie con il dispiego delle forze dell’ordine, coadiuvate anche da guardie private. In tale contesto, si innesta una ulteriore causa di giustificazione o, se si preferisce, una chiara esimente in capo alla società convenuta poiché la stessa, in ottemperanza alle vigenti disposizioni, ha posto in essere «tutte quelle attività idonee ad evitare il danno» che l’art. 2050 c.c. richiede, per la qual cosa, non può sottacersi che la responsabilità per omesso controllo sui fumogeni o sugli oggetti introdotti nello stadio andava ascritta alle Forze dell’Ordine secondo l’opinione corrente della dottrina 208 e della giurisprudenza 209 più attenta sul tema dell’art. 2043 c.c., poiché anche la P.A., nell’esercizio dei suoi poteri, è tenuta al rispetto delle regole di diligenza e prudenza 210. Nella motivazione della sentenza in commento, invece, alcuna rilevanza è stata data a tale profilo, pur avendo avuto l’istruttoria processuale come protagonisti alcuni esponenti delle Forze deldati personali con il parere espresso in data 4 maggio 2005; in particolare, sulla videosorveglianza il Garante ha stabilito che questo tipo di controllo rispetta i principi di liceità e necessità in ragione dei reiterati disordini e degli episodi di violenza verificatisi di recente. Proporzionata risulta, ad esempio, la conservazione delle immagini per non più di una settimana. Anche le modalità di ripresa che consentono l’individuazione di singoli spettatori, appaiono proporzionate e non eccedenti rispetto agli scopi prefissati. Per altri dispositivi e tecniche di ripresa particolari, attualmente non previsti, sarà invece necessaria una verifica preliminare del Garante. La registrazione audio riguarda solo l’audio complessivo dell’evento calcistico. La previsione dei sistemi di videosorveglianza riguarda solo gli impianti sportivi di capienza superiore alle diecimila unità e ad eventi calcistici. Sui tagliandi nominativi, invece, il Garante non ha ancora preso posizione netta rinviando l’emissione del proprio parere all’esito di pertinenti valutazioni da parte delle Autorità competenti sulla effettiva necessità dell’utilizzo di biglietti nominativi. 208 È di tale avviso A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, p. 1171; G. ALPA, Responsabilità civile e danno, Bologna, 1991, p. 441. 209 Cfr. Corte Conti, sez. giur. Marche, 2 agosto 2001, n. 752 secondo cui «deve affermarsi la responsabilità amministrativa del funzionario della Polizia di Stato il quale, preposto alla sicurezza pubblica in uno stadio durante lo svolgimento di una manifestazione sportiva, abbia omesso di coordinare i necessari controlli e attivare le conseguenti misure di cautela, al fine di prevenire l’insorgere e il diffondersi nelle tribune di incendi causati da comportamenti prevedibili dei tifosi». 210

Contra, CAF, 3 luglio 1978, in Riv. dir. Sportivo, 1979, p. 434 per la quale esiste l’impossibilità di prevenzione dei disordini da parte delle forze dell’ordine data l’enorme sproporzione tra numero degli addetti e numero degli spettatori e sulla obiettiva estrema difficoltà di individuare i responsabili nella moltitudine del pubblico.

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l’Ordine; orbene, non può tacersi come il ricorso alle Forze di Polizia debba essere considerato una risorsa scriminante in punto di responsabilità, ancor più se si tiene conto che l’attività connotata da intrinseca pericolosità possa essere frenata solo con strumenti di coercizione che non sono peculiari dei soggetti privati. Id est, non si può condividere l’opinione del magistrato torinese in argomento atteso che la società Juventus aveva ampiamente e con notevole intervallo di tempo, apprestato tutte quelle misure cautelari idonee a sfuggire la colpa presunta dell’art. 2050 c.c. 211; d’altra parte, il ricorso a tale precetto normativo, dovrebbe in ogni caso, dopo aver appurata l’adozione di tutte le misure ragionevolmente ipotizzabili, essere depurato dalla sua connotazione in senso oggettivo della responsabilità ivi prevista, dando la possibilità al soggetto che, ex ante, è ritenuto responsabile, di poter fornire quella prova liberatoria che la stessa norma prevede senza incorrere nel rischio di far diventare il dettato normativo una mera frase di stile che si risolve, in concreto, in una probatio diabolica, se non si ritiene di dare una ragionevole definizione delle “misure idonee ad evitare il danno”, ovvero una definizione correlata ai reali poteri del soggetto che, in caso contrario, rimane tenuto al risarcimento pur non avendo, effettivamente i mezzi a sua disposizione onde prevenire il fatto lesivo. In conclusione, l’analisi condotta pone in evidenza la circostanza che una società di calcio o, comunque, qualsiasi soggetto organizzi una manifestazione sportiva, giace sotto la spada di Damocle della propria responsabilità oggettiva o per colpa presunta (che, nei fatti oggetto di commento, finisce per coincidere con la prima); tale impostazione sistematica è finalizzata alla moltiplicazione delle proprie risorse per poter prevenire incidenti o le intemperanze dei tifosi. La dottrina, a volte, ha aderito a tale modello ritenendo che se una società si avvantaggia del supporto dei propri sostenitori debba sopportarne anche i costi per le intemperanze dei medesimi 212 in applicazione del canone ubi commoda ibi incommoda, altre volte, invece, ha criticato tale impostazione sul presupposto che, in ambito sportivo, attesa la presenza del vincolo di giustizia, è preclusa alla società sportiva l’azione di regresso civile nei

211 In tema di responsabilità per esercizio di attività pericolosa, la letteratura è copiosa; tra gli altri, si vedano G. ALESI, Introduzione alla valutazione delle attività rischiose, Torino, 1997, passim; M. ANTINOZZI, Responsabilità per lo svolgimento di attività pericolose, in Dir. e prat. assicur., 1989, p. 573; S. BALZARETTI, Cumulo di responsabilità ex artt. 2050 e 2051 c.c. ed intervento del soccorritore, in Resp. civ. e prev., 1996, p. 693; ID., L’esercizio di attività pericolosa negli orientamenti della giurisprudenza, in Resp. civ. e prev., 1996, p. 62; M. BESSONE, I problemi di interpretazione dell’art. 2050 c.c. e gli “obiter dicta” della giurisprudenza, in Giur. merito, 1983, p. 1059; ID., La nozione giurisprudenziale di “svolgimento” delle attività pericolose, in Riv. giur. circol. trasp., 1982, p. 812; ID., La nozione di “pericolo” e il principio di responsabilità per i danni causati da attività pericolosa, in Riv. giur. circol. trasp., 1982, p. 855; R. ZUCCAIO, Sulla responsabilità per l’esercizio di attività pericolose, in Giur. it., 2001, p. 2275. 212 Cfr. A. MANFREDI, Considerazioni in tema di responsabilità oggettiva e sua compatibilità con l’ordinamento giuridico generale, in Riv. dir. Sportivo, 1980, p. 59.

