Lineamenti di storia delle scienze forensi 8888699465, 9788888699462

A differenza di numerosi altri testi, non solo italiani, questo volume, rivolto a un pubblico più vasto, privilegia un a

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Lineamenti di storia delle scienze forensi
 8888699465, 9788888699462

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Sergio Agostinis

LINEAMENTI DI STORIA DELLE SCIENZE FORENSI

es@ edizioni studio @lfa

V

INDICE

PREFAZIONE

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1. NASCITA DI UN NUOVO PARADIGMA

7

2. PRIMI ACCERTAMENTI DELL’IDENTITÀ

17

2.1. Identificazione degli oggetti: i documenti; 2.2. Identificazione delle sostanze: i veleni; 2.3. Identificazione delle persone: misure e impronte.

3. PRIME RICADUTE NARRATIVE E FORMULAZIONI TEORICHE

39

3.1. A. Conan Doyle e Sherlock Holmes; 3.2. Da Hans Gross a Edmond Locard; 3.3. R. Austin Freeman e John Thorndyke; 3.4. Arthur B. Reeve e Craig Kennedy.

4. SVILUPPI RELATIVI ALL’IDENTIFICAZIONE PERSONALE

67

4.1. Ricostruzione facciale; 4.2. Impronte comportamentali; 4.3. Impronte vocali; 4.4. Impronte genetiche.

5. SVILUPPI RELATIVI AD ALTRI AMBITI

105

5.1. Dinamica del fatto: le tracce ematiche; 5.2. Modalità della morte: l’autopsia psicologica.

6. RECENTI RICADUTE NARRATIVE

113

6.1. Precursori e iniziatori della forensic story; 6.2. Aaron Elkins e Gideon Oliver; 6.3. La svolta di Thomas Harris: la presenza del profiler; 6.4. Patricia D. Cornwell e Kay Scarpetta; 6.5. Katy Reichs e Tempe Brennan; 6.6. Jeffery Deaver e Parker Kincaid; 6.7. Anthony E. Zuiker e “CSI”.

7. CONSIDERAZIONI FINALI

155

7.1. Accertamento strumentale dei dati; 7.2. Ricostruzione razionale del fatto; 7.3. Percorso logico dell’indagine; 7.4. Ammissibilità giudiziale delle nuove prove scientifiche; 7.5. Certezza e verità.

APPENDICE: NASCITA DELLA MEDICINA LEGALE ORIENTALE

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PREFAZIONE

Parafrasando Gaston Bachelard, si può senz’altro dire che «le scienze forensi non hanno la storia che si meritano»*. Questo composito arcipelago di discipline considerate sub specie iuris, infatti, viene per lo più fatto oggetto di un’esposizione e di un’analisi esclusivamente tecnica degli esiti attuali, di fatto accessibile ai soli “addetti ai lavori”. Quanto poi ai non numerosi casi di ricostruzione storica, si tratta per lo più non di attente ricognizioni delle coordinate teoriche e dei nodi problematici che caratterizzano gli sviluppi logici di queste discipline ma di semplici raccolte di indagini su fatti criminali, un genere prediletto dai lettori abituali di cronaca nera. A differenza di numerosi altri testi, non solo italiani, questo volume, rivolto a un pubblico più vasto, privilegia un approccio culturale di ampio respiro, non trascurando né gli eventuali rimandi filosofico-epistemologici, a partire dalla nozione di “identità”, né le più significative ricadute nella narrativa di genere, dalle ormai classiche opere di Conan Doyle con protagonista Sherlock Holmes fino ai recenti telefilm delle varie serie “CSI”. Punto di partenza è la rottura epistemica culminata agli inizi dell’Ottocento con la nascita di un nuovo paradigma investigativo e il conseguente passaggio dalla testimonianza alla perizia. Accanto agli sviluppi e innegabili successi delle varie scienze forensi bisogna però ricordare anche i loro diversi aspetti problematici, da quelli relativi alla strumentazione, come i risultati “falsi positivi” e “falsi negativi”, a quelli di carattere propriamente metodologico e teorico-conoscitivo, legati per esempio ai criteri di ammissibilità giudiziale delle nuove prove scientifiche o alla stessa nozione di “verità”, come il suo possibile stravolgimento in una precostituita verità ideologica o la sua identificazione narrativa con una verità assoluta, prodotto del nostro pensiero.

* In realtà, l’autore francese a pag. 20 de Le matèrialisme rationnel (PUF, Paris 1953) scrive che «la scienza non ha la filosofia che si merita».

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1. NASCITA DI UN NUOVO PARADIGMA

Tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento si opera una profonda e radicale trasformazione epistemica che culmina nella costituzione di un tipo di sapere rivolto all’individuale in quanto individuale e di una conseguente procedura d’esame fondata non più sulla grammatica ma sulla sintassi dei dettagli (il cosiddetto “paradigma indiziario”): alla semplice giustapposizione di singoli dati, che possiedono un significato evidente in sé, subentra la concatenazione logica dei diversi elementi, che determina il loro intimo significato globale, complessivo. Di conseguenza, anche l’inchiesta giudiziaria abbandona il precedente modello dell’indagine inquisitoria basata su una elaborata e complessa aritmetica delle singole prove testimoniali per l’esame delle diverse prove materiali, finora ritenute non essenziali e non determinanti in sé, che ricevono un significato unicamente dalla loro reciproca connessione. «Stabilire la realtà del misfatto in tutta evidenza e secondo i mezzi valevoli per tutti diviene compito primario. La verifica del delitto deve obbedire ai criteri generali di ogni verità. Il giudizio della giustizia, negli argomenti che impiega e nelle prove che apporta, deve essere omogeneoal giudizio puro e semplice. Dunque, abbandono delle prove legali, rifiuto della tortura, necessità di una dimostrazione completa per ottenere una verità giusta […]. Come una verità matematica, la verità del delitto potrà essere ammessa solo quando interamente provata. Ne segue che, fino alla dimostrazione finale del delitto, l’accusato deve essere considerato innocente; e che, per fare una dimostrazione, il giudice deve utilizzare non forme rituali, ma strumenti comuni, quella ragione di tutti, che è anche quella dei filosofi e degli scienziati: “In teoria, io considero il magistrato come un filosofo che si propone di scoprire una verità interessante... La sua sagacia gli farà cogliere tutte le circostanze e tutti i rapporti, avvicinare o separare ciò che deve esserlo per giudicare sanamente.” [G. Seigneux de Correvon, Essai sur l’usage de la tortura, s.l., 1768, p. 49.] L’inchiesta, esercizio della ragione comune, si spoglia dell’antico modello inquisitorio, per accogliere quello assai più duttile (e doppiamente convalidato dalla scienza e dal senso comune) della ricerca empirica. [...] Ormai la pratica penale si trova ad essere sottomessa al regime comune della verità, o piuttosto a un regime complesso in cui si concatenano, per formare l’“intimo convincimento” del giudice, elementi eterogenei di dimostrazione scientifica, di evidenza sensibile, e di senso comune. La giustizia penale, se mantiene forme che ne garantiscono l’equità, può aprirsi ora a verità di ogni provenienza, purché siano evidenti, ben stabilite, accettabili per tutti. Il giudizio penale non è più, in se stesso, generatore di una verità a parte: viene posto di nuovo nel campo di riferimento delle prove comuni. Si intreccia allora, con la molteplicità dei discorsi scientifici, un rapporto difficile e infinito, che la giustizia penale non è pronta a controllare. Chi governa la giustizia non governa più la sua verità.» 1 1

M Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione [1975], Einaudi, Torino 1976, pp.

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In particolare, il giudizio secondo intimo convincimento e en âme et conscience, introdotto nella procedura penale nel 1791, e poi sancito dai codici napoleonici, assieme alla istituzione delle giurie, e il conseguente slittamento dalla materialità alle circostanze del crimine, ossia alla personalità e alle motivazioni del criminale (prove morali), costituiscono «uno dei fatti capitali della modernità: è l’irruzione del soggetto e della coscienza nel giudizio, quello che Kant teorizzava dal canto suo in campo filosofico. Questo ha spostato radicalmente la questione della verità dalla precettistica delle sue condizioni formali e oggettive ai suoi effetti di convincimento sull’opinione... Fondamentalmente, è il sistema della prova che cambia con l’intimo convincimento: essa non deve essere più un artefatto artificiale (de jure), ma deve scaturire dall’evidenza intrinseca degli avvenimenti (de facto). L’inchiesta induttivadeduttiva teorizzata da S. Mill rappresenta la prima definizione radicale di questo nuovo regime di verità, d’inchiesta e di prova che ben presto investe tutti i campi del sapere»2 considerati scientifici. Per alcuni decenni, questa nuova procedura di indagine, accompagnata dalla creazione dei primi dipartimenti di investigazione criminale di Parigi (18111812) e di Londra (1829), si avvale di modalità tipicamente empiriche il cui esito è strettamente legato alle doti personali dell’investigatore, quali soprattutto l’esperienza, l’osservazione, l’intuito e l’astuzia; emblematiche in proposito quelle dimostrate dal fondatore e primo responsabile della Sûreté Eugène François Vidocq in numerose occasioni dal 1811 al 1827: per quanto in genere assai vaghe, tuttavia talvolta vi traspaiono anche elementari forme di ragionamento o notevoli capacità di immedesimazione con la mentalità dei criminali. Nasce «un sapere di osservazione, in qualche modo clinico» e rivolto all’esame e alla classificazione dei corpi e dei comportamenti degli individui, che è all’origine delle scienze umane, dalle diverse antropologie alla grafologia e alla medicina legale3; schematicamente, «tutto dev’essere osservato, visto, trasmesso: organizzazione di una polizia, istituzione di un sistema di archivi (con schede individuali)»4. E quindi, con l’estensione dell’esame e della classificazione sub specie iuris a oggetti e sostanze, delle diverse scienze

106-107. 2 A. Fontana, Lo stato di sicurezza, in AA. VV., Il sapere come rete di modelli. La conoscenza oggi, Panini, Modena 1981, p. 167. 3 M. Foucault, La verità e le forme giuridiche [1974], La Città del Sole, Napoli 1994, p. 134. 4 M. Foucault, La società punitiva, nel suo I Corsi al Collège de France. I Résumés [1994], Feltrinelli, Milano 1999, p. 41.

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forensi5. Ma è solo nella seconda metà del secolo XIX che l’indagine giudiziaria comincia sistematicamente ad abbandonare gli obsoleti criteri empirici per una più rigorosa procedura tecnico-scientifica (laboratorio medico-legale, analisi strumentali, perizie ed esperimenti giudiziari) e il sapere giuridico a recepire la valenza del discorso scientifico; e questo, appunto, è dovuto non tanto al livello delle conoscenze e alla qualità della strumentazione ma soprattutto alla crisi del paradigma dominante – inteso dapprima come principio e poi come pregiudizio – sulla natura della prova, che segna la comparsa di “una nuova forma nella volontà di verità”, di “una discontinuità esterna globale”, e la conseguente costituzione di nuove discipline scientifiche con propri oggetti, distinti dalle “cose” del sapere comune6. Uno degli esempi più eloquenti e rappresentativi del passaggio dalla fase 5

In questo arcipelago di discipline si distingue la psichiatria forense, nata in Francia agli inizi dell’800 e poi in Gran Bretagna – e da qui negli Stati Uniti – in occasione del processo McNaghten (1843), in quanto non riguarda gli indizi materiali del crimine ma gli aspetti intenzionali del criminale (insanità mentale e pericolosità sociale). 6 Cfr. rispettivamente M. Foucault, L’ordine del discorso [1970], Einaudi, Torino 1972, pp. 14 ss. e passim; G.-G. Granger, La scienza e le scienze [1993], Il Mulino, Bologna 1996, pp. 94 ss.; M. Pêcheux – M. Fichant, Sulla storia delle scienze [1969], Mazzotta, Milano 1974, passim. Significativamente, sempre negli stessi anni e per gli stessi motivi, anche nella narrativa si registra un simile passaggio «dall’esposizione dei fatti e dalla confessione al lento processo della scoperta, dal momento del supplizio alla fase dell’inchiesta» (M. Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione [1975], Einaudi, Torino 1976, p. 75); in altri termini, nasce la detective story, una narrazione rivolta soprattutto alla ricostruzione delle esatte circostanze di un evento criminale misterioso mediante la ricerca metodica e l’esame razionale degli indizi materiali. Principale artefice di tale trasformazione è lo scrittore statunitense Edgar Allan Poe che in almeno due celebri racconti, I delitti di Rue Morgue [1841] e Il mistero di Marie Roget [1842], «pone soprattutto un problema epistemologico: come risolvere l’enigma proposto da un delitto?» (A. Gilman Srebnick, L’assassinio e il mistero di Mary Rogers [1988], in La violenza sessuale nella storia [1989], a cura di A. Corbin, Laterza, Roma-Bari 1992, p. 105.) E fin dall’inizio, in essa «la verità viene concepita in modo prettamente filosofico, vale a dire come il prodotto dell’impegno e delle operazioni della mente. L’indagine prende dunque a modello la ricerca filosofica, e, a sua volta, le sottopone un oggetto insolito, un delitto da disvelare. Ora, esistono due scuole della verità: quella francese (Descartes), in cui la verità è praticamente il frutto di un’intuizione intellettiva fondamentale, dalla quale poi tutto il resto va desunto con grande rigore; e la scuola inglese (Hobbes), secondo cui tutto ciò che è vero viene sempre ricavato da altro, interpretato a partire da indizi sensibili. […] La detective story, per una sua particolare evoluzione, riproduce questa dualità e l’arricchisce di capolavori.» (G. Deleuze, La filosofia della “Série Noire” [1966], in AA.VV., I colori del nero, Ubulibri, Milano 1989, p. 44.) A seconda poi che l’istruttoria sia fondamentalmente inquisitoria, come in Francia e negli altri paesi dell’Europa continentale, o sommaria, come in Inghilterra e negli altri paesi anglofoni, l’indagine viene per lo più svolta rispettivamente da un funzionario di polizia o da un detective privato.

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pionieristico-empirica a quella scientifico-tecnica della criminalistica è costituito sicuramente dalle indagini condotte nel 1869 dal giovane e solerte ispettore Gustave Macé a proposito del cosiddetto “caso Voirbo”7. Il 24 dicembre 1868, a Parigi, in una fogna di rue Jacob, venne trovato un femore umano con attaccata la rotula. Nei giorni seguenti, tra Natale e Capodanno, vari commissariati di polizia inviarono alla morgue altri resti umani pescati in diversi punti della Senna e del canale Saint-Martin: sembravano esser rimasti in acqua per circa venti giorni; un pezzo fu trovato avvolto in un foglio di carta turchina. La polizia era ancora sconcertata da queste scoperte, che facevano intuire un feroce delitto, senza che se ne potesse ricavare il benché minimo indizio, quando, il 26 gennaio 1869, nel pozzo retrostante il ristorante “Lampon”, in rue Princesse, vennero scoperti due pacchi, legati strettamente con della corda, che contenevano le parti inferiori di due gambe umane. Dopo questi ultimi ritrovamenti, le indagini vennero affidate a Gustave Macé, che dal 1867 reggeva il commissariato del rione dell’O-dèon. I resti, ormai in avanzato stato di decomposizione, avevano ancora addosso delle calze di lana grigia sulle quali era stata ricamata vicino all’orlo una B tra due piccole croci, e parte di pantaloni di stoffa grigia, dai quali erano state tolte tutte le indicazioni che avrebbero permesso di individuare la sartoria che li aveva confezionati; erano adatti a un uomo di bassa statura, ma potevano appartenere anche a un’altra persona ed essere stati messi lì per sviare le indagini. Quanto ai due pacchi, erano di tela nera cucita con filo dello stesso colore in modo assai accurato e professionale e alle estremità avevano i caratteristici nodi “a orecchi di coniglio”. Subito Macé si convinse che si aveva a che fare con un sarto pratico del luogo. Un primo esame medico, poi, stabilì, anche dall’assenza di peli, che si trattava di gambe femminili, rimaste nell’acqua per circa un mese; al contrario, il vecchio custode della morgue era sicuro che non appartenevano a una donna ma a un uomo, anzi a un vecchio. Il 28 gennaio, per prima cosa Macé consultò alla Prefettura di Polizia tutti i fascicoli delle persone scomparse da non oltre sei mesi e il cui nome iniziasse per B; erano 122, e riguardavano 38 uomini e 84 donne. Dopo un’accurata selezione, anche in seguito alle conclusioni raggiunte dall’esame medico, si orientò su 14 donne. Contemporaneamente, venne a conoscenza di alcuni 7

L’episodio è stato riferito, più o meno dettagliatamente, oltre che dallo stesso G. Macé, Mon premier crime, Fasquelle, Paris 1885, per esempio da H.T.F. Rodhes, Clues and Crimes, New York 1931, cap. 4; W. Vaccari, Come si scopre un delitto, Capriotti, Roma 1946; C. Wilson, Voirbo, in Enciclopedia del delitto [1961], Lerici, Milano 1964, ad vocem, e Presentazione, in F. Smyth, Sulle tracce dell’assassino. Storia dell’investigazione scientifica [1980], Dedalo, Bari 1984.

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particolari sospetti: il 19 dicembre, sul lungosenna, un passante si era imbattuto in un uomo che gettava pezzi di carne nel fiume; come questi gli aveva spiegato, si trattava di esche per i pesci. Qualche giorno dopo, il 22, all’alba, sempre sul lungosenna, due agenti alla ricerca di alcuni ladri avevano fermato un uomo che stava passeggiando con alcune ceste: spiegò che era appena arrivato in treno da Langres e che i sacchi delle ceste contenevano alcuni prosciutti; sembrava così onesto che venne lasciato andare immediatamente. Le descrizioni dei due uomini corrispondevano: entrambi erano bassi, vivaci, con baffi neri e contegno sicuro. Intanto, sempre lo stesso giorno, il medico legale Ambrose Tardieu – un allievo di Bonaventura Orfila, un’autorità indiscussa in materia e assai conosciuto anche tra il grande pubblico per aver partecipato come perito ai più sensazionali processi dell’epoca – dopo aver esaminato attentamente le gambe e gli altri resti (esclusa la testa che non venne mai ritrovata), concluse che dovevano appartenere a un uomo in età avanzata, confermando così la diagnosi del vecchio custode e vanificando tutte le ricerche svolte fino a quel momento da Macé; vi constatò anche la presenza di una cicatrice, a suo avviso recente, aggiungendo infine che le gambe dovevano esser state tagliate con una lama robusta, non proprio da un chirurgo o da un medico, ma comunque da una mano abbastanza esperta, e che la tremenda operazione doveva aver provocato molto spargimento di sangue. Il giorno successivo, Macé iniziò le proprie indagini dalla casa di rue Princesse nel cui pozzo erano stati ritrovati gli ultimi resti. Come poté constatare personalmente, la porta della casa rimaneva sempre chiusa; per entrare, gli estranei dovevano suonare il campanello e farsi aprire dalla vecchia portinaia, invece le dieci famiglie che vi abitavano sapevano dell’esistenza di un pulsante, nascosto nella scannellatura di un battente, che, premendolo, faceva scorrere la stanghetta del catenaccio e apriva la porta. Poiché gli inquilini apparivano insospettabili e il pozzo si trovava nel cortile interno, era quindi legittimo pensare che un estraneo, a conoscenza del piccolo segreto, fosse entrato di notte per gettare nell’acqua i due pacchi. Trattenendosi a lungo nella guardiola della vecchia e loquace portinaia, Macé venne a sapere, assieme a molti pettegolezzi inconcludenti, che fino a qualche mese prima, in uno degli ultimi piani, aveva abitato una certa Mathilde Gaupe, una giovane e graziosa cucitrice di panciotti, che poi aveva preferito darsi alla vita galante, diventando cantante di caffè-concerto col nome di “madamoiselle Dard”. La ragazza lavorava abitualmente anche per altri sarti; uno di questi, in particolare, era così premuroso con lei che talvolta scendeva ad attingere acqua al pozzo e le riportava il secchio fino in stanza, creando non pochi problemi con l’acqua versata sulle scale. L’attenzione di Macé venne

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subito attirata da questi particolari, che confermavano le sue prime supposizioni. Naturalmente, egli si affrettò a rintracciare la ragazza. Questa gli diede ampie informazioni sull’individuo in questione: si chiamava Pierre Voirbo, aveva circa trent’anni e per qualche giorno era stato il suo amante; si era sposato da poco. Lavorava in casa, ma non amava molto il proprio mestiere; più che altro si interessava di politica: manifestava idee estremiste e frequentava assiduamente i comizi. Quanto all’aspetto fisico, la sua descrizione corrispondeva a quella dei due uomini visti sul lungosenna. Era spesso accompagnato da un certo Désiré Bodasse, un vecchio libertino di 72 anni conosciuto in tutto il quartiere come “père Désiré”, e da sua zia. Anche questa circostanza colpì enormemente Macé: il cognome cominciava per B, come la lettera ricamata sulle calze. Una volta rintracciata la vecchia zia di Bodasse, questa, in preda alla più viva emozione, identificò senza alcuna ombra di dubbio i resti come quelli del nipote dalla cicatrice e dalla lettera che lei stessa aveva ricamato; anche la stoffa dei pantaloni era dello stesso tipo. Inoltre, rivelò che il nipote, un tipo eccentrico che scompariva spesso per lunghi periodi e che lei non vedeva ormai da alcuni mesi, abitava da solo in rue Dauphine 59 al terzo piano, in un modesto alloggio; teneva tutti i suo valori – costituiti da titoli del debito pubblico italiano, emissione del 1861 al cinque per cento – in un cassetto segreto della scrivania. Macé, ormai pressoché certo dell’identità della vittima, si recò senza indugio all’indirizzo indicato; qui, però, i portinai gli diedero una notizia che lo sorprese: “père Désiré” era stato anche la sera precedente nella propria camera; avevano visto le finestre illuminate. Macé, alquanto perplesso, bussò inutilmente più volte alla porta; decise allora di far sorvegliare l’abitazione. Intanto, ulteriori indagini sul conto di Voirbo gli rivelarono i suoi precedenti: già sposato con una certa Helen, che attualmente si trovava in carcere, nel frattempo si era legato con una giovane ragazza in procinto di diventare suora, sposandola pochi giorni prima; alcuni, poi, lo avevano sentito dire che il suo amico Bodasse era scomparso la vigilia del matrimonio, nonostante avesse promesso di esservi presente; venne inoltre a sapere che gli aveva chiesto un prestito di 10.000 franchi, ma che lui aveva rifiutato. Non essendo nel frattempo comparso, Macé si procurò allora un mandato di perquisizione e, sfondata la porta, entrò nell’appartamento. Non c’era nessuno, ma la situazione appariva strana: la camera da letto e i due angusti stanzini attigui erano in perfetto ordine, col letto rifatto, i mobili chiusi e il vecchio pendolo a pesi in funzione; lì sicuramente non era stato commesso alcun omicidio, ma dalla polvere sui mobili era altrettanto evidente che non veniva abitato da qualche tempo. Comunque, a terra, vicino al caminetto, scorse numerosi mozziconi di fiammiferi che raccolse con cura, contandone diciassette, e due fiammiferi non usati. Inoltre, sul piano del

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caminetto vide due scatole di candele: una era vuota, l’altra ne conteneva una; poiché in ogni scatola (come risultava dall’etichetta) in origine dovevano esserne otto, Macé concluse che, verosimilmente, i fiammiferi erano serviti ad accendere le quindici candele. Vicino alle scatole, infatti, c’erano due candelieri, dove notò gli strati fusi delle candele successivamente bruciate; sembravano esser stati messi sul caminetto di proposito, in modo da illuminare bene le finestre e dare così l’impressione che in camera ci fosse qualcuno. Gli esperimenti compiuti con candele dello stesso tipo mostrarono che esse impiegavano circa tre ore a consumarsi. La portinaia confermò che si era vista la candela bruciare talvolta per circa tre ore, talvolta a più riprese. Allora Macé non ebbe più alcun dubbio: non era stato Bodasse ad accendere le candele ma qualcun altro che si era introdotto di sera, caricando anche l’orologio, per far credere che Bodasse vi abitasse tuttora. Constatò poi che i titoli erano scomparsi dal cassetto della scrivania; in compenso, dentro la cassa di un orologio da taschino trovò un pezzo di carta con annotati i numeri di serie dei titoli. Ritenne quindi logico supporre che il movente del delitto fosse stato il furto. Continuando alacremente le indagini su Voirbo, Macé appurò che questi, indicato indipendentemente da più persone come l’ultimo individuo visto in compagnia di Bodasse, prima di lasciare il vecchio appartamento in rue Nazarine 47, il 16 dicembre, o verso quella data, aveva pagato l’ultimo trimestre d’affitto con un titolo di 500 franchi, il cui numero di serie figurava nell’elenco di Bodasse. Contemporaneamente, ebbe una rivelazione quanto mai sorprendente: il sarto era un confidente della polizia politica che riferiva sull’attività degli anarchici, ritenuti gli autori dell’ondata di attentati di quegli anni; solo per questo motivo, dunque, egli si dimostrava tanto interessato ai comizi e ai programmi estremisti. E forse per lo stesso motivo non era incappato nella trappola; o gli agenti incaricati della sorveglianza non erano stati informati sull’identità dell’individuo o, tratti in inganno dai suoi documenti, credettero in un errore. In ogni caso, invece di venir arrestato, fu lasciato passare. Macé decise allora di giocare d’astuzia, ricorrendo a un espediente audace fino alla sfrontatezza: scrisse a Voirbo un breve biglietto in termini assai cortesi per invitarlo a venire nel suo ufficio. L’indomani, quando si presentò a Macé, questi lo trattò con amichevole cortesia. Si informò se Bodasse avesse avuto relazioni sospette con donne di dubbia fama e se avesse frequentato locali bazzicati da gente equivoca, incaricandolo nello stesso tempo di tener d’occhio tutti quegli individui e di riferire notizie e informazioni che gli potevano riuscire preziose. Voirbo, apparentemente ben disponibile a collaborare, mostrò di eseguire coscienziosamente l’incarico, mettendosi a frequentare con assiduità un caffè di cui Bodasse era stato cliente e a sorvegliare certe persone che erano state suoi

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amici; in particolare, si intratteneva assai spesso con un certo Rifer, un garzone di macelleria, ormai da tempo alcolizzato, non perdendo occasione per offrirgli da bere; e in due successivi incontri con Macé cominciò ad esprimere gravi sospetti sulla sua colpevolezza. La notte del 26 febbraio, Rifer, rincasando dopo che Voirbo lo aveva fatto bere abbondantemente, ebbe un attacco di delirium tremens. Due guardie, subito accorse, lo ridussero all’impotenza e lo accompagnarono al posto di guardia, mentre in preda al delirio egli continuava a ripetere di aver ucciso Bodasse. Macé, però, non si lasciò ingannare dalle apparenze; anzi, udendo Rifer che si autoaccusava dell’omicidio, troncò ogni indugio e arrestò Voirbo, arrivando appena in tempo: in tasca aveva già un biglietto di viaggio emesso da una società di navigazione a nome di Saba, con cui il giorno dopo si sarebbe imbarcato per l’America. Ormai certo di possedere contro di lui indizi sufficienti, lo accusò apertamente di aver provocato l’attacco di delirium tremens a Rifer, in seguito al quale questi era morto, allo scopo di trovare un reo confesso dell’omicidio di Bodasse. Subito dopo, Macé si recò nella nuova casa di Voirbo, in rue Lamartine: qui, la giovane moglie, all’oscuro di tutto, dichiarò che suo marito aveva posseduto 10.000 franchi in valore italiano; nel laboratorio di sartoria, oltre a una macchina per cucire con una piccola macchia di sangue, trovò alcuni strumenti che avrebbero potuto servire a smembrare un corpo umano, una corda identica a quella usata per legare i pacchi, e delle etichette simili a quelle che erano state notate sulle ceste dell’individuo fermato dalle guardie il 22 dicembre all’alba sul lungosenna; in cantina, poi, trovò tutti i titoli di Bodasse nascosti in una scatola di latta dentro una delle due botti piene di vino; nonché trovò vari giornali di due anni prima con le notizie su Avinain, il beccaio che attorno al 1867 aveva commesso a Parigi quattro assassinii, facendo poi a pezzi i corpi delle vittime; come pure trovò altri giornali che parlavano di certi gravissimi e misteriosi delitti avvenuti in quegli anni a Parigi e nelle campagne vicine, ed ebbe il vago sospetto che Voirbo vi entrasse almeno come complice. A questo punto, gli restava ancora da provare solo il fatto essenziale, lo smembramento. Il giorno seguente fece anche un sopralluogo in rue Nazarine, dove Voirbo aveva abitato e lavorato prima di sposarsi. Interrogò quindi la giovane coppia che gli era subentrata, informandosi sulla disposizione dei mobili quando era andata a vedere l’appartamento per la prima volta; risultò subito chiaro che Voirbo avrebbe potuto uccidere Bodasse solo al centro della stanza, dove c’era un tavolo. Allora Macé, partendo dal presupposto che durante il sezionamento del cadavere doveva esser stato versato molto sangue e che quindi doveva esserne rimasta almeno qualche traccia, esaminò con la massima attenzione il pavimento di legno ma senza alcun esito. Appena però il precedente affittuario

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di Voirbo dichiarò di averlo visto una mattina strofinare e pulire accuratamente il pavimento, perché – come questi gli aveva spiegato – aveva versato una bottiglia di detergente ed era rimasta una puzza insopportabile, Macé ebbe la certezza che almeno una parte del sangue fosse comunque filtrata fra le assi sconnesse del pavimento. Con fine intuito drammatico, decise di inscenare il gran finale; alla presenza di Voirbo, sempre silenzioso e apparentemente incrollabile, disse: “Se Bodasse fosse stato ucciso qui, il suo sangue sarebbe fluito sul pavimento. Adesso verserò dell’acqua per dare un’idea di come sia scorso il sangue.” Come previsto, l’acqua defluì nell’avvallamento sotto il tavolo, formando delle pozze che venivano lentamente assorbite. Fatte allora rimuovere le assi, risultarono ben evidenti delle tracce di sangue coagulato. Nonostante allora non esistesse alcun procedimento in grado di individuare il sangue umano, Voirbo esterrefatto crollò e confessò il delitto: il 14 dicembre aveva invitato a casa propria Bodasse e lo aveva ucciso con un ferro da stiro, facendolo poi a pezzi, perché si era rifiutato di prestargli 10.000 franchi necessari per sposare Adèle Rémondé che gli avrebbe portato una dote; si stava disfacendo dei pezzi, quando, impaurito dall’incontro con i due agenti, aveva deciso di gettare gli ultimi resti nel pozzo del ristorante. Come si vede, il caso mostra in maniera particolarmente emblematica l’importanza della ricostruzione, mediante la scoperta di piccoli indizi più o meno importanti, di una serie di fatti che, una volta collegati fra loro, offrono uno schema più o meno chiaro degli avvenimenti. Oltre a questo e al ruolo svolto, in negativo o in positivo, dalle etichette dei vestiti e dalla cicatrice sulla gamba nell’identificazione della vittima o dalla perizia medica per gli sviluppi delle indagini (un suo errore non rettificato ne avrebbe impedito la soluzione), l’aspetto più importante è la ricostruzione delle circostanze del delitto stesso: se, infatti, la scoperta dei fiammiferi e dei candelieri nella camera di Bodasse confermò i dati relativi alla data della scomparsa della vittima, da parte sua l’esperimento finale (un esempio ormai classico nel suo genere) non solo fornì una prova decisiva del delitto, senza dover smontare tutto il pavimento, ma permise anche di stabilire con una certezza pressoché assoluta gli avvenimenti che ebbero luogo e di riprodurre una parte delle circostanze che dovettero necessariamente accompagnare il delitto. Non è difficile comprendere la ragione per cui si sostituì il sangue con l’acqua: se si fosse smontato tutto il pavimento si sarebbe distrutta irrimediabilmente una prova preziosa e sarebbe stato quindi impossibile dimostrare che i luoghi dove era stato trovato il sangue corrispondevano esattamente a quelli in cui avevano potuto formarsi delle pozze. Si tratta di un esempio di dimostrazione scientifica di produzione di prove sperimentali e di controllo mediante quelle. Non bisogna infine dimenticare che questa ricostruzione fu anche uno dei primi casi in cui si adottò

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deliberatamente e formalmente il cosiddetto “procedimento misto”, in quanto venne effettuata non solo con lo scopo di fornire l’ultimo anello della catena di prove ma altresì al fine di constatare, presente l’accusato, le sue reazioni psicologiche.

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2. PRIMI ACCERTAMENTI DELL’IDENTITÀ

Fin dall’inizio lo scopo primario, e per lo più unico, delle diverse scienze forensi è l’accertamento di dati materiali obiettivi, quali soprattutto quelli relativi all’identità, o corrispettivo logico dell’unità ontologica (indivisum in se et divisum a quolibet alio), sia delle diverse sostanze, sia dei singoli individui e oggetti – in quest’ultimo caso da intendersi talora come autenticità degli stessi. Mentre l’analisi della composizione materiale (identità di genere, o natura, e di specie, o tipo), pur nel suo notevole valore orientativo iniziale, non è determinante in sé, e solo raramente fornisce elementi intrinseci di certezza assoluta per l’identifica-zione, in quanto ha solo un valore relativo di indicazione (semplice compatibilità) anche se un valore assoluto di esclusione (sicura incompatibilità), invece il riferimento a elementi strutturali caratteristici, peculiari (identità individuale), sebbene scarsamente indicativo, è determinante in sé in quanto consente di ri-conoscere direttamente un’individualità già nota (identità in senso assoluto) o di risalire a quella da cui essi provengono (identità in senso relativo).

2.1. Identificazione degli oggetti: i documenti Per alcune categorie di oggetti – soprattutto documentali, monetari e artistici (comprese le opere d’autore) – l’accertamento dell’identità corrisponde a quello dell’autenticità, o non falsità, intesa sia come veridicità, o non alterazione del solo testo, sia come genuinità, o non contraffazione (copia o riproduzione) dell’intero oggetto 1. 1

Anche se solo marginali all’argomento trattato, si vedano le suggestioni contenute nelle pagine iniziali del breve saggio di W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica [1936]: diversamente dalla riproduzione manuale dell’ opera d’arte, quella tecnica è «qualcosa di nuovo, che si afferma nella storia a intermittenza, a ondate spesso lontane l’una dall’altra, e tuttavia con una crescente intensità. I Greci conoscevano soltanto due procedimenti per la riproduzione tecnica delle opere d’arte: la fusione e il conio. Bronzi, terrecotte e monete erano le uniche opere d’arte che essi fossero in grado di produrre in quantità. Tutte le altre erano uniche e non tecnicamente riproducibili. Con la xilografia diventò per la prima volta tecnicamente riproducibile la grafica […]. Nel corso del Medioevo, alla xilografia vengono ad aggiungersi l’acquaforte e la puntasecca, come all’inizio del secolo XIX, la litografia. […] Il procedimento, molto più efficace, che rispetto all’incisione del disegno in un blocco di legno o in una

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Uno dei primissimi esempi di perizia “scientifica” sull’autenticità di un documento è quello compiuto attorno al 1810 in Germania su un importante manoscritto conosciuto come Königinkofer Handschrift e attribuito agli inizi del 1300, allorché un chimico propone di analizzarne l’inchiostro usando una soluzione acida concentrata che rivela la presenza di “blu di Prussia”, una sostanza scoperta solo agli inizi del Settecento da Diesbach (successivamente, gli esiti della perizia vengono confermati da un esame filologico del testo che rivela numerosi anacronismi storici e linguistici). Tuttavia questo modo di procedere danneggia irreparabilmente il documento e per circa sessant’anni nessun tribunale tedesco autorizza l’uso della prova chimica. Intanto, il chimico francese Alphonse Chevallier (1793-1879), chiamato come perito in numerosi casi, nell’articolo Falsification des actes, des écritures… (“Journal de Chimie médical”, 1831) si sofferma sugli esami da compiere sui documenti ritenuti falsi, indicandone le caratteristiche e le relative modalità d’uso. ° Esame fisico di tutte le parti del documento mediante l’ausilio di una lente d’ingrandimento: si tratta di un’operazione preliminare «per vedere se 1. qualche parte sia stata stracciata, raschiata o assottigliata; 2. qualche parte sia lucida o macchiata; 3. il colore dell’inchiostro usato sia lo stesso per tutto il corpo della scrittura o per ciascuno dei corpi di scrittura che devono essere esaminati in particolare; 4. la scrittura sia ugualmente piena in tutte le parti o non esista invece qualche parte dove il corpo della scrittura sia più largo o più stretto; infine, 5. il colore della carta sia esattamente lo stesso in tutto il foglio o invece non si notino dei segni che possano essere attribuiti, a torto o a ragione, all’età: allora bisogna riconoscere e stabilire la disposizione di questi segni in relazione al modo in cui la carta sia stata piegata.» ° Esame chimico dei documenti alterati o falsificati sia per grattaggio o per lavatura mediante l’ausilio di acqua distillata, alcool, cartina di tornasole rossa o blu; quando queste analisi non sono sufficienti a dimostrare l’alterazione di un documento o di un frammento di scrittura, allora è necessario ricorrere all’ausilio di reattivi in grado di far ricomparire le scritture lavate, persino dopo la sua falsificazione.

L’autore, sicuramente influenzato da quanto accaduto tempo prima, conclude lo scritto rivolgendo una raccomandazione ai periti: «avere la precauzione, quando un atto ha valore di reperto, di fare una prova su una parte

lastra di rame è costituito dalla sua trasposizione su una lastra di pietra […].» (§ 1.) E ancora: «L’intero ambito dell’autenticità si sottrae alla riproducibilità tecnica – e naturalmente non soltantco a quella tecnica. Ma mentre l’autentico mantiene la sua piena autorità di fronte alla riproduzione manuale, di regola bollata come un falso, ciò non accade nel caso della riproduzione tecnica.» (§ 2.) E in nota: «Proprio perché l’autenticità non è riproducibile, l’intensa diffusione di certi procedimenti riproduttivi – tecnici – ha offerto strumenti per una differenziazione e una graduazione dell’autenticità. […] Con l’invenzione della xilografia si può dire che la qualità costituita dalla autenticità viene colpita alle radici.»

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dell’atto e se questo si macchia in modo da far ritenere che diventi illeggibile, come talvolta accade, di chiedere al tribunale, prima di iniziare, che ne venga fatta una copia e che questa possa sostituirlo se viene alterato durante le operazioni; effetto che potrebbe esser dovuto al fatto che i sali, che formano la base dell’inchiostro tolto, si scioglierebbero dagli agenti impiegati per la falsificazione e sparsi per il foglio o che la carta stessa conterrebbe ossido o sali di ferro.»

L’autore si auspica di poter far conoscere quanto prima la seconda parte del lavoro, basata sull’idea che è meglio prevenire che reprimere, nella quale suggerisce alcuni accorgimenti per impedire la falsificazione dei documenti nonché alcune riflessioni su operazioni che potrebbero far ritenere documenti falsi pezzi che in realtà non lo sarebbero. Gli scienziati comprendono immediatamente l’importanza del procedimento di Chevallier, che però viene messo in pratica solo molti anni dopo. È solo verso la fine dell’Ottocento che negli Stati Uniti si ha il primo vero approccio scientifico allo studio sui falsi documentali, intrecciatosi con quello sui falsi in scrittura, con la fondamentale opera di Persifor Frazer (1844-1909), Bibliotics, or the Study of Documents, del 1894. La prima parte, dopo essersi soffermata sui caratteri di una persona, vale a dire la posizione, le abitudini contratte nel tempo e l’evoluzione del suo modello di scrittura, esamina le strumentazioni e gli inchiostri e quindi procede all’esame preliminare del documento con l’aiuto del microscopio e della fotografia. La seconda parte riguarda le principali composizioni degli inchiostri e le relative soluzioni impiegate nelle reazioni chimiche per il rinvenimento di alterazioni o manipolazioni di uno scritto. Ma è soprattutto con Albert Sherman Osborn (1858-1946) che la perizia documentale, sempre assieme a quella grafica, diventa maggiorenne. Dopo aver lavorato come stampatore per una casa editrice di libri commerciali, comincia ad interessarsi alla perizia grafica e documentale; alla fine degli anni ’80, quando, trentenne, depone per le prime volte in tribunale, egli deve subire spesso gli scherni dei giudici e accettare i loro divieti di far riferimento agli elementi di prova forniti dal microscopio. I suoi due volumi, Questioned Documents, del 1910, e Problem of Proof, del 1922, sono i primi trattati veramente scientifici sulla perizia di manoscritti e dattiloscritti.

2.2. Identificazione delle sostanze: i veleni In particolare, per quanto riguarda le sostanze velenose, fin verso la fine del ‘700 esse sono ancora strettamente legate all’alchimia, alla magia e alla stregoneria. È solo nei primi decenni dell’800 (schematicamente fra il 1811 e il 1826), allorché la chimica organica – un territorio finora pressoché sconosciuto

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– comincia a venir esplorata, che si cominciano a studiarne scientificamente oltre che gli effetti – del resto già ben noti empiricamente fin dai tempi passati – anche, e soprattutto, le modalità d’azione, il percorso seguito e la quantità presente nei corpi delle persone a cui sono state somministrate (principio della lesività di ordine chimico), dando origine alla tossicologia. «Così, alla fine della Restaurazione si costituisce la tossicologia che, al di là delle diverse definizioni, stabilisce la dimostrazione della penetrazione dei veleni nelle viscere, mentre gli specialisti pensavano che essa si fermasse nel tubo digerente. [...] La tossicologia si definisce come la scienza dei veleni e dell’avvelenamento. Una simile definizione obbliga a pensare il veleno in maniera diversa, a considerarlo come una sostanza velenosa di cui conviene cercare in primo luogo le modificazioni subite nei diversi stadi, per esempio nella sua mescolanza con gli alimenti, poi in secondo luogo il suo modo d’azione sull’“economia animale”, vale a dire sull’organismo, e infine la dose che può portare la morte.»2 Mateo J. Bonaventura Orfila (1787-1853) è il primo a riconoscere l’importanza della chimica nelle indagini tossicologiche e soprattutto la necessità di ricostruire il percorso seguito da ogni veleno nell’organismo, individuandone l’eventuale organo bersaglio dove esso si concentra e le sue vie di eliminazione. Nell’aprile 1813, laureato da appena un paio d’anni, è insoddisfatto perché non ottiene alcun risultato con i test chimici standard usati per scoprire i veleni mescolati in alcune sostanze né trova trattato il problema nei volumi di chimica della biblioteca universitaria e nei diversi libri di medicina legale; decide allora di pubblicare il primo volume del Traité des poisons tirés des règnes minéral, végétal et animal ou toxicologie général considérée sans les rapports de la physiologie, de la pathologie et de la médecine légale; il secondo esce due anni dopo, nel 1815. L’impatto è immediato. Orfila prosegue il suo successo con i volumi Eléments de chimie medicale (1816) e Leçons de médecine légale (18211823). Somministrando il veleno ai cani, egli mostra che l’arsenico passa dallo stomaco e dagli intestini al fegato, alla milza, ai reni e ai nervi. Quando non si trova il veleno nello stomaco, la sua presenza può essere frequentemente trovata in altri organi. Sottoponendo il tessuto umano ed animale agli effetti distruttivi del salnitro, Orfila dimostra che la rimozione delle strutture che hanno assorbito il veleno permette di scoprire il veleno senza alcuna difficoltà. Ma casualmente, perfino dopo aver somministrato personalmente il veleno ai cani in presenza dei 2 F. Chauvaud, Les experts du crime. La médecine légale en France au XIXe siecle, Aubier, Paris 2000, pp. 193-194.

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suoi studenti, trova impossibile rintracciare delle tracce di esso nei loro corpi. Nonostante i suoi migliori tentativi, non riesce a risolvere il problema. È un caso controverso di avvelenamento (1838-1839) che spinge Orfila ad investigare su un interessante problema, sollevato qualche anno prima dalla metodica ideata dal chimico inglese James Marsh (1794-1846) per rivelare la presenza di tracce anche minime di arsenico. Questi, infatti, amareggiato perché una giuria ha assolto un imputato, considerando la sua testimonianza scientifica come fantastica e incomprensibile, decide di trovare un procedimento in grado di rendere evidente la presenza di arsenico perfino al meno colto dei giurati; durante alcune ricerche nella biblioteca del Woolwich Arsenal di Londra legge del metodo usato nel 1775 dal chimico svedese Karl Scheele per produrre il gas arsine e decide di continuare dove questi ha lasciato. Marsh descrive il suo risultato nell’“Edinburgh Philosophical Journal” dell’ottobre 1836. Ma l’estrema sensibilità dell’invenzione produce una difficoltà imprevista, in quanto essa produce depositi d’arsenico anche se questo non è stato aggiunto alle soluzioni di prova. Numerosi esperimenti rivelano la presenza d’arsenico dove non è sospettata. Perfino le ossa delle persone morte per causa naturale mostrano tracce di veleno. Il dibattito aumenta quando l’arsenico viene scoperto nei campioni di terra presa da alcuni cimiteri di Parigi. Orfila decide di esaminare scrupolosamente il problema. Dopo aver esaminato le ossa umane prese da vari mortuari e il terreno da campi e cimiteri, esprime il parere, secondo cui, nei futuri test per sospetto avvelenamento d’arsenico, sarebbe necessario analizzare la terra nelle vicinanze della tomba. Se l’arsenico contenuto nel terreno è molto e quello nella salma poco, si deve prendere in considerazione la possibilità di un’infiltrazione d’arsenico post mortem. D’altra parte, l’assenza d’arsenico nel terreno ma la sua presenza nel corpo dimostrerebbe fortemente in favore di un avvelenamento accidentale o intenzionale. Orfila sottolinea che anche le circostanze individuali, incluse le condizioni della bara, sono importantissime. Intanto, il nome di Orfila continua ad essere associato con i delitti che suscitano un diffuso interesse. È però nell’autunno del 1840 che Orfila raggiunge l’apice del suo successo come esperto forense, facendo un sensazionale intervento nel più noto processo per avvelenamento del secolo: il caso Lafarge3. 3 In proposito cfr. soprattutto: A. Bernède (a cura di), L’affaire Lafarge. Le mystere du glandier, Tallandier, Paris 1931; M. Tinayre, L’affaire Lafarge, Flammarion, Paris 1934; E. Locard, L’Affaire Lafarge. A-t-elle empoisonné son mari?, Ed. de la Flamme d’Or, Paris 1954. Ma anche: W. Vaccari, Come si scopre un delitto, Capriotti, Roma 1946, cap. 6; J. Thorwald, La scienza contro il delitto [1964], Rizzoli, Milano 1965, parte III, capp. 1-3; J. de Maleissye, Storia dei veleni [1991], Sugarco, Milano 1993, cap. 9; C. Tani, Assassine. Quattro secoli di delitti al fem-

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Poco dopo la morte di Charles Lafarge (14 gennaio), su incarico del giudice Moran, i tre medici curanti Bardou, Massénat e Lespinasse, coadiuvati dai due colleghi Lafosse e d’Albay, eseguono un primo esame del contenuto dello stomaco, del vomito e dei resti di cibi e bevande (22 gennaio), però in maniera estremamente grossolana e con risultati alquanto dubbi. Così, in apertura del processo (3 settembre), mentre i due medici d’Albay e Massénat ribadiscono la presenza certa dell’arsenico in alcune bevande e nei contenuti gastrici della vittima, l’avvocato della difesa Paillet contesta queste affermazioni producendo una lettera di Orfila. La Corte designa allora tre esperti, i farmacisti Dubois, padre e figlio, e il chimico Dupuytren, per procedere a nuove analisi dei liquidi provenienti dallo stomaco e dalle “sostanze vomitate”; questi, dopo aver costruito ed adoperato per la prima volta e senza alcuna esperienza lo strumento ideato per questo scopo dal chimico inglese James Marsh solo qualche anno prima, giungono alla conclusione unanime (5 settembre) che «le sostanze e i liquidi che erano stati loro sottoposti, trattati con i metodi più recenti, non avevano rivelato la minima traccia di arsenico». Col motivo che in certi casi di avvelenamento l’arsenico deve essere cercato nel fegato e in altri organi, il giudice decide che venga riesumato il cadavere per procedere ad ulteriori analisi congiunte fra i due gruppi di esperti (9 settembre): non si trova traccia di arsenico nel fegato, nella milza, nei polmoni, nel cuore, nell’intestino e nel cervello. A questo punto l’accusa chiede un nuovo esame delle bevande e dei cibi che risulta essere positivo. Si ricorre a Orfila, che ribalta i risultati delle analisi precedenti (13 settembre): come spiega dopo alcune considerazioni preliminari, «quattro sono i punti fondamentali che dimostrerò: primo, nel corpo di M. Lafarge è presente dell’arsenico; secondo, questo arsenico non proviene né dai reagenti impiegati per le analisi né dalla terra attorno alla bara (in particolare, l’esame della terra non ha portato alla scoperta di tracce di arsenico, per cui è totalmente da escludere che l’arsenico del cadavere provenga dal suolo); terzo, questo arsenico non deve esser confuso con quello presente naturalmente in ogni corpo umano (infatti, nel corpo umano l’arsenico organico si localizza solo nelle ossa, per cui esso non entra neppure in discussione); infine, quarto, è possibile spiegare come mai i nostri risultati siano diversi da quelli precedenti (a causa delle dosi troppo piccole usate e dell’apparecchio estremamente sensibile e complicato, assai difficilmente una persona inesperta può ottenere risultati positivi alle prime prove).» Non si dichiara invece in grado di rispondere alla questione se la quantità di arsenico rinvenuta sia sufficiente per poter parlare di veneficio senza ulteriori precisazioni. Da parte loro, però, alcuni scienziati, scossi dalle affermazioni contrastanti e dalle conseguenze minile, Mondadori, Milano 1998, cap. 7.

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giudiziarie, sostengono la possibilità di un errore operativo; in particolare, il chimico Raspail, almeno altrettanto popolare di Orfila e da sempre suo acerrimo rivale (che definiva più adatto ai salotti e alle alcove che alla pratica medica), ne confuta punto per punto le conclusioni, sostenendo che la quantità di arsenico trovata nel cadavere, meno di mezzo milligrammo, fa parte di quella comunemente presente nel corpo di ogni essere umano ed è perciò insufficiente a causare la morte per avvelenamento; e soprattutto mettendo in dubbio la purezza del reagente impiegato dal collega: infatti, il nitrato di potassio, se in precedenza non viene purificato, può contenere quantità non trascurabili di arsenico4. Sebbene l’arsenico sia il veleno più largamente diffuso nel diciannovesimo secolo, ce ne sono numerosi altri, non solo provenienti sempre dal mondo inorganico (antimonio, mercurio, piombo, fosforo, zolfo, ecc.), ma anche di origine vegetale, isolati a partire dagli inizi del secolo (la morfina nel 1803, la stricnina nel 1818, il chinino e la caffeina nel 1820, la coniina nel 1826, la nicotina nel 1828, l’atropina e il cloroformio nel 1831, la codeina nel 1832, l’aconito e belladonna nel 1833). Diversamente dai veleni inorganici o metallici, abbastanza semplici da rintracciare (l’antimonio, ad esempio, può essere misurato esattamente con il test di Marsh), nessun test chimico è allora in grado di rivelare la presenza di veleni vegetali, o alcaloidi, nel cadavere: nel 1823, in occasione del processo al medico Edmé Castaing, accusato di aver ucciso con morfina due suoi amici e pazienti, i fratelli Ballel, perfino il grande Orfila confessa la propria incapacità a trovare morfina nel corpo; e ancora nel 1847, egli ammette la possibilità che i veleni vegetali rimangano insospettabili per sempre nell’organismo. È solo tre anni dopo che il belga Jean Servais Stas (1813-1891), professore di chimica alla Scuola Militare Inglese di Bruxelles e già allievo di Orfila, risolve il problema esaminando i contenuti gastrici di Gustave Fougnies, invitato a pranzo dalla sorella Lydie e dal marito, il conte Hippolyte de Bocarmé, e morto qualche ora dopo, nel tardo pomeriggio del 20 novembre 1850. Secondo la contessa si tratta di un colpo apoplettico, mentre i medici ritengono che la morte sia dovuta all’ingestione di una sostanza corrosiva, probabilmente acido solforico, che ha causato le ustioni presenti sul corpo. Stas sente subito l’odore d’aceto; quando poi viene a sapere che questo è stato versato nella gola dell’uomo ed è servito anche a lavare il corpo, sospetta che ciò sia stato fatto per nascondere l’odore di un altro veleno. 4

Di poco posteriore è il “caso Lacoste” (1844), relativo a un avvelenamento da arsenico: si tratta di veneficio o di intossicazione?; cfr. F. Mari – E. Bertol, Veleni, Le Lettere, Firenze 2003, cap. 11.

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Il primo passo di Stas è mescolare alcuni dei contenuti dello stomaco conservati nell’alcool con acqua, filtrare e distillare il risultato. Il suo ragionamento è: le sostanze del corpo sono solubili nell’alcool o nell’acqua, ma non in entrambe, così le sostanze che fossero passate attraverso il filtro con l’alcool sarebbero state fermate dall’acqua, e viceversa. Il risultato sarebbe una soluzione abbastanza pura del veleno usato. Dopo aver distillato più volte il risultato, a Stas sembra di percepire un odore simile all’urina del topo, tipico della coniina. Ma lavandolo e filtrandolo più volte esso produce un odore più forte, quello di tabacco. Il problema ora è come separare il veleno dal distillato. Stas ha un’ispirazione. Egli mescola il liquido con dell’etere, che è più leggero dell’acqua. Dopo poco, l’etere si separa dall’acqua, salendo in superficie e assumendo un colore marrone. Stas accuratamente toglie l’etere, e lo lascia evaporare in un piatto. E dopo essere evaporato, esso lascia una sostanza incolore, un liquido oleoso con un forte odore di tabacco, che gli brucia la lingua e gli riempie la bocca con uno sgradevole sapore. Ora Stas deve soltanto verificare che sia nicotina utilizzando i test chimici. Ciascun test risulta positivo. Dopo aver rimosso tutta la nicotina dai contenuti gastrici, Stas ne ricava abbastanza da riempire un piccolo fiasco, una quantità sufficiente per uccidere parecchie persone. Quindi il conte ha commesso l’errore di voler mascherare l’odore versando aceto nella bocca della vittima, ma questo combinandosi con la nicotina ha prodotto delle ustioni, che insospettiscono i poliziotti. (Stas sperimentò con due cani, avvelenando entrambi con nicotina, e poi versando dell’aceto in bocca a uno dei cani. Solo questo sviluppò ustioni.) Quindi, l’aceto fu miscelato con l’alcool nel quale furono conservati i contenuti gastrici, e questo alcool acidificato si rivelò esattamente la giusta soluzione per sciogliere alcune sostanze organiche come lo zucchero e il muco, diversamente da altre che si disciolgono nell’acqua acidificata. Questo procedimento per individuare i veleni vegetali viene usato ancora oggi5. 5

Diversamente dalla brillantezza che caratterizza Orfila e Stas, nessuno dei maggiori casi di avvelenamento che vede coinvolto come tossicologo il medico legale inglese Alfred Swaine Taylor (1806-1880) può essere considerato un successo della tossicologia. Il primo riguarda John Tawell, un farmacista accusato di aver avvelenato con cianuro la sua amante Sarah Hadler (1845); quello successivo, uno dei più famosi nella storia criminale inglese, riguarda il medico William Palmer, accusato di aver avvelenato con stricnina l’amico John Parsons Cook (1855) e sospettato di essere l’autore di numerose altri morti improvvise e dubbie (in proposito cfr. di R. Graves, Una goccia di veleno [1957], Longanesi, Milano 1959); il terzo riguarda il medico Thomas Smethurst, sospettato di aver avvelenato la sua amante Isabella Bankes (1860); l’ultimo riguarda il medico Alfred Warder, uno degli esperti forensi del processo di William Palmer, sospettato di aver avvelenato la terza moglie Ethel (1866).

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Nei decenni successivi vengono scoperti numerosi reattivi chimici che in presenza di determinati alcaloidi producono ben definiti effetti cromatici. Nel 1863 Ambroise Tardieu (1818-1879), uno dei primi esperti francesi di medicina forense, risolve il problema di identificare quei veleni, come l’aconito e la digitale, per i quali non esistono test chimici. Il caso riguarda la morte della giovane vedova Julia De Pauw. La polizia non ha alcuna ragione di sospettare del suo giovane ex amante, il medico Couty de la Pommerais. Allorché però l’ispettore capo Claude, della Sureté, viene a sapere dei suoi espedienti per poter beneficiare di questa morte, intascando un’assicurazione sulla vita di 500.000 franchi, egli fa subito riesumare il corpo di Madame De Pauw, e lo spedisce a Tardieu. Mentre la polizia porta via dall’ambulatorio del medico diverse bottiglie di veleni e alcune lettere di Madame De Pauw, Tardieu si dedica a stabilire se Madame De Pauw sia morta per avvelenamento. Una cosa è chiara: la morte non è dovuta a qualche causa naturale, come il colera, o a qualche veleno metallico, come l’arsenico, l’antimonio o il mercurio. L’alternativa è un veleno vegetale. Ma quale? Pazientemente, Tardieu e i suoi assistenti applicano il metodo di Stas ai contenuti gastrici, pur essendo scoraggiati dall’idea che molti veleni vegetali possano scomparire dal sistema senza lasciare traccia. E anche in presenza di tracce, il veleno può essere uno di quelli per il quale non è stata ancora trovata alcuna reazione. D’altra parte, l’estratto concentrato, che ora è contenuto in un fiasco sigillato, probabilmente contiene il veleno. E c’è almeno un modo sicuro per verificare quest’ipotesi. Tardieu inietta parte dell’estratto ad un cane; dopo sei ore e mezzo, le sue pulsazioni rallentano fino a metà del loro ritmo normale, mentre l’animale respira affannosamente sul pavimento. Poi, lentamente, si ristabilisce. Tardieu esulta. Il liquido nello stomaco di Madame De Pauw contiene un veleno; si tratta di identificarlo. L’indizio giunge dal materiale consegnato a Tardieu dalla polizia. Una delle lettere termina menzionando la digitalina, con la quale Pommerais l’ha curata; a dosi elevate, essa causa oscillazioni delle pulsazioni e un rallentamento del cuore che può portare alla morte. Inoltre, la bottiglia contenente digitalina, presa dall’ambulatorio di Pommerais, era quasi vuota, sebbene i documenti mostrino che egli ne ha comprato di recente tre grani. Iniettata nel cane, la digitalina di Pommerais causa violente oscillazioni delle pulsazioni; dopo poche ore, l’animale muore. Tardieu prova quindi l’estratto gastrico del cane su una rana, aprendo il suo torace per osservare il cuore. Un’iniezione dell’estratto gastrico produce precisamente lo stesso effetto di un’iniezione di digitale; il cuore batte piano piano, fino a fermarsi. A questo punto viene esaminato anche il corpo della suocera di Pommerais,

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morta in circostanze sospette; anche se è stato sepolto troppo a lungo per rivelare un veleno vegetale, i sintomi della sua breve malattia sono indubbiamente quelli di un avvelenamento da digitale. Al processo, la difesa rifiuta le prove mediche di Tardieu, argomentando che mancano quelle reazioni cromatiche che rivelano la presenza di un tossico vegetale e che i processi di putrefazione e di decomposizione delle albumine portano alla formazione spontanea di veleni cadaverici analoghi a quelli vegetali. La testimonianza di Tardieu non è il fattore che alla fine influenza i giurati, sopraffatti dalle prove indiziarie indirette, in particolare dal raggiro con cui Pommerais è quasi riuscito ad ottenere 500.000 franchi dalla compagnia d’assicurazioni. Come già il metodo di Stas, anche il metodo di Tardieu di verifica della digitalina con l’aiuto della rana è tuttora presente in ogni trattato moderno di tossicologia. Nel 1872 Francesco Selmi (1817-1881), professore di chimica farmaceutica all’Università di Bologna, indagando su due casi di sospetto avvelenamento da morfina e da delfinina, scopre la ptomaina o “alcaloide cadaverico”, una sostanza che si forma naturalmente nel corpo e che può essere confusa con altre sostanze velenose (Sulle ptomaine e alcaloidi cadaverici e la loro importanza in tossicologia, 1878). Questa scoperta, che si riallaccia a un’antica credenza secondo cui durante la vita si formano sostanze tossiche6, causa allarme tra gli esperti di medicina forense, giacché complica il già difficile problema dell’analisi dei veleni vegetali nonché può offrire il pretesto di far valere durante i processi per avvelenamento il dubbio che anche nei cadaveri possano generarsi spontaneamente veleni organici alcaloidei con caratteri chimici assai simili a quelli degli alcaloidi naturali. Nel 1882, il problema degli alcaloidi cadaverici viene sollevato per la prima volta in Inghilterra durante il processo al medico George Henry Lamson, accusato d’aver avvelenato il giovane cognato paralitico Percy John con aconitina, per la quale non esiste un test cromatico diretto, come invece c’è ad esempio per la morfina, l’eroina, l’atropina, la ioscina. Il patologo Thomas Stevenson applica ogni possibile test al vomito del ragazzo morto, e dalla mancanza di risultati conclude che il veleno non può essere che aconito. E quando viene provato che Lamson ha comperato aconito, il caso contro lui è davvero forte. Gli esperimenti coi topi assicurano a Stevenson 6

Per un’esposizione del problema fino al secolo XVI cfr. di P. Zacchia, Quaestiones medico legales, L. II, Roma 1625, Tit. II, QQ. VI-VIII. Le 13 Quaestiones del Tit. II sono state tradotte in it. da G. Pierini col titolo Venefici, Mimesis, Milano 2001.

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che il liquido distillato dagli organi della giovane vittima è un veleno. Al processo, la difesa crea molti problemi sugli alcaloidi cadaverici, riguardo ai quali Stevenson risulta essere ignorante, e per un momento sembra aver introdotto seri dubbi nelle menti della giuria. Alla fine il verdetto è una sentenza di morte per Lamson; ma, come emergerà in seguito, è basato su altre prove, molte delle quali orientate chiaramente ad un complotto d’omicidio. Esattamente dieci anni dopo, in occasione del processo al medico Robert W. Buchanan, la difesa riprende la questione degli alcaloidi cadaverici. Per quanto le problematiche sorte in sede medico-legale e chimica circa la reale importanza delle ptoamine nella diagnosi di veneficio siano state numerose, tutto sommato, dopo tante sperimentazioni, si torna a concludere che il più delle volte è possibile consentire l’ammissione o la negazione del veneficio, nonostante il dubbio sulla presenza di ptomaine, mediante la diagnosi di avvelenamento, un procedimento integrato che fa riferimento a quattro criteri: ° quello anamnestico-circostanziale, una considerazione di qualsiasi notizia o circostanza che possa avere attinenza col caso in esame; ° quello anatomo-patologico, un’osservazione diretta delle alterazioni riscontrate nel cadavere e la conseguente analisi differenziale tra avvelenamento e sintomatologie di altra origine; ° quello chimico-tossicologico: la ricerca del veleno per via chimica; ° quello fisio-tossico, la sperimentazione degli effetti su animali opportunamente selezionati e specificamente sensibili a determinate sostanze. Nei decenni successivi, col progredire della tossicologia forense al medico legale si associa un tecnico specializzato che esegue le operazioni di chimica analitica sui liquidi, sui visceri prelevati dal cadavere e su ogni altro reperto attinente al singolo caso (questa collaborazione diventa sempre più stretta fino a sfociare al giorno d’oggi nella figura del tossicologo forense che compendia in sé le competenze chimiche e medico-legali). Contemporaneamente, «si ridefinirono più propriamente i concetti informatori della lesività di ordine chimico considerata nelle sue valenze fondamentali, cioè la sostanza tossica in sé e il suo veicolo, le vie di penetrazione nell’organismo, le modalità di reazione individuale all’aggressione chimica, il cimento della chimica per l’individuazione del tossico e la valutazione delle circostanze del fatto, dedotte da documenti, testimonianze o accertamenti svolti dall’autorità giudiziaria.7» 7 G. Pierini, Venefici, Mimesis, Milano 2001, pp. 91-92. Nei primi decenni del Novecento la tossicologia forense passa dall’ambito individuale a quello della collettività (sostanze inquinanti, da abuso, ecc.); in seguito si assiste alla produzione sempre più rapida di nuovi veleni (insetticidi: “caso Lehmann”, 1954; barbiturici: “caso Armstrong”, 1955; insulina: “caso Barlow”, 1957) Non mancano però casi di avvelenamenti delittuosi “tradizionali”: da ricordare le guerre tra periti nei casi italiani di Girolamo Lo Verso (1945: tossicosi gravidica o tossicosi mercuriale?), As-

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2.3. Identificazione delle persone: misure e impronte L’identificazione personale, inizialmente rivolta ai criminali recidivi, ora considerati non più come membri di una classe (ladri, assassini, ecc.) ma come individui in sé, non si basa più su criteri empirici di riconoscimento (marchiature, mutilazioni, testimonianze, ecc.) ma su una precisa corrispondenza tra alcuni caratteri fisici peculiari di un individuo, o sua identità naturale, e la relativa identità civile, o insieme dei dati anagrafici, sollevando di conseguenza le questioni relative alle modalità di rilevamento e ai criteri di classificazione per il raffronto, la raccolta e la ricerca di tali elementi. Tale procedimento di identificazione viene affrontato negli stessi anni in due modi diversi dall’antropometria – fondamentalmente opera di una sola persona, e quindi conosciuta anche come bertillonage dal nome del suo inventore – e dalla dattiloscopia. In Francia, Alphonse Bertillon (1853-1914), scritturale alla I sezione della prefettura di polizia di Parigi, nel suo volume Identification Anthropométrique. Instructions signalétiques sviluppa, dapprima in modo alquanto sommario (prima ed. del 1885, pp. 65+30) e quindi più dettagliato (seconda ed. del 1893, interamente rifatta e notevolmente aumentata, pp. 223+90), «l’idea madre dell’applicazione dei procedimenti dell’anatomia antropologica alle questioni dell’identificazione giudiziaria». In particolare, nell’Introduzione, aggiunta nella seconda edizione, osserva tra l’altro: «Vi era bisogno di un metodo di classificazione analogo a quello usato nelle scienze botaniche e zoologiche, ossia si dovevano prendere come base gli elementi caratteristici dell’individualità, e non lo stato civile che può esser oggetto di falsificazione. Sottolineiamo di passaggio che l’assenza di classificazione naturale è un rimprovero che si muove in ugual misura a tutti i sistemi di identificazione giudiziaria che in seguito si è cercato di opporre alla fotografia. […] Così, la soluzione del problema dell’identificazione giudiziaria risiede più nella scoperta di un metodo di classificazione che nella ricerca di nuovi elementi caratteristici dell’individualità.»

Egli parte da tre presupposti – la costanza pressoché assoluta dell’ossatura umana dal 20.mo al 60.mo anno di età; la diversità estrema di dimensioni che presenta lo scheletro umano da un soggetto a un altro; la relativa facilità e sunta Vassallo (1948: stricnina o angina pectoris da tabagismo?), Carlo Nigrisoli (1964: qual è la strumentazione più idonea? [cfr. § 7.1.]); e soprattutto in quello francese di Marie Besnard, sospettata di aver avvelenato tredici persone (1938-1947), che per ben dodici anni ha visto «i tossicologi accapigliarsi davanti alla Corte come tifosi allo stadio.» (F. Mauriac)

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precisione con cui certe dimensioni dello scheletro possono esser misurate. Divide quindi il corpo umano in 5 parti fondamentali (testa, collo, tronco, arti superiori e arti inferiori) e sceglie dei punti fissi misurando le distanze fra questi. Così, risale all’identificazione personale mediante la segnalazione antropometrica (1879) di 11 misure, divise in 3 categorie: corpo (statura, apertura delle braccia, altezza del tronco da seduto), testa (lunghezza e larghezza di essa, lunghezza e larghezza dell’orecchio destro), arto superiore e inferiore sinistro (lunghezza del piede, lunghezza del medio, lunghezza dell’avambraccio dal gomito all’estremità del dito medio disteso), poi integrata dalla segnalazione fotografica, o fotografia segnaletica (1881), e dalla segnalazione descrittiva, o portrait parlé (1888), di fatto la base del moderno sistema di identikit8. 8

Sempre in questi anni, soprattutto per merito dei contributi dell’antropologo Paul Broca (1824-1880), in Francia si affronta anche il problema dell’identità dei resti scheletrici di un corpo, compito dell’antropologia forense. «La costruzione di un sapere a partire dalle ossa ritrovate – scrive F. Chavaud (Les experts du crime, Aubier, Paris 2000, p. 82), forse minimizzando – non impone sforzi di concettualizzazione; è sufficiente maneggiare e misurare.» Negli anni ‘80, infatti, il dottor Etienne Rollet, recependo il suggerimento del cognato, il medico legale Alexander Lacassagne, dell’Università di Lione, si rivolge a determinare i rapporti che intercorrono tra le misure delle diverse ossa lunghe e la statura del cadavere presa come termine generale di paragone. Nel 1889, mentre esce il suo fondamentale studio De la mensuration des os longs… (Storck, Lion) viene anche risolto il primo caso di identificazione di un cadavere in avanzato stato di decomposizione, scoperto il 16 agosto in un boschetto di Millery nei pressi di Lione, proprio grazie soprattutto all’esame dello scheletro (“caso Gouffé”, dal nome della vittima, per gli antropologi, o “caso Eyraud-Bompard”, dal nome degli autori del delitto, per i criminalisti). Dopo una prima autopsia alquanto approssimativa (soprattutto riguardo all’età, al peso e al colore dei capelli) e senza alcun esito, il corpo dello sconosciuto viene esumato ed esaminato da Alexander Lacassagne che concentra le sue analisi sulle ossa e sui capelli, riuscendo alla fine a identificarlo per quello di Auguste Gouffé, un ufficiale giudiziario di Parigi (il brano che segue è tratto da La malle sanglante de Millery, di Edmond Locard, suo allievo e padre fondatore della moderna criminalistica scientifica). «Egli tentò anzitutto di determinare l’età della vittima, un’operazione possibile anche quando la pelle non esiste più e la carne è scomparsa. Quando si tratta di soggetti giovani, i denti ed i centri di ossificazione dello scheletro forniscono elementi molto precisi. Questo non era il caso; tuttavia, la saldatura dell’osso sacro e del coccige, un inizio di rarefazione degli alveoli dentari e la gengivite espulsiva permettevano di affermare che si trattava di un uomo di circa 50 anni. Inoltre, la capigliatura era abbondante, tranne che alla sommità del cranio; pochi erano i capelli bianchi, e, all’infuori di questi, non si notavano altri peli bianchi. Bisognava poi determinare la statura. Quando il cadavere è troppo deformato per poterla stabilire direttamente, si ricorre alle tavole di Rollet (che indicano la statura probabile in funzione delle dimensioni delle ossa lunghe). Si misurano l’omero, il radio, il cubito, le tibie ed i peroni del cadavere; la tavola di Rollet dava, in funzione di queste lunghezze, un’altezza di m. 1,785, con un’approssimazione di 5 mm. Si determinò quindi il peso, tenendo conto della statura dell’ossatura e della corporatura, valutandolo a circa 80 chilogrammi.

