Dynergis. Lineamenti di fondazione dell'etica


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Dynergis. Lineamenti di fondazione dell'etica

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Ringrazio Gianfranco Monnino per aver discusso e alimentato con i suoi stimoli e suggerimenti la stesura di queste pagine. Ringrazio Roberto Diodato per l'attenzione e il sostegno che vi ha dedicato. Un pensiero e una dedica ideale infine a Carlo Sini che con i suoi scritti, le sue le-.aoni e i suoi interventi è stato per me maestro di pensiero e punto di riferimento 6loso6co.

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Introduzione

Il problema della fondazione dell"etica attraversa i millenni. Esso è stato posto e riconosciuto in modi ora più ora meno espliciti nella storia di quello che viene chiamato Occidente, ma si può immaginare che abbia sempre premuto sotterraneo in ogni posizionamento umano nell'universo. Quando si parla di ''etica", al di là delle differenti sfumature di significato e dei molteplici modi in cui questo termine viene compreso, si intende comunemente la riflessione circa la giusta normazione del comportamento umano, la quale deve contenere una chiarificazione di concetti quali "bene e male"", "giusto e sbagliato", "dovere", "valore", "virtù" ed altri, attraverso cui mostrare come le pratiche di vita umane dovrebbero articolarsi. Nel corso della storia sono apparse, in questo senso, etiche tra loro molto diverse, sia per il loro contenuto normativo sia per le ragioni cui si appoggiavano per trarre la loro validità. Diciamo questo a un livello generale e ancora molto superficiale solo per avvicinarci all'idea di cosa si debba intendere con "fondazione" dell"etica: essa in prima battuta va considerata come l'individuazione e la definizione dei concetti che strutturano un"etica, cioè le radici in cui affonda una determinata postura nel mondo per legittimarsi come giusta (esibendo a sua volta il perché del suo esse-

re tale). Come è comprensibile, a seconda di dove si inabissi per nutrirsi, l"etica può assumere forme assai diverse; nel comprendere proprio la sua incredibile varietà di evoluzioni, non si può non tener ben ferma, in una simile analisi, la riflessione sull'orizzonte storico in cui una determinata etica si è sviluppata (per comprenderne le ragioni); e dunque, per fondare oggi un'etica valida che permetta di vivere bene nel nostro tempo, è anche necessario rivolgersi a un attento studio dei fenomeni propri di questa (e nessun'altra) epoca e delle conseguenze in campo di revisioni, approfondimenti e stravolgimenti da prendere in merito alle risposte date in passato al nostro problema. L'etica, qualunque specificità assuma nei diversi sistemi in cui venga pensata, dipende anche da una visione del mondo e della natura ultima delle "cose"; giocoforza porta con sé i relativi problemi gnoseologici ed epistemologici legati alla sua ontologia specifica e perciò, per valutare la validità di un ordinamento morale, è fondamentale vagliare anche il campo ontologico in cui si radica. Un'etica, ad esempio, che abbracci l'idea dell'esistenza di un'anima umana che possieda la libertà di scegliere le proprie volizioni, che magari sopravviva al corpo, non potrà che essere molto differente rispetto a un'altra che non ammetta resistenza di tale entità. In questo senso le conoscenze che si hanno del mondo (naturale, sociale, culturale ... ) in una data epoca sono cruciali; un loro approfondimento può mutare ordini ontologici assunti in precedenza e insieme riverberarsi sulla riflessione morale; un fenomeno di questo tipo ha avuto luogo, ad esempio, con la pubblicazione de L'origine delle specie1, momento oltre il quale non è più stato possibile pensare, al di là che in un significato allegorico, alla creazione ex nihilo di un primo uomo. Da qui, come è evidente, vengono meno tut-

1. C. Darwin, Vorigine delle specie, tr. it. di C. Balducci, Newton Compton, Roma 2017.

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te le conseguenze etiche che volessero in tale sola narrazione trovare la fonte della propria validità. Vi sono però stati anche pensatori che sostengono la possibilità di un accesso corretto e immediato alla dimensione morale senza tener conto di alcuno stato "esterno" alla propria soggettività; per costoro, invece, qualsiasi riferimento ad altro rispetto alla libertà della volontà nell'orientare le proprie azioni è, si potrebbe dire, un tradimento della vera moralità e perciò di principio una postura etica sbagliata: dunque chi ascoltare? Ciò che è giusto compiere muta nel tempo o rimane identico a sé? Quali ragioni sostengono questi diversi sentieri e le ramificazioni in cui si irradiano? Nello svolgersi della propria esistenza chiunque performa una specifica postura morale, nella maggior parte dei casi quella che ci si trova cuciti addosso dalla famiglia in cui si nasce, dalla città in cui si vive, dallo Stato in cui si opera e dall'epoca in cui si è raccolti, senza che si metta in discussione con la giusta radicalità i contenuti assiologici di simile eredità: per questa ragione abbiamo scelto di affrontare innanzitutto il problema dellafondazione dell'etica in generale. La modalità con cui procederemo alla sua analisi permetterà infatti di rinvenire i materiali con cui alcune tra le massime teorizzazioni in merito costruiscano la scacchiera su cui dispongono le loro categorie; studiando le loro premesse e i loro risultati, le domande cui cercano di rispondere, r orizzonte in cui prendono dimora, illumineremo ogni angolo del campo che una riffessione morale deve curare per essere completa e avremo sotto il nostro sguardo i punti oscuri delle prospettive in gioco. La prima sezione è perciò dedicata a sistemi etici che hanno avuto un peso decisivo e dominante nel pensiero morale occidentale; questo lavoro preliminare è necessario per avere una precisa illustrazione dell'area di indagine, ma non solo; esso verrà svolto con Io scopo di far propri i risultati più convincenti di ognuna delle riflessioni in esame e di aprire uno spazio teoretico in cui si possano coniugare e rinforzare l'un l'altro, superando le ragioni che li oppongono

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e li vogliono nemici. Così, nella seconda sezione, raggiungeremo autentico frutto della presente trattazione: la fondazione di un'etica particolare che tenterà di evitare le difficoltà che interessano le altre e di far proprie le loro virtù.

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È importante mettere in discussione e dismettere reredità assiologica con cui si è stati vestiti, fosse solo per indossarla di nuovo ma con maggiore sicurez7.a. È anche altresì evidente che ogni "messa in discussione,, è a sua volta situata in un contesto culturale che può favorirla ora più, ora meno; si potrebbe perciò presentare il rischio di un rimando all'infinito dell'interrogazione, cioè il paradosso dell'interrogare un'eredità che si dà nell'interrogazione di sé: ma che validità possono avere i risultati teoretici di una messa in discussione dell'eredità culturale che costituisce soggettività in un certo modo rispetto, ad esempio, a una cultura che non lo permettesse, se i contenuti della prima sono comunque un ''prodotto culturale" quanto quelli della seconda? Sen7.a dubbio bisogna saper frequentare una simile circolarità, di cui, in un certo senso, non ci si libera in nessun ambito di riffessione. Da qualche parte tuttavia bisogna iniziare e si deve render conto della scelta, nei limiti delle proprie forze, finché non si piega la vanga con cui si scava2; il punto da cui ci pare più ragionevole muovere per aprire uno spiraglio nella sorta di circolo ermeneutico sopra proposto è ben presentato dalle parole di Étienne de la Boétie, quando scrive: «non esiste[ ... ] erede tanto prodigo e incurante da non gettare qualche volta uno sguardo sulle carte del padre, per vedere se goda o meno di tutti i diritti di successione, o se qualcosa è stato intrapreso contro di lui o il suo progenitore»3 • Il nostro inizio è dunque l'irriducibilità costitutiva degli indi-

2. Ci riferiamo alla metafora di Wittgenstein. 3. É. de La Boétie, Discorso della seroitù oolontaria, tr. it. di E. Donaggio, Feltrinelli, Milano 2014, p. 43.

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vidui nei loro bisogni e interessi, i quali possono essere meglio o peggio realiz7.ati nelle circostanze in cui si trovano a vivere; a partire di qui r esame di tale orizzonte, insieme alranalisi ontologica degli enti in questione, potrà dirci di più circa le direzioni operative in cui un'etica dovrebbe articolarsi non solo oggi, ma, come vedremo, in un senso universale: in questo modo troveremo anche un criterio per saggiare la bontà delle etiche specifìche passate e per guidare la costruzione di etiche future. Lo diciamo subito: il pensiero di Baruch Spinoza rappresenta la chiave di volta della nostra ricerca. La sua metafisica e le conseguenze etiche che ne derivano avranno un peso decisivo nello sciogliere i nodi che via via incontreremo. E tuttavia, come sarà presto chiaro, questo non è un lavoro su Spinoza: le pagine che lo riguardano infatti interessano circa un quinto di quanto discusso e serviranno a profilare r atmosfera concettuale in cui si muoverà il momento costruttivo della nostra indagine; esse sono inoltre precedute, come già si è accennato, da un confronto di più ampio respiro con alcune prospettive fondamentali e dominanti nell'evoluzione del pensiero occidentale. Ma in questa sede non si vuole nemmeno aprire uno scorcio di storia della filosofia in cui si presentino in successione le idee di pensatori differenti sopra un determinato argomento: ci sono molti e buoni manuali che svolgono bene tale compito e sarebbe 6Iosofìcamente poco interessante impegnarsi in qualcosa del genere per rispondere alle nostre domande. Perciò la breve presentazione delle linee teoriche generali di ogni proposta etica affrontata in queste pagine è volta solo a fornire gli strumenti con cui si lavorerà; nella prima sezione tali presentazioni saranno sempre seguite da un'analisi critica che, nei limiti della comprensione di chi scrive, indicherà le rispettive fragilità degli argomenti in questione; ogni disamina verrà infine completata dal riconoscimento di quelle che esibiremo, assumendoci il rischio di simile scelta, come le loro virtù proprie: saranno queste a non poter mancare alla postura etica che si tenterà di

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scolpire lungo il nostro percorso. Insomma, non si tratterà qui di parlare di filosofia, ma invece di maneggiare idee cercando in questo esercizio, per quanto possibile, di fare filosofia. L>epoca in cui viviamo è costellata di fenomeni mai presentatisi in precedenza nella storia dell>umanità, perlomeno indossando le vesti attuali e con simili possibilità tecnologiche; i confronti teoretici e pratici cui chiamano i nostri tempi si distinguono per rincredibile complessità che li caratterizza e per r ampiezza dei settori interessati. La sfida che si raccoglie in questa sede, bisogna ammetterlo, è connotata da una storica e strutturale irresolubilità: il mondo ha infatti visto moltissime etiche scavalcarsi run r altra, e così continuerà con ogni probabilità ad essere. Ma, per ragioni che cercheremo a mano a mano di chiarire, questo non è un buon motivo per sottrarsi a un simile confronto. Giunti sin qui, citando il filosofo Richard Mervyn Hare, che come vedremo ha focalizzato alcuni punti cruciali per avan7.are nel labirinto in cui stiamo per awenturarci, ci si potrebbe allora domandare: come scegliere un>etica4? Come orientarsi nella foresta di risposte che la storia offre al nostro problema e sulla base di quale criterio accogliere o rifiutare una prospettiva invece che un>altra? In quale terreno è bene radicare un>etica affinché fiorisca forte e rigogliosa nelrorizzonte di questi tempi? Di più: che cosa è bene e che cosa è male? Quali sono le azioni giuste da compiere? Che cos>è, e come si raggiunge, la felicità? Chi deve essere considerato degno di attenzione etica? Come bisogna intendere dawero r"etica»? E ad ogni questione qui avanzata leviamo la seguente, semplice ma rovinosa, domanda: perché? Un>etica e la sua fondazione non ambiscono a niente meno che rispondere a tutto questo e a molto altro. Se il cammino che ci accingiamo a percorrere conduce da qualche parte, se

4. R.M. Hare, Scegliere un>etica, tr. it. di L. Ceri, il Mulino, Bologna 2006.

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la prospettiva conquistata al suo termine avrà una qualche consistenza, se si perfonnerà un valido tentativo di quell'esercizio di radicale interrogazione del mondo che è la filosofia, saremmo felici di esserci avvicinati anche solo di poco a una possibile soluzione per le domande poc'anzi sollevate.

Prima sezione

Sentieri

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I Immanuel Kant

1. La Fondazione della metafisica dei costumi

La prima posizione con cui ci confronteremo è quella di Immanuel Kant. Essa si presenta come un alto tentativo di fondazione razionale dell'etica, con l'ambizione di chiarire niente meno che l'intero spazio dell'azione morale, insieme a tutto quello che orbita al suo interno. Per compiere tale progetto Kant ritiene che si debba affrontare una «ricerca [Aufsuchung] e determinazione [Festsetzung] del principio supremo della moral,ità» 1• All'individuazione [ricerca] di tale principio, dedica le prime due sezioni della Fondazione della metafisica dei costumi; al secondo punto, la tel7~ sezione. Al posto che "determinazione" bisognerebbe tradurre con "consolidamento"; infattifest-setzen non indica propriamente un detenninare, ma invece un render-fisso,solido, capire dove sia il fondamento di un qualcosa che già vi sia e possa esser fatto emergere. Bisogna insistere su questo punto non tanto per pignoleria, quanto per sottolineare l'adesione di Kant a un'idea molto diffusa nella

1. I. Kan~ Fondazione della metafisica Bompiani, Milano 2019, p. 51.

dei costumi, tr. it. di V. Mathieu,

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sua epoca: la piena disponibilità dei criteri di giudizio morale e la facilità della loro conoscenza2 • Ci si potrebbe domandare a cosa serva la riflessione filosofica se «la conoscenza di ciò che ogni uomo è obbligato a fare, e quindi anche a sapere, [è] alla portata di ogni uomo, anche del più comune»3 • La particolare concezione dell'uomo che ha Kant, il quale, possiamo dire in prima battuta, lo vede diviso in un mondo governato dalla necessità naturale e insieme in un mondo intellegibile regolato da un'altra legge che, al contrario, lo rende libero, lo conduce innanzi al problema della seduzione che le inclinazioni dei sensi imporrebbero alla pura e innocente ragione4, impedendole in molti casi di determinare in modo giusto l'azione. Perciò il lavoro fondativo kantiano si propone come una chiarificazione del corretto funzionamento della facoltà pratica umana.

2. Anche Hume scrive, ad esempio: «Per quanto grande sia },insensibilità d,un uomo, egli non può non essere spesso colpito dalle immagini del giusto e dell,ingiusto; per quanto egli sia ostinato nei suoi pregiudizi, non può non osseivare che gli altri sono suscettibili di impressioni simili. L'unico modo, quindi, per convertire un avversario di questo genere, è di abbandonarlo a se stesso. Infatti, quando vedrà che nessuno entra in discussione con lui, è probabile che, alla fine, da solo, per semplice tedio, passi dalla parte del senso comune e della ragione. Vè stata una controversia, avviata di recente, molto più degna di esame, intorno ai fondamenti generali della morale, se essi siano derivati dalla ragione o dal sentimento [ ... ]» (D. Hume, Ricerca sui principi della rrwrole, tr. it. di M. Dal Pra, in D. Hume, Opere, a cura di E. Lecaldano e E. Mistretta, 2 voli., Later.t.a, Bari 1971, voi. Il, p. 180). 3. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 81. 4. e&. ivi, p. 83.

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1.1. Che cosa è buono

L'incipit della Fondazione5 indica con chiarezza cosa per Kant è da considerarsi buono in senso assoluto: la volontà. Solo una volontà può essere detta buona sen7.a limitazioni. Qualsiasi altra "cosa" per essere buona in senso pieno deve appoggiarsi a questa condizione. Un'acuta intelligenza, ad esempio, riconoscibile come una dote da desiderare, potrebbe rivelarsi tutt'altro che una "cosa" buona, qualora fosse posseduta da una volontà che non sia buona; essa offrirebbe infatti a un malintenzionato che ne godesse la possibilità di causare molto più male che se invece ne fosse privo. Lo stesso vale per quelle che potrebbero essere indicate come proprietà del temperamento quali coraggio, decisione e costan7~ nei propri propositi, così come per beni ''esterni" quali ricchezza e onori, financo la felicità. Su quest'ultima è utile soffermarsi un momento, poiché essa, nei diversi modi di intenderla, ricopre un ruolo centrale in molte altre prospettive etiche. Nel Kant della Fondazione viene presentata come la somma della soddisfazione di tutti i desideri e come ciò per cui si ha un'inclinazione naturale6; con quest'ultimo concetto egli intende che la ricerca della felicità e il desiderio di raggiungerla si trovano in ogni essere umano. Tutti vogliono essere felici e perciò si potrebbe pensare che essere felici sia un bene in sé. Ma se ad essere felice fosse una persona che si sa per certo aver compiuto azioni terribili, il pensarla in una condizione gioiosa non potrebbe che renderla ancora più odiosa; non si può considerare il suo essere felice come qualcosa di buono e dunque la felicità non è da pensarsi come un bene di per sé,

5. «È impossibile ~nsare nel mondo, e, in genere, anche fuori di esso, una cosa che possa considerarsi come buona sen~limitazioni, salvo, unicamente, la 1JOlontà buona» (ivi, p. 55).

6. Cfr. ivi, p. 69.

22 ma solo secondario. Un osservatore imparziale e ragionevole infatti non sarebbe contento di chi la esperisse sen7~ una voùmtà buona: «la felicità da sola è ben lontana dalressere il bene completo per la nostra ragione. Questa non approva la felicità (per quanto rinclinazione la desideri) tranne che nel caso in cui la veda congiunta col merito di essere felici, cioè con una condotta morale buona»7 • Per fugare ridea che la volontà buona sia un concetto fantastico, Kant propone quello che si potrebbe chiamare rargomento teleowgico8 , il quale va incontro a premesse condivise dalla maggior parte dei lettori della sua epoca: rassunto è che la natura fornisca alle sue creature certe capacità in vista di certi scopi; così si hanno occhi per vedere, orecchie per sentire e via dicendo; perciò se la natura avesse dotato gli esseri umani della ragione per raggiungere la felicità «avrebbe preso per questo molto male le sue misure»9 , poiché la ragione è uno strumento inadeguato allo scopo, mentre gli ''istinti animali" sarebbero più adeguati. Inoltre Kant sostiene che quanto più una ragione è coltivata e cerca la felicità, quanto più, spesso, è infelice; dunque, poiché una ragione alruomo è data, ma non per raggiungere la felicità, e poiché tale ragione è anche una facoltà pratica, «cioè come tale che abbia un influsso sulla ooùmtà» 10, il suo fine deve essere quello di rendere buona tale volontà non in vista di al,tro, ma per se stessa: r alternativa alla felicità è perciò la dignità di ottenerla. Questo non significa che la felicità sia priva di valore, ma che è dipendente da una volontà

7. I. Kant, Critica della mgion 7mm, tr. it., a cura di P. Chiodi, Utet, Torino 2013 (1967 1), p. 612. 8. C&. J. 1immennann, Kanfs Groundwork ofthe Metaphysics of Momk. A Commenta,y, Cambridge University Press, Cambridge 2007, p. 39, nota 60. 9. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 59.

10. Ivi, p. 61.

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buona. Solo questa è da considerarsi il bene supremo con valore incondizionato e metro di paragone di tutto ciò che è buono. Si potrebbe replicare a Kant che ciò che afferma mantiene la sua validità a patto di riconoscere la definizione in cui costringe la felicità. Un malvagio criminale felice di ciò che fa non ha nulla di buono, certo, e questo anche perché la sua felicità, se essa è una mera somma di desideri realizzati, implicherebbe rinfelicità di molti altri (sia per rindignazione che farebbe emergere, sia perché è probabile che il suo concretizzarsi non terrebbe in conto di quella altrui); ma a questo punto ci si potrebbe domandare se è legittimo pensare alrautentica felicità in termini così personal,i, senza ricomprendere nel suo concetto anche quella degli altri. Tuttavia per attraversare e intendere uno in fondo la riflessione morale kantiana è necessario in un primo momento abbracciare lo spettro delle sue idee nel significato preciso che vi è stato riposto, e solo in un secondo momento tentare di ritoccarle o decidere di dismetterle. Perciò domandiamoci: se solo una volontà può trovarsi nella situazione di essere considerata incondizionatamente buona, di quali caratteristiche deve rispondere per essere valutata come tale?

1.2. Il dovere Si è detto che la volontà buona è condizione necessaria per essere degni di essere felici; essa, quando lo fosse, lo è non «per ciò che produce o costruisce, non per la sua attitudine a raggiungere un qualsiasi scopo prestabilito, bensì per il volere come tale» 11 ; questo volere è il bene supremo, che condiziona tutti gli altri. Per chiarire cosa intende, Kant a questo punto propone un esame del concetto di dovere, il quale, scrive, contiene ridea della volontà con limitazioni e impedimenti sogget-

11. Ivi, p. 57.

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tivi 12• Notiamo per inciso che Kant non ha ancora fornito una definizione di come vada intesa la volontà, la quale verrà stesa solo più avanti. Egli, in questa sezione che titola Passaggio dal,la conoscenza razionale comune della rnoral,e alla conoscenza razionale fil,osofica della morak, si serve ancora del concetto «comune'' di volontà, che potrebbe intendersi come «la facoltà e la capacità di volere, di scegliere e realizzare un comportamento idoneo al raggiungimento di fini determinati» 13• Tenendo fermo quesfultimo senso, rivolgiamoci allora all'analisi del concetto di dovere, che dovrà mostrarci quando una volontà può dirsi buona. Vi sono tre tipi di azione: azioni contrarie al dovere; azioni conformi al dovere per le quali gli umani non hanno inclinazioni; azioni conformi al dovere accompagnate da un'inclinazione immediata. Il primo caso non viene preso in considerazione, poiché è evidente che un'azione contraria al dovere non può essere affatto compiuta per dovere e perciò non dice nulla di esso. Anche il secondo caso non è interessante ai fini dell'analisi kantiana, poiché «si può facilmente distinguere se codeste azioni [ .. ~] siano compiute per dovere o per un'intenzione egoistica» 14• E dunque l'ultimo genere di azioni ad essere oggetto di indagine, poiché in esso è ben più difficile discernere se un'azione è compiuta per dovere o per inclinazione. Osserviamo ad esempio un commerciante prudente: il suo interesse a massimiZ7..are i propri profitti comporta che egli agisca onestamente con tutti i suoi clienti, sia che siano accorti o ingenui, perché qualora circolasse la voce che sia un approfittatore, il suo guadagno ne risentirebbe; egli dunque si comporta in modo onesto (azione

12. Cfr. ivi, p. 63. 13. Cfr. la voce Volontà, risorsa online: https://www.treccani.it/vocabolario/ volonta 14. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 65.