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confronti dei responsabili del fatto dannoso 213. In realtà, l’aumento degli episodi di violenza negli stadi che, come si diceva innanzi, ha indotto il legislatore a predisporre alcune leggi ad hoc, ha profondamente mutato il ruolo e la funzione dello sport e ragionando in punto di responsabilità civile ha fatto si ché si passasse da una no land law ad una strict liability business oriented, ovvero ad una responsabilità oggettiva o per colpa presunta che trova la sua giustificazione causale ex ante sul presupposto della dimensione dell’interesse economico e sul ruolo assunto dalle società di calcio ovvero allorché vi sia coincidenza ed identità «del centro di interesse e di profitto tra l’operato del responsabile subiettivo e la sfera d’azione del responsabile obiettivo» 214. Il caso Juventus dimostra come oggi «... purtroppo nel mondo dello sport calcistico regna sovrano il principio della responsabilità oggettiva, esasperato al punto che la società incolpevole paga in ogni caso il fio delle intemperanze degli spettatori senza che alcun rapporto causale esista fra il comportamento della società ed il fatto del terzo; ciò anche se, invertendo l’onere della prova, la società dimostra di aver fatto il possibile per evitare il gesto dannoso o pericoloso posto in essere dal singolo o dalla folla ...» 215. La prospettiva segnalata non può non destare preoccupazioni, non tanto e non solo per l’impalcatura sistematica su cui viene fondato il giudizio di responsabilità, quanto piuttosto sulla applicazione pratica dello stesso; infatti, se da un lato il criterio della colpa presunta o della responsabilità oggettiva consente una velocizzazione della riparazione del danno ed una più semplice individuazione del responsabile, dall’altro si corre il rischio, tutt’altro che eventuale, di un sistema risarcitorio che non ammette prova liberatoria proprio perché qualsiasi misura di prevenzione o cautela adottata viene giudicata inidonea se comunque il danno si produce. La vicenda in esame palesa esattamente tale stato di cose, accentuato dal fatto che, nell’indagine pratica, il Giudice di merito ha condotto una istruttoria tutta protesa a fondare un giudizio di responsabilità sulla società convenuta, senza tenere nel giusto e doveroso conto, il modus agendi dei responsabili mate213 Cfr. F. PAGLIARA, Ordinamento giuridico sportivo e responsabilità oggettiva, in Riv. dir. Sportivo, 1989, p. 60. L’Autore sottolinea come la ratio della responsabilità oggettiva, dal punto di vista dell’ordinamento sportivo, poggia sulla necessità di conseguire con immediatezza lo scopo che lo sport si prefigge: cioè il conseguimento del risultato sportivo attraverso la regolarità della gara. La natura di tale responsabilità non è di ordine punitivo ma soltanto di giusto equilibrio dei valori sportivi che determinano il risultato sportivo; la sanzione sportiva non è rivolta a colpire soggettivamente la società sportiva, bensì a mutare oggettivamente una situazione di fatto verificatasi contro e nonostante le regole sportive. Tanto è vero che la società che ne subisce (indirettamente) le conseguenze non può rivalersi sull’autore del fatto (contrariamente a quanto si verifica nella legislazione statale). 214 215

Cfr. CAF, 30 gennaio 1985, in Riv. dir. Sportivo, 1985, p. 556.

Cfr. Pret. Palermo, 22 gennaio 1970, in V. FRATTAROLO, Lo sport nella giurisprudenza, Milano, 1995, p. 592.

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riali del fatto 216, la condotta della vittima e di altri soggetti, quali ad esempio le forze dell’ordine, cui pure competeva l’adozione di una diligenza media per i primi e qualificata per le seconde. Invero, a parere dello scrivente, non basta qualificare l’attività di organizzazione di una partita di calcio come pericolosa per fondare un giudizio di responsabilità ma vanno indagate, case by case, le oggettive risultanze dei fatti che, in qualche modo possano fornire la possibilità della prova liberatoria cui l’art. 2050 c.c. da ingresso, quali ad esempio il concorso di colpa della vittima nella causazione del fatto o nella omessa prevenzione di cautele idonee a non produrre il medesimo, il ruolo delle forze dell’ordine, il comportamento dei tifosi agenti. Tale indagine non può essere esclusa ex ante atteso che, oggi, le moderne tecnologie in materia di videosorveglianza e di identificazione dei soggetti che si recano allo stadio con il biglietto nominativo, consentono una più facile e rapida individuazione dei responsabili degli incidenti sui quali dovrà ricadere la responsabilità, anche civile, del loro illecito comportamento. Lo stato dell’arte in materia di prevenzione, pertanto, impone una rivisitazione della funzione della responsabilità oggettiva o per colpa presunta, in ambito sportivo, la cui ratio ispiratrice, finalizzata ad una velocizzazione del risarcimento e ad un favor victimae, non appare più convincente per l’evoluzione delle possibilità accertative delle responsabilità, «risultando ingiuste ed ingiustificate, soprattutto in relazione alle gravi conseguenze economiche, le severe sanzioni comminate alle società in riscontro della responsabilità oggettiva» 217. In conclusione, pur apprezzando lo sforzo motivazionale fornito dal Giudice di prime cure, la pronuncia in commento non può costituire un leading case atteso che, seguire una scia così tratteggiata, significherebbe, da un lato dotare di immunità i responsabili degli episodi di violenza negli stadi e, dall’altro, svilire lo sport del suo significato più nobile di momento promozionale della vita del singolo e collocarlo in un sistema business oriented, laddove il rapporto costs and benefits finisce per giustificare una applicazione selvaggia di un sistema risarcitorio di strict liability pur in assenza di specifica relazione causale tra condotta materiale, evento e danno. Sarebbe, pertanto, auspicabile una rimeditazione dell’istituto della responsabilità ex artt. 2049 e 2050 c.c. in ambito sportivo mediante una ponderata valutazione da effettuarsi caso per caso, della effettiva e ragionevole possibilità in capo alle società calcistiche di poter prevenire gli eventi produttivi di danno realizzando, in concreto, quella opportunità di fornire la prova di “aver adottato tutte le misure idonee” per evitare il danno senza un giudizio precostituito.

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Suggerisce tale indagine dalla quale si ritiene di non poter prescindere CAF, 5 agosto 1971, in Riv. dir. Sportivo, 1971, p. 3. 217 Cfr. A. PARISI, Responsabilità civile e penale negli sport ad alto rischio, in P. STANZIONES. SICA, Professioni e responsabilità civile, Bologna, 2006, p. 949.

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5. La responsabilità dell’organizzatore di eventi sportivi Alla luce di quanto sopra nuovamente specificato, si comprende chiaramente che destinatari delle regole civilistiche in materia di responsabilità non sono esclusivamente gli atleti, ma anche tutti coloro che prendono parte a vario titolo all’organizzazione del fenomeno sportivo, tra cui gli organizzatori delle manifestazioni sportive – che talvolta possono coincidere con i gestori degli impianti sportivi – i quali sono, al pari degli atleti, tenuti a garantire l’osservanza delle regole tecniche di preparazione e gestione delle gare, nel rispetto di quanto stabilito dall’Autorità di pubblica sicurezza. Quello che ci permette di qualificare un soggetto come organizzatore di un evento sportivo, non è la forma giuridica che questo può assumere né la categoria di appartenenza, bensì unicamente il fine che si intende perseguire e quindi la promozione della competizione pur sempre nel rispetto delle ordinarie regole di diligenza e prudenza 218. Indubbiamente, l’aspetto che ha maggiormente interessato dottrina e giurisprudenza è legato ad una corretta imputazione della responsabilità in capo ai soggetti, siano essi persone fisiche o giuridiche, Federazioni o associazioni, organizzatori di eventi sportivi. A tal proposito, come già detto in precedenza con riferimento ai soggetti gestori di impianti sportivi, si è passati da una ricostruzione della responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c. ad una in termini di responsabilità pericolosa a norma dell’art. 2050 c.c. e quindi alternando un criterio di imputazione soggettivo dell’agente ad uno improntato ad una responsabilità oggettiva o aggravata 219. Se quanto detto può valere per l’ipotesi di danni patiti dai gareggianti – per i quali resta fermo il principio della volontaria assunzione del rischio – contorni più complessi assume la responsabilità nel caso di danni arrecati agli spettatori in quanto potrebbero sollevarsi due differenti titoli di imputazione, di responsabilità contrattuale od extracontrattuale a seconda che al danneggiato facciano capo diverse situazioni protette 220. I sostenitori di una responsabilità dalla natura ex218 Gli organizzatori di eventi sportivi devono garantire la predisposizione di idonee cautele idonee a ridurre al minimo i rischi dei terzi. Per approfondite considerazioni sul tema, si veda, F. DI CIOMMO, Pista pericolosa e astensione dalla corsa di quasi tutti i piloti iscritti: l’omologazione non impedisce l’annullamento della gara, nota a Tribunal d’Appel International FIA, decisione 18 gennaio 1999, in Riv. dir. Sportivo, 1999, p. 341. 219