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Al contrario, nei paesi di lingua inglese si privilegia il ricorso alle impronte digitali, un fenomeno ritenuto già ben noto fin dall’antichità; tuttavia, per evitare il rischio di confondere tra “falsi precursori” e “veri iniziatori”, bisogna distinguere in esse tra la cosa in quanto tale (oggetto materiale) e il particolare aspetto considerato (oggetto formale), incluso il relativo contesto storicoculturale: così, tralasciando quello verosimilmente mantico, simbolico o rituale caratteristico delle popolazioni primitive ed estremo-orientali9, e quello Si sapeva che i capelli di Gouffé erano castani, mentre quelli del cadavere erano neri. Lacassagne fece raccogliere dei capelli da una spazzola appartenente a Gouffé e, dopo aver avuto cura di ripulirli con ripetute lavature, li pose a raffronto con quelli del cadavere. Eliminato il sedimento estraneo, i capelli apparvero di color castano scuro. Si misurò col microscopio, a 1/10 di mm., il diametro medio dei capelli e dei peli della barba, e si verificò con l’analisi microchimica che i capelli non presentavano tracce di tintura. L’esame dello scheletro permise altresì di accertare che una gamba era più debole dell’altra. L’indebolimento si traduce in una riduzione del volume dei muscoli; l’atrofia muscolare provoca col tempo una modificazione delle creste ossee, le rugosità sulle quali i muscoli si attaccano alle ossa; la vittima aveva subìto un’atrofia muscolare dell’arto inferiore destro, molto più accentuata dal ginocchio in giù che nella coscia, e doveva, ad un certo momento, se non zoppicare almeno “trascinare la gamba”; l’atrofia era stata causata da una lesione tubercolare [giovanile] del calcagno [e dell’astragalo] destro, guarita da molto tempo. Inoltre, il morto aveva subìto, sempre dal lato destro, un travaso di sinovia, un’idroartrosi del ginocchio. Infine, l’alluce destro presentava una deformazione dovuta ad attacchi di gotta [o a reumatismi cronici]. Il cadavere aveva gli incisivi distanziati, i denti larghi, e mancava del primo grosso molare superiore destro. Tutti questi particolari, comprese le misure del cranio, si riferivano a Gouffé, ed il seguito dell’inchiesta dimostrò che si trattava proprio del suo cadavere.» Alla ricostruzione di queste e altre caratteristiche biologiche (età, sesso, razza, statura e costituzione, malattie) – descritta in maniera fondamentalmente corretta nei romanzi dei due “addetti ai lavori” Aaron Elkins [cfr. § 6.2.] e Kathy Reichs [cfr. § 6.5.] – si aggiunge quasi trent’anni dopo quella del volto a partire dalle ossa del cranio [cfr. § 4.1.]; tale ricostruzione facciale, di pertinenza della scultura forense, però, da sola non prova l’identità dei resti (è necessario far ricorso all’odontologia forense per le “impronte dentarie” e per la sovrapposizione cranio-facciale e dentaria) ma permette unicamente di valutarne la compatibilità con quelli della persona a cui si ritiene appartengano. 9 In proposito cfr. E. Locard (Traité de criminalistique, Desvigne & Fils, Lyon 1931, t. I, p. 18) secondo cui: «l’affermazione, riportata da tutti gli autori, che l’Estremo Oriente conoscesse da 13 secoli la dattiloscopia ha bisogno di qualche precisazione. In realtà, ciò che i Cinesi intendevano applicare sui documenti e sui contratti non era forse il disegno delle creste papillari. La loro impronta digitale rientrava in una prospettiva niente affatto biologica ma soltanto mistica. Si trattava di incorporare nell’atto, mediante un contatto e una traccia del corpo, qualcosa della persona. Poco importava che le linee papillari fossero o meno distinguibili. Si vede dunque che facendo dei Cinesi del VII secolo gli antenati della dattiloscopia si va troppo lontano.» Al contrario, il criminologo A. Niceforo ha sempre ritenuto l’esame delle impronte di una mano contenuto in Paries palmatus, una delle pseudo-quintilianee Declamationes del II secolo, come uno dei più remoti precursori dell’esame dattiloscopico: «la parete bianca della stanza e del corridoio era

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propriamente scientifico relativo alla scoperta della loro esistenza e varietà (M. Malpighi, De externo tactus organo, 1686) o alla loro prima classificazione (J.E. Purkinje, Commentatio de examine physiologico organi visus et systematis cutanei, 1823), per quanto concerne l’ambito specificamente criminalistico, William James Herschel (1833-1917), funzionario inglese di stanza in Bengala, è il primo, dopo diciannove anni di ricerche, che sottolinea il loro carattere di unicità, invariabilità e immutabilità e la conseguente loro importanza quale strumento di identificazione. Così, il 15 agosto 1877 scrive una lettera all’ispettore generale delle carceri del Bengala a proposito di «un nuovo metodo di identificazione personale [che] consiste in un’impronta a stampiglio dell’indice e del medio della mano destra (per semplicità si rilevano solo queste due impronte). […] Credo che con l’introduzione sistematica di questo metodo si porrebbe fine una volta per sempre a tutte le truffe di identità.» La risposta è negativa con la motivazione che, anche provando il carattere unico di ciascuna impronta umana, esso non fornisce alcuno strumento di classificazione che consenta di escludere nel modo più assoluto un qualsiasi errore di identificazione. Sempre negli stessi anni, e del tutto indipendentemente, il medico scozzese Henry Faulds (1843-1930), dell’ospedale Tsukiji di Tokio, interessato inizialmente agli aspetti etnologici ed ereditari delle impronte digitali, scopre incidentalmente la loro rilevanza come elemento di prova. Ne accenna di sfuggita nella lettera-articolo On the Skin-furrows of the Hand, apparsa sulla rivista “Nature” del 28 ottobre 1880, al quinto e ultimo punto dei possibili ambiti di indagine: «Se si trovano impronte digitali insanguinate su argilla, vetro, ecc., queste possono portare all’identificazione scientifica dei colpevoli. L’ho già sperimentato personalmente in due casi, ricavandone delle prove utili. […] Nel secondo di questi, impronte digitali sporche di fuliggine di una persona che si è arrampicata su un muro bianco risultarono di grande utilità come prova negativa. Altre applicazioni sono possibili nelle indagini medico-legali, come per esempio nel caso che vengano trovate solo le mani di qualche cadavere smembrato. Se le impronte digitali sono conosciute già in precedenza, hanno certamente maggior forza dimostrativa delle solite voglie materne dei romanzacci da quattro soldi. […] Non ci possono essere dubbi sul vantaggio di avere, oltre alle fotografie dei criminali più importanti, una riproduzione al naturale dei loro solchi delle dita che restano invariati per tutta la durata della vita.»

La lettera di Faulds è all’origine di una prima breve, e mal impostata, controversia da parte di Herschel (“Nature”, del 25 novembre 1880) sulla paternità di tale scoperta; nonché è la fonte del racconto di Mark Twain, coperta da impronte sanguinose di mano ad altezza d’uomo; ma la parete era ugualmente tinta di sangue in ogni luogo, il che mostra che chi lasciò tali impronte intinse più volte la mano nel sangue.» Come si vede, si tratta in realtà di ben altro.

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Un’impronta digitale e le sue conseguenze (o anche La confessione di un moribondo), scritto nel 1882 per il suo volume di ricordi Vita sul Mississippi, dell’anno successivo, che descrive per la prima volta in letteratura e fa conoscere negli Stati Uniti l’importanza determinante delle impronte digitali come strumento di identificazione dell’autore di un delitto, per quanto non riferita alle recenti conclusioni scientifiche ma basata solo su una diffusa credenza popolare. Un vecchio guardiano di obitorio racconta come, verso la fine della guerra civile americana, sia riuscito a identificare chi gli aveva ucciso la moglie e la figlia soprattutto grazie a un’impronta digitale insanguinata. «La prima cosa che attirò particolarmente la mia attenzione fu un documento che avevo visto in mano al bandito; gli aveva dato un’occhiata e poi lo aveva gettato via. Sopra c’era del sangue! […] Non avevo visto il bandito in viso e non avevo la minima idea di chi potesse essere, eppure ero sicuro e fiducioso. Avevo un indizio, che però non sarebbe servito molto neppure a un investigatore finché non avesse saputo come usarlo.» Venuto quindi a sapere che non si trattava di un vagabondo ma di un veterano dell’esercito di stanza a Napoleon, vi si trasferisce e, travestitosi da indovino, predice il futuro ai soldati delle diverse compagnie leggendo loro la mano. «I miei strumenti erano semplici: un po’ di vernice rossa e qualche foglio di carta bianca. Tingevo il polpastrello del pollice, ne prendevo l’impronta su un foglio, durante la notte la studiavo [con l’aiuto di una lente di ingrandimento, tenendo accanto il documento con l’impronta insanguinata dell’assassino], e il giorno successivo predicevo la sorte. Quale era la mia idea in mezzo a tali sciocchezze? Era questa: da giovane avevo conosciuto un vecchio francese che per trent’anni aveva fatto il carceriere, e lui mi aveva detto che c’era una sola cosa, nelle persone, che non cambiava mai, dalla culla alla tomba: le linee del polpastrello del pollice; e diceva che non ci sono due esseri umani che abbiano le linee del pollice esattamente uguali. Ai giorni nostri ogni nuovo criminale viene fotografato e la sua fotografia viene appesa nella Galleria dei Pregiudicati, per futuro riferimento; ma quel francese, ai suoi tempi, prendeva l’impronta del pollice di ogni nuovo prigioniero, e la serbava per i riferimenti futuri. Ripeteva sempre che le fotografie non servivano – i futuri travestimenti potevano renderle inutili. “Il pollice è la sola cosa sicura”, diceva. “Quello non si può truccare.” E dimostrava la sua teoria su amici e conoscenti – e la prova riusciva sempre.»

In seguito, Francis Galton (1822-1911), un tipico esempio di poliedrico e versatile scienziato dilettante dell’Ottocento, attratto dall’antropologia e dall’antropometria, affronta il problema, finora trascurato, dell’utilizzazione pratica della dattiloscopia, in concorrenza e alternativa con l’antropometria, stabilendone i criteri e le modalità di classificazione e di registrazione (1890). Quindi, un anno dopo che le impronte digitali vengono usate per la prima volta in tribunale per condannare l’autore di due delitti (il cosiddetto “caso Royas” del 1892), sempre Mark Twain scrive il romanzo Wilson testa di rapa [1894], ambientato nella prima metà del secolo, e ispirato alla mania di un

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avvocato del Missouri di raccogliere e classificare le impronte digitali di amici e conoscenti; in questo modo egli riesce a provare in una causa sensazionale davanti alla Corte (cap. 21) che il vero autore del delitto è una persona mai sospettata, mentre i due gemelli ritenuti colpevoli non lo sono affatto10. Wilson – sottoscritta e fatta propria la tesi principale dell’accusa: «l’individuo la cui mano sinistra ha lasciato impronte insanguinate sull’impugnatura del pugnale indiano è l’autore del delitto» – ricostruisce i fatti, passando quindi a illustrare brevemente alcune prove che intende produrre e che ne dimostrano la fondatezza. «Ogni essere umano porta con sé, dalla culla alla tomba, certi segni caratteristici che rimangono immutati, e per mezzo dei quali può essere sempre identificato senza la minima ombra di dubbio o paura di smentita. Questi segni sono, per così dire, la sua firma, il suo autografo fisiologico, che non può essere in alcun modo né contraffatto né nascosto né alterato, né reso illeggibile dal logorio e dai mutamenti del tempo. Questa “firma” non è la sua faccia (che l’età può alterare fino a renderla irriconoscibile); non sono i suoi capelli (che possono cambiare colore e cadere); non è la sua statura (che anche altri hanno uguale); non è il suo aspetto (che anche altri possono aver identico); no, questa “firma” è assolutamente unica, individuale: non ne esistono due identiche fra tutti gli abitanti della terra!» (Segni di interesse tra il pubblico.) «Questo autografo consiste nelle delicate linee o solchi con cui la natura segna i palmi delle mani e le piante dei piedi. Se vi guardate i polpastrelli delle dita – parlo a coloro che hanno una vista buona – vedrete che queste delicatissime linee curve sono molto, molto vicine fra loro – come quelle che nelle carte geografiche indicano la profondità degli oceani – e che formano alcune figure chiaramente identificabili, come archi, circoli, volute, spirali, eccetera, e che tali figure differiscono da dito a dito.» (Ognuno, in aula, aveva alzato una mano e, volgendola verso la luce, osservava minuziosamente, con la testa piegata da un lato, i polpastrelli delle dita. Vi furono sommesse esclamazioni: “Toh, è proprio vero! Non me n’ero mai accorto prima!”) «Le linee della mano destra non sono uguali a quelle della sinistra.» (Altre esclamazioni: “Toh, anche questo è vero!”) «Prese dito per dito, le vostre linee differiscono da quelle dei vostri vicini.» (Confronti in tutta l’aula: persino il giudice e i giurati erano assorti in questa curiosa occupazione.) «Le linee della mano destra di un gemello non sono mai uguali a quelle della mano sinistra. Le linee della mano di un gemello non sono mai identiche a quelle dell’altro: i signori giurati osserveranno che le linee dei polpastrelli degli imputati seguono questo schema.» (Iniziò subito l’esame delle mani dei gemelli.) «Avrete sentito parlare spesso di alcuni gemelli che sono esattamente uguali; gemelli che, se vestiti allo stesso modo, neppure i genitori riescono a distinguere. E tuttavia non è mai venuto al mondo un gemello che non portasse su di sé, dalla nascita alla morte, un infallibile segno di identificazione: questo misterioso e meraviglioso autografo naturale. Per cui nessun gemello che impersoni l’altro potrà mai ingannarci, una volta che sappiamo questo.»

In realtà, più che il diverso grado di efficacia e affidabilità dei due sistemi di 10 Nell’opuscolo Pudd’nhead Wilson’s Calendar for 1894, che reclamizza la pubblicazione a puntate del romanzo sul “Century Magazine” (dicembre 1893 – giugno 1894), è scritto tra l’altro (p. 15): «la storia presenta un impiego nuovo e ingegnoso della scienza nelle indagini poliziesche».

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identificazione, si deve rimarcare in primo luogo il loro riferimento a due diverse forme di identità: l’antropometria, nonostante il suo innegabile carattere innovativo dovuto anche a un approccio rigorosamente quantitativo al problema mediante il ricorso al sistema metrico, presenta comunque ben precisi limiti intrinseci e inconvenienti pratici. Secondo Galton, nonostante «il procedimento sia assai ingegnoso e interessante», Bertillon sbaglia a trattare «le misure delle diverse grandezze della stessa persona come se fossero tutte variabili indipendenti, mentre non lo sono; per esempio è assai probabile che un uomo alto abbia braccia, piedi o dita lunghe rispetto a uno basso.»11 Da sottolineare anche la validità circoscritta all’individuo adulto di sesso maschile, come pure la complessità e macchinosità delle operazioni, con conseguenti possibilità di errore nelle misurazioni e quindi nella identificazione (falsi positivi e falsi negativi): essa, infatti, si basa sull’esattezza di ogni singola misura non meno che sulla presenza di tutte le 11 misure. Ma soprattutto l’antropometria rientra nel tradizionale e semplice ri-conoscimento diretto dell’identità in senso assoluto di un individuo già noto, mentre la dattiloscopia, che si avvale dell’aritmetica elementare, segna una rottura, “una discontinuità interna parziale” di notevole rilevanza criminalistica in quanto fa riferimento alla nozione di identità in senso relativo: tale confronto fra elementi strutturali omogenei provenienti da un’individualità, infatti, oltre che come strumento di identificazione, del resto ben più attendibile dell’antropo-metria, assume altresì – e soprattutto – valore o funzione di prova, in quanto stabilisce una precisa correlazione tra tali elementi e un determinato individuo, che presenta una certezza di carattere positivo e non solo negativo, nel senso che è possibile non solo escludere ma anche individuare e accertare la presenza di tratti caratteristici unici e talvolta anche permanenti (si tratta di un cosiddetto “atto epistemologico”12). Così, di contro al semplice interesse storico dell’antropometria, in un certo senso già superata nel momento stesso in cui viene introdotta, l’intrinseca superiorità della dattiloscopia, per quanto inizialmente osteggiata dalla polizia francese, a quel tempo ritenuta la migliore del mondo, viene confermata dall’immediata applicazione dei suoi principi all’esame di altri tipi di impronte, a partire da quelle balistiche (A. Lacassagne, 1889). Intanto, da una decina d’anni, soprattutto per merito del poliedrico Jean Hippolyte Michon (1806-1881), si cominciano a prendere in considerazione 11

F. Galton, Memories of My Life, Methuen, London 1908, p. 251. La nozione di “atto epistemologico”, dovuta come ben noto a G. Bachelard (L’activité rationaliste de la physique contemporaine, PUF, Paris 1951, p. 25), corrisponde allo strappo che apporta impulsi inattesi nel corso dello sviluppo scientifico e contrappone un positivo (“passato attuale” o “storia confermata”) a un negativo (“passato decaduto” o “storia sorpassata”).

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anche le cosiddette “impronte grafiche”. Dopo che a partire dal 1871 ha contrapposto al fino allora dominante esame intuitivo della scrittura, basato unicamente sulla comparazione delle forme, la “nuova scienza della grafologia”, nel 1878 ne illustra per la prima volta le applicazioni in ambito peritale nell’opuscolo De l’intervention de la science nouvelle la graphologie dans les causes judiciaires. Faux testament Bonniol. Mémoire adressé a la Magistrature, au Barreau et aux hommes d’affaires, precisando fin dall’inizio (p. 4) che «è soprattutto nei falsi in scrittura che l’intervento della scienza grafologica è competente»; quindi, subito dopo non manca di sottolineare il discredito, gli errori e le contraddizioni della perizia calligrafica per meglio far emergere e accreditare gli aspetti innovativi e positivi del procedimento grafologico: «Tutti i trattati di giurisprudenza sono unanimi nel constatare la debolezza delle perizie che si espletano davanti ai tribunali. Il discredito, le forti contraddizioni, gli errori continui, nel maggior numero dei casi, hanno portato gli autori, che sono un’autorità in materia di diritto, a questa conclusione: le relazioni degli esperti non hanno altro valore che quello di aiutare i giudici, ma bisogna guardarsi bene dal prendere queste relazioni come regola sicura, dietro la quale il giudice possa tranquillamente mettersi al riparo. La scoperta della grafologia mette a nudo questa debolezza delle perizie eseguite secondo il vecchio metodo della comparazione sull’unica base della somiglianza o non somiglianza delle lettere. Questo procedimento infantile è stato applicato fino alla scoperta dell’anatomia grafica che dimostra che questa o quella forma di lettera appartiene a questo o a quel cervello che scrive [o anche: motore cerebrale]. Il grafologo non si occupa, come fino ad oggi hanno fatto i periti, della somiglianza apparente delle lettere: per lui è necessario che la scrittura, per esempio in un testamento, corrisponda allo stato intellettivo e morale rivelato dallo studio della scrittura abituale della persona alla quale lo si attribuisce. Se c’è discordanza tra il testamento e la scrittura di colui al quale esso viene attribuito, il testamento è falso. Il grafologo segue il criterio di osservare rigorosamente gli idiotismi grafici, ossia quelle forme speciali, personali, che non vengono usate da tutti ma che costituiscono, nel loro insieme, la vera scrittura naturale, abituale, particolare di chi adopera la penna. Tutto ciò che, in uno scritto sospetto, si allontana da questa vera scrittura, dove si manifestano più o meno numerosi gli idiotismi grafici che danno l’identità psichica e morale della persona sospettata di aver scritto il documento, è una prova irrefutabile che il documento non è stato scritto da questa. Si ha così un metodo semplice, razionale, basato su leggi; si parla di un procedimento sperimentale; siamo nel dominio della scienza positiva e assolutamente non nel caso, nelle congetture, nelle intuizioni vaghe di una routine in cui tutto il procedimento infantile consiste nel dire “questa A assomiglia a questa A, questa B assomiglia a questa B, questa paraffa a questa paraffa.»

Quindi, dopo aver esposto dettagliatamente i risultati dei suoi sei rapporti (tra questi, si ricordano 9 prove di falso e 8 idiotismi grafici), Michon così conclude (pp. 20-21): «Ritengo quindi di avere buoni motivi per affermare che la grafologia possiede, in sé, una

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risorsa di primo valore per arrivare alla verità positiva nelle difficili questioni di scritture dove due o tre esperti dicono sì, mentre altri due o tre dicono no unicamente sulla base di congetture, della pratica, di una certa capacità di colpo d’occhio, tutte cose incerte e ambigue perché non basate sui dati di una scienza. […] Dopo secoli di perizie basate sulla comparazione delle forme, per la prima volta si impone una procedura che va più lontano e si basa sul fatto che una scrittura è autografa quando risponde alle facoltà, agli istinti, alla natura, al carattere della persona conosciuta. Se una natura viva e travolgente è resa da una grafismo molle, apatico, senza vigore, se si rende un animo avaro con una scrittura prodiga, un soggetto dal sangue freddo e dalla calma assoluta con una scrittura di un cervello esaltato, una natura libera, aperta, leale con una scrittura che indica astuzia ecc., si ha la certezza seria e scientifica, basata sulla sperimentazione, che quelle scritture sono false. Per arrivare a queste certezze la grafologia non si ferma solamente all’apparenza esteriore: due lettere possono essere simili e tuttavia non essere tracciate dalla stessa mano; ecco perché gli esperti si sbagliano con la migliore fede del mondo e perché vi sono dei contro-periti che gettano i giudici in un crudele imbarazzo, essendo i periti onesti ed abili gli uni quanto gli altri. La grafologia va più lontano: essa ha numerosi segni grafici che partono spesso da una curva, da un angolo, da un tratto finale […]. Il procedimento grafologico apporta, in materia di scritture, la stessa rivoluzione che il microscopio ha portato nello studio dei corpi infinitamente piccoli.» 13

In realtà, il pur decisivo apporto di Michon, proprio in quanto si basa sulla scrittura (grafismo) intesa come elemento rivelatore della natura, del carattere di chi scrive, contiene insito il rischio di spostare il discorso sul piano della personalità psicologica, proprio dell’analisi grafologica, allontanandosi così dal compito specifico della perizia grafica, rivolta invece unicamente alla personalità grafica, relativa all’accertamento dell’identità o non identità di mano, vale a dire l’autografia o l’eterografia degli scritti in verifica, soprattutto mediante l’esame di aspetti ed elementi di somiglianza e differenza sostanziali o dinamici (gesto grafico) più che formali o morfologici (atto grafico), con quelli di comparazione; in altri termini, si tratta di una valutazione qualitativa e non di un semplice confronto quantitativo14. Da parte loro, le cosiddette “impronte comportamentali”, l’elemento unico e uguale a se stesso nel tempo lasciato da un individuo e rivelatore della sua personalità, cominciano a venir considerate come uno strumento in grado di 13

La successiva Memoire à consulter aux magistrats, aux avocats, aux avoués, aux hommes d’affaires sur la méthode vicieuse des expertises en écritures suivie jusqu’a ce jour et sur l’intervention heureuse de la science graphologique pour découvrir le vrai en matière d’écriture contestées (1880), dopo aver ripreso in maniera sintetica il caso del testamento Bonniol, illustra in dettaglio un caso di quattordici firme contestate e quello di una scrittura anonima, tutti risolti positivamente con il nuovo metodo scientifico dell’anatomia grafica. 14 Per un’introduzione alla storia e ai problemi della perizia grafica si rimanda al volume di A. e P. Cristofanelli, Grafologicamente, CE.DI.S., Roma 2004.

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consentire la ricostruzione dell’identità personale. Uno dei primi esempi in proposito è sicuramente quello del dottor Thomas Bond, chirurgo e docente di Medicina legale e autore di numerose pubblicazioni, che il 10 novembre 1888, dopo aver eseguito l’autopsia su Mary Jane Kelly, la quinta vittima di Jack lo Squartatore, redige un rapporto dove, tra l’altro, abbozza il profilo dell’assassino15. Egregio Signore, Le invio questo dettagliato rapporto che ho redatto dopo aver letto le note relative ai quattro omicidi di Whitechapel e cioè: l. Buck’s Row, 2. Hanbury Street, 3. Berner Street, 4. Mitre Square. Ho inoltre eseguito un’accurata autopsia dei resti mutilati di Mary Jeannette Kelly, trovata ieri sera in una piccola stanza di Dorset Street. l. Tutti e cinque i delitti sono stati indubbiamente commessi dalla stessa mano. Nei primi quattro la gola appare tranciata da sinistra verso destra; nell’ultimo caso, a causa delle vaste mutilazioni, è impossibile dire in quale direzione sia stata inferta la ferita fatale […]. 2. Tutte le circostanze dei delitti mi inducono a pensare che le donne al momento del delitto dovevano essere distese e, in ogni caso, il taglio della gola è stata la prima ferita. 3. Per i quattro delitti di cui ho semplicemente consultato gli appunti, non mi posso fare un’opinione precisa in merito al tempo trascorso tra il delitto e la scoperta del corpo; in un caso, quello di Berner’s Street, la scoperta sembra essere stata immediatamente successiva al fatto. A Buck’s Row, Hanbury Street e Mitre Square potrebbero essere trascorse solo tre o quattro ore. Nel caso di Dorset Street […] il rigor mortis si era già instaurato ma aumentò nel corso dell’esame. Da questo particolare è difficile affermare con certezza l’esatto tempo trascorso dalla morte, dato che la rigidità, per instaurarsi, impiega un periodo di tempo variabile tra le sei e le dodici ore. Alle due il corpo era relativamente freddo e i resti di un pasto completo furono ritrovati nello stomaco e lungo gli intestini. È quindi quasi certo che la donna doveva essere morta da circa dodici ore. Il cibo parzialmente digerito indicherebbe che la morte ebbe luogo tra le tre e le quattro ore dopo il pasto, così l’una o le due del mattino verrebbero ad essere una probabile ora per il delitto. 4. In nessuno dei casi si rivelano tracce di lotta e gli attacchi furono probabilmente così improvvisi e compiuti in una posizione tale, per cui le donne non potevano né opporre resistenza, né gridare. […] 5. Nei primi quattro casi l’assassino deve avere attaccato dal lato destro delle vittime. Nel caso di Dorset Street deve avere attaccato di fronte o dalla parte sinistra, poiché non vi sarebbe stato spazio sufficiente per lui tra il muro e la parte del letto sul quale la donna era distesa. Di nuovo il sangue ha zampillato giù per la parte destra della donna ed è schizzato fino al muro. 6. L’assassino non doveva necessariamente essere macchiato o inzuppato di sangue, ma le mani e le braccia ne dovevano esser ricoperte e anche parti degli abiti devono certamente essersi sporcate. 7. Le mutilazioni erano tutte dello stesso tipo, tranne nel caso di Berner’s Street, e dimostravano chiaramente che in tutti i delitti il fine principale era proprio la mutilazione.

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D. Rumbelow, Jack the Ripper. The Complete Casebook, Contemporary Books, Chicago 1987, pp. 139-141. In proposito si ricorda il denso e rigoroso romanzo di C. Carr, L’alienista [1994], ambientato a New York nel 1896; in esso il protagonista, sulla base dei Principi di Psicologia di William James apparsi sei anni prima, riesce ad identificare un serial killer.

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8. In ogni caso la mutilazione fu inferta da una persona che non aveva conoscenze scientifiche né anatomiche. A mio parere egli non possiede nemmeno la competenza tecnica di un macellaio o di una qualsiasi persona abituata a tagliare carogne di animali. 9. Lo strumento usato deve essere stato un grosso coltello, lungo almeno sei pollici, molto affilato, appuntito e con la lama larga circa un pollice. Può essere stato un coltello a serramanico, un coltello da macellaio o uno strumento chirurgico; penso comunque si trattasse di un coltello dritto, non curvo. 10. L’assassino deve essere stato un uomo di grande forza fisica, freddezza e audacia. Non ci sono prove che avesse un complice. Secondo me era un uomo soggetto a periodici attacchi di manie omicide ed erotiche. La tipologia delle mutilazioni suggerisce che potesse trovarsi in una condizione sessuale chiamata satiriasi. È naturalmente possibile che l’impulso omicida possa essersi sviluppato da uno stato mentale vendicativo o malinconico o anche da una mania religiosa, ma non credo molto a questa ipotesi. L’apparenza dell’uomo è quella di un tipo assolutamente inoffensivo; probabilmente è di mezza età ed è vestito in modo corretto e rispettabile. Penso che abbia l’abitudine di indossare un mantello o un soprabito, altrimenti sarebbe stato notato nelle strade se il sangue sulle mani e sui vestiti fosse stato visibile. 11. Presumendo che l’assassino sia una persona così come l’ho descritta, avrebbe abitudini solitarie ed eccentriche, probabilmente sarebbe un uomo senza un’occupazione fissa che deve quindi percepire qualche rendita o pensione. Probabilmente vive tra persone rispettabili che conoscono il suo carattere e le sue abitudini e che forse sospettano che l’uomo non sia del tutto a posto con la mente. Queste persone forse sarebbero riluttanti a comunicare i loro sospetti alla polizia per paura della pubblicità, mentre se ci fosse la possibilità di una ricompensa potrebbero vincere i loro scrupoli.

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3. PRIME RICADUTE NARRATIVE E FORMULAZIONI TEORICHE

3.1. A. Conan Doyle e Sherlock Holmes Intanto, nel marzo 1886, quando queste diverse conoscenze sono ancora sparse in numerosi testi, il medico inglese Arthur Conan Doyle (1859-1930) crea il personaggio di Sherlock Holmes (protagonista di 4 romanzi e 56 racconti, pubblicati tra il 1887 e il 19271). Come ha ricordato più volte lo stesso autore, la principale fonte di ispirazione per il suo personaggio gli è venuta innanzitutto dal medico Joseph Bell, suo insegnante all’università, ma anche da Henry Littlejohn, consulente della polizia e professore di medicina legale, sempre a Edimburgo. A una conoscenza procedurale, o modalità di ragionamento, che l’autore ha mutuato dall’ambito della semeiotica medica (l’interpretazione degli indizi di un crimine come lettura dei sintomi di una malattia)2, Holmes unisce una conoscenza dichiarativa, o patrimonio di nozioni tecnico-scientifiche: «Così, per esempio, semplicemente osservando la mano di un uomo egli sa dedurre la sua occupazione, come guardandone i pantaloni può arguire il suo carattere»3. 1

I titoli vengono indicati secondo le ormai classiche abbreviazioni di J. Finley Christ: ABBE – La tragedia di Abbey Grange [1904]; BLAC – Il capitano di lungo corso [1904]; BOSC – Il mistero di Valle Boscombe [1891]; CARD – L’avventura della scatola di cartone [1893]; COPP – I faggi rossi [1892]; DANC – I pupazzi ballerini [1903]; GLOR – Il “Gloria Scott” [1893]; HOUN – Il mastino dei Baskerville [1901/2]; IDEN – Un caso di identità [1891]; LION – La criniera del leone [1926]; NAVA – Il patto navale [1893]; NORW – L’avventura del costruttore di Norwood [1903]; PRIO – La scuola del priorato [1904]; REDC – L’avventura del cerchio rosso [1911]; REDH – La lega dei capelli rossi [1891]; REIG – I signori di Reigate [1893]; SCAN – Uno scandalo in Boemia [1891]; SHOS – L’avventura di Shoscombe Old Place [1927]; SIGN – Il segno dei quattro [1890]; STUD – Uno studio in rosso [1887]; THOR – Il mistero del ponte sulla Thor [1922]; TWIS – L’uomo dal labbro storto [1891]. 2 In proposito cfr. T.A. Sebeok, Il detective del XX secolo, “L’Espresso”, 16 novembre 1986, pp. 150-156. E da parte sua, A. Conan Doyle (Preface, a The Complete Sherlock Holmes Long Stories, Murray & Cape, London 1929) scrive: «Sono passato attraverso un severo corso di addestramento alla diagnosi medica che mi ha fatto pensare che se quegli stessi metodi austeri di osservazione e di ragionamento fossero stati applicati ai problemi del crimine, allora si sarebbe costruito un sistema di indagine più scientifico. Se io prendo in considerazione la serie dei miei libri di detection, mi rendo conto che in molti paesi le procedure di polizia sono cambiate un po’ anche per effetto dei miei racconti.» 3 A. Conan Doyle, La vera storia di Sherlock Holmes [1900], in “Il Giallo Classico”, n. 14, 1990, p. 10.

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Inizialmente, tali nozioni vengono così sommariamente indicate (STUD, I, 2): Botanica: variabili; sa tutto sui veleni in generale. Geologia: pratiche ma limitate; distingue a prima vista le diverse qualità di terra e le relative macchie di fango. Chimica: profonde. (In realtà, almeno per quanto riguarda la descrizione degli esperimenti compiuti, sempre però intesi come un semplice diversivo estraneo alle indagini in corso, solo il primo [STUD] – relativo alla scoperta di un procedimento in grado di identificare il sangue e mai più ricordato in seguito – è sufficientemente dettagliato da poter esser ritenuto del tutto infondato mentre gli altri cinque [SIGN; IDEN; COPP; NAVA; DANC], eseguiti in un angolo del salotto di casa, sono indicati in modo assai vago4.) Anatomia: esatte ma poco sistematiche. Letteratura criminale: illimitate; a quanto pare, sa tutto sui delitti commessi nel secolo XIX. (La profonda e vasta conoscenza di precedenti casi simili gli consente, all’occorrenza, di procedere per analogia: «C’è una grande somiglianza tra i vari delitti... come un’aria di famiglia... e se uno ricorda perfettamente tutti i particolari di 999 delitti, è ben difficile che non riesca a chiarire il millesimo.» [Ibid.]) In seguito emergono almeno altri tre o quattro ambiti di conoscenza. Accertamento dell’identità personale: antropometria e dattiloscopia. In realtà, le due procedure sono solo un aspetto marginale delle vicende e non contribuiscono quasi mai alla loro soluzione. Sull’antropometria c’è un unico accenno esplicito, estremamente generico nonché del tutto accademico perché senza alcuna utile ricaduta nelle sue indagini: «Ricordo che la nostra conversazione si svolse attorno al sistema di misure di Bertillon, e che il mio amico [Sherlock Holmes] espresse un’ammirazione entusiasta per lo scienziato francese» (NAVA). Più interessante invece il riferimento dello stesso Holmes ad almeno tre suoi scritti: quello Sui tatuaggi (1890), un contributo personale alla letteratura sull’argomento (REDH); quello Sulle differenze degli orecchi umani (1886), composto da due brevi monografie pubblicate sull’“Anthropological Journal”: «non esiste parte del corpo umano che cambi tanto da una persona all’altra quanto l’orecchio; ogni orecchio ha caratteristiche proprie e differisce da tutti gli altri» (CARD); e quello, «abbastanza insolito, Sull’influenza di una determinata attività sulla forma delle mani (anni 1880), con riproduzioni delle mani di muratori, marinai, sugherai, tipografi, tessitori, tagliatori di diamanti. Tutto questo è di estremo interesse pratico per il poliziotto scientifico, specialmente quando ha a che fare 4

Sull’argomento cfr. L. Garlaschelli, Chimica e misteri, e S. Mazza, La prova dell’emoglobina: dubbi e certezze, “The Strand Magazine”, vol. III, n. 0, pp. 15-17, e anno I n.s., n. 1, pp.18-20.

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con cadaveri di sconosciuti o deve scoprire i precedenti di persone incriminate» (SIGN, 1): in realtà, secondo E. Locard5, una simile opera era stata commissionata dal prefetto di polizia Lozé allo stesso Bertillon. Due brevi esemplificazioni che potrebbero benissimo appartenere all’opuscolo in questione: «Dalle callosità delle sue mani deduco che ha scavato molto» (GLOR). «La mano destra è molto più grossa di quella sinistra. Avendo lavorato di più con la destra, i muscoli di questa sono più sviluppati» (REDH). Da parte sua, la dattiloscopia viene completamente ignorata, fatta eccezione per un’evasiva risposta di Holmes: «Sì, mi pare di aver già sentito qualcosa del genere [che non esistono due impronte digitali uguali]» (NORW); e un suo successivo brevissimo accenno: «[Sul pezzetto di carta mancante] c’era probabilmente qualche segno, qualche impronta digitale, qualcosa insomma che poteva forse portare all’identificazione di questa persona» (REDC, 1). Viceversa, secondo E. Locard6 e F. Lacassin7, ci sono altri casi che avrebbero potuto esser risolti più semplicemente ed elegantemente facendo ricorso alle impronte digitali (per es. HOUN; ABBE; BLAC; THOR), come nei due testi già ricordati di Mark Twain. Esame del cadavere e sopralluogo. Si tratta dei due capisaldi su cui poggia la moderna indagine scientifica del delitto. Quanto al primo, l’interesse di Holmes è rivolto unicamente alla preliminare ispezione esterna del cadavere – solitamente volta a constatare tra l’altro la grandezza e la posizione delle macchie cadaveriche, la presenza o assenza di rigidità cadaverica nonché le eventuali tracce di flora e fauna – mentre trascura del tutto la successiva e più determinante indagine necroscopica interna, solitamente associata a quella chimica (come risulta dalle due citazioni prese rispettivamente da STUD, II, 7 e SIGN, 6). «Non c’era alcuna ferita sul cadavere, ma l’espressione stravolta della sua faccia mi diceva che aveva previsto la sorte che gli sarebbe toccata. I lineamenti di chi muore per paralisi cardiaca o per qualsiasi altra causa naturale improvvisa non tradiscono mai sgomento o agitazione. Fiutando poi le labbra del morto, ho sentito un lieve odore amarognolo e ne ho concluso che lo sconosciuto era stato costretto ad ingerire del veleno, il che spiegava l’odio e il terrore impressi sul suo viso. Ero giunto a questo risultato per esclusione, poiché nessun’altra ipotesi si adattava ai fatti. E non creda che fosse un’ipotesi inaudita. Il caso di una persona obbligata a ingerire del veleno non è affatto nuovo negli annali criminali.» «I muscoli sono molto più contratti che nel normale rigor mortis. Se a questa contrazione insolita aggiungiamo quella dei muscoli facciali, il cosiddetto risus sardonicus degli autori

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E. Locard, Op. cit., p. 124. E. Locard, Op. cit., pp. 116-118. F. Lacassin, Mythologie du roman policer, UGE, Paris.

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antichi, viene da pensare che la morte sia stata provocata da qualche potente alcaloide vegetale, probabilmente una sostanza simile alla stricnina, che ha un effetto simile al tetano... Appena entrato nella stanza mi sono chiesto con quali mezzi il veleno fosse stato propinato. Come lei stesso ha visto, ho scoperto una spina conficcata non molto profondamente nel cuoio capelluto.»

Da ricordare, infine, il breve accenno di Holmes all’uso dell’ingrandimento fotografico nell’esame di un cadavere (LION), uno dei rari riferimenti – assieme a quello sul microscopio (SHOS) e a quelli quasi onnipresenti sulla lente d’ingrandimento – all’importanza della strumentazione nell’indagine criminale. Esame delle tracce di persone, animali e veicoli. Aspetto già presente in molti dei “falsi precursori” della detective story, è il principale elemento portante – assieme all’esame di macchie, polvere e residui vari – delle indagini condotte da Holmes durante il sopralluogo: «nella scienza dell’investigazione non c’è un’altra branca più importante e più trascurata dell’arte di riconoscere le orme» (STUD, II, 7). Dei numerosi esempi in proposito, oltre alle sue due monografie Sulle differenze tra le ceneri di diversi tipi di tabacco (anni 1870) con tavole a colori (STUD I, 4; SIGN, 1; BOSC) e Sul modo di riconoscere le impronte (1897), che contiene alcune osservazioni sull’uso del gesso per fissare e conservare le impronte stesse (SIGN, 1), qui si ricorda solo quanto riferito dallo stesso Conan Doyle nell’autobiografia a proposito delle tracce lasciate da una bicicletta (PRIO): «Holmes fa notare, col suo solito modo noncurante, che guardando le tracce di una bicicletta su un terreno umido si può capire in quale direzione essa si è diretta. Mi giunsero a riguardo così numerosi rilievi che io stesso presi la mia bicicletta e provai. Mi ero immaginato che osservando il modo in cui la ruota posteriore ricopriva le tracce di quella anteriore quando la bicicletta non va proprio dritta, si poteva indovinare la direzione. Trovai invece che i miei corrispondenti avevano ragione e che il torto era mio, perché le tracce erano sempre quelle, qualunque direzione la bicicletta avesse seguito. La vera soluzione era molto più semplice, perché in una pianura ondulata le ruote [posteriori, su cui grava il peso del ciclista] lasciano una traccia assai profonda nel salire, mentre nel discendere la profondità si riduce. Dopo tutto, l’affermazione di Holmes era quindi giustificata.»8 Perizia grafica dei documenti. L’esame di manoscritti e dattiloscritti “in 8

A. Conan Doyle, Ucciderò Sherlock Holmes. Memorie e avventure del creatore del celebre detective [1924], Rosa & Nero, Milano 1984, p. 100; ma in proposito cfr. però anche quanto riferisce A. Eyles (Sherlock Holmes. Album del centenario [1986], Diapress, Milano 1987, p. 46): «Allorché i lettori protestarono, sostenendo che la cosa era impossibile, Conan Doyle fece delle prove pratiche che, secondo lui, gli davano ragione; in anni successivi, però, ammise di essersi sbagliato, perché solo dalla distribuzione di eventuali spruzzi di fango si poteva capire in quale direzione andava la bicicletta.»

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verifica” mediante confronto con quelli di comparazione allo scopo di stabilire l’identità o diversità di due scritture relativamente alla loro provenienza (individuo o macchina per scrivere) è un aspetto della più generale perizia documentale, volta ad accertare l’eventuale falsità sia parziale, o alterazione, della sola parte scritta, allo scopo di farla apparire diversa, sia totale, o contraffazione, dell’intero documento, compreso il supporto materiale, allo scopo di farlo apparire autentico. Da parte sua, Holmes, accanto alla crittografia (codici e cifrari), qui tralasciata in quanto più pertinente all’ambito diplomatico e militare che a quello criminalistico, non manca di prendere in esame anche il foglio di carta che contiene un messaggio (SCAN). «[Holmes] mi tese un foglio spesso di carta da lettera rosa, che stava sul tavolo. […] Esaminai attentamente il testo e il foglio su cui era scritto. “Chi l’ha scritto è presumibilmente una persona benestante”, osservai, cercando di imitare i metodi del mio amico. “Carta come questa costa almeno mezza corona al pacchetto. È particolarmente spessa e rigida.” “Particolarmente – è la parola giusta”, disse Holmes. “Non si tratta sicuramente di carta inglese. La guardi controluce.” Feci come mi diceva, e nella filigrana della carta vidi una E seguita da una g, una P e una G seguite da una t. “Cosa ne dice?”, mi chiese Holmes. “Sicuramente il nome del fabbricante, o meglio il suo monogramma.” “Niente affatto. La G e la t stanno per Gesellschaft, che in tedesco significa ‘Società’. È un’abbreviazione normale, come da noi Co. La P sta naturalmente per Papier. Adesso vediamo un po’ la Eg. Prendiamo il nostro Continental Gazetteer [Dizionario geografico dell’Europa].” E così dicendo tolse da uno scaffale un grosso volume rilegato in tela scura. “Eglaw, Eglonitz… Ecco qua, Egria. Si trova in Boemia, un paese di lingua tedesca, non lontano da Carlsbad. È famosa […] per le sue numerose vetrerie e cartiere.’ Ah, Ah, che gliene pare?” “Questa carta, dunque, è stata fabbricata in Boemia”, dissi. “Precisamente. E l’uomo che ha scritto il biglietto è un tedesco. Osservi l’insolita costruzione della frase ‘Questo su di lei è a noi da ogni parte stato riferito’. Un francese o un russo si sarebbe espresso in maniera diversa. Solo i tedeschi maltrattano così i loro verbi.”»

Come pure riesce a stabilire il sesso e il livello culturale dello scrivente: «lo stampatello [dell’indirizzo] indica chiaramente una scrittura maschile, di scarsa cultura» (CARD)9; «la scrittura non è quella di una persona colta» (TWIS); o la sua personalità: «è una scrittura che appartiene a una donna con un carattere fuori dal comune e un temperamento eccezionale» (NAVA). Nello stesso tempo, però, egli va ben oltre (REIG). Dall’esame di un 9

Ma si veda anche l’affermazione contraria: «i messaggi [laconici sul foglietto] erano a stampatello per non tradire una scrittura femminile» (REDC, 1).

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semplice frammento di manoscritto egli desume innanzitutto che si tratta della scrittura di due persone diverse legate da un rapporto gerarchico. «Non può esservi il minimo dubbio che è stato scritto alternatamente da due persone. Ve ne accorgerete immediatamente quando vi avrò fatto notare il tratto deciso della t di “at” e “to” e vi avrò chiesto di confrontarlo con quello incerto della t di “quarter” e “twelve”. Una breve analisi di queste quattro parole vi permetterà di affermare con la massima sicurezza che “learn” e “maybe” sono scritte con la grafia più decisa, mentre “what” con quella più incerta. [...] Evidentemente si trattava di una faccenda poco pulita e i due complici, diffidando reciprocamente l’uno dell’altro, erano decisi che, qualunque cosa accadesse, le loro responsabilità fossero uguali. Ora è chiaro che quello che ha scritto “at” e “to” era il capo. E questo lo deduco semplicemente confrontando il carattere di una scrittura con quello dell’altra. Ma ci sono altri motivi ancora più certi per supporlo. Se lei esamina con attenzione questo frammento, giungerà alla conclusione che l’individuo dalla scrittura decisa ha scritto per primo, lasciando per l’altro degli spazi vuoti. Questi spazi non erano sempre sufficienti e, come lei può notare, il secondo individuo ha dovuto restringere le sue lettere per far entrare “quarter” tra “at” e “to”, dandoci così la dimostrazione che queste due ultime parole erano già state scritte. Ora, chi ha scritto tutte le sue parole per primo non può essere che l’ideatore del piano criminoso.»

Quindi, determina l’età dei due autori dello scritto. «Forse non sapete che i periti calligrafi sono ormai in grado di dedurre con notevole approssimazione l’età di una persona dalla sua scrittura. In casi normali si può stabilire l’età entro il decennio. Ripeto, in casi normali, poiché la malattia e la debolezza fisica riproducono i segni della vecchiaia anche quando la persona è giovane. Nel caso in questione, osservando la scrittura decisa ed energica della prima e quella incerta e tremolante dell’altra, che rimane del tutto leggibile benché le t abbiano incominciato a perdere il loro taglio, possiamo affermare che la prima è di un giovane, mentre l’altra è di un anziano, per quanto non decrepito.»

E soprattutto, «punto ancora molto più sottile e maggiormente interessante», la loro consanguineità. «Queste due scritture hanno un elemento in comune. Appartengono a individui consanguinei [come si vedrà si tratta di padre e figlio]. Ciò appare chiaro soprattutto nelle y per quanto per me esistano molti altri piccoli indizi che mi rivelano la stessa cosa. Non avevo dubbi che in questi due campioni di scrittura vi fosse una certa aria di famiglia: io vi sto dando naturalmente soltanto i risultati principali della mia analisi di questo pezzetto di carta, poiché esso contiene altre 23 deduzioni che possono interessare soltanto gli esperti, mentre non hanno alcun significato per i profani.»

In un’altra occasione (NORW), poi, dall’alternarsi del carattere della scrittura desume le circostanze e quindi il luogo in cui viene steso un testamento: «Penso che questi fogli sono stati scritti in treno; la parte leggibile indica le soste nelle stazioni, quella meno chiara il treno in movimento e infine quella illeggibile i sobbalzi sugli

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scambi. Un perito calligrafo direbbe subito che questo testamento è stato compilato su una linea ferroviaria periferica, poiché soltanto nelle immediate vicinanze di una grande città vi sono tanti scambi. Ammettiamo che tutto il viaggio sia stato dedicato alla stesura del testamento e potremmo dedurne che si trattava di un diretto con una sola fermata tra Norwood e London Bridge.»

Da ricordare infine il breve ma notevole esame di alcune lettere scritte a macchina10 (IDEN), che secondo L. Deighton11 anticipa di anni la pubblicazione della prima indagine reale sull’argomento e che stranamente è sconosciuta a F. Lacassin12: Holmes non fornisce alcun esempio dell’esame di dattiloscritti. «È un fatto curioso – disse Holmes – che le macchine per scrivere diano alla scrittura altrettanta individualità della mano. Non vi sono due macchine per scrivere uguali, salvo quando sono nuove. Ci sono delle lettere che si consumano più di altre, e alcune che battono da un solo lato. Ebbene, signor Windibank, si dà il caso che in questa sua missiva le e sono alquanto indistinte e che nel gancetto della r c’è un leggero difetto. Vi sono altre 14 caratteristiche, ma queste due sono le più evidenti. [...] Sto pensando di scrivere, uno di questi giorni, una breve monografia sulla macchina per scrivere e la sua relazione con il crimine. È un argomento a cui ho dedicato una certa attenzione. Ho qui quattro lettere che, a quanto sembra, provengono dall’uomo che cerchiamo. Sono tutte scritte a macchina, e in tutte non solo si nota che le e sono indistinte e le r senza gancetto, ma, se uno si serve di una lente di ingrandimento, può anche scorgere le altre 14 caratteristiche che le ho detto.»

A commento di questo aspetto si riportano alcune precisazioni di Pacifico Cristofanelli, docente del Corso di Laurea in “Tecniche Grafologiche” dell’Università di Urbino e della LUMSA di Roma: – Nelle citazioni sono presenti due approcci alla scrittura: quello grafologico (dalle caratteristiche della scrittura alle caratteristiche della persona o della personalità) e quello più propriamente identificatorio (esame e confronto delle corrispondenze grafiche per stabilire l’eventuale provenienza da una stessa mano di due scritti); manca invece qualsiasi riferimento a quello criminologico, ossia la capacità di indurre dalla scrittura eventuali tendenze o disturbi che possano deviare in comportamenti criminosi. – L’individuazione del sesso e dell’età dalla scrittura non era (al tempo di Conan Doyle) e non è (oggi) automatica e assoluta. La grafia può offrire indizi, ma non prove assolute e si tratta di effettuare una valutazione critica e contestuale. 10 La macchina per scrivere, ovviamente manuale, la cui idea sarà sviluppata soprattutto nel corso della prima metà del secolo XIX, viene brevettata nelle sue caratteristiche “definitive” nel 1868 dall’americano Christopher Latham Sholes e quindi subito prodotta su scala industriale. 11 L. Deighton, Introduzione [1973] a A. Conan Doyle, La valle della paura, Mondadori, Milano 1989, p. VIII. 12 F. Lacassin, Op. cit., vol. II, pp. 99-100.

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– Le deduzioni e le argomentazioni circa lo stampatello non possono ritenersi assolute, come testimoniano gli opposti riferimenti alla scrittura maschile e a quella femminile. Non è determinante lo stampatello, quanto il tipo di stampatello e cioè le sue caratteristiche grafodinamiche. – Non possono essere assolutizzate poche somiglianze tra scritture (del resto la citazione parla di «altre 23 deduzioni che possono interessare soltanto gli esperti») per stabilire l’eventuale consanguineità anche se questa in effetti può lasciare delle tracce. – Appare evidentemente una trovata d’effetto l’individuazione del treno diretto tra Norwood e London Bridge dal tremore della grafia. È tuttavia fondamentale stabilire se una caratteristica dipende dalla mano (dalla personalità del soggetto scrivente), dal supporto, dalla situazione o dallo strumento scrittorio. – Pienamente validi i criteri di confronto relativi ai caratteri delle macchine per scrivere. Bisogna tuttavia anche qui precisare che, per stabilire l’identità di macchina, non è sufficiente rilevare la concordanza dei contrassegni particolari, ma è necessaria l’assenza o comunque la spiegazione delle differenze. In realtà, Holmes, con le sue continue oscillazioni tra felici intuizioni teoriche (la criminalistica come arcipelago di molteplici conoscenze diverse e complementari) e gravi omissioni tecniche (mancanza di indagini dattiloscopiche e di perizie autoptiche, balistiche e chimiche) segna il lento e tormentato passaggio dalla fase empirica alla fase scientifica della lotta al delitto.

3.2. Da Hans Gross a Edmond Locard Intanto, nel 1893, il magistrato austriaco Hans Gross pubblica il primo manuale moderno di criminalistica sistematica, Handbuch für Untersuchungsrichter als System der Kriminalistik; in esso, oltre a indicare dettagliatamente tutte le indagini che devono esser compiute sul luogo del delitto e sui corpi del reato e a fornire un compendio delle diverse conoscenze acquisite, soprattutto si definisce l’investigazione criminale una scienza applicata che deve avvalersi dei procedimenti metodologici e dei contributi tecnici “sub specie iuris” forniti da diverse discipline: queste «discipline sorelle – si legge infatti nella prefazione alla IV edizione – sono così intimamente collegate fra loro, che lo sviluppo di una è connesso a quello di tutte le altre; e tutte si debbono riguardare come scienze ausiliarie, ma ugualmente

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indispensabili sia dal lato teorico che dal lato pratico»13. Comincia così ad affermarsi e consolidarsi l’idea di complementarità, che caratterizza l’indagine criminale come un lavoro collettivo riferito alle competenze di vari specialisti. E da parte sua il criminologo Alfredo Niceforo può infatti constatare che «oggi [1906], un nuovo ramo della criminologia moderna e positiva, vivificato di tutti i succhi delle scienze naturali, mediche e fisiche, ha preso grandioso sviluppo: la “polizia scientifica”, che potrebbe definirsi come l’applicazione delle cognizioni scientifiche alle ricerche di procedura criminale, destinate a stabilire l’identità di un soggetto e a determinare la parte di un individuo o di un oggetto in un fatto criminoso. In altri termini, la figura del ricercatore e dell’investigatore giudiziario non è più, o non dovrebbe esser più, una figura di empirico che si serve semplicemente della logica, dell’analisi, dell’osservazione, dell’astuzia, del proprio spirito, onde dipanare un’imbrogliata matassa criminale, no: essa diviene una vera e propria figura scientifica: il “detective” empirico si trasforma 14 nel “detective” scientifico.» Infine, attorno al 1910, il francese Edmond Locard formula il principio che sta alla base della scienza forense, conosciuto appunto come “principio di interscambio di Locard”: “ogni contatto lascia tracce”. Ossia, «un criminale lascia sempre qualcosa sul luogo del delitto [e sulla vittima] e, viceversa, si porta dietro qualcosa. Così, per esempio, un assassino può lasciare un corpo e portarsi via una macchia del sangue della vittima; un violentatore può involontariamente trasportare sugli abiti un pelo pubico, mentre si lascia dietro tracce di sperma; oppure un automobilista che abbia investito un passante può perdere una scaglia di vernice dalla carrozzeria e trasportare campioni di ghiaia sul battistrada dei pneumatici. Macchie, impronte digitali, armi e proiettili, frammenti di tessuti o di fibre sono tutto grano per la macina della scienza forense.»15

3.3. R. Austin Freeman e John Thorndyke Da parte sua, il medico inglese Richard Austin Freeman (1862-1943) si rifà 13 H. Gross, Guida pratica per l’istruzione dei processi criminali, Bocca, Torino 1906, pp. VVI. 14 A. Niceforo, Il “detective scientifico” nella letteratura romanzesca (1906), in G. Petronio (a cura di), Il punto su: il romanzo poliziesco, Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 146-150; tra i suoi numerosi altri scritti sullo stesso argomento cfr. per es. la voce Detective, in Dizionario di Criminologia, Vallardi, Milano 1943, pp. 246-248. 15 F. Smyth, Op. cit., p. 20.

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al già ricordato medico legale e tossicologo Alfred Swayne Taylor per il suo personaggio John Thorndyke, un avvocato laureato anche in medicina (protagonista di 21 romanzi e 40 racconti pubblicati tra il 1907 e il 1942). Gli intrecci che lo vedono protagonista sono «veri e propri ragionamenti logici sviluppati in forma di romanzi»; e si articolano nelle seguenti fasi: 1) descrizione, minuta e dettagliata, del problema (delitto); 2) presentazione dei dati o elementi essenziali (indizi), necessari per arrivare alla soluzione; 3) sviluppo dell’indagine ed esposizione della conclusione (scoperta) da parte del detective; 4) dimostrazione, mediante l’analisi e l’esposizione delle prove, che la conclusione discende naturalmente e ragionevolmente dalla concatenazione logica dei fatti conosciuti (giustificazione) ed è l’unica spiegazione possibile16. Inoltre, Thorndyke si avvale effettivamente di conoscenze estremamente tecniche e specializzate, non disdegnando di compiere esperimenti (che in realtà ripetono quelli compiuti in precedenza dall’autore nell’attrezzato laboratorio di casa sua, e quindi descritti così puntigliosamente da essere in seguito presi a esempio e imitati – caso unico al mondo – dalla stessa polizia). «Il materiale di Thorndyke – come ha precisato lo stesso Freeman17 – è reale, autentico ed è riconosciuto come tale da avvocati e scienziati che ne sono i lettori più assidui.» Eloquente in proposito la breve citazione (tratta da Testimone muto [1914], cap. 21), dove Thorndyke fa uso delle sue vaste conoscenze per riuscire ad identificare alcuni resti scheletrici: «“Vediamo ora quali sono i dati che suffragano la mia ipotesi. È noto che Reinhardt è stato ferito all’anca destra da un proiettile di moschetto il quale non fu mai estratto. Ora io trovo tra questi resti una parte considerevole dell’anca destra. L’osso in questione reca segni che dimostrano chiaramente come sia stato perforato; vi si riscontra infatti una cavità nella quale un corpo estraneo delle dimensioni del proiettile in parola si era conficcato. La composizione chimica del corpo estraneo è chiaramente indicata da una macchia che circonda la cavità, dovuta palesemente all’ossido di piombo. Il corpo estraneo, dunque, era composto di piombo che si è fuso e disperso nel corso della cremazione; però una piccola parte è rimasta nella cavità, si è ossidata e l’ossido ha prodotto la macchia di cui ho già parlato. Infine, con l’analisi qualitativa e quantitativa abbiamo constatato in modo decisivo che il corpo estraneo era veramente composto di piombo e che il suo peso arrivava, con uno scarto trascurabile, a trecentottantasei grani… cioè al peso del proiettile del moschetto. Io affermo che le prove rilevate soltanto sulle ceneri sono abbastanza conclusive.”»

Dattiloscopia. Il vero padre fondatore della catalogazione scientifica delle 16 R.A. Freeman, L’arte del romanzo poliziesco [1924], in R. Cremante – L. Rambelli (a cura di), La trama del delitto. Teoria e analisi del racconto poliziesco, Pratiche, Parma 1980, pp. 220-222. 17 Cit. da G.F. Orsi, in R.A. Freeman, L’impronta scarlatta [1907], “I Classici del Giallo”, 193, 1974, p. IX.

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impronte digitali è sicuramente Edward R. Henry (Classification and Uses of Finger-Prints, 1900); essa però riguarda l’insieme di tutte le dieci dita (base decadattilare), ma poiché nella pratica quotidiana si tratta per lo più di rilevare e classificare singole impronte, nasce quindi l’esigenza di costituire anche degli schedari su base monodattilare formati da codici che identifichino le singole impronte: tale sistema è stato sviluppato alla fine degli anni ‘20 dal soprintendente di Scotland Yard Harry Batley, responsabile dell’ufficio dattiloscopico. «Lavorando soprattutto durante le ore libere, Batley dedicò tre anni a ideare un sistema per classificare le impronte digitali singole, in modo da poterle esibire facilmente a scopo di confronto con le impronte singole trovate sul luogo del delitto. L’ispettore Fred Cherrill, suo assistente, collaborò molto utilmente a questo importante sistema di classificazione, che risultò uno dei più segnalati perfezionamenti di tutti i singoli sistemi di dattiloscopia esistenti e fu reso di pubblica ragione nel 1930 [Single finger print: a new and pratical method of classifying and filing single finger prints and frequentary impression].»18 Il sistema comprende dieci schede numerate, ciascuna riferita a un singolo dito quale risulta negli archivi decadattilari. Come si vede dalla citazione seguente (tratta da Il diabolico terzetto [1932], cap. 9), Thorndyke, che ha già affrontato il problema della falsificazione delle impronte digitali nel romanzo d’esordio L’impronta scarlatta [1907], è a conoscenza di questo sistema appena pubblicato. «“Direi che [la classificazione delle impronte digitali] non ci riguarda affatto. Ma l’identificazione ci interessa, e il metodo di Battley offre un vantaggio in materia. All’infuori della classificazione propriamente detta, che in fondo è solo un insieme di schedari differente dagli altri, offre un mezzo sicuro e rapido di identificazione e permette persino di trascrivere in formula le diverse caratteristiche di un’impronta. È un vantaggio enorme. Parecchie volte abbiamo già avuto occasione di confrontare la fotografia o un’impronta stampata con l’originale, ma non è sempre possibile portare con sé la documentazione. Qualora si riesca ad esprimere con una formula i differenti caratteri di un’impronta, basta trascriverla sul proprio taccuino per averla a disposizione in qualunque momento.” “Mi pare un mezzo di identificazione un po’ aleatorio”, obiettai. “Meno di quanto non possiate credere. Sarete certamente sorpreso quando constaterete l’efficacia delle formule. Del resto questo non è il solo vantaggio che questo metodo offra. Quello principale è di dare la possibilità di trovare quasi istantaneamente, fra migliaia di impronte, quella che si cerca.

18 N. Morland, La criminologia scientifica [1950], Casini, Roma 1953, p. 11. L’anno seguente, Battley e Cherrill stabiliscono che le impronte palmari sono altrettanto utili di quelle digitali e cominciano così a inserirle nella loro collezione, ma le includono assieme alle impronte digitali, così, a meno che qualcuno non lasci sia un’impronta digitale che palmare, sono praticamente inutili.

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L’apparecchio che serve per la classificazione è nella mia valigetta che ho lasciato nel corridoio. Abbiamo qui il ‘printografo’ che ci fornirà tutti gli elementi necessari al nostro lavoro. Perché non fare una piccola dimostrazione? Sarà divertente, credo.” “Mi piacerebbe provare”, disse Juliet. Thorndyke, tutto contento, andò a cercare la valigetta. “Bisogna che vi spieghi innanzitutto il principio fondamentale del metodo”, disse quando tornò. “Come tutti i metodi realmente pratici, è semplice e ingegnoso. Ecco l’apparecchio. Non ci occorrerà altro.” Mentre parlava trasse dalla valigia una grossa lente montata su un treppiede, sul fondo del quale, a mezzo di un anello di rame, era fissato uno specchio. “Questo specchio rotondo” disse “è la parte essenziale dello strumento. Se guardate attraverso la lente vedrete che lo specchio porta al centro un punto rosso circondato da sette cerchi concentrici. Il primo è a tre millimetri dal punto. Gli altri sono spaziati rispettivamente di due millimetri. Indicheremo il punto centrale con la lettera A. Gli altri spazi determinati dagli altri cerchi saranno indicati successivamente B, C, D, E, F, G. La parte esterna all’ultimo cerchio si chiamerà H. Le lettere non sono scritte sullo specchio, ma figurano su questo diagramma.” Ci mostrò un cartoncino sul quale c’erano i sette cerchi con le relative lettere. Poi prese il printografo e si mise a sfogliarlo rapidamente. “Se scegliessimo l’impronta del nostro caro Walter come oggetto dell’esperimento?”, domandò. “È la migliore della collezione ed ha il vantaggio di essere di un genere molto particolare. È stranamente incurvata e si compone di due anelli incrociati a convessità divergenti. Poi altre curve concentriche si riuniscono in altri due anelli più piccoli verso il centro dell’immagine. Attorno a questo nocciolo le spirali ne incontrano altre con un angolo abbastanza acuto da formare un delta. Troveremmo un’altra figura del genere dal lato opposto del pollice se potessimo avere una proiezione piana, il secondo delta sarebbe visibile su un’“impronta rotolata”, vale a dire su un’immagine ottenuta girando il pollice intinto d’inchiostro su un foglio di carta. Ma su questa impronta ottenuta col semplice contatto è visibile soltanto il delta di destra. Ed ora utilizziamo il nostro strumento. Bisogna metter l’impronta sotto il vetro in modo che il punto centrale sia al livello dell’anello superiore. Ora guardate com’è semplice. Una volta messa a posto l’impronta, tutte le linee si trovano automaticamente dove devono essere ed è facilissimo determinare la distanza tra loro con la semplice lettura delle lettere.” Trasse di tasca il taccuino. “Ecco, Juliet” continuò,“guardate con la lente e ditemi la lettera che indica la posizione del delta.” Juliet esitò un attimo. “Si direbbe tagliato dalla terza linea in modo da trovarsi a metà tra C e D. Quale si deve scegliere?” “Di regola se una caratteristica è tagliata da una delle linee la si considera come situata nello spazio esterno a questa linea.” “Il delta è dunque nello spazio D.” “Perfettamente. Scrivo dunque D. Ci resta da studiare il tracciato e il numero delle spirali. Bisogna anzitutto seguire la linea che va dal delta di sinistra a quello di destra e che può evidentemente prendere tre posizioni. Passerà sotto il delta di destra, o sopra, oppure andrà ad incontrare la curvatura corrispondente che nasce da quello. Abbiamo dunque tre categorie: esterna, interna, o convergente che indicheremo con le iniziali E, E e C.»

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Perizia grafica e documentale. Accanto a numerose “deduzioni” ad effetto à la Sherlock Holmes, ci sono anche considerazioni di tutto rilievo, come quelle che riguardano gli idiotismi grafici (le due citazioni seguenti sono tratte rispettivamente da Thorndyke mi sbalordisce [1912], cap. 11, e L’ombra del lupo [1925], cap. 9). «“Ho notato un certo grado di diversità, direi quasi, delle differenze notevoli. Ma, dietro queste differenze, si può riconoscere la scrittura, che è quello che conta maggiormente, e all’occhio esperto non possono sfuggire quegli indefinibili caratteri personali che permettono di identificarla con la scrittura di Jeffrey Blackmore. Credo che mi comprendiate. C’è qualcosa che rimane, anche quando cambiamo le caratteristiche esterne della scrittura; proprio come quando un individuo invecchia, ingrassa, diventa calvo o si dà al bere.”» «Thorndyke trasferì la sua attenzione dai timbri alla scrittura. Era stato colpito dalla esatta rassomiglianza del nome Penfield scritto sulla busta con lo stesso nome scritto nella lettera. Ognuno dei due nomi era un perfetto facsimile dell’altro. Mettendoli insieme, non vedeva alcun punto di differenza o variazione tra i due. Con un calibro di precisione misurò le due parole, la loro lunghezza totale, l’altezza di ciascuna lettera, la distanza tra i diversi punti. Ora, nello scrivere normalmente non succede mai che ci sia quella perfetta uguaglianza. Era quindi un falso, un falso ottenuto per mezzo di un attento ricalco dall’originale. Thorndyke non ebbe alcun dubbio.»

Tossicologia. I brani che seguono (tratti rispettivamente da L’affare D’Arblay [1926], cap. 3, Il diabolico terzetto [1932], cap. 6, e Il Mistero di Jacob Street [1942], cap. 8) mostrano il sempre presente interesse di Freeman per questa disciplina. «Si passava ora all’interrogatorio del medico che aveva fatto l’autopsia. Era un uomo ancora giovane e parlava pacato ma sicuro, con voce chiara e simpatica. […] Esauriti i preliminari necessari, il coroner incominciò ad interrogarlo. “Lei ha esaminato il cadavere?” “Sì. È quello di un uomo sulla sessantina, di corporatura ben proporzionata e di solida muscolatura; sanissimo, ad eccezione di un vizio cardiaco derivante da insufficienza mitralica.” “Questo vizio è sufficiente a giustificarne la morte?” “No. Il cuore era ancora in discrete condizioni; non v’era scompenso grave, poiché il muscolo cardiaco si era ipertrofizzato in modo da supplire all’insufficienza valvolare. In quelle condizioni, il signor D’Arblay avrebbe potuto vivere altri vent’anni.” “Ha potuto accertare la vera causa della morte?” “Sì. La morte è avvenuta per avvelenamento da nicotina.” A queste parole un mormorio di stupore corse fra i giurati […]. Gli spettatori dettero segni di viva attenzione […]. “E in quale modo è stato somministrato il veleno?” “Per mezzo di un’iniezione ipodermica.” “Ha potuto stabilire se l’iniezione sia stata fatta da lui stesso o da altri?” “È da escludere che il defunto abbia potuto farsela da sé. La puntura è stata praticata sotto la scapola sinistra, e ritengo assolutamente impossibile che uno riesca a farsi da sé un’iniezione in

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quel punto.” Qui il testimone levò di tasca una siringa, ne mostrò il funzionamento servendosi di un bicchiere d’acqua e comprovò facilmente la propria asserzione. Poi la passò ai giurati che l’esaminarono attentamente. “Secondo lei, a quale scopo il veleno è stato somministrato in tal modo?” “Non ho alcun dubbio nell’asserire che è stato somministrato con l’intenzione precisa di uccidere.” “L’iniezione non potrebbe essere stata fatta a scopo curativo?” “Lo escludo in modo assoluto. Si tratta di una dose sicuramente mortale. Nei tessuti attorno alla puntura è stato rinvenuto un dodicesimo di grano di aconitina, quantità per se stessa sufficiente a dare la morte. Ma una buona parte del veleno era stata assorbita e se ne sono trovate tracce anche nel fegato.” “Qual è la dose terapeutica dell’aconitina?” “Al massimo un quattrocentesimo di grano; e non c’è nemmeno da fidarsi molto. L’aconitina si usa raramente in medicina; è un farmaco troppo pericoloso e di scarsa utilità.” “Quale dose è stata iniettata, a parer suo?” “Almeno un decimo di grano; vale a dire circa quaranta volte la dose massima.” “E non vi può essere alcun dubbio riguardo alla natura e alla quantità del veleno?” “Nessuno.” “Dati i fatti riscontrati e il referto medico, potrebbe ricostruire le circostanze nelle quali il veleno fu somministrato?” “Da quanto ho potuto constatare, dedurrei che l’assassino abbia introdotto con violenza l’ago nel dorso della vittima, allo scopo di iniettargli il veleno nel petto. Ma l’ago, urtando contro una costola, ha deviato, lasciando scorrere il liquido sotto la pelle. Fatto il colpo, l’aggressore si è dato alla fuga – probabilmente verso lo stagno – e la vittima lo ha rincorso. Ma il veleno ha cominciato ben presto ad agire e il disgraziato dev’essere caduto. Forse è caduto da sé nello stagno, o forse vi è stato gettato. La presenza di una certa quantità d’acqua nei polmoni dimostra che vi è caduto ancora vivo; ma doveva essere privo di conoscenza e agonizzante, poiché non si è trovata acqua nello stomaco; il che dimostra che la deglutizione non avveniva più, per la cessazione del riflesso.” “Sicché lei è convinto che la morte sia avvenuta per effetto di un veleno iniettato da altri nel corpo della vittima a scopo omicida?” “Precisamente. Questa è la mia convinzione e sostengo che i fatti accertati non consentono una diversa interpretazione.”» «Vidi che Thorndyke aveva appoggiato il sigaro sulla tavola e lo tagliava accuratamente in due nel senso della lunghezza e, d’improvviso, ebbi il ricordo dei mio amico che parecchi anni prima eseguiva la stessa operazione. […] Esaminai attentamente i due pezzi del sigaro. Nell’interno dell’altro avevamo trovato una specie di residuo biancastro depostovi dall’alcaloide, aconitina mi pareva. In quello che stavamo esaminando, però, non vidi nulla di simile. “Non mi pare che il sigaro sia stato manipolato”, dissi. “Non v’è traccia di puntura, né di deposito cristallino.” “Per quanto riguarda la puntura sarebbe bastato il caldo per cancellarne il segno”, osservò Thorndyke. “Ma non sono del tutto sicuro dell’assenza di corpi estranei. Non si tratta certamente di un solido, ma il tabacco all’interno presenta un aspetto grasso, pastoso, direi, che non mi sembra naturale. Anche l’odore non è quello di un solito sigaro.” Presi uno dei due pezzi e l’annusai.