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conforme al dovere), ma non si riesce a discernere se agisca così perché è giusto o per il proprio interesse. Non va bene. Pensiamo allora al rimanere in vita, che per Kant corrisponderebbe, come vedremo, a un dovere perfetto verso di sé; nei confronti di esso chiunque ha un'inclinazione immediata e finché le circostanze che compongono un'esistenza non portano al suo rifiuto, è impossibile sapere se uno lo onori per dovere o per inclinazione; quest'ultimo punto si chiarisce solo nell'eventualità in cui un individuo sprofondi in un'irrimediabile infelicità e decida, nonostante non abbia timore cli uccidersi, di continuare a vivere per dovere, rivelando così la moral,ità della propria condotta. Qui il principio del dovere è ben più chiaro quando è ali'opera. Che dire invece di un filantropo, un benefattore dell'umanità che si spende in donazioni per aiutare il prossimo? Anche in questo caso, se le azioni di un siffatto uomo sono comandate dal dovere e non da una tendenza personale, possono dirsi giuste e rivelare un valore morale; non vi è dubbio che agli occhi di molti, se fossero compiute solo per ricevere onori, perderebbero il loro smalto; ma Kant è ben più severo. Ai suoi occhi sarebbero immorali perfino se eseguite per generosità. Tale inclinazione, infatti, è una caratteristica che può essere più o meno spiccata negli uomini e in quanto tale, una volta venuta meno, non garantisce che chi la possiede continui nella sua opera caritatevole: se invece l'azione generosa viene svolta per dovere, verrebbe compiuta lo stesso anche se si perdesse la qualità del carattere. È in questi termini che va letta la massima evangelica in merito all'amare il prossimo, compresi i nemici: essa è un'esortazione ad agire in base a principi anche contro la propria inclinazione. In conclusione, Kant ha proposto questi casi per far emergere un primo significato del concetto di dovere, che può essere espresso così: bisogna «compiere il bene non per inclinazione, ma per dovere» 15•

15. Ivi, p. 69.

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Una seconda caratterizzazione del dovere viene formulata nel seguente modo: un'azione compiuta per dovere trae il suo valore morale, non dalla finalità che persegue, bensì dalla massima in base alla quale la si decide: quindi non dipende dalla realtà dell' oggetto dell'azione, ma solo dal principio del volere in base a cui si compie l'azione, prescindendo da qualsiasi oggetto della facoltà di desiderare. 16

In questo luogo Kant dichiara il suo anticonsequenzialisnw; se con "consequenzialismo" s'intende una concezione che fa dipendere il valore morale dalle conseguenze delle azioni, lui è un suo nemico; gli oggetti esterni che muovono le azioni possono essere i più nobili, ma se non è nobile la massima (si potrebbe dire l'intenzione) con cui si agisce, non si è agito moralmente. Come spiegherà in una nota poco più avanti, "massima" è «il principio soggettivo della volontà» 17, la regola che la volontà si dà per agire; ad esempio, se un uomo decidesse di mantenere una promessa fatta a un suo amico, la massima che guiderebbe la sua azione suonerebbe come un "mantieni la promessa". Infine, Kant definisce il dovere come la «necessità di una azione che va compiuta per rispetto della legge» 18 • Con ''legge" non si intendono le leggi positive che regolano un determinato Stato, bensì il cuore della sua fondazione etica: la l,egge moral,e. A questo punto ancora non sappiamo molto di essa, se non che è nostro dovere agire rispettandola. Per questo motivo spiega in luogo della definizione di "massima" che essa è principio soggettivo del dovere, di contro a un principio oggettivo della volontà, «quello cioè che servirebbe anche soggettivamente da

16. Ivi, p. 71. 17. Ivi, p. 73. 18. Ivi, p. 71.

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principio pratico a tutti gli esseri razionali, se la ragione avesse un dominio pieno sulla loro facoltà di desiderare»: la «legge pratica» 19, o '1egge morale"". Ci troviamo in un punto cruciale e delicato dell"argomentazione kantiana e, come vedremo a breve, egli ne è ben consapevole.

La ragione non ha un pieno controllo sulla facoltà di desiderare; la volontà si determina ad agire attraverso principi soggettivi, le massime; queste ultime dovrebbero corrispondere, ma possono evitarlo, a quelli che sarebbero dei principi oggettivi, le leggi pratiche; qualora ciò accada, per dovere e non per inclinazione, razione ha pieno valore morale, e possiamo dire che la volontà che l"ha determinata è buona. E solo in questa corrispondenza tra massime soggettive e principi oggettivi che si gioca la sua bontà e non in ciò che è voluto, l"«effetto dell"azione progettata»: per r oggetto della volizione si può avere «bensì un"inclinazione, ma nuii rispetto»~; questo rispetto cattura la volontà e la motiva ad agire bene, anche contro alle sue inclinazioni, a causa, potremmo dire, dell"immediata validità riconosciuta dalla ragione alla legge pratica. Dopo aver escluso dai moventi dell"azione qualsiasi oggetto esterno alla volontà, Kant argomenta dunque introducendo questo sentimento del rispetto; lui stesso confessa che possa parere «oscuro»21 , e certo così è per chi legge, poiché è difficile pensare che non sia «un sentimento ricevuto per una azione esterna, bensì prodotto da sé, per un concetto della ragione»22; è difficile, insomma, accogliere che la legge pratica, come verrà più avanti formulata, esiga tale reazione non perché le si riconosca un"utilità, o un"efficacia, o un valore de-

19. Ivi, p. 73. 20. Ivi, p. 71. 21. Ivi, p. 75. 22. Ivi, p. 75, nota.

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rivante dall'immaginarsi un mondo in cui venga onorata, ma la esiga immediatamente. È impensabile, si capisce, che per Kant possa essere l'utilità (o altro) della legge morale a determinarne l"accettazione razionale; per questo vogliamo qui sottolineare quanto sia impervio proporre di far ''impattare"" la legge morale sulla volontà da sé, in veste di nuda formulazione, giungendo a dire perfino che «ogni rispetto verso una persona è, propriamente, solo rispetto verso la legge (dell"onestà), di cui essa ci fornisce un esempio»m. Non v"è dubbio che questo è uno dei punti in cui Kant gioca molto della sua fondazione, la cui ambizione, bisogna ammetterlo, è tale che non avrebbe potuto, per come l"ha fin qui tratteggiata, chiedersi di meno. Che aspetto ha questa legge? Essa non può dipendere dalle inclinazioni di un soggetto né dagli effetti che esso si prefiguri, non deve avere un contenuto determinato né derivare dall'esperienza; deve valere per tutti gli esseri razionali in quanto tali, poiché è la ragione a riconoscerne la normatività; essa deve essere perciò a priori; dunque, poiché Kant ha sottratto alla volontà tutti gli impulsi che potrebbero derivare dal prestare obbedien7.a a una qualche legge,. non rimane altro che la universale conformità delle azioni alla legge in genere: solo questa deve servire da principio alla volontà. Cioè, io non devo mai comportarmi in modo tale da non poter volere che la mia massima divenga una legge universale.2-f

Ecco presentata una prima formulazione della legge morale, che più avanti verrà proposta in forma imperativa; come si nota, essa non dice nulla del contenuto che le massime hanno, ma solo il modo in cui devono articolarsi. Per mostrare al]"opera il principio appena esposto, Kant propone l'esempio di chi si impegni in una promessa: è moralmente lecito promettere sem.a

23. Ibidem. 24. Ivi, p. 77.

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l'intenzione di mantenere? Vediamo: se non si segue il principio del dovere, bisogna dedicarsi a numerose valutazioni circa il contesto, la persona ricevente, i vantaggi possibili, i rischi connessi, e via dicendo; sarebbe necessaria dunque una certa conoscenza del mondo, la quale però non garantirebbe circa r attuarsi delle conseguenze sperate al falso promittente; quindi potrebbe parere che non sia saggio promettere con l'intenzione di non mantenere, a causa dell'ignoranza circa le conseguenze, che potrebbero rivelarsi dannose. In questo modo si otterrebbe una massima ("non promettere senza l'intenzione di mantenere, perché in molti casi può andarti male") dall'effetto simile a quello che seguirebbe la massima del dovere: il mantenimento delle promesse. Ma se fosse solo una questione di prudenza (primo esempio), si potrebbe pensare che nel caso si presenti r occasione di controllare in modo quasi certo gli effetti di tale azione, ecco che la massima prudente potrebbe venire meno e consentire una falsa promessa. Perciò fondare le proprie massime sull'accortezza non garantisce che vengano rispettate e non fa guadagnare valore etico alla volontà che vi si conforma; «se, infatti, mi scosto dal principio del dovere, razione è senz'altro moralmente cattiva»25• Ma se invece ci domandiamo: possiamo volere che la nostra massima "prometti con l'intenzione di non mantenere quando sei sicuro di ricavarne un vantaggio" (ad esempio) divenga una legge universale? La risposta di Kant è no. Non è possibile volerlo (nemmeno pensarlo, in realtà); se così fosse ogni promessa formulata perderebbe di valore per chi l'ascolta e perciò non avrebbe più senso fame: «non appena, quindi, la mia massima divenisse una legge universale, si distruggerebbe da sé». Per sapere questo non c'è bisogno di alcuna particolare conoscenza del mondo ed è fondamentale che sia così, se il principio pratico supremo deve essere a priori e già sempre disponibile alla ragione. 25. Ivi, p. 79.

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Siamo dunque giunti a comprendere che cosa renda buona una volontà: «il puro rispetto della legge pratica»26, cioè il dovere. Quando le massime di una volontà si conformano alla legge morale per dovere, allora la volontà che così si determina è buona. Ma perché se questa legge ha una necessaria validità per ogni essere razionale, vi sono al mondo così tante persone che non la rispettano, che si comportano in modo immorale? La risposta di Kant potrebbe essere che la finitezza della volontà razionale umana porta molto spesso le persone a scegliere le proprie massime d'azione rendendo le «severe leggi del dovere[ ... ] più adattabili ai [propri] desideri e inclinazioni»27 • Perciò, nonostante ogni volontà razionale contenga per costituzione la legge morale, è necessario procedere a un'attenta analisi della fonte della sua validità e del modo in cui opera, per chiarire alla comune ragione il retto modo di agire, farle escludere ogni seduzione derivante da inclinazioni sensibili e così eludere il rischio radicale di un conflitto interno alla ragione stessa; questa etica contemporanea, cit., p. 286). 43. J.C. Harsanyi,Moralità eteoriadel comporla·mentorazionale, in A. Sen B Williams (a cura di), Utilitarismo e oltre, cit., pp. 51-80: p. 72.

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cherebbero «la massimizzazione del livello medio di utilità di tutti gli individui che compongono la società»44 • Quest'ultimo punto si raggiunge mediante quella che viene chiamata «assunzione di equiprobabilità»4s; poiché il giudizio morale è un tipo particolare di giudizio di preferen7..a46, per comprendere la sua specifica connotazione poniamo ad esempio che un agente razionale debba scegliere in quale società vivere quando le alternative che gli si propongono consistano in una società capitalista e una società comunista. Per fornire una risposta morale razionale, chi è chiamato a decidere non dovrebbe essere influenzato dalle condizioni sociali in cui già si trova (o in cui, per tratti caratteriali accidentali, desidererebbe trovarsi), ma dovrà appunto astrarsi da queste e valutare sen7..a sapere in anticipo a quale livello sociale apparterrà nei rispettivi scenari. In questo modo egli dovrà anali7.7..are tutte le posizioni in cui è possibile che venga a trovarsi in entrambe le società e posto che potrà allo stesso modo collocarsi nel loro punto più alto quanto in quello più basso, secondo questa teoria del comportamento razionale, egli «valuterà qualsiasi quadro istituzionale [ ... ] in termini delrutilità media che probabilmente ne risulterà» 47: da qui deriva che «i giudizi razionali di preferen7..a [si devono basare] su criteri impersonali e imparziali [e] implicano la massimizzazione del livello medio di utilità di tutti gli individui che compongono la società»48, e favorire tale massimizzazione è il 44. J.C. Harsanyi, Ve~o una teoria genemle del comportamento razionale, in Id., Vutilitarismo, tr. it. di M. Piccone, a cura di S. Morini, il Saggiatore, Milano 1988, pp. 3-29: p. 12.

45. J.C. Harsanyi, Una critica della teoria di fohn Rawls, in Id., Vutilitarismo, cit., pp. 109-136: p. 118. 46. Cfr. J.C. Harsanyi, Moralità e teoria del comporlamento razionale, cit.,

p.58. 47. J.C. Harsanyi, Una critica della teoria di fohn Rawls, cit., p. 118. 48. J.C. Harsanyi, Ve~o una teoria genemle del cornporlarnento ·razionale, cit., p. 12.

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compitodelretica. Si noti che Harsanyi rifiuta l'edonismo degli utilitaristi classici che intendevano l'utilità sociale e individuale «nei termini delle sensazioni di piacere e di pena»49, per proporre invece un utilitarismo fondato sulla preferenza e la sua autonomia: per questa versione, «nel decidere ciò che è bene e ciò che è male per un dato individuo, il criterio ultimativo possono essere soltanto i suoi bisogni e le sue preferenze»5(). Da quanto appena detto si deve procedere a una distinzione tra preferenze personali e preferenze morali. Le prime, come è intuitivo, riguardano gli individui in quanto tali, i cui interessi saranno di norma rivolti a sé e alle persone a sé care; le seconde invece sono quelle che dovrebbero aver voce in campo etico, poiché derivano dall'aver dato lo stesso peso agli interessi di tutti, come invita a fare il principio di utilità media. Da tenere in conto senza discriminazioni sono inoltre le preferenze dette -vere, cioè informate, e non quelle solo manifeste, basate su credenze specifiche delle persone che spesso, per ignoranza, le portano a ledere quelli che, se si intendessero come agenti razionali, dovrebbero essere i loro veri interessi; tantomeno le preferenze negative che «un individuo può volere irrazionalmente» per sé; queste, infatti, «a un qualche livello più profondo» si potrebbe mostrare che «sono incoerenti con quanto egli sta ora cercando di perseguire»51 • Le vere preferenze insomma da tenere in considerazione nel computo della massimizzazione dell'utilità sociale media sono quelle che le persone «avrebbero se fossero pienamente infonnat[e] e facessero uso di questa infonnazione»52, e su questo punto, come in altri, Harsanyi e Hare si trovano d'accordo. 49. J.C. Harsanyi, Moral,ità e teoria del comportamento razionale, cit., p. 69.

50. Ivi, p. 70.

51. Ibidem. 52. J.C. Harsanyi, Utilità indioidualie etica utilitarista, in Id., Vutilitarismo, cit., pp. 55-66: p. 60.

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Giungiamo allora alla formulazione completa della proposta normativa di Harsanyi, cui ha dato il nome di utilitarismo delle rego"le. Specifichiamo innanzitutto che questo nome dipende da una distinzione introdotta da Brandt5.1 rispetto al cosiddetto utilitarismo dell'atto, che dal nostro premio Nobel54 ungherese viene definito come «quella teoria secondo cui un'azione è moralmente giusta se e solo se essa produrrà, nella situazione di fatto esistente, la massima utilità sociale prevista>>s.c;; ma tale teoria, in molte varianti, avrebbe Io svantaggio di non rendere conto di molteplici situazioni in cui produrrebbe risultati controintuitivi e irrazionali. Un esempio su tutti è l'impossibilità di svolgere azioni moralmente irrilevanti come leggere un libro, atto la cui massimizzazione dell'utilità sociale media è senza dubbio inferiore a quella di infinite altre azioni, che perciò andrebbero preferite in quanto più utili; se tutto questo si prendesse sul serio ne deriverebbe una morale eroica perseguibile con difficoltà dalla maggior parte delle persone, che vedrebbe perdute la sua cogenza e efficacia sociali. L'utilitarismo delle regole invece non rischia tali conseguenze, poiché invece afferma che un'azione è moralmente giusta se e solo se è conforme alla regola morale corretta applicabile alla situazione di fatto esistente. Esso identifica poi la regola morale corretta con quella particolare regola comportamentale che darebbe la massima utilità sociale prevista se essa fosse seguita da tutte le persone moralmente motivate in tutte le situazioni analoghe.56

53. Cfr. L. Fonnesu, Storia de'O.>etica contemporanea, cit., p. 282. 54. Harsanyi, insieme a John Nash e Reinhard Selten, ha vinto il Premio Nobel per li>economia nel 1994. 55. J .C. Harsanyi, Utilitarismo delle regole, uguaglianUJ e giustizia, in Id., Vutilitarismo, cit., pp. 93-108: p. 93. 56. Ibidem.

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È facile riconoscere l'eco kantiana che si riverbera nelle condizioni poste da questa variante dell'utilitarismo, come Harsanyi stesso ammette nelle prime pagine del suo saggio Moralità e teoria del comportamento razionale. Anche qui infatti si ottiene un criterio di produzione di regole morali giustificato sulla base di una certa concezione dell'agire razionale. Harsanyi, come Hare, ha fatto propri, modificandoli, alcuni risultati della fondazione morale di Kant e degli utilitaristi, con proposte meta-etiche ed etico-normative assai accurate. Quello che ora resta da analizzare sono i limiti dell'impianto utilitarista classico per valutare se vengano superati da queste sue diramazioni contemporanee.

3. Rilievi critici 3.1. Il problema della calcolabilità del valore etico Vi sono state numerose critiche storiche all'impostazione benthamiana, sia interne sia esterne all'impianto utilitarista, e in questa sede non ci sembra opportuno ricordarle. Quello che si tenterà di fare è inquadrare un problema specifico che sembra emergere dalle pagine di Bentham al fine di tematiz7.are uno snodo cruciale che ogni fondazione morale deve chiarire, e cioè la teoria del valore etico che le è sottesa. Abbiamo visto che l'unica cosa da definirsi dawero buona è il piacere e, al contrario, l'unico male è il dolore. Ciò che è bene è dunque ricercare quanto più possibile, per sé e per chi è preso in considerazione nell'agire, stati fisici e mentali di piacere (nelle sue differenti declinazioni) e combattere quanto invece awersa tali condizioni. Il principio di utilità governa il calcolo da svolgere per sapere qual è l'azione giusta, o migliore, da compiere.

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Accettiamo in un primo momento la teoria del valore che guida queste asserzioni. Quello che si presenta subito come un ostacolo è una precisa categorizzazione dei piaceri e dei dolori; anche solo scorrendo la lista57 che propone Bentham è evidente che non è affatto semplice decidere come quantificare ogni singolo tipo differente di piacere e di dolore, ed è probabile che ogni individuo proporrebbe misurazioni diverse a seconda delle cognizioni in merito a quanto è chiamato a valutare. Oltre al fatto che la lista di Bentham non sembri affatto completa, cosa cui, in poten7.a, se la teoria è valida, si potrebbe rimediare, la difficoltà è aggravata dal fatto che non sembra percorribile nemmeno la via dell'accordo intersoggettivo. Domandiamo: come possono individui che hanno esperienze diverse di piacere e dolore dirsi la quantità di tali stati che hanno provato/ presumono che proveranno? Pare già abbastanza complicato arrivare a una certezza in merito a sé stessi, come paragonare la propria risposta estesiologica a quella di terzi in maniera oggettiva? Su questo punto Bentham sembra cadere nell'errore di credere nell'esistenza di un linguaggio privato, attirando tutte le critiche che Wittgenstein ha mosso a tale idea, e in qualche modo che sia possibile commensurare mediante il lin~io tali stati come se fossero cose in sé. Quindi posto persino che sia possibile costruire un piacerometro che trovi tutti d'accordo sulla misura esatta dei differenti piaceri e dolori, eventualità che presenterebbe già un certo grado di arbitrarietà ma potrebbe essere utile (e questo sarebbe il suo scopo), la gerarchia in cui essi (anche solo quelli menzionati da Bentham) per

57. Piaceri dei sensi, dell'abilità, della ricche-~ del potere, dell'amicizia, della benevolenza, dell'immaginazione, di un buon nome, della pietà, della malevolenza, dell'aspettativa, della memoria, dell'associazione, del sollievo. I dolori della privazione, dei sensi, della goffaggine, dell'inimicizia, della cattiva nomea, della devozione, della benevolenza, della malevolenza, della memoria, dell'immaginazione, dell'aspettativa, dell'associazione (cfr. J. Bentham, Int-roduzione, cit., pp. 38-43).

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necessità si troverebbero gli uni rispetto agli altri dovrebbe essere tracciata solo sotto i segni del maggiore e del minore: se così non fosse, ne deriverebbero l'impossibilità di attuare un calcolo valido e un'impressionante complicazione nel quantificare per ogni categoria ogni infinito gradino che la compone (che valore dare al piacere di avere un nuovo amico rispetto a quello di coltivare un'amicizia che già c'è? E al dolore di perderlo? Perderlo per colpa sua o perderlo per colpa propria? E il valore assegnato a ognuna di queste circostanze come può essere paragonata al piacere di mangiare una torta? E a quanto sta una torta fatta da sé rispetto a una torta comprata al ristorante?) Data l'infinità di specificazioni che ogni circostanza può rivelare approfondendo analisi, potremmo pensare che le categorie di piaceri e di dolori proposti da Bentham, per mantenere omogeneità quantitativa e la possibilità di essere distribuiti su uno stesso piano, si collochino in ordine gerarchico gli uni rispetto agli altri secondo diversi ordini di grandeZ7~; ad esempio, che ai piaceri dei sensi vadano assegnati valori dall'l al 10, per dire, a quelli dell'amicizia dall'll al 100, e via dicendo. In questo modo, posto che si superino le difficoltà legate alla quantificazione delle circostanze, si potrebbe in linea di principio far dialogare la categoria con i numeri più bassi insieme a quella con i numeri più alti. Ma l'assegnazione degli ''ordini di grandezza" alle variazioni del valore così inteso non potrebbe che risultare arbitraria. Specifichiamo che Bentham di tale gerarchia non fa menzione nelle sue pagine, ma ci sembra che, se pensiamo fino in fondo quanto propone, tale problema sen7~ dubbio emerga. Aggiungiamo infine che in ogni situazione che si incontra si danno molteplici tipi di piaceri e dolori (per come sono stati sin qui intesi) e dunque il calcolo in senso tecnico si farebbe ancora più arduo da svolgere in concreto. Ma se le azioni giuste da compiere sono quelle prodotte da tale calcolo, poiché tale calcolo non sembra svolgibile (perlomeno da ogni singola persona in ogni singola situazione),

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allora non è nemmeno possibile sapere quali sono le azioni giuste da compiere. Ed è proprio questo che ci deve dire l'etica, insieme al perché si dovrebbe agire in un modo piuttosto che in un altro. Bentham non era così ingenuo da ritenere possibile arrivare a conoscere con certe~zza ogni singola conseguenza di ogni singola azione, e invitava perciò a curarsi solo delle conseguenze prossime, per dir così, individuabili con l'intelletto. Ma, se quanto abbiamo scritto ha un senso, sembra chiaro che la complessità che si richiede di maneggiare per sapere cosa è giusto è troppo elevata anche in questo caso, se si vuole seguire in modo corretto il procedimento. Questa critica è stata mossa assumendo che il valore etico si individui nel piacere, per dir in fretta, e che il piacere/valore mantenga una sua omogeneità nelle diverse circostanze in cui si presenta. Tale assunzione non sembra necessaria e pare anzi provocare un certo grado di oscurità a livello normativo. Come vedremo nel prossimo paragrafo, nemmeno la rettificazione di Mill alla tassonomia dei piaceri di Bentham sembra salvarsi dalle difficoltà in cui questa si è ritrovata. Riteniamo che il problema risieda proprio in ciò che dà potenza e originalità alla teoria di Bentham, segnandone l'ambizione ma insieme anche la fragilità, e cioè nell'idea che si possa dare un senso matematico al piacere e al dolore, o più in generale a ciò che è stato chiamato valore etico, quand'anche questi si esaurisse dawero in tali entità.