Così, L. CANTAMESSA-G.M. RICCIO-G. SCIANCALEPORE, Lineamenti di diritto sportivo, cit. Sul tema può essere opportuno riportare l’orientamento giurisprudenziale in forza del quale la pericolosità di ciascuna attività, ai fini di un giudizio ex art. 2050 c.c., si sostanzia, in assenza di indicazioni normative chiarificatorie, in una questio facti insindacabile in sede di legittimità. Per questa considerazione, si rinvia a Cass., 28 febbraio 2000, in Danno e resp., con nota di F. DI CIOMMO, Il punto sulla responsabilità civile dell’organizzatore di eventi sportivi e sui (nuovi?) rapporti tra CONI e federazioni alla luce del d.l. 242/99, 2000, p. 614. 220

Cass., 6 marzo 1995, in Giust. civ., Mass., 1995, p. 527. Per quanto riguarda specificamen-

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tracontrattuale, inoltre, hanno dato vita ad un vero e proprio dibattito in ordine alla opportunità di classificare l’attività di organizzazione di manifestazioni sportive come attività pericolosa; assunto che ha riscosso consensi 221 laddove l’attività sportiva organizzata consista in una manifestazione calcistica od in uno sport reputato altamente pericoloso, e trovato opposizione in circostanze che hanno portato all’applicazione della disciplina, se si vuole, più morbida di cui all’art. 2043 c.c. 222. Indubbiamente in capo agli organizzatori di eventi sportivi gravano numerosi obblighi tra cui quello di controllo che dovrà essere tanto più incisivo quanto più complessa ed articolata si presenta l’attività organizzativa richiesta dalle singole competizioni sportive 223. Non a caso, infatti, la dottrina ha voluto sottolineare la distinzione tra “competizione sportiva” e “manifestazione sportiva” riconoscendo alla prima una natura individuale con la finalità di raggiungere un risultato in un’unica disciplina sportiva e alla seconda una natura, per così dire, collettiva potendo aversi “manifestazione sportiva” ogni qual volta si sia in presenza di un insieme di competizioni, seppur ciascuna con la propria autonomia ed individualità, organizzate collettivamente e quindi in uno stesso contesto. Da una tale diversità di inquadramento, ne deriva una corrispondente diversa qualificazione, sicuramente più complessa ed articolata, anche sotto il profilo della responsabilità degli organizzatori che, in casi di manifestazione sportiva, sembrano essere esposti ad una imputazione di responsabilità anche ex art. 2049 c.c. 224. Sia che si tratti di competizione che di manifestazione sportiva, l’organizzatore dell’evento è tenuto in ogni caso a garantire l’idoneità e la sicurezza del luote la responsabilità aquiliana, si discute se, l’attività di organizzazione di manifestazioni sportive, possa essere intesa come attività pericolosa. Tale assunto ha, talvolta, riscosso consensi (Trib. Milano, 21 settembre 1998, in Riv. dir. Sportivo, 1999, p. 556) in particolare laddove l’attività sportiva organizzata consista in una manifestazione calcistica od in uno sport reputato altamente pericoloso. In altri casi, una tale ricostruzione è stata decisamente respinta, a vantaggio di un orientamento meno rigido, comportante l’applicazione dell’art. 2043 c.c. 221

Trib. Milano, 21 settembre 1998, in Riv. dir. Sportivo, 1999, p. 556.

222

Cfr. Trib. Milano, 12 novembre 1992, in Resp. civ. e prev., 1993, p. 616.

223

Sul punto si veda E. INDRACCOLO, L’organizzazione di eventi sportivi, in L. DI NELLA (a cura di), Manuale di diritto sportivo, Napoli, 2010, p. 177 ss. da cui si evince una impostazione della organizzazione di eventi sportivi in chiave prettamente economica. 224 Siffatta ricostruzione si giustifica, principalmente, in considerazione del fatto che laddove vi è competizione/manifestazione e spettacolo, si solleva un problema di garanzia dell’ordine pubblico che assicuri allo stesso tempo l’incolumità degli atleti, degli spettatori con la garanzia della integrità dei risultati sportivi. Pertanto, la presenza delle forze dell’ordine non può non riconoscersi come necessaria, così come non potrà non riconoscersi una responsabilità in capo all’organizzatore che non la attivi tempestivamente. Ovviamente l’organizzatore conserva una piena autonomia relativamente agli aspetti tecnici delle manifestazioni sportive, basti pensare che le forze dell’ordine sono tenute ad intervenire solo ove non sia possibile all’organizzatore garantire diversamente la pubblica incolumità.

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go in cui si svolge la manifestazione, dei mezzi tecnici utilizzati nonché l’idoneità dell’atleta a prendere parte alla competizione in considerazione della sua esperienza e delle sue condizioni psico-fisiche 225. Disparate sono anche le disposizioni che l’organizzatore di una manifestazione sportiva è tenuto ad osservare al fine di garantire i propri obblighi di controllo, quali prescrizioni della legge in senso stretto (si pensi alla licenza che chi organizza un evento sportivo è tenuto a richiedere alla questura ex artt. 68 e 71 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773), norme regolamentari sportive insieme a principi generali di comune prudenza 226. Si comprende, quindi, che la valutazione di opportunità che viene imposta all’organizzatore di eventi sportivi è una valutazione da operare ex ante, ossia una prevedibilità di ogni possibile rischio di eventi lesivi che possa derivare dall’espletamento della manifestazione/competizione in svolgimento. Un’attività, dunque, di specifica e analitica programmazione mediante la “previsione di tutto il prevedibile” 227 al fine di contenere il rischio di lesioni entro il “rischio consentito” con la conseguenza che nessuna responsabilità può essere addebitata all’organizzatore. Diverso è il discorso relativo a tutte quelle lesioni che vanno oltre il rischio consentito e per le quali il nesso di causalità tra l’attività dell’organizzatore e l’evento lesivo potrà interrompersi solo «per fatto del terzo o della vittima, o in caso di identificazione di una specifica causa estranea non imputabile alla sfera giuridica dell’organizzatore» 228 sul quale graverà l’onere di provare il caso fortuito per sollevarsi da ogni responsabilità 229. Vale la pena riportare 225 Si può a tal proposito richiamare il caso deciso dalla giurisprudenza di legittimità, Cass. pen., 21 febbraio 1995, n. 6478, in Riv. dir. Sportivo, 1996, p. 302, per la quale «rispondono di omicidio colposo i componenti del Consiglio direttivo della Lega Navale Italiana, i quali abbiano organizzato una gara di pesca al traino, omettendo di adottare le misure necessarie ad evitare l’evento dannoso»; nella fattispecie, è stata riconosciuta la responsabilità della Lega per aver ammesso alla competizione il gareggiante, poi deceduto in seguito a naufragio, gravato da una limitazione di navigabilità entro le sei miglia, pur in previsione di un campo di gara in alto mare. 226

Cass. pen., 4 maggio 2010, n. 32697, in Guida dir., 2010, pp. 49-50 e p. 76, per la quale «il direttore di un autodromo, anche a prescindere dalle norme cautelari specifiche dettate dai competenti organismi, nazionali e/o internazionali ..., al fine di ridurre al minimo le conseguenze per il pilota e per l’autovettura e, comunque, di realizzare tendenzialmente l’incolumità del pilota, è tenuto a rispettare le ordinarie regole cautelari ...»; Cass., 28 febbraio 2000, n. 2220 in Danno e resp., 2000, p. 614. 227 Così, S. GALLIGANI-A. PISCINI, Riflessioni per un quadro generale della responsabilità civile nell’organizzazione di un evento sportivo, in Riv. dir. ed econ. dello Sport, 2007, p. 118. 228 Così, M. BONA-A. CASTELNUOVO-P.G. MONATERI, La responsabilità civile nello sport, cit., p. 43 ss. 229