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“Non sento niente di anormale”, dissi. “È molto forte e piuttosto spiacevole all’odore. Ma si tratta semplicemente di un tabacco un po’ acre.” “È inutile torturarci il cervello. Facciamo la prova. La sostanza estranea potrebbe essere un liquido, cerchiamo di isolarlo.” Si volse a Polton che stava asciugando dei negativi. “Avete bisogno di una provetta e di un reattivo?”, domandò questi. “Mi occorre una boccetta a tappo smerigliato e un po’ di etere solforico”, rispose Thorndyke. Mentre Polton gli preparava l’occorrente, egli prese un foglio di carta sul quale depose una delle metà del sigaro che tagliò a pezzetti minutissimi. Io presi l’altra metà e mi misi a fare altrettanto. Quando il sigaro fu ridotto ad un mucchietto di foglie di tabacco, lo mettemmo nella boccetta che era stata precedentemente riempita a metà di etere solforico. “Occorrerà un certo tempo”, dissi con impazienza. “Bisogna lasciarlo macerare almeno due o tre ore.” “Non siamo obbligati a concludere l’esperimento questa sera”, osservò Thorndyke. “Se potessimo arrivare a stabilire che nel sigaro vi è una sostanza estranea saremmo già a buon punto. Per questo basta mezz’ora.” Mi parve che si mostrasse un po’ troppo ottimista. A meno che non avesse già scoperto la presenza del veleno e non ne avesse determinata la natura. Mi astenni dal parlare accontentandomi di agitare di tempo in tempo la bottiglia e di mescolare il tabacco con una bacchettina di vetro. Dopo mezz’ora Thorndyke travasò l’etere che aveva assunto un colore giallo scuro abbastanza spiacevole a vedersi e che colava lentamente in una vaschetta tenuta sospesa da Polton in un recipiente pieno d’acqua calda che serviva ad affrettare l’evaporazione. Andai ad aprire porte e finestre. Il livello del liquido scendeva a vista d’occhio nella vaschetta e, a mano a mano che il volume diminuiva, il colore diveniva sempre più scuro. Alla fine rimase solo un sottile strato nerastro che sarebbe bastato a riempire un cucchiaino da caffè. L’odore di etere scomparve. L’evaporazione era finita. Thorndyke alzò la vaschetta, ne annusò il contenuto, la fece dondolare leggermente per provare la fluidità del liquido, la cui leggera viscosità faceva pensare all’olio di vasellina. “Cosa ne pensate, Jervis?”, mi domandò passandomi la vaschetta. “L’odore e l’aspetto sono di nicotina. Il colore è un po’ strano, in ogni caso, poiché si tratta di un sigaro, credo che sia di nicotina a cui è stata aggiunta qualche sostanza colorante che produce quelle strisce più scure.” “Avete ragione. Ora faremo la prova. Dateci una paletta, Polton.” Dall’inesauribile armadio Polton trasse una specie di piccola tegola di porcellana bianca che depose sul tavolo da esperimento. Thorndyke frattanto immerse una pipetta nel liquido aspirandone una goccia che depose sulla paletta. “Non mi ricordo del procedimento”, dissi. “Ma mi sembra che la goccia abbia ora un colore verde caratteristico, invece delle striature che abbiamo visto poco fa. Ve l’aspettavate?” “Sì, il verde è il colore proprio della nicotina. La coniina avrebbe preso un colore rosa. Bisogna che tentiamo il metodo Roussin, è l’unico modo di farla finita con questa storia. Polton, dateci due provette e dello iodio.” Thorndyke prese una carta-filtro e la mise sulla paletta. La gocciolina fu subito assorbita e lasciò sulla porcellana una macchia oleosa, verdastra. “Questo sembra confermare che si tratta di nicotina, ma non è conclusivo come

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l’esperimento chimico.” Pensai ancora una volta che Thorndyke si faceva delle illusioni. Perché voleva a tutti i costi che il liquido non fosse nicotina? Tuttavia desideravo non perdere l’occasione di rinfrescarmi la memoria assistendo all’esperimento di Roussin che avevo dimenticato. Anche Polton guardava con aria straordinariamente interessata. Semplicissimo l’esperimento. Fattosi dare due provette, Thorndyke lasciò cadere in una di esse alcuni cristalli di iodio sui quali versò una piccola quantità di etere. Mentre lo iodio si scioglieva egli versò un’altra piccola quantità di etere nell’altra provetta, poi, con l’aiuto di una pipetta, aggiunse qualche goccia del liquido della vaschetta. Quando lo iodio fu sciolto vuotò la soluzione nella seconda provetta. Si formò immediatamente un precipitato rosso bruno che cominciò a depositarsi sul fondo. “Finora il risultato è positivo”, disse Thorndyke “ma bisogna aspettare ancora qualche minuto. Se il liquido è nicotina il precipitato deve cristallizzarsi. I cristalli devono essere lunghi e sottili come aghi e di colore caratteristico, rosso rubino alla luce diretta, blu scuro per rifrazione.” Appoggiò la provetta su un supporto e, sedutosi su un alto sgabello, cominciò a riempire la pipa. Frattanto Polton si era armato di una lente e dopo aver avvicinato una lampada esaminava attentamente la piccola massa sedimentosa. “Comincia a cristallizzare”, esordì dopo un certo tempo. “Fa dei cristalli blu molto sottili.” “Provate controluce”, disse Torndyke. Lentamente, con mille precauzioni per non impedire la formazione dei cristalli, Polton prese la provetta e la portò dal lato opposto della lampada. “Sono rossi ora”, annunciò “sembrano schegge di pietra granata.” “Allora si tratta di nicotina.” “D’accordo”, dissi. “L’esperimento è interessante e valeva la pena d’essere fatto, ma il risultato non mi sembra sensazionale. Mi sembra per lo meno logico che in un sigaro si trovi nicotina. È vero che questo ne conteneva più di quanto io credessi.” Thorndyke sorrise con indulgenza. “Il mio eminente amico ha lasciato che le sue nozioni di tossicologia si arrugginissero”, osservò. “La quantità non ha importanza. Non avremmo dovuto trovare nicotina.” Lo guardai attonito e stavo per protestare, ma egli continuò: “La nicotina che abbiamo isolato, grazie all’etere, era nicotina allo stato libero. E in un sigaro normale non ce ne doveva essere. Se questo sigaro fosse stato normale avremmo dovuto trovare nicotina libera soltanto dopo aver trattato il decotto di tabacco con alcali, o meglio con potassa caustica.” “Allora la nicotina è stata introdotta artificialmente”, esclamai. “È così. Benché questa sia parte costituente di un sigaro, in questo caso era la sostanza estranea che cercavamo. È stata certamente iniettata attraverso l’estremità aperta del sigaro per mezzo di una siringa ipodermica. Comunque c’era, e questo risponde agli interrogativi del sovrintendente Miller sul modo con cui Badger è stato buttato dal suo scompartimento sul binario.” “Principio di avvelenamento da nicotina?” “Non v’è dubbio possibile. Come sapete, ha fumato circa un quinto del sigaro. Questo poteva normalmente contenere fino all’otto per cento di nicotina solubile, di cui una parte assorbita dal fumo. Aggiungete a questo almeno un grammo e mezzo di nicotina libera. Se noi consideriamo che la dose mortale di nicotina non è superiore a due o tre gocce e che l’estremità

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consumata del sigaro ne conteneva certamente di più, possiamo senz’altro affermare che Badger è stato ridotto all’impotenza.”» «“Bene”, disse il coroner. “[…] Veniamo ora alla questione della causa della morte. Siete riuscito ad accertarla, dottor Oldfield? “Sì, la morte è stata causata da avvelenamento da cianuro di potassio. La dose ingerita è stata assai elevata, sessanta grani abbondanti e la morte probabilmente è sopravvenuta istantanea, o comunque entro un paio di minuti.” “Il cianuro di potassio è un veleno molto potente?” “Sì, molto. Contiene acido prussico in forma concentrata e agisce allo stesso modo e con la stessa violenza e rapidità.” “Qual è la dose letale?” “Di solito vengono somministrati meno di cinque grani, probabilmente bastano anche due grani e mezzo, però, come per la maggior parte dei veleni, gli effetti variano da individuo ad individuo. Comunque, una dose di sessanta grani è esagerata.” “Avete eseguito voi stesso le analisi?” “Sì, assieme al professor Woodfield. Quando ho eseguito l’autopsia ho rimosso gli organi e li ho mandati, in contenitori sigillati e marcati, al laboratorio del St. Margaret’s Hospital, dove il professore e io abbiamo compiuto assieme l’analisi.” “Il veleno proveniva, suppongo, dalle capsule di cui abbiamo sentito parlare.” “Così sembrerebbe, e le analisi dimostrano che le capsule contenevano davvero cianuro di potassio. Però durante l’esame è emerso qualcosa di strano: la quantità di veleno ingerita era pari ad almeno sessanta grani; ciascuna capsula, secondo l’etichetta sulla bottiglia, conteneva cinque grani, cosa che abbiamo verificato con l’analisi. La quantità ingerita equivaleva perciò a dodici capsule; ma non risultavano mancanti dodici capsule dalla bottiglia. Secondo l’etichetta la bottiglia piena conteneva cinquanta capsule da cinque grani l’una, così se ne erano state consumate dodici dovevano esserne rimaste trentotto. Invece ce n’erano quarantatré, cinque in più del dovuto.” “Questo però non mi sembra un fatto decisivo”, obiettò il giudice. “Potrebbe esserci stato un errore nel riempire la bottiglia. Non credete?” “No, signore”, replicò deciso Oldfield. “Abbiamo escluso questa possibilità. […] Un’altra sola capsula impediva di tappare la bottiglia.” Il coroner sembrò molto colpito. “È una cosa davvero straordinaria”, disse “e sono fatti indubitati. Le viene in mente qualche spiegazione?” “L’unica spiegazione plausibile è che il veleno ingerito non proveniva affatto dalle capsule. Per lo meno di sicuro una parte di esso, e se una parte proveniva da un’altra fonte è molto probabile che anche il resto avesse la stessa origine. Dai fatti deduco che è stata una soluzione del cianuro preparata in precedenza a essere ingerita dalla vittima. Però questa è solo una mia opinione.” “Infatti. Però se il vostro ragionamento è corretto perché allora le capsule erano lì?” “Questa” rispose Oldfield “non è una questione strettamente medica.” “No”, assentì il coroner sorridendo “ma non dobbiamo essere troppo pedanti. Voi avete considerato l’intera questione e gradiremmo sentire la vostra conclusione.” “Allora vi dico che a mio avviso le capsule sono state messe lì di proposito per suffragare l’ipotesi del suicidio.” Evidentemente il coroner giudicò questa conclusione piuttosto debole, perché non approfondì l’argomento ma tornò alle analisi. “I vostri esami clinici hanno evidenziato dell’altro?”

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“Sì, un altro fatto assai significativo. Su mia proposta il professor Woodfield ha sottoposto il materiale all’esame della morfina, con la mia assistenza. Il risultato è che abbiamo trovato tracce inconfondibili della droga, benché le condizioni del corpo non permettessero di stimare in modo attendibile la quantità. Però la morfina era certamente presente, e in dose considerevole, come è stato dimostrato dalla reazione positiva. Una quantità molto piccola non sarebbe stata rintracciata.” “Potete darci un’idea della quantità presa?” “Ci siamo trovati d’accordo sul fatto che la dose fosse massiccia ma non eccessiva, non più di un terzo di grano, o al massimo mezzo grano.” “Ma mezzo grano non è una dose notevole?” “È una dose notevole se iniettata in modo ipodermico, ma non è poi così eccessiva se ingerita. Infine, di solito non si somministra più di un quarto di grano.” “Avete appena detto che il test della morfina è stato eseguito dietro vostro suggerimento. Cosa vi ha fatto sospettare la presenza della morfina?” “Era soltanto un sospetto. L’avevo ipotizzato e mi è sembrato che valesse la pena verificarlo.” “Come mai questa ipotesi?” “L’idea mi è venuta considerando l’eccezionalità di questo caso. Tutto lascia supporre un suicidio. Eppure è impossibile escludere l’alternativa di un omicidio mediante una somministrazione forzata di veleno. D’altra parte è difficilissimo costringere una persona a ingerire anche solo del liquido contro la sua volontà, e il tentativo comporterebbe di certo il ricorso alla violenza con conseguenti segni sul corpo. Però se alla vittima viene somministrata in precedenza della morfina, diventa così intorpidita e passiva che farle ingerire il veleno diventa uno scherzo. Perciò ho cercato accuratamente contusioni o altri segni di violenza senza trovarne alcuno, il che sembrava escludere l’ipotesi dell’omicidio, ma solo a condizione che non fosse stato preso alcun narcotico. È stato allora che ho deciso di ricorrere al test relativo al narcotico più probabile e più adatto, la morfina.” “E avendola trovata cosa ne deducete? Sembrate suggerire che la sua presenza possa implicare un omicidio per avvelenamento.” “Non la metterei in questi termini; ma se dovessero esserci altri indizi che facessero pensare ad un omicidio, la presenza della morfina avvalorerebbe in modo consistente questa ipotesi.” Ciò concluse la testimonianza del dottore […].»

3.4. Arthur B. Reeve e Craig Kennedy Oltreoceano, i primi sviluppi delle scienze forensi trovano un immediato riscontro con Arthur Benjamin Reeve (1880-1936); dopo esser entrato nel giornalismo come vice redattore del periodico “Public Opinion” (1906) e aver scritto degli articoli sulle recenti scoperte scientifiche e invenzioni tecniche, come membro del gruppo di redazione di “The Survey” (1907) si imbatte in una serie di articoli sull’indagine scientifica del crimine: stimolato da questa scoperta, e verosimilmente ispirandosi al dottor Otto H. Schulz, a suo tempo consulente medico del procuratore distrettuale di New York, scrive il racconto The Case of Helen Bond, con protagonista Craig Kennedy, professore di chimica

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alla Columbia University di New York e “scientific detective”. Dopo numerosi rifiuti, esso viene pubblicato da “Cosmopolitan” nel dicembre 1910, incontrando subito il favore dei lettori; seguono, tra il 1911 e il 1936, circa 160 racconti e una dozzina di romanzi19. Soprattutto quelli iniziali, ossia quelli veramente scientifici e che a suo tempo hanno goduto di un’enorme popolarità, contribuendo in maniera determinante alla nascita della maggior parte dei laboratori di investigazione scientifica della polizia, costituiscono una testimonianza di notevole interesse storico. Sulla scia delle indagini criminali quali si vanno caratterizzando negli Stati Uniti, Kennedy, anticipando gli esiti della recente narrativa di genere, non disdegna talvolta di far ricorso al ragionamento (Craig Kennedy on the Farm e Fourteen Points, entrambi del 1925), anche se in genere risolve i vari casi soprattutto applicando conoscenze scientifiche e usando strumentazioni tecniche; così, mentre Holmes rappresenta il momento e l’aspetto empirico e disorganico dell’indagine criminale e Thorndyke quello scientifico e sistematico, da parte sua Kennedy ne rappresenta quello più propriamente strumentale e tecnologico. «L’ottimismo di Kennedy sulla validità dei diversi congegni, sempre giustificato nell’economia delle storie di Reeve, costituisce il tratto caratteristico della serie. Allorché Kennedy traccia una sequenza apparentemente sterminata di innovazioni tecnologiche, il lettore ha l’impressione che ognuna di queste funzioni sempre. Non ci sono insuccessi né effetti collaterali indesiderati nelle storie di Kennedy. Questa impressione positiva è distinta, ma complementare rispetto all’impressione che numerose simili innovazioni abbiano dirette applicazioni morali nella scoperta del crimine e nel mantenimento dell’ordine. La tecnologia funziona; e questo è un bene.»20 Tossicologia e medicina in genere: dei diversi accenni fatti da Kennedy si ricordano quelli relativi all’avvelenamento da morfina (The Seismograph Adventure, 1911), acido cianidrico (The Diamond Maker, 1911) e ricino (The Black Hand, 1911); morte per tifo (The Bacteriological Detective, 1911); 19 Nell’articolo In Defense of the Detective Story (“The Independent”, del 10 luglio 1913), Reeve, anticipando di quasi un secolo la polemica scaturita con le fortunate serie televisive “CSI” [cfr. § 6.7.] sull’opportunità di divulgare le procedure delle scienze forensi, precisa tra l’altro: «Il recente sviluppo della scienza, ben lungi dall’essere pericoloso, rappresenta un decisivo progresso sia per la detective story sia per l’investigazione reale. Sempre più le sue scoperte, romantiche e sensazionali in sé, sono state applicate dalle forze della legge e dell’ordine nella caccia ai criminali. […] Alla fine esse renderanno gli investigatori sempre più efficienti e tenderanno a scoraggiare i criminali con il semplice peso dei fatti inconfutabili. […] La diffusione di tale conoscenza non può allarmare – fin quando la stessa conoscenza non sia pericolosa in sé. […] Non è certo il criminale che può trarne profitto.» 20 J.K. Van Dover, The Case of Craig Kennedy. Science in Pursuit of Crime, “Clues”, 12, 2, 1991, pp. 127-128.

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intossicazione da mascal (The Artificial Paradise, 1911); effetti nocivi delle radiazioni (The Deadly Tube, 1911); esame del sangue (Spontaneous Combustion, 1911). Dattiloscopia: comincia a venir usata negli Stati Uniti agli inizi del XX secolo. Queste le principali tappe che portano alla sua affermazione definitiva: il caso di omonimia di due detenuti negri nel carcere di Leavenworth, Kansas, con le misure antropometriche pressoché uguali, viene risolto grazie alle loro impronte digitali (1903); a sua volta, a New York il sergente investigativo Joseph A. Faurot, sempre grazie alla dattiloscopia, compie la prima identificazione dell’autore di un furto (1906), risolve un caso di omicidio (1908) e quindi, come unico testimone dell’accusa, riesce a far condannare uno scassinatore, convincendo il giudice del valore delle impronte digitali come prova (1911); infine, sempre nello stesso periodo, a Chicago un’impronta digitale viene usata in tribunale come unica prova a carico in un caso di omicidio di grande risonanza (“caso Jennings” del 1911) e soprattutto la Corte Suprema dell’Illinois riconosce per la prima volta la legittimità del ricorso alla dattiloscopia in tutte le corti degli Stati Uniti. Da parte sua, Kennedy dimostra di sapersi avvalere con perizia di questo nuovo procedimento (The Bacteriological Detective, 1911, da cui è presa la citazione seguente). «Aveva notato su queste [bottiglie], alla fioca luce dei lampioni della stazione, quelli che sembravano segni di impronte e lo avevano interessato; aveva infatti deciso di approfondire le analisi sulle bottiglie. “Voglio rilevare queste debolissime impronte”, disse Craig continuando il suo esame alla luce più forte della camera. “Esiste della polvere conosciuta come ‘polvere grigia’: mercurio e gesso. La spargo su questi deboli segni, così, e poi la tolgo con una spazzola di peli di cammello. Evidenzia le impronte molto più chiaramente, come puoi vedere. Per esempio, se si mette il pollice asciutto su un foglio bianco, non si lascia alcuna impronta visibile. Se però si sparge in quel luogo della polvere grigia, che poi si spazzola via, si nota un’impronta distinta. Se l’impronta delle dita viene lasciata su qualcosa di morbido, come la cera, è meglio usare inchiostro da stampa per rilevare le righe e i disegni delle impronte. E così con altri materiali. È proprio nata una scienza intorno alle impronte digitali.”» Dopo aver fotografato le impronte e sviluppato una dozzina di negativi, «Kennedy si procurò uno di quei tamponi che si usano per i timbri di gomma [e] cominciò a prendere le impronte di tutte le dita di ogni servitore. Fu un lavoro lungo e difficile confrontare le impronte che avevamo preso con quelle delle fotografie, anche se tutti gli scrittori parlano della facilità con cui si scoprono i criminali usando questo sistema ideato dal famoso Galton. […] Rimasi stupito dalla sua abilità: era qualcosa di più di una conoscenza appresa dai libri.»

Balistica: sebbene nata in Europa (A. Lacassagne, 1889; P. Jesrich, 1898), dove fino alla metà del secolo XX è di pertinenza dei medici legali per la stretta connessione tra proiettili e ferite, si caratterizza nel complesso come una

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disciplina tipicamente americana in mano ad armaioli più o meno competenti; nel 1900 Albert Llewellyn Hall di Fulton, New York, pubblica la fondamentale monografia The Missile and the Weapon, che è all’origine di molti sviluppi di questa disciplina ma il cui valore pratico viene riconosciuto solo a partire dal “caso Stielow” (1915). Quanto a Kennedy, un esame microscopico del proiettile estratto dal corpo della vittima gli consente di rivelare l’impronta lasciata dalla fabbrica (The Silent Bullet, 1911), mentre da un bossolo trovato sulla scena del delitto egli riesce ad identificare la pistola usata osservando l’impronta lasciata dal percussore (“The Dope Trust”, in The Dream Doctor, 1914). In realtà, l’identificazione dei proiettili e bossoli e della relativa arma è solo uno dei problemi di questa disciplina; altri riguardano la distanza e la direzione dello sparo e la traiettoria del proiettile all’interno del corpo, nonché le caratteristiche dell’arma, come le sue condizioni di efficienza e il tempo trascorso dall’ultima volta che è stata usata. Perizia grafica e documentale: i suoi primi sviluppi negli Stati Uniti sono strettamente legati ai nomi dei già ricordati Persifor Frazer e Albert Sherman Osborn. Da parte sua, Kennedy è in grado di riconoscere se l’autore del manoscritto è un uomo o una donna (The Firebug, 1912) e se questi soffre di qualche malattia (The Bacteriological Detective, l911, da cui è presa la citazione seguente; The Sybarite, 1913); nonché di determinare, mediante esame microscopico, se un campione di scrittura è stato ricalcato, copiato o cancellato (Forger, 1911). «Craig premette l’interruttore d’avanzamento di un piccolo proiettore e sullo schermo apparve una lettera. “Certifico che Bridget Fallon ha lavorato presso la mia famiglia a Shelter Island nella stagione passata e che la ritengo una cameriera onesta e una cuoca eccellente. A. St. John CaswellJones.” Il proiettore partì di nuovo. Questa volta sullo schermo apparve l’ultima pagina del testamento del signor Bisbee, con la firma sua e dei testimoni. “Vi mostrerò ora due campioni di scrittura, molto ingranditi”, disse Craig mentre le diapositive venivano cambiate di nuovo. “Autore di molti trattati scientifici, il dottor Lindsay Johnson di Londra ha recentemente elaborato una nuova teoria per riconoscere le particolarità di una scrittura. Egli sostiene che durante alcune malattie i battiti del polso sono particolari e che nessuno che soffre di quelle malattie è in grado di tenere sotto controllo, nemmeno per pochissimo tempo, la frequenza o le peculiari irregolarità del suo ritmo cardiaco, come si evince da una carta in cui viene registrato il suo battito. Tale carta si ottiene per scopi medici per mezzo di uno sfigmografo, uno strumento che si adatta all’avambraccio del paziente e che è fornito di un ago sistemato in modo da registrare automaticamente su una carta preparata la peculiare forza e frequenza delle pulsazioni. Il battito può anche essere seguito dall’alzarsi o abbassarsi del livello di un liquido in un tubo. Il dottor Johnson ritiene che la penna nella mano di colui che scrive serve, anche se in grado diverso, allo

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stesso scopo dell’ago dello sfigmometro e che nella scrittura di detta persona si possono notare, proiettando le lettere ingrandite al massimo su uno schermo, le curve e i tremolii a mala pena percettibili provocati nei tratti dall’azione spontanea del battito particolare dello scrivente. A dimostrazione di questo, il dottore ha eseguito un esperimento al Charing Cross Hospital. Su sua richiesta un gruppo di pazienti che soffrivano di malattie cardiache o renali ha scritto a mano il paternostro. I risultati sono stati esaminati al microscopio. Proiettandoli, dopo averli ingranditi, su uno schermo, gli spasmi o le peculiari pulsazioni del paziente erano chiaramente visibili. La scrittura di una persona sana, dice il dottor Johnson, non sempre evidenzia i battiti. Ciò che si può dire, comunque, è che, quando un documento scritto da una certa persona mostra tracce di pulsazioni e la sua scrittura usuale ne è priva, allora quel documento è chiaramente un’imitazione. Ora, questi due esempi di scrittura che abbiamo ingrandito dimostrano che i loro autori soffrivano di particolari malattie cardiache. Inoltre, sono pronto a dimostrare che le pulsazioni evidenziate nel caso di certi scatti di penna in uno di questi documenti si trovano anche nell’altro. E ancora di più, ho ricevuto le più ampie assicurazioni dal suo medico di famiglia, il cui affidavit ho qui con me, che il signor Bisbee non aveva alcuna malattia di cuore. Il signor Caswell-Jones, oltre a dirmi per telefono che si era rifiutato di dare a Bridget Fallon le referenze, afferma anche di non soffrire di alcuna malattia cardiaca. Dai tremolii e dalle incertezze di questi due documenti, che ingranditi si notano meglio, concludo che entrambi sono contraffazioni e sono pronto addirittura a sostenere che sono stati contraffatti dalla stessa mano [di una persona che soffre di un aneurisma cardiaco].”»

Come pure riesce a distinguere i diversi tipi di carta (The Silent Bullet, 1911, da cui è presa la prima citazione; The Gold of the Gods, 1915) e di inchiostro (The Seismograph Adventure, 1911, da cui è presa la seconda citazione; The Forger, 1912); e a decifrare la scrittura su pezzi di carta bruciati mediante l’uso di lastre fotografiche e filtri colorati (Firebug, 1912), metodo attualmente usato nel recupero di banconote bruciate. «“Il signor Parker, nel momento in cui venne colpito, stava leggendo, o forse rileggendo, una lettera. Io non sono stato in grado di avere quella lettera, almeno non in una condizione che mi fosse utile per scoprire il suo contenuto. Ma in un cestino di rifiuti ho trovato della carta appallottolata tutta bagnata. Era stata fatta a pezzi e forse masticata […]. L’inchiostro se ne era andato e naturalmente il foglio era illeggibile. La cosa era così insolita che immediatamente ne dedussi che era ciò che rimaneva della lettera in questione. […] Ad un esame al microscopio ho scoperto che si trattava di una carta di lino molto rara e ho fatto moltissime microfotografie delle sue fibre, trovandole tutte uguali. Ho qui anche cento microfotografie delle fibre di altri generi di carta, molti dei quali di carta per scrivere. Le ho raccolte di tanto in tanto durante i miei studi su questo argomento. Nessuna di loro, come potete vedere, mostra delle fibre che assomigliano a questa e così possiamo concludere che si tratta di una qualità rarissima. Con l’aiuto di un agente della polizia mi sono procurato dei campioni della carta da lettere di tutti quelli che, secondo la mia opinione, sono coinvolti in questo caso. Qui ci sono le fotografie delle fibre di queste carte da lettera e tra loro ce n’è una che corrisponde proprio alle fibre della carta bagnata che ho trovato nel cestino.”» «“Ecco la ricetta originale. Non sono riuscito a scoprire niente esaminando la scrittura, né la filigrana della carta mi dice qualcosa; ma l’inchiostro, sì.

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Quasi tutti i tipi di inchiostro sembrano uguali, ma per chi conosce la composizione chimica dell’inchiostro essi sono molto diversi. L’inchiostro è composto di tannato di ferro, che una volta all’aria rende nera la scrittura. Il pigmento originale, per esempio blu o blu scuro, viene messo nell’inchiostro per rendere immediatamente visibile la scrittura ed evapora gradualmente lasciando soltanto il nero del tannato. Le sostanze coloranti usate negli inchiostri di oggi variano come colore dal blu-verde pallido all’indaco e al violetto cupo. Nemmeno due di questi danno una reazione identica, almeno non quando sono uniti al tannato di ferro. Si deve alla differenza di queste sostanze coloranti la diversità tra scritture fatte con tipi differenti di inchiostro. Non ho avuto difficoltà a procurarmi campioni d’inchiostro usati dal farmacista [e dalle altre tre persone coinvolte nel caso]. Ho confrontato la scrittura della ricetta originale con una gradazione di colori di mia invenzione e ho fatto delle analisi chimiche. L’inchiostro del farmacista è esattamente uguale a quello usato per scrivere sulle due scatolette [di pillole], ma non a quello della ricetta. Uno degli altri tre inchiostri è esattamente conforme a quello usato per le iniziali C. W. H. della ricetta. Tra un attimo la mia catena di prove contro il possessore di quella bottiglia di inchiostro sarà completa.”»

Nel caso poi di un dattiloscritto, egli dispone di più strade per l’indagine: per esempio, i nastri prodotti da fabbricanti diversi presentano differenti sfumature e composizioni chimiche dell’inchiostro, nonché hanno un differente numero di fili; all’occorrenza fa altresì uso di strumenti come il tintometro di Lovibond per valutare l’intensità dell’inchiostro, il micrometro a calibro corsoio per misurare lo spessore della carta o la lastra di vetro del test di allineamento per analizzare la posizione di ogni carattere dattiloscritto in una riga (The Dream Doctor, 1913). In breve, ogni macchina per scrivere possiede proprie caratteristiche che ne permettono una sicura identificazione (The Ear in the Wall, 1916: per le due citazioni seguenti cfr. rispettivamente i capp. 4 e 9). «Il vetro applicato sulla lettera era diviso in tanti piccoli rettangoli, e Kennedy lo muoveva in modo da racchiudere in ogni rettangolo un carattere del dattiloscritto. Poi esaminò quei caratteri con una grossa lente, parve confrontarli coi caratteri di altri dattiloscritti, esaminò controluce la carta da lettere. Infine disse: “È stata scritta con una macchina molto usata, ma non vecchia. Si potrebbe stabilire il tipo della macchina, anche la marca, ma sarebbe un po’ lungo e servirebbe soltanto nel caso che si trovasse la macchina che ha scritto questa lettera.”» «Esaminò i caratteri dello scritto attraverso la stessa lastra di vetro graduata, con la quale aveva esaminato la lettera firmata “Una donna perduta”. Poi andò a prendere quella lettera e ne confrontò i caratteri. “Tanti credono che le macchine per scrivere non possano avere un’individualità. Ma è un errore. Esaminando al microscopio i caratteri di un dattiloscritto, si possono contare i fili del nastro sul quale i caratteri sono stati battuti. E i caratteri stessi quasi sempre presentano qualche anomalia. Quella ‘r’, per esempio, è un po’ smussata, vedete? E questa ‘I’ è storta. E vedete, se i caratteri fossero perfettamente allineati, starebbero esattamente sulle righe di questa lastra, ogni carattere in un rettangolo. Questi non sono più allineati. E possiamo determinare esattamente in quale misura l’allineamento è scomposto, poiché i caratteri possono occupare solo una di un numero di posizioni ben definite, con solo otto divergenze possibili dalla posizione normale.” “Ma se la macchina è a disposizione di parecchie persone, si può individuare, oltre alla

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macchina, anche la persona che l’ha usata?”, domandò miss Kendall. “Certamente, osservando il tocco delle battute, gli spazi, la velocità, le disposizioni, la punteggiatura. In questo caso posso affermare con assoluta certezza che il promemoria e la lettera anonima sono stati scritti con la stessa macchina da una stessa persona. In entrambi i casi l’opera meccanica è stata compiuta da una stessa persona e con lo stesso mezzo. Non è certo che l’autore sia una sola persona e quella stessa persona.”»

Quanto alla fotografia, egli solleva il problema della sua alterazione e del momento in cui venne scattata (The Ear in the Wall, 1916: per la citazione seguente cfr. il cap. 20)21 . «“Suppongo che pure voi riteniate infallibile la fotografia. È un’opinione molto diffusa fin dai giorni di Daguerre. Vero anche che molti tribunali accolgono fotografie quali prove irrefutabili. Ma è pur vero che tante volte, nonostante le apparenze più convincenti, una fotografia può mentire. Perciò, quando un caso grave dipende unicamente da una fotografia, dovrebbe essere consentito che anzitutto venga accertata l’autenticità o meglio la veracità della fotografia stessa.” Tacque un momento. Dorgan lo guardava attentamente ma non disse nulla. “Cinquant’anni fa non si poteva alterare molto una fotografia. Tutt’al più si poteva introdurre una nuvoletta in un cielo sereno. Oggi invece un qualunque fotografo può introdurre in una scena all’aperto la figura di una persona fotografata in uno studio, senza che appaia la minima traccia di tale sovrapposizione.” Dorgan cominciava ad interessarsi. “Così, in questa fotografia che presenta il signor Carton a braccetto col signor Murtha, la signora Ogleby e un’altra signora, si è sostituito la figura del signor Carton alla vostra. Nella fotografia originale eravate voi a braccetto di Murtha e di quelle signore.” “Provatelo. Non credo che di questa fotografia esista ancora la negativa. Provate semplicemente che questa non è la fotografia rubata al signor Carton.” “Vedete quest’ombra? Essa mi permette di dirvi esattamente il giorno e l’ora in cui la fotografia è stata presa. L’altezza del granaio è di 19,62. La sua ombra misura 14,23 al piede, 13,10 a levante e 3,43 a settentrione. Come vedete, sono esatto. In 1’ l’ombra si allunga di 0,080 in alto, 0,958 a destra, e 0,096 nel suo senso apparente. In 4’ e 37” l’ombra supera la larghezza di 0,37.” Si diffuse su particolari tecnici, e rapidamente parlò di assi, orizzonti, triangoli astronomici, 21

Lo stesso Reeve nell’art. cit. In Defense of the Detective Story ricorda che «non molto tempo fa un astronomo liberò un uomo innocente calcolando la data esatta in cui venne scattata la fotografia, usando le ombre come guida.» Verosimilmente, si tratta dello stesso fatto citato da T. Reik in L’assassino sconosciuto [1922], parte I del suo L’impulso a confessare, Feltrinelli, Milano 1967, pp. 18-19. «Nella primavera del 1900, nel Nebraska, un uomo venne sospettato di aver provocato un’esplosione: due testimoni dissero di averlo visto portare una valigia, proprio nel momento critico. Per caso, però, qualcuno aveva preso un’istantanea ad un gruppo di persone che uscivano da una chiesa sita a mezz’ora di distanza dal luogo dell’esplosione; i due testimoni figuravano in quella fotografia. Nella stessa fotografia si vedeva l’ombra di un uomo proiettata su un muro, e da quell’ombra gli astronomi furono in grado di calcolare a che ora la fotografia era stata presa. L’ora della fotografia e l’ora dell’esplosione non erano compatibili, e si provò così che l’accusato non poteva aver commesso il fatto. Era già stato condannato a cinque anni di carcere, ma poi fu assolto in appello.»

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vertici, zenit, poli, declinazioni, azimut, ore solari, rifrazioni e simili cose. Infine concluse: “In trigonometria sferica è necessario conoscere tre fattori, per risolvere un problema. Io ne conosco quattro. Posso quindi controllare ogni risultato quattro volte, considerando volta per volta come incognita un elemento noto. Così ho potuto stabilire che questa fotografia è stata scattata alle ore 15,21’12’’ o alle ore 15,21’29’’, 15,21’31’’, 15,21’33’’. La media è dunque 15,21’26’’. Non può esservi errore sensibile, se non nei limiti di pochi secondi. Vi dico questo per darvi un’idea dell’ap-prossimazione a cui si può giungere. Molto più importante dell’ora è il fatto che il giorno in cui è stata scattata questa fotografia dev’essere il 22 maggio o il 22 luglio. Ciò può essere deciso da altre prove e circostanze. Difatti questa fotografia fu presa in maggio. Posso dirvi anche l’anno, anche il tempo che faceva quel giorno. In questo caso, credetemi, la scienza è molto più veritiera ed esatta della fotografia.” Si vedeva che egli era sicuro del fatto suo. Dorgan restava muto.»

Ai nostri giorni, grazie alle raffinate tecnologie digitali e ai programmi di fotoritocco risulta estremamente facile non solo alterare ma persino costruire al computer foto, scene, filmati; e tutto questo, sembra, con assai scarse possibilità di smascherare il falso. Strumentazione: il suo uso è l’aspetto indubbiamente peculiare di questi racconti, molti degli apparecchi ancora oggi adoperati comunemente come pure di quelli ormai superati fanno la loro prima comparsa in narrativa proprio con Kennedy: è il caso per esempio del dittafono e dei raggi X nonché della fotografia metrica e del dinamometro inventati da Bertillon. In realtà, questa propensione «per tutte le diavolerie tecniche che la scienza si porta dietro è talmente flagrante che sembra lasciare in disparte le origini illuministiche, empiristiche, insomma europee, che le sono connaturate per assumere qualcosa di quella baldanza tutta americana con cui si guardava alla scienza pensando subito alle infinite applicazioni che se ne potevano trarre. Dietro il rigore del ragionamento spunta la funzionalità della Macchina, l’efficienza di un meccanismo messo perfettamente a punto.» Tuttavia, «in questo modo si perde il rigore dell’indagine, la consequenzialità del ragionamento: tutte cose che per gli investigatori americani del primo scorcio del nuovo secolo non erano forse molto importanti, o almeno non così importanti da sacrificare a queste collaudate virtù europee l’infatuazione tutta americana per un meraviglioso tecnologico in cui si avvertono il gioco di prestigio e la lezione di Barnum»22; insomma, la tecnologia (sempre infallibile) come spettacolo. Fonografo a cilindro: realizzato nel 1877-1878 da T.A. Edison mentre sta lavorando sul microfono del telefono, conferma che il suono di una voce può essere tradotto in termini fisici. Ugualmente, Kennedy registra sul fonografo a cilindro la voce di un criminale al telefono e, esaminando al microscopio le scanalature della registrazione, è in grado di identificare il criminale (The Family Skele22

O. Caldiron, L’arte del delitto, Bulzoni, Roma 1985, pp. 274-276.

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ton, 1914; The Ear in the Wall, 1916: per la citazione seguente cfr. il cap. 16). «Kennedy si pose a scrutare con grosse lenti il cilindro del suo fonografo, e procedette a farne delle microfotografie. […] Stava esaminando le microfotografie quando giunse Carlton. “[…] Guardate!”, disse Kennedy. “Questo è un ingrandimento dell’incisione fatta dalla prima voce, quella che diceva di provenire dalla redazione del “Wall Street Record”. Le linee superiori e inferiori mostrano che la voce non aveva sopratoni. Questi imprimono sempre tre linee più marcate qui in mezzo, con ondulazioni ritmiche. Edison ha determinato ogni minima variazione di queste linee. Esaminandole al microscopio, si può analizzare ogni singolo tono con assoluta precisione. Non sappiamo di chi sia questa voce, ma guardate questa”, e mostrò un’altra microfotografia. “Questa la conosciamo. È la voce del vostro amico Kahn.”»

Come si vede, si tratta di un primo tentativo di identificazione personale mediante le cosiddette “impronte vocali”, legata soprattutto alle ricerche dell’ingegnere Lawrence G. Kersta, della Bell Telephone Company (anni ‘60 del XX secolo [cfr. § 4.3.]). Macchina della verità (o poligrafo): inventata da Cesare Lombroso attorno al 1885, negli Stati Uniti comincia a venir usata sotto varie forme dalla fine del secolo; in realtà, questo strumento non rivela la menzogna ma registra solo le alterazioni fisiologiche legate alle reazioni emozionali per le risposte menzognere alle domande del questionario. Inizialmente, verso la metà degli anni ‘10, William M. Marston considera i soli valori della pressione sanguigna; quindi, negli anni ‘20 e ‘30, John A. Larson (autore del primo trattato sull’argomento, Lying and its Detection, Chicago, 1932), e poi Leonard Keeler prendono in esame la pressione arteriosa (sfigmografo), il ritmo respiratorio (pneumografo), l’attività elettrica cutanea (galvanometro). Il suo impiego su larga scala risale alla metà degli anni ‘5023. Da parte sua, Kennedy (The Silent Bullet, 1911) anticipa l’uso dei “cuscini pneumatici”, che registrano variazioni di posizione e contrazioni muscolari, in seguito messi a punto da Reid per eludere eventuali tentativi di alterare le altre registrazioni. «Ciascuna poltrona ha sotto il bracciolo un apparecchio che rivela su un apposito indicatore 23 A titolo esemplificativo si possono vedere i lunghi brani del test poligrafico di Peter Reilly sospettato dell’omicidio della madre Barbara Gibbons (1973) riportati nell’articolo di J. Barthel apparso sul “New Times” dell’8 febbraio 1974 e quindi nel suo volume Morte a Canaan [1976], Sonzogno, Milano 1978, pp. 45 ss. Nella prefazione al volume lo scrittore W. Styron sottolinea che si tratta di «un apparecchio tipicamente americano, un esempio oltremodo significativo della cieca fiducia nella “scientificità” e nell’efficacia della strumentazione meccanica». Quanto poi all’uso del poligrafo in contesti forensi si veda il contributo di D.T. Likken, Forensic Use of Polygraphic Interrogation, in M. LeBlanc, P. Tremblay, A. Blumstein (a cura di), Nouvelles technologies et justice penale, “Les Cahiers de Recherches Criminologiques”, Centre International de Criminologie Comparée, Università de Montreal, 1988, 9.

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qualsiasi emozione eccessiva e improvvisa. Anche se non è visibile all’occhio, è nondimeno espressa dalla pressione fisica sui braccioli della poltrona. È un test che viene usato frequentemente con gli studenti per dimostrare diverse tesi di psicologia.»

In precedenza Kennedy ha adoperato anche il pletismografo e il cronoscopio (The Case of Helen Bond, poi The Scientific Cracksman). «“Signorina Bond, voglio fare solo alcuni semplicissimi test. Uno di questi è chiamato da noi specialisti “tempo di reazione” e un altro è quello del battito cardiaco. Nessuno dei due è complicato, così vi prego di non agitarvi perché è importantissimo che il paziente sia calmo e normale.” Lei sorrise debolmente mentre Craig sistemava un lungo e aderente guanto di gomma sul suo avambraccio che poi racchiuse in una copertura di cuoio più grande e completamente rigida. Tra il guanto di gomma e la copertura di cuoio c’era una sostanza liquida che comunicava attraverso un tubo di vetro con una specie di quadrante. Craig mi aveva spesso spiegato come la pressione del sangue venisse registrata molto accuratamente sul quadrante, mostrando il mutare delle emozioni così chiaramente come se si fosse guardato nella mente del soggetto. Penso che gli psicologi sperimentali chiamino questo strumento “pletismografo”. Aveva anche un apparecchio che misurava il “tempo di associazione”. La parte essenziale di questo strumento era l’uso di un delicatissimo cronometro e questo compito fu assegnato a me. Si trattava solo di misurare il tempo che passava tra le domande di lui e le risposte di lei, mentre lui registrava le domande e le risposte e annotava i risultati che io ottenevo. Ambedue conoscevamo bene il procedimento perché quando eravamo al College questi strumenti cominciavano già ad essere usati in America. Kennedy non aveva mai seguito particolarmente questo ramo della scienza, ma si era sempre preoccupato di tenersi aggiornato su tutte le scoperte importanti e i procedimenti di altre discipline e inoltre io avevo letto parecchi articoli riguardanti il cronoscopio, il pletismografo, lo sfigmografo e altri nuovi strumenti usati dagli psicologi. Craig eseguì il lavoro, tuttavia, come se facesse quel genere di operazione tutti i giorni. “Ora, signorina Bond”, disse, e la sua voce era così rassicurante e suadente che io mi accorsi che lei non si era innervosita neppure un po’ ai nostri semplici preparativi, “il gioco, è proprio un gioco da bambini, consiste in questo: io dirò una parola, per esempio ‘cane’, e voi dovrete rispondere immediatamente con la prima parola che vi viene a mente per associazione, per esempio ‘gatto’. Io dirò per esempio ‘catena’ e voi probabilmente risponderete ‘collare’, e così via. Capite quello che voglio? Può senza dubbio sembrare ridicolo, ma sono sicuro che prima di finire vi renderete conto di quale valore abbia questo test […].” Kennedy stava cominciando. Era chiaro che io non dovevo né intromettermi né interferire. Tenni il più possibile gli occhi inchiodati sull’orologio e altri strumenti mentre le mie orecchie e il mio cuore seguivano con sentimenti confusi la bassa voce musicale della ragazza. Il test fu lunghissimo, specialmente all’inizio, quando in realtà non mirava a niente, dato che serviva solo per arrivare ai “test sorpresa”. Improvvisamente Kennedy smise di fare domande insignificanti. Avvenne in un attimo, quando la signorina Bond era ormai completamente disarmata e non più in guardia. […] Le parole si susseguivano l’una all’altra in rapida successione. Non c’era tregua. Non aveva l’opportunità di raccogliere il pensiero. Io notai la notevole differenza nel tempo di reazione e nella mia simpatia maledissi questo freddo terzo grado scientifico. […] “Cassaforte.” “Cantina.” Guardando di traverso potei vedere che l’indicatore mostrava un battito cardiaco notevolmente accelerato e per quel che riguarda il tempo di reazione notai che

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diventava più lungo e più significativo. Senza alcun rimorso Kennedy dirigeva le sue domande verso l’obiettivo. […] “Forziere.” Nessuna risposta. “Serratura.” Di nuovo nessuna risposta. Accelerò le sue domande. “Chiave.” Silenzio e un balzo dell’indicatore di pressione. “Testamento.” Quando fu pronunciata quest’ultima parola il suo atteggiamento di timida sfida scomparve. Con un grido di angoscia si alzò in piedi barcollando. […] L’indicatore mostrava che il suo cuore batteva ora con febbrile agitazione e poi smetteva quasi di battere per la paura.»

Ai primissimi albori del XXI secolo, si cercano nuovi parametri di alterazioni fisiologiche, la modulazione di frequenza della voce, o tremori, mediante analizzatori dello stress vocale; la dilatazione dei vasi sanguigni attorno agli occhi in seguito all’aumento di adrenalina, mediante immagini termiche del viso; o la contrazione dei muscoli facciali, mediante videocamera digitale.

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4. SVILUPPI RELATIVI ALL’IDENTIFICAZIONE PERSONALE

Soprattutto a partire dal 1935 (“caso Ruxton”), l’idea di complementarità comincia a manifestarsi concretamente e la criminalistica scientifica si va caratterizzando sempre più come un effettivo lavoro di équipe. Così, al medico si aggiungono via via il tossicologo e l’ematologo, l’odontologo e l’antropologo, e quindi lo psichiatra; mentre al perito balistico si affianca un numero sempre crescente di tecnici esperti nell’analisi qualitativa e quantitativa delle tracce più disparate, come fibre e ceneri, striature di utensili, frammenti di vetro e vernice. Fra i diversi procedimenti adottati soprattutto a partire da quegli anni si ricordano alcuni dei più significativi rivolti all’accertamento dell’identità personale, sia dei criminali che delle vittime; quanto poi alla perizia grafica, dopo i riconoscimenti ottenuti col “caso Lindbergh” (1935) essa deve soprattutto affrontare i problemi scaturiti dalle innovazioni apportate ai diversi strumenti scrittori e supporti cartacei.

4.1. Ricostruzione facciale Il successo del primo caso conosciuto (1916)1 è in realtà del tutto casuale; l’accurata ricostruzione di un volto, infatti, richiede conoscenze tecniche, artistiche ed anatomiche combinate con una notevole immaginazione e sensibilità – problemi che vengono superati solo due decenni dopo, grazie soprattutto alla dedizione quasi ossessiva di Mikhail Gerasimov (1907-1970; in proposito cfr. la sua autobiografia The Face Finder, Hutchinson & Co, 1971). Fin dal 1920, quando è ancora studente part-time all’Università di Irkutsk, Siberia, segue corsi di archeologia, etnografia, zoologia e medicina, mentre i suoi interessi per la 1

Il 12 settembre 1916 viene trovato uno scheletro in una cantina di Brooklyn, New York. Trasferito all’obitorio per un esame, le sue misure lo indicano come italiano; inoltre, un ciuffo di capelli attaccato al cranio è di colore bruno scuro. Con tali informazioni a disposizione, i medici della polizia decidono di tentare una ricostruzione dei tratti del volto. Giornali arrotolati formano il collo, occhi marroni vengono inseriti nelle cavità orbitali e il tutto, ricoperto di plastilina dipinta, viene completato da uno scultore professionista. La testa, esposta al pubblico, viene subito riconosciuta da parecchi italiani della zona per quella di un certo Domenico La Rosa, scomparso qualche tempo prima, e tutti sono concordi nel riconoscere che la ricostruzione, a parte le guance meno piene, è esatta, compresi i due denti d’oro intatti – un dettaglio di conferma già rilevato dalla polizia.

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morfologia del cranio umano vengono incoraggiati dall’insegnante di scienza legale, A.D. Grigoriev. Il compito che Gerasimov si trova ad affrontare è complesso: innanzitutto deve fissare una metodologia per rilevare le misure di quelle parti del cranio che rimangono pressoché costanti, cioè dove la carne aderisce maggiormente all’osso; inoltre, ed è la cosa più complicata, gli occorre un criterio per determinare la struttura muscolare della testa di un individuo. «Il nocciolo del programma – ha scritto – era quello di trovare non solo informazioni precise sullo spessore delle parti molli, ma anche i tratti morfologici del cranio che potevano servire come indizi per la ricostruzione delle diverse parti del viso, quali il naso, la bocca, gli occhi, ecc.» Trascorsi alcuni anni a misurare e sezionare teste di cadaveri alla facoltà di medicina, nel 1925 ricostruisce per la prima volta un volto a partire da un teschio recente, il che incoraggia sia lui che Grigoriev; sempre nello stesso anno viene anche nominato assistente tecnico-scientifico al Museo di Irkutsk, e quindi incaricato della sezione archeologica; si occupa della ricostruzione di teste fossili, ma contemporaneamente continua i suoi esperimenti sulle teste scheletrizzate. Nel 1939, Grigoriev, entusiasta dei progressi del suo pupillo, gli affida il primo caso criminale: in un bosco alla periferia di Leningrado sono state trovate numerose ossa sparse su un’area abbastanza estesa; recano segni di denti di animali, per cui si ipotizza che siano i resti di qualche persona assalita dai lupi. Tuttavia Gerasimov, esaminando il cranio e la mascella inferiore, trova dei segni attribuibili ad una piccola accetta da caccia e una frattura prodotta con un corpo contundente. La formazione incompleta delle ossa, le suture aperte della volta cranica, l’assenza dei denti del giudizio e il consumo superficiale della dentatura da adulto suggeriscono a Gerasimov che si tratti di un individuo tra i 12 e i 13 anni; la determinazione del sesso della testa risulta difficile a causa dell’età, ma la regione sopraorbitale fortemente sviluppata e i larghi processi mastoidei, tra le altre caratteristiche, sembrano indicare che si tratti di una persona di sesso maschile. Dopo aver accuratamente riparato la mascella inferiore, egli modella i più importanti muscoli masticatori, che determinano l’intera forma del viso; quindi, poco a poco rimodella la testa, tenendo conto di caratteristiche individuali quali il rilievo del cranio, le ossa nasali e la prominenza del mento. Ne risulta un ragazzo con il naso camuso, le guance paffute, la fronte alta, il labbro superiore spesso e le orecchie leggermente sporgenti; da ultimo vi aggiunge dei capelli corti biondo-rossastri simili a quelli trovati sulla parte superiore del cranio. Come ha ricordato lo stesso Gerasimov con giustificato orgoglio, «il primo tentativo di usare una ricostruzione del cranio in un caso criminale ottenne un brillante successo».

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Durante gli anni ‘40 la sua fama cresce costantemente nei circoli legali e i suoi successi si accumulano via via che le sue tecniche diventano meno empiriche e più rigorose. Comincia ben presto ad addestrare degli studenti e nel 1950 il numero di allievi sufficientemente esperti è tale da permettergli di avviare il Laboratorio di Ricostruzione Plastica dell’Istituto Etnografico dell’Accademia delle Scienze dell’URSS. Poco dopo, viene incaricato di ricostruire il volto di una donna anziana, il cui scheletro è stato trovato in una baracca in una lontana landa boscosa. Gerasimov esamina il cranio, che risulta gravemente danneggiato: manca la mascella inferiore e solo tre molari sono intatti, mentre le radici spezzate degli altri sono rimaste conficcate nel cranio; il palato duro è crivellato di piccoli fori rotondi e alla base del cranio ci sono parecchi pallini di piombo. Da queste prove giunge facilmente alla conclusione che la donna è stata colpita da una scarica di fucile da caccia da distanza ravvicinata. La misurazione accurata delle parti restanti del cranio e il confronto con altre misure dei suoi schedari danno a Gerasimov un’idea delle dimensioni della mascella inferiore mancante, permettendogli di ricostruirla in gesso assieme ai denti. La testa riprodotta assomiglia talmente a quella della moglie di una guardia forestale scomparsa in circostanze strane circa un anno prima che questi confessa l’omicidio. Intanto, alcuni timidi e vaghi accenni alla ricostruzione facciale cominciano a comparire anche in narrativa (Un osso e uno straccio [1954], di Hillary Waugh, uno dei primi e più validi autori di “police procedural”); però una sua prima descrizione soddisfacente si trova solo nel romanzo di M. Cruz Smith, Gorky Park (1981; le due citazioni sono tratte rispettivamente dal cap. 7 e 10), concepito una decina di anni prima, verosimilmente in occasione della morte di Gerasimov che ne ha rinverdito i successi2. All’alba di venerdì 15 aprile 1977 i cadaveri di due uomini e una donna col volto scarnificato e le falangette delle dita delle mani amputate per impedirne l’identificazione vengono trovati tra la neve in un’altura del Gorky Park, nel centro di Mosca. Lunedì, l’investigatore-capo della squadra omicidi Arkady Renko portò al dottor Andreev, dell’Istituto di Etnologia dell’Accademia Sovietica, la testa della donna, perché ne ricostruisse il volto. «“La carne non poggia sul vuoto”, gli spiegò Andreev. “I suoi tratti non sono determinati dall’intelligenza, dal carattere o dal fascino.” L’antropologo prese una mano di Arkady. “Sente le ossa, qui? Ne ha ventisette in una mano, e ciascuno si articola in modo diverso, per un preciso scopo. Muscoli flessori e muscoli estensori, ciascuno diverso per formato e attaccatura. Se le dicessi che intendo ricostruire una mano, non si stupirebbe. La mano sembra un attrezzo, una mac-

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In seguito, l’argomento viene ripreso da Aaron Elkins [cfr. § 6.2.]; quindi, in prospettiva informatica, in alcune pagine del romanzo di L.S. Goldberg, Il caso dell’uomo senza volto [1996] (Polillo, 2002) e di quelli di I. Johansen, Doppio volto [1998] e Occhi innocenti [1999], riservate al lavoro della protagonista, la scultrice forense Eve Duncan.

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china. Anche la testa è una macchina che ha reazioni nervose, e che serve a mangiare, vedere, udire e annusare – nell’ordine. È una macchina con ossa in proporzione più grandi e con meno carne di una mano. La faccia è solo una sottile maschera del teschio. Dal teschio si può ricostruire una faccia, ma non viceversa.” [Dopo queste precisazioni, Andreev accennò alla testa che doveva ricostruire:] “Beh, a parte il viso, il resto è intatto, quindi non c’è da perdere tempo a ricostruire il collo e la mascella. Le attaccature dei muscoli ci sono ancora. Abbiamo già eseguito foto e disegni. Conosciamo il colore e il taglio dei capelli. Appena avrò il calco del teschio pulito, potrò incominciare.”» «[Il lunedì successivo,] il lavoro di ricostruzione del volto era giunto a una fase analoga a quella dell’abbozzo di una scultura. I muscoli del collo erano in loco, mancava soltanto la pelle. La cavità nasale era stata colmata e così pure erano in evidenza le fasce muscolari attorno alla bocca, agli zigomi e alle tempie, nonché attorno alle mascelle. Nel complesso, quelle strisce di plastilina ammorbidivano le linee crude del teschio ma, nello stesso tempo, lo rendevano sinistro come una maschera di morte. Ti fissava con due occhi di vetro, nocciola. “Come vede,” disse Andreev, “ho già terminato di ricostruire la muscolatura del collo e della mascella. Dalle vertebre si desume che abitualmente teneva la testa alta. E anche questo è un piccolo indizio psicologico. Dalla comparazione degli attacchi muscolari si è potuto inoltre ricavare che non era mancina. Certe cose sono molto semplici. I muscoli di una femmina sono più piccoli di quelli di un maschio. Il teschio è più leggero, le orbite più grandi e il rilievo delle ossa minore. Però ogni muscolo va scolpito individualmente. Guardi la bocca. Vede come sono ben allineati i denti, il che è tipico dell’homo sapiens, tranne che per alcuni primitivi, aborigeni o pellerossa. Il punto principale è che, in questo tipo di morso, il labbro superiore è di solito dominante. La bocca si ricostruisce più facilmente del resto. Vedrà, risulterà che aveva una bella bocca carnosa. Il naso è più difficile, naturalmente, tutto un lavoro di triangolazioni dal profilo orizzontale della faccia alla cavità nasale e alle cavità orbitali.” “Come fa a determinare la grandezza degli occhi?”, chiese Arkady. “Tutti hanno gli occhi più o meno della stessa grandezza. Deluso? Lo specchio dell’anima, e via dicendo. Dove sarebbe il romanticismo, senza gli occhi! Il fatto è che quando si parla degli occhi di una persona, in realtà si descrive la forma delle palpebre. Insomma, si tratta solo di palpebre e muscoli.”»

In seguito, la ricostruzione facciale si sviluppa notevolmente anche grazie agli studi e ai perfezionamenti tecnici apportati alla fine dell’Ottocento dall’équipe tedesca dell’anatomista J. Kollmann e dello scultore W. Büchly, che, allo scopo di riprodurre il volto dell’uomo preistorico a partire dal suo teschio, hanno misurato i tessuti del volto di cadaveri “campione” di uomini e donne. Le ricerche sono sfociate nell’attuale tecnica di ricostruzione e in vere e proprie “tabelle” degli spessori dei tessuti, che gli antropologi Stanley Rhine e C. Elliott Moore, dell’Università del New Mexico, stanno aggiornando e perfezionando. «C’è stato un aumento delle dimensioni corporee dell’homo sapiens», spiega Rhine (“Scienze Digest”, aprile 1982). «I nostri studi si prefiggono di trovare un collegamento fra costituzione corporea e spessori tissutali. Nei nostri esperimenti facciamo uso di fotografie con le quali verifichiamo l’esattezza delle nostre ricostruzioni.» In particolare, dopo aver stabilito l’età, il sesso e la razza (fattori che deter-

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minano lo spessore dei muscoli e degli altri tessuti chiamati “parti molli”), si inseriscono da 18 a 26 indicatori di profondità, piccoli cilindri di gomma di diversa lunghezza, in altrettanti punti chiave della superficie del teschio: tempie, fronte e regione sopraorbitale, labbra, mascella e mento; usandoli come spessimetri, si costruisce un’ossatura di plastilina, un materiale speciale assai resistente, per passare poi ai lineamenti. Nelle cavità orbitali vengono inseriti occhi di vetro o di argilla e si applica un naso sulla struttura ossea: la lunghezza sarà tre volte quella della spina nasale e la larghezza approssimativamente uguale a quella del dorso nasale; gli angoli della bocca vengono allineati con il centro di ciascuna cavità orbitale. Lo spessore delle labbra è uguale alla distanza tra i due bordi gengivali, la cui posizione è indicata da macchie più scure lungo la mascella e la mandibola. Infine, si applicano i padiglioni auricolari, all’incirca della stessa lunghezza del naso, mentre la capigliatura viene ricostruita sulla base di eventuali residui rinvenuti sulla teca cranica. Pur riconoscendo «i notevoli successi nella ricostruzione delle parti molli», James Taylor, capo dell’équipe di Forensic Anthropology del Lehman College, ammette i fallimenti assai frequenti (“Scienze Digest”, agosto-settembre 1981): «Esiste un numero impressionante di fattori che rendono una faccia diversa dall’altra. Per esempio, è quasi impossibile accertare come apparivano gli occhi di una persona, o qual era la profondità delle sue orbite. Abbiamo bisogno di maggiori informazioni sull’effetto dei muscoli e dei tessuti facciali. Ora stiamo passando i dati al computer nella speranza che un giorno la ricostruzione quasi perfetta non sia solo un caso fortunato.» Per concludere, un caso emblematico che, come ormai avviene abitualmente, ha richiesto la collaborazione di altre discipline forensi. Il 7 dicembre 1989, a Cardiff, nel Galles, durante alcuni lavori di ristrutturazione a un edificio, da una buca del cortile viene estratto un lungo involucro: un tappeto arrotolato e legato alle estremità con filo elettrico nero, con dentro uno scheletro umano. Dal suo esame i patologi non riescono a stabilire l’identità del cadavere. I tessuti molli si sono disintegrati, ma parti di vestiario, come un brandello di pullover, sono ancora attaccate alle ossa; attorno al cranio, poi, c’è una massa aggrovigliata di capelli biondi e un paio di orecchini dorati. Comincia allora la laboriosa procedura per l’identificazione, che avrebbe comportato la raccolta di numerosi reperti legali e la consultazione di diversi esperti. Il primo di questi giunto sul posto, il patologo Bernard Knight, stabilisce che si tratta dello scheletro di una ragazza di 15 o 16 anni, alta circa un metro e sessanta. Sulla base poi delle etichette attaccate agli indumenti la polizia ritiene che il decesso sia avvenuto non prima del 1980, ma nessuno dei circa 700 inquilini che hanno abitato nei due stabili dell’edificio si ricorda di una ragazza dai capelli biondi. Il giorno successivo, il teschio viene consegnato a David Whittaker, docente

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alla facoltà di medicina dell’Università del Galles e consulente di odontologia forense del governo, che radiografa la mascella della ragazza per valutare il livello di sviluppo delle radici dei denti e, per un controllo ulteriore, ne estrae uno e lo seziona longitudinalmente; conclude che la ragazza doveva avere circa 15 anni e mezzo quando è morta. Il teschio viene quindi esaminato da Christopher Stringer e Theja Molleson, due antropologi del Museo di Storia Naturale di Londra, che lo misurano e ne inseriscono poi le dimensioni in una banca dati computerizzata contenente informazioni su 2500 diversi tipi di crani di ogni parte del mondo. Stabiliscono così che quello della ragazza è probabilmente di tipo caucasoide e che, a giudicare dalla sua forma e dalla grandezza dei denti, i genitori della giovane donna non dovevano essere inglesi puri. Intanto, l’entomologo Zakaria Erzinclioglu, dell’Università di Cambridge, confronta gli insetti rinvenuti tra le ossa con quelli presenti nel terreno circostante: a suo avviso, l’enorme quantità di bozzoli di crisalidi di foridi, dette anche “mosche delle bare” per la loro capacità di intrufolarsi nelle casse da morto dopo la sepoltura, indica che i tessuti molli della ragazza sono stati consumati nell’arco di tre anni; la presenza di pidocchi del legno, attirati dai funghi cresciuti sulle ossa, che la ragazza è rimasta sotto terra almeno cinque anni; e le crisalidi di tafani trovate sullo scheletro, che è stata sepolta nel cortile uno o due giorni dopo la morte. Infine, il 14 dicembre, il teschio della sconosciuta arriva nel laboratorio di Richard Neave, “artista medico” all’Università di Manchester, di competenza e talento senza pari, già conosciuto per i suoi precedenti lavori nel campo dell’archeologia; i segreti dell’anatomia e certe intuizioni sul modo in cui si forma un volto gli provengono dall’aver frequentato l’Istituto di belle arti e dall’aver assistito a un gran numero di operazioni e autopsie negli ospedali di Londra e Manchester. Dopo aver radiografato il teschio, senza però trovarvi alcuna peculiarità, egli ne fa una copia in gesso, e il 18 comincia a ricostruire, tenendo sempre d’occhio l’originale, i tessuti molli muscolo per muscolo, partendo dalla superficie del cranio e procedendo per aggiunte successive con intervalli per consultare un libro di schizzi sull’ana-tomia umana. La ricostruzione si basa sul noto rapporto esistente tra una faccia e i sottostanti contorni del cranio. Ogni dettaglio viene ricavato da un sistema di misure prestabilite, mentre per le labbra si può solo tirare a indovinare, perché il cranio non ne determina la forma; quanto al naso, poi, è la parte più problematica, perché è impossibile stabilirne la configurazione. Comunque, una volta ricoperto di creta il teschio, ne “umanizza” il volto per permettere l’opera di riconoscimento. Nel pomeriggio del giorno seguente la ricostruzione è ultimata; riproduzioni fotografiche vengono distribuite durante la conferenza stampa convocata dalla polizia, e quindi mostrate in televisione, pubblicate su tutti i giornali inglesi e affisse come manifesti.

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Due giorni dopo, un assistente sociale di Cardiff telefona alla polizia dicendo che si tratta di Karen Price, una ragazza fuggita da un istituto per minorenni del Galles nel luglio 1981; giungono anche altre segnalazioni di ragazze scomparse, che però vengono prontamente rintracciate. In gennaio, la polizia trova le impronte dei denti di Karen presso lo studio di un dentista di Cardiff e le fa avere a Whittaker, che per primo ha esaminato la dentatura della ragazza; confrontate le impronte con i dati in suo possesso, non ha alcun dubbio che si tratti proprio di Karen Price. Quasi contemporaneamente, all’ospedale londinese di Whitechapel, Peter Vanezis, docente di medicina legale, sovrappone su uno schermo televisivo le immagini elettroniche di una fotografia di Karen e del suo cranio: il volto combacia perfettamente. In seguito, le analisi degli esperti consentono alla polizia di collocare il presunto periodo della morte tra luglio 1981 e aprile 19823.

4.2. Impronte comportamentali Dopo le felici intuizioni del dottor Thomas Bond sull’autore degli omicidi di cinque prostitute londinesi (1888), bisogna arrivare agli anni ’30 per avere due primi abbozzi di profili. Il primo accenno si ha in occasione del rapimento di baby Lindbergh, avvenuto la sera di martedì 1 marzo 19324. In ottobre, un detective della polizia di New York, il tenente James J. Finn, si ricorda che un giovane psichiatra di New York, Dudley Shoenfeld, direttore dell’ambulatorio psichiatrico dell’Ospedale Mt. Sinai, ha elaborato un’interessante teoria sul rapimento. Mentre l’interpretazione ufficiale della polizia lo considera ancora come opera di una banda organizzata, egli è convinto che sia stato compiuto da un’unica persona, spinta da violenti impulsi psichici. Incuriosito, Finn invita lo psichiatra nel suo ufficio perché esponga le sue idee5. Poco dopo il rapimento, egli racconta, aveva ricercato il motivo del delitto e credeva d’averne trovata la chiave nell’eroica figura del padre. Era possibile che qualcuno, colpito da mania di grandezza, avesse considerato il giovane idolo come un rivale; una persona simile poteva aver pensato che se avesse attaccato e sconfitto il rivale, avrebbe dimostrato di essere più grande di lui. Perciò, era giunto alla teoria che un dilettante avesse commesso il 3

Altri due esempi di ricostruzione facciale si trovano nell’autobiografia di E. Craig, Il linguaggio segreto del corpo [2004], Sperling & Kupfer, Milano 2004, prologo e capp. 1 e 6. 4 In proposito cfr. G. Waller, Kidnap [1961], Bompiani, Milano 1962. 5 Qualche anno dopo, D. Shoenfeld ha pubblicato il volume The Crime and the Criminal. A Psychiatric Study of Lindbergh Case, New York 1936.

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delitto da solo, agendo con grande rischio personale, così come aveva fatto Lindbergh. Aveva chiesto 50.000 dollari (una bazzecola per una banda organizzata), ma per lui la cosa di gran lunga più importante era il rapimento del bambino. Lo psichiatra s’era convinto che soltanto nella morte del piccolo il subcosciente del rapitore avrebbe trovato completa soddisfazione; la scoperta del cadavere (avvenuta il 12 maggio) aveva confermato questo punto. Tuttavia egli è consapevole che le sue teorie si basano esclusivamente sulle notizie fornite dalla stampa; così, chiede di poter esaminare le 14 lettere scritte dal ricattatore. Copie fotostatiche delle lettere vengono consegnate allo psichiatra e il 10 novembre questi riferisce a Finn le sue conclusioni: le lettere hanno confermato quanto aveva supposto. Egli inizia con una descrizione particolareggiata dell’individuo: anzitutto è tedesco; gli errori contenuti nei suoi scritti sono autentici, fatti da un emigrato che continua a pensare in tedesco; probabilmente abita nel Bronx, giacché legge l’“Home News” e sembra conoscere molto bene la zona, viste le indicazioni particolareggiate che ha fornito. Ma la rivelazione più importante viene dal lavorio inconscio della sua mente, come dimostrano ancora le lettere: si crede onnipotente; il tono degli scritti indica una presuntuosa sicurezza di sé (“è già un anno che ci prepariamo a questo rapimento”); l’esempio più lampante è una frase (“È davvero necessario farne un caso mondiale”) che, come si capisce dal contesto, avrebbe voluto scriverla in forma interrogativa (“È davvero necessario farne un caso mondiale?”). Ma, esaltato dalla propria impresa che ha richiamato su di sé l’attenzione di tutto il mondo in misura non minore del volo di Lindbergh, il subcosciente aveva rivelato l’orgoglio esaltante dell’uomo. C’è ancora un’altra prova nell’ultima lettera in cui aveva scritto il nome di Gay Head. Viste con la lente d’ingrandimento, queste parole mostrano di esser state scritte in origine come Gun Hill, poi corrette. Gun Hill è un’importante strada del Bronx: forse l’errore sta a indicare il luogo dove abita. Finn e Shoenfeld studiano una pianta topografica del distretto e cercano i luoghi indicati nelle indicazioni; circoscrivono la zona più promettente, a forma press’a poco rettangolare, limitata a sud proprio dalla Gun Hill Road. Il secondo esempio si ha in occasione del brutale omicidio di tre bambine a Inglewood (1937), che provoca un’ondata di indignazione in città e scatena una massiccia caccia all’uomo da parte della polizia. Quando le indagini si arenano, il capitano James Doyle, della polizia di Los Angeles, decide di consultare lo psichiatra J. Paul de River, con cui ha già lavorato in precedenza. Dopo aver visto i corpi delle bambine e gli indizi raccolti sulla scena del crimine, scrive un rapporto per l’ufficio del procuratore distrettuale. «Cercate un uomo, probabilmente tra i venti e i trent’anni, che possa essere già stato arrestato in passato per molestie ai minori. È un sadico dalla curiosità morbosa. È molto meticoloso e,

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probabilmente, adesso prova rimorso, come molti sadici che sono pronti al masochismo dopo aver espresso sadismo. L’assassino può manifestare una vena di religiosità e perfino essere portato alla preghiera. Inoltre, si tratta di una persona che ama lo spettacolo e ha compiuto questo gesto non in seguito a un impulso improvviso ma dopo averlo pianificato deliberatamente. Sono dell’opinione che sia riuscito ad accattivarsi la fiducia di queste bambine. Credo che conoscessero l’uomo e se ne fidassero.»

Ci sono alcuni dubbi su quanto questo profilo criminale abbia effettivamente contribuito all’arresto del colpevole, che si è rivelato essere un assistente al passaggio pedonale di fronte a una scuola, di nome Albert Dyer, il quale alla fine viene impiccato per i delitti. De River si è sbagliato su alcuni particolari: Dyer aveva più di trent’anni e aveva precedenti penali per vagabondaggio, non per molestie sessuali ai minori. Ma, per altri versi, il profilo di de River è stato sorprendentemente preciso. Nella sua confessione, Dyer ha ammesso di aver pianificato il crimine con molta attenzione, di aver usato la sua posizione di assistente al passaggio pedonale per accattivarsi la fiducia delle bambine, di essere stato tormentato dal rimorso dopo averle uccise e di avere pregato sui loro corpi. In realtà, l’impiego sistematico del profilo criminale risale solo alla metà degli anni ‘50 e viene anticipato dallo scrittore Georges Simenon, appena rientrato in Francia dopo una permanenza di dieci anni negli Stati Uniti, col romanzo La trappola di Maigret [1955]: in sei mesi cinque donne vengono uccise senza alcun motivo apparente nel quartiere di Montmartre. «Quando succede, come in questo caso, che i delitti vengono commessi in serie, la nostra [della “police judiciaire”] prima preoccupazione è di scoprire ciò che li accomuna.» Da qui, la ricerca delle costanti (Cap. 2). Infatti, la prima elaborazione, peraltro coronata da successo, risale all’anno successivo ed è dovuta allo psichiatra newyorkese James A. Brussel (1905-1982), che tra il 1956 e il 1972 collabora con i dipartimenti di polizia di diverse città su numerosi casi di incendi, omicidi e altri crimini seriali. Egli inverte i termini della procedura tradizionale (dall’esame di una persona se ne può prevedere la probabile condotta) e soprattutto gli esiti delle ricerche del neuropsichiatria Ernst Kretschmer (alla struttura fisica di una persona corrisponde spesso un determinato tipo di personalità, e nel caso di alterazione mentale una particolare psicosi), lasciandosi guidare da intuito e immaginazione. Come scrive nel suo volume di ricordi Inchieste di uno psichiatra criminologo ([1968], Garzanti, Milano 1969): «Mi sono limitato ad applicare a rovescio alcuni semplici principi psichiatrici, sfruttando la mia personale mescolanza di nozioni, intuito e fiducia. Grazie a questo sistema ho potuto aiutare la polizia a risolvere alcuni insoliti casi criminali e sono stato citato a testimoniare come esperto in alcuni famosi processi. […] Di solito, dopo aver esaminato una persona, lo psichiatra è in grado di fare alcune ragione-

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voli predizioni circa la probabile condotta dell’individuo in questione: come reagirà a un dato stimolo, come si comporterà in una data situazione. Io non ho fatto altro che invertire i termini di tali profezie. Studiando le azioni di un individuo, ho dedotto quale poteva essere la sua personalità.»6 «A volte qualcuno mi chiede quanto delle mie deduzioni basate sulla psichiatria siano scientifiche e quanto frutto di immaginazione. Difficile rispondere a questa domanda. Io stesso non lo so. Posso solo dire che le mie deduzioni partono sempre da una solida base scientifica ma che poi intuito e immaginazione prendono via via il sopravvento. Quando si è riflettuto a lungo su un criminale sconosciuto, quando si sono raccolti tutti gli elementi noti sul suo conto, e poi studiati e rigirati nella mente, si comincia a vedere la persona. La si scorge sempre più distintamente. Se ne distingue il volto, se ne sente la voce, arrivando perfino a vedere gli abiti che indossa. È immaginazione? Forse. A volte è intuito. L’intuizione è stata definita una cognizione che non si percepisce come tale. Nel corso degli anni la mente immagazzina enormi quantità di dati, ma non tutti sono disponibili nel processo del pensiero conscio. In parte restano appena sotto superficie. Sono cognizioni, ma non se ne è consapevoli. Ogni tanto, tuttavia, affiorano con un improvviso e inspiegabile lampo di conoscenza. Una sensazione. Non si sa da dove venga, e non si è sicuri di potersene fidare, ma è lì, nella nostra mente, e chiede con insistenza di essere presa in considerazione. Cosa si può fare? Cancellarla o servirsene? Ecco la scelta da fare. In linea di massima io presto fede a questi lampi di intuito nella misura in cui concordano con gli altri dati a mia disposizione.»7

Brussel viene contattato per la prima volta dalla polizia verso la fine del 1956 per elaborare il profilo dell’autore dei 37 attentati dinamitardi compiuti in diversi edifici pubblici di New York a partire dal 1940; la bomba, trovata nel palazzo della società elettrica “Consolidated Edison Company”, era accompagnata da una lettera scritta in stampatello, un modo curioso di separare le frasi con trattini e un’espressione ricorrente “ignobili azioni” con delle iniziali misteriose F.P. Dopo il secondo attentato (settembre 1941) ci fu una pausa di quasi dieci anni (29 marzo 1950). Col passare del tempo la confezione degli ordigni diventa sempre più accurata mentre la lunghezza delle lettere aumenta e l’ira verso il mondo cresce. Stando alle sue lettere, la “Con. Ed.” lo avrebbe reso un malato cronico; inoltre, egli riteneva che altre persone agissero d’accordo con la “Con. Ed.” a suo danno. Questo, in breve, il profilo dell’attentatore con i relativi elementi di riferimento (come esposto da M. Picozzi): – È un maschio: tranne poche eccezioni, storicamente i dinamitardi sono maschi. – Ha motivi di rivendicazione nei confronti dell’azienda elettrica cittadina “Consolidated Edison Company” e probabilmente è stato un suo dipendente: il tono e il contenuto delle lettere minatorie inviate rivelano chiaramente che egli 6 7

Ibidem, pp. 11-12. Ibidem, pp. 96-97.