3.2. Confusione assiologica Qualche pagina sopra abbiamo incontrato il modo in cui Mill risponde al problema dell'''equivalenza dei piaceri e dei dolori", e cioè proponendone una distinzione qualitativa. Come viene notato in ogni manuale di etica e storia dell'etica, questo passaggio, nonostante si riconcili a un'eviden7..a del senso comune, rende impossibile il calcolo utilitarista per come era

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stato pensato da Bentham, consacrando la possibile deriva del ragionamento che abbiamo tratteggiato nel paragrafo sopra. Vediamo perché. Posta la distinzione tra piacere (o dolore) superiore e inferiore, come ci si deve comportare? Bisogna prima ricercare e far propri i piaceri dotati di più valore e poi passare a quelli che valgono di meno? Questo sarebbe assurdo, poiché ci si ritroverebbe presto morti (piacere di nutrirsi vs piacere di fìlosofeggiare). Se vi è un'incommensurabilità qualitativa, anche solo un piacere superiore non può essere mai eguagliato da infiniti piaceri inferiori. Ma poste certe circostanze, ad esempio essere affamati e non aver cibo, è evidente che il piacere derivante da una necessità inferiore avrebbe per la maggior parte delle persone molto più valore di quello di ascoltare Sostakovic. Dunque la distinzione qualitativa di cui parla Mill non può risiedere al livello delroggetto piacevole di per sé o alla sua esperienza archetipica. Risiede allora nella capacità di goderne? Poniamo la circostanza di una vita abbastanza serena, senza preoccupazioni legate alla sopravvivenza e all'espletamento di necessità primarie, situazione che doveva avere in mente Mili quando pensava alle differenze assiologiche tra i diversi tipi di piacere e di dolore; posti in questo quadro, gli uomini possono godere di piaceri inferiori e superiori, e - come scrive Mill- una vita per essere felice non deve ridursi né agli uni né agli altri, ma si compone di entrambi: essa non deve essere intesa come «rapimento estatico, ma [come insieme di] momenti di rapimento in un'esistenza fatta di pochi dolori passeggeri, numerosi e vari piaceri, con una decisa predominanza dell'attivo sul passivo e, a fondamento del tutto, la rinuncia ad aspettarsi dalla vita più di quanto essa sia capace di offrirci»58• Ma poiché, come si è visto, le azioni devono essere pensate e compiute secondo

58. J.S. Mili, Vutilitarismo, cit., p. 250.

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il principio della massima felicità generale; e poiché i piaceri superiori hanno maggior valore di quelli inferiori, tanto che è meglio essere un «Socrate insoddisfatto piuttosto che uno sciocco soddisfatto»59: allora sarebbe lecito pensare che la felicità superiore di coloro che vi possono accedere deve valere più di quella, composta da piaceri inferiori, di chi, per molteplici ragioni, non può o non ha interesse a godere dei piaceri superiori? Si potrebbe replicare che nel massimizzare la felicità generale è contenuto rinteresse a permettere a quanti più individui possibili r accesso a tali dimensioni e che dunque le azioni non sono da considerarsi giuste se trascurano di massimizzare in questo senso anche le "felicità inferiori"60; queste, tuttavia, per quanto massimizzate, non peserebbero più di una "felicità superiore'' nel conto totale. Se prese sul serio queste considerazioni comporterebbero conseguenze la cui assurdità e ingiustizia invitano a non essere citate. Tali problemi derivano dalla decisione di Mili di disonwgeneizzare il valore proposto da Bentham, suggellando l'impossibilità di un calcolo reale della massima felicità totale e aprendo la possibilità di una distinzione assiologica sulla base della capacità di accedere a determinati ambiti esperienziali. Ora, che si possano proporre gerarchie tra diversi aspetti dell'esistenza pare pacifico. Così sembra accettabile che un buon concerto possieda un valore superiore (in qualità) rispetto a grattarsi una puntura di zan7~ra, e che queste siano realtà incommensurabili, nonostante in qualche modo suscitino entrambe piacere. Ma se il valore etico ultimo, ciò che le nostre azioni devono promuovere, è proprio il piacere, allora diventa inintelligibile come ordinare gli elementi da considerare nell'azione, poiché tale valore consta di una pluralità di realtà irridu-

59. Ivi, p. 245. 60. Nel senso che consistono nel soddisfacimento di piaceri inferiori.

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cibili. Inoltre la distinzione qualitativa assiologica operata da Mill sembra aprire, certo contro le sue intenzioni, la possibilità all'ulteriore distinzione tra individui che accedono o meno a determinate dimensioni edonistiche; ma non sembrano esserci ragioni per cui si debba tenere in maggior considerazione etica un individuo che sia in grado di suonare il pianoforte rispetto a uno che non lo sappia suonare, nonostante possa essere vero che il primo, sotto questo rispetto, esperisca un godimento positivo che alraltro è precluso. Proprio per questo sembra errato intendere il valore etico, di cui ogni morale deve rendere conto, nei termini avanzati da Mili. Nella lettura che proponiamo infatti le dimensioni edonistiche di cui si è parlato si situano su piani non già più etici, semmai estetici, la cui incommensurabilità provoca confusione su quale livello sia quello che dawero deve interessare la riflessione morale. Perciò non può essere il piacere inteso in un senso così multiforme ed eterogeneo a cogliere appieno cosa vada inteso con valore etico ultimo.

3.3. Distanza dal,la real.tà Le difficoltà in cui si trovano Bentham e Mili (a ognuno le sue) quando frequentano ridea della possibilità di definire azioni giuste mediante un calcolo61 esatto della felicità complessiva, contando individuo per individuo, non possono che essere ereditate, ci sembra, in linea di principio, da ogni posizione 61. Per Bentham «il problema più grave consiste nell'idea stessa di un calcolo, in quanto non possediamo alcuna scala che ci consenta di valutare un criterio (per esempio l>intensità di un piacere) in modo omogeneo a un altro (per esempio la sua durata)» (G. Mormino, Storia della filosofia nwrale, cit., pp. 165-166), mentre per Mill «resta però il problema fondamentale della quantificazione: non solo è difficile confrontare tra di loro due piaceri, ma non è nemmeno del tutto ovvio che piacere e dolore siano congeneri» (ivi, p. 169).

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che voglia mantenersi nella dimensione di un utilitarismo che trova il suo cuore, e la sua ambizione, proprio in tale concezione. L'operazione che si può compiere, e che è stata tentata nel corso delle sue evoluzioni, è quella di proporre differenti tipi di approssimazione circa quanto deve essere calcolato, senza la pretesa di produrre risultati definitivi e certi; tale direzione può trovare senza dubbio un ruolo euristico in luogo della scelta di politiche sociali di ampio respiro, offrendo un'efficacia strumentale positiva nel cercare di far star meno peggio le persone di una determinata città, o regione, o Stato. Ecco che questa ragione guadagna così valore come ragione strumentale, per cui se posti determinati fini (aumento del benessere, miglioramento delle strade, edifici e aree pubbliche, diminuzione della criminalità, ecc.) può offrire ottime ragioni per procedere a particolari riforme, ed è inoltre una ragione che ha il pregio di poter esser accresciuta, smentita e rettificata dalle conseguenze analizzabili che produce. Tuttavia le risposte che fornisce circa la natura del valore etico non sembrano soddisfare la dimensione più strutturale e profonda con cui la riflessione etica non smette di confrontarsi. Anche gli utilitarismi hanno proceduto e procedono svolgendo questo confronto, ma non sono soddisfacenti nell'ontologia morale che ottengono: se, quale che sia, il valore etico si può quantificare, non solo in sé ma persino numericamente in chi ne sarebbe provvisto, allora è possibile trovar ragioni aritmetiche di cosa è giusto, doveroso, buono62 fare; ma poiché tale equazione nel suo concreto svolgersi non garantisce alcun tipo di validità etica oggettiva, allora (forse) l'errore sta nell'intendere ciò che è stato chiamato valore etico come un qualcosa di quantificabile in quel senso. Simili astrazioni ci dicono poco della vera carne del valore.

62. In questo luogo utilizziamo questi termini come se non potessero assumere sottili e pregnanti differenze di significato.

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Da questo svincolo vogliamo tentare, per quanto è consentito, una critica alrimpostazione del celebre Hare. Come si è detto in precedenza nel presentare alcuni momenti del suo pensiero, Hare ha il grande merito di aver dedicato un importante lavoro di chiarificazione logica del linguaggio della morale, senza dubbio utile, come, d'altronde, è utilitarista la cornice in cui vuole radicarsi (di cui certo eredita anche i problemi accennati poco sopra). Questa eredità non incide affatto sulla validità di alcuni punti teorici formali, diciamo condizioni di formulabilità di giudizi etici sensati, o, si capisce, sull'importanza di vagliare con la massima attenzione l'organo linguistico morale per affrontare con adeguatezza i suoi problemi. Tuttavia questa concentrazione sull'aspetto logico-linguistico, per quanto se ne riconosca la necessità, che in un primo momento qualsiasi proposta teorica (a suo modo) deve soddisfare per rendersi intellegibile, rischia di ridurre l'etica a un ''semplice" (per quanto si legge in autori con questa impostazione, in realtà assai complesso) discorso sulla vita, vincolando il suo ruolo a esigenze troppo razionalistiche che le fanno perdere una presa sulla realtà, un po' come abbiamo visto avvenire con Kant, il quale aveva cercato di scansare l'equivoco introducendo il sentimento razionale del rispetto. Qui ci si potrebbe fermare e chiedere: ma come, non stiamo mica discorrendo di fìlosofìa? Cos'è la fìlosofìa se non un discorso sulla cita, e, in questo caso, su come vivere (bene, in modo giusto, con moralità ... )? La risposta è sì e no. E nel caso particolare dell'etica più no che sì, in quanto, certo, saranno un discorso e delle ragioni, una fondazione insomma, a guidare le azioni, o più spesso a giustificarle in una direzione retroattiva; ma se non si comprende e sottolinea che il valore dell'etica emerge solo nell'agire, che cioè la parte più importante dell'etica, potremmo forse arrischiarci a dire, si esprime nell'articolazione stessa di un'esistenza, e che è questa il fine e il banco di prova di ogni discorso che si può (e si deve) con legittimità fare

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(il quale non potrà che continuare a riassemblarsi nei giorni e nei secoli in seguito ai colpi inferti dalresistere stesso), se, in conclusione, tale dimensione essenziale viene trascurata dai discorsi in merito, questi ne risultano impoveriti nel loro senso etico precipuo. Cioè nel motivo stesso per cui dovrebbero essere formulati. Questa critica più che rivolgersi in modo diretto a Hare prende di mira una possibilità che la sua impostazione apre e che si può ritrovare, a posteriori, in quanto si dice nel raggio di quella che viene chiamata ''etica applicata". Beninteso, l'etica (teorica) deve essere applicata per non scadere in chiacchiere sofisticate. L'obiettivo polemico cui ci stiamo riferendo è quel modo di intendere l'applicazione delretica che prevede il sottoporre le molteplici proposte morali che sono fiorite nel corso della storia del pensiero, dopo averle ridotte a meri contenitori di argomenti più o meno coerenti, consistenti e simbolizzabili, alla prova di casi assurdi quanto ridicoli (uno su tutti il "dilemma" di scegliere se uccidere una persona per salvarne cinque su delle rotaie o meno, nelle sue mille varianti). Questa operazione ci sembra innanzitutto scorretta perché se una teoria etica ha anche (e forse soprattutto) il compito di fornire alle persone una bussola su come agire nella vita quotidiana, insieme a una comprensione di sé, del loro bene, di ciò che è bene e così via, assegnare validità a un sistema sulla base di come si comporta in situazioni incredibili ha dawero poco senso. Chiunque potrebbe accontentarsi di una teoria che illumini le scelte da compiere, fornendone ragioni, in merito alla maggior parte dei casi incontrabili durante la propria esistenza. In secondo luogo, intendere le diverse proposte etiche, quando autentiche, come meri agglomerati argomentativi da cui attingere su personale arbitrio, tradisce il senso per cui sono state formulate. Tale "tradimento" potrebbe essere anche ignorato se spesso non fosse causa della mistificazione

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degli stessi argomenti in questione&1 e al contempo del senso delretica in generale64 • In conclusione, dunque, la tendenza di certa ''fìlosofia analitica'', sotto il rispetto evidenziato nella cosiddetta "etica applicata", rischia di promuovere sterili (per quanto interessanti) meta-dibattiti e non un'autentica riflessione etica che, per come la vogliamo intendere, può assurgere a modello, o anche solo rappresentare un esempio, di quel che è r essenza della fìlosofia, e cioè esercizio di6.5 verità. Laddove s'intenda che «la verità è r errare del suo essere in errore»00 e il dirlo in tal modo non ambisce ad alcuno statuto definitorio, ma appunto a dischiudere "la, pratica fìlosofica. Etica in senso pieno.

3.4. Claustrofobia imperativa L'ultima nota critica che vogliamo sollevare in questo capitolo riguarda tanto lo spirito che anima la costruzione di numerosi sistemi normativi utilitaristi, di cui Harsanyi (ma lo stesso Hare), può fornire un esempio calzante, quanto un'ambizione presente anche nella prospettiva kantiana67 • Scrive Kant venti capoversi (circa) prima della fine della seconda sezione della Fondazione della metafisica dei costumi che le massime dell'azione trovano, grazie all'ordine imposto dalla legge suprema della moralità e al loro dovervisi conformare per dovere, una 63. Pensiamo all1'ipotesi inquietante formulata da A. Maclntyre in Dopo la oirlù, cit., pp. 29-33. 64. Certo si intende il senso dell'etica cui ci si sta rivolgendo in queste pagine, per la cui preferenza si auspica che le argomentazioni che verranno proposte portino a sbilanciarsi.

65. Genitivo soggettivo e oggettivo. 66. C. Sini, Spinoza o l>archimo del sapere, in Id., Opere, voi. IV/1, Il pensiero delle pmtiche, Jaca Book, Milano 2013, p. 114. 67. Lo stesso Harsanyi potrebbe averla forse ereditata da Kant.

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; e infine che «le cose non hanno potuto essere prodotte da Dio in nessun'altra maniera né in nessun altro ordine se non nella maniera e nell'ordine in cui sono state prodotte»27 • Tutto nell'universo è determinato ad essere quello che è e niente, di ciò che è attualmente, sarebbe potuto essere diverso da come è. Il determinismo universale di Spinoza, che, come dovrebbe essere ormai chiaro, comprende anche tutto quello che pensano attualmente gli esseri umani, il modo in cui sono cresciuti e le ragioni delle loro scelte, è una delle conseguenze del pensiero abissale che apre la sua opera. È facile intuire come tutto questo sia risultato inaccettabile al suo tempo e continui ad esserlo nella nostra epoca. La credenza di poter determinare da sé le proprie azioni in arbitraria libertà, nel senso di credere di avere la possibilità reale di scegliere tra diverse alternative e percorrere quella che si ouol,e, come se tale volontà non fosse determinata dalle volizioni che l'hanno preceduta, dovrebbe venir meno; comprendere insomma che non c'è mai un momento della catena causale volitiva in cui inteivenga un potere appartenente a un oscuro "io" che non si sia formato in forza di essa, demolisce una superstizione di cui abbiamo difficoltà a liberarci: la fede nel libero arbitrio. Ma se il libero arbitrio è un'illusione salta subito ali'occhio che non si è responsabili delle proprie azioni, se con "responsabilità" si intende la colpa derivante dall'aver liberamente deciso di compiere un atto che sarebbe stato bene non eseguire, colpa che macchia l'esecutore di una sorta di malvagità morale (lo stesso Niet7.sche, che abitava quest'atmosfera concettuale, scriverà che il libero arbitrio è il prodotto (anche) del desiderio

26. Eth. S., IP29. 21. Eth. S., IP33.

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di punire )28• Alcune conseguenze, ad esempio sul piano giudiziario, che si potrebbero trarre da questa prima liberazione cui ci ha condotto il filosofo, avremo modo di tematizzarle più avanti, ma ora è bene concentrarci su quanto abbiamo appena scoperto: non siamo liberi di scegliere le nostre volizioni. Per afferrare questo punto fino in fondo ci servirà chiarire in breve anche alcuni aspetti del rapporto mente-corpo, nei termini in cui è pensato da Spinoza.

2.2. La superstizione del libero arbitrio La metafisica spinoziana implica, come si è mostrato, che tutto quello che accade sia con rigore determinato in senso causale. Abbiamo visto che Kant ammetteva questo tipo di determinismo sotto il nome di necessità naturale, il quale individuava le leggi che governano il mondo sensibile, ma, fondando egli la sua etica sull'idea di libertà e sull'autonomia della ragione, ha avuto un gran da fare per cercare di conciliare quello che Spinoza chiamerebbe un impero in un impero; e cioè qualcosa all'interno della Natura che non rispetti le sue leggi necessarie. Quelle difficoltà Kant si può pensare che le abbia ereditate dalla visione dualista che domina nella filosofia occidentale; prima di lui Cartesio aveva fatto i salti mortali (concettuali) per unire i due regni che aveva diviso, la res extensa e la res cogitans, come si sa. Spinoza invece rifiuta quell'antica idea per cui la mente, o rio, o r anima, come dir si voglia, sia quell'entità «soprannaturale [ ... ] impiantata (da Dio) in un corpo e circondata dalla natura, ma dotata di quella libertà della volontà che la lascia indeterminata in molte delle sue operazioni»29• Non possono

28. Cfr. F. Nietzsche, Genealogiadellamorak. Unoscritto 1wlemico, tr. it. di F. Masini, in Operedi FriedrichNietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, voi. Vl/2, Adelphi, Milano 1964, pp. 211-367. 29. S. Nadler, La oia alla felici~ cit., p. 182.

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darsi due Sostanze, ma solo una, infinita, eterna, indivisibile, la cui essenza consta di infiniti Attributi incommensurabili. Noi già sappiamo che possiamo conoscere solo due di questi infiniti attributi, rEstensione e il Pensiero. Modificazioni dell,Estensione sono le cose estese e i corpi, modificazioni del Pensiero sono le idee e le idee dei corpi (menti); ma tra gli oggetti di entrambi questi aspetti della Natura non vi è una differenza reale, solo modale. Soltanto la Sostanza è essere massimamente reale e la Sostanza è una30• Così il dispiegarsi della serie causale infinita della potenza attiva della Natura si esprime con una corrispondenza perfetta in ognuno dei suoi attributi secondo il loro genere; questo non perché vi sia una ''soprawenienza"' dell"uno sull"altro, o un legame causale tra loro; non si deve perciò pensare che, ad esempio, una modificazione nel cervello causi una modificazione nella mente che è l'idea dell"oggetto del corpo cui appartiene tale organo, ma è invece la stessa Sostanza che in tale determinazione può essere intesa ora sotto questo, ora sotto quel rispetto. Per questo Spinoza scrive: «rordine e la connessione delle idee si identificano con l'ordine e la connessione delle cose»31 • Così, a discapito del senso comune, non accade che, ad esempio, il "comando"" della mente di alzare un braccio causi il movimento corrispondente; pensare in questa maniera significa credere che vi siano due sostanze di natura in toto diversa che in qualche modo si influenzino l'un l'altra: ma che luogo può darsi in cui un pensiero e una cosa estesa "si tocchino" realmente?

30. In questo luogo non ci interessa penetrare nelle esegesi più fìni della concezione della Sostanza in Spinoza, ma in ogni caso è bene qui ricordare, come scrive Vinciguerra, che: «A rigore, non si è neppure autorizzati a parlare di monismo, in quanto lo stesso Spinoza ebbe a precisare che è improprio dire della sostanza che è una e unica» (L. Vinciguerra, Spinoza, Carocci, Roma 2015, p. 91), a causa della natura immaginativa del numero.