Vero è che molto spesso, in sede di applicazione pratica, la prevedibilità è stata valutata “a posteriori” e numerosi sono i casi a tal riguardo annoverabili. Pensiamo alla responsabilità attribuita ad una associazione che gestiva un circolo sportivo si squash, che, durante un incontro ufficiale ivi ospitato, pur avendo osservato tutte le prescrizioni regolamentari in tema di sicurezza, non

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l’evento verificatosi in occasione dei recenti Giochi olimpici di Vancouver del 2010, durante i quali lo slittinista Nodar Kumaritashvili, uscito dal budello di gara, finisce con lo scontrarsi contro un palo ghiacciato. Sul caso si è concentrata la dottrina, fermata ad interrogarsi sulla esistenza del nesso di causalità dell’evento lesivo con la idoneità della struttura e delle modalità di organizzazione degli impianti destinati ad ospitare i Giochi olimpici. La soluzione a cui, in questo ed altri casi simili, si arriva, è quella che riconosce il limite della responsabilità dell’organizzatore nei confronti degli atleti nel cd rischio consentito, oltre il quale verrà in rilievo una responsabilità dell’organizzatore che richiederà di valutare se il danno sia stato provocato da particolari modalità organizzative della gara stessa che abbiano esposto gli atleti ad un rischio superiore a quello consentito 230.

5.1. La responsabilità del CONI e delle Federazioni sportive Come detto in precedenza, dunque, può rivestire la qualifica di organizzatore di eventi sportivi sia «la persona fisica che giuridica, l’associazione non riconosciuta ex art. 36 c.c. ed il comitato che si assume tutte le responsabilità al fine di promuovere l’incontro tra uno o più atleti, per raggiungere un risultato in una o più discipline sportive, indipendentemente dalla presenza o meno di spettatori e, quindi, indipendentemente dal pubblico spettacolo» 231. Tradizionalmente si distingue tra: organizzatori “di diritto”, così detti perché appartenenti ad una Federazione e forniti di regolare autorizzazione per organizzare una manifestazione sportiva; organizzatori “di fatto” non appartenenti ad alcuna Federazione e non muniti di autorizzazione; ed, in ultimo, organizzatori “pro tempore” non federati, ma autorizzati ad organizzare un evento sportivo 232. Sembrerebbe non rientrare in nessuna delle richiamate categorie, il CONI, la cui responsabilità è stata esclusa ogni qual volta si trovasse a patrocinare semplicemente l’evento senza curarne l’organizzazione. Di tale avviso è stata, ed è tuttora, la Suprema Corte che, generando un leading case in materia, ha escluso in linea di principio la responsabilità del CONI sostenendo che non rientra tra i suoi compiti ispettivi aveva previsto che un colpo anomalo avrebbe potuto scavalcare le protezioni e colpire gli spettatori. Cfr. Trib. Milano, 12 novembre 1992, in Riv. dir. Sportivo, 1993, p. 499. 230 Diverso è l’inquadramento dell’attività organizzativa nell’ambito della applicabilità dell’art. 2050 c.c., per il solo fatto che la stessa esponga gli atleti ad un rischio superiore a quello consentito nel singolo sport, con conseguente onere dell’organizzatore di dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee a contenere il rischio di lesioni nei limiti di quello accettato, anche nel rispetto di eventuali Regolamenti sportivi. Si veda al riguardo Cass., 20 febbraio 1997, n. 1564, in Riv. dir. Sportivo, 1997, p. 229, nonché in Resp. civ. e prev., 1997, p. 699. 231

Definizione fornita in dottrina da P. DINI, L’organizzatore e le competizioni, cit., p. 416.

232

Cfr. al riguardo B. BERTINI, La responsabilità sportiva, cit., p. 120.

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quello di vigilare sull’organizzazione concreta delle singole manifestazioni sportive 233, essendogli attribuito 234 unicamente un potere di regolamentazione e di controllo delle varie discipline e non anche una funzione di organizzazione delle stesse che farebbe, invece, capo alla singola Federazione di competenza. È chiaro, quindi, che diversa è la posizione delle Federazioni sportive nazionali che sono naturalmente investite di poteri ispettivi e di controllo sulle singole discipline; questo è possibile considerando che le Federazioni sportive, pur facendo capo al CONI ed essendo sottoposte alla sua vigilanza, godono al tempo stesso di autonomia giuridica e, conseguentemente, sono destinatarie di responsabilità per l’organizzazione delle singole gare sportive. Le Federazioni sportive, infatti, pur partecipando alla natura pubblicistica del CONI, contemplano tra le proprie competenze di natura “privatistica” l’attività di organizzazione degli eventi sportivi 235 in forza della quale, anche la giurisprudenza di merito 236 ha riconosciuto la responsabilità delle Federazioni. Ovviamente la responsabilità potrà incardinarsi in capo alle Federazioni o al CONI a seconda della natura che, caso per caso, viene a configurarsi: così che si arriverebbe a riconoscere la responsabilità del CONI ogni qual volta l’attività svolta nel caso concreto dalla singola Federazione abbia valenza pubblicistica (pensiamo all’art. 23, comma 1 dello Statuto del CONI), ed una responsabilità, invece, della sola Federazione in relazione a quelle attività che rientrano nell’autonomia tecnico-organizzativa di natura privata; questo perché il CONI ha sicuramente pieno controllo sulle attività di natura

233

Così, Cass., Sez. Un., 12 luglio 1995, n. 7640, in Riv. dir. Sportivo, 1996, p. 75. Si trattava di un caso che vedeva coinvolto un atleta che, inviato dalla Federazione Italiana Pentathlon Moderno ad una competizione internazionale senza un’adeguata preparazione, era caduto nel corso della gara di equitazione a causa del rifiuto del cavallo di saltare l’ostacolo, ed aveva riportato gravissime lesioni. Ma per l’affermazione secondo cui «al Coni in nessun caso potrebbe dirsi attribuita anche la qualifica di organizzatore delle manifestazioni sportive», si veda Cass., 16 gennaio 1985, n. 97, in Giur. it., n. 1, 1985, I, c. 1221. 234

Dalla legge istitutiva 16 febbraio 1942, n. 426, oggi abrogata dal d.lgs. 23 luglio 1999, n. 242, portante il “Riordino del Comitato olimpico nazionale italiano – CONI, a norma dell’articolo 11 della legge 15 marzo 1997, n. 59” c.d. decreto Melandri. 235

Già prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 242/1999, le Sezioni Unite della Cassazione avevano riconosciuto la tesi della natura “mista”, di diritto pubblico e di diritto privato, delle Federazioni sportive (Cass., Sez. Un., 9 maggio 1986, n. 3092, in Foro it., 1986, I, c. 1254; Cass., Sez. Un., 9 maggio 1986, n. 3091, ibidem, c. 1259). 236

Trib. Vigevano, sez. pen., 9 gennaio 2006, n. 426, in Resp. civ. prev., 2007, p. 334. Nel caso in questione, il Tribunale di Vigevano riconosceva la responsabilità della FIGC, quale committente ex art. 2049 c.c., per la colpevole imperizia di un medico sportivo operante in un centro riconosciuto, che, omettendo ulteriori accertamenti, aveva attestato l’idoneità alla pratica agonistica di un quattordicenne, in seguito deceduto durante un incontro, a causa di un arresto cardiocircolatorio; ciò, in quanto lo statuto della FIGC prevede all’art. 3 che la Federazione persegue il fine della pratica del calcio anche attraverso “la tutela medico sportiva degli atleti”, e ciò, anche in forza del d.m. 18 febbraio 1982.