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crede di essere stato permanentemente danneggiato dalla Compagnia ed è in cerca di vendetta. – Rappresenta un classico esempio di paranoide: crede che la “Con. Edison” e la società in genere complottino contro di lui. – Ha circa 50 anni: la paranoia ha esordio sintomatologico attorno ai 35 anni ed egli è attivo da 16 anni. – È ben curato, meticoloso e competente nel suo lavoro: ogni particolare, dalla costruzione degli ordigni alla stesura delle lettere e alla collocazione delle bombe, rivela la sua cura e precisione; ancora, i soggetti affetti da paranoia pretendono molto da se stessi. – È ipersensibile alla critica: questo è un classico sintomo del quadro paranoico. – Ha origini straniere o trascorre la maggior parte del suo tempo con stranieri: scrive i propri messaggi di rivendicazione con stile assolutamente formale, esente da espressioni gergali solitamente usate dai newyorkesi, come “Con. Ed.” invece che “la Con. Edison”, e utilizza espressioni che sembrano tratte da un romanzo vittoriano [“atti infami”]. – Ha frequentato quantomeno le scuole superiori, senza tuttavia accedere a un’istruzione di livello più alto: nel linguaggio usato nelle lettere e nell’abilità dimostrata nella costruzione delle bombe ci sono tracce di una discreta cultura nonché di una formazione da autodidatta. – È probabilmente di origini slave e di religione cattolica romana: l’uso delle bombe come arma è tipica delle zone dell’Europa centro-orientale; gli slavi sono in maggioranza di religione cattolica. – Presenta un complesso edipico non risolto e molto probabilmente, come la maggior parte di tali individui, non è sposato e vive con un parente di sesso femminile che non è la madre, probabilmente persa da giovane: la forma fallica degli ordigni e la forma delle “W” nella scrittura assai curata che ricordano un paio di seni femminili visti dal davanti [o uno scroto]. – Nel caso fosse stato catturato egli avrebbe indossato un doppiopetto scuro, accuratamente abbottonato. Per quanto Brussel non abbia in seguito riportato successi altrettanto eclatanti, tuttavia egli ha comunque aperto un’originale strada di ricerca. Circa un anno dopo, lunedì 23 dicembre 1957, in un sobborgo di New York una vedova di mezz’età viene uccisa con un temperino e derubata. Brussel ritiene che l’assassino soffra di schizofrenia e ne ricostruisce un profilo psicologico. Dall’arma del delitto pensa che sia un ragazzo o un adulto che non è mai maturato emotivamente; si tratta di un delitto fondamentalmente sessuale, non di una semplice rapina; il ragazzo vuole uccidere la madre perché lui l’ama e comincia a convincersi che in realtà lei non gli vuole bene ma, dato che questo è social-

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mente inaccettabile, «l’unica soluzione era trovare un compromesso e lo aveva trovato: un duplicato simbolico della madre.» «Mi andavo formando un’immagine mentale sempre più precisa. Come schizofrenico, secondo le teorie di Kretschmer, molto probabilmente doveva essere di costituzione astenica: minuto in rapporto all’altezza, esile. Mi vedevo un mingherlino piccoletto, attaccato alla madre, timido, debole.»8 Vittima delle prepotenze dei compagni di scuola e schernito dal padre, probabilmente ha l’acne e abita vicino alla strada dove è stato ritrovato il corpo. Se ha un’acne diffusa è probabile che la madre lo abbia portato da un dermatologo della zona. «Potreste fare delle ricerche presso la scuola superiore del quartiere […] non gli indisciplinati ma le nullità.»9 Il profilo, corrispondente, permette di arrestare il giovane omicida. Tra la domenica del 2 ottobre e quella del 6 novembre 1960 a New York vengono compiuti alcuni (almeno 5 o 6) attentati dinamitardi. «Per incominciare facciamo un confronto tra l’autore di questi attentati e George Metesky [“il dinamitardo pazzo”]. George, come si ricorderà, era un paranoico. Un tipo estremamente meticoloso. Teneva saldamente i piedi in terra, non viveva in un mondo di fantasia. Si era fatto un’idea sbagliata della realtà (era convinto che la “Con. Ed.” ce l’avesse con lui), ma viveva pur sempre nella realtà. Si preoccupava di ciò che gli altri pensavano di lui. Voleva essere compreso, e perciò scriveva tutte quelle lettere in cui esprimeva le sue lamentele.»10 Questo “dinamitardo della domenica” non lascia messaggi e, «fatto ancora più significativo, non gli importa che gli altri lo conoscano e lo comprendano. Vive in un mondo suo […], ma non si è preso la briga di farci sapere chi è e di cosa intende vendicarsi. […] È un individuo chiuso in un mondo suo, completamente isolato dalla realtà concreta.»11 Come ipotizzato da Brussel, il “dinamitardo della domenica” smette all’improvviso senza venir mai identificato. Il pomeriggio del 28 aprile 1963 a Manhattan due giovani amiche, Janice Wylie e Emily Hoffert, di 21 e 23 anni, vengono selvaggiamente pugnalate a morte nel loro appartamento. «Le due giovani erano legate insieme, in un grottesco abbraccio, con strisce di lenzuola: Janice supina, Emily distesa su un fianco, rivolta verso l’amica. C’era sangue dappertutto.»12 Brussel, guardando attentamente la scena del delitto, afferma che non può trattarsi di un ladro che, dopo essere stato trovato dalle due ragazze, le uccide, ma pensa piuttosto a un gesto 8 9 10 11 12

Ibidem, p. 99. Ibidem, pp. 102-103. Ibidem, p. 116. Ibidem, p. 117-118. Ibidem, p. 126.

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rituale. L’assassino era «ossessionato da incontrollate fantasie di sesso e di sangue […]. Nutriva un rancore, un odio verso le donne o verso un certo tipo di donna.»13 Brussel lo vede come «un giovanotto impeccabilmente vestito all’ultima moda [che] lavora con un ottimo stipendio, in un’agenzia di relazioni pubbliche, in Madison Avenue, un posto di notevole responsabilità, affidato all’iniziativa personale, svincolato da orari.»14 Otto mesi dopo, alla fine dell’aprile 1964, viene annunciato l’arresto dell’autore del duplice omicidio, ma il suo profilo non corrisponde a quello tracciato dallo psichiatra, e infatti nel gennaio successivo la polizia è costretta a lasciar cadere l’accusa anche perché intanto da alcuni mesi «era apparso all’orizzonte un nuovo indiziato molto più convincente»15. Nonostante la sua confessione, nemmeno questa volta Brussel crede alla colpevolezza del nuovo accusato, condannato in primo grado all’ergastolo (2 dicembre 1965). In realtà, tra i possibili indiziati già interrogati dalla polizia e quindi rilasciati, c’è un individuo che corrisponde al ritratto fatto da Brussel e che subito dopo il fatto si è stabilito definitivamente in Europa. Tra il 14 giugno e il 30 agosto 1962 cinque – o più verosimilmente sei – donne non più giovani, che vivono da sole, vengono strangolate nella loro abitazione; tutte «furono trovate in posizioni oscene e grottesche; i loro appartamenti erano stati rovistati, ma non si rilevò l’asportazione di oggetti di valore.»16 Poi la serie di omicidi si interrompe fino al 5 dicembre, quando viene strangolata una ragazza di vent’anni. Quindi, in quasi due anni vengono uccise altre cinque giovani. Così, all’inizio del 1964, «il vice-procuratore, che raccoglieva nelle sue mani tutta la vicenda, aveva incaricato il medico legale dell’Università di Boston, Donald P. Kenefick, di formare una commissione di esperti con la partecipazione di neuropsichiatri, sociologi, antropologi, psicologi: un vero brain trust […]. L’impegno era molto ambizioso dopo il completo fallimento dei mezzi e dei metodi tradizionali della polizia, e d’altra parte bisognava dare soddisfazione alla popolazione e alla stampa non solo del Massachusetts, ma di tutti gli Stati Uniti. Fino a quel momento, tutti brancolavano nel buio più assoluto e molti erano gli investigatori che sostenevano con diversi argomenti la possibilità che non si trattasse di un solo assassino, ma che gli strangolatori dovevano essere almeno due. L’argomento principale era quello dell’età delle vittime: come mai lo strangolatore, che aveva scelto le prime cinque vittime sempre fra donne anziane, di colpo, dopo sei mesi, cambiava i suoi soggetti ed assassinava ragazze 13 14 15 16

Ibidem, p. 138. Ibidem, p. 141. Ibidem, p. 147. Ibidem, p. 163.

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giovani sotto i 25 anni? In particolare, i sessuologi non ritenevano possibile che un individuo con una palese deviazione sessuale quale dimostrava l’ignoto bostoniano, potesse mutare così improvvisamente le mire dei suoi raptus. Il che non era coerente con il tipo di deviazione omicida da cui il ricercato era affetto. Il suo comportamento mancava di quella logica che muove sempre le azioni degli psicopatici: era quindi immotivato attribuirgli tutti gli undici delitti, ed era molto più verosimile che essi dovessero venire ripartiti fra almeno due persone. Brussel era invece di parere completamente diverso: se la questione dell’età poteva portare alla conclusione che i delinquenti erano due, le altre circostanze recavano un marchio unico estremamente coerente.»17 «Prima d’allora non avevo mai lavorato a un caso in cui le vittime fossero più di due. Ora ne avevo davanti undici, e forse ce ne sarebbero state altre. (In realtà si scoprì poi che fino a quel momento i delitti della serie erano tredici. Altre due donne anziane erano state uccise ma, poiché non erano state strangolate, la polizia aveva ritenuto che si trattasse di crimini isolati senza alcun legame con i precedenti.) […] Come tutti gli altri ero turbato dallo strano miscuglio di somiglianze e differenze dei due gruppi di vittime. Non sapevo se le somiglianze fossero più importanti delle differenze o viceversa; non sapevo dove concentrare la mia attenzione. […] Come tutti i miei colleghi, cercavo un “elemento tipico”, un comune denominatore tra le vittime o le circostanze da cui si potesse dedurre chi erano gli assassini, dove si potevano trovare, dove avrebbero colpito di nuovo. […] Ebbi un istante di confusione seguito da una chiarezza mentale quasi abbacinante. La folla di idee, che fino a quel momento aveva turbinato confusamente nella mia testa, di colpo si pose in fila ordinata. I pezzi del mosaico tutt’a un tratto si misero al loro posto, congiungendosi. C’ero arrivato! L’unico fatto che tutti noi avevamo trascurato, un fatto così semplice ed evidente che parlarne sembrava quasi ridicolo, era che tutte le undici vittime erano donne. Per quanto diverse per età e altri fattori, appartenevano tutte al sesso femminile. Questo, ora lo vedevo, era l’unico importante comune denominatore. Che molte fossero infermiere, che molte amassero la musica, erano fattori periferici, non centrali del mosaico psicologico. L’elemento centrale dominante, ed ero tentato di pensare che fosse il solo, consisteva nel sesso delle undici vittime. […] Era quasi giunto il mio turno di parlare. Negli ultimi minuti verificai rapidamente la mia teoria mettendola a confronto con tutti gli elementi noti dei delitti che potei richiamare alla memoria. Tutti dovevano adattarsi con facilità, agevolmente, senza forzature, alla teoria. Altrimenti, come volevano le regole della corretta deduzione, la teoria doveva essere abbandonata. I fatti collimavano? […] Sì: ogni particolare trovava il suo posto. […] “Ritengo che abbiamo a che fare con un solo colpevole” iniziai. “Le apparenti differenze del modus operandi, penso, sono il risultato di mutamenti avvenuti in questo individuo. Nell’arco dei due anni in cui ha commesso questi delitti, è passato attraverso una serie di maturazioni, o per meglio dire, attraverso un’unica maturazione progressiva. Quanto gli è accaduto è, in due parole, maturazione istantanea. In questo periodo di due anni è passato bruscamente, dal punto 17

P.Donizetti, Il cadavere interrogato rispose, Sei, Torino 1976, pp. 200-201.

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di vista psicosessuale, dall’infanzia alla pubertà e all’età adulta. E questo passaggio è avvenuto nel modo più atroce. Ha dovuto commettere questi crimini per raggiungere la maturità. Era l’unico modo che conoscesse per risolvere i suoi problemi, trovare se stesso sessualmente, e diventare un uomo adulto tra gli uomini.” […] Le azioni dello Strangolatore sulle cinque donne più anziane, feci notare, erano esattamente quelle di un bambino. Il fatto che per l’appunto fossero donne di una certa età accreditava la tesi. In quelle cinque disgraziate vittime, pensavo, lo Strangolatore aveva visto sua madre. Era adirato con lei, voleva punirla per qualcosa che aveva fatto o non fatto. Cosa? Forse il non avergli dato affetto. Nella sua collera cieca aveva punito cinque controfigure della madre. Poi, sempre in cerca di affetto, aveva compiuto una versione infantile dell’atto sessuale adulto: aveva esplorato ed esaminato ogni corpo, a volte masturbandosi vicino e sopra di esso. Infine aveva rovistato nell’abitazione che per lui rappresentava quella della madre […]. A suo modo, lo Strangolatore stava “progredendo”: era giunto a una pubertà emozionale nel giro di pochi mesi. Uccidendo e manipolando cinque donne anziane aveva scaricato la propria collera verso la madre e anche soddisfatto la propria curiosità infantile nei suoi confronti. In tal modo aveva completato una parte dell’opera: aveva superato il suo rancore infantile per la madre. Poi, dopo un intervallo di quattro mesi, aveva rivolto la sua attenzione a donne più giovani e a ragazze. Si trovava ora in una fase simile alla pubertà. Tentava di avere rapporti sessuali con le sue nuove vittime. Non si trattava di rapporti completi da uomo adulto, ma di tentativi riusciti a mezzo, immaturi. Le vittime, ritenevo, erano quasi sicuramente prive di conoscenza o morte, in quel momento. […] Stava avvicinandosi alla maturità e alla potenza sessuale, ma aveva ancora parecchia strada da fare. Aveva trasferito i suoi sentimenti ambivalenti di schizofrenico dalle figure materne a donne più giovani, alle donne in generale. Le amava, e al tempo stesso le odiava; le desiderava, ma voleva vederle morte. […] Da un delitto all’altro il suo desiderio sessuale e il desiderio di punire aumentavano, si facevano meno inibiti. […] Le espressioni serene delle vittime? L’apparente mancanza di colluttazione? Era chiaro che lo Strangolatore, chiunque fosse, non spaventava le sue vittime quando entrava nei loro modesti appartamenti. […] Ma poi… Riuscivo a figurarmi la scena con perfetta chiarezza. La donna lo invita a entrare, richiude la porta. Poi si volta per accompagnarlo nel soggiorno o nel bagno, dove lui – così ha detto – deve controllare gli impianti. Gli volta le spalle. Questo è il simbolo della ripulsa che lo ha ossessionato per tutta la vita. Forse gli ricorda un episodio doloroso tra lui e sua madre, quando era piccolo. È sopraffatto da una rabbia cieca. Con il braccio, la cintura, o qualcos’altro serra il collo della donna. […] Non c’è lotta. La vittima perde conoscenza prima ancora di rendersi conto di ciò che le sta accadendo. […] “Credo che abbia finito di uccidere. Aveva due aspirazioni: maturare sessualmente, e vendicarsi dell’abbandono della madre o di quale che fosse il motivo del suo rancore. Credo che le abbia ottenute entrambe. […] Ritengo che, in un certo senso, egli sia “guarito” delle sue difficoltà palesemente sessuali, per quanto non ancora degli altri problemi psichici. D’ora in avanti soddisferà le sue esigenze sessuali con donne coscienti, in modo più o meno normale.”» 18

Come previsto da Brussel, nei mesi successivi non ci furono più strangolamenti; invece, più di un centinaio di donne denunciarono alla polizia un maniaco 18

Ibidem, pp. 169-182.

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sessuale. Descritto e riconosciuto da una vittima, venne identificato per Albert De Salvo e condannato per violenze sessuali (era già stato arrestato per molestie sessuali nel 1961 e quindi rilasciato nell’aprile 1962). Corrisponde al profilo che ne ha fatto Brussel. Lo psichiatra venne chiamato a Boston per esaminare Albert De Salvo e testimoniare in sua difesa. «De Salvo aveva ammesso di aver ucciso le undici donne, anzi di averne uccise anche altre due che fino a quel momento non erano state incluse nella serie. Non c’era più ombra di dubbio che Albert De Salvo fosse lo Strangolatore di Boston.»19 L’ultimo caso raccontato da Brussel riguarda un medico che nel dicembre 1966 viene processato per l’omicidio del marito dell’amante (30 luglio 1963) e quindi prosciolto; e poi nel maggio 1967 per l’omicidio della moglie (28 agosto 1965) e condannato all’ergastolo in primo grado. «Il caso Coppolino è uno dei pochissimi fra quanti ne ho esaminati in cui non sono mai riuscito a formarmi un’idea chiara di chi fosse il colpevole, e anzi, di quale delitto o delitti si trattasse, se pure c’era di mezzo un delitto. È stato forse il caso più misterioso della mia carriera, un caso fatto di mezze verità nebulose e vaghe supposizioni, un caso in cui erano in gioco diverse persone che si comportavano in modo ambiguo, a volte inspiegabile. Si dissero parecchie menzogne, ma era difficile dimostrare che fossero tali. Indubbiamente si dissero anche delle verità, ma era impossibile comprovarle. Alla fine, come ancora oggi [1968], le teorie sul caso erano tante quante le persone che cercavano di trovare la soluzione.»20 Intanto, tra il 1961 e il 1962 Howard Teten, che allora lavora al dipartimento di polizia di San Leandro (California), comincia ad interessarsi a uno studio scientifico sul comportamento criminale e sul profilo psicologico con l’aiuto dello psichiatra Douglas Kelly, suo docente alla scuola di criminologia di Berkeley; ma prima di poter esporre le sue conclusioni, egli ritiene necessario collaudarle per almeno sette anni servendosi di casi risolti ed essere certo, dopo essersi confrontato con molti psichiatri, di avere un’adeguata conoscenza sui diversi disordini mentali. Terminato il corso, viene assegnato ad una speciale divisione dell’FBI e incaricato di tenere corsi presso i dipartimenti locali di polizia che sono interessati all’argomento. Mentre il primo corso viene tenuto servendosi come esempi di casi già risolti, per il secondo Teten richiede l’autorizzazione ad utilizzare casi irrisolti; è così che viene elaborato un profilo per uno dei casi in questione, arrivando all’identificazione dell’autore del reato. Si rende quindi necessario prolungare la durata del corso per facilitare la stesura di profili relativi a 19 20

Ibidem, p. 189. Ibidem, p. 227.

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casi irrisolti. Nel 1969-70 Teten, divenuto agente speciale, viene nominato responsabile del primo corso di “criminologia applicata” e affiancato dal collega Pat Mullany nell’elaborazione di nuovi profili e nell’insegnamento. Mentre Teten spiega il suo metodo di approccio al profilo, dimostrando come il comportamento umano può essere determinato sulla scena del delitto, Mullany ne illustra gli aspetti psicopatologici. Questo corso (in seguito, verosimilmente dopo la morte del direttore dell’FBI J. Edgar Hoover avvenuta il 2 maggio 1972, ribattezzato “psicologia criminale applicata”) «si imperniava su uno degli elementi più importanti per la soluzione di un crimine: il movente. L’idea informatrice era di fornire agli studenti gli strumenti per comprendere perché i criminali violenti pensano e agiscono come fanno. Per quanto utile e popolare fosse questo corso, esso si basava principalmente sulla ricerca e sull’insegnamento della psicologia come disciplina accademica. Parte del materiale era frutto dell’esperienza diretta di Teten e di altri istruttori, ma all’epoca solo gli accademici avevano compiuto in proposito studi approfonditi. E tra di noi andava diffondendosi l’opinione che simili studi, nonché la prospettiva professionale che ne scaturiva, avessero un’applicabilità limitata nel nostro ambito lavorativo.»21 Nel 1972 Teten, Mullany e l’altro agente speciale Jack Kirsch creano l’unità di scienze comportamentali (Behavioral Sciences Unit, BSU) presso l’accademia dell’FBI di Quantico, Virginia; viene creato uno specifico programma di formazione per gli agenti consistente in un corso di 12 settimane per poliziotti e manager che hanno trascorso almeno due anni all’FBI. Nel 1973, Teten incontra a New York lo psichiatra Brussel, avendo modo di confrontarsi su similarità e differenze circa il rispettivo approccio al profilo. Dal confronto emerge che mentre Brussel analizza lo stato mentale e psicologico di un criminale per rapportarlo poi alla scena del delitto, gli agenti dell’FBI arrivano a farsi un’idea dello stato mentale del tipo di criminale basandosi sull’analisi della scena del crimine vista in modo globale. A partire dal 1975-1977, Robert Ressler, Dick Ault e John Douglas si uniscono all’unità con diversi incarichi, diventando insegnanti dei vari corsi di criminologia applicata. Grazie a tale progetto si è riusciti ad avere a disposizione una serie di informazioni sui moventi e le dinamiche dei crimini e il loro relativo riscontro sulla scena del delitto. Solo nel 1977 si comincia ad applicare la tecnica di elaborazione del profilo psicologico del criminale esaminato; fino ad allora, infatti, «gli esperti non attribuivano particolare importanza [ad essa]; anzi, la definizione “scienza comportamentale” veniva considerata un ossimoro e i suoi fautori paragonati ai sostenitori della stregoneria o dei sensitivi.»22 21 22

J. Douglas, Mindhunter [1995], Rizzoli, Milano 1996, p. 89. J. Douglas, Mindhunter, cit., p. 90.

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Agli inizi dell’anno seguente, Ressler propone di andare direttamente in carcere ad intervistare pluriomicidi, stupratori e criminali violenti per cercare di penetrare la loro personalità e «gettare le fondamenta scientifiche per l’attività del profiling. […] Centrati gli obbiettivi e definita una metodologia d’approccio avrei potuto procedere all’intervista.» 23 Viene affiancato da Douglas. «Dopo una dozzina di interviste, divenne evidente che il lavoro cominciava a dare i suoi frutti. Per la prima volta si era in grado di stabilire un nesso tra i processi mentali di un criminale e le prove da lui lasciate sulla scena del delitto.»24 Si decide allora di trasformare questa ricerca, finora del tutto informale e priva di ufficialità, in una struttura sistematica e accessibile. «Quello che ci proponevamo era di intervistare in modo approfondito da trentasei a quaranta criminali in stato di detenzione, e utilizzando le informazioni in nostro possesso [la psicologa] Ann Burgess mise a punto un questionario di cinquantasette pagine. E noi due assieme avremmo svolto il lavoro all’interno delle carceri. Avremmo descritto la metodologia di ciascun delitto, studiato e documentato il comportamento prima e dopo il reato e Ann avrebbe elaborato i dati da pubblicare. Prevedevamo che il progetto ci avrebbe impegnato per tre o quattro anni. L’analisi criminale-investigativa entra nell’era moderna.»25 Intervista dopo intervista, cominciano a delinearsi le risposte, si notano aspetti ricorrenti grazie ai quali è possibile fare il profilo di una mente assassina. Si evidenziano e si classificano gli schemi di pensiero e d’azione, l’evolversi del modus operandi, l’origine e il significato di comportamenti sulla scena del crimine che sembrano rimandare ad una sorta di rituale. Fino a questo momento l’FBI è riluttante a consentire i colloqui in prigione, e solo nel 1979 approva il “Criminal Personality Research Project”, secondo il quale agli agenti speciali dell’Unità viene affidato il compito di intervistare un certo numero di criminali detenuti, utilizzando un formulario con domande sul modus operandi omicidiario, sui particolari della vita del killer, sulle vittime. Idealmente, si spera che la comprensione degli assassini e degli stupratori in prigione favorisca l’elabo23

Cit. in M. Picozzi, La “mente armata” della legge, “Newton”, agosto 2004, p. 62. J. Douglas, Mindhunter cit., p. 107. J. Douglas, Mindhunter cit., p. 108. Sempre secondo J. Douglas (Caccia nelle tenebre [1997], Rizzoli, Milano 1997, p. 27): «Per parlare in modo proficuo con queste persone e ottenere da loro quello che serve, è necessario anzitutto prepararsi accuratamente – studiare l’intero fascicolo e conoscere ogni particolare del caso - quindi, quindi è necessario mettersi al loro livello. Se non si sa con precisione quello che hanno fatto e come l’hanno fatto, come hanno accostato le vittime e come le hanno colpite e uccise, ci si espone al rischio di essere presi in giro e manipolati da loro ai loro fini. Molti criminali recidivi sanno ingannare gli altri. Non si apriranno e non si confideranno, se non vi metterete al loro livello e non cercherete di vedere le cose con i loro occhi.» 24 25

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razione di profili psicologici precisi di quelli ancora in libertà. Sempre nel 1979 Ressler e Douglas modificano l’approccio originario del profilo, introducendo la distinzione tra criminale organizzato e criminale disorganizzato, per facilitare l’insegnamento delle tecnica di elaborazione del profilo anche a coloro che non hanno alcuna nozione di psicologia. Successivamente, questa differenziazione diventa il presupposto su cui si basa l’elaborazione del profilo26. L’articolo di Roy Hazelwood e J. Douglas, The Lust Murderer, apparso sull’“FBI Law Enforcement Bulletin” dell’aprile 1980, «pur usando talvolta il termine “libidine” in modo improprio, illustrava i risultati di una ricerca condotta su una serie di soggetti riconosciuti colpevoli di pluriomicidi a sfondo sessuale, e mostrava che il movente era il desiderio di manipolare, dominare, controllare la vittima.»27 Inoltre, esso distingueva «due grandi categorie di “omicidi per libidine”: il non-sociale organizzato e l’asociale disorganizzato. Attualmente [1997], le espressioni non-sociale e asociale vengono usate solo di rado.»28 Un altro articolo, sempre pubblicato sull’“FBI Law Enforcement Bulletin” (settembre 1980), indica gli obiettivi dello studio: 1. Cosa spinge un individuo a diventare un criminale sessuale e quali sono i primi segnali d’allarme? 2. Cosa incoraggia o inibisce l’attuazione concreta del crimine? 3. Quali reazioni o strategie offrono garanzie di successo alla vittima prescelta, e con quale tipo di criminale sessuale? 4. Quali sono le implicazioni relative alla pericolosità del soggetto, alla prognosi e alle modalità di trattamento? Nel 1983 viene completato lo studio su trentasei individui, e raccolto dati relativi a centodiciotto delle loro vittime, in gran parte donne29. Da questo studio 26

Come spiega J. Douglas (Caccia nelle tenebre, cit., p. 20), «Partiamo dal principio che il comportamento sia lo specchio della personalità e suddividiamo il processo di elaborazione di un profilo criminale in sette fasi distinte: 1. Valutazione del delitto; 2. Valutazione globale degli elementi specifici della scena o delle scene del delitto; 3. Analisi globale della vittima o delle vittime; 4. Esame dei primi rapporti della polizia; 5. Esame della relazione autoptica effettuata dal medico legale; 6. Sviluppo di un profilo con le caratteristiche tipiche dell’autore del reato; 7. Orientamenti investigativi suggeriti dall’interpretazione del profilo.» 27 J. Douglas, Caccia nelle tenebre cit., pp. 17-18. 28 Ibidem, p. 215. 29 Sempre nel 1983, Pierce Brooks crea il VICAP (Violent Crime Apprehension Program), un sistema computerizzato che raccoglie e analizza dati riguardanti crimini violenti. Nel 1984, poi, viene annunciata la nascita del NCAVC (National Center for the Analysis of Violent Crime), con il fine primario di identificare gli assassini seriali.

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emerge un sistema per una migliore comprensione e classificazione dei criminali violenti. Per la prima volta è possibile stabilire un nesso fra ciò che è accaduto nella mente del criminale e le prove da lui lasciate sulla scena del delitto. Nel settembre dell’anno successivo, Ressler e Douglas, assieme ad Ann Burgess e Ralph D’Agostino, presentando al X Congresso triennale dell’Associazione Internazionale di Scienze forensi (Oxford, GB) i risultati della ricerca, evidenziano dieci “caratteristiche generali” di questi soggetti. Le conclusioni, ampliate, compaiono nel volume Sexual Homicide: Patterns and Motives (1988). Dopo anni di ricerche e consultazioni su migliaia di casi, a Quantico si sente il bisogno di un sistema di classificazione – e quindi di spiegazione – dei delitti più gravi, organizzato con lo stesso rigore del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. Il risultato è il volume Crime Classification Manual (1992), familiarmente chiamato CCM, al quale hanno contribuito praticamente tutti gli agenti speciali dell’Unità Investigativa di Supporto e molti dell’Unità di Scienze Comportamentali; coautori e supervisori della stesura e dell’organizzazione dell’enorme mole di dati sono la dottoressa Ann Burgess, dell’Università della Pennsylvania, e suo marito, Allen Burgess, professore di economia alla Northeastern University di Boston, gli unici non appartenenti all’FBI. Nel volume vengono classificati, secondo il movente e gli elementi, omicidi, incendi dolosi, violenze carnali e aggressioni a sfondo sessuale; nonché vengono elencate le componenti e le considerazioni investigative quali devono essere per ciascun delitto. Fortemente critici sul lavoro svolto dall’FBI sono Ronald e Stephen Holmes30, che lo ritengono privo dei necessari requisiti di scientificità e di rigore metodologico. «Apparentemente, la tipologia del criminale organizzato o disorganizzato sembra essere utile e agevole da un punto di vista teorico. Tuttavia, non vi è alcun modo di convalidare le informazioni diffuse dall’FBI. Tra l’altro, non sono mai stati resi noti i nomi dei killer intervistati e gli strumenti usati per raccogliere i dati. I termini “non-sociale organizzato” e “asociale disorganizzato” sono stati originariamente usati per descrivere i tipi di personalità dei killer orientati al piacere sessuale. Si presumeva infatti che tutti gli assassini di questo genere fossero o sarebbero diventati serial killer. In seguito, i termini furono modificati; le etichette “non-sociale” e “asociale” furono omesse. Forse a causa dell’influsso e delle pressioni esercitati dalle comunità degli psicologi e degli psichiatri, le etichette “organizzato” e “disorganizzato” si riferiscono ora esclusivamente al contesto dell’azione omicida, deducibile dall’analisi delle scene del crimine. […] Molti studiosi nutrono forti sospetti sul lavoro svolto dall’FBI, almeno in merito alle infor30 Holmes (1996) indicano i tre assunti fondamentali per l’elaborazione del profilo psicologico: 1. la scena del delitto riflette la personalità dell’autore; 2. la modalità del delitto, o firma, tende a rimanere la stessa nel tempo; 3. la personalità dell’autore tende a rimanere sostanzialmente la stessa nel tempo.

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mazioni che avrebbe ottenuto dai 36 presunti serial killer. Ricercatori e studiosi di comprovata serietà non hanno mai avuto il privilegio di essere informati circa i nomi di questi 36 criminali, la metodologia, le valutazioni psicologiche, il sistema di valutazione statistica, o persino le tecniche di addestramento di chi ha condotto gli interrogatori e di quanti hanno preparato le valutazioni generali e la sintesi dei casi.» 31

Questo procedimento si è ben presto diffuso dagli Stati Uniti e dal Canada, dove è di pertinenza soprattutto degli investigatori, ai paesi oltreoceano, dall’Inghilterra all’Olanda e al Sud Africa, dove viene praticato in prevalenza da psicologi e psichiatri32. 31 R. Holmes, S. Holmes, Omicidi seriali [1998], Centro Scientifico Editore, Torino 2000, pp. 70 e 214. 32 In Italia, tralasciando l’eventuale anticipazione fattane dal commissario G. Dosi per risolvere i crimini del “Mostro di Roma” (1924-1927; in proposito cfr. di V.M. Mastronardi – R. De Luca, I serial Killer, Newton & Compton, Roma, 2005, pp. 393-403), il criminal profiling viene introdotto in occasione delle indagini sulla serie di duplici omicidi attribuiti al “Mostro di Firenze” (1968-1985). Dopo un primo tentativo, interrotto, di introdurre i criteri della BSU (fine 1981), nell’autunno 1984 la procura di Firenze incarica l’équipe del prof. F. De Fazio, dell’Università di Modena, di fare una perizia riepilogativa e comparativa dei sette duplici omicidi; essa redige un’accurata relazione di quasi 200 pagine (consegnata alla fine della primavera 1985) nella quale, partendo dall’analisi di ogni singolo delitto, giunge a tratteggiare un profilo della personalità del suo autore; quindi, in seguito agli ultimi due delitti essa redige un’ulteriore perizia, consegnata nel maggio 1986 (ampi estratti di entrambe sono contenuti in F. Ferri, Il caso Pacciani, Pananti, Firenze 1996, pp. 81-124). I due profili corrispondono ben poco a quello della persona che sta per diventare l’unico sospettato su cui indagare, Pietro Pacciani. Parallelamente, anche il criminologo F. Bruno, allora consulente del SISDE, stende due studi, ciascuno sotto forma di “Appunto per il Sig. Direttore”, il capo della polizia Vincenzo Parisi: il primo (1984) delinea l’identikit di un soggetto affetto da perversione sessuale complessa di natura sadofeticistica, prospettando tre ipotesi motivazionali alla base della serie di delitti, tra cui quella esoterica; il secondo (1985) mette in evidenza il possibile movente religioso. Quindi, venti giorni dopo l’ultimo duplice delitto, una agente del “centro” di Firenze firma un rapporto di quattro pagine (datato 28 settembre 1985), che individua quattro elementi che provano la presenza di più assassini e soprattutto l’esistenza di una setta che li guida. Questi approcci preliminari, dopo un lavoro di ricerca, analisi e confronto con strutture equivalenti delle principali polizie straniere, trovano una loro prima sistemazione organica nel dicembre 1985 con la nascita dell’“Unità per l’Analisi del Crimine Violento” (UACV), in particolare del settore “Analisi del Comportamento” (AC) e del relativo Laboratorio (LAC). Il suo battesimo avviene qualche mese dopo in occasione dei delitti di Ferdinando Gamper, il cosiddetto “Mostro di Merano” (in proposito cfr. il resoconto dei due principali responsabili, S. Montanaro e C. Bui, in M. Garbesi, I Serial Killers, Theoria, Roma 1996, pp. 121-127). Esattamente vent’anni dopo, agli inizi del 2006, in seno al Raggruppamento Investigazioni Scientifiche dei Carabinieri (RACIS) e accanto ai quattro Reparti di Investigazioni Scientifiche (RIS) di Roma, Messina, Cagliari e Parma, diventa operativo il Reparto Analisi Criminologiche (RAC) di Roma con il compito di realizzare appunto profili criminali; il suo apporto è risultato subito determinante nel caso del ragazzino Francesco Ferreri, assassinato a Enna da un gruppo di pedofili.

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In Inghilterra, tutto inizia il 9 gennaio 1986 quando lo psicologo David Canter, docente alla “Surrey University”, legge un articolo in prima pagina del “London Standard” che descrive una serie di 24 aggressioni sessuali compiute a Londra dal 10 giugno 1982 al 22 settembre 1985 da uno stesso individuo, talvolta accompagnato da un complice. Compila allora uno schema, disponendo cronologicamente in una colonna le aggressioni compiute da uno stesso autore e in un’altra quelle dove sono implicate due persone. Semplificando i dati, spera che essi rivelino le loro motivazioni generali. Quindi invia le sue prime conclusioni a Scotland Yard: l’aggressore unico avrebbe agito fra poco (la diciannovenne Alison Day, infatti, è stata violentata e poi strangolata il 29 dicembre ma il suo corpo viene ritrovato solo il 15 gennaio). Nel caso in cui questa persona sia la stessa per ogni aggressione, una delle due lavorerebbe lungo il percorso della ferrovia dove sono stati commessi gli atti e incontrerebbe il suo complice in certe occasioni di lavoro; bisogna dunque trovare un avvenimento ricorrente che li porta a essere assieme o no (in seguito Canter riconoscerà che la sua opinione era puramente speculativa, che non si appoggiava su alcuna ricerca sistematica del comportamento criminale e che egli non aveva alcuna esperienza di polizia giudiziaria; tuttavia egli assume il fatto di aver potuto aiutare la polizia in quanto psicologo a partire da alcuni principi elementari di psicologia). Il 18 aprile viene rinvenuto il corpo di un’altra giovane, la quindicenne Maartje Tamboezer, violentata e poi strangolata con le stesse modalità. Ci sono delle somiglianze tra questi omicidi e la serie di stupri, in particolare il modo in cui le mani delle vittime sono state legate e il fatto che i tessuti con cui lo stupratore ha asciugato la vittima dopo l’aggressione sono stati bruciati. Le tracce di sperma ritrovate sulle vittime stuprate appartengono sempre al gruppo sanguigno A, presente in meno del 10% della popolazione britannica. In seguito alla sua lettera, Canter viene invitato alla scuola di polizia di Handon e richiesto di aiutare a catturare l’autore prima che questi uccida ancora. Carter risponde che avrebbe tentato assieme agli inquirenti. Questi si concentrano inizialmente sulla serie di stupri, che nascondono più informazioni sul comportamento, cercando di sapere quali erano i crimini commessi dallo stesso individuo e mettendo a nudo tutti gli elementi di ciascuno di essi. Da parte sua, Canter distingue più di un centinaio di elementi comportamentali e li inserisce in un programma informatico al fine di confrontare questi stupri tra loro. Sebbene opera di un unico aggressore, le violenze prendono forme molto diverse e possono essere accompagnate, precedute o seguite, da una moltitudine di comportamenti. Canter pensa allora che queste variazioni, studiate assieme, potrebbero rivelare le caratteristiche del criminale nei suoi rapporti con gli altri. Dopo un terzo delitto del tutto simile, quello della ventinovenne Anne Lock avvenuto il 18 maggio ma scoperto solo il 21 luglio, su una

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pianta di Londra vengono segnati i luoghi dei crimini dal 1982 al 1986, distinguendo per anno gli omicidi dagli stupri e a seconda che siano implicati uno o due individui (nessun confronto può essere fatto per il 1984). Canter allora circonda la zona in cui sarebbero stati commessi i primi tre stupri nel 1982 e 1983 e dice agli inquirenti presenti: “Egli vive là, non lo credete?” Perché egli è stato premuroso con le vittime dei suoi stupri, e poi ha commesso tre omicidi? Agli occhi di Canter si tratta dell’elemento più importante dell’indagine sull’autore dei fatti, ma all’epoca egli non aveva le conoscenze criminologiche per rispondere a questa domanda. Egli si focalizza allora sulla geografia dei crimini, chiedendosi se questa indica dei cambiamenti significativi. Da queste congetture e dal lavoro collettivo condotto fino a quel momento, Canter propone agli investigatori un profilo preliminare dell’assassino articolato in 17 punti, di cui 13 sono corrispondenti [cfr. il prospetto dello stesso Canter]. II profilo dell'assassino

Le caratteristiche di Duffy

Vive nei territori di Kilburn o Cricklewood È sposato ma non ha figli Ha una vita coniugale problematica È un solitario con pochi amici E fisicamente gracile e si sente poco attraente È interessato alle arti marziali o al body building Sente il bisogno di dominare le donne

Vive a Kilburn È sposato, ma è sterile È separato dalla moglie Ha solo due amici uomini È alto 5 piedi e 4 indici Passa la maggior parte del suo tempo in un club di arti marziali È un violento che ha aggredito più volte la moglie Amava legare la moglie prima dei rapporti sessuali Possiede molte armi da kung fu

Fantastica di rapimenti e rapporti sadomasochisti È affascinato dalle armi, in particolare quelle da taglio Alimenta le sue fantasie di sesso e violenza con video e riviste Conserva ogni sorta di souvenir dei suoi crimini Ha un lavoro semispecializzato (idraulico, carpentiere ecc.) Ha un'età compresa fra 20 e 30 anni

Collezionava videocassette di arti marziali e sesso estremo Aveva 33 chiavi, prese dalle vittime come souvenir Si era specializzato come carpentiere con la British Rail Aveva 28 anni quando lo arrestarono e compiva rapimenti da 4 anni

Il 27 novembre 1986 viene arrestato il colpevole, John Francis Duffy: nella lista dei quasi duemila sospetti repertoriati in ragione del loro gruppo sanguigno,

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egli era il numero 150533. Subito dopo la condanna di Duffy a sette ergastoli, Canter descrive le tecniche usate per individuare il suo luogo di residenza (“New Society”, del 4 marzo 1988): «Una serie di studi di psicologia ambientale ha dimostrato che le persone si creano delle particolari mappe mentali dei posti di cui usufruiscono. Ognuno crea una rappresentazione unica del posto in cui vive, con le sue particolari distorsioni. Nel caso di John Duffy, i giornalisti ravvisarono l’inclinazione a commettere i suoi delitti nei pressi di linee ferroviarie, tanto da soprannominarlo lo “stupratore della ferrovia”. Ciò che né loro né la polizia valutarono correttamente fu che questa caratteristica faceva con ogni probabilità parte del modo in cui l’uomo vedeva la disposizione di Londra, e quindi era indicativa della sua mappa mentale. Poteva, quindi, essere usata per scoprire quale fosse il centro psicologico della sua mappa e, così, individuare la zona in cui viveva.»

Negli anni seguenti Canter guida una serie di studi dapprima all’Università del Surrey e poi in quella di Liverpool, dove fonda il “Centro di Psicologia Investigativa”. L’approccio segue un’impostazione prevalentemente teorica, propria della cultura europea, piuttosto che un’impostazione pragmatica, propria della cultura americana. Quindi, nel 1994 egli giunge ad una prima elaborazione del cosiddetto “modello dei cinque fattori”: 1. Coerenza interpersonale: poiché il comportamento è l’espressione della personalità, l’azione criminale di un individuo presenta modalità e motivazioni fondamentalmente analoghe a quelle messe in atto nella sua vita quotidiana (1989). 2. Significato del momento e del luogo: le due coordinate non sono affatto casuali ma sono invece dettate da scelte o necessità ben precise e forniscono informazioni fondamentali; in particolare, quella spaziale si collega al profilo geografico, composto da una componente qualitativa o soggettiva (ricostruzione e interpretazione della “mappa mentale”) e da una quantitativa od oggettiva (utilizzo di procedure statistiche). Da parte sua, la nozione di “sfera criminale” (1993) permette di individuare due diverse tipologie: quella dei “residenti” e quella dei “pendolari”. 3. Caratteristiche del criminale: alla distinzione tra “organizzato” e “disorganizzato”, giudicata troppo riduttiva e non attendibile scientificamente, viene contrapposta quella, mutuata da Feschbach (1964) tra “espressivo” (con obiettivi prevalentemente simbolici: situazioni di rabbia o rivalsa) e “strumentale” (con finalità eminentemente pratiche, per desiderio o invidia). 4. Carriera criminale e 5. eventuali conoscenze forensi. 33 Quasi quindici anni dopo, nel febbraio 2001, viene arrestato il complice, David Mulcahy, poi condannato a tre ergastoli.

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Canter si dimostra critico con l’operato dell’FBI: «Al di là dell’effetto Hollywood [che finisce per attribuire alle ricerche dell’FBI un credito superiore al loro valore effettivo] nessuna delle affermazioni formulate sui serial killer sopravvive a un’attenta analisi scientifica. […] Le affermazioni che derivano dalla “ricerca” dell’FBI sono false, proprio perché la ricerca stessa è “viziata”. In qualunque altro contesto, i risultati di studi condotti in maniera così inaccurata non sarebbero mai stati pubblicati. […] Emerge pertanto la necessità di sviluppare una disciplina scientifica autonoma, che possa generare processi e teorie radicate nell’ambito della psicologia empirica, al fine di contribuire seriamente alle indagini della polizia.» 34

Eloquente, nella sua schematicità quasi didascalica, il primo dei dieci casi affrontati e risolti dalla giovane profiler sudafricana Micki Pistorius in sei anni di collaborazione con la polizia35: nel 1994, appena ventitreenne, identifica un serial killer soprannominato “lo strangolatore di Città del Capo” che a partire dal 1986, per lo più nel primo pomeriggio, ha adescato ventidue bambini nei pressi della stazione di Mitchell’s Plain, un sobborgo nero della città, e, dopo averli condotti con lui in qualche spiaggia deserta dei dintorni, li ha strangolati e sodomizzati. Da sola, per qualche ora perlustra la scena dell’ultimo delitto (il corpo della giovane vittima, un bambino di 11 anni, è ancora là, dietro le dune), osserva ogni dettaglio, s’immerge nell’atmosfera del luogo. Quindi, redige un ritratto psicologico dell’assassino di cinquanta pagine: è un omosessuale di colore vicino alla trentina (3, 1, 2), insegnante, poliziotto o membro di qualche associazione benefica (8); vive ancora con i genitori (6) ed è molto ordinato (7); da piccolo è stato vittima di abusi sessuali (4); inoltre, è stato senz’altro internato in istituti psichiatrici. Queste conclusioni – riassunte da P. Perrin e J.C. Grangé nell’articolo Psico-Detective («Focus Extra», inverno 2002, pp. 114-121) – sono state raggiunte nel modo seguente: 1) Si tratta di un uomo di colore perché a Mitchell’s Plain un bianco non avrebbe mai potuto avvicinarsi a 22 bambini e allontanarsi con loro senza attirare l’attenzione della polizia. 2) Ha trent’anni o poco più perché il raptus omicida esplode in genere attorno ai 20-25 anni e lui uccide da otto anni. 3) Il fatto che sia omosessuale lo si desume dalla pratica sessuale cui sottopone le giovani vittime. 34 D. Canter, La necessità di una psicologia investigativa nei crimini violenti [2002], in M. Picozzi – A. Zappalà, Criminal Profiling, McGraw-Hill, Milano 2002, p.140. 35 In proposito cfr. di M. Pistorius, A Psychoanalytical Approach to Serial Killers, University of Pretoria, D. Phil., 1996; nonché la scheda relativa alla stessa in M. Newton, Dizionario dei serial killer [2000], Newton & Compton, Roma 2004, ad vocem.

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4) La sodomia rivela anche che ha subito un trauma durante l’infanzia, che riproduce sulle vittime invertendo i ruoli. 5) La scelta dello strangolamento per dare la morte manifesta poi la sua rabbia profonda: strangolare la vittima significa sentire sotto le proprie dita la vita del malcapitato che a poco a poco si spegne. 6) Un individuo con queste caratteristiche non può condurre una vita di coppia normale, e se vivesse da solo avrebbe portato le vittime a casa sua; dunque abita ancora con i genitori. 7) L’assassino è metodico, ossessionato dall’ordine: le scene dei delitti da lui perpetrati sono meticolosamente pulite e ordinate; anche gli arroganti messaggi inviati alla polizia tradiscono la sua esasperata precisione. 8) Infine, è sicuramente un insegnante, un poliziotto o un membro di un’associazione benefica, cioè uno che sa ispirare fiducia ai ragazzi: ogni vittima l’ha seguito spontaneamente, senza esservi costretta; anche gli orari in cui agisce indicano che egli ha tempi di lavoro flessibili. Dopo che i poliziotti, scettici sul ritratto ma impressionati dalla sua precisione, lo hanno diffuso, i risultati non si fanno attendere: un’infermiera di un istituto psichiatrico riconosce nella descrizione uno dei suoi pazienti, Norman Simons: è un insegnante e membro di associazioni religiose, e sta per diventare poliziotto riservista; ben vestito, dolce e sorridente, vive ancora con i genitori e sembra un cittadino modello. Perché dunque commette questi crimini? È stato violentato dal fratello maggiore quando aveva otto anni. Ha vissuto nella rabbia e nell’odio ed è ossessionato da voci che gli ordinano di commettere gli omicidi.

4.3. Impronte vocali Agli inizi degli anni ‘60 la polizia di New York inizia a ricevere telefonate anonime relative alla presenza di bombe a bordo di aerei di differenti compagnie; per dare un nome e un volto a queste voci, essa si rivolge alla Bell Telephone Company36; a loro volta, i Bell Laboratories, che si avvalgono degli spettrogrammi per l’identificazione vocale, affidano l’incarico ad un loro ingegnere, Lawrence G. Kersta. 36

Nel 1941 tre dipendenti dei Bell Laboratories in Murray Hill (New Jersey), Potter, Kopp e Green, utilizzano uno spettrografo acustico che analizza le onde sonore, fornendo una registrazione visiva della voce secondo tre parametri: frequenza, intensità, e tempo (in proposito cfr. di Grey e Kopp, Voiceprint Identification, “Bell Telephone Report”, 1944). Queste ricerche e applicazioni, strettamente finalizzate all’uso bellico-militare, si interrompono con la fine della guerra. Nel 1947, Potter-Kopper-Green pubblicano lo studio Visible Speech.

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«Kersta sapeva che gli “articolatori” – labbra, denti, palato e lingua – sono solo un gruppo di fattori che controllano la qualità tonale del modo di parlare. La bocca, il naso e le cavità della gola hanno anche un effetto decisivo, ma il fattore predominante è il controllo muscolare inconscio complessivo, che produce figure vocali di frequenze variabili e timbro caratteristico. Il passo decisivo delle ricerche di Kersta coincise con la constatazione che un analizzatore di suoni elettronico poteva rivelare e registrare le caratteristiche di frequenza e le armoniche – tutte caratteristiche individuali – dovute alle strutture delle cavità vocali e al controllo subconscio degli articolatori in ogni individuo. Per dimostrare le proprie teorie a se stesso l’ingegnere registrò 50.000 voci diverse, molte delle quali apparentemente “simili”; di fatto tutte dimostravano grandi differenze sullo schermo a raggi catodici; chiese quindi ad imitatori professionisti di registrare imitazioni di individui, confrontando poi i risultati con le registrazioni originali della persona imitata. I risultati grafici sullo schermo differivano sempre enormemente.»37 Dopo aver studiato il problema per quasi due anni, Kersta giunge alla conclusione che gli spettrogrammi potrebbero essere realmente usati per l’identificazione vocale, anche in ambito processuale. Nel suo articolo Voiceprint Identification (“Nature”, 29 dicembre 1962) egli considera “l’impronta vocale” (voiceprint) in stretta analogia con “l’ impronta digitale” (fingerprint): «L’identificazione dell’impronta vocale è un metodo che permette di identificare una persona dall’esame spettrografo della sua voce. In stretta analogia con la dattiloscopia, che ricorre all’esame delle caratteristiche uniche ed invariabili delle impronte digitali, esso esamina i tratti distintivi ed unici di ogni pronuncia. La fingerprinting usa le impronte di inchiostro delle dieci dita, la voiceprinting usa le impressioni spettrografiche delle dieci parole maggiormente pronunciate nelle conversazioni telefoniche.»

Per dimostrare la veridicità delle sue affermazioni e la facilità della procedura, egli fa riferimento ad un esperimento condotto su otto studentesse liceali, di 16-17 anni: «Ad ognuna di loro venne concessa circa una settimana di formazione per una corretta lettura dell’impronta vocale e l’individuazione dei suoi tratti unici.»38 37

F. Smyth, Sulle tracce dell’assassino [1980], Dedalo, Bari 1984, p. 189. Ulteriori ricerche cercano di stabilire l’attendibilità della tecnica; vengono condotti esperimenti che ottengono risultati differenti, molti dei quali in contrasto con Kersta e il suo metodo. Per esempio, Bricker e Pruzansky (1966) scoprono che la dipendenza dal contesto è importante per effettuare l’identificazione; inoltre ipotizzano che l’ utilizzazione di un dispositivo audio potrebbe aumentare le percentuali di riconoscimento: come poi viene dimostrato da Williams (1968), la percentuale di errore diminuisce del ben 15%. Da parte loro, Young e Campbell (1967) esaminano gli effetti di differenti contesti. Le differenze fra gli studi sono sostanziali ed un confronto dei risultati appare alquanto arduo, soprattutto per la mancanza di una vera e pro38

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Nel 1966 la polizia dello stato del Michigan inizia ad utilizzare l’impronta vocale come ausilio nelle indagini criminali; crea quindi una “Voice Identification Unit”, incaricando Kersta e altri specialisti del linguaggio di occuparsi dell’addestramento del personale (da ricordare tra questo il luogotenente Ernst Nash, in seguito a capo dell’Unità). Sempre nella metà degli anni ‘60, l’identificazione vocale a scopo forense viene introdotta nelle corti statunitensi. Inizialmente la tecnica è supportata da una semplice teoria, la quale sostiene che le voci umane sono uniche e che, in quanto tali, avrebbero potuto essere usate come strumento per l’identificazione personale. Purtroppo manca qualsiasi standardizzazione sulle modalità con cui si devono condurre le analisi; le comparazioni vocali vengono fatte semplicemente analizzando un piccolo campione di parole usate comunemente. Inoltre, solo pochi sono capaci di condurre analisi di identificazione vocale e di spiegarle alle corti. Nonostante il graduale aumento di consenso nella comunità scientifica, alcuni sottolineano la mancanza di una ricerca approfondita in grado di dimostrare l’attendibilità della tecnica; essa non può essere impiegata come prova processuale finché non avrebbe presentato un’ulteriore documentazione esauriente.» «Nell’aprile 1966 Kersta si ritenne pronto per una pubblica dimostrazione delle sue tecniche davanti ad una giuria; ma, pur non avendo commesso errori, non riuscì ad ottenere una condanna. A New Rochelle un funzionario di polizia fu portato in giudizio alla Westchester County Court con l’insolita accusa di spergiuro. L’imputazione era che avesse avvertito un giocatore d’azzardo professionista di un’imminente irruzione della polizia; il procuratore distrettuale, sospettando da tempo che una simile informazione sarebbe stata trasmessa, aveva messo sotto controllo il telefono del funzionario, consentendo a Kersta e ai suoi tecnici di installare i dispositivi di registrazione. Poi, con il consenso del sospettato, le impronte vocali furono confrontate con le impronte a microfono aperto e sia Kersta che il procuratore distrettuale le considerarono identiche. Sul banco dei testimoni Kersta fece delle dimostrazioni dei suoi esami della voce. Anche se impressionato, l’avvocato della difesa si oppose alla competenza legale, non a quella tecnica, del testimone e il giudice ritenne suo dovere lasciare alla giuria la decisione sul punto in questione. La giuria non fu d’accordo e, per la complessa natura delle leggi degli Stati Uniti, la causa arrivò fino alla Corte Suprema, che sancì l’incostituzionalità della legge dello Stato di New York che permetteva le intercettazioni telefoniche (e non la registrazione vocale in sé). Ciò significava che nessuna prova telefonica sarebbe stata ammessa e la causa pria documentazione.

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fu archiviata.» Giustizia vuole che sia lo stesso Kersta, alcuni mesi dopo, ad eseguire gli esami che per la prima volta rendono le impronte vocali note in tutto il mondo in occasione di un lungo processo per incendio doloso durante i disordini scoppiati a Watts, il quartiere negro di Los Angeles, nell’agosto 1965. A metà autunno la rete televisiva CBS trasmette un servizio speciale sulla sommossa; nel corso del programma il giornalista Bill Stout intervista di spalle un ragazzo di colore che si vantava di aver partecipato all’incendio. La polizia si fa consegnare una registrazione del programma e attraverso certe dichiarazioni rilasciate dal ragazzo può stabilirne l’identità e arrestare Edward Lee King, di 18 anni, che naturalmente negò l’accusa; tuttavia egli fu tenuto in stato di fermo, essendo stata formulata contro di lui un’accusa pendente per spaccio di droga. «Kersta analizzò la colonna sonora del filmato e la confrontò con le impronte vocali che riuscì ad ottenere da King in prigione. Le due combaciavano perfettamente. Questa volta la giuria accettò la prova delle impronte vocali, e alla fine di un lungo processo durato ben sette settimane, King fu condannato e imprigionato. Per reazione la difesa presentò due eccezioni tecniche riguardanti il privilegio contro la auto-incriminazione e il diritto dell’imputato di rifiutare di fornire un tracciato di confronto. Due ordinanze, una della Corte Superiore dello Stato del New Jersey, l’altra della Corte Suprema degli Stati Uniti, sancirono che un imputato non aveva il diritto di rifiutare una registrazione o un tracciato vocale e che il diritto di protezione contro l’auto-incriminazione non era pertinente al caso. Da allora le tecniche di Kersta sono state utilizzate con successo negli Stati Uniti e altrove.»39 Nel caso Trimble v. Heldman del 1971, la corte suprema del Minnesota dichiara che “gli spettrogrammi dovrebbero essere considerati ammissibili almeno per avvalorare opinioni riguardanti le identificazioni ottenute attraverso il semplice orecchio umano”. Inoltre, giudici e giurati sono impressionati dalla testimonianza del dottor Oscar Tosi; egli, che in passato ha deposto contro l’uso dello spettrografo come strumento di identificazione, dopo un’approfondita ricerca e sperimentazione, descrive la tecnica come “estremamente affidabile”. La corte considera il lavoro del dottor Tosi sufficiente a dar credibilità alla prova. 39

Kersta aveva impressionato i circoli legali, tanto da fondare una sua società, i Voiceprint Laboratories, su licenza della Bell Telephone Company. La notizia si diffonde in Europa e la prima rivendicazione legale della sua tecnica arriva nel novembre 1967 in un’ udienza secondaria della corte di Winchester nel novembre 1967, in cui un uomo è accusato di fare telefonate oscene. Non c’è in questa occasione nessun problema di legalità sul controllo del telefono in questione da parte della polizia, né di tecniche di impressione della voce: le registrazioni vengono eseguite con un registratore ad alta fedeltà e quindi analizzate in frequenza dall’Università di Leeds; i risultati convincono i magistrati, che condannano e multano l’imputato.

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La comparazione fra voci umane non riguarda solo il lato superficiale di un limitato numero di parole, ma ogni aspetto delle parole dette: le parole stesse, il modo in cui confluiscono, le pause tra loro. Il metodo con cui una voce viene identificata rappresenta un processo complesso. In un tipico caso di riconoscimento vocale, l’esaminatore possiede diverse registrazioni: una o più registrazioni della voce da identificare e uno o più campioni di voci registrate del sospetto. Il primo passo consiste nell’assicurarsi che la registrazione contenga una sufficiente quantità di conversazione qualitativamente chiara. (Il volume della voce deve essere molto più alto dei rumori ambientali). Una volta poi che il campione di voce da identificare è stato considerato adatto per le analisi, l’esaminatore volgerà la propria attenzione sui campioni di voce dei sospetti. Egli può lavorare esclusivamente con campioni di conversazione che abbiano lo stesso testo della registrazione sconosciuta. Se necessario, i sospetti ripeteranno più volte il testo della registrazione cercando di uguagliarlo in tutti i suoi aspetti. Per esempio, se la registrazione in questione riguarda un allarme bomba lanciato da una cabina telefonica, i sospetti dovranno ripetere la minaccia, parola per parola, da una cabina. A volte può capitare che la persona indagata manipoli in qualche modo la registrazione. Nel caso in cui è impossibile un confronto con il campione del sospettato, sarà necessaria una quantità maggiore di conversazione. Il processo di identificazione vocale può essere suddiviso in due fasi, corrispondenti a due diverse metodiche, ugualmente importanti, che l’esperto combina per raggiungere il risultato finale. ° La prima fase consiste nel confronto audio dei campioni vocali; un esempio tipico riguarda il controllo delle somiglianze o discrepanze di pronuncia di alcune parole chiave (per es. “the” potrebbe essere pronunciata con il suono corto della “a” o con il suono lungo della “e”). Durante questa fase l’esaminatore studia le caratteristiche psicolinguistiche delle voci: accento, combinazioni sillabiche, etc.; inoltre, esamina minuziosamente i campioni alla ricerca di eventuali segni di patologie del linguaggio e di particolari abitudini linguistiche. ° La seconda fase consiste nell’analisi dei campioni registrati mediante lo spettrografo del suono, un analizzatore automatico dell’onda sonora che si avvale di un registratore su nastro di alta qualità e funzionalità. La registrazione viene poi analizzata in frazioni di due secondi e mezzo; il prodotto che si ricava è uno spettrogramma, un visualizzatore grafico del segnale registrato secondo le variabili di tempo, frequenza e intensità. Gli spettrogrammi rappresentano le caratteristiche fisico-acustiche del linguaggio registrato. Si procederà quindi con il confronto fra gli spettrogrammi del colpevole e quelli dei sospetti. L’esaminatore prenderà in considerazione non solo le somiglianze ma anche le

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differenze, per determinare se queste siano attribuibili a pronunce diverse o, addirittura, a “parlanti” diversi. Una volta concluse le analisi, l’esperto può giungere a cinque risultati diversi: identificazione positiva, identificazione probabile, eliminazione positiva, eliminazione probabile, nessuna conclusione. Per ottenere un’identificazione positiva, l’esaminatore deve trovare almeno venti suoni linguistici con sufficienti somiglianze spettro-acustiche. Attualmente, la tecnica dell’identificazione vocale mediante il confronto spettro-acustico risulta essere un tema ancora incerto in ambito processuale, che deve ancora far fronte alla forte resistenza contro la sua ammissibilità. Una delle ragioni di tale opposizione è dovuta proprio al notevole sviluppo di questa metodica dalla sua iniziale applicazione; le decisioni delle corti basate sulle prime tecniche di identificazione vocale non sono adatte ai sofisticati metodi odierni. I tribunali sembrerebbero più propensi ad accettare l’identificazione vocale come prova scientifica, qualora vi fosse una procedura standardizzata e le analisi venissero condotte da esperti esaminatori in grado di giungere a risultati accurati.

4.4. Impronte genetiche Nel settembre 1984, in Inghilterra, mentre la polizia di Leicester sta ancora indagando sul brutale delitto di una quindicenne compiuto dieci mesi prima (novembre 1983), Alec Jeffries, ricercatore di biochimica della locale università, sta lavorando sul materiale genetico assieme ai suoi collaboratori Victoria Wilson e Swee Lay Thein del “John Radcliffe Hospital” di Oxford, allorché si imbatte in sequenze ripetute (minisatelliti) di DNA che permettono di distinguere la specificità genetica di ogni individuo e di stabilire la sua consanguineità parentale. «Anticipiamo che queste impronte genetiche […] forniscono, tra l’altro, un efficace metodo per il test di paternità e maternità, possono essere utilizzate nelle applicazioni forensi.»40

La pubblicazione dei primi dati sperimentali (Individual-specifics “fingerprints” of human DNA, “Nature”, marzo 1985), dimostrano che le impronte genetiche sono una realtà. «[…] la regione variabile (locus) [del DNA umano] consiste in una serie di ripetizioni di una breve sequenza nucleotidica (o “minisatelliti”) e il polimorfismo deriva dal differente numero di ripetizioni negli alleli, che deriva presumibilmente da irregolari scambi mitotici o meiotici 40 A.J. Jeffreys, W. Wilson, S. Thein, Hypervariable ‘minisatellite’ regions in human DNA, “Nature”, 1985, vol. 314, pp. 67-72.

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o dallo spostamento (slippage) del DNA durante la replicazione. La conseguente variazione di lunghezza dei minisatelliti può essere individuata utilizzando qualsiasi enzima di restrizione il quale non rimane fedele alle unità di ripetizione e fornisce a tali loci un set di marcatori genetici costantemente ereditati.» «Abbiamo precedentemente mostrato che gli elementi ripetuti in un sottoinsieme di minisatelliti umani condividono 10-15 sequenze nucleotidiche comuni, le quali potrebbero agire come un segnale di ricombinazione nella generazione di queste regioni ipervariabili.»

Le analisi del DNA sono effettuate utilizzando la PCR (Polymerase Chain Reaction), una tecnica che permette l’estrazione e l’amplificazione di piccoli frammenti di DNA presenti in minuscole tracce (in teoria da una sola cellula), anche se degradati o vecchi. I campioni di DNA ottenuti con la PCR vengono attualmente analizzati con il sistema del confronto delle bande elettroforetiche, che ha consentito di superare gli ostacoli propri delle tecniche precedenti, come l’impiego di sostanze radioattive, i lunghi tempi di attesa e le possibili difficoltà interpretative. Inoltre, il grande numero di marcatori utilizzati e la loro distribuzione su diversi loci cromosomici garantiscono l’affidabilità del risultato, evitando quegli errori che possono derivare da mutazioni o delezioni cromosomiche; infatti, mentre i primi esami di paternità si basavano sull’esame di 4 o 5 sequenze al massimo, oggi è normale analizzarne da 10 a 15. Qualche mese dopo, sempre nel 1985, come ricorda lo stesso Jeffreys, egli viene contattato da un avvocato impegnato in un caso di maternità contestata che ha fatto storia. «Un ragazzo ghanese nato nel Regno Unito emigrò nel Ghana per raggiungere suo padre e successivamente ritornò da solo nel Regno Unito per vivere con sua madre ed i suoi fratelli. Si sospettava un’avvenuta sostituzione, o con un ragazzo con cui non aveva alcun legame di parentela o con il figlio di una delle sorelle della madre; lei aveva diverse sorelle e tutte vivevano nel Ghana. Pertanto, al ragazzo non venne rilasciata la residenza nel Regno Unito. Le analisi di marcatori genetici convenzionali […] dimostrarono che la donna ed il ragazzo in questione erano quasi sicuramente parenti (probabilità di nessuna parentela = 0,01), ma non poterono determinare se la donna fosse la madre o la zia del ragazzo. Su richiesta dell’avvocato della famiglia procedemmo con le analisi delle impronte del DNA per determinare la maternità del ragazzo. Le cose si complicarono in quanto né il padre né le sorelle della madre erano disponibili per le analisi.» 41 Le impronte genetiche della famiglia permisero di dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio non solo che il ragazzo era davvero suo figlio, ma anche che tutti i suoi bambini erano dello stesso padre. L’ufficio sociale lasciò cadere il caso ed al ragazzo fu permesso di rimanere.

41 A.J. Jeffreys, J.F.X. Brookfield, R. Someonoff, Positive identification of an immigration Testcase using DNA fingerprints, “Nature”, 1985, vol. 317, pp. 818-819.

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Sicuramente Jeffreys non avrebbe mai pensato di applicare le sue ricerche alle indagini criminali se non avesse incontrato Peter Gill e David Werrett, dell’“Home Office Forensic Science Service” di Aldemarston. «Si prevede che l’impronta del DNA rivoluzionerà la biologia forense in particolar modo per quanto riguarda l’identificazione dei sospetti di stupro. Campioni biologici per le analisi forensi consistono principalmente in macchie di sangue o tracce di sperma su vestiti o altre superfici (spesso vecchie di alcuni giorni o persino settimane), 42 tamponi vaginali effettuati dopo uno stupro, e qualche volta radici di capelli.»

Nell’agosto 1986, mentre Jeffreys sta sviluppando la tecnica al fine di una diagnosi precoce di alcune malattie ereditarie, sempre nella stessa zona e con modalità analoghe viene stuprata e strangolata una seconda ragazza quindicenne; la polizia locale, che intanto ha arrestato un giovane che ritiene l’autore di entrambi i crimini, incarica Jeffreys di analizzare le tracce di sperma trovati sui corpi delle due ragazze e di confrontarli con quello del giovane; il risultato è una sorpresa: i delitti sono stati compiuti da una stessa persona, che però non è il giovane arrestato. Da parte sua, la “Home Office Forensic Science Service” fa ulteriori esami, arrivando alla stessa conclusione: l’assassino è ancora in libertà. Così, dopo aver rilasciato il giovane, nel gennaio 1987 la polizia comincia a sottoporre l’intera popolazione maschile del luogo al nuovo test; l’indagine si conclude positivamente otto mesi dopo (settembre) con l’individuazione e l’incriminazione del vero colpevole, poi condannato il 22 gennaio 1988.43 Diversamente dall’Inghilterra, negli Stati Uniti il test del DNA viene eseguito non da un’agenzia federale ma da laboratori privati. Oltre a quello dell’FBI, soltanto altri due effettuano le analisi e il raffronto delle impronte genetiche a scopi forensi: la “Lifecodes Corporation”, fondata nel 1982, che nel novembre 1987 ha effettuato il primo test di DNA, i cui risultati sono stati determinanti nel condannare Tommie Lee Andrews come l’autore di molteplici stupri; e la “Cellmark Diagnostics”, una società britannica che nel 1987 ha introdotto negli Stati Uniti le metodiche di Jeffreys. «L’introduzione dei metodi del DNA nelle aule dei tribunali da parte di a42

P. Gill, A.J. Jeffreys, D.J. Werret, Forensic application of DNA fingerprints, “Nature”, 1985, vol. 318, pp. 577-579. In realtà, la sensibilità delle attuali tecniche di analisi consente oramai di sfruttare le tracce più disparate, fino a qualche anno fa neppure prese in considerazione. Così, per esempio, oltre alle tracce di sangue, sperma, saliva e urina, anche bulbi di formazioni pilifere, frammenti di organi e tessuti tra cui in particolare denti ed ossa, preparati istologici e materiale da istoteca. 43 Sull’intera vicenda si veda il romanzo-verità scritto dall’ex detective del dipartimento di polizia di Los Angeles Joseph Wambaugh, L’impronta di sangue [1989], Rizzoli, Milano 1990.

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ziende private è unica nella storia delle scienze forensi. La marcata concorrenza non crea sicuramente l’ambiente favorevole in cui lanciare questa nuova tecnologia che possiede una potenzialità tale da cambiare il sistema giuridico penale. Le maggiori compagnie private si rincorrono l’un l’altra nelle aule dei tribunali; sperano di autorizzare le loro procedure e di vendere i propri materiali riservati ad altrettanti laboratori criminali. Esse utilizzano differenti strumentazioni che di conseguenza producono risultati incompatibili.»44 L’uso delle impronte genetiche viene messo seriamente in discussione a partire dal “caso Castro” (1987): il 5 febbraio, Vilma Ponce e la figlia di due anni vengono pugnalate a morte nel loro appartamento del Bronx; grazie all’identificazione del convivente della vittima, la polizia arresta subito Jose Castro, un ispanico di 38 anni che vive nell’edificio adiacente: una piccola macchia di sangue essiccato trovata sul suo orologio e i campioni di sangue presi dalle due vittime vengono inviati alla “Lifecodes Corporation” per le analisi. Il referto, consegnato all’ufficio del pubblico ministero il 22 luglio, sembra convincente: «Il campione di DNA prelevato dal sangue della Ponce corrisponde, con l’utilizzo di tre sonde geniche, a quello ritrovato sull’orologio. La frequenza di questi campioni nella popolazione è 1:189.200.000.»45 L’accusa tenta di far ammettere i risultati di questi esami, invece il team della difesa trova numerosi problemi con le procedure della “Lifecodes”. Per esempio, scopre due bande addizionali non corrispondenti che la Lifecodes ha semplicemente considerato come una contaminazione, senza effettuare ulteriori controlli. Secondo un’approfondita analisi, risulta persino che nemmeno tutte le altre bande corrispondevano. Verso la fine di aprile 1989, mentre da qualche mese è in corso l’udienza preliminare, il biologo molecolare Richard Roberts, testimone dell’accusa, propone che tutti i diversi consulenti tecnici delle due parti si riuniscano per discutere delle problematiche come veri scienziati. Vengono redatte due pagine di dichiarazione consensuale, le quali indicano l’insufficienza della prova scientifica nel processo e le procedure per accettare la sua validità. «Complessivamente, i dati del DNA in questo caso non sono scientificamente abbastanza attendibili [per raggiungere una conclusione certa]. Se i dati venissero sottoposti ad una revisione critica, non verrebbero accettati.» […] «Quello che manca nel campo forense sono delle adeguate linee guida. La “Lifecodes” non dovrebbe essere accusata per l’assenza di norme. La colpa ricade sulla comunità scientifica per non aver affrontato il problema.» Anche questo, affermato da Lander, è presente nella dichiarazione. «C’è il bisogno di raggiungere un ge44 45

The DNA wars: science meets the law, www.genelex.com. R. Lewin, DNA Typing on the Witness Stand, “Science”, 1989, vol. 244, pp. 1033-1035.

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nerale accordo scientifico sulle norme da applicare nella prassi forense dell’impronta genetica. Secondo noi, sarebbe opportuno che la “National Academy of Science” istituisca un comitato per studiare quest’area.»46 Il pubblico ministero Rosa Sugarman rifiuta che la dichiarazione venga accettata come prova nell’udienza, affermando che si tratta soltanto di chiacchiere. Nonostante l’obiezione tecnica della Sugarman sostenuta dal giudice, il contenuto della dichiarazione, ritenuto molto pericoloso dall’accusa, viene alla fine presentato come prova dalla difesa, richiamando a deporre due dei consulenti tecnici. Alla fine di maggio termina l’udienza preliminare tenuta per discutere la validità della prova basata sul DNA, durata ben 12 settimane con 5.000 pagine di testimonianza. La corte, revisionando la prova presentata dalla “Lifecodes”, identifica alcuni problemi specifici alle procedure generali e alle particolari sonde usate dal laboratorio. Il problema specifico di una sonda rilevato dalla corte comporta il rischio di degradazione ambientale al peso molecolare delle bande. Se non giustificata, tale degradazione può condurre a risultati falsi positivi e falsi negativi. Un secondo problema riconosciuto dalla corte è la possibilità di fraintendere le autoradiografie47, quando le intensità dei relativi alleli variano enormemente a seconda della particolare sonda impiegata. Un altro problema nel caso Castro è che, analizzando l’autoradiografia DXYS 14, la “Lifecodes” ha ignorato tre bande, riconoscendole solo come contaminanti “di origine non umana”. Gli esperti della difesa non sono d’accordo con questa conclusione. La corte suggerisce l’utilizzo di sonde sintetiche rispetto a quelle batteriche. Questo suggerimento implica che determinate sonde risultano inappropriate per la tipizzazione del DNA. È lodevole il fatto che la corte abbia identificato dei problemi e delle ambiguità con le sonde usate dalla “Lifecodes”. Come la corte ha spiegato, i difetti risultano dipendere dall’uso della sonda e della banda. Per essere effettivamente invalidate o accettate, le particolari sonde usate e gli alleli confrontati devono essere ben noti agli esperti che stanno testimoniando al caso. Sfortunatamente, ci sono un centinaio di sonde, un migliaio di

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Ibidem Autoradiografia: tecnica sperimentale in cui un campione radioattivo viene messo a contatto o in vicinanza di una lastra fotografica, in modo da produrre una mappa della distribuzione della radioattività del campione, in quanto la lastra viene impressionata dalle radiazioni ionizzanti emesse dalle aree radioattive. L’autoradiografia viene impiegata nello studio della distribuzione di particolari sostanze nei tessuti e nelle cellule. A questo scopo vengono preventivamente introdotte nell’organismo sostanze marcate con isotopi radioattivi. 47

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RFLP48, e decine di migliaia di alleli che possono essere usati nel test di identificazione genetica, e molti altri vengono scoperti ogni giorno. Nel giugno 1989 sono stati identificati più di 3000 RFLP diversi; approssimativamente 100 di questi frammenti possono contenere dai 50 ai 100 alleli, molti dei quali sono piuttosto simili e difficili da differenziare. Di queste numerose migliaia di possibili RFLP, ogni scienziato usa solamente un piccolo numero. Questo indica chiaramente il pericolo di un consenso incondizionato dei test genetici per l’identificazione forense. Un approccio più prudente sarebbe stato limitare l’approvazione ai particolari enzimi di restrizione, sonde e bande usati per l’identificazione in questo caso specifico. La conseguenza del caso Castro è un completo consenso in linea di massima di una manciata di procedure vagamente descritte come “test genetici per l’identificazione forense”. La decisione della corte ha trascurato molti dettagli del test. La prova scientifica dovrebbe essere esaminata più dettagliatamente e dovrebbe essere accettata nei suoi termini specifici, non generali. Inoltre, i risultati dell’analisi di ammissibilità della corte dovrebbero essere riportati con più precisione. Per analizzare in dettaglio una prova è necessario un generale lavoro di revisione. Ciò che ha reso questo processo memorabile e diverso dai precedenti è il fatto che anche la difesa ha chiesto a periti di esaminare i dati e di presentare le loro considerazioni. Sebbene questi periti abbiano confermato la capacità dell’impronta genetica di identificare un individuo in una popolazione enorme, essi hanno trovato gravi difetti tecnici nell’analisi dei campioni di DNA usati dall’accusa. Il problema riguardava non la tecnica in sé e per sé, bensì il modo in cui è stata applicata in questo caso particolare. Nell’agosto 1989 il giudice della Corte Suprema di New York, Gerald Sheindlin, rende pubblica la decisione sull’ammissibilità del test del DNA; qualche mese dopo Castro si dichiara colpevole del duplice omicidio. Sulla scia del processo Castro, l’uso dell’impronta genetica viene messo seriamente in discussione da altri casi49. Problemi vengono sollevati a proposito delle numerose e diverse tecniche di analisi usate: è infatti privo di senso parlare in generale senza riferirsi specificamente a quella usata; ma anche a proposito della correttezza della loro applicazione, dell’attendibilità dei loro risultati e quindi delle modalità del loro impiego probatorio. Inoltre, se l’esito dei test è as48 RFLP – Restriction Fragment Length Polymorphism. Polimorfismi di restrizione, vengono utilizzati come marcatori genetici. 49 In proposito cfr. E. Lander, DNA Fingerprinting on Trial, “Nature”, 1989, vol. 339, pp. 501505.