31. Eth. S., IIP7.

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[ ... ] quando gli uomini dicono che questa o quell'azione del Corpo deriva dalla Mente, la quale ha dominio sul Corpo, non sanno cosa dicono e non fanno altro se non confessare con parole speciose d'ignorare, sen7.a meravigliarsene, la vera causa di tale azione. [ ... ] la stessa esperien7.a, non meno che la ragione, insegna che gli uomini credono di essere liberi solo perché sono consapevoli delle proprie azioni, e ignari delle cause da cui sono detenninati32•

Ora che abbiamo intravisto un po" meglio come vada intesa la relazione mente-corpo, possiamo fare un passo oltre e comprendere dawero perché vada abbandonata la superstizione del libero arbitrio, il potere di causare liberamente la propria volontà. Spinoza lo chiarisce subito nelle prime battute dell"Ethica: «si dice libera quella cosa che esiste per la sola necessita della sua natura e che è determinata da sé sola ad agire: si dice invece necessaria, o meglio coatta, la cosa che è determinata da altro ad esistere e ad agire in una certa e determinata maniera»3.1. Noi esseri umani sotto che tipo di "cosa" dovremmo pensarci? Nessuno viene al mondo senza genitori. L"essenza individuale di chi scriv,e non implica la sua esistenza necessaria, non è causa di sé. E invece un modo e «il modo può essere concepito solo entro l'attributo in cui sta: è in virtù del pensiero che c"è un modo del pensiero, cioè questo pensiero determinato; è in virtù del corpo che c"è un modo del corpo, che è questo corpo determinato» 34• Così solo Dio, ossia la Natura, ossia i suoi infiniti Attributi, è libero in senso proprio, in quanto determinato soltanto da sé ad agire. Certo, questo non vale a dire che la Natura abbia una volontà e sia libera di cambiare il modo in cui si è svolta e si svolge, ma l'abbiamo già visto. Dio non ha né un intelletto né una volontà intesi

32. Eth. S., IIIP2s. 33. Eth. S., 1D7. 34. C. Sini, S,1inouz, cit., p.199.

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come vuole la tradizione antropomorfica delle religioni3.5. Perciò non c'è una distinzione, come pensava Kant, trareteronomia delle cause della necessità naturale e l'autonomia causale della ragione umana; la necessità di Dio si esprime nell'ordine delle cose estese ed è la stessa che lega le implicazioni logiche del pensiero: è una necessità onto-logica in senso forte 36 • È per questo che non c'è nessun ''noi" che causi dei pensieri, ma piuttosto quel "noi,, è il prodotto della serie delle idee che lo costituiscono; così noi non siamo liberi di oo"lere questo e quello, ma ogni volizione è implicata dalla volizione precedente37: «nella Mente non c'è alcuna volontà assoluta o libera; ma la Mente è determinata a volere questo o quello da una causa che pure è determinata da un'altra, e questa a sua volta da un'altra, e così all'infìnito»38 • Una frase di Peirce riportata da Sini nel suo Lo spazio del segno ci sembra cogliere bene il 35. Se non nel senso che come effetto produca quello che si è chiamato "intelletto infinito", o cui anche si riferisce come "Figlio di Dio" («l'intelletto infinito, da noi chiamato Figlio di Dio, deve essere eternamente nella natura. Difatti, se Dio è dall'eternità, la sua idea deve essere dall'eternità nella cosa pensante, cioè in se stesso, la quale idea conviene oggettivamente con lui» (in B. SpinCYL.a, Breve trattato su Dio, l'uo11W, e la sua felicità, in Id., Tutte le opere, cit., pp. 185-362: p. 321, nota). 36. «Spinoza sta sostenendo la tesi [ ... ] forte che nel Pensiero si diano serie ordinate di idee, ciascuna delle quali è ordinata in modo corrispondente all'ordine dei modi in uno degli altri attributi[ ... ] In Dio o Natura, l'ordine causale delle cose è identico ali'ordine logico-causale delle idee. Ecco la famosa dottrina spinoziana del parallelismo» (S. Nadler, La via alla felicità, cit., p. 119). 37. «[ ... ] l'io che decide, la volontà che vuole, non è però lei la causa; io non causo a partire da me il mio inizio, perché "me", "inizio", è sempre il causato dell'inizio e non c'è una parte di me o dell'io che è fuori dal]'esser causato. Non posso esibire un pensiero, un'intenzione, una tendenza che non sia connessa a un presupposto e che non accada nella oscurità del suo accadere. lo sono quello che sono a causa delle mie decisioni, dei miei inizi. Lio è l'effetto, non la causa» (C. Sini, Spinoza, cit., p. 72).

38. Eth. S., IIP48.

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punto: «Proprio come diciamo che un corpo è in moto, e non che il moto è in un corpo, dovremmo dire che noi siamo nel pensiero e non che i pensieri sono in noi (5.289, nota)» 39• Si intuisce allora il ruolo fondamentale che ha la conoscenza vera e adeguata per vivere una vita gioiosa; quanto più è in nostro potere, bisogna conoscere le cause che hanno determinato i nostri pensieri e i nostri desideri per comprendere chi si è davvero e il proprio posizionamento attivo nelruniverso infinito. Il fatto che debba esser lasciata cadere rillusione di possedere il libero arbitrio non significa che non vi sia un modo per ricomprendere la libertà, ma di questo tratteremo più avanti. Ora dobbiamo affrontare un'altra conseguenza cruciale del pensiero abissale di Spinoza, che ancora lo vedrà contrapposto alle correnti filosofiche dominanti della storia del pensiero occidentale.

2.3. Eliminazione del finalismo dal,la Natura Così M.E. Scribano, grande conoscitrice di Spinoza, scrive: [... ] il finalismo [ ... ] è la logica conseguen7.a dell'errata convinzione che l'uomo ha di essere libero nelle sue scelte. [ ... ] alla consapevole7..7.a di desiderare alcune cose si unisce l'ignoran7.a delle cause di questi desideri, per cui l'uomo tende a pensare che i propri desideri siano sen7.a causa [ ... ] e le azioni siano guidate solo dal fine cui esse tendono. [ ... ] Questo modello è

39. C. Sini, Lo spazio del segno. Semiotica ed ermeneutica, in Id., Opere, voi. 1/1, Semiotica ed ermeneutica, Jaca Book, Milano 2017, p. 39, nota 10. Riportiamo la nota con il nome del volume di Peirce in questione e la rispettiva chiari6cazione del criterio in cui viene citato: «Questions Conceming Certain Faculties Claimed for Man; Some Consequences of Four 1-ncapacities; Grounds of V al,idity of the Laws of Logie: Furlher Consequences of Four 1-ncapacities. Riprodotti nel quinto volume dei Collected Papers, Harvard University Press, Cambridge {Mass.) 1965 {citati secondo la consueta abbreviazione che indica il numero del volume seguito da quello del o dei capoversi: 5.213-357» {ivi, p. 22, nota 2).

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poi proiettato sulla natura, che l'uomo si immagina agire, come lui, in vista di qualcosa, e poiché in natura vi sono molte cose utili all'uomo, ci si convince che la natura è stata fatta da un ente superiore dotato, come l'uomo, di libero volere, e che ha tutto disposto a favore dell'uomo stesso"°.

Ma Dio non possiede le caratteristiche antropomorfiche con cui è stato pensato da millenni; non è un umano ultrapotente e sapiente che ha creato l'universo inserendo al suo interno qualche fine per questa o quella specie di esseri: non vi è alcuna causa finale per cui gli uomini sono venuti al mondo e verso cui tenderebbero per la loro intrinseca natura. Dio non ha creato Adamo a sua immagine e somiglianza nel senso che ha posto negli uomini la direzione che dovrebbero prendere nel corso della loro vita, l'impegno a diventare immagine di Dio41 ; Egli non ha disposto il giardino e le creature cui l'uomo impose i nomi, sancendone il dominio42 , affinché si potesse esercitare ad essere un "buon soggiogatore", così «come lo è Dio nei confronti di tutte le sue creature»43 • Dio non agisce sotto la spinta di nessun fine, fatto che se fosse vero, inoltre, «annull[erebbe] la perfezione di Dio; giacché se Dio agisce per un fine, egli allora necessariamente appetisce qualcosa che gli manca»44 : dunque Dio non ha intenzioni. La Natura non è buona né cat-

40. M.E. Scribano, Guida alla lettura dell>Etica, cit., p. 46. 41. Cfr. P. De Benedetti, Teologia degli animali, Morcelliana, Brescia 2016 (20071), pp. 33-34. 42. Recita il Genesi: «Il Signore Dio disse: "Non è bene che l•uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto degno di lui». Allora il Signore Dio plasmò dal suolo tutti gli animali della campagna e tutti gli uccelli del cielo e li condusse aU'uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo 11'uomo avesse chiamato gli esseri viventi, quello doveva essere il loro nome. E così l•uomo impose dei nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche» (Gen 2,18-20).

43. P. De Benedetti, Teologia degli animali,cit., p. 34. 44. Eth. S., I Appendice, p. 93.

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tiva e gli esseri umani non sono certo i suoi "figli prediletti"', di più: «in termini ontologici, non c'è assolutamente nulla che distingue l'essere umano da ogni altro modo particolare e determinato in natura. È solo una delle infinite cose finite che seguono dagli attributi e dai modi infiniti»45 • Si devono perciò trarre dalla prospettiva di Spinoza tutte le conseguenze già incontrate quando si è discusso del rifiuto dell'onta-biologia finalistica aristotelica. Spinoza è il fìlosofo che ha abbattuto la superstizione del Diopersona, del libero arbitrio, del finalismo in natura, e che ha saputo pensare fino in fondo la rivoluzione copernicana, deantropocentrizzando l'universo e affrontando così dawero la sua dischiusa infinità.

3. Potentia sive conatus Ogni cosa che esiste tende a conservare se stessa, si sforza cioè, per quanto può, di perseverare nel proprio essere, e tale sforzo (conatus) «non è altro che l'essenza attuale della cosa stessa»46 • Ma poiché ogni ente è la modificazione finita di una Natura infinita, è chiaro che non solo è infinitamente superato dall'insieme degli altri conati insiti in ogni modo, ma anche che «nessuna cosa singolare è data nella natura delle cose, senza che sia data un'altra più potente e più forte. Ma, se ne è data, una qualunque, ne è data un'altra più potente dalla quale quella data può essere distrutta»47 • Spinoza nelle parti terza e quarta dell'Ethica si dedica allo studio di quel particolare conatus che è il corpo

45. S. Nadler, La via alla felicità, cit., p. 115. 46. Eth. S., IP7. 41. Eth. S., IVA.

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si-ve la mente48 degli umani «come se si trattasse di linee, di superfici e di corpi»49, cioè con l'intento di «studiare l'uomo del pari di una qualsiasi altra parte della natura»5(); egli scrive che quando tale sforzo, o tendenza, viene riferito solo alla mente si chiama vowntà, quando è riferito insieme al corpo e alla mente si chiama appetito, il quale veniamo a sapere che «non è altro se non la stessa essen7.a dell'uomo, dalla cui natura segue necessariamente ciò che serve alla suaconservazione»51 • Infine, quando l'appetito è consapevole di sé, esso viene definito cupiditas52.

Poiché tale sforzo individua la poten7.a d'agire di un ente («potentia, sive conatus»s.1 ), cioè l'ampiezza, per dir così, di quanto compie nel perseverare in suo esse, si può dire che una cosa è tanto più potente quanto più le determinazioni del suo esistere derivano dalla sua stessa natura, quando cioè il suo conatus ha successo nella tensione a conservarsi, e invece che è impotente nella misura in cui è coatta a determinarsi da forze esterne al suo sforzo: «una cosa agisce nella misura in cui i suoi stati seguono soltanto dal suo potere innato o conatus, dal suo sforzo intrinseco di perseverare nell'esisten7.a e no1! dal modo in cui quel potere è affetto dalle cose esterne»54 • E in tal modo evidente che, per quanto riguarda le azioni umane, non venga perseguito ciò che si ritiene essere buono, «ma, al contrario, che noi giudichiamo buona qualche cosa perché ci sforziamo

48. «[ ... ] ho il pensiero, ossia il corpo; ho il corpo, ossia il pensiero» (C. Sini, Spinoza, cit., p. 243).

49. Eth. S., p. '1:37. 50. Ivi, p. 1617, nota 37. 51. Eth. S., IIIP9s. 52. Cfr. ibidem. 53. Eth. S., IIIP7d. 54. S. Nadler, La via alla felicità, cit., p. 201.

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verso di essa, la vogliamo, l'appetiamo e la desideriamo» 5.5; si conferma in tal modo che non vi sono cause finali a guidare le azioni, ma queste sono determinate da appetiti: si deve così giungere a riconoscere che i giudizi di valore «diventano necessariamente egoistici [ ... ] una cosa è '1mona'l' se mi giova e "cattival'l' se mi danneggia»56 • La potenza di ogni individuo è dunque in ogni momento soggetta a incremento e diminuzione nel campo di forze in atto nell'ambiente in cui si trova. La cupiditas degli esseri umani, cioè il loro appetito cosciente, al suo essere ora più perfetta, cioè causalmente adeguata rispetto agli effetti che produce, ora meno perfetta, cioè causalmente parziale nelle conseguenze che determina, corrisponde ora un affetto di gioia e ora un affetto di tristezza: sulla base di questi tre elementi (desiderio, gioia e tristezza), con la combinazione di oggetti, immaginazioni e idee, Spinoza ha offerto una dettagliata panoramica delle passioni che popolano l'esistenza umana. Ma precisiamo: questi affetti, che possono essere qui intesi in fretta come emozioni o sentimenti57, non causano il passaggio da una perfezione minore a una maggiore o viceversa, e invece sono «la transizione stessa da una condizione ali'altra»58 • L7analisi che conduce Spinoza di questa cruciale dimensione umana è affascinante, ma ciò che interessa in questa sede è comprendere come vadano ripensati il bene e il male sulla base della sua fondazione metafisica e di quanto appena discusso, per inquadrare come si articoli una vita felice e una ripensata libertà. Non dilunghiamoci oltre.

55. Eth. S., IIIP9s. 56. S. Nadler, La oia alla felici~ cit., p. 200. 57. Per una distinzione tra ema.aone e sentimenti si veda A. Damasio, Alla ricerca di Spinoz.a. Enwzioni, sentimenti e ceroello, tr. it. di I. Blum, Adelphi, Milano 2003. 58. S. Nadler, La oia alla felici~ cit., p. 191.

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3.1. Bene, male e felicità Se r essenza dell"uomo è cupidità in quanto appetizione di ciò che conserva il proprio essere e la virtù, sinonimo di poten7~, «consiste nel riuscire a conservare il proprio essere» 60, poiché non si danno un bene e un male in sé, buono sarà ciò che aumenta lo sforzo di conservazione di un determinato ente e male il suo contrario; bene e male vanno dunque compresi in relazione alla poten7~ d'agire degli individui: questi si diranno virtuosi quando realizzano tale sforzo con successd1• Perciò Spino7~ scrive: «per bene intenderò ciò che sappiamo con certezza che ci è utile [ ... ] per male invece ciò che sappiamo con certezza che ci impedisce di impadronirci di un certo bene»62 • Nella ricerca di ciò che è bene è perciò implicata la conoscenza di ciò che si è, per comprendere in che modo aumentare la propria poten7~. Come è noto, nell"Ethica Spinoza propone una classificazione in tre generi della conoscenza, il primo delle quali è caratteriZ7~to dalla parzialità, e dunque inadeguateZ7~, circa le cause di quanto (ci) accade, mentre gli altri due sono costituiti da idee vere e adeguate. Il possesso di queste ultime, cioè della conoscenza vera del bene e del male, la quale «non è altro che raffetto della Gioia o della Tristezza in quanto ne siamo consapevoli»s.1 e «soltanto in quanto si considera come

59. «Per virtù e potenza intendo la medesima cosa; cioè, la virtù, in quanto si riferisce all>uomo, è J»essenza stessa o la natura dell>uomo in quanto egli ha il potere di fare certe cose che si possono intendere solo mediante le leggi della sua natura» (Eth. S., IVD8).

60. S. Nadler, La oia alla felicità, cit., p. 217. 61. «La virtù consiste nel realizzare lo sfar.lo di incrementare la propria potenza o pulsione a conse1Varsi» (ivi, p. 221). 62. Eth. R., IVDI e IVD2. 63. Eth. R., IVP8.

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affetto»64, pennette di liberarsi dalle passioni tristi e di espandere la propria potenza. L'espansione della potentia agendi non produce come risultato l'esser felici maè tale stato gioioso. Per essere felice dunque un uomo deve conoscere e ricercare sotto la guida della ragione, cioè mediante un sapere adeguato, ciò che gli è utile e deve evitare ciò che invece gli è dannoso: il bene per lui, come per ogni altra cosa, è ciò che incrementa la sua forza in exsistere, per dir così, e il suo male è invece ciò che porta alla disgregazione della sua integrità vitale. Perciò, poiché se [ ... ] due individui di natura del tutto identica si uniscono l'uno alraltro, essi vengono a formare un individuo due volte più potente che ciascuno singolarmente [ ... ] [,] gli uomini che sono guidati dalla ragione, cioè gli uomini che cercano il proprio utile sotto la guida della ragione, non appetiscono nulla per sé che non desiderino per gli altri uomini, e perciò sono giusti, fedeli e onesti. 65

Così l'uomo saggio e dawero potente, per essere tale, nell'attuare il proprio utile non potrà non tenere in conto di ciò che è il bene anche degli individui a lui simili, poiché quello è il suo stesso bene: la sua potenza infatti s'incrementa all'accrescersi della loro e «il sommo bene di coloro che seguono la virtù è comune a tutti, e tutti ne possono ugualmente godere»66 • Le ragioni della benevolenza e dell'aiuto reciproco si radicano dunque in una forma di egoismo, derivante dalla struttura ontologica dei modi, che, se sviluppato sotto la guida della ragione, non si esplica in un senso centripeto, quello di chi, per rubare le parole di Kant, usi gli altri come semplici mezzi; ma invece si esprime in una direzione centrifuga, che cioè arricchisce chi lo circonda.

64. Eth. R., IVP14. 65. Eth. S., IVP18s. 66. Eth. S., IVP36.

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È in questa attività gioiosa e potente che consiste la libertà umana. Vediamo perché. 3.2. Libera necessitas 67 Ogni essere umano, come ogni modo finito, è il prodotto di un'infinita catena causale che lo precede e lo determina ad essere com'è attualmente, con le sue volontà, desideri e ambizioni. Da qui non si scappa: «la volontà non può essere chiamata causa libera, ma solo necessaria»68 • Tuttavia, per quanto riguarda gli esseri umani almeno, Spinoza rintraccia una via per esprimere al massimo la propria poten7.a e così vivere in uno stato di ampia e concentrata felicità. Infatti la ragione principale per cui si soffre è che si subiscono gli affetti e non si comprendono i motivi per cui awengono determinati eventi: si è passivi rispetto a quanto succede. La passività è infelicità in quanto diminuzione della propria poten7.a d"agire e l"etica deve liberare le persone proprio da questa condizione. Si potrebbe a questo punto domandare: ma come, non abbiamo fatto altro che ribadire e dimostrare che tutto è determinato da cause necessarie e inaggirabili, non è questo di per sé un votarsi sine exceptione alla passività assoluta rispetto al corso degli eventi? Sì e no. Sì perché, certo, tutto ciò che è cade sotto il determinismo universale dell'infinita potenza di Dio, ogni cosa particolare è effetto di infinite cause che l'hanno preceduta; ma non solo è prodotta, naturata, essa è anche produttrice, naturans69 , di infiniti effet-

67. «Vides igitur me libertatem non in libero decreto; sed in libera necessitate ponere» (B. Spino~, Lettera 58, in Id., Tutte I.e opere, cit., pp. 21102115: p. 2110). 68. Eth. S., IP32. 69. «La natura naturante è Dio in quanto si esprime negli in6niti modi degli in6niti attributi, la natura naturata è invece il risultato di questa espressione [ ... ] la distinzione è solo di ragione e non implica una distinzione reale,

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ti: ed è su questo secondo aspetto che dobbiamo concentrare la nostra attenzione. Infatti essere passivi significa non solo subire le cause che ci determinano ad essere in un tal modo, ma anche, se si può dir così, a subire i propri effetti, in quanto non se ne è causa adeguata, cioè completa, piena, consapevole: Dico che agiamo quando in noi o fuori di noi awiene qualcosa di cui noi siamo causa adeguata [ ... ] E, al contrario, dico che noi siamo passivi quando in noi accade qualcosa, o dalla nostra natura segue qualcosa di cui noi non siamo che una causa parziale.70

Così quanto più si è attivi, cioè agenti adeguati per ciò che segue le proprie azioni, in tanto si può dire che si è liberi; certo non liberi dalla causalità di Dio, ma liberati da quelle passioni tristi che comportano il subire la propria vita e rignoranza di come perseguire quello che è il proprio bene. Ogni particolare evento che incontriamo è awenuto per cause che più si conoscono nei dettagli, più ci permettono di comprenderne la necessità; e nonostante non si possano certo conoscere in maniera esaustiva tutte le cause che hanno portato a un qualsiasi evento, in quanto la natura è infinita e così è infinita la storia che rha portata a modificarsi proprio in quel modo determinato, e dunque, in un certo senso, non si può avere un'idea assolutamente adeguata di niente, tuttavia già solo comprendere, intuire, la necessità naturante in ogni accadimento in modo intensivo e non estensivo, ha due conseguenze positive.

La prima, meno importante, ma comunque assai rilevante per la propria serenità, consiste nel liberarsi da specifiche passioni giacché, al contrario, l'espressione di Dio nei modi e rappartenenza di questi a Dio sono solo le due facce di un'unica realtà» (A. Sangiacomo, in Eth. B., p. 1612, nota 11). Il nostro riferirci ai modi in quanto ·naturati e natumntes vuole solo essere un,analogia con queste acce~oni della Sostanza, per richiamare anche l'espressione intensiva di questa nelle sue modificazioni.