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pubblicistica svolte dalle Federazioni, legittimandone così il riconoscimento della responsabilità 237.

6. La responsabilità del medico sportivo Sicuramente degna di nota – anche in considerazione dei profili di responsabilità che le vengono variamente attribuiti – è la figura del medico sociale, ossia quel professionista che opera a servizio di una società esercitando la sua attività nell’ambito sportivo. Il medico sociale altro non è se non uno specialista di medicina dello sport, responsabile sanitario della società sportiva professionistica, iscritto in un apposito elenco presso la Federazione sportiva di appartenenza che trova l’attuale regolamentazione normativa all’art. 5, ultimo comma del d.l. 30 dicembre 1979, n. 663, convertito con modificazioni in legge 29 febbraio 1980, n. 33 che attribuisce la finalità della tutela sanitaria delle attività sportive non solo ai medici della Federazione medico-sportiva italiana, ma anche al personale e alle strutture pubbliche e private convenzionate, nel rispetto delle modalità fissate dalle Regioni d’intesa con il CONI, sulla base di criteri tecnici generali da adottarsi con decreto del Ministro per la Sanità 238. Tutti i richiamati soggetti hanno, ai sensi dell’art. 2, comma 1, legge n. 1099/1971, il compito di accertare l’idoneità e l’attitudine di chi intende svolgere attività agonistico sportive attraverso l’espletamento di visite mediche di accertamento e controllo 239 tenendo in considerazione i criteri tecnici dettati dal d.m. 5 luglio 1975, portante la “Disciplina dell’accesso alle singole attività sportive (età, sesso, visite obbligatorie)” attraverso il quale il Ministro per la Sanità ha indicato i parametri da tenere in considerazione ai fini della valutazione medica. È stato, poi, attraverso il d.m. 18 febbraio 1982 recante “Norme per la tutela sanitaria dell’attività sportiva ago237

Si pensi alla ipotesi in cui la Suprema Corte ha negato la responsabilità della FISI (Federazione Italiana Sport Invernali), affermando, invece, quella diretta del CONI per l’omologazione di una pista da sci non conforme alle prestazioni tecniche. In tal senso, Cass., 23 giugno 1999, n. 6400, in Riv. dir. Sportivo, 2000, p. 521. 238 Per un’analisi ampia e dettagliata delle norme dettate in tema di tutela sanitaria delle attività sportive, si v. G. PACIFICO, L’idoneità alla pratica sportiva agonistica e non agonistica: normativa nazionale di riferimento, in C. BOTTARI-R. NICOLAI-G. PACIFICO, Sport e sanità, Bologna, 2008, p. 87 ss.; F. BRIGUGLIO, La tutela sanitaria delle attività sportive, in C. BOTTARI (a cura di), Attività motorie ed attività sportive: problematiche giuridiche, Padova, 2002, p. 162 ss. 239

Tali valutazioni andranno eseguite alla luce delle prescrizioni dettate dal comma 2 dell’art. 2 della legge n. 1099/1971, che fa riferimento ad un decreto del Ministro per la Sanità, di successiva emanazione, volto a dettare una disciplina in ordine alle modalità di esercizio della tutela per le singole attività sportive, con particolare riferimento al sesso, all’età o alla qualifica dilettantistica o professionistica di coloro che praticano le rispettive attività.

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nistica” che il legislatore ha inteso precisare l’opportunità, per quanti praticano attività sportiva agonistica, di sottoporsi periodicamente al controllo della idoneità richiesta specificamente per l’attività sportiva che intendono svolgere, offrendo anche una più esaustiva definizione di “attività agonistica” intesa come «quella forma di attività sportiva praticata sistematicamente e/o continuativamente e soprattutto in forme organizzate dalle Federazioni Sportive Nazionali, dagli Enti di Promozione Sportiva riconosciuti dal Coni e dal Ministero della Pubblica Istruzione per quanto riguarda i Giochi della Gioventù a livello nazionale, per il conseguimento di prestazioni sportive di un certo livello. L’attività sportiva agonistica non è quindi sinonimo di competizione. L’aspetto competitivo, infatti, che può essere presente in tutte le attività sportive, da solo non è sufficiente a configurare nella forma agonistica una attività sportiva» 240. In occasione di tali accertamenti, il medico sociale è chiamato a compilare una scheda di valutazione medico-sportiva ed a rilasciare, ai soggetti che sono riconosciuti idonei, il relativo certificato di idoneità, solo a seguito del quale sarà possibile la partecipazione alle attività agonistiche 241. La rilasciata scheda sanitaria accompagna l’atleta per tutta la durata della sua attività sportiva professionistica dovendo essere aggiornata almeno ogni sei mesi 242. L’iter della normativa volta a disciplinare l’attività del medico sportivo, si è arricchito con il d.m. 24 aprile 2013 recante la “Disciplina della certificazione dell’attività sportiva non agonistica e amatoriale e linee guida sulla dotazione e l’utilizzo dei defibrillatori semiautomatici e di eventuali altri dispositivi salvavita” sul quale è intervenuta la recente legge 9 agosto 2013, n. 98 disponendo garanzie sanitarie ulteriori, utili al fine di salvaguardare la salute dei cittadini che praticano un’attività sportiva.

240

Così, circolare 31 gennaio 1983, n. 7 del Ministero della Sanità, esplicativa del d.m. 18 febbraio 1982. 241

Sul punto si veda Cass. pen., 7 luglio 1992, in Cass. pen., 1994, p. 1504, che ha ritenuto responsabile di omicidio colposo i componenti del Comitato direttivo dell’Unione Italiana Sport Popolari di Prato, che avevano consentito all’atleta, mediante il rilascio della vidimazione provvisoria del cartellino e senza acquisire la debita e completa certificazione medica di idoneità allo sport agonistico, di partecipare ad un torneo di calcio. 242 È la società sportiva di appartenenza che è tenuta ad istituire la scheda sanitaria al momento della costituzione del rapporto di lavoro con l’atleta, preoccupandosi che la stessa sia costantemente aggiornata da parte del medico sociale che ne ha la custodia per tutta la durata del rapporto di lavoro. Qualora si tratti di sportivo professionista autonomo, la scheda sanitaria viene redatta dal suo medico di fiducia, scelto tra gli specialisti di medicina dello sport e viene conservata dall’atleta che ne deposita il duplicato prodotto dal proprio medico di fiducia presso la Federazione sportiva di appartenenza ai sensi dell’art. 5, d.m. 13 marzo 1995.