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solutamente certo quando esclude l’identità dei due DNA messi a confronto, invece quando la conferma occorre considerare che in realtà il loro esito deriva da un complesso calcolo statistico (uno degli aspetti più problematici di questo calcolo riguarda il fatto che la probabilità della corrispondenza fra due frammenti dipende dalla “popolazione di riferimento”). Intanto, nel novembre 1987 il tribunale di Bristol emette la prima condanna al mondo basata sulle impronte genetiche. Ne seguono altre, sempre per stupro. Fino ad arrivare a quella del 1990, poi ribaltata in appello. «La prova principale della colpevolezza dell’accusato, in mancanza di confessione e di riconoscimenti certi, consisteva nella buona corrispondenza tra la sua impronta genetica e quelle relative ai campioni biologici rinvenuti dopo i crimini. Durante il processo di primo grado i periti avevano affermato che c’era una sola probabilità contro 3 milioni che quei campioni provenissero da una persona diversa dall’imputato: un livello di probabilità giudicato assai prossimo alla certezza assoluta che l’imputato fosse colpevole. Nel processo d’appello tenutosi nel 1994 la corte ha invece ribaltato il giudizio, osservando che quel valore indicava la probabilità di trovare una persona innocente con le stesse caratteristiche genetiche del criminale e non la probabilità dell’innocenza stessa dell’imputato. Il procedimento di calcolo corretto avrebbe dovuto basarsi sulla combinazione di due valori distinti: la probabilità che il sospettato sia colpevole, dedotta prima della scoperta di nuove prove, e il “tasso di verosimiglianza” (la probabilità di ottenere una prova di colpevolezza o innocenza dell’accusato). Anche se i valori ricavati dall’impronta genetica sono molto alti, quando li si moltiplica per una bassa “probabilità precedente di colpevolezza” si può ottenere un totale assai poco significativo, tanto da non offrire appigli sicuri per una conclusione certa: come, appunto, era successo nel caso del sospettato, il cui unico indizio di colpevolezza si fondava sull’impronta genetica.»50

50

M. Biondi, Sulle tracce del DNA, “Teknos”, ottobre 1994, p. 33.

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5. SVILUPPI RELATIVI AD ALTRI AMBITI

5.1. Dinamica del fatto: le tracce ematiche Nel 1950, mentre a Chicago, Illinois, viene costituita la “American Accademy of Forensic Science” (AAFS), che nel 1956 inizia a pubblicare il “Journal of Forensic Science” (JFS), a Berkeley, all’Università della California, August Vollmer (1876-1955), capo della polizia locale, fonda la Scuola di Criminologia scientifica, forse la più prestigiosa istituzione del genere a livello mondiale; la sua figura più importante e rappresentativa, molto nota anche all’estero, è Paul Leland Kirk (1902-1970), autore di Crime Investigation (1953), uno dei primi testi completi di criminalistica e investigazione criminale che unisce all’aspetto pratico anche quello teorico. Fondamentale la sua analisi delle macchie di sangue nella causa “lo Stato dell’Ohio contro Sam Sheppard”, un medico accusato d’aver ucciso la moglie Marilyn nella camera da letto della loro villa nei dintorni di Cleveland nelle prime ore del 3 luglio 1954: la vittima è stata colpita alla testa una trentina di volte con un colpo contundente e il suo sangue copre abbondantemente le lenzuola e il cuscino e macchia anche le pareti e i mobili. Esattamente un mese dopo la sua condanna all’ergastolo per uxoricidio, il 22 gennaio 1955 l’avvocato della difesa conduce Kirk nella villa. «Costui trascorse nella casa quattro giorni interi, rilevando tutto quanto vi si poteva trovare in materia di indizi. Si sperava che ne conseguisse un rapporto tale da richiedere la revisione del processo. Il rapporto di Kirk comprendeva, in diecimila parole, tutti gli argomenti di discussione, di confutazione, di controversia, avvalendosi anche di planimetrie, di fotografie e di schizzi: tutte cose che durante l’affrettata istruttoria erano state trascurate. Le macchie di sangue sui muri e sui mobili della camera dove era stato compiuto l’omicidio, analizzate per quanto riguardava la forma e le dimensioni, permisero di definire molto bene gli assi di proiezione e i loro punti di origine. Kirk, tra l’altro, fece una scoperta importante: secondo lui, l’omicida era mancino e aveva colpito tenendosi molto vicino al letto, anzi posando il ginocchio destro sulla sponda del letto. La forma e i bordi frastagliati di alcune ferite gli permisero di attribuirle a un oggetto che doveva presentare qualche protuberanza, per esempio una robusta torcia elettrica. Kirk dedusse anche che Marilyn aveva morso con ogni probabilità il suo assalitore per difendersi, addentandogli sia la carne sia i vestiti, e che costui aveva reagito violentemente per sottrarsi ai

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morsi: da qui i denti rotti. Questa teoria si basava sull’esame di una macchia di sangue, molto evidente, trovata su un pannello della porta. La forma di questa macchia differiva da tutte le altre, come se l’assassino avesse appoggiato sulla porta la mano insanguinata per una ferita o per un morso. Il sangue non apparteneva né al gruppo di Sam né a quello di Marilyn. Inoltre, Sam non era mancino e non presentava alcuna ferita alle mani. Se Sam era l’assassino, egli per forza sarebbe dovuto essere coperto di sangue. Ora, su di lui c’era solo una macchia di sangue – d’altronde molto larga – sul ginocchio. Aveva forse risciacquato i vestiti nell’acqua del lago? In questo caso, le macchie di sangue sarebbero scomparse dappertutto, anche quella sul ginocchio. La forma e la disposizione delle macchie di sangue sul letto erano, secondo Kirk, caratteristiche di un tentativo selvaggio di violenza. Quanto alle ferite di cui Sam si era lamentato, esse non erano state inferte dallo stesso Sam. Kirk era così convinto dell’errore giudiziario, da trattare questo caso davanti a folti assembramenti di pubblico, nel corso di alcune conferenze.»1 Sebbene il ricorso basato sui fatti e sulle conclusioni stabilite da Kirk sia stato respinto dalla Corte d’Appello il 20 luglio, il lavoro di Kirk segna la nascita della recente disciplina conosciuta come Bloodstain Pattern Analysis2; nel 1983 nasce la IABPA, un’associazione di esperti forensi con lo scopo di incoraggiare la ricerca nel campo delle analisi delle tracce ematiche e di promuoverne la standardizzazione delle procedure e della terminologia. Mentre il tradizionale approccio biologico della sierologia o ematologia forense riguarda la questione dell’accertamento dell’identità, materiale e personale, la recente analisi fisica delle macchie di sangue, che si rifà alla dinamica dei fluidi, ne prende in esame forma, dimensioni e tipi, fornendo informazioni importanti per la ricostruzione del fatto e per la valutazione delle dichiarazioni dei testimoni e delle persone coinvolte.

1

P. Buck, Il caso Sheppard, in “Enciclopedia del crimine” [1974], F.lli Fabbri, Milano 1974, vol. VI, pp. 1709-1710. 2 Tralasciando gli improbabili precursori, si ricorda innanzitutto Eduard Piotrowski, assistente dell’Istituto di Medicina Legale di Cracovia e autore del testo Dell’origini, la forma, la direzione e la distribuzione delle macchie di sangue susseguenti alle ferite alla testa causate da corpi contundenti [1895], nel quale collega la direzione della goccia di sangue alla posizione della “coda” della macchia, dimostrando che la “coda”, creata dall’impatto, si trova opposta al lato colpito per primo e perciò ne indica la direzione. Quindi, negli anni ‘30 John Glaister, docente di medicina legale all’università di Glasgow, classifica le macchie di sangue secondo sei tipi: 1. gocce; 2. macchie; 3. schizzi; 4. zampilli; 5. strisce; 6. chiazze. Da parte sua, Balthazard e i suoi colleghi (1939) dimostrano che l’angolo di impatto di una macchia può essere determinato misurando la sua lunghezza e larghezza, esclusa la “coda”.

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In narrativa, dopo un breve accenno, verosimilmente il primo e alquanto generico, contenuto nel romanzo di Thomas Harris, Il Drago rosso. Il delitto della terza luna ([1981], cap. 2), un altro si trova nel cosiddetto “legal thriller”, peraltro alquanto deludente, di Philip Friedman, Ragionevole dubbio ([1990]; Sonzogno, Milano 1994, parte Ia, cap. 32), in occasione di una breve conversazione tra l’avvocato Michael Ryan e la dottoressa Lynne Archbold, esperta appunto dell’analisi delle tracce di sangue3. «“La prima regola da seguire quando si analizzano tracce di sangue è quella di non trarre conclusioni se non si hanno tutte le macchie. In questo caso ci sono due problemi. Per prima cosa, la sezione investigativa che si è occupata della scena del crimine non si è interessata troppo alle tracce di sangue, concentrandosi su altri aspetti. Alcune immagini non sono sufficientemente nitide per permettere un’analisi adeguata. Il mio metodo di lavoro consiste nell’ispezionare la scena, rilevando le impronte delle macchie più importanti e usando la stanza come una matrice per risalire dalle tracce agli avvenimenti. La struttura della superficie del bersaglio, ossia dell’oggetto sul quale è schizzato il sangue, e le dimensioni esatte della stanza sono molto importanti. Ma in questo caso non ho niente di tutto ciò. Siamo doppiamente sfortunati perché il problema non è costituito soltanto da fotografie sfocate: quei tesorucci della polizia hanno anche trascurato di fotografare intere zone della stanza.” Si concesse una pausa affinché quanto aveva detto venisse recepito. “Mancano alcune macchie?” chiese Ryan “È probabile; anzi, possiamo dirlo con certezza. Per questo continuavo a chiedere altre foto.” “Può trarre delle conclusioni?” “In parte. Se avete un proiettore vi mostrerò qualche diapositiva.” […] La dottoressa Archbold passò un’ora a illustrare diapositive sulla scienza dell’analisi delle macchie di sangue e sulla sua evoluzione storica […]. Quando le diapositive terminarono, la dottoressa descrisse gli effetti prodotti sul corpo umano da colpi di mazza o randello, e in particolare la traiettoria del sangue fuoriuscito dalle ferite. […] “Non c’è altro da aggiungere”, concluse la dottoressa. “Possiamo utilizzare gli stessi principi basilari appena illustrati per determinare l’esatta posizione dell’aggressore, e qualche volta anche della vittima. Dal momento che colpi differenti di solito producono la fuoriuscita di diverse quantità di sangue, siamo in grado di ricostruire i movimenti delle due parti, e spesso possiamo risalire alla mano utilizzata dall’assalitore. Sono teorie con cui i patologi si trastullano, senza capirci molto. Ma loro sono medici, e questa è fisica, non medicina: dinamica dei fluidi, meccanica.” “Cosa può dirci con quello di cui dispone?” le chiese Ryan. “Posso dirvi che abbiamo quattro colpi sferrati con la mano destra, e che la vittima si muoveva verso destra e verso il basso mentre i colpi venivano inferti. Probabilmente in parte per evitare i colpi e in parte perché stava cadendo.” “Chi ha esaminato le ferite alla testa potrebbe darci altre informazioni?” “Forse potrebbe stabilire l’angolazione dei colpi, ma non la posizione della testa rispetto al pavimento, alle pareti e al soffitto.” 3

In seguito l’argomento viene ripreso da Patricia D. Cornwell [cfr. § 6.4.] e Kathy Reichs [cfr. 6.5.].

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“E ricostruire l’angolazione dei colpi può servirci a qualcosa?” “Non credo. Tenete presente che, non avendo potuto esaminare tutte le macchie, devo parlare solo di probabilità.”»

In Italia, questa tecnica viene introdotta, svolgendo un ruolo determinante, in occasione del duplice delitto di Novi Ligure (21 febbraio 2001), nel quale Erika De Nardo, assieme al fidanzato Omar Favaro, massacra a coltellate la madre Susy Cassini e il fratellino Gianluca; quindi, viene usata una seconda volta in occasione dell’infanticidio di Samuele Lorenzi (Cogne, 30 gennaio 2002). Limitandosi al primo caso, si riporta la descrizione del sopralluogo preliminare che fornisce una visione d’insieme della scena del crimine, quale viene fatta da uno dei protagonisti dell’ indagine4. «Nella villa della famiglia De Nardo, superata la porta d’ingresso, ci troviamo in un atrio sul quale si affaccia la grande sala del soggiorno; in fondo al soggiorno una scala conduce al piano superiore, la zona notte. L’atrio comunica anche con un bagno, con la scala che scende nella tavernetta e con la cucina, dove è stato trovato il cadavere di Susy Cassini. Iniziamo l’ispezione: le macchie di sangue, a una visione panoramica, non appaiono numerose, probabilmente perché si mescolano con il colore del pavimento in cotto. Cominciamo un’ispezione più accurata e la scena cambia: le tracce sembrano emergere dal nulla. Nel salone osserviamo una grande macchia che si proietta sia sulla presa del telefono sia su una parete. Andando nelle vicinanze della cucina, le orme di sangue aumentano e in parte si dirigono verso la scala che scende nella tavernetta. Entriamo in cucina. Nell’angolo di sinistra, Susy Cassini è stata stretta dai suoi aguzzini: si intuisce dagli schizzi sul muro e dalle cospicue proiezioni di sangue, caratteristiche dei grossi vasi sanguigni, che descrivono una tipica forma ad arco. Oltre alle proiezioni ad arco, ci sono imbrattamenti da contatto e trascinamento (chiamati wipes), formati da una decisa quantità di sostanza ematica. Per terra, notiamo grossi gocciolamenti rotondeggianti: segno che la vittima perdeva sangue rimanendo in piedi. Dev’essere avvenuta una lotta senza quartiere, tra Susy Cassini e i suoi aggressori. Sul pavimento notiamo orme di piedi imbrattati di sangue: sono quasi a cerchio e sembrano abbastanza omogenee, sia nella forma che nella dimensione. Restiamo in cucina. La visione si sposta sul lato destro, in prossimità di un tavolo di legno. La vittima, congetturiamo, subisce altri colpi, si difende e progressivamente cade, rovinando sul tavolo, il quale, non reggendo all’urto violento del corpo, rimane con una gamba spezzata. Continuiamo il giro dirigendoci verso la scala che porta alla tavernetta. Qualche macchia di sangue è caduta sull’uscio; le scale sembrano pulite. […] 4

L. Garofano, Delitti imperfetti. Sei casi per il RIS di Parma, Tropea, Milano 2004, pp. 127131.

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Ritorniamo in casa e saliamo al piano superiore. Sulla scala, su entrambi i lati, ci sono vistose tracce ematiche. Sono disposte quasi tutte in parallelo, su ciascuno scalino, ma sono molto diverse tra loro: è un aspetto molto singolare e di grande interesse. Quelle sul lato destro sono tipiche gocce cadute in modo ortogonale, ossia perpendicolarmente dall’alto in basso; quelle a sinistra, invece, sono tracce da imbrattamento, provocate da piedi sporchi di sangue. […] Raggiunto il piano superiore, entriamo nel bagno dove, immerso nella vasca, i soccorritori trovarono il corpo di Gianluca. Usciamo e andiamo nella stanza di Erika. Qui, il ragazzo fu oggetto di un’aggressione particolarmente violenta e sistematica. Le coltellate hanno prodotto tracce di sangue in più punti, sull’armadio, su un lato della scrivania sullo stereo: la manopola del volume, azionata probabilmente per coprire le urla della vittima, reca una vistosa macchia. Tutti i segni fanno pensare a qualcuno che, ferito, cerca disperatamente di difendersi dietro il primo rifugio, una sedia, la scrivania appunto. […] Cerchiamo di ripercorrere la dinamica più verosimile. Susy Cassini, intorno alle otto di sera, rientra a casa con il figlio, che sale subito in camera sua. La donna fa appena in tempo a togliersi il cappotto, rimanendo in maglietta, golf e pantaloni da ginnastica; il suo cadavere sarà trovato con questi abiti dagli investigatori. Molto probabilmente viene colpita di sorpresa, la prima volta, nel disimpegno che immette in cucina (ipotizziamo che sia stato Omar a farlo, sbucato dal bagno). La vittima, fuggendo, si sposta in cucina, dove inizia il massacro. Gianluca sente le grida e i lamenti della madre e ridiscende le scale fino al soggiorno; presumibilmente viene affrontato da Erika, che abbandona la madre in cucina nelle mani di Omar. Il ritorno di Gianluca al piano terra è un imprevisto, che deve essere gestito in qualche modo. Il ragazzo in preda all’angoscia percorre il soggiorno, si avvicina alla cucina e percepisce la situazione. Vede la sorella, che impugna un coltello, muoversi minacciosa verso di lui: è piena di sangue. Gianluca cerca di sottrarsi, ma Erika gli affonda il coltello nel braccio destro, all’altezza della spalla. Ora, Erika vuole riportare il fratello al piano superiore e lo accompagna sulla scala: le gocce ortogonali, prima osservate sui gradini, cadono dal braccio ferito di Gianluca; Erica, che lo affianca e lo minaccia con il coltello, lascia con i piedi impronte da imbrattamento. Il ragazzo viene condotto dapprima in bagno, quindi nella camera della sorella dove viene ripetutamente colpito, e di nuovo in bagno, dove verrà finito. I fendenti hanno prodotto schizzi, che si sono proiettati vistosamente, e in più punti, sulle pareti rivestite di ceramica e sulle pareti della stessa vasca. Gianluca si difende come può, si appoggia e schiva, lasciando vistose impronte delle mani insanguinate e dei capelli. Ma Erika, aiutata dal complice accorso a darle man forte, sta per prevalere; e per spegnere le sempre più deboli energie del fra-

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tello, tenterà anche di affogarlo nella vasca, che riempie d’acqua.»

5.2. Modalità della morte: l’autopsia psicologica Nelle certificazioni di morte, vengono prese in considerazione tre questioni fondamentali: la causa, vale a dire lo strumento o agente fisico che ha determinato la morte (per esempio una pallottola); il meccanismo, ossia l’agente patologico (per esempio un’emorragia); la modalità, che può essere naturale, accidentale, omicidiaria o suicidiaria. Quando risulta difficile stabilire la modalità e non è chiara la dinamica degli eventi si parla di “morte equivoca”; in questo caso è quanto mai opportuno aggiungere al tradizionale esame della scena del decesso la valutazione dello stato mentale della persona nel periodo immediatamente precedente la morte circa la compatibilità di motivazioni suicidiarie. La pratica, comunemente chiamata “autopsia psicologica”, sembra esser stata introdotta nel 1958, allorché il responsabile dell’ufficio medico legale di Los Angeles, il coroner Theodore J. Curphey, sommerso da troppi casi di morte riferiti a droga e incerto se si tratti di suicidio o di overdose accidentali si rivolge agli psichiatri Edwin Shneidman e Norman Farberow, co-direttori del locale “Suicide Prevention Center”. «Essi hanno collaborato con il coroner, rispondendo alle sue richieste, al fine di stabilire la modalità del decesso nel caso di suicidi equivoci. Gli esperti hanno raccolto informazioni sulla base di colloqui con persone vicine alla vittima e tali dati sono stati messi in relazione con le scoperte del coroner (per esempio patologiche) per determinare la modalità del decesso. Shneidman e Farberow [Sample Investigations of Equivocal Deaths, 1961] hanno elaborato una definizione tecnica dell’autopsia psicologica eseguita per il coroner: “Si tratta di una ricostruzione retrospettiva della vita di una persona capace di individuare aspetti che ne rivelino le intenzioni rispetto alla propria morte, fornire indizi sul tipo di decesso, sul livello (se vi è stato) di partecipazione alle dinamiche del processo e spiegare i motivi per cui la morte è avvenuta in quel dato momento.”»5 Poco dopo, sempre a Los Angeles, c’è la sua prima applicazione in un caso di rilevanza internazionale, la morte dell’attrice Marilyn Monroe (1962). Di fronte alle controversie sulla modalità della morte, Curphey nomina una commissione di dodici psichiatri guidati da Robert Littman e Norman Farbelow (subito battezzata dalla stampa “commissione suicidio”) perché compia “indagini 5

D. Canter, La morte equivoca, in D. Canter – L. Alison, Il profilo psicologico [1999], Carocci, Roma 2004, p. 107. In seguito, lo stesso Shneidman (Suicidology: Contemporary Developments, 1976) mette a punto delle linee guida in 16 punti tuttora considerate fondamentali.

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esaurienti” e interroghi “tutte le persone con cui Marilyn era stata recentemente in contatto” per accertare il suo stato mentale nelle ultime settimane di vita e stabilire la modalità del suo decesso: era capace di togliersi la vita? quali fattori concreti e psicologici hanno influenzato il suo comportamento prima di morire? In realtà, l’indagine abortì fin dall’inizio, sicuramente a causa delle forti pressioni politiche L’autopsia psicologica, a quel tempo ancora una novità, viene ben presto largamente adottata in tutto il paese. «Gli psichiatri forensi conducono un esame approfondito dello stile di vita della persona e dei sentimenti, pensieri e comportamenti che si sono manifestati nei giorni e nelle settimane precedenti la morte, per comprendere meglio gli eventi psicologici di quelle ultime settimane e le circostanze che possano aver contribuito a provocare la morte.»6 In tale contesto vengono vagliati i fattori di rischio per valutare la capacità della persona defunta di concepire, progettare e attuare il suicidio, rapportandola nell’ambito del concetto legale di intenzione. Nel caso si tratti invece di omicidio, l’autopsia psicologica «riguarda non solo la vittima ma anche l’assassino, esaminando le prove trovate sul luogo del delitto per tentare di analizzare la personalità e i moventi di chi abbia potuto commettere un crimine del genere.»7

6 7

R.I. Simon, I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno [1996], Cortina, Milano 1997, p. 123. T.T. Noguchi, Il coroner indaga [1983], Rizzoli, Milano 1985, p. 114.

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6. RECENTI RICADUTE NARRATIVE

6.1. Precursori e iniziatori della forensic story Alcuni accenni sono presenti già a partire dal 1932 nei romanzi dell’ex avvocato Erle Stanley Gardner (1891-1970) con protagonista il penalista Perry Mason: il suo serrato contraddittorio non di rado è imperniato su questioni concernenti le scienze forensi, soprattutto la medicina legale, un argomento solitamente imbarazzante per l’accusa; questa, infatti, «non è abituata a tener testa ad avvocati esperti di medicina legale, perché la maggior parte di loro la considera solo una materia sussidiaria e non si preoccupa affatto di approfondirla. In questo caso, le deposizioni dei medici rivestono la massima importanza ed hanno profili particolari.»1 In realtà, un primo approccio organico si deve al giornalista Lawrence Goldtree Blochman (1900-1975): egli comincia ad interessarsi seria1

E.S. Gardner, Perry Mason brinda al delitto [1957], Mondadori, Milano, cap. 13. E in realtà anche lo stesso Gardner non ha mancato di lamentare a suo tempo lo spazio troppo esiguo concesso in genere alla medicina legale già durante le indagini per determinare la vera causa di morte. «Quando ebbi l’idea della “Corte dell’Ultima Speranza” [1948] – ricorda – già da tempo ero convinto che troppi colpevoli venivano assolti e troppi innocenti condannati, perché – a seconda dei casi – si dava eccessiva o scarsa importanza alla vera causa di certe morti. Spesso, un medico legale attribuisce una morte a cause naturali, mentre è possibile che da un esame meno sommario del cadavere si scopra nel corpo qualche sostanza che ne ha provocato la morte accidentalmente. Così, un esame necroscopico errato può portare alla convinzione che una persona sia stata uccisa quando invece s’è trattato, a guardar meglio, di morte naturale. A mio parere, si continua a commettere questi gravissimi errori, che possono lasciare impuniti dei colpevoli come pure rovinare degli innocenti, perché si attribuisce troppo poca importanza alla medicina legale, che invece dovrebbe essere la base fondamentale di ogni indagine giudiziaria veramente seria, progredita, scrupolosa. Molti casi, da me presi in esame dopo l’istituzione della “Corte dell’Ultima Speranza”, confermano questa mia convinzione, [...] cosicché nei casi di morte controversa si dovrebbe lasciare l’ultima parola ai medici legali prima di stabilire se questa sia dovuta a cause naturali oppure ad omicidio.» (E.S. Gardner, Perry Mason e il siero della verità [1956], nota introduttiva.) Solo di recente, però, «le vere autorità in questo campo sono riuscite ad eliminare il “teste esperto” che, anni fa, è stato la vera sciagura della professione, e hanno attribuito sempre maggiore importanza e fatto emergere la figura del “teste esperto”, totalmente devoto alla verità, alla accuratezza scientifica e il cui solo obiettivo è quello di aiutare e servire la giustizia sviluppando fatti reali nel campo della ricerca scientifica.» (E.S. Gardner, Perry Mason sul filo del rasoio [1962], dedica.) A questo proposito si può vedere per esempio l’accurata e approfondita indagine necroscopica fatta dal medico legale Herbert Dixon nel romanzo dello stesso E.S. Gardner, Depone la morte [1950], Mondadori, Milano.

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mente alla medicina legale nel 1940 quando, su richiesta del suo editore, si mette a disposizione del patologo William McKee Germain che sta scrivendo un volume sull’argomento destinato al grande pubblico; quindi, sempre nello stesso anno, comincia a frequentare l’Istituto di Patologia delle Forze Armate a Washington, diplomandosi nel 1952. Intanto, nell’autunno 1946 la popolare rivista americana “Collier’s”, decisa a offrire al pubblico un nuovo tipo di investigatore, si rivolge allo scrittore, che presenta un prospetto di una decina di pagine dove viene tratteggiato il profilo del dottor Daniel Webster Coffee, capo patologo dell’Ospedale Pasteur dell’immaginaria città di Northbank. Il primo racconto, scritto all’inizio del 1947, viene pubblicato verso la fine dell’anno. Da allora al 1973 seguono una trentina di racconti, poi parzialmente raccolti in Diagnosis: Homicide (1950) e Clues for Dr. Coffee (1964), e il romanzo Recipe for Homicide (1952). Ma il vero inizio di questo filone risale verosimilmente alla fortunata serie televisiva ideata da Glen A. Larson, e realizzata assieme a Lou Shaw e Donald P. Belisario per la NBC, “Quincy M.E.” (148 episodi trasmessi tra il 1976 e il 1983), il medical examiner dell’ufficio del coroner della contea di Los Angeles ispirato al modello reale della stessa contea: insoddisfatto dei risultati, assieme ai suoi assistenti esegue nuovi esami e compie ulteriori indagini, riuscendo alla fine a chiarire il caso2.

6.2. Aaron Elkins e Gideon Olivier Nel 1982 l’antropologo Aaron Elkins (Brooklyn, 1935) pubblica Fellowship of Fear, il primo dei suoi finora 13 romanzi con protagonista il “detective delle ossa” Gideon Oliver, docente di antropologia fisica alla Northern California State University e quindi alla Washington University, che collabora alle indagini con la polizia applicando la sua conoscenza dello scheletro umano a problemi forensi del tipo: quanti anni aveva la persona a cui apparteneva il cranio? quanto era alta? di che sesso? quando e come è morta?3 «Per lui l’antropologia forense, 2 Si veda la novellizzazione in trad. it. di quattro episodi: Le mani d’acciaio, L’osso rivelatore, Week-end a Paradise e Polizia sotto accusa, Gruppo Editoriale Crochet, Milano 1982. 3 Pregio di Elkins è la precisa ricostruzione del lavoro del protagonista e del ragionamento che lo portano alla soluzione del caso. Quando scrive un romanzo in genere lo progetta fin dall’inizio, ma – come spiega in un’intervista – «in due romanzi ho dovuto cambiare l’assassino: non è facile pensare a questo quando sei all’inizio. Io provo a scrivere il romanzo con strategie adatte per il lettore. Così, se cambio l’assassino devo cambiare anche tutta la motivazione iniziale e gli indizi, per rendere razionale la soluzione. Solitamente non ho in mente i capitoli ma una serie di situazioni e di luoghi che saranno presenti nel romanzo.» A causa dei suoi impegni come antropologo, Gideon Oliver si reca infatti nei luoghi più diversi: per esempio nella penisola o-

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e cioè l’applicazione delle conoscenze dello scheletro umano a casi quali l’omicidio, dove le ossa erano l’unica cosa su cui poter indagare, era un’attività secondaria; abbastanza interessante di per sé, ma decisamente secondaria rispetto all’interesse che nutriva per l’evoluzione degli ominidi, che lo spingeva a partecipare a cinque, sei congressi ogni anno.»4 Profilo biologico. Nei casi di corpi mummificati, bruciati, decomposti, smembrati o putrefatti l’antropologia forense deve rispondere a due quesiti fondamentali: uno riguarda l’identità, l’altro la causa della morte a partire dal tipo di trauma osseo subito. In particolare, la ricostruzione dell’identità, o profilo biologico, riguarda l’età, il sesso, la razza e l’altezza, nonché l’eventuale storia clinica e qualsiasi altra indicazione utile per l’identificazione. Per determinare il sesso, la parte più utile è il bacino: per ovvie ragioni, quello maschile è diverso da quello femminile. Ma anche il cranio è utile: quello maschile ha l’attaccatura muscolare più sviluppata, come pure le arcate sopracciliari; e tutte le protuberanze e attaccature sono più prominenti. Per quanto riguarda l’età, nei bambini può esser stabilita con sufficiente precisione, perché sono nella fase dello sviluppo e della crescita, per esempio guardando lo sviluppo dei denti e delle ossa lunghe, che non si saldano fino alla pubertà o alla fine dell’adolescenza e presentano piccole protuberanze, creste e arcate. Con gli adulti, invece, non si può essere altrettanto precisi. Bisogna guardare ai cambiamenti degenerativi nelle nervature dove si attaccano allo sterno anteriormente e nelle due parti del bacino dove si incontrano. Questo è caratteristico in una particolare fase dell’età adulta. Così, probabilmente si è in grado di dare un’età adulta con uno scarto di cinque, dieci anni in più o in meno. Con i bambini si può stimarla con uno scarto di mesi o di un anno, due. Per quanto riguarda la razza, l’unica area utile è il cranio. La regione medio-facciale è molto buona. Ci sono alcune caratteristiche odontologiche che sono buone per distinguere gli individui africani ed europei da quelli asiatici. Inoltre si prendono le misure e le si mettono in un programma che le confronta con quelle che sono state fatte alle popolazioni conosciute. Nei due brani che seguono (Icy Clutches [1990], cap. 4; Skeleton Dance [2000], cap. 5) Gideon compie un primo esame preliminare su alcuni resti ossei per arrivare ad alcune conclusioni generiche sull’identità della persona cui appartengono e il periodo della morte «Gideon cominciò dalla mandibola. La prese con tutte e due le mani, rigirandola lentamente, con i gomiti appoggiati sul tavolo. Considerando che era stata per una trentina d’anni levigata limpica (The Dark Place, 1983), nello Yucatan (Curses, 1989), in Alaska (Icy Clutches, 1990), nella valle del Nilo (Dead Men’s Hearts, 1994), a Tahiti (Twenty Blue Devils, 1997), sul lago Maggiore (Good Blood, 2004), alle Hawaii (Where There’s a Will, 2005). 4 A. Elkins, Make No Bones, Mysterious Press, New York 1991, cap. 3.

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dal ghiacciaio, era abbastanza ben conservata. Era di un maschio; lo capì subito dalla ruvidezza, dalla grandezza, dalla doppia prominenza del mento. (Ai vecchi tempi, prima che la terminologia sessista fosse sottoposta a revisione, i maschi avevano la mascella quadrata. Adesso avevano il mento con una doppia prominenza.) Ed era di razza bianca; ma di questo era meno sicuro. La razza era più complicata da individuare del sesso; innanzitutto le possibilità erano più svariate, e in secondo luogo la mandibola non offriva molte indicazioni. Come la maggior parte degli antropologi fisici, non sempre riusciva a spiegare esattamente come faceva a capire, solo guardandola, che una certa mandibola era di un orientale, o di un bianco, o di un nero. Ma, come la maggior parte degli antropologi fisici, quando era convinto, era convinto. E non aveva dubbi che i più sofisticati calcoli analitici avrebbero confermato le sue scoperte, qualora avesse avuto i suoi strumenti per prendere qualche misura (oltre alla macchina calcolatrice per fare alcuni calcoli aritmetici). L’età era più semplice da determinare. La mandibola era di un uomo adulto; questo era evidente da quell’unico dente rimasto, un terzo molare, un dente del giudizio che denotava un’usura dai cinque ai dieci anni. Quanti anni poteva dunque avere questo maschio adulto? Considerando l’età media in cui spunta il dente del giudizio – verso i diciotto anni – e a questi aggiungendo quei cinque, dieci anni in cui era stato usato, si arrivava a un’età tra i ventitré e i ventotto; che era l’ipotesi che aveva fatto Gideon. Ma anche questo era un terreno su cui doveva muoversi con cautela. Diciotto poteva essere l’età media in cui si forma il dente del giudizio, ma i valori medi facevano spesso sbagliare, soprattutto nel caso dell’eruzione del terzo molare, così ampiamente variabile. Come amava ripetere ai propri studenti, tantissima gente era annegata nelle acque della Baia di San Francisco che non era, di media, profonda neanche un metro. E quanto a quei cinque, dieci anni di usura, sembrava un calcolo corretto, però era ancor meno affidabile. Il consumo dei denti dipende da quello che uno mastica. Se uno mangia un sacco di cibi granulosi, abrasivi, i denti si consumano molto in fretta. Se uno si nutre di pappine e gelatine, invece, potrebbe avere sì qualche problema, ma non quello di consumare i denti. Tutto questo suggeriva che una stima tra i venti e trentacinque anni sarebbe stata più cauta di quella tra i ventitré e i ventotto. Ma al diavolo! pensò Gideon; perché non tornare alla prima impressione, che era – come spesso diceva a se stesso – non un semplice sparare a vuoto, ma la fondata, oltre che intuitiva valutazione di uno scienziato dalla lunga esperienza? Be’, facciamo 25, tre anni in più o in meno. Il che restringeva il campo, ed era una stima che poteva essere ragionevolmente sostenuta. C’era ancora qualcosa che poteva dirgli la mandibola? Nessuna cura dentistica sul molare, naturalmente; se no sarebbe stato troppo facile. Né alcuna indicazione patologica. Undici dei dodici alveoli dentari erano vuoti, ma i loro bordi, dove non erano rotti o abrasi, erano appuntiti, senza alcuna traccia di riassorbimento osseo, il che significava che non erano stati curati e che perciò erano caduti dopo la morte, come di solito capitava ai teschi che venivano sballottati di qua e di là. L’unica ragione per cui il terzo molare era rimasto al suo posto era il fatto di essere leggermente incastrato, obliquamente incuneato sotto l’angolo del ramo. Vi erano alcune tracce di trauma: un’incrinatura curva e rotonda nella cuspide del molare e una leggera frattura dietro il condilo mandibolare sinistro, l’estremità tondeggiante dell’osso che si articola nella cavità dell’orecchio. Si notavano inoltre alcune linee di frattura che si irradiavano dal bordo rotto dove il lato destro della mandibola era stato spezzato, proprio dietro l’alveolo vuoto del primo premolare. Vi erano segni evidenti che questi traumi si fossero verificati nel momento della morte, quello che i patologi chiamano “trauma perimortem”. Niente di strano in questo. Quando uno veniva travolto da una valanga, era inevitabile che prendesse alcuni colpi. Pertanto: si trattava di un maschio di razza bianca di circa venticinque anni, sicuramente di

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statura non inferiore alla media, e in buona salute, con niente che indicasse che non fosse stato ucciso dalla valanga, e alcune cose che indicavano di sì. L’avrebbe analizzato più attentamente quando avesse ricevuto la sua attrezzatura, anche se dubitava di scoprire qualcosa di nuovo, che lo avrebbe aiutato a scoprirne l’identità. Mise giù la mandibola e prese il frammento del femore. Era l’estremità superiore dell’osso, lunga circa una quindicina di centimetri, e aveva subito più colpi della mandibola. Era evidente che era stato ben masticato, e, apparentemente, da più di un animale: da un orso sicuramente, e da qualcosa di più piccolo, una martora o una donnola. A ben guardare anche qualche corvo aveva fatto la sua parte. Tuttavia, poteva sempre scoprire qualcosa… Passò le dita sulla testa del femore, l’emisfero della grandezza di una palla da golf che si articola con l’acetabolo con cui forma l’articolazione dell’anca. La maggior parte era stata rosicchiata, ma era sufficiente per capire che apparteneva a una persona di età matura: l’estremità dell’osso, l’epifisi, era saldamente attaccata al corpo femorale, cosa che di solito si verifica verso i diciassette, diciotto anni di età. Quanto al sesso, era maschile. Non aveva bisogno di un calibro per vedere che il diametro della testa era di circa cinquanta millimetri, molto superiore dunque ai valori medi di una donna. Questo era tutto quello che poteva dire del femore. Purtroppo era assolutamente impossibile dire se apparteneva alla stessa persona cui apparteneva la mandibola. In seguito avrebbe provato a calcolare l’altezza della persona, ma per il momento doveva accontentarsi di questo: era di un maschio adulto. Punto e basta. Restavano i frammenti dentro lo scarpone, e qui c’era poco da scoprire. Le ventisei ossa che formano il piede umano: sette tarsali, dalla forma irregolare, tra cui la caviglia e il calcagno, cinque lunghe ossa metatarsali che formano l’arco, e quattordici tozze falangi che formano le dita del piede, non offrono informazioni utili all’ antropologo interpellato per un’indagine. O si trattava di questo, oppure il piede non era riuscito a catturare l’immaginazione degli antropologi per stimolare in loro delle ricerche più approfondite. In un modo o nell’altro, tutto quello che Gideon fu in grado di dire dopo averle ripulite, allineate, e brevemente esaminate, fu che il piede, come la mandibola e il femore, apparteneva a un maschio adulto, di corporatura abbastanza robusta. Questo glielo indicava la notevole grandezza del tarso, e il massiccio metatarso. (Non che bisognasse essere antropologo per scoprirlo! Quante erano le persone che portavano il 45 di scarpa che non fossero maschi, adulti, e di grande corporatura?). Avrebbe scoperto qualcosa di più quando fosse arrivata la sua attrezzatura, ma dubitava che fosse stato qualcosa di importante. […] Gli scarsi risultati non erano colpa sua, naturalmente; non c’era semplicemente nessun particolare interessante, niente che permettesse di distinguere una persona da un’altra; nessuna frattura cicatrizzata, nessuna traccia di operazioni chirurgiche, nessuna particolare anomalia, nessuna particolare formazione genetica. L’unica cosa interessante, in verità, erano quelle fratture “perimortem ” che presentava la mandibola. Strano, a ben pensarci, quanto quelle… […] Gideon disse loro quello di cui era relativamente sicuro. Che la mandibola apparteneva a un maschio di razza bianca, di venticinque anni, tre anni in più o in meno, probabilmente di statura al di sopra della media. Che anche il femore e il piede appartenevano a un maschio adulto, di statura al di sopra della media. Che non c’era niente che indicasse la razza, ma che nulla negava che potesse trattarsi anche in questo caso della razza bianca. Tutto qui. Per il momento tenne per sé gli interrogativi riguardo la mandibola. “Bene… significa che sono tutti di una stessa persona?” chiese Tibbett. Gideon allargò le braccia. “Potrebbe trattarsi di un’unica persona, come di tre. Di nessun os-

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so abbiamo la coppia, per cui non ci sono le prove evidenti che si tratti di più di una persona, il che però non significa che non possa essere così. E l’aspetto delle ossa non è abbastanza differente, né abbastanza simile, per dire con certezza che tutte appartengono alla stessa persona. Inoltre, tranne che per le ossa del piede, nessuna si trova vicino all’altra nello scheletro, perciò non possiamo neppure metterle vicine per vedere se combaciano.” Tibbett inarcò le sopracciglia. “È così che si fa?” Gideon sorrise. Spiegare il metodo di analisi dello scheletro era come spiegare uno di quei trucchetti in cui si fa scomparire un fiammifero, o comparire dal nulla una monetina. Molte persone, per altro intelligenti, restavano deluse quando scoprivano che non c’entrava per niente la magia. “Be’” rispose guardando seriamente il vice-direttore del parco “si possono applicare le equazioni di Baker e Newman, conoscendo il peso dei vari frammenti; ma dovrei avere una bilancia di precisione. […] Probabilmente era così. Non si notava niente su quelle ossa che potesse far dubitare che fossero rimaste là fuori per ventinove anni. In verità, avevano ancora quel tipico odore, simile alla cera di candela, che indicava che il grasso del midollo non era ancora del tutto secco. Di solito questo significava che la morte era avvenuta dai sei mesi ai quattro, cinque anni prima. Ma anche questo era molto variabile, dipendeva da diverse condizioni, tra cui il freddo, che poteva notevolmente rallentare tale processo, come ritarda tutti i processi degenerativi nei tessuti morti. E trattandosi di ossa rimaste sepolte in un ghiacciaio per due o tre decenni, ci si poteva aspettare un rallentamento sorprendentemente notevole.» «Tutte le ossa rimaste lì erano esposte. Il corpo era stato sepolto sul fianco sinistro, e così il fianco destro, essendo quello più in superficie, aveva subito il saccheggio peggiore. La maggior parte della metà sinistra era ancora intatta. In totale Gideon valutò che un po’ più di metà delle ossa, fra cui il cranio, era stato asportato o consumato, ma il conteggio finale si sarebbe fatto più tardi, quando i resti sarebbero stati portati all’obitorio, dove la luce sarebbe stata migliore e non avrebbe dovuto lavorare inginocchiato su uno straccio (fornito da un premuroso Joly) e tenendo un taccuino in bilico sulla coscia. Per il momento era alla ricerca delle informazioni più elementari, la maggior parte delle quali era già venuta alla luce e stava per essere presentata all’ispettore. Prima le cose più importanti: i resti sembravano essere quelli di un unico individuo (corrispondevano nel complesso per taglia e aspetto e non c’erano doppioni), ma anche quella conclusione necessitava di una verifica in laboratorio. Finché non si mette ogni osso accanto al suo vicino per vedere se vanno d’accordo, non si può essere sicuri: le giunture sono individuali come le impronte digitali. Secondo, era un maschio: lo si capiva da una mezza dozzina di indizi inequivocabili sulla pelvi. La razza era più difficile, non solo perché la razza era sempre più difficile del sesso (nel sesso ci sono solo due possibilità e lanciando in aria una moneta metà delle volte si ottiene la risposta giusta, ma quando si parla di razze gli antropologi sono ancora là a discutere di quante sono, e perfino se il concetto di razza abbia un qualche significato utile), ma perché la maggior parte dei principali criteri razziali si basava sul cranio, e il cranio non c’era. Per il momento supponeva che si trattasse di un indoeuropeo, ma più tardi avrebbe effettuato una serie di analisi metriche e applicato coefficienti di funzioni discriminanti sulle ossa lunghe per vedere se riusciva ad arrivare a qualcosa di definitivo. Quanto all’età, l’unica sinfisi pubica relativamente intatta era orlata e moderatamente incavata, il che faceva pensare a un uomo sulla cinquantina, una decina d’anni in più o in meno.

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L’unico segno di patologia che era emerso fino a quel momento era un’interessante zona di ispessimento e formazione callosa nella metà superiore dell’ulna sinistra, subito sotto il gomito, indice di infiammazione che poteva essere il risultato di un’ulcerazione della pelle o parte di una sindrome patologica tipo sifilide o forse la conseguenza di una ferita, anche se era quasi sicuro che non si trattava di una frattura. Purtroppo l’avambraccio destro non c’era, pertanto era impossibile dire se l’ipertrofia era bilaterale o … “Sì, sì” disse brusco Joly. […] “E da quanto tempo è qui, secondo lei?” Gideon si raddrizzò sulle cosce. “Difficile dirlo con una certa precisione. Tutto quello che è rimasto di tessuto molle, a parte qualche traccia secca, sono pochi frammenti di legamento e un po’ di cartilagine delle capsule articolari, per cui almeno sappiamo che è qui da un po’.” Allungò una mano dietro di sé per prendere uno degli ossi sparsi, la tibia destra, se ne portò un’estremità alle narici e inalò, prima piano, poi più a fondo. “Be’, aspetti un attimo” fece Gideon. “Si coglie ancora un certo odore di cera di candela.” “Cera di candela? Non capisco.” […] “Bene, l’odore è quello del grasso contenuto nel midollo osseo. Una volta passato attraverso la fase rancida, e non c’è bisogno di tenerlo sotto il naso per riconoscerla, sviluppa questo caratteristico odore di cera che dura qualche anno. A occhio e croce direi che sono qui da un minimo di due o tre anni, ma meno di dieci. Meno di quanto pensassi all’inizio.” Annusò di nuovo la tibia. “Diciamo da due a cinque anni, più o meno. Il processo di riduzione a scheletro è un po’ più avanzato di quanto ci si potrebbe aspettare per questo lasso di tempo, ma probabilmente è dovuto alla sepoltura poco profonda e al suolo smosso da quei trivellamenti, il che ha facilitato l’accesso a insetti e altro. Da due a cinque anni, questa è la mia ipotesi.” Joly sembrava soddisfatto. “Eccellente. Ho fatto analizzare al nostro chimico il come-sichiama, il livello di acidità…” “Il pH?” “Sì, il pH di qualche campione di terra aderente alle ossa. La sua conclusione è stata che corrisponde a un tempo dalla morte variabile da tre a sei anni. Confrontando le due stime, arriviamo a un intervallo da tre a cinque anni.” “Approssimativamente” ammonì Gideon. “Non conosco il vostro chimico, ma quanto a me, qui non si tratta di scienza esatta. Questa roba è maledettamente variabile: la composizione del terreno, la quantità di umidità, la temperatura, di tutto di più. […]” […] Con l’aiuto di uno dei due ufficiali di pace che Joly aveva condotto con sé, le fragili ossa furono avvolte singolarmente in carta di giornale per evitare che sfregassero l’una contro l’altra e poi messe in sacchetti di carta scura timbrati con il numero 99-4, a indicare che si trattava del quarto omicidio dell’anno della Dordogne. Non male, pensò Gideon. A Seattle arrivavano al quarto omicidio ben prima di settembre. Ogni sacchetto fu poi contrassegnato con una lettera dell’alfabeto a partire dalla parte superiore del corpo, un semplice sistema che Gideon usava dai tempi dei corsi di specializzazione: la mandibola rotta nel sacchetto A, l’unica scapola e l’unica clavicola rimaste nel sacchetto B, le vertebre (a eccezione dell’ottava toracica, che Joly avrebbe portato con sé a Périgueux) nel sacchetto C, e così via.»

Ricostruzione facciale. Arte più che scienza, è solo un’approssimazione del volto, un abbozzo, nella speranza che qualcuno lo riconosca. Ci sono tre tecniche. La prima, quella tridimensionale, utilizza la vecchia argilla sul teschio, ma

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è definitiva e non può essere modificata una volta compiuta. Un’altra, quella bidimensionale, è un disegno a tratteggio di un individuo basato sul teschio, usando altri tessuti. Da queste tecniche puoi fornire una linea disegnata. La terza, quella corrente, usa modelli generati dal computer dove si scannerizza il teschio e poi vi si mette sopra il tessuto. Il suo vantaggio è che si può cambiarlo e rendere la persona più vecchia o più giovane, più pesante o più magra, con gli occhiali o senza, con pettinature diverse; si procede in modi diversi alcuni usano il database con caratteristiche preesistenti: occhi, naso, figura del mento, ecc., mentre altri creano la faccia usando formule matematiche e ponendovi sopra la carne. Di seguito (Make No Bones [1991], capp. 9, 10 e 12) – e proprio dieci anni dopo la pubblicazione del già citato romanzo di Cruiz, Gorky Park, del resto ricordato indirettamente in termini non proprio elogiativi – viene proposto un altro esempio di ricostruzione facciale. «La scienza… o l’arte – la faccenda era tuttora controversa – di usare l’argilla per ricostruire un volto direttamente sul teschio, era praticata da pochi esperti. Erano forse una ventina in tutti gli Stati Uniti, di cui alcuni antropologi, altri artisti, che spesso lavoravano insieme. Nessuno di loro, tuttavia, era presente al convegno; a parte Gideon. Due anni prima aveva partecipato a un corso di due settimane per apprendere quella tecnica particolare e aveva scoperto di avere un certo talento. Ma aveva anche scoperto di essere sempre stato un pessimo osservatore. Aveva dovuto imparare, come se non le avesse mai viste prima, cose del tipo: com’è fatta una palpebra, un labbro superiore, l’attaccatura delle orecchie. Non si era scoraggiato però, e da allora aveva usato quella tecnica in quattro casi. E nonostante nessuno avrebbe mai scambiato il suo lavoro per quello di un artista, aveva avuto un discreto successo. Tre delle quattro ricostruzioni avevano confermato l’identificazione; e questo superava di gran lunga la media nazionale. Tra gli antropologi professionisti, tale pratica aveva tanti denigratori quanti seguaci; Gideon stava più o meno a metà strada. Questa tecnica, secondo lui, era da considerarsi un valido aiuto solo se usata con discernimento da gente che sapeva quel che faceva e che si rendeva perfettamente conto dei suoi limiti. Anche il successo ottenuto in tre dei quattro casi, lo attribuiva a una buona dose di fortuna. In un caso si trattava di una donna che aveva una gobba sul naso facilmente riconoscibile; in un altro, di un uomo con gli occhi straordinariamente lontani l’uno dall’altro; nel terzo caso, di un uomo con una mascella come quella di Benito Mussolini […]. Ma nel quarto caso, si era trattato di un teschio molto comune, senza caratteristiche particolari. E naturalmente era questo che era rimasto non identificato, in una scatola dell’ufficio del medico legale della contea di King, a Seattle. Gideon aveva sempre espresso con franchezza le proprie riserve su questa tecnica e sulle proprie capacità. Ciò nonostante Miranda, mentre preparava il programma del congresso, gli aveva chiesto di dare una dimostrazione pratica di quella tecnica, soprattutto per gli studenti che avrebbero partecipato al convegno. A tutto il materiale necessario avrebbe provveduto lei; e lui aveva accettato. Tale dimostrazione, che sarebbe durata metà giornata, era in programma per il pomeriggio seguente; ecco perché lì dentro poteva essere considerato una specie di esperto. […] Gideon si alzò. Non aveva però molto da dire. “La mia opinione è che non penso possa ser-

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vire a molto. Quando si ha già una certa idea di chi possa essere il cranio che si ha in mano, esistono metodi migliori, più veloci, per avere una conferma.” “Giusto!” approvò Les seduto tra il pubblico. “Perché pasticciare con l’argilla? Ci sono delle buone foto di Salish nel fascicolo, possiamo usare la tecnica della sovrapposizione sul video e le immagini create dal computer per vedere se corrispondono al cranio.” Da quando aveva aperto uno studio di consulenza, Les aveva cominciato ad apprezzare l’alta tecnologia. Nellie annuì con molta convinzione. “Dirò di più: non c’è nessun bisogno di queste diavolerie nel nostro caso. Non solo abbiamo praticamente l’intero scheletro di questo uomo, ma abbiamo anche la sua dentatura completa, che può essere direttamente confrontata con le cartelle odontoiatriche di Salish, non appena Lau le avrà trovate. Di cos’altro abbiamo bisogno?” Per quanto riguardava la tecnica della ricostruzione facciale, Nellie era decisamente tra i suoi denigratori. Aveva scritto numerosi articoli sull’argomento. Il più gentile era stato un articolo pubblicato sul “Journal of Forensic Science” intitolato La ricostruzione facciale: un innocuo divertimento senza alcun fondamento. “Lo scopriremo di sicuro se si tratta di Salish” concluse “e non dovremo ricorrere alla ricostruzione facciale per farlo.” “E se non è lui?” chiese uno degli studenti. […] “Magari salta fuori che si tratta di un altro. Una ricostruzione facciale ci fornirebbe almeno un punto di partenza.” “Non necessariamente” ribatté Gideon. “Non dimentichi che la ricostruzione facciale è ben lungi dall’essere una riproduzione esatta. Nessuno la guarda e dice: ‘Dio mio, ma è proprio lui!’ L’unica cosa che si può fare è mostrarla in giro e sperare che qualcuno scopra una pur vaga somiglianza.” “E cosa c’è di male in questo?” chiese una studentessa. “Non potremmo fare così?” “Mostrarla in giro? E a chi? Chi conosciamo che sia stato dato per scomparso?” La studentessa scosse la testa. “Non capisco.” “Vede, le ricostruzioni sono come le impronte digitali. Non servono a niente a meno che non si possa confrontarle con… con qualcuno ovviamente; e noi non sappiamo di nessuno che risulti scomparso. Nessuno, tranne Salish, e come hanno spiegato sia Les che Nellie, ci sono metodi migliori per provare che si tratta di Salish.”» «Sulla grande tavola erano disposti in bell’ordine i vari materiali che avrebbe usato: un paio di occhi finti, abbastanza inquietanti, color grigio scuro; una scatola di argilla color terra cotta; una gomma di una ventina di centimetri di lunghezza; una scatola di stuzzicadenti rotondi; una scatola di cotone; un tubetto di colla; un coltello dalla lama sottilissima; alcuni piccoli regoli; alcuni semplici attrezzi per modellare (ma le dita sarebbero state gli attrezzi più importanti); della carta vetrata e un opuscolo pubblicato dall’Università del Nuovo Messico dal titolo: Tavole dello spessore del tessuto facciale dell’americano di origine indo-europea. […] Gideon iniziò il lavoro, spiegandolo via via. Per prima cosa il cranio venne montato su un supporto di plastica. Quindi Gideon imbottì le fragili cavità delle orbite e del naso con del cotone, poi le coprì con uno strato protettivo di argilla. Con la colla attaccò dei pezzetti di stuzzicadente alla superficie dei molari inferiori, perché la bocca restasse leggermente aperta. Altrimenti, con i denti serrati, avrebbe avuto un’espressione innaturale. Dopo di che la mandibola venne attaccata al cranio con un po’ di argilla: un procedimento abbastanza facile questo, perché la mandibola si incastra perfettamente. Inserire gli occhi richiese più tempo. I bulbi oculari non riempiono completamente le orbite, per cui riuscire a sistemarle in modo perfetto, e cioè non troppo fuori, né troppo dentro, non troppo in alto, né troppo in basso, richiese molta pazienza. Entro le otto comunque, questi preliminari furono ultimati. Gideon adesso aveva davanti a

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sé un teschio i cui occhi grandi, stralunati, senza palpebre, lo fissavano in modo inquietante. A questo punto spiegò il resto del procedimento. “Prima di tutto, contrariamente a quello che potreste aver letto in qualche romanzo, non si fa una ricostruzione facciale ricostruendo la muscolatura strato per strato. Forse i Russi lo fanno ancora, ma noi abbiamo ottenuto risultati migliori prendendo come modello una pelle di spessore medio. Gli opuscoli davanti a voi mostrano le varie tabelle dello spessore medio della pelle dell’uomo indo-europeo, misurato in trentadue punti diversi della faccia. Quello che adesso mi accingo a fare è tagliare la gomma in trentadue sezioni, in modo da ottenere degli strati di vario spessore, che poi incollerò su questo cranio, ciascuno nel punto giusto. Una volta ottenuto il giusto spessore di carne nei vari punti, basta riempire gli spazi vuoti con l’argilla.” A questo punto sorrise. “Non è difficile.” “È un po’ come quel gioco in cui si devono unire i vari puntini” osservò uno studente. “Più o meno.” Però non disse loro che questa era la parte più facile. I tratti fondamentali della faccia, quella che salta fuori unendo i vari puntini nel giochino, erano relativamente semplici da ottenere e ragionevolmente accurati. Il guaio era che non si poteva riconoscere qualcuno soltanto dai tratti fondamentali del suo viso. Quello che ci rende riconoscibili in mezzo a milioni di altre persone non è la forma della faccia, ma gli occhi, gli orecchi, le labbra, il naso, “lo sguardo degli occhi e l’espressione unica, indefinibile” come aveva spiegato il suo insegnante al seminario. E, almeno per il momento, nessuno era riuscito a scoprire un metodo per ricostruire la piega di un labbro, o di una palpebra, esaminando l’osso sottostante. Per non parlare dell’espressione “indefinibile”. Ma tutto questo glielo avrebbe spiegato dopo; quando gli studenti avessero capito come si faceva la prima parte. Prima, avrebbe misurato e tagliato la gomma, incollato i pezzi sul cranio, quindi avrebbe tagliato l’argilla in varie strisce, le avrebbe arrotolate – i così detti “vermi” – e con esse avrebbe riempito gli spazi tra una striscia di gomma e l’altra, formando una specie di griglia dietro la quale quegli inquietanti occhi grigi, stralunati, sarebbero spuntati fuori come da dietro una maschera. E per arrivare fino a lì, ci sarebbe voluta quasi tutta la mattinata. Gli otto studenti mostravano un vivo interesse, che naturalmente faceva piacere a Gideon, ma le loro frequenti domande rallentavano il lavoro. Era quasi l’una quando gli spazi tra le strisce di gomma furono tutti riempiti e lasciati. Il risultato, come sempre a questo punto, era vago e deludente; i tratti erano ancora indistinti. Senza il naso, le labbra, le palpebre, le sopracciglia, le orecchie, la “faccia” non somigliava a niente. Mentre mangiavano la pizza che si erano fatti portare, Gideon spiegò che, per ottenere una faccia che somigliasse a qualcuno, bisognava smettere di fare l’antropologo e cominciare a fare l’artista. A parte qualche indicazione circa la forma e la misura del naso, il cranio non suggeriva niente altro; non era possibile dalle ossa sottostanti calcolare la larghezza della bocca, o lo spessore delle labbra, o la forma delle palpebre, o anche un minimo particolare delle orecchie. C’erano tuttavia alcune regole generali seguite dagli artisti: per esempio le sopracciglia si trovano dai tre ai cinque millimetri al di sopra del bordo orbitale; le orecchie sono a una certa distanza dal naso e lunghe circa come il naso; la bocca è larga quanto la distanza tra i denti canini, e via dicendo. Per fare questo ci sarebbe voluto il resto della giornata.» «Completare la ricostruzione consistette essenzialmente in un lavoro di cosmesi, nel tentativo di rendere il risultato finale il più possibile simile a una persona viva, e non a una maschera da film dell’orrore. Le orecchie vennero plasmate e attaccate alla testa, le sopracciglia incise sulla fronte, la nuca e i lati del cranio ricoperti con argilla. Modellato il collo con dell’altra argilla, il tutto venne poi montato su un busto preso da un negozio di abbigliamento. Gideon aggiunse

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qualche ruga, le borse sotto gli occhi, trattandosi di un uomo sulla sessantina, e levigò l’argilla con un pezzo di carta vetrata, così da ottenere un effetto granuloso, simile a quello della pelle. Poi applicò uno strato di cerone e un po’ di rosso; gli mise una camicia, sistemandola bene, e una parrucca castana, di capelli artificiali, un po’ giovanile purtroppo, che Miranda doveva aver trovato in qualche negozio di saldi. Gideon prese il proprio pettine e sistemò qualche ciocca della parrucca, poi fece un passo indietro. Tutto sommato, era abbastanza soddisfatto.»

6.3. La svolta di Thomas Harris: la presenza del profiler Il precedente impianto narrativo, tradizionalmente rivolto alle indagini su singoli delitti, viene bruscamente sconvolto in seguito al nuovo approccio impiegato nel caso degli omicidi seriali, subito recepito da Thomas Harris (Jackson, Ms, 1940): con Drago rosso. Il delitto della terza luna [1981] e poi Il silenzio degli innocenti [1988], infatti, egli affianca alla narrazione delle imprese del criminale, la descrizione del lavoro degli investigatori. «Come opere di finzione, i due romanzi di Harris sono eccezionali, sebbene la descrizione dei serial killer e degli agenti dell’FBI non sia del tutto realistica. Per esempio, il serial killer del suo primo libro, Francis Dolarhyde [chiamato “il Lupo Mannaro”], è il frutto della combinazione di una serie di attributi di diversi tipi di killer, di dinamiche della personalità che nel mondo reale difficilmente potrebbero coesistere in un’unica persona5. Inoltre, gli agenti dell’FBI non danno personalmente la caccia a questo genere di assassini; esaminano la scena del delitto, elaborano i profili della personalità e inviano i loro suggerimenti alla polizia locale, che si occupa del lavoro sul campo e alla fine esegue gli arresti.»6 Quanto poi all’allieva agente del suo secondo romanzo, Clarice Starling (probabilmente ispirata all’unica agente donna che a quei tempi lavorava per la BSU) non sarebbe mai stata messa «in una tale posizione di responsabilità o di pericolo». «Al successo del libro Il silenzio degli innocenti e dell’omonimo film [diret5

Anche il serial killer del suo secondo romanzo, Jame Gumb, soprannominato “Bufalo Bill”, secondo J. Douglas (Caccia cit., p. 31) presenta tre aspetti ripresi da altrettanti omologhi reali: lo stratagemma della finta ingessatura al braccio, che gli permette di avvicinare e aggredire le vittime, riprende quello usato da “Ted” Bundy, uno dei più noti assassini della storia americana, che negli anni Settanta sequestrò, uccise e stuprò decine di giovani donne in tutti gli Stati Uniti; il particolare di tenere le vittime prigioniere in un pozzo scavato in cantina corrisponde a quanto faceva Gary Heidnick negli anni Ottanta con le donne che catturava a Philadelphia; infine, l’idea di usare la pelle delle vittime per confezionarsi un corpetto femminile riprende la vicenda di Ed Gein, l’assassino che negli anni Cinquanta imperversò nella piccola comunità agricola di Plainfield, Wisconsin. 6 R.K. Ressler, L’odore del sangue [1992], Mondadori, Milano 2005, p. 272.

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to da Jonathan Demme; 1991] seguì una vera e propria corsa allo sfruttamento commerciale, sia dei serial killer sia di coloro che ne elaboravano i profili [presentati come «superpoliziotti che mettono in ombra gli altri agenti, risolvendo i casi dove gli altri hanno fallito»]. L’aspetto più insoddisfacente di questo materiale è, secondo me, che veniva preparato in maniera troppo precipitosa.»7 Su questa scia, e contemporaneamente sulla strada aperta da “Quincy M.E.”, si muove per esempio la serie di 8 telefilm scritta e prodotta da Stephen J. Cannell nel 1989, “Unsub” [abbreviazione di Unknown Subject, termine usato dalla polizia per indicare i criminali non ancora identificati], che, in un’ottica tipicamente americana, fa perno sulle più avanzate tecnologie impiegate dalla Sezione di Scienze Comportamentali del Dipartimento di Giustizia nella caccia a serial killer.

6.4. Patricia D. Cornwell e Kay Scarpetta Patricia D. Cornwell (Miami, 1956), mentre è ancora cronista di nera del “Charlotte Observer”, vista la sua passione, viene indirizzata al chief medical examiner di Richmond, Marcella Fierro, responsabile dell’ufficio di medicina legale della Virginia e sicuramente una delle massime autorità in questo campo. «Le ho parlato per tre ore – ricorda – e ho deciso che avrei fatto di tutto per restare lì.» Così, «nel 1984 mi sono fatta assumere all’Istituto di Medicina Legale di Richmond, dove sono rimasta per sei anni: dapprima come volontario, assistendo a oltre 4000 autopsie, e quindi come analista informatico.» Intanto, dall’‘84 all’‘87, alla sera, di ritorno dal lavoro, scrive tre romanzi gialli, tutti regolarmente rifiutati dagli editori; l’unico suggerimento le viene dato da un editor che le consiglia di sviluppare un inconsueto personaggio secondario, il medico legale Kay Scarpetta, parzialmente ispirato alla stessa Fierro. Dopo alcuni rifiuti, pubblica Postmortem [1990], il primo dei suoi finora 14 romanzi con questa protagonista, basato sui reali stupri e omicidi di quattro donne commessi a Richmond nel 1987 da Timothy Spencer, lo “stupratore del South Side”8. Intanto, comincia a frequentare regolarmente l’accademia di Quantico, sia in veste di scrittrice sia in qualità di consulente. Nell’estate 1993 la Cornwell, che sta documentandosi per il suo quinto romanzo, La fabbrica [lett.: fattoria] dei corpi [1994], telefona all’antropologo William M. Bass, direttore dell’Istituto di ricerca sulla decomposizione dei cadaveri, dell’Università del Tennessee, per chie7

R.K. Ressler, Op. cit., p. 273. In proposito cfr. di R.D. Keppel, Nella mente del serial killer [1997], Mondadori, Milano 2005, pp. 92-109. 8

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dergli di fare un esperimento per lei. «Aveva bisogno di sapere quali segni o tracce potevano restare su un corpo in cui era già cominciata la decomposizione e quanti di tali dettagli sarebbero rimasti una volta che il cadavere fosse stato trasferito altrove. […] Quando le inviammo una relazione con le copie delle nostre fotografie, disse che l’esperimento le aveva fornito esattamente il tipo di dettagli di cui aveva bisogno.»9 I risultati degli esperimenti del dottor Bass (nel romanzo diventato il dottor Lyall Shade), vengono fedelmente riportati nel romanzo, contribuendo in maniera determinante alla divulgazione delle ricerche di Bass, le uniche sui fenomeni legati alla decomposizione dei cadaveri. Fin dal primo romanzo, accanto alle descrizioni delle diverse attività di ricerca e di repertamento degli indizi materiali, si trovano frequenti riferimenti all’esame medico del cadavere (Postmortem [1990], cap. 6 e Quel che rimane [1992], cap. 5). «I referti preliminari sono il primo documento che il medico legale di turno prepara, limitandosi, in pratica, a trascrivere quel che ha visto sulla scena del delitto e quello che è venuto a sapere dalla polizia. I particolari non sempre sono del tutto precisi, in quanto si lavora in mezzo alla confusione e l’autopsia non è stata ancora eseguita. Inoltre, i medici legali di turno non sono esperti in patologia legale. […] Il loro compito principale è quello di stabilire se il caso merita un’autopsia e di trascrivere ogni particolare, scattando molte fotografie.» «La prima domanda che mi pongo di fronte a una ferita è se sia anteriore o successiva al momento della morte. Tralasciare i fatti che possono intervenire dopo la morte significa infatti incorrere in pericolosi errori. Le vittime degli incendi, per esempio, presentano fratture delle ossa ed emorragie epidurali; in pratica, è come se qualcuno le avesse prima percosse con violenza e poi avesse dato fuoco alla casa per mascherare l’omicidio. In realtà le ferite risalgono a dopo la morte e sono dovute all’enorme calore sprigionato dalle fiamme. I corpi ritrovati sulla spiaggia, invece, o quelli recuperati nei fiumi e nei laghi, hanno spesso l’aria di essere stati mutilati da un pazzo che si è accanito sul volto, sui genitali, sulle mani e sui piedi; la colpa però è dei pesci, dei granchi e delle tartarughe. I cadaveri abbandonati sul terreno vengono a loro volta morsicati, masticati e smembrati da topi, poiane, cani e procioni. Predatori a quattro zampe, alati e pinnati possono dunque infliggere un gran numero di danni, ma fortunatamente non prima che le loro vittime siano morte.»

Profilo criminale. Rifacendosi ai fantasiosi racconti ispirati alle peripezie del celebre barone tedesco (vissuto nel XVIII secolo), nel 1951 R. Asher conia l’espressione “Sindrome di Münchausen” (Münchausen Syndrome, “Lancet”, 1, 339-341) per indicare quel comportamento di chi si rivolge insistentemente ai 9 B. Bass e J. Jefferson, La vera fabbrica dei corpi [2003], Ed. Nord, Milano 2004, pp. 247 e 251

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medici lamentando continui disturbi inesistenti o dovuti ad atti di autolesionismo al solo fine di attirare su di sé l’attenzione compassionevole; analogamente, nel 1977 R. Meadows introduce l’espressione “Sindrome di Münchausen per procura” (Münchausen Syndrome by Proxy, “Lancet”, 2, 343-357) – da qualcunaltro sostituito con “Sindrome di Polle”, dal nome del figlio unico del barone morto all’età di un anno in circostanze sospette, forse per mano dello stesso padre – per indicare quel comportamento del genitore, solitamente la madre, che simula sintomi inesistenti o produce/induce deliberatamente disturbi nel figlio sino a portarlo alla morte; la frequente cronicità e ripetitività di tale comportamento lo accomuna o rende strettamente compatibile all’omicidio seriale. Da parte sua, Scarpetta si imbatte in «un ipotetico caso di morte neonatale improvvisa» (La fabbrica dei corpi [1994], capp. 11 e 17, da cui sono prese rispettivamente le due citazioni). «“Teoricamente la bimba aveva un anno, quando morì, il che mi dà da pensare. Come saprai, la fascia d’età più colpita va dai tre ai quattro mesi. Dai sei in poi, le probabilità di morte improvvisa calano drasticamente, e passato l’anno si può già parlare di forme di decesso repentino di altra origine. […]”» «[La “Sindrome di Münchausen per procura” è] un’incredibile sindrome in cui delle figure primarie – in genere madri – abusano segretamente e abilmente dei loro figli per attirare l’attenzione. Li feriscono, li avvelenano, rompono loro le ossa e li soffocano fin quasi alla morte. Poi si precipitano negli studi medici e ai pronto soccorso raccontando storie strazianti sul modo in cui si sarebbero ammalati o feriti. Tutti allora si commuovono e compatiscono queste povere madri, che finiscono così al centro dell’attenzione e diventano tanto esperte nel manipolare i medici da mettere in serio pericolo la vita dei propri figli. […] Queste donne sono delle bugiarde patologiche, non sanno cosa sia il rimorso.»

Tracce ematiche. Dopo qualche riferimento alquanto generico sulle macchie di sangue (per es. in Oggetti di reato [1991], cap. 1), la “Bloodstain Pattern Analysis” viene considerata esplicitamente soprattutto in due romanzi (Cadavere non identificato [1999], cap. 39, e L’ultimo distretto [2000], cap. 26, da cui sono tratte rispettivamente le citazioni). «Ogni goccia di sangue seguiva una traiettoria specifica dal punto di partenza (cioè dalla ferita) al punto di arrivo (per esempio la parete) e, a seconda della velocità, della distanza e dell’angolazione, assumeva una forma da cui si potevano ricavare informazioni importanti. Sebbene ormai molti calcoli si facessero con il computer, la rilevazione dei dati necessari era comunque un processo lungo e laborioso; inoltre avevamo sperimentato che in tribunale faceva molto più effetto un modello tridimensionale fatto di nastri piuttosto che una schermata di linee virtuali. Calcolare l’esatta posizione della vittima al momento di ogni colpo non era necessario, tranne che in casi particolarmente delicati, e il nostro non era uno di questi. Non avevo bisogno di tante misure per capire che era un omicidio e non un suicidio o che l’assassino era in preda a una

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terribile furia omicida.» «Il sangue grida dai muri e dal pavimento della camera da letto di Diane Bray sotto forma di gocce, chiazze, schizzi. Racconta una storia, spiega chi ha fatto cosa e talvolta anche perché. La violenza di un colpo influisce sulla velocità e sul volume degli schizzi che provoca. Dal sangue che cola quando l’arma viene sollevata si può calcolare il numero dei colpi inferti. Nel caso della Bray, almeno cinquantasei. Non si riesce a essere più precisi perché gli schizzi si sovrappongono e calcolarne gli strati è un po’ come cercare di scoprire quanti colpi di martello sono stati dati a un chiodo per piantarlo in un albero. La versione dei fatti che ci fornisce il sangue nella camera da letto di Diane Bray conferma quello che mi ha detto il suo cadavere […]. La stanza […] è attraversata dai tantissimi nastri tesi dai tecnici della Scientifica per ricostruire la traiettoria degli schizzi di sangue allo scopo di calcolare distanza dalla ferita, velocità e angolazione, e risalire attraverso un modello matematico alla posizione del corpo della vittima colpo dopo colpo. […] Le spiego [al procuratore Jaime Berger] che il sangue è composto al novantun per cento di acqua e segue quindi leggi fisiche, della dinamica e di gravità. Secondo un modello assoluto, una goccia di sangue cade a 7,9 metri al secondo. Il diametro della macchia prodotta aumenta all’aumentare della distanza da cui cade la goccia. Il sangue che cola su altro sangue produce una serie di schizzi tutto attorno alla macchia originaria. Uno spruzzo, invece, produce una macchia centrale da cui si dipartono schizzi lunghi e stretti. Seccando, il colore passa dal rosso acceso al ruggine, al marrone e quindi al nero. Conosco periti che hanno passato la vita a fare esperimenti, spruzzando, versando o lasciando gocciolare campioni di sangue su superfici di vario tipo da diverse angolazioni e altezze, camminando in pozze di sangue per poi saltare o battere i piedi, registrando meticolosamente i risultati e applicando alle prove pratiche regole matematiche, di geometria e trigonometria, per ricavarne dei modelli. Il sangue nella camera da letto di Diane Bray è un resoconto di ciò che vi è accaduto in un codice decifrabile solo con l’aiuto della scienza, dell’esperienza e della ragione. Jaime Berger vuole che io ricorra anche all’intuito. Una volta di più mi spinge ad andare oltre le mie competenze. Seguo decine di fili che collegano schizzi e macchioline sul muro e sulla porta a un punto a mezz’aria. Siccome non si possono legare i fili a mezz’aria, i tecnici della Scientifica hanno portato dall’ingresso un appendiabiti antico e fissato l’altro capo del filo a circa un metro e mezzo dalla base, per segnare il punto di origine. Le mostro dove si suppone che si trovasse la Bray quando le fu sferrato il primo colpo. “Era già in camera” le dico. “Vede questa zona ?” Indico un punto nella parete dove non c’è sangue, a parte qualche schizzo. “Il muro non si è sporcato perché c’era qualcosa che lo copriva. O il corpo di lei o quello di lui. Pertanto, almeno uno dei due era in piedi. Tuttavia, se lui era in posizione eretta, è presumibile che lo fosse anche lei, perché è difficile picchiare una persona a terra stando in piedi con la schiena diritta.” Le faccio vedere. “A meno che non si abbiano braccia lunghissime. Inoltre il punto d’origine è a più di un metro e mezzo da terra, a indicare che questo era il punto di contatto fra l’arma e il corpo. Presumibilmente in corrispondenza della testa.” Mi avvicino al letto. “Poi è caduta.” Le mostro le chiazze di sangue sul pavimento e le spiego che quando una goccia cade a novanta gradi, la macchia che lascia è perfettamente rotonda. Se una persona è a quattro zampe e sanguina dal volto, per esempio, le macchie sono rotonde. E sul pavimento della camera da letto di Diane Bray ci sono molte macchie rotonde. Alcune sono sbavate. Occupano una superficie di circa sessanta centimetri. A un certo punto, Diane Bray era a quattro zampe; forse cercava di sfuggire alla furia del suo aggressore.»