10. Eth. R., 111D2.

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tristi diluendo lungo l'asse orizzontale delle cause che le hanno determinate la loro fo17~ coercitiva, smettendo cioè di pensarle come un fulmine che precipita istantaneo e che avrebbe potuto non saettare: «in quanto la Mente conosce tutte le cose come necessarie, in tanto essa ha una poten7.a maggiore sugli affetti, ossia ne patisce meno»71 • Prendiamo una persona che fa un torto a un'altra; se quest'ultima ritiene che la prima sia stata libera di decidere di compiere un'azione che avrebbe potuto evitare, certo si rattristerà ben di più che se comprendesse, invece, che quella stessa persona che le ha fatto danno è il frutto di infinite cause che forse ignora, come ignora che danneggiando gli altri non favorisce il suo bene, e che quindi ciò che ha compiuto non le è stato in verità utile. Insomma, comprendere la necessità di ogni evento libera dalla fantasia che le cose sarebbero potute andare in maniera diversa, eliminando passioni tristi quali il senso di colpa, il rimorso e il pentimento. Ma c'è ben altro. La seconda conseguenza di tale cognizione è che permette di mettersi a lavorare in modo efficace su sé e sul mondo per produrre cambiamenti reali. Bisogna sapere con precisione come funzionano le cose per comprendere ciò che è bene e ciò che non lo è (per qualcuno), cosa accresca la propria poten7.a o meno, e come intervenire. Quanto più si conoscono i particolari e si possiedono idee adeguate, tanto più si sarà attivi nel dispiegarsi della propria esistenza e si sarà felici del proprio agire. Ecco che allora «essere liberi significa essere attivi [ ... ] e quindi vivere secondo ragione. [ ... ] La libertà dell'uomo libero non differisce da quella di Dio (o Natura)»72• Certo, l'essen7.a di nessun modo particolare implica l'esisten7~, e dunque nessuno possiede quella libertà; ma nell'essere autori

71. Eth. S., VP6. 72. S. Nadler, La oia alla felicità, cit., p. 227.

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attivi degli effetti che seguono da sé, questi, venendo derivati dalla sola propria potenza, non sono coatti da forze esterne alla propria cupiditas. Questa è vera libertà, non arbitrio, ma necessità. In conclusione, mediante i due generi superiori di conoscenza gli uomini entrano in possesso di idee vere e adeguate su di sé e sul mondo («quanto più noi conosciamo le cose singole, tanto più conosciamo Dio»73 ); per questa via comprendono che, per quanto è in loro potere, devono approfondire la loro conoscenza delle cause in atto nelle specifiche situazioni e adoperarsi, sotto la guida della ragione, per produrre i cambiamenti migliori nel mondo: intuire la propria necessità è il primo passo per conquistare un ruolo attivo nel mondo e agire liber(at)i dalle passioni tristi, essere cause adeguate nella e della propria esistenza. D'altronde, «necessità e libertà, nella sostanza, non sono due cose differenti»74 •

4. La beatitudine Il pensiero abissale di Spinoza conduce lontano. Non v'è un mondo al di là del mondo. Il modo in cui si agisce non permette di guadagnarsi un paradiso ultraterreno. Non c'è un Dio-re (dell'universo) da compiacere e ingraziarsi. Non ci sono finalità in quello che accade, se non nei propositi che si danno gli uomini. La Natura è perfetta in ogni suo svolgersi, completa, adeguata, e indifferente alle nostre richieste; Dio è questa unica Sostanza eterna infinitamente potente e causa libera di sé; gli uomini sono «nel corpo cli Dio, anzi [sono] il corpo

13. Eth. S., VP24. 74. C. Sini, S,1inoza, cit., p. 253.

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di Dio, e [ ... ]il corpo di Dio non sta nel più alto dei cieli, ma sta qui»75 • Non v"è libero arbitrio, né per Dio, né tantomeno per le sue modificazioni finite. Gli uomini possono solo comprendere cosa è bene per loro, in quanto enti dotati di corpi e menti simili, e adoperarsi per incrementare ciò che sanno con certezza esser loro utile, cioè vivere secondo la ragione. Ma questo è assai difficile, in quanto segue dalla stessa natura degli uomini che siano facili prede delle loro immaginazioni e passioni. L"uomo saggio e libero di Spinoza, modello esemplare per stabilire in modo oggettivo ciò che è bene e male per gli uomini in quanto ne incarna il rappresentante oltremodo potente, «resemplare più perfetto di umanità [... ] che possiede il potere sommo di preservarsi, la massima attività»76, è un individuo ideale difficile da eguagliare, e il fìlosofo lo sapeva bene. Quello che è interessante in tutto ciò, a nostro avviso, non risiede solo nelle straordinarie pagine in cui viene descritto rhomo exemplar, come viene connotato e le azioni che seguono dalla sua potenza. Come vedremo nel prossimo capitolo, forse è possibile ampliare il suo raggio d'azione e gli individui che ne sono interessati, scorgendo così una via che accresca ben di più la sua potenza. Ecco, quanto ha scritto Spinoza dell'homo exemplar è di grande interesse, ma ancora di più la sua affermazione che non si deve agire secondo questo o quel modello di virtù per ottenere dei benefici, diciamo così, tra cui felicità, tranquillità, e via dicendo; ma che la virtù stessa, espansione adeguata della propria potenza, è la Gioia, e che dunque la virtù dev"essere ricercata per se stessa. È il vero paradiso, ed esso si può raggiungere solo qui, in terra, da nessun"altra parte che in questo campo di potenze e desideri. Per gli uomini allora la virtù è fìne in sé, per dir così, la via che li conduce alla massima realizzazione gioiosa della loro natura:

r

75. Ivi, p. 131.

76. S. Nadler, La oia alla felicità, cit., p. 210.

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ruomo forte non ha nessuno in odio, non ha ira, invidia, sdegno, disprezzo verso nessuno, e non insuperbisce affatto. [ ... ] egli si sfo17.a di concepire le cose come sono in se stesse, e di allontanare tutti gli ostacoli alla vera conoscen7.a.71 La beatitudine non è il premio della virtù, ma la virtù stessa; e noi non godiamo perché reprimiamo le nostre voglie; ma, viceversa, perché ne godiamo, possiamo reprimere le nostre voglie. 78

5. lus sive potentia. La democrazia

La postura etica scolpita da Spinoza s"incardina in quel sistema di relazioni complesso che chiamiamo politica e trova in questa dimensione una eco significativa. Non è un caso che a metà degli anni Sessanta del Seicento egli interrompa la stesura dell"Ethica (forse ancora nella forma tripartita79) per dedicarsi al Trattato teologico-politico, pubblicato nel 1670; forse le conclusioni cui stava giungendo nella sua opera più importante, oltreché ratmosfera di libertà che si respirava nell"Olanda di quegli anni (inquinata, purtroppo, pochi anni dopo questa pubblicazione80), gli hanno imposto di dedicare pagine, in un

77. Eth. S., IVP73s.

18. Eth. S., VP42. 79. A. Sangiacomo, Cronologia della vita e delle apere di S71inoza, in B. Spino~, Tutte le O]Jere, cit., pp. 89-93: p. 91. 80. «1672- La Francia invade i Paesi Bassi meridionali. Jan de Witt, tra I•altro accusato di possedere una copia del Trattato di Spino~, è costretto a dimettersi e Guglielmo III d•orange assume le cariche di capitano generale e governatore. In seguito ad un•insurre-.aone, Jan e il fratello vengono uccisi. Spino~, che era un risaputo sostenitore di De Witt e ormai privo di protezione, diventa il bersaglio di attacchi polemici sempre più violenti» (ivi, p. 92).

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luogo più appropriato dell'opus ordine geometrico denwnstratum, alla naturale evoluzione di quanto andava scrivendo. La costituzione ontologica stessa degli umani, infatti, implica che questi si sforzino nella conservazione della loro individualità e in ciò essi trovano, per dir così, un diritto inalienabile, naturale: poiché la legge suprema della natura è che qualunque cosa si sforzi di perseverare per quanto è in suo potere nel proprio stato, e ciò non in ragione di un'altra cosa ma soltanto di se stessa, ne segue che ciascuno individuo ha il supremo diritto a ciò, ossia (come ho detto) ad esistere ed operare a seconda di come è naturalmente detenninato. 81

Abbiamo visto che la via battuta da Spinoza mostra che un accrescimento autentico della propria potenza sia possibile solo sotto la guida della ragione, e che tale incremento vada di pari passo con il favorire quello di chi è a sé simile, in una forma di egofsmo centrifugo che cattura le persone in un circolo virtuoso. E in queste considerazioni che bisogna ricercare la ragione principale per cui gli umani si associano e vivono in comunità. Per loro non vi è situazione più utile di quella in cui tutti limitano la propria potenza d'azione "investendola", per così dire, nel riconoscimento di leggi che regolino la vita comune secondo ragione; infatti «non c'è nessuno che non desideri vivere, per quanto è possibile, in sicurezza e senza paura; cosa che tuttavia non può affatto awenire finché a ciascuno è lecito fare tutto ciò che gli piace»82 : così ad essi è più conveniente stringere un patto che garantisca loro pace, prosperità e libertà d'azione sia che uno sia persuaso dalla bontà dei regolamenti che sancisce, sia che uno ne tema i castighi. Perciò «il diritto, lungi dall'essere un valore morale ideale, coincide e si risolve totalmente

81. B. Spino~ Trattato teologilX'1JOlitico, in Id., Tutte le opere, cit., pp. 6291139: cap. 16, §§ 2-3, p. 1005. 82. Ivi, p. 1007.

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nella potenza dell'individuo»&1 , ius sive potentia. Una fondazione tutfaltro che celeste. Quanto appena visto ha illuminato le ragioni della nascita dello Stato, ma non ci ha detto nulla circa il modo in cui si dovrebbe strutturare. Sono infatti sotto gli occhi di tutti le ingiustizie perpetrate in nome dello «Stato" da parte di chi è al potere, nelle diverse configurazioni associative umane, nel corso dei secoli; a volte le persone più sagge e buone di una città vengono da questa messe alla gogna, rivelando rirrazionalità e la disutilità di sottomettersi alle sue leggi: Spinoza aveva sotto gli occhi tutto questo e, nonostante il Trattato politico84 (in cui avrebbe affrontato a fondo questi temi) sia rimasto incompiuto, ha indicato alcune caratteristiche che uno Stato guidato dalla ragione deve possedere. La libertà di pensiero e parola sono condizioni inderogabili affinché una città prosperi. Questa e chi la guida infatti non hanno nulla da temere, ma tutto da guadagnare in campo di stabilità interna, dal suo mantenimento. Come si sa, la vita del filosofo olandese è stata attraversata da molteplici difficoltà legate al rifiuto di cui sono state fatte oggetto le sue idee, per cui egli ha rischiato tanto; era infatti un'epoca divisa da guerre di religione, civili, di liberazione, che insieme alle loro violenze e brutalità inaudite imprimevano il segno della paura, della diffidenza e della superstizione nelle menti delle persone: Spino7.a, con i suoi scritti e una coeren7.a corrispondente nella sua vita, si è battuto anche contro tutto questo. Uno Stato i cui membri vengano puniti per il contenuto delle loro opinioni, oltre che tradire il fine per cui viene costituito, cioè rutilità dei cittadini, che vengono in tal modo assai depotenziati, ha in sé i germi

83. A. Sangiacomo, Saggio introduttivo, in B. Spino~ Tutte le opere, cit., pp. 5-88: p. 49. 84. B. Spino~ Tmttatopolitico, in Id., Tutte le opere, cit., pp. 1625-1791.

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della sua stessa dissoluzione. Per quanto siano dure le pene di chi sostenga qualcosa che è stato proibito, nessun potere potrà mai impedire che le persone continuino perlomeno a pensare ciò che credono; la via del terrore, quand"anche fosse diretta contro idee sbagliate, tende a favorire infatti r associazione di dissidenti e ribelli, i quali rappresenterebbero una minaccia sicura alla pace e al benessere di tutti; inoltre, si garantirebbe il costume perverso per il quale gli uomini pensano una cosa e ne dicono un"altra: infine, «coloro che sanno di essere onesti [ ... ] non temono la morte come i malfattori né maledicono la pena; il loro animo, invero, non è tormentato da nessun rimorso per una turpe azione, ma, al contrario, ritengono onorevole e glorioso, e non un supplizio, morire per una giusta causa»8s. Invece è di fondamentale importanza che gli uomini, «sebbene pensino apertamente cose diverse e contrarie, vivano tuttavia in concordia»86 • Abbiamo in precedenza visto il modo in cui Mill ha difeso la libertà di opinione, ingiungendo che è la verità stessa, per dir così, che trae vantaggio da tale libertà, in quanto se un"opinione è vera, è bene che sia di dominio pubblico, e se è falsa, ancor meglio, poiché in questo caso si potrebbe smentire sotto gli occhi di tutti (procurando così un vantaggio collettivo), e si può dire che Spino7.a !"abbia anticipato di due secoli in questa direzione. Lo Stato raccoglie le potenze dei cittadini che si sono in esso uniti e trae da questa unione il suo potere superiore sui cittadini, i quali infatti sono tenuti a osservarne le leggi; ma va ricordato che «il patto non può avere alcuna for7.a se non in ragione dell"utilità, tolta la quale anche il patto viene insieme tolto e non è più valido»87 : ecco che allora è nell"interesse della con-

85. B. Spinoza, Trottato teologico-politico, cit., cap. 20, 86. Ibidem. 87. Ivi, cap. 16, §§ 6-7, p. 1011.

§§ 13-15, p. 1121.

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seIVazione dello Stato stesso e delle sue potestà sovrane articolarsi secondo leggi quanto più formulate sotto la guida della ragione. Per questa via infatti si sublimerebbe, per così dire, quel diritto naturale degli umani di perseverare in ciò che sono nel suo massimo splendore. Infatti, trasferendo la loro potenza alla società e creando quel «diritto della società» chiamato democrazia, che «si definisce come r assemblea di tutti che collegialmente ha il diritto a tutto ciò che può»88, il potere sovrano che agisce sotto la guida della ragione comanderebbe ai suoi sudditi di eseguire non qualcosa che ripugni la loro natura, ma che invece la realizzi appieno: l'azione per comando, cioè l'ubbidienza, toglie di sicuro in qualche modo la libertà, ma non rende senz'altro schiavi: a far ciò è il motivo dell'azione. Se il fine dell'azione non è l'utilità di chi agisce, ma di chi comanda, allora chi agisce è schiavo e inutile a se stesso; ma nell'ambito dello Stato e dell'esercizio del potere, dove è legge suprema la salve7.7.a di tutto il popolo, e non di chi comanda, colui che ubbidisce in tutto al potere sovrano non deve essere detto schiavo inutile a se stesso, ma suddito. E perciò è massimamente libero quello Stato le cui leggi sono fondate sulla retta ragione: qui infatti ciascuno, se vuole, può essere libero. 89

Quando Spinoza parla di "democrazia" e di Stato democratico, non dobbiamo pensare al regime politico che conosciamo attraverso le nostre democrazie rappresentative, quanto piuttosto all'espressione migliore di ciò che comanda la comune ragione umana secondo il diritto naturale di ognuno a perseverare in suo esse; r espressione riguarda più una forma di agire comune che massimizza la gioia dei suoi attori, poiché gli uomini, se guidati dalla ragione, possono trovare nella democrazia un'autentica espressione della loro libertà nel riconoscimento

88. Ivi, cap. 16, §§ 8-9, p. 1013. 89. Ivi, cap. 16, §§ 9-10, p. 1015.

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delle regole necessarie che essa impone per il mantenimento della concordia e della pace; e quando invece non sono ancora "elevati'' a quel punto, vengono limitati nella loro nocività e al contempo educati nel modo migliore possibile affinché vi giungano: «in questo senso la democrazia non è un regime politico, è la politica che consegue necessariamente dall'immanenza come riappropriazione [dell']essen7.a dell'uomo come santiumanesimo?, in Id., J.ntroduzione ali/ecologia, cit., pp. 123-125: pp. 124-125.

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La natura a cui pensa Nress è la Natura di Spinoza, r eterna causa di sé che esprime la sua infinita potenza in infinite proprie modificazioni. L"uomo non deve essere pensato come un suo fantasma, non si annichilisce nell"infinito ma è collegato a tutto l"infinito, e tutto è collegato ad esso, il che è lo stesso. E così è per ogni altra modificazione della Totalità: tutte dipendono da tutte99 • L"ontologia gestaltica100 cli Nress permette cli comprendere come non vi siano fratture ontologiche fra oggetti e soggetti, ma questi fioriscano da interconnessioni, quelle che Barad101 chiamerebbe intra-azioni; gli enti che distinguiamo in soggetti e oggetti sono cioè nodi relazionali, sciolti i quali della loro "sostanza"" non resta, appunto, più nulla: essenziale per il pensiero ecologico, e per la teoresi nella fisica quantistica, è l"insisten7.a sul fatto che le cose non possono essere separate da ciò che le circonda, con una minore o maggiore arbitrarietà. La cosa A non può essere pensata in sé e per sé, a causa della relazione interna con la cosa B. E nemmeno la cosa B è separabile, tranne che superficialmente, da C, e così via. 102

Le individualità così ricomprese non sono perciò solo enti naturati, sciolti cioè da quellaNatura naturans che abbiamo visto corrispondere a «Dio in quanto si esprime negli infiniti modi degli infiniti attributi» 100, che tanto ha a cuore Nress. Ma sono anche enti naturanti. È infatti proprio l"idea di questo naturare di ogni parte della Natura, il fatto che qualunque cosa è produt-

99. «Una buona traduzione del primo principio dell1'ecologia "even1thing hangs together>> potrebbe anche essere: "futto dipende da tutto»» (L. Valera, Il pensiero di Arne Nress, cit., p. 26, nota 70).

100. Cfr. A. Nress, Ecosofia e ontologia della Gestalt, cit. 101. Cfr. K. Baraci, Pe,formatività della natura. Quanto e queer, tr. it. di R. Castiello, Ets, Pisa 2017. 11

102. A. Nress, Il mondo dei contenuti concreti, in Id., Introduzione all ecolngia, cit., pp. 55-67: p. 57. 103. A. Sangiacomo, in Eth. B., p. 1612, nota 11.

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tiva di determinati effetti, il fondamento dell'etica del fìlosofo nmvegese. La natura non è qualcosa di inerte e oggettificato di cui fare analisi autoptiche per estrarne beni strumentali che non la riguardand 04 • Perciò le scienze "dure" e "molli", che rivestono un ruolo cruciale per il movimento dell'ecologia in quanto sono i migliori mezzi per comprendere le interrelazioni che costituiscono la totalità, devono abbandonare, quando la possiedono, una simile idea di natura, che per Nress dipende da una visione meccanicistica del mondo. Le società umane e le organizzazioni al loro interno devono cioè abbandonare i fìni che si sono prefisse se sono inutili a favorire un miglior adattamento di tutti, e certo quando si rivelano contrari ad esso e dannosi1 05: perciò la conoscenza è fondamentale per organizzare un sistema normativo, ma deve essere quanto più efficiente nell'anticipare i mali e potvi rimedio. «Dal momento che "ogni cosa incide su ogni altra cosa", non possiamo prevedere gli effetti a lungo termine delle nostre particolari azioni e politiche» 106, ma più la comprensione del mondo si affina e

104. «La natura, per come è concepita da molti ecologisti, ed espressa filosoficamente da James Lovelock e altri, non è la natura passiva, morta, neutra (in quanto a valore) della s~ienza meccanicistica, ma è simile all"attiva natura "naturante" di Spinoza. E omnicomprensiva, creativa (come la natum naturans ), infinitamente ricca, e viva nel senso più ampio del cosiddetto panpsichismo spinoziano» (A. Nress, Spinoza e il movimento dell"ecologia profonda, in Id., Introduzione all"ecologia, cit., pp. 137-163: p. 154).

105. Scrive infatti Nress: «Secondo i sostenitori del movimento dell'ecologia profonda, gli umani non hanno il diritto di ridurre gli habitat o le condizioni di vita degli esseri non-umani, meramente a causa dei desideri umani o di vane aspirazioni, o a causa di una scarsa gestione degli affari umani. Gli umani non possono trattare il pianeta come se fosse una loro proprietà» (A. Nress, Lo sviluppo sostenibile e il movimento dell'ecologia profonda, in Id., 1-ntroduzione all'ecologia, cit., pp. 183-192: p. 184); e ancora «ciò che viene fatto e non è in armonia con i fini ultimi della vita, non può essere ragionevole» (A. Nress, Spinoza, cit., p. 149). 106. A. Nress, Spinoza e il movimento dell'ecologia 11rofonda, cit., p. 154.

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più aumenta la probabilità che le azioni si rivelino vantaggiose. Quando invece ci si trova in una grande ignoranza delle conseguenze di certe azioni, come rutilizzo di determinate tecnologie o lo sfruttamento di certe risorse, è bene servirsi del principio di cautela e sospenderle sino ad avere ipotesi ragionevoli in merito, «in armonia con r ammonimento di Spinoza, per cui non dobbiamo pensare che gli umani siano totalmente capaci di comprendere in maniera sempre piena l'"ordine comune della natura '» 107• La concezione che ha Nress della Natura e l'importanza che assegna alla sua conoscenza per ragire sono frutti che ha raccolto dal pensiero di Spinoza, con cui nutrire il movimento dell ecologia profonda affinché sia causa adeguata dei cambiamenti che si propone di realizzare. 1

1

6.2. Auto-realizzazione Ciò che Spinoza intende per attività, azione, essere causa adeguata di sé, Nress lo chiama auto-realizzazione e indica il cuore e il fine dell'etica, in quanto insieme di conoscenze che deve favorirla il più possibile. Tale concetto dipende da ciò che abbiamo appena visto: ogni cosa della e nella natura è produttrice di effetti. Combinando questo fatto a una riflessione circa la bontà delle conseguenze delle azioni, la cui analisi dev essere svolta sulla base delle più accurate conoscenze ecologiche, si ottiene che gli individui, ripensandosi in quanto sé ecologici 108 e non 1

107.

Ibidem.

108. «[ ... ] introduco, tentativamente, forse per la prima volta, il concetto di sé ecologico. Si può dire che siamo neila -e deila- natura, fìn daila nostra origine. La società e le relazioni umane sono importanti, ma il nostro sé è molto più ricco neile sue relazioni costitutive. Tali relazioni non sono solo queile che abbiamo con gli altri umani e con la comunità umana [ ... ] ma anche queile che abbiamo con altri esseri viventi» (A. Nress, Auto-realiuazione: un a,rproccio ecologico all>essere nel 11Wndo, in Id., Introduzione all/eco'logia, cit., pp. 105-121: p. 106).

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meri ego slegati dalla Natura, agiscono dawero e raggiungono la propria auto-realizzazione quando non si separano dalla totalità con cui sono intrinsecamente collegati. La nozione di sé ecowgico ci sembra possa essere fatta corrispondere ali'egoismo centrifugo analizzato qualche paragrafo sopra; un'azione per essere tale non può awantaggiare solo chi la compie, ma deve riverberarsi in modo positivo sul tutto a cui essa è legata, e dev'essere pensata a partire da questa considerazione: a causa cli un inevitabile processo d,identifìcazione con gli altri, assieme ad una crescente maturazione, il sé viene allargato e approfondito. 'Vediamo noi stessi negli altri". Viene impedita la nostra auto-reali7.zazione se rauto-realizza7.ione degli altri, con i quali ci identifichiamo, è ostacolata. Il nostro amor proprio lotterà con questo impedimento aiutando rautoreali7.7.a7.ione degli altri [ ... ] Così, tutto quello che può essere ottenuto tramite raltruismo - la doverosa, morale considerazione per gli altri - può essere raggiunto, ancor cli più, dal processo cli allargamento e approfondimento di noi stessi. 100

Anche in N~ss la gioia ha un ruolo cruciale: essa consiste nelI'essere attivi ed esserne consapevoli. La percezione della propria attività come modificazione positiva dell'ambiente in cui intra-agisce è, in qualche modo, già felicità: «l'agire - un termine migliore di attività - produce gioia[ ... ] Esprime la natura dell'essere attivo, dell'essere nella misura in cui è in se stesso (in se), e, più direttamente, esprime la sua natura singolare, quanto più grande è la gioia» 110• È chiaro che anche qui la felicità personale non possa essere intesa come la mera somma di tutti i propri desideri, come la intendeva Kant 111 , ma si inserisca in un campo di estrinsecazione di potenze che favorisce un circolo virtuoso e se ne nutre. Auto-realizzarsi appieno non

109. Ibidem. llO. A. Nress, Spinoza, cit., p. 151. ll 1. Cfr. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, cit., p. 69.

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può avvenire se la propria etica, o postura nel mondo, getta le basi per la distruzione dell'azione essenziale che retica stessa deve favorire. L'auto-realiZlllZione è dunque la norma prima deII'Ecosofia T, rimperativo dell'ecologia di Nress che, ancora una volta, si presenta come una massima unifìcatrice di potenze, una chiamata a mettersi in gioco e unirsi con altri per prosperare 112• Un punto nobile, che rivela la profondità della sua ecologia, è che per N ress, a differenza di altri ecologisti e ambientalisti, rauto-reali7.7azione non è una mera prerogativa umana, ma viene riconosciuta anche a moltissime altre forme di vita; infatti, per r ontologia gestaltica e ridea di Natura che propone, risulta chiaro che razione umana non deve prescindere dal favorire anche le auto-realizzazioni delle altre forme di vita, come indicano i primi tre punti degli otto principi della sua piattaforma (livello 2):

1. La prosperità della vita umana e non umana sulla Terra ha un valore intrinseco. Il valore delle forme di vita non-umana è indipendente dall'utilità del mondo non-umano per scopi umani.