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6.1. La responsabilità del medico per l’erronea valutazione dell’idoneità dell’atleta all’attività sportiva agonistica. Il caso Curi Per molto tempo, sia la dottrina che la giurisprudenza, sono state impegnate a cercare una corretta qualificazione della responsabilità eventualmente ascrivibile al medico sportivo che, proprio in considerazione degli obblighi sopra esposti, è tenuto ad osservare una diligenza massima, anche maggiore di quella richiesta ad un medico generico, considerato il ruolo di garante del diritto alla salute che il medico sportivo riveste. Sul tema ha segnato un precedente significativo, la pronuncia della Corte di cassazione sul caso Curi, giocatore affetto da una aritmia cardiaca, non diagnosticata e poi deceduto sul campo 243. Nel corso del campionato di calcio del 1977, il giocatore del Perugia Renato Curi, accasciatosi improvvisamente in campo nel corso di una partita è deceduto subito dopo, a nulla valendo il pronto soccorso apprestatogli. Solo a seguito dell’autopsia la causa del decesso è risultata una cardiopatia di tipo evolutivo mai diagnosticata; più precisamente, negli anni precedenti alle visite mediche a cui si era sottoposto il calciatore si erano evidenziate alcune anomalie cardiache che lo avevano portato a sottoporsi ad ulteriori accertamenti presso il centro tecnico della FIGC di Coverciano, il cui direttore, pur dopo aver sottoposto il calciatore ad accertamenti, ne riconosceva l’idoneità al proseguimento dell’attività agonistica. Neppure il medico sportivo del Perugia, società che aveva nel frattempo tesserato Curi, pur riscontrando anomalie cardiache meritevoli, vietava l’attività sportiva al calciatore che, solo due anni più tardi decedeva sul campo di calcio. A seguito del decesso del calciatore, il direttore ed il cardiologo del Centro di Coverciano 244, insieme al medico sociale del Perugia venivano imputati per omicidio colposo e successivamente assolti dal Tribunale di Perugia per insufficienza di prove, non essendovi certezza sulla esistenza di un sicuro nesso di causalità tra le omissioni colpose contestate ai sanitari e il decesso del calciatore. Diversamente il cardiologo veniva assolto per non aver commesso il fatto, non essendo stato possibile riscontrare il suo personale coinvolgimento nella questione 245. La pronuncia del Giudice di prime cure veniva, però, disattesa dalla Corte d’appello la quale arrivava a pronunciare una sentenza di condanna per omicidio colposo, individuando nella condotta negligente del direttore di Coverciano la causa della prosecuzione dell’attività agonistica di Curi presso la squadra del Como e poi del Perugia 246. In sede di valutazione da parte dei Giudici di legittimità, le 243

Cass. pen., 9 giugno 1981, in Cass. pen., 1982, p. 1994.

244

Il cardiologo veniva assolto per non aver commesso il fatto, non essendo risultato il suo personale coinvolgimento nella valutazione degli esami effettuati a Coverciano. Così, Trib. Perugia, 2 maggio 1979, in Foro it., 1979, II, c. 316. 245

Trib. Perugia, 2 maggio 1979, in Foro it., 1979, II, c. 316.

246

App. Perugia, 26 marzo 1980, in Foro it., 1980, II, c. 627.

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soluzioni raggiunte dal Giudice di appello sono state disattese, arrivando ad annullare con rinvio la sentenza di merito e ponendo l’accento sulla determinazione dell’errore diagnostico del comportamento tenuto dallo stesso giocatore 247; nello specifico, la Suprema Corte riconosceva che «il Curi, fieramente, stoicamente e, al limite, eroicamente soffocando le sofferenze che, di fronte alle risultanze emerse nell’autopsia, non poteva non avvertire e, senza rivelarle ad alcuno, sempre superava gli sforzi che era chiamato a compiere, indomitamente battendosi per i colori della squadra che lo aveva ingaggiato. E se l’eventuale colpa della vittima non esclude, in tesi la rilevanza causale della colpa di chi alla tutela della sua integrità fisica e della sua incolumità era chiamato a provvedere, in quanto si inserisca nel medesimo determinismo eziologico, di essa va pur sempre accertata, come si diceva, l’esistenza o meno e, in caso affermativo, la rilevanza causale». Probabilmente a fare da cuscinetto alla determinazione assunta dai Giudici di legittimità è stata una lontana pronuncia del Tribunale di Roma 248, in forza della quale si escludeva il diritto al risarcimento dei danni incidenti sulla integrità fisica di uno sportivo, qualora l’erroneo giudizio espresso dalla Commissione medica sia dovuto al comportamento dello stesso sportivo interessato che, tenendo un comportamento reticente e del tutto sviante, abbia impedito un corretto apprezzamento delle proprie condizioni fisiche. 6.1.1. (Segue). La responsabilità concorrente della struttura sanitaria presso la quale il medico opera Attesa la delicata posizione rivestita dal medico sportivo chiamato a certificare l’idoneità alla attività sportiva agonistica dell’atleta, non poteva non porsi in dottrina un dibattito in merito al coinvolgimento, sotto il profilo della responsabilità, della struttura sanitaria presso la quale il professionista si trova ad operare. Si è parlato, a tal proposito, di una responsabilità ex art. 1228 c.c. “Responsabilità per fatto degli ausiliari” o ex art. 2049 c.c. “Responsabilità dei padroni e dei committenti”. In caso di responsabilità del sanitario che operi all’interno di

247 Cfr. Cass. pen., 9 giugno 1981, in Foro it., 1982, II, c. 268, in occasione della quale la Suprema Corte ha enunciato il principio, secondo cui la colpa professionale del sanitario – nel caso di specie, medico sociale del Perugia e direttore del centro tecnico federale di Coverciano – deve essere valutata con larghezza e comprensione per le peculiarità proprie dell’esercizio dell’arte medica in generale e di quelle relative ai casi concreti, ma pur sempre nell’ambito dei criteri dettati dall’art. 43 c.p. 248

Cfr. Trib. Roma, 20 ottobre 1969, in Riv. dir. Sportivo, 1969, p. 421. Critico nei confronti di questa pronuncia, è stata la dottrina capeggiata da V. FRATTAROLO, La responsabilità civile per le attività sportive, cit., pp. 106-107, secondo il quale il medico sportivo non può non tener conto che l’atleta ha, di solito, una forte motivazione al successo che può, addirittura, arrivare a spingerlo a mascherare condizioni di salute precarie.

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una struttura ospedaliera, la posizione avallata da consolidata giurisprudenza 249 è quella di riconoscere che, nonostante il contratto sia stato stipulato dal paziente con la struttura di riferimento, potrà essere chiamato a rispondere in via contrattuale, ex art. 1218 c.c., anche il medico, proprio in forza del contatto sociale che comunque si instaura con il “paziente-atleta”. Inutile dire che trattandosi di un soggetto che può rivestire i panni di libero professionista, un rilievo particolare meritano anche agli artt. 2229 c.c. e 2236 c.c. che sembrano limitare la responsabilità del prestatore d’opera, solo in caso di dolo o colpa grave 250 non trovando, invece, applicazione in relazione ai danni che siano conseguenza di negligenza o imprudenza.

7. La responsabilità degli insegnanti ed istruttori sportivi Altra figura nei confronti della quale è possibile muovere un rimprovero in termini di responsabilità, è quella degli istruttori e allenatori sportivi per i danni cagionati dai loro allievi a terze persone. Nell’ambito dell’attività di insegnamento e avviamento ad una pratica sportiva, gli istruttori rivestono un particolare ruolo di direzione e di controllo nei confronti dei loro allievi, proprio alla luce del quale, al verificarsi dei danni, si giustifica una loro responsabilità ai sensi degli artt. 2047 e 2048 c.c., relativi rispettivamente alle ipotesi di danni cagionati dall’incapace e alla responsabilità di tutori, precettori e maestri d’arte. Non può mancarsi di precisare che la responsabilità di tali soggetti sarà necessariamente proporzionata alla pericolosità dello sport da insegnare in concreto e quindi non potrà che essere valutata caso per caso. Sul punto la giurisprudenza di legittimità ha giustificato il ricorso all’art. 2048 c.c. considerato che tale disposizione «impone a chi abbia in affidamento allievi con mansioni di insegnamento nei loro confronti, l’obbligo di vigilare non solo affinché gli alunni stessi non abbiano ad arrecar danni a terzi, ma anche a che non abbiano a restar danneggiati da fatti o atti compiuti da essi medesimi, da loro coetanei o da altre persone» 251. L’art. 2048, in vero, si è da sempre rivelato portatore di contenuti piuttosto complessi, basti pensare alla stessa ratio della disposizione, dai più rinvenuta nella fonte di una pura e semplice presunzione di colpa, ma da taluno considerata, sulla base di una evoluta interpretazione, norma costitutiva di un autentico ‘dovere legale’ di garanzia verso i terzi 252. 249

Cass., 22 gennaio 1999, n. 589, in Danno e resp., 1999, p. 294. Uniformemente, C. CASTROL’obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto, in AA.VV., Le ragioni del diritto. Scritti in onore di Luigi Mengoni, vol. I, Milano, 1995, p. 147 ss.