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Impronte genetiche. Nei due brani riportati (tratti da L’ultimo distretto [2000], capp. 25 e 31) la dottoressa Scarpetta dapprima ragguaglia il procuratore Jaime Berger sul Dna nucleare e mitocondriale e quindi accenna ad alcuni aspetti tecnici. «Le spiego che è possibile ottenere il Dna dal nucleo di una cellula dove questo è presente, e cioè nel sangue, nei tessuti, nel liquido seminale e nelle formazioni pilifere dotate di bulbo. Questo tipo di Dna è il più completo perché si eredita da entrambi i genitori, per cui consente di avere tutte le informazioni su un individuo e di confrontarne il profilo genetico con altri campioni biologici. […] Le spiego che si può estrarre il Dna anche dai mitocondri, che si trovano sulle pareti invece che nel nucleo delle cellule, e quindi da campioni biologici come capelli, unghie, elementi dentali e resti scheletrici. Il Dna mitocondriale costituisce la nostra struttura portante, per così dire, ma la sua utilità è limitata perché è ereditato solo per via materna. Faccio l’esempio dell’uovo. Supponiamo che il Dna mitocondriale sia l’albume e il Dna nucleare il tuorlo: non si possono confrontare fra loro. Se si ricava il Dna dal sangue, tuttavia, si ha l’uovo intero e si può confrontare mitocondriale con mitocondriale, cioè albume con albume.» «I loci, o alleli, sono semplici sequenze della mappa genetica. Siccome alcuni sono più comuni di altri, quanto maggiore è il loro numero e minore la loro frequenza, tanto più attendibile è il test. In realtà, l’attribuzione è sempre probabilistica: il problema è ottenere un’analisi sufficientemente accurata da escludere false incriminazioni. […] Si replica il Dna attraverso la PCR [che ha sostituito l’originaria RFLP, «molto affidabile ma anche estremamente lunga» e con ben precisi limiti, usata fino alla fine degli anni ‘80] e si studiano loci polimorfi denominati STR. Ormai nei data base del Dna si utilizzano profili analizzati su almeno 13 loci, in maniera da rendere sempre più improbabile un errore.»

Perizia documentale. Pressoché assente nella recente narrativa di genere, la si ritrova in alcune pagine del romanzo Oggetti di reato [1991], cap. 9 (da cui è tratto il brano); qualche anno dopo sarà invece l’argomento principale del romanzo di Jeffery Deaver, La lacrima del diavolo [1999; cfr. § 6.6.], e quindi uno degli elementi portanti del saggio, peraltro controverso, della stessa Cornwell, Ritratto di un assassino. Jack lo Squartatore: Caso Chiuso [2002]. «L’esame dei documenti è una delle pochissime procedure scientifiche che possono fornire risposte dirette e immediate. È concreto quanto la carta e tangibile come l’inchiostro. […] I frammenti non bruciati o degni di essere analizzati al comparatore video, dotato di lente schermata con un filtro a infrarossi, erano pochissimi e non più grandi di una monetina. Nessun aiuto tecnico o test chimico ci avrebbe assistiti nell’esame di quei bianchi ricciolini di cenere di carta velina. Erano così fragili che non osavamo rimuoverli dalla bassa scatola di cartone in cui Marino li aveva raccolti, e per evitare ogni movimento d’aria nella stanza avevamo chiuso la porta e tappato ogni fessura del laboratorio documenti. La frustrante e minuziosa operazione che stavamo compiendo consisteva nello smistare per mezzo di pinzette un mucchio di ceneri senza peso, prendendo qua e là, nella speranza di recuperare qualche parola. Per il momento sapevamo solo che Sterling Harper aveva bruciato fogli da

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venti libbre di carta di stracci con impressi caratteri battuti su nastro al carbonio. Di questo potevamo essere sicuri per diverse ragioni. Quando viene incenerita, la carta prodotta dalla pasta di legno diventa nera, mentre quella ricavata da fibre di cotone è incredibilmente pulita, le sue ceneri filamentose bianche come quelle trovate nel caminetto di casa Harper. I pochi frammenti non bruciati che stavamo esaminando coincidevano con le risme da venti libbre. Infine, il carbonio non brucia. Il calore aveva contratto i caratteri stampati rendendoli simili a quelli dei microfilm. Il nero di alcune parole, presenti per intero, risaltava contro l’impalpabile cenere bianca. Il resto era disperatamente frammentato e indistinto. […] [Marino] riprese a leggere la trascrizione del testo che Will [il capo sezione] aveva decifrato dal nastro estratto dalla macchina per scrivere di Cary Harper. Il nastro non era al carbonio, il che significava che le pagine bruciate da Sterling Harper non potevano essere state battute con la macchina del fratello. […] Will aveva pescato un altro frammento di frase da quella spaventosa e fuligginosa confusione, e io mi feci più vicina per osservarlo bene. […] “Questa parola indica decisamente un nome proprio, un luogo o una società, o qualcosa del genere” rifletté Will, […] le pinzette ferme come un bisturi fra le dita, mentre maneggiava con cautela il fiocco di cenere bianca sul quale le minuscole lettere nere scandivano bor Co. […] Will era di nuovo assorbito dalla scatola delle ceneri. Marino sbirciò la lista di parole che avevamo trovato fino al quel momento. [Alcune] erano comuni. […] Altre un po’ più specifiche […]. Quanto alle parole incomplete, non potemmo far altro che tirare a indovinare.»

Strumentazione. Tralasciando i diversi tipi di microscopio (stereoscopico, polarizzatore, comparatore, ecc.) o di altri strumenti già ricordati, come il comparatore video a proposito della perizia documentale, vengono indicati qui di seguito due fra i più conosciuti. Il Luminol: i primi studi sulla sua applicazione risalgono al 1913, mentre la sua introduzione come test di presunzione della presenza di sangue si deve a Walter Specht, dell’Istituto di medicina legale di Jena, nel 1937. Il brano riportato si trova in Insolito e crudele [1993], cap. 11. «“In realtà il sangue vecchio e decomposto reagisce al luminol meglio delle tracce più fresche, e questo perché il grado di ossidazione è più elevato. […] Il problema principale con il luminol sono le false reazioni positive. Sostanze come il rame, il nickel e i sali di rame presenti nel legno trattato.” “Il luminol ama anche la ruggine, lo iodio, la candeggina e la formalina” aggiunse Vander. “Più le perossidasi delle banane, dell’anguria, del cedro e di molti altri vegetali. Persino del rafano.” […] Mentre irroravo il pavimento con lo spray, l’indice costantemente premuto, cominciò ad alzarsi una nebbiolina e forme e configurazioni geometriche presero corpo attorno ai miei piedi. Per un attimo fu come sorvolare nel buio la pianta illuminata di una città. Antiche particelle di

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sangue intrappolate nelle fessure del parquet emettevano un bagliore azzurrobiancastro che svaniva e riappariva a velocità incredibile. Continuai a spruzzare, senza rendermi bene conto di dove mi trovavo nella stanza, ma ovunque vedevo impronte di scarpe. […] Alla mia destra, alcune impronte di mani costellavano la parete. […] I primi falsi positivi li ottenemmo dal televisore, quando le parti metalliche attorno ai pulsanti, allo schermo e agli spinotti si illuminarono di sfumature lattiginose.»

Il Luma-Lite, nominato per la prima volta sempre nel romanzo del 1993 e definito «l’ultimo ritrovato tecnologico», viene in seguito ricordato più volte; il brano, riportato con alcuni leggeri aggiustamenti, è contenuto in Cadavere non identificato [1999], cap. 4. «Il Luma-Lite è una sorgente luminosa […] in grado di rilevare i diversi fluidi corporei (sangue, liquido seminale, urina, saliva, sudore) e tipi di impronte, ma anche capelli, fibre, tracce di sostanze stupefacenti, e altre sorprese inaspettate e invisibili all’occhio umano. […] Misi il Luma-Lite, che assomiglia a un proiettore per diapositive, su un cartone all’interno del container e feci andare la ventola un minuto prima di accenderlo. […] Attraverso le lenti scure [necessarie per proteggere gli occhi dalla forte luce], l’interno del container divenne uno spazio di un buio impenetrabile disseminato qua e là di forme fluorescenti in diverse sfumature di bianco e di giallo, a seconda di dove puntavo l’obiettivo. La luce azzurrognola metteva in evidenza capelli per terra e fibre dappertutto, come era prevedibile in un luogo di passaggio usato per caricare e scaricare materiale. Le scatole di cartone emanavano un bagliore di un bianco lunare. Spostai il Luma-Lite più all’interno. Poiché i liquidi che fuoriescono dai cadaveri non diventano fluorescenti alla luce del Luma-Lite, il cadavere nell’angolo era una sagoma scura.»

6.3. Kathy Reichs e Tempe Brennan Katy Reichs (Chicago, 1950), dopo la laurea (B.A.) in antropologia all’American University di Washington, DC (1971) e la specializzazione (M.A. e Ph.D.) in antropologia fisica alla Northwestern University di Evanston, IL (1972 e 1975), comincia esaminando resti umani antichi, per poi approdare all’antropologia forense: «poiché ero l’esperto locale in ossa, la polizia ha cominciato a portarmi dei casi». E precisa: «Quando finii la scuola di specializzazione, l’antropologia forense era conosciuta solo da qualche poliziotto o pubblico ministero. A quei tempi, i miei colleghi e io eravamo un gruppo ristretto, noto a pochi e compreso da pochissimi. […] L’antropologia forense fu riconosciuta ufficialmente come specialità nel 1972, quando l’American Academy of Forensic Sciences istituì una sezione di Antropologia fisica. L’American Board of Forensic Anthropology fu costituito poco dopo. Anche l’FBI riconobbe l’importanza dell’antropologia forense, e fece ricorso all’aiuto degli scienziati dello Smithsonian per l’identificazione dei resti umani. Durante tutti gli anni

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Settanta, la disciplina continuò a svilupparsi, allargandosi alle indagini nel campo delle violazioni dei diritti umani […] e dei disastri di massa […]. Ma non lavoriamo da soli […], nella realtà il lavoro della polizia richiede collaborazione. Un patologo può analizzare gli organi e il cervello, un entomologo gli insetti, un odontoiatra i denti e le cartelle dentali, un biologo molecolare il DNA e un esperto di balistica le pallottole e le cartucce, mentre l’antropologo forense esamina le ossa. Il lavoro di gruppo è essenziale.»10 Nel 1994, poco dopo aver finito di lavorare ad un caso di omicidio seriale a Montreal e aver testimoniato al processo11, ormai professore a tempo pieno all’Università, su consiglio di un suo amico decide di cimentarsi nella narrativa, attingendo dalla sua più recente esperienza l’idea centrale di Corpi freddi [1997], il primo dei suoi finora nove romanzi con protagonista l’antropologa forense Tempe Brennan; ugualmente, tutta la sua produzione successiva risente della sua attività. Segni lasciati da un utensile qualsiasi (Tool Mark) su superfici e oggetti: la loro analisi si rifà agli stessi principi dell’analisi dei reperti balistici; in particolare, nel brano che segue (tratto da Corpi freddi, cap. 13) viene descritta la Saw Mark Analysis, ossia lo studio dei segni lasciati dalle seghe inventato da Steve A. Symes, un giovane antropologo di Memphis. «Quel primo esame [al microscopio] sembrò rilevare due tipi di segni. Le ossa del braccio presentavano sull’estremità dell’articolazione una serie di solchi a U paralleli fra loro caratterizzati da un fondo intersecato ad angolo retto da due pareti. Questi tagli misuravano quasi sempre sei millimetri circa di lunghezza e poco più di un millimetro di profondità. Sulle ossa lunghe delle gambe rilevai scanalature simili. I segni del secondo tipo erano a forma di V e più stretti rispetto ai solchi a U in quanto pareti e fondo non si incontravano ad angolo retto. I tagli a V comparivano isolati sugli acetaboli e sulle vertebre mentre verso le estremità delle ossa lunghe erano disposti parallelamente ai solchi a U. Riportai in un diagramma la posizione di ciascun segno e ne registrai lunghezza, profondità e, nel caso dei solchi a U, ampiezza. Quindi passai a osservare al microscopio i solchi a U e i calchi relativi, dall’alto e lateralmente. I calchi possono essere considerati una sorta di negativo tridimensionale che riproduce, al contrario, tutte le minuscole protuberanze, le scanalature e i graffi presenti sulle superfici del taglio. L’analisi del calco mi avrebbe permesso di cogliere quei particolari impossibili da rilevare tramite un esame diretto del taglio stesso. 10

K. Reichs, Prefazione a E. Craig, Il linguaggio segreto dei corpi [2004], Sperling & Kupfer, Milano 2004, pp. IX-XI. 11 Serge Archambault, che dopo il secondo omicidio ha usato la carta di credito della vittima permettendo così alla polizia di rintracciare la traslazione e arrestarlo, ha confessato di aver ucciso una terza vittima due anni prima, di averne tagliato il corpo e di averlo messo in cinque posti diversi; a questo punto la Reichs entra nel caso, aiutando a stabilire l’identità dei resti e la modalità del depezzamento. Viene condannato per tre omicidi di primo grado.

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Poiché braccia e gambe erano state disarticolate, e non segate, tutte le ossa lunghe erano rimaste intere. Facevano eccezione le ossa degli avambracci, mozzate appena sopra i polsi. L’osservazione delle estremità tagliate di netto del radio e dell’ulna rivelò la presenza di spuntoni da spezzamento. Ne presi nota e registrai la loro posizione, quindi analizzai la sezione laterale di ogni taglio. […] “Pare che Claudel non creda molto in queste analisi dei tagli. Per lui una sega è solo una cosa che taglia, niente di più.” “E lei che ne pensa?” “Veramente io non me ne intendo.” “Suvvia, avrà pur fatto qualche piccolo lavoro in casa.” “Be’, so che si usano per tagliare varie cose.” “Bene. Quali cose, per esempio?” “Legno, rami, metallo…” Fece una pausa. “Ossa.” “E come tagliano?” “Come?” “Sì, in che modo?” Rifletté qualche secondo. “Con i denti. I denti vanno avanti e indietro e tagliano il materiale.” “E le seghe circolari?” “Be’, quelle hanno la lama che gira.” “Ma come penetrano? Come un coltello o come uno scalpello?” “Che cosa intende?” “I margini dei denti sono affilati oppure piatti? Tagliano il materiale oppure lo lacerano?” “Oh…” “E lo tagliano quando vanno avanti o quando tornano indietro?” “Non capisco, dove vuole arrivare?” “Lei ha detto che i denti vanno avanti e indietro. Giusto. Ma in quale momento il materiale viene effettivamente tagliato? Quando vanno avanti o quando tornano indietro? Quando si spinge o quando si tira?” “Ah, ecco…” “I denti sono fatti per procedere lungo la venatura o contro la venatura?” “È importante?” “Quale distanza c’è tra un dente e l’altro? E la spaziatura è uniforme? Quanti sono i denti sulla lama? Che forma hanno? Qual è l’inclinazione antero-posteriore? I margini sono appuntiti oppure ad angolo retto? Come sono posizionati rispetto al piano della lama? Che tipo di…” “Va bene, va bene… ho capito. Sono pronto ad ascoltarla. Le cedo la parola.” “Esistono centinaia di seghe diverse. Seghe da tronchi, seghe trasversali, saracchi, seghetti, seghetti da ferro, seghe per serrature, seghe per carne, seghe Ryobi e Gigli, seghe per osso e metacarpali. E queste sono solo quelle manuali, cioè quelle attivate dalla forza muscolare. Fra quelle che invece sono alimentate a energia elettrica o a scoppio, alcune si muovono con movimento alternato, altre con movimento continuo. Alcune vanno avanti e indietro e altre invece girano. Inoltre, ogni sega è concepita per agire su un materiale specifico e quindi mentre taglia produce effetti diversi. Comunque, per limitarci a quelle manuali, cioè a quelle che ci interessano in questo caso, possiamo dire che le differenze riguardano essenzialmente le dimensioni della lama e le caratteristiche dei denti: misura, passo e inclinazione. Tutto questo per dire che ogni sega lascia su un materiale come le ossa una firma riconoscibile. Per esempio solchi di varie ampiezze che presentano tracce particolari su fondo e pareti.” “Se ho capito bene, lei mi sta dicendo che analizzando un osso è possibile risalire alla sega

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con cui è stato tagliato?” “No. Le sto dicendo che è possibile stabilire il tipo di sega che, con più probabilità, ha lasciato quei segni.” Gli servì qualche secondo per digerire la mia affermazione. “E lei da cosa ha capito che in questo caso si tratta di una sega manuale?” “Non essendo azionate a mano, le seghe elettriche tendono a lasciare segni più uniformi. Le graffiature nei tagli, o meglio le strie, hanno un andamento più omogeneo, e così pure la direzione del taglio, nel senso che, diversamente da quanto accade con le seghe manuali, si verificano meno cambiamenti di direzione. Inoltre, poiché non richiedono un grande sforzo muscolare succede spesso che chi le maneggia produca parecchi pseudoindizi, in genere piuttosto profondi. E dato che sono più pesanti, e che talvolta chi le manovra spinge sull’estremità da tagliare, producono spuntoni da spezzamento più grossi.” “E se una sega manuale viene usata da un individuo molto forte?” “Ottima domanda. La forza e l’abilità personali sono fattori importanti. È vero, però, che spesso le seghe elettriche lasciano dei graffi all’inizio del taglio perché la lama tocca il materiale mentre è già in movimento. Inoltre, le scheggiature all’uscita sono più marcate e sulla superficie del taglio la maggior potenza delle seghe elettriche può manifestarsi come una sorta di lucentezza.” A quel punto Ryan mi concesse qualche secondo prima di sollecitarmi con un’altra domanda. “Cos’è uno pseudoindizio?” “Il primo contatto della lama con l’osso incide un solco, detto anche intaccatura, i cui angoli si trovano sulla superficie d’urto iniziale. Via via che la sega penetra nell’osso, gli angoli iniziali diventano pareti e si forma il fondo dell’intaccatura, come succede appunto nei solchi a U. Se però la lama salta fuori dal solco già segnato, o se viene ritirata senza che il taglio dell’osso sia completo, l’intaccatura che rimane viene detta pseudoindizio. Da uno pseudoindizio è già possibile ricavare tutte le informazioni necessarie, perché la sua ampiezza è determinata dalla larghezza della lama e dall’inclinazione dei denti. La sua sezione trasversale ha inoltre una forma particolare e rivela l’eventuale presenza di segni distintivi.” “E se la sega taglia l’osso senza produrre pseudoindizi?” “Se il taglio prosegue fino alla separazione definitiva, il fondo dell’intaccatura può essere ancora visibile in uno degli spuntoni di spezzamento, cioè in una di quelle schegge appuntite presenti sul margine dell’osso nel punto in cui si spezza. Inoltre, è sempre possibile trovare sulla superficie di taglio dei segni impressi da singoli denti.” Ripresi il radio di Isabelle Gagnon, cercai uno pseudoindizio parziale su uno degli spuntoni e posizionai opportunamente la luce della fibra ottica. […] “Osservi il fondo dell’intaccatura. Cosa nota?” “Si direbbe che è coperto di grumi.” “Appunto. Quei grumi sono isole di tessuto osseo, e la loro presenza rivela che i denti erano disposti ad angoli alternati rispetto alla lama della sega. Questo tipo di disposizione dà luogo a un fenomeno noto come deriva della lama.” Sollevò la testa dal microscopio e mi guardò inespressivo. “Quando il primo dente penetra nell’osso cerca di allinearsi con il piano della lama, cerca cioè la linea mediana, e la lama tende a seguire questo movimento. Il dente successivo cercherà di comportarsi allo stesso modo, ma, poiché è inclinato nella direzione opposta, obbligherà la lama a cambiare inclinazione. Dato che questo succede per tutti i denti, le forze che agiscono sulla lama cambiano continuamente, inducendo la lama stessa a compiere piccoli spostamenti

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all’interno dell’intaccatura. Maggiore è l’inclinazione dei denti e maggiore sarà lo spostamento forzato della lama. Quando l’inclinazione è molto ampia, gli spostamenti sono tali da lasciare del materiale lungo la linea mediana dell’intaccatura che va a formare. Appunto, le isole di tessuto osseo. In altre parole, i grumi che lei ha visto.” “Quindi significa che i denti erano inclinati?” “Veramente queste isole dicono molto di più. Dato che il cambiamento di direzione di ogni dente è provocato dall’inserimento del dente successivo, la distanza fra questi cambiamenti di direzione equivale alla distanza fra i denti. E poiché le isole rappresentano i punti in cui la deriva della lama è maggiore, anche la distanza fra le isole equivale alla distanza tra due denti. Aspetti che le mostro ancora qualcosa.” Tolsi il radio dal microscopio e inserii l’ulna, illuminando la superficie del taglio che aveva reciso la mano. “Riesce a vedere quelle linee ondulate?” “Sì. Assomigliano a un’asse per il bucato, solo che sono curve.” “Bene. Quelle linee sono chiamate ‘armonici’. La deriva della lama lascia quei picchi e quegli avvallamenti sulle pareti del taglio proprio come lascia le isole di tessuto osseo sul fondo. I picchi e le isole corrispondono ai punti di maggior ampiezza dello spostamento, mentre gli avvallamenti e i restringimenti del fondo corrispondono ai punti dello spostamento in cui la lama è più vicina alla linea mediana.” “Quindi, come accade per le isole, è possibile misurare anche picchi e avvallamenti.” “Esatto.” “E come mai nella parte inferiore dell’intaccatura non vedo niente di tutto ciò?” “Perché la deriva della lama si verifica prevalentemente all’inizio o alla fine di un taglio. Quando cioè la lama è più libera di spostarsi in quanto non è trattenuta dall’osso.” “Sì, mi sembra che abbia senso.” Alzò lo sguardo. “E cosa mi dice della direzione?” “Del colpo o dell’affondamento?” “Quale sarebbe la differenza?” “La direzione del colpo dipende dal momento in cui effettivamente avviene il taglio, cioè se avviene quando si spinge o quando si tira. Quasi tutte le seghe occidentali tagliano sulla spinta. Alcune seghe giapponesi, invece, tagliano nella fase opposta. Altre ancora in entrambe. La direzione dell’affondamento è la direzione in cui la lama si muove all’interno dell’osso.” “E lei è in grado di stabilire tutto questo?” “Sì.”»

Analisi merceologica. Come risulta dal brano riportato (tratto da Corpi freddi [1997], cap. 36), questo tipo di esame riguarda innanzitutto le caratteristiche più evidenti e la composizione chimica degli oggetti. «Depose le buste di plastica su un ripiano e indossò dei guanti chirurgici. Quindi, con grande cautela, estrasse i due reperti, li esaminò e li riappoggiò ciascuno sopra la propria busta. I guanti che si era appena messo erano identici a quelli sul ripiano. “Innanzitutto andremo alla ricerca delle caratteristiche più evidenti, come i particolari di fabbricazione, il peso, la grana, il colore. E le rifiniture dei bordi.” Girò ripetutamente i due guanti di lattice, analizzandoli e continuando a parlare. “Sembrano molto simili tra loro. Stessa tecnica di rifinitura. Vede?” Guardai. Il polsino di ciascun guanto terminava con un bordo arricciato verso l’esterno. “Nel senso che non sono tutti uguali?”

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“Esatto. Alcuni si avvolgono all’infuori, altri all’indentro. Questi sono entrambi esterni. Bene. Ora vediamo che altro ci raccontano.” Portò il primo guanto fino a un apparecchio delle dimensioni di una fotocopiatrice, sollevò il coperchio e lo depose su una specie di vaschetta situata all’interno. “Per i campioni più piccoli uso quelle.” Indicò delle provette di plastica. “Prendo un pezzetto di pellicola di polipropilene, la tendo sulla bocca del contenitore e con un po’ di adesivo a doppio strato creo una base vischiosa di supporto al frammento. In questo caso però non ce n’è bisogno. Infileremo direttamente dentro il guanto.” Premette un tasto e la macchina parve svegliarsi con un pigro ronzio. […] “In questo modo capiremo cosa contiene il guanto?” “Precisamente. È come un’analisi ai raggi X: attraverso la microfluorescenza è possibile determinare quali elementi chimici sono presenti in un dato campione.” Quando il ronzio cessò, sul monitor di destra cominciò a delinearsi una specie di disegno. Una serie di minuscole protuberanze rosse comparve sul lato inferiore del video sviluppandosi contro uno sfondo azzurro intenso, ciascuna attraversata da una sottile riga gialla. Nell’angolo in basso a destra era riprodotta l’immagine di una tastiera, con i tasti contrassegnati dalle abbreviazioni dei vari elementi. Lacroix digitò qualche comando e sul video si materializzarono delle lettere. Alcune protuberanze restarono piccole, altre crebbero fino a trasformarsi in impervi pinnacoli, simili ai torrioni delle termiti giganti australiane. “Eccolo.” Lacroix indicò una colonna a destra. Si innalzava dalla base al vertice dello schermo, dove la cima appariva addirittura troncata. Un picco di dimensioni inferiori, a destra del primo, si arrampicava fino a un quarto della sua altezza. Entrambi erano contrassegnati Zn. “Zinco. Un classico. Si trova in tutti i guanti di questo tipo.” Poi mi mostrò altre due formazioni turrite all’estrema sinistra, una bassa, l’altra lunga tre quarti del video. “La prima è magnesio, Mg. Quella più alta, con la sigla Si, è silicio.” Tornando verso destra, un altro doppio picco riportava la lettera S. “Zolfo.” Quello marcato Ca si ergeva spiraleggiando fino a metà schermo. “E non manca una buona dose di calcio.” Alle spalle di quest’ultimo si apriva una spaccatura, seguita da numerosi monticelli: semplici colline, in confronto alle alpi di zinco. Fe, diceva la scritta. “Un po’ di ferro.” Lacroix si appoggiò allo schienale e riassunse la situazione. “Nel complesso mi sembra un cocktail piuttosto comune. La componente primaria è lo zinco, mescolato a calcio e silicio. Stamperò questa schermata e passeremo a esaminare un’altra zona.” Ripetemmo il test per un gran numero di aree, tutte caratterizzate dalla stessa combinazione di elementi. “Be’, direi che così basta. Proviamo con l’altro guanto.” I picchi di zinco e di zolfo si rivelarono molto simili, ma quel secondo reperto conteneva una percentuale di calcio alquanto superiore ed era del tutto privo di ferro, silicio e magnesio. In compenso, una sorta di esile scheggia indicava la presenza di potassio. Stesso esito per tutte le aree analizzate. “Cosa significa?” chiesi, ma ero già sicura della sua risposta. “Significa che ogni fabbricante di lattice utilizza ingredienti leggermente diversi. Addirittura non è raro trovare differenze fra i guanti prodotti dalla stessa casa, ma sempre entro certi limiti.” “In poche parole questi guanti non provengono da un unico paio?”

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“Direi di più: che non sono nemmeno della stessa marca.” Si alzò per andare a riprendere il guanto, lasciandomi sprofondare nei pensieri. “Il sistema a diffrazione di raggi X potrebbe fornirci informazioni più precise?” “Il procedimento a cui ha appena assistito, la microfluorescenza a raggi X, ci rivela quali elementi sono presenti in un oggetto. La diffrazione, invece, ne descrive la miscela, la struttura chimica. Con il primo metodo possiamo per esempio scoprire che un certo campione contiene sodio e cloruro. Con la diffrazione stabiliamo che si tratta di cristalli di cloruro di sodio, in pratica sale da cucina. Per semplificare al massimo, nel diffrattometro il campione viene fatto ruotare e bombardato con raggi X: la loro modalità di diffrazione, in pratica il modo in cui rimbalzano, rifletterà fedelmente la struttura specifica dei cristalli. Il limite di questa indagine è la sua praticabilità solo in presenza di materiali a struttura cristallina, benché si tratti dell’ottanta per cento dei casi che ci capitano. Ma il lattice fa parte del restante venti per cento, quindi immagino che la diffrazione non ci racconterebbe granché di nuovo. No, questi due guanti provengono decisamente da fabbriche diverse.” “E se invece uscissero solo da scatoloni diversi? Anche fra le partite di lattice esisteranno variazioni più o meno rilevanti, no?” Lacroix rimase silenzioso un istante. Poi: “Aspetti. Voglio mostrarle qualcosa.” Scomparve in laboratorio, dove lo sentii confabulare con il suo assistente, quindi ricomparve reggendo una pila di fascicoli stampati, ciascuno composto da sei o sette fogli con l’ormai noto motivo a spire e pinnacoli. Ne aprì uno dopo l’altro, e insieme studiammo le varianti. “Ecco, vede? Ciascuna di queste mostra una sequenza di test eseguiti su guanti provenienti da un’unica fabbrica, ma da scatoloni diversi. Le differenze esistono, ma in tutti i casi sono di gran lunga inferiori a quelle rilevate nei nostri due campioni.” Ostinata, ripassai alcune serie più e più volte. Aveva ragione. Le dimensioni dei picchi variavano, ma le componenti erano sempre le stesse.»

Entomologia forense. Le prime notizie sul suo utilizzo in un’indagine giudiziaria per omicidio risalgono a un’autopsia eseguita su un fanciullo nel 1849 dal medico francese Jules Bergeret che, basandosi su considerazioni tecniche, valide ancora oggi, come la conoscenza della modalità di colonializzazione in successione di un cadavere da parte di una sequenza nota di insetti, arriva alla conclusione che la morte non è recente (Infanticide, momification du cadavre, “Ann. Hyg. Leg.”, 1855, 4, 442-452); da allora egli continua a utilizzare in modo più o meno continuo l’entomologia come ausilio alla medicina legale, realizzando studi che sono il punto di partenza perché Brouardel solleciti la collaborazione di Jean Pierre Megnin (1828-1905), che a partire dal 1883 pubblica numerosi scritti che ampliano e sistematizzano l’entomologia forense (La fauna des cadavres. Application de l’entomologie à la médecine legale, Masson, Paris 1894). Nonostante l’importanza di questi studi la disciplina viene trascurata fin verso la metà del 900 soprattutto per tre motivi: il distacco tra entomologi e medici legali, il ristretto numero di casi in cui vengono richiesti gli entomologi, la carenza di entomologi specializzati nello studio sistematico biologico della fauna dei cadaveri; in questo periodo bisogna comunque segnalare almeno le indagini del dottor Alexander G. Mearns, dell’Istituto di Igiene dell’Università di Glasgow,

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sul “caso Ruxton” (1935). In seguito, grazie soprattutto ai contributi di Marcel Leclercq, dell’Istituto di Medicina legale di Liegi, che dal 1947 utilizza il metodo di Megnin (Entomologie et médecine lègale. Datation de la mort, Masson 1978), un numero sempre crescente di studiosi si interessa a questa disciplina; in particolare bisogna ricordare, oltre allo statunitense Marc Lee Goff (A Fly for the Prosecution. How Insect Evidence Helps Solve Crime, Harvard University 2000), almeno Francesco Introna, responsabile dell’unica sezione italiana di entomologia forense. Nei due brani seguenti (tratti da Cadaveri innocenti [1999], capp. 17 e 2324) si spiega come l’identificazione delle specie e degli stadi di vita e lo studio eco-etologico degli insetti permette di stimare con sufficiente precisione l’epoca della morte e la presenza di sostanze tossiche nel cadavere; ma altresì la presenza di DNA umano estratto dai contenuti presenti nel tratto digestivo degli insetti; «“La zona dove hanno sepolto questo cadavere sarà piena di insetti di ogni genere. Innanzitutto è poco profonda, e poi gli avvoltoi e i procioni hanno parzialmente esposto il cadavere. Quel posto è stato una vera manna per le mosche, e così le useremo per determinare il PMI.” “Che roba è?” “Sta per ‘post mortem interval’, e cioè il tempo trascorso dal momento del decesso al momento del ritrovamento.” “E come lo determinate?” “Gli entomologi hanno studiato gli insetti che si nutrono di carogne, più che altro mosche e coleotteri, e hanno scoperto che le varie specie attaccano il cadavere in una certa sequenza: alcune specie di mosche arrivano dopo qualche minuto, altre più tardi. Gli esemplari adulti poi depositano le uova, e le uova si trasformano in larve. I vermi non sono altro che larve di mosche. Dopo un certo periodo di tempo le larve diventano pupe, cioè abbandonano il cadavere e si chiudono in un bozzolo dove subiscono altre trasformazioni fino a diventare soggetti adulti e pronti a ricominciare nuovamente il ciclo.” “Ma perché gli insetti non arrivano tutti nello stesso tempo?” “Perché le varie specie hanno modalità alimentari diverse. Alcune si cibano direttamente del cadavere, altre preferiscono mangiare le uova e le larve degli insetti che le hanno precedute.” “Cosa farai con gli insetti?” “Raccolgo dei campioni di larve e di bozzoli, e cerco di catturare anche qualche insetto adulto. A seconda dello stato di conservazione, posso anche utilizzare una sonda per rilevare i valori termici del cadavere. Se si sono formate delle colonie di vermi, la temperatura interna di un cadavere aumenta sensibilmente. E questo facilita la determinazione del PMI.” “E poi?” “Conservo tutti gli adulti e metà delle larve in una soluzione alcolica. Poi chiudo il resto delle larve in contenitori isolati con la vermiculite e lascio che gli entomologi le allevino fino a scoprire che insetti sono.”» “Cosa mi sai dire?” “Innanzitutto, credo che le tue vittime siamo state uccise di giorno. O comunque che i corpi siano stati esposti alla luce del sole per un po’ prima di essere sepolti. Ho trovato larve di Sarcophaga bullata. È una specie di moscone grigio della carne. Su entrambi i cadaveri tu ne hai rac-

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colto sia i pupari sia le pupe intatte.” “Quindi?” “Le Sarcophagidae non sono troppo audaci dopo il tramonto. Se si ritrovano accanto a un cadavere, è possibile che vi depongano le larve, ma di notte non sono molto attive.” “Depongono le larve?” “Sì, alcuni insetti depongono uova, altri depongono larve.” “Larve come?” “Larve al primo instar. Il primissimo stadio dello stato larvale. Tutte le Sarcophagidae depongono larve. È una strategia che permette loro di partire con una marcia in più rispetto al resto dei vermi, e inoltre è una forma di protezione contro i predatori che si alimentano di uova.” “Ma allora perché non tutti gli insetti depongono le larve?” “Perché c’è sempre un rovescio della medaglia. Le femmine non possono produrre un numero di larve pari a quello delle uova. È una sorta di compensazione. Ho anche il sospetto che i corpi siano stati all’aperto, almeno per un breve periodo, perché le Sarcophagidae non amano entrare negli edifici, come invece capita ad altri gruppi di insetti. Alle Calliphoridae, per esempio.” “Questo in effetti potrebbe avere un senso. Le vittime potrebbero essere state uccise sull’isola oppure trasportate là a bordo di una barca.” “In ogni caso, immagino che siano state uccise di giorno e che i corpi siano rimasti per un certo periodo di tempo all’aperto e fuori dal terreno prima di essere sepolti.” “E cosa mi dici delle altre specie?” “In entrambi i casi, la sepoltura avrebbe ritardato la consueta invasione di insetti. E comunque, dopo che il cadavere superiore è stato esposto dagli animali che scavano la terra, le Calliphoridae lo avrebbero trovato un luogo irresistibile per deporre le loro uova. In genere questi mosconi blu della carne arrivano pochi minuti dopo il decesso, insieme ai loro amici, i mosconi grigi. Sono entrambi dei grandi volatori. Tu hai raccolto larve al primo, secondo e terzo instar e pupari e pupe di almeno due specie di mosconi blu.” “Il che significa?” “Okay, piccola lezione. Rivediamo il ciclo vitale della mosca. Come noi, le mosche adulte sono molto preoccupate di trovare dei luoghi adatti per allevare la loro prole, un cadavere è un luogo perfetto: ambiente protetto e un sacco di roba da mangiare. I cadaveri sono così interessanti che i mosconi blu possono arrivare dopo appena qualche minuto dalla morte, dopodichè le femmine decidono se deporre le uova immediatamente oppure alimentarsi per un po’ con i fluidi che colano dai resti e poi deporre le uova.” “Carino.” “Ehi, guarda che quella roba ha un sacco di proteine! Se il cadavere presenta delle lesioni, si dirigono là, altrimenti scelgono i vari orifizi: occhi, naso, bocca, ano… I mosconi blu depongono enormi quantità di uova che possono letteralmente riempire gli orifizi naturali del corpo e le ferite. Mi hanno detto che laggiù la temperatura non era molto alta, quindi è possibile che nella fossa non ce ne siano state molte.” “E quando le uova si schiudono, i vermi occupano la scena.” “Esattamente. Atto secondo. […] Le uova deposte nello stesso momento si schiudono nello stesso momento, quindi i vermi maturano insieme, e insieme si alimentano. Sicché, è possibile vedere enormi masse di vermi che si spostano sul cadavere. Il comportamento alimentare del gruppo determina la disseminazione di batteri e la produzione di enzimi digestivi che consentono ai vermi di consumare gran parte dei tessuti molli di un cadavere. È un sistema altamente efficiente. I vermi maturano rapidamente e quando raggiungono il massimo stadio di sviluppo subiscono un radicale cambiamento comportamentale: smettono di alimentarsi e cercano un luogo

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più secco, in genere lontano dal cadavere.” “Parte terza.” “Giusto. Le larve si scavano una tana nel terreno e contemporaneamente la loro pelle esterna si indurisce trasformandosi in un bozzolo protettivo chiamato pupario. Assomigliano a piccoli palloni ovali. Il verme rimane dentro il bozzolo fino a che le sue cellule non si sono riorganizzate e infine ne esce come mosca adulta.” “È questo il motivo per cui i bozzoli sono così significativi?” “Sì. Ricordi i mosconi grigi?” “Sì, le Sarcophagidae, quelle che depositano le larve.” “Benissimo. Questi mosconi in genere sono i primi a fuoriuscire dal pupario come individui adulti, e per maturare impiegano dai sedici ai ventiquattro giorni, con una temperatura intorno ai ventisei gradi. Nelle condizioni che mi hai descritto, questo processo dovrebbe essere stato più lento.” “Sì, non mi pare che ci fosse una temperatura così alta.” “Ma i pupari vuoti significano anche che alcuni mosconi hanno concluso il loro ciclo di sviluppo.” “Cioè le pupe sono volate via.” “La maturazione del moscone blu richiede dai quattordici ai venticinque giorni, probabilmente di più in un ambiente umido come quello dell’isola.” “Queste valutazioni corrispondono.” “Hai anche raccolto delle larve che di sicuro appartengono alle Muscidae, i vermi delle mosche domestiche e simili. Questi insetti preferiscono aspettare quello che noi chiamiamo l’ultimo stadio di buona conservazione o le prime fasi enfisematose. Ah, e poi c’erano anche delle Piophilidae, i vermi del formaggio.” […] “Una creatura particolarmente utile per stimare l’intervallo post mortem, o PMI, è la cosiddetta mosca soldato. In genere non si presenta all’appello prima che siano passati una ventina di giorni dal decesso, e arriva anche in caso di resti sepolti.” “E questo tipo di mosche c’era?” “Sì.” “Che altro?” “La presenza di coleotteri era scarsa, probabilmente a causa dell’ambiente umido. Ma le forme di predatori tipici c’erano, e sicuramente stavano banchettando allegramente a spese di vermi e organismi a corpo molle.” “Quindi quali sono le tue conclusioni?” “Direi che stiamo parlando di tre o quattro settimane.” “Per entrambi i cadaveri?” “Mi hai detto che la fossa misurava circa un metro e venti di profondità e che il corpo inferiore era interrato in una novantina di centimetri. Abbiamo già parlato della deposizione di larve di moscone grigio precedente alla sepoltura, e questo spiega i pupari che hai trovato sopra il cadavere inferiore. Alcuni contenevano degli individui già adulti, metà dentro e metà fuori. Devono essere rimasti intrappolati nella terra mentre cercavano di uscire. E anche le Piophilidae erano là. Ho trovato dei mosconi grigi anche nei campioni di terra che hai prelevato da sopra il cadavere inferiore, e alcune larve direttamente sul cadavere. Queste specie si rintanano all’interno dei cadaveri per la deposizione. I movimenti di terra nella fossa e la presenza del cadavere superiore avrebbero facilitato il loro accesso. Ho dimenticato di dirti che ho trovato questi mosconi anche sul cadavere superiore.” “I campioni di terra ti sono stati utili?”

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“Molto utili. Non credo tu voglia sentire anche la storia di tutte le creature che si alimentano di vermi e di materiale decomposto. Ti basti sapere che ho trovato una forma utile per stabilire il PMI. Quando ho analizzato la terra, ho raccolto un certo numero di acari che sopravvivono per non più di tre settimane dopo la morte dei soggetto.” “Quindi mi stai dicendo dalle tre alle quattro settimane per entrambi i cadaveri.” “Sì, questa è la mia stima ufficiosa.” “Questa sì che è un’informazione. Mi sento davvero molto utile, Lou. Voi entomologi riuscite sempre a sorprendermi.” “Quello che ho detto quadra con lo stato dei resti?” “Perfettamente.” “C’è ancora una cosa di cui ti voglio parlare. Non è una cosa nuova. L’aumento dei decessi legati al mondo degli stupefacenti negli ultimi anni ha incrementato la ricerca di sostanze tossiche negli insetti necrofagi. Non devo certo dirti che i cadaveri non sempre vengono trovati subito, e quindi gli investigatori non dispongono dei campioni necessari per le analisi tossicologiche. Ti sto parlando di sangue, urina, o anche tessuti organici.” “E quindi hai eseguito dei test sui vermi?” “Questo è possibile, ma ho avuto più fortuna con i pupari. Probabilmente perché le pupe hanno un tempo di alimentazione più lungo di quello delle larve. Abbiamo anche giocato un po’ con le esuvia dei coleotteri e con…” “E cioè?” “Con la pelle morta dei coleotteri e con il materiale fecale. Ma pare che il livello maggiore di sostanze stupefacenti sia quello rilevato nelle pupe delle mosche. E questo probabilmente riflette le loro preferenze alimentari: infatti, mentre i coleotteri si cibano di preferenza di tessuti essiccati, le mosche si nutrono di tessuti molli. Ed è proprio là che le sostanze tossiche hanno più probabilità di concentrarsi.” “Che cosa hai trovato?” “L’elenco è piuttosto lungo. Cocaina, eroina, metanfetamina, […].” “E tu stai trovando queste sostanze nei pupari?” “Abbiamo isolato sia le sostanze tossiche originarie sia i loro metaboliti.” “Come?” “Il metodo di estrazione è simile a quello utilizzato sui normali campioni di patologia, con la sola differenza che in questo caso è necessario rompere la robusta matrice chitino-proteica dei pupari e delle esuvia degli insetti in modo che le tossine possano essere rilasciate. Per fare ciò è necessario rompere i bozzoli e procedere a un trattamento in acidi o basi forti. Fatto questo, e dopo una regolazione del Ph, si passa alle consuete tecniche utilizzate per lo screening delle sostanze stupefacenti. Procediamo con un’estrazione in base seguita da una cromografia liquida e da una spettrometria di massa. La rottura degli ioni indica che cosa contiene il campione e in quale quantità. Nei pupari associati al cadavere superiore la concentrazione delle sostanze tossiche originarie era molto più alta di quella dei metaboliti.” “Il che corrisponderebbe a una condizione acuta, più che a una condizione cronica?” “Esattamente.”»

Macchie di sangue. Nell’ottobre 1998, in occasione del seminario annuale organizzato dalla Polizia dello Stato di New York, mentre attende il suo turno per parlare, la Reichs ascolta una presentazione del Dott. Henry Lee, direttore del “Connecticut State Police Forensic Laboratory” e specialista in bloodstain

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pattern analysis, che a partire dall’omicidio di Nicole Simpson spiega come le macchie di sangue presenti in una scena o sui vestiti del sospettato possono essere usate nella ricostruzione di un atto di violenza. «Ne rimasi affascinata. Appena iniziai Resti Umani [2000], decisi di inserire l’analisi del modello delle macchie di sangue nella trama. Mi sono messa in contatto con i colleghi all’Accademia dell’FBI di Quantico, al R.C.M.P. Forensic Identification Research Service a Ottawa e al “Laboratoire des Sciences Judiciaires et de Médecine Légale” a Montreal per imparare tutto su questa tecnica”. Così, nel cap. 22, Ronald Gilbert «condensa anni di esperienza in una breve lezione» a Tempe Brennan sull’analisi delle macchie di sangue. «“Una goccia di sangue che cade ha una forma sferica a causa del duplice effetto della forza di gravità e della tensione superficiale. Pensa a quando ti pungi un dito. Il sangue si accumula sulla ferita fino a che la goccia è in grado di staccarsi e di cadere. Semplice, vero?” “Sì” “Invece non lo è affatto. Perché in quel momento agiscono forze opposte. La gravità e il peso crescente del sangue ‘tirano’ la goccia verso il basso. Allo stesso tempo la tensione superficiale del sangue cerca di ridurre la superficie esposta della goccia e quindi la ‘spinge’ verso l’alto. La goccia riesce a staccarsi solo quando le forze che ‘tirano’ superano le forze che ‘spingono’. Dapprima ha una forma allungata, poi, mentre cade, si appiattisce per effetto della resistenza dell’aria. Le forze di attrazione della tensione superficiale inducono la goccia ad assumere una forma che esponga la minore estensione possibile di superficie. Perciò le gocce di sangue diventano sfere e perdono la tipica forma a lacrima con cui si è soliti disegnarle. La forma delle gocce è uno dei fattori che prendiamo in considerazione per l’analisi degli spruzzi. Una macchia di sangue viene prodotta per effetto di una forza che colpisce il sangue fermo. Può essere in una pozza sul marciapiede o all’interno della testa della vittima. Quando viene colpito, il sangue si frantuma in un ventaglio di gocce che si spostano nell’aria in forma di sfere. Quando queste sfere colpiscono una superficie lasciano segni prevedibili. L’interpretazione del disegno lasciato dagli spruzzi di sangue riguarda le macchie che non seguono le configurazioni tipiche, cioè che per qualche motivo producono spruzzi e scie alterate, in genere a causa di un’attività violenta. L’obiettivo dell’interpretazione delle macchie è ricostruire la meccanica dei fatti partendo dalla scena del delitto e procedendo a ritroso. Cosa è successo? In quale sequenza? Chi era dove? Quali armi sono state usate? Quali oggetti sono stati spostati? Per rispondere a queste domande cerchiamo di capire cosa ha alterato le gocce di sangue presenti. Ed è un lavoro molto complesso.” Cominciò ad enumerare una serie di punti sulle dita. “Innanzitutto si deve tenere conto delle proprietà del bersaglio. Il sangue si comporta diversamente se colpisce una superficie liscia o una superficie irregolare.” Primo punto. “La forma. Dato che il rapporto tra ampiezza e lunghezza di una macchia riflette con precisione il suo angolo di impatto, a prescindere dal tipo di superficie, controlliamo con molta attenzione la forma delle macchie.” Secondo punto. “La dimensione dello spruzzo. Le forze deboli o che si muovono lentamente producono spruzzi ampi, mentre le forze intense o che si muovono più velocemente, producono spruzzi più piccoli. Tra addetti ai lavori, si parla di spruzzi a bassa, media, alta velocità di impatto, anche se

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si tratta di definizioni piuttosto relative.” “Puoi farmi degli esempi?” “Possiamo fare di meglio. Vieni con me.” […] Entrammo in una stanza priva di finestre e quasi interamente tappezzata da fogli di carta bianca. […] “Questa è la stanza per i nostri esperimenti sugli spruzzi” mi spiegò Gilbert posando sul pavimento una bottiglia da un litro contenente sangue di bue. “Guarda.” La stappò, vi intinse un lungo bastoncino di legno e lo lasciò sgocciolare sulla carta che aveva sotto i piedi. “Gli spruzzi a ridotta velocità di impatto vengono associati alle gocce che cadono passivamente su una superficie. Come il sangue che cola, per esempio. In questi casi la dimensione tipica dello spruzzo è superiore ai tre millimetri di diametro, e il sangue si muove lentamente: dalla normale forza gravitazionale fino a 1,5 metri al secondo.” Osservai le macchiette circolari che aveva creato. “Lo spruzzo a media velocità di impatto è prodotto da incidenti come le percosse, le lesioni da trauma contusivo o da coltello. Qui il sangue si muove più rapidamente, a una velocità compresa tra 1,5 e 7,5 metri al secondo.” Mentre parlava, versò una piccola quantità di sangue in un piatto, mi fece segno di stare indietro e lo colpì con il bastoncino. Il sangue schizzò verso l’alto e andò a sporcare la parete. Gilbert mi invitò ad avvicinarmi e indicò alcune macchie. Erano più piccole delle precedenti. “Vedi questi spruzzi? Le dimensioni di uno spruzzo di media velocità sono inferiori, e oscillano fra uno e quattro millimetri di diametro.” Posò il bastoncino. “Ma non sono mai piccole come quelle causate da spruzzi di velocità elevata. Vieni a vedere.” Ci spostammo verso una parete, dove mi indicò una zona che sembrava tinteggiata con uno spray. “Lo spruzzo di velocità elevata implica una velocità superiore a 30 metri al secondo ed è causato da colpi di arma da fuoco, esplosioni e incidenti meccanici. Ricorda una sorta di nebbiolina dove la singola gocciolina misura in media meno di un millimetro di diametro. “Ma attenzione. Non tutti gli spruzzi rientrano perfettamente in una di queste categorie. Il sangue zampillato, schizzato o proiettato complica di molto il quadro.” “In che modo?” “Queste che vedi sono le configurazioni causate da uno spruzzo di velocità compresa tra quella ridotta e quella media, ma sono diverse da quelle che ti ho appena descritto. Per esempio, lo zampillo prodotto da una persona che fa un passo dentro una pozza di sangue fermo lascia uno spruzzo lungo e stretto attorno a una macchia centrale, con pochissime macchie rotonde. Il sangue schizzato, invece, è quello sollevato da una persona che corre in una pozza di sangue o che la colpisce violentemente con la mano. Oppure quello che fuoriesce da un fiotto arterioso, o da una testa sbattuta contro il pavimento. Anche in questo caso è presente uno spruzzo lungo dai bordi spinosi che si irradia da una macchia centrale. Ma, a differenza del caso precedente, qui anche i bordi della macchia centrale sono irregolari. Infine, il sangue proiettato da un’arma lascia un segno ancora diverso. Adesso ti faccio vedere.” Riprese il bastoncino, lo intinse nella bottiglia e disegnò un arco nell’aria. Il sangue scivolò via dalla punta e sporcò la parete sulla destra. Mi avvicinai e studiai la macchia. “Le gocce proiettate sono più piccole di quelle tipicamente presenti in uno spruzzo di velo-

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cità ridotta, e più è intensa la forza, più piccole sono le gocce. Inoltre, poiché il sangue si stacca da un oggetto in movimento, questo tipo di spruzzo si configura in scie diritte o leggermente arcuate, e le gocce sono piuttosto omogenee lungo tutta la scia.” “Quindi mi sembra di aver capito che è possibile determinare la natura di un’aggressione sulla base delle dimensioni e della forma dello spruzzo?” “Sì. E nella maggior parte dei casi possiamo stabilire anche dove l’aggressione si è verificata. Torniamo nel mio ufficio così ti mostro un’altra cosa.” Quando ci ritrovammo di fronte al computer, digitò una serie di comandi sulla tastiera. “L’altro giorno, nell’appartamento della vittima, hai visto che stavamo filmando le macchie di sangue, vero?” “Sì” “Abbiamo utilizzato una videocamera molto semplice, ma è possibile usare anche quella digitale. Abbiamo registrato ogni zona di spruzzo con il riferimento di una riga e di un filo di piombo.” “Perché con il filo di piombo?” “Il programma utilizza quel riferimento per determinare la direzione verticale della macchia.” Gilbert premette un tasto e sullo schermo si materializzò un grappolo di ellissi marroni. “Le immagini della videocassetta vengono inserite nel computer e possono essere richiamate sullo schermo. I singoli fotogrammi vengono registrati sul disco fisso come bitmap. Dopodichè un programma mostra l’immagine di ciascuna macchia in modo che la si possa misurare: le misure vengono poi utilizzate per calcolare due angoli: quello di direzione e quello d’impatto.” Altri comandi digitati sulla tastiera, e una sagoma bianca ovale andò a sovrapporsi alla macchia al centro dello schermo. Gilbert la indicò. “La direzione dell’asse principale dell’ellisse rispetto al filo a piombo definisce l’angolo di direzione, detto anche gamma di una macchia. È compreso tra zero e trecentosessanta gradi. L’angolo di impatto, o alfa, è invece compreso tra zero e novanta gradi. E viene calcolato sulla forma dell’ellisse.” “Perché?” “Ricordati che quando la goccia si muove nello spazio ha una forma sferica. Ma quando colpisce il bersaglio si appiattisce e lascia una scia. Questo accade perché la base della goccia in genere striscia contro la superficie. Al momento dell’impatto della goccia, la scia è piccola ma poi si allarga fino a che il suo punto più largo corrisponde al diametro della goccia, cioè al punto di maggior ampiezza. A questo punto la scia si restringe fino a diventare molto sottile. Vedi questa?” Mi indicò un ovale allungato con un puntino a una estremità; assomigliava a molti di quelli visti nella stanza per gli esperimenti. “Sembra un punto esclamativo.” “Infatti si chiama così. A volte un puntino di sangue si stacca dalla goccia originaria e salta fino alla testa della scia. Sicché, visto da sopra, lo spruzzo ricorda un girino, o un punto esclamativo, dipende se l’estremità si allunga e basta, o se si stacca completamente. In entrambi i casi la direzione di marcia è chiara.” “Il puntino è rivolto nella direzione in cui si stava muovendo la goccia.” “Appunto. Il programma produce un file contenente i valori degli angoli per ciascuna delle macchie analizzate. È da questi dati che viene calcolato il punto d’origine. E, credimi, il computer è molto più veloce del vecchio metodo del filo.” “Fai un passo indietro, per favore.” “Scusami. Questo metodo prevede che un filo venga fissato in corrispondenza della macchia

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e poi teso nella presunta direzione del movimento. La procedura viene ripetuta per un certo numero di macchie dislocate su tutta la scena del delitto. Ne risulta un intreccio di fili che si estendono dallo spruzzo verso l’origine del sanguinamento, che è il punto in cui tutti i fili convergono. È una procedura molto laboriosa e lascia un margine di errore molto ampio. Il computer fa esattamente la stessa cosa, cioè disegna dei fili virtuali calcolati utilizzando i dati.” Le sue dita si spostarono sui tasti richiamando una nuova immagine. Le coordinate x e y si allungavano lungo il lato sinistro e inferiore dello schermo. Una decina di linee formavano un disegno a forma di x, intersecandosi l’un l’altra in un fiocco geometrico. “Questa è una veduta dall’alto di una serie di fili virtuali basati su dodici spruzzi. È difficile ottenere questo punto di vista con il metodo del filo, e tuttavia è proprio quello più utile.” Gilbert digitò altri comandi producendo un’altra immagine. Le linee questa volta scendevano tutte insieme dall’angolo in alto a sinistra dello schermo verso quello in basso a destra, convergendo in un punto situato a due terzi dalla base dello schermo e aprendosi leggermente, come il gambo di un mazzo di fiori secchi. “Il programma è anche in grado di fornire una vista laterale, che è necessaria per stimare l’altezza dell’origine del sangue. Combinando le due viste si ottiene un’idea molto precisa del punto di convergenza e, quindi, della posizione della vittima.”»

6.6. Jeffery Deaver e Parker Kincaid Il romanzo dell’ex avvocato Jeffery Deaver (Chicago, 1950) La lacrima del diavolo [1999], quasi sicuramente è l’unico che riguarda la perizia grafica e documentale12; protagonista è il “perito calligrafo” Parker Kincaid, già responsabi12

Sviluppi della perizia grafica e documentale. Soprattutto a partire dalla metà degli anni ’50, negli Stati Uniti, mentre la perizia grafica e documentale comincia ad entrare a pieno diritto anche nei primi manuali per investigatori della polizia (cfr. per es. W. Dienstein, Documents in Investigation, cap. 12 del suo Technics for the Crime Investigator, Thomas, Springfield 1952; C.E. O’Hara, Documentary Evidence, cap. 43 del suo Foundamentals of Criminal Investigation, ivi 1956), si sviluppano o si adottano nuove tecniche di esame per rispondere alle domande scaturite dai cambiamenti avvenuti a partire dalla metà degli anni ’30 per quanto riguarda innanzitutto gli strumenti scrittori e le tecniche di riproduzione dei documenti: la penna stilografica, che ha sostituito gradualmente penna e calamaio, viene a sua volta soppiantata dalla penna a sfera (o biro, dal nome del suo inventore che la brevetta nel 1943); essa, divenuta nel giro di dieci anni il più comune strumento scrittorio, crea un primo problema per i periti: distinguere le imperfezioni dovute alle falsificazioni da quelle tipiche dovute alla penna; quindi, dopo circa vent’anni di tentativi, nel 1975 viene introdotta la penna a sfera roller, con inchiostro fluido a base di acqua; infine, nel 1979 viene introdotta la prima penna a sfera con inchiostro facilmente cancellabile se fresco (Papermate), creando ulteriori problemi per i periti. Sempre negli anni ‘50 vengono introdotti sul mercato i primi modelli di macchine per scrivere elettriche; che richiedono nuove formule di identificazione (per es. i diversi stili grafici copiati creano delle difficoltà nel determinare, a partire dal documento, il tipo di macchina usato). A sua volta, l’evoluzione dei modelli provoca anche dei cambiamenti e miglioramenti rispetto al nastro per scrivere (significativa, per es., l’introduzione del nastro correttore che consente di asportare dalla carta quanto appena scritto); da parte sua, ogni nuovo nastro modifica il lavoro della mac-

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le della divisione “Documenti” dell’FBI e ci viene presentato con alcuni flashes mentre è alle prese con l’esame testuale e poi fisico di una lettera che il presidente Thomas Jefferson avrebbe scritto alla figlia maggiore, per stabilirne l’autenticità (capp. 3 e 4). «Notò che il soprannome della ragazza era quello che Jefferson avrebbe usato – nata Mary, la ragazza veniva chiamata Polly dalla sua famiglia – e che la scarsa punteggiatura era in stile tipicamente jeffersoniano. Quei due elementi propendevano per l’autenticità, così come alcuni degli eventi a cui la lettera faceva riferimento: erano realmente accaduti nella vita di Thomas Jefferson, e più o meno attorno all’epoca in cui si supponeva fosse stata scritta la lettera. Sì, almeno testualmente la lettera sembrava autentica. Ma quella era soltanto metà della partita. Ora Parker doveva effettuare l’esame fisico della lettera.» «Notò che l’autore, che si trattasse o meno di Thomas Jefferson, aveva adoperato una penna d’acciaio: poteva vedere chiaramente il flusso unico dell’inchiostro nelle fibre lacerate dalla punta del pennino. Molti falsari ritengono che tutti i vecchi documenti siano stati scritti con penne d’oca, e utilizzano esclusivamente quelle. Ma nell’Ottocento i pennini d’acciaio erano molto popolari, e Jefferson se ne serviva per sbrigare la maggior parte della sua corrispondenza. Un altro piccolo elemento a favore dell’autenticità della lettera. Si obbligò a non pensare al contesto della lettera ed esaminò una linea d’inchiostro nel punto in cui attraversava una piega del foglio. Osservò l’assenza di travasi nella piega, il che significava che la lettera era stata scritta prima che il foglio fosse piegato. Sapeva che Thomas Jefferson era molto pignolo per ciò che riguardava le sue abitudini di scrittura, e che non avrebbe mai scritto una lettera su un foglio di carta piegato. Un altro punto a favore del documento… […] Guardò la lettera, facendo scorrere lentamente la lente d’ingrandimento. Si immerse nell’analisi di un sollevamento, il punto in cui l’autore aveva finito di scrivere una parola e aveva staccato la penna dalla superficie del foglio. Quel tratto era tipico del modo in cui Jefferson terminava le parole. E la dispersione dell’inchiostro sulla carta? Il modo in cui l’inchiostro viene assorbito può dire molte cose sul tipo di materiali e su quando il documento è stato stilato. Con il passare degli anni, l’inchiostro viene trascinato sempre più all’interno della carta. La dispersione del documento che stava esaminando lasciava intendere che fosse stato scritto molto tempo prima, con tutta probabilità anche duecento anni prima. Ma, come sempre, Parker Kincaid prese l’informazione con le molle: c’erano modi per falsichina per scrivere in diverse direzioni, e di conseguenza anche il modo in cui esaminare i dattiloscritti. Contemporaneamente, anche alcuni cambiamenti relativi alla carta creano dei problemi per i periti: l’uso di sostanze sbiancanti, che riflettono i raggi ultravioletti, ne riduce l’utilità in alcuni esami. Lo sviluppo della carta cancellabile, che ha reso più facile cancellare l’inchiostro fresco comunemente usato dalle macchine per scrivere, può richiedere al perito un maggior impegno per la presenza di cancellature e alterazioni rispetto a quelli su altri tipi di carta. Un’importante aggiunta all’attrezzatura del perito si ha negli anni ’70 con l’Electro Static Detection Apparatus (ESDA), lo strumento più sensibile per rilevare le diversità di pressione sul documento, nonché le tracce di scrittura impresse non rilevabili da un esame a occhio nudo o dalla fotografia pur nelle migliori condizioni di luce.

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ficare anche la dispersione.»

Parker viene interpellato a proposito di una lettera di estorsione, unico indizio a disposizione della polizia per fermare un sicario che ogni quattro ore spara a casaccio sulla folla finché non verranno pagati 20 milioni di dollari. Egli comincia con un dettagliato esame testuale; mancando la possibilità di un confronto della scrittura in verifica con altre di comparazione, si limita a esaminare le caratteristiche generali e personali della scrittura, per concludere con un esame strumentale (cap. 6). «Si chinò nuovamente sulla lettera, studiando la carta e le parole scritte con l’inchiostro nero. La rilesse diverse volte. Notò che non c’era nessuna firma. Il che poteva anche sembrare un’osservazione inutile, se non fosse stato che Parker aveva assistito a diversi casi in cui i criminali avevano firmato davvero le loro richieste di riscatto. In un caso la firma era falsa, posta appositamente per metterli su una pista sbagliata (anche se dalla firma scarabocchiata erano stati ricavati dei campioni di scrittura che alla fine avevano inchiodato il colpevole). In un altro caso, il rapitore aveva firmato proprio con il suo vero nome, forse buttato giù automaticamente nella confusione del momento. Era stato arrestato diciassette minuti dopo che la famiglia della vittima aveva ricevuto la richiesta di riscatto. Parker avvicinò la potente lente d’ingrandimento alla lettera. […] Si chiese se il sosco [soggetto sconosciuto] avesse tentato di alterare la propria scrittura. Diversi criminali – principalmente rapitori che scrivevano lettere di riscatto – tentavano di camuffare la loro scrittura per rendere più difficili gli eventuali confronti. Adoperavano strane inclinazioni e insolite formazioni di lettere. Ma generalmente non lo facevano molto bene: è piuttosto difficile riuscire a sopprimere la propria mano, e gli esaminatori di documenti riescono quasi sempre a rilevare il “tremito” – un’incertezza nel tratto – tipico di chi sta tentando di alterare la propria scrittura13. Ma lì non c’era traccia di tremito. Quella era proprio la scrittura del sosco. Normalmente, il passo successivo in un caso riguardante una lettera anonima sarebbe stato quello di confrontare il documento sospetto con altri documenti certi, mandando agenti agli uffici dell’anagrafe con una copia della lettera di estorsione e dicendo loro di setacciare gli archivi in cerca di una corrispondenza. Sfortunatamente per la squadra che si occupava del caso, la maggior parte dei documenti dell’anagrafe sono scritti in stampatello o a macchina […] mentre la lettera di estorsione era stata scritta in corsivo. Persino un esaminatore di documenti con l’abilità di Parker Kincaid non sarebbe stato in grado di confrontare lo stampatello con il corsivo… Ma c’era una cosa che avrebbe potuto permettere loro di consultare gli archivi pubblici. La scrittura di ogni individuo presenta caratteristiche personali oltre che generali. Le caratteristiche generali sono gli elementi di abilità con la penna che derivano dal metodo di scrittura imparato a scuola. Anni prima esistevano diversi metodi per insegnare a scrivere, e i tratti erano molto distintivi; un perito calligrafo poteva ridurre il luogo di provenienza di un sospetto a uno stato o a 13 «Scoprire schemi ricorrenti nei documenti di dubbia provenienza era l’unico modo per smascherare un falso: l’angolo delle oblique nella costruzione delle lettere, i punti di pressione e di sollevamento della penna, la forma delle discendenti nelle y, g e q minuscole, il grado di tremito. Non si poteva mai giudicare un falso in modo isolato.» (Cap. 17.)

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una regione. Ma questi sistemi di scrittura – il fiorito Ladies Hand, per esempio – erano caduti in disuso, e ora ne restavano soltanto pochi, per lo più il sistema Zaner-Bloser e il metodo Palmer. Ma erano troppo generici per poter permettere l’identificazione dell’autore. Le caratteristiche personali, invece, sono una questione completamente diversa. Sono quei tratti di penna che sono unici per ognuno di noi – arzigogoli, la mescolanza di stampatello e corsivo, l’aggiunta di tratti gratuiti (come, per esempio, l’aggiunta di una piccola barra sulla sezione diagonale della Z o del 7). Era stata una di queste caratteristiche a dare agli esaminatori i primi sospetti che i Diari di Hitler “scoperti” qualche anno prima fossero in realtà degli abili falsi. Hitler firmava il proprio cognome con una H maiuscola molto insolita, ma la usava soltanto nella firma, non quando scriveva normalmente. Il falsario aveva usato l’ornata H maiuscola in tutto il diario, cosa che Hitler non avrebbe mai fatto 14. Parker continuò a esaminare la lettera di estorsione con la lente d’ingrandimento, cercando di capire se il sosco avesse qualche tratto distintivo personale nella sua scrittura. Finalmente notò qualcosa. Il puntino sopra la i minuscola. La maggior parte dei puntini sulle i o sulle j viene fatta o picchiettando la penna direttamente sulla carta o, se la persona sta scrivendo velocemente, tracciando una linea diagonale con un puntino di inchiostro sulla sinistra e una coda verso destra. Ma il sosco aveva tracciato un segno insolito sopra le sue i minuscole – la coda del puntino andava diritta verso l’alto, in modo da assomigliare a una goccia d’acqua nell’atto di cadere. 14 Nel 1982, tramite un intermediario, giunge nelle mani della redazione del settimanale tedesco “Stern” un importante complesso di scritti asseritamente autografi di Adolf Hitler. Il materiale offerto in acquisto alla rivista è costituito da ben 63 volumi. La direzione, prima di procedere all’oneroso e rischioso acquisto di un materiale tanto importante ed estremamente costoso (9 milioni di marchi), lo sottopone alla necessaria analisi tecnica e si rivolge perciò a tre esperti – un tedesco, uno svizzero e uno statunitense – tra i più qualificati a livello mondiale non solo per quanto riguarda la perizia grafica in sé ma anche per tutto ciò che concerne il falso documentale: questi sostengono concordemente e senza riserve l’autenticità del materiale da loro esaminato. In realtà, va precisato che, per ragioni di segretezza editoriale, viene loro sottoposto come campione solo la copia fotostatica della pagina relativa al 12 maggio 1941: quindi, sotto il profilo merceologico, non è stata eseguita alcuna verifica del supporto carta, degli inchiostri e dei sigilli; quanto poi al materiale di confronto, esso è costituito da scritti e firme provenienti per lo più da collezioni private rifornitesi dal mercato antiquario, saturo di scritture apocrife. Il giorno prima della presentazione ufficiale dei Diari alla stampa, il penultimo volume della serie viene trasmesso ai laboratori della polizia scientifica di Mannheim. Già da un primo esame emergono due incongruenze sufficienti ad affermare che si tratta di una falsificazione alquanto macroscopica: il substrato, ossia la carta con quelle particolari caratteristiche chimiche, è entrato in commercio solo negli anni ‘50; le timbrature e i sigilli mostrano di essere del tutto recenti. Nonostante questi elementi di per sé sufficientemente probatori per la falsità del materiale, l’esame continua con la perizia grafica vera e propria (in proposito cfr. M.R. Gabella, L’identificazione grafica, in AA.VV., L’investigazione scientifica e criminologica nel processo penale, CEDAM, Padova 1989, pp. 79 ss.; ma anche R. Harris, I diari di Hitler [1986], Mondatori, Milano 2001). Indipendentemente da questa indagine, anche l’esperto statunitense Kenneth Rendel, incaricato dalla rivista “Newsweek” che progettava di rilevare parte dei diritti di pubblicazione da “Stern”, e il britannico Julius Grant, consultato per analoghe ragioni dal “Sunday Time”, concludono per la totale falsità dei diari.

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Parker aveva già visto dei puntini simili, anni prima, in una serie di lettere minatorie inviate a una donna da un uomo che alla fine l’aveva uccisa. Parker aveva battezzato quel tratto insolito “la lacrima del diavolo” […]. “Ho trovato qualcosa”, disse Parker e spiegò la faccenda del puntino sulle i. […] “Questa…” indicò il foglio con un cenno del capo “… potrebbe essere la chiave per scoprire dove viveva il nostro amico. Se riusciamo a ridurre l’area a una contea o, meglio ancora, a un quartiere, allora potremo passare al settaccio gli archivi pubblici.” [Parker spiegò che qualcosa di simile era accaduto con Michele Sindona, «il finanziere che gestiva i soldi del Vaticano»:] “Doveva andare sotto processo per bancarotta fraudolenta, ma è svanito nel nulla prima dell’udienza. È tornato qualche mese dopo dicendo di essere stato rapito, gettato in una macchina e portato da qualche parte. Ma circolavano voci che non fosse stato rapito affatto e che in realtà fosse volato in Italia. Credo che sia stato un esaminatore [di documenti controversi] del distretto meridionale a ottenere dei campioni della scrittura di Sindona e a scoprire che questa aveva una strana caratteristica: Sindona metteva un puntino nell’occhiello quando scriveva il numero 9. Gli agenti hanno setacciato migliaia di dichiarazioni doganali dei voli dall’Italia a New York. Hanno trovato un puntino nel cerchio del numero 9 in un indirizzo su un modulo compilato da un passeggero che, come si è scoperto in seguito, aveva viaggiato sotto falso nome. Dal modulo hanno preso le impronte di Sindona.” […] Parker sistemò la lettera sotto lo scanner del VSC [Video Spectral Comparator]. L’apparecchiatura utilizzava differenti fonti di luce – dall’ultravioletto all’infrarosso – per permettere agli esaminatori di vedere attraverso le cancellature e di visualizzare le lettere cancellate con gomme o simili. Parker studiò l’intera lettera e non trovò cancellature. Poi esaminò la busta, ma non ne trovò neppure lì. […] Si avvicinò all’apparecchio di rilevamento elettrostatico. L’ESDA [ElectroStatic Detection Apparatus] viene usato per controllare i documenti alla ricerca di scrittura impressa – parole o segni incisi sulla carta da qualcuno che scrive su pagine poste sopra il documento sospetto. Originariamente l’ESDA era stato sviluppato come mezzo per visualizzare le impronte digitali sui documenti, ma si era rivelato quasi completamente inutile a questo scopo proprio perché mostrava la scrittura impressa, che interferiva con il disegno delle impronte. […] L’ESDA, che funziona con lo stesso principio di una fotocopiatrice, è in grado di rivelare lettere scritte fino a dieci fogli di distanza dal documento che viene esaminato. Non si sa con esattezza per quale motivo l’ESDA sia tanto efficiente, ma nessun perito calligrafo ne è sprovvisto. […] Parker passò la lettera del sosco nella macchina. Sollevò un foglio di plastica dalla sommità e lo studiò attentamente. Nulla. Provò con la busta. Sollevò il foglio sottile e lo tenne in controluce. Sentì una morsa nelle viscere quando vide le linee grigie e delicate della scrittura.»

Quindi Parker prosegue con l’esame linguistico (cap. 8). «Mentre rileggeva per l’ennesima volta la lettera di estorsione, Parker prese attentamente nota della sintassi del sosco – l’ordine delle frasi e dei frammenti delle frasi – e della sua grammatica, le costruzioni generali che aveva utilizzato nella composizione della lettera. E, lentamente, cominciò a emergere l’immagine dell’anima dell’uomo che aveva scritto la lettera.»