2. La ricchezza e la diversità delle forme di vita sono anch'esse valori in se stessi e contribuiscono alla prosperità della vita umana e non-umana sulla Terra.

3. Gli uomini non hanno il diritto di ridurre tale ricchev.a e diversità, tranne che per soddisfare i loro bisogni vitali 113 • Nress sostiene queste posizioni perché pensando ftno in fondo la massima centrale secondo cui tutto è collegato, tutto dipen-

112. «La pesante frustrazione e tristezza provate da milioni nella situazione attuale sulla Terra possono essere superate, e stanno per essere superate, aderendo unitamente a relazioni attive, e ciascuna persona prendendo parte secondo le proprie capacità e interessi particolari» (A. Nress, SpinMA, cit., p. 151). 113. A. Nress, I fondamenti del movimento dell»ecologia profonda, cit., p. 47.

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de da tutto, oltreché considerando le conoscenze che abbiamo raggiunto circa la sopravvivenza e il prosperare degli ecosistemi, deriva che per auto-realizzarci in senso pieno, in quanto umani, non possiamo più trascurare con il nostro modo di abitare il mondo gli interessi delle altre specie animali. Nress ci sembra che vada oltre all'egoismo centripeto di tanto ambientalismo che fonda la necessità di cambiare le relazioni intrattenute con gli altri animali sulla base di premesse ancora antropocentriche; tali correnti mirerebbero alla conservazione di (alcune) altre specie solo come mezzi per permettere la sussistenza umana, ''perché non ce li possiamo più permettere gli allevamenti intensivi": l'ecologia di Nress va invece nella direzione di affermare che proprio la nostra gioia, corrispondente a una nostra autentica auto-realizzazione, non può essere tale, piena, se non comprende anche la loro. Che fare, dunque? Il filosofo norvegese invita a pensare che riconoscere il proprio ruolo attivo nel mondo non comporta il sobbarcarsi di responsabilità titaniche, obiettivi irraggiungibili e atti di straordinario eroismo. Questo è ancora un antropocentrismo che nella maggior parte dei casi porterebbe al tradimento della norma prima dell'Ecosofìa T: il suo compimento sarebbe infatti frustrato in partenza per la maggiore parte degli individui 114• Nonostante sia stato un suo grande ammiratore e abbia influenzato molto il suo pensiero, crediamo che Nress

114. «[ ... ] nelle questioni ambientali dovremmo forse tentare in prima battuta di influenzare la gente nella direzione delle belle azioni. Lavorare sulle loro inclinazioni, anziché sulle morali. Sfortunatamente, la moraliu.azione estesa all'interno dell,ambientalismo ha dato al pubblico la falsa impressione che chiediamo loro in primo luogo di sacrifìcarsi, di mostrare maggior responsabilità, più interesse, morali migliori. Per come la vedo, abbiamo bisogno deil»immensa varietà di risorse di gioia, dischiuse mediante un,accresciuta sensibilità verso la riccheu.a e la diversità della vita e dei paesaggi della natura selvaggia. Tutti quanti possono contribuirvi individualmente» (A. Nress, Auto-realizzazione, cit., p. 118).

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avrebbe potuto dire senza indugi "non siamo tutti Gandhi''. L7attività cui chiama la sua filosofia infatti concerne raccrescimento delrintensità e delrestensione della propria auto-causazione 115 in relazione a quanto è in nostro potere; e questo non è marginale. Tutto dipende da tutto, infatti. Noi dipendiamo dal tutto e tutto dipende da noi, anche. E perciò comprendere la propria via all'auto-realizzazione è importante per il Tutto, per quanto piccoli siamo. A ben vedere, ogni cosa si ridimensiona nell'infinito e non vi sono grandi differenze tra le sue modificazioni; dopotutto - come scriveva Thoreau - «quando muore, un uomo solleva la polvere» 116• Ma ribadiamolo: questo non significa che gli individui srompaiano nella Natura, almeno per Nress. Il loro auto-realizzarsi infatti, che è, in ultima istanza, amore verso la Natura e amor di sé in quanto Natura, corrisponde al suo stesso gioire: dal momento che la mente umana è esattamente Dio - per quanto non nella sua essen7.a assoluta, ma in quanto modifìcato da un modo particolare finito nel Pensiero - ne consegue che l'amore della mente umana verso Dio è proprio, in ultima analisi, ramore di Dio verso se stesso. 117

7. L'eco"logia social,e di Murray Bookchin La riffessione ecologica contemporanea trova nell'anarchico newyorkese Murray Bookchin un altro importante contributo, sebbene questi prenda notevoli distanze dal movimento di

115. «Il desiderio elementare è quello di guadagnare in estensione e in intensità di auto-causazione» (A. Nress, Spinoza e l1'ecologia, cit., p. 130).

116. H.D. Thoreau, Walden. Vitanelbosco,ed. it. acuradiS. Proietti, Feltrinelli, Milano 2005, p. 92. 117. S. Nacller, La via alla f el,icità, cit., p. 263.

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N~ss. Vedremo che, in realtà, tra la sua proposta e quella del filosofo nmvegese ci sono più punti di contatto di quelli che l'anarchico avrebbe riconosciuto a cuor sereno. Per far fronte al disastro ambientale Bookchin teorizza cambiamenti strutturali dell"assetto socio-politico delle civiltà umane, ascrivendo le cause di quanto in atto non solo a un uso sconsiderato della tecnologia e dello sfruttamento spregiudicato delle risorse della Terra; certo, questi sono aspetti cruciali su cui bisogna prendere posizione, ma individuano solo i sintomi di un problema genetico di un preciso modello socio-economico: il capitalismo. La sua logica dell"accumulo e crescita indefiniti, che favorisce la rivalità intra-umana per accaparrarsi quanti più vantaggi possibili sen7.a curarsi dei danni fatti ai conspecifici (e non solo) e all"ambiente, contiene in sé tutti i presupposti per il biocidio e l'estinzione 118• Essa si radica a sua volta in un certo tipo di articolazione sociale che nasconde un assetto gerarchico e dinamiche predatorie. Egli non vede una lotta dell"umanità intera contro la natura per il suo vantaggio, ma invece aggressione di una parte ben precisa dell"umanità, da identificare con coloro che detengono il potere economico, politico e sociale, contro l'ambiente e il resto dell"umanità119 • Così il suo pensiero è sociale, in quanto affronta i drastici cambiamenti antropici

r

118. «Così, la tecnologia e l'industria vengono rappresentate come i protagonisti malvagi di questo dramma, al posto del mercato e dell'illimitata accumulazione di capitale, al posto cioè di un sistema di accumulazione, di "crescita", che alla fìne si mangerà l'intera biosfera, se gli si consentirà di sopravvivere abbastanza a lungo» (M. Bookchin, L"ecologia della libertà, tr. it. di A. Bertolo e R. Di Leo, Elèuthera, Milano 2017 [1988 1], p. 9). 119. «There has been a historical social development, ali its manysetbacks notwithstanding, setbacks that can in part be attribute to elites of agonistic men whose power gave them the scope to play out their destructive fantasies, impulses, and designs on a large social stage» (M. Bookchin, The Philosophy of Social Ecology. &says on Dialectical Naturalism, Black Rose Books, Montréal-New York-London 2017 [19961], pp. XV-XVI).

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introdotti nelrambiente non ascrivendone le cause a un'esuberanza della specie, ma leggendovi invece razione di un'impresa tecno-scientifica guidata da intenti precisi e forze che sono le vere autrici del processo di distruzione degli ecosistemi; e insieme ecologico, poiché per compiere un miglioramento reale della nostra forma di vita (e non solo) sono necessarie conoscenze approfondite circa i diversi rapporti che le specie intrattengono con il pianeta, una conoscenza delle risorse finite indispensabili per la sopravvivenza della vita sulla Terra e di modelli socioeconomici che non distruggano le sue condizioni di possibilità: nessuno dei principali problemi ecologici che ci troviamo oggi ad affrontare può essere risolto senza un profondo mutamento sociale. [ ... ] non si può pensare di trasformare la società presente un po' alla volta, con piccoli cambiamenti. [ ... ] Si deve accettare il fatto che l'attuale società capitalista debba essere rimpiazzata da quella che io chiamo «società ecologica», cioè da una società che implichi i radicali mutamenti sociali indispensabili per eliminare gli abusi ecologici. 120

Per far fronte a tutto questo egli rifiuta ogni forma di pensiero "orientaleggiante" che sfoci in un qualsiasi stoico quietismo nei confronti del corso degli eventi o mistici riassorbimenti all'Uno della natura, e anche ogni variante di "ecocapitalismo", che rendendo più umano questo modello economico, in grazia della fede nelle magnifiche sorti e progressive dell'impresa tecnoscientifìca, permetterà un "verde" e prospero sviluppo per tutti: L'ecologia sociale [ ... ] lancia un messaggio che non è primitivista né tecnocratico. Essa cerca di definire il posto dell'umanità nella natura - posto singolare, posto straordinario - senza ricadere in un mondo di cavernicoli anti-tecnologici, da un lato, e senza volare via dal pianeta con fantascientifiche astronavi e stazioni orbitali, dall'altro. 121

120. M. Bookchin, Vecologia della libertà, cit., pp.10-11. 121. Ivi, pp. 12-13.

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Bookchin cerca di fare chiarezza sui rapporti tra l'uomo e la natura facendo propri gli strumenti della dialettica hegeliana, proponendo un natural,ismo dialettico entro cui ripensare i valori dell'ecologia e rintracciare le direzioni operative da prendere per superare la crisi ambientale. Per intendere retica che propone dobbiamo dunque, prima, comprendere a che cosa Bookchin pensi quando parla di "natura", in quanto è in essa che egli la radica.

7.1. La natura e la sua dialettica Come per Nress, anche in Bookchin l'uomo non è un ente separato dal resto di ciò che viene chiamato "natura"; non è estraneo ai meccanismi che regolano il suo svolgimento e non ha poteri che esulano da loro: tuttavia non vi possiede un posto marginale. II filosofo newyorkese legge nella sua razionalità e possibilità di comunicazione simbolica un momento importante e unico, in qualche modo, dell'evoluzione che governa le forme di vita 122• Di più, la capacità razionale dell'uomo Io conduce a smarcarsi in qualche misura dalle leggi evolutive che riguardano gli organismi più semplici innestandolo in organizzazioni sociali, politiche ed economiche complesse che sono guidate da dinamiche proprie di una seconda natura 123 • E tale caratteristica di questa porzione di mondo che è l'umanità ha un ruo-

122. «Vumanità, sostengo, è parte della natura anche se differisce profondamente dalla vita non umana per la capacità che ha di pensare concettualmente e di comunicare simbolicamente.[ ... ] [Gli umani] Sono esseri che, per lo meno potenzialmente, potrebbero rendere 1 evoluzione biotica autocosciente e consapevolmente auto-dire"~onata» (ivi, p. 13). 123. «[ ... ] what is decisive here is the compelling fact that humanitfs natural capacity to consciously intervene into and act upon fìrst nature has given rise to a "second nature,\ a cultural, social, and politica} "naturen that today 11

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lo fondamentale per fronteggiare il disastro ambientale. Non solo. In essa Bookchin vi legge la possibilità di far prendere al corso naturale degli eventi delle direzioni di maggior prosperità per la natura stessa 124 • Questa, infatti, da buon hegeliano, è considerata intrinsecamente razionale; rabbiamo detto: ruomo non è altro dalla natura, ed essendone parte razionale, la qualifica in questo senso. In questo modo egli ritiene di poter fondare i valori etici nella natura stessa e non solo nella dimensione umana, evitando il rischio di relativismo e di riduzione della giustizia a un qualcosa di illusorio 12s. Per sostenere questa fondazione naturale dei valori etici egli si riferisce al concetto di evoluzione; Darwin ha infatti liberato rumanità dalla superstizione che vi sia una catena dell'essere e una gerarchia degli individui: tuttavia egli non avrebbe saputo comprendere la logica implicita nel meccanismo che ha scoperto operare nel mondo 19.6. Così nella visione di Bookchin, più spenceriana che darwiniana, r evoluzione si dirige verso una maggiore complessillcazione dei sistemi che produce e in

has ali but absorbed 6rst nature» (M. Bookchin, The Philosophy of Social Ecology, cit., p. 31). 124. «Con questo non voglio dire che mai l'umanità arriverà ad avere una conoscenza sufficiente delle complessità del mondo naturale da potere prendere "il timone" dell'evoluzione naturale e dirigerla del tutto a sua volontà. [ ... ] Ma [... ] quello che veramente ci fa unici, singolari nello schema ecologico delle cose è che possiamo intervenire in natura con un grado di autocoscienza e di flessibilità sconosciuto a tutte le altre specie» (M. Bookchin, L'ecologia della libertà, cit., p. 13).

125. «[ ... ] nature can indeed acquire ethical meaning - an objectively grounded ethical meaning» (M. Bookchin, The Philosophy of Social Ecology, cit., p. 34). 126. «[ ... ] we need only point to the fact that there is a generally orderly development in the real world or, to use philosophical terminology, a "logical" development when a development succeeds in becoming what it is stmctured to become» (ivi, p. 17).

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cui opera, i quali si differenziano e diversificano mantenendo una stretta continuità con quanto li precede 127• È evidente che quel sistema complesso di organizzazione naturale che è la società umana e la sua ragione sono il frutto di tale evoluzione, la quale trova un fondamento bio-6sico nella materia stessa. Bookchin pensa a Diderot e al suo Il sogno di d'Alembert 128 , in cui si postulava una prospettiva che ascrive alla materia un carattere attivo e addirittura intelligente, «that yields increasing complexity, from the atomic leve] to the brain» 129; tali proprietà sarebbero la sensibilità e reattività e sono analoghe alle versioni più complesse che riscontriamo nella mente («compkxity, ~ecial,iwtion, and consciousness»130 ): così nel suo dialettico svolgersi ed evolversi, la natura avrebbe conservato, mediante innumerevoli serie di negazioni, differenziazioni e diversificazioni, tali caratteri, portandoli a un'espressione più compiuta e articolata. Questa prospettiva consente di riportare quelle dimensioni da sempre considerate di dominio umano quali la bellezza e l'eticità a livelli più complessi di organizzazione della materia, ma non al, di là della natura: «speaking metaphorically, it is nature itself that seems to "write" natural philosophy and ethics, not logicians, positivists, neo-Kantians, and heirs of Galilean scientism» 131 • Perciò l'umanità invece che annichilir-

127. Scrive Bookchin: «Despite the external selective factors with which Darwin describe evolution, the tendency oflife toward a greater complexity of selfhood - tendency that yields increasing degrees of subjectivity- constitutes the internal or immanent impulse of evolution toward growing self awareness» (ivi, p. 1.28); e anche: «if the thrust of evolution has any meaning, it is that a continuum is processual precisely in that it is graded as well as united, a ffow of derived phases as well as a shared development from the simpler to the more complex» (ivi, p. 76). 1.28. Cfr. ivi, pp. 56-66.

129. Ivi, p. 57. 130. Ivi, p. 64. 131. Ivi, p. 59.

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si, o pensare di auto-eliminarsi, deve comprendere il suo ruolo fondamentale nel riconoscimento di ciò che ha valore nel mondo e prendersene cura. In quanto appena affrontato ci sembra che agisca in Bookchin una qualche forma di antropocentrismo, sebbene più virtuoso e attivo rispetto ad altre varianti che vedono l'umano come l'apice del creato 132 • Riteniamo che tale permanenza dipenda dal senso che r anarchico newyorkese ha voluto imprimere, sotto l'inffuen7~ di Spencer, all'evoluzione. In realtà l'evoluzione darwiniana non ha alcuna direzione di questo tipo e pensarlo rischia di introdurre ancora idee finalistiche in natura, operazione che, come abbiamo avuto modo di vedere in diversi luoghi, è una superstizione che deve essere abbandonata. Nell'idea di evoluzione non vi è in alcun modo quella di progresso, inteso come un progredire verso una maggiore compl,essità. Gli organismi che si evolvono sono solo diversi da quelli precedenti; revoluzione non favorisce maggiore organizzazione e i figli non sono necessariamente ''più complessi" dei genitori; evoluzione può infatti anche significare produzione di minor complessità, in una direzione che in quest'ottica sarebbe letta come regressi.va rispetto alle precedenti organizzazioni vitali, ma invece non lo è affatto. L'evoluzione è indifferente alle direzioni che le imprimiamo: maggior complessità non implica migliori capacità adattive, che sono quelle ad aver più peso nella selezione. Ma, come vedremo nel prossimo capitolo, pur rifiutando tale assunto errato a monte del naturalismo dialettico di Bookchin, si 132. Nonostante egli scriva: «By singlingout humanityas a unique life-fonn that can consciously change the entire realm of 6rst nature, I do not claim that 6rst natura was "made» to be "exploited» by humanity, as those ecologists criticai of"anthropocentrism» sometimes charge. [ ... ] humans cannot "exploit» nature, owing to a "commanding'> piace in a supposed "hierarchy» of nature. Words like com-manding, exploitation, and hierarchy are actually social tenns that describe how people relate to each other; applied to the natural world, they are merely anthropomorphic» (ivi, p. 30).

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potranno condividere ancora alcune conclusioni simili a quelle da lui tratte. Quello che ora ci rimane da affrontare è il modo in cui intende quel frutto naturale dell'evoluzione che sarebbe la razionalità umana, e come questa debba intervenire per affrontare i problemi del nostro tempo.

7.2. I tre tipi di ragione Bookchin distingue nella ragione umana tre diversi tipi di operazioni all'interno delle quali si può leggere uno sviluppo dialettico analogo a quello che abbiamo visto riguardare tutto ciò che è. Il primo tipo viene chiamato analitico ed è dominato dal principio di non contraddizione. Questa è la ragione che si occupa solo di ciò che è e, per dir così, delle sue relazioni logiche. Essa guida lo sviluppo delle scienze quali la matematica, la fisica, la chimica, che non oltrepassano i limiti d'indagine del campo ontologico in cui si individuano i loro oggetti. Essa è uno strumento importante per la comprensione di come funziona il mondo, ma non ci dice nulla di come dovrebbe funzionare. Il secondo tipo di ragione viene chiamato strumentale e concerne l'individuazione dei mezzi necessari per raggiungere specifici obiettivi ad esempio in politica, economia ed etica. Essa, come è chiaro, si serve della ragione detta analitica per orientarsi nella scelta e la ingloba in un livello di organizzazione superiore a quello delle scienze dure. Bookchin chiama l'unione di entrambe conventional reason 13.1 • Anche questa 133. «The reason for my choice of the name conventional ·reason is that it encompassestwo Iogical traditions thatare often referred to interchangeably, as if they were synonyms. They are in fact distinguishable, analytical rnason being the highly formalized and abstract logie that was elaborated out of Aristotle•s Posterior Analytics, and instmmental reason, the more concrete rationality developed by the pragmatic tradition in philosophy. These two

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però resta muta dinnanzi alla bontà degli scopi in questione ed è in grado di risolvere problemi non all'altezza delle sfide ecologiche del nostro tempo, che sono di vasta portata e richiedono una visione di ben più ampio respiro, eco"logica appunto, del mondo. Infine Bookchin parla di una ragione dialettica la quale sarebbe in grado di spiegare non solo ciò che è, ma anche ciò che dovrebbe essere 134, poiché si interroga circa le potenzialità inscritte negli enti. Così essa studia il mondo considerando la realtà in accezione hegeliana come Wirklichkeit, che raccoglie implicitamente ciò che ha la potenzialità di divenire, e non solo come Realitiit, ciò che è e basta 135• La ragione dialettica è in grado di leggere quelle linee di sviluppo rintracciabili nelrevoluzione della vita sulla terra 136, indicando quali siano erronee in virtù del fatto che non seguono ciò che hanno la potenzialità di essere. Essa non afferma che le cose sono, ma che divengono, e le rilegge sotto l'idea di un'entelechia non più estroindotta, ma inscritta nella loro stessa natura. Perciò questa ragione, se combinata al naturalismo, si interroga sulle potenzialità inespresse degli enti che abitano il mondo e promuove la loro realizzazione, cioè seguendo ciò che essi hanno in sé, favorendo ciò che

traclitions meld, often unconsciously, into the commonsensical reason that most people use in everyday life; hence the word conventional» (ivi, p. 36, nota 1). 134.

e&. ivi, p. 8.

13:5. «Wirklichkeit is what a dialectical naturalism infers from an objectively given potentiality; it is present, if only implicitly, as an existential fact, and aialectical reason can analy.1.e and subject it to processual inferences. Even in the seemingly most subjective projections of speculative reason, Wirklichkeit, the "what-should-be», is anchored in a continuum that emerges from an objective potentiality, or "what-is"» (ivi, p. 24). 136. «The increase in diversity in the biosphere opens new eoolutiona".I pathways, indeed, alternative evolutionary directions, in which species play an active role in their own survival and change» (ivi, p. 77).