NOVO,

250

Cfr. M. FERLINI, La responsabilità del medico sportivo, in Dir. econ. ass., 2004, p. 1146.

251

Cass., 3 febbraio 1972, n. 260, in Giust. civ., 1972, II.

252

Cass., 15 gennaio 1980, n. 369, con nota di M. BESSONE, La “ratio legis” dell’art. 2048 cod.

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Non meno ricorrente è la ricostruzione operata da altra parte della dottrina secondo cui la responsabilità del precettore troverebbe il proprio fondamento nella culpa in vigilando in forza della quale il precettore risponderebbe non solo per il fatto altrui, ma per il fatto proprio dell’omessa o inadeguata vigilanza sull’allievo danneggiante 253. Il danneggiato, quindi, non dovrà dimostrare la culpa in vigilando del precettore – che si intende presunta – ogni qual volta l’allievo abbia posto in essere un illecito nel periodo in cui si trovava sotto la sua vigilanza 254. Lo stesso concetto di “precettore” ha subito una sorta di “declassamento” passando dal voler far riferimento a quei soggetti che, quasi in maniera sostitutiva dei genitori curavano l’educazione dei fanciulli, ad una nozione meno rigida e riferita a coloro che, in ogni modo, si trovino a svolgere un’attività di insegnamento che comunque implichi un potere di direzione, controllo e sorveglianza degli allievi 255. Proprio il particolare ruolo da questi svolto, permette di comprendere perché la loro posizione venga presa in considerazione accanto a quella dei genitori e soprattutto le ragioni di una prova liberatoria particolarmente gravosa, ossia quella di «non aver potuto impedire il fatto» 256. In effetti, ai sensi del comma 3 dell’art. 2048 c.c., il precettore potrà liberarsi dalla responsabilità solo qualora riesca a provare di non avere potuto impedire il fatto lesivo dell’altrui incolumità, dimostrando di aver esercitato una vigilanza adeguata. La stessa valutazione della “adeguatezza” della vigilanza non dovrebbe avvenire secondo criteri rigidi ed assoluti, bensì in maniera elastica occorrendo correlarne il contenuto all’età e all’ordinario grado di maturazione degli allievi nel caso concreto 257. Una prova liberatoria, dunque, per nulla semplice da forniciv. e la responsabilità civile degli insegnanti per il fatto illecito dei minori, in Foro pad., 1981, I, p. 329. 253 C.M. BIANCA, La responsabilità, in ID., Diritto civile, vol. V, Milano, 1995, p. 700, dove si legge «quella degli insegnanti è una responsabilità indiretta per colpa propria. Essi rispondono per il fatto commesso da altri (gli allievi), ma ne rispondono per avere violato il loro dovere di vigilanza. La responsabilità degli insegnanti si basa su una colpa presunta». 254

Sostengono la “presunzione di colpa” del precettore ai sensi del comma 2 dell’art. 2048 c.c., ex multis, Cass., 28 marzo 1980, n. 2036, in Giust. civ., Mass., 1980; Cass., 10 febbraio 1981, n. 826, in Giust. civ., Mass., 1981. 255

Cfr. F. STADERINI, La responsabilità civile degli insegnanti e dei dirigenti scolastici, II ed., Milano, 1981, p. 79 intende i “precettori” a cui fa riferimento il comma 2 dell’art. 2048 c.c. come qualsiasi insegnante, a prescindere dal tipo di insegnamento impartito, ordine o grado di scuola, natura pubblica o privata della stessa. 256

Cass., 6 febbraio 1970, n. 263, in Mass., 1970; Cass., 4 marzo 1977, n. 894, in Mass., 1977; App. Milano, 7 marzo 1980, n. 375, in Arch. civ., 1980, p. 704; vedi, in dottrina, L. BILETTA, Note intorno agli artt. 2047 e 2048 cod. civ., in Dir. prat. assic., 1982, p. 20 ss.; M. COMPORTI, Fatti illeciti: le responsabilità presunte – Artt. 2044-2048, Milano, 2002, p. 271 ss., e P.G. MONATERI, Manuale della responsabilità civile, Torino, 2001, pp. 289-317 ss. 257 Cass., 23 giugno 1993, n. 6937, in Vita not., 1994, p. 227; Cass., 15 gennaio 1980, n. 369, in Foro pad., 1982, I, c. 329. In dottrina, si veda, M. FRANZONI, La responsabilità civile nel-

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re da parte dell’istruttore e non alleggerita dall’impostazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità che, determinando i criteri per la valutazione del caso fortuito, ha riconosciuto che «un evento dannoso non può dirsi fortuito quando colui che è chiamato a rispondere doveva e poteva comunque tenerne conto» 258. Una impostazione quella della Suprema Corte che sembra voler richiamare l’attenzione sul requisito della “prevedibilità” del danno; così se alcune pronunce sollevano l’insegnante dalla responsabilità appellandosi alle modalità del fatto dell’allievo 259, altre fanno leva sul criterio più rigoroso della prevedibilità del fatto che, anche improvviso, avrebbe comunque potuto essere previsto 260. Non si è mancato di rinvenire pronunce secondo le quali la prova liberatoria non potrebbe ritenersi raggiunta in forza della sola dimostrazione, da parte dell’insegnante, di non essere stato in grado di porre in essere un intervento repressivo della condotta dell’allievo sfociata nella produzione del danno, richiedendo anche la dimostrazione di aver adottato ex ante tutte le misure organizzative idonee ad evitare la situazione di pericolo 261. Se questo appena delineato sembra essere l’assetto dottrinale e giurisprudenziale venutosi a creare intorno all’applicabilità dell’art. 2048 c.c. alle ipotesi di danni arrecati a terzi dall’alunno, quid iuris nelle ipotesi di danno che l’allievo abbia, con la propria condotta, arrecato a se stesso? In tali circostanze, nonostante l’orientamento dominante tenda ad escludere l’applicabilità del disposto di cui all’art. 2048 c.c., bisogna, tuttavia, dare atto di quella giurisprudenza di merito 262 che, seppur minoritaria, ha ritenuto, invece, applicabile il 2048 c.c. anche nel caso in cui l’alunno provochi, con la propria condotta, un danno a se stesso. Ne è prova la pronuncia della III Sezione della Cassazione 263, attraverso la quale la Suprema Corte ha ribadito che «la rel’esercizio delle attività sportive, in Resp. civ., 2009, p. 928, secondo cui «posto che il dovere di vigilanza non è assoluto, occorre valutare le modalità del fatto per accertare se il sinistro sia dipeso da un fatto da ricondurre al rischio sportivo inerente al tipo di gara e se siano state adottate le cautele necessarie, in relazione all’età e alla maturità degli allievi. Qualora entrambi i giudizi si concludano con esito positivo, la responsabilità degli insegnanti per gli illeciti commessi dai minori partecipanti può essere esclusa». 258

Cfr. Cass., 27 luglio 1976, n. 2981, in Foro it., 1976, I, p. 2090.

259

Cass., 24 febbraio 1997, n. 1683, in Danno e resp., 1997, p. 451.

260

Cass., 15 gennaio 1980, n. 369, in Giust. civ., 1980, p. 200.