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Infine, Parker esegue l’esame fisico della lettera: il formato e la composizione della carta, le caratteristiche dello strumento scrittorio e dell’inchiostro (cap. 9). «Il foglio misurava quindici centimetri per ventitrè e la busta corrispondeva. Le misure dei fogli erano cambiate nel corso della storia, ma il formato ventun centimetri e mezzo per ventotto era stato il formato standard in America per quasi duecento anni. Il quindici per ventitrè era il secondo formato più diffuso. Troppo comune. Da solo, il formato del foglio non avrebbe detto nulla a Parker sulla sua provenienza. Per quanto riguardava la composizione della carta, Parker notò che era carta di bassa qualità, fabbricata con un processo di omogenizzazione meccanico, non con il metodo Kraft tipico delle carte di alta qualità. “La carta non ci sarà di nessun aiuto”, annunciò infine. “È carta generica. Non riciclata, alto contenuto di acido, polpa grezza con bassa luminescenza e apporto minimo di schiarenti ottici. Venduta in grandi quantità dai fabbricanti alle catene di distribuzione all’ingrosso. La impacchettano come carta comune. Non c’è traccia di marchio e non c’è modo di farla risalire a un fabbricante o a un venditore in particolare e poi a un punto vendita definito. Adesso guardiamo l’inchiostro.” Sollevò attentamente la lettera e la pose sotto le lenti di uno dei microscopi del laboratorio. La esaminò prima ingrandita dieci volte e poi cinquanta. Dalla tacca che la punta della penna aveva prodotto nella carta, dagli scivolamenti occasionali e dalla consistenza irregolare del colore, Parker dedusse che il soggetto aveva usato una penna a sfera da poco prezzo. “Probabilmente una AWI – American Writing Instruments. Venduta a trentanove centesimi praticamente ovunque.” Guardò i suoi compagni di squadra. Nessuno sembrava aver colto il significato di ciò che aveva appena detto. “È una cosa pessima”, spiegò enfaticamente Parker. “Impossibile da rintracciare. Vengono vendute praticamente in ogni negozio e in ogni centro commerciale degli Stati Uniti. Proprio come la carta. E la AWI non adopera targhe.” Parker spiegò che alcuni fabbricanti inseriscono una targa chimica nei loro inchiostri per identificare i prodotti e per aiutare a rintracciare dove e quando sono stati fabbricati. La American Writing Instruments, però, non lo faceva. Parker cominciò a togliere la lettera da sotto il microscopio, ma si fermò, notando un particolare strano. Parte del foglio era sbiadita. Non credeva che si trattasse di un difetto di fabbricazione. Gli schiarenti ottici venivano aggiunti alla carta da quasi cinquant’anni ed era insolito, anche in carta di bassa qualità come quella, che ci fosse una disparità nella porosità. “Passami la PoliLight.” L’agente sollevò una delle unità ALS [Alternative Light Source] – una fonte di luce alternativa. Illuminava una varietà di sostanze altrimenti invisibili all’occhio umano. Parker indossò un paio di occhiali protettivi e accese la luce giallo-verde; quindi fece scorrere la bacchetta della PoliLight sulla busta. Sì, la porzione di destra era più chiara del resto. Fece lo stesso con la lettera e scoprì che c’era un disegno a forma di L sulla sommità e sul lato del foglio. Interessante. Lo studiò ancora. “Vedete come gli angoli sono sbiaditi? Credo che sia dovuto al fatto che la carta e parte della busta siano state schiarite dal sole.” “Dove, a casa sua o in negozio?”

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“Potrebbe essere l’una o l’altro”, rispose Parker. “Ma, data la coesione della polpa, direi che la carta è rimasta sigillata fino a poco tempo fa. Il che farebbe pensare al negozio.” […] Si avvicinò a un armadietto, lo aprì e ne estrasse una tavola da esame e qualche foglio di carta per la raccolta delle tracce. Tenendo la lettera per un angolo, vi fece scorrere sulla superficie un pennello di setole di cammello per dislocare eventuali elementi microscopici. Non c’era praticamente nulla. Non ne fu sorpreso. La carta è uno dei materiali più assorbenti che esistono: trattiene la maggior parte delle sostanze dei posti in cui è stata, ma solitamente queste restano saldamente ancorate alle fibre. Parker prese una grossa siringa dalla sua valigetta e se ne servì per togliere minuscoli dischi di inchiostro e carta dalla lettera e dalla busta.» Quindi, porgendo i campioni appena prelevati, fece fare esami separati per la lettera e la busta con il gascromatografo/spettometro di massa, che separa i componenti di una sostanza e poi li identifica (questi risultati, come già i frammenti di scrittura impressa sulla busta, si riveleranno solo espedienti narrativi funzionali allo sviluppo della vicenda).

Alla fine, Parker riesce fortunosamente a recuperare alcune pagine del taccuino del sosco: «con la lente di ingrandimento studiò la prima pagina e capì subito che era stata scritta dal sosco: aveva fissato tanto a lungo la lettera di estorsione da conoscere la sua scrittura altrettanto bene della propria» (cap. 18); ma un incendio trasforma le pagine con gli appunti in un grumo di cenere e Parker cerca di proteggere i resti per poi tentare di riassemblarli in laboratorio (capp. 19 e 20). «Parker ebbe un’idea. Corse verso le finestre della cantina del palazzo accanto e ruppe il vetro con un calcio. Ne raccolse quattro grossi pezzi. Tornò al taccuino […] e si inginocchiò. Con estrema cautela tentò di infilare i due fogli di carta annerita – gli unici su cui era scritto qualcosa – tra i pezzi di vetro. Era così che gli esaminatori di documenti dell’FBI erano soliti proteggere i campioni che venivano loro inviati per l’analisi prima dell’invenzione dei fogli di plastica trasparente.» «Parker depose le lastre di vetro sul tavolo d’esame. […] Prese una boccetta di ammoniaca diluita e cominciò a pulire il vetro che proteggeva la cenere. […] Parker smise di pulire il vetro e rivolse la propria attenzione alle prove vere e proprie. Studiò ciò che restava delle due pagine di taccuino. Con enorme disappunto vide che la maggior parte della cenere si era disintegrata. Il danno prodotto dal fuoco era peggiore di quanto avesse pensato. Ciononostante sarebbe stato possibile leggere una parte della scrittura del sosco sui frammenti di cenere più grandi. Ciò viene ottenuto proiettando luce infrarossa sulla superficie della cenere. L’inchiostro bruciato o i segni di matita riflettono una lunghezza d’onda diversa da quella della carta, e solitamente si riesce a decifrare la maggior parte delle parole. Parker sistemò attentamente l’una accanto all’altra nel visore all’infrarosso Foster + Freeman le lastre di vetro che contenevano i fogli di carta gialla. Si chinò e prese una lente d’ingrandimento che trovò sul ripiano del tavolo […]. Parker osservò le centinaia di minuscoli frammenti di cenere. Potevano volerci ore, se non giorni; al contrario di un vero puzzle […] i bordi dei pezzi di cenere erano danneggiati e non

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corrispondevano necessariamente a quelli dei pezzi adiacenti.»

Infine, Parker mette a confronto le due scritture

6.7. Anthony E. Zuiker e “CSI” Nel 1999 Anthony E. Zuiker (Blue Island, Il, 1968) si imbatte casualmente nella serie televisiva “The New Detectives” (trasmessa da Discovery Channel) incentrata sui recenti metodi di indagine usati dagli investigatori e dai tecnici forensi. «Mi misi a guardarlo: c’era un tizio monotono che parlava di crimine e scienza, ma mi intrigava. Rimasi molto affascinato. Una settimana dopo, Jonathan Littman, presidente della Jerry Bruckheimer Television, mi telefonò e mi chiese: “Ti interessa la televisione?” Risposi: “Mi interesserebbe qualcosa sulla scientifica.” Abbiamo telefonato al direttore del laboratorio di Las Vegas [il più importante degli Stati Uniti dopo quello dell’FBI di Quantico] e gli abbiamo chiesto se poteva farmi partecipare a qualche indagine. Così, per cinque settimane di fila presi parte ai turni di notte della scientifica. Imparai un sacco di cose sul crimine, vidi un vero omicidio e vidi per la prima volta un cadavere sezionato. Poi andammo alla ABC a fare il pitch, ma loro non furono interessati [ritenendolo «troppo confusionario per il telespettatore medio» americano]. Le deadline della NBC e della Fox per l’esame di nuovi progetti erano passate, così andammo a fare il pitch alla CBS, da Nina Tassler, vicepresidente anziano del reparto Drama Development, e lei mi disse: “Mi piace. Fantastico. Cominciate a scrivere. Avete tre settimane.”»15 Il 6 ottobre 2000 viene trasmesso l’episodio pilota della serie di telefilm “CSI: Crime Scene Investigation” sul lavoro della squadra del turno di notte della polizia scientifica di Los Angeles. Per una corretta stesura delle sceneggiatura, avvalendosi dell’esperienza di due agenti e beneficiando della consulenza per la sceneggiatura della criminologa Elizabeth Devine, già collaboratrice del dipartimento dello sceriffo della contea di Las Vegas.

15 R. Whiteside, CSI-Crime Scene Investigation: come nasce una serie, “Scr(i)pt”, settembre/ottobre 2002.

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Da sottolineare, all’interno della narrazione, tre momenti caratteristici: la ricerca e raccolta delle tracce e degli indizi presenti sulla scena del delitto e il successivo esame accurato e meticoloso dei reperti mediante l’ausilio di attrezzature tecnologiche di avanguardia, compreso lo sguardo ravvicinato (della macchina da presa) sulle parti superficiali e profonde del cadavere che presentano i segni della morte, un aspetto delle indagini finora per lo più tralasciato/trascurato/quasi sempre assente; le ipotesi su come potrebbero essersi svolti i fatti. Lo straordinario successo di pubblico e di critica ottenuto dalla serie (e testimoniato dai premi ricevuti) spinge ideatore e produttore a realizzare due spinoff, “CSI: Miami” (dal 23 settembre 2002) e “CSI: New York” (dal 22 settembre 2004), entrambi ugualmente premiati16. Come già nei romanzi e racconti di Craig Kennedy, anche in queste serie «c’è qualcosa di magico negli strumenti usati dai tecnici della Scientifica di Las Vegas (ma anche di Miami e di New York). Aggeggi altamente tecnologici eppure usciti probabilmente da qualche vecchio laboratorio di stregoneria. Scopettini, spruzzini, sostanze reagenti: e i protagonisti di “CSI” […] diventano gli officianti di antichi riti ancestrali.»17 Nel 2003 la stampa comincia a parlare di “effetto CSI”, nel senso che queste serie, oltre a suscitare un notevole interesse per tali discipline, forniscono una consapevolezza forense (forensic awareness), che si rivela distorta nel caso dei giurati, che nutrono aspettative eccessive e irragionevoli dalle prove scientifiche (infallibilità), e persino degli investigatori, che per gli stessi motivi ormai repertano indiscriminatamente qualsiasi elemento materiale presente sulla scena del delitto; ma anche pericolosa nel caso dei criminali, che vengono “istruiti” su come eludere le indagini (precauzioni e staging o depistaggio). Inoltre, fatta salva la corretta descrizione dell’aspetto tecnologico-strumentale e considerate le necessarie “licenze narrative”, queste serie offrono una visione inverosimile del lavoro dello scienziato forense e di ciò che egli può e non può fare. Innanzitutto, 16

Tralasciando la cospicua bibliografia di carattere prettamente televisivo e divistico, si veda in proposito: K. Ramsland, The Forensic Science of CSI, New York 2001; M. Flaherty e C. Marrinon, CSI: Crime Scene Investigation, Pocket Books, New York 2004; B. Ferré e M. Zaffron, CSI: Crime Scene Investigation, e B. Ferré, CSI: Miami, in Les miroirs obscurs, Au diable vauvert, Vauvert 2005; A. Tintori (a cura di), CSI: Crime Scene Investigation, Delos Books, Milano 2006. Sulle tre serie sono basati i romanzi di M.A. Collins, CSI: Scena del crimine – Doppio gioco [2001], La città del peccato [2002], Traccia fredda [2003], Corpo del reato [2003], CSI: Miami – Ondata di calore [2004], e quelli di S.M. Kaminsky, CSI: NY – Morte in inverno [2006] e Sangue sul sole [2006], Sperling & Kupfer, Milano 2003, 2004 e 2006; come in genere i telefilm, anche i romanzi seguono contemporaneamente gli sviluppi di due vicende 17 A. Comazzi, Con quegli effetti speciali, credi anche alle favole, “Specchio”, 4 giugno 2005, p. 90.

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a partire dagli ultimi ottant’anni egli è esperto in un solo ambito, e non in diversi, anche se ha bisogno di conoscere le potenzialità degli altri. Tantomeno egli svolge anche il ruolo di investigatore/poliziotto, partecipando a tutte le fasi dell’indagine, compresi gli interrogatori e gli arresti (in realtà l’equivoco comincia almeno con i romanzi di Thomas Harris); il suo è un lavoro distinto da quello della componente investigativa, un apporto affatto necessario ma assolutamente non sufficiente: il dato scientifico deve infatti diventare dato investigativo.

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7. CONSIDERAZIONI FINALI

Schematicamente, l’indagine su un fatto criminoso si muove su due piani distinti ma strettamente correlati e complementari: quello relativo al fatto e quello relativo all’autore; ossia, l’interesse da una parte è rivolto al “come”, o modalità del crimine (logica della spiegazione dell’evento, di tipo causale o probabilistico), e dall’altra al “perché”, o movente del criminale (logica della comprensione dell’azione, di tipo motivazionale e intenzionale). Più in generale, in quanto rivolta alla ricostruzione del fatto ha come obiettivo la conoscenza della verità, e quindi il ripristino dell’ordine razionale; mentre in quanto rivolta all’identificazione dell’autore e alla prova della sua colpevolezza (e con ciò della non-colpevolezza altrui) ha come obiettivo il conseguimento della giustizia, e quindi il ripristino dell’ordine sociale. Inoltre, considerata nel suo aspetto formale di ricostruzione del fatto è una scienza storica, mentre considerata nel suo aspetto tecnico di materializzazione delle prove rientra tra le scienze applicate. Nello stesso tempo, essa è anche un procedimento inerente sia al contesto della scoperta sia al contesto della giustificazione1, quale viene presentata da chi ha compiuto personalmente l’indagine; ma altresì al contesto della valutazione, che in ambito processuale vaglia la coerenza o correttezza logico-esplicativa (non contraddittorietà e sensatezza), la corrispondenza o compatibilità empiricofattuale (verità o verosimiglianza) e la rilevanza ed efficacia argomentativa (ragionevolezza o fondatezza) delle asserzioni fatte.

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Secondo la ben nota distinzione introdotta da H. Reichenbach in Experience and Prediction. An Analysis of the Foundations and the Structure of Knowledge (University of Chicago Press, Chicago 1938, pp. 6-7): «Potremmo dire che una ricostruzione razionale corrisponde alla forma in cui i processi di pensiero sono comunicati alle altre persone invece che alla forma in cui essi sono soggettivamente realizzati […] Introdurrò i termini “contesto della scoperta” e “contesto della giustificazione” per illustrare questa distinzione. Dobbiamo dire allora che l’epistemologia si occupa soltanto di costruire il contesto della giustificazione. Tuttavia anche il modo di presentare le teorie scientifiche è soltanto un’approssimazione di ciò che intendiamo con contesto della giustificazione. E anche nella forma scritta le esposizioni scientifiche non corrispondono sempre alle esigenze della logica oppure sopprimono le tracce delle motivazioni soggettive da cui sono partite.»

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7.1. Accertamento strumentale dei dati Tralasciando di considerare gli specifici ambiti disciplinari interessati (tossicologia, balistica, ecc.), come pure le diverse conoscenze scientifiche richieste e le connesse procedure tecnico-strumentali impiegate (merceologia, spettrografia, ecc.), nonché i particolari atti criminosi commessi (omicidio, furto, ecc.), quanto in particolare alle diverse perizie forensi, un processo di verbalizzazione dell’esperienza e quindi degli enunciati fattuali (che sono o veri o falsi), queste hanno come scopo primario, e per lo più unico, l’accertamento di dati materiali obiettivi (verità empirica, constatativa), «i cui termini reali devono essere scrupolosamente rispettati e individuati nelle qualità, entità e conseguenze che sono loro proprie»2. Soprattutto quello dell’identità, mediante un procedimento analiticocomparativo, che è diretto o indiretto a seconda che si prenda in considerazione la cosa stessa o una sua riproduzione. Nel caso specifico della medicina forense, poi, tale accertamento riguarda pure la natura e la sede delle lesioni; e questo cercando e riconoscendo determinati segni in determinati contesti (analisi differenziale delle caratteristiche), nonché valutando i risultati dei vari esami di laboratorio. Tali accertamenti – come ben noto – si avvalgono ormai abitualmente di una strumentazione sia meccanica sia ottica e fisico-chimica (verità strumentale), che ha segnato il passaggio da una descrizione essenzialmente qualitativa a una trattazione rigorosamente quantitativa dei fenomeni, inserendoli anche in nuovi quadri di riferimento. Infatti, se inizialmente la strumentazione meccanica «è pur sempre concepita come un aiuto ai sensi, restando cioè in fondo nell’ambito aristotelico della conoscenza ottenuta mediante i sensi, estrapolando, se si vuole, questo ambito mediante l’idea di un loro potenziamento, ma non capovolgendo questa tematica», in seguito, l’invenzione degli strumenti ottici segna «l’inizio, almeno, di una concezione dello strumento come contrapposto al “senso”, ossia come un mezzo per liberarsi dagli “inganni” dei sensi […]. Le illusioni ottiche, e più in generale le illusioni dei sensi, acquistano una loro collocazione più precisa quando sono contrapposte alle indicazioni strumentali, come ciò che è ingannevole rispetto a ciò che è sicuro, vero, reale. È così, appunto, che viene aperto il passaggio all’idea che gli strumenti possano rivelare il non visibile e il non percepibile, e, quindi, che il non visibile e il non percepibile esistano, che vi sia un mondo reale, “nascosto” ai sensi, rivelabile soltanto mediante la strumentazione.»3 D’altra parte, questa – un affrancamento, un superamento sempre più 2

C. Puccini, Pagine di medicina legale, Ambrosiana, Milano 1990, p. 138. E ancora: «Contemporaneamente, già all’inizio dello sviluppo strumentale e della scienza moderna, è possibile individuare un altro tema, quello, per dirla nei nostri termini, dello stru-

3

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sofisticato rispetto alla percezione sensibile tradizionale – è concepita unicamente in funzione di ciò che si intende cercare, un filtro selettivo che rivela soltanto quelle proprietà che interessano, escludendone tutte le altre4. Fino ad arrivare all’attuale strumentazione elettronica ed informatica, che possiede capacità non solo elaborative ma anche “intelligenti” (mi riferisco in particolare ai cosiddetti “sistemi esperti”, o più correttamente “sistemi di consulenza”, un’applicazione delle ricerche sull’intelligenza artificiale che risalgono agli inizi degli anni ‘70 del secolo scorso5); verosimilmente, essa è all’origine di una rivoluzione scientifica e svolta epistemologica simile a quella avvenuta nel Seicento con la sperimentazione, e che adesso si configura come un’attività conoscitiva basata sulla simulazione. «Infatti, è stata l’informatica che, con il calcolatore, […] ha aperto la strada alla simulazione, una sorta di progettazione-costruzione virtuale che si pone a metà strada fra la teoria e l’esperimento.»6 Durante gli accertamenti sono possibili errori, oltre che a causa della imperizia e negligenza personale (errore diagnostico, come la confusione tra ipostasi ed ecchimosi; errore operativo, nell’uso della strumentazione e del reagente), anche a causa della inadeguatezza o diversità della strumentazione usata o dell’inattendibilità del materiale esaminato. Come è stato opportunamente sottolineato, «esistono delle realtà scientifiche che impongono maggiore attenzione e cautela nel maneggiare gli esiti degli accertamenti tecnici; in particolare è bene ricordare che, indipendentemente dall’esame svolto: mento come perturbatore dell’oggetto dell’indagine, un perturbatore controllato, almeno sino a un certo limite, dalla “teoria degli errori”, che si afferma con Laplace e Gauss.» (S. D’Agostino, Storia della strumentazione scientifica e sviluppo della scienza. I problemi posti dall’uso conoscitivo della techne, “Medicina nei secoli”, gennaio-aprile 1979, pp. 13-29.) 4 Un esempio della necessità di sapere cosa si deve cercare si trova nel romanzo di R. Olivieri, Largo Richini (Mondadori, Milano 1987, cap. 10), scritto con la consulenza di due amici tossicologi, allorché il medico legale Salienti ragguaglia il commissario Ambrosio su un probabile avvelenamento mediante un erbicida, il paraquat: «La ricerca tossicologica nel cadavere è possibile ed il risultato abbastanza certo, a condizione però che la ricerca chimica venga indirizzata su quel determinato tipo di sostanza per certi dati circostanziali. È infatti oltremodo difficile che il tossicologo, pur sospettando l’avvelenamento da causa sconosciuta, si indirizzi in tal senso, dal momento che si tratta di una sostanza che è ben poco comune in città.» 5 Schematicamente, la loro struttura è costituita da una base di conoscenze – o complesso di “verità” fondamentali e inconfutabili di un particolare settore tecnico o scientifico sotto forma di nozioni, dati e regole empiriche e logiche per collegarli – e da un meccanismo di inferenza – o insieme di “metaregole” che consente di procedere “ad albero”, in un’alternanza di nodi decisionali e nodi aleatori o informativi, che restringe e precisa progressivamente l’ambito. Come noto, tali sistemi possono funzionare in due modi diversi: o dall’alto verso il basso (top-down), ossia da ciascuna ipotesi di base si deducono le conseguenze ultime; o dal basso verso l’alto (bottomup), ossia dai dati immessi si risale alle possibili ipotesi esplicative. 6 G.O. Longo, Come cambia il sapere, “Prometeo”, settembre 2003, p. 45.

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° l’accertamento di confronto non viene effettuato direttamente sugli individui ma su reperti provenienti da questi; ° il reperto che arriva in laboratorio potrebbe non essere più nelle stesse condizioni originali; ° gli strumenti di misura hanno dei margini di tolleranza; ° esiste una variabilità intrapersonale delle osservabili (tranne per le impronte digitali/palmari e per il DNA nucleare); ° anche evidenziando l’omogeneità (al limite l’uguaglianza) di tutte le variabili osservate non si può escludere a priori che possa esistere qualcuno, diverso dal sospettato, con tali caratteristiche. Nella letteratura scientifico-forense queste problematiche sono trattate ampiamente e, a livello internazionale, viene accreditata maggior valenza scientifica non tanto a quegli esperti che concludono le relazioni in forma categorica e assolutistica (sì, no), ma piuttosto a coloro che riescono a rappresentare (e, ovviamente dove possibile, a minimizzare) l’errore commesso in relazione ai punti sopra elencati di competenza. Il concetto di fondo è che bisogna esprimere assieme all’esito di un accertamento tecnico anche gli errori e le indeterminazioni legate al risultato, quali la probabilità di contaminazione/alterazione, la soglia di tolleranza, l’errore di falsa identificazione/reiezione. Non può esistere un risultato scientifico senza alcun tipo di errore associato, per quanto minimo o, al limite, trascurabile “di fatto”; comunque, dovrebbe essere sempre quantificato.»7 Specialmente agli esordi di una strumentazione risulta estremamente facile riscontrare divergenze tra i risultati ottenuti. Significativo a questo riguardo quanto è accaduto per esempio in tossicologia con il già ricordato “caso Lafarge” (1840), che ha inaugurato le ricerche strumentali sulla presenza dell’arsenico, da secoli il veleno per antonomasia; come ha riconosciuto infatti la pubblica accusa Decous concludendo la propria arringa: «le ricerche sugli avvelenamenti hanno ricevuto di recente il rivoluzionario apporto della chimica [che fornisce] la miracolosa possibilità di rivelare la presenza del veleno anche là dove ci rimaneva finora nascosto, cioè nelle sue vittime: i morti». Ma questo non ha impedito, anche dopo numerose perizie, di arrivare a conclusioni incerte e contrastanti. Problemi simili si sono presentati anche nel processo Nigrisoli (1964), che ha affrontato un presunto caso di omicidio per avvelenamento da curaro senza un’adeguata letteratura scientifica. Così, le metodiche di ricerca variano secondo i periti: se quello d’ufficio (il farmacologo Nicolini dell’Università di Firenze), che conclude per la presenza irrefutabile di una sostanza cu7 D. Zavattaro, L’identificazione e il problema dell’interpretazione del dato scientifico, “Rassegna dell’Arma dei Carabinieri”, ottobre-novembre 2001.

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raro-simile, la sincurarina, nelle urine della vittima (quadro ortocurarico), considera probatorie al riguardo le prove biologiche e cromatografiche, invece i periti di parte (il farmacologo Trabucchi e il medico legale Cattabeni dell’Università di Milano), che le contestano in maniera serrata verosimilmente anche per motivi extra-scientifici, sostengono che tale asserita positività è completamente aspecifica (quadro pseudocurarico), e pertanto priva di qualsiasi valore probatorio; suggeriscono quindi il ricorso a una nuova e più moderna metodica chimica, quella gas-cromatografica, che rappresenta la più scientifica e sicura in materia – in realtà poi non compiuta. Se ne aggiungeranno quindi altre due – la ricerca dello iodio (con valore probatorio solo negativo) mediante spettrofotometro e bombardamento neutronico – senza però arrivare a una qualche conclusione. In realtà, le nuove procedure di ricerca impiegate – come è stato sottolineato in proposito8 – «possono avere solo un valore di orientamento, e quindi fornire risultati di scarsa utilità agli effetti giudiziari. In primo luogo perché, anche quando siano da considerare esatti, occorrono controlli idonei a dare loro dignità di prova; in secondo luogo perché spesso è profondamente diverso quanto si verifica in laboratorio e quanto nell’organismo vivente; in terzo luogo perché la stessa prova biologica sovente non basta, non essendo sempre identico a tale riguardo il comportamento nei bruti e nell’uomo; in quarto luogo perché solo “similia cum similibus facillime comparantur” mentre il materiale di lavoro a disposizione, se soggiaciuto a processi autolitici per un determinato tempo, non può essere paragonato a quello sperimentale di prova; in quinto luogo, infine, perché neppure il ripetersi costante dei risultati implica di necessità interpretazioni univoche, e quindi valorizzabili agli effetti giudiziari. […] Pertanto, nel caso Nigrisoli sono inizialmente mancate: l’impiego tempestivo di tecnici specifici, non risultando che un chimico sia stato associato al biologo; la ripetizione contemporanea ed in un altro ambiente delle ricerche tossicologiche; la univocità delle conclusioni; la presenza, fin dall’inizio delle ricerche, di un consulente di parte, intervenuto solo tardivamente.» Considerazioni simili valgono anche per l’accertamento dell’identità individuale mediante le impronte genetiche, che prosegue nella ricerca di parametri con una valenza probatoria di carattere positivo e non solo negativo, avviata alla fine dell’Ottocento con la scoperta delle impronte digitali e balistiche; questo, però, alla condizione ben precisa, e per ora unicamente ipotetica, di considerare la sequenza completa del DNA di un individuo e di determinarla correttamente. In realtà, la procedura corrente considera solo alcuni frammenti o segmenti del 8

R. Pellegrini, Ricerca della verità reale nel processo penale, “Homo”, marzo 1965, pp. 40-42; ma in proposito cfr. anche F. Vanni, Processo Nigrisoli, Sampietro, Bologna 1965, spec. cap. II, parr. 10 e 12-14; P. Donizetti, Op. cit., pp. 99-118.

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DNA completo, e di questi determina non la reale sequenza chimica, perché troppo dispendioso in termini di tempo e di denaro, ma la semplice diversità in termini di dimensioni molecolari, assai più agevole ed economico; tale polimorfismo, però, ha una bassa specificità, ossia un basso valore probatorio, e quindi un’elevata probabilità di corrispondenze fortuite (falsi positivi). Inoltre, i vari laboratori usano comunemente tecniche diverse, non sempre sufficientemente accurate o adeguatamente collaudate, con la conseguenza che il profilo genetico di una stessa persona varia secondo il tipo di analisi eseguita. In definitiva, l’estrema precisione richiesta da tali indagini strumentali e il rischio sempre presente di risultati falsi positivi (errata presenza o corrispondenza) e falsi negativi (errata assenza o differenza) impongono di non trascurare affatto l’aspetto relativo ai requisiti della strumentazione impiegata (idoneità allo scopo, accuratezza delle analisi, omogeneità dei parametri, attendibilità dei risultati) e del materiale esaminato (specificità, stabilità, non reattività e purezza) come pure di non attribuire ai risultati strumentali ottenuti un valore assoluto e decisivo, ma di confrontarli e integrarli sempre, per quanto possibile, con quelli di altri esami. Un eloquente e classico esempio di risultato falso positivo – accidentale o voluto – che ha condizionato tutta la successiva ricostruzione è quello relativo alle perizie sulla presunta arma del delitto del “caso von Bülow” (1980): la siringa con l’ago sporco di insulina, che sarebbe stata usata dal marito per uccidere la moglie, appunto con un’iniezione di insulina. Come però ha ricordato un avvocato del collegio della difesa in una dettagliata ricostruzione del caso9, «secondo gli esperti, vi erano quattro ragioni indipendenti perché l’ago non poteva essere stato usato per un’iniezione alla signora von Bülow. 1. Se l’ago fosse stato veramente usato, qualsiasi analisi avrebbe rivelato la presenza di tracce di sangue e tessuti umani, il che non era. 2. Sull’ago erano state trovate tracce di Amobarbital, ma questa sostanza altamente corrosiva non avrebbe potuto essere iniettata senza lasciare dei segni notevoli e facilmente visibili – le cosiddette “bruciature da barbiturici” – sulla pelle della vittima nel luogo dell’iniezione. Queste cicatrici procurano pus e desquamazione della pelle e non possono assolutamente sfuggire ad un esame anche superficiale. Il corpo della signora von Bülow non presentava segni di iniezioni al momento del ricovero. 3. L’ago presentava tracce di Valium, ma la presenza di questa sostanza non venne riscontrata nelle analisi compiute sulla signora von Bülow. 4. “Le incrostazioni cristalline” trovate sulla parete esterna dell’ago presso la punta “sono incompatibili con un’iniezione”. Potevano solo essere il risultato di “un’immersione [dell’ago] in una soluzione”. La ragione di questa conclusione, secondo gli esperti, era evi9

A.M. Dershowitz, Il mistero von Bülow [1986], Longanesi, Milano 1991, pp. 135-136.

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dente: quando un ago viene iniettato, “la fuoriuscita dalla pelle fa sì che esso venga pulito dalle incrostazioni di farmaci”. In parole povere, la pelle che circonda l’ago agisce come uno strofinaccio che ripulisce l’ago fino alla punta. “Quindi, se l’ago entra ed esce realmente nella pelle, non dovrebbe restare alcun residuo.” Il solo residuo rinvenibile dovrebbe trovarsi “alla base dell’ago dove questo si innesta sulla siringa”.» D’altra parte, la siringa in questione era del tipo che conteneva già nel suo interno il liquido. In effetti – come è stato provato in seguito – «quando aghi sporchi di Amobarbital e Valium, ma non di insulina, sono immersi in soluzioni saline risultano spesso positivi ai test per l’insulina».

7.2. Ricostruzione razionale del fatto Diversamente dalle altre perizie, soprattutto quella medica deve anche interpretare correttamente i dati e collegarli adeguatamente fra loro per arrivare a una ricostruzione del fatto (verità razionale, argomentativa); ossia deve non solo indicare la causa di morte – riferita però non alla sua causa ultima medica ma ai suoi fattori lesivi esterni – ma altresì determinare le modalità e circostanze di essa, soprattutto se strana, sospetta o improvvisa – nel qual caso deve esser ritenuta un fatto criminoso fino a quando non se ne dimostra il contrario10. «A differenza, quindi, dell’anatomo-patologo, il cui compito consiste in un preciso riscontro diagnostico “post mortem” di un paziente deceduto in seguito a malattia o intervento chirurgico, per confermare o meno la diagnosi clinica “in vita”, il medico legale, in presenza di un cadavere, ha un compito ben più complesso e impegnativo. Egli, infatti, deve osservare ogni minimo particolare – dallo stato di conservazione alla posizione, dall’atteggiamento all’identità – e, a seconda delle circostanze, deve tener conto dell’abbigliamento e di tutti gli elementi esterni» che possano avere qualche rilevanza11. In particolare, come ha chiarito R. Pellegrini in varie occasioni12, la metodologia medico-forense insegna a di10

Viceversa, un autore rigoroso e competente in materia come il penalista E.S. Gardner scrive, in una delle note che accompagnano talvolta i suoi romanzi del ciclo Perry Mason (P. M. e la Venere senza nome [1969], “Il Giallo Mondadori” 1124, 1970), che «la “causa” del decesso è sempre una questione medica, mentre il “modo” di esso non riguarda mai la medicina; così, per esempio, se la causa di un decesso è rappresentata da un proiettile nel cranio, per stabilire il modo è necessario sapere se il proiettile è partito dall’arma inavvertitamente, o se è stato sparato dalla vittima stessa o da un’altra persona nell’attuazione di un crimine.» 11 P. Donizetti, Il cadavere interrogato rispose, SEI, Torino 1976, p. 147. 12 Cfr. per esempio Verità scientifica e verità giudiziaria, “Il Friuli medico”, marzo-aprile 1949, pp. 59-69; Il caso Montesi, Guanda, Parma 1954, par. 3: “Come va impostato lo studio del caso”.

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stinguere fra i criteri e gli elementi circostanziali, che precedono, accompagnano o seguono il fatto, quelli obiettivi, come i vari accertamenti e referti, e quelli riconnettivi, o di giudizio; come pure a non procedere alla cieca ma con consapevolezza, sapendo già in precedenza cosa si deve cercare, e con completezza, il che ovviamente non significa affatto riportare indiscriminatamente qualsiasi dettaglio per quanto superfluo e insignificante, ma piuttosto non tralasciare nessuno di quelli utili, pertinenti («l’eterna lotta fra diligenza e intelligenza»); e quindi ad attribuire il valore e l’attendibilità di una perizia non alle sue conclusioni ma ai suoi accertamenti e alle sue connessioni logiche, alla sua razionalità interpretativa. Così, per esempio, «constatare l’uccisione di un uomo è il puro rilievo di un fatto materiale, ma è necessario ricostruirlo mentalmente per farsi l’idea dell’omicidio; ugualmente, reperire un veleno nel cadavere è un’inda-gine scientifica pura che utilizza i metodi suggeriti dalla tossicologia, ma per farsi l’idea dell’avvelenamento occorre un’ulteriore elaborazione critica che porti ad escludere la possibilità di un’introduzione accidentale o fraudolenta del veleno nel cadavere.»13 Oltre che per i fatti materiali, tale logica interpretativa vale anche per le azioni umane, rivelandosi addirittura indispensabile per alcuni tipi di omicidi, come per esempio quelli seriali o a sfondo sessuale, ancorché apparentemente immotivati, gratuiti e solitamente compiuti in modo ritualizzato e simbolico, nonché privi del tradizionale legame tra la vittima e l’assassino (stranger to stranger murders)14. Così, con un procedimento corrispondente a quello usato nell’indagine clinica, dall’esame degli esiti più immediati e potenzialmente significativi da un punto di vista comportamentale, a partire dalla scelta della vittima e dalle modalità dell’omicidio (risposta alla domanda: “cosa è successo?”) 13

C. Puccini, Op. cit., pp. 138-139. In proposito cfr. per esempio S. Bourgoin, La follia dei mostri [1993], Sperling & Kupfer, Milano 1995, pp. 37-62: “Il profilo psicologico”; F. Bruno, Identikit psicologico dell’autore sconosciuto di un reato, “Detective & Crime Magazine”, aprile 1995, pp. 20-23; J. Douglas, con M. Olshaker, Mindhunter [1995] e Caccia nelle tenebre [1997], Rizzoli, Milano 1996 e 1997; L. Montet, Le profilage criminel, PUF, Paris 2002; M. Picozzi – A. Zappalà, Criminal Profiling. Dall’analisi della scena del delitto al profilo psicologico del criminale, McGraw-Hill, Milano 2002. Passando dalla realtà alla fiction, il recente interesse per la figura del “serial killer” (secondo l’espressione coniata dall’ex agente federale investigativo R. Ressler verosimilmente nel 1976), già anticipato per esempio da G. Simenon (La trappola di Maigret [1955]) e R. Bloch (Psycho [1958]), è legato principalmente a T. Harris (Drago rosso. Il delitto della terza luna [1981] e Il silenzio degli innocenti [1988]); tuttavia, in genere si preferisce soffermarsi sui particolari più macabri e raccapriccianti delle azioni criminali o sull’angoscia delle vittime piuttosto che privilegiare l’aspetto procedurale delle indagini: in tal senso fanno eccezione, oltre al romanzo di C. Carr, quelli di P.D. Cornwell e di K. Reichs. 14

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si risale alle motivazioni più intime, recondite che sono alla base dei singoli elementi comportamentalmente significativi del crimine in esame (risposta alla domanda: “perché è successo proprio in quel modo?”): «le azioni umane hanno sempre una propria “logica”, magari inconscia, difficilmente rilevabile, censurata e dunque oscura anche all’assassino, ma indagabile psicologicamente; insomma, anche un’a-zione apparentemente immotivata è sempre “motivata”.»15 Quindi, basandosi sul calcolo della probabilità e aiutandosi con l’intuito e l’immaginazione, e in seguito affidandosi anche all’informatica, si ricostruisce il profilo della sua personalità, o insieme delle caratteristiche psichiche, fisiche e comportamentali che la individuano (risposta alla domanda: “chi dunque può aver commesso quello specifico reato per quelle specifiche ragioni, come deve essere?”).

7.3. Percorso logico dell’indagine In generale, l’indagine, nel suo duplice aspetto investigativo (interrogatori, testimonianze, informazioni, controlli vari, ecc.) e tecnico-scientifico (perizie varie), procede, a partire dai dati disponibili e sempre in stretto riferimento ai fatti e riscontri empirici, attraverso una catena di domande-risposte, mediante un processo di tipo cibernetico a feed-back negativo o logico computazionale (relativo allo studio del processo di formazione delle ipotesi e di ricerca delle dimostrazioni: aspetto dinamico) piuttosto che logico in senso tradizionale (relativo allo studio della relazione di conseguenza logica: aspetto statico): così – in base ai principi di non contraddizione (riguardo alle verità di ragione, necessarie) e di ragion sufficiente (riguardo alle verità di fatto, contingenti) e mediante una sequela di “perché”, “ma”, “se-allora”, “oppure” – si formulano domande strategicamente opportune, appropriate che consentono risposte ricche di informazione e aperte a ulteriori domande redditizie, e così via. Schematicamente, essa si articola in cinque momenti o fasi fondamentali. a) Esistenza del fatto problematico e formulazione dell’ipotesi preliminare. «Sul luogo del delitto non troviamo il delitto, ma un groviglio di indizi, una schiera di segni» che però sono troppo numerosi o troppo scarsi «rispetto a quell’unico significato che dovrebbe disporli in ordine e fornire una spiegazione della loro presenza»; così, per la sovrabbondanza di significanti, che indica sempre la mancanza della prova decisiva, o per la povertà di significato, che si traduce nel proliferare eccessivo dei significati arbitrari, inverificabili, in conflit15

V. Andreoli, Voglia di ammazzare. Analisi di un desiderio, Rizzoli, Milano 1996, p. 91.

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to fra loro, privi di rapporto con la realtà, «l’agevole e rassicurante coincidenza di segno e senso è stata infranta»16. Davanti a un fatto criminoso che si presenta come problematico, in quanto al momento senza spiegazione, l’indagine, per quanto minuziosa e dettagliata, non procede mai da osservazioni indiscriminate, ma è sempre orientata, guidata, fin dall’inizio da una sorta di generica precomprensione, dovuta ad un insieme di conoscenze professionali ed esperienze personali (vale a dire una conoscenza dichiarativa, o “sapere cosa”, e una conoscenza procedurale, o “sapere come”), e da una domanda di fondo (“si tratta di disgrazia, suicidio o omicidio?”) che consentono di “riconoscere” certi dati come rilevanti, significativi, utili (in quanto strani, incongruenti, sospetti, ecc.), e quindi come indizi: questi, infatti, sono sempre relativi, pertinenti a qualcosa; ma a cosa? Solo a queste condizioni è ragionevole formulare un primo ventaglio di piste o ipotesi diverse, complementari o alternative, privilegiando quella più plausibile, pur nella consapevolezza che si tratta solo di una indicazione della direzione da prendere, di una traccia da approfondire e vagliare con la massima attenzione, senza però escludere le possibili alternative. «La polizia e gli investigatori in genere, […] formulata l’ipotesi di lavoro, continuano a indagare e a controllare per vedere se i fatti reali confortino la conclusione orientativa, senza però perdere mai di vista né altre possibilità né l’eventualità che l’ipotesi di lavoro, per quanto allettante possa essere, sia infondata. In altri termini, a titolo metodologico è indispensabile di solito avere già formati in mente certi convincimenti ragionevoli, però non a spese di ogni altra possibilità.»17 b) Ricerca di fatti addizionali e formulazione di ulteriori ipotesi. Un’ipotesi preliminare ragionevole, sebbene solo provvisoria e incompleta o parziale, e quindi molto diversa dalla spiegazione finale – essa, infatti, non dice “come” e “perché” sia stato commesso il fatto, né tantomeno “chi” lo abbia commesso – suggerisce comunque un abbozzo di spiegazione, ossia una prima indicazione ancora sommaria e vaga, indistinta sulla direzione da prendere, che richiede però sia di venir ulteriormente e progressivamente precisata nelle formulazioni e confermata dai risultati del sopralluogo e delle successive indagini investigative e tecnico-scientifiche per evitare l’eventualità che risulti infondata, sia di non escludere altre possibilità; «e a ogni stadio del processo queste formulazioni avranno qualche rilievo empirico: sarà possibile indicare, almeno in modo approssimativo, quale tipo di prova sarebbe rilevante per comprovarle, e quali scoperte tenderebbero a confermarle.»18 Così, in uno stretto intreccio di controlli e 16

D. Miller, “Nient’altro che la verità”, “Calibano”, 5, 1980, pp. 35-36. H. Weisberg, Chi ha ucciso Kennedy? Le prove della congiura [1965], Feltrinelli, Milano 1967, p. 60. 18 C.G. Hempel, The Function of General Laws in History, “Journal of Philosophy”, 1942, XXXIX, pp. 35-48. 17

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riscontri delle conseguenze coi fatti, aggiustamenti delle formulazioni, ed apporti di altri eventuali elementi o fatti addizionali, emersi o ricercati, si precisa e integra progressivamente la formulazione iniziale, passando con ciò dalla fase di possibilità, o semplice assenza di contraddizione, alla fase di probabilità, o presenza di ulteriori condizioni necessarie ancorché non sufficienti. c) Formulazione dell’ipotesi esplicativa. Una volta, poi, in possesso di tutti gli elementi ritenuti necessari alla spiegazione del fatto, un tutto omogeneo e coerente (o almeno un tutto di cui bisogna ricercare la coerenza e l’omogeneità) – ciascun singolo indizio, infatti, per quanto un fatto certo ed evidente in sé ma muto, è solo una prova parziale, in quanto relativa a un semplice aspetto o elemento, indiretta, in quanto inferita razionalmente e non constatata o conosciuta immediatamente, e derivata, in quanto sostenuta da altre prove – questi devono essere adeguatamente collegati fra loro in modo da consentire la formulazione di un’ipotesi esplicativa di tutti i dati, sia dei primi fatti iniziali sia dei successivi fatti addizionali. «Nella ricerca del vero, dunque, si deve distinguere fra evidenza positiva ed evidenza negativa: l’una si ha quando i fatti sono certi e le cause altrettanto manifeste; l’altra, invece, quando dei fatti, dati per certi, non si riesce a conoscere, pur cercando con la dovuta diligenza, la vera cagione. Il difetto della connotazione eziologica fa sì che l’evidenza negativa, cui nulla manca quanto a requisito fisico, perda l’efficacia dimostrativa della certezza e scenda nella scala dei valori al grado di probabilità o di dubbio.»19 d) Deduzione di ulteriori conseguenze e loro prova. Una volta dimostrato che l’ipotesi esplicativa è rilevante, comprovata e compatibile con gli elementi di prova (però, per l’asimmetria dell’implicare, tale compatibilità non ne stabilisce necessariamente la fondatezza mentre invece l’incompatibilità ne assicura l’infondatezza), essa deve dimostrare altresì la sua capacità di previsione o di deduzione di ulteriori fatti addizionali o conseguenze: un’ipotesi veramente valida e utile, infatti, deve spiegare non solo tutti i fatti iniziali che l’hanno originata, ma anche gli altri fatti eventuali alla cui esistenza non si sarebbe mai altrimenti pensato; naturalmente, tali nuovi fatti devono venir provati mediante l’osservazione o l’esperimento. Di conseguenza, l’accusa – o almeno l’arresto – è solo l’esito della formulazione (o giustificazione) di un’ipotesi, l’enunciazione di una proposizione, secondo la quale un individuo ha commesso un delitto, che a sua volta deve però essere vagliata20. 19

C. Puccini, Op. cit., pp. 139-140. In genere questo non accade nelle detective stories. Come scrive il viceprocuratore distrettuale per la contea di New York, J.E. Thelwell (Imputato, alzatevi!, in Anonima Assassine. Guida all’altra metà del giallo [1979], a cura di D. Winn, Milano Libri, Milano 1983, p. 232), «il lettore di libri gialli ha a che fare con situazioni nelle quali non c’è alcun dubbio che l’accusato – o almeno la persona arrestata alla penultima pagina – sia l’assassino, e di conseguenza l’unico ri20

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e) Valutazione dell’ipotesi esplicativa. Dopo un primo esame preliminare, che decide sulla semplice sufficienza delle prove (esistenza della “causa possibile” o “causa ragionevole”) per il rinvio a giudizio, il processo vero e proprio, a seconda che sia di tipo inquisitorio – e quindi strutturato come un riesame condotto sostanzialmente dal solo giudice, anche in veste di inquirente, di quanto prodotto in fase istruttoria – oppure di tipo accusatorio – e quindi strutturato come una disputa fra l’accusa e la difesa alla presenza del giudice – costituisce il momento della verifica o del controllo dell’ipotesi stessa, vale a dire o una sostanziale conferma oppure una effettiva valutazione degli elementi di prova. Quest’ultimo «è istituzionalmente caratterizzato dalla presenza di tre soggetti principali [la cosiddetta “triade processuale”] che affrontano il problema da punti di vista diversi, in base al ruolo da loro ricoperto nel dibattimento: l’accusa e la difesa ricostruiscono il fatto, e quindi interpretano il problema, in funzione dei propri obiettivi, che sono rispettivamente di provare la colpevolezza o l’innocenza dell’imputato, mentre il giudice ricostruisce il fatto in funzione di un’applicazione corretta della legge.»21 Schematicamente, si tratta dunque di due interlocutori antagonisti che discutono su un tema; i loro ragionamenti – composti da almeno tre elementi (collocabili secondo ordini diversi): un dato o argomento, una regola generale, una tesi o opinione – sono rivolti a persuadere della verosimiglianza più che a dimostrare la verità22. In particolare, la difesa – che «svolge un’attività simile a quella del giurista [vale a dire propone un’interpretazione delle norme] nel rispetto di due vincoli, che sono l’interesse del cliente e l’obiettivo di convincere il giudice» – «si pone non solo nella prospettiva del proprio cliente, costruendo la storia che consente la difesa più efficace, ma anche nella prospettiva dell’accusa, considerando i punti forti e i punti deboli dell’eventuale storia che questa può costruire ed elaborando di conseguenza le relative controargomentazioni; nonché, per quanto è reso possibile da una conoscenza pregressa del giudice che esaminerà il caso, nella prospettiva dello stesso giudice.»23 Ossia, per dirla con le parole del poeta sultato giusto è una condanna; in realtà, l’arresto avviene sempre alla penultima pagina perché nella maggior parte dei casi sarebbe pressoché impossibile trasferire la materia in tribunale e ottenere una condanna sulla base delle prove fornite dall’autore», dimostrando che qualcuno è colpevole al di là di ogni “ragionevole dubbio”. Fanno eccezione i romanzi che rientrano nel cosiddetto “filone processuale”; in essi, significativamente, gli imputati vengono alla fine riconosciuti innocenti. 21 P. Catellani, Il giudice esperto, Il Mulino, Bologna 1992, p. 147. 22 Cfr. per es. V. Lo Cascio, Grammatica dell’argomentare. Strategie e strutture, La Nuova Italia, Firenze 1991; nonché A. Giuliani, Logica del diritto (b. Teoria dell’argomentazione), in Enciclopedia del diritto, vol. XXV, Giuffré, Milano 1975, ad vocem, e AA.VV., Logica, retorica ed esperienza giudiziaria, “Verifiche”, gennaio-marzo 1983. 23 P. Catellani, Op. cit., pp. 113 e 141.

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e critico inglese H.W. Auden, la difesa ha come suo fine primario «non di scoprire il colpevole ma di provare l’innocenza dell’imputato, suo cliente»; vale a dire che «il suo interesse per la verità o per l’innocenza è sempre subordinato al suo interesse per il cliente, che egli non può mai abbandonare, fosse pure effettivamente colpevole, senza venir meno al proprio dovere di avvocato». E tutto questo trova «la sua giustificazione morale nel fatto che la legge umana è eticamente imperfetta, in quanto non è una manifestazione assoluta dell’universale o del divino, ma è soggetta a limitazioni casuali, come l’intelligenza o la stupidità di qualche poliziotto o di qualche giurato (con la conseguenza che talvolta anche un innocente può venir giudicato colpevole). Per rimediare a tale imperfezione, il giudizio viene ottenuto ricorrendo a una prova di forza tra le doti intellettuali della difesa e quelle dell’accusa, esattamente come un tempo i casi controversi venivano risolti con uno scontro fisico tra l’accusato e l’accusatore.»24 Per raggiungere il proprio obiettivo, la difesa può seguire due diverse tecniche processuali: o limitarsi a dimostrare la falsità dei fatti e delle argomentazioni interpretative oppure fornire anche una spiegazione alternativa più convincente. La confutazione di una tesi25 quanto ai modi è rivolta o alla natura delle cose, alla verità oggettiva assoluta dei fatti (ad rem) o alle affermazioni ed ammissioni della parte avversa, alla verità soggettiva relativa delle argomentazioni che li interpretano (ad hominem, ex concessis); quanto invece alle vie, essa riguarda o i suoi fondamenti (la tesi non è vera) o le sue conseguenze (la tesi non può essere vera). Così, in concreto, la difesa, oltre che impugnare eventuali scorrettezze formali di procedura, per esempio nell’iden-tificazione dell’imputato o nella raccolta degli elementi di prova, deve dimostrare che non si tratta del delitto ipotizzato ma di qualcos’altro e/o che non riguarda la persona imputata quanto all’identità o alla partecipazione (alibi, errore di persona, ecc.); o, eventualmente, che si ha comunque l’esimente della giustificabilità o della scusabilità. (Esistono infatti sempre due mondi: quello che si vede, dei fatti nudi e crudi, e quello che non è dato di vedere, dei fatti segreti, in cui l’accusato vive e agisce. Bisogna quindi scoprire e mostrare questo mondo personale dell’imputato, mettersi nei suoi panni e chiedersi perché lo ha fatto. A ben guardare, quasi sempre è possibile trovare delle circostanze attenuanti nella sua vita privata che ne rendano umanamente comprensibile il comportamento (concorso delle circostanze). Qualsiasi argomento, per essere vincente, deve partire da una situazione di forza, nel senso che deve svilupparsi da una posizione che generi approvazione e 24

W.H. Auden, La parrocchia del delitto. Osservazioni sul romanzo poliziesco [1948], “Paragone”, 84, 1956, pp. 19-31. 25 Cfr. per es. l’impalcatura di base contenuta in A. Schopenhauer, L’arte di ottenere ragione, Adelphi, Milano 1991, pp. 27-28.

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assenso, o almeno rispetto, o almeno comprensione, o almeno compassione; e quest’ultima è, nella scala delle forze, la più debole.26) La difesa, poi, invece che «limitarsi a confutare la validità del teorema accusatorio e a denunciarne i vizi e le incongruenze – e più in generale a negare ogni addebito – può anche ipotizzare uno scenario alternativo, con il vantaggio di non avere, al riguardo, l’onere della prova. Se, infatti, l’accusa ha il dovere di scoprire il colpevole reale, la difesa ha il diritto di inventarsi un colpevole immaginario: a questa basta dimostrare che il retroscena di un delitto può essere un altro; e che quest’altro possibile scenario ha le carte in regola sul piano della verosimiglianza. Con l’effetto di diminuire la credibilità e soprattutto l’esclusività della tesi dell’accusa.»27 Così, secondo tale logica alternativa della linea di difesa, «in un processo indiziario, il primo sbaglio è di imbastire una teoria e cercare di farla quadrare con i fatti; bisogna invece avere elasticità mentale, e dai fatti trarre le conclusioni.»28 Quindi, «il vero modo di chiarire un delitto consiste nello scovare al momento opportuno un fatto che non è stato ancora spiegato, e nel darne una spiegazione. […] Finché questo non avviene, l’istruttoria sarà incompleta. Ricordate che l’accusa si fonda sulla logica delle circostanze. Per derivarne una condanna è necessario escludere ogni ipotesi ragionevole all’infuori della colpevolezza degli imputati.»29 Più in particolare, «per dichiarare colpevole un imputato in base a prove indiziarie, gli indizi devono non solo essere compatibili con la colpevolezza dell’imputato ma devono altresì essere incompatibili con qualsiasi altra ipotesi ragionevole. Nel caso che esista un’altra ipotesi ragionevole tale da escludere la colpevolezza dell’imputato, e qualora detta ipotesi costituisca una spiegazione per le prove indiziarie esistenti, l’imputato deve essere assolto.»30 Questo modo di “pensare da avvocato”, con il suo caratteristico stile di analisi dei fatti, che setaccia i dettagli e mina alla base ogni argomento della parte avversa con un relativo contro26

G. Spence, Come discutere e vincere sempre [1995], Mondadori, Milano 1997, pp. 188-189. A. Ledda, Il principio di verità, Mondadori, Milano 1992, cap. 17. 28 E.S. Gardner, Perry Mason brinda al delitto [1957], Mondadori, Milano, cap. 13. Ma in proposito cfr. per es. anche D. Kincaid, Nonostante l’evidenza delle prove [1986], Rizzoli, Milano 1987: «Le cause vengono modificate dal succedersi delle testimonianze, le quali danno origine a nuovi sviluppi, obbligando a modificare, e talvolta ad abbandonare, le posizioni precedenti. Così, fatti apparentemente irrilevanti prima dell’inizio del processo si rivelano decisivi per la vittoria o la sconfitta. Infatti, spesso la chiave del successo è la flessibilità.» 29 E.S. Gardner, Perry Mason e l’ereditiera bizzarra [1933], Mondadori, Milano, cap. 17. 30 E.S. Gardner, Perry Mason e la signora cleptomane [1938], Mondadori, Milano, cap. 18. Ma in proposito cfr. per esempio anche P. Friedman, Prova respinta [1992], Sonzogno, Milano 1995, parte II, cap. 21: «Tali prove [circostanziali] non devono semplicemente indicare una vaga possibilità di colpevolezza, ma grazie a loro si deve poter escludere con assoluta certezza morale qualunque ragionevole ipotesi che non sia la colpevolezza.» 27

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argomento, non è stato quasi mai illustrato dettagliatamente, ma per lo più solo accennato a grandi linee. Un prezioso, e poco conosciuto, contributo in questo senso è dato dall’esposizione del modo di procedere dell’avvocato Arthur J. Hanes sr. di Birmingham in vista della prima difesa processuale di James Earl Ray, accusato dell’omicidio di Martin Luther King 31. «Nel suo ufficio a Birmingham, Arthur J. Hanes sr. lavorava sino a tarda notte, predisponendo la difesa processuale. Quale sarebbe stata la linea dell’accusa? Come doveva controbattere? Buttò giù delle annotazioni, punto per punto, con le confutazioni della difesa com’era in quel momento. 01. King era stato ucciso da un colpo di fucile il 4 aprile 1968 e, trasportato all’ospedale, era virtualmente già morto al momento dell’arrivo. Nessuna obiezione. 02. Secondo le affermazioni dei testimoni e gli esami di triangolazione, il colpo era stato sparato dalla finestra del bagno della pensione al 422 1/2 di South Main Street. a) Non è stato rintracciato nessun testimone assolutamente sicuro che lo sparo provenisse dal bagno. b) La maggior parte di loro era incerta sulla sua provenienza. c) Qualcuno affermava che lo sparo era partito dai cespugli. d) Nemmeno determinare la traiettoria del proiettile mediante la triangolazione può costituire una prova assoluta, perché, a una distanza di 60-80 metri, uno spostamento anche minimo nell’angolo del corpo di King avrebbe variato sensibilmente la posizione della ferita. 03. Un Remington 760, un paio di binocoli e una valigetta piena di indumenti erano stati abbandonati di fronte alla porta della “Canipe’s Amusement Company” immediatamente dopo lo sparo. Il fucile e la valigetta potevano essere stati lasciati da qualcun altro e prima dello sparo. I tempi dati dai testimoni, Canipe e i due uomini nel suo negozio, non erano esatti. Inoltre, alcuni degli indumenti rinvenuti nella valigia – i calzoncini – erano troppo piccoli per la taglia di James Earl Ray. 04. James Earl Ray, sotto il nome di Eric S. Galt, aveva trascorso la notte del 3 aprile al motel “New Rebel” (prova: identificazione personale, firma, impronte digitali). Nessuna contestazione effettiva. Potrebbe avere importanza per i testimoni minacciati di incarcerazione dall’accusa, se parlassero con la difesa. 05. James Earl Ray si era registrato nella pensione al 422 1/2 di South Main Street, nel pomeriggio del 4 aprile 1968, prendendo una stanza sullo stesso piano del bagno. È necessario un controinterrogatorio spietato a Bessie Brewer, per sottolineare che la sua deposizione è sospetta in quanto potrebbe essere dettata dalla possibilità di ricevere la ricompensa sulla taglia. Stessa cosa per quanto riguarda Charles Stephens. Si può argomentare che questi testimoni non sono attendibili perché se avessero parlato con la difesa, il pubblico ministero li avrebbe presumibilmente minacciati d’incarcerazione; altri si sono rifiutati di avere un colloquio con la difesa, dicendo di esserne stati sconsigliati dall’FBI. 06. James Earl Ray aveva acquistato un paio di binocoli alla “York Arms Company”, nel tardo pomeriggio del 4 aprile 1968. Il commesso Carpenter, secondo i rapporti, ha dichiarato di non riconoscere in Ray l’uomo che aveva acquistato i binocoli. 07. Quei binocoli erano stati trovati nella valigetta di fronte alla “Canipe’s”. Nessuna obiezione. 31 G. Frank, Martin Luther King: una morte americana [1972], dall’Oglio, Milano 1972, cap. 25.

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08. Quei binocoli portavano le impronte di James Earl Ray sul lato destro, vicino alla base dell’oculare. Controinterrogatorio sulle impronte normali. 09. La valigetta e gli indumenti appartenevano a James Earl Ray (prova: l’etichetta della lavanderia applicata sugli stessi; le fibre esaminate corrispondevano a quelle trovate nella valigetta, nella Mustang e nella stanza). Non sufficiente per l’incriminazione. Normale controinterrogatorio sulle etichette, la sporcizia, le fibre, ecc. 10. Una Mustang bianca targata Alabama era fuggita dal luogo del delitto. I testimoni a carico non erano certi sulla targa o sull’ora. Uno diceva che la Mustang bianca, parcheggiata dirimpetto al “Jim’s Grill”, aveva un’antenna per rice-trasmittente (poteva quindi diramare il falso inseguimento?) e se n’era andata 10 minuti prima dell’uccisione di King. 11. Una Mustang bianca targata Alabama era stata ritrovata abbandonata ad Atlanta, la mattina del 5 aprile. I testi per la macchina abbandonata hanno descritto il proprietario diverso da James Earl Ray. 12. Quella Mustang bianca apparteneva a James Earl Ray. Nessuna obiezione. 13. Le fibre e i campioni di sporcizia prelevati dalla Mustang bianca corrispondevano a quelli rinvenuti a Memphis. La prova basata sulle fibre e sulla sporcizia è debole, come il solito; bisogna anche porre in evidenza che queste cose non dimostrano che la Mustang era vicina al luogo come potrebbe essere Memphis. Non provano che la Mustang si trovava a Memphis. Questo materiale poteva essere stato introdotto nella macchina in precedenza. 14. Le impronte di James Earl Ray erano state rinvenute al 422 1/2 di South Main Street. Poche erano chiare, la maggior parte di esse era confusa. 15. Alle 6 pomeridiane circa del 4 aprile 1968 era stato udito un colpo d’arma da fuoco partire dal bagno del 422 1/2. Stephens è l’unico ad affermarlo. 16. Subito dopo James Earl Ray era stato visto uscire di corsa dal bagno del 422 1/2 portando un oggetto oblungo in mano. Lo testimoniano Stephens e Anschutz. Testi dubbi. 17. Il fucile rinvenuto di fronte alla “Canipe’s”, abbandonato poco dopo lo sparo, era stato acquistato da James Earl Ray a Birmingham il 29 e il 30 marzo. Baker, il venditore del fucile, non è in grado di identificare il compratore in Ray. Sia lui che Wood affermano che il compratore, se è Ray, era assolutamente inesperto di armi ed è improbabile che sia lui il responsabile dello sparo; affermano anche che ha fatto un viaggio di ritorno per cambiare il fucile. 18. Il fucile portava soltanto un’impronta di James Earl Ray. Le impronte possono viaggiare. L’impronta era isolata. Qualcuno può averle cancellate lasciando quell’unica impronta. 19. È probabile che il fucile abbia sparato il colpo che ha ucciso King, cioè è compatibile col tipo di ferita. Fucile nuovo, cartuccia dura. L’identificazione non è positiva. (Potremmo avere una giornata di grandi manovre sulla teoria delle probabilità; controinterrogatorio.) 20. James Earl Ray è fuggito in Canada, poi in Portogallo e a Londra. Omettere “accidentalmente” che era un ex-galeotto in fuga e spiegare il volo di un povero

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fuggiasco, incappato per caso nella grande caccia all’uomo. 21. Quando è stato catturato ha chinato la testa dicendo: “Oh, Dio, mi sento in trappola!” Minimizzare la frase se non riusciamo ad evitarla in qualche altra maniera; non biasimarlo per quella sua sensazione, con seimila agenti dell’FBI alle calcagna, ecc. 22. Ray e Galt erano la stessa persona. Non proprio un’obiezione, però si può forse individuare un punto debole. 23. La carta geografica con i segni del pedinamento di King rintracciata nella camera di Ray, con le sue impronte, ad Atlanta. Non si può affermare chi ha fatto i segni, quando, se prima o dopo che vi era stata lasciata l’impronta, o cos’altro indicavano i segni. Tra gli oggetti appartenenti a Ray c’erano moltissime altre carte geografiche. 24. Ray aveva espresso rancore nei confronti dei negri. Se questo si basa sulle osservazioni fatte da Ray alla ragazza, nel bar, a proposito di Watts, Ray non era stato il primo a picchiare. Un punto a favore. 25. Ray si era offerto di raccogliere un premio su King. Basato sul racconto del detenuto Curtis, attualmente in carcere, e probabilmente inattendibile (vedere le osservazioni di Warden e quelle degli altri detenuti). Hanes si mise quindi a considerare le varie argomentazioni da altri due punti di vista. CASO CON LA CONCLUSIONE CHE RAY HA UCCISO KING. 01. Ray possedeva il fucile trovato in Main Street. 02. Il fucile trovato in Main Street aveva sparato il colpo mortale. 03. Il 4 aprile 1968 Ray si trovava nella zona di Memphis. 04. Il pomeriggio del 4 aprile 1968 Ray si trovava nella pensione. 05. Nel fucile era stata trovata una cartuccia esplosa. 06. Le impronte di Ray erano sul fucile (e sul mirino telescopico). 07. Il 4 aprile 1968 Ray aveva acquistato il binocolo rinvenuto nella pensione. 08. Sul binocolo c’erano le impronte di Ray. 09. Ray aveva espresso l’interesse e l’intenzione di uccidere King per una ricompensa in danaro. Conclusione: Ray ha ucciso King. CASO CON LA CONCLUSIONE CHE SONO STATE MONTATE FALSE ACCUSE SU RAY. 01. Ray non era pratico di fucili (testimonianza resa da Wood e forse anche da Manasco). 02. Non esiste un movente evidente (volendo insistere sulla teoria di un’azione solitaria). 03. Il principale teste a carico mente per danaro. Era ubriaco e quindi non in grado di vedere bene (dichiarato dal teste stesso, da McGraw, l’autista dell’au-topubblica, il quale giura che il pomeriggio del 4 aprile Stephens era ubriaco, da Jowers e forse dagli avvocati di Stephens). 04. I testimoni oculari dello sparo affermano che lo stesso è partito dagli arbusti e di aver visto un uomo fuggire da questi ultimi (Solomon Jones; il pompiere della stazione dei pompieri n. 2; la polizia). 05. La balistica è solo un’opinione. 06. a) Ray non era mai stato nella pensione, al motel “Lorraine” oppure a Memphis, a quel riguardo. b) I movimenti di King non erano conosciuti da tutti. c) Il fatto che lo sparo provenisse dal n. 422 1/2 al “Lorraine” non era ovvio, perché presupponeva una pianificazione in anticipo con la scelta dell’edificio.

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d) È piuttosto sospetto che gli indizi puntino tutti su lui, e non su un’altra persona. Perciò, dal punto di vista logistico, Ray non può aver commesso il fatto, non era nelle sue capacità. Tuttavia gli indizi convergono su Ray. Unica conclusione: è una montatura ai danni di Ray. Hanes abbozzò infine quella che sarebbe stata la TESI DELLA DIFESA. A. L’UOMO FUGGITO DAI CESPUGLI. 01. Solomon Jones aveva dichiarato di aver visto un uomo col viso nascosto da un panno bianco uscire da un nascondiglio negli arbusti per correre verso Main Street (aveva sparato il colpo). 02. Harold (“Cornbread”) Carter stava bevendo del vino sotto gli arbusti, quando ne era balzato fuori un uomo, che aveva sparato un colpo in direzione del “Lorraine”, e aveva ripreso a correre facendogli schizzare addosso la ghiaia. 03. I pompieri della stazione n. 2 probabilmente avevano immaginato che il colpo provenisse dagli arbusti perché si erano messi a correre verso questi ultimi per vedere chi aveva sparato. Le unità TAC [Tactical Action Cruisers] avevano aggirato la stazione n. 2 e in pochi secondi avevano circondato la zona. Non avevano visto nessuno lasciare la zona. Il colpo non aveva fatto vibrare l’edificio della pensione (anche Jowers aveva sentito provenire lo sparo dagli arbusti). 04. Dopo di allora gli arbusti erano stati abbattuti da persone ignote. B. MOVENTE DI QUALCHE ALTRA PERSONA OLTRE A RAY, ECC. 01. Secondo le dichiarazioni di Holloman gli Invasori e i militanti avevano minacciato King per a) la lotta per il potere: era troppo non-violento; b) il danaro: era già stato ricattato precedentemente; c) fomentare la violenza. Per quella ragione in tutta la zona c’erano dei poliziotti extra. 02. Richmond, che attendeva gli Invasori sorvegliando attraverso lo spiraglio. 03. Walter Bailey, il direttore del “Lorraine”, aveva dichiarato che gli Invasori erano sparsi in tutto il “Lorraine”. 04. Grace Stephens, Charlie Stephens, “Cornbread” e altri ospiti della pensione avevano detto: “Negri di tutti i generi salivano alla pensione, in ogni momento” (e si riferivano anche al Dipartimento dei pompieri di Memphis, dietro alla casa). C. CHARLIE STEPHENS. 01. L’autista dell’autopubblica McGraw, arrivato a prendere Charlie circa 30 minuti dopo la sparatoria; Charlie era a letto, talmente sbronzo da non potersi muovere o salire in macchina. 02. Grace: aveva dichiarato che Charlie si trovava in cucina e non era andato alla porta sino a quando l’uomo uscito dal bagno non era arrivato in fondo al corridoio, e quindi non lo aveva veduto affatto. 03. Charlie, subito dopo, aveva ripetutamente negato di avere una qualsiasi pratica di spari. Vedere i giornalisti, ecc. 04. Charlie era anche troppo interessato alla taglia di 100.000 dollari che sperava di ottenere, da dividere con i suoi avvocati. D. TESTIMONI OCULARI: DISCREPANZE. 01. Grace: ha dichiarato di aver visto l’uomo lasciare il bagno. Era alto metri 1,65, pesava approssimativamente 60 chili, aveva circa 48-50 anni. Indossava una camicia scozzese e una

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giacca militare (alcuni degli indumenti rinvenuti nella valigetta abbandonata davanti alla “Canipe’s”, i calzoncini, potevano adattarsi a un uomo di quella taglia). 02. Canipe: aveva detto che l’uomo che aveva lasciato cadere l’involto col fucile e la valigetta era più grosso di quello descritto da Grace, ben vestito, con un completo scuro e cravatta. E. I VICE-SCERIFFI E LE UNITÀ TAC AVEVANO GIÀ INVASO SOUTH MAIN STREET POCHI SECONDI DOPO LO SPARO (vedere pompieri, Lloyd Jowers, i clienti del “Jim’s Grill”). Considerando le cose dal punto di vista cronologico, non c’era il tempo per sparare, infilare il fucile nella scatola, prendere la valigetta e districarsi nel labirinto del 422 1/2, gettare a terra scatola e valigetta e infilarsi nella macchina senza essere visto. F. NESSUN MOVENTE. G. L’EDIFICIO DELLA PENSIONE È APPARTATO: BISOGNAVA STUDIARNE IN PRECEDENZA L’UBICAZIONE ED ESSERE A CONOSCENZA DELL’ITINERARIO DI KING. “Dubbio ragionevole”, pensò Hanes: un dubbio abbastanza ragionevole da essere sottoposto a una giuria disposta a prendere in considerazione, con serietà e coscienza, un ragionevole dubbio. Era sicuro di avere in mano una serie di cavilli ai quali attaccarsi.»

La constatazione che in realtà un fatto sia suscettibile di interpretazioni e ricostruzioni diverse («Assai spesso i fatti non sono solidi, concreti e distinti come statue di marmo ma sono piuttosto tenui ombre che cambiano colore, forma e significato al mutare del contesto nel quale vengono presentati. […] La Verità è cosa diversa dai Fatti, anche se è vincolata a questi.»32) riporta alla serrata critica rivolta dalla cultura filosofica e scientifica contemporanea alla nozione di “fatto” e al suo presunto valore assoluto incontrovertibile (hard fact): «stabilire cosa sia effettivamente accaduto non significa esibire un “fatto” indiscutibile, ma decidere, in base a certi criteri, che un certo evento è quanto è effettivamente accaduto e che dunque esso deve esser considerato come “fatto” reale.»33 Tutto ciò, del resto, emerge chiaramente dal dibattimento, dove l’accertamento della verità, che peraltro non è, in sé e per sé, il fine ultimo ma solo il presupposto per una corretta e adeguata applicazione della legge, si caratterizza per la sua funzionalità agli obiettivi storici della giustizia e contestualità ai parametri informatori dell’indagine. Così, «non esiste una verità peritale in senso assoluto, vale a dire un responso del tutto incontrovertibile e insuscettibile di contraddittorio», in quanto ci sono sempre «molte questioni di fatto [sui dati tecnici] e di diritto [sui problemi teorici] che lasciano largo margine alla contestazione» – e per la difesa 32

D. Macdonald, A Critique of the Warren Report, “Esquire”, marzo 1965, p. 61. E. Severino, Tribunali e conoscenza, “Corriere della Sera”, 31 maggio 1993, p. 15. Come noto, il ruolo fondamentale svolto dalla “decisione” nel processo conoscitivo è stato riconosciuto innanzitutto da H. Dingler, K. Popper, H. Reichenbach e H. Feigl. 33

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questo significa che, se è possibile un valido parere contrario, allora esiste anche un ragionevole dubbio, e quindi una potenziale assoluzione. In particolare, si tratta sia di «errori, incertezze e pareri discordi, che offrono l’opportunità di dimostrare che nulla o poco di quanto asserito risulta provato» sia di «problemi di natura specialistica, controversi o non ancora chiariti esattamente» sui quali è possibile esercitare un efficace contraddittorio34.