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dovrebbero essere se non fossero impediti nel loro attualizzarsi. Quest'ultimo tipo di ragione ingloba le due precedenti e se ne serve ponendo loro dei fini buoni, che favoriscono il compimento di tutte le potenzialità latenti. Così mutualism, self-organi7.ation, freedom, and subjectivity, cohered by social ecology,s principles of unity in diversity, spontaneity, and nonhierarchical relationships, are constitutive of evolution,s potentialities. [ ... ] these principles of social ecology require not analysis but merely verifìcation. They are elements of an ethical ontology, not rules of a game that can be changed to suit personal needs and interests. 137

Gli esseri umani sono dunque inscritti nel divenire dialettico della natura e in quanto tali non sono altro che differenziazioni di organismi a loro precedenti, che attualizzano alcune potenzialità che sono riconducibili persino alla stessa materia di cui sono fatti. Tale differenziazione implica l'assorbimento di tutto ciò che è negato da parte di ciò che è nuovo, e perciò la natura che si è sviluppata in questa specie particolare porta con sé tutte le tracce di ciò che è stato negato: così l'uomo non è al,tro se non perché è identico all"'animale''. Ecco come Bookchin ripensa la famosa negazione di negazione hegeliana: it is becoming a cliché to fault humanity's "separation" from nature as the source of "alienation,, in our highly fragmented world. We must see that eve".J process is also a form of alienation, in the sense that difTerentiation involves separation from older forms of being as well as the absorption of what is negated into the new, such that the whole is the richly varied fulfìllment of its latent potentialities [ ... ] That the "other" is at least part of a whole, however difTerentiated it is, eludes the modem mind in a ff ux of experience that knows division exclusively as conffict or breakdown. 138

137. Ivi, p. 66. 138. Ivi, p. 76.

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Poiché r evoluzione dialettica ha prodotto e favorito in molte forme di vita impulsi sociali quali la cooperazione e l'aiuto reciproco, egli legge in queste direzioni la strada da percorrere per estrinsecare le real,i potenzialità del genere umano. Questi non è diverso, cioè in toto estraneo, a coloro di cui è "negazione evolutiva" in quanto propria determinazione, ma semmai differente, cioè continua a possedere una natura comune con quanto lo "precede". Per queste ragioni secondo Bookchin vi è, e si deve seguire, la possibilità di condivisione anche con quegli enti da cui ci siamo differenziati: è possibile allora una convivenza più fruttuosa e potente, non solo tra esseri umani, senza rifarsi a nessuna forma di primitivismo: this dialectical naturalism offers an alternative to an ecology movement that rightly distrusts conventional reason. It can bring coherence to ecological thinking, and it can dispel arbitrary and anti-intellectual tendencies toward the sentimental, cloudy, and theistic at best and the dangerously antirational, mystical, and potentially reactionary at worst. [ ... ] dialectical naturalism is organic enough to give a more liberatory meaning to vague words like interconnectedness and lwlism without sacrificing intellectuality. It can answer the question [ ... ]: what nature is, humanitys piace in nature, the thrust of natural evolution, and societys relationship with the natural world. 139

L'ecologia sociale muove dunque a partire da questo ordine normo-bio-ontologico che evidenzia le differenze tra gli individui e le rispetta riconoscendole, ma allo stesso tempo le mantiene insieme per ciò che hanno in comune. L'essere umano rappresentarattualizzarsi di potenzialità che sono inscritte nella materia stessa del mondo e non è affatto un agente cancerogeno per la natura; certo non essere umano della ragione strumentale che ignora la bontà dei fini nella scelta dei mezzi, ma di quella ragione dialettica che si prende cura della vita alla

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139. Ivi, p. 15.

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luce di una comprensione non solo strumentale della Terra. Perciò si deve combinare alle operazioni razionali delle tecniche e delle scienze una sensibilità ecologica che permetta di individuare le migliori pratiche di convivenza, e non sfruttamento, con le altre forme di vita e le risorse del pianeta, avendo cura che sia mantenuto un equilibrio metabolico tra ciò che si assorbe e ciò che si rigetta. Tutto questo non può essere compiuto se non a partire da radicali cambiamenti nell'assetto socio-politico-economico ora dominante, trasformazioni profonde del modo in cui le nostre società pensano e organizzano la vita dei loro membri, frustrando le loro potenzialità più proprie. Il resto sono fantasie primitivistiche o ingenua, prometeica, arroganza di dominare la natura. Entrambe illusioni incapaci di comprendere il senso del divenire del mondo, del posto deU'umanità in esso e il loro valore: loro e ogni loro sfumatura devono essere abbandonate. Non fanno altro che accelerare il disastro ambientale in atto.

8. Luoghi di incontro tra Spinoza, Nress e Bookchin Bookchin si rivolge in maniera sprezzante 140 alla visione del mondo proposta dall'ecologia profonda di Nress, poiché essa,

140. «Oggi, in tutto il mondo, si offrono inquietanti alternative ai movimenti ecologici. Da un lato si va diffondendo, soprattutto in Nord America, ma anche in Europa, una sorta di malattia spirituale, un atteggiamo antiilluminista che, in nome del "ritorno alla natura", evoca atavici irrazionalismi, misticismi, religiosità dichiaratamente "pagane". Culti delle "divinità femminili'', "tradizioni paleolitiche" (o, secondo i gusti, "neolitiche"), rituali "ecologici" (insomma tutta una sorta di ecologia vudù, auto-definitasi "ecologia profonda", che quanto a primitivismo fa il pari con l'economia vudù dell'amministrazione Heagan) vanno prendendo piede di qua e di là dell'Atlantico in nome di una "nuova spiritualità"» (M. Bookchin, Vecofugia della libettà, cit., p. 11).

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assumendo una prospettiva spinoziana della Nanua, considera l'umanità come una parte non centrale del Tutto. Inoltre è certo estranea al Dio di Spinoza una qualsiasi razionalità nelle sue direzioni evolutive. Tuttavia, eliminando alcuni residui di mascherato finalismo che orientano la riff essione naturalistica dell'anarchico newyorkese, si può, crediamo, constatare con facilità come alcune importanti conclusioni raggiunte da queste differenti ecologie non siano così distanti. Di più: una loro sintesi può dare frutti positivi per l'etica. Tra queste visioni vi è infatti in comune l'idea che l'uomo non sia da pensarsi come al,tro dalla natura, ma entrambe lo considerano solo come una sua espressione particolare. Sebbene gli spinoziani non possano accettare che la natura sia in sé, in senso assoluto, razionale, convengono anch'essi che la ragione non può essere per ciò innaturale. La razionalità dunque non può essere trascurata nella riffessione etica per quanto concerne la liberazione dalle passioni, in Spinoza, attuarsi di specifiche potenzialità, in Bookchin o, come direbbe Nress, nel comprendere l'auto-realizzazione di determinate individualità. Il materialismo di Bookchin, che rifiuta l'atomismo come prospettiva che dà la massima realtà al mondo-in-quanto-cosa e si allontana dalle visioni che dissolvono la realtà in un discorso sulla realtà141, si fonda sul soggetto, non inteso in accezione kantiana come funzione unificatrice, ma in quanto soggetto e natura insieme; non vi è un soggetto che comprende una natura-oggetto, ma solo natura che comprende sé a un certo grado di organizzazione 142; ecco, in tutto questo, a nostro avviso, egli non è così distante da Spinoza, e di riflesso da Nress, se consideriamo che, rammemorando la sua Ethica, «quando percepiamo qualcosa in modo adeguato, raggiungiamo una sorta di identità cogniti-

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141. Cfr. M. Bookchin, The Philosophy of Social, Ecology, cit., pp. 47-55. 142. Ivi, pp. 55-66.

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va con la mente cli Dio» 141 (o Nanua). Se in tutto questo non si inserisce quella sorta cli finalità che porterebbe la natura ad evolversi per giungere a pensarsi «razionalmente'', che sembra avere in mente talvolta Bookchin, la cooperazione tra queste prospettive può dirsi possibile. Infatti entrambe le ecologie che abbiamo discusso riconoscono, ad esempio, l7importanza che riveste la conoscenza scientifica nel determinare le scelte operative da prendere e orientare azione nel mondo. Checché ne dica Bookchin, Nress non scioglie l7individuo in un olismo indistinto prescrivendo un ritorno alla verde Madre Natura mediante meditazioni zen 144 , ma invece, sulla scia di Spinoza, valorizza gli apporti che le conoscenze più specializzate possono fornire per favorire l'auto-realizzazione di quanti più individui possibili. E proprio quest'ultimo punto, rauto-realizzazione, cuore delretica del fìlosofo norvegese, presenta la più grande vicinanza con la ragione dialettica del filosofo newyorkese. Nress l'ha caratterizzata come l'estrinsecazione a livelli crescenti di perfezione, e dunque di gioia, della propria natura ed è quanto dev'essere favorito e ricercato dall'azione etica. Cosa la distingue dal perseguimento dell'attuazione delle potenzialità inscritte nella natura stessa degli enti145? Non dicono forse entrambe, le loro bio-norme, che è sbagliato tutto quello che soffoca il libero esprimersi della vita e che la stessa auto-realizzazione, r attuazione delle proprie potenzialità, è più compiuta se (per quanto possibile) centrifuga, se cioè comprende in sé l7impegno a favorire quella degli altri, come la musica di un'orchestra è migliore se al suo interno ogni

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143. S. Nadler, La oia alla felicità, cit., p. 157. 144. Nei limiti della conoscen~ di chi scrive. Qui ci riferiamo unicamente ai testi indicati in bibliografia. 145. «La più importante caratteristica dell1'auto-realizzazione [ ... ] è la sua dipenden~ da una visione delle capacità umane, o, meglio, delle potenzialità» (A. Nress, Auto--realizzazione, cit., p. 120).

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strumento ha trovato il proprio spazio di espressione? Ci sembra evidente allora che tali pensieri, nonostante alcune ovvie distanze, condividano punti fondamentali e possano essere in grado di arricchirsi l'un l'altro. Con la volontà di rimanere nell'atmosfera di pensiero analizzata in questo capitolo, ci rivolgeremo ora ai problemi che hanno guidato sin dall'inizio la presente trattazione, cercando, con l'aiuto degli strumenti raccolti lungo questo cammino, di abboZ7are la fondazione di un'etica che resista all'orizzonte tempestoso dei nostri tempi.

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V

Dynergis

1. L~enigma Cortés Domandiamo: qual è il senso dei nostri atti? Perché rillettiamo sul modo in cui ci si dovrebbe comportare o meno, giudicando come buone o cattive le azioni (soprattutto quelle degli altri)? Chiunque conosce qualcuno che non se ne preoccupa affatto, o così almeno dà a vedere, suggerendo che, in fondo, dedicarsi a questi problemi è una perdita di tempo, una questione di etichetta. Che ragioni ci sarebbero infatti, qualora si fosse lontani da casa, in un paese ancora sconosciuto, abitato da popolazioni tecnologicamente arretrate, per non far di costoro ciò che si vuole? La storia insegna che gli umani tendono a rivelarsi in grado di commettere i crimini più spregevoli, se posti nelle condizioni appropriate. Perché dunque non rubare, uccidere, violentare, se tutto questo si potesse perpetrare senza il rischio di essere puniti, ed anzi con la certezza di essere premiati dal proprio paese? Un'etica valida, a nostro awiso, deve sapere risolvere questo problema e il modo in cui si posiziona in seno ad esso fornisce un'indicazione circa la sua bontà. Tale problema lo chiamiamo "enigma Cortés" in "onore" di quell'Hernan Cortés che l'ha incarnato alla perfezione, la cui vita efferata ha

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risposto, per dir così, che non vi è nessuna ragione per limitare il proprio potere. Kant, in questo esempio, qualora considerasse i membri del popolo azteco fini in sé, potrebbe reagire al suddetto enigma affermando che è un dovere trattare l'umanità nell"altrui persona sempre anche come fine, e mai come semplice mezzo, e dunque che si violerebbe un dovere inderogabile nel perpetrare simili azioni; ma l'imperativo categorico, qui come in ogni caso simile, sembrerebbe vincolarsi all'ipotesi circa lo statuto morale degli enti interessati, tramutandosi in una forma che ricorda più quella di un imperativo ipotetico, e dunque non propriamente morale, piuttosto che una legge inviolabile: se gli enti interessati dalla tua azione rispondono a certe caratteristiche (I"essere possibili volontà buone, dunque soggette alla legge morale in quanto volontà razionali finite) che, per tagliare corto, definiscono ciò che sarebbe l"umanità, allora agisci di conseguenza. Ma come abbiamo avuto modo di vedere in diverse occasioni, è assai difficile definire una volta per tutte un qualcosa del genere, e tale modo di procedere si presta a facili strumentalizzazioni; così Kant, in quanto individuo vissuto a Konigsberg nel Settecento, ali"enigma Cortés potrebbe anche rispondere in un modo che riteniamo adeguato 1, ma un kantiano, lavorando sulla premessa ipotetica ed escludendo il popolo azteco dall"alveo dell"umanità

1. Infatti egli scrive: «Si rimane inorriditi a vedere l'ingiustizia che [gli Stati europei] commettono nel visitare terre e popoli stranieri (il che per essi signi6caconquistani). L'America, i paesi abitati dai negri, le Isole delle spe-.ae, il Capo di Buona Speranza, ecc., all'atto della loro scoperta erano per essi terre di nessuno, non facendo essi calcolo alcuno degli indigeni. Nell'India orientale (Indostan), col pretesto di stabilire stazioni commerciali, introdussero truppe straniere e ne venne l'oppressione degli indigeni, l'incitamento dei diversi Stati a guerre sempre più estese, carestia, insurre-.aoni, tradimenti e tutta la lunga serie di mali che possono affiiggere l'umanità» (I. Kant, Per la 7,ace perpetua, in Id., Scritti 7JOlitici e di filosofia della storia e del diritto,

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vera e propria, potrebbe risolverlo in una sua giustificazione razional,e.

Gli utilitaristi sembrerebbero offrire un ventaglio di risposte variegate; innanzitutto si tratterebbe di capire se vadano tenuti in conto gli interessi antisociali o meno; se il piacere, in un senso largo e articolato (che gli fa perdere, come abbiamo visto, un significato preciso e individuabile con facilità), massimiZ7~to da tali azioni efferate fosse, in fin dei conti, positivo per resercito aggressore, enigma Cortés si risolverebbe in suo favore? Perché si dovrebbero tenere in conto gli interessi di uomini sconosciuti e appartenenti a culture in toto diverse? Ma il calcolo, secondo alcuni, dovrebbe essere fatto a partire dagli interessi stessi e non dai loro portatori; anche qui, presupponendo che gli unici interessi da tenere in conto siano quelli umani e che il popolo azteco venga considerato dawero umano, se, comunque sia, i vantaggi e il piacere risultanti fossero talmente alti da giustificare ogni crimine? Bisognerebbe calcolare sulla base dell'utilità sociale media e non assoluta, per tenere in conto degli interessi di tutti; ma di che socialità si può parlare mettendo in relazione due società in tutto diverse? E se gli interessi del popolo azteco per essere soddisfatti richiedessero azioni inaccettabili per la società spagnola, andrebbero tenuti in conto nel calcolo? Bisognerebbe, ancora, operare numerose distinzioni tra le preferenze vere e quelle apparenti e via dicendo. Le complicazioni che abbiamo affrontato nella sezione precedente circa il calcolo utilitarista e la sua teoria del valore sembrano imporsi anche di fronte al nostro enigma, intorpidendo le acque e non permettendo una risposta univoca e trasparente.

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Aristotele è quello che sembra offrire la soluzione più chiara, nonostante si presenti come la più inaccettabile; è molto pro-

tr. it. di G. Solari e G. Vidari, a cura di N. Bobbio, L. Firpo e V. Mathieu, Utet, Torino 1956, pp. 283-336: p. 303).

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babile che egli considererebbe il popolo azteco e i suoi membri dei barbari, cioè schiavi inutili a se stessi di cui certo non ci si deve fare scrupolo morale. Spinoza, invece, forse, riconoscendo al popolo azteco il supremo diritto naturale di perseverare in ciò che è e il potere posseduto da Cortés nei suoi confronti, nonostante tutti i vantaggi e i piaceri e le glorie che quest"ultimo potrebbe conquistarsi nel massacrarlo, risponderebbe che non dovrebbe farlo. Un uomo libero dalle passioni che è causa adeguata di quanto (gli) succede infatti, agendo sotto la guida della ragione, comprenderebbe che non può trarre alcun vero vantaggio da quelle violenze, ma che invece la via da percorrere sarebbe o quella di non immischiarsi in una società a lui estranea, o al massimo tentare di instaurare relazioni amiche, democratiche, che portino tutti a un accrescimento della propria potenza e gioia; infatti la virtù è premio a se stessa, beatitudine, e implica l'amicizia tra gli uomini: se questo Cortés non lo comprende e invece ritiene di trarre vantaggio dalla sua violenza e crudeltà, non sa cosa si perde, non saprà mai cos'è la vera felicità. Ma ciò è da ritenersi soddisfacente? Questa posizione sa difendersi dall'enigma qui sollevato, ma è una direzione che dovrà essere approfondita. Ora è bene pensare che cosa s'intenda, o si debba intendere, con ''etica", raccogliendo le domande via via incontrate in questo percorso cui una simile riflessione deve dare risposta. L'individuazione e la separazione degli aspetti di cui è costituita sono il primo passo da muovere per fare chiarezza in merito e per comprendere come debba strutturarsi per offrire una postura completa, nell"inevitabile parzialità che connota ogni posizione di questo tipo. Ci discosteremo un po" dai modi in cui è stata intesa nelle sue parti dalla tradizione, pur ritrovando, infine, tutti i momenti che abbiamo analizzato in precedenza.

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-··---------------o . _...... _- -

.......

Figura 1. Albero dell.1'Etica., illustrazione di Ilaria Reed.

2. Ripensare l'etica Ci piace pensare ali,etica, intesa nel senso di riflessione fìloso6ca generale e, allo stesso tempo, di ogni sua istanziazione particolare, come a un albero dei cui frutti si nutrono gli uomini e gli altri animali. Le sezioni di cui è composto individuano le sue strutture operative: così le radici che affondano nella terra rappresentano il suo livello fondativo, il campo ontologico su cui si innesta e da cui trae le ragioni ultime della sua vitalità (validità); il tronco individua invece la postura etica vera e propria che fronteggia le intemperie della regione in cui si trova; i rami sono le molteplici specificazioni che assume con il passare del

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tempo, che pur diverse rimangono legate a un'origine comune; i frutti, il livello delle conseguenze e implicazioni di una determinata postura nel mondo, nutrono le creature, e se sono buoni permettono loro di prosperare e mantenersi in forze, mentre se sono awelenati le fanno ammalare; il sole, centro di idee e nutrimento, è ciò che l'albero appetisce tendendovi con i suoi rami; gli altri astri rappresentano le configurazioni storiche in cui una determinata etica ha preso forma; il mutare del cielo e delle condizioni atmosferiche, strettamente connessi alla terra per conservare la vita dell'albero e permettergli di fiorire, cioè il mutare delle epoche, sfida la sua sopravvivenza. Se l'etica è radicata in una terra fertile e alla luce di idee potenti è in grado di fronteggiare e resistere alle perturbazioni che l'affrontano, offrendo una casa sicura e cibo per chi trae da lei nutrimento; se invece le sue radici e il suo tronco sono troppo fragili, se il terreno in cui è innestata diviene deserto a causa di uno sconvolgimento celeste, verrà spaz7.ata via dal tempo, e con lei chi la abita: questo significa che un'etica solida deve saper affrontare i fenomeni nuovi che si affacciano via via nel mondo. Gli uomini devono saper interpretare i segni del tempo in cui vivonoe la qualità degli alimenti di cui si nutrono. Abitare un'etica debole implica indebolirsi e trascorrere un'esistenza più infelice di quella che si potrebbe avere soggiornando in altri luoghi. Ma come può un uomo sapere che i frutti con cui è stato cresciuto, invece che renderlo più potente, lo costringono a una vita piegata come il fragile tronco da cui ha imparato a star dritto? Come può vedere oltre la postura dell'albero che lo nutre? Chi gli suggerisce che potrebbe ergersi più grandioso? Forse scorgendo vette più verdi all'orizzonte. O forse accorgendosi della propria tristez7.a e di quella di chi lo circonda, tristez7.a che potrebbe essere rovesciata. Ma come potrebbe sapere che quella dimensione in cui sono catturati i suoi amici è tristezza, se ha vissuto solo con chi lo circonda e chi ne è vittima magari la chiama felicità? Una risposta potrebbe essere trovata nel-

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la sua giovinezza: solo colui le cui forze non sono state ancora sen7.a rimedio impoverite e distrutte dalla malnutrizione può domandarsi, incontrando le tristi morti di chi si alimenta n da più tempo, se non sia possibile che le cose vadano in un'altra direzione. Potrebbe cercare di guarire la terra che ammala le radici dell'albero, awertendo chi vi si sostenta di astenersene e aiutarlo a curarlo; o, se ne è in grado, sradicarlo e piantarlo in un altro campo: ma se il clima è troppo duro, l'unica via che potrà percorrere sarà raccogliere i semi dei frutti delle etiche più resistenti e awiarsi, con i suoi amici, verso terre più fertili dove piantarli e prendersene cura, sotto un cielo più terso e luminoso. Il primo punto da cui vogliamo tentare di ripensare l'etica è delineare con attenzione le categorie in cui si articola, si formula e si muove, cioè quell'aspetto logico-costitutivo che chiamiamo grammetica.

3. Grammetica Definiamo "Grammetica", con la maiuscola, la struttura logicovitale che regola i contenuti propri dell'Etica, intesa come filosofia generale, contenuti non ancora "riempiti" da oggetti specifici ma indicanti i campi operativi di cui ogni etica particolare deve rendere conto nella sua articolazione per potersi dire completa e instaurare un dialogo con sistemi diversi da sé. Con questo concetto ci riferiamo a qualcosa di simile a quanto ha proposto Hare che, come abbiamo visto in precedenza, si è impegnato nella ricerca e definizione di un linguaggio della morale i cui significati fossero esaustivi e intendibili per chiunque ne accetti la logica, cercando di rendere così i contenuti della morale analoghi a quelli della matematica e favorendo l'accordo su specifiche conclusioni, o perlomeno permettendo

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la comprensibilità reciproca. Il nostro concetto di Grammetica vuole però discostarsi dalla mera indagine chiamata "metaetica'', che vi è contenuta, poiché con esso si vuole indicare la specifica, ma universale, forma in cui si articolano determinati posizionamenti nel mondo, forma SE_ecifica che si può pensare non sia l'unica possibile o agibile. E tale specifica forma che indichiamo con il termine uomo il morire» (M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 232). 18. M. Heidegger, &sere e tempo, tr. it. di P. Chiodi, Longanesi, Milano 1976 (1970 1). 19. Non ci spendiamo nel distinguere e defìnire le categorie heideggeriane perché riteniamo non abbia qui alcun senso, e perciò tagliamo corto identifìcando "esserci .. e "essere umano..; segnaliamo però che si potrebbe mostrare, anche in questo luogo, che non tutti coloro che in genere vengono considerati "esseri umani .. siano propriamente dei Dasein.

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autentico e inautentico in ambito intra-umano si generano delle conseguenze etiche a dir poco aberranti 20; quello che si deve rifiutare di accogliere, però, se il nostro discorso ha una consistenza, è che non è il "morire'', nel significato che gli dà Heidegger, a dischiudere quello che abbiamo chiamato valore morale, ma piuttosto, allora, il "cessare di vivere". La temporalità propria dell'"uomo", senza per ciò dire che sia "posseduta esistenzialmente" da tutti gli uomini, è senza dubbio condizione di possibilità del riconoscimento riflessivo, per dir così, del valore morale, e porta con sé certo tante altre conseguenze; ma non è per questo condizione necessaria della sua incarnazione, come gli occhi sono condizione di possibilità di vedere i colori, ma non sono condizione necessaria per essere colorati. La dimensione della moralità non è aperta da quella relazione che viene chiamata intersoggettività, laddove con ciò si intenda quanto orbiti negli studi sulle pratiche di soggettivazione e produzione dell'autocoscienza umana, ma piuttosto da quella che chiamiamo intercorporal,ità21 , che riguarda invece il livello

20. Tali distinzioni condurrebbero infatti ali,«inquietante ambiguità con cui Heidegger descrive la morte nei campi di sterminio: essa non è una morte autentica, che comporta ],assunzione individuale della propria morte come la possibilità della più alta impossibilità, ma soltanto un altro processo industriale-tecnologico anonimo: le persone non "muoiono,, veramente nei campi, sono solo sterminate su scala industriale. Heidegger suggerisce che le vittime assassinate nei campi in qualche modo non muoiano "autenticamente", traducendo così tutta la loro sofferenza in una "non autenticità,, soggettiva. La questione che non solleva è precisamente come esse soggettivizzavano (si relazionavano al) la loro tragedia. La morte era dawero un processo di sterminio industriale per gli esecutori, ma non per le vittime» (S. Zizek, Meno di niente. Hegel e z·ombra del materialismo dialettico, 2 voli., tr. it. di C. Salzani e W. Montefusco, Ponte alle Grazie, Milano 2013, voi. II, p. 427). 21. Diciamo "corporalità,, invece che "coqxreità", poiché questo secondo termine sembra riferirsi più al corpo-cosa che al corpo sensuale e auto-.t..oografantesi.