261

Cfr., Cass., 27 marzo 1984, n. 2027, in Dir. prat. assic., 1985, p. 303; Cass., 21 agosto 1997, n. 7821, in Giust. civ., Mass., 1997; Cass., 6 marzo 1998, n. 2486, in Giur. it., 1999, p. 265; Cass., 3 febbraio 1999, n. 916, in Giust. civ., Mass., 1999; Cass., 18 aprile 2001, n. 5668, in Foro it., 2001, I, c. 3098. 262 App. Milano 8 giugno 1962, in Riv. dir. Sportivo, 1963, p. 350; Cass., Sez. Un., 3 febbraio 1972, n. 260, in Giust. civ., 1972, I, p. 245, in Giur. it., n. 1, 1972, I, p. 1310 e in Foro it., 1972, I, p. 3522, con nota di GROSSI; App. Roma, 14 novembre 1988, in Temi Romana, 1988, II, p. 411; Trib. Napoli, 5 dicembre 1989, in Arch. civ., 1990, p. 393. 263

Cass., 1° agosto 1995, n. 8390, in Mass., 1995.

La responsabilità sportiva

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sponsabilità dell’insegnante per il fatto illecito dei suoi allievi, previsto dall’art. 2048, comma 2, c.c., si basa su una colpa presunta, cioè sulla presunzione di negligente adempimento dell’obbligo di sorveglianza degli allievi, ed è quindi responsabilità personale per colpa propria – presunta – e per il fatto altrui. Detta colpa, peraltro, quando si tratti di allievo minore, può riguardare anche il danno che lo stesso allievo ha procurato a se stesso con la sua condotta, in quanto l’obbligo di vigilanza dell’insegnante è posto anche a tutela dei minori a lui affidati, fermo restando la dimostrazione di non aver potuto impedire il fatto» 264. Differentemente, si è ritenuto che il pregiudizio subito dallo stesso allievo potesse trovare ristoro ai sensi dell’art. 1218 c. c. qualora l’insegnante non avesse ottemperato ai propri obblighi professionali, ivi incluso quello di vigilanza. Altra giurisprudenza è giunta a riconoscere la responsabilità del precettore per il danno che l’allievo procura a se stesso, in forza del principio generale del neminem laedere ex art. 2043 c.c., sempre che l’attore riesca a dimostrare la sussistenza, nel caso di specie, di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito, e quindi anche quelli soggettivi del dolo o della colpa 265. Vista l’insicurezza manifestata dalla stessa giurisprudenza, rilevante ed illuminante è stato il ruolo svolto dalla Suprema Corte che, pronunciandosi a Sezioni Unite, ha svolto quella particolare funzione nomofilattica e originato il precedente nel senso della la non applicabilità della rigida presunzione di responsabilità di cui al comma 2 dell’art. 2048 c.c. nei confronti degli insegnanti, per i danni che l’allievo abbia, seppur nel periodo di vigilanza del precettore, arrecato a se stesso. Questa la soluzione della Suprema Corte, anche perché riconoscere il contrario avrebbe postulato «una radicale alterazione della struttura della norma, che delinea una ipotesi di responsabilità per fatto altrui, in quanto il precettore risponde verso il terzo danneggiato per il fatto illecito compiuto dall’allievo in danno del terzo, per non averlo impedito in ragione di una presunzione di culpa in vigilando, laddove nel caso di autolesione il precettore sarebbe ritenuto direttamente responsabile verso l’alunno per un fatto illecito proprio, consistente nel non aver impedito, violando l’obbligo di vigilanza, che venisse compiuta la condotta autolesiva» 266. In maniera ancora più esaustiva, la richiamata giurisprudenza di legittimità non si è limitata ad escludere la responsabilità dell’art. 2048 c.c., ma ha prospettato una soluzione alla ormai annosa questione attraverso il richiamo dell’art. 1218 c.c. classificando la responsabilità del precettore come responsabilità contrattuale, 264

Cfr., Sez. Un., 11 agosto 1997, n. 7454, in Danno e resp., 1998, p. 260, con nota di ROSin Riv. Corte Conti, 1997, p. 284, in Resp. civ. e prev., n. 5 1998, p. 1071, con nota di SETTESOLDI, in Giur. it., 1998, p. 1714, in Rass. Avv. Stato, 1997, I, p. 162, con nota di NOVELLO, in Corr. giur., 1997, p. 1045.

SETTI,

265

Cass., 10 luglio 1958, n. 2485, in Giust. civ., Mass., 1958; Cass., 12 luglio 1974, n. 2110, in Giur. it., n. 1, 1975, I, c. 70; Cass., 13 maggio 1995, n. 5268, in Nuova giur. civ. comm., 1996, I, p. 239. 266

Cass., Sez. Un., 27 giugno 2002, n. 9346, in Nuova giur. civ. comm., 2003, p. 264.

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con una conseguente agevolazione a favore del danneggiato sia sul piano probatorio che della prescrizione (decennale anziché quinquennale). Più dettagliatamente le Sezioni Unite della Corte affermano: «sul piano dell’interpretazione letterale, l’art. 2048, comma 2, si riferisce espressamente al danno cagionato dal fatto illecito dell’allievo, presupponendo quindi un fatto obbiettivamente antigiuridico lesivo di un terzo. Ed allora, poiché non può ritenersi fatto illecito, obiettivamente antigiuridico, la condotta dell’allievo che procuri danno, non già ad un terzo ma a se stesso ... questa ipotesi deve restare fuori dall’area dell’art. 2048, comma 2 c.c.» 267. A sostegno della richiamata decisione, la giurisprudenza di legittimità ha voluto riportare il rapporto tra insegnante/istruttore e allievo nel genus dei rapporti contrattuali o, più precisamente, dei rapporti caratterizzati dal c.d. contatto sociale. Si pensi agli istituti scolastici, per i quali l’accoglimento della domanda di iscrizione e la conseguente ammissione dell’allievo determinerebbe l’instaurazione del vincolo negoziale, nel quale rientra inevitabilmente anche l’obbligazione di vigilare sulla sicurezza e incolumità dell’allievo nel tempo in cui questo fruisce della prestazione scolastica, non solo perché non arrechi pregiudizio a terzi, ma neanche a se stesso 268. In questi termini, l’attore che convenga in giudizio la struttura (scuola, palestra, ecc.) e l’insegnante dovrà provare che il danno si è verificato nel corso dello svolgimento del rapporto, gravando, invece, sui convenuti la prova che l’evento dannoso sia stato determinato da causa a loro non imputabile 269.

267

Cass., Sez. Un., 27 giugno 2002, n. 9346, cit., p. 264.

268

Parte della dottrina ha, in verità, mostrato dubbi in ordine alla configurabilità della responsabilità dell’insegnante in termini di contatto sociale, si veda sul punto, G. FACCI, Minore autolesionista, responsabilità del precettore e contatto sociale, in Resp. civ. prev., 2002, p. 1033; S. FAILLACE, Questioni controverse in ordine alla responsabilità da “contatto sociale”, in Resp. civ., 2004, p. 255, il quale evidenzia come la qualifica professionale del maestro, che rappresenta uno dei presupposti della teoria del contatto sociale, non ha direttamente ad oggetto la salvaguardia dell’incolumità fisica degli alunni, ma la sola attività di insegnamento, con la conseguenza che, laddove il minore riporti un danno alla persona, il ricorso alle regole che disciplinano la responsabilità per inadempimento dell’insegnante non sarebbe del tutto appropriato. 269 In senso conforme, Cass., 11 giugno 2012, n. 9437, in Dir. e Giust., 2012; Cass., 3 febbraio 2011, n. 2559, in Dir. e Giust., 2011; Cass., 26 aprile 2010, n. 9906, in Giust. civ., Mass., 2010.

Codice della Giustizia Sportiva Delibera n. 1538 Consiglio Nazionale 9 novembre 2015 (Approvato con Decreto Presidenza Consiglio dei Ministri 16 dicembre 2015)

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Finito di stampare nel mese di marzo 2016 nella Stampatre s.r.l. di Torino – Via Bologna, 220