7.4. Ammissibilità giudiziale delle nuove prove scientifiche Alle questioni legate a particolari aspetti tecnici e strumentali bisogna aggiungere quelle di natura teorico-conoscitiva, riconducibili al problema più generale, e comune a tutta la scienza forense, di stabilire i criteri che rendono accettabile l’opinione dei testimoni esperti in un procedimento legale; ossia, di stabilire che «il parere del testimone esperto è davvero scientificamente inoppugnabile e non una semplice opinione personale, mascherata da scienza, offerta da uno stipendiato testimone con tanto di laurea»35. E quindi, in termini appena 34

C. Puccini, Op. cit., pp. 141 e 145-146. Scrive in proposito F. Bruno (La perizia nell’attuale sistema giudiziario, “Detective & Crime Magazine”, novembre 1995, pp. 24-29): «Attualmente, come nell’Ottocento, lo stereotipo culturale dominante ritiene che la scienza debba collocarsi al di sopra delle parti ed essere oggettiva, universalmente valida e portatrice di verità incontrovertibili. Da qui, una concezione della perizia che vede questa operazione come un meccanismo nobile attraverso il quale persone totalmente disinteressate, di grande cultura e specifica competenza, possono apportare al processo quelle conoscenze che sono talmente oggettive da esser ritenute veri e propri mezzi di prova e talmente tecniche che il giudice non può umanamente possederle tutte. Ma se questo avviene in teoria, nella realtà pratica – o, come dicono gli Inglesi, nella “law in action” – ciò che si sperimenta è tutt’altro: le perizie sono sempre soggettive, contraddittorie, incomplete, spesso basate su assunti teorici totalmente diversi l’uno dall’altro e talvolta persino opposti.» 35 Charles Fried, Il farmaco della discordia, “La Repubblica”, 8 aprile 1993, p. 25. In realtà, come ironizza lo scrittore E. McBain nel romanzo Mary Mary ([1992], Mondadori, Milano, cap. 11), «esistono esperti che possono testimoniare in modo convincente a favore di qualsiasi aspetto di qualsiasi questione. […] Di norma la procedura prevede come primo passo di far spiegare all’esperto i suoi diritti a essere riconosciuto come tale – le lauree conseguite e in quali università, i riconoscimenti ricevuti, gli anni di professione, il numero di volte in cui è stato convocato a testimoniare in tribunale – e poi fargli spiegare come sia stato in grado di determinare [qualcosa]. Sta poi alla giuria decidere cosa mandare giù. In realtà, nella maggior parte dei casi la testimonianza di un esperto è difficile da capire perché tratta di materie in cui solo l’esperto è esperto. Non ci si può aspettare che un giurato che fa il meccanico sappia qualcosa dello sperma, a parte il suo. Per cui, quando si ritrova seduto nella giuria di un processo e ascolta una deposizione relativa a una soluzione 5% di 2,4-dinitro-1-naftolo-7-sulfonico, acido flavianico, e il risultante precipitato giallastro di flavinato di spermina, gli si può concedere un certo grado di confusione. Il trucco è far sembrare a tutti la testimonianza dell’esperto chiara come il cristallo.

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più diretti, riferendosi a discipline scientifiche considerate “sub specie iuris”, si tratta di stabilire cosa costituisca una verità scientifica in ambito processuale; in realtà, ciò non rimanda tanto al contrasto, più apparente che reale, tra verità scientifica e verità giudiziaria, spesso legata a proprie peculiari fonti di prova e a ben precise presunzioni di legge (verità di diritto), ma allude piuttosto al tipo di conoscenze accettate come scientificamente vere in un procedimento legale: in breve, esse devono possedere i requisiti della kuhniana “scienza normale”, ossia rientrare in un paradigma già sufficientemente consolidato e accettato dalla comunità (scienza condita). Il problema dell’ammissibilità di una nuova prova scientifica è particolarmente sentito negli Stati Uniti, dove ormai da tempo sono frequenti i casi giudiziari che lo sollevano. Se all'inizio il criterio usato di norma dalle corti per acquisire nozioni tecniche e scientifiche è il semplice ricorso ad esperti qualificati, in seguito al caso Frye v. United States (1923) – un processo per omicidio in cui si dibatte sull’ammissibilità come prova della testimonianza di un consulente della difesa circa il risultato sperimentale di una primordiale macchina della verità – la Circuit Court del Distretto di Columbia, mentre respinge la richiesta, stabilisce il principio che criterio di ammissibilità di una nuova prova scientifica è la sua accettazione generale da parte della comunità scientifica di riferimento: «È difficile stabilire quando un principio o una scoperta scientifica attraversa la linea tra lo sperimentale e gli stadi dimostrabili. In qualche luogo di questa zona di penombra la forza evidente del principio deve essere riconosciuta e mentre le corti impiegheranno del tempo per ammettere la testimonianza di un esperto desunta da un riconosciuto principio scientifico o scoperta, la cosa [the thing] su cui si basa la deduzione deve aver raggiunto un tale giudizio di consenso da essere generalmente accettata nello specifico campo di appartenenza.»36 Viene così stabilito il Frye test, o general acceptance test, con conseguente Frye hearing (udienza preliminare) in cui si esamina la accettabilità di una nuova prova scientifica, che diventa gradualmente il comune punto di riferimento. In particolare, la validità della prova derivata da una teoria scientifica solleva tre questioni: 1. la validità della teoria sottostante (la teoria, accettata dalla comunità scientifica, supporta le conclusioni che la prova può produrre risultati?); 2. la validità della tecnica con cui viene applicata la teoria (si tratta di tecniche o L’altro trucco è presentare tale testimonianza come ciò che alla facoltà di legge i professori amano definire “un fatto inconfutabile”.» 36 Cit. in Giannelli, Frye v. United States, a Half-Century Later, 80 COLUM. L. REV. 1197 (1980).

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esperimenti capaci di produrre risultati corretti al riguardo e generalmente accettati dai membri della comunità scientifica?); 3. l’adeguata applicazione della tecnica in un caso particolare (il dato laboratorio, nell’analizzare i campioni forensi, esegue le tecniche scientifiche accettate?). Così, verso la metà degli anni ‘70 tutte le corti federali di appello e 45 dei 50 Stati adottano il Frye test nonostante diverse sue ambiguità, come quelle relative all’identificazione del “campo specifico”, alla nozione di “accettazione generale” o all’interpretazione della “cosa” (intesa fra l’altro come “il principio fondamentale”, la “tecnica”, ecc.). «Le corti hanno bisogno di concentrare i propri sforzi sulla standardizzazione e chiarificazione dell’uso di una nuova prova scientifica. Dovrebbero determinare gli elementi essenziali di ogni test di identificazione scientifica e descrivere dettagliatamente ogni elemento per poterli poi riutilizzare. Una prova di identificazione scientifica così complessa richiede un approccio composto da 4 fasi: 1. Identificare le reali caratteristiche che attestano la corrispondenza fra i due campioni (del sospetto e del colpevole). Queste, per esempio, non devono essere intese genericamente come “impronte digitali” o “impronte genetiche”, in quanto non rappresentano il vero oggetto del confronto tra i campioni, ma, nel caso delle impronte digitali, come “punti di identità” (anelli, spirali, delte, biforcazioni, punti, ecc.), e, nel caso delle impronte genetiche, come presenza, dimensione e intensità di una banda prodotta utilizzando una particolare sonda ed uno specifico enzima di restrizione. Inoltre, l’identificazione in due campioni di una caratteristica comune costituisce una corrispondenza solo se la caratteristica è immutabile “nella particolare situazione” o se le condizioni esterne che alterano l’esame sono note e non intaccano la validità dei risultati. 2. Valutare le specifiche metodiche usate per produrre la prova fisica (indicate esplicitamente) e determinare se sono generalmente accettate come capaci di misurare la caratteristica con la precisione e l’accuratezza richieste. 3. Stimare la “regola di compatibilità” (matching rule) usata per dichiarare una corrispondenza tra due campioni e determinare il suo grado di certezza. Una corrispondenza fra due campioni richiede l’identificazione di caratteristiche simili in entrambi i campioni e l’assenza di caratteristiche diverse. Per ogni caratteristica confrontata deve esserci una esplicita “regola di compatibilità”. In alcuni casi, per esempio nella tipizzazione del sangue, la regola di compatibilità è semplice: le cellule del sangue si agglutinano? In altri casi, per esempio in quello delle impronte genetiche è più problematica: la banda presente in entrambi i campioni ha lo stesso peso molecolare? 4. Analizzare la base probabilistica per determinare il significato di una corri-

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spondenza. Infatti, senza informazioni sulla probabilità che la caratteristica si presenti casualmente, è impossibile conoscere la validità di una corrispondenza. Se due campioni non mostrano caratteristiche compatibili, essi provengono da due fonti differenti. Ovviamente, qualche prova di identificazione possiede una forza probatoria anche in assenza di dati puramente statistici; per esempio, un esame del sangue può indicare il sesso del colpevole. Senza alcun cenno al general acceptance test, nel 1975 entrano in vigore le Federal Rules of Evidence, prese a modello dalla legislazione della maggior parte degli Stati Uniti. Quanto alla expert testimony (Rules 702-706), lo strumento essenziale per acquisire prove scientifiche, «l’attenzione dei giuristi si è incentrata pressoché esclusivamente sul primo momento del procedimento probatorio, quello della “ammissibilità” della scientific evidence, al fine di sterilizzare il rischio che le caratteristiche dello stile adversary proprio di quei Paesi […] fossero inquinate da operazioni tecnico-scientifiche incomprensibili, confuse, non verificabili, suggestive e pregiudizievoli per il corretto esame da parte della giuria, giudice del fatto.» Circa vent’anni dopo, a proposito del caso Daubert v. Merrel Dow Farmaceuticals Inc. del 1993, relativo alla causa intentata alla casa farmaceutica per aver prodotto un farmaco antinausea sospettato di causare malformazioni nei feti, la Corte Suprema attribuisce al giudice la valutazione discrezionale della validità scientifica della prova quale condizione necessaria della sua ammissibilità in giudizio e ne enumera quattro criteri principali: 1. la controllabilità e falsificabilità della teoria o della tecnica che stanno alla base della prova; 2. la percentuale di errore noto o potenziale e il rispetto degli standards relativi alla tecnica impiegata; 3. la circostanza che la teoria o la tecnica in questione siano state oggetto di pubblicazioni scientifiche, e quindi di controllo da parte di altri esperti (la c.d. peer review); 4. il consenso generale (la c.d. general acceptance) della comunità scientifica interessata. Come è stato riconosciuto a questo riguardo dalla Corte Suprema degli Stati Uniti (verdetto del 28 giugno 1993), «è indiscutibile che […] esistono differenze rilevanti fra la ricerca della verità condotta in un’aula di tribunale e quella che alimenta la vita di un laboratorio. Le conclusioni scientifiche sono soggette a perpetui processi di revisione; al contrario, la legge ha bisogno di risolvere i propri casi in modo rapido e definitivo. L’evolversi di ogni progetto scientifico è alimentato dall’esistenza di un’enorme varietà di ipotesi possibili, e trae grandi benefici dal fatto che quelle impraticabili, alla fine dei conti, si riveleranno comunque tali. D’altro canto, congetture che si rivelano probabilmente errate sono

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di pochissimo aiuto in un procedimento legale. Questo, infatti, mira ad ottenere in breve tempo, e spesso con pesanti conseguenze, un giudizio legale definitivo e vincolante di una particolare catena di eventi verificatisi nel passato.»37 Così, se da un lato è vero che il parere dei singoli testimoni esperti non può essere accantonato solo perché non corrisponde alla maggioranza assoluta delle opinioni dell’intera comunità scientifica, dall’altro è pure ugualmente vero che le opinioni dei testimoni esperti, anche se non sono conformi ad una particolare ortodossia scientifica, devono tuttavia derivare da metodi e procedure scientifiche, e quindi essere sottoposte all’ampio scrutinio del mondo scientifico. Del resto, lo stesso verdetto riconosce che, all’atto pratico, l’inchiesta esplorativa preliminare che i giudici sono tenuti a condurre per controllare la veridicità delle affermazioni dell’esperto, prima che tali testimonianze vengano presentate in aula, per quanto elastica sia, «potrebbe talvolta impedire alla giuria di venire a conoscenza di genuine scoperte e importanti innovazioni».

7.5. Certezza e verità In definitiva, l’indagine, come poi il processo, e in genere qualsiasi ricostruzione storica, «vive su un paradosso: deve consacrare una certezza non avendo gli strumenti conoscitivi per farlo. Infatti, sia l’esposizione narrativa del delitto sia la dimostrazione logico-critica sono prove imperfette. Una persona che riferisca un fatto può mentire, o sbagliarsi, ossia avere una percezione od un ricordo deformati. E quando si afferma che una cosa ne dimostra un’altra, in realtà si vuol dire semplicemente che quest’altra è l’antefatto più probabile della prima: così, per esempio, se un soggetto è colto in possesso di refurtiva, la spiegazione più verosimile è che egli l’abbia rubata; ma è anche ben possibile che egli l’abbia rinvenuta, o acquistata incautamente, o avuta in deposito dal vero ladro. Insomma, nessun giudizio storico – a differenza delle proposizioni formali o, entro certi limiti, di quelle scientifiche – è mai tale che non si possa astrattamente ipotizzare anche un giudizio contrastante. Ogni delitto lascia delle tracce o degli effetti, dei quali è la causa. Ma noi quando prendiamo conoscenza di un effetto, lo possiamo collegare ad un numero indeterminato di antecedenti causali, e solo 37

Charles Fried, Le due verità, “La Repubblica”, 18 agosto 1993, p. 31; l’autore, legale della casa farmaceutica incriminata e già Sollicitor General, Avvocato del Governo degli Stati Uniti nelle cause presso la Corte Suprema, durante la presidenza Reagan, insegna filosofia del diritto alla Harvard Law School. Da parte sua, P.F. Ceccaldi (La criminalistique, PUF, Paris 1976, p. 9) sottolinea che, «a differenza della verità scientifica, che in sé esige la certezza, la verità giudiziaria pretende solo la verosimiglianza».

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per economia di pensiero indichiamo come causa l’antecedente più probabile. Di conseguenza, l’individuazione di un reato e l’attribuzione di esso ad un soggetto è una serie di operazioni di risalita lungo le serie causali, condotta con criteri di probabilità»; ugualmente, anche la sentenza del giudice o il verdetto della giuria «enuncia solo un giudizio di altissima probabilità che unicamente per convenzione viene considerato un giudizio di certezza»38. Del resto, l’estrema difficoltà a raggiungere una certezza tecnica, e non solo emotiva – dovuta, oltre che a una diversa interpretazione della legge, anche a una diversa ricostruzione dei fatti – è riconosciuta, e per certi aspetti ufficializzata, in ambito giudiziario sia dalla stessa presenza delle due posizioni della difesa e dell’accusa sia pure dalla possibilità che la sentenza venga impugnata e poi modificata nei processi di grado successivo al primo. A questo proposito bisogna altresì ricordare che talvolta, soprattutto in particolari contesti di notevole rilevanza politico-sociale, una verità forense o giudiziaria viene pervicacemente ignorata o inquinata, o addirittura stravolta, per adeguarla a una precostituita e “necessaria” verità ideologica. Ne è un esempio significativo la ricostruzione ufficiale dell’omicidio del presidente J.F. Kennedy e del ferimento del governatore J. Connally (1963) fornita dal “Rapporto Warren”, interessata unicamente a conformare gli indizi alla tesi preconcetta che la ispira: il numero e la provenienza degli spari devono essere compatibili con la presenza di un’unica e determinata persona, arma e postazione. Ciò risulta possibile, tra l’altro, solo se una stessa pallottola ha ferito sia il presidente che il governatore: «molto semplicemente, se dall’autopsia fosse risultato che la pallottola che aveva colpito il presidente nella schiena era uscita dalla parte anteriore del suo corpo, allora sarebbe stato possibile che essa avesse colpito anche il go39 vernatore che era seduto davanti a lui.» Da qui, le acrobazie per spiegare le prodezze della cosiddetta “pallottola magica” (reperto 339), a dispetto dei rapporti medici del Parkland Hospital di Dallas e in conformità al successivo refer38

E. Fassone, Il diritto penale e il processo penale: considerazioni generali, in C. Castelli - G. Ichino (a cura di), Il nuovo processo penale, Angeli, Milano 1991, pp. 29-30. Come spiega Nick Charles, l’ex investigatore della “Trans American Detective Agency” protagonista dell’ultimo romanzo di Hammett (L’uomo ombra [1934], cap. 31), «i poliziotti scovano il tipo che credono sia l’assassino, lo ficcano dentro e fanno credere a tutti d’essere convinti che sia colpevole e mettono la sua fotografia su tutti i giornali e il procuratore distrettuale costruisce la migliore teoria che può in base alle informazioni esistenti, e intanto si raccolgono qua e là altri dettagli; e le persone che riconoscono la fotografia, come pure quelle che lo avrebbero creduto innocente se non fosse stato arrestato, vengono a deporre contro di lui e dopo un po’ finisce sulla sedia elettrica. […] Così, quando dico che probabilmente l’assassino segò il corpo per poterlo portare in città dentro una valigia, formulo soltanto l’ipotesi più probabile.» 39 E.J. Epstein, Inchiesta. La ricerca della verità sull’assassinio di Kennedy [1966], Rizzoli, Milano 1967, p. 74.

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to autoptico del Bethesda Naval Hospital di Washington, tra l’altro reso noto dopo oltre dieci mesi in una versione notevolmente diversa da quella originale e corredato da semplici schizzi approssimativi invece che dalle consuete fotografie e radiografie. Così, per esempio, si decide che alla non esattamente localizzata ferita d’entrata nella schiena del presidente deve corrispondere come ferita d’uscita quella alla gola; e questo nonostante che: a) nessun perito sia stato in grado di rintracciare il relativo percorso, contravvenendo così alla legge fondamentale della medicina forense secondo cui una pallottola che attraversa un corpo lascia sempre un percorso individuabile; b) tutti i medici del Parkland Hospital che hanno avuto l’opportunità di osservare la ferita alla gola prima della tracheotomia siano concordi sulla sua incontestabile natura di ferita d’entrata, e per di più cieca. Una volta poi fuoriuscita dalla gola del presidente, la pallottola segue una traiettoria orizzontale, ferendo il governatore alla schiena; a causa della frattura della quinta costola segue una traiettoria obliqua e fuoriesce dal petto; penetra quindi nel polso, fratturando l’osso, e infine nella coscia sinistra. Viene recuperata, pressoché intatta, in condizioni non chiare, sotto il materassino di una non meglio indicata barella del Parkland Hospital al momento lasciata incustodita, e quindi viene accuratamente pulita prima di essere sottoposta all’analisi spettroscopica. In definitiva, come in altri casi simili, anche in questo «l’ipotesi di partenza diventa una conclusione [che contraddice i diversi elementi di prova], e quindi una premessa dalla quale si traggono altre congetture»40, tutte ugualmente difese a oltranza. Se, come si è visto, nella realtà un fatto «non è mai perfettamente delimitabile [«in una rete di indizi sicuri»] ma presenta sempre una serie di circostanze sfumate e incerte [e di indizi troppo scarsi o troppo numerosi che] si prestano a interpretazioni controverse»41 e «non può mai “tornare” come torna un conto perché non si conoscono mai tutti i fattori necessari ma solo pochi elementi per lo più secondari», invece nella narrativa di genere di impianto tradizionale «tutto accade come in una partita a scacchi», dove si procede sempre «secondo logica» e «il caso non ha alcuna parte»42. E questo perché, a partire da E.A. Poe, essa ha abitualmente «se così si può dire, confuso determinismo e necessità»; ne consegue il fondamentale postulato che «non esiste la contingenza, in qualunque forma questa si presenti»43. È quindi sufficiente ragionare correttamente per acce40

M. Lane, L’America ricorre in appello. Il Rapporto Warren ha sbagliato? [1966], Mondadori, Milano 1967, p. 82. 41 T. Narcejac, Il romanzo poliziesco [1975], Garzanti, Milano 1975, p. 43. 42 F. Durrenmatt, La promessa. Un requiem per il romanzo giallo [1958], Einaudi, Torino 1975, pp. 10-11. 43 T. Narcejac, Op. cit., pp. 19-20.

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dere a una verità che sia unica, completa, universale. Come sottolineava già Bertolt Brecht verso la metà degli anni ’3044, si ha una costruzione logica dove domina la più rigorosa connessione causale fra alcuni fatti ben definiti, circoscritti, isolati, e quindi una certezza e una verità assoluta o matematica, in quanto prodotto del nostro pensiero, di contro a una certezza e una verità probabile o fisica, per la presenza di fattori di disturbo. Ossia, per dirla con Sir Robert Anderson45, «l’autore di un romanzo poliziesco fabbrica contemporaneamente la serratura e la chiave, mentre Scotland Yard può solo cercare la chiave che conviene alla serratura».

44 B. Brecht, Sulla popolarità del romanzo poliziesco [1936], in ID., Scritti sulla letteratura e sull’arte [1967], Einaudi, Torino 1973, pp. 290-295. 45 Cit. in O. del Buono (a cura di), I padri fondatori. Il “giallo” da Jahvé a Voltaire, Einaudi, Torino 1991 [p. II].

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APPENDICE: NASCITA DELLA MEDICINA LEGALE ORIENTALE∗

Secondo le notizie fornite dai sinologi, già a partire dall’anno 600 d. C. erano comparsi scritti di indole medico-legale, dedicati allo studio delle lesioni esterne osservate sui cadaveri, allo strangolamento e all’annegamento, agli avvelenamenti, ai segni della morte e così via. Verso la fine del X secolo, le opere di Djen-Sin, di He-Nin e di suo figlio He-Min forniscono una trattazione dettagliata dell’esame esterno del cadavere e della tecnica delle indagini criminalistiche. Tuttavia, le constatazioni peritali dei cinesi si limitavano al solo esame esterno del cadavere, sia pure tecnicamente accurato e persino meticoloso, ma non sembra che tale esame venisse completato con l’autopsia, una prerogativa della medicina legale europea entrata nella pratica medico-legale nel 1302 a Bologna con una celebre perizia di Bartolomeo da Varignana in un caso di sospetto avvelenamento. La dinastia Sung in Cina ha mantenuto il potere per più di trecento anni, dal 960 al 1279. Negli ultimi decenni della dinastia dei Sung meridionali (11271279) visse Sung Tz’u (1181 o 1186 / 1249), autore del trattato di medicina legale Hsi yüan chi lu (1247), divenuto già durante la vita dell’autore popolarissimo e largamente usato tra i giureconsulti. Il testo precede i primi lavori medicolegali dell’Europa rinascimentale1. Ciò che colpisce in Sung Tz’u è la modernità del suo approccio, sono le domande che l’antico coroner si pone, parlando di ∗

A cura di Tea Silvia Catucci È opinione diffusa presso gli storici che in Europa occorra giungere ai primi anni del Duecento per avere chiare indicazioni dell’intervento del medico, richiesto come perito (peritorum judicio medicorum) per dirimere una questione tecnica e fornire un parere indispensabile alla giustizia. Per iniziativa precipua dei Pontefici romani si incominciarono a raccogliere in un solo volume i decreti sino allora emanati da Innocenzo III (1209), Onorio III (1220) e Gregorio IX (1234), che furono promulgati da quest’ultimo nel 1237 col titolo di “Decretali”, dove erano contenute precise disposizioni di carattere medico-legale in materia canonistica. Solo alcuni secoli dopo Fortunato Fedele (1550-1630) ha compendiato ogni tipo di rapporto sui referti che i medici sono chiamati a presentare nelle cause e nei processi dove vi sia danno fisico alle persone nel trattato De relationibus medicorum libri quatuor in quibus ea omnia in forensibus et pubblicis causis medico referre solent planissime traduntur pubblicato nel 1602 e poi ristampato a Venezia nel 1617 e a Lipsia nel 1674. Da parte sua, Paolo Zacchia (1584-1659), precorrendo i temi che solo nel IXX e XX secolo avrebbero trovato sviluppo, nel suo famoso manuale Quaestiones Medico-Legales (1635) disquisiva su ferite d’arma da fuoco, sfregi, diagnosi differenziate tra le varie cause di morte per asfissia, tra suicidio ed assassinio, tra aborto ed infanticidio, e, questione ricorrente, se un bambino era nato vivo o morto.

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vittime ed omicidi. Gli studiosi di storia della medicina occidentale considerano quest’opera, pur con le sue assurdità e puerilità, il primo vero trattato di medicina forense da usare nelle inchieste per omicidio, che anticipa principi e tecniche della polizia scientifica. Questo libro, che in Cina restò il testo ufficiale di medicina giudiziaria per sette secoli, fu ristampato nel XV secolo e poi ancora più volte con aggiunte, divenendo presto il vademecum dei giudici e dei periti necroscopi cinesi. Esso fornisce una chiara idea delle conoscenze e dei metodi della scienza cinese del passato. Il manoscritto originale comprendeva solamente due libri; poi, sotto la dinastia degli Yuan, essendo imperatore Ch’eng-tsung (1304), gli vennero aggiunte 6 tavole anatomiche destinate a precisare la natura delle ferite. 3 tavole (2 in visione anteriore e 1 in visione posteriore) indicano i 16 punti vitali della parte anteriore del corpo ed i 6 punti vitali del dorso, i 36 punti anteriori non vitali ed i 20 punti non vitali posteriori. Queste localizzazioni, segnate in rosso e in nero, “limitano la vita”, da cui il loro nome di “punti vitali”. Un’altra tavola descrive minuziosamente il cranio e due tavole di osteologia (vista di faccia e vista di dorso) completano il trattato. In epoca Ch’ing (1694), l’Istituto di diritto ne presentò una versione intitolata “Wu Yuan Lu”; questa versione venne illustrata sotto il regno di Ch’ien Lung (1770) con nuove tavole di osteologia. Quest’opera, conosciuta allora sotto diversi titoli, ottenne larghissimi consensi, come testimoniano le numerose riedizioni (1777, 1796, 1827, 1831, 1854, 1876, 1891). Il libro fornisce indicazioni sull’esame del cadavere e le deduzioni che se ne possono trarre ai fini dell’inchiesta. Lo Hsi yüan chi lu è stato parzialmente tradotto in inglese per la prima volta da Herbert A. Giles: Hsi yüan chi lu, or Instructions to Coroners, (“Proceedings of the Royal Society of Medicine”, London, XVII, 1924, pp. 59-107); il titolo lo si può tradurre come “Note per sgomberare il campo dagli errori – Istruzioni al coroner”. Come precisa lo stesso Giles, che ha studiato a lungo il testo, la carica e le funzioni di coroner, nel senso moderno del termine, erano note ai cinesi molti secoli prima che “Crowner’s Quest Law” fosse citato in Amleto (atto V, scena I). Fu mentre stazionava a Ningpo nel 1873, che Giles sentì parlare dello “HsiYuan-Lu” per la prima volta. Trovò che una copia di questo lavoro era portata sempre sulla scena di un’inchiesta dell’alto funzionario territoriale sul quale si trasferivano i doveri di coroner. Trovò anche che in caso di morte, muovere o disturbare in ogni modo un cadavere, prima che il coroner lo avesse visto ed e-

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saminato, avrebbe costituito un’interferenza con gravi conseguenze. CONTENUTO DELL’OPERA I LIBRO Capitolo “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “ “

1. Osservazioni generali su un’inchiesta. 2. Osservazioni generali sulle ferite e sulla fissazione dei limiti di morte. 3. (1) Formulario per le ferite. (2) Lo scheletro umano. 4. (1) L’esame del cadavere prima della sepoltura. (2) L’esame del cadavere dopo la sepoltura. 5. Preparazione di un cadavere per l’esame. 6. (1) La prima inchiesta. (2) L’ulteriore inchiesta. 7. Decomposizione del corpo nelle diverse stagioni. 8. Ferite reali e falsificate. 9. L’esame di cadaveri femminili. 10. Cadaveri che si sono seccati. 11. L’esame di un corpo decomposto. 12. Le ossa umane. 13. (1) L’esame delle ossa. (2) Se danneggiate prima o dopo la morte. 14. Sulle ossa e sulle vene del corpo umano. 15. La prova del sangue cadente (per l’affinità). 16. L’esame della terra.

II LIBRO Capitolo “ “ “ “ “ “ “

1. Morte provocata da colpi durante una lotta. 2. Ferite inferte con la mano, il piede e armi in genere. 3. Ferite inferte con armi o metalliche, pietre. 4. Calci. 5. (1) Ferite da coltello. (2) Se inferte prima o dopo la morte. 6. Suicidio provocato con armi in genere. 7. Suicidio per strangolamento.

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“ “ “ “ “ “ “

8. Omicidio interpretato come suicidio per strangolamento. 9. (1) Annegamento. (2) Se prima o dopo la morte. 10. Annegamento nei pozzi. 11. (1) Incendio. (2) Se prima o dopo la morte. 12. Scottature.

III LIBRO Capitolo “ “ “ “ “

1. Osservazioni sugli elementi sospetti. 2. Osservazioni sulle ferite. 3. Avvelenamenti accidentali. 4. Suicidio per avvelenamento. 5. Tutti i tipi di veleni. 6. Veleni straordinari.

IV LIBRO Capitolo “

1. Metodi atti a restituire la vita. 2. Antidoti contro i più svariati veleni..

Dal I LIBRO 4. Esame del corpo […] Comincia esaminando dalla testa verso il basso. Misura la lunghezza dei capelli, tranne se siano stati tagliati o strappati. Guarda sotto i capelli in cima alla testa, e tra la testa e la fronte, per controllare che in quel punto non ci sia qualche altra causa di morte, come un’ustione o una ferita provocata da un’arma appuntita. Esamina la fronte e le tempie, poi le sopracciglia, le palpebre e gli occhi. Annota se gli occhi sono aperti o chiusi, e nel secondo caso aprili per vedere se le pupille sono perfette oppure no. Esamina le guance per vedere se ci sono segni di un colpo ricevuto da un pugno, se sono marchiate o meno, e se tali segni possano essere stati cancellati. Annota se le orecchie sono state morsicate, afferrate con le mani, tagliate o ferite; se le narici o qualche parte del naso sia stata bucata da qualche strumento tagliente, e se le labbra sono aperte o chiuse. Conta i denti ed osserva se la lingua è sporgente. Esamina anche le mascelle. Esamina l’esterno del corpo per vedere se è gonfio, e se ci sia qualche ferita che possa aver provocato la morte. Senti con la mano il tubo digerente e l’esofago. Esamina le braccia, i polsi, le mani e le

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dita; non ci sono in essi dei punti vitali, ma quando le ossa sono rotte si può morire. Esamina la cassa toracica, il petto, la bocca dello stomaco, la pancia, i nervi: tutti questi si trovano nelle vicinanze di punti vitali. Esamina le cosce, le ginocchia, le tibie, le caviglie, il collo del piede, le dita del piede e le unghia delle dita dei piedi. Qui si applichi la stessa procedura che sopra si riferisce alla mano e alle dita. Osserva la parte posteriore del capo, cercando di individuare se vi sia qualche segno di caduta. Cerca di distinguere se il corpo sia stato sottoposto a punizioni corporali. A partire dalla presenza di sfregi su entrambe le caviglie, sia all’interno che all’esterno, puoi stabilire che la vittima sia stata torturata. Esamina i talloni, la pianta del piede, sotto le punte: questi punti, in circostanze ordinarie, non sono punti vitali. Annota l’età dell’uomo e misura la sua altezza e la larghezza tra le due spalle; osserva anche la posizione delle ferite e la loro natura, se presentano abrasioni o contusioni, se sono di color rosso livido o nero. […] Qualora la morte sia derivata da colpi e le ferite non sono state abbastanza gravi da rompere le membra, la carne aderirà completamente alle ossa e se non può essere lavata via, dovrebbe essere rimossa con le unghie, quando le ferite saranno visibili [sulle ossa]. […] Nell’esaminare ferite, deve essere utilizzato il dito per comprimere tutto il punto livido o rosso. Se è una ferita tale punto sarà duro e sulla parte sporgente il dito sarà dello stesso colore di prima. Se vi è caduta sopra dell’acqua e le gocce non scivolano via, è indubbiamente una ferita reale. Se è una parte che ha cambiato colore, essa volgerà al bianco quando il dito vi sarà compresso e l’acqua cadutavi sopra non rimarrà. La variazione di colore è causata dal fatto che il sangue si disperde nelle viscere dopo la morte; non potendo coagulare tutto in un posto, si estende per tutta la superficie. Ma laddove i colpi sono stati inferti prima della morte, il sangue si coagula in una ferita, quella che ha causato la morte. Vi sono alcune parti come le sopracciglia, la trachea, l’esofago, le costole, non conosciute come vitali, ma che possono esserlo se la ferita viene inferta molto gravemente. Questo è un punto particolarmente importante da ricordare al momento dell’esame. Qualsiasi leggero segno rosso sulla parte posteriore, sulle cosce, sui polpacci, è il risultato del fatto che il cadavere giace supino e che il sangue è sprofondato in quelle parti: tali segni non sono collegati con la causa della morte. Esame prima della sepoltura In qualsiasi posto ti trovi, sia in una stanza, che sul pavimento, o su un letto, o se all’aria aperta, dietro o dinanzi ad una casa, su una collina, in acqua, o ancora in giardino, misura innanzitutto l’esatta posizione del corpo prendendo in considerazione gli oggetti che lo circondano. Se nell’acqua, individua quanto esso dista dalla più vicina collina o pendio; indaga anche su quale terreno e sul nome del posto. Se in una stanza, annota in quale punto della stessa e se c’è qualcosa che ricopre il corpo o che si trova sparso sotto di esso. In seguito, e solo successivamente, il corpo dovrebbe essere rimosso per l’esame. Inizia togliendo tutti i vestiti ed ogni altra cosa, poi le scarpe e le calze, prendendo nota di ciascuno di questi oggetti così come di ogni altra cosa che riguardi la persona. Poi lava il corpo con acqua calda prima di procedere all’esame. Esame dopo la sepoltura provvisoria Prima di tutto analizza la tomba, chiedendo in giro sulla terra di chi si trova ed il nome del

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luogo, ed annota la dimensione e l’altezza del mucchio. Se la bara fosse stata temporaneamente messa nella casa di qualcuno, fai le misurazioni come prima. Nella fase successiva osserva quale direzione indica la testa. Supponiamo che indichi est ed i piedi indichino ovest, allora annoterai quanto ognuno dei due sia distante da ogni punto particolare, e fai la stessa operazione per i lati del corpo. In presenza di chiunque, rimuovi la terra o i mattoni ed osserva cosa vi è sparso sotto, se la bara è verniciata o ornata e se la stuoia, o qualunque cosa vi sia sotto il cadavere, abbia un bordo o meno.

6. Primo esame del corpo Ad un primo esame, se si tratta di un caso di morte causata da colpi, non sarà il caso di riportare il cadavere decomposto, perché i risultati di un suo esame non sarebbero affidabili; ma le cicatrici devono essere attentamente esaminate e le cause di morte accertate. Se dall’intervallo di tempo la decomposizione è realmente avvenuta, il corpo può essere segnalato come inadatto a prestarsi al necessario maneggiamento. […] Esami ulteriori Se il corpo è vecchio di molti giorni, e la testa e il viso si sono gonfiati, la pelle e i capelli sono venuti via, le labbra sono ripiegate e la bocca è aperta, e le larve di insetti hanno già fatto la loro comparsa — allora esso è alquanto inadatto ad esami; e se le ferite erano state inflitte da un oggetto tagliente o da un’arma, o da un colpo inferto da una mano o da un piede su una zona carnosa priva di ossa, puoi riportare che l’esame è impossibile da compiere. Ma se le ossa sono state ferite in qualche modo, allora il corpo deve essere lavato ed ispezionato attentamente, e perciò deve essere accertata la causa di morte. L'istanza utilizzata nell'altro caso non sarà ritenuta accettabile. […] 7. Decomposizione del corpo nelle diverse stagioni Nei mesi primaverili, quando un corpo è rimasto senza vita per due o tre giorni, la carne del naso, della bocca, dell’addome, dei lati e della cassa toracica diventano leggermente lividi; dopo dieci giorni un liquido fuoriesce dalla bocca, dal naso e dalle orecchie. I corpi di persone grasse si gonfiano e la pelle si separa dalla carne, la quale scompare nel giro della metà di un mese dai corpi di persone magre o che hanno avuto lunghe malattie. Nei mesi estivi, prima il viso e successivamente la carne sulla pancia, le costole e la cassa toracica cambiano colore nell’arco di uno o due giorni. In due o tre giorni un liquido fuoriesce dalla bocca e dal naso, e compaiono i vermi. L’intero corpo si gonfia, le labbra sporgono, la pelle si decompone e si separa dalla carne, si creano sempre più bolle, ed in quattro o cinque giorni cadono i capelli. Quando ci sono temperature molto calde, le parti ferite di un corpo che è stato preparato saranno per la maggiore ricoperte da una pelle bianca, mentre quelle non ferite saranno scure. Sarà complicato distinguere la vera natura delle ferite, ma se, intimorito dall’odore o da altro dovessi fallire nella ricerca dell’esame principale, il risultato sarà sicuramente insoddisfacente. Dovunque ci sia il minimo elemento sospetto, la pelle dovrebbe essere rimossa, e se c’è una ferita, ci sarà un foro di simili dimensioni sotto di essa. In concomitanza di temperature davvero calde, supponendo che le larve appaiano alle tem-

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pie o in altre zone prima di comparire in uno dei nove orifizi, ciò avverrà perché in quella parte in particolare è presente una ferita. Nei mesi autunnali, due o tre giorni producono lo stesso effetto di uno o due giorni in estate, e così via in proporzione andando avanti. Nei mesi invernali, un cadavere, nel giro di quattro o cinque giorni, giunge ad un tipo di colorazione porpora-giallastra. In circa metà mese la carne sul viso, sulla bocca e sul naso comincia a decomporsi, ma se si sposta il corpo su stuoie e lo si pone in un posto umido, ciò consentirà di conservarlo più a lungo. Con temperature estremamente calde, la decomposizione ha inizio dopo un giorno, ed il corpo assume una tonalità scura ed acuta ed emette un cattivo odore. In tre o quattro giorni la carne diventa marcia, appaiono i primi vermi, un fluido scuro fuoriesce dalla bocca e dal naso, e i capelli cadono gradualmente. In primavera e in autunno, quando le temperature sono miti, due o tre giorni equivalgono ad un giorno d’estate, come otto o nove giorni sono equivalenti a tre o quattro. Quando ci sono temperature molto fredde, cinque giorni sono equivalenti ad un giorno estivo, e la metà di un mese equivale a tre o quattro giorni estivi. 8. Riconoscere ferite reali e falsificate Quando esamini un corpo non ancora decomposto, presta attenzione esclusivamente a quelle zone che presentano un colorito rosso, che sono gonfie, tagliate o bruciate, discriminando tra ferite mortali e non mortali.2 Quando sono di un colore livido o viola, non devono occupare il tuo tempo, poiché queste tonalità sono comuni a tutti i corpi in uno stato di decomposizione. Le ferite sulle ossa possono essere di vari colori e tonalità e possono essere contraffatte […]. Tutte le ferite devono essere determinate sulla base dello stato dell’infiam-mazione, il che significa il graduale rimarginarsi della ferita, il cambiamento del colore, dallo scuro alle tonalità più chiare, ed il ridursi dell’intensità. Inoltre, in prossimità delle estremità delle ferite ci dovrebbe essere una sorta di alone, similmente alla vista della pioggia quando si è ad una certa distanza, oppure in modo simile a nubi vaporose, vaghe ed indistinte, di fresca tonalità di colore e lisce all’apparenza, un risultato che dovrebbe procedere in modo naturale dal momento in cui la ferita viene inferta. Questo è il principio base al di sopra di tutto. Se il rosso ed il porpora sono di per sé di un colore scuro e riunito in un punto, non essendo presente inoltre nessun alone, allora le ferite sono contraffatte. […] 11. Esame di un corpo decomposto Lasciando il corpo nell’esatta posizione in cui era nel momento in cui è stato notato, togli via le larve e la sporcizia con acqua e quando il cadavere sarà pulito comincia ad esaminarlo. La pelle e la carne di ferite inferte attraverso colpi o tagli sono di un colore rosso; se molto gravi, sono livide o nere; la carne aderisce all’osso ed è esente dalla presenza di vermi. Nei casi in cui la morte sia derivata da colpi, ma la decomposizione abbia avuto luogo e i 2

Libro I, cap. 8: «Ferite mortali avvengono dove la carne è livida, la pelle rialzata, dove è presente un taglio profondo, le ossa rotte, le cervella che fuoriescono, il sangue che sgorga. Quando viene inferta una ferita mortale in un punto vitale menzionato nella prima categoria [cima della testa, dietro l’orecchio, gola, bocca dello stomaco], la morte avrà luogo nel giro di tre giorni; in un punto vitale più comune [parte posteriore della testa, fronte, cassa toracica], in dieci giorni.

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vermi non abbiano lasciato nient’altro che ossa, il sangue sulla parte ferita si ferma sull'osso e asciuga assumendo una colorazione nera. Se non c’è alcuna ferita, ma l’ossatura presenta delle rotture come quelle dei capelli o quelle della porcellana a stento distinguibili, queste sono la prova che non c’è alcuna ferita. Quando il corpo è troppo decomposto per poter procedere ad un esame, devi riferire chiaramente che i capelli siano caduti, che la pelle e la carne sulle tempie, sulla testa, sul viso e su tutto il resto del corpo siano livide o nere, abbastanza decomposte ed erose dai vermi, e di conseguenza che le ossa siano esposte alla luce. Se la pelle e la carne sono in un stato di decomposizione, devi segnalare se è interamente così intorno alle parti in cui le ossa sono visibili, oppure se lo sono solo leggermente sulla superficie; riporta inoltre se ci sono altre lesioni sul corpo, e segnala anche l’età del deceduto, il suo aspetto facciale e la causa di morte. Infine, devi riferire che il corpo fosse veramente in uno stadio troppo avanzato per l’esame e che, dopo averlo toccato dappertutto con le mani, non sei riuscito a trovare nessun osso rotto. Dal II LIBRO 1. Morte provocata da colpi durante una lotta Nel caso in cui la morte sia derivata da colpi nel corso di una lotta corpo a corpo, la bocca e gli occhi saranno aperti, i capelli e i vestiti in disordine, e le braccia allungate verso l’esterno. [Nel momento appena precedente la morte la bocca sarà in pieno movimento e gli occhi brilleranno ferocemente; i capelli e i vestiti saranno disordinati come in un tafferuglio; e le braccia, impegnate nella difesa, saranno allungate verso l’esterno.] Dove ci sono delle ferite la pelle sarà staccata dalla membrana sottostante e produrrà un suono se picchiettata con un dito. Se venisse applicato dell’aceto caldo, la cicatrice comparirebbe. Osservane la dimensione e misurane la lunghezza e la larghezza. Inoltre, annota quante ferite sono presenti, quale possa aver provocato la morte, ma fissati su qualcuna nella sua parte più vulnerabile ritenuta come quella mortale. Se si verifica la morte all'interno del limite o senza di esso, può essere che l’aiuto medico non sia stato di alcun profitto, o che la morte sia stata provocata da esposizione all'aria, nel qual caso la faccia sarebbe gialla e floscia. 2. Ferite inferte con la mano, il piede o armi in genere Dove c’è del sangue è presente una ferita, e tutte quelle che non sono state inferte da una mano o da un piede sono chiamate anche ferite da armi. Il termine “armi” non si riferisce necessariamente a spade o coltelli. Le ferite provocate con le mani si collocano molto più spesso verso la parte superiore del corpo, la parte posteriore e la cassa toracica, o verso le costole superiori, raramente su quelle più basse. I calci vengono inferti generalmente in corrispondenza della bocca dello stomaco, andando a colpire anche le costole. Infatti, essi si possono riscontrare sulla parte superiore del corpo, a meno che la vittima non giacesse a terra. Al momento dell’esame, tutte queste raccomandazioni, e non solo la dimensione e la forma delle ferite, dovrebbero essere attentamente prese in considerazione. Colpi inferti con la mano o con il piede o con armi, per essere considerati mortali, devono trovarsi in punti [vitali] come il viso, la testa, la cassa toracica, il petto, e così via. Un braccio o una gamba rotti possono causare la morte; ci sarà un alone intorno alle parti se la ferita fosse stata imposta qualora la vittima fosse ancora in vita. Una ferita inferta con un’arma, una ma-

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no, un piede o qualsiasi oggetto duro, se molto grave, ha un colore porpora scuro, accompagnato da un leggero ingrossamento; se meno grave, il colore è misto tra il porpora ed il rosso accompagnato da un leggero gonfiore, oppure misto tra il porpora ed il rosso [senza alcun ingrossamento], o blu scuro o anche solo un po' scolorito. Ferite da arma sono di forma allungata, sia oblique che orizzontali; sono rotonde se dovute a un pugno; se provocate da un calcio sono più larghe di quelle inferte con un pugno. Ferite che causano la morte in un paio di giorni, saranno piuttosto più grandi del solito; se l'infiammazione si aggrava velocemente, la morte avverrà in quell’arco di tempo. Se la morte è istantanea, la ferita sarà ancora più profonda e più grave, l’infiammazione avrà una colorazione mista tra il porpora ed il nero e si diffonderà immediatamente causando così la morte sul posto. Le ferite provocate urtando contro oggetti sono rotonde o presentano tagli diritti, sebbene la pelle non presenti rotture. Nonostante la pelle presenti rotture, le ferite non saranno profonde. Le ferite da armi o provocate da una mano o da un piede, dove la pelle è rotta ma non sanguina, avranno un alone porpora e rosso. [Le ferite derivanti dall’urto contro qualcosa non hanno alcun alone; ne hanno invece quelle derivanti da colpi.] Le ferite provocate da un bastone o da un randello sono oblique e hanno una forma allungata: un'estremità sarà superiore rispetto all'altra. Devi fare attenzione ad annotare quale estremità e pure se il colpo sia stato impartito da destra o da sinistra, come anche che la ferita coincida con il colpo, per rendere il caso di facile ricerca. Nei casi in cui sia stato utilizzato un bastone o un randello, le ferite si collocheranno generalmente sulle parti non carnose e la vittima può morire in qualunque momento in un arco di tempo che va dalle due ore ai dieci giorni. Qualora siano state utilizzate armi più dure, causando la morte, presta ancora più attenzione alla gravità delle ferite. Se precedentemente ci fosse stato qualche tafferuglio, durante il quale l’accusato abbia strappato i capelli al defunto e poi lo abbia colpito con le mani o con i piedi, le ferite saranno generalmente in qualche punto vitale. Se una ferita mortale è stata inferta con un piede in qualche punto vitale, controlla se l’accusato indossasse le scarpe o meno. In tutti i casi di calci, in primo luogo chiedi all’accusato cosa indossasse ai piedi. Se si tratta di calzature prodotte in casa, con suole morbide, la ferita sarà leggera e gonfia; se calzature da negozio, avranno le suole cucite, e la ferita sarà più grave e dura. Le scarpe con punte aguzze tenderanno a tagliare l’osso e le scarpe chiodate provocheranno una ferita ancora più pesante, scolorendo l’osso. La maggior parte delle ferite che danneggiano l’osso sono inferte da scarpe con le punte lisce e rotonde, fissate pesantemente con chiodi. Tali ferite richiedono una distinzione accurata. I colpi dati con la testa, il gomito, il ginocchio, e così via, devono essere classificati come tali in base alle prove ed essere considerati generalmente come rientranti nella categoria principale di colpi da “armi”. Nei casi in cui le ferite siano state inferte con armi e la pelle non sia rotta, ma l’osso e la carne sono stati danneggiati, o la ferita si trovi in una parte carnosa, l’esame dovrebbe iniziare immediatamente. Sarà doveroso evidenziare chiaramente se la ferita sia stata provocata con la mano destra, sia nel caso in cui si trovi sul lato sinistro che sul lato destro, e di conseguenza, girando il corpo più verso il retro, se sia stata provocata posteriormente. Esamina attentamente la lunghezza, la larghezza, la forma e la dimensione di tutte le ferite provocate da una mano, un piede o qualsiasi altro oggetto; inoltre esamina se la pelle si sia rotta totalmente. […] Un colpo inferto da una mano aperta, sebbene non causi la morte, a meno che non sia stato inferto su un punto vitale, si può ancora riscontrare sotto il palmo della mano. Sulla zona colpita ci saranno i segni delle dita e del palmo, corrispondenti alla mano. Un colpo di questo genere si

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trova quasi sempre sul viso. Laddove lo strumento di morte sia stato un fucile da caccia, l’apertura della ferita o anche le ossa possono essere esaminate solo qualche tempo dopo la morte. Dato che, comunque, sia il ventre che gli intestini si decompongono presto e non esiste alcuna base per avviare operazioni in un caso di questo genere, prendi tutta la carne decomposta che si può trovare nella bara e toglila con acqua. Se la ferita fosse stata provocata da una pistola, sarà stato sparato in quel punto, ma nonostante ciò dovresti fare molta attenzione che nulla sia stato inserito volutamente dalle parti interessate. 5. Ferite da coltelli […] Occhi e bocca di coloro che sono deceduti per ferite da coltello saranno aperti, i loro capelli saranno scompigliati, e le loro mani leggermente serrate. La ferita mortale sarà più larga e più lunga, la pelle si sarà ritirata e la carne sarà esposta; se la parete dell’addome è stata trapassata, gli intestini sporgeranno verso l’esterno . Qualora la vittima vedesse l’aggressore venirgli incontro con un’arma affilata, certamente cercherà di resistergli lottando, allungando istintivamente in avanti le sue mani per schivare il colpo, e qualora lo mancasse, allora presenterà ferite sulle mani. Se, tuttavia, l'assassino lo avesse colpito in una certa parte vitale carnosa uccidendolo con un colpo solo, egli non avrà alcuna ferita sulla sua mano, ma la ferita mortale sarà grave. Un taglio sulla testa staccherà i capelli come se fossero stati tagliati con un coltello o con delle forbici. Se il cranio è fratturato nella parte superiore, ciò è dovuto a qualche arma appuntita tagliente: tale fatto [la frattura] devi accertarlo facendo pressione sull'osso con il dito. Una ferita da coltello o da un selettore rotante sarà larga nell’apertura e stretta all’interno: una ferita poco profonda provocata da una spada sarà stretta, una ferita profonda sarà larga. Una ferita dal bordo di una spada o di una lama sarà stretta su entrambe le estremità, non essendovi alcuna pressione straordinaria che ricada sulle stesse. Una ferita poco profonda provocata da un arpione sarà stretta, se profonda sarà rotonda, essendo penetrato anche il manico dell’arpione. Supponi che l’arma fosse una lancia di bambù o un bastone appuntito di un servo indiano usato contro una parte vitale, la bocca della ferita allora sarà frastagliata ed irregolare. Tali cicatrici possono essere di qualsiasi forma. Laddove la morte sia derivata da una ferita provocata con un’arma tagliente, gli abiti del defunto devono essere esaminati per vedere se c’è un taglio e se la macchia di sangue corrisponde alla posizione della ferita. Nei casi in cui sia derivata da una ferita da coltello, gli intestini sporgeranno laddove sono presenti parecchi tagli su di loro. Ma, ci si potrà chiedere, come può un colpo produrre parecchi tagli? Evidentemente ciò deriva dalla disposizione particolare delle viscere avvolte tra loro come sono nell’addome. In caso di morte dovuta a colpi con armi, se l'arma era tagliente, la ferita sarà stata prodotta da una pugnalata, ma non sarà così se smussata. Se la ferita fosse stata provocata sul ventre, sarà necessario specificare la lunghezza, la larghezza e la profondità della ferita. Se la membrana è perforata e le viscere sporgono, essendovi del sangue coagulato, una tale ferita sarebbe da considerare la causa diretta della morte. Così anche per la bocca dello stomaco e per le costole. Così anche per la gola, quando la ferita abbia raggiunto e danneggiato l'osso, e le parti che si trovano all’incirca lì attorno sono lacerate irregolarmente, mentre l’esofago e la trachea sono staccati. Una ferita in cima al capo, o sulle tempie, o dietro la testa — ci vorrebbe un’arma pesante e tagliente per rompere l’osso — in presenza di sangue che accompagna le cervella sparse, deve essere considerata una ferita mortale e la causa reale della morte.

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Generalmente la ferite vengono inflitte faccia a faccia, l’arma viene impugnata con la mano destra, e le ferite inferte sul lato sinistro. A meno che non fosse impugnata orizzontalmente, il punto della spada non potrebbe dapprima entrare in contatto con il lato destro; ma supponendo che lo avesse fatto, sarebbe evidente dal carattere della ferita. Se il percussore è sinistro, la ferita sarà a destra. Se si tratta di un uomo che è stato ferito durante il sonno, prendi nota prima di tutto sull'entrata nella sua camera da letto e di come il letto è stato disposto. Indaga sulle abitudini menzognere del defunto e la direzione in cui sono disposti la sua testa e i suoi piedi, e di conseguenza procedi con l’esame in base alle risposte. Quando un uomo colpisce con la mano che non è abituato ad utilizzare quotidianamente, il colpo cadrà troppo alto o troppo basso e non sarà neppure diritto. Ad esempio, un uomo che è abituato ad usare la mano destra e che colpisce con la mano sinistra il collo di un uomo che si trova nel senso errato per lui, il punto della spada cadrà un po’ più in basso e andrà a ferire leggermente la spalla destra. [Nelle note viene citato il caso di un coroner che ha scovato un reale assassino di un uomo ucciso in una lotta per alcuni rifiuti, impegnando tutti in una gozzoviglia di cibo prima del suo arrivo. Quando essi ebbero terminato il loro pasto, egli li rilasciò a eccezione di uno, al quale urlò con voce tuonante, “Sei tu l’uomo! La vittima è stata uccisa da una ferita sul lato destro e solamente tu hai mangiato il riso con la mano sinistra”. L'assassino confessò.] […] [Nelle note è riportato un caso di omicidio, riordinato nella seguente maniera: il coroner che aveva identificato le ferite come provocate da una roncola, avendo scoperto che un tale aveva litigato con la vittima per un prestito di denaro, si recò presso il villaggio in cui viveva l'uomo ritenuto sospetto ed indusse ogni contadino ad esibire la propria falce posandola per terra. In un attimo si rivolse verso l'uomo sospettato e lo accusò dell'omicidio; egli negò la sua colpevolezza con molte proteste, ma il coroner indicava l’insetto che aveva scelto la sua falce fra altre settanta, attratto dall'odore del sangue nonostante l’arma fosse stata lavata. L'assassino confessò.] Per distinguere ferite da coltello inferte prima e dopo la morte Nell’esaminare ferite da coltello, il primo punto è accertare chiaramente se siano state inferte dal bordo della lama (cioè, non il punto in cui è presente la ferita) ed inoltre se prima o dopo la morte. Una ferita inferta con la parte tagliente del coltello prima della morte sarà aperta ed irregolare nella relativa forma; ferite regolari e pulite possono essere considerate come inflitte dopo la morte. Le ferite inflitte prima della morte saranno caratterizzate dalla presenza di sangue raggrumato e dall'aspetto fresco sia del sangue che della carne presente all’apertura della ferita, poiché la morte è stata provocata dalla rottura della membrana. La carne di ferite inflitte dopo la morte sarà asciutta e bianca; l’aspetto del sangue non sarà lo stesso. Nei casi in cui le ferite da coltello siano state ricevute in vita, la pelle e la carne si presenteranno ristrette; tutt’intorno ci sarà una macchia sottocutanea. In qualsiasi parte dove un membro sia stato tagliato, i muscoli, le ossa, la pelle e la carne si troveranno insieme in una massa appiccicosa; la pelle si mostrerà ristretta dato l’avvenuto contatto con la lama, e l’osso sporgerà. Nel caso in cui un corpo sia stato depezzato, la pelle e la carne non cambieranno aspetto, non vi sarà una macchia sottocutanea, la pelle non si presenterà ristretta, non ci sarà del sangue alle estremità della ferita, e quest’ultima sarà bianca. Se la ferita fosse stata lavata e tenendo premute le due estremità l’una contro l’altra con le dita, non fuoriuscisse sangue, si può sostenere che la ferita non sia stata inferta quando la vittima era viva. Nel caso in cui sia stata eseguita in vita una decapitazione, i muscoli si saranno contratti, la pelle si sarà arricciata e le ossa sporgeranno; le spalle inoltre saranno sollevate. Se fosse stata eseguita dopo la morte, il collo sarebbe allungato, la pelle non si sarebbe accorciata, le ossa sporgerebbero o le spalle si solleverebbero. Quando si tratta del caso di un corpo la cui testa e il cui tronco si trovino in posti differenti,

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in primo luogo fai in modo che i parenti identifichino il cadavere, e quando avrai colto la sua esatta posizione, misurane la lontananza dalla testa o dai piedi. In caso di mutilazione delle membra, dopo aver misurato la distanza di ognuna dal corpo ed averne preso nota, metti tutte le parti insieme per bene e poni il cadavere in una bara, confrontando alcune membra con i tronchi per vedere se coincidono. Se la carne non appare rossa e se non sono presenti né sangue né midollo osseo, anche se può sembrare che ci siano delle ferite, il tuo verdetto deve essere che la mutilazione sia stata inflitta dopo la morte, nel momento in cui il sangue ha cessato di circolare. 6. Suicidio provocato con coltelli ed armi in genere […] Se la gola fosse stata tagliata dallo stesso suicida prima della morte, la bocca e gli occhi saranno chiusi e le mani serrate a pugno; la carne sarà di colore giallo ed i capelli in ordine; ci sarà una ferita sul collo di una determinata lunghezza e larghezza; la trachea e l'esofago verranno divisi. Saranno chiusi la bocca e gli occhi di tutti coloro che si taglino passando attraverso la parte inferiore della gola: la loro mano è serrata e le loro braccia accostate strettamente. Il colore della carne sarà giallo ed i capelli saranno pettinati. Un piccolo coltello provocherà una ferita di una lunghezza variabile da 1 a 2 pollici, mentre un coltello da cucina da 3 a 4 pollici o giù di lì. Se venisse utilizzata la terracotta come materiale, la ferita sarebbe di piccole dimensioni, benché una ferita provocata da qualsiasi arma tagliente causerebbe la morte se la trachea venisse tagliata, anche solo leggermente. Tagli sulla gola, sulla bocca dello stomaco, in corrispondenza dell’addome, delle costole, delle tempie, della parte superiore della testa e su punti vitali, anche se non di larghe dimensioni, arrecati con un’arma tagliente, provocherebbero la morte se la membrana fosse stata perforata. D'altra parte se tali ferite non fossero profonde, anche se potrebbero risultare gravi, ad esse non seguirà la morte. Se venisse usata la mano sinistra, la ferita comincerà a prendere forma a partire da dietro l'orecchio destro, estendendosi per 1 o 2 pollici fino all'altro lato della gola, e viceversa. L'inizio della ferita apparirà più grave rispetto all'estremità. [Il dolore indurrà al suicidio per allontanare la sua morsa.] Nel caso in cui il soggetto si sia ucciso con un taglio alla gola e la morte sia avvenuta nel momento in cui la ferita aveva raggiunto all’incirca la profondità di 2 pollici, sia l’esofago che la trachea sarebbero disgiunti; se egli indugiasse per un giorno, quando la ferita fosse arrivata all’incirca alla profondità di 1 pollice e mezzo, l’esofago sarebbe diviso e la trachea danneggiata; se la morte avvenisse dopo tre giorni, solo l’esofago sarà indotto a dividersi, essendo la ferita profonda all’incirca 0,3 pollici, i capelli saranno scompigliati, e non ci sarà più di una ferita, dato che il suicidio non permette che l’individuo se ne provochi una seconda. Se i capelli sono in disordine e la ferita è irregolare, non presentando alcuna distinzione tra una sua estremità e l’altra, si tratta di un caso di omicidio. Nel caso in cui la gola fosse stata tagliata con un coltello, le caratteristiche variano notevolmente nella bocca e negli occhi. Qualora il suicidio sia stato commesso in uno scoppio di passione, i denti saranno allineati saldamente, gli occhi un po' aperti rivolti verso l'alto, eccitati da sentimenti di aggressività. Se la stessa azione fosse stata commessa per un eccesso di collera repressa, gli occhi saranno chiusi, ma non in modo serrato, la bocca leggermente aperta, e nella maggior parte dei casi i denti non saranno chiusi, tutte azioni risultanti dallo stato mentale vissuto fino al momento precedente. Se indotto a commettere il suicidio dal timore di una punizione, i suoi occhi saranno chiusi, come anche la sua bocca, stante ciò ad indicare che egli considera la

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morte semplicemente come un ritorno alle origini e come un distacco felice dalle responsabilità della vita. Se dovesse trattarsi di questo caso, indaga con attenzione se la sua propensione in vita fosse rude o gentile, distinguendo tra i tre periodi della gioventù, della maturità e della vecchiaia. La mano destra di un uomo che l’abbia usata per tagliarsi la gola sarà molle, e uno o due giorni dopo la sua morte sarà curvata verso l’alto, mentre non lo sarà affatto la mano sinistra, e viceversa. Se la morte è stata provocata da un’altra persona, nessuna delle sue mani sarà curvata verso l’alto. Laddove un uomo si fosse tagliato la propria mano oppure un dito, la carne e la pelle mostreranno un taglio regolare, e se venissero bendati correttamente, la morte non avverrà immediatamente, ciò avverrebbe solo se sussiste il desiderio di prendere le dovute precauzioni. La carne e la pelle derivanti da una ferita di questo tipo si curveranno verso l’interno, ma ciò non avverrebbe se la ferita venisse inflitta dopo la morte. Un dito morso da qualcuno provoca generalmente la morte a causa del veleno contenuto all’interno dei denti. Tutto intorno alla ferita dove le ossa sono rotte, ci sarà una quantità di materia; la pelle e la carne saranno putrefatte, e la morte risulterà dall’impossibilità di una cura. Saranno presenti dei segni sui denti, ed un aspetto generalmente irregolare. 7. Suicidio per strangolamento In un’inchiesta su un suicidio per strangolamento, comincia indagando sul luogo in cui possa essere avvenuto, in quale strada, e nell’abitazione di chi, quali persone abbiano assistito, che cosa sia stato usato per commettere l’atto, e dove il cadavere fosse sospeso, e ancora, se fosse stato creato un cappio scorrevole o stretto. Successivamente, procedi valutando se gli abiti della persona deceduta siano vecchi oppure nuovi, misurando la posizione del cadavere, annotando in che modo il viso e la schiena sono posizionati, su cosa il defunto giaceva. Misura la distanza tra la testa e qualsiasi parte del corpo dalla quale essa possa risultare sospesa, così come quella tra i piedi e il terreno. Nel caso in cui il luogo del suicidio sia basso, misura la distanza fra qualunque cosa alla quale la corda fosse stata fissata ed il terreno. Tira giù il corpo prima che la gente si sia accalcata e trasportalo in un luogo in cui vi sia luce abbondante; successivamente, puoi soltanto togliere la corda dal corpo, misurandone l’intera lunghezza e quella che circondava il collo, ma anche la circonferenza del collo del defunto, annotando l’esatta posizione della cicatrice. Fatto tutto questo, procedi all’esame. […] Se i piedi dondolano per aria, la lingua sporge, e la cicatrice attorno al collo non è di forma circolare, ritorna al verdetto di suicidio per strangolamento, poiché le caratteristiche di un suicidio sono nettamente distinte rispetto a quelle di un omicidio. Durante l’esame di un caso di strangolamento in cui il corpo stia ancora pendendo, cerca di notare in primo luogo la distanza dal terreno e ciò da cui può essere sospeso, ed anche se il supporto sia sufficientemente resistente per scopo di questo tipo. Se il corpo è realmente sospeso, nota cosa c’è sotto i suoi piedi, che tipo di corda è stata usata, oltre alla circonferenza e al diametro del cappio; inoltre osserva la larghezza della cicatrice sul collo prima di tirare giù il corpo e portarlo via per esaminarlo. Se fosse stato già prelevato, chiedi se la corda o qualsiasi altro materiale utilizzato si trovi ancora sul collo del defunto oppure vicino al corpo, o ancora nel luogo in cui l’atto è stato commesso, per confrontare accuratamente la corda con il cappio. Se è piovuto ed il terreno è fangoso, prendi nota di cosa indossa il defunto ai piedi, e se qualunque luogo su cui egli si sia fermato di conseguenza ne presenti i segni. In casi di strangolamento, gli occhi saranno chiusi, le labbra e la bocca nere e i denti appena mostrati. Se la corda si trovasse sopra il pomo di Adamo, la bocca sarà serrata, i denti si trove-

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ranno regolarmente al loro posto, e la lingua vi premerà contro senza sporgere; se la corda si trovasse sotto, la bocca sarà aperta e la lingua sporgerà per circa un terzo, il viso si presenterà di un colorito rosso porpora, agli angoli della bocca e sulla cassa toracica ci sarà saliva schiumosa; le mani saranno serrate, i pollici e le punte saranno rivolti verso il basso e sulle gambe ci saranno segni come dovuti a cauterizzazione; l’addome sarà penzolante e di un colore livido o nero, la cicatrice sul collo sarà viola e rossa, oppure nera, come per effetto di una contusione, che si estende dalla parte posteriore di un orecchio a quella dell’altro, misurando da 9 pollici fino ad 1 piede verso l’alto. Se i piedi del defunto non fossero a contatto con il terreno, la cicatrice sotto il pomo di Adamo sarà profonda; altrimenti non sarebbe così profonda. Essa sarà profonda se il defunto era grasso e la corda fine; meno profonda se egli era magro oppure se la corda era a strati. Laddove sia stata usata una corda di calicò o di tessuto, la cicatrice si estenderà per una larga superficie. Se il corpo stava pendendo formando con il terreno un angolo acuto [con i piedi a contatto, ovviamente], oppure si trovava a terra, la cicatrice sarà obliqua, non raggiungendo i capelli sulla nuca. Qualsiasi tipo di nodo sia stato usato, si renderà necessario osservare il supporto del defunto e se quando il cappio è stato creato fosse abbastanza da legarlo sopra. Con un nodo scorrevole e con un nodo stretto la morte può avvenire se i piedi, o anche le ginocchia, entrano a contatto con il terreno; con il nodo a singolo giro i piedi devono essere interamente fuori dal terreno. Il nodo a singolo giro viene usato quando il deceduto ha prima legato la corda intorno al suo collo e poi l’ha legata a qualcosa in alto; sarà necessario osservare la polvere su qualunque cosa presente in quel luogo, ed anche annotare su cosa poggi il defunto, e se egli abbia raggiunto da solo il punto in alto in cui la corda è stata attaccata. Osserva attentamente se la corda è allungata o meno, e che ci sia almeno un piede tra la testa del defunto e la corda. Se il capo risulta premuto contro qualsiasi cosa ci possa essere, i piedi dondolano in aria e non vi sia nulla su cui il defunto si potesse levare in piedi, allora appendere il corpo era un atto compiuto da qualche altra persona. Quando, in un caso di auto-strangolamento, non vi fosse alcun segno di nodi, sarà dovuto al fatto che prima di tutto il defunto avvolge la corda parecchie volte intorno al proprio collo e a quel punto, fissandola a qualcosa di alto, si lascia oscillare finché non raggiunge la morte. Oppure quando, una volta sospesa la corda, si sia appeso in un doppio nodo scorsoio, levandosi in piedi su qualcosa di alto e infilando la sua testa nel nodo, effettuando all’incirca un ulteriore giro attorno al suo collo. La cicatrice che ne risulta, quindi, sarà doppia, una superiore che va verso l'alto passando dietro l'orecchio verso i capelli senza attraversarli, quella più bassa che circonda il collo. Tali distinzioni dovrebbero essere effettuate con attenzione nella segnalazione del caso. Laddove non vi sia alcun segno di nodi sulla gola per un suicidio da strangolamento, al centro della cicatrice, a qualsiasi lato del mento, ci sarà un lieve segno che si estende verso entrambe le orecchie da ogni lato, con una tendenza a diminuire gradualmente quanto più si procede verso l’alto. Se fosse stata usata una sola corda, su entrambi i lati del nodo ci sarà un ematoma sottocutaneo che procede obliquamente all’insù in modo continuo, e che non si estende in linea retta verso il retro. Dopo la sospensione, la circolazione cessa ed il corpo assume un colore porpora e nero simile ad una serie di nubi raccolte, o come in uno stato di decomposizione, ma diverso nell’aspetto da un corpo rosso, livido e gonfio per aver subito l’urto contro qualcosa, oppure da uno scolorito in ampie zone per l’effetto di un veleno. In una persona anziana o smunta questo effetto sarebbe meno evidente. Nel caso vi sia stata una malattia lunga senza speranza di recupero, un forte desiderio di morire e la persona ammalata che si trova distesa sulla schiena si fosse strangolata con una corda o

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con una cintura, gli occhi saranno chiusi, i denti mostrati appena, una piccola parte della lingua sporgerà, morsa dai denti, il colore della carne sarà giallo, il corpo sottile, le mani serrate a pugno. La corda o qualsiasi cosa fosse stata usata, verrà probabilmente trovata nelle mani del suicida che la afferrano, e la distanza tra le mani deve essere accuratamente misurata. La cicatrice attorno al collo sarà viola e rossa, più o meno lunga 1 piede; il nodo si troverà sulla parte più bassa della gola, e la cicatrice sarà più profonda nella parte anteriore. Se la corda è stata già tolta, la pancia del cadavere si sarà gonfiata, e la lingua non sarà stata morsicata. Sotto il punto in cui è stato commesso il suicidio mediante impiccagione, scava una buca profonda 3 o 4 piedi; laddove sia presente del carbone, allora quello è il posto giusto. [La nota dice che questo deriva dall'influenza naturale del corpo morto sopra la terra, e non deve essere considerato come nulla di straordinario.] Nel caso in cui il suicidio sia stato commesso in una stanza, osserva attentamente la presenza di polvere sulla corda oppure qualsiasi cosa alla quale questa sia attaccata. Se la polvere è molto sparsa, ciò può essere considerato nella maggior parte dei casi come prova a favore dell’ipotesi di suicidio; ma se c’è solo un segno della corda, ne segue una conclusione contraria. Se fosse stato commesso in un luogo situato in una posizione bassa, il corpo generalmente si troverà disteso su di un lato o sul viso. Nel primo caso, la cicatrice sarà obliqua, ma orizzontale sotto il collo; nel secondo caso, andrà dritto verso l’alto partendo dalla parte inferiore della gola, passando posteriormente da un orecchio all’altro, ma non si estenderà alla zona ricoperta dai capelli. Picchietta lievemente con un bastone sulla corda sospesa; se è tesa, si tratta di suicidio; se è allentata, il corpo è stato appeso da altre persone. Generalmente, quando un corpo è stato trasportato da qualche altra parte in queste condizioni e solo successivamente è stato appeso, ci sono due cicatrici, quella vecchia che appare viola e rossa con un aspetto che suggerisce la presenza di un ematoma, l'altra bianca senza tale aspetto. La cicatrice viola e rossa potrà anche essere profonda, nonostante si verifichino dei casi profondi non accompagnati dallo sbiadimento porporino e rosso. Una cicatrice bianca, tuttavia, è la prova inconfutabile che il corpo sia stato rimosso da qualche altra parte. Nei casi in cui il corpo si sia ormai decomposto e soltanto la testa sia rimasta fissata alla corda, poiché il corpo è caduto a terra e le ossa sono esposte per la decomposizione della carne, rimane soltanto da vedere se la corda si trova nella scanalatura sotto le mandibole e se i due polsi e le ossa della fronte sono rossi. In caso affermativo, si tratta di suicidio. 8. Omicidio interpretato come suicidio per strangolamento Dovunque una persona sia stata strangolata o comunque uccisa, e si voglia far credere che si sia uccisa impiccandosi, gli occhi e la bocca saranno aperti, le mani separate l’una dall’altra, i capelli scompigliati, la circolazione bloccata nella parte inferiore della gola, la cicatrice sarà poco profonda e lievemente colorata, la lingua non sarà esposta né schiacciata contro i denti, la carne in corrispondenza del collo mostrerà segni di unghia e su qualunque altra parte del corpo ci saranno ferite mortali. Se la vittima si fosse auto-soffocata e poi sospesa in aria, ci sarebbero due cicatrici, una profonda e l’altra superficiale, molto simili nell’aspetto a quelle che un suicida si può causare facendo con un ulteriore giro di corda attorno al collo, benché queste ultime sarebbero entrambe profonde; ma in questo caso le cicatrici sarebbero per una metà rosse e per l’altra bianche, mentre l’ematoma non è simile. Se una persona fosse stata strangolata da qualcun’altra mediante impiccagione a una finestra

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o a un albero, venendo interpretato allo stesso modo come suicidio, la corda non sarà stata annodata, la cicatrice sulla gola sarà regolare ma profonda e di un colore nero smorzato, non iniziando da dietro le orecchie. Laddove un uomo si sia strangolato nella parte più bassa della gola, il nodo sarà nella parte posteriore del collo, le mani non penderanno verso il basso, o comunque non saranno rivolte dritto verso il basso. Lo strangolamento da dietro avviene generalmente contro una colonna o qualcosa del genere, e spesso mediante un pezzo o una parte di un indumento, poiché il segno viene lasciato sulla parte inferiore della gola che, essendo un punto vitale, conduce alla morte per interruzione immediata della respirazione. Laddove un assassinio sia stato commesso con strangolamento, dal momento che la corda è stata avvolta parecchie volte intorno al collo della vittima, il nodo si troverà generalmente dietro in posizione centrale oppure leggermente inclinato verso uno dei due lati; sopra ci sarà una qualche corda che pende, ed il cadavere giacerà sul suo viso. A causa della lotta che ha fatto per sopravvivere, i suoi capelli saranno scompigliati e sopra il suo corpo verranno trovati segni di contusioni, dovuti allo scontro. Se le mani, i piedi o il collo del cadavere sono stati legati con una corda, siccome la persona è già deceduta e la circolazione si è fermata, non ci saranno ematomi, ed anche se i cavi sono penetrati in profondità, la cicatrice non sarà livida o rossa, ma bianca. Se una cicatrice è stata bruciata con un ferro caldo, il segno sarà rosso o bruciacchiato ed umido. Se una persona è stato percossa ed infine uccisa mediante strangolamento, ci sarà un segno scuro sulla parte inferiore della gola lungo 6 o 7 pollici che non raggiunge la parte posteriore del collo. Laddove una persona sia stata strangolata in modo ordinario, ci sarà una cicatrice nera interamente intorno alla gola di lunghezza superiore ad 1 piede. Qualche volta una persona può essere strangolata sulla schiena di qualcun’altra [poiché la corda si trova sulla spalla dell’assassino], nel qual caso ci saranno tracce della corda che è stata annodata, la cicatrice sarà diritta verso la parte posteriore del collo, le cui estremità tenderanno leggermente verso il basso e saranno gradualmente sfumate, e generalmente saranno collocate sulla parte inferiore della gola, non sul mento o sotto le mandibole. Nello strangolamento che avviene sopra la spalla sulla schiena, a meno che i piedi fossero sollevati da terra, la morte non seguirebbe immediatamente.

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