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della costruzione di comprensione affettiva reciproca propria della autozoografìa. Perciò il dynergismo, pur essendo una forma di spinozismo, si distacca dal dettato di Spinoza, che considera i corpi umani simili solo tra loro e assai diversi da quelli degli altri animali, decretando la loro esclusione dal circuito della sua etica; egli infatti scrive: la legge che proibisce di amma7.7.are gli animali è fondata piuttosto sopra una vana superstizione e una femminea compassione anziché sulla sana ragione. Il dettame della ragione di ricercare il nostro utile prescrive, bensì di stringere rapporti di amicizia con gli uomini, ma non coi bruti o con le cose la cui natura è diversa dalla natura umana.22

Noi diremmo, piuttosto, appoggiandoci a Bookchin, che gli altri animali sono differenti dagli esseri umani, ma non diversi, perlomeno per quanto riguarda il loro valore morale: in quanto enti autozoografantesi infatti sono simili ed è questa somiglianza a importare a livello etico, non il "possesso della ragione" o tratti analoghi, come abbiamo visto. Il dynergismo afferma dunque, infine, che il vero valore morale è incarnato da ogni individuo che esista nel modo dell'apertura autozoografantesi. Vogliamo sottolineare l'individualità e 1'unicità23 di ogni singolo portatore di valore morale; questi infatti non si deve pensare come dissolvibile in categorie come quella di "specie" o genere", ma deve essere compreso nella sua irriducibilità: ad esso riconosciamo, con Spinoza, «il supremo diritto [ ... ] ad esistere ed operare a seconda di come è naturalmente determinato»24 • È chiaro, dunque, che il dyner22. Eth. S., IVP37sl. 23. Nel senso forte che conferisce M. Stirner all9Unico ne D'unico e la sua proprietà, tr. it. di L. Amoroso, Adelphi, Milano 1979. 24. B. Spinoza, Trottato teologico-politico, cit., cap. 16,

§§ 2-3, p. 1005.

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gismo fa proprio il traguardo raggiunto da un certo utilitarismo istanziato nell'allargamento della cittadinanza morale agli altri animali non umani. Cosa ciò comporti a livello iteco, ed etico nel suo complesso, è quanto andremo a scoprire nei paragrafi che seguono.

9. Iteca dynergista Il dynergismo afferma che razione giusta e virtuosa è quella che approfondisce l'espressione di dynergis di un individuo; questa sarà tanto più intensa e ampia quanto più (r)accoglierà quella altrui: ogni individuo ha diritto ad autoreali7.7~rsi estrinsecando le potenzialità più proprie che possiede nella sua relazione con l'ambiente in cui si trova a vivere. È bene fugare subito un problema che potrebbe essere sollevato, e cioè: se si è detto che ogni ente autozoografantesi ha, in virtù della sua forma vitale, valore morale e insieme il supremo diritto a realizzarsi dynergicamente, ma anche che il vero passaggio a una perfezione maggiore può awenire solo nella direzione di un egoismo centrifugo e non centripeto, come si conci~ano queste istanze con la conflittualità propria della vita? E sotto gli occhi di tutti che l'espressività dynergica può implicare l'altrui distruzione, come si legge nella catena alimentare. Ma l''iteca dynergista non chiede a nessuno l'auto-eliminazione; il suo fondamento morale è infatti l'individuo nella sua unicità e irriducibilità atomica; semmai essa afferma che, per quanto è possibile sen7~ distruggere la propria individualità, l'incremento della propria potenza è legato all'incremento di quella altrui, e si è più intensamente gioiosi quanto più estesamente la propria azione approfondisca la realizzazione dynergica. Come scrive Spinoza: «[ ... ] se [ ... ] due individui di natura del tutto identica si uniscono l'uno all'altro, qui vengono a formare un individuo

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due volte più potente che ciascuno singolannente»25; se si aggiunge a ciò la tesi forte che vogliamo sostenere in queste pagine, e cioè che la natura morale degli enti autozoografantesi è identica nelle loro infinite differenze specifiche, si chiarisce la nostra conclusione iteca: per quanto possibile, si deve agire realizzandosi dynergicamente comprendendo ed estendendo r estrinsecazione dynergica degli altri individui morali. Le condizioni di possibilità che inffuenzano una più o meno estesa realizzazione dynergica sono molteplici: l'epoca in cui si vive, il livello di sviluppo tecnologico che si ha a disposizione, le conoscenze scientifiche ... Tutto questo ha un peso fondamentale nella comprensione di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, di ciò che si può o meno fare, e perciò anche di ciò che si dovrebbe compiere. Nel prossimo capitolo dedicheremo alcune pagine alla produzione industriale di carne utilizzando le lenti del dynergismo, per fornirne una sua interpretazione; possiamo anticipare, come sarà già chiaro, che rappresenta a nostro avviso un fenomeno oltremodo sbagliato, il cui perpetrarsi non può che rimettere in discussione quanto si è sempre pensato, con poche eccezioni nei millenni, della relazione tra ruomo e gli altri animali: ma di questo avremo modo di parlare più avanti. Quello che ora ci preme fissare è che l'iteca dynergista propone di comprendere la propria gioia all'interno di un sistema di relazioni assai vasto che si incarna in moltissime forme di Grammetica vivente, tutte saldate tra loro; la realizzazione dynergica di un individuo si compie nelle azioni che, per quanto gli è possibile, aumentano l'approfondimento di dynergis altrui: chi distrugga la gioia di chi ha valore morale non per la necessità di continuare a perseverare nel proprio essere, ma credendo di accrescere così, in qualche modo, la sua felicità, non sa quello che sta facendo, e non è davvero fe-

25. Eth. S., IVP18s.

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lice come invece potrebbe essere. Per queste ragioni si è voluto dare al termine "Grammetica" un senso così ampio; esso rappresenta il multiforme sistema di comportamenti che gli individui autozoografantesi acquisiscono per perseverare nel loro essere, di cui rEtica della scrittura vivente umana, nelle sue numerose varietà e formulazioni, è un suo tipo di istanziazione: questi diversissimi posizionamenti nel mondo sono accomunati da quella particolare forma di abitarlo che abbiamo chiamato "autozoografia"", in cui si fonda la dimensione morale. Riteniamo perciò che una grammetica umana debba comprendere la logica vivente in cui è inscritta per dare risposte soddisfacenti alle sue istanze etiche; non comprendere quello che si è chiamato il movimento del valore, cioè le ragioni dinamiche del prodursi del valore morale e il sostegno dynergico che lo preserva e lo approfondisce, significa, a nostro avviso, mettersi nella condizione di darsi risposte immaginifiche e superstiziose. Per queste ragioni e per indicare la direzione rappresentata dalriteca dynergista, è bene ora comprendere il meccanismo che regola lo strutturarsi vivente degli individui autozoografantesi: !"auto-imitazione.

9.1. Auto-imitazione In una cornice ontologica spinoziana come quella abbracciata in queste pagine, in una visione del mondo cioè che rifiuti ogni tipo di finalismo, provvidenza e libero arbitrio, bisogna capire come gli individui apprendano i comportamenti necessari alla loro sopravvivenza. Riteniamo che l"analisi offerta da Gianfranco Mormino nel suo Per una teoria dell'imitazione del meccanismo auto-imitativo che sta alla base della possibilità di sopravviven7.a di ogni animale rappresenti la dinamica vitale fondamentale di ogni ente autozoografantesi, e che in esso si possa rintracciare una direzione iteca cruciale per la piena espressione dynergica di un individuo: in questo luo-

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go ci limiteremo solo a richiamare gli elementi principali del meccanismo auto-imitativo e a trarne le dovute conseguenze iteche, poiché una sua discussione approfondita ci prenderebbe troppo spazio, e non avremmo inoltre nulla di nuovo da aggiungere a quanto è già stato scritto nel testo sopra citato. Quando un cucciolo di una qualsiasi specie viene alla luce non possiede nessun tipo di istinto innato o schema motorio finalizzato alla sua sopravvivenza; se così non fosse, infatti, non si spiegherebbe il gran numero di neonati che non sopravvivono alle prime fasi della vita. Quello che si può riconoscere e constatare con facilità è che i viventi animali vengono al mondo trovandosi in una condizione di bisogno che li accompagnerà per tutta la vita; essa è da loro percepibile mediante un dolore, il trovarsi in una situazione di disagio, da cui cercano di liberarsi: l'unico strumento con cui un neonato può farle fronte, se non è in possesso di conoscenze innate o pre-esperienziali, è muoversi a caso (una parte del suo corpo, o tutto), finché non cessa. Questo è quanto viene chiamato «moto esplorativo»2f> e si arresta quando il vivente s'imbatte in qualcosa che gli piace, che, si può presumere, nei primi tempi non sia altro che la cessazione della situazione dolorosa o di disagio in cui versava; è importante sottolineare la dimensione casuale di tale movimento, in quanto «esplorare non è lo stesso che "andare in cerca di qualcosa": manca del tutto la dimensione teleologica che è implicita nel cercare e che presupporrebbe una qualche conoscenza del proprio corpo e di quelli circostanti»27 • Qui entra in gioco l'auto-imitazione: l'individuo, esplorando ambiente circostante, conseiva le tracce del piacere incontrato mediante i movimenti casuali del suo

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26. G. Monnino, Peruna teoria dell>imitazione, Cortina, Milano 2016, p. 35.

21. Ibidem.

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corpo e li replica auto-imitandosi quando gli si presentano situazioni simili. L'auto-imitazione, cioè ripetere un movimento compiuto in precedenza, è una sorta di selezione naturale per ciò che ogni individuo fa, velocissima, «è il modo con il quale un'abilità trovata attraverso il semplice "provare" viene ripetuta e acquisita, divenendo patrimonio dell'individuo»28 • È chiaro che questo meccanismo non riguardi ogni forma di vita, ma solo quelle dotate di sensibilità (per la percezione del dolore e del piacere) e di memoria (per la conservazione dei movimenti vantaggiosi), ossia di quegli enti che si producono come individualità viventi grazie e mediante le tracce che il mondo inscrive nei loro corpi e che i loro corpi inscrivono nel mondo e su di sé, cioè degli enti autozoografantesi che incarnano la Grammetica animale: imitarsi è utile e l'imitazione di sé viene a sua volta imitata, individuando la loro modalità essenziale di comportamento.

È subito chiaro che questa prospettiva si riverberi in ambito intra-umano con importanti conseguenze circa l'educazione e rimposizione di modelli. Una società che costringa i suoi membri a soggettivizzarsi secondo standard e identità che conHiggono con i bisogni e le potenzialità proprie dei loro corpi non può che produrre soggetti la cui espressività dynergica è compromessa. Poiché anche l'imitazione degli altri passa attraverso una propria auto-imitazione, cioè un apprendimento corporeo reiterato e approfondito secondo le personali capacità di un individuo, i modelli di comportamento non devono essere imposti ma proposti; ogni soggettività infatti, tessendoli autoimitativamente su di sé, deve poterseli scucire se essi la costringono in uno spazio che impedisce l'incremento della sua potenza: perciò per il dynergismo, come per Mill e Aristotele, l'educazione, in un senso da approfondire, è fonda-

28. Ivi, p. 40.

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mentale. I modelli di virtù, cioè di vita potente e gioiosa, che dovrebbero essere i più gratificanti, determinano nel loro semplice svolgersi un'estensione di estrinsecazione di dynergis, in quanto, se auto-imitati e così inscritti dagli individui su di sé, incrementano la potentia agendi di chi li incarna. È chiaro che tali modelli differiscano al variare delle configurazioni storiche, delle circostanze e delle possibilità presenti in una certa epoca; riteca dynergica vuole assicurarsi che reducazione si svolga sotto il segno della presentazione di exemplares che incrementino la potentia agendi degli individui e non li soffochino in un'infelicità da cui è difficile liberarsi, riconoscendo come il meccanismo fondamentale dell'auto-imitazione negli enti autozoografantesi rappresenti la bussola con cui questi possano arrivare a comprendersi ed esprimersi dynergicamente al meglio: credo che una nozione accettabile di "eticamente valido"' sia quella che non impone ad alcun vivente uno sradicamento dalle proprie modalità di vita; un'etica "conservativa", dunque, la cui regola fondamentale consiste nel diritto di ciascun vivente di esplorare il mondo sotto la spinta dei propri bisogni, in continuità con quanto avviene nelle primissime fasi dell'esistenza. [ ... ] Il male [ ... ] nasce dunque [ ... ] dall'imposi7.ione di modelli unici e totalizzanti a corpi inevitabilmente diversi l'uno dall'altro. La stabilità nel perseguire le proprie modalità di esistenza è un valore per ogni vivente, come manifesta la tenace resistenza di tutti gli animali, umani e non, ai cambiamenti imposti dall'esterno. 29

Ora che abbiamo affrontato la dimensione morale con la sua fondazione e la dimensione iteca con la sua fondazione, possiamo completare quella del dynergismo definendo le sue rimanenti categorie (gramm)etiche.

29. Ivi, p. 95.

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10. La (gramm)etica dynergista Il dynergismo è una postura etica che riconosce valore morale a ogni animale e ritiene sia buona ogni azione che intensifichi ed estenda r estrinsecazione delle potenzialità proprie di ogni ente morale, nei limiti del rispetto dell aspetto morale presente in ogni agente; perciò il dynergismo è un individuoli.smo in cui il valore dell individuoprecede quello della totalità e gliene conferisce, ma per cui rautorealizzazione non può essere slegata dal rafTor7~mento dynergico del mondo in cui rindividuo vive. Cogliamo così r occasione per muovere una breve critica a ogni forma di "olismo", tra cui quello recente di certo ambientalismo, che voglia sciogliere il valore morale dell individuo in quello dell'ambiente in cui si trova; ogni sistema che faccia precedere in valore la totalità ai suoi membri contiene il seme di un totalitarismo e manca di cogliere in cosa si incarni il vero valore morale. Il valore morale non è qualcosa che si possa accumulare o scambiare, un suo portatore non è un oggetto che si possa sacrificare in nome di un bene più ampio: chi lo incarna è in esso intensivamente ogni bene, in quanto valore non divisibile o sommabile. Questo non significa che un individuo non debba "sacrificarsi per un bene più ampio,, qualora lo ritenesse opportuno e esprimesse con tale azione un autentica intensificazione ed estensione di estrinsecazione dynergica, ma solo che un'etica valida, a nostro awiso, non impone a nessun individuo simili azioni: perciò il dynergismo è un individuolismo, lo ripetiamo, e afTerma che rindividuo e il suo perseverare in suo esse vengano prima della totalità e delle interpretazioni antropomorfiche che si danno del suo bene. 1

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Ora, precisando (anche se non dovrebbe essere necessario) che razione viene intesa dal dynergismo in accezione spinoziana, e cioè non (arbitrariamente) libera ma sempre necessitata, seguendo rEsagono della (Gramm)etica proposto dovremmo aver chiarito che cosa sono il bene, il male, razione, la morale e riteca dynergista, ma ci manca il dovere. La dimensione

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normativa dynergista è diretta implicazione del riconoscimento della sua validità ontologica; se si accetta che gli individui autozoografantesi hanno valore morale, che la loro intrinseca costituzione corporea li spinge a cercare di incrementare la propria potenza, esprimere la loro dynergis, e in ciò vivere la loro gioia, e accettato che espressione di dynergis è tanto più intensa e ampia quanto più rafforza quella altrui, non si può che agire di conseguenza e tentare di divenire ciò che si è, se possiamo permetterci questa citazione. Così se la vita buona è la vita che esprime la propria dynergia al massimo grado, si deve perseverare nella propria esistenza non trascurando e soffocando l'altrui autorealizzazione, ma anzi trovando in essa parte importante della propria.

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Perciò diciamo che il dynergismo è antispecista, antirazzista, antitotalitarista (individuolista) e femminista. Esso presenta il primo vantaggio, seppur marginale, di non concepirsi in opposizione antitetica a certe posture nel mondo, come i primi tre aggettivi con cui lo abbiamo definito lasciano immaginare (cosa che a nostro avviso rappresenta pur sempre un limite teorico); e il secondo, più consistente, vantaggio di raccogliere le loro lotte di liberazione entro un unico orizzonte concettuale. Inoltre, se un'etica ha come fine il guidare un individuo verso la sua felicità facendolo agire rettamente, e se la gioia corrisponde a un incremento della potentia agendi, secondo quello che chiamiamo il criterio della potenza un'etica sarà tanto più valida quanto più permetterà il passaggio a una maggiore perfezione; e se, come si è detto, più individui che condividano una natura (morale) simile "sommano'' la propria estrinsecazione dynergica; e se «tutta la natura è un unico Individuo le cui parti, cioè tutti i corpi, variano in infiniti modi senza alcun mutamento dell'Individuo totale»30: l'etica più potente, che pennette cioè

30. Eth. R., 1117s.

'1151

di agire di più, sarà quella che massimamente favorirà la realizzazione dynergica degli individui morali. Così, immaginando che il proprio coipo sia legato al corpo di ogni altro individuo morale, quanto più si lascerà essere l'altro in quanto altro, nei limiti della propria potenza s'intende, tanto più si sarà potenti e gioiosi, non solo del perseverare in proprio esse ma anche di quello di tutti gli individui che verranno raggiunti e incoraggiati in ciò dalla propria azione. Per queste ragioni riteniamo che, secondo il criterio poc'anzi proposto, il dynergismo si presenti come una via robusta per incrementare la gioia in un mondo che è un campo di forze in relazione e volontà di potenza31 , mondo di volontà di attività e realizzazioni della potenza di individui, "potenza" nel senso di ampiezza agentiva e potenzialità intrinseche. Così, certo - come diceva Aristotele - è ancora la felicità cui l'etica deve condurre, ma la felicità non è quella che pensava lo Stagirita; ella non è vincolata a classi gerarchiche ma invece legata alla realiZ7.azione dynergica unica e atomica di ogni individuo32, cui è rimessa la fatica di comprendere il proprio posizionamento nel mondo: perciò non vi è una via etica data una volta per tutte, o una felicità estroindotta da postulate finalità naturali, ma si procede sempre comprendendo e agendo ciò che di volta in volta, nell'esplorazione della vita, si riveli essere un estensore di estrinsecazione dynergica, performandolo autoimitativamente sì da trasformare la virtù in un abito.

31. Non nel senso nie~heano, il quale sembra, nei modi in cui ricorre nei

suoi scritti, identificarsi spesso di più con volontà di potere. 32. Infatti: «ogni individuo è assolutamente unico nelle sue modalità di esplorazione deU'ambi ente e nelle sue preferenze verso la ripetizione di questa o quella azione. Gli individui non sono ordinabili in classi, così come non sono ordinabili in specie perfettamente chiuse. A renderci diversi è tutto: la costituzione fisiologica, la sensibilità al dolore e al piacere, le cose in cui ci siamo imbattuti nell'esperienza» (G. Mormino, Per una teoria dell'imitazione, cit., p. 94).

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Quanto si è detto sin qui dovrebbe rendere conto di ciò che si è chiamato nella scorsa sezione il "respiro universale'' che un'etica dovrebbe avere. Abbiamo cercato di raccogliere nel dynergismo le virtù che ci sembra possiedano le etiche in preceden7a analizzate e di evitare, per quanto possibile, gli "errori" in cui sono incappate, spingendo nella direzione di un'endoinclusione,.1 storica delle etiche nell'etica, dinamica che si presenta come già implicitamente in atto da millenni, forse non a sufficienza tematizzata; si vuole cioè qui proporre di leggere la storia delle etiche via via affermatesi come momenti importanti per comprendere quali sentieri percorrere e quali no, come cantieri da cui prendere elementi per costruire nuove navi che conservino ciò che di meglio è stato pensato in precedenza per la reali.72.azione dynergica: così, in un certo senso, si possono rileggere i sentieri dell'etica battuti come esposizioni particolari della ricerca alla migliore espressione di dynergis, e nel dynergismo il tentativo di raccoglierne alcuni frutti.

11. Una soluzione alf'enigma Cortés Ora che abbiamo terminato di tratteggiare i principali assi di una proposta etica e ne abbiamo esibito la sua fondazione, possiamo tornare ali'enigma Cortés con cui abbiamo aperto il capitolo, per vedere come il dynergismo gli risponde. Tale enigma domandava: per quale ragione un individuo, qualora si trovasse nella posizione di avere il massimo potere su altri individui e fosse insieme incoraggiato, dall'ambiente in cui si trova (fami33. Mutuiamo questo termine da A. Zhok, Il concetto di valore: dall"etica all."economia, Mimesis, Milano 2001, in cui viene coniato per «descrivere la natura di inclusione progressiva "a scatole cinesr" tra unità d"azione» (ivi, p. 64). Noi lo intendiamo qui come "inclusione progressiva delle virtù delle etiche nell"etica"'.

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glia, città, paese ... ) e dai suoi appetiti, nella direzione di compiere su di loro i crimini più orribili, dovrebbe astenersi dal fare del male se è nelle condizioni di farlo senza conseguenze per lui spiacevoli? Il dynergismo risponde approfondendo la via di Spinoza in questo modo: poiché gli individui rappresentati dal popolo azteco sono enti morali, Cortés, agendo come ha agito, ha estirpato la loro reali72azione dynergica, e ha soffocato insieme alla loro la sua; chi si trovi nella possibilità, e non nella necessità, di far del male a uno o più individui percorre un sentiero che Io rende più debole invece che più forte, più infelice invece che più gioioso: e nessuno vuole dawero essere infelice, quando può essere lieto. La domanda da porsi è: quale mia azione aumenterà in intensità e in estensione estrinsecazione di dynergis nel mondo? Se Cortés se Io fosse chiesto e avesse agito di conseguenza, non sarebbe awenuta quella tragedia.

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VI

Alcune linee di indagine

1. La produzione industrial,e di carne